Raggio di Dio
ROMANZO DI Anton Giulio Barrili
MILANO Fratelli Treves, Editori 1899.
PROPRIETÀ LETTERARIA I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compreso il Regno di Svezia e di Norvegia. Tip. Fratelli Treves.
INDICE.
I. Un bel sogno avverato Pag. 1
II. Ambasciator non porta pena 19
III. I commentarii di Cesare 37
IV. L’epistolario di Cicerone 58
V. Al soccorso di Pisa 75
VI. Filemone e Bauci 93
VII. “Dove amore non è, più nulla è il resto„ 111
VIII. Dolenti note 131
IX. Spera di sole 148
X. Soy Bovadilla 166
XI. Invito a palazzo 187
XII. La Sfinge regale 203
XIII. Si viene a mezza spada 221
XIV. A Laredo! a Laredo! 241
XV. Il ragno e la sua tela 258
XVI. Grazia, giustizia, e un granellin di follìa 276
XVII. Sposi novelli 294
XVIII. In manus tuas, Domine..... 316
XIX. Quel che s’incontra per via 336
XX. Raggio di Dio 357
RAGGIO DI DIO
Indice
Capitolo Primo. Un bel sogno avverato.
“E andando da Chiavari a Lavagna, occorre in poca distanza il fiume nominato dagli antichi Entella, e dai moderni Lavagna; il quale ha la sua origine nel monte Appennino, di qua dalla terra di Torriglia in le confine di Bargagli e di Roccatagliata: e muoiono in questo fiume, Graveglia, Ollo e Sturla, torrenti che alcuna volta vengono con furia„. Grazie, monsignor Giustiniani, vescovo di Nebbio e annalista di Genova; grazie infinite, e basta così. È la “fiumana bella„ di Dante Alighieri, certamente la più bella di Liguria; e bene l’ha dichiarata tale il divino poeta, che le vide tutte, quante ce n’erano “tra Lerici e Turbìa„, ma su questa si trattenne più a lungo, guardandone dal ponte della Maddalena il largo specchio azzurrino, con le due file di pioppi che ne accompagnavano il corso. Ma noi non ci fermeremo qui, come il grand’esule fiorentino; risaliremo la fiumana bella fino al confluente del Graveglia, dov’essa fa una gran curva, per voltar poi risoluta a ponente maestro; e lì faremo alto ai Paggi, come ora si dice, e dove nell’anno di grazia 1506 durava ancora in ottimo stato un castello dei Fieschi.
In altri tempi s’era chiamato la Guaita; più tardi, con lieve mutamento, la Guardia. E meritava il suo nome, stando là come una scolta avanzata di tutte le terre Appenniniche ond’era formato il dominio dei Fieschi, gran ventaglio di borghi e castella che dalla Scrivia si stendeva alla Magra, includendo Casella, Savignone, Montobbio, Torriglia, Valdetaro, Santo Stefano d’Aveto, Varese, Pontremoli; e chi più n’ha ne metta, andando fin oltre i cinquanta. Passavano infatti questo numero le terre murate dei Fieschi; tenute con varia fortuna, s’intende, come in tempi guasti doveva accadere; onde i cinquanta e più feudi contigui scesero qualche volta a trentatrè, facendo ancora quel che si dice comunemente un bel numero.
Gran gente, quei conti di Lavagna! Disputata un pezzo al Comune di Genova la terra onde traevano il titolo maggiore e più caro, vedutosi fabbricare all’incontro, nel 1167, il castello di Chiavari, indi a trentun anno cedevano quel feudo invidiato, diventando nobili genovesi, e ben presto una delle quattro grandi famiglie potenti e prepotenti della Repubblica. Ricchi di capitani e d’ammiragli, come di cardinali e di papi, ora ripigliavano le terre perdute, ora altre ne acquistavano, a ristorarsi dei danni. Al tempo di cui raccontiamo, erano già molti rami di Fieschi, ma tutti strettamente collegati d’interessi, sotto gli auspicii del ramo principale, rappresentato allora da Gian Aloise, signor di Pontremoli, di Varsi, di Loano, di Montobbio; principe di Valdetaro e conte di San Valentino; marchese di Torriglia, Varese, Santo Stefano d’Aveto, Calestano, Vigolzone, Gremiasco, San Sebastiano, e via discorrendo per un pezzo; un gran signore, a farla breve, superiore nel tempo suo agli altri tutti d’Italia per ampiezza di dominio, e quasi un piccolo re. In Genova, tanta era la sua autorità, sedeva per decreto sugli anziani, e gli si davano i titoli d’illustre e di eccelso, come ai principi di corona.
Con queste fortune al casato e con le politiche necessità che ne conseguivano, la Guardia aveva riconquistata una parte dell’antica sua importanza militare. Il padrone era un valoroso; ma in patria non aveva fatto niente di notevole, e per quello che aveva fatto in terre lontane si poteva dire che riposasse sugli allori. Avrebbe difesa strenuamente la sua rocca, se mai fosse stata minacciata: per intanto l’aveva battezzata Gioiosa Guardia, in omaggio al cavalier Lancillotto di romanzesca memoria, ma più alla bellissima donna che da un anno aveva fatta signora del castello, impalmandola con rito solenne e con gran pompa comitale nella vicina chiesa di San Salvatore.
Era dunque gioiosa, la Guardia, per decreto recente del suo felice padrone. Ma non corrispondeva alla bellezza dell’epiteto la faccia smunta del suo custode, o gastaldo che vogliam dirlo, non potendo, per la presenza del legittimo signore, decorarlo del sonoro titolo di castellano. E nondimeno, quel gastaldo decorava l’ufficio con la misurata gravità dell’aspetto; a cui, nel pomeriggio del 5 marzo 1506, si poteva aggiungere la composta dignità dell’atteggiamento, quantunque egli fosse modestamente seduto sovra una panca, entro la prima cinta del castello, assistendo ad una partita di pallone, caldamente impegnata fra sei giuocatori. Diciamo di passata che cinque di essi erano uomini d’arme del castello, e il sesto un frate francescano, come appariva dalla tonaca, saviamente raccorciata a mezza gamba coll’aiuto del fido cordone, su cui ella veniva a far grembo.
Quanto al nostro personaggio, vediamo di abbozzarne in pochi segni l’asciutta figura. Appoggiate le mani scarne ma forti sul pomo della spada; accavalciate le gambe lunghe, che mettevano in mostra due stivaloni di cuoio cordovano e due calze divisate di bianco e d’azzurro; ritto il busto nel suo giubbone attillato di cuoio, donde uscivano le maniche di lana, divisate anch’esse dei due colori di casa Fiesca; ritta la testa che pareva tutta in fiamme pel colore della barba e dei capelli rosseggianti al sole; tirata un po’ indietro sul cocuzzolo la berretta, anch’essa di cuoio, con larghe frappe di bianco e d’azzurro, sormontata da una gran penna lionata di pavone, il nostro personaggio aveva una bell’aria di vecchio soldato in licenza, felice d’un po’ di riposo, ma pronto a gittar la berretta per calzar la barbuta. Non era bello, no davvero; aveva troppo scarno il viso lungo, e gli occhi grigi, quasi bianchi, sotto le ispide sopracciglia rossigne: il naso, poi, che incominciava colla buona intenzione di parere aquilino, finiva in una pallottola rossa, non conveniente di certo alla severità dell’aspetto, e molto meno alla dignità della carica. Ahimè, non si nasce perfetti. Ma don Garcìa, che tale era il nome del personaggio, non si dava un pensiero al mondo di queste fisiche imperfezioni. Era passato il tempo, se mai; ed egli godeva della vita quel tanto che se ne può godere di là dai cinquanta. Per allora, si dilettava di veder giuocare al pallone; era tutto nelle belle battute e nelle pronte rimesse, nelle volate e nelle cacce vinte; accennava del capo ai bei colpi, batteva le labbra ai falli. A lui si rimettevano nei casi dubbi, ed egli dava il responso, con calma e buon giudizio, senz’ombra di parzialità. Pure, come ogni fedel cristiano, egli avrebbe potuto pendere più di qua che di là, ed averne ancora la scusa, poichè uno dei giuocatori, il frate, era spagnuolo al pari di lui.
Perchè quella spagnuoleria là dentro? E come andava che non dispiacesse a nessuno? Diciamo subito che quei due spagnuoli, don Garcìa e frate Alessandro, e per terra e per mare erano stati compagni di ventura al signore del castello; e soggiungiamo che dei cinque giuocatori genovesi, tutti uomini d’arme della Gioiosa Guardia, tre erano stati coi due spagnuoli ai medesimi incontri, ricordando altresì che più di tutti aveva rischiata la pelle quel vecchio, non solamente per far servizio al loro signore, ma ancora per salvare la bellissima donna, diventata da un anno cristiana e contessa, col nome di Giovanna del Fiesco.
Queste erano ragioni da bastare là dentro, rendendo cari, non che tollerabili, i due forestieri. Ma della ammissione d’un di loro in ufficio tanto geloso dovevano pur fare le meraviglie taluni di fuori, che non sapevano bene le cose. Ed uno di costoro, Filippino Fiesco, passato due mesi prima da Gioiosa Guardia, non aveva potuto trattenersi dal farne cenno al signore del luogo.
—Cugino Bartolomeo,—gli aveva detto, temperando con un suo risolino l’impertinenza della domanda,—che v’è saltato in mente di prendere per servitore uno spagnuolo? Siamo per Francia, noi, non per Castiglia e Leone.
—Ah, sì?—aveva risposto Bartolomeo Fiesco.—E meglio per noi, che non fossimo per nessuno. Quanto alla gente fidata, si raccatta dove si trova. Il mio gastaldo io l’ho conosciuto tra Spagnuoli, e di dovunque egli sia, me lo tengo caro. Del resto, che ci trovate di strano? Io non faccio altro che imitare il re Cristianissimo.
—In che modo?
—Nell’unico che sia possibile a me. Chi ha messo egli a comandarci, che Iddio lo benedica?
—Monsignor Filippo di Cleves, signore di Ravenstein,—rispose Filippo Fiesco,—regio governatore e luogotenente generale dei Genovesi, come cantano tutte le gride.
—Dimenticate “ed ammiraglio del Levante„;—ripigliò Bartolomeo Fiesco.—Ma forse egli pare anche a voi un ammiraglio d’acqua dolce. Quello, del resto, è il capo della gente di Francia, mandato qui per figura e per indorarci la pillola. Io intendevo parlare del comandante vero, di quello che fa tutto in casa nostra. Non è questi il Roccabertino? E chi è il Roccabertino? non è forse un Aragonese? Ed io ho per luogotenente un Catalano. La differenza è qui tutta.—
L’argomento non ammetteva risposta; e messer Filippino potè anche pensare che ognuno in casa sua si governa a suo modo. Nè altre molestie ebbe don Garcìa, che veramente non le meritava. E tutti sapendo ch’egli era stato buon compagno di rischi del capitano Fiesco, nessuno conobbe mai quale alto ufficio avess’egli esercitato in Haiti. Tacevano le sue gesta i pochissimi che avrebbero potuto parlarne; frate Alessandro, ad esempio, suo conterraneo e suo introduttore alla mensa soldatesca nel bosco di Xaragua; Giovanni Passano e Pietro Gentile, che di aiutanti del Fiesco essendosi mutati in aiutanti di don Garcìa per una lugubre impresa, non avevano nessuna ragione di vantarsene, quantunque nella brutta occasione avessero imparato a stimare quell’uomo. Senza di lui, come si sarebbe salvata la infelice regina di Xaragua? Senza i casi che necessariamente n’erano seguiti, come si sarebbe salvata Higuamota, la graziosa fanciulla, diventata moglie a Giovanni Passano un mese dopo che sua madre era diventata contessa del Fiesco?
Fortunato, il Passano! Restava luogotenente del conte; ma in tempo di pace, com’erano allora i nostri reduci del nuovo Mondo, faceva dell’altro, vivendo molto a Genova e curando gl’interessi del suo protettore. Lo chiamavano già Da Passano. E perchè no? Forse era della stirpe onorata di quei nobili della Riviera di Levante, e il nome voleva pur dire qualche cosa, anzi più di qualche cosa, in un tempo che quei de e quei da non si usavano con norme fisse. Era il tempo, o giù di lì, che un gran capitano di ventura, d’antico ceppo parmense, signor di Berceto, di Torchiara e di San Secondo, si sentiva chiamare promiscuamente Pier Maria Rossi e Pier Maria De Rossi; ed egli poi, a farlo a posta, sull’ingresso di Torchiara faceva scolpire il suo nome nella umilissima forma di Pietro Rosso. È vero che lo metteva in fin di verso, per far rima a modo suo con due finali in “orso„. Ma, per trovare esempi più prossimi, gli stessi conti di Lavagna non avevano sempre creduto, coi genealogisti di casa, d’essere stati chiamati Fieschi, per una ottenuta prefettura del Fisco imperiale in Italia, donde sarebbe venuta la più o meno naturale storpiatura del Fliscus. Il nostro Bartolomeo, che gradiva anche alle sue ore il nome di Damiano, lasciava correre un Bartholomeus Frescus in atti notarili; e questo forse in omaggio ad una più modesta genealogia del 1171, quando due conti di Lavagna avevano preso a far cognome dai lor soprannomi di Fresco e di Secco, trovati buoni a distinguere le loro due nobili persone, che portavano il medesimo nome di Ugo. Non troppo dissimilmente i contèrmini Malaspina si erano spartiti in due rami, il fiorito ed il secco.
Ma torniamo a don Garcìa, che in tutte queste minuzie non ha niente a vedere. Era un brav’uomo, che si sapeva contentare, avendo un pane onorato per la vecchiaia. Faceva un po’ di tutto, alla Gioiosa Guardia. Antico soldato, insegnava anche il mestier delle armi ai vassalli del conte; nei giorni festivi metteva in ordinanza un centinaio di fanti a piedi, e una diecina d’uomini a cavallo, che facessero bella mostra battendo le strade da Chiavari a Carasco, a San Colombano e più oltre. Invigilava, nelle stagioni opportune, ai raccolti dei poderi, e riscuoteva in nome del conte tutti i diritti feudali, facendo qui, come del resto, assai bene le cose, con gravità, senza rigore, con giustizia che non escludeva la umanità, persuaso dopo tutto di far piacere al padrone, e più ancora alla padrona.
Quella donna era amata, adorata per tutta la valle dell’Entella e per le vicine convalli dello Sturla, della Graveglia, dell’Ollo. Bisognava vedere che calca di gente, quando, insieme colla nobilissima suocera, la veneranda madonna Bianchina, scendeva ai divini uffizi nella chiesa di San Salvatore. Ricordavano tutti che ne’ suoi paesi di là dall’Atlantico era stata regina; e naturalmente si magnificava il suo lontano reame. Quello che non si poteva ingrandire, perchè già troppo grandeggiava da sè, era la sua stupenda bellezza. La sua carnagione d’un color caldo oltre il tipo europeo, non appariva neanche tale, smorzata com’era e condotta al vermiglio dallo strano onnipotente fulgore delle pupille nerissime. E ferivano, quelle pupille, dovunque si volgessero a caso; e molti si sarebbero lasciati ferir volentieri, a patto di sentirle rivolte a sè con qualche pietosa intenzione. Ma la contessa, nel fatto, non aveva occhi se non per il suo dolce marito, che spesso le accadeva di chiamare Damiano. E a lui più spesso accadeva di chiamarla Fior d’oro: Giovanna non mai; piuttosto, alla spagnuola, Juana, che riteneva molto del suono di Anacoana. I nomi, si sa, non hanno piccola importanza, in amore.
Anche a lui volevano bene quei terrazzani, più ancora che non lo rispettassero come vassalli. Già, non lo tenevano quasi più per un Fiesco; tanto che, all’usanza di Genova, lo chiamavano Bartolomeo delle Indie. Sicuro, e bene prendeva egli il nome da quelle Indie occidentali, dov’era stato quattro volte ad ogni sbaraglio, prode soldato, esperto navigatore, singolarmente caro a quell’altro Genovese, così grande e così maraviglioso uomo, che le aveva scoperte per potenza d’ingegno e di fede. Quanti erano stati con lui partecipavano un poco della sua epica grandezza; perfino i due umili marinai, Guglielmo e Battista, che si erano ridotti a vivere anch’essi nel recinto ospitale della Gioiosa Guardia, e che tutti i giorni di festa, infallantemente, seduti all’ombra fuor della porta del castello, tenevano cattedra di geografia transatlantica. A quei discorsi accorreva sempre più gente che non alle prediche dei frati, i quali pure descrivevano qualche volta le magnificenze del regno di Dio. Ma in queste si sentiva sempre lo sforzo di fantasia di chi non c’era mai stato; laddove le magnificenze del nuovo Mondo avevano avuto quei due semplici marinai per testimoni recenti.
Che fossero egualmente veridici non si potrebbe giurare. Raccontavano le cose come se le avessero ancora davanti agli occhi, e raccontandole ne davano il barbaglio agli occhi dell’uditorio. Si trattava d’oro, infatti; oro a mucchi, in pagliuole ed in polvere, da tuffarci dentro le braccia fin sopra il gomito; oro ad ogni piè sospinto, a colonne, a pilastri, a scaglioni, a piramidi; oro a bizzeffe, in quel paese di Veraguas, dove bastava smuovere un pochettino le zolle, per trovar le radici degli alberi affondate in quel coso giallo lucente; oro nel fiume dello Yaque, presso San Domingo, ove del prezioso metallo non erano fatte solamente le arene del fondo, ma i ciottoli delle due rive, e i massi e le scogliere delle svolte. Che poesia, quella dell’oro! E come è nata? Tutta per amore della sua bellezza in sè, o non per l’acquisto, che rende così facile, d’ogni desiderata fortuna?
S’intende che i due narratori non si fermavano alla magnificenza delle cose inanimate. Anche gli uomini, laggiù, erano d’una specie insolita; e tra gli uomini il Prete Janni, favolosa figura del Medio Evo, ci aveva la sua parte non piccola. Guglielmo non lo aveva veduto; Battista nemmeno. Personaggi così alti come il Prete Janni non si lasciavano vedere da poveri marinai; ma il grande scopritore del nuovo Mondo sì, lo aveva veduto, gli aveva parlato a lungo, era stato suo ospite, accolto alla sua mensa, nella sua intimità. Quel gran monarca si era tanto innamorato delle virtù di Cristoforo Colombo, che lo avrebbe caricato di diamanti, se questi si fosse risoluto di prender servizio con lui. E si diceva a San Domingo che l’odio di Aguado, di Bovadilla e di Ovando contro l’ammiraglio e vicerè delle Indie fosse nato appunto da questo, che il Prete Janni aveva fatto festa a lui, non volendo veder loro neanche come prossimo; ond’era avvenuto che verdi dall’invidia fossero andati ad accusar l’ammiraglio presso Ferdinando il Cattolico, dipingendolo come uno che era già in via di tradirlo, sottraendo alla corona di Spagna i benefizi della grande scoperta. Sicuramente, l’ammiraglio poteva far ciò, solo che lo avesse voluto. Il prete Janni lo stringeva tanto colle sue offerte d’amicizia! Figurarsi, che voleva dargli in moglie sua figlia, ricca come il mare, bella come il sole, e buona come il pan di Natale. Ma il signor ammiraglio non si era lasciato prendere all’amo; aveva resistito a tutte le offerte, a tutte le promesse più lusinghiere; tanto più che da genovese sottile s’era accorto che la bella aveva un occhio di vetro. Bella, poi, la vantavano tutti alla Corte; ma Guglielmo e Battista non l’avevano veduta mai. Un’altra, piuttosto; e quella bella era bellissima; e il loro capitano se l’era portata via, quantunque regina, e l’aveva fatta contessa. Già, tutti i salmi finivano in gloria.
Qui poi l’uditorio poteva dar ragione ai parlatori, e in piena cognizione di causa. Un tal miracolo di donna non si era visto mai, neanche dai più vecchi, che pure avevano veduta entrare in casa Fieschi madonna Bianchinetta, nel primo fiore della sua gioventù. Che splendore di sposa, quella regina delle Indie! Per lei si era scomodata, e con ragione, tutta la casata dei Fieschi; ed anche gli altri rami minori dei conti di Lavagna, come gli Scorza, i Bianchi, i Della Torre, i Levaggi, i Leivi, gli Zerli, i Cogorno, i Cavaronchi, i Ravaschieri, i Penelli. Il capo dei Fieschi, in persona, l’eccelso conte Gian Aloise, aveva lasciato Genova e la sua reggia di Vialata, per assistere alla cerimonia, per condurre egli stesso quella regina del nuovo Mondo all’altare. E bella come il sole, poichè non si poteva trovare un paragone più alto; e buona come il pan di Natale, e dotta come un libro stampato. Come parlava l’italiano! come il genovese, che è poi la madre lingua d’ogni buon Ligure, e certamente quella del Paradiso terrestre; specie colla giunta di quella sonora e dolce cantilena chiavarese! Difatti, anche queste finezze aveva imparate in pochi mesi la regina delle Indie. E si andava a sentirla, ma più ancora a vederla, senza stancarsene mai, nelle domeniche, quando la bellissima donna, ritornata dai divini uffizi, scendeva alla porta del castello per distribuire il pane ai poveri dei dintorni. Quei poveri si moltiplicavano come i pani e i pesci dell’Evangelio. C’erano molti che si facevano poveri a bella posta: ma erano riconosciuti, e tenuti lontani. Solo alle donne, che usavano di questo sotterfugio per avvicinarsi alla signora contessa, non si faceva il torto di cacciarle; per rispetto al loro sesso si lasciavano accostar tanto, che la signora le riconoscesse da sè.
—E voi, che cosa chiedete?—diceva ella, ridendo d’un risolino malizioso.—Non siete già povere, voi!
—Oh, signora, siamo bisognose la parte nostra;—rispondevano le più ardite.—E siamo venute, perdonateci.... siamo venute a prenderci un’occhiata di sole.—
Sorrideva, la bellissima donna, arrossendo; e dava un ceffone, con la sua morbida mano; ma tanto leggero, che pareva una carezza, ed era ricevuto con divozione, come la guanciata del vescovo alla cresima.
—Qui non voglio altri che poveri, avete capito?—
Così conchiudeva, volendo parere sdegnata. Ma c’era tanta soavità d’accento nel rimprovero, e tanto sorriso nello sfolgorìo di quegli occhi scorrucciati, che le buone valligiane di Carasco, di Graveglia e di Paggi levavano le mani in atto di adorazione, come se avessero veduta la Madonna, e in cuor loro promettevano di ritornarci la domenica vegnente.
Gioiosa Guardia, davvero, sotto la benefica luce di quegli occhi celestiali. Ma qualche volta su quei begli occhi si stendeva un velo di mestizia. Passavano allora le immagini di un altro popolo, assai più numeroso, amante anche quello e devoto, ma che aveva la sua quiete, la sua sicurezza da lei, e non era avvezzo a provare più gran gioia nella vita, di quando si raccoglieva estatico ad ascoltarla, rapito ai suoni del maguey, agli accenti soavi dell’areìto Povero popolo d’Itiba! come lo avevano ridotto allo stremo quei feroci conquistatori spagnuoli, deludendo i nobili disegni del Giocomina, del venerando condottiero dei Figli del Cielo! Ma se il ricordo d’Itiba era triste, la bella ed infelice regina di Xaragua aveva imparato molte cose nella terra di Azatlan. Era disceso su questa terra un altr’uomo dolce, buono, compassionevole ai mesti, un uomo divino, e avevano voluto sperimentarne la virtù infinita mettendolo in croce come un malfattore; poi si erano pentiti, lo avevano riconosciuto in ispirito e verità, gli avevano eretto altari, e lo adoravano, e lo mettevano in croce ogni giorno, disconoscendolo, bestemmiandolo, negandolo nei giorni della spensierata allegrezza, per invocarlo nell’ora della paurosa avversità, superbi a vicenda e codardi, sopra tutto eternamente fanciulli.
Perciò qualche volta accadeva anche a lei d’esser mesta. Ma quelle erano le nubi passeggere, candidi fiocchi vaganti, che macchiavano all’orizzonte un bel cielo d’estate, senza turbarne il sereno. Ed era felice, oramai, quanto è dato a creatura umana sulla terra; felice per quell’uomo che viveva adorandola, e non si muoveva di là, dove l’aveva condotta a rifugio. Che amasse la sua rocca e il suo poetico Entella, non si poteva dubitare, poichè tante volte lo diceva egli stesso. Ma non così aveva amato quel fiume e quelle mura negli anni della adolescenza, quando animoso cacciatore batteva le macchie, ed era sull’Antola o sul Penna più spesso e più volentieri che in casa. In quel castello era nato; su quelle rive beate era cresciuto, ricco, orgoglioso del nome e della potenza che confortava quel nome; e giovane si era mescolato in Genova alle zuffe micidiali del tempo, avendone presto la sazietà. Curioso di dottrina, o più vago di novità, aveva atteso agli studi nella università di Pavia, riportandone come un fastidio d’anni sciupati; ond’egli non aveva cercato nella quiete della sua terra il rimedio alle pene del cuore, ma si era buttato per morto alle imprese del mare. E quali imprese! Non già per diventarci padron di galere, e da fortunati scontri aver lustro e potenza come tanti altri suoi pari e consorti, per vantaggio di una casata che omai ridiventata padrona dell’antico dominio, lo aveva allargato quasi a reame, dall’Appennino al mare e dalla Scrivia alla Magra; bensì per tentare un cammino ignoto, col rischio di giungere ad un punto donde il naviglio si sprofondasse nel vuoto. Orribile chiusa, e creduta allora certissima! Il guaio non gli era occorso; aveva potuto ritornare, e con la sua parte di gloria. Pure, ricondottosi a casa, non aveva potuto star fermo; viaggi su viaggi, fortunali e vitacce da cani; spesso in pericolo d’andar pastura ai pesci, più spesso di buscarsi un colpo di freccia avvelenata; prigionia tra i selvaggi, condanna a morte, agonia a fuoco lento, nulla aveva potuto corregger l’umore vagabondo del gentiluomo marinaio, di quell’argento vivo. Ed ecco, di punto in bianco, il gran cambiamento: quell’umor vagabondo, quell’argento vivo, s’era chetato ad un tratto: lui tutto casa, lui tutto “fiumana bella„, lui tutto moglie, e innamorato per giunta, come un ragazzo di vent’anni. Ma ecco, il segreto del mutamento era qui.
—Come sei buono, Damiano!—gli bisbigliava Fior d’oro.
—Sfido io!—rispondeva egli, con quel suo piglio che volentieri girava al comico.—Son buono, perchè sono felice. E sono felice....
—Perchè?—domandava lei, con accento di cara malizia.
—Perchè....—ripigliava Damiano, girando un po’ largo, per voglia di ridere.—Perchè ci ho la mia Gioiosa Guardia che amo tanto....
—Giustissimo; e la tua “fiumana bella„—suggeriva lei, prestandosi al giuoco assai volentieri.—Con queste due cose....
—Con queste due cose ci sarebbe anche da morir di noia;—proruppe Damiano.—Le avevo, e non mi sono bastate. Diciamo dunque, per essere nel vero, che ci ho te, cara donna adorata. La più bella donna, nel verde più vivo, sotto il più dolce azzurro del mondo, ecco la felicità vera ed unica. Ed ecco quello che io volevo dire, contessa Juana, se voi mi aveste lasciata fare la mia progressione ascendente.
—E non ve l’ho lasciata fare, da quella gran cattiva che sono! Ma voi me ne punite tanto severamente, che avrei voglia di rifarmi da capo. Per altro,—soggiunse ella, mettendosi sul grave,—dicono che un bene posseduto non sia più un bene.
—Vedete che logici da strapazzo!—replicò Damiano, ridendo.—Il bene è il bene, di qui non si esce. Se si mutasse, sarebbe un’altra cosa, ne convengo. Ma come potrei volerlo mutato? In più no, perchè io ho tutto quello che desideravo. In meno, neanche, perchè quello che desideravo lo desidero ancora: e questo è il fatto, la condizione su cui possiamo fondare il nostro ragionamento. Ho io studiata bene la mia logica?
—Eh, non voglio dire di no. Il mio signore ha sempre ragione. Ed era il bel sogno, questo,—diss’ella traendo un sospiro,—il bel sogno che ho sognato con te. Il bel sogno si è finalmente avverato; o Dio, tra quanti pericoli, tra quante angosce mortali! Se c’è giustizia in terra, il bel sogno non dovrebbe finire.
—Così dico io;—conchiuse Damiano.—Non dovrebbe, non deve, non dovrà. Dimmi, Fior d’oro; sei tu sicura di te?
—Oh sì, di me....—gridò ella, levando gli occhi al cielo.—Ed anche di te,—soggiunse tosto,—anche di te, conte Fiesco, che sei così nobile spirito e così candido cuore. Ma non presumi troppo delle tue forze.... e della natura umana? È della donna amare, e saperlo far bene, non sapendo far altro: è dell’uomo l’operare, il faticare in qualche utile impresa, per deludere la sazietà.... per vincer la noia.... E per questo, me lo lasci dire?.... per questo, bisognerebbe forse mettersi a far qualche cosa.—
Tremava un pochino, parlando così, e mendicava le parole. Ma ebbe il pronto conforto di sentirsi dar ragione da lui.
—Sicuramente;—diss’egli.—Ci pensavo appunto stanotte, mentre tu riposavi, Fior d’oro. Bisognerà far qualche cosa. Ed ho trovato.
—Ah sì? E che sarà?
—Continuare ad amarti;—rispose gravemente Damiano, facendo cadere dall’alto, l’una dopo l’altra, le sillabe.—Vi ho lungamente contemplata, amica mia; vi ho pure abbracciata, ma guardingo, sapete, con mano leggera leggera, per non rompervi il sonno, che era così dolce; ed ho pregato Dio che non mutasse niente, che lasciasse tutto così, come ha tanto saviamente disposto, nella sua misericordia infinita.—
E voleva dare in una risata; ma non n’ebbe il tempo. La contessa Juana rideva già più di lui, non senza lagrime; quelle care lagrime che tanto abbelliscono ogni profonda allegrezza. E un po’ tardi, ma in tempo, gli ricambiava l’abbraccio.
Indice
Capitolo II. Ambasciator non porta pena.
Ma ritorniamo una seconda volta, e sia la buona, al nostro don Garcìa, che con tanta attenzione seguiva le vicende di un bellissimo giuoco. Proprio si arriva al punto che la piacevole occupazione gli era interrotta dall’avvicinarsi d’un famiglio, le cui prime parole ebbero virtù di farlo balzar subito in piedi. Molestie dell’ufficio, naturalmente; e la Guardia non poteva esser sempre gioiosa, pel suo degno custode.
—Ci abbandonate?—gli chiese frate Alessandro, che per fortuna di giuoco veniva ad essergli più vicino, e lo vedeva muoversi di scatto dalla panca.
—Per forza;—rispose don Garcìa.—Ed anche, diciamolo pure, con un certo piacere. Arriva il nostro Giovanni Passano.—
La nuova si sparse fra gli altri giuocatori, e la partita fu subito interrotta, come la piacevole occupazione di don Garcìa. Il Passano aveva amici da tutt’e due le parti; e se si contentavano di piantar lì la giuocata quei che avevano il disopra, con “quaranta e la caccia„, era naturale che non si dolessero quelli che s’avviavano a perdere, non avendo che un “quindici„.
Giovanni Passano, al suo smontar da cavallo nel cortile della Gioiosa Guardia, fu accolto a festa dai suoi vecchi compagni d’Haiti e della Giamaica.
—Che buon vento vi porta?—gridavano a gara, stringendogli la mano.—Finalmente! Bisognerà metterci il segno per ricordo, stamparla, toccarsene un occhio. Sapete che ci mancate da un mese?
—Eh, si fa come si può;—rispondeva il Passano, commosso da tutte quelle dimostrazioni d’amicizia.—Appena levati i piedi dagli impicci, eccomi qua. Pietro Gentile! Guglielmo! Battista! frate Alessandro, che per riverenza alla tonaca dovevo metter primo di lista!... Quantunque,—soggiunse ridendo, al vedere tutti quei grembi e sboffi fuor dal cordone di san Francesco,—mi pare che la portiate sempre alla diavola. Giuocate al pallone, vedo. È un bel giuoco; ma non da frati.
—Chi ve l’ha detto, messer Giovanni? Nessun testo lo proibisce; e ce n’è uno che forse li permette tutti. Ma sì. Servite Domino in laetitia; lo raccomanda il Salmista. Volete giuocare anche voi?
—Eh! se non fossero quattr’ore che mangio polvere, e che mi fiacco le reni col cavallo più indiavolato della cristianità.... A proposito, mi fareste un gran piacere ad esorcizzarlo coll’acqua santa.
—O voi col vino di Vernazza, piuttosto.
—Il vino di Vernazza fa bene all’uomo;—conchiuse gravemente il Passano, mentre si avviava colla brigata verso l’ingresso della seconda cinta.—Qui, infatti, ci ho un testo sacro ancor io; vinum bonum laetificat cor hominis. E il signor conte?—ripigliò, con accento mutato, parlando a don Garcìa.—E la signora contessa?
—Benissimo;—rispose lo Spagnuolo.—E vi direi che sono là bene accostati sul medesimo ramo, come due tortore innamorate, se fosse almeno ora di giardino. Saranno invece nella caminata, lei col suo tombolo a far merletti, lui a metter del nero sul bianco.
—Ma anche a far merletti e a scrivere si può star molto vicini, non è vero?
—Oh questo poi sì; alla medesima tavola, per non perdersi d’occhio. Vi faccio annunziare, mentre bevete un bicchiere?
—No, non occorre;—rispose pronto il Passano.—Non dico per il bere, intendiamoci; dico per il farmi annunziare. Non c’è premura; è una visita senza impegno, la mia. A presentarmi, ci sarà sempre tempo per la cena.
—Ah, mi levate una spina dal cuore;—disse quell’altro, mentre lo faceva entrare nel tinello, al pianterreno della rocca.—Avrei giurato a tutta prima che veniste per portarci via il padrone. Che ci volete fare? Presentimenti; e fortuna che qualche volta ingannano! L’altro giorno, passando di qua messer Filippino, che, sia detto con la debita reverenza al casato, ha sempre la lingua un po’ amara, si lasciò sfuggire certe parole! “Che Gioiosa Guardia! diceva; che Gioiosa Guardia! Dormigliosa, dovreste chiamarla. Con Ercole che fila ai piedi di Onfale„. Io, per dirvi la verità, non conoscevo questa signora, ed ho dovuto farmi spiegare l’arcano da frate Alessandro. Ne sapeva poco più di me, quel bravo figliuolo; ma tanto da capire che si trattasse d’una donna, la quale faceva perdere il tempo al dio della forza. Il nostro conte, veramente non fila, e nemmeno la contessa; quantunque, se filasse, vi so dir io che con quelle sue dita darebbe dei punti alle fate. Ma io ho bene inteso, dopo la spiegazione di frate Alessandro, che cosa volesse dire messer Filippino. Il padrone non si occupa se non della padrona, e lascia che gli altri della casata facciano e disfacciano a modo loro le cose della Repubblica. Ma di che si lagnano, se mai? Egli tira le mani e i piedi fuori del giuoco; li lascia dunque padroni; non vi pare?
—Giudicando alla grossa, sì;—rispose il Passano, mentre con diligenza amorosa osservava il liquido topazio delle Cinque Terre attraverso la lucida parete del bicchiere.—Ma possono aver ragione i suoi nobili parenti, a desiderare che un tal uomo non si ritiri dal giuoco. Sapete bene; dove bastano undici, il dodicesimo aiuta.—
Don Garcìa rizzò l’orecchio a quelle parole dell’amico.
—C’è dunque da aiutare a qualche impresa?—diss’egli.
—No, ch’io sappia;—replicò il Passano.—Ma c’è una condizione di cose che parla abbastanza chiaro da sè. Noi del Gatto, o del Basilisco, anzi diciamo pure di tutti e due questi graziosi animali, siamo per Francia; e sta bene, tenuto conto delle buone ragioni che ci abbiamo: ma siccome tutto questo, messo in ispiccioli, significa avere un presidio straniero in città, non si può neanche sostenere alla faccia del popolo che sia la più bella cosa del mondo. D’altra parte, i popolari, cioè a dire i nostri signori d’origine popolana, chiamati altrimenti del portico di San Pietro, vorrebbero aver mani in pasta, allontanando dalla madia quei del portico di San Luca; e questi, capirete, spalleggiati come sono dal gatto e dal basilisco, antiche insegne dei Fieschi, non ci pensano neanche a ceder d’un passo. Si guardano dunque in cagnesco, e come possa andare a finire Dio solo lo sa. Speriamo, nondimeno; Dio misericordioso potrebbe appigliarsi al buon partito di accomodar la testa a tutti. Dei miracoli se ne son visti, in altri tempi: perchè non ne accadrebbe uno nel nostro? Parlo così,—soggiunse il giovanotto,—perchè conosco il padrone, chè non se ne fa nè di qua nè di là. Ma guai a parlar di pace in Violata!
—Gian Aloise è sempre il più forte?—entrò a dire don Garcìa.—E sempre bene coi francesi?
—E come!—rispose il Passano.—Non si muove foglia che Gian Aloise non voglia. Quasi si direbbe che in Genova sia lui il padrone, com’è il capitano generale di tutta la Riviera di Levante. Ci sono i francesi nel Castelletto. Ma quelli si possono magari considerare stipendiati, come se fossero svizzeri, o tedeschi; zuppa o pan molle.
—Sia contento, allora,—disse don Garcìa,—e lasci quieti noi in Gioiosa Guardia, dove si sta così bene.
—Felice mortale! L’avete trovata, la nicchia? E badate, ci verrei tanto volentieri ancor io.
—Con donna Higuamota, non è vero? Ma olà!—ripigliò don Garcìa, come per darsi sulla voce.—Non dimentichiamo che l’ha tenuta a battesimo la madre del padrone, e che bisogna dire donna Bianchina.
—Già,—disse ridendo il Passano,—quantunque sia bruna. Tien più di Caonabo che di Anacoana, la mia dolce metà. Fortuna che amo le brune!
—O perchè non l’avete condotta con voi, amico Passano?
—Che, vi pare? dovendo fare una visita di poche ore....—
Don Garcìa inarcò le ciglia, ma non aggiunse parola.
In quel mentre si faceva udire un gran rumore dalla scala vicina, donde qualcheduno scendeva a precipizio, saltando ad ogni tanto e tonfando, alla guisa dei ragazzi. E subito dopo si vide balzar dentro un adolescente, dai capegli biondi e dalla faccia birichina. Pareva, a vederlo, che il mondo fosse suo, o che lo credesse da vendere, e da poter comprare coi quattro soldi che a lui ballavano in tasca. Polidamante (era questo il suo nome) poteva dirsi l’imagine, il simbolo, il genio della Gioiosa Guardia, ove del resto era nato. Se gli altri ci avevano pochi fastidii, egli non ne aveva nessuno. Tutto di primo impeto, correva sempre, quando c’era da muoversi; quando poi doveva star fermo, si addormentava. Non faceva mai niente con misura; e forse per ciò era molto caro al padrone.
—Che c’è?—chiese don Garcìa.
—Presto, le acque;—gridò quell’altro, senza fermarsi a rispondere in tono.—Dove sono le acque?
—Nei fiumi;—disse il Passano;—e neanche ne han tutti.
—Ah, siete voi, messer Giovanni? Bene arrivato! Dicevo le acque acconce, le acque cedrate, i siroppi per la signora.—
I famigli, che non avevano bisogno di tutte quelle spiegazioni, avevano già levato da una credenza il vassoio con le bocce di cristallo, e si preparavano a seguire con quello il messaggero Polidamante.
—Quando si dice nascer vestiti!—esclamò don Garcìa, volgendosi al Passano.—I padroni hanno anticipata l’ora di uscire in giardino. Potete salire dietro a Polidamante, e presentarvi, e far le vostre ambasciate, senza interrompere i commentarii di Cesare.
—I commentarii.... Che dite voi, don Garcìa?
—Eh, sì, i commentarii di Cesare, come li chiama frate Alessandro.
—Sta bene, avevo inteso;—riprese il Passano.—Domandavo che diavolo è.
—Una storia, amico, una storia di laggiù, mi capite? Il capitano ci ha fatto l’onore di chiamarci nella caminata, per cinque sere alla fila, e ce ne ha letti già cinque capitoli. In quello scritto racconta tutto quello che s’è fatto alle Indie.
—Ah, bene! capisco, ora. Ci avrà molto da raccontare, perchè molto si è fatto. E parla di voi?
—No, non ci siamo ancora, a quel punto;—rispose don Garcìa, rannicchiandosi.—Penso, del resto, che quando saremo a quel punto, egli mi dovrà passare sotto silenzio. Del che non mi lagnerò,—soggiunse egli umilmente;—che anzi, dovrò sapergliene grado. Beati gli uomini di cui non avrà da occuparsi la storia.
—Bravo! siete filosofo?
—Alle mie ore, amico Passano.—
L’amico Passano strinse la destra di quell’altro Seneca; e vuotato il suo calice fino all’ultima goccia, che non era d’aceto, si avviò verso la scala.
—Va, bello mio, va, che non la conti giusta;—borbottò tra i denti il bravo don Garcìa, uscendo alla sua volta di là.—Questa visita di poche ore, a spron battuto, mi sa di chiamata a Genova lontano un miglio. C’è la mano di messer Filippino, qui sotto; scommetterei. Quello là non vuol dare nè lasciar pace a nessuno.—
Il giardino di Gioiosa Guardia, anzi i giardini, perchè erano quattro, bisognava andarli a cercare in alto, come gli orti pensili di Semiramide. Si stendevano essi sui bastioni della rocca, per tutta la lunghezza delle cortine, fiancheggiati e conterminati dalle torri, che, per conseguenza logica quanto architettonica, erano appunto quattro, senza contare il battifredo, gran torre più alta, dalla parte dell’ingresso, colla campana al sommo e con l’orologio nel mezzo. Forte arnese per guerre medievali, la Gioiosa Guardia non poteva più dirsi tale in un tempo che le artiglierie mobili e di grande gittata potevano batterla da parecchie eminenze circostanti. Ma essa non s’aspettava di queste noie, e il suo padrone, amico della pace, ne lasciava il carico ad altri luoghi fortificati della sua parentela, da Montobbio a Pontremoli. In uno di quei casi di necessità, che gli amici della pace come Bartolomeo Fieschi si dovessero ricordare d’essere stati uomini di guerra, la Gioiosa Guardia poteva essere ancora un bell’inciampo a soldatesche raccogliticce, non esperte o impazienti d’assedii; e il suo signore, poi, avrebbe amato sempre meglio far impeto in aperta campagna; che infine non era neanche troppo aperta, e i suoi duecento uomini, ben comandati, potevano valere per mille. Frattanto, sui pensieri di guerra avevano il sopravvento le arti della pace, e prima fra tutte l’arte dei giardini.
Madonna Bianchinetta, la santa madre del capitano Fiesco, ne aveva preso cura da giovane; ma poi, cresciuta negli anni, se n’era via via disamorata, piacendole assai più di passar le sue ore nella cappella del castello, dedicata a san Colombano; un gran santo, quello, e quasi di casa, che era morto non troppo lontano di là, nel monastero di Bobbio, e che dava il nome, del resto, ad una terra vicina. N’era venuto nei giardini del castello un gran guaio per le varie famiglie dei fiori; i quali, si sa, per prosperare domandano amore, intristiscono nell’abbandono, e muoiono anzichè darsene pace. Per contro erano cresciuti gli alberi, gran solitarii, anche quando si ritrovino in molti, che degli uomini non si dànno un pensiero al mondo, e vorrebbero anzi che gli uomini non si dèssero tanto pensiero di loro, per tagliarli, segarli, riquadrarli, piallarli a molti usi volgari, o farne legna da ardere. E insieme con gli alberi erano venute su liberamente le rose, belle salvaticacce che bastano molto a sè stesse. Diradare quegli alberi, sfrondandoli un pochino qua e là, ravviar quelle rose, nettandole d’ogni seccume e potandole, era stata la prima cura dei nuovi arrivati; quanto ai fiori più delicati, poco c’era voluto a trarne da tutti i dintorni, a farne allignare nelle vecchie aiuole risarchiate, e lungo i viali rifatti.
Per quei viali passeggiava la coppia felice; Fior d’oro col braccio sinistro girato intorno alla vita di Damiano; Damiano col braccio destro girato intorno al collo di Fior d’oro. Erano atti, per avventura, di soverchia libertà; ma non veduti per allora se non dagli uccellini saltellanti e chioccolanti sugli alberi. Ed essi, finalmente, come quegli alberi per tanti anni avevano fatto, non si davano pensiero di nessuno. Se n’andavano a passi lenti, così mollemente abbracciati, chiacchierando a mezza voce, bisbigliando quasi, com’è l’uso degli innamorati a buono, che non han nulla da dirsi di serio, nè sopra tutto di nuovo, ma che nelle cose più naturali e più comuni debbono metter sempre un po’ di mistero.
Un rumor di passi sulla ghiaia del viale fece voltar la testa a Damiano. Una sbirciata bastò al felice mortale, perchè egli spiccasse il braccio dalla dolce postura che s’era scelta con tanto buon gusto, e prendendo per mano la contessa Juana muovesse incontro al nuovo venuto.
—Quello, o ch’io sogno, è il vostro genero;—gridò egli con ostentazione di allegrezza, più fatta per consolar l’ospite, che per esprimere il vero sentimento dell’animo.—Capite, Fior d’oro?—incalzò, rivolto alla contessa, mentre stendeva pure la mano al suo antico aiutante.—Vostro genero! vostro genero!
—Già,—disse a sua volta il Passano inchinandosi,—il genero d’una suocera a trent’anni. Si può ben dire l’età d’una donna, in un caso come il mio, non è vero?—
Così dicendo, prendeva la mano che la contessa gli aveva stesa in atto benevolo, e si chinava ancora accennandovi il bacio di cerimonia che la galanteria spagnuola incominciava a far prosperare sulle terre italiane. Mai suocera al mondo meritò tanto un simile omaggio, od altro assai meno cerimonioso di quello.
—Come sta madonna Bianchina?—gli domandava frattanto il Fiesco.
—Bene, benissimo; e saluta, s’intende, e abbraccia la sua bella mamma.
—Perchè non condurla con voi?—
Era la stessa domanda di don Garcìa; ed ebbe l’istessa risposta. Onde da parte del Fiesco l’istesso inarcamento di ciglia, ma con una giunta di parole che non aveva potuta fare quell’altro.
—Visita di poche ore! Mi spaventate, Giovanni mio. Faccende, dunque? e gravi?
—Oh, questo poi no. Son venuto col libro dei conti. Volevo sapere che cosa si dovrà fare della vostra parte di profitti sulla nave Paradiso. Siete il partenevole più grosso, e ci avete un guadagno, quest’anno, di seimila ducati larghi.—
Bartolomeo Fiesco fece una bella riverenza. Seimila ducati larghi erano una bella somma. Il ducato largo, o genovino d’oro come s’era chiamato nei tempi anteriori, con un peso di grammi 3,567, eguale del tutto al suo fino, e con un valore di due lire, due soldi, e due denari, valeva nei primi anni del Cinquecento, in moneta corrente, tre lire e due soldi. La lira genovese ne valeva allora più di tre delle nostre; sicchè, fate il conto, e troverete che il ducato largo ne valeva più di dodici delle odierne italiane. Moltiplicate per seimila, e vedrete che bel guadagno avesse fatto messer Bartolomeo delle Indie col suo Paradiso. Ancora qualche annetto di fortuna, e c’era da farsi foderar d’oro una bella nicchia in purgatorio.
Fece dunque una bella riverenza, come il caso meritava. Ma non gli parve altrimenti che fosse mestieri un viaggio, per sapere dove andasse collocato tant’oro.
—Per questo siete venuto!—diss’egli.—E non la ricordavate, la mia massima? San Giorgio, amico Passano; le “colonne„ di san Giorgio sono le mie colonne d’Ercole. È quello il luogo, il posto, il rifugio sicuro pei ducati larghi. Ma forse avete ancora da dirmi della Santa Giovanna?
—Quella è arrivata a Bari per le lane; non si aspetta prima di giugno. Così almeno mi ha detto ier l’altro il Sauli, che aveva ricevuto lettere. Ho qui invece il fogliazzo delle spese. Se gli date un’occhiata, essendo ancora giorno....
—Volete dire che i numeri si leggono male a lume di lucerna? E sia;—soggiunse messer Bartolomeo,—contentiamo questo terribil Passano. Sedete?—diss’egli, facendo un cenno d’invito a Fior d’oro.
—Fate, fate;—rispose la contessa;—io vi lascio. Quando siete coi numeri, bisogna lasciarvi stare.
—Capirete, Juana, e perdonerete senz’altro. Son genovese; e il genovese, per vostra norma....
—Oh, non dicevo per questo;—interruppe la bella.—Che genovese, del resto? Non vi vantate, amico mio. Volevo dire piuttosto che vi c’imbrogliate parecchio.
—Ah sì, birichina? Ma ciò avviene perchè guardo voi; e allora, povero a me, smarrisco perfino il ricordo della tavola pitagorica.
—Vedete dunque....—diss’ella con aria di trionfo.—Ragione di più per lasciarvi con messer Giovanni mio genero. Farò allestir la cena un po’ prima, perchè egli avrà appetito, m’immagino.
—Abbastanza, madonna;—rispose il Passano.—Ho tanto rinsaccato, su quel maledetto cavallo!—
La contessa si era ritirata; ma dal vano di un uscio, voltandosi, aveva gittato un bacio col sommo delle dita a Damiano. E Damiano, che lo colse al volo, non volle lasciarlo senza ricevuta.
—Povera tavola pitagorica!—gridò egli ridendo.—La vedo brutta.
—Che c’è?—disse il Passano, levando la fronte dai suoi scartafacci.
—Niente, niente; parlavo a mia moglie. Mia moglie!—ripetè il capitano Fiesco.—Ecco due strane parole. Sapete, Giovanni mio, che non so avvezzarmi a questo nome? e che mi par sempre un sogno?
—Restate nel sogno;—rispose quell’altro.
—Certamente, certamente, poichè il sogno è così dolce! Ma ora che siamo soli, ragazzo mio, vuoi tu dirmi che cosa significhi la tua visita? Tu non sei mica venuto per sapere dove andassero collocati i miei ducati larghi.... e neanche per rompermi la testa col fogliazzo. Tu hai una commissione per me, ed una commissione urgente.
—Avete ragione;—rispose il Passano.—Ecco qua, infatti.—
Così dicendo, traeva di sotto al giubboncello una lettera, e la porgeva al capitano Fiesco.
—Ah, volevo ben dire!—esclamò questi.—Gian Aloise?...
—Lui, in persona. Mi aveva mandato a chiamare in gran fretta, ier sera; ed ho risicato, figuratevi, di fiaccarmi tre volte il collo in quei cento scalini di Violata, non avendo altro lume nel buio se non questi due occhi. Giunto alla sua presenza, eccovi il dialogo che corse tra noi: Verrà di questi giorni a Genova il tuo principale?—No, eccelso signore; è più facile che Genova vada a Chiavari, di quello che venga a Genova lui.—Ebbene, andrà Genova a Chiavari, nella persona tua; passerai da me domattina per tempo; ti darò una lettera, che dovrai consegnargli senza fallo in giornata; a lui, mi capisci? e parlandogli a quattrocchi, che nessuno ne abbia fumo. Ritornai da messere Gian Aloise questa mane per tempo; tenevo il cavallo sellato ad aspettarmi fuori della porta di Santo Stefano. Avuta la lettera, son ridisceso dalla Montagnola; ho infilata la via dei Lanieri; son montato in arcione, e via di galoppo, che n’ho ancora le reni fiaccate.
—S’intende che ti sarai ristorato a tutte le frasche.
—Messere!...
—Eh via, non saresti genovese. Hai rinfrescato a San Martino, confessalo; e nota che ti fo grazia di San Fruttuoso. Il secondo bicchiere l’hai bevuto a Nervi; il terzo a Recco, con un rincalzo a Ruta, per ragione della faticosa salita; il quarto a Rapallo, il quinto a Zoagli. Dimmi che non è vero.
—Siete uno stregone, messere;—disse ridendo il Passano.—Per altro, non sono mai sceso d’arcione.
—Te lo credo, questo, perchè al debito non sei venuto mai meno. Quanto a rinfrescar l’ugola, non è mai stato un delitto. E dall’oste della Maddalena, poi? Dicono che ce n’abbia bevuto una mezzina anche Dante.
—Ma sempre stando in arcione;—rispose il Passano.—Furono tutti bicchieri della staffa.
Il capitano Fiesco s’indugiava in queste celie, per non leggere il foglio che gli aveva consegnato il Passano. La lettera donde si aspetta una noia si dissigilla mal volentieri; si spera sempre in un accidente improvviso che possa dispensarcene. Ma l’accidente non ci fu, e messer Bartolomeo dovette rassegnarsi. Aperse il foglio, e lo spiegò; spiegato che lo ebbe, incominciò a leggere, ed anche ad aggrottare le ciglia, a batter le labbra, a sbuffare.
—Oh Dio!—esclamò, quand’ebbe finito.—Ma son pur fastidiosi! Io consigli? E che ci ho da veder io? come ho da darne io, che non ho saputo mai domandarne? Che noia! che noia! E ancora dovrò ringraziarlo, il mio eccelso parente, che ha mandato te per messaggero, e non il suo Filippino.
—Filippino?...—balbettò il Passano, che non vedeva la ragione dell’essere messo in paragone con quel pezzo grosso.
—Già, il nostro buon cuginetto Filippino;—riprese il capitano Fiesco.—Quello là, o con un pretesto o con un altro, è sempre da queste parti; due, tre, quattro volte ogni mese. Il giovanotto non ha mai avuto tanto da fare nel capitanato di Chiavari, come dal giorno che ho preso moglie io.
—Che dite, messere? Io casco dalle nuvole.
—Ed io vorrei risalirci, con Fior d’oro tra le braccia, e non ricomparire mai più alla vista dei seccatori. Vuoi sapere? Filippino s’è messo in mente di toccare il cuore a Fior d’oro. Fa l’occhio pio, lui, ch’è una bellezza a vedere. Sospira, recita i sonetti del Petrarca, e li mette a raffronto colle rime amorose dell’Alighieri. Una sera, che ci fece la stampita più lunga, figúrati che ci sciorinò tutto il canzoniere della Bella Mano. Tu non lo conosci, il canzoniere di Giusto de’ Conti da Valmontone, tutto inteso a celebrare la mano della sua bella? Lo conosco io, pur troppo, e me ne dolgono ancora gli orecchi. Maledetto biondino! Quantunque, a farlo a posta, s’è imbattuto in una che i biondi non li vuol neanche per prossimo.
—O allora, scusate....—si provò a dire il Passano.
—O allora, caro mio, m’annoia egualmente;—rispose il capitano Fiesco.—Qualche volta mi vien voglia di assestargli uno scapaccione.
—La contessa se n’è avveduta?
—E come no? Se ne avvedono gli usci e le imposte, che sono di legno, e gli arazzi e i corami delle pareti; perfino il pappagallo, ultimo avanzo dei dodici portati da San Domingo, che ha imparato a ciangottare: Filippino sciocco! Noto, per amor di giustizia, che vorrebbe dire Filippino Fiesco; ma non gli riesce, e dice sciocco tale e quale. Fior d’oro, dal canto suo, lo chiama Gunora. E potrebbe anche chiamarlo Guatigana. Ma quel poveraccio va rispettato, che almeno ha saputo morire. Quanti pretendenti, mio Dio!—esclamò il capitano Fiesco, sospirando.—Hanno avuto tutti buon gusto, non lo nego; ma ti confesso che m’hanno tutti mortalmente seccato, e mi seccano. Basta, ti ho fatto il mio sfogo, e tu chiudilo in petto, alta mente repostum, come direbbe Virgilio. Il giorno che avrò accoppato messer Filippino, ne capirai il perchè, senza bisogno di venirmelo a chiedere. Ma ora che ci penso.... In questa lettera dell’eccelso Gian Aloise non ci sarebbe la zampa di messer Filippino bello? Mi vogliono levare da Chiavari, è chiaro, come si leva una lepre, o un cinghiale. Vogliono tirarmi sul Bisagno, anzi peggio, sul Rivo Torbido. Una volta là, addio guardia e custodia del fatto mio: feste in Violata, festini a San Lorenzo; dovunque c’è un Fiesco, sarà un invito a ballare. E tu balla, Damiano, o lascia ballar chi ne ha voglia. Così il mio Filippino ha libertà di corteggiare Madonna, di atteggiarsi a suo “intendio„ secondo l’uso della giornata. Ma io me ne intendo più di te, Filippino bello; quando il tuo diavolo nasceva, il mio andava già ritto alla panca. E per la croce di Dio.... Oh, smettiamo; ecco madonna che torna. —
Infatti, sull’uscio dond’era sparita un’ora prima, riappariva Fior d’oro.
—Avete finito di far conti?—diss’ella.
—E da un pezzo;—rispose Giovanni Passano.
—Allora, eccomi qua. Vorrete accettare un rinfresco, per aguzzar l’appetito? Polidamante, i bicchieri e il vin di Cipro.—
Polidamante, che era comparso allora nel vano dell’uscio, corse ad eseguire i comandi. Due minuti dopo, era in giardino col vin di Cipro e il vassoio.
—Dategli da bere, Juana;—disse il conte Fiesco alla moglie.—Ma in verità non lo merita. Sapete che ha vuotate tutte le cantine che ha incontrate in viaggio, da San Martino d’Albaro al ponte della Maddalena? E certo, con lo stomaco scavato da tanto bere, egli ha più fame che sete.
—È anche pronta la cena;—rispose Fior d’oro;—ed egli non avrà da penar molto. Genero,—soggiunse ella, accostando il calice a quello del Passano,—siate il benvenuto coi vostri scartafacci e colle vostre belle notizie. Beviamo ora alla salute della nostra Bianchina.—
Tutto bene, sì; ma le belle notizie il Passano non le poteva mandar giù, dopo averle portate, e conosciute molto noiose.
—Ed ora,—diceva egli tra sè, mentre mandava giù più facilmente il suo vin di Cipro,—come la prenderà Fior d’oro, quando saprà che si vuol Damiano a Genova? Basta, la cosa non mi riguarda; ambasciator non porta pena.—
Indice
Capitolo III. I commentarii di Cesare.
La cena era imbandita nella gran caminata del castello, dove il nostro Giovanni Passano ebbe il piacere di far riverenza a madonna Bianchinetta Fiesca, la veneranda madre del suo capitano. Il giovinotto la chiamava madrina, per aver ella tenuta la vezzosa Higuamota al fonte battesimale. La nobil signora vide assai volentieri il marito della cara figlioccia, e lo chiamò a dirittura figliuolo. Ha di queste delicatezze la vecchiaia, e pare che le derivi dal cielo, a cui è già tanto vicina.
Si ragionò di molte cose, a mensa, mutando gli argomenti come le portate. Così venne “in tavola„ l’eccelso Gian Aloise, con tutte le sue vaste ambizioni, ch’erano poi la gloria e l’onore della illustre casata dei Fieschi; una delle prime signorili d’Italia, e già considerata come principesca, tanto che non si faceva più lega o trattato di pace tra il re Cristianissimo e gli stati Italiani, che non vi fosse inclusa quella grande famiglia, alla pari con essi. Ed anche, volgendo il discorso qua e là, non fu dimenticata una più potente signoria, che per verità non era argomento da tavola; vogliamo dire la peste, oramai da tre anni vagante in Liguria, come nelle regioni contermini, ma che a Genova non aveva potuto menare gran guasto, per le buone provvisioni del governo. Strano, per altro, che ne avesse avuto a pagar le pene il provveditore, che era messer Giacomo Fouchesolts, luogotenente del regio governatore monsignor Filippo di Cleves. Ma oramai da un anno il povero luogotenente era morto, succedendogli, come sappiamo, il Roccabertino; sicchè, non c’era più molto da dirne, e neanche molto di un morbo al quale i popoli d’Europa s’erano avvezzati in que’ tempi, come noi a tutte le specie di nemici invisibili, che coi nomi svariati di microbii, bacilli, micrococchi e germi patógeni, dovrebbero poi essere l’attenuata ma non estenuata discendenza dei persecutori di quattro o cinque secoli fa.
—Parliamo di cose allegre;—disse ad un certo punto il Passano.—Ne ho sentito una, che mi ha riempito di giubilo. Voi scrivete i vostri commentarii, capitano?
—Chi te lo ha detto? Sei arrivato ora, e già sai....
—Non ve ne maravigliate, principale. Per giunger quassù, naturalmente, dovevo passar di laggiù.
—Tu parli come un libro stampato;—disse Bartolomeo Fiesco.—Alla mia volta dovevo immaginare che don Garcìa e frate Alessandro non volessero aver segreti per te. Sono essi infatti i miei due pazienti uditori serali. Che vuoi? bisogna ammazzare il tempo. Io scrivo di giorno, e leggo di sera. Oggi appunto ci avevo un paio di capitoli finiti. Ma ora che sei capitato tu coi tuoi scartafacci, tanto più importanti dei miei....
—Li avete letti, i miei; letti ed approvati;—interruppe il Passano.—Non vogliate defraudarmi della parte mia. Diteglielo voi, madrina;—soggiunse il giovinotto, vedendo che il principale nicchiava;—diteglielo voi, che ha da leggere.
—Mio figlio mi fa piacere, se legge;—rispose madonna Bianchinetta.—Quando legge dei suoi viaggi, mi par di viaggiare con lui.
—E che bel viaggiare!—aggiunse il Passano.—Se scrive come parla, ha da essere un racconto gustoso.
—Voi volete lodarmi, Giovanni, e, sia detto con vostra buona pace, proferite una sciocchezza insigne;—sentenziò gravemente Bartolomeo Fiesco.—Imparate, giovinotto di poche lettere, che lo scrittore italiano si guarda bene di scrivere come parla, avendo alto il rispetto delle vergini muse, dei lettori di buon giudizio, e di sè. Quando parla, apre la bocca, e dà il volo a tutti i passerotti che gli girano per l’anima; quando scrive, li mette tutti quanti sotto chiave, indossa il lucco, tempera la sua penna d’oca, e va a cercare nel fondo del calamaio tutte le sentenze più gravi, tutti i più ornati periodi. Prosa robusta vuol essere. Noi discendiamo dai Romani, che diamine! e Cicerone, maestro in materia, vi mostrerà coll’esempio che altro è scrivere un bigliettino al suo segretario, altro è scrivere a Pomponio Attico; altro scrivere a Pomponio, ed altro assalir Catilina, o Verre, o Marc’Antonio. Ma basta; voi mi sentirete, o giovane inesperto, mi sentirete scrittore; e se non dormirete in piedi, o seduto, l’avrò per un atto di valor singolare, da mettere accanto agli altri, per cui vi ho sempre stimato ed amato. Dixi. —
E qui, naturalmente, una bella risata, di quelle che sapeva rider Damiano. La cena era finita, e i famigli erano venuti a sparecchiare, mentre i padroni di casa e il loro ospite uscivano a far due passi in giardino. Quando rientrarono, la gran tavola era rischiarata da tre grandi lucerne d’argento; il lusso d’allora, in materia d’illuminazione. Il numero dei lumi e la preziosità del metallo compensavano la poca vivezza della luce. E non solo c’erano lumi in tavola, ma anche ciò che può far perdere il lume del raziocinio a chi non sappia usarne con discrezione; vogliamo dire certe bocce vistose di vino delle Cinque Terre, coi calici di cristallo in grandi vassoi d’argento. Furono allora mandati a chiamare i due “uditori pazienti„ che per verità erano impazienti d’aspettar la chiamata, tanto furono pronti ad accorrere.
Offriva un bel quadro, la caminata di Gioiosa Guardia, in quella sera di marzo, al lume delle tre grandi lucerne d’argento, i cui dodici lucignoli, diradando le ombre senza cacciarle del tutto, lasciavano intravvedere lungo le alte pareti i ritratti di quattro o cinque generazioni dei Fieschi, soldati e marinai, ambasciatori, vescovi, cardinali e papi. Ma lo sguardo era maggiormente attratto verso il camino, onde la sala prendeva il suo nome di caminata; gran camino di pietra nera scolpita, sul cui alto stipite sorgeva lo stemma dei Fieschi, col suo elmo di fronte, carico di svolazzi e fogliami, donde apparivano affrontati il gatto sedente e il basilisco nascente. In quella mezza luce non si poteva leggere il motto: sedens ago, scolpito in una fascia tra l’elmo e lo scudo; e questo solamente si ricorda per amor d’esattezza. Davanti al camino, un po’ lontano dal capo della tavola, sull’alto scanno comitale sedeva madonna Bianchinetta, tutta vestita d’ormesino nero, con la sua cuffiettina della medesima stoffa marezzata, donde sbucavano sulle tempie le ciocche dei capelli bianchi come neve, tanto belli a vedersi nelle case che serbano il culto della dolce famiglia. Alla destra di lei stava la contessa Juana, ma seduta più in basso, in modo da potere ad ogni tanto piegar la testa sul bracciuolo dello scanno, e i suoi capelli nerissimi alle carezze della vecchia signora. I detrattori delle suocere avrebbero dovuto ritrovarsi un po’ là, per sentirsi morire l’eterna celia sul labbro.
Presso il capo della tavola, o meglio, tra questo e la contessa Juana, e avendo alla sua destra il Passano, era venuto a sedersi Bartolomeo Fiesco, pronto a squadernare i suoi gran fogli di carta. Dall’altro lato sedeva frate Alessandro, e presso a lui don Garcìa, con Polidamante; il quale per verità non si poteva dire che sedesse, avendo addosso l’argento vivo, ed ora per una cosa ora per l’altra cercando sempre di muoversi. In mezzo al semicerchio sarebbe rimasto uno spazio vuoto; ma lo colmavano già due grossi alani, Ovando e Bovadilla. Immaginate di certo chi avesse chiamata così quella coppia canina. Onore immeritato, e solamente da attribuirsi alla sua desinenza, il nome del commendatore di Calatrava era venuto a decorare la femmina. Gran matti, quei cani, essendo ancora molto giovani; più matti di Polidamante, col quale facevano a correre nei cortili e nei fossi di Gioiosa Guardia. Ma per allora, o che sentissero la gravità del momento, o che avessero abbastanza rosicchiato in cucina, si erano adagiati in quel vano, come due sfingi di basalto, colle zampe anteriori accostate e coi musi allungati sulle zampe. Facevano così per godere quanto più potevano la frescura del pavimento? o non piuttosto per prepararsi a gustare la prosa robusta d’uno scrittore italiano?
Bartolomeo Fiesco prese i suoi fogli in mano; tossì, com’era di rito, e poi disse:
—Frate Alessandro li chiama i Commentarii di Cesare; ma egli s’inganna a partito. Cesare raccontava le cose da lui medesimo operate, e con tanta fortuna; io le cose che ho viste accadere, e non liete, pur troppo. Quæque ipse miserrima vidi....
— Et quorum pars magna fuisti; —aggiunse prontamente frate Alessandro.
—Ah no; fui parte, ma piccola;—ribattè il capitano Fiesco.—Questo capitolo, poi, a farlo a posta, narra di cose avvenute quando io e voi, frate Alessandro, fummo partiti dalla Giamaica su quel guscio di noce, lasciando il nostro grand’uomo a combattere con l’ira degli elementi e con quella degli uomini sulla spiaggia di Maima. Tutta roba adunque che sapemmo poi, al ritorno, e che naturalmente ho dovuto restringere in una mezza dozzina di pagine.
—Leggete, principale, leggete!—gridò il Passano.—Non ce le fate sospirare, vi prego.
—Lo volete, e sia. Tossisco ancora una volta, e incomincio;—disse il capitano Fiesco.—Non m’interrompete; le vostre osservazioni potrete dirmele poi. Non fate rumore, che la mamma vuol sentir bene ogni cosa. A farvi bere ci penserà Polidamante, che per muoversi non ha bisogno d’inviti.—
Dopo questo preambolo il capitano Fiesco incominciò la lettura dei suoi Commentarii, al capitolo XXV: Di quel che seguì alla Giamaica, come ne fu partito il Mendez col Fiesco.
“Partite le canòe per l’isola di Haiti, la gente dei navigli cominciò ad ammalarsi, così pei travagli del fortunoso viaggio, come per la mutazione dei cibi, non avendo più vino, nè altra carne che d’ utia, quando pure potevano procacciarsene dai naturali. Aspra vita; e dovevano durarla, stando colà sequestrati? Certamente ci sarebbero morti d’inedia, dicevano alcuni; perchè l’Almirante non voleva ritornare in Ispagna, dond’era stato bandito, nè all’isola di Haiti, dove alla vista di tutti il commendatore di Lares gli aveva proibito di toccar San Domingo, per quanto bisogno ne avesse. Sarebbero tornate le canòe del Mendez e del Fiesco? soggiungevano i fratelli Porras, che primeggiavano tra i mormoratori scontenti. Quei due potevano esser giunti a San Domingo, ma forse per andar di là in Castiglia, a perorare la causa dell’ammiraglio caduto in disgrazia. E che questo potesse anch’essere il vero, lo dimostrava il fatto che il Fiesco, avendo avuto oramai il tempo di andare a San Domingo e tornare, non era più ricomparso. Del resto, potevano le due canòe essersi anche perdute: si doveva per questo rimanere laggiù ad aspettare una morte sicura, chiusi in quelle due navi sdruscite, per capriccio d’un gottoso, la cui stella era tramontata da un pezzo? Essi ancor sani, e, per grande fortuna, dovevano pensare ai casi loro, e andarsene a San Domingo, per raccontare all’Ovando come fossero trattati tanti onorati Spagnuoli da quell’avventuriere italiano. L’Ovando sicuramente li avrebbe rimandati in Castiglia, dove li avrebbero ascoltati e vendicati il vescovo Fonseca e il tesoriere Morales.
“Così parlavano i Porras, uno dei quali era il capitano della arenata Bermuda, e l’altro il notaio capo della spedizione. E Francesco e Diego furono tanto più facilmente ascoltati, in quanto che si sapeva da tutti che d’una loro sorella era il Morales fortemente invaghito. Entrarono quarantotto nella congiura dei Porras; e il giorno 11 di gennaio del 1504 il capitano Francesco se ne andò di buon mattino colla saliva amara dal signor Almirante, che era inchiodato dalla gotta nel suo giaciglio a poppa. “Perchè restiamo qui? gli chiese. Non vi par tempo di levarci da questo cimitero?„ Le parole del Porras fuor del costume arroganti, lasciarono intendere al signor Almirante che quell’uomo avesse già molti a spalleggiarlo; e più se ne persuase, quando, alle sue ragioni alzando le spalle, il capitano della Bermuda gridò con piglio sdegnoso: io me ne vado in Castiglia, con coloro che vorranno seguirmi. Ed usciva così dicendo dal castello di poppa, l’insolente capitano; e a lui si univano tumultuando i seguaci della sua ribellione, mettendo mano alle scuri, e gridando all’Almirante ed ai suoi: mueran! mueran! col qual grido si riscaldavano il sangue.
“A quelle voci balzò dal giaciglio il signor Almirante, e venne zoppicando sull’uscio. Accorsero i suoi familiari, ed altri che l’obbedivano ad ogni costo, per fargli scudo dei loro petti contro quei forsennati. Altri correvano a trattenere l’Adelantado, il valoroso don Bartolomeo Colombo, che già abbrancata una lancia si disponeva come Achille a dar dentro. E gli uni e gli altri consigliavano al capitano Porras di non tentare la sorte di una strage fraterna, che anco a lui poteva costare la vita: se ne andasse pure coi suoi, quanti fossero, quanti volessero seguirlo.
“Accetta quell’altro il partito, forse immaginando che a far peggio, e con fortuna, non avrebbe poi evitato un castigo. Egli e i suoi scendono dalle navi; slegano dieci canòe che il signor Almirante aveva comperate dai naturali, per tenerle pronte ad ogni stremo; vi tirano dentro molti rematori dell’isola, che hanno con belle promesse adescati, e mettono la prora verso levante, costeggiando, come avevano veduto fare al Fiesco ed al Mendez.
“Andando così marina marina, spesso calavano a terra, e prendevano a forza quanto lor bisognasse. Pagherà l’ammiraglio, diceva il capo dei ribelli; se non vi pagherà ammazzatelo pure, essendo egli prima e vera cagione d’ogni male, e per voi e per noi, come pei vostri fratelli di Haiti. Con queste arti si vettovagliavano ogni dì. Giunti finalmente alla punta orientale della Giamaica, e fatte le maggiori provvigioni per il lungo tragitto, si spinsero in alto mare, ma non andando più di quattro leghe lontano. Il vento si era voltato; si procedeva a stento coi remi, e le onde furiose entravano a far carico, minacciando di affondare o di capovolgere le lunghe e sottili imbarcazioni. Bisognò alleggerire, buttando le vettovaglie; bisognò alleggerire ancora, buttando i poveri Indiani che s’erano fidati alle belle promesse. Così ne perirono diciotto; con altri pochi che stavano ai remi, si toccò finalmente la riva, delusi d’ogni speranza, famelici, ed armati; perchè alle armi non avevano già rinunziato.
“Che fare? Alcuni proponevano di aspettare il buon tempo, e di navigare a Cuba, donde più facilmente avrebbero raggiunto Haiti. Altri, non intieramente guasti dell’anima, consigliavano di tornar pentiti al signor Almirante. Prevalse il partito dei Porras, di restar liberi, scorrazzando per l’isola. Non marcirebbero nelle navi; con l’armi alla mano otterrebbero da vivere; e là, stando alle vedette, aspetterebbero come tutti gli altri una via di salute. Era il partito peggiore, derivandone il malcontento dei poveri isolani, soggetti alle rapine continue di quella schiera malvagia. E un altro guaio sovrastava agli uomini rimasti obbedienti sulle navi. A provvederli di cassava e dei frutti della terra gli isolani si erano volentieri adattati. Ma quella povera gente, vissuta fino allora con pochi bisogni, non faceva grandi seminagioni. I figli del Cielo distruggevano in un giorno più di quello che i naturali del paese consumassero in venti. Dovevano lasciarsi taglieggiare dai ribelli, e provvedere in pari tempo agli uomini del Giocomina, per il ricambio di qualche campanello, o d’una manata di perline di vetro? Così avvenne che dispregiando i baratti e dimenticando le fatte promesse, non portassero più nulla, trascurando perfino di accostarsi alle navi.
“In quel terribile frangente una ispirazione celeste venne al pensiero del gran Genovese. Altri dirà che le sue cognizioni d’astronomia gli tornarono utili. E l’una cosa e l’altra possono ritenersi per vere. Scelto il suo giorno, che fu l’ultimo di febbraio, mandò un naturale di Haiti ad invitare i capi delle vicine tribù, che freddi si dimostravano, ma non erano nemici, e in lui riponevano fede. Avutili a sè, parlò in questa guisa:—Noi siamo cristiani; il nostro Dio abita in cielo, buon re per tutti i suoi sudditi, e dei buoni ha cura, e i malvagi castiga. Già voi vedete come abbia punito i cristiani ribelli, non permettendo che si allontanassero dalla vostra isola contro il comando del loro Giocomina; vi vedrete ora puniti con fame e peste voi stessi, che non portate più alle navi le vettovaglie pattuite. Non lo credete? Ebbene, n’avrete un segno manifesto nel cielo, non più tardi di questa notte, vedendo venir fuori la luna adirata.
“Partirono; alcuni con paura, altri sprezzando la vana minaccia. Ma non era vana, com’essi pensavano. Appunto in quella sera, all’apparir della luna incominciando l’ecclisse, e più aumentando quanto ella più ascendeva sull’orizzonte, quei poveri inesperti ricordarono le parole del Giocomina quanto fossero vere; e fu tanta la paura loro, che con grandissimi pianti e strida venivano d’ogni parte ai navigli con grandi carichi di vettovaglie. Prega il tuo Dio per noi, dicevano al Giocomina, pregalo che non eseguisca l’ira sua contro di noi; e manterremo d’ora in poi le nostre promesse, fino a tanto che tu rimarrai alla spiaggia di Maima. A che il signor Almirante si raccolse, per parlar col suo Dio; e tanto stette appartato finchè l’ecclisse della luna era sul crescere; ed essi tuttavia forte gridavano che dovesse aiutarli. Ma quando egli vide che l’oscuramento della luna era presso al suo massimo punto, non rimanendo più che di vederlo scemare via via, venne fuori dicendo aver fatto orazione per loro, promettendo che quind’innanzi sarebbero buoni, e tratterebbero bene i Cristiani, portando loro tutte le cose necessarie alla vita; e Dio aver perdonato, in segno di che vedrebbero essi che l’ira passava, e con questa la infiammazione della luna. La qual cosa avendo effetto insieme con le sue parole, essi rendevano molte grazie al Giocomina e lodavano il suo Dio: e così stettero finchè non ebbe termine l’ecclisse.
“Fu questo assai buono espediente, al cui felice successo aiutò la nessuna cognizione di quei naturali intorno ai moti degli astri, e alle ragioni per cui talvolta si ecclissano il sole e la luna; eventi celesti che essi stimano accadere a danno degli uomini. Nè io mi starò a lodare con molte parole l’accorgimento del signor Almirante, bastando il considerare che con esso egli ebbe provveduto alla salvezza di tanta gente cristiana, quantunque per sedizioni e turbolenze continue così poco meritevole delle sue cure paterne. Indi a pochi giorni giungeva alla spiaggia di Maima la canòa di Bartolomeo Fiesco, che prima non aveva potuto, per ragioni gravissime, le quali partitamente si diranno più sotto, non volendo io interrompere con privati accidenti, comunque maravigliosi e terribili, il racconto delle cose che riguardano il grande Navigatore genovese e le fortunose vicende del suo quarto viaggio. Accolto a festa dal signor Almirante, recava il Fiesco novelle del Mendez, da lui lasciato a San Domingo; novelle non liete, le quali il signor Almirante non stimò di far conoscere ad altri; che anzi, a tutti i ritornati della canòa fe’ giurare il segreto. Le novelle erano queste, che dopo tanti mesi di preghiere, tenuto quasi sotto custodia dal governatore, il Mendez non aveva potuto ottenere i navigli da condurre alla Giamaica, nè la licenza di trovarne egli stesso, pagandoli coi denari del signor Almirante; donde appariva chiaro il bieco proposito del gran commendatore d’Alcántara, di far perire Colombo e di oscurarne la gloria. Ma forse in tal proposito non avrebbe egli potuto durare, poichè il Fiesco gli era fuggito di mano, e certamente, Dio permettendolo, sarebbe giunto ad informare il signor Almirante di tutte quelle macchinazioni della brutta invidia e malvagità singolare di lui.
“Ma intanto la gente raccolta nelle due navi sdruscite, ignorando le nuove, stimava perduto il Mendez; nè quasi poteva più dubitarne, non pure per il ritorno avvenuto del Fiesco senza il compagno di tragitto, ma ancora per certe voci sparse dai sollevati del Porras, di una imbarcazione che s’era vista al largo della punta di Aramaquique, capovolta e trasportata dalle correnti, che sono fortissime al levante della Giamaica. Crebbero le paure, e con le paure le mormorazioni, i malcontenti, le trame. Già si ordiva una congiura, capitanata da un Bernardo di Valenza, speziale dell’armata, a cui s’aggiungevano uno Zamora e un Villatoros. E questa certamente avrebbe potuto segnare la estrema rovina dell’Almirante e de’ suoi fedeli, se non fosse intervenuto un caso fortunato a sviare le menti; onde lo speziale finì con aver pestata l’acqua nel mortaio. Si vide adunque una sera apparire da scirocco una caravelletta, quasi una voglia delle due che si aspettavano, sospirando, da poco meno di otto mesi. Quel piccolo guscio si accostò sull’imbrunire alle due navi arenate; un palischermo se ne spiccò, muovendo verso la capitana e portandovi il suo comandante Diego d’Escobar, inviato dal signor governatore. Brutta scelta era stata quella di Nicola Ovando, che sapeva l’Escobar nemico mortale del signor Almirante, contro il quale si era ribellato col famoso Roldano, meritando una condanna di morte, a cui non era sfuggito se non per l’amicizia del Bovadilla, gran protettore dei tristi.
“Quasi per aggiungere lo scherno all’offesa, portava l’Escobar in presente un barile di vino e una mezzina di porco salato. Se ne cavassero la sete, un centinaio di bocche, quante ne lasciava alle due navi sdruscite la sollevazione del Porras! Quanto ad aiuto di navigli, il gran commendatore (lo avevano infatti promosso alla maggior dignità di Alcántara, e si era spogliato della commenda di Lares) non poteva far altro che promesse, e solo per dimostrare il suo buon animo mandava quella piccola caravella, l’unico legno che si trovasse ad aver sotto mano. Bisognava contentarsi delle promesse, e far buon viso a chi le portava. Gran mercè che Diego d’Escobar si fosse incaricato di portar anche una lettera del Mendez, dove quel buon servitore faceva relazione di tutto il suo viaggio: relazione attenuata, s’intende, poichè doveva passare sotto gli occhi dei nemici; ma il signor Almirante sapeva leggere tra le righe.
“Questi avrebbe voluto rispondere, non pure al Mendez, ma ancora al governatore. Ma venne il mattino, e la caravelletta era scomparsa. Diego d’Escobar non aveva avuto altro incarico che di spiare e di riferire all’Ovando se l’odiato Genovese fosse ancor vivo. Bartolomeo Fiesco, dal canto suo, potè immaginare che quell’esploratore fosse venuto anche un pochino per lui, per vedere se egli, con quel suo tronco di legno incavato, fosse riuscito ad afferrar la Giamaica, e quali notizie avesse portate al signor Almirante. Se questo era il disegno di Nicola Ovando, poco doveva profittargli la sua accortezza. Bartolomeo Fiesco, che già all’apparire della piccola caravella si era posto sull’avviso, e delle persone che lo accompagnavano aveva prudentemente nascoste quelle che gli premeva di non lasciar vedere ai curiosi, trovò modo di dire all’Escobar, nel cospetto del signor Almirante, come questi fosse già informato delle buone intenzioni di don Nicola Ovando.—Gliel ho pur detto io, non dubitate, che il signor governatore non ha per ora a San Domingo i legni necessarii per mandare a levarci di qui; e se anche non giungevate voi, egli era già ben persuaso della bontà e della cortesia, comunque per ora impotenti, del gran commendatore d’Alcántara che Dio guardi, a cui vi prego di rammentarmi come suo buon servitore.—Era una bugía necessaria; e con certa gente, del resto, non si nasconde mai abbastanza quel che si pensa di loro. Il Fiesco, dopo tutto, non si pentì di quella bugía, nè d’altre parecchie, che per difesa sua e degli amici gli fosse tornato di dire. Se poi son colpe, ne domanderà l’assoluzione al suo confessore.„
—Fossero tutte lì!—scappò detto a frate Alessandro.
—Ah, tu non vuoi starmi ai patti, frate scudiero!—esclamò il capitano Fiesco.—Polidamante, negagli il vino.
—Per carità!—riprese il frate scudiero.—Stavo appunto per accennargli di mescere; e vi chiedo assoluzione a mia volta. Sapete pure che in certi brutti momenti avevamo promesso di confessarci l’un l’altro. Ma proseguite, capitano, ve ne prego.—
Il capitano Fiesco bevette un sorso, e ripigliò la lettura.
“Ritornando ora al signor Almirante, dirò com’egli, confidando oramai d’essere prima o poi sovvenuto di navigli, e cedendo all’impulso del suo cuore sempre inchinevole a pietà, mandasse due uomini a terra, dei suoi più fedeli, per tornare all’obbedienza i ribelli, avvisandoli dell’arrivo della piccola caravella, e mandando loro a testimonianza del fatto, come della bontà sua, una parte dei presenti che gli aveva portati l’Escobar. Già si disponevano alcuni ad accettare il perdono; ma li trattennero i Porras, più infelloniti che mai. E così, dopo essere stati un pezzo a consiglio, rispondevano tutti ad una, non volersi fidare del perdono, nè del salvacondotto che mandava loro il signor Almirante. Volentieri se n’andrebbero quieti dall’isola, s’egli promettesse di dar loro uno dei due navigli che aspettava, o mezzo naviglio, se uno solo ne fosse arrivato; e frattanto, poichè avevano perdute tutte le cose loro, volesse egli spartire con essi tutte quelle che aveva. E rispondendo i due ambasciatori non esser patti ragionevoli i loro, replicarono arroganti che quanto non si concedesse loro per amore, saprebbero bene pigliarsi per forza.
“Altro aggiungevano i Porras, riscaldandosi via via. Bene conoscevano l’Almirante per uomo vendicativo e crudele. Per sè stessi non temevano, sapendosi forti di amicizie e protezioni alla Corte; bensì per tanti loro compagni dei quali egli avrebbe preso vendetta, sotto colore e nome di castigo. Per tali ragioni non si era fidato di lui Francesco Roldano; e bene gli era riuscito, essendo stato tanto favorito da far mandar l’Almirante carico di ferri in Castiglia. Nè essi avevano minor cagione o speranza di fare altrettanto. Della piccola caravella, poi, non era da creder niente; ad altri la dèsse ad intendere. Quella non era stata una caravella vera, ma un fantasma di nave, opera di negromanzia, essendo noto come valesse l’Almirante in quell’arte diabolica. Perchè, se era opera d’uomini, non era rimasta, scambio di apparire a vespro e di sparir nella notte? Perchè con nessuno della sua marinaresca si era potuto parlare? Se fosse stata vera, bene si sarebbe affrettato l’Almirante a imbarcarvisi, col fratello e col figlio. Con le quali e con altre parole indirizzate allo stesso proposito, ottennero i Porras che la gente si confermasse nella ribellione, deliberando ancora di muovere verso i navigli, per far bottino, e prender l’Almirante prigioniero; se pure già non pensavano di far peggio.
“E mandavano i fatti compagni alle parole, accostandosi alla spiaggia di Maima. Non era più tempo d’indugi. Scese l’Adelantado con cinquanta armati, risoluto di sanare quei cervelli matti con buone ragioni, se potevano bastare; con le cattive, se fosse stato mestieri. Giunto ad una collina, e fermatosi ad un tratto di balestra dai sollevati, Bartolomeo Colombo fece chiedere il capo loro a parlamento. Non risposero quelli alla proposta degli ambasciatori, e pensando di aver da fare con gente stremata di forze, brandendo le spade nude, e le lance che avevano, formati in un drappello, e gridando ammazza, ammazza, assalivano la squadra dell’Adelantado; avendo prima giurato i sei più valenti di non dipartirsi l’uno dall’altro, ma di volgersi tutti contro Bartolomeo Colombo, perchè, morto lui, non facevano stima degli altri. Il che non piacque a Dio che loro venisse fatto, essendo stati così ben ricevuti, che cinque o sei ne caddero per terra, tra i quali erano i più di quelli che avevano giurato di colpire l’Adelantado. E questi diè dentro così forte, uccidendo ed atterrando, che l’istesso Francesco Porras non fu più in tempo a fuggire; laonde, lui fatto prigione, voltarono le spalle quanti non eran caduti.
“Volentieri avrebbe Bartolomeo Colombo proseguito l’inseguimento e lo sterminio di quei malvagi. Ascoltò nondimeno il consiglio di tale che aveva veduti sopra un’eminenza i naturali in gran numero, e forse disposti a saltare sui combattenti, sotto colore di aiutare i sollevati, ma col proposito di opprimere i fedeli dell’Almirante. E di questo il consigliere non si loderà troppo, pensando che forse egli vide un po’ grosso, quel giorno; mentre forse era meglio sperdere in un colpo la mala semenza, poichè nessuno valeva forse meglio del loro capo prigioniero ed incolume, nè del suo fallito imitatore, lo speziale mastro Bernardo da Valenza; il quale, a detta del signor Almirante, avrebbe meritato d’esser fatto a pezzi non una volta ma cento.
“Bene o male che fosse, l’inseguimento cessò, e ritornammo ai navigli, menando prigione Francesco Porras con altri de’ suoi. Della nostra gente due soli i feriti; l’istesso Bartolomeo Colombo in una mano, assai leggermente, e un maestro di sala dell’Almirante, percosso di lancia in un fianco. Pareva una cosa di nulla; pure, in capo a pochi giorni, il disgraziato morì. Dei sollevati, per contro, moriva in battaglia Giovanni Sanchez di Cadice, quello che sulle acque del Betlem si era lasciato sfuggire il cacico Quibian, per avergli allentata in mal punto la fune; e taccio d’altri minori. Ferito in molte parti del corpo, e rovinato giù da una balza, guariva invece Pietro di Ledesma, il forte nuotatore che tuffatosi in acqua dalla nave di Colombo, aveva superata la barra del Betlem, giungendo alla piccola colonia dell’Adelantado, e riportandone per l’istessa via le tristi notizie al signor Almirante.
“E merita costui un particolare ricordo, per la stravaganza del caso. Per due dì, dal 19 maggio, che fu il giorno della battaglia, rimase in quella fossa, senza che alcuno sapesse di lui, o gli desse aiuto, tranne gl’Indiani; i quali con maraviglia, non sapendo come tagliassero le spade nostre, gli aprivano con istecchi le ferite; una delle quali nella testa, per cui si vedeva il cervello, un’altra in una spalla, che si era quasi spiccata; un’altra ancora ad una gamba, spaccata dalla coscia alla caviglia; un’altra finalmente (e questa non si sapeva come fosse avvenuta) alla pianta del piede, dal calcagno alle dita. Coi quali danni nello scafo, quando gl’Indiani gli davan più noia, diceva: lasciatemi stare, che s’io mi levo su, vi farò.... E lo diceva con tal voce di tuono, che quelli spaventati la davano a gambe.
“Inteso di quel fatto sui navigli, volle pietà che fosse curato e portato in una capanna, per ripararlo dal freddo della notte, e dalle migliaia d’insetti che lo molestavano di giorno, minacciando di finirlo essi soli. Quivi, invece di usar trementina a ciò necessaria, gli medicavano le piaghe con olio bollente. Le quali furono tante, da far strabiliare il cerusico. Infatti, ogni giorno dei primi otto che lo medicò, gli trovava sempre qualche nuova ferita.
“La lezione domenicale del 19 maggio era stata così solenne, che la mattina del lunedì i superstiti fuggiti mandarono a chiedere misericordia. Si pentivano dei lor falli; volevano tornare alla obbedienza. E l’Almirante concesse un perdono generale, a patto che il Porras, capo ed istigatore, rimanesse in prigione, per non esser causa d’alcun nuovo tumulto, e che i pentiti non venissero sulle navi a leticare coi rimasti fedeli, o a seminarvi zizzanie. Questi, per miglior consiglio, sotto la scorta di un fidato ufficiale, mandò per l’isola al traffico, prendendo vettovaglie e dando cianfrusaglie in ricambio. Ed erano i baratti di questa forma; per uno o due utias, che son come conigli, si dava un ferretto di stringa; per una focaccia di pan di cassava, due o tre avemmarie verdi o gialle; per maggior quantità di cose, un campanello di ottone; ai capi delle tribù, che stavano ai patti, ora un piccolo specchio, ora una berretta rossa, ora un paio di forbici. Piccole cose, e di piccola utilità; ma sapevano contentarsene quei popoli agresti. Certo, in cuor loro pregavano Giocovagama che ci rimandasse in Azatlan, donde eravamo venuti. Amavano il Giocomina degli uomini bianchi; ed egli ne meritava l’amore. Ma quante anime nere, tra quegli uomini bianchi! Per un vero figlio del cielo, quanti Goeiz scaturiti d’inferno!„
Indice
Capitolo IV. L’epistolario di Cicerone.
—Chi dorme si svegli;—gridò il capitano Fiesco, deponendo i suoi fogli, poichè aveva finito il capitolo.
—Siamo qui con gli occhi aperti e le orecchie tese;—disse frate Alessandro.
—Continuate, signor conte, se le dame permettono che si abbia una volontà in loro presenza;—aggiunse il cerimonioso don Garcìa.
—Le dame veglieranno fino a mezzanotte, se occorre;—disse a lui di rimando madonna Bianchinetta, avendo un cenno di assenso dalla contessa Juana.
—Avete tutti i voti, capitano;—conchiuse Giovanni Passano.
—Non tutti;—riprese il Fiesco.—Vedo che Ovando e Bovadilla sbadigliano. Del resto, per continuare a leggere, bisognerebbe che n’avessi materia. E sono rimasto qui, non avendo per l’altro che un guazzabuglio di appunti. Debbo ancor raccontare mezzo mondo di cose: come e quando ci giunse la nave comperata dal Mendez, e un’altra mandata per vergogna dal gran commendatore di Alcántara; come si partì finalmente il 28 giugno dalla spiaggia di Maima, un anno e quattro giorni dopo averci dato in secco per nostra salute; come si giunse il 13 agosto nel porto di San Domingo, dove il nostro grande e sant’uomo ricevette senza perdere la pazienza le mendicate giustificazioni e le false proteste d’amicizia dell’Ovando; mentre a costui doveva scusarsi Bartolomeo Fiesco, per quanta poca voglia ne avesse, dell’essersi allontanato da San Domingo, senza prender commiato da quel suo svisceratissimo amico; intanto che un bel mozzo tinto di carbone la faccia e le mani, un frate francescano più soldato che frate, e un certo don Garcìa travestito da marinaio e più nero del mozzo, si tenevano prudentemente sotto coperta. Come Dio volle, uscimmo da quella trappola il 12 settembre, dopo essere stati un mese coll’anima in soprassalto, per passare cinquantasei giorni sempre sospesi tra morte e vita, da San Domingo nel nuovo mondo a San Lucar di Barrameda nel vecchio. Che mare, vi ricordate? Cristoforo Colombo non l’ebbe mai peggio in sua vita. Ed anche si può dire che l’Atlantico serbasse i suoi furori solamente per lui, non lasciandogli, salvo nell’approdo a Guanahani, un giorno intiero di pace. Agli altri navigatori sempre mare tranquillo, e vento in fil di ruota! È giusto, dopo tutto. Quello è il grand’uomo, epico e tragico ad un tempo; debbono dunque esser sublimi di angosce mortali tutti gli accidenti della sua vita. Gli altri sono i curiosi che vanno sull’orma, i mediocri che seguono il solco tracciato da lui. Cabral, d’Ojeda, Vespucci, Cabotto, ed altri, quanti siete o sarete, che la fortuna manderà innanzi a pedate, affrettatevi a dimenticare quello che il gran Genovese ha operato per benefizio di tutti, non avendone altro che amarezze dagli uomini e tradimenti dalla vostra cieca signora. Ma basti di ciò, se pure non ho detto già troppo;—conchiuse il capitano Fiesco, prudentemente ammainando la vela.—Volevo dirvi che da San Domingo a San Lucar ce ne avrò ancora per quattro o cinque capitoli; dopo di che prenderò a raccontare la nostra particolare odissea, dalla Giamaica ad Haiti, e da questa a quella ritornando, con tutto quello che c’è stato di mezzo. Sarà l’episodio nel poema eroico del nostro immortale cittadino; ma che episodio, siatemene voi testimoni! e ditemi ancora se per me non debba esser piuttosto il poema. Lo scriverò, mettendoci tutto il tempo che sarà necessario, e lo lascerò per ricordo ai Fieschi delle generazioni future.
—Lo darete alle stampe, speriamo;—disse il Passano.
—Questo poi no. Ai Fieschi, ho detto, e non ai fischi;—ribattè prontamente l’autore.—Dimmi tu ora, Giovanni dell’anima mia, se con questa allegrezza della Gioiosa Guardia, dove ho portato con me il premio maggiore che uomo potesse sperare dei patiti travagli, e con l’onesto desiderio di lasciarne memoria ai dolci nepoti, io possa risolvermi di lasciare questo mio nido di pace per le chiamate del colle di Carignano.
—Che c’è?—disse Juana, turbata a quel cenno improvviso.
—Leggi;—rispose il Fiesco, levando dal giustacuore la lettera che poche ore prima gli aveva consegnata Giovanni Passano.
Poi, rivolgendosi al suo luogotenente, soggiunse:
—Caro mio, non ti maravigliare. Per mia moglie e per mia madre non posso avere segreti.—
Fior d’oro, intanto, aperto il foglio sotto gli occhi di madonna Bianchinetta, a mezza voce leggeva. E noi leggiamo con lei la lettera dell’eccelso ed illustre Gian Aloise Fiesco:
“ A messer Bartholomeo Feisco nostro amato parente nec non viro excellentissimo.
“Havemo ricevute a suo tempo le doe lettere che Voi ne mandasti per lo cavallante Nicholin di Baceza et per lo ballestero Anthonio de Rì. Le quali ne hanno immensamente allegrato per quello che diti de la vostra bellissima sposa et de la nostra nobile cugina Bianchineta che Dio vardi. Ma similmente non intenderne che Voi vi adormentati in ocio de Gioyosa Guardia, come novo Hercule in Lydia, salva sempre la gratia de la celeste Fior d’auro; non parendone digno di cavallier come Voi et experimentato in tanti famosi incontri de terra e mar, di restar lontano et alieno da quelle imprese dove se guadagna gloria et roba per lustro d’el nome et potencia de la casata. Ergo è nostra mente che Voi vegniate quam primum poteritis a trovarci in Violato; che se noi facessimo come ne avressimo bon desiderio una seconda volta il viaggio, li maligni inimici del Gatto direbbono forsi che noi tememo per lo nostro capitanato de Levante; il che non sarìa savio da parte nostra. Etiam molte cose haverei da dirvi et tute di grande importancia per Voi et per noi che dite di amare, nel che volemo ben credervi. Onde Vi preghiamo non fate dimora. Il nostro Giovan di Passano el ve dirà a bocca quanto sia nostra voglia di vedervi accanto a noi per quel molto o poco che vorrete restare. E Iddio vi tegna sempre in la soa santa custodia.
“ Genue. Die V Martii A. D. 1506.
“Vostro parente et bon servidore “ Gioan Aloyse. „
Così la lettera dell’eccelso ed illustre capo della gente Fiesca. E Fior d’oro, com’ebbe finito di leggere, alzò la fronte a guardare il marito.
—Andrai?—diss’ella.—Gian Aloise ti prega.
—Andare è presto detto;—rispose Bartolomeo Fiesco.—Io non ci ho cuore, nè gambe. Scriverò; non sono oramai uno scrittore? Ma sì;—rispose egli, cercando di ribattere una obiezione che già vedeva balenare dagli occhi di Fior d’oro;—io sono famelico di oscurità, che è principio di pace, e quell’altro laggiù vuol tirarmi in luce di meriggio. Qui si sta bene: non per niente è Gioiosa Guardia. Anche nostra madre, che è vissuta tanti anni senza di me, ha bisogno di rifarsi della lunga solitudine. Di voi non parlo, Juana, che mi dareste un ceffone più forte di quelli con cui accarezzate le guance alle finte povere della vallata. Qui si sta bene, ripeto, e meglio non si starebbe in nessun altro luogo. Desideri la vita operosa, con tutte le sue ansie, con tutte le sue illusioni e le sue delusioni, chi non l’ha ancora vissuta. È giusto che ognuno s’istruisca, e paghi i maestri del suo. Quanto a me, ho imparato abbastanza; onde dirò col poeta, di cui non ricordo più il nome:
Il porto è qui: speme e fortuna addio;
Già m’ingannaste, or fate ad altri il gioco.—
Ciò detto, fece un cenno a Polidamante. Ed era un cenno complesso, perchè Polidamante non istette dubbioso un momento, ma saltando lesto e scavalcando i due corpi distesi di Ovando e Bovadilla, venne ad abbrancare il fiasco del vino delle Cinque Terre per ricolmargliene un calice. Messer Bartolomeo ringraziò il coppiere con gli occhi, e tracannò il vino d’un fiato.
Giovanni Passano taceva; e si capiva che tacesse, essendo stato egli il portatore della lettera di Gian Aloise, e incaricato al bisogno di confortare con nuove ragioni a bocca l’invito che recava per iscritto. Ma il capitano Fiesco aveva dalla sua frate Alessandro e don Garcìa, che gli davano ragione due volte, approvandolo, e bevendo da capo con lui. La contessa Juana, per contro, era rimasta pensosa; e ciò non gli andava, parendogli di non esser sicuro della vittoria, se non gliela confermava il giudizio di Fior d’oro.
—Non vi piace la mia risoluzione?—diss’egli.
—Non dico questo, nè lo penso;—rispose la contessa.—Ma riconosco che ci sono le occasioni, pur troppo, in cui non possiamo fare quel che ci torna meglio.
—Oh, per questo, vedrai che lo potrò;—ribattè egli animandosi.—Non sono uno schiavo, io; e Gian Aloise non iscrive da padrone. Diciamo piuttosto ch’egli tratta da re. Quando un re scrive “vi vedrò volentieri„, il cortigiano accorre senz’altro. Io non sono un cortigiano, e non ho ambizione di uffici illustri o lucrosi. E li merito, poi? Penso di no, ed ho il diritto di esser modesto, mi pare. Infine, che cos’è che si pretende da me? Sono un uomo di vaglia. Come lo sanno? da che lo argomentano? Sono stato navigatore e soldato per passatempo, come prima ero stato scolaro a Pavia, e laureato in medicina e filosofia. Quel che sono mi son fatto da me, e me lo spendo a mio modo. Vengo meno con ciò agli obblighi del mio sangue? No. Queste terre me le hanno lasciate i miei maggiori; le tengo e le difendo; difendendole, son utile ancora ai Fieschi confinanti con me. Questo è il mio scoglio, e ci fo il mestiere dell’ostrica. Quando mai si è preteso che l’ostrica lasciasse di far l’ostrica, per fare il pesce spada?—
Gli pareva d’aver vinto, con questo ragionamento, e che nessuno gli potesse rispondere. Ma in quel punto Ovando e Bovadilla levarono il muso e rizzarono gli orecchi, brontolando verso l’uscio:
—Che c’è?—disse il Fiesco.—Hanno sentito qualche cosa d’insolito?
—Rumore nel cortile;—rispose Polidamante.—Sembra uno scalpitìo di cavalli.
—Visite a quest’ora?—ripigliò messer Bartolomeo.—Vedrete che sarà Filippino.
—Ma che!—disse allora Madonna Bianchinetta.—Sono appena tre giorni che l’abbiamo veduto.
—E tre giorni sono qualche volta un secolo;—ribattè egli ostinato.—Del resto, chiunque sia, non istarà molto a farsi vedere. —
Comparve indi a poco sull’ingresso della cantinata un famiglio, che tirandosi da un lato della soglia, solennemente parlò:
—Magnifico signore, è qui messer Filippino.
—Ah, Filippino!... Ma se lo dicevo io!... Questo qua veramente mi ha preso a proteggere.—
Fior d’oro si mosse verso il marito, cercando di chetarlo collo sguardo.
—Già,... ecco....—balbettò egli allora.—Volevo dire che m’ha preso a voler bene. E chi ci vuol bene, quando ne sia il bisogno, ci protegge. Andiamogli incontro; sarà il miglior modo di mostrargli gratitudine per tanta bontà.—
Prima che il capitano Fiesco fosse in fondo alla sala, compariva messer Filippino sull’uscio; Filippino il bello; Filippino il biondo, come lo diceva spesso e volentieri il padrone di casa. Un bel giovane infatti, e d’un bel biondo di stoppa, come la natura benigna ne dispensa qualche volta alla umanità bisognosa.
Frate Alessandro e don Garcìa, fatta riverenza alle dame, erano spulezzati al primo annunzio della visita illustre. Li avrebbe seguiti volentieri Giovanni Passano, ma non n’ebbe il tempo. Del resto, arrivato quel giorno come un messaggero di Gian Aloise, egli era anche in quella casa un parente. Non appariva dunque un intruso; non doveva riuscire importuno, se anche i due Fieschi avessero a parlare di cose per le quali era venuto alla Gioiosa Guardia egli stesso.
—Siete dunque voi, Filippino?—gridò il capitano Fiesco, dischiudendogli quasi le braccia, ma fermandosi a mezz’aria per istendergli le mani.—A quest’ora ci capitate? Di passaggio, m’immagino, e vorrete pernottare da noi?
—No, non di passaggio, vengo appunto per voi;—rispose Filippino, arrossendo un poco.—Del resto, è sempre piacevole capitare a Gioiosa Guardia, che è tanto ospitale e benevola. Sapete bene che quante volte ho da passare di qua, non mi lascio sfuggir l’occasione di riverir le dame e di stringer la mano a Voi. Questa volta sono ambasciatore, o messaggero, o cavallante, come vorrete chiamarmi. Ecco una lettera di Gian Aloise.
—Dell’eccelso Gian Aloise?—esclamò il capitano Fiesco.—La seconda in un giorno!
—Infatti, sì;—rispose Filippino.—Egli mi ha detto della commissione che aveva data al nostro Giovanni Passano. Ma nella lettera a lui consegnata aveva dimenticato un punto di capitale importanza. Allora egli ha chiesto a me se mi sarei sentito....
—Di montare a cavallo, non è vero?—interruppe messer Bartolomeo.—E di galoppare a Gioiosa Guardia, dove gli amici son sempre così lieti di vedervi? Ma galoppando così, Voi avrete anche dimenticato di cenare; e se permettete, s’imbandirà subito per Voi. Polidamante!...
—No, vi prego, non fate nulla di nulla. Sapevo di non giungere in tempo per la cena, ed ho mangiato un boccone dall’oste del Rupinaro. Piuttosto,—soggiunse Filippino con grazia,—l’ho ancora qua nella gola, e gradirò che mi diate da bere.
—Allora, faccia Polidamante l’ufficio suo, e Voi siate contento a modo vostro. All’ospite non bisogna dar noia, per desiderio di mettergli la casa sulle spalle;—conchiuse saviamente messer Bartolomeo.—Ma intanto,—seguitò, volgendosi al Passano,—eccoti qui un oste del Rupinaro, che tu hai saltato nella tua rassegna stradale.
—Non l’ho saltato;—rispose il Passano.—Ho solamente risposto di sì a tutti i nomi che Voi dicevate.
—E perchè non ho detto quello, tu l’hai taciuto, manigoldo? Ma leggiamo questa lettera, che dovrebb’essere la seconda ai Corinzii.—
Mentre il capitano Fiesco parlava così, disponendosi ad aprire la lettera, messer Filippino faceva riverenza alle dame. Fior d’oro, contro l’usanza delle nuore, stava molto ai panni della suocera; e messer Filippino, che aveva una voglia spasimata di bisbigliare qualche cosa molto sottile e molto profonda a madonna Juana, dovette contentarsi di dirne molte assai comuni e leggiere a madonna Bianchinetta, parlando della salute, del tempo, della strada percorsa, e di simili altre bazzecole. Ma anche a ragionare d’inezie c’è il modo di andar nel sublime, o almeno di rasentarlo, con un buon lavoro d’occhiate compassionevoli, tremiti di voce e soavi inflessioni d’accento. Ora in quest’arte Filippino era passato maestro.
Gli occhi di Fior d’oro, badando poco agli atti di Filippino, andavano spesso al marito, spiandone i moti e ricercandone l’animo; cosa facilissima, perchè egli non usava nascondersi mai. Così lo vide batter le labbra, leggendo, tentennare il capo, e finalmente richiuder la lettera con un atto di grande impazienza.
—Ebbene, ve lo dicevo io, che non si può far sempre quel che si vuole?—gli bisbigliò ella, che già si era staccata dal fianco della suocera, per accostarsi a lui.
—Ma sì! Fior d’oro ha sempre ragione;—rispose egli avvilito.—Questo è più forte dell’altra. Leggila a nostra madre.—
Fior d’oro prese il foglio dalle mani di lui, e come aveva letto il primo sotto gli occhi di madonna Bianchinetta, così lesse il secondo. Qui Giovanni Passano si mosse per andarsene. Messer Bartolomeo voleva trattenerlo, non vedendoci ragione; ma il suo luogotenente ottenne licenza con una argomentazione invincibile.
—Se quello che scrive Gian Aloise è tale da poterlo sapere ancor io, me lo potrete dire domani, prima ch’io parta; se non è tale, potrete tacerlo, ed io sarò felice di non averlo ascoltato. Voi anche mi avete insegnato a non esser curioso; e i fatti del prossimo sono spesso così poco interessanti! Aggiungete che in ogni cosa io sono vostro, ed altro non mi piace che di obbedirvi. Ora, se permettete, vo a prendere il fresco e a fare un po’ di chiacchiere con quei due, che sicuramente m’aspettano.—
Giovanni Passano aveva fatto un altro ragionamento tra sè, in forma di dilemma. Una delle due, diceva; o messer Filippino s’è fatto aggiungere un poscritto per averne occasione a capitare anche lui, e non bisogna essergli testimoni d’una puerile alzata d’ingegno; o Gian Aloise ha pensato di mandare per un secondo messaggero le cose più importanti o più gelose che non aveva confidate al primo, e non è bene che il primo resti a sentire ciò che porta il secondo. I grandi vanno serviti con discrezione, non mostrando troppa curiosità di capirli. Queste massime il Passano non le avrebbe pensate al Mondo nuovo; ma le doveva pensare e praticare nel vecchio, dove infine voleva far la sua strada, da onest’uomo, sì, ma senza dar nello sciocco.
La lettera di Gian Aloise diceva così:
“ A messer Bartolomeo Flisco nostro caro cugino et strenuo cavalliere.
“Il nostro Giovan Passano vi avrà data a quest’ora una lettera mia et significata la nicissità grande in che vivemo del vostro consiglio di valente huomo qual siete in così giovine età et forte non manco di braccio. Del quale come del consiglio poderia esser uopo, se Vi parerà esser da ciò, come noi Vi stimiamo. Sappiate ora che non solo è turbamento in città et gran confusione, per li popolari che sempre vorriano mettersi in loco di nobili, con dire che essi son nati in casa soa, di gente municipali romane et noi di fuori et stirpe di barbari: del che non so come possino haver certezza, non leggendosi in carta veruna se non questo, che i loro ascendenti furono gente della plebe arricchiti in vender grasce et navigar trafficando. Nè questo solo; ma ancora vorriano che s’aiutassi Pisa contro l’armi di Firenze, mettendo il Comune in tale impegno che non sia poi sicuro di sopportare. Etiam non possiamo noi dimenticare che per muover con oste a Pisa bisognerà passare per le terre del nostro capitanato; dove ogni grosso esercito che passasse facilmente sarìa tratto da desiderio a mutare quello che ivi è stato stabilito per l’onore de la nostra casata; et contrariamente un piccolo soccorso non bastando per salvezza di Pisa, trarrebbe le vendette di Fiorenza, non già contro il comune di Genoa lontano, ma contro li feudi nostri in val Magra, quali assai ne dee premere di tener fortemente. Ond’io meglio stimo che un potente signore abbia Pisa, il quale ne assicuri et conservi la libertà contra Firenze, potendo misurare gli aiuti al bisogno et non lasciarsi cogliere alla sprovveduta, come senza fallo userebbe il Comune nostro, sempre in tumulti et trambusti et confusione babelica. Il carico di tener Pisa par dunque a noi destinato dal cielo, non ad altro signore che già briga per ottenerlo, mettendosi in vista. Uomo nostro, intendente et valoroso per andar colà, sentir le opinioni et provvedere con pronte risolutioni io non vedo altri che Voi, nostro cugino amatissimo; che se gli animi dei Pisani, come io credo, fussino a noi inclinati, Voi subito di studioso ambasciatore e consigliero potresti mutarvi in capitano di armati, avendone noi già in Lunigiana ammassati quanti basteriano per il primo bisogno, e gli altri sarian pronti a seguire. Meglio di tutto ciò parleremo in Violato, ove è sempre gran desiderio de la vostra persona. Venite dunque; e se non basta a muovervi la nostra amicizia, Vi muova il consiglio di madonna Bianchinetta, orgoglio del nostro parentado, a la quale bacio divotamente le mani, come alla eccelsa sposa vostra incomparabil Fiordoro.
“ Genoa, li V martio del 1506.
“Sempre al vostro servitio et bon cugino “ Gio: Aloixe. „
E indirizzo e firma apparivano un po’ diversi dall’una lettera all’altra. Ma così erano gli uomini di quel tempo, che all’ortografia badavano poco, anche per il fatto di non averla troppo sicura. Per altro, come si riconoscerà dal contesto di quest’ultimo messaggio, vedevano chiaro in quel che volevano, e non si lasciavano tirare nè di qua nè di là da pericolose incertezze.
Madonna Bianchinetta e la sua bellissima nuora erano rimaste sopra pensiero. Proponeva gran cose, l’eccelso Gian Aloise, e per accettare, come per ricusare il partito, bisognava meditarci su. Messer Filippino frattanto aggiungeva di suo, commentando l’epistola:
—Siamo in famiglia, e si può dire ogni cosa. I Pisani non vogliono essere oppressi da Fiorenza; e tanta è la ripugnanza loro a quel giogo, che vogliono piuttosto quello di Genova, dimenticando il colpo mortale della Meloria. Potrebbe Genova accettare l’invito, e noi di casa Fiesca goderne, se Genova fosse nostra più che non sia. La teniamo in parte, preponderandovi con l’aiuto del re Cristianissimo, a cui siamo d’aiuto pur noi, tenendogli in fede la Repubblica. Ma più teniamo e con maggior sicurezza la Riviera di Levante, quanta n’è dall’Appennino al mare tra la Scrivia e la Magra, non senza forti scolte nelle valli del Taro e della Baganza. A noi, non a Genova, si spetta di andare in soccorso di Pisa. Ma c’è qualcun altro che vorrebbe mettersi avanti in nostro luogo. Quest’altro non ve lo dice la lettera di Gian Aloise, perchè non tutto si confida allo scritto; ma egli è Gian Giacopo Trivulzio, il quale, se non forse quanto Gian Aloise Fiesco, è pur molto in grazia del re Cristianissimo. Non pare a Voi che in questo caso avrà ragione il primo che metta innanzi le mani? A questo occorre un uomo assai destro, che vada ad offrire gli aiuti, a concertarne il modo; e tutto ciò non in nome del Comune, che non sarebbe prudente consiglio aggravar dell’impresa, ma di quell’uomo che in Genova è più potente e a Pisa più prossimo per l’ampio dominio. Accettano? Sì, perchè nella estremità a cui sono ridotti non hanno altro partito. E Voi allora vi potete scoprir meglio, come capitano della gente che aspetterà un cenno vostro per accostarsi alla città, fronteggiare i Fiorentini e lasciare a terra il Trivulzio con le sue ambizioni. Questo in digrosso il pensiero del nostro eccelso parente; le cose minute vi dirà egli in Violata.—
Bartolomeo Fiesco stava fra due; nè già pei commenti di Filippino, che lo avrebbero anzi persuaso a dire un no tondo tondo, ma per la lettera di Gian Aloise. Si volse allora alla madre, domandandone con gli occhi il parere.
—È cortesia lo andare;—disse madonna Bianchinetta.—Se tu non puoi accettare, figliuol mio, dirai meglio le tue ragioni a voce, che non per iscritto.—
Si volse egli allora a sua moglie, e n’ebbe queste parole:
—Bisogna andare. Te lo avevo già detto per la prima lettera; e nella seconda son nuove ragioni, che mostrano anche molta fede in te. Si verrebbe meno alla fede di un tant’uomo, non andando alla chiamata.
—Ah! siate lodata, madonna Juana;—gridò Filippino giubilante.—Sarete voi la fortuna di casa Fiesca.—
Fior d’oro non potè trattenersi dal ridere.
—Vedete,—diss’ella,—da che distanze doveva ella venire!
—Eh!—rispose Filippino.—Le vie della Provvidenza son tante! Si partirà dunque domattina;—soggiunse.—Gian Aloise sarà così lieto di riverirvi!—
Correva troppo, messer Filippino bello; e fu fermato di schianto.
—Voi mi mettete d’un viaggio che io non farò certamente;—rispose Fior d’oro.—È delle donne custodire la casa. Stando accanto alla madre di mio marito, mi parrà di non averlo tutto perduto, per quei due giorni che vorrà durarne l’assenza.
—E se durasse di più?—domandò Filippino, che non voleva darsi per vinto.
—Allora.... allora, si vedrebbe;—rispose conchiudendo Fior d’oro.
Quella sera, ritirandosi nelle sue stanze, il capitano Fiesco diceva alla moglie:
—Filippino mi annoia.
—Annoia anche me;—rispose Fior d’oro.—Ma è giovane; si cheterà. Intanto bisogna riderne.
—Potere! È lui, frattanto, il noioso che mi mette tutti questi impicci sulle braccia. Non lo vedi tu, che fa scrivere due lettere in un giorno, e ad un oscuro uomo come il tuo Damiano, dall’eccelso Gian Aloise Fiesco, potentissimo tra i signori d’Italia, ed amicissimo del re di Francia? Io, come dice frate Alessandro, faccio un ridosso ai Commentarii di Cesare: ma il vecchio di Violata vuol farne un altro alle Epistole di Cicerone, che son più di ottocento.
—Vedi?—gli disse sorridendo Fior d’oro.—Bisogna andare, perchè non n’abbia a scrivere altrettante.
—Andare,—riprese Damiano, più Damiano che mai in quell’ora,—e dirgli quel no, che avrei potuto mettere in carta?
—Non è certo,—replicò la bellissima donna,—che quel no si possa scriver meglio, potendolo dire con garbo, dopo aver sentite tutte le ragioni del tuo nobil parente. Ci penserai, del resto, le peserai attentamente. Potresti anche lasciarti persuadere da qualche ragione più forte, che toccasse l’utilità della casa e l’onor del tuo nome. La ragione più forte non ci sarà? Il tuo no sembrerà detto dopo aver meditato, e ad ogni modo ne avranno scemato l’asprezza le parole cortesi e la stessa tua condiscendenza all’invito.—
Damiano guardò Fior d’oro con tenerezza, e le pose al collo le braccia.
—Bella bocca!—le mormorò.—Bella bocca, che parla così bene!
—Bella!—ripetè ella con accento malizioso.—E non cara?
—E bella e cara,—gridò Damiano, con uno de’ suoi impeti di passione,—e, se vi piace di saper tutto, adorata.—
Indice
Capitolo V. Al soccorso di Pisa.
Il palazzo di Gian Aloise Fiesco sorgeva sul colle di Carignano, accanto alla chiesa patronata che un cardinal Luca Fiesco, diacono di Santa Maria in Vialata a Roma, aveva ordinato nel 1336 fosse eretta in Genova col medesimo titolo; donde il nome di Vialata si stese a tutta quella parte della collina, corrompendosi poi nel dialettale “ Viovâ „ per rifarsi ancora italiano in “Violato„ e dar occasione a qualche moderno di derivarlo “dalla copia delle viole che vi nascevano e soave fragranza diffondevano intorno„. Chi sente l’arcana poesia dei fiori può anche contentarsi di questa etimologia, che ha dopo tutto il gran merito di suscitare graziosi pensieri.
Non ne suscitava di tali il palazzo, edificato presso il fianco sinistro e perciò a mezzodì della chiesa, con la quale faceva angolo il suo fianco destro, conterminando il piazzale di quella fino al bastione, che in guisa di belvedere si stendeva lassù verso ponente per un gran tratto del colle. E mentre da quel lato il palazzo dei Fieschi dominava il prospetto della superba Genova, fronteggiando il colle di Sarzano e la mole dell’antico Castello, guardava da tramontana il vasto anfiteatro del monte Peraldo colla sua gran cinta di mura alte sui greppi; da mezzogiorno, poi, vedeva gran tratto di mare, solcato da centinaia di vele, che uscivano dal porto o venivano all’approdo, passando sotto i suoi occhi lungo la Marinella, detta altrimenti il seno di Giano; e da levante, se pur non iscorgeva il Bisagno, nascosto sotto le alte mura di Santa Chiara, godeva la scena incantevole del colle d’Albaro, colla imminente piramide del monte Fasce e collo sfondo azzurro del promontorio di Portofino, dietro a cui si stendeva la riviera di Levante, oramai diventata un gran feudo dei Fieschi.
Al palazzo, che meglio si sarebbe detto castello, si accedeva da due parti; da levante per un viale campestre, collegato alla via che dall’Acquasola e dagli Archi di Santo Stefano metteva a San Giacomo di Carignano, e là si presentava difeso da due grossi torrioni; da ponente, ove appariva più alto, quasi impervio come una rupe Tarpea, si giungeva ad esso dal borgo dei Lanieri, lungo il Rivo Torbido. Colà, passato appena il convento e la chiesa de’ Servi, si levava pel dorso della Montagnola una gran cordonata di oltre cento scaglioni, onde si risaliva ad un loggiato coperto, di là riuscendo ad un ingresso laterale dell’edifizio, aperto sopra una vasta spianata di giardino. Arrivati finalmente lassù, si godevano i particolari di quella nobile fabbrica, onde da lontano si era ammirata soltanto la maestà del complesso. Non dissimilmente dalla chiesa contigua, il palazzo era sui quattro lati incrostato di marmi a fasce alterne bianche e nere, rotte a giuste distanze da grandi finestre, partite a colonnini; e le finestre, inframmezzate da statue, raccolte nelle loro nicchie sagomate con bell’arte d’intagli, erano fiancheggiate da lunghi ramponi di ferro, rivoltati a staffa, tutti terminati in un giglio di ferro battuto, certamente in omaggio cortigianesco ai gigli di Francia. A quei ramponi sporgenti, che altri casati di parte ghibellina usavano decorare d’un capo d’aquila, si soleva nei giorni di pubblica festa appendere gli scudi e l’arme di famiglia; il che dicevasi fare la impavesata. Nè mancava la “conoscenza„ ossia la insegna della gente, scudo, cimiero e motto, espressi in pietra di Lavagna e murati ben alto sui prospetti del palazzo. Più basso, per modo che si vedesse bene dai viandanti, era murata la targa indicante il privilegio d’immunità dalla forza della giustizia, onde il Comune aveva donate le case dei Fieschi. In quelle targhe, o liste di marmo, poste sugli angoli dell’edifizio, si vedevano scolpite due mani rivolte alla croce di Genova; ed erano i segni “ ultra quae non licebat satellitibus homines infestare „.
Descritta la forma esterna del palazzo di Vialata, sarebbe forse utile fare altrettanto per gli appartamenti e gli arredi. Ma noi abbiamo soltanto da accompagnarci Bartolomeo Fieschi, il quale non vorrà restarci lungamente; perciò tralasceremo una descrizione che troppo somiglierebbe ad un inventario, nella sua aridità notarile. Luigi XII, che alloggiò in Vialata nell’anno 1502, ebbe a dire, certamente prendendo occasione dal palazzo del suo ospite, che le case dei Genovesi erano più doviziose e meglio fornite della stessa sua reggia. Io, per amore dell’arte, accennerò soltanto che nel vestibolo Gian Aloise aveva fatto dipingere a buon fresco i Giganti fulminati da Giove; motivo che indi a poco doveva essere imitato da Pierino del Vaga nella caminata di Andrea Doria a Fassòlo. Rivalità di sfoggio signorile, che incominciava a mostrarsi in forme artistiche e mitologiche, per girar poi alle manifestazioni politiche e diguazzare nel sangue! Per opera di un altro Gian Luigi, quarantadue anni più tardi, il Giove ottuagenario di Fassòlo, mortogli il nipote Giannettino e minacciata da presso la recente sua reggia, era costretto a fuggire di nottetempo infino ai monti di Voltri; ritornato di là a cose quiete, non perdonò la paura che gli avevan fatta provare, e prese a fulminare i Giganti di Vialata, abbattendone l’orgoglio, diroccandone dalle fondamenta il palazzo fastoso.
Nella sua gran caminata, dipinta da Leonardo dell’Aquila, finalese, e da Giacomo Serfoglio, da Salto, l’eccelso Gian Aloise ricevette il parente aspettato. Bartolomeo Fiesco era alloggiato da gentiluomo a Gioiosa Guardia, con gusto severo ed onesta larghezza, secondo il costume dei vecchi. Là dentro, in Vialata, era una varietà artistica che prendeva accortamente da tutti paesi, ed una profusione di lusso da abbagliare la vista. Tappeti di Fiandra coprivano i pavimenti; forzieri ferrati alla francese si alternavano lungo le pareti a gran sedie intagliate di noce, alcune sormontate dalle armi gattesche e roveresche accollate, altre dalle armi gattesche e carrettesche, a ricordare i successivi matrimonii di Gian Aloise con Bartolomea della Rovere, nepote di papa Giulio II, e con Caterina del Carretto, sorella al marchese del Finale. Archi turcheschi con le loro faretre, vecchi trofei di ammiragli della casata, ornavano la gran cappa del camino, di pietra di Lavagna, riccamente intagliato a fiori, fogliami, chimere ed altre forme di mostri, non esclusi i soliti imperatori romani. Qua e là in vistose credenze si accoglievano a centinaia gli arnesi di prezioso metallo; idrie, guastade d’argento lavorato a rilievo e dorato, catini e piatti d’argento istoriato, confettiere d’argento niellato alla barcellonese. Ma più assai delle opere d’orefice, più ancora d’una collana di grosse perle in numero di settantatrè, che si ammirava con altre gemme in una vetrina particolare, colpivano il visitatore gli arazzi ond’erano coperte le vaste pareti, con certe istorie del Testamento vecchio, tra cui primeggiava per bontà di disegno e vivezza di colori, come per terribilità di effetti, quella di Nabucodonosor, il gran colosso dal piede d’argilla. In una sala attigua alla caminata il nostro capitano Fiesco aveva già dovuto fermarsi a contemplare altri arazzi, che recavano espressa la storia romanzesca di Biancafiore.
Al giungere del suo parente di Gioiosa Guardia si levò l’eccelso Gian Aloise dal gran seggiolone di cuoio dorato su cui stava seduto, davanti ad una tavola lunga, coperta di quel drappo turchino che fin d’allora si chiamava “da consigli„ poichè già si fabbricava a quell’uso, di coprir tavole da adunanze. Nel mezzo del drappo erano ricamate le armi dei Fieschi, ripetute da per tutto, perfino sul calamaio quadro di legno d’ebano intarsiato, nel manico d’argento del temperatoio, e sul pernio delle forbicette dorate che gli facevano compagnia. In tutti i particolari, in tutte le minuzie, appariva il lusso sfoggiato e il consapevole orgoglio d’un principe. Non ci maravigliamo se mirasse al dominio di Pisa.
Dall’anno 1494 ardeva la guerra tra Firenze e Pisa, questa amando viver libera, e quella volendo signoreggiarla. Nè a Genova nè al suo potentissimo Gian Aloise Fiesco tornava che i Fiorentini dilatassero maggiormente l’imperio, poichè non solo questi agognavano l’occupazione di Pisa, ma insidiavano Pietrasanta e Sarzana. Per tali ragioni si accoglieva l’ambasceria dei Pisani, che offrivano di congiungersi perpetuamente con la Repubblica genovese, pronti ad accettarne le leggi. Ma qui cominciavano ancora i dissensi. Erano nel Senato nobili e popolani, cioè famiglie antiche feudali, e famiglie di popolo grasso, salite ai primi gradi, ma non tenute pari a quell’altre, che pur da talune popolari avevano lasciato occupare il dogato, designandole un pochettino a scherno col soprannome di Cappellazzi. Erano queste le famiglie dei Fregosi e degli Adorni, dei Montaldi e dei Guarchi, sempre appoggiate a questa o a quella delle famiglie nobili, o feudali, dei Fieschi e dei Grimaldi da un lato, dei Doria e degli Spinola dall’altro. Ma l’appoggio era dato in guisa, che, le rivalità continuando tra i Cappellazzi, non potesse mai prosperare e soverchiare una parte di loro, e i nobili godessero tranquilli fuor di città i loro dominii feudali, lavorando ancora ad estenderli come potessero, gli uni con la prevalenza della parte guelfa, gli altri della parte ghibellina in Italia. Guelfi i Fieschi e i Grimaldi, dovevano facilmente trionfare nei secoli XIV e XV, in cui cadevano quasi da per tutto in Italia le fortune imperiali. Doria e Spinola, dal canto loro, dovevano presto rifarsi, colla protezione di Spagna. Intanto, nel periodo incerto della prevalenza francese in Italia, e guelfi e ghibellini, essendo nobili tutti, parevano sentirla ad un modo, per opporsi alle ambizioni dei popolari; onde si vide nel primo trentennio del secolo XVI andar pienamente d’accordo i Fieschi coi Doria.
Tornando alle offerte di Pisa, com’erano fatte solennemente al Senato genovese, proponevano i popolari di accettarle, soccorrendo quella nobil città, non senza concedere ai Pisani la cittadinanza di Genova, e mandando famiglie genovesi quante più si potesse a stabilirsi in Pisa. Consiglio generoso e prudente era quello; ma non poteva piacere a Gian Aloise Fiesco, vicario e capitano generale della Riviera di Levante. Pisa soccorsa con un esercito pari al bisogno, altro non significava che la Riviera di Levante aperta a quell’esercito; onde per allora scemata l’autorità del capitan generale, e in processo di tempo perduto l’util dominio di quel vicariato. Pisa soccorsa con poca gente, significava vittoria dei Fiorentini, col loro voltarsi minaccioso non pure contro Pietrasanta e Sarzana, ma ancora e più contro i dominii feudali dei Fieschi.
Di qui la opposizione che alle offerte dei Pisani aveva fatta Gian Aloise in Senato, mettendo innanzi che non si potesse far nulla senza il beneplacito del re Cristianissimo, a cui Genova si era data in balìa. E perchè il re Luigi si trovava allora di qua dalle Alpi, si sentisse lui, se n’esplorasse l’animo, prima di deliberare il soccorso di Pisa. Così nascevano le due ambasciate d’ufficio; una ai Pisani, per dar buone parole, l’altra al re Luigi, per averne il parere.
Ma il re Luigi doveva rispondere in quel modo che al Fiesco tornasse più utile. E perchè la risposta volgesse favorevole alle ambizioni del potente signore, andavano lettere di costui; portate da un suo fidatissimo uomo, a quel re. In pari tempo occorreva guadagnar l’animo dei Pisani, mandando loro un altr’uomo per chiedere se il valido e sicuro aiuto d’un gran signore genovese non potesse convenir loro assai più dell’incerto e scarso che dar poteva il Senato. Certo, ponendo in questa forma il dilemma, i Pisani non avrebbero esitato un istante. E perchè il re Cristianissimo si sarebbe acconciato ai fatti compiuti, occorreva che l’uomo mandato ai Pisani fosse destro negoziatore e capitano risoluto ad un tempo, cioè pronto a tirar dentro un grosso di soldatesche, già preparato a due terzi di strada, per unirlo a difesa della città con le forze di Pisa, comandate allora da Tarlatino di Città di Castello, un condottiero che si poteva sperare di trar bellamente agli interessi del futuro padrone.
Bartolomeo Fiesco era stato a sentire, tanto più attento, quanto più a lui era rivolto il discorso; come spesso occorre nelle assemblee grandi e piccole, che gli argomenti tutti dell’oratore e tutti i lenocinii dell’arte sua mirano sempre ad uno tra gli ascoltatori, e gli altri sono come zeri, destinati a far numero con quella unità. Certo, se il capitano Fiesco accettava di esser egli l’uomo per Pisa, il partito di soccorrer questa con le forze dei Fieschi era vinto; il re Cristianissimo avrebbe approvato il fatto; Gian Giacopo Trivulzio sarebbe rimasto colla voglia; i popolari genovesi non avrebbero più potuto alzare la testa; mentre dal canto suo Gian Aloise avrebbe posseduta di schianto una tal potenza principesca, da pesar poi, bene o male, ma sempre moltissimo, sulla bilancia mal certa delle fortune d’Italia.
Ma il capitano Fiesco non voleva esser quell’uomo. Più sentiva ragioni che lo dovessero smuovere, più ne trovava da opporre. Lo aveva giudicato male, il suo eccelso parente, argomentando di lui da sè stesso.
—Ahimè!—diss’egli, quando vide venire quell’altro a mezza spada.—Riconosco la bellezza audace del vostro disegno; ma tanta bellezza e tanta audacia non sono il fatto mio. Senza contare che io non son destro ai maneggi politici, e mi ci troverei davvero come un pesce fuor d’acqua, penso che nella parte militare dell’impresa fallirei per precipitazione, che è il guaio dell’indole mia, e di cui non son mai riescito a guarirmi. Troppo grande è il carico che vorrebbe darmi la vostra fiducia, ed io sono troppo piccolo uomo.
—Ma pensate,—replicò Gian Aloise, non vedendo altro nella risposta del capitano Fiesco che un effetto di modestia soverchia,—pensate che sareste spalleggiato da tutti. Duemila uomini son pronti a Sarzana, e mille a Pontremoli; tutta gente che al vostro cenno correrebbero sotto Pisa. Non vi parlo della gente che ho tra Rapallo e Lavagna, che ben sapete quant’è. L’avreste tutta, come si suol dire, sotto la mano.
—Ripeto, non è il fatto mio;—ribattè Bartolomeo Fiesco.—Voi mi fate più esperto capitano che io non mi sia mai sognato di essere. Chi ha comandato i cento, e magari i cinquecent’uomini, può ritrovarsi con diecimila impacciato come un pulcino nella stoppa.
—Eh via! s’ha da credere? Chi è stato a tanti sbaragli, meritando la lode e l’affetto del vicerè delle Indie occidentali, non vorrà mica perder la testa in una faccenda che deve andare da sè.
—Se deve andare da sè come Voi dite, perchè metterci a capo un uomo che mostrate di stimare più ch’egli non sia stato mai? Ogni altro, che abbia risolutezza, dovrebbe bastare.
—Risolutezza e perspicacia;—ripigliò Gian Aloise.—E perspicacia ed ambizione di far bene. Non avete Voi ambizione?
—No;—rispose Bartolomeo Fiesco.
—Per un Fiesco, è nuova;—ribattè Gian Aloise.—Per Bartolomeo delle Indie, è strana.—
Lo toccavano sul vivo; e naturalmente gli saltò la mosca al naso; che la pazienza non era mai stata il suo forte.
—Ecco;—diss’egli, assumendo a suo modo una cert’aria di gravità e promettendo colla solennità dell’accento un lungo discorso;—facciamo ad intenderci. Ne ho avute, delle ambizioni; e potrei averne ancora, ma in un campo diverso. Bartolomeo delle Indie, avete detto, e sta bene. Rimandatelo dunque alle Indie. Qui si fanno gran cose, che potranno riuscir piccine alla prova; laggiù si fan cose piccine, che potranno esser grandi. E questo, badate, non per diverso vedere, ma perchè laggiù si taglia dalla pezza, potendo fare una cappa da gentiluomini, mentre qui si raccozzano scampoli e stracci, volendo cucirsene un manto reale. Perchè questo? Perchè qui siamo gli eredi di un gramo passato, e in molti e in troppi ci contendiamo un osso già spolpato da Goti e Greci, da Longobardi e Franchi, da Ungheri ed Alemanni; un osso, mi capite? che oggi han preso a smidollare Francesi e Spagnuoli. Laggiù, vivaddio, non si è eredi di nessuno; laggiù si può esser magari gli autori della stirpe e gli arbitri del futuro, preparandolo con libertà, bene o male, meritandone la gratitudine o le maledizioni dei posteri.
—Spaziate come un’aquila, cugino!—esclamò Gian Aloise.
—E sarò un nibbio, poi;—rispose il capitano Fiesco.—Ma vedo, se permettete, un orizzonte più largo di questo; forse perchè ho viaggiato di più in compagnia d’un uomo grande, l’unico grande che mi offrano le storie, non escluso quel Carlomagno a cui si riferiscono le nostre vanità, quando vanno più alte. Il mio grand’uomo, col suo ingegno e colla sua costanza, ha trovato un mondo nuovo; quell’altro, con la sua forza, con la sua onnipotenza, non è riuscito se non a rimpiastricciare il vecchio, che gli è rimasto poi sempre un lavoraccio.
—Povero a voi, se foste vissuto a’ suoi tempi! neanche un paladino avreste voluto diventarci?
—Chi sa? Ed avrei forse ottenuto il gran titolo, facendo imprese da cantarsi in piazza per rallegrare la gente. Questa che noi faremmo, avendo la Riviera di Levante per via, e la foce d’Arno per meta, sia pure importante come a Voi pare; ne posso ammettere l’utilità, non ne vedo la grandezza, non ne sento il desiderio. Perdonate, illustre cugino; e possa cascarmi la lingua, se ho qui la più lontana intenzione di spiacervi; verrà giorno che anco dei Fieschi si perda il nobilissimo seme. Già, con tanti vescovi, cardinali e papi nella nostra famiglia, niente è più probabile di questo. Ed altre ne periranno egualmente, meno nemiche nel corso dei secoli al precetto divino del crescite et multiplicamini. Ma delle une e delle altre sarà molto che duri fra mill’anni il confuso ricordo; laddove fra diecimila, se tanti ne camperà questo povero globo, resterà viva la memoria della maravigliosa scoperta di Cristoforo Colombo, lanaiolo e marinaio. Di me chi ricorderà che giovane ho combattuto in patria, per utile degli Adorni e per danno dei Fregosi? Un cenno fortuito di cronaca, forse, che anco potrà esser roso dai tarli e travolto nella cesta delle cartacce. Ma le storie diranno, ne ho fede, ai più lontani nepoti, che ero ancor io alla maravigliosa scoperta, e che ai pericoli del mare ignoto fu recato per opera mia un po’ del buon sangue marinaro di certi conti venuti su da Lavagna.
—Questi poveri conti ve ne ringrazieranno dai loro sepolcri;—notò Gian Aloise imbizzito.
—E faran bene, vedete?—ripigliò senza scomporsi Bartolomeo Fiesco.—I vecchi, infatti, che oggi si gloriano di tante cose destinate a perire, avranno ottenuto nella persona mia la loro parte di gloria vera, nell’opera stupenda, indimenticabile, eterna, d’un uomo nuovo, d’un marinaio, d’un lanaiuolo. Ecco la mia ambizione, Gian Aloise; la quiete, oramai, non avendo più nulla a fare di ciò che m’era più a grado, e il cuore avendo pur esso i suoi diritti; la quiete della mia bicocca, e la certezza d’una pagina non brutta nella storia del mondo. Soldato ero, e al bisogno potrei ritornare, se fossero in giuoco l’onore e la sicurezza dei Fieschi. Avessero anche il torto, non istarei a guardare, e dal posto mio non mancherei all’appello. Ma questo per difesa, e sentendo la voce del sangue. Ci sono obblighi sacri, come ci sono necessità ineluttabili. Anche il primo dei filosofi, uso alle più ardue speculazioni della mente, mangia beve e dorme e veste panni come l’ultimo degl’imbecilli. Facciamo l’obbligo nostro, cediamo alle necessità della vita; ma il pensiero sia libero, e resti il cuore nei vincoli cari ch’egli stesso s’è imposti. Non mi date ragione?
—Siete un bel matto;—disse Gian Aloise, ridendo.
La masticava male, per altro, e non rideva di cuore. Come avrebb’egli potuto, dopo quella intemerata del suo caro parente, la cui poca ambizione gli guastava in un punto i superbi disegni? Il potente signore di cinquanta castella, da Montobbio a Pontremoli, vicario e capitano generale della Riviera di Levante da Rapallo a Sarzana, principe del Senato e quasi protettore della Repubblica di Genova, non aveva tra tanti consanguinei, nè tra gli aderenti più saldi, l’uomo che potesse andare a Pisa per lui. O piuttosto ne avrebbe avuti cento, ma non adatti, non arnesi, come suol dirsi, da bosco e da riviera, diplomatici ad un tempo e soldati, accorti per tastare il terreno, dare indietro senza parere, o andare fino al fondo senza esitare un istante. Avveduto com’era, l’eccelso Gian Aloise non voleva dare un passo se non era certo del fatto suo, bene sapendo che in un fallo commesso, e non riparabile, egli avrebbe perduta, non che l’impresa, la fama.
Rise, adunque, ma per dissimulare la stizza; e rimase freddo, ostentando di parlar d’altro. Freddi al pari di lui rimasero gli altri della nobil casata; tra i quali Emanuele ed Ettore Fieschi erano certamente i più ragguardevoli dopo di lui. Freddissimi poi i tre giovani figli di Gian Aloise, che erano per ordine di nascita Geronimo, Scipione e Sinibaldo; i primi due destinati a morir presto, e il terzo a raccogliere l’eredità di tutti, avendo poi da Maria della Rovere l’ultimo dei Gian Luigi, e il più famoso per la sua tragica fine. Tutti costoro si sentivano un po’ offesi, più ancora che dal rifiutato viaggio di Pisa, dalla poca stima che il capitano Fiesco faceva dei nobili di antica stirpe, a paragone d’un uomo nuovo, d’un lanaiuolo, che aveva scoperto il nuovo Mondo. Scoprire un nuovo Mondo, gran che! Ciò poteva toccare in sorte ad ogni marinaio, sbalestrato dalle tempeste lontano dai lidi conosciuti. Vincer battaglie, occupar terre murate, sbalzar rivali di seggio, ottener signorie, era quello il gran fatto, da cui si riconosceva la bontà dei cavalieri antichi. Mettere un oscuro lanaiuolo più su della loro prosapia! una prosapia discendente per più o meno sicuri rami del real sangue di Borgogna! Ma tanto valeva allora dichiararsi partigiano dei Popolari, che finalmente, se non erano nobili feudali, in gran parte avevano contratto parentado con essi, e da trecent’anni si erano illustrati nelle più alte magistrature della repubblica.
Filippino, da ultimo, non sapeva che pesci pigliare. Se in quel momento non gli fosse passata davanti agli occhi la immagine di Fior d’oro, lasciandogli intravvedere anche il pericolo di non accostarsi più a lei, certamente egli avrebbe rizzato muso più di tutti al suo pazzo congiunto. E dire che era stato lui, Filippino, a metter gli occhi sul capitano delle Indie, per la commissione di Pisa; lui a muoversi per Chiavari e andarlo a cercare in Gioiosa Guardia, per condurlo davanti all’eccelso Gian Aloise! E dire che di quella impresa si era tanto lodato in cuor suo! Che figura doveva essere in quella vece la sua, nel cospetto del signor di Vialata, che tanto si riprometteva da quell’alzata d’ingegno del giovane innamorato!
Il capitano Fiesco aveva preveduto l’effetto del suo rifiuto sull’animo di Gian Aloise; a quella freddezza si era ben preparato. Perciò, vedendo languire la conversazione, e per cagion sua, non volle restare a farla morire del tutto, nè altrimenti mostrarsi impacciato.
—Ad un povero cavaliere,—incominciò egli allora,—ad un povero cavaliere che non vi può servire a nulla (e potete credere che gliene dolga nel profondo dell’anima) Voi concederete licenza di ritornare alla sua bicocca, non è vero?—
Gian Aloise fece da principio un gran cenno del capo, che pareva un segno di condiscendenza dell’olimpio Giove. Quindi con gravità d’accento, onde trapelava un pochettino d’ironia, lasciò cadere dal labbro queste misurate parole.
—Non piaccia a Dio che vogliam dare alla nostra cara figlioccia maggior dispiacere di quello che ha avuto, restando un giorno lontana dal suo dolce marito. Ad un pronto commiato, che voi mostrate di desiderare senza neppur trattenervi alla nostra tavola per quest’oggi, mettiamo per altro una condizione, che troverete onesta ed assai temperata. Alla regina di Xaragua, che fu donna d’alto cuore e di forti propositi, riferirete tutto ciò che vi abbiamo detto, e la prova di fiducia che eravamo disposti a darvi. Così, buon cugino, avremo conforto a pensare che per la prima volta forse, ma non senza giusto motivo, la contessa Juana sentirà un po’ diverso da Voi; in fatto di ambizione, per esempio, ed anche in fatto di amicizia. Lasciatemelo dire,—soggiunse il vecchio gentiluomo, vedendo che il capitano Fiesco faceva l’atto di provarsi a rispondere,—perchè davvero vi siete mostrato più tenero della quiete vostra che della mia amicizia. Non la perdete, però; Gian Aloise Fiesco ha il cuore più alto che la gente non creda.—
Il capitano Fiesco pensò che fosse meglio star zitto, lasciando all’eccelso parente la soddisfazione d’aver parlato per l’ultimo. Altrimenti, di parola in parola, Dio sa quel che sarebbe avvenuto; questo, ad esempio, ch’egli si sarebbe ripigliati tutti i suoi buoni argomenti, li avrebbe appesi all’arcione, e sarebbe corso a spron battuto su Pisa.
S’inchinò, dunque, con aria di molta confusione, e non disse parola in risposta a quel discorso agrodolce di Gian Aloise.
—Mi permetterete,—balbettò in quella vece,—di offrire i miei omaggi a madonna Caterina?
—Potete andare; è laggiù nelle sue stanze.—
Il capitano Fiesco non se lo fece dire due volte, e si allontanò, salutando con molta disinvoltura tutta la sua illustre casata.
La nobile Fiesca era là, a pochi passi dalla caminata, nell’anticamera, o, per usar la lingua del tempo, nella “guardacamera„ della sua sala di ricevimento. Non ci voleva molta perspicacia ad intendere che la signora contessa era stata in ascolto alla toppa dell’uscio. Ella stessa, del resto, lo confessò candidamente al suo visitatore.
—Vi ho udito;—diss’ella.—Vi eravate molto animato, e non ho perduto neppur una delle vostre parole.
—Immaginate, madonna Caterina;—rispose egli umilmente,—come io sia addolorato di non aver potuto rispondere meglio alla fiducia del vostro eccelso consorte.
—Non vi addolorate, cugino;—replicò la nobil signora.—Il mio cuore di donna vi ha dato ragione. Ma son cose da proporsi? ad un giovanotto che da un anno appena ha impalmata la più bella e la più cara creatura del mondo? E che idee di grandezza nuova son queste, che possono mettere a repentaglio l’antica? Che follìa, poi, di rendere, con sempre più vaste ambizioni, scontenti i figliuoli del loro stato presente, che è già così alto, e tanto invidiato?
—Intendo la madre:—notò Bartolomeo Fiesco;—ma la discendente di Aleramo potrà forse giudicare più benignamente le vaste ambizioni di Gian Aloise.
—V’ingannate, cugino. La discendente di Aleramo sa che il grand’uomo si attenne alla marca che gli era stata data in custodia, nè volle alzar gli occhi, o metter la mira più in alto. E Guglielmo Lungaspada, e Gerberga sua moglie, amarono far lignaggio di cavalieri contenti al più modesto ma ancora assai nobile ufficio di governare pacificamente un popolo di quieti ed onesti lavoratori. Lungi dal pensiero di accrescere il dominio, o di tenerlo raccolto in un ramo della famiglia, lo spartirono equamente tra i loro figliuoli; e dove le città della spiaggia, fatte ricche dal mare, vollero esser padrone di sè, non furono i signori del Carretto quelli che si ostinarono a tenerle sotto tutela. Quando poi la cupidigia e l’ingiustizia tolsero ad uno di loro la parte sua, e che voleva esser sua per vincolo di amore, sapete bene che Dio non tardò a reintegrarne la famiglia nel suo giusto possesso. Ed io vengo di là, buon cugino; vengo da quel dolce Finaro che sempre tenne fede ai miei padri, meritando ch’essi non levassero gli occhi a cose più alte, ma più vane, e più pericolose per giunta.—
Così parlava il cuore d’una madre. Sentiva egli già, cuore presago, le matte ambizioni condurre a ruina la casa? Quarantadue anni ancora, e nell’ambizioso figliuolo del suo Sinibaldo non pure la grandezza della casa doveva perire, ma la istessa progenie dei Fieschi.
Indice
Capitolo VI. Filemone e Bauci.
Era partito per Genova con una scorta di sei balestrieri a cavallo, non volendo scomparire con la gente di messer Filippino, e piacendogli di onorare per una volta tanto il suo antico luogotenente Giovanni Passano, diventato in certo qual modo suo genero, ma sopra tutto suo “alter ego„ in Genova per ragion di negozi. Quanto a sè, viaggiava volentieri da solo, come quando al suo ritorno dal forte di San Tommaso, davanti alle cascatelle del rio Verde, era caduto nella imboscata dei selvaggi di Maguana; ricordo piacevole, com’è sempre quello d’un pericolo corso e scampato; ricordo piacevolissimo, perchè dal pericolo di morte gli era venuto il suo raggio di vita, alla presenza di Anacoana, la bellissima tra le belle, la perla di Haiti, il fior di Xaragua.
Povera madonna Catarina Bescapè della piazza del Regisole in Pavia, come impallidivate al paragone! Già non eravate più che un’ombra, una larva, come tutte quelle giovani bellezze di Cuba e di Haiti, Samana Taorib, Caritaba non meno Taorib, Abarima più Taorib di tutte, e non meno dimenticata anche lei. Il gran sole di Maguana aveva facilmente dissipate quelle visioni dell’alba, tessute di nebbia e di follìa. Com’era bello quel sole! e come aveva trasfigurato anche l’uomo su cui aveva posato il suo raggio! La migliore tra le donne aveva inteso il gran cuore di Damiano, per mezzo alle follìe della baldanzosa gioventù, e di quel cavaliere capriccioso aveva fatto con l’amor suo un gentiluomo severo, un fior di senno. Ci voleva una gran fiamma per domar lui, per farne un altr’uomo. Così la fanciulla ardita va di buon passo alla fonte lontana, saltellante e leggera con la sua brocca di rame, che ad ogni moto del fianco le vacilla sul capo; ma torna diritta ed austera al villaggio, sapendo che del prezioso umore non dee versare una goccia.
Damiano (perchè sempre un po’ di Damiano ha da trovarsi nei panni di Bartolomeo Fiesco) non voleva perdere una goccia della sua felicità. Bella! bella! bella! andava ripetendo egli dentro di sè, a guisa di giaculatoria, mentre scendeva a gran passi la cordonata del palazzo di Gian Aloise. Donde sarà lecito argomentare che non pensasse più affatto ai discorsi tenuti lassù; o che piuttosto ne ricordasse uno solo, l’ultimo, il più breve e il più caro. Caterina del Carretto nei Fieschi, parlandogli della contessa Juana, l’aveva esaltata a ragione come la più bella creatura del mondo. E voleva dirglielo, a sua moglie, appena fosse rientrato in Gioiosa Guardia: “così, dolce amica, siete stata giudicata da una gran dama che se ne intende; e in Genova, badate, nella città fortunata, dove le belle donne si trovano a macca, come sui nostri Appennini i ceppatelli e le uòvole alla prim’acqua d’agosto.„
Frattanto, voleva pensare a lei; e per questo, se era venuto in troppa compagnia, intendeva di ritornare da solo. La cosa non doveva esser difficile, poichè il Passano restava a Genova, e messer Filippino, a Dio piacendo, trattenuto a consiglio in Vialata, non aveva pretesti per rifare il viaggio.
Sceso in fretta alla chiesa dei Servi, risalito per Rivalta alla porta Soprana, ridisceso dal Prione a San Donato, e di là per la via di Chiavica riuscito in Canneto, svoltò da un vicolo nella strada di San Lorenzo, strettissima allora, quasi serrata nel fianco sinistro del Duomo, e tutta fiancheggiata dalle case dei Fieschi, mentre dall’altra parte si stendevano quelle dei Doria. Vialata era pei Fieschi una novità; e chiesa e palazzo e giardini erano stati edificati nel secolo XIV, su terreni a bella posta comperati dai De Marini. Il grosso delle case dei conti di Lavagna era stato da prima, e durava ancora nei pressi del San Lorenzo; ci aveva un suo palazzo l’istesso Gian Aloise; ci avevano le lor case Emanuele e Gian Ambrogio Fieschi; poco lontano da essi, in Canneto, ci aveva la sua Ettore Fiesco, del ramo di Savignone; e in fila con essi Bartolomeo Fiesco la sua, abitata allora dal suo quasi genero Giovanni Passano.
Salutato costui e lasciatogli le sue istruzioni, preso commiato dalla adolescente sposa di lui, che sperò invano di ritenerlo qualche ora, mosse per San Domenico alla porta di Santo Stefano, fuor della quale lo attendeva Pietro Gentile colla scorta dei balestrieri a cavallo. Ed era anche là il suo fido ronzino Talavera, un cavallone che pareva una montagna, leardo moscato, di gran collo, di gran petto, forte di garretti e di groppa, bestia soda e potente, come usavano allora, da portare in arcione uomini vestiti di ferro.
Prima di mettersi in cammino, messer Bartolomeo disse a Pietro Gentile:
—Tu ora va innanzi con gli uomini; io seguirò ad una certa distanza. Vorrei procurarmi l’illusione di andare da solo. Così mi parrà di ritornare ai tempi che ero scolaro, e me ne andavo da casa, per i monti, allo studio di Pavia.
—Come volete, messere;—rispose lo scudiero.—Ma per rinfrescarvi.... e per rinfrescarci....
—Volevo ben dire se non pensavi a te!—interruppe il capitano Fiesco, ridendo.—Rinfrescherai gli uomini e te quante volte ti parrà necessario, o ti farà invito una frasca che t’abbia lasciato buon ricordo di sè. Ed anche ti fermerai in ognuno di quei luoghi ad attendermi: arriverò, berrò un sorso ancor io, e vi pagherò lo scotto. Quanto a rifocillarci, che te ne pare di Ruta? È a mezza strada; e di lassù si vede casa nostra; quasi se ne sente l’odore.
—L’odore della scuderia fa correr meglio il cavallo;—notò Pietro Gentile.
—Ci pensavo per l’appunto;—replicò il capitano.—Siamo dunque intesi. Andate, nel nome di Dio!—
La cavalcata si mosse, e Bartolomeo Fiesco la lasciò andare un bel tratto, fin che non ebbe passato tutto il sobborgo. Poi si mise a sua volta in viaggio, andando di portante lungo la sponda destra del Bisagno, fino al ponte di Sant’Agata, e di là per Terralba a San Martino d’Albaro. Nelle salite, s’intende, lasciava il portante, e prendeva il galoppo.
La strada di Levante faceva allora più sghembi che non ne faccia ora, con tanti mutamenti e allargamenti di vie provinciali. Ma non riusciva neanche troppo più lunga per l’uomo a cavallo, che fra trotto galoppo e portante non impiegava più di cinque ore dal ponte di Sant’Agata sul Bisagno a quello di Santa Maria Maddalena sull’Entella.
Felice come uno scolaro in vacanze, proseguiva il cavaliere la sua via. Non aveva più sopraccapi a molestarlo, e il cuore gli si gonfiava d’allegrezza. Guardia Gioiosa! Guardia Gioiosa! le tue torri erette, ancora tanto lontane, le vedeva egli con gli occhi del desiderio ad ogni svolta della strada romana, ad ogni radura di bosco, ad ogni squarcio di valle, a Quinto, a Nervi, a Bogliasco, tra gli smeraldi e le perle di quella cintura nuziale che il monte Fasce e il monte Moro, accigliati cavalieri, ma non altrimenti insensibili, sembrano offrire alle ninfe del golfo. Più in là Sori e la sua Pieve sbucavano occhieggiando dalle loro vallette tutte coperte di olivi, di limoni e d’aranci; ancora più in là si stendeva Recco, orgogliosa della sua valle più larga, dalle sponde ricche di pampini, dai gioghi vestiti di castagni e di roveri. A lui pareva di vedere per la prima volta quelle bellezze di terra, di mare e di cielo. E perchè no? Non era egli rinato, quel giorno, se usciva illeso da un grande pericolo? Grande, sì certamente. Andare a Pisa, ambasciatore e soldato, che si canzona? e col rischio, anzi con la certezza di doverci metter le barbe, di sostener magari un assedio, e d’esser pronto ad ogni sbaraglio! Bella cosa in altri tempi per lui: ma allora! allora, poi, Gioiosa Guardia e non più.
Alle osterie dove lo aspettavano i suoi balestrieri, beveva volentieri come un altro Passano. Amava classicamente il vino, pel colore, ancor più che non lo amasse pel sapore, quantunque al sapore non diniegasse giustizia. Al vino avrebbe fatto un inno in versi, se avesse avuto tempo, perchè in gioventù era stato poeta anche lui. Non potendo in versi, glielo faceva in prosa. E gli accadeva di lodarlo perfino cattivo, o mediocre; specie quel giorno, che ogni bicchiere gli segnava una stazione del viaggio felice, e pareva infondergli nuovo vigore alla corsa. Con che giubilo si mosse da Recco per la grande ascesa di Ruta, lasciandosi sotto, dalla sua destra, il grappolo delle case bianche di Camogli, sospeso come un nido d’alcioni alla rupe! Non c’era pericolo tuttavia che quel grappolo facesse un capitombolo in mare, essendoci laggiù per guardia, sovra una lingua di terra, il chiesone di san Prospero, niente disposto a gradire lo scherzo.
Oltre Camogli si dilungava in alto mare il promontorio di Portofino, vasto scenario azzurro che da Genova fin là gli aveva impedita la vista di Chiavari. Quel promontorio egli ricordava d’averlo corso tutto fino alla sua estremità, in una cui piega aveva visitato San Fruttuoso di Capodimonte, la vecchia abbazia il cui prospetto chiudeva tutta quanta la spiaggia, ma invitava ad entrare per i suoi porticati, tanto che c’entrava qualche volta anche il mare, quasi in atto di rivolere le barche, tirate là sotto dai pescatori a rifugio.
—Vedete quel Doria!—pensava egli, mentre sul colmo di Ruta, davanti all’osteria del Pavone, sbocconcellava il suo mezzo pollo. L’hanno intesa, la pace, come va preparata e goduta, fabbricando quella abbazia solitaria, dopo l’altra di San Matteo entro le mura della città rumorosa. L’hanno intesa, sì, ma per andarla a godere dopo morti. E nondimeno abbiano lode, per aver capita la vanità delle cure mondane. A che serve tanto combattere? a che serve esser signori di Genova, o di Pisa, o di casaldiavolo? Mi direte: se i tuoi maggiori avessero pensato come te, caro, non saresti qui ora a sgranocchiare un pollo, e a rinfrescarti l’ugola con un bel calice di vin di Vernazza, accanto al tuo Talavera, che pare il cavallo di Troia, fra i tuoi balestrieri che aspettano il tuo comando per rimontare in arcione; avresti forse di tuo una scure, e faresti il boscaiuolo nelle macchie dell’Appennino, felice abbastanza di poterti dissetare ad una scarsa fontanella, dopo avere inghiottito a forza due necci, o stancate le mascelle intorno ad una mezza pagnotta di pan vecciato. Adagio, Biagio! chiarirò il mio pensiero. Certamente l’uomo deve operare, industriarsi in qualche nobile impresa, combattere magari, a piedi e a cavallo; ma per l’onore della sua gente, per la grandezza e per l’utilità della patria. E ci fu un tempo, ci fu, che tutti si faceva così; e a chi non faceva così, a chi lavorava per sè, per guadagnar signorìa, i consoli spianavan le case, come a Fulcone di Castello buon’anima sua. Ma poi, che cos’è avvenuto? arraffa tu, che arraffo io. Se almeno quel che arraffiamo di qua ce l’avessimo a portare di là! Tanto severo è san Pietro! Con le persone lascerà passare anche le bazzicature? Oh, riveriti e potenti baroni, siate i ben venuti al refugium peccatorum. C’è appunto di là, ai primi posti, una panca vuota. Si farà presto a metterci anche uno stramazzo per voi “eccelsi, illustri et magnifici viri„. Ah sì, aspettatelo, che venga a parlarvi così! Badate piuttosto alle chiavi.—
Dopo Ruta, San Lorenzo alla falda del monte, e Santa Margherita in una insenatura del bel golfo Tigulio, e Rapallo nobilmente seduta alla spiaggia, in aspetto di città che attende maggiori destini, con la valle Christi laggiù a sinistra nel piano verdeggiante, e monte Allegro, ben degno del nome, là in alto. Grande azzurro di cielo, gran turchino di mare; una corona di monti che pare anfiteatro di giganti in Tessaglia: una valle che par quella di Tempe; uno specchio d’acque tranquille entro una cornice di maraviglie ridenti al sole, che dà l’idea d’un pezzo di paradiso; o sire Iddio, quante bellezze aggruppate! Ma il cavaliere non le guarda neppure: salta perfino Zoagli, gala di merletti pendente sullo sparato della costa di Leivi, non vedendo, non intendendo, non desiderando altro che un lido biancheggiante di là dalle case di Rovereto. Le fermate dei rinfreschi si son fatte più rade e più corte; anche il cavallone di Bartolomeo Fiesco va più franco e più rapido.
—O Talavera! o gran bestia!—gridava il cavaliere, più allegro che mai.—Tu sei maraviglioso d’intelligenza, quantunque ignorante di cosmografia quanto il personaggio di cui porti il nome. Ma che importa a te la cosmografia? Una cosa sai tu, e la sai bene; che a Gioiosa Guardia t’aspetta una bella scuderia, una buona strigliata, non senza la fortuna di una morbida mano che ti palpi il gran collo. Non è così, Talavera? E nitrisci, briccone! Nitrirei anch’io, se fossi nella tua pelle. Ma parlo, io, che quasi non posso star più nella mia; spando le mie parole al vento, per provare il gusto di sentirle, e sperando che un soffio ne arrivi laggiù, ripercuotendosi dietro la piega di quel monte, da San Pietro delle Canne a San Salvatore, da San Salvatore a Paggi, alla Gioiosa Guardia, al mio nido.—
Di monologo in monologo era giunto a Chiavari e alle rive dell’Entella. Sul ponte della Maddalena fece la fermata un po’ lunga. Era quella una sua divozione, di cui la contessa Juana non era gelosa, avendo imparato a rispettarla, anzi partecipandovi anch’essa. Un gran pellegrino era passato di là, e si era fermato ad ammirare la fiumana bella da quel medesimo ponte, durato intatto fino ai dì nostri. Ed era bello, il ponte della Maddalena; quasi bello come il suo fiume, che è tutto dire. Oggi l’hanno allargato, e credo, Dio ci perdoni, anche rintonacato.
—O padre Alighieri!—esclamò Bartolomeo Fiesco.—Tu ci sei passato, di qui, esule pellegrino; e li hai veduti, i miei maggiori, ed uno di loro hai fatto parlare nel tuo sacro poema. Li hai veduti, e certamente ti sei maravigliato che non sapessero contentarsi della potenza loro, già così grande, e sopra tutto non ne intendessero i veri uffici, che erano e sarebbero ancora, se non prendo abbaglio, di render prospero e felice un popolo affidato alla loro tutela, in mezzo a tanto sorriso di natura, a tanta benedizione di frutti, e del suolo e del mare. E non essi soltanto hai veduto fallire alle speranze della patria, che ancor oggi domanda rimedio a’ suoi mali; che “le terre d’Italia tutte piene son di tiranni, ed un Marcel diventa ogni villan che parteggiando viene„. Oggi come allora, e peggio d’allora. Quando sarà finita? Mai, se noi stessi, che la potenza aiuta e la storia ha confermati, non vogliamo dare l’esempio. Non vogliamo? È presto detto, e forse è più vero che oggi come oggi non ne abbiamo più il modo. Triste cosa, assai triste, vedere il bene ed esser travolti dall’onda prepotente del male. E poi? e poi verrà un’ondata più alta, più vasta, più forte, come quelle che ho viste io nell’Atlantico, che ci soverchierà tutti quanti, parte inghiottendo senza misericordia, parte restituendo alla luce del sole, ma istupiditi ed impotenti, raggomitolati sulla rena a piangere la comune miseria coi nostri nemici d’ieri, come noi mal ridotti, istupiditi come noi, impotenti come noi a rimettersi in piedi. “Ahi, serva Italia, di dolore ostello!„ Ma queste cose non pensa l’eccelso Gian Aloise; ed anche è inutile che le ricanti io, suo piccioletto parente. “Ei s’è beato, e ciò non ode„. Dategli Pisa; vuol Pisa, lui, per tenerla come tien Genova, col dubbio favore di questi, con la ostilità palese di quelli, coi mutabili umori degli uni e degli altri, dipendente egli stesso dall’autorità di un re straniero, le cui fortune posson crescere e calare, e se cresciute soffocarlo, se volte in basso trascinarlo nella caduta. Son questi i tuoi accorgimenti, eccelso Gian Aloise. Me ne son fatto fuori, quest’oggi, e torno alla mia pace, al sorriso del mio cielo e della mia donna. Ma durerà questa pace, per coloro che se ne mostrano degni, intendendola? E a noi, meno alti e meno ambiziosi rami del tronco di Lavagna, non toccherà d’essere involti nella rovina che a sè prepara il ramo maggiore? Perchè questo, o prima o poi, se le ambizioni crescono, avverrà senza fallo.—
Il monologo era riuscito quella volta un po’ lungo; ma il ponte della Maddalena lo meritava. Aggiungete ch’era l’ultimo. Bartolomeo Fiesco diè di sprone al cavallo; e Talavera, che non aspettava altro, spiccò un salto e prese subitamente il galoppo per la strada di San Salvatore e di Paggi, dove da un quarto d’ora lo avevano preceduto i compagni, sentendo anch’essi l’odore della mangiatoia, e non avendo in groppa nessun ammiratore di Dante. Giungevano inaspettati alla Gioiosa Guardia, con la bella notizia che li seguiva il padrone. Partito a bruzzico dal suo castello, messer Bartolomeo ritornava per l’ora di cena: gran fretta, sicuramente, ma anche un bel miracolo di galoppate. E fu accolto con le faci; suonò a festa la campana del battifredo; non mancò neppure una salve d’archibugiate.
Si facevano pazzìe per riceverlo; ma ne fece egli più assai alla vista della contessa Juana, che era discesa ad incontrarlo nel cortile.
—Allegro?—diss’ella, avvicinandosi alla staffa per istendergli la mano, che il cavaliere baciava, piegandosi tutto sull’arcione.
—Non vedi?—rispose egli, com’ebbe potuto compiere il rito.—È Talavera che fa il matto, sentendosi a casa. Talavera, gran bestia, non vedete la padrona, che ha pronta una carezza per voi?—
Il cielo era puro, e tutto scintillante di stelle. La brezza primaverile già raddolcita di qualche tepore pareva promettere le vampe dell’estate; e frattanto le destava nel cuore di Damiano.
—Donna mia dolce!—sussurrò il capitano Fiesco, prendendo Juana per la vita, e muovendo con lei su per le scale.—Lásciati amare; lasciami esser felice.
—Ah, ecco!—diss’ella.—Non è più Talavera, che fa il matto.
—No, cara, son io, io, proprio io, che ho voglia di saltare e di cantare, tanti sono i grilli che ho in corpo.—
Sorridente, amorosa, Fior d’oro lo accompagnò nelle sue stanze, dov’egli si tolse di dosso la polvere.
—Ed ora,—ripigliò la contessa,—ragioniamo un pochino, se è possibile. Vai?
—Dove?—domandò il capitano Fiesco, che aveva la mente a tutt’altro.
—A Pisa.
—No, se Dio vuole, no.—
Fior d’oro diede in una grande risata.
—N’ero sicura;—gridò, lasciandosi cadere su d’una scranna.
—E perchè allora m’hai fatto andare a Genova?—chiese egli, che era voglioso di ridere altrettanto, ma non voleva parere.
—Per debito di cortesia, se ti rammenti. Ed anche potevi sentir ragioni che ti dovessero persuadere. Gian Aloise non ti ha persuaso, e sia per il meglio. Almeno avrai fatte le cose per bene?
—A quel dio! Ci siamo lasciati più amici di prima. Egli mi ha assicurato, congedandomi, di avere il cuore più alto che il mondo non creda. Ed io, figúrati, l’ho più alto che il mondo non si possa sognare. Sento che l’ho qui.... sulle labbra. Vuoi sincerartene, Fior d’oro? Oh, dolce donna! un ceffone? Ma l’ho già avuta da un pezzo, la cresima. Nondimeno, ripeti, Fior d’oro, perchè ripeto ancor io. Queste tue dita son dolci più che lo zucchero. E si resti qui, buon Dio, e non venga più in mente a nessuno di smuovermi dalle braccia di Fior d’oro, perchè sarei capace di ribellarmi anche al re Cristianissimo.
—E al re Cattolico per giunta, non è vero?
—A quello, poi, con più gusto; quantunque m’abbia fatto tanto buon viso, l’ipocrita. E mi voleva ai suoi servigi, per un quinto viaggio. Ah sì, sta fresco, se m’aspetta. Non più viaggi, del resto. L’ho detto anche al grand’uomo, che ho seguitato con tanta devozione ad ogni rischio. Signor almirante, non fate, vi prego, più assegnamento su me. Sono un uomo navigato; ho fatta la parte mia, e di viaggi ce ne son voluti quattro, perchè io riuscissi a portar via il mio pezzo di mondo nuovo. È anche vero,—soggiunse il capitano Fiesco inchinandosi,—che ho avuto il pezzo migliore. Gli altri oro in polvere, oro a pagliuole, oro a catolli; io a dirittura Fior d’oro. E non mi si parli più di passare l’Atlantico; non mi si parli più di lasciar le rive dell’Entella. “Gioiosa Guardia e la mia donna„ ecco il mio motto, e vo’ farlo scolpire sulla nostra “conoscenza„ in uno svolazzo coi fiocchi, debitamente custodito dal gatto e dal basilisco di casa.
—Ora, sta bene;—disse Fior d’oro.—Ma quando sarò vecchia?
—Vecchia! che parola è questa? vecchia voi, dolce Juana?
—Ma sì, la cosa avverrà pur troppo, un giorno.
—Lontano, lontano, lontano!—gridò egli, accompagnando quella gran lontananza con molto sforzo di braccia.—E quando sarete.... cioè, quando non sarete più giovane, quando non sarete più giovane voi, pensate che sarò vecchio io, che d’anni n’ho più di voi, e parecchi.
—Io penso,—rispose Fior d’oro,—che la donna ha una giovinezza soltanto. L’uomo, quando non ha più l’età della grazia, ha ancora l’età della forza.
—Già, ci diventa un Ercole;—esclamò egli, facendo spallucce.—Lo vedo brutto quell’Ercole, che si prepara a rinnovar la serie delle sue immortali fatiche. Ma io farò meglio, vedete, io che non voglio passare una quinta volta le sue bugiarde Colonne. Guardate là, mia dolce Juana, a quella parete. C’è uno scaffale di noce, con una filza di novanta volumi. Non è una gran biblioteca, lo so; ma ce ne son di più piccole, e presso uomini più grandi di me. Gian Aloise, a buon conto, ce n’ha ottantatrè nel suo palazzo di Vialata; sette meno di me; ond’io mi stimo più ricco di lui. E tutti scelti, i miei, da Virgilio a Dante, col Canzoniere del Petrarca per giunta, e perfino il Canzoniere di Giusto de’ Conti, quello della Bella mano, che è il caval di battaglia di messer Filippino. Or dunque, veniamo a noi; pensiamo pure al giorno ch’io sarò vecchio, e voi.... non più tanto giovane. Quel giorno o quella sera, mentre voi farete la calza accanto alla gran tavola della caminata, io incomincierò a ripassare per voi tutti i miei volumi, e ve li leggerò ad uno ad uno. Tradotti, si capisce, ad aperta di libro, che i denari del latino non me li sono giuocati. Cari miei vecchi autori! Ce n’è uno che ha fatto un poema, si può dire, a bella posta per noi, tanto s’attaglierà al caso nostro il suo episodio più bello.
—E sarebbe?
—Ovidio, nelle libro ottavo delle sue Metamorfosi. C’è l’episodio di Filemone e Bauci, due sposini invecchiati l’uno accanto all’altro nella loro capanna, che poi fu tramutata dagli Dèi in un tempio di marmo e d’oro; ed essi continuarono ad amarsi, essendone i sacerdoti; ed ottennero di poter morire insieme, tramutati in due piante, un tiglio e una quercia, sul limitare del tempio.
—È una bella immaginazione;—disse Fior d’oro.—Non c’è altro di spiacevole che la tua deliberazione di rimandarne la lettura ai giorni della nostra vecchiaia. Perchè non leggere fin di stasera il grazioso racconto? Ne godrebbe anche la mamma, che è tanto felice di stare a sentire.
—Eh, perchè no?—rispose il capitano Fiesco.—Tanto, un nuovo capitolo dei Commentarii non l’avrò in pronto se non per domani sera.
—Ah, bene, bene!—esclamò Fior d’oro, battendo le palme con allegrezza infantile, mentre si avviavano alla caminata, dove li aspettava la mamma, ed anche la cena preparata.—Filemone, hai detto?...
—E Bauci;—aggiunse il capitano Fiesco.—Son due nomi greci; e Filemone vuol dir l’amante, e Bauci vuol dir la vezzosa, la graziosa, e simili altre delicatezze femminee.
—O Damiano! quante cose sai tu!
—Ti pare? Certo, so quasi tutte le inutili; e delle veramente utili una sola.
—Ah sì? sentiamola un po’?
—Amarti. Non sono Filemone? E bada, bambina, Filemone vuol anche dire accarezzante. Ond’io, se vorrai tener quella mano a posto....—
E un bacio corse, e fu reso. Bauci non voleva mentire al suo nome di graziosa.
Madonna Bianchinetta Fiesca, venuta poc’anzi a sedersi sulla sua sedia comitale, li vide entrare abbracciati, ed abbracciati correre a lei. Non era da farne caso, perchè così li vedeva ogni giorno; ed ella finalmente ne era tutta felice. Anch’ella amata, a’ suoi bei tempi; ma più rispettata che amata, essendo stata sposata ad un uomo dabbene, ma austero di modi, e diciamo pure un po’ orso. E vedova, e invecchiata nella vedovanza, era vissuta là molto sola, con quel benedetto ragazzo sempre in giro pel mondo, tanto in giro, che presto non bastandogli il vecchio, era andato in traccia del nuovo. Finalmente aveva messo il cervello a partito; ma per domare quel cervello c’era voluto il cuore. Ond’ella ebbe cagione di rallegrarsi, la nobil signora, e di amare anche più quella bellissima nuora che le aveva fatto il miracolo. Nessuna maraviglia, del resto; la contessa Juana si faceva adorare da tutti; senza volerlo, solamente mostrandosi, aveva stregato un po’ tutti.
La veneranda signora seppe quel ch’era avvenuto in Vialata; molto sommariamente, per altro, non avendo creduto opportuno suo figlio di riferirle per filo e per segno i discorsi suoi coll’eccelso Gian Aloise, mentre amava piuttosto trattenersi su quelli della nobile Caterina del Carretto nei Fieschi. Quella era una donna che capiva le cose; ed egli, il capitano, avesse pure a soffrirne la dignità mascolina della stirpe, sarebbe stato felicissimo se per tutte le terre dei Fieschi, da Savignone a Pontremoli, da Vialata a Gioiosa Guardia, non gli uomini avessero più comandato, ma una buona volta le donne. A quali altezze maggiori non sarebbe salita la gente Fiesca, in cinquanta e magari cent’anni di senno e di grazia al governo de’ suoi destini! E in quella vece, o miseria! si perdeva in vane contese e in più vane ambizioni il presente, guastando anche nel germe il futuro.
Sorrideva, madonna Bianchinetta, bene intendendo la ragione di tutti quegli amabili paradossi del suo amabilissimo figliuolo. Il fatto era questo, che i belli occhi di Fior d’oro avevano avuto più forza del miraggio di Pisa.
—Infine,—diceva,—se tu non hai ambizioni, perchè ne avremmo noi, che saremmo rimaste qua ad aspettarti?
—E questa sera gran lettura;—soggiungeva Fior d’oro.—Sai, mamma, che ci tradurrà da un poeta latino la storia di Filemone e Bauci? Si tratta di due, uomo e donna, che si sono amati per tutta la vita.
—Han fatto bene;—sentenziò madonna Bianchinetta.—Quando si può, è la cosa più bella del mondo. E voi li imiterete, m’immagino. Ma non dimenticheremo poi la storia del nuovo Mondo?
—Non dubitare, mamma;—rispose il capitano Fiesco.—Domattina mi metto a lavoro, e domani sera ne avrai un altro capitolo. Sai che la scrivo tanto volentieri. Ma che c’è? Visite ancora? Non ci sarebbe dunque più pace, a Gioiosa Guardia?—
Si sentiva infatti uno scalpitìo di cavalli nel cortile, su cui guardavano appunto le alte finestre della caminata. Polidamante fu mandato a vedere che diavol fosse.
— Ecce iterum Crispinus,—borbottò il padrone di casa.—E dico Crispinus per attenermi al testo. Ma sarà poi Philippinus, che guasterà il verso a Giovenale, e la veglia a noi altri.—
Indice
Capitolo VII. “Dove amore non è, più nulla è il resto„.
Non era Philippinus, no; nient’altro che un cavallaro, un corriere, un messo, o che altro si voglia dire, mandato da Genova per portar lettere alla Gioiosa Guardia. Polidamante, sceso a pigliar lingua, tornava su tutto affannato, con un plico, fatto di quella grossa carta di filo, che già da un secolo e più si fabbricava a Voltri, sul far di quella che aveva dato fama per tutta cristianità alle cartiere di Fabriano.
—Sire Iddio, che letterone!—esclamò il capitano Fiesco, torcendo lo sguardo atterrito.
—Vedi?—notò madonna Bianchinetta.—Ci avrai da leggere un bel poco, e Filemone e Bauci dovranno aspettare.
—Chi manda la staffetta è Giovanni Passano;—diceva Polidamante in quel mezzo.
—Strano!—ripigliò messer Bartolomeo.—Ci siam visti mezz’ora prima che io rimontassi a cavallo. Che bisogno c’era di mandarmi un corriere alle calcagna?
—Questo, senza dubbio,—replicò sua madre,—di farti giunger notizie importanti, avute da lui subito dopo che tu eri partito. Ma c’è un modo di saper tutto;—soggiunse con un placido riso la veneranda signora;—aprire quel letterone, non ti pare?
—Ecco, fuman le dapi;—disse il figliuolo, niente persuaso della utilità di aprire il messaggio.—Rischiavo di seccarmi con Filippino bello, e già n’ero tutto rimescolato. E poichè da questo lato respiro, non voglio procurarmi altre noie per ora. Che cosa mi diceva il Passano, nel prender commiato? Che andava al banco di San Giorgio. Vorranno dunque esser filze di numeri, tutta roba da levar l’appetito. Ceniamo; e tu, letterone, aspetta.—
Il letterone ebbe riposo su d’una credenza, e il capitano Fiesco pensò d’aver pace a tavola. E volle ridere, volle scherzare, secondo l’uso; ma non gli veniva fatto come le altre volte. Credeva anche d’aver portato dal suo viaggio frettoloso una buona dose d’appetito; ma non fu nulla, ed egli mangiò poco, e bevette anche meno. Quel letterone, posato laggiù sulla credenza, gli pesava sull’anima.
Perchè poi tanto sgomento per due o tre pagine di scritto? Ecco qua; bisogna sapere prima di tutto che messer Bartolomeo Fiesco, dacchè aveva fatto ritorno alla casa de’ suoi padri, era diventato nervoso. Non già stizzoso, o di mala voglia, perchè quasi sempre era ilare; ma in mezzo a tanta allegria sentiva di tanto in tanto i brividi dell’uomo che ha paura, che teme o sospetta di qualche cosa che non sa, ma che sente venirsi addosso, o pender da un filo sulla sua testa, come la famosa spada di Damocle. Le visite sopra tutto gli urtavano i nervi, e pareva che si aspettasse sempre una seccatura enorme. In verità non aveva tutti i torti. O per recitar sonetti della Bella mano a sua moglie, o per mandar lui a Pisa, capitava messer Filippino assai più spesso del bisogno. Ed altri ancora, parenti come Filippino, o partigiani della gente Fiesca, o vecchi conoscenti, si affollavano a Gioiosa Guardia, per ossequiare, per visitare, per esplorare, sopra tutto per far discorsi inutili, tra i quali non mancava mai l’accenno alla vita operosa che doveva aver fatta il capitano Fiesco, e alla impossibilità che egli si contentasse della vita tranquilla, uniforme e noiosa del castellano. Volevano saper tutti quando ne sarebbe uscito, e come contasse di usare il suo tempo. Ond’egli aveva già incominciato a capire che si sarebbe stati assai meglio in un bosco, e ben fuori di mano, anzi ben fuori di quella regione, dove, o di qua dall’Appennino o di là, erano sempre castella dei Fieschi, con Filippini in moto, e parenti e conoscenti, e cacciatori e curiosi, cavallari, staffette e via discorrendo, fino alla consumazione dei secoli e della pazienza degli uomini. Quel letterone, frattanto! Che diavolerìa si nascondeva là dentro? Messer Bartolomeo, diventato più nervoso che mai, non se lo poteva levar dalla mente, lo sbirciava da lontano con occhio sospettoso, quasi temesse da un momento all’altro di vederne saltar fuori uno scorpione, una vipera, un basilisco; questo, anzi, più facilmente, essendo una bestia dell’araldico serraglio Fieschino.
—Morale della favola;—diss’egli ad un certo punto tra sè.—Imparate, o giovani, a non lasciar chiusa una lettera che abbiate ricevuta. Meglio è morire sul colpo, che patire un’agonia di due ore.—
E madonna Bianchinetta e Fior d’oro, che parevano essersi scordate di quel misterioso letterone! La cena era finita, la tavola sparecchiata, e del noioso messaggio nè l’una nè l’altra delle due donne faceva parola. Doveva parlarne lui, facendone nascer lui l’occasione. E l’occasione fu questa, di fare una giratina per la sala, di accostarsi a quella credenza, e di salutare il letterone con un grido di maraviglia.
—Oh, eccolo qua, il bossolo dei segreti. Prendi, Juana, mia dolce amica, aprilo tu, ch’io non lo leggo. Piacevole non è di certo; e ci sarà almeno questo di buono, che la sua prosa, passando per la tua bocca, avrà acquistato buon suono.—
La contessa Juana aperse, e lesse. Non faccia maraviglia che sapesse leggere. Fior d’oro certamente non leggeva ancora a Maguana, nella casa di Caonabo, suo terribil signore e padrone. Ma già leggeva a Xaragua, avendo presto imparata la lingua castigliana. Aveva seguitato a leggere alla Giamaica, e poscia in viaggio, imparando via via l’italiano, e continuandone con mirabil profitto lo studio in Gioiosa Guardia. La Corinna di Haiti aveva ingegno potente; le cognizioni a lei nuove della civiltà europea erano venute insieme coll’esercizio di quelle due lingue, fondendosi, estendendosi, formandole un nuovo tesoro, dandole quasi un’anima nuova.
Per contro, aveva abbandonato assai dell’antica, o forse l’aveva sepolto nel profondo. Più non toccava il maguey dal malinconico suono; nè meditava più, nè cantava più l’ areyto in cui era maestra. L’ultimo era stato quello di Cahonana nell’atto di partirsi per sempre dalla sua isola natale. Bene sulle rive dell’Entella s’era provato Damiano a chiederle la grazia d’un canto nella lingua d’Itiba. Ma ella se n’era schermita.
—Bambino amato, non esser cattivo; dolce signore, non esser tiranno. L’ areyto era la gioia di un popolo semplice e buono, che sapeva appagarsi dei frutti della mia povera mente. La poetessa dell’ areyto è morta insieme col suo popolo; perchè vuoi tu risuscitarla, se non hai forza di ritornarle in vita il suo popolo? Con altro nome rivive Anacoana; rivive per miracolo d’amore e di gratitudine. Ti ho amato, conte Fiesco, dal primo giorno che ti ho conosciuto; sarei morta coi miei poveri sudditi, amandoti e benedicendoti. Tu hai voluto ch’io vivessi, e la mia vita è diventata cosa tua, poichè tu l’avevi salvata. Tua regina, o tua serva, ogni condizione mi è buona; comandarti mi è dolce, obbedirti ancor più. Ma ti prego, una cosa non chieder da me; non chieder la voce che piacque a tanti infelici, la cui sorte è il segreto tormento dell’anima mia. La voce di Itiba è morta; ed io soffro già tanto, sforzandomi di dimenticare quei giorni! Dunque, se m’ami davvero....
—Dunque più nulla;—aveva detto Damiano, troncandole la frase.—La bella bocca che diceva le belle canzoni, io la suggello coi baci.
—E ti basti,—aveva ella risposto,—pensando che il cuore trabalza, venendo ad incontrarli sul labbro. Piacerebbe a te di narrarmi il tuo passato? Nè io, bada, chiederò mai di conoscerlo. Che colpa avresti ai miei occhi, se dal giorno che m’hai conosciuta il tuo cuore è stato mio, intieramente mio? Quanto a me, conte Fiesco, ho un passato, e tu lo conosci: ebbi un fiero padrone, che ho rispettato; n’ho uno assai cortese, che adoro. Tra l’uno e l’altro è il dolore d’una patria morta, a cui non gioveranno i miei pianti, ma a cui dobbiamo usare entrambi la pietà del silenzio.—
Il conte Fiesco riconobbe che sua moglie aveva ragione, e non chiese più nulla di quelle arti gentili di cui ella era stata maestra in Haiti. La cultura della contessa Juana si faceva del resto così profonda e così vasta nelle discipline europee, che veramente non era più necessario tornare col desiderio a prove antiche d’ingegno, le quali avevano il torto di destare in lei troppo dolorosi ricordi.
Or dunque, ritornando al racconto, la contessa Juana aperse il plico, e lesse; anzi tutto una lettera di Giovanni Passano, che diceva così:
“ Magnifico Signor mio e padrone osservandissimo,
“Vi parrà strano che appena partito Voi per la Gioiosa Guardia io abbia da mandarvi il messo, come il cacciatore sull’orma. Così è piaciuto a Dio, dal quale vengono le fortune tutte e disgrazie di questo mondo, con che egli sperimenta le sue creature. Ma questa volta è misericordia sua e gran favore che sia evento piacevole, come io ben credo, trattandosi di lettera che Vi scrive l’uomo che più amate e venerate dopo il supremo dator di ogni bene.
“Sappiate adunque che, mentre Voi andavate verso porta di Santo Stefano glorioso, io me ne andai al magnifico Banco di San Giorgio per collocare il denaro che eravamo rimasti d’intesa. E là mi avvenni per singolar fortuna nello spettabile iureconsulto messer Nicolò di Oderigo, che scendeva allora dallo scalone. Umanamente mi salutò, e mi chiese di Voi, che tanto desiderava incontrarvi. E gli dissi che appunto eravate giunto questa mattina, ma per stare sull’ali e ripartire; che anzi a quell’ora certamente andavate passando il ponte di Sant’Agata benedetta. Mostrò dispiacere di tal contrattempo, perchè aveva ricevuto lettera di Castiglia per Voi, e a me la diede, commettendomi di spedirla al più presto. E sì m’aggiunse il prefato messer Nicolò: “ignoro che cosa sia detto in tal lettera, avendola sigillata senza leggere; ma se somiglia ad altra per me ricevuta, certo è fatto di somma importanza, e merita che il vostro signore e parente subito la tenga in sue mani„. Al che risposi non dubitasse, che avrei fatto ogni diligenza, siccome ero pronto, anche partendo io medesimo.
“Non fu mestieri di ciò, avendo io trovato Battistino di Certénoli, che si disponeva appunto a partire. Io solo gli ho fatto e faccio raccomandazione di non fermarsi troppo a tutte le frasche, più che non avvenga a me quando vengo a trovarvi. Ed egli, saputo esser ciò per Vostro servizio, promette e giura, se Voi non correte più di lui, di raggiungervi ancora in cammino. Quanto a messer Nicolò di Oderigo, richiesto da me che cosa fosse scritto a lui, per darvene contezza, risposemi queste parole: “Il nostro eccelso concittadino spera e dispera ad un tempo: è come un naufrago, che può toccar terra con l’aiuto di Dio, o andare sommerso nel profondo del mare. Egli è tanto disgraziato come grande„.
“Messer riverito, io vi prego di star bene, e bacio umilmente le mani a madonna Bianchinetta e a madonna Fior d’oro mia nobil cognata; che veramente io non mi risolverò mai di chiamarla suocera, contro ogni apparenza di ragione. Bianchina mia a voi tutti si raccomanda.
“Di Genoa, li 6 marzo anno Domini 1506.
“ Johannes Paxano. „
Il capitano Fiesco era stato a sentire con una certa curiosità la prima parte della lettera di Giovanni Passano. Alla seconda, ricominciò a non poter più star fermo sulla sedia, tanta era l’agitazione che gli entrava addosso; agitazione a cui partecipava l’animo di Fior d’oro, com’era dimostrato dall’andar più spedito, quasi convulso, della lettura.
—All’altra! all’altra!—gridò messer Bartolomeo, com’ella ebbe finita la prima.—Che sarà mai, mio Dio, se un uomo grave e tranquillo come il dottore Oderigo si mostra così sgomentato per la sorte del nostro grand’uomo?—
Fior d’oro prese allora la seconda lettera, e con molta reverenza ne lesse la soprascritta, in lingua spagnuola: “ Al muy virtuoso Señor micer Bartholomè Fresco „; poi ruppe il suggello, aperse il gran foglio, e lesse il contenuto, scritto in lingua italiana, mescolata di forme spagnuole e latine, di questo tenore:
“Virtuoso amico.
“Iddio nostro signore ha disposto che quando la creatura è nel fondo delle afflizioni, ella a Lui abbia ricorso e in Lui solo confidi: ma non è senza suo consiglio che ella si volga agli amici, nei quali è come un raggio in terra della sua eccelsa bontà. Tra i miei mali ho questa sorte, che ancora qualche anima mi resti fedele. Ma perchè i pochi che mi amano son tutti lontani da me?
“Amico, la mia querela col mondo è antica oramai, come l’uso ch’egli ha di maltrattarmi. Già mille combattimenti mi diede, e a tutti ho resistito finora; in che non mi ha giovato nessuno. Ei mi tiene crudelmente colato a fondo: solo mi regge la speranza di Chi creò tutti, e sudditi e re. Il soccorso di Lui fu prontissimo sempre. Un’altra volta, è già molto, trovandomi assai abbattuto, mi sollevò col suo braccio divino, dicendo: levati su, uomo di poca fede, che son io, non aver timore. Ma adesso la voce misteriosa non parla più come prima; temo forte che voglia altro di me.
“Da più d’un anno sto qui aspettando che don Fernando mi renda giustizia e m’ascolti, come aveva promesso anche a Voi. Tutti ottengono da lui, di dovunque arrivino; checchè gli propongano, son tutti ascoltati: più ancora se nemici miei, o da lui avuti per tali. Di me non si fa caso; anche qui tutti mi sfuggono, come fossi un lebbroso. Pensate a questo, Voi che avete visto il mio arrivo a Barcellona. Ora io vi sto mallevadore che non è uomo sì vile il quale non pensi d’oltraggiarmi. Se io avessi rubate le Indie per darle a Portoghesi, come una volta si sospettò indegnamente, quando la tempesta mi gittò nel ritorno alle rive del Tago, non potrebbero in Ispagna dimostrarmi nimicizia maggiore. Chi ciò crederebbe d’un paese, dove fu sempre tanta generosità di sentire?
“Grande aggravio ricevo da questo re, poi che la eccelsa donna mia protettrice è in cielo (che più non la vidi viva al mio ritorno), e non so come basteranno le forze a sostenere il mio dritto. Ma per rispetto a quella medesima dignità che Iddio mi ha data, quando permise che io discoprissi un mondo e lo rendessi alla sua fede, dovrò combattere fino all’ultimo soffio di vita. E son qui solo, nella mia pena, infermo, aspettando ogni dì da un uscio la giustizia degli uomini, dall’altro quella del cielo. Non è con me neppure il mio buon fratello don Bartolomeo, sempre in moto per mia cagione. Diego Mendez fu qui, nè vuole abbandonarmi del tutto; ma in troppe circostanze non fa al bisogno mio, dovendo, egli anche provvedere a sè stesso. Ah, i miei amici d’un tempo! Il loro affetto mi consolerebbe d’assai cose che mi mancano. E mi manchino pure per sempre; perchè “dove amore non è, più nulla è il resto„.—
Tremava, per commozione profonda, la voce della bella lettrice; e gli occhi del capitano Fiesco si erano velati di lagrime.
—Com’è vero!—diss’egli.—È questo il grido dell’anima.
—E noi lo sentiremo;—rispose Fior d’oro;—e correremo a lui, non è vero? —
Messer Bartolomeo si turbò forte, a quell’altro grido dell’anima.
—Andrò certamente;—balbettò egli.—Ma tu....
—Ed io con te. Potrei forse lasciarti solo?
—Perchè no! Andavo pur solo a Pisa!
—Che mi parli tu di Pisa?—proruppe Fior d’oro.—Non ci sei andato, finalmente. E laggiù, dov’egli soffre, dond’egli chiama soccorso, il debito nostro è di andare senza indugio. Non gli debbo ancor io qualche cosa? Ma lasciami leggere il resto; son poche righe ancora;—soggiunse ella, sforzandosi d’apparire tranquilla.
E proseguì, sebbene con voce alterata, la dolorosa lettura.
“Domando forse troppo? Vi conosco, fedele amico dei lieti giorni come dei tristi, e penso che ciò non sia. Avendovi presso, di due cose una mi verrà bene ad ogni modo. O mi rifiorirà la speranza, poichè avrete ottenuto Voi ch’io parli un’ultima volta al re; e Voi solo potrete ottenerlo, che foste ricevuto da lui, e congedato con buone promesse. Dovrà ricordarle, vedendovi; e forse egli sentirà rossore di ciò che fa, per mio danno ed onta sua. O non otterrete nulla neppur voi? Sarà segno ch’io non debbo aspettare più nulla dal mondo, se non questo, che Voi mi chiudiate gli occhi al gran sonno. In questo caso sarete ancora il ben venuto al mio fianco; nell’ultim’ora della mia triste vita mi sarà dolce l’aspetto della città dond’io venni, e nella quale son nato.
“Ricordatemi, ve ne prego, alla nobil signora che allieta i giorni del vostro riposo, e che ha tanto da perdonarmi anche lei. Ma io veramente non sono in colpa, e fu con buono intendimento tutto quello che feci. Iddio mi aveva guidato laggiù; gli uomini malvagi hanno guastata l’opera di Dio, come già aveva fatto il maligno, sotto forma di serpente, in quel beatissimo Eden, di cui mi sembrò l’imagine sulla terra di Haiti. E ancora salutate per me il virtuoso messere Gian Aloise con la sua signora madonna Catalina. Dite loro che mi perdonino, se non ho più date nuove di me, che liete e degne di loro non n’ebbi più da gran tempo. Neanche, per dirvi tutto, ebbi comodità di scrivere, negli umili alberghi per cui mi vengo tramutando, poverissimo come sono, e spesso costretto ad accettar prestito da qualche anima buona. Non che per iscrivere una lettera e dar beveraggio a chi la porti, non ho il più delle volte una “bianca„ per l’offerta in chiesa. Le mie rendite sono a San Domingo, e le tiene e le gode il gran commendatore d’Alcántara, che Iddio non vorrà dimenticare, nella sua forza e sapienza infinita, mentre io sono sventurato come vi dico. Ho pianto molto in mia vita sugli altri; su me piangerà presto la terra, se ancora ha senso di carità, se ancora v’è in pregio la verità e la giustizia. E vi tenga Nostro Signore nella sua santa guardia, con tutti coloro che amate; poichè, vi ripeto, dove amore non è, più nulla è il resto.
“De Segovia, a 20 de febrero 1506.
“ El Almirante mayor del mar Oçeano “Visorey y Gobernador general de las Indias, etc.
S. S. A. S. X. M. Y Xp̃o FERENS.
I titoli non mancavano mai, nelle lettere di Cristoforo Colombo. E potevano far sorridere gli sciocchi, e far piangere gli assennati, pensando che l’almirante maggiore dell’Oceano, il vicerè e governatore delle Indie era povero in canna, spesso nelle osterie, dov’era costretto a prendere i suoi pasti, non avendo di che pagare lo scotto. Quanto alla sigla che aveva sostituita alla firma, gli amici suoi sapevano che cosa volesse dire. Così l’aveva egli solennemente descritta nel suo testamento e istituzione di maggiorasco, del 22 febbraio 1498: “...... don Diego mio figlio e tutti i miei successori e discendenti, come pure i miei fratelli Bartolomeo e Diego, porteranno le mie armi quali le lascierò dopo morte, senz’aggiungervi alcun’altra cosa, e saranno scolpite sul lor sigillo. Don Diego mio figlio, o chiunque erediterà i suoi beni, andando al possesso dell’eredità, segnerà con la firma di che ora mi servo, che è una X con sopra una S, una M con sopra un’A, ed una S più in su, e quindi una Y sormontata da una S, colle linee e punti giusta il mio costume„. Ma la descrizione non essendo ancora l’interpetrazione, bisognerà soggiungere quella che n’hanno tentata i moderni eruditi, ricordando che Cristoforo Colombo, a detta del figlio Fernando nella sua Historia dell’Almirante, “se alcuna cosa aveva da scrivere, non provava la penna senza prima scrivere queste parole: Jesus cum Maria sit nobis in via „. Così avendo egli mutata la firma dopo le dignità ottenute, formò la sigla misteriosa, che si può sciogliere naturalmente in questo modo: Salva me Xristus, Maria, Yosephus. Quanto all’ultima linea, Xristoferens, mezzo abbreviato, è l’istesso nome di Cristoforo, portatore di Cristo, come anche dimostra la nota iconografia di quel santo, col famoso distico leonino e maccheronico che suol richiamare alla mente.
—Ed ora,—disse Fior d’oro, nell’atto di ripiegare il foglio,—sosterrai tu che io non debba seguirti? Vedi, egli vuol chiedermi perdono, non essendo in colpa di nulla. Io, io debbo portargli una parola di riconoscenza per me, con le benedizioni del mio popolo, ch’egli amò tanto, ch’egli avrebbe reso felice, se gli uomini malvagi non ne avessero attraversati i disegni.
—Sia come volete, Juana;—rispose il capitano Fiesco.—Il cielo forse v’ispira. Al letto di un infermo vale anche meglio una donna che un uomo. Iddio ha posto negli occhi vostri un raggio della sua pietà, e sulle vostre labbra il balsamo delle sue misericordie. Nè il grand’uomo sarà solo, quand’io dovrò chiedere udienza al suo re. Non vorrà certo negarmela;—soggiunse messer Bartolomeo;—tanto cortesemente mi aveva egli accolto, che pareva non sapesse più spiccarsi da me. Niente al signor Almirante, e si capiva, quantunque promettesse di vederlo e di udirlo; a me tutto; mi avrebbe posto Castiglia e Leone sulle braccia, con le Indie per il buon peso. “Voi siete, signor conte, in grandissima stima presso don Nicola Ovando, che d’uomini s’intende, come del nostro servizio; stimato dal gran commendatore d’Alcántara, che così vantaggiosamente mi scrive di Voi, non sarete meno stimato e favorito da me: non dispiaccia ad un Fiesco di prender servizio presso un re d’Aragona, che conosce il merito, e sa ricompensarlo„. La grazia delle sue ricompense! Ma bisognò sputar dolce, dopo inghiottito l’amaro. Infine, chi sa? Non è una ispirazione del cielo che l’Almirante mi richiami presso di sè, per ottenergli giustizia? E se fossi io quello che potesse fargliela avere.... colla reintegrazione dei suoi diritti.... colla spedizione sua ad un altro viaggio di scoperta!...
—Quante speranze ad un tratto!—esclamò Fior d’oro.
—Non per me, si capisce. Io non andrò più, certamente. Sarà un sacrifizio.... che farò lietamente a Fior d’oro. Ma per lui, che forse ad un tale annunzio ritornerebbe da morte a vita, mi par che sia bene tentare, e per intanto sperare. Sperare giova, e tentare non nuoce. Andremo dunque a Segovia. Ma ora che ci penso, come vi porterei io in Ispagna, dove forse Fior d’oro....
—Fior d’oro può restar qui;—rispose la contessa;—ed anche può esser morta di là dal gran mare. In vece sua può ben rinascere il mozzo Bonito, di cui conservo ancora le spoglie.—
Con quel nome e in quelle spoglie Anacoana era andata dalla sua isola natale alla Giamaica, e di là ritornata a San Domingo, per passar poscia in Europa; mozzo per tutti, tranne per pochissimi che erano a parte del segreto.
—Eh, voi trovate rimedio a tutto, Juana;—disse il capitano Fiesco, sforzandosi di sorridere.—Ma questo mi fa pensare che avrò da trovar qualche cosa ancor io, non essendo naturale che un mozzo faccia così lungo tragitto per via di terra. Dove sarà il cavallaro? Probabilmente nel tinello a cena; che non avrà voluto rinunziare alla buona occasione. Polidamante!—
Il ragazzo non era là in anticamera, e bisognò andarlo a chiamare dall’alto dello scalone. Udì la voce tonante del padrone, ed accorse.
—Battistino è ancora giù con voi altri?
—Sì, mio signore; anzi dormirà qui, avendo fatto tardi, per andare a Certénoli.
—E non ci andrà. Si tenga pronto a ripartire domattina all’alba per Genova.—
Ciò detto, il capitano Fiesco ritornò alla caminata, e là scrisse in fretta una lettera per Giovanni Passano.
—E questa è fatta;—diss’egli conchiudendo, mentre suggellava il foglio.—Se il Paradiso è ancora in porto, può esser qui doman l’altro. Non sarà neanche mestieri che ci facciamo vedere a Genova.—
Madonna Bianchinetta approvò tutti gli ordini del figliuolo, e la fretta con cui erano dati. Aveva sparse tante lagrime, la veneranda signora, sentendo legger la lettera del signor Almirante!
Due giorni appresso, sull’ora del vespro, la nave Paradiso gettava le àncore davanti alla spiaggia di Chiavari. Subito si spiccava dal suo bordo un palischermo, con quattro rematori sui banchi di voga, e Giovanni Passano al timone. Un’ora dopo, il fido luogotenente e ministro del conte Fiesco era a Gioiosa Guardia. Non si poteva fare più presto, nè meglio di così, per contentare quell’argento vivo del conte.
Messer Bartolomeo s’imbarcò a notte alta, avendo non meno alte ragioni di far ciò. Quel mozzo Bonito non doveva esser visto da tanta gente, che nei giorni festivi ammirava la contessa Juana nella chiesa di San Salvatore. Con messer Bartolomeo e col mozzo Bonito montarono in nave due scudieri, Pietro Gentile, e frate Alessandro. Il frate tornava al suo secondo uffizio d’elezione; non dimenticando il primo, per altro, poichè portava la sua tonaca e la sua cocolla, delle quali aveva fatto il solito involto.
—Portar l’abito indosso e portarlo in mano è tutt’uno;—diceva il frate scudiero.—L’essenziale è di non lasciarlo per via, di non gittarlo ai rovi, come fanno certuni, dimenticando i loro giuramenti. Io tengo i miei, onorando il glorioso fondatore dell’ordine, seguendone gli esempi, facendo allegramente quel po’ di bene che posso. Il benedetto san Francesco non voleva musi lunghi, nè ipocrisie. Gli uomini aveva tutti per fratelli; e chi si adoperava per utile dei fratelli, lo aveva per figliuolo.—
Anche don Garcìa avrebbe voluto seguire il padrone e accompagnare il conterraneo; tanto più che si approdava a Barcellona. Sosteneva di poter rientrare senza pericolo in Ispagna, avendo lasciato San Domingo col suo bravo congedo, per anzianità di servizio. Ma il capitano Fiesco non volle saperne di lui.
—Restate, don Garcìa;—gli aveva detto.—Dio guardi se qualcheduno vi riconosce....
—Avete ragione, signor conte;—aveva risposto don Garcìa, chinando umiliato la fronte.
—E non dico per questo che voi ora pensate;—replicò il capitano Fiesco.—Dico che anche essendo partito col vostro bravo congedo, vi siete allontanato da San Domingo insalutato hospite. E l’ospite era il governatore, che può aver notata la cosa. Il congedo, poi, era soltanto a voce. Insomma, vi dico che non è bene per voi venire laggiù, e meglio sarà che rimaniate qui, a godere davvero il vostro congedo benedetto.—
Così restò don Garcìa, e la nave Paradiso si allontanò senza di lui dalla spiaggia di Chiavari. Fortunata, aveva anche il vento in fil di ruota, che, avendo preso a soffiar nella notte dalle gole di Sestri Levante, doveva accompagnarla fino oltre la punta di Portofino. Di là da Capodimonte, lo ebbe di fianco, ed era tramontana schietta: ma la tramontana era anche più favorevole del vento in poppa, perchè si poteva serrarla con tutte le vele, navigando al gran largo, che è la più gloriosa maniera, ed allarga altrettanto il cuore del capitano, che ha fretta di giungere al porto.
La nave non volendo toccar Genova, era rimasto a terra e per via di terra sarebbe tornato a casa il Passano.
Ora, mentre egli usciva da Gioiosa Guardia, dove era andato a prendere un cavallo dalle scuderie, indovinate chi gli passò davanti agli occhi, tra Paggi e San Salvatore. Il capitano Fiesco ci avrebbe dato alla prima. Messer Filippino? Lui, sicuramente, lui, che aveva trovato un altro buon pretesto, di andare in Fontanabuona, per passare davanti al castello del suo amato parente, fermarsi un tratto ad ammirare la contessa Juana e sospirarle un sonetto.
—Io arrivo, e voi partite?—diss’egli, facendo la bocca dolce.
—Sì, parto, come vedete, messer Filippino.
—E i miei buoni parenti stanno bene?
—Benissimo,—rispose il Passano,—e in via per la Spagna.
—Per la Spagna!—ripetè Filippino, stupito.—Il mio caro cugino, che non si voleva più muovere.... per nessuna ragione!...
—Eh, capirete, messere; quando si trattava di andar solo. Ma ora va accompagnato.
—Accompagnato!—ripetè Filippino, sgranando gli occhi, e impallidendo un pochino.
—Già, con la dolce consorte. Beato lui, che può portarsela allato come la sua buona spada. Io, poveraccio, vado e torno ad ogni tanto, sempre costretto a lasciare la mia sposina a Genova. È vero che i miei viaggi son brevi.—
Messer Filippino non gli dava più retta. Che importava a lui delle pene maritali di Giovanni Passano?
—La contessa con lui!—esclamò.—E quanto rimarranno?
—Questo non saprei dirvi io, messere. Nè credo che lo sappia madonna Bianchinetta. Ma potete provare a domandargliene.
—Veramente, non contavo di entrare, questa volta. Ho da fare a Santo Stefano....
—Allora, buon viaggio, messer Filippino.
—E a voi, messer Giovanni, a voi.—
Giovanni Passano toccò il cavallo, che subito prese il portante, andando verso la Maddalena.
—M’è rimasto di stucco:—diceva il Passano tra sè.—Che fastidioso uomo è costui! Ed ora, se Dio vuole, per la prima volta non gli parrà Gioiosa, la Guardia.—
Aveva dato nel segno. Messer Filippino c’entrò, mezzo per consuetudine, e mezzo per curiosità, volendo sapere, se gli veniva fatto, come e perchè fossero partiti i due coniugi, e quanto sarebbero rimasti lontani. Ma la Gioiosa Guardia, dove più non era la contessa Juana, gli parve triste, desolata come un nido vuoto. Anch’egli doveva pensare quel giorno, ma con altra intenzione, quello che Cristoforo Colombo aveva scritto all’amico: “Dove amore non è, più nulla è il resto„.
Indice
Capitolo VIII. Dolenti note.
Non avendo speranza di leggere un altro capitolo dei Commentarii di messer Bartolomeo Fiesco, che se ne va con buon vento alle coste di Spagna, cercheremo di dir noi brevemente quanto sarà mestieri conoscere dei casi di Cristoforo Colombo, ritornato che fu dal suo quarto viaggio di scoperta, e della condizione tristissima ond’egli era stato consigliato a scrivere la dolente sua lettera al virtuoso capitano. Dovremo per ciò ritornare un passo indietro (e sian pur molti, a patto che non paian più d’uno) fino alla partenza del signor Almirante dall’isola Giamaica, dove il fedel Diego Mendez gli aveva condotto un naviglio, e il perfido Ovando, non potendo più oltre ignorare lo stato del grand’uomo, gliene mandava un altro, che finalmente si era risoluto di trovare.
Su quei due navigli s’imbarcavano i fedeli dell’Almirante e i pentiti seguaci del Porras, facendo vela il 28 giugno 1504, dopo un anno e quattro giorni di forzata inerzia nel villaggio galleggiante sulla spiaggia di Maima. Ancora non si era chetato lo sdegno degli elementi contro il magnanimo nocchiero, che primo aveva osato sfidare i flutti dell’Atlantico; e le correnti fortissime tra la Giamaica e la Spagnuola diedero assai travaglio alle navi, che solo il 13 agosto afferravano il porto di San Domingo. Col livore nell’anima e col sorriso sulle labbra, accolse don Nicola Ovando l’aborrito Colombo; gli profferse ospitalità nel palazzo del governo, e mostrò di volergli usare ogni maniera di cortesie. Quella era la pace dello scorpione, come si diceva con energica frase intorno al signor Almirante; e non senza ragione, poichè il gran commendatore d’Alcántara, ch’era lo scorpione in discorso, mentre faceva la bocca dolce al suo ospite, metteva in libertà il Porras, che questi aveva condotto prigione, unico escluso dal perdono concesso ai ribelli, come quegli che li aveva istigati e spinti alla prova delle armi. Non pago di ciò, don Nicola Ovando parlava di voler fare egli stesso un’inchiesta di ciò ch’era avvenuto alla Giamaica, sostituendosi audacemente all’autorità del signor Almirante, e usurpando il diritto dei reali di Spagna, ai quali si spettava, se mai, di rivedere il processo e di far piena giustizia. Ma qui il signor governatore non andò oltre la minaccia, che forse aveva fatta per giustificare lo scarceramento del Porras, ed anche per fare dispetto al suo ospite e indurlo ad abbreviare i termini del suo soggiorno a San Domingo.
Messer Cristoforo non voleva già rimanere a lungo in quel triste luogo, dove i segni dello sgoverno e della rapina erano troppi e troppo evidenti; dove ancora non tacevano gli echi delle orribili carneficine che avevano funestata da un capo all’altro la povera Haiti; dove infine non c’era verso di ottenere alcuna soddisfazione delle sue rendite, e nemmeno un’ombra di conti. Al signor governatore aveva oramai restituito il naviglio, e un altro ne aveva acquistato del suo. E per tal modo, su due legni proprii, come un privato armatore, riconduceva in Ispagna tanti servitori della Corona, che per Castiglia e Leone avevano due anni intieri messa a bei rischi la pelle. All’Ovando e al soggiorno di San Domingo lasciava ancora tutti i ribelli del Porras, che il signor governatore li premiasse pure secondo i gran meriti loro, e magari li facesse del suo consiglio di governo. Ed egli, co’ suoi due legni, si mise alla vela il 12 di settembre.
Qui subito incominciò la disdetta. Avevano fatte appena due leghe di cammino, che sulla nave dell’Almirante si spaccò per lungo l’albero di maestra, dalla vetta fino in coperta. Buon legno, e stagionato, anche tu? L’Almirante passò sulla seconda nave, che era sotto il comando dell’Adelantado, e rimandò a San Domingo la caravella inservibile. Si veleggiava con buon vento, e i cuori si riaprivano alla speranza; quand’ecco, il 18 ottobre, una terribil fortuna di mare, che mette l’unica nave in pericolo. Se n’esce sani, e torna il mare in bonaccia; ma il giorno appresso, in quella gran calma, e quasi non lavorando le vele, si spezza in quattro l’albero di maestra.
—Piove sul bagnato!—si contentò di dire l’Adelantado, che tosto, consigliato dal fratello, a cui la gotta non consente di lasciare il giaciglio, prende un’antenna di rispetto, ne fa un piccolo albero, fortificandolo di legname preso dai castelli di poppa e di prora, strettamente lega ogni cosa con gran giri di fune, e vi adatta la vela. Si naviga ancora verso levante, ma incappando presto in un altro fortunale, che porta via l’albero di trinchetto. In tal guisa l’Atlantico rabbioso dava congedo al suo domatore: e in tal guisa, fatte settecento leghe di mare e d’angoscia indicibile, nella mattina del 7 novembre il legno disalberato afferrava San Lucar di Barrameda, donde il signor Almirante, sfinito da due anni e mezzo di continui travagli, tormentato dalla gotta e più dal pensiero della umana malvagità, si faceva trasportare a Siviglia.
Sperava di trovar pace colà, e di ricuperare tanto di forze da potersi condurre a Medina del Campo, dov’era allora la Corte, necessariamente un po’ nomade in quel primo periodo di ricostituzione del regno. Ma non ricuperò punto di forze, non avendo trovata la pace, bensì in gran disordine le cose sue, poichè dal tempo della sua prigionìa, avendo il Bovadilla preso possesso della sua casa e delle sue sostanze in San Domingo, non pure non gli pagavan le rendite, ma non erano state neanche esatte con la debita puntualità, e quel tanto che se ne veniva raccogliendo restava nelle mani del governatore. Ond’egli, un mese dopo l’arrivo a Siviglia, scriveva al figliuol suo Diego, ch’era paggio alla Corte: “Il governatore m’ha crudelmente trattato. Mi dicon tutti che io là posseggo undici o dodicimila castigliani; ed io non ne ho avuto un quarto„. Si aggiunga che quel quarto gli era servito a comperar le due navi, per portare in Ispagna tanti buoni servitori della Corona, che ancora un mese dopo l’arrivo a San Lucar di Barrameda non avevano ricevuto il soldo di due anni e mezzo di onorati servizi; e a lui si volgevano, chiedevano denari a lui, che non ne aveva per sè.
Nè solo scriveva al figliuolo che perorasse per lui e per la giustizia; scriveva al re, scriveva alla regina. Ordinassero che fosse dato il soldo a quella povera gente; comandassero all’Ovando di fargli pagare senza indugio il dovuto, perchè, senza una lettera regia, nè quegli si sarebbe mosso, nè gli stessi agenti dell’Almirante in San Domingo avrebbero ardito aprir bocca; provedessero finalmente, in guisa che meglio fossero amministrate laggiù le rendite della Corona; al qual proposito bastava accennare che una immensa quantità d’oro si ammonticchiava in mal costrutte case, esposte di continuo alla rapina, al saccheggio. Aveva risposte, ma fredde, che lo rimandavano di giorno in giorno, anzi peggio, di mese in mese. Erano andati alla Corte del re Ferdinando e della regina Isabella, i suoi due fidati amici, Diego Mendez e Alonzo Sanchez di Carvajal, ricevendo anch’essi un sacco e sette sporte di buone parole. Più non poteva fare la regina, inferma, da parecchi mesi inchiodata in un letto: più non voleva fare il re, largo promettitore, non senza un’aria di canzonatura, che tirava, sia detto col rispetto dovuto a su’ Altezza reale, che tirava i ceffoni. Intanto, trionfava il Porras, parente in quel brutto modo che sappiamo al regio tesoriere Morales. E il re Ferdinando a tutte le sollecitazioni del povero infermo di Siviglia mandava a rispondere: “si vedrà, si farà quanto è dovuto, e più ancora„; la regina Isabella, in cui era riposta l’ultima speranza dello sventurato Colombo, la regina Isabella moriva.
Povera donna, infelice regina, che non aveva avuto in tutta la sua vita fortunosa un’ora di pace! Abbiamo narrate le vicende della giovinezza di lei, e come le paresse liberazione andar moglie a Ferdinando d’Aragona. Ma proprio allora incominciò la prigionia, non della persona, bensì dell’anima generosa, del cuore pietoso d’Isabella di Castiglia e Leone. Le istesse gioie della maternità, che consolano tante donne d’un nodo malaugurato, volsero in lutto per lei. Le era morto l’unico maschio, il principe Giovanni; morta la diletta figliuola Isabella, e il figliuoletto di lei, don Michele; restava Giovanna, misera creatura che doveva rimanere nella storia col nome di Giovanna la pazza, maritata all’arciduca Filippo d’Austria, bel giovane e dissoluto, che la rendeva infelice vivendo, e doveva lasciarla infelicissima, morendo un anno di poi. Di tutti questi dolori materni nutriva Isabella i suoi anni maturi; e d’altri ancora, onde la colmò di continuo l’indole avara e tiranna del suo consorte e signore. Quell’astuto Aragonese, che, lei morta appena, sarebbe passato a seconde nozze con una principessa francese, non era fatto davvero per darle allegrezza della vita e del regno. E cercò sempre, la nobil donna, di nascondere al mondo la sua infelicità; fece quanto potè, anche in punto di morte, per esser creduta la più felice delle mogli.
“Che il mio corpo (diceva ella nel suo testamento) sia seppellito nel monastero di San Francesco, nell’Alhambra della città di Granata, in un modesto sepolcro, senz’altro monumento che una semplice pietra, su cui sarà scolpita l’iscrizione. Desidero nondimeno, ed ordino, se il re mio signore s’eleggesse sepoltura in una chiesa, o monastero, in alcun altro luogo o parte de’ miei regni, che il mio corpo sia pur tramutato e sepolto accanto a quello di Sua Altezza; per forma che la unione di cui abbiamo goduto in vita, e di cui speriamo la Dio mercè che le anime nostre godranno nel cielo, possa essere raffigurata dalla unione dei nostri corpi in terra.„
Isabella moriva il 26 novembre del 1504, a Medina del Campo, in età di cinquantaquattro anni. Il grand’uomo ch’ella aveva protetto, intendendone l’ingegno e la missione divina, trattenuto dalla sua infermità nelle mura di Siviglia, non aveva potuto rivederla un’ultima volta: neanche gli fu dato di conoscer subito la notizia della morte di lei. Sapendola aggravata dal male, e desideroso di recarsi al suo letto d’agonia, non aveva trovato mezzo di trasporto più adatto d’una lettiga che i canonici di Siviglia avevano usata poco prima per trasportare la salma del cardinal di Mendoza. Ma i canonici temevano per il fatto loro, che non andasse guasto o perduto; e l’istesso giorno che Isabella moriva a Medina del Campo, si faceva in Siviglia tra quei canonici e il “vicerè delle Indie„ un regolare contratto per l’affitto di quella lettiga, di quella bara, restando mallevadore don Francesco Pinedo, tesoriere della marina, che la strana vettura sarebbe stata restituita. Già era per salirvi il dolente; ma le trafitture del suo male e lo straordinario rigore della stagione non gli permisero di mandare ad effetto il suo divisamento.
La morte d’Isabella era il colpo di grazia al grande infelice. Viva la regina, si poteva sperare ch’ella fosse un giorno e l’altro per vincer l’animo iniquo di Ferdinando; e ad ogni modo si poteva esser certi che la regia fede sarebbe stata mantenuta, com’era scritta in forme solenni. Lei morta, le ragioni di Cristoforo Colombo, lasciate così a lungo sospese, sarebbero state sicuramente disconosciute, e le speranze deluse. E ancora tentava, scrivendo lettere su lettere, mescolando le umili supplicazioni alle giuste querele. Nella primavera del 1505 tentò per lui don Bartolomeo suo fratello di ottenere a voce quello che per iscritto non si era potuto fin allora. L’Adelantado conduceva seco il secondo figliuolo dell’Almirante; savio e costumato adolescente, allora nei diciassette anni, che aveva partecipato alle fortunose vicende del quarto viaggio. Si chiamava Fernando, l’adolescente; Fernando, come il re; ma non gli valse altrimenti che ad ottenere un altro sacco di buone parole.
Un filo di speranza era venuto al signor Almirante dalla notizia che Diego di Deza, il dotto domenicano, allora vescovo di Palencia, ma innalzato ad arcivescovo di Siviglia, sarebbe rimasto alcun tempo alla Corte. Diego di Deza era stato l’unico dotto, e perciò l’unico sostenitore di Cristoforo Colombo, nel famoso consiglio degli indotti di Salamanca. Non avendo potuto persuadere i suoi ostinati colleghi, era pure tornato utile al navigatore genovese, consigliandolo a restare in Castiglia, aspettando una migliore occasione di vincere. Queste cose, che tanto onoravano il Deza, mandò a ricordargli Cristoforo Colombo: ma è da credere che l’arcivescovo di Siviglia non potesse far più, per l’amico, nessuno di quei buoni uffici che aveva fatti il lettore di filosofia del convento di San Domenico in Salamanca. Un altro amico parve la man di Dio allo sventurato Colombo, quando se lo vide comparire in casa, in quella medesima primavera del 1505. Quell’amico era Amerigo Vespucci, che al tempo del terzo viaggio di Cristoforo Colombo al nuovo Mondo, era stato con Alonzo d’Ojeda alle Antille, in quella spedizione che fu il primo colpo dato da re Ferdinando ne’ suoi patti solenni coll’Almirante maggiore del mare Oceano e Vicerè governatore generale delle Indie. La conoscenza di Amerigo Vespucci con Cristoforo Colombo era anche più antica, poichè il Vespucci era stato computista presso il fiorentino Giannotto Berardi, ricco negoziante in Ispagna, il quale appunto aveva dovuto dare una sua nave alla grande spedizione dell’Almirante, allora per l’ultima volta in auge presso la Corte spagnuola.
Di lui scriveva l’Almirante al figlio Diego, il 3 febbraio 1505: “.... Ho parlato con Amerigo Vespucci, latore della presente, chiamato dal re per affari di navigazione. Egli ebbe sempre desiderio di compiacermi; è uomo molto dabbene; la fortuna gli fu avversa, siccome a molti altri; i suoi lavori non gli profittarono come ragione voleva. Parte assai ben disposto per me, e bramoso, se gli è possibile, di fare qualche cosa che mi sia utile. Io di qui non so di che potrei incaricarlo, perchè ignoro che voglia da lui la Corte; egli va, determinato di fare per me quanto gli sarà possibile. Vedi in che può servirmi, e adóprati a questo proposito, poichè egli farà ogni cosa; parlerà e metterà tutto in opera; ma tutto sia segretamente, a fine di non destar sospetti contro di lui. Io gli dissi quello che potei circa le cose mie, e lo informai della ricompensa che mi ebbi ed ho per le mie fatiche„.
La lettera era bella, e doveva infiammare il giovine Diego Colombo di nobilissimo zelo a servire il buon Amerigo, che certo si adoperò per l’amico, e da amico lo servì, dando il suo nome di battesimo a quella parte del mondo, che senza l’ingegno, la costanza, la intrepidità del navigator genovese sarebbe rimasta Dio sa quanto ancora sconosciuta, ma sicuramente di là dagli anni di vita concessi dalla natura al buon messere Amerigo. Non ci ebbe colpa, dicono, nella faccenda del nome; fu un capriccio della gran matta, il giorno che, sollevata un pochino dagli occhi la benda famosa, lesse a caso il nome del Vespucci sopra una carta delle terre di recente scoperte da un altro.
Il quale seguitava ad illudersi; come s’era illuso, quando, ritornate da San Domingo alcune navi cariche d’oro per la Corona, della parte dovuta all’Almirante non portarono nulla, e dovevano esserci per lui almeno settantamila scudi; come quando, essendo mossa questione di far partire per il nuovo Mondo tre vescovi, indarno richiese che fosse ascoltato il suo parere prima di eleggerli. Questa, per altro, era stata ingiuria troppo grave alla sua dignità, e non aveva saputo tollerarla. Infermo com’era, proponendosi di andare a Segovia, dove allora si ritrovava la Corte, a far dimostrazione del suo desiderio di farla finita con tante tergiversazioni indegne di un re, come con tante offese al suo buon diritto, aveva chiesto per lettera il permesso di servirsi d’una mula per il viaggio, non potendo sopportare lo scuotimento del cavallo. È qui da sapere che il troppo frequente uso dei muli aveva fatto trascurare in Ispagna l’allevamento dei cavalli; onde già il re Alfonso XI aveva proibito l’uso dei muli per cavalcatura. Il divieto era stato mitigato in processo di tempo, ma poi rimesso in tutto il suo vigore dal re Ferdinando, che l’andare a dorso di mulo permetteva soltanto agli ecclesiastici, alle donne, ai fanciulli. Incomportabili angherie pei tempi nostri; ma allora un re poteva tutto quel che voleva; e a volere non mancavan pretesti.
La licenza, chiesta da Cristoforo Colombo negli ultimi giorni del 1504, non fu accordata se non il 23 febbraio dell’anno seguente. Il re Ferdinando, evidentemente seccato dall’idea di quella visita, aveva trovata quell’altra rémora, per allontanarsene quanto più potesse la noia. Forse ricordava il proverbio: “piglia tempo e camperai„. Tante cose potevano accadere in due mesi! E ancora fu servito dalla mala ventura del suo Almirante maggiore, a cui le pioggie rovinose di quell’inverno avevano guaste le strade, di guisa che non gli venne fatto di mettersi in cammino se non un mese più tardi.
Il colloquio di Segovia meriterebbe d’esser narrato in disteso. Ma se uno degli interlocutori ci è caro, l’altro maledettamente ci è in uggia. Si sta mal volentieri con lui; si guadagna un tanto a vederlo di scorcio, e passando; specie quando si sa di dover presto ritornare alla sua non lieta presenza.
Cuoceva al re di tante concessioni straordinarie ad un navigatore straniero; concessioni la prima volta già fatte di mala voglia, tra per finirla con un molesto dimandatore, e per la convinzione di non impegnarsi a nulla. Che cosa avrebbe mai scoperto quel promettitore di regni? Qualche altro scoglio in mezzo all’Oceano, da far riscontro a Madera e Porto Santo; nel qual caso un titolo di vicerè contava poco, e si poteva concederlo, in vista d’un bruscolo negli occhi ai Portoghesi, fin allora troppo fortunati vicini. O non trovava niente; e buona notte al titolo di vicerè, come a quello d’Almirante maggiore, che andava a seppellirsi in fondo all’Oceano. E questa, poi, era la saldissima fede di Ferdinando d’Aragona; il quale non aveva apposta la sua riverita firma alle concessioni sullodate, se non per compiacere ad un vero capriccio della regina di Castiglia e Leone, sua magnanima consorte, troppo facile ad infiammarsi d’un disegno che a lui pareva d’imbroglione o di matto. Quelle concessioni maledette, le aveva poi confermate al ritorno del Genovese, non matto nè imbroglione, ma scopritore d’un mondo; le aveva confermate nel caldo di un entusiasmo che per un istante aveva sopraffatto anche lui. Ma il secondo viaggio, con tutte le spese che aveva cagionate, con tutte le speranze forsennate che aveva pel momento deluse, offriva il buon pretesto per scemare allo scopritore una somma di privilegi, che parevano inconciliabili colla maestà del regno. Non c’era ancor l’oro a botti; c’era un mondo da sfruttare; doveva scoprirlo tutto quell’uomo, aver la sua parte di tutto? Di qui la prima violazione dei patti stabiliti con quell’uomo, e la licenza data ad altri scopritori, che già diventavano legione; di qui tutto il resto, che si compendia in un ragionamento crudele, ma semplicissimo: dobbiamo noi lasciare tant’oro ad un marinaio fortunato, che ce ne ha ritrovata la vena? dobbiamo noi lasciare tanti privilegi ad uno straniero, che vuol trattar da pari a pari con noi, per il fatto che ha indovinata una strada sul mare? E qui dubbiezze, che la pronta calunnia convertiva in sospetti; qui malumori che la vigile perfidia traeva ad ostilità; qui facili sdegni e dure risoluzioni, seguite da tardi pentimenti, ognuno dei quali lasciava il suo lievito di rancori nell’animo di chi aveva dovuto mostrarsi pentito, e disposto a render giustizia. Ma il re Ferdinando, diventando a mano a mano più forte nei consigli della mite Isabella, e già in via di allontanarne il cuore del suo infelice protetto, era piuttosto vergognoso che poco desideroso di mostrarsi sleale. E ancora, vivente la regina, si dovevano rispettar certe forme; lei morta, e lui rimasto reggente di Castiglia in nome della figliuola Giovanna, non c’era più ragione di rispettar neppur quelle.
Accolse dunque con fredda cortesia il gran suddito; ascoltò i lagni del suo vicerè ed almirante maggiore, senza dargliene i titoli; venendo al fatto, dichiarò di non potergli rispondere lì per lì, trattandosi di quistioni complesse, e da parecchio tempo malamente intricate. Erano giuste tutte le offese ch’egli diceva esser fatte ai suoi privilegi, con le patenti date ad altri scopritori, ad altri governatori? C’era per tutte queste faccende un Consiglio delle Indie. I re, disgraziatamente, non potevano sapere appuntino ogni cosa, bastando loro di vigilare dall’alto, perchè ad ognuno fosse facile sostener sue ragioni. Don Cristoval sosteneva che il Consiglio delle Indie gli fosse nemico. Come disingannarlo? come sincerarsi che si apponesse al vero? Doveva il re sciogliere il consiglio delle Indie, in tal dubbio, e per una accusa di parte? Non potendo scioglierlo, poteva prender licenza di non rispettarlo? Questioni complesse, questioni intricate; ci sarebbe voluto un arbitro, per vederci chiaro, e proferire un giudizio.
Don Cristoval si appigliò per disperato a quest’áncora di salvezza. Un arbitro, sì, lo accettava. E perchè non sarebbe stato il vescovo di Palencia, testè nominato arcivescovo di Siviglia, ma non ancora andato ad occupar la sua sede? Era lì, sotto la mano, il buon Diego di Deza, dottissimo uomo, savio, e prudente. Parve ottimo anche al re Ferdinando, che con questa trovata aveva l’aria di concedere ogni cosa. Intanto si levava di torno un argomentatore importuno; e guadagnava tempo, che era l’essenziale. Piglia tempo e camperai.
Ma l’arbitro, che era parso a tutta prima un tocca e sana, non rimediava a nulla di nulla. Sarebbe bisognato anzi tutto distinguere, stabilir chiaramente le materie su cui dovesse esercitare la sua autorità. Ferdinando intendeva su tutte; non così l’Almirante. Questi accettava l’arbitro per ciò che riguardava i suoi diritti sull’entrate delle Indie, arretrati da computare, redditi da stabilire pel futuro. E ci fosse anche da dare un taglio, per amor di pace; l’Almirante non voleva piatire per una questione di denaro; che anzi, senza arbitrato, si sarebbe rimesso alla coscienza del re, e solamente accettava l’arbitrato perchè il re non voleva far lui, per tema di apparir giudice e parte. Ma egli, l’Almirante, non poteva egualmente sottoporre ad arbitrato i suoi titoli di vicerè, d’almirante maggiore, di governator generale, coi privilegi annessi e connessi, i quali ancora di recente erano stati offesi coll’invio dei tre vescovi, senza averlo pure consultato.
—Queste,—diceva egli,—sono mie dignità, regolarmente conseguite e guadagnate con l’opere mie a pro’ della vostra Corona. Che se io ne facessi getto, e mi adattassi a rinunziarne solo una parte, lascerei credere di avere in alcuna cosa demeritato del regio favore, o di non esserne stato mai degno. E se io ne son degno, perchè dispogliarmi? La forza può tutto, ed io cederei alla forza; ma potrei appellarmi alla divina giustizia, presso a cui, nella gloria che alle sue virtù era dovuta, siede ora la nostra regina. Che direbbe ella, vedendo così deluso il suo volere e non mantenuti i patti da lei liberamente sottoscritti? Perchè i suoi voleri sian rispettati, non è stata nominata una Giunta degli scarichi?—
Don Cristoval toccava un tasto assai delicato. Castiglia e Leone vegliavano gelosamente alla custodia dei loro diritti. Nel matrimonio della loro regina col re di Aragona si preparava la unione delle due parti di Spagna in un solo reame; ma per intanto, uniti i sovrani, restavano distinti i diritti; nè il regno più vasto voleva essere assorbito dal più piccolo. Morta la regina di Castiglia e Leone, sotto colore di far rispettare gli obblighi che per isgravio di coscienza avesse ella potuto assumere in suo vivente (e qui si vedeva la mano del clero di Castiglia, le cui ragioni di classe si confondevano con quelle della patria dignità) era stata istituita quella Giunta, intitolata degli “scarichi della coscienza regale„, che doveva nel fatto riuscire a freno del re Ferdinando, nel tempo della sua inevitabil reggenza in Castiglia. E quell’uomo ch’era tuttavia così potente per far pesare la sua autorità nelle cose d’Europa, sostituendo nella lontana penisola italiana il predominio spagnuolo al predominio francese, non poteva egualmente far pesare la sua volontà sul reame di Castiglia. Ne era il reggente, finchè non giungesse la figliuola Giovanna, col suo giovine marito, ad assumere la corona d’Isabella; e una giunta de los Descargos teneva infrenato il reggente. Casistica politica dei tempi; e a qualche cosa serviva.
Ferdinando aveva avuto comune con Isabella il titolo di Cattolico; ed era naturalmente devoto. Meglio sarebbe stato aver religione, pensare che ogni promessa è debito, e che ogni debito è sacro. Egli tentò in quella vece di persuadere l’ostinato avversario a recedere dalle sue pretensioni, accettando un gran titolo di nobiltà e un vasto dominio in Andalusia; Carrion de los Condes, niente di meno. Ma Cristoforo Colombo non s’era mosso per ricchezze e per titoli; bensì per l’onore del suo nome, che oramai era vincolato alle dignità conseguite. Ricusò dunque dominii e marchesati; al re Ferdinando non rimase altro che di chinare la testa, passando sotto il giogo de los Descargos. Giogo soave, per altro, e con cui si guadagnava tempo, assai tempo, fin oltre il bisogno. Quel vecchio ostinato, rotto nella salute, non avrebbe mica voluto durar tanto da veder la Giunta degli Scarichi della coscienza regale metter fine ai suoi delicatissimi uffici. Era composta di gran signori, chiesastici e secolari: ferma nell’opporsi alle prepotenze del re su Castiglia e Leone, non poteva sentire ugual voglia di render giustizia ad uno straniero, il quale pretendeva titoli e privilegi non mai ottenuti in tal copia nè con tale pienezza da alcun suddito di Castiglia, di Leone, d’Aragona.
Bene si avvide Cristoforo Colombo, che da quella parte non c’era niente a sperare. Passavano i mesi, e la Giunta studiava ancora, o diceva di studiare. Nè per altra via aveva potuto smuovere il re, quantunque le buone parole non mancassero mai. E giunto così alla primavera del 1505, dopo aver scritto in quel modo che sappiamo al conte Fiesco, suo compagno di gloria, così scriveva desolato ad un altro amico, a Don Diego di Deza, fatto arbitro un istante, ma senza frutto, della sua querela col re.
“Pare che Sua Altezza non estimi a proposito di mantenere le promesse, da lui e dalla regina, la quale or si trova nel sen della gloria, ricevute sotto la lor parola e sotto il loro sigillo. Opporsi al volere di lui sarebbe un lottar contro il vento. Io ho fatto tutto ciò che dovevo; lascio il resto a Dio.„
Indice
Capitolo IX. Spera di sole.
Segovia, nella Vecchia Castiglia, poco distante dalle falde settentrionali della Sierra di Guadarrama, è una città nobile e bella, come tutte le città molto antiche di qualsivoglia paese, che possono piacere e non piacere, secondo i gusti e gli umori, ma che bisogna accettar come sono. A buon conto l’avevano per bellissima i suoi dodicimila abitanti del 1506, tenendosi molto della sua zecca, che era la più vecchia della Spagna; delle sue diciotto chiese, compresa la cattedrale di stile tra gotico e moresco, non meno decorosa del duomo di Salamanca, e provveduta d’un campanile a gran pezza più alto; finalmente del suo Alcazar, saldamente piantato su d’una roccia dominante, antico soggiorno dei re Mori, e per allora della Corte spagnuola, nomade al solito, e già meditante il suo trapasso a qualche città meno antica, forse, ma più adatta a ricevere i nuovi sovrani di Castiglia, il cui arrivo dalle Fiandre si sperava sempre imminente.
L’orgoglio di Segovia era il suo acquedotto romano, di cento e sessantun arco, in due file sovrapposte, tutti di pietre riquadrate e senza cemento. L’aveva fatto costrurre Traiano, come i Segoviani affermavano? Poteva essere; ma in verità non era neanche necessario ricorrere a quel virtuoso imperatore, nato Spagnuolo, per intendere il fatto di quella maraviglia d’arte in Ispagna, essendo nota la imparzialità Romana in materia edilizia, e l’usanza costante di decorare di grandi opere di pubblica utilità ogni parte più lontana del vastissimo impero. L’acquedotto di Segovia non aveva altro torto che di fare tropp’ombra in certe strade della città per cui veniva a passare, tragittandosi dall’una all’altra delle due colline su cui ella era fabbricata, in forma di nave, a cui il fiumicello Eresma faceva uffizio di chiglia. Ma è detto che ogni gloria si paghi; e Segovia pagava la sua gloria a quel modo, come pagava la sua sicurezza antica con un giro di mura turrite, aperte da sette porte, quattro delle quali mettevano ad altrettanti sobborghi. Donde si vede che fin d’allora Segovia non capiva in sè stessa. E faceva mostra d’un’insolita animazione, in quella fine d’inverno del 1506, tra tanti fumi di grandezze cortigiane, quasi non sentendo più il freddo, ignorando perfino di avere tra le sue mura, all’ombra dell’acquedotto di Traiano, un grand’uomo, ma grande davvero, e non di quelli che si distinguevano per classi.
Povero grand’uomo, a sessant’anni già vecchio, mani e piedi rattrappiti dalla gotta, senz’altra energia che degli occhi sfolgoranti, senz’altra gioventù che della bocca, rimasta sempre bellissima! Stava a letto la più parte del giorno, poichè quell’anno l’inverno s’era mantenuto rigidissimo, invadendo anche ed usurpando i principii della primavera; ond’egli, latinista impenitente, soleva dire col suo malinconico sorriso: “ in cauda venenum „. Per poche ore, intorno al mezzodì, alzatosi con grave stento da letto, cercava di reggersi in piedi; per riflessione, diceva, e per avvezzarsi ad uno sforzo maggiore che un giorno o l’altro avrebbe dovuto pur fare. Intorno a lui poca gente: anzi tutto il figliuol suo Fernando, caro adolescente sui diciassette anzi, a cui traluceva dagli occhi la mestizia pensosa di una esistenza già provata alle sventure, e fors’anche il dolore profondo di non vedere accanto al padre venerato una madre ond’egli non aveva avute mai le carezze; indi un uomo di matura virilità, l’Aiace Telamonio d’un’altra Iliade, don Bartolomeo Colombo, uomo di poche parole e di molti fatti, più conosciuto sotto il nome di Adelantado, come a dir podestà, governator di provincia, prefetto; finalmente Geronimo, un marinaio fedele, che faceva i servigi della casa, e troppo spesso non avendo da far nulla, s’industriava a tener vivo con poche legna uno scarso fuoco, insufficiente a riscaldare la cameretta del signor vicerè delle Indie. Che freddo in quella casa! che tristezza, più dura a gran pezza del freddo!
Ma un po’ di calore, un po’ d’allegrezza doveva penetrare anche là dentro. Irrompevano, con un raggio di sole mattutino, tre visitatori inattesi; un cavaliere di bell’aspetto, uno scudiero, un adolescente vestito da mozzo, ma con figura di paggio. Erano venuti con grossa scorta da Barcellona, per la via di Lerida e di Saragozza; ma passata la Sierra di Guadarrama, ne avevano rimandata una parte, per non lasciar troppo scarsa di numero la marinaresca del Paradiso, di quella bella nave che li aveva portati fino a Barcellona, e che laggiù, in quel massimo porto di Catalogna, doveva aspettarli.
Non venivano ad accrescere il numero delle bocche in quella povera casa, dove sicuramente, non che mancasse il superfluo, scarseggiava il necessario. Erano viaggiatori che potevano smontare alla migliore posada di Segovia, e prender magari un palazzo in affitto, se la folla dei gentiluomini e dei servitori di Corte avesse lasciato in quei giorni un posto conveniente a nuovi ospiti. Restando accanto al signor Almirante non sarebbero stati altrimenti a carico della famiglia, dove anzi portavano un po’ d’agiatezza, e per intanto un raggio di sole; raggio benefico insieme e crudele, poichè metteva più in chiaro la nudità desolata d’una casa da poveri.
Alla vista di messer Bartolomeo Fiesco si rianimò, ed anche si commosse vivamente, il disgraziato vicerè delle Indie. Aveva stretta fra le sue braccia la testa dell’amico, l’aveva baciato e ribaciato sulle guance, come un padre il figliuol suo prediletto.
—Che Iddio vi benedica, conte Fiesco!—diss’egli, con voce mezzo soffocata da lagrime di tenerezza.—Ecco, vedete? è il primo raggio di sole che ci risplende, dopo tanti giorni di nuvole. Anche la primavera vuol mostrarsi, ora che voi ci arrivate. Ah, come siete stato buono a muovervi per me!
—Poteva dubitarne Vostra Eccellenza?—rispose il capitano Fiesco.
—Lasciate i titoli;—riprese Cristoforo Colombo.—Non me li dà Ferdinando; potete sopprimerli Voi.—
Non pareva al capitano Fiesco che il discorso del signor Almirante fosse conforme ai sani precetti della logica; e non volle lasciarlo passare senza protesta.
—Ecco,—diss’egli,—il re Ferdinando può molte cose, e potrà anche questa. Ma non possiamo sopprimerli noi, i vostri titoli, noi che vi abbiamo seguito, noi che abbiamo veduto come sapeste meritarli. Tornando a lui, siamo qui sulle terre del Cid; ed è venuto con me frate Alessandro, il quale saprà dirvi in canzone come fosse riconoscente un altro re ad un altro valentuomo.
—Eh, ci pensavo infatti, alla ricompensa che ebbe il valoroso don Rodrigo di Bivar dal suo re don Alfonso;—disse frate Alessandro, accostandosi al capezzale dell’infermo.—Mi astenevo dal parlare, per sentimento di rispetto. Mi permette ora Vostra Eccellenza che io le baci la mano?
—La guancia, buon frate, e siate il ben venuto anche voi;—rispose l’Almirante.—E mi pare, in tanta contentezza, di non sentire già più i miei dolori. Ospiti antichi e molesti, vorranno cedere il posto ai nuovi e cari che la provvidenza m’invia? Mi alzerò certamente un po’ prima del solito. Ma quel ragazzo.... quel giovinetto che è laggiù.... Oh, sarebbe vero? il mozzo Bonito?—
Il mozzo si fece innanzi a sua volta; grazioso adolescente, vestito alla marinaresca, di panni grossolani e mal tagliati, ma dai quali prendeva disgraziatamente più spicco la sua bella faccia vermiglia, inghirlandata dalle indocili ciocche dei capelli neri abbastanza arruffati.
—Sicuro,—diceva intanto il capitano Fiesco,—ecco il mozzo Bonito che avrebbe potuto venire in veste da paggio, ma si è fitto in capo di non indossare altri abiti che questi, per ripresentarsi al cospetto del suo Giocomina.
—Che idea! che idea!—mormorò l’Almirante, mentre, avendo presa la mano del mozzo, se la recava alle labbra, come in altri tempi la mano regale d’Isabella di Castiglia.—Venire fin qua!... tra questa gente.... a rinfrescare certe memorie dolorose!...
—Ha voluto;—rispose il capitano Fiesco;—ha voluto così, e non c’è stato verso di fargli cambiar proposito.
—Ebbene,—sentenziò l’Almirante,—sia fatta la volontà.... delle dame. Non è così che bisogna dire? E vi ringrazio con tutto il cuore, o mozzo Bonito. Perchè qui, naturalmente, l’abito fa il monaco, e non bisogna dir nomi, nè scoprire segreti.
—Così è, Giocomina;—rispose il bel mozzo, arrossendo;—resti il segreto, che mi ha permesso di accompagnare il conte Fiesco. Potevo io lasciarlo venire solo da voi? mentre il mio desiderio più vivo era quello di vedervi ancora una volta, e di portarvi l’attestato della mia gratitudine?
—Gratitudine! da Voi.... mozzo Bonito? E Voi, e i vostri, non avreste piuttosto ragione di maledirmi?—
Così parlava, non senza sospiri, lo scopritore di Haiti, mentre l’immagine di un popolo distrutto si affacciava agli occhi della sua mente turbata.
—Non dite, Giocomina, non dite!—ripigliò il mozzo Bonito, inginocchiandosi alla sponda del letto e prendendo amorosamente tra le sue morbide mani il pugno rattrappito del vecchio glorioso.—Tuttavia vi han reso giustizia, i figli d’Itiba; in Voi tutti hanno venerato un messaggero del cielo. Le vostre intenzioni erano pure; ed io ora posso riconoscere che erano sante.
—Amore vi ha illuminato, o mozzo Bonito, dandovi la conoscenza del Dio unico e vero. Fidiamo in lui;—conchiuse l’Almirante.
—E speriamo, per conseguenza;—soggiunse il Fiesco.—Non è già perduta ogni speranza?
—La speranza è l’ultima a morire;—disse l’infermo.—Ma ce n’è così poca.... così poca!
—Vediamo, signor Almirante; lasciate che ne giudichi anch’io. E per cominciare, permettete che io vi faccia qualche domanda.
—Fate, amico mio, fate; son pronto a rispondervi.
—Da chi aspettate giustizia? dal re Ferdinando?
—È l’unico oramai, a cui mi possa rivolgere, poichè la regina è nella gloria di Dio. Aspetto giustizia, ed egli la nega; giurando di volerla fare, la nega, proponendomi gran dominio e titolo di gran nobiltà in Ispagna, purchè io rinunzi agli uffici, alle dignità che sono la mia proprietà e la mia gloria. Mi sono richiamato alla sua lealtà, ma inutilmente; è uno sleale, quel re. Ho invocata la santa memoria della regina, che non poteva essere offesa col violare le sue volontà, col tradire le sue intenzioni. E così siam venuti al partito di sottoporre la mia querela alla Giunta degli scarichi. Sapete che cos’è?
—Ne ho sentito parlare abbastanza in otto giorni di viaggio attraverso Catalogna ed Aragona;—rispose il capitano Fiesco.—È una giunta che non iscaricherà nulla di nulla.
—È anche il mio pensiero, oramai;—riprese l’Almirante.—E per questo avevo tentato di questi giorni un’altra via, scrivendo a Diego, il mio primogenito. Doveva egli offrire in mio nome a Sua Altezza un patto assai conveniente. Mi tengano pure per straniero; rinunzierò alle mie dignità di vicerè delle Indie, di almirante maggiore dell’Oceano, ma a benefizio del figliuol mio; egli vada al governo della colonia e delle altre terre scoperte da me, assistito da un consiglio di persone scelte tutte quante dal re. A questo patto io non avrei chiesto più nulla; salvato l’onore, nient’altro poteva più importarmi, nessuna ambizione, nessuna vanità, nessuna idea di tornaconto passarmi pel capo.
—Ed egli?
—Ed egli neppur questo ha voluto accettare.
—Nessuno gli ha parlato per Voi, dei potenti amici che vi hanno in altre occasioni assistito? Il Quintanilla? il Santangel?
—Morti!—rispose Cristoforo Colombo, traendo un sospiro;—morti come il cardinale di Mendoza, che fu mio protettore costante, e nella cui bara dovevo io per grande fortuna essere trasportato da Siviglia alla Corte.
—E il nuovo arcivescovo di Siviglia?
—Diego di Deza? È ancor qui, ma inascoltato. Ferdinando lo venera, ma facendogli sentire che non ha da metter bocca in cose di Stato, specie ora che c’è una Giunta degli Scarichi, che ha ufficio di coscienza, e non può essere turbata da raccomandazioni di nessuno. Anche della coscienza si giova, il re Ferdinando, anche dell’altrui coscienza, per offendere la sua propria, per soffocarne le voci.
—Questo è dell’indole sua;—disse Bartolomeo Fiesco;—e servono bene gli scrupoli di coscienza a coloro che non vogliono por mente al più grave, che sarebbe quello di non mettersi in condizione di averne. Ma lasciamo queste sottigliezze, nelle quali si smarrirebbe anche la coscienza del vostro umilissimo servo, quantunque abbia fatto il suo corso di filosofia. I due Medina, che vi erano tanto amici, che pensano?
—Non si mostrano alla Corte da un pezzo;—rispose l’Almirante.—Nè io so in che potrebbero giovarmi, se pure volessero. C’è la Giunta degli Scarichi, oramai!
—E con questa si può chiudere la bocca ad ogni onesta osservazione?—ripigliò il capitano Fiesco.—Io non lo credo; e vo’ farne ad ogni modo l’esperimento.
—Amico mio, in questa speranza mi ero rivolto a Voi, ricordando le accoglienze cortesi, le larghe dimostrazioni di stima che vi aveva fatte il re, tenendovi in quel conto che meritate.
—Sì, come parente di Gian Aloise;—rispose il Fiesco, ridendo.—L’ho ben capito io, il suo giuoco. Gian Aloise è un gran signore, ha voce in capitolo laggiù, ed anche più verso qua, nei consigli del re Cristianissimo. Mostrarsi cortese ai Fieschi era un bell’accorgimento, ed assai naturalmente suggerito al re Cattolico, che correva il rischio di perdere la corona di Castiglia e Leone, se il re Cristianissimo non concedeva la sua amicizia a lui, ma in quella vece a Filippo d’Austria e alla consorte Giovanna. E chi sa? forse ancor oggi Ferdinando può credere la partita non del tutto perduta, ed un Fiesco esser buono ancora a qualche cosa. Vedremo, vedremo;—soggiunse il conte, che pareva riscaldarsi al giuoco anche lui.—Certo, se la parola di un uomo può servire a vincerne un altro, io dirò quella parola. Ma in verità, avrei più fede nell’efficacia d’una parola di donna.
—Di donna! e di qual donna?
—Di una gran donna; d’un miracolo di donna; della donna che vinse per Voi una battaglia campale. Rammentate, signor Almirante?... Quando i vostri alti disegni stavano per naufragare tra gli ostacoli messi avanti dai consiglieri della Corona, e Voi già eravate risoluto di lasciare la Spagna, quella donna, amata dalla regina, andò a chiudersi in un convento, non volendo più uscirne, se la Corona non accettava tutte le condizioni poste da Voi. La bella prova di amicizia si seppe, ed onorò grandemente quella donna nel cospetto del mondo.—
Il capitano Fiesco parlava, e la fronte dell’infermo si era offuscata; gli occhi sfolgoranti si erano ascosi sotto le palpebre; le vivide labbra, ultima bellezza di quel volto, contratte in uno spasimo d'angoscia profonda.
—Beatrice di Bovadilla!—mormorò egli con un filo di voce.
—Sì, la marchesa di Moya;—riprese il Fiesco;—la marchesa di Moya che io vidi a Barcellona, nelle solenni accoglienze che vi erano fatte dalla Corte.
—Tacete, conte Fiesco, tacete per carità!—gridò l’Almirante.—Non toccate una piaga mal chiusa. Per avermi così animosamente protetto, la nobil creatura ha tanto dovuto soffrire!
—Caduta in disgrazia, forse?
—Non già, ch’io sappia, finchè visse la regina. Ella stessa si allontanò dalla Corte, non potendo sempre rispondere con quella sua fiera schiettezza a tutti i miei nemici, che si moltiplicavano ogni dì, guadagnando anche l’animo di coloro.... a cui non si poteva rispondere. Così, sdegnata con tutti, si ritirò nei suoi dominii; ed anche, io penso, sdegnata con sè, col suo nome. Anima eccelsa! Voi non ignorate di qual sangue ella sia; voi ricordate che se una Bovadilla fu l’angelo tutelare della impresa a cui mi ero votato, fu un Bovadilla lo sgherro che mi ribadì le catene ai polsi, quelle catene che non mi abbandoneranno mai più. Voi le metterete nel mio feretro, Adelantado, mio buon fratello; e tu, Fernando, figliuol mio. Me lo avete promesso con giuramento. Io le ritroverò, nel gran giorno; con esse mi presenterò al Giudice eterno....
—Sì, sì, chiunque di noi Vi sopravviverà per disgrazia sua, come per legge di natura, non vorrà dimenticare i vostri desiderii, nè venir meno alle vostre volontà;—rispose l’Adelantado, con burbero accento, che male dissimulava la interna commozione.—Ma ora non vi turbate, fratello mio; sapete pure come ciò vi torni dannoso. E non vogliamo sperar poi che ne sia molto lontana l’occasione?—
Un sorriso d’incredulità sfiorò le labbra dell’infermo; e un moto del capo accompagnò quel sorriso.
—Ah, non la temo;—diss’egli.—Tante volte l’ho vista da vicino, la morte! Ma vorrei vivere quanto basta, fossero settimane soltanto, fossero giorni, per uscirne coll’onor mio, per confondere i nemici del mio nome, e del vostro. Di operare altre cose nel mondo non ho più speranza oramai. Vanno già tutti sulle tracce del Genovese, e trionfano. N’abbiano inni e corone dalla gran mentitrice, e conforto, se possono, nel fondo della loro coscienza. Ma voi dicevate, buon amico....
—Volevo chiedervi se la marchesa di Moya fosse ancora alla Corte. Mi avete detto anticipatamente di no. Nei suoi dominii, avete aggiunto. In quali? Moya, che apparteneva al marito, è in Catalogna. Bovadilla, che appartiene al suo nome, è in Andalusia; ma lontano da Siviglia, mi pare.
—Ed è a Siviglia, la nobil signora;—rispose l’Almirante;—ma non nel castello de’ suoi padri. Per quel ch’io ne so, dovrebb’essere nel suo ritiro prediletto, fra le monache di Santa Chiara.
—Bisogna parlare a lei, muover lei;—disse il Fiesco.
—Lei? ci pensate? per vincere il re?
—Il re, o la regina;—replicò il Fiesco prontamente.—Lascio stare il re, a cui pensate Voi, e che per ora, se è re in Aragona, non è altro che un reggente in Castiglia e Leone. Sappia dunque Vostra Eccellenza che i denari del viaggio da Barcellona a Segovia non me li sono spesi troppo male, e del mio tempo ho usato con un certo giudizio. Alle posadas ho discorso con ogni sorte di gente, popolani e signori, e preti e frati, e monache e soldati. C’è un’altra querela in campo, che al re Ferdinando pare assai più grave della vostra, e che per lui certamente è più fiera. Essa era già forte negli ultimi giorni di vita della regina Isabella, a cui si voleva persuadere di lasciar reggente in Castiglia il re suo marito, finchè giungesse alla maggiorità il figliuolo di Giovanna. Era un bel colpo, che escludendo dal trono la figlia e il suo giovane marito, assicurava ancora un quindici anni di regno a danno della figlia e del genero. Ma la regina non ha voluto fare quest’offesa a sua figlia; non ha voluto con un atto simile di materna crudeltà ribadire alla povera Giovanna il nome di pazza, che i cortigiani di Ferdinando non si son peritati di affibbiarle. Nel fatto la povera Giovanna non è pazza se non d’amore per il suo maritino troppo bello. Gran colpa! anche Isabella si ricordò di aver amato il suo Aragonese, credendolo tutt’altro da quello che ben presto si palesò, astuto, bugiardo e senza cuore. Ma lasciamo stare gli aggiunti, che a far le cose in regola dovrei dargliene troppi. Sta il fatto che la regina non acconsentì al disegno di una reggenza prolungata in quella forma; e fece bene; e la nobiltà e il clero di Castiglia hanno avuto un’altra occasione di lodare il gran senno della regina Isabella, come l’amor suo intelligente per il popolo che Dio le aveva concesso in governo. Lei morta, e fallito il colpo della lunga reggenza, Ferdinando non si adatta alla breve: tenta il re di Francia, che a lui, non al genero Austriaco, assicuri la propria alleanza; un’alleanza che Ferdinando farebbe tosto balenare davanti agli occhi di Castiglia, per trarla ai suoi desiderii.
—E a far riconoscere pazza la figliuola, non è vero?—domandò l’Almirante, che seguiva con molta attenzione il ragionamento del capitano Fiesco, tanto largamente istruito in viaggio.
—Così è, signor Almirante. Ma il re di Francia sta sul tirato; dà buone parole a Ferdinando, come Ferdinando a Vostra Eccellenza; nel fatto non vuol rendere un così grande servizio al suo caro rivale di predominio nelle cose d’Italia. Ed ecco un giuoco doppio, che forse si prepara per noi; o persuadere al re Luigi di concedere la sua alleanza al re Ferdinando, come più vecchio, e più da lui sperimentato in tanti incontri, piacevoli e spiacevoli che fossero; o persuadergli di riconoscere Giovanna e Filippo, legittimi sovrani di Castiglia, ed allearsi con loro. Dell’accordo con Ferdinando avrebbe forse buone ragioni il re Cristianissimo, se davvero non vuol contesa col re Cattolico nelle cose del reame di Napoli, e se questi non gli fa ostacolo nelle cose di Lombardia.... e della nostra povera Genova. Ma per render possibile un tale accordo, bisognerebbe che persona amica, in cui re Luigi molto si fida, mettesse una buona parola.
—Gian Aloise?—domandò l’Almirante.
—Lo avete detto, messere;—rispose Bartolomeo Fiesco.—Ma questa forse è la via più lunga; la più breve, per noi, sarebbe quella delle Fiandre.
—Lontane!—osservò l’Adelantado.
—Eh, pur troppo; fin che gli sposi regali stanno laggiù, non regnano qui, e c’è poco da sperarne, anzi nulla. Ma io ho anche sentito dire che si dispongano a calare in Ispagna. Forse l’inverno così lungo, e non largo che di fortunali nel golfo di Biscaglia, è cagione del loro indugio a risolversi. Ma pensate, messeri, se Giovanna di Castiglia viene ad occupare il trono di sua madre, che novità potranno essere per tutti! Ella sola può sgravare la coscienza regale, senza mestieri d’una Giunta che par fatta a posta per guadagnar tempo al re d’Aragona, e che del resto, vagliando minutamente ogni atto della defunta regina, cercherà sempre di intenderne l’animo con tutte le restrizioni possibili. Per me, il miglior modo di sgravar la coscienza regale è quello d’intenderla nel suo senso più largo, rispettandone gli atti, mantenendone le promesse. E sarà questo per la nuova regina il miglior modo di onorar la memoria di sua madre, mostrandosi degna di lei.
—Questo dovrebbe essere;—notò l’Almirante.—Ma sarà?
—Dobbiamo sperarlo; dobbiamo esplorar l’animo della nuova regina, se è risoluta di occupare il suo regno. E chi più forte sull’animo suo della marchesa di Moya, che fu dama d’Isabella, ed ha conosciuto Giovanna bambina? Beatrice di Bovadilla, che sa tutto, può istruirla di tutto.
—Ma non vorrà la nuova regina mostrarsi troppo ligia a suo padre?—domandò l’Adelantado.—Almeno sui principii del regno?
—Questo non crederò io;—rispose il Fiesco.—Troppe ragioni dividono la figlia dal padre, ricordi d’offese antiche, ed offese recenti. Volete Voi che Giovanna s’inchini ai voleri di suo padre, ne sposi i rancori e ne faccia sue le vendette, rammentando ch’egli voleva farla apparire incapace di regnare?—
Bartolomeo Colombo chinò il capo, assentendo. Se la nuova regina appariva in Castiglia, niente era perduto. Anche il signor Almirante riconosceva la giustezza di quella argomentazione; e riaprendo il cuore alle più vive speranze, dimenticava ad un tratto i suoi mali. Non è salute di corpo senza gioia di spirito: dove questa risplende, se ne illumina l’altra, e rivive.
—Avete ragione;—diss’egli.—Giovanna sola può render giustizia.
—Si parli dunque a Beatrice di Bovadilla;—riprese il capitano Fiesco.—Se la nobil signora si rammenta di ciò che ha fatto per Voi, non vorrà certamente lasciar l’opera sua incompiuta.
—Ahimè! si rammenterà ella?—esclamò l’Almirante, traendo un sospiro.—Dopo quelle catene, ella non mi ha più riveduto; nè io ho cercato di avvicinarla.
—V’intendo, messere; si frapponeva tra Voi e donna Beatrice la torbida figura dello sgherro. Ma credete Voi che Beatrice di Bovadilla potesse mutarsi da quella di prima perchè il suo indegno fratello vi faceva una guerra codarda quanto feroce? Avevate Voi offeso quell’uomo, perchè l’onor della casa facesse tacere nel cuor suo le voci dell’antica amicizia?
—Ben dite;—ripigliò l’Almirante.—E Voi certamente la giudicate com’ella si merita, la mia buona protettrice. Ma dopo tanti anni passati!... Anch’io, trattenuto da tante paure, non ho più osato presentarmi a lei. La morte orribile di quell’uomo ne fu anche cagione. Pure, Iddio mi è testimone che io avevo fatto quant’era da me, per la salvezza di quell’uomo, che era suo fratello, e cristiano.
—Iddio lo vide, e quanti avevano orecchi a San Domingo lo seppero;—aggiunse il Fiesco.—Lo seppero, prima che i loro occhi vedessero la tempesta da Voi annunziata imminente. Ciò che fu saputo e visto laggiù, non rimase ignoto in Castiglia; ne è giunta notizia anche a lei, non dubitate.
—E sarà stato il mio premio;—ripigliò Cristoforo Colombo.—Ma da lei non mi venne una parola; e il tempo, che passa su tutte le cose umane, avrà cancellato dal cuore della nobil signora anche il nome del marinaio Genovese.... dell’Almirante del mare Oceano;—soggiunse egli, abbassando la voce, e fremendo involontariamente al ricordo.—Chi lo richiamerà alla mente di lei?
—Io, signore;—rispose il capitano Fiesco;—io che ebbi l’onore di parlarle, dopo il primo e dopo il secondo viaggio. Vorrà ricordarsene, spero, non essendo io l’ultimo degli uomini, e il nome dei conti di Lavagna potendo essere un buon passaporto al più umile della casata. Andrò dunque io, col mozzo Bonito, se egli vorrà accompagnarmi;—aggiunse egli sorridendo.—E glielo consiglio con tutta l’anima, poichè la più nobile creatura del nuovo Mondo avrà occasione di conoscere la sua più degna sorella del vecchio.—
Sorrise il mozzo Bonito, stringendosi con atto modesto al petto del suo dolce signore. Sorrideva anche il sole alla domestica scena, mandando un raggio più vivo nella povera stanza, che parve per un istante una reggia; e gli occhi dell’Almirante sfolgoravano di gioia.
—Voi recate la primavera con Voi, mozzo Bonito;—diss’egli.—Non ho mai visto così bello il sole, dacchè sono arrivato a Segovia. Iddio ha condotto qui il nostro amico; Iddio m’aveva bene ispirato a chiamarlo.
—Iddio ne assista sulla via di Siviglia;—conchiuse il capitano Fiesco.—La giornata è buona; ringraziamolo intanto di questa.—
Indice
Capitolo X. “Soy Bovadilla„.
Siviglia, la bellissima Andalusa, è lontana da Segovia un buon tratto. Intercedono due catene di montagne, la Sierra di Guadarrama e la Sierra Morena; ma dall’una all’altra corre tutta la Nuova Castiglia, con le valli del Manzanare, del Tago e della Guadiana, con le città di Madrid, di Toledo, di Ciudad Real e Calatrava. Inoltre, varcata la Sierra Morena, non si può dire di essere a Siviglia, poichè c’è ancora da toccar Cordova, e da seguitare per molte miglia il corso del Guadalquivir, tortuoso fiume se altro fu mai. Viaggio lungo, adunque; assai lungo in quei tempi, che bisognava farlo a cavallo; più lungo per il capitano Fiesco, che aveva gran desiderio di far presto.
Per fortuna, ed aiutando alla fortuna la previdenza del cavaliere, egli aveva ritenuta con sè una parte degli uomini che lo avevano accompagnato da Barcellona a Segovia. I lunghi viaggi erano resi allora più difficili dalla poca sicurezza delle strade; onde, a cansare i cattivi incontri, bisognava andar bene accompagnati, ed armati di tutto punto. Non accadeva nulla; e si poteva anche dire “precauzioni inutili!„ a viaggio finito. Ma erano state appunto le precauzioni inutili, quelle che avevano tenuto lontano il pericolo. Ora il capitano Fiesco, che viaggiava volentieri da solo, non credeva di aver troppa compagnia con cinque uomini di scorta, compreso il frate scudiero, perchè conduceva con sè il mozzo Bonito, luce degli occhi suoi, come si diceva in Italia, anima dell’anima sua, come si diceva in Ispagna. E il capitano Fiesco, per non usar preferenze, diceva spesso e volentieri in un modo e nell’altro.
Beatrice di Bovadilla viveva ritirata presso le monache di Santa Chiara, dove già una volta, quattordici anni addietro, era andata a rinchiudersi, in un impeto di generoso sdegno per la guerra sleale che si faceva al promettitore d’un mondo. Viveva da gran signora, come avrebbe fatto in ognuna delle sue terre, ma contentandosi di poche stanze, per sè e per le sue donne di servizio; piccola noia dopo tutto, e mancanza di spazio nemmeno avvertita. La gran dama, quanto è più dama, ed ha più vasto il palazzo, più vive ristretta nel suo quartierino, nel suo salotto, nel suo oratorio, nella sua cameretta da lavoro, dov’ella pensa e sogna, assai più che non lavori d’ago o d’uncino.
Nè faccia maraviglia il ritorno della nobil signora al convento, per una dimora che pareva fissa oramai. Accadeva spesso a que’ tempi che donne d’alto casato si ritirassero ne’ conventi, per farvi a modo loro una vita monastica. Benemerenze antiche o nuove, legati, largizioni, protezioni costanti delle grandi famiglie a questa o a quella corporazione religiosa, rendevano ligio l’ordine ai suoi potenti patroni, e men severa la regola verso gli ospiti illustri, che cercavano nelle mura del chiostro la pace dell’anima, quella pace che il mondo non ha mai data a nessuno, e insieme colla pace vi guadagnavano la illusione d’esser fuori del secolo. Vedove, nubili, orfane d’insigne casato, vi riparavano come colombelle a rifugio, quali disfatto il nido, quali non fatto ancora, o disperando, o disdegnando di farlo.
Di là dentro la marchesa di Moya aveva sfidati i nemici dell’uomo che l’amor suo aveva preconizzato Almirante dell’Oceano; ed anche, con quell’esempio di costanza, aveva insegnato fermezza alla sua regale amica e signora, Isabella di Castiglia. Là dentro era tornata a rifugio, dopo la morte di don Giovanni Cabrera, marchese di Moya e gentiluomo di camera del re Ferdinando. Mal maritata al vecchio soldato, che in lei aveva veduto uno strumento alla sua ambizione di cortigiano, male adatta alla vita di corte, che sempre più, in processo di tempo, le era occasione di sdegno per tante ingiustizie, di nausea per tante viltà, la nobile Beatrice di Bovadilla aveva portate là dentro le sue tristezze, coll’amara voluttà di raccontarle a Dio, ascoltatore benigno, consolatore augusto d’ogni orgoglio ferito, d’ogni ambizione offesa, d’ogni amore deluso, che lascia intravvedere di là dal santuario, tra nuvole d’incenso e luccichio di candele, uno spiraglio del suo paradiso, gloria inaccessibile ai tristi, calma solenne, perdono ineffabile, bella vendetta sull’ingiustizia e sulla viltà della terra.
Il capitano Fiesco non ebbe più difficoltà d’entrare e di ottenere udienza, che non ne avesse incontrata quattordici anni prima don Alonzo Quintanilla. Anch’egli, il conte di Lavagna, e il suo mozzo Bonito, aspettavano di veder comparire la marchesa alla grata; ma anche per essi un uscio di fianco si aperse, e Beatrice di Bovadilla apparve nella sala. Bella ancora, quantunque presso a quei cinquanta, che più per le donne non si contano a primavere, ma disgraziatamente ad autunni! Qualche filo d’argento screziava i neri capelli, che le uscivano in lucide ciocche di sotto alla tocca di raso nero, orlata di trinette d’oro; ma per vedere l’argento bisognava cercarlo, e di cercarlo non poteva venire il desiderio in mente, tanto era fresca la carnagione e scevra di rughe, tanto nere le sopracciglia, tanto lucenti gli occhi nerissimi, tanto vermiglio il fior delle labbra. La volontà si scolpiva in quelle sopracciglia; la intelligenza lampeggiava in quegli occhi; la bontà sorrideva da quelle labbra fiorenti. Gran dama sempre, quasi regina, con la sua lunga veste di velluto operato, il cui color nero appariva gentilmente attenuato dal bianco della gorgieretta e dei polsini di tela di Fiandra, era tale da destar l’ammirazione divota di chiunque la vedesse, e da mettere in vena di sonetti il più misero e stentato tra i poeti d’allora. Il frate scudiero, a buon conto, avrebbe messo mano alle canzoni, di cui sempre aveva ingombro il cervello, e sfrombolata questa quartina per saggio:
Nobil donna in negra tocca,
In gramaglia vedovil,
Per un bacio di tua bocca
Daría ’l regno Boabdil.
Ma il frate scudiero, allora più scudiero che mai, non era entrato in convento; vegliava in istrada, aspettando gli ordini del suo grazioso signore. Beatrice di Bovadilla non ebbe dunque i suoi versi; ebbe per contro l’ammirazione dei due visitatori. Uno dei quali, essendo a lei noto, ottenne la stretta amichevole di una bella mano, che divotamente baciò; l’altro, in quella vece, la cui fine bellezza adolescente troppo contrastava con l’abito modesto del marinaio, ebbe un’occhiata curiosa, ed anche un po’ diffidente.
—Siamo in viaggio, signora;—disse il Fiesco, a cui non era sfuggito l’atto della marchesa di Moya;—e Vostra Mercede mi perdonerà, se non ho voluto rinunziare a questa fedel compagnia. Ho l’onore di presentarvi il mozzo Bonito, come si chiama ora in Ispagna, come si chiamò per alcuni mesi di viaggio, dalla Giamaica all’Europa. Son cose, queste, che ad una gentildonna pari vostra si possono confidare, soggiungendo che il mozzo Bonito.... è donna, e si chiama Juana contessa del Fiesco.
—Volevo ben dire!—esclamò la marchesa, avvicinandosi con molta ed affettuosa premura.—Mozzo Bonito, voi siete tanto bello, da non poter ingannare del vostro sesso la gente. Bisognerebbe esser ciechi! Ed io vi consiglio, signora contessa, di ripigliare la vostra veste di donna, od altrimenti di tingervi il viso e le mani.
—La prima cosa non si può fare, signora marchesa;—rispose il finto Bonito;—e mio marito ve ne direbbe le ragioni, se fosse d’alcun pregio il conoscerle. La seconda l’avrei fatta ben io, ma col dispiacere di restare alla porta del convento. Venire a Voi col viso tinto di carbone o di pece!... che cosa avreste detto di me?
—Niente, bel mozzo; ma capisco che avrei avuto il dispiacere di non potervi baciare, come ora farò, se permettete, donna Juana mia dolce. Non ho più grazia, essendo morta la mia gioventù; ma di bellezza m’intendo ancora, e so apprezzarla dov’è. Che bei fiori dà sempre l’Italia, il giardino d’Europa!
—Sempre, ben dice Vostra Mercede; ma questo è nativo delle Indie;—rispose il capitano Fiesco;—delle Indie scoperte da Voi.—
Beatrice di Bovadilla era rimasta colpita da quell’accenno al fior delle Indie, che mal s’accordava con una bellezza affatto europea; e già stava mentalmente accozzandolo coll’altro accenno al viaggio del mozzo Bonito dalla Giamaica all’Europa. Ma l’ultima frase del conte Fiesco doveva trarla ad un’altra forma di maraviglia.
—Da me!—esclamò la marchesa.—Che dite!
—Il vero, mia signora;—rispose prontamente il Fiesco, volgendo il discorso al punto che più gli premeva.—Se Voi non eravate, se il vostro alto patrocinio non assisteva il mio grande concittadino Colombo, sarebbe ignota la terra dove è nato il mozzo Bonito, e il mare tenebroso custodirebbe i suoi gelosi segreti.
—Sarà mia gloria;—rispose con bella semplicità la marchesa di Moya;—ed io sento qui tutto l’orgoglio che Voi mi concedete di assumerne.
—Non io solamente, signora; è il pensiero costante di don Cristoval. “Senza l’aiuto di quella donna sublime, sarei rimasto oscuro ed inutile uomo„; son queste le parole ch’egli mi diceva ancora sei giorni fa, nel triste tugurio dov’io l’ho ritrovato a Segovia.—
Al ricordo di don Cristoval il volto della marchesa di Moya si era rannuvolato, e il vivido sguardo nascosto sotto le palpebre. Ma le ultime parole la scossero; si dischiusero gli occhi, e tutto il volto si atteggiò ad espressione di doloroso stupore.
—In un tugurio, Voi dite? Molte nuove giunsero qui, del grande Almirante; non questa, ch’egli fosse in angustie. Non è egli presso la Corte?
—Presso la Corte, sì, e in un tugurio. A lui fu sempre destino passare accanto alle grandezze, e trascinare la sua gloria nel fango della strada. Ricordate? la sventura è con lui. Che ricompensa abbia ottenuta dei suoi maravigliosi servigi, non ignorate di certo; nè come sia ritornato dal quarto viaggio, donde ha recata la certezza di tant’oro quanto basterebbe a saziare l’avarizia di dodici Ferdinandi d’Aragona; nè come duri la slealtà, che lo ha spogliato delle sue rendite e delle sue dignità; nè come, essendo morta la regina, gli sia venuta anche meno la speranza di ottenere quando che sia la giustizia, che, nobilmente ostinato, continua a domandare. Delle rendite perdute non si duole, più che un uomo di gran cuore non abbia a dolersi di un furto patito: ben si duole delle sue dignità, de’ suoi titoli, così nobilmente acquistati com’erano liberamente concessi, di vicerè governatore delle Indie ed almirante maggiore dell’Oceano. A questi non rinunzia; questi egli vuole; questi domanderà fino all’ultimo soffio di vita. Non lo ascolteranno gli uomini? Commetterà le sue ragioni, aspetterà le sue giuste vendette dal cielo. Ma Iddio, che è fonte di giustizia, Iddio che ha versato un giorno il tesoro della sua pietà nel cuore di una donna sublime, non ispirerà questa donna perchè si muova ancora una volta a soccorso del grande sventurato? Egli non ha bisogno di pane. È qui finalmente un suo vecchio ufficiale, un suo buon servitore, che farà il debito suo. Ma questo suo ufficiale, questo suo concittadino, è straniero, e non può nulla presso la Corte.—
La marchesa di Moya era stata ad ascoltare in silenzio, ma non senza sospiri, e con gli occhi pieni di lagrime.
—Ahimè!—diss’ella.—Beatrice di Bovadilla non ha più potere presso il re, poichè la regina è nella gloria di Dio. Non lo sa, questo, il signor Almirante?
—Lo sa, mia signora; e non voleva che per questo io venissi a pregarvi. Ma io gli ho detto che la giustizia dee farla chi regna sulla Castiglia. E sulla Castiglia non regna il re d’Aragona.
—V’intendo: ma chi dovrebbe regnare sulla Castiglia è lontano ancora da noi.
—Amore e pietà non conoscono distanze; e Beatrice di Bovadilla potrebbe....
—Perchè vi fermate?—domandò la marchesa.—Perchè, se volete consigliarmi di andare? Non è un bell’esempio, questo che Voi mi date;—soggiunse, mettendo nella tristezza di quella conversazione la timida nota d’un sorriso.—Andrei, non dubitate; andrei volenterosa, ad ogni preghiera che mi venisse da lui. Ma per questa volta non sarà necessario andar tanto lontano come Voi proponete. Ho notizie; notizie sicure; e restino qui tra noi, ve ne prego, come la ragione per cui la contessa Juana del Fiesco diventa in Ispagna il mozzo Bonito.
—Conoscerete il mio segreto;—disse Juana.—Non dobbiamo averne con Voi.
—Ma non sia come prezzo del mio;—replicò Beatrice.—E il mio sappiatelo subito. La regina e il re di Castiglia stanno per muoversi.... dalle Fiandre (diciamo così), cedendo ai voti di tutto il reame. Nessuno ancora lo sa; il re Ferdinando, che ne ha timore, crede che la probabilità sia ancora lontana; spera ancora negli amori di Francia; e frattanto va trasportando le tende dall’una all’altra città della Vecchia Castiglia, per amicarsi il popolo, se gli riesce, e scongiurar la tempesta. Da Medina del Campo a Segovia; da Segovia ritornerà indietro a Valladolid; da Valladolid a Burgos; poi, chi sa dove? Tanto ha paura di perdere il giuoco del regno! Questo sappiate per vostro governo, com’io l’ho da persona amica, che ha veduto Giovanna. Ma non ne dite nulla; resti chiuso con sette sigilli.
—Anche con l’Almirante dovremo tacere?
—Sì, anche con lui;—disse la marchesa di Moya.—E non per lui, s’intende, ma per gli altri che lo avvicinano.
—L’Adelantado suo fratello!—notò il Fiesco.—Il suo figliuolo Fernando!
—Ah, il suo Fernando!—esclamò la marchesa.—Caro innocente bambino, che ho tenuto in collo ancor io, come una nutrice; che ho veduto crescere in bellezza e gravità superiore agli anni, quando era paggio alla Corte! E non c’è altri in casa? nè uomini, nè donne?
—D’uomini sì, un vecchio marinaio, pei servigi di casa, che veramente son pochi;—rispose sospirando il capitano Fiesco.—Di donne, poi, neppur l’ombra. La casa del signor Almirante è un convento di Certosini.—
La marchesa di Moya rimase un istante sovra pensiero; poi scuotendosi ripigliò:
—Non importa; resti egualmente un segreto per lui, quel che vi ho confidato. È anche necessario per l’utile suo. Se anche fossimo sicuri che nessuno commettesse un’imprudenza, dobbiamo premunirci contro il pericolo che dal suo volto trasparisca troppa fiducia, e si trasfonda negli altri. Ferdinando è sospettoso, e sempre agli agguati; che almeno egli non sospetti il vero da una maggior sicurezza delle sue vittime.
—Ho inteso;—disse il capitano Fiesco.—Bisognerà parere più contriti e più umiliati che mai. “ Cor contritum et humiliatum Deus non despiciet „ direbbe il mio scudiero, che ho lasciato in istrada ad attendermi, e che è, indegnamente com’egli dice, un frate francescano. Porterò almeno il vostro saluto al signor Almirante?
—No, vi prego, neppur questo.
—Perchè, se è lecito domandarlo? C’è un segreto anche qui? Una nube, se mai, che sarà bene dissipare. Tra i nobili cuori non ce ne dovrebbero essere.
—Dite bene; ma la nube non c’è.
—Il segreto, dunque? Lo rispetteremo.
—Sì, un segreto; ma è quello del mio cuore, e voglio dirvelo. A voi solo, conte Fiesco, non avrei osato confessarmi, e neanche al vostro francescano, che pure, se sta con Voi, dev’essere un brav’uomo. Ma c’è qui tra noi una donna, che mi dà coraggio; che certe cose può intenderle, e darmi anche ragione. Parlerò dunque: ma voi ditemi prima una cosa. Perchè siete venuto a me, facendo a bella posta un così lungo viaggio da Segovia a Siviglia? Vi ha forse egli detto....
—Che siete sempre stata la sua protettrice. E questo io già lo sapevo.
—Ed altro non vi ha detto di me? Ed altro non sapevate Voi?
—No;—disse il Fiesco, che si era turbato un pochino.
Ma c’era tanta asseveranza in quel no, e tanto candore negli occhi del gentiluomo, che la marchesa di Moya non ebbe più ombra di dubbio, e prendendogli la mano ch’egli stava per mettersi sul petto a testimonio della sua fede, ripigliò in questa guisa:
—Vi credo. Del resto, il segreto mio non era tale per nessuno, alla Corte, nè quando il nostro amico partiva, nè quando fu ritornato dal suo portentoso viaggio nell’ignoto. Ho amato don Cristoval; lo amo ancora, come il mozzo Bonito deve amar Voi.
—Oh, bella sincerità!—gridò il mozzo Bonito in un impeto di ammirazione.
—Sei tu così sincera, Juana?—disse Beatrice di Bovadilla.—Allora siamo sorelle. Ti piace?
—Mi è caro; ma bada,—rispose Juana,—nella mia patria questi patti di fratellanza si suggellano sempre col cambio d’una goccia di sangue.
—Così anche faremo, se sarà necessario;—riprese Beatrice.
E tenendo sempre la sua mano in quella di Juana, così continuò, rivolgendosi al conte:
—Ho amato don Cristoval, ed ho avuto il bell’ardimento di confessarglielo. È così bello amare un uomo, stimandolo primo per ingegno, per lealtà, per valor vero e per vera grandezza, che è quella dell’anima! Nessun amore al mondo è stato più puro del mio; ma l’ho gridato ai quattro venti, come se fossi io la padrona del suo cuore. Non ero tale, pur troppo! Quel cuore s’era dato ad un’altra, non degna di possederlo. Notiamo per la storia,—soggiunse la marchesa, accompagnando le parole con un lampo degli occhi, donde traluceva la memore superbia d’una celebrata bellezza,—che ciò era stato prima di conoscermi; ed aggiungiamo che già quella donna aveva preso ad odiarlo, disconoscendolo. Tu intenderai queste cose, Juana. L’odio di quella donna cominciò insieme con una nuova vita, che ella sentiva agitarsi nel suo seno. Arcani del sangue, ha detto il gran medico Villalobos, a cui ne ho domandato più tardi. Rispettiamo gli arcani, aspettando che altri Villalobos li chiariscano alle generazioni venture. Quanto a me, appena seppi di quella donna, andai a cercarla; non ebbi pace fino a tanto non potei ritrovarla, per pregarla di ritornare a don Cristoval.
—Tu hai fatto questo, sorella?—disse Juana.
—Sì, non era il dover mio?—chiese Beatrice.
—Vederlo è d’anime grandi, se mai;—rispose Juana, inchinandosi.—Bacio nella tua mano l’anima tua.
—Ed anche il mio orgoglio, bada;—replicò Beatrice.—Perchè questo non manca mai, e guasta un pochino la tua Bovadilla. Non volevo l’amor suo intorbidato da un ricordo nemico. Pensavo ancora che quell’uomo era grande, e più grande sarebbe divenuto; onde volevo esser grande ancor io. Avrei desiderato che quella donna persistesse nella sua avversione; ed ho usata tutta l’arte mia, tutta la mia pertinacia, tutta la mia eloquenza per vincerla. Dovevo esser lieta della mia sconfitta, non ti pare? E non fu così: n’ebbi dolore; anch’io m’ero inebriata della mia magnanimità. Fino all’ultimo, sai? Don Cristoval partiva, e là sulla spiaggia di Palos incontrai quella donna. Va, le dissi, prendi una barca, raggiungilo, è tempo ancora per te di riconquistare il tuo posto onorato. Ricusò, la disgraziata: e perchè? Questo io non so, nè l’ho domandato al dotto Villalobos.
—Amava un altro, forse;—entrò a dire Juana.
—L’ho bene pensato. Certo, un altro amava lei, e per lei faceva pazzie; mio fratello don Francisco Bovadilla, commendatore di Calatrava. Fu riamato? Sfruttato, sì, certo, da bisognosi parenti; ma se ne ricevette un grazie, si potrebbe anche giurare che una stretta di mano più calda dell’usato non accompagnasse quel grazie. Io lo argomento dall’ira che don Francisco serbò sempre viva contro don Cristoval. Rammentate con quale accanimento perseguitasse egli il suo rivale fortunato? rammentate le catene di San Domingo? Ah, le orribili catene, che hanno stretti i polsi dell’uomo grande e giusto!... E fu un Bovadilla, lo sgherro!...
—Calmatevi, signora!—disse il capitano Fiesco.—Il signor Almirante dubitò sempre di aver perduta per quel fatto la vostra protezione. E ricordava spesso e ricorda ancora che a don Francisco, se questi avesse voluto ascoltarlo, avrebbe salvata la vita. Di questo fui testimone, e potrei star mallevadore ancor io.
—So anche questo;—rispose la marchesa.—E gli ostinati nemici dell’Almirante gli han fatto colpa anche di questa magnanimità. Non era tempo da tempeste, sentenziarono; l’Almirante sapeva di non esser creduto; perciò ha fatto il magnanimo a buon patto. La tempesta, piuttosto, la tempesta non doveva egli chiamare, con le sue arti di negromante? E andate a persuadere gli stolti, quando i tristi hanno parlato! Nè io mi dolsi per la morte di don Francisco, se non perchè portava il mio nome. Che dovesse finir male glielo avevo predetto io, senza aver arte di magia più del signor Almirante; glielo avevo predetto io medesima, dopo ch’egli era andato ad accusarmi al marchese di Moya. Bei fratelli, non vi pare? Ma torniamo a don Cristoval. Io piuttosto avevo dovuto temere ch’egli si fosse troppo volentieri dimenticato di me, per cagione della mia parentela dolorosa. Ed anche debbo dirvi dell’altro, che più mi stava sul cuore? Ero dolente, scorata, avvilita, di vedermi trattata così male da lui. Male, sì; non è un male la freddezza, la noncuranza e la fuga? Ed egli ha sempre sfuggita questa povera Bovadilla lebbrosa! Come?—continuò la bella marchesa di Moya, animandosi ai ricordi, e corrugando le nerissime ciglia.—Io l’amo, e son pronta al sacrifizio più grande che possa fare una donna innamorata, di cedere l’amor mio ad un’altra. Costei ricusa; io non ne ho colpa; e quell’uomo dovrebbe esser mio nella pura fede delle anime; dovrebbe darmi il premio che ho meritato, il premio d’una schietta parola; qua la tua mano nella mia, e camminiamo puri, baldi, sereni nel mondo, ed altrettanto sicuri, io di te, tu di me. Così la povera Bovadilla intendeva l’amore. Così non l’ha inteso l’Almirante del mare Oceano. Si può dir qui, tra gente che l’ama, e che nessun altri ci senta, ch’egli è stato in ciò molto minore di sè stesso, cedendo a piccole paure, a più piccoli scrupoli?
—Non vi rivolgete al mozzo Bonito;—disse il conte Fiesco, tentando anch’egli di mettere nel doloroso colloquio una nota men triste.—Egli non vi saprebbe rispondere, non essendo nato in Europa, nè educato dalla prima adolescenza alle leggi, alle consuetudini, ai riguardi del nostro mondo decrepito e saggio. Piccole paure? V’intendo; col vostro gran cuore non ce ne sono; e molta altezza di sentire, e il rispetto che meritate, potevano tenervi guardata come in una rocca inaccessibile. Ma egli, che ha l’anima grande, poteva temere di non aver così forte il cuore, e di non poter resistere alla violenza di un sentimento, che noi tutti sappiamo come sia indomabile. Qual uomo potrebbe giurare, amando davvero, di non varcare certi confini? E allora, vedete, le piccole paure ingigantiscono, gli scrupoli assalgono, e non sono più piccoli. Si pensa alle ciarle assassine del mondo, e si teme per la donna virtuosa, fino a quel giorno onorata, che l’amor nostro, eccedendo nelle sue dimostrazioni, che la sua divina bontà, non vedendo i pericoli, potrebbero in un momento offuscare. Io non so nulla di ciò dal signor Almirante; conosco l’anima sua, e giurerei che ha pensato così.—
Beatrice di Bovadilla stette alquanto in silenzio; segno che sentiva la forza dell’argomentazione. Ma non era vinta; ma non aveva vuotata la sua faretra.
—Il marchese di Moya morì;—diss’ella finalmente, senza alzar gli occhi verso il suo interlocutore, e come proseguendo un suo ragionamento interiore.—Cessavano gli scrupoli del leal cavaliere. Bovadilla era sempre Bovadilla; rimaneva alla Corte, e vedeva ogni giorno il paggio Fernando, che già tanto somigliava a suo padre. I maschi per lo più matrizzano; quello no, era tutto l’Almirante; e Bovadilla lo divorava con gli occhi, come se fosse stata essa sua madre. Vi ho detto che il mio terribile orgoglio era diventato sforzo di non averne più. L’Almirante tornava dai suoi viaggi: misurato, severo, studioso di tutti i suoi atti. Intesi i riguardi, dopo il secondo viaggio; ancora viveva Giovanni Cabrera, nostro signore e padrone. Ma dopo il terzo!... dopo le catene!... Ah, gloriose catene, che del grand’uomo facevano un martire! gloriose catene, che avrei baciate, e diventavano sacre, com’è sacro il bacio della donna che ama! Oh, non mi dite nulla; non ci dovevano esser nubi, tra noi; nè io dovevo aver parenti, per lui; non ne avevo avuti, assistendolo contro tutti. Quel suo contegno fu un colpo atroce al mio cuore. Egli ama quella donna, pensai; nè più questo pensiero mi uscì dalla mente; l’amo ancora, e don Francisco non è più; egli ritornerà a quella donna. Che cosa avvenne? non so. Il favor della Corte gli veniva mancando sempre più: nè io osai farmi avanti non chiesta. Incominciavo a credere ancor io che fosse un delitto, mettermi tra lui e la Enriquez. La religione, a cui chiedevo conforti, mi sgomentava anch’essa colla imagine dei diritti dell’altra Beatrice. Ah, quella donna! è qui, nella mia vita, come un pugnale nel costato; e non mi uccide, ma geme di continuo la sua goccia di sangue nero. E quella donna è l’errore, com’era già la perfidia: son io, Fernandez di Bovadilla, son io la donna di don Cristoval, io che l’ho gridato Almirante del mare Oceano, prima, assai prima, che altri gli concedesse quel titolo, il più bello che uomo abbia portato mai sulla terra. Pensateci, conte Fiesco, voi che lo conoscete a prova, quel mare. L’Oceano, il grande, il terribile Oceano; e comandato da lui, che lo aveva domato, mentre da migliaia d’anni tutto il mondo ne aveva avuto paura! Moglie dell’Almirante, avrei fatto tremare molta gente, che rialzava più baldanzosa la testa. Vivente la regina, avevo saputo persuaderla ben io, che quell’uomo non era un avventuriero, e non covava il tradimento nell’animo. Questo infatti si perfidiava di lui. Voleva dare le Indie al Portogallo! le voleva dare a Genova, per vendicarsi di Spagna! Tutti avevano sentito; tutti avevano veduto; avrebbero posta la mano sul fuoco. Non era egli sempre a segreti conciliaboli con Francesco Rivarola e con Francesco Grimaldi, con Francesco Doria, con Pantalino ed Agostino Interiani?
—I suoi amici compassionevoli;—interruppe il Fiesco;—i suoi soccorritori nelle angustie, in cui lo avevano messo le angherie degli Aguadi, degli Ovandi.... e degli altri.
—E lo immaginavo ben io. Ma come chiuder la bocca a tutti? Anche lei, la buona Isabella, doveva qualche volta porgere orecchio a tante accuse, che venivano d’ogni parte al suo trono. E ne piangeva, ora credendo, ora discredendo. Sai, Bovadilla? mi diceva. Anche questo si dice; se mi fossi ingannata sul conto del tuo Genovese!... Mio! anche Vostra Altezza le crede? È così poco mio, che non mi guarda nemmeno.
—Ma egli,—notò il Fiesco,—vi temeva mutata troppo per lui!
—E se mai?...—ribattè la marchesa.—Non dovevo apparir tale, mentre egli seguitava a tacere? L’obbligo mio era di non attraversarmi alla Enriquez, di lasciargliela sposare. Non accennava a questo disegno, la sua deliberazione di togliere il paggio Fernando dalla Corte, levandomelo dagli occhi? E perchè non chiamare con sè il primogenito, destinato un giorno a succedergli, e perciò meglio indicato ad un viaggio d’esperimento, che gli facesse conoscere il suo futuro governo? Questa considerazione non l’avete fatta anche voi, signor conte?
—Un caso;—rispose il Fiesco;—un caso e non altro. Fernando aveva manifestato il desiderio di accompagnare suo padre. Era un ragazzo studioso, per l’indole sua meno adatto alla vita del cortigiano. E su questa semplice apparenza avete fondata la vostra argomentazione, donna Beatrice? e siete giunta fino a credere l’Almirante pacificato colla Enriquez? con una donna, che era diventata una immagine? con una immagine svanita e dimenticata?
—Dov’è ora quella donna?
—Non so; certo non è in Segovia; certo non l’ha egli riveduta dalla vigilia del consiglio di Salamanca. Son diciott’anni passati.
—I diciott’anni del mio tormento!—esclamò la marchesa.—E lunghi, lunghi, troppo lunghi per questo povero orgoglio!—
Povero orgoglio davvero, che si stemprava in un pianto dirotto. Pianse lungamente, la nobil signora, col viso nascosto tra le palme. E la contessa Juana, fattasi più presso a lei, con atti amorosi la veniva accarezzando, la baciava in fronte, le afferrava le mani, per distoglierle da quel viso; e consolandola de’ suoi baci, beveva silenziosa le lagrime della sua sorella europea. Sapeva anch’essa, la bella figlia d’Haiti, che le lagrime fan bene, ma a patto che chi ci ama s’intenerisca con noi.
A poco a poco donna Beatrice si riebbe; rasciugò le sue lagrime, levò la fronte e disse:
—Che rimedio ci vedete voi, conte Fiesco?
—Rimedio? a che? ad uno stato di cose che quella donna ha voluto? Quella donna l’ha offeso; è fuggita da lui; ha perfino rinnegata la sua creatura. Che ci volete fare? Tanti anni sono passati oramai! Cade un edifizio, per qualsivoglia cagione, folgore, incendio, tremuoto. Si può vedere a tutta prima la necessità, la utilità di salvarlo. Ma quello che non si è veduto prima, si vedrà forse più tardi? Sulle vecchie rovine crescono i cardi, i rovi, le ortiche; tra le vecchie rovine si appiattan le serpi, e fischiano irritate al viandante. Si gira largo, e si edifica altrove; o non si edifica più in nessun luogo;—conchiuse il Fiesco, sospirando.—Povero signor Almirante! la vecchiezza è venuta precoce su lui.
—Ma il figlio?... come rimarrà egli, povero innocente?
—Il figlio, se ha senno, accetterà la sua sorte, che è bella ancora, e val meglio di quella che sorride a tant’altri. Non è egli stato ammesso a Corte, come già il figlio legittimo di donna Filippa Mogniz? Un decreto sovrano ha nobilitato quel ragazzo, e cancellato il vizio d’origine. Vizio, poi!... I tempi nostri non mi paiono fatti per badare a certe inezie. Una sbarra nello scudo, in vece d’una banda o d’una fascia, ecco tutta la differenza. La illegittimità non ha impedito a nessun valoroso di diventar cavaliere, conte, principe e re. Più illustre è la macchia, più porta in alto; e potrei citarvi esempi a migliaia, antichi e recenti. Lasciamo dunque il pensiero di voler aggiustare le cose che non richiedono di essere aggiustate, e sopra tutto di cercar quella donna. Che sarà poi diventata? D’un altro, senza dubbio; e chi sa? forse contenta, fors’anche felice.
—Lo saprò;—disse la marchesa, con gesto risoluto.—Devo saperlo. Ed anche mi ha maledetta, sulla spiaggia di Palos, mentre io tentavo una seconda volta di ricondurla a lui. Ella vedrà pur troppo come abbia fruttato la sua maledizione. Oggi stesso uscirò dal mio ritiro. Ma non ho se non donne, al mio servizio; un uomo mi manca.
—Per che fare?
—Per essere il braccio della mia volontà. Non debbo cercare? non debbo trovare, e subito? Lo avete voi, quell’uomo?
—Ho il frate scudiero, di cui vi parlavo poc’anzi, e che ci aspetta in istrada.
—Che uomo è?
—Forte e coraggioso, accorto e leale.
—Datelo a me; ve lo renderò presto.
—Sia, ma per la regina Giovanna?...
—Lasciatemi fare; per Giovanna, che è ancora.... lontana, arriverò sempre in tempo. Voi ritornate a Segovia; e se, giunto là, com’io ne sono sicura, la Corte non ci sarà più, andate a Valladolid, dove si sarà trasferita. Anche questo lo so di buon luogo. Vi fa maraviglia? Pensate che Santa Chiara è di Castiglia, e per Castiglia; e sa tutto, e partecipa a tutto. Voi dunque non dubitate, poichè a me siete venuto per il signor Almirante; nè a voi nè a lui mancherà il mio povero aiuto. Egli ha seguita la Corte fin qui; la segua ancora, perchè io possa ritrovarlo. Addio, contessa Juana; addio, sorella, e contate su me, se anche non è stato fatto ancora il cambio del sangue. Soy Bovadilla;—conchiuse la nobil signora, mettendosi solennemente la destra sul cuore;—una cosa, entrata che sia qua dentro, non n’esce più; se ho dato questo, l’ho dato per sempre. Amami, e aspettami.—
Indice
Capitolo XI. Invito a palazzo.
Israele aveva levate ancora una volta le tende. La marchesa di Moya si era dunque apposta al vero, dicendo al capitano Fiesco che la Corte sarebbe passata di quei giorni da Segovia a Valladolid. Sappiamo le ragioni politiche di quegli spessi tramutamenti; dobbiamo anche conoscere come e perchè se ne avesse così pronta la notizia nel convento di Santa Chiara a Siviglia. E non solamente in quello, ma in tutti i conventi di Castiglia. Era il tempo che la politica degli stati la facevano i vescovi e i grandi ordini religiosi, padroni dei re, nel nome istesso di una autorità superna, che innalzava e sbalzava di seggio i potenti. E i re, si capisce, non potendo fare in casa tutto quello che volevano, se ne ricattavano fuori, con le guerre di predominio e di conquista, l’alto clero non disapprovando la supremazia militare della nazione a cui pur esso apparteneva, e potendo mandare le ragioni dell’amor patrio di pari passo con quelle del tornaconto di classe. Così il cattolico re Ferdinando, libero di accrescere la potenza spagnuola in Italia, dov’egli trasferiva alla Spagna le pretensioni dinastiche della casa d’Aragona, non era altrimenti libero di fare in tutto a suo modo nelle terre di Castiglia; e più ancora si sentiva le mani legate dopo la morte della moglie Isabella. Bene cercava egli di prolungarsi la reggenza sui dominii della morta; ma da quei dominii, ostinate nella sostanza quanto rispettose nella forma, resistevano le autorità da tanti secoli stabilite, dell’alto clero e del basso, vescovi e capitoli, abbazie, priorati, parrocchie e monasteri.
Anche i conventi di donne partecipavano a questo lavoro di resistenza: e ciò s’intenderà facilmente, chi pensi che negli ordini monastici erano allora numerosissime le figliuole delle grandi famiglie del regno, famiglie a cui pure appartenevano i magnati del clero, alleanza naturale di nobiltà religiosa e di nobiltà militare; e che delle personali rinunzie al mondo le nobili claustrali si ricattavano, anch’esse partecipando largamente alle ambizioni delle casate dond’erano uscite, e di cui serbavano, se non in tutto il fasto mondano, certamente il ricordo e l’orgoglio.
A quei centri di vita monastica affluivano, da quei centri si diffondevano le notizie politiche utili a sapersi da ogni classe di aderenti. Le vaste possessioni degli ordini religiosi favorivano il continuo viavai dei razionali, dei vicarii, dei gastaldi, tramutati in messaggeri. Il servizio delle poste pubbliche era in mano delle università; quello delle poste segrete in mano dei conventi. E non poteva dirsi una distinzione, ma piuttosto una affinità di uffici, poichè nelle università primeggiavano i frati, come maestri di teologia e d’eloquenza, di diritto canonico e civile, di filosofia, perfino di medicina.
Ritornati a Segovia, Bartolomeo Fiesco e il mozzo Bonito seppero avvenuto ciò che a Siviglia avevano udito imminente. Da cinque giorni la Corte si era trasferita a Valladolid, nell’antico reame di Leon, lasciando nel mezzo Medina del Campo, dov’era morta Isabella, e avvicinandosi a Burgos, la capitale antica dei conti di Castiglia, e la patria del Cid Campeador. Burgos, a cui si avvicinava Ferdinando, era anche la città del pericolo per lui. Di laggiù, infatti, doveva avanzarsi Giovanna, se mai si fosse risoluta di lasciare le Fiandre e di approdare alla costa di Biscaglia. Ma egli, da Valladolid, risalendo da levante la gran valle del Duero, aveva nella fida Aragona la sua ritirata strategica. Perchè egli viveva in istato di guerra, tra tutte le apparenze della pace; ed era guerra di ambizioni personali e di diritti dinastici tra il padre e la temuta figliuola. Pazza la dicevano a bassa voce, e sarebbe piaciuto a lui che pazza fosse gridata a larghi polmoni: ma più pazza era, e più si doveva temerne il troppo sollecito arrivo. Ah quei nobili Castigliani, così superbi e così ostinati! Non c’era dunque verso di tirarli dalla sua?
Cristoforo Colombo aveva seguitata la Corte. Il capitano Fiesco seguitò dunque il suo viaggio, muovendo lungo il corso dell’Adarà, fino alla pianura insalubre di Medina del Campo; di là passato il Duero, proseguì fin dove l’Esgueva, umile tributario, si getta nel Pisurga. Era finalmente a Valladolid, la opulenta città, che ancora non possedeva i centomila abitanti a cui giunse sotto Carlo Quinto, ma che aveva già tre volte e più i ventimila a cui è ridiscesa nei tempi nostri. E già allora Valladolid era fiorente d’industrie, famosa pel suo studio di giurisprudenza, orgogliosa del suo Campo Grande, vastissima piazza, fiancheggiata da diciassette conventi, dove già con grande concorso di popolo si arrostivano Mori ed Ebrei, a maggior gloria di Dio misericordioso. Da ventisei anni era stato legalmente riconosciuto e diffuso il Sant’Uffizio nella felicissima terra di Spagna.
Il capitano Fiesco, che pur non era di tenerissima fibra, torse gli occhi da quella piazza che doveva costeggiare passando, e dove appunto si stava rizzando un gran palco di legname per l’ auto da fè del giorno vegnente; il mozzo Bonito rabbrividì, correndo involontariamente col pensiero agli orrori della piazza di Xaragua, dove ottanta cacichi erano stati bruciati sotto i suoi occhi; ed anche di un’altra piazza a San Domingo, dove per lui era stato rizzato il palco ferale.
Avevano preso lingua per via; e non era stato facile ritrovare subito la dimora del Vicerè delle Indie. Chi conosceva a Valladolid un vicerè delle Indie? Per fortuna s’erano imbattuti nel servo Geronimo, che li aveva condotti in una via fuori mano e mezzo campestre, dove sorgeva una casa di povera apparenza, quasi una masseria di campagna, con un gran portone pei carri, un pianterreno cieco, un piano superiore di poche finestre non grandi, nè tutte in fila, e un secondo, che prendeva luce più scarsa da quattro o cinque finestrini sotto i rozzi modiglioni del tetto. In quella casa era andato ad ospizio il vicerè delle Indie, presso un marinaio, Gil Garcìa, che, avendo riconosciuto il suo Almirante, non aveva voluto lasciargli cercare alloggio più oltre.
—Forse lo trovereste migliore;—aveva detto il buon Garcìa;—ma stancandovi nella ricerca. E pensate, mio signore, che se la casa è povera, neanche a Valladolid son ricchi i cuori di chi possiede i palazzi.
—Gil Garcìa, tutto il mondo è paese;—aveva risposto l’Almirante.—E Valladolid è una gran capitale, se ha la tua casa per reggia.—
La fatica del viaggio non aveva troppo stancato il signor Almirante; e il capitano Fiesco, entrandogli in camera, lo ritrovò seduto sul letto in una di quelle alcove di cui gli Arabi avevano dato il nome e l’uso alla Spagna, donde uso e nome passarono poscia all’altre parti di Europa. Come già parecchi giorni innanzi, l’infermo si rianimò alla vista dell’amico; e non sentì più i suoi dolori, udendo le nuove del colloquio che questi aveva avuto con la marchesa di Moya.
Il Fiesco, naturalmente, non gli riferiva appuntino ogni cosa. Più che dalla raccomandazione del segreto, si sentiva trattenuto dal timore di rallegrar troppo il grande sventurato. Voleva, se mai, ragionarne prima coll’Adelantado, dicendogli delle cose segrete almeno quel tanto che fosse mestieri, per farne buon uso ad ogni opportunità. Espose in quella vece all’Almirante come la marchesa di Moya gli fosse amica immutata ed immutabile; vedendo poi quanta letizia si diffondesse sul volto dell’ascoltatore, non tacque le confessioni che la nobil Beatrice di Bovadilla gli aveva fatte così spontaneamente, senza puerile ritegno. Impacciato si sentiva egli piuttosto a riferire quelle calde parole: ma per fortuna il viso aveva abbastanza celato nella penombra dell’alcova, poichè, stando seduto presso la sponda del letto, dava le spalle alla luce; ond’ebbe più coraggio a dir tutto.
Don Cristoval appariva trasfigurato da quel tiepido soffio di buona ventura. Gli si tingevano di vermiglio le gote; gli sfavillavano gli occhi; un sorriso della sua balda gioventù gli sfiorava la bocca bellissima. Qual miracolo si operava sotto gli sguardi del buon messaggero! e qual altro maggiore non si doveva egli aspettare, dagli sguardi della pietosa amica?
—Lasciatemi pensare;—disse l’Almirante.—È un’ora ben lieta, questa che voi mi portate.—
E pensò, mentre quell’altro rimaneva silenzioso a contemplarlo; pensò lungamente, sorridendo ai suoi pensieri, che tramutati in immagini parevano sprigionarsi dalla sua fronte, sciogliendo il volo tutto intorno e facendo risplendere come un lembo di cielo l’aria rinchiusa della malinconica alcova. Dunque ella non l’odiava? L’ombra di quel morto non aveva offuscata la immagine di don Cristoval nel cuore di Beatrice? Dunque ella era sempre Bovadilla, la pietosa, la soave Bovadilla, ogni cui detto, ogni cui gesto, anche imperioso, recava l’impronta della bontà, perchè lo aveva informato un senso d’amore? Ah, dolce cosa, e balsamo divino ad ogni angoscia patita! E che orribil tormento sarebbe la vecchiaia, la turpe, la paurosa vecchiaia, se non potessimo vivere qualche volta del nostro passato, chiamarlo a rassegna, goderne col pensiero, anche togliendo alle cose vissute i troppo chiari e vigorosi contorni? Il vecchio fu giovane; amò, fu amato; e quel ricordo, che è la sua beatitudine, è ancora la sua gloria. Per quell’amore egli compì grandi cose, o gentili, memorabili sempre; per quell’amore si sentì fatto migliore, sorrise alla vita, fu buono alle creature che gli stavano intorno. E passano davanti agli occhi i lampi di quelle giornate lontane; e figure da gran tempo obliate trascorrono in quella luce, animando la scena. La bella donna che si amò tanto forte, si muove in quel piccolo mondo, gloriosa e serena, sorridente della sua giovinezza; e par che non guardi, par che non veda nulla intorno a sè; ma voi sentite l’onda magnetica del suo sguardo, che giunge a voi, che tutto v’involge, e v’inebria. Ah, lampi maravigliosi! spiragli divini di un dolce passato! Il quadro luminoso si scolora ad un tratto, e la visione si spegne; ma può ancora riaccendersi, può ancora colorirsi; e di quelle fugaci apparizioni si vive. Triste cosa, che, morti noi, spariscano anch’esse per sempre, nè possa più altri goderne! Attimo di eternità che dilegua; ciò che fu, ritorna nella notte delle cose che non furono mai. Perciò qualche volta la visione lascia un senso di dolore nell’anima. L’amaro è nel dolce; e fors’anche ha mestieri di quel senso d’amaro, per aver vita, e coscienza di sè stesso, il piacere.
Anche il capitano Fiesco pensava. Come sono maravigliosi questi vecchi, che serbano ancora tanta gioventù dentro l’anima! Ed ancora, che altezza di sentire in quest’uomo! Non fa egli ricordare i bei versi di Dante? “E se il mondo sapesse il cor ch’egli ebbe, mendicando la vita a frusto a frusto, assai lo loda, e più lo loderebbe„. Amato dalla più bella creatura del reame di Castiglia, ha rinunziato a quell’amore, che poteva essere il suo premio, ben superiore a tutte le fortune, a tutte le dignità della terra. Virtù, certamente; virtù, che dobbiamo coltivare in noi, come un fiore divino! Ma questa virtù non è dato condurla oltre i confini della umana natura; ed egli non si salvò dalla forza indomabile della passione se non colla fuga. Avrebbe un certo Damiano saputo fare altrettanto, ai tempi suoi, consule Planco? È vero che Damiano non era un santo; non n’ha mai avuta la stoffa, con tanti cardinali e un paio di papi in famiglia!
L’Almirante ruppe finalmente il silenzio, e insieme con le meditazioni sue cessarono quelle un po’ meno alte del suo reduce amico.
—La marchesa verrà, mi avete detto?
—Sì, messere, e presto. Ma silenzio, per carità; non si deve sapere prima del fatto; non si deve averne sospetto.
—E parlerà essa a Ferdinando?—
Qui il capitano Fiesco si ritrovò un pochettino impacciato a rispondere.
—Eh, lo immagino;—balbettò.—Vissuta tanto tempo a Corte, non passerà dov’è la Corte senza rimetterci piede.
—E perchè non è venuta con voi?
—Che so io? che debbo dirvi, messere?—rispose il Fiesco, più impacciato che mai.—Mi ha parlato vagamente di certe cose, che la trattenevano ancora. Hanno sempre tanti impicci, le donne! e non tutte, per cavarsi d’impicci, hanno l’arte e gli abiti del mozzo Bonito. Credo ancora che avesse da sbrigare un negozio più grave. Ma neppur questo mi ha detto, quantunque non fosse un segreto, poichè mi ha pregato di lasciarle il frate scudiero. Le servirà di scorta in viaggio;—soggiunse il capitano, felice di aver trovata una gretola, e scappando da quella.—A mezza monaca mezzo frate, non vi pare? Badiamo, dico così per dire; che il mio scudiero è frate, con tutti i tre voti. Ma egli pare così poco un frate, vivendo sempre fuor di convento! Come le ha, le dispense? non è il caso che se le pigli da sè?
—Dovreste saperne voi qualche cosa, che lo conducete pel mondo;—osservò l’Almirante, sorridendo.—Ma non bisogna credere che frate Alessandro manchi al precetto dell’obbedienza. Non facciamo sospetti temerarii, e crediamo che abbia la sua brava licenza in tasca.—
L’Almirante era allegro, e celiava, come ne’ suoi giorni più belli. Un’ondata di buona ventura entrava nella povera casa di Gil Garcìa; bisognava approfittare del vento; e don Cristoval, che si sentiva rinfrancato, volle vestirsi. Mentre il marinaio Geronimo lo aiutava in quella bisogna, il capitano Fiesco scese in cortile a discorrere coll’Adelantado. Con lui non poteva menare il can per l’aia; anche senza dir tutto, doveva aprirsi con lui della prossima venuta della marchesa di Moya, e del tentativo ch’ella si proponeva di fare. Per non mancare alle promesse sue, bastava non dire che la nuova regina di Castiglia era aspettata alla coste di Spagna. Restava, e bastava, che l’arrivo ne fosse sperato, per giustificare il passo di donna Beatrice. Dopo tutto, anche di quel poco che si lasciava uscir di bocca, il capitano Fiesco raccomandava il segreto alla conosciuta prudenza dell’amico; il quale a sua volta ne riconobbe tutta la importanza gelosa.
—Dicevo bene!—esclamò Bartolomeo Colombo.—Dicevo bene, se la marchesa di Moya veniva proprio a parlare col re. Non è lei, l’antica dama di palazzo della mite e generosa Isabella, che potrebbe commuover le viscere al marito di Germana di Foix. E notate che io avevo già mulinato il disegno di rivolgermi a questa, per chiedere il suo patrocinio. Sposa novella, pensavo, avrà potere sul maturo consorte, e potrà usarne a nostro vantaggio. Ma ho dovuto rinunziarci. La bionda reginetta è qui come un pesce fuor d’acqua. Già molto è se la tollerano, questi signori Castigliani, cedendo alle raccomandazioni del virtuoso Ximenes.
—Il confessore della morta regina!—esclamò il capitano Fiesco.
—Ma sì; lo vedete, il confessore di quella santa, costretto a raccomandare la calma, a far mandar giù, come uno zuccherino, quella profanazione del talamo reale? E non ha aspettato che si raffreddasse la povera salma, il cattolico re! Appena era passato l’anno, e la nuova regina passava i Pirenei. Ma che cosa non fa fare la maledetta cupidigia del regno? Basta,—conchiuse lo sdegnoso Adelantado,—io non ci ho niente da vedere, nè da spartire: il cardinal di Toledo riconosce il male, e s’ingegna di ricavarne il bene. Signori miei, dice egli ai nobili di Castiglia, abbiamo pazienza un po’ tutti; pensiamo che Germana di Foix, la graziosa nipote del re Cristianissimo, ci porta in dote la rinunzia dei Francesi a tutte le terre che possedevano ancora nel reame di Napoli.
—E che Consalvo avrebbe potuto riprendere senza sforzo;—notò il capitano Fiesco.—Ho anche sentito dire che per quella rinunzia del Cristianissimo, il Cattolico si obbliga di pagargli in dieci anni settecentomila ducati d’oro.
—Vero;—rispose l’Adelantado.—Per contro restano liberi dalla prigionia i baroni di quel regno, che avevano militato in favore del Cattolico. E di rimpatto,—soggiunse sarcasticamente,—è levata la confisca fatta contro coloro che avevano seguitato il partito francese. Sicchè, vedete, non si sa bene chi più ci guadagni. Questo rimane, per altro, che il Cattolico deve pagare settecentomila scudi d’oro, farsi amare da una sposina francese, e tollerare dalla nobiltà castigliana. Grattacapi non gliene mancano, adunque; ma ci pensi lui. Il guaio per noi è questo solo, che in tanta confusione n’andiamo di sotto. Perchè, s’intendano o non s’intendano, contro di noi sono tutti, Castigliani ed Aragonesi, ben risoluti di non farci giustizia.
—E il virtuoso Ximenes?
—C’è la Giunta degli scarichi; così dice egli a chi gliene parla. La Giunta degli scarichi è il suo grande argomento. L’ha inventata lui, difatti, per le questioni di Castiglia; e gli pare che sia la man di Dio. Con questa, egli ha scaricato anche la sua stessa coscienza. Poveraccio, finalmente! ha tanti carichi sulle spalle, che qualche volta mi vien voglia di compatirlo. Sapete, mio caro Fiesco, che io non l’ho con questa gente; l’ho colla nostra cattiva stella, che ci ha condotti qui, a piatire da vent’anni con un bugiardo, ad inghiottire ogni sorta di amari bocconi. Il mio grande fratello non vuol che si dica; e per rispetto a lui sto zitto. Ma qualche volta la pazienza dà di fuori, come se fosse una pentola. Se si dava retta a me, o con Francia, o con Inghilterra, sarebbe stato un altro paio di maniche. Ripeto e torno a dire: poichè il male è fatto e non si muta, venga Giovanna, e sia l’ultimo tratto di dadi. Di questo, poi, si potrà toccarne all’Almirante, quando sia il momento. Mi pare che una lettera alla regina dovrà scriverla anche lui. Per ora non conviene dir nulla. Quella sua gotta, o artritide che sia (sapete che i medici non sono neanche d’accordo sull’indole del suo male) può aggravarsi di schianto, con ogni commozione un po’ forte; tanto che io non gli ho neppur detto una cosa, che ora mi torna a mente. Vedete che smemorato! Ma anch’io ci perdo la testa, con tanti pensieri. E si tratta appunto di voi.
—Di me?—chiese il Fiesco.
—Sì, di voi, che il re Ferdinando ha mandato a cercare.
—A cercar me? e come sa che io dovessi arrivare?
—Cioè;—ripigliò l’Adelantado,—maravigliatevi ch’egli sapesse del vostro arrivo a Segovia; perchè là vi ha mandato a cercare, e non qui. Due giorni dopo ch’eravate partito per Siviglia, venne da noi il dottor fisico Villalobos, l’Esculapio di Corte. Che degnazione, non vi pare? Credevo che fosse stato cortesemente mandato a visitar mio fratello; ma quello era l’ultimo pensiero del sommo Villalobos. Si contentò di qualche domanda, e non chiese neanche di vederlo. Mi chiese invece, così di punto in bianco: è giunto da voi altri il signor conte di Lavagna? Sì, gli risposi, non avendo ragione di nasconder la cosa, nè parendomi savio negarla. Sua Altezza, ripigliò, lo vedrebbe molto volentieri; rammenta sempre di averlo ricevuto due anni fa, al suo ritorno dalla Giamaica; è un amabile cavaliere, e Sua Altezza, che ama molto gl’Italiani, sarà felice di riceverlo. Risposi, naturalmente, di non poter fare così presto l’ambasciata; voi esser venuto in Ispagna per vostre ragioni d’interesse, e solo per l’amicizia vostra col signor Almirante aver mandata innanzi agli affari una visita a Segovia, ma subito esser partito per Cadice, che ne sapevo io? per Granata, o per Malaga, avendo da incontrare certi mercatanti e banchieri del vostro paese. Infine, alla bell’e meglio ho cucite insieme le mie quattro bugie, come un altro Ferdinando; con questa differenza, che le mie erano molto innocenti, sicuramente meno gravi delle sue. Ho soggiunto, s’intende, poichè n’ero richiesto, e non volevo apparire bugiardo poi, che sareste tornato ancora, dopo sbrigate le vostre faccende, a prendere i comandi dal vostro veneratissimo capo, e che in tale incontro vi avrei avvertito del desiderio di Sua Altezza, tanto onorevole per voi, tanto caro, tanto lusinghiero, e chi più n’ha ne metta.—
Il conte Fiesco cascava dalle nuvole: cascava, cascava, e non toccava mai terra.
—Che diamine vorrà egli da me?—chiese egli, stupito.—Parlarmi dell’Almirante, mentre lo ha qui sotto la mano?
—Oh, non credo che si tratti di ciò;—rispose l’Adelantado.—Per quanto gli piaccia mentire, mostrandosi mondo di colpe, puro come un agnellino, di nient’altro dolente che delle esorbitanti pretensioni del signor Almirante Colon, egli non manda di sicuro a cercar la gente a cui versare nel seno le sue giustificazioni.
—Allora?
—Allora, mio caro, voi siete il conte di Lavagna.
—Così poco, don Bartolomeo, così poco, che quasi non m’avviene di ricordarmene; e qui, nella gloria del vostro immortale fratello, meno che mai, ve lo giuro.
—Ma conte di Lavagna restate. E m’è entrato in testa che il re Ferdinando, abbandonato da tanti gentiluomini di qui, vada in busca dei più illustri d’ogni terra. Non siete voi anche nipote di quel Giacomo, che mezzo secolo fa è stato vicerè di Napoli? Ferdinando li conosce, i grandi nomi d’Italia; e vi vorrà alla sua corte.
—Io! starei fresco;—scappò detto al capitano.—Più fresco ch’io non sia già per l’antico soprannome degli avi;—soggiunse, ridendo al bisticcio che gli fioriva spontaneo dal labbro.
—Eppure, chi sa? da cosa nasce cosa....
—E il tempo la governa, volevate dire? Ma non è da uomini gravi almanaccare, quando ci vuol poco a saperne l’intiero.
—Certo, bisognerà andare; e più presto andrete sarà meglio. Non volevate già chiedere udienza, tentando di fare, come dicevate, il vostro giuoco doppio? Ecco che l’occasione vi si presenta; anzi vi è venuta incontro.
—Amico,—rispose il capitano Fiesco,—pensavo bene di destreggiarmi a quel modo, avendo poca sicurezza da una parte e dall’altra. Ora, dopo il colloquio di Siviglia, mi pareva che il meglio fosse di non far più nulla qui, aspettando tutto di Fiandra.
—E neanche a Valladolid sarà male vedere;—ribattè l’Adelantado.—Non foss’altro, per esser ben certi che non c’è nulla da sperare. Di nulla infatti vi parlerà, se non gliene entrate voi stesso. Vi vuole a Corte, credetemi; son volpe vecchia, e gioco che c’indovino.
—Io poi son volpe giovane;—disse di rimando il capitano Fiesco;—ed ho buone gambe, per andargli lontano mille miglia. Gioiosa Guardia mi è troppo cara, e non ci voleva meno di una lettera del signor Almirante, per trarmene fuori. Ma questi non è un re.
—E neanche un vicerè, se i re si rimangiano la parola e la firma;—soggiunse l’Adelantado.—Povero fratello! Io non ho la sua dottrina, nè vedo in certe cose più in là d’una spanna. Egli pensa all’onor suo e del suo nome, e combatte. Io, al posto suo, avrei già mandato tutti e ogni cosa all’inferno. Aver scoperto un mondo nuovo, non è gloria bastante? Si va magari a piantar cavoli, come fece Diocleziano, dopo aver governato l’antico.
—Che non meritava neanche questa scesa di testa;—aggiunse il capitano, spremendo il sugo di tutta la filosofia che aveva imparata nello Studio pavese.
Ma sì; che ubbìa era quella del signor Almirante, di voler essere ricompensato de’ suoi servigi? di voler mantenuti i suoi titoli, i suoi diritti, i suoi privilegi? Una bella ingratitudine patita esalta l’eroe, più d’un premio ottenuto. Ma forse egli voleva ben ribadire la ingratitudine di Ferdinando il Cattolico alla gogna della posterità. Nel qual caso, bisogna credere ch’egli avesse ragione, più del fratello don Bartolomeo, del capitano Fiesco e di noi.
Il capitano era giunto alle coste di Spagna meglio in arnese delle altre volte. Potè dunque farsi bello di qualche eleganza, tanto da far dire all’Adelantado: “voi volete, conte Fiesco, dar nell’occhio a Germana di Foix„. Rideva il capitano alla celia, ma rideva stentato, pensando ad una visita che faceva di mala voglia. Rideva ancora, rideva giallo, andando la mattina seguente al palazzo reale; rise verde senz’altro, quando, già sicuro di esser rimandato ad altra ora, magari ad un altro giorno, si sentì dire dal gentiluomo di camera:
—Sua Altezza il re vi aspetta, signor conte di Lavagna. Voglia Vostra Eccellenza passare.—
Eccellenza, niente di meno! E infatti, non era egli un conte di Lavagna? e non aveva titolo di Eccellenza l’illustre Gian Aloise? Bartolomeo Fiesco non era neanche a Genova, dove la maggiore autorità del cugino potesse fargli ombra colla sua luce; era in Ispagna, dove la gran luce dell’eccelso parente poteva benissimo riverberarsi da lontano su lui. Accettò dunque l’“eccellenza„, e passò.
Indice
Capitolo XII. La Sfinge regale.
Ferdinando d’Aragona non era stato in sua gioventù nè bello nè brutto. Di carnagione più giallo che bianco; larghe le guance ed angusta la fronte; lungo il naso e breve lo spazio tra il naso e il labbro superiore; ombreggiato questo da due baffettini tagliati corti sulla tumida bocca; tondo il mento e piuttosto prominente; gli occhi grossi e sgusciati, donde aveva un’aria un po’ sciocca; queste le note principali del viso, e non tali da offrirvi una immagine di Apollo. Ma la gioventù, quando c’era, attenuava i difetti; una folta capigliatura nera, scendente fin quasi all’arco delle sopracciglia, ne scusava la poca eleganza; e il giovanotto, finalmente, era re. Gli anni, poi, avevano mutato l’aspetto di quel re, non in tutto a suo benefizio, per quanta gravità gli aggiungessero. Spariti i baffi, appariva un tantino più lungo il naso, e le labbra sporgevano più tumide. Gli occhi avevano piuttosto acquistato che perso; ma l’acquisto era di due borse nel basso delle occhiaie, e di certi pendoni sopra le palpebre, che velando quegli occhi a mezzo non li aggraziavano punto. Portava sempre lunghi i capelli fino all’altezza delle spalle; ma erano capelli grigi, e non bene ravviati; nè più dalla fronte scendevano all’arco delle sopracciglia. Ma a questo guaio rimediava il copricapo, di velluto nero, mezzo berretta e mezzo corona, che il re Ferdinando, fattosi maturo negli anni, non si levava mai nel cospetto della gente. La corona appariva sul davanti del copricapo in tutta la sua maestà; spariva presso alle tempia, sotto i capi d’una rivolta che correva tutto intorno alla testiera. Indossava una tunica lunga oltre il ginocchio, anch’essa di velluto nero, dal cui sparato, trattenuto con lacci di seta, appariva il bianco della camicia pieghettata. Una giornéa di broccato cremisino, colle rivolte di vaio, senza maniche, aperta davanti, lasciava vedere il collare di gran mastro d’Alcántara, scendente sul petto, ma senza abbondanza di catena. Era modesto, quel re, non amava sfoggiare il suo grado: mezza corona e mezza berretta; detto questo, non ci sarebbe altro da aggiungere.
Ma l’abito non fa il monaco, e Ferdinando d’Aragona sapeva ben dissimulare il suo orgoglio di re. Lo obbligavano a ciò le stesse circostanze tra cui esercitava il potere supremo. Era quello il tempo che le monarchie d’Europa si venivano formando, in mezzo a difficoltà non poche nè lievi, costretto a destreggiarsi di continuo per girare gli ostacoli, per evitare i pericoli, per domare la superbia dei grandi vassalli, per vincere le resistenze dell’alto clero, per procacciarsi il favore della piccola nobiltà, per amicarsi il popolo, appagandolo con qualche concessione, maravigliandolo con qualche esempio di giustizia. I leoni dovevano farsi volpi, secondo l’occasione; i lupi vestirsi da agnelli, senza rinunziare del tutto alla primitiva natura, e ripigliandone al buon momento le forme. Così da Ottaviano Augusto a Carlo Magno si era usato con frutto; e ognuno a suo modo imitava i grandi esemplari. Fortunati coloro che meglio a proposito sapevano applicare ai casi particolari le massime generali d’una tirannide intesa a fortificare una dinastia, e in pari tempo a formare uno stato.
Quando il conte Fiesco entrò nella sala reale, don Ferdinando andava su e giù passeggiando, senza rumore, con le sue scarpe di velluto, foderate anch’esse di vaio. All’entrare del gentiluomo genovese si volse, fece un bel gesto, atteggiò le grosse labbra ad un sorriso, fermandosi su due piedi in mezzo alla stanza.
—Conte,—diss’egli,—bisogna dunque mandarvi a cercare? Si passa in Castiglia, e non si viene a visitare il re d’Aragona?—
Era la sua regola, dopo la morte d’Isabella: aveva ripigliato il suo titolo di re d’Aragona, e voleva farlo sentire, ripetendolo in ogni incontro. Ostentazione di modestia, che non ingannava nessuno: ma gli piaceva di far così; tanto più gli piaceva, in quanto che, se avesse fatto altrimenti, gliel avrebbero apposto ad ambizione, vedendoci anche una usurpazione non tollerabile.
—Vostra Altezza mi perdoni;—rispose il conte, inchinandosi.—Il mio viaggio in Ispagna era per ragioni di traffico. Un debito di amicizia e di gratitudine mi aveva consigliato il giro largo a Segovia; ma dovevo correre a Siviglia per certi negozi, che non volevano indugio più lungo. Genuensis, ergo mercator;—soggiunse egli sorridendo, per modo di conclusione.
—Sappiamo, sappiamo;—disse il re, accennando una scranna, ed invitandolo con gesto benigno a sedergli vicino.—E siete ritornato, e vi terremo, non è vero?
—Ahimè, mio signore, altre ragioni mi chiamano a casa. Solo la malattia del signor Almirante mi tratterrà qualche giorno. Speriamo che non sia grave tanto, da impensierire chi l’ama.—
Il re lasciò cadere a vuoto l’accenno, e diede un altro giro al discorso.
—Che novelle ci portate dall’Italia? Sapete che l’amo.
—Lo so, e da buon cittadino ne debbo esser grato a Vostra Altezza.
—Nostro zio il re Cristianissimo,—ripigliò Ferdinando,—ha buoni amici a Genova; ed io non per altro gli porto invidia, se non perchè ne possiede uno come Gian Aloise, potente signore, ma ancora più gentil cavaliere.
—E buon servitore di Vostra Altezza;—soggiunse il conte.
—Questo non sarà poi così vero come il resto;—replicò Ferdinando.—Egli non ce ne ha dato fin qui prove bastanti. Ma noi gli perdoniamo di gran cuore, ben sapendo che non si può servire a due padroni. Che gente maravigliosa, i Fieschi! Di antica stirpe reale, gran vassalli dell’Impero, hanno da principio resistito virilmente alla fortuna di Genova; attratti da lei, son riusciti a dominarla. Tutto ciò è d’anime eccelse. Le repubbliche non possono prosperare senza gran signori, che le aiutino di consiglio e di braccio: ma i gran signori, a lor volta, non possono crescere di potenza, se non col favore dei re. I Fieschi lo hanno capito. Non contenti d’aver dato tanti cardinali e due papi alla Chiesa, hanno saputo spendersi ancora in servizio dei maggiori principi della cristianità. Nostro zio Alfonso d’Aragona ebbe a Napoli in Giacomo Fiesco un ammirabile vicerè.
—Bontà di Vostra Altezza lo esalta oltre il merito.
—No, no, è pretta giustizia. Amo la giustizia, io; non istimo se non questa. E voi, conte, non vi addormentate già sugli allori degli avi?
—Io? povero a me! sono un assai piccolo uomo, e porto male un gran nome. È già molto se come marinaio ho potuto aver la fortuna di servire la vostra Corona in quattro viaggi di scoperta, sotto l’onorato comando....
—Acquistando un’esperienza preziosa di uomini e di cose;—interruppe il re, che davvero non voleva sentir finire tutti i salmi in gloria.—Non bisogna buttarla via, ricordátelo. E se amate la nostra Corona, che siete venuto a servire non tanto da marinaio, come da gentiluomo d’arrembata, perchè non tornereste a noi, e per servirci in uffici e dignità più convenienti al vostro nome? Questa Corona ha pur la sua gloria; ed anche noi abbiamo operato cose che non saranno giudicate da poco. Da noi sono stati cacciati i Mori, e restaurati da per tutto gli altari di Cristo; da noi occupato stabilmente il reame di Napoli. E qui e laggiù, dove è sempre viva la memoria del vostro nobil parente, anche voi potrete illustrarvi con leali servigi, scambio di addormentarvi negli ozi di Capua, o piuttosto, poichè vivete sulla riva del mare, a sentir cantare le Sirene.
—Non ha Sirene il mar di Liguria;—notò il capitano Fiesco, tanto per dir qualche cosa, e accompagnando con un sorriso l’osservazione discreta.
—Ma le portate con voi, non è vero?—disse il re, sorridendo a sua volta.—Certi paggetti, o mozzi che voglian parere.... Non dite di no, perchè i re sono costretti a sapere ogni cosa. E vi ci ho colto, colla soffoggiata sotto il mantello!—seguitò, ridendo ancora.—Ma badate, conte mio; quando si possiede un tesoro, non si porta attorno, nè così in vista, che tutti lo riconoscano.—
Il capitano Fiesco era stato colpito in pieno petto da quella bottata improvvisa del suo interlocutore; ed anche aveva dovuto faticar molto dentro di sè, per non dar segno d’averla ricevuta così profonda. Guardava frattanto il re, cercando di scoprire nel volto di lui l’intenzione riposta, che lo aveva fatto parlare in quel modo. Il re sorrideva; forse non mirava ad altro che a fargli sentire come fosse bene informato. Il migliore, e lì per lì anche l’unico partito da prendere, era quello di volgere la cosa in celia, accettando la lezione del regale maestro.
—Mio buon signore,—diss’egli, annaspando un pochino,—necessità di viaggio. Le dame sono come gli eserciti, che non si muovono da un luogo senza una quantità sterminata d’impicci. Ed io, dovendo fare una corsa di pochi giorni, da marito prudente, o che pensava di essere tale....
—Sì, sì, capisco;—disse di rimando il re, non lasciandogli finire la frase;—ma voi metterete me negli impicci. Dio guardi, se viene a saperlo il Sant’Uffizio, che non ammette i tramutamenti da sesso a sesso!
—Provvederò;—rispose il Fiesco, fremendo.—Non dubiti Vostra Altezza, provvederò fin d’oggi.
—Eh, non dico per questo;—si degnò di rispondere il re.—Al mondo ci siamo per fortuna anche noi, e dove non sia offesa volontaria ai precetti della nostra santa religione, la nostra autorità passa innanzi a tutte le altre, e in ogni caso può corregger anche gli effetti di uno zelo frettoloso. Voglio dire piuttosto che se la contessa del Fiesco ha da splendere come un bel fiore d’Italia alla Corte di Spagna, non sarà bene che sia stata veduta prima in maschera, e fuor di stagione. Voglio avervi, infatti; voglio avervi ad ogni costo. Il giorno che avrò un conte di Lavagna al mio servizio, mi stimerò forte in arcione come mio zio il re Cristianissimo.—
Al capitano Fiesco ritornava il fiato in corpo. Ma la paura era stata grossa. E perchè non voleva incominciare allora a tremare, egli che non si era mai sbigottito di nulla, giurò a sè stesso di non aver più paura, e di dar passata a tutte le funebri celie di quell’uomo, che sicuramente voleva pigliarsi spasso di lui. Anche quella ubbía d’averlo a’ suoi servigi, si poteva prenderla per buona moneta? Rispondeva per verità ad un pronostico dell’Adelantado; ma don Bartolomeo Colombo non era poi un profeta, e il casuale incontro di due chiacchiere non voleva già dire che egli, Bartolomeo Fiesco, si dovesse stimare di quel buon legno, tagliato in luna vecchia, di cui si fanno gli uomini di Stato in tutti i paesi del mondo civile.
—Vostra Altezza,—rispose allora,—si fa una troppo buona opinione di me. Ma io sento la mia pochezza, e, per tradurre una frase di poeta latino, quanto possano e quanto non possano portar le mie spalle.—
Ferdinando stava per ribattere quell’eccesso di modestia; quando l’uscio si aperse, e il gentiluomo di camera apparve nel vano.
—Avanti, Noguera;—diss’egli.—Che avete di nuovo?
—Servizio del re;—rispose il Noguera, inoltrandosi rispettosamente, e presentando una lettera.
—Permettete;—disse allora Ferdinando, volgendosi al Fiesco, mentre si disponeva a rompere il suggello.
Il capitano Fiesco rispose con un profondo inchino. Ferdinando lesse la lettera, la rilesse, aggrottando le ciglia; indi ripose il foglio sulla tavola accanto a cui stava seduto, e disse, congedando il gentiluomo di camera:
—Sta bene, provvederemo. Voi dunque,—ripigliò, volgendosi ancora al Fiesco, appena quell’altro fu uscito dalla stanza,—non volete venire al servizio d’Aragona? Siete dunque coi miei nemici?
—Mio signore, perchè mi dite voi ciò?—rispose il Fiesco, maravigliato.—E perdoni Vostra Altezza, se ardisco interrogare: ma è così nuovo e così immeritato il rimprovero, che io sento il bisogno di chiederne il perchè.
—Il perchè non è difficile a dirsi;—replicò Ferdinando.—Lo sapete, il proverbio? Chi non è con me vuol esser contro di me. Ho bisogno d’avervi al mio servizio, e voi ricusate; dunque.... cavatene voi la conseguenza, signor conte di Lavagna.—
Il capitano Fiesco rimase un istante silenzioso, non per cavare la conseguenza accennata dal re, ma per pesare il pro ed il contro di un disegno che gli era venuto alla mente.
—Mio signore,—incominciò egli, dopo quell’istante di pausa,—quando un gentiluomo prende servizio, non impegna altrimenti la sua libertà che a certi patti, offerti a lui dal padrone, o da questo accettati. Vostra Altezza non mi offre patti; potrei osar io di proporne?
—Osate, ve lo permetto; ve ne faccio preghiera. Non sono io stato sincero con voi? Voglio un conte di Lavagna, vi ho detto, un conte di Lavagna, come lo ha il mio buon zio Cristianissimo, e che tutto s’adoperi per i miei interessi; onorati interessi, che sono pure quelli di un gran regno. Osate dunque, siate sincero con me, parlate liberamente.
—Ebbene, mio signore;—disse il Fiesco animandosi;—perchè io, libero, e desideroso di quiete nel mio castello di Gioiosa Guardia, mi acconciassi a prender servizio presso il più nobile fra i re, bisognerebbe che l’uomo insigne col quale ho lealmente servito, e dal quale sono stato ricompensato di affetto paterno, non gemesse più oltre, aspettando una prova del vostro favore. Siate generoso, re Ferdinando, e pensoso del nome che lascerete nella storia del mondo. Quell’uomo Voi lo avevate pur creato almirante maggiore dell’Oceano, e vicerè delle terre ch’egli avrebbe scoperte. Egli ha mantenuti i suoi patti, scoprendo un mondo per la vostra Corona. Ed era, ed è la onestà, la probità fatta uomo; e l’hanno ingiustamente accusato.
—Lo so;—disse il re.
—Lo hanno calunniato....
—Lo so.
—Nè mai ha pensato a tradire la Spagna, per Portogallo, per Genova, per Inghilterra, come i suoi accaniti nemici hanno via via perfidiato....
—Lo so.
—Allora, perchè non reintegrarlo nelle sue dignità?
—Perchè.... perchè.... Voi siete, signor conte, l’uomo dei perchè. Ma vi ho dato libertà di parlare; e così parlaste sempre, per ogni cosa, con libertà pari a questa che usate, a favore del vostro Almirante! Il perchè ve lo voglio dire, con la mia usata sincerità. Non l’ho reintegrato, perchè fu un errore conferirgli le dignità che accennate. L’errore non fu commesso da me; fu commesso, sia pure a buon fine, dalla santa donna che mi fu trent’anni compagna di vita e di regno; ed io non l’ho mai approvato. Nato di nessuno, il vostro Almirante; e a voi si può dire, che siete d’una gente le cui origini illustri si perdono nella notte dei tempi; nato di nessuno, e pieno di pretensioni inaudite! L’ingegno, l’ardimento.... sì, ammetto queste virtù, che non sono poi così rare com’egli si crede. Ingegno ed ardimento ne ebbero, a non citare altri esempi, Vasco di Gama, Alonzo d’Ojeda e Pedro Alvarez Cabral, tutti vivi e sani, e non come lui orgogliosi.
—Dell’orgoglio non so;—rispose il Fiesco, a mala pena fu passata la raffica dell’invettiva regale;—quantunque il mio amico d’Ojeda, l’unico ch’io conosca dei tre, non ne difetti davvero. Ma debbo anche notare che i suoi servigi non possono entrare in paragone con quelli di Cristoforo Colombo. E non possono entrarci nemmeno quegli degli altri. Che han fatto finalmente costoro? Vasco di Gama ha costeggiato tutta l’Africa meridionale, dieci anni dopo che Bartolomeo Diaz ne aveva costeggiato un terzo da ponente fino al capo Tormentoso, settecent’anni dopo che gli Arabi ne avean costeggiato un altro terzo da Levante, fino al capo Guardafui, e Dio sa quanto più oltre; cosicchè non si trattava più d’altro che di collegare i due punti, colmando l’intervallo; e questa colmata chiamiamola pure scoperta, perchè infine non mancò l’ardimento al Gama, come al Diaz non era mancato l’ingegno. Che ha fatto Alonzo d’Ojeda? Era uno dei cavalieri venuti con noi nel secondo viaggio alla Spagnuola; si è illustrato con atti di valore; scontento di noi, ha chiesto a Vostra Altezza di poter navigare e scoprire da sè, tornando laggiù sul medesimo solco di Cristoforo Colombo; e sette anni fa, con Amerigo Vespucci, usando le carte delineate da Giovanni di Cosa (un marinaio del nostro primo viaggio, non lo dimentichiamo) toccò la terra ferma del Mondo nuovo, alla costa di Paria, che Cristoforo Colombo aveva scoperta un anno prima, niente di meno! Che diremo noi del Cabral? Il valentuomo ha scoperto sei anni or sono il Brasile, per caso, girando troppo largo dalle isole di Capo Verde, e sviato ancora dalla tempesta, con quell’armata che doveva condurre alle Indie orientali. Gente ardita, a cui fo di berretta; ma ebbero essi l’ingegno divinatore, per muovere verso l’ignoto e per sfidarne con altrettanta fede i pericoli?
—Sia;—disse il re, che era stato a sentire pazientemente la lezione del conte;—il vostro Almirante ha l’ingegno divinatore. Non gli basta? È la sua gloria; dev’essere la sua contentezza. Dio manda ad ogni tanto uomini di questa fatta nel mondo, per adempiere un’alta missione. Non gli basta neppur questo, che è pure il suo premio? Perchè, servito dalla fortuna oltre ogni speranza sua, vuol egli ancora una rendita che andrebbe, a conti fatti fin qui, a cento milioni di scudi castigliani? Perchè vuol essere almirante maggiore, ritenendo un titolo che qui fu portato soltanto da don Federigo Henriquez, mio nonno materno? Perchè vuol essere vicerè delle Indie, titolo che richiede gran nobiltà secolare, mentre non l’hanno ottenuto tante famiglie che nel corso di dieci generazioni versarono il sangue in cento battaglie? Notate, signor conte,—soggiunse il re, mettendo il sordino ad una musica che gli diventava un po’ troppo chiassosa,—notate che questi gran signori di Castiglia e Leone io li amerei più modesti. Sono le braccia che combattono, i cavalieri d’un reame; i re sono la mente che guida. Ed è merito di tanti re avere indirizzato ad util meta il lavoro, non dubitando di reprimere la nativa baldanza del Cid Campeador, e, se occorresse, quella d’un Consalvo di Cordova. Questi è, per sua virtù come per nostra fortuna, un suddito leale; ed io dico così per istabilir chiaramente i diritti e gli uffici provvidenziali dei re. Ma il vostro Almirante, sia pur leale come voi dite, e com’io non vi nego, non parrà egualmente sicuro, nè degno delle alte cariche, a tutta la nobiltà Castigliana. Il re ha cura di molti e cozzanti interessi, che vuol tutti condurre in porto. Ci pensi, a queste cose, il vostro Almirante, e mi giudichi. Che più? Dubitando di noi medesimi, non abbiamo forse istituita una Giunta composta dei più venerandi ecclesiastici, dei più reputati gentiluomini, la quale veda e giustifichi fin dove giunga la nostra malleveria, e quella della defunta regina, per rispetto alle ragioni di tutti? È all’opera il fiore del reame; sappia egli aspettarne i responsi.
—È vecchio, mio signore, più vecchio che non porti l’età. I pericoli incontrati, i travagli sofferti lo hanno ridotto così male! Ed anche la grave malattia del secondo viaggio, che per sei mesi lo tenne in pericolo di vita....
—E fu il gran guaio;—interruppe Ferdinando;—perchè nella colonia incominciò lo sgoverno, colla perdita di tanti nobili cavalieri. Il vostro Almirante è uomo da scoprir terre, avendone l’ingegno divinatore, come voi dite; non è uomo da governarle, non avendo l’ingegno amministrativo, come dico io, imitandovi. Ed ha offesi mortalmente i nostri Castigliani, obbligandoli perfino a lavorare la terra. Ancor essa, la santa Isabella, non seppe in tutto perdonargli. Disperato di trovar oro nelle viscere dei monti, non ha egli pensato a vendere come schiavi i poveri Indiani? Era da uomo religioso, cotesto? —
Qui, per quanto buon cavaliere egli fosse, il capitano Fiesco perdette le staffe senz’altro.
—No, non era;—rispose;—ed io che c’ero, laggiù, debbo ringraziare Vostra Altezza della pietà dimostrata per quei poveri Indiani. Ma è più conforme al sentimento religioso ciò che ha fatto il gran commendatore d’Alcántara, don Nicola Ovando, distruggendo colà, sterminandovi col ferro e col fuoco un milione di sudditi? In mano di buoni cristiani, nell’Andalusia, nella nuova Castiglia e nella vecchia, i naturali della Spagnuola erano da tenersi come figli; servi, ma da potersi riscattare, iniziandoli al misteri della nostra santa religione. Quelli che don Nicola Ovando ha fatti sgozzare, o bruciare, non si riscattano più; non si ritornano più in vita, per dar loro la consolazione estrema del santo battesimo.—
L’uscio si aperse una seconda volta. Il capitano Fiesco voleva prender commiato; ma il re lo trattenne.
—È ancora il conte di Noguera;—diss’egli.—Servizio del re; e si manda avanti, senza che il colloquio ne soffra.—
Così prendeva un altro messaggio dalle mani del gentiluomo di camera, a cui dava commiato, dopo aver letto e aggrottato ancora le ciglia. Non dovevano esser piacevoli, quel giorno, le lettere del re Ferdinando.
—Dicevate....—ripigliò il re, deponendo il foglio, e tornando alla sua calma, senza smettere del tutto il cipiglio,—dicevate del governatore di San Domingo, non è vero? Ebbene, sappiate quel che io ne penso. Don Nicola Ovando è un fervente cristiano. Gliene fa obbligo la religione di Alcántara, ond’egli è un insigne ornamento. Se ha usato severità contro gl’Indiani, bisogna dire ch’ella fosse necessaria, per la salvezza della colonia. E ancora non n’è venuto intieramente a capo, se son veri i ragguagli che mi giungono di laggiù, perchè molte fila di una vasta congiura gli sono sfuggite pur troppo. Qua dentro, vedete?—soggiunse Ferdinando, battendo della palma sopra un fascio di carte che aveva vicine sull’orlo della tavola;—c’è un cumulo di sospetti, che potrebbero diventar prove, e prove terribili contro chi ha tentato ingannare la bontà di un governatore pietoso.—
Il capitano Fiesco fremette, e si sentì correre un sudor freddo alle tempia. Ma non voleva aver paura; lo aveva giurato a sè stesso. Perciò fece buon viso ad un discorso ambiguo, che poteva esser minaccia e non essere.
—L’autorità sua non è rispettata abbastanza;—proseguiva il re.—Vuol essere stabilita ad ogni costo, per la sicurezza della colonia, come per l’onore della Corona. E frattanto il vostro Almirante pretende da noi che don Nicola Ovando sia richiamato!
—Non lo aveva chiesto anche la santa regina, innanzi di andare alla gloria?
—Sì;—rispose Ferdinando, non senza torcer la bocca.—Ed anche di ciò si occuperà la Giunta degli Scarichi. Se la cosa è giusta, si farà. Ma anche in questo caso ella vorrà dar prova di considerare anzi tutto l’onore della Corona e l’utilità della disgraziata colonia.
—Mio signore,—rispose il capitano Fiesco con aria contrita,—io non ho da metter bocca su ciò che riguarda così alti interessi. E non avrei parlato, correndo il risico di dispiacere a Vostra Altezza, se non ne avessi avuto licenza, e quasi un comando.
—Nè io mi dolgo di voi;—disse il re.—Amo parlar chiaro, che si veda bene l’animo mio. Volete venire al nostro servizio?
—A quel patto, mio signore: sia resa giustizia al signor Almirante.—
Ferdinando non istette alle mosse, e violento rispose:
—Giustizia!... giustizia!... Liberamente ne parlate voi, signor conte di Lavagna. E se io vi dicessi che ne ho sete? Se vi dicessi: aiutatemi a farla? Ci sono dei fuggiti di là, degli scomparsi, che avrebbero meritata la forca; e voi che siete stato là, non potreste dar luce? voi che avete corsa tutta l’isola, e che la conoscete a palmo a palmo? Eppure,—disse il re, chetando ad un tratto la furia,—non questo io domando a voi; non in questo voglio usare il vostro ingegno, la vostra accortezza, il vostro coraggio. Mi sarebbe caro convincervi della purità delle mie intenzioni, come della bontà del mio cuore. Voi prima di tutti, guardate; prima degli stessi Castigliani, che non mi sanno render giustizia. Non tutto io posso fare, pur troppo; ma dove posso, non mi trattengo dal fare. E veglio, veglio, perchè qui si lavora maledettamente a guastare ciò che vi è stato fatto, e fatto da me; voglio dire questa bella unione di Castiglia e d’Aragona, ond’era già balzata fuori la Spagna, armata, gloriosa e vincente. A questo, che non è più un sogno, Castiglia cieca si ribella; vuole un re tutto suo, un re che non conosce, una regina che, poveretta, non ha intiera la sua ragione; e ricusa colui che l’ha resa grande, facendo ancora qualche sacrifizio per lei. Non era d’Aragona il reame di Napoli? E non siamo stati noi che l’abbiamo dato alla Spagna? Eccovi una generosità assai male ricompensata. Congiure su congiure; si resiste, si minaccia, si aspetta chi rimandi noi in Aragona, contro la fede di recenti trattati. Ci andremo, se la forza e la follìa prevarranno sulla ragione e sul buon diritto; ci andremo, ed allora.... Dio abbia pietà della Spagna.—
Il capitano Fiesco era stato a sentire a capo chino, qua e là tremando un pochino in cuor suo, ad onta del fermo proposito, ma poi vedendo girare da un altro lato la bufera.
—Mio signore,—diss’egli finalmente,—io straniero non ho da veder nulla in queste faccende....
—Eh, non so, veramente;—interruppe Ferdinando.—Voi vedete in troppe cose; effetto del viaggiar molto che fate. Vi ho detto l’animo mio, signor viaggiatore. La sincerità è virtù mia, della quale mi vanto. Pensate bene a quanto vi ho detto; poi, quando avrete pensato, verrete a dirmi il frutto delle vostre meditazioni.—
Il capitano Fiesco s’inchinò profondamente, ben risoluto di non meditar nulla di nulla.
—Prendo congedo da Vostra Altezza con la morte nell’anima;—diss’egli, anticipando nella frase malinconica la notizia della sua risoluzione.
—Starà in voi di mostrarvi degno della nostra grazia, e di tornare da morte a vita;—rispose ironico il re d’Aragona.—Amico vi voglio, e non collegato ai miei nemici.
—Io? Può credere Vostra Altezza?...
—Che ne so io? Rammentate il proverbio: chi non è con me, vuol esser contro di me. Andate ora, e Nostro Signore v’abbia nella sua santa guardia.—
Così dicendo, il re Ferdinando fece un gesto che parve dare al capitano Fiesco la sua benedizione. L’udienza era finita. Lunga assai; ma in quel punto, tanto n’era rimasto turbato, il capitano Fiesco l’avrebbe desiderata più lunga e più chiara; rinunziando magari alla benedizione di quel re, che non era passato mai per uno stinco di santo.
Indice
Capitolo XIII. Si viene a mezza spada.
Uscì dal palazzo coll’anima in trambusto. Bene si era proposto d’esser forte e di non sentir paura di nulla: ma troppe parole oscure aveva proferite il re; troppe allusioni mal velate aveva fatte a certi casi di San Domingo. Sapeva egli della sparizione improvvisa di don Garcìa dalla capitale di Haiti? Di quella, certamente; ed anche della via che quell’altro aveva presa, dello scampo e del rifugio che aveva trovato. Perchè, se non fosse stato così, avrebbe il re Ferdinando detto a lui, capitano Fiesco: potrei chiedervi di aiutarci? Era venuta, sì, qualche frase, ad attenuare, a smorzare il pensiero; ma tardi, quando il colpo era stato dato, e sentito. Ora, se la partenza di don Garcìa, che era pur libero di andarsene, era stata annunziata da San Domingo al re d’Aragona come una fuga, bisognava supporre che il governatore di San Domingo fosse entrato in sospetto del come e del perchè l’esecutore di giustizia della sua giurisdizione si fosse annoiato del servizio, tanto da chiedere il suo licenziamento sui due piedi. A giustificare questo ragionamento non si poteva anche ricordar l’allusione, che il re aveva fatta prima d’ogni altra, al vero sesso del mozzo Bonito? Perchè quella finta paura d’un innocente artifizio di viaggiatori, che non era poi una novità in quel paese e a quel tempo? Proprio a lui forestiero, venuto colla fretta del giungere e col proposito di tornarsene via, si poteva far colpa d’un travestimento muliebre, giustificato abbastanza dalla rapidità del viaggio e dalla opportunità di qualche precauzione stradale?
Non aveva fatto bene, lo riconosceva benissimo allora, a contentare il desiderio di Juana, portandola in Ispagna con sè. Quando si è fuori d’un pericolo, non ci si torna, per quanta sicurezza se n’abbia. Sapeva tutto, il re? o solamente una parte del vero? A buon conto, Juana avrebbe súbito riprese le vesti femminili; e per ogni buon fine, a cavallo quel medesimo giorno, verso la Sierra di Guadarrama, sulla via di Catalogna, studiando anche i passi più brevi. Poteva essere una caccia; ed egli, tra sè ed i segugi reali, voleva mettere almeno ventiquattr’ore di spazio. Pensate, aveva detto il re, mi porterete poi il frutto delle vostre meditazioni. Quel poi gli offriva appunto un giorno di tempo. Lo avrebbe guadagnato; corressero pure sulle sue tracce alguazili ed arcieri. Condotta la sua donna a Barcellona ed al largo, sarebbe magari tornato a Valladolid: quanto a sè, non aveva timore di nulla.
Anche per lui c’era la nuvoletta nell’aria. Non gli aveva lasciato intendere il re di sospettarlo troppo legato ai suoi nemici? Certo, il viaggio di Siviglia poteva dare argomento a sospetti. Ma quel viaggio si poteva anche spiegare. Egli era andato laggiù per vedere una dama, e le ragioni del cercato colloquio erano tutte confessabili. Non era già andato a cospirar con nessuno! Della cospirazione, a dir vero, aveva vedute le tracce; anch’egli, per giovare al signor Almirante, non faceva troppo assegnamento sull’arrivo della regina Giovanna, che era il fine di tutte le cospirazioni castigliane? Ma qui, poi, egli non era obbligato a dir tutto. Restava soltanto ch’egli aveva chiesto aiuto a donna Beatrice Bovadilla per Cristoforo Colombo, suo vecchio amico; e non altro aveva dovuto cercare. L’altro era un negozio di Spagnuoli; non ci doveva entrar egli, straniero alla terra ed alle contese dei suoi cittadini. Così, come straniero, andava e tornava, per assistere il signor Almirante; andava a Barcellona, ritornava a Valladolid; che c’era egli di male?
Sì, sì; via di galoppo, quel medesimo giorno. Come spiegar la cosa al signor Almirante? In ciò si sarebbe consigliato con l’Adelantado, mentre si sellavano i cavalli. Fortuna, aver trattenuta una parte della sua gente con sè. Gli mancava il frate scudiero, il suo braccio destro; gran guaio, perchè il frate scudiero era Spagnuolo, e Catalano per l’appunto; sarebbe stato utilissimo nel passare per le terre di Catalogna. Ma pazienza; gli restavano quattr’uomini risoluti e fedeli; sarebbe giunto a Barcellona, anche ammazzando qualche cavallo. Ah, galoppare, divorare la strada, aver l’ali ai piedi, come Mercurio! e il re lo aspettasse pure, col frutto delle sue meditazioni. Oh, la mia buona stella! diceva egli tra sè. La mia buona stella! ripeteva, per farsi coraggio con una frase di buon augurio. E andava svelto, facendo i passi lunghi, non badando a nulla, non vedendo nessuno.
Ma le vie di Valladolid non erano tutte larghe ad un modo: abbondavano anzi le strette. Ad un crocicchio gli fu mestieri rallentare il passo, per una gran calca di gente. Perchè tutta quella gente affollata? Non era in verità da cercare il perchè. Chi ha fretta non si ferma a domandar le ragioni per cui una calca si ferma, intorno ad un piccolo accidente di strada; specie in quartieri abitati dal popolino, così facile a commuoversi per cose da nulla. Chi ha fretta cerca di passare per quella calca, si fa piccino e sottile, va di fianco, lavora di gomiti, insinuandosi destramente per ogni vano che trovi. Così egli, mentre intorno a lui era un cicaleccio confuso.—Poverino! perchè l’han preso?—Così bello! faceva pietà, coi suoi grandi occhi lagrimosi.—Che! non piangeva; solo era un poco stravolto.—Sfido io; nelle unghie degli arcieri!—Che cosa avrà fatto? rubato?—A quell’età, cose da nulla.—Vestito da marinaio; non era dunque della città.—Poverino! e la sua mamma, se l’ha!—
Un brivido era corso per l’ossa al capitano Fiesco. Voleva tornare indietro, per domandare. Chi mai, nelle unghie degli arcieri? e giovane, e bello, e vestito da marinaio? Ma si ricordò che non doveva aver paura. E non sarebbe stata esagerazione di paura, tornare indietro per un ragazzo arrestato? Ma corse più rapido avanti, sempre più lontano da quella moltitudine. Era là, finalmente, la strada dove abitava il signor Almirante; era là, si apriva davanti a lui, quieta, luminosa, sotto il cielo sereno. Passava un carro, tirato da un mulo alto e solenne, che agitava ad ogni passo una ventina di sonagli; e il carrettiere, che veniva innanzi, di costa alla ruota, canterellava in cadenza, facendo ad ogni tanto schioccar la sua frusta per chiasso. La scena era gaia, tranquilla, innocente; respirava una pace d’idilio siracusano. Ed anche la casa era là, lunga, alta, e polverosa, ma neppur brutta in quell’ora meridiana: la coglieva il sole di sbieco, e larghe chiazze di mattoni rosseggiavano al sole, per mezzo a frequenti sfaldature d’intonaco. Quella casa pareva sorridere, aspettandolo; ond’egli si sentì liberato da una grave oppressura. Che sciocco era stato! e come tutto fa paura, quando si ha l’anima agitata! Infilò il portone, ascese rapidamente due braccia di scala. Ah, finalmente, era in porto.
Nell’anticamera trovò l’Adelantado, grave, accigliato, silenzioso. Ma era sempre così, quel benedetto uomo; non rideva se non in mezzo al pericolo.
—Come va l’Almirante?—gli chiese il capitano Fiesco.
—Eh, si è voluto alzare;—rispose quell’altro.
—Tutti bene?—ripigliò il capitano, a cui quella risposta non poteva bastare.
—Bene!... Amico mio, forse sapete?...
—Che cosa?—gridò il capitano.—Ah, sarebbe vero?...—
E cadde, così dicendo, sopra una scranna.
—Animo! animo!—gli disse l’Adelantado, con più tenerezza nella voce, che non avesse mai dimostrata.
—Animo! animo!—ripetè macchinalmente il Fiesco.—Ne ho. Voglio sapere.... voglio sapere.... Erano venuti gli arcieri?... o i famigli del Sant’Uffizio?...
—No, grazie a Dio, solo quelli del re. Ma è sempre una infamia! Un tale affronto all’Almirante! al vicerè delle Indie! Non ha dunque più vergogna, quel tristo?—
In quel mentre appariva dall’uscio della sua camera il signor Almirante; alto di tutta la rilevata persona, che oramai, nell’impeto dello sdegno, non sentiva neanche più i suoi dolori aggranchirgli le membra; gli occhi sfolgoranti, come nei momenti più gravi della sua vita, in mezzo alle battaglie d’arrembata, o tra le marinaresche ribelli.
—Questa ancora, capitano Fiesco!—gridò egli, avanzandosi.—Questa ancora, per colpirmi nel mezzo del cuore! Male lo stimai volpe; è una tigre, quel re.
—Ma per qual ragione, Dio santo?—domandava il Fiesco, torcendo convulsamente le mani, impossenti a sbranare un lontano e troppo alto nemico.—Con quale pretesto?
—Con questo,—rispose l’Adelantado;—che il mozzo Bonito era una donna; che si doveva sapere chi fosse, e perchè si nascondesse così. Abbiamo risposto, non dubitate; abbiamo risposto che prendevano abbaglio; che si trattava d’una gentildonna straniera, non soggetta alle leggi di Spagna, e che non aveva da fare con la giustizia di questo paese. Ancora abbiamo detto il suo nome, ma inutilmente. Il signor governatore vedrà, il signor governatore giudicherà, rispondeva l’alguazil, ch’era venuto cogli arcieri; se c’è errore sarà facilmente rimediato, e il mozzo Bonito, o contessa del Fiesco che voglia essere, ritornerà a casa, senza che gli sia torto un capello. L’Almirante s’intromise; voleva star egli mallevadore; domandava un indugio, finchè non si appurasse ogni cosa; credeva di averne il diritto, essendo egli il padrone di casa, e tal uomo da non essere sospettato di poca reverenza alle leggi. Inutile! tutto fu inutile; ed han fatto a modo loro, conducendo la contessa al palazzo di giustizia.
—Legata!
—Eh, sì, legata;—rispose l’Adelantado, fremendo.—Erano in dieci, ed avevano paura che fuggisse. Noi vi aspettavamo, per muoverci, per far qualche cosa. L’Almirante vuol andar egli dal re.
—Ne vengo io;—ruggì il capitano Fiesco;—e non credo che gioverebbe. L’ha con me, il re Ferdinando. Come ciò sia, è inutile il dire; nè si potrebbe in poche parole. La contessa è un ostaggio ch’egli ha preso, mentre io ero in udienza da lui. Servirlo! servirlo io? E in che cosa? in qualche losca impresa, sicuramente. Non si prenderebbero ostaggi, se la cosa fosse diversa. Venite, don Bartolomeo, accompagnatemi, che temo di non arrivare dal re, di stramazzar per la strada.—
L’Almirante si avanzò, e gli pose amorevolmente le mani sugli ómeri.
—Coraggio, mio figlio!—gli disse.—E perdonatemi!—È avvenuto per colpa mia, tutto ciò. Porto sfortuna a chi mi vuol bene.
—Oh, non dite, mio signore, non dite!—gridò il Fiesco, intenerito.—Era il destino. Ma io mi ucciderò, se non la salvo.
—Un delitto! Non lo pensate neanche.
—Eh, io non sono un santo. Senza di lei, meglio l’inferno! E non l’ho io già dentro l’anima?—
Scese a precipizio la scala; e don Bartolomeo Colombo lo seguiva. Giunto a palazzo, chiese di entrare dal re. Non si poteva; impedivano il passo i soldati; ricusava, chiamato al rumore, il gentiluomo di camera.
—Mio buon signor Noguera!—gridava il capitano Fiesco.—Non siate così duro con me. Vogliate annunziarmi a Sua Altezza. Se non può ricevermi subito, aspetterò. Sapete pure, signor conte; ho avuto udienza quest’oggi, non sono ancora due ore passate; e lunga udienza, vi ricordate?
—Appunto per ciò, non potrebbe parere bastante?—notò il conte di Noguera.—Ci sono altri che hanno diritto. Del resto, son gentiluomo;—soggiunse egli, accostandosi, e traendo il conte Fiesco in disparte,—non voglio ingannare nessuno. Per quanto vi lasciassi star qui ad aspettare, oggi Sua Altezza non vi riceverebbe.
—E perchè, di grazia? perchè?
—Non sono visibile, mi ha detto, se non per duchi e marchesi di Castiglia e d’Aragona, per il razionale di Castiglia e per l’arcivescovo di Toledo. Son queste,—soggiunse il Noguera,—le precise parole del re. Voi siete escluso. Se non foste escluso, Sua Altezza, ricordando il suo recente colloquio con voi, avrebbe aggiunto: e il signor conte di Lavagna. Non l’ha aggiunto; ed io, con tutto il dispiacere che una necessità come questa mi potrebbe cagionare, sarei costretto a rimandarvi fuori. Vi prego, conte, non mi obbligate ad esser severo con un gentiluomo come voi siete.—
Parlava da onest’uomo, il Noguera. Ma il capitano Fiesco non riusciva a padroneggiarsi.
—V’intendo;—diss’egli, convulso;—v’intendo, e vi ringrazio. Ma vedete, si commette una prepotenza, una ingiustizia, una iniquità, che grida vendetta al cielo. Mia moglie, arrestata come una donna perduta; la contessa del Fiesco, una straniera, in Castiglia, in terra di cavalieri! e per ordine del governatore, che è come dire per ordine del re, tratta a forza di casa, legata, in mezzo ad un drappello d’arcieri!...
—La cosa è grave, e merita riflessione, in terra di cavalieri;—disse il conte di Noguera, aggrottando le ciglia.—Forse si tratta di un equivoco, e ci s’aggiunge un abuso della forza, che va represso e castigato. Nè credo, come voi fate, che ci sia stato ordine del re. Comunque, io vi consiglio, per venirne in chiaro, di recarvi da chi può tutto in queste faccende, e correggere gli errori dei subalterni, o i suoi proprii, se n’ha commessi, e consigliar clemenza al re, se si tratta d’un ordine del re. Andate dall’arcivescovo di Toledo. Egli è ora in udienza da Sua Altezza; ma non vorrà star molto ad uscire.
—Non posso aspettarlo qui?
—No, egli non passa di qui. Andate al palazzo di giustizia, dov’egli risiede, e dove non tarderà a ritornare. Ma vi prego, non dite che v’ho consigliato io. Qui, a dar consigli, si giocherebbe la carica. Siete un gentiluomo, ed amo rendervi servizio, nella misura del poter mio; che non è grande, pur troppo.
—Anche l’arcivescovo di Siviglia è qui?—entrò a domandare l’Adelantado.
—Sì; come sapete, non è ancora andato ad occupare la sede.
—Bene,—concluse l’Adelantado, volgendosi al Fiesco.—Mentre s’aspetta che Toledo ritorni al palazzo di giustizia, possiamo andare da Siviglia, che si degni di darci una mano.
—La mano di Siviglia è potente;—disse il Noguera, sorridendo.—E potrà certamente aiutarvi.—
Siviglia, da cui andarono subito, trovandolo nel convento di San Domenico, era Diego di Deza; bel monaco, dall’aspetto grave, e dal labbro pieno di bontà. Amava Cristoforo Colombo, e nel consiglio di Salamanca era stato l’unico suo sostenitore, dispiacendo molto al vescovo Talavera, e voltando a favore del grande navigator Genovese l’animo buono dell’arcivescovo Mendoza. Dalla dottrina del Deza, anche rimasta allora perdente, erano stati salvati per migliore occasione i disegni di Cristoforo Colombo. E questi ne aveva serbato in cuore una viva riconoscenza al sapiente domenicano; e il domenicano, dal canto suo, sentendosi legato da quel buon ricordo al trionfo della mirabile impresa che aveva preconizzata, ricambiava di vivissimo affetto il signor Almirante, considerando amici quanti venissero in nome di lui.
Accolse egli a festa don Bartolomeo Colombo e il capitano Fiesco: udì la ragione della loro venuta, ascoltò attentamente il racconto che gli facevano, battè un pochino le labbra, e poi disse al Fiesco:
—L’arcivescovo di Toledo è un uomo virtuoso; fidate in lui, signor conte.
—Le parole di Vostra Eccellenza mi rassicurano;—rispose il Fiesco.—Ma, se io ho ben veduto, un certo moto delle vostre labbra mi dovrebbe tenere in pensiero.—
Sorrise il domenicano, e ripigliò placidamente:
—Non vi maravigliate di un moto involontario, essendo un mal vezzo dei nostri poveri nervi. Ma con voi, degni gentiluomini, si può fare a fidanza. Il Ximenes è la virtù in persona: solamente è un po’ debole, innanzi a certi voleri, che potrebbero forse trovarlo più risoluto. Ma, ripeto, è un sant’uomo; quello ch’egli dirà di fare, certamente farà. Ad ogni modo, e senza saper nulla del vostro bisogno, vi presenterò io, vi raccomanderò io a Sua Eccellenza. Siete contento?—
Il capitano Fiesco s’inchinò, ringraziandolo; e l’arcivescovo di Siviglia si degnò di presentarlo egli stesso al primate della chiesa di Spagna.
Francesco di Cisneros Ximenes, arcivescovo di Toledo, succeduto in quell’alta dignità al buon cardinale Mendoza, doveva ancora aspettare un anno il cappello cardinalizio, che ottenne poscia da Giulio II. Per intanto, come primate della chiesa di Spagna, e già stato confessore della regina Isabella, il degno prelato, famoso per eccellenza di dottrina e per santità di vita, reggeva l’amministrazione politica del reame di Castiglia. Modesto nell’alta carica, indossava sempre il suo vecchio abito di frate francescano sotto le insegne pontificali: a Toledo viveva in una povera cella, contigua al palazzo arcivescovile; e per allora a Valladolid, seguendo la Corte, non aveva voluto alloggiare nel palazzo regale, troppo fastoso per lui, contentandosi d’un quartierino nel palazzo di giustizia.
E nessuno diceva che quella sua rinunzia ad ogni fasto fosse ostentazione di modestia. Il Ximenes era stato sempre così. Vagheggiava alti disegni, di cui Ferdinando rideva; ma quel sant’uomo lo serviva ad ogni modo, per grande amore che portava alla gloria di Spagna. Di questa sua indole generosa diè prova in tre occasioni solenni: la prima, dichiarandosi apertamente per Ferdinando, quando Filippo d’Austria morì, e della vedova Giovanna non si poteva sperare che con pienezza d’intelletto e fermezza di mano tenesse le redini del governo: la seconda, facendo e guidando egli stesso la fortunata impresa di Orano e di Algeri, che fece strabiliare l’incredulo monarca, tanto ingrato e sconoscente da scrivere al Navarro, comandante militare della spedizione: “impedite al brav’uomo di tornare troppo presto in Ispagna; bisogna lasciargli consumare, quanto più si potrà, la persona e il denaro„. La terza prova, e forse la più solenne, fu data dal Ximenes, quando dalle Cortes riluttanti fece eleggere in fretta re di Castiglia il poco amato e niente desiderato Carlo V, che doveva far ministro invece di lui il fiammingo Adriano d’Utrecht, che poi fu papa col nome di Adriano VI; ed egli, il virtuoso Ximenes, pur di giovare alla Spagna, si rassegnò lietamente al secondo posto, bastando a tutte le gravi cure del governo, che con tanta accortezza aveva sostenute nel primo.
Bontà non è mai troppa; e procede, se mai, da molta virtù. Ma non sempre i Castigliani potevano menar buona tanta virtù al loro concittadino, e ne accusavano più volentieri la debolezza; specie allora, che, viva Giovanna e non pazza ancora agli occhi di tutti, vivo il suo bel Filippo d’Austria, e desideroso di regnare con lei in Castiglia, il Ximenes si mostrava troppo docile ministro dell’Aragonese, e lui desiderando reggente, lavorava con ogni poter suo ad amicargli la riottosa nobiltà Castigliana. Ferdinando possedeva certamente molte qualità necessarie al regnante, specie di quei tempi; tanto che meritò le lodi del Segretario Fiorentino. Ma le guastava tutte col difetto di probità; era ingrato, bugiardo e mancator di parola: non contava nulla i suoi impegni, quando trovasse il suo tornaconto a violarli. E così poco si vergognava della sua perfidia, che se ne faceva bello quante volte gli riuscisse a bene. Udito un giorno che Luigi XII si doleva d’esserne stato ingannato una volta, “quell’ubbriacone ha mentito„ diss’egli, “perchè l’ho ingannato tre volte„. E un principe italiano diceva di lui: “prima di far capitale de’ suoi giuramenti, vorrei sentirlo giurare per un Dio, nel quale egli credesse„.
Ferdinando il Cattolico è qui giudicato: non ci maravigliamo dunque che non lo amasse l’arcivescovo di Siviglia, e che, per effetto della troppa sua condiscendenza al re d’Aragona, tacciasse di debolezza il virtuoso arcivescovo di Toledo.
Il quale, nella sua stanzetta modesta del palazzo di giustizia, accolse amorevolmente il suo minor collega di Siviglia: ma, come seppe chi fosse il suo compagno di visita, fece la cera un po’ brusca.
—Lo raccomando a Vostra Eccellenza;—diceva il Deza,—quantunque non sappia bene quel che gli occorra. A me è grandemente raccomandato dal signor Adelantado, fratello del nostro glorioso Almirante maggiore, che Iddio guardi, e Sua Altezza il re tenga caro com’egli si merita.—
Il Ximenes stette a sentire con molta rassegnazione il fervorino per Cristoforo Colombo, che con altrettanta soddisfazione aveva proferito il Deza. E cortesemente lo accomiatò, accompagnandolo fino all’anticamera. Ritornò poscia nella stanza, dove il capitano Fiesco era rimasto in attesa, sempre turbato, ed allora più che mai, pensando che da quel colloquio dipendeva la sorte di Juana e la sua.
S’aspettava d’essere interrogato; e grande fu la sua maraviglia, sentendosi dire dal Ximenes:
—So tutto, e non occorre, signor conte, che mi raccontiate l’arresto avvenuto. Andiamo per la più breve, che converrà a voi come a me. Per qual ragione non volete voi servire Sua Altezza? Perchè cospirate coi suoi nemici?
—Io, Eccellenza?—gridò il capitano, facendo gli atti del massimo stupore.
—Siete stato a Siviglia;—ripigliò l’arcivescovo.—E si sa dove siete andato, in Siviglia.
—In un convento, Eccellenza; ad ossequiare la signora marchesa di Moya, ch’io non so essere in mala vista presso la Corona; a chiederle una grazia, che assai mi premeva, voglio dire il suo patrocinio per il signor Almirante. Don Cristoval Colon, che la marchesa ha sempre stimato e protetto, è in fin di vita; nè Vostra Eccellenza lo ignora. Unica e sola, che potesse anche giovargli in un delicatissimo caso di coscienza, era Beatrice di Bovadilla.—
Senza pensarci bene, forse operando per moto spontaneo d’ingegno avvezzo ai pronti espedienti, Bartolomeo Fiesco aveva toccato un tasto che doveva rendere buon suono nell’animo del virtuoso Ximenes.
—Di coscienza?—diss’egli.—E si può sapere, senza offesa di sacre ragioni?
—Sì, e ne giudichi la Eccellenza Vostra;—rispose il Fiesco, che aveva avuta la buona ispirazione, e ne faceva il suo prò.—Nella maturità della sua giovinezza, il signor Almirante aveva amata una donna di Cordova; e di quell’amore gli era nato un pegno carissimo.
—Il giovinetto Fernando; mi par di vederlo;—notò il suo interlocutore.—E la donna, se ben ricordo, una Enriquez de Arana.
—Per l’appunto: non più veduta dal signor Almirante, perchè a lui diventata nemica, senza che egli mai riuscisse ad intenderne la ragione, mentre egli avrebbe voluto riparare al suo fallo. Ma ciò che in tanti anni non gli è stato possibile, diventa necessario ora, affinchè il giovane Fernando non rimanga orfano insieme e notato d’illegittimità. Il caso di coscienza è doppio, e verso la madre e verso il figliuolo.
—Come c’entra donna Beatrice di Bovadilla?—chiese il Ximenes.—Anche a non tener conto delle ciarle del mondo, che suole inventare tutto quello che non sa, possiamo maravigliarci che la marchesa di Moya sia ritenuta più adatta a riunire due anime state tant’anni divise.
—Non si maravigli il savio;—rispose Bartolomeo Fiesco.—La marchesa di Moya conosce Beatrice Enriquez. Fin dalla vigilia della partenza di Cristoforo Colombo per il suo primo viaggio di scoperta, aveva tentato, checchè potesse costarne al suo cuore, di ravvicinare la sdegnosa Cordovana al padre del suo Fernando.
—Mi assicurate che questo è il vero? che siete andato a Siviglia per ottenere i buoni uffici della marchesa di Moya nelle cose di don Cristoval Colon? e non per altro, non per altro?
—Quali prove posso io darne a Vostra Eccellenza, io che Le sono appena conosciuto per la presentazione di Diego di Deza? I miei leali servigi a questa Corona furono di buon suddito, e di suddito volontario, il che dovrebbe accrescerne il pregio. Il mio nome è d’antica stirpe di gentiluomini e di cristiani; nè io vorrei macchiarlo con una menzogna. Per nessun’altra ragione, fuor quella che ho detto, sono io stato a Siviglia; lo giuro per questa croce che vi pende dal petto, e che io bacio in ginocchio.—
Si era intenerito, il buon primate di Spagna. Posò la sua destra sul capo del conte, come in atto di benedirlo; poi, fattolo alzare e sedere davanti a sè, stette un istante pensoso.
—Vi credo, figliuol mio;—diss’egli poscia.—Ma vedete, qui siamo in mezzo a continui pericoli. Incedo per ignes suppositos cineri doloso; si cammina sulla cenere ingannevole, che nasconde i carboni ardenti. Si congiura contro il re Ferdinando, contro un sovrano che cova nell’animo grande i più vasti disegni. È dunque utile alla Spagna, alla sicurezza, alla gloria di questa nazione a mala pena formata, ch’egli sia il reggente di Castiglia; ed è necessario per ciò che il re Cristianissimo gli sia intieramente amico.
—Non gliene ha dato prove bastanti?—chiese il capitano Fiesco.—Non gli ha concessa in moglie Germana di Foix?
—Dite che il re Ferdinando l’ha voluta;—rispose il Ximenes.—E non poteva non volerla, per tema che altri la prendesse, diventando un pericoloso vicino. Queste cose non vogliono capirle i corti intelletti. Come figlia a Giovanni, visconte di Narbona, come sorella a Gastone di Foix, legittimo pretendente della Corona di Navarra, la principessa Germana era un partito più da lui desiderato, che non dal re Cristianissimo, sebbene per un tal matrimonio questi diventasse suo zio. È necessario, vi ripeto, che il re Luigi, ristrettosi finora ad un trattato riguardante le cose di Napoli, consenta ad una vera alleanza d’interessi, per ciò che riguarda il buon vicinato. Forte d’una simile alleanza, Ferdinando s’impone come reggente di Castiglia ai pochi ma riottosi signori del territorio, che s’ostinano a negar la luce del sole, ricusando di vederla.
—E l’aspettano di Fiandra;—notò il capitano Fiesco.
—Di Fiandra!—ripetè il Ximenes.—Perchè dite di Fiandra?
—Ma sì,—riprese quell’altro.—Non aspettano la principessa Giovanna e il suo marito Filippo d’Austria? E non sono in Fiandra, i giovani sposi?—
Il primate di Spagna non potè trattenere un sorriso, che non era tutto di compassione.
—Come?—diss’egli.—E non sapete?... Ah, davvero, figliuol mio, non siete andato a Siviglia per congiurare contro il re Ferdinando. Ecco una prova della vostra innocenza, che viene a corroborare le altre. Niente, niente!—soggiunse il virtuoso Ximenes, rispondendo ad un gesto di stupore del capitano Fiesco.—Non domandate spiegazioni, che vi sarebbero inutili. Vi basti sapere che vi stimo di più, ed anche sento di potermi fidar meglio a voi. Vedo in pari tempo che i segreti del re sono più custoditi ch’io non potessi sperare.—
Il capitano Fiesco non aveva capito come e perchè gli si potesse far merito dall’accenno alle Fiandre: non capì che cosa significasse il segreto del re, così ben custodito. Ma non istette a chieder ciò che il benigno interlocutore mostrava di non volergli dire. Di ben altro era curioso, dopo tutto; gli premeva ben altro.
—Torniamo a noi;—ripigliò il Ximenes.—Nessuno potrà meglio persuadere il re Cristianissimo, che il vostro eccelso cugino Gian Aloise, uno dei più potenti signori italiani, e colui che possiede l’anima e il cuore di Luigi XII. Chi potrà persuadere Gian Aloise, se non voi, conte Fiesco? A voi dunque; la gloria e la fortuna sono per voi.
—E per questo,—disse il capitano Fiesco,—per questo, che Sua Altezza non mi ha neppur detto, ha presa la mia donna in ostaggio?
—Sua Altezza non vi ha detto nulla, perchè vi ha veduto riluttante a servirla;—rispose il Ximenes;—ed anche perchè un messaggio di Siviglia, arrivatogli mentre eravate in udienza, l’induceva a sospettare di voi.
—Non può sospettare ancora?
—Non sospetto più io,—disse il Ximenes,—e sciolgo i sospetti del re.
—Ma l’ostaggio?... Perchè fu presa la contessa?
—Per assicurarsi di voi, suppongo;—disse l’altro, arrossendo.—Ed ora ha il pegno in mano, perchè voi entriate al suo servizio.
—E se io ricusassi, perchè non mi sento tagliato a questi uffici? Mia moglie non è spagnuola.
—Non nata spagnuola, concedo; ma suddita spagnuola potrebbe ben essere.
—No, non suddita spagnuola;—gridò il Fiesco, inasprito.
—Giuratelo per questa croce;—disse pacatamente il Ximenes.—Ah, non ardite! e temete di farvi spergiuro! Ve ne lodo. Ecco una quarta prova che m’avete detto il vero, giurando di non congiurare coi nemici del re. Servite dunque Ferdinando, com’egli desidera, e riavrete la vostra donna.
—Ma con quali pretesti è tenuta in carcere?
—Ragioni, figliuol mio, non pretesti. Fu presa, perchè si voleva venire in chiaro d’un travestimento illecito, che mirava ad ingannar tutti, compresa la giustizia. Avrei potuto ordinare l’arresto come grande Inquisitore; e non l’ho fatto, e potete ringraziarmene. Fu in quella vece un provvedimento della giustizia secolare, e per volere del re. Ora, figliuol mio, considerate il caso vostro. Se rivolete la vostra donna, dovete dar le prove al giudice che essa è veramente vostra moglie: e ci vorrà tempo a farle venire, le prove, a farle esaminare dagli esperti; più tempo che non ne spendereste a recarvi dal vostro eccelso cugino e a condurvi in Parigi con lui. Neanche è da credere che ella uscirebbe di prigione, se anche le prove fossero trovate bastanti. Si dovrebbe anche sapere se, essendo stata suddita spagnuola prima di esservi moglie, era egualmente libera, sciolta d’ogni obbligo verso la giustizia spagnuola. E qui bisognerebbe aspettare l’esito di certe indagini, che don Nicola Ovando ha già cominciate col suo solito zelo. C’è tutto un viluppo di cose, qui sotto, e in coscienza debbo avvertirvene, che non sarebbe punto piacevole per voi e per la povera prigioniera. Siate savio, conte Fiesco. A voi, come italiano, può premer poco che Ferdinando perda la reggenza di Castiglia o l’ottenga: a noi preme che l’ottenga; e non per lui, badate, ma per salute di questa patria, che senza di lui ricadrebbe nell’antica anarchia. Siamo destinati alla patria celeste;—conchiuse solenne il Ximenes;—ma dobbiamo meritarla servendo Iddio nella patria terrena, e in questa unendo a sua gloria i cuori e le menti. Siate savio, signor conte, e servite il re con amore. Io, frattanto, per questa croce vi giuro, che alla prigioniera non sarà torto un capello, e che anzi ella sarà trattata come una regina; mi capite? come una regina.—
Ahimè, sapevano ogni cosa, e non occorreva che aspettassero le nuove indagini di don Nicola Ovando! Sapevano ogni cosa, e il capitano Fiesco tremò tutto, dal capo alle piante.
Indice
Capitolo XIV. A Laredo! a Laredo!
—Il colloquio era durato ancora, ma rotto, a pezzi e bocconi, non sapendo il Fiesco rassegnarsi ancora a finirlo e chiedendo sempre qualche cosa, il Ximenes strascicando le parole e mostrandogli di aver detto abbastanza. Ma quanti dubbi restavano nell’anima del povero capitano! E non gli si poteva almeno concedere di veder la sua donna?
—Troppo chiedete, senza averlo meritato!—rispondeva qui l’arcivescovo.—Prenderò ordini da Sua Altezza. Quando avrete veduto il re.... quando egli vi avrà date le sue istruzioni.... chi sa? non dispero. Ferdinando è buono per chi lo serve con amore. Ed io, signor conte, ho desiderio di contentarvi. Ma voi siate ragionevole; è nell’utile vostro.—
Il capitano Fiesco baciò l’anello pastorale, e più morto che vivo si ricondusse a casa. Era aspettato, e non potè tacere il colloquio che aveva avuto, con un frutto così scarso per sè, con tanto danno imminente per le speranze del suo grande concittadino. Terribil dilemma! o tradire gl’interessi dell’Almirante, o perdere Fior d’oro.
—Figliuol mio,—disse Cristoforo Colombo,—non vi date pensiero di me. So bene che il trionfo di Ferdinando è la perdita d’ogni speranza mia, d’ogni fede nella giustizia degli uomini. Ma se Iddio non volesse farmi morire contento?... Tutto quello che accade dimostra che questo è il suo alto disegno. Sia fatta la sua volontà. Certo, ho gravi colpe da scontare; e non è giusto che altri ne soffra per me. Andate dal re, accettate ogni cosa. Ciò che Dio vuole sarà; ciò ch’egli non vuole non sarà; sia benedetto il suo nome.—
Nè già l’Almirante conosceva per intiero i disegni della marchesa di Moya, e le probabilità su cui erano fondati. Ma di tutto ciò era informato l’Adelantado, che vedeva nella trista commissione imposta al capitano Fiesco pericolare ogni speranza di giustizia. Era quello un gran colpo, e forse mortale, per il suo sventurato fratello, che ad ogni tratto, per ogni commozione un po’ forte, ricadeva prostrato, bene lasciando intendere ai suoi familiari che le fonti della vita s’inaridivano in lui.
Tornava frattanto alla mente del Fiesco il risolino del Ximenes, quando si era sentito accennare alle Fiandre. E se ne apriva coll’amico. Che cosa poteva significare quel risolino dell’arcivescovo di Toledo? E che segreto era quello del re, a proposito delle Fiandre, che l’arcivescovo riconosceva con tanta soddisfazione essere stato così bene custodito?
—Amico mio,—rispondeva l’Adelantado,—vorrà dire che dal lato delle Fiandre sono sicuri; che il re non ha timori, sapendo impazzita davvero la sua figliuola e rivale; che finalmente, e questo è il peggio, da quella parte là non c’è più da sperar nulla per noi.
—L’ho pensato ancor io;—disse il Fiesco.—Ma allora è inutile che temano, e chiedano man forte alla Francia.
—Eh, non si sa mai;—replicava l’Adelantado.—Se Giovanna è pazza, non è scemo il marito, e può cagionar dispiaceri, forte com’è dell’appoggio di suo padre, l’imperatore Massimiliano d’Austria. Castiglia è poco disposta a riconoscere l’autorità di Ferdinando d’Aragona. Non potrebbe ella voltarglisi contro?—
Il resto della giornata passò in ansie continue per il povero capitano, che quando non aveva l’amico a tenerlo occupato coi ragionamenti, si lasciava andare alla disperazione, e piangeva come un bambino. E non era un animo fiacco: ma in quella inerzia forzata, non aveva altro sfogo che le lagrime. Nè v’hanno poi animi forti contro un dolore che terribili incertezze rendano sempre più acuto.
Fior d’oro! povera donna cara! che sarebbe avvenuto di lei? come viveva in quelle ore? Il ministro di Ferdinando aveva promesso che sarebbe stata trattata bene, con tutto il rispetto dovuto ad una regina. E il poveretto amava ad ogni tanto richiamarsi a mente le parole del Ximenes. Certo, quell’uomo era debole, come lo aveva giudicato Diego di Deza; ma non si poteva negare che fosse un uomo virtuoso. Debole, finalmente, era fatto dal vivo amore di patria, che i suoi concittadini non mostravano di intendere, e a cui uno straniero era tanto meno obbligato di render giustizia: ma le sue intenzioni erano pure; le aveva chiarite egli stesso, con sincerità tanto più bella, quanto più era stata spontanea. Sì, il Ximenes avrebbe fatto ciò che prometteva. Non aveva egli anche giurato per la sua croce? Ma questo per il tempo che il capitano Fiesco sarebbe stato lontano. E se tornava senza aver nulla ottenuto? Cessava la pietà del ministro, e sottentrava la durezza del re. Trattata come una regina!... Sì; e non si poteva ricordar troppo, allora, che Fior d’oro era stata regina, e condannata ad una morte ignominiosa?... Orribile pensiero, che faceva fremere, raccapricciar di spavento! E c’era intanto da piangere di disperazione, in una notte lunga, lunga, che non voleva finire mai più.
La mattina seguente, appena gli parve ora da ciò (ed era già in volta da un pezzo) il capitano Fiesco andò al palazzo di giustizia. L’arcivescovo di Toledo lo ricevette senza indugio, e lo accolse con un bel sorriso paterno.
—Ho buone notizie per voi;—gli disse subito.—È tranquilla. L’ho veduta io medesimo.
—Stamane! già?
—Sì, stamane, signor conte. Voi venite per tempo; ma io sono stato anche più pronto a lasciare il letto. I vecchi, figliuol mio, dormono così poco! È tranquilla, vi ripeto, ed anche di buon animo. Le ho detto che pensate a lei, cercando di abbreviare i termini della sua liberazione, e correndo perciò a prender le carte comprovanti il vostro matrimonio. Non era bene che le si parlasse d’altre imputazioni; vi pare?
—Ringrazio Vostra Eccellenza;—mormorò il capitano Fiesco, piangente.—È stato un buon pensiero; e mi promette cose maggiori. Non mi sarà dato vederla?
—Non correte, non correte tanto, vi prego. E non vi ho detto or ora che voi già dovevate correre sopra un’altra via? A quest’ora, secondo quello che io ho detto alla contessa, voi dovreste essere molto lontano, a Medina Celi, e forse a Calatayud, sulla strada di Saragozza. Del resto, non avevo ottenuto nulla dal re. Per esservi largo di favori, egli vuole la prova della vostra obbedienza.
—E gliela porto;—disse il Fiesco, sforzandosi di parer contento del suo destino.—Si degni Vostra Eccellenza di accompagnarmi.
—No, non occorre;—rispose il Ximenes.—Sua Altezza ha voluto lasciare a me la cura di tutto.—
Il capitano Fiesco s’inchinò. Bene intendeva che Ferdinando non si sentisse di rivederlo, dopo il brutto colpo del giorno prima. Ed anche per lui, forse, era meglio non vedersi davanti quella faccia di traditore.
—Qui,—proseguiva l’arcivescovo, prendendo in mano un foglio di carta,—è un disegno di trattato. Una semplice minuta, senza intitolazione, senza formole di cancelleria, per ovviare ad ogni pericolo di smarrimento. Il re Cristianissimo, del resto, conosce bene questa mano di scritto. C’è la sostanza; quanto alla forma, parola più, parola meno, può esser variata; e veda il vostro eccelso cugino di far le cose per bene; Sua Altezza non tralascerà di mostrargliene il suo gradimento. Ci sono contee e marchesati anche in Aragona, o in Castiglia, a sua scelta, ma per il giorno che la reggenza di Castiglia sia assicurata al re Ferdinando.
—E se Gian Aloise non accetta di recarsi in Francia?
—Come?—esclamò il Ximenes.—E perchè non accetterebbe, se voi lo pregate.... con quelle ragioni che avete? Amerebbe egli così poco i suoi parenti? così poco si curerebbe della loro felicità? e della propria fortuna? Per qual ragione, poi? Egli non ha vincoli coi nostri nemici di qui; nè può veder male che il re Cristianissimo, già amico del re Cattolico a Napoli, gli diventi più amico ai Pirenei. Vedrete che accetterà, e per l’utile suo, che non sarà poco, e per l’utile vostro, che saprete ben mettergli sott’occhio. Andate dunque sicuro, e partendo fin da quest’oggi. Avete bisogno di denaro?
—No;—rispose il Fiesco, fremendo.—Son provveduto abbastanza.—
E si congedò, per mettersi quel giorno istesso in viaggio. Spendendo del suo, per Iddio! Non voleva denaro dai carcerieri di Fior d’oro; non voleva denaro, per un’opera che sapeva di tradimento. Lo aveva assolto l’Almirante; lo aveva anzi incuorato; ma era sempre un’infamia. Ed egli si sentiva preso al laccio, preso senza rimedio, come quando lo aveva colto il selvaggio Guatigana alle cascatelle del Verde. Ma allora era solo, e non doveva pensare ad altri che a sè. Il soldato era stato preso in una imboscata; eventi di guerra, a cui bisognava adattarsi. In guerra c’è sempre la morte, alla prima svolta del sentiero; il soldato lo sa, e ne sorride, provando un aspro diletto a sfidarla. Ma ora! Non c’era il pericolo della morte per lui; c’era bensì, a prezzo dell’infamia sua, la salvezza di una povera donna adorata. E gentiluomini, e cristiani, avevano potuto meditare un’insidia così vile?
Andava, frattanto, proseguiva il suo cammino verso la casa del signor Almirante. Le vie per cui passava si vedevano piene di gente affaccendata, che non faceva calca, ma si spartiva in crocchi, in capannelli, in brigate, che vociavano confusamente, alternando tra loro domande e risposte, facendo atti di maraviglia e d’allegrezza, di sdegno, di sconforto, secondo le opinioni e gli umori, come sempre accade nelle popolari ragunate, quando qualche cosa bolle in pentola, e chi la vuol cotta e chi cruda, e chi si contenta e chi no, ma tutti ad un modo si riscaldano nel giuoco.
—Felici voi!—pensò il capitano Fiesco, passando.—Felici voi, che gridate i vostri desiderii e le vostre passioni in piazza! Io griderei morte e dannazione a questo mondo vigliacco, che lo inghiottisse una volta l’abisso; e per tutta l’eternità, quanto è lunga, e per un’altra, e un’altra ancora, si sprofondasse tutti nel vuoto!—
Nè egli sentiva pure il desiderio di rallentare il passo, per cogliere a volo qualche frase di quei discorsi animati, per intendere di che ragionassero tutti quei cittadini di Valladolid, che parevano morsi dalla tarantola. Dei fatti altrui non era curioso: quanto a sè, tutto ciò che poteva accadergli di peggio era accaduto da un giorno. E che cosa, finalmente, potevano aver di nuovo, i cittadini di Valladolid? Forse li metteva in festa una delle tante solennità del calendario; forse li commoveva in vario modo uno di quei truci spettacoli che l’Inquisizione regalava ogni settimana nel Campo Grande, a maggior gloria di Dio e dilettazione del popolo?
Ma no, niente di questo; dovevano essere di politica, quegli animati discorsi.—Le Cortes!...—Burgos!...—Perchè Burgos, e non Valladolid? Queste parole, spiccando tra tante altre men chiare, giunsero a lui, e il suo orecchio involontariamente le accolse.
—Politica!—diss’egli tra sè.—Lasciamola ad Aristotile; io ne ho piena la testa. E le tasche;—soggiunse con amara celia, mentre si tastava il giubbone.—Ce l’ho qui, io, buoni Castigliani, il trattato che dovrà farvi contenti come pasque.—
E andava ancora, e giungeva in vista della meta. Ma la strada non era così deserta e tranquilla come il giorno prima, quando gli era parsa tanto serena, tanto innocente. Presso la casa di Gil García, e proprio davanti al portone, si vedeva uno stuolo, quasi un drappello d’uomini, tutti vestiti d’una foggia. Soldati? no, perchè apparivano disarmati. Famigli, piuttosto, staffieri di grande casata, come mostrava l’assisa uniforme, rossa e nera, dei loro mantelli e dei loro farsetti.
—Visite!—pensò il capitano Fiesco.—E di gran personaggi!—
Ma egli doveva salire, per congedarsi dall’Almirante; e passò, in mezzo a quello sciame di staffieri. Giunto al pian di sopra, trovò ancora l’Adelantado, che passeggiava col nipote Fernando.
—Novità;—gli disse il vecchio marinaio;—e varranno, spero, un po’ meglio delle vostre.
—Le mie,—rispose il capitano,—son quelle d’ieri. Si vuole ch’io parta, e per servizio del re d’Aragona. Le vostre?
—È giunta la signora marchesa di Moya;—replicò l’Adelantado.—Essa è di là, nella camera dell’Almirante.
—Già qui!—esclamò il Fiesco.—Ma non ho veduto il frate scudiero, salendo.
—E non potevate vederlo, perchè non è venuto. Lo ha lasciato a Siviglia, o mandato altrove, che bene non ricordo. Egli dovrà capitare fra due o tre giorni. Ma entrate; la marchesa vi aspetta.—
Il signor Almirante era seduto su d’un seggiolone accanto alla finestra, appoggiato le spalle e il capo ad un alto guanciale; bianco, cereo la fronte e le guance, ma sfavillanti i grandi occhi cerulei, e vermiglio le bellissime labbra, come nei giorni migliori della sua vita. Non era quello da annoverare tra i più belli che mai avesse vissuti il grand’uomo? Beatrice di Bovadilla era là, seduta accanto a lui, tenendone una mano tra le sue, e guardandolo amorosamente negli occhi. Piangeva, la bellissima donna; ma tra le lagrime brillavano le ciglia, e sorridevano le labbra, dicendo la contentezza di quell’ora solenne.
Temeva di giungere importuno, il capitano Fiesco; ma fu accolto come persona desiderata. Ed anche l’arrivo suo metteva fine ad una scena di gran commozione, che non voleva essere prolungata.
Beatrice di Bovadilla si mosse alquanto sulla vita, e stese una mano al conte Fiesco, mentre l’altra non abbandonava la mano del signor Almirante.
—Amico,—diss’ella,—eccomi qua, come avevo promesso, e prima ancora che voi non mi doveste aspettare. Ma si fan presto le cose che si fanno volentieri; ed anche altre ragioni che saprete mi hanno messe le ali. E giungo in tempo per molte cose;—soggiunse, stringendo la mano del nuovo venuto.
Bartolomeo Fiesco s’inchinò, rispose con una stretta più forte alla stretta di donna Beatrice; ma non seppe che dirle. Era confuso, ed aspettava di sapere dell’altro.
—Ebbene,—domandò l’Almirante,—che cosa vi han detto laggiù?
—Che debbo partire. Ed io,—soggiunse il Fiesco, sospirando,—avendo la vostra licenza, obbedirò.
—Ma che! non obbedirete affatto;—interruppe la marchesa di Moya, col suo piglio imperioso.—So tutto. In poche parole mi ha informata il signor Adelantado di tutto. E per servizio d’Aragona non occorre più niente.—
Il capitano Fiesco era rimasto sconcertato, guardando Beatrice di Bovadilla, poi l’Adelantado, che era entrato dietro a lui nella stanza.
—Non chiedete perchè m’abbiano informata;—ripigliò la marchesa.—Non potevano già tacermi l’infamia che è stata commessa a danno vostro. E poi, ci sono forse più segreti tra noi? Nè io li tradirò, buon amico, e leal servitore di don Cristoval. E voi, e l’Almirante, e suo fratello, serberete anche un segreto, che non è intieramente il mio, ma di tutta Castiglia. Vengo con molti, e precedo moltissimi, un vero esercito di gentiluomini. Veramente, dovevo venire con altra compagnia, che voi ben sapevate, signor conte: ma che volete? gli eventi son corsi più rapidi dei miei disegni, ed io sono stata travolta dagli eventi. I segnali, benedetti segnali di fiamma, hanno scompigliato ogni cosa.
—I segnali!—ripetè il Fiesco, che non riusciva ad intendere.
—Già, le belle fiammate, che secondo una certa intesa dovevano divampare sulle vette dei monti, dalle Asturie alla nuova Castiglia, per tutto il confine del Portogallo, hanno dato un ben lieto annunzio alla nobiltà Castigliana. Ed eccoci qua. Ho dovuto correre, colla mia gente, lasciando a Siviglia il vostro scudiero, con una lettera mia, che terrà luogo delle parole. Egli verrà; accompagnato o solo, non importa; ma verrà, e voi lo riavrete.—
Questo importava poco, per allora, anche al capitano Fiesco. Egli capiva così ad occhio e croce che lo stato delle cose si mutava stranamente per tutti. Ma quei segnali di fiamma, quell’esercito di gentiluomini, quell’arrivo anticipato di donna Beatrice, quella sua stessa aria di trionfo, volevano una spiegazione.
—Dobbiamo custodire un segreto, e sia;—diss’egli di rimando.—Ma almeno vogliate confidarcelo intero.
—Non lo avete indovinato? Quello che io ve ne avevo lasciato trapelare in Santa Chiara, non bastava a mettervi sull’orma? La Nuova Castiglia si rovescia sulla Vecchia, per darle man forte; tutt’e due s’imporranno alla ostinazione del re Ferdinando, con la convocazione delle Cortes nella città di Burgos.—
Il capitano Fiesco ricordò allora i discorsi che aveva sentiti per via. La Nuova Castiglia, arrivando, spandeva già il gran segreto alle turbe.
—Il re d’Aragona ha giuocato una grossa posta;—continuava frattanto la marchesa di Moya.—E l’ha perduta; tanto peggio per lui. Gli premeva di nascondere il vero in Segovia, di nasconderlo a Valladolid, come lo avrebbe nascosto a Burgos, dove sarebbe andato a far capo, accostandosi al confine minacciato, andandoci come la biscia all’incanto. Giovanna e Filippo non dovevano da principio lasciare le Fiandre; questa la certezza ch’egli voleva istillare negli animi di Castiglia. E non dovevano averle lasciate, nemmeno quando si erano imbarcati, e il vento li cacciò sulle coste d’Inghilterra. Egli intanto mandava a Londra i suoi messaggeri, che tentassero la fede ospitale di Arrigo VII. Questo abbiamo saputo noi, come sapevamo già il resto; ed abbiamo voluto lasciarci credere ignari di tutto, inerti, discordi, ingannati da lui. Ora egli non sa ancora una cosa, che a noi è stata annunziata da quelle belle fiammate sui monti; Giovanna e Filippo hanno lasciata l’Inghilterra; saranno domani in vista di Laredo, nel golfo di Biscaglia. Capite, ora? capite perchè siamo qua noi? Dico noi, così per dire;—soggiunse la marchesa, sorridendo, ed anche arrossendo un pochino;—che io, veramente, se un’altra più potente cagione non mi avesse chiamata su questa via, avrei potuto assistere al trionfo della buona causa dal mio modesto ritiro, nel convento di Santa Chiara, ove le anime tristi covano meglio la loro tristezza che altrove. Comunque sia, eccomi qui, imbrancata, come una nuova Bradamante, nel grande esercito dei cavalieri di Castiglia; l’ho anzi preceduto, con una e bella e fiorita avanguardia. Giudicatene voi: Ossuna e Gandia, Carmona, Ubeda e Montilla, duchi; Avila, Lucena, San Felipe, Valdepeña, Almagro, Albacete, marchesi; Almanza, Andujar, Cabriel, Huete, Velez Rubio, e via discorrendo, non so più bene se una ventina o una trentina di conti. Li raccattavamo per via; quanti erano pronti, venivano con noi; tutti gli altri verranno in giornata, o domattina; e tutti avviati a Burgos, con una parola d’ordine, le Cortes, le Cortes di Castiglia, per Giovanna e Filippo. E voglia o non voglia il re d’Aragona, si convocheranno a Burgos, dove Lerma, Aranda, Soría, Alar, Espinosa, Miranda, Zamora, Medina Rio Seco, Alba de Tormes, tutti i più grandi nomi della vecchia Castiglia ci attendono.
—E Ferdinando non ha fumo di tutto ciò?—disse il Fiesco.—Oggi, in Valladolid, si deve già saperne qualche cosa.
—Oggi, sicuramente; se hanno occhi, egli e i suoi cortigiani, debbono averci veduti arrivare. Ma ieri non dovevano sapere ancor nulla, perchè lungo la strada altro non abbiamo incontrato che popolo in festa, e nessuna faccia proibita d’esploratori reali. Castiglia ha fatte le cose per bene; tutti volevano venire incontro a Giovanna, e nessuno ha tradito il segreto.
—Pure,—notò il capitano Fiesco,—si era saputo che io ero venuto a Siviglia, e nel convento di Santa Chiara.... a cospirare con voi.
—Bella forza!—esclamò la marchesa.—Non vi ha mica tradito Siviglia. Vi hanno seguitato da Segovia, dove il vostro arrivo sarà parso sospetto. Odiano l’Almirante del mare Oceáno, come odiano noi; hanno voluto sapere dove andaste, mettendovi in cammino appena arrivato; e l’hanno saputo, tenendovi dietro. Quanto alle cospirazioni, è naturale che ne sospettassero. Le sentivano nell’aria. Ma che non sapessero fin dove potessimo giungere, ve lo dimostri l’esser noi giunti senz’ombra di ostacoli.
—Non avranno osato;—disse il capitano Fiesco.
—E ben per loro!—replicò la marchesa.—Questa non è cospirazione di pochi signori; è cospirazione di tutti. Anzi, non è nemmeno cospirazione; è volontà d’un popolo intiero. Le Cortes, a Burgos, per Giovanna e Filippo! Ed ora, vedrete quel che avverrà. Posso predirvelo, senza avere il dono della profezia. Andremo a Burgos, e il re Ferdinando verrà a Burgos; sempre come la biscia all’incanto; verrà a Burgos, coi suoi gentiluomini Aragonesi. Dico gli Aragonesi, perchè i Casigliani della sua Corte l’avranno già abbandonato, prima che tramonti il sole, per unirsi ai loro compagni.
—Anche l’arcivescovo di Toledo?
—Ah, il sant’uomo? No, egli non verrà con noi; ma si accosterà, per metter parole di pace. Virtuoso Ximenes! Lo rispettano tutti, e lo ascolteranno con riverenza, non potendo obbedirlo; poi gli faranno cerchio, e gli diranno: a Laredo, signor primate di Spagna, a Laredo, per ossequiare la vostra regina, la figlia della grande Isabella, la erede legittima, venuta ad occupare il suo trono. A Laredo! a Laredo!
—Perchè non posso io seguirvi laggiù!-disse l’Almirante, sospirando.—Se ancora mi potessi reggere in sella!...
—Giovanna verrà da voi, se ama la gloria del suo regno;—rispose Beatrice di Bovadilla, col suo bell’accento ispirato.—Con me, intanto, verrà il signor Adelantado, se voi lo permettete; e porterà una lettera vostra, e la presenterà alla regina.
—In tanta rèssa di cortigiani!—notò l’Adelantado.—Sarà difficile.
—C’è Bovadilla;—replicò la marchesa.—E la lettera di don Cristoval Colon sarà aperta e letta dalla regina, appena ella avrà toccato il suolo di Spagna.—
Un cavaliere, giunto allora in anticamera, chiedeva di parlare alla marchesa di Moya. Donna Beatrice, chiesta licenza a don Cristoval, lo fece entrare. Era il marchese di Lucena.
—Signora,—diss’egli, dopo aver fatto riverenza al signor Almirante,—il duca di Ossuna vi chiede consiglio. La città è tutta con noi; prega che siano qui convocate le Cortes. Che si risponde?
—Ecco Bradamante nel consiglio dei paladini;—gridò Beatrice di Bovadilla, ridendo.—Dite al duca di Ossuna che la risposta è facile. Non si può far torto a Burgos, città del Cid Campeador, e capitale della Vecchia Castiglia. Inoltre, prima di risolvere questa od altra questione, dobbiamo prendere i comandi della regina. E per noi, frattanto, l’essenziale è di giungere a Laredo.—
Il marchese di Lucena s’inchinò, salutò l’Almirante, e partì. Ma la conversazione aveva appena potuto riprendere il suo corso, che un altro cavaliere giungeva; e questo, senza farsi annunziare, entrava nella stanza, precipitandosi tosto nelle braccia del signor Almirante.
Era il figliuol suo, don Diego Colon, gentiluomo della corte di Ferdinando. Si odiava il padre, e si teneva a corte il figliuolo; per un resto di pudore, forse, o piuttosto per salvar le apparenze. Nè l’Almirante, sebbene ferito in tanti modi, nella sua dignità come nei suoi più sacri interessi, aveva mai permesso che il suo Diego lasciasse il servizio del re. Gli pareva l’ultimo anello che ancora congiungesse ai reali di Spagna il vicerè delle Indie, e non voleva spezzarlo.
—Non ti aspettavo, quest’oggi;—disse l’Almirante, dopo aver ripetutamente baciato ed abbracciato il suo primogenito.
—Nè io avrei potuto venire da voi, padre mio, prima di domani, essendo oggi di servizio. Ma ho avuto licenza, per prender commiato da voi, se restate a Valladolid. La Corte, domattina, si trasferisce a Burgos.—
Beatrice di Bovadilla volse un’occhiata in giro, come per far intendere all’Adelantado e al conte Fiesco:
—Che cosa vi dicevo io? Senza avere il dono della profezia, non vi pronosticavo quel che doveva accadere?—
All’occhiata della marchesa di Moya, il capitano Fiesco rispose con un inchino, che voleva dire: avevate ragione. Ma fece ancora un gesto di preghiera, che voleva aggiungere: ed io, come rimango, se partite? come rimarrà una povera prigioniera, se i carcerieri maggiori l’abbandonano all’arbitrio dei minori?
Tutte queste cose non capì la nobil signora ad un tratto. Ma intese che il capitano Fiesco aveva bisogno di lei.
—Signor Almirante,—diss’ella,—vi lascio per qualche momento col vostro don Diego. Ripasserò a salutarvi, prima di partire da Valladolid, ove ad ogni modo ritornerò per far più lunga dimora, se pure non seguirete la Corte anche voi. Ora, se permettete, vi rubo per una mezz’ora il conte di Lavagna.—
Così prese commiato. E uscendo dalla stanza col capitano Fiesco, che la seguiva tutto trepidante, gli disse colla sua bella voce che incantava la gente, e col suo bell’accento sicuro che ridava la vita:
—Pensiamo ora al mozzo Bonito. Sapete che lo amo, e che abbiamo fatto una sacra alleanza tra noi. Come sono contenta di esser venuta incontro ad una regina, per mettermi ai servigi di un’altra!
—Sapete già?...—chiese egli confuso.
—So tutto, signor conte. Ero giunta dall’Almirante mezz’ora prima di voi. Molte cose si possono dire e sapere in mezz’ora. E adesso, a noi.—
Indice
Capitolo XV. Il ragno e la sua tela.
La mattina del 7 maggio, dell’anno 1506, gli abitanti di Laredo, gran pescatori e salatori di pesce nel cospetto di Dio, ebbero il magno spettacolo d’una armatetta navale che s’accostava con buon vento al loro porto, forse il più vasto, ma per allora il più sabbioso di tutta la costa di Biscaglia. Essi non avevano da temere uno sbarco di nemici, poichè le navi battevano bandiera castigliana; e del resto, fin dalla sera innanzi, troppa gente li aveva avvertiti, accorrendo a Laredo; troppa più gente che non potesse albergare la piccola città marinara; tanto che, rimpinzate le case, si era dato, od era stato preso alloggio nei magazzini, nelle scale, nei portoni, sotto gli archivolti, dovunque fosse un po’ di riparo; e molti poi s’erano adattati all’albergo della bella Luna, battendo i denti dal freddo. Ma per amore non si sente dolore: ed era amore quello che aveva tirate tante migliaia di grandi e piccoli gentiluomini a Laredo, per assistere all’arrivo di Giovanna di Castiglia, l’aspettata, l’invocata, l’adorata regina.
Le navi avevano ammainate le vele e gittata l’áncora fuori del porto; segno che non si fidavan troppo del suo fondo, o che abbastanza lo conoscevano. Subito dopo si spiccò dalla capitana un palischermo, a cui altri due se n’aggiunsero, fiancheggiandolo, ma rimanendo rispettosamente indietro due o tre palate di remi. E via via dalle altre navi si spiccarono altre imbarcazioni, venendo a formare sull’acqua una specie di falange macedone, la cui punta era il palischermo anzidetto, che portava a poppa lo stendardo regale, di rosso al castello d’oro, che era di Castiglia, ma partito di Leone, cioè d’argento al leone di rosso. Come il palischermo fu presso alla calata del porto, in mezzo alle grida e agli evviva della moltitudine affollata, si levò dal sedile di poppa una donna vestita di bianco, che portava sul capo, trattenuta fra le ciocche dei capelli nerissimi, una piccola corona d’oro. A lei volevano dare il passo i gentiluomini che le erano venuti compagni; ma ella, mentre un alfiere spiccava il vessillo dalla poppa, si trasse indietro verso un giovane cavaliere, a cui disse con accento di tenerezza:
—Filippo, siate voi il primo a toccare il suolo di Castiglia, che vi appartiene, come io vi appartengo.—
Pareva una bella cortesia di regina al suo compagno di reame; ma era un grido dell’anima, e Giovanna di Castiglia amava pazzamente quell’uomo.
Filippo d’Austria meritava egli un amor così forte? Per la bellezza, sì, certo. Giovane, che ancora non aveva toccati i ventotto; biondo dorato i capegli; bianco rosato la carnagione, e così fine la pelle, che contro la luce del sole pareva di vederci correre il sangue di sotto; d’una maravigliosa delicatezza i lineamenti del viso; snello di membra, elegantissimo in ogni movenza, dava l’immagine di tutte le perfezioni raccolte in un tipo esemplare di umana bellezza; con molta propensione, s’intende, alla grazia femminile, anzi che alla energia mascolina. Ma queste, che sarebbero inezie in ogni caso, non potevano neanche venire alla mente, guardando quel miracolo di principe. Tutti, in Europa, lo chiamavano Filippo il Bello, e con assai più di ragione che non si decorasse d’ugual soprannome un altro Filippo, di due secoli innanzi, e di Francia. Le donne, poi, specie se avevano la fortuna di vederlo da vicino, lo chiamavano l’arcangelo Gabriele; non sappiamo con quanta verità, ma certo con gran dispetto della regina Giovanna. E questo non forse per la irriverenza usata all’arcangelo, di compararlo ad un personaggio mortale, ma certamente perchè quell’ardito paragone le pareva ispirato da sentimenti troppo più arditi. Ammirassero da lontano, e tacessero; questo avrebbe voluto Giovanna. Erano già tante le sue paure! Così bello, da passare in proverbio, e sapendo che il sorridere gli stava bene a viso, mettendo in mostra un vero scrigno di perle, Filippo sorrideva spesso alla gente; e quando si trovava alla presenza di belle donne, fossero dame od ancelle, gli sfolgoravano gli occhi, e le dolci paroline gli fiorivano sul corallo tenero delle labbra stupende. E Giovanna ne soffriva, quantunque non avesse vere ragioni, o non gliene fossero venute sott’occhio, di lagnarsi del suo maritino. Sposata a lui nel 1490, ne aveva già avuti cinque figliuoli, Carlo, Ferdinando, Eleonora, Elisabetta, Maria: un sesto rampollo, Caterina, era ancora di là da venire; in viaggio, come si dice ai bambini curiosi.
Giovanna di Castiglia non si poteva dir brutta, perchè non era deforme; ma non si poteva dir bella, perchè non era piacente. Nata in un grado sociale più umile, non sarebbe stata osservata, nè per un verso, nè per l’altro, restando in quella mediocrità che solo può tornar gradita ai filosofi. Avrebbero potuto nondimeno piacere in lei due grandi occhi neri pensosi, ma troppo spesso velati, Dio buono, come smarriti in estatiche contemplazioni; le quali non erano infrequenti, ed occorrevano lì per lì, dovunque ella fosse, e in qual si fosse più numerosa brigata, solo che fosse lasciata un istante a sè stessa. S’incantava, allora; e quei grandi occhi, fissi in un punto dello spazio, perdevano la lucentezza insieme con la mobilità; onde appariva ch’ella non guardasse fuori e lontano, ma dentro di sè. Vedeva allora Filippo, il suo bel Filippo; e a volte gli sorrideva, a volte torceva la bocca, si sbigottiva, e usciva allora in rotte parole. Oh Filippo, no, no! Che ti ha mai fatto, questa povera Giovanna? Chiamata di schianto, ritornava in sè stessa, sorrideva malinconicamente, e si scusava del suo vaneggiare, dicendo:
—O sire Iddio, che sogno spaventoso ho mai fatto!—
Nè mai, per pregarla che si facesse, voleva dire che sogno fosse. Onde già intorno a lei si sussurrava che fosse un po’ matta; mentre al padre di lei sarebbe stato caro (e ne sappiamo oramai la cagione) che fosse matta del tutto.
Il voto di quel padre amoroso doveva essere esaudito, pur troppo; ma non per allora. Per allora, la nuova regina di Castiglia, senza darne avviso a nessuno, senza riconoscer reggenti volontarii, nè amministratori del regno, approdava a Laredo, per venire ad occupare il suo trono. E mentre l’accolgono a festa i cavalieri di tutta Castiglia, scodelliamo qui alcune notizie genealogiche di lei e dei suoi. Non saranno molte; appena quel tanto che basti a far intender le cose che dobbiamo descrivere.
Giovanna era nata la seconda di quattro figliuole della grande Isabella. La prima, pur essa di nome Isabella, e la terza chiamata Maria, erano state successivamente maritate ad Emanuele il Fortunato, re di Portogallo; il quale, per verità, non si chiamò Fortunato perchè la prima moglie spagnuola gli fosse morta (che anzi n’avrebbe avuto, se viva, il diritto alla corona di Castiglia; onde Dio sa quante cose mutate nel mondo!), nè perchè la seconda fosse più bella e più cara, ma perchè in un regno di ventisei anni come fu il suo, la potenza portoghese era giunta al suo colmo, colla voltata del capo di Buona Speranza, colla fortuita scoperta del Brasile, con una serie di guerre felici e di utili conquiste nell’Asia, nell’Africa, nelle Indie occidentali. La quarta figliuola, Caterina, era andata sposa in Inghilterra, da prima al principe Arturo, erede del trono, e poscia, lui morto, al principe Arrigo, che fu Arrigo VIII, l’uomo delle sei mogli: due ripudiate, due decapitate, una morta per miracolo nel suo letto, un’altra per miracolo anche maggiore riuscita a sopravvivergli. Non dimentichiamo di dire che la prima delle sei, Caterina, fu tra le ripudiate: strana sorte, dopo che a forza l’avevano voluta tenere. Il suocero suo, Enrico VII, era chiamato il Salomone dell’Inghilterra; per la sua molta saviezza, certamente, non già per la sua magnificenza. Aveva ricevuto dalla Spagna dugento mila scudi d’oro per la dote, che per quei tempi era un gran fatto. Morto il principe Arturo, quel savio babbo avrebbe dovuto rimandar la sposa e la dote. Per la prima, niente di male; ma restituir la dote pesava al Salomone d’Inghilterra: ond’egli aveva fatto il savio proposito di dar la vedova del primo figliuolo in isposa al secondo. Ferdinando e Isabella se n’erano contentati; papa Giulio II aveva mandate le necessarie dispense.
Innanzi alle quattro principesse d’Aragona, com’erano chiamate dal titolo regio del padre, era nato un principe, don Giovanni; ma da alcuni anni era morto per una caduta da cavallo. Delle tre principesse superstiti, adunque, una era regina del Portogallo; l’altra principessa di Galles in Inghilterra; la terza, e prima per ragione di età, erede del trono di Castiglia, poichè fu morta la madre. Questa la regina che approdava la mattina del 7 maggio a Laredo. Moglie ad un arciduca d’Austria, portava in casa d’Austria la corona di Spagna; e le era già nato da sei anni quel Carlo, che, primo del nome in Ispagna, doveva poi essere Carlo V nell’Impero di Germania, così potente, anzi prepotente nella storia d’Europa.
Col suo bel Filippo era partita Giovanna da Brusselles; si era con lui imbarcata il giorno 8 di novembre dell’anno 1505, avviata alle coste di Biscaglia. Ma il vento e il mare cospiravano quella volta con Ferdinando d’Aragona, e il naviglio combattuto dagli elementi ebbe per gran sorte di poter appoggiare alle coste d’Inghilterra. Arrigo VII ebbe ospiti i giovani sovrani, e si può credere che con tutta la sua avarizia rallentasse un pochino i cordoni della sua borsa per trattarli a dovere. Ferdinando, che stava alle vedette, a mala pena ebbe fumo dell’appoggiata, mandò messaggi ad Arrigo, ed esortazioni e preghiere, perchè volesse trattenere quei due ragazzi, per suo avviso incapaci di regnare. Arrigo VII, il Salomone d’Inghilterra, non fu mai tanto Salomone come in quella circostanza difficile. Tenne a bada i suoi giovani ospiti più che potè, con le feste e le cacce, così mostrando di esaudire l’Aragonese; ma come gli parve che il giuoco durasse troppo, nè si potessero trovare altre scuse agli indugi, pensò che i due ospiti, se volevano andarsene, gli dovessero pagare lo scotto. Il suo regno era stato lungamente turbato da pretendenti di varia derivazione: li aveva sbaragliati tutti, presi tutti, salvo uno, Edmondo Pole, conte di Suffolk, riparato nelle Fiandre. Glielo poteva consegnare il suo ospite Filippo? Non gli avrebbe torto un capello: ma gli sarebbe stato caro di averlo sotto la sua vigilanza. Filippo glielo consegnò, e non fu bella cosa: nè certamente se ne vantò, sebbene il Tudor gli mantenesse la parola di non levar la vita all’ultimo dei suoi disgraziati rivali; grata cura che si prese parecchi anni dopo l’ottavo Arrigo, il Roboamo di quel Salomone. Così pagato lo scotto, uscivano dal Tamigi i sovrani di Castiglia, dopo tre mesi e più di quell’ozio forzato, a cui era stata buona scusa la stagione, cattiva oltre ogni termine, ed oltre ogni pronostico. E il Salomone dell’Inghilterra usava ai giovani ospiti la cortesia prelibata di non avvisare il re d’Aragona del non averli potuti trattenere di più. Di che si poteva lagnare il re Ferdinando? Per i fini di lui, per il tempo che gli occorreva a suscitar loro qualche ostacolo in casa, non erano stati trattenuti abbastanza? Il fare di più sarebbe stato come un venir meno agli obblighi sacri della cortesia, un tener prigionieri i suoi ospiti, un trattarli da nemici; cose tutte che le potevano fare un Procuste, un Licaone, un Litiersa, ed altri re birboni dell’antichità leggendaria; ed egli era il Salomone dell’Inghilterra, per bacco!
Non si lagnò Ferdinando. Oltre che sarebbe stato tardi, per potersi lagnare utilmente, egli era un esemplare di pazienza. Avvezzo ad ingannare, non si doleva troppo di essere ingannato, mettendo il guaio sul conto della sua poca prudenza, e promettendo a sè stesso di far meglio un’altra volta. Colla filosofica costanza del ragno a cui sia stata distrutta la sua tela, che si rimpiatta nel buco finchè non veda passato il pericolo di peggio, e poi riprende animoso a distendere le sue fila maestre, il re Ferdinando chinava il capo a quella buriana improvvisa, che dalla nuova Castiglia si rovesciava sulla vecchia. Come avessero quelle migliaia di signori avuto notizia della partenza di Giovanna e di Filippo dalla foce del Tamigi, mentre egli non n’era stato avvertito, non occorreva per allora indagare. Volevano la convocazione delle Cortes; era quello il grido, con cui si animavano a vicenda. Ebbene, facessero a lor posta. Egli, poveraccio, aveva lavorato fino allora per l’onore e per la grandezza della Spagna; vedessero loro di fare altrettanto, o almeno almeno di non guastare il già fatto. Se ne volevano andare i gentiluomini castigliani della sua Corte, per accorrere da Giovanna? Andassero pure; facevano bene, come sudditi di Castiglia; si ricordassero poi d’essere Spagnuoli.
In questa forma, con questi sentimenti, parlava per lui il Ximenes; con sincerità d’animo, questi, che in ogni evento restava il primate di Spagna, e da cose mutate, o rimaste com’erano, non aveva da guadagnare nè da perdere. E il re, per non parere stizzito della burla patita, il ministro per parer largo con tutti, prudentemente deliberarono di muovere a Burgos, ove del resto un giorno o l’altro sarebbero trasportate le tende.
Burgos, vasta città irregolare, piantata a semicerchio sul pendio d’un’alta collina, non aveva ancora perduto del tutto lo splendore di quei tempi che vi risiedevano i conti, poi re di Castiglia. Come quasi tutte le città medievali, era corsa da vie strette, tortuose e malinconiche: ma le sue piazze ornate di severi edifizi e di fontane, le davano una bell’aria di capitale antica. E si gloriava anch’essa d’una cattedrale gotica, del secolo XIII; ma più assai era orgogliosa della sua Calle Alta, dove ancora sorgevano le case di Rodrigo di Bivar, detto il Cid Campeador, e di Fernando Gonzales, primo conte di Castiglia. Salamanca, Valladolid, Medina del Campo, Segovia, tutte a vicenda residenze reali dei re di Castiglia, avevan fatto un po’ di torto a Burgos, il cui clima si riteneva troppo umido e freddo. Ma a Burgos, capitale antica, si erano tenute in momenti solenni le Cortes, segnatamente nel 1188, le prime in cui alla nobiltà ed al clero si aggiungessero i procuratori, o deputati delle città e dei borghi, che furono appunto in numero di cinquanta; bel principio e pronta fioritura di libertà comunali, che l’autorità regia aveva dovuto riconoscere, o forse trovato utile di mettere a fronte dei due corpi privilegiati, per tenerli in rispetto con quel nuovo elemento.
La Corte di Castiglia, recandosi a Burgos, non aveva da scegliere la sua residenza, essendo ancora in piedi l’antico palazzo di Fernando Gonzales nella Calle Alta. Non era vasto, il palazzo; non potevano trovarci alloggio due corti, se non a patto di starci pigiate. Le persone che si amano scambievolmente stanno di buon grado a disagio, pur d’essere insieme; non così quelle che stanno un po’ grosse, vedendosi volentieri come cani mastini.
Con quest’animo era corso a Burgos il re Ferdinando, e si piantava nel palazzo di Fernando Gonzales, destinato ad accoglier sovrani: per allora il solo sovrano era ancor lui, e gli altri erano di là da venire. “Li aspetterò alla Calle Alta, diceva; li riceverò io, e vedremo che cosa ne nascerà„.
Perchè non andar loro incontro fino al porto di Laredo? Ah, no, fin laggiù: non lo avevano avvisato dell’arrivo, e l’andarli a cercare, ad aspettare all’approdo, sarebbe stato ufficio di vassallo che volesse farsi ricevere in grazia. A Burgos era in luogo decente, in condizione regale. Sarebbero venuti a lui; li avrebbe accolti con ogni dimostrazione di affetto paterno; e magari, prendendo norma dalle circostanze, avrebbe rimessa loro ogni autorità sulla Castiglia, o l’avrebbe ritenuta in nome loro, per utilità del regno, per quell’onore e per quella grandezza di Spagna, che il re Ferdinando aveva spesso sulla bocca, come il suo ministro Ximenes l’aveva sempre nel cuore.
Ma coloro che avevano guidata così vittoriosamente la congiura di Castiglia non erano meno accorti del re d’Aragona. Burgos accolse la comitiva trionfale, che da Laredo era venuta alle sue nobili mura; ammirò il bellissimo re, che magnifico in sella cavalcava al fianco di Giovanna, seduta con molta eleganza su d’una bianca chinéa; applaudì, gridò l’amor suo con tutte le frasi più calde; gittò alla coppia gentile dei suoi sovrani le prime rose della stagione; ma non vide salire fino alla Calle Alta il regale cortéo. Parve cortesia profumata il volersi fermare al palazzo di città, quasi come ospiti dei sudditi loro. E i buoni sudditi di Burgos, con nuovi applausi, con grida insistenti, chiamarono tante volte al balcone del palazzo i sovrani, quante furono necessarie a contentare della loro vista i quarantamila abitanti della nobil città. E parve finalmente ricambio di cortesia lasciarli riposare un tratto, e prender ristoro, essendosi sparsa la voce che accettavano la refezione di rito presso il preposto del comune. La refezione, con tutte le cerimonie concomitanti, voleva andar per le lunghe; si sarebbero mossi verso sera, i sovrani, per salire alla Calle Alta; c’era tempo per tutti di andare al pasto quotidiano, di farci la siesta consueta, e poi ritornare in tempo a tutte le novità di quella bella giornata.
La prima novità fu questa, che l’araldo regale andò attorno per tutte le piazze di Burgos, con le trombe, e con un drappello d’arcieri. Su tutte le piazze, dopo una suonata di trombe, il nobile personaggio, ben ritto sulla sella del suo cavallo bianco, e con una voce squillante quasi come le sue trombe, lèsse al popolo la parola sovrana:
“Don Filippo e donna Giovanna, per la grazia di Dio re e regina di Castiglia, di Leon, di Granata, di Toledo, di Valenza, di Gallizia, di Maiorca, di Siviglia, ecc. ecc., ai reggenti, assistenti, alcaldi, alguazili ed altri giustizieri quali si vogliano di tutte le città, ville e luoghi dei nostri regni e dominii, salute e grazia!
“Sappiate che essendo noi deliberati di visitare tutte le terre del nostro regno, e perciò sul punto di partire da questa amata città, per rispetto alle antiche consuetudini ond’essa è privilegiata, come per dimostrazione del nostro vivissimo affetto, abbiamo ordinato che in Burgos siano convocate le Cortes di Castiglia e Leon, dove noi saremo ritornati, a Dio piacendo, prima del 20 giugno. Siano dunque avvertiti di ritrovarsi per quel giorno in Burgos i tre estamentos di Castiglia, del clero, dei nobili, dei procuratori delle città e borghi regali, a cui è concesso il diritto di partecipazione, per far le leggi nuove e riformare le antiche, per istabilire con equità i pubblici carichi, reprimere gli abusi, far ragione a tutti coloro che a noi si richiameranno di violata giustizia. Tale essendo il nostro piacere, conforme agli obblighi verso Dio e verso il buon popolo di Castiglia.
“Dato nella nostra antica città di Burgos, il giorno 8 di maggio, l’anno della natività del nostro Salvatore Gesù Cristo 1506.
“ Io il Re. Io la Regina. „
Era quello un colpo maestro del buon Tellez Giron de Sandoval, duca di Ossuna, che primeggiava nei consigli dei nuovi sovrani. Ma la prima spinta era data da Beatrice di Bovadilla, che aveva preso assai facilmente presso la regina Giovanna il posto tenuto presso la grande Isabella. Ricordate che a Valladolid era venuto a cercare donna Beatrice il giovane marchese di Lucena, per riferirle in nome dell’Ossuna i desiderii del popolo; e come donna Beatrice consigliasse di rispondere in modo da contentare Valladolid senza offesa ai diritti di Burgos. L’occasione di appagare i voti dell’una e dell’altra città si era offerta più presto che Bovadilla non si potesse immaginare: fin da quando era giunto don Diego Colon a prender commiato dal padre, l’accorta signora aveva meditato quel colpo che doveva sgominare tutti i disegni faticosi del re d’Aragona. Così, fatta a Burgos una sosta di tre ore, con una certa promessa di ritorno, Giovanna e Filippo si rimettevano in via, pellegrini d’amore e banditori della propria sovranità per le terre di Castiglia. Quanto a visitarle tutte, non c’era impegno che potesse durare contro la stanchezza di un lungo viaggio. Ma si andava, come se il pellegrinaggio dovesse giungere fino alle rive del Mediterraneo e a quelle dell’Atlantico. L’essenziale era di lasciare il re Ferdinando colle mani in mano, nella Calle Alta di Burgos, dandosi pensiero di lui, che aspettava, come se fosse stato cento miglia lontano.
Nella Calle Alta l’editto regale fu letto quando Giovanna e Filippo erano già usciti dal palazzo di città, e le grida di saluto ai sovrani salivano al cielo. Il re Ferdinando sentì quelle grida nello stesso tempo che giungeva a lui qualche frase dell’editto, recitata a voce più alta dall’araldo, o non coperta dai rumori della moltitudine ascoltante. Partivano, dunque? partivano da Burgos, dov’egli si era venuto a piantare, per metterli nell’impaccio; e ce lo lasciavano lui, ignorandolo, non mostrando di sapere che fosse ancora tra i vivi.
Per una volta tanto, il pazientissimo re si morse le labbra dal dispetto. Questa poi non se l’aspettava. E voleva sfogarsene col fido Ximenes; ma il Ximenes non c’era. Non già perchè lo avesse abbandonato anche lui, come tutti i suoi gentiluomini di Castiglia; ma perchè era andato a parlamentare con gli avversarii. Come nato in Castiglia e arcivescovo d’una città di Castiglia, il Ximenes aveva fatto ossequio ai nuovi sovrani. Ed essi avevano mostrato di gradir molto la visita; e Giovanna in particolar modo si era mostrata affabilissima al confessore di sua madre. Ma a lei non aveva osato dir nulla, nè far preghiere, nè dar consigli non chiesti, specie vedendola così ben circondata, custodita e difesa.
Al duca d’Ossuna, piuttosto, e agli altri cortigiani maggiori, si aperse liberamente il virtuoso Ximenes. Perchè quella partenza improvvisa? senza dare un po’ di riposo alla regina? senza permetterle di vedere il re d’Aragona, che stava lassù ad aspettarla? Infine, quello era suo padre; ed era d’un padre aspettare i suoi figli.
—Vostra Eccellenza non dimentica che donna Giovanna è la regina di Castiglia, e che qui siamo, se Dio vuole, in Castiglia;—rispondeva con molta calma il duca d’Ossuna.—Vostra Eccellenza non ignora che non ci son più padri nè figli, dov’è in giuoco la dignità della Corona. Tutto ciò che Vostra Eccellenza ci fa notare col suo gran senno, con la sua grande pietà, con la sua grande prudenza, è stato attentamente considerato da noi. Non abbiamo obbedito a rancori, a puntigli, a dispetti; solo ci siamo studiati di non consigliar debolezze. Giovanna e Filippo son venuti qua in casa loro; ricevono visite, non vanno a farne.—
L’argomento era senza replica. Ma l’arcivescovo di Toledo, non potendo attaccarlo di fronte, si provò a scalzarlo di fianco.
—Intendo, intendo;—diss’egli.—E le ragioni son buone, come le intenzioni son pure. Ma non si potrà forse impedire che il popolo di Burgos faccia i suoi giudizi su questo caso spiacevole.
—Saranno giudizi temerarii;—rispose più placido che mai il duca di Ossuna;—saranno giudizi temerarii, se vorranno trovare un cattivo sentimento dove non era altro che l’obbligo sacro di mantenere nella sua integrità il buon diritto della Corona. Un altro giudizio, e più savio, vorrà fare il popolo di Burgos, pensando che il re d’Aragona, trovatosi qui mentre i reali di Castiglia giungevano in casa loro, non si è neanche degnato di andarli a ricevere alle porte, per offrir loro la casa, che teneva preparata per essi.
—Ah signori! signori!—esclamò il buon Ximenes.—E non son puntigli, questi?
—Ragioni di dignità, ragioni imprescindibili: e Vostra Eccellenza si dorrebbe a buon dritto, non per sè, ma per l’alto suo ministero, se Palencia o Siviglia mancassero di rispetto a Toledo.
—Ma pensate, signori,—insisteva il Ximenes, senza ribattere quell’argomento ad hominem,—pensate che molte cose con un po’ di buon volere dall’una parte e dall’altra s’aggiustano. Castiglia ed Aragona, finalmente, che sono? Non forse la Spagna? la Spagna antica, che le discordie avevano disfatta, aprendone la via al Moro infedele? la Spagna nuova, che dobbiamo saldar meglio nelle leggi e nei cuori? Chi, più del re Ferdinando, s’è adoperato per questa nobile Spagna? Non ha egli condotta a termine la cacciata del Moro? Non ha egli ceduto alla Spagna i particolari diritti d’Aragona sul reame di Napoli? e ancora non combatte per assicurarne il dominio alla Spagna?—
Il duca d’Ossuna aveva chinato più volte il capo alla progressione oratoria dell’arcivescovo di Toledo. E pareva che approvasse: ma non faceva altro che accompagnare col gesto quella enumerazione di meriti. Infatti, come quell’altro ebbe finito, così egli parlò, ribattendo:
—Molte cose si potrebbero rispondere alla Eccellenza Vostra. Poche ne diremo, stretti come siamo dal tempo. Si ricordi quanta parte abbia avuta nella gloria del regno la grande Isabella; e solo può dimenticar la regina, chi ha mostrato di dimenticare la donna. Aragona ha ceduto Napoli alla Spagna, non potendo tenerlo per sè, con dinastia separata e con forze troppo inferiori al bisogno. Che io dica il vero, lo dimostra il fatto che il re d’Aragona, dovunque non vide la pronta utilità dell’impresa, lasciò avaramente in ballo Castiglia.
—E dove?
—In una certa spedizione da Palos, donde venne alla Spagna l’acquisto di tante terre nel nuovo Mondo, e tanta gloria nel vecchio.
—Bravo, Ossuna!—gridò una voce femminile.
—Aggiungo,—riprese l’Ossuna, dopo aver risposto con un cavalleresco inchino a quel grido,—aggiungo poi, per quanto risguarda il combattere, che la grande Isabella ci ha guadagnata l’infermità donde fu tratta alla tomba, povera e santa guerriera! Aggiungo ancora che non Ferdinando ha preso Granata, ma Consalvo di Cordova; nè Ferdinando, ma Consalvo di Cordova combatte ancora in Italia; e Ferdinando non l’ama, Ferdinando l’ha in ira, forse più che in sospetto. Pure, è gloria di Spagna, Consalvo. E la gloria di Spagna, dopo tutto, noi la vogliamo sulla punta della nostra spada, non nel consigliar debolezze verso l’uomo che fino a ieri ha impedito (e ne abbiamo le prove) che la Castiglia ricevesse i suoi re.—
Neanche qui c’era da replicare; e il virtuoso Ximenes si contentò di mandar fuori un sospiro. Sentiva anch’egli che il suo re Ferdinando, con una buona causa alle mani, si era adoperato fin allora con indegni artifizi, come se l’avesse cattiva?
Pochi momenti dopo, la coppia regale era in moto, per uscire da Burgos, non dimenticando di lasciarci ufficiali suoi ed un nerbo di gente per custodirvi il buon dritto di Castiglia. Non ce ne sarebbe stato bisogno, tanto era l’ardore di quel popolo. Giovanna era adorata da ogni ordine di cittadini; Filippo, dal canto suo, aveva conquistate le padrone di tutti quei cittadini. Ah perchè i doveri del trono allontanavano da Burgos quel fior di bellezza? “Appena vidi il sol che ne fui privo„ avrebbe potuto gridare il gentil sesso di Burgos.
Non dubitate, o belle; ritornerà presto, il giovine Apollo di casa d’Austria. E qui, il 25 settembre, come a dire prima che passino i cinque mesi, egli morrà di morte improvvisa. E Giovanna ne perderà la ragione del tutto, e non concederà il cadavere alla vostra certosa di Miraflores, se non dopo averlo portato più settimane attorno, per città e campagne, aprendo ad ogni tratto la bara, per contemplarlo ancora, e nutrirsi del suo pazzo dolore, e farne spettacolo lagrimoso alle genti. Soltanto allora il re Ferdinando avrà conseguito il suo fine. Ragno paziente, rifatta la sua tela, e la pace coi nobili di Castiglia, otterrà una reggenza, che gli permetta di adoperarsi liberamente alla grandezza del regno. Causa buona, certamente; ma lasciata in cattive mani. Perchè?
Indice
Capitolo XVI. Grazia, giustizia, e un granellin di follìa.
Ma per ora, vittoria. Giovanna e Filippo sono entrati a Valladolid. Le accoglienze sono maravigliose; l’allegrezza della città non si descrive; essa è tanto più grande, quanto più lontana era in lei la speranza di avere tra le sue mura i sovrani. Nè solamente per un giorno, come è toccato a Burgos. Valladolid li riterrà per parecchi, meglio prestandosi per una lunga dimora l’ampiezza del palazzo reale, e il non averci l’incomodo di un’altra corte, sempre molesta vicina, per quanto l’abbiano scemata di numero le diserzioni sollecite di tutti, o quasi tutti i gentiluomini Castigliani. Se poi l’altra corte volesse scendere anch’essa in Valladolid, non avrebbe a far altro che a prendere esempio da ciò ch’è avvenuto in Burgos, dov’ella si era già collocata, e i nuovi venuti erano smontati al palazzo di città. Venga pure a Valladolid, e smonti dove le pare; magari al palazzo di giustizia, dove abitava il Ximenes: l’essenziale è che non trovi alloggio al palazzo reale, che è proprietà di Castiglia e Leon, mentre Castiglia e Leon appartengono ai due giovani principi, ai sovrani adorati, che tutto il paese ha così prontamente riconosciuti, passando sopra alle minute formalità, alle vane cerimonie d’una trasmissione di poteri. Tutta roba, questa, a cui si potrà dar sesto in processo di tempo: per ora Valladolid non ha da curarsi di ciò; Valladolid è in festa, e sarà in festa finchè i giovani sovrani staranno tra le sue mura.
Beatrice di Bovadilla trionfa; quando passa lei per le vie, tutti i cittadini si scoprono il capo, le fan riverenze, l’acclamano. Si sa che il consiglio di scender subito a Valladolid è venuto da lei. Si vede che i duchi e tutti gli altri gran signori del cortéo regale, abbondando volentieri nelle belle forme della cavalleria spagnuola, si mostrano pieni di ossequio per lei; ed anche il popolo impara a riverirla, ad amarla. La regina Giovanna la vuol sempre al suo fianco; il re Filippo la colma di delicate attenzioni.
Troppe attenzioni, ahimè, quelle di Filippo il Bello, e troppo delicate! Giovanna ammette le cortesie, non riprova le garbatezze; ma ci vorrebbe più riguardo, più misura, più parsimonia. È gelosa, e la gelosia non ragiona; è gelosa, e ne soffre doppiamente questa volta, perchè la gelosia ha un argomento visibile su cui esercitarsi, e perchè infine ella ama la marchesa di Moya, e non vorrebbe privarsi di lei.
—Dio, come sei bella!—le disse al secondo giorno dell’entrata in Valladolid, non potendo più reggere alla sua pena.—Sei troppo bella, Bovadilla!—
Donna Beatrice diede in uno scoppio di risa, che mostrava tutta la sua bell’indole, ma ancora più i suoi bellissimi denti.
—Alla mia età,—rispose poscia,—non mi aspettavo più un simile discorso. È anche vero che Vostra Altezza ha il più bel cuore della cristianità.
—Oh, non è il mio cuore, quello che parla; sono i miei occhi;—replicò Giovanna, abbracciandola con tenerezza, come se volesse in quell’atto premunirsi contro la cattiveria del sentimento da cui si sentiva già invadere.—Tu hai bevuto alla fontana di giovinezza, che i maghi moreschi hanno fatta scaturire in qualche parte della Spagna. Dimmi dov’è, tu che lo sai; e dov’è la fontana della bellezza miracolosa. Perchè anche di questa ne hai bevuto, Bovadilla. Negalo, se puoi! C’è qualcheduno che ti vede troppo di buon occhio; ed io non voglio, Bovadilla, non voglio.
—Vostra Altezza si rassicuri anche contro le illusioni degli occhi;—rispose Beatrice di Bovadilla, mettendosi sul grave.—Io voglio farle qui una bella confessione.
—Ah sì, sentiamo, Bovadilla!—gridò la regina, battendo le palme dalla gioia.—Tu hai pure un certo modo originale di dir le cose più fini!
—Ringrazio Vostra Altezza, e incomincio con una domanda, ch’ella vorrà perdonarmi. Che cosa ho fatto, io, che cosa ho detto io alla mia regina, appena ella è smontata sulla spiaggia di Laredo?
—Non so più bene;—rispose Giovanna, sconcertata da quel modo di cominciare, che veramente era più originale di quanto ella potesse aspettarsi.—Ricordo che mi hai presentato don Bartolomeo Colon.
—Con una lettera, non è vero?
—Sì, con una lettera di ossequio, di suo fratello l’Almirante.
—Almirante maggiore del mare Oceáno;—aggiunse a mo’ di glossa in margine la marchesa di Moya, badando anche a batter bene l’accento sulla penultima di Oceáno, com’ella soleva.—E la lettera diceva, oltre le parole di ossequio? Non forse che l’Almirante aspettava giustizia dai nuovi sovrani?
—Sì, è vero; e la faremo. Ma che vuoi tu dire con ciò?
—Questo, mia buona regina: che anch’io, dopo l’ossequio dovuto a Vostra Altezza, non vedevo più altro fuorchè don Cristoval Colon, il grand’uomo, il luminare del mondo.
—Come ne parli!—esclamò Giovanna, guardandola fissamente negli, occhi.—E non temi, dandogli questo titolo, di far torto ad Apollo, il dio della luce?
—Non ho da render conto agli Dei; amo quell’uomo. Scendesse Apollo in terra, Apollo che è pure il dio della bellezza, della poesia e dell’arte, egli non avrebbe uno sguardo da me: non lo avrebbe avuto quand’ero ancor giovine, e bella davvero (posso oggi parlarne senza incorrere la taccia di superbia) e già amavo don Cristoval.
—Lo hai amato.... e lo ami sempre....—disse Giovanna, seguendo a modo suo il filo di quello strano discorso.—Bella cosa, amar sempre.... ed essere amata! Perchè non lo sposi?
—Non posso;—rispose Beatrice Bovadilla, con accento di profonda tristezza.
—Non puoi? E chi lo impedisce? Posso io esserti utile?
—No, mia signora;—mormorò Beatrice sospirando.—C’è un triste segreto di mezzo, il segreto di Cordova!
—Posso io saperlo? Vuoi dirmelo?—
La marchesa di Moya non poteva ricusare alla innocente curiosità della pietosa regina il resto di una confessione, ch’ella stessa si era proposta di fare. Ed anche le pareva di sfogare la piena del suo dolore, narrandone ancora una volta le tristi cagioni. Narrò dunque, svelò intieramente il segreto di Cordova.
—E quella donna?—domandò la regina.—Se è libera, come tu dici, non darà la sua mano a don Cristoval?
—Non vuol saperne;—rispose Beatrice di Bovadilla.
—Non vuol saperne? e perchè, dopo il suo fallo? ed essendo questo l’unico modo di ripararlo?
—Non lo so;—disse Beatrice.—Pare che le sia entrata nel cuore una avversione invincibile contro il padre del suo Fernando, anche prima che questi nascesse. Misteri della povera carne! Ed io non cercherò di approfondirli. Pure ho tentato di ricondurla alla ragione, quella donna ostinata; e tanti anni fa, ed ancora in questi ultimi tempi. Dio mi è testimone che ho fatto ogni mio potere per convincerla. Non trovandola io, ed essendo chiamata dal segnale dei fuochi d’allegrezza a Laredo, ho posto sulle sue tracce una fidata persona, che l’ha ritrovata finalmente a Granata, consegnandole una lettera mia. Frate Alessandro, un buon francescano, che era il mio messaggero, è tornato iersera da me, senza aver nulla ottenuto. Le ha parlato da religioso e da cavaliere ad un tempo, ma senza alcun frutto. Gli ha risposto che è contenta così, e che vuol vivere in pace. Ma forse io m’inganno, sulla avversione inesplicabile di lei. Se don Cristoval fosse in auge, parlerebbe ella ancora così? Certo, non amerà esser la moglie di un povero abbandonato.
—E se io lo rimettessi in onore?—disse Giovanna.—Se io gli rendessi, unita col mio Filippo, tutti i suoi titoli, i suoi diritti, i suoi privilegi?...
—Chi sa? forse allora si muterebbe il suo cuore.
—E tu ne saresti contenta?—
Beatrice di Bovadilla stette dubbiosa un istante: ma si pose una mano sul cuore, come per reprimerne le voci ribelli, e rispose con accento sicuro:
—Sì, perchè mi parrebbe di avere adempiuto l’obbligo mio.
—Ami tu in questo modo?
—Ma sì, mia dolce signora. Ognuna di noi ama in un suo modo particolare. Il mio non rifugge dal sacrifizio.
—Povera Bovadilla, come devi soffrire! Ed è sempre bello, il tuo Almirante? bello, come io l’ho veduto bambina, alto, maestoso, sereno, con quei grandi occhi azzurri e quelle labbra che facevano anche più bello il sorriso?
—Sempre!—rispose Bovadilla, chiudendo gli occhi con atto religioso;—sempre tale io lo vedo, attraverso la nebbia degli anni. Ed è bello come un dio antico, sul cui capo sia passato il dolore, lasciandogli i suoi segni augusti nel viso. I travagli della vita lo hanno estenuato; gli tremano le membra, e spesso ricusano di sostenerlo; ma i suoi alti servigi ne han colpa. La fronte, ampia e serena, è campo di celesti pensieri, di cui si vorrebb’essere a parte; gli occhi scintillano, dardeggiano, e passano i cuori; le labbra.... ha detto bene Vostra Altezza.... le labbra son tali da fare anche più bello il sorriso, la cosa più bella, forse l’unica bella sulla faccia dell’uomo. L’aureola dei suoi patimenti raddoppia quella delle sue imprese immortali; essa fa di lui il più grande fra gli uomini.
—Che ardore!—esclamò la regina.—Ma quando si ama, si pensa così. Niente val più del nostro amore; niente val più dell’uomo che amiamo.—
Giovanna era sul punto di cadere in una delle sue estasi frequenti, donde tornava poi tanto difficile richiamarla alle cure volgari della vita.
—Ed io non abbandonerò più quell’uomo;—ripigliò la marchesa, alzando la voce, come per trattenere lo spirito vagabondo della regina.—Anzi, mi ascolti Vostra Altezza, io dovrò pregarla ben presto di darmi licenza. Alla mia regina ho portato l’omaggio di un cuore devoto; ma ella non avrà più bisogno di me; resterò a Valladolid.—
Un moto involontario d’allegrezza agitò il cuore e tinse d’una fiamma fugace le pallide guance della gelosa regina. Ma la gelosa era buona, ed amava la sua Bovadilla; perciò represse a forza quel senso importuno di gioia, che sarebbe anche parso di brutta ingratitudine.
—Mia cara!—diss’ella.—Ciò che vuoi fare a Valladolid non si accorda troppo bene con ciò che speri di ottener da Granata. Ma speriamo che Granata persista nel suo rifiuto; non ti rifiuterò io ciò che domandi per il tuo Almirante. Lascia che si compongano queste difficoltà con mio padre, e che io sia libera di dar corso ai voti del mio cuore, ed io penserò a don Cristoval Colon in modo da farti contenta. Sarà questo il mio primo atto di regno.
—Faccia la mia signora che sia soltanto il secondo;—rispose la marchesa di Moya.
—Come?—gridò la regina.—C’è altro, che ti preme di più?
—Non già che mi prema di più, ma che può farsi prima, che può farsi fin d’oggi.
—Che cosa? Sentiamo.
—Una visita al palazzo di giustizia, o, per dire più veramente, alle carceri attigue.
—Per che fare?
—Per liberare una povera donna, che molto mi sta a cuore, come sta a cuore del signor Almirante, essendo essa la moglie di un degno gentiluomo, suo concittadino e fedele servitore.
—Che cosa ha fatto questa donna? ha commesso un delitto?
—Sì, e gravissimo; è moglie ad un uomo che non voleva prestarsi ad un tradimento contro Giovanna e Filippo, legittimi sovrani di Castiglia.—
Così avendo incominciato, Beatrice di Bovadilla narrò tutta la storia del conte Fiesco e della contessa Juana. L’anima mite della regina si turbò grandemente al racconto di quella prepotenza inaudita, che, com’ella disse, gridava vendetta a Dio.
—E giustizia ai suoi ministri in terra;—conchiuse la marchesa di Moya.—Così si è messo il coltello alla gola d’un povero gentiluomo, straniero di nascita, ma vissuto parecchi anni ai servizi di Castiglia. E si aspetta da San Domingo la prova che la contessa di Lavagna non sia stata suddita Spagnuola. E si aspetta da Genova la prova che sia veramente la moglie del conte Fiesco. Se poi il conte Fiesco si decide a far firmare questo trattato dal re Cristianissimo, non c’è più mestieri di prove da Genova, non c’è più mestieri di prove da San Domingo, e la prigioniera è restituita al povero conte.—
Così dicendo, la marchesa di Moya aveva cavato un foglio dalla sua borsa di velluto, e lo metteva sotto gli occhi della regina.
Giovanna lèsse, e strinse convulsamente le labbra.
—Pazienza per me, che sono sua figlia;—diss’ella.—Ma contro i diritti di Filippo! È orribile, sai? Son pazza.... pazza io, perchè amo! Così avess’egli veramente amata mia madre, che non vedrei sul trono di Aragona la sua Germana di Foix! Ed è della sua cancelleria, lo scritto;—soggiunse, guardando ancora il foglio malaugurato.—Conosco la mano del suo segretario Fernando Alvarez di Toledo; un Castigliano che non abbiamo ancor veduto alla nostra corte! Meglio così, dopo tutto; che io non lo vedrei di buon occhio. Mi lasci questo foglio?
—È commesso alla mia fede, signora. Questo posso giurare, che non andrà, per le mani d’un Fiesco, a Parigi.
—Ripiglialo, Bovadilla. Tanto, mi scotterebbe le mani. E mi dicevi che le carceri sono attigue al palazzo di Giustizia?
—Sì, e se Vostra Altezza ama davvero la sua Bovadilla....
—E la mia Bovadilla, e la giustizia del mio regno;—rispose con nobile accento la regina.—Andiamo senza perdere un istante. Dov’è Filippo? Si cerchi del re.—
Filippo non era a palazzo. Mezz’ora prima era montato a cavallo, in compagnia del duca di Ossuna. Per dove? Non si sapeva; ma certamente non poteva andare lontano, non avendo accennato ad una lunga assenza. Era andato a passeggio; non si trattava dunque se non di una delle solite scappate mattutine, per veder la città. Il giovane re era come uno scolaretto, a cui pesino troppo le sue ore di studio, sotto gli occhi e la sferza del pedagogo.
Giovanna si addolorò di quella passeggiata, che si faceva senza di lei, e senza pure avvertirla. Ah, le belle di Valladolid! volevano farla disperare, come quelle di Brusselles, come quelle di Londra!
—Mia signora,—disse Beatrice, che non voleva altri indugi,—se il re Filippo non è a palazzo, lo troveremo fuori, facendo un giro per la città. E del resto, si fa presto a trovarlo.—
Era in anticamera il marchese di Lucena; la marchesa lo chiamò, e in presenza della regina gli disse:
—Lucena, siate oggi, con licenza di Sua Altezza, il mio aiutante. Uscite e cercate del re don Filippo; ditegli che la regina è andata fino al palazzo di giustizia, per visitare le carceri, e lo attende colà.
—Lo desidera;—corrèsse la regina.
—Vostra Altezza sarà obbedita;—rispose il marchese di Lucena, muovendosi tosto per partire.
—E veduto il re,—aggiunse la marchesa,—cercate del conte Fiesco. Lo troverete probabilmente in casa del signor Almirante Colon. Ditegli, vi prego, di venirmi a trovare alle carceri. Il ritrovo non sarà bello,—soggiunse ella ridendo,—ma non l’ho inventato io, e bisogna prender le cose del mondo come vengono.—
Il marchese di Lucena s’inchinò, e partì come una freccia.
Mezz’ora dopo, la regina Giovanna, seguita dalla sua dama di palazzo, da due cavalieri d’onore e da un drappello d’arcieri, si presentava all’ingresso delle carceri, detto il palazzo di giustizia.
—Sua Altezza la regina di Castiglia! aprite!—intimò il capo degli arcieri.
Il cancello si aperse, e la regina entrò in un cortile di vecchio convento, diventato prigione. Il prevosto delle carceri non tardò ad apparire dall’alto di una scala, e tutto confuso da quella visita inaspettata scese a precipizio, rischiando un paio di volte di fiaccarcisi il collo.
—Agli ordini di Vostra Altezza;—balbettò egli, piegandosi in due;—agli ordini di Vostra Altezza.
—Voglio visitare le carceri;—disse la regina, con piglio severo.—Precedimi.—
Il prevosto non osava passare avanti: ma Beatrice di Bovadilla gli fece notare che dove Sua Altezza ordinava, il cerimoniale portava di obbedire. E il prevosto si piegò in due una seconda volta, precedendo la comitiva fino al piano superiore del chiostro.
—Non aspettavate di rivedermi così presto?—gli disse a mezza voce la marchesa di Moya, mentre la regina si affacciava nell’intercolonnio, a guardare di sotto e d’intorno.
—Signora.... sa Iddio se avrei voluto contentarvi l’altro giorno; ma ho comandi superiori.... sono schiavo del dovere....
—Il vostro dovere lo vedremo quest’oggi;—ribattè la marchesa.—E preparatevi a farlo bene.
—Che cosa gli dici?—domandò la regina, avvicinandosi.
—Che si disponga a liberare il mozzo Bonito, secondo gli ordini di Vostra Altezza;—rispose la marchesa di Moya.
—Tale è infatti il nostro piacere;—disse la regina.—Dov’è egli?
—È là, al numero sette, voltato quell’angolo del corridoio;—rispose il prevosto, più confuso che mai.—Ma.... voglia perdonarmi Vostra Altezza.... So bene che Vostra Altezza comanda.... Tutta Valladolid lo dice; ma io, povero vecchio soldato, schiavo del mio dovere....
—Vuoi dire che non hai libertà di obbedirmi? Colpa di chi non te lo ha fatto sapere in tempo;—replicò la regina, con più asseveranza che non fosse dato aspettare da lei.—Apri quell’uscio, e metti fuori il prigioniero, a cui faccio grazia, se forse non è meglio dire gli rendo giustizia.—
Il povero prevosto nicchiava. L’aspetto imperioso della regina egli lo vedeva, e ne tremava tutto: ma aveva anche agli occhi le immagini del re Ferdinando e del suo potente ministro Ximenes.
—Mia signora....—balbettò egli.—Se almeno avessi un ordine in iscritto!
—Non c’è altra difficoltà?—disse la marchesa di Moya.—Portate qua penna e calamaio con un foglio di carta, e l’ordine è presto fatto.
—Capisco.... sì, capisco bene. Ma gli ordini, forse, andrebbero meglio se firmati da due.... dalla regina e dal re. Il re e la regina sono inseparabili.—
La marchesa di Moya stava già per rispondergli. Ma la regina fu colpita dalle parole dello scrupoloso carceriere.
—Hai ragione, buon servo della corona di Castiglia;—diss’ella, intenerita.—Tu pensi che Filippo debba esser sempre accanto a Giovanna? Ricordami queste tue parole, quando avrai qualche cosa da chiedermi, e ti sarà concessa, te lo prometto fin d’ora.—
Ciò detto rimase estatica, pensando e guardando fissamente davanti a sè. Era uno dei momenti pericolosi, per chiunque aspettasse qualche cosa da lei. La povera estatica non era più capace di nulla.
—Possiamo almeno entrare, a visitare il prigioniero;—disse la marchesa, alzando la voce.—Apriteci, signor prevosto. E Vostra Altezza si degni di entrare,—soggiunse, premendo con devota amorevolezza il braccio della regina.—La contessa Juana del Fiesco aspetta una buona parola dal bel labbro regale.
—Bel labbro!...—mormorò la regina.—Bel labbro!... Come sei originale, Bovadilla! Andiamo dunque;—soggiunse, alzando a sua volta la voce;—e portiamo la buona parola. Bel labbro!—tornò a ripetere sommessamente.—Bel labbro! Così parlasse Filippo!—
La regina voleva visitare il prigioniero; era nel suo diritto, e adempiva anche uno dei precetti della santa madre Chiesa. Il prevosto non ebbe argomenti da opporre, e mise mano alle chiavi. La cella del numero sette fu aperta, e la regina passò.
Il mozzo Bonito era là, nel vano dell’unica finestra onde prendeva luce la cella; e stava con la fronte appoggiata alle sbarre d’una inferriata, per sentire il fresco del metallo, e per bere un soffio d’aria, della buona aria del cielo, della eterna libera, che forse ignora la sua grande fortuna. Non si era volto, all’aprirsi dell’uscio, pensando che si trattasse d’una delle solite visite de’ suoi carcerieri; ma si volse al fruscío delle vesti femminili, e ad una ondata d’insolita fragranza che penetrava in quel chiuso. Vide allora le dame, riconobbe la marchesa di Moya, e si gettò nelle braccia che essa gli tendeva in quel punto.
—Ecco la regina, mozzo Bonito;—fu pronta a dire la marchesa di Moya;—la regina Giovanna, che vi fa la grazia di venirvi a vedere.—
Il mozzo Bonito guardò quella dama dal malinconico aspetto e dai grandi occhi buoni; si chinò, le prese la mano, baciandola divotamente, e ruppe in uno scoppio di pianto. Erano le prime lagrime che Fior d’oro avesse versate là dentro.
—Mozzo Bonito! mozzo Bonito!—esclamò la regina, commuovendosi.—O piuttosto, contessa del Fiesco.... Sappiamo tutto: non piangete; siamo qua noi. Dio!—soggiunse, volgendosi alla marchesa.—Come è bella! Se avesse i capelli biondi, non si direbbe?...
—La regina vi fa giustizia;—prese a dire la marchesa, cercando di rompere il corso dei pensieri regali.—Essa abomina una odiosa prepotenza, a cui il suo governo è straniero. La regina vi ama, e vi conduce a respirare un’aria più sana. Venite, contessa, e ringraziate la regina fuori da questa orribile stanza.
—Ci sa di rinchiuso;—aggiunse la regina, muovendosi.—E come è brutta la prigione!—
Uscita dalla triste stanzetta, la comitiva svoltò l’angolo del corridoio, avviandosi a quella parte dond’era venuta. Il signor prevosto delle carceri si trovò male a quella vista, e fu per cacciarsi le mani nei capelli. Come richiamar dentro il prigioniero, senza offendere la regina, che andava oltre, tenendogli per dimostrazione di benevolenza una mano sugli ómeri? La marchesa di Moya, che veniva dopo di loro a pochi passi di distanza, vide il comico agitarsi del disgraziato; ma non si diè cura delle sue smanie, e seguitò imperturbata un esodo che le pareva troppo bene avviato. Ma egli non la intendeva così; e fattosi animo, afferrò la marchesa per una manica ricadente della sua sopravveste di broccato.
—Signora marchesa.... mia buona signora marchesa....—ansimava egli con voce soffocata.—È un tradimento.... Sono un uomo rovinato....
—Che cosa vi avevo detto io, signor prevosto?—ribattè la marchesa, traendo a sè la sua manica.—Carta, penna e calamaio, e vi si fa l’ordine di scarcerazione.
—Ma senza la firma del re?
—Ecco, voi non siete ragionevole nei vostri desiderii. La regina vi ha detto: ripetimi le tue belle parole, quando avrai qualche cosa da chiedermi, e sarai contentato. Avete voi chiesto allora che il re autenticasse la parola di lei? E non andrete un giorno o l’altro a chiedere un posto migliore, anche senza avere la firma del re?
—Ma ancora non è detto che io l’ottenga!—rispose il prevosto.
—E il modo vostro è cattivo, se mai, per ottenere qualche cosa;—ribattè la marchesa.—Credete voi che fugga Giovanna stasera, e sia qui domani da capo il re d’Aragona? Ah, per buona sorte, e per rimettervi il fiato in corpo,—soggiunse ella, ridendo,—eccolo qua un re, signor prevosto, e migliore di quello che volevate servire. Animo! carta, penna e calamaio, se non volete che il re e la regina vadano via, senza lasciarvi due righe di biglietto.—
Il marchese di Lucena aveva fatte le cose per bene. Filippo, accompagnato dal buon duca d’Ossuna, era giunto allora nel chiostro, e stava a colloquio colla regina. Egli ebbe notizia di ciò che Giovanna aveva fatto, e stava rivolgendo qualche frase benevola al prigioniero liberato, quando la marchesa di Moya si avanzò per dargli spiegazioni più minute.
—Bene! egregiamente!—disse Filippo, a cui poco bastava, e che lì per lì si sarebbe anche contentato di niente.—Facciamo dunque un po’ di giustizia? Mi par d’andare a nozze una seconda volta. Ma sì!—aggiunse lesto, vedendo oscurarsi la fronte di Giovanna.—Con la giustizia, oggi, come già ci andai con la grazia.—
Il prevosto aveva fatto portare uno scrittoio, con la carta, il calamaio e la penna. Gli fu steso l’ordine di scarcerazione, e Filippo si avvicinò allo scrittoio per apporre la firma: Yo el Rey.
—È la prima che faccio, in Valladolid; ed ora, mia cara Giovanna, a voi.—
Giovanna sussultò a quel dolcissimo aggiunto; e tutto il suo essere palpitava, radiava incontro a quell’uomo biondo e bello come un giovane iddio. Guardando a mala pena la carta, e subito levando gli occhi verso Filippo, scrisse accanto alla firma di lui: Yo la Reyna.
—Basta così, per voi?—chiese la marchesa di Moya al prevosto.
—Sì, signora marchesa;—rispose egli, chinando il capo più in giù delle spalle.
—Ma ancora non basta a me;—ripigliò la signora.—Questo scrittoio può servire a qualche altro po’ di giustizia, se Sua Altezza permette. Ossuna, volete voi scrivere un salvacondotto per don Bartolomeo Fiesco, conte di Lavagna, per la contessa sua moglie, e per ogni altra persona che fosse con lui in terra di Castiglia e Leon, che nessuno li possa mai molestare nè imprigionare?
—Il re e la regina permettono;—disse il buon duca di Ossuna, vedendo sorridere i sovrani e far segno di assenso.—Dettate voi, marchesa, che sapete i nomi e i titoli, e il bisogno del conte.—
La marchesa dettò; Filippo e Giovanna firmarono ancora, l’uno di costa all’altro, e il duca d’Ossuna v’aggiunse il suo nome, entrando così in carica di segretario.
—Due buone azioni, e fatte insieme;—disse la regina.—Sono contenta, Filippo. —
Ma Filippo s’era messo e dire troppe garbatezze al mozzo Bonito, e già pareva non avesse più occhi se non per lui. Onde la regina strinse il braccio di Bovadilla, su cui s’era appoggiata per scender la scala; e stringendo il braccio, le disse all’orecchio:
—Odio il mozzo Bonito. È troppo bello; portalo via.
—Lo manderò, piuttosto; perchè vedo là in fondo allo scalone il conte di Lavagna, che sarà più felice di accompagnarlo. Se pure,—aggiunse la marchesa,—Vostra Altezza non vuol liberarsi di me.
—No, no, rimani; son pazza;—mormorò Giovanna, stringendosi a lei.—Son pazza! son pazza!—seguitava sommessamente.—Lo ha detto anche mio padre.
—Pazza d’amore;—le sussurrò Beatrice di Bovadilla all’orecchio.—Ed è bello, in una donna, esser pazza così.
—Anche tu, non è vero, Bovadilla? Accompagnami a palazzo; non son gelosa di te. Ma oggi, piuttosto, per avere il tuo premio, o per darlo altrui con la tua dolce presenza, andrai dagli amici tuoi che t’aspetteranno, e dirai a don Cristoval che Giovanna di Castiglia farà giustizia anche a lui. Come è bello far giustizia! Piace anche a Filippo; ed è più bello ancora scrivere il proprio nome accanto al suo. Inseparabili! inseparabili nella vita! Ma bisognerebbe anche esser tali nella morte; non credi?—
Indice
Capitolo XVII. Sposi novelli.
Dicono che l’uomo non intenda pienamente il suo bene, se non quando gli sia accaduto di perderlo, e che non sia maggior dolore del ricordarsene senza speranza, nè maggiore felicità del ricuperarlo dopo tanto sconforto. Ma il capitano Fiesco, per intendere il suo, non aveva mestieri di vederselo rapire a quel modo. Il doloroso esperimento, se mai, lo aveva già fatto una volta a San Domingo; e in verità non c’era bisogno d’insegnargli più nulla con un nuovo pericolo. E il pericolo era stato assai grave, ad onta delle speranze che gli faceva balenare davanti agli occhi il ministro Ximenes. Come sperare che Gian Aloise si mettesse per il suo disgraziato parente in una lunga peregrinazione e in uno spinoso negozio, se quel suo parente gli aveva poco prima ricusato di muoversi per lui a più breve viaggio e a più facile impresa? E se pure Gian Aloise si fosse lasciato persuadere per amor di Juana, da lui tenuta al fonte battesimale, da lui accompagnata all’ara nuziale, era da credere che sarebbe egualmente venuto a capo di una trattazione, che doveva essere tanto più malagevole, quanto più pareva premere al re Ferdinando? Se i negoziati fallivano a Parigi, addio speranze di Valladolid. E il capitano Fiesco si sarebbe ucciso, non potendo sopravvivere a Fior d’oro, irremissibilmente perduta. Triste chiusa al poema! Ed era questo il suo pensiero dominante, l’unico che lo tenesse in vita.
Un raggio di speranza lo aveva portato con sè la marchesa di Moya. Si era sentito rinascere all’annunzio che i nuovi sovrani di Castiglia sarebbero giunti a Laredo, togliendo al perfido Aragonese l’amministrazione del regno. Ma anche un animoso tentativo della generosa Beatrice di Bovadilla era andato a vuoto. Il prevosto delle carceri, pregato, minacciato da lei, aveva resistito a preghiere, a minacce; e donna Beatrice era partita per Burgos, promettendo molto al povero conte, animandolo a sperare da capo, ma neanche lei ben certa di promettere utilmente, di dargli speranze efficaci. E i giorni passavano, ed erano giorni d’angoscia terribile. Ferdinando era andato a Burgos, incontro ai nuovi sovrani. Accorto com’era, non avrebbe acquistato sovr’essi un ascendente che già gli poteva assicurare la sua condizione di padre? Ma no; i giovani sovrani avevano lasciato Burgos, per scendere a Valladolid. Quel padre astuto non aveva vinto ancora. Per contro, venuta a Valladolid con la regina Giovanna, la marchesa di Moya non si era lasciata vedere in casa dell’Almirante. Che voleva dir ciò? Una cosa sola: che la dama di palazzo non aveva potuto, nei primi momenti dell’arrivo in Valladolid, allontanarsi dal fianco della regina; che se avesse potuto farlo, non lo avrebbe neanche voluto, amando meglio restar là, a vigilare, a spiar le occasioni, a cogliere il buon momento per tentare un gran colpo. La marchesa di Moya non era donna da dimenticare gli amici, nè da lasciarli in angustie.
Che gioia, quando il marchese di Lucena, comparso improvvisamente nella casa di Gil García, ebbe detto al Fiesco: “signor conte, andate subito alle carceri del palazzo di giustizia; la marchesa di Moya vi aspetta colà!„ E che bella giornata era quella! com’era sereno il cielo! com’erano liete le strade, per cui egli passava, non andando, non correndo, volando!
C’era folla, sulla piazzetta delle carceri, e gli arcieri stentavano a contenerla. Gli si fece largo, nondimeno: era un gentiluomo, doveva appartenere al séguito dei sovrani di Castiglia, che erano andati là dentro, per compiere un atto di grazia, di giustizia, di clemenza regale. Sì, c’era un po’ di tutto questo, nell’atto, e non bisognava perdere il tempo ad almanaccarci su. Il capitano Fiesco sentiva le benedizioni, e il cuore gli si allargava in petto, mentre la persona si faceva sottile ed elastica, per scivolare in mezzo alla calca.
Entrò nel portico del chiostro, mentre la comitiva regale scendeva lo scalone. Si trasse indietro per darle il passo, e il cuore gli balzò in petto più forte, poichè vide in quella comitiva il mozzo Bonito. Anche il mozzo Bonito avea visto lui, e rizzando la sua bella testina in mezzo a quel barbaglio d’oro e di seta che scendeva con lui dagli ultimi scalini, si era recato la mano alle labbra; col sommo delle dita gli gittava il suo bacio, con un lampo degli occhi gl’illuminava quel bacio.
Dalla marchesa di Moya fu presentato alla regina; fece un profondo inchino, balbettò poche frasi rotte dalla confusione del momento; ma in quella confusione gli venne bene di poter salutare in lei “l’angelo di Castiglia.„ Angelo per la bontà, si capisce; ma gli angeli sono anche belli. E il complimento, fiorito così naturalmente sulle labbra del cavaliere, doveva tornar sommamente gradito al cuore della regina.
—Signor conte di Lavagna,—diss’ella amabilmente,—noi vi rendiamo un tesoro. Andate, e custoditelo, per vostra fortuna e sua. Se mai vi accada di abbisognare del nostro appoggio, contate su noi, che saremo sempre felici di rivedervi.—
Ciò detto, e baciato sulle guance il bel mozzo Bonito, congedò graziosamente gli sposi, che rimasero lì, contro il muro, per lasciarla passare. Ma ella volle che passasse prima Filippo; indi, tra gli applausi e le acclamazioni della folla, entrò nella sua lettiga, che tosto si mosse, per ricondurla al palazzo reale.
La marchesa di Moya aveva trovato il tempo di consegnare un foglio al conte Fiesco.
—Eccovi un salvacondotto, che abbiamo potuto aggiungere ad un biglietto di scarcerazione;—diss’ella.—Dov’è il più, non conta il meno: pure, sarà sempre bene tenerlo. Andate; ci rivedremo dall’Almirante, stasera.—
La folla si assiepava intorno ai sovrani, non badava più ad altro, e lasciava libero il passo rasente al muro dell’edifizio. Il capitano Fiesco, preso il mozzo Bonito sotto il patrocinio d’un braccio amoroso, scivolò destramente da quel vano in una viuzza laterale.
Andavano, andavano muti e palpitanti d’allegrezza profonda; andavano senza saper dove, felici di andare e d’essere insieme. Quante cose avevano a dirsi! ma tutte inutili, davanti alla gioia di trovarsi ricongiunti, ricuperati l’un l’altro, come rinati insieme ad un medesimo soffio di vita. Le strade tortuose, lunghe, malinconiche, erano sentieri di paradiso per essi; e lembi di cielo azzurro non ridevano dall’alto, tra le grondaie dei tetti? La gente guardava un po’ troppo i due viandanti felici; ed essi, per quanto andassero spensierati, non potevano sempre esser tanto distratti, da non vedere quegli sguardi curiosi. Gente indiscreta! E non si dava mica pensiero delle coppie di colombi, che svolazzavano di continuo da una casa all’altra, venendo a grugare, a bezzicarsi sulle sponde dei cornicioni, sui davanzali delle finestre, sugli sporti dei tetti! Perchè pigliarsi cura di due felici mortali, che se ne andavano allegramente pei fatti loro, non dando noia a nessuno? Adagio, a non dar noia! L’uomo felice ne dà sempre un pochino al suo prossimo. E i nostri felici non istettero molto a capirlo, perchè bel bello, senza dirselo, un po’ vergognosi, ma anche un po’ sorridendo, si spiccarono l’uno dall’altro, muovendo il passo più svelto, e girando con tacito consenso verso le vie più deserte, finchè riuscirono sulla spianata delle mura di Valladolid. Ah, benedetto il cielo, che per intanto si vedeva più largo! e con molta campagna davanti agli occhi, e senza curiosi indiscreti dattorno, con un po’ di giardini lungo la strada solitaria, e qualche modesta casetta qua e là. Bel luogo campestre, tanto più bello quanto era più lontana l’ora dei vespri rumorosi del popolino! E come invitava bene un’insegna di posada, su cui era scritto in grosse lettere: a la Gaita Zamorana!
—Dovrebb’essere una piva, la gaita;—notò il capitano Fiesco.—A casa nostra, quando va a male un’impresa, si dice che l’uomo ritorna con le pive nel sacco. Mi par di vedere il re Ferdinando, e il suo ministro Ximenes. E non ti pare un’insegna di buon augurio, Fior d’oro? Non hai sete? non hai fame?
—Un po’ di verde e un po’ di pace!—esclamò Fior d’oro, traendo un lungo sospiro.
—Questo prima di tutto;—riprese il capitano Fiesco.—Ma io ritorno anche al desiderio di vivere. E sarà, se tu vuoi, il primo boccone che dopo tanti giorni d’angoscia non m’andrà di traverso.—
Fior d’oro si strinse amorosamente al fianco del suo cavaliere. E tutt’e due entrarono nella posada della Gaita Zamorana. Due minuti dopo erano nel giardino attiguo, seduti sotto un pergolato di vigna, che incominciava a vestirsi di pampini.
Qui, mentre l’ostessa andava e veniva col meglio della sua cucina, scusandosi di non poter fare di più a cagione dell’ora bruciata, i suoi due forestieri si scambiavano le prime parole un poco ordinate, i primi pensieri un po’ riposati, riandando i giorni dolorosi della loro separazione.
—Che orrore, Fior d’oro! E che angoscia, la mia, pensando a quello che tu dovevi soffrire! Come avrai pianto, mia povera bella!
—No, sai? Per te, mi sono afflitta; per me, non ho versato neanche una lagrima. Ero tranquilla. Come ciò fosse non so; ma dopo il primo momento di sdegno per la infamia del re Ferdinando, una gran pace si era fatta nell’animo mio, per effetto di una profonda sicurezza. Ti sentivo presente, Damiano, ti sentivo molto vicino a me, ed ero tranquilla. Vedevo tutti i tuoi passi, udivo quasi le tue parole. Tu hai parlato anche al re.
—Come lo sai?
—Ti ho veduto, ti ho seguito con gli occhi del cuore. Non ho bene inteso tutto; ma tu parlavi alto, come sai, come ti consigliava l’amor tuo per Fior d’oro. Anch’io col Ximenes....
—Ah, sì, egli è venuto infatti da te;—interruppe il capitano.
—Col miele sulle labbra, e non dicendomi il vero;—riprese Fior d’oro.—Mi avevano arrestata, perchè in ispoglie virili; che pretesti infantili! Lo avevo ben inteso io, che il mio delitto era più grave; d’essere Anacoana, la regina di Xaragua, e d’essere fuggita al loro capestro. Come l’hanno scoperto? o come l’hanno sospettato? Ma io, non dubitare, ho accolto per buono il loro pretesto, che mi toglieva dalla dolorosa alternativa di mentire davanti ad anima nata, o di nuocere a te con la mia sincerità.
—Dio!—esclamò il Fiesco, atterrito al solo pensarci.—E come avresti potuto tener fermo alle loro minacce?
—Avrei mentito a mezzo, tacendo. Conosci i figli d’Itiba, o Damiano, come siano saldi ai tormenti. Il cielo non ha consentito loro altra difesa che questa! Ma per me non fu necessario, e la mia povera persona non sarà tanto orgogliosa da ricusare la sua gratitudine alla giustizia del re. Avevo anche indovinato dalle parole del Ximenes che qualche cosa mancava ai miei carcerieri, e che quella cosa si voleva da te, o dal signor Almirante.
—Da me, da me;—rispose il capitano.—Io dovevo ottenere da Gian Aloise che andasse in Francia, per un trattato d’alleanza, onde fosse a Giovanna e a Filippo impedito di regnare in Castiglia.
—E per questo partivi, come annunziava il Ximenes?
—Sì, per salvarti. Anche il signor Almirante mi esortava a far ciò, per quanto danno gliene potesse venire. Scusami, Fior d’oro, ma io, per eccesso d’amore, son meno forte di te. Accetterei tutti i tormenti; non saprei rassegnarmi al rischio di perderti. Ah, gran fortuna, o provvidenza del cielo, l’arrivo della marchesa di Moya! E l’arrivo inatteso di Giovanna! e gli eventi precipitati, con tutto quello che tu hai veduto stamane!
—Beatrice di Bovadilla è una donna incomparabile;—disse Fior d’oro.—Che forza sugli uomini e sulle cose avrebbe avuta il Giocomina, con quella donna al fianco! Una donna,—soggiunse Fior d’oro, con un sorrisetto malizioso,—è spesso un impiccio, pei cavalieri in viaggio; ma è pure un grande aiuto, se ha cuore ed ingegno; non credi?
—Se lo credo! Ma mi fai pensare agli impicci, adorata creatura. Mi fai pensare che bisognerà rinunziare a quello dei tuoi abiti maschili. Buoni laggiù, sulla costa di Maima, e sulla coperta d’un naviglio, con la giunta della pece e della fuliggine che vi faceva parere un diavoletto nero; non potevano andar più in Europa, tra gente più o meno civile, dove bisogna levarsi le croste d’attorno, e mettere in mostra la più bella faccia del mondo nuovo e del vecchio. E vedi, cara, come anche l’ostessa, quando ti viene davanti, non sa più spiccar gli occhi da te.
—Ma sì, ho ben veduto; e m’annoia. Dio sa che cosa s’immagina; che voi, per esempio, bel conte, abbiate piantata laggiù sull’Entella una povera castellana a struggersi in pianti e sospiri, per venire qua a rubar cuori in Castiglia, e portarveli attorno travestiti da scolaretti.
—Ella non vorrà far questa offesa alla contessa Juana del Fiesco, che, se Dio vuole, non è a pianger laggiù;—rispose il capitano, mettendosi volentieri sul medesimo tono.—Venite qua, padrona;—soggiunse, volgendosi all’ostessa, che non era lontana;—vi piace il mozzo Bonito, come gli fa comodo di chiamarsi in viaggio?
—Se mi piace?—esclamò la donna sincera, giungendo le palme ed accostandole al viso.—Per sant’Jago di Compostella, lo mangerei dai baci.
—Alla larga, dunque, e paghiamo lo scotto;—disse il capitano, ridendo di cuore.—Perchè, vedete, padrona? com’è vero che il mozzo Bonito è mia moglie, e si chiama la contessa di Lavagna, voi potreste essere sotto spoglie femminili un bel garzone invaghito di lei, e si dovrebbe far qui alle coltellate.—
L’ostessa della Gaita Zamorana parve molto felice della confidenza che quel gran signore si compiaceva di farle. Perchè aveva capito benissimo di servire un gran signore, che non dissimulava punto il suo essere, e una bella donna sotto mentite spoglie. Quella bella donna era per giunta una gran dama? Tanto meglio, quantunque a lei non glien’entrasse niente in tasca: è poi sempre piacevole di aver da fare con persone di conto; con dame, anzi che con pedine.
—Signor conte,—rispose l’ostessa, inchinandosi;—l’avevo ben capito io, che era una donna. Se la signora mi permetterà, le bacerò la mano, che è bella come il viso.
—Ma, niente divorare, mi raccomando;—gridò il capitano.
—E scusino, le Vostre Eccellenze;—ripigliò l’ostessa, animata:—siete sposi novelli?
—O giù di lì; ma fate conto che ci serbiamo tali per tutta la vita. Due creature che si amano, sono sempre nel dì delle nozze.
—Cavaliero,—esclamò l’ostessa,—voi parlate come un angelo.
—E non vorrete mica divorarlo dai baci anche lui!—scappò detto a Fior d’oro.
—Eh, signora contessa, che dirvi?—rispose l’ostessa.—Si esprime in un certo modo, che tutte le donne dovrebbero volergli un gran bene.
—Ma non dirglielo;—replicò Fior d’oro.—Venite qua, baciate me, e facciamo la pace.
—Con che gusto, signora!—
Così dicendo, l’ostessa della Gaita Zamorana saltò al collo del mozzo Bonito, e gli stampò due bacioni, uno per guancia. Avrebbe ricominciato, se non fosse stata fermata da una osservazione del cavaliere.
—Ponete mente, padrona;—diceva egli;—avete baciate due guance, su cui oggi appunto si sono posate le labbra della vostra regina.
—Signore Iddio! è vero questo?
—Come è vero che qui c’è un castigliano per lo scotto.
—Vi rifaccio il resto, signor conte.
—No, cara; anzi, eccone qui un altro, per fargli compagnia. I castigliani si annoiano, da soli. Quanto a noi, abbiamo passate due belle ore in pace nel vostro giardino; e valgono certamente di più.
—Tornateci, allora.
—Se si potrà: ma temo di no.
—E allora, siate benedetti da Dio; e vi accompagnino tutti i santi del cielo.—
La povera ostessa non capiva più nella pelle. Li accompagnò fino sull’uscio della posada, e aveva le lagrime agli occhi, nel vederli partire.
—Signore! Signore!—balbettava, seguendoli degli occhi, finchè non disparvero dietro una svolta della strada solitaria.—Tanta fortuna, alla Gaita Zamorana! chi l’avrebbe mai detto? Una al giorno, di queste coppie benedette, e in capo a un anno ci ho da comprarmi un poderuccio a Zamora.—
Il poderuccio! il sogno di tutti coloro che non l’hanno. Sarebbero poi più felici, quando l’avessero? Felici, no; ma certamente meglio provveduti, e più tranquilli, per aspettare il gran giorno che tutte le noie finiscano.
—Ma sai, amico mio, che sei matto!—disse Fior d’oro al marito, mentre camminava al suo fianco.—Butti via i castigliani, come se fossero maravedis.
—Ah, lasciami fare, lasciami sfogare!—rispose egli;—Son tanto felice! Questa giornata vale tutto l’oro di Veragua. Ed io, non potendo di più, ci butterei tutto un viaggio del Paradiso, che ho portato saviamente con me, scambio di collocarlo in San Giorgio. Ma anche tu, cara, butti via i baci, come se fossero bucce di limoni. Baci alle regine, baci alle dame di palazzo, baci alle ostesse; io solo, poveraccio, resterò a bocca asciutta.—
Fior d’oro s’accostò a lui, guardandolo in viso.
—Qui, vuoi?—gli disse.
—No, per carità!—esclamò egli.—Siamo nell’abitato, e a Valladolid, che è città dentro terra. Se fossimo in un porto di mare, potrebbe correr liscia, la cosa; si crederebbe che accompagnassi a bordo un ragazzo discolo, e non mi potessi trattenere da una ripresa di tenerezza paterna.—
Così folleggiavano, come due scolaretti in festa. E muovendo per le vie nella direzione del Campo Grande, che era il loro punto d’orientamento per ritrovar la via di casa, andavano col naso in aria, guardando le insegne. Cercavano una sastreria, una bottega di costurera, o qualche cosa di simile, da pigliar lingua, almeno, e trovare il fatto loro. Nelle vicinanze del Campo Grande s’imbatterono invece nel frate scudiero; proprio la mano di Dio.
Frate Alessandro, quel giorno più scudiero che mai (del resto, in quel viaggio di Spagna non aveva indossata la tonaca se non una volta, a Granata), fece festa al suo capitano, e più ancora alla contessa Juana. Sapeva già della liberazione di lei, essendo andato a girandolare intorno al palazzo di giustizia, e avendo avuto dalla gente del vicinato una descrizione del piccolo marinaio, bello come un angelo, levato di là dentro dalla regina Giovanna. Ma a casa non erano tornati; ed egli andava aliando di qua e di là, sperando sempre d’incontrarli.
—M’hai detto d’essere stato altre volte a Valladolid;—gli disse il capitano Fiesco.—Mi troverai dunque una bottega da sarta. La contessa non deve più oltre vestire da mozzo; un travestimento che non inganna nessuno, ed ha il guaio di attirar troppo l’attenzione della gente.
—Niente sarta da donna;—rispose il frate scudiero.—Ho il fatto vostro, se il vecchio Abner non è ancora andato a ricoverarsi nel seno di Abramo.
—Un rigattiere?
—Che! un drappiere, un banchiere, tutto quel che vorrete. Nella casa di Abner c’è un po’ di tutto; perfino un lembo della casacca di Saul.
—Della quale non saprei proprio che farmi;—disse il capitano Fiesco.
—Eh, dico così per farvi intendere che in casa di Abner non manca la stoffa.
—E tagliata ad abito di donna?
—Anche tagliata ad abito di donna, e debitamente cucita.
—Dunque un rigattiere?
—Ma che rigattiere, se mai! Venite, la piazza del Mercadero è qui presso.—
Seguirono il frate scudiero, per due traverse di strada, e sboccarono nella piazza ch’egli diceva, tutta fiancheggiata di portici. Entrarono dietro a lui in un androne, che mandava odor di pannine il che non era da rigattieri, e conciliò l’animo del capitano con Abner, e perfino con la casacca di Saul.
Giunto in fondo all’androne, il frate scudiero levò la faccia in alto, verso una scala, e gridò:
—È qui il degno amico mio Abner Ben Meir Aben Ezra?
—Chi mi chiama amico?—rispose una voce nasale.—Son qua. Datevi la briga di salire; non più di venti scalini.
—Ma alti come i piuoli della scala di Giacobbe;—disse sotto voce il frate scudiero.—Madonna, vi faccio strada.
—Sei forte d’ebraico;—notò il capitano.
—Eh, si fa quel che si può;—rispose umilmente quell’altro.—Del resto, qui non ci sono difficoltà. Abner, figlio di Meir, nipote di Esdra; tutti nomi di brave persone dell’antico Testamento. Abner, da non confondere col generale di Saul, discende, a sentirlo, da un gran rabbino di Toledo, che fiorì nel dodicesimo secolo. È dunque carico di gloria; ma più ancora di roba. E se vive, e gli è cresciuta debitamente una bella bambina, che egli aveva dieci anni fa, vedrete che bocciuolo di rosa.
—E san Francesco permette di badare a queste cose?—disse il capitano, battendo della mano sulla spalla al frate scudiero.—E di bazzicare col leone di Giuda?
—Il glorioso san Francesco non dubitava di andar dai lebbrosi;—notò il frate scudiero.—E vedere, e giudicare quel che si vede, non ha egli proibito a nessuno. Aggiungete che il vecchio Abner fu sempre un grande amico dei Francescani, a cui fece sempre elemosina.
—Di bene in meglio;—conchiuse il capitano.—Andiamo a vedere questa fenice d’Israele.—
Il vecchio Abner non riconobbe alle prime l’amico, che con tal nome lo aveva apostrofato dal fondo della scala, e frate Alessandro fu costretto a rinfrescargli la memoria. Del resto, il frate conduceva un buon avventore, di cui gli recitava nome, cognome, titoli, patria, e vita e miracoli; tutta roba da farlo diventare morbido e pieghevole come una pelle di guanto.
Per quel nobilissimo avventore, il vecchio Abner Ben Meir Aben Ezra ci aveva di tutto, e dell’altro ancora, com’egli si compiaceva di dire. Le sue stanze erano piene di banchi, e di scaffali, che andavano fino ai cornicioni delle vôlte Apriva cassetti, apriva forzieri, scopriva e metteva in mostra ogni ben di Dio; stoffe in pezza, d’ogni tessuto e d’ogni colore, damaschi e damaschetti, broccati e broccatelli, pannolani e pannolini, scarlatti, ferrandine, zendadi, camellotti, e via discorrendo. Ma il conte Fiesco voleva un abito da donna già fatto, che s’attagliasse alla sua signora, non avendo tempo da perdere. E il vecchio Abner lo fece passare in un altro stanzone, tutto forzieri, casse intagliate e ferrate, stipi, scrigni e bacheche. Era quello il sancta sanctorum del suo tabernacolo, dove, insieme con ori e gioie d’ogni specie, dormivano nello spigo nardo e nella polvere di giaggiólo intieri corredi da sposa, da gran dame, da maritate e da vedove. Parecchie di quelle vesti erano già state indossate, ed Abner sapeva la storia di tutte. Sciorinò per esempio sotto gli occhi del conte Fiesco una veste di broccato d’oro, nuova fiammante, che pur risaliva a quarant’anni addietro, o poco meno, e l’aveva indossata appena una volta la duchessa di Truxillo, alle nozze d’Isabella di Castiglia. Quell’altra, nera, di velluto a opera, era stata portata dalla contessa di Fuentes, dama d’onore di Giovanna di Portogallo, moglie ad Enrico IV di Castiglia, ed era stata ammirata per severa eleganza come abito da viaggio, nell’anno 1463, quando la sfarzosa corte di Castiglia era andata ad incontrare il misero cortéo del gretto e trasandato Luigi XI di Francia sulle rive della Bidassóa. Queste e tante altre ricchezze di vestiario, come si trovavano là dentro a dormire? In tempi più tardi si sarebbe potuto ascrivere il fatto ai capricci della moda, e alla noia che dovevano sentire le dame per un abito di gala portato due volte. Ma allora? Ahimè, grandezze umane, assai più mutevoli dei capricci della moda! Non pure le fortune dei gran signori, ma quelle istesse dei re, in una età di rivolgimenti continui, andavano spesso a soqquadro; per ogni guerra da intraprendere, per ogni pericolo da scongiurare, si metteva in pegno il vasellame, le gioie, le vesti sfarzose, ogni cosa di prezzo. E non sempre, salvati o perduti i dominii, si riscattavano le cose impegnate.
Gli occhi del mozzo Bonito (chiamiamolo ancora una volta così) furono attratti da una gran veste di rascia fine, che tosto diventò nella parlantina di Abner il capo più elegante del suo magazzino. E bisognava notare che quella veste non era stata indossata mai; era nuova di trinca. La dama che l’aveva ordinata non era più venuta a ritirarla. Quella lì, con un mantello nero, di seta o di ferrandina, doveva andare a pennello, formare un vestimento senza rivali, severo e ricco ad un tempo.
—Severo sì, ricco no;—disse il frate scudiero.—E poi, sarà vero che la veste sia nuova, non portata mai?
—Oh, per la barba....
—Di’ pure, per la barba di Aronne....
—Ma sì, vi assicuro, frate Alessandro. Vedete la fodera, che è candida come la neve, ed intatta. Guardate l’orlo della balza!... Se non è nuova fiammante, e non mai escita dalla casa di Abner, possa io non veder più la mia figliuola Noemi!
—Ah, la piccola Noemi! Si sarà fatta grande, e bella come un occhio di sole.
—È tutta sua madre;—mormorò Abner, con un sospiro di reminiscenza.
—Meno male!—esclamò il frate scudiero.—Povera a lei, se somigliava al babbo!
—Frate Alessandro! frate Alessandro! Voi avete sempre voglia di scherzare.—
Mentre i due amici, l’uno del vecchio e l’altro del nuovo Testamento, si bisticciavano così allegramente, Juana fermò la sua scelta sulla veste di rascia. Per la statura le andava, ed anche doveva andarle per il taglio. In quel tempo il taglio delle vesti non offriva le dotte complicazioni, e non richiedeva i più dotti cincischiamenti dei secoli più tardi. Ancora non si assassinavano impunemente a colpi di forbice teli di drappo finissimo, che costava un occhio del capo.
—Ma ci vorrà biancheria;—disse il frate scudiero.—La signora contessa, venuta in abito da marinaio per la poca sicurezza delle nostre strade, non ha portato biancheria da donna.
—C’è tutto, qui, e dell’altro ancora;—rispose Abner colla sua vanteria di bottegaio.—Noemi! Noemi!—
Una bella fanciulla sui vent’anni apparve dal vano di un uscio; bianco dorata la carnagione, i capegli neri e ricciuti, gli occhi grandi, profondi ed accesi della sua schiatta.
Noemi aiutò il babbo a sciorinar biancheria, aprendo a sua volta forzieri e ceste. Juana scelse tutto ciò che poteva convenirle. E già il vecchio Abner preparava un canestro lungo, in cui collocare ogni cosa.
—Ma, veramente, non si vorrebbe portare a casa tutta questa roba;—disse il frate scudiero.—Non ci sarebbe modo d’indossarla qui?
—Ma sì, ma sì, caro amico, si può tutto, e dell’altro ancora;—rispose il vecchio Abner.—Noemi, conduci la signora contessa nella tua camera. Dico la signora contessa; e non ti stupire, se hai davanti agli occhi il più bel mozzo che mai si sia visto in Ispagna.—
Mentre le donne uscivano dalla stanza, per salire al piano superiore, il conte Fiesco mise mano alla borsa. Il vecchio Abner capì che poteva calcare sui prezzi. Non si mandava la moglie a vestirsi di tutta quella roba, se si aveva intenzione di lesinare sui prezzi, col risico di rimandarla a spogliarsi, per la differenza di pochi castigliani. Fece i suoi conti con molta diligenza, tirò la somma, e mise il foglio sotto gli occhi dell’avventore. Ma anche il frate scudiero ci volle dare la sua sbirciatina.
—Cinquanta castigliani!—gridò.—Ah furfante! Meriteresti d’esser trattato come quei due tuoi antecessori in Israele furono trattati dal Cid Campeador, che Dio l’abbia in gloria. Vuoi che te la canti io, la romanza?
—Lo so, frate Alessandro, non vi scomodate per così poco;—rispose il vecchio Abner, senza scomporsi.—Ed anche voi non riconoscete che quella non fu la più bella impresa del vostro eroe? Quanto a me, giuro che ho fatti i prezzi più onesti. Nessuno si è mai lagnato di me. E il signor conte, che conosce il prezzo delle cose, giudicherà da pari suo.
—Giudicherò....—disse il capitano Fiesco, pacatamente.—Giudicherò quando la contessa ci sarà venuta davanti nelle nuove spoglie. Se starà bene così rimpannucciata, non leverò un maravedis.
—Mio signore!...—gridò il vecchio Abner, sgranando gli occhi.—Oh mio signore! Voi siete magnifico, da vero Italiano, da vero Genovese. Io son sicuro di avere i miei cinquanta castigliani. Così ne avessi chiesti sessanta, frate Alessandro, che mi fate gli occhiacci! La signora contessa parrà una regina, se anche avesse indossato una veste di saia. Con quella persona! con quella faccia! Rachele e la Sulamite ci scapiterebbero al paragone.
—O Abner, sapientissimo vecchio!—disse il Fiesco, ridendo.—Prega Dio che non ti sentano Giacobbe e Salomone. Quanto a me, tu hai la mia amicizia. E l’abbia in te la tua schiatta. Siete infine il popolo re.
—Fummo, signor mio, fummo;—rispose il vecchio Abner, abbassando la fronte.
—A buon conto, avete la storia più antica del mondo. La tua nobiltà, Ben Meir e.... il resto che non ricordo, va due mill’anni almeno più su della mia. Che siamo noi, conti e marchesi, al vostro paragone, o liberati d’Egitto? In Ispagna si fa molto, quando si rimonta agli ultimi dei Goti; più su sta monna Luna. In Italia si fa molto, quando si rimonta agli ultimi dei Longobardi, o ai primi dei Franchi; stirpe di soldatacci, di scorridori, di tagliacantoni, che Iddio ne scampi ogni fedel cristiano. Voi altri venite giù netti, diritti come spade, da Abramo. La vecchia religione con le sue benedizioni vi aveva tenuti fuori d’ogni contatto; la nuova, con le sue maledizioni, vi ha preservati da ogni miscela. Capisco, c’è l’odio, che qualche volta annoia. Ma gli odiatori prendono volentieri il vostro denaro ad imprestito. E voi arricchite. Un giorno o l’altro, io lo prevedo, sarete i padroni del mondo. Il nuovo Israele corre alla religione del vitello d’oro; e voi dal Sinai detterete la legge.
—Possa tu dire il vero!—mormorò il vecchio Abner, mentre sotto le ispide sopracciglia gli brillavano gli occhi d’insolita luce.—E vorrei che lo conosceste, il Sinai;—soggiunse ad alta voce, facendo bocca da ridere.—Ci ho di là ancora qualche bottiglia d’un vino, che ridarebbe la vita ai morti; ed è stato spremuto sulla montagna sacra.
—No, grazie, vecchio Abner; non ho voglia di bere.
—Ma l’ho io, Ben Meir Aben Ezra;—disse il frate scudiero.—Sia questo almeno per la mancia, a chi t’ha condotto un così generoso avventore.
—Che è pronto a darti i cinquanta castigliani;—aggiunse il Fiesco, rimettendo mano alla borsa.—Dio santo! li hai ben guadagnati.—
La contessa Juana era apparsa sulla soglia, splendente di bellezza e di grazia, nella sua lunga veste di rascia finissima, e involta la testa e le spalle nelle morbide pieghe del suo manto di ferrandina. Entrò ridente, la bella, e con un rapido moto della snella persona venne a gittarsi nelle braccia dell’amante marito.
—Damiano!—gli bisbigliò tra due baci, che non la regina Giovanna, non la marchesa di Moya, nè l’ostessa della Gaita Zamorana ne avevano sentiti i più ardenti.
Abner Ben Meir, e tutto il resto, aveva finito di contare i suoi cinquanta castigliani, e si voltava a guardare, dopo aver sentite quelle vivaci dimostrazioni d’affetto.
—Sposi novelli, capisco;—diss’egli, ammiccando.
—Ecco la seconda volta che ce lo sentiamo dire in un giorno;—esclamò il capitano Fiesco.—E l’abbiamo per una benedizione in tutte le forme, del nuovo Testamento e del vecchio.—
Ad un cenno del padre, la buona Noemi era andata a prendere quella tal bottiglia di vino del Sinai. Panciuta, per non distaccarsi ancora dal tipo dell’anfora antica, polverosa e non senza avanzi di ragnateli, la sacra bottiglia portava il suggello della sua autenticità in una piastra di ceralacca, segnata dall’impronta d’un convento di frati.
—Alla gloria di santa Caterina dell’Oreb!—disse il frate scudiero, quando ebbe pieno il suo calice.—Ed alla felicità degli sposi novelli!—
I quali, indi a pochi minuti, salutato Abner Ben Meir Aben Ezra e la sua bella figliuola Noemi, uscivano finalmente di là, l’uno, o l’una, al braccio dell’altro. Il frate scudiero, per non perder l’usanza dei fardelli, aveva fatto un involto degli abiti del mozzo Bonito, e se li portava sotto il braccio, come tante altre volte la sua tonaca francescana.
Indice
Capitolo XVIII. In manus tuas, Domine....
La liberazione di Fior d’oro aveva recato un gran sollievo allo spirito dell’Almirante, che si accusava (e non sapeva darsene pace) d’essere stato cagione d’un guaio così grave agli amici suoi, invitando il capitano Fiesco in Ispagna. Egli sorrise al vedere la contessa vestita finalmente in modo conveniente al suo sesso e al suo grado, e gli parve d’intendere la ragione per cui la coppia gentile aveva tanto indugiato a prendere la via della casa: ma più sorrise del suo proprio errore, che era pur tanto naturale, quando seppe che i due “sposi novelli„ avevano trovato il modo d’indugiarsi dell’altro a far le scorribande campestri, come scolaretti in festa. Poveri amici! e si capiva che dopo tanti giorni di pena non badassero ad altro che a prendere una boccata d’aria e d’allegrezza all’aperto.
—Siete contessa, signora mia, ma siete sempre una regina; ed anche tale da illuminare una corte del vecchio Mondo;—diss’egli a Fior d’oro, con quel suo bel sorriso, che gli rischiarava il volto, trasfigurandolo.
Per quel resto di giornata non parve sentir più i suoi dolori, che pure coll’inoltrarsi della primavera s’erano fatti più acerbi. A compir l’opera giungeva sul tardi la marchesa di Moya.
—Voi siete il nostro buon angelo;—le disse, volendo ad ogni costo baciarle la mano.—Quanto vi dobbiamo, marchesa! e quanto vi debbo io particolarmente! Voi sola, infine, avete pagato il mio debito a questi “sposi novelli„ che hanno dovuto soffrir tanto per la disgrazia di essermi amici.—
La serata passò in lieti ragionamenti. Non pareva di essere al letto di un infermo, bensì di un convalescente alla vigilia della sua partenza per un pellegrinaggio di ringraziamento a qualche famoso santuario. L’Almirante parlò lungamente di Genova, riandando tutte le memorie della sua infanzia lontana. E da Genova si spingeva volentieri più in là, fino alla Gioiosa Guardia, che aveva in animo di visitare.
—Andremo, donna Beatrice;—diceva.—Perchè voi non mi farete il torto di lasciarmi andar solo, a visitare i nostri amici nel loro maraviglioso castello. E dicono che il nostro capitano n’abbia fatto un luogo di delizie, come ai tempi suoi Lancillotto del Lago, quando ebbe occupata la Dolorosa Guardia, e mutatole il nome. Son graziosi, questi cambiamenti di nome; e pare che allarghino il cuore. Chi si spaventa più del capo Tormentoso, del capo delle Tempeste, dopo che Bartolomeo Diaz lo ha girato, imponendogli il nome di Buona speranza? Nel castello di Gioiosa Guardia passeremo una settimana piacevolissima; anche due, se ci vorrete, amico Fiesco. E voi sarete anche tanto cortese da farmi capitare lassù tutti i vecchi marinai di Chiavari, di Lavagna, di Zoagli, di Rapallo, di Santa Margherita, di Portofino, perchè io possa ragionare con tutti, a modo nostro, parlando un poco la madre lingua di Lanzerotto Maluccello e di Ugolino Vivaldi, nostri precursori nobilissimi sulla marina d’Atlante. Ho ancora negli occhi le immagini d’una bella giornata nel golfo Tigulio, col suo specchio d’acque tranquille, e quelle tre punte verdi del promontorio là in fondo. E l’abbazia di San Fruttuoso a Capodimonte! Che pace, là dentro, sotto le arcate di quei portici, dove non c’erano neanche più i frati d’una volta! Ricordo che contemplando quel po’ di mare turchino, chiuso tra due scogliere, e quasi senza orizzonte, non avrei voluto andarmene più via. Si stava così bene, non pensando a nulla, non desiderando più nulla! È vero che non avrei scoperte le nuove terre di là dall’Atlantico, restando in contemplazione laggiù.
—Meglio dunque aver lasciata la vita contemplativa per l’attiva;—disse il capitano Fiesco.
—Chi sa?—riprese l’Almirante.—Lo spirito umano non ha pur esso qualche diritto alla pace? Ed anche altre creature, a migliaia di migliaia, avrebbero avuto pace, se io fossi rimasto colà, nella vecchia abbazia, a conversare con le ombre dei Doria. Ma ecco, senza volerlo, incappo in un brutto pensiero.... quasi in una eresía. Se io rimanevo laggiù, come si sarebbero aperte tante regioni al Vangelo, e condotti tanti popoli alla conoscenza del Dio vero? Aggiungiamo che la vita è milizia, e che l’uomo è soldato. Il soldato ha diritto di posare un istante sulla sponda del ruscello, per prender l’acqua nel cavo della mano e ristorarsene. Ma niente più di così; Gedeone, forza demolitrice, li chiama, e bisogna saltare in piedi, precipitarsi nella notte, colla fiaccola e con la spada, sopra la gente di Madian.—
Così parlava quell’uomo semplice e grande, anima di guerriero e di poeta; e gli fioriva naturalmente sul labbro la immagine biblica, che è della più alta poesia onde sia stata mai rallegrata la terra. Ma fu l’ultimo giorno lieto di quell’uomo, che sopraffatto dal suo male, nutrendosi sempre più scarsamente, era diventato cereo, diafano, quasi l’ombra di sè stesso, non vivendo altrimenti che per gli occhi, animati tuttavia del raggio divino, e per le labbra, su cui si veniva spegnendo il vermiglio, ma donde spiravano sempre in calde parole gli elevati pensieri.
Beatrice di Bovadilla fu ancora un giorno presso la regina, che era ritornata da una visita a Medina del Campo e alla tomba di sua madre. Sperava di persuaderla a visitare l’Almirante, o almeno ad occuparsi di lui, come ella aveva promesso; ma Giovanna, tutta al suo Filippo, non aveva tempo da ciò. Si era anche sempre in negoziati col Ximenes, per riamicare i giovani sovrani col re Ferdinando; nè l’amministrazione di Castiglia, per essere ancora in mano al Ximenes, poteva dirsi abbandonata da Ferdinando, più attaccato che mai alla sua preda. Così la Corte, scambio di scendere nella nuova Castiglia, ritornava a Burgos, capitale della vecchia. E la marchesa di Moya, non volendo per un verso allontanarsi dall’Almirante, seccandosi per l’altro delle strane gelosie di Giovanna, non accompagnò la regina a Burgos, lasciando volentieri ad altre dame di Castiglia gli onori e le noie di una illustre servitù. Per tenere i nuovi sovrani in guardia contro gli artifizi di Ferdinando c’erano i nobili castigliani, coi quali Beatrice di Bovadilla era andata fino a Laredo; per ottenere il riconoscimento dei diritti di don Cristoval e la sua reintegrazione nelle pristine dignità, non bisognava neanche essere tutti i giorni a intronar le orecchie regali. E poi, l’Almirante deperiva ad occhi veggenti; gli assalti del suo male si facevano anche di giorno in giorno più spessi. Restando sola qualche volta al capezzale di lui, Beatrice di Bovadilla guardava con tenerezza e sgomento quel suo viso smunto; e gli parlava, sforzandosi d’esser tranquilla, sorridendo perfino, quando i vividi sguardi dell’infermo si volgevano a lei, con quella intensità che forse era desiderio di non perder nulla delle ore fuggenti, e che a lei aveva l’aria d’una paurosa interrogazione. L’ammalato pareva calmarsi a grado a grado nella vicinanza di donna Beatrice; specie quando ella posava la sua mano su quelle di lui, rattrappite dalla gotta, ma calde, scottanti di febbre.
Il medico appariva due volte ogni giorno; ma non sapeva che consigliare di nuovo. Citava di Galeno il poco che questi aveva scritto intorno a quel male; ricordava le opinioni d’Ippocrate e di Areteo sull’artritide; ma non sapeva neanche lui se si trattasse d’un catarro stillante a goccia a goccia nelle articolazioni, e cagionante dolori e gonfiezza, come il primo aveva creduto, o d’una infiammazione delle articolazioni, come avevano sentenziato quegli altri. Calma, molta calma, emollienti, torpenti, e sperare in Dio; ma certo ci sarebbe voluta la gioventù, e una macchina meno maltrattata da tanti travagli e burrasche.
L’infermo aveva spesso la visione del passaggio imminente. Guardava davanti a sè nello spazio, con gli occhi sbarrati, dolendosi di non vedere più nulla.
—Gran nebbia!—mormorava.—Gran nebbia, che si muterà presto in tenebre fitte! Doloroso, il morire! E non ho mai temuta la morte; ed anche oggi l’avrò per una liberazione. Ma avrei voluto lasciar sicuro e degno uno stato ai miei figli. Donna Beatrice, vi prego, aprite quello stipo; c’è il mio ultimo testamento; voglio che lo leggiate, per dirmene il vostro parere, prima che io lo consegni al notaio.—
Un primo testamento lo aveva fatto l’Almirante otto anni prima, e appunto il 22 febbraio del 1498, innanzi di partire per il suo terzo viaggio di scoperta, istituendo un maggiorasco nella sua famiglia, e lasciando a Genova, sua città natale, il decimo delle sue rendite per isgravio dei dazi sul grano, sul vino, sulle grasce, e sull’altre vettovaglie. Arrivato poi dalla Spagnuola, dopo la sofferta prigionía, e ritornato in isperanza di cose maggiori, n’aveva scritto súbito a Genova, al Magistrato di San Giorgio, avendo anche fatto disegno che tutte le rendite sue fossero a mano a mano investite in quel banco. Ma alla sua lettera non si erano fatti vivi i magnifici Signori di San Giorgio; ond’egli, tornato dal quarto viaggio, scriveva il 27 dicembre 1504 a messer Nicolò Oderigo, amico suo genovese; “.... fu discortesia di cotesti Signori di San Giorgio, il non aver dato risposta; nè con ciò hanno accresciuta l’azienda; lo che dà ragione a dire che chi serve al comune non serve a nessuno„. Veramente, dovevano aver risposto; perchè tra le carte del Banco si trovò poi la minuta della lettera loro, onorevole documento di patria riconoscenza. Ma certo non giunse a lui quella lettera; e fu cagione che un nuovo testamento lasciasse fuori il generoso legato.
Quello che Beatrice di Bovadilla era chiamata a leggere, era un codicillo, scritto dall’Almirante fin dal 25 agosto dell’anno 1505. In quella scrittura, egli chiariva e confermava le sue volontà per rispetto al maggiorasco, e a tutte le persone del suo nome, figli, fratello ed eredi. E lèsse tutto, la buona marchesa di Moya, anche un paragrafo che non le doveva piacere per le memorie che le suscitava, ma ch’ella poteva nondimeno ammirare come una bella testimonianza di delicatezza d’animo. Il paragrafo era questo:
“Dico e comando a don Diego mio figlio, o a chi erediterà, di pagare ogni debito di cui lascio qui espresso un memoriale, e tutti gli altri che sembreranno giustamente miei. Gli lego inoltre di avere special cura di Beatrice Enriquez, madre di don Ferdinando mio figlio, di provvederla affinchè possa vivere onestamente, siccome persona a cui sono di tanto aggravio. E questo si faccia a scarico mio di coscienza, perchè ciò molto mi pesa per riguardo dell’anima. La ragione di ciò non è lecito scriverla qui. „
—Era obbligo mio, non credete?—mormorò l’infermo, come la vide giunta al fine della pagina.
—Sì;—rispose Beatrice di Bovadilla.—Povera donna! E Dio sa come io l’ho scongiurata di venire a voi!
—Lo so, generosa amica, lo so.—
Nè altro disse egli più, su quel tema doloroso; e Dio solo seppe quante altre cose rivolgesse nell’anima. Nè la più amante delle due Beatrici, che altamente sentiva, volle turbare con indiscrete parole la santità di quell’ora.
Per cacciare i tristi pensieri, la pietosa signora lèsse il memoriale dei piccoli obblighi che l’Almirante aveva ricordati con tanta diligenza, e insieme con tanto candore, dai centonovantacinque ducati complessivamente dovuti a parecchi suoi concittadini, come Luigi Centurione Scotto, Paolo Di Negro, e Battista Spinola del ramo di Luccoli e dei signori di Ronco, fino al mezzo marco d’argento ad un ebreino di cui non rammentava il nome, ma che indicava minutamente, come quello che soggiornava, vent’anni prima, alla porta della Juiveria, in Lisbona.
—Quanti vecchi debiti!—diss’egli, con un mesto sorriso.—E tutti di Lisbona, vedete? L’Almirante maggiore del mare Oceáno ebbe in principio da pensare a mettere la parte sua nelle spedizioni navali; quando ne poteva trar redditi, la Corona, sua partenevole, non si è curata di farglieli pagare. E fondo maggioraschi, e muoio nella miseria!
—Anche questa povertà ci voleva, per comporvi l’aureola;—notò Beatrice di Bovadilla, sollevando colla nobiltà della frase l’umiltà dell’argomento su cui era caduto il discorso.—Quanto al morire, ci sarà tempo. Vogliamo ancora veder succedere molte cose, e molta giustizia esser resa.—
L’infermo tentennò il capo sull’origliere.
—Sento che non avrò tempo di aspettarla. Che giorno abbiamo?
—È martedì,—rispose donna Beatrice,—diciotto di maggio. Doman l’altro, festa solenne; e speriamo che possiate scendere un pochino dal letto, per celebrarla con noi.
—Scendere, no; salire piuttosto;—diss’egli.—Non sarà l’Ascensione? il giorno che nostro Signore è salito al cielo, dopo aver tanto patito per la redenzione degli uomini? Vedrete.... morrò io, doman l’altro.
—Che pensieri son questi? Siate sempre il mio cavaliere, don Cristoval, e obbeditemi, cacciando i brutti pensieri. Volete proprio farmi paura?—
Fremeva, la povera donna, e parlava con tono risoluto, quasi ilare, come se non temesse di nulla.
Il medico ritornò quella sera, nell’ora che tornava più forte la febbre. Anch’egli fingeva d’esser tranquillo; ma, voltata la faccia alle persone della famiglia, batteva le labbra. Anzi, uscito dalla stretta dell’alcova, e andato nel vano della finestra a discorrere col capitano Fiesco, gli mormorò qualche cosa all’orecchio. Notò l’atto l’infermo, e coll’udito finissimo che sogliono avere in certe occasioni i malati, colse a volo le parole del medico.
—Che cosa consiglia il savio?—domandò egli, sollevandosi sulla vita.—Che Iddio venga a visitarmi? Ma io lo desidero, con tutte le forze dell’anima.
—Lo credo, lo credo;—rispose il medico, tornando prontamente verso l’alcova.—Parlavo d’altro, io; dicevo di voler provare un nuovo rimedio, per calmare la febbre. Ma la visita del gran consolatore si può ricevere ad ogni ora; e sia domani, o doman l’altro, come Vostra Eccellenza vorrà.
—Sì, doman l’altro;—disse l’infermo.—Sono avvertito di poterlo aspettare; e mi piace che sia il giorno dell’Ascensione;—soggiunse, con un accento che andò come una pugnalata al cuore di donna Beatrice.—Domani, intanto, vorrei pensare alle cose della terra, che sono pure a scarico della coscienza. Conte Fiesco, mio buon amico, vorrei per domattina un notaio.—
Il desiderio suo fu appagato. La mattina del 19 era chiamato al suo letto don Pedro de Hinojedo, “scrivano di camera delle Altezze Loro, scrivano provinciale nella loro Corte e Cancelleria, e loro scrivano e notaro pubblico in tutti i loro regni e signorie„. Ricevette egli e trascrisse nel suo rogito il foglio consegnato a lui dall’illustre infermo; ed erano “testimoni presenti, chiamati e pregati, il baccelliere Andrea Mirmena e Gaspare della Misericordia, abitanti di questa città di Valladolid, e Bartolomeo Fiesco, Alvaro Perez, Giovanni d’Espinosa, Andrea e Fernando Vargas, Francesco Manuel, e Fernando Martinez, servitori del signor Almirante„.
Partito il notaio, seguì una giornata di tregua.
L’infermo sentiva ancora i suoi dolori, e ne dava cenno, ma ad intervalli, con un tenue rammarichìo. Come altre volte, notavano i suoi familiari; come altre volte, che gli assalti del male si erano fatti a grado a grado men forti, ed egli aveva superate le crisi più minacciose. A giustificare queste rinate speranze, nel pomeriggio il signor Almirante aveva preso un po’ di brodo, mostrando di trovarlo gustoso; si era un po’ sollevato sulla vita, e aveva sorriso amabilmente a tutti, riconoscendo i più umili, e ringraziandoli della loro assistenza. Chiedeva anche dell’Adelantado, che da due giorni non aveva più visto, e gli si dovette rispondere che il suo degno fratello era andato a Burgos, per presentarsi alla regina Giovanna e ricordarle una certa promessa fatta una settimana innanzi alla marchesa di Moya.
Veramente, don Bartolomeo Colombo era andato con altro proposito a Burgos, vedendo la necessità di avvertire il nipote don Diego dello stato di suo padre, che destava tante inquietudini, e ottenergli dalla corte un congedo, perchè potesse recarsi al capezzale dell’infermo. Ma nella stessa occasione il signor Adelantado voleva anche presentarsi alla regina Giovanna, che già una volta a Laredo aveva trovata così affabile e piena di buone intenzioni a favore del signor Almirante.—Se potessi portare con me quattro righe di scritto;—esclamava don Bartolomeo Colombo,—sarebbe per mio fratello un rimedio più efficace di quanti n’abbia inventati la medicina, da Esculapio fino al dottor Villalobos.—
L’annunzio del viaggio di suo fratello a Burgos fu accolto da don Cristoval con un mesto sorriso.
—Torni presto, il mio buon fratello, il mio fido compagno di pericoli;—diss’egli:—ma notizie di Corte io non ne aspetto più.
—Perchè? non è da disperare ancora;—notò la marchesa.—Dopo ciò che la regina mi ha detto!
—E non fatto!—replicò l’Almirante.—E dove non avete ottenuto voi, chi altri può sperar di ottenere? Del resto, Bovadilla,—soggiunse egli, chiamandola per la prima volta con quel nome, che a lei suonò dolce come una carezza,—alla vigilia di appressarmi a Dio, non voglio più accoglier pensieri di grandezze umane. Le ho sepolte nel mio testamento, per coloro che saranno dopo di me. Io aspetto giustizia da chi mi può usare misericordia. Non più dignità, non più onori; Cristoforo Colombo, pei miei concittadini.... Cristoval Colon, per chi m’ama ancora, in questa patria d’adozione; ecco ciò che deve restare di me. Non piangete, vi prego. Non piango io, Bovadilla! son calmo e sereno; sento una pace, qui dentro, che mi maraviglia.... e mi piace.—
Poco dopo reclinò la fronte, e si addormentò, d’un sonno leggero e dolce, come un bambino. Ah, se quel sonno avesse potuto ristorarne le forze!
Ma quel discorso aveva profondamente contristati gli amici. Che significava quel senso di rinunzia a tutto ciò che fino allora aveva animato, quasi tenuto in vita il signor Almirante? Non forse l’istessa rinunzia alla vita?
—Triste!—esclamò il capitano Fiesco, in un di quei brevi colloquii ch’egli e Fior d’oro avevano ad intervalli con la marchesa di Moya.—Anche la speranza l’ha abbandonato.
—È vero; e lo pensavo ancor io;—disse donna Beatrice.—È un brutto indizio. Ma se ha da morire,—riprese ella, con voce piena di sdegno e di lagrime,—è bene che muoia così, col sentimento della ingratitudine dei grandi. Giovanna è incapace di star due ore in un pensiero, che non sia la sciocca bellezza del suo sciocco marito; Ferdinando è perfido; e l’una e l’altra Corte proseguono le loro particolari ambizioni; chi può pensar oggi allo scopritore di un mondo?
—Gran macchia sarà per la Spagna, se egli muore così trascurato, vilipeso, senza aver ottenuto giustizia;—conchiuse Bartolomeo Fiesco, fremendo.
—No, conte, non dite ciò;—rispose la marchesa.—Rimorso, sì, e non per sè stessa, ma per coloro che l’hanno in governo; macchia no, macchia no. La Spagna è più pura e più tersa che mai. Alla mente più eletta che Iddio mandasse in terra a glorificare il suo nome, la Spagna ha già reso giustizia. Pei suoi monarchi, vi basti Isabella. Per la sua nobiltà, vorrete dimenticare i Medina, i Quintanilla, i Santangel? Per gli uomini suoi di pietà e di dottrina, non ricorderete Giovanni Perez Marchena, Diego di Deza, il cardinale Mendoza? Quanto al suo popolo, rammentatelo, vedetelo tutto accalcato sul passaggio dello scopritore, del messo di Dio, da Cadice a Barcellona: fu mai nell’antica Roma trionfo più grande di quello? E vedetelo, il popolo spagnuolo, ammiratelo ancora con me, in questo povero Gil García, che senza sapere di guerre, d’ingiustizie, di viltà dei potenti, paga per tutti il debito della riconoscenza e dell’amore, ospitando l’Almirante in sua casa. È modesta, la casa; ma erano più modesti ancora i primi templi innalzati alla gloria del Dio vero. E voi lo vedete, il vecchio marinaio, quante volte passate per l’anticamera; fermo là, che non osa entrare dal suo comandante, che non osa chieder notizie, per timore di averle cattive, ed ha sempre gli occhi pieni di lagrime. Questa è la Spagna, amico, e tutto il resto che sapete, lo potreste anche ignorare con me. Finalmente,—conchiuse la marchesa con accento di nobile alterezza,—se nessun altri qui, tra i Pirenei e l’Atlantico, avesse fatto il debito suo per quell’uomo, ci sarei sempre io, Bovadilla; e penso che potrei bastare, agli occhi della posterità. Vi lascio, amici; sento ch’egli mi cerca.—
E strette con moto convulso le mani del Fiesco e della contessa Juana, si avviò verso la camera dell’Almirante, asciugando in fretta le sue lagrime. Anch’ella, come Gil García, n’aveva sempre gonfie le palpebre. E doveva rattenerle, al capezzale del caro infermo; e la più parte del tempo doveva esser là, con aspetto tranquillo. Quando non c’era, sentiva d’esser cercata; nè mai s’ingannava, e ne aveva la conferma nelle parole di lui, negli atti del viso, nel lampo degli occhi. Conferisce questi doni di seconda vista l’amore.
—Come soffre!—mormorò Fior d’oro.—Ed ha la virtù di sorridere, quando è vicina a lui.
—Per questo,—disse il Fiesco,—non ci siete se non voi, donne, che sapete vincer l’affanno, e mostrare il volto sereno.—
La notte del signor Almirante fu quieta, con pochissima febbre. L’infermo aveva potuto dormire, a parecchie riprese, un paio d’ore. I cuori si riaprivano alla speranza; anche quello di Bovadilla, che vide apparire l’alba del 20 senza troppo terrore. Ma come la prima luce del giorno penetrò nella stanza, il signor Almirante volle la visita di Dio.
—Non vi ho detto che lo desidero?—disse egli, a chi mostrava di non vedere la necessità della cerimonia religiosa.
Frate Alessandro andò tosto al vicino convento di San Francesco, e tornò col priore, che già aveva visitato don Cristoval durante il suo soggiorno in Valladolid. La confessione fu breve; ricevendo l’assoluzione, il signor Almirante espresse il desiderio che la sua salma fosse depositata nel chiostro del convento, per divozione al poverello d’Assisi, la cui vita terrena era stata tutta amore, sacrifizio, e glorificazione delle opere di Dio.
Poi venne col viatico il parroco di Santa Maria l’Antigoa, sotto la cui giurisdizione ecclesiastica era la casa di Gil García. Tra le preghiere degli astanti genuflessi, a cui rispondeva con ferma voce l’Almirante, levato sui guanciali il capo e le spalle, gli occhi scintillanti di viva luce, e giunte le scarne mani sul petto, la cerimonia fu commovente; cerimonia paurosa per istrazio interiore a quanti ancor pieni di vita sono costretti a pensare una volta l’orribil momento che dovranno lasciarla; cerimonia solenne d’insegnamenti a chi vede in essa la chiusa del dramma oscuro dell’esistenza, il punto fatale che tutte le ambizioni soddisfatte vanno in dileguo sulla medesima china delle speranze deluse, e piacere e dolore, e bene e male delle nostre passioni, nobili o ree, ma tutte egualmente fumose, si estinguono nell’eterno silenzio, mentre un arcano conforto di promesse celesti entra nell’anima per quelle medesime labbra che si torceranno nello spasimo della morte terrena. Dio, il consolatore invisibile, è là: si sente giungere, appressarsi, discendere, con la parola augusta che gli angeli hanno insegnata alle povere lingue degli uomini.
Partitosi di là il religioso cortéo, al morire delle voci oranti sulla via, l’Almirante si assopì. Ma furono pochi minuti di tregua, che oramai non ingannavano più nessuno dei suoi familiari. Era grave, affannoso il respiro; apparivano contratti i muscoli della bocca, infossate le occhiaie; ardevano i polsi, battuti dalla febbre; la fronte e le tempie s’imperlavano di sudore gelato. Ad un tratto aperse le palpebre, e mosse gli occhi lentamente in giro, considerando l’uno dopo l’altro i presenti.
—Diego?—chiese egli poscia.—L’Adelantado? Non sono ancora arrivati? Poveretti!...—
E pareva volesse soggiungere: non mi vedranno più vivo.
Stette alquanto in silenzio; poi, volgendo lo sguardo al figliuolo Fernando, lo chiamò più vicino.
—Sei qui per tutti?—mormorò.—Sian tutti in te benedetti.—
Il giovane si era abbandonato, singhiozzando, sotto la carezza delle mani paterne.
—Perchè piangi?—riprese il morente.—È la legge. Obbedisci alla legge. Felice chi la intende da giovane, e ad essa conforma tutti i suoi atti, dominando tutte le sue passioni, perdonando, ed amando.... Va, sii forte, figliuolo;—riprese, dopo un istante di pausa.—Anche il tuo capo amato mi pesa.... Aprite, aprite quella finestra, ch’io respiri ancora una volta quell’aria... che tanti felici respirano.—
Ringagliardiva la febbre; ed egli ansimava, si agitava irrequieto, si levava sui fianchi, agitando le braccia, come se cercasse di aggrapparsi a qualche cosa.
—Povera creta!—esclamò egli.—A che ti affanni? Vuoi tu vivere per forza?—
Frate Alessandro gli si accostò amorevolmente, bisbigliandogli qualche parola di conforto.
—Fidate in Dio, signor Almirante. Egli, padre misericordioso e giusto, vorrà operare un prodigio per voi.... e per noi.—
Gli occhi del morente mandarono lampi d’insolita luce, alle amorevoli parole del frate scudiero.
—Dio!—gridò egli.—Dio! L’ho sentito sull’Oceano, dominare con la sua voce il fragore delle tempeste. Dio m’ha assistito, Dio ha voluto conservar la mia fama nel sale dell’amarezza. Dio la mia forza, Dio la mia gloria. A lui tutto; senza di lui non sarei nulla. E son passato nella vita ancor io, amato assai più ch’io non meritassi. Fu grazia di Dio che mi amassero a gara tutte le nobili creature di Spagna; il buon padre Marchena, il Quintanilla, il Santangel, consolatori benigni; Diego di Deza, mia spada; il santo Mendoza, mio scudo; Beatrice di Bovadilla, angelo mio tutelare; Isabella, onore del trono. Perchè vissuta, Isabella? Non forse perchè si schiudesse mercè sua un nuovo mondo alla legge di Dio, alla legge d’amore?... Ah, l’odio! l’odio livido e nero! ah, la sete dell’oro, sete inestinguibile, sete crudele!... Questo sanno far gli uomini, dei doni di Dio! Si muoverà dunque alla grande concordia della famiglia umana, passando per la strage e pel sangue? I poveri Indiani! i disgraziati innocenti, scannati senza pietà da uno stuolo di belve. Schiavi!... non più schiavi, sotto la legge di Cristo!... Pure, entravano nelle case del ricco; servi, facevano parte della famiglia cristiana, recitando insieme col padrone la preghiera che eleva, la preghiera che purifica, la preghiera che per un’ora fa tutti fratelli i nati d’un medesimo seme. Ma no, non più schiavi: è cosa iniqua, la schiavitù. Nobili cuori! E li lasciate liberi, voi; liberi di faticare al sole rovente, nelle vostre piantagioni; liberi di morire nel solco inondato del loro sudore; liberi di ricevere la nerbata, se le stanche membra rifiutano per un istante l’immane fatica; liberi di fuggire, per esser rincorsi tra le selve, addentati, lacerati dai vostri cani di Corsica: liberi di morire fra i tormenti, sui palchi infami, sui roghi, dove stride la fiamma e la carne.
—E Dio permette!—mormorò il capitano Fiesco, che stava ritto, immobile a piè del letto, ascoltando e fremendo, e stringendosi i pugni alla gola per non dare in singhiozzi.
—Sì, amico mio, sì....—rispose il morente, che ancor riconobbe alla voce il suo vecchio ufficiale.—Dio ha un fine, che noi non possiamo intendere; Dio ordisce una tela immensa, di cui non vediamo altro che un tratto. Non dubitate.... E non vi sembri argomentazione di piccolo intelletto. Ha pure la sua grandezza il vedere in questo modo la giustizia di Dio; mentre non ne ha nessuna il negare ogni cosa, e il disegno e l’artefice. Egli vede e provvede, nell’arcano del suo pensiero; egli dà le mercedi. Trascura i buoni, che sicuri lo aspettano; ma invigila i tristi e le opere loro.—
Così parlando, si era stranamente animato. Inutile il tentare di calmarlo. Gli fiammeggiavano le guance; gli scintillavano gli occhi; ma in quella gran luce, ond’erano accesi, egli già più non discerneva nessuno. E incominciava a vaneggiare; e più confuse gli si offrivano le immagini delle cose; più rotte gli uscivano di bocca le frasi.
—Sono legione, i malvagi! E tutti contro il guerriero di Dio. La mia spada, conte Fiesco! dov’è la mia spada? Ch’io li assalga! ch’io li disperda! Roldano, che ho sempre beneficato, anche voi? Guevara, Porras, gente malnata! Aguado, Ovando, anime nere.... Don Francisco di Bov.... No, no; via la spada! L’uomo perdoni, e Dio giudichi. Ed egli viene.... egli viene.... incalza, in un gran cerchio di luce. Cieco, cieco chi non ti vede, gran luce dell’anima! O Signore, in cui ho sempre sperato, o Signore in cui ho sempre confidato!... I vostri santi, avvocati miei, dove sono? Ah, ecco, nella vostra gloria confusi, sorridono.... accennano.... chiamano.—
Ansava, e le parole si facevano più rade, più inintelligibili. Un moto convulso, veloce, turbinoso, gli agitava il sommo del petto, come se il cuore, ad un tratto impazzito, sventolasse là sotto, tentando fuggir dal suo carcere. E fece uno sforzo ancora, il morente, uno sforzo sovrumano, per proferire le sue ultime parole.
—A voi, Signore.... a voi.... In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum. —
Seguì un rantolo sordo; e un altro ancora, in cui le labbra si torsero. Gli erano tutti intorno, piangenti; Bovadilla innanzi a tutti, con la mano sulla fronte di lui, stillante il gelido sudore della morte. E le scoppiava il cuore, e avrebbe voluto dargli l’anima sua. La vide egli? la vide un’ultima volta, mentre alzava le palpebre, e le pupille stravolte cercavano ancora la luce? Si richiusero le palpebre, si ricomposero le labbra, cessò la danza spaventosa del cuore; l’anima grande di Cristoforo Colombo era volata incontro al suo Dio.
Un grido straziante ruppe dai petti; labbra avide cercarono la fronte marmorea e le fredde mani dell’estinto: baci si avvicendarono con lagrime su quella povera carne, che aveva cessato di patire. Poi, s’inginocchiarono tutti intorno al letto; e pregarono, lungamente, in silenzio.
Indice
Capitolo XIX. Quel che s’incontra per via.
Mentre il suo grande cittadino moriva negletto, quasi ignorato, nella terra straniera che gli era divenuta seconda patria, ed egualmente ingrata, Genova seguitava a patire delle sue secolari discordie, ad esaltarsene, ad infiammarsene sempre più; pari in questo all’infermo, che si consuma dalla febbre, e nella febbre non avverte più il male onde sarà tratto al sepolcro.
Il male di Genova era antico; e le varie forme di governo con cui, dando volta nel suo letto di dolore, l’inferma aveva sperato di schermirsi, ora coi consoli, ora coi podestà, poscia coi capitani del popolo e coi dogi a vita, finalmente colle dominazioni angioine di Napoli dopo le tedesche, e le francesi dopo le viscontée di Milano, non erano state altrimenti che fasi progressive e crisi violente di quel male. Nobili della schiatta viscontile di Polcevera e nobili d’altre terre di Riviera, alleati coi vescovi, avevano fatto da principio un governo in famiglia, indi costituita una oligarchia prepotente, che escludeva dalle prime magistrature i popolari, tutti mercanti ed artefici. Questi, crescendo di numero, di forze e di credito, avevano ottenuto a forza alcune cariche importanti, senza che per ciò fosse stabilito e riconosciuto nella lor classe un diritto alla partecipazione del governo; e frattanto, quelli di loro che avevano smessi i traffichi e l’arte, ottenendo titolo di cittadini egregi, si stimavano uguali ai nobili possessori di feudi; con alcuni dei quali, aiutando le ricchezze accumulate, riuscivano anche ad imparentarsi. Ma erano sempre tenuti per “tetti appesi„, come a dir case appoggiatesi alle vecchie torri di una gente più antica. Fra questi “tetti appesi„ alcune case più cresciute in potenza, e più ancora in audacia, avevano preso a contendersi il ducato, a palleggiarselo tra loro per quasi dugent’anni; ed erano quattro, dette dei Cappellacci per la loro preminenza, cioè a dire Fregosi, Adorni, Guarchi e Montaldi. A lungo andare sopraffatti i due ultimi nomi, erano rimasti in auge i due primi, forti abbastanza per sovvertire con le loro eterne rivalità la repubblica, senza che l’uno riuscisse poi a liberarsi dall’altro. E forse, ai nobili antichi, testimoni della gara e in una certa misura partecipi, non metteva conto che una parte vincesse l’altra del tutto, per farsi poi arbitra e padrona di tutti. Così durarono le lotte dei Cappellacci, con gran danno dello Stato, costretto a cadere in soggezione dei Visconti di Milano, poscia del re di Francia. Il quale, nel patto di dedizione conchiuso in Milano, si obbligava cortesemente alla condizione “che tutti gli onori, benefizi, ed uffici dello stato fossero conferiti ai Genovesi dal governatore e dagli anziani, tenuto conto della varietà dei colori. „
I colori, bianco e nero, valevano più poco sulla fine del Quattrocento; anzi, non valevano più affatto come tinta politica di ghibellini e di guelfi. C’erano bianchi e neri tra i nobili; bianchi e neri tra i mercanti e gli artefici, confusi oramai nella denominazione di popolari; ma i nomi di bianchi e di neri significavano piuttosto un certo numero di famiglie già usate al governo, e non disposte ad esserne escluse; e volevano dire che quelle famiglie non dovevano essere dimenticate, nella assegnazione delle cariche. A provar poi che guelfi e ghibellini, e neri e bianchi, non erano più considerati come parti politiche, basti notare che Doria e Spinola, antichi ghibellini, erano pane e cacio sul principio del Cinquecento coi Fieschi e i Grimaldi, antichi, guelfi; e Gian Aloise Fiesco, progenie di Guelfi, e primeggiante allora nella nobiltà genovese, sovveniva del suo danaro le imprese navali di Andrea Doria, nuovo rampollo onegliese della potente casata ghibellina. Nel fatto, con denominazioni vecchie conservate senza ragione politica, durava una lotta antica tra nobili feudali e popolo grasso. E i nobili avevano dimenticate le antiche dissensioni per far causa comune contro i popolari; e questi, non volendo saperne delle loro antiche denominazioni di mercanti ed artefici, si sdegnavano d’esser considerati inferiori a quegli altri, in una città dove oramai avevano esercitate le prime cariche ed ottenute singolari benemerenze.
Frattanto, accadeva di peggio. Violando i patti di Milano, il governatore francese proteggeva i nobili a danno dei popolari; li favoriva in tal guisa, che non più un terzo, ma già la metà dei pubblici onori ed ufizi erano ad essi assegnati. E qui, ápriti cielo! dalle mormorazioni si passava ai lagni; da questi alle invettive. A giustificare il loro diritto, i nobili allegavano i meriti dei lor maggiori, che nel periodo consolare avevano governata la repubblica senza compagnia di popolari. Ma i popolari pronti a ritorcere l’argomento, dicendo che appunto per ciò erano stati cacciati i nobili dal governo; nè più si doveva tornare ad una ingiustizia, tollerata soltanto finchè il popolo non aveva avuto vita civile, Genova essendo come un feudo del vescovo e del suo parentado viscontile, già collegati dal comune interesse per liberarsi dall’autorità dei conti della marca di Liguria. Quanto a nobiltà vera di sangue, in che superiori i nobili? o progenie di barbari invasori, o piccola gente oscura, che ad essi era venuta abbarbicandosi, senz’altro merito che la cieca servitù! I popolari nati in casa, antico sangue romano, cresciuti nell’operose industrie del mare, educati nelle armi in difesa della patria; onde le grandi imprese, dentro e fuori della repubblica, specie dopo il 1339, col ducato di Simone Boccanegra, erano quasi tutte dovute al valore dei popolari.
Il governatore francese, messer Filippo di Cleves, signore di Ravenstein, tenendo pei nobili antichi, faceva orecchio da mercante; anzi, per non aver da sentire i popolari, se ne andava tranquillamente in Asti. E come avviene spesso negli uffici amministrativi, che quando esce il principale per prendere una boccata d’aria, guizza via il segretario per prenderne due, anche il suo luogotenente Roccabertino colse la buona occasione, per portare un suo reuma in Acqui, a quelle terme salutari. Ma l’acqua bollente ch’egli andava a cercare laggiù, stava per dar di fuori in Genova, dove le due parti si guardavano in cagnesco, e dall’una e dall’altra si faceva gente, per non esser colti alla sprovveduta. Ai popolari si accostava la plebe, gente in gran parte calata dalle ville della Polcevera ai mestieri e alle piccole industrie della città. E i motti pungenti fioccavano; più acerbi ai popolari, che per l’aiuto cercato nelle ville erano chiamati a dispregio i villani. I giovani della nobiltà, che già alcuni anni prima per certa croce degli Zaccaria portata in processione avevano leticato aspramente coi giovani del partito contrario, s’erano fatti fare certi coltelli che portavano con ostentazione alla cintola; e quei coltelli avevano incisa sulla lama una frase minacciosa: “Castiga villani„. Nè quei coltelli erano rimasti a lungo inoperosi. Ai motti pungenti succedevano gli scontri, e le stoccate andavano via come il pepe. La città era ogni momento sossopra; i buoni gemevano invano, tra le provocazioni scambievoli e le zuffe continue; la vita di Genova era diventata un inferno.
Poteva egli portarvi rimedio il Paradiso, che giungeva a mezzo luglio nel porto? Ne scese il capitano Fiesco accompagnato dalla contessa Juana e dal frate scudiero; e tutti e tre si recarono ad alloggio dal Passano, che stava appunto in una casa del Fiesco, nella contrada di San Lorenzo. Di là, dopo un breve soggiorno, avrebbero proseguito per la Gioiosa Guardia, meta desiderata e riposo al triste viaggio di Spagna. Il capitano Fiesco voleva anche dar sesto a tutte le cose sue, facendo disegno di non spiccarsi più per un pezzo dalle rive del poetico Entella; desiderava inoltre di vedere il magnifico dottore messer Nicolao Oderigo, che del grande Almirante era stato amicissimo, e che certamente avrebbe graditi gli ultimi saluti di lui e udite con profondo rammarico le notizie della sua fine immatura.
Messer Nicolao, famoso dottore di leggi, aveva meritato per la sua dottrina di andar già due volte ambasciatore, la prima nel 1496 al re di Francia, la seconda nel 1501, ai sovrani di Spagna; e in quella occasione aveva conosciuto Cristoforo Colombo, stringendosi a lui di sincera amicizia. In Genova non aveva mai parteggiato. La sua famiglia, di Carminata in Polcevera, era d’artefici, quali ghibellini, quali guelfi in processo di tempo, la più parte speziali e medici, nè mai disposti a servire, sposando le passioni dei potenti del giorno. Egli stesso era stato amicissimo al capo riconosciuto dei nobili, Gian Aloise Fiesco; e ciò non tolse ch’egli andasse in quell’anno 1506 ambasciatore dei popolari a Luigi XII, come più tardi, nel 1515 e nel 1517 a Francesco I, altro signore invocato dalle miserie di Genova. Era un galantuomo, amante della patria sopra ogni cosa; della patria si occupava continuamente, e ne piangeva i mali insanabili; della patria parlava ancora a messer Bartolomeo Fiesco, dopo aver pianto con lui sulla morte del loro grande concittadino Colombo.
—Povera Genova!—diceva egli.—Povera città così nobile e ricca, così popolosa e forte e gloriosa, condannata a non aver pace mai, neanche sotto le labarde straniere che ha dovuto chiamare per assicurarsi contro le sue stesse follìe! E siamo oramai ad uno dei maggiori pericoli che Genova abbia corsi mai, di sfasciarsi, di andare in perdizione. Non per colpa dei Cappellacci, questa volta, che pare impossibile; per colpa dei nobili! Un mese fa, il 18 di giugno, poco mancò non andasse a soqquadro ogni cosa, per l’alterco in piazza de’ Banchi, dove il notaio Emanuele Canale, che richiedeva il fatto suo ad un nobile, n’ebbe in pagamento male parole e percosse; onde fu gran rumore, si chiusero le botteghe, e tutti correvano all’armi. Vedete quanta poca scintilla basti oramai a far scoppiare un incendio! La prudenza del podestà, messer Oberto del Solaro, ha potuto sedare questa commozione, col mandare in bando parecchi dei nobili ed uno dei popolari. Ma potrà sempre, il savio Astigiano, contenere questi umori maledetti, più pronti a bollire che non sia il vino del suo paese? E non c’è qualcheduno, nelle nostre mura, che quanto siede più alto tanto più avrebbe obbligo di gittar acqua sul fuoco? Voi indovinate di chi voglio parlare, messer Bartolomeo. Andate voi da Gian Aloise, e ditegli che abbia compassione della sua patria; egli che ha intelletto da conoscere i mali, voglia aver carità da procurare i rimedii. È una fortuna, che siate qui voi. Venuto di fuori, potete dire una parola di cittadino imparziale. Qui ogni giorno si va di male in peggio; e il peggio volgerà anche a danno suo, perchè delle cose turbate non hanno vantaggio coloro che vivono nel quieto possesso della loro autorità: mentre vantaggio verrebbe a lui, se tutti lo vedessero lavorare per la concordia; onde crescerebbe la sua fama di savio, insieme con la sua sicurezza di principe.—
Il consiglio era buono; e per seguirlo, messer Bartolomeo salì quel giorno l’ampia scaléa di Vialata. Trovò raccolti lassù tutti i Fieschi, come in un altro giorno solenne di tre mesi innanzi; ma più accigliati, più torbidi, più inveleniti che mai. Nondimeno, fecero il debito col parente, che ritornava di lontano; e Gian Aloise stette ad udire con molta attenzione le tristi nuove di Valladolid.
—Mi duole;—diss’egli;—mi duole nel profondo dell’anima. Povero signor Almirante! E morire così, senza vedersi restituite le sue sostanze e il suo grado! Ma che cosa poteva aspettarsi di bene da un re come Ferdinando il Cattolico? Gran colpa ha costui, e il mondo ne darà ben severo giudizio.
—Verissimo;—rispose messer Bartolomeo.—Ma per il nostro concittadino Colombo non siamo in colpa un po’ tutti? e noi Genovesi prima degli altri? Se questa repubblica fosse stata in pace e padrona di sè, non avrebbe potuto far essa l’impresa della grande scoperta, ritraendone essa i benefizi? Sarebbe stata ancor essa ingrata con lui; ma dalla patria sua avrebbe egli potuto sopportare anche l’ingratitudine d’un giorno, sicuro della riverenza e della riconoscenza dei secoli. Ma noi eravamo impotenti ad assisterlo; noi sempre in guerra tra noi, e senza speranza di far giudizio mai più. Sento infatti che la pace è fuggita da capo, e che si torna a scivolare nel sangue.
—Ma!...—esclamò Gian Aloise, crollando il capo e stringendosi nelle spalle.—Qui, poi, non è anche un po’ vostra la colpa, cugino? Se voi andavate a Pisa, tutto questo non succedeva.—
Bartolomeo Fiesco ebbe l’aria di cascar dalle nuvole.
—Che c’entra Pisa?—diss’egli, stupito.
—C’entra sicuro. Il gran delitto che ci appongono i villani è di non averla noi voluta soccorrere.
—Ma noi,—replicò il capitano Fiesco,—la soccorrevamo, se mai, per divorarla; e non vedo come di questo potessero stimarsi contenti i popolari.... o i villani, come mi pare dalle vostre parole che si debba dire oramai. Si sta tre mesi fuori,—soggiunse egli, ridendo,—ed ecco che al ritorno si trova cangiata perfino la lingua.
—Fermo, fermo!—gridò Gian Aloise.—Anzi torniamo indietro, fino a quel verbo divorare, che non sarà di lingua nuova, ma certamente parrà insolito in bocca ad un Fiesco. Se credete, bel cugino, di pungerci, v’ingannate a partito.
—E non avevo questa intenzione;—rispose il capitano.—Ho detto “divorare„ per “occupare a nostro vantaggio„. Non era egli per vantaggio della nostra casata, che voi volevate mandarmi a Pisa?
—Sicuramente,—replicò Gian Aloise.—Oh vedete il gran male, se chi possiede tutta la riviera di Levante, dall’Appennino al mare, e della Scrivia alla Magra, possedesse anche Pisa! Volevate voi che Pisa fosse posta in balía della nostra eccelsa repubblica, la quale oggi è di Tizio e domani di Sempronio? E non vi parrà giusto che una famiglia da quattrocent’anni intesa a mantenersi uno stato conforme alla sua dignità, cerchi di avere maggior sicurezza del sudato ed insidiato dominio? Andate là, bel cugino! ce l’avete fatta grossa, ricusando un ufficio, per il quale (ve lo abbiamo pur confessato, rendendovi giustizia) non c’eravate se non voi. E ci venite oggi a piangere sui mali di cui siete stato la prima cagione? E ci domandate probabilmente di andare in piazza de’ Banchi, o sulla scalinata di San Lorenzo, a picchiarci il petto, ad offrir pace, a chieder perdonanza ai nostri nemici? E siete un Fiesco, voi?—
La botta era forte; e messer Bartolomeo balenò un poco, ricevendola. Ancora strinse i pugni, e più i denti, per non dar fuori con troppo amare parole. Dopo un istante di pausa, che parve lungo a tutti, ma che a lui era necessario per vincersi, pacatamente rispose:
—S’io sono un Fiesco, domandate? Per tutt’altri che ne volesse dubitare avrei pronte le prove. A voi, Gian Aloise, tanto più vecchio di me, non ne bisogna nessuna; e voi già, umano e cortese signore, vi pentite in cuor vostro d’avermi fatto ingiuria. Per essere un Fiesco, bisognerebbe dunque non sentir altro che ira di parte? e d’una città che crebbe a grandezza per la santa concordia della compagna giurata, voler fare un patrimonio esclusivo di nobili? Che cosa io pensi dei nobili, e dei popolari, vorrei poterlo dire alle due parti congregate, sulla scalinata di San Lorenzo, dove non c’è da chieder perdonanza a nessuno, ma da dire a tutti la verità. Nobili e popolari, siam pure i gran sciocchi. Un giorno, stanchi e rifiniti, saremo tutti pari nell’impotenza davanti ad una plebe qual si sia, che troverà gusto a sbranarci. Oggi letichiamo per diversità di sangue. Ma che? Essi e noi discendiamo da un barbaro soldato, franco o longobardo, unghero o goto, oppure da un liberto figlio di schiava greca o siriaca, che piacque un’ora al padrone. Nessuno, nè qui nè altrove, nessuno, sia pure il più antico nelle cronache, può collegarsi a quella nobiltà romana che prima ha stampato della sua orma il paese. La quale, finalmente, nella sua folle ambizione si mostrava più accorta di noi, non volendo altro alle sue origini che dèi o dee, Marte, Venere, Ercole. I Greci, poi, tutti da Giove; onde fu necessario fare del padre degli Dei un grande scapestrato. Gli antichi, come vedete, avevano modo di nobilitare il sangue, facendolo di qualità diversa dalla comune degli uomini. Noi no; tutti di sangue rosso, mortale, di pari composizione; al più al più (lasciatelo dire ad un Fiesco, che ha studiato medicina a Pavia) guastato da qualche umore maligno, per effetto di troppe unioni in famiglia. Ma torniamo al fatto. Quando saranno qui tutti nobili al governo, e i popolari distrutti, o mandati al remo, o legati alla gleba, non avranno i Fieschi da fare i conti coi pari loro, con gli Spinola, ad esempio, coi Grimaldi, coi Doria? E dove andrà allora il bel sogno di una vasta signoría? Vorranno i tre emuli restare amici a noi, come son oggi per necessità, di contro a dugento cinquanta famiglie della fazione popolare? Non troveranno man forte in quella ventina di famiglie nobili della prima classe, o in quell’altra ventina della seconda, per costringerci un giorno o l’altro a lasciare il troppo largo dominio? e non solamente quello che voi possedete per autorità di vicario, ma ancora quello che possedete per diritto feudale? Una cosa potrebbe pure tirar l’altra, cadendo, e tutte rovesciarsi ad un modo. Nè vi parrebbe più saggio che una famiglia, giunta per fortuna al colmo della potenza, regnasse invidiata e sicura nella mediocrità forzata di trecento, fra maggiori e minori, di nobili, di mercanti, d’artefici, tutti ammessi alle medesime cariche, uffici ed onori? Ma questo appartiene all’arte di governo, ed io non ne sono maestro. Perdonate, eccelso cugino, la mia intemerata. Non lo farò più, come è vero che sono un Fiesco. E da Fiesco d’onore vi prometto che fin dove giunga il mio braccio, saprò far rispettare questo nome onorato, che ho comune con voi.
—Abbiatelo forte, quel braccio!—ribattè Gian Aloise, con accento sarcastico.—Abbiatelo tanto più forte, quanto più volete esser solo, mentre spira un’aria così poco favorevole ai nostri, in questa disgraziata città. È l’augurio d’un parente che vi ama, ad onta delle vostre.... Come chiamarle?... Mi lascerete dir bizzarríe?
—Dite pure stravaganze;—rispose il capitano Fiesco.—Tutto sopporterò di buon grado, fuorchè la taccia di debolezza e viltà.—
Salutò, detto questo, e se ne andò invelenito; tanto invelenito, che non chiese nemmeno licenza di andare ad ossequiare madonna Caterina.
Uscito dal palazzo, e fatti in un minuto i cento gradini della cordonata famosa, voltò a manca, per non dover risalire da Rivalta a porta Soprana, luogo troppo affollato. Più libera la via verso quel tratto della spiaggia che gli eruditi del tempo avevano già incominciata a chiamare il seno di Giano; liberissima e tranquilla sotto i suoi occhi la distesa del mare turchino, su cui sonnecchiava col capo un po’ inclinato a levante il maestoso scoglio Campana, vecchio testimone di tante sfilate trionfali del naviglio genovese, dallo stolo di Terrasanta ai ritorni della Meloria, di Portolongo e di Ponza. Lo scoglio Campana era un suo grande amico, fin dagli anni lontani della sua adolescenza; col quale, o davanti al quale, era uso meditare sulle passate grandezze della patria; e quella volta il capitano Fiesco, masticando male una frase del suo eccelso cugino Gian Alvise, non degnò il vecchio amico neppure d’uno sguardo fuggevole, mentre saliva per Campo Pisano all’erta di Sarzano. Sempre borbottando e sbuffando, dai fianchi dell’antico Castello, sede e baluardo del municipio Genuate, già da un pezzo convertito in un ceppo di conventi e di chiese, calò verso le case degli Embriaci, donde, girando attorno a quelle dei Giustiniani, voleva difilarsi a San Lorenzo, dove sorgevano quelle dei Fieschi.
Gran gente fin allora non aveva incontrato: fra conventi, chiese e palazzi che parevano fortezze, in un quartiere alto, donde la città era presto calata a distendersi nel piano verso ponente, non era il caso di trovar banchi o botteghe, nè per conseguenza la calca delle strade operose. Un po’ di animazione incominciava dai Giustiniani; il brulichio della folla lo aspettava nella contrada e nella piazza del duomo di San Lorenzo. Colà si accoglieva in gran parte la vita cittadina; colà nei primi secoli dopo il Mille si adunava il popolo a parlamento; colà il Cintraco, venendo dal Palazzo del Comune, che sorgeva alle spalle del Duomo, veniva a leggere i bandi dei consoli. E colà, cessati gli uffici politici della storica piazza, si adunavano ancora i cittadini a conversare, magari a far baccano, sommosse e principio di rivoluzioni; colà, finalmente, come è sempre avvenuto intorno alla casa di Dio, fin dai tempi di Cristo, si teneva un po’ di mercato.
In quella calca doveva cacciarsi il capitano Fiesco per riuscire a casa sua. La pazienza non era il suo forte, a dir vero; ma egli, in momenti quieti e ad animo riposato, sapeva dominarsi col raziocinio, che gli suggeriva le frasi della cortesia non ancora stizzita: “vi prego.... con licenza, cittadini.... scusate, amico„, e lo aiutava a passare. Ma i momenti non erano quieti, per allora, nè egli aveva l’animo riposato; ed egli e quel popolo, tra cui si cacciava, erano in uno dei loro giorni più cattivi; e mal volentieri si scomodava la folla per lasciarlo passare; ed egli, coll’amaro in corpo, non si sentiva di far bocca dolce.
Frattanto, correvano intorno a lui certi discorsi, che non erano fatti per rabbonirlo.—Fallatutti, ci siamo?—È giusta di sale.—Bisogna scodellarla.—Magari! è ora di finirla.—Vedremo al friggere, se saran pesci o anguille.—Giù dalle gronde, i gatti, e vivano le cappette.—
Il gatto era emblema araldico dei Fieschi, insieme col drago, detto anche basilisco. E per l’ora corrente, essendo i Fieschi a capo della nobiltà, l’accennare al gatto era un intendere tutta la genía dei nobili. Quanto alle cappette, si alludeva con questo nome al popolino. “Erano poverissima gente (lasciò scritto negli Annali di Genova monsignor Giustiniani), artigiani e servitori di artigiani mal vestiti, con le calze di tela e con una stretta e cattiva cappa; perciò furono nominati cappette„.
Più in là era un crocchio di ragionatori più sodi, ma non meno sediziosi.—Ve l’ho a dire, cittadini? La va come sulle galere. Si può disputare del più e del meno finchè il nemico è lontano: ma quando il cómito ha gridato arme in coperta, non c’è più da discorrere; da poppa e da prora, all’arrembata e all’impavesata, ogni uomo prende il suo posto di combattimento. E non si parli di pace, mentre siamo venuti a mezza lama. O loro o noi, qualcheduno ha da andare di sotto.
—Bravo!—pensò il Fiesco.—Questo si chiama ragionare; ed anche insegna a sragionare.—
Frattanto lavorava di gomiti, per avanzare di qualche passo verso il suo tratto di strada. Ma intoppò in due che gli voltavano le spalle, e non si davano per intesi delle sue sollecitazioni. Si rammentò allora d’un bel giuoco, che gli era tante volte riuscito con amici per via. Toccò leggermente uno di quei due sulla spalla sinistra, e l’altro sulla spalla destra. Si voltarono ambedue, ognuno dalla parte dove si sentiva toccato; così, senza volerlo, gli fecero posto, ed egli guizzò lestamente nel mezzo. S’intende che avvedutisi dell’artifizio, non volevano tollerare la celia.
—Fate largo! è qua lui!—gridarono, con accento di scherno donde trapelava la collera.
—Lui! chi, lui?—gridò egli a sua volta, fermandosi a guardarli.
S’era voltato a deboli avversarii, o mal preparati all’attacco. Non rifiatarono; anzi, pareva che non dicesse a loro. Ond’egli era già per ripigliar cammino, quando all’orlo della gradinata di San Lorenzo, e sotto alla famosa statua che porta il nome dell’Arrotino, vide un omaccione dalle spalle quadre e dal collo erculeo, che lo guardava a squarciasacco. Ed anche lo udì, che diceva ad un vicino: “bisogna insegnargli, a questi prepotenti„. La guardata, l’atteggiamento, le parole di quell’uomo, gli dettero noia. E forse non era da farne caso, potendo quelle parole non esser dette per lui; ma egli, come attratto dal pericolo, si avvicinò d’un passo, per sentire dell’altro. Frattanto, eccogli tra’ piedi un contadino della Polcevera, che mettendogli sotto il naso un canestro di ceppatelli di macchia, gli grida coll’accento largo e spaccato della sua valle:
—Vitella di bosco! vitella di bosco!—
Fece un gesto di persona seccata, torcendo il capo, ma ancora tendendo l’orecchio per sentire quell’altro. E il contadino ripigliava, insistente come un moscone:
—Ma li guardi, come son belli! non par che dicano: mangiami?—
Non sapendo come liberarsene, domandò il prezzo: ma ancora e sempre guardava il suo nonno.
—Per Vostra Signoria, quattro soldi la libbra.—
Quattro soldi! Facciamo ad intenderci. Il soldo era la ventesima parte della lira: ma la lira genovese d’allora valeva tre lire e quattro centesimi della nostra moneta d’oggidì; il soldo valeva dunque un po’ più di quindici centesimi dei nostri; e ciò senza contare il ragguaglio diverso fra la derrata e la moneta d’allora.
—Troppo cari;—notò il capitano.
—Eh, per lor signori!...
—Troppo cari, grazie!
—Grazie!—ripetè il contadino.—E ci ho perso il mio fiato, per un grazie della sua bella bocca. Vedete un po’ voi, Ghiglione!—proseguì, volgendosi all’omaccione dalla torva guardatura.—Ma già, con questi signori morti di fame non c’è altro da aspettarsi.
—No, caro, c’è dell’altro!—rispose il Fiesco, non vedendoci più lume.
E voltatosi di schianto, gli sferrò a pugno chiuso un tal colpo sul mostaccio, che lo mandò rovescioni sull’orlo della gradinata.
Fu un putiferio. Quell’altro, levatosi con la faccia tutta sanguinante, a gridare: così trattano i signori, spalleggiati dal re di Francia! E l’omaccione dal canto suo: già bella prodezza, contro la povera gente! ma non son chi sono, se non gli metto le budella al collo!
E brandiva uno spiedo, che portava appeso alla cintola. Un macellaio! Fosse pure; ma non aveva per quella volta un agnello da scannare, nè un bue da accoppare.
—Bravo, Ghiglione! Dàlli, al gatto! dàlli!—
Il capitano Fiesco aveva pronto e sicuro il sentimento delle grandi occasioni. Era in ballo, voleva ballar bene. Per intanto, con un calcio poderoso cacciò indietro parecchi, facendosi largo quanto bastasse per isguainare la spada. Come l’ebbe in pugno, la menò attorno con forza; e chi ne toccasse, suo danno.
—Questa val più del tuo spiedo!—gridò, tirandone un colpo al minaccioso avversario, a cui cadde l’arma dal pugno.
—Popolo! popolo!—si vociava d’ogni parte.—È un nobile che fa il prepotente. Dàlli al gatto! morte al gatto!
—Che gatto?—si rispondeva.—Che morte? E non è ancor preso, il gatto! e lavora assai bene con l’unghie! A noi! a noi!—
Queste voci venivano dall’alto della strada. E colle voci i ferri; e davanti ai ferri si apriva la calca, bestemmiando, piangendo, urlando, gridando misericordia.
Messer Bartolomeo s’era fatto intorno un gran cerchio. La sua spada, non tagliando più, per aver perso il filo, lacerava e ammaccava. E mentre lavorava così di puntate e manrovesci, stava coll’occhio attento ad ogni moto della folla; e a chi, col coltello nel pugno, strisciando a terra s’ingegnava di venirgli sotto, allungava pedate, più forti ancora dei colpi di spada.
—Eccolo qui, il gatto! prendetelo, se vi riesce, mascalzoni!—gridava.
E giù fendenti, giù manrovesci e puntate, quello che gli veniva meglio, facendo fronte da tutti i lati, con le mani e coi piedi. Certo, non poteva durar lungamente così. Ma durò tanto, che il soccorso gli venne. Da tutte le case vicine avevano veduto il tafferuglio: erano case di nobili, e in gran parte della gente dei Fieschi. Tutti quei cavalieri avevano afferrate le armi, scendevano sulla strada, e ancora il capitano Fiesco non aveva toccato altro che qualche scalfittura, quando gli giunse man forte, e primo fra tutti il frate scudiero, che per far più svelto aveva scalato una doppia fila di spalle, trattandole come spaldi nemici; dond’era balzato nel vallo con la spada sguainata. Altro che gatto! quello era stato peggio d’una tigre.
—Ben venuto in refettorio!—gli disse il capitano, ripigliando il suo buon umore.—Ce n’è ancora una scodella per te, frate Alessandro.
—Che! arrivo tardi;—rispose il frate scudiero.—Non vedete come scappano?
—Per andar fuori del tiro, sì; ma ora voleranno sassi, mio caro.
—E allora sotto, prima che pensino a farci fare la fine di Golía.
—Sì, sotto, sotto!—gridarono i cavalieri venuti in soccorso.—Ma da che parte si comincia?
—Di qua!—rispose il capitano, additando verso il coro della chiesa.—Si faticherà di più, risalendo la strada; ma avremo libere le case nostre, e ci saremo anche accostati al palazzo del governatore. Messer Roccabertino non vorrà mica starsene con le mani alla cintola.—
Consigliava bene, il capitano Fiesco. E la caccia, incominciata di là, ebbe l’effetto di spinger la folla sotto gli arcieri della guardia, già usciti dal palazzo al rumore della zuffa. Messer Roccabertino (ritornato da Acqui, manco male!) occupò con la sua gente il campo di battaglia. Non c’erano morti; ma i feriti abbondavano. E furono rimandati alle case loro quei che potevano andarci; gli altri portati a braccia, aiutando gli stessi cittadini, che per tal modo si levarono più presto di lì. Mezz’ora dopo, tranne le chiazze di sangue che imbrattavano il selciato, si vedeva piazza pulita.
Sciolto l’assembramento, e chetate alla meglio le ire cittadine, venne la volta di una severa inchiesta. L’inchiesta, si sa, è sempre severa. Il capitano Fiesco, eroe della giornata, non aveva nulla da nascondere; narrò tutto per filo e per segno. Nè dal suo racconto dissentì troppo quello che narrava il Ghiglione, mostrando il suo braccio affettato. Il naso rotto del Polceverasco era andato a farsi ristagnare il sangue alla fontana di Soziglia, nè fu il caso di chiamarlo in giudizio. Degli altri feriti la prudenza del luogotenente aveva anticipatamente sottratti a quel sommario processo i guasti e le querele. La giornata era tutta a vantaggio dei Fieschi; e i Fieschi, amici del governo di Francia, non si potevano trattar troppo male; tanto più ch’erano stati provocati. Anche l’eccelso Gian Aloise, avvertito in fretta dell’accaduto, era sceso dalla sua ròcca di Vialata con un drappello di cavalieri, e portava a palazzo il peso della sua autorità. Raccomandava anch’egli concordia; voleva anch’egli giustizia; ma sopra tutto che si levasse ogni argomento di nuove dissensioni in città, insegnando a tutti il rispetto delle leggi. Intanto lodava il cugino, che non si era lasciato sopraffare, mostrando come i Fieschi si sapessero guardare da sè contro le violenze dei mascalzoni.
—Per avventura, cugino Bartolomeo,—diceva egli sottovoce al valoroso parente, mettendogli l’eccelsa mano sulla spalla,—sono stato io, con certe parole un po’ matte, che vi ho fatto saltar la mosca al naso? E non mi pento di averle dette, se mai. Per opera vostra sapranno i villani che a toccare i Fieschi ci si scottan le dita.—
Il capitano Fiesco sorrise, pensando che proprio a lui, nemico giurato d’ogni discordia, era toccato di dare il mal esempio alle turbe. Ma in verità, lo avevano tirato pei capelli.
A proposito di esempi, ce ne voleva uno, e terribile. Il luogotenente Roccabertino non ebbe ritegno a darlo, sbandendo dalla città il conte Bartolomeo Fiesco e il macellaio Ghiglione. Era la giustizia, sebbene attenuata di molto, del cadì d’Alicante, di burlesca memoria, che sentiva attentamente le ragioni dell’ebreo e quelle del cristiano; poi, chiunque avesse ragione dei due, faceva somministrar loro venticinque legnate per uno. Il Roccabertino, sangue spagnuolo, non arabo, sopprimeva le legnate, contentandosi di bandir le due parti. Per altro, non si fidassero troppo della sua grande bontà; a chi rompesse il bando era minacciata la morte. E con ragione; che i banditi del mese innanzi rientravano tutte le sere in città, e la giustizia n’aveva avuto uno smacco.
—Intendiamoci, dunque;—diceva il signor luogotenente, nell’atto di scendere dal suo tribunale.—Chi rompe paga; e a chi rompe il bando, è pena la testa.
—Per quel che mi risguarda, non dubitate;—rispose il capitano Fiesco.—Parto oggi stesso, e vado lontano, molto lontano, a condir con le lagrime il duro pane dell’esule.
—Sta bene, sta bene;—borbottò il Roccabertino, passandogli accanto accigliato.
Ma sotto voce aggiungeva:
—A Gioiosa Guardia, non è vero? Così potessi seguirvi!—
Indice
Capitolo XX. Raggio di Dio.
Gioiosa Guardia! Gioiosa Guardia! E voi stavate là, bella ròcca dalle cinque torri e dall’alta bandiera sventolante nel sereno, tra il Graveglia e l’Entella, aspettando i vostri signori, ed annoiandovi parecchio, nè più nè meno di don García, vostro grigio ed allampanato custode. Ma quando la nobile coppia fu annunziata dal frate scudiero, che faceva da battistrada, quando ella giunse alla vista delle cinque torri, che gazzarra di falconetti dai vostri bastioni! che allegro scampanío dal battifredo, e che gaio andirivieni di sagola, lunghesso l’asta della bandiera, per dare ai ritornanti il triplice saluto del drago nascente e del gatto sedente, affrontati sullo scudo bandeggiato d’azzurro e d’argento!
La veneranda madonna Bianchinetta strinse lungamente al seno i suoi figli, baciandoli e ribaciandoli. “Mi ridate dieci anni di vita„ esclamava la nobil signora, piangente di gioia. Nè a lei raccontarono tutto ciò che avevano sofferto in quei tre mesi di assenza. Perchè turbar la sua pace col racconto dei pericoli incontrati? Alla vecchiezza adorata, che abbellisce la nostra casa dopo averla fatta prosperare, noi non dobbiamo offrir altro che immagini ridenti, in tributo di devozione, in ricambio di benefizi. Un soave tramonto è così caro compenso alle nostre faticose giornate!
Ma del passato doloroso si ricordavano ben essi, che tanto ne avevano sofferto. E si guardavano in viso, quasi per assicurarsi scambievolmente della loro felicità. “Siamo noi?„ dicevano. “Proprio noi, qui, nella nostra pace, che è stata messa a così grave rischio laggiù? Tu l’hai sopportato con animo forte, o Fior d’oro! E tu l’hai scongiurato con ogni poter tuo, o Damiano, che non avresti saputo sopravvivermi! Ma confessiamo, giunti alla riva, d’esserne scampati per un vero miracolo. Anima del mio cuore, come dicono così bene di là dai Pirenei! anima dell’anima mia!„
Nè solamente pensavano a sè stessi, come fanno nel loro egoismo tante coppie felici. Si rattristavano ancora, e spesso, pensando al signor Almirante, anima grande su tutte, raggio di Dio, così dolorosamente sparito dalla faccia del mondo.
—Io gli ergerò un tempio nel mio cuore;—diceva Juana.—Egli ha data la sua vita per benefizio del genere umano; ma a nessuna creatura mortale è stato più cortese dispensatore che a me. Se egli non era, se l’ingegno suo non divinava un mondo di là dai mari sconosciuti e terribili, se la sua costanza non vinceva ogni difficoltà, se non superava ogni ostacolo, ti avrei conosciuto io, bel conte? Un po’ matto, non è vero?—soggiungeva la bellissima donna, ridendo di quel suo bel riso che invitava ai baci.—Ma io ti amo così. Troppo gravi e severi, vi fanno santi, e andate ad abitar nelle nuvole. Anch’egli, il Giocomina, di cui forse noi soli in Haiti abbiamo inteso il carattere divinamente paterno, anch’egli ha amato, come ogni mortale; e felice tra tutti, nella medesima grandezza delle sue sventure, ha meritato l’amore d’una Beatrice di Bovadilla.—
Povera Bovadilla! meritava bene di non essere dimenticata, da due cuori amanti, da due anime elette. Le avevano detto, innanzi di lasciare la Spagna: “marchesa, venite con noi; parleremo ogni giorno di lui.„ Ed ella aveva tristemente risposto: “no, amici, no; la mia vita è infranta. Laggiù, nel mio monastero di Siviglia, raccolta nell’ombra, parlerò di lui ogni giorno con Dio; con Dio che riceve i cuori afflitti, e nel dolore li affina, per renderli degni di quell’amor vero e profondo, che, non senza il suo consiglio, era nato e cresciuto.„
Dal suo convento di Santa Chiara la dolente signora scriveva nell’ottobre di quell’anno ai suoi buoni amici di Gioiosa Guardia:
“Penso che davvero non vi vedrò più in Ispagna. Il re Ferdinando trionfa: chi l’avrebbe mai detto? Sapete che dopo un colloquio con Filippo suo genero, colloquio dal quale non era uscito senza vergogna, egli aveva presa la via d’Aragona, lasciando ogni sua pretensione alla reggenza di Castiglia. Di là, s’era imbarcato per Napoli, volendo pagare Consalvo di Cordova della stessa gratitudine onde aveva pagato il nostro immortale Colombo. Ma ecco, mentre il generoso Ferdinando è in viaggio, il 25 settembre, muore a Burgos il re Filippo; Giovanna impazzisce del tutto, la poveretta! e il virtuoso Ximenes persuade i miei Castigliani a riconciliarsi col re d’Aragona, unico che possa prender le redini dello Stato. Sicuro; e si è giunti a questo, di richiamar Ferdinando. Questi, come vi ho detto, era in viaggio; i venti contrarii avevano obbligato il suo naviglio a cercare un rifugio in un punto della spiaggia di Liguria, che dovrebb’essere molto vicino a voi, e che si chiama Portofino. Avvisato laggiù, non si degna di rispondere; vuole dar tempo al tempo, il gran furbo. Arriva a Napoli, dove lo raggiungono altre preghiere; fa il sordo; ma fino a quando? Io son sicura che al terzo scongiuro si commuoverà la grande anima sua, e noi riavremo quella gioia di re.„—
Quello che non poteva ancor dire la marchesa di Moya, scrivendo nell’ottobre del 1506, soggiungeremo noi ora. Il re Ferdinando si fece ancor pregare e scongiurare dell’altro, dando tempo al Ximenes di avvezzare i Castigliani alla nuova reggenza, e di fargliela perfino proporre dalla figliuola Giovanna; la quale, nei lucidi intervalli della sua ragione, vedeva pur troppo di non reggere al peso della corona. Ed egli non si mosse da Napoli, se non il 4 giugno dell’anno seguente. Anche qui i venti contrarii lo molestarono nel suo tragitto; di guisa che egli e la regina Germana presero terra a Genova. Era anche nei disegni del re Cattolico di avere un colloquio con suo zio il re Cristianissimo, che aveva allora allora ripigliato Genova, dopo la sua ribellione e il tragico dogato di Paolo da Novi. Il re Luigi era già in moto per ripassare le Alpi: saputo il desiderio del nipote (un nipote che aveva dieci anni più dello zio) gli diè la posta a Savona, dov’egli si volse per terra, e dove Ferdinando andò per mare a raggiungerlo, il 28 di giugno. Vi fu ricevuto con grandissima pompa, e non ci stette senza sospetto, nè senza le opportune cautele, facendo calare a terra quanta gente più potè dalle navi. Stettero i due re quattro giorni in istretti e segreti ragionamenti; parvero dimenticare le ruggini antiche, e certamente lavorarono di buzzo buono a ribadire ognuno dei due la sua parte di catene ai piedi e alle mani della povera Italia.
Ferdinando s’era condotto dietro Consalvo di Cordova, il vero conquistatore del reame di Napoli. E gliene aveva levato il comando, promettendogli in Ispagna il gran maestrato dell’ordine di Sant’Iago, che poi con la solita fede, si guardò bene di dargli. Avendolo con sè, dovette presentarlo al re Cristianissimo: il quale, pur ricordando di aver perduto Napoli pel valore del Gran Capitano, non si saziava di contemplare un tant’uomo, e con la sua bella cortesia francese impetrò dall’ospite l’onore di aver Consalvo alla loro mensa, unico suddito, messo alla pari con una regina e due re. Fu l’ultimo giorno della gloria di Consalvo, che in Ispagna non fu più adoperato dal suo signore, nè per opere, nè per consigli; e rimase ott’anni a sfiorire nell’ombra, per morire il 2 dicembre 1515. Allora, poi, scoppiò per Consalvo la gratitudine del re Ferdinando, com’era scoppiata per Cristoforo Colombo, le cui reliquie, tolte nel 1513 dal chiostro di San Francesco in Valladolid e trasferite a quello dei Certosini de las Cuevas di Siviglia, ebbero per concessione regale l’onor della scritta:
Por Castilla y por Leon
Nuevo mundo halló Colon.
Era un distico fiorito sulle labbra della riconoscente Isabella, e passato in proverbio nel popolo, prima che fosse inciso nel marmo. Ad un morto, del resto, si poteva render giustizia, purchè fosse ben morto; e sette anni erano sicuramente bastati a darne certezza. Figurarsi! Era così morto, anche nella memoria degli uomini, che il nuevo mundo da lui hallado, ossia ritrovato, non da lui prendeva nome, ma da un altro italiano, che ne aveva delineati i contorni, mettendo la sua riveritissima firma a’ piedi del foglio. Sic vos non vobis. Dicono che lo sbaglio di prendere per iscopritore del nuovo continente il modesto disegnatore d’una carta da navigare, sia stato commesso da una società di dotti. Possibilissimo; è dei dotti l’errare, come degli ignoranti l’andare sull’orma.
Abbiamo accennato di Luigi XII, che aveva ripreso Genova, ribellata al suo alto dominio; e dobbiamo dir brevemente come fosse andata la ribellione. Al tumulto del luglio, ove il capitano Fiesco, andando a casa sua col miglior proposito del mondo, aveva fatto uno sproposito madornale, altri n’erano seguiti, non più potuti sedare dal luogotenente Roccabertino, nè dal governatore di Ravenstein; i quali, lasciato Galeazzo di Salazar con un buon presidio nel Castelletto, dominante la città, andarono altrove ad attendere le risoluzioni del re; mentre i nobili si ritiravano nelle loro castella, e con essi la più parte dei popolari, poichè le Cappette avean presa la mano, fatto nuova magistratura di tribuni ed eletto un doge dei loro, che a tutto provvedesse, a restaurare l’autorità della repubblica nelle riviere, da Sarzana a Monaco, e a preparare la resistenza contro le armi di Francia. Troppa carne al fuoco; e mentre si perdevano in un vano assedio sotto Monaco, che era di Luciano Grimaldi, e in minacciose scorreríe da Rapallo a Sarzana, per abbattere la potenza di Gian Aloise Fiesco, non si rafforzavano abbastanza in città, per contenere gli assalti del re Cristianissimo. Il quale si calò nell’aprile del 1507 dal Giogo, e posto quartiere in Rivarolo, spinse tosto le sue avanguardie, coi signori di Chaumont e di La Palisse, sulla vetta di Promontorio, ch’era certamente il punto più debole della difesa di Genova. Fu accanita la resistenza del popolo, e il La Palisse ricacciato con gran perdite, egli stesso gravemente ferito d’un verrettone alla gola; ma al signore di Chaumont, dopo un primo rovescio, venne pur fatto di collocare in buona postura due cannoni, che coglievano di fianco i difensori del colle. Cedettero questi; e con essi, per tema d’esser tagliati fuori, anche i defensori del bastione si ritrassero verso il Castellaccio, lasciando sguarnito il passo di Promontorio, donde il nemico si mostrò minaccioso alla città costernata. Si venne agli accordi, e per la città trattarono i popolari, la cui partecipazione alla rivolta era andata meno oltre; ma i patti furono durissimi, e il 28 aprile il re Cristianissimo, entrato per la porta di San Tommaso in città, levando la spada, potè gridare con voce alta e minacciosa: “Genova superba, ti ho domata coll’armi„. Si rizzarono le forche in più luoghi; parecchi della plebe vi furono impiccati, ed uno dei popolari, Demetrio Giustiniano. Molti furono proscritti: si tornò il governo all’antica forma, metà degli onori ai nobili, metà ai popolari, che più non rifiatavano; onde ne facevan le grasse risa i vincitori.
Stette in Genova il re Luigi fino al 14 maggio, sfoggiatamente ricevuto e banchettato in Vialata dall’eccelso Gian Aloise Fiesco, reduce dal suo castello di Montobbio. Nè gli mancò l’omaggio delle dame, nel convito offertogli da madonna Battistina vedova di Giovanni Ceba Grimaldi, la quale avea pure un suo parente nel novero dei proscritti. Ricevuto il giuramento di fedeltà dagli anziani sulla piazza del pubblico palazzo, decretò che si mutasse il conio della moneta; e laddove era scolpito Cunradus rex Romanorum, in memoria dell’antico privilegio imperiale del 1138, fu sostituita la leggenda: Ludovicus XII rex Francorum Januae dux, con lo scudo dei tre gigli e la corona, in luogo dell’antica croce. La quale comparve bensì nel rovescio, aggiunta sull’antico castello; ma la scritta non fu più Janua come era prima, a significare la città signora di sè, ma Comunitas Januae, per dire che un comune si riconosceva, non più una città dominante, un capo di repubblica.
Tacciamo della fortezza innalzata allora a Capo di Faro, e chiamata a scherno la Briglia; di Paolo da Novi, tintore e doge, accenniamo brevemente che andato a Pisa, e imbarcato su d’un brigantino per Roma, fu riconosciuto dal capitano della nave, un Corso già stato suo soldato, e da lui venduto per ottocento ducati ai Francesi. Condotto a Genova il primo di giugno, e rinchiuso nella fortezza del Castelletto, fu il quindici di luglio condotto al patibolo, rizzato per lui sulla piazza del pubblico palazzo. Nobili e popolari assistevano al legale assassinio. Morì da eroe; il capo troncato messo in cima d’una lancia sulla torre del palazzo; del corpo fatte quattro parti, ed appese sulle porte della città. Bene ispirato sul palco, innanzi di dare il collo alla mannaia, aveva egli esortati i suoi cittadini a non fidarsi dei grandi, qualunque fosse la classe loro, di nobili, o di popolo grasso, di tetti appesi, o di cappellacci; mentre egli, per fidarsi generosamente di essi, era condotto a quel termine.
Ed anche meglio ispirato il capitano Fiesco, che si era tappato nella sua Gioiosa Guardia, nè per preghiere, nè per larghi partiti che gli facessero, voleva più spiccarsi di là. Passavano i congiunti, e li accoglieva a festa; ma non isperassero di tirarlo nei loro armeggiamenti. Che cosa aveva egli a vedere nelle ambizioni di quell’ottima gente del suo casato, egli rifatto dentro e fuori, ribattezzato e riconfermato in altre ambizioni più alte, nel nome e nella fede di Cristoforo Colombo? Più largo orizzonte vedeva egli, quantunque paresse chiuso in quel fondo di valle.
Era capitato tra gli altri messer Filippino. Il giovanotto s’era coperto di gloria in una fazione presso la Spezia, combattendo contro le forze dei commissarii mandati dal governo popolare a sommuovere la riviera di Levante. Carico di allori, non aveva saputo resistere alla tentazione di fare una visita alla Gioiosa Guardia. Il capitano Fiesco lo avrebbe tanto volentieri fatto ritornare sopra i suoi passi, e per via più spedita, come a dire per una delle grandi finestre, che davano luce alla sua caminata. Ma la contessa Juana osservò giustamente che quello non sarebbe stato un tratto da ospiti. Messer Filippino era un seccatore; ne conveniva anche lei. Ma forse era diventato tale, perchè non gli si era mai parlato chiaro; e del parlargli chiaro non c’era mai stata l’occasione.
—Mi lasci sola una mezz’ora con lui?—chiese ella al marito.—Egli parla, ed io gli rispondo.
—Che cosa gli dirai?
—Ecco il geloso!
—No, sai? non è per questo. Di’ piuttosto il curioso.
—E al curioso non posso dir niente fin d’ora. Una risposta, per esser calzante, deve conformarsi alla domanda; non ti pare?
—È giusto;—conchiuse il capitano Fiesco.—E il curioso, poichè il geloso non c’è, ti lascia libero il campo.—
Messer Filippino ebbe così il destro di parlare, e la disgrazia di dar nella pania. Amava disperatamente; voleva compiere imprese mirabili per la donna amata, come un altro Lancillotto del Lago; si sarebbe ucciso, se la nuova regina Ginevra non gli avesse dato la sua mano a baciare. La contessa Juana, che di tornar regina non voleva saperne, ribattè punto per punto, senza andare in collera, il pazzo ragionamento di messer Filippino. Baciarle la mano? Lo poteva sempre, in solenni occasioni, davanti alla corte congregata, e nel cospetto di Artù. Far grandi imprese, incontrar pericoli strani per lei? Non n’era più il caso; e quando c’era stato, non lui, Filippino, ma un altro Fiesco ci aveva messa la vita, compiendo tali prodezze, che a narrarle sarebbero parse incredibili. Ed ella amava quel prode. Quanto all’uccidersi, perchè? Non valeva niente la sua vita? E se non valeva niente, perchè l’offriva a lei? Facesse meglio, il buon cugino; vivesse per l’utile della sua patria, e per la gloria del proprio nome; fosse cavaliere con la sua parente, come ella voleva esser tenuta da tutti; e a lei ne dèsse una prova solenne, rispettandola un poco.
Il bel Filippino chinò la fronte, umiliato e contrito. Risanò del suo male, perchè era giovane, e la gioventù abbonda di forze riparatrici. Nè con questo si vuol negare che altri risanino, perchè son vecchi; ma in questo caso è forse da conchiudere che la vecchiaia non abbia più forze bastanti da nutrire a lungo i suoi mali. Del resto, giovani o vecchi, che vuol dire? È degli amori come dei semi della parabola: hanno bisogno anch’essi del terreno propizio; gittati sulla strada, non hanno tempo a metter le barbe; nei sassi non durano; nelle spine si affogano.
L’ospite rimase poco alla Gioiosa Guardia, quel giorno. Forse gli pareva che la ròcca non meritasse punto il suo nome. Aveva anche tanto da fare, il giovinotto! Di restare a cena neanche parlarne, poichè doveva ritrovarsi quella sera a Rapallo. Il capitano Fiesco lo lasciò andare, con quelle vuote parole che si smozzicano tra i denti quando non si ha niente da dire, e con quell’aria un po’ melensa, che gli uomini accorti san prendere così bene ad imprestito dagli sciocchi, quando a mostrarsi accorti non c’è nè gusto nè grazia. E se ne andò in giardino, dove la contessa non tardò molto a raggiungerlo.
—Se Dio vuole,—diss’ella, sedendo accanto a lui sopra un bel sedile di quella pietra che la vicina Lavagna mandava così gentilmente lavorata ai suoi conti,—questa volta è finita. Gran cosa, poter parlare con libertà! Filippino non torna più a far sonetti.
—Vorrai dire che non tornerà più a recitarne, del Petrarca, nè d’altri;—rispose il capitano Fiesco, che non era geloso, ma non sapeva perdonare a Filippino le sue smanie amorose.—Non è nato poeta, quel poveraccio; e ti sarà anche riuscito un cattivo oratore. Ah, non mi dir nulla; non voglio fare il curioso; mi basta d’esserne fuori. Pensiamo ad altro, Fior d’oro. Vedi che tramonto di sole! che bellezza! che gloria! Chi non sarebbe poeta, davanti ad uno spettacolo come questo? Ah, se la mia bella amica volesse!...
—Che cosa?
—Prendere il suo maguey, che dorme nella sua camera, appeso all’arpione, e improvvisare un bel canto, nella dolce lingua di Haiti, come due anni fa sulla spiaggia di Cahonana!—
A quel ricordo si commosse Fior d’oro, e si strinse fremendo al petto di lui.
—Ahimè!—mormorò ella.—Non ricordi, Damiano, come diceva l’ areyto?
Triste, il sento, è questa pace,
Se il bel sol d’Haiti fu;
L’augel de’ boschi tace,
Non canta in servitù.
—Vero;—rispose Damiano;—ma l’ areyto non prometteva di tacere per sempre. Il canto morrà sul labbro, dicevi allora, ma starà sepolto nel cuore che l’amò tanto.
Dolce al par d’una carezza
Dell’amor, qui poserà....
Se il cor non mi si spezza,
Rivivere potrà.
Fior d’oro rimase un istante pensosa, più stretta che mai la persona al petto del suo Damiano, e la testa mollemente inchinata sulla guancia di lui. Tutto ad un tratto si alzò, spiccandosi dall’amato, e mettendosi un dito sul labbro, come per esortarlo a star cheto; poi, rapida si dileguò tra i roseti, andando verso le sue stanze. Perchè? Damiano sperò di averlo indovinato, il perchè; e la sua speranza si mutò in una lieta certezza, quando vide Anacoana tornare a lui col tamburello haitiano.
—Adorata!—gridò, abbracciandola forte.
—Giù le mani!—diss’ella, con accento e con gesto che volevano parer molto severi.—Così si rispettano i poeti?—
Damiano, gran fanciullone un po’ viziato dalle carezze, ma cavaliere nell’anima e buon servitore della sua dolce regina, non solamente si chetò, ma si chiuse in religioso silenzio. La dolce regina, seduta daccanto a lui, stava guardando il sole, che volgeva superbo all’occaso, sotto un gran padiglione di porpora, onde frangiava i lembi d’un bel color d’oro paglierino, rutilante e vibrante come cosa viva. Scendeva il bell’astro, lento e glorioso, mandando un raggio obliquo sulla marina, la cui superficie, tinta d’azzurro carico, luccicava interrottamente per lunghe e tremule chiazze di rosso cremisi, balenando, fremendo, rabbrividendo, sotto la luminosa carezza del suo vincitore. Per le intente pupille accogliendo quella gran luce, pensava la bellissima Anacoana, mentre col sommo delle dita veniva percuotendo la pelle squammosa del maguey; pensava, e canticchiava sommessamente, ricercando insieme, alla guisa degli antichi trovieri, il suono ed il motto.
L’ispirazione era giunta; lo dissero ad un tratto il baldo sorriso delle labbra e il lampo trionfale degli occhi. E così prese a dire improvviso la Corinna di Haiti, per una volta ancora cantando nell’idioma della patria lontana; dolce e triste idioma, che doveva morire con lei!
Il sole, bel sole, discende
Al bacio dell’onda marina:
La bella le braccia gli stende,
E palpita, freme, s’inchina.
Di lividi mostri alla caccia,
Gigante, finisti il tuo dì;
Ti schiude le cerule braccia,
Ti stringe ella sempre così.
Schiere di spiriti rosei
Vigili stanno su te;
Oro sul capo ti piovono,
Perle ti spargono ai piè.
Tu pure bel raggio di Dio,
Nocchier che gran notte vincesti!
Tu giusto, tu mite, tu pio,
Tu degno dei doni celesti!
Fu dura la lunga giornata,
Gran rischio a men salde virtù!
E pace la morte invocata,
E gloria la tomba ti fu;
Mentre ripensa la vergine
Terra il tuo bacio e la fè,
Quando, già domo l’Oceano,
Lieta la festi di te.
Gran luce, su quante del mondo
Arrisero all’aspro viaggio!
Gran luce, e fu gaudio profondo
Scaldarsi al divino tuo raggio.
Così dentro spera di sole
Un nembo di vite passò;
Felice tra guizzi e carole
In gloria di luce nuotò.
Gloria sul fido manipolo
Ch’ebbe sua luce da te!
Mute dilagan le tenebre
Sopra le corti dei re.
Bel sole! nei vortici oscuri
Lo incalza de’ mostri lo sdegno:
Nell’ombra gli spiriti impuri
Anelano un’ora di regno.
Ma lui nella pompa primiera
Il novo mattino vedrà:
Nei putridi stagni la schiera
Dei mostri notturni cadrà.
Te, divin raggio, più limpide
Sfere richiamano a sè:
Questa, che l’odio contamina,
Degna non era di te.
FINE.