ANTONIO BELTRAMELLI ACCADEMICO D'ITALIA

AHI, GIACOMETTA, LA TUA GHIRLANDELLA!

ROMANZO

A. MONDADORI · EDITORE

Di questa collezione si sono stampati 200.000 volumi.

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati per tutti i Paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda

Copyright by «Casa Editrice A. Mondadori» 1921

(COLLEZ. «I LIBRI AZZURRI»)

PRINTED IN ITALY — MCMXXXI

Fiori e parole nel silenzio.

Questo Iddio ti ha dato,

perchè tu intenda e sorrida.

AI BUONI INTENDITORI

Agli uomini cortesi, di belle e avvedute lettere, ai cacamillesimi, agli speziali della letteratura e a tutti coloro i quali han giudicato dell'opera mia con furiosa malevolenza, con languida acquiescenza o con savonaroliana anima piagnona! ai molti parlatori e valutatori dell'altrui fatica io non ho mai risposto; non ho mai detto a Tizio, critico; o a Sempronio, flebotomo:

— Perdoni, Signore, ma se l'opera mia non convince lei, in assoluto, credo che Ella non abbia avuto da Dio, tale e così vasto dono da esser certo di convincer gli altri, in assoluto, circa la bellezza e la bontà indiscutibile della sua giudicante prosa. Perchè, o mi inganno forte, o Ella assume, mio caro Signore, una non so quale fierissima aria di infallibilità, e un così forte sentore di tremendo impero è in tutto quanto Ella sentenziando scrive, che certo non può ammettere altri faccia, alla sua sicurezza, eccezione.

Epperò Ella deve essere persona di grande animo e di radicatissime convinzioni; e tutto quanto esce dal suo distinto cerebro deve andare per il mondo con piedi tanto infallibili da poter sfidare le distanze dei secoli e dei millenni: chè, se questo non fosse, mio onorando Signore, non saprei davvero a qual partito attenermi e dovrei disgraziatamente conchiudere non aver io dinnanzi se non un piacevole cerretano il quale tanto più si sbraccia per farsi udire, quanto meno è convinto della bontà de' suoi cerotti, empiastri, pecette e flemmagòghi che offre alla attenta e maligna minchioneria del pubblico. —

Questo non ho mai detto io agli uomini cortesi di belle e avvedute lettere, ai cacamillesimi, agli speziali della letteratura, ai sentenziatori e giudicatori e facitori di oroscopi. E mi son preso le busse, ed ho insaccato le male parole, le insinuazioni, le spulciature, le falsificazioni, le grandi arie, le idiozie, le impotenze, le disdegnose ripulse, le fesserie concomitanti e via discorrendo; tutto questo, e ancor più, ho insaccato io, sempre fermo al mio silenzio come il peccatore contrito il quale sa di dover tutto sopportare e tutto aspettarsi, e tanto più si umilia quanto più smisurata riconosce la propria colpa.

Senonchè, miei colendissimi Signori, dopo così lungo esercizio e una tanta ed umile sopportazione, venuto al termine del mio silenzio e trovandomi a un tratto il cuore franco e le mani sbrividite, mi vien voglia di rifarmi col primo che mi capita sotto e caricar lui di quella bastonatura che andrebbe equamente distribuita fra tanti.

Giusto per l'ultimo libro mio, L'Ombra del mandorlo, un certo cotal grammatico ebbe a scrivere tante e sì forti e sbalestrate balordaggini, e di così impeciate mandrillerie, che il men ch'io potessi fargli, sarebbe l'adornarlo di tutti i graduati aggettivi che stan di casa fra la Beozia e l'Idiozia; ma pensandomi poi che anche tale addobbo potrebbe tornargli ad onore, come le corna al marito becco e contento, mi astengo, per mia personale igiene, dal pormi a tale impresa e lo lascio andare, chè in sè di sè maturi, e più si accresca per quanto più vento gli entra in corpo col moto rotativo del suo cervellone centripeto.

Chè se poi questo bisboccia mi venga a parlar di tesi, laddove la tesi se la crea lui nel suo vuoto pneumatico; e di mie sapienti furberie, e di paesi scelti solo per adornata malizia, e di esotismo premeditato, e di dosata poesia e del diavolo che se lo porti, allora mi taccio addirittura, perchè con le donne isteriche e con i critici forsennati non ci si può intendere neppure a insolenze.

Così quello che non ho mai detto agli uomini cortesi di belle e avvedute lettere, ai cacamillesimi, ai sentenziatori e giudicatori e facitori di oroscopi, non lo dirò neppur oggi... e neppur domani.

La mia strada è ancor lunga, fratelli della cornacchia, e vedete un po' se vi riesca talvolta di starmi a paro.

ANTONIO BELTRAMELLI

Roma, 31 marzo 1921.

CAPITOLO I

Io mi ricordo, Giacometta, quando vivevi nella tua casa bianca, dai grandi cristalli; sul lembo di un giardino. Allora avevi sedici anni ed eri la sola Giacometta di tutta la città.

Conducevi la vita delle persone per bene: uscivi poco, forse la domenica per andare alla messa con la veste più nuova; e, qualche rara volta, quando era proprio bel tempo, uscivi per far la tua passeggiata.

E la gente della tua città ti guardava perchè eri bella. I giovani si fermavano ad ammirarti.

— Quella è Giacometta!

— Che bella bambina!

E non c'era, dinanzi a Dio, nessun'altra Giacometta all'infuori di te.

Così tocca alle vergini, qualche volta, quando escono dal convento, per ritirarsi in una città di provincia che è un convento un poco diverso.

Ma tu avevi una casa bianca, tutta grandi finestre e cristalli che si accendevano, nelle albe e nei tramonti, dei fermi bagliori del cielo; avevi una casa come un faro, sul lembo di un antico giardino ed ivi regnavi, sola donna e madonna, fra due zii antichi e ricchissimi, per i quali eri, con tutta la tua giovinezza, un paradiso.

Sì, Giacometta, tu eri il paradiso anche per me che non ero tuo zio e avevo forse dieci soldi ogni domenica per allietare la mia sontuosa giovinezza.

Avrei io potuto pensare a te, logicamente, con dieci soldi per settimana?... Io, figlio della scarna probità in camicia e dedito agli economici legumi?

Ma avevo diciannove anni solamente (ora ne ho forse qualcuno di più, e non importa) e la mia semplicità e un cuore spendaccione; avevo anche un amore sconfinato per le nuvole, per i sogni, per le apparenze, per le notti stellate, per il tempo di primavera e per il mistero de' tuoi grandi occhi celesti, Giacometta dalla veste blu.

Perchè avevi allora una veste blu ed io ti vedevo nel giardino; io solo che ero un imperatore nella mia soffitta la quale era buia, sudicia e fredda ma guardava sul tuo giardino.

E il mio cuore stava sempre alla finestra.

Tu lo vedesti un giorno, questo mio cuore un poco scemo, come un geranio rosso nel quadratuccio buio della mia soffitta ed io sentii un'ebetudine fonda paralizzarmi e una beatitudine infinita irradiare il mio corpo mortale, figlio della probità e degli economici legumi.

Allora il mio nome scomparve fra le cose luminose di questa terra ed io non fui più niente, non fui più che un sospiro e un ardore nella tua scia, giovinetta dai grandi occhi celesti che ridevi come un'allodola canta quando si ruba l'anima dei poeti e delle nuvole.

E la città dai tre campanili non parlava allora che di te, sempre di te, Giacometta Maldi, orfana, ereditiera, bella e misteriosa. Chi ti avrebbe dato marito? Quale befana impennacchiata sarebbe giunta fino al tuo cuore col suo pargolo vezzoso, appena slattato, ma sicuro già di impalmarti per le giuste nozze? Quale margherita familiare avrebbe potuto trarti alla sua casa con tutti i tuoi poderi, per mezzo di un onesto figlio di famiglia tutto amorose virtù?

Chi sposerà Giacometta Maldi?...

Ecco il bando per la città grugnita, dai tre campanili; e tutti gli uomini e gli omuncoli dai quindici ai trent'anni, si misero a far la Maratona sotto le tue finestre; e tu non uscivi che non ne avesti quindici o venti, sparsi lungh'esso la strada, in tutte le positure, con tutti i sospiri, coi più ardenti e allumacati occhi, tutti fluente giulebbe per te, per te angelo dalle belle ali, e ben piumate.

Ahi Giacometta, Giacometta!

E si mosse la signora Carolina e la signora Geltrude e la contessa Buttasenno e la marchesa Palmividi e la principessa Assaiassai! Tutte si mossero le squinternate signore, per Giacometta che aveva gli occhi celesti; e vestiron di gala e tentaron gli ispidi zii i quali rispondevano sempre con lo stesso muso e nello stesso tono:

— Lo racconta a noi? E che ci entriamo noi?... Ne parli a Giacometta. E' lei che deve sposare.

Ma Giacometta, fin dalle prime parole, rideva.

E la città dai tre campanili si accigliò, fece il viso dell'arme.

— Ah, quella Giacometta, che testa romantica!... Che brutta educazione!... Ma che vuole? Ma che cosa aspetta? Il principe delle Asturie? Già, infelice l'uomo che la prenderà in moglie, con quel temperamento!... È una cavallina da brutte sorprese!... O certo che il marito, le corna le avrà dopo un mese, a farla lunga!...

E fosti diffamata per la bocca stessa di quelle befane che volevano impalmarti coi loro mocciosi.

Ma tu rimanesti la bella dal giardino incantato nel quale i tuoi ispidi zii solevano tendere il roccolo per uccellare nel grande silenzio; e, appunto per virtù del roccolo, ti destavi al « Francesco mio » dei fringuelli, e accendevi il lume con l'ultimo canto dei malinconici pettirossi i quali escono dalle siepi sulle rame più in cima, a cantare alla luce che muore.

E il sole era sempre con te.

II

Guardati dai salti improvvisi, anche se dovesse chiamarti Elena argiva.

Giusto in quel tempo passasti dai sedici ai diciassett'anni e raccogliesti i tuoi cappelli biondi in una nuova acconciatura.

Chi ti insegnava ad essere tanto mai bella, Giacometta, ahi, Giacometta?...

E il mio cuore, povero e inutile vagabondo, stava sempre alla finestra. E tu alzavi gli occhi celesti per vedere la mia ammirazione che si pietrificava nello spasimo. Io stavo diventando un oggetto scemo sul davanzale di una finestra.

A volte ti udivo ridere di lontano; a volte giungevi di gran corsa tutta affannata e rossa; a volte parlavi con qualcuno... con chi?... con qualcuno al di là del vasto giardino, per il mondo. Parlavi ma non percepivo le parole; udivo bensì la tua giovine calda voce.

Poi ti si disse, e non so perchè, ch'io avevo licenziato qualche parola rimata per le stampe e ti venne in mente ch'io fossi un poeta, io, nutrito di onesti legumi e coi miei poveri dieci soldi per settimana! I poeti portano le corone di alloro ed io avevo un cappelluccio verdino e tutto spellato come una vecchia gatta e avevo altresì una miseriola di vestito che quasi quasi non mi copriva niente.

Così le scarpe piangevano dai loro tiranti e la cravattina si faceva sempre più striminzita e lisa e senza natural colore.

Potevo essere degnamente poeta con simili masserizie? Io ero appena un povero oggetto scemo sul davanzale di una finestra e avevo le scarpe solate di bucce di cocomero.

Ma tu mi vedevi e bastava questo perchè il mio affanno crescesse a dismisura. Poi siccome le alterazioni dello spirito si ripercuotono nella nostra viva materia, io venivo perdendo l'appetito di giorno in giorno mirabilmente, il che, per le domestiche economie, non era trascurabile.

La mia formidabile zia, quando eravamo a tavola, io e lei e Salsiccia, il gatto rosso, vedendo il mio piatto vuoto, mi chiedeva stridendo:

— Perchè non mangi?

— Non ho fame.

— Bravo! Chi non mangia ha mangiato.

E ciò bastava allo spirito di lei che era altruista, mentre io ero un languido giovane che dimagriva dietro le meraviglie del giardino di Giacometta.

E un altro giorno mia zia, la signora Adalgisa, mi disse:

— Tu mi sembri Salsiccia nel mese di gennaio, quando si innamora!

Bisogna sapere che Salsiccia, nel mese di gennaio, diventava il più brutto e magro ed ispido gatto dei dintorni, forse perchè era troppo sensibile e si ostinava a voler darsi appassionatamente a chi non voleva saperne di lui. Ritornava altresì questo gatto, dopo lunghe misteriose assenze, pieno di guidaleschi e mezzo divorato dai rivali suoi soffianti.

Il paragone turbò la mia bianca estasi e mi destò nei precordi un senso di ribellione; ma tacqui perchè la signora Adalgisa non ammetteva le si potesse dar torto.

Poi, una volta accadde questo. Ero al mio davanzale, quand'ecco venir di corsa Giacometta.

Il sole faceva della bianca casa di lei, in fondo al giardino, come una cosa viva. Fiorivan tre mimose lungo il viale dal quale arrivava la mia creatura, fra il cantare e lo zirlare di tutti i richiami del roccolo.

Quel giorno Giacometta si era vestita come il fiore del lino e aveva negli occhi celesti l'intiera luce di un mare. La sua biondezza passava fra sole e ombra sempre illuminata. Io sentivo tutto il mondo vivere e trasfigurarsi in quella leggera grazia e me ne stavo col più immobile e pallido volto che abbia avuto mai un povero innamorato giovinetto. Ad un tratto si fermò proprio sotto la mia finestra che non era alta più di cinque metri da terra e guardò in su, e sorrise. Io sbiancai ed impietrii come se fosse per toccarmi l'avventura più terribile della mia vita.

E Giacometta mi parlò.

— Buongiorno signor... buongiorno signor Coso!...

La guardai come l'ebete guarda la luna e le risposi un buongiorno in fa minore con una vera voce da lucertola.

Ella sorrideva ancora.

— Perchè non discende in giardino?

Ma poteva darsi tanto?...

Risposi con la stessa accorata malinconia, puntandomi un dito sul petto:

— Io?...

— Sì... lei!...

O cuore della rondine nel cielo!

— Ma... signorina Giacometta... io non conosco nessuno!...

— E che importa?

— E da dove dovrei passare?

— Scenda di lì!...

Misurai la distanza.

— Ha forse paura?...

Mi sentii d'improvviso il cuore di Salsiccia; presi lo slancio e caddi con discreta leggerezza, dentro un rosaio.

Uscii come un povero Cristo, tutto sgraffiato nelle mani e nella faccia: Giacometta si affrettò a chiedermi:

— Si è fatto male?... Venga qua, che le tolga le spine.

Le porsi le mani, e, sulla cima di ogni dito, c'era il mio rosso cuore che ballava la furlana. Mi sentivo arder la faccia ch'era color della brage.

— Dio... quante ce ne sono!... — disse lei. Ed io dissi:

— Infatti sono molte...

— Le faccio male?

— Non mi pare!

— Povero signor Coso!

Perchè poi, Coso, se mi chiamavo Francesco?

Sentivo le sue mani tepide, fini, delicate sfiorare le mie; vedevo il suo viso di mandorla, la sua testa bionda china sulle mie mani e abbrividivo come una minugia.

Ad un tratto mi prese una vampata al capo che mi fece veder tutto rosso e mi fece dire senza che neppure me ne accorgessi:

— Signorina Giacometta... io l'amo!...

Ella mi guardò dal sotto in su, sorridendo e rispose calma calma:

— E non sa dirmelo un pochino meglio?...

Riprese, dopo un silenzio:

— Tanto l'avevo capito. Lasci stare. Da quando ha preso il suo domicilio sul davanzale della finestra mi sono accorta ch'ella non stava là per studiare botanica...

Poi abbandonò le mie mani, rialzò il capo, scosse i capelli dalla fronte e disse:

— Ecco fatto. Ora sta meglio. Avevo un po' di rimorso per averle fatto fare quel salto; ma gli uomini mi piacciono alla prova. S'ella avesse preferito entrar dalla porta di strada come tutti i mamalucchi che vengono a domandar la mia mano, le avrei riso sul muso. Così la cosa è diversa. Venga venga; ora le mostrerò ciò che amo.

E mi trascinò via di gran corsa, per i viali del suo giardino incantato.

In tal modo, nonostante la mia timidezza, entrai di un salto nella vita di Giacometta.

III

— Perchè facesti tu questo?... — Oh, per la primavera lo feci, cuor mio!...

Io avevo fatto il salto ch'eran forse le cinque di un pomeriggio di marzo; ora ci accorgevamo che il sole era già dietro ai colli.

— Giacometta, dove sono i vostri zii?

— Forse riporranno i richiami nella capanna del roccolo; ma perchè vi interessa?

— Se li incontreremo che cosa direte?

— Già! È meglio farlo subito. Venite con me, Franzi.

Fino a quel punto erano accadute molte cose inattese per me e raggianti, che mi avevano di un subito dischiusa l'ignota lontananza nella quale mi sperdevo per amore e malinconia, di sera in sera. E se pure non decadeva la delicata soavità della quale il mio sogno aveva rivestito Giacometta, tutta la tristezza di cui io, povero giovane, mi pascevo come de' miei legumi, era trascorsa di fronte a un gesto di lei, a una sua sola parola. Senonchè un'Iside più o meno velata è in ogni cuore di donna e le moderne fanciulle sono quasi sempre simili alle scatole a sorpresa.

Giacometta non era giunta tuttavia a conoscere e a far uso della cocaina, ma aveva avuto un passato singolare. Era in punto, in fatto di sottile sapere; ed io mi trovavo, di fronte a lei, fuori di strada. È ben vero che avvertii fino dai primi istanti tale contrasto, ma mi piacque. Io, ribelle ad ogni secolare e irragionevole costrizione; dispregiatore dei dogmi intessuti ad uso della media imbecillità riposante, giudicavo gli atteggiamenti di Giacometta come un portato della sua chiaroveggenza, una dimostrazione del suo senso di libertà, e di compiutezza. Nè pareva a me che dal segno raggiunto così, di scatto, senza intermedie stazioni, ella potesse tramutare, a me, giovane di semplice candore e schiettezza. Ma Giacometta, benchè piovuta nella grugnita città dai tre campanili, e, in apparenza, limpida come i suoi grandi occhi celesti, aveva un orizzonte che sconfinava ben oltre i tre famosi campanili e la mentalità dei medesimi. Questo dovevo io vedere, sopportare e sperimentare.

Quel giorno, pertanto, ella fu di una divina mobilità sì da lasciarmi talvolta disorientato e sbalordito. Debbo dichiarare che non la capivo sempre. Non è facile capire una vorticosa giovinetta che ride e si acciglia, vi ama e vitupera nel termine di pochi secondi. Giacometta era tutta a congegni elettrici, sempre però nella grazia della sua squisita femminilità.

Cominciò con l'interessarsi alla mia vita e rise della mia furibonda zia; poi mi domandò se conoscevo le Villes d'eaux e se ero stato a Biarritz. Oh, coerenza! Le confessai che ero stato una sola volta a Rimini e in bicicletta.

La cosa non la turbò. Volle sapere poi se giuocavo al tennis, se sapevo condurre un'automobile, se ballavo bene, se pattinavo, se amavo gli sports invernali, se giuocavo al poker tanto che, sfinito ed umiliato per dover dire sempre no, finii per rispondere sempre sì con imperturbata serenità.

Ahi, Giacometta, e non vedevi tu il mio vestituccio e la cravattina d'incerto colore? E non ricordavi da quale superbo balcone avevo fatto il magico salto?

Finì per domandarmi se conoscevo l'Africa centrale, alla quale domanda risposi affermativamente.

— E dove siete stato?

— All'Uganda.

— Ma quando?

— È un pezzo... un diciott'anni fa!...

Ella tacque. Mi accorsi troppo tardi del grosso sproposito. Fatto il calcolo dell'età mia, si avvide che dovevo essere partito verso gli undici mesi per il centro dell'Africa misteriosa. Soggiunse con garbo:

— Franzi, voi dovete dire qualche bugia.

Risposi:

— No, Giacometta! Cerco di abbellire la mia povera e nuda vita.

Rise. Poi mi si strinse al braccio dicendo:

— Sapete, Franzi, che mi garbate!

Volevo risponderle: — Tu sapessi poi, quanto garbi a me!... — Ma mi trattenni. Certo si è che, in quel momento, avrei potuto toccare il cielo col simbolico dito.

Così girando di viale in viale, sostando di ombra in ombra non ci accorgevamo che il giorno se ne andava e stava sopravvenendo l'aer bruno. Ma c'era ancora una discreta e diffusa luce quando arrivammo ai piedi di un altissimo muro tutto coperto da una pianta di gelsomino. E forse perchè il muro era orientato a mezzogiorno, tanto da godersi tutto quanto il sole, certo si era che una precoce fioritura lo constellava di un mite candore. Giacometta mi mostrò un sedile. Disse:

— Sediamo qui, Franzi.

Io sentivo che la mia timidezza andava dileguando e lasciava posto ad alcunchè che non le assomigliava troppo. Ma il tuo tepore, il tuo profumo, tutta quanta la tua bellezza, Giacometta mia, erano cose troppo assassine, ed anche un buon giovane morigerato, come io mi ero, ha le sue improvvise prodigalità.

Ella mi sedeva accosto accosto perchè la panchina non era fatta che per una persona e mezzo; tanto accosto mi sedeva, da potersi dire ch'io la sentivo aderire a me, dalle spalle alle ginocchia; e certe aderenze non lasciano il tempo che trovano. Però forte era la mia costumatezza ed io cercavo, con disinvoltura, di allungare un poco la giacchettina striminzita che pareva volesse partire verso il torace per una gita di piacere.

— State attento, Franzi. Ora vedrete che cosa accadrà.

Io lo sentivo già che cosa stava accadendo e mi turbavo ed avevo la faccia accesa come certi tramonti violentissimi in cui ti domandi se il sole non si sia per caso svenato.

Ma alzai gli occhi e vidi due gatti l'uno di fronte all'altro, proprio sullo scrimolo del muro. Uno era rosso di pelo e riconobbi Salsiccia.

— Sta a vedere — pensai — che Salsiccia mi combina uno scandalo sotto agli occhi di Giacometta!

E Salsiccia mi combinò uno scandalo.

Ma mentre io cercavo di portar gli occhi altrove, Giacometta mostrava il maggiore interesse per la scena fisiologica che continua dal giorno in cui Iddio disse: Sia fatta la luce!

Poi Giacometta parlò:

— Io, un giorno, qui, in circostanze che forse vi racconterò, vorrò tessere una ghirlandella di quei gelsomini! Può darsi che la cosa vi interessi.

Le risposi:

— Giacometta, non vorrei passasse il tempo della fioritura. Questi gelsomini fan tanto presto a sfiorire!...

Sorrise e mi parve si turbasse; ed anche mi parve aderisse un poco più a me. E mi dicevo: — Baciala!... — ma avevo il mio malnato dèmone che mi teneva inchiodato al mio posto, irrigidito, al mio posto come il più funebre palo che sia mai stato in una funebre terra.

Ella ad un tratto scattò in piedi rabbuiata e disse: — Andiamo via!... — con lo stesso tono che avrebbe usato per dire: — Imbecille!... — E andammo via. Ella un passo avanti, io un passo indietro, finchè non tramutò d'improvviso e non scoppiò in una grande risata:

— Ah, Franzi... Franzi... Franzi!...

— Perchè ridete?

— Di niente. Mi è passata per il capo un'idea bizzarra.

— Si può sapere?

— No. Non ne vale la pena.

Poi mi prese sotto braccio e mi chiese un libro da leggere.

— Portatemi un vostro libro.

— Io non ho pubblicato che un opuscolo: I veli de la notte.

— E che cosa sono questi veli?

Trovai una facondia improvvisa che mi parve la travolgesse. Però quando più ero infervorato e credevo tenerla nel magico dominio del mio sogno, mi interruppe per chiedermi una sigaretta che naturalmente non avevo. E disse poi:

— Ma Franzi, voi siete disperatamente infelice!

Non mi rimase che risponderle:

— Avete ragione!

Ciò la riconciliò. Poco dopo eravamo alla presenza dei due vecchi zii.

IV

Meglio è credere a un onesto merlo anzichè a una leggiadra fanciulla.

Il signor Tomaso e il signor Antonio mi squadrarono dall'alto al basso e mi chiesero:

— Chi siete voi?

Io guardavo pietosamente Giacometta che si divertiva un mondo al mio imbarazzo e non mi decidevo ad aprir bocca per non saper che dire.

Il signor Tomaso era un uomo alto più di due metri e aveva il naso pieno di bitorzoli. Il signor Antonio, all'opposto, era piuttosto piccolo e calvo e grassotto. Entrambi portavano gli occhiali a stanghetta e vestivano una vasta cacciatora di fustagno.

E ricordo che il signor Tomaso teneva, sospeso al dito anulare della mano destra, una gabbia con un uccello che mi parve o un merlo o un tordo; ma non ebbi tempo di occuparmi del particolare.

Questi due zii erano molto antichi ed entrambi scapoli.

Continuando adunque il mio penoso silenzio, il signor Tomaso, lo zio Pertica, si fece innanzi e muovendo la gran bocca nera, fra rari ed ispidi peli bianchi, mi domandò:

— Ehi, giovanotto, non sapete dire dunque per quale ragione vi trovate qui?

Io vedevo Giacometta che si mordeva le labbra per non scoppiare a ridere e credo di esser stato in quel punto, sì per la mia naturale timidezza, come per la orripilante sorpresa, di esser stato più bianco della panna.

Continuando il mio silenzio, il signor Antonio si rivolse a Giacometta e le chiese:

— Ma dove hai trovato questo signore?

— L'ho trovato in giardino — rispose Giacometta.

— E da qual parte è passato se Girolamo non ci ha annunciato neppure una visita?

La giovinetta fece una smorfia e rispose con palese indifferenza e tranquillità:

— Credo sia passato da una finestra.

— Da una finestra?... — domandarono i due zii ad una voce e tanto l'uno quanto l'altro mi spalancarono addosso due smisurati occhi.

— Volete spiegarci questo enigma? — domandò il signor Antonio.

— Su, Franzi, parlate — fece Giacometta con adorabile semplicità.

Ma io non trovavo modo di spiccicar parola; tormentato fra mille dubbi; preso da un inverosimile timore ero nell'assoluta impossibilità di formulare alcunchè di concreto. E mi sosteneva inoltre l'ultima disperata speranza che Giacometta intervenisse.

Allora il signor Tomaso, continuando il silenzio, divenne aggressivo.

— Spero non ci vorrete far perdere maggior tempo — disse. — Su, che diavolo facevate con Giacometta?

— Che diavolo facevate? — soggiunse il signor Antonio.

— Ma, Franzi, siete davvero tanto timido?.... Quando io sono contenta potete parlare liberamente. Gli zii sono buoni e fanno quello che desidero!

Allora impallidii certamente anche nelle mie parti più celate. Di fronte a quale enigma mi poneva la mia sfinge improvvisa?

Dopo le parole di Giacometta i due anziani si guardaron negli occhi, poi lo zio Pertica domandò alla nipote:

— Dunque tu conosci questo signore?

— Eh, se lo conosco!

— E perchè non dircelo prima? — fece lo zio Antonio.

— Perchè è per lo meno strano che io debba parlare prima di lui.

— Ma allora, se lo conosci, saprai anche perchè è venuto — riprese lo zio Pertica.

— Certo che lo so! Anzi lo so benissimo! E parlerò. Siete contento Franzi?

Le avrei gettato le braccia al collo.

— Sì, Giacometta, ve ne prego!... Parlate.... Parlate subito!...

Che cosa avrebbe detto?... Che cosa avrebbe detto mai?...

— Ebbene... il signor Franzi è venuto a chiedere la mia mano!...

Il primo impulso, il più forte, fu quello di gridare ai vecchi musi:

— No, non è vero!... Non è vero!...

Ma tacqui, allibito, aspettando che l'inevitabile burrasca mi investisse.

Invece seguì un silenzio in cui i due cacciatori mi osservarono ancora; poi lo zio Pertica chiese tranquillamente a Giacometta:

— E tu che ne pensi?

— Io sono contenta!

— Ma sai chi è questo signore?

— È un giovine povero; ma è un grande poeta! — rispose imperturbata la mia Sibilla.

Allora i due anziani si guardarono nel fondo degli occhi e l'uno fece all'altro, ad un dipresso, il ragionamento che segue:

— Già!... Che ne pensate, Antonio?... Dopo tutto noi non ci entriamo e non dobbiamo entrarci. Ma, — dice — il mondo non fa così... È vero, è vero, è vero!... Lo sappiamo... lo sappiamo!.... Ma noi facciamo così, noi Tomaso Maldi e Antonio Maldi!... Dice: — Un poeta!... A chi la danno quella povera figliuola, a chi la danno!... — Adagio, rispondiamo noi. In primo luogo noi non diamo Giacometta a nessuno, non vi pare, Antonio?... È lei che si dà! Poi un poeta è un uomo rispettabile come un altro. Che ne pensate, Antonio?... Siamo stati poeti anche noi, ai nostri bei tempi! Se Giacometta ama questo signore e se questo signore ama Giacometta, la nostra coscienza è tranquilla. Noi non dobbiamo guardare un millimetro più in là. Noi non dobbiamo investirci della parte di una giovinetta. Così quando Giacometta ci presenta il suo uomo, a noi non resta che mettere la firma sotto la sua decisione. Che ne dite, Antonio?... E noi mettiamo la firma!

— Sicuro!... E noi mettiamo la firma — soggiunse il piccolo zio. — Dopo tutto si tratta di logica.

— È quello che ho sempre detto io — fece lo zio Pertica. Poi, senza più occuparsi di noi, alzò fino agli occhi la gabbia che teneva sospesa al dito anulare della mano destra, guardò amorosamente il suo merlo o tordo che fosse, e disse al fratello:

— Antonio, questo sarà un richiamo monumentale. Ha la voce di Caruso.

E si avviarono, rifacendo il verso agli uccelli, verso le ombre e le tese insidie del loro uccellatoio.

V

Anche se sei sulla soglia non ti credere entrato!

Non appena soli mi ricordo che giunsi le mani ed esclamai, rivolto alla mia fidanzata improvvisa:

— Che cosa avete fatto, Giacometta?

— Mi pare che ora possiate trattarmi con maggior confidenza — rispose dolcemente il mio vivo enigma.

— Ma come si aggiusteranno le cose?

— Perchè?

— Come perchè? Io, Francesco Balduino, fidanzato di Giacometta Maldi?...

— In primo luogo — rispose Giacometta — non vedo la necessità che voi andiate a raccontar fuori ciò che oggi vi è accaduto; ed anzi vi prego, e vivamente vi prego, di non farne parola. Ciò che passa fra voi e me non riguarda che noi due, mi sembra, ed io comincerei ad odiarvi il giorno in cui vi sapessi vanitoso e pettegolo. Poi, caro Franzi, non correte troppo! Fidanzato non vuol dir niente e voi avete troppo ingegno per non capir questo. Io, se così vi piace, mi sono fidanzata a voi, oggi, solo per aver più agio a conoscervi; ma non vi illudete, Franzi! Può darsi benissimo, fra le altre cose, che posdomani non mi garbiate più ed io stessa vi preghi di allontanarvi!

— Ciò che mi dite è molto chiaro, ma non è confortante!

— Come più vi piace, caro Franzi; ma non si può fare diversamente. Ora sta a voi a conquistarvi tutto il cuore di Giacometta!

Eravamo presso l'atrio della casa bianca dalle grandi invetriate e moriva l'ultimo crepuscolo. Il cielo si approfondiva nell'ambra; si allontanava per aprir le sconfinate strade degli astri. E già c'era una stella sopra le vecchie roveri del roccolo, la stella nata dal cuore del sole, la tuttachiara, quella che ha il sorriso della giovane malinconia. Nè il marzo era freddo quell'anno, anzi si ammorbidiva in un tepore di precoce primavera. Ogni aroma, nella delicata grazia della sera che moriva, poi che l'aria si faceva immota come la pupilla che si affissa e attende, si diffondeva più intenso e insistente, tanto da associarsi alle sensazioni più vive e da compenetrarle con la sua dolcezza. E i sensi miei, desti ed alerti, avvertivano questo, e più avvertivano, con un nuovo spasimo, il profumo quasi violento che si sprigionava dalle vesti e dalle carni di Giacometta; un profumo di cui non sapevo il nome, del quale non avevo anteriore ricordo; ma che mi dava un'ebbrezza improvvisa, una perduta volontà di carezze e di abbandono. Ne ero come ubbriaco. Mi pareva che, sotto quell'eccitante invito, avrei potuto dire o fare le più belle e le più grandi cose; ma, come sempre sciaguratamente mi accadeva, all'interiore possibilità non rispondeva l'animo e la parola, tanto che dissi con pedestre malinconia:

— Come sapete di buono, Giacometta!

Ella non rispose e non mi guardò. Stava appoggiata, le spalle e la nuca, allo stipite di una grande porta e aveva gli occhi all'aria, e tutto il suo piccolo volto soave, veduto così di scorcio, pareva cento volte più bello. Notai come il naso le si affilasse ancor più, come accade nello spasimo del piacere; e le pinne sottili si inarcavano un poco nel respiro breve ed intermesso.

Si lasciò prendere una mano e non disse niente; ma stava come se fosse morta. Io sentivo, fra le mie mani che ardevano, la sua piccola mano abbandonata e la guardavo, inebetito dalla troppo grande emozione.

— Giacometta... — mormorai. — Tu sapessi... tu sapessi...

Ella, senza muoversi, ebbe un sorriso vago e sperduto; sorrise con l'aria, con le stelle e con il suo indecifrabile enigma. Ed io mi domandavo: — «Che farò?... E se ardisco, che farà?... Sarà la fine di tutto o lascierà fare guardando da un altra parte?... Perchè non mi risponde?... Perchè non vuole accorgersi che io, povero giovane, non sono di cemento armato?... Perchè non mi incoraggia?...

Finalmente le baciai una mano, poi il polso, poi le accarezzai il braccio ignudo sotto la veste leggera; poi, come la vidi arrossire e abbrividire, la strinsi alla cintola... ed ella sorrideva, sorrideva sempre, le iridi più grandi e fonde, la bocca più rossa e dischiusa, la gola più bianca e scoperta, una gola tanto tersa e amorosa e viva da dar le rosse vertigini al più bianco fra i candidi e morali idealisti.

E, come avviene agli imbecilli par miei, io uomo timido e d'improvviso predace, non ebbi il garbo di saper cogliere quel dolce frutto senza turbare la palese e volontaria assenza della mia fidanzata; anzi, sorpreso da una grandissima sete, da un annebbiamento improvviso, da un fuoco che mi fucinava il sangue in un tumulto indiavolato, mi gettai su quel candore: avido, cieco, sitibondo, disfatto. E appena ebbi tempo di assaporarne la freschezza che Giacometta, scostatasi violentemente, mi disse in tono acerbo, come una nemica:

— Siete sciocco e volgare!... Andate via!...

Poi, nello stesso tempo, quasi tutto ciò non fosse bastato, udii giungere dal fondo del giardino il domestico stridere della mia zia formidabile, la quale urlava su tutti i toni...

— Checco?... Checco?... Checco... Checcoooo?...

E allora fuggii vergognoso, disperato, in compiuta rovina pensando seriamente a un placido suicidio.

VI

Iddio ti dette i parenti perchè tu imparassi a guardartene.

Si parla della formazione dei mondi nella spaventosa immensità del niente e ci si perde dietro gli spettri delle nebulose, quando lo stesso mistero è sotto agli occhi nostri, tanto è vero che tutto si riproduce uguale, nella spaventosa immensità del niente.

Quale differenza, vi prego amici miei, quale differenza vi poteva essere, ditemelo, fra Giacometta e la nebulosa della costellazione dei Cani da caccia o la nebulosa planetaria della Lira? Nessuna! Io ero un innamorato al telescopio, il quale vede passare, nella tenebra dell'immenso, una forma che non potrà mai comprendere nè raggiungere. Ero il povero astronomo di Giacometta, ma senza il prezioso sussidio di spettroscopi o di calcoli sublimi. Perchè in amore, ahimè, non è stato ancora inventato uno spettroscopio e l'anima di una nebulosa fanciulla non può decomporsi come la luce di una qualsiasi ragionevole stella. Così navigavo nell'inconoscibile e non potevo servirmi che della più infida fra tutte le bussole del mondo e cioè del mio amore.

Quella sera pertanto, dopo il tumultuoso pomeriggio, pieno l'animo delle più dolci e più amare sensazioni, non appena ebbi varcato l'uscio della mia su non lodata casa, ecco che vidi venirmi incontro, tutta arruffata e torva, la mia formidabile zia, signora Adalgisa.

Io, giovane taciturno e remissivo per consuetudine, di fronte alla vampata affocante che si chiamava signora Adalgisa, quella sera, o fosse per la troppo lunga ed intensa emozione patita, o che so io per quale altro disequilibrio psicologico, non attesi che l'impeto, il quale già si apprestava a travolgermi, mi investisse e con voce aspra affrontai il mio consanguineo tormento e dissi:

— Non importa mi secchiate, zia Adalgisa! Vi avverto che oggi non ne ho voglia e non ho punta pazienza!

La cosa inusitata fece spalancare alla mia belva domestica due enormi e sbalorditi occhi; e la bocca, già aperta al torrente degli improperi, non trovò parole per esser riempita, ma appena si mosse per mormorare:

— Diventi matto?

Approfittai dell'indecisione di lei per aggiungere:

— Sono stanco. Lasciatemi tranquillo, altrimenti può succedere qualche brutto guaio.

E infilato il corridoio, passai sotto i lumi esterrefatti della zia, per chiudermi a doppia mandata nella mia soffitta. Ivi giunto non pensai nè ad accender la candela di sego che mi passava il convento, nè a chiuder la finestra: mi gettai sul letto affondando subito in un addolorato smarrimento. Ma la mia quiete fu di brevi istanti, chè, dopo qualche secondo, eccoti picchiare all'uscio e una voce imperiosa comandare:

— Aprite!

Non risposi.

— Secondo me — pensai — tu puoi bussare fino a domani, bell'arnese!

— Aprite, dico!... vi farò vedere di che cosa sono capace!...

Uguale silenzio.

— Checco, non mi sentite?

Ma mi chiamavo Franzi, quella sera.

— Checco, non fatemi perdere l'ultima pazienza!...

E grugniva, e tempestava, e borbottava sempre con egual risultato. Vuotò il sacco degli improperi; mi chiamò carogna, bastardo; ebbe per me cento altre delicate attenzioni e finalmente tacque e mi parve si allontanasse. Ma se Giacometta era una nebulosa, la zia Adalgisa era una meteora ed io, sventurato giovine, dovevo trovarmi sempre fra codesti indecifrabili fenomeni.

Allorchè credevo aver guadagnata la quiete, ecco ritornare il domestico castigo, e, questa volta, con una voce di grandissimo pianto e tale che mi avrebbe mosso al riso, se non avessi avuto ben altro per il capo.

— Checco, perchè tratti così tua zia?... E pensare che non ho mangiato per aspettarti!... E pensare che ti ho cercato per tutta la città!... Che ti hanno detto i Maldi, dopo la caduta?... Ti sei fatto male, figliuolo mio?... Che cosa hai fatto dai Maldi fino a quest'ora?... Checco?... Rispondi alla tua povera zia che non vive che per te!....

Ora io sono stato sempre buono, buono... talmente buono da farmi schifo! E che ci posso fare? Finii per impietosirmi.

Quel piagnucolìo interminabile, unito agli occhi di Salsiccia, ch'io vidi d'improvviso folgorare nel buio della stanza, mi vinsero.

Forse neppure Salsiccia aveva mangiato dopo lo scandalo in cima al muro dei gelsomini... forse, povero gatto, egli, inconsapevolmente, mi aveva fatto promettere la famosa ghirlandella...

Ahi, Giacometta! Io ebbi allora un tuffo al cuore e aprii la porta alla mia povera zia. Incominciò un nuovo tormento.

La signora Adalgisa, dopo aver acceso la candela, sedette sul letto vicino a me e, accarezzandomi sui capelli con le sue grosse e nodose mani che parevan mattoni, incominciò a coprirmi di domande e di pietà.

Volevo resistere, non volevo dir niente, ve lo assicuro; ma qualcosa dovevo pur rispondere!

Così dissi una parola, ne dissi dieci... e finii per dir tutto.

Avvenne allora un nuovo e sgradevolissimo miracolo: la signora Adalgisa mi coprì di baci.

E mentre mi pulivo da una parte, ella mi baciava da un'altra. Ebbi da lavorare assai per non rimaner rugiadoso di quel vivo ribrezzo.

— Zia, lasciatemi stare!

— Ma non sai, ma non capisci che è la tua fortuna... la nostra fortuna?... Non sai che, un giorno, Giacometta avrà quindici milioni?... Non capisci, Checco?...

— Vi prego, zia, non chiamatemi Checco!

— Come debbo chiamarti?

— Francesco... Franzi...

— Non capisci, Francesco?... E non sei allegro? E non salti sul letto?... Pensa... ma pensa che cosa diranno gli altri... Un povero diavolo senza un soldo, senza un avvenire, senza niente.

Quella ragazza è matta davvero! Però io l'ho detto sempre... col tuo grande ingegno...

— Zia, non dite sciocchezze!

— Perchè?... Non sarebbe la prima volta!... Intanto domani andrai a farti un bel vestito.

— Ma neanche per sogno!

— Ed io ti dico di si!

— Zia, se mi volete bene davvero, vi prego, vi scongiuro di non parlare. Zia, voi non conoscete Giacometta!

— Ma mi credi tanto sciocca? Io parlare?... Vorrei piuttosto che mi tagliassero la lingua. Intanto questa notte tu le scriverai.

— Intanto io non scriverò proprio a nessuno!

— Vuoi che le scriva io?

— Mamma mia!... Ma siete matta, zia Adalgisa?... E non vi ho detto che non dovete saper niente, niente, niente!...

— Va bene, va bene! Ma io, dopo tutto, sono tutta la tua famiglia e Giacometta deve ben diventare mia nipote!

— Voi volete farmi impazzire!

— No... no... ma no!... Stai quieto, tesoro mio. Ora va a letto e riposa. Riposa bene, amor mio. Domani ne riparleremo. Non vegliare, sai?... Guarda che verrò a vedere se dormi. Ora entra nel tuo nanni... pensa alla tua gioia... e che il Signore ti benedica.

E, dopo avermi guardato con amorose lanterne, scivolò dietro la porta e scomparve.

Prima di prender sonno vidi ancora, nell'ombra della stanza, folgorare gli occhi rotondi di Salsiccia... e ripensai al tuo dono, Giacometta, al dolce dono di amore...

VII

L'amore ha centomila occhi; ma tu sei sempre cieco!...

Io avevo un vestito nuovo, ma Giacometta non tornava più.

La signora Adalgisa ricominciava ad esser formidabile.

Ella mi sospinse per tre volte verso la casa dei Maldi ed io vi andai, suonai il campanello... ma Giacometta era fuori.

Giacometta era sempre fuori.

Il viso della mia giunonica zia passava per tutta la gamma dei colori.

Io, Francesco Balduino, sentivo che forse era meglio morire.

Avevo un vestito nuovo, ma il mio amore non l'avevo più.

Voi, che avete amato, capirete la profonda tragedia che è in queste due cose le quali possono anche compenetrarsi.

E vi confesso che piansi; piansi come un giovane, il quale deve ormai pensare seriamente a morire. Perchè se tutto era finito io pure dovevo andarmene col mio sogno. Ero stato troppo vicino a cogliere la ghirlandella perchè la potessi scordare. A diciannove anni non si vive quando una ghirlandella promessa non arriva mai. E Salsiccia mi era stato galeotto... e mi ero trovato a un passo dal fenomeno gaudioso. Così sognavo e piangevo, disgraziato me, e vedevo approssimarsi la mia funebre ora.

— Almeno — dicevo mentalmente a Giacometta — almeno piangerai quando mi saprai morto!

E mi facevo una grandissima pena; oh, questo sì! Mi facevo proprio pietà!

— Che male ti ho fatto io, ingratissima bionda? Io stavo qui, al mio davanzale e non ti avrei domandato mai niente. Non pensavo alla tua ghirlandella... pensavo ai paradisi lontani, ai tuoi grandi occhi celesti, alla sola poesia che si partiva da te per venirmi a trovare e non ti avrei domandato mai niente! Avrei scritto di te come della cosa più lontana, nel mondo più irreale e, sarei stato contento. Mentre adesso...

E singhiozzavo perchè la pena era profonda Del resto questo capita a tutti, una volta nella vita, dai quindici ai cento anni.

Piangere per una donna non è male; forse è male non piangerne mai.

Il giardino incantato di Giacometta era senza più voce, senza più colore ed io, dalla mia soffitta, lo vedevo come un luogo squallido dal quale fosse esulata l'anima. E pioveva ed era ritornato il freddo.

L'aprile si era fatto frate trappista, questo benedetto mese d'amore.

E tu non c'eri più, cuor del mio sogno.

Perchè non dirmi piuttosto:

— Franzi, voi dovete fare come io voglio!

Sarei stato sempre disposto ad accontentarti. Invece mi avevi mostrato l'indecifrabile e perchè non avevo saputo leggervi, o vi avevo letto malamente, ecco mi abbandonavi come una cosa che si getta fuor dalla finestra, in mezzo a una strada.

Finalmente Principina che mi vedeva sempre in attesa, col mio vestito nuovo, sempre inchiodato al davanzale, nonostante il freddo che faceva, Principina, il piccolo fior del giardino, si commosse e arrivò un giorno fin sotto la mia finestra.

Principina era figlia del giardiniere e aveva sedici anni; e aveva un visetto gentile questa bimbetta, nata fra una serra e una macchia di lillà.

Mi chiamò.

— Signor Franzi?

— Che c'è?

— Sa? La signorina è partita!

— Partita?... E quando?...

— Quattro giorni fa. È andata a Firenze.

Soggiunse subito, vedendo il mio viso stravolto.

— Ma ritorna questa notte.

— Come lo sai?

— Ha telegrafato adesso.

— Ed è partita sola?

— No, col signor Tomaso.

Trassi un sospiro e domandai:

— E perchè, quando sono venuto a cercarla, non mi hanno detto che era partita?

— Perchè... — e Principina si «guardò intorno — perchè la signorina non voleva che lei lo sapesse!

— Bei riguardi!

La piccola sorrise. Soggiunse:

— Sa, non bisogna badarci! La signorina è fatta così!

Non aggiunsi verbo. Lo sapevo bene che era fatta così. La mia esperienza datava da quando la signora Adalgisa mi aveva fatto indossare un abito nuovo di non troppa spesa.

Principina sorrideva ancora e mi guardava. Strappò da una macchia alcune foglie e si dette a cincischiarle nell'atteggiamento di chi voglia dir qualcosa e non ardisca, poi levò verso di me il suo dolce visetto dai grandi occhi neri e, spegnendo la voce, soggiunse:

— Del resto la signorina le vuol bene!

— Come lo sai?

— Si capisce. E... se lei la sa prendere...

— Già!... Come se fosse una cosa facile prendere Giacometta!

— Ci si provi.

— È inutile, Principina mia! Mi sono già provato e l'ho fatta scappare a Firenze. Se dovessi ritentare dove andrebbe mai quest'altra volta?...

Dissi queste cose con tanto impeto e convinzione che Principina sospirò:

— Povero signor Franzi!

Poi mi fece un cenno di saluto, ma la trattenni per richiederle:

— A che ora arriva?

— A mezzanotte.

Rimasi solo e chiusi la finestra. Che cosa avveniva nel mio turbato spirito? Fuori pioveva a scroscio. Era una squallida sera piena di nubi e di vento, fredda e aggrondata, che si prendeva tutto il caldo del cuore per portarselo via. Io mi trovai solo in una fra le tetre solitudini nelle quali le anime giovani si sentono a volte desolatamente smarrire. Nessuna cosa mi venne dinanzi per sorridermi: neppure una pallida memoria di bene; neppure l'alito di un giorno di sole, vissuto pienamente. Tutto era conchiuso nel basso cerchio del cielo, per l'eternità. Simile a un uomo curvo e stanco che si allontana per una deserta via maestra, sotto un piovoso crepuscolo interminabile, era l'anima mia nella sua angoscia inattesa. Da dove mi proveniva tanta tristezza? Certo da te, Giacometta, certo da te. E anche da un'eredità della quale non si ha coscienza. Ne' suoi cerchi bui, l'anima racchiude tutta l'immane desolazione dal principio della nostra vita sulla terra. Io ero, fra gli uomini, Francesco Balduino, ciò che vuol dire una entità distinta, per quanto trascurata e condannata agli indiscreti legumi. Io possedevo, e possiedo tuttavia per mia disperazione, una raccapricciante sensibilità, la quale come mi sprofondava di un subito nella più fitta tenebra del mistero, nella più angosciante sfera del dubbio, mi risollevava così, di scatto, alle serenità più distese, alle radiose strade che dall'amore conducono a Dio. Così anche quella volta, dal niente arrivai alla gioia; da un presentimento di desolata fine, balzai a un intiero e stupendo possesso della vita. E che mi era servito al trapasso?

Niente, Giacometta: solo, ma solo la luce de' tuoi grandi occhi celesti. E fino a quando quella luce fosse stata con me, potevo chiamarmi un divino pastore per il mondo. Nè si trattava più di ghirlandelle (posso dirtelo, Giacometta, se tu vuoi ancora ascoltarmi dalla tua interminata lontananza) ma solo di quella parte di te meno terrena che poteva essere con la stella di Dio e alla soglia del mio cuore e diffusa come la Primavera che non è alito, nè colore, nè sentore di profumo ma una presenza che appena si avverte quando si abbia, come io avevo, una buia e desolata soffitta.

Così mi inondai di sole per festeggiare il tuo ritorno e l'inaugurazione, alla tua presenza, del mio vestito nuovo che costava poco.

A buon punto capitò allora la signora Adalgisa. Non lasciai che aprisse bocca, ma spiccai un salto e, battendo insieme le palme, incominciai a cantare:

Ritorna questa notte...

ritorna... ritorna!...

Ritorna questa notte...

con l'espresso del Perù!...

La mia consanguinea mordace mi lasciò finire, poi commentò, calma calma:

— Mi pare tu stia diventando un perfetto imbecille!

— Non voglio negare — risposi — che la vostra sia un'onesta e discreta opinione; però posso assicurarvi che questa notte ritorna Giacometta Maldi.

— Dici davvero?

— Ve lo giuro, zia!

— Dunque era partita?

— Partitissima.

— E... senza avvertirti?

— No. Voleva farmi una sorpresa.

— Secondo me incominciamo bene.

— Perchè zietta?

— Il perchè non lo puoi capire, povero sciocco! Noi donne ce ne intendiamo. Vuoi un consiglio?

— Sì, lo voglio.

— Bene, Checco, dà retta a me, non perder tempo!

— E cioè?

— Non perder tempo, ti dico! Sei un uomo o sei un palo?

— Che ne pensate voi?

— Se sei un uomo fatti valere e non far lo spiritoso.

— Vorrei foste ne' miei panni.

— Oh, se fossi ne' tuoi panni io, Adalgisa Balduino, sorella della sant'anima del fu tuo padre, se fossi ne' tuoi piedi ti farei ben vedere come si fa con le donne!

— Bum!...

— Screanzato!

— Ho detto bum perchè voi, probabilmente, avreste fatto ridere Giacometta solo col vostro naso.

Poi, senza attender risposta, infilai l'uscio e uscii per le strade semibuie, sotto il monotono pianto delle vecchie gronde.

VIII

In amore non esiste una rosa dei venti.

Il diretto della mezzanotte arrivò con un'ora di ritardo. Sotto la tettoia della stazione non eravamo ad attenderlo che io, il capostazione, e due facchini assonnati.

Uscì poi qualcunaltro, quando il treno fu per arrivare.

Io avrei voluto vedere senza esser veduto e cercavo un angolo nel quale nascondermi; ma non mi riuscì di prendere il mio gran batticore e di infilarlo nel buio; fui costretto a tenerlo in mostra sotto i fiochi fanali stillanti acqua. Però mi ritirai nell'angolo più remoto della tettoia ed attesi trepidando.

Il fragore si avvicinava fulmineo nella notte; già le lucide rotaie vibravano sotto l'impeto sopraggiungente; poi ad un tratto, in una folata di vento, tra il fumo e le rosse scintille, la vaporiera entrò nella stazione e in pochi metri fu ferma.

Si aprirono pochi sportelli. Scesero due vecchi da una terza classe e una scomposta signora la quale si dette a gridare: — Facchino? facchino? — nello stordimento di esser sbalestrata, a quell'ora, per l'ignoto mondo. E Giacometta? La mia piccina non c'era; forse... chi sa?... non sarebbe ritornata mai più!

E già mi sentivo serrare alla gola dall'angoscia, quando avvertii una rapida corsa alle mie spalle, nè ebbi tempo di rivolgermi che due braccia mi si strinsero al collo e una fresca bocca si posò sulla mia guancia in un grande bacio. Ed io non te lo restituii quel tuo bacio, Giacometta! A me, la improvvisa gioia ha fatto sempre un effetto catalettico: mi ha impietrito. Fra le altre disgrazie anche questa doveva toccarmi dal buon Dio.

Ma, ditemi voi: come potevo io orientarmi dal nord al sud con sì grande velocità? Quando mi sarei logicamente atteso una tutt'altra accoglienza?... Quando ero già nel tristissimo convincimento ch'ella non sarebbe ritornata nè quella notte nè mai?

Rimasi adunque, con la mia gioia serrata, a guardarla in una estasi immobile la quale non era adatta alla pioggia che scrosciava.

Ella aveva imprigionato il mattino, con quei suoi capelli biondi, e lo portava con sè come l'anima di questo coso pensante, noto al secolo col nome di Francesco Balduino. Tu discendevi dalla notte, attraverso l'uggia, il freddo, il vento e la pioggia, simile a una radiosità che non può spegnersi, che non soffre mutamento. E chi non ti avesse veduta ancora, era costretto ad averti chiusa nella sua memoria, con la nostalgica malinconia che lasciano le cose troppo belle che non si potranno mai possedere. Tu piccina, esile, diritta, armoniosa, illuminata dai tuoi grandi occhi celesti e dai capelli biondi. Tu, con la tua giovinezza stellare, sola nel mondo, perchè ti si poteva essere accanto accanto senza essere in te.

E, dopo il bacio, le sue piccole mani inguantate sulle mie spalle, gli occhi negli occhi, mi parlava ridendo, affannata come s'io fossi stato davvero il suo grande amore, nel cuore di quella notte piovosa.

— Franzi!... Ah, Franzi come hai fatto bene a venire!... Dunque pensavi che Giacometta sarebbe ritornata un giorno o l'altro?

Sospirai:

— Se ci pensavo!

Veniva innanzi, fra le lampade fioche, nella sua lunghezza sbilenca, accompagnato da un facchino carico di valige, lo zio Pertica. Aveva un berretto da viaggio calzato fino alle orecchie e un ombrello sotto il braccio, benchè piovesse a dirotto.

Non appena mi vide mi salutò senza scomporsi.

— Buonasera, signor Balduino.

— Buonasera.

E Giacometta continuava a parlare.

— Sai?... Siamo stati a Firenze, poi a Siena, poi a Pisa. Da Pisa lo zio voleva arrivare a Roma ma non ho voluto; e sai perchè?

— Perchè?

— Come?... non indovini?... Ma perchè avevo un gran desiderio di rivederti. Ti ho telegrafato. Hai avuto il mio telegramma?

— No.

— Peccato! Ho da dirti tante cose. Quando verrai a trovarmi? Domattina?... Sì, domattina. Vieni verso le dieci. Franzi... hai pensato a me?

— Sempre!

— Anch'io, sai?... Anch'io! Povero Franzi, ti ho fatto soffrire?

— Ho pensato al suicidio.

— Non esagerare.

— Giacometta, ti dico che ci ho pensato!...

Uscimmo dalla stazione. Tutti si voltavano a guardarci. Il meno commosso era sempre lo zio Pertica il quale sa il diavolo qual tordo o qual beccafico si pensasse. Il certo si è ch'egli non si occupava di Giacometta la quale mi si era appesa al braccio e continuava a ridere e a cinguettare.

Quando fummo vicini all'automobile e feci per accomiatarmi, Giacometta disse:

— No, vieni con noi.

— Salga, signor Balduino — soggiunse lo zio Pertica. — Ormai ella può considerarsi della famiglia.

Io ero, quella notte, come l'ombelico del mondo, come il triangolo mistico, come la divina colomba, ero al di sopra di ogni cosa umana e di ogni vita: astro fra gli astri, costellazione fra le costellazioni, l'amore fra tutti gli amori.

Io, Francesco Balduino.

IX

Se un amico non vale un tesoro che cosa vale allora una formidabile zia?

Per alcuni giorni io detti il mio nome mortale alla felicità. Ero così pieno di mondo, così compiuto in tutte le cose, che mi parve belloccia anche la signora Adalgisa; la qual cosa non mi era capitata mai, ve lo giuro!

E la signora Adalgisa ritrovava i sorrisi e le graziette de 'suoi remotissimi sedici anni, tantochè ritenne necessario compilarsi una veste nuova di un gusto fantastico, sbalorditivo.

Un giorno me la vidi arrivare tutta color zafferano; la vidi folgorare in un involucro di raso e camminar molleggiando. Due grandi boccoli neri le scendevano, attorcigliati come due trucioli, giù dalle tempie fin oltre le orecchie. E aveva le calze gialle, le scarpette gialle, i guanti gialli, il ventaglio giallo e un nastro giallo fra i capelli raccolti a nodo scorsoio sopra la fronte, come una porcheriola che stesse per dirupare.

Ed era un giallo che prendeva a schiaffi chi lo guardava. Era una signora Adalgisa solare; pareva l'ora della canicola e della insolazione. Eppure si credeva seducente.

Venne innanzi scodinzolando come se le suonasse dentro un tempo di minuetto, su dai vecchi precordi impolverati. E il suo visaccio, insolcato per tutti i versi, come una strada motosa in un giorno di fiera, cercava una peregrina soavità per intonarsi al nuovo involucro in cui si era infilato il suo corpo civettuolo.

Oh, zia!... Oh, paterna zia!...

Ristette alla mia presenza sorridendo anche dai neri vani che avevano lasciato i denti partiti per l'eterno esilio.

— Cosa ne pensi, Francesco?

Risposi semplicemente:

— Sicuro!

Ella rimase in dubbio; riprese con la sua più piccola voce:

— Come sicuro?

— Vi siete fatta una veste nuova.

— Ti piace?

— Mah?!... Ecco... il colore...

— Già, l'avevo detto anch'io alla sarta. Io avrei preferito un verde... un bel verde pisello, ma la sarta mi ha assicurato che questo è il vero colore di moda.

— Ve l'ha assicurato la sarta?

— Ma sì!

— Allora non c'è rimedio.

— Ti sembra brutto?

— È piuttosto vivace.

— Però la confezione è stupenda!

— Perdio!... Mi sembrate la signora Cagliostro.

— E chi era questa signora?

— Era evidentemente la moglie del famigerato Cagliostro. Ora è morta.

— Povera donna!

Io frattanto volgevo per la mente un atroce dubbio: perchè mai la mia signora zia si era conciata in quel modo? che pensava fare? quale infernale macchinazione si associava al suo vestito giallo. Le domandai:

— Perdonate, zia: se non sono indiscreto, perchè vi siete fatta quella veste?

— Ma per essere degna di te.

— Di me?... E che c'entra?...

— Scusa, ma quando si celebreranno le nozze dovrò ben essere presentabile!

— E chi vi ha detto che io sposi?

— Come?!...

— Sì, chi ve lo ha detto?...

Ella mutò voce e atteggiamento all'improvviso:

— Non scherziamo, Checco. Tu sai benissimo che su certe cose non amo scherzare. Non avresti scelto, in tutti i casi, il momento buono. Poi ringrazia Iddio di avere una zia come me, che pensa a riparare alle tue balordaggini!

Nè potei aggiunger parola ch'ella già, voltatami la parte tramontana e infilato l'uscio della stanza, dileguava.

La seguii e la vidi scender le scale; e la vidi andarsene per il Borgo dei Cotogni, rullando come una nave a mare morto. Poi si fermò a parlare con qualcuno che non riconobbi. Due monelli le fecero i versarci e un cane, un vecchio cane filosofo, le annusò l'ampissima gonna poi, posato su tre gambe, lasciò piovere sulla medesima un ingeneroso ricordo.

Il mio dèmone si dichiarò soddisfatto; ma io non ne avevo colpa, posso giurarlo.

X

Non dire di aver mangiata la ciliegia se prima non te la trovi in bocca!...

Giuocando a tutti gli equilibri, cercando gli adattamenti più disparati ed improvvisi; ecclissandomi a tempo debito e a tempo debito ricomparendo; schivando le forme più correnti in cui l'amore cerca il sigillo di una effimera eternità; essendo uno e multiplo come occorreva essere per non urtare le infinite suscettibilità di un'insidiosa vergine ero riuscito a farmi volere un po' di bene da Giacometta; a non stancarla durante il non lungo, ma per me penatissimo, periodo di cinque giorni. E, durante questi cinque giorni, ero stato alle corse con lei, avevo incominciato a ballare, a giuocare al tennis e imparavo a cantare.

Giacometta mi aveva scoperta una bella voce. A vero dire non me ne ero mai accorto. Il fatto si era che cantavo, sedendo ella al pianoforte; cantavo ed ero sempre più innamorato.

Ero adunque riuscito a farmi volere un po' di bene, però, per conto mio, rincaravo la dose di giorno in giorno col moltiplicarsi delle stramberie di Giacometta. Ma l'uomo, per quello che ho potuto imparare, e dalla mia e dalla altrui esperienza, è quella tal creatura la quale tanto più si logora e si rode quanto meno si vede apprezzata; e le maggiori trionfatrici di questo fierissimo animale sono state appunto quelle fanciulle e donne le quali erano e non erano; davano e non davano, abili sempre nell'inasprire la più o meno bramosa povertà del maschio e nel lasciarla insoddisfatta o quasi. E in tutti i secoli, per la generosità che lo distingue, l'uomo si è vendicato di queste sue più amate compagne vituperandole.

Ora la prima volta ch'io potei baciare in pieno Giacometta, fu lo stesso giorno del suo arrivo. La breve assenza l'aveva rinverdita, aveva dato all'anima di lei una specie di distesa continuità inusitata. Io ero entrato nella sua bianca casa, sul lembo di un giardino, alle dieci e ne ero uscito a mezzanotte. Queste quattordici ore erano state meno che niente.

Fu nel pomeriggio, dopo una lauta colazione. Eravamo nel giardino incantato, dietro una gran macchia di roveri. Il giorno di aprile aveva una limpida soavità come gli occhi di Giacometta e c'era per l'aria un non so quale pàlpito che gonfiava il cuore.

Non si parlava. Giacometta si abbandonava sul mio braccio con maggior languore. Poi, quasi per un contemporaneo avvertimento, ci volgemmo a guardarci. Il brivido che era in me era in lei; ciò ch'io sentivo ella sentiva; la mia inespressa volontà era la sua volontà inespressa. Io vidi ne' suoi grandi occhi celesti, un lontano sorriso morire in fondo alle pupille in un'ombra amorosa, vidi ch'ella non era più vigile, ma tutta nel suo abbandono; ch'ella cercava di non saper più niente, di non udir più niente ma solo di lasciarsi portar via, in quell'ora dolcissima, dal pàlpito dell'aprile che gonfiava il cuore.

Nè io ragionai più ch'ella non ragionasse quando le passai un braccio attorno alla vita, quando la trassi a me, la strinsi, la serrai a me con improvvisa violenza, la mia bocca sulla sua bocca. Allora fui ebbro del profumo e del fiore di quella divina giovinezza che si piegava fra le mie braccia come affranta e prostrata; fui ebbro e la vidi inarcarsi, abbandonar il capo all'indietro come per offrir meglio il rosso desiderio della sua bocca alla furia dei baci; vidi il suo pallido volto contrarsi un poco e illuminarsi nel sorriso della profonda angoscia; la vidi, dalle radici dei capelli all'ombra del piccolo seno, vibrar tutta, di uno spasimo nuovo; più affilato il volto come se in realtà il piacere lo coprisse di un'improvvisa ombra di morte.

— Bella bella bella!...

Non seppi dir altro, nel tremito di ogni mia vena. Ella chiuse i grandi occhi e allora, alla sommità del suo viso, non fu se non l'oscura ombra delle ciglia. Poi di un subito, le sue braccia dapprima inerti, mi allacciarono il collo ed ella aderì tutta quanta a me, dalle ginocchia al seno, tutta quanta mia, tutta nel mio desiderio, accesa del mio ardore, soggetta alla mia volontà e la sua bocca, dischiusa sulla bianchissima chiostra dei denti serrati, mormorò una parola sola, il segno della sua perduta volontà di non esser più che una sofferenza e un piacere nell'impeto del mio amore, nella violenza della mia forza maschia.

Ci trovammo seduti sull'erba.

E già ogni mia timidezza era un solo remotissimo ricordo allorchè udimmo levarsi dal discreto silenzio, una squillante risata.

Rotto l'incantesimo, mi trovai di fronte al tremendo compito di assumere in un battibaleno il più indifferente aspetto che potesse avere un garbato giovine giunto nuovo in quel luogo e ignaro di quanto si era fino a quell'ora passato.

Io conoscevo ormai l'anima di Giacometta. Ella infatti volse il viso da un'altra parte, si ricompose i capelli, si riassettò e, sorta in piedi, riprese il cammino, affatto dimentica della mia presenza.

Comunque fosse, il resto della giornata non ebbe a risentire di troppo violente variazioni.

Nei giorni che seguirono la faccenda fu diversa, per quanto fra tennis e pianoforte riuscissi a destreggiarmi abbastanza abilmente fra le meteoriche burrasche della mia nebulosa. Però Giacometta era sempre una creatura di mistero e nessuno avrebbe potuto mai con certezza dire che cosa avrebbe fatto, o pensato, o deciso, o amato da un'ora all'altra. Ella usciva dal comune; aveva un suo sistema metrico decimale o non ne aveva affatto, ciò che le capitava più spesso. Passava dal termine dell'abbandono al più risoluto disprezzo; dimenticava ciò che aveva calorosamente affermato un'ora prima; poteva concedervi la più grande gioia e ritogliervela dopo dieci secondi. Era più mutabile del mare del quale portava il colore ne' suoi grandi occhi fondi. Una volta si era ordinata quattro vesti di cui mi aveva decantata la grazia e l'eleganza; orbene, quando le arrivarono, capitò questo: una fu regalata alla cameriera; un'altra andò a finire sotto il letto e le ultime due ebbero una sorte peggiore: volarono con la scatola e tutto fuori dalla finestra. Questa era Giacometta.

XI

Tu sola, Principina, eri veramente la primavera!

Ora avvenne ch'io portassi, un giorno, un garofano rosso all'occhiello e che la mia formidabile zia uscisse per le strade della Città dai tre campanili, tutta vestita color zafferano. Nè io sapevo che si rimuginasse la mia congiunta nella sua ampia testa dai grandi boccoli neri attorcigliati come trucioli, nè ella sapeva che mi pensassi di far io della mia vita in quel giorno di sole.

Era una giornata calda e di languore come ne porta l'aprile nel suo grembo. A quando a quando passavano delle nuvole bianche e altissime; piccole nubi indolenti, abbandonate a un vento inavvertibile. I tre campanili della mia città le salutavano a gara, tutti immersi, talvolta, nel loro chiarore d'argento.

Non avevo preso il pastrano ed indossavo il mio nuovo vestito da poca spesa.

Mi avviai lungo il Borgo dei Cotogni. Erano le tre del pomeriggio. Non c'era nessuno. La gente dormiva. April dolce dormire! C'erano le nuvole bianche e amorosamente pigre nel cielo profondo; c'erano i tre campanili immersi nella gran luce come tre fantastici coni di tre maghi in ascolto sul mistero del mondo. La mia piccola città non grugniva più; dormiva sotto le bianche nuvole dell'aprile. Epperò io mi sentivo preso da un languore voluttuoso, da un sordo spasimo, da un'ansia inespressa, sentivo battere alle tempie e ai polsi la mia giovane forza d'amore.

Da dietro le basse case arrivava l'anima dei giardini. Erano i lillà, le madreselve, i gelsomini, le acacie che riempivan l'aria tepida del loro vivo sentore, di un amoroso ed ebbro profumo solare. Per le strade non c'era nessuno. La gente dormiva od amava dietro le griglie socchiuse, per le stanze immerse nella penombra. Erano in me un nuovo senso pànico ed una nuova levità. Io mi sentivo immerso e preso nel piacere del mondo perchè era il mese d'amore, e la prima gioia e il primo spasimo della fecondazione riempivan le ore dei giorni commossi.

Mi fermai alla bianca casa di Giacometta sul lembo di un giardino. Sarei entrato? Come mi avrebbe accolto Giacometta? Premetti il bottone del campanello; venne ad aprirmi Principina. Domandai:

— C'è?

— Sì — rispose la piccola sorridendo.

— Dov'è?

— In giardino...

E mi guardava sempre.

Attraversai l'andito; uscii nel sole. Principina mi precedeva di qualche passo. Era tutta rossa in volto e scalza. Camminava lungo il margine del viale; leggera e sottile. Vestiva di un niente. Di sotto la stoffa si accennava appena, come una promessa novella, il suo acerbo seno.

Proseguì, scalza levità bambina, fra l'erba di un prato conchiuso da una fiorita di meli e io vedevo il suo respiro profondo animarla come di un affanno senza parole, nel cuor dell'aprile, e vedevo batterle una vena, forte forte, alla fontanella della gola.

Giunti che fummo oltre la cerchia fiorita dei vecchi meli, Principina si fermò e mi disse tendendo un braccio verso il sentiero delle roveri:

— È là.

Poi mi sorrise e si allontanò nel dolce sole che porta sul mondo le nuvole bianche.

Giacometta era seduta sull'erba a una grande ombra. Era scapigliata. Aveva puntato i gomiti sulle ginocchia e appoggiava la faccia sulle palme aperte. Non mi vide. Non so che guardasse. Anche quando le fui vicino non si accorse della mia presenza. Mi sedetti al suo fianco. Allora ella, senza volgersi, allungò una mano e la pose fra le mie. Rimase così, gli occhi larghi e fissi fra l'erba. Aveva sui finissimi capelli biondi e ricciuti, dei pètali di fior di melo. Si vedeva dalle sue vesti, un poco in disordine, e dal rossore di tutto il volto che doveva aver corso fino allora.

Mi domandò senza guardarmi:

— Perchè sei venuto così tardi?

— Non sapevo di trovarti in casa.

— Sono tre ore che ti aspetto.

Strinsi forte, fra le mie, la sua piccola mano nata per le carezze; una mano bianca, dagli unghielli rosati, leggera come la rondine. E la piccola mano di lei si avvinghiò alla mia, dito con dito, amorosa e calda. Fu già, in questo, un principio di possesso, perchè le mani mandano al cuore il primo tonfo, quando si intendon fra loro; ed aprono il varco improvviso ai giardini senza cancelli nei quali l'amore si esilia per vivere più oltre e, spesso spesso, per morire.

Come era prevedibile, l'ultima distanza che ci separava fu superata senza ch'io mi accorgessi come la cosa fosse avvenuta. Io combattevo, in ardore, col mio garofano rosso, ma tutte quante le mie parole naufragavan nell'ombra. E ciò mi faceva pena. Perchè nessuna porta si dischiude, anche lentissimamente, senza una paroletta sorrisa, senza il barlume di un sogno.

Passavano adunque le nuvole quando anch'io passai un braccio attorno alla vita di Giacometta. Questo non potrà farvi dispiacere, credo. E la strinsi a me con tanta forza ch'ella ne ebbe il respiro mozzo; ma non disse niente. Fui io che le dissi a un tratto:

— Giacometta, io sento qui dentro — e mi portai una mano al cuore — sento qualcosa che mi fa morire!...

Ella sorrise con un ranuncolo giallo.

— Non mi credi?...

Guardò, più lontano, una macchia di lillà che sfumava nella penombra.

— E poi, Giacometta, sarebbe tanto bello morire davvero!

Respirava un po' forte e non rispose.

— Morir d'amore... per te sola!...

Giacometta chinò il mento al seno e questo mi piacque. Si volse e mi guardò smarrita. Poi le nostre bocche furono unite.

E aveste tempo di trascorrere, nuvole bianche dell'aprile, per il gran cielo turchino! Il nostro bacio era tenace e qualcosa stava per accadere di molto diverso. È inutile ch'io vi racconti quale dolce pericolo si corresse allora, perchè lo sapete meglio di me.

Però Giacometta mi aveva parlato, una volta, di una ghirlandella ed era molto naturale, anche se a voi non sembra, ch'ella vi ripensasse proprio in quel punto.

E vi ripensò.

Le vergini soffrono così di inesplicabili pause quando sono per varcare la linea.

Sta di fatto che, essendo noi, anche quella volta, sul punto logico e gradevolissimo della suprema carezza, a nulla si approdò.

Di un subito Giacometta cambiò volto e mi disse:

— Franzi, mi sono dimenticata una cosa.

Mio Dio, quale cosa poteva aver dimenticato che le fosse necessaria?

Si levò, mi tese una mano. Riprese:

— Andiamo.

— Andiamo pure!

Andammo come era naturale che avvenisse. Io, a vero dire, mi trovavo in un certo disagio. Poi il cuore mi batteva forte: c'erano troppe cose a mezzo. Questo accade quasi sempre quando si fa all'amore. Accade anche alle persone molto pudiche.

Si prese un piccolo viale traverso. Giacometta camminava lentamente e il giardino non finiva mai. Poi incominciò a raccontarmi la nobile ed istruttiva istoria che segue.

— Franzi, una volta una mia nonna doveva andare a nozze. Era un matrimonio d'amore ch'ella faceva. Si chiamava Tatiana questa mia antenata ed era di un paese lontano lontano, in fondo alle steppe della Siberia. Nonna Tatiana era discesa in Italia per accompagnarvi sua madre, malata di petto. Era una giovinetta bionda con dei grandi occhi turchini. Dicono mi assomigliasse. Ne giudicherai. Ti farò vedere una sua miniatura. Dunque nonna Tatiana era diretta a Bordighera. In quel tempo usavano ancora le diligenze. Volle il caso che nella stessa diligenza in cui viaggiava nonna Tatiana, si trovasse anche nonno Felice il quale, giusto in quei giorni, era partito per recarsi ad una fiera a Lione. Ora avvenne che, ad un certo punto, in uno svolto brusco della strada costiera, uno dei cavalli della diligenza adombrasse e si imbizzarrisse tanto da rovesciar tutto, giù per una scarpata. Nonno Felice uscì dal disastro con le ossa peste e nonna Tatiana anche; ma chi rimase moribonda sul colpo fu la madre di lei. Conveniva ricoverare la povera donna in qualche luogo per apprestarle le cure più urgenti. Giusto nelle vicinanze sorgeva una vecchia villa disabitata. Nonno Felice andò, pagò il guardiano, si fece aprire la villa e vi raccolse la ferita la quale poche ore dopo moriva. Ecco Tatiana sola, con uno sconosciuto. Ho sempre sentito raccontare che, quella notte, la passò come se fosse impietrita. Non pianse, non parlò, sedette accanto al letto della morta e stette per ore ed ore, gli occhi sbarrati contro l'ombra. Nonno Felice rispettò quel dolore, in disparte, raccolto nell'angolo più buio della stanza. Poi doveva essere ciò che fu. I due giovani andarono insieme a Bordighera. Ivi la nonna si fermò e il nonno proseguì per Lione con la promessa di ritornare. E ritornò perchè era innamorato. Gli zii mi hanno raccontato poi che Tatiana non voleva saperne di matrimonio; era una tartara selvaggia e voleva ritornare fra le sue steppe desolate. Amava l'Italia ma sentiva il doloroso incantesimo del suo triste paese. Nonno Felice non volle lasciarla. Partirono insieme e Tatiana non fu sua...

Io ascoltavo allibendo. Non riviveva l'anima della remota antenata in quella di Giacometta?

— ... Tatiana non fu sua. Era una giovinetta gagliarda e fiera tanto da non temere di rimaner sola anche con dieci giovani. Sapeva volere e sapeva difendersi. Quando un uomo si imbatte in una simile creatura può dirsi perduto.

«... Andarono, viaggiarono per più di un anno, durante il quale nonno Felice non dette mai notizie di sè alla famiglia. E a casa lo credevano già sperduto o morto fra le steppe della Siberia quando un bel giorno di aprile del 1820, una vettura si fermò dinnanzi a questa casa e ne discesero nonna Tatiana e nonno Felice. Ancora non avevano sposato e Tatiana non era stata di chi l'amava...

«Però si era decisa ormai e nonno Felice la presentò come fidanzata. Ora, dall'arrivo alle nozze, non doveva correre più di una settimana perchè nonno Felice aveva molta fretta...

— ... Aveva molta fretta e combinò tutto in modo che non potessero sorgere impedimenti improvvisi. Però Tatiana non parlava mai. Giusto in quei giorni fu presa da una fra quelle grandi tristezze alle quali andava soggetta di quando in quando e nonno Felice, nonostante tutto il suo amore, non poteva trarla dalla profonda lontananza nella quale affondava...»

Eravamo arrivati, camminando così passo passo, al muro del gelsomino di Spagna e Giacometta mi invitò a sedere vicino a lei sulla minuscola panchina.

La storia mi interessava ormai troppo perchè avessi la mente ad altro.

— Da quel tempo — riprese Giacometta con la voce più spenta e gli occhi semichiusi — da quel tempo nulla è mutato qui. I lunghi anni han lasciato le cose come erano. Anche allora c'era questo muro e lo stesso gelsomino. Tu hai veduto, in casa, la stanza dei nonni; la stanza verde, stile impero; nessuno l'ha toccata da quel tempo. Sono passati ormai tanti anni eppure dentro il canterale, nel primo cassetto, vi sono ancora dei gelsomini secchi. Li raccolse certo la nonna in un giorno della sua remota primavera e li lasciò là con la sua memoria. Io ho pensato tanto alla mia avola alla quale assomiglio. Certo qualcosa dell'anima di lei è in me! Però debbo raccontarti un altro episodio perchè tu capisca ciò che voglio dirti e tu mi comprenda in ciò che sono per fare.»

Raccolse il volto fra le piccole palme aperte e si concentrò nella lontananza dei ricordi. La guardavo, preso dal suo fascino oscuro. Ella non era più presente come palpito e desiderio; il suo sangue si era di un subito acquetato. Vedevo come i suoi occhi celesti si smarrissero in una grandissima ombra quasi che ella comunicasse con l'ultravisibile e fosse, ad un tempo, vicina e lontana: nella profondità del mistero e con me, accanto a me nella tepida primavera d'amore.

Incominciò una capinera a cantare sommessamente da una macchia di lillà.

— Io non son nata qui — riprese. — Nacqui a Madera, nell'inverno di un triste anno che doveva lasciarmi al mondo senza nessuno. Mio padre era in America allora. La mamma morì pochi mesi dopo avermi partorito e il babbo volle seguirla a breve distanza, laggiù, nelle pampas dell'Argentina. Vissi a Madera fino ai cinque anni. Di quel mio tempo quasi di sogno non ricordo che una sivigliana, una giovane sivigliana che aveva il colore dell'ambra. Questa giovane mi raccontava certe storie che mi facevano abbrividire ed erano sempre storie d'amore e di sangue. Così, bambina com'ero, mi ci appassionavo tanto che volevo stare sempre con lei e sentirla parlare. Se vi ripenso, ho ancora nella mente la sua voce fonda, il volto malinconico e forte, i suoi occhi che lampeggiavano. Questa donna mi fece provare i primi brividi; tolse l'anima mia bambina dalla sua inconsapevole serenità.

Giusto in quel tempo dovetti partire. Gli zii vennero a prendermi a Madera. Mi ricordo che piansi come una disperata e che non volevo saperne di seguirli. Ne avevo paura. Erano sempre serii. Mi parlavano, fin da allora, come se fossi stata una donna. Tu non li conosci bene; sono tanto buoni ma hanno attraversato la vita come due minori osservanti senza sapere niente di niente all'infuori delle loro cacce. Non hanno avuto mai un cuore di donna vicino; e la loro casa, come l'anima loro, manca di quella intimità, di quell'amorosa penombra che può portare solo una innamorata... Allora ne avevo paura. Se vollero condurmi con loro furono costretti a sobbarcarsi al peso di Paquita. Diversamente non avrei abbandonata l'isola dolce dove ho trascorsi i primi cinque anni del mio sogno terreno.

Arrivammo in questo paese che era d'inverno. Un grigiore infinito; un gran freddo. Mi ricordo che, per i primi mesi, non feci che piangere. Abbracciavo stretta stretta Paquita e volevo mi riconducesse al bel sole della mia isola lontana. Non avevo veduto mai la neve; non avevo tremato mai dal freddo; e, al mio primo arrivo in questa casa, non vidi che neve ed ebbi a soffrire per il freddo che mi tormentava giorno e notte. Poi finii per abituarmi a tutto. Gli zii erano molto buoni benchè non si occupassero di me se non per dirmi buongiorno e buonasera. Così rimasi nella tua piccola città malinconica. Dopo un anno Paquita si ammalò e volle ritornare a Madera. La vidi partire quasi con indifferenza. Non piansi. La mia malinconia rimase serrata dentro di me; senza parole. Quando ci separammo, avevo incominciato a poter vivere tranquilla nella mia solitudine. Ho avuto una serietà precoce, Franzi, ho pensato e sofferto in quell'età in cui le bambine non conoscono che il riso e il sonno. A sette anni ebbi un'altra compagna: una istitutrice inglese; ma non mi piacque fin dal primo giorno e la trattai come una nemica. Fin da allora ero padrona di me stessa. Gli zii mi davano sempre ragione e mi lasciavano fare ciò che volevo. Ciò mi fece pensare prima del tempo. E diventai scontrosa; chiusi in me la mia tristezza; stetti giornate intiere senza uscire di camera o dispersa negli angoli più remoti del giardino. Poi incominciai a voler conoscere la mia vecchia casa dai tetti alle cantine; e girai, frugai, interrogai. Volli sapere tutto di tutto.

«C'era allora, in casa, un vecchio servo che era venuto fanciullo al servizio dei Maldi e sapeva punto per punto la storia della famiglia, da cento anni a questa parte. Si chiamava Lorenzo e fu Lorenzo che mi illuminò circa un passato che apparve prodigioso agli occhi miei di bambina. C'era qualcosa di romantico e di misterioso nella storia della famiglia mia. Questo bastava per appassionarmi. Fu allora che conobbi nonna Tatiana.»

Tacque e mi guardò senza levare il volto ma volgendo appena gli occhi dalla mia parte, mi domandò:

— Ti annoio?

Le risposi invitandola a proseguire; dopodichè riprese:

— Nonna Tatiana fu la compagna de' miei silenzi. Per lunghe ore restavo estatica innanzi al suo ritratto, o chiusa nella camera verde dove ella aveva compiuta la sua breve gioia. Ormai non avevo che una ardente curiosità e cioè quella di conoscere fino in fondo la vita della mia misteriosa antenata. Lorenzo, toltone i fatti più salienti, non poteva darmi se non accenni vaghi e questo non mi soddisfaceva ormai più. Volevo saper tutto. Come ti ho detto c'era, e c'è ancora, nella stanza della nonna, un grande canterale, di cui, nel tempo del quale ti parlo, non potevo trovar la chiave. Un presentimento mi avvertiva che, nel segreto del vecchio mobile, doveva trovarsi qualcosa che avrebbe soddisfatta la mia inesausta curiosità di sapere. Come al solito, gli zii non ricordavano che fosse mai esistita una chiave di quel canterale e non si occupavano della faccenda più che io non mi occupassi della loro caccia. Eppure volevo venire a capo del mio desiderio; ma senza che altri sapesse ciò che intendevo fare; senza che altri assistesse alla mia ansiosa ricerca. Ricordo che un giorno mi feci sanguinare le mani nei tentativi di forzare le robuste serrature. Poi mi decisi ad andar alla ricerca di un fabbro il quale, con un grimaldello ebbe, in breve, ragione del vecchio mobile cocciuto. Quando rimasi sola, mi chiusi nella grande oscura stanza e la mia gioia non ebbe più limiti. Parlavo ad alta voce, ridevo, piangevo; mi pareva che nonna Tatiana, rinata mistero delle sue memorie, mi stesse vicina e mi dicesse: — Sì, bambina, sì... tu sei la mia cara figliuola... tu mi assomigli... il mio cuore è il tuo cuore!... — Mi passavan fra le mani, gioielli, vesti, piccoli libri scritti in una lingua che non capivo, nastri, lettere, fiori secchi; tutto ciò che nasconde una creatura innamorata e triste, in fondo a un cassetto che nessuno aprirà. Trovai, fra l'altre cose, una lettera spedita da Tatiana a nonno Felice. Era scritta in italiano. Diceva, fra l'altro: —... tu ti ostini sulla mia strada e non sai dove potrà riuscire. Io ti ho detto che il mio amore non può soffrire vincoli umani. Bisognava lasciarlo libero per il suo ignoto destino; non bisognava cercare di ridurlo alla misura comune. Hai insistito, hai pianto, hai corso la terra dietro le tracce di questa creatura sperduta, hai rinunziato al tuo mondo, ti dici pronto a rinunziare a tutto.. e sia come vuoi! Purchè tu sappia che Tatiana ti vuol bene, viene con te, ti segue nel paese del sole, farà ciò che desideri, ma la sua strada, che incomincia dall'immensità di una steppa, non potrà finire nella riposata quiete di un piccolo giardino in fondo alla tua provincia; la sua strada, povero amore, dovrà ritornare all'infinito dal quale si è partita. Ogni anima ha il suo destino segnato e gli uomini, con tutte le loro morali e le loro leggi, son meno che niente di fronte al destino di un'anima. Ti ricordi che cosa ti dissi la prima volta, quando l'amore fu con noi? Lo ricordi? Io ti dissi:-Non promettermi niente, non parlare, cerca di essere solo con me, sola, all'infuori di tutto ciò che gli uomini hanno detto e fatto e inventato per avvelenare questo attimo divino. La mia libertà e il mio amore non soffrono leggi; sono come il vento della steppa. E tu prendimi perchè io voglio essere tutta quanta tua; prendimi e macerami e fammi soffrire nel tuo amore maschio. Io sono arrivata dall'ignoto per amarti e per farti il dono di tutta me stessa ma non promettermi niente e non chiedermi di più!... — Io ti dissi questo, allora, e tu non mi volesti capire. Tu eri e sei troppo schiavo del tuo misero mondo e delle sue convenzioni meschine. Tu vivi troppo « PER GLI ALTRI » e il mio amore non può vivere che nella più selvaggia libertà, per morire e dileguare quando la sua ora sia giunta come per tutte le cose del mondo... »

E la voce di Giacometta si spense. Il sole discendeva fra le nuvole dell'aprile attardandosi nel gorgo del cielo, come innamorato.

E che stava accadendo mai nella mia anima di sognatore? Giacometta mi aveva affascinato con la sua voce e col suo singolare racconto tanto che mi pareva di essere ad un tempo presente ed assente in una immensità di mistero. Sprofondavo nell'impensato con la velocità di un bolide. Io, Francesco Balduino, creatura senza alcun valore, come avevo potuto mai entrare in un mondo tanto strano e impadronirmi di un cuore così moltiplicato nell'inverosimile? Perchè mi aveva prescelto Giacometta? Che poteva vedere e trovare in me, nipote della signora Adalgisa?

Poi ella riprese a parlare, un po' stanca e disciolta in una perduta dolcezza.

— Così incominciai a conoscere il cuore di nonna Tatiana. D'improvviso tutto il buio si diradava e mi vedevo dinnanzi quella che non mi aveva sorriso se non dai grandi ritratti e mi spiegavo la luce perdutamente triste e fiera di quei grandi occhi celesti dietro una lontananza infinita.

«Ormai ti racconto tutto, Franzi mio. Prima di arrivare al particolare per il quale sono risalita nelle mie memorie, voglio tu sappia chi sono, da chi discendo, come ho vissuto perchè un giorno tu mi possa perdonare. Io non ti conosco bene eppure un istinto mi guida. Io sento che tu non sei come gli altri... »

E, per la prima volta, la sua mano lieve mi sfiorò il volto in una carezza.

Signore mie, allora avevo diciannove anni e non vi meraviglierete se due lacrime mi scesero per la faccia ruzzolando precipitosamente. Avevo diciannove anni, signore mie, e un cuore che non conosceva la volgarità e mi commovevo e mi entusiasmavo perchè mi piaceva di regalare me stesso, non avendo proprio niente altro da regalare. Pensate a questo, prima di giudicarmi severamente, perchè, se piansi allora, vi giuro che avevo ragione. Forse potrete rimproverarmi la facilità con la quale prendevo tutto troppo sul serio; ma che ci potevo fare io se, in quel punto, Giacometta era sincera? Perchè Giacometta era sempre sincera e sempre al di là del bene e del male e se non aveva una linea continuativa, se non voleva essere e non poteva addimostrarsi eterna nelle cose sue, come piacerebbe alla vostra sentimentalità, care signore, ebbene la colpa non era nè sua nè mia.

— Pensa adunque, Franzi, in quale orgasmo io vivessi. Guarda, è la prima volta che ne parlo... tu sei il primo al quale confido il segreto della mia fanciullezza ed ora che, per parlarti, mi costringo a rivivere le sensazioni di quei giorni, mi sento avvincere dallo stesso fascino, tanto che non so più se tutto ciò sia avvenuto nei pochi anni di questa mia vita o in un punto indeterminato nelle lontananze del tempo, quando non ero quella che oggi sono, qui, in quest'ora di aprile... accanto a te che mi vuoi bene.

«Siccome in un giorno solo non potevo vedere e saper tutto quanto era racchiuso nei cassetti del vecchio canterale, presi l'abitudine di chiudere a chiave la stanza di nonna Tatiana e di non abbandonare detta chiave neppure nel sonno. Ogni giorno ritornavo nel mio sacrario e mi vi rinserravo. Così potei scorrere tutte le lettere scambiate fra nonna Tatiana e nonno Felice e così mi capitò sottomano un libriccino rilegato, nel quale la nonna scriveva il suo diario. Capii che Tatiana si era negata a nonno Felice fino al giorno delle nozze, ma nonno Felice non aveva saputo o voluto prenderla. Ciò che piaceva alla giovinetta selvaggia non entrava nella mente dell'uomo abituato a vivere nel fondo di una quieta provincia dove tutto si cristallizza, nei secoli, in dogmi ferrei e la mente, cresciuta sotto il peso di tali dogmi, perde l'elasticità, la bellezza creativa, il senso della libertà e della gioia. L'amore di nonno Felice era grande ma vestiva il costume del suo tempo, povero amore! E nonna Tatiana, fin dai suoi primi anni, aveva imparato a crear la sua libera vita fra i pericoli, fra gli ardimenti, sola col suo istinto, la sua fierezza e la sua giovine forza dominatrice. Fra i due c'era, in realtà, un abisso. Così all'una sarebbe piaciuto di esser subitamente ghermita da un bell'uomo predace, simile allo sparviero, mentre all'altro piaceva la santità dell'imene.

«Ritornando al diario di nonna Tatiana, il punto che più può interessarti, ora che ti ho raccontato tutto, è quello che precede di qualche giorno la celebrazione del matrimonio. Io so a memoria il piccolo diario. Ora in una pagina che porta la data del 20 maggio 1820 è scritto: — Fra quattro giorni crederanno di aver fatto di me una povera cosa nel ritmo della loro pallida vita; fra quattro giorni crederanno di avermi vincolata per sempre. E perchè? Quale parte mia potranno vincolare che io non voglia? Chi è questa gente? Quando mai mi è stata VICINA? Ho detto a Felice: «Perchè vuoi questo? Non ti accontenti del mio amore? Non hai paura di ucciderlo facendolo passare fra la polvere di queste strade?» Ma Felice non mi ha intesa. Egli non vede che per gli occhi dei suoi; non agisce che per mantenersi ligio agli usi de' suoi borghigiani. Ed io? Crede egli di non potermi perdere quando mi abbia sposata? E crede ancora che mi deciderò a sposarlo se prima non avrà ubbidito al rito della mia gente e non mi avrà dimostrato di essere sempre padrone dell'anima sua e del suo coraggio? Questa notte gli parlerò. Ho veduto, in fondo al giardino, un muro con una pianta di gelsomini in fiore. Là intesserò la mia piccola ghirlanda ch'egli dovrà conquistare e riconquistare di notte in notte finchè non lo chiami e non gli dica:«Ora sono tua anche attraverso alle tue consuetudini e per le tue grige strade piene di polvere e di vento...

«In un'altra pagina che reca la data del 22 maggio 1820, nonna Tatiana scriveva: — Oggi, sul tramonto, siamo scesi in giardino. Ho accompagnato Felice al muro dei gelsomini ed ho intessuto la ghirlandella. Egli mi guardava fare senza aprir bocca. Fiore per fiore ho pronunziato la parola rituale, poi ho fatto appendere la piccola ghirlanda, in cima in cima al più alto ramo di una betulla. Se domattina il vento non l'avrà fatta cadere e il mio destino mi avrà detto, così, ch'io devo affrontare questa avventura, incomincierà la prova di Felice. Ho fatto rimandare il matrimonio di venti giorni...

«Ahi, scarno Felice!.. Io stavo, ora, come chi si sente preso dal più grande vortice oceanico, là dove si incrociano le immense correnti.»

Ma Giacometta continuava a parlare e dovevo ben conoscere le oscure fasi della prova alla quale dovette sottostare nonno Felice.

— Da questo punto — continuò Giacometta — il diario di nonna Tatiana non è più particolareggiato ma prosegue per sommi capi, accennando a qualche fatto incomprensibile. Vi è una pagina, che reca la data del 2 giugno 1820, la quale dice: — Ho passato una notte in grandissima pena. Felice non è ritornato che verso l'alba. Quando mi è comparso innanzi era stravolto e aveva le mani e la faccia insanguinate. — Poi, al 5 giugno, scriveva: — Ha vinto! È mio! Tutto ciò che ha compiuto resterà nel mistero. Nessuna legge potrà colpirlo. Poi il mio amore è grande e lo difende. — Questa è l'ultima giornata del diario di nonna Tatiana.

— E... sposarono? — domandai.

— Sì, sposarono. Ebbero tre figli; ma dopo cinque anni di vita comune, nonna Tatiana scomparve e nessuno ne seppe più niente.

«Si eclissò il giorno in cui credette di non essere più amata come voleva. Questa la storia che ti volevo raccontare: un po' perchè ti fosse nota la vita di questa stramba Giacometta che tu giudicherai chissà come; un po' perchè tu sapessi la ragione di ciò che pretendo da te per amarti compiutamente. Un giorno, la prima volta che ci parlammo, mi pare, ti dissi che in questo stesso luogo io avrei intessuta una ghirlandella di gelsomini. Ora vedremo che mi dirà il destino; ma sono certa della risposta perchè ti voglio bene. Ti voglio bene e non ti sposerò appunto per questo.

— È giusto. Ma... come mai ti son potuto piacere? Proprio io che sono un povero giovine senza alcun valore?...

— Perchè non mi hai chiesto niente e non mi avresti mai chiesto niente. Non è forse vero?

— Oh, questo è verissimo!

— Appunto! La scelta è stata mia e non tua. D'altra parte sentivo che tu non eri come gli altri.

Dopo aver tanto parlato, Giacometta rimase per un poco assorta, il volto nascosto fra le piccole mani. Poi si riscosse e si levò.

Volgeva l'ora più soave del giorno, quando il sole si affaccia un po' più lontano e cammina sulle grandi strade dietro l'ombre che lo fuggono.

Si udiva Principina cantare da una serra lontana. Si vide Girolamo attraversare un viale e scomparire, a testa bassa, fra i fiori che faceva nascere.

Giacometta raccoglieva, ora, lunghi tralci di gelsomino e ne distaccava i fiori che lasciava cadere nelle mie mani congiunte a giumella. Quando le mani mie furono colme, si guardò intorno a cercare un luogo nel quale riporre la raccolta; poi sedette sull'erba e mi fece cenno di lasciarle cadere sul grembo la bianca messe. Io continuai l'opera ed ella, frattanto, componeva lentamente una spessa ghirlandella.

Piegati a cerchio varii tralci di gelsomino e di vitalba e intrecciatili fra di loro, trasceglieva tra i fiori che aveva sul grembo, quelli che eran più grandi e sbocciati, e li fissava fra le connessure del fusto, tanto vicini da non lasciar il benchè minimo spazio fra l'uno e l'altro. Le nasceva così una bianca e soave ghirlanda. Si era ella composta sul verde prato, in un atto soave, il volto un poco inchino, soccallate le palpebre, ma appena, sì che le lunghe ciglia, leggermente arcuate, le raccoglievan nell'orbita un più oscuro colore che rammentava quello delle violette. Ed aveva il sole sui capelli ad onde, e a sommo del volto, e sulla persona sottile che si stagliava così, fra i fiori e le piante, in una aggraziata levità da core.

Poi, a questa grazia, una nuova se ne aggiunse che nacque improvvisa. Si riudì di molto lontano il canto di Principina e allora anche Giacometta incominciò a cantare.

Ora il sole era già presso al tramonto quando Giacometta balzò in un grido festoso.

— Franzi, Franzi, questa piccola cosa nata dal nostro amore dovrà indicarci la strada nostra!

Poi, posata la ghirlandella sui capelli riprese sorridendo:

— Ora baciami!

E la baciai sulla bocca.

XII

Se trovi una ghirlandella, non perdere troppo tempo

Questa era adunque la cosa che Giacometta ricordò di aver dimenticata quando eravamo sul punto di cadere avvinti fra l'erba di un prato deserto; e questi i barbarici riti che la mia bella spietata aveva appresi e conservava in sacra eredità dalla sua selvaggia antenata Tatiana.

Ora Giacometta, voltasi intorno e veduto Girolamo passare con una scala a pinoli, lo chiamò a gran voce e, come fu vicino, gli ordinò di posar la scala sopra una vecchia ed altissima betulla che sorgeva in mezzo ad un prato, dietro il muro dei gelsomini.

Quando ebbe fatto questo il vecchio giardiniere riprese la strada lemme lemme, a testa bassa, scomparendo tra i fiori ch'egli faceva nascere.

Poi che fummo soli, Giacometta riprese:

— Vedi quel ramo?... Quell'ultimo ramo là, in alto?

— Sì.

— Bene: tu devi appendere la nostra ghirlanda lassù.

L'impresa non era facile ma la condussi a termine.

Riprendemmo la strada con l'ultima luce del giorno. Però non era tanto buia l'aria che, giunti presso la finestra della mia soffitta, non scoprissimo, io con orrore e Giacometta con curiosità, un'ombra appoggiata al davanzale delle mie lunghe attese.

Ed io vidi bene di che si trattava e avrei voluto cambiar cammino, ma non così Giacometta la quale mi domandò:

— Chi c'è lassù, alla tua finestra?

— Non saprei!... — risposi per distogliere l'attenzione di Giacometta dallo sgradevole fenomeno.

Ma proseguendo ella, scoprì nella pallida luce un fantasma giallo il quale coi più svenevoli e barocchi atteggiamenti pareva voler richiamare l'attenzione nostra.

— Con chi ce l'ha? — chiese Giacometta.

— Sarà una pazza! — risposi.

— La conosci?

— Mai veduta!

— E allora come si trova in casa tua?

— È appunto quello che non mi spiego.

— Guarda come ci saluta...

Io vedevo infatti la mia formidabile zia, nel suo giallo addobbo di raso, agitarsi e protendersi e salutar con le mani e col capo e col torso. E temevo ch'ella stesse per compromettere la mia lunga fatica, come infatti tentò di fare.

Ad un tratto levò la querula voce a un confidenziale saluto, tanto che mi si gelò il sangue quando l'udì dire:

— Buonasera nipotini miei!... Buonasera!...

Giacometta si fermò e scoppiò a ridere.

— Ma è pazza!...

— Non c'è dubbio — risposi.

— E non hai paura di trovartela in casa quando ritorni?

— No. Ci ho fatto l'abitudine.

— Dunque la conosci?

— Mi par di sì. Deve essere una mia vicina.

— E quando è impazzita?

— Dopo la morte del marito... molti anni fa.

— E perchè veste in quel modo?

— Chi lo sa? Forse era il gusto del suo povero marito.

— Quanto è brutta, povera donna — fece Giacometta avviandosi.

Ed era tempo che si abbandonasse il luogo perchè la signora Adalgisa si disponeva a parlare e sa Iddio che cosa sarebbe uscito da quella sua bocca nera. Però non tanto in fretta ci allontanammo che non la si udisse gridare:

— Checco? Checchino?... Vieni, sai, che ti aspetto a cena!... Ci sarebbe un posto anche per Giacomettina se volesse degnarsi di venire in casa nostra! Hai capito, Checco?... Guarda che ti ho preparato i cappelletti con un cappone che ha fatto un brodo da leccarsi le dita!... Hai capito, Checco?

Non fui tranquillo se non quando Giacometta, con la sua estrema facilità di tramutare, non mi disse:

— Senti, Franzi, questa sera tu resti con noi, è vero?... Resti a cena con noi!

Poi, siccome non rispondevo, soggiunse:

— Vuoi farti pregare?

— Ma no, amor mio, — risposi — no!... Resto anche per tutta l'eternità...

Quando fummo di fronte alla casa bianca dai grandi cristalli, i due zii di Giacometta erano appoggiati agli stipiti della porta, la faccia all'aria. E non ci salutarono neppure, intenti come erano a rifare il verso a un fringuello cieco che cantava alla disperata.

XIII

Ah, dolcezza mia, ch'io ben conobbi, per te, la mia prima ciambella senza buco!...

La sala era grande e cupa. Gli zii mangiavano senza togliere gli occhiali a stanghetta. Allora la casa bianca dai grandi cristalli non era ancora illuminata a luce elettrica.

Dunque, in mezzo alla tavola, non c'era che un lume a petrolio. Ma, per me, c'era Giacometta che aveva tutto il sole ne' suoi capelli biondi. Questo però non toglieva che ci si vedesse poco e che la sala fosse grande e cupa.

Io stavo bene ugualmente perchè Giacometta mi sedeva accanto.

Lo zio Tomaso e lo zio Antonio non ci guardavano neppure, da dietro i loro grandi occhiali a stanghetta; essi masticavano e parlavano di uccelli e di tese e di richiami e di panie e di panioni.

— Sapete Antonio? Bisogna ordinare un po' di quel vischio che ha il Mattirolo. È di ottima qualità.

— Ci ho pensato.

— E bisogna anche andare a Faenza per il mercato degli uccelli. Mi diceva iersera lo Stangone che il Birli ha certe calandre e certi rigogoli da pagarsi a peso d'oro.

— Andremo la prossima settimana.

— E bisogna provvedersi di due o tre civette.

— Non vi pare che sia presto ancora?

— No, questo è il tempo, a volere che la civetta si appasti e cuccuveggi per bene.

— Ma dove trovarle adesso le civette?

— A Faenza.

— Non ce ne sono.

— Come lo sapete?

— Me lo ha detto Stangone, l'altra sera.

— Allora, una di queste notti, andremo noi stessi a cacciarle. È sempre in soffitta il panione per le civette?

— Sì, è sempre in soffitta.

— E il pettirosso è sempre vivo?

— Vive e canta che fa piacere.

— Sapete rifarlo voi il verso alla civetta?

— Io?... Sono maestro!

— Fate sentire.

— Aspettate.

E lo zio Antonio, dopo aver frugato per qualche tempo nelle ampissime tasche della sua cacciatora, ne tolse un vuoto guscio di chiocciola che si pose fra l'indice e il pollice della mano destra. Assestato che l'ebbe con l'apertura in alto, incominciò a soffiarvi dentro gonfiando le gote e ne trasse un lugubre suono che assomigliava mirabilmente alla infernale risata delle civette e al loro stridulo grido. Tale ingratissima musica che urtava me e Giacometta, garbava, all'opposto, in siffatto modo agli antichi zii, che non pensarono di smetterla tanto presto; anzi, passandosi vicendevolmente il vuoto guscio di chiocciola, e vicendevolmente soffiandovi dentro, cercavano nuove modulazioni e nuovi stridori per raggiungere quella perfezione la quale avrebbe permesso loro di trarre in inganno, fino alla loro pania, i notturni volatili che destano il terrore dei fanciulli e delle donne. E ad ogni nuovo tentativo erano approvazioni o disapprovazioni.

Frattanto Giacometta mi guardava con dolcissimi occhi. Io sentivo di essere prossimo al mio celeste meridiano.

Poi da una delle due grandi porte, si avanzò un cameriere che annunziò:

— Una signora è in sala che desidera parlare con loro.

Tomaso e Antonio si levarono sul torso e si fecero bui per manifesta contrarietà.

— Una signora? E che vuole da noi a quest'ora?

— Non ha detto che cosa voglia.

— E non sapete chi sia?

— Dice che il signorino — e indicò il sottoscritto — è suo nipote.

Allora tutti gli occhi mi furono addosso ed io sentii d'improvviso un gelo di morte passarmi per le vene.

Nè più sapevo che dire e che farmi ed avrei avuto un gran desiderio di scivolare sotto la tavola per nascondere in quel buio la mia vergogna e la disperazione mia, quando Giacometta mi strinse un braccio e mi sussurrò con voce timorosa:

— Franzi, Franzi.. è la pazza!...

— Certo... è la pazza! — risposi.

— Non riceverla, Franzi... ho paura...

— Lascia fare a me.

E scambiate queste rapide parole con Giacometta, presa ormai una eroica decisione, mi rivolsi ai due uccellatori che mi guardavano aspettando e dissi loro, press'a poco, le cose che seguono.

— Lor signori mi debbono perdonare, ma a me càpita una disgrazia non indifferente. Abita in casa mia una povera vecchia signora che era tanto innamorata di suo marito da impazzire il giorno in cui questi fu chiamato dal buon Dio nelle regioni del cielo. Pazza diventò allora e pazza è rimasta negli anni; ma non fa male a nessuno. Si accontenta solo di vivere delle sue fissazioni e di vestire come una befana. Fra le altre sue fissazioni vi è questa: si è messa in capo di essere mia zia!... E nessuno è riuscito a convincerla del suo errore. Io sono diventato nipote della signora Adalgisa solamente perchè le ero più vicino. È una fissazione nata per contiguità; la qual cosa non è infrequente. Ora mi càpita, purtroppo, di essere un perseguitato di questa disgraziata donna. Io me la trovo fra i piedi quando meno me lo aspetterei, come questa sera, ad esempio. Non nego che la cosa sia sgradevole... Sì, tanto sgradevole che faccio loro le mie più sentite scuse. Ma, d'altra parte, come si può avversare una povera pazza?... Come si può metterla alla porta?... Sarebbe peggio e la sua mania tranquilla potrebbe tramutarsi in pazzia furiosa... con quale danno alla mia persona, lor signori possono facilmente vedere!... Per questo, e non per altro, sono a pregarli di volerla ricevere e di non dare nessuna importanza a quanto sarà per dire; di assecondarla anzi, sempre pensando che ella non ha niente a che fare con me, e che si tratta solo di una povera pazza.

Lo zio Tomaso e lo zio Antonio si guardarono, mi guardarono, dopo il mio sproloquio, poi uscirono in una risata omerica.

— Fatela entrare, fatela entrare — disse lo zio Pertica rivolto al cameriere.

Il cameriere uscì. Giacometta non rifiatava.

Tutti guardavano verso la porta che si dischiuse ad un tratto. Ed ecco farsi nel vano ed avanzare tutta pompeggiante, la mia barocca consanguinea.

Si era compiuta ancor più con l'aggiunta di una rosa gialla fra i capelli e con un ventaglio di piume gialle appartenute a chissà quale volatile.

Non appena fu su la soglia si inchinò facendo ballare l'ampissimo seno poi, dopo aver sorriso dai piccoli lacrimosi occhi ai bargigli del mento, sostò perplessa e mortificata dal nostro impassibile silenzio.

Stette così qualche istante poi, raccolto fra l'indice e il pollice della mano destra, un lembo della serica veste e messe in mostra le calze e gli scarpini gialli, avanzò di qualche passo e domandò con la sua più piccola voce:

— È permesso?...

Giacometta non trattenne il riso, ma lo zio Pertica rispose:

— Si accomodi.

— Grazie, signore... — riprese donna Adalgisa inchinandosi di bel nuovo. — Grazie per la sua finezza!

Mosse ancora qualche passo e, giunta vicino alla tavola si fermò.

Ella certo si era preparata un bello e lungo discorso di occasione; ma l'imbarazzo causatole dall'accoglienza che non si attendeva non le permise di usufruirne, la qual cosa le destò un subito e grande dispetto.

Com'era ben naturale tale dispetto si riversò su di me tanto che, mutato volto e cercata una voce più familiare e cioè più aspra e nemica, mi interpellò come segue:

— E tu non parli?... È così che ricevi tua zia?...

Com'era prevedibile, a tale domanda seguì una sonora risata la quale finì di sconcertare la mia zia color zafferano. Questa si fermò a scrutare il mio volto impassibile, passando quindi a considerare la rubiconda cera dei due uccellatori, dopodichè per non saper più quale atteggiamento prendere, rise a sua volta e disse:

— Hanno ragione di essere allegri!... Sì, hanno davvero ragione!... Si è visto mai, infatti, un nipote tanto screanzato quanto questo mio signor Francesco che non si alza neppure per ricevere sua zia?...

Io solo rimanevo muto e impassibile come mi ero proposto.

— Mi perdoneranno se mi presento così... — riprese donna Adalgisa. — Ero venuta per far la conoscenza di questa Giacomettina nostra!

Si guardò intorno e, afferrata una sedia la trasse a sè.

— Mi permettono?

— Si accomodi!

— Grazie per la loro finezza! Sono proprio stanca. Si figurino che sono stata in giro tutt'oggi per far delle compere e per annunziare il fidanzamento del nostro Checco...

Io la fulminavo con gli occhi, ma ella aveva ormai preso l'abbrivo.

— Se sapessero la mia felicità! Nessuno certo può immaginarla! — riprese aprendo il ventaglio di piume. — Perchè io non ho vissuto che per questo ragazzo e si può dire che mi sono tolto il boccone di bocca per darlo a lui!...

Si sventolò più forte, tanto era il calore che le proveniva dal non poter dire tutto quello che avrebbe voluto e, per non perdere le staffe e mostrare quale e quanto fosse il suo interessamento per quella ch'ella chiamava già la fortuna della famiglia Balduino, esclamò:

— Ma quanto è bella questa Giacomettina nostra!...

Dopodichè sorrise al lume, agli uccellatori, al cameriere, a sè stessa, che si vedeva riflessa nel pallido fondo di una fra le grandi specchiere della sala. Sorrise e ricominciò, entrando in argomento, questa volta:

— Già, nella vita, l'amore è tutto. Si ha un bel parlare, ma quando l'amore non c'è più, non c'è più niente. Checco lo sa come la penso io. Dopo la morte del mio povero marito che era tutto il mio passatempo...

Veramente l'ilarità ch'ella veniva destando non la confortava troppo e lo si vedeva da certi corrugamenti delle sue foltissime sopracciglia; però siccome, com'ella fermamente credeva, c'era di mezzo il suo interesse, aveva tollerato ed era disposta a tollerare fino all'ultimo, pur di riuscire allo scopo suo che era quello di ficcare il suo rosso naso nelle cose che non la riguardavano e di combinare il matrimonio e di farsi accettare come parente dai signori Maldi.

— ... ho detto passatempo — riprese — perchè il mio povero marito era tutto, per me. Oh, vorrei che tutte le unioni riuscissero come la nostra! Non c'è stato mai niente da dire fra me e Giovanni. È ben vero che la buona moglie fa il buon marito, ma Giovanni era un vero eccesso... sì, volevo dire un esempio, una epigrafe...

Il carnevale era, quella notte, intorno al lume di casa Maldi.

— Del resto — continuò — a me piace la gente allegra e ridere fa buon sangue!

Ma rideva a denti stretti, il mio giallo spettacolo, e se avesse potuto, avrebbe certo dato la stura a tutti gli improperî della sua ricca collezione.

— I signori debbono pensare che io non ho avuta una grande istruzione e che non discendo da una famiglia così nobiliare come la loro. È ben vero che la buon'anima di mia madre era una contessa Pomaranci; ma non portò in dote alla buon'anima del mio povero padre neppure un quattrino. Anche quello fu un matrimonio di amore. Quando nacqui io, le ragazze bastava che sapessero fare la calza. Per la mia istruzione, i miei, spendevano trenta soldi al mese. Tenetelo bene in mente voi, signor Checco, che vi date tanto peso!... Se io avessi studiato quello che avete studiato voi, a quest'ora sarei Cagliostro!... E non c'è da ridere, perchè è vero!...

Si asciugò due perle sudorifere e riprese:

— Del resto io mi ero permessa di presentarmi a questi signori, prima di tutto per far la conoscenza di questa gemma — e indicava Giacometta — che sarà, domani, l'adornamento del nostro focolare; in secondo luogo per dare una forma... sì, per dare una forma canonica a questo lieto evento!... Checco ha voluto versare nel mio cuore paterno la sua felicità!... Povero ragazzo!... Quando lei era partita ha passato qualche giorno come in un mare di Procuste!... Non mangiava più... era in una continua ubiquità!.. Si fermò, impermalita questa volta, e chiese:

— Perchè ridono?...

Per qualche minuto non potè proseguire e stette sogguardando or l'uno or l'altro come disorientata finchè, colto il momento opportuno, si rivolse a me come una vipera per gridare:

— Mi meraviglio di te, poi, brutto porco!...

Ma donna Adalgisa era più cocciuta dell'ariete e quando si era ficcata un'idea nella sua zuccaccia melonina, non c'era caso che uomini od eventi potessero estirparla. Ella si era presentata in casa Maldi per uno scopo e a quello scopo voleva giungere, tetragona all'accoglienza, alle risa ed alle beffe che le erano toccate.

Ella adunque, dopo aver dette mille altre cose balorde, si pose una mano in seno e ne estrasse un involtino che posò sulla tavola. Poi, rivolta a Giacometta, incominciò a dire:

— Io sono sempre qua per riparare alle bestialità di questo mio nipote che non sa stare al mondo. Come si fa a fidanzarsi con un angelo di questa sfera e non pensare neppure a portargli un ricordino?... Il fidanzamento è una cosa sacra quanto il matrimonio consumato e bisogna celebrarlo con qualche gentile minchioneria... con qualche cosettina da niente, ma piena di onore!... Dunque siccome Francesco non ci ha pensato, ci ho pensato io...

E incominciò a svolgere il piccolo involto dal quale apparve una minuscola scatoletta di cartone.

— Oh, è una cosa che non ha pretese! — continuò; — una cosa degna di Checco che non può permettersi grandi lussi!... Però c'è del buongusto!... Il mio Francesco non si è arrischiato di offrire questa cosettina direttamente ed ha voluto, anche per far le cose in regola, ch'io venissi a portarla per chieder loro, nello stesso tempo, la mano di Giacomettina...

A tale colmo, a tale sfacciata improntitudine, a tale balorda cerimonia che la signora Adalgisa veniva inscenando, io non potei più reggere sì che scattai in piedi e gridai:

— Ma non è vero!... Ma non è vero niente!... Io li prego di non credere a una sola delle tante parole dette da questa donna!...

— Scusa... ma non è pazza?... — chiese Giacometta calma calma. — Allora perchè ti inquieti tanto?... Chi vuoi che le creda?...

— Che cosa?... — gridò la zia Adalgisa levandosi. — Pazza?... Chi è pazza?...

Nessuno le rispose. Ella, tutta accigliata, girò gli occhi intorno e riprese:

— I signori credono forse che io sia pazza?...

— Oh, no!... — risposero gli uccellatori.

— Mi pare che la signorina l'abbia detto, però! Io ci sento bene. E certe cose non si possono dire neppur per ischerzo! Basta... io non voglio far nascere una scena, e mi ritiro come sono arrivata. Però faccio notare a questi signori che non si tratta così una gentildonna!...

Quand'ebbe detto questo si levò e, senza salutar nessuno, si avviò verso la porta. Ma non aveva fatto dieci passi ancora che, presa dall'ira grande che la mordeva dentro, si rivolse di scatto verso di me e mi gridò fulminandomi con un'occhiataccia:

— Con te, poi, faremo i conti a casa, brutto carognone....

E così si licenziò molto nobilmente dalla presenza dei signori Maldi, la mia formidabile zia, squisita gentildonna.

XIV

Ebbene, sì, avevi ragione, Giacometta!... Avevi ragione!...

Il resto della sera non passò troppo lieta.

Giacometta aveva cambiato umore all'improvviso.

Mi ricordo che si parlava di Paolo e Virginia e che io avevo bonariamente osservato come un amore simile mi sarebbe parso troppo pastorale, troppo candido...

Giacometta non aveva detto niente; ma io, che la guardavo sempre, avevo notato una subita ombra negli occhi suoi e la sua fronte si era leggermente corrugata.

— Ho detto male, Giacometta?

Ella, per tutta risposta, aveva aperto un giornale e si era messa a leggere.

Gli zii se ne erano andati. Eravamo soli nella sala deserta.

— Giacometta?...

Niente!... Ormai era lontanissima ed impassibile.

— Sei inquieta, Giacometta?... Perchè... Giacometta?...

— Non mi seccare!...

E il silenzio più grande, e la più remota distanza eran discesi fra me e lei.

Così, senza che una parola fosse stata detta; senza che vi fosse stato un accenno o il principio di un permale.

Ora leggeva muta e accigliata ed io la guardavo sospirando.

Ciò che si soffre, quando si è innamorati per davvero, è cosa risaputa, dal più al meno, da tutta quanta l'umanità; ma la sofferenza si moltiplica e si esaspera là dove un povero innamorato si trova all'improvviso di fronte a qualche cosa che gli riesce inesplicabile, che lo sbalestra in un mondo di congetture, in un arruffìo di domande senza risposta, in un caos nel quale tanto più si addentra quanto più si sente disperdere. Perchè, in questi casi, l'amore ha la forma e l'inconcepibile voluttà di un lento suicidio. Un uomo si distrugge e lo sente... Ma non può farne a meno. Deve amare e morire, deve misurarsi con la sfinge, deve rispondere alle domande di lei che non ammettono mai risposta. È tutto un giuoco passionale senza equilibrio nel quale l'uomo porta quanto ha di energia intellettuale e fisica e la donna non porta quasi mai niente. O, per lo meno, se porta qualcosa e si distrugge a sua volta, non è certamente per lo stesso amore.

Ebbene, che avevo detto io, giudicando Paolo e Virginia?... Perchè sentivo di tornarle uggioso; io sentivo ch'ella mi respingeva da sè, stanca, annoiata, satura di ogni apparenza e sostanza.

Ella era un'altra creatura con un'anima diversissima da quella che le avevo conosciuta fino a quel punto.

Mi trovavo per strade e castelli dei quali non avevo immaginato l'esistenza e in cui, pur dovendo soggiornare, non sapevo come soggiornare.

E guardavo Giacometta, sospirando sempre più forte, nella speranza di attirare l'attenzione di lei. Ma è scritto che in amore, salvo eccezioni singolarmente rare, l'uno dei due debba soffrire; ed è scritto altresì che quanto più l'uno soffre, tanto più si inasprisca l'altro nell'esacerbargli la pena.

Questa strana legge presiede l'unione delle anime e dei corpi; ma guai all'amore che non conosca sofferenza! Niente è più in causa allora; e nessuna vera gioia può aprirsi alle misere creature senza mutamento.

V'è certamente una muta e oscura e altissima volontà che ci costringe al dolore, che ci prepara al dolore per guidarci più oltre, sempre più oltre, superata la nostra miseria, verso la pura gioia che si eterna nella immensità stellare. Agli occhi che guardano per entro le anime e i fatti del mondo, questa verità non può sfuggire. Noi siamo a una dura tormentata prova dal primo all'ultimo giorno del nostro vivere.

E la mia prova, cominciata già con l'inopinato salto che l'amore m'aveva costretto a fare, si inaspriva ora in più complicate apparenze, in più sottili dissonanze.

Il silenzio si faceva più penoso, per me, di minuto in minuto: un silenzio ostile nel quale pareva covasse la tempesta destinata a tutto travolgere.

Io pensavo che Giacometta avesse indovinato tutto; che la mia sciocca zia l'avesse urtata fino alla nausea; che io non potessi apparirle ormai se non come un povero diavolo che non poteva disporre neppure della propria volontà.

E non mi dava modo di parlare, evitava guardarmi; si scansava infastidita, se, per caso, una mia mano, abbandonata sulla tavola, le sfiorava il gomito sul quale aveva appoggiato il capo, sempre volgendosi dalla parte nella quale non potevo trovarmi senza possedere il dono della ubiquità.

— Scusa, Giacometta... che cosa ti ho fatto?

Non rispose.

— Ho detto qualcosa che non ti sia piaciuto?

Voltò il giornale e si chinò ancor più sul medesimo come se tutta la sua attenzione fosse assorbita chissà da quale racconto.

— Se ho potuto dispiacerti te ne chiedo scusa!

Nè mi accorgevo che la mia sciocca umiltà esercitava su di lei l'effetto opposto a quello che mi attendevo.

— Dimmi almeno che cosa ti ho fatto?...

Senza levare il capo dal giornale, rispose:

— Mi hai annoiata!... Vuoi saperlo?

Allora vidi tutto il mio mondo crollare; vidi le speranze che m'erano state sorelle svanire nella livida uniformità della mia povera vita; tutto mi si chiuse d'innanzi agli occhi della mente e mi sentii davvero morire in una squallida miseria di anni senza volto perchè senza amore.

Alla mia candida semplicità non poteva apparire se non come definitivo, l'improvviso atteggiamento di Giacometta.

E certo dovevo esser pallido e stravolto perchè ella volse rapidamente gli occhi verso di me e si affrettò a riabbassarli sul giornale accigliandosi ancor più.

— Allora... tutto è finito?... Tutto è finito, Giacometta?... Rispondimi!...

Si levò; piegò il giornale con minuziosa cura; si guardò intorno e si mosse per avviarsi.

— Mi lasci così?...

Si fermò appoggiando una mano alla tavola e mi chiese a sua volta con la maggiore indifferenza:

— Come dovrei lasciarti?

Non solo la sua voce era fredda, ma da tutta la sua persona appariva una grandissima noia.

— Non so... Credo di non meritare questo trattamento!...

— Quale trattamento?... Io non ti so capire davvero!...

Non aggiunsi altre parole.

Giacometta si avviò, lenta e dinoccolata, verso la porta. Ella era veramente un'altra creatura e un'anima diversa era in lei. Quale improvviso dèmone la possedeva? Tutta la sua giovinezza pareva svanita in un infinito disgusto e pareva che la più amara esperienza della terribile inutilità della vita l'avesse smagata sì da renderla insensibile e tanto lontana da ogni cosa e da ogni creatura da non avvertirne la presenza.

Anche il suo volto non era più quello di una bimba; gli occhi avevano perduto la loro azzurra e quieta serenità per farsi torbidi e oscuri; i lineamenti non avevan la morbidezza disciolta de' suoi diciassett'anni, ma si erano induriti fissandosi in una linea aspra.

Giunse così fino alla porta, camminando come se una suprema stanchezza la stroncasse e non fosse in grado di muovere il passo sicuro.

Giunta all'uscita si fermò presso una mensola e si guardò nella grande specchiera situata all'angolo della sala.

C'erano dinnanzi a lei, sulla mensola, tre piccole rare ceramiche. Le guardò un poco poi con gesto inatteso e rapidissimo, le afferrò l'una dopo l'altra e le scagliò contro il muro opposto.

Ero sbigottito.

Come se niente fosse pose la mano sulla maniglia della porta; ma, prima di uscire, si rivolse a me e con voce strascicata disse:

— Vi prego di non ritornare se non sarò io a chiamarvi!

Poi uscì.

Ed io rimasi come il gavitello disancorato che appare e scompare sulla cresta dei marosi.

XV

Non suicidatevi. Sarebbe un imperdonabile errore.

Era notte alta e ancora giravo per le deserte vie della città semibuia.

Avevo deciso di non ritornare a casa. Dovevo andarmene lontano da tutto e da tutti; dovevo lasciare, una volta per sempre, la signora Adalgisa e la piccola città grugnita fra i suoi tre campanili.

Già che la fortuna mi aveva creato libero, dovevo valermi della mia libertà.

Quante mai volte non m'ero io soffermato, sul tramonto, ad ascoltare il rombo di un treno che si allontanava verso l'imminente sera? E quante mai volte, per un senso di penata impotenza, non avevo sospirato dietro quel rombo che, pareva a me, fosse avviato verso tutte le terre promesse, verso tutte le musiche lontane? Oh, potersi lanciare nel solco del sogno; nella luminosa scia della nave che scomparirà fra breve, che non sarà più niente fra breve ma una esilissima traccia di fumo nell'ultimo cielo!.

Tutta la mia passionata anima voleva ora, voleva fortemente, non già per fuggire il dolore, ma per non languire nel dolore. Portarsi via la propria sofferenza; essere una faccia pallida e ignota nella grande fiumana degli ignoti, via per le strade della terra.

Io volevo questo.

Quella notte c'era, anche in me, un filo di tragedia.

Sì, signori e signore, io camminavo quella notte, sull'orlo di un precipizio, perchè Giacometta aveva fatto di me quell'uso che si fa di una sigaretta che non garba: la si accende appena e la si lascia incenerire sull'orlo di un portacenere.

Io potevo incenerire mandando il mio esile fiocco di sogni per l'aria; ma Giacometta non si sarebbe commossa.

Ormai lo sapevo. Ero partito dalla casa di lei irritatissimo contro me stesso e più che deciso di punirmi perchè non volevo soffrire come soffrivo.

Questo era il filo di tragedia.

E avevo incominciato a correre per la notte, non per la furia di arrivare chè non dovevo arrivare proprio in nessun luogo; ma per stordirmi.

Poi, dopo aver corso per un bel pezzo, l'affanno mi aveva costretto ad aver meno fretta.

Ma volevo finirla comunque fosse.

Solo mi capitava di non saper sciegliere il modo per porre ad effetto una tale decisione.

Non avevo neppure una pistola.

Ve lo giuro.

Ero stato, fino allora, un giovane molto calmo e molto lontano da qualsiasi idea estrema.

Ma allora, che mi sarebbe abbisognata, mi accorgevo di non aver neppure una pistola.

Allora m'incamminai verso il fiume, ma tornai indietro molto prima di esservi arrivato. Cioè... sbagliai strada...

Insomma, fa lo stesso! Tornai indietro!

Dopo il fiume mi venne in mente di finirla aprendo il rubinetto del gas...

Però pensai a tempo che in casa mia non potevo darmi a questo scialo perchè di gas non ce n'era.

Pensai ancora di gettarmi da una finestra... Ma avevo già provato un'altra volta e non m'ero fatto niente.

E allora?...

Continuavo a camminare per la notte allorchè mi colpì l'orecchio il suono prodotto, sul selciato delle vie deserte, da uno di quei pesanti carri trainati dai buoi, che sogliono usare i contadini del mio paese.

Si udiva il trabalzare delle basse e pesanti ruote da ciottolo a ciottolo, da buca a buca e si udiva uno scatenìo di ferramenta accompagnato dal metallico dondolio della caviglia delle anella. A quando a quando i vetri delle finestre vibravano al passare del carro che pareva scuotesse le piccole case dalle fondamenta.

Un bove muggì. Si udì una porta chiudersi di forza. Sotto la rada linea dei fanali la strada dormiva luccicando ne' suoi ciottoli.

Poi una voce maschia si levò a cantare. Mi fermai. Musica e parole eran tutt'uno; semplici e chiare l'una e le altre.

Torna al tu' paès

Girometta...

torna al tu' paès...

Una canzone dei secoli sopra un ritmo malinconico.

Così come canta il popolo, sempre.

Come canta quando non prende a prestito, da chi non ha l'anima sua, la musica che non vive perchè non rispecchia un po' di universo e non piange o ride nel cuore delle moltitudini.

Torna al tu' paès

Girometta...

torna al tu' paès...

Mi scendeva al cuore, ascoltando, una più umana quietudine... l'ombra sacra di un focolare; il sorriso di una placida creatura.

Ma Girometta?... Così appunto le persone del popolo chiamavano la mia bella crudele.

Girometta!... C'era un sentore di arie lontane, di costumi diversi, di pace infinita. Girometta dal bel neo a sommo della guancia sinistra e dalla candida parrucca; Girometta uscita dal chiostro sognando gavotte ed abatini e cavalieri serventi... Girometta che avrebbe combinato il suo adulterio con candore monacale, senza pensare al peccato, ma solo per distrazione come avviene qualche volta quando la vita si aduggia e il marito diventa una cosa che mangia e dorme e si ricorda di Girometta solo qualche volta nel giro di una settimana, perchè il letto è tepido e la giovane moglie non dorme...

Sì, Girometta, sì!..

Tu non potrai essere moglie perchè sei troppo dell'amore. Tu sarai sempre una spaesata nel regno del matrimonio.

Torna al tu' paès

Girometta...

torna al tu' paès...

Poi l'adolescente che cantava, lasciò morire la sua chiara voce lentamente nell'ultima cadenza lunghissima e non riprese.

Le case dalle finestre aperte, le vecchie vecchie case della mia Tebaide, ascoltavano ancora; aspettavano ancora che Girometta rivivesse, come una volta.

Torna al tuo paese... Girometta...

Queste sole parole, queste sole parole udivo e riudivo nel silenzio del mio essere... queste sole parole come un ammonimento solenne.

Ma quale era il paese di Girometta?

Non il mio, non quello dove era nata, non un altro purchessia...

Quale era il paese di Girometta?...

Forse stava nel giro di un'ora... forse nel battito di un secondo... forse nell'ultima stella sperduta in fondo all'universo...

Perchè noi abbiamo inventato le parole per creare confini su confini e ad un tratto ci accorgiamo di essere al di là di ogni finzione, al di là di ogni figurazione: soli... ma terribilmente soli nella smisurata profondità del niente.

Noi stessi qualche volta ci accorgiamo di non avere, di non poter avere un paese.

Potevo io adunque fissare un luogo dove l'anima di Girometta fosse apparsa e potesse dimorare in perfetto equilibrio, fusa e confusa con le cose del mondo?

Ella, in realtà, ritornava di continuo da dove era venuta e cioè nell'ombra, nel mistero dell'indagabile. Ella si perdeva come era apparsa e senza saperlo. Ah, Girometta, mio soave mistero stellare, io allora ti consacravo la mia pena e il mio tormentato pensiero con tale profonda e spontanea dedizione che facesti male a non accorgertene.

Facesti male perchè questa era una ricchezza vera e, se tu ben guardi, al mondo, per chi non viva solo per il ventre, non ve ne sono altre.

Ripresi la strada verso la luce che si annunziava dalle lontananze del cielo. E camminai, camminai benchè incominciassi a sentirmi stanco.

Un senso di pesantezza mi gravava sugli occhi. Uscii per la campagna. Sedetti sulla proda di un fosso, vicino a un mucchio di ghiaia. Incominciarono a cinguettare i passeri. Da una pieve si udì una campana che suonava l'alba.

Quale era ormai il mio giardino nel mondo?

Mi abbandonai col dorso sul mucchio di ghiaia che non mi parve duro.

Ah Girometta!... In fondo a quale strada eri tu allora?...

Dove andavi... tanto mai lontana... sotto l'alba, con lo squillo di una pieve?...

Dove... dove andavi tu... Girometta?...

E chiusi gli occhi sulla strada sterminata di Girometta...

E mi addormentai.

XVI

Non raccontate mai alle vecchie pettegole ciò che avete fatto con l'amor vostro.

Riuscii ad entrare in casa verso le sette quando la signora Adalgisa era fuori per la spesa. Era mia intenzione di non veder più mia zia e di non aver con lei spiegazioni. Il proposito di andarmene per sempre non era tramontato in me, anzi si era rafforzato per nuove considerazioni ponderate.

Al mondo non avevo, di veramente mio, che una cosa della quale era necessario mi disfacessi.

Mio padre m'aveva lasciato in eredità le gioie della famiglia.

Oh, le gioie della famiglia Balduino!...

Sì, signori miei, erano poca cosa e non certo tale da paragonarsi al tesoro della Basilica di San Marco; però potevo ricavarne qualche migliaio di lire e cioè il necessario per andarmene.

Presi adunque i piccoli e i grandi astucci, li infilai nelle tasche ed uscii.

Necessariamente la vendita non fu cosa facile ma, dopo vari rifiuti, trovai, in un vicoletto, un vecchio strozzino che comprò tutto per duemila lire.

Ora il problema si complicava. Come ritornare a casa senza incontrare la signora Adalgisa? E non volevo partire senza un vestito e un paio di scarpe e la bicicletta. Affrontai la burrasca.

Mi dissi:

— Tu ti farai di smalto, Francesco Balduino!

Entrai in casa che eran forse le undici del mattino e, la prima cosa che vidi quando aprii la porta, fu la faccia della signora Adalgisa.

Ora, quale non fu la mia sorpresa, quando mi accorsi che mia zia mi sorrideva? Mi domandò:

— Che cos'hai fatto ragazzo mio? Sei tanto pallido!... Hai due occhiaie che sembri malato. Ah, Francesco, non bisogna approfittare così della giovinezza!

E questo?... Che voleva dir questo?... Dovevano davvero toccare a me tutte le esperienze nel più breve tempo possibile?

Mi avviai verso la mia stanza. Donna Adalgisa mi tenne dietro.

— Zia... Vorrei dormire...

— Sì, caro, sì! Ma aspetta che ti faccia un caffè.

— Non lo prendo, zia.

— Vuoi due uova?

— No, vi ringrazio.

— Prendi due uova. Ti faranno bene dopo la notte che hai passata.

E che ne sapeva lei?

— Non ti ho sentito rientrare questa notte, ed ho pensato che tu fossi rimasto con Giacometta.

— Che cosa?

— Lo so bene che certe faccende non si raccontano — riprese fra il furbo e lo scherzoso — ... però bambino mio, non bisogna strapazzarsi tanto...

L'ascoltavo senza risponderle.

— Dunque ti porto due uova frullate nel caffè?

— No, grazie.

— Ma ci vogliono, tesoro mio, ci vogliono!... Chissà che cosa avrete fatto!...

Incominciai a girare per la stanza e a spogliarmi.

— Ti vuol bene veramente quella ragazza...

Un passerotto volò sulla finestra, nel sole d'oro della mia finestra.

— ... e te ne ha dato anche una bella prova!...

Entrò, dal giardino, un calabrone che si dette a ronzare furiosamente.

— Perchè, non tutte, credi a me, non tutte sono disposte a certi anticipi!...

Gettai il colletto sul canterale.

— Come sei rabbioso!... È questo il bell'effetto che ti fa l'amore?...

Mi tolsi una scarpa e la lanciai lontano.

— Di' un po': era davvero come va?...

La seconda scarpa raggiunse la prima.

— Perchè le ragazze d'oggigiorno, molte volte, lasciano la loro primizia fra gli spini della strada. Non è più come una volta che si poteva giurare di trovarle come le aveva fatte la mamma!... Noi portavamo al marito proprio il fiore... sai?... il fiore!...

Dio, che schifo!...

E avevo una voglia matta di dirle:

— E qual fiore potevate portar voi, monna Schifalpoco, con quel naso come una durlindana?...

Questo avrei voluto dirle ma mi trattenni. Mi annoiava parlare. Poi non ne valeva la pena.

Prima di togliermi gli ultimi indumenti attendevo che il mio domestico tormento se ne andasse. Ma ella non ci sentiva da quest'orecchio; era presa dalla curiosità delle vecchie sudicione che vogliono sapere come sono andate le cose.

Dunque la nostra vita in comune mi era valsa a far sì che la signora Adalgisa conoscesse l'anima mia quanto gli anelli di Saturno? Ma poteva ella credere ch'io fossi stato disposto (dato per vero ciò che supponeva) a raccontarle la faccenda ne' suoi particolari? Certo il mio viso non doveva apparirle calmo e sereno se ad un tratto mi domandò:

— Ma si può sapere che cos'hai?

— Sono stanco!

— E va bene... sarai stanco... ma potresti anche confidarti alla tua vecchia zia.

Allora quel po' di pazienza che mi rimaneva se ne andò in fumo.

— Sapete quel che vi ho a dire?... Che mi avete seccato!...

— Eh!... che furia!... Non ti si può più parlare oramai!... Sì, me ne vado... me ne vado... ma non diremo che da ieri sera tu sia stato troppo gentile con chi ti vuol bene!... Hai ragione che ci è di mezzo qualcosa di molto più importante... altrimenti...

E, su tale minaccia, mi voltò le terga e se ne andò.

Non appena rimasi solo, mia prima cura fu quella di chiudere l'uscio a doppia mandata. Volevo assicurarmi la solitudine. Mi accostai poi alla finestra... guardai nel mio ex giardino incantato...

Tutto fioriva, tutto era sereno. Un chiaro d'acqua, nel cuor di una vasca verde di muffe, rispecchiava la pace addormentata del sereno.

Una siepe di tamerici, come una nebbia turchiniccia chiudeva un prato...

C'era il sole del mattino... c'erano i fiori del ciliegio... c'era un'allodola altissima che cantava l'inno di una larga[1] pastora... c'eri tu, Primavera!... Ma nel mio cuore cadevan le foglie di un albero morto in fondo a una strada... in fondo a un giardino senza nome...

Mi ritrassi e m'abbandonai sul mio piccolo letto bianco. Poi il sonno troncò la favola triste e, in me, non fu più niente, se non un grande riposo.

XVII

Qualche volta partire a tempo vuol dire raccogliere a tempo.

Già sopravveniva la sera quando mi destai. Ritornai alla vita come se arrivassi per la prima volta da una incommensurata distanza. Non ricordavo più niente; non sapevo più dove mi trovassi; non avevo nozione nè dell'ora nè del tempo nè del mio essere.

Le prime idee che mi ritornarono alla mente furono tronche e disparate; mi ci volle fatica per raccogliere la memoria e porre l'anima mia sulla strada quotidiana, dietro le orme interrotte.

Comunque fosse, per lungo tempo rimase in me un singolare smarrimento come se, in verità, la morte mi avesse preso e abbandonato di bel nuovo sulle vie della terra.

Girai per la stanza senza sapere che volessi nè che mi cercassi. Mi accostai al canterale, poi al tavolo e gli occhi miei si posavano perdutamente sulle cose senza riconoscerle.

Fu un canto che mi richiamò alla finzione dei giorni; un canto che mi arrivò dal fondo del giardino, addolcito dalla lontananza.

Era Principina, il piccolo amore del silenzio.

Di un subito, la trama che il sonno aveva troncata, riprese il palpito del mio cuore, la vita del mio cervello.

Guardai l'orologio. Erano le sette del pomeriggio. Giusto l'ora decisa per la mia partenza.

Ciò che avevo fissato doveva compiersi. Mentre andavo e venivo per la stanza, mi accadde di vedere, vicino alla finestra, un involtino bianco. Lo guardai dapprima distrattamente senza farne gran caso. Mi parve un po' di carta accartocciata ch'io stesso, molto verosimilmente, avevo gettato in quell'angolo; volli accertarmene.

Era una lettera piegata in modo da contenere un ciottolo.

Evidentemente era arrivata dal giardino durante il mio sonno.

L'aprii; riconobbi la scrittura di Giacometta.

Diceva:

« La ghirlandella è sempre al suo posto ».

Ebbene, signori miei, quando ebbi letta quella frase, divenni pallido, ebbi un attimo di dubbio e una grande stretta al cuore, ma dissi:

— Se la ghirlandella c'è ancora... tanti saluti!...

E continuai i miei preparativi.

Ormai mi si era ficcata in mente l'idea della partenza con una fissità da incubo.

— Tu devi andartene — mi dicevo — devi andartene!... Non è giusto che ti si debba far soffrire così. Parti finchè puoi farlo... finchè hai ancora un po' di volontà che ti regge. Domani non saresti più in tempo.

Sapevo che la mia signora zia, verso le sette e mezza, era sempre in chiesa. L'ora era adunque propizia. Feci un giro di ispezione per accertarmi se, anche quella sera, aveva seguito il suo costume e, quando non mi rimase dubbio, infilai il mio sacco a spalla, presi la bicicletta e senza rivolgermi, senza guardare nè a destra nè a sinistra, ma solo e diritto dinnanzi a me, infilai le scale e in quattro salti fui nella strada.

Il Borgo dei Cotogni era affollato in quell'ora, ma non feci che inforcare la bicicletta e scivolar via fra uomini e vetture pedalando furiosamente.

In un battibaleno fui alla porta Schiavonìa, attraversai il ponte sul fiume e mi lanciai, in una corsa pazza, per la grande via maestra che costeggiava i colli proseguendo, sempre diritta, fra campi e ville.

Rallentai l'andatura quando riconobbi di essere ormai fuori della zona della mia Tebaide. Scelsi il sentieruccio che correva fra i mucchi della ghiaia e il fosso, come quello più agevole a percorrersi in bicicletta; mi levai sul torso; l'anima mia ritornò in comunione con le cose del mondo.

Mancavano ancora sette chilometri prima di arrivare alla città più vicina e, benchè la luce si spengesse sempre più di secondo in secondo, non provavo ansietà di arrivare.

Ormai me ne andavo per la terra... ma dove?... ma verso quale meta?... Non lo sapevo; non m'importava saperlo. Affidavo me stesso al destino. Il primo vento che passa mi porterà al nord o al sud; la prima corrente mi trascinerà dove vuole. Ciò che sarà di me, sarà sempre bene.

Perchè accorarsi dietro il mistero dei giorni? Io seguivo il mio istinto che mi conduceva verso l'ignoto; immaginando tuttavia che l'ignoto sarebbe stato sempre più lontano, benchè, in realtà, fosse in me e nell'irraggiungibile. Ma la dolce tristezza di partire e di ripartire era già padrona dello spirito mio fin da quel tempo; l'amarezza ineffabile di rifarsi sempre da capo, di soffrire ancora per ancora sperare nella gioia, io la conoscevo fin da quei giorni remoti ormai e inabissati nell'ombra che dovrà inghiottirmi.

Io sapevo fin da allora che il mio destino segnato era la solitudine perchè ciò che agli altri era pace, riusciva tormento al mio spirito e ciò che i miei simili sognavano come un confine desiderato, appariva agli occhi miei come una insoffribile catena.

Io dovevo partire e ripartire; essere il pellegrino di tutti i soli; il pastore che appare un attimo per una strada remota, con la sua stella, dietro una bianca gregge di sogni.

Questa era la mia innamorata malinconia; questo il cuor mio di passante; questa l'ebbra canzone e l'elegia de' miei giorni.

Mi intenderà forse chi ha ascoltato, come io ascoltavo ogni notte, fanciullo, il rombo di un treno perdersi nella remota distanza fino al confine della nostalgia e più in là della nostalgia; mi intenderà chi ha avuto sempre una nomade speranza in fondo al suo sistemato cuore e con quella ha riposato, sognando, il giorno in cui la vita gli è apparsa più vana e monotona e gli uomini sedentarî più insopportabili; e meglio mi intenderà ancora colui che sente morire nella quotidiana povertà dei giorni, ogni poesia: e sogna e spera e inutilmente cerca la nuova parola di Dio, il nuovo rito dell'amore, la freschezza di una nuova acqua fontana che scenda fra le genti abbrutite e angosciate, come una purificazione.

Costoro m'intenderanno quando ci sarà dato incontrarci in un silenzio propizio; soli costoro che sono i poeti del mondo.

E se anche dovessi rimanere senza compagno come sempre sono stato fino a questo punto della vita mia, non mi dorrei ora, come pure più tardi, fino all'attimo mio del trapasso; non mi dorrei della decisione che presi quella sera quando mi affidai al primo vento che passava e alla prima corrente, allorchè mi dissi:

Ciò che sarà di me, sarà sempre bene!

E il canto più remoto fu quello dell'amor mio; e la strada più lontana quella del mio desiderio; e la sete del mistero fu la mia sola sete.

La luce era ancora sui colli in una delicata bordatura di croco e già cominciavano a comparire le stelle. Io portavo con me l'eredità della mia malinconia.

E ciò farà sorridere, voi, signori, che mi leggete nei vostri salotti dal discreto profumo e bene illuminati..., vi farà sorridere un poco perchè è giusto che così sia con chi, come me, è stato il giullare della propria vita! Ha fatto cioè della vita non un tutto organico come un sistema filosofico; non una cosa ordinata giorno per giorno: un po' per la donna, un po' per gli affari, o per l'arte, o per la famiglia... No!... Anzi ha gettata questa sua vita al primo vento che passava: senza temere la povertà, senza impaurirsi della solitudine... ma solo per partire e ripartire... solo per cercare Iddio e l'amore nel solco della sua tristezza, nell'impeto della sua gioia, nell'angoscia eterna del suo cuore sempre innamorato e sempre insoddisfatto.

Sì, io sono stato il giullare della mia vita, signori e signore, e questa cosa tremendamente seria, per voi, io me la sono giuocata al giuoco di tutte le esperienze, incominciando dai diciannove anni.

Me la son giuocata a tutti i giuochi; l'ho gettata alla prima corrente, sempre felice di poter vivere un giorno che non sapevo e un'ora che non avevo preveduta.

Ma anche quella sera, pure seguendo il mio istinto, ero più innamorato che mai.

Io ero perduto in te, Girometta dall'ignoto paese, e avevo, pure allontanandomi, ferma speranza di rivederti.

Giunsi a Bologna a notte alta.

Scesi ad un primo albergo.

Fin da quel tempo, benchè povero, non sapevo rassegnarmi a risparmiare per battere la strada della povera gente come me. Il mio primo pensiero fu quello di scrivere a Giacometta.

Fui felice quando mi portarono innanzi, nella bene addobbata sala di scrittura, dove presi posto, della carta da lettere e delle buste come non avevo usate mai.

E, Giacometta... (ma in fondo a quale strada sarai ora?...) ero quasi felice di poterti scrivere così riccamente.

Però quando incominciai e fui tutto solo, con te sola, la mia commozione mi vinse e dimenticai il luogo e gli accessorî.

Lo ricordi tu quel che ti scrissi allora?... Quella lettera mia, in fondo a quale cassetto sarà ancora, se ancora esiste?...

Mi parve di averti dette tante cose belle e tu lo sentisti, perchè due giorni dopo, quando mi levai, c'era un tuo telegramma che mi aspettava.

Un tuo telegramma come un mattutino squillo di campane d'argento:

« Amore amore — aspettami domani a mezzogiorno — aspettami all'albergo amore mio

Giacometta. »

E forse non ti eri accorta di avere scritto in versi. Ah, quanto, quanto eri mai bella, mia dolce Bologna, in quel mattino della fine di aprile!

XVIII

Già, ma ne valeva la pena?

In quel mattino della fine di aprile, tu, Bologna, splendevi ne' tuoi rossi mattoni al sole nuovo e ti allietavi della tua placida gente, via per le piazze e i porticati che ti danno il tuo volto di città discreta, con molte ombre e molti riposati ritrovi per l'amore che vuol nascondersi.

Ridevi nel palazzo di Re Enzo, nel tuo Nettuno che non gocciola più, nel tuo Pavaglione dove passano le figliuole tue più belle e fresche e possenti, nate per l'amore che sempre vuol trovare una nuova canzone.

E se Dante disse male di te, ebbe torto, il padre nostro un poco arcigno; e certo non aveva vissuto il tuo grande e generoso cuore.

E dir male di chi si prodiga è certo un dir male della Divina Provvidenza.

Quando uscii dall'albergo cantavo. Avrei data l'anima mia al primo passante. Sorridevo a tutto e tutto mi sorrideva.

Dove andavo?... Per il sole, per la soavissima mattina di quella fine di aprile. Andavo ad aspettar l'amore. Andavo ad incontrarlo, chè mi pareva dovergli abbreviare la strada.

A quando a quando guardavo l'orologio e mi dicevo:

— Ora sarà a Faenza... ora sarà a Castel Bolognese...

E la vedevo, in un rosso compartimento di prima classe, guardar dal finestrino la campagna che fuggiva, gli occhi assorti sui filari degli olmi, sui festoni delle viti, sulle case, sulle ville, sui turchini dolcissimi colli della nostra Romagna. La vedevo colta dalla mia stessa ansia nervosa che non le permetteva l'abbandono, il riposo; ma la stancava anzitempo in un'attesa snervante.

Mi fermai alla vetrina di un fioraio, sotto i porticati di via Indipendenza. Comprai per quaranta lire di rose che feci mandare all'albergo per Giacometta.

Ritornai all'albergo. In preda a una vera sofferenza fisica, mi trascinai di sala in sala; sedetti su tutte le poltrone, mi abbandonai da un divano all'altro; implorai l'orologio grifagno, il quale si appuntava sempre sugli stessi numeri. Ciascun minuto ebbe il suo profondo sospiro. Certi stiramenti nervosi, che non potevo assolutamente vincere, mi lasciavano in una profonda depressione.

E finalmente mancò un quarto d'ora, mancarono dieci, otto, sette minuti...

Che avrei detto rivedendola? Ah, che non si trovano parole là dove il commosso amore vive la sua prima giornata!... Sentivo che non avrei parlato. Non avevo niente da dire. O meglio: tutto quanto era in me di vita, di spasimo, di sincera offerta, poteva leggersi negli occhi miei, nella mia pallida faccia.

Appunto perchè ogni mia facoltà non viveva che della passione mia. E non c'era posto per altre cose nè per pensieri diversi; nè, i miei diciannove anni, potevano parlare come parlano i trenta, i quaranta, quando l'amore è passato per tante strade e conosce le sue parole.

Io allora ero, appunto, di una semplicità francescana. Ma la giovinezza non si specchia mai alla sua fonte freschissima e non sa compiacersi. Vive e trascorre affannando, finchè non sosti, non si rivolga a guardare e sospiri, ed è ormai per morire!

Non potendo più attendere nella penombra della grande sala a vetri, mi feci sulla porta dell'albergo e vidi arrivare l'omnibus. Veniva dal fondo del vicolo, pencolando, sovraccarico di bauli e di valige.

Io non vidi chi fosse dentro a quel grande cassone a vetri; ma sentii che tu c'eri, Girometta!...

Ti chiamo Girometta perchè sei il fiore della mia canzone; perchè ora, che ti faccio rivivere, ti ritrovo come allora e ti sto intorno con lo stesso commovimento amoroso.

Poi l'omnibus si fermò e ci vedemmo.

Tu ti levasti di scatto dal rosso sedile sporgendoti verso i vetri chiusi; ridendo e agitando le mani...

Io arrivai fino allo sportello del pesante veicolo. Ma prima ne discesero due inglesi, una enorme signora, un funzionario, una dama segaligna e il suo pargolo dai capelli color canapa... poi eccoti eccoti eccoti, mia festante creatura... tormento e amore mio indimenticato!...

Ti offrii le braccia e tu ti gettasti al mio collo.

— Perchè, perchè lasciarmi così?...

Non ti seppi dire il perchè e fu molto meglio.

Dopo, rivolgendoti a una signora di mezza età che attendeva, placidamente sorridendo, dietro di te, mi dicesti:

— Questa è la signora Zeffira che mi ha accompagnato. È una vecchia buona amica nostra.

E alla signora Zeffira dicesti:

— Questo è il signor Francesco Balduino... il mio Franzi di cui le ho parlato.

Ci porgemmo la mano, la signora Zeffira ed io e questo fu tutto quanto si fece fra me e lei.

Quando fummo dentro l'albergo, Giacometta mi domandò:

— Che camera hai, tu?

— Io ho il numero 63, al terzo piano.

Allora Giacometta si diresse al bureau e disse al direttore:

— Io voglio stare vicina a mio cugino... questo signore... — e mi indicò. — Mi assegni la camera 62 o la 64.

La signora Zeffira, dietro di noi, aveva sempre il suo placido e disteso sorriso, nè rifiatava.

— E la signora? — domandò il direttore indicando la dama in nero che aveva accompagnato Giacometta.

— E lei? — fece Giacometta rivolgendosi verso la signora Zeffira.

— Oh! Per me fa lo stesso... — rispose la dama dal placido e largo sorriso. E le toccò il numero 72 molto lontano da noi.

Io ero un poco sorpreso, ma guardavo la signora Zeffira, sempre con riverente riguardo.

Quando Giacometta fu per salire, le si accostò un ragazzo che teneva abbracciato addirittura un grandissimo fascio di rose bianche e vermiglie.

— È lei la signorina Maldi?

— Sì...

— Queste rose sono per lei.

— Per me?... E chi le manda?...

Guardò i fiori, corrugò un attimo la fronte poi levò la faccia irraggiata verso di me.

— Tu?...

— Sì...

— Caro caro caro!... Sali... sali con me... ho da dirti tante cose!...

E andammo innanzi; e la signora Zeffira dietro; ma aveva sempre il suo largo e placido sorriso.

Io non so dove siate, ora; nè se la morte vi abbia presa, cara signora discreta della mia giovinezza; ma se pure il paradiso vi tenga, o qualche casa silenziosa della nostra provincialissima Forlì, il mio ringraziamento sempre vi sia rinnovato.

Giacometta mi fece entrare in camera sua; poi volle vedere la mia stanza e mentre io mi avviavo alla porta di uscita, mi chiese:

— Da dove passi?

— Perchè?

— Perchè c'è questa porta ed è tanto più semplice servirsi della strada più corta!

Aveva ragione. Le nostre camere erano intercomunicanti; ma io non mi ero accorto del particolare.

La porta era molto arrendevole e si aprì facilmente. Giacometta ne fu felice:

— Così saremo vicini vicini vicini!...

Poi mi pregò di starmene un momento solo in camera mia. Doveva sbrigare certe sue faccenduole.

— Ti chiamo subito, Franzi... Faccio presto presto...

Uscì e socchiuse l'uscio.

Io caddi, affranto, sopra la prima seggiola.

— Franzi?... Di' la verità... credevi che io venissi?...

— Non lo pensavo neppure!

— Perchè?

— Ma... dopo l'altra sera...

— Quanto sei bambino!... Ancora non mi hai capita!

— Questo è vero. Però non diremo tu sia facile.

— Sai? Non bisogna darmi troppo retta quando ho i nervi.

— Ma se mandi via la gente!

— E tu dovevi ritornare. Era il tuo semplice dovere.

Si udiva il rombo e lo stridore dei tranvai elettrici.

— Vieni, Franzi.

Sospinsi l'uscio ed entrai.

— Ora usciamo.

— Sì.

— Aspetta... prendo i guanti.

Quando fummo nel corridoio ella si diresse alle scale quasi correndo. Fui io che dissi:

— Scusa... e la signora Zeffira?

— No, lasciala stare. È tanto stanca.

— Ma... non dirà...

— E che deve dire?... Aveva bisogno di venire a Bologna, l'ho condotta con me... le ho pagato il viaggio. Ora se la sbrighi come vuole.

Ammirai il semplice modo che aveva Giacometta nel regolare i rapporti sociali; ma, per conto mio, ero un poco stonato; non ci capivo proprio molto bene.

— Scusa, Giacometta... e se poi va a raccontare...

— Ah, Franzi!... sei proprio un ragazzo!...

Era lei che guidava me; eppure questo capita qualche volta anche negli anni più gravi.

Una vettura ci portò un poco in giro per le strade di Bologna; poi ci condusse a una trattoria fuori barriera d'Azeglio.

Giacometta parlava con una volubilità e una freschezza bambina. Parlava quasi sempre lei e ne era molto contenta.

La mia fuga improvvisa e il dono delle rose l'avevano ricondotta a me piena d'amore.

— Ora tu potrai fare di me quello che vorrai. Io sono ormai decisa, ben decisa, Franzi. Mi hai scritto una lettera che mi ha fatto piangere. Ah! che cuore, che grande cuore hai, amor mio!... Rimarremo a Bologna qualche giorno... poi andremo più lontano... molto più lontano. A Parigi... a Londra... Io voglio andarmene via con te... con te solo!...

Queste idee mi turbavano. Come avrei potuto seguir Giacometta a Parigi e a Londra?... Con mille e tante lire dove sarei arrivato?... Ma è un caso molto raro che le donne innamorate pensino a questi piccoli inconvenienti.

Desinammo fuori, alla stessa trattoria, senza che della signora Zeffira fosse fatta parola. Rientrammo all'albergo verso le dieci di sera.

— Sono stanca — disse Giacometta; ma aveva negli occhi un'ombra nuova e parlava molto meno.

XIX

Tienmi sulle tue ginocchia e non lasciarmi pensare...

La signora Zeffira sonnecchiava sopra un divano della sala di scrittura. Quando ci vide arrivare esclamò:

— Tanto tardi, figliuoli miei!

E senza aggiunger cosa nuova, si rifugiò nel suo largo e tranquillo sorriso.

— Noi andiamo a riposare — disse Giacometta.

— Sì, andiamo. Ho tanto sonno! — aggiunse la signora Zeffira.

Ci separammo nel corridoio e ciascuno entrò nella propria stanza. Ora, anche oggi, dopo tanti mai anni, oggi, sul punto di rientrare nell'ebbro turbinio di quella notte, mi sento battere il cuore alla gola e la mano non ubbidisce alla mente nel tracciar le parole.

Questo mi sia perdonato da chi conosce l'amore.

Non appena fui solo ed ebbi serrate la porta del corridoio, rimasi fermo in mezzo alla stanza senza saper più che fare. Uno smarrimento, giustificato da qualcosa che ancora non aveva preso forma nel pensiero, mi teneva così in una fissità di automa.

Guardavo gli oggetti riflessi nel fondo di uno specchio; ascoltavo i suoni confusi che mi arrivavano dalla via. Certo era che non pensavo a coricarmi.

Poi mi riscossi, mi avvicinai all'uscio della stanza di Giacometta; accostai l'occhio alla serratura; ma non potei vedere ciò che accadeva dall'altra parte.

Che faceva la mia vicina? Si sarebbe coricata tranquillamente... così?...

E aspettavo, non essendo ben certo che qualcosa fosse per accadere di molto diverso dal consueto.

Dalla stanza di lei non mi giungeva il benchè minimo suono. Avevo udito quand'ella aveva serrato l'uscio del corridoio a doppia mandata; ma, dopo questo, si era chiusa nel cuore del silenzio.

Che faceva?... Dormiva forse?...

E l'idea ch'ella fosse già placidamente sperduta nel sonno, mi angosciò.

Poi nel mio agitato muovermi urtai una seggiola che si rovesciò. Allora, d'improvviso, Giacometta mi chiese:

— Cosa fai?

— Niente!

— Vai a riposare?...

— No!... Non ho sonno!...

Trascorse un silenzio. Io guardavo la sua porta chiusa.

Ad un tratto udii il suo passo leggero accostarsi all'uscio.

— Senti?... accostati!... voglio parlarti...

Ella doveva udire sicurissimamente il battito del mio cuore.

— Franzi?... Sei lì?

— Sì, piccola...

— Allora... se proprio non hai sonno...

— Giacometta...

— Sssssst!... Parla piano!...

— Sì!

— Se proprio non vuoi dormire... non potremmo...

— Che cosa?...

— Non potremmo... raccontarci qualche bella favola?..

— Una favola?...

— Non vuoi?...

— Sì, voglio...

— Bene... aspetta un poco...

Fuggì; pareva corresse a piedi nudi sul tappeto. Poco dopo la sua voce, più lontana e più spenta mi chiamò:

— Franzi... vieni!...

Quando posi la mano sulla maniglia dell'uscio, tremavo come un paralitico. E dovevo essere pallidissimo, allorchè apparvi nel vano, perchè ella mi domandò:

— Ti senti male?

— No, Giacometta...

— Vieni... Siedi qui...

Si era sprofondata in una ampissima poltrona di cuoio rosso e mi fece prendere posto sul bracciuolo.

Era appena vestita... che so io?... Attraverso la vestaglia rosa, nella quale si era avvolta, la vedevo più ignuda che se mi fosse apparsa solo nella sua serica pelle. Ignude erano le braccia e il collo, il seno e le spalle; ignuda la caviglia sottile; i piccoli piedi calzavano due pantofolette del color delle rose. Si era già pettinata per la notte: aveva raccolto parte dei capelli in una cuffietta alla foggia dell'Olanda; ma non tanto raccolti erano che due grosse ciocche non le scendessero fino alle guancie. E due rose bianche, una per parte, morivano sulla biondezza de' suoi capelli ricciuti.

I grandi occhi di bambina, i suoi occhi — « color seta celeste come il vestito della Madonna » — per chiamarli con le parole di Principina, si sgranavano in un muto sorriso; la grande iride lionata, fatta meno ampia dal dilatarsi delle pupille, nella leggera penombra, si accendeva, a quando a quando di una curiosità ambigua che turbava quella freschezza, con qualcosa di acre e di insano.

Ma sapeva di essere bella, sapeva di raggiungere il limite tragico della bellezza. Tutto poteva riuscirle; tutto le era dovuto. La sua bionda adolescenza era una divina parola per gli uomini stupiti che la vedevano passare. E a me, proprio a me era toccata l'immensa gioia di poterla godere!

Abile in tutto, aveva avvolte le tre lampade centrali in una sciarpa rossa cosicchè la luce si diffondeva blanda, ammorzando ogni violenza di contorni, per fondere in un'unica dolcezza i fiori, le cose, le creature.

Aveva disposto, in un tavolo, un grande vaso di bianca maiolica e dentro vi aveva raccolto gran parte delle mie rose. Altre rose rosse erano gettate sulla coltre del letto; ed altre, bianche, erano ai suoi piedi e, vicino a lei, sulla poltrona.

Quando chiusi l'uscio e mi avanzai, ella, gettate via le pantofolette del color delle rose (ed io vidi, nel gesto improvviso, la meraviglia della sua schietta e sottile nudità, fin oltre le rotonde ginocchia!...) si raccolse tutta, si rannicchiò nell'ampissima poltrona riducendosi come un piccolo rosso ghiro nel suo nido di foglie secche; e, sporto innanzi il piccoletto viso, allargò le braccia, posando le minuscole mani sui bracciali della poltrona, in tale gesto di grazia, che sarei caduto in ginocchio ad adorarla.

— Siedi qui...

Sedetti. Ella mi si accostò; sovrappose le minuscole mani sulla mia gamba, appoggiò la guancia alle mani e mi guardò così dal sotto in su, sorridendo muta.

Quant'era bella!...

Dalla pura fronte al mento disegnato in una soavità che appena compiva l'ovale del viso per accordarne la linea a quella della gola, là dove muore e palpita nel palpito delle parole, tutta la delicata faccia si compiva nella musicale dolcezza di un fiore; nè vi era parte sua che potesse, o per una luce più cruda o per un angolo visuale diverso, apparire meno perfetta. La soavità di ogni particolare compiva il miracolo di quel volto angelicato di adolescente che poteva tuttavia tramutare d'improvviso, senza perdere l'incantesimo suo ed essere men puro, allora che dal torbido ridestarsi dell'anima nuova al mondo, saliva una fra quelle inespresse e tormentate volontà che presentivano il vizio e volevano assaporarlo in un desiderio di sùbita violenza.

Per un poco mi sorrise ella ancora, senza togliersi da quell'atteggiamento, poi gettatemi le ignude braccia al collo e avvinghiatasi a me, mi susurrò in un improvviso delirio, ansimando:

— Prendimi!... Prendimi!...

E, parrà a voi, che quello dovesse essere il punto logico del giusto sacrificio... E anche a me parve, tantochè, perduta ormai la nozione dei giorni e del tempo, travolto dalla mia giovine forza che tempestava, stretta che l'ebbi fra le braccia e coperto il caro volto che smoriva, di un diluvio di baci, tentai di averne ragione per quelle strade che le semplici leggi della natura impongono; ma la mia giusta volontà s'infranse sempre contro la resistenza di lei. Non ch'ella ripugnasse da me e volesse disciogliersi dall'abbraccio, chè anzi mi restava avvinta come una piccola serpe e mi rendeva i baci che le davo; ma travolta da una esasperata volontà di rasentare il piacere senza concedersi tutta, mi eccitava con parole scomposte, presa dalla febbre della sua follia; più bella che mai e più che mai nemica.

E, nella lotta che ne seguì, ci accolse il rosso tappeto.

Io la sentivo e la vedevo, ormai quasi ignuda, talmente bella nel suo primo fiore, da darmi le vertigini, eppure mi accorgevo di pensare, meravigliando, alla scombuiata mente di quell'adolescenza così presto travolta da un vento di follia, dalla precoce voluttà del vizio.

Io che non conoscevo allora se non le ancestrali strade, battute già da cento e cento generazioni che sapevano l'amore dagli occhi limpidi e dalla schietta volontà procreatrice.

Però, preso dal turbine nuovo, non potevo nè volevo ritrarmene e l'angoscia mia tanto era maggiore, quanto meno mi pensavo dovesse avere un siffatto termine.

Ella si esasperava ognor più eccitandomi ed eccitandosi, e la sua faccia era contratta, pareva, a volte, dolorante come quella di una Maddalena.

Così continuò non so quanto, nè le mie forze cedevano, nè mi sarei dato per vinto s'ella, a un tratto, non avesse avuta una contrazione convulsa e non avesse rotta l'angoscia in un breve ed aspro riso arrovesciandosi come morta e restando così sul pavimento, le braccia larghe, i capelli disciolti, senza più sangue la faccia e le minuscole mani contratte.

Me le inginocchiai vicino; la chiamai impaurito, senza capire che accadesse, incolpandomi di averla ridotta in tale stato.

— Giacometta?... Giacometta mia?...

Non rispose, ma, nascosta d'improvviso la faccia contro un braccio ripiegato, mi accorsi che piangeva. Che non le dissi allora? Quali parole non trovai nella mia disperazione per calmarla, per dimostrarle tutta la mia brutalità e la mia colpa; per farmi perdonare?...

Io ero convinto di averle fatto un gran male, non sapevo scusare la mia bestiale condotta; ma ero ben lontano dall'aver compresa, anche quella volta, la mia singolare compagna.

Ella restò così prostrata non so quanto tempo; poi si rialzò senza guardarmi, mi sospinse con una mano verso la poltrona; mi disse:

— Siedi...

E accostatasi a me, sedette sulle mie ginocchia. Poi, abbandonata la testa sulla mia spalla come una bimba malata, sussurrò:

— Tienmi così, Franzi... tienmi sulle tue ginocchia e non lasciarmi pensare...

Suonavan le campane dell'alba quando mi gettai sul letto, senza neppure svestirmi e mi pareva di essere vuoto d'ogni sostanza, pur senza avere nulla ottenuto.

XX

C'è ancora un albergo dedicato a un nomade poeta?

Fu quando mi ridestai che mi ritornò nella memoria la ghirlandella di gelsomini abbandonata sul ramo più in cima della gigantesca betulla.

Non eran forse queste le prove alle quali la mia disperata Giacometta voleva pormi? Ero io già in pieno rito tartarico?

E mi dolevo meco stesso della mia disavventura e del ginepraio nel quale sempre più mi addentravo e sempre più avrei dovuto addentrarmi fatalmente, di giorno in giorno.

Come avevo potuto trovare una simile creatura proprio in fondo alla mia taciturna Tebaide? nella più quieta, cioè, nella più dispersa, nella più addormentata fra le città di provincia? Proprio te, Forlì, città grugnita dai tre campanili come tre maghi coi cappelli a cono, proprio da un tuo giardino incantato in fondo al Borgo dei Cotogni, doveva uscire per me quello che appena avrebbe potuto darmi una fra le moderne Babilonie? Quale nuovissimo Leggendario di Maddalene avevi tu sfogliato per ispirarti a dar vita a questa tua Girometta?... E sì che i costumi tuoi erano castigatissimi e nessun ardimento sarebbe bastato ad affermare che dalla tua folle vita potesse essere generato un tanto fenomeno!

Ma l'inverosimile è appunto ciò che più di frequente si verifica al mondo; ed è più spesso dai tormentati silenzii e dalle aspre vigilie delle città sonnacchiose che escono le creature piene di follia, atte a qualsiasi estremo.

Mi levai, quel giorno, ingrugnito come la città mia fra le ortaglie, e non chiamai Giacometta. Aspettavo ch'ella fosse comparsa.

Seduto nell'ampia poltrona, fumavo una sigaretta dietro l'altra, guardando, dalla finestra aperta, una riga di sole passar sul muro opposto... e le ore passavano... e Giacometta non compariva.

Era già trascorso mezzogiorno quando mi decisi a troncar l'attesa. Possibile ch'ella dormisse ancora?... Il dubbio che fosse malata mi spinse a bussare alla porta di lei. Nessuno rispose. Dopo reiterati e infruttuosi tentativi aprii la porta ed entrai. La stanza era vuota. Abituato ormai alle stramberie di Giacometta, la prima idea che mi venne fu che ella avesse presa la via della stazione e fosse salita sul primo treno in partenza.

Però, gettato uno sguardo per la stanza, mi convinsi di aver sbagliato. Giacometta era a Bologna. Le sue valigie lo attestavano.

Allora perchè uscire senza dirmi niente? Andai in cerca della signora Zeffira. Anche la placida signora era fuori.

Seppi poi dal portiere che la signorina Maldi era uscita verso le nove.

La cosa m'indispettì. Mi proposi di andarmene per conto mio e di non ritornare se non a tarda notte. Però non avevo fatto dieci passi fuor dall'albergo che eccoti venirmi incontro Giacometta, accompagnata da una signorina che non conoscevo.

— Franzi, ti presento la mia amica Elda Sialli. Venivamo a cercarti. Dove sei stato fino a quest'ora?

— All'albergo.

— Hai dormito?

— Ma neppure per sogno!

— Che cos'hai fatto allora?

— Ti ho aspettato.

— Non sapevi che ero uscita?

— No.

— Sono uscita presto perchè non mi è riuscito di prender sonno. Ti ho lasciato riposare, in compenso. Ora si veniva a cercarti con Arlecchina.

Il nome inatteso mi fece levar gli occhi sul volto della giovinetta che, fino a quel punto, non avevo osservata.

Ci avviammo sotto i porticati corsi da un fiotto di gente ingaita dal sole, dalla stagione, dalla natura sua prodiga e tranquilla che ama il benestare e rifugge dalle malinconie.

Io parlo della Bologna di allora, e mi rifaccio a un tempo in cui l'ora grigia, che oggi è sul mondo, con tutta la sua tempesta, si accennava appena all'orizzonte.

Allora c'era tuttavia un po' di primavera, nè si pensava allo sfacelo più che non si pensasse alla morte del mondo. E si cercava la gioia nel ritmo dei giorni; ma senza la scomposta ansietà che segna il carattere delle ultime generazioni sopravvenute; e molta e sana serenità era nel cuore delle folle.

E la petroniana bonarietà epicurea passava nel sole delle sue primavere, quando i giardini dei soavissimi colli bolognesi sono tutti un fiore e un aroma, sorridendo nella sua secolare esperienza.

Giacometta aveva indossato, quel giorno, una sua veste turchina (era il colore prediletto) semplice come la veste di un piccolo lago, e aveva un cappello a viso dal quale usciva un'onda de' suoi magnifici capelli biondi. Il suo volto di adolescente non serbava traccia della notte combattuta ed insonne; solo, sotto i grandi occhi celesti, era una delicata ombreggiatura che ne accresceva la profondità e l'incantesimo. Poi la freschezza del giorno primaverile era la sua freschezza.

Ella rideva parlando e la gente si rivolgeva a guardarla.

Arlecchina, all'opposto, non era brutta, ma aveva una faccia strana, rilevata fortemente negli zigomi e nelle mascelle; con un qualcosa di indecifrabile, che la segnava, a quando a quando, di un'ombra maligna e cattiva.

Arlecchina poteva avere vent'anni. Era ciò che si chiama un tipo. Bisognava guardarla per il turbamento che proveniva dall'ombra del suo volto bruno e degli occhi leggermente obliqui.

Ella aveva una figura superba. Pareva nata al piacere. Forte e delicata la curva dell'anca; il seno rotondo; soavi le spalle, spioventi fino al disegno delle belle braccia; bene eretto il collo da cui sbocciava il viso che non piaceva e turbava.

Portava, sui foltissimi capelli neri, un berretto alla raffaella, gettato da banda, tanto da lasciare in ombra una parte del volto; e camminava eretta sul busto, senza distrarsi a guardare intorno, come se passasse per arrivar sempre più lontano, assorta nell'enigma di un suo sogno; se ne andava così estranea a tutto e a tutti, lasciando che il passo, un poco molle, ponesse in rilievo le sue curve di bella tigre in agguato.

Aveva quattro rose rosse alla cintura e la gonnella disegnava, nel vento leggero, la schiettezza delle gambe diritte che incominciavano baciandosi, dall'ombra del desiderio per condiscendere, agili, fino alla piena rotondità delle ginocchia.

Arlecchina era molto più alta di Giacometta e parlava, un poco in dialetto, un po' in italiano, ridendo e muovendo al riso per una sua comicità inesausta.

Percorremmo varie volte il Pavaglione e via Rizzoli, soffermandoci alle mostre dei negozi; poi Giacometta, disse:

— Che faremo oggi?... Che ne diresti, Arlecchina, se si prendesse un auto?

— Quale auto?

— Ma un auto da piazza!

— Non è necessario. C'è la mia... Aspetta: oggi che giorno è?

— È martedì.

— Allora papà non si muove. Per la mamma è giorno di visite. Possiamo andarcene con la mia automobile.

— E dove andremo?

— Questo lo chiedo a te. Io ti do il mezzo, tu trova la mèta.

Allora Giacometta si rivolse a me.

— Tu, Franzi, non hai un'idea da suggerire?..

Risposi:

— Andiamo a Ravenna.

— Bene bene!... Andiamo a trovar Teodora!... Che ne pensi, Arlecchina?...

— D'accordo! Ma quanti chilometri ci sono di qui a Ravenna?... Perchè voglio essere di ritorno questa sera.

— Non più di ottanta — dissi. — Le strade sono ottime e, se la macchina è forte, si può andare e tornare tranquillamente.

La cosa fu decisa e, presi dalla festevolezza dell'impensato, ci avviammo verso la casa di Elda Sialli.

Poco dopo si filava fra le ville, i pioppi e le borgate della via Emilia, trascinati dall'impeto di una quaranta cavalli, presi dalla vertigine della corsa e della nostra innamorata e spensierata giovinezza.

Superammo Castel San Pietro, Imola, Castel Bolognese in men di un'ora. A quest'ultima borgata abbandonammo i bei colli emiliani per inoltrarci nella pianura che muore fra le pinete e le lande incontro al verde Adriatico.

Era con noi, in quel giorno della fine di aprile, la piena gioia di vivere; il compiuto possesso della giovinezza nostra in ardore; la ebbra coscienza di coesistere al mondo con le cose belle, luminose, armoniose, nell'ora nostra, nella grande ora nostra di vita.

La felicità ci era sorella; seduta con noi sulla macchina che si avventava per le strade della campagna assolata, tutta un profumo di fieni e di biancospino. Si correva fra siepi bianche di fiori, via in una dolcezza di luce distesa senza violenza; ed ogni casolare, ogni vecchia villa, ogni pieve aveva la sua parola gettata sul nostro rapido passare come un augurio. E noi, pellegrini del sogno, fuggivamo senza sapere perchè, dietro il volo della nostra gioia che si chiamava giovinezza.

Difficilmente gli uomini, se non hanno un grande cuore, sanno rinnovare l'incantesimo nella cosa raggiunta; il partire per giungervi, è tutto; poi all'arrivo, quasi sempre non resta che cenere.

Ravenna ci accolse nella sua malinconica pace raccolta fra le piccole squallide case, le millennii basiliche e l'umido verde delle piazze sacre alle ore di nessuno, alle ore che si distendono sui vecchi muri giallastri per dormire con la luce che dorme, col cuore che dorme da tanti mai anni.

Giacometta volle veder subito Teodora, la Basilissa che appare dal mosaico bizantino co' suoi grandi occhi neri i quali serbano la fissità di un fascino inestinguibile e di un inestinguibile dominio.

L'auto si fermò dinnanzi ai cancelli della Basilica antichissima.

Un nuvolo di ragazzi e di donne ci si strinse intorno, in una curiosità piena di esclamazioni ammirative e di sonanti insolenze.

— È tutto qui? — chiese Arlecchina guardando l'aspetto esteriore della Basilica.

— Vieni... vieni!... — le rispose Giacometta e, presala per mano, la trascinò, quasi correndo, nel tempio.

Avvolte ancora nei loro lunghi veli dei quali si erano servite per difendersi dalla polvere della strada, scomparvero nell'ombra di uno fra i più famosi tempî della cristianità.

Le seguii da presso.

Nell'interno non vedemmo se non una vecchia inglese mal vestita, che ascoltava come in una beata assenza, le peregrine meraviglie che le veniva decantando una guida patentata.

La luce era blanda. Un umidore perenne faceva l'aria più fredda.

Nè Giacometta nè Arlecchina dissero parola.

Si fermarono a guardare, intorno, la circolare maestà del gineceo; la fuga dei piccoli archi e dei capitelli a cesto; la gloria della cupola.

— E la chiesa sprofonda come tutti i vecchi monumenti di Ravenna. Vuoi vedere?... — disse Giacometta alla compagna.

Si allontanarono verso una colonna, alla base della quale è praticato un piccolo pozzo che discende fino al primitivo pavimento.

Giacometta aprì la botola che ne serrava la bocca e si sporse a guardare.

— Peccato! Non si vede niente. È pieno d'acqua.

Arlecchina volle guardare a sua volta; si diressero poi alla navata dei mosaici; a quella che splende ancora del cuore del tempo che la consacrò a Dio.

Qui nel colore, nella forma schematica che si ripete sempre identica come un rito liturgico, nella raffigurazione dei simboli e dei miti, l'anima bizantina risplende nella sua fastosità e nel terrore di Dio.

Giacometta ed Arlecchina non dissero parola. Nel Tempio eravamo soli. Ogni rumore era spento. Dall'esterno non giunse che un remoto tocco di campana, subito disciolto nel basso silenzio. La luce che scendeva dai vetri opachi, simili a sottili lastre di alabastro, recava intorno un pallido oro di cui si vestivan tutte le cose. Fuori c'era il sole, la primavera; ma nell'ambito della severa basilica, pareva trascorresse un'ora eternamente uguale nei millennii; e fosse, fra quelle mura, la immutata pace di un luogo ultraterreno. Quale fiumana di anni, di aspetti; quale parola divina turbava l'anima delle due giovanette? Si sentivano esse annegare sulla via dell'inconcepibile? naufragavano in Dio?... Era la pace dell'infinita immensità raccolta nella suprema speranza, o il terrore dell'annientamento nello spazio senza limiti dell'eterno, che le teneva così, un poco pallide e estatiche, smarritamente mute?... La loro giovinezza, il cuor loro di allodole solari, l'essere e tutto il mondo dell'essere loro, ecco che non eran più niente; non più di un povero fiore sugli oceani, di una favilla nei turbini. Esse sentivano questo, all'improvviso, tramutate.

Dove troverete l' Ospite vostro, lievi anime del piacere? Se il mondo vi apparisse squallido, talvolta, dove potrete trovare l' Ospite vostro?

Quello che era già nel bianco paradiso dei semplici, in quale luogo oggi, in quale idea può riposare, nell'amorfa tenebra senza tempo?

E stavano strette a braccio a braccio, unite come due passeri sopra un nudo ramo nel cuor dell'inverno; si rifugiavano nell'ultimo tepore di non sentirsi sole, nella gran legge che associa le forze per creare dall'infinito il finito. E in questo loro istinto di sentirsi unite non era già la presenza di Dio? L'avvertivano esse? Forse non eran più del tremito e del colore della foglia del salice, la quale avverte ogni impercettibile moto dell'aria e a questo si abbandona, inerte. E il loro pensiero era l'attesa che trepida; la loro volontà era la volontà che non ha nome nè volto e chiude d'un tratto la vita nell'enigma.

Esse l'avvertivano, spaurite, nell'immenso impero di quel silenzio improvviso; nel fascino della antichissima finzione dell'arte bizantina. Prima a riscuotersi dal giogo angoscioso, fu Arlecchina. Disse, sottraendosi di scatto a quella che diventava un'ossessione per l'anima sua insofferente:

— Franzi, è davvero il ritratto di Teodora quello?

La Basilissa si levava dal cupo fondo del mosaico, di fra le cameriste, pallida e altera; i grandi occhi neri, nel piccolo volto ovale, vivi di quella cruda volontà, di quel violento fascino che sempre l'avevan fatta padrona, sì nell'abbominio, come nel palazzo imperiale. Ella appariva ancora come la figlia più schietta del voluttuoso e mistico Oriente.

Le nostre voci, per quanto sommesse, riempirono il tempio di un sonoro brusìo. L'incantesimo svanì. Giustiniano non si guadagnò uguale attenzione da parte di Giacometta e di Arlecchina le quali, ormai, non sentivano che la necessità di uscire, di respirare l'aria libera.

Nè Galla Placidia, dal suo mausoleo che chiude tanta tragedia col cuore del morto Impero di Roma, le attrasse maggiormente. Ormai volevan vivere, lanciarsi al vento dell'aprile, cantare con la gola delle usignole che tessono il nido fra le macchie dei lillà in fiore.

E Sant'Apollinare, San Giovanni, il Battistero non ebbero più di una rapida occhiata distratta. Solo acconsentirono di visitare Classe fuori, perchè c'era da compiere un'altra corsa in automobile e potevano veder la Pineta, da lontano.

Saettammo fra gli argini e le lunghe teorie delle betulle, per la squallida campagna che muore nella Valle del Dismano; e la solitaria Classe, con la sua torre farea, una fra le chiese più antiche e più sole nella solitudine, ci apparve sull'acceso cielo che già presentiva il maggio. S'incupiva, non molto lontana, la folta massa della Pineta che discendeva al mare.

Nè la chiesa di Classe seppe riconquistare l'anima ormai perduta delle due pellegrine. Esse erano assetate di luce, di aria, di vertigine. Guardarono con occhio distratto le oscure navate e vollero uscir subito.

Riscontrammo che tutti tre eravamo presi da un formidabile appetito.

— Dove andremo? — chiese Giacometta.

— Al Byron — risposi.

E all'albergo Byron discendemmo, animati dalla stessa allegria, facendo stupire un poco il placido albergo dei più placidi ospiti che discendono alla Città degli Esarchi per ragioni di studio, o per posata curiosità, o per malinconia.

Nell'ampia sala da pranzo si occupò un tavolo dal quale poteva vedersi il bel cortile fiancheggiato da un portico e, oltre un muricciuolo, gli alberi della Piazza di San Francesco.

Tutto era calmo, sereno, disteso in una conventuale letizia senza mutamento. Le case si guardavano fra loro dalle piccole finestre aperte; la gente non aveva fretta di compiere gli affari suoi, se ne aveva; tutto pareva sistemato in una placidità senza scosse per vivere beatamente, per digerire fortissimamente. Una minima stupida cosa bastava al discorso di un'ora; pur di fermarsi al sole di primavera e sentirne il tepore sulla persona. Innanzi a un piccolo caffè che aveva disteso all'aperto una fila di tavoli sbilenchi e di seggiole spagliate, qualcuno leggeva tutto quanto un giornale con religiosa attenzione. Come si prendono sul serio le chiacchiere stampate, nelle piccole città di provincia! E i cani davano spettacolo dei loro costumi; e i monelli berciavano correndo.

Dove sei, mia favolosa provincia così annoiante e cara?

Tutte le case, nella parte inferiore dei loro muri, erano specchi di cultura. Ivi culminavano le parole fondamentali del sesso precedute ordinariamente da un lieto Evviva! e frammischiate alla apoteosi della repubblica, del socialismo, della anarchia e dei loro rappresentanti. Tanto il popolo non fa distinzioni sottili e pone sullo stesso piano le cose che predilige. Ivi, rozzi disegnatori, si esercitavano a rappresentare al pubblico disattento, quelle parti del corpo umano che una persona distinta non potrà mostrare se non privatamente e in certe occasioni. Ivi, infine, il popolo urlava le sole parole oscene e minacciose in faccia a chi voleva sentire. Ma non sentiva nessuno e nessuno vedeva, neppure le candidissime giovinette che passavano a fianco alla mamma loro, modestamente vestite come pappagalli e non sapevano niente di niente; proprio niente al mondo, all'infuori del loro conchiuso pudore.

Oh, mie città di provincia! oh, Passionario delle Maddalene!...

E di questo si parlava, raccolti intorno al piccolo tavolo che ci faceva tutti quanti vicini. Ma ci si stava tanto bene!

Giacometta? Arlecchina?... la ricordate quella nostra ora di piena letizia, nel cuore della morta Ravenna, fra le ossa di Dante Alighieri e le mura del palagio dei Polentani?... La ricordate? Dove siete voi ora, Giacometta ed Arlecchina, rosse ed asprigne ciliege del mio maggio fanciullo?...

Ci sarà sempre l'albergo Byron, con la sua grande sala da pranzo che si apriva sopra un bel cortile fiancheggiato da un portico? Ci sarà sempre a ricordare gli amori di un nomade poeta per una bella ravennate infedele?...

Giacometta, Arlecchina quant'anima era in quel giorno nostro!... Lo ricordate?... E gli scarsi ospiti, nella grande sala da pranzo, si rivolgevano a guardarci perchè eravamo noi solamente vivi, veramente vivi là dentro, in quel meriggio della fine di aprile. Poi la nostra gaiezza prese la scarna brigata.

Poi suonarono tutte le campane della bassa città delle Valli, io non ricordo perchè, suonarono dalle vecchissime torri e dai campanili, a distesa, come a festeggiare il dolce aprile.

Tu ridesti Arlecchina (già lo champagne aveva accelerato il ritmo delle nostre vene!) ridesti per quella festa di suoni nell'aria accesa, nel fondo colore del cielo. Ma perchè?... Così, perchè la tua piena vita doveva erompere; perchè il tuo sangue era rosso come le rosse ciliege.

Peccare, peccare!... Tutta la tua faccia, tutta la tua persona erano lo specchio del giusto peccato, quel giorno! Lo dicevano i tuoi occhi accesi; le tue lunghe mani sottili quasi esangui; la tua bocca un po' larga e troppo rossa; i tuoi atteggiamenti improvvisi di abbandono. Ed io ti guardavo appena. Ma chi ti avesse presa, allora, bella dagli occhi obliqui! Chi ti avesse avvinghiata per farti soffrire come volevi!

E tutto ti era argomento di riso, mentre Giacometta ti guardava, assorta in chissà quali improvvise lontananze.

Tu sola parlavi. Giacometta si era allontanata col rombo delle campane celesti. Era restata, sul volto di lei, l'ombra di un riso, ma ella non era più con noi. Era lontana, attraverso il regno delle sue pause.

Tu, Arlecchina, mi facesti cenno di non occuparmene, la conoscevi meglio di me la nipote di quella tartara che aveva fatto già, della vita del povero Felice, un tappeto per le sue danze.

E quella volta seguii il tuo consiglio e me ne trovai bene perchè Giacometta, vistasi sola, e accortasi che non avrebbe avuto, sulle sue orme, l'amore di un disperato giovane da tormentare, se ne ritornò fra noi non senza però serbare un'ombra nella schietta fronte serena.

E ci levammo. Quante cose c'erano ancora da vedere fra il Candiano e i Fiumi uniti? Il pomeriggio volò via. Da un vecchio giardino prendemmo tante rose da empirne l'automobile; dalla tomba di Teodorico un grande tralcio di glicinie.

— Ma in questo paese non ci sono che tombe? Venivano tutti qua a morire i re e gli imperatori?

Questo chiedesti tu, Arlecchina, e Giacometta con te decise di non voler vedere più niente.

— Lasciamo stare i monumenti — disse Arlecchina. — Che cos'è il Candiano?

— È il canale degli Esarchi. Congiunge Ravenna al mare.

— Andiamo a vederlo. La storia non m'interessa più. M'interessa la vita.

Arrivammo al mare. Venne la sera.

— Bisogna ritornare.

— A Bologna?

— E dove dunque?

— È troppo lontana.

— Ma io non ho avvisato a casa.

— Telegraferemo da Ravenna. Un guasto alla macchina...

— Be', andiamo.

Erano già accese le fiammelle dei rari fanali quando rientrammo.

Si decise di pernottare a Ravenna. In quel punto Giacometta non era più allegra ed Arlecchina lo era troppo.

XXI

Oh! se voi troverete talvolta, la settima rosa.. in fondo al giardino!...

Le due belle stanze ampie, solenni come una veste nuziale del 1850!... Il compìto signore che ci accompagnava (discendeva egli forse dalla stessa famiglia dei Rasponi a cui era appartenuto il palazzo adibito poi ad albergo?) ci annunziò con riverente austerità:

— Qui ha alloggiato Gabriele d'Annunzio! E qui dormì una notte Eleonora Duse!...

Ci guardammo negli occhi; ma Arlecchina non dimostrava affatto di esser compresa dal fato che ci destinava gli stessi giacigli nei quali avevano cercato il sonno i grandi del secolo.

— E nella stanza prossima — soggiunse il compìto signore — ha abitato Sem Benelli quando era a Ravenna per certe sue ricerche intorno a Rosmunda.

Allora Arlecchina non si tenne dal domandare:

— Perdoni... e la stanza di Dante Alighieri dov'è?...

Il nostro bel signore sorrise e si inchinò compitamente.

— Quella, cara signorina, è qui vicino — rispose. — Ma non è una stanza... è un sepolcro!...

— Comunque sia — ribattè Arlecchina — siamo destinati al nido delle celebrità!

— Se così le piace! — rispose il compìto signore. Poi, disegnato l'ultimo inchino e l'ultimo sorriso, ci lasciò soli coi nostri nomi senza diadema; nell'oscurità del tempo e dei tempi.

— Dunque dormiremo nella stanza della divina Eleonora... — gridò Arlecchina non appena la porta fu chiusa e il compìto signore, lontano. — E voi, Franzi... voi riposerete la vostra testa, senza alloro, sullo stesso guanciale che seppe Alcione e Francesca da Rimini. Ma ormai è tardi e dobbiamo andare a pranzo. Che ore sono, Franzi?

— Le sette.

— Arlecchina?... — chiamò Giacometta dalla prossima stanza. — Vieni... vieni a vedere!...

— Che c'è?... — domandò Arlecchina fuggendo.

Poco dopo le udii ridere; e mi chiamavano:

— Franzi?... Franzi?...

Le raggiunsi. Mi fecero leggere sulla spalliera di un enorme letto nuziale a baldacchino (antico e solenne come una veste di parata del 1850), una breve iscrizione tracciata a lapis copiativo e in inglese. Diceva:

«Io, Joe Greeniwood, americano dell'Arizona, ho riposato in questo letto in una calda notte d'estate, pensando ai miei quattro miliardi!»

— Bel tipo questo signor Joe! — disse Giacometta.

— Non voleva esser da meno degli altri — soggiunse Arlecchina. — La sua opera era il suo denaro e può dirsi ne avesse una intiera biblioteca!

— Segno dei tempi!

Ma il signor Joe fu presto dimenticato.

— Con che cosa faremo toilette per scendere a pranzo — domandò Giacometta — se non abbiamo neppure un pettine, nè una spazzola nè un poco di sapone?

— A questo si rimedia presto — rispose Arlecchina. — Voi, signor Franzi, siete pregato di lasciarci sole!

— Vi aspetterò nella mia stanza.

— Sta bene! Ma non commettete imprudenze, perchè, come ho potuto osservare, la porta di comunicazione fra le nostre stanze non è munita di chiave!

Ci separammo.

Vi udii ridere ancora, verlette della mia dolce giornata; poi mi chiamaste dal buco della chiave (foste voi, Arlecchina):

— Franzi?

— Eh?

— Siete pronto?

— Ai suoi ordini.

— Allora potete passare.

Dove avevate tolta la nuova veste che indossavate: Giacometta ed Arlecchina?

Suonava la campana del pranzo; meglio di una campana era il suono lugubre di un gong che faceva venir in mente una qualche pagoda sulla vetta di una stilizzata collina.

Ancora debbo dirvi una parola d'amore, compagne della mia dolce giornata; per quanto eravate belle quella sera, nell'albergo che porta il nome di un nomade poeta, in fondo a una città di provincia. Ma tu, Giacometta, non eri più la stessa; la tua cruda compagna pareva ti tarpasse un poco le ali, con la sua esuberanza, col suo prepotere di bella pantera che si sente agile e pronta e non teme rivali. Tu parlavi molto meno; ridevi, sì, ma il tuo cuore non era con noi. Nella sala bene illuminata trovammo molta più gente che non la mattina; ma erano comitive del luogo; erano i rumorosi nativi che si compiacevano di cenare al Byron per imparentarsi con quel po' di mondanità che poteva offrire Ravenna.

Il cameriere ci aveva serbato lo stesso posto del mattino.

Il tavolo era coperto di rose (delicata attenzione che commosse Giacometta); e ci aspettavano due bottiglie di champagne in ghiaccio.

Il desinare fu buono. Voi, Arlecchina, vi compiacevate della gioia della mensa ed era, in voi, come una raffinata lussuria. La giornata vissuta fra sole e vento vi era valsa da formidabile aperitivo ed ora dovevate pensare a ben compensarvi delle forze spese.

Ma tu, Giacometta, dove eri tu coi tuoi grandi occhi color seta celeste? Ritornavi nelle steppe di nonna Tatiana ad ascoltare il lamento di una balalaika? O era la nostra ghirlandella sospesa sul ramo più in cima della enorme betulla, che ti faceva pensosa? Perchè ridevi, ma non eri con noi, non con la nostra allegria, non con l'anima nostra tutta presente. Certo ti esiliavi per sentirti più tua; o ti assaliva una fra quelle tue improvvise stanchezze per cui tutta la vita ti era a tedio e avresti voluto chiudere gli occhi per sempre e affondare in una immensa eterna pace coi tuoi diciassette anni!

Perchè il tuo viso si faceva più immobile; perchè la tua freschezza si adombrava e le tue parole cadevano a stento: fredde ed estranee.

E se anche Arlecchina empiva il tuo posto, fingendo di non accorgersi di ciò che in te tramontava, non lo vedevo io che ero sui tuoi passi come l'ombra, innamorato di te, qualunque tu fossi e certo sempre a me più cara.

Poi accostasti la coppa dello champagne alle labbra e volesti berne ancora e ancora. Io ti seguivo con gli occhi; senza dir niente. Volesti annegare l'anima tua, nella spuma del vino che reca la leggera ebbrezza e ritornare tra noi col tuo più rosso cuore.

Ma non eri la stessa! Ora ch'io non so in fondo a quale strada di stelle tu sia e non ho più speranza di rivederti, ora posso ben dirti che la tua sùbita folle allegria mi fece pena, perchè ti vestivi di panni che non erano tuoi e ti falsavi e mi parevi una bella e triste sorella della Compagnia del Povero Carnevale.

Allora veramente mi sembrasti bambina e solo allora provai per te una grande pena.

Capii la tua precedente tristezza; capii che per un attimo avevi veduto fino in fondo alla tua povera vita.

Perchè (e non fu che un rapidissimo baleno) poi che il chiaro vino di Francia ebbe disciolta la prima asperità del tuo carattere e vinto l'orgoglio e lo sdegno che ti facevano quasi sempre sola; poi che tutto l'artificio in cui nascondevi, falsandola tante volte, la tua timida solitudine di adolescente fu debellata, io vidi, ne' tuoi occhi d'improvviso più fondi e sinceri, una grande triste preghiera; io vidi una malinconia di pianto apparire nella luce degli occhi tuoi che mi cercarono come se in me solo potesse trovare riposo il tuo sconsolato cuore. Allora ritornavi bambina col tuo piccolo novero di anni; ritornavi sincera e ti sentivi, fuor d'ogni finzione, disperatamente sola.

Non ti vergognare, anche se puoi ascoltarmi, non ti vergognare ora di quella tua debolezza improvvisa che ti dette un così caro volto, che ti fece così umana, così vicina al cuore di tutti, di tutti quanti siamo su questa povera stella che ci porta nel mistero degli spazi, con lo stesso destino.

Però non fu che un rapidissimo baleno; tu volevi essere più forte del cuor tuo di bambina; volevi essere solamente quella Giacometta della quale ho parlato fino a questo punto, edificando me stesso nel ricordo.

A pranzo ultimato eravamo tutti tre nella stessa sfera; ci potevamo prendere per mano per la stessa danza.

I vostri pensieri, Arlecchina, erano quelli di Giacometta ed i miei.

Questo càpita ben di rado, ch'io mi sappia. Avremmo riso sulla faccia a qualsiasi autorità: perchè lo champagne (e domandiamone perdono, ora, al sindaco di Ravenna) ci aveva fatto irriverenti.

Arlecchina avrebbe voluto compiere cose pazze; ci propose le imprese più inverosimili; ma la sua follia provocò la saggezza nostra.

Finimmo per risalire alle nostre stanze, fra la rumorosa attenzione dei nativi i quali, presi ad uno ad uno, si ritenevano, tutti quanti, uomini da grande conquista.

Il più bello, fra i molti, un giovanottone scialacquato, dagli occhietti adiposi, non si tenne dal farsi sentire quando gettò alla comitiva dei nobili marcantonii questa popolaresca uscita da raffinato porcaro:

— Io ci spenderei anche mille lire!

La qual cosa piacque ai messeri della bella raccolta, i quali risero sganasciando, per quella natural compitezza che li faceva signori.

Ora le porte erano chiuse; tutte le lampade accese; le stanze bene illuminate.

— Che faremo? — domandò Arlecchina. — Io non ho sonno e tu, Giacometta?

— Io?... Posso vegliare fino a domani!

— E voi, Franzi?

— Capirete che io ho meno sonno di tutti!

— Be' — soggiunse Arlecchina. — Se siete tanto desto, signor Franzi, suggeriteci qualcosa. Vogliamo far qualcosa di molto diverso.

— Guardiamo alle stelle — risposi. — Le finestre sono aperte e tutte le stelle sono nel cielo in questa notte serena.

— Caro signore — disse Arlecchina — quelle luci da telescopio entrano, sì, nella nostra serata, ma solo come decorazione. Se credete che si possa star ferme a contemplare le stelle, povero Franzi, si vede che siete al solo frontispizio della donna!

— Sentite — disse Giacometta. — Ho un'idea!...

— Quale?

— Andiamo in Pineta!

— A quest'ora?

— E perchè no?

— E dove trovi il meccanico? Poi non mi garba. Io sono molto pigra, dopo cena — disse Arlecchina. — Piuttosto voi, Franzi, non sapete fare di meglio che guardare le stelle? Venite qui... mostratemi la mano... No, quella... l'altra, la sinistra.

Si era lasciata cadere in una poltrona. Giacometta corse a lei e le sedette accanto, sul bracciuolo.

— Ti intendi di chiromanzia?

— Un poco...

— Allora leggi anche la mia sorte...

Arlecchina, com'era del carattere suo che non concedeva alla serietà il solo spazio di un minuto, incominciò a raccontare le più matte cose, tantochè tutto si conchiuse in una risata; poi si levò di scatto e disse:

— Balliamo!

— Sì! sì! — approvò Giacometta battendo le mani.

— Sapete ballare, Franzi?

— Perfettamente.

— Venite, allora!

— Ma la musica?...

— Un'altra idea!... Aspettate!... Ho veduto, salendo, una chitarra. Deve essere dell'albergo. Ora vado a prenderla.

E, senza aspettar altro, uscì dalla stanza correndo.

Rimasti soli, Giacometta mi chiamò a sè con un cenno della mano.

Mi accostai. Le sedetti accanto. Ella allora mi abbracciò abbandonandosi a me come se una grande grande stanchezza la stroncasse.

— Ho tanto freddo, questa sera, Franzi!

— Che cos'hai, piccola cara?

— Non so... vorrei piangere!... Così... con te solo!...

E nascose la faccia contro il mio petto.

— Oh, poter piangere!... poter piangere!...

Le accarezzai i capelli, il piccolo volto contratto.

— Sai che vorrei andarmene?... che non vorrei essere più niente?... Sarebbe molto meglio anche per te.

— Perchè dici questo? Se la mia vita rimanesse vuota...

Senza alzare la faccia ella levò una mano e la pose contro la mia bocca.

— Non parlare!... Non dire ciò che non sai, povero Franzi!

E si rifugiò nel silenzio, sempre più stretta a me, come se avesse paura di essere travolta dalla tristezza che le proveniva dal mondo che non si avverte e che è intorno a noi ad ogni nostro battito di cuore.

Tu scioglievi l'anima tua come un pianto sulla tua povera nudità di creatura.

Ah! che non c'era più, cara piccina, la tua fantasia regale e il turbine del tuo senso a condurti e trascinarti per le complicate strade dei goditori; non c'era più l'irrefrenato desiderio a chiuderti nella rossa ombra del piacere, a farti perdere ogni riferimento coi giorni tuoi vissuti e da vivere; a trasportarti verso i fiumi regali ai quali accorrono le adolescenti che hanno sete di ogni vita, di ogni prova, di tutto il godimento; non c'era più niente per te...

Ma solo la povera anima tua come un pianto sulla tua nudità di creatura.

Nè ti vergognavi di mostrarti così, agli occhi miei di innamorato, perchè sapevi di trovare non già indulgenza, ma doppio amore, essendomi tu più vicina, e più semplice: superato ogni artifizio tuo, consapevole o no.

E allora mi dicesti:

— Voglimi bene, Franzi, anche quando non meriterò più di essere amata. Perchè io sento che non potrò mai essere di nessuno veramente. Ma per te ho avuto una gran tenerezza. Se ti farò soffrire è perchè soffro. Il mio desiderio e il mio cuore sono sempre al di là dell'Oceano, povero Franzi!... E se io debbo alzarmi e camminare, mentre vorrei tanto essere morta, è per il mio destino!!... Voglimi bene, Franzi... Forse non parlerò mai più a nessuno come parlo a te...

In quell'istante, tanto era bella e umana che non mi tenni dal stringerla a me tanto forte che certo le feci male; ma il mio amore ruppe il nodo che la legava alla pena ed ella potè piangere tutte le sue lacrime come una bambina: senza più vergogna, senza più infingimento.

E così, povero amore, l'anima tua era sulla tua schietta nudità di creatura.

La voce di Arlecchina, che si avvicinava cantarellando, la fece balzare in piedi. Si coprì la faccia con le mani e disse:

— Non parlare... non parlare...

Poi corse in camera sua e si serrò dentro.

Arlecchina entrò pizzicando una vecchia chitarra e accennando il motivo di una canzone spagnuola.

Non appena ebbe serrata la porta, si guardò intorno e domandò:

— Dov'è Giacometta?..

Poi, fissandomi riprese:

— Che cosa avete fatto?... Vi siete bisticciati?...

Non attese risposta, ma, posata la chitarra sulla poltrona, si diresse all'uscio di comunicazione fra le due stanze e pose una mano sulla maniglia dell'uscio.

— Giacometta, aprimi!

L'altra non rispose:

— Aprimi! Ho qualcosa di molto urgente da dirti!

Allora la chiave girò nella toppa ed Arlecchina entrò.

Rimasero forse una mezz'ora sole, senza ch'io pure le udissi mormorare; poi una voce mi chiamò sommessamente:

— Franzi?...

E la porta girò sui cardini senza ch'io vedessi chi la muoveva; come un soffio inavvertibile la sospingesse così.

Mi affacciai sulla soglia.

La stanza era immersa in una penombra color di rosa. Non vidi nessuno. Che stava accadendo?

La stessa voce falsata mi disse:

— Prendi la chitarra...

Ubbidii.

— Canta... ma piano... la canzone che dice: Se tu vorrai la piccola rosa...

Sorrisi. Perchè proprio quella?... Quella che diceva:

Se tu vorrai la piccola rosa,

la piccola rosa che non si vede...

Era una dolce canzone per gli innamorati. Diceva molte cose e ne lasciava sottintendere moltissime altre. Ma era garbata.

Accordai la chitarra, appena appena; e incominciai con tutta la mia passione:

Se tu vorrai la piccola rosa,

la piccola rosa che non si vede...

Allora, da dietro il baldacchino del letto, uscirono l'una dopo l'altra, Arlecchina e Giacometta.

Lasciai a mezzo il canto incominciato.

Esse aveano i capelli disciolti e tenevano in mano sei rose... sei rose rosse per ciascuna. E il resto dell'abbigliamento era fatto per togliere il respiro anche a un giovane contegnoso, assennato e lagrimevole quale ero io in quel tempo.

Non indossavano esse che la loro compitissima camicia di tela battista, ultra-leggera; e tale industre cosa, intessuta per amoroso tormento, era stretta alla cintola da un nastro celeste così che veniva ad essere come la fugacissima veste di un respiro su tali meravigliose rivelazioni che i miei larghi occhi si allargarono ancor più, per tutto accogliere, essi almeno, che non davan sospetto.

Arlecchina mi annunziò che quella che stava per cominciare era la Danza delle sette rose. E non avevan, per ciascuna, se non sei rose. Ebbene... dov'era la settima?... Che significava il numero cabalistico?...

Ma andavo cercando la cabala là dove non era che un delicato simbolo... perchè appunto la settima rosa era quella più in fondo al giardino, la più timida fra le foglie; e appena in boccio...

La settima rosa che i saggi non seppero noverare fra le meraviglie del mondo; ma che fu santificata dai sacerdoti degli Incas, i quali la posero a capo della loro Bibbia come il Verbo; la prima parola sulla tenebra della terra.

Così la Danza delle sette rose doveva significare appunto il mistero della settima sorella, dietro il cancello serrato; del piccolo fiore del mondo per il quale cantano, combattono e muoiono le turbe affaticate, dal principio alla fine dei secoli...

Dietro l'invito delle danzatrici ricominciai, pianissimamente, la canzone interrotta.

Sui sepolcri delle imperatrici e dei re; sulle tombe dei poeti lucevan le stelle d'aprile, nella gran notte di primavera...

Le finestre erano aperte...

L'alito odoroso dei giardini passava col lume degli astri, nell'ombra di Ravenna, a chiamar, per amore, le sue belle figliuole dai letti senza sonno...

Era il tempo dei lillà, della madreselva, dei gelsomini... e, nelle notti più brevi, si ridestavano le rose...

Anche una musica era per l'aria, una musica da core, sul vento dell'Adriatico...

O innamorate!...

Cantare ed aver la gola riarsa, questa è una pena nel mondo!

Esse avevano i piccoli piedi nudi...

Si allacciavano, si discioglievano, levavano le braccia, le mani scuotendo le rosse rose... Seguivano gli armonici sentieri della grazia...

E il lieve velame, nell'arte dell'atteggiamento, si dissipava...

Noi eravamo tre; ma io solo avevo il mio cuore di giovine che danzava da solo...

Tutto solo danzava, il mio cuore, la danza della settima rosa!

Udisti tu la mia voce, Galla Placidia, dal tuo mausoleo tutto a stelle?...

Perchè c'era, quella notte, nell'albergo sacro a un nomade poeta, c'era il mio delirio...

E l'ombra di due giovanette in fiore...

Prendetemi, cacciatemi pel mondo, fate di me l'ultima strada calpesta, condannate me solo a tutto il vituperio: ma ch'io mi abbia, al mio tempo, la giusta grazia e il cuore della settima rosa...

Questo, a suo tempo, chè poi non sia troppo tardi!...

O Ravenna Ravenna, quanta pena m'imponesti in quel tuo aprile; mentre i poeti e le imperatrici dormivano nella fonda notte...

e ne' tuoi giardini era tornato il rosignolo a cantare...

perchè i bianchi letti delle vergini non fossero più soli soli per le squallide stanze...

e la morale condiscendesse alla danza inevitabile...

... Per una piccola rosa, nel giardino delle vergini, dietro il cancello serrato...

... e sul sentiero delle fanciulle in fiore!...

E furono stanche.

Dopo aver volteggiato ed aver teso il giovine corpo nell'arco soave che si parte dal pollice del piede per compirsi nella fronte riversa (e i capelli disciolti pareva traessero il capo col loro peso); dopo aver messo in lume, a parte a parte, la gioia del loro corpo perfetto, « la forma che ride » e, travolte nella follia dell'eccitazione, aver accresciuto il ritmo della loro danza, affrettata la misura in una frenesia primaverile d'incontenuto spasimo; stanche alfine, ansimanti come rondini sbattute dalla raffica, vennero a cadere ai miei piedi, ridendo ancora, a scatti, per l'affanno che non le abbandonava.

— Franzi... — disse Giacometta. — Cantaci qualcosa che ci riposi un poco... una canzone vecchia!... Una di quelle di Principina...

— Quale, ad esempio?

— Oh, tu le conosci bene le canzoni di Principina!

— Io?... E perchè?...

— Via, Franzi! È inutile tu finga!

— Scusa, Giacometta... ma perchè dovrei fingere?

— Vuoi non lo si sappia!

— Ma che cosa?

— Ti faccio i miei complimenti perchè sai portare bene la tua parte. Però non vorrai negarmi che, se io mi sono accorta di te è stato per Principina...

Incominciai a cantare la vecchia dolcissima canzone che dice:

« — Dove sei stata questa mattinella?

Bondì Mariù!

« — Son stata a coglier l'insalatinella,

Mio bel marì!

E tutto riposò nel riposato ritmo sorto da un tempo tranquillo e ormai troppo lontano.

Poi vollero dormire (o finsero!) e chiusero la porta.

Chiusero la porta come s'io fossi stato una trascurabile cosa che si lascia in fondo alle scale, rientrando.

Ma non ero ancora fra le coltri quando sentii un sussurro all'uscio del corridoio. Corsi ad aprire.

Eri tu, Arlecchina, tu che cercavi una cosa dimenticata... che so?... un pettine.. un nastro... una giarrettiera...

E un poco ti tremava la voce... e facevi piano piano perchè non si destasse l'altra che dormiva.

E la cosa dimenticata la ritrovammo assieme quella notte...

La ritrovammo insieme, dolcissimamente, brillando tutte le stelle dell'aprile sui sentieri delle fanciulle in fiore.

XXII

E tu, in un angolo di mondo, povera piccola, guardavi senza parlare...

Il giorno dopo Giaconetta volle passare da Forlì, prima di ritornare a Bologna; volle rivedere la piccola città grugnita dai tre campanili coi cappelli a cono, come tre vecchi maghi.

Non la contraddicemmo, tanto era perfettamente inutile.

Poi io avevo un po' di rimorso per essermi perduto con Arlecchina a cercare la settima rosa, in fondo a un giardino, nella tepida notte di aprile.

Ma Giacometta era come sempre ed Arlecchina, come potei osservare, non portava con sè i ricordi prossimi o remoti; e questo, per non avere un inutile bagaglio sulla sua strada di bella vincitrice.

A me solo balenava, di tanto in tanto, la folle idea di aver tradito il mio amore.

Uscimmo da Porta Assisi e ci lanciammo per la bianca strada che costeggia il fiume Ronco.

Solo, per un improvviso capriccio di Giacometta, ci fermammo a una vecchia villa disabitata: La Monaldina.

Poco dopo Ghibullo, là dove il fiume piega per due gomiti, e la strada con lui, sorge la grande casa dei campi.

Forse un Monaldi, forse un'altra famiglia che non so, la volle nella riposata pace di quel luogo.

Allora aveva l'aspetto delle vecchie cose che non servono più a nessuno.

Era sempre chiusa in fondo a un giardino, nel quale i viali si cancellavano di anno in anno, fra le ortiche e gli sterpi.

Aveva un'aria semplice e severa; una linea architettonica che ricordava il barocco ingentilito delle ville veneziane, fra Brenta e Piave.

Vi si accedeva per una grande scala esterna, a due rami. Alla sua sinistra, e un poco più verso la strada, sorgeva una chiesuola col suo campanile e una piccola campana che non aveva più albe da poter cantare.

Non so quale storia raccontassero, i contadini, della famiglia Monaldi: mi pare dicessero che, l'ultimo dell'antico ceppo, fosse lontano, per le metropoli regali, dimentico della sua terra.

Ed anche favoleggiavano di qualcuna che era morta di malinconia e di nostalgia nella grande casa dei campi...

E da quel tempo la Monaldina non si era riaperta mai più.

Sulla strada, due grandi pilastri rossigni, mezzo ricoperti dall'edera, reggevano un rugginoso cancello in ferro battuto, che portava a sommo, l'insegna gentilizia dei Monaldi. Due cancelletti minori si aprivano ai lati. Ma i battenti non si aprivano più per lasciar passare qualcuno.

Vi passavan le ombre e solamente quelle. Questo era il cuore e questa la poesia della Monaldina.

E Giacometta vi si volle fermare.

Ella viveva così, di volontà inattese.

Avrebbe voluto veder tutto, rovistar tutto, fare aprire porte e finestre, posseder l'anima del luogo, vivere dell'incantesimo triste della vecchia villa ravennate.

Ma i contadini non poterono far niente; essi non avevano le chiavi; forse le aveva il fattore.

— Non importa — disse Giacometta. — Ritornerò!

Ed era certo ch'ella sarebbe ritornata.

Arlecchina era seccata e cantarellava un'aria della Vally.

Poi disse:

— Non capisco come possa interessarti questa vecchia villa che fa venire l'ipocondria solo a guardarla!

— Tu non puoi sapere — rispose Giacometta. — È una mia idea!

— Spero non vorrai comprarla!

— Se si vendesse la comprerei.

— Ma non mi avresti ospite...

Giacometta non rispose. Si fermò a raccogliere un fiore e ripartimmo.

Ed ecco i colli foroliviensi e il campanile di San Mercuriale spuntare di fra l'azzurro come il faro delle rondini nel cuore dell'aria.

— E tu aspettami in giardino — disse Giacometta.

Io non volevo esser veduto; e molto meno dalla signora Adalgisa.

Mi inoltrai nella parte più remota del giardino.

Arlecchina era salita con Giacometta. Mi avevano detto che si sarebbero trattenute non più di due ore.

Per ingannare il tempo mi diressi alle serre. Mi proponevo di conversare un poco con Girolamo.

Me ne andavo così strappando qualche foglia alle macchie e guardando le ombre turchiniccie sulla terra e sui prati; ascoltavo gli usignuoli e sentivo discendere in me la letizia della primavera.

E mi sentii chiamare:

— Signor Franzi?

Principina era sbucata da una macchia di lillà; mi guardava, rossa come il fior del geranio.

— Oh, Principina!

Ella discese fino al limite del prato; ma rimase sull'erba co' suoi piedi scalzi.

— È dei nostri, ancora?...

— Sono di passaggio...

Si volse a guardare i fiori delle serre aperte.

— Non ritornerà più con noi?

— Non lo so, Principina...

— E... sua zia?

— Per quella non è un gran male se non ritorno più!

— Sa che è venuta a cercarlo?

— Qui?

— Sì, ier l'altro! Ha parlato al signor Stefano.

— Poco male.

Passò un silenzio.

— Dove va, adesso?

— Andavo a cercare Girolamo...

— È fuori... È andato al mercato a Faenza... Tornerà questa sera...

La brezza muoveva le pannocchie delle sirene fiorite.

— Deve aspettare la signorina?

— Sì...

— Ripartiranno in automobile?

— Sì...

— Come deve essere bello!...

Strappò un fior di sirena e vi affondò la dolce faccia di bambina.

— Senta come sa di buono!

— E tu... che fai Principina?...

— Io?... Che vuol che faccia?... Niente!...

— Non esci mai?

— Uscire?... E per andar dove?...

— Alla tua età!... Non hai proprio nessuno che ti aspetti?...

Divenne di bragia. Mi guardò conturbata.

— Chi deve aspettar me?... Sono una povera!

— Questo non vorrebbe dir niente!

— Vuol dir tanto, invece!

— Ma tu sei bella...

— Bella?... — Mi guardò fissamente negli occhi. — E poi... anche se fosse vero, a che cosa mi servirebbe?...

— Ma... mi pare debba essere sempre una gioia sentirsi guardare!

— No, signor Franzi. Io ho una strada sola...

— E dove va la tua strada?

Ella mi levò in faccia gli occhi ad un tratto serii e malinconici. E non rispose.

Mi domandò, dopo una pausa:

— Ha niente da fare?

— No.

— Vuol venire con me?

— Volentieri.

— Vado a dar aria alla serra delle orchidee.

Ci avviammo attraverso ai prati. Ella camminava guardando a terra.

Povera piccola cara!... Ora che ti ripenso... ma allora ero troppo cieco!...

Vi sono creature che ci stanno accanto accanto, tante volte, e che non vediamo mai.

Passano nella nostra vita, spente nell'abitudine.

Se ci si chiedesse all'improvviso di quale colore hanno gli occhi, non sapremmo dirlo.

Le udiamo parlare, le sentiamo vivere la nostra vita di ogni giorno; accanto alla nostra gioia e alla tristezza nostra, eppure ci sono lontanissime...

Non una loro parola penetra nell'essere nostro; non un loro sorriso ci illumina il cuore.

Ne conosciamo il nome, eppure è come se non lo sapessimo nemmeno.

Chi sono? Dove vanno? In che consiste la loro povera vita?

A tali domande non sapremmo rispondere.

Per noi sono o furono la cieca abitudine, il niente.

La cenere del focolare; le ore grige senza volto. Sono o furono la giornata più inutile; quella che non lascia ricordo; che si chiude nella tetraggine dell'infinita inutilità!...

Sono o furono il più intiero silenzio nelle disperate pause che si vogliono dimenticare.

Ma talvolta, negli anni più gravi, queste creature della povera vita si presentano alla deserta soglia del cuore...

E vediamo ciò che non vedemmo mai...

Ci accorgiamo allora di un bene perduto. Perchè esse sole, le creature della povera vita, ritornano quando nessuno ritorna più; e non dicono parola...

Ma le vediamo piangere del nostro pianto, nel silenzio che non ruppero mai, per lasciarsi più libera la strada...

Ora che ti ripenso, povera piccola cara!

Ma allora ero troppo cieco.

— Quanti anni hai, Principina?

— Sedici, signor Franzi.

— E sei sola?

— Sì, siamo soli, il babbo ed io.

— Sei nata qui?

— No. Sono nata a Terra del sole, ma venni qui che non avevo ancora due anni.

— E anche tu ti occupi di giardinaggio?

— Sì. Mi piace tanto!

— E pensi di rimaner sempre in questo giardino?

— Dove vuole che vada?

— Non sposerai?

— Per sposare bisogna essere due...

— Grazie! Ma non vorrai trovarne di giovani che ti vogliano?

— Per trovarli bisognerebbe volere...

— E tu non vuoi?

— Non ci penso.

— Già, sei tanto giovane!

— No, non è per questo.

— E allora?

Certe volte si guarda alla casa più lontana, sui monti e... non si trova la strada per arrivare!

— Allora sei innamorata?

— No, signor Franzi... non posso essere innamorata!

— E perchè?

— Perchè... con una sola gugliata non si cuce un lenzuolo...

Rispondeva dolcemente col suo parlar figurato e non mi guardava mai. Mi precedeva di un passo, scivolando fra le macchie, leggera e sottile. Passava sotto i grandi alberi, nel sole; smuoveva appena i fiori dei ranuncoli, sui prati.

— Ah, Principina! Tu non vuoi dirmi chi è il tuo innamorato...

— Perchè mi tormenta, signor Franzi?

— Hai ragione. Perdonami.

— Che devo perdonarle... io?... Mi fa piacere sentirla parlare. Era tanto tempo che non la vedevo più! Solo non posso dirle niente, perchè non ho niente da dirle...

Arrivammo alla serra delle orchidee. Principina ne aprì i battenti. Il sole si precipitò in un gran fiotto d'oro ad inondare la serra.

— Vede come sono belle!

— E tu sai il nome di tutte?

— Sì.

— E sai anche il nome latino?

— Sì, signor Franzi. Forse dirò qualche sproposito, ma per quello che ho studiato io!

— Che classe hai fatto?

— La terza elementare. Poi basta. Il babbo aveva bisogno di me. Ma leggo molto. Ho letto anche il suo libro...

— Tu?...

La mia sorpresa domanda le fece abbassar gli occhi.

— Ha ragione. Io sono una povera ignorante e non dovevo dirglielo neppure!

Alle mie tarde proteste cambiò discorso ma sempre con dolcezza, senza dimostrarsi offesa.

Più tardi mi domandò:

— Quand'è lontano, ci pensa qualche volta al suo paese?

— Quasi mai — risposi.

— Non c'è niente che le piaccia al suo paese?

— Forse... non so bene. Ma è certo che mi ci sento morire!

— Dunque andrà via per sempre?

— Lo vorrei.

— E andrà molto lontano?

— Anche al di là degli oceani andrei, pur di acquistare l'intiera libertà della mia vita...

— Ha ragione...

Certe volte tu incontri degli occhi puri, senza egoismo e non sai vederli. La bontà è lieve; passa col volo della rondine.

E quando è morta, allora una voce ti parla dentro e dice: — Quella era la bontà!...

— Signor Franzi — riprese Principina, — a Bologna ha conosciuto qualcuno?

— Perchè mi domandi questo?

— Così!... So che la signorina ha tante conoscenze a Bologna...

— Fino ad ora non ho conosciuta che Arlecchina.

— Vedrà che la signorina le farà conoscere anche gli altri amici...

— E che ne sai tu?

— Non sono sempre insieme?

— Sì.

— Allora vedrà!

— Ma perchè lo dici?

— Per niente...

— Per niente, no! Tu sai qualcosa...

— Signor Franzi, che vuol che sappia, io?

— Tu sai qualcosa che non vuoi dirmi!

— Io vorrei dirle una cosa sola...

— Quale?

— Vorrei dirle di non sperare troppo...

— E perchè?

— Perchè ci son tante strade che non conducono a casa!... Mi perdoni, signor Franzi! Mi sono presa la confidenza di dirle questo perchè mi pare di conoscerla tanto bene... tanto bene!... Ho avuto torto?

— No, Principina...

— Lei è come un bambino!... E una volta ha fatto quel salto dalla finestra... e poteva ammazzarsi!...

— Ora esageri!

— Be', io ebbi paura!... Io non avrei voluto mai ch'ella avesse fatto, per me, una cosa simile!

— Che c'era di male?

— Niente! Ma non si vuol bene così!

Volse la faccia da un'altra parte e rimanemmo muti in un reciproco imbarazzo.

Ella aveva parlato troppo e un disagio invincibile era nell'anima mia, fuori strada. Nell'anima di lei c'era un'angoscia fonda. Ci avviammo verso una piccola casa bianca, fra le roveri.

C'era un solo nido di rondine sotto la gronda arrugginita...

C'era una sola stanza sotto la gronda... Principina disse:

— Io dormo lassù...

Guardai la casa e l'aria turchina... La primavera eri tu, piccola rondine sola...

— E in queste notti, con la finestra aperta, sento cantare i rosignoli e vedo tutte le stelle...

Due grandi occhi di bambina spalancati sulle notti di aprile...

perchè il piccolo cuore non dovesse morire dì solitudine fra le quattro mura di una stanza...

— Io dormo lassù... e sento le campane dell'alba e il primo volo della rondine...

Il primo volo di una rondine; qualcosa che si allontana per sempre!

E così in un angolo di mondo, povera piccola mia, tu guardavi e ascoltavi senza parlare mai.

XXIII

E guarderemo, passando nella notte, le finestre illuminate da una gioia che non potremo sapere...

Ripartimmo, ma io ero più taciturno e l'allegria di Arlecchina non bastava a distrarmi.

Giacometta mi domandò più volte che avessi. Le risposi sempre vagamente.

Al Piratello, passata Imola, un guasto all'automobile ci costrinse a fermarci.

Ci avviammo a piedi attendendo che la macchina fosse riparata.

Le parole di Principina avevano innalzata, nel mio povero cuore, la torre della gelosia e, dentro, c'era l'anima che piangeva.

E soffrivo. Arlecchina mi disse:

— Franzi, oggi siete simpatico come un quaresimale!

Giacometta, indispettita dal mio contegno, soggiunse:

— Lascialo stare. È meglio non occuparsene.

Tale indifferenza accrebbe il mio dispetto.

Avvenne così che il mio ostinato mutismo e la mia faccia oscurata distraessero compiutamente da me l'attenzione di Giacometta e di Arlecchina le quali, presesi sotto braccio, se ne andarono innanzi parlando fra loro e mi abbandonarono alle mie inesplicabili paturnie.

Io camminavo sullo scrimolo di un fosso e venivo guardando le campagne dell'imolese; ma non mi interessavano; anzi, in quel punto, mi erano odiose come tutte le cose del mondo.

Giacometta ed Arlecchina ridevano allegramente, un poco più innanzi.

Perchè ridevano?... Evidentemente per accrescere il mio malumore, per incrudire il mio male.

L'automobile arrivò ed io avevo lasciato dilungare di molto le mie compagne.

Salii a fianco del meccanico.

Giacometta ed Arlecchina non si vedevano. Possibile si fossero dilungate di tanto?

Demmo l'avviso con la tromba dell'automobile; si proseguì a passo d'uomo; ci fermammo.

Dove erano andate?

— Saranno entrate in qualche casa di contadino.

Rifacemmo la strada a ritroso; entrammo in tutte le case; nessuno le aveva vedute.

— Avranno preso qualche via traversa...

Il meccanico si stringeva nelle spalle; il mio dispetto incominciava a dileguare.

— E che si fa adesso?

Il meccanico era uno di quegli uomini che non amano assumere responsabilità. Io solo dovevo decidere.

Sopraggiunse un biroccino con sopravi un fattore rubicondo:

— Scusi... non ha veduto due signorine così e così?

— Macchè!... Neppur l'ombra di una signorina!

Arrivò un'automobile, a precipizio. Ritto in mezzo alla strada feci cenno perchè fermassero:

— Scusino... non hanno veduto...

Mi mandarono a morire ammazzato. Erano persone molto bene educate.

— E adesso?

Decidemmo di proseguire a passo d'uomo.

La sera si avvicinava.

Ad ogni chilometro una sosta; ad ogni stazione sulla linea del tranvai Imola-Bologna, una fermata più lunga.

Giacometta ed Arlecchina erano scomparse sulle ali del loro Genio. Neppure avessero fondato Roma!

Però la cosa incominciava a destarmi una seria preoccupazione. Potevo io ritornare a Bologna così? Potevo presentarmi in casa di Arlecchina, o anche dalla placida signora Zeffira senza neppur l'ombra di una spiegazione da dare?

Dovevo ritrovarle a tutti i costi; pena la mia tranquillità.

Bologna non era ormai lontana più di quindici chilometri.

Per la via Emilia si vedono ceffi di ogni sorta e non solamente gli zingari passano su questa grande strada miliare.

Poteva darsi adunque che due o più uomini, decisi a tutto, imbattutisi, in un punto solitario, nelle due giovinette, se le fossero prese.

Tale dubbio mi tormentò ancor più. Dissi:

— Arriviamo fino a San Lazzaro; se a San Lazzaro non le abbiamo trovate, torneremo indietro.

Il meccanico non era entusiasta e incominciava a diffondersi riccamente nel campo della bestemmia.

— È inutile bestemmiare, caro Luca!... Tanto bisogna ritrovarle.

Luca era un buon bolognese, di fondo gioviale, ma violento.

L'udii mormorare, all'indirizzo delle due signorine, qualche parola che non portava i guanti bianchi. Si espresse senza perifrasi. E la cosa tanto mi dispiacque che poco mancò non ci mettessimo le mani addosso.

Il pericolo fu evitato solo perchè un carro che ci attraversò la strada ci distrasse.

Com'era ben naturale, tutto il furor nostro compreso si sfogò allora contro il carrettiere che coprimmo di male parole.

I carrettieri, vuoi per il loro peripatetico mestiere, vuoi per l'influenza della luna, vuoi per tradizione di classe, certe volte non sentono e certe altre volte sentono doppio.

Quando non sentono, tutto va bene; ma quando sentono doppio è opinione comune che le cose finiscano male.

Eravamo ad un paesuccio di cui non ricordo il nome; vicino ad un'osteria che aveva per insegna un grandissimo gallo.

L'automobile si era fermata.

Il carrettiere era un uomo robustissimo e doveva certo aver vuotato varî boccali. Lungo la via Emilia sono distribuite numerose osterie per la inestinguibile sete dei carrettieri.

Michelaccio (il nome lo ricordo perchè lo seppi dopo), quel giorno si era proposto di essere allegro come a quindici anni e per esser tale, si era raccomandato al buon vino dei colli bolognesi. Ma detto vino, più che allegria, gli aveva dato una immensa coscienza di sè stesso, tanto che Michelaccio viaggiava, quel giorno, sul suo carro, come l'apostolo e l'imperatore della proletaria grandezza.

Fatto sta che il degno uomo, udite le parole nostre (le quali non erano ingiustificate!) discese dal carro e brandendo alta una sua nodosa frusta che si chiama, in Romagna, parpignano, si diresse correndo verso di noi con la ferma intenzione di sottoporci al massaggio sofferto dalle sue bestie da soma.

Luca ed io, discesi dall'automobile, fummo pronti a scansare, in un primo tempo, la furia di Michelaccio, il quale continuava per altro ad avventarcisi addosso con ferma costanza.

La buffa schermaglia non poteva continuare. Già si era venuto formando un crocchio che assisteva alla scena ridendo.

Non era ammissibile che l'uno dovesse continuare ne' suoi assalti e gli altri dovessero difendersi senza reagire.

Luca pensò di finirla.

Scelto il momento opportuno, si cacciò sotto, riuscì ad abbrancare Michelaccio, lo strinse forte e ruzzolarono per le terre.

E Luca stava buscandole. Michelaccio se l'era messo sotto e con i suoi grandissimi pugni veniva esercitandosi in guisa da cambiare i connotati al mio povero compagno.

Il suo coraggio non lo salvava.

Fu allora che intervenni.

Mi abbrancai all'industre carrettiere e, invece di esser due, fummo tre a ruzzolar per le terre.

Ora avviene che la folla, la quale assiste a un litigio, finisca per eccitarsi a sua volta.

La nostra gente non può non parteggiare.

E anche quella volta parteggiò, ma per Michelaccio. Noi eravamo signori!

Luca, mio buon Luca, noi eravamo signori!!...

Tu ed io, con la nostra sacrosanta e decorosissima miseria che non ci ha abbandonato quasi mai! Tu, re del volante; io, suddito della penna!

Dapprima la gente, assistendo al nostro triplice pugilato, si accontentò di urlare; ma poi anche questo le parve poco. E allora prima uno, poi quattro, poi sei energumeni si staccarono dal crocchio ed entrarono in lizza.

Dio Onnipotente, quante ne buscai!...

Molte volte, nel corso delle mie esperienze, partito col nobile còmpito di bastonare, ritornai bastonato; ma quella volta fu un'esagerazione. Non si può ammettere che un poveruomo solo, debba digerirsi una così nutrita scarica! Io non mi sentivo ormai salva nessunissima parte del corpo.

Avevo un occhio enfiato; mi sanguinava la bocca; le spalle e il resto del corpo non me li sentivo più.

Ormai mi ero detto:

— Povero Francesco Balduino, sei bell'e spacciato. Preparati a far fagotto e raccomandati alla Divina Misericordia!

Mi sentivo lanciare da destra a sinistra e avanti e indietro, da un pugno all'altro; da una notevole pedata, a una seconda pedata non meno notevole. Il mio povero bel vestito era tutto un brandello. Colletto, cravatta, camicia non esistevano quasi più. Il cappello era un'immondizia in mezzo alle immondizie, fra la polvere. Non ci vedevo più, non parlavo più; le mie labbra parevano colpite da improvvisa elefantiasi. Stavano per scardinarmi i denti e mi avrebber mozzate le orecchie e il naso se li lasciavano fare.

Fosti contento, Michelaccio, imperator nostro delle carra?... Ti piacque il festino sulle persone nostre, magnifico cantor della luna per le tappe miliari delle grandi strade maestre? Ti parve soddisfatta la nobiltà tua di nuovissimo Re dei boccali e delle moltitudini?

Ci deste addosso in quaranta, figli di cani, e ci volle un bel coraggio!...

In quaranta: e Michelaccio guidava la ciurma. S'io anche fossi stato grosso e forte come Gargantua, che avrei potuto fare? Ero invece, come sono, un uomo di modesta taglia che non può compire l'inverosimile.

Poi quando si è sopraffatti non si reagisce più. Ci si lascia percuotere come un tappeto; rassegnati a tutto.

Comunque fosse, la fortuna ci venne in aiuto nel momento critico.

Il popolo stava compiendo su di noi le sue vendette socialiste, allorchè intervenne chi rappresentava ancora un barlume di civiltà: intendo riferirmi a qualche carabiniere.

Allora la folla ci lasciò stare; ma non si trattava di una grande generosità.

Ci lasciò stare e tanto Luca quanto io non potemmo rialzarci da terra.

Nello stato semicosciente nel quale mi trovavo ricordo di aver udito una voce che diceva:

— Li hanno ammazzati!

Allora ebbi il dubbio di esser morto addirittura; uno stranissimo dubbio che sdoppiò l'essere mio in modo che mi vedevo disteso in terra e tutto insanguinato e potevo disinteressarmi tranquillamente dei fatti miei mortali.

Poi ci caricarono in non so quale veicolo e ci portarono via fra i fischi e gli ululati della folla.

Signori socialisti, questo fu il trionfo di Michelaccio imperatore.

Forse tale fasto non passerà ai posteri, scolpito nel bronzo dell'avvenire; ma sta di fatto che la folla, non ancora soddisfatta, fischiò ed ululò al passaggio di due cenci sanguinanti.

Signori socialisti, io sono stato il giullare della mia vita ed ora sono un uomo che ride perchè nel mondo v'è troppa tragedia per aggiungervene ancora; ma voi, vi siete resi conto di quello che avete fatto delle moltitudini, all'infuori di ogni giusta riforma e di ogni più lontana conquista?...

Avete pensato agli argini per salvare le faticate messi?...

Domani la civiltà potrebbe essere, come noi eravamo, un cencio sanguinante dietro al quale la scalmanata follia delle moltitudini ululasse il suo scherno.

Ci guardammo di fra le bozze, i gonfiori, le piaghe e le lividure; ci guardammo da un occhio solo, Luca ed io, e ci si meravigliò di essere ancora vivi e di esser vicini.

Eravamo in camera di sicurezza.

Abbandonati su due tavolacci vicini, ci avevano lasciati là come cose immonde.

Ed era sopraggiunta la notte.

Mi pareva di aver vissuto duecentomila anni e della mia vita non ci capivo più niente. Solo, a incommensurate distanze appariva un isolotto, un frammento di memoria.

Ravenna... Giacometta... il giardino di Principina...

Ma l'una cosa non si riconnetteva all'altra. La mia coscienza era a brandelli.

Luca trovò ancora forza per dirmi:

— Signor Franzi... se non vengono a prendermi... muoio...

Ricordo che risposi:

— Anch'io...

Non rammento quante costole rotte avessimo; ma sono certo che, a sommarle, facevano un bel numero.

Ricordo ancora che dovevo respirare con somma precauzione per evitare un dolore cane che, ad ogni respiro, mi trafiggeva la spalla sinistra.

Poi, nel silenzio che si era ormai stabilito, udimmo un rumore insolito e il rombo di un motore fece levare il capo a Luca.

— Vengono a prenderci... — disse Luca.

Risposi con profonda convinzione:

— Non è vero...

Chi poteva venirci a prendere se eravamo l'ultimo rifiuto della società?

Però i catenacci stridettero e la stanzaccia fu invasa da un fiotto di gente.

Qualcuno chiese:

— Dove sono?

E un altro:

— Eccoli!

Allora udii una voce cara, una voce nota, che implorava ansiosamente:

— Franzi... Franzi?... Dov'è Franzi?...

E poco dopo Giacometta era china sulla mia mostruosità ed io sentii sulle mie ecchimosi la carezza del suo respiro.

— Franzi?... Franzi mio?... Amore mio caro?...

Dio ti benedica fino in fondo al tuo cammino, solo per la grande dolcezza che mi desti allora!

— Come l'hanno ridotto!... Non si riconosce!....

E ti udii singhiozzare.

Invece io ridevo. Ridevo dentro di me di un riso infinito; ridevo perchè sentivo il mio amore che ritornava come una folata di vento primaverile verso la mia disperazione.

Se mi avessero calpestato dieci volte tanto, ancora sarei stato felice, per averti ritrovata...

— Amore? rispondimi!.. Amore?.. rispondimi almeno una parola...

Parlavi basso perchè io solo ti udissi; perchè si creasse il cerchio soave nel quale due sole anime si illuminano.

— Come stai?... Ti senti molto male?...

— No..

— Puoi parlare?... Puoi parlare ancora, amore mio?...

— Un poco...

Allora volesti accarezzarmi i capelli e, con ribrezzo, ritraesti la mano insanguinata.

La tua minuscola mano regale, insanguinata!

Ti riudii parlare con qualcuno che non vedevo:

— È ferito anche al capo. Guardate!

E questo qualcuno rispose:

— Ora lo porteremo via.

— Ma non sarà troppo grave?

— Non credo. Lo trasporteremo in automobile.

— Alla villa?

— Sì, alla villa.

— Oh, grazie, grazie!... Volevo chiedervelo come un grande favore, ma non mi azzardavo!

Quando mi sollevarono dal duro giaciglio ebbi un grido di dolore. Poi non ricordo che una nebbia di sonno e d'incubo.

XXIV

Ebbene, diremo al tempo di volerci dimenticare per un piccolo secolo almeno...

I medici, molte volte, non sanno quello che si fanno.

Prendono un innamorato e lo chiudono al buio.

Lo chiudono al buio e lo fasciano come il povero Lazzaro prima che uscisse dal suo sepolcro.

I medici scrissero un decalogo, per me:

Non parlare.

Non mangiare.

Non muoversi.

Non deglutire la saliva.

Non domandare la luce.

Non cercare Giacometta.

Non desiderare Arlecchina.

Non pensare.

Non bere.

Non inquietarsi mai.

Poi scrissero duemila ricette; mi impiastricciarono tutto il corpo con certi loro infernali unguenti che putivano; mi raddrizzarono le costole e mi fasciarono tutto come la mummia di un qualsiasi Sesostri; mi cucirono mi suturarono; mi sondarono; mi cauterizzarono; mi disinfettarono; mi anestettizzarono e, non contenti di aver fatto di me il campo sperimentale dei tormenti, mi ficcarono in camera una vecchia suora di carità che tabaccava e starnutiva di minuto in minuto.

Ed io cantavo e sorridevo al mio divino maggio.

Perchè maggio era ritornato.

Me ne accorsi, chè Suor Costanza disse, una volta:

— Siamo entrati nel Mese di Maria e vedrà che la Beata Vergine le farà la grazia di guarir molto presto!

Oh, Suor Costanza che fiutavate tabacco, come mi cantava in cuore il vostro Mese di Maria! Ve ne accorgeste voi, piccola suora rugosa?

Se fiorivan tutte le rose lontane, anche nella mia benedetta stanza fioriva un giardino.

Il mio giardino, Suor Costanza.

Io vi sentivo pregare e mi piaceva pregaste la Vergine di Maggio.

In modo diverso eravamo assorti ambedue nella stessa preghiera.

Io vi sentivo pispigliare, buona donna mia; ma vedevate voi tanto cielo quanto io ne vedevo?

Vi faceva la grazia, la Vergine Beata, di schiudere, alla mente vostra, la divina bellezza dei terrestri paradisi?... Sognavate voi i giardini dell'alba, i giardini dei crepuscoli, i fiori, i bimbi, le fanciulle, il sole, la gioia?

O tutto questo era peccato grande, per voi, Suor Costanza?..

Era peccato grande?

Ma che cos'è Iddio, Suor Costanza mia, ditemi che cos'è Iddio (a me peccatore cane, ditelo) se non vive in tutti gli imponderabili di cui Primavera si veste?

Può darsi che odii ciò che ha creato, l'Iddio nostro? Suor Costanza che fiutavate tabacco, se questo non era, quale spiritello ghignava allora fra i grani della vostra nera corona?

Il vostro Mese di Maria era adunque la notte polare?

E dalla giovinezza vostra, dall'isola bella del vostro vivere nel mondo, non vi arrivava più nemmeno un ricordo ad avvincervi?

Sì, anch'io lo sapevo il Mese di Maria, il mio mese fanciullo!

E Maria era il mio sogno di bimbo che guardava le nuvole, le rondini, i fiori del maggio.

Lo sapevo con le chiese che si aprivano non appena il sole era dietro le torri; e con i grandi altari nel buio fondo in cui le scalate fiammelle dei ceri disegnavano come un organo ardente.

Anche la luce cantava, Suor Costanza, nel mio maggio fanciullo.

Ed entravamo nelle grandi chiese in un raccoglimento giocondo; portavamo a Iddio ciò che si aveva di migliore, ciò che da Lui ci proveniva: la nostra divina allegrezza!

Oh, Suor Costanza, quelli erano veramente gli anni della pura e profonda religione!

Si entrava a salutare e a ringraziare il Signore perchè non faceva più freddo; perchè erano ritornate le rondini.

Si entrava con una grande semplicità bambina, nella Casa del Signore e gli occhi nostri raggiavano come i ceri dell'altar maggiore, in fondo alla navata centrale.

Il Mese di Maria era quello della nostra più pura festività.

Oh, maggio maggio maggio!...

La mia città di provincia si vestiva del profumo de' suoi giardini...

Suor Costanza, non avete sentito mai il peso della verginità vostra? non vi è mancato mai il vostro tetro coraggio, Suor Costanza, quando nella quietudine insidiosa delle Città dei giardini incominciano a fiorire le rose e il gelsomino?

Quando a passare da una malinconica e deserta strada, in un'ora di crepuscolo, fra le piccole case aperte e come disabitate, vi siete sentita ad un tratto investire, abbracciare, trasportare da una morbida ventata di profumo, da una carezza insidiosa?... Ed eravate sola, e giovine, e desiderata?...

Suor Costanza, il vostro tetro coraggio è stato sempre più forte, in voi, della vostra pena?

Oh, ch'io vi compiango, sorella mia! Vi compiango perchè Iddio non indulge due volte, nella vita terrena; ed ogni anno serra una tremenda porta che non si riaprirà mai più!

Ora voi ne avete tante e tante di queste porte irremissibilmente serrate, e vi disciogliete in una lenta preghiera che vi dà la calma del sonno.

Ed io vi sento pispigliare nella tenebra della mia stanza che i medici vogliono chiusa; e ascolto il tinnire dei grani del vostro rosario sul quale offrite alla Vergine Maria, nelle preci, il dono della verginità vostra, povera sorella, che è così malinconica e inutile.

Avete giovato a Iddio o a voi stessa riportando a Iddio il magnifico dono di cui vi aveva ornata?...

Oh, ma le vergini della Galilea...

Avete veduto Nazaret, Suor Costanza?

Siete andata mai in dolce pellegrinaggio alle terre del vostro Signore?

Andate andate, sorella mia. Entrate nella soave Nazaret quando incomincia la primavera della Palestina; soffermatevi ai pozzi, verso sera, quando vi si raccolgono le vergini bellissime dalle armille d'argento...

Certo riconoscerete Myriam... Laggiù il miracolo si rinnova di anno in anno...

Andate andate, Suor Costanza, il miracolo si rinnova, nelle terre del vostro Signore, ad ogni innamorato crepuscolo, quando passa la primavera sulla Palestina e una musica indefinita arriva dalle lontananze del Giordano e dai colli di Getsemani...

E l'angelo Gabriele discende per le bianche strade e per le carovaniere; condotto per mano dal giovine amore.

Myriam è sempre viva e vivrà sempre ai pozzi della Palestina, fin che la giovinezza si innamori.

Ma voi non mi udite, Suor Costanza, da dietro le vostre cento porte barricate; e Iddio non vi può ascoltare.

Ah, che è bene un grandissimo peccato, morire senza aver peccato, sorella mia!

Io vi dicevo questo, allora, e adesso è inutile ve lo ripeta perchè sarete morta forse, in fondo a qualche convento nella sconsolata disperazione di non aver vissuto.

Ma se siete viva, Suor Costanza, e possa darsi l'inverosimile caso che queste mie infernali parole vi capitino sotto agli occhi, ricordate ch'io pur sempre vi voglio bene, sorella, e vi imploro almeno la grazia di un divino sogno nel quale possiate addormentarvi serena come dormivate già accanto al mio letto con la corona fra le scarne mani.

E anche per voi, sia fatta nel bene, e solamente nel bene, la volontà di Dio.

Io fantasticavo, io sognavo di giardino in giardino, mentre la buona Suora mi era sempre d'intorno, fiutando tabacco.

Non potevo veder nessuno; non potevo nemmeno parlare.

Mi dissero poi che poco c'era mancato non me ne ritornassi al Creatore.

Fra le altre cose avevo anche la frattura del cranio.

Ma andate a parlare con i diciannove anni!

I medici avevano detto che la cosa sarebbe stata molto lunga; e invece fu brevissima.

Avevano prognosticato almeno due mesi di letto e in quindici o venti giorni il mio macerato corpo si era rifatto.

Io volevo guarire e tale volontà, oltre tutti i dettami della scienza, ebbe certo grande importanza.

Però come furono terribilmente lunghi i giorni trascorsi al buio e in piena solitudine con Suor Costanza!

Siccome stavo per perdere un occhio, i medici mi avevano costretto alla tenebra. Nè potevo chiedere di Giacometta, nè potevo sapere dove mi trovassi e chi fosse il mio ospite.

Mi erano evitate le emozioni. E perchè poi? Solo Suor Costanza si credette di consolarmi un giorno domandandomi se volevo vedere la signora Adalgisa.

Tale prospettata consolazione mi fece salire la febbre a quarantun gradi! E se me la facevano vedere sarei morto.

— No, per carità! Che male ho fatto, io?...

Fu così che incominciai a migliorare.

In capo a sei giorni vidi la luce.

Ricomparve il Verbo al mio spirito in amore.

Ma quale impetuosissima gioia!

Quando si aprirono le finestre, ecco il più bel giardino di alberi in fiore; ecco il più bel cielo di maggio!

Allora la volontà di guarire venne moltiplicandosi di ora in ora.

— Questo ragazzo ha la vitalità di una cavalletta!

In capo a otto giorni, mi fu permessa la più grande emozione:

Io ti rividi, amor mio!

Ora Giacometta procedeva per impulsi e predilezioni imprecise senza badar troppo a quel che faceva.

Così quella volta non pensò nè punto nè poco che una buona e candida Suora di Carità era nella mia stanza; o, se anche vi pensò, non vi fece caso, tanto che di un salto fu al mio letto, mi abbracciò e incominciò a parlare a parlare.

Mi accorgevo che Suor Costanza non fiutava più tabacco e veniva facendosi certi segni di croce che erano sempre più larghi; ma non volevo dire a Giacometta di contenersi.

— Peccheremo, Suor Costanza — dissi fra me — ma è così giusto peccare!...

Giacometta mi parlò di Beppe Mandusio; me ne parlò con entusiasmo. Un bello, un simpatico giovine.

— Tu sapessi le partite a tennis che abbiamo fatte in questi giorni!

Io intanto avevo vissuto fra Suor Costanza e la tenebra.

Poi mi parlò di tutti quanti erano nella grande villa bolognese e, più vagamente, di un giovane maestro di musica, un certo Rorò che era noto, al secolo, col più umano nome di Doro Somigli.

Erano quasi sempre una trentina, vegliavano, la notte, fino ad ora tarda. Spesso spesso dai suoni e dai canti trascorrevano alle danze.

— Vedrai come ti divertirai! Oggi il marchese Alberti vorrebbe conoscerti. Vuoi vederlo?

Il marchese Alberti era l'ospite mio; colui che mi aveva accolto nella famosa notte del mio disastro.

Come non volerlo vedere se gli dovevo tanta riconoscenza? Mi dichiarai disposto ad accoglierlo anche subito. Giacometta mi consigliò di riceverlo nel pomeriggio.

Poi seppi come si erano svolte le cose, la sera della quasi tragedia.

Giacometta ed Arlecchina, visto ch'io ero ormai, e inesplicabilmente, intrattabile; non essendo disposte a combattere con i miei ingiustificati nervi, nè volendo, d'altra parte, immalinconirsi con la mia malinconia, si erano allontanate da me col proposito di farsi raggiungere dall'auto.

Avevano così camminato lungo la strada provinciale per qualche chilometro e si erano fermate ad attenderci alla spalletta di un ponte quando un'altra automobile le aveva raggiunte, quella del marchese Otomaro Alberti.

Com'era naturale e cavalleresco, il marchese Otomaro, che guidava la macchina, frenò di forza e, saputo dell'inconveniente toccato alle giovani leggiadre, le invitò a salire.

Esse, per un poco rifiutarono cortesemente; ma cedettero poi alle insistenze del marchese il quale disse loro, ad un dipresso, le cose che seguono:

— Io vado alla Stellata (era il nome della sua villa). Lasceremo un servo sul cancello perchè, al passaggio della loro automobile, avverta il meccanico ed il loro amico e li faccia entrare.

La soluzione era semplice.

Giacometta ed Arlecchina salirono sulla macchina del nobile Otomaro.

Poi le ore eran passate; era sopraggiunta la notte.

L'apprensione si era convertita in pena; la pena in paura.

Certo che una cosa sinistra doveva avere interrotto il nostro viaggio.

E rieccole in macchina, alla disperata ricerca.

Ci avevano poi trovato in camera di sicurezza e sul punto di esalare lo spirito nostro armonioso.

Anche Arlecchina arrivò a salutarmi, poi che Giacometta fu uscita; mi accarezzò sussurrandomi qualche vaga parola.

Essendosi ella posta sopra una nuova strada, voleva assicurarsi la mia discrezione circa la perduta notte ravennate, quando lo spirito dei poeti e delle imperatrici l'avevano sospinta a varcar la soglia della mia stanza per compire, nel brivido della settima, la danza delle sei rose.

Poi anche Arlecchina mi lasciò e, nel pomeriggio, ecco Otomaro Alberti in persona.

In verità il marchese Otomaro, di giapponese non aveva quasi niente se se ne tolgano i capelli lisci, neri e setolosi. Il resto del viso e del corpo era di perfetto tipo caucasico.

Un servo venne ad annunziarlo ed egli si presentò da quel perfetto gentiluomo che era.

— Ho il piacere di conoscervi finalmente!

A me parve una degna persona.

Alto, elegantissimo, il viso compiutamente rasato, la caramella, modi signorili, un parlare calmo e benigno con qualche punta d'ironia.

I marchesi Alberti appartenevano al più antico e schietto patriziato bolognese. Credo avessero avuto uno o due antenati alle Crociate. Un nonno di Otomaro, già generale di Napoleone, era morto al passaggio della Beresina. Il padre era stato ambasciatore a Tokio dove era venuto al mondo Otomaro.

Famiglia ricchissima, possedeva ville e poderi un po' dappertutto.

La Stellata era però il particolare amore dell'ultimo discendente.

Ivi egli teneva corte bandita dal maggio alla fine di giugno e dall'ottobre a Natale.

La buona società bolognese ricorderà ancora i fasti della Stellata.

Io, povero giovine, mi trovavo assai confuso di fronte a un così nobile signore e mi logoravo nel dubbio di non fare almeno una discreta figura.

Il marchese volle togliermi d'imbarazzo fin dalle prime parole.

— Non vi date pena, caro figliuolo; siete e potete restare mio ospite fin che vi piaccia. Anzi vi avverto che dovrete passare con noi la vostra convalescenza. L'abbiamo deciso, se proprio non avete impegni che vi chiamino altrove. Potrete divertirvi. La Stellata offre qualche divago. Vi si fa della buona musica; vi si amano i bei conversari ed anche vi si balla. Io non sono più giovane, ma amo circondarmi di persone giovani. Adoro la giovinezza che da sola può far scusare la vita. Dunque non vi date pensiero e restate, sicuro di fare a me, e non a me solo, un grande piacere. Giacometta vi deve molta gratitudine. Conosciamo la vostra nobiltà e l'abbiamo apprezzata.

Egli vide certo gli occhi miei luminosi perchè mi strinse forte la mano e se ne andò sorridendomi.

Suor Costanza, che cos'erano i secoli alla mia vita, in quel giorno?

Ricordate con quali parole vi dissi molte cose discrete?

E vi dissi, fra l'altro, levandomi dal letto (Dio, quanto spavento nei vostri poveri occhi come foglie secche!...), vi dissi:

— Sorella, oggi non si muore e neanche domani. Per tutti gli anni del mondo non si può morire! Noi siamo immortali, sorella!...

E voi rispondeste, e vi tremava il mento nella parola:

— Tu sei troppo ragazzo! Lo saprai un giorno come cambiano le cose col tempo!...

— Ebbene, Suor Costanza, e noi diremo al tempo di volerci dimenticare per un piccolo secolo almeno!...

Suor Costanza scosse la testa e fiutò una grande presa di tabacco; dopodichè, ripresa la corona, si affondò nel gorgo della sua eterna preghiera come affonda una rana nell'acqua immota di uno stagno.

XXV

... egli sapeva le musiche stanche che conducono alla velata nostalgia e allo sconsolato desiderio di un lontano amore...

Incominciai ad alzarmi e potei muovermi per la stanza.

Pensai proprio a te, Michelaccio imperatore, quando, appoggiato al braccio di Suor Costanza, mossi i primi passi dal letto alla finestra.

Michelaccio, Imperator delle carra, delle strade e della luna; governatore di ogni campestre o cittadina osteria; Dio dei bianchi boccali e delle panciute ostesse, Michelaccio io non negherò più la tua sovranità e ne pongo a pegno la penna mia.

Io mi fermerò al tuo passaggio; tollererò che tu mi attraversi la strada millanta volte se così a te piaccia; che tu attenti, col tuo carro, alla vita mia perchè questo è il tuo diritto essendo tu Carrettiere e cioè forte del tuo genio e della tua fortuna sul mobile trono delle strade, dal quale imperi, minacci ed eseguisci nel nome dei nuovi principii e della tua recentissima nobiltà e strapotenza.

Michelaccio, io ti riconosco il potere fin da oggi e qui ti consacro mio Re ed Imperatore.

E ciò che tu voglia ordinarmi, io compirò in onor tuo, io, umile scriba e porco vagabondo (tu l'hai detto, Signor mio!...); io che mangio il tuo pane se non bevo il tuo vino perchè non mi piace; io che vivo sulla tua fatica come un pidocchio fra la chioma di Sansone; io che sono l'ultima immondizia di fronte alla tua intatta grandezza suggellata dalle sbornie tue che sono imperiali; perchè tutto è gigantesco in te.

E riconosco che, cessando tu domani dall'opera tua, non solo sulla terra, ma su tutti i pianeti, la vita dovrebbe cessare, perchè tu sei, Michelaccio, la forza madre e il cardine universale del benessere.

E la tua ignoranza ti è a fregio di maggiore potere perchè là dove gli altri pensano ( i porci vagabondi! ) tu con un solo rutto te la puoi spicciare e dettar legge alle moltitudini.

Questo riconoscendo io, oggi e per sempre, ti incorono Imperatore nel nome dei sacri principii, dei bianchi boccali e delle panciute ostesse.

Ero un poco triste.

Pregai Suor Costanza di portarmi una seggiola presso la finestra. Appoggiato al braccio della mia infermiera arrivai fino ai vetri. Vidi un grande giardino e gli alberi del parco, nel fondo.

Fiori e turchino.

Udii un fresco riso levarsi nell'aria.

E sentivo, a poco a poco, ingrandire in me la mia malinconia.

Mi abbandonai al pianto che non si piange se non nel fondo cuore; nella solitudine del cuore.

Al pianto che non ha ragione palese; che nasce dalla giovinezza come una rugiada.

Tutte le strade della terra hanno le loro incrociate.

Chi si sente smarrire riconosce, in sè, Iddio.

Non altrimenti si può arrivare, ma appena, sulla soglia del gran mistero.

I genuini canti del popolo, i canti del crepuscolo recano, nella loro inconscia tristezza, lo stesso smarrimento.

Vi sono ore che scendono sulla terra da un'infinita malinconia di esilio.

Quelle che precedono la scomparsa del sole.

Io guardavo, dai vetri, allontanarsi nell'ombra della sera un carro, per una piccola strada che serpeggiava fra le siepi; un carro rosso, dipinto a rose, come ne usano i contadini delle nostre terre; e lo seguivo con gli occhi come si seguono le cose che si allontanano sotto la sera.

E un suono mi giunse per l'aria, soave e spento; ma non proveniva dall'aperto anzi pareva ammorzato da un inceppo di mura. La musica doveva arrivare da qualche stanza della vecchia villa che ancora non sapevo.

Ascoltai e gli occhi miei erano aperti sul mondo come se nulla vedessero.

Una voce accompagnava il suono.

Suor Costanza mi domandò:

— Le piace tanto sentir suonare?

— Sì, Suor Costanza. Sa chi fosse che suonava poco fa?

— Deve essere un giovane maestro di musica. Mi pare lo chiamino Rorò.

— Lo conosce?

— L'ho veduto una volta sola. È venuto fin qui quando lei era ancora molto malato. L'accompagnava la signorina Giacometta.

Bastò questo a ridestare in me la fiera gelosia che già incominciava ad assopirsi.

Conobbi il giovine compositore, la prima volta che discesi, accompagnato dal marchese Otomaro, nel grande salone da pranzo al pianterreno, e presi posto a tavola, fra Giacometta e Beppe Mandusio. Ci era seduto di contro ed era il centro dell'amorosa femminile attenzione.

Rorò era un candidato alla fama mondiale. Lo dicevano tutti.

A questo biondo giovine, dall'aspetto femmineo, eran bastate una ventina di romanze a salire in grandissima fama.

Dicevano ch'egli possedesse una personalità di primissimo ordine.

Le signore lo chiamavano il divino fanciullo.

Ma tutto questo pareva accrescesse la sua malinconia perchè era malinconico come una sera di mezz'ottobre.

Rorò non parlava mai delle cose sue; o meglio, diceva e non diceva; lasciava cadere qualche parola vaga nella profondità della disperazione.

Aveva sofferto, aveva lottato, era stato per morire, non era morto!

Tutto ciò apriva una enorme parentesi che la fantasia riempiva.

È difficile che un pover'uomo senza parentesi interessi molto le donne.

L'uomo piatto, l'uomo uguale al due più due fanno quattro; l'uomo che vi dice quello che pensa e che pensa quello che dice; l'uomo che non ha avuto avventure, che non sa colorire la sua vita ma fa consistere tutta la sua virtù nella semplicità: oh, quest'uomo non sposi mai, o, se vuol proprio sposare, scelga una virtuosissima fanciulla senza un filo di immaginazione!

Così forse potrà viver tranquillo; ma non altrimenti.

Rorò aveva capito qual forza rappresenti la donna e il giudizio della donna nell'umana convivenza, e se ne serviva. Era un abile fanciullo, pieno di sagaci previdenze. Ma, d'altra parte, quali armi scegliere che fossero più appuntate?

Poteva egli negarsi all'ammirazione delle belle creature?... Egli si era valso di codesta ammirazione, così, senza parere... lasciando fare.

Rorò lasciava fare. Era la sua tattica. Nella sua infinita malinconia trovava, in tal modo, centomila consolazioni. Ma anche le consolazioni non accendevano quel suo pallido viso da divino fanciullo. Egli aveva precocemente capito che un uomo tanto più vale, quanto più conosce l'arte di rinnovare il proprio mistero.

Rorò lo rinnovava ogni giorno.

Se si abbandonava ad una innamorata, non le concedeva se non quella parte di sè che poteva bastare a una notte.

Con l'alba nuova, Rorò, questo piccolo semidio, aveva un'anima nuova.

E sapeva coltivarsi, altresì. Era sempre inappuntabile. Vestiva di scuro; ma con rara eleganza. Aveva anche capito che certe tinte davano alla sua pallida faccia e ai suoi capelli biondi una particolare evanescenza che lo rendeva molto più interessante.

Rorò era bello; aveva ingegno e, co' suoi vent'anni, camminava per le ampie strade della fama mondiale.

A differenza de' suoi miseri coetanei, Rorò era già edito dalla Casa Ricordi.

Grande fatto per un giovanissimo compositore!

Rorò guadagnava bene e scriveva un'opera in tre atti: L'alba lontana.

Un titolo che prometteva i più remoti paradisi alle fanciulle e alle donne con qualche anno di più.

Ora aveva ceduto alla insistenza del marchese Otomaro, e si era ritirato alla Stellata per lavorare a L'alba lontana.

Disponeva di tutto un appartamento al primo piano ed ivi si rinchiudeva per la maggior parte del giorno.

A volte le giovinette sostavano nel giardino ad ascoltare la eco di una melodia. Dicevano appena appena:

— Rorò lavora...

Dicevano ancora, ascoltando, con un tremito nella voce:

— Senti... che cosa divina!

E le note cadevan dal cielo in fondo al loro cuore, accasciato d'improvviso sotto il peso di tutto l'amore.

E dell' Alba lontana nessuno sapeva niente. Rorò non si era sbottonato neppure col marchese Otomaro. L' Alba lontana era una cosa remotissima nel vivo mistero che si chiamava Rorò.

Egli veniva componendo contemporaneamente i versi e la musica. Diceva che i grandi poeti dell'antichità avevan trovato, quasi sempre, la nota ai loro poemi. Diceva che musica e poesia sono due cose inseparabili e che un vero poeta, per essere compiuto, dovrebbe anche essere compositore. Citava Pindaro... e il suo mecenate: Jerone, ai tempi belli della divina Siracusa.

Ahi, Rorò! Biondo semidio, quanto mai sonno togliesti alle notti delle vergini bolognesi!

Perchè tu parlavi dell'arte tua con prodigiosa sicurezza e non v'era chi non ti potesse credere.

Con tutte queste cose e queste peculiari doti, Rorò si era creato un piccolo regno in attesa di un più vasto impero.

E passava, fra il mattino e la sera, per gli azzurri giardini delle innamorate, lasciando sulla sua strada l'onda di un canto nostalgico che pareva schiudesse le occulte strade dei sogni. Passava per dileguare, il divino fanciullo, chiuso nel suo silenzio immutabile.

Ora io lo guardavo. Egli sedeva in faccia a me, fra la signorina Bice Alandri e la signora Clara Salvi le quali se lo disputavano.

Il bel fanciullo rispondeva loro senza troppa fretta e senza scomporsi mai.

Piuttosto vedevo gli occhi suoi cercare molto sovente gli occhi di Giacometta e se avveniva che li incontrassero, allora pareva si disciogliesse in una sùbita profonda carezza.

Ma Giacometta non vi faceva caso e bastava a me questo piccolo segno, per riempirmi di sconfinata consolazione.

XXVI

L'Angelo dalle sette note.

Ora Rorò uscì dalla sala da pranzo più taciturno che mai e scomparve senza por mente alle insistenze delle sue ammiratrici. Solo si fermò a guardare ancora una volta Giacometta la quale finse di non accorgersi di lui.

La comitiva si sparse un po' in giardino, un po' per le sale.

I più anziani sedettero ai tavoli da giuoco.

Arlecchina invitò Beppe Mandusio a una partita al bigliardo.

Rimasi solo con Giacometta.

— Vuoi che passeggiamo un poco in giardino?

Uscimmo sotto la luna.

Si attraversaron due prati senza parlare, o quasi. Ad un tratto un canto si levò nella notte.

Giacometta si fermò ad ascoltare; disse:

— È Rorò!

Dopodichè prese la corsa attraverso i prati.

Le tenni dietro. Ci fermammo a pochi passi dalla villa.

Domandai:

— Perchè non entriamo?

Mi fece cenno di tacere. Sedemmo in una panchina. Qualche altro ascoltava così, nella notte, il canto che sgorgava pieno e melodioso dalla gola di Rorò, dalla vostra gola innamorata, Rorò.

Allora io udii levarsi la vostra infinita tristezza di fanciullo; sentii la vostra sincerità più profonda, fuor dalle forme e dai panneggiamenti di cui vi compiacevate, piccolo mago, perchè le belle che vi amavano vi pensassero più lontano e irraggiungibile.

Voi eravate solo a cantare, nel cuore di quella notte di maggio, e raccoglievate intorno a voi tutte le anime nostre, le anime sorelle, nel buio della notte, le sperdute, le eterne esiliate nel fondo degli abissi.

E trionfaste. Per due, per tre volte doveste ripetere il canto finchè la comitiva vi lasciò tranquillo.

E allora come vi sottraeste voi alle vostre innamorate, Rorò?...

Giacometta non parlava più. A un po' di lume che arrivava dalle finestre aperte della villa, io vedevo il volto di lei fermo in un'estasi muta.

Che pensava, che desiderava?

Poi Rorò apparve sulla soglia della villa e guardò nel buio.

Lo vide Giacometta? Ella non fece parola e non si mosse.

Rorò non poteva distinguerci; ma certo intravide qualcuno nell'ombra perchè uscì nella notte e si diresse pian piano verso il nostro sedile. Allora Giacometta si alzò di scatto e mi disse:

— Andiamo via!

Ciò parve, a me, ottima cosa e già stavo per avviarmi al fianco della creatura che mi piaceva di chiamar mia, quando Rorò levò la voce nella notte:

— Signorina Maldi?

Giacometta si fermò senza rispondere.

— Signorina Maldi?... È lei?...

— Sì... — rispose Giacometta.

Rorò ci raggiunse.

— Non era in sala... non ha sentito?...

— Ho sentito...

— Le piace?...

— ...

— Ho cantato solamente per lei... L'altro giorno... dopo il nostro colloquio ho scritto quella musica. E se la musica potesse portare una immagine, porterebbe la sua immagine!

Giacometta si ostinava a non rispondere.

— Io credo — riprese il biondo maestro — credo di non aver sofferta mai tanta pena...

Ad un tratto, dopo un nuovo silenzio, la mia selvaggia domandò:

— Quando partirà?

— Perchè me lo chiede?

— Non può rispondermi?... Quando partirà?

— Fra tre giorni.

— È ben certo?

— Certissimo.

— Non si lascerà lusingare dalle insistenze delle sue ammiratrici?

— No.

— E dove andrà?

— Mi fermerò a Bologna due giorni, poi proseguirò per il lago di Como. Perchè me lo chiede?

— Così... per niente!...

Continuammo la passeggiata che non aveva per me nessunissimo interesse; tanto poco interesse aveva che, trovata lì per lì una scusa qualsiasi, stavo per andarmene nella notte a soffrire col mio geloso dispetto, quando Giacometta mi fermò trattenendomi per un braccio e mi chiese:

— Dove va?

— Non glie l'ho detto, signorina Maldi? Salgo in camera mia.

— No, resti.

— Ma... ho bisogno...

— Resti, le dico!

E restai... ma senza consolazione.

Ora convien sapere che del nostro simbolico fidanzamento non avevamo fatto parola, e che, per tutti, non eravamo che buoni e vecchi amici.

— Dunque, signorina Maldi, — riprese Rorò — lei è la sola che non mi abbia detta una parola circa la mia musica di stasera...

— Io non sono in grado di darle un giudizio.

— E che mi importa dei giudizi?... Vorrei solamente sapere se le è piaciuta o no...

— Mi è piaciuta molto...

Spense le parole, come se vi si perdesse per entro, con l'anima smarrita.

E per me furono coltellate.

Rorò navigava con cento vele ed io non avevo che un povero navicello munito di fragili remi; e l'oceano era lo stesso per tutti due.

— Allora ho avuta la gioia di esserle vicino mentre cantavo?

— Sì...

— E perchè non è entrata in sala?

— Perchè ero più sola in giardino; ed ho ascoltato meglio.

— Mi sarebbe piaciuto vederla... cantavo per lei....

E la nota ritornava, come in una monodia, sempre la stessa...

Una fresca risata ci tolse dal silenzio. Ci volgemmo. Dietro di noi Arlecchina e Beppe Mandusio si rincorrevano.

Arlecchina si fermò ansando e chiamò:

— Sei tu, Giacometta?

— Sono io.

— Che fai?... C'è Franzi?...

— Sì.

— Franzi, venga qui!

Mi accostai.

— Cosa vuole?

— Come sta?

— Bene. Perchè?

— Non c'è un po' di burrasca?

— No, non c'è!

— Uhm! Se lo dice potremo crederlo...

— Signor Balduino, ella ha un pericoloso rivale! — mormorò Beppe Mandusio e mostrò, nel riso, tutta la chiostra de' suoi denti bianchissimi nella sua faccia scura.

— Quale rivale?...

— Rorò sa le strade traverse — disse Arlecchina.

Poi mi prese per mano e mormorò:

— Franzi, venga con noi!

— Ma... la signorina Maldi mi ha pregato di non lasciarla!

— Deve servirle da paracadute? — domandò Beppe Mandusio.

— Caro Mandusio, — risposi con irritazione — in tutti i casi ella deve convincersi che la signorina Maldi sa pararsi da sè. Poi, non credo corra un così orrendo pericolo!...

Tanto Arlecchina quanto Beppe Mandusio scoppiarono in una risata.

— Franzi, venga... ma venga con noi!...

Mi rivolsi a guardare. Ormai Giacometta e Rorò non si vedevano più. Ciò pose il colmo alla mia pena.

— Andiamo! — risposi.

E mi allontanai.

La mia gelosia mi tramutava in un automa ambulante. Non trovavo parola da dire; non sapevo rispondere a tono perchè la mia mente era altrove.

Avevo sentito dalla voce di Giacometta la sua perduta ammirazione per Rorò; l'avevo sentita ed ora, che erano soli, certo ella non avrebbe resistito al fascino del biondo maestro e gli sarebbe caduta fra le braccia. Non poteva essere altrimenti. Rorò le aveva ben fatto capire di essere innamorato.

Con tali pensieri, con tanto tormento in fondo al cuore, non potevo partecipare all'allegria di Arlecchina e di Beppe Mandusio così che, colto il momento opportuno, mi allontanai.

Una volta solo, mi posi alla ricerca degli scomparsi. Nelle sale non li trovai, non potevano essere che sotto la luna...

Il morso della gelosia è cane!

Avrei compiuto l'inverosimile pur di vedere, pur di sapere ciò che stavano combinando Giacometta e Rorò. Corsi per tutto il giardino soffermandomi ad ascoltare ogni pesta. Forse si erano dilungati per un sentiero, via sotto la perfida luna; avevano cercato un rifugio nel quale nessuno avesse potuto sorprenderli!

Così me ne ritornavo verso la villa, sconsolato come un podista che non ha raggiunto il traguardo; me ne ritornavo così con le mie pive nel sacco quand'ecco arrivarmi il suono di due voci... le loro voci!...

— ... dunque non volete?...

— ... no!...

— Giacometta, io non ho pregato mai nessuna creatura come prego voi...

— ...

— Siate buona!... Soffro tanto, Giacometta, e vi voglio tanto bene!...

— Da quando?...

— Non mi credete?

— No.

— Allora, siate franca: dite che non potete soffrirmi!

— Neppur questo è vero...

— Ma siete disperante, Giacometta!

— Perchè non acconsento al vostro desiderio?

— Io non vi ho cercata...

— Dite addirittura che sono venuta io da voi! — e Giacometta ebbe l'aspro riso che tanto bene le conoscevo.

— Però vi siete posta ad un brutto giuoco!

— Perchè?... — e la sua voce era cruda, provocante.

— Perchè io non ammetto mezze misure e il giorno in cui la mia pace è finita, il giorno in cui ho dato tutto, quel giorno sono pronto a rischiare tutto.

— Vorreste intimorirmi?

— Voi scherzate; io no! E non ho voglia di scherzare, e voi non mi conoscete ancora!

— E così?

— Così vi ripeto quello che vi ho detto: sabato vi aspetto a Bologna, all'albergo Baglioni.

— Ma non verrò!

— Voi verrete!

— Vedremo!

— Verrete, Giacometta, verrete!... E vi consiglio di non cimentarmi; vi consiglio di essere buona come è giusto; come è anche logico, per voi.

— Se siete tanto sicuro, non occupatevi della logica!

— Non vi credevo così perfidamente fredda...

— Perchè siete abituato male.

— Poco fa, non eravamo così. Da che proviene questo cambiamento subitaneo?

— Forse travedete adesso come prima.

— Vi sembra?

— Lo credo. E, dopo tutto, che cosa vi dà il diritto di pensare che possiate fare di me ciò che vi aggrada?

— Il vostro contegno con me.

— Ora siete sciocco, signor Rorò!... E sarà inutile continuiate a parlare!

Ella si levò di scatto dalla panchina e si avviò innanzi per il viale.

Rorò le tenne dietro.

Camminarono un poco in silenzio. Rorò mormorava, a quando a quando, qualche incomprensibile parola e sospirava come se l'aria gli venisse meno di secondo in secondo.

Ora implorava con piccola voce di pianto:

— Giacometta... Giacometta... non fatemi soffrire così, Giacometta!... Voi mi cimentate, mi fate perdere il lume della ragione! Sì, sono stato sciocco, è vero! Sciocco e volgare... ma perdonatemi!... Giacometta?... perchè non rispondete?... Volete che mi umilii ancor più?

Ella continuava a camminare, rigida nel suo silenzio, come se le parole di lui non la sfiorassero neppure.

— Come siete cattiva!... Che male vi ho fatto?

— Nessuno.

— E allora?...

— Allora è inutile. Datevi pace.

— Datemi almeno la vostra mano.

— Non ne vedo il bisogno.

— Una vostra mano sola...

— Se vi fa tanto piacere, eccovela.

— Non così, Giacometta!

— E come, allora?

— È proprio finito tutto fra noi?

— Niente è finito perchè non c'è mai stato niente.

— Non vorrete più ascoltarmi?

— Ma se è un'ora che vi ascolto!

— Non con quell'anima ostile.

— Io ho un'anima sola.

— Sì... la buona... quella che vi illumina gli occhi... quella che vi suggerisce le cose belle che mi hanno fatto innamorare così perdutamente! Ho ancora, nella mia stanza, le vostre rose... tutte le vostre rose. Non una deve essere gettata, non una deve appassire fra le cose morte della strada. Mi capite, Giacometta? E non vi sembrerò un romantico se ho la religione del mio amore. Il vostro biglietto... guardate... l'ho sempre qui. È un poco gualcito... ma devo guardarlo, di tanto in tanto... devo rileggere le quattro parole... le quattro parole sole con le quali rompeste il silenzio e veniste verso di me. Ecco... « L'anima con le rose! » Questa è l'anima vostra! Quella che io cerco, che io amo!...

Giacometta si era fermata. La sua voce si addolcì un poco:

— Ma non sapete guadagnarvela quest'anima!

— Ho fatto di tutto per accostarmi, e mi avete sempre respinto!

— Perchè correte troppo e, correndo, ci si allontana!

— Un poco abbiamo corso insieme...

— Può anche darsi...

— Poi questo non vi è piaciuto più!

— Non lo nego.

— E allora vi siete stancata di me!

— Non è vero!... Vi avevo offerto la mia calda amicizia... Non vi è bastata.

— Non poteva bastarmi!...

— Sta bene. Ora vi prego di non parlarne più. Sono stanca!... Proprio stanca... stanca... stanca!

E più non scambiarono parola.

Quando, un poco dopo, mi presentai a Giacometta in un angolo appartato della grande sala della villa, ed ella mi vide pallido e stravolto, non risposi alle domande amorose che mi rivolse. Mi congedai con una scusa; volli essere solo, non volli veder più faccia umana, tanto incominciava forte la mia disillusione, pur non cedendo l'amor mio, radicato ormai al mio cuore come l'edera salda che si abbarbica alla rovere e tanto la ricopre e la stringe e l'avvolge negli anni, che la fa disseccare.

Ed io volevo saper tutto e vedere fino alla fine per soffrire la mia sofferenza tutta quanta, senza risparmiarmene goccia.

E ciò ti stava bene, Francesco Balduino. Però non imparasti niente perchè in amore non si impara che a innamorarsi di nuovo quando il tempo ha cicatrizzata la prima ferita.

XXVII

In amore si può imparare qualcosa, quando non si può più amare.

La gelosia insegna l'agguato. Ormai ero convinto che la cosa dovesse maturare, fra Giacometta e Rorò, nonostante le schermaglie alle quali avevo assistito. Non potevo adunque salire in camera mia e rinchiudermi fra quattro pareti, nel dubbio che non mi dava pace.

Ora io conoscevo una piccola porta di servizio, nella Stellata, della quale serbava la chiave il cuoco. Mi conveniva adunque accordarmi col cuoco per potere agire a mio agio quando tutti fossero saliti alle loro stanze, essendo stati solidamente chiusi i portoni della villa. La mia timidezza sfumava di fronte al bisogno di procurarmi un mezzo per poter sapere.

Mi presentai al cuoco, trovai una scusa che avvalorai con una cospicua mancia e la chiave della porticina di servizio fu in mano mia.

Fatto questo, mi allontanai nel giardino, in attesa che la comitiva salisse al riposo e fossero spenti tutti i lumi della Stellata e chiuse tutte le porte. Non ebbi da attender troppo. Ogni voce dileguò; i lumi a pian terreno si spensero l'uno dopo l'altro; i portoni furono serrati. La Stellata si preparava al sonno.

Ora mi fermai sotto le finestre della camera di Giacometta, avendo cura di nascondermi in un cespuglio di evonimo.

Giacometta non aveva chiuso le persiane; aveva accostato gli scuri alle vetrate. Un filo di luce trapelava tuttavia.

A mano a mano i bagliori che filtravano dalle finestre, si spensero. La Stellata si immergeva, tutta buia, nel lume della luna; acquistava un altro aspetto, una muta severità che non le conoscevo, rientrava fra le cose del mondo oltre la voce degli uomini.

Qualcuno parlò nella notte, forse da una finestra all'altra, ma non intesi il dialogo benchè mi giungesse distinta la parola:

— Vieni!...

Era la voce di Arlecchina?... Era la voce della compagna sua Orsetta?...

L'invito scivolò nell'ombra; qualcuno rispose:

— Sì.

Non si udì altro. Si udì solo un leggero stridore d'imposte.

Dalla stanza di Giacometta non arrivava nè suono nè voce. Il lume era sempre acceso.

Avevo il presentimento che qualcosa doveva accadere e non mi decidevo ad abbandonare il mio posto di osservazione per sceglierne un altro, nel timore che, cambiando, fosse avvenuto, nell'intervallo, ciò che volevo sapere.

Stavo così nel dubbio che mi tormentava quando ecco levarsi nella notte una voce lontana. Ascoltai... non ebbi più dubbio... era Rorò che cantava.

A mano a mano il canto si avvicinava. Tenevo gli occhi alle finestre di Giacometta.

Era una tragica e lenta monodia, quella degli esiliati, nell'opera Siberia del maestro Giordano.

Poi non si udì più. Le finestre di Giacometta non si erano smosse; il lume era sempre acceso. Era possibile che fra l'insolita veglia dell'una e la passeggiata notturna dell'altro non dovesse essere nessun legame? Il tormentoso dubbio mi diventava certezza. Un'ira sorda e disperata si levava da tutto l'essere mio.

D'un sùbito Rorò ricominciò la nenia, quasi dietro le mie spalle.

Allora vidi gli scuri di una finestra della stanza di Giacometta, aprirsi e chiudersi per tre volte. Poi il notturno cantore mi scivolò vicino. Lo seguii, deciso a tutto osare.

Rorò aveva trovata una strada molto più semplice della mia. Aveva lasciata socchiusa una finestra al pianterreno; l'aprì, spiccò un salto e scomparve.

Altrettanto rapido quanto lui, corsi alla mia porticina e, in un battibaleno mi trovai al piano superiore, nella sala sulla quale si aprivano quasi tutte le stanze della villa.

Attesi in un angolo, al buio. Rorò non compariva. Possibile ch'egli mi avesse preceduto se io non avevo impiegato più di qualche secondo per arrivare dal mio posto di osservazione, al punto nel quale mi trovavo? Oppure nella furia di arrivar presto, non avevo posto in sospetto Rorò con qualche insolito rumore?...

Stavo così in dubbio quando ecco il fruscìo di un passo sulle scale; ecco aprirsi lentissimamente una porta e una pallida luce illuminare la sala.

Mi nascosi dietro una poltrona.

Aveva dunque paura del buio, Rorò, se gli occorreva una candela per arrivare a un furtivo convegno?

Mi apparve più pallido di un morto.

Per un poco si fermò a guardarsi intorno e ad ascoltare, poi, sulla punta dei piedi, si diresse alla porta della stanza di Giacometta.

Spense il lume.

Mi levai dal nascondiglio e lo seguii. Gli stavo alle spalle, respirando appena.

Dieci secoli vissero per me in dieci secondi.

Rorò picchiò leggerissimamente, con le nocche, all'uscio di Giacometta e attese.

Non ottenne risposta. Picchiò più forte; chiamò appena:

— Giacometta?...

Le mie povere mani si attanagliavano ai panni.

— Giacometta?...

Il cuore mi martellava dentro come una mazza ferrata.

Il chiavistello si mosse...

Chi era più pallido fra me e voi, Rorò?... Chi aveva maggiore pena e chi maggior volontà di assalto?

La chiave, un poco arrugginita, stridette...

La voce di lei, come un soffio, domandò:

— Siete voi?...

Avevate il nodo isterico, biondo Rorò, che non trovaste voce per rispondere alla chiamata di una fra le più belle creature del mondo?... Avevate paura della notte d'amore, biondissimo mio Rorò?

— Siete voi?...

Allora schiantai.

I miei muscoli mi servivano bene. Di un subito abbrancai l'intruso, alla cintola, lo sollevai di peso, lo posi in disparte. Sentii che si afflosciva fra le mie braccia. Non gridò, non oppose resistenza... Tremava e si abbandonò di peso sul pavimento.

Risposi, in sua vece:

— Sono io...

— Perchè siete venuto?...

— Aprite...

— No... domani... a Bologna...

— Aprite...

E la porta si aprì.

Io ricorderò quei tuoi grandi occhi sbarrati e pieni di terrore, Giacometta, anche se campassi mill'anni.

Poi non seppi che ridere, perchè il pianto sarebbe stato troppo ameno, in quel punto... non seppi che ridere...

— No... non aver paura... non aver paura... non ti farò niente... guarda... non ti posso far niente!... sono disarmato!... Non ho che il mio sciocco e feroce amore che non ti può far male!

E mi copersi la faccia e mi allontanai come se profondassi in una tenebra senza più aurora.

Al mattino del giorno dopo, ero già disposto ad abbandonar la Stellata.

Avevo trascorsa la notte senza sonno e senza requie; ora bastava. Ero ben deciso. Non avrei più riveduto Giacometta.

Non che non dovessi farmi gran forza per mantenermi nel proposito preso; ma oltre tutte le sentimentalità, oltre i rimpianti e le tentazioni, la decisione prima di riprendere solo la mia strada di pellegrino, era sempre più forte.

Quando un amore si esilia, lascia nella vita di una creatura un grandissimo vuoto che pare non debba colmarsi mai più. Chi non ha cuore di proseguire per tale deserto e non si sente di poter sopportare da solo, tutto il peso della propria vita anzi ritorna ed implora e tutto accetta pur di riallacciare ciò che non potrà riallacciarsi, questi non coglierà che fumo e nuova tristezza; ma chi si carica della propria croce inevitabile e se ne va senza rivolgersi e senza aver paura nè della solitudine nè del dolore, quegli finirà per trovare in capo a una qualsiasi strada del mondo, una nuova ombra un nuovo giardino.

Non sapevo ancora che ne avrei fatto della mia vita, dopo la parentesi della ghirlandella, ma questo poco mi preoccupava.

Mi allontanai dalla Stellata senza rimpianto, quantunque la mia fonda tristezza non mi abbandonasse.

Eppure dovevo troncare il ciclo della ghirlandella; dovevo uscire dalla zona degli esperimenti senza risultato, delle illusioni che finivano in braccio a un altro.

Ed era notte quando salii sul treno che doveva ricondurmi verso la mia inviolata Tebaide.

XXVIII

Tu avevi un bel campo, e vi hai seminato cicale... Ora mangiane il frutto, povero Francesco!...

Il treno correva per gli ultimi quindici chilometri di strada che dividono Faenza (dai bei boccali e dalle ragazze che ridono bene) da Forlì, che è una città sotto il segno del Capricorno, salva la fortuna de' suoi mariti.

Il treno correva verso il deserto nido di Giacometta, in fondo al Borgo dei Cotogni, in un soave giardino.

Che ne avrei fatto io del mio cuore?

Ma pensavo che dovevo ben rivedere Principina, s'ella davvero era tanto aggravata nel male, come mi avevano detto.

Dovevo rivederla e parlarle.

Poi non so quale muto rimorso mi sospingeva verso di lei ed anche un presentimento. Dovevo stare un poco con lei, un poco tutti i giorni ed aiutarla a guarire, perchè ritornasse co' suoi fiori, fra i lillà e le serre sotto l'ombra dei colli azzurri.

Mi ricordavo un giorno che si guardava insieme la Torre delle Camminate, in fondo in fondo, sulle colline lontane; si guardava la grande torre alta e lontana, che era anch'essa di color turchino, e Principina aveva detto:

— C'è stato mai fin lassù?

— No, mai.

— Vogliamo andarci insieme?...

— Perchè no?...

— Una bella mattina, per il fresco?...

— Ti farebbe piacere?

— Sì... sì!... Prenderemo con noi la nostra merenda...

— Va bene!

— Quando andremo?

— Ci si penserà.

— Domenica?

— No. Domenica non posso.

— Quando allora?

— Vedremo...

— Ho già capito...

Ed aveva abbassato gli occhi impallidendo.

E alla torre alta e lontana, vestita di color turchino, non eravamo andati mai.

Eran passate le domeniche e le speranze...

Erano morte le domeniche e le speranze!

Povera Principina, col suo rosso cuore come una dolce ciliegia!

Forse anche la tua grazia agreste stava per morire, piccola sorella dei gelsomini e dei lillà.

Ma chi era Principina per il mio sogno?

Io avevo infilato una ghirlandella di gelsomini nel più alto ramo della più alta betulla del mio giardino incantato.

E per guardar tanto in alto, mi erano sfuggiti gli occhi soavi di Principina, la piccola sorella dei lillà che andava scalza, quando arrivava il marzo, e aveva dei piccoli piedi che passavan leggeri fra i ranuncoli d'oro dei prati.

E la poesia è una cosa pura e semplice che va scalza, quando arriva il marzo, e passa fra i ranuncoli d'oro dei prati.

Ad un tratto si udì un grande sbatacchiare di sportelli e il nome della stazione di arrivo.

Mi levai lentamente. Non avevo nessuna fretta, quantunque fossi in preda a un tremito nervoso che mi opprimeva. Avrei proseguito volontieri fino a Lecce, fino ad Otranto e ad Alessandria di Egitto e fino all'oscuro Bornù...

Ma dovetti discendere.

Avevo un portafoglio da poeta e Rothschild non sapeva (come non sa neppure oggi, disgraziato lui!) ch'io fossi al mondo.

Discesi e mi avviai verso l'uscita.

Tutte le facce note che rivedevo, mi davan noia, mi pareva dovessero segnare il mio atto di accusa. Io ritornavo il povero Checco della signora Adalgisa.

Sentii che qualcuno mi salutava e risposi al saluto senza levar la faccia. Non volevo veder nessuno. Ero come chi si condanna volontariamente a riprendere le proprie catene e se ne vergogna.

Poi, quando meno me l'aspettavo, caddi fra la stretta di due enormi braccia.

Sì, eri tu, bene mio parentale, che mi ritornavi addosso con tanta furia; eri tu, lusinga della mia giovinezza, aroma dei miei giorni smarriti!

— Tu... tu, Checco?... Ma lascia ch'io ti veda! Lascia che ti guardi! Da dove vieni? Che cos'hai fatto? Perchè non mi hai scritto mai?

Io ero ripreso automaticamente nella mia morsa.

— Checco?... Il mio Checco!!! Sei stanco?

— Molto.

— Ma non troverai da cena. Non ti aspettavo.

— Non importa. Basta ch'io dorma.

— Hai tanto sonno?

— Sì.

Poi la lasciai parlare, strepitare, urlare fin che volle, nè più mi occupai di lei nè le risposi.

Ormai Principina, la piccola dagli occhi miti, era il solo legame che esistesse fra il mio sogno recente e remoto. Ed io volevo vederla, non tanto per lei, povera piccina, quanto per il rapporto che trovavo in lei, col mio amoroso passato.

Era ancora Giacometta ch'io cercavo attraverso Principina.

L'amarezza del distacco mi riusciva sempre più intollerabile e l'essere io ritornato ai luoghi del mio amore, e nel silenzio che acuisce la pena, centuplicava la mia desolazione.

Avevo bisogno di restar solo, di non parlare, di non udir parlare. Non amavo che la mia solitudine, non potevo reggere che nella mia solitudine.

Trascorsi così il primo giorno, chiuso in camera, concedendo appena alla signora Adalgisa, pochi minuti per i due pasti indispensabili.

Fu un giorno di sconsolata tristezza.

Avevo la ferma convinzione che Giacometta fosse ormai morta per me, perchè il mio orgoglio non mi avrebbe consentito di muovere un passo per riconquistarla. D'altra parte tutti gli aspetti migliori del passato mi ritornavano dinanzi alla mente con tale rilievo e tale forza d'incantesimo da moltiplicare l'affanno mio.

Ma l'orgoglio mi difendeva. Ero sempre più risoluto a non muovere un passo e a non dire parola.

Ormai si era distesa, fra me e lei, l'infinita lontananza.

Fu sulla sera di quel giorno combattuto che pensai di andare da Principina. Sarei passato dalla porticina dell'orto, che si apriva sulle mura; e ciò per non incontrare i Maldi e per non farmi vedere nel Borgo dei Cotogni.

Uscii quando donna Adalgisa era in chiesa.

Svoltai per i vicoli; il cappello sugli occhi.

Anche alla sera volevo nascondere la mia disperazione.

Sulla porticina dell'orto era fermo Girolamo.

— Oh, signor Balduino!

— Come sta Principina?

— Un po' meglio.

— È sempre a letto?

— Sì. Vada a trovarla.

— Ero venuto per questo. Dov'è?

— È nella casa dell'orto. Vada su.

— Vado.

Nella Casa dell'orto dormivano Girolamo e Principina. Girolamo al pianterreno, tra rastrelli, vanghe, zappe e cento altri arnesi da giardinaggio; Principina al primo piano, in una cameretta tutta bianca di calce, con una sola immagine della Madonna dai Sette Dolori e un rametto di ulivo.

La casa dell'orto non aveva altre stanze; aveva solo cinque o sei nidi di rondine sotto la grondaia e una glicinia che la vestiva per metà.

Vi si arrivava per un piccolo sentiero senza ghiaia. Una grande magnolia e due pioppi la incorniciavano. Aveva, intorno, l'orto e il giardino. Alla sua destra, le grandi serre.

Era nel cuore di una città e pareva sperduta nel più dolce silenzio campestre.

Prima di entrare, mi fermai in ascolto.

Si udivano solo le campane di San Mercuriale e quelle del Duomo e del Carmine che suonavano l'Ave.

Le rondini non volavano più.

La stella del Vespero riluceva sopra le più lontane macchie dei lillà.

Poi morì l'ultimo tocco delle campane e svaniva, con la sera, l'azzurra immagine della collina.

Forlì ha una ghirlanda di colline azzurre, come fanciulle in fiore.

Dalla stanza di Principina non mi arrivava nessun rumore. Forse la piccola era sola.

Perchè mi batteva tanto forte il cuore, salendo la ripida scala di legno?

Ad un tratto la voce di lei domandò:

— Chi è?

— Sono io, Principina.

— Chi?

— Io, Franzi...

Udii allora rimuoversi un letto; poi il busso di due piedi nudi che correvano sull'impiantito.

— Un momento... un momento!... Aspetti un momento, signor Franzi!

Attesi. L'ombra vinceva rapidamente l'ultima luce. Udii ancora la corsa dei piedi scalzi e il letto rimuoversi; poi la voce di Principina mi chiamò:

— Venga, signor Franzi.

Come entrai nella stanza, vidi la piccola seduta sul suo bianco lettuccio: i capelli ravviati, il visetto pallido ed emaciato. Mi sorrideva attraverso un velo di indicibile tristezza. Mi sorrideva tendendomi le mani che si erano fatte più piccole e bianche e magre.

— Oh, signor Franzi, come ha fatto bene a venire!... Come ha fatto bene!... Ho avuto una gran paura di non rivederla più!...

— Perchè dici questo?

— Così...

Presi le sue piccole mani che si strinsero alle mie, tanto forte!...

— Sa che sono stata male male?

— L'ho saputo ier l'altro, a Bologna.

— Ho creduto di dover morire.

— Alla tua età non si muore, Principina.

— Perchè non si muore? Se il Signore lo vuole, noi non possiamo far niente.

Si era ridotta come uno scricciolo e gli occhi le si eran fatti più grandi. Aveva voluto ravviarsi e farsi bella, prima di rivedermi, ed era corsa fino a un piccolo specchio verde, incastrato nel muro. C'era ancora il pettine sopra una seggiola e il catino con l'acqua.

La sorpresa, la corsa per la stanza (dove aveva trovato tanta forza per far questo?) le avevano dato un leggerissimo rossore al visetto di bimba.

Però provavo una gran pena a guardarla.

— Ripartirà subito?

— No, Principina.

— Allora verrà a trovarmi qualche volta? Sono sempre sola...

— Sì che verrò.

— Si metta a sedere. Guardi... c'è una seggiola là, in fondo... O se vuol mettersi a sedere qui...

E indicava il margine del letto.

— Siederò qui.

— Ha molta fretta?

— Non ne ho nessuna.

— Allora non deve andar via subito?

— No, piccola. Rimarrò con te.

— Oh, bene, bene!... Mi farà guarire... mi farà guarire...

Ne' suoi begli occhi castani era ritornato tutto il lume della sua giovinezza.

— Quando ritornerà la signorina?

— Non lo so.

— Proprio?... Non lo sa?

— Davvero!

— Allora sono un poco inquieti...

— Può darsi.

— Oh, signor Franzi!... Perchè bisticciarsi? Ci si potrebbe stare tanto bene al mondo!

— Forse la colpa è mia.

— Io non ho detto questo! Volevo dire che bisognerebbe perdonarsi un poco... Bisognerebbe perdonarsi qualche cosa tutti i giorni... così tutti i giorni si farebbe un po' di strada di più, per essere contenti.

— Come hai ragione!

— Ho ragione?... Adesso sono tanto contenta e mi pare di esser buona... ma forse non saprei fare quello che dico.

— No. Tu sapresti farlo.

— Chi lo sa?

— Io, lo so.

— Lei?

Le sue mani non abbandonavan le mie; pareva mi pregassero di non lasciarla. E la sera scendeva. C'erano ancora due glicinie in fiore che formavano un fregio di grazia nel vano della finestra aperta.

— Vuole accendere il lume, signor Franzi?

— Per me non importa; ma, se tu lo vuoi...

— Io sto meglio così. Guardo arrivare le stelle. Non dica che sono una sciocca. A esser soli, sempre soli, si impara a guardare.

— Da quanti giorni sei a letto?

— È quasi un mese.

— E quando ti alzerai?

— Credevano di non alzarmi più. Adesso... chi sa? io spero di ritornare nel mio giardino.

Abbassò la testolina e soggiunse:

— Sapesse quante volte ho pensato a lei! C'è stato un giorno che mi sono creduta di morire e mi dispiaceva di non poterle dire nemmeno addio...

— Ma ora guarirai, sei giovine...

— Sì, voglio guarire. La vita è tanto bella!

Vi sono fiori, nei campi, che rivivono a una sola stilla di rugiada; vi sono anime alle quali basta l'ombra di un'attenzione, a riposare; e un amore v'è, un amore che non sa domandare e che siede a una porta di strada sol per illuminarti della sua muta dolcezza, quando passi; e non aspetta niente e, per vivere, gli basta di veder la tua vita. Ma gli uomini non lo conoscono mai questo piccolo amore raccolto e solo sanno ch'egli ha atteso per dieci e vent'anni ad una soglia, quando ormai non c'è più; quando è partito, una sera, senza levar la voce, per la strada dell'eternità.

Fra le povere cose del mondo c'è anche questa, ed è la più triste.

Se in un'anima vi è un barlume del divino, a quest'anima sarà serbata la pista carovaniera del deserto.

Anche questo va aggiunto alle povere cose del mondo.

— Vorrei chiederle una cosa, signor Franzi...

— Di'?

— Ma poi... non mi arrischio!

— Di che ti vergogni, Principina? Non siamo ormai come due buoni fratelli?

— Vorrei che mi lasciasse un suo ricordo. Oh, una cosa qualunque...

— Domani te lo porterò.

— Se ne ricorderà?

— Se te l'ho promesso!

— Sono sfacciata? Non penserà male di me?

— Perchè dici questo?

— Ho sempre paura!... Che cosa sono io?

— E perchè dovrei pensar male della mia Principina?

— Ha detto sua?

— Sì.

— È vero.

E la sua voce leggera che assomigliava a un canto lontano che si spenge; la sua voce di bimba e di creatura tremò un poco e si lasciò morire.

Tacemmo. Suonò l' ora di notte alla Torre del Comune. Il giardino odorava forte. All'infuori del vasto trillare dei grilli non si udiva niente: neppure una voce, neppure il trascorrere di un veicolo, via, per i selciati delle strade.

La provincia ha di questi vastissimi giardini raccolti, in cui si rifugia l'intimità della primavera.

Era fin troppo il profumo dei fiori e ad ogni notte ne nascevano migliaia come le stelle nel cielo.

Tacemmo, sperduti per diverse strade.

Tu eri sul principio di una strada bianca, sotto un segno di stelle.

Tu incominciavi un cammino che non doveva finire mai più...

... e partivi sotto gli occhi della primavera!

Sopra il tuo capo, sul muro a calce, c'era l'immagine di una Madonna, con le sette spade del dolore...

... e un secco ramicello di ulivo.

E aspettavi come la povera gente che arriva a una grande stazione tumultuosa;

ma ancora non è suonata l'ora del suo viaggio.

Si ferma, accosciata sui suoi fardelli;

e attende, e pazienta estranea fra estranei,

attende e pazienta senza mormorare;

e guarda finchè non arriva l'ora segnata.

E parte... e arriva... e non arriva!

Arriva.., non arriva al di là del mare, al di là dell'infinito...

sempre con lo stesso fardello;

sempre con lo stesso paziente cuore!

Tu eri, così, sul principio di una strada bianca, sotto un segno di stelle; e partivi sotto gli occhi della primavera!

— Che ore sono?

— Le nove.

— È passato già tanto tempo? Mi pareva fosse solamente mezz'ora! Vuole accendere il lume?

— Se ti abbisogna.

— A me, no. Era per lei.

— Io sto bene così.

— Anch'io. Ma è tardi, Franzi. Se deve andare...

— Io non ho niente che mi chiami.

— Proprio niente?

— Niente!

— Oggi mi sento bene. Canterei...

— Riposa... sarai stanca... hai parlato troppo.

— Adesso, anche se rimarrò sola per una settimana non piangerò più.

— Ma verrò a trovarti.

— Verrà?

— Certo.

— Allora... mi aiuterà a far le scale, perchè voglio alzarmi.

— Quando?

— Uno di questi giorni. Una bella mattina! Una bella mattina lei verrà per trovarmi nel mio letto ed io non ci sarò più... Sarò nel giardino.

— Bisogna che tu adoperi prudenza.

— Oh, so ben io quel che mi dico! Senta, Franzi... Lo sente come batte?

— Sì...

— Forte forte?...

— Sì...

— Ormai sono guarita! Quando lei ha fatto le scale, io sentivo che il Signore si ricordava di me!... Domani voglio mandare al Signore tutte le rose del giardino. È di maggio... e la povera Principina non è stata dimenticata...

— Cara!...

— Non dica così, Franzi!

— Perchè?

— Perchè... mi fa male...

— Male?

— Sì. Io adesso voglio pensare tutto quello che voglio; ma non bisogna lasciarmi andare troppo avanti! Se cammino un poco è bene.... ma correre?... correre?...

— Sei stanca?

— Oh, stanca... Franzi!

— Respiri con fatica.

— È vero; ma è la consolazione...

— Mi aspettavi dunque?

— Sì, se vuol credermi!... Ma per niente... non volevo mica niente, sa? So bene chi sono!... Solo mi dicevo: — Se Franzi venisse, mi sentirei un po' meglio.... potrei dirgli le cose che non dico a nessuno. Franzi è buono e mi ascolterebbe...

— Tu sei buona!...

— Allora potevo anche soffrire e ringraziare la Madonna del Fuoco... come la ringrazio! Franzi, posso chiederle una cosa?... ancora una cosa sola?

— Tutto quello che vuoi.

— Non se l'avrà per male?... Non andrà via per non ritornare mai più?

— Mi conosci ben poco, Principina!

— Franzi... Franzi... mi voglia un po' di bene!

— Sì che te ne voglio!... E te ne voglio molto!...

— Ecco... Vede come sono sciocca?...

La sua testolina di bimba si era abbandonata sulla mia spalla.

Pianse senza far rumore; non vidi le sue lacrime.

Non vidi nemmeno il suo volto di piccolo fiore che appassiva; ma sentii il suo tepore e le sue mani che mi accarezzavano i capelli.

Ella non chiedeva di più.

Sarebbe morta senza domandare niente di più!

Era una povera bimba, in fondo a un giardino primaverile, sola sola....

E un giorno aveva alzato gli occhi per guardar più lontano....

... anche lei, più lontano... là dove guardano gli occhi delle fanciulle in fiore.

Ora poteva riposare un poco, col suo cuore di bimba, nel profondo di un sogno...

Ora poteva dire a Iddio: — Ecco, non sono più sola e, sulla strada delle notti, c'è un altro passo, accanto al mio passo...

e le campane del mattino non suoneranno più per me... solamente per me!...

Un altro cuore sarà col mio cuore!

un'altra voce con la mia voce!

un altro respiro col mio respiro!

Adesso anche posso morire, Signore.

Sì, ora posso veramente morire!...

Povera bambina!

E tu eri sul principio di un'infinita strada bianca; lanciata verso un segno di stelle.

XXIX

Una porta si aprirà quando tu crederai che il destino l'abbia barricata per l'eterno.

Alle dieci di notte, quando rientrai, la signora Adalgisa dormiva e non si destò.

Ciò mi piacque.

Ero turbato. Un'infinita pietà mi teneva perplesso. Perchè avrei voluto dare, alla piccola che soffriva, tutto il mio amore e non potevo; non potevo darle più del mio pietoso silenzio.

L'avevo avuta fino allora fra le braccia, ma senza trasporto; non come un giovane con una creatura che ama, ma come un fratello. L'avevo avuta fra le braccia e non le avevo detto niente; non avevo avuto niente da dirle che non fosse fraterno.

L'avevo lasciata piangere sentendo aggravarsi in me una grande pena.

Poi quando la sua piccola bocca, bruciante per la febbre, aveva cercato la mia bocca, l'avevo baciata; ma come una sorellina che cerca un rifugio, che ha paura, che vuole appoggiarsi alla forza di un uomo.

Ed ella, forse, aveva intuito l'irremissibile distanza; aveva sentito che si può morire, ma non si può aspettare l'amore per le strade dalle quali non può arrivare.

Ora imprecavo contro il mio egoismo; mi accusavo.

E vedevo come fosse soave Principina e come preferibile alla complicata e strana Giacometta; ma la ragione può anche fissare un punto di rapporto fra due creature, non però stabilire la scelta che dipende da cause imponderabili.

Giacometta aveva il fascino delle donne che tormentano; delle più infide, ma delle preferite da tutti.

Mille e più volte bisogna sbagliare strada per trovar forse la compagna che può attraversare con noi questo mistero del mondo.

E non sempre la si può incontrare.

Qualche volta vi passa accanto e non la riconoscete; qualche altra volta vi divide l'irreparabile distanza.

Perchè non è vero che al mondo non sia, nell'attimo del vostro passare, un'anima che si compia in voi, che possa vivere in amore con voi, nel cammino verso la morte.

Quest'anima vive la vostra vita e proverà, come voi provate, la grande tristezza della solitudine; solo, non potrete incontrarla.

Il destino non vi concederà tanta gioia.

Però, lo stesso destino non potrà impedire la vostra unione; ma chissà quando e dove!...

Così come le forze affini si associano nella tenebra del niente; provenendo da incommensurabili distanze, avendo turbinato per milioni e milioni di secoli nella vuota immensità. Vanno e si uniscono, sospinte dalla volontà di Dio.

E una nuova vita si genera; e una nuova luce è nella tenebra, formata da quell'incontro.

Così sarà dell'anima nostra nel tempo dei tempi.

Ma la tristezza, l'umana tristezza di chi pensa ed ama è importabile troppe volte!... È davvero importabile!..

Trascorsero alcuni giorni così. Io vedevo Principina ad ogni sera ed ella migliorava sotto il fascino del maggio.

Una sera la trovai alzata. Era seduta alla finestra. Ma come magra! Non aveva che le sue povere piccole ossa sotto la veste di cotonina azzurra.

— Vede come sto bene, Franzi?

— Hai commesso un'imprudenza!

— Ma se davo retta al dottore, non mi sarei alzata mai più.

— Eppure bisogna dargli retta.

— Non lo sa, Franzi, che m'importa ben poco di morire?

— Non dire sciocchezze!

— No, dico davvero, Franzi!... Proprio, sa?...

E poi sarebbe meglio!

Trascorse un silenzio.

— Franzi... si ricorderà qualche volta della sua Principina, quando non ci sarà più?...

— Non voglio neppure risponderti!

— Perchè?... Si fa per dire! Si ricorderà qualche volta?...

Allora le dicevo tante cose, tutte le cose più soavi che mi nascevano per lei; ed ella piegava un poco la testa, sorridendo... sorridendo... sperduta nella musica che avrebbe voluto sempre ascoltare; e non fiatava più, accarezzandomi i capelli piano piano, come una piccola mamma d'amore.

E, di sera in sera, mi accostavo un poco più, sempre un poco più, al suo silenzio.

Ella diventava per davvero la mia sorellina che pensavo innamorata dell'amore e non di me. E le stavo vicino per raccontarle tutte le cose belle che mi passavano per la mente.

Parlavo a voce spenta, perchè troppo non si affaticasse nell'ascoltare ed ella mi si faceva accanto, sempre più accanto come un passero freddoloso, come una rondine nel palmo della mano.

Nessuna più, certissimamente, ha avuta tanta religione del pensiero e della poesia.

Ella proveniva dal popolo e aveva la grande purezza del vecchio popolo, non ancor guasto dalle più recenti miserie.

Intuiva la grandezza della vita dello spirito, sentiva la religione della bellezza. E ciò era spontaneo in lei.

Ella certo avrebbe vissuto tutta una vita oscura e penata, sol per poter amare e servire in grandissima umiltà d'amore colui sul quale i suoi occhi dolci si erano soffermati. Ed era una delicata creatura, la piccola sorella dei lillà, cresciuta all'ombra delle serre.

Ma un giorno io mi destai a un urlo della donna che formava tutto il mio fantastico parentame.

— Checco, Checco, Checco!...

Balzai sul letto, inebetito dal sonno, non ancora ben desto.

— Che c'è?... Cos'è stato?...

— Una lettera, una lettera!

— Che cosa?

— Una lettera per te!

— Per me?

— Sì, per te, per te!

— Mettetela sul canterale.

— Ma vien da Bologna.

— Da Bologna?

— Sì. Deve essere di Giacometta.

— Date qua.

Le tolsi la lettera di mano. Ella stava là con quel suo gran naso, ad aspettare.

— Che cosa ti scrive il tuo amore?

— Non ho tempo.

— Cosa vuol dire?

— Sì. Adesso non ho tempo. Ho sonno.

— E non la leggi neppure?

— No.

— Noooo? Ma che razza di innamorato sei?

— Non sono innamorato. Ho sonno.

— Sfido io! Se perdi tutte le notti con quella stupida del giardino!

Ah, sciacallo provinciale! Specie di moralista da sacrestia, buona solamente ad avvelenare la gioia degli altri!... in quel momento io ti odiai veramente.

Scattai come se mi avesse ferito a sangue.

— La stupida siete voi!

— Checco?

— Sì, ve lo ripeto! La stupida siete voi chè non avete il diritto neppure di nominarla quella povera bambina! E non voglio sentirvi dire più niente, non voglio sentirvi dire più niente!... Andate via!...

— Ma Checco...

— Andate via!

E scesi dal letto, e dovevo essere bianco come la morte. Ella mi guardò spaventata e filò via umile e saggia, perchè si era trovata fra i piedi, all'improvviso, un Balduino che non conosceva ancora.

E avevo appena serrata la porta della mia camera quando mi giunse dal giardino, ma di lontano, una dolce voce che cantava una vecchia canzone.

Era la voce di Principina...

La voce di Principina nel chiaro mattino di maggio, via con la sua nenia e il suo sogno e il suo cuore di bambina!

Ritornai fra le coltri. Aprii la lettera.

Diceva:

Franzi,

Domani sarò alla Monaldina. Vieni. Desidero parlarti per l'ultima volta.

Giacometta.

Che voleva dir questo? Perchè da Bologna alla Monaldina, alla malinconica villa della piana ravennate? Che nascondeva il capriccio di Giacometta?

L'ultima volta, adunque, doveva essere laggiù, fra un fiume e i filari degli olmi, nel silenzio della campagna?... Ella ritornava, mi chiamava per dirmi addio; ma perchè?... Perchè incrudire una pena? Dovevo andare o no?...

Sentivo che sarei andato, che non avrei potuto vincere il penoso orgasmo che mi trascinava verso di lei, eppure mi piaceva negare, dentro di me, tale evidenza e impormi una rinunzia che non avrei accettato.

Dovetti togliermi dalle coltri. Mi vestii distrattamente, tanto che, a volte, rimanevo sospeso non sapendo ciò che mi restava a fare. Il mio dolore, assopito un poco in una settimana di religioso silenzio accanto a Principina, riprendeva tutta la vita mia, si impossessava una volta ancora di tutto me stesso.

Perchè chiamarmi per l'addio? Per mormorare le ultime parole che straziano; le parole che segnano l'inevitabile fine?... Non era molto meglio evitare tutto questo? A quale spiegazione si poteva addivenire s'ella aveva già il fermo proposito di finirla?

Io dovevo essere forte la seconda volta ancora; dovevo sorriderle, farle capire che era molto meglio non rivederci più. E questo anche avrebbe fatto sì ch'ella non mi avesse dimenticato. Ella avrebbe sentito così che non sempre poteva giungere dove voleva; anche il suo fascino poteva mancarle qualche volta.

E una donna è perduta, in amore, quando si accorge che la virtù di incantesimo le manca; e si trova debole e sprovvista di fronte ad un uomo ch'ella ha creduto di tenere nel suo più fermo dominio.

Ma già sapevo che non ne avrei fatto niente.

Mentre così ragionavo, avevo l'ansia di andarmene, di arrivare nel minor tempo possibile alla Monaldina. E mentre da un lato pensavo di non ubbidire, studiavo, dall'altro, il mezzo col quale sarei partito: se col vaporetto o in bicicletta.

Non senza una grandissima lotta si arriva a segnare il punto del trapasso da un equilibrio a un altro equilibrio, o alla morte. Per quanto forte sia il voler nostro o per quanto l'uomo si vendichi poi definendo sciocca malattia il tempo del suo amore, certe crisi dell'anima e del senso, di tutto l'essere nostro cioè, tanto ci impegnano da esser definitive per il corso di tutta una vita.

Alla fin delle fini noi non siamo al mondo che per l'amore.

Si nasce per passare attraverso questa luce, e questa tempesta e per lasciare ad altri l'identica eredità. Ma da questa luce e da questa tempesta si rivela il segno creatore e il cuor del mistero.

I nostri giorni cantano.

Un'allodola è nell'aria.

Il sole raggiunge il segno della primavera.

Allora al cuore, che ancora è in vita di gaudio, nasce la speranza e la volontà dell'amore.

E qualcuno all'infuori di noi, nel profondo, segna la strada dell'ineluttabile.

Si nasce per giungere a questo traguardo e solamente.

Uscii che donna Adalgisa non era ancora rientrata e per tutto il giorno girovagai per la campagna. Verso sera non potei resistere più oltre e mi inoltrai per la strada provinciale di Ravenna, verso la Monaldina.

Quando ebbi attraversata Coccolìa; quand'ebbi sorpassate le ville dei Pasolini e dei Bonanzi e più prossima era la mèta prefissa, rallentai l'andatura perchè il cuore mi batteva troppo forte.

Si sarebbe chiuso con quella notte, nella malinconica villa, il Ciclo della ghirlandella?

E come si sarebbe chiuso? Quali erano i propositi di Giacometta?

Io subivo involontariamente, la stessa angoscia che mi aveva tenuto al primo incontro.

Ormai la strada correva come un argine fra il fiume e le campagne. Mi accostavo alla bassura ravennate. Le rive del fiume erano nude; non avevano più alberi; neppure ligustri avevano, ma solo un po' d'erba giù giù fino ai greti.

Anche l'ultimo crepuscolo stava per morire. Udii un suono di campane.

I braccianti che tornavano dal lavoro, in bicicletta, mi passavano accanto parlucchiando.

Una vecchia contadina, in un biroccino trascinato da un asino grigio, si era addormentata placidamente.

Poi la strada si fece più silenziosa e più deserta. Vidi da lontano gli alberi della Monaldina.

Scesi dalla bicicletta.

Non avevo più che qualche centinaio di metri da percorrere.

E il cuore mi batteva troppo forte perchè non cercassi di calmare l'affannoso respiro.

Mi fermai al cancello.

Due sole finestre della vecchia villa erano aperte, e la porta a vetri che dava sulla scala esterna. Tentai di aprire il cancello rugginoso; ma non vi riuscii. Chiamare non volevo. Cercai un'altra entrata.

Dalla villa non arrivava nè voce nè suono.

Pareva che il vento, il solo padrone del luogo, avesse aperte le due finestre e le avesse lasciate così perchè le ore del giorno entrassero, con la loro luce, per le stanze deserte.

Attesi per vedere se qualcuno apparisse: almeno un servo o un contadino. Nessuno si mostrò. La villa del silenzio era in balìa del suo muto incantesimo.

E se Giacometta era partita? Se arrivavo troppo tardi?

Forse mi aveva aspettato nella mattinata e mi aveva dato l'appuntamento alla Monaldina per un suo singolare capriccio o per chi sa qual altro rito tartarico. Perchè Giacometta non poteva e non sapeva dimenticare di essere la nipote di Tatiana.

Mi accorsi poi che anche la porticina della chiesa era socchiusa e che filtrava, attraverso alla fessura della porta, un bagliore di ceri.

Chi pregava maggio e Maria nella piccola chiesa della Monaldina?

I passeri ritornavano, a gruppetti, agli alberi del loro riposo. Si abbassavano come voli di foglie secche, dai tetti della villa fin verso i rami dov'era già un sommesso cinguettare.

Fra le foglie di un salice, il dolce trillo di due raganelle dava il senso dell'umida sera poi che l'ora della rugiada era già alla soglia del brolo e del giardino.

Trovai un cancelletto aperto verso la casa del contadino ed entrai.

Da un viale laterale, fiancheggiato da un duplice filare di tigli, penetrai nel piazzale della villa. Arrivai ai piedi della scala esterna; lasciai la bicicletta appoggiata al muro e mi disposi a salire.

Poi che mi presentai sulla soglia, non vidi nessuno. Sopra una seggiola era un largo cappello da donna. Sulla tavola un gran fascio di fiori e un paio di guanti. Chiamai; nessuno rispose.

Nelle altre due stanze aperte era un uguale silenzio. Giacometta e la signora Zeffira dovevano essere fuori di casa. Forse erano andate fino a Ghibullo, per qualche spesa.

Discesi in giardino. Mi disposi ad aspettare.

La sera era sempre più pallida.

La chiesa dal campaniluccio sottile mi incuriosiva. Chi poteva sostare in quel piccolo tempio fra i tigli e i roseti, a pregar maggio e Maria?

Mi accostai alla porta socchiusa.

Dall'interno mi giunse un bisbiglio di preghiere.

Sporsi la testa dall'apertura dell'uscio e guardai nell'interno.

Grande fu la mia sorpresa quando vidi in un inginocchiatoio dinanzi al piccolo altare del fondo, Giacometta. Ella aveva raccolta la faccia fra le mani e pareva immersa in una profonda meditazione religiosa.

Pregava? Era veramente con Dio o con i suoi pensieri mondani? Perchè era entrata nel tempio s'io sapevo ch'ella non pregava mai? S'io sapevo ch'ella non credeva?

Due inginocchiatoi stavano dinanzi all'altare; uno per lato. A destra era Giacometta; a sinistra la signora Zeffira. Un poco più indietro, verso la porta, inginocchiate sulla nuda terra, stavano due vecchie che pregavano con grande fervore. Esse levavano, a quando a quando, gli occhi verso la immagine dell'altare e congiungevano le nere e rugose mani di povere creature di fatica, nell'atto di impetrare la grazia.

Chiedevano misericordia per l'altra vita, chè da questa ormai stavano per trapassare, oppresse dall'amara fatica; e cercavano in Dio, il vago paradiso dei cieli e il riposo dei giusti nell'eterna pace dell'eternità.

Sì, riposare, riposare!...

Trovar, fuori dal mondo, la giusta legge in una clemenza infinita; e farsi perdonare per aver pianto e sofferto; e per aver lavorato; e per non aver goduto!

Entrai. La porta cigolò. Le vecchie si rivolsero a guardarmi e mi sorrisero chinando il capo.

Anche Giacometta si rivolse.

Era pallida. I suoi grandi occhi erano tristi. Mi fece cenno di attendere e nascose la faccia fra le palme aperte.

Una diecina di ceri ardevano sul piccolo altare. La chiesa ne era tutta illuminata. I fiori del maggio odoravano per entro i grandi vasi disposti sotto le immagini sacre.

Era una chiesa per una famiglia sola; il sacrario di una sola famiglia. Per questo aveva una non so quale intima semplicità, una mistica purezza che elevava l'anima a Dio.

Nulla poteva distrarre l'attenzione del credente: non fregi, non ori, non ricchezze, non vanità senza senso dinanzi a Dio solo e tremendo; nulla poteva ricondurre l'anima al terreno fasto. La piccola navata era ignuda; scoperte le travi, appena imbiancate le pareti; ma una ineffabile soavità era veramente nel luogo come se maggio vi fosse entrato e vi si raccogliesse per dolcezza, a ricordarsi a Iddio nel nome delle rondini e dei roseti in fiore; nel nome delle innamorate che soffrono, e nel nome di tutta quanta la povera e cieca umanità.

E se pure io non sapevo e non volevo pregare secondo il rito cattolico; s'io non volevo ricorrere alle parole gettate alle moltitudini che le ripetevan da secoli e secoli senza conoscerne il senso, era in me una più schietta preghiera, una mia comunione con Dio oltre i dogmi e le casistiche della Chiesa.

Pregare, sì, ma quando il tuo profondo sorriso arrivi fino alla mia miseria, sempre giovane Iddio de' miei anni! Pregarti quando io ti senta e ti avverta, io solo e sperduto alla soglia del tuo tremendo mistero; io solo con te solo!

E non altri fra la tua immensità e la nullità mia che ti cerca, che si azzarda sulle tue vie tenebrose da stella a stella, nell'armonico turbinìo dell'universo nel quale ed oltre il quale tu sei, avvertito e pur sempre ignoto.

Io solo con te solo e non altri, perchè se l'anima mia trema, non altri può intendere o guidarmi là dove ciascuno per sè può giungere, e solamente.

Forse si possono indicare le strade del Signore, ma non più di questo si può.

Così mi raccolsi, quella notte di maggio, nella chiesetta della Monaldina fra il silenzio diverso di quattro creature prone.

Poi una vecchia si levò; intinse la mano nella pila dell'acqua benedetta, si fece il segno della croce inchinandosi verso l'immagine dell'altare e scomparve.

Poco dopo, dal campaniluccio della chiesa, si sperdevano sotto le stelle, e con le lucciole dei grani, i rintocchi di una piccola campana che suonava non so che cosa: se un'Ave, se un segno di preci compiute, se un saluto alla notte del mondo, se un invito a una lontana preghiera.

Ma furono pochi rintocchi. Allora anche la seconda vecchia si levò e scomparve. Poi fu la volta della signora Zeffira.

Rimanemmo soli, Giacometta ed io.

Nè Giacometta accennava a ridestarsi dal suo sogno remoto. Trascorse non so quanto tempo ancora, poi l'amor mio si levò d'un subito, si inchinò e si rivolse per uscire.

— Siamo rimasti soli?

— Sì.

— È molto tempo?

— Forse mezz'ora.

— Perdonami. Pregavo.

— Di che dovrei perdonarti?

Anch'ella intinse la mano nella pila dell'acqua benedetta e si segnò.

— Quando sei arrivato?

— Sarà forse un'ora.

— Ti aspetto da questa mattina. Credevo tu non arrivassi più e non sarebbe stato bello, da parte tua!

Non risposi.

Usciti dalla chiesetta, ci avviammo verso la scalinata della villa.

— Tu sapessi quant'ho combattuto per poter vivere almeno una notte con te in questa vecchia villa. Era il mio desiderio da quando incominciai a volerti bene!

Mi si accostò un poco più; riprese:

— Mi serbi rancore?

— Nessun rancore.

— Hai dimenticato?

— Non ho dimenticato!

— Eppure... credimi se vuoi... non ho cessato un minuto solo di volerti bene!

Ci fermammo ai piedi della scala.

— Vuoi che facciamo un giro per il giardino?

— Come desideri.

Ci avviammo lungo i viali invasi dalle gramigne. Turbinavano intorno, miriadi di lucciole; e dalle siepi di biancospino e dalle macchie prossime e remote, cantavano i rosignoli.

— Ormai ho presa la mia decisione irrevocabile, Franzi, e puoi credermi. Io non ho avuto per Rorò che un turbamento passeggero...

— Ma allora...

— Perchè gli aprivo?.... Che so? Mi faceva pena. Era come un fanciullo disperato e prepotente.

— L'hai riveduto?

— Sì, a Bologna.

— All'albergo?

— All'albergo. Non voglio nasconderti niente. Non per difendermi. Tu sai che degli altri non mi preoccupo affatto. Possono pensare e dire di me ciò che vogliono. Non mi scompongo. Ma, per te, è un'altra cosa. A te voglio dir tutto. Mi crederai?

— Ti crederò.

— Lo pensi davvero? Non essere cattivo, Franzi.

— Tu sai che non so essere cattivo.

— È vero. Dunque, dopo la tua partenza, Rorò non si dette per vinto. Lo trattai male, non volli più vederlo, gli rivolsi appena la parola. Ero indispettita con te e mi pareva di odiare Rorò. Ma certe volte, quando si metteva al piano a cantare, mi prendeva non so quale profonda malinconia... non so quale scoramento... e allora, s'egli avesse voluto prendermi, l'avrebbe potuto, e non era amore... no, Franzi, non era amore. Era un fascino malefico. Sotto l'oscuro dominio della sua musica, mi sentivo perdere; tutte le mie forze mi abbandonavano. Avrei pianto senza sapere il perchè della mia tristezza. Un incubo, ti dico!... Un incubo soave e malefico. E quando riuscivo a vincermi, quando potevo riprendere l'assoluta padronanza della mia volontà, allora mi proponevo di dimostrare a Rorò che non potevo soffrirlo; ch'egli tanto più mi diventava odioso, quanto più sapeva perdermi, in certe ore. Non gli rivolgevo la parola; non rispondevo alle sue ostinate insistenze. Ma Rorò non mi dava tregua. Con la testardaggine di un fanciullo prepotente, si era proposto di ottenere da me ciò che voleva. Nulla poteva togliergli la convinzione di riuscire. E ciò, a volte, mi dava una vera febbre di rivolta!....

— ... ma era amore!...

— No, non era amore! Ascoltami. Una volta decisi di andarmene. Volevo raggiungerti. Avevo sete di te. Tu mi apparivi tanto diverso! Quantunque fossi offesa...

— E che male ti avevo fatto io?

— Ma tu non conosci le donne, povero Franzi! Tu sei un bambino. Tu non puoi vivere che dei tuoi sogni e delle tue illusioni. Io ero offesa con te e ne avevo ragione. Non ci si lascia così, senza un'ultima parola... e non si vince abbandonando il campo della lotta! Ma non importa. Il fatto si è ch'io ti volevo bene anche allora come te ne voglio adesso; ma ero indispettita. Avrei voluto averti vicino per farti almeno un po' di male e darti poi tutto quanto il mio amore... ma tutto!... Tu non c'eri e un giorno decisi di andarmene. Volevo raggiungerti; volevo vederti, come ti vedo, e poi...

«Avevo già compiuti i preparativi in silenzio perchè a nessuno trapelasse qualcosa della mia decisione. Neppure Arlecchina doveva sapere. Sarei partita all'ora del pranzo, quando nessuno mi avesse veduta. E, all'ora stabilita, salii in camera mia per porre ad effetto il mio proposito quando vidi, sulla scrivania, una lettera per me. Riconobbi la scrittura di Rorò. Non volevo leggerla. Ormai mi aveva scritto troppe volte e sapevo, press'a poco, ciò che mi avrebbe detto. Presi la lettera; fui per strapparla; mi pentii. Era meglio ch'io sapessi ciò che mi scriveva; tanto non potevo temerlo, ed era per l'ultima volta. Strappai la busta. Lessi. Era una lettera piena di oscure minacce. Mi avvisava di essere partito e di aspettarmi a Bologna, al Baglioni. Mi supplicava di raggiungerlo. Dichiarava che, se non fossi andata avrei avuta sulla coscienza la responsabilità del gesto disperato ch'egli avrebbe compiuto. Un romantico, in poche parole, ma un romantico del quale io non sapevo quasi niente. Malato di nervi lo era; e se avesse per davvero posto ad effetto il suo proposito? Quella lettera mi lasciò perplessa. Intanto cominciai col non partire. Discesi a pranzo. Ero nervosa, agitata; non toccai cibo. Dopo pranzo Arlecchina si pose al pianoforte e cantò una romanza di lui.

«Io sono una debole cosa, Franzi! Io stessa non mi conosco ancora! Io non so che cosa mi provenne da quella musica... sta di fatto che salii in camera mia e, quando ebbi serrato l'uscio e fui sola, mi gettai sopra un divano, presa dal convulso del pianto. Soffrii come una disperata senza sapere perchè. Che cosa avevo? Perchè piangevo? Non ero libera di andare da lui quando l'avessi voluto? Non potevo dargli tutta me stessa, se ciò mi fosse piaciuto? No, io non volevo questo; anzi il pensiero di appartenergli mi destava profonda ripugnanza. E allora? Se non era amore quel mio turbamento, che cosa era mai?... Che cos'era mai?..»

Parlava sommessamente e rapidamente senza guardarmi. Guardava il sentiero. Confessandosi a me, provava la singolare voluttà di denudare l'anima sua di fronte a sè stessa. Provava il piacere di rivivere la sua pena morbosa, ne' suoi minimi particolari. Riprese:

— Dovevo soffrire... non so!... Era forse la notte di maggio col suo languore... era la mia stanchezza... eri tu che non c'eri. Come hai avuto torto ad andartene, bambino! Il giorno dopo, quando seppi che eri partito, giurai che non ti avrei riveduto mai più. Eppure...

«Basta, mi levai talmente spossata dal divano, che non avevo più forza di reggermi in piedi. E la mia debolezza ingrandì il mio tormento e la mia paura. Allora, senza sapere che cosa facevo, senza misurare le conseguenze del mio atto, senza preoccuparmi di ciò che avrei potuto decidere la mattina, dopo una notte di riposato sonno, gli telegrafai. Gli telegrafai così: Mi aspetti. Verrò.

«Tutto ciò mi dava un'amarezza insoddisfatta; ma... dovevo farlo!... Ero in preda ad una suggestione che non mi spiego. Forse io, pur senza consentire, subivo la forza della sua volontà lontana. Quando ebbi compiuto questo, mi sentii più sollevata e non pensai più a niente. Sentivo solo un profondo bisogno di non veder nessuno; di non parlare a nessuno; di essere sola... sola... sola!..»

Trasse un profondo sospiro. Pareva che, narrando, disfacendosi del ricordo, si disfacesse anche di una grande pena e sospirasse di sollievo per sentirsene, così, liberata.

— La mattina dopo pensai che per vincere l'angoscia dovevo andare da lui; dovevo affrontarlo, sola con lui, in una stanza d'albergo o in un qualsiasi altro luogo. Ciò non mi impauriva. Non era di lui come uomo che temevo; temevo il fascino oscuro dell'anima sua attraverso all'impero dell'arte sua; e temevo l'incompiutezza dei nostri rapporti. Bisognava arrivare ad una soluzione ed ero ben decisa ad arrivarvi, qualunque fosse stata la strada che avrei dovuto seguire. Tale decisione mi rese momentaneamente più leggera; mi rese più sopportabile la giornata. I miei preparativi erano compiuti. Alle undici salivo in automobile. Discesi al Baglioni.

«Arrivata all'albergo fui colta da una grande freddezza, da una indifferenza glaciale. Il sapermi, ora, vicino a lui mi dava una padronanza assoluta ed improvvisa de' miei nervi. Non lo temevo più. Avrebbe potuto minacciare la sua e la mia morte che ne avrei sorriso. Tutto il suo potere su di me, che la distanza ingrandiva, era meno che niente. Non volli vederlo subito; uscii. Verso sera, rientrando, incontrai Rorò nella hall. Non appena mi vide si fece pallidissimo. Non mi piacque. La sua faccia si contrasse in una smorfia implorante che non mi piacque. Io non capisco la pietà; non so essere pietosa. Nell'amore, la miseria di chi prega, mi fa più crudele. In nessuna battaglia si vince pregando; e l'amore, per me, è una bella battaglia. Se egli mi avesse investita lo avrei forse ascoltato; ma il trovarmelo dinanzi così, come un miserevole fanciullo che si getta in ginocchio a pregare, mi indispettiva. Lo salutai passando. Non volli fermarmi. Poco dopo ricevevo, in camera, un suo biglietto nel quale mi pregava di accordargli un breve colloquio. Ero ben disposta. Glielo accordai subito. Poteva venire. Avevo un cattivo desiderio di vendicarmi; di fargli scontare tutta la pena che avevo involontariamente patita per lui. Si presentò. La mia freddezza lo sconcertava. Tu sai come sono quando mi si forma come un nodo nel cuore e non c'è più niente al mondo che possa commuovermi o rimuovermi dalla fredda impassibilità che mi tiene. Io sono allora come se vivessi una vita lontana da tutte le cose che mi stanno intorno; come se ogni mia sensazione si cristallizzasse. E non v'è preghiera o disperazione che mi smuova. Allora non posso vincermi... non posso!...

«Egli parlò per più di mezz'ora e non ricordo che disse. Lo lasciai parlare. Non mi interessava. Non una parola uscì dalla mia bocca. Quanto più l'eccitazione lo teneva, tanto più mi facevo fredda e muta. Solo in un punto, quand'egli tentò di avvicinarsi a me, le mani tese in un gesto di minaccia, gli occhi miei cercarono gli occhi di lui e questo bastò per vincerlo.

«Pianse, strepitò, si ruzzolò sul tappeto, finì per estrarre la rivoltella e per puntarsela alle tempie. Lo lasciai fare sorridendo. Ormai avevo veduta ben nuda l'anima sua e sapevo che non avrebbe avuto il coraggio di arrivare fino in fondo. E il coraggio non l'ebbe. E tanto più fu ridicolo agli occhi miei, quanto più aveva azzardato. Per tre volte uscì con aria tremenda e per tre volte rientrò più disfatto che mai. Alla quarta volta chiusi la porta a chiave. Non ne potevo più. Incominciava la nausea. Anche i miei nervi si stancavano e la tensione era troppo grande. Mi gettai sul letto e mi addormentai così, senza svestirmi, perchè il sonno mi sopravvenne come un letargo.

«Il giorno dopo ritornò all'assalto. Aveva una disposizione d'animo migliore. Mi promise che sarebbe partito la sera stessa. Si era già fornito del biglietto di viaggio e me lo mostrò. Mi chiese se, per l'ultima volta, avessi acconsentito a fare una passeggiata in vettura con lui. Perchè negarglielo?

«Egli non parlava più; solo, di tanto in tanto, tentava una carezza. Poi incominciò a canticchiare. Lo fece ad arte? Aveva imparato la strada della mia malinconia?... Io non so... Le forze mi vennero meno... Allora mi prese fra le braccia e mi baciò sulla bocca... lungamente...

«Non gli resi il bacio; fu la cosa di un attimo, chè il mio smarrimento non durò più di tanto. Dopo, ogni suo tentativo fu vano.

«Volli ritornare. All'albergo mi lasciò e non l'ho rivisto più. «E questo è tutto!... Se vuoi credermi, Franzi, questo è tutto!...

— Ti credo.

— Poi non mi seppi rassegnare a non rivederti e tanto feci fin che non ebbi la possibilità di incontrarti qui, alla Monaldina, come avevo stabilito dai primi giorni in cui ti conobbi. È un voto che sciolgo. La nostra ghirlandella è sempre sul ramo più in cima della più alta betulla del giardino. Domani andrai e la prenderai per serbarla. Se tu non fossi venuto mi avresti cambiato in veleno il mio primo sogno e non ti avrei saputo perdonare. Ora sei qui... e la bella notte di maggio è nostra... ed io ti voglio bene come prima... più di prima Franzi mio!

Giacometta aveva ragione, non poteva aver che ragione perchè, nonostante tutto, anch'io le volevo un gran bene.

Sedemmo alla tavola apparecchiata.

La signora Zeffira si era fatta aiutare dalla contadina e tutto era stato fatto per bene.

Non mancavano neppure i fiori, in mezzo alla tavola. La tovaglia era candida; i vassoi erano d'argento; il vino ricordava i rubini incastonati nei diademi delle Basilisse.

Anche le lucciole entravano, dalle finestre aperte sul giardino. Ed entravano le falene a bruciarsi le ali e a morire alle fiammelle della lampada nella quale ardeva il puro olio dei colli.

Non avevamo altri lumi, ma quello ci bastava; ed era soave la luce.

Giacometta mi si era seduta accanto; e voi signora Zeffira, sedevate discretamente all'altro lato della tavola, ben lontana.

E, con saggia disposizione, pensavate a mangiare senza occuparvi di noi, il che era ben fatto.

La contadina ci serviva eccitando il nostro appetito co' suoi consigli.

Giacometta era gaia. Rideva e si illuminava. Aveva forse decisa la mia e la sua felicità per sempre?...

Ahi, per sempre, Giacometta!

E qual valore ha questa parola nel rapido e mutevole mondo, quando «per sempre!» lo si dica all'amore?...

Tu eri la nuvola bianca sul giardino della primavera. Un bagliore che si dissolve.

Ma quella notte ridevi e brillava la chiostra de' tuoi piccoli denti serrati, nel sorriso, fra le labbra rosse; e mangiavi di buon animo, e ti illuminavi.

Io ti ero vicino, e il tuo riso era il mio riso perchè mi avevi fatto dimenticare il mondo, tu, ardore del mio tempo soave.

Avevo tante cose da dirti che mi si accendevano nella mente! Un brio indiavolato mi discendeva per le vene, per la felicità di averti accanto. Tu eri ritornata e mi volevi bene. Questo era almeno certo per quella notte. Io non pensavo più in là e tu mi avevi abituato a questo. Volevo ridere, volevo averti! E tu eri della stessa opinione. Questo, fanciulle mie, è sommamente bello in amore. In amore bisogna essere, almeno qualche volta, della stessa opinione, altrimenti le fontanelle si seccano e si può morire dalla sete.

Questo ancora è un brutto guaio, belle figliuole di Forlì e di Ravenna, delle due mie città esemplari e fantastiche; è un brutto guaio e bisogna evitarlo a tempo giusto. Due lucciole si posarono sulla tavola e scambiarono forse il candore della tovaglia, per una nuvola.

Noi non sappiamo che cosa pensino le lucciole sopra una tovaglia di bucato.

Credettero esse di essere arrivate presso la lampada del cielo, sopra una nuvola bianca?

Forse sì, perchè si disposero ad amarsi.

E si congiunsero sotto gli occhi nostri perchè, questa, non è, per le lucciole, una cosa impudica.

Fecero ciò che dovevano fare secondo le sacre leggi; e Giacometta ne sorrise.

La piê era odorosa, il buon pane azimo della nostra gente.

Veronica, quante uova avevate impastate con la farina, e quanto strutto, per fare una così saporosa piê, che ancora me ne ricordo?

E i galletti di primo canto erano morti per la nostra fame. Poveri vivaci galletti che strillano:

Vita da Reeee!... — quando nasce il sole dietro i pagliai delle aie.

Io pure cantavo: — Vita da Re! — e Giacometta mi si stringeva al fianco. I suoi piccoli piedi erano coi miei. Le nostre gambe si intrecciavano sotto la tavola.

Ad un tratto, le chiesi una piccola cosa all'orecchio ed ella mi rispose, arrossendo:

— Sì, tutto quello che vuoi!...

Bene, e se allora mi avesse domandato di essere casto per tutto un anno, avrei accettato di buon cuore il sacrificio, perchè le volevo bene.

Ma eravamo alla fine di un capitolo e leggevamo le parole che accendono.

— Ragazzi, la cena è finita. Non c'è altro.

— Tanto meglio.

— Io vado a letto, ragazzi. Sono stanca. Alla mia età non si può vegliare.

— Buona notte, signora Zeffira!

— Buona notte.

— Volete vi svegli, domattina?

— No, grazie.

— Dormite bene.

— Altrettanto a lei.

— Veronica, non importa sparecchiate. Ci penseremo domani.

— Va bene. Felice notte!

— Felice notte!

E la Veronica se ne andò da una parte; la signora Zeffira dall'altra.

— Chiudete bene le porte...

— Sì, signora...

Furon ben chiuse le porte; ma non quella del giardino. Rimanemmo soli.

Sulla tavola c'erano ancora le prime ciliege di maggio; rosse come i tuoi baci, Giacometta. Continuammo a mangiarne e bevemmo ancora del vino, rosso come i rubini incastonati nei diademi delle Basilisse. Finimmo per abbracciarci.

Allora accadde che d'improvviso, le nostre bocche fossero l'una su l'altra, in un bacio diabolico.

Ci colse l'affanno. A cadere si fa prestissimo; basta un secondo, è l'amore che turbina! Ma non volemmo cadere.

La lampada ardeva, soave, sulla tovaglia bianca, e, intorno a lei, era una distesa di falene morte, di moscerini morti, di insetti di ogni colore.

— Se andassimo a fare un giro in giardino?

— Come vuoi.

— Che ore sono?

— Le dieci.

— Non è tardi. Andiamo.

Passammo nel silenzio della notte e delle stelle infinite. Per le strade, pei campi non c'era più nessuno. Le case dei contadini erano buie.

Avvinghiati l'uno all'altra, girovagammo senza parlare. Solo, tale e tanta era la nostra gioia di sentirci uniti, di avvertire l'assoluta presenza dell'amore, che, a quando a quando, ci trovavamo a bocca a bocca con lo stesso desiderio. Era l'assoluta felicità del possesso e della dedizione.

Le mie mani non avevano più ritegno; ma decade il ritegno quando la gioia è comune; quando non è sola la brutalità del maschio, che voglia, ma è la compiutezza di due creature.

Le accarezzai la faccia, la gola, i fianchi lunati di bella giovinetta esile e forte.

Ella lasciava fare, smorendo. Le forze le venivano meno. Sarebbe caduta sull'erba se non l'avessi sorretta. Solo mormorava sospirando:

— Franzi... Franzi, non mi far soffrire!...

E ancora, in uno spasimo:

— Sì, fammi soffrire!... Fammi soffrire!...

Poi arrivò l'ora di salire alle nostre stanze. Ci soffermammo a chiudere la porta, le finestre della sala.

Presi, dalla tavola, la lampada d'argento.

— La portiamo con noi?

— Sì, portiamola con noi!

Salimmo le scale lentamente, abbracciati. Nei grandi occhi celesti di Giacometta, era tale desiderosa dolcezza, che mi faceva tremare i polsi.

Entrammo nella stanza di lei che era vasta ed antica. Un grande letto nuziale, a baldacchino, coperto di broccati, le quattro colonne a stucchi e a oro, e le spalliere, occupava gran parte di una parete e si spingeva fin quasi al mezzo della stanza. Era il monumento del sonno e delle giuste nozze. Chissà quanti sposi vi si eran voltate le spalle! Gli antichi erano preveggenti e pensavano che, per dormire insieme tutta la vita, occorre molto spazio. Il matrimonio, ammesso che corregga il costume, allarga il letto del sonno. Non sarebbe molto meglio dormire in due stanze vicine, umilmente e santamente, quando tutte le fontanelle sono seccate?... Quando l'amore è già morto da tanto tempo, dalla sete?...

V'era adunque in quella stanza un tal letto che Giacometta ne fu sorpresa.

— Dio mio!... Non l'avevo veduto ancora!... Ma questo non è un letto, è un edifizio! Come doveva essere brutto il matrimonio di una volta!

— Ma... press'a poco...

— Non è vero! L'ambiente crea la grazia e la disposizione alla grazia.

— Già! Ma allora spengevano il lume e, al buio, l'ambiente è sempre lo stesso!

— Ma non la disposizione.

— Secondo gli anni dei coniugi. Poi a quei tempi si bevevano fiumi e si mangiavano montagne. Allora la grazia si alzava lo strascico per andarsene in tutta fretta.

Giacometta volle tutto vedere, improvvisamente bambina. Aveva dimenticato l'ora, l'ansia, l'angoscia che ci teneva pochi momenti prima; si era rasserenata. Correva e rideva, scherzava, animata da tutt'altri propositi che non fossero quelli dell'amore. L'amore lo aveva dimenticato forse, forse anche i propositi suoi erano svaniti. Ciò mi fece un po' nero di umore.

— Che cos'hai, Franzi? Non sei più allegro? Perchè fai quella faccia?

— Non me ne accorgo. Sarà un effetto di luce.

Scoppiò in una risata.

Quando ebbe rovistato ogni angolo, parve disposta ad essere più tranquilla. Si fermò; stette muta e pensosa. Disse poi:

— Vieni ad accendere il mio lume.

Ubbidii. Ella si fermò ai piedi del letto. Si era accigliata ad un tratto. Mi avvicinai guardandola. Rifuggì dal guardarmi. Allora, amareggiato ed inasprito, le tesi la mano:

— Buonanotte!

— Buonanotte!

Abbandonò la mano nella mia come una cosa morta. La lasciai. Ero pieno di desiderio e di dispetto. Se lo avessi potuto, l'avrei martoriata.

Fui per chiudere la porta.

— No!... non chiudere!... — gridò all'improvviso.

— Perchè?

— Ho paura!

Lasciai la porta aperta e mi allontanai senza rivolgermi.

Mi affacciai alla finestra. Forse l'aria della notte avrebbe acquietata un poco la mia tempesta. Mi parve di udire la voce di lei; non mi volsi e non risposi. Trascorse una pausa.

— Franzi?...

La voce era più vicina, ammorzata in una carezza amorosa.

Ancora non mi volsi.

Allora udii il suo passo dietro le mie spalle; poi sentii il suo respiro sulla mia guancia, poi le sue braccia attorno al mio collo.

Ah, che bastava, bastava, e l'impeto che mi nacque non poteva ormai più essere infrenato!

Ne fu travolta.

L'avvinghiai, la strinsi, la sollevai fra le braccia, me la portai via come una bella preda, come l'amor mio vivo, come il mio desiderio che ardeva.

Niente più poteva essere fra me e lei per dividerci. Era superato il limite. Io già ti avevo nel mio amplesso, da quando, ghermita così nella tua dolcezza di amante, ti portavo verso il grande letto damascato, perchè tu vi morissi d'amore!

Ma ormai, ciò che era in me era in te; la mia follia era la tua follia.

E la posai sul grande letto, riversa, nè ella ebbe un grido nè un atto di repulsione: anzi languiva nello spasimo che era ormai troppo grande e angoscioso.

Non l'abbandonai più. Il vederla così, sotto di me, più bella di ogni umana figurazione; il vederla trasfigurata nella mia e nella sua gioia; il sapere ch'ella mi desiderava come io la desideravo e che non v'era più neppur l'ombra di un'ombra che si frapponesse al pieno compimento del nostro piacere, mi rendeva cosciente nel mio delirio, tanto che mi attardavo per vieppiù godere di lei, della sua bellezza, del suo spasimo che mi si offriva intiero perchè ne partecipassi fino a che la mia giovine forza mi avesse sorretto.

Soave era il lume della lampada e non volli spengerla. Le finestre erano tuttavia aperte; ma chi poteva udire, dal silenzio del giardino, il lamento del nostro piacere?

Entrava il lume delle lucciole e delle stelle. L'accarezzai tutta quanta ed ella, sempre più smorta e tremante, mormorava:

— Sì... tu sei il mio amore!... Prendimi... fammi male... io ti voglio!...

Ma l'indugio è bello quando la preda è sicura. Io volevo ch'ella morisse di me come io di lei morivo.

Poi le nostre bocche si unirono e non fu più il bacio delle sole labbra, ma un più profondo bacio, tanto che il nostro affanno si accrebbe ancor più e i nostri corpi si unirono in un primo, lungo fremito. Chiudemmo gli occhi. Le mie mani cercavano la sua calda nudità.

— Come sei bella!... Come ti voglio bene!... Ora sarai mia... mia!

— Sì, tua... tua... tutta tua!...

Riversa e ansante, ella attendeva.

E la divina grazia del suo giovane corpo mi appariva, illuminata d'amore.

Caddero a mano a mano, le lievi e dolci cose del suo abbigliamento intimo, e quando vidi delinearsi il suo corpo quasi ignudo, quando l'anca non ebbe più velo e potei strappare l'ultimo impedimento che ancora mi vietava di godermela tutta, quando ella fu veramente mia e supina e pronta alla mia violenza, allora ebbi un grido e l'abbracciai, cieco ed ebbro del suo amore.

Ah, giovinezza e delirio!

Ella era veramente come una piccola statua di meraviglia. Niente era in lei di inarmonico. A guardarla, il già acceso desiderio centuplicava. La bellezza del suo volto era pari all'armonia della sua linea compiuta.

— Baciami, baciami, baciami.

Non aveva più parole ma un lamento, un gemito. Poi le sue mani mi cercarono e non fummo più due corpi, ma un solo corpo, nell'ansito del piacere.

E finalmente riversa, abbandonata, esausta, la feci mia e vidi la sùbita contrazione dolorosa del suo volto, udii il suo grido, mi accorsi ch'ella era intatta e che mi aveva fatto il volontario dono della sua verginità.

Tu mi portasti quella notte, alla Monaldina, il fior del tuo corpo intatto.

Fu quella la prima volta per te, nella gran notte di maggio; ed io ancora sento il brivido del tuo dolore, del nostro piacere.

Poi la tua tenerezza moltiplicò come più ti sentivi mia, ormai, perduta in me perchè io ero stato il primo a farti soffrire, il primo a prender da te la mia gioia e a darti l'accecante e dolorosa ebbrezza del sussulto, del brivido, del delirio, della spossata pausa in cui si rinnova più forte l'inesausta volontà di godere e di soffrire.

E fino al mattino godemmo; fino al mattino fummo l'uno dell'altra: fino a quando cioè una piccola campana suonò l'alba e cantarono i galli dalle aie.

Allora, sempre avvinti, cademmo in un pesantissimo sonno e tutte le cose del mondo disparvero per la nostra giovinezza in riposo.

Ella aveva un altro volto, il giorno dopo. Nei suoi grandi occhi celesti era una infinita tenerezza e una infinita malinconia.

E quando credevo ch'ella dovesse essere mia e veramente mia per mesi ed anni, ecco che una nuova distanza nasceva fra di noi.

Ella era arrivata con un proponimento e a tale proponimento si atteneva senza concedere nulla ai nuovi desideri, alle tentazioni nuove.

Si era promessa di farmi il dono della sua verginità ed era partita a cercarmi.

Poi tutto era compiuto.

Non v'era altro segno da raggiungere; tutto era compiuto!

Ella avrebbe ripresa la sua strada; io la mia strada.

Ero arrivato a quella notte attraverso il ciclo della ghirlandella; ma con quella notte il ciclo era irremissibilmente chiuso. Non c'era più una parola da dire; non un gesto da tentare.

Ella rientrava nella sua torre d'avorio.

— Non ti basta, Franzi?

— No.

— Non sei convinto ora ch'io ti voglio bene?

— Ne sono convinto; ma perchè condannarci a tanta pena quando... solo che tu volessi...

— Ma io non voglio!

— E perchè?

— Perchè così è bello e solamente così! Credi che ciò non costi un enorme sacrificio anche a me?

— Ma la necessità di questo sacrificio?

— Dovresti vederla!

— Non la vedo...

— La saprai in seguito!

Girometta, sono passati ormai tanti anni, eppure debbo umilmente confessarti che allora, non potevo saperla.

Tu temevi che la volgarità sciupasse la grande poesia di quella notte nostra. Era questo?

Tu eri Girometta: tu dovevi ritornare al tuo remoto paese!

Ma dove? Ma dove?

E dopo, dopo ho girato tanto mai mondo e non ti ho più riveduta!...

Alla Monaldina lasciasti la tua ghirlanda di gelsomini e non avevi ormai altra ghirlanda da portare all'amore. Laggiù, sulle rive del piccolo fiume, fu tutto!

Io mi levavo, quel giorno, con l'anima del più terso cielo di maggio e la mia gaiezza era tutta un canto quando venisti a dirmi:

— Povero Franzi, debbo dirti addio.

Più grande fu la tua malinconia quando vedesti il mio volto sbiancare.

— Addio?... E perchè?...

— Io parto.

— Ma dove vai?

— Molto lontano.

— Ma dove?... dove?...

— Dove tu non possa saper più niente di me!

Già tutto era pronto, quando discesi in giardino.

Tu eri ben decisa e forse avevi ragione!

Non saresti così nella mia poesia, altrimenti; non così nella mia musica lontana che tutta si appassiona di te, cantando.

E forse non avevi neppur ragione, perchè ti avrei creato ben altri altari!

Ho ancora in mente la tua malinconia, quando dicesti: — Non sciupiamo quest'ora. Io avevo deciso così fin dai primi giorni, fin da quando ti conoscevo appena. Le nostre giovinezze si trovavano nello stesso silenzio. Capii che eri molto solo, sentii il deserto della tua giovinezza e seppi che potevo darti la gioia. Ebbene, questa gioia ho voluto dartela. Ho fatto male? Ho voluto portare a te, che non mi chiedevi niente, ciò che altri cercava di mercanteggiare. Ti ho data la mia purezza intatta e non ti basta?... Ora non potrei vivere la tua vita, nè tu potresti e sapresti vivere la mia. La tua strada è un'altra strada. Bisogna che ci separiamo fin che non vi sia un dolore molto più profondo fra l'anima tua e l'anima mia. Il dolore che rende vizze anche le cose più belle.

«Io non sono di questo, povero mondo, che vive fra i tre campanili. Forse avrò torto... forse ho ragione! Ma che m'importa?... La mia vita voglio costruirmela io. Sono abbastanza ricca per farlo ed ho la grandissima fortuna di essere sola.

«Ho sempre compianto le mie pari che hanno tanto parentame attorno. E tutto il parentame si preoccupa della loro felicità. Per queste povere giovinette non è possibile neppure il principio di un sogno. Debbono soffocare tutto. Un giorno o l'altro saranno gettate in un letto matrimoniale e dovranno darsi ad un bennato maschio che le coltivi come un vaso di prezzemolo. È forse più bello l'ipocrito adulterio anzichè la mia sincera libertà... Tu mi piacevi. Ti ho dato me stessa. Ora me ne vado perchè voglio che sia così.

«Io sono nessuno, ma mi pare di avere il cuore di una rondine. Sono nata per cercarmi una gronda, forse; ma anche per emigrare. Ora debbo andarmene. So che mi ricorderai, ma non ti prego. La tua vita sarà un po' come la mia. Addio, Franzi.»

Non seppi e non volli replicare nonostante l'amarezza che mi proveniva dal suo divisamento. Era inutile pregarla; non la pregai.

Una vettura l'attendeva.

Passeggiammo ancora un poco senza parlare. Un addio è sempre lacerante.

E tutte le buone ragioni non valgono quando il cuore soffre.

Ma così doveva essere. Provammo il nostro coraggio a quella separazione improvvisa, e, apparentemente, non necessaria.

— Domani sarebbe troppo tardi!...

Ed è sempre troppo tardi, quando non si ha il cuore pronto alle decisioni risolute; quando non si sa affrontare il dolore. È troppo tardi per vivere e per morire. Un cuore si impantana.

Ma io ero un pastore di stelle.

Io sapevo il canto delle solitudini.

Avevo il mio cuore forte, nel mio petto di giovane.

La vita e la miseria dovevano serbarmi altre sorprese...

Ma, nascendo, il Signore mi aveva indicata una strada e il lume degli astri.

Ciò che scopersi lungo il mio cammino, e la poesia e la musica e il dolore che conobbi e imparai vi saranno noti, se mi vorrete seguire.

Se vorrete profondare con me nella notte, verso i sogni dell'Universo.

Qualche volta, ho sentito Iddio, oltre il mio terrore; e l'amore mi è stato fratello.

L'accompagnai fino alla vettura.

— Addio, Franzi...

— Addio, Giacometta...

— Dammi un bacio.

Poi la vettura si allontanò.

Ella si rivolse agitando la piccola mano inguantata.

E il suo sorriso era triste.

— Addio!

— Addio!

Non c'era altro da dire e niente da aggiungere a quella parola.

Tutta la tristezza della vita era in quel giorno di maggio, fra il mio ed il suo cuore.

Scomparve. Non udii più il bubbolìo delle sonagliere. Allora balzai in bicicletta; volevo inseguirla, rivederla...

Percorsi cento metri di strada e mi fermai. A cosa compiuta occorreva un compiuto cuore.

Ritornai sui miei passi e sentii le mie lacrime solcarmi la faccia.

XXX

E, dopo, dovrai ricominciare...

Verso sera ritornai alla mia città.

Io non pensai, ritornando, nè alla signora Adalgisa nè ad altro; ma a te, sempre a te che ti allontanavi chissà verso quale contrada nel mondo!

Come mi trovai alla porta della mia casa, discesi dalla bicicletta come un automa.

Non incontrai donna Adalgisa; mi rinserrai in camera.

Ma appena mi ero seduto al tavolo che qualcuno bussò.

Andai all'uscio delle scale. Era Girolamo.

— Signor Franzi...

Ansimava e lacrimava.

— Che c'è, Girolamo?

— Principina... Oh, venga... venga!...

— Ma che c'è?

— Sta molto male!

Senza domandar altro, seguii Girolamo che non parlava più.

Attraversammo il giardino. Fummo alla casa dell'orto.

Nella stanza terrena, un gruppo di donne vegliava.

— È venuto il dottore? — domandò Girolamo.

— Sì. È su.

— Venga... venga anche lei, signor Franzi... Salimmo la scala di legno, l'uno dietro l'altro, sulla punta dei piedi.

Dalla stanza di Principina arrivava la eco di un sommesso parlare.

Una donna si affacciò alla scala e domandò:

— Dov'è il ghiaccio?... Avete portato il ghiaccio?

— Eccolo!... Lo portiamo... — rispose un'altra dal basso.

Entrammo. Io non vidi niente. La sola lampada che illuminava la stanza, era velata. Vidi qualche ombra che si agitava intorno al letto.

Un'anziana si avvicinò a Girolamo e gli chiese:

— Avete avvisato il prete?

— No.

— Bisogna farlo.

— Ma che cosa dice il dottore?

L'altra si strinse fra le spalle.

Guardavo senza rendermi ragione di quanto accadeva intorno a me.

Poi un uomo si discostò dal letto; chiese un catino per lavarsi le mani.

Quando ebbe fatto questo e fu per avviarsi, Girolamo gli si accostò e rigirava il cappello floscio fra le mani anchilosate:

— Dunque, dottore... non c'è più speranza?...

Il medico guardò ancora la malata poi scosse il capo e rispose:

— È in agonia. Ritornerò a mezzanotte...

Nessuno rifiatò. Le parole caddero fra il silenzio degli astanti.

Non si udiva che l'affanno lacerante della povera piccola, distesa nel suo lettino bianco.

— Non c'è proprio più niente da fare?...

— Non potrebbe salvarla che un miracolo!...

Allora quel vecchio ch'io non avevo veduto mai nè gaio nè triste; l'impassibile vecchio indurito nella fatica, fu preso da un singhiozzo senza lacrime e si ripiegò su sè stesso come la creatura che muore, come l'albero che schianta.

Rimase appoggiato al muro; non aveva più niente, non era più buono a niente di fronte a quel piccolo letto nel quale se ne andava tutto l'amor de' suoi giorni.

Due donne lo allontanarono sorreggendolo. Lo vidi scomparire, giù, di grado in grado, per la scala di legno. Povero vecchio! E pareva si immergesse così, nell'ultima sua ombra sconsolata.

Non avevo più forza per dire una sola parola. Tenevo gli occhi ostinatamente fissi a terra.

Perchè doveva andarsene così, povera piccola? Perchè?... Qualcuna mi disse a voce spenta:

— L'ha cercato, l'ha chiamato fino adesso.... Sapesse che pena! Ora non capisce più.

Non risposi, ma, poco alla volta, l'anima mia irrigidita si discioglieva dallo spasimo.

— Perchè non è venuto subito?... L'abbiamo mandato a chiamare tre volte. Non faceva che dire: — «Franzi?... Franzi mio?...»

— Non ero a casa...

— E adesso non conosce più...

— Ma non c'è rimedio?

— Le abbiamo tentate tutte. Deve morire! Così giovane! Quanti anni aveva? Sedici nei diciassette. Una bambina. Che cos'ha goduto?... Se ne va come è nata! Il Signore non è giusto. Perchè se vedesse quello che c'è nel mondo, certe cose non le permetterebbe. Lascia qua un vecchio e si porta via questo fiore. No, il Signore non è giusto! Che cosa deve fare ora, nel mondo, quel povero uomo? Non era meglio se moriva anche lui? Non avrebbe dato danno a nessuno. Un vecchio non è buono a niente. Ma questa bambina? Era così bella! E così buona!... Bisognava volerle bene. Muore perchè era troppo buona. Gli angioli devono stare nel cielo.

Un silenzio.

L'angoscia si faceva strada nell'anima mia troppo combattuta.

Dal giorno innanzi quanto non avevo io sopportato? E la misura non era colma.

Ancora e più in là dovevi soffrire cuor dei miei giorni; e non mancare!

Ora volevo vederla; ora volevo esserle vicino; volevo ch'ella mi sentisse nell'ora sua dell'ultimo trapasso.

Non mi era più possibile tollerare quel suo affanno di moribonda, nell'inerzia.

Mi accostai al letto. Feci disciogliere il velo che copriva la lampada.

E, alla luce che si diffuse, affondata nel grande guanciale, mi apparve la sua povera faccia ch'era già quella d'una morta.

Aveva gli occhi chiusi; ma la bocca era bianca, ma le guance erano infossate, e, sotto la pelle senza più sangue, si disegnava il suo piccolo teschio.

Questa era la sorella dei lillà in fiore, la nata all'ombra delle serre, e della croce.

Le mani scheletriche, abbandonate sulle coltri, avevano quel moto continuo e incomposto di ricerca e di affanno che precede e segue l'agonia. Il suo respiro si faceva sempre più rapido e breve.

Ad un tratto non si udì più.

Un grido spento fu nella stanza:

— È morta!...

Le due donne si accostarono al letto. Io non distaccai gli occhi dal volto di lei.

No, non era morta. Avevo ormai la ferma convinzione ch'ella dovesse vedermi ancora, che ancora dovesse parlarmi.

Non era morta. Forse era una pausa. L'ultima forza della sua vita cercava un'altra strada nel profondo... al di là del profondo. Era una pausa. Null'altro poteva essere. Avevo questa ferma e testarda convinzione come se una voce (nè la mia nè la sua) mi avvertisse.

Non poteva andarsene così; non poteva transitare senza riaprir gli occhi; non poteva non vedermi.

Tutta la mia ferma volontà; tutto il mio dolore e il mio amore erano in tale segno. Le presi una mano. La tenni fra le mie, serrata. Era fredda. Gliela baciai, gliela riscaldai con l'alito.

— È inutile!... È inutile!... — dissero le donne.

Allora volli essere solo. Non avevo paura della morte. Era una mia piccola sorella dagli occhi buoni e dolci, una primavera di sedici anni che batteva alla soglia eterna. No, non avevo paura di essere solo con la sua morte, se doveva morire. La mia volontà ebbe un solo pensiero e tutta ridesta fu la mia energia.

Pregai le donne di andarsene.

Non volevano. Le costrinsi. Non erano che estranee ed io sapevo di non essere un estraneo. Io potevo ancora affacciarmi, con anima di fratello, alla soglia di quell'agonia.

Le due anziane se ne andarono a malincuore, a passo a passo; ma videro la mia faccia che si induriva; videro gli occhi miei che erano ben fermi nella risoluzione.

Dovevo essere solo con lei.

Io solo con lei, nell'ora della sua morte.

Povera piccola! E il giardino, il mio incantato giardino era tutto pieno ancora delle tue vecchie canzoni!

Scomparvero, le due anziane, giù per la scala e, quando anche il busso del loro andare fu spento, mi riaccostai al letto.

Ancora le presi una mano; poi l'altra mano. Mi inginocchiai al suo capezzale.

Non si udiva più niente; ma solo il canto di un rosignolo.

Dischiuse le labbra; disse qualcosa che non udii.

— Principina?....

Le sue palpebre si sollevarono un poco; e ancora un poco più quando la mia voce, più vicina, ripetè il nome di lei in una invocazione dolce.

Ah, che si ridestava e ritornava verso di me!...

Ritornava dalla grande ombra per la quale si era già dilungata buon tratto.

— Franzi?...

Fu un soffio, ma la sua vita!... Un soffio, ma il suo cuore che batteva ancora; l'anima sua che viveva.

— Franzi?...

— Sono qui!... Sono qui, Principina!... Vicino a te... tanto vicino a te e non ti abbandonerò più!... Mai, mai più!...

Le palpebre si sollevarono ancora un poco. Gli occhi, vitrei dapprima, ebbero un lontano barlume che crebbe crebbe crebbe...

— Sei tu, Franzi?...

— Sì... sì... sono io... sono io!...

Le sue mani si agitarono. Disse abbrividendo:

— Ho paura!...

E allora, a mia volta, un grande brivido mi percorse dalla nuca ai calcagni e la mia parola mi morì sulle labbra.

— Dov'eri?...

— In campagna...

— ... in campagna... è maggio...

Gli occhi le si chiusero, ma per poco.

— Ho sete...

Bevve... bevve la vita. Un po' di sangue le ritornò alle guance.

— ... stanca... sono stanca, Franzi!... sono stanca...

— Ora sono con te. Riposa...

— Grazie. Hai fatto bene...

Tentò sollevarsi. L'aiutai. Mi sorrise.

Certe volte si guarda alla casa più lontana sui monti... e non si trova la strada per arrivare...

Che potevo rispondere?... Avevo il singhiozzo che mi soffocava.

— Io ho guardato troppo lontano... e le forze mi sono mancate...

Povero amore dell'ombra!

— Ma... non ti ho detto mai niente!... Che cosa ti potevo portare?... Ti potevo portare me sola e... non mi avresti voluto!...

— Non dir questo, Principina!

— Sì... Franzi!... Ho cantato tanto e non mi hai sentito... Ma adesso saremo tu ed io... sempre... sempre!...

— Sì!... Sì!...

Sorrise con gli occhi chiusi, come se vedesse la casa e la montagna; il sole ed il suo amore. E mormorava:

— Sempre... sempre!... Tu ed io!... Sempre!...

Questa era e rimane la sua grande parola sulla soglia della morte: — Sempre!... — ed io la ripeto qui col brivido stesso di allora, rivivendo in lei; passando, con lei, da quello a questo tempo, poich'ella mi è ancora vicina.

E non ebbe altro spazio.

Era ritornata per lasciar cadere sul margine della mia vita, la sua grande parola; per alimentarne il mio insonne dolore.

Sempre nella luce e nell'ombra, fino a Dio.

Sempre! E la tua umile e immensa bontà in questa sola parola!

Poi, come un piccolo passero moribondo, trapassò con un solo tremito.

Fu un niente... ed era morta!...

L'imponderabile.

Fu un niente... e tutta l'immensità del mistero fu fra il mio tragico pianto e la sua muta impassibilità.

Ella era ormai impassibile.

Ormai sapeva!

Libera e disciolta, sotto alle stelle, era avviata al destino dell'al di là.

Ma dove?... dove?... dove?... Iddio nostro e tremendo?...

Dove mai nel tuo profondo abisso?...

Non c'era sul mio cuore e sulla povera anima mia di creatura, che il mio solo pianto!...

Il mio solo pianto!...

FINE