TRA CIELO E TERRA.

Anton Giulio Barrili

TRA CIELO E TERRA

ROMANZO DI ANTON GIULIO BARRILI NUOVA EDIZIONE RIVEDUTA DALL’AUTORE

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MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1907

Proprietà letteraria.

OPERE di A. G. BARRILI.

Capitan Dodèro (1865). 13.ª ediz. L. 1 —

Santa Cecilia (1866). 11.ª ediz. 1 —

Il libro nero (1868). 4.ª ediz. 2 —

I Rossi e i Neri (1870). 8.ª ediz. (2 vol.) 2 —

Le confessioni di Fra Gualberto (1875). 13.ª ediz. 1 —

Val d’olivi (1873). 18.ª edizione 1 —

Semiramide , racconto babilonese (1873). 9.ª ediz. 1 —

La notte del commendatore (1875). 2.ª ediz. 4 —

Castel Gavone (1875). 10.ª ediz. 1 —

Come un sogno (1875). 26.ª ediz. 1 —

Cuor di ferro e cuor d’oro (1877). 18.ª ediz. (2 vol.) 2 —

Tizio Caio Sempronio (1877). 2.ª ediz. 3 50

L’olmo e l’edera (1877). 20.ª ediz. 1 —

Diana degli Embriaci (1877). 2.ª ediz. 3 —

La conquista d’Alessandro (1879). 2.ª ediz. 4 —

Il tesoro di Golconda (1879). 12.ª ediz. 1 —

Il merlo bianco (1879). 2.ª ediz. 3 50

—Edizione illustrata (1890). 5.ª ediz. 5 —

La donna di picche (1880). 6.ª ediz. 1 —

L’undecimo comandamento (1881). 13.ª ediz. 1 —

Il ritratto del Diavolo (1882). 4.ª ediz. 1 —

Il biancospino (1882). 12.ª ediz. 1 —

L’anello di Salomone (1883). 3.ª ediz. 3 50

O tutto o nulla (1883). 2.ª ediz. 3 50

Fior di Mughetto (1883). 4.ª ediz. 3 50

Dalla Rupe (1884). 3.ª ediz. 3 50

Il conte Rosso (1884). 3.ª ediz. 3 50

Amori alla macchia (1884). 3.ª ediz. 3 50

Monsù Tomè (1885). 3.ª ediz. 3 50

Il lettore della principessa (1885). 3.ª ediz. 4 —

—Edizione illustrata (1891) 5 —

Victor Hugo , discorso (1885) 2 50

Casa Polidori (1886). 2.ª ediz. 4 —

La Montanara (1886). 8.ª ediz. 2 —

—Edizione illustrata (1893) 5 —

Uomini e bestie (1886). 3.ª ediz. 1 —

Arrigo il Savio (1886). 3.ª ediz. 1 —

La spada di fuoco (1887). 2.ª ediz. 4 —

Il giudizio di Dio (1887) 4 —

Il Dantino (1888). 3.ª ediz. 1 —

La signora Àutari (1888). 3.ª ediz. 1 —

La Sirena (1889) 5.ª ediz. 1 —

Scudi e corone (1890). 2.ª ediz. 4 —

Amori antichi (1890). 2.ª ediz. 4 —

Rosa di Gerico (1891). 3.ª ediz. 1 —

La bella Graziana (1892). 2.ª ediz. 3 50

—Edizione illustrata (1893) 3 50

Le due Beatrici (1892) 5.ª ediz. 1 —

Terra Vergine (1892). 5.ª ediz. 1 —

I figli del cielo (1893) 5.ª ediz. 1 —

La Castellana (1894). 2.ª ediz. 3 50

Tra Cielo e Terra (1894). Nuova edizione riveduta dall’autore (1907) 3 50

Fior d’oro (1895). 4.ª ediz. 1 —

Il Prato Maledetto (1895) 3 50

Galatea (1896). 7.ª ediz. 1 —

Diamante nero (1897) 3.ª ediz. 1 —

Raggio di Dio (1899). 4.ª ediz. 1 —

Il Ponte del Paradiso (1904). 2.º migliaio 3 50

Lutezia (1878). 2.ª ediz. 2 —

Con Garibaldi, alle porte di Roma , ricordi (1895) 4 —

Sorrisi di gioventù (1898) 2.ª ediz. 3 —

Zio Cesare , commedia in cinque atti (1888) 1 20

A FRANCESCO BERLINGIERI

Venendo a Te, per dedicarti il mio libro, penso ad una tua bella fantasia giovanile, «Un frate che minia la Divina Commedia »; povero frate che tu hai lasciato senza compagni, mutando il suo buon codice membranaceo nei codici moderni del patrio diritto; povero frate, per cui l’arte aveva ancora «sorrisi e fascini», ma più assai la giovane natura, parlante a lui l’onnipossente linguaggio da quelle stesse pagine ch’egli andava infiorando con le belle immagini fantasiose, ridenti d’italica primavera al genio di Oderisi da Gubbio e di Franco Bolognese. Deposti i pennelli, poggiata la faccia sulla palma della mano, pensa il povero frate, con gli occhi rivolti al poema del profugo Fiorentino «a cui temprâr l’ingegno—e l’amore e lo sdegno». O frate, tu gli hai detto, ammonendolo:

O frate, a lui l’esilio
E le pugne dell’alma:
A te l’obblìo degli uomini
E la cristiana calma.
Perchè t’alzi a colloquio
Col Ghibellin? tu piega
La queta fronte, e prega.

Ma sì, tardi consigli, come sono su per giù tutti i consigli dell’esperienza! Il male è fatto: il tuo monaco ha riletto dianzi quel diabolico canto V dell’ Inferno, donde scoppia tanta passione umana, e dilaga e straripa. Quei due maravigliosi dannati raccontano anche così bene!

Per più fiate gli occhi ci sospinse
Quella lettura e scolorocci il viso:
Ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Povero frate! Satana gli ha dato l’esca. Che ardori nel suo sangue! che visioni nella sua cella! I giorni felici si ripresentano alla sua mente, con immagini e fragranze di baci; la gioventù lo chiama, la terra lo invita; il rimorso lo turba, e il cielo dimenticato un istante gli ridipinge agli occhi la scena terribile dei sicuri castighi. No, non più affetti terreni, non ribellioni, non fughe.

Dio, mi salva dal dèmone
Che tutto mi possiede!
Di macere vigilie
Rinforzerò la fede.
Nè più profane pagine
Avran su me l’impero!
Io minierò il Saltero.

L’uomo antico era ricomparso tra le mortificazioni dell’asceta; ma l’asceta ha riconosciuto il tentatore, ha resistito, ha vinto. Così tu, fantasticando davanti alle rovine di un vecchio convento, che l’anima tua ripopolava «di larve incappucciate», hai rievocato un momento tipico della vita passata, o, per dire più veramente, hai intravveduto nella vita passata un lampo della coscienza eterna, dell’eterno dissidio e del vincolo eterno tra la terra ed il cielo.

Ho il mio frate ancor io. Non minia, pur troppo: parla il linguaggio aspro e nondimeno attraente che molti ascoltano tuttavia, che molti ascolteranno ancora dopo di noi, perchè tra forme mortali e transitorie reca sempre la nota della immortale verità non mai intieramente chiarita, della immortale domanda non mai pienamente soddisfatta. Egli è voce e coscienza d’una religione storica, che in mezzo a tante cure mondane onde fu troppo infrascata nei secoli scorsi ed è ancora afflitta nel nostro, è pur bastata a dare un corpo di dottrine morali purissime, suggellate dal bel principio in uno stupendo esemplare di dolcezza e di grazia, di virtù, di mansuetudine, di sacrifizio sublime, parlante dalla montagna al popolo di Tiberiade, disputante coi dottori della legge nel tempio di Gerusalemme, odiato ugualmente da Scribi e da Farisei (specie non morta ancora), ugualmente franteso da Giudei e da Romani, dagli uni e dagli altri condannato nella doppia sentenza del sinedrio e del pretorio, epicamente grande nel supplizio del Golgota, redivivo e trionfante nella fede degli umili come promessa infallibile di ricompense celesti, presente in ispirito e in verità dovunque si soffre, dovunque si procede, dovunque si spera di giungere ad una meta, commensale divino degl’infelici, rompente con paterno amore ai pellegrini di Emaus quel pane quotidiano, che a tanti figli d’Adamo sèguita sempre a mancare. Triste cosa, non è vero? e si può bene rimpiangere che i seguaci si siano allontanati di tanto dall’esemplare maraviglioso; riuscendo agli onori del trionfo per collegarsi tosto a mutua difesa coi potenti della terra; non dando ai miseri altro aiuto fuor che di buone parole; sognando per sè l’impero del mondo, ed ottenendo per via da tutti i monarchi, alternamente combattuti e favoriti, uno scampolo di territorio per le loro famiglie, nella patria divisa, assoggettata e tradita. Ma gli errori degli uomini nel corso dei secoli, ed oggi le ineluttabili ragioni della difesa civile, non ci faranno dimenticare il buon principio essenziale di quella religione, che ha pure educato nei cuori il sentimento del divino, prendendolo ovunque le fu dato rintracciarlo, germe prezioso e fecondo, tra la scoria delle superstizioni volgari e tra le perle della filosofia antica, tra i dubbî della scuola e gli stupori della piazza, tra i foschi terrori e le serene speranze di settantaquattro generazioni. E chi sa? l’istesso mio frate, un po’ incalzato e stretto al muro da chi avesse avuto più tempo per ciò, si sarebbe licenziato a parlare più liberamente che non solesse fare dal pergamo ai fedeli cristiani di San Gior gio. Credete in Dio, avrebbe detto, credete in un Dio giusto e buono, come causa prima dell’universo; osservate la legge morale, com’ella per volontà di lui si è rivelata alle genti: praticato il rispetto, l’amore, la carità nel mondo, e lasciate al tempo la cura del resto. Molte foglie cadono ogni autunno dall’albero; molti rami secchi al peso delle nevi invernali, all’azione dei geli, al soffio della tramontana si spezzano: ciò che è vitale, vivrà.

Il mio frate non minia, ti ho detto; nè io son riuscito a miniar lui con arte degna del tema. L’ho tirato giù alla grossa, ma vedendolo bene; e penso che questo si debba sentire da tutti coloro che lo vedranno apparire a suo tempo, nel corso di queste pagine, viva figura di combattente, o larva di promessi rimorsi per due povere creature condotte dal destino all’aspro dissidio tra la passione e il dovere, tra la natura obbedita e la legge violata. Intorno alle quali cose, io credo che il mio pensiero, essendo chiarissimo, non si possa frantendere nè falsare da uomini di parte, credenti o miscredenti che vogliano essere: ma certo non sarà male renderlo più evidente colla giunta di poche altre considerazioni.

La società moderna, per giudizio di alcuni, va bene abbastanza, volgendo apertamente ed infallibilmente al meglio, alla liberazione, alla certezza, alla luce. Non tanto sfoggio di sostantivi, mi raccomando. Spero anch’io che volgerà al meglio, se per merito di qualche evento prodigioso le capiterà di rimettersi in gambe: per ora mi sembra che zoppichi; e guai se lo zoppo fa a correre; vuol esser tombola, non ti pare? La grande rottura, avvenuta da un pezzo, e di questi tempi condotta agli estremi, tra la scienza e la fede, ha tra parecchi buoni effetti il cattivo di lasciar la morale senza guida, senza sostegno, in un momento sociale che più avremmo bisogno di lei; mentre le moltitudini, felicemente sciolte da tanti vincoli molesti, sentono più vivo il gusto della libertà e lo estendono volentieri a tutti i godimenti dell’essere; mentre tutti gli accorti, segnatamente i meglio provveduti, i meglio collocati nel mare magno della vita, dopo aver tremato un pochino di certe raffiche minacciose, si rassegnano alla burrasca, vogando alla galeotta e ripetendo tra sè il motto infame di Luigi XV: « après moi le déluge »; mentre lo stesso fondamento della società, che è la famiglia, non ha più un medesimo pensiero, un medesimo criterio, un medesimo istinto, per tutte le persone che la compongono. Nel modo di vivere, di sentire, d’intendere, di curare la conservazione delle tradizioni, degli averi, delle virtù private e domestiche, principio delle pubbliche e civili, noi non sembriamo già più i figli dei nostri padri: gran soluzione di continuità, che dovrebbe farci pensare! Così la famiglia si disunisce, un po’ per debolezza sua, molto per colpa de’ suoi capi, che non l’hanno più per santuario, come gente civile, ma per rifugio, come selvaggi primitivi. L’uomo va per un verso, e la donna per l’altro, secondo gli umori, i gusti, le vanità; crescano i figli come vogliono e possono; e padri e madri e figliuoli con molti bisogni, perchè con molti appetiti; senza ideali, perchè senz’ombra d’idee.

Restaurare nel civile consorzio il senso morale parrà necessario a chi pensa; e necessario veder cominciare la restaurazione dai capi, dai capi della famiglia, dai capi della società, donde l’autorità deriva, donde gli esempi si spargono. Ma noi non faremo niente senza virtù private, senza idealità che le informino, scaldandone la buona semente nei cuori. Tanto io credo, «e creder credo il vero». Per ritornare al libro che ti offro, esso sarà giudicato come vorrà essere; anzi diciamo pure, pronosticando, che non sarà giudicato affatto. Viviamo in un paese di gente savia e prudente, che aspetta di fuori sentenze ed oracoli, mode, predizioni del tempo ed almanacchi. Mi preme soltanto che il libro sia sentito da coloro che lo leggeranno. Da ventimila, dice l’amico editore, sperando: da venti, dico io, già molto ambizioso, se penso ai venticinque di cui si contentava il Manzoni: nel fatto, levando tutti gli zeri, me ne bastano due.

Eravamo in due all’Acqua Novella, te ne rammenti? C’è là, in un angolo felice della nostra Liguria occidentale, il più antico e il più re cente mio ricordo campestre. Vidi da bambino ed amai quella voltata in discesa dalla balza di Bergeggi a Spotorno, con le rovine dell’èremo di Sant’Antonino, piantato nel vivo della rupe ferrigna, sotto i ciuffi degli arbusti che gli fanno ombra dal ciglio sfaldato del gran masso imminente. Era allora il mio sogno d’essere il padrone dell’èremo, di restaurarlo, di farmi frate là dentro, frate di un ordine mio, molto benedettino per la copia dei libri, molto templario per la quantità dei conversi; gaudenti essi della vita materiale, gaudente io della felicità intellettuale, in quella grata solitudine, difesa dai venti freddi, con quel lembo di cielo opalino, con quella lista di mare turchino davanti, dimenticando tutto l’altro dello spazio e del tempo, ignorando l’ora degli altri, aspettando la mia senza troppo curarmene. Veramente, l’orologio non era lontano; orologio solare, sul terrazzo di una casa verdognola, trecento passi più in là, nel bel mezzo di un orto; con quella sua leggenda: « ultima necat » che fu la prima frase latina capitata davanti a’ miei occhi, e che mi dava sempre tanto da pensare, tutte le volte che passavo da quelle parti. Quando fui in grado da intenderla, amai compirne l’idea, premettendole un « vulnerant omnes ». Ma per allora non era il caso di filosofarci su; ed io non filosofavo, sentendo il desiderio di quella pace, sognandola tutta per me.

Era un sogno, e finì come finiscono i sogni. Ma i bei sogni si ricordano volentieri; ed io più volentieri l’ho ricordato, tornando or non è molto con te alla tua bella Spotorno, bianca lucente sulla spiaggia lunga, tra la voltata di Bergeggi e il monte Orsini, aspra guardia di Noli. Ad un certo punto, e di comune accordo, abbiamo fatta fermar la carrozza; io per contemplare il mio èremo, tu per farmi bere un sorso della fontana lì presso, l’Acqua Novella, zampillante da una gran vasca quadrata, sul margine della strada maestra. O acqua ben nomata, veramente fresca, ristoratrice e pura, come tutte le cose novelle! Io non sogno più solamente il mio vecchio èremo e la mia vecchia meridiana; sogno ancora l’Acqua Novella e quel buon tratto di strada quieta, che abbiamo fatta a piedi con tanta allegrezza, mentre i cavalli ci seguitavano al passo. E penso ancora, nel mio sogno, che l’uomo più felice della terra debba essere un certo guardiano di strada ferrata, che ha il suo casotto in quelle vicinanze, col suo orticello, i suoi fagiuoli e il suo gran fico brogiotto, accanto allo sbocco della galleria di Bergeggi. Poveraccio! e forse egli sogna a sua volta un trasloco, una promozione, che lo sbalzi guardia eccentrica o guardia di sala in qualche stazione importante, donde gli sia facile di mandare a scuola le quattro o cinque creaturine che senza fatica, quasi senza un pensiero al mondo, gli sono rampollate là dentro.

Son tutti così, i miei bravi cantonieri di strada ferrata. Ricordo ancora quello di Varigotti, conosciuto tanti anni fa. Aveva anche lui una bella fontana daccanto, anzi una vera cascata d’acqua, che piombava dalla balza rossastra, sotto la chiesuola abbandonata di San Lorenzo; aveva un orticello, con pèschi, fichi e fagiuoli, ch’erano una maraviglia a vederli; aveva il gran mare turchino davanti, e tutt’intorno, da ogni piega del terreno, da ogni borro, da ogni fenditura della rupe, occhieggiavano a lui tra lucide foglie di smeraldo i bei limoni dal color dell’oro. Per esser felice, non gli mancava neanche una moglie, giovanissima, bella e savia, amante del lavoro e di lui. Ma quello ci aveva il mal del paese; voleva lasciare quel sorriso di cielo e di mare, quel profumo, quel tepore, quella gloria, per ritornarsene al suo nido natale, o non troppo discosto, tra Bussoleno e Modane, sotto le Alpi nevose, a sentir cantare gli aquiloni e scrosciar le valanghe. Barattava male, e non fu difficile contentarlo. Sarà felice, ora? Ah, penso che Gabriello Chiabrera fu ben ispirato, il giorno che sul portone della sua casa fece scolpir l’oraziano: « Nihil est ab omni parte beatum ».

Ma se una felicità compiuta non si ritrova in nessun luogo, neanche là dove io l’avevo sognata, bene mi sarà lecito di desiderare che la vita sia più ricca d’ideale, e che un’acqua novella, se pure non ci si debba vivere accanto con oraziana serenità, rinfreschi e purifichi le nuove generazioni; che il sentimento del divino, ingenito nella coscienza umana, si accordi un giorno colla critica non più arrogante di facili dispregi, colla scienza non più infatuata di sollecite deduzioni, e venga in buon punto a rinvigorire di nuovi succhi la povera morale intristita. Questo è il mio sogno dell’età matura, e credo che questo sia pure il tuo. Tu hai, a buon conto, una famiglia nata di te; vuoi che abbia i tuoi stessi ideali, riflettendo alcun che di quelli che tu stesso derivi dai tuoi vecchi; ai quali con animo reverente mando un augurio e un saluto filiale ancor io.

Comunque esso sia riuscito per l’arte, il mio libro è morale. Non già come un trattato; credo anzi che ci corra molt’acqua, e tutt’altro che novella, di mezzo. Ma esso è morale, nondimeno, come può essere tale un romanzo; cioè a dire una rappresentazione della vita reale, aspersa d’una certa idealità, che è poi la nota personale fatalmente recata dall’artista nella cosa veduta, nella cosa sentita ed espressa.

Ritorneremo col bel tempo all’Acqua Novella e al vecchio èremo diroccato. Tu ama intanto il tuo

Anton Giulio Barrili.

TRA CIELO E TERRA

Capitolo Primo. Addio, bel mare!

Gli avevano fatta un’ingiustizia, saltandolo nelle promozioni; perciò, a mala pena sbarcato, aveva mandata la sua dimissione al ministro. Per la via gerarchica, s’intende; e il capo del suo dipartimento marittimo, alla Spezia, si era degnato di esortarlo a pensarci su, almeno un paio di giorni. Per non fargli dispiacere col mostrarsi sconoscente alla cortesia del superiore, aveva accettato il consiglio; ma, quarantott’ore dopo, si era ripresentato al suo illustre capo, pregandolo di dar corso alla lettera.

Tra gli uguali, qualche amico sincero aveva tentato dissuaderlo, arrischiandosi a dirgli che commetteva un errore; ma egli non aveva voluto convenirne. Altri gli dicevano: «Fai bene; è stata un’ingiustizia; le ingiustizie non si sopportano». Ed egli rispondeva con un vivo cenno di assenso, quasi di ringraziamento, come uno che si senta compreso, congedandosi con una poderosa stretta di mano da tutti quei vecchi compagni, ai quali lasciava un gradino vuoto su quella scala di Giacobbe che conduce al paradiso del viceammiragliato.

Era sicuro del fatto suo; la risoluzione gli pareva buona, per il caso presente e per i casi futuri. Infatti, che cosa sperare da quel ministro, che era stato suo comandante in una memorabile crociera e che aveva mostrato in parecchie occasioni di non poterlo soffrire? Effetto di una ruggine antica, per una manovra fatta da lui, di suo capo, che il comandante non aveva ordinata, che anzi aveva biasimata. Un po’ troppo presto, per altro: lo scandaglio, la mattina dopo, aveva dimostrato a tutti che seguendo ciecamente gli ordini del comandante si sarebbe rimasti incagliati. Quattro palmi di sàgola avevano dato ragione all’inferiore; e il superiore se l’era legata al dito, quantunque l’inferiore si fosse studiato con ogni maggior cura di non lasciar trasparire il sentimento della propria superiorità. Una promozione, dopo quel giorno malaugurato, era venuta per tutt’e due, l’uno giungendo al grado di tenente di vascello, l’altro al grado di contrammiraglio. Due anni ancora, e il contrammiraglio diventava ministro. Il ministro si era slegato finalmente il dito, saltando nelle prime promozioni il tenente di vascello.

Lagnarsi? È presto detto. In che modo? Aspet tare che cascasse il ministro; sì, fra due o tre anni, e intanto divorarsi l’affronto. No, niente aspettare; perciò aveva mandata la sua dimissione. Cosa amaramente spiacevole per lui, quanto edificante per tutti, la sua dimissione era stata accettata a volo. Brutto momento, vedersi così di punto in bianco fuori dell’uscio! Ma c’è «la buona compagnia che l’uom francheggia»; e questa, nei brutti momenti, consola.

Ahimè, non del tutto. A lui una pena sorda restava nel profondo dell’essere. Amava il mare; il bel mare, così pieno di misteri, così magnifico nella collera, così augusto nella calma, che pare abbia un’anima, e grande, meravigliosamente grande, grande almeno sei volte quella dell’umanità tutta quanta; il buon mare che mette in comunione tutte le creature viventi, assai più ed assai meglio che non facciano tante strade ferrate e tanti telegrafi. In questi dotti congegni c’è sempre l’arte di un mondo piccino, piccino come tutte le trovate degli uomini; c’è sempre l’idea di sentirsi passare in una cruna d’ago, assottigliati, stiacciati, tanagliati dagli attriti continui del passo. E poi, che cosa sono le invenzioni dell’uomo, ristrette ad un solo ufficio, ordinate ad una sola utilità, in confronto di quella superficie azzurra, pianura liquida e senza solco, che palpita e porta, mobile, gloriosa e superba, che dà moto e gioia a tanti organismi animati, colore agli occhi, calore agli spiriti, essendo ad un tempo la via e la vita?

Tutto è nuovo su quella via, l’abbiate pure cento volte percorsa; ve la fanno parer sempre nuova i mille diversi aspetti delle cose, nella vastità sconfinata degli orizzonti, nella infinita varietà delle tinte, mezze tinte e sfumature, dell’aria e dell’acqua. Il punto a cui volgete la prora è di giorno una striscia di azzurro, di grigio, di roseo, sull’ultimo lembo del mare, una striscia tenue che non vi offre il colore stridente nè i contorni aspri del vero; nella notte, poi, è un punto di fuoco, che getta sulle acque un raggio luminoso; più spesso, e di giorno e di notte, è l’invisibile, il nulla, ma con la sublime certezza di vedere, di trovar qualche cosa, al momento prefisso, sulla via che vi dimostrano le stelle, che vi traccia infallibilmente un computo aritmetico. E intanto il lontano fa pensare; l’occhio intravvede l’infinito; l’anima sente Dio; nè ci sono professori di calcolo per rimpicciolirvi quello con la figura di un otto coricato, nè filosofi del malanno per dirvi che questo è un sogno, una idiosincrasia naturale, una concrezione storica del vostro pensiero.

Con che ansia, adolescente allievo del collegio di marina, aveva aspettato il giorno del suo primo imbarco! Con che passione aveva fatto il suo primo viaggio, quindici anni addietro! Lo aveva sentito cantare e sospirare, fremere, urlare e ruggire, quel mostro immane dai grandi occhi verdi e dal dorso di spume! E lo aveva ammirato nella molteplicità degli aspetti, soavi e terribili, graziosi e feroci, sempre nuovi e stupendi; lo aveva amato nella salubre vivezza delle fragranze, nella dolce giocondità dei ritmici cullamenti. E dopo tante ammirazioni, dopo tanti amori, lo aveva lasciato! Ma sì, che volete? gli avevano fatta un’ingiustizia. Le ingiustizie non si sopportano, o si mostra di averle meritate; nel qual caso non sono più ingiustizie, ne convenite? Triste cosa, per altro! Aveva sempre sognato una guerra, da far le sue prove anche lui, da onorare l’Italia, questa lunga penisola che pare una gran nave imbozzata attraverso il Mediterraneo, e che non dovrebbe starci, perdio, come un pontone, come una fregata in disarmo. Quella guerra non l’aveva certamente invocata; il valoroso non invoca i pericoli, che non sono solamente per sè, ma per tutti; li aspetta, e si prepara ad affrontarli.

Aspettando la guerra, preparandosi a quella, il soldato serve la patria. E perchè non l’aspettava egli ancora, passando sopra ad una cattiveria di ministro? Infine, gli uomini passano, la patria resta. Verissimo, questo; ma è verissimo ugualmente che son tutte parole. La patria che resta è sorda, cieca e muta; non vi sente, non vi vede, non vi conforta per nulla, non vi consola affatto, non vi vendica di quell’altra che passa, agitandosi intorno a voi, standovi sotto, accanto e sopra, che vi giudica senza criterio, ammirandovi di fuga quando il caso dà a voi di far bene e a lei di non poter fare altrimen ti, disprezzandovi quando ne può avere un pretesto, deridendovi spesso e volentieri, ne abbia o non ne abbia ragione, solo che si presenti un appiglio. La patria grande, la vera, dopo tutto, si serve con dignità. Levate la dignità al soldato, e non gli resta più nulla; c’è la morte nell’anima, e il servire è vergogna.

Per altro, non credeva di dover tanto soffrire, obbedendo alla voce della propria coscienza. Fu una triste giornata quella in cui gli annunziarono che la dimissione del tenente Sospello era stata accettata. Ah, non voleva stare neanche un giorno alla berlina delle condoglianze. Le sue valigie erano fatte, in attesa dell’evento. Se ne andava subito subito; e lontano, molto lontano dal mare, che non voleva vedere mai più. Alla terra de’ suoi padri, alle Alpi, avrebbe chiesto il rifugio; possedeva ancora una bicocca, lassù. Di vecchi non c’era più nessuno, ad aspettarlo: restava una sorella maggiore, nobile e santa creatura, che tant’anni prima avrebbe desiderato di chiudersi in un monastero, ma non aveva osato farlo, per non lasciar solo del tutto il suo vecchio babbo. Morto quello, non aveva potuto lasciar solo e vuoto il vecchio palazzo, dove cinque generazioni di Sospelli di Vaussana erano passate, e dove era naturale che ella restasse per custodire il posto alla settima, se mai il fratello Maurizio si risolvesse di continuare la stirpe.

Buona e cara Albertina! Egli andava a farle compagnia nella triste casa; e qual compagnia! Lei, fastidita del mondo anche prima di conoscerlo, certamente per qualche intima ragione si era appartata a quel modo, rinunziando alle gioie della vita; se pure la vita ne ha. Anch’egli, vecchio scapolo, che aveva sognato d’impalmare la gloria, offeso un giorno nella sua dignità, rinunziava a tutti i sogni di una legittima ambizione, per andarsi a rinchiudere nella casa dei suoi maggiori, come un povero alcione ferito va a posar l’ala sanguinolenta sul nido abbandonato.

Maurizio aveva già scritto alla sorella, annunziandole la sua dimissione come un proposito irrevocabile: ma egli non intendeva già d’impoltronire nella sua bicocca montanina; non voleva finir cacciatore, nè giuocatore beone, come tanti gentiluomini campagnuoli. Possedeva una ricca libreria; l’avrebbe al bisogno accresciuta, per dedicarsi ad un’opera di polso. Aveva sempre vagheggiato il pensiero di scrivere un libro delle guerre marittime d’Italia, ma condotto con una certa larghezza di disegno, da appagar tutti i gusti, da rispondere a tutti i bisogni intellettuali, ordinato e preciso come una storia, vivo e animato come un romanzo, il libro del marinaio italiano, il libro che mancava ancora, per dare una idea chiara e compiuta delle antiche navigazioni e degli antichi commerci, argomenti di emulazione e cause di guerra tra i popoli; per descrivere i costumi marinareschi, le imprese audaci, le trasformazioni successive della strategìa e della tattica navale nel gran bacino mediterraneo. Certo, per condurre a termine un’opera come quella, non gli sarebbero bastati i libri che possedeva. Ma il primo anno lo avrebbe speso a tracciare il quadro; poi avrebbe veduto, si sarebbe destreggiato via via secondo il bisogno, cercando altri libri, viaggiando per città e biblioteche; ottima occasione per isgranchirsi, per non fare la ruggine. Ed era ancora una bella vita per un uomo di trentadue anni; e aveva tempo davanti a sè per colorire degnamente il quadro ideato.

Il suo attendente, congedandosi da lui alla stazione di Spezia, gli aveva dato il buon viaggio con le lagrime agli occhi.

—Grazie, Susini, e addio; siamo uomini;—gli rispose Maurizio.—Scrivimi, se ti occorrerà qualche cosa; ed anche quando non ti occorrerà nulla; riceverò sempre le tue lettere con molto piacere.

—E lei, signor tenente, non avrà mai bisogno di nulla, da un povero marinaio?

—Sì, spesso sentirò che mi mancherai, bravo Susini. Intanto, ti prego, appena sarà di ritorno, mi saluterai il Duilio.—

Aveva il cuor gonfio, il signor Maurizio, e incominciava a tremargli la voce.

—Ah, signor tenente!—mormorò il marinaio, singhiozzando.—È stata una grande ingiustizia.

—No, sai? t’inganni. Non si fanno ingiustizie, in servizio. Ci possono essere degli equivoci, dei malintesi; ma ingiustizie no, mai;—replicò il signor Maurizio, che aveva ancora la disciplina negli occhi e non voleva finir la carriera dando lo scandalo di dir male o di lasciar dir male dei superiori.—Se ti sembro commosso, pensa che ne ho qualche ragione. Non si abbandona il mare senza uno schianto dell’anima. Un giorno la sentirai anche tu, Susini mio, la nostalgia del mare.

—Io no, signor tenente, con sua licenza non avrò da sentirla. Non si ricorda che sono della Maddalena?

—È vero, sì, e invecchierai vedendolo ogni giorno; e quando sarai morto lo sentirai ancora da tutte le parti brontolare alla spiaggia; che bella cosa!—concluse sospirando il tenente.—Ma senti, fischia la macchina, e non vuol più saperne dei nostri discorsi. Qua la mano, mio vecchio, e addio!—

Il treno si metteva in moto, e il marinaio ebbe appena il tempo di baciare la mano che il suo tenente gli offriva per l’ultima volta.

—Non lo vuole ammettere;—borbottò egli, allontanandosi dal marciapiede d’asfalto, come il treno fu scomparso nel buio della notte;—ma tutti lo dicono a una voce: è stata un’ingiustizia. Per colpa di quei signori laggiù, la marina italiana ha perso ancor uno dei suoi manovrieri. E buono, poi, buono come il pane di Voltri; gentile come una ragazza di quindici anni, che non gli si è sentito mai uscir di bocca una mala parola, neanche nelle ore che scapperebbe la pazienza ai santi.—

La notte, senza lume di luna, era buia, e l’entrare del treno nelle centomila gallerie delle Cinque Terre e l’uscirne non facevano divario alla vista. Maurizio, nondimeno, sentiva il mare vicino, lo sentiva alle acute fragranze e al romper dei marosi contro le rupi. Lo rivide sull’alba, il vecchio amico brontolone; lo rivide di là dal monte di Portofino, farsi a mano a mano più luminoso e più bello, a Recco, a Nervi, a Genova, e giù giù per tutta la quieta Riviera di Ponente, dove si aprono cinquanta seni azzurreggianti tra il verde, e su lembi sottili di candide spiagge cinquanta paesi si distendono al sole. Quanti porti e rade, e golfi e calanche, di cui Maurizio conosceva gli approdi! A Genova era vissuto parecchi anni collegiale, e tante volte c’era tornato ufficiale. Nella rada di Vado, ancoraggio sicuro, era andato una volta a rifugio colla sua cannoniera, cacciato per due giorni da un fortunale di libeccio. Quella costiera della Cornice tutta frastagliata da balze ferrigne, coi suoi fondi di turchino carico listato di smeraldo e sormontato di bianche creste spumose, come l’aveva in pratica! Ed era sempre là, il suo mare, ad ogni uscita di galleria, il suo mare azzurro, scintillante, superbo, il buon mare, il bel mare, a cui aveva tutto sacrificato per tanti anni, perfino l’amore, il grande, il forte, il supremo bisogno dei cuori.

Non aveva egli dunque amato mai? Sì, aveva amato, ed anche incominciando per tempo; ma anche per tempo si era fermato. A quattordici anni aveva preso una cotta famosa per una sua cuginetta, splendidissima e formosissima bionda. Per moglie non sarebbe andata, avendo perfino un anno o due più di lui: ma chi bada a queste differenze, quando cantano gli anni adolescenti nel cuore? Quella stupenda creatura egli l’aveva veduta da bambino, e avevano giuocato insieme a marito e moglie: il «te ne rammenti?» era stato proferito con gusto al nuovo incontro, quando la cuginetta era venuta coi parenti a Genova, per salutar lui collegiale promosso agli esami finali e già presso all’imbarco desiderato. Ah, il bel giuoco di cui si ricordavano ridendo, ed anche arrossendo un pochino! Ma egli arrossiva anche d’un altro pensiero, che tanta bellezza fiorente gli aveva fatto nascere subitamente nell’anima. Perchè non si sarebbe ripigliata da senno quella condizione di marito e moglie che nove anni prima si era stabilita per giuoco? Ed egli già stava mulinando, in quei giorni di baldoria per le strade di Genova; studiava il modo di girare la frase, per dire alla cuginetta: aspettami due o tre anni, quanti i nostri parenti stimeranno che bastino, per.... Ma la frase non gli veniva mai bene, come avrebbe voluto. E frattanto, una domenica all’Ac quasola, dov’erano andati a sentir la musica, quella splendidissima e formosissima bionda che tutti ammiravano, gli aveva detto di schianto:

—Sapete che non siete punto belli voi altri, con la vostra feluca?—

Il «voi altri» andava agli ufficiali di marina. Maurizio non era ancora che un allievo, e non portava la feluca; ma l’avrebbe portata ben presto, nelle circostanze solenni. Perciò s’impermalì un pochettino, sentendo quella eresia, e guardò la cuginetta con aria di persona offesa.

—Non siete belli, vi dico;—ribattè quell’altra, ridendogli ancora sul muso;—e tu starai male, cugino Maurizio. Neanche si capisce, quel vostro uniforme; non significa nulla. Perchè quella feluca nera, che non si può tenere ben salda sulla testa, che vi scivola sempre indietro, con uno di quei becchi d’anitra, in su, verso la luna, e l’altro in giù, che vi piove sulle spalle? perchè quello spadino al fianco, che par uno spiedo da infilzare i ranocchi? perchè quella coda di rondine, smilza smilza, che va a cercarvi i polpacci? Non si capisce, ti ripeto, quel vostro uniforme; non significa nulla.

—È quello a un dipresso di tutte le marinerie europee. Lo ha portato Nelson, signorina.

—E lasciatelo a Nelson, e vestitevi da cristiani. Guarda laggiù, quell’ussero di Piacenza. Che eleganza di vestiario! che armonia di tinte! e che aria marziale!

—Ah sì, quello starebbe bene a bordo!—notò Maurizio, allungando le labbra, con aria di sublime disprezzo.

—A bordo, non so;—ribattè la cugina, senza scomporsi.—Noi siamo in terra; per la terra giudichiamo gli uomini.

—Dagli uniformi;—conchiuse Maurizio.

Erano rimasti grossi per tutto il tempo della passeggiata. Quel giorno si separarono freddi. La notte, quando fu solo nel suo letticciuolo di collegiale, Maurizio pianse a calde lagrime il suo bel sogno svanito; ma con quelle lagrime gli si prosciugò la vena delle tenerezze. La cugina era una civettuola e una sciocca, vana della sua bellezza, felice d’esser guardata, e più fatta per godere gli omaggi della cavalleria che quelli della marineria. Gli ultimi giorni che ella passò a Genova non furono niente migliori. Maurizio era imbronciato, ed ella stette molto sulla sua. Ella partì per Nizza con la famiglia, ed egli s’imbarcò per il suo primo viaggio. Così finiva il romanzetto, a mala pena imbastito, così l’amor suo a mala pena sbozzato. Del resto, quella splendidissima e formosissima bionda, egli non aveva più avuto occasione di vederla. Quattro anni dopo, essendo egli di stazione a Montevideo, gli giungeva notizia che la cugina era andata a marito, passando anche a vivere in Francia. Buona fortuna, e figli maschi.

Strano ragazzo, quel Maurizio! aveva giurato di non lasciarsi più cogliere a certe lustre, ed era stato di parola: il primo amore era anche l’ultimo. Parliamo del grande amore, s’intende, di quello che si crede veramente l’amore, il forte, il solenne, il poema della vita. Episodii, sì, ad ogni crociera, ad ogni viaggio sui mari lontani, ad ogni fermata nei porti patrii: ma presto gliene era venuta la nausea. Tutti giuochi, superficialità, scioccherie, quando non erano indegnità; e queste e quelle erano poi sempre offese alla gran legge dell’universo. «L’amore è un atto religioso» diceva egli volentieri, quando ne cadeva il discorso cogli amici; «come atto religioso, non va preso a scherzo». Ed egli era religioso, come è sempre nel fondo dell’anima il gentiluomo di mare. Chi vive meno nel consorzio degli uomini vive più intimamente con sè, e più spesso con Dio; con Dio, il cui spirito corre non visto sull’acque, cavalca le nubi della tempesta, si libra sull’arco dell’iride, si affaccia nella gloria del sole sorgente sull’oceano, siede nella porpora accesa dal grande astro al tramonto.

Grandi cose, sul mare! Ed ora, abbandonato il vasto suo campo, sarebbe tornato alle cose piccine. Ma sì, così portava la necessità. Lo avevano voluto umiliare; aveva preferito spezzarsi. Non esagerava egli un poco? Forse; ma era fatto così. Obbedire gli piaceva, ma all’intelligenza, o alla probità che ne tien luogo, quando tra chi comanda e chi obbedisce aleggia l’idea del dovere morale. Altrimenti no; e per non dar scandalo brontolando, se ne andava via, spezzando la spada. Uno spiedo, dopo tutto; non glielo aveva detto quella formosissima bionda? Ed anche buttava la feluca a mare: galleggiasse a sua posta, e naufragasse al primo scoglio. Lassù, nella quiete della sua bicocca solitaria, avrebbe evocate le figure dei grandi ammiragli; buon metodo per dimenticare i piccini.

Capitolo II. Alla terra dei padri.

Maurizio di Vaussana cessò finalmente di vedersi il mare da fianco. Era giunto alla stazione di Ventimiglia. Sceso dal treno, prese la via dei monti, dopo aver fatte caricare le sue valigie in una vettura da nolo. Quanto ai suoi bauli, aveva dato lo scontrino del bagaglio ai signori Rolandi, buona gente, amici vecchi di casa sua, che s’incaricarono volentieri di farglieli recapitare il giorno seguente a San Giorgio. E la vettura si mosse, partì con alto fragore di ruote, tintinnìo di sonagliere e scoppiettìo di frusta nell’aria polverosa, ma soprattutto con la gloriosa velocità di tutte le vetture da nolo, quando incominciano la corsa.

—Sentirai la nostalgia del mare anche tu—aveva detto il tenente Maurizio al marinaio Susini. Per intanto, non doveva sentirla lui così presto. L’aria fine dei monti natali carezzava le guance del viaggiatore, ancora dorate dai soli africani. Quante balze conosciute gli occhieggiavano dall’alto, lungo la via serpeggian te! Le eriche, i pini, i ginepri, i roveri, i lecci, tutti conosceva Maurizio, a tutti sorrideva, come ad una brigata di vecchi amici, ritrovati dopo tanti anni di assenza. Ad una certa voltata ci doveva essere una macchia di fràssini, nascosta dietro il ciglio d’un poggio. I suoi ricordi non lo avevano tradito: vide, riconobbe i suoi fràssini, non molto cresciuti da quelli di prima, sempre eleganti, svelti, pieghevoli, che stendevano verso la strada i rami sottili, vestiti di foglie tenere, luccicanti al sole pomeridiano. E le ginestre del pian del Termine? Il piano, per fallire al suo nome, era una eminenza, e finiva in un dirupo; ma le ginestre erano sempre là, facendo siepe al ciglione, contente del galestro in cui avevano messo radice, portando fieramente levati i loro pennacchi verdi cupi, in attesa di vestirne le vette con tanti bei grappoli di quei fiori gialli che ogni anno solevano dare (o lasciarsi prendere, che è tutt’uno) per l’infiorata del Corpus domini, nel paesello di San Giorgio.

Alla vista di quelle ginestre, uno strano sentimento lo prese; un vivo e pungente ricordo, un aspro, impaziente desiderio di quelle feste lontane, di quelle solenni riconciliazioni con Dio che la Chiesa ha seminate accortamente lungo il corso dell’anno; tutti giorni a cui corrispondono fragranze e suoni ed immagini particolari, vapori d’incenso, frescura di cose tenere e dolci, sorrisi di cielo, suoni di zufoli allegri, tagliati nelle cortecce dei rami di castagno, uccellini gorgheggianti la canzone del natale divino dalle gravi canne di un organo. Come tutti i sensi rivivevano in lui di gioconda vita infantile! e quanta adolescenza gli veniva incontro da quelle gole ospitali!

Sei tu, non è vero? sei qua finalmente? Buon figliuolo di salda memoria, vieni alla dimora dei padri. La vedi lassù, quella montagna, che appare per la sua sommità, dietro a due ordini di colline? Ci vorrà ancora un paio d’ore, prima di giungerci; frattanto si affaccia a noi, pare che stia spiando il nostro arrivo, come una scolta di fortezza. Era lassù, la ròcca dei tuoi antenati; quelli del ramo primogenito, estinto oramai, il ramo dei Sospelli di Balma. Buon seme di forti castellani, rigidi al dovere e così fermi alla consegna! Finirono, come tutto finisce; ora dormono col Signore, in fila, l’un dopo l’altro, come guerrieri caduti sul campo, al posto loro assegnato. Anche i Sospelli di Vaussana rischiano di finire con te. Vieni, giovanotto; prendi il tuo posto accanto alla tua squadra; mettiti in fila anche tu. Il mare è bello, attraente, e perfido; la montagna è severa, ma sana e fedele. Questa è la patria, salda, immobile, di granito; qui, dove le eriche e i rovi non muoiono mai, aggavignati al terreno. Si succedono i virgulti, e son sempre gli stessi. Senti il profumo agreste della macchia? È la stessa virtù che si trasmette di generazione in generazione. Anche di lassù si vede qualche volta, il tuo mare: son belle le cose vedute dall’alto, e da una giusta distanza. La varietà dei particolari si perde, e la patria grande, tanto più grande quanta più se ne abbraccia col pensiero, trascurando la minutezza delle parti, si ama anche meglio. Quando c’è bisogno di difenderla, quando ci chiama alle bandiere la voce del re, i gentiluomini calano come falchi dalla rupe, seguiti dai loro vassalli.... No, non più vassalli, ora: tutti fratelli in Dio e nella patria; è più bello così, ci ravvicina meglio al Vangelo. E i forti, i buoni, gli intelligenti, salgono sempre, dovunque sian nati, facendo stipite di nuova grandezza. Chi era il bisnonno di Carlomagno? Pipino d’Héristal. Ma chi il bisnonno di Pipino? un ignoto guerriero, un servo di palazzo dei re Merovingi. Così tutti i degni, i valenti, i buoni, posson salire; i fannulloni, i fiacchi, i cattivi, discendere. La montagna resta, produce i suoi virgulti, i suoi fiori, i suoi frutti. Tu, povera pianta, ritorni alla tua terra natale. Più presto che non ci fosse dato sperare, in verità! È stata un’ingiustizia, tu dici; meglio così. Partivi fidente, ritorni disingannato, ma anche educato dalla sventura, agguerrito alle pugne dell’esistenza. Farai il tuo dovere, qui, come altrove; servirai alla gran legge di Dio, che è progresso infinito, dovunque si vada, di dovunque si muova.

Il paesello di San Giorgio incominciava ad apparire. Peccato che fosse già tardi! Le ombre della sera cadono troppo rapidamente, nelle gole delle Alpi. Ma nella scarsa luce del crepuscolo, i ceppi delle case biancheggiavano ancora abbastanza: poi, quando la vettura fu all’entrata del borgo, incominciavano ad accendersi i lampioni. Un po’ radi, secondo l’uso dei piccoli paesi e la poca «elasticità» dei bilanci comunali; ma supplivano qua e là i lanternini appesi a qualche tabernacolo di santo, negli angoli delle vie. A quella scarsa luce Maurizio vide i ciottoli enormi onde era lastricata la strada maggiore; sempre quelli, con le loro gibbosità, coi loro alti e bassi continui, sempre quelli, eternamente rugosi e rossastri nella corteccia inattaccabile della quarzite, che s’è arrotondata così, colorata così, nella mota millenaria del periodo glaciale. Poveri cavalli, costretti a lavorare di zampe ferrate in quel letto di torrente!

Ma ecco, finalmente, un po’ di strada da cristiani; ecco il battuto della piazza maggiore; ecco la chiesa, la parrocchiale di San Giorgio; e più su, in capo ad una piazza, che scende larga in pendìo, la mèta del suo viaggio, il suo palazzo, il «Castèu». Meritava il nome con cui era stata battezzata, e sotto cui era comunemente riconosciuta, la vecchia casa dei Sospelli di Vaussana; castello del Trecento, o giù di lì, con la sua torre da un lato, con le sue logge alte al secondo piano, fors’anche coi merli e le caditoie; restaurato quindi a palazzo signorile, nel corso del Secento, gran colpevole un po’ da per tutto di simili trasformazioni architettoniche. E veramente allora erano state chiuse le grandi finestre a sesto acuto, per ricavarne di più piccole, a stipiti quadrati, nel mezzo; ma ancora da certe screpolature s’indovinava l’alzata dell’arco primitivo, e da qualche sfaldatura dell’intonaco ne trasparivano le elegantissime linee di cotto. Un nuovo restauro, dei principii del secolo presente, aveva aggiunte le persiane; ed erano queste, per l’appunto, che avevano persuaso il padre di Maurizio di non appagare un desiderio della moglie, a cui sarebbe piaciuto di veder ritornate alla luce e alla gloria antica le ogive del Trecento.

—Cara mia,—le aveva detto il buon conte di Vaussana,—per contentare il tuo gusto medievale bisognerebbe rinunziare a questa benedetta invenzione delle persiane. Levate queste, ed anche ingrandite le finestre, immagina tu come si starebbe freschi. Che idea, quella dei nostri antenati, di voler morire dal freddo! È vero,—soggiungeva il degno gentiluomo, temperando l’asprezza del suo troppo moderno giudizio,—che gli antichi lo sentivano meno, il freddo; ed è forse per questo che durarono tanto.—

Giaume, il vecchio castaldo dei Vaussana, aspettava Maurizio ai piedi dell’erta, e fu il primo a dargli il bentornato. La sorella Albertina lo accolse a braccia aperte, sulla soglia del por tone; benedetto portone, sormontato dallo scudo dei Sospelli, di rosso, al libro aperto d’argento, caricato d’una spada in palo, del medesimo, col motto « tout droict Sospel », continuo tema di pazze congetture agli eruditi mandamentali.

La contessa Albertina aveva fatto preparare per suo fratello l’appartamento dei vecchi al primo piano. Non era egli oramai il signore del castello? Ma il nuovo arrivato, in omaggio ai ricordi, amò meglio di ritornare nel quartierino della torre, in quelle due camerette che aveva ancora occupate la notte prima di andare a Genova, per entrare nel collegio di Marina. Si sentì giovane, anzi ragazzo, là dentro; e la mattina seguente, aprendo gli occhi e rivedendo il suo nido alla luce dell’aurora, gli parve di non essersi mosso mai da quel luogo. Tutte le cose intorno a lui sorridevano, con quell’aria domestica che è data ai mobili di casa dalla loro istessa vecchiaia. Maurizio stette un’ora buona a guardar tutto attentamente, incominciando dal suo letto di legno dipinto di celeste a fiorami; passando poi allo specchio dalla cornice barocca indorata, con una luce di Venezia tutta sfiorita dagli anni, al canapeino di legno, dipinto nello stile del letto, all’armadio, al tavolino, alla piccola libreria, dov’erano ancora i suoi libri di scuola.

Poco lontano di là, al secondo piano del palazzo, era una libreria ben più ricca, quella del babbo, che era stata anche di due generazioni anteriori: libri vecchi, ma in gran numero, quasi tutti di storia, e di erudizione. Il fatto suo, non vi pare? Ed egli per l’appunto aveva contato su ciò. Il suo primo pensiero fu di riordinare in quindici o venti giorni quella libreria, da tanti anni dimenticata; avrebbe veduto frattanto che cosa ci fosse di utile per sè, nella compilazione dell’opera che aveva disegnato di scrivere. Voleva seguitare a dormire nella sua cameretta di adolescente; l’attigua gli sarebbe servita come spogliatoio; tutte le altre del secondo piano, che venivano in fila, le voleva ridurre a stanze da lavoro, coi libri, le carte murali, gli atlanti, e tutto l’altro che gli bisognasse.

Del resto, si stava molto bene lassù, con una vista impagabile. Dalla finestra della sua camera da letto vedeva anche meglio la montagna vicina, col castello della Balma, da cui lo separava una boscaglia tutta nera e folta, assai pittoresca, ottima per andarci a passeggio nell’estate, corsa com’era da sentieri solitarii e tagliata per mezzo da una valletta, con una bella cascata, bianca come il latte, rumorosa come il mare, quando viene a frangere in una caverna a fior d’acqua. La chiamavano l’Aiga, e qualche volta anche la cascata del Martinetto. Egli la sentiva per l’appunto rumoreggiare, come vent’anni addietro, quando si addormentava alla sua nenia dolcemente monotona.

Albertina approvò tutti i disegni di Maurizio. Approvava ogni cosa, felice di riavere il fratello, e di ritrovarlo lo stesso di prima, nel modo di pensare, di sentire, di essere. Egli, del resto, era sempre giovane. Lei, piuttosto, immutata nell’animo, era tutt’altra oramai nell’aspetto, invecchiata parecchio, sebbene non avesse che un anno più di lui. Ma le donne, si sa, invecchiano a star sole, più che non facciano gli uomini. Ebbene, che importava ciò? Sarebbe stata anche meglio una madre, per lui, con la precoce autorità delle rughe. Hanno questo spirito di sacrifizio, le vecchie zittelle buone. Quanti fili d’argento nei cappelli neri della contessa Albertina! Ma diritta ancora, diritta sempre, come la spada in palo, nello scudo dei Sospelli; o meglio, diritta come la propria coscienza, e sorridente, serena, luminosa come una santa sull’altare.

Quella mattina, essendo giorno di festa, fratello e sorella uscirono insieme, per andare alla chiesa. Maurizio vide per la strada e sulla piazza maggiore molti visi maravigliati: ne riconobbe parecchi, e con tutti andò subito all’abbordaggio. Non era mai stato superbo, e non faceva consistere la nobiltà nella mutria. Erano compagni di scuola, rimasti nel borgo, quasi tutti della classe media, tra povera ed agiata: a vicenda agricoltori, industriali e meccanici, come spesso occorre nei paesi di montagna; piccoli intelletti, nei quali la istruzione primaria e la secondaria non avevano fatto miracoli, ma nei quali la educazione sana e la vita ristretta agli esempi domestici avevano conservato ottimi i cuori. Restavano naturalmente un po’ timidi; ma la timidità rende gli uomini facilmente più amabili. Tutti quei vecchi compagni di scuola e di giuochi infantili erano tanto più amabili con Maurizio, in quanto che niente era intervenuto a turbare la cortesia delle relazioni, niente ad inasprire gli animi, fosse pure per una settimana, o solamente a intiepidire le amicizie, come avviene pur troppo nella convivenza di tutti i giorni, per gli attriti inevitabili dei piccoli interessi offesi, o delle piccolissime questioni del comune, della fabbriceria, dell’asilo. Furono tutti felici di stringer la mano al contino (così lo chiamavano ancora, come lo avevano chiamato da ragazzo, vivente il signor Vittorio suo padre); felicissimi quando seppero che era stanco del servizio, che non lo avrebbe ripreso, e che sarebbe rimasto a lungo tra loro.

La chiesa parrocchiale era bella, assai più bella dentro che fuori: nuove le dorature, ed egualmente gli affreschi, frutto di risparmi dell’opera, di limosine accumulate e di aiuti straordinarii di agiate persone. Aveva un bellissimo altar maggiore, tutto di marmi incrostati a fiorami di vario colore, imitanti un drappo di broccato antico. Quello era stato un dono fatto cento cinquant’anni addietro alla chiesa da un Sospello di Balma. In una cappella laterale, dentro una gran nicchia protetta dalla sua invetria ta, si vedeva una statua di san Giorgio a cavallo, in atto di piantar l’asta nella gola spalancata del drago. Era una statua da portare in processione il 24 di aprile, ricorrendo la festa del santo onde aveva nome il paese; e quel buon saggio di scultura nel legno, del primo ventennio del secolo decimono, era dono di un Sospello di Vaussana, il nonno di Maurizio. In quella cappella, di patronato della famiglia, aveva la sua panca la contessa Albertina, che c’era infallantemente ogni giorno a pregare, un’ora nei giorni di lavoro, due ore nei giorni di festa, e più, all’occorrenza, secondo la durata degli uffizi divini. Quante preghiere! direte. Ma sì, è ben necessario che qualcuno preghi per tutti coloro che ne han perso l’uso: se poi non è necessario, pensate che il pregare della contessa Albertina non ha mai fatto male a nessuno.

Sull’altar maggiore, di sopra al tabernacolo, sorgeva un gran crocifisso di legno. Quel crocifisso era la maraviglia del paese. Si diceva, tra quei terrazzani, che non ce ne fosse uno più bello al mondo, neanche a Roma; e si soggiungeva che certi inglesi avessero offerto di pagarlo a peso d’oro; la solita chiacchiera! Certo, era bello; più elegante che vero, aveva sentenziato uno scultore verista, che era passato di là. Ci si vedeva il modellato dell’Apollo del Belvedere, col risalto armonico dei muscoli, con la giusta gentilezza delle membra, con la soave finezza delle articolazioni; solo si notava negli occhi e nella bocca una espressione di dolore, ma niente più di quella che occorre negli occhi e nella bocca della Niobe di Scopa; non c’era insomma l’accasciamento di un corpo rifinito dallo spasimo della morte, nè lo stiracchiamento delle braccia, nè la torsione in avanti degli omeri, nè la uscita fuori di squadra delle due scapole, come sarebbe stato necessario, con tanto traboccare di una massa pesante.

Alle quali ragioni dottissime aveva risposto un collega della scuola idealista, che nella rappresentazione dei tipi consacrati dalla tradizione dell’arte bisogna dare la parte sua all’uso costante, all’opinione ricevuta, al sentimento universale; che soprattutto non è da far vedere un Dio morente nella medesima condizione statica di un giovane facchino appiccato per due ore al giorno come modello nello studio di uno scultore. Il vero, sì, ma non tutto il vero; altrimenti, perchè non si crocifiggerebbe un uomo al giorno, per esporne con utilità di sensazioni estetiche la ineffabile angoscia alle turbe? Quello è infatti il vero, veramente vero. Ma ancora, in quel caso, si vedrebbe che non tutti gli organismi umani si diportano ad un modo, nell’atteggiamento della persona, nell’abbandono delle membra, nell’espressione dell’agonia. Così nella parrocchiale di San Giorgio le due scuole si erano bisticciate un tantino, ma persuadendosi ancora a vicenda che si può esser bravi artisti e farsi onore con ogni scuola; e avevano poi fatta all’insegna dei tre Re una pace temporanea, come la faranno un giorno definitiva, alla consumazione dei secoli.

I piedi del crocifisso sparivano quella mattina sotto una gran fioritura di rose, disposte a mazzo enorme, legato al tronco della croce. Belle rose di ogni forma e d’ogni grandezza, chiuse ancora od aperte, d’ogni profumo, d’ogni temperanza del rosso e dell’incarnato, del pavonazzo e del cremisi, del salmonato e del giallo; davano tutte insieme a quell’augusto morente l’aspetto di un trionfatore.

—Sei stata tu, non è vero?—bisbigliò Maurizio all’orecchio di sua sorella, indicandole quel gran mazzo di rose.

—Sì,—rispose ella, arrossendo lievemente.—Sono di quelle che ha piantate nostra madre. Il Castèu è sempre il primo ad averne; ed è stata veramente una fortuna che ce ne fossero tante, per festeggiare il tuo arrivo a casa.—

Maurizio si sentì scorrere una lagrima giù per le guance. Anch’egli, come la sua buona sorella Albertina, vide nel presente il ricordo del passato, e v’associò la promessa del futuro. Non voleva più andarsene da San Giorgio; dalla terra alpina dove dormivano i suoi maggiori; dal solitario Castèu, dove prima che altrove fiorivano così bene le rose.

Finita la messa, uscirono sulla piazza, per ritornare a casa; lentamente, per non aver aria di fuggire, ed anche allungando un tantino la strada, per abbondanza domenicale. Così videro sfilare in parata tutto quanto il paese; e da ogni parte erano inchini, sberrettate, scappellate, a cui bisognava rispondere. Maurizio notò sottovoce a sua sorella di non essersi provveduto abbastanza, alla Spezia, portando solamente due cappelli con sè.

—Aspetta la prima fiera;—gli rispose Albertina.—Ci saranno cappelli d’ogni qualità: ed anche verrà la paglia di Nizza, che solevi ricordare nelle tue lettere.

—Infatti, è strano;—esclamò Maurizio.—Non se ne trova più. E neanche paglia di Firenze, che la somiglia tanto. La moda, la moda! è una gran sciocchezza, la moda.—

Ma sua sorella non la intendeva così, quantunque alla moda sacrificasse ben poco.

—Bada di non far la ruggine, Maurizio; e soprattutto non ti far vecchio prima del tempo.—

Rideva, la buona zittella; e ridendo, diventava più giovane. Rispondeva più ilare, più serena, più franca ai saluti che venivano d’ogni parte. A San Giorgio sicuramente, da dieci anni almeno, non l’avevano più veduta così.

—Vedrete che torna bella;—dicevano alcuni.

—Lo era tanto a vent’anni!—rispondevano altri.—Ce n’è rimasto qualche poco, per far festa al signor Maurizio.

—Quello, poi, li ha sempre, vent’anni. E dovrebb’essere sui trentacinque.

—No, non può averne che trentadue. Ricordate? è nato lo stesso giorno del figlio di Misa Margoton.—

Misa Margoton, che serviva d’indice cronologico ai terrazzani di San Giorgio, era una nizzarda, andata giovanissima lassù, a fare la ciambellaia. Erano famose per tutta la Vaussana la ciambelle di Misa Margoton, e facevano furori a tutte le fiere, a tutte le sagre dei dintorni.

Alla svolta di una strada, la coppia fraterna s’incontrò ad angolo con tre persone, di aspetto assai signorile, una donna e due uomini: uno di statura giusta, piuttosto atticciato, con due gran baffi biondi largamente brizzolati di bianco, di bell’aspetto, gli occhi cerulei, e una faccia di color sanguigno che forse aiutava a levargli otto o dieci dei sessant’anni che gli davano a prima giunta i suoi baffi; l’altro d’aspetto grigio, alto e magro, con due gambe di ragno, figura pulita di cavaliere malinconico; la donna giovane, elegantissima nella semplicità del vestimento, biondi i capelli e rosea la guancia, come la regina Isotta dei canti medievali.

Erano facce nuove per Maurizio, che pur dovette salutare, imitando la sorella, in risposta al primo saluto del signore dai baffi biancheggianti. Il quale, rinnovando il saluto, o piuttosto appoggiandolo con un cenno del capo, si voltava ancora un tratto a guardare, e sicuramente per veder meglio lui, che gli giungeva nuovo egualmente.

—Villeggianti precoci!—disse Maurizio alla sorella.—Ma già, niente maraviglia, se ci son già le rose al Castèu.

—Non villeggianti; vivono tutto l’anno a San Giorgio. Non conosci più i proprietarii della Balma?—rispose Albertina, sospirando.

—Povera Balma!—ripigliò il giovane, che aveva colto a volo il sospiro.—Ma non è dunque più dei Matignon della Bourdigue?

—Lo è sempre. E quel signore dei baffi bianchi è il generale, il cadetto della famiglia.

—Come? come? il capitano, quello? così smilzo allora, e così biondo, che lo chiamavano l’Arcangelo Gabriele?

—Lo hai lasciato capitano, biondo, smilzo, ed ora è complesso, bianco e generale;—rispose Albertina, ridendo.—Pensa, caro mio, che son passati venti anni.

—È vero;—conchiuse Maurizio, chinando la testa.—Il capitano della Bourdigue, nizzardo, che aveva optato nel ’61 per la Francia. E come è passato ora a vivere di qua dal confine?

—Il fratello maggiore è morto cinque anni fa. Rimasto unico dei Matignon, ha preso il suo ritiro, ed è venuto a vivere alla Balma.

—E quella signora è sua figlia?

—No, sua moglie.

—Come? ma se ha l’aria di una ragazza! O figlia, o nipote, avrei detto.

—Ed è sua nipote, infatti.

—Ah, ora ci sono;—gridò Maurizio. —La figlia del signor Camillo.... il miscredente.—

Il volto della contessa Albertina si rabbruscò, a quella scappata del fratello Maurizio.

—Perchè miscredente?—diss’ella con accento di mite rimprovero.

—Lo dicevano, allora, ed io ripeto quel che ho sentito.—

Avrebbe voluto soggiungere: lo diceva perfino nostro padre. Ma capì di aver abbastanza amareggiato l’animo della sua dolce sorella, senza bisogno di metterlo ancora in angustia colla testimonianza del babbo.

—Sarà stato uno scherzo;—diss’ella ripigliando.—Del resto, tu sai che il mondo s’inganna facilmente a certe apparenze, per discorsi male intesi e peggio riferiti. Comunque sia, il meglio che si possa fare....

—È di non credere alla miscredenza;—interruppe Maurizio, compiendo a suo modo la frase impacciata di sua sorella Albertina.—Hai ragione, sai? nel caso particolare e nel caso generale, hai ragione. È bene di non ripetere certe cose, neanche a sè stesso. Ed ecco,—soggiunse egli,—che cosa vuol dire andar via da casa, per ritornarci dopo vent’anni, con tanto viatico d’esperienza. Io ho lasciata qua la mia buona filosofia, che mi sarebbe stata tanto utile laggiù. Per fortuna, la ritrovo ora, messa ad interessi composti, sotto il tetto paterno.

—Eh via, non ti far così brutto, ora;—dis se di rimando Albertina.—Ti ho veduto poc’anzi in chiesa, e non mi sei parso niente diverso da quello di venti anni fa. Eri serio, composto.... e divoto.

—Ma sì, come bisogna essere in chiesa. O non ci si va, o ci si sta come si deve. Dopo tutto, non è la casa del nostro superiore? del grande ammiraglio, di quello, io voglio dire, che non commette ingiustizie? —

Capitolo III. Cortesie di buon vicinato.

Passarono tre giorni, che Maurizio occupò degnamente in cento piccole cure. Prima di tutto aveva da riconoscer la casa, dopo tanti anni d’assenza, da vedere tutte le novità che c’erano state fatte in quel lungo intervallo, il parco, il giardino, l’orto, il frutteto, la fagianaia, il pollaio, insomma tutto ciò che sua sorella Albertina aveva ordinato, o condotto a termine, o perfezionato, affinchè il Castèu, com’ella diceva, bastasse a sè stesso.

—Egregiamente;—notava Maurizio, approvando.—Credo che si potrebbe sostenere anche un anno d’assedio.

—Capisco che tu ci avresti tempo di annoiarti;—rispondeva Albertina.

—No, sai; tu coi tuoi polli e coi tuoi fagiani; io coi miei libri, le mie carte, i miei strumenti; si passerà il tempo benissimo, e il peggiore dei nemici non avrà modo di penetrare qua dentro.—

Maurizio aveva ricevuti da Ventimiglia i suoi bauli e le sue casse. Tutto era già stato aperto, schiodato, sciorinato; libri, carte geografiche, idrografiche, bussole, cannocchiali, seste, sestanti, cronometri, tutto il bagaglio scientifico dell’ufficiale di marina. Il legnaiuolo della casa era stato chiamato, e sotto la direzione di Maurizio lavorava ad aggiustare, ed aggiungere scaffali, a piantar chiodi e bullette, ad appender quadri, stampe, fotografie, armi, stoffe, amuleti, stoviglie, tutto il museo dell’ufficiale di marina che era stato anche un viaggiatore intelligente e curioso. Era quello un lavoro faticoso, ma gaio; e lo rendeva più gaio il pensiero della quiete futura, in cui Maurizio avrebbe potuto finalmente metter mano alla sua Storia delle Guerre marittime. Quella, davvero, non gli usciva di mente.

La mattina del quarto giorno, mentre era in maniche di camicia su d’una scala di legno appoggiata alla parete, gli fu portata da Giaume una lettera.

—Già la posta a dar noia!—esclamò egli, seccato.

Non era della posta; era una lettera del paese.

—Mettila là, su quella tavola. Chi l’ha portata?

—Il fattore della Balma.

—Ah!—disse Maurizio; e più non disse.

Com’ebbe finita l’operazione per cui si era inerpicato lassù, scese tranquillamente e andò a prender la lettera, che portava scritto sulla busta: «Al signor conte Maurizio Sospello di Vaussana; Sue mani», e sul rovescio un gran suggello di ceralacca, con lo stemma dei Matignon della Bourdigue. Maurizio prese con molta flemma una spatola d’avorio, ne introdusse delicatamente la punta sotto la piega della busta, ne tagliò tutto il lato superiore, trasse il foglio che c’era dentro ripiegato in due, lo spiegò lentamente e lesse ciò che gli scriveva il castellano della Balma:

Signor Maurizio,

«Quando un ufficiale va in un paese e sa che c’è un altro ufficiale a lui superiore di grado, va a fargli una visita, non vi pare? Sarebbe prescritta l’uniforme; ma io non la esigo; anzi ve ne dispenso. Non vi dispenso però dalla visita. Andrei contro la legge, venendo io stesso da voi, se nella mia condizione di ospite non avessi qui cura d’anime. Vi ho conosciuto bambino, e credo anche di avervi in quei tempi consegnato qualche amorevole scappellotto. Non vi dispiacerà il ricordo, poichè desidero di mutarlo in una buona stretta di mano.

«Conoscete la via della Balma. Dieci minuti di salita, per gambe come le vostre, e al piè delle scale un vecchio amico a braccia aperte.

“Bourdigue. „

Maurizio lesse e sorrise; ripiegò il foglio, dopo avergli data ancora una rapida scorsa, lo ri mise nella sua busta, e depose questa sulla tavola; dopo di che ritornò al suo lavoro. Alle dodici il legnaiuolo si congedò, per andarsene a desinare.

—Ripasserò alle due, signor conte;—diss’egli.

—No, per oggi basterà;—rispose Maurizio.—Ho da far altro; ritornerete domattina, all’ora solita.—

E anch’egli discese, dopo essersi messo in ordine, per andare ad asciolvere. Dopo il pasto mattutino, andò nelle sue stanze a mutar abiti.

—Vai fuori?—gli chiese Albertina, vedendolo così vestito di tutto punto.

—Sì, alla Balma. Vedi che cosa mi scrive il tuo generale.—

Così dicendo, porgeva ad Albertina la lettera che aveva ricevuta nella mattinata.

—È cortese;—osservò ella, dopo aver letto.—E gli sei proprio debitore di una visita. Io, anzi, te lo volevo dire fin da ier l’altro.

—Andiamo dunque, e perdiamo questa mezza giornata;—conchiuse egli sospirando.

E uscito dal Castèu, si avviò alla Balma; non dalla parte del paese, ma dalla parte della montagna, per la scorciatoia del bosco e della cascata, che ben ricordava, per averla fatta da ragazzo, almeno un centinaio di volte.

Rivedere i luoghi dove si è passata la prima adolescenza, dove non è per noi un ricordo che non sia lieto, è certamente bellissima tra tutte le cose belle della vita. Maurizio s’immerse in quella gioia così profonda, e nondimeno un pochettino chiassosa, che invade tutto il nostro essere, e trova ancor modo di espandersi in esclamazioni, in grida, in rotte parole, che vorrebbero diventar inni, ondate di poesia, e non riescono ad essere che sussulti, gorgogli, balbettamenti dell’anima. Si fermava un po’ da per tutto, vedendo e ricordando; ma più si trattenne davanti all’Aiga, alla bella cascata, con tutte quelle felci e quei muschi onde erano tappezzate le pareti dello scoglio, con quella rupe che sopraggiudicava l’abisso, con quel lastrone orizzontale, vero labro di granito, donde si precipitava il cristallino volume delle acque nella conca sottoposta, sprizzando in polvere liquida, estuando in candide spume, rompendosi in rivoli che tornavano a ricongiungersi più sotto in un solo zampillo. Maurizio non si sarebbe più spiccato di là, se non avesse pensato in buon punto che aveva da fare una visita d’obbligo, che per quella visita aveva congedato il legnaiuolo, interrompendo il suo piacevole lavoro, che per quella visita si era vestito di tutto punto e mosso di casa.

—Ci tornerò;—diss’egli ad alta voce, come per fare le scuse della sua fretta alla divinità del luogo.

Gli antichi avevano ben ragione a mettere delle dee per protettrici delle fonti. Non c’è cosa più poetica di una bell’acqua corrente nella solitudine di un bosco, nè altra che più meriti il sorriso di una divinità tutelare.

Maurizio si avviò finalmente; e non in dieci minuti, per verità, ma in trenta o quaranta giunse sotto al muro di cinta del castello della Balma. C’era un muro, e ci stava benissimo; tutti i castelli che si rispettano ne hanno uno, spesso più d’uno. Ma l’uscio per entrare? o la breccia? Maurizio rammentava benissimo che la breccia non mancava; non fatta da nemici, ma da contadini poco disposti a passare per la strada maestra. Quella breccia, ridotta a passo campestre, si ritrovava più su, dietro una svolta del muro.

—Per di qua;—gli disse dall’alto una voce.—Se andate alla Balma, c’è qui il sentiero.

—Lo so, grazie;—rispose Maurizio.—Conosco i luoghi da un pezzo.—

E salutava, così dicendo, il brav’uomo che gli dava l’avviso. Era un pastore, che se ne stava seduto su d’un masso, pascolando due mucche e una dozzina di pecore.

Trovato facilmente il passo, ed entrato nel recinto della Balma, il visitatore fu ben presto ad una piccola spianata, davanti a cui sorgeva la gradinata che metteva al portone d’ingresso. Non c’era nessuno alla vista, ma si sentivano voci di dentro; anzi, per dire più esattamente, si sentiva una voce sola, che faceva per quattro, rumorosa, allegra, voce di comando frammezzata di risa.

Nessuno era nel vestibolo. Maurizio entrò, col suo cappello in mano; da un uscio aperto, sulla sua destra, vide una sala da biliardo, e due uomini che stavano giuocando, l’uno occupato in una serie di caramboli, l’altro in atto di guardare il giuoco dell’avversario, e in pari tempo di ingessare il cuoio della propria stecca. La serie fu breve, per effetto di troppa sicurezza, o di fretta soverchia nel dare il colpo, e il giuocatore sfortunato era già per attaccare un moccolo, quando un gesto del compagno, che stava dirimpetto all’uscio, lo costrinse a voltar gli occhi verso il nuovo personaggio che appariva allora nel vano.

—Ah, bene!—esclamò egli, deponendo la stecca sul panno verde e muovendo incontro al visitatore.—Siate il benvenuto, signor Maurizio. Qua la mano; anzi, no, un abbraccio, tanto per cominciare. Ma come va?—soggiunse, volgendosi al compagno.—Il vostro servizio d’avamposti procede assai male, mio caro Dutolet.

—Non so veramente come sia andata;—rispose quell’altro, con accento dimesso.

Maurizio era rimasto un pochino interdetto, non sapendo che cosa significasse quell’accenno di avamposti, che interrompeva in mal punto la cortesia delle accoglienze.

—Figuratevi;—ripigliò il generale, rivolgendosi a lui, come se avesse letto in quel punto nell’animo del visitatore.—Avevamo messo un uomo in sentinella a metà della salita, per es sere avvertiti del vostro arrivo. Vi avevo annunziato che mi avreste ritrovato in fondo alla scala, e voi siete arrivato fin qua, signor conte, senza trovarmi al posto assegnato. E sono disonorato, Dutolet;—disse il generale, volgendosi ancora al compagno.—Manderemo agli arresti la sentinella infedele; daremo un esempio, non vi pare?

—Intercedo per la sentinella, generale;—disse a sua volta Maurizio, mettendosi volentieri sul tono di celia che aveva assunto il signore della Bourdigue.—Voi l’avete fatta mettere al posto buono per invigilare la strada maestra; e certamente sarà ancora laggiù ad aspettare che io mi presenti al cancello. Ma io non son venuto di laggiù; son capitato dalla scorciatoia del bosco.

—Ottimamente, da astuto nemico che conosce il terreno,—replicò il generale, ridendo.—Ma questo mi fa pensare che la Balma non è così forte come sembra. La posizione è stata girata, Dutolet; come laggiù.... ti rammenti, mio bravo? E quanti valorosi ci sono caduti, incominciando da te!...—

Un’ombra era passata sugli occhi del generale, contrastando maledettamente con l’aperto sorriso di prima. In un attimo, per altro, e la figura marziale del vecchio riprese il suo aspetto di franca cordialità.

Il generale Matignon della Bourdigue doveva essere stato un gran bel giovane a’ suoi tempi: era ancora un bell’uomo, e decorativo in sommo grado. A cavallo, certamente, con quelle spalle quadre, quell’ampio torace, quei baffi bianchi biondeggianti e quegli occhi azzurreggianti sul vermiglio della carnagione, doveva parere uno di quei paladini di Carlomagno, che potevano essere oppressi dal numero a Roncisvalle, ma dopo aver fatto prodigi di valore e di forza, accoppando mille Saracini, prima di ricevere essi medesimi una graffiatura al braccio, o una ammaccatura al ginocchio.

L’accenno militare condusse naturalmente il generale alla presentazione del suo ospite. Il capitano Dutolet, sottotenente nella campagna del 1870, era stato ferito gravemente a Reichshoffen, e sarebbe morto sul campo, se non si fosse dato pensiero di lui, facendolo raccogliere in tempo e mandare all’ambulanza, il suo capo di squadrone Matignon de la Bourdigue. Quel magro cavaliere dal volto grigio, dalle gambe di ragno e dall’aria sempre malinconica, era una salda tempra di acciaio; ancora a servizio, veniva a spendere le sue licenze ordinarie e straordinarie presso l’antico superiore, che da cinque anni aveva lasciato l’esercito, per passar tra gl’invalidi assai prima del tempo. Anche il generale de la Bourdigue aveva avuto a dolersi di una ingiustizia? La cosa era possibile; tanto gli uomini si rassomigliano, sotto tutte le longitudini della zona temperata e sotto tutti i governi civili.

Quel generale, che avrebbe fatto ancora una così bella figura a cavallo, possedeva un magnifico stato di servizio. Nizzardo di nascita, aveva raggiunto il grado di capitano nell’esercito, piemontese, combattendo in Crimea e quindi in Lombardia nella campagna del ’59. Dopo la cessione di Nizza alla Francia, era stato tra quelli che avevano optato per la nazionalità francese, e nel ’70 era giunto al grado di capo squadrone, dopo aver fatto parte del corpo di spedizione al Messico e aver combattuto valorosamente sotto le mura di Puebla. Colonnello dopo Sedan, generale di brigata nell’esercito della Loira, non aveva più fatto altri passi in avanti. A chi era dispiaciuto? Che demeriti avevano ritrovato in lui? Il generale Bourdigue non istette a domandarlo: una dolorosa occasione gli si offerse di lasciare il servizio, ed egli colse quella occasione pel ciuffo.

Camillo, il suo fratello maggiore, rimasto italiano alla cura degl’interessi domestici, che erano tutti di qua dalla linea della Roia, era venuto improvvisamente a morire, lasciando orfana l’unica figliuola Gisella. Il generale, venuto a surrogare il fratello, aveva prese le redini della amministrazione domestica; e il tutore, un anno dopo, diventava marito. Come era avvenuto ciò? Si diceva a Nizza, a Villafranca, a Mentone, dovunque i Matignon erano conosciuti, e si ripeteva da Ventimiglia a San Giorgio, dove avevano le loro possessioni, che la fanciulla medesima avesse voluto quelle nozze.

I valorosi, hanno sempre questa sorte di fascino sulla donna. Pare alla bellezza di appoggiarsi meglio, quando il braccio che la sostiene è quello di un eroe. Inoltre, la donna conosce il suo proprio valore, la sua qualità di gioiello; sente di essere buon premio alla forza, morale o fisica ch’ella sia, o l’una cosa e l’altra ad un tempo.

La contessa Gisella, a cui Maurizio di Vaussana fu presentato quel giorno, era una bellissima creatura di ventuno in ventidue anni, bionda e rosea come abbiamo già avuto occasione di dire. Ma quando si dice bionda e rosea, non si è detto ancor nulla: bionda e rosea può essere anche una pupattola; bionda e rosea su per giù era anche la cugina splendidissima e formosissima di Maurizio. La castellana della Balma non offriva tuttavia nessuna somiglianza con una pupattola; non aveva nessun’aria di parentela con la cugina di Maurizio.

In primo luogo era più alta, e più flessuosa nella persona; donde una formosità d’altro genere. Poi la carnagione era più fine, d’impasto più gentile, più tenero, con un certo riflesso dorato sul roseo, che non aveva quell’altra. Il biondo dei suoi capelli era più luminoso, più morbido, più ondato; e quei capelli formavano un volume così abbondante, da potersi paragonare a quelli di Genovieffa di Brabante, capaci a far da accappatoio a tutta la persona, quando la bella principessa della leggenda ebbe logorati i suoi abiti nella foresta di Trèveri. Non si poteva poi pensare alla cugina, vedendo gli occhi della contessa Gisella; grandi occhi profondi, neri d’un nero d’indaco, ma che mettevano bagliori d’oro ad ogni batter di ciglia.

—Mia moglie è fosforescente;—diceva qualche volta il generale.

La contessa Gisella sorrideva, e senza ombra di civetteria, volentieri secondando un complimento maritale, con un nuovo sprigionamento di faville. Era una bambina, niente vana della propria bellezza, ignorandola forse, certamente non dandosene pensiero e non sapendo che farsene. Qualche volta, con versi infantili, storcimenti di bocca, guardate di sbieco, pareva che lavorasse a farsi brutta; ma senza venirne a capo. Tutto ciò ch’ella faceva era improntato di sincerità, d’ingenuità, di franchezza e di grazia. Vi passava davanti come una bella farfalla che aleggia capricciosa nella pompa de’ suoi vivi colori, e non sa di essere la vita del giardino, la festa degli occhi, la maraviglia del quadro.

Vedendo lei da vicino, discorrendo con lei, Maurizio non potè trattenersi dal pensare a sua cugina e al dolorino acuto che gli aveva lasciato nell’anima quella splendidissima e formosissima bionda.

—Ecco—diceva egli tra sè,—una donna bella vi colpisce, v’infiamma, vi fa soffrire come un dannato. Poi se ne presenta un’altra più bella, magari nel suo stesso genere, il che è ve ramente il colmo dell’audacia; e lì per lì, senza cancellarvi l’immagine della prima, senza distruggervi in cuore la memoria degli antichi tormenti, ve ne rende innocua la sensazione, sterile e vano il pensiero. Come ho potuto soffrir tanto per quella là? Quella là, certamente; è il modo d’indicar la figura che è passata, non lasciando più desiderio di sè. Anche le donne, alla lor volta, sentono e ragionano così; anch’esse hanno «quello là» da giudicare in forma sommaria, mandandolo a farsi benedire. E il meglio, dopo tanta esperienza, il meglio sarebbe di esser tutti filosofi, uomini e donne, di cansare gli innamoramenti fatali, di prendere un po’ più alla leggera le cose del cuore, fragili e fugaci alla fin fine come tutte le altre.—

Ma queste cose si possono pensare, non fare. Sono le occasioni, quelle che vengono addosso, quando meno ci si pensa; sono le circostanze, quelle che imprigionano, quando meno si crede di restarci impigliati. La donna che si ama di più, che più dovrà farci soffrire, non è sempre la più bella, contro cui c’era modo di mettersi in guardia a tempo opportuno. Un amico di Maurizio aveva fuggito i lacci di due meravigliose creature: poi si era ucciso per una piccola strega dei mari del settentrione, secca stecchita a quel modo, che quando l’aveva veduta la prima volta gli era parsa un’aringa affumicata.

Maurizio di Vaussana stette un paio d’ore alla Balma, ragionando di cento cose. Cadde anche il discorso sulle cause del suo ritiro precoce dal servizio: ma s’intende che nè il generale lo incalzò troppo con le domande, nè egli credette necessario di dire la verità tutta quanta. Si toccano mal volentieri certi tasti più intimi, quando non si è tra connazionali: e il signore della Balma e il signore del Castèu, quantunque appartenenti pel sangue alla medesima valle, non erano di una medesima patria. Maurizio trovò il modo di dire che da un pezzo sentiva il bisogno di attendere agli interessi di casa sua. Vivendo il babbo, era una cosa; morto il babbo era un’altra. Da principio, correndo ad ogni tanto voci di guerre possibili, aveva stimato necessario di restare al suo posto di combattimento: ma oramai, sfumata ogni probabilità di vicine «complicazioni europee», le voci della sua terra erano state più forti, ed egli, di marinaio che era diventato, ritornava a fare il gentiluomo di campagna.

—Per nostro vantaggio;—disse il generale.—E speriamo che ci restiate per sempre. Ma il miglior modo d’incatenarvi qui, sarà quello di darvi moglie. Non fate conto di prenderla?—

Maurizio sorrise. Che idea! c’era egli proprio bisogno di prender moglie, per vivere e non annoiarsi della vita? Ma questo, che pensò, non lo disse. Infatti, sarebbe stata una grande scortesia verso una buona intenzione, e più ancora verso quell’uomo che l’aveva presa bellissima. Rispose invece con un «perchè no?» a fior di labbra, che lo impegnava fino ad un certo punto, lasciandogli la porta aperta per una brava ritirata.

—Del resto—soggiungeva,—una moglie non si trova lì alla prima voltata di strada. Non è anche conveniente per la felicità, di trovar prima l’amore, donde sia facile poi avviarsi al matrimonio?

—Un altro vi risponderebbe: prima il matrimonio; l’amore verrà poi, e non sarà che più forte, perchè fondato sulla conoscenza, sulla stima reciproca;—ripigliò il generale.—Ma queste sono le vie battute dal ragionamento, e voi amate le vie strane. Per una di queste, infatti, siete salito alla Balma. Innamoratevi dunque, signor Maurizio, e sposate. Per voi, ultimo dei Sospelli di Vaussana, è anche un debito d’onore verso i vostri maggiori, che hanno diritto di veder continuato il lustro di un buon nome.—

Il signor Maurizio non sorrise più, s’inchinò ringraziando. Poco dopo, essendo la sua prima visita durata oltre i termini della convenienza, si alzò per prender commiato.

—Badate, amico;—gli disse il generale, prendendogli affettuosamente la mano e stringendola forte tra le sue;—qui non siamo in città, da vederci una volta alla settimana: siamo qua tutti i giorni, mattina e sera. Del resto, ora che conoscete anche il mio ospite, non sarà più il caso per noi di lasciarlo solo, quando verremo a scovarvi nel vostro Castèu.—

Le accoglienze erano state molto cordiali da parte del generale, e gentili da parte della contessa Gisella; Maurizio poteva esser contento dei suoi vicini della Balma. Bastavano esse per dirgli il carattere dei signori Matignon? Le prime visite per solito non contano, in quest’ordine d’indagini e di scoperte; nessuno si fida a questi incontri preliminari, a questi semplici contatti di superficie, dove le regole della buona creanza e i luoghi topici della conversazione son tutto.

Pure, tanto è forte nell’uomo l’abito dell’indurre, Maurizio se ne partiva dalla Balma con una opinione formata, se non ancora dal suo raziocinio, certamente dalle sue sensazioni. E l’opinione era questa: che i signori della Balma erano ottima gente; il conte un allegro compagnone, con qualche scatto d’imperiosità, derivato dalla abitudine del comando, dall’abuso della caserma e della piazza d’armi, ma del resto un buon diavolo, e piacevole in società, quantunque, fuori dagli argomenti militari, un po’ tavola rasa; la contessa una bella bambinona, senza grande istruzione anche lei, ma buona, una vera pasta di zucchero, felicissima di obbedire a quel gran marito e ai suoi grandi mustacchi, di cui sembrava infatuata, come se fossero ancor biondi. Pensando a quella coppia, gli tornavano a mente due colombi che aveva visti un giorno a Pisa, espressi dallo scalpello di uno scultore, collocati l’uno di rimpetto all’altro, intenti a tuffare il becco nel latte di una tazza d’alabastro; donde a lui era venuto il pensiero che da un momento all’altro, solo che si chinassero un tantino di più, ci sarebbero cascati a capo fitto.

Affogar nel latte, che morte! E non c’era anche il pericolo di annoiarsi un pochino, con tanto latte per tutto pasto? Veramente, per rompere la monotonia c’era l’ospite, il capitano Dutolet. Ma c’era proprio? o non era piuttosto l’ombra di un ospite? Quel ragno grigio si poteva creder benissimo, dalle apparenze, un compito cavaliere: doveva anch’essere un valoroso della buona specie, poichè era molto modesto, non parlava mai delle sue imprese di guerra, e, quando il suo generale vi accennava, egli cercava subito di sviare il discorso. Ma era di poco aiuto, Dio buono, anzi di nessun aiuto in una conversazione. E dovevano esserci ogni giorno alla Balma molte ore di noia.

Anch’egli, il signor Maurizio, si sarebbe annoiato al Castèu, senza i suoi libri, senza il suo disegno di scrivere un’opera. Ah, come voleva mettersi presto al lavoro! Su presto, adunque, in ordine i libri, le carte, gli strumenti; e fatto ciò, sùbito un buon orario da imprigionarcisi dentro, come il filugello nel bozzolo. Egli ricordava benissimo a questo proposito la massima di un suo vecchio professore al collegio di Ma rina: «i sistemi fanno e non fanno, il metodo è tutto».

Per dar sesto alle cose sue ci sarebbero volute ancora cinque o sei giornate di lavoro. Disgraziatamente, non erano più giornate intiere, ma mezze: alle dodici, ora del desinare, il legnaiuolo era congedato. Come fare altrimenti? Il generale era venuto con la sua signora a visitare la contessa Albertina; gran miracolo che non si ripeteva più da sei mesi. E in quella visita, il conte Matignon de la Bourdigue aveva rinnovato a Maurizio il suo avvertimento: «Siamo in casa tutti i giorni, mattina e sera, sera e mattina». Poveri colombi, sugli orli d’una tazza di latte! La vita della campagna è sana; ma chi non ci ha niente da fare, Dio misericordioso!... Si cerca di essere in tre; quando in tre non si sente sollievo, bisogna trovar modo di essere in quattro.

Maurizio andava dunque ogni giorno a fare il quarto a quei buoni vicini. Si giuocava molto a biliardo; si faceva anche un po’ di scherma, e qualche volta si usciva a far quattro colpi di pistola. Il generale, da vecchio ufficiale di cavalleria, era un gran sciabolatore al cospetto di Dio; con la spada reggeva appena al confronto del capitano Dutolet, ed era molto inferiore a Maurizio, gran tiratore, che si era fatto in Genova alla scuola elegante e vigorosa di Licurgo Cavalli, e che a Napoli era stato perfezionato dalla grazia corretta di Masaniello Pa rise. Alla pistola batteva tutti il capitano Dutolet, con quel suo modo curioso, strano, inconcepibile, di tirar diritto senza puntare. Per colpire il bersaglio a venticinque passi, Maurizio aveva bisogno di star sulla mira almeno cinque secondi. Il capitano niente; si presentava di fianco, innanzi al bersaglio, con la bocca della pistola a terra; alzava il braccio, portandolo naturalmente, automaticamente in linea, all’altezza necessaria, non un millimetro di più, non un millimetro di meno; e paf, era un centro senza fallo.

I due testimoni di quelle prodezze lodavano senza risparmio. Ma il bravo capitano Dutolet non accettava le lodi. Non c’era niente da far maraviglia; un po’ di pratica; questione di esercitare le articolazioni a quel punto di arrivo in linea, i muscoli a quel grado di tensione, ecco tutto.

—Ecco niente;—gridava il generale, con la sua voce di tuono.—Se non si trattasse che di esercizio, in tutti i giuochi tu riusciresti eccellente, mio caro. E allora come va che sei sempre una sbercia a carambolo? —

Capitolo IV. La disputa filosofica.

Un giorno che Maurizio faceva la solita strada del bosco per salire alla Balma, gli venne veduta la gran novità di un abito talare che appariva e spariva a intervalli lungo i tigli del gran viale. L’abito talare scendeva; e Maurizio, fermandosi alquanto ad una svolta del sentiero, riconobbe il suo uomo. Don Martino che veniva di lassù! Era un caso strano, inaudito. Il signor di Vaussana non aveva saputo mai che l’arciprete di San Giorgio bazzicasse alla Balma; e vedendo per la prima volta don Martino ritornare da quella eminenza, pensò involontariamente al signor Camillo, il miscredente.

Infatti, quell’anima buona di sua sorella Albertina poteva dir tutto quel che voleva, per coprire la verità, ma il primogenito dei Matignon era vissuto tutt’altro che in concetto di buon cristiano. In chiesa non lo aveva mai visto andare nessuno, nello spazio di trent’anni. Si diceva dal vicinato che fosse un libero pensatore, che leggesse il Voltaire, il Rousseau e gli al tri Enciclopedisti; desolazione della abominazione. Quella, s’intende, era la chiacchiera d’altri tempi, dei tempi in cui si voleva dar colpa di tutta la miscredenza moderna al Voltaire, al Rousseau; nè poteva indurre in errore Maurizio, che conosceva benissimo le opinioni spiritualistiche del Ginevrino, e quanto all’altro rammentava benissimo la storia del tempietto di Ferney con la famosa epigrafe: « Deo erexit Voltaire »; un po’ orgogliosa, per dire la verità, ma non atea. Comunque fosse, avessero torto o ragione le coscienze timorate del luogo a veder così neri gli Enciclopedisti, restava sempre il fatto che il primogenito dei Matignon non era vissuto praticando la religione dei padri; e l’essere andato don Martino, arciprete di San Giorgio, al suo letto di morte, non provava punto che si fosse riconciliato all’ultim’ora. Se ciò fosse avvenuto, l’arciprete non avrebbe tralasciato di dirlo: in quella vece, quando gli si toccava quel tasto, don Martino cambiava discorso. Dunque.... la conseguenza era facile a trarsi; don Martino era andato per moto spontaneo dell’anima, fors’anche giungendo tardi, e ad ogni modo non salvando che le apparenze, per chi voleva contentarsene.

Quanto al generale, egli doveva essere la seconda edizione del suo fratello maggiore; salvo, s’intende, lo studio sugli enciclopedisti. S’impacciano poco con la filosofia, i militari. Così pensava Maurizio; e così pensando, la presenza inaspettata dell’arciprete di San Giorgio al castello della Balma doveva parergli una cosa strana, inaudita. Ma non era affar suo: da uomo educato, non poteva domandare; da uomo senza curiosità, non ne sentiva il bisogno; si era già dimenticato dell’abito talare, giungendo alla presenza del castellano della Balma.

Il generale era col suo inseparabile Dutolet, ambedue seduti al fresco, su certi sedili di ferro, disposti a semicerchio fuori dell’ingresso, accanto alla gradinata di marmo.

—Venite qua voi a consolarci;—disse il generale, com’ebbe veduto Maurizio.—Venite a riconfortarci lo stomaco. Non lo sentite, l’odore di scarafaggio?—

Maurizio ebbe l’aria di non intendere a che cosa volesse alludere il suo interlocutore.

—Già,—ripigliò il generale,—voi venite sempre dalle scorciatoie; se foste venuto dal gran viale, avreste incontrato l’uomo nero che ci ha regalato un’ora del suo tempo; e ne avremmo fatto volentieri di meno. Con che scopo, domando io, con che scopo il signor arciprete di San Giorgio viene una volta al mese quassù? Per vedere quando si fa conto di lasciargli queste quattr’ossa?.... Ma non ne abbiamo nessuna voglia; non è vero, Dutolet?

—Per quello che mi riguarda,—disse il capitano, senza neanche sorridere,—ci sarebbe troppo poco da rosicare.

—Non dimentichiamo i diritti dell’ospite; —notò il generale, osservando che Maurizio era rimasto silenzioso.—Nè di politica nè di religione si deve ragionare tra uomini. A questo ci ha ridotti la civiltà; e le sue leggi van rispettate.—

Maurizio vide allora la necessità di parlare.

—Se è per me, generale, non vi date pensiero;—rispose.—Non mi fanno paura i discorsi di politica, nè quelli di religione. Credo ancor io che la civiltà abbia delle leggi false, come ne ha delle puerili. A mio avviso si può discutere di tutto; basta che nella discussione si porti della misura, della buona volontà, del rispetto.

—Ah, mi levate un peso dal cuore!—gridò il generale.—In fede mia, non ne potevo più. Immaginate che non posso soffrire i preti.

—Scusate, generale, ma allora....

—Volete domandarmi perchè li ricevo? In verità, non sono io che li invito a venir quassù. Già, non so se debbo ridere o andare in collera, quando me li vedo davanti. Non sanno che esser umili coi potenti e coi ricchi. È dunque una umiliazione che vogliono.

—Ed io, perdonate, non la infliggerei loro; mi darei piuttosto ammalato d’emicrania.

—È quello che dice mia moglie. V’intendereste benissimo con lei, almeno nel fatto di dispensarli da una visita inutile. Neanch’essa li può soffrire. Mio fratello l’ha educata bene, ed io non ho avuto da consigliare mutamenti nella sua educazione. Niente preti, miei giovani amici, specie con le donne. Infatti, è ancora per mezzo delle donne che essi comandano nel mondo; sono essi che le hanno educate alla superstizione, e con la confessione, col perdono periodico, le hanno educate alla colpa.

—Ma il perdono è di Cristo.

—Cristo fu un uomo. Come uomo, lo venero, ho un gran rispetto per lui; non senza riconoscere, per altro, che avrebbe fatto meglio ad essere più severo, insegnando per esempio a non fallire con tanta facilità. Ma che si fa la burletta? Col dirci che il giusto cade sette volte al giorno, non si dà la licenza a tutti di cascar quattordici, o ventotto? Per me, dicano quel che vogliono con la teorica del perdono; non conosco che il dovere, io, e so che il dovere è buono.

—Debbo io dirvi tutto quello che penso, generale?

—Ma sì, per bacco. Non lo dico io liberamente, approfittando della vostra licenza?

—Ebbene,—rispose Maurizio,—vi dirò che il dovere è buono, perchè scende diritto diritto dalla legge morale; e la legge morale è Dio.

—Ah, il gran cavallo di battaglia! Ma siete voi persuaso, caro amico, che Dio non sia una creazione dell’uomo?

—Anche la morale, allora.

—La morale,—sentenziò il castellano della Balma,—è l’utilità bene intesa, per cui solamente si conserva questa povera specie uma na. Non fare ad altri quel che non vorresti che fosse fatto a te; fare ad altri quello che vorresti che fosse fatto a te.

—Già, per dare il buon esempio,—replicò Maurizio, sorridendo;—ma gli altri lo seguiranno? ecco il busilli.

—Seguano o non seguano, c’è tutta la morale umana in queste due massime. Conosco degli atei che vi conformano i loro atti assai meglio di tanti credenti.

—Pur troppo, generale, pur troppo. Ma permettete, non scendiamo alle applicazioni; stiamo nel campo dei principii. Fare o non fare, secondo quelle due massime, è facile, ed anche può essere piacevole all’uomo incivilito. Ma come potete voi credere che l’uomo primitivo, l’uomo della selva, facesse ad altri quello che avrebbe voluto che si facesse a sè?—

La domanda piaceva poco al generale; e dalla breve pausa che egli fece prima di rispondere, Maurizio potè credere che l’avversario si trovasse impacciato. Ma non era così; proprio allora il generale metteva in posizione le artiglierie.

—Io non vi parlo dell’uomo primitivo;—disse egli, non potendo trattenere un’alzata di spalle.—Che c’entra qui l’uomo della selva? Buon padrone di aver fatto come gli sarà piaciuto, o tornato più comodo. L’uomo primitivo, per vostra norma e regola, era un antropopitèco. Vi maravigliate di sentirmi parlare con tanta asseveranza di quel grazioso animale? Nel fatto, io non ne so nulla; vi parlo con la scienza alla mano. Ho letto Darwin, mio caro; ho letto Huxley, Buchner, Mortillet, Spencer, tutta la scuola dei liberatori. L’antropopitèco non si è ancora trovato negli strati del terreno terziario; ma si troverà, non dubitate. E una necessità in terra, come certi corpi in cielo, per l’equilibrio del sistema planetario. Nella scala progressiva degli esseri, l’antropopitèco ha il suo posto: animale d’istinti maravigliosi, già dotato di qualche intelligenza, come sono del resto tanti animali meno progrediti di lui, egli ha fatta la sua strada, e nessun calendario gli ha misurato il tempo necessario alla sua legittima evoluzione. Il bisogno lo ha fatto industrioso; l’industria lo ha fatto civile; la civiltà lo ha fatto morale. Vi capacita?

—Eh!—disse Maurizio, stringendosi nelle spalle, mentre in cuor suo si maravigliava forte di trovare sotto la spoglia di quell’uomo d’armi un lettore dei moderni evoluzionisti;—vuol esser dunque morale indipendente, la nostra?

—Non mi spaventano i nomi;—replicò il generale.

—Ebbene,—ripetè Maurizio,—non vi spaventino dunque le mie povere argomentazioni.

—No davvero, sentiamole.—

Qui fu una piccola interruzione nel dialogo. Dall’alto della gradinata, appariva la contessa Gisella, col suo cappellino di paglia in capo, l’ombrello da sole in mano e una borsa ad arma collo, che le dava un’aria graziosissima di pellegrina. La bella signora dagli occhi fosforescenti vide Maurizio, e scese lesta i gradini per venirlo a salutare.

—Vado per affari,—diss’ella, porgendogli la mano.—Spero di ritrovarvi ancora al ritorno.

—Oh, lo troverai;—gridò il generale.—Siamo affondati in una disputa che non finirà tanto presto.

—Di che si tratta?—chiese ella, nell’atto di aprire il suo ombrellino.

—Dell’antropopitèco;—rispose Maurizio, che in verità lo masticava male.—M’immagino che vi sarà noto, questo grazioso tipo di progenitore.

—Ah sì,—diss’ella, sorridendo,—l’unica cosa brutta nella teorica di mio marito.

—Ma necessaria;—soggiunse il generale;—necessaria come un anello nella catena. Se tu mi levi quell’anello, dov’è la continuità dell’evoluzione? dov’è la dottrina?—

Maurizio non aveva da rispondere ad una argomentazione che non pareva fatta per lui. Nondimeno, ne prese appiglio per rivolgere una frase alla contessa Gisella.

—Fortunatamente,—diss’egli,—nessuna dottrina mi farà credere che la contessa derivi da un antropopitèco. Passi per noi ominacci!

—Ed ecco, ora puoi andare, bambina;—ripigliò il generale, mezzo burbero e mezzo faceto.—Il vicino è cavaliere, e il tuo compli mento l’hai avuto. Accettalo come premio anticipato all’opera buona che fai.

—Vado, vado;—rispose la bella signora, avviandosi.—E voi, conte, lasciatevi persuadere. La teorica della evoluzione richiede quell’anello. Ammasso quello, tutto il resto va da sè.—

Ciò detto, si mosse leggera, lasciando la luce del suo sguardo celestiale e la fragranza della sua maravigliosa persona nell’aria. Un istante dopo, era sparita alla svolta del sentiero campestre, per cui soleva venire ogni giorno il signor di Vaussana.

—Vedete quella donna, Maurizio;—disse il generale, continuando ad alta voce un discorso che era venuto facendo tra sè.—Ella è tutta bontà, tutta previdenza per la povera gente. Non c’è tugurio per queste montagne, dov’ella non porti una buona parola, e qualcosa di più, se bisogna. Ha sentito quest’oggi dal prete che è ammalata la moglie del pastore, lassù al Martinetto; e sùbito ha deciso di mettersi in campagna. Il prete non è andato; non andrà che chiamato, per portare tant’olio quanto ne sta sul polpastrello dell’indice, o del medio. Lei porta dell’altro; se le riesce, farà risparmiare al prete la sua trottata, alla chiesa la sua ditata d’olio. E notate, non crede alla morale dei vostri uomini neri.—

Quel «vostri» non era un po’ troppo? Maurizio si sentì toccato sul vivo.

—Che importa?—diss’egli, contenendosi ancora.—Crede alla santità del dovere, alla divinità della compassione, alla immortalità dell’anima umana.

—No, sapete, crede semplicemente alla bontà della vita; obbedisce ad una legge di natura, intendendola un po’ meglio di tanti e tanti. E notate ch’io non ho avuto da istruirla. Era così, quando divenne mia moglie. È una testa forte.

—Permettete ad una testa debole d’inchinarsi;—replicò Maurizio, facendo l’atto per l’appunto.

Ma il generale era avviato, e non voleva fermarsi così presto.

—Ecco,—diss’egli,—ora v’inalberate.

—No, generale.

—Allora, perchè vi tirate da banda, come se voleste uscire dal giuoco? Mi avevate pure promesso una argomentazione serrata!

—Vero, ma siamo stati fortunatamente interrotti; ed ora che ho perso il filo.... Nondimeno, per non parervi battuto e contento, vi dirò brevemente ciò che penso. Voi considerate la morale come l’effetto di una convenzione. Ora la morale per convenzione, dato che possano giungere a stabilirne una dei figli o nipoti di antropopitèchi, sarebbe una morale senza ragione in sè stessa. Vedetene la conseguenza. Se io so che la legge morale non ha nessuna sanzione, che non c’è nessun premio a chi segue, nessun castigo a chi viola la legge, non me ne farò più nè di qua nè di là, baderò al mio interesse, e buona notte al prossimaccio mio.

—Signor Maurizio, i miei complimenti. Fate voi dunque il bene per un premio che ne sperate? vi astenete dal male per un castigo che ne temete?

—No, generale, per dovere; per un dovere che la mia coscienza intuisce. Del resto, ecco già un certo numero di volte che voi mi venite dicendo: il bene. Il vocabolo induce la cosa; la cosa induce l’idea. Perchè si dice il bene? che cosa s’intende di dire, dicendo: il bene? chi mi assicura, se non c’è sanzione alla legge del bene e del male, chi mi assicura che il bene non è il male, e il male non è il bene?

—Il bene è un concetto ereditario;—sentenziò il generale.—Si è visto e riconosciuto a poco a poco l’utile generale, e questo è stato chiamato il bene.

—Sia pure; ma quanto più leggero, sulla bilancia del nostro raziocinio, quanto più debole dell’utile particolare! Infatti, il bene degli altri, ne sia pure ereditario quanto si vuole il concetto, non è in molti casi il mio bene, è spesso il mio danno, il mio pericolo, il mio sacrifizio: e di questo sacrifizio, di questo pericolo, di questo danno io non vorrò a nessun patto saperne.—

Il generale stette un istante sopra pensiero.

—Sentite,—diss’egli poscia,—io non la intendo così: senza badare a questi danni, a questi pericoli, io ho sempre fatto il mio dovere.

—Lo credo, e lo so,—si affrettò a rispondere Maurizio.—Ma questo, con vostra buona pace, non lo avrete fatto per omaggio alla morale indipendente.

—E per che cosa, secondo voi?

—Per avanzo di vecchie idee, generale. Qui davvero il principio di eredità vi soccorre. Avete infatti la eredità di un complesso di conseguenze legittime che l’umanità ha tratte via via da parecchie religioni e da parecchi sistemi filosofici, di cui è vissuta, con cui e per cui è progredita. Ecco perchè uno spirito forte dei nostri giorni può andare avanti, più avanti di molti altri nel sentiero della filantropia, del disinteresse, del sacrificio di sè, immaginando di aver spogliata per sempre la morale della sua antica sanzione. Ma non si andrà molto lontano, io ve ne avverto, non si andrà molto lontano, con questo piccolo viatico. Anche le eredità più vistose si consumano. E la morale indipendente andrà fin che potrà senza Dio; poi, di attrito in attrito, vi sfumerà tra le mani. Temete, mio generale, temete che quando ne avranno assai meno le classi civili, non ne abbiano più affatto le rozze.

—Già, l’argomento politico! Ma non è filosofico.

—Lo so; m’è venuto alla mente, e l’ho aggiunto alla mia dimostrazione. Dopo tutto, la vostra doppia massima del non fare e del fare, è frutto della morale all’antica, non già della morale indipendente che oggi si predica. Tutte le religioni l’hanno per canone indiscusso.

—È di tutte, e perciò non appartiene in proprio a nessuna;—osservò il generale.

—Che importa? Le religioni son sante.

—Tutte? Da parte vostra è una dichiarazione ben grave, signor Maurizio. Per caso, le ammettereste voi tutte per buone?

—Storicamente, perchè no? Nella vicenda delle cose umane sono i varii modi di cercar Dio; e come io credo fermamente che il progresso umano sia a questa condizione di cercar Dio nella vita, così credo che Dio si sia in tutte riconosciuto.—

Il generale diede in uno scoppio così fragoroso di risa da far rizzare la testa al capitano Dutolet, che involontariamente cominciava ad appisolarsi sul canapeino di ferro.

—Che larghezza di comprensione! Lasciatevi ammirare, caro mio. Vi avverto per altro che l’arciprete di San Giorgio non vi assolverebbe.

—Lui no, forse; ma un altro, di qui a cent’anni, sicuramente.

—Possiate voi campar tanto! E credete poi che quell’arciprete del ventesimo secolo riconoscerà l’elemento del divino anche nella religione di Moloch?

—No, egli troverà che quella non era una religione, ma un pervertimento di religione. Le religioni, tra i popoli rozzi, girano facilmente alla superstizione, e la superstizione alla ferocia o alla stupidità sua compagna. Ma questi pervertimenti uccidono una religione nel tempo, come l’edera sgretola il muro a cui si abbarbica; Dio si allontana, e passa in un’altra.

—Chi può saper quando, e come?—esclamò il generale.—Io dico invece: fare il bene, qualunque cosa ne avvenga.

—È da stoici;—rispose Maurizio.—Ma presuppone almeno l’imperativo morale. Perchè faccio io il bene? Per appagare la mia coscienza. Perchè la mia coscienza sceglie la sua felicità nel bene? Per averne un piacere. Ma è un piacere ideale, se il più delle volte porta danno, sofferenza, pericolo, sacrificio e morte. È dunque un ideale. L’ideale suppone l’idea, l’idea suppone un mondo intellettuale che non è quello della cieca natura. Cercate, generale, indagate, troverete Dio necessario.

—Dove? non si è mai visto, ch’io sappia. Nel roveto, forse?

—Nella coscienza, generale. Se ci trovate la contentezza, perchè non ci trovereste la sanzione dell’opera buona?

—Ci penserò; ve lo saprò dire domani.—

Evidentemente, il generale era stanco; e nessuno vorrà dargli torto. Quanto al capitano Dutolet, egli si era addormentato del tutto. Diamo ragione anche a lui.

Capitolo V. Si viene alle grosse.

Maurizio era rimasto un po’ male. Quella improvvisa stanchezza del suo interlocutore poteva significare due cose: o che egli, Maurizio, avesse ecceduto nella difesa delle proprie opinioni, o che il suo avversario, usato al comando in ogni cosa, fosse noiato di sentirsi contraddire.

Che stranezza, del resto, e come Maurizio si era lasciato ingannare dalle apparenze! Egli non avrebbe immaginato mai che quel vecchio soldato fosse un filosofo, che quel moderno gentiluomo campagnuolo avesse voluto ingombrarsi il cervello, asserragliare il suo grosso ateismo con tanto bagaglio di dottrina. Dall’alto di quella barricata il castellano della Balma aveva scaraventato sulla testa di Maurizio i suoi duri sarcasmi, le sue pungenti ironie. Son pure prepotenti questi spiriti forti, come amano gabellarsi da sè! Quando si degnano di disputare con voi, hanno sempre l’aria di compatirvi.—Ma come? anche voi, con queste idee di cent’anni fa? Ma questo è risaputo; ma questo è fritto e rifritto; ma questo è già stato ribattuto, polverizzato, annientato. Il mondo cammina, che diamine! In che grotta a mezza strada vi siete fermato a dormire? lasciatele al volgo, queste anticaglie; lasciatele alle donnicciuole, per bacco!—

Il volgo, si sa, è tutta quella gente che non importa istruire, che è bene lasciare nell’ignoranza, per utile suo, e nostro, per non accrescere il numero degli spostati, come oggi si dice, o degli spostatori, come forse si pensa. Le donnicciuole, poi, sono le loro madri, e le loro mogli; se occorre, saranno anche le loro figliuole e le loro nipoti. Gli spiriti forti non si abbassano; deridono o sorridono, secondo i casi e gli umori; ma passano sopra, gloriosi della loro dottrina, o di quella del sapiente di rimpetto; il quale sarà vissuto magari nel sereno disprezzo di ogni ubbìa metafisica, di ogni «concrezione ereditaria», ma poi sarà morto ascritto, per via di transazione, a qualche chiesa protestante, oppure, senza mezzi termini, col prete al capezzale e con al collo la medaglia benedetta dal papa. «Rammolliti», si capisce; tutti rammolliti, gli spiriti forti che non durano tali fino all’ultimo. Perciò vien di moda il premunirsi contro queste defezioni dell’ultim’ora, dichiarandole anticipatamente debolezze della nostra povera fibra.

E questo è poco male, finalmente; anzi non lo sarebbe affatto, a considerare le cose con ispi rito di libertà. Ma il guaio è che questa divisione di spiriti forti e di spiriti deboli ha ridotto il nostro mondo civile ad una ben malinconica convivenza di due società, tra le quali è stretta unione d’interessi, di affetti, di consuetudini, e un gran vuoto per tutto il resto, che è poi la vita intellettuale, la vita morale delle anime. Donde avviene che questo povero mondo civile vada così barcollando alla sua meta misteriosa, come gli ubbriachi a casa loro, non indovinando più l’uscio, e tante volte neanche la strada.

Tra il signor Maurizio e il castellano della Balma si era fatta la pausa un po’ lunga. Il terzo, che sonnecchiava così bene sul piccolo canapè di ferro, ne era stato svegliato in soprassalto, come avviene in istrada ferrata al fermarsi improvviso del treno. Il capitano Dutolet aveva aperto un occhio, poi l’altro, ed era rimasto lì trasognato a guardare, mezzo intirizzito, mentre Maurizio si tormentava i baffi, e il generale, per occupare in qualche modo il silenzioso intermezzo, cercava di accendersi un sigaro.

Il signor di Vaussana se ne sarebbe andato assai volentieri, levando anche d’impiccio il suo avversario. Ma un pensiero lo tratteneva. La contessa Gisella gli aveva detto di aspettarla. E forse aspettarla era male. Ritornando, la signora avrebbe trovato il marito di cattivo umore, tanto nervoso da non lasciar passare il menomo complimento, da veder tenerumi, smancerie, sve nevolezze in ogni discorso. I mariti in collera son tutti così, bestie feroci; e guai ad essere graziosi, cortesi, galanti, quando essi hanno le sopracciglia aggrondate.

Andarsene, dunque, scegliendo tra i due mali il minore? Sì, ma per qual via? Anche nella scelta della via c’era il pericolo, per un verso o per l’altro, di urtare i nervi al signor generale. Se andava per il gran viale, non poteva il castellano domandare che novità fosse quella? Le novità dànno sempre materia a pensare. Se andava per la strada del bosco, non si poteva credere che l’avesse scelta per combinar laggiù la contessa Gisella, che appunto di là era andata e di là sarebbe tornata?

Noiosa condizione di un uomo messo lì a dibattersi tra la stizza e le convenienze sociali! Ed ecco i bei resultati delle discussioni. Ma egli, in fin dei conti, se era stato vivace nella espressione del suo pensiero, non aveva neanche trasmodato, e a quella vivacità era stato spinto dal tono sarcastico del signor generale. Dal fondo dell’anima non gli traluceva forse il pensiero di canzonare Maurizio per la sua fede? Ora uno spiritualista, un credente, deve esser tanto più sincero, in quanto che troppa gente, che crede, par quasi che si vergogni di confessarlo davanti agli spiriti forti. Egli non aveva da parlare come un teologo, non avendo studiato teologia; ma da filosofo non materialista, nè scettico, doveva egli, per ottener grazia dal suo contradditore sarcastico, dare addosso a quelle credenze in cui sono stati educati i nostri padri, e in cui saranno ancora educati i nostri figliuoli?

Più ci pensava, e più si persuadeva di non aver niente a rimproverarsi. Quanto al generale, facesse il broncio fin che voleva. A un certo punto, se il silenzio fosse durato dell’altro, Maurizio avrebbe guardato l’orologio, fatto un gesto di terrore e parlato del solito appuntamento che cava gli uomini da una posizione difficile. Ma grazie al cielo non fu mestieri di bugie; la contessa Gisella appariva dal sentiero del bosco. Era un pochino affannata dalla corsa, e accesa in volto più dell’usato; ma il color delle rose le tornava bene come quello dei gigli. Venne innanzi leggera, saltellante come una bambina, sorridente come l’aurora. Non era un complimento, non una esagerazione il dire che con lei ritornava la luce. Che bella cosa una bella donna! C’è chi la preferisce al telegrafo e alle strade ferrate. Io all’invenzione della stampa. E voi?

Il generale parve gradir molto l’arrivo di sua moglie. La contessa giungeva opportuna a rompere quella scena muta.

—Già finita la discussione?—domandò ella, avvicinandosi al crocchio, che per verità non appariva troppo animato.

—Sì,—rispose Maurizio, inchinandosi.

—E siete battuto?

—Non so; forse.... e senza esserne persuaso. Tutti i vinti sono così;—soggiunse egli, sorridendo;—non vogliono mai convenire della loro disfatta.

—Ti avverto, mia cara,—entrò a dire il generale, con la sua grossa voce ancora gonfia di stizza,—che il signor di Vaussana ha finora il vantaggio. Questo sia detto per la verità.—

Non era molto; ma era già qualche cosa. Maurizio colse il buon punto per esser cortese a sua volta.

—In omaggio alla verità,—riprese egli,—diciamo che voi mi avete promesso di pensare a certi argomenti miei. Potete vincermi ancora; le sorti della battaglia sono dunque indecise. E la vostra ammalata, contessa?

—Ah, la povera Biancolina? Febbre, signor Maurizio, gran febbre, e complicata di miseria. Le disgrazie piovono addosso ai Feraudi con un accanimento strano. Son già debitori di un semestre al Pinaia, il potentissimo fornaio e pastaio di San Giorgio, un proprietario con cui non si scherza, a quanto pare; e una mucca è morta improvvisamente nella settimana scorsa, e l’altra ha il latte cattivo. Il marito è filosofo, e pensa, guardando in aria; la moglie, rovinata dallo stento, ha dovuto mettersi a letto. Sapete voi, quando una povera donna dei campi si mette a letto, che cosa vuol dire? che la casa resta senza governo, i piccini senza zuppa, le bestie senza strame, e tutto il resto in con seguenza. Vedete che compassione! Ho aiutato come ho potuto; ma finora, più che altro, con le buone parole. Intanto ci vorrà il medico, e manderò subito a cercarlo.

—Permettete che lo cerchi io, discendendo in paese;—disse Maurizio, con accento premuroso.—Tra mezz’ora egli potrà essere lassù al Martinetto.

—Grazie, accetto l’offerta;—rispose la contessa.—Io penserò invece a mandar brodo e qualcos’altro a quella poveretta.—

Maurizio non la conosceva neanche di vista, l’ammalata del Martinetto. Il Feraudi, marito filosofo, lo aveva appena veduto qualche volta pascolar le sue bestie sui greppi, tra il Martinetto e la Balma. Pure, si mostrò addolorato per le disgrazie di quella povera gente: ed anche ne fu consolato, pensando che la sua conversazione andava lontana le mille miglia da ogni pericolo di galanteria. Il generale, del resto, a poco a poco aveva spianate le rughe, e si degnava di mettere qualche parola nel dialogo. Maurizio gli rivolse il discorso, temperatamente, placidamente, come se nulla fosse avvenuto.

Frattanto doveva prendere commiato, avendo fretta di andare pel medico.

—Bravo, correte;—gli disse Gisella con quella stessa amabile sollecitudine che avrebbe usata in altre occasioni per trattenerlo ancora un poco alla Balma.—Immagino che il dottore conosca la strada.

—Se non la conoscerà gliela insegnerò io, che ho i miei monti.... sulla punta delle dita.—

Gisella gli porse la mano. La stretta era sempre stata amichevole, come dev’essere lo shake hand, dal giorno che l’Inghilterra lo ha diffuso per tutto il mondo civile. Ma quella volta fu confidente, fraterna, come di due persone che hanno conchiuso un patto. Non erano essi associati oramai da un’opera di carità?

—Se avete notizie, ce le porterete domani, non è vero?—disse Gisella.

Anche il generale brontolò un arrivederci. Il capitano Dutolet, detto il buon ragno, ed anche, aiutando il suo nome di battesimo, Guglielmo il taciturno, abbozzò un sorriso ed una parola di due sillabe almeno. Maurizio si avviò spedito, e scese quella volta dal gran viale. Per quella novità ci era una ragione evidente: il medico abitava per l’appunto in principio del paese, cioè verso le falde del poggio su cui sorgeva il castello della Balma.

Il medico fu presto ritrovato, e con le più calde esortazioni spedito, subito al Martinetto, di cui fortunatamente conosceva il sentiero. Maurizio lo accompagnò per un tratto, facendo raccomandazioni. Quando il discepolo d’Esculapio fu di ritorno, lo trovò ancora sulla sua strada, desideroso di notizie. Aveva trovata la febbre, difatti, e piuttosto forte, più vicina ai quaranta gradi che ai trentanove. Ma egli si era trovato in caso di dare il rimedio, senza il bisogno di scendere alla farmacia per la ricetta: preveduto il bisogno, la contessa aveva lasciata lassù una parte della sua cassettina di medicinali, ed egli aveva potuto somministrar subito una dose della inevitabile antipirina. Più tardi avrebbe somministrato il chinino, se quella febbre si fosse mostrata ribelle. Ma che febbre era? Reumatica, diceva il dottore, e colpiva un organismo intaccato dalla grama vita; occorreva riposo, per intanto, ed una miglior nutrizione: due cose che al solito non sono alla mano dei poveri.

Più tranquillo da quel lato, Maurizio ripigliò la via del paese. Sulla piazza gli venne veduto il Pinaia, che stava seduto a prendere il fresco sull’uscio della sua bottega. Mentre il fornaio si alzava a mezzo, per fargli di berretto, un’idea passò veloce per la testa a Maurizio. Sì, certo, bisognava associarsi alle buone opere della contessa Gisella. Chiamò il fornaio e lo condusse in disparte, entrandogli subito del caso di quella povera gente. Ah, sì, povera gente! rispondeva il Pinaia, che da quell’orecchio era un po’ duro. Gli erano debitori d’un semestre, e maturato da un pezzo; ancora un po’ che aspettasse, gli sarebbero stati debitori di tutta l’annata, cinquecento lire, a non contare l’interesse della moneta. E non c’era verso di spillar loro un centesimo. Ma quella povera mucca morta! ribatteva Maurizio; l’altra col latte guasto, che non si poteva farne nulla; e la moglie ammalata! Tutte scuse, tutti pretesti. La mucca era morta da cinque giorni, se mai, e il semestre lo dovevano da due mesi. L’altra mucca aveva il latte guasto, ma si aspettava un vitello. Quanto alla moglie ammalata, vecchia storia! Già altre volte s’era ammalata, la bella Biancolina; e sempre alla scadenza del semestre, per impietosire il padrone. Ma lui non ci cascava più, no davvero. Una morte, aver terra al sole; d’allora in poi, quando avesse quattro soldi di costa, voleva metterli in rendita dello Stato; e calasse poi quanto voleva; ci avrebbe sempre risparmiato di più, che a farsi mangiar vivo dai contadini. Brutta razza, i contadini; astuti, furfanti di tre cotte, sempre lì a piangere miseria, coi gruzzoli di marenghi nel saccone.

Maurizio era lì lì per domandargli:—E voi, Pinaia, di che razza siete disceso?—Ma non volle aver due litigi in un giorno, cascando dal generale al fornaio. Si contentò in quella vece di dirgli:

—Sentite, Pinaia: quella gente mi preme. Può esser vero quel che voi dite; può anche non esser tale, e in questo caso io avrei rimorso di non essermi interessato per le loro disgrazie. È giusto nondimeno che abbiate il fatto vostro, aggiustiamola così: se non pagheranno loro, pagherò io.

—Quand’è così, non parlo più, e al Martinetto, non domanderò più un quattrino.

—No, non correte tanto;—disse Maurizio, che già temeva di parergli troppo generoso.—Volevo dire che vi sto garante, sicuro come sono che pagheranno.... entro il mese.

—Non me ne parli; non posso aspettar tanto le buone grazie del Feraudi. Passerà il mese e non avrò nulla; ci metterei la mano sul fuoco, tanto ne sono sicuro. Se devo aspettare il mio denaro da Lei, passi tutto il tempo che Le piacerà, signor conte.

—Ah no, questo, no; io non ho l’uso di farmi far credenza;—disse Maurizio, alterato.—Sono dugento cinquanta lire, avete detto? Eccole qua;—soggiunse, mettendo mano al portafogli.—Voi me le restituirete, appena il Feraudi vi avrà pagato.—

Il denaro è sempre buono a prendersi. Mastro Pinaia allungò la mano.

—Le faccio la ricevuta, signor conte. Se ha la bontà di aspettarmi un minuto....

—No, a vostro comodo, Pinaia. Me la manderete domani. E grazie, non è vero?

—Lei è troppo buono, signor conte;—rispose mastro Pinaia, facendo le viste di non aver capita l’ironia.

—Sia pure;—rispose Maurizio, che voleva mostrare di aver capito il complimento del fornaio arpagone.—Ma vi pregherò di non ridirlo a nessuno. Non vorrei che mi metteste sulle braccia tutti i debitori morosi di San Giorgio. Il povero Castèu e quella poca rendita che mi fa vivere ci passerebbero in un mese.

—Lei ha ragione a tener poca terra, signor conte;—conchiuse il fornaio.—Anch’io, nel mio piccolo, voglio far come lei. Tutta rendita, tutta rendita dello Stato vuol essere.—

Nauseato del fornaio arpagone, ma contento altrettanto di sè, Maurizio prese la via del Castèu. I suoi libri, quella sera, lo trattennero lungamente a pensare.—Quanta roba!—diss’egli, passando i suoi scaffali in rassegna.—E buona e cattiva; ci sono armi per tutti. Ed anche la buona diventa cattiva, per chi se ne serve alla rovescia, senza paragonare, senza mettere a contrasto, senza far la parte delle conclusioni frettolose.—

Quella, notte portò in camera un volume del suo Cournot: Matérialisme, Vitalisme, Rationalisme, ed anche, per riscontrare alcune preziose citazioni, Les Origines del Pressensé. Buoni libri erano quelli. Anch’egli aveva avuti i suoi dubbi; anch’egli aveva tratte le frettolose conseguenze dallo studio di certi fenomeni naturali, di certe teoriche evolutive; quei libri, insieme coi suoi trattati di astronomia, e con gli studi fisiologici del Pasteur, lo avevano ricondotto in carreggiata. Ed anche aveva vedute certe conclusioni di Herbert Spencer a proposito dell’inconoscibile, certe confessioni dello Stuart Mill a proposito della creazione, donde gli era apparso il dubbio del dubbio, cioè a dire la modica fede di quei grandi maestri del pensiero moderno intorno alla sal dezza dei loro proprii sistemi. Infine, aveva ragione lui. È giusto, è desiderabile che la scienza positiva, che dubiti di tutto, che tutto rimetta in discussione e sottoponga nuovamente ad esame, distruggendo, ma col proposito di riedificare. Così era avvenuto in materia d’antichità, per la storia delle origini Romane, che dopo aver negato ogni fede a Tito Livio e a Dionigi d’Alicarnasso, si ebbe ancora ricorso a quei due disgraziati, perchè aiutassero a rimettere in piedi il loro edificio crollato.

Il giorno seguente, all’ora solita, forse qualche minuto dopo, anzi che prima, il signor di Vaussana rifece il gran viale della Balma. Perchè il gran viale e non il sentiero del bosco? Mah.... non indaghiamo certi arcani del cuore. Quel giorno egli andava un pochettino come la biscia all’incanto, lassù. Ma era necessario; aveva promesso alla signora. E fors’anco il generale si era mutato da quello del giorno innanzi. Ma no, sarebbe stato un miracolo; e Maurizio, con tutta la sua fede, non credeva ai miracoli.

Per dargli ragione, quel giorno il signor generale era aggrondato. Stava giocando a picchetto col capitano Dutolet; forse perdeva. All’arrivo di Maurizio si degnò di smettere il giuoco; facile sacrificio per coloro che pèrdono. La contessa Gisella stava ricamando, accanto alla finestra.

—Grazie;—gli disse ella, appena lo ebbe veduto comparire.—Il dottore è già stato tre volte al Martinetto; due ieri, e una stamane. La nostra ammalata va discretamente. C’è anche una donna del paese per aiuto. L’avete mandata voi?

—No, signora; ma ne avevo parlato al dottore, ed egli avrà provveduto.

—Siete dunque voi egualmente. Così i piccini son governati, e l’inferma è tranquilla; grazie ancora.—

Il generale stava in contemplazione davanti a sua moglie. Maurizio, per non aver aria di parlar sempre con lei, gli rivolse il discorso.

—Ebbene, generale, ci avete pensato?—

Il generale fece il gesto dell’uomo che non si ricorda alla prima; poi, dopo una spallata, rispose:

—No caro, non ho voluto perdere il mio tempo.—

La risposta era dura, ed anche ruvida parecchio. La contessa alzò gli occhi attoniti, per guardar suo marito. Ma egli in quel punto non guardava sua moglie, e non colse al volo quell’occhiata di rimprovero. Maurizio balenò un tratto, non sapendo che rispondere. E forse non era da risponder nulla; forse il generale non si sentiva bene quel giorno, ad onta del suo fiorente aspetto, della sua pelle vermiglia. Il tempo non era neanche buono; certamente gli dava ai nervi il vento di mare, così molesto, così uggioso in montagna, dove giunge sempre con un gran corteggio di nuvole.

Ci fu un altro silenzio tra i due, ma non così lungo come quello del giorno innanzi. Il generale non aveva veduto, ma certamente aveva sentito o indovinato lo sguardo di sua moglie; perciò credette necessario di ripigliare il discorso, e per salvare le apparenze, ed anche per tirare le somme.

—Noi siamo, signor di Vaussana, due edificatori di piramidi. Voi vorreste che io fabbricassi la mia coi vostri materiali. Vi ringrazio, ma non ne ho bisogno. Costrutta coi miei poveri mattoni, la mia si regge, come la vostra col suo vecchio granito. Segno, per uscir di metafora, che i nostri sistemi sono due rispettivi concepimenti del nostro spirito. Vi ricorderò a questo proposito ciò che ho sentito dire un giorno a Parigi da una gran dama russa, a cui si domandava in che consistesse la vantata ortodossia della religione sua, che era, dopo tutto, scismatica: « l’orthodoxie c’est ma doxie à moi; l’étérodoxie c’est votre doxie à vous ». Voi con le.... opinioni del passato siete ortodosso; io sono tale con quelle del presente, e trovo nella teorica del Laplace, come nelle esperienze di Carlo Darwin e nelle dimostrazioni dell’Huxley, una spiegazione sufficiente dell’universo. La materia eterna e la legge immanente nella materia mi dànno ragione di tutto. Sto coi matematici, poi, e non moltiplico gli enti, che mi farebbero doppio e mi porterebbero ingombro. Ho detto, e vi saluto. —

Poteva essere una chiusa faceta, o mostrava almeno l’intenzione di parer tale. Ma sicuramente ce ne potevano esser di serie, che non lasciassero tanto amaro nell’anima. Del resto, a mostrare che quell’intenzione non c’era, il generale fece una giravolta sui tacchi, e se ne andò via zufolando.

—Ettore!...—mormorò la signora.

Ettore si voltò, all’accento di rimprovero d’Andromaca; si voltò, ma era già in fondo al salotto.

—Ma sì,—gridò egli, stizzito,—che ci vuoi fare? Bisogna bene finirla così, una discussione come la nostra, che è già stata fatta un milione di volte, senza riuscire a nulla di nulla. Sono curiosi, questi nostri amici italiani, con la loro fede incrollabile! È un vizio di razza, lasciatevelo dire, signor di Vaussana, è un vizio di razza.—

Si andava di male in peggio. Maurizio durò una fatica inaudita a contenersi. Ne venne a capo, guardando i capelli bianchi di quel diavolo d’uomo; poi, con voce un po’ stridula, quasi sibilante, ma col sorriso sulle labbra, si contentò di rispondere:

—Ed è per guarircene, che delle nazioni civili si studiano di restituire la nostra capitale alle condizioni di Benares, la città santa dell’India.—

Il generale non ascoltava già più; usciva dal salotto borbottando.

La contessa aveva chinata la faccia sul suo telaino, nascondendo la ciglia. Quando le alzò, Maurizio c’intravvide una lagrima, e si turbò fortemente. Dopo un istante di pausa, guardò l’orologio.

—Sono le quattro,—diss’egli;—debbo partire.

—Già?—mormorò la contessa.

—Signora,—rispose egli ad alta voce, tanto che potesse udirlo il capitano, che stava nel vano dell’altra finestra, leggendo un giornale,—ero venuto per voi, volendo darvi notizie della commissione che mi avete affidata. Ora ho qualche cosa da fare. Forse dovrò anche assentarmi per qualche giorno.

—Ah!—diss’ella, guardandolo negli occhi.

—Sì mia signora, una corsa fino a Genova. Non si lascia il servizio da un giorno all’altro, come ho fatto io, senza che resti qualche faccenda da terminare. Aspetto oggi stesso una lettera; se non la ricevo, dovrò partire domattina per tempo.—

La contessa Gisella lo guardò ancora, poi chinò gli occhi e la fronte, in atto rassegnato.

—Se non ci vediamo, buon viaggio, signor Maurizio, e possano tutta le cose andare secondo i vostri desiderii.—

Una stretta di mano, lunga e forte, disse a Maurizio ch’egli era stato compreso, e ch’egli aveva ragione.

Capitolo VI. Sulla montagna.

L’alzata d’ingegno dell’orologio e dell’appuntamento, già vecchia di ventiquattr’ore, ma non adoperata lì per lì, era tornata in buon punto alla mente di Maurizio. Se non l’avesse avuta a mano dal giorno innanzi, certo, scombussolato com’era dalla sgarbatezza del signor generale, non sarebbe riuscito a trovare una gretola. In quella vece, fortunato lui! una bugia preparata tirandone un’altra, quella del viaggio necessario, il signor di Vaussana si ritrovò più presto che non pensasse fuori dell’uscio. Troppo forte, per verità, la sua disperata invenzione, seguita da quella rapidissima fuga. Egli oramai poteva credere fermamente di essere stato per l’ultima volta alla Balma. Infatti, se ne partiva sdegnato, palesemente sdegnato, senza aver preso congedo dal padrone di casa. Ma sì, proprio ci sarebbe voluta l’altra umiliazione di andare ad ossequiare quell’orso bianco! La canizie va rispettata, non si nega; ma ella non pretenda che uno si avvilisca ancora davanti a lei, perdendo il rispetto di sè medesimo.

Maurizio era feroce, uscendo dalla vista del castello. Nondimeno, facendo a gran passi il viale, cercò di padroneggiarsi. A lui marinaio, ed avvezzo agli amari bocconi della disciplina di bordo, la cosa non doveva esser difficile. Ne venne a capo, specie al Castèu, quando gli fu necessario rimanere un paio d’ore, a pranzo, con la sorella Albertina, e davanti alle persone di servizio. Ma la sua tranquillità apparente lo abbandonò, quando egli fu solo nelle sue stanze. Quel generale, che uomo! un vero pazzo da catena. Ed era lui che aveva sentenziato non doversi mai discutere di politica nè di religione, tra uomini? Ma perchè mai c’era cascato in quel modo egli stesso?

Un sospetto s’affacciò alla mente di Maurizio; il sospetto che tutta quella arrabbiatura a freddo fosse stata un pretesto. Se così era, l’orso bianco della Balma poteva anche passare per un uomo di spirito. Ma ugualmente per un uomo avveduto? Maurizio fece il suo esame di coscienza con tutta sincerità. Egli ricordava benissimo di non aver mai detto niente alla contessa Gisella che potesse destar gelosia nel marito. Le sue galanterie erano sempre state di quelle che sono permesse, anzi comandate in società, sotto pena di passare per ignoranti o per ipocriti. Neanche c’era stato il caso di coglierlo in flagrante di lunghe occhiate, di mute adorazioni; quel covare una donna con gli occhi, che alle volte è peggio del farle una dichiarazione, non si poteva certamente rimproverare a lui, che non ne aveva mai avuto il costume, e dal suo riserbo non aveva avuto neanche ragione di dipartirsi alla Balma. La contessa della Bourdigue gli era apparsa bella, anzi bellissima: più bella del vero l’aveva definita dentro di sè, ridendo della sua propria scioccheria. Ma le bellissime donne comandano più ammirazione che non ispirino amore; e l’ammirazione è stato d’animo che non suole durar molto. Si è sgomentati, oppressi, annichiliti da un tale eccesso di bellezza, che non par naturale; e si cerca di sfuggire più presto che si può a quel senso di pena. In lui, del resto, al senso della ammirazione artistica, era sottentrato il rispetto, e al rispetto l’amicizia, quanta può esserne tra un uomo e una donna, ma certamente un’amicizia leale. Provava accanto a lei un sentimento di pace ineffabile; e questo non si poteva scambiare per un sintomo d’amore, no certo. Aggiungete questo: un giorno, involontariamente, come vengono spesso i cattivi pensieri, gli era passato per la testa che ci fosse qualche cosa tra la signora generala e quel buon ragno del capitano Dutolet; e, notate un importantissimo segno, non ci aveva sofferto; solamente si era accontentato di osservare, molto filosoficamente, che tutti i gusti son gusti. Dopo tutto, quella bellissima donna non aveva sposato il generale? non lo aveva voluto lei, il suo zio e tutore, che la precedeva di oltre quarant’anni nella marcia forzata dell’esistenza?

Quanto a sè, conchiudendo, Maurizio non vedeva niente di cui potesse chiamarsi in colpa. Ma proprio niente? E perchè, ad esempio, quella gioia profonda, intensa, che lo aveva tutto penetrato, ad una certa stretta di mano, lunga e forte? Dio mio, era la gioia dell’opera buona in cui erano associati. E perchè quella compassione tanto viva per la miseria dei Feraudi? Gli dovevano premer tanto, i contadini del Martinetto? Gli uomini, di solito (e si parla dei buoni, dei caritatevoli) se la cavano con una abbondante elemosina. E in questa categoria di larghezze spensierate poteva entrare, mettendoci un po’ di buona volontà, il regalo di dugento cinquanta lire al fornaio di San Giorgio. Ma l’ardore, la furia con cui si era adoperato per quella povera gente, come s’avevano da intendere? Qui il signor Maurizio rimase un pochino dubbioso. E quel dubbio gli fece male. Lui innamorato? lui, che aveva giurato di non lasciarsi cogliere mai e poi mai?... Superficiale per deliberato proposito nelle sue relazioni, leggero e volubile per la stessa qualità della scelta, il brillante ufficiale di marina aveva fin allora saputo conciliare la incostanza del cuore con la probità del carattere, non turbando la pace di nessuno, nè la sua. Se di punto in bianco egli si era tanto mutato, il generale aveva avuto ragione ad insospettirsi; si era dimostrato un uomo avveduto, e insieme di spirito, cogliendo quel pretesto della discussione filosofica per le varsi un importuno dai piedi. Ma perchè andarlo a cercare, l’importuno, che non era e non voleva esser tale? Perchè, avuta la prima visita, si era ostinato a voler la seconda, la terza, e via via fino alla ventesima, o giù di lì? Eterna istoria! così fanno tutti, quando si fidano. Si annoiano di esser soli, e cercano compagnia; poi non si fidano più, e d’essere accompagnati si seccano.

Tutto questo ragionamento, se ragionamento può dirsi un simile annaspìo, riusciva a confonderlo sempre più. Frattanto, non sarebbe più ritornato alla Balma; nè, per un certo numero di giorni, avrebbe dovuto pensare al poi. Aveva annunziato un viaggio: quel viaggio bisognava farlo, non foss’altro per muoversi, per isnebbiarsi il cervello. E non già, come aveva detto, la mattina per tempo; ma più tardi, nella giornata, alla vista di tutto San Giorgio, partì per Ventimiglia: giunto là, non volse per Genova, dove non aveva niente da fare, sibbene per Nizza, dove almeno era sicuro di non incontrare amici e conoscenti che gli entrassero della sua dimissione; argomento molesto, e tanto più allora, che di quel colpo di testa incominciava a pentirsi.

Nizza era bella, e Maurizio non voleva negarlo, dopo averlo riconosciuto tante volte. Ma era vuota, Dio santo, fredda e senza luce; il mare d’inchiostro; la via della Stazione un deserto; il Castello un catafalco; la passeggiata degli Inglesi un mortorio. Così tingiamo noi le cose del colore dell’anima nostra. Maurizio si crucciò a Nizza due giorni; il terzo non ci potè più resistere, e allora se ne ritornò a Ventimiglia, ripartendo per San Giorgio in modo da arrivarci nella notte, due ore prima dell’alba, quando tutti dormivano. Dunque innamorato a buono? E dopo essersi messo da sè fuori del paradiso? Sì, gli bisbigliava un demone all’orecchio, sì, come un vero collegiale. No, rispondeva una voce dal fondo dell’anima, come un onest’uomo.

E si chiuse nelle sue stanze, risoluto di lavorare. Avrebbe desiderato di vedere il medico, per sapere qualche cosa della povera Biancolina; ma volle resistere a quel desiderio morboso, non amando lasciarsi vedere in paese. Sapessero poi, o non sapessero, ch’egli era tornato; l’essenziale era di non mettersi in mostra, e di poter dire più tardi dei fatti suoi quel che gli fosse piaciuto. Del resto, se lassù credevano ch’egli fosse in paese, tanto peggio per chi gli aveva usato villanìa: si sarebbe capito, dopo tutto, ch’egli aveva dovuto provvedere in qualche modo, fosse pure con una bugia alla tutela della sua dignità.

Questo medesimo pensiero, cresciuto e fortificato nell’anima sua, gli consigliò dopo qualche giorno di rompere la volontaria clausura. Gli pesava il vivere da schiavo. Schiavo di che, finalmente? Uscì, dunque, ma non per andare in paese: si trafugava di buon mattino dall’uscio dei campi, muovendo spedito verso la montagna. Non si arrisicava dalla parte dell’Aiga; andava dal lato opposto, verso la Sisa, una balza indiavolata, più fatta per camosci che per uomini. Di lassù, dopo due ore di marcia, si scopriva molto orizzonte; inoltre, si vedeva ancora il Martinetto, e più in là, sull’ultimo sporto della costiera boscosa, il castello della Balma.

Nella sua prima ascensione Maurizio aveva portato con sè, da previdente alpinista, il suo binocolo a tre lenti, per campagna, teatro e marina. Ma la vista di lassù era così stupenda per lontananze preziose, che quel piccolo strumento ottico non gli parve bastante. Immaginate voi se non avesse ragione, essendogli occorso di vedere là in fondo, dalla eminenza della Balma, apparire una figura di donna. Poca cosa, per verità; come una chiazza di bianco sul verde, ma su quel bianco una macchia di rosso vivo, che gli rammentava un certo ombrellino. La piccola apparizione muoveva snella verso tramontana; non si vedeva più; si ritornava a vederla; pareva venisse alla volta del Martinetto, poichè non scendeva, nè andava più alta d’una certa zona del bosco.

Maurizio aveva riconosciuto Gisella, e il cuore gli aveva dato un sobbalzo. Si era affrettato a fissare il momento, guardando l’orologio: erano le dieci in punto. La vide così apparire e sparire tre o quattro volte, secondo le sporgenze e le insenature della costiera; poi più nulla, e passò un’ora senza luce; ma dopo quell’ora, sì, no, sì, lei ancora, avviata verso mezzogiorno, per ritornare al castello. Ma era quotidiana, la gita? Il cuore diceva di sì; l’osservazione confermava la divinazione del cuore.

Il giorno dopo, infatti, la graziosa apparizione si ripeteva, alla medesima ora; e questa volta non era più un punto bianco e rosso: era una figura intiera e distinta, veduta come se fosse a cinquanta passi da lui. Maurizio aveva lasciato a casa il binocolo e portato con sè un canocchiale di bordo, specie di telescopio, a tubi scorrenti l’uno nell’altro, per modo che non facesse ingombro tra le mani, nè fosse difficile portarlo ad armacollo. Ah, come la vedeva bene, oramai, la bellissima tra le belle! Graziosa nelle movenze, leggera nel passo, vestita di bianco, ma con certe screziature di rosso; i due colori che le piaceva di accoppiare nel suo vestiario, e che andavano a maraviglia con quella sua figura giovanile; rosso il nastro del suo cappellino di paglia, rosso l’ombrellino che si spandeva come il calice di un bel rosolaccio sulla sua testa dorata; così vedeva egli Gisella, così aveva l’illusione d’esserle ancora vicino.

Tutto ciò dava ogni giorno due ore di occupazione a Maurizio; pensare a quelle due ore, aspettarne il ritorno, erano giocondi uffizi per lui. E senza fallire al suo debito di onest’uomo, perchè amare è permesso, anche quello che non ci appartiene, quando si ami da lontano, come si ama una stella, seguendone il corso nello spazio.

Sempre alle dieci del mattino la vedeva comparire, per tre giorni alla fila. Il quarto giorno gli prese una matta voglia di sapere che cosa accadesse lassù al Martinetto. Andandoci di buon mattino e ritornando prima delle dieci, non c’era pericolo che incontrasse Gisella. Così tranquillo su quel punto capitale, uscì di casa muovendo verso l’Aiga; di là, senza procedere più oltre verso la Balma, salì la montagna per raggiungere la cascata superiore, quella che veramente prendeva nome dal Martinetto.

La gran massa d’acqua scendeva giù per una piega naturale del monte, che essa aveva aiutato a rendere più profonda, nella notte dei secoli: veniva di molto lontano, e Maurizio, che pure da fanciullo aveva corsi e ricorsi quei greppi, non ne conosceva la scaturigine. Questo egli rammentava, che l’acqua attraversava un gran prato, uno di quei prati alpini così verdi, vestiti qua e là da ciuffi di rododendri, e che all’estremità di quel prato si rovesciava giù da una rupe. L’accoglieva una prima conca, poi una seconda, da dove ribollendo e spumando s’inabissava a forse quaranta metri più sotto, venendo a far girare la ruota di un mulino poco sopra il paese di San Giorgio. Per quel mulino, naturalmente, era troppa; ne bastava una derivazione, ottenuta dall’arte: e il canale che serviva al mulino, e il resto della cascata, si ricongiungevano a poca distanza dal Castèu, per venire a traversare il paese, e far pensare di tanto in tanto ai suoi abitanti che una simile ricchezza d’acqua si sarebbe potuta sfruttare benissimo, impiantando a San Giorgio uno stabilimento idroterapico, che sarebbe stato il decoro della valle e la fortuna di cinquecento famiglie, a dir poco.

Lo stabilimento idroterapico è la solita storia con cui si va guastando, magari in sogno, la cara poesia della montagna, tirando lassù, insieme coi nostri acciacchi, le nostre malinconie, le nostre miserie fisiche e le nostre miserie intellettuali. Per fortuna, non ci son sempre i capitalisti lì pronti per tradurre i sogni in realtà.

L’Aiga, nondimeno, aveva trovato in altri tempi il suo capitalista, uomo pratico, che era salito su quella balza a impiantarvi un martinetto. Si chiamava, e tutt’ora si chiama con questo nome, nelle regioni montuose dell’Italia superiore, il maglio delle ferriere; donde avevano spesso il nome di martinetto le ferriere medesime. Mosso ordinariamente dalla forza dell’acqua, il martinetto battendo sull’incudine la ferraccia arroventata, la modellava via via, la spianava, la stendeva, la foggiava in ispranghe, per uso dei fabbri. Innanzi la scoperta del vapore e il minor costo delle sue applicazioni, erano i martinetti assai più numerosi; e per foggiare il ferro, come per lavorare nelle cartiere e nelle gualchiere, ne sorgevano dovunque scorresse un bel volume d’acqua perenne. Ma generalmente oramai, e più per il ferro, i martinetti ad acqua han persa la lite: dove la scarsezza progressiva, del combustibile necessario all’arroventatura, dove il rinvilìo del minerale del ferro e la concorrenza delle migliori qualità hanno dato la prevalenza alle ferriere dell’Europa settentrionale. Per una di queste cagioni, se non forse per parecchie, era andato in rovina il martinetto di San Giorgio.

Qualcheduno dei proprietarii che si erano succeduti lassù aveva azzeccato il suo quarto d’ora di poesia, facendo sorgere alquanto più su ed alle spalle dell’officina un belvedere, specie di torrione piantato sull’orlo dell’abisso, con la sua piattaforma circondata di merli e con un lungo sedile corrente all’ingiro. Si giungeva lassù passando attraverso una macchia di nocciuoli, dove era stato certamente da principio un sentiero; ma la traccia di questo era sparita oramai, cancellata da quella gran nemica d’ogni arte che è la santa madre natura. Noi ordiniamo, ed essa confonde; i nostri muriccioli si veston d’edera e di lucertole; i nostri andarini sabbiosi, le nostre redole fatte a musaico di sassolini a due tinte, si sfasciano sotto le piogge equinoziali; i bei prati di fieno inglese son dati in governo alla gramigna, e la sterpaglia riprende ben presto i suoi diritti dove noi avevamo ripulito col sarchiello, raddrizzato col traguardo e livellato con la tavoletta pretoria. Santa madre natura, che Iddio continui a benedirvi! Perchè non si lascia intieramente a voi la cura di foggiare i nostri parchi, di svariare i nostri giardini? Qualche volta, non c’è che dire, voi fate meno bello dei nostri architetti; per contro, fate sempre più grande.

Il belvedere del Martinetto si poteva scorgere dall’altra sponda della cascata; era invisibile dalla macchia, ed anche a chi ne conosceva l’esistenza non riusciva troppo facile di ritrovarlo. Maurizio, che si era inerpicato in altri tempi lassù, con la matta e spesso pericolosa curiosità dei ragazzi, stentò ad orientarsi in quel folto di rami. L’orrida bellezza del luogo lo ricompensò largamente della fatica durata. Trovò il belvedere, i sedili, la merlata, un po’ in rovina per verità, ma fresche e vive le sue ricordanze, all’ombra di quel fogliame diffuso sulla piattaforma e sull’abisso rumoreggiante lì presso.

Pagato il tributo ai ricordi, Maurizio lasciò la piattaforma del torrione, e per la macchia dei nocciuoli discese verso il Martinetto. Una parte del fabbricato era andata in rovina; solo dall’altro lato ne rimaneva in piedi un’ala, convertita in abitazione colonica. Laggiù vivevano i poveri fittaiuoli del Pinaia, avendo davanti a sè quel magro podere e quei pascoli per cui dovevano pagare cinquecento lire ogni anno al fornaio arpagone di San Giorgio. Compiuto il giro della vasta rovina, Maurizio riuscì sull’aia che si stendeva davanti alla casa.

Due piccole vite si agitavano, ognuna a modo suo su quell’aia. Un ragazzetto si trastullava facendo correre l’una dietro l’altra alcune pallottoline di porcellana e di vetro colorato, lungo certi solchi che aveva scavati nel battuto: immagine di più faticose cure che gli sarebbero toccate da grande. Una bella tombolina, seduta con molta gravità su d’un gradino dell’uscio, abbracciava due bambole, niente di meno; una fatta di cenci, affagottata, sudicia, che non aveva più figura umana, e forse non l’aveva avuta mai; l’altra di legno, sfarzosamente vestita, con le guance paffute e rosse, gli occhi di smalto e una bella zazzeretta di ricciolini biondi: tutt’e due le teneva ben strette al seno, ammirando l’una, non sapendo spiccarsi dall’altra; simbolo e promessa di una maternità che non avrebbe fatto differenza tra le sue creature, se anco si fossero spartite in mostri e bellezze.

Maurizio accarezzò i bimbi ed entrò nel tugurio, dove trovò seduta di contro all’uscio, a soleggiarsi un poco, una donna ancor giovane, dal viso pallido, ma dall’occhio vivace, in aspetto di convalescente. Ci voleva poco a capire che quella era Biancolina, la povera donna per cui tanta inquietudine aveva regnato alla Balma.

—Ah!—esclamò la donna, alzandosi a mezzo.—Lo avevo ben detto io, che sareste venuto a vedermi una volta.

—Mi conoscete?

—Certamente: siete il signor Maurizio. Vi ho veduto una volta passare di là sotto. Mio marito mi ha detto: quello è il signore del Castèu, che s’incammina alla Balma.—

Diavoli di contadini! vedono tutto, loro; niente sfugge ai loro occhi di ramarro. Anche in luoghi così deserti, i passi del signor Maurizio erano dunque osservati? Ma sì: e se gli scriccioli, i merli, i passeri solitarii avessero avuto il dono della parola, si sarebbe sentito dire da molti cespugli: ecco il signore del Castèu, che s’incammina alla Balma.

Il signor Maurizio lasciò cadere l’allusione, e domandò notizie della salute. Non era quasi da domandarne; si vedeva la guarigione avviata. Biancolina era tuttavia un po’ debole; della qual cosa si tormentava, pensando che il suo uomo era costretto a far lui tante cose che prima erano fatte da lei, come ad esempio mungere il latte e portarlo in paese. Quanto alle piccole faccende di casa, veniva tutti i giorni una brava donna dal mulino di sotto; e di questo la convalescente rendeva grazie al signor Maurizio, che le aveva procurato l’aiuto.

—Ma io non ne so nulla; io non c’entro;—rispose Maurizio, schermendosi.

—Sì, sì, così dice la mano destra della gente di cuore, quando la sinistra ha fatto l’elemosina;—ribattè Biancolina.—Ma io so tutto, e della donna e del medico che siete corso a cercare per me; so tutto io; ci ho l’angelo cu stode che mi avverte di tutto. Non lo credete, signor Maurizio? Ed è un bell’angelo, sapete, con certi capelli d’oro filato, con certi occhi che paion diamanti. Ma lasciamo star l’angelo; io non saprò mai come ringraziar voi, che siete tanto buono coi poveri. Ma se Dio ascolta le mie preghiere, egli vi farà contento di tutto quello che potete desiderare. Rosina! Vittorio!—gridò la donna, interrompendo il suo discorsetto.—Non vi spingete troppo addosso a questo bel signore tanto buono. Non vedete che gli levate l’aria dattorno?

—Lasciateli fare, lasciateli fare, Biancolina. Io amo i bambini. A te piccina; quale delle tue bambole mi vuoi dare in moglie?—

La bambina rise, come una mamma che avesse due figliuole da collocare. Ma era una mamma di sei anni, e non aveva nessuna idea delle convenienze; e ridendo offerse tutt’e due le figliuole. Maurizio baciò quella mamma, e costituì una dote alle figliuole, in due belle monete d’argento; poi, per non far nascer gelosie, ne diede altre due al ragazzetto, ma senza bacio; un amichevole buffetto ne tenne le veci. E la ragione del diverso trattamento c’era; luccicava tra il labbro superiore ed il naso di quel piccolo sbadato.

—È ben fresca, questa bambola!—disse Maurizio, per dar sulla voce a Biancolina, che voleva ringraziare.—Pare comperata ieri.

—Infatti, l’ha portata ieri a Rosina la buona fata della Balma, insieme con le pallottoline per Vittorio. Voi la vedrete fra poco, la buona fata, l’angelo di questa casa.—

Maurizio guardò l’orologio. Erano appena le otto, ed egli respirò. Tra due ore sarebbe venuta la buona fata, ed egli non sarebbe stato più di mezz’ora lassù.

Intanto la donna proseguiva:

—Per oggi mi ha promesso di venir prima del solito. Non istarà più molto a comparire laggiù, tra quelle due piante di rovere.—

Maurizio fremette. Si era affrettato troppo a respirare. Stette ancora due o tre minuti, ma proprio sulle spine. Ed era per alzarsi, col pretesto di aver molto da fare; quando i bambini, che poc’anzi erano tornati sull’aia a guardar la belle monete d’argento al sole, accorsero gridando:

—La signora! la signora!—

Un ombrellino rosso apparve laggiù, fra mezzo ai due roveri. Non c’era più tempo a pretesti; era impossibile la fuga.

Capitolo VII. L’idillio del Martinetto.

Profondamente turbato, Maurizio rimase là, con gli occhi fissi in quel punto luminoso che gli appariva nel vano dell’uscio, e con un sorriso impresso, suggellato sulle labbra.

Un grido di gioia infantile, scoppiato a mezzo dell’aia, lo salutò. Gisella aveva riconosciuto Maurizio. Affrettando il passo, la grande bambina ebbe l’aria di accingersi a spiccare un volo verso di lui, come se volesse gettarsi nelle braccia d’un fratello non più veduto da lungo tempo.

—Ah, lo dicevo ben io, che m’aspettava una novità al Martinetto;—gridò ella, stendendo la mano a Maurizio e fissando in lui i suoi belli occhi incantati.—Poc’anzi, di là dal Fontan, ho incontrato un bel serpente, che se ne stava arrotolato come un braccialetto intorno alla punta di un masso e mi guardava coi suoi occhietti maliziosi. Non aveva paura di me; ed io non l’ho avuta di lui.

—Signora....—mormorò Maurizio sgomentato.

—Perchè avrei dovuto averne?—ripigliò la contessa.—Vedere un serpente è di buon augurio; significa incontro inaspettato.—

Maurizio aveva vinto quel primo sentimento di paura, e sorrideva, tentennando la testa.

—Ecco,—diss’ella,—io so bene che cosa significhi il vostro sorriso. Se fosse stato un boa, o un serpente a sonagli, non è vero? Ma qui non ci sono serpenti a sonagli, nè boa; non si tratta che di povere bisce inoffensive, e il buon augurio rimane. Del resto, non si è avverato? Ma vediamo prima di tutto questa buona Biancolina. Come va?

—Bene, signora; di bene in meglio: ho dormito tutto d’un sonno.

—E mangiato?

—No, per aspettarvi. Non mi avete detto ieri che volevate far colazione al Martinetto?

—Certamente ed ecco qua il mio tributo di provvigioni; il poco che ho potuto portare nella mia bisaccia, che non è quella dei frati cappuccini.—

Così dicendo, si toglieva d’armacollo una borsa e l’apriva sulla tavola, cavandone dei piccoli panini dorati, un cartoccio di biscottini, e un secchiolino di legno ermeticamente chiuso alla bocca.

I ragazzi si erano appiccicati agli orli della tavola, per essere ai primi posti; ed anche allungavano le mani, per carezzare, se non a dirittura per prendere.

—Vedere e non toccare, bambini; almeno per ora;—disse Gisella.—Ma che cosa vedo, signor Vittorio? che cosa vi ho raccomandato ancora ieri mattina?—

Il ragazzo si fece rosso in volto come una fragola, e scappò via lesto lesto. Due minuti dopo ritornava con la faccia umida, ma, a Dio piacendo, abbastanza pulita.

—Va bene, così; la faccia ha da esser sempre netta e tersa come uno specchio, mi capite?—riprese la signora, mescolando gli ammonimenti alle lodi.—Prendete esempio dalla vostra sorellina, che è sempre così linda.

—Ah, non tanto, signora, non tanto!—esclamò Biancolina.

—Eh, dico in paragone di suo fratello;—rispose Gisella.—Del resto, a quell’età non si può e non si deve pretender troppo. L’essenziale è di non lasciar mancare gli avvertimenti. Che cosa avete preparato, Biancolina?

—Le uova fresche, il latte, il burro, tutto quel poco che abbiamo.

—E il resto l’ho portato io, compreso il caffè fresco e lo zucchero. Ora a noi; il fuoco è già acceso, come vedo. Signor Maurizio aiutatemi. Prendete il latte; è laggiù nella madia, in quel mastello coperto; e riempitene il bricco che è là sulla cappa del cammino. Il più grande, intendiamoci; l’altro lo metterete al fuoco, dopo averlo riempito d’acqua. No, no, Biancolina, state lì, voi;—soggiunse Gisella, non permettendo che la convalescente si occupasse di nulla.—Vogliamo far tutto noi altri.—

Maurizio era entrato con molta gravità, ed anche con bastante intelligenza, nelle sue funzioni di sottocuoco. Gisella, frattanto, con la diligenza e la sveltezza delle buone massaie, apparecchiava la tavola. Sapeva, o indovinava, dove fosse ogni cosa. Presa una tovaglia, la spiegava e la stendeva sul piano, mettendovi poi su i tovagliuoli, rozzi come la tovaglia, ma bianchi e freschi di bucato com’essa. Poscia accanto ai tovagliuoli dispose piatti e bicchieri, aggiungendo i panini che aveva portati con sè.

—Ho fatto bene a largheggiare nel numero,—diss’ella, lodandosi un poco.—Presentivo ancor io che avremmo avuto una bocca di più. Ora alle posate; saran qui nel cassetto. Bene, è anche qui il pan bigio, che mi piace tanto. Lo faremo a fette, per istenderci il miele. A voi, Maurizio; un coltello, e apritemi questa secchiolina.

—Non farò schizzare il miele?—domandò Maurizio, introducendo la punta del coltello sotto l’orlo del coperchio.

—Eh via, con un po’ di grazia! Del resto, mi pare che diciate per celia. Vedo bene che faremo di voi qualche cosa.—

Appena il bricco dell’acqua calda levò il bollore, Gisella andò a versarci dentro il suo caffè in polvere. Un buon odore aromatico si diffuse per la cucina, che era sala da pranzo, anticamera e salotto ad un tempo.

—Riuscirà un caffè alla turca;—notò Gisella, ridendo.—Piace a voi, Mau.... signor Maurizio?

—Certamente, è migliore;—rispose il signor Maurizio, dolcemente solleticato da quel Mau.... senza signore. Gisella si era pentita, ma tardi; già due minuti prima, senza avvedersene, lo aveva chiamato Maurizio senz’altro.

Cinque o sei minuti dopo, era ogni cosa, all’ordine, perfino le uova, gittate nel paiuolo dell’acqua bollente. Quelle uova a bere furono il principio della colazione; fresche, eccellenti, sorbite con grande facilità da Maurizio e Gisella, con un po’ più di lentezza da Biancolina, non senza guai per la tovaglia da Rosina e da Vittorio, che riuscirono anche ad impiastricciarsi la faccia. Fu un’impresa non lieve per Gisella il ripulirli a dovere. I due bambini tendevano per altro di buona voglia il musino a quella graziosa mamma improvvisata, ben sapendo che non voleva veder volti insudiciati.

—Ah, la buona menagère!—esclamò Biancolina.—Peccato che non ne abbiate dei vostri.

—Che! non è forse meglio così?—rispose Gisella.—Per amare i bambini non è necessario averne dei proprii, ed ogni opinione contraria non muove che da un inavvertito sentimento di egoismo. Io li amo, perchè son creature innocenti, e non perchè mi debbano appartenere. Quando vedo una bella aurora, l’amerò forse meno, perchè non è mia? l’amerei più, se fosse mia? Idee false, mia cara Biancolina, idee false, quando crediamo che per amar bene i bambini dobbiamo averne dei nostri. False almeno—soggiunse Gisella,—per una certa classe di persone; ad esempio per me. So bene che per voi, se non ne aveste, sarebbe una pena, non potendo amare e proteggere i miei. Ma io posso, come vedete, amare i vostri, proteggerli anche, ed averne il diritto, solo che io sappia metterci un pochino di buona grazia.

—Un pochino!—esclamò Biancolina, ridendo.

—Ebbene, diciamo anche molto,—replicò Gisella,—purchè mi vogliate bene. Son felice di essere amata; solo a questo patto è buona la vita.—

Maurizio stava a sentire, attonito, sbalordito, ma non da quelle parole, a cui del resto prestava poca attenzione, contentandosi di gustarne la musica. Non poteva credere a sè stesso, non riusciva a capacitarsi com’ella fosse là, davanti a lui, come egli si trovasse a tanta festa, che non s’era aspettata, e che non intendeva per qual miracolo gli fosse venuta: In che modo aveva potuto la contessa Gisella capitare a quell’ora mattutina sulla montagna? e come poteva con tanta facilità rimanere lassù, accanto a lui? Ma non era ancor tutto; e d’altro doveva maravigliarsi tra poco.

—Signor Maurizio,—gli diss’ella ad un trat to, rivolgendosi a lui,—sono contenta di avervi trovato, perchè facevo conto di venirvi a cercare, questa mattina per l’appunto. Già, non mi fate quel viso.... appena bevuto il latte e sorbite le uova del Martinetto, volevo calare al Castèu, che è così bello.... tanto bello, che me ne è rimasto un gran desiderio negli occhi.

—Signora....—balbettò Maurizio,—ci potete venir sempre.

—E infatti così farò. Avevo bisogno di voi, per una faccenda che mi preme moltissimo; e si tratterà d’un discorso un po’ lungo. Ma non vi spaventate, ve ne prego; altrimenti non saprò più da dove incominciare. Sarei venuta sola, per un sentiero che non conosco. Voi siete qui, per fortuna; verrò dunque al Castèu in vostra compagnia, e avrò il vantaggio d’imparare la strada.

—Sono ai vostri ordini,—disse Maurizio.

La colazione era finita, e Gisella si alzò.

—Te ne vai, madama?—gridò Rosina, aggrappandosi alla gonna di Gisella.

—No, cara; cioè, sì, ma per ritornare fra poco. Infatti,—soggiunse ella,—non voglio attraversare il paese, su quei lastroni sconnessi. Anche quassù ci sono dei brutti passi, ma non tanti; e poi non c’è pericolo d’ingoiar polvere, come laggiù. Ritornerò dunque per di qua, e vedrò ancora la mia Biancolina, coi suoi cari ragazzi. Non partirò per altro, senza aver bevuto un sorso d’acqua fresca. Animo, signor Maurizio; prendete quella secchia; si va alla fontana: io porto il bicchiere.—

Maurizio si armò della secchia di rame, che era stato pronto a spiccar dall’arpione. In verità, si poteva farne qualche cosa, di quell’uomo, sebbene in quel giorno capisse poco. Ed anche si avviò difilato alla fontana, specie di fossatello scavato al piede d’un masso e mezzo coperto da un arco di fabbrica, che era facile di vedere da un lato del piazzale, dalla parte della montagna. Quell’acqua doveva essere una derivazione della grande cascata, che rumoreggiava un cinquecento passi più in là. Maurizio attinse l’acqua; Gisella mise il bicchiere nella secchia, e bevve a larghe sorsate il fresco umor cristallino, mentre egli stava immobile contemplando la candida gola tesa della sua graziosa vicina. Gisella era un fior di bellezza, di salute, di buon umore, di astuzia garbata. Come lo guatava, infatti, come lo guatava di sbieco, con la coda dell’occhio malizioso, mentre teneva alto il mento e quella bianca gola scoperta! Ma ad un certo punto le venne da ridere, e fu lì lì per ispruzzar l’acqua in aria.

—Badate!—diss’ella.—Mi farete far la figura di un mascherone da fontana.

—In che modo?—chiese Maurizio trasognato.

—Ma sì, con quella vostra faccia d’uomo che non capisce....

—Infatti, signora....

—Ebbene, se non capite ora, capirete poi. Perchè tanta fretta? Non sarò mica tanto crudele da ricusarvi i miei lumi superiori.—

Maurizio intese che il meglio era di non lambiccarsi il cervello. Perchè almanaccar tanto, e fantasticare intorno alle cose che si dovranno conoscer poi appuntino? Prese il bicchiere che Gisella gli offriva, e bevve a sua volta, ma senza aver l’aria di notare la cortesia grande e di farne le meraviglie; poi riportò tranquillamente ogni cosa in cucina. Poco stante, salutata la Biancolina e accarezzati i bambini, si avviò con Gisella verso il balzo dell’Aiga; la stessa strada per cui era venuto.

Andarono per un tratto in silenzio. Gisella, passava di là per la prima volta, e guardava la rovina del lungo fabbricato con curiosa attenzione.

—Che cos’era tutto ciò?—chiese ella a Maurizio.

—Un martinetto, signora; una grande fucina per raffinare il ferro. Qui, per l’appunto, era la ruota che metteva in movimento il maglio.

—La ruota! ma l’acqua è ancora molto lontana.

—Sì, la cascata è un trecento passi più in là. Ma l’acqua da far girare una ruota dev’essere di un volume determinato; bisogna dunque derivarne la quantità necessaria. Vedete infatti quel canale, mezzo coperto di sterpi; quello portava l’acqua. Lassù, dietro quella balza, era la presa dell’acqua. Volete che andiamo a vedere?

—Perchè no? è un luogo tanto bello!—

Risalirono la costiera, andando egli innanzi, per metterla in istrada. Non era quello il sentiero che doveva avvicinarli al Castèu: ma il signor Maurizio non pensava più affatto al Castèu. Così risalendo, giunsero davanti alla macchia dei nocciuoli.

—Che bell’angolo di mondo è mai questo!—esclamò Gisella, fermandosi in contemplazione.—Si sente anche lo strepito della cascata. Ma l’acqua non si vede.

—Se vi fidate di entrare in questa macchia, c’è là dietro un buon posto e molto sicuro per ammirar la cascata, forse nel suo punto più bello.

—Perchè non mi fiderei, col signor Maurizio per guida?—diss’ella, avanzandosi risoluta.

Maurizio abbrancò i rami che gli vennero primi alle mani, e fece largo alla signora in mezzo a quel folto, dove ambedue si ritrovarono chiusi. Ella s’inoltrava quanto permettevano via via le bracciate del suo compagno, e rideva.

—Siamo prigionieri nella selva incantata;—diceva.

—Un po’ di pazienza, signora;—rispondeva Maurizio.—Ancora una ventina di passi, e riusciremo alla luce.—

Egli intanto si lodava in cuor suo di aver fatta quella strada due ore prima. Se nella mat tina non avesse ceduto al primo impulso di rivedere il torrione dei suoi ricordi infantili, certamente non avrebbe osato allora di condurre la contessa Gisella a metter piede in quella fratta. Ed ebbe a parerle di sicuro la più esperta delle guide di montagna, poichè per l’appunto una ventina di passi più in là finiva la macchia dei nocciuoli, e davanti alla contessa si schiudeva l’ingresso di una piattaforma merlata.

—Nuovo! che cos’è?

—Un belvedere, signora. Di laggiù si presenta come un torrione, di quassù come un terrazzo.—

Gisella seguì Maurizio sulla piattaforma, guardandosi intorno ammirata.

—Bello, bello, questo nido nel verde! Buon giorno, cardellini, lucherini, o che altro vi siate;—gridò ella ad uno sciame di uccelletti, che spulezzavano dalla frappa.—E questo bel sedile a cerchio? vedete che idea meravigliosa!—

Il fragore delle acque cadenti era un po’ forte, per verità; pareva che dovesse spegnere le parole in bocca. Gisella si affacciò alla merlata per vedere l’abisso; ma subito si trasse indietro. Lo spettacolo era stupendo, ma dava anche il capogiro.

—Sediamo;—diss’ella;—tanto, abbiamo da discorrere.

—Sediamo;—rispose Maurizio;—sarà meglio qui che al Castèu. Ma proprio sareste venuta questa mattina laggiù?

—Certamente. Avevo da chiedervi un favore.

—Potevate scrivermi.

—E voi rispondermi una bella lettera, compassata, cortese, ma fredda, non è vero? Ci avrei fatto un bel guadagno! No, niente lettera, andiamo noi. Non c’era che un pericolo: che foste partito nella mattina.

—Oh, non ho più occasione di muovermi,—disse Maurizio,—dopo il viaggio che ho fatto.... il giorno che avevo annunziato.

—Il gran viaggio di tre giorni!—esclamò ella, sorridendo maliziosamente.—E ne siete ritornato di nottetempo, come un malfattore, per chiudervi in casa, per nascondervi ad ogni vivente. Ma non così bene, che io non lo sapessi. Uscivate soltanto per prendere il sentiero dei monti; anche questo sapevo. Che vi pare? che io non ci abbia una buona polizia? Molte cose ho saputo, signor Maurizio; e per una tra tante posso e voglio dirvi: siatemi amico; qua la mano, che io vi esprima in una stretta buona e fraterna tutta la mia gratitudine.

—Gratitudine! di che?

—Di aver pagato ad un padrone esoso il semestre di quella povera gente laggiù.

—Io?...—balbettò Maurizio, confuso.

—Sì, ditemi ancora che non è vero.

—E non lo negherò. Ma come lo sapete voi?

—Ah!—gridò ella, battendo allegramente le palme.—Non lo sapevo, quantunque mi paresse di averlo indovinato; non lo sapevo an cora, e adesso lo so. Già, non potevate essere che voi; ed io quasi mi vergogno di essere stata in dubbio un momento. Figuratevi, l’altro giorno ero andata in paese.... sperando anche un pochettino d’incontrarvi; ma siamo giusti, non ero scesa per voi; volevo vedere il signor Pinaia, indegnissimo proprietario del Martinetto, e probabilmente di questo bel nido nel verde; volevo vederlo, dico, per ottener da lui che aspettasse ancora qualche settimana a rientrare nel suo avere. Il povero Feraudi, gli soggiungevo, avrebbe venduta la sua ultima mucca, per soddisfarlo. Non occorre, mi rispose il Pinaia, sono stato pagato; serbi la mucca per un altro semestre, se non riuscirà neanche allora ad avere la somma necessaria. Ora, vedete, signor Maurizio, quella povera gente s’immagina che sia stata io, la benefattrice, ed io non posso lasciarle credere quel che non è; vi chiedo dunque il permesso di dire chi è stato.

—No, non ve lo posso concedere.

—E se me lo prendessi.... per caso, non mi guardereste più in viso?

—No, vi scongiuro, non dite nulla. Più tardi, se mai; ci sarà sempre tempo. I ringraziamenti mi opprimono. Notate che quel giorno ero andato ancor io dal Pinaia coll’idea di ottenere una proroga. Il Pinaia mi rispose male, ed io allora, stizzito, pagai; ma invitandolo a non dire il mio nome.

—E non lo ha detto, signor Maurizio. «Sono stato pagato»; furono queste le sue precise parole, e non volle aggiungere di più. Dunque, signor Maurizio, voi siete stato tanto buono; e non mi dite che i ringraziamenti vi opprimono, perchè voglio esservi grata io, che avrei pagato tanto volentieri il signor Pinaia. Ma io non avevo quella somma; avrei dovuto domandarla, essendo en puissance de mari, e non potendo disporre di nulla, neanche del mio, senza farne richiesta, senza darne notizia. So bene che avrei ottenuto; ma per tante ragioni non mi piaceva di chiedere. Quante cose che una donna non può fare! E come sarei insorta, come mi sarei ribellata, quel giorno che voi siete partito da casa nostra! Perchè avevate ragione, Maurizio, e niente giustificava quella mala risposta.

—Non parliamo di ciò, ve ne prego;—diss’egli.—Io ho inghiottita l’offesa: se ho dovuto in qualche modo provvedere alla mia dignità, credete che ciò non fu senza mia pena, e grandissima. Io piuttosto credevo che quella sfuriata a proposito di opinioni filosofiche dissimulasse un altro sentimento, la noia di vedermi in casa sua.

—Qui v’ingannate, non c’è nulla di questo. Lo avete contradetto nelle sue opinioni scientifiche, e ciò lo ha fatto andar fuori. È il suo tallone d’Achille. Egli si chiama Ettore, per verità; ma non ha meno, per questo, il suo punto vulnerabile. Guai a toccarlo sulla filosofia positiva. Ora, di aver passato il segno è convinto anche lui. Il primo giorno stette grosso con tutti; il secondo parlò a monosillabi; il terzo, non so più a qual proposito, uscì in questa confessione: «Ho il vizio di lasciarmi portare dall’impeto della passione, e il sentir troppo non è scusa valevole: un giorno o l’altro mi schiaffeggerò».—

Maurizio non ebbe neanche la forza di sorridere alla frase che esprimeva in forma così comica un pentimento. L’immagine di quell’uomo gli tornava incresciosa; e da parecchie ore l’aveva costantemente negli occhi.

—Come avete potuto,—diss’egli,—uscir così presto di casa?

—Ah, se ci fosse lui, mi sarebbe stato impossibile;—rispose candidamente Gisella.—Non già perchè egli m’impedisca di andar fuori; ma perchè si fa colazione insieme alle dieci. Egli è partito ieri, e rimarrà fuori una settimana. La passione per l’esercito è ancora forte in lui; ha voluto assistere a certe prove d’artiglieria che si fanno a Vincennes; frattanto ha accompagnato il suo amico Dutolet, che finiva la sua licenza di quaranta giorni. Ecco perchè ho detto ieri a Biancolina che molto probabilmente sarei venuta a far colazione da lei. Ho la mia settimana di libertà; voglio andare attorno, per monti e per valli. E verrò anche al Castèu.

—Il Castèu sarà felice di accogliervi. Ma badate; egli saprà della visita, e non gradirà che da parte vostra si sia fatto un passo simile.

—Perchè? Non siamo sempre in relazione con vostra sorella? E l’aver annunziato voi di dover partire da San Giorgio, per quanto se ne potessero indovinar le ragioni, non sarebbe bastante a farci trascurare un obbligo di cortesia. Diciamo piuttosto—soggiunse Gisella, con la sua graziosa malizietta,—che la montagna è assai bella, che qui si sta bene, e ci si chiacchiera meglio. Avrò dunque il piacere di vedervi in alto. E poi, e poi, spero bene che appianeremo tutto, non è vero?

—Ah! impossibile;—proruppe Maurizio.—Impossibile che ci rivediamo alla Balma.... E forse, anche qui....

—Che cosa dite, signor Maurizio? perchè?

—Perchè.... Me lo chiedete, signora? Voi mi avete parlato testè di un’amicizia fraterna; ed io.... io non vi posso esser fratello.

—Lo so bene; ma allora, non ci si ha più da vedere come amici? Voi non ragionate, signor Maurizio. E come? mi fate conoscere la vostra bontà di cavaliere, la vostra cortesia, la vostra gentilezza squisita; mi conducete qua, dove io sto così bene a discorrere con voi, dimenticando ogni cosa, e poi mi mandate via?

—Ma io non posso dimenticare.... debbo dirvelo? è in fine un debito di lealtà: non posso dimenticare.... che vi amo.—

Maurizio pensava che a quelle parole la terra gli si dovesse sprofondare sotto i piedi. Era una grande audacia, la sua: ma era meglio parlar chiaro, e dire a quella donna a quale aspra battaglia si sarebbe esposto il suo cuore, accettando il partito da lei candidamente profferto.

Gisella non si adontò, non rise: calma, se non tranquilla, perchè ella pure doveva fargli una confessione solenne, rispose:

—Ebbene, anch’io, signor Maurizio, vi amo. Zitto, non mi dite più nulla. Non guastiamo il valore delle nostre parole; viviamo profondamente il silenzio di quest’ora. Qua, la vostra mano nella mia! Ma come arde la vostra, mio povero amico! —

Capitolo VIII. Celeste oblìo.

Ci sono parole nei vocabolarî; costrutti e locuzioni nelle grammatiche; ci stanno a guisa di forme morte o dormenti, che si ravvivano o si ridestano al suono della voce da cui son richiamate. Ma il risuonar loro è nulla, o ben piccola cosa. Ognuno può leggere, ognuno può dire, poichè la favella è proprio carattere dell’uomo; ma il sentire, il far sentire ciò che la voce esprime, tutto ciò che una parola, una frase può contenere di pensiero, è dono di pochi, fortuna di rari momenti solenni. Con le stesse parole si può riuscir vuoti, molesti a chi ascolta, a chi legge; ed anche scrivere un canto di Dante, o una scena dello Shakspeare. Il momento solenne che suscita le forme dormenti, la collocazione che le atteggia, l’impeto che le muove, l’accento che le anima, il gesto che le sostiene, ecco la vita; per cui ciò che era piano risalta, ciò ch’era umile diventa sublime, ciò che si sarebbe a mala pena ascoltato inebria, commuove, rapisce.

Maurizio non s’aspettava quella risposta di Gisella, non l’aveva immaginata possibile, non aveva parlato per provocarla; aveva parlato dell’amor suo per onesta sincerità, per risoluto disegno, per ragionevole speranza, fosse pur doloroso parlare, fosse pur dannoso scoprirsi, amaro dover rinunziare alla vista di quella divina creatura. Voleva fuggire, non rimanere, il poveretto; perciò aveva parlato in quel modo. Ma gli era avvenuto di sceglier male il momento, e forse peggio la frase. Del resto, a che sofisticar sulla frase? Tutto ciò che noi diciamo ha il colore dell’ora, triste o lieta, benedetta o maledetta, in cui l’animo nostro ha trovato modo di esprimersi. Quando non è più tempo, le frasi che dovrebbero ritrarci indietro son quelle che ci travolgono; le parole che vorrebbero salvare son quelle che pèrdono.

Intendiamo lo stato di Maurizio. Quella mano che lo aveva già fatto tremare una volta, stringendo la sua un po’ più dell’usato, quella mano lo fece fremere, riardere per tutte le vene. Ed anche Gisella, innocente creatura, non sapeva in quel punto che cosa si dicesse o facesse, nè dove potesse condurla quel moto di sincerità. Dote o sventura dell’amor vero è il non veder nulla davanti a sè, nè d’intorno, quando il cuore ha parlato, cedendo alla sublime follìa che lo invade. Ma infine, per questa follìa siamo nati, e chi se ne parte dalla vita senza averla provata, può dire di non esser vissuto. È ben vero, per contro, che porta le sue tristi conseguenze il provare: qualche volta chi l’ha provata ne muore; qualche volta sopravvive, ma come un sognatore, come un sonnambulo, come un’ombra di sè stesso: il morto che cammina, secondo il detto comune.

Ne avrete veduti anche voi, di questi uomini strani, che vi stanno là come incantati. Parlate, ed hanno l’aria di ascoltarvi; li invitate a guardare questa o quell’altra cosa che vi abbia colpito, o che attragga l’attenzione universale, ed anch’essi guarderanno dove voi dite. Ma interrogateli, e vedrete: vi parranno tornati allora allora dall’altro mondo. Costoro pensavano ad un loro momento vitale, quello a cui mirano e per cui respirano tuttavia; lo richiamavano, il bell’attimo fuggito; felici un istante nella memoria, lo rivivevano ancora. In quelle maravigliose ricostruzioni del desiderio si sente la vanità di tante cose miserabili, per cui gli uomini mediocri si struggono, i deboli ammattiscono, i vili strisciano, i cattivi schizzan veleno. Comandare ai proprii simili essendone schiavi; figurarsi di trascinarli essendone trascinati; credere d’ingannarli essendone ingannati; è questo il gran fine della vita?

Maurizio si risvegliò dal suo momento di ebbrezza. Era lui, lui ancora, o non forse un altro, il vittorioso, il felice, il signore dell’universo? Anche lei, la divina creatura, gli appariva trasfigurata, per miracolo d’amore. Nuovo mondo era quello, altra regione, ignota sfera per lui; e ci viveva così bene! come in una di quelle nubi, luminose e fragranti, dove la fantasia dei pochi ha finito o indovinato che si celino, trascorrendo sulla terra, gli spiriti puri, gli abitatori del cielo. Maurizio visse estasiato in quel mondo, delle cose dell’esistenza lasciando ogni cura alla consuetudine, esperta guida che non ha sempre mestieri del raziocinio. Non fa altrimenti il sonnambulo; va diritto e sicuro, adempiendo a tutti gli uffici dell’uomo desto; per una cosa sola, che è la sua meta, il suo pensiero dominante, continua il sonno ed il sogno.

Vederla apparire ogni giorno, lassù, nel verde aereo nido accanto alla cascata dell’Aiga, che momento per lui! E come volavano inavvertite le ore, mentre la montagna custodiva il suo dolce segreto! Gli uccellini della macchia non fuggivano più, vedendo appressarsi quei due fortunati, immemori, inconsapevoli d’ogni altra cosa che non fosse il loro affetto scambievole. Erano due amici, oramai, per la gaia famiglia del bosco. Spensierati come voi, scriccioli della siepe, come voi, cardellini del prato, si amavano senza badarsi d’attorno, s’inebriavano della stessa fragranza silvestre, della medesima freschezza, della medesima gioventù del creato; unica immagine l’ora presente, unico pensiero il fido colloquio, unica legge l’amore.

Gisella era calma nella intensità della sua gioia, piena della sua felicità di dea, vera figlia della natura, come l’avevano voluta i suoi educatori. Sentiva allora, per la prima volta, tutta l’ebbrezza del vivere; quasi per effetto di rivelazione subitanea, vedeva più addentro negli arcani delle cose; una lingua fin allora sconosciuta dischiudeva i suoi misteri per lei. Le pareva d’intendere le voci degli uccelli nella frappa, e si fermava estatica ad ascoltarli.—Sentite, Maurizio: questo qua dice alla sua compagna che la mattinata è splendida, e che si potrebbe fare una volata fin lassù, da quei ginepri. E quest’altro.... ma no, diciamo quest’altra.... Sapete di chi parla? Di voi, signorino; dice che siete buono, e gli piacete a quel modo. Cara, ma brutta! ragiona bene, e non mi va. Che cosa deve importare a voi, signorina, che il mio Maurizio sia buono? Non ha mica da esser tale per voi.—

Maurizio rideva, partecipando con tutta l’anima a quei giuochi infantili della divina creatura. Ma non c’era sempre da ridere. Quello stesso giorno, ad esempio, volendo forse prender consiglio dagli uccellini, Gisella s’inerpicava sulle alture, alla volta dei ginepri. Lassù, presso un cespuglio, aveva veduto due serpi avviticchiate, che davano sembianza del caducèo di Mercurio. Si era avvicinata, al solito, da vera figlia d’Eva, con molta curiosità e senza ribrezzo, mostrando a Maurizio, che invano cercava di tirarla via, come una di quelle serpi avesse la testa quietamente posata tra le fauci dell’altra, ammiccando di là sotto con gli occhietti astuti, mentre al l’altra, che la teneva stretta tra i denti, si vedeva palpitare con ritmo accelerato la gola gialliccia. Stranezza di voluttà in quelle due care bestiuole!

—Andiamo, via,—diceva Maurizio,—potrebbero essere due vipere.

—Ebbene che importa?—rispondeva Gisella, senza volersi spiccare di là.—Esse si amano e non badano a noi; si lascerebbero uccidere, piuttosto che muoversi. Guardate che ingegno, se sono velenose come voi dite; amandosi come fanno, si nascondono a vicenda il veleno.—

Maurizio non ebbe pace, finchè non l’ebbe allontanata dalle serpi.

—Lasciamole amare a modo loro;—diss’egli;—chi ama non vuol testimoni.—

Gisella sorrideva, socchiudendo i grandi occhi d’indaco e sprigionandone lampi «di faville d’oro» come avrebbe detto il Chiabrera; quindi arrovesciata la bionda testa sull’omero, porgeva la bianca gola ai baci del suo sgridatore, per cui era tanto lieta, tanto superba di esser bella.

Qualche volta vedevano in lontananza il Feraudi, piantato a guardia del suo armento su qualche rialto della montagna. Il contadino vedeva loro aggirarsi più spesso all’aperto, per far le scorribande, che non per andare al Martinetto, dov’era la sua convalescente, tacito pretesto a tutti quegli incontri quotidiani. Vedeva, dico, ma non dava segno di ravvisare, e lento nei gesti si voltava a guardare da un’altra parte.

—Si è avveduto;—mormorava Maurizio.

—Non dirà nulla, amico mio;—rispondeva Gisella.

—Perchè?

—Perchè ci è riconoscente e ci ama.

—Pure, bisognerà esser cauti.

—Sì, sì, siamo cauti, mio bel gesuita.—

A Maurizio non piacevano i titoli; non gli piaceva nemmeno che per dargli del furbo o dell’ipocrita fosse usato quel nome. Sentiva del resto in quella locuzioni l’effetto naturale, inavvertito, della scuola a cui aveva imparato Gisella. Quello era di certo il linguaggio del conte Camillo, soprannominato il miscredente. Gl’insegnamenti sono come le inondazioni, che si sovrappongono e fanno sedimento; essi lasciano sempre un deposito di frasi negli orecchi più delicati. Quelle frasi riappaiono qualche volta, senza che però ci si pensi, o si dia loro importanza veruna; riapparendo, dimostrano quale sia stata la scuola. E andasse pur gesuita per ipocrita; perchè ipocrita, poi? forse era sinonimo di cauto? C’era nell’applicazione del vocabolo un’accusa di viltà ch’egli non credeva di meritare. Il sentimento che Maurizio provava era ben altro, se mai; sentimento di pena sorda ma profonda, ch’egli provava di tanto in tanto, quante volte per brevi intervalli, quasi lampi nel buio, gli tornava a mente il suo stato.

Al silenzio del suo compagno, Gisella si avvide di averlo ferito.

—Ma se dico per ridere!—esclamò.—Ti amo tanto! Abbracciami, Maurizio, abbracciami qui, al sereno del cielo. Il pastore ha gli occhi da quell’altra parte.—

Un bacio scoccato, una risata argentina, e la pace era fatta. Ma se le paci erano facili, erano anche facili le guerre; e queste, per brevi che fossero, bisognava abolirle. È il sogno di tutti i filantropi. Per abolire quelle piccole guerre, Maurizio vedeva la necessità di ravviare, di educare a modo suo la mirabile selvaggia. Una così bella creatura doveva esser perfetta; la figlia della natura era degna di ricevere qualche insegnamento dall’arte.

—Perchè non credi?—le domandava Maurizio.

—Io?—rispondeva ella, stupita.—Non credo io dunque? Ma se credo all’amor vostro, Maurizio! Ma già,—soggiungeva, ridendo,—il mio buon amico è un bel discorritore; bisogna lasciarlo discorrere. Eccomi qua, vi sento, vi ascolto, son tutt’orecchi.

—Oh, questo, poi!

—Dico per modo di dire. So bene che son piccini; fin troppo piccini.

—Un’altra! Ma con voi non si può ragionare, mia bella prepotente. E siete bella, troppo bella per me, troppo bella per ogni povero mortale. Perchè di questa bellezza meravigliosa non essere grata a Dio? Vorreste voi dunque persuadervi di esser nata così per un caso, per un capriccioso incontro di cellule? Guardatevi in uno specchio, bambina miracolosa, e poi ditemi voi se è possibile di credere una cosa simile.

—Ma io non credo niente di ciò che voi dite. Maurizio. Voi mi accusate, io dubito, di aver letto certi libracci di scienza moderna. Nè moderna nè antica, mio bel cavaliere. Vivo, amo, son contenta di vivere e di amare; ecco tutto.

—No, non può esser tutto;—s’impuntava a sostenere Maurizio.—Dovete essere riconoscente.

—Ebbene, sia, sono riconoscente.

—A chi?

—A te.... che mi trovi bella;—rispondeva la pazza canzonatrice, dando in uno scoppio di risa.—

Non era ciò che voleva Maurizio.

—Vediamo di ragionare;—diss’egli.—Siete un fiore, un bel fiore, un fiore stupendo. E potete non darvi pensiero del come un tal fiore sia nato? Potete immaginare che sia nato così, per un caso, per un capriccio di natura?

—Leva il capriccio e metti il destino; metti la necessità, l’utilità, quel che vorrai;—rispose ella, alzando le spalle.

—Utilità!—disse Maurizio.—Passi per il frutto; lo capirei ancora. Il frutto è utile, infatti; possiamo credere che sia una necessaria produzione dell’albero, come l’albero una necessaria produzione del suolo....

—Come il suolo una necessaria....

—Sì, canzonatemi ancora. Mi mettevo a ragionar come voi, signorina. Ma il fiore non è necessario, è superfluo; sopra tutto è inutile che sia bello. E come potrebbe essere un prodotto della necessità, la bellezza? Come si potrebbe ammettere che si fosse formata la bellezza per cieca e sorda opera di selezione, di adattamento, di evoluzione? E l’ideale, che è il fior dello spirito, si sarebbe egli fatto per necessità di battaglia? Badate, mia dolce amica; per negare un intelletto creatore, noi siamo costretti a distribuire troppa intelligenza in ispiccioli a troppe miriadi d’organismi, a troppi miliardi di miriadi di cellule.

—E dàlli con le cellule! Ma io non ne so nulla, di tutte queste malinconie. So una cosa sola, Maurizio;—conchiudeva la bella birichina;—che noi spendiamo troppo tempo a discutere di filosofia. Questa è filosofia, non è vero?

—Quasi;—disse Maurizio, smettendo.

Un triste pensiero gli era passato allora per la mente.

—Povere nostre giornate serene!—riprese egli, sospirando.—Son per finire, o non le avremo più così lunghe.

—Le avremo ancora;—rispose Gisella, con la breviloquenza che bisognava usare per certi argomenti.—C’è una proroga al ritorno.

—Ah!

—Sì, una lettera di questa mattina; avevo dimenticato di dirvelo. Le esperienze di laggiù durano ancora, e sono molto interessanti;—soggiunse ella, respirando.

Al respiro di Gisella rispose il cuore di Maurizio con un sobbalzo d’allegrezza. Ma quel sobbalzo fu tosto represso dal ritorno di un brutto pensiero; dal brutto pensiero che opprimeva da più giorni la mente del signor di Vaussana. Perchè infine, lontano o vicino quell’uomo, ciò che Maurizio faceva, egli gentiluomo di stampo antico, egli cavaliere senza macchia.... Ma no, no, no, non voleva pensarci.

Capitolo IX. Sull’orlo dell’abisso.

E andava innanzi così, alla ventura, come si va pur troppo in tante circostanze della vita, quando non siamo noi che scegliamo il sentiero o regoliamo i nostri passi, ma è la nostra passione, il caso, il destino. Pure, come gli era concesso dallo stato suo, andava abbastanza guardingo, e in certi casi perfino sospettoso. Egli sentiva istintivamente che all’effetto di quelle forze cieche non bisognasse aggiungere quello dei nostri piccoli errori, delle nostre facili dimenticanze, delle nostre naturali spensieratezze; perciò s’impensieriva di tutto, e almeno nelle cose minute, non potendo più nelle maggiori, nelle essenziali, voleva andar cauto. Di uno temeva, ad esempio, di uno dubitava, e quest’uno era il Feraudi, il contadino del Martinetto, il povero pastore che troppe volte gli accadeva di trovare sulla sua strada, o di veder da lontano, ma anche là in atto di guardare alla sfuggita, e certamente in condizione di notare quella as siduità di passeggiate al deserto. La gratitudine, a cui aveva accennato Gisella, era sicuramente una bella cosa, ma anche rara, molto rara nel mondo, come tutte le cose belle, e tale da non doverci fare un grande assegnamento.

Maurizio trovò il modo di combinare quell’uomo ad altre ore, da solo, e d’intrattenersi a ragionare con lui. Gli faceva larghe dimostrazioni di benevolenza, lo trattava con molta dimestichezza, quasi con amicizia, aiutando benissimo a colorire la cosa il ricordo di qualche servizio reso, e destramente conduceva il discorso sulla signora della Balma, affinchè quell’altro dovesse dirgliene tutto quello che ne pensava, ed egli, dal canto suo, potesse giustificare con qualche buona ragione quella frequenza d’incontri e di gite.

—Che bell’anima, la signora della Balma!—diceva Maurizio.—Come vuol bene a voialtri! Senza orgoglio, senza pregiudizi di sangue, non è vero? E semplice, poi! Par quasi una bambina. Come si diverte a correre per questi bei monti!

—Già,—rispondeva il Feraudi,—in questo è tutta la buon’anima di sua madre, la contessa Ippolita. Ma era più timida, la vecchia; non si fidava mica tanto; più in qua del Martinetto non si arrischiava mai, nelle sue passeggiate.

—Aveva ragione, perbacco;—ripigliava Maurizio, felice di aver condotta la conversa zione a quel punto.—La montagna è sicura; non si ricorda che ci abbiano mai torto un capello ad anima nata; ma dopo tutto siamo vicini al confine; gente di fuori, d’una parte e dell’altra, disertori, pezzenti, non ne mancheranno di certo; un brutto incontro non sarebbe neanche impossibile. Ed è per questo che mi faccio un dovere di accompagnarla nelle sue escursioni, così lunghe e frequenti.

—Lei è savio, signor conte;—replicava il contadino;—e nessuno troverà da ridire intorno a queste precauzioni. Del resto, male non fare, paura non avere; ha ragione il proverbio.—

Questi discorsi calmavano e turbavano Maurizio: lo calmavano per un verso, lo turbavano per l’altro. Ed egli andava più guardingo che mai; voleva studiare, governare i suoi atti più che non avesse fatto fin allora. Per fortuna, dacchè era tornato a San Giorgio, non aveva avuto l’uso di farsi vedere in paese a diporto, salvo nei giorni di festa, e la sua mancanza non doveva esser notata come un fatto singolare, come un cambiamento improvviso di consuetudini. Uscendo sempre di casa dalla parte dei campi, non poteva neanche esser veduto dalle case più vicine al Castèu. Davanti al mulino non passava mai, e risaliva sempre e discendeva dall’Aiga facendo un giro assai largo. In casa, poi, inventava ogni giorno qualche pretesto di gite lontane sui monti, portando il fucile, come un gran cacciatore nel cospetto di Dio. Quel po vero fucile riposava spesso appoggiato a qualche tronco d’albero, o contro i merli del torrione, dove non metteva paura di certo ai garruli abitatori della macchia. Ma egli così faceva per eccesso di precauzioni, volendo essere giustificato più che potesse delle sue lunghe escursioni agli occhi delle persone di casa.

Gisella era più forte, più serena, più franca. Di che cosa doveva ella temere? Usciva per i suoi malati, per suo diporto, per suo capriccio, e nelle sue gite non si era mai trovato niente a ridire. Non aveva fatto sempre così, anche da fanciulla, vivendo suo padre? Niente era mutato per lei, nè il casato, nè le consuetudini di vita. Si sentiva sempre la contessina dei tempi andati; tutti i servi della Balma l’avevano sempre veduta andare e tornare liberamente, scorrazzare a quel modo.

—Di che temete, Maurizio?—chiedeva ella, con la sua bell’aria di sicurezza, donde traspariva anche un lampo di celia amorevole.—Voi v’immaginate che tutti vogliano occuparsi dei fatti miei, e mi date più importanza che io non ho. Vi dispiace che parli così? Ebbene, diciamo che ne ho molta.... per te. Ma non per altri, sai, non per altri.—

Maurizio non voleva dir tutto. Le sue inquietudini si tenevano sempre a mezz’aria, vagavano di qua e di là, senza posarsi mai sopra un certo argomento. Ma se le sue parole non lo accennavano, il suo pensiero non sapeva allontanar sene, e negli occhi spaventati di Maurizio stava fissa una immagine molesta, l’immagine che lo rendeva cupo, che lo faceva fremere e tremar d’improvviso, anche negli impeti più caldi della passione. Non fremeva già, non tremava per sè; fremeva e tremava per la divina creatura, per l’amor suo così grande, così intenso, così vivo, e così minacciato di morte imminente, sospeso com’era ad un filo. Gli innamorati conoscono questi falsi equilibrii, e troppo spesso ne vivono. Del resto, c’è la sua voluttà anche in questo vivere di spasimi.

—Sapete,—disse un giorno Gisella, cogliendo a volo negli occhi di Maurizio uno di quei lampi che parevano illuminare di tetra luce il fondo del cuore,—sapete che alle volte, stando qui accanto a me, mi avete l’aria d’un condannato?

—E non lo sono io forse?—rispondeva egli sospirando.—So bene quel che mi aspetta. Non dovrò perdervi io, e tra poco, forse domani? Perdervi, sì; non sarà forse un perdervi, il vedervi appena qualche momento, e di rado, quando egli sarà ritornato?—

L’immagine prendeva un nome; dagli occhi passava alle labbra. Dal giorno che Maurizio aveva incontrata Gisella al Martinetto, ne erano passati almeno diciotto, e ancora un accenno a lui non gli era uscito di bocca. Ma il tempo stringeva; il ritorno temuto non incominciava a sentirsi nell’aria?

—Vero,—rispose Gisella,—non sarò più così libera. Triste cosa, amico mio, triste cosa!—soggiunse, traendo un profondo sospiro e reclinando la bionda testa sul petto di Maurizio.—Tu lo vedi, dunque? Bisognerà pensare al rimedio; ed io non ne vedo che uno.... ritornare alla Balma.—

A quella proposta improvvisa, Maurizio ebbe un sussulto per tutte le fibre.

—No, no;—diss’egli, tremante;—come sarebbe possibile?

—Nel modo più naturale;—rispose candidamente Gisella.—Egli vi scriverà, pregandovi di ritornare.

—No, alla Balma, no, mai.

—Perchè?—chiese Gisella, non intendendo quella ripugnanza.

—Perchè!... mi domandate il perchè? Ma egli.... egli ha dei diritti, dei diritti che il mondo riconosce per sacri. Dio mio!—esclamò il giovane, abbassando confuso la fronte.—Come oserei ritornare lassù, ora?... L’ospitalità.... la fiducia ch’egli mostrerebbe di avere in me.... C’è una legge, infine, una legge che io sento di avere violata.

—Maurizio! Maurizio!—gridò ella, spaventata, afferrandolo per le mani e costringendolo a guardarla negli occhi.—Ma no, che follia!—riprese tosto, sforzandosi di sorridere.—Perchè farmi paura così? La legge! la legge! Io ne conosco una; è quella dell’amore. Non lo credi tu, Maurizio, che questa legge vada innanzi a tutte le altre? Infine, ragioniamo; che cosa sono io per lui, se non una bambina, un ornamento della casa, una compagna della sua solitudine? e una compagna che non basta neanche a fargliela sentire un po’ meno, questa sua solitudine! Il suo cuore.... lo sai, dove lo ha egli il suo cuore? Nella testa, nella testa che gli ribolle sempre d’idee bellicose. Era un soldato, ed è rimasto un soldato; l’amor suo è il servizio, la disciplina, la manovra, la guerra. Vedi bene che t’inganni. Doveva restare otto giorni; ha scritto una lettera per prolungarsi la sua licenza; ed ecco, siamo quasi ai venti; potremo giungere ai trenta, ai quaranta. E perchè? per una serie di esperimenti importantissimi, che lo interessano tanto, laggiù, nel suo campo, nel suo poligono. Amico mio, è l’odor della polvere che inebria questi uomini. Che cosa vuoi che si faccia di me? Ed io, frattanto, io ho un cuore, non è vero? E te ne ho date le prove, Maurizio, di essere una buona bambina, che non ha voluto farvi disperare, come avrebbe fatto tanto volentieri una sciocca, una civetta, una donna cattiva. Vi ho detto: ti amo; non mi son fatta strappare la mia dolce confessione di bocca: e tu mi hai intesa, non è vero, mi hai bene intesa?—

Maurizio tentò di parlare. Quell’onda di passione, sollevata, ingrossata da tutti gl’inconscii sofismi del cuore, incominciava a soverchiarlo. Infine, egli amava quella donna, l’amava pazzamente; e non era colpa sua, ma di un perverso destino, se due uomini erano in lui, se ragione e sentimento cozzavano troppo spesso nell’anima sua, se quella, già usata a soccombere, voleva ad ogni costo farsi ascoltare, prima di oscurarsi e di spegnersi. Queste contradizioni sono frequenti nell’uomo moderno: la natura e il sangue, antichissime forze, comandano una cosa; il pensiero e la educazione morale ne persuadono, o ne intravvedono un’altra. Ma allora, non più: che cosa pretendeva da lui la ragione, se in tempo opportuno non aveva saputo parlare? Intendeva ella forse di ottenere alla legge del dovere una troppo tarda vittoria, che sarebbe stata un’ingiuria? e un’ingiuria a cui la delicatezza del sentimento e un’altra specie di educazione, la cavalleresca, non avrebbe mai consentito? Maurizio tentò di parlare: e le idee che gli si affollavano alla mente voleva esprimerle a lei, stringendola nelle sue braccia, bisbigliandole in sommesse parole all’orecchio della divina creatura. Son quelle che valgono, infatti, quelle che persuadono meglio.

Ma Gisella non volle ascoltarlo. Concitata dalla progressione del suo stesso ragionamento, voleva andar oltre, e non solamente a parole. Come mai una argomentazione così falsa, così contraria agli imprescrittibili diritti del cuore, si era affacciata tra i dubbî di Maurizio? Con quei dubbî era necessario di finirla una volta per sempre. Nel candore del suo peccato, trascinata da quell’impeto di passione che non sente più freno, si alzò, spiccandosi da lui, per andare verso la merlata del torrione, del dolce nido in cui erano raccolti; si affacciò, si spenzolò fuori con la testa e col petto, tanto che Maurizio atterrito si slanciò con le braccia tese per afferrarla. Gisella lo trattenne con un gesto, pur ritraendosi e volgendosi a lui sorridente; poi con un altro lo trasse accanto a sè, additandogli l’abisso che si schiudeva buio e rumoreggiante sotto i suoi occhi.

—Guarda!—gli disse solenne.—Guardate, Maurizio;—ripigliò, con uno dei suoi trapassi consueti dalla confidenza alla cerimonia,—guardate bene, ma bene, là dentro. C’è la natura in tutta la libera furia delle sue forze meravigliose. C’è il vuoto con tutte le sue paurose oscurità. Ma c’è ancora chi vuol leggere nel buio, chi vuol dettar legge alla natura. Ebbene voi che sapete tante cose, Maurizio, guardate, scrutate, indagate. Se c’è in quel buio altra cosa che il vostro amore ed il mio, se c’è una legge che li condanni, se c’è.... se ne siete ben certo.... gettiamoci nell’abisso, e puniamoci da per noi del nostro delitto, della nostra vergogna. Vi piace? a me piace.... Voi siete un uomo leale, ed io vi crederò ciecamente; la vostra parola sarà la mia legge.—

Maurizio fu per un istante affascinato; e istintivamente obbedendo, guardò nel vuoto. Rumo reggiava l’abisso, e nel tumulto assordante delle sue mille voci pareva chiamarlo.

Sì, c’era, la legge; c’erano anzi mille leggi, tutte derivate da quell’una, primitiva, ond’erano state mosse ad un cenno del creatore le forze cieche della natura. Anche quell’arco di sette colori vagamente disegnato a tenui gradazioni nell’aria, incurvato leggermente sul baratro, nello strato vaporoso dove migliaia e migliaia di gocce diffuse in sottilissima polvere d’acqua si offrivano in mobile superficie di prisma ai raggi del sole, anche quell’arco pareva una rappresentazione, lievissima, a mala pena sensibile, ma pur vera, innegabile, della eternità della legge. E non ci avevano veduto, gli uomini primitivi, il segno istesso della alleanza antichissima della natura con Dio, del conosciuto coll’inconoscibile? Attratto da quel ragionamento interiore, imperioso, prepotente, Maurizio levò gli occhi a guardare Gisella. Gisella guardava lui, con gli occhi fissi e le labbra tese, come per bere nelle prime parole di Maurizio la sentenza d’entrambi. Egli rabbrividì involontariamente, tremò tutto di aver forse indugiato troppo a rispondere.

—No, no,—diss’egli concitato,—no, no!—

E così gridando, l’afferrò per la vita, traendola a viva forza indietro, per modo ch’essa gli cadde resupina tra le braccia convulse.

—No, no;—ripeteva frattanto,—non guardare laggiù. Non sai che il vuoto attira, bam bina? Anch’io sono stato sul punto di cedere. Gisella, Gisella, anima mia, vita mia, che è mai questo pazzo giuoco? Mi avete fatto paura. Ma è possibile, una follìa come la nostra? No, cara, no, adorata, non c’è niente laggiù; non ha leggi il vuoto. L’amore, hai ragione, l’amore è tutto. Non è l’anima del mondo, l’amore? E noi lo vorremmo sacrificare a quattro leggi umane, nate dal fatto materiale della occupazione della terra, e condotte di sofisma in sofisma a giustificare la servitù delle anime? lo vorremmo sacrificare a quattro leggi, che passano e mutano, oggi più spesso e più facilmente d’un tempo, tanto che noi medesimi le disfacciamo anche prima di vederle cadere in disuso per virtù di costumi? No, no, viviamo, Gisella, ed amiamo; il resto è nulla, nulla, davanti all’amore, a questa sublime visione dell’eternità, concessa alle creature da una misericordia suprema ed arcana.—

Gisella ascoltava, dolcemente cullata nelle braccia di lui da quella musica di voci interrotte e di sublimi follìe. Anch’ella, poi che tacque Maurizio, parlò; ed erano voci più sommesse, le sue, come versi di canzone mormorata tra la veglia ed il sonno.

—Vorrei essere.... sì, vorrei essere la serpicina che posava confidente la sua bella testina elegante tra le fauci ardenti d’amore del suo damo selvaggio; e così dolcemente stretta, dal mio caro spiraglio, vorrei ammiccare con la pupilla lucente di felicità al verde della macchia. Ma perchè Maurizio, il mio dolce e sapiente signore, ha una così ingiusta antipatia per il serpe? Lo so, è un animale troppo distante oramai dal tipo delle altre creature viventi; ma forse perchè egli è il più antico tra gli esseri. E striscia, il poveretto; striscia, perchè il mondo è freddo, freddo, troppo freddo al paragone dei suoi bei tempi. Ma allora, chi sa quante migliaia d’anni addietro, il sangue gli scorreva più caldo nelle vene; e il serpe andava più glorioso, con la testa eretta sul suo bel collo di cigno, e per tanti specchi quante erano le sue nitide squamme rinfrangeva in vivaci colori la bella luce di un sole più ardente. Egli era il signore del mondo, allora; oggi lo ha abbattuto la viltà delle cose. Le antiche leggende, trovandolo ancora padrone della terra, ne fecero il gran seduttore.... Seduttore!—ripeteva Gisella, sorridendo placidamente al vocabolo.—Bel signore di Vaussana, non siete un gran seduttore anche voi? Oh, senza volerlo, quasi senza saperlo.... Povero il mio Maurizio tanto caro!... Ma dimmi, dimmi ancora una volta che son io l’anima tua.—

Maurizio si era mosso in soprassalto. Anch’ella si scosse e rizzò la testa. Una voce si udiva, voce di canzone alta, squillante, di là dalla macchia dei nocciuoli. Ambedue riconobbero la voce del pastore, e sorrisero.

—Strano!—disse Maurizio.—Non l’ho mai sentito cantare.

—Tutti i pastori cantano, quando son soli;—rispose Gisella.—Ma per essere venuto da questa parte, dove non ci son prati da pascolo, bisognerà ch’egli abbia pensato di farsi sentire da qualcheduno.

—Per dare un avvertimento?—chiese Maurizio, turbato.

—Chi sa? la voce è da amico; l’avvertimento verrà certo in buon punto. Andiamo al Martinetto.—

Si alzarono, stringendosi amorosamente per la vita. I cardellini della macchia videro ancora, un bacio lungo ed intenso, ma non lo sentirono scoccare. Quando i due giovani uscirono dal folto dei rami, il cantore non era più là; ben si sentiva la sua voce dalla parte delle rovine, che certamente egli aveva già oltrepassate, per ritornarsene a casa.

—La via è dunque libera;—conchiuse Gisella.—Seguiamo il nostro pastore.—

Quando giunsero sull’aia dei Feraudi, il pastore era là, con l’aria di non pensare a loro. Si scambiarono poche parole tra Gisella e Biancolina, apparsa allora sull’uscio; poi il contadino, guardando lontano verso mezzogiorno, disse:

—Una carrozza laggiù, al principio del paese; si avvia verso la Balma.

—È lui, il generale;—soggiunse Gisella, volgendosi a Maurizio.—Grazie, Feraudi; non c’è tempo da perdere per andarlo a ricevere. Mi accompagnate un tratto, signor di Vaussana?—

Come fu di là dai due roveri, fuor dalla vista dei contadini del Martinetto, Gisella trasse il respiro più libero.

—Vedi, Maurizio? tutto va bene. Va’, ora; riceverai una lettera, va’.—

Capitolo X. Il trattato di pace.

Maurizio era tornato al Castèu in uno stato di agitazione impossibile a descriversi. Passò in quella sua solitudine una cattiva giornata ed una pessima notte; nè migliore fu per lui il giorno seguente, nella ignoranza di ciò che accadeva alla Balma. Una cosa sapeva egli; che non vedeva Gisella, e che la montagna senza di lei era triste, il cielo buio, e cieco il futuro. Nel silenzio della sua stanza, dove egli stava di continuo con l’anima in soprassalto, come gli tornavano più chiari i dubbî, più forti i terrori, più aspri e più pungenti i rimorsi! Egli, infine, egli era il grande colpevole. Quella innocente creatura l’aveva travolta egli sull’orlo di un abisso, dove mal si reggevano ambedue: un passo ancora, un moto imprudente, ed era perduta. E forse le imprudenze non erano state già troppe? Non era l’amor loro sospeso ad un filo? il loro segreto in balìa d’un discorso incauto, d’una parola maligna, che invitasse ai sospetti? Questo pensiero lo faceva fremere; e questo pen siero gli ritornava ad ogni tratto, percuotendo con ritmica uniformità nella notte dell’anima sua, come la goccia d’acqua gemente dalla volta d’una spelonca percuote monotona, insistente, inesorabile, sulla concava superficie d’un masso.

La mattina del terzo giorno, mentre egli già più non sapeva in che mondo si fosse, gli fu portata una lettera. Non occorreva chiedere chi fosse stato il messaggero: la mano di scritto parlava chiaramente da sè. Maurizio aperse la busta con le mani convulse, lesse con occhi tremanti la lettera. Gisella scriveva:

« Signor Maurizio,

«Quello che ebbi il piacere di dirvi tanti giorni fa nel vostro Castèu, vi ripeto oggi col migliore inchiostro della Balma. Perchè non vi lasciate vedere quassù? Il generale, nostro signore e padrone, si maraviglia molto di non veder più il suo amico Sospello. Saprete pure ch’egli è ritornato alla sua residenza ier l’altro. Amitiés ».

Seguiva il nome: «Gisella Matignon de la Bourdigue». E alla firma teneva dietro un poscritto, ma d’altra mano, più ruvida, più grossa, più densa d’inchiostro, come d’uomo avvezzo a non mettere che firme.

«Ma sì, mio buono, ma sì» diceva il poscritto. «Che diavolo v’ha preso di non dar passata ad eccessi di nervi, a sfoghi di malumore? Se ne avete anche voi, venite a metterli in comune. Bourdigue ».

Che cos’era avvenuto alla Balma, perchè si scrivessero di queste lettere a lui? Niente di male, a buon conto; e Maurizio incominciò a metter fuori un sospiro di sollievo. Poi, diffidente com’era e amante di sofisticare su tutto, almanaccò un pezzo sul fatto che la lettera fosse scritta dalla contessa. Ma il poscritto del generale era là, e mostrava chiaramente che la lettera era stata scritta da lei sotto gli occhi del suo signore e padrone. Avesse rotto lei il ghiaccio, o lo avesse rotto lui, la conseguenza era una sola: che gli si facevano garbatamente delle scuse, che ogni nube era dissipata, e che egli poteva andare alla Balma. Ora, il poterci andare significava doverci andar sùbito.

Il tono gaio della lettera significava ancora che tutto procedeva benissimo alla Balma. Come sono avvedute le donne! come sanno l’arte di farsi intendere, anche quando non vi dicono nulla! A proposito d’arte, non c’era egli un po’ di finzione, un pochettino d'ipocrisia tra le linee, specie in quell’accenno ad una visita al Castèu? No, perchè quella visita c’era stata difatti, e in quella visita la contessa aveva detto cerimoniosamente al signor di Vaussana quello che più volte, nei confidenti colloquii della montagna, Gisella aveva fatto intendere e dato per sicuro a Maurizio. Dunque, niente ipocrisìa nella lettera, solamente accortezza. Che, forse, per non apparire ipocriti, s’ha egli a dire ogni cosa? Maurizio, frattanto, per quel cenno della visita di Gisella al Castèu, sapeva già come regolarsi alla Balma, quando avesse da incontrar la signora in presenza del generale. Come sono avvedute le donne!

Andato quel medesimo giorno, e con aria di sollecitudine che rendeva più bello il suo atto, fu accolto a braccia aperte. Le aspre discussioni erano dimenticate, e non era neanche il caso di farci la più lontana allusione. D’altra parte, la montagna aveva custodito il suo dolce segreto: il viso che accoglieva era sereno, l’occhio limpido, il labbro sorridente.

Maurizio non ricevette senza un po’ di vergogna quelle dimostrazioni di amicizia. V’hanno principii che non si offendono impunemente: la coscienza può sonnecchiare, non addormentarsi del tutto; ed anche quando è lento a venire il rimorso, la colpa si definisce da sè nel segreto dell’anima, si accusa in un vago senso di malessere nel profondo del cuore. Ma tanta gioia brillava sul volto di Gisella; tante faville d’oro si sprigionavano da quegli occhi d’indaco, che egli, superato il primo momento d’angustia, non volle vedere, seppe non vedere più altro. Se era tranquilla lei, perchè doveva esser da meno il signor di Vaussana? Se appariva così confidente lei, donna, perchè sarebbe stato egli, uomo, meno disposto a sommergere ogni molesto pensiero nella sensazione profonda di un amore, che era dopo tutto la sua vita, la sua felicità, la sua gloria?

Intendiamo che cosa sia questa gloria. Essa non è certamente la soddisfazione di un grosso egoismo, di una piccola vanità, di una ambizione volgare. È anche gloria, è gloria sopra tutto la luce viva di cui si cinge il gran sole, l’aureola di raggi onde s’intorniano le fronti dei beati, la cerchia profonda di teste adoranti e d’ali tese in estasi divina, onde l’arte ideale ha circondata la santità trionfante. Gloria è l’amore nella pienezza sublime delle sue contentezze, quando ha confuso due esseri che si sono lungamente cercati e intensamente voluti; due vite che si librano in alto, posando immobili in certe lor calme serene, pari a quelle dell’ora meridiana, quando sopra una medesima linea di mare si vedono posare due bianche vele latine; le quali, assai più che di far viaggio, sembrano compiacersi di gettare agli occhi del riguardante un lungo riflesso, immobile al par di loro, su quelle onde chete dove la luce si addormenta e il calore si spegne nella tonalità vaporosa del quadro. Dolce abbandono sul mar senza vento, con molta luce diffusa dall’alto e con molta pace dintorno: una luce che par così diafana, ma in cui l’occhio non vede; una pace che par tanto profonda, ma in cui l’intelletto non pensa.

Maurizio, per intanto, non pensava più che alla sua grande felicità. «Dio mio» diceva egli in cuor suo «se questo è un sogno, fate che duri, fate che io non mi svegli». Ma ascolta Iddio tutti i voti?

Il generale era grandemente mutato da quello di prima. Il recente viaggio gli aveva dato una scossa benefica al sangue. Aveva sentiti i tamburi, le musiche militari; si era tuffato nella prosa robusta della caserma, nella dolce poesia del gran rapporto, e ne era uscito rifatto come da un’altra fontana di gioventù. Gli esperimenti della polvere senza fumo lo avevano mandato in visibilio; gli avantreni di nuovo modello, il nuovo zaino della fanteria, il nuovo cannone dell’artiglieria di montagna, le nuove combinazioni chimiche in ite con cui l’amorosa umanità si prepara alle gioie della pace universale, lo avevano intenerito, ritemprato, rinvigorito, esaltato. In ogni ragunata dei vecchi compagni d’armi il gran verbo della patria era suonato ben alto. Bravi soldati, che l’abuso della filosofia non è ancor venuto a guastare! Ai pranzi solenni, ai punchs, agli absinthes, ai vini d’onore, si era parlato spesso e volentieri di rivincita, e il ringiovanito Bourdigue aveva promesso in parecchi brindisi che tutti i vecchi si sarebbero trovati al loro posto di combattimento. « Coûte que coûte! » soggiungeva. «Sono ancora saldo in sella. Vorranno ben darmi una brigata di mobiles! E per riguadagnare il perduto non si sarà mai in troppi».

Di tutte queste cose ragionava liberamente col signor di Vaussana, spesso dimenticando che parlava ad uno straniero. Maurizio stava a sentire, mostrando d’interessarsi al discorso, e, quando la nota della revanche squillava più alta, facendosi più piccino che poteva, quasi cercando, in quella specie di rannicchiamento morale, di far sparire l’immagine della propria nazionalità. Incominciava anch’egli ad esser vile, vile di quella tacita compiacenza, di quella spontanea complicità ond’è largo qualche volta anche un uomo di valore, verso chi è in casa sua il padrone, e non solamente il padrone della casa. Ascoltava, sorrideva, approvava, dando a quell’uomo la grata illusione di aver sempre davanti a sè il suo consenziente uditorio. Frattanto vedeva Gisella con la coda dell’occhio; e questo lo faceva restare immobile al fuoco di quella eloquenza soldatesca, che era poi tutti i giorni la stessa.

Gisella, pur troppo, non era sempre là a consolarlo delle sue lunghe fatiche; non istava più tanto ferma in salotto, nella sala del biliardo, o sui sedili della spianata. Gisella andava e veniva, aliando come una farfalla. Immensa gioia, vederla ricomparire ad ogni tanto, radiante apparizione di vermiglio e d’oro; ma qualche volta accadeva che la bellissima creatura lo lasciasse solo per ore ed ore, a tu per tu col generale concionante. S’intende che di quelle assenze sue, di quei sacrifizi di lui, lo compensava ad usura nei brevi momenti che poteva concedergli.

—Caro!—gli bisbigliava.—Come ho sofferto, a lasciarti, andando senza di te a vedere i figli di Biancolina! Ma ho pensato a te, sempre. Bella strada, che ho fatta tante volte con te! Domani, non è vero? alle undici; se dovessi ritardare dieci minuti, mezz’ora, non sarebbe colpa mia, lo puoi credere. Il nostro caro nido nel verde, dove soltanto ci pare di poter dimenticare ogni cosa!...

—Per troppo brevi momenti!—mormorava Maurizio, sospirando.

—Non son meglio che nulla? Pensate, bel cavaliere, che se mi aveste sempre al vostro fianco, verrebbe il giorno che vi.... No, no,—soggiungeva, lasciando in tronco la frase,—perdonami, ho detto per celia. Mi piace tanto di vederti fare quella cera lunga lunga! Sei bello, anche quando vai in collera. E ti amo tanto, Rizio, ti amo tanto!—

Rizio per lei, Maurizio per quell’altro, il signor di Vaussana era diventato l’amico necessario, il consigliere intimo, l’aiutante discreto di tutt’e due. Sì, certamente, di tutt’e due, senza che ci fosse modo o ragione di adombrarsene. Il generale, strano uomo e piuttosto disuguale d’umore, trattava sempre la moglie come una bambina. A certi momenti, Maurizio poteva figurarsi che quella divina creatura, posta tra lui e quell’uomo dal cieco destino, fosse per quell’uomo una nipote soltanto. E che discorsi curiosi gli toccava di sentire! discorsi che lo face vano fremere, tremare, impallidire, sudar freddo. Un giorno dovevano mettersi tutti e tre in viaggio, fare una corsa (una punta, diceva il generale) fino a Ventimiglia. Il tempo era bellissimo; si andava in vettura scoperta, come ad una passeggiata. La carrozza era già da un pezzo sulla spianata; da un quarto d’ora i cavalli facevano la ciambella sulla ghiaia, e la contessa, andata a mettersi il cappellino e a prendere la sua mantiglia, non si vedeva comparire. Gisella in quelle occasioni non era mai pronta; e il generale, che tante volte si spazientiva, tuonando contro la vanità delle donne allo specchio, era quel giorno di buon umore.

—Venite, Maurizio;—diss’egli ad un certo punto;—andiamo a vedere che cos’ha la nostra signora, che si fa tanto aspettare.—

La nostra signora! Per quella volta, davvero, Maurizio si sentì correre il sangue dal cuore alla testa, e sùbito dalla testa al cuore. Era diventato egli in viso come una brace, o come un cencio lavato? Non ne sapeva nulla; ma si spaventò ad ogni modo, pensando che il suo improvviso mutar di colore fosse notato da quel terribile uomo che era così spesso un fanciullo.

Un’altra volta era lei che nella sua cara ingenuità faceva anche peggio. Si mutava la disposizione dei mobili e la destinazione di una camera; si dovevano collocare certe tendine bianche con liste riportate di ricamo rosso, opera d’un inverno della contessa Gisella. Era un la voro delicato, quello di mettere a posto le tendine nuove: ma era anche facile, non richiedeva un grande ingegno, nè una pratica speciale. Del resto, nell’arredamento del Castèu, e più particolarmente del quartierino di Maurizio, il padron di casa aveva voluto dirigere, far lui ogni cosa, cavandosene con molto onore, come diceva la contessa Gisella, con mediocre infamia, come diceva modestamente il signor di Vaussana. Così era avvenuto che per quel piccolo lavoro alla Balma, la perizia dell’amico necessario, del consigliere intimo, dell’aiutante discreto, fosse posta a contribuzione. Il generale aveva accolta con gioia quella occasione di far qualche cosa; e là, senza metter tempo in mezzo, si era incominciato una mattina a lavorare, non volendo manifattori nè servi ad aiutare. Due camere erano sottosopra, per arredarne una; si andava e si veniva, si spostavano sedie e canapè, si trascinavano tavole, si abbambinavano stipi, si appendevano quadri in isporto; finalmente si collocavano in opera quelle sacre tendine. Il generale ai piedi della scala doppia, tenendone con mano ferma gli staggi mastiettati; Maurizio lassù, appollaiato sugli ultimi piuoli, per far combaciare gli anelli del padiglione dorato coi becchi degli arpioni al muro; così, lavorando e sudando, dimenticavano l’ora della colazione.

—Ah, bravi!—aveva gridato la contessa, apparendo sulla soglia.—Bravi i miei uomini! così va bene. —

Altro che arrossire e impallidire a vicenda! Maurizio balenò sulla scala, e fu lì lì per cascar sulle braccia del suo compagno di fatica.

—Ma non vi pare che basti, per mezza giornata di lavoro?—ripigliava Gisella.—La zuppa è in tavola; i miei uomini l’hanno ben guadagnata.

—I vostri uomini, contessa,—rispose Maurizio, tratto da una forza arcana a ripigliare la frase che lo aveva fatto tremare,—meriterebbero piuttosto d’esser mandati a sfamarsi in cucina, tanto si trovano male in arnese.—

Il generale rideva. Quel discorso gli pareva certamente in carattere col lavoro che egli e il suo amico Maurizio facevano da tre ore. Ed era contento di passare per un manifattore. Gli uomini son sempre contenti, quando fanno qualche cosa che richieda sforzo di muscoli; hanno così l’illusione di maneggiar la leva di Archimede e di muovere il mondo.

Del resto, i giorni di buon umore non erano neppure tanto rari per il signor della Balma. Anche parecchi mesi dopo il viaggio di Francia, in cui si era, come diceva lui, rifatta la mano, il generale sapeva ridere e scherzare a certe ore del giorno; le ore piene, quando abbiamo chi ci ascolta, se vogliamo parlare, chi parla, se vogliamo tacere, chi si piega e si adatta a tutti i capricci dei nostri nervi invecchiati.

In quelle ore tutto andava bene; ed anche la bambina, con le sue moine, con le sue vanità di donna, pareva un’eccellente compagnia a quel vecchio brontolone.

—Che diavola!—diceva allora a Maurizio.—Fa quel che vuole. È il folletto della casa. Come starebbe bene alla testa della brigata.... o della divisione! Mah!—soggiungeva egli, con un sospirone da Mongibello in procinto di dar fuori;—ho fatto una grossa bestialità a lasciare il servizio. Anche voi, mio buono, anche voi!

—Anch’io;—ripeteva Maurizio, sforzandosi di trarre un sospiro a sua volta.

—Ah!—ripigliò il generale.—Se fossimo rimasti al nostro posto, anche mandando giù qualche amaro boccone, non dovremmo pregar nessuno per esser riammessi nei quadri; e il primo suono di tromba ci troverebbe in prima linea. Ma che diamine! ora che ci penso.... non saremmo mica insieme, amico Maurizio! Voi forse coi vostri amici Tedeschi....

—Non me ne parlate, generale!—diceva Maurizio, con aria di costernazione.—È orribile.

—Ah! lo riconoscete? lo sentite anche voi, che è orribile! Ma perchè, domando io, perchè venire a queste estremità?—

Maurizio lo sapeva benissimo, il perchè ed il percome; ma aveva preso il verso di dar ragione al suo interlocutore. Ora, tra i modi di dargli ragione c’era anche quello di non saper che rispondere; ed egli già si disponeva a tacere, sospirando da capo. Ma in quel punto gli passò un’idea per la mente; la colse al passo, come si afferra una tavola di salvezza.

—Credo,—diss’egli, timidamente,—che gli avvocati ci abbiano imbrogliate le carte.

—Gli avvocati? oh, sì, dite bene, gli avvocati. Gran brutta gente, gli avvocati, che con le loro ciarle vi fanno il buio di pien meriggio. Tra noi soldati ci saremmo intesi, amico Maurizio: questo a te, questo a me, donnant donnant, e tutti pari. Noi a Tunisi, senza Crumiri; voi a Tripoli, senza dir ai nè bai; noi in Egitto, e voi in Abissinia; noi a Metz e Strasburgo, voi a Trento e Trieste, che bel fatto! et pas plus malin que ça.—

Così l’uno tagliando dalla pezza e l’altro approvando del capo, l’uno dicendo Deo gratias e l’altro cum spiritu tuo, si faceva, di sopra ai trattati e in barba ai loro custodi, la gran pace dell’avvenire. E le cose andavano. Maurizio era diventato per quell’uomo un altro Dutolet, anzi meglio, perchè il Dutolet approvava tacendo, e Maurizio approvava parlando. I facili discorritori amano che qualche parola si metta in mezzo ai loro discorsi; almeno quando essi hanno la bontà di ricogliere il fiato. La politica del generale passava adunque senza contrasti. Per contro, e quasi per compenso, il generale cedeva sul capitolo della religione, non toccandone mai. Aveva torto; poteva sfogarsi oramai anche su quell’argomento, perchè Maurizio, com’era ridotto dalla sua condizione, lo avrebbe lasciato dire a sua posta.

Capitolo XI. Rifugio spirituale.

Peccato che in mezzo a queste calme fossero ancor troppo frequenti i giorni di nervi! Il generale non era paziente per natura: non solo ogni contrarietà lo stizziva, il che può accadere a tutti; ma ogni lentezza, ogni più piccolo indugio, ogni inerzia naturale delle cose che lo circondavano, e che perciò dovevano dipendere da lui, lo faceva andare fuori dei gangheri. Avvezzo alle sonorità del comando, parlava troppo spesso con voce di tuono; e nel tuono della propria voce si eccitava, si riscaldava, s’infiammava sempre più, anche per cose da nulla. Nessuno toccava i libri della sua biblioteca; libri d’arte militare, annuarii, regolamenti, statistiche, a chi sarebbe mai venuto in mente di leggerli? Se qualche volta non si trovavano a posto, la colpa non poteva esser che sua. Ma no, non era sua, era di tutti, quando cercava e non trovava il fatto suo; e guai, allora, guai a tutti! era un diavoleto, un finimondo.

Degli abiti non era molto curante; abiti bor ghesi, robaccia! non meritavano di occuparsene troppo. Nella biancheria era più sofistico: quella toccava la pelle e poteva dar noia. Così, le sue camicie dovevano aver la salda e non averla, abbracciare il collo e non stringerlo, non farsi sentire per nessuna costura. Quando, per troppa salda di quelle, o per subitaneo ingrossamento delle corde del collo, si sentiva nulla nulla a disagio, ficcava due dita nel colletto, e crac! strappava senz’altro, bestemmiando la cameriera, che fuggiva nella sua camera a farsi il segno della croce. Se non trovava lì per lì le sue cigne, era un guaio dei grossi: peggio poi se, dopo averle trovate, e cercando di abbottonarle, gli mancava o gli ballava il bottone nella cintura dei calzoni; la cameriera poteva credere venuto l’anticristo.

—Ettore!—si provava a dirgli la contessa, a cui dispiacevano quelle scene, ma ancor più di sentir sgridare a torto le persone di servizio.—Sai bene che non è lei. Son io che mi prendo cura dei tuoi abiti! son io che faccio sempre queste cose.

—E non capisco perchè tu lo faccia;—ribatteva egli, inasprito.

È proprio dell’uomo il non capire certe cose, specie in materia di delicatezze domestiche. Era così l’altro Ettore? Verrebbe voglia di crederlo. Infatti, lui morto, la bella vedova passò a seconde nozze con Neottolemo, e in terze con Eleno.

A taluna di quelle scenate era presente il signor di Vaussana, che non ci poteva far niente. Gisella chinava la fronte, dopo aver guardato Maurizio, con aria di volergli dire: «Vedete? non son mica tutti come voi, che apprezzate tanto questa povera donna».

Un giorno ella capitò all’Aiga col volto acceso e gli occhi rossi. Maurizio non l’aspettava ancora, ed era lassù al dolce nido per la sua prudente consuetudine di andar sempre al ritrovo due o tre ore prima del tempo. E dell’ora insolita e della strana animazione del volto di lei, Maurizio si maravigliò grandemente.

—Ti dispiaccio forse?—diss’ella.

—Ecco una parola ben crudele,—osservò tristamente Maurizio.—L’ho io meritata, notando una novità d’orario nella vostra cara venuta? Voi siete alterata, Gisella; avete anche pianto. Che cosa è stato? Una delle solite sfuriate, oppure....

—No, non cercate altro;—interruppe Gisella.—Una delle solite, ma un po’ più brutta delle altre, poichè dalle parole è passato per la prima volta agli atti. E per una cosa da nulla, avendo torto su tutti i punti. Gli avevano portato il caffè tiepido, gran delitto! Ed egli lo voleva bollente, per questa volta, senza averlo detto prima, mentre ordinariamente si lagna che glielo portino troppo caldo, facendogli perdere il tempo a sorseggiarlo. E perchè io mi ero provata a calmarlo con una buona parola, sapete come mi ha risposto? Scaraventandomi la chicchera addosso. Che ve ne pare? Un bambino viziato non farebbe peggio del mio vecchio padrone. Non ho detto una parola, non ho fatto un gesto, ricevendo l’offesa villana, alla presenza del servitore; sono andata a levarmi la veste macchiata, ne ho indossata un’altra, ho preso il cappellino, mentre egli era là a far le volte del leone in gabbia sul pavimento dell’atrio.

—Prima della colazione!—notò Maurizio.—Che imprudenza!

—Ah sì, raccomandatemi ancora di esser prudente. Se egli è pazzo, ho da esser savia io, che sono dei Matignon come lui? La prenda poi come vuole; io non intendo più di esser trattata come una bambina, nè come una schiava. Dopo quella villania, poi! È la prima, e deve bastare. Guai se incomincio a passargli le sue brutalità. Perchè oramai si va di male in peggio; ed io non ne posso più, non ne posso più.—

Così dicendo, la bella scorrucciata si era seduta sul sedile di pietra e con ritmo convulso batteva il suo ombrellino sulle ginocchia. Maurizio si fece daccanto a lei, e le bisbigliò dolcemente all’orecchio:

—Sei tu che l’hai voluto, bambina!

—Io?—diss’ella, rizzando la testa.

—Così dicono tutti;—rispose Maurizio.

—Io....—ripigliò Gisella, con accento di amarezza.—Io, per vostra norma, non ho vo luto nessuno. Me ne ricordo benissimo: non è storia di cent’anni fa. Non sapevo nulla di uomini, io; non avevo conosciuto che il mio babbo, un cuor d’oro, che mi lasciava fare a modo mio in ogni cosa. Morto lui, caddi in una tristezza profonda. Voi non sapete, Maurizio.... non potete immaginarvi, essendo un uomo, come sia triste per una fanciulla restar così senza padre e senza madre sulla terra. È la solitudine in mezzo alla folla, è la notte dell’anima nella luce del giorno. Mi avevano fatto un consiglio di famiglia, mi avevano dato un tutore. Era un gentiluomo, lo zio; mi pareva tale; dovevo essergli grata di un sacrifizio inaudito, che tutti dicevano aver egli fatto per me, chiedendo di esser messo in disponibilità, lasciando il servizio, interrompendo la carriera. Mi trattava come una bambina, sì, ma ancora con molto rispetto. E un giorno mi fecero dei discorsi molto strani, che non mi parvero orribili. Ma che cosa sapevo io del mondo? Mi pareva fin naturale che egli volesse dedicarsi a me, essermi compagno nella vita, tenermi luogo di padre. Così fui data a lui, a lui che tutti dicevano buono, che io credevo buono come lo dicevano tutti. Ma non lo è, non lo è, non lo è; ha lo spolvero della bontà; nel fondo non è che un soldataccio brutale. Una donna, per lui, non è che un servo, un dipendente: la tratta bene, alle sue ore, come tratterebbe il suo aiutante, il suo attendente, a certe ore del giorno: poi, quando ha le lune, grida, strepita, tempesta, che pare un ossesso. Ed anche quando non è di cattivo umore, che credete? che sia appena appena tollerabile? Ha il comando nel sangue, ama il comando in tutto, il comando che annoia e che irrita. Ha bisogno di una cosa che è lì sotto la mano? Gisella. E subito Gisella deve esser lì, trovar lei, qualche volta indovinare ciò ch’egli vuole. Si sveglia nella notte, e non può riprender sonno? Gisella. E bisogna svegliarsi. Io dormo volentieri, e sogno bene;—soggiunse ella, mettendo il primo sorriso nel suo triste discorso;—ma bisogna star su e correr da lui, per discorrere. Se almeno volesse, come i bambini, farsi raccontare qualche favola! Ma no, discorsi gravi, faccende di casa, delle quali si potrebbe ragionar meglio a giorno chiaro; più spesso si gira a parlare di vecchie malinconie; della vita militare, del servizio lasciato, della carriera interrotta. Oh, non tralascia allora di farmelo sentire, il gran sacrifizio che ha fatto! Perchè lo ha fatto? chi glielo ha domandato?

—Capisco,—disse Maurizio,—è nel fondo un grande egoista.

—Sì, dite bene, un grande egoista. Amico mio, son pure infelice. Che vita sarebbe la mia, se non avessi il tuo amore? È il mio rifugio tanto caro. E come sono corsa a te, l’hai veduto? come ti ho sùbito indovinato! come ti ho sùbito accolto! È stata una buona stella che ti ha ricondotto quassù, alla terra dei tuoi padri. Se tu avessi tardato, o Rizio, se tu avessi tardato ancora a giungere in questo deserto, in questo orribile deserto, credo che ci sarei diventata tisica, e mi avrebbero presto seppellita laggiù, come una santa, nel piccolo chiostro di San Giorgio. E le avrei fatte meravigliar bene della mia compagnia, le povere sante dei Matignon.... se pure è vero che di là possiamo ancora maravigliarci di nulla.

—Già! la mia bella incredula;—notò Maurizio, con un placido sorriso.—Ma come fai a non credere?

—Dimmi tu come si fa a credere,—rispose Gisella.

—Pensando.... pensando molto;—diss’egli.

—Se bastasse il pensare!—esclamò la bella creatura, sospirando.—Ho pensato già tanto, io! Vorrei pure averla, una fede. Perchè questa vita è assai dura, e da qualche tempo incomincia a diventarmi intollerabile.

—Da qualche tempo!—ripetè Maurizio, con accento di tristezza.—Dunque.... per me?

—Ebbene, sì, per te. Pensi tu che non sia doloroso non potermi rifugiar sempre in te? Soffro, amico mio, paragonando questi brevi momenti alle lunghe ore del mio martirio quotidiano. Ah, sono ben lunghe, e il compenso di questo martirio bisognerebbe pure ottenerlo di là. Averne la speranza e la fede, che fortuna! Ma non posso; credo che mi manchi la.... come si dice?

—Non lo dire, e non lo far dire da me;—rispose Maurizio, vedendo che Gisella si era recato l’indice alla fronte.—Coloro che vogliono collocare le facoltà dell’anima in altrettanti punti più o meno rilevati della testa, saranno poi tirati a conchiudere che la loro testa è imperfetta, se le manchi il ricettacolo dell’ideale. Pensa, senti e credi; vedrai allora che, credendo in qualche cosa, non si è, a peggio andare, niente più sciocchi di loro.

—Voi ne parlate molto facilmente, Maurizio; ma non può creder chi vuole, solamente pensando e sentendo. Voi ci avevate.... non dirò già quella brutta cosa che vi dispiace tanto, ma almeno la strada fatta, l’indirizzo della vostra prima infanzia. Non è così? Hai dette le tue orazioni da bambino, ed io non le ho dette; te ne sei ricordato da giovane, ed io non ho avuto niente da ricordare; poi, più tardi, sul mare, in mezzo ai pericoli della tempesta....

—No, no,—interruppe Maurizio,—queste belle labbra non dicano di queste brutte cose, che non sono vere, che non sono state tali, almeno per me. Non fu il pericolo, quello che mi ha richiamato alla fede: non fu l’abitudine, quella che me l’ha instillata nell’anima.

—Allora, volete voi dirmi come andò?

—Sarebbe un troppo lungo discorso;—rispose Maurizio.—E voi, ora, mia dolce creatura, ritornerete a casa.... per farmi piacere. Vedi?—soggiunse stringendola fra le sue braccia, —ti mando via. Ma tu sai bene che ti terrei tanto volentieri?

—Sì, amico mio; non dubito già io di voi, come voi dubitate qualche volta di me. So bene che ho fatto un colpo di testa. Ci voleva, sai? e non ne sono pentita. Ma è forse meglio ritornare un po’ prima. Vedi tu, Rizio, come credo.... in te? Ma ancora voglio credere in ciò che tu credi. Convincimi, persuadimi, e sentirò che mi ami tanto, tanto, da non potersi immaginare, nè desiderare di più.

—Ahimè, quali patti!—esclamò Maurizio.—E se con tutta la miglior volontà del mondo, la mia eloquenza non fosse da tanto? Poi, avremo mai tempo per discorrere a lungo, per raccontarti.... come andò? Sono cose dell’anima, e il dirle brevemente è difficile.

—Scrivile, allora.

—Scriverle? Sarei lungo, più ancora che a dirle.

—Tanto meglio!—gridò Gisella, battendo le palme.—Sarò più a lungo con te.... nelle tristi ore che non ci posso essere. Voglio sapere come hai creduto tu, Rizio, voglio saperlo bene. Sai quanto è che ci penso, e non osavo domandartelo? Rizio è l’amor mio, il conforto, il rifugio e la vita. Perchè mai, uniti in tutte le altre, in una cosa sola siamo come stranieri? Voglio essere più in lui, più in lui, tutta in lui, col suo modo di pensare, di sentire, di essere. —

Maurizio posò sulla fronte della divina creatura un bacio solenne.

—Sia;—diss’egli poscia;—scriverò.—

E ridottosi a casa, non era stato a pensarci troppo lungamente. Non aveva infatti da scrivere per la stampa, per farsi giudicare da qualche migliaio di lettori; scriveva per lei, per l’adorata creatura. La fretta avrebbe dimostrato il suo buon desiderio di obbedirla; le stesse imperfezioni della forma, avrebbero fatto fede della sua sincerità. Il giorno seguente, alla Balma, mentre il generale passeggiava sulla spianata dando istruzioni al fattore, Gisella riceveva da Maurizio un piccolo involto di carte. Non era una lettera, ma a dirittura un quaderno.

—Scusate, ho fatto un passio;—diss’egli.—Mi è mancato il tempo d’essere breve. Ho incominciato a scrivere iersera alle undici; non ho finito che stamane all’alba. Del resto,—soggiunse,—spero bene che non vorrete leggere tutto in una volta, ma sorseggiare, centellinare questa povera prosa.

—No, no,—rispose Gisella,—voglio legger tutto d’un fiato. A centellinare ci sarà sempre tempo, e non tralascerò certamente di farlo. Povero il mio Rizio! una notte bianca! E quest’oggi, poi, un’altra condanna!

—Che sarebbe?

—Che troverete modo di andarvene prima del solito.

—Perchè?

—Perchè, non lo intendete? perchè voglio stare più a lungo da sola a solo con te.—

Era adorabile, mandandolo via a quel modo. Maurizio trovò per l’appunto il modo di far più breve la visita, portando via il generale, col pretesto di una piccola passeggiata in paese. La contessa fu sola, come voleva, per leggere il passio del signor di Vaussana. Ed eccolo qua, come ella lo lesse, incominciando dal titolo: «Dal dubbio alla fede».

Capitolo XII. Dal dubbio alla fede.

«Ricordando la educazione religiosa della mia infanzia (così scriveva Maurizio a Gisella) avevate in parte ragione. Sicuramente, ho dette da bambino le mie orazioni. Le dicevo anche molto volentieri, perchè me le faceva dire mia madre, recitandole insieme con me. Oggi ancora sento lei in certe inflessioni di voce, in certe pause che io metto nel mormorarle tra me; e questo me le rende più sacre, dal giorno che le ho ritrovate nella mia memoria, dopo tanti e tanti anni d’oblio volontario.

«Le avevo imparate senza sforzo. La mia educazione religiosa non fu punto pesante. In casa nostra si era religiosi, certamente, e di questo può esservi specchio la mia buona sorella Albertina; ma non si appendevano santi e madonne a tutte le pareti, e non c’era l’uso di recitare il rosario ogni sera, per dimenticare nella eterna ripetizione il significato delle preghiere, o per addormentarci al ritmo uniforme dei nostri borbottamenti frettolosi. Le nostre orazioni erano brevi, e tutte latine. La mamma ce le aveva spiegate alla grossa, ma ce le faceva sempre dire in latino. A me, che un giorno le avevo osservato come il latino non si usasse più, la buona mamma aveva risposto:

«—Appunto perchè non è più una lingua parlata tra gli uomini, dev’essere la lingua in cui si parli a Dio.

«—Ma se io non la intendo!

«—Mettici tutta l’anima, e t’intenderà lui; non basta forse?—

«Io ero già a cinque o sei anni un feroce curioso. Perchè questo? perchè quest’altro? d’ogni cosa volevo saper la ragione. Mia madre, con una pazienza maravigliosa, mi spiegava le cose come poteva, e fin dove giungeva la sua istruzione, o il suo raziocinio; poi mi diceva: «perchè Dio ha voluto così»; e questa era la ragione ultima, a cui non mi era lecito ribattere. Un giorno la misi in un grave impiccio, la povera donna, coi miei terribili perchè. A proposito di un infelice che avevamo incontrato per via, mentre egli si trascinava a stento nella polvere con due moncherini di gambe, stendendo a noi due moncherini di braccia, la ragione ultima di mia madre cozzò contro una mia irriverente ma non vana osservazione:—Ma dunque è Dio che vuole il male?—

«—Queste—rispose ella stringendosi nelle spalle—son cose che io non arrivo ad intendere. So che tutto è ordine, nel mondo; so che c’è il giorno e la notte, quello illuminato dal sole, questa dalla luna e dalle stelle; so ancora che ci sono dei giorni nuvolosi e delle notti burrascose. Per ora non mi domandare di più; tua madre del resto è una povera donna senza istruzione.—

«Non era vero. Mia madre aveva letto molto, leggeva ancora, quando poteva. Un giorno la sentii dire che se tutti gli uomini cessassero di leggere, si perderebbe la scrittura, come si perde una lingua, quando tutti coloro che la parlano son morti. E soggiungeva che se tutti operassero il bene, il male si estinguerebbe, sparirebbe da sè. Questo è un sogno; ma i sogni non son tutti da mettere in canzone. Perchè non vagheggiarli, quando son belli e fanno bene allo spirito? Che santa educatrice è stata mia madre! Peccato che ci abbia lasciato così presto! Quando ella si addormentò per sempre, io e mia sorella fummo ben tristi. Mia sorella è triste ancora, lo avete notato? Sorride poco, e sempre a fior di labbra. Ebbene, ciò data dal giorno che nostra madre è morta. Quanto a me, non so; molto allegro non sono mai stato. Ma allora avevo otto anni, e mi mandarono subito in collegio; forse per distrarmi, forse per non lasciarmi perdere il frutto della educazione materna.

«Anche in collegio avevo la religione, e più che in casa nostra, anzi troppo di più; la qual cosa incominciò presto a seccarmi. Il buon Dio delle mie orazioni infantili si andava rivestendo di misteri, di dogmi e di formule. Ogni mattina, prima della scuola, avevamo la messa; ma che messa? un messone. Quel prete Risso, che veniva a dircela ogni giorno in congregazione, ci spendeva sempre da quaranta a quarantacinque minuti. Se il prefetto, passeggiante di continuo in mezzo alla corsìa, non ci avesse avuto sempre gli occhi addosso, che sbadigli sarebbero stati! E che risate, quando vedevamo il celebrante far segni ad un personaggio invisibile, borbottando certe parole che nel messale non erano scritte! Si era sparsa la voce che egli vedesse il diavolo, un diavolo tentatore, che veniva a distrarlo fin là; donde i suoi gesti per discacciarlo, e la frase che accompagnava quei gesti, una frase che voleva dirgli: va via. Alle domeniche, poi, avevamo nel mattino l’ufficio della Vergine; più tardi i vespri, e da ultimo la benedizione in chiesa. Nell’ufficio mi piacevano abbastanza le lezioni, in cui facevano le loro prove i cantori; nei vespri un inno, che era poi l’ultimo, e si cantava con un ritmo più frettoloso; nella benedizione mi era, per lo stesso motivo, graditissimo il Salutaris hostia.

«Dopo tutto, quelle eterne funzioni, di congregazione o di chiesa, ci rubavano il tempo destinato alle ricreazioni, agli intervalli dello studio. Volevamo andare a passeggio, per respirar l’aria buona, e ci tenevano chiusi, al fumo delle candele, per cantare un Cœli enarrant, bellissimo, ma che non valeva certamente quelle opere. Non parlo dei quaresimali, degli esercizi, delle feste comandate e non comandate, che si seguivano con troppa frequenza. La confessione era un fastidio grande; la preparazione alla confessione un fastidio anche maggiore. Era così necessario a noi rompere le lezioni e lo studio con larghe boccate d’aria, e i nostri custodi parevano moltiplicare a bella posta le occasioni per tenerci rinchiusi fra quattro mura. Il nostro spirito aveva bisogno di una religione poetica, ed essi ce la rendevano sempre più irta di pratiche minute, di astruserie, di terrori.

«Una bella luce d’aurora in quel buio fu per me la lettura del Genio del Cristianesimo, dei Martiri, dell’ Atala, tre libri dello Chateaubriand; permesso il primo, quasi raccomandato; gli altri due letti un po’ di straforo. Quel cristianesimo io lo intendevo, lo sentivo, lo amavo. E amavo anche il rettore del collegio, uomo venerabile per dottrina, amabile per graziosa bontà, senza tabacco sparso sulla tonaca, che Iddio lo benedica. Un’altra mia grande simpatia era il vescovo della diocesi, che veniva qualche volta a visitarci, e che noi vedevamo ogni giorno andando a passeggio. Ho sempre negli occhi quel vescovo, un gran signore torinese, bellissimo di aspetto, soave di modi, grave nel portamento, modesto nella sua dignità, che pareva sempre domandarvi perdono del vestir paonazzo e del portare la sua gran croce d’oro sul petto. L’occhio di quell’uomo non guardava, involgeva; la sua bella mano benedicente mandava carezze nell’aria.

«Con tutto ciò, non intendevo ancor Dio. Per non ismarrirmi fra tante novità, mi rifacevo a quello della mamma; un Dio tutto misericordie, tutto dolcezze, nella sua essenza invisibile, ma profondamente sentita nel cuore. Anche la Madonna era bella, e l’amavo, con la sua veste azzurra e fluente, col suo velo bianco, tempestato di stelle; ma non mi piaceva più tanto, quando la facevano vedere con sette pugnali piantati nel cuore, o con degli scapolari, dei rosarii, penzoloni dal braccio, o con certe pesanti corone messe in bilico sulla testa. Cristo crocifisso, che avrebbe dovuto commuoverli, a forza di mostrarmelo in quell’atteggiamento di spasimo, me lo avevano fatto parere meno doloroso alla vista. Ma niente piacevole me lo avevano reso, dipingendolo col petto aperto e col cuore in mostra; un cuore rubicondo, inghirlandato di rose bianche, abuso d’iconografia capricciosa, sdolcinatura da conventi di monache. Scrivo queste cose come mi vengono alla penna, senza neanche curarmi di ordinarle, di aggraziarle; che forse allora avrei l’aria di metterci una intenzione d’irriverenza; intenzione che è ben lontana dall’animo mio, mentre cerco di esprimervi il mio pensiero, come si andava svolgendo, e allontanando sempre più dalla fede.

«Nel collegio di marina, dove andai dopo finiti gli studi del ginnasio, c’era ancora la religione; ma una religione più asciutta, più rigida, più smilza; pratica di regolamento e non più. Per dirne bene o male, come educazione, bisognerebbe che avessi avuto solamente quella. Chi sa? forse mi sarebbe bastata, e sarebbe anche riuscita più salda, potendo aggiungerci qualche cosa del mio, colmar le lacune con la religione della mamma; fors’anche m’inganno, immaginandolo. Nel fatto, non ne so nulla: ero in un periodo della mia vita, che, senza discredere ancora apertamente, non credevo già più, nè per virtù d’amore, nè per forza di terrore. L’adolescenza è così. Leggevo molto, divoravo tutto quello che mi era stato proibito da prima, tutto quello che non avrei potuto neanche trovare, stando nell’antico collegio. Non so come, mi capitò allora per le mani il Byron col suo Caino, quindi il Goethe col suo Fausto; i due libri che più fortemente abbiano operato nell’anima mia. Curioso! nè oggi saprei più dire in che modo o perchè, questi due drammi, l’uno scaturito dal vecchio e l’altro dal nuovo Testamento, mi ridestarono tutti i dubbî più gravi, me ne fecero corpo, se così è lecito di dire, nell’anima.

«Frattanto la vita mi chiamava, la gran vita, la multiforme vita, con tutte le sue voci possenti, con tutte le sue aspre curiosità. Ufficiale di marina, libero del mio pensiero se non della persona mia, non credetti più a nulla. Avevo letto in quel mezzo il Volney, quello delle Rovine, e il mio passato intellettuale era anch’es so una rovina: lessi ancora le Origini di tutti i culti del Dupuis, e vidi anche meglio esser principio e fonte di ogni credenza umana il maraviglioso complesso dei miti astronomici. Si fece allora nel mio spirito una gran luce, ed anche una gran pace. Capii finalmente il senso arcano di tutte le religioni, e vidi come la nostra forma secondaria dal sabeismo siriaco, attraverso il culto naturalistico di Adonai, fosse rampollata anch’essa dal mito solare. Nello zodiaco egiziano e nel caldeo avevo anche trovati i segni della Vergine e del Serpente, principii di una favola nuova; così nelle mostruose teogonie dello Zendavesta, nella guerra del principio della luce e del principio delle tenebre, avevo scoperto Dio e il Demonio, il bene e il male ad un tempo. E tutto avendo in questa guisa capito, pensavo spesso alla mamma.

«—Povera mamma!—dicevo fra me.—Ella è stata felice nella sua fede. Ma non sarebbe stata egualmente felice nel pieno possesso della scienza? La scienza è luce; la fede non è che una nebbia, adombrante la luce. La vita è fine a sè stessa; un bel fine che noi guastiamo, facendone il mezzo, l’avviamento ad un sogno.—

«Mi parlavate del mare, del mare misterioso e terribile, che può rifare credenti gli spiriti. No, non è il mare che fa ciò, almeno nella più parte dei casi. Il mare è un abisso, ma un abisso che si misura; le sue profondità non hanno più nulla d’ignoto; le sue collere sono fenomeni pre veduti; le tempeste hanno una legge; i flutti son coni vorticosi, che vengono, sollecitati da conosciute pressioni a rompere le loro punte rovesciate sul declivio delle coste; la scienza ha svelati tutti i segreti del mare. Perseo, protetto dall’egida di Minerva, la dea della sapienza, ha troncato il capo di Medusa, quantunque avviluppato di tortuosi sofismi. Anch’essa, la povera Medusa dei mari, finisce male come la sua maggior sorella dei deserti di Libia; rigettata alla spiaggia, perde la iridescenza perlacea dei suoi sette colori, mostrando la sostanza viscida di cui era composta.

«Così il mare non ebbe terrori per me, non avendo segreti. Neanche il pericolo ha potuto mai ridarmi ai sogni dall’infanzia, rifacendomi più vile, o più perspicace. Nato tardi, non ho avuta la sorte di assistere, di partecipare ad una grande giornata navale; il mio coraggio ho dovuto provarlo in piccoli scontri, che offrivano pure la lor parte di pericolo per me, come nelle grandi occasioni. No, vi dico, pieno di salute e di forza, animato da un’alta coscienza di me, infiammato da un caldo sentimento di sdegno, non ho mai misurato il pericolo. Nessun timore ha potuto ricondurmi alla fede antica; vi dirò di più, non ha potuto neanche accostarmi a quel mezzo termine del Dio filosofico, tenue tessuto di ragionamenti, pallida forma ondeggiante ad un soffio, oscuro compromesso tra il raziocinio moderno e la consuetudine antica, che sempre risente un pochino della concessione stracca, della transazione di due sistemi, della combinazione di due opposti elementi.

«Frattanto, io volevo conoscere. Conoscendo sempre più, volevo ricostrurre un sistema, una spiegazione adeguata dell’universo, almeno almeno della vita umana, come buon principio ad intendere il resto. I miei vecchi distruttori non mi bastavano più; scelsi via via i più recenti interpetri dei miti antichissimi, i più dotti di storia e di filologia comparata, i più felici ricostruttori delle lingue perdute. Costoro mi distrussero senza fatica il gran mito astronomico, riconoscendone un altro più vecchio, il mito naturale. Andai più oltre, e ne trovai di più sottili, che al mito naturale ne facevano precedere un altro, nel culto del morto che non deve morire del tutto: donde nei due fatti umani, dell’amor della vita nel morente e dell’amore del morto nei superstiti, si vedeva compiuto il mistero della religione primitiva. Ma questa, che ci mostra l’umanità bambina affrontata all’enimma dell’ignoto, non era ancora la soluzione del problema. Ebbi ricorso allora ai filosofi nuovi, che mi rivelarono la materia incosciente, la quale, combinandosi per caso in certe guise, acquista la coscienza di sè. Mi parve un assurdo, come la spontanea formazione degli organismi. Assurdo fin che vorrete, mi rispondevano, ma assurdo necessario; altrimenti non si spiega nulla. Bel modo di convincere! Credere una cosa anche assurda, non è forse un po’ troppo? Tanto faceva starcene con sant’Agostino, che aveva già detto mille seicent’anni fa qualche cosa di simile. Se pure è stato lui, e non Tertulliano.

«Nondimeno, poichè era necessario, mi acquietai. Facciamo cammino, dicevo tra me; la ragione assoluta non è ancor chiara; vediamo la relativa. Quanto ho letto e meditato, nelle lunghe navigazioni e nelle eterne crociere! Ho studiato tutto, col vivo, ardente desiderio di credere nella scienza. Qui almeno siamo sul sodo, pensavo; è qui l’esperienza che rende conto di sè. Che bella cosa, ad esempio, intendere l’evoluzione degli esseri attraverso la selezione e la battaglia per l’esistenza! Il passaggio possibile da specie a specie non mi spaventava più come una difficoltà insormontabile, poichè i miei filosofi avevano distrutto e rimandato tra i ferravecchi il concetto artificiale della specie. E tutto procedeva allora benissimo: l’uomo mi appariva una forma più perfetta, nata per selezione, uscita per lenta evoluzione da una forma meno perfetta. Tutte le forme viventi avevano seguito questo procedimento; dalla cellula primitiva fino al cervello di Dante, continuando a svolgersi, alcune progredendo, altre restando indietro, per variar di fortune, per azione di ambienti. Certo, non tutto era chiaro, nel nuovo sistema; la prova dei fatti offriva molte lacune. Avendo dubitato della religione, avevo pure il diritto di dubitare della scienza, pensandola insufficiente a scio glier l’enimma della vita. Ma ancor dicevo tra me: pazienza e non disperiamo; la scienza non pretende di spiegar tutto d’un colpo; va a passi lenti, ma sicuri; aspettiamo che arrivi. Infatti, tutti i rami dello scibile progredivano a vista d’occhio; progrediscono ancora; non si tratta più della scienza, come ai tempi antichi: si tratta di molte scienze, che fanno cammino da sè, ognuna coi mezzi suoi, vedendo il suo proprio orizzonte. Aspettiamo dunque, aspettiamo che arrivino. Ma no; ci sono i frettolosi. Tutto è evoluzione, nel mondo. In nome della evoluzione, escono fuori tutti i ciarlatani di piazza. Carlo Darwin diceva ancora: aspettate. Ma che aspettare? gridano essi; tutto è trovato; niente è nel mondo di più elevato, niente è in noi di più nobile, che non abbia la sua chiara, umilissima origine materiale.

«Adagio, con l’umilissima. Donde il seme del divino, che io porto in me? Adagio, col ritrovamento del tutto. Come va che le vostre scienze, tutte sicure del fatto loro, quando vengono a riscontrarsi l’una nell’altra, cozzano maledettamente? Vediamo un esempio, incominciando da ciò che si ammette in astronomia. Una gran nebulosa si è formata; nuotando, vagando, ruotando nello spazio, s’è foggiata in zone, in globi concentrici, in anelli; gli anelli si sono spezzati, raggomitolati in globi minori, in pianeti, nuotando, vagando, ruotando ancora intorno a quel centro. Perchè? Per le leggi stesse della materia. Le leggi? ma che leggi, se tutto ciò era avvenuto per caso? Qual legge ha potuto dire alla materia sorda ed inerte di muoversi, e di muoversi a cerchio? Se mi dite che ha dovuto obbedire ad altri impulsi, non avrete fatto altro che allontanare la difficoltà, e noi dovremo ripigliare la disputa per un sistema maggiore da cui il nostro dipende, e così via, all’infinito.

«Intanto, la matematica vien fuori colla legge delle probabilità, davanti a cui la evoluzione, per trarre un frutto qualsiasi dall’incontro di due organismi in qualche modo riproducibili, suppone migliaia di secoli perchè il fatto si avveri; migliaia di migliaia ne suppone per l’adattarsi di un semplice organo a nuovi bisogni ed uffici; migliaia di migliaia perchè lo stesso bisogno, lo stesso ufficio si sia potuto fissare. E poi, che cos’è questo ufficio? che cos’è questo bisogno? come può nascere, se non c’era? È un elemento che non apparteneva al problema; come si è ficcato egli in mezzo? Come è supponibile che l’elefante allunghi la sua proboscide, e la giraffa il suo collo, per raggiungere il cibo, se questi allungamenti han bisogno di secoli, e il cibo era il bisogno dell’ora presente? Come immaginare che possa formarsi la camera oscura dell’occhio, tanto delicato e complicato ordinamento di materia, per i bisogni di una visione di cui l’organismo vivente non aveva l’idea, e non avendo l’idea non poteva avere il bisogno?

«Ma che si parla di organismi superiori? Solo perchè una cellula primitiva si sdoppî, e lo sdoppiamento diventi legge di vita, occorrono miriadi di secoli. Andiamo più su, e dovremo ancora porre che un fermento chimico si muti in organico; e qui la supposizione batte alle porte ferrate dell’impossibile. E le rompesse ancora; l’astronomia, la fisica e la chimica celeste sarebbero sempre là, per negare al sole tutti i miliardi di miliardi di secoli che sarebbero necessarii alla evoluzione, per far riuscire una mezza dozzina delle sue combinazioni primitive, rudimentali.

«Perdonatemi questa disgressione; essa non mira che a significarvi come l’atto creativo venne ancora a parermi necessario. Quest’atto io non ho da vederlo, io non ho da descriverlo, nel linguaggio necessariamente povero, colle immagini necessariamente inadeguate di tutti i sistemi conosciuti. Ho bisogno della legge, come gli stessi materialisti; ma con questa semplice differenza, che essi vogliono la materia intelligente, o capace d’intelligenza, che è infine tutt’uno, e poi suppongono la legge cieca, mentre io immagino cieca la materia e intelligente la legge. Dà noia la parola con cui i popoli primitivi dell’Asia espressero questa legge, ricorrendo all’immagine di ciò che risplende? Non vedo il perchè di questo sentimento, data la insufficienza del nostro linguaggio, che ad esprimere ogni specie d’idee è giunto per estensione progressiva d’immagini.

«Anche senza dir la parola, e riconoscendo il fatto della legge intelligente, io mi ero a grado a grado pacificato. Seguitavo a leggere, ammirando i dotti per davvero, sorridendo dei ciarlatani che tenevano la piazza. E un giorno i dotti mi confessarono (non a me soltanto, ma a quanti si pigliavano il disturbo di leggerli) che il sentimento del divino era un bisogno dell’essere umano; che nessuna scienza poteva fare astrazione da esso, considerarlo come una quantità trascurabile. Mi soggiunsero ancora che il mondo, com’è costituito, non può supporsi l’opera del caso, per un lato, ma neanche, per l’altro, di una intelligenza suprema, bensì di potenze secondarie, ancora assai lontane da quella. Dopo quanto io ne avevo veduto, di questo bel mondo, l’asserzione non mi pareva temeraria: intanto, l’ammissione di cause secondarie e imperfette, mi lasciava intravvedere anche nell’animo di quei dotti l’idea di una causa prima e perfetta. E dissi tra me: benedetti grand’uomini, che avete ripigliato dal bel principio il problema dell’universo, ma non per venire d’induzione in induzione, di deduzione in deduzione, alla dottrina del nulla!

«Anche per essi, adunque, pei Darwin, gli Spencer, gli Stuart Mill, esiste il divino, fuori della evoluzione storica e naturale dei nostri timori e delle nostre illusioni? anche per essi Dio è fuori della materia, comunque da noi poveramente pensato e sentito? Se è, perchè non si svela? Ma qui pensavo ancora dentro di me: perchè dovrebbe svelarsi? Se si svelasse, non cesserebbe ad un tratto l’indagine umana, e colla indagine la ragione istessa della vita? La ricerca dell’assoluto è il fine istesso dell’umanità. Dio è il bene, cioè la verità, la bellezza, la giustizia, la carità, il fonte e la foce dell’ideale, nella grande fiumana dell’universo, di cui non è dato a me conoscere che una minima parte; zolla bagnata, ciottolo travolto, giunco agitato, foglia strappata da un albero alla riva, e travolta dalla corrente, che importa? Il male, poi, il male è tutto ciò che non capisco; in ciò aveva ragione mia madre. Senza aver tanto studiato, la povera donna era già ferma là, dove giunge oggi, reduce da tante battaglie, la scienza degli uomini.

«In quest’altro studio di pacificazione son durato un pezzo, non domandando di più. Ogni viaggiatore ha sentito questo bisogno, di fermarsi un tratto, senza desiderio di giungere alla meta. Ma poi rinfrancato, ho detto a me stesso: perchè vorremmo esser noi fuori del tempo nostro? è lecito di ribellarsi all’ambiente della logica umana, o della storia dei nostri errori, che spesso ne tiene le veci? Se tutte le religioni non furono che passi verso la conoscenza, la moralità, la giustizia, la civiltà del genere umano, perchè rinnegherei la mia? Qui vi farò una confessione; ero proprio sul mare, quando m’avvenne di pensare così; ma il mare non era punto agi tato, non prometteva burrasche; ero sano, ero forte, e non avevo l’animo disposto a paure. Guardando davanti a me, nelle diafane serenità dell’orizzonte, mi pareva di vedere qualche cosa che non era il colore dell’aria. Questo colore io sapevo bene come fosse dovuto alla presenza dell’idrogeno. Ma non apparteneva ai fenomeni dell’idrogeno, nè di altro corpo semplice o composto, l’effetto che si produceva in me dal guardare così, con gli occhi dell’anima, in quello sfondo vaporoso che piaceva tanto ai miei sensi.

«Così, per opera di una seconda vista, sentii l’invisibile, penetrai l’inconoscibile. Il mondo cammina, mi diceva la scienza. E cammini, rispondevo io; cammina anche la nave, e non mi toglie di veder sempre qualche cosa là dentro, davanti a me, in quell’orizzonte sempre lontano e presente ad un modo. Viaggiatori della immensità, andremo sempre, e non giungeremo forse mai. Nè io, attenendomi alla religione dei padri miei, penso d’essermi indugiato per via; non temo sopra tutto di dover perdere il treno. Mi dicono che la nostra religione ha delle parti invecchiate. Non so, e se penso che ella contenta dei cuori, nutre delle speranze e forma delle coscienze diritte, son quasi per credere che non sia vera la cosa. Allah (permettetemi questa scorribanda fra gli Arabi, che mi toglierà di parere irriverente, nella dimostrazione della mia tesi, alla religione dei padri miei) Allah è puro spirito, essere unico e sommo, la cui luce consola ancora dugento milioni di credenti, i più fervidi, forse, che il mondo conosca. Mi narrano che il suo profeta fosse un impostore, ed io lascio che narrino; ma dentro di me, se mi fermo a pensarci più che tanto, non credo che Maometto fosse un impostore. Un allucinato, chi sa? Iddio permette di queste allucinazioni; la cosa si può supporre possibile e naturale, come la scienza ammette, suppone e dà per certo che ad un dato momento una forma nuova si svolga da una forma anteriore. Maometto è dunque il frutto del miracolo, in cui si compie un mistero, pari a quello che fa in un dato periodo apparir l’uomo sulla faccia della terra, l’uomo che prima non c’era.

«Vi ho detto assai male tutto ciò che ho pensato. Voi intenderete, nella lucidità dell’anima vostra, come la pratica della filosofia materialistica mi abbia condotto a vedere la sua insufficienza; come una semplice religione filosofica, alla maniera del signor di Voltaire, mi sia parsa scortese per tutte le migliaia di creature intelligenti che intorno a me vivono e credono; come tutte le religioni positive esistenti mi siano parse altrettante incarnazioni del divino. Le consideravo anche progressive, come gradini della scala che mette l’umanità alle porte del cielo. Non offenderò, spero, le timorate coscienze cristiane, dicendo che la loro religione e mia, che è quella portata sulla terra dal figlio, non ha sbugiardata l’ebraica, promulgata dal padre, tra tuoni e lampi, sulla vetta del Sinai. Frattanto, la loro religione o la mia non ho da discrederla, per il fatto che altri ne aspetta una nuova, più chiara e più umana, con meno dogmi, con meno precetti.

«Ripensarla, considerarla per tutti i lati, fu in me l’opera di qualche anno; accettarla fu un punto. Di certo, il descrivervi quel punto non varrà molto a darvene ragione; pure, per contentarvi, ecco qua brevemente quel che mi avvenne. Ero a Milano, approfittando di una breve licenza; vivevo laggiù tra continui passatempi, senza pensieri, felice come può essere l’uomo giovane, sano, forte, padrone di tutte le sue facoltà, ricco abbastanza e senza desiderio di più. Passeggiavo una sera, per far l’ora di andare al teatro. Non so più da qual punto, seguitando il marciapiede, mi trovai nella via di San Celso; e là, da un portone aperto nella penombra del crepuscolo, mi venne un’ondata di musica, voci umane all’unisono, con accompagnamento d’organo. Non avevo immaginato che in quel punto, sulla stessa linea dei fabbricati, ci fosse una chiesa; niente me l’aveva annunziata, e fu istantaneo il moto dell’anima che mi fece entrare in quel luogo. La chiesa era buia; solamente nel fondo si distinguevano quattro o sei fiammelle di candelabri accesi sull’altar maggiore, più per dare indirizzo allo sguardo che per illuminare la gente raccolta a pregare. Se guendo il capriccio improvviso, ero entrato con passo risoluto; ma sùbito fui costretto ad inoltrarmi più lento e guardingo, poichè si era al buio, come vi ho detto, ed io temetti d’inciampare in qualche povera donna inginocchiata. Trovato il primo pilastro della navata, mi fermai, stetti a sentire. La folla, nascosta nell’ombra, cantava le litanie, prologo consueto alla benedizione serale.

«Quante volte non mi ero io ritrovato ad una scena simile, da ragazzo, e senza averne alcun senso particolare allo spirito! Là, invece, in quel punto, fu una dolcezza nuova per me. Mi piacevano le voci; mi piacquero le invocazioni rivolte alla gran madre degli uomini e degli angeli, così teneramente affettuose e così varie nella lor sequela monotona. Tante belle cose si dicevano a Maria; e coloro che le dicevano le pensavano; certamente le sentivano. Che consolazione per essi, che fossero egualmente sentite lassù, nel profondo de’ cieli! Infatti, perchè Dio, causa prima degli esseri, non dovrebbe sentirne le voci?

«Tacque il canto monotono della folla: di là, dall’altar maggiore, si rispose con qualche oremus, con qualche versetto latino; poi due o tre forme incerte, timidamente luccicanti di riflessi metallici al fioco lume dei ceri si mossero, levando di mezzo a quei ceri un ostensorio; si udì un movimento simultaneo, per tutta la grande navata, di persone cadenti sulle ginocchia; si svegliarono da capo i gravi suoni dell’organo, e tutte le voci della moltitudine ascosa nell’ombra intuonarono il Tantum ergo, annunziante e celebrante il mistero dell’accostamento di Dio alla terra. Illusione anche questa? Se è un’illusione, diciamo pure che Iddio l’ha permessa. Ed egli è certamente là, dove, in quella miglior forma ch’ella ha saputo trovare, la creatura lo invoca. Tantum ergo sacramentum... Sì, il patto è consacrato, tra lui e la creatura; ed egli, il santo invisibile, è presente a tutti coloro che credono, che sperano, che confidano in lui. A quel punto, che da ragazzo mi lasciava così freddo, non d’altro desideroso che di sentire il Salutaris hostia, l’inno breve, il ritmo allegro della liberazione e della fuga, a quel punto mi sentii un rimescolo nel cuore, e le lagrime mi salirono agli occhi. Veneremur cernui, cantava la folla adorante; e a me si piegavano le gambe. Mi vergognai e volli star ritto; ma subito un altro sentimento mi prese, facendomi vergognare della mia stessa vergogna. Veneremur cernui, bisbigliava una voce dentro di me; Veneremur cernui balbettavano le mie labbra, all’unisono col canto della moltitudine. Ero caduto in ginocchio, e pregavo.

«In quella chiesa buia, combinata per caso sulla mia strada, in quell’ora di raccoglimento solenne, ho ritrovato Dio, l’ho rifatto in me, luce ed amore. Così ho creduto; così sono rimasto un credente. Dal dubbio alla fede, vi ho detto tutti i miei studi, le mie indagini, i miei errori e le mie sensazioni. La notte è alta, ma gli occhi vedono, come di pieno giorno; nessuna stanchezza nelle mie fibre, e una gioia profonda è diffusa in tutto il mio essere. Mi pare, scrivendo a voi, che un miracolo si compia; il miracolo di trasfonder me, la mia fede in chi amo».

Capitolo XIII. L’impresa ecclesiastica.

Tre giorni erano passati, dopo che il signor di Vaussana aveva scritto e consegnato il suo passio alla contessa Gisella. Ed era anche, bisogna dirlo, una domenica d’autunno, bella, serena, ma fredda, per un certo vento di tramontana che incominciava ad annunziare la stagione più rigida, e spogliava frattanto del loro fogliame i poveri alberi della montagna; quelli, s’intende, che sogliono perderlo all’appressarsi dell’inverno, come i roveri e gli olmi, i frassini, i tigli e i nocciuoli. Ah, i nocciuoli, soprattutto, come son tristi, quando hanno perduta la bella gloria frondosa degli scudi smeraldini, non mostrando più che una scarna selva di negre aste intirizzite! Maurizio aveva già veduto chiazzarsi di rosso quel verde, poi volgere al giallo ed accartocciarsi qua e là, intorno al dolce nido dei giorni sereni, delle ore di cielo, dei fidati colloquii, al sordo fragore della vicina cascata; pensava già con terrore che di settimana in settimana sareb bero stati più infrequenti per Gisella i pretesti di muoversi da casa, e che presto egli avrebbe dovuto per un altro inverno rassegnarsi a non veder l’amata donna che nelle troppo raccolte e troppo vigilate conversazioni della Balma. L’amor suo, per verità, schietto e profondo com’era, non pativa d’insofferenze nè di egoismo; ma quante non erano le cose che bisognava tacere, alla Balma, o che, a mala pena accennate, non si potevano spiegare con la dovuta abbondanza di parole! Amore è chiacchierino, e soffre a non potersi espandere in frasi, a non potersi esprimere nella varietà infinita delle piccole dimostrazioni.

Comunque fosse di ciò, e per tempo cattivo che volesse fare, il signor di Vaussana non andava mai alla Balma se non per la strada del bosco. E la mattina di quella domenica, un po’ prima dell’usato, egli rifaceva la strada consueta, per portare al generale un fascicolo della Rivista marittima, di cui gli aveva parlato la sera innanzi, accennando a certi esperimenti di artiglieria navale.

Il conte Della Bourdigue era solo e accigliato; ma gli si spianarono ad un tratto le rughe alla vista di Maurizio, di quel Cireneo che voleva aiutarlo a portar la croce della sua noia. Gradì il libro, e si mise subito a sfogliarlo, dando una guardata allo scritto che Maurizio gli aveva accennato. Gisella, frattanto, non si vedeva, e niente lasciava sperare ch’ella dovesse da un momento all’altro apparire. Di certo, la contessa era fuori. L’assenza di una donna da casa non si conosce, per chiare e formali notizie; s’indovina, sto per dire che si sente nell’aria.

Pensava a ciò, per l’appunto, quando il generale gli scappò fuori con una di quelle domande che fanno balzare un uomo sulla seggiola, tanto arrivano improvvise, non lasciando il tempo di vedere se siano sciocche o profonde, se le abbia dettate la ingenuità, o la malizia.

—Sapete dirmi, Maurizio, che diavolo abbia preso mia moglie, di andare in chiesa, alla messa?—

Maurizio tremò, si confuse; per un istante non seppe più in che mondo si fosse.

—Io?—balbettava frattanto.—Veramente....

—Ma sì,—ripigliò il generale,—Gisella parla con voi di tante cose.... di poesia, d’arte, di storia, e che so io; può benissimo avervi detto qualche cosa, da cui si possa ricavare un costrutto, avere un’idea di questa novità.

—Voi la sentite come me, generale;—disse Maurizio.

—Non sempre,—replicò il vecchio, con un’altra scappata che fece fremere il suo interlocutore,—non sempre. So io, per esempio, i discorsi che può fare al Castèu, quando va a trovare la contessina vostra sorella? Infatti, vedete, oggi è andata laggiù. Se voi non aveste l’uso inveterato di capitare dalla montagna, vi sareste in contrato con lei al cancello, o per la gran via di San Giorgio.—

Soltanto allora Maurizio incominciò a respirare, e le sue labbra osarono atteggiarsi ad un mezzo sorriso.

—Vado da Albertina, mi ha detto;—proseguiva frattanto il generale.—Rinunzio alla colazione, per vedere la funzione della chiesa parrocchiale. Capirete, Maurizio.... Non sono un tiranno, e lascio che Gisella faccia in ogni cosa a modo suo. La gran rivoluzione non deve esser venuta per nulla tra le genti. Ma capirete, ripeto, che questa novità dell’andare in chiesa m’abbia molto maravigliato.

—Ho capito, ho capito;—disse Maurizio, facendo un sorriso intiero.—C’è il vescovo in visita pastorale, come dicono. Mia sorella avrà data la notizia alla contessa, e un po’ di curiosità.... Le signore, dopo tutto, son donne.

—E capisco ancor io;—riprese il generale, ridendo a sua volta di quel riso largo che faceva sollevare più minacciosi che mai sulle guance i suoi gran baffi bianchi dorati.—Davanti alla curiosità non ci son signore. Ma che sciocchezze! che cosa c’è da vedere di strano, in un vescovo? Purchè poi queste visite in chiesa non mi passino in uso!

—Lo credete, generale?

—Perchè no? Ci si va una volta, ci si va due, ci si prende il gusto dell’incenso, e non si sa dove si vada a finire, tra tante scimmiot tate. Non amo i preti, lo sapete; e senza nessuna intenzione di farvi dispiacere....

—A me, generale?

—Eh sì, ne so pure qualche cosa. Ma bisogna che ogni uccello faccia il suo verso; e ci sono poi delle verità che un filosofo non può tenersi nel gozzo, senza rischio di sfiancarsi questa parte interessante di sè medesimo. La chiesa ha portato un gran guasto nei costumi, con la sua facilità di perdono, che sembra fatta a bella posta per invitare al peccato. Piaccia ad altri una certa scenetta dell’Evangelio, con la storiella della prima pietra; essa non piace a me niente affatto. A buon conto, io ho preso moglie sapendo in anticipazione che la donna, scelta da me, o dal caso, che è poi tutt’uno, non aveva il difetto di credere a tante scioccherie, e di prendere in certe dottrine pietose un’assicurazione contro la legge dei doveri umani.—

In ogni altra circostanza Maurizio avrebbe tenuto il campo e rimbeccate le argomentazioni del conte Ettore. Ma non era quello il momento di far guerra, ed egli si contentò di balbettare qualche frase, che nel fondo non diceva nulla di nulla; felice abbastanza che quella gran burrasca, a lui minacciata, si sciogliesse in un nembo di paroloni.

La contessa Gisella ritornò molto tardi dalla sua impresa ecclesiastica. Era contenta dei fatti suoi, e non mostrò di badar più che tanto al muso del generale, che all’arrivo di lei aveva creduto necessario di ridiventare più arcigno. Portava notizie della funzione, e le snocciolava allegramente al signor di Vaussana. Aveva veduto tutto, osservato tutto, con l’attenta curiosità di una bambina. Il vescovo l’aveva molto interessata, come era naturale che facesse, essendo un gran dignitario della chiesa, una specie di generale anche lui. Ma che brutto uomo! diceva lei; come poco somigliava all’idea che ella se ne era formata, di un gran signore, bellissimo d’aspetto, soave di modi, grave nel portamento, modesto nella sua dignità, che paresse sempre domandarvi perdono del vestir paonazzo e del portare la sua gran croce d’oro sul petto; di uomo, infine, il cui occhio non guardasse, ma involgesse, la cui bella mano mandasse benedizioni e carezze nell’aria! No, non le andava, quell’uomo, tanto diverso dall’ideale che ella si era fatto dei vescovi. Ed anche quel don Martino, arciprete di San Giorgio, che figura ridicola, affogato in quei suoi paramenti! Vestito della tonaca nera, restava ancor umile, all’altezza della sua povertà di spirito e della sua rusticità di maniere: con quel camice addosso, con quel lusso di piegoline e di ricami, con quella pianeta a fiorami colorati e a liste d’oro, la sua faccia nera e le sue mani vellose mostravano più forte il contrasto fra l’uomo e l’abito; pareva di vedere un orso vestito da festa, in uno spettacolo di fiera.

Il quadro, che la contessa Gisella andava così allegramente dipingendo, piacque moltissimo al signor generale. Giove, dopo tanto corrugamento di ciglia, si degnò di sorridere. E sorrideva anche Maurizio, vinto a suo mal grado dalla amenità di quella piccola caricatura. Ma il giorno dopo, quando ebbe modo di ritrovarsi un istante a quattr’occhi con la contessa Gisella, pensò di non doverle nascondere ciò che il generale aveva detto della sua impresa domenicale.

—Badate, egli ha riso; ma in fondo non vuole che andiate in chiesa.

—Il generale non comanda all’anima mia;—rispose Gisella,—ed io andrò in chiesa quante volte mi piacerà, per vedere in che modo si possa imitare il mio Rizio. Ma veramente, soggiunse ella sospirando,—incomincio a persuadermi che per sentire la presenza di Dio nelle chiese ci voglia un’anima predisposta. Tutte quelle puerilità di rappresentazione mi hanno offesa, ve lo confesso sinceramente. Ed anche voi, ditemi, come potete sentire la religione, con tutti quei preti?

—I preti sono uomini;—rispose placidamente Maurizio.—Non è la stessa cosa nella vita comune, a proposito della umanità, a cui dobbiamo amore e rispetto? Tra i nostri simili abbondano i rozzi, gl’ineducati, i bricconi: ma possono costoro farci pensar male di tutta la specie, dove sono tante anime buone, dove ho conosciuto dei gentiluomini che mi hanno amato senza secondi fini, non avendo bisogno della mia borsa, nè della mia protezione? Ed anche voi, adorata, pensateci; non vi è mai occorso di andare in una riunione, in una accademia, dove un uomo di povero aspetto, un brutto professore, vi dicesse delle cose belle e profonde? Avete voi pensato in quel momento che il professore fosse brutto, antipatico?

—Non lo avrei potuto, neanche volendolo;—rispose Gisella.—Se il professore brutto dice delle belle cose e profonde, i suoi occhi si accendono, la sua faccia si trasforma, la bellezza interiore vien tutta alla superficie.

—Avete ragione;—disse Maurizio.—Ho scelto male il mio esempio.

—No, niente male, amico mio; ma è per l’appunto il buon esempio che vi mette dalla parte del torto. I vostri preti potrebbero essere come quel tal professore, e non ci riescono. Parlano di Dio, ma a fior di labbro, con una cert’aria di essere in confidenza con lui, che non è fatta per dare un’idea conveniente della grandezza sua e della loro umiltà.

—Questi preti non sanno quel che fanno, ecco tutto;—replicò Maurizio.—Essi sono i preti falsi, che bisognerebbe detestare, se non fosse piuttosto il caso di compatirli. Costoro, del resto, mi lasciano freddo.

—Ti basta?—domandò la bella donna, figgendo i suoi grandi occhi fosforescenti negli occhi di lui.—Non sono essi i nemici della tua patria?

—E qui mi ribello, contro essi e contro chi li muove;—replicò Maurizio, animandosi.—Mi ribello, sentendo bene che Iddio non parla neanche per il labbro dei buoni. È veramente doloroso che una ragione umana, puramente umana, effetto di una cristallizzazione storica, metta i ministri della divinità in contrasto coll’idea della patria, da noi, mentre la rispettano e la coltivano altrove. Ma che farci? son uomini, vi ho detto, son uomini anch’essi. In basso ignoranti la più parte; nè credo che una tonsura basti a dare intelligenza e dottrina a chi non ebbe l’una e non è capace dell’altra, parendomi già molto se sono nella ignoranza virtuosi. Di questi io ne ho trovati parecchi, come il nostro don Martino, che è certamente un brav’uomo. In alto, poi, dove i preti leggono e studiano, dove le anime loro vedono più largo orizzonte, ne ho trovati di veramente insigni per dottrina e carattere. Anime buone, ragionando con me, non mi hanno potuto dire tutto ciò che sentivano dentro; ma io li ho capiti, e mi è bastato. Più alto ho visto ancora le ragioni umane, i pregiudizii storici, pesar troppo sul loro intelletto; ma ho pur veduto timori e diffidenze contro una società che nel suo laicizzarsi naturale trascorre un po’ troppo allegramente a negare, volendo mettere in ogni ordinamento civile i non ben digeriti e ancora discordi concetti di una minoranza scettica al posto di quella fede da cui la maggioranza del mondo civile tragge ancora un conforto all’anime e una norma sicura del vivere. Sentono che si vuol toglier di mezzo il loro Dio, e combattono; e non sarò io, soldato, che vorrò condannarli, pur riconoscendo che essi ricusano per eccesso di difesa ciò che farebbero egregiamente a concedere. È per esempio un gran male che essi credano necessario al papa il poter temporale; mentre questo potere non è del suo ministero, nè lo è stato mai, e la coscienza italiana, fin dagli albori della storia moderna, per bocca di grandi credenti ha protestato contr’esso. Ma se lo credono tanto necessario, perchè non lo dichiarano un dogma? Questo coraggio dovrebbero avere; ma voi vedrete che non lo avranno mai. Il giorno che facessero ciò, forse avverrebbe un miracolo, un miracolo che non immaginano neppur essi, credendone incapace la fibra italiana.—

Gisella era stata immobile, silenziosa, a sentire il suo ragionatore ostinato.

—Quanto discorrere per una semplice domanda di donna ignorante;—diss’ella, come le parve che egli avesse finito.—Rizio, non lo farò più; crederò ciecamente, in attesa di questo miracolo.

—Esso non avverrà,—rispose Maurizio,—e noi ci atterremo tranquillamente alla fede dei nostri padri. Iddio comunica con noi; egli troverà la via di salvezza, mentre illusi ministri suoi ci vorrebbero condurre alla perdizione, turbando le nostre coscienze, confondendo ciò che va dato a Dio con ciò che va dato a Cesare.—

La contessa Gisella andò altre volte in chiesa, quantunque don Martino, arciprete di San Giorgio, non le paresse il più bello tra i ministri di Dio. Il generale si seccava di quel capriccio, ritornante ogni domenica; ma non protestava più tanto forte. Maurizio frattanto raccomandava prudenza.

—Vedi?—le diceva.—Egli accuserà poi mia sorella Albertina di averti stregata, e se la prenderà con lei.

—Non andrà fino a quel punto;—rispondeva Gisella.—Ho ancor io una volontà, e non intendo di lasciarmi sopraffare dai suoi capricci. Lo conosci, del resto, come lo conosco io; egli è spesso di cattivo umore, perchè si annoia. Pure, le ragioni di non annoiarsi le avrebbe. Se ciò che egli possiede non è molto, perchè in gioventù ha molto sciupato, è molto ciò che possiedo io, e la cura dei nostri interessi potrebbe bastare ad occuparlo. Ma tutto è noioso per lui, quello che non è servizio militare. Perchè lo ha lasciato, il servizio? Gli uomini della caserma non dovrebbero uscirne mai, dalla loro caserma. Ah, ecco!—esclamò la contessa, ravvedendosi tosto, ad un gesto involontario di Maurizio.—Ora dicevo una sciocchezza. Devo al suo uscir di caserma il non esser uscita io da San Giorgio, dove un altro uscito di caserma mi doveva raggiungere, povero Rizio, tanto caro! Ma come è brutto, discorrere di cose volgari! la volgarità ci guasta le parole e le idee. Restiamo nelle nuvole, dove ci siamo conosciuti ed amati. È già triste abbastanza il pensare a questa grama stagione, che è venuta pur troppo. Abbiamo così poche occasioni di trovarci insieme! Scendendo in paese, legandomi un po’ più con quella cara Albertina, ho almeno la sorte di vederti più spesso, mio povero Rizio.—

Rizio lasciava fare, e l’unico suo lavoro alla Balma era di giustificare timidamente le visite della contessa al Castèu con la innocente curiosità delle funzioni di chiesa. Infine, non si trattava che di uno spasso. Quanti non sono i fedeli cristiani, che fanno così?

—Ed è quello che più mi dispiace;—notava il generale, felicissimo di trovare un’opinione per via.—Cristiani per cristiani, meglio esser tali sul serio.—

Da un’altra parte Gisella diceva a Maurizio:

—Sono felice, tanto felice di credere come te, insieme con te. Sai, Rizio, che ho già avuto una visione?

—Una visione!—esclamò egli, sorridendo.—Così presto? Non sarà poi stato un sogno?

—Non so che cosa significhi la vostra distinzione;—rispose Gisella.—Sareste incredulo voi, ora? Il mio sogno è stato bello, se mai. Figuratevi che mi son ritrovata in un paese nuovo, un paese orientale, che riconoscevo benissimo, senza averlo veduto mai. Ero uscita dalla città per andare verso un bosco d’olivi, a pregare, sentendo nel mio cuore una gran tenerezza; allorquando, già presso al colmo di una collina, nella calda luce del tramonto, mi apparve un uomo, vestito d’una tunica rossa, con un mantello azzurro sulle spalle. Un uomo, vi ho detto; ma io bene sentivo che non era tale. Intorno alla sua bella testa, incoronata di capelli lunghi e fini, morbidamente ricadenti in ciocche dorate, splendeva mite un’aureola vaporosa: la barba di un bel biondo carico gli scendeva sul petto bianco di latte; gli occhi azzurri, sereni, guardavano pietosamente verso di me, dando un senso di bontà paterna alla bellezza di un angelico sorriso. Non mi parlò; ma la sua mano si alzava benedicendo, ed io mi sentii morire di gioia. Come era dolce quell’atto! come era buono lo sguardo! e quanto, nell’aspetto, aveva egli di voi!

—Ah, ecco,—disse Maurizio,—voi ora guastate la dolce visione. Non è così che bisogna immaginare il buon padre, la cui figura è oltre l’umano. Ma è sempre bello che l’abbiate veduta,—conchiuse,—e che ne abbiate sentita la poesia consolatrice. —

Capitolo XIV. Da Ceppo a Carnevale.

Anche il signor di Vaussana andava in chiesa: credente nell’anima, voleva mostrarsi tale in certi atti esteriori. Amava all’italiana antica; perciò volentieri glorificava la bellezza nel recinto d’un tempio, come avevano fatto l’Alighieri e il Petrarca, e al pari di quei due immortali sarebbe stato capace di un amore puramente ideale. Il destino aveva voluto altrimenti; ma egli nell’amor suo metteva sempre un senso di adorazione, in cui si smarriva quel non so che di pungente e di aspro che l’idea della colpa induce confusamente nell’amore più intenso.

Ah, quella colpa, non la espiava egli amaramente nel difetto della possessione piena ed intiera della donna adorata? Ma in tanta amarezza era più dolce qualche volta il pensare che egli, egli solo, aveva condotta quella divina creatura alla fede; che l’amor suo, svegliando in lei un senso più intimo della ragion delle cose, ne aveva per così dire compiuta la perfezione. Maurizio sinceramente pensava, non esser senza la fede creatura perfetta, come non è perfetta la pianta che non possa vestire i suoi rami di fiori. La bella pianta della Balma, fiorita in quella guisa di fede, guadagnava non pure agli occhi di lui, ma a quelli di tutto il paese, che vedeva un tal miracolo di bellezza sovrana mescolarsi nella modesta chiesa di San Giorgio alla umile turba dei fedeli preganti. Si era creduto da prima che la contessa Gisella fosse tenuta lontana dalle pratiche religiose per volontà del marito, a cui dava noia il fumo delle candele. Vedendola ogni domenica in chiesa, s’incominciò a pensar meno male dell’orso della Balma, che accennava a volersi ammansare; ma più si ammirò la contessa Albertina, la buona fata del Castèu, alla quale si attribuiva da tutti il prodigio.

Così andavano pianamente le cose, come l’acqua d’un fiume alla foce; e il signor generale, vedendo di mal occhio quella manìa religiosa della sua giovane metà, si adattava al fatto con più filosofia che non avesse mai mostrato di avere. Così giunsero le feste del Natale, che furono per Gisella una lieta novità, senza essere una troppo grave noia per il suo signore e padrone. Il Natale, dopo tutto, è una solennità dell’anno che non dispiace a nessuno, checchè si pensi in materia di fede. C’è l’uso antico della baldoria domestica, a cui non saprebbe sottrarsi lo spirito più scettico; e tiepidi credenti e cal di filosofi, facendosi imprestare dagli eruditi qualche notizia intorno alle storiche celebrazioni dell’anno nuovo presso tutti i popoli antichi e moderni del globo, trovano che in certe occasioni, specie quando fa molto freddo di fuori, si sta bene riuniti alla fiammata del ceppo tradizionale. In questo modo si mettono tutti d’accordo, nella più varia dissonanza di umori e d’idee che abbia mai turbata la pace di una famiglia. Le povere donne credenti sorridono meglio ai loro uomini, vedendoli così lieti, quasi contenti di sè medesimi, in quell’ora di domestico abbandono, e pensano e sperano che il giorno verrà anche per essi di accostarsi meglio a Dio. Non è forse vero che tutte le strade conducono a Roma?

Il gran camino padronale della Balma non aveva avuto da molti anni un ceppo così allegro. Cedendo alle istanze dei Matignon, i signori del Castèu erano andati a far Natale lassù, e così pure la notte del Capo d’anno. Per quella doppia solennità era anche venuto di Francia il capitano Dutolet. Il buon ragno non aveva parenti, e si era mostrato molto amabile venendo a spendere quei pochi giorni di libertà presso il suo antico capo squadrone. Non aveva per quella volta che una breve licenza; ma prometteva di averne una lunga per l’anno prossimo, se niente fosse venuto a guastare. Veramente, guastare non era il verbo adatto: ciò che poteva guastare il disegno di una pacifica gita a San Giorgio sarebbe stato accolto come un invito a nozze da lui, soldato francese anzi tutto. Ma di questo non ne diceva nulla, il buon ragno; aveva caldo l’amor patrio, ma silenzioso, e con quell’aria di Guglielmo il Taciturno lasciava credere di annoiarsi mortalmente per tutt’altra cagione.

—Prendete moglie, Dutolet;—gli aveva detto ad un certo punto il generale.

—Se fossi ricco, perchè no?—aveva risposto il capitano.

—Come?—esclamò la contessa Gisella.—C’è forse bisogno di esser ricchi?

—Sì, e molto ricchi;—rispose il buon ragno.—Come si potrebbe altrimenti coprir di diamanti la donna che si fosse scelta a compagna?—

Era un gentile pensiero; e la contessa Gisella, da buona figlia d’Eva, trovò che il capitano Dutolet ragionava benissimo. Così il buon ragno cansò quella sequela di argomentazioni che sogliono scaraventarsi in ogni società di ammogliati addosso agli scapoli impenitenti. Ma la contessa Gisella, che era stata assai lieta il giorno di Natale, non fu egualmente lieta nella notte del Capo d’anno, quando al brindisi solenne delle dodici il generale alzò il calice spumante del generoso liquore della vedova Cliquot, per bere alla felicità di Maurizio e della sua moglie futura. Era in uno strano periodo psicologico, il generale; voleva ad ogni costo com binar matrimonii. E Maurizio, come aveva risposto al brindisi? Male, assai male, balbettando rotte parole, quasi accettando l’augurio.

—Come fare altrimenti?—disse quel poveretto, appena ebbe modo di ritrovarsi a quattr’occhi con lei.—Dovevo io rispondergli che non gradivo il discorso? Dovevo, con la mia prontezza a respingere un augurio senza nessuna importanza, correre il rischio di mettergli un sospetto nell’anima? Ci pensate voi, anima mia, a quello che potrebbe succedere, se egli immaginasse....

—Non mi dir altro, Maurizio, non mi dir altro!—gridò ella, fremendo.—Tu hai ragione, hai ragione, hai sempre ragione. Ma ho sofferto tanto! Una pugnalata al cuore, in quel momento, mi sarebbe piaciuta di più. Ah, sento che l’anno incomincia male, assai male.

—Superstizioni, non vi pare?—mormorò egli, sforzandosi di sorridere.

—Chi sa?—diss’ella, traendo un sospiro.—Non sono poi le compagne della fede? A me incominciano a venire con essa. Pensate infine che io sono una povera donna, con poca istruzione, con pochissime idee. Quando ne ho una in testa, il mio piccolo cervello è costretto a lavorar sempre su quella. Felice voi, Rizio, che sapete tante cose, voi che guardate più lontano e comprendete più largamente di me, trovando il punto giusto dove io mi smarrisco, dove io non vedo che contraddizioni e paure. —

Maurizio non meritava la lode di Gisella, e il punto giusto non lo trovava da un pezzo neppur lui. La contraddizione, brutta chimera, lo afferrava alla gola, ed egli si divincolava inutilmente nella stretta. Se credi al decalogo, perchè rubi? Se hai tanto squisito il senso della legge morale da volerne insegnare altrui la eterna sanzione, perchè inganni il tuo simile? perchè siedi col tradimento nel cuore alla mensa di chi fida così ciecamente nella tua probità? Ma a questi dilemmi, non bene formati ancora, egli chiudeva gli occhi della mente, quasi cercando nella sua cecità volontaria una ragione per non averli a combattere. Amava, e non voleva affrontare una pugna con la logica inflessibile, una pugna che sarebbe riuscita a danno dell’amor suo. Quella logica gli avrebbe comandato di rinunziare a Gisella; e questo era per lui l’impossibile. Un miracolo, ci sarebbe voluto, un miracolo, per levarlo di pena. Ma quale? Egli non osava neanche dirlo a sè stesso; e vili pensieri lampeggiavano sinistramente nell’ombra densa dell’anima sua.

Felice il generale, che negli ozi del suo castello aveva da combattere solamente la noia. Ognuno, si sa, crede la propria malattia più grave di quella degli altri, ed egli sinceramente si esagerava i mali di una noia, in onta alla quale passavano i giorni abbastanza rapidi, tra partite a biliardo o a picchetto, accessi di malumore e grasse risate. La volgarità del discorso fa ceva anche capolino fra la domestichezza dello consuetudini. Il signor di Vaussana, di tanto in tanto, per una ragione o per l’altra, interrompeva le visite. Quello dei viaggi brevi e frequenti era un artifizio, ben noto alla contessa, che non aveva neanche da soffrirne troppo; perchè Maurizio, il più delle volte, dopo avere annunziato una gita a Nizza, a Torino, a Genova o altrove, non si muoveva dal Castèu, dove ella trovava poi modo di scovarlo. Quei piccoli furti erano un segreto di più e certamente il meno grave tra tutti quelli che avessero da custodire. Frattanto, colle frequenti sparizioni dalla Balma, il signor Maurizio si confidava di addormentar meglio il castellano, sviarne l’attenzione, dissiparne i sospetti, se mai ne fossero nati. Su quei viaggi frequenti tornava spesso il generale, e con molta libertà di discorso, anche in presenza della moglie.

—Gran fioritura di camelie dev’essere a Montecarlo; non è vero, Vaussana? E c’è poi sempre quell’abbondanza di belles-de-nuit?

—Non sono stato a Montecarlo;—rispondeva Maurizio, schermendosi come poteva.—Vi ho pur detto, generale, che ho fatto una punta fino a Genova.

—Ritorno offensivo, dunque? E come sono ora le genovesi? sempre belle? Ai tempi della Crimea, quando ci sono passato io, erano tutte d’una bellezza incontrastabile, ma un pochettino massiccia. Mi dicono che ora ci sia un altro tipo, alto, flessuoso, con una tendenza spiccata al biondo, e dei languori orientali nell’occhio. Come le preferite voi, Vaussana? Fortunato briccone! godete il mondo, finchè vi dura la gioventù. Ma non abusate, mi raccomando; è insalubre. E credete a me, la miglior cosa che possiate fare, per calmare questa febbre, tanto pericolosa all’ultimo stadio, è ancora di prender moglie. Prendete moglie, Maurizio, prendete moglie.—

E lo canticchiava anche in musica, il suo ritornello, prendendo lo spunto da una canzonetta del Béranger.

La contessa, di solito, chinava gli occhi sul suo telaino da ricamo, aspettando che il generale la finisse con quelle sue libertà di discorso. Ma il generale prendeva un gusto matto a ribattere quel chiodo in presenza di lei, e chiudendo sempre il discorso col suo solito ritornello. Tanto che un giorno, seccata, la contessa alzò gli occhi e soggiunse, rivolgendosi a Maurizio:

—Ma sì, prendete moglie, signor di Vaussana.—

Maurizio rimase un po’ male, non intendendo il perchè di quell’altra esortazione. C’era egli bisogno che Gisella tenesse bordone al generale? Che cosa ne poteva lui, se quell’altro, abusando del suo diritto di padrone di casa, gli tornava sempre sul medesimo tasto?

—Me la trovino loro;—rispose egli a denti stretti.

—Oh bravo! e se la troveremo, la prenderete?

—Scelta da amici come voi, perchè no? avrà certamente tutte le virtù immaginabili.

—Ebbene, cercheremo;—disse Gisella.

—A Nizza, non è vero?—soggiunse il generale.—Mia moglie ha il desiderio di passare a Nizza gli ultimi giorni di carnevale; sarà una eccellente occasione per noi di cercare, e per voi di giudicare della scelta, senza perdita di tempo.

—Si va all’arma bianca!—conchiuse Maurizio, facendo bocca da ridere.

Ma in verità aveva voglia di tutt’altro; era lì lì per uscire de’ gangheri. Anche quel viaggio a Nizza ci voleva! Gisella ne aveva già accennato a Maurizio, come di uno svago da procurare a quell’eterno annoiato del signor generale; quanto a sè, non ci aveva nessun gusto, prevedendo la seccatura delle visite molte e della poca o nessuna libertà che avrebbe avuto di stare a discorrere col suo povero Rizio. Ma ci voleva pazienza, e bisognava fare di necessità virtù. Sì, tutto bene, salvo quell’idea pazza di cercar moglie a lui, che non voleva saperne.

Per fortuna, nel soggiorno di tre settimane a Nizza, non furono che falsi allarmi. Gli avevano domandato se la preferisse inglese, o americana, o russa, ed egli aveva risposto di non aver predilezioni in materia. Intanto, con quell’arte che le donne sanno tutte, ma che le donne innamorate conoscono a perfezione, la contessa Gisella causava ogni occasione di far conoscenze del suo sesso, oltre le poche necessariamente portate dalle relazioni mascoline del marito. Si vedevano mogli di generali, di colonnelli e di capisquadrone, tra le quali non c’era pericolo che avesse da scegliere il suo Maurizio, o per lui il signor generale. E questi, d’altra parte, sempre attorniato da vecchi troupiers, tutto ingolfato nelle sue conversazioni d’arte militare, di caserma o di piazza d’armi, non pensava più affatto ad ammogliare il signor di Vaussana. Nè poteva sperare che se ne incaricasse sua moglie, sempre circondata dal gaio sciame dei giovani capitani, degli aiutanti di campo e degli uffiziali d’ordinanza. La galanteria militare si esercitava intorno alla bellissima generala in visita, con quella amabile festività, con quella misura cavalleresca, che è propria dei francesi, e che è maravigliosamente aiutata da una lingua facile e snella, di forme ben definite, di frasi bell’e fatte, tra cui la stessa consuetudine ha tolta ogni importanza e lasciata tutta la sua grazia all’iperbole. Maurizio, nondimeno, si seccava un pochino che tutti fossero bien heureux come santi in paradiso, o enchantés come cavalieri nel castello di una fata, quando erano ammessi alla presenza di quella grande charmeuse, di quella femme divine, della contessa Gisella.

Il guaio era che parlando così avevano tutti ragione. Ed egli, anche gradito da tutti, trattato con quella deferenza di cui lo faceva degno il suo grado e la sua educazione, con quella cortesia cerimoniosa che era dovuta alla sua qualità di straniero, si sentiva a disagio, era sempre sulle spine. Vedeva ogni giorno Gisella, ma troppo diviso da lei, anche essendo vicino, e soffriva. Non già del brutto male, intendiamoci; perchè Maurizio conosceva la divina creatura, ne sentiva il pensiero costantemente fido, ne vedeva lampeggiar l’occhio azzurro sparso di faville d’oro, quando faceva un giro largo per giungere a lui e dargli il suo istante di felicità. Ma quanta bellezza ammirata, respirata, assorbita da troppi! ma quanta musica di parole sparsa a consolazione di troppi! Gisella era una regina, dovunque apparisse; amabile ad un modo con ogni età, con ogni grado, passava in mezzo a quella gloria di filetti d’oro e di rosso garance, come una bella dea serena e sorridente, maestosa e leggera, appagando tutti senza fermarsi a nessuno. Così debbono esser lieti i fiori di un giardino, quando passa aleggiando sulle aiuole una splendida farfalla, sempre in alto e sempre in moto, avendo l’aria di posarsi su tutti i calici, dischiusi a lei, odoranti per lei.

Qualche volta, passando accanto al signor di Vaussana, la divina creatura gli gittava una di quella frasi sommesse e brevi, ma calde di passione, che avevano virtù di rianimarlo, di esal tarlo, di fargli toccare i termini della beatitudine.

—Ah, il nostro San Giorgio! Ancora pochi giorni, Rizio! Questo carnevale, che morte! Sorridi, via, grande bambino, che hai così dolce il sorriso! T’intendo, sai? è così tarda a giungere, la nostra buona quaresima! —

Capitolo XV. Padre Anselmo da Carsoli.

La quaresima ricondusse i nostri viaggiatori a San Giorgio. Il piccolo paese alpino era tutto in fermento per una di quelle novità che sogliono commuovere perfino i grandi, tra il carnevale e la pasqua. Senza esserne stato avvertito dalle trombe della fama, San Giorgio possedeva per quel periodo di penitenze, di digiuni e di esercizi spirituali, un quaresimalista insigne, un predicatore coi fiocchi. Come mai un tant’uomo si fosse persuaso di andare a pescare anime tra quei monti, in verità non si poteva immaginare; certamente bisognava conchiudere che per una volta tanto l’arciprete don Martino avesse avuto una grazia speciale dai suoi santi protettori. Fin dalla prima predica il nuovo quaresimalista, del quale, a vederlo, non si sarebbe dato un baiocco, aveva sbalordito il suo uditorio; alla seconda lo aveva incantato. E già si parlava di lui in tutte le case, come di una gran maraviglia; se ne discorreva in farmacia, se ne ragionava al casino di lettura; in ogni luogo, per fino nelle osterie, si facevano confronti fra lui e i predicatori degli anni passati; chi aveva viaggiato e sentito altri famosi oratori del pergamo, non dubitava d’asserire che quello era uomo da batterli tutti.

Non vecchio nè giovane, con poca barba biondiccia venata di peli bianchi, più macilento che magro, alto della persona ma curvo, quasi piegato in due quando attraversava la grande navata della chiesa per recarsi dalla sagrestia al suo pulpito, appariva tutt’altro quando si affacciava di lassù, alta la fronte, sfavillanti gli occhi, diritto il corpo come una spada. Era cappuccino; si chiamava padre Anselmo da Carsoli. Modesta figura di asceta, vestiva umilmente una tonaca spelacchiata, su cui non mancavano le toppe, larghe, lunghe, fatte più vistose dal colore più carico del panno, con le quali il vecchio abito si andava via via rinnovando a pezzi e bocconi. Camminando in istrada, così curvo delle spalle e sempre a capo basso, non guardava mai nè di qua nè di là, non vedeva nessuno, tranne i bambini, quando gliene passavano daccanto, dandogli una curiosa sbirciata di sotto in su. Ma anche senza vedere la gente, il cappuccino ne indovinava il saluto, e lo ricambiava con un gesto di benedizione, breve breve, come d’uomo che avesse fretta. Coi bambini, per altro, si fermava sempre un poco, due o tre minuti secondi, il tempo di aggiungere alla benedizione una carezza paterna, accompa gnata da una crollatina di testa; come se in quel punto e a quella vista il pover uomo volesse cacciar dalla mente un doloroso ricordo.

Il giorno dopo la sua tornata in paese, Gisella aveva voluto andare al Castèu, per salutare Albertina. Accompagnata in quell’uffizio di cortesia dal generale, aveva incontrato sulla piazza il signor di Vaussana, che usciva allora allora dalla posta, con le sue lettere e i suoi giornali tra le mani. Era una piccola fortuna, di quelle che i piccoli paesi offrono più facilmente alle persone che si amano, e Maurizio l’aveva afferrata al volo, accompagnandosi ai signori Matignon: del resto, non si doveva egli far cammino insieme? Così, muovendo dalla piazza al Castèu, avevano veduto innanzi a loro il cappuccino, che, uscito allora dalla canonica, rasentava il muro per andare verso una viottola campestre, dietro la chiesa parrocchiale. Gisella riconobbe all’abito il predicatore, di cui quella stessa mattina le avevano già fatto un gran discorrere alla Balma tutte le sue persone di servizio. Andando ella innanzi ai due cavalieri, per la ristrettezza della strada, e passando lesta accanto al cappuccino, la bella signora non aveva creduto di potersi dispensare da un piccolo cenno di saluto, che andasse in pari tempo alla veste religiosa, all’età rispettabile e all’ingegno acclamato dell’uomo. Quell’altro aveva risposto con la sua benedizione frettolosa, chinando la testa anche più dell’usato; e pochi passi più in là, trovata la svolta del sentiero campestre, aveva scantonato prontamente, senza voltarsi neanche con la coda dell’occhio a guardare.

—Vedete che sudicioni!—disse il generale a Maurizio.—Neanche un paio di calze!

—È la regola, generale.

—Sarà; ma non è la decenza.

—Ettore!—mormorò la contessa, volgendo al marito un’occhiata di rimprovero.

—Ebbene, che cosa ho detto che non sia il vero?—replicò il generale.—Se non portano calze, non vadano almeno in ciabatte!

—Umiltà;—disse ancora timidamente Maurizio.

—Ah sì, parlatemi dell’umiltà dei frati!—gridò il conte Ettore.— Une bonne blague, celle-là!

Il cappuccino venne ancora in ballo, quando furono al Castèu, nel salotto della contessa Albertina. La signorina di Vaussana aveva già sentito due prediche, e n’era rimasta profondamente commossa. Era una donna intelligente, leggeva molto, pensava molto; il suo giudizio era dunque di gran peso. Il generale, del resto, essendo uomo di mondo, si arrese facilmente, e si tenne in corpo le celie che il tema gli chiamava alle labbra. Non fiatò neppure quando sua moglie dichiarò di voler seguire quel corso di prediche, contentandosi di promettere a sè stesso ch’egli non l’avrebbe imitata, e per quel primo giorno, in cui il capriccio religioso della sua metà lo coglieva fuori di casa, non sarebbe neanche rimasto sulla piazza della chiesa per aspettar le signore all’uscita.

Le signore, frattanto, seguitavano ad occuparsi del frate. Gisella raccontava di averlo veduto passare, mentre ella saliva verso il Castèu; ed Albertina soggiungeva qualche notizia intorno alle passeggiate di lui. Tutte le mattine, un’ora prima di salire al pulpito, se ne andava soletto per quel sentiero campestre dietro il coro della chiesa parrocchiale; s’inerpicava per la balza vicina, con la sveltezza di un giovinetto, e giunto lassù, dove il dorso granitico della montagna faceva un rialzo in forma di rozza colonna, si riposava una buona mezz’ora, contemplando, meditando, forse preparandosi nella preghiera alla predica della giornata.

—Vedetelo appunto lassù;—diceva Albertina, conducendo Gisella nel vano della finestra e indicando la montagna di contro.—Quel masso che sorge assottigliandosi come una cuspide di tempio gotico, si chiama la Pietra Aguzza. È là sotto, il padre Anselmo, seduto in contemplazione. Ecco, si muove; si è alzato; si dispone a scendere. Sarà ora anche per noi di andarcene in chiesa.—

Gisella sentì quel giorno il predicatore, e s’invogliò più che mai di ascoltarlo ancora. Erano veramente prediche maravigliose, quelle del padre Anselmo da Carsoli. Niente di politica spic ciola, di quella che si vorrebbe gabellare per politica grande: niente pei diritti temporali del Papa, e niente contro la miscredenza del secolo: a farla breve, nessuno dei luoghi comuni, esercizi retorici e pistolotti della poco sacra eloquenza dei sacri oratori del giorno. Ragionava di Dio con una forma insolita, non strana, semplice, chiara, elevata, degna di lui, in quella misura che può esser degno di lui il povero linguaggio della creatura umana. Toccava spesso e volentieri della virtù che onora l’uomo accostandolo al cielo, ed aveva impeti di passione, accenti nuovi e profondi che penetravano al cuore. Parlava caldo, serrato, incalzante, a fiotti su fiotti, come il mare, quando cresce a tempesta; qualche volta avendone perfino impaccio alla lingua, che durava fatica a sprigionare la frase. Ma la frase, quando finalmente usciva formata, acquistava da quell’impedimento momentaneo una singolare efficacia, come acqua corrente che costretta in angusto passo gorgoglia, spumeggia, rimbalza, uscendo più limpida, più rumorosa, più viva. Si soffriva un istante con lui, sentendolo oppresso dalla irruenza del pensiero e della parola; ma quel soffrire volgeva tosto ad un senso di piacevole stupore, vedendogli prendere la rincorsa a quel modo. E pareva allora che per tenergli dietro dovesse mancare il tempo a pensare: ma si pensava pur sempre, anche senza averne coscienza, perchè tutte le sue parole, così rinvigorite dallo sforzo, restavano im presse, e tutti gli argomenti in quelle parole serrati andavano a fondo.

Oramai non si parlava più che di lui, a San Giorgio. Da quarant’anni, dicevano i vecchi, non si era sentito lassù un oratore di quella forza. Ed ancora, non potevano i vecchi ingannarsi, esagerando naturalmente i ricordi della loro gioventù? Evidentemente, un oratore di quella forza non doveva esserci stato mai, nè quaranta, nè cent’anni prima d’allora; altrimenti se ne sarebbe conservata un po’ meglio la fama, ne avrebbero parlato le istorie. E l’eco dell’entusiasmo di San Giorgio si ripercuoteva ogni giorno alla Balma, con gran noia del signor generale.

—E così,—diceva egli alla contessa, vedendola ritornare sul mezzogiorno a casa,—lo avete sentito, il grand’uomo?

—Ma sì,—rispondeva ella,—ed è veramente grande; lo riconoscono tutti, a San Giorgio, anche i liberi pensatori.

—Ah!—sclamò il generale, inarcando le ciglia.—Ci sono dunque dei liberi pensatori, a San Giorgio? E che pensano?

—Quel che vi ho detto, per lo meno;—disse Gisella.—Fin là ci saranno potuti arrivare.

—Mi fate venir voglia di sentirlo;—conchiuse egli, ghignando.

E saputo che alle prediche di padre Anselmo assisteva anche il medico condotto, che passava per una testa forte, per una specie di Cabanis ridotto alle proporzioni mandamentali, andò la mattina seguente anche lui a vedere l’ottava maraviglia. Non si avventurò nella grande navata, per altro; si fermò poco lontano da un uscio laterale, nascosto dietro un pilastro.

Padre Anselmo, quel giorno, aveva predicato sulla scienza, sulla vera scienza che eleva lo spirito fortificandolo, che conduce a Dio, come la fede, come la speranza, come la carità. Quella era forse la trattazione più moderna ch’egli avesse fatta fin allora a San Giorgio. Ordinariamente il frate parlava di virtù, di pietà, dei doveri del cristiano, della dolcezza che si prova nel seguire la legge. Quel giorno, elevato il tono, parve anche più forte del solito. Ma non così la pensava il suo novo ascoltatore, che torse le labbra, annoiato.—Se questo è il pezzo più forte,—pensava, egli nel ritornarsene alla Balma,—gran debolezza vuol essere il restante.—

La sera, in conversazione, si parlò del predicatore; e il signor di Vaussana domandò al generale che opinione se ne fosse formata.

—Non me ne parlate;—rispose egli, facendo una spallucciata delle solite.—È uno sciocco. Parole, parole, parole! E neanche armato come dovrebbe, per sostenere la sua tesi spallata! Non sa citare che autori di cinquant’anni fa. Lo avete sentito? Gli è parso di far molto, combattendo il Lamarck. Ben altri sono oggi gli atleti con cui dovrebbe provarsi. Vincere il La marck, bella forza! E poi, che vittoria è la sua? Nessuno gli risponde, ed egli resta padrone del campo. Sapete che cosa mi fa ricordare? Quel predicatore che argomentava contro il protestantesimo.—

Qui il signor generale ingrossava la voce, per rifare il discorso del personaggio aneddotico allora allora evocato:

—«Venite voi Lutero, voi Calvino e voi Melantone; venite davanti al mio tribunale di giustizia ad esporre le vostre perverse dottrine. E che?... non venite?... Dunque avete torto. Ed ecco o signori, vittoriosamente combattute le dottrine degli empi. Non osano presentarsi, arrossiscono, tremano, si nascondono. Ma contro il sole della verità non valgono ripari; quel sole li cerca, li scova, dovunque si nascondano, li abbaglia, li accieca».—

E rideva, il signor generale, rideva comodamente per tre. Gisella taceva; Maurizio si provò a dire qualche cosa.

—Certo, questa maniera di combattere la scienza moderna pare insufficiente anche a me. Ma il nostro cappuccino, ne converrete, è più forte di così. Infine, gli evoluzionisti moderni non hanno fatto che ripigliare l’ipotesi del Lamarck: combattendo lui, si combattono gli altri. E poi, lasciamo stare la tesi scientifica: bisogna sentire il quaresimalista ogni giorno. È spesso elevatissimo. Qualche volta mi pare che pigli ad imprestito dai grandi maestri: dal Bos suet, per esempio, e dal Massillon; ma bisogna riconoscere che ci mette anche del suo.

—Sarà il brutto, allora.

—Non sempre, generale, non sempre. Ci ha il tenero, di suo, ci ha il semplice, che va all’anima. Vi confesserò che non è un’aquila; l’aspetto sarebbe piuttosto d’un barbagianni;—soggiunse Maurizio, temperando la sua lode con una celia, che doveva rabbonirgli il suo interlocutore;—ma gli possiamo render giustizia dicendo che è un predicatore dei buoni; e se non giustifica l’entusiasmo dei miei concittadini, certamente lo spiega.

Questo giudizio mezzo e mezzo poteva contentare il generale; ma non era fatto per piacere a Gisella.

—Perchè lo trovi brutto? come fai a trovarlo brutto?—diss’ella a Maurizio, appena ebbe modo di restar sola un istante con lui.—Sai che in certi momenti è bello, anzi bellissimo? Sicuro, di una bellezza morale che gli si diffonde dall’anima;—soggiunse la cara donna, notando un senso di pena che contraeva in quel punto le labbra di Rizio.—Quando egli si scalda nel suo ragionamento, non hai osservato come gli scintillano gli occhi? come una vampata di sangue gli corre per le guance scarne, facendole parere di rosa? Si direbbe che in quel momento Dio scende in lui e lo trasfigura. E vuoi credere? Quando egli si commuove più fortemente, e la voce gli trema, e le lagrime gli brillano sulle palpebre, io mi volto verso l’altar maggiore e guardo il crocifisso, aspettandomi sempre di vedergli schiodare una mano e stendere il braccio per benedire quell’uomo, che lo esalta con tanto fervore, facendolo intender così bene alle turbe.

—Via! via!—disse Maurizio.

—E così, proprio così;—riprese Gisella.—E non mi hai detto tu un giorno che un brutto professore, quando parla bene, animandosi un poco, diventa bello per il suo uditorio?—

Maurizio incominciava a pensare di aver detto troppe cose. E scritte, poi! sopra tutto le scritte gli pesavano sull’anima.

—Un po’ di misura, bella mia, un po’ di misura!—le bisbigliò con accento di esortazione paterna, vedendola più che mai infervorata nella sua passione religiosa.

—Misura! misura!—replicava Gisella.—Si è tanto felici di credere! E si avrà dunque da credere per metà? Come potete voi raccomandare una cosa simile?—

Cinque o sei giorni dopo, il quaresimalista aveva fatto una predica sulle mogli; con una grazia, povero frate, con una delicatezza, che non si sarebbe potuta aspettare da lui. L’abito suo, veramente, lo doveva far credere più pratico d’altro santuario che non fosse quello, abbastanza turbato, della famiglia moderna. Enunciato il suo tema, aveva fatto un’esposizione sommaria del dovere, secondo la condizione so ciale. Il dovere, questa obbedienza alla legge, si mostrava, così agevole nella semplicità della sua dipintura, che non s’intendeva più come mai si potesse venirci meno. Di quella obbligazione morale il predicatore aveva indicato l’adempimento nell’esercizio di tutte le virtù: e le virtù, così dure a praticarsi, apparivano belle e facili, perchè governate e promosse da un senso di rispetto a noi medesimi, che è rispetto alla creatura di Dio, a questo vas electionis della sua grazia. Vaso d’elezione non era stato solamente l’Apostolo. Quello era l’esempio, nella famiglia cristiana; ognuno poteva seguirlo, ognuno accostarvisi. Bella cosa esser puri davanti alla legge umana, non sospettabili nella presenza del mondo; bellissima esser puri davanti a noi medesimi, essendo la coscienza il buon giudice umano che precorre ed annunzia il gran giudice eterno. In quella guisa che al finire del giorno l’uomo è tanto più contento di sè quanto più sente di aver lavorato, così nella grande giornata dell’esistenza niente vale la contentezza interiore dell’avere operato il bene; e niente, dov’essa manchi, può tenerne le veci. Rispettarsi, sentirsi degno di questo rispetto, è benefizio singolare per tutti, singolarissimo per la donna, a cui spesso non basta il pentirsi, quando abbia fallito, perchè essa nella pubblica estimazione cade sempre più in basso dell’uomo. Triste cosa è questa, che i nostri costumi hanno portata, di non poter riacquistare la grazia degli uomini, avendo pur riacquistata la grazia di Dio; ma c’è compenso ancora, nella iniquità del giudizio, e un privilegio maraviglioso corrisponde al danno. L’uomo virtuoso, l’uomo che osserva la legge, si riconosce onesto; della donna virtuosa, insospettata e insospettabile, si dice comunemente: è una santa.

Qui con ardito trapasso veniva a dipingere le ansietà, i terrori, i rimorsi che accompagnano la colpa. Quante corde vibravano a quelli strappi di una mano maestra! No, la colpa, no, mai; è brutta, la colpa, è malsana; porta con sè, per primo guaio, il dover arrossire davanti al mondo, e peggio, davanti a sè medesimi. Per la donna colpevole, prostrata nella polvere di contro ai suoi lapidatori, Iddio ha detto: «chiunque di voi è senza peccato scagli la prima pietra». Quella pietra, gli uomini non possono scagliarla più; gli uomini non debbono punir quella donna, degni di punizione essi medesimi; gli uomini non debbono disprezzarla, di tante colpe macchiati, mentre uno spirito puro la compiange. Ma ella è pur sempre a terra, ed egli solo può rialzarla. Finchè egli non abbia detto: «va, non peccar più», non isperi di sollevare la fronte. Da lui rialzata, redenta da lui, si consoli: ma pensi che la turba, se non lapida più, giudica ancora; la turba è sempre là, astiosa ed arcigna, nel fondo della scena, e i farisei ne governano l’animo, i farisei, stirpe non morta ancora, che solo ha mutato di nome. E chieda a Dio di soffrire, di soffrir sempre, per espiare il suo fallo; ringrazî il cielo di una sofferenza, che quanto è più grande e più lunga, tanto più vale a deterger le colpe. Nè chieda di soffrir meno la donna che visse casta e virtuosa; pensi che la coscienza della propria impeccabilità può facilmente tramutarsi in orgoglio. Noi spesso non cerchiamo di vedere; ma Dio vede e sa quanto sia di peccato in noi, che per soverchio di sicurezza non facciamo buona guardia alle anime nostre. Certo, è soffrire orrendo, per una donna, e può parerle intollerabile, l’obbedienza di tutti i giorni, di tutte le ore; ma è prova solenne, argomento di purificazione continua, quel suo viver legata ad un uomo il più delle volte ruvido, vano, capriccioso, volgare, che non intende e non sa quanto ella valga, ma che qualche volta può essere mutato, migliorato, trasformato da lei. Che vittoria, allora, e come fa lieto il sofferto martirio! E poi, che è ciò che aspettiamo noi dal dovere compiuto? Se la vita è battaglia, sian terse le spade; nè vi paia fatica di farle brillare. Più splende quella che è più fine di tempra, e della fatica durata è gran conforto la gloria. Esser pure è già un premio; farvi belle dell’anima a Dio, è conveniente lusinga. Anche un poeta pagano lo ha detto: «piacciono i casti pensieri lassù; con casto animo vieni, con pure mani attingi alla fonte». Sentite la bellezza della virtù, che consola; e non orgoglio vi dia, ma nobile alterezza; e vi veneri il mon do, non potendovi mordere; e l’ossequio suo non sia minore di quello dei vostri figliuoli, a cui giovano le esortazioni, ma più ancora gli esempi.

Come aveva sofferto Maurizio, quel giorno! Gli pareva che ad ogni istante il frate dovesse uscire dalla tesi generale, figurare dei casi, proferire dei nomi; che ad ogni istante dovesse dare in qualche sfuriata, da offendere, da turbare, da commuovere troppo visibilmente qualche povera ascoltatrice. Ma no, niente; quel diavolo d’un sant’uomo non era mai stato tanto riguardoso come allora; non aveva neanche usata la volgarità di chiamar le cose coi loro brutti nomi, che è vizio dei quaresimalisti, anche valenti. La sua orazione era tutta misura e grazia, grazia e misura, e senza aver fatta la menoma concessione al gusto mondano. Anche l’argomento del rispetto di sè, che poteva essere derivato da un concetto pagano della virtù, come diventava cristiano nella necessità di fare della creatura un tempio, un altare, un vaso degno di Dio, e di educare non pure onestamente ma ancora candidamente la prole! «Non offendete colla impurità della lingua l’orecchio innocente del bambino; bella massima;—diceva il frate,—ma quasi inutile esortazione in una famiglia civile. Qual è infatti quella madre così sciocca o malvagia, che non abbia in mente e non osservi il precetto? Ma è necessario altresì che del fanciullo non si offenda la vista con la scena di un viver domestico poco lodevole, brutta scena che spesso è commedia corruttrice, e qualche volta si muta in orribil tragedia. E poi, che giova nascondere molto e con ogni cura al fanciullo, se egli, passando sua madre per via, vede a lei rivolto insieme col saluto il sogghigno, e dietro a lei ode gittata la parola di spregio? Ah, meglio allora, mille volte meglio non aver bambini! Ma pensate allora, pensate essere ancora una grazia la sterilità, per la misera donna che ha dimenticata la legge divina, la legge umana e sè stessa».

Neanche qui il frate foggiava casi particolari; non usciva neppur qui dalla tesi generale. Ma era pericolosa, la tesi; e Maurizio fremeva, pensando esser là tra gli ascoltanti qualche misera donna, la quale, ritornando a casa, non avrebbe trovato bambini ad attendere la sua carezza materna. Fremeva, mentre tutti gli ascoltanti pendevano dalle labbra del monaco, e gli pareva che ogni sguardo momentaneamente sviato di quella moltitudine attenta, girando per caso dalla parte sua, fosse diretto a lui, proprio a lui, come una interrogazione, come un rimprovero. Intollerabile supplizio! E non osò, per tutto il tempo che durò quella predica, volger neanche la faccia da un certo lato della chiesa. Poi, a mala pena ebbe fine il supplizio, scappò fuori senza guardarsi dattorno, tagliò la piazza per la linea più breve, andando verso il Castèu, senza aspettare la solita occasione di salutare Gisella, che usciva sempre in compagnia di Albertina.

Quella sera, non bene rinfrancato, ma desi deroso di non far novità, si avviò alla Balma. Trovò il generale solo nel vestibolo, occupato a dare una scorsa ai giornali.

—Ma sapete,—gli gridò questi ex abrupto, levandosi gli occhiali e deponendo sulla tavola il foglio che aveva tra mani,—ma sapete che il vostro predicatore è un fiero campione!

—C’eravate?—disse Maurizio, rabbrividendo.

—No; per sentirlo m’è bastata una volta. Ma quasi quasi mi riconcilio con lui. Ha parlato del dovere in un modo che mi va. Queste vi parranno contradizioni;—soggiunse il generale, ridendo.—Ma anche senza andarsi ad affumicare là dentro, si può sapere che cosa c’è stato detto. Gisella mi ha recitata tutta la predica. A sentirla, si sarebbe creduto che la sapesse a memoria.—

Com’era andata? Al signor di Vaussana parve quella una follìa, una grande follìa. Ed era certamente tale, e la contessa, commettendola, aveva obbedito ad uno di quegli impulsi ciechi, contro i quali non è forza di volontà, nè lume di ragione che tenga. Scossa, turbata al pari di lui, se non forse di più, Gisella aveva ritrovato a mala pena quel tanto di forza che l’aiutasse a ritornare a casa, con aspetto di persona tranquilla. Per altro, a mezzo il viale dei tigli, aveva dovuto sedersi, non potendone più. Come le era venuto fatto di trascinarsi fin là? Il suo cuore batteva, batteva con una violenza da far temere che volesse ad ogni tratto spezzarsi; tanto che gliene veniva un senso di dolciume smaccato e nauseabondo alla gola. In uno sforzo supremo era riuscita a padroneggiarsi. Aveva pensato che fosse quella una crisi per l’anima sua; se felice poi o disgraziata, non voleva cercare. Dio lo vuole, aveva gridato a sè stessa, come i primi crociati di Cristo; e una gran forza era succeduta a quel momento d’angoscia indicibile. Alzatasi di scatto dal sedile di pietra, aveva fatto in pochi minuti il restante della salita, trovando sulla spianata del cancello il marito che passeggiava aspettandola; e davanti a lui aveva voluto fare la brava. Egli stesso la metteva al punto, chiedendogli col suo piglio beffardo quali altre scioccherie avesse spacciate quel giorno il grand’uomo. Scioccherie? C’era ben altro; un trattato di alta morale; ne giudicasse lui, che rideva. E lì, l’uno dopo l’altro, aveva snocciolati tutti gli argomenti, provando un gusto aspro, mettendo una cura ostinata, feroce, un vero accanimento, a tormentarsi l’anima riferendo tutto il discorso, perfino con le stesse parole del frate. Il generale aveva continuato a ridere per due o tre minuti; effetto di mare lungo, che non ha avuto ancor tempo di quetarsi; poi si era fatto serio, a grado a grado prestando maggiore attenzione; e si vedeva che gli argomenti gli andavano, e non meno le frasi ond’erano rivestiti, perchè li accompagnava con cenni del capo e con ringhî in cadenza. Egli doveva egualmente ammirare la relatrice, trovando ch’ella possedeva un bel tesoro di memoria, un tesoro del quale egli non si era mai avveduto. E neppure lei sapeva come ciò le accadesse. Le parole del frate le erano certamente caduta sul cervello, come gocce di piombo liquefatto, facendovi impronta e presa ad un tempo.

Ma quello sforzo l’aveva anche esaurita. A pranzo niente le andava; si era contentata di assaggiare; e finito il pranzo aveva trovato un pretesto per ritirarsi nelle sue camere, non aspettando Maurizio alla solita ora delle visite serali. Cosa da nulla, diceva il generale al signor di Vaussana, poi che questi ebbe domandato della contessa, e manifestato il suo vivo rammarico di saperla indisposta.

—I soliti incomoducci, che fanno comodo così grande alle signore donne;—soggiungeva il generale;—nervi, fumi, vapori, isterismi ed altri cataclismi da ridere. Del resto, un po’ di riposo le farà bene. Quel prodigio di mnemonica, a buon conto, non sarà mica stato senza consumo di materia cerebrale. Siamo macchine, mio caro.—

Così ragionava; ed era contento di sè, il castellano della Balma. In fin de’ conti, quella poteva contarsi come una buona giornata per l’autorità del marito, se anche gli era stata procacciata da una sequela di ribellioni all’autorità del filosofo. Buona giornata, davvero, e ne prometteva delle altre. Lo sentiva egli, questo? si dava ragione della sua contentezza? Forse no, anzi, diciamo pure senza il forse, ed ammettiamo che in lui operasse una specie d’istinto. Del resto, egli poteva esser contento di aver sentito parlare come piaceva a lui. Per una volta tanto quei blagueurs di preti erano buoni a qualche cosa.

Quella sera Maurizio fece una mezza dozzina di partite a carambolo, perdendole tutte, e la testa per giunta. Ma un vincitore a carambolo, facendo le sue lunghe serie di colpi, non ha tempo nè modo di guardare dove il suo avversario abbia la testa. Così la sera passò, triste conclusione di una triste giornata. Le giornate, poi, si seguono e non si rassomigliano. La mattina seguente capitò Gisella al Castèu. Veniva in apparenza a prender l’amica, per andare con lei alla predica. Nel fatto, voleva combinare in casa il signor di Vaussana, per domandargli un libro in imprestito; un esemplare del nuovo Testamento, niente di meno. Desiderava di leggere l’evangelio di san Giovanni e le epistole di san Paolo; due autori che il quaresimalista citava spesso e volentieri. Nella libreria della Balma il nuovo Testamento non c’era, e per una buona ragione: per la stessa ragione non c’era neanche il vecchio. Ma oramai non sarebbe più stato così: Maurizio offriva l’uno e l’altro, non già come imprestito, ma come presente, come omaggio alla contessa Gisella. Regalava la tra duzione del Martini, approvata da Roma: quanto a lui, possedeva la versione latina di san Geronimo, ed anche in un altro esemplare la versione italiana del Diodati, non approvata, ma ad ogni incontro, ad ogni bisogno, egualmente opportuna. L’ortodossìa di Maurizio non badava a certe piccolezze.

Gisella tremò, vedendolo comparire in salotto, e una fiamma le corse alle guance. Ma subito si ricompose, e gli espresse il suo desiderio, avendone quell’esito che fu dianzi accennato. D’altro non fu possibile parlare, essendo presente Albertina.

—Ed ora vi sentite meglio, non è vero?—si restrinse a domandarle Maurizio.

—Sì, molto meglio,—rispose Gisella.—Non è stato che un male passeggero.... qui;—soggiunse ella, indicando il cuore.

—Con quei colori?—gridò egli, inarcando le ciglia, e dissimulando nell’atto di maraviglia un vivo senso di pena.

—Con questi colori, pur troppo;—replicò sorridendo Gisella.—È stata anche la malattia di mia madre. Ma non esageriamo la cosa;—riprese tosto la bella signora;—altrimenti meriterò i rimproveri del generale, a cui queste bambinerie non piacciono. Affrettiamoci piuttosto ad andare in chiesa; dovrebbe esser quasi l’ora. Di che parlerà oggi il padre Anselmo?

—Dell’amor divino;—rispose Albertina, a cui la domanda era rivolta.—Non hai sentito, quando l’annunziava?

—No, mi ero forse distratta.... pensando a tutte l’altre belle cose che aveva finito di dire.—

La predica dell’amor divino fu un inno in prosa, e frammezzato di versi. Quel diavolo d’un frate ci aveva quel giorno tutti testi profani. Citava Girolamo Benivieni, che sull’amor divino aveva dettato armoniose e calde terzine; citava Lucrezia Tornabuoni, e le sue affettuose laude spirituali; citava messer Agnolo Poliziano, autore anch’egli (pare impossibile) di poesie religiose; citava perfino Lorenzo de’ Medici, e le sue amorose rime sulla ricerca di Dio.

Allor vedrò, o Signor dolce e bello,
Che questo bene e quel non mi contenta:
Ma levando dal bene e questo e quello,
Quel ben che resta il dolce Dio diventa:
Questa vera dolcezza e sola senta
Chi cerca il ben: questo non manca mai.

Quella mattina, sulla piazza della chiesa, non mancò più Maurizio, ad aspettar le signore.

—Non è vero che è stato bello?—gli chiese Gisella, nella breve conversazione di commiato.

—Sì, bello;—rispose Maurizio.

E non potè dirle altro, tanto soffriva. Ah, quel bene terreno che non contenta più l’anima! quel bene terreno da cui si può levar tante parti, e il resto si trasforma in amore di Dio!

Quella sera, andò ancora alla Balma, sapendo già di non averne alcun bene. Pure, il caso gli fu più umano del solito, facendolo restare abbastanza lungamente solo con lei.

—Non andrete più al Martinetto?—le disse, dopo alcuni istanti di silenzio, che gli erano parsi secoli.—C’è il piccolo Vittorio ammalato.

—Oh, poverino! Sicuramente ci andrò;—rispose Gisella, che a tutta prima era rimasta confusa.

Ed egli la precedette il mattino seguente lassù; o credette di precederla. Ma la contessa non si lasciò vedere al Martinetto, nè prima nè dopo la predica. Triste cosa, su cui egli non osò farle la più piccola osservazione. Pure, le giornate erano belle, ancora un po’ fresche, ma serene e luminose; e i cardellini dell’Aiga, salutando Maurizio, avevano l’aria di dirgli: i vostri nocciuoli sono stati i primi tra tutti gli alberi della montagna a riprender le foglie; come va che non ci si rivede ancora? sareste mutati voi, da quelli di prima?—

Gisella andò a vedere il figliuoletto di Biancolina, ma dopo aver pranzato, senza pericolo d’imbattersi nel signor di Vaussana. Maurizio la vide ritornare alla Balma, mezz’ora dopo ch’egli era giunto lassù. Rimase male, vedendo che Gisella aveva cercato di evitare la sua compagnia. Ma la signora non potè egualmente evitare l’occasione di un breve colloquio con lui, mentre il generale era andato più oltre lungo il viale a ragionar col fattore.

—Perchè?...—le disse.—Perchè mi sfuggite?—

Maurizio aveva l’aria d’un moribondo, parlando in quel modo.

—Perchè....—mormorò ella, non resistendo a quell’accento di angoscia suprema.—Amico mio, non mi parlate così! Se sapeste come mi levate il coraggio!... Siamo nell’errore, Maurizio; ho paura.

—Paura!—esclamò egli.—Di che?

—Siamo colpevoli.

—Colpa.... d’amore....

—È colpa, e basta. Io mi faccio orrore, e qui dentro mi domando spesso: che cosa penserà Maurizio di me, se anch’egli usa scendere nel segreto dell’anima sua, e vede l’abisso in cui siamo caduti? Ah, meglio laggiù,—gridò ella rabbrividendo—meglio laggiù in quell’altro abisso, nel vortice dell’acque, quando io non credevo di far tanto male; e tu già lo sapevi, già n’eri persuaso, perchè hai tardato un istante a rispondermi! —

Capitolo XVI. Cuori infermi.

Così finiva la quaresima, vedendo Maurizio la contessa Gisella ogni mattina alla sfuggita quando si usciva di chiesa, ogni sera più lungamente quando egli andava alla Balma; non più altrimenti, come avrebbe potuto sperare dal ritorno alla buona stagione, da lui con tanto ardore invocata. E parlava di cose vane con lei, quando c’erano altri in conversazione; e non parlava più affatto quando restavano soli. Quei due poveri cuori sembravano divenuti l’uno all’altro stranieri; tra quelle due coscienze, già così intimamente unite, si era fatto un gran vuoto. Egli oramai era in uno stato da far compassione; reggeva l’anima co’ denti; avrebbe voluto non essere: intanto, per capriccio di sorte o crudeltà di destino, doveva sorridere, sorrider sempre, piegandosi a tutte le fantasie d’un vecchio fanciullo, che mostrava di non saper stare un minuto senza la compagnia del suo migliore amico. Sospello di qua, Vaussana di là, e Maurizio da pertutto; non c’era che lui.

L’avvicinarsi della pasqua avrebbe dovuto portare qualche obbligo particolare per quel saldo credente. Ma quel saldo credente non era uno stretto osservante: andava in chiesa; e levato di lì, praticava poco, sicuramente credendo che il credere bastasse. Del resto, c’era la politica di mezzo; ed egli, non volendo inchinarsi a certe pretensioni de hoc mundo, non aveva neanche scrupoli di coscienza. «Quando avranno disarmato verso l’Italia una, mi accosterò anch’io un po’ meglio», diceva egli qualche volta a sua sorella Albertina.

Uno di quei giorni, veduto che sua sorella usciva prima dell’ora, tutta vestita di nero e col velo di pizzo ugualmente nero in testa, scambio del solito cappellino, le domandò brevemente:

—Precetto pasquale?

—Sì,—rispose Albertina,—da una settimana è incominciato il tempo utile.—

Un’idea passò per la mente di Maurizio; e per averne l’intero, mezz’ora dopo che sua sorella era uscita, andò in chiesa anche lui. Giunse a tempo per vedere il cappuccino uscire dal confessionario, donde aveva ascoltate ed assolte parecchie penitenti. Rivolti gli occhi all’altar maggiore, riconobbe sua sorella inginocchiata alla balaustrata di marmo, e accanto a lei la contessa Gisella, anch’essa tutta vestita di nero. Ah, dunque ella pure si era confessata dal frate; ella pure si accostava alla mensa eucaristica; ella pure, perdonata, monda di colpe, contenta? E fu triste senza fine; per quel giorno mutò perfino il posto alla predica; finita questa, se ne andò verso casa, senza aspettare le signore al varco del piazzale. Di questo, poi, non erano neanche da farsi le maraviglie: oramai erano più le volte che il signor Maurizio faceva così, che non quelle in cui si tratteneva a riverire Gisella, a barattare con lei le poche frasi di commiato.

—Confessa bene?—domandò egli di punto in bianco a sua sorella, quando furono a tavola.

—Come predica;—rispose Albertina.—È un dotto, ed è un santo,—

Maurizio non disse più altro. Quella sera gli mancò il coraggio di salire alla Balma. Sentiva bene che un gran rivale gli era stato suscitato; ma da chi? non forse da lui? e perchè darne colpa o merito ad altri? Egli, egli solo, aveva introdotto il gran nemico in casa. Che dolore, e che orrore! Egli amava più che mai quella donna; e quella donna era di Dio.

Andò alla Balma il giorno dopo, di mala voglia, soffrendo in ogni parte dell’esser suo, nè ben sapendo di che. Trovò la contessa al suo telaio di ricamo, pallida, cerea nel volto, ma calma. Il generale era di cattivo umore, e misurava a gran passi, in diagonale, gli ottanta e cento metri quadrati del vestibolo. Incominciava a temere gli effetti della vita sedentaria; voleva fare del moto: e per farlo, e per istizzirsi di non poterne fare abbastanza, sceglieva le ore che Gisella dedicava al riposo. A mala pena ebbe veduto comparire Maurizio, il passeggiatore si fermò, prendendo un’aria severa.

—Non vi abbiamo veduto, iersera; diss’egli, con accento di rimprovero.—E sareste stato così utile, per darci una mano! Si è dovuto mandare pel medico, capite? pel medico; e l’abbiamo avuto qui tutta la sera.—

Maurizio non ci vedeva già più.

—Ah!—gridò egli, prima che quell’altro finisse la sua invettiva.—Che è stato? Io non sapevo.... Se avessi immaginato....—

E si volgeva così dicendo a Gisella, di cui poc’anzi aveva notato il pallore. Ma per allora non discerneva più nulla, tanto era turbato; l’immagine della donna adorata gli veniva agli occhi confusa, come i pensieri alla mente, come le parole alle labbra.

—Cose di poco, signor Maurizio;—rispose ella placidamente.—Mal di stagione, e non valeva neanche la pena di parlarne. Non istò forse bene, ora?—soggiunse, volgendosi a suo marito, che aveva fatto un gesto di stizza.

—Che stagione mi andate voi stagionando?—gridò il generale.—Ma sì, dite bene,—ripigliò, mutando proposito,—è la stagione.... ecclesiastica; è la vostra quaresima, che il diavolo se la porti. Capirete, Maurizio; tutti i giorni in chiesa! Il fumo delle candele doveva bene un giorno o l’altro portare i suoi effetti dele terii. Ieri, poi, per compir l’opera, la nostra signora è stata fino al tocco senza prender niente; nè bevanda nè cibo.

—Quante volte non sono stata così!—rispose Gisella, sorridendo.

—Ma ieri non potevate. E non va bene restar tanto a stomaco digiuno; segnatamente voi altre donne, che mangiate come gli uccellini, e avete bisogno di nutrirvi più spesso. Questo ve lo ha detto anche il medico. Ma ieri, Dio ci abbia in grazia, bisognava far la pasqua, bisognava prendere la comunione.... Credo che sia la prima, dopo quindici anni;—osservò il generale, ghignando.

—Ettore! Voi dite i miei peccati.

—Ed anche quella era stata di troppo;—continuò il generale, senza badare alla interruzione.—Venite, Maurizio, facciamo due passi all’aperto. Il medico ha dato un buon consiglio anche a me. Non faccio moto abbastanza, e ci buscherò una congestione di sangue. Sarà necessario che io ripigli l’uso di montare a cavallo. Le strade qui non sono molto adatte; ma bisognerà contentarsi. Cavalcate, voi?

—Male;—rispose Maurizio.

—Ah, sì, scusate, dimenticavo che siete un marinaio. Ci vorrebbe un cavallo marino, per voi.—

E trascinava Maurizio con sè, lontano dalla casa, volendo rifarsi della noia di quella giornata. Ma col discorso ritornava spesso a sua moglie.

—Credo che quel monaco l’abbia stregata;—diceva. Dal giorno che ha cominciato a seguire quel maledetto quaresimale, Gisella non ha più pace. Perfino di notte, vedete, ella sogna del monaco. Almeno, io penso che sia così. Prima d’ora, dormiva i suoi sonni tranquilli, come una bambina; ed ora è in agitazione continua; di tanto in tanto, svegliandomi, sento che si lagna come una persona malata. Scendo da letto, vado a vedere che cos’ha, le domando se si sente male: non risponde; è addormentata, ma d’un sonno cattivo, come quando s’è fatta una cattiva digestione. Ha l’affanno, l’oppressione, una specie d’incubo che la fa rammaricare, gemere, uscire in frasi rotte, incomprensibili. Capirete, amico mio, che tutto ciò è molto grave. Quando si parla dormendo, è segno che il cervello lavora; e lavora male, il cervello, quando non è la sua ora, quando egli ha bisogno di rifarsi della fatica del giorno.—

Maurizio fremette, pensando alle frasi rotte, alle frasi incomprensibili, che ben potevano una volta o l’altra riuscir frasi formate, ed esser comprese. Non temeva per sè; questo era l’ultimo de’ suoi pensieri. Ma non voleva perder Gisella; lo atterriva l’idea d’esser cagione d’una sventura per lei. Povera bella! ed era ammalata; un guasto era avvenuto in quell’essere così perfetto. Ma come grave? a che punto poteva giungere? come si poteva rimediarci? Anzitutto, che cosa aveva osservato il medico? che cosa aveva detto a quel marito? se aveva detto qualche cosa, che fede meritava?

Il medico di San Giorgio era un uomo di mezza età; non faceva lunghi discorsi, nello impostare la diagnosi; anzi annaspava un pochino, accennando i sintomi, i segni osservati; tanto che non pareva avere una cognizione ben chiara del male, e contentava poco i suoi ascoltatori. Ma egli non annaspava poi nella pratica; correva ai rimedii, alle ordinazioni, alle operazioni, con una prontezza mirabile, che dinotava altrettanta sicurezza di giudizio. Apparteneva alla scuola vecchia: buona cosa, il più delle volte, perchè la scuola vecchia è tutta esperienza accumulata intorno ad un metodo riconosciuto; non ha tante parole dottamente aggrovigliate, non ha tanti sistemi frettolosamente fabbricati. Ma questo ci avviene, quando cade inferma una persona a noi cara: se il medico è della scuola vecchia, temiamo sempre che non ne sappia abbastanza; e tanto più lo temiamo oggidì, che il giornalismo ci confonde più facilmente con cento notizie di scoperte, di globuli, di piastrelle, di microbii, di micrococchi, d’iniezioni ipodermiche, di trasfusioni, di sterilizzazioni, di attenuazioni, di tentativi audaci, di processi rigeneratori, di cure portentose, facendoci credere che un nuovo mondo sia stato scoperto ieri, e un altro debba essere scoperto domani. Se poi il medico è d’una scuola moderna (ci sono infatti tante scuole quanti sono gli sperimentatori nuovi, i nuovi cercatori della verità scientifica) temiamo che la sua scuola non sia la buona, che voglia veder troppo, che si fidi troppo ad un sistema non ancora provato, ad un rimedio non ancora abbastanza sperimentato, che prenda un dirizzone scambio d’un indirizzo ragionevole, e vada e conduca noi fuori di strada.

Maurizio non ebbe pace fino a tanto non gli venne fatto di abboccarsi col medico, per sentire da lui che cosa fosse il malore ond’era minacciata la contessa Gisella. Ma doveva egli entrar subito in argomento? Un po’ di confidenza ci voleva, e Maurizio pensò di non averla ancora meritata. Egli lo aveva sempre un po’ trascurato, quel brav’uomo, che esercitava l’arte sua con molta coscienza, e che era degno dell’amicizia di tutte le persone per bene. Incominciò dunque col fargli la corte, fermandolo per via, accompagnandosi con lui, chiedendogli notizie dei suoi ammalati, informandosi delle malattie dominanti e del metodo di cura tenuto da lui. Biancolina e il piccolo Vittorio furono anche buoni gradini per risalire bel bello alla contessa Matignon, a quella graziosa e cara provvidenza di tutti i poveri, di tutti i sofferenti del vicinato.

Anche lei, povera provvidenza, sì certo, aveva bisogno di cura. E il signor di Vaussana, accennando quelle piccole indisposizioni delle quali era stato testimone, aveva ad arte aggravate le cose, nella speranza, quasi nella certezza di sentirsi rassicurare dal medico. Ma quell’altro non aveva corrisposto alla sua aspettazione; batteva le labbra, aveva l’aria di dargli ragione, gliene dava sicuramente più ch’egli non mostrasse di volerne avere. E allora Maurizio a turbarsi davvero, a fremere di spavento, a tempestar di domande.

Ma, che dire? Non bisognava confidar troppo, nè sgomentarsi prima del tempo. Il medico, dopo tutto, aveva osservato lì per lì, badando alle necessità del momento. Sì, certo, c’era qualche cosa al cuore. Vizio cardiaco, dunque? Si poteva temerlo. Di mal di cuore era morta anche la vecchia contessa Matignon, la madre di Gisella, e questo per l’appunto gli dava da pensare; forse per questo egli si era così prontamente fissato sul sospetto del vizio cardiaco. Aveva notato irregolarità di polso, asistolìe, acinesìe; in altri termini, ritardati movimenti di sistole, troppo lunghi intervalli nel doppio movimento di diastole e di sistole, dilatazione e restringimento alterno del cuore. Ed anche accennava a troppa frequenza di respiro, a qualche piccolo rantolo alla base dei polmoni, indizio di stasi, ossia ristagno del sangue.

Erano sintomi poco piacevoli, sicuramente: ma potevano esser passeggieri. Il medico non voleva pronunziarsi troppo presto, nè troppo risolutamente. Ma aveva incominciato, doveva anche finire, per contentare la curiosità incalzante del signor di Vaussana, la cui amichevole sollecitudine per i signori della Balma meritava benissimo una esposizione sincera. Non prendesse il signor di Vaussana per vangelo tutto ciò ch’egli diceva; ammettesse ancora la possibilità di un errore; ma per lui il vizio cardiaco ci doveva essere, e valvolare. In altre parole, e più chiare, il medico di San Giorgio credeva di aver notata una insufficienza della valvola bicuspidale dell’ostio auricolo ventricolare sinistro.

—Che nomi!—aveva esclamato Maurizio, sforzandosi di sorridere, mentre il cuore gli tremava e un sudor freddo gli gemeva dalle tempia.

—Che ci volete fare?—disse di rimando il dottore.—Il nostro linguaggio è complesso e avviluppato, come la nostra povera macchina. Si tratta infine della valvola che separa il ventricolo sinistro del cuore dalla corrispondente orecchietta.

—Capisco, capisco, rispose Maurizio.—E quali le conseguenze?...

—Ci vengo. Premettiamo che l’orecchietta sinistra, con le sue contrazioni, ha per ufficio di spingere il sangue nel ventricolo sinistro. La valvola si apre allora, abbassandosi; e allora il ventricolo, ripieno del sangue che l’orecchietta gli ha mandato, si contrae a sua volta per ispingerlo nell’aorta. Ci siete? Orbene, se la valvola è insufficiente, che cosa avverrà? che il sangue, alla contrazione del ventricolo, non andrà tutto verso l’aorta, ma in parte rifluirà verso l’orecchietta; e questa a sua volta, ingombrata da questo ritorno, non potrà accogliere tutto il sangue che contemporaneamente le verrà trasmesso dalle vene polmonari. Quindi ristagno nei polmoni, ristagno che sarà risentito dalla parte destra del cuore, che non potrà scaricare nei polmoni tutto il sangue venoso.

—E tutto ciò,—disse Maurizio,—è molto pericoloso?

—Sì e no;—rispose il medico.—Durante la gioventù e l’età verde, la natura trova qualche compenso sulla dilatazione del ventricolo destro e della orecchietta corrispondente. Più tardi, venendo un po’ meno la forza di resistenza, o per indebolimento da qualsivoglia causa prodotto, o per indurimento di vasi, a cagione dell’età, il disequilibrio cardiaco è maggiormente sentito. Allora i moti disordinati, le fatiche protratte, le passioni, specie se afflittive, avendo grande influenza sul cuore, possono facilmente esser cagione di lipotimìe, o deliquii che vogliamo dire, di sincopi, di morte improvvisa.

—Mi fate fremere;—disse Maurizio.

—Parlo dell’età inoltrata, s’intende;—ripigliò il medico.—Qui non siamo nel caso.

—Ma ad ogni modo, principiis obsta, non è vero? E quale è la vostra cura?

—Quella che ho incominciata: è la solita; non c’è novità, in questa materia; infusione di digitale, pillole di sparteina, gocce di strofanto, tutte sostanze vegetali, tutti rimedii cardiaci, rallentatori, riordinatori delle funzioni del cuore. E poi decotto di china; è un corroborante. Vedete, signor conte; abbiamo ancora delle armi per difenderci. Ed anche la gioventù, che è una buona corazza, per chi la possiede.—

Il medico aveva un bel dire di gioventù, di cose non certe, e ad ogni modo di pericoli ancora lontani. Maurizio aveva ricevuto il colpo in pieno, e il colpo gli era andato all’anima. Anche il pericolo lontano lo sgomentava; ed egli non poteva avvezzarsi all’idea della morte di Gisella, neanche in un lontano futuro. Bella virtù dell’amore, che sempre s’illude di vivere eterno! Intanto, fra questi terrori, che gli furono aggravati dal troppo pensare delle ore notturne, Maurizio fu colto dalla febbre; e la mattina seguente, poichè egli non ebbe forza di alzarsi dal letto, si dovette chiamare il medico per lui. Povero medico! Per la prima volta che aveva parlato un po’ a lungo, dando ragione dell’arte sua, faceva un bel guadagno davvero! Capì allora molte cose, il buon discepolo di Esculapio; ma non le disse, non le ripetè neanche a sè stesso. La vista continua di tanti mali ha educati i medici alla religione del segreto. Per quella volta non fece nessuna diagnosi. Aveva trovata una gran febbre, una eccitazione generale dell’organismo, il volto acceso, gli occhi scintillanti, e una tale palpitazione al cuore dell’infermo, da sentire lo scuotimento del viscere senza bisogno di mettergli la mano sul cuore. A questi primi sintomi di una meningite, si aggiunse tosto il delirio, il vaniloquio. Il buon dottore non istette a pensar più che tanto; mise mano all’antipirina, alla fenacetina; poi ordinò ghiaccio alla testa, ghiaccio pesto in bocca, ombra nella camera, anzi buio fitto, e riposo assoluto.

La febbre era già salita di alcune linee sopra i quaranta gradi, e non accennava a lasciarsi domare. Cominciò allora per Maurizio la triste sequela delle pazze visioni. Le immagini come le idee s’inseguivano nella sua mente con una rapidità vertiginosa, senza che alcuna potesse giungere al suo compimento, incalzate com’erano, l’una sull’altra, a guisa di flutti alla spiaggia, quando il mare è in tempesta. E il mare appariva quasi sempre minaccioso, terribile, ora strappandogli una amata creatura dalle braccia, ora inabissandolo insieme con lei, che atterrita si avvinghiava al suo collo. Quando non era il mare, era una cascata rumorosa, che si spandeva d’ogni lato, sgretolando il masso, scoscendendo il terreno, abbattendo, inghiottendo ogni cosa, scrollando ad ogni tratto un torrione su cui egli e lei erano rimasti prigionieri. Unica via di salvezza, prender lei in collo, spiccare un salto, afferrare un ciglione non ancora intaccato dalle acque irrompenti; ed egli tentava, lanciandosi a volo col dolce peso sulle braccia; ma proprio allora si smottava il terreno sotto i suoi piedi, ed egli e lei rovinavano giù, giù, sempre più giù nell’abisso, senza toccare mai fondo. E poi, di qua, di là, strani animali che s’avventavano, parole misteriose che apparivano sui muri di un ignoto edifizio, voci arcane che uscivano sibilando dallo spiraglio di una caverna, lampi sinistri nel buio, fragori sordi, rombi sotterranei, tanaglie strette alla gola, risa beffarde nell’aria, fornaci in fiamme, tutti i tormenti, tutte le paure, tutte le follie della ragione turbata.

Stanco, abbattuto, disfatto da tanti viaggi, senza potersi formare un’idea del tempo che erano durati, vide ancora Gisella, ma non più in pericolo con lui. Egli era disteso in un letto, con le membra prosciolte, mentre Gisella andava e veniva per la sua stanza, insieme con Albertina; ambedue in aspetto d’infermiere, di assistenti al suo capezzale. Ebbe allora un senso di dolcezza, di sollievo, di refrigerio allo spirito, e pregò tacitamente le potenze invisibili a cui era stato così lungamente in balìa, che non mutassero più la visione. Fu quello il suo ritorno alla coscienza della vita; ritorno lento, timido, incerto, ma a grado a grado più chiaro. Era ben lui che vedeva intorno a sè; ma era nel suo letto, ammalato, e vedeva il vero: non più sgomenti, non più terrori, non più larve di sogni, non più visioni di febbre.

La bella creatura spiava quel ritorno dell’infermo in sè stesso. Lo indovinò alla insistenza con cui egli guardava verso di lei, dovunque ella andasse o da una parte o dall’altra della camera. Meglio ancora lo intese, essendogli ve nuta vicina, al desiderio ch’egli mostrava di parlarle, allo sforzo che faceva per balbettare il suo nome. Ma ella non voleva che l’infermo si affaticasse; voleva essere un conforto, un argomento di sollievo, non una cagione di nuovo abbattimento per lui; e involgendolo tutto d’un sorriso amoroso, si recò un dito alle labbra, in atto di dirgli: Silenzio, per ora!

Maurizio era tanto spossato allora, quanto era stato da prima in orgasmo. Obbedì, come un bambino buono al comando della mamma; avrebbe obbedito ad un così dolce comando, se anche fosse stato nella pienezza delle sue forze. Così passarono due giorni, in cui gradatamente si riebbe: ma ancora non si muoveva dalla sua postura di giacente. Buona postura, per altro, se quella adorata gli veniva dappresso e chinava la faccia amorosa a guardarlo. Ah, i belli occhi d’indaco, sprazzi di faville d’oro! Ma c’erano anche delle lagrime, che inumidivano le ciglia, senza spegnerne il lampo.

—Sono stato dunque molto male?—mormorò egli il secondo giorno di quella lenta risurrezione.

—Sì, povero Rizio!—bisbigliò la cara donna, chinandosi ancora un tratto su di lui.—E sono stata io, non è vero? io la cagione del tuo male! Ma voglio che tu guarisca, m’intendi? lo voglio. Ad ogni costo, risanerai; non ti ammalerai più; non avrai più da soffrire, te lo prometto.

—E tu?—mormorò ancora l’infermo, aprendo ben gli occhi, come se volesse significarle colla intensità dello sguardo tutto quello che non poteva dirle colle parole.

—Io? nulla; ora sto bene. Ve l’ho detto, che era una cosa di poco; perchè spaventarti? Mi ero troppo esaltata; avevo anche fatto dei digiuni troppo lunghi. Ma ora non più. Ragiono un po’ meglio, sai? E sono tua;—soggiunse con un filo di voce, ma con una intensità di accento che andò al cuore di Maurizio;—tua mi capisci? E voglio esser tua, viver tua, morir tua.—

Maurizio sorrise; una vampa di felicità gli corse alle guance, gli brillò dagli occhi accesi. Le labbra si tesero, cercando, chiedendo, pregando. Ma ciò non era da savio, e la buona infermiera lo chetò con un gesto che voleva dir molte cose.

Poco stante ritornava il generale. Anch’egli capitava ogni giorno; ed erano già sei, che Maurizio era caduto infermo; ma egli non restava a lungo, avendogli il medico ordinato di fare del moto. Quel giorno, trovando il convalescente di migliore aspetto, il generale diede la stura ad una bottiglia di buon umore, première marque, che teneva in serbo per il suo amico Vaussana, quando fosse in grado di assaggiarne. E lo chiamava il suo « intéressant moribond » e gli ripeteva la facezia feroce di Robert Macaire al povero ammalato: « allez, allez à l’Hôtel-Dieu; on fera des man ches de couteau avec vos os, on en fera des jeux de dominos, on en fera des boutons pour guêtres. » Ed anche quel genere tutto mascolino di celia faceva ridere Maurizio.

—Ma sapete, interessante moribondo,—continuava il generale,—che ci avete spaventati ben bene? Ve lo dico ora, che ne siamo fuori. E come lavoravate di fantasia! Ci avete fatto perfino un trattato di storia naturale, insistendo particolarmente sul capitolo dell’ornitologia. Non parlavate che di nidi tra i rami, di passere, di lucherini, di cardellini; di questi ultimi sopra tutto. Certo li avete amati molto, da ragazzo.

—La febbre!—mormorò Maurizio.

—Sì, capisco, la febbre. Ma c’è anche la sua ragione, nel ritorno di certe immagini, quando la febbre lavora;—ripigliava il generale.—Si ridiventa bambini. Il fatto è scientificamente dimostrato. Il nostro cervello è come una cipolla, per rispetto alle impressioni ricevute, una cipolla di tante tonache sovrapposte. Si guastano nella malattia le impressioni più superficiali, si cancellano le più recenti, e le più antiche rimangono, vengono per così dire alla vista. Si cita il caso di un ammalato di malattia cerebrale, che sapeva otto lingue, e ne perdette parecchie via via, nell’ordine contrario a quello in cui le aveva imparate. Basta, per voi non è stato il caso; quella brutta cosa della me ningite è stata scongiurata dal nostro grande Soleri. Ma è sempre strano il fatto di quei ricordi d’infanzia ritornati a galla, ridiventati padroni del campo.—

Bisognava lasciargli credere quel che voleva, e Maurizio non si provò a contraddirlo. Il buon umore di quell’uomo era la pace sua, per allora, era la certezza di veder sempre Gisella. Andava sempre e veniva, la bellissima creatura; pensava a tutto, lei, prevedeva tutto, faceva tutto, e covava il suo malato con gli occhi, come una madre il suo bambino. Mai convalescente fu tenuto nella bambagia più e meglio del signor di Vaussana. La stupenda infermiera cedeva a tutti i suoi capriccetti; lo involgeva nelle sue occhiate fosforescenti, accostandogli il cucchiaio alle labbra; o chinandosi su lui per ravviargli il lenzuolo sotto il mento, lo inondava di fragranze soavi. Il medico, vedendo opportuno il momento, prese a rinvigorirlo con qualche pezzetto di carne, con vino generoso e qualche goccia di cognac. Ma più fece un bacio leggero leggero che una mattina sfiorò furtivamente le labbra di Rizio.

—No, non più vane paure;—bisbigliava a lui una soavissima bocca.—Credere è bello; ma bisogna credere come te. Hai ragione tu, Rizio; Iddio, che ti ha condotto sulla mia strada, che ha voluto essermi rivelato da te, non può volere che io ti abbandoni. —

Capitolo XVII. L’apparizione.

La mattinata era stupenda; l’aria calda, attraversata da piacevoli ondate di frescura; il cielo uno splendore di azzurro perlato; la montagna una festa di colori svariati, dal verde cupo e dal metallico lucente allo smeraldino, al giallo tenero, con chiazze ferrigne, rossastre, turchine, disposte qua e là nelle curve del terreno, nelle insenature delle balze, nel mutarsi dei piani in lontananza; involto il tutto, fuso, attenuato, in una tonalità violacea, che s’inteneriva negli sfondi fino alla espressione del grigio. Un buon tepore si svolgeva dal terreno, e in quel tepore si stemperavano, vaporando, tutte le fragranze della selva e dei prati. Maurizio respirava a larghi polmoni aria, tepori e fragranze, dando anch’egli, a quell’angolo di paradiso terrestre, il suo profumo di felicità. Come era bella la montagna, e come pareva contenta di sè! Ginepri e pini, frassini, corbezzoli ed eriche, sterpaglie, rovi e fiammole, tutto verdeggiava, luccicava, rideva dai ciglioni, dalle zolle, dai sassi; ogni arbusto, ogni frutice, ogni più umile pianticella del bosco, persino la cèspita dalle foglie glutinose, perfino i muschi del prato e i licheni dei grigi lastroni scabrosi, sfaldati a migliaia d’inverni, avevano qualche cosa da dire al sole, all’aria, agli insetti alianti e ronzanti, contenti anch’essi di vivere, di respirare, di splendere.

—Voi felici!—disse Maurizio, vedendo due uccellini che si rincorrevano a brevi volate tra gli alberi.—Ma sono felice ancor io, sapete? Ella verrà fra poco, per pochi momenti forse, troppo pochi al mio desiderio, ma verrà, verrà.—

E andava ripetendo sottovoce le due sillabe del verbo gaudioso, per sentirne meglio, per assaporarne tutta la dolcezza ineffabile. Gisella aveva promesso; sarebbe apparsa senza fallo. Che festa, la cara donna che si aspetta! e come è bello il momento che fugge, avvicinando sempre più l’ora della dolce apparizione! e come il luogo dove la cara donna è aspettata, si anima, sorride, si compone a bellezza, preparandosi a riceverla!

Assai prima di vedere la gran ruota del mulino, Maurizio lasciò il sentiero battuto che tutti i giorni lo conduceva alla Balma. Non andava alla Balma, per allora; s’inerpicava verso l’Aiga, e non gli bisognava risalir la costiera più in là; era anzi prudente risalirla più in qua dal mulino, evitando ogni incontro molesto, ogni sguardo importuno. E risalendo, inerpicandosi di ciglione in ciglione, sentiva la cascata rumoreggiare lontana sulla sua testa. Di tanto in tanto vedeva il ruscello nei serpeggiamenti del suo alveo, affondato tra rupi e cespugli in una piega del monte; i suoi passi frattanto si spegnevano sul morbido tappeto delle zolle erbose e dei muschi, mentre lo coprivano d’ombre discrete i rami degli ontàni e dei salici, onde erano vestite le balze. Così muovendo frettoloso per l’erta, trovando da esperto montanaro i passi più facili, le scorciatoie più pronte, afferrò l’orlo di un borro, sotto l’alta rupe donde precipitava in basso il gran volume delle acque. Lassù il burrone faceva conca per un giro abbastanza largo; in quella conca le acque si stendevano in forma di fossato, innanzi di cercarsi, tra nuovi scoscendimenti, la via; e là, dove incominciavano a trovarla, era gittato un pancone, che faceva ufficio di ponte. Il luogo alpestre era improntato di un’orrida bellezza. Davanti a Maurizio, e da tant’alto che pareva dovesse rovesciarglisi sulla testa, si dirupava la candida massa liquida, scintillante, spumeggiante, sempre in moto e sempre uguale nell’ampiezza del suo volume, venendo a frangersi in una larga incavatura del masso, donde rimbalzava divisa, sparpagliata, come una immensa capigliatura fluente di spume, in cento rivoli capricciosi e canori. Quanti scintillamenti cristallini! quante voci argentine di là! Ben vieni, parevano dire quelle voci a Maurizio, ben vie ni. Frattanto, sul margine della cascata, l’arcobaleno stendeva a mezzo cerchio la fascia diafana dei suoi sette colori. Mai l’arcobaleno dell’Aiga era apparso più glorioso a Maurizio, più intenso, più luminoso, più vivo.

—Com’è bella,—pensava egli,—come è poetica la leggenda dei popoli primitivi! Hanno veduto nell’iride il pegno dell’alleanza tra Dio e le sue creature. Infatti, che cos’è l’arcobaleno? Un sorriso della luce dopo la tempesta. Qui le gocce del nembo, sciolte in vapori e sospese nell’aria, rifrangono i raggi del sole; ed è il sole, immagine di Dio, che si specchia in questo basso strato d’aria, largito per condizione di vita ai mortali.—

In un impeto di amore, Maurizio scoccò un bacio col sommo delle dita all’arcobaleno, che parve intenderlo, e gradire l’omaggio, muovendosi leggero leggero, quasi per far brillare i suoi colori d’una luce più viva.

Un’altra cura trattenne Maurizio colà, per alcuni minuti. Lungo le muscose pareti della stretta per cui scendeva la massa, delle acque, crescevano molti ciuffi di capelvenere, facendo ad ogni zampillo, ad ogni soffio di vento, tremolare sui lunghi picciuoli neri lucenti le verdi foglioline disposte a ventaglio. Quei graziosi e ben nomati ricami della natura piacevano tanto a Gisella; ed egli ne raccolse un bel pugno, per comporne un mazzetto, insieme con certi fiorellini azzurri che si vedevano spuntare qua e là. Fatto il suo bottino, ripigliò la sua strada per l’erta: pochi minuti dopo giungeva alla macchia dei nocciuoli. Era là dietro, il torrione; era là, nascosto ancora ai suoi occhi, nascosto agli occhi di tutti, il suo nido. Ah, come gli batteva il cuore, afferrando quel colmo! E come fu lieto, mettendo il piede nel suo quieto rifugio! L’aspetto del luogo non era punto mutato; più folta la frappa, se mai, avendo i nocciuoli messo altri polloni in primavera. Tronchi grossi e sottili, asticciuole e virgulti, mettevano fuori gran ciocche di larghe foglie cuoriformi, arrotondate alla base. Già sulle vette dei rami si vedevano formati, a due, a tre, a quattro in un grappolo, i lunghi involucri verdolini campanulati e polposi, nel cui seno veniva crescendo il frutto, dal guscio ancora bianchiccio. Maurizio ricordò che da bambino li addentava volentieri, quei verdi invogli coriacei, per assaporarne il sugo aspretto, non dispiacevole al palato. E non era egli un bambino anche allora? Lasciava stare gli invogli delle nocciuole; ma componeva mazzetti di capelvenere e di talco celeste; intanto gli batteva il cuore nel petto. La cara donna sarebbe venuta lassù. Non più terrori, oramai; sarebbe venuta.

Terrori! e di che? Ma infine, Dio santo, perchè avete voi acceso questo fuoco nel cuore della vostra creatura? Non è un sacrifizio a voi, l’amore? non è un inno di lode per voi? Perchè dovremmo insospettircene? perchè dovremmo impaurirne? La legge, si dice. Ma l’uomo, l’uomo soltanto, ha fatta la legge, tela caduca, mutevole e vana; Dio ha fatto l’amore, la fiamma viva, durevole, eterna. Andate contro la legge; è niente, o poco meno di niente: andate contro l’amore; è lo schianto del cuore, il tormento dell’anima, la morte.

Ella e lui erano stati per morirne. Ma ora non più. Ed ella non doveva morire. Il medico aveva voluto veder troppe cose, in un momentaneo malore; si era troppo turbato di alcuni indizi fugaci, non sintomi, simulazioni di sintomi. Se si dovesse badare a tutte le passeggere irregolarità dell’organismo, ci sarebbe in verità da temere di averle tutte, le malattie dei trattati. Anch’egli, quante volte non si era sentito male nel corso della sua vita! quante volte, senza saper come nè perchè, non si era sentito andar via il cervello e la terra mancar sotto i piedi! Il medico di bordo gli aveva detto ridendo: inezie, scioccherie, scherzi del sangue; assottigliate questa volta, corroborate quest’altra; due giorni di dieta; nutritevi di più, ed altre cose simili. Quello era un dottore che la sapeva lunga. Ma quell’altro, il medico di San Giorgio! Un brav’uomo, e non c’era niente a ridire. Ma quel brav’uomo si era ingannato. Come non esserne persuasi, oramai? Gisella non era stata mai così bella, così fiorente di salute, come dopo quel piccolo male, che aveva messo tutti in ansietà, e non era poi che l’effetto di un malaugurato cambiamento negli usi quotidiani della vita.

E bellissima, e fiorentissima, la cara donna aveva bisbigliato la sera innanzi a Maurizio:

—Domani andrò da Biancolina. È un pezzo che non vedo quella povera gente.... e quella bella montagna.

—Ci sarò io?—aveva chiesto egli tremando.

—Con che aria me lo domandate! Rizio farà bene ad essere da per tutto, come è nel mio cuore;—aveva ella risposto.—Tanto più, se vuol rinunciare a quella cera di funerale, che sembra accusarmi continuamente di crudeltà.—

Rizio si era sentito un gran rimescolo al cuore; il sangue gli era corso veloce alle tempie; gli occhi volevano schizzargli fuori dalle orbite. Se in quel punto lo avesse veduto il medico di San Giorgio, sicuramente ordinava un’altra applicazione di ghiaccio. Strano dottore, che non vedeva altro se non meningiti e vizi cardiaci!

Finalmente, ella doveva giunger lassù. Non più tormenti per lui, salvo quello di attenderla due o tre ore sulla montagna. Tanto tempo? Ma sì: con la solita prudenza egli aveva anticipata di tre ore la salita: facendo il giro largo e fermandosi al bosco, aveva consumato un’ora; lassù, poi, nel rifugio dell’Aiga era fuori d’ogni pericolo d’essere frastornato, perfino di esser veduto. Da quella banda i Feraudi non si mostravano mai; egli piuttosto avrebbe dovuto mostrarsi al Martinetto, poichè laggiù, con aria di non aspettarla, doveva incontrare Gisella. Ma a quell’incontro fortuito non voleva andare troppo prima dell’ora. Che cosa avrebbe fatto laggiù? con qual pretesto avrebbe fatto una lunga fermata, egli che non soleva restarci più di quindici minuti, il tempo di salutare, di chieder notizie e di carezzare i bambini? Non si sarebbe sospettato che egli sapesse già della venuta, di Gisella, e che appunto per lei fosse andato a far sosta sull’aia dei Feraudi? Così, facendo l’ora del ritrovo, meditando la sua prossima felicità, sognando ad occhi aperti, guardava ad ogni tanto l’orologio. I minuti gli parevano secoli, e sempre al medesimo posto quelle lancette del malanno! Che cosa avevano, le due sottili asticciuole d’acciaio? Fatte per camminare, non volevano dunque più muoversi?

Le lancette ebbero pietà di lui, ma un po’ tardi, non un minuto prima del convenuto. Sono così metodici, gli orologi! Per uno che corre, quanti che ritardano! Erano le undici meno pochi minuti, quando egli uscì dal rifugio, e lento lento si avviò verso le rovine del Martinetto. Aveva lasciato sul sedile di pietra del torrione il suo mazzolino di capelveneri e di fiorellini azzurri, destinato a lei, e che perciò non doveva esser veduto anticipatamente da altri. Sceso sotto le rovine, si avviò per il solito sentiero che correva lungo la costa del monte, ed apparve alla vista del casolare dei Feraudi, avendo l’aria di venirsene a passo a passo dal Castèu. Lo videro da lontano i bambini, e Vittorio fu il primo a gridare:

—Il signor Maurizio! il signor Maurizio che viene da noi.—

Rosina accorse a sua volta, battendo le palme in segno di allegrezza; dietro a lui si affacciò Biancolina.

—Questi ragazzi vi fanno ritardare;—diss’ella, vedendo il signor di Vaussana, che lasciava la strada per prendere il sentieruolo del casolare.—Andate alla Balma?

—Sì, per portare alla contessa un’ambasciata di mia sorella Albertina;—rispose Maurizio, che sentiva il bisogno di preparare un buon pretesto.—Ma ci ho tempo;—soggiunse.—Tanto, a quest’ora non avranno finito di far colazione. E come va la salute?

—Bene, signor Maurizio; grazie a voi, non abbiamo più tempo di star male.

—Non dite questo, Biancolina. C’è qualchedun altro che vi assiste, e un po’ meglio di me.

—Volete dire quell’angelo della signora? La metteremo, se mai, a pari con voi. Son cinque giorni che non abbiamo la fortuna di vederla.

—Glielo dirò; glielo dirò, che non vi trascuri;—disse di rimando Maurizio, che non aveva l’aria di volersi rimettere in cammino per far la commissione.—E i vostri balocchi, bambini? Li avete già rotti? è il caso di rifarvi la provvista?—

Ne avevano infatti dei rotti; un cavallino, tra gli altri, a cui mancavano due gambe, e un cane che non abbaiava più, per essersi scollata la pelle del manticino. Ma ne avevano ancora dei nuovi, o quasi: un’arca di Noè, fabbricata a Norimberga, con otto o dieci animali ancora presentabili, e un alfabeto di legno, a cui, per miracolo, non mancavano che due o tre lettere. Quell’alfabeto era per allora il gran divertimento dei piccini. Vittorio conosceva già tutte le lettere; Rosina, più precoce di lui, compitava già qualche sillaba.

Seduto accanto alla tavola di cucina, Maurizio si divertì ad ordinare in varie forme parecchi tasselli di quell’alfabeto infantile. Cominciò col nome di Biancolina, e finì con quello di Gisella, tenendo desta l’attenzione dei ragazzi, e ammirando la prontezza con cui sillabava la piccola Rosina. Così nessuno si avvide della contessa Gisella, quando ella apparve sull’aia; e la bella signora, capitando improvvisamente là dentro, fu accolta da un grido di lieta maraviglia. S’intende che il più maravigliato di tutti parve il signor di Vaussana.

Vestita del suo prediletto color bianco, rallegrato dalle solite screziature di rosso, fresca, giovanile più che mai nell’aspetto, animosa nel sorriso delle labbra e nello sfavillìo delle pupille d’indaco, la contessa Gisella giustificava pienamente l’opinione di Maurizio: non era mai stata così bella come allora. Cessata la festa di tutti per la sua improvvisa apparizione, rimase lungamente a discorrere con Biancolina, a baloccarsi coi ragazzi, tenendo sulle spine Mau rizio, che vedeva oramai correr tanto veloce il tempo, quanto era stato lento da prima. Egli chiedeva a sè stesso come mai avrebbe fatto la signora a spiccarsi di là, e incominciava a temere ch’ella non volesse più muoversi, se non per ritornare alla Balma.

—Sapete?—le disse, dopo aver almanaccato un bel pezzo.—Venivo a farvi un’ambasciata da parte di mia sorella Albertina.

—Non ce ne sarà più bisogno,—rispose Gisella,—perchè vado io da lei. Come vedete, ero in istrada. Ma voi, piuttosto, signor Maurizio, non avevate gran fretta di giungere alla Balma.

—Mi hanno veduto i bambini, mentre passavo di là sotto;—replicò egli, felice di avere avviate le cose.—Perciò mi son fermato un momento; come voi, signora, come voi.

—Quanto a me,—disse Gisella,—è un altro affare. Io non passo mai di qua senza fermarmi al Martinetto, per salutar Biancolina. Del resto,—soggiunse cerimoniosa,—ci ho guadagnato d’incontrarvi e di avere un buon compagno per la discesa. Venite dunque, Vaussana, e faremo anche il giro più largo. Così mentirà una volta ancora la vostra impresa: tout droict Sospel.

—Così la spiegate?—diss’egli, facendo bocca da ridere.

—E come no? Siete l’uomo dei gran giri, voi; ed anche delle lunghe fermate. Ci avete sempre qualche albero da ammirare, qualche sasso da adorare, qualche filo d’erba da restarci incantato.—

In questo modo era trovata la gretola. Salutata Biancolina, fatta una piccola distribuzione di confetti a Rosina e a Vittorio, la bella signora si avviò con Maurizio per la discesa; ma senza continuarla a lungo. Giunta appena fuor dalla vista del casolare, prese con Maurizio il sentiero verso le rovine del Martinetto. Finalmente! Ma ella tremava un pochino, prendendo il braccio che le offriva Maurizio.

—Ah!—esclamò egli, turbato.—Che avete?

—Nulla, nulla, son forte, più forte che tu non immagini;—s’affrettò ella a rispondere.—Povero mio Rizio! Hai tanto sofferto, non è vero?

—Mio Dio!—mormorò egli.—Temevo di non vederti più.... così, come quest’oggi. E sarebbe stato un orrore.

—A chi lo dici! Ero ben cattiva;—rispose ella, reclinando la bionda testa sul petto del compagno.—Ma voglio che tu mi perdoni; voglio che tu viva, che non ti ammali più, mio povero Rizio. Che viso hai tu, quando soffri! e come mi levi allora il coraggio! Ho combattuto, ho resistito a lungo; ma sono stata vinta, vinta, per non ripigliarmi mai più. L’ho detto ieri, l’ho giurato a me stessa: non sarà mai che il povero Rizio soffra tanto per cagion mia. Soffrivo anch’io, sai? Ma per me avrei sofferto ancora; non ci avrei badato; avrei saputo morire. Per te, no; per te mi son mancate le forze. Pensando come sei stato male, come hai vaneggiato, come hai delirato, mi sento un’altra, capisci? un’altra; quella di prima, dei giorni belli, che erano i tuoi, come questa povera creatura, che ritorna nelle tue braccia.—

Rabbrividì, entrando nella macchia; ma si riebbe, sotto un bacio di Maurizio, nel punto che egli metteva il braccio davanti a lei, per isviare i rami dei nocciuoli e darle passo nel folto. Voleva esser forte, valorosa, allegra; e sorrise al suo nido così bene ascoso nel verde, nell’atto di porre il piede sulla soglia del terrazzo. Ma il sorriso le morì sulle labbra, ed ella tremò tutta, vedendo un gesto di turbamento del suo dolce compagno.

—Che hai, Rizio?—gli domandò sbigottita.

—Nulla, nulla;—rispose egli, padroneggiandosi a stento.—Dei fiori, per voi.... Credevo di averli lasciati qui.... Li avrò forse portati con me, senza avvedermene, e mi saranno caduti.—

Parlava così, cercando d’ingannare sè stesso. Ma era ben sicuro del contrario, e tremava.

—Caduti? Certamente, ma non laggiù;—diss’ella, che in un volger d’occhio aveva frugato da per tutto.—Sarebbero questi, per caso?—

Così dicendo, muoveva verso il parapetto, e si chinava a raccattare in un angolo un mazzolino di capelveneri.

—Son questi, sì, son questi;—rispose Mau rizio, respirando.—Ma come così lontano dal sedile, dove io li avevo collocati? Perchè mi ricordo, ora, mi ricordo bene di averli posati qui, al vostro posto.

—Ebbene?—ripigliò Gisella.—Erano qui? Rimettili dove li avevi lasciati. Vedi? ruzzolano ancora; segno che il sedile non è ben piano. Che caro spericolone, il mio Rizio! e come corre subito a pensare il peggio! Eravamo già lì col mal augurio, non è vero?—

Maurizio sorrise, e si calmò. Ma aveva avuta una bella paura.

—No, no;—rispose egli.—Cioè, diciamo pure di sì. Temevo di aver perduto quei fiori: e sarebbe stato veramente un cattivo augurio per me.—

Non voleva dire: temevo che qualcheduno fosse stato qui, mentre eravamo laggiù. Del resto, il dirlo sarebbe stato inutile, poichè i fiori erano stati ritrovati, e l’esperimento di Gisella aveva dimostrato in che modo fosse caduto il mazzolino. Egli era persuaso oramai, e voleva discacciare tutti i negri pensieri. Per discacciarli bene, bastava guardare quella stupenda creatura nel viso. Com’era bella. Dio santo! Maurizio la trasse a sè, con una gran sete di baci che gli ardeva il sangue, che lo stringeva alla gola.

Momento supremo! Stanchi di rincorrersi tra i rami, gli uccellini posavano sotto la frappa, sotto la bella frappa tinta di un verde carico, vaporante all’aria tiepida del mezzodì gli acri profumi dei succhi vigorosi. Dormiva la brezza sotto la vampa del sole; e ad ogni palpito lieve del suo buon sonno, si muovevano lenti i chiari smeraldi onde i raggi solari frastagliavano capricciosamente i vani strati diseguali del cupo fogliame. In quell’alta pace delle cose, sola continuava ad agitarsi la cascata d’Aiga, rapida, fremebonda, impetuosa nella sua curva rutilante, cantando con assiduo metro all’abisso la sua canzone d’amore. E mentre essa volava piombando con desiderio infinito nel seno dell’amato, Rizio stringeva fra le sue braccia la bella creatura adorata, guardandola negli occhi, divorandola coi baci, e poi guardandola ancora, insaziato, insaziabile. Strana bellezza di quegli occhi! Per entro all’umor cristallino dal colore dell’indaco stemperato, nuotavano pagliole d’oro, simili alle vene ed ai punti del prezioso metallo ond’è sparsa la massa turchina del lapislazzoli. Ma in questa gemma è l’oro imprigionato ed immobile: in quegli occhi divini, come in gemme viventi, indaco ed oro palpitavano balenando; ed ogni palpito era una voce del cuore, ogni baleno un pensiero dell’anima, che si sprigionava di là, involgendo, accarezzando, inebriando. Momento divino! Le anime si son ritrovate; le anime si ricongiungono in quel punto; le anime si confondono l’una nell’altra, invocando l’eternità dell’istante. Sempre, van ripetendo le labbra, sempre, sempre! E nella dolce parola, proferita con tutta la energia di cui l’accento umano è capace, non una lettera si perde, ognuna ha suono, colore e calore. La prima sillaba è una aspirazione intensa, come di preghiera in cui tutti i sentimenti si stemprino; la seconda riproduce la stretta violenta d’un bacio che scocchi premendo; le collega ambedue una profonda caduta, un abbandono confidente dell’essere. Sempre! O buon Dio, clemente e misericordioso Signore, che di tanta tenerezza, di tanta soavità, di tanta beatitudine avete fatto l’amore, perchè non fare di eternità il suo momento supremo? È ben vero che l’eternità parrebbe anch’essa un istante, e mai come allora si sentirebbe che le due cose son una.

Tutto ad un tratto la bella creatura sussultò nelle braccia di Rizio. Gli occhi si dilatarono in espressione di terrore; si scolorarono le labbra, e ne proruppe un grido d’angoscia. Tremante all’atto repentino, stringendo più forte la sua Gisella, quasi temesse in quell’istante di perderla, Maurizio girò tutto intorno gli occhi sospettosi: non vide nulla di nuovo; ed ancora si volse a lei, chiedendole collo sguardo il perchè del suo turbamento improvviso.

—Lui!—mormorò ella con accento soffocato.

—Lui!—ripetè Maurizio.—Chi? dove?—

E guardò ancora, guardò meglio, dove pareva accennare lo sguardo atterrito di Gisella. Frattanto, alzandosi a mezzo, si atteggiava istintivamente a difesa.

—Lui! lui! non vedi?—gridò ella, aggrap pandosi spaventata alle braccia di Maurizio.—No, no, pietà, non mi guardate così!—soggiungeva con accento supplichevole.

Allora anche Maurizio vide. I capelli gli si rizzarono sulla fronte, e un freddo acuto gli corse per tutte le vene. Là, nella frappa, dalla parte dond’essi erano venuti al rifugio, ritto sul fianco, alta la testa, in atto severo, vestito d’una gran tonaca di color marrone, si vedeva un monaco; lui, lui, il padre Anselmo da Carsoli. Immobile della persona, irrigidito nel suo atteggiamento spettrale, non accennava di voler fare un passo più avanti; ma, a guardarlo bene, si vedeva tentennare lentamente il capo, con aria di muto rimprovero. Ad un tratto levò il braccio e tese la mano, minacciando col gesto, come già minacciava collo sguardo.

Maurizio era rimasto un istante perplesso, fissando con occhi sbarrati la strana apparizione. Ma tosto, irritato da quel gesto minaccioso, non potendo più sopportare la tetra luce di quello sguardo severo, fece l’atto di avventarsegli contro. Gisella lo trattenne, Gisella che si avvinghiava disperata al collo di lui.

—No, no,—ripeteva ella, come pazza di terrore.—Abbiate compassione! Dannata no.... dannata no. Voi me lo avevate detto; è vero, sì, è vero; sareste venuto a rinfacciarmi il mio delitto, venuto ad ogni modo, in ogni tempo, dovunque vi foste trovato, a punirmene. Lo so, padre, lo so. Ma egli moriva, moriva per cagion mia. Perdono! Iddio non poteva volerlo; perdono!—

Il colpo era stato troppo grave, l’esaltazione troppo grande; la povera creatura, disfatta dallo sforzo violento, ricadde inerte nelle braccia di Maurizio. Fremente di sdegno, egli l’adagiò sul sedile, e libero appena del caro peso si scagliò contro il monaco. Più nulla; il monaco era scomparso. Ma come? neanche una foglia si muoveva laggiù, dov’egli lo aveva pur dianzi veduto; nè alcuno strepito di rami smossi si udiva nella macchia, nè alcun rumore di passi tra gli sterpi. Un fantasma, dunque? E la povera Gisella nel suo terrore, ed egli sotto la pressione delle braccia di lei, erano stati in balìa d’una medesima allucinazione?

Gisella era svenuta. Sbigottito, egli corse all’acqua, risicando ad ogni passo di scivolar nell’abisso. Là, nel fascio spumeggiante, intrise il fazzoletto a guisa di spugna, per venire sollecitamente a spruzzarne il volto e il collo della creatura adorata. Con mano mal destra, ma pronta, strappando convulsamente dove non poteva slacciare, le aperse la veste al sommo del petto, per farla respirare più libera. Non ebbe pace, non ebbe posa, fino a tanto non la vide riaprire i begli occhi languidi alla luce del giorno.

Allora, prendendo animo dalla necessità del momento, se la recò tra le braccia e si avviò verso la macchia dei nocciuoli; proteggendole il volto come poteva, andando a ritroso, cacciandosi avanti colle spalle e coi gomiti, si faceva strada a forza tra i rami. Che orrore! che orrore, se non avesse potuto trarre in salvo la dolce creatura! Ma finalmente.... finalmente, uscivano da quell’intrico di piante. Ancora un centinaio di passi, e le rovine del Martinetto erano in vista.

Capitolo XVIII. Povera bella!

Biancolina Feraudi ebbe quel giorno un segreto da custodire, anche per suo marito, quando il brav’uomo fu richiamato a gran voce dal pascolo e mandato in fretta e furia alla Balma, per avvertire il conte Matignon del triste caso toccato alla sua signora, mentre ella si trovava di passaggio al casolare del Martinetto.

Il generale ricevette l’annunzio doloroso mentre ritornava da una delle igieniche cavalcate che da pochi giorni aveva preso a fare per ordinazione del medico. Spaventato accorse, ansando e sbuffando, ma facendo i passi lunghi e frettolosi, come un giovanotto, non avvedendosi neanche della cattiva strada che doveva fare per recarsi lassù. Quando giunse, trovò Gisella ancora mezzo vestita, distesa sul letto di Biancolina, e il medico di San Giorgio al suo capezzale. La povera bella era inerte, con le braccia abbandonate sul lenzuolo, gli occhi semichiusi, cerea nel volto, come una morta.

—Che cosa è stato?—gridò il generale, cacciandosi avanti a guardare, poi rivolgendosi con gli occhi stralunati verso il dottore.—Parlate, in nome di Dio!

—Signor generale, che dirvi?—mormorò il dottore.—È ancora il suo male. Non era eliminata.... non poteva eliminarsi la causa.... e gli effetti si ripetono. Fortuna ancora che il signor di Vaussana è venuto ad avvertirmi subito.

—Sì,—soggiunse Biancolina,—e fortuna maggiore che i miei piccini l’abbiano veduto passar qui sotto, mentre dal Castèu si recava alla Balma. È stata una vera provvidenza che egli si ritrovasse sulla strada.—

Quella brava donna non era stata avvertita nè pregata di nulla; aveva indovinato tutto, o quasi tutto, e trovava nel suo cuore riconoscente il segreto delle pietose bugìe. Ma non era tempo per nessuno di fare indagini troppo minute: l’essenziale era di provvedere, di correre ai rimedii, di salvare, se fosse possibile, la povera inferma. Che cosa pensava il medico? che cosa consigliava? Il medico Soleri per allora non pensava, non consigliava nulla; bensì aveva molto da fare. Ripigliava in quel punto l’ufficio che dall’arrivo del generale gli era stato interrotto: con forti, assidue strofinate cercava di riattivare le funzioni cutanee. Biancolina, dal canto suo, con un gran ventaglio (il suo ventaglio di sposa, serbato fin allora gelosamente nel suo forziere nuziale) rinfrescava l’aria al viso ed al petto dell’inferma.

—Non c’è altro?—chiese il generale, dopo alcuni minuti.—Non c’è altro da fare?

—Sì, sì, non dubitate;—rispose il dottore.—Si fa ora quel che si può, in attesa dei rimedii.—

Aveva appena finito di parlare, che si sentì rumore di persone accorrenti. Giungeva allora il signor Maurizio, affannato, grondante di sudore, con una sporta tra mani.

—Ecco;—diss’egli, senza pure avvedersi della presenza del generale;—vedete se c’è tutto quello che avete ordinato.

—Siate benedetto!—rispose il dottore, mettendo mano alla sporta, e traendone fuori l’uno dopo l’altro parecchi involtini, boccette ed arnesi di varie forme.—Anche del cognac! egregiamente;—soggiunse, prendendo una bottiglia di vecchio Martel, e versandone alcune gocce in un piccolo cucchiaio, che accostò subito alle labbra dell’inferma.

Il generale si buttò nelle braccia di Maurizio, mescolando lagrime e ringraziamenti. Maurizio, a tutta prima confuso, accolse in silenzio quella dimostrazione affettuosa, che sentiva di meritar così poco. Ben presto la loro attenzione fu rivolta alla povera giacente. Le gocce dello spiritoso liquore l’avevano rianimata un tratto. Ma il respiro era quasi impercettibile, e si sentivano appena i battiti del cuore. Raccomandato a Biancolina di strofinar lei le braccia e il seno dell’inferma, il dottore aveva messo mano ad altri apparecchi, per farle alcune iniezioni ipodermiche di etere e di liquore anisato di ammonio. Era di una operosità portentosa, il bravo dottore. Trovò anche modo di applicare qualche vescicatorio volante, determinato con ammoniaca liquida concentrata. Oramai, la sporta di Maurizio gli permetteva quell’abbondanza di tentativi. E ci volevano tutti, proprio tutti, per far riavere la povera donna. Respirando sempre a stento, aperse gli occhi e li girò lentamente intorno; riconobbe il generale, allora, e con un fil di voce proferì il nome di lui.

—Ettore!...

—Oh, Gisella, figlia mia!—gridò egli, precipitandosi alla sponda del letto e dando in uno scoppio di pianto.

—Via, via! gli uomini non ridiventino bambini!—disse il dottor Soleri, intromettendosi coll’autorità del suo ministero.—Generale, lasciate fare; non turbiamo con queste commozioni il poco che si è potuto ottenere finora.

—Avete ragione;—disse il vecchio, ritraendosi;—obbedisco. Ma voi salvatela, dottore, salvatela!—

E andò singhiozzando a sedersi in un angolo, accanto a Maurizio, che si era buttato là sopra una scranna, con gli occhi a terra, senza parole, senza lagrime. Poco stante giungeva la contessa Albertina che avevano fatto chiamare i Ferau di. La mite e buona signora del Castèu, col pronto coraggio silenzioso che è tutto delle donne, prese subito il suo posto d’infermiera accanto al vecchio dottore.

Passarono due ore di terribile angoscia per tutti. Il respiro dell’inferma si era fatto più lento: appena dieci respirazioni al minuto. Il dottore credette necessario di avvertire che non aveva più speranze. Veramente, non ne aveva avute mai, dal momento ch’era stato chiamato. Ma parlava così per trarne occasione di consigliare che si mandasse pel prete, se pure i conforti religiosi fossero per piacere alla famiglia. Albertina conosceva l’animo di Gisella: si affrettò a condurre il generale fuori della camera, per dirgli il parere del medico, e insieme il suo consiglio, che non poteva essere disforme dal desiderio della malata.

—Tutto ciò che vorrete;—rispose il vecchio gentiluomo, stringendosi i pugni alla fronte.—Se Dio facesse un miracolo! Credete voi che lo farà?—

Albertina levò gli occhi al cielo, e uscita di là spedì subito ad avvisar l’arciprete di San Giorgio.

Mezz’ora dopo don Martino era giunto, con la cotta, la stola e la pisside, involta nel suo copertoio di seta. Dio entrava con lui; si ritirarono tutti. La giacente accolse don Martino con un lampo dagli occhi e un sorriso. Certamente aspettava quel momento. Ma non aveva forza di parlare, per confessarsi; don Martino parlò per lei; all’invito del confessore, una lieve pressione di mano, un lieve cenno delle labbra, doveva dire il pentimento delle colpe. L’assoluzione fu pronta, e pronto del pari fu il rito che univa quell’anima a Dio. Un senso di beatitudine si diffuse allora sul volto cereo della morente. Il medico poteva rientrare, e tutti gli altri con lui.

Il generale era rimasto nella cucina, seduto presso la tavola, con le braccia ripiegate sulla lastra e il volto ascoso nelle braccia. Doveva essersi assopito; non si era mosso, infatti, nè alla partenza di don Martino, nè all’andare e venire degli altri.

Maurizio entrò a sua volta nella camera, e si accostò al letto di Gisella. Non poteva più resistere al desiderio di vederla ancora. Il medico e Albertina stavano a’ piedi del letto, preparando una pozione, ed egli fu solo un istante al capezzale. Gisella aveva gli occhi semichiusi; lo vide, lo riconobbe, e fece uno sforzo per proferire qualche parola. Non fu che un soffio, per altro; ma egli intese quel soffio.

—Dio perdona;—diss’ella.

—Oh! perdoni a tutti;—rispose Maurizio.

Gisella aveva mossa la mano; ed egli aveva presa quella mano. Gisella allora volse gli occhi, come invitandolo a seguire il suo movimento; ed egli pure volse gli occhi dove ella accennava. Ah! che voleva dir ciò? Maurizio rabbrividì, mentre un sudor freddo gli bagnava le tempie. Dall’altra banda del letto, il frate! ancora il frate! Ma egli aveva il cappuccio calato sulle spalle; la testa del padre Anselmo appariva intiera, luminosa; l’aspetto era benevolo, la mano era stesa in atto di benedire.

Maurizio s’inchinò umiliato, e lasciò la mano di Gisella. Quando rialzò gli occhi non vide più il monaco. La visione era sparita. Gisella sorrideva ancora, e cercava con gli occhi, pareva domandar qualche cosa, o qualcheduno.

—Chi?—disse Maurizio—il dottore?

Ella fece un cenno di diniego col capo.

—Il generale?—rispose Maurizio.

Il capo e gli occhi di Gisella accennarono di sì.

Maurizio si mosse sollecito, e andò dal generale, che era ancora assopito. Scosso da lui, il conte Ettore si destò in soprassalto.

—Morta?—esclamò egli, rabbrividendo.

—No, generale; vi chiede.—

Il vecchio gentiluomo accorse, e si chinò con atto affettuoso verso di lei. Gisella guardò il marito, lo guardò lungamente; poi si sforzò di sorridergli. Schiantava il cuore, quel triste sorriso. E volle parlare, la povera creatura; ma non le venne più fatto. Maurizio, che vide l’atteggiamento di quelle labbra scolorate, Maurizio che ne colse una sillaba, intese ciò che la morente voleva dire al marito. E si ritrasse ancora, premendosi il pugno al cuore, che pareva volesse scoppiargli in quel punto.

—Ah!—pensò egli.—Perdono! sempre perdono! Chi perdonerà a me il mio delitto?—

Il rantolo crescente diceva che gli ultimi momenti si avvicinavano. Il medico tentò ancora di richiamare quella povera vita fuggente: ma l’etere non valse più a prolungarle l’agonia. Erano paralizzate le contrazioni del cuore; le respirazioni non più di sei al minuto. Albertina s’inginocchiò presso la sponda del letto, pregando. Anch’egli inginocchiato, il conte Ettore copriva la mano di Gisella delle sue lagrime silenziose. Quella mano a grado a grado si raffreddò tra le sue. Era cessato il respiro, cessato il movimento del cuore; un placido sorriso si era diffuso sulle labbra di Gisella. Le ombre del crepuscolo incominciavano ad invadere la stanza, viva ancora di mormorate preghiere, di mal rattenuti singhiozzi, e la bella creatura si era spenta dolcemente, addormentata con Dio.

Quella sera fu un gran pianto a San Giorgio. È dolore, è rammarico profondo in ogni paese, quando muore una bella donna, quando sparisce per sempre una di quelle figure in cui eravamo avvezzi a vedere la divinità in forma terrena. Ma nel paese di San Giorgio la contessa Gisella non era soltanto ammirata per la sua grande bellezza; era anche amata per la sua grande bontà. Dopo che l’avevano veduta entrare in chiesa, quei buoni alpigiani la consideravano una santa, e non dubitavano punto ch’ella non fosse per convertire alla fede il marito.

L’incredulità del conte Ettore ebbe ancora in quel giorno uno scatto; e fu quando vollero allontanarlo di là, facendogli intendere che tutto era finito. Alla contessa Albertina che con delicatissimi modi cercava di condurlo fuori, trovando per quello sventurato le parole del cuore, egli rispondeva feroce:

—Ah, la vostra religione! la vostra religione è una grande menzogna. E voi, con le vostre divozioni, l’avete uccisa; coi vostri digiuni, coi vostri scrupoli, coi terrori del vostro inferno l’avete assassinata.—

Albertina chinò la fronte, in atto di rassegnazione sublime. Poi dolcemente, quasi umilmente, gli disse:

—Il vostro dolore è legittimo, è sacro. Ma pensate, signor conte, che un angelo è salito in cielo a pregare per voi.—

Il conte Ettore fu atterrato da quella calma risposta; ed anche si pentì d’aver parlato con tanta durezza.

—Perdonate;—le disse.—Voi che credete, siete angeli in terra.—

Quella sera la contessina di Vaussana ebbe testa per tutti. Fatta preparare una lettiga e adagiare sovr’essa la sua morta amica, la fece trasportare nella notte alla Balma. Triste convoglio a lume di luna; triste ritorno della povera Gisella alla dimora de’ suoi padri, dond’era uscita il mattino con tanta gioia nell’anima, così fiorente di salute e di bellezza! La riposero nel suo letto; la sua stanza, tutta ornata di fiori e di doppieri, fu tramutata in camera ardente. Tre giorni la salma fu lasciata colà, assiduamente vegliata dai suoi, e dagli amici della famiglia, che si davano la muta. Così era adempiuto un desiderio della morta, a cui l’immediato trasporto della salma al camposanto era sempre parso un atto irriverente e crudele.—Io non intendo,—aveva detto essa tante volte,—io non intendo, quando uno muore, che smania sia quella dei cari congiunti di levarselo subito dagli occhi. Temono forse che non sia morto davvero, e che possa da un momento all’altro riaprire i suoi alla luce?—

Ma per lei non c’era più dubbio. Al terzo giorno un indugio maggiore sarebbe stato irriverente e crudele come una più pronta levata. La povera Gisella fu composta nella bara, e molti fiori scesero a dormire con lei nel chiostro della chiesuola patronale, dove già riposavano tante castellane dei Matignon della Bourdigue.

Maurizio s’era preso il carico di tutti quei funebri uffizi. Non aveva lagrime; era come istupidito; pareva tranquillo. Anch’egli aveva vegliate le due notti nella camera ardente, a due passi dal generale, che restava là, col capo tra le braccia ripiegate sulla spalliera d’una seggiola, muto, immobile, assopito nel suo dolore. La prima notte il vecchio non aveva notata la presenza di Maurizio: si avvide di lui sul finire della seconda, all’atto che fece Maurizio di andare a raddrizzare un torcetto.

—Voi?—gli disse sottovoce.—Perchè non siete andato a riposare?

—Lasciarvi solo?...—balbettò Maurizio.—

Il generale tentennò la testa, e trasse un sospiro.

—Non lo sono io forse, e per sempre?—esclamò.—Ho perduta la poesia della mia vita; ho perduto il mio Dio.—

E diede in un pianto dirotto. Poteva piangere, quell’uomo. Maurizio no. Perchè? Egli ne sentì una rabbia sorda, profonda nel cuore. E crescendo questa, e montando, come fa certe volte, dal cuore alle labbra, volle dire a quell’uomo: vi ho ingannato. Sarebbe stata un’espiazione. Aveva il coraggio fisico di farlo; gli venne meno il coraggio morale. Infine, il dire a quell’uomo: vi ho ingannato, non sarebbe stato un confessargli altresì: ella vi ha ingannato?

Ed era là, sempre là; accanto a quell’uomo, per non lasciarlo solo nel suo dolore. Il giorno dopo la morte di Gisella si era telegrafato al Dutolet, che si trovava allora di guarnigione a Saumur, sperando che potesse ottenere una licenza straordinaria, per venire ad assistere il suo vecchio comandante. Il Dutolet possedeva tutta la fiducia del conte; conosceva i suoi interessi; poteva essere di un prezioso aiuto al suo generale, che oramai non pensava più a nulla; vera rovina d’uomo e d’intelligenza!

Maurizio era andato un mattino a cercarlo. Il conte non si vedeva al pianterreno, ed egli salì al primo piano, andando di camera in camera, fino alla stanza di Gisella. Era di casa, allora più che mai; nessuno poneva mente al suo andare per ogni verso, là dentro. In quella stanza, del resto, egli entrava ogni giorno, restandoci lunghe ore in compagnia del padrone di casa, muti ambedue. La stanza, tolti da tre giorni i funebri apparati, era vuota e fredda; per le finestre aperte penetrava la luce grigia d’una giornata nuvolosa. Il letto, il piccolo letto sotto un gran padiglione di stoffa azzurra operata, con trine di vecchio oro, si vedeva diligentemente rifatto, come se aspettasse ancora la sua dolce signora. A capo del letto, sulle grandi pieghe della cortina, pendeva in isporto una tavola antica, donde una bella Madonna di Ludovico Brea, forse il capolavoro del buon pittore nizzardo, chinando amorosamente la testa sul divino infante, sembrava covare, coi grandi occhi neri, il capezzale della contessa.

Entrato in quella camera triste, Maurizio provò un’altra volta il senso di mancamento che lo assaliva sempre colà, più profondo che altrove. Quanto tempo vi rimase meditando? Non lo seppe egli, che oramai non contava più il tempo, nè più badava ai proprii atti. Entrò ad una cert’ora il conte Ettore, e non parve avvedersi della presenza di Maurizio; nè questi si mosse per lui dall’angolo in cui era seduto. Era sempre così, tra quei due. Il generale andò risoluto verso il piede del letto, s’inginocchiò, ascose la faccia sulla balza della coperta di seta; e rimase là, in atto di preghiera, singhiozzando. Maurizio sentì una stretta al cuore; gli parve di soffrir mille morti, mentre quell’uomo piangeva e pregava, ed egli non poteva pregare nè piangere. Soffriva ancora pensando che le labbra di quell’uomo baciavano il tessuto morbido su cui tante volte si era posata la mano di Gisella; e così soffrendo sentì l’odio antico montar su, montar dal cuore alla gola. Maurizio in quei giorni faceva paura; non lo sapeva, perchè non si guardava più, non badava più a sè; ma era diventato uno spettro. Lo vide il generale, quando si alzò; lo vide, lo fissò lungamente negli occhi, fissato lungamente egli pure da quegli occhi lucenti nell’ombra, e gli disse con accento di stizza:

—Tu soffri dunque più di me?—

Maurizio rabbrividì involontariamente alla domanda improvvisa. Era anche la prima volta che quell’uomo gli dava del tu. Non si mosse, tuttavia; non rispose; seguitava a guardare.

—Mi annoi;—riprese il vecchio, cedendo ad un moto repentino di collera.—Va’ via.—

Fremette quell’altro, sentendo l’offesa. E si alzò, guardandolo ancora, guardandolo sempre. Una frase, la frase, la terribile frase, voleva in quel punto venirgli alle labbra. Già apriva la bocca; già stava per proferirla, mentre il vec chio pareva aspettarla, e aspettandola gli s’illuminavano d’una strana luce gli sguardi. Ma quella luce si spense ad un tratto; le palpebre si abbassarono, si chiusero violentemente, e la fronte del vecchio si scosse, come in atto di scacciare a forza un pensiero molesto.

—No, no!—gridò egli con piglio furibondo, con accento disperato.—Va’ via! va’ via! va’ via!—

Maurizio raccapricciò, al pensiero di ciò che stava per fare. Chinò la testa, come dicendo a sè stesso: ha ragione; ed uscì dalla stanza, mentre quell’altro, non istando più alle mosse, prendeva a misurare con passi concitati il pavimento. Scese le scale, fuori di sè dall’ira, dal rimorso, dalla vergogna: sarebbe giunto fuori dell’atrio senza vedere nessuno, se proprio sul limitare il passo non gli fosse stato impedito.

Era un gran movimento, laggiù: i servi affacciati sull’ingresso; un facchino che entrava allora, con una grossa valigia sulle spalle; dietro a lui, ancora sulla gradinata, un bagliore di larghi e lunghi calzoni rossi. Maurizio riconobbe il comandante Dutolet, arrivato in quel punto, ancora in piccola divisa di capo di battaglione. Non poteva evitarlo. Del resto, perchè lo avrebbe evitato? Veniva a dargli la muta; veniva proprio in buon punto, mentre egli smontava la sua guardia, e per sempre.

Il buon ragno, come lo chiamava Gisella, non gli fece dimostrazioni di tenerezza. Erano sem pre stati, l’uno verso dell’altro, nei termini di una fredda cortesia. Un cenno del capo, una frase a mala pena incominciata, che volesse dire e non dire, dovevano essere più che bastanti. Maurizio, per altro, nel passargli daccanto, aggiunse poche parole di ripiego, che nella gravità del momento potessero giustificare la freddezza dell’incontro, agli occhi della gente di servizio.

—Il generale—diss’egli—ha gran bisogno di voi.

—Lo penso;—rispose l’ufficiale, facendo un breve saluto cerimonioso.

Maurizio s’incamminò sulla spianata, verso il gran viale de’ tigli. Oramai, per ritornare al Castèu, come per venire alla Balma, non passava più dal sentiero della montagna. «Lo penso» andava intanto ripetendo tra sè: «Lo penso!» E pensò egli pure; pensò che il Dutolet aveva ragione anche lui, se pensava che egli, Maurizio, non fosse il miglior compagno di lutto per il vecchio castellano della Balma.

Capitolo XIX. Rovine!

Giunto al Castèu senza neanche vedere la strada, simulò un mal di capo fortissimo, intollerabile. Effetto di grande stanchezza, soggiungeva egli; passerà con qualche ora di riposo. La stanchezza era più che giustificata da tante veglie, da tante commozioni, sostenute pei suoi amici della Balma. In casa volevano fargli prendere qualche ristoro; ma egli ricusò asciuttamente ogni cosa; voleva dormire, dormire, e nient’altro. Andato a rinchiudersi nella sua camera, si buttò vestito com’era sul letto, e si addormentò. Certamente era stanco; la natura voleva la parte sua. Ma se il corpo dormiva, la mente vegliava, la mente torbida di dolorosi pensieri. Stette lunghe ore sul letto, in apparenza inerte, ma col cervello sconvolto, agitato da sogni pazzi, da visioni terribili, da incubi spaventevoli. La montagna gl’incombeva sull’anima; la cascata dell’Aiga aveva gran parte nelle visioni del dormente. Cantava l’abisso, invitandolo; ed egli e lei si precipitavano abbracciati nel baratro. Ah, meglio sarebbe stato il morire così, tutt’e due, in un punto, che non quello spegnersi lento e doloroso di lei, e il sopravviver codardo di lui. Perchè viveva egli ancora? perchè il cielo non aveva pietà? perchè lo condannava a star lì, ancora e sempre, sospeso ad un filo? L’idea del suicidio, ultimo scampo ai terrori, non gli era venuta fino a quel punto, neanche nel sogno. Perchè? forse perchè lo stato suo era tutto d’inerzia, non di ribellione al dolore. Si sentiva palleggiato, travolto di visione in visione, mezzo addormentato, mezzo desto, tra la incertezza e la coscienza di sè. Sopra tutto, sentiva un grande stiramento delle fibre del cervello, che parevano volersi tutte spezzare, e non si spezzavano mai. Ad un certo punto si vide ancora ammalato, col ghiaccio alla testa, vaneggiante, delirante, colla gente attorno, che ascoltava tutte le sue parole, che coglieva a volo tutte le confessioni a lui strappate dalla febbre. E quell’uomo lo aiutava a parlare, gli levava le parole di bocca, compiva egli le frasi che non uscivano intiere; la povera creatura adorata si torceva nello spasimo, si copriva la faccia con le palme, negava, fuggiva disperata dalle unghie del vecchio; ed egli, trattenuto, inchiodato là dal suo male, non poteva muovere al soccorso. Che orrore! e quell’altro l’aveva afferrata pei capelli; alzava la mano, armata d’un coltello, e feriva, feriva a colpi replicati. Il sangue scorreva, allagava il terreno, cresceva, cresceva, ed egli ci diguazzava per entro. Che orrore! Volle uscirne, uscirne ad ogni costo, scivolando, lordandosi di quel sangue, bevendolo, bruciandosi il cuore. E si destò in soprassalto, non vedendo nulla, ma sentendosi nel suo letto, e udendo battere, batter forte, a replicati colpi, all’uscio di strada. Quei colpi rintronavano sinistramente nella oscurità della notte.

Balzò dal letto e corse ad aprir la finestra. Un barlume di luce bianchiccia appariva da levante. Potevano esser le tre del mattino. Chi batteva frattanto? Si affacciò, per domandare, mentre un’altra finestra si apriva al piano inferiore.

—Son io.... Filippo;—rispose una voce dal piazzale.

Filippo era il nome di uno dei servitori della Balma.

—Che c’è? che volete?—chiese Maurizio, riconoscendolo.

—Il generale....—ripigliava quell’altro, con voce rotta dall’affanno.—Signor conte, il mio padrone sta male, molto male. Venga per carità. Son già passato dal medico, che si è vestito subito; a quest’ora è già in cammino.—

Maurizio lasciò il davanzale, e al fioco albore che penetrava nella camera, andò verso l’uscio. Era vestito tuttavia; poteva correre senz’altro. Sul pianerottolo, con un lume tra le mani, si affacciava allora allora il suo servitore, che veniva ad offrirgli l’opera sua.

—Signor conte,—gli disse il servitore,—non vuole almeno cambiarsi? Ne avrà bisogno, mi pare; perchè senza spogliarsi è andato a letto: e ieri, e l’altra notte non ha fatto che dormire. Sarà anche necessario che prenda qualche cosa.

—No, no, impossibile; non c’è tempo da perdere.—

Così dicendo, Maurizio infilava la scala. Al piano inferiore trovò illuminato il salone. Una figura di donna, in accappatoio bianco, veniva incontro a lui. Gli parve di veder Gisella, e tremò tutto: ma si riebbe tosto, riconoscendo Albertina.

—Oh Dio!—diss’ella.—Sempre disgrazie?

—Sorella mia,—rispose tristemente Maurizio,—è questo il tempo. Pregate per chi n’è stato cagione.—

La contessina chinò gli occhi lagrimosi, appoggiandosi alla parete. Era profondamente commossa, la pietosa donna, e bene intendeva ciò che volesse dire suo fratello in quel punto. Egli passò, scese rapidamente nel vestibolo, e aperto il portone uscì fuori. Andava a bruzzico, vedendo abbastanza la strada; non badando, per altro, che passava pel sentiero della montagna. Se ne avvide, al rabbrividire che fece, sentendo sulla sua testa il fragore della cascata.

Che orrore! che orrore! E ad un certo punto, udendo dietro a sè un rumore di passi, un rumore tanto più incalzante quanto più egli correva veloce, pensò che uno spettro lo inseguisse. Di certo, le visioni e gli incubi di quelle trentasei ore passate non lo avevano ancora abbandonato del tutto. Fermatosi, col coraggio della disperazione, vide Filippo, che lo seguiva ansimando.

—Signor conte,—gli disse il brav’uomo,—è difficile seguirla. Pare che abbia le ali.—

Giunto alla Balma, trovò tutta la casa in trambusto. Ascese le scale volando, come diceva Filippo; seguito da lui entrò nell’appartamento del generale. Il medico Soleri stava già nella camera. Si volse, all’apparire di Maurizio, e crollando malinconicamente la testa, gli disse:

—Sono giunto anch’io troppo tardi.—

Maurizio si avvicinò al letto del generale. Il vecchio gentiluomo era là, disteso, irrigidito, livido, con gli occhi semiaperti, la bocca fortemente contratta da un lato; fiero ancora nell’aspetto, orribile a vedersi nella torva guardatura di quegli occhi stravolti.

Com’era andata? I servitori raccontarono. Il generale si era ritirato nella sua stanza alle dieci di sera. Nella notte, intorno alle due, aveva suonato. Filippo che dormiva poco distante da lui, era accorso; ma il suo padrone non aveva potuto dirgli perchè avesse suonato; rantolava, agitava un braccio, come in atto di chieder soccorso. Spaventato, il servitore si era affret tato a svegliare il comandante Dutolet e tutti gli altri della casa: poi, mentre essi cercavano di soccorrere il generale, dandogli a bere qualche goccia di liquore, spruzzandogli d’acqua il viso ed il petto, egli, Filippo, era corso a precipizio in paese per avvertire il medico, per avvertire il conte di Vaussana.

Nè altro c’era da dire. Qualcheduno, alla rapidità fulminea di quella morte, aveva sospettato un suicidio. Non potendo sopravvivere alla contessa, aveva egli forse ingoiato un veleno? Ma così non la pensava il dottore, osservando tutti i segni di una apoplessia per congestione cerebrale. A questa fine il conte Ettore era predisposto dall’età, dalla vita sedentaria, contro cui il medico stesso aveva già protestato più volte. Causa prossima del triste caso non poteva essere che un patema d’animo sopraggiunto in quei giorni: e c’era stato pur troppo, il patema d’animo, violento, manifesto, innegabile, nella morte della moglie adorata: quello, e non altro, il veleno.

Maurizio lo sapeva bene, lo conosceva anche meglio del dottore, il veleno che aveva ucciso quell’uomo. E cadde senza far parola, sul seggiolone a piè del letto, rimanendovi accasciato, assorto ne’ suoi negri pensieri. Quante rovine intorno a lui, e per cagion sua, per colpa sua! Il destino.... Si accusa facilmente il destino degli errori degli uomini. Ed era lui, Maurizio, conte di Vaussana, nel cui scudo era inciso il motto « tout droict Sospel », lui, il cavaliere senza macchia, il credente, il virtuoso soldato, che aveva fatto tutto ciò? che aveva portata la maledizione in quella calma dimora, alta nella stima degli uomini come era elevata sul colmo del monte, in quel nobile asilo della grazia disposata all’onore?

Il dottore voleva ridiscendere in paese per fare la sua dichiarazione. Invitò il signor di Vaussana a seguirlo.

—No, grazie, rimango ancora;—rispose Maurizio.—Non ho forza di muovermi. Veglierò questo cadavere, come ho vegliato quell’altro.—

E chinò la testa sul petto, mentre il dottore usciva dalla stanza. Ma, subito dopo, un uscio dall’altra parte si aperse, e Maurizio sentì che il Dutolet stava per comparire. Alzò la fronte, e vide infatti l’ufficiale, che usciva dallo studio del conte Ettore, grave, rigido come sempre, ma più severo, più accigliato del solito.

—Il dottore?—disse il Dutolet, volgendogli a Filippo, che era rimasto in mezzo alla camera.

—Esce adesso, signor comandante.

—Richiamatelo; debbo pregarlo di un favore.—

Il medico era ancora sulla scala; richiamato dalla voce di Filippo, ritornò subito nella stanza.

—Io non ho pratica degli usi e delle leggi di qui;—disse allora il Dutolet.—Vogliate chiamar voi, signor dottore, le autorità competenti. Ho trovato or ora sulla scrivania del generale il suo testamento. È suggellato; sono autorizzato ad aprirlo; non lo farò senza testimoni.—

Il dottore s’inchinò, e partì, promettendo di ritornare al più presto possibile.

Maurizio in quel punto si alzò. Il Dutolet lo scorse allora, e non potè trattenere un gesto d’ingrata maraviglia. Se ne avvide Maurizio; ma non aveva da offendersi per così poco.

—Egli aveva lasciata una lettera per voi?—domandò, indicando un foglio che l’ufficiale teneva ancora aperto tra mani.

—Sì, per me, che pure mi ritrovavo a pochi passi da lui; rispose l’ufficiale. Povero conte! come ha dovuto soffrire, scrivendola!—

E guardava il signor di Vaussana con piglio severo. Maurizio si volse a guardare dietro di sè. Non c’era nessuno; anche Filippo era uscito. Egli allora, cedendo ad un impulso repentino dell’anima, si accostò all’ufficiale, e a voce bassa, ma con accento vibrato, incominciò:

—Signor Dutolet, siete voi sempre di quella rara perizia nelle armi, che io ho ammirata altre volte?—

L’uffiziale rizzò la testa, e squadrando il signor di Vaussana dal capo alle piante, gli domandò:

—Che cosa volete voi dire?

—Voglio chiedervi,—rispose Maurizio, non mutando voce nè accento,—se a venticinque passi, come facevate due anni fa, a venti, a quindici, come vi pare, sareste sempre capace di mettere una palla nel bersaglio, senza puntare, guardando magari in aria, alzando appena il braccio, e portandolo automaticamente in linea.—

L’ufficiale guardò un istante negli occhi il signor di Vaussana; poi, senza batter ciglio, replicò brevemente:

—Sì.

—Sta bene;—disse Maurizio.—E quando?

—Oggi il dovere;—rispose l’ufficiale.—Domattina, se vi piace.—

Si salutarono freddi, e Maurizio partì.

Finalmente! finalmente! per quella volta egli si sentiva liberato d’un gran peso. Ah, la vita, che molesto fardello! E così, senza troppa fatica, per la mano del buon ragno.... Ma sì, era ancora un modo di accostarsi a Gisella. Scese a passi più calmi il gran viale dei tigli; uscì tranquillo, quasi ilare, dal cancello. E perchè no? Voleva infatti esser ilare, parerlo a tutti, in paese; che il giorno dopo, risapendo una certa notizia, non avessero i maligni a metterla d’accordo con la sua cera da funerale. La sua vigilia non doveva esser triste: non è mai triste il soldato, il cavaliere, quando va a gittar la sua vita. Sorrise, adunque, sorrise a quanti incontrava per via, sorrise perfino al Pinaia, al panattiere arpagone, che gli rammentava i Feraudi. Anche da quei poveri contadini del Martinetto voleva andare, quel giorno. Voleva veder tutto, visitare tutti quei memori luoghi. Non aveva più terrori nell’anima; sarebbe andato lassù, a pregare, a pensare nella cameretta dove si era spenta Gisella; ed anche nel rifugio, sul torrione, dove la bella creatura adorata gli era caduta come morta fra le braccia, alla vista del frate. Ah, il frate! una allucinazione; egli lo sentiva bene, oramai, di aver veduto ciò che Gisella vedeva, e solamente perchè, sotto la sensazione di un alto spavento, le braccia dell’amata donna si erano avvinghiate al suo collo. Anche là, nella camera di Biancolina, non si era ripetuto il fenomeno, per il fatto che la mano di Gisella aveva stretta la sua, e gli occhi di lei lo avevano guidato a vedere ciò che ella vedeva? Quanti arcani, del resto, quanti misteri nella vita! e come l’invisibile d’ogni parte ci preme!

Passava in quel punto sulla piazza maggiore. Voltato l’angolo della chiesa, entrava nella via che metteva al Castèu. Un monaco, un frate cappuccino era là, davanti a lui di cinque o sei passi; muoveva lento, curvo, quasi piegato in due, rasentando il muro, come egli già lo aveva veduto una volta, passando di là con Gisella. Ma che? non poteva essere un altro? Maurizio affrettò il passo per raggiungerlo; gli venne a pari, l’oltrepassò, e si volse a guardarlo. Quell’altro alzò allora la faccia, e Maurizio lo riconobbe. Era lui, il padre Anselmo da Carsoli.

—Frate, che tu sia maledetto!—gli gridò in ferocito Maurizio.—Domani.... domani non ti vedrò più.—

Il frate era sparito. Ma non così presto, che alla maledizione del signor di Vaussana non avesse risposto levando la mano benedicente; benedicente, come l’aveva veduta Maurizio, al letto di morte della povera bella.

Capitolo XX. Tra Cielo e Terra.

Quel giorno, presso alle cinque del pomeriggio, mentre già si disponeva a scrivere una lettera per chiedere concerti al comandante Dutolet, il signor di Vaussana ricevette un biglietto del suo avversario, che lo aspettava al caffè di San Giorgio. Intese subito che lo stesso pensiero suo era venuto a quell’altro, ed uscì per andare da lui.

Si salutarono come due buoni amici, essendoci persone a qualche distanza, che potevano vedere e notare ogni cosa. Dopo di che il Dutolet, con molta calma e con altrettanta serenità, quasi con grazia, parlò in questa guisa a Maurizio:

—Signor conte, voi eravate molto afflitto, questa mattina, e per conseguenza un po’ alterato. Anch’io, quanto voi, ed avevo ragione di esserlo. Possiamo noi dimenticar le parole che ci siamo scambiate?

—No;—disse Maurizio.

—Era mio dovere di domandarvelo;—re plicò il Dutolet, facendo un mezzo inchino.—Resta che c’intendiamo sull’ora e sul luogo.

—Domattina, si era detto;—disse Maurizio.—Di là da quella montagna, sulla vostra diritta, ce n’è un’altra, detta la Sisa. Risalendo dalla cascata dell’Aiga, ci si va di prateria in prateria. Lassù, al lembo dell’ultimo di quei prati, è il confine. Vi accomoda?

—Sì,—rispose il Dutolet.—Portiamo testimoni?

—Nessuno.

—Come vi piace. Ma uno di noi due non isfuggirà all’imputazione di assassinio.

—Ci ho provveduto,—rispose Maurizio,—scrivendo una dichiarazione in due originali. Firmerete anche voi. Eccoli appunto.

—Avete proprio pensato a tutto;—esclamò il Dutolet, prendendo i due fogli, a cui appose la sua firma colla matita.—Dunque lassù, al piano della Sisa. Ci sarò alle sei del mattino. Ma intendiamoci bene;—soggiunse egli;—senza vergogna d’un po’ di ritardo che si potesse fare dall’uno o dall’altro di noi.

—Giustissimo;—disse Maurizio.—Del resto, io m’incamminerò per tempissimo. Di sopra l’Aiga si vede la Balma; io vi vedrò sempre salir la montagna.—

Presi questi concerti si separarono. Maurizio si avviò verso casa. Non trovò sua sorella Albertina, e gli spiacque.

Si sente in cuore così facilmente, così natu ralmente, il bisogno di stare un po’ vicini alle persone che si amano, quando si è sul punto di separarci da loro per sempre! Chiese di lei alla gente di servizio: era uscita, gli dissero; forse per far qualche visita. Non già alla Balma, pensò egli allora, poichè lassù era andata prima del meriggio, a pregare sulla salma del povero conte Ettore. In paese, dunque: ma il paese, per piccolo che fosse, aveva ancora troppe case, troppe famiglie amiche e conoscenti, tra le quali non poteva indovinare Maurizio, che salutava tutti, ma non faceva visite a nessuno. Era in queste incertezze sulla piazza maggiore: la chiesa si vedeva aperta, ed egli entrò in chiesa. Avrebbe dovuto pensarlo prima; sua sorella stava là, al suo solito posto, nella cappella di patronato della famiglia Sospello; stava là, visibile ancora nella penombra della sera imminente.

Non era giorno di benedizione; ma la contessina soleva andare in chiesa ogni giorno, o di mattina o di sera, salvo i casi d’impossibilità, quando le cure domestiche, o i doveri della ospitalità, venissero a frastornarla. Soleva dire che la casa del Signore riconcilia colla vita: non per bigotteria, ma per riposare lo spirito, una visita anche breve a quella casa è piacevole: là dentro, dopo tutto, si pensa meglio al buon Dio.

Il gran crocifisso, unica maraviglia artistica della chiesa parrocchiale di San Giorgio, torreggiava sopra l’altar maggiore, spiccando col suo color cereo sul fondo scuro dell’abside. I piedi del martire sparivano sotto una gran fioritura di rose, disposte a mazzo enorme, che s’intendeva benissimo esser legato al tronco della croce. Quelle rose d’ogni colore, che davano all’augusto morente l’aspetto di un trionfatore, erano l’offerta costante della contessina di Vaussana. Quando il giardino del Castèu non aveva più rose in copia, erano gigli; quando non aveva più gigli, si succedevano le azalèe, le peonie, le giorgine, gli amaranti, gli astri, e tutti gli altri fiori della stagione autunnale. Recava anche il suo tributo l’inverno; più scarso, ma sicuro anche quello, essendo fiori di stufa.

La chiesa era deserta, e Maurizio non volle disturbar la sorella neanche col rumore dei passi: perciò, appena entrato, si pose sull’ultima panca a destra, sotto la grande navata. Era il posto di Gisella, quando giungeva un po’ tardi, e non volendo dare spettacolo del suo passaggio lungo le arcate, s’inginocchiava umilmente lì, mescolandosi volentieri alle povere donne del paese. Là dentro, finalmente, egli ottenne ciò che da sei giorni desiderava invano. Si sentì d’improvviso stemperare il cuore: senza sforzo, senza impeto, le lagrime gli scesero dagli occhi giù per le guance, silenziose lagrime e fitte, come una pioggia d’autunno. E in mezzo a quelle lagrime vide chiarori maravigliosi; tra quei chiarori gli apparve la povera morta, tutta vestita di luce, risalente entro una schiera d’angioli all’incontro del Dio di misericordia. Allucinazione anche quella? Una voce dal profondo voleva dirgli di no.

Rasciugò le sue buone lagrime, vedendo muoversi sua sorella Albertina. Essa lo vide, passando; ed egli si alzò per accompagnarsi a lei.

—Pregavi?—gli chiese Albertina.

—Sì, per tutti;—rispose.

Tranquillissimo, quella sera, quasi sereno, ragionò lungamente di cento cose con lei, evocando memorie infantili, facendo perfino castelli in aria per i giorni che non sarebbero venuti. Non egualmente serena si mostrava Albertina; ma la buona fata del Castèu aveva imparato nella lunga solitudine a padroneggiarsi, a non lasciar troppo scorgere le sue tristezze. Quando soffriva, soffriva dentro, e i sorrisi, come pallide viole alpine, le fiorivano timidamente sul labbro.

Maurizio si ritirò nelle sue camere alla solita ora. Ebbe un sonno profondo, senza visioni, senza incubi. Anche il cervello ha le sue calme nei grandi momenti, come le ha il cielo innanzi la tempesta. Quando si svegliò, erano le quattro del mattino. Si vestì senza fretta; sotto un leggero pastrano che portava qualche volta per la nebbia, nascose la busta delle pistole, e dall’uscio dell’orto si avviò verso la montagna. Ad una certa distanza si volse, per guardare il Castèu, la vecchia dimora dei suoi, la casa dov’era nato, e mandò un bacio alla sua buona sorella che non avrebbe veduta mai più.

Non gli mancava il tempo; andò a passi lenti su per la ripida costa. Si fermò anche un istante al borro, per sentir la cascata. Cantava, il gran fascio delle acque scorrenti, cantava sempre la sua monotona canzone all’abisso. Ma allora il signor di Vaussana sentì per la prima volta due canti in uno. Tendendo l’orecchio, udiva attraverso il frastuono della cascata un suono più sottile e più lontano, molle, ondeggiante, come una salmodia di chiesa. Sorrise, ricordando che quel fenomeno di sdoppiamento dell’udito gli era occorso spesso; in istrada ferrata, per esempio, quando il fragore delle ruote, lo strepito, lo scricchiolìo delle carrozze in moto, lascia intendere, a chi presti attenzione, un suono lontano lontano, come di angeliche voci laudanti nello spazio. Non era una allucinazione, quella; Maurizio conosceva il fenomeno, ancorchè non sapesse darsene una ragione. Nondimeno, gli piacque di sentir quelle laude lontane, attenuate via via, evanescenti nel profondo dei cieli.

Passato il gran salto dell’Aiga, superato il colmo del monte, dove le acque correvano a guisa di ruscello, andò oltre, risalendo di prateria in prateria, fino al piano della Sisa. Il comandante Dutolet non era ancora arrivato: ma erano appena le cinque e mezzo; si poteva dunque aspettare. Il buon ragno non volle del resto approfittare della scusa che si era preparata; e Maurizio lo vide, alle cinque e tre quarti, sbucare da una macchia di abeti, volgendo gli oc chi di qua e di là, in atto di orientarsi tra quei rialti verdeggianti che vedeva per la prima volta. Maurizio sventolò il fazzoletto; il buon ragno lo vide, fece un gesto di riconoscimento e si avviò più sollecito, allungando quel suo paio di seste. Salutò, come fu vicino; Maurizio rese il saluto, e si avviò ancora per fargli strada sopra un bel prato alto, incurvato a guisa di sella tra due colmi di monte.

—Ecco il confine;—disse Maurizio.—Se voi andate trenta passi più in là, siete sul vostro.

—Tra due patrie,—osservò il Dutolet, incamminandosi,—che piccola cosa a vedere! e che gran cosa a pensare!

—Le più grandi cose son là;—soggiunse Maurizio, indicando su certe creste montuose alcune linee biancheggianti.—Il vostro forte di sbarramento è quello; il mio è quest’altro. Speriamo che tacciano sempre.

—Ma parlando noi per essi, non è vero?—esclamò il Dutolet.

—Che farci?—ribattè Maurizio.—Volete che contiamo i passi?

—Avete detto a me di farne trenta, per essere sul mio;—rispose il Dutolet.—Ne ho fatti trenta: accettiamo l’assegnazione del destino. Ancora una volta io vi domanderò: non possiamo dimenticare le nostre parole di ieri?

—No,—disse il signor di Vaussana,—vi ringrazio.—

E cavò dalla busta le sue pistole.

—Sono di misura eguale alle mie;—notò il Dutolet.—Tenga ognuno le sue.—

Così dicendo, prese posizione di combattimento. Il signor di Vaussana lo imitò.

—A voi;—diss’egli.

—A voi;—rispose quell’altro.

—Capisco;—disse allora Maurizio.—Si gareggia di cortesia. Spariamo al comando, vi pare? Conteremo uno, due, all’unisono; al tre faremo fuoco.

—Sia pure;—rispose l’ufficiale.

L’uno e l’altro presero a contare; al tre due lampi s’incrociarono, e si udirono simultaneamente due colpi.

Rimasto illeso, Maurizio guardò trasognato il suo avversario. Voleva parlare, ma quell’altro lo precorse.

—Altro è tirar sul bersaglio, altro sull’uomo;—diss’egli.

—Puntando, sicuramente;—rispose Maurizio.—Ma voi tirate senza puntare, e l’errore non è più possibile.

—Chi ve lo dice, signor di Vaussana?

—Ricominciamo, allora.

—No.

—No, voi dite? perchè? Comandante Dutolet, voi mi mancate di parola.—

Il comandante Dutolet s’inalberò a quella osservazione, che voleva essere ingiuriosa. Ma poi crollò il capo, e rispose molto tranquillamente:

—V’ingannate. Io non vi avevo promesso nul la. Mi avevate chiesto se avessi sempre il mio colpo infallibile: vi ho risposto di sì. Ne dubitate? Ecco là il vostro cappello sull’erba, un po’ indietro a voi; trentadue, forse trentatrè passi; guardate.—

Così parlando, assai lentamente, aveva levata dalla busta la seconda pistola. Senza puntare, non facendo altro che alzare il braccio in linea, colpì il cappello di Maurizio, che ruzzolò al colpo due passi più in là.

—Vedete, signor conte?—ripigliò allora il comandante Dutolet.—Quel che prometto mantengo. Se ieri mi aveste fatto giurare di uccidervi, credete pure che non vi avrei mancato di parola. A me lo avevo promesso, invece, a me solo. Che volete! un’idea; ed era ben salda nell’animo mio, ieri mattina. Ma a me posso mancar di parola, sicuro del fatto mio. Ed ho cambiato opinione.

—Voi siete crudele,—disse Maurizio,—ed io ho meritato lo scherno. Ma qui ce ne ancor una delle mie;—soggiunse, chinandosi alla busta,—ed è carica.

—Fermate!—gridò il Dutolet, avvicinandosi rapidamente.—Ho ancora qualche cosa da dirvi. Signor di Vaussana, credete in Dio?

—Sì;—rispose Maurizio.

—E allora, perchè suicida? Aggiungete che non me lo son meritato neppur io, questo infame spettacolo, dopo essermi esposto abbastanza cortesemente al vostro fuoco. Ho pensato, ieri, ho pensato a lungo, e l’ira mi è morta nell’anima. Voi pure, a vostra volta, pensate. C’è stato un fallo, signor di Vaussana; un fallo che ha già cagionato due morti; quel fallo, chi lo ha commesso? V’intendo; voi volevate punirlo ora; avete il coraggio di far ciò. Ma non è il coraggio del valoroso, quello a cui vi appigliate; e la pena, del resto, non avrebbe adeguato il delitto. Non sapete voi d’una pena più grave, che è il vivere? Sì, il vivere, lasciatemi finire il mio pensiero; il vivere vergognando, il vivere soffrendo; il vivere tormentandosi, uccidendosi giorno per giorno. È questo il suicidio sublime a cui vi condanno, nel nome di quel vecchio onorato che dorme la sua gran notte oramai;—proseguì il comandante Dutolet, alzando la voce dal tono grave al solenne.—Laggiù, oltre quelle vette, a quattro leghe da Grenoble, dove io son nato, tra montagne di difficile accesso, segregati dal mondo, in dura disciplina, accanto ad uomini che non avendo fatto il male si son pure rinchiusi per evitarlo, muoiono così di giorno in giorno molti infelici che hanno fallito, che hanno fatto soffrire, che portano il peso dei loro trascorsi. Meditando, tacendo, scavando con le loro mani la fossa che li deve accogliere, aspri cavalieri del dolore, pregano per coloro che hanno offesi; tristi e rassegnati, sospesi tra cielo e terra, attendono, invocano, espiano.—

FINE.

INDICE.

Dedica Pag. IX

I. Addio, bel mare! 1

II. Alla terra dei padri 16

III. Cortesie di buon vicinato 34

IV. La disputa filosofica 53

V. Si viene alle grosse 67

VI. Sulla montagna 84

VII. L’idillio del Martinetto 100

VIII. Celeste oblìo 117

IX. Sull’orlo dell’abisso 128

X. Il trattato di pace 142

XI. Rifugio spirituale 155

XII. Dal dubbio alla fede 166

XIII. L’impresa ecclesiastica 188

XIV. Da Ceppo a Carnevale 201

XV. Padre Anselmo da Carsoli 213

XVI. Cuori infermi 237

XVII. L’apparizione 255

XVIII. Povera bella! 274

XIX. Rovine! 289

XX. Tra Cielo e Terra 300

Romanzi Italiani

EDIZIONI TREVES

Adolfo Albertazzi .

Ora e sempre 1 —

Novelle umoristiche 1 —

In faccia al destino 3 50

Riccardo Alt .

Uccidere o morire 1 —

Diego Angeli .

L’orda d’oro 3 50

Luigi Archinti .

Il lascito del Comunardo 1 —

Massimo d’ Azeglio .

Nicolò de’ Lapi. (2 vol.) 2 —

Ettore Fieramosca 1 —

A. G. Barrili .

Capitan Dodèro 1 —

Santa Cecilia 1 —

Il libro nero 2 —

I Rossi e i Neri 2 —

Le Confessioni di Fra Gualberto 1 —

Val d’Olivi 1 —

Semiramide 1 —

Notte nel commendatore 4 —

Castel Gavone 1 —

Come un sogno 1 —

Cuor di ferro e Cuor d’oro. (2 volumi) 2 —

Tizio Caio Sempronio 3 50

L’Olmo e l’Edera 1 —

Diana degli Embriaci 3 —

La conquista d’Alessandro 4 —

Il tesoro di Golconda 1 —

Il merlo bianco 3 50

La donna di Picche 1 —

L’XI comandamento 1 —

Il ritratto del diavolo 1 —

Il Biancospino 1 —

L’anello di Salomone 3 50

O tutto o nulla 3 50

Amori alla macchia 3 50

Monsù Tomè 3 50

Fior di Mughetto 3 50

Dalla rupe 3 50

Il conte Rosso 3 50

Lettore della Principessa 4 —

Casa Polidori 4 —

La Montanara (2 vol.) 2 —

Uomini e bestie 1 —

Arrigo il Savio 1 —

La spada di fuoco 4 —

Il giudizio di Dio 4 —

Il Dantino 1 —

La signora Àutari 1 —

La sirena 1 —

Scudi e corone 4 —

Amori antichi 4 —

Rosa di Gerico 1 —

La bella Graziana 3 50

Le due Beatrici 1 —

Terra vergine 1 —

I figli del cielo 1 —

La castellana 3 50

Fior d’oro 1 —

Il prato maledetto 3 50

Galatea 1 —

Il diamante nero 1 —

Raggio di Dio 1 —

Il ponte del Paradiso 3 50

Tra cielo e terra 3 50

Ambrogio Bazzero .

Storia di un’anima 4 —

Antonio Beltramelli .

Anna Perenna 3 50

I primogeniti 3 50

Il cantico 3 50

Silvio Benco .

La fiamma fredda 1 —

Il castello dei desideri 3 50

Leo Benvenuti .

Racconti romantici 1 —

Serenada, racconto sardo 1 —

Vittorio Bersezio .

La carità del prossimo 1 —

Povera Giovanna! 1 —

Il debito paterno 1 —

Aristocrazia. (2 volumi) 2 —

P. Bettòli .

Il processo Duranti 1 —

Giacomo Locampo 1 —

Carmelita 1 —

La nipote di don Gregorio 1 —

Alberto Boccardi .

Cecilia Ferriani 3 50

Ebbrezza mortale! 1 —

Il peccato di Loreta 1 —

L’irredenta 1 —

Camillo Boito .

Storielle vane 1 —

Senso 1 —

Virgilio Brocchi .

Le aquile 3 50

E. A. Butti .

L’Incantesimo 4 —

L’Automa 1 —

Antonio Caccianiga .

Il bacio della contessa Savina 1 —

Villa Ortensia 1 —

Il Roccolo di Sant’Alipio 1 —

Sotto i ligustri 3 50

Il Convento 3 50

Il dolce far niente 1 —

La famiglia Bonifazio 1 —

Brava gente 1 —

Luigi Capranica .

Donna Olimpia Pamfili 1 —

La congiura di Brescia (2 volumi) 2 —

Maschere Sante 1 —

Fra Paolo Sarpi (2 vol.) 2 —

Papa Sisto (4 volumi) 4 —

Racconti 2 —

Contessa di Melzo (2 vol.) 2 —

Re Manfredi (3 vol.) 3 —

Maria Dolores 1 —

Le donne di Nerone 3 50

Luigi Capuana .

Homo 1 —

Marchese di Roccaverdina 4 —

Rassegnazione 3 50

Castelli.

Ultime rose d’autunno 1 —

Enrico Castelnuovo .

Nella lotta 4 50

La contessina 3 —

Dal 1.º piano alla soffitta 4 50

Lametta 3 50

Due convinzioni 4 —

Filippo Bussini juniore 4 —

Alla finestra 3 50

Sorrisi e lagrime 3 50

L’onor. Paolo Leonforte 1 —

Natalia ed altri racconti 1 —

P.P.C. Ultime novelle 3 50

Domenico Ciàmpoli .

Diana 4 —

Il barone di San Giorgio 1 —

Luigia Codèmo .

La rivoluzione in casa 2 —

Cordelia.

Il regno della donna 2 —

Dopo le nozze 3 —

Prime battaglie 2 —

Vita intima 1 —

Racconti di Natale 3 50

Casa altrui 1 —

Alla ventura 4 —

Catene 1 —

Per la gloria 3 50

Forza irresistibile 3 50

Il mio delitto 1 —

Per vendetta 1 —

L’incomprensibile 1 —

Verso il mistero 3 50

Filippo Crispolti .

Un duello 1 —

Gabriele D’Annunzio .

Il Piacere 5 —

L’innocente 4 —

Trionfo della Morte 5 —

Le Vergini delle Rocce 5 —

Il Fuoco 5 —

Le novelle della Pescara 4 —

Prose scelte 4 —

Ippolito Tito D’Aste .

Ermanzia 1 —

Mercede 1 —

Edmondo De Amicis .

La vita militare 4 —

Alle porte d’Italia 3 50

Il romanzo d’un maestro (2 volumi) 2 —

Fra scuola e casa 4 —

La carrozza di tutti 4 —

Memorie 3 50

Capo d’anno 4 —

Nel Regno del Cervino 3 50

Pagine allegre 4 —

Grazia Deledda .

I giunchi della Vita 3 50

Gian Della Quercia .

Il Risveglio 1 —

Sul meriggio 4 —

Federico De Roberto .

L’illusione 1 —

Una pagina della storia dell’Amore 1 —

F. Di Giorgi .

La prima donna 1 —

Cesare Donati .

Flora Marzia 2 —

Paulo Fambri .

Pazzi mezzi e serio fine 2 —

Onorato Fava .

La discesa di Annibale 1 —

Gemma Ferruggia .

Fascino 1 —

Ugo Fleres .

L’anello 1 —

Gavotti.

Nora 3 —

Viaggio di un distratto 2 —

Piero Giacosa .

Specchi dell’enigma 3 50

O. Grandi .

Macchiette e novelle 1 —

Destino 1 —

Silvano 1 —

La Nube 1 —

Luigi Gualdo .

Decadenza 1 —

Matrimonio eccentrico 1 —

F. D. Guerrazzi .

L’assedio di Firenze (2 volumi) 2 —

Il destino 2 —

Battaglia di Benevento. Veronica Cybo (2 vol.) 2 —

Jarro.

L’assassinio del vicolo della Luna 1 —

I ladri di cadaveri 1 —

La figlia dell’aria 1 —

Apparenze (2 volumi) 2 —

La polizia del diavolo 1 —

L’Istrione 1 —

La vita capricciosa 1 —

La duchessa di Nala 1 —

La principessa 1 —

Paolo Lioy .

Chi dura vince 3 —

Manetty.

Il tradimento del Capitano (2 volumi) 1 —

G. Marcotti .

Il conte Lucio 1 —

Mercedes.

Marcello d’Agliano 1 —

Ippolito Nievo .

Le confessioni di un ottuagenario (3 volumi) 3 —

A. S. Novaro .

L’Angelo risvegliato 3 —

Enrico Panzacchi .

I miei racconti 3 —

Alfredo Panzini .

Piccole storie del Mondo grande 1 —

Emma Perodi .

Suor Ludovica 1 —

Caino e Abele 1 —

Petruccelli della Gattina.

Memorie di Giuda 2 —

Le notti degli emigrati a Londra 1 —

Il sorbetto della regina 1 —

Il re prega 1 —

Luigi Pirandello .

Erma bifronte 3 50

Carlo Placci .

Mondo mondano 1 —

Mario Pratesi .

Le perfidie del caso 1 —

Corrado Ricci .

Un’illustre avventuriera 3 50

Rinàscita 3 50

Egisto Roggero .

Le ombre del passato 1 —

Gerolamo Rovetta .

Sott’acqua 3 50

Tiranni minimi 1 —

I Barbarò o le lagrime del prossimo. (2 volumi) 5 —

Il primo amante 3 50

Il processo Montegù 1 —

Novelle 1 —

Roberto Sacchetti .

Candaule 3 —

Entusiasmi (2 volumi) 2 —

Sara.

I peccati degli avi 1 50

G. A. Sartorio .

Romæ Carrus Navalis 3 50

Isabella Scopoli-Biasi .

L’erede dei Villamari 1 —

Matilde Serao .

All’erta, Sentinella! 4 —

Suor Giovanna della Croce 4 —

La Ballerina 3 50

Serra-Greci.

Adalgisa 1 —

La fidanzata di Palermo 1 —

Sfinge.

Dopo la vittoria 1 —

I. Trebla .

Volontario d’un anno.—Sottotenente di complemento 3 —

L. A. Vassallo .

La signora Cagliostro 1 —

Guerra in tempo di bagni 1 —

Giorgio Velieri .

Elegie mondane 3 50

Giovanni Verga .

Eva 2 —

Novelle 2 50

Cavalleria rusticana 3 —

Per le vie 3 50

Il marito di Elena 1 —

Eros 2 —

Tigre reale 1 —

Mastro-don Gesualdo 5 —

Ricordi del capit. d’Arce 1 —

I Malavoglia 3 50

Don Candeloro e C. 1 —

Vagabondaggio 3 50

Dal mio al tuo 3 50

G. Visconti-Venosta .

Il curato d’Orobio 4 —

Nuovi racconti 3 50

Zena Remigio.

La bocca del lupo 1 —

L’apostolo 3 50

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.

Milano—Fratelli TREVES, Editori—Milano

Anno XXXIV—1907

L’ I LLUSTRAZIONE

decorazione ITALIANA

ESCE OGNI DOMENICA 24 pagine in-folio a 3 colonne e copertina

Direttori: Emilio Treves e Ed. Ximenes

L’ Illustrazione Italiana è la sola rivista del nostro paese che tenga al corrente della storia del giorno in tutti i suoi molteplici aspetti: la sola dove tutto sia originale ed inedito, e tutto porti un’impronta prettamente nazionale. Non v’è fatto contemporaneo, non personaggio illustre, non scoperta importante, non novità letteraria o scientifica od artistica, che non sia registrata in queste pagine colla parola e col penello.

Ogni settimana { il CORRIERE , di Spectator ,

le note ACCANTO alla VITA , del Conte Ottavio .

Ogni mese, un articolo di

EDMONDO DE AMICIS.

Quest’anno si daranno romanzi originali italiani, affatto inediti, e illustrati. La serie comincia con un romanzo di NEERA che desterà grande sensazione.

Fuori testo, dei QUADRI A COLORI.

I 52 fascicoli stampati in carta di lusso formano in fine d’anno due magnifici volumi di oltre mille pagine, illustrati da oltre 500 incisioni; ogni volume ha la coperta, il frontispizio e l’indice.

Centesimi 65 il numero. Anno, L. 32 —Semestre, L. 16 —Trimestre, L. 9 (Estero, Franchi 45 l’anno).

PREMI: 1.º Numero di NATALE e CAPO D’ANNO, che quest’anno è molto variato d’argomenti e molto pittoresco ed artistico. Capolavori antichi e quadri moderni in tricromia . Nel testo: De Amicis; Pascoli; A. Panzini .

2.º CALENDARIO ILLUSTRATO pel 1907 (Al prezzo d’associazione annua aggiungere cent. 60 (per l’estero, 1 fr. ), per spese di porto e spedizione di premi).

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.

Milano—Fratelli TREVES, Editori—Milano

— Anno VI — 1907 —

Il Secolo XX

RIVISTA POPOLARE ILLUSTRATA

Esce ogni mese.—Più di 100 pagine.—Più di 150 incisioni

Il Secolo XX

Questa rivista, tanto diffusa, per la sua italianità, e la varietà degli articoli, il valore dei collaboratori, e l’abbondanza e la bellezza delle illustrazioni, è, si può dire, lo specchio di questa vita di progresso, che anima il nostro Paese in ogni campo dell’attività umana. Sono stati suoi collaboratori e lo saranno per l’avvenire: De Amicis, d’Annunzio, Fogazzaro, Marradi, Corrado Ricci, Ada Negri, Grazia Deledda, Matilde Serao, Cordelia, Neera, Térésah, R. Barbiera, G. Bertacchi, ecc. Tutti i progressi della scienza e della industria sono studiati e spiegati da illustri specialisti in forma popolare e con grande ricchezza di illustrazioni.—I volumi finora pubblicati del Secolo XX formano una vera enciclopedia a cui deve ricorrere chi vuole conoscere la vita del nostro tempo nella sua continua evoluzione. Ciò spiega come essi siano tanto ricercati. In un’annata, che costa 6 lire, è raccolto il materiale di un’ottantina di volumi, che formerebbero da soli una piccola biblioteca.

Associazione annua, L. 6 (Est. Fr. 9 ). Il fascicolo, 50 cent.

Premi: 1.º Due volumi della Biblioteca Amena a scelta;—2.º Calendario illustrato pel 1907 . (Per avere i premi, al prezzo d’associazione aggiungere centesimi 60; per l’Estero, Fr. 1 ).

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.

Milano—Fratelli TREVES, Editori—Milano

La battaglia di Mukden

DI

LUIGI BARZINI

con 52 incisioni da istantanee prese sul luogo dall’autore

Le lettere del Barzini, dal campo giapponese dirette al Corriere della Sera fecero grande sensazione; ed era generale il desiderio che fossero raccolte. Questo volume, illustrato da istantanee prese sul luogo dallo stesso Barzini, diverrà certo prezioso e popolare.

Un volume in-8 di 315 pagine con 52 incisioni, 15 piante e una grande carta a colori:

SEI LIRE.

Legato in tela a colori: Otto Lire.

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.