AI LETTORI

Avevo compiuto e stavo per licenziare questo libro, quando il Cavalier Mostardo mi manda la lettera che segue.

La pubblico tale e quale lasciando all'epigone romagnolo l'intera responsabilità di quanto vi è contenuto.

Ancora: la parola diretta di Mostardo potrà servirvi a chiarire lacune ch'io posso aver lasciato nel corso della narrazione.

È, forse, un necessario compimento.

Valete.

Antonio Beltramelli

DOMANDO LA PAROLA...

Compagni,

domando la parola per fatto personale!... Ecco il fatto personale: oggi non sono più quello di ieri!

Ho letto questo libro nel quale Beltramelli mi ha voluto rifare, diremo così, per la consumazione del popolo; l'ho letto e, siccome bisogna sempre sopportare nella vita, starò zitto.

Però io vorrei sapere se sia proprio un esempio di finezza quello di spifferare alla gente gli affari intimi di un galantuomo.

Ho amato, e va bene; ma era necessario andarlo a raccontare?.. Che cosa ci ho messo io di più di quello che non ci mettano gli altri?.. E allora se si tratta sempre della medesima debolezza perchè voler aprire le finestre che dovrebbero rimaner chiuse?..

E protesto poi quanto più posso contro quella che Beltramelli chiama la «cosa aristocratica»!...

Ma che cosa e non cosa aristocratica! Queste sono fandonie che se le sogna lui!

Mi ero innamorato di Mignon, è vero! Ormai lo sanno tutti e non mi fa vergogna dirlo. Ho sofferto come un'anima dannata; ho avuto l'impudicizia di piangere; mi sono confuso con l'ultimo tamburiere; mi son fatto compatire anche da Rigaglia testone. È vero, è vero! Ma da questo a voler affermare che mi ero perduto per «la cosa aristocratica», c'è un bel divario!.. Io sono stato sempre un autentico democratico; anche quando soffrivo le pene dell'inferno. E tutto il resto è fandonia, è bagatella, è facezia!..

L'aristocrazia non fa per me ed io non l'avrei cercata neppure fra le segretezze di Mignon. Parola d'onore!.. Mi potete credere, compagni, se ve lo dico. E protesto altamente contro quest'atto di accusa che vorrebbe guastarmi la riputazione!

Ho buttato il mio cuore a una donna e dovevo sapere che se lo sarebbe mangiato. Ecco la mia colpa; ma capita tutti i giorni. E basta. Solo ho voluto mettere le cose a posto.

E se questo libro andrà in mano a Rigaglia che oggi è «un pezzo grosso» e tambureggia sui giornali e si fa largo a Roma, dove l'Italia ha più paura che in nessun altro luogo; se andrà in mano a Rigaglia che è sempre testone, anche se non porta più le scarpe coi chiodi, voglio che il vecchio versipelle tanto temuto e tanto accarezzato (bel coraggio hanno questi liberali!...); voglio che sappia che il Cavalier Mostardo è stato, è e sarà sempre il suo padrone tanto da vicino quanto da lontano.

Valà, poverino!..

Se domani mi vien voglia di rimetterti sotto e questo io posso fare in due e due quattro!..

E qualche volta voglio smascherarti.

Ci conosciamo bene!..

Altro che Lenin e Trotzki e Consigli del Popolo e Repubblica dei Soviet e consimili chincaglierie!..

La tua Dittatura?

Sì, provaci!..

Io sono quasi quasi vecchio, però fin che campa il Cavalier Mostardo, tu Rigaglia, tu testone, tu versipelle, tu ignorante demagogico, tu brigante da strada, tu vagabondaccio egoista, tu truffaldino, tu idealista nelle tasche degli altri, tu tu non farai niente di niente. Te lo dico io!..

E vigliacco sei!

E ti chiami Rigaglia!

Ma non ti conosco?..

Sei nato Rigaglia, ti chiami Rigaglia e morirai Rigaglia!

Ecco il tuo epitaffio.

Voglio farlo stampare sul portone di casa mia.

Il popolo, il vero grande popolo sono io.

Se a Roma ti prendono sul serio, io ti prenderò a schiaffi!

E tu, contro di me non potrai alzare un dito.

Sì, l'ho voluta la guerra; l'ho voluta e sono andato a combattermela, io!.. Perchè se accetto un'Idea, per la mia Idea butto via ogni cosa, io!..

Ma tu, tu?.. Tu hai fatto sempre quello che ti conveniva meglio: hai fatto il porco!

E ti ci sei trovato bene. Ed è diventata la tua professione nobilissima, vecchio versipelle!..

Di' che non è vero, se puoi!..

Di' che sono un prepotente!..

Ora ti han conosciuto anche i socialisti, chè ti sei buttato al Comunismo; e domani potrai anche essere prete; ma starai sempre a casa tua quando ci sarà da combattere.

Perchè non scendi per le piazze? Tu sei bravo per mandarci gli illusi, ma la tua pelle la tieni in conserva.

Ah, ridi perchè sono fascista?.. Ma fatti vedere allora; vieni dove si fa del fumo, dove si può morire.

Avanti!..

Ti aspetto io solo; e te coi tuoi compagni.

Questa è la mia pubblica sfida a te, Rigaglia, padrone di Rocca-Canaglia. Ma non verrai; lo so benissimo che non verrai.

Però guarda che abbiamo scoperto il tuo domicilio. Sta attento a quello che dici o fai scrivere perchè, per poco che tu soffi o brontoli, ti preparo tale spedizione punitiva da farti ballare i tresconi sopra una piuma di struzzo.

Sono uomo da farlo, io, e tu lo sai.

Ringrazia Mussolini se fino ad oggi hai salvata la tua pelle d'asino, perchè io, tanto, ho giurato che voglio farmene un tamburo.

Un bel tamburo da fracasso, che mi accompagni quando canterò:

«Ecco Rigaglia, testone,

che non seppe far l'o con un bicchiere...

E c'è chi ti prende sul serio, poveretto me!..

Ma, una di queste sere, la sentirai tu la serenata:

Giovinezza, giovinezza,

primavera di bellezza...

e allora vorrei tu avessi un campanello per ogni pelo, per sentire la sinfonia della tua paura!..

Tanto sei nato Rigaglia, ti chiami Rigaglia e morirai Rigaglia!

Ecco!..

Una parola ancora, compagni, e poi ho finito.

Io voglio bene a Mussolini, prima di tutto perchè è della mia razza, poi perchè l'ho conosciuto quando portava la barba ed era un simbolo piuttosto pauroso.

Per Bios!.. Allora non si andava d'accordo, ma bisognava rispettarlo.

Oggi Mussolini è il mio padrone e mi piace. Però, con la mia sincerità in camicia, devo dirgli un cosa che non mi và giù.

E la posso dire perchè io sono stato sempre repubblicano, e Repubblicano antico!

Ho voce in capitolo come dicono i Signori della Cattedra.

Dunque che cos'è, Mussolini mio, questa Repubblica tendenziale?..

Spieghiamoci chiaro.

La Repubblica non è una tendenza, per Bios!.. Io non la vedo così. Rigaglia si, che è tendenziale; ma la Repubblica no e poi no!...

La Repubblica è un fatto storico. C'è sempre stata; c'è e ci sarà!..

Domani la vedremo a Roma; e questo è vero come è vero Dio!

Dunque non è una tendenza.

Uno può tendere fin che vuole verso una cosa e non arrivarci mai.

Ecco l'errore, Mussolini mio!

Ma noi siamo arrivati.

Domani se io non ti dò più retta e mi metto in testa di far la Repubblica, per Bios se la faccio!..

Non sono mica più i tempi di una volta!..

La Repubblica è un'imminenza!

Non ti pare?..

Allora non sarebbe molto meglio dire: Repubblica Imminenziale?

La parola sarà brutta, ma chi se ne importa?..

Il fatto resta fatto!

E perdona al tuo vecchio Cavalier Mostardo, ma questa cosa dovevo dirtela.

Se non la dicevo, scoppiavo.

Addio, compagni, ho finito.

Il vostro

Cavalier Mostardo

CAPITOLO I. Qui si riprende contatto con la vecchia coorte e si ritrovano Mostardo e Rigaglia.

Pochi eran rimasti della vecchia coorte. I più anziani avevano finito di banchettare e se n'eran iti alla morte, al riposo. Chiuso il libro del dare e dell'avere come privati, se non come uomini di caldo avvenire, avevano compiuta la traiettoria rapidamente, da quei bravi che si eran dimostrati nel mondo, secondo le dottrine loro. Non troppe smorfie e meno indugi. Morire bisognava; dunque fosse rapida la morte e tranquilli coloro ai quali restavano altri anni da vivere nel bel mondo armonioso. Dal più al meno erano stati sodisfatti nel loro legittimo desiderio.

Bortolo Sangiovese se n'era andato una sera, dopo aver bevuto e mangiato a gozzoviglia. Ebbe un primo avviso in casa di amici; avvertì che un ingranaggio non agiva; notò la cosa ridendo ma rise di traverso. La bocca non gli tornò a posto. Si era fermata in una smorfia quasi tragica.

Gli domandarono:

— Che cosa avete?

Rispose:

— Ho... ho... credo di aver finito!...

E aveva ragione. Gli amici attesero, un po' sconcertati; ma era festa e si beveva. Continuarono a bere. Solo le donne ebbero paura.

— E se muore qui?

— Ma non muore! Ha la pelle dura!

Dissero questo ma vedevano che dentro gli occhi del vecchio celibe c'era un'ombra nuova e il riso di lui incominciava ad essere tetro. Mezza la faccia era già da spavento, per le donne. Allora decisero di condurlo via.

Lo presero in due sotto le ascelle.

— Andiamo, Bortolo!

— Dove mi conducete?

— A casa. Avete bisogno di riposare questa sera.

Bortolo guardò gli amici e rise ancòra; ma la tonda faccia era cianotica. Disse:

— Addio a tutti!... Ce ne andiamo!...

Risposero:

— Arrivederci!

— No!... Arrivederci più!... Ce ne andiamo!...

E gettava le gambe a caso come le avesse cionche. Ma era tranquillo e avrebbe voluto apparire sereno anche se la lingua non scolpiva più le parole e la voce gli gorgogliava in gola.

Uscì senza cappello. Una donna lo rincorse e glie lo tese:

— Prenda, signor Bortolo.

— Tenetelo voi — rispose. — Io non ne ho più bisogno!

Svoltarono per la lunga viottola che conduceva al suo villino.

— Ci muore per strada! — disse uno.

E Bortolo:

— Fatevi core!...

Smeraldina corse su l'uscio e si fece bianca.

— Cosa c'è?... Signor padrone?...

— Niente... niente!...

Lo portarono su. Chiamarono un contadino perchè li aiutasse. Un'ora dopo, la cosa era spacciata. Bortolo Sangiovese aveva passata la linea.

Be', e questo non destò che non mormorìo tra gli uomini della sua tempra e del suo sangue. Bartolomeo Campana disse:

— Oggi a me, domani a te!

E infatti il fato fu giusto perchè all'indomani toccò proprio a lui.

Dopo il Campana fu Gian Battifiore ed altri molti. L'antica coorte si disperdeva. Veniva innanzi gente nuova: i ragazzi del giorno prima. Gente che aveva studiato e che portava un concetto diverso nella lotta.

Poi il socialismo aveva fatto passi da gigante. Mezze le campagne ne erano inquinate e la repubblica, se voleva vivere, doveva acconciarsi alle nuove esigenze, anche a costo di non essere più repubblica.

Questo vedeva il Cavalier Mostardo, uomo di antica tradizione e, quando il mutamento avvenne, egli era sui suoi cinquantacinque anni.

Cinquantacinque anni e un bivio! Un'ora centrale nella vita di un uomo par suo.

Fino a quel giorno, o meglio, fino a qualche anno prima egli aveva signoreggiato e spadroneggiato. Il partito era nelle sue mani; ne disponeva come di un cavallo e di una femmina maligna perchè era un uomo forte. La sua forza era la sua virtù; la sua prepotenza, il suo diritto. Ed egli inoltre aveva imparato dai suoi maggiori, ad esser repubblicano senza preoccuparsi troppo del contenuto dell'idea repubblicana. La repubblica era una convinzione e una gioia e non un tormento come la riducevano i nuovi. Così ragionava.

— Una volta... Eh, sì!... Una volta c'era meno Cattedra!... (Ecco la parola nuova che aveva conquistata; e gli serviva a derisione contro tutto ciò che non riusciva a capire). Meno Cattedra c'era!... La Repubblica!... Ecco quello che volevamo. Oggi si fan troppo chiacchiere. E quel socialismo?... Uomini senza passato. Vengon su dalla bottega... domani sono capipopolo. Peuh!... E i contadini, questa razza egoista che vede lume solamente attraverso ai baiocchi?... I contadini ci tradiscono perchè promettiamo meno dei socialisti. Ma dobbiam tener sodo. Mazzini e Garibaldi ci insegnano. Poi non si arriva al socialismo se non attraverso alla Repubblica sociale. Hai capito?...

Ed era sodisfatto; aveva detto quel che poteva, ma ormai era nato il dubbio anche nell'anima sua gioconda. Se i giovani del Circolo Mazzini lo trattavano con una certa superiorità non priva di disprezzo; se non era più chiamato ai segreti consigli, se anche nelle ultime elezioni comunali lo avevano bocciato mentre era riuscito consigliere un qualsiasi villano sceso da una parrocchia dei colli, doveva esservi indubbiamente una profonda causa. Altri forse si sarebbe rassegnato alla propria sorte; ma il Cavalier Mostardo, no. Come uomo egli apparteneva alla specie politica (specie tanto diffusa in Romagna) e a tutto avrebbe rinunziato fuorchè al potere. Così siccome molto si parlava di studio in quei tempi, il Cavalier Mostardo si decise a studiare:

E anche questa era cosa più difficile a farsi che a dire.

Consigliarsi non voleva. Ne' suoi cinquantacinque anni di vita aveva imparato che, a non voler far sapere una cosa, bisognava tenersela dentro. Se egli, puta caso, avesse chiesto in gran segretezza a Popolini o a qualcuno del conio, un consiglio circa i progettati studi, ne avrebbe avuto forse un consiglio ma anche la beffe al caffè e per le adunate serali. Poi avrebbe voluto prepararsi in silenzio, uscire un bel giorno con un discorso strabiliante, pieno di tutte le oscure cose che non riusciva tuttavia nonchè a stabilire, a intravvedere; avrebbe voluto vendicarsi della sfacciata superiorità dei giovani e dimostrare che il suo ingegno anzichè spaventarsi di fronte alle nuove bazzecole, se n'era impadronito, le aveva superate. Oh, la gioia!... Ed esser solo in una grande assemblea, solo sul palco degli oratori, e la voce forte riempie la sala e i cuori; ritorna con gli applausi e gli evviva. Ah, la pienezza di un simile trionfo!... E in mente si costruiva brani di un discorso, parole calde, balzate dall'entusiasmo; e diceva e gestiva e s'investiva della sua parte, tanto in casa quanto per le strade, finchè qualcuno non lo ridestava ridendo.

Alle domande degli amici rispondeva allora con una frase unica:

— Ho dei pensieri!...

Il Cavalier Mostardo aveva dei pensieri! Nel paese se ne parlava e i curiosi andavano investigando per saper s'egli fosse per fallire. Tale gioia era vietata ai maligni. Gli affari del Cavaliere andavan franchi e spediti.

La sua decisione allora dovè maturare e compiersi nel silenzio.

E il Cavalier Mostardo si dette a sfogliare i vecchi libri che aveva da anni ed anni in fondo a una cassa e dei quali non si era occupato mai.

Una sera, dopo aver bene serrata la porta della stanza, incominciò, al lume di una candela, a studiare i frontespizi.

I titoli lo sorpresero; lo fecer meditabondo. Ecco: il Conte di Montecristo, I tre moschettieri, La monaca di Monza.

Certo ne aveva sentito parlare; ma dove e quando?... Inoltre potevano quelle opere oscure giovare al suo compito?... Comunque fosse, le mise da parte e continuò l'esame.

Ristette ad un tratto chè gli parve di non aver letto bene. Girò un libriccino da un canto e dall'altro, ne rilesse il titolo: Il libro delli Re!... Ma che roba è questa?...

Era possibile che in casa di un repubblicano par suo potesse trovarsi un'opera simile?... Stette in dubbio e pensò a qualche brutto scherzo de' suoi compagni, per comprometterlo. Ma certo!... Perchè, puta caso, se la polizia avesse fatto una perquisizione in casa sua e fosse venuto alla luce quell'arnese, chi avrebbe tenuto i compagni suoi maligni dall'affermare ch'egli aveva trame segrete con la Monarchia? Però si incuriosì e volle vedere di che si trattava. Sfogliò le prime pagine. La stampa era un vituperio, tanto appariva minuscola. Rilesse:

Il primo libro delli Re... — rimase pensoso e soggiunse: — Guarda che roba!...

Continuò:

— Or il re David... — Il Re David?... Ma di quale nazione era re David se sui giornali non se ne sentiva parlare mai?... Egli ricordava vagamente un certo David che tirava i sassi... ma era roba da sacra dottrina!... Non poteva trattarsi dello stesso signore. Continuò sempre più perplesso:

— Or il re David divenne vecchio, e molto attempato: e, benchè lo coprissero di panni, non però si riscaldava...

— Be' — fece il Cavalier Mostardo interrompendo la lettura — e che cosa vuol dir questo?... Maledetti monarchici!... Guardate qua, si preoccupano anche se il re ha freddo!...

E scosse il capo gravemente a commiserazione. Ma continuò.

— Laonde i suoi servitori gli dissero: Cerchisi al re, nostro signore, una fanciulla vergine...

Il Cavalier Mostardo a questo punto scattò; e parlava a sè stesso:

— Eh?... Di quali colpe si macchiano questi cani?... Come la chiameremmo noi, repubblicani, un'azione simile?... Ma dov'è il Presidente di repubblica al quale abbiamo mai cercato una vergine, noi?...

Però, nonostante il suo furore, la cosa lo interessava chè voleva sapere come si sarebbe compiuto il fatto. Riprese:

— ... una fanciulla vergine, la quale stia davanti al re, e lo governi, e ti giaccia in seno...

Levò gli occhi dal libro e disse:

— Hai capito?...

— ... e ti giaccia in seno, acciocchè il re, mio signore, si riscaldi.

Commentò:

— Ma sicuro!...

— Cercarono adunque per tutte le contrade d'Israel, una bella fanciulla: e trovarono Abisag Sunamita, e la condussero al re.

«E la fanciulla era bellissima e governava il re...».

A tal punto gettò il libro da parte e gridò:

— Questa è una porcheria!... Hai capito a che cosa riducono il governo questi monarchici?... Ma se un repubblicano scrivesse cose simili, per poco che potesse toccargli sarebbe la prigione per oltraggio al pudore!...

Scostò con disgusto i libri, si tolse gli occhiali e uscì. Ma l'aria, ma la notte, ma il silenzio non vinsero le sue preoccupazioni. Ormai era preda di un assillo continuo: studiare, istruirsi. Doveva leggere, leggere. Tornò a casa e per tutta quella notte lesse.

Lesse tutta la notte e consumò tre lunghe candele, ma quando ebbe finito Il Conte di Montecristo si domandò:

— E adesso?...

Infatti gli pareva di non saperne molto più di prima. Però bisognava convenisse seco stesso che si era divertito. Il diletto lo spinse a continuare. Così accadde che il Cavalier Mostardo, per prepararsi a una maggior vita politica, fosse gran lettore di romanzi. Ne lesse d'ogni risma e di ogni virtù; occupò in tale faccenda quasi tutte le sue notti. E non ebbe predilezioni, non si preoccupò di autori o di generi; con la stessa agilità passò da Walter Scott a Guido da Verona; da Gabriele D'Annunzio a Castelvecchio. Gli piacquero tanto le avventure poliziesche quanto gli idillii; ma, dopo un mese di tale ginnastica, dovè fronteggiare una nuova crisi.

Spuntò sul suo orizzonte la donna.

Fino a quel tempo aveva vissuto come un fuori sacco. La parola era sua; o meglio l'aveva tolta dall'uso postale a significare la specialissima condizione di coloro che non s'adattano agli usi correnti. Fuori sacco era un ribelle, un anarca, un refrattario, uno sperduto, un vagabondo; fuori sacco era l'uomo che non accetta ciecamente ogni imposizione e coercizione sociale ma sì bene ritraesi in disparte e disapprova; non entra, insomma, nel sacco delle lettere commiste, ma viaggia per proprio conto in privilegiato disdegno.

Come tale era passato adunque il Cavalier Mostardo nella vita, curando la donna solo per quella piccola parte che gli poteva convenire. Si era accorto sì e no della esistenza di lei. Oltre la politica, gli affari lo avevan tutto assorbito e sempre. A cinquantacinque anni egli era tuttavia celibe e forte. Doveva aprire e conoscere ancòra quella parte del libro della vita nella quale si ragiona e si canta d'amore.

Troppo tardi? Il dubbio poteva preoccupare forse un uomo corrotto ed esperto, non lui.

Cinquantacinque anni erano ancòra primavera al Cavalier Mostardo. Gli occhi suoi lampeggiavano; i capelli e i mustacchi erano genuinamente neri; il corpo saldo; la mente pronta e la volontà e la forza. Ciò che faceva a venticinque e a trenta poteva fare a cinquantacinque anni. Non v'era fior di giovine che gli stesse a paro. Determinato il potere e nella coscienza sua e in quella del popolo, gli anni, il triste novero degli anni era svalorizzato, evaporava.

Ciò ch'egli era nel tempo, era. Un buon querciolo con tutte le sue rame in ordine. E se strizzava l'occhio a qualche squillante ragazzona, sorpreso da un ondulare di lunate anche, se questo faceva, poffarbacco! che le gioconde non s'affibbiavan la gonna, nè torcevan la faccia! Sì ch'egli poteva fecondare una vergine, in comune gioia, al cospetto del popolo sovrano! E Mostardo era un segno popolaresco nella terra dagli enormi buoi.

Ma questo era un giuoco. Un esempio sporadico.

Compiuta la cosa, con lei si compiva la giornata ed ogni conseguenza. Le gioconde riprendevan la via della notte o dell'alba, senza bagattelle, senza parole spente. Un bel rossore sulla faccia e il cuore in pace. Pareggiato il dare all'avere; conti resi e pari e patta. Niente più. Il giorno dopo si riparlava di politica e ciò ch'era avvenuto nella notte era affare d'ombre e di stelle. Cosa secondaria, eccedente dalla serietà quotidiana.

Ma ora doveva essere cosa diversa. A quel punto della sua vita; date le nuove condizioni della lotta politica e la necessità di trionfarne, il Cavalier Mostardo sentiva di aver bisogno della donna scoperta nei romanzi. Gli ci voleva la donna guida e decorazione. Egli pensava che una bella ed elegante compagna avrebbe rialzato il suo prestigio, la dignità sua di fronte al popolo, poi anche un tardo istinto di perdizione lo spingeva al cimento. E voleva assaporare il frutto nuovo; sapere intimamente com'era... la cosa aristocratica.

Poi nella fusione del suo sangue con quello di una donna superiore, non poteva esservi un principio di saggia politica... Un assaggio?...

Sì, doveva tentare; era necessario.

Inoltre quante mai cose nuove, insospettate, gli erano apparse attraverso ai suoi dolci romanzi. E che vita aveva egli vissuto se non aveva neppure immaginato l'esistenza di tanto miele?... Le belle parole, i bei pleniluni, le ville, i giardini, le angoscie... L'amore, insomma l'amore!...

Ora il Cavaliere si teneva in casa da vent'anni e più un uomo che gli era servo e compagno, chiamato senza ragione e senza necessità Rigaglia. Puffone, il padre di lui, niente aveva a che fare coi visceri dei volatili. Perchè al figliuolo fosse toccato il battesimo di Rigaglia nessuno sapeva. Mistero nel grembo del fato. Nelle quotidiane contingenze l'uomo cinquantenne era per tutti Rigaglia di Puffone; o meglio, nel patrio dialetto: Rigaja d'Puffôn. E si era acconciato al suo popolare battesimo.

Rigaglia era contadino, figlio di contadini: pura razza intatta. Parlava di bestie e di raccolti e più spesso taceva. La politica gli si era incuneata nel duro cranio come un diritto, accanto alla superstizione e alla sorella ignoranza. Nemico di Dio, aveva inserito nell'angusto spazio occupato dalla divinità: e' pòpul! Il popolo: ciò è a dire tutto! Il popolo doveva impadronirsi dei campi e dei forzieri, questo il suo concetto. Ad antitesi del Popolo, i signori. Per Rigaglia era signore chiunque non vestisse alla sua foggia.

Quest'uomo era battagliero nella massa; vigliacco nel caso sporadico. Da solo, si acconciava a discutere e ad aver torto; nella massa era un dannato eroe. Dannato eroe, ecco Rigaglia di Puffone dalla spessa fronte rugosa e dal grifo di porco.

Il Cavalier Mostardo se l'era tratto dietro nei bei tempi della sua lotta più aspra, quando ancora lo spregevole moderatume accettava di combattere. Se l'era tratto dietro a guisa di cane, dalle campagne e gli era rimasto in casa.

Due uomini in una grande casa deserta. Allora il Cavaliere, oltre alla politica, pensava ad arricchire. Trafficava in buoi, in cavalli, in granaglie; comprava e rivendeva case e poderi. Rigaglia gli fu necessario ne' suoi traffici: era uomo astuto e senza troppi scrupoli. Braccava l'occasione: il fallimento, il dissesto e suggeriva l'affare. Molte volte fungeva da interposta persona quanto meno chiara era la cosa. Siccome anche il suo particolare peculio aumentava, aveva una spietata iniziativa. La pietà è virtù dei falliti senza dolo: Rigaglia non ne sapeva l'esistenza. Molte volte il Cavalier Mostardo doveva fermarlo per un residuo di pudore. Avrebbe venduto anche e' pòpul, se in ciò fosse stato il suo tornaconto. Così incominciò a rispettare la Cassa di Risparmio e gli piacque.

E il Cavalier Mostardo arricchì. Vi fu giorno in cui potè contare su varie centinaia di migliaia di lire. Ciò gli fece sempre più affezionato Rigaglia che non pensava più ai campi e a Puffone, agricoltore di molto pelo. Anzi si allontanò dal padre perchè una volta gli chiese venti scudi.

Rigaglia aveva il governo della casa: era cuoco, cantiniere, massaia, tutto. Ciò implicava un sistematico furto casalingo; ma il Cavalier Mostardo sapeva e taceva.

Erano insieme da vent'anni e più; il piccolo e il grande, e insieme avevano fatto la fortuna loro.

CAPITOLO II. Il Cavalier Mostardo prende contatto con l'aristocrazia e sogna una nobile innamorata.

— Dunque — disse il Cavalier Mostardo — mi aspetterai fino a mezzanotte; se a mezzanotte non sono ritornato va a letto.

— Va bene — rispose Rigaglia.

Il Cavalier Mostardo si squadrò nello specchio.

— Sono venuti i tappezzieri?

— Sono venuti.

— Hanno messo in ordine le stanze?

— Non lo so.

— Come non lo sai?

— Ma cosa volete m'intenda io di certe cose?... Hanno fatto del rumore lassù. Ecco!

— Non hai veduto i mobili?

— Io non ho veduto niente.

— Come?... Non sei stato presente?...

— No!... Perchè non posso veder sciupare tanti quattrini!

Il Cavalier Mostardo sorrise e si sorrise. Si vedeva tutto quanto nel grande specchio, in un'immensa cornice dorata. Si era vestito a nuovo. Abiti giunti quella stessa sera, di purissimo taglio inglese. Un solo vestito gli costava duecentocinquanta lire!... Uno sproposito!... Però quale differenza!... Eccolo là, in fondo allo specchio, rinnovato! Un uomo distinto, veramente. Gli pareva di esser nato il giorno prima, anzi la stessa sera. E sotto lo sgargiante vestito, quale, ma quale cuore!... Tutte le quattro stagioni in un sogno!... Quattro stagioni e quattro primavere: quattro porte spalancate.

— Venite... Venite, Cavalier Mostardo!... Ed eccolo in mezzo ai balli e fra le donne gentili.

Eccolo ad ascoltare i sussurri:

— Che bell'uomo!...

— Quale portamento!...

E c'era una strada per la sua fortuna, proprio nel mezzo del mondo, nel cuore dell'Universo.

— Lo faranno deputato!...

— Sarà ministro!...

Ah!... E s'ingrandiva s'ingrandiva in fondo allo specchio, al centro della immensa cornice d'oro.

— Quello che ho fatto, ho fatto!... Quello che ho voluto, ho voluto!...

Parlava dentro di sè come in un teatro vuoto. Le sue parole risuonavano nell'area. Si ripercotevano nelle volte.

— Quello che ho voluto, ho voluto!...

Uno sciame di belle donne scollate, profumate, con certe mani e certi scarpini!...

— Cavaliere!...

— Cavaliere!...

Davvero! E sarebbe stato commendatore e più, perchè al mondo si può tutto.

— Posso andar via? — domandò Rigaglia e interruppe l'incantesimo.

— Sì, va via, va via! — gli rispose rudemente il Cavalier Mostardo. — Va via: togliti d'attorno!

Rigaglia non rifiatò; il viso atterrato, come soleva sempre, il capo curvo fra le grosse spalle se ne andò scarpicciando.

— E domani cambiati le scarpe — aggiunse indignato il Cavaliere. — In casa mia non voglio vedere le scarpe coi chiodi.

Impresse forza alle ultime parole. Incominciava a sentirsi grande.

Si tolse il cappello sulla marmorea soglia, non appena premette il bottone del campanello elettrico. Aveva fatto le scale pian piano, pian piano guardando le statue e le lampade.

Chi glie lo avesse detto vent'anni prima!...

— Tu, in casa dei marchesi Alerami... vicino alla signora...

La porta si aprì. Ecco il cameriere gallonato. Lo conosceva bene, ma finse di non ravvisarlo.

— Scusi... chi cerca?...

— Sono in casa le signore?

— Sì. Chi debbo annunziare?

Il Cavaliere stava per dire il suo nome, ma si trattenne. Offrì un biglietto da visita largo una spanna. Allora, con poco tatto e con mal celato disprezzo, il cameriere lesse il nome:

— Giovanni Casadei...

Mostardo sentì un gelo improvviso. Non era più abituato al suo umile triste nome! Nessuno lo chiamava così: egli era per il popolo e per l'aristocrazia il Cavalier Mostardo.

Certo in quel punto sentì ridestarsi i suoi fieri, impetuosi istinti di eroe popolare e si sentì prudere le indelicate mani. Ebbe un tuffo al cuore, arrossì, squadrò l'uomo dalla livrea e gli chiese in pretto italiano, non senza dignità di tono e di aspetto:

— Chi vi ha insegnato a leggere i biglietti che vi danno?

Il cameriere levò la faccia e sorrise con sufficiente malgarbo. Rispose:

— Se debbo sapere chi siete!

Il Cavalier Mostardo si contenne ancora, ma fece un passo innanzi.

— Non è necessario lo sappiate voi, in primo luogo. In secondo luogo dovete darmi del lei!...

Il cameriere aveva un risolino perfido. Domandò:

— Perchè?..

— Perchè è il vostro dovere!

— Io vi ho sempre dato del voi. Non siete il Cavalier Mostardo?

— Io sono chi sono, hai capito?... E tu devi darmi del lei, altrimenti...

Tese una mano, ma i suoi centri inibitori la trattennero a tempo.

— Be' — riprese — meno chiacchiere. Vai a dire alla signora che sono qui.

Allora il cameriere volle giuocare il ripicco. Non solo non si staccò dalla porta, ma, intonata la voce alla maggior freddezza, disse:

— Questa sera la marchesa non riceve!

Tentò di richiudere i battenti, ma proprio in quel punto una nodosa mano lo afferrò per il colletto della giacca, lo sollevò, lo trasse nel ripiano delle scale.

Il Cavalier Mostardo, il colosso, lo teneva sospeso così a mezz'aria, a braccio teso.

— Non muoverti — gli disse — e guardami bene!... E ricorda che se anche mi vedi vestito così, io sono sempre un fuorisacco!...

Lo posò in disparte e varcò solennemente la contesa soglia. Tale fu l'entrata del Cavalier Mostardo nel palazzo dei marchesi Alerami.

Aprì la porta, fece un grande inchino e disse:

— Scusino se mi presento così!

Fu accolto gaiamente come si conveniva a persona par sua.

La marchesa Alerama disse:

— Ha voluto incomodarsi subito...

— Si figuri...

— Si accomodi.

— Grazie.

Sedette e guardò.

Erano circostanti cinque persone: tre signore e due signori. Fra le dame una sola era giovine e bella, ma il Cavalier Mostardo non la conosceva.

Gli uomini gli eran noti. Li aveva avuti avversari politici molti anni prima, quando l'esecrabile clero pretendeva ancora di scendere in campo e chiamava i seguaci a raduno. Era primo il più vecchio, un certo conte Lanfranco d'Elmici, uomo sulla settantina, materialmente e moralmente intelito, dal naso a tagliacarte; anzi era tutto sottile e puntuto come un parafulmine; nella scala zoologica assomigliava al topo. Il secondo era battezzato nei libri araldici come Leone marchese della Futa e più semplicemente il marchese Futa: cognome insigne nei fasti cittadini dell'età di mezzo, ma non per questo meno pericoloso in tempi di furor democratico. Il popolo birbante e privo del delicatissimo senso correttivo che frena gli impulsi, non tornandogli grato quel Futa era ricorso a una parola quasi sorella, ma indegna, veramente!... Parola popolaresca, di vecchio conio, sguaiata e tonda.

In compenso la classe ironicamente cortese, il medio ceto cittadino aveva corretto l'eccesso popolare ricorrendo alla cosmografia egizia e chiamava il nobil uomo col nome del dio che rappresenta il fuoco creatore, ciò è a dire Fta: il marchese Fta. Sottile distinzione fra il nome e il derivato.

Orbene, costesto marchese Fta Leone aveva sessant'anni ed era uomo di fierissimi propositi retrogradi, senonchè all'alta dignità della sua convinta essenza nuoceva un suo vezzo di raccontar come vere le cose sognate e di aumentar le vissute. Usando un termine volgare, lo si sarebbe detto bugiardo; ma, per non macchiare con tale parola il santo usbergo della sua tradizione, il suddetto medio ceto cittadino lo chiamava superatore. Sì, perchè superava la realtà; era oltre l'umile, vilissima verità dei fatti come sono e non come dovrebbero essere.

Il marchese Futa superava i fatti ed era naturalmente un superatore.

In quanto a ingegno, nessuno si sentiva in grado di giudicarne. La sua misura e il saggio tacere e e la non mai offuscata dignità di volto e di persona lo ponevano a mezz'aria fra la pianura e la collina come uomo degno. Aveva sì una enorme biblioteca e un archivio di prim'ordine, ma ne era gelosissimo come della sua cultura della quale non parlava mai, che non dimostrava mai. E chi asseriva essere il marchese Leone un ignorante, o meglio un assente in cose di scienza, mentiva per la gola. Il marchese Leone, ad esempio, sapeva benissimo chi era Copernico e l'aveva detto una volta al «club»:

— Copernico fu un arcidiacono che inventò il lunario!

Meno male. La cultura conferiva dignità alla classe. Comunque fosse, fra il Cavalier Mostardo e i due nobili, fu scambiato un freddo inchino e niente più.

Più cortesi furono donna Alerama e la baronessa Judici. Quest'ultima anzi non si stancò di fissare con l'occhialetto il Cavaliere; e lo esaminava compiaciuta, sorridendo.

— Desidera un the? — domandò donna Alerama.

— Grazie — rispose Mostardo inchinandosi.

Allora donna Alerama parlò alla dama più bella che stava in disparte e sfogliava un libro, ma le parlò in una satanica lingua della quale il nostro dabben uomo non riuscì a cogliere che un arruffio di molte consonanti fra qualche vocale. E pensava:

— Però, come si parla diverso fuori di qui!...

Poi donna Alberica, che era quella dell'occhialetto, gli rivolse la parola sempre sorridendo:

— Allora lei è un gran capopopolo?... È vero?...

Quella domanda così a bruciapelo sconcertò il Cavaliere il quale, per non guardare in faccia donna Alberica, si guardò i calzoni e leggermente spolverandoli rispose:

— Oh dio... cosa vuole?... si fa quel che si può!...

Il Cavaliere non ebbe a notare in quel punto un sorriso maligno dei due gentiluomini.

— Sì, sì — riprese donna Alberica — lo sappiamo! La sua fama è giunta anche a noi.

— Fama?... — soggiunse il Cavalier Mostardo dubbiando. — Forse sarà anche fama...

— E sappiamo benissimo come ella possa fare e disfare.

— Fosse stato una volta!... — esclamò ingenuamente il Cavaliere e appena aveva pronunciato la frase che già ne era pentito.

Donna Alerama frattanto sorvegliava, senza parere, la bella donna affaccendata intorno alla teiera.

— Perchè una volta? — domandò sempre sorridendo donna Alberica.

E quel sorriso continuo, quasi esigente, puntato su di lui come una investigazione, finiva per turbarlo.

— Ho detto così — rispose — perchè una volta ero più giovane.

— Ma lei non è vecchio!... — insinuò con dolcezza donna Alberica.

Nel frattempo la bella creatura bionda gli si avvicinò e gli porse una tazza di the. Il Cavaliere la raccolse dalle bianche mani, compiaciuto. Già stava per accostarla alla bocca, quando con accento strano la dolce ignota gli domandò:

— Prego... latte?...

— Oh dio... sì! — rispose il Cavaliere.

— Zucchero?...

— Anche zucchero!

— Quanti pezzi?

— Ma... due... tre... quattro...

— E «toast»?...

Il Cavaliere guardò smarrito gli astanti e conchiuse:

— Senta!... Metta tutto quel che vuole!... Per me fa lo stesso!...

La dichiarazione impensierì le due dame e fece ridere la bella.

— Ho detto che fa lo stesso — soggiunse Mostardo — perchè sono di buona bocca!

Passò un silenzio.

Con un panino imburrato in una mano e la tazza nell'altra, circonfuso di tenerezza e di timore, il nostro eroe ristette e più non avrebbe parlato, se donna Alerama non gli si fosse accostata con soave garbo per dirgli:

— Lei non sa ancora perchè ci siamo permessi di recarle disturbo invitandola qui...

— Oh... non lo dica, marchesa!... — interruppe Mostardo. — Solamente l'onore!...

E volle dar forza al discorso, secondo la consuetudine sua espansiva, levando un braccio; ma la tazza se ne risentì e il liquido spruzzò nei dintorni.

— Non si preoccupi — fece donna Alerama. — Piuttosto vuol darmi la tazza?... Guardi... la metta qui...

— Grazie — rispose Mostardo umiliatissimo — ma sono sempre un salame!...

Per quanto il buon repubblicano cercasse affinare il linguaggio, non riusciva a disfarsi delle parole centrali, necessarie al suo corredo come l'acqua alla vita.

Le dame e i gentiluomini finsero non aver udito e donna Alerama continuò:

— Noi volevamo domandarle un grande favore. Vorrà farcelo?...

— Ma per Bios!... E me lo domanda?

— Noi siamo in un grave impiccio... — continuò donna Alerama. — Mio marito, che è partito poco fa per Roma, ha ricevuto in questi giorni molte lettere minatorie nelle quali lo si minaccia nella vita e negli averi... pensi, signore!...

— Ma cosa mi dice?... — fece il Cavaliere e si sporse puntando le mani sulle ginocchia e arcuando spropositatamente le ciglia.

— Pensi!... Vivere sotto questa continua minaccia!...

— Tempi nuovi!... — mormorò il marchese Futa.

E il conte Lanfranco:

— È la civiltà!... La più recente civiltà...

— È un incubo dal quale ella, con la sua influenza — sottolineò donna Alerama; — col suo potere dovrebbe toglierci!

— Per quel che son buono, signora marchesa, eccomi qua!... E faccia conto di parlare a un amico!

— Grazie, signore!... Ero già informata della sua gentilezza a tutta prova!...

— Già... Saremo del basso popolo, noi... ma in quanto a cuore... — e si posò a fede e coscienza la larga mano sul più largo petto — in quanto a cuore... ce n'è qui... dentro la cassa!...

— Ora il favore che vorremmo da lei consisterebbe...

A tal punto il marchese Futa si fece innanzi e disse:

— Scusi se l'interrompo, donna Alerama, ma ella forse dimentica che i suoi coloni sono socialisti, mentre... il signore... — e indicò Mostardo — ... il signore, se non erro, è repubblicano...

— Sì!... repubblicano antico... — confermò il Cavaliere.

E, come vide che la bella bionda, nel suo angolo taciturno, sorrideva, soggiunse:

— Ho detto antico perchè i moderni sono troppo cattedratici. Ora si fa la repubblica con le parole... noi la facevamo coi fatti...

— Già, la spedizione di Castrocaro e di Monte Sassone... — chiarì Lanfranco D'Elmici e sorrise.

— Eravamo tutti decisi a morire!... — interruppe il Cavalier Mostardo.

— Data la differenza di partito — continuò il marchese Futa — non so se il signore... potrà...

Il Cavalier Mostardo si sentì offeso dal dubbio e disse:

— Loro lascino fare a me!

— Allora si tratta di questo — continuò donna Alerama — Ella conoscerà forse la nostra tenuta di Badia... Abbiamo in quella tenuta, due contadini che la nostra coscienza, e anche l'interesse, non possono più oltre tollerare. Leghisti...

E il Futa:

— Irreligiosi!...

— ... prepotenti, bestemmiatori, insopportabili insomma. Ora il nostro agente ha mandato il commiato...

— Come ne aveva diritto!... — soggiunse il Futa.

— ... e il commiato è stato giudiziario...

— Benone!... — marcò Mostardo.

— Sì, ma crede sia giovato?... Quei manigoldi sostengono che non abbandoneranno i poderi, non solo, ma il nostro agente non può più presentarsi sull'aia perchè lo minacciano con gli schioppi!...

— Ah, i tedeschi!... — sospirò il conte Lanfranco.

— Un mese di tedeschi per questa gente e le cose sarebbero a posto!... — soggiunse il Futa.

— Almeno non fatevi sentire!... — disse donna Alberica e riprese l'occhialetto a investigare il Cavaliere.

— Siamo a questo punto, signore mio! — riprese donna Alerama. — Le minaccie si aggiungono alle minaccie. Se faremo sfrattare i contadini dalla forza, le leghe ci boicotteranno i poderi e lei sa che cosa voglia dir questo!... Lei sa che tutte le viti saranno tagliate, gli alberi atterrati, sfregiate le bestie, senza contare che nessuno vorrà più coltivare quelle povere terre...

— E per paura!... — esclamò il Futa.

— Paura o no, il fatto è questo. E d'altra parte come non mantenere il commiato?... Non parlo della dignità nostra, del nostro decoro...

E il Futa:

— Che deve andare sempre in prima linea!...

— ... del nostro decoro; ma lei capirà che quella gente, che ormai si è fatta padrona in casa nostra...

E il Futa con terribile ironia:

— Ma è la lotta fra capitale e lavoro!...

— Mi lasci continuare, Leone!... Il signore non capirà niente, così!...

— Capisco capisco!... — fece il Cavaliere.

— Quella gente, dicevo, non solo non ci rispetterebbe più, ma si terrebbe tutti i frutti dei poderi.

— Logica!... — conchiuse il Futa.

— Poi non si tratta più dell'agente, ora, si tratta anche di noi. La nostra villa... sa?... Il Conventino?... è rimasta chiusa perchè in queste condizioni chi può arrischiarsi di andare in campagna? I contadini hanno giurato di incendiarla e hanno giurato di uccidere mio marito, o prima o dopo, di notte o di giorno, quando piacerà loro. Denunziarli alla Questura?... Il rimedio sarebbe peggiore del male, poi non potremmo avere sempre attorno i carabinieri o le guardie di pubblica sicurezza. Farli arrestare?... Ma dietro di loro c'è tutta la lega e la Camera di lavoro e il Comitato centrale o che so io!... Sarebbe peggio. E allora?... Come fare?... Quale via scegliere per uscire da questa terribile situazione?... Ecco come ho pensato a lei!

Il Cavaliere trasse un respiro e disse un:

— Già!... — pieno di meditazione.

— Abbiamo pensato a lei!... — soggiunse donna Alberica. — Solamente lei può toglierci da questa situazione penosa.

— Ma, donna Alberica — disse il Futa — lei non pensa forse che il signore è repubblicano...

— Oh!... Ma per Bios!... — esclamò Mostardo, seccato dal ritornello. — Quando lei ha detto repubblicano non ha poi mica scoperta la luna!... E se sono repubblicano, crede non mi sappia far rispettare?...

— Il signore mi ha frainteso...

— Perchè, alla fin dei conti, se mi ci metto...

— Ecco! — insinuò donna Alberica — Era appunto quello di cui volevamo pregarla!

— Bisognerebbe convincerli... — disse mitemente il conte Lanfranco.

— Sarà difficile!... — mormorò Mostardo. — C'è la Lega!...

— L'associazione a delinquere! — chiosò il Futa.

— Come si chiamano i suoi contadini, signora marchesa?...

— Dica lei, Lanfranco. Sono nomi tanto esotici!

— Sono i Casaròt e i Féna — disse il conte.

— Li conosce? — domandò donna Alberica.

— Oh, benissimo!... — rispose il Cavaliere. — E so chi sono. Naturalmente — soggiunse — non si saranno accordati per la mietitura.

— Può immaginarlo!

— E non vorranno la macchina dei gialli!... Si capisce!... Ma noi metteremo la guardia all'aia!...

— La guardia?... — domandarono le signore. La bella bionda, la creatura che non parlava mai, alla quale nessuno rivolgeva mai la parola, che non pareva di questo mondo, si accostò di qualche passo e guardava sempre più intensamente il Cavaliere che era inebbriato da quello sguardo.

— Sì, la guardia! — riprese. — Dieci uomini con lo schioppo, pronti a sparare anche se vedessero D... acco!... Oh!... Li ho scelti io!... Sono pellaccie. Decisi a tutto. Veri e propri fuorisacco. E le nostre biche le batteremo noi con le nostre macchine. I rossi non entreranno. Si farà battaglia.

Donna Alerama disse:

— Sta bene, ma come convinceremo i nostri coloni ad abbandonare il podere?...

— Ah! ma non ci sarà tanto da convincere!... Se vogliono far sul serio, si farà sul serio!...

— Che vuol dire?...

— Si capisce! L'incarico me lo prendo io!...

— Per carità, signore!... Non intenderà compromettersi, spero!...

— Il Cavalier Mostardo non si compromette, signora marchesa! Il Cavalier Mostardo non ha niente da perdere. Poi c'è il caso che mi conoscano e sappiano chi sono!

— Questo sì! — disse il Futa.

— Perchè?... Lo sa lei?... — domandò Mostardo.

— Se anche non lo sapessi sarebbe facile indovinare. Basta vederla!...

L'ignota bionda, per la prima volta interloquì e disse:

— Davvero!...

Il Cavalier Mostardo la guardò fin nei precordi, nel centro della vita, per dirle: — Tu sei la creatura che io cerco!... E bella sei, moscardina!...

Ma il tempo passava. Oh, quanto leggero e pieno di vezzi!... Via si portava, il buon tempo, quell'ora inenarrabile, pavida sulla soglia di un grande avvenire. Perchè il Cavalier Mostardo aveva tutto veduto e considerato e si era fatto un suo piano di netti termini fra i quattro punti cardinali.

Ecco, e ritornavano i suoi bei tempi quando Gian Battifiore reggeva i destini della gaia città del piano e Europa e Didino nascondevano i loro perplessi amori nella montagna, sotto le ali del clero! Risorgeva nel mondo un sole repubblicano a massima gloria; e «rossi» e «gialli» maturavan la prova nella silenziosa vigilia.

Ah, giovinezza, giovinezza!... Il cuore era grande come un'aia per ogni amorosa fecondazione e per ogni gioia e se v'eran passati cinquantacinque anni, lontane erano ancora le porte del secolo. Buon capitano si sentiva tuttavia il nostro Cavaliere ed amatore in compiuto assetto. Possibile ch'egli non dovesse vincere in ambo i campi?... E quella che lo guardava, misteriosa biondezza, quella creatura coi fiocchi, che guai a immaginarla ignuda, non era forse convinta della opportunità della cosa?... Sì, che gli occhi parlavano, lucernette celesti!... E aveva un certo ondeggiare del seno, nel bene assestato respiro, la bricconcella!... Pareva che, respirando, si ricamasse il desiderio di chi la guardava. Ah, maligni pertugi dischiusi sulle orografie del seno!... Perchè gli occhi sono cani e braccano sulla traccia dell'ombra. Ma giuocare a nasconderello con la propria santa dovizia non era bene. Un pover'uomo come lui doveva andarsene per le strade con certi spropositi battaglieri!... Ah, una chiara notte e loro soli!... Una discreta notte con una piccola lucerna!...

— Carezza... soffiamo sul lume!...

Ebbe un brivido e si destò alla voce petulante di donna Alerama. Fra un paravento ed un tavolo, nella più dolce penombra, la bella donna gli sorrideva ancora.

— Allora... il signore se ne occuperà?... — domandò donna Alerama.

— Non dubiti. L'ho promesso!

— E quando avremo il piacere di rivederla?...

— Non verrà a trovarci?... — soggiunse donna Alberica.

Si levò e si distese i panni.

— Grazie. Verrò.

— Per carità, signore, non si comprometta!... Non vorremmo essere causa...

— Non abbiano paura. So dove vado.

Tutti si levarono, furono scambiati i saluti, ma la bellezza misteriosa non si mosse, non pronunciò parola, accontentandosi di un leggero inchino.

E, quando fu per le scale, il Cavalier Mostardo pensava ancora a questo e si disse:

— Però che strana donna!... Non ha detto una parola. Qualcosa ci deve essere sotto... Ma chi sa che?...

CAPITOLO III. Dove Mostardo incomincia la lotta fierissima per l'Idea.

Rigaglia non approvò. Non calcolando il rischio bisognava por mente alla inutilità della cosa.

— E quando vi siate messo nel pericolo cosa guadagnerete?... E se vi danno una schioppettata?... Se nasce un sacrifizio?...

Il Cavaliere, specchio più puro e schietto della razza, ripugnava dalla mentalità di Rigaglia. L'inutilità?... E sta bene. Anche s'egli non avesse impalmata la bionda misteriosa (o, senza impalmarla, goduta); se non avesse tratto altro vantaggio dalla cosa se non quello di far liete Alerama ed Alberica non sarebbe forse stato più Cavalier Mostardo che mai?... Era forse poco riconoscersi una volta ancora in sè stesso?... Aumentare Mostardo entro Mostardo riaffermando un sangue e un principio?... Era nato così, non c'era verso, e il suo popolo l'aveva amato così, riconoscendosi in lui.

Ma queste cose non entravano nella zucca di Rigaglia. Rigaglia era contadino, uomo statico per altro e cocciuto, fermo a riconoscere quel che materialmente lo convinceva e niente più. Altro ci voleva a smuoverlo che non un'idea, se pur questa idea non si convertiva praticamente in un valore afferrabile a breve scadenza: mangiare o poter mangiare; supermangiare negli anni, e basta. Razzaccia!...

Utile e inutile, che voleva dir questo?... Se al mondo c'era un Cavalier Mostardo non bastava?... Ed era Mostardo che digeriva il mondo, come colui che vi passava da padrone.

Caspita, sarà poco!...

Un Cavalier Mostardo nel mondo era già tutta una utilità. Affermazione di principii; lotta per i medesimi; repubblica balenante; avvenire emergente...

La morte?... Una capriola!... L'avevano fatta in tanti!... Dopo tutto erano più i morti che i vivi... dunque?... Se da tanti mai anni gli uomini si erano acconciati a nascere e a morire, non c'era davvero nessun bisogno di impressionarsi della cosa dopo tanto tempo. In ogni caso avrebbero dovuto pensarci i primi, coloro che eran comparsi sulla terra millanta e più anni fa! Coloro che si erano accorti, innanzi tutto, che bisognava andarsene e adattarsi ancora a star sepolti. Se la cosa non conveniva perchè continuare? Via, un bell'urlo e tutte le pecore nel burrone! Se c'era un Dio gli si poteva dire: «Gli uomini se ne sono andati perchè hanno visto che è tutto inutile!...»

Macchè!... E dopo Mostardo sarebbe venuto Mostardino (il suo sogno!...); e Mostardino avrebbe avuti gli occhi di Mostardo! Non si è sempre vivi, perdio?

Dice: ma finirà anche il mondo!... Sicuro!... Anche le carriole si consumano! Viene un bel giorno che dopo aver cigolato tanto e aver portato tanto mai sabbione, non ruzzolano più e si buttan via; ma non se ne fan forse di nuove?... È finita la razza delle carriole perchè se ne sono consumate a milioni?...

Dice: ma di noi non rimarrà più niente; e la nostra fatica?

Ecco!... La zuccaccia di Rigaglia!... E il guadagno?... E la mia fatica?...

Il Cavalier Mostardo ci s'imbizziva.

Ma che fatica!... O volete dunque avere un conto in partita doppia per tutto quel che fate?... Allora non si dovrà vivere perchè non si conosce l'amministratore della vita! E se Iddio si mettesse a pagare il sabato per far dispetto al clero, che cosa inventereste di nuovo?... Poi se Iddio non ci fosse e ci fossero solamente un Cavalier Mostardo e un marchese Futa? E se anche, per partita compiuta, il primo e il secondo non dovessero e non potessero far più delle loro mostarderie e futerie e tutto fosse finito?

Bene, bisogna acconciarsi a far quel che si può, tutto quel che si può!...

Che Mostardo viva e, se vive davvero, dietro di lui ne vivran diecimila perchè si è fatto un bel largo intorno!... Se vive Mostardo, la Romagna è dietro di lui, toltone gli inevitabili Rigaglia.

Andiamo avanti, da buoni soldati.

— Ragazzi, ci son io!...

Ed era sì pieno di buona fede, nel mondo, che i ragazzi lo seguivan davvero.

Egli non conosceva le estreme parole accorate, là dove non è che fosco perchè non è spirito ardente, e di sè faceva schermo a tutto, della grossolana materialità che ride.

Ma era forte in sè racchiudeva uno scrigio.

Qualche fulgore nella spessa ganga.

Rigaglia non si convinse, ma Mostardo sapeva già per qual via associarselo, pertanto non si curò di lui. Stava per attaccare la cavalla e andar a saggiare il terreno direttamente, quando riudì il tonfo degli scarponi di Rigaglia. (E non se li era tolti gli scarponi coi chiodi!...).

— Signor padrone?

— Cosa c'è?...

— C'è il signor Antonio.

— Chi?

— L'avvocato.

— Fallo entrare.

L'avvocato Antonio Suasia? E che poteva volere da lui se da cinque anni ormai lo rifuggiva?... E le loro relazioni erano troncate. Non era forse dei nuovi il giovane avvocato elegante? E non aveva rinnegato, in lui, gli antichi sistemi; il cavallottismo ecc. ecc.?...

Traversò il cortile e poco dopo furono di fronte.

— Caro Mostardo...

— Caro Suasia...

— Toh!... — si disse Mostardo. — Siamo ancora amici!

Si trattarono infatti come se avessero dormito nello stesso letto.

— Sai perchè sono venuto?

— No.

— Bisogna che tu ci aiuti!

— Io?

— Già...

— E che posso fare?

— Tutto, amico mio, tutto!... Per noi ci vuole un uomo come te: risoluto, attivo, entusiasta. Anche iersera se ne parlava con l'onorevole...

— È ritornato?

— Sì, ier l'altro. Se ne parlava e abbiamo dovuto convenire che, all'infuori del nostro vecchio Mostardo, non c'è nessuno che faccia al caso nostro.

— Ma non avete pensato se Mostardo era disposto ad accettare!

— Lo sappiamo che ora sei ricco e potresti anche vivertene in pace infischiandoti di tutto; ma sappiamo anche come il nostro vecchio Mostardo non diserti il campo nei momenti difficili!

— Disertare no... ma...

Voleva compiacersi, insomma, dell'inatteso trionfo. Dopo tanti anni, erano costretti ancora a rivolgersi a lui, al vecchio portabandiera.

L'avvocato Suasia gli battè una mano sulla spalla:

— Mostardone mio, ora non mi fare il prezioso!

— Tu mi conosci. Io sarò sempre in prima linea quando si tratti dell' Idea!...

— Ecco, e si tratta appunto di questo!

— La battitura... — susurrò il Cavalier Mostardo strizzando un occhio.

— Sì.

— Avevo indovinato.

— Posdomani usciranno le nostre macchine...

— Sta zitto! — fece il Cavaliere ponendogli, ad amichevole vezzo, una mano sulla bocca. — Zitto!... Ho già pensato a tutto!

— Ma tu non sai...

— Come non so?... Non mi conosci più forse?...

— ... le condizioni di lotta...

— Mostardo non ha bisogno di essere guidato. Senza di voi ero già all'avanguardia.

— Ma... i mezzi...

— I mezzi?... Pfff! — e scoppiò in una risata. — Quali mezzi?... Che cosa vuoi dire?...

— Se non mi lasci parlare...

— Non importa. Ho già capito. Lasciate fare a me. Farò bufera!...

— Hai organizzate le difese?

— E per chi mi prendi?... Credi ch'io parli per parlare? Ho fatto tutto, ti dico!... Tutto quanto era possibile fare e non c'è testa di ferro che la spunti, te lo dico io!...

— Ma sai quante macchine usciranno?

— Ventisette.

— No, sono trentanove.

— Be'... una più una meno...

— Sai da quali aie si comincerà?...

— Ho i miei informatori. Guarda... — e si frugò nelle tasche... — ecco qua il piano!

Spiegò sotto gli occhi dell'avvocato Suasia una carta sdrucita e riprese:

— Che ne dici... eh?... Ci sono tutti?...

— Sì... tutti!...

— Vedi se avevo preparato?...

— Ma che farai?...

— Lo saprete.

— E non vuoi vedere l'onorevole?... Vorrebbe parlarti.

— Lo vedrò dopo.

— No, senti: questa sera ceneremo insieme.

— Non posso!

— È necessario! Bisogna intendersi...

— Ti dico che non posso!...

— Allora vuoi proprio troncati i ponti fra te e noi...

— Va bene... quando sia per questo... accetto!! Ma ad una condizione.

— Quale?

— Che il mio piano sia rispettato!

— Ma sì!...

— Che non mi si venga fuori con la cattedra...

L'avvocato Suasia scoppiò in una risata:

— La tua fobia!...

— Ridi ridi, ma so quel che mi dico!

— Allora a questa sera?...

— Sì, a questa sera!...

Si fregò forte le mani e sputò. Purtroppo era un antico vezzo che gli era rimasto; un vezzo espressivo perchè lo sputo è qualcosa che si scaccia come un residuo di malumore.

Si trovò Rigaglia fra i piedi. Erano nel cortile.

— Rigaglia?...

— Eh?... — e non si volse. Guardava pensosamente la concimaia.

— Eh, un corno!... È questo il modo di rispondere?

— Che cosa ho detto?... — fece il meravigliato.

— Hai detto... che sei un villanaccio!...

Rigaglia tacque. Le parole non lo commuovevano; forse le busse e se eran sode.

— Quando ti chiamo non si risponde: eh?...: si risponde: comandi?... Hai capito?

— Sì.

Mostardo tentennò il capo.

— Già sei di razza di contadini!... — E, rifacendogli il verso: — Sì!... Sissignore, si dice!...

Rigaglia pensava al concime. Disse:

— Lo volete vendere?...

— Che cosa?

— Lo stàbbio.

— Perchè?...

— Perchè ho il compratore.

— Ne parleremo. Adesso devi andare dal Trancia e devi dirgli che venga qui con gli uomini. E fa presto.

Rigaglia si avviò adagio adagio tentennando il capo. Grugnì:

— È una brutta faccenda!

— Che faccenda?... Che cos'hai da brontolare?...

— Fate pure quel che volete, ma vi mettete in dei brutti passi!...

— Tu sta zitto e... gamba!...

Rigaglia non pose mente all'avviso; continuò tranquillo, pacato, facendo risuonare i suoi scarponi sui ciottoli. Il qual suono richiamò l'attenzione di Mostardo:

— E non se li è mica tolti ancora, gli scarponi coi chiodi, quel testone!...

Il Trancia giunse e giunsero con lui: il Secco, l'Affogato, il Mosca, Giovannone della Piva, il Giovinaccio, Stangone di Meldola e il Cieco di Civitella.

In tutto otto uomini e otto mascheroni da farsa e da tragedia.

— Bravi! — fece Mostardo — E dov'è Polpetta?...

— È andato a uccelli — rispose il Trancia.

— E Granello?

— Granello è dentro![1]

— Cos'ha fatto?

— Ieri sera aveva bevuto. Lasciò andare uno scapaccione a una guardia.

La compagnia commentò l'impresa col suo spampanato riso.

— Andiamo di sopra — fece Mostardo.

Si chiusero dentro a doppia mandata.

— Dunque voi, Trancia, vi fate responsabile di tutto?

— Responsabile, sicuro... se non ci mettono le manette!...

— I carabinieri non c'entreranno. È una lotta fra capitale e lavoro; siam fuori dalla legge. Ci aggiusteremo fra di noi. Però io non voglio che si sappia chi siete e quello che fate!

— Cosa vuol dire?... — fece Giovannone della Piva. — Noi siamo gente onorata!...

— Lasciamo andare!... — continuò Mostardo: — Ci conosciamo tutti, e qui non c'è nessuno!...

— Ha ragione! — esclamò il Trancia. — Non ci conosciamo tutti?...

— Be'! — riprese Mostardo. — Se sapessero il vostro mestiere...

— Ma noi siamo... — ribattè Giovannone.

— Oh! finiamola!... — gridò Mostardo. — Uno per uno vi posso dire quanto avete rubato, dove avete rubato, chi vi ha tenuto mano; e proprio te, Giovannone della Piva, te che frigni, avresti ragione di star più zitto perchè si sa benissimo chi aspettò dietro la siepe il fattore dei Soligni e chi gli sparò nella schiena!... E quella sera fosti veduto, anche se nessuno rifiatò, dopo!...

Silenzio. Le parole di Mostardo cadevano in pieno nella coscienza degli otto ceffi.

— Dunque parliamoci da amici e meno chiacchiere! Io vi ho fatto venire da lontano perchè non volevo che in città foste conosciuti. Voi non dovete essere chi siete, ma dei padroni!...

Gli uomini si guardarono in faccia.

— Ho qui dei vestiti nuovi. Bisogna che vi togliate gli stracci che avete addosso e vi vestiate per bene.

— D'accordo!... — fece l'Affogato.

— Dovete capire che, trattandosi di un episodio della lotta fra capitale e lavoro, non voglio si possa credere che noi repubblicani, per scacciare le macchine rosse, ci appoggiamo su gentaccia come siete voi. Perchè voi non siete contadini e neppure operai... Dunque farete la parte dei padroni... Ognuno di voi avrà un podere da difendere... Formerete il primo pattuglione... l'esempio!... Vi daremo uno schioppo e una bicicletta. Batterete le strade e starete a guardia delle aie.

— Intendiamoci bene! — soggiunse Mostardo. — La bicicletta e lo schioppo debbono essere restituiti. Non importa che qualcuno sogni di prendere il volo.

— Permettete una parola? — fece il Trancia.

— Dì pure.

— I carabinieri ci lascieranno portare lo schioppo?

— Giusta! Ma ho il permesso in ordine. Sono stato dal prefetto. Il mio pattuglione è legalmente costituito. Insomma si tratta di incoraggiare questi padroni. Questi signori padroni che hanno paura. Se aveste un podere voi... eh, Trancia?...

Un solfeggio di bestemmie commentò la cosa impossibile.

Disse il Cieco di Civitella:

— Noi siamo scarti!... Un osso e sotto la tavola!...

— E questa rivoluzione quando si fa?... — domandò Stangone di Meldola.

— Per adesso non importa parlarne — fece Mostardo. — La rivoluzione è una cosa grossa, cari miei!...

— Ma voi! — fece il Mosca — voi ci avrete detto venti volte che non passava l'anno e si faceva!

— L'avrò anche detto... ma non potete capire tante cose perchè siete ignoranti. C'erano delle possibilità e sono passate. Bisognerà aspettarne un'altra... Quando si presenterà. Poi la rivoluzione non è mica un affare!

— Perchè... — domandò l'Affogato.

— Ma perchè... perchè si sa!... Tu credi che, se farai la rivoluzione diventerai un signore, è vero?...

— Sicuro!...

— Già!... Guardate che liberale!... Ma la rivoluzione si fa per l'idea!...

— E che cos'è questo?... — domandò l'Affogato.

— È che tu non puoi capir niente!... Ma è l'idea, cari miei. Sicuro, l'idea!... Voi non vedete che i quattrini... sempre i quattrini.

— Intanto ve li siete messi da parte voi, i quattrini!... — fece il Trancia.

— E tu fa altrettanto se ci riesci!... Poi che c'entra?... Si sa che si traffica al mondo! Questo è lavoro.

— Lasciamo andare! — fece il Trancia.

— E sarà meglio!... — soggiunse il Mosca.

Mostardo li squadrò accigliato, si rizzò un poco sulla poltrona, battè l'enorme pugno sulla scrivania.

— Si faceva per dire... — mormorò il Trancia, che sotto la bufera batteva in ritirata.

— E te, avanzo di galera, tieni bene fra i denti la tua lingua!... E non ti venga voglia di dire una parola di più!... Tu sai quel che c'è di nuovo, altrimenti!... È perchè voglio aiutarvi, che fate questi discorsi, canaglie?...

— Avrete capito male... — sussurrò il Mosca.

— Io non voglio aver capito! Chè, se avessi capito, a quest'ora ti avrei incollato al muro con uno schiaffo!... Poi, qui, esigo la disciplina e pochi discorsi!... Se vi piace rimanete; altrimenti... fuori!...

E distese con tanta forza il braccio verso la porta che gli otto ceffi chinaron la testa.

— Ha ragione!... — mormorò il Cieco di Civitella.

Ecco un giusto silenzio. Mostardo si riassettò e disse:

— Adesso andate via!

Qualcuno si mosse, altri no.

— Non avete più bisogno di noi? — chiese il Trancia, umilmente.

— Tornate questa sera alle nove. Intendiamoci: senza rumore e uno alla volta.

Soggiunse:

— E che nessuno abbia bevuto!... Gli ubbriachi li caccerò in istrada!...

La mandra tacque e dileguò muta. Il Cavalier Mostardo sapeva ben condurre i suoi malandrini! Non per niente li aveva organizzati lanciandoli nel numero degli evoluti e coscienti.

— E adesso a noi... — fece il Cavaliere.

E scese e attaccò la cavalla da solo, per non veder Rigaglia co' suoi scarponi.

Già quell'uomo incominciava a pesargli. Zuccone, ignorante, con le sue quattro idee a girandola e sempre quelle!... Perchè avere in casa un uomo di quel genere, sempre in contrasto quando si trattava di progredire, di svecchiarsi, era un inciampo. E quella sua faccia da Re di coppe?... E l'impossibilità di raffinarlo un poco... di trascinarlo verso la civiltà? Macchè! Sempre sudicio che si covava la sua loja come una virtù primigenia. E voleva mangiare seduto sulle scale, col muso dentro la scodella, quel porcellone!... Come non sentire l'intima necessità di certe delicatezze?... Sedere a tavola, spiegare il tovagliolo sulle ginocchia, non sorbire la minestra con quel fracasso da cateratta che eccitava i nervi fino allo spasimo?... Ma Rigaglia era una radice piantata dentro la terra co' suoi mille tentacoli; e tu stronchi la ceppaia ma il radicione cocciuto rimane là, conficcato nel duro, anche se non ha più l'albero sulle spalle. Che cosa gli si poteva insegnare?... Era terra da pentoli, quella!... Diceva sempre sì e no da quel fantoccione imbecille che era. Sì e no... e pensava ai suoi palanconi.

Due paoli, tre paoli, quattro scudi, venti marenghi!... La sua scala andava dal paolo al marengo e non sapeva che quella. Su tali note si combinava le sue suonate. E che suonate erano!... Poveri marcantoni che le stavano a sentire!...

Già l'aveva battezzato altra volta l' uomo dal trombone, alludendo al famoso Passatore. Ma il Passatore era un delicato brigante di fronte a Rigaglia.

Be', e bisognava decidersi a sbarazzarsene. Poi gli ci voleva veramente un cameriere col vestito nero, che sapesse aprir la porta a un signore... a una signora...

E frattanto la cavalla trotterellava per conto suo, senza direzione prestabilita.

— Ma dove mi conduci?... — fece ad un tratto Mostardo trattenendo la bestia.

Era per la strada di Meldola, giusto verso i poderi della marchesa Alerami. Però non seppe se tentar prima una via traversa. Pensò un poco e spinse poi la bestia a gran trotto.

Si disse:

— Prima bisogna sapere che cosa ha deciso Salvatore. Andremo da Salvatore.

Svoltò per le piccole strade.

E le piccole strade sono fra il bacio dei campi, in quel di Romagna; e hanno due verdi gale lungo i fossatelli e anche un sentiero.

Perdervisi!...

C'è sempre l'ombra di un vecchio quercione e un casolare antico. Piane e tranquille, sono. Il paradiso dei cavalli stanchi. Vanno e si volgono, si aprono su quietudini di aie solitarie, si affratellano alle viottole senza ghiaie con due solchi di ruote fra l'erba. Vi passano i secoli come poveri col sacco del pane... e qualche cane abbaia. Anche certi canti di uccelli che non s'odono altrove... Anche certi richiami che s'udiron da bimbi, senza saper chi cantasse ma solo la chiarità. Forse la malinconia della terra... Forse il fervore della terra con la malinconia del cielo!... E dietro le canape, fra gli olmi... il lamento degli uccelli che non s'odono altrove.

Lo spirito dei morti è là, nei campi orientati al meriggio, in tutta la terra foggiata secondo un pensiero, e in quel libro dell'uomo e della solitudine.

Sei solo e con tutti. Ciò che è vita e tragedia è pace. E il Tempio delle tue genti è di fronte a te, sconfinato. L'opera favolosa... Iddio!... E si allontana di filare in filare una piccola ombra che canta... Gli scalzi non fan rumore sulla nuda terra. Si conoscon nomi e nomi e nomi... e le piccole strade non ne hanno. C'è la casa di un uomo; c'è il campo di un uomo, c'è come in chiesa, quando sei solo: il tuo cuore e il tuo spirito e un barlume immemoriale, come dal principio del mondo, fino a te.

Epperò chi passa sogguarda e raro è che le piccole strade si turbino. C'è un silenzio da core accanto all'umiltà della fatica. E le case e i quercioni segnano le tappe dell'uomo.

Perchè si ricordò di Spadarella?... Eran sei giorni che non la vedeva quel campanellino, quella piccola cosa del suo cuore.

Si ricordò di Spadarella. Disse:

— Bisognerà che le compri un vestito, poverina!...

E fissò in mente il negozio dove sarebbe andato e quanto avrebbe speso.

Già... Spadarella!... Anche lei era ritornata dalla piccola strada nella sua memoria. Quando si vedono delle cose dolci e un po' tristi ritornano in mente le creature che non fan rumore.

Se l'era quasi dimenticata fra tanti affari! ma lei, zitta, per non far credere di esser troppo esigente!... Zitta nella sua casina co' suoi diciassette anni. E che cosa le aveva promesso ancora?... Ah, un ombrellino da sole... Rosso?... Sì, doveva essere rosso! Evviva sempre la repubblica!

Già doveva prendersela sotto braccio una bella mattina e dirle:

— Via, andiamo a fare le nostre spese!...

Che cosa avrebbe risposto?... Bisogna sorridere quando si pensa a una gran gioia per così poco!...

Spadarella faceva tesoro della sua gioia per venti, per trenta giorni, poi la liberava come se fosse una rondine. Bastava aprisse gli occhi a quel volo!... Allora non aveva più una parola che le restasse nel core. Doveva dirle tutte quante le sue parole, doveva ridere per venti, per trenta giorni. Era la sua domenica.

Oh, ma che festa!... Anche a portarle un regalo di poca spesa vi saltava al collo, vi si appendeva al collo, vi carezzava come se foste la sua grande bambola alla quale confidava le sue cose più segrete. Perchè aveva ancora una bambola e non voleva metterla nell'armadio, come sarebbe stato giusto alla sua età.

— Lasciamela, zio!... Bisogna pure ch'io abbia un'amica!...

— E tienla!...

Cosa dire?... Dopo tutto doveva avere una amica.

Da quando suo padre era rimasto laggiù, in Grecia, non aveva avuto più compagnia. Le vicine di casa, sì; Spina Rosa anche, benchè fosse vecchia, povera Spina Rosa. Le restava un giardino per vivere... e vedeva gli avventori.

Ma compagnia... quel qualcuno che ci è vicino la sera e la notte, che si chiama nel bisogno e nella paura... no, non ne aveva più, povero campanellino.

Per quel visetto un po' bianco e per quelle sue mani di soffio era proprio una pena.

Bisogna dargliela sempre una madre ad una bambina!... E il Venturi non ci aveva pensato.

L'aveva lasciata in mezzo a un giardino come un fiore, senza accorgersi che sono appunto i fiori che hanno più bisogno di qualcuno.

Lui?... che poteva far lui?... Se l'era presa a core come una figlia benchè il Venturi non glie l'avesse affidata prima di andarsene a morire, ecco tutto. Ma come si fa?... Certe cose non si possono vedere!... Non poteva mica pensare lui, forte e tranquillo, che quella bambina non avesse più nessuno. Chi le avrebbe detto:

— Sentite, figliuola, queste e queste cose non si possono fare. Bisogna passar di qui, figliuola, e allegri!...

E l'aveva lasciata, sì, con Spina Rosa ma con l'ordine di ricorrere sempre a lui per qualsiasi bisogno.

E di tanto in tanto le portava la gioia. Ma era contenta di così poco, Spadarella!

E la cavalla voltò nel giardinetto di Salvatore perchè da quella vecchia bestia assuefatta a tutte le strade sapeva che quella era la sosta.

Una casa intima e serena.

Una donna era seduta presso il muro e aveva una sedia innanzi a sè, con sopra il lavoro. Levò gli occhi.

— Oh, Mostardo!...

— Buongiorno, sposa!... C'è Salvatore?...

— Sì. È in casa che fa i conti.

— Volete chiamarlo?...

Mostardo non discese dal biroccino. La cavalla brucò la gramigna.

Salvatore fu sulla soglia. Un uomo tarchiato; vermiglio e gioviale. Era in maniche di camicia, senza cappello.

— Volevate parlarmi, Mostardo?...

— Sì... una parola.

Salvatore si accostò al biroccino e si appoggiò al parafango.

— Cosa c'è di nuovo?

— Sono stato dalla marchesa...

— Voi?... — fece Salvatore, e rise, stupito.

— Mi ha mandato a chiamare!

— Ma perchè?

— Bisogna accomodare la cosa dei Casaròtt e dei Féna!

— Sarà difficile.

— A questo penso io. Voi dovete dirmi solo se avete stabilito qualche cosa circa la faccenda delle macchine.

— Io ho battuto sempre con le macchine gialle.

— E quest'anno?

— Quest'anno farò come gli anni scorsi.

— Giustissimo!... Ma i Casaròtt e i Féna?... Che cosa dicono?...

— Che non le vogliono.

— Benone!... Ecco quello che volevo sapere.

— E voi credete di riuscire?

— Perdio!

— Lo crederò quando avrò visto. Io avevo già disposta una somma perchè i carabinieri...

— Non ci sarà bisogno dei carabinieri. Addio, Salvatore. Grazie.

— Ma voi — insistè l'agente seguendo a passo il biroccino fin sulla strada; — voi, che cosa pensate di fare?...

— Sarebbe lunga a contarvela. Vedrete.

— State attento, Mostardo!

— Amico mio, prima di tutto l'idea, poi la pelle!

— Dite bene! — fece Salvatore ridendo. E rimase in mezzo alla strada a guardare Mostardo che si allontanava al trotto della sua buscalfana, fra le siepi.

CAPITOLO IV. Il Cavalier Mostardo rientra trionfalmente fra gli eroi della Cattedra.

L'onorevole gli aveva parlato a lungo, con decoroso riguardo. Gli aveva stretto la mano con fermezza. Gli aveva detto:

— Mostardo! — ma con una intonazione particolare come a condir la parola, di profonda stima e di inalterabile amicizia.

Ora il Cavalier Mostardo era forastico se lo carezzavan contro pelo; ma se lo lisciavano pel verso giusto diventava tutto color di rosa e trasparente. Anche questo si doveva al suo terribile dubbio perchè era giunta l'ora per lui di misurarsi ben diversamente che non coi suoi metodi da ciclope. E il dubbio lo teneva perplesso e non sapeva se desistere o gettarsi a capofitto nell'avventura. In tale peritanza, tutto che poteva fargli capire di essere ben al di sopra di Rigaglia, lo illimpidiva, lo burrificava.

L'onorevole aveva concorso all'opera degna e con gli atti e con le parole e con le considerazioni altissime, esposte con quel tale garbo fiero e meditativo il quale vi concentra nel «sì!» prima ancora di aver inteso. Perchè i pensieri vanno via vestiti a incontrare la testa degli uomini e, se veston bene, chi li riceve li ha per solenni anche se non sa chi siano e che vogliano.

Ecco, l'onorevole licenziava i suoi pensieri così. Erano come chiese addobbate con molti addobbi. Diceva certe parole veramente politiche che Mostardo gli invidiava come una bella donna. Ed era concentrato (il nostro Cavaliere ne studiava le forme) chiuso in una interiorità insondabile. Tutto ciò metteva in volume la sua affettuosa deferenza.

Però Mostardo si sentiva maligno un poco, per quella minimissima parte satanica della quale poteva disporre. Pensava s'egli avrebbe saputo sostenere quella parte e, guardando così a occhio e croce, gli pareva che sì. Alla Camera la cosa non era diversa. Bastava parlar poco o mai, o buttar via, di quando in quando, e sopratutto nei tumulti, una frase clamorosa. Ad esempio:

— Evviva l'ottantanove!...

Oppure:

— A morte l'Austria!...

L'Austria?... Si poteva dire a morte l'Austria, dentro la Camera?... E se non si poteva, tanto meglio. Per Bios!... A morte l'Austria!...

Veramente l'onorevole non si era mai lasciato andare a un grido simile, ma lo avrebbe lanciato lui, lui genuino cuore di piazza e di popolo, illustre per oscura discendenza, principio e cacume.

Questa anche era una parola del suo corredo. Trovatala un giorno in un romanzo, gli era parsa di corrotta origine, ma, chiarito il dubbio sul vocabolario, l'aveva accolta con entusiasmo e se ne serviva anche nel parlar comune quando voleva far fede della propria coltura.

Nonostante tutto questo (è ben giusto che un uomo pubblico pensi di raggiungere un seggio fra la masnada di Montecitorio) egli fu il più docile uomo e il più disposto a patire per l'uman bene.

Doveva sacrificarsi?... Eccolo pronto!

— Onorevole, son qua come una volta, quando il partito aveva bisogno di me!...

L'onorevole sorrise e ammiccando incominciò:

— Ecco Mostardo, nobilissimo conduttiere et capitano di ventura...

La brigata rise e l'avvocato Suasia continuò:

— ... homo molto pronto et valoroso. Lo quale si gloriava che nelle battaglie diverse aveva avuto cento ferite nel suo corpo, delle quali mostrava le cicatrici; tanto fu animoso che non istimava pericolo di morte, et a la sua forza non credeva altri fesse resistenza, et più et più volte combattè a corpo a corpo...

Concluse l'ingegnere Fias:

— ... et sempre vinse!...

Seguirono svariati commenti interpuntati da risa.

— E mi sapete dire — fece Mostardo accettando lo scherzo — se questo capitano ci sia stato davvero?...

— Come?... — fece l'avvocato Suasia. — E vorresti mettere in dubbio l'esistenza di colui dal quale discendi per li rami?...

— Mostardo detto altrimenti Mostarda!... Perilio Mostarda!... Il sepolcro di questo vostro antenato — disse pacatamente l'ingegnere Fias — è a Roma, in San Pietro, dove fu sepolto a grande pompa.

— Dite davvero?

— E lasciò nei suoi buoni castelli della Marca, due figliuoli: Lodovico e Giovanni. È da costoro che voi discendete.

— Ma scusi — fece Mostardo — io mi chiamo...

— Vostra madre è stata l'ultima Mostarda della Romagna. Era povera... commise un fallo...

— Bubbole!...

— Questa è storia!... Commise un fallo e vi partorì. Dopo, non avendo mezzi per nutrirvi, vi portò alla ruota.

— E allora perchè mi han chiamato Casadei?...

— Perchè la pentita volle rimanere nell'ombra. Posso assicurarvi che il vostro vero nome è Perilio Mostardo come l'antenato vostro glorioso.

Come non credere all'ingegnere Fias, corretto, flemmatico come un inglese di buon sangue?... Ed era calvo per giunta, ciò che conferiva alla sua serietà un'augusta platea. Imperturbabile nel gesto, nel tono della voce, sempre spenta, nella linea del viso adorno da una barbetta a punta, fin anche nel modo di reggere la piccola pipa di radica, veniva catechizzando il nostro gigante che più non sapeva se era luce od ombra quella che gli si muoveva intorno. E domandò peritando:

— Lei... ha forse qualche documento...

Un sommesso riso corse la stanza.

— L'ho detto, io!... — fece Mostardo trionfante. — L'ho detto che sono bubbole!..

— Bene — riprese sempre serio l'ingegnere Fias. — Quando vorrete ne parleremo all'avvocato Relli che raccoglie ogni memoria cittadina. L'avvocato saprà mostrarvi anche i documenti.

— Sì!... Lo avvisi che li tenga pronti!...

— Meriteresti davvero di essere un qualsiasi Casadei — disse l'avvocato Suasia — e di avere nel tuo stesso nome il marchio del clero!

— Che marchio? che clero?... — fece Mostardo punto dall'inopportuna allusione.

— È chiaro. Casa dei, casa di Dio... la chiesa.

Mostardo rimase pensieroso. Disse, dopo una pausa:

— Però che infamie si commettono su dei poveri innocenti!...

Anche l'onorevole rise.

— Del resto a te che importa? — riprese Suasia — Tu sei sempre stato e sempre rimarrai Mostardo Perilio, ovvero il Cavalier Mostardo, a gloria e onore della Romagna.

— Avete nei fasti della vostra famiglia gloriosissime imprese. Voi foste encomiato come liberatore d'Italia e restauratore dell'antica disciplina dell'armi e dell'italico valore dopo la disfatta che infliggeste ai bretoni nel 1378. Voi affrontaste l'imponente esercito di Lodovico d'Angiò nel 1382 mentre tutta l'Italia era impaurita. Voi conquistaste alla Chiesa...

— Ah, questo no!... — gridò Mostardo.

— ... conquistaste alla Chiesa le città di Ascoli e di Assisi. Infine...

— Ma che c'entro io?...

— ... infine, combattendo con gli Orsini contro i Colonna espelleste da Roma Re Ladislao. Fin d'allora si rivelava l'anima repubblicana della vostra schiatta. Scacciaste un Cesare da Roma e vi aleggiò sulla grande testa il prisco spirito di Bruto. S'intende — riprese Fias — non sulla vostra, ma sulla grande testa della famiglia.

Mostardo un poco nicchiò, un poco rise ma, in fondo, vagheggiava tale illustre discendenza.

— Del resto — fece l'onorevole — non sono gli antenati che fanno l'uomo di valore, ma le opere sue. Voi siete stato e sarete certo, nel prossimo e nel futuro, più Mostardo del vostro predecessore.

— Ora sì che dite bene!... — esclamò il cavaliere. — Ognuno è quello che è... fa quello che fa... come un cavallo. I padri sono i padri e i figli, i figli!... Ma voler giudicare un figlio da un padre non è mai giusto. Voler poi far grande il figlio dalle opere che non appartengono al figlio, sarebbe un vero cacume!...

La risata che rintronò, coprì il Cavalier Mostardo come di un battesimo vermiglio.

La parola sulla quale aveva calcolato per l'effetto doveva essere per davvero una qualche porcheriola indegna.

— Perchè?... che cosa ho detto?... — domandò pieno di smarrita imperizia. — Non si dice cacume?...

E come gli altri continuavano nella loro solfa, pensò di uscir dall'imbarazzo ritornando quello che sempre era stato, il gaudioso colosso in fervore ed in sete; e, per non più smarrirsi ed essere certo del fatto suo, interloquì, questa volta, in dialetto:

Sò... dasìm da bé' e fasìla curta!... (Su... datemi bere, e fatela corta!...).

Poi le cose volsero al grave. Si parlò grave con noccoluta sapienza. Si discusse di un nuovo partito e l'onorevole lo definì: « un fermento di letteratume ». Mostardo drizzò le orecchie. Ecco i punti oscuri e le strade per Roma!... Bisognava penetrare, intendere, impadronirsi. Il mondo non finiva certo nella Città del Capricorno. (Il Capricorno è casa di Saturno ed esaltazione di Marte; l'uno dà la speculativa, l'altro il valore).

— Questi poeti!... — fece l'onorevole (oh, di quanto disprezzo si inturgidì la parola!...). — Questi poeti perdigiorno che per essere stati nulli anche in quella misera cosa che è la letteratura, passano con disinvolta facezia alla politica e creano un partito...

— Veramente non hanno creato niente di nuovo — fece l'avvocato Suasia. — In Francia il nazionalismo non è di oggi.

— Sono degli irresponsabili — disse l'ingegnere Fias.

— Rappresentano l'ultima decadenza borghese!...

— Li spazzeremo via alla prima occasione.

— Ma il più bello è — fece il Suasia — che qualcuno di questi ingenui crede sinceramente di essere rivoluzionario!...

— Sì, rivoluzionari guerrafondai!... Vorrebbero trascinare il paese all'avventura!...

— Avete letto le relazioni del loro ultimo Congresso? — riprese l'onorevole. — Sapete che cosa ne risulta di veramente chiaro, oltre il mare di stolte chiacchiere e l'assenza di qualsiasi originalità di programma?... La guerra... l'avventura!... Trascinare il paese nel non mai abbastanza deprecato orrore della guerra!...

— Non bisogna prenderli sul serio.

— Ma fan molto rumore! — replicò il Suasia. — E il molto rumore ha sempre efficacia in Italia.

— Tanto è vero che trovan già le simpatie del Grande Partito Liberale!... — disse Gerolamo Putti che fino allora aveva taciuto.

L'onorevole si volse verso il Putti:

— Il Grande Partito Liberale?... E dove è quest'araba fenice?... Dove e come vive?... Quali i suoi capi e i suoi programmi categorici e gli adattamenti alle quotidiane contingenze?... La borghesia non ha più partito. È una massa incosciente che non vede il suo bene se non nel traffico e nelle crescenti ricchezze. Non c'è un vero e proprio partito liberale come non c'è un'anima nella borghesia!...

— Bene!... — fece il Cavalier Mostardo — e incrociò le braccia sulla tavola.

— Appunto perchè è privo di contenuto — replicò il Suasia — va cercando chi possa dargliene uno!...

— E tu credi che i nazionalisti?...

— I nazionalisti, dopo tutto, sono giovani e battaglieri.

— Ma che cosa possono costruire di solido?

— D'accordo! Niente di solido. Ma sono un eccitante all'ultima senilità del partito.

— Fanno una impalcatura di sciocche parole per tesservi una coscienza nazionale! — esclamò l'ingegnere Fias.

— Riprendono il vecchio tema patriottico per le loro colascionate! — gridò Ildebrando Sgargi.

— Colascionate!... Benone!... — tuonò Mostardo. E, a voce più spenta, rivolgendosi al vicino soggiunse: — Dice bene!...

— Infine quale sarebbe il loro scopo?... — riprese l'onorevole. — Quello di distrarre anche minime forze dal duro ed enorme compito della lotta di classe; quello di annebbiare con decrepite ideologie, felicemente sorpassate, la superiore civiltà che si delinea attraverso all'Internazionale. Un passo indietro, insomma, un tentativo di retrogradi conservatori, di codini guerrafondai «rimpiangenti le barbarie del militarismo.

— Per Bios!... — fece Mostardo e battè il pugno sulla tavola.

E Ildebrando Sgargi:

— Leggete il loro giornale?

— Per conto mio, no! — rispose l'onorevole.

— Fate male. Potreste apprezzarli meglio.

— Io ne ho già abbastanza delle vere quarantottate del quarantotto per aggiungervi queste scimmiottature fuori stagione!

— Auff!... Questa letteratura patriottarda!... — grugnì a dispetto Gerolamo Putti.

— E per rifare una così detta coscienza nazionale vanno accattando cavilli a destra e a sinistra e pretenderebbero creare noie allo Stato per ogni minimo incidente; per ogni sciocco diverbio nato fra un nostro commesso viaggiatore qualsiasi ed un turco, ad esempio! — disse Ildebrando Sgargi.

— Già!... I turchi!... — mormorò Mostardo. — Ne ho sentito parlare.

— Ma se noi abbiamo rinunziato, o quasi, alla vecchia pregiudiziale irredentista per dedicarci a un compito più umano e universale, come prendere sul serio certi isterismi?... — domandò l'onorevole.

— E, dopo tutto, i turchi — fece un nuovo interloquente, Domokos Barbantini, impiegato di concetto al Comune — i turchi si sono mostrati più civili di noi con la loro rivoluzione pacifica!

— Staremo a vedere... — mormorò Suasia.

E allora si fece vivo uno che fino a tal punto era stato in ascolto, tutto arruffato e meditabondo. Quest'uno si chiamava Libero Bigatti ed era un repubblicano anarcoide così, per incidenza e predilezione. Era tollerato perchè temuto. In più liberi tempi sarebbe stato tranquillamente soppresso con una piccola dose di piombo in luogo opportuno.

Il Bigatti, agli ultimi accenni alla Turchia si ricompose sulla sedia.

— Già... la rivoluzione giovane turca! — ghignò fissando l'onorevole. — E chi non sa che è un trucco massonico?...

La brigata discese immediatamente sotto zero. Silenzio! Solo Mostardo ribattè:

— Oh!... Ma lo dice lei!...

Il Bigatti guardò Mostardo con tale ironico sorriso che il buon Cavaliere non potè non osservare.

Domandò:

— E adesso perchè ride?...

Il Bigatti non rispose.

— Crede di farmi paura?...

— A lei no! — rispose il Bigatti, tranquillo. — Lei è innocente!

O che diamine voleva dir questo?... Mostardo speculò dentro sè stesso per fermar il valore preciso della parola innocente, per trovarvi un significato nella sua vita. Ma non trovò se non tempi di infanzia e di scuola e un equivoco sentore di prima comunione e di corporale nonchè spirituale castità. Niente più. Innocenti erano i marmocchi alla poppa e i fantolini alla cresima ciò è a dire irresponsabili. Innocenza è eguale a irresponsabilità. Un irresponsabile è quasi un imbecille, se ha superata l'infanzia. Egli era fuori dall'infanzia. Nessun dubbio. Il Bigatti aveva voluto offenderlo. La lenta ma nobile convinzione gli passò dalla mente al cuore e accese la fucina della collera. Ma si fermò a un centro inibitorio. Doveva ancora figurare come persona corretta. Disse, stringendo i denti:

— Si spieghi!...

— Oh, ma non importa!... — rispose il Bigatti. — Non dia peso a una parola futile!...

— No!... Non deve andar così... — affermò risoluto il Cavaliere. — Io sono un gentiluomo, sa!... E con me è inutile venire avanti con parole difficili. Se lei ha voluto offendermi, è un vigliacco!... E se non ha voluto offendermi è un vigliacco lo stesso perchè non si è spiegato!...

Poi la furia che già si levava a formar catapulta sul malcapitato Bigatti fu d'improvviso frenata e semispenta dal riso sollevato intorno dalle sue parole.

Tale era il compito di Mostardo Perilio nelle brigate. Solutore di continuità nei punti scabrosi e porto di gioconda unione. — Evviva il Cavalier Mostardo!... — gridò la brigata.

— Evvivaaaa!...

— Bisognerà tu ne parli a Giolitti — disse l'avvocato Suasia, all'onorevole. — Giolitti non sa di avere nel suo regno un uomo simile!...

E l'ingegner Fias:

— Vi piacerebbe, Mostardo, di essere nominato Governatore della Colonia Eritrea?...

— Io sono per il piede di casa — rispose Mostardo passandosi una mano sulla fronte perchè aveva sudato.

— Governatore, no!... Ma... sottoprefetto? Eh... Mostardo?

Il Cavaliere scrollò le spalle.

— Per l'intelligenza che ci vuole potrei esserlo anch'io!

— Chissà... la cosa non è poi impossibile — riprese Fias. — Secondo come vi comporterete nelle prossime elezioni. Giolitti ha fama di essere generoso con gli amici.

— Ora poi, col suffragio universale, sarai davvero una potenza! — soggiunse l'avvocato Suasia. — Tu e Bucalosso, il tuo aiutante...

— Bucalosso non ha niente a che fare con me! — ribattè Mostardo.

E i discorsi imbastardirono dalla loro prima purezza. E bello fu il ridere, come il ragionare di donne e di vergini. La città del Capricorno fu corsa ne' suoi chiusi e mai non fu visto, con la fantasia, maggior corteo di bellezze intorno a una tavola di prodi.

Dopo la mezzanotte rimasero in tre; l'onorevole, l'avvocato Suasia e lui, il poliorcète.

— Andiamo nel mio studio — disse l'onorevole.

Si chiusero nello studio e sedettero intorno alla scrivania.

— Dunque — disse l'onorevole — il fato è compiuto. L'inevitabile scissione ci ha condotti alle conseguenze estreme. Non dovremo più subire imposizioni di sorta.

— Era tempo! — mormorò Suasia.

— La nuova Camera di lavoro funziona perfettamente. Non abbiamo una defezione. Però la guerra si annuncia asprissima.

— La sopporteremo — fece Suasia. — La Agraria è con noi.

— Ma non così il prefetto — soggiunse Mostardo.

— Era da prevederlo — riprese l'onorevole. — Le istruzioni dall'alto sono precise. Astenersi dalla lotta fin che sia possibile e, in caso d'inevitabile intervento dei pubblici poteri, favorire in qualsiasi modo i socialisti.

— Sempre lui, quel Giolittaccio!... — imprecò Mostardo.

— Ma Giolitti non figura — disse il Suasia.

— Ebbene, tanto peggio! Quello è un uomo pericoloso anche se dorme!...

I tre tacquero meditabondi.

— Il peggio è — riprese Suasia — che ci accuseranno di tener mano all'Agraria, di esserci associati alla borghesia.

L'onorevole non rispose subito. Con un tagliacarte scandiva sulla scrivania un suo tempo di marcia, la fronte appoggiata sul palmo della mano sinistra. Disse poi:

— Noi dobbiamo tener sodo, ecco tutto! Non lasciarci intimidire nè fuorviare dalle prepotenze. So che sono incominciati i boicottaggi e che ogni genere di violenza è all'ordine del giorno. Non importa. La nostra massa è compatta. Tutti i coloni sono con noi, repubblicani della più bell'acqua. E se ci hanno battezzati gialli, tanto meglio. Un giallo varrà sempre un rosso. Gialli noi, repubblicani; rossi loro, socialisti! Ed ora si vedrà a quale, fra i due valori, arriderà la vittoria.

— Insomma, alla fin delle fini — fece Suasia — quei signori vogliono morta la mezzadria!

— Non precipitiamo! — fece l'onorevole che vedeva in tale possibilità la fine di ogni suo impero. — Per ora siamo molto, ma molto lontani da una simile sovversione. È certo però che il presunto diritto proclamato dai braccianti socialisti, ogniqualvolta fosse accettato porterebbe troppo lontano. Oggi si tratta delle macchine trebbiatrici; domani il principio dovrebbe estendersi a tutte le industrie. Noi braccianti uniti in cooperativa — essi dicono — dobbiamo essere proprietarii degli strumenti di produzione perchè siamo noi che li facciamo funzionare. Cara, la gherminella!... E pensano, codesti signori, che nessuno veda chiaro nel loro procedere? Credono che noi si sia tutti una manica di semplicioni scervellati...

— Si direbbe quasi che tu difendessi l'Agraria!... — fece il Suasia sorridendo.

— Purtroppo in questo caso — riprese l'onorevole —, gli interessi dei nostri collimano con quelli dell'Agraria. Ma non importa. Il fatto è che la grandissima maggioranza dei contadini, ed anche qualche bracciante, è con noi. Questa è una specie di tregua di Dio, di fronte all'Agraria. Domani ricominceremo la lotta sospesa e le giuste rivendicazioni saranno poste ancora sulla bilancia. Per ora pace e silenzio. Se l'Agraria ci aiuterà, tanto meglio. Piuttosto sapete dirmi di quante macchine trebbiatrici si è fornita la Camera rossa?

— Ne ha una ventina — rispose Mostardo.

— Tante?... E come le ha pagate?...

— Le pagherà quando e come potrà! — disse sorridendo l'avvocato Suasia.

— Ma sarà un fallimento!

— Niente paura!.. — esclamò Mostardo. — Delle strade ce n'è mille per scappare. Poi che cos'è questa Cooperativa?... Io non l'ho mai capito!... La Cooperativa compra... la Cooperativa vende... Bene!... Ma di dietro chi c'è?... Dieci briganti che non hanno un soldo!... Dieci Rigaglia o dieci Puffoni, non importa. Sempre loro sono! Questi versipelle!... La Cooperativa!... Bella invenzione!... Un branco di nullatenenti e un capo brigante!... E domani dettano legge!... Ma i nostri vecchi come le chiamavano queste associazioni? Le chiamavano bande!... E chi erano i loro capi?... Uomini di fegato erano!... E si chiamavano il Passatore, Lasagna, e' Gagîn e pagavano di persona. Ma ora usano i briganti della cattedra, usano!... Non hanno più il trombone, hanno la penna; non assaltano per le strade ma sul loro giornale. Ah, per Bios, se fossi ministro solo per un giorno!...

— Lo diventerai!... — insinuò Suasia ridendo.

— Farei una legge. Via!... Fuori questi generi sporchi!... Perchè la Cooperativa è immorale come un letto sul quale fosse costretta a dormire tutta quanta la società.

E l'individuo?... — continuò fra la gaiezza dei sozii — Dove finiscono i diritti dell'individuo?... Tutto è conculcato, tutto è sottosopra. Non ridete!... Che cosa conta un uomo, oggi? Niente! Lo prendono e lo immagazzinano con gli altri; ne fanno una collezione: ecco qua la Cooperativa!... Oggi non c'è più un bastone, c'è una fascina; non c'è più l'uomo, c'è la Lega! Per Bios, e bada come parli perchè uno comanda per tutti! E chi è questo uno?... Dove lo trovi il generale?... Nessuno ti sa dire dove sia e chi sia. Sarà il Signore, dico io. Siamo scappati dai preti e abbiamo trovato il Gran Prete. È proprio così! Il Gran Prete è dappertutto e dorme nel tuo letto con te e sta attento a quello che dici, a quello che mangi, a quello che fai. E per Bios, per esempio, tutti siamo deboli di natura, si sa... l'uomo tende alla donna e viceversa. Ma il Gran Prete non vuole; se hai un'amorosa prima deve metterci il naso lui... ecco!... E bisogna che la Cooperativa sia contenta!... E vi pare che si chiami esser uomini così?... No, figli!... Noi siamo burattini!... E si va avanti perchè ogni calcio fa fare un passo!...

Tacque. L'avevan lasciato parlare. Si era sfogato.

— Dunque tu sei un ultra-individualista? — gli domandò l'avvocato Suasia.

— E mi son mai domandato, io, chi sia? Che cosa mi importa dei vostri nomi e delle vostre cabale? Io mi chiamo il Cavalier Mostardo!...

Seguì una sosta. L'onorevole sfogliava alcune carte che aveva innanzi e pareva concentrasse, nell'operazione, un'attenzione rigorosa. L'ora era tarda. Nel silenzio non si udì che il crepitar del lume. Le strade della città erano deserte. Un gallo cantò quando l'onorevole chiese a Mostardo:

— Sapete dirmi quanti siano i coloni dissidenti?...

— Come?... — fece Mostardo.

— Quanti sono i contadini che vogliono le macchine rosse? — chiarì l'avvocato Suasia.

— Ah, ecco qua la nota! — E Mostardo trasse dalla tasca un gran foglio che spiegò innanzi all'onorevole.

— Quando avete compilato questa nota?

— Pochi giorni fa.

— È esatta?...

— Esattissima.

— E sapete se i proprietari siano disposti a dare l'escomio?...

— A dar commiato ai contadini — chiarì il Suasia.

— Questo non lo so — rispose Mostardo.

— Bisogna informarsene.

Altra pausa meditabonda.

— Dunque fra tre giorni — riprese l'onorevole, e sempre sfogliava le carte — fra tre giorni usciranno le nostre macchine. Che avete fatto voi, Mostardo, per il nostro trionfo?...

— Vedrà — rispose Mostardo.

— Ci tenete al segreto?... Non si può sapere?...

— Se io le assicuro la vittoria non basta?...

— Badate che bisogna sorvegliare nello stesso tempo venti, trenta aie...

— Ci ho pensato!...

— Che i rossi tenteranno atti di sabotaggio...

— Ci ho pensato!...

— Che verranno armati e in grandi masse...

— Ci ho pensato!...

— Che il prefetto è dalla loro e, in caso di sconfitta, non solo ne va del nostro onore, ma dell'avvenire del partito.

— Onorevole, può dormire tranquillo!... C'è Mostardo che sta desto!...

— Bene. Allora fidiamo in voi. Badate Mostardo!... Vi assumete una responsabilità enorme!..

— So quello che faccio. Per me personalmente non ho paura... poi, mi conoscono! Ho la doppietta, io!...

Si levarono. Il segreto convegno era finito. L'onorevole accompagnò Mostardo fin sulla porta e quando fu sulla porta gli strinse forte la mano:

— Allora all'opera, Mostardo, e con giudizio!...

Adelante Pedro... — commentò il Suasia.

Mostardo non capì, ma la notte era serena e piena di stelle.

Ancora. Quando, poco dopo, fu per rimboccar le coltri, il nostro eroe udì un gallo cantare.

CAPITOLO V. Ed ecco che il buon gigante ridiventa lo zio Giovanni, nel giardino di Spadarella.

Rigaglia passeggiava nel cortile.

Tok... tok... tok... tok!...

Il Cavalier Mostardo non aprì gli occhi ma vide il lume dell'alba e il suo nemico domestico. Ecco un tonfo sordo di scarponi ferrati, giù, nel cortile: la sua sveglia quotidiana. E pensare che egli poteva dirsi ormai una persona perbene e aveva tuttavia alle costole quel giannizzero!... E disfarsene non poteva.

Il passo si avvicinò. Rigaglia bussava alla porta.

— Chi è?

— Io.

— Che cosa vuoi?...

— Oggi è lunedì. Andiamo al mercato?

— Ma va all'inferno!...

Rigaglia non parlò più. Ristette un poco e poi si udì ancora, e questa volta per l'entrata, un:

Tok... tok... tok... tok!... Il suono dei suoi scarponi fenati. Tornò il silenzio. Mostardo volle saper l'ora. Erano le quattro e il sole era sui tetti. Da uomo sollecito non pensò a riprender sonno, pensò:

— Ora vado da Spadarella! O la trovo nel giardino o la desto.

Volle cominciare serenamente; dimenticare, per un mattino, la lotta che doveva sostenere.

Aveva nel pollaio (anzi era Rigaglia che lo manteneva) un maledetto gallo; un gallo rosso con due occhi da straniero. Mostardo aveva visto una volta, nel patrio zuccherificio, uno straniero che aveva gli occhi del suo gallo. Tondi e impertinenti. Per quell'uomo il mondo era un pollaio. L'uovo gli apparteneva ancora più della gallina.

Era disceso da un paese lontano a insegnar l'arte di cavar zucchero dalle barbabietole e trattava gli operai della Città del Capricorno come ottentotti e bassi zulù. E quest'uomo tuonava nella sua parlata da raffreddore. Tuonava e camminava con gli stessi piedi di Rigaglia, molto grandi e solidi. Ma il passo dello straniero era vasto. Fra gamba e gamba ci passava il mondo.

Se ne era andato presto perchè, in Romagna, non faceva fortuna; ma a Mostardo era rimasto, a ricordarglielo, il gallo rosso. E cantava con gola da fliscorno in tutte le ore del giorno. Nel mondo c'era solamente lui, il gallo, il divin tabernacolo del seme!...

Anche l'invitta bestia era una passione di Rigaglia tanto che al Cavaliere non era riuscito mai di farle fare la nobile fine che spetta ad ogni domestico volatile.

Ed ecco che cantava. Mostardo aprì la finestra. Era là impalato, con quel suo petto da vecchia tartana, la cresta a parafulmini e i bargigli... due enormi bargigli come se portasse il suo sesso sotto la gola!... Si arrotò gli speroni e raspò.

— Va là, brutta bestia — gridò Mostardo. — Te la farò fare io la fine che ti meriti!...

E si ritrasse.

Ora questo gallo si chiamava Francesco.

Il giardino di Spadarella.

La porticciuola si apriva nel muro di cinta, vicina a una torre medioevale.

Siccome le case digradavano intorno ed erano, le più prossime, a un solo piano, una corona di torri e di campanili campeggiava nel cielo.

Al centro il giardino con la sua casa bianca.

Mostardo entrò e si accorse alla prima occhiata che Spadarella non c'era.

— Spadarella?...

Nessuno rispose, ma la casa era aperta. Vicino alle serre lavoravano due uomini: Gerolamo e Stefano, i vecchi giardinieri. Mostardo si diresse a loro:

— Buongiorno, gente!...

I vecchi si levaron sul torso nodoso, un po' gobbi.

— Oh, buongiorno, padron Giovanni!

Gerolamo si terse le mani ai panni. Disse:

— Molto presto?... Si è levato a buon'ora, stamattina!...

— Avete visto Spadarella? — domandò Mostardo.

— Era là adesso — fece Stefano. — Però non so se sia uscita.

— E Spina Rosa?...

— È alla messa — rispose Gerolamo.

Mostardo guardò per il giardino; chiamò ancora:

— Spadarella?...

Due rondini sfiorarono i roseti e si udì il loro strido.

— Vada a vedere se è in casa — disse Gerolamo.

— Credo sia uscita. Era là adesso — fece Stefano. E ripresero il lavoro, vicino alle serre, nella grande zona azzurra dell'ombra mattinale.

Mostardo si diresse alla casa bianca e guardava le aiuole ben tenute e i garofani e i gerani rossi. Come giunse innanzi alla casa vide, presso la porta, una sedia e, sopravi, un libro aperto. Certo si era levata come avevano detto i due vecchi. Entrò, sbirciò per le porte. Sul tavolo della cucina c'era una provvista di ortaggi e di frutta e la brace, fra gli alari.

— E dove sarà? — fece Mostardo.

Ma ecco una corsa nel giardino e la voce di lei:

— Zio?... Zio?...

Perchè quando si hanno cinquantacinque anni, e non si è vecchi ancora, due cose entran nel core con gran furia gioiosa: il mattino e la giovinezza. Le strade si abbreviano allora; ogni giorno reca il segno del confine, ed anche la più grossolana materialità non supera la malinconia, talvolta, e l'ombra della inutilità.

Ed ecco, se ancora c'è un usciuolo ed un pertugio per un occhio di sole, la buia stanza si illumina, s'empie di vastità, fa gran festa.

Oh, campane di gioia nelle contrade del mattino! I giovani non sono con voi, strepitano e sognano le lunghe strade... voi cantate per colui che discende l'opposta riva.

L'uomo compiuto! Per nessuno, come per lui, ridono i ruscelli e s'illumina il mondo; nessuno, in tanta dolcezza d'amore vive e compenetra. Egli è fermo... aspetta!... Ormai ha saputo... ma niente!... Niente più di un silenzio. Ed ecco che può ascoltarvi, campane e giovinezze! E sostare come un pellegrino innanzi alla purità vostra.

Il gigante si fermò sulla porta come un fanciullo contento, che ride. Ella correva nel giardino. Una nube attraverso alle foglie.

Sentì i baci di Spadarella e le sue braccia che gli cingevano il collo.

— Dove sei stata?

— Ero nella strada. Aspettavo Spina Rosa. E tu zio?... Rimani con noi?... Pranzi con noi?...

— Ne parleremo.

— Hai molto da fare, zio?...

Egli non era veramente nè zio nè parente di lei, ma l'affetto aveva creata la parentela e il piccolo nome dolce. Perchè Mostardo tramutava vicino alla piccola, ed era solamente Giovanni: un Casadei fra i tanti nati da nessuno.

La sua Romagna battagliera, eccessiva, strepitosa si rifugiava fra le cose serie, svaniva per un piccolo lume. Egli doventava un uomo con la sua bambina: lo zio Giovanni!

— Vuoi una tazza di caffè, zio?

— Grazie.

Entrarono nella cucina.

— Qui, no!... Aspettami in salotto.

— Va'... non fare storie, Spadarella!... Qui si sta bene!

Entrò Girolamo.

— Signorina... c'è gente in giardino.

— Che gente?...

— Vogliono dei fiori...

— Servili.

— Stefano dice che Spina Rosa ha detto...

— Be'?

— Sa?... le ghirlande per don Petronio?... Fiori non ce n'è...

— Allora non ce n'è!...

Girolamo ristette incerto come se la cosa non gli sembrasse risoluta, poi si volse e uscì senza aggiungere altro.

— Si è convinto! — fece Spadarella e rise. — Sai che ce ne vuole, zio, a far entrare qualcosa in quelle teste!... E sono uguali come due fratelli. Non sanno le vie spiccie. Stanno a parlare per ore, di niente, non si decidono mai. Tu li sentissi con Spina Rosa... Quanto zucchero, zio?

— Poco...

— E tu hai deciso?...

— Che cosa?

— Rimani?

— A questo penseremo. Adesso va a vestirti.

Spadarella si accostò. Gli occhi suoi si fecer più grandi; la sua giovinezza vi si raccolse, risplendè della sua gioia.

— Dove andiamo?...

— Vedrai!

— Debbo vestirmi bene?...

Mostardo posò la tazza, guardò la giovinetta.

— Sì... fatti bella!...

Ella non disse niente, gli dette un gran bacio, fuggì.

Eccola di sopra, nelle sue stanze chiare. Pesticchiava su e giù. Correva; forse dall'armadio allo specchio.

I pensieri di lui, i gravi pensieri vestiti di nero, se ne andavano ad aspettarlo altrove. La trebbiatura, i manigoldi fatti venir di lontano, i pattuglioni, le difese, l'onorevole, il compito politico, la candidatura, il potere, tutto era scialbo ed inutile in quel mattino. Egli era lo zio Giovanni, in casa della sua bambina. Ed anche la sua larga faccia e i mustacchi avevano un'aria diversa: avevano la rotonda beatitudine del nido... per due occhi in pace!

Il sole e un pesco pensavano alla finestra ch'egli aveva innanzi. Sulla tavola e sul muro bianco tremavano ombre di foglie... Su, nella stanza chiara, Spadarella cantava.

Viveva un tempo, in Normandia,

un prénce illustre pel suo valor...

Un motivo vecchio come gli anni di lui; un'opera ormai dimenticata.

Che bella, che fresca voce!... Anche Girolamo e Lorenzo si levarono sul torso nodoso, un po' gobbi, e Lorenzo disse:

— È lei!...

Girolamo si asciugò la fronte e disse:

— Mi pare un angelo!

Poi piegaron la testa, silenziosi, appoggiati alla vanga come se una preghiera senza nome scendesse in loro dal cuor del mattino.

Spina Rosa entrò in cucina senza far rumore e trovò Mostardo seduto contro la tavola, la faccia fra le mani e gli occhi smarriti contro la finestra. Il canto continuava tuttavia.

Quando Mostardo intravide Spina Rosa, non si mosse ma sussurrò:

— La sentite?...

— È un angelo!... — disse Spina Rosa. E si tolse lo scialle nero entro il quale si era nascosta la testa e la fronte come in un'ombra mistica.

— Chi l'ha sentita — riprese —, si meraviglia perchè non la fate studiare. Con la voce che ha, padron Giovanni, con la voce che ha!... Pensate!...

— E siete voi che dite questo?... — fece Mostardo senza muoversi.

— Anche lei si strugge. Vorrebbe dirvelo e non si azzarda.

— Ma non sta bene così?... Perchè cantare?... Ha il suo giardino... la sua casa... non le manca niente...

— E quando noi saremo morti?...

— Eh!... di qui a allora!... Poi non prenderà marito?...

— Non ne vuole.

— Sicuro!... A quest'ora avrà già l'amoroso!...

— Non lo dite, padron Giovanni!... Una figliola così...

— Ma cosa volete chiacchierare!... Una figliola così non ne avrà uno, ne avrà dieci!... È troppo bella. Li vorreste aver voi che siete vecchia?... Intendiamoci bene — soggiunse — del male non ne farà... ne son troppo sicuro.

— Non ci mancherebbe altro! — fece Spina Rosa.

— ... del male non ne farà!... La conosco bene. Però... mandarla sul teatro... no... non mi entra in testa!

— E se fosse la sua vocazione?...

— Se proprio fosse la sua vocazione. Ma scommetto che siete voi, vecchia matta, che le mettete in mente certe idee.

— Non è un tesoro che si perde? — domandò Spina Rosa rivolgendosi. — Non potrebbe diventare una signora?... Guardate quelli che cantano, quanti soldi si sono messi da parte.

— Sì, ma il resto lo perdono!... Specialmente le donne.

— Per la mia Spadarella sarei sicura!

— Sicuri non si può essere mai, vecchia! Le occasioni sono le occasioni e... una bambina come quella!... Cosa ne dite voi, Spina Rosa?... Siete stata giovane anche voi!...

— Io non ho conosciuto che il mio povero uomo...

— Va bene, ma intanto l'avete conosciuto. E basta incominciarle certe conoscenze!... Poi voi eravate brutta, mi ricordo, e Spadarella potrebbe stare sugli altari... potrebbe stare!... Mi minchionate?... Farla cantare!...

— Le darete un gran dispiacere, padron Giovanni!...

Mostardo non rispose. Si volse a guardar la finestra, pensoso. Soggiunse come parlasse a sè stesso:

— Poi bisognerebbe mandarla via...

Spina Rosa non rispose.

— Qui non si studia... — continuò. — Bisognerebbe mandarla a Pesaro... sola... e noi potremmo star tranquilli che non la vedremmo più...

— Perchè?... — fece timidamente Spina Rosa.

Mostardo alzò la voce questa volta, irritato:

— Perchè?... Ma vorreste andarle dietro voi, forse? O io?... Vorreste proprio finire i vostri giorni sul teatro, vecchia matta?...

Spina Rosa si spaventò, si fece il segno della croce e disse:

— Dio me ne guardi!

— Vedete che ho ragione?... — soggiunse Mostardo. E tacque, ma non era soddisfatto. Combattuto fra i dubbi, le gambe accavallate, batteva con un piede il ritmo a una sua solfa interiore.

— Già... facevo meglio a non venire!... — borbottò. Ma Spadarella era entrata e aveva udito. Domandò accostandosi:

— Perchè, zio?...

— Ah, siete qui! — fece Mostardo. — Allora avrete sentito quello che abbiamo detto.

Spadarella allargò gli occhi in volto a Spina Rosa in una domanda muta. L'essere trattata col voi le indicava una burrasca nell'animo dello zio Giovanni. Spina Rosa, timorata, le fe' cenno di tacere.

— Non fatevi tanti segni! Io vedo tutto! — disse Mostardo. Poi come vide un poco impallidire il viso della sua piccola, si levò, se la trasse fra le braccia.

— E adesso che cosa avete ancora?... Perchè fate quegli occhi?... Vi ho sentita cantare... Vi ho sentita!... Avete una bella voce e... so tutto!

— Che cosa sai, zio?... — e l'ansia era in quegli occhi mattutini.

— Non fatemi inquietare ancora! Ma bisognerà parlarne!

— Di che? — domandò Spadarella e guardava Spina Rosa, ostinatamente muta presso i suoi fornelli.

— A Pesaro, no! Ve lo dico subito; a Pesaro no!... Ma cercheremo di trovarvi un maestro qui!...

Poco dopo se ne andarono attraverso il giardino e passarono dalle vecchie serre, sotto il nido delle rondini.

Invece di uno, le comprò tre vestiti e anche voleva comprarle tre ombrelli da sole se Spadarella non si fosse opposta.

La gente li salutava; la gente si fermava a guardarli, e i giovani potevan dire:

— Come si è fatta bella!... — ma niente più perchè c'era Mostardo. E si sapeva che il Cavaliere, quand'era con Spadarella, non ammetteva complimenti, apprezzamenti e investigazioni. Una volta aveva scrollato un giovinetto e un'altra volta un uomo. Sempre senza dir niente. Una scrollatina contro il muro e i galanti se ne erano iti malconci e pesti. La sua forza era prodigiosa e lo si sapeva. Chiacchiere nessuna. Si prende l'impertinente e lo si accosta al muro con una certa violenza poi lo si lascia andare pel suo destino. Così s'impara a vivere. Questo lo si fa per tre volte forse. Dopo non ce n'è più bisogno. Perchè la gente è ragionevole e si convince.

Quando passava Mostardo con Spadarella, gli occhi sì, parlavano, ma gli occhi solamente.

Spadarella guardava sempre diritto.

E bella, era, come la luna nuova fra i giovani peschi e come una fontanella nell'agosto bruciato. Pareva muovesse la frescura come il mattino. Pari a una nuvola sola, bianchissima. Attraversa il cielo sopra la terra che guarda.

Sottile e forte. Tipo certo di Romagna. La sua castità era ridente. Vergine consapevole senza stolte finzioni.

Spadarella, il gladïolo dei grani. Gladïolus vulgaris dice la scienza; ma i nostri uomini dei campi presero il nome dalla sua forma: spadarell.

Così ella si chiamò come il piccolo gladïolo e un po' selvatica era con coloro che non le andavano a genio.

Un grande amore per lo zio Giovanni e fasci di speranze proiettati nell'avvenire. Gioia piena e costumanze semplici. Come le piante del suo giardino. Non poteva amare perchè non s'era ferma a un porto. C'era, negli occhi suoi, la lusinga delle belle creature. E se cantava, il fondo passionale della sua razza metteva nella bella voce un fascino caldo e avvincente, una malia di indefinibili sogni e di amore. Questo, in Romagna, si apprezza più che un tesoro, più che danaro contante.

La gente rude e battagliera, la gente pratica ama e si esalta nel canto, nel canto coglie il suo sogno e il suo amore, vuole questo ed apre i forzieri e gli entusiasmi travolgenti per una bianca gola di rosignolo. Morire non importa: cantare bisogna! E anche dal fondo malinconico della razza nasce tale passione come un ponte verso un oblio. Al di là di tutto!

Spadarella sapeva la sua virtù grande; non per niente vedeva anche i due vecchi levarsi dal lavoro per ascoltare tutti curvi finch'ella cantasse. E la loro fronte era più serena.

Ripassarono nel giardino, presso le vecchie serre, sotto il nido delle rondini.

Spadarella era carica di doni e a Mostardo pareva di non averle dato niente.

A mezzo il giardino videro una signora bionda che conversava con Spina Rosa.

Il Cavalier Mostardo ebbe un moto di sorpresa e fece un profondo saluto.

— Chi è quella signora?...

— Ah... niente!...

— La conosci?

— Sì.

— E non sai come si chiama?...

— Mi pare di non ricordarmi...

— Si chiama Ninon Fauvétte.

— Guarda!...

— Ed è dama di compagnia...

— ... della marchesa Alerama, lo so! Bella donna, è vero?...

— Ma è vecchia!...

— Vecchia?... Cosa dici?... Al massimo avrà trentacinque anni!...

Sì, ma Spadarella ne aveva diciassette! Non era possibile l'apprezzamento da parte sua.

Non dissero altro; ma il Cavalier Mostardo era pensieroso.

La signora bionda non aveva comprato fiori. Che era venuta a fare nel giardino?... e che cosa aveva detto a Spina Rosa?...

CAPITOLO VI. Qui si vede Bucalosso, dragon di Romagna.

Bucalosso non era di nobile origine; ci duole per i cuori adorni, ma la colpa non era sua nè nostra. D'altra parte lo stesso nome lo rivela: Bucalosso. Dal qual nome si potrebbe anche arguire ch'egli avesse non ignobile parte in qualche sala anatomica; ed infatti di anatomia si intendeva, ma alla pratica, per le quotidiane contingenze. Era un sezionatore di gran vaglia, ma non si esercitava sui bipedi, preferiva i quadrupedi.

Quaranta, de' suoi cinquant'anni, li aveva spesi al macello: ecco tutto. Tale professione necessaria, perchè l'umanità nobilissima tanto più si eleva nello spirito del mondo quanto più si sazia di carne, lo aveva fatto torvo. Quadrato e muscoloso, anche, come tutti gli uomini dell'arte sua.

Ora nella Città del Capricorno, Bucalosso era una istituzione, insieme ai figli. Ne aveva sei: Libero di Bucalosso, Alvaro detto Tripoli, il Cagnaccio, Mazzini detto la Vigna, Danton detto il Pantalone e Garibaldo. Quest'ultimo era biondo mentre tutti gli altri erano neri. Strano! Il figlio biondo di Bucalosso aveva anche, nelle fattezze, qualcosa del Cavaliere dell'Umanità. Si spiegava il fatto col dire che la madre di lui, Angelica (oh, povera fante nel covo dei molossi!), avesse avuto, durante la lunga e laboriosa gestazione, sempre innanzi agli occhi una oleografia del Duce leonino. Il figlio nascituro si era venuto foggiando su tale immagine per un misterioso processo di assorbimento quotidiano. Cosa ammissibile anche questa. Così si possono riprodurre i grandi uomini.

Però la cosa non era indiscussa. Le donnacole petulanti avevano un'altra versione molto meno originale, nella quale il processo di assorbimento subiva una lieve sfumatura. Si sarebbe trattato di una facezia sentimentale della povera fante Angelica, dimessa madre. Questa avrebbe fatto uno sbaglio. Lo sbaglio di un'ora solamente, come un pisolino. Ma Garibaldo aspettava appunto quel pisolino perchè Angelica era feconda. Quando si dice la fatalità!... Ella conosceva un uomo; quest'uomo un giorno di agosto, era entrato da lei per dissetarsi e si era dissetato come è umano che avvenga. Poi aveva varcata la soglia per sempre; ma, dietro di lui, era rimasto il germe di un fantolino. Naturalmente Bucalosso non aveva mai sospettato neppur l'ombra di una simile facezia chè, altrimenti, la povera Angelica, umilissima fante, avrebbe saputo le vie senza ritorno. Bucalosso era di coscienza intemerata e bastava dicesse: — Voi siete una donna!... — per aver detto tutto. Ora, nonostante la deviazione di Garibaldo, il biondo, Bucalosso era ugualmente una istituzione e a nessuno sarebbe mai passato per la mente di fargli osservare che fra i suoi figli c'era un dubbio. Guai al maligno!... Bucalosso aveva la tempra delle sue coltella e ricamava, il virtuoso anatomico! Si diceva ch'egli avesse dispensato venti occhielli fra amici e nemici e sempre l'aveva passata liscia. I giudici si lamentavano dell'omertà romagnola, ma bisogna pensare che Bucalosso aveva, ne' suoi figli, sei aiutanti.

Il solo che avesse potuto affrontarlo ed accusarlo era il Cavalier Mostardo, ma Bucalosso, con ogni mezzo, aveva tentato e tentava di farselo amico. Poi erano repubblicani ambidue.

Vestito per bene: la camicia nera e molle, una gran sciarpa rossa, il cappelluccio a cencio ( sgumarlîn si chiama pittorescamente in Romagna) lanciato fra la nuca e l'orecchio come un accessorio birbante, una giacchettina a scacchi, rossa e marrone, un nerbo di bue e cinque anelli nelle grosse dita, senza considerare la catena dell'orologio, tutta d'oro massiccio, Bucalosso si presentò alla casa di Mostardo.

La porta era aperta. Entrò e attraversò il cortile. Trovò Rigaglia sulle scale.

— Dove andate?

— Dal patrone.

— Mi ha detto di non far passare nessuno.

Chévat di lè! (Togliti di lì!).

Nel gesto che fece Bucalosso per scansare Rigaglia, tutti i cinque anelli mandarono un bagliore vivissimo. Erano brillanti. Migliaia di lire sulle dita di un uomo. Linguaggio chiaro; manifestazione imperativa di ricchezza. Ed anche di questo, Bucalosso, era soddisfatto.

Rigaglia notò lo scintillìo e si ritrasse.

Orco, ch' fugarèna!... (Caspita, che fiammata!...) — disse fra sè.

E Bucalosso salì le scale.

Non bisogna creder ch'egli, a quando a quando, non si guardasse le dita. I suoi brillanti erano come il vino e la paprica al suo cuore e li adorava pensando alla gente. Infatti la maggior parte degli uomini ha le dita disadorne.

— Si può?

Mostardo rispose male dal di dentro, ma credeva fosse Rigaglia.

— No... sono io... Bucalosso!...

Mostardo aprì e riempì di sè stesso il vano della porta.

— Ah!... siete voi, Bucalosso!... Venite avanti.

L'uno qui e l'altro là, seduti in differenti pose: il primo da signore, l'altro da così così.

Si guardarono.

As truvên sémpar par la ripobblica! — incominciò Bucalosso in dialetto. Poi si corresse: — Si truviame sempri per la ripobblica!...

— Cosa c'è di nuovo?... — domandò Mostardo senza concedersi all'ospite.

Av'e' dmand a vo'!... Lu domando a vogli! — rispose Bucalosso riprendendosi in correttissimo italiano, come al solito.

— A me?

— Sicuro! Ieri sera Mazzini... mo sé, la Vegna!... La Vigna, il mio bastardo!...[2] ( Un's ciáma Mazzini?... Non si ciama Mazzini?...) Ieri viene a casa e fa e dice: — Bab, uv zerca Zvan... vi zierca Giuvàni... A' fazz me... fazzo io: — L'hai viduto?... — Mo inveci l'era il depotato che gli aveva detto che vinissi a ciaccarare con voi.

Mostardo aggrottò la faccia.

— Dite sul serio?...

— Altro!...

Francesco cantava nel cortile, il gallo Francesco.

— Io credo che la Vigna avesse bevuto! — fece Mostardo.

— Mazzini non beve!... L'è innamuré int' l'acqua... è innamorato dell'acqua.

Poi siccome Mostardo dimostrava di non gradire troppo la presenza dell'ospite policromo, questi soggiunse:

— Del resto anca me sono buono a quaicosa!

— Siete buono a troppa roba, voi!

La frase risoluta fu scagliata come una pietra sul capo dell'assalitore.

— E siete anche un guastamestieri! — aggiunse Mostardo.

— Perchè?... — Bucalosso faceva gli occhi piccini della umiltà curiosa.

— A fidarsi di voi, c'è da andare diritti in Corte d'Assise!

— Ci sono stato mai? — domandò Bucalosso.

— Avete avuto fortuna.

— Ma ci sono stato mai?... — ribattè il cocciuto. — Bsogna guardér a quest! Bisogna guardare a questo!...

— Bé!... Ma io non ho niente da farvi fare!...

Bucalosso aveva la fronte ampia come un righello; qualche centimetro quadro, senza contare il cuoio capelluto, ragion per la quale le sue sensazioni si perdevano nel medesimo e tardavano a manifestarsi nell'indice dell'umana nobiltà. Questa volta però il dolore del reciso rifiuto uscì dalla zona dei capelli e apparve fra le tre grosse rughe che attraversavano la fronte in tutta la latitudine sua.

— Va bene — disse. — Vuol dire che, se non mi volete, am srandèll cun i ross! Mi srandello coi rossi!...

— Ci ricorderemo anche di questo! — rispose Mostardo e si levò.

Bucalosso afferrò il suo cappelluccio che aveva posato con bel garbo proprio sulla cima di un ginocchio; lo afferrò e lo fece scomparire nel gran pugno, sotto l'origemmante filza dei tozzi anelli.

Angua d'... mio!... — Questa volta non tradusse.

Non conveniva spiegare una bestemmia, fermata a mezzo d'altra parte. Ben altro ribolliva nell'angusta oscurità della sua anima gialla. Giunse alla porta, la piccola testa quasi sepolta fra le smisurate spalle in una muscolatura di mostro. Le maniche della giacchettina scoppiavano pel soverchio contenuto, ma ciò metteva in maggior risalto gli scacchettini rossi e marroni.

Ah, policrome fantasie birbone!... E vestiti galeotti alle domenicali condiscendenze!...

Sulla porta si fermò guardandosi le scarpe dalle stringhe verdi. Infilò il cappelluccio ( e' sgumarlin ) sul nerbo di bue (un bel nerbo alla copale nera e diritto... Domine giusto!...) e ancora guardò Mostardo.

— Del resto voi non sapete quello che so io!...

— Cosa sapete?...

Bucalosso ritornò.

Me a ve dégh parchè a só lièl! (Ve lo dico perchè sono leale!)

— Avanti.

Al cnusiv Burgnini... conoscete Borgnini Epaminonda?... Quel dla seda?...

— Il mercante di seta?

— Sicuro. Hai savùto che questa notte Borgnini mandirà in giro i suoi vuomini a far pavura ai cuntadèn!...

— No!...

C'an véga piò la faza di mi burdèll!... Che non vèga piò la fazzia dei miei bordelli!

— E dove li manderà?

— Dalla collina alla valle.

— Troppa roba.

— Sono in biciacletta e hano la schioppa!...

Il Cavalier Mostardo si concentrò. La lotta si delineava sempre più aspra. Ora si ricorreva all'intimidazione. I contadini, presi ad uno alla volta, non avrebbero certo resistito, si sarebbero compromessi e Mostardo voleva salvarne sopra tutto la compagine. Non ch'egli avesse soverchia fede in quella massa statica, ma era questione di principio. Il principio!... L'idea!... E sebbene nel suo remoto fondo di uomo onesto e idealista sentisse che anche la nuova battaglia poco aveva a che fare con le pure fonti alle quali aveva abbeverata la sua giovinezza, sebbene fosse convinto che gli uomini della Cattedra, i nuovissimi dirigenti del partito facessero quotidiano strazio di quella repubblica vagheggiata già negli anni come fine supremo, egli non abbandonava il campo. Taceva ed agiva. Intanto si trattava di rompere l'odiosa alleanza dei partiti popolari.

L'unione annegava la repubblica nel socialismo.

— Tutto per loro e niente per noi, quei versipelle!... Sì, fratelli!... Fratelli un corno!... Egli era per le vie separate.

Comunque fosse, bisognava dimostrarsi, data l'occasione, più abili, più pronti e più forti.

— Va bene — riprese. — E voi dove sarete questa notte?...

Finalmente Bucalosso si sentì fiero e contento.

— Sarò indove mi mandirete.

— Mi promettete di non far sciocchezze?...

Zvan al savì... lo sapete... basta la parola!

— Quanti uomini potete avere con voi?

— I miei bastardi. Siamo in sette...

— Basteranno?...

— Giovanni!!! — fece Bucalosso.

— Avete la bicicletta?

— Tutti!

— E lo schioppo?

Abbiame la schioppa e la biciacletta!

— Allora ci pensate voi?

Quà la mân!... — esclamò Bucalosso tendendo la sua ceppaia inanellata.

— Badate che non venga morto qualcuno. È troppo presto, adesso!...

A me dsì cun me?... Me lo dicete con io?

— Con voi, sì! Non vi ho detto che non voglio sciocchezze?

Allora Mostardo si levò per accompagnare Bucalosso. Quando furono sulla porta il Cavaliere disse:

— Vi aspetto domattina, all'alba, quando tornerete dal giro. Prudenza, eh?...

— Sì, prudenzia!... Mo si l'averano loro, pardio!...

E si strinsero l'enorme mano dabbene, con relativi anelli.

CAPITOLO VII. E qui agisce per la prima volta la consumata Ninon Fauvétte, fior di Parigi.

Da tutte le chiese della Città del Capricorno suonò l'avemaria. Si udiva stridere qualche rondine.

Il Cavaliere passeggiava pensosamente lungo il cortile: le mani dietro le reni e il capo basso.

Per Bios!... La faccenda si faceva seria! Gli avevano riportato ciò che stavano preparando i braccianti e non c'era da stare allegri. Bisognava giuocare tutto per tutto; buttarsi nel l'impresa corpo ed anima; rischiar la pelle.

La pelle se l'era giuocata quaranta volte forse, ma in tempi diversi. Ora che stava per cogliere i frutti della sua fatica, gli seccava un pocolino di fare l'ultima capriola.

Morire per l'Idea?... Ottimamente, ma se fosse stato possibile farne a meno era forse cosa migliore.

L'Idea lo aveva trovato sempre discepolo fervido e pronto; dunque?... C'era forse qualcuno che potesse affermare ch'egli avesse mai cambiato gabbana?... Questo qualcuno non esisteva nella Città del Capricorno e altrove. Il Cavalier Mostardo e la Repubblica eran tutt'uno; chi diceva Repubblica diceva Cavalier Mostardo.

Per Bios, l'Idea!...

A soia un vigliach, me?

Sono un vigliacco, io?... Dal fondo della sua coscienza saliva un « No! » monumentale. Non era egli stato sempre in prima linea, sempre un fuorisacco autentico?... E se c'era stato da gridare: — Abbasso il Re! — chi l'aveva gridato per primo?... Lui! Sempre lui!... Questi sono titoli! E nelle confusioni, nei tentativi di rivolta, chi aveva preso la doppietta ed era disceso in piazza per primo? Il Cavalier Mostardo!

Hóia fatt par ridar?

Ho fatto per ridere?... C'era tutto un passato luminoso. Egli era una tradizione. Ma ora le cose si complicavano un poco troppo. Non c'era più da combattere con l'insulso moderatume e con l'odiato clero: veniva innanzi una forza nuova, bene organizzata, violentissima: le Leghe rosse, la Camera rossa, il Socialismo insomma.

Il Socialismo!... Quante volte aveva meditato su questo partito dei versipelle e aveva sempre conchiuso:

L'è una bela vigliacarì!

È una bella vigliaccheria!... Perchè se lui, putacaso, fosse stato grasso borghese glie l'avrebbe fatto vedere, ai socialisti, come si faceva a metterli a posto!...

— Ah, tu vuoi venire dove sto io?... Ah, tu vuoi prenderti la roba mia e vuoi anche impiccarmi alla lanterna?... Ah, io sono un ladro?... E tu che cosa sei, allora, se vuoi portarmi via quello che ho?... Vuoi fare ai pugni?... Avanti! Vuoi fare alle coltellate?... Avanti!

Così si doveva dire e in piazza e nei comizi, per Bios! Ma il borghese era una viltà consacrata; un pidocchiume sentimentale. Non aveva imparato che l'arte di tremare e di raccomandarsi al Governo.

E Gvéran?... Chsèll e Gvéran?

Il Governo?... Che cos'è il Governo?... Ma se domani, porco Dacco! io sono in casa mia e vogliono venire a mandarmi via, devo forse aspettare il Governo in mezzo alla strada? Ma nossignori, ma nossignori! Si prende la sua brava schioppa e si tira nel petto ai versipelle! Così si fa, quando si ha un po' di coraggio civile!... Ma i borghesi, per scappar sempre, per aver sempre paura, avevano fatto diventar leoni anche le pecore.

Anche Rigaglia!

E il Cavaliere rise nella quietudine del suo cortile.

Ormai era buio. Sentì la cavalla annitrire.

— Vuoi scommettere che non le ha dato da bere?

Si infilò nel piccolo andito che conduceva alla stalla. Quando aprì la porta, la cavalla annitrì di bel nuovo.

— Hai sete, povera Carlotta?...

L'aveva chiamata Carlotta, in onore di una sua donna che gli era stata in casa tre mesi.

Aveva sete. Le portò due grandi secchie d'acqua. Poi le mise innanzi una bella bracciata d'erba.

— To', mangia, poverina!...

Ritornò nel cortile. Ma che cosa faceva Rigaglia? Dov'era il brutto testone? Ci si poteva dimenticare di Carlotta in quel modo?... E si propose di dargli una lezione non appena lo avesse veduto.

Ricominciò la passeggiata da muro a muro. Fra poco sarebbero giunti il Trancia ed i sette sozii. Tutto era pronto: vestiti, schioppi, biciclette. A quell'ora aveva anticipato cinquemile lire che il Partito doveva rimborsargli.

Ma per il danaro poco gli importava; era sicuro del fatto suo; era l'incerto domani che lo rendeva pensoso. Perchè bastava che i rossi fossero riusciti ad impiantarsi con una trebbiatrice rossa in un'aia dei gialli e la vittoria era perduta. Ed egli sapeva che i rossi avevano organizzato un vero esercito pronto a qualsiasi battaglia.

— Ma non importa! Dì che vengano avanti!

Trinciò l'aria con un gran gesto e pronunziò ben forte queste ultime parole. Così si dava coraggio. Poi voleva uscire da quello stato di dubbiosità infelice.

— Io non sono disposto a farmi montare sui piedi! Porco Dacco!... As guardarên in tla faza!... (Ci guarderemo in faccia!)

In quel momento entrava Rigaglia.

Rigaglia aprì la porta del cortile e si fermò inebetito a sentire che il Cavaliere parlava ad alta voce. Lo guardò un poco e scoppiò a ridere.

Ch' sit da ridar, brott insansè? (Perchè ridi brutto imbecille?)

Rigaglia chiuse la porta e fece due passi nel cortile. I suoi scarponi ferrati stridettero sui ciottoli.

Il Cavalier Mostardo lo squadrò dal capo alle piante.

— Dove sei stato?

— Perchè?

— Rispondi! Dove sei stato?

— Oi, ero qui dalla Mezzalana.

— A far che?

— Ho bevuto.

— Bravo il porco!

— Oi, non si può bere un mezzo litro?

— Ma prima di ubbriacarti...

— Io non sono ubbriaco!

— ... prima di ubbriacarti dovevi pensare alla Carlotta!

Rigaglia tacque.

— Vuoi farla morire quella bestia?

Uguale silenzio.

— È meglio tu stia zitto, sì!... Guardate in che stato si presenta?... Ubbriaco duro!... Non ti vergogni?

Infatti Rigaglia andava pensosamente in cerca del suo centro di gravità.

— Solo per chi ti vede!... Io non so chi mi tenga dal prenderti per il colletto e dal buttarti in mezzo alla strada!

Rigaglia si guardava gli scarponi.

— Non te l'ho già detto che non voglio? Con chi parlo io, eh?... Non mi capisci? Te lo devo spiegare in un altro modo? Vuoi che prenda un bastone e te lo rompa sulle spalle?

E Rigaglia sempre zitto. Quando aveva bevuto, il figlio di Puffone, parlava ancora meno di quando era schietto.

— Be'... va via!

Rigaglia si avviò ma il Cavalier Mostardo lo fermò a mezzo.

— Dimmi un po': chi è che comanda in casa mia?... Sei tu o sono io?... Rispondi: chi è che comanda?...

L'aveva preso per la giacca e lo scuoteva come se fosse stato uno scendiletto.

— Lasciatemi stare...

— Rispondi dunque!... Chi è che comanda?

— Siete voi!

— E se sono io, allora, brutto testone, quante volte te lo devo dire che non voglio vederti con le scarpe coi chiodi!...

Rigaglia si guardò le scarpe e mormorò:

— Sono pur belle!

— E non lo vuol mica capire che la mia casa non è una stalla!... Bada che non te lo debba ripetere un'altra volta perchè lo sai che non ho troppa pazienza!... Lo sai!...

Come Rigaglia si sentì libero, riprese la strada della porta.

— Hai capito? — gli gridò dietro Mostardo.

Rigaglia scosse il testone grugnendo:

Mo sì!

— E allora se hai capito vai a togliertele subito, perchè questo è un vero cacume!

Allora Rigaglia s'inchinò ancor più a guardarsi gli scarponi e, scuotendo la grande testa a disapprovare, mormorò:

Un'è vera c'al sia un cacume!

E si tirò dietro l'uscio chè sentiva una troppo fiera tempesta sopravvenire.

Il Cavalier Mostardo ristette un poco a guardar l'uscio che si era richiuso dietro l'ombra del suo domestico nemico e, per la terza volta, riprese la passeggiata da muro a muro.

Ormai si faceva notte. Il Trancia e i sette manigoldi poco potevan tardare. Mostardo stava in pensiero:

— Per Bios, questa volta mi sono messo in un brutto impiccio!...

E, con la notte, la sua peritanza acquistava sempre maggior volume. Gli venne in mente Spadarella. Che avrebbe fatto la povera bambina se lo zio Giovanni fosse morto? Sola fra le insidie del mondo, come un uccellino quando casca dal nido..

Mah!... Ormai non si poteva più rimediare. Era troppo tardi.

— Però... però... — pensò il Cavalier Mostardo — però potrei sempre ammalarmi! Alla mia età ci si può ammalare! Rimango a letto... Mi viene una bella sciatica... e chi si è visto, si è visto!...

L'idea gli parve buona. Una bella sciatica poteva salvarlo e perchè non farsela venire?... Allungò i passi; il cortile gli era diventata una gabbia.

La luna spuntò di sopra ai tetti. Faceva tanto chiaro che pareva nascesse l'alba.

Dopo tutto, anche se il Partito mormorava, poteva anche infischiarsene del Partito. Non aveva bisogno di nessuno, lui; era ricco. Ma perchè doveva essere sempre il Cavalier Mostardo nelle peste? Perchè sempre lui dove c'era da prendere una schioppettata o da darla?... L'onorevole, no, che non si metteva in tali arrischi; e nemmeno l'avvocato Suasia, nè tutti gli altri signori della Cattedra.

— Che cosa sono io: il somaro della compagnia?

E quasi quasi aveva deciso e stabilito tutto il piano della solenne ritirata, quando ad un tratto, essendo la luna più alta e più illuminato il cortile, un sonorissimo:

— Chicchiricchiiiii!...

lo scosse e lo tolse bruscamente dalla sua meditazione. Il gallo Francesco aveva cantato: il discepolo di Rigaglia. Però il Cavalier Mostardo pensò a un altro canto di gallo; pensò a un celebre tradimento e si vergognò!

— Per Bios, dovrei nascondermi mille miglia sotto terra!...

Rifece a ritroso la strada percorsa e si insolentì con opulenza.

— Sono un porco! Sono una grandissima carogna!... Dovrebbero prendermi e svergognarmi; dovrebbero mostrarmi alla gente come il più gran vigliacco del mondo! Sono discorsi da fare? Ho data o non ho data la parola?... E allora se hai data la parola devi mantenerla! Ti chiami Rigaglia o Mostardo? E non ti vergogni di ragionare come hai ragionato? Non ti vergogni di far vedere che hai paura? Non importa che tu cerchi scuse: hai avuto paura!... E adesso poche chiacchiere: avanti, e succeda quel che vuol succedere! Tu sarai sempre in prima fila. Si dovrà dire: — È stato il Cavalier Mostardo!

Così si veniva catechizzando quando il gallo Francesco cantò per la seconda volta. Allora il Cavaliere si rivolse indispettito, tese un braccio verso il pollaio e gridò:

Cânta, cânta!... Ai pinsarò me a tirètt e' coll!... (Canta, canta!... Ci penserò io a tirarti il collo!...)

Stava per rientrare. La porta del cortile si riaprì e comparve Rigaglia.

— Che cosa c'è di nuovo?

— C'è una donna.

— Una donna? E quale donna?

— Io non lo so.

— Non ti ha detto il nome?

— Ha masticato qualche cosa che non ho capito.

— Sfido, io... Sei ubbriaco!

Mo che cosa c'entra?... È una donna che parla foresto!

— Parla forestiero?...

Il Cavalier Mostardo incominciò per allibire, poi si mise le mani fra i capelli.

— Ma che cosa mi hai fatto ancora?... Dove l'hai lasciata?

— È sulle scale.

Rigaglia non perdeva mai la sua calma.

— Sulle scale?... — urlò Mostardo — Una signora forestiera me la lasci sulle scale?...

— Dove volevate la portassi se non capivo niente?

— C'è bisogno di capire, brutto somaro? Per chi l'ho fatto io il salotto: per te, forse?... L'ho fatto per la tua sudiceria?...

Rigaglia, vistosi in pericolo, infilò l'uscio e scomparve.

Ed ora bisognava rimediare alle bestialità di lui; bisognava che la signora forestiera, piantata là, in mezzo alle scale come una qualsiasi mendicante, si facesse un concetto ben diverso della casa del Cavalier Mostardo. In un secondo ebbe stabilito un piano e lo pose in esecuzione. Infilò di gran corsa la scaletta di servizio alla quale si accedeva dal cortile; attraverso, sempre al buio, tre o quattro stanze; rovesciò un tavolo, mandò in frantumi un magnifico servizio di porcellana per il the (l'aveva comprato dopo la visita in casa dei marchesi Alerami); fracassò una seggiola; si ammaccò il costato contro lo spigolo di una porta; battè la testa contro un muro; inciampò in un tappeto; si tirò dietro un porta ombrelli; rovesciò la gabbia del pappagallo; fracassò un vaso da fiori e giunse alla porta delle scale maestre. Allora accese il lume. Il suo passaggio era stato simile a quello di un ciclone. Aveva lasciato dietro di sè una solenne rovina.

Non pensò a niente, non si curò di niente. Si sbirciò nello specchio per riassettarsi un poco; girò la chiave della luce che illuminava le scale e aprì la porta.

Attese un secondo... si fece nel vano, poi sul pianerottolo, ma non vide anima viva.

Certo, la signora forestiera se ne era andata piena di sdegno per vedersi accolta in quel modo!

Si precipitò giù per le scale, giunse al pianterreno, chiamò forte:

— Signora?... Signora?...

E udì cigolar la porta di strada. Stava per andarsene.

— Signora?... Madama?... — chiamò più forte.

Allora udì un fresco riso, nell'andito.

— Per Bios!... È lei!...

Gli ritornavan, con la luna estiva, i suoi fieri vent'anni! Si ricompose; si arricciò i mustacchi; ritrovò il sorriso delle grandi occasioni. Poi, passo passo, si dirisse all'incontro.

Eccola!... Perdinci, era lei!... Lei, la bella ignota che aveva veduta una prima volta in casa dei marchesi Alerami e una seconda volta nel giardino di Spadarella! E sembrava la Madonna di Loreto!...

Rimase senza saper più che dire. Abbozzò e mormorò un:

— Madama!... — pieno di mille significati. Almeno ce li metteva lui.

La biondissima creatura si fece innanzi con disinvolta grazia e gli tese la mano. Egli la strinse e soggiunse:

— Buonasera!

Che cosa doveva dire?... Riprese:

— Si accomodi!

Poi la bella signora dai capelli del color dei marenghi incominciò a parlare in un suo strano modo come se gorgogliasse e il Cavaliere fece gli occhi tondi:

— Forse vi derangio?

Ora anche lei parlava difficile! E mostrare di non aver capito non poteva! Ebbe una smorfia di dubbio significato; allargò il palmo della mano e tutte le cinque dita e fece il gesto del «così così!...». Rispose:

— Oh Dio... non c'è male... ecco!...

La bella dama scoppiò a ridere.

— Voi non parlate francese?

— Che cosa vuole... è una lingua della Cattedra!... Non ci arrivo!...

— È un vero domaggio!

— Sarà anche un domaggio... ma non ne ho colpa io!...

La bella dama non poteva trattenere la folle onda del riso; più cercava frenarsi e più l'impeto della subita gaiezza le premeva dentro con tanta forza che doveva abbandonarvisi. Più non poteva dire quanto avrebbe voluto e, ferma in mezzo alle scale, si asciugava gli occhi.

Il Cavalier Mostardo, sulle prime, non seppe quale atteggiamento assumere: se impermalirsi, o preferire un tono di uomo superiore; poi, fra i due corni del dilemma, scelse una terza via: quella della galanteria, tantochè, atteggiato il volto a un garbo assassino, si chinò un poco verso di lei e mormorò:

— Come siete bella quando ridete!...

Poi si incamminarono in silenzio. Eccoli nel salotto.

Quando la bella dama fu seduta, aveva ripreso il compiuto dominio di sè stessa. Il Cavalier Mostardo la guardava arricciandosi i baffi.

— Voi non sapete ancora il mio nome... — disse l'ignota con tale garbo che il nostro Mostardo le avrebbe schioccato un bacio.

— Questo è vero. Ma del resto si vede che dovete avere un bel nome!

— Io mi chiamo Ninon Fauvétte... e voi siete il Cavalier Mostardo?

— Sì... madama!

— Vi ho già veduto una volta...

— Anch'io!

— In casa della marchesa Alerami...

— Precisamente.

— ... e mi sono ricordata di voi...

— Oh, anch'io!...

— Sono venuta, questa sera, per la parte della marchesa Alerami.

— Ah?... Guarda!

— Sì! Madama la marchesa vorrebbe avere da voi una grandissima cortesia!

— Sempre pronto a servirla... — e soggiunse strizzando un occhio: — Ma... per voi!... Solamente per voi!...

Ninon Fauvétte finse di non capire il sottinteso e continuò:

— Voi sapete che è molto difficìle...

— Difficile... — corresse Mostardo.

— ... poter vivere, per una famiglia aristocratìca...

— Aristocratica! — corresse Mostardo.

— ... e alora, madama la marchesa vodrebbe che voi non bugiaste...

Il Cavalier Mostardo, questa volta, si rizzò sul torso e fece il viso dell'arme.

— Che io non bugii?... Cosa vuol dir questo?

— Sì... Voi dovreste niente dire di essere stato appellato dalla marchesa...

— Volete dir «chiamato»?

— Sì, chiamato!

— E perchè non dovrei dir niente?

Per non la compromettere!

Ninon Fauvétte lo guardava sorridendo dolce. Il Cavalier Mostardo si mosse sulla seggiola.

Ma quella pretesa gli sembrava piuttosto grossa! Come? Mi mandate a chiamare, volete che vi difenda, debbo arrischiare la mia pellaccia per voi e poi non volete neppure che io dica di essere stato in casa vostra?... Avete bisogno di Mostardo e vi vergognate di Mostardo?... Lo chiamate e lo rinnegate?... Ah no, per Bios!... E allora perchè non ricorrere al clero?... Lui dunque, che gli Alerami e i non Alerami se ne dovessero vergognare?... Se era un fuorisacco ebbene, non era forse questo un titolo di superiore nobiltà? Fuorisacco equivaleva a marchese; anzi era più di marchese; ma molto, molto di più! Egli aveva un orgoglio più regolare di mille alberi genealogici!

Frattanto si atteggiò a persona ferita nella dignità, e disse:

— Ah no, madama!... Questo mi sembra piuttosto un cacume!

— Forse non mi spiego — mormorò Ninon Fauvétte.

— Oh, lei si spiega! Ho capito benissimo anche se parla difficile. Ma qui si tratta di principio, cara madama. È il principio che va innanzi a tutto. E il principio insegna che, oggi, ognuno è figlio delle proprie azioni. Uno nasce marchese, l'altro nasce, putacaso, verniciatore. Ma, dico io, se il verniciatore non ha le mani del marchese, può avere però una coscienza centuplicata. Mi spiego?... Il verniciatore può elevarsi dalla sua bassa statura e crescere più del marchese. Il principio è questo! Ora non si nasce più con un'eredità; l'eredità l'uomo se la busca campando, se la confeziona; è lui che non vernicia più le porte e le finestre degli altri, ma si vernicia la propria coscienza. Ha capito, madama?... Siamo tutti quanti figli dell'ottantanove! Mi guardi qui, per esempio, questi Conti del Papa. Quando l'esecrato clero comandava su la Romagna, capitava che, se un qualsiasi Marcantonio faceva un piacere alla Chiesa, eccoti il Papa che lo creava conte. Tutta la Romagna è piena di questi conti che non contano niente. Noi li chiamiamo i cunt de Pepa! Non hanno un soldo, non fanno niente, qualcheduno mostra il sedere fuori dai calzoni. È nobiltà questa? dica lei, madama, è nobiltà?... Così il popolo ride di questi nobili e li ha ribattezzati con un soprannome. Qui abbiamo: il conte Polpetta; il conte Piscione; il conte Cacadubbi; il conte Tremarella; il conte Bragone e via di seguito. Il Papa li ha fatti conti, ma sono meno del verniciatore. Il verniciatore ha la sua testa e questi conti non ne hanno. La nobiltà sta nella testa. L'albero genealogico è nella scatola del cervello, mi spiego?... Un momento... mi lasci finire. Così io mi chiamo Cavalier Mostardo; io ho fatto tutto da per me... io sono un nobile!... C'è poco da dire!... Quando il marchese o la marchesa Alerami mi mandano a chiamare non si abbassano mica!... Il Cavalier Mostardo potrebbe stare anche alla Corte, se non fosse repubblicano antico! Noi abbiamo combattuto sempre per l'Idea e ci siamo creati la nostra nobiltà, cara madama!... Era forse conte o marchese, Garibaldi?... Dica lei!... Era il leone dell'Idea, come Mazzini! E adesso sono per tutte le piazze. Altro che nobiltà!... Dunque deve dire alla marchesa Alerami che il Cavalier Mostardo, per generosità, dimentica tutto, ma che non vorrà mai più sentir parlare di lei.

Dopo la solenne tirata, la povera Ninon Fauvétte, fior di Parigi, fece il più raumiliato e compunto viso che si potesse e mormorò un:

— Mi scusi!... — che avrebbe commosso, nonchè il Cavalier Mostardo, il più fiero brigante dell'età eroica.

E il nostro Mostardo, che era tenero di natura e molto più tenero poi, nel particolar caso della bella madama, si affrettò a dire:

— Oh, ma lei non c'entra mica!... Lei è l'ambasciatore e non porta pena. Poi... — e si riaggiustò i polsi della camicia — poi... per madama Mignon...

— Ninon! — corresse la bella.

— Già!... Per madama Mignon... il Cavalier Mostardo sarebbe capace di fare anche... — si chinò innanzi, fece schioccar le dita e conchiuse con un sorriso birbone — ... sì, anche una minchioneria!...

Ninon Fauvétte colse la palla al balzo.

— Allora, se voi siete così gentile, perchè non mi aiutate?

— Oh, per voi, madama, è un'altra cosa!

E accostò un poco più la seggiola a quella di lei.

— Madama la marchesa anzi vuole invitarvi a pranzo.

— A pranzo?

— Ma sì!

— E allora perchè...

Ella vuole solamente che in questi giorni qui voi non bugiate parce que ella ha paura per la sua vita!

— Ma non ci sono io?

— Voi non potete fare l'impossibile.

— Ma io faccio anche l'ottantanove, se voglio farlo!

— Veramente?

— Madama, voi siete forestiera; ma domandatelo a chi mi conosce!

— Se voi potete assicurarmi...

— Cosa dite?

— Potete?...

Dio, che occhi e che sguardo a succhiello!... Ella si lavorava quella sua voce come e' Zaclên il suo violino. Ricamava le parole sopra un flauto e aveva sempre ragione lei! Un'anima nuda come quella di Mostardo, si sentiva portar via, si sentiva tutta e nobilmente solleticata. Quelle erano donne, per Bios! E lui che era arrivato, ai suoi cinquantacinque anni senza conoscerne neppure l'esistenza?... Ma guardatela, pare che reciti sempre!... Si sta a sentire con gli occhi e la bocca aperti... e, quando ha finito di parlare e di muoversi, ti rimane dentro un certo nonsocchè... una cosa così curiosa...

Belle donne quelle che aveva conosciute lui!... Pane e formaggio! Erano un surrogato della Vispa Teresa. Venivano a prendere la farfalletta e se ne andavano via. Non c'era complicazione... non c'era la donna, ecco, la donna!... La donna che vi fa rimanere come un'oca, là, a guardarla, a sentirla...

Ella aveva pronunziato quel « Potete?...» come se gli avesse data la scossa elettrica. E poi gli aveva messo gli occhi addosso, che se li sentiva camminare dappertutto!

Il Cavalier Mostardo guardò la porta. L'aveva chiusa o no? Sì, l'aveva chiusa.

Allora si chinò ancora più verso la sua bella e mormorò:

— Io posso tutto!...

— Potete garantirmi la vita di madama la marchesa?

— E... se ve la garantissi?...

— Allora...

— Per Bios!...

Si alzò perchè il sangue gli saliva alla testa e stava per commettere una grande sciocchezza. Voleva mostrarsi gentiluomo. Non poteva mica così, su due piedi...

Fece un giro per la stanza; si rivolse. Ninon Fauvétte continuava a sorridergli nello stesso modo, per nulla turbata dal turbamento di lui. Questa allora si chiamava una provocazione bella e buona! Però poteva anche sbagliarsi nel giudizio. Dopo tutto, quella donna era, per lui, un perfetto mistero. Quel sorriso poteva essere anche una forma di educazione e niente più. Che figura ci avrebbe fatta se si fosse lanciato nel vortice delle audacie? E se avesse dovuto ritornarsene come un can bastonato?... Il nostro Mostardo non aveva pratica di donne forestiere e non si voleva mettere allo sbaraglio là dove non riusciva neppure a spiegarsi. Poi voleva che ella avesse la sensazione di aver a che fare con un vero signore e non con un villanaccio. Non voleva essere confuso con Rigaglia, il Cavalier Mostardo! — Fra me e lui c'è una bella differenza! — Così girò attorno alla situazione ambigua e, per voler apparire di un'estrema correttezza, scostò la seggiola senza parere e chiese, ritornando al suo posto:

— Scusi, di che paese è lei?

— Io sono nata a Parigi.

— È parigina?

— Sì, signore.

— Allora, francese?

— Sì, signore.

— Per Bios! Allora è repubblicana! Qua la mano!

E tese il suo manone monumentale nel quale scomparve la piccola mano di lei.

Dio, gli pareva di stringere un'allodola, un beccafico! Sentiva una cosa tanto tepida e morbida che se la sarebbe mangiata! E non si decideva ad abbandonar quella mano che Ninon Fauvétte non aveva, d'altra parte, nessuna fretta di ritirare.

Così stando le cose, l'orizzonte, per un attimo schiarito, si rabbuiò in un baleno. Il nostro Cavaliere accostò ancora la seggiola. Ma, per Dacco! Se non scappa lei devo forse scappar io?... Qui non si tratta più di educazione. Non è poi mica una verginella di quindici anni!... Lo saprà pure come siamo fatti noi altri uomini! Io sono un gentiluomo, sì, sono un gentiluomo, ma non ho mica fatto voto di castità. Il pepe è sempre pepe, e questa parigina ne ha parecchio. Se lei si guarda, ebbene, io mi guarderò; ma se lei non si guarda, non mi guarderò neppur io...

Così veniva ragionando e invermigliandosi il Cavalier Mostardo e la bella Fauvétte l'osservava e si divertiva. Ella sentiva già di averlo tutto in suo potere; era certa di poter disporre di quel colosso, come meglio le fosse piaciuto.

— Dunque — riprese modulando la voce alle più penetranti tonalità: — dunque, voi potete assicurarmi la vita della marchesa?

Mostardo si sporse ancor più. Ora erano quasi a viso a viso. Disse:

— Sentite... io vi assicuro tutto... tutto quanto volete! Da questa notte metterò una guardia al palazzo e una guardia alla persona della marchesa. Due fra i miei uomini più fidati. La marchesa potrà andare, venire di giorno e di notte, sicurissima che nessuno le torcerà neppure un capello. Ve lo garantisco io! Però... io non domando nessuna ricompensa... io non sono un sensale!... Io domando solamente la vostra amicizia!

— La mia amicizia?

— Sì... la vostra amicizia!

Mais vous l'avez déjà, mon cher Mostardò!

— Non chiamatemi Mostardo...

— Come, allora?

— Chiamatemi Giovanni... Gianni... come volete.

— Allora vi chiamerò Jean... tout court!

— Sì... così va bene!

Però come si lasciava andare! Non si poteva proprio dire che fosse una di quelle donne sentimentali che vi fanno dannare per niente... e poi se l'hanno a male se non vi accorgete di loro!

— Sentite, Mignon...

— Che cosa?...

— Io vorrei, da voi, una promessa...

— Quale?

— La promessa che verrete a trovarmi ancora.

— Ma non siamo buoni amici?

Ora gli pareva che esagerasse un poco troppo con l'amicizia.

— Sì, ecco... cioè... amici proprio...

— Non vi piace?

— Mi piacerebbe... Sapete, fra uomini e donne, per me, l'amicizia è quasi un cacume!

— Voi vorreste correre troppo!

— Non corro, no! Faccio così per dire. Però voi siete tanto bella...

— Vi sembra?

— Siete tanto bella che... per Bios!...

E dentro era terribilmente combattuto. E si diceva: — Glie lo dò?... Non glie lo do?... — Erano proprio accosto accosto; bastava ch'egli si sporgesse ancora di quattro o cinque centimetri e la cosa era spacciata; e quei quattro o cinque centimetri costituivano, per lui, un tremendo problema. Non si era sentito mai tanto timido in vita sua; mai aveva sofferto di tanta peritanza di fronte a una donna.

— Mignon... io provo, per voi, un nobile sentimento.

Ella non rifiatò. Era piuttosto vermiglia.

— ... un nobile sentimento, e...

E i quattro centimetri furono superati ed egli sentì, sulle prime, la delizia del bacio di lei.

Sulle prime, sì, perchè, dopo, ebbe in bocca un certo sapore...

— È permesso?

Qualcuno bussava alla porta.

— Chi è ancora questo seccatore?

Si accostò all'uscio e gridò:

— Chi è?

Una voce rispose:

— Siamo noi!

— Voi, chi?

— Trancia e compagnia.

— Va bene. Vengo subito.

— Fate il vostro comodo.

Il Cavaliere ritornò presso Ninon Fauvétte.

— Mi perdonate?... Sono giorni terribili, per me. Non potrò dormire per una settimana intiera.

Mon pauvre Jean! Je m'en vais... je m'en vais.

E raccolse da una seggiola i guanti e il ventaglio.

Mostardo non poteva risponderle perchè non aveva capito niente.

— Spero rivedervi molto presto.

— Sì, verrò.

— Quando?

— Verrò, verrò...

E fece per avviarsi verso la porta dalla quale era entrata.

— Non di lì! — gridò Mostardo.

— Perchè? — domandò Ninon Fauvétte meravigliando.

— Perchè da quella parte ci sono gli uomini!

— Quali uomini?

— I miei uomini. Quelli che adopererò questa notte.

— E non si possono vedere?

— Per carità! Non ci mancherebbe altro!...

— Ma perchè?

— Sono gentaccia. Non voglio che vi vedano.

— Ma vorrei ben vederli io!

— Un'altra volta... sì... un'altra volta! Oggi è troppo tardi; poi non c'è da fidarsi! Venite, venite per di qua.

Ninon Fauvétte non potè insistere e seguì Mostardo che la fece uscire per una porticina, poi la condusse per mano attraverso qualche stanza buia finchè non si trovarono alla porta delle scale.

Prima di lasciarla il Cavalier Mostardo volle essere ancora corretto; si inchinò con bel garbo e disse:

— Vi ringrazio di essere venuta... Spero ritornerete presto... Ricordatevi ch'io vi tengo in mezzo al cuore!...

— Voi siete ben gentile!... — rispose sorridendo Ninon e abbandonò ambo le mani fra quelle poderose di Mostardo.

Allora egli la trasse a sè un poco più, sempre un poco più fin ch'ella non gli si abbandonò sul petto.

La bocca di lui ritrovò quella di lei e fu un pateracchio combinato.

E stavano così bellamente dimenticando l'intero universo, assorti nel particolare còmpito del bacio, quando i sette manigoldi, che si eran fermi nella stanza vicina, incominciarono a berciare, a strepitare, a bestemmiare che pareva dovessero finirsi fra di loro in men che non si dica ave.

Ninon Fauvétte fece un viso pien di spavento e, aggrappatasi al nostro Mostardo, gli domandò tremando:

— Mio Dio, che cosa succede?

Allora egli l'abbracciò stretta e tenendola così, la faccia inchina su quella sua dolce creatura, le mormorò:

— No, poverina, non aver paura che non è niente!

— Ma non sentite?

— Sì... sono i miei uomini.

— Si ammazzano!

— Ma no, poverina!... Discorrono. Forse parleranno di politica!

Ed, ahi! che il discorso dei manigoldi degenerò di un subito in un qualcosa che al Cavalier Mostardo parve tremendo!

Infatti, in un momento in cui le voci stavan per volgere alla calma, si udirono prima due, poi quattro, poi sei suoni che chiameremo assolutamente ingiustificati ed altrettanto inarticolati. Suoni plebei, se così vuol dirsi, di non dubbia origine e imputati a vergogna dalle persone civili. Il povero Mostardo non avrebbe voluto aver udito; si invermigliò fin sulla fronte; tossì, guardò il soffitto. Urlò verso la stanza attigua un:

— Vergogna!... — che parve un terremoto; poi, presa sotto braccio Ninon Fauvétte, le disse:

— Andiamo... andiamo...

E la trascinò giù per le scale.

Egli sapeva bene di che fossero capaci quegli avanzi di galera. E proprio il giorno in cui incominciava a costruire la sua nobile vita gli capitava una simile porcheria! Che ne avrebbe pensato Ninon?... Non si arrischiava neppure di levarle gli occhi in volto.

— Perdonatemi, Mignon...

Ella lo guardò con la più semplice aria del mondo e la più pura:

— Perchè dovrei perdonarvi?...

— Proprio... non ne ho colpa io...

— Ma di che?...

— Oh Dio!... di tutto quello che abbiamo sentito...

— Ma io non ho sentito niente!

La guardò ammirato. Come si capiva che era di razza! Quale educazione!... Ella non aveva sentito perchè non doveva aver sentito. Dopo tutto, era un riguardo verso di lui. E lui, sempre bestia che non capiva certe sfumature!...

— Capisco, è una bella finezza... — mormorò — e ve ne sono grato. Però vi prego di non credere che la mia casa sia così tutti i giorni...

Ella scoppiò a ridere. Ciò gli dette tanto conforto che si chinò a baciarla ancora e più lungamente.

Poi le aprì la porta e la fece scivolare nell'ombra.

Quando fu partita, si passò una mano sulla bocca e sputò.

Curiosa!... Non aveva mai dato o ricevuto baci che gli avessero lasciato un sapore simile...

Sapevano di glicerina!

Chiuse la porta e, chi ti vide quando si rivolse?

Rigaglia!...

Rigaglia era piantato là, in mezzo all'entrata e sorrideva ammiccando.

La cosa non piacque punto a Mostardo. Chiese al suo domestico nemico, con l'aria più burbera che si avesse:

— Che cosa facevi là?

— La cena è pronta — rispose Rigaglia, tranquillo tranquillo.

— E avevi bisogno di venir qui a dirmelo?

— Vi ho cercato dappertutto...

— Questa non è una buona ragione! Poi sapevi che avevo una visita!

— Sì.

— E allora?

— Allora credevo che cenaste insieme!

— Tu non devi creder niente, hai capito?

— Che cosa c'è di male?

— E non devi aver veduto niente!

— Bella roba! Per un bacio...

— Ma non devi aver veduto niente!

— Sì.

Mostardo fece qualche passo.

— E non ti venga più voglia di venire a chiamarmi a cena quando sono con delle signore!

— Sì.

— Sì un corno!... Si dice sissignore!

Rigaglia annuì col testone. Domandò poco dopo:

— Cenate questa sera?

— Adesso non ho tempo.

— Ma la roba va a male...

— Lascia che vada all'inferno!

Il Cavaliere salì le scale. Rigaglia proseguì per l'entrata. Disse quest'ultimo, quando fu tutto solo:

— Quell'uomo, fra le donne e la politica, si ammazza. Bel gusto, proprio adesso che è un signore!...

Ma Rigaglia non concepiva l'Idea.

Entrò nella stanza sbattendo l'uscio con tale violenta che poco mancò non lo riducesse in pezzi.

Gli otto sozii videro la bufera e si affrettarono a non far più parola.

Mostardo non levò gli occhi in faccia a nessuno; si diresse alla scrivania e sedette.

Trascorse un silenzio che pesava più che piombo.

— Io vi domando solo, dove credete di essere?...

Gli otto sozii si guardarono in faccia e non capirono.

— Perchè? — domandò timidamente il Trancia.

— Rispondetemi. Dove credete di essere?

— Ma... in casa vostra...

— In casa mia, non è vero?

— Sì.

— In casa di una persona bene educata?

— Sì.

— E allora, se sapete di essere in casa di una persona bene educata, perchè vi comportate come se foste nelle stalle dove siete nati?

I sozii non capivano o facevan le finte.

— C'è proprio bisogno che mi spieghi?... — E aperto il cassetto della scrivania ne estrasse un pistolone del tempo del Papa. — C'è bisogno che mi spieghi?... — ripetè oscurandosi talmente in viso che il Trancia tese una mano verso la pistola e mormorò:

— No... non c'è bisogno!...

— Adesso fate gli umili, è vero?... Adesso!... Ma quando ero di là con una signora eravate arroganti, allora!... e avete convertita la mia casa in un porcile!

— Ma che cosa abbiamo fatto? — domandò il Giovinaccio.

— Vuoi anche saperlo? — e Mostardo si alzò dalla poltrona.

Di un balzo fu sul malcapitato, lo afferrò per le braccia, lo sollevò come se fosse uno sigaro, lo fece girar per l'aria due volte e si accostò alla finestra aperta.

I sozii guardavano impietriti e non osavano aprir bocca. Essi sapevano bene di che fosse capace il Cavalier Mostardo quando una cosa gli andava di traverso; conoscevano la sua forza prodigiosa e si guardavan dall'intervenire. Mostardo era buono a spacciarli tutti quanti se lo acciecava la sua violenza; era adunque meglio lasciarlo fare e raccomandarsi a Dio per l'anima del Giovinaccio.

Ora la finestra di quella stanza si apriva sopra un'ampia e ben colma concimaia.

In un balzo Mostardo fu alla finestra, tenendo saldo fra le mani robuste l'uomo che si divincolava e urlava. Ad un tratto lo sollevò e lo tenne sospeso nel vuoto per il solo tempo in cui gli disse:

— Guardala!... Quella è la tua casa!...

Poi lo scagliò nel vuoto.

Si udì un tonfo sordo e le voci dei sozii che mormoravano:

— L'ha ammazzato!...

Il Cavalier Mostardo ristette un attimo a guardare. Quando fu certo del fatto suo, si rivolse e disse:

— Sta meglio di me e di voi. Gli ho data la lezione che si meritava.

E ritornò alla scrivania, e sedette in pace, contento ormai di essersi spiegato. I sette restanti eran doventati come tanti agnelli.

Il Cavalier Mostardo aveva bisogno di essere ubbidito e sapeva come farsi ubbidire.

— Venite fuori voi, Trancia, e voi Giovannone.

I due uomini si tolser dal gruppo con mirabile prestezza.

— Voi dovete rendermi un servizio particolare.

— Anche cento! — risposero ad una voce Trancia e Giovannone.

— No, basta uno. Ed ora vi dirò di che si tratta.

Premette lungamente il bottone del campanello elettrico che aveva a portata di mano.

Si presentò Rigaglia.

— Avete suonato?

— Sì. Portami qua i due vestiti neri e le due pistole che sono nella camera dei forestieri.

Rigaglia uscì e ritornò con i vestiti e le pistole

— C'è tutto? — domandò Mostardo.

— Sì.

— Posa lì, sul sofà.

Rigaglia si ritrasse in un angolo.

— Trancia e Giovannone, quella roba è vostra. Vestitevi.

Il Trancia e Giovannon della Piva non se lo fecero dir due volte. Si scambiarono un'occhiata soddisfatta e in un baleno furono nudi. Fecero un involto dei cenci che si erano tolti d'addosso e lo gettarono fuori dalla finestra.

— Ed ora a noi! — fece Mostardo rivolto ai restanti compagni. — Ora voi andrete con Rigaglia. Troverete nella camera dove vi condurrà tutti i vestiti pronti. Perchè non nascano contestazioni, ogni vestito ha un cartello e un nome. Tu, Rigaglia, li chiamerai ad uno ad uno e darai loro il vestito che ho loro destinato. Troverete anche l'acqua per lavarvi. Fate presto. Via!

Rigaglia si mise alla testa e la masnada dietro. Erano appena usciti che la porta si riaprì e comparve il Giovinaccio. Forse Giobbe sullo sterquilinio non aveva un aspetto diverso.

Mostardo lo guardò e scoppiò in una risata. Poi disse:

— Va' di là coi tuoi compagni. Marsc!

Il Giovinaccio scomparve fra le risa del Trancia e di Giovannone.

Fu fatto silenzio.

— Sentite, ragazzi — riprese Mostardo. — Voi dovete rendermi il servizio più grande!

— Per quello che siam buoni, eccoci qua!

— Io ho preso un impegno; un impegno di onore e voglio far fronte alla parola che ho data. Se voi saprete fare, sarete contenti di me. Conoscete la marchesa Alerami?

— Chi, la clericale?

— Clericale o no, questo a voi non deve importare, per adesso! — e sottolineò le ultime parole. — Per adesso noi non vogliamo vedere che una signora, e cioè una donna. Mi spiego?... Dunque questa donna è stata minacciata nella vita, forse dai suoi contadini rossi. Può darsi che qualcheduno abbia intenzione di spararle nel petto e questo non deve essere! Capite, ragazzi? Non deve essere! Io ho pensato a voi. Voi non avrete, in questi giorni, altra occupazione se non quella di guardare il palazzo Alerami e di seguire la marchesa o il marchese quando usciranno dal palazzo. Ci sono due biciclette a vostra disposizione e, tanto per cominciare, venite qua...

Tolse dal portafoglio due biglietti da cento e continuò:

— Questo è per te, Trancia... e questo è per te, Giovannone. Va bene?...

— Cavaliere — fece il Trancia — non c'è rosso che tenga!... Se non ci ammazzano, alla marchesa non debbono guardare neppure alla polvere delle scarpe!

— E voi sapete chi siamo! — soggiunse Giovannone.

— Così mi piace! — riprese Mostardo. — E, adesso, non una parola ai compagni di quanto ho detto. Siamo intesi?

— Va bene.

Si levò dalla scrivania e si accostò ai due sozii.

— Fatemi vedere come state, vestiti a nuovo.

Li sbirciò dal capo alle piante, li fece rivolgere da tutti i lati e disse:

— Non c'è male. Non siete stati mai tanto belli in tutta la vostra vita!

— Ce lo lascerete questo vestito?

— Secondo come vi porterete.

— Se è solamente per questo! — fece Giovannone.

— E quando dobbiamo incominciare il servizio? — domandò il Trancia.

— Subito.

— Va bene. Possiamo darci un turno?

— Fate voi. La responsabilità è vostra.

— D'accordo.

— Resta inteso che ogni sera verrete a farmi rapporto.

— D'accordo. Ma se ci capita di sparare, dobbiamo sparare?

— Senza pietà!

— E... non ci condurranno dentro?

— A questo penserò io. Mi rendo garante della vostra libertà. Non potranno farvi niente perchè non sarà che un episodio della lotta fra Capitale e Lavoro.

— Va bene. Arrivederci.

— Arrivederci. Le biciclette le troverete vicino alla stalla, nel cortile.

— Dobbiamo prenderle?

— Prendetele. Un momento. Non pensate di involarvi perchè io sono uomo da raggiungervi anche in America!

— Cavaliere...

— Bene, bene!... Adesso filate.

Come i due sozii furono scomparsi, il Cavalier Mostardo uscì dallo studio, serrò la porta a chiave e si diresse alla stanza dov'era raccolto il resto della brigata. Entrò che i bei compagni facevano un baccano indiavolato. Non appena comparve Mostardo regnò un silenzio da chiesa.

— Che cosa è stato? — domandò il Cavaliere.

— Niente.

— Siete pronti?

— Sì.

— Allora andiamo.

A vederli così vestiti: chi col fondo dei pantaloni che gli scendeva come una borsa; chi con certe braghesse nelle quali diguazzava come in un pallone; chi annegato in una giacca monumentale o costretto in un farsettino tanto striminzito da non potervisi rimuovere, chi li avesse veduti, quei bei campioni, non avrebbe trattenuto le risa. Ma Mostardo aveva ben altro per il capo. Si avviò innanzi e la masnada gli tenne dietro in silenzio. Furono in una stanza a terreno. Mostardo distribuì le biciclette, gli schioppi e le cartucciere; poi si armò a sua volta.

— Venite anche voi? — chiese l'Affogato.

— Sì — rispose Mostardo.

— Bene! Allora sì che faremo bufera!

Uscirono nel buio. Mostardo ebbe cura di spegnere tutti i lumi. Mandò fuori i sozii e, prima di chiudere la porta, disse a Rigaglia:

— Se viene qualcuno a cercarmi, io sono a letto e dormo.

— Sì signori... — fece Rigaglia.

Poco dopo filavano in bicicletta nel buio della notte.

CAPITOLO VIII. E qui si vede come si iniziasse la battaglia delle aie.

Non appena furono sulla Piazza col Pi grande, il Cavalier Mostardo, sempre agile, saltò dalla bicicletta e, levando un braccio, gridò:

— Alt!

I sei sozii furono fermi di botto.

— Adesso — incominciò Mostardo — prima di buttarci alla campagna, bisogna sapere che cosa ha fatto Borgnini.

— Chi?... Epaminonda?... — domandò il Secco.

— Proprio lui! — rispose Mostardo. — Di Borgnini non bisogna fidarsi. Quello può farci qualche brutta improvvisata. Te, Affogato, vien fuori. Andremo insieme all'Osteria del Gallo. Voi altri aspettateci sotto al campanile. Senza muovervi, siamo intesi? Potremo tardare mezz'ora.

— E se vi aspettassimo all'Osteria del Tacchino? — domandò il Cieco di Civitella.

— Già! Per prendere una sbornia e, dopo, la faccio io la ronda, è vero?... Sotto al campanile c'è da mettersi a sedere. Aspettateci là. Noi vi lasciamo anche le nostre biciclette. Di qui all'Osteria del Gallo ci sono due passi e andremo a piedi.

Si spiccarono dal gruppo e se ne andarono via.

La notte era chiara. Dalla Torre del Comune suonarono le ore. Il Cavalier Mostardo incominciò a contare:

— Uno... due... tre... — E, quando l'orologio ebbe battuto l'ultimo tocco, conchiuse: — Porco Dacco, sono le dieci!... È tardi e bisogna spicciarsi!

— Che bisogno c'è di far presto? — domandò l'Affogato.

— C'è il bisogno che c'è! O per Bios!... Se te lo dico io, è segno che lo so!

Mostardo abusava di simili risposte piene di convinzione. L'Affogato si accorse che non c'era altro da domandare. Però ebbe un dubbio ancora:

— Scusate... andiamo all'osteria con lo schioppo?

— Sicuro!... Perchè?...

— Perchè... non diranno...

— E che devono dire?... Lo schioppo l'abbiamo preso per farlo vedere e non per nasconderlo.

— Già... ma può essere una provocazione.

— Ecco!... Precisamente!... Una provocazione!... E non è quello che voglio?... Di un po': andiamo a caccia di beccafichi o siamo fuori per tirar nel petto alla gente, se ce ne è bisogno?

— Lo saprete voi!

— Sicuro! E perchè lo so io ti dico che, se hai paura, puoi prendere su il tuo trentuno e andar a pescare i ranocchi.

— Io, paura?

— Benone! E allora avanti e forza!

Erano giunti alla porta dell'osteria. Mostardo si fermò prima di entrare.

Speculò qualche minuto dietro i sudici vetri, per vedere chi era dentro. Raccolse le mani agli angoli degli occhi; mormorò qualche incomprensibile parola. L'Affogato aspettava, senza dir niente. Dopo un lungo e maturo esame, il Cavalier Mostardo si levò sul torso e disse:

— Sì, ci sono tutti!

— Tutti, chi?

— Borgnini e i suoi compagni. È certo che combinano il piano per questa notte. È meglio che io non mi faccia vedere e te neppure...

— Allora?

Il Cavaliere pensò un poco e disse:

— Bisognerebbe mandare Rigaglia.

— E perchè Rigaglia?

— Perchè quello non dà sospetti. È sempre per le osterie.

— Volete che vada a chiamarlo?

— Sì... no, aspetta. È meglio che vada io.

— E perchè volete andar voi?

— Ma tu non conosci Rigaglia! Quel testone è buono di non volersi muovere se non vado io. Ha paura di compromettersi. Vieni con me. Mi aspetterai sulla porta. Siamo a quattro passi.

Andarono. Mostardo trovò Rigaglia che era nella sua tana e si disponeva a ficcarsi fra le lenzuola.

— Ho bisogno di te.

— Cosa volete?

— Devi venir fuori.

— Io?... — Inarcò le ciglia, spalancò i piccoli occhi, si puntò una mano sul petto. Apparve pien di timorosa peritanza.

— Non importa che tu abbia paura, vigliaccaccio! Non ti porto a far le schioppettate, va' là! Non ti ci porto. Farei un bell'affare! Ma ho bisogno di te. Presto, vien via!

— Ma io sono stanco!

— Ti ho detto di venir via!... Vuoi che ti prenda per il bavero della gabbana?...

Allora Rigaglia per non poter far altro, scagliò contro il muro una scarpaccia che aveva in mano e, col permesso delle timorate persone, borbottò la classica bestemmia romagnola, la bestemmia base e cardine, la quale non ha neppur più valore di blasfema, ma non è che un indice esclamativo di esuberanza, nel paese delle strampalerie.

Disse Rigaglia:

Boia de Signor!...

Allora il Cavalier Mostardo gli si accostò di un passo; squadrò, dalla sua rispettabile altezza, il tozzo arnese domestico e gli disse:

— Ormai dovresti saperlo che, con me, è inutile brontolare. Te lo devo dire ancora?

— Ma io sono stanco e ho sonno.

— Va' là, che ti pagherò da bere!

— Che cosa?... Andiamo a bere?

— Sì.

— Perchè non me l'avete detto subito?

— Ma guardate che bel liberale!... Se si tratta di ubbriacarti, non sei più stanco, è vero?

— Nei vostri imbrogli io non voglio entrarci.

— Perchè hai paura!

— Non è vero. Se si trattasse del popolo sarei sempre in prima fila!

— Sì, fra le botti!

— Io sono socialista.

— Tu sei un pantalone!

— Il socialismo è per il popolo.

— E tu sei per la tua pancia!... Infilati la gabbana... fa presto!... Non crederai mica ch'io voglia discutere di politica con te, brutto testone!... Ma che socialismo e non socialismo... tu sei un versipelle, sei! E ladro!... Ruberesti il fumo alle pipe, ruberesti!... Dì che non è vero, adesso!... Che cos'è questo socialismo?... Lo sai, tu? Lo sai che cos'è?... Avanti... dillo!...

— Il socialismo l'è la giustizia de pópul!

— Bravo l'asino!... Avanti... infilati quella gabbana, chè non ho tempo da perdere!... Hai finito?... Sei pronto?... Andiamo...

E lo precedette. Rigaglia lo seguì scarpicciando.

E Mostardo continuò:

— Siete tutti quanti buone firme! Va' là, che lo sappiamo!... Ci conosciamo, mascherina! Ma che cosa credi di aver detto poi, quando hai detto « e pópul »? Che cos'è questo popolo? Chi è il popolo?... Sei tu o sono io?...

— Il popolo sono io!

— Sicuro!... Come se non sapessero tutti che tu sei una canaglia!... Avanti, socialista: tu hai settantamila lire alla Cassa dei Risparmi.... avanti... va, prendile e dividile tra il popolo...

— Bella ragione!

— Hai visto?... È che tu sei boia, sei!... Questo sì. Ma che cosa vuoi saper te?... Che cosa vuoi capire se non sai fare un'o con un bicchiere?... Socialismo!... E l'Idea?... Dove la metti l'Idea, povero testone?

— Che cos'è quest'idea?

— Lascia parlare chi ne sa più di te. Credi forse di poter saltare nel socialismo come salteresti nel letto?

— Sicuro.

— Bravo. E come faresti?

— Con la rivoluzione.

— Sicuro. E chi deve fare la rivoluzione?

— Il popolo.

— Benissimo. Dunque tu sei il popolo... non l'hai detto poco fa?... tu sei il popolo... ma sei vigliacco e la rivoluzione non la farai!

— Lo dite voi!

— E chi deve dirlo? Chi non ti conosce?

— Del resto voi eravate della mia idea.

— Non dico di no; e potrò esserlo ancora se le nespole saranno mature. Ma io so ragionare e tu non capisci niente. Io so che cosa vuol dire: — fare la rivoluzione. — Ma tu, se senti solo un petardo, con rispetto parlando, te la fai addosso!... È vero o non è vero?... Va' là, mascherina!... Poi che cosa sai tu di Nazione, di Stato, di Politica, di Rapporti Internazionali, di Equilibrio del Mediterraneo e di tutti questi cacumi?... Che cosa ci capisci in tutta questa chincaglieria?... Povero merlo!... Fai la Rivoluzione! E poi?... Quando hai buttato in terra una colonna dove l'hai la colonna nuova da mettere a posto?... Vorresti andarci tu a comandare? Tu, il popolo?

— Che cosa c'entra?

— C'entra benissimo, c'entra!

— Ma non è vero.

— È tanto vero che, se non stai zitto, ti dò un calcio tale che il secondo te lo dà il muro!

E Rigaglia non rifiatò.

Il Cavalier Mostardo soleva conchiudere così le discussioni che non gli andavano a genio.

Erano per la strada; proseguirono di buon passo senza più far parola. Quando furono alla porta dell'osteria del Gallo, Mostardo trasse Rigaglia nell'ombra e incominciò a parlare.

— Tu lo conosci Borgnini, non è vero?

— Sì.

— Be', Borgnini è là dentro con i suoi uomini. Queste sono dieci lire... Vai, bevi, stai attento a ciò che dicono e vieni fuori a ripetere quello che hai sentito. Va bene?

— Sì.

— Io ti aspetto sotto il campanile della piazza. Voglio sapere dove vanno questa notte. Hai capito?

— Sì.

— Allora siamo intesi.

E il Cavaliere si avviò per l'ombra della strada con l'Affogato, mentre Rigaglia entrava nell'osteria.

Mostardo e i sozii aspettarono una buona mezz'ora. Rigaglia non ritornava. Il tempo era prezioso.

Già il nostro Cavaliere stava per mandare in ricognizione il Mosca, quando dall'ombra della grande piazza si udì giungere un sibilo acutissimo. Tutti si inorecchirono.

— Che cos'è questo?

— Poi una voce domandò:

— Ci sono ancora?

E un'altra, più lontana, rispose:

— Sì.

Allora Mostardo si avviò verso il cuore della Piazza e disse:

— Sono dei nostri!

Aveva riconosciuto le voci. Poco dopo, eccolo a parlamentare con Bucalosso.

Bucalosso e i suoi figliuoli erano fermi in mezzo alla piazza, in pieno assetto di guerra.

— Cosa fate qui? — domandò Mostardo.

Mazzini, detto la Vigna, si fece innanzi perchè era quello che prendeva sempre la parola quando la famiglia dei molossi era riunita per ragioni di partito. Mazzini disse:

— Aspettiamo Danton. Danton è all'osteria del Gallo e deve darci il segno quando Borgnini e i suoi uomini prenderanno la strada delle campagne.

Soia stato di parola? — domandò Bucalosso.

— Bene! — fece Mostardo e rimase pensoso.

Doveva o non doveva lasciarla a Bucalosso l'impresa di sorvegliare Borgnini? E se quel beccaio gli combinava una strage? Perchè non bisognava escludere tale possibilità dato l'uomo e la figliuolanza. Però gli sarebbe tornato comodo disimpegnarsi da tale faccenda e dedicarsi ad un compito diverso. Daffare ce n'era per mille. Allora gli venne in mente di parlamentare col rappresentante della famiglia.

— Mazzini — disse. — Voi mi sembrate un giovane come va...

— Si fa quel che si può...

— Lasciatemi dire!... Mi sembrate un giovane come va ed io voglio, da voi, una promessa.

— Anche cento!

— Vostro padre lo conoscete meglio di me: se perde il lume dagli occhi non c'è più Signore che lo tenga, e voi capite, Mazzini, che in queste circostanze, la prima cosa da aver bene a posto è la testa!

— Ben detto! — fece Mazzini.

— Dunque... io, di Bucalosso, non mi fido troppo...

— Perchè non mi conosciete!... — fece Bucalosso.

— State zitto, babbo! — mormorarono i figli.

— In quanto a questo vi conosco benissimo! — riprese Mostardo. — E, appunto perchè vi conosco, voglio dare la responsabilità della spedizione a Mazzini. Accettate Mazzini?

— Accettato! — rispose il giovanotto.

— Bene. Allora io ero qui coi miei uomini per sorvegliare quello della seta... Voi sapete di chi parlo!

— Ci capiamo!

— Io non me ne occupo più. Lascio la cosa a voi, Mazzini. Mi garantite la massima prudenza e mi promettete di non sparare proprio se non sarete costretti a farlo?

— Mostardo, lasciate fare a me.

— Mi date la vostra parola?

— Ecco la mano!

— Va bene. Ora sono tranquillo.

Bucalosso, dopo tutto, gongolava perchè il vedere così apprezzato un suo figliuolo, provocava la soddisfazione sua più intima, tanto che disse:

— Eh?... Che figli ho me?

In quella si udì un altro sibilo dal fondo della Piazza e il rumore di una corsa.

— È Danton! — fece Mazzini.

Infatti, poco dopo, appariva l'ombra trafelata di Danton.

Disse:

I va vi!... Bsogna fe' prest!... (Vanno via!... Bisogna far presto!...).

— Forza! — gridò Mazzini che era ormai il comandante la spedizione.

Avevano, tutti quanti, il fucile, la bicicletta e un coltello alla cintura. Saltarono sulla macchina leggera e incominciarono a pedalare a gran furia. Ultimo rimase Bucalosso che era piuttosto corpulento e non trovava un pedale. Per un poco strepitò, poi, sbuffando come un toro, si cacciò nella notte dietro l'ombra dei suoi figli.

Il Cavalier Mostardo si fregò le mani. Anche quella era fatta. Ora bisognava pensare alla parte sua.

Nel cielo c'eran le stelle e il campanile della Piazza col pi grande pareva facesse la guardia alle lucciole del cielo altissimo.

C'erano molte stelle quella notte e al Cavaliere venne fatto di guardarle. Poi faceva dolco. Poi si sa che anche nel cuore di un uomo in lotta c'è sempre un angolo di pace dove può rifugiarsi una cosa diversa. Questa diversa cosa fu per il Cavalier Mostardo, quella notte, Ninon Fauvétte, fior di Parigi.

Guarda che bel seren con quante stelle!

Questa è la notte da rubà le donne...

Canticchiò e vide Sirio che civettava in mezzo al cielo come un pavone. Le stelle... il cuore... la dolcezza dell'aria... Ninon Fauvétte, fior di Parigi... Già, i baci di lei sapevano un poco di glicerina (curiosa!...); però aveva una bocca tale che avrebbe fatto perdere cinquanta staffe, anzi tutte le staffe del mondo! Una donna da mangiarla a grandi bocconi, come una pietanza golosa.

Chi ruba donne non si chiaman ladri...

Si chiaman giovinotti innamoratiiiii...

Questa volta cantò a tutta voce. La gran civetta del cielo, Sirio, gli brillava proprio nel centro del cuore.

— Ragazzi, sono qua!

— Andiamo?

— Un momento...

Si dette a pensare. Da dove avrebbero incominciato?... Gli nacque all'improvviso un'idea luminosa, perchè aveva sempre in mente Ninon Fauvétte, fior di Parigi.

— Ragazzi, questa notte bisogna far paura ai socialisti!

— Bene! — esclamarono i sozii.

— Terrete fermo?

— Sì!

— Posso fidarmi?

— Sì!

— Vogliamo andare dai contadini rossi!

— Andiamo!

— E avranno a che fare con noi. Un giallo val sempre tre rossi!

— Altro!

— Per Bios!...

Detta la quale ultima cosa come suggello di convinzione e di matura riflessione, il Cavaliere partì pedalando forte, seguito dal serrato gruppo dei sozii.

Eccoli per la campagna. Case buie e raccolte; strade deserte, con solo le ombre degli olmi.

Il Cavaliere faceva da battistrada; era un ciclista di prim'ordine. In certi campi c'erano ancora i covoni; in certi altri solamente le stoppie. Sotto il bagliore delle stelle luceva, per le grandi distese, un oro pallido.

Mostardo e gli uomini suoi, pedalavano senza parlare. A volte, sotto l'ombra dei canepai, si udiva il subito pigolìo di qualche uccello spaventato. Da lontano, da una distesa di lupinelle, arrivò il verso di una quaglia. Poi un abbaiar di cani, intermesso dalle aie deserte.

La strada era lunga. Mostardo voleva arrivare al podere dei Casaròtt.

Proseguivano così, da mezz'ora, senza parlare, curvi sul manubrio della bicicletta, intenti a schivar le carreggiate, quando, superata appena una curva della strada, erano vicini ad una macchia di roveri, udirono una voce che gridava:

— Alt... Chi va là?

In un battibaleno furono tutti a terra; il fucile spianato.

Il Cavalier Mostardo, sorpreso dall'improvviso arresto, non seppe a tutta prima che rispondere; poi, fattosi innanzi in mezzo alla strada, gridò:

— Chi siete?

Il silenzio regnò, questa volta, dall'altra parte; e non si vedeva nessuno.

— Gialli o rossi? — domandò ancora Mostardo.

Uguale silenzio.

— Repubblicani o socialisti?

Niente! Allora il nostro Cavaliere perdette la calma che si era imposta.

— O rispondete, o spariamo!...

In quell'istante si vide un'ombra sorgere dal fondo di un fosso e tentare di darsela a gambe; ma una prima schioppettata partì, alla quale fece seguito un grido di dolore:

— Ahiahi!... Ahiahi!...

Mostardo si lanciò innanzi, seguito dalla masnada. Un uomo era sdraiato sul margine del fosso, la faccia sulla polvere, e si lamentava, una mano su quella parte del corpo che si chiama più nobilmente sedere, appunto per l'uso al quale serve.

— Chi sei? — gli domandò Mostardo.

Lo sconosciuto continuava a lamentarsi senza dar segno di avere inteso.

— Dove sei ferito?

— Non lo vedete? — disse il Cieco di Civitella. — La mano non l'ho mica sul cuore!...

— Si tappa là dove sente male! — aggiunse lo Stangone.

E il Secco:

— Avete fatto un bel centro!...

Il Cavalier Mostardo che si era chinato sul ferito, si rizzò, e, rivolto al Secco, disse:

— Accendi la lanterna cieca.

Fu fatto. Ma anche quando la rossa luce della lanterna investì l'uomo disteso e dolorante, non venne fatto di ravvisarlo di un subito. Lo sconosciuto si ostinava a nasconder la faccia. Allora il Secco gli si accostò e, costrettolo a piegarsi da lato, lo investì in pieno con il suo fascio di luce.

Primo a riconoscere il ferito fu il Cavalier Mostardo, il quale, fra il gaio e il dubbioso, si domandò:

— Ma non è il conte Polpetta?...

— Sì!... È il conte Polpetta!... — gridò la masnada e scoppiò in una risata sonorissima.

Allora, vistosi scoperto, il povero conte pensò che era, per lui, cosa assai migliore quella di non starsene più supino sulla strada, sì che, levatosi, prima in ginocchio, poi sulle tremanti piote, senza pur mai distaccar la mano dalla parte lesa, ristette pien di dubbio e di timore dinanzi a coloro che egli riteneva fierissimi nemici, pronti a fare di lui lo scempio più orrendo.

E così stando, senza trovar parola, continuava nella sua dolorante solfa:

— Oh Dio... Ahiahi!... Ahiahi!... oh Dio!

I sozii, immensamente divertiti dallo inatteso episodio, non la finivano dal ridere. Fu Mostardo che, imposto il silenzio alla masnada, si fece più vicino al conte Polpetta e gli domandò:

— Ma vi ho fatto, dunque, tanto male?

— Oh Dio... sì!

— Dove?

— Qua...

— Nel didietro?

— Credo di sì!

— Fate vedere. Vi cureremo.

Il conte Polpetta si ritrasse pien di spavento.

— No... per carità! Non fate!...

— Ma perchè avete tanta vergogna? Non siamo tutti uomini?

— Io non posso!...

— Non potete?...

Fra l'abbaiar dei cani e le risate dei sozii pareva festa grande.

— Perchè non potete?... — riprese Mostardo. — Avete i calzoni in muratura?

— Non posso!... Oh Dio... ahiahi!... Non posso...

— Via, meno smorfie! — fece Mostardo muovendo un passo innanzi. — Se vi ho ferito, voglio vedere l'entità della ferita.

Allora il conte Polpetta atteggiò la faccia a tale smorfia di comico terrore che anche il Cavaliere non potè trattener le risa.

— Andiamo, conte!... Siete o non siete un uomo?...

Il conte Polpetta, rassicurato meno che mai, continuava a nicchiare.

— Vi assicuro — continuò Mostardo — che nessuno vi torcerà un capello. Ve ne dò la mia parola d'onore. Via... comportatevi da uomo!

— Ma un par mio, non può offendere il proprio pudore anche per una ferita mortale!...

Eccelso fu il baccano che seguì alla risposta del nobile Polpetta e ciò che disse la brigata non è decentemente riferibile. Certo che se Mostardo non avesse comandato ai sozii, il povero nobile avrebbe passato un brutto quarto d'ora; ma il Cavaliere si impose e la cosa non ebbe il seguito che già lo sventurato conte Polpetta si attendeva. Nè ingiustificato era il suo timore, perchè la masnada aveva già lanciato il grido:

Facciamolo Papa!

E sapeva ben lui quale scherzo si fosse quello di far Papa un pover'uomo! Basti dire che le parti le quali entravano in giuoco erano fra le più delicate e preziose, nonchè vergognose.

Il conte Polpetta la scampò perchè il Cavalier Mostardo non volle fosse fatto pubblico scempio dei più o meno utili accessori del povero nobile e di tale delicata attenzione il suddetto Polpetta si mostrò grato al suo protettore, tanto da perdonargli la schioppettata, che si era avuta, d'altra parte, il suo fiero e sconsiderato coraggio.

Quando il duce ottenne un po' di calma; quando tacquero le risate e i lazzi osceni, l'interrogatorio ricominciò:

— Ebbene, se non volete mostrarmi la ferita, salvo sempre il vostro pudore, vorrete almeno dirmi che cosa facevate a quest'ora in campagna e perchè ci avete dato l' alt, chi va là!

— Ho difeso il nostro grano — rispose il conte Polpetta.

— Il vostro grano?... E dov'è?... Avete dei poderi, voi?

— Io no; ma la comunità...

— E che cos'è la comunità?

— Sono i nobili dell' Isola Felice!

— E voi siete il loro amministratore? — domandò Mostardo.

— Io, sì!

— E... scusate se non vi capisco... da chi volevate difenderlo il vostro grano?

— Dai socialisti.

— Bene. Ma, col coraggio che avete, che cosa pretendevate fare, se fossero venuti i rossi?

— Ero deciso a tutto!

— Infatti si è visto! Ma non importa; questo riguarda solamente voi. Ora ditemi un'altra cosa. Con quali macchine volete battere voi? Con le macchine gialle?

— No.

— E allora?

— Noi vogliamo battere coi coreggiati.

Il Cavalier Mostardo spalancò gli occhi e chiese curvandosi un poco per intender meglio:

— Che cosa?...

— Sì, i coreggiati che sono poi le vostre cerchie...

— Volete battere con le cerchie? E come si chiamano i vostri contadini? E quanto grano raccogliete?

— Tre staia!

Povero modesto conte Polpetta, con le sue tre staia di grano!... Un'altra tempesta di risa lo stordì.

Ma il Cavalier Mostardo non rise più, d'improvviso avvertì la tragica miseria di quel povero uomo che si condannava, nonostante la sua tremenda paura, a passar le notti all'aperto a guardia della sua poca sementa, la quale gli rappresentava forse lo scarso pane di tutto l'anno; che sfidava le ire dei rossi e dei gialli e fermava i pattuglioni, da solo, raccogliendone le belle conseguenze che stava esperimentando, e non volle che nessuno più si prendesse giuoco di lui. Divenne implacabile; sentì che aggiungere la beffa e lo scherno a quella povertà che tentava coprirsi degnamente con gli ultimi suoi cenci, era vile, e da assalitore si tramutò in protettore. Il senso di giustizia che regolava ogni sua azione non poteva consentirgli di veder maltrattato un povero e un debole, si chiamasse pure conte Polpetta. No, si doveva rispettare la misera creatura a guardia di un mucchietto di grano e, per far valere la volontà sua cisa, incominciò con l'afferrare il Cieco di Civitella, il quale accostatosi al povero conte, si divertiva a punzecchiarlo e a fargli paura, e, afferrato che l'ebbe, a gettarlo lungo disteso in mezzo alla strada.

Il silenzio fu immediato. Allora Mostardo parlò.

— Se non foste figli di buone donne e se aveste un cuore, dovreste fare di volontà vostra quello che farò io e cioè prendere sotto la vostra tutela il poco grano di questo magro galantuomo. Se non lo farete vi mantenete pezzi da forca come siete sempre stati fino ad oggi. Avete capito?... Perchè qui non c'è più partito, qui c'è solo un cacume! A me non importa sapere come si chiami questo signore: è un povero diavolo! Volevate farlo Papa! Guai a chi si proverà! Dovete sapere che, da oggi, il conte Polpetta è sotto la mia protezione. E basta!

L'ha rasôn! — mormorarono i sozii.

— Sicuro che ho ragione! Che cosa sono tre staia di grano? Non rappresentano neppure il pane per un anno! Poi guardatelo!... Questo è il coraggio del Papa!... Ti crea un nobile e lo fa morir di fame!...

In così dire, il Cavalier Mostardo aveva tolta la lanterna cieca di mano al Secco e, rivoltala sul pover'uomo, lo illuminò in pieno.

Il conte Polpetta abbassò gli occhi.

Allora lo si vide tutto quanto. Vestiva una palandrana rossigna, tutta a congegnati rammendi, striminzita, slabbrata, sfilacciata ai bordi, con due bottoni mancanti. E camicia non ne aveva, ma portava, con dignitosa cura, un colletto di gomma e un fazzoletto nero che gli teneva ufficio di cravatta e di camicia coprendo quel poco di sparato che la palandrana non poteva coprire. Naturalmente tale colletto, non avendo nessun punto di presa, gli saliva verso la nuca e il povero conte era costretto, a quando a quando, a rimetterlo a posto. I pantaloni avevan le frangie e, per quanto tentassero raggiungere le scarpe, non vi riuscivano, tantochè fra il loro finire e il cominciar della scarpa rimaneva lo stinco ignudo perchè di calze il povero conte non ne aveva. Aveva però le scarpe che erano una rovina veneranda non serbando intatti se non i tiranti che sporgevano come due speroni fuori posto.

Compiva l'abbigliamento una vecchia paglietta rosicchiata dai topi.

Sulla lunga e spettrale magrezza di codest'uomo non erano altri indumenti.

La sua povera faccia rossigna e scarnita non era contrassegnata che da un lunghissimo naso e da un pizzo grigio tenuto con ogni cura. Due occhietti affondati nell'orbita, sotto due folte sopracciglia caratterizzavano quel suo volto fra malinconico e spaurito, con lampi di vecchio orgoglio, soggiogato ormai dalla troppa povertà e dal troppo timor della vita.

Tale era il conte Ildebrando Poldi, detto altrimenti il conte Polpetta.

— L'avete veduto? — domandò il Cavalier Mostardo. — E vi pare sia giusto maltrattare quest'uomo?

L'ha rasôn! — mormorarono i sozii.

— Sicuro che ho ragione! — Poi, rivolto al conte Ildebrando, domandò: — Dove sono le vostre terre?

— Sono qui.

— Quanti campi sono?

— Un campo e mezzo.

— Chi lo lavora?

— Siamo in quattro!

— E vi dividete tre staia di grano in quattro?

— No, in venticinque!...

— Hai capito? — gridò Mostardo. — E siete in venticinque a mangiare, solo con questo po' di roba?

— Sì... ma ci si arrangia.

— Vivete insieme?

— Sì. Nel teatro.

— Nel teatro?...

— Non lo sapete? — domandò il conte Ildebrando, pieno di meraviglia. — Come?... Se è un'invenzione mia!

— Un'invenzione? — domandò Mostardo.

Ma la parte lesa continuava a dolorare al povero Ildebrando il quale, senza pur mai distaccarne la mano, usciva a quando a quando in un appenato:

— Oh Dio... Ahiahi!...

Però non era tanto schiavo del dolore che, posto di fronte a quella che egli chiamava « la sua invenzione », non si risentisse tutto, inalberandosi come un cavallo di buon sangue.

— Voi sapete — riprese il conte Polpetta di fronte alla masnada che ascoltava muta — sapete come la borghesia abbia creato i suoi becchini; questo l'ha detto Marx. E Proudhon che cosa chiede al proletariato?... Di avere un'idea e di saperla realizzare. Ecco il fulcro!... Per cui... Realizzare un'idea vuol dire far camminare il popolo. Il popolo è contro alle caste, e il popolo è la verginità della natura... Ebbene noi, discendenti dell'aristocrazia, diseredati e paria, ritorniamo in seno al popolo; noi portiamo il nostro tesoro mentale ad ausilio del popolo, noi prendiamo la luminosa idea e ne facciamo una realtà contingente. Nobili di nascita, teniamo alla nostra nobiltà la quale si rinverginizza in un principio di comun bene. La nostra idea non è nuova: è nata da trenta secoli!... Ma questo non monta. Trenta secoli per un'idea sono come cinquecentomila anni nella storia della terra! Un sospiro... Per cui!... I più bei genii dell'umanità, da Minosse a Pitagora; da Campanella a Owen sono con noi. L'inevitabile palingenesi sarà nel comunismo. Con la scuola del Lussemburgo noi ci dichiariamo contro qualsiasi « aristocrazia delle capacità » sempre dannosa come certissima fontana di nuove disuguaglianze. Noi, pur serbando l'avita nobiltà come ultima innocua tradizione, anzi come segno di novella aurora, ci schieriamo coi Platoni, coi Cabet, coi Sismondi, coi Saint-Simon, infine con il prodigioso insuperabile Carlo Fourier... per cui!... Carlo Fourier ha ideato il falansterio ma gli uomini, al suo tempo, non erano maturi per la realizzazione di questa divina trovata. Noi siamo maturi! Noi abbiamo il nostro falansterio e, da dieci anni, viviamo avendo tutto in comune... Sì, anche la donna!... Anche la donna!...

Il Cavalier Mostardo stava gonfiando le gote, però, volendo serbarsi nella linea pura del suo dispregio per tutto ciò che non riusciva a intender bene, mormorò:

— Ho capito. Anche voi siete uno della Cattedra!

— Io sono un innovatore! — ribattè il conte Ildebrando.

— Ma scusa, che cosa rinnovi, se hai detto che da trenta secoli le tue idee passeggiano per le piazze?

— Sì da trenta secoli e Cristo è con noi!

— Quale Cristo?

— Gesù di Galilea. Uno dei Santi Padri del comunismo.

Il Cavalier Mostardo si limitò a stringersi fra le spalle e a rispondere:

— Avrai anche ragione, ma siamo sempre fra le quisquilie della Cattedra.

— Ecco l'esempio — riprese il conte Ildebrando. — Eravamo tutti poveri; ora abbiamo fondata l' Isola Felice. Con le nostre forze unite diamo insegnamento. L'idea fu mia. La contessa Penelope Tompinelli possedeva un vecchio teatro chiuso al pubblico da una trentina d'anni: il teatro dei Battuti verdi; e la contessa non aveva altro e con quello non poteva vivere. Allora io pensai: — Ebbene vivrà su quello e con lei vivremo quanti siamo, paria della classe nobiliare. Detto teatro era affittato come magazzino. Lanciai l'idea fra i miei consimili nel nome di Carlo Fourier e per la Grande Idea. Fummo molti ben presto. Ciascuno portò ciò che aveva: danaro, terre, oggetti. Ora siamo venticinque e possediamo un campo e mezzo e molte altre cose. Cioè non possediamo niente. Noi si scompare nella Comunità. E il Teatro dei Battuti verdi è stato ribattezzato l' Isola Felice. Cavaliere, io vi prego, in nome mio e de' miei compagni, di volerci onorare della vostra presenza.

— Va bene. Verrò, — rispose Mostardo. Poi fu ripreso dalla sua spensierata gaiezza e soggiunse: — E, di grazia, il vostro pudore non vi fa più male?

— Mi fa male, sì — disse il conte Polpetta; — ma, per me, è una gloria!

— Sarà una gloria; ma non diremo abbia scelto un bel soggiorno!

— I miei compagni potranno vedere che ho difeso i beni della comunità... per cui...

— Ben detto, caro conte!... Allora qua la mano e... senza rancore, non è vero?

— Senza rancore!...

— E... se qualche giorno... che so... non mi sembrate proprio grasso come un parroco!... Se qualche giorno aveste bisogno del Cavalier Mostardo, ricordate che Mostardo ha un debito con voi.

— Un debito? E quale debito?...

— Sì, quello di avervi offeso nelle parti vereconde, salvo sempre il vostro pudore! Dunque se può occorrervi qualche cosa, sapete dove sto.

— Grazie! — rispose Ildebrando dei conti Poldi. — Tante grazie.

— Ed ora addio. E state attento, con la gente che batte in queste notti le campagne! Volete un mio consiglio disinteressato?

— Dite.

— Prendete su il vostro trent'uno e filate verso casa. E cercate di seguire le vie traverse perchè, e Dio non voglia, se vi incontrate con la compagnia di Bucalosso o con quella di Borgnini, possono essere guai seri. Un Cavalier Mostardo non lo trovate mica dappertutto!

— Lo so.

— Allora vi saluto e... prudenza!

— Buonanotte.

Prima fu Mostardo a salire in bicicletta poi gli altri si avviarono dietro il duce, non senza prima aver lanciato un saluto al conte Ildebrando.

Questi per un attimo restò solo, la mano sulla sua ferita, fermo sul margine di un fosso; poi, come udì sopraggiungere, da non molto lontano, un suon di voci, non seppe nè più volle saper niente nè di terre, nè di grano, nè di comunismo; ma, trovata una inconsueta agilità, saltò il fosso di un solo balzo, e, forzata la siepe, fuggì a tutta corsa pei campi come se avesse alle calcagna una muda di molossi.

Conchiuso che fu l'incidente col conte Ildebrando e cessati i commenti varii sull'impallinatura che aveva convertito il didietro del campione comunista in una rosa di tiro, la comitiva proseguì in silenzio per la sua destinata strada e il Cavalier Mostardo battè il passo alla virtuosa canaglia.

Si erano dilungati dalla città del Capricorno e avevan sentito giungere sul vento i tocchi della campana della Torre del Comune. Suonava la mezzanotte.

— Giungeremo in tempo — disse Mostardo.

— Sì, ma saranno tutti a letto! — ribattè il Cieco di Civitella.

— Magari!... Ma non aver paura, chè li troveremo a guardia dell'aia.

La campagna odorava forte. La brezza notturna aumentava la lena dei pedalatori. Sarebbe stato un bell'andare così, per le strade dei campi, nella dolce notte di giugno, se il cuore fosse stato in pace, se non si fosse dovuto pensare ad altro che a godersi quelle ore di vita placida fra stelle e grilli, in un disteso riposo. Ma era ben altro il compito di Mostardo ed egli doveva porre, nel suo preventivo di battaglia, anche la possibilità di buscarsi una bella schioppettata nel petto e di andarsene via rantolando, verso un qualsiasi fosso ad esalarvi l'animaccia sua. Quella sua animaccia che aveva sfidato tante volte la morte nell'America del Sud, in Grecia, in Albania sempre fedele all'Idea, alla Santa Carabina, all'Umanitarismo.

Libertà, libertà per tutti e abbasso i Troni e gli Altari!

Ah, giovinezza su metereolitica, per le atmosfere delle varie terre! E perchè aveva voluto combattere per gli altri, perchè si era offerto disinteressatamente solo per il trionfo dell'Idea, era stato maltrattato da coloro che avrebber dovuto accoglierlo come un fratello. Mondo cane! E una volta, sì, aveva steso di traverso due greci, e aveva stretto la mano a un turco (c'era anche Rigaglia!), ma il turco era un galantuomo e i due greci avevan preso Mostardo per qualche insensato di alta montagna.

Be', ma quelli erano altri tempi, altre vicende erano, e si partiva per morire. Che cosa importava la pelle?... Anche la morte poteva entrare nella piazza del cuore, allora, ma vestita di bianco, la moscardina! e avvolta nella bandiera rossa.

Erano i giorni in cui si andava sotto al muso ai questurini a cantare:

Trento, Trieste!...

vogliam marciar!...

Trento, Trieste!...

vogliam marciar!...

Con il focilo!...

E si marciava, per Bios!... E come si marciava!... Lui si era buscato tre ferite di prim'ordine e a Rigaglia mancavano due dita della mano sinistra, un orecchio e un accessorio di cui si farà parola in seguito. Non occorreva indagare come Rigaglia avesse perduto tali parti della sua degna persona; il fatto si era che non le aveva più. Aveva seminato un po' del suo corpo dall'America del Sud alla Albania, sempre a contraggenio; ma l'aveva seminato. Solo dopo i trent'anni era diventato quello sporco versipelle che si manteneva tuttavia!

Bene... ma adesso?... I Casaròtt... lo sapeva ben lui che razza di gente fossero i Casaròtt! Si erano buttati con la Camera rossa; erano socialisti anarcoidi. Bei mezzadri, che non capivano neppure la necessità economica di rompere il blocco e di separarsi dai braccianti!

— Vuoi stare coi rossi? Te ne accorgerai nel dormire!

E fra poco, certo, avrebber dovuto fare un bel fumo perchè erano schioppettate immancabili.

Alla fin delle fini poi, gli sarebbe importato ben poco; ma Spadarella? Povera la sua lodoletta, in fondo al bianco giardino fra le torri medioevali!

Perchè nei punti culminanti della sua vita, quando si avvicinavano le ore che potevano essere anche quelle che segnano il punto fermo e per sempre, egli ridiventava lo zio Giovanni, il grande e buono e semplice zio Giovanni nel giardino della sua piccola bella.

— Bene, se la scamperò — si disse — e se la lotta politica mi darà un po' di respiro, questo agosto voglio condurla per quindici giorni a Rimini, chè faccia un po' di bagni di mare, povero uccellino!... E che canti per la contentezza!... Anzi domani voglio dirglielo... domani voglio fare colazione con lei...

Frattanto pedalava senza sapere ormai più dove andasse, quando una voce venne a toglierlo dal suo sognare e a ricondurlo alla dura realtà dell'ora.

— Mostardo, ci siamo!... — Era il Giovinaccio che aveva parlato.

Il Cavalier Mostardo si riscosse e scese dalla bicicletta.

— Dov'è la casa?

— È laggiù, fra le roveri.

— Va bene. — E rimase un attimo sospeso, chè pensava a un piano di attacco.

Gli sarebbe convenuto più assalire o parlamentare?

Optò subito per la seconda misura, giudicandola più civile, pur disponendo gli uomini in modo da esser pronti all'assalto, se il parlamentare non avesse ottenuto il risultato che si era proposto e cioè l'intimidazione.

Chiamò i sozii e dette loro l'ordine di appostarsi vicino all'entrata dell'aia e lungo le siepi della medesima; poi avanzò solo ed entrò risolutamente non senza guardarsi intorno e tenersi pronto a sparare.

Un gran silenzio. Pareva, in verità, che la famiglia dei Casaròtt fosse immersa nel sonno più profondo. Muta la casa e buia; neppure il cane abbaiava. Ciò lo insospettì. Egli sapeva che i Casaròtt avevano un can da pastore che era una bestia feroce; sapeva che dovevano tenerlo quasi sempre alla catena per evitare serii guai: ora dov'era il famigerato Reno, il quadrupede mordace? Era possibile se ne fossero disfatti nei giorni in cui poteva esser loro più utile? Allora, invece di procedere, retrocesse tenendosi sempre pronto a sparare e, come fu sull'entrata dell'aia, gridò:

— O gente?... Uomini della casa?...

Sulle prime non udì risposta; udì ad un tratto, il sordo mugolìo di Reno e vide gli occhi fosforescenti del cane, fra verdastri e rossigni, a cinque passi di distanza.

— Va alla cuccia!

Reno gli girava intorno senza abbaiare.

— Uomini della casa?... Chiamate il cane o l'ammazzo!...

Nessuno rispose. Allora Mostardo puntò gli occhi rossi e sparò. Come era di intesa, al primo risposero gli spari dei sozii. Il fuoco di fucileria durò qualche secondo. Nonostante tutto l'aia rimase deserta; la casa muta.

— Per Bios! — pensò Mostardo — Qui vogliono farcela grossa!

Mandò un fischio di intesa; susurrò un:

— Attenti ragazzi!

Ed appena ebbe il tempo di acquattarsi dentro un fosso, che una diecina di schioppettate gli miaularono intorno. Li avevano presi alle spalle. Infatti i colpi non arrivavan dall'aia, ma dai campi opposti.

Burdell i sl'ha fata!... — urlò. — Dasii sota! (Ragazzi ce l'hanno fatta!... Dateci sotto!).

E incominciò un nutritissimo fuoco di fucileria.

Fu in una pausa che il Cavalier Mostardo udì gridare dalla parte opposta:

L'è Burgnini c'ut saluta (È Borgnini che ti saluta!).

Borgnini? E dov'era Bucalosso? E quanti uomini aveva Borgnini a sua disposizione?

Così pensava, senza interrompere il fuoco di fila, quando la già ingarbugliata matassa si arruffò ancor più: i Casaròtt incominciarono a sparare dall'aia. Si trovarono fra due fuochi. Il Cavalier Mostardo aveva, da parte sua, un uomo fuori combattimento: Giovinaccio, che era ferito a una spalla. Vide subito il pericolo e prese una decisione repentina: ritirarsi lungo il fosso in modo da non essere circondato. Si gettò innanzi per primo.

— Venitemi dietro e non sparate più!

Ma il Giovinaccio non poteva camminare. Se lo caricò sulle spalle. E via!... In due salti furon lontani un cento metri dalla casa.

— Alt! — comandò Mostardo. — Non vogliamo farci prendere in trappola, ma non si deve dire che siamo scappati!

Frattanto gli altri continuavano a sparare.

— Si tirano contro! — disse il Cieco di Civitella.

Infatti non poteva essere altrimenti. Il fuoco di fucileria continuava più nutrito che mai.

— Bene! — gridò Mostardo. — La fortuna ci aiuta. Buttiamoci per i campi. Il Giovinaccio lo lascieremo qui e verremo a prenderlo dopo. Ti par di morire? — domandò rivolto al Giovinaccio.

— Morire, no; ma mi brucia!

— Abbi pazienza! Adesso non possiamo curarti. Buttati in fondo al fosso. Ti hanno fatto un buco?

— Mi hanno ridotto come un setaccio!

— Va là, che non è niente! Aspetta ancora un poco e poi ti curerò io che sono bravo! Ragazzi andiamo!

Saltarono sulla strada ad uno ad uno, l'attraversaron di corsa, si gettarono nel fosso opposto, forzarono la siepe ed eccoli nei campi. C'era un basso filare di viti e di gelsi; vi si ficcaron sotto. Gli altri sparavano sempre.

— Si ammazzano com'è vero Dio! — disse il Mosca.

Di un subito Mostardo gridò:

— Sono qua! — e si acquattò dietro un gelso. I compagni lo imitarono.

Si vedevano alcune ombre venir innanzi pian piano, quatte quatte, dietro un filare di olmi e di viti.

Poi si fermarono.

Trascorse qualche minuto nell'incertezza, poi una voce gridò, dall'altra parte:

Ripobblica!

E Mostardo rispose:

Ripobblica!

Tutti furono in piedi e vicini, in un battibaleno. Era Bucalosso con i figli suoi. Avevano smarrite le traccie di Borgnini, attraverso ai campi; ora accorrevano al rumore degli spari. Il Cavalier Mostardo, a sua volta, raccontò quello che gli era toccato; poi, con Mazzini, combinarono un nuovo piano di attacco.

Si lanciarono via per le terre arate e le stoppie. Bucalosso cadde e se la prese con le undicimila vergini del martirologio. I figli lo trasser su di peso.

— Andiamo, andiamo!

— Fermi tutti! — comandò Mazzini a voce spenta.

Il Cavalier Mostardo ansava forte.

— Te, Libero, e te, Garibaldo, venite con me!

— E noi? — domandò Mostardo.

— Lasciatemi fare.

I tre scomparvero nel buio, agili e presti. Si udiva un sommesso parlucchiare e qualche lamento. Erano i feriti della parte rossa che si era mitragliata a poche diecine di metri: da una siepe a un'aia.

Ora i sozii attendevano l'esito dell'iniziativa di Mazzini e una certa ansietà era in tutti. Non sapevano come la faccenda si sarebbe risolta e si tenevano, comunque fosse, pronti all'offesa o alla difesa.

— Che cosa vorrà fare? — domandò Mostardo.

In quel punto si udì un urlo, uno sparo e un busso di piedi che si allontanavano in corsa. Poi la voce di Mazzini gridò:

— Correte a darmi mano, ragazzi!

In un impeto subitaneo la massa si lanciò innanzi e superò di un balzo la breve distanza. Allora si vide un uomo dibattersi nella stretta poderosa di Mazzini. Le forze non erano pari ma anche il sopraffatto non era tale da lasciarsi vincere a facil giuoco e, quantunque fosse prono e abbattuto, tempestava tuttavia in una furia scomposta tentando disperatamente di resistere alla serrata morsa.

— Presto, datemi mano!

Tre uomini si lanciarono sul riverso e n'ebber ragione in un baleno. Fu trovata una corda; fu legato a doppie ritorte, poi lo levarono e lo posero sui suoi piedi.

Allora Mostardo e Bucalosso lo riconobbero: era Borgnini!

Ora l'uomo vinto si attendeva forse il dileggio e la beffa, ma i gialli voller mostrarsi civili; lo guardarono e non dissero niente; solo Bucalosso si limitò a sputare.

— Dove sono Libero e Garibaldo?

— Eccoli! — rispose una voce dall'ombra e i due molossi comparvero.

— Che cosa avete fatto?

— Li abbiam fatti scappare.

— Senza sacrifizi?

— Io non lo so... — rispose Libero.

E Garibaldo:

— Sì, uno!

— Porco Dacco!... — gridò Mostardo. — Lo sapevo. È morto?

— È laggiù! — soggiunse Libero.

— Andiamo a vedere, per Bios!... Lo sapevo!... Me ne dovevate fare una delle vostre!... E ti avevo pregato, Mazzini!...

Mazzini si strinse nelle spalle. Il Cavaliere riprese, rivolto al Secco:

— Dammi la lanterna.

Se l'ebbe, l'accese e se ne andò per le stoppie. Ed ecco, fra le stoppie, un uomo riverso che rantolava.

— Porco Dacco, l'hai ammazzato!

Il Cavalier Mostardo si chinò sul ferito e, con lui, Bucalosso che se ne intendeva. Questi stette un bel po' intento a considerar la cosa, poi, come ebbe compiuto l'esame, si levò e, passandosi una mano dalla fronte alla nuca, esclamò, rivolto ai suoi figli:

Burdéll, vni a vdè ch'bela curtlè! (Ragazzi venite a vedere che bella coltellata!...).

Così Bucalosso impartiva, ai molossi della sua famiglia, i principi di una nuova estetica.

Ora dovevano mettere a posto i Casaròtt. Era la cosa principale, nè Mostardo poteva rinunziarvi. Dalla casa, al di là della strada, non arrivava voce. Questa volta il Cavaliere non si sarebbe fermato sul limitare dell'aia: aveva con sè la muda dei molossi.

— Andiamo!

Mazzini gli si pose alle costole e Bucalosso.

Disse al Mosca e al Secco:

— Voi rimanete qui con questo galantuomo — e indicava l'impacchettato Borgnini. — Se urla mettetegli uno spino nel sedere.

Disse quest'ultima cosa ridendo come se avesse avuto una bella trovata di nessuna importanza e se ne andò.

Eccoli all'uscio della casa dei Casaròtt. Ormai Reno non poteva più far paura. Aveva raggiunto Cerbero nel lontanissimo paese delle larve. Mostardo picchiò ben forte all'uscio.

— Ehi, dalla casa?

Si udì un tramestìo al piano superiore e voci dispente di donne impaurite.

— Volete aprire o no?

— Volete che vi bruciamo i pagliai? — soggiunse Bucalosso.

Vo' stasi zett, babb! (Voi state zitto, babbo!) — Ammonì Mazzini.

Una rossa imposta, al piano superiore, si aprì.

— Cosa c'è? — domandò una voce maschia.

— Venite di sotto che vogliamo parlarvi — disse Mostardo.

— Ma che cos'è che volete?

— È meglio veniate di sotto!

L'altro si ritirò e chiuse la finestra bestemmiando.

— Sì, fa il cattivo e poi vidarai! — esclamò Bucalosso.

— State zitto, babbo! — riprese Mazzini.

Si udì un passo per le scale, poi i serrami dell'uscio venner rimossi. Giungeva sempre, dall'interno, il fiottìo delle femmine terrorizzate.

L'uscio si aprì e apparve Giuseppe di Casaròtt, il capoccio.

Era un omone nero e squadrato a disgrazia, con certe mani scimmiesche ed irsute da sembrar arnesi da fucina.

Egli non appariva nè turbato, nè intimidito. Sostava da padrone sulla soglia di casa sua, guardando i sopraggiunti più con aria di sfida che con remissione. Fu il primo a parlare.

— Be' che cosa volete?... Che cosa avete da dirmi?

— Non ci conoscete? — domandò a sua volta Mostardo.

— C'è poco da conoscere!... Che cos'è che volete?

— Non importa alziate la voce. Sarà meglio per voi se vorrete ragionare.

— Allora ragioniamo!

Jusèf, voi non siete dei nostri e avete torto... — riprese Mostardo.

— Che cosa vuol dir questo? — fece l'irsuto.

— Vuol dire che siete un contadino e che non lavorate per il vostro bene.

— Perchè?

— Perchè state coi rossi e i rossi non possono fare il vostro interesse. Scusate, Jusèf, voi non siete nato ieri, non è vero? E allora perchè non voler capire che i socialisti vogliono distruggere la classe dei contadini?

— Questo lo dite voi!

— Lo dice chi ne capisce più di te e di me che siamo due ignoranti. Povr'insansé! Povero insensato, ma non vedi che vogliono distruggere la mezzadria per avervi in mano tutti quanti?... Non lo vedi?... Domani se dai retta ai rossi perderai il fondo e diventerai un bracciante come tutti gli altri, un salariato!

— Non è vero!

— Bella risposta! Cosa vuol dir — non è vero? — Vuoi saperne più di me, tu che hai tenuta sempre la zappa fra le mani?

— Verrà anche la mia volta!

— Sicuro! Che cosa ti credi di poter fare, il vescovo, domani?

— Farò quello che devo fare contro i signori!

— Questa è un'altra faccenda! Tu adesso parli di giustizia. Per i signori siamo d'accordo tutti quanti. Ma oggi come oggi...

L'irsuto lo interruppe bruscamente:

— Ma vorreste forse farmi cambiare gabbana?

— Si parla per il vostro bene — fece Mazzini.

— Al mio bene ci penso io.

— Ma non capisci niente! — replicò Mostardo.

— Peggio per me. Avete finito?

— Dammi retta, Giuseppe... — ora non lo chiamava più dialettalmente, per dare alle parole un valore più cattedratico — non fare il testardo...

— O volete saperla?... — scattò a dire l'irsuto — Io faccio quel che mi pare e batterò il mio grano con le macchine rosse!

— Ah, è così che parli? — ribattè Mostardo pien di veleno — E allora vedremo se ci riuscirai!

— Nella mia aia comando io!

Bum! — fece in coro la compagnia dei molossi!

— Ed io ti dico — riprese Mostardo — che se una macchina rossa entra nella tua aia, tu vai a ridere con le lucertole nel camposanto.

— State attento di non arrivarci prima voi!

— Non aver paura, galantuomo!

Vói, burdèll!... (Ehi, ragazzo!...) — gridò Bucalosso e si era già scagliato all'assalto; ma l'altro fu pronto a serrare la porta e a barricarsi dentro. Si levò un coro di contumelie all'indirizzo di Jusèf. Bucalosso propose di appiccare il fuoco a tutti i pagliai. Mostardo non volle. Attraversarono l'aia; ritornarono dove li attendevano gli altri sozii. Come ebbero superata la siepe, furono colpiti da un lamento sommesso; però chi vi pose mente fu Mostardo. Arrivato al punto di sosta della brigata, non tardò ad accorgersi che chi si lamentava non era altri che l'impacchettato e cioè il suo avversario politico e nemico acerrimo Epaminonda Borgnini. Gli si accostò e chiese ai presenti:

— Che cos'ha fatto?... Perchè si lamenta?

I sozii dieron nel ridere.

— Rispondete! — gridò Mostardo. — Che cosa gli avete fatto?

— Quello che avete detto voi! — rispose il Secco.

Mostardo allibì. Si rammentò delle parole che aveva pronunciato scherzando... ma la maramaglia le aveva prese sul serio. Allora, aperta la lanterna cieca e chinatosi a guardare, potè convincersi che il lamento di Borgnini non era ingiustificato. Gli avevan empito il didietro di spine razze.

Furono unite, a due a due, sei biciclette e così si improvvisarono tre barelle; in una di queste fu deposto Borgnini; nelle altre presero posto i feriti. E la masnada ritornò, gloriosa e trionfante, alla Città del Capricorno.

— Che ne faremo di Borgnini?

Mostardo non rispondeva.

Entrarono in città che, all'oriente, era la prima chiaria.

Mostardo fece da battistrada.

— Dove andiamo?

— Zitti!

Attraversarono la Piazza. I primi spazzini, i primi lattivendoli si fermarono a guardarli passare. L'apparato delle barelle e i feriti faceva nascere le prime leggende.

Un lampionaio che andava intorno, con la sua stanga, a spengere le pallide fiammelle del gas, gridò:

— Mostardo, avete fatto caccia grossa?

Nessuno gli rispose. Da un caffè notturno, tre fattori si affacciaron a sbirciare. Più innanzi fu Coriolano, il donzello del Comune, che si mise a rincorrere le biciclette e a gridare:

— Cavalier Mostardo?... Cavalier Mostardo?...

Ma il povero Coriolano, oltre ad essere attempato, soffriva d'asma e dovette darsi per vinto.

Mostardo si fermò e discese innanzi ad una casa modesta, in un vicolo. Disse:

— Ci siamo!

— Lo lasciamo qui? — chiese Mazzini indicando l'impacchettato.

— Sì! — rispose Mostardo.

Erano alla Camera Rossa.

— Chi ha un foglio? — domandò il Cavaliere.

— Eccolo, — rispose Mazzini.

Allora Mostardo prese un lapis e scrisse a lettere cubitali:

Evviva la Repubblica!

Puntò il cartiglio sul petto dell'avversario suo; fece legare quest'ultimo alla porta della Camera rossa e dileguò con la brigata.

Nasceva l'alba.

Giustizia era fatta.

CAPITOLO IX. Dove, fra l'altro, si spiega quale valore desse, il Nostro Cavaliere, alla parola «versipelle»; e di nuove venture che gli toccarono.

Ora il Cavalier Mostardo dormiva nel suo gran letto di quercia massiccia, fra un ritratto di Mazzini ed uno di Garibaldi. Aveva, appeso al muro, sopra il tavolo da notte, dove la gente religiosa tiene l'acquasantiera, una vecchia carabina; la Santa Carabina; e, sul tavolo da notte, invece della bottiglia e del bicchiere per l'acqua, era posato un ampio boccale verde con sopravi la dicitura consueta: « Evviva la Repubblica! ». E la Repubblica abitava con lui in quel suo stanzone severo, inelegante, dal mobilio spaiato, dalle pareti squallide; la Repubblica occhieggiava attraverso una grande bandiera rossa, appoggiata in un angolo; sorrideva da un berretto frigio; strepitava in una serie di disegni allegorici incollati al muro; minacciava in una collezione rilegata del vecchio giornale « Aristogitone »; si umanizzava in una statuetta simbolica in coccio, sopra il canterale; si divinizzava nei trionfi dell'ottantanove, matroneggiando in disegni e oleografie sparsi qua e là per la stanza.

L'alba batteva alle finestre; ma il Cavalier Mostardo dormiva e la Repubblica con lui. E benchè Innocenzo Cappa, a capo del letto, in una fotografia disposta con bell'arte sotto la Santa Carabina, vegliasse con quel suo tipico sorriso fra la malinconia e disincanto, bonariamente guardando quella sua romagnola forma di fede repubblicana, in realtà tutto il simboleggiato strepito cadeva con le immagini e le forme nel sonno del Cavaliere. Questi riposava come un sant'uomo che ha diritto a una tregua, nè il reiterato canto del gallo Francesco, nel cortile; nè il tok, tok... degli scarponi ferrati di Rigaglia avevano il potere di rompere quel profondo e compiuto riposo.

Batterono le ore, il sole avanzò nel cielo, suonarono le messe ai vari campanili della Città del Capricorno, ricominciò il fragore dei veicoli trabalzanti sull'ineguale acciottolato delle strade, ma il Cavalier Mostardo tenne duro.

Aveva avuto una notte combattuta e, benchè ne fosse uscito trionfatore, doveva trovare, nel sonno, un compenso alle consumate energie.

Eran forse le nove e il gallo Francesco cantava ancora scuotendo i lunghi bargigli e la cresta a parafulmini, quando il nostro eroe, ad un tratto, ebbe un sussulto improvviso, un grugnito e balzò a sedere sul letto...

— Porco Dacco!... Che cos'è stato?

Che cos'era stato?... Certo non potevan rispondergli nè Innocenzo Cappa, nè la Repubblica, effigiata come una matrona, con molte mammelle; egli solo poteva rispondersi, ricercando fra le ultime nebbie del suo dileguante sogno mattutino, la ragione dell'improvviso risveglio.

Che cos'era stato?...

Si passò una mano sulla fronte, si soffregò gli occhi... Ah, ecco!...

Aveva sognato che Libero Bigatti, il repubblicano anarcoide del quale aveva avuto ragione di dolersi, durante l'ultima riunione in casa dell'Onorevole, nel Caffè della Piazza col più grande, si era preso giuoco di lui.

Erano in crocchio; c'era la meglio gente della Città del Capricorno; egli parlava tenendo desta l'attenzione di tutti, quand'eccoti saltar fuori il signor Libero Bigatti!... La perfidia della Cattedra!... Sorrideva con una malignità da sacrosanti ceffoni come se il Cavaliere non stesse raccontando che panzane e strampalerie; sorrideva e nicchiava, il signor Padre Eterno, e Mostardo aveva deciso di metterlo a posto una volta per tutte, allorchè, nell'impeto della giusta collera, il sonno gli si era rotto ed egli balzato sulle coltri senza saper più che accadesse. Ora si guardò attorno smarrito, poi discese dal letto, aprì le finestre. Un gran sole fu per la stanza.

— Che ore saranno? — si chiese il Cavaliere. — Debbo aver dormito molto!... — Poi chiamò: — Rigaglia?... O Rigaglia?

Rigaglia comparve.

— Portami i giornali.

— Eccoli.

Incominciò a scorrerli. Ecco « Il nuovo Aristogitone », l'organo del suo partito. Lesse i titoli; non c'era niente che potesse interessarlo; le solite cose. Ecco « Il Faro Socialista ».: vituperi, insolenze, minaccie! Sempre le stesse parole: riscossa, rivoluzione, masse proletarie, borghesia, diritti del popolo, lotta di classe, sindacati, federazioni... un pasticcio monumentale, una Babilonia, un mercato del mondo! Il pascolo di Rigaglia!... Cosa poteva capirci, quel testone, in tanta fanfara? Che cos'è un Sindacato?... Che cosa vuol dire «evoluto e cosciente»?... Perchè ti chiami proletario?...

Da dieci o quindici anni egli leggeva le stesse cose senza capir niente, ma era sempre più convinto di essere un buon socialista con la sua brava rivoluzione in saccoccia, a un tanto al braccio e con un centigrammo di evoluzione giornaliera!... Più campava, più si faceva duro e più diventava cosciente. Era un bel miracolo!

A poco a poco, a forza di sentirsi dire: — Tu sei!... Tu hai diritto!... Il mondo è nelle tue mani!... La forza è tua!... E tu qua... e tu là!... — si era messo in mente per davvero di essere un qualche cacume!

E chi poteva convincerlo ora a rientrare nell'orticello della modestia; nella casolina della santa umiltà; nella serena strada del giusto mezzo?... Rigaglia era uscito per le piazze con un grande pennacchio, come un bandista, e folgorava, nel suo cocciuto sudiciume, come la più bella testa dell'Universo.

E il Cavalier Mostardo se la prendeva con Turati e con Treves, coi due magni pastori che dovevan ben dargliela un po' di educazione a Rigaglia, prima di mettergli in mente certe cose e mandarlo per le piazze con un pennacchio rosso, come un bandista di Scaricalasino! Ora quel testone diceva:

E' pòpul!...

E tanto gonfiava che, una volta o l'altra, sarebbe scoppiato certissimamente.

Il nostro Cavaliere mise da parte anche « Il Faro socialista »; non volle legger cose che gli avrebbero avvelenato il sangue.

Aprì un terzo giornale: « Il Sillabo ». Lo spiegò e ristette sogghignando.

— Il sillabo?... — si chiese con ironia. — Incominciano con uno sproposito!... Io ho sempre saputo che si dice: la sillaba e non il sillabo... Poi che cosa c'entra la sillaba con il clero?... Forse avranno inteso dire che questo giornale è come un abbecedario del partito clericale. Bella trovata!... Già basta vedere il giornalista per giudicare l'organo. Roba sporca!... Via!...

E gettò anche quello. Ecco « La Forca », « La Lanterna », « L'Apocalissi!...». Si fermò a quest'ultimo ebdomadario, dubbiando. Che voleva dire Apocalissi? Scese dal letto, si accostò alla cassa dei libri, estrasse un volume e incominciò a sfogliarlo.

A... a elle... a emme... a pi... Eccolo... — e incominciò a leggere: — Apiario... Apice... Apistico... Apocalisse e Apocalissi: Visione di San Giovanni Evangelista — Libro di questa visione. Parere il cavallo dell'Apocalisse. Essere un cavallo grande e rifinito. — Poi, più sotto, lesse ancora: — Apocalisse, s. f. Cavaliere dell'Apocalisse. Setta religiosa romana del secolo XVII.

Chiuse il librone e rimase pensoso. Ne capiva meno di prima. Ciò non gli dava un soverchio turbamento perchè, a vero dire, la cosa non era infrequente. Riaprì il giornale, gettò un'occhiata alla prima pagina; si trattava di un giornale nuovo ch'egli non aveva ancora esaminato. Ad un tratto ebbe una vampa al viso... aveva letto il nome del direttore: Libero Bigatti, il suo personale nemico e detrattore. La cosa lo lasciò alquanto turbato. Se Libero Bigatti stampava un giornale, molto probabilmente la pace di Mostardo era finita. Ebbe il presentimento di un attacco e incominciò a scorrere i titoli dei varii articoli e trafiletti. Ecco, in terza pagina, il suo nome stampato in grassetto. Ne ebbe soddisfazione e timore: soddisfazione perchè fa sempre piacere veder stampato il proprio nome in un giornale; timore perchè chissà che cosa diceva di lui quel Cavaliere dell'Apocalisse!

Lesse:

SI DOMANDA AL CAVALIER MOSTARDO — uomo di prontissimo ingegno e di bella e varia coltura, — quale valore dia alla parola «versipelle» della quale fa sì abbondante uso. E gli si domanda ancora in quale pregio egli tenga l'astuzia e cioè se l'astuzia sia, per il Cavalier Mostardo, una cosa spregevole o apprezzabile.

Se il Cavalier Mostardo vorrà usarci la delicata attenzione di rispondere, e vorrà toglierci dal nostro tormentoso dubbio, pubblicheremo la sua risposta con ogni onore e senza commenti.

Il cane celeste.

Il buon Mostardo si passò una mano sulla fronte perchè sudava. Faceva caldo e la prosa del Cane celeste non era refrigerante. In un primo tempo cercò, in detta prosa, gli estremi che giustificassero la risoluzione della faccenda per le vie più spiccie, così avrebbe fatto i conti col signor Bigatti una volta per sempre; ma tali estremi non c'erano, bisognava convenirne, e non è facile intendere l'ironia. Allora... versipelle... Ritornò al suo librone, lo aprì alla lettera vu, sfogliò:

Versiero... Versino... Versione... Ecco, ecco: VERSIPELLE, agg. T. lett. Astutissimo.

Dunque versipelle non voleva dire che astutissimo?... E perchè mai?... Egli aveva dato alla parola un valore ben più ampio. L'aveva riconiata nel suo sentimento e per i bisogni suoi; era diventata tutta sua. Il dizionario era un arnese della Cattedra, aveva la mentalità di un clerico-moderato, il dizionario. Un conservatorume di vecchia specie. Perchè « versipelle » non doveva significare che « astutissimo »? Chi aveva comandato questo? Era possibile, in tempi di Rivoluzione, voler fare anche delle parole una specie di proprietà privata? Non erano di tutti, le parole, come le strade? Ebbene, se eran di tutti, ognuno poteva servirsene secondo i propri bisogni, ed egli, repubblicano antico, aveva pieno diritto di far questo! Versipelle gli suonava bene. Le bestie della Cattedra non usa per il suono e non per altro. Ammesso che la parlata fosse una banda, bisognava convenire che c'era molta differenza fra il suono di un ottavino e quello di un corno inglese: ebbene, egli, per esprimere il disprezzo, la disistima; per bollare il prossimo nemico adoperava il corno inglese così come usava l'ottavino quando parlava a Spadarella. Non era chiaro tutto questo?... Nella banda delle parole, « versipelle » era una nota del corno inglese; e un'altra era « cacume »!

— Io posso dire benissimo fornicario, al vigliacco; posso dire pistola, all'imbecille; pubblicana, alla donna di mestiere; porcinaglia, al clero e ai suoi costumi; tamburiere, all'uomo politico disonesto; tritone, a Ticchi Marmissi, direttore del Sillabo; trocaico, alla porcheria manifesta; cacume, a tutti gli eccessi e Versipelle, al voltagabbana, all'imbroglione, alla canaglia, a chi mi pare, ecco! C'è o non c'è il suono, in queste parole?... Il suono c'è e basta. Il resto ce lo metto io. Non sono padrone di far questo?

E il Cavalier Mostardo, di sillogismo in sillogismo, si era costruito una torre in muratura. Come si sentì ben murato a difesa, quando gli parve che nessuno più avrebbe potuto attaccarlo con tanta ignobiltà di intenti, saltò dal letto e così, in camicia, corse al tavolo dove c'era una seconda statuetta della Repubblica in cotto. Cercò un foglio di carta, una penna, puntò un gomito sul tavolo, appoggiò la fronte sul palmo della mano e si dette a meditare. Poco dopo scrisse quanto segue:

SI RISPONDE AL CANE CELESTE. — Un repubblicano antico potrebbe star zitto e non rispondere a un Cavaliere dell'Apocalisse. Non c'è tempo da perdere, oggi, per le baggianate. Oggi ci sono le conquiste sociali e la GIUSTIZIA PURA! Però siccome il Cane celeste vuole aver le sue, gli daremo le sue con la penna, riservandoci ampia libertà di usare un altro strumento quando ci venga in mente di farlo. Il Cavalier Mostardo si ritiene padrone di adoperare tutti i «versipelle» che gli fan bisogno, senza renderne conto a nessuno. Un figlio dell'ottantanove ha ben altri diritti! Ma però, siccome non vuol cadere, per la porcinaglia, nell'ASTUTISSIMA rete tesagli dal Cane Celeste, gli dice che versipelle è lui, ed anche pistola guercia!

Il Cavalier Mostardo non si lascia prendere in un simile TROCAICO!

I. C. M.

Rilesse; fu contento della partorita risposta; piegò il foglio, l'infilò in una busta, scrisse l'indirizzo e premette il bottone del campanello elettrico. Rigaglia comparve.

— Va subito a impostare questa lettera.

Rigaglia prese la busta e incominciò a leggere l'indirizzo. Mostardo alzò la voce, inquieto:

— Te l'ho data da leggere o da impostare?

— Da impostare...

— E allora perchè la leggi, brutto somaro?

— Guardavo...

— Non c'è niente da guardare! Va via.

— Sì.

Rigaglia, fece due passi e, giunto all'uscio, si rivolse e disse:

— Disotto ci sono il gobbo Pulizia e il moro Fabrizi.

— Cosa vogliono?

— Hanno detto che vogliono parlarvi.

— Dì che aspettino.

— Sì.

E il nostro Cavaliere incominciò a farsi bello. Era contento. Sentiva che le cose gli andavano col vento in poppa, nell'amore, nella politica, nel giornalismo. Per Bios, avrebbero visto, i nemici suoi, dove poteva arrivare un Cavalier Mostardo quando ci si metteva di buzzo buono! Intanto, quel giorno stesso, voleva trovarsi con Mignon per renderle conto del suo operato e per averne un qualche compenso in natura, se fosse stato possibile. Lo scherzo fatto a Borgnini, legato alla porta della Camera rossa, a quell'ora doveva già correre i quattro canti della Città del Capricorno e Ninon Fauvétte, fior di Parigi, doveva averne sentito parlare. Nel pomeriggio si sarebbe presentato in pompa magna al palazzo dei marchesi ed avrebbe chiesto di lei. Dovevano intendersi. Egli pretendeva di riscuotere il premio della sua prestazione d'opera. Però si sentiva anche abbastanza generoso per non insistere così, sui due piedi. Poi... chissà quale putiferio e quale fiumana di vendette gli avrebbe procurata l'impresa della notte trascorsa. I rossi non si sarebbero dati per vinti. Gli conveniva star sull'avviso per non avere qualche improvvisata di cattivo genere. Avrebbe sguinzagliato subito i suoi informatori per la Città del Capricorno e dintorni. Giusto il gobbo Pulizia e il moro Fabrizi capitavano a proposito. Ascoltare, indagare, riferire!

— Si giuoca una partita grossa. Ne va di mezzo tutto quanto l'avvenire.

Si affacciò alla finestra annodandosi la cravatta. Dall'orto, dietro il cortile, cantavano le cicale. Il sole era alto. Intorno al cono del gran campanile stridevano le rondini nere; le rondini nere col panciotto bianco. Alzò gli occhi a guardarle e fu rasserenato solo da quel po' di cielo turchino, dalla rossa maestà del campanile e dal volo dei balestrucci. Era un giorno di Dio, di una chiarezza profonda. La bella e bionda estate non domandava agli uomini che un po' di fatica e per questa fatica portava un gran dono di pace. E gli uomini si mangiavan fra di loro e si avvelenavano non solo l'estate, ma tutte le quattro stagioni.

Il Cavalier Mostardo trasse un grande sospiro; mormorò:

— Poveretto me!

E si ritrasse dalla finestra. Aveva pensato a Spadarella. Dall'oasi più dolce del suo cuore era sorta, con la nostalgia del riposo, l'immagine della sua bambina. Divenne malinconico; dal Cavalier Mostardo rinacque Giovanni Casadei... lo zio Giovanni.

Ora non era neppure più padrone del suo tempo e del suo amore; doveva sacrificar tutto... tutto!... Sfuggire l'ombra quando è più soave; sfuggire il riposo di un giardino quando più lo desiderava; non vedere la sua piccola creatura quanto più la sentiva lontana! E perchè poi?... Per sentirsi prendere in giro sui giornali.

Se ricordava la sua fanciullezza trascorsa fra l'officina di un fabbro ed il retrobottega di una farmacia; se si rivedeva così, povero e erratico, come il cane di nessuno; senza una casa: un po' accolto dall'uno, un po' dall'altro e maltrattato da tutti; se si rivedeva giovane e senza altra gioia all'infuori di quella di andarsene, nei pomeriggi delle domeniche, lungo i greti del fiume a respirare un po' di campagna, un po' di silenzio e di pace e sempre stretto dal bisogno, tanto che quasi metà della sua vita non si era riassunta che nel verbo penare; se ripensava alla sua triste ventura e al suo cuore più timido e solitario che aveva sempre desiderato ciò che non gli era stato concesso a tempo, dal fondo della sua più schietta anima, che era quella di un buon campagnuolo innamorato perdutamente delle cose candide e eterne, saliva la muta malinconia che in sè si accora e non cerca parole, e non vuole palesarsi perchè è fatta vergognosa dal mondo che non potrebbe intenderla. Di tale malinconia, che è un po' di tutti i romagnoli di razza, egli era schiavo e geloso, e, quando la sentiva arrivare dal fondo di una memoria lontana, come un canto nostalgico su di un vento di primavera, al crepuscolo, quando la sentiva arrivare scantonava per le strade degli orti, se era in città; e, se era in campagna, dimenticava tutto e tutti e se ne andava lungo un filare di olmi e di viti, l'orecchio attento ai più lontani e tenui e dolci suoni, l'anima persa nell'attesa misteriosa della vita. Non sapeva neppure lui perchè questo gli accadesse e non si domandava perchè gli accadeva; condotto dal suo cuore andava così, alla deriva, e in questi silenzi suoi, in cui si perdeva un pianto interiore senza parole e senza volto preciso, era la sua musica e la sua poesia, le due sole cose del mondo per cui l'uomo può chiamarsi tale e sentirsi migliore a volte.

Non si guardò più allo specchio; finì di vestirsi, il volto atterrato. Pensava lontano. E non pensava precisamente: sentiva una volontà, una necessità imperiosa di scantonare per la prima strada, per non saper più niente, per non udir più niente, ma forse solo lo stridìo armonioso di un verzellino, dall'ombra di un brolo.

Qualcuno bussò alla porta, ma con discrezione. Certo non era Rigaglia. Rigaglia entrava senza domandare permesso; era sempre in casa sua. Chi poteva essere mai? Guardò un poco la porta prima di rispondere, poi domandò:

— Chi è?... — ma la sua voce non fu gradevole e di buon invito.

— Sono io!... — Un falsetto sottile. Che voce era quella?

— Io, chi?

— Io!...

Si accostò all'uscio; disse:

— Avanti...

E attese. La porta non si apriva. Qualcuno voleva prendersi giuoco di lui. Giusto! Arrivava a puntino. Aggrottò il viso, si diresse risolutamente alla porta e appena ebbe tempo di aprire che si sentì stringere il collo da due dolci braccia ed ebbe il viso inondato di baci.

— Zio... zio... zio... come sei cattivo con me!

Era Spadarella. Spadarella sua, la gioia del suo silenzio lontano.

La faccia di lui si accese subito di un radioso amore.

— Come mai sei qui?

— Ho avuto un bell'aspettarti in questi giorni, zio cattivo!

— Ma non sai che è incominciata la lotta?

— Lo so benissimo! Ma, la sera, una piccola mezz'ora potresti ben trovarla per Spadarella!

— Ebbene, sai a che ora sono ritornato questa notte?

— No. A che ora?

— Alle tre e mezza!

— Povero zio. E dove sei stato?

— In campagna. Ma non parliamo di queste porcherie. Sei sola?

— Sì.

— Dov'è Spina Rosa?

— A casa. L'ho lasciata a casa attorno ai fornelli... perchè...

— Perchè?...

Si sorrisero guardandosi negli occhi.

— Hai indovinato, zio?

— Credo di sì.

— Vieni?...

— Ma... questa mattina... — rispondeva così, e già aveva deciso di andarsene con lei a colazione.

— No... no... no... non ci deve essere proprio niente che mi ti porti via, questa mattina! Sono decisissima, sai? Non ti lascio più... proprio, non ti lascio più!

— E... se non potessi?

— Devi potere!

— Ma se non potessi?

— Allora resterei con te. Ti pare giusto che solamente io non debba averti mai?

Cara la sua bambina! Egli si sentiva cinque volte più forte quando l'aveva accanto, quando poteva ascoltare la voce di lei armoniosa e guardarla, quell'angiolella, che portava sempre con sè la luce dei più bei mattini.

— Va bene. Allora resta inteso — disse lo zio Giovanni; — però, Spadi mia, devi avere un po' di pazienza...

— Fin che vuoi, zio.

— Devo mettere in ordine molte cose prima di venir con te.

— Fa quello che vuoi.

— Dove mi aspetterai?

— Qui.

— No. Va nell'orto... Hai qualche libro?

— Sì. Ne ho uno.

— Allora vai nell'orto; leggi e aspettami.

— Sì.

Egli si allontanava senza guardarla. Spadarella lo richiamò:

— Zio?

— Che vuoi?

— Vai via così?

— Perchè?

— Neppure un bacio?

Ritornò sorridendo, le stampò due grandi bacioni sulle guancie e partì che si sentiva ringiovanito di vent'anni.

— Ah, Spadarella, Spadarella!... Se tu non ci fossi che ne sarebbe di questo povero insensato, con tutta la sua Repubblica?...

Il gobbo Pulizia e il moro Fabrizi sedevano ad un tavolo e giuocavano a tressetti. Tanto erano intenti alla loro partita, che neppure l'udirono entrare. Era questa una loro particolarità. Siccome erano sempre insieme, il gobbo Pulizia portava con sè di continuo, in una delle ampissime tasche della gabbana, un mazzo di carte. Ad ogni sosta iniziavano una partita a tressetti. Si giuocavano un soldo a testa e non avevano mai aumentata la posta. Durante il giuoco usavano insolentirsi con abbondanza; ma, con l'ultima carta gettata sul tavolo, tutto era finito e dimenticato.

Li chiamavano l'amico Cesare e l'amico Ciliegia. Erano repubblicani fino alle midolle.

Il gobbo Pulizia « e' gobb Pulizì » si era guadagnato tale battesimo per la sua meticolosa cura della nettezza. Era un ossessionato della nettezza. Durante l'estate diventava nervoso e teneva ermeticamente chiuse tutte le finestre e le porte di casa perchè non entrassero mosche. Un cerchiolino di mosca in uno specchio o in un foglio di carta poteva farlo malinconico e preoccupato per una settimana intiera; una tela di ragno in un qualsiasi angolo della casa lo riempiva di tristezza. Dava la caccia alla polvere sopra e sotto ai mobili; fiutava le macchie sul pavimento; aveva inventato un arnese per pulir fino i buchi delle serrature, fino gli interstizi fra mattone e mattone. Non trovava fantesca che potesse reggere con lui; dopo poche settimane di esperimento tutte lo abbandonavano. Tanta era la cura sua di non insudiciare nulla che, in casa, camminava in pedùli e, prima di sedersi, si spazzolava il fondo dei calzoni.

Data simile manìa, era più che naturale che non ricevesse nessuno ed in fatti anche il moro Fabrizi non compariva che rarissimamente benchè fosse il solo e grandissimo amico del gobbo Pulizia. Ma la sola idea di trovare l'ombra di un'orma sui pavimenti lucidissimi immalinconiva il povero gobbo il quale, d'altra parte, all'infuori di questa, non aveva altre manìe. Ma questa era una manìa seria che non si limitava alla casa, ma a tutti gli oggetti della casa, compresa la sua persona. Infatti il gobbo Pulizia faceva il bagno due volte al giorno; la mattina e la sera e portava sempre in tasca un pezzo di sapone da bucato e uno spazzolino di setole. A volte, durante la notte, si ridestava all'improvviso, colto dalla sua ossessione e correva a lavarsi. Nella sua stanza da letto erano sempre, per ogni evenienza, un mastello e tre grandi secchi ricolmi di acqua, senza contar le catinelle. Aveva adottato un W. C. di sua invenzione, nel quale l'acqua scorreva perpetuamente e scaturiva da ogni parte in getti, in cascatelle, in zampilli incrociandosi e sfrangiandosi nei giuochi più svariati, tanto che pareva una fontana monumentale. Non vi mancava che una statua e da statua funzionava il gobbo Pulizia quando ve lo costringevano le sue estreme nonchè umili necessità. Allora egli diventava una nàiade, benchè non disponesse dei vezzi di una ninfa; diventava una nàiade e metteva in guazzo la parte opportuna, la qual parte, investita da ogni banda dai festevoli giuochi d'acqua, si sollazzava e si purificava adempiendo al suo compito estremo. Una volta al moro Fabrizi, che cercò di servirsi di tale arnese senza conoscerne il perfetto congegno, toccò la sventura di prendere un bagno compiuto e di beneficiare di un discreto spavento, tanto che ebbe a soffrire, per il resto della sua vita, di una stitichezza ostinata.

Dopo tutto quanto abbiamo detto, lo strano si era che, varcato l'uscio di casa sua, il gobbo Pulizia diventava un uomo come tutti gli altri e poteva essere altrettanto sudicio quanto l'amico suo carissimo Fabrizi; perchè il moro Fabrizi era fra i più grandi sudicioni della Città del Capricorno.

Come mai l'amico Cesare e l'amico Ciliegia si fossero appaiati per diventare inseparabili, era un mistero nel grembo di Dio. Fatto sta che non si vedeva il gobbo Pulizia senza vedere il moro Fabrizi e viceversa.

Il quale moro Fabrizi, pure essendo benestante come l'amico suo, tanto ostentava la trascuratezza, da sembrare quasi un pezzente. E mentre il gobbo Pulizia era accuratamente sbarbato ogni giorno, il moro Fabrizi si faceva radere una volta ogni due settimane tanto che sembrava per il resto del tempo un cinghiale domestico che grufolasse per i caffè e le osterie della Città del Capricorno. E i suoi vestiti erano unti e bisunti, tanto da diventare impermeabili. Del resto non li cambiava mai, come non cambiava mai le scarpe e il cappello e non si lavava mai le mani.

Una volta che il gobbo Pulizia si azzardò a domandargli:

— Perchè non ti lavi mai?

Gli rispose:

— Perchè è inutile lavarsi se ti devi insudiciare subito. Io faccio un bagno di pulizia ogni tre mesi, consumo due pezzi di sapone e basta. Questa è salute, amico mio. I nostri vecchi non si lavavano mai e campavano fino a cent'anni. Bisogna lavar lo stomaco con del buon vino, questo sì! Ma il difuori è degli sciocchi.

Il gobbo Pulizia non aveva rifiatato. Del resto si trovavano d'accordo sulla Repubblica. Forse la Repubblica faceva loro chiuder gli occhi sul resto.

Erano accanitissimi partigiani, ligi al verbo del Maestro e strepitanti per ogni pubblico ritrovo per buona parte della giornata. Il gobbo Pulizia disponeva di una voce acutissima e di buone argomentazioni; il moro Fabrizi era meno dialettico ma sosteneva il compagno con fede intemerata e con la forza de' suoi muscoli. Dovendo discutere di politica, in Romagna non è mai male disporre di buoni muscoli.

Ora l'amico Cesare e l'amico Ciliegia giocavano la loro eterna partita a tressetti, quando il Cavaliere Mostardo entrò nella stanza.

— Buongiorno amici!

Piantarono le carte in asso e si levarono.

— Che c'è di nuovo?

Fu il gobbo Pulizia che prese la parola.

— Caro Cavaliere, bisogna stare attenti. Nella città c'è un gravissimo scandalo.

— Quale scandalo?

— Per il fatto Borgnini.

— Ebbene?

— I socialisti ve l'hanno giurata.

— A me?

— Sì, a voi.

— E che vogliono fare?

— Dice che vi faranno la pelle. Di notte o di giorno non importa, ma ve la faranno.

— E poi?

— Poi c'è l'onorevole che non è contento.

— Perchè?

— Perchè dice che avete strafatto.

— L'onorevole non capisce niente.

— Può darsi; ma tutte le persone serie del partito, la pensano come lui.

— E chi sono queste persone serie?

— L'avvocato Suasia, l'avvocato Relli, l'ingegnere Fias, Girolamo Putti, Ildebrando Sgargi...

— Ho capito: la Cattedra!... Scommetto che questa sera c'è adunanza al Circolo Mazzini.

— Avete indovinato — disse il moro Fabrizi. — Anzi ci hanno incaricato di venire a dirvelo.

— E chi vi ha incaricato?

— L'onorevole — rispose il gobbo Pulizia.

— Va bene — fece Mostardo, che non perdeva la sua calma. — Avete occasione di vedere l'onorevole, uscendo di qui?

— Certamente.

— Allora ditegli, da parte mia, che io gli rassegno le mie dimissioni; e ditegli che vada a quel paese!

Il gobbo Pulizia e il moro Fabrizi rimasero perplessi.

Il Cavalier Mostardo si dette a misurare la stanza a grandi passi; incominciava a perdere la calma che si era imposta.

— Vogliono anche sconfessarmi?... Non ci si provino! Non mi conoscono ancora. Ma a che giuoco si giuoca?... — e piantò gli occhi bui sui due amici. — Mi cacciano nel pericolo e poi non vogliono riconoscere il mio operato?... Si sbaglian di grosso, cari miei! Vedrete che cosa farò, io.

— State calmo, Mostardo...

— Macchè calmo!... Queste sono porcherie. Vorrei che ci si fosser trovati loro, questa notte, a far le schioppettate fra i campi!

— Certo che non deve esser stato piacevole!

— Bravo! Tutti questi cattedratici sarebber diventati tanti fornicari perchè dove c'è del fumo ci si sta male. E adesso, a cose finite, quando non c'è più pericolo, almeno per loro, fanno le adunanze... vogliono sconfessare!... Dì che si provino!...

Vi fu un silenzio. Il Cavaliere passeggiava furiosamente per la stanza e, di tanto in tanto, ripeteva come a sè stesso:

— Dì che si provino!...

Allora il gobbo Pulizia disse:

— Mostardo perchè inquietarsi tanto?

— Secondo voi che cosa dovrei fare? Un passo di danza?

— No... ma state calmo... andiamo!... A inquietarvi che cosa ci guadagnate?

— Sicuro — soggiunse il moro Fabrizi.

— Mi fate ridere... mi fate!... — riprese Mostardo. — Qui si tratta della mia riputazione. Se la Repubblica non cammina con me, io posso combinare a questi signori qualche brutto scherzo.

— Ma noi non vi abbandoniamo! — disse il gobbo Pulizia.

— Voi non siete la Cattedra!

— Questa è una vostra fissazione...

Aveva appena detto questo, il gobbo Pulizia, che il Cavalier Mostardo, il quale si era fermo presso una tavola, lasciò andare sulla medesima un violento pugno e gridò:

— Non scherziamo, ragazzi!... Oggi non ne ho voglia!...

I due ebbero un sussulto e allibirono.

Disse il moro Fabrizi:

— Ha ragione!... Oggi non importa scherzare...

Poi, dopo aver discretamente bussato, entrò l'avvocato Suasia. Era di buon umore. Alla prima occhiata si accorse che Mostardo era in burrasca. Gli si accostò, gli posò una mano sulla spalla:

— Che cos'ha, il nostro Mostardone?

Mostardo si rivolse a guardarlo, per nulla mansuefatto dall'allegria dell'amico e compagno e gli domandò brusco brusco:

— Che cosa sei venuto a fare?

— Sono venuto a salutarti, in primo luogo. Ma, è così che si ricevono gli amici?

— Non sei anche tu un ambasciatore dei tamburieri del Circolo Mazzini?

Antonio Suasia scoppiò a ridere.

— Li chiami tamburieri?... Allora siamo ai ferri corti!

— Non cascar dalle nuvole. Va là!... Chi li ha mandati questi compagni? — e indicò il Gobbo e il Moro.

— Non io certamente! — rispose Suasia.

— E allora chi vi ha mandati? — domandò Mostardo, rivolto agli inseparabili amici.

— L'onorevole — rispose il gobbo Pulizia.

— Hai sentito? — fece Mostardo rivolto al Suasia. — E sai che cosa sono venuti a dirmi? Che questa sera, al Circolo Mazzini, ci deve essere una adunanza per giudicare il mio operato della notte scorsa! Io lavoro e gli altri voglion giudicare; io rischio la pelle e gli altri pretendono di guastarmi la riputazione... No, per Bios!... Se questa sera devo venire alla adunanza ci verrò, ma con la schioppa!...

— Allora la tua vuol essere un'ira funesta che adduca infiniti lutti!... — esclamò sorridendo l'avvocato Suasia. — Ma no, Mostardone, non ti montare! Ho parlato io stesso all'onorevole, poco fa...

— Be', e che cosa ha detto?

— Ha riso con me.

— Per Borgnini?

— Sì, per Borgnini!

— Volevo ben dire, io!... — fece Mostardo, e il suo viso si rasserenò. — Che male gli ho fatto?... L'ho legato a una porta. Questo è uno scherzo che si può fare sotto qualsiasi civiltà. E i miei uomini ti possono dire che non sono stato io che gli ho riempito il didietro di spine razze!

— Gli avete ridotto il versante a bacio, come un puntaspilli, pover'uomo!

Risero tutti quanti.

— Però gli sta bene — riprese Mostardo. — Ci avevano preso fra due fuochi.

Antonio Suasia si fece raccontare tutta la storia della spedizione notturna e, quando il Cavaliere ebbe finito, disse:

— Incominciamo con troppi feriti!

— Come vorresti fare? — domandò Mostardo. — Quando si fanno le schioppettate, sono inconvenienti che capitano.

Sopraggiunsero altri amici: l'ingegnere Fias, l'avvocato Relli, Ildebrando Sgarzi, Girolamo Putti, Domokos Barbantini, Alvise Alberghetti, sindaco della Città del Capricorno e, per ultimo, l'onorevole, seguito da Coriolano.

Il Cavalier Mostardo contò gli intervenuti; erano dieci persone: le più grosse teste del partito, Coriolano compreso, al quale, d'altra parte, non nuoceva la sua qualità di donzello del Comune. Non si viveva in tempi di Democrazia Pura? Coriolano soleva dire, con la sua voce un po' rauca e interrotta dall'asma e dalla balbuzie:

— Da ora in avanti tu dovrai scrivere donzello col di grande. Così... Donzello! Perchè quando un Coriolano, che non è un uomo di corta misura, copre una carica qualsiasi, questa carica diventa di primissimo ordine.

Infatti Coriolano si vantava dell'amicizia e della confidenza degli uomini più grandi del partito e, in genere, della Democrazia. Diceva che Innocenzo Cappa gli era come fratello; Barzilai lo adorava; Leonida Bissolati gli scriveva quasi tutte le settimane; Turati gli aveva dato tali e tante prove di stima che, una volta, non essendo contento, il suddetto Coriolano, di un atteggiamento politico assunto dal grand'uomo di parte, incontratolo un giorno in una trattoria di Bologna, ebbe ad abbordarlo con queste precise parole:

— Senti, Filippo, l'ultimo tuo discorso non mi è piaciuto niente. Dai troppa confidenza a Giolitti. Dà retta a me: cambia strada! Giolitti è un uomo che ti frega!

E Filippo Turati, sempre secondo Coriolano, si era alzato dalla seggiola e gli aveva buttato le braccia al collo dicendogli:

— Come si vede che mi sei amico sincero!... Grazie, Coriolano. Seguirò il tuo consiglio.

Quando Coriolano raccontava queste cose nei crocchi, tanto era convinto di dire la verità che si arrubinava dal gran piacere. E qualche credenzone lo trovava sempre.

Ma le sue grandi amicizie non si fermavano qui, perchè Claudio Treves, Pantano, Labriola, Mussolini, Andrea Costa, Malatesta, Oddino Morgan, Pietro Chiesa, Libero Merlino gli erano stati o gli erano fedelissimi e Coriolano citava il motto dell'uno, la barzelletta dell'altro, l'intimità bonacciona del terzo. Tutti erano stati a desinare a casa sua e gli avevano lasciato testimonianza grata della sua ottima cucina e del suo vino piramidale.

— Perchè io ho un sangiovese che ha fatto leccare i baffi perfino a Claudio Treves che di vino ne beve poco e male!...

Questa era l'autorità di Coriolano, detto il Donzello col di grande. E a forza di prendersi sul serio, pover'uomo, nonostante l'asma che lo ammazzava, aveva trovato molti repubblicani della Città del Capricorno che lo tenevano in considerazione schietta. Poi era un uomo utile, specialmente nei banchetti. Andavano famose le trippe come sapeva farle cucinar lui, da un oste amico suo. Grande organizzatore di agapi fraterne e mangiatore monumentale era Coriolano, Donzello della Democrazia. E non v'era ritrovo ove egli non capitasse; nè scendeva alla Città del Capricorno uomo politico che non lo avesse alle costole dalla mattina alla sera, pronto a fargli da littore (senza fascio e senza verga!) e da galoppino; da portavoce e da paraninfo, non inteso nel senso di guardiano di castità. E, per tutto questo, non chiedeva nessun onore diverso da quello che consisteva nella possibilità di poter dare un consiglio a un uomo illustre. Aveva solamente questa debolezza, povero Donzello, e non faceva male a nessuno.

Com'era naturale, nella Città del Capricorno non mancava gente arguta che avesse notata la cosa, rilevando anche l'inopportunità continua del suo intervenire e consigliare, tantochè « i consigli di Coriolano » erano passati come un modo di dire proverbiale.

Di media statura, semicalvo, con una bella testa brachicefala, robusto, il largo rubicondo e ridente viso dei romagnoli: tale era fisicamente Coriolano, il Donzello della Democrazia. Egli soleva dire che non gli sarebbe mancata nessuna qualità per essere un grande uomo politico, solo la natura lo aveva tenuto indietro barbaramente regalandogli un difetto del quale non era potuto guarir mai: la balbuzie.

Coriolano si sarebbe sentito oratore nato, ma la balbuzie gli tappava la bocca ostinatissimamente.

Avendogli detto una volta, l'ingegner Fias, che Demostene aveva sofferto dello stesso intoppo del quale era guarito mettendosi un sassolino in bocca e recandosi a parlare ad altissima voce sulle rive del mare, Coriolano, per non essere da meno di Demostene, era stato a Rimini per una intiera estate e aveva urlato a più non posso, quando il mare era in burrasca, tenendo sempre in bocca il famoso sassolino.

Gli amici suoi sapevano questo e lo aspettavano al ritorno. Quando, alla metà di settembre, il Donzello della Democrazia, fece la sua ricomparsa nella Piazza col pi grande, gli amici gli furono intorno e volevano ch'egli improvvisasse un discorso politico. Ma così rispose Coriolano:

— Cccchhh... ccchhhh... chho... cosa vuoi ppp... pppp... parlar di Demostene! Mmm... mmmmm... mi sono mangiato il sassolino... chhh... chhh... chhhhh... che non vado più di corpo!...

E la faccenda del sassolino non gli fu più perdonata, povero Coriolano; nè potè aprir bocca nei ritrovi, nelle adunate, nei comizi che, alle prime stentate parole, non lo investissero da tutte le parti e non gli gridassero ridendo:

— Sta zitto, chè ti sei mangiato il sassolino!...

Ma Coriolano era uomo di spirito e sapeva prendere con garbo anche questa sua nuova disgrazia.

Ora egli era entrato, necessariamente, dopo l'onorevole, trascurando Alvise Alberghetti, sindaco della Città del Capricorno e suo principale e donno, come persona di molto minore importanza. Dove c'era un onorevole, Coriolano non poteva aver dubbi circa la scelta.

Non appena il Cavalier Mostardo vide l'onorevole, sentì dolorar più forte la ferita inflittagli dalle parole del gobbo Pulizia e del moro Fabrizi e non si tenne dal dire:

— Lei mi ha giudicato male, onorevole, ma ha avuto torto.

— Io?... E quando vi ho giudicato male? — fece l'onorevole puntandosi una mano sul petto.

Il gobbo Pulizia e il moro Fabrizi cercavano ritirarsi nell'angolo più oscuro della stanza.

— Come?... — fece Mostardo. — Non è stato lei che mi ha mandato a dire che ho strafatto, che lei non è contento, eccetera eccetera?... Non è stato lei che ha indetto una adunanza al Circolo Mazzini, per questa sera?

— Io?... Ma sognate, Mostardo?

— Ma... scusi... — e cercò intorno con gli occhi i due inseparabili i quali tentavan raggiungere la via della porta — scusi non li ha mandati lei quei due baggiani?

E indicò, col dito steso, il gobbo Pulizia e il moro Fabrizi che non rifiatavano più.

— Neanche per sogno! — rispose l'onorevole.

— Allora?... — gridò il Cavaliere, rivolto al gobbo Pulizia. — Allora come si spiega tutta questa faccenda?

— Perdonate Mostardo, noi non avevamo autorità per darvi un consiglio e...

— E tu sei gobbo, sei!... Segnato da Dio!... Maligno e bugiardo!...

A questo punto intervenne il Donzello della Democrazia:

— Mmm... Mostardo... vvv... vvvuoi un consiglio?

— Macchè consiglio!

— No, Mmmm... Mmmostardo, vvv... vvvuoi un consiglio da amico?... Lascia andare!

— Non so chi mi tenga — gridò Mostardo parlando sempre al gobbo Pulizia — dall'aggiungerti un'altra gobba sul davanti!... Puoi ringraziare il tuo dio, puoi ringraziare!...

— Ma l'abbiamo fatto per il vostro bene... — riprese il gobbo Pulizia.

— Amico Cccccce... amico Cesare... vvv... vuoi un consiglio?... — riprese Coriolano, rivolto al gobbo Pulizia. — Ssss... ssstttt... sta zitto!...

— Ma noi stiamo zitti! — rispose il moro Fabrizi.

— Stamattina, nel caffè dei socialisti, — soggiunse il gobbo Pulizia, — per poco non ci hanno ammazzati!

— In quanto a questo, gli animi sono accesi — disse Domokos Barbantini.

— Come vorreste che fossero? — domandò Mostardo. — Il giorno in cui si scende in piazza e si fa della polvere, tutto si accende. Questo lo sapevamo prima.

E l'ingegnere Fias, con la sua olimpica calma:

— Cercate di tener bene asciutte le vostre polveri, Mostardo.

— E la testa a posto! — soggiunse l'avvocato Suasia, ridendo.

— Poverino!... Il più bell'augurio che ti potessi fare — disse Mostardo a Suasia, — sarebbe quello di aver la mia testa.

E l'ingegnere Fias:

— Che è il monumento nazionale della Democrazia!

Rise l'adunata, ma non già l'ingegner Fias, il quale continuò ad aspirare tranquillamente il fumo dalla sua pipetta di radica.

— Del resto io vado per la mia strada — ribattè Mostardo un po' piccato — e non mi fermo a raccogliere questi fiori.

— Già — continuò calmo calmo, l'ingegner Fias; — lungo il ciglio della vostra strada maestra voi preferite chinarvi a cogliere una gallina, piuttosto che un fiore!

— Cosa vuol dir questo? — gridò il Cavaliere, mentre gli altri ridevano.

— Mmmm... Mmmmostardo... vvvv... vvvuoi un consiglio?... — fece Coriolano.

— Ma va all'inferno coi tuoi consigli!...

— Signori!... — interruppe bruscamente l'onorevole. — Volete aver la bontà di far silenzio e di ascoltarmi? Il momento è grave e non consente queste piccole diatribe. Chiudiamo i battenti alle questioni personali, ed uniamoci per lavorare di comune accordo alla vittoria finale. Ogni esitazione, ogni ritardo, ogni discordia ci farebbe vergogna. I rossi ci guardano e si organizzano formidabilmente. Le ultime notizie che ho avuto sono molto gravi. Le prime macchine rosse sono uscite; un vero esercito di braccianti è stato mobilitato. I rossi hanno a loro disposizione tutto quanto serve ad un vero e proprio assalto alle aie e non passeranno dalle strade maestre. A nostra volta dobbiamo mobilitare tutte le nostre forze. Ad ogni astuzia vuole essere contrapposta una più fine astuzia e, se sarà dolorosamente necessario, come si prevede, ad ogni violenza converrà contrapporre una più grande violenza. Dobbiamo non essere sopraffatti. La Repubblica cammina sullo scrimolo di un abisso. Giolitti non vuole entrare in causa; nel Governo prevale la dottrina e la mentalità della lodola francescana... e cioè di Luigi Luzzatti il quale ebbe, ultimamente, a dire che « il Governo non si pronuncia sul diritto di scelta della macchina perchè un Governo liberale e costituzionale è sopra le classi e non è nè capitalistico, nè proletario ». Così parla l'onorevole Luzzatti mentre il prefetto di Ravenna ha riconosciuto ai mezzadri il diritto di scegliere le macchine, ritenendoli possessori di fatto. Questa è una enormità!

Signori!... Non dobbiamo illuderci! Siamo alla vigilia di una nuova rivoluzione dei Ciompi. Qui non è in campo se non la più o meno palese bramosia di impossessarsi dell'altrui proprietà, con la violenza. Le Organizzazioni Cooperative, costituite fra braccianti, dalla libera offerta passano alla IMPOSIZIONE DELLE MACCHINE di loro proprietà. Che cosa si propongono con detto tentativo di imposizione?... Una sola e semplice cosa si propongono le Organizzazioni Cooperative rosse, ed è questa: LA FUTURA DOMINAZIONE DELLA TERRA!

L'adunata scattò in un urlo.

— Signori! Non c'è da farsi illusioni, questa è l'ultima finalità dei rossi i quali, non da oggi, hanno scritto sulle loro bandiere la minaccia che noi repubblicani, non dovremmo mai dimenticare: « Morte alla mezzadria! » E la lodola francescana, che non rappresenta certo la classe scapigliata, ha detto e ha scritto che le suddette Organizzazioni Cooperative, per gli studi e per le dichiarazioni di illustri economisti e sociologhi e socialisti forestieri, costituiscono un pregio e una originalità preziosa per il lavoro italiano!

Così parlano gli alti papaveri del Governo, quando noi ci raccogliamo alla lotta più aspra per salvare all'Italia uno de' suoi migliori istituti: la mezzadria. Ma il Governo, non intervenendo nella questione, aggrega alla maggioranza i socialisti i quali hanno così patteggiato il loro appoggio.

Per ora adunque il campo è lasciato all'astuzia e alla violenza e prevale il principio che la prima trebbiatrice la quale riuscirà ad impiantarsi in un'aia, quella avrà diritto di batter il grano di quel determinato podere. Principio mostruoso che ci condurrà alla guerra civile. Ma noi non indietreggiamo! Sapremo difenderci, signori!...

L'adunata gridò:

— Lo sapremooo!...

— E nonostante i boicottaggi, nonostante le minaccie più o meno manifeste, nonostante l'esercito mobilitato dai socialisti, sapremo rimanere in campo e riportar la vittoria! Io arrivo qui da una notte senza sonno. Ho lavorato fino alle nove di stamane. Col far della nuova notte, le nostre macchine e quelle dell'Agraria, partiranno e sanno già in quali aie impiantarsi. Ogni macchina è fornita di personale più che numeroso e armato. Se si vuole guerra, sarà guerra!

— Guerra, guerraaa!... — gridò l'adunata.

— Quindici pattuglioni di venti uomini l'uno, son già formati e battono le campagne per stare a guardia delle aie e preservarle da qualsiasi sorpresa. Sarà, per noi, un duro compito, ma i socialisti non troveranno facili strade. Questa notte incomincierà la battaglia...

— È già incominciata! — scattò a dire Mostardo.

— Sì, e per merito vostro e noi ve ne rendiamo grazie. Però, caro Mostardo, il vostro còmpito è appena all'inizio...

— Io non sono uomo da farmi indietro, onorevole!

— Voi avrete il controllo diretto su tutti i pattuglioni operanti; avrete i vostri informatori i quali, di ora in ora, vi daranno precise notizie di tutto quanto accade. Voi risponderete direttamente a me circa il vostro operato. Accettate, Mostardo?

— Accettato!

— Signori! — riprese l'onorevole. — Alea jacta est! Siamo alla battaglia del Rubicone! Il Blocco è infranto...

— Bene! — gridò Mostardo.

— ... non per colpa nostra! Noi avevamo tesa la mano fraterna ai rossi e i rossi, mentre si valevano della nostra alleanza e della forza nostra, in tempo di elezioni, tentavano poi con la loro opera subdola, con la propaganda quotidiana, col doppio giuoco, di esautorarci, di assorbirci. La Repubblica doveva far da balia al Socialismo e morirne!... Ah, no, per Dio!... La Santa Repubblica non può morire! Ha troppa vitalità, è troppo necessaria, ha troppe scolte su gli ultimi lembi del più lontano avvenire! Noi rassodiamo il passato nel presente e, vagliandolo in modo che tutta la millenne ingiustizia ne vada dispersa, lo scagliamo verso il remoto futuro.

Noi... i gialli!...

All'inizio di questa Rivoluzione dei Ciompi, che non abbiamo voluta, noi ci eleviamo più saldi nell'intiera e sacrosanta coscienza del nostro Diritto.

Compagni!

Domani vi saranno dei morti da ambo le parti; nuovo sangue proletario scorrerà... ma questo sangue non potrà ottenebrare la coscienza nostra; si riverserà bensì sopra coloro che vogliono distrutto il sacro istituto della mezzadria.

In alto i cuori, fratelli miei di fede!...

Oggi, come segno augurale, nel nome della grande battaglia ingaggiata, vi invito a gridare con me:

Evviva la Repubblica!...

Dagli undici petti uscì un urlo formidabile:

— Evvivaaaaa!...

Poi il Cavalier Mostardo si eclissò per ritornare dopo non molto, seguito da Rigaglia. Questi recava un enorme vassoio con sopra bicchieri e bottiglie.

Tutti i salmi finiscono in gloria.

Av voi fe' sintì e' mi sansvès! (Vi voglio far sentire il mio sangiovese!) — disse Mostardo.

Bevvero e brindarono. L'ultimo a brindare fu Coriolano il quale, fattosi innanzi, incominciò a boccheggiare e finì per dire:

— Bbbb... Bbbbb... Bbbbevo alla salute... dddd... dddella Democrazia... ooggg... oooggg... oogggi combattente, dddomani vvvvincitrice!...

Nel brolo cantavano le cicale e c'era un bel sole d'oro. Spadarella si era seduta all'ombra di un melo, aveva abbandonato il libro sulle ginocchia, il capo sul tronco della vecchia pianta e guardava gli ultimi comignoli e le nuvole sparte.

Tutto un ronzio di insetti le era intorno. Una canipaiola cantava in una macchia. La città non c'era più; c'era solo l'estate e il verde dell'estate con tutti i suoi fiori, nell'ombra di un brolo.

Si sentì appena una campana che chiamava forse le colombe a raduno e le rondini. Morì con le nuvole, nell'azzurro altissimo.

Nessuno parlava intorno; nessuno intorno dava cenno di una presenza estranea al raccoglimento di quell'ora soave. Solo il vento arrivava dalla purezza del cielo, a quando a quando, a portare una carezza e un profumo nella placida calma.

Le frutta maturavano al sole invermigliandosi; anche nell'anima di Spadarella, anche nel cuore di lei che era nuovo, qualcosa si invermigliava. Il frutto di una rama solitaria, fiorita già in un silenzio antelucano.

Essa non parlava più con sè stessa e non leggeva più. Un poco aveva cantato, sommessamente, presa tutta quanta da una dolcezza tale e così profonda che a poco a poco le aveva serrata la gola; e il suo canto si era spento come il sospiro della campana, ma nell'ombra del suo cuore commosso.

Ora si perdeva nell'aria, viveva di sole e di uno smarrimento ineffabile. Non pensava a Iddio e Iddio era con lei.

Come se qualcuno le avesse detto: — Vieni!...

Era un invito al mistero delle ore soavi che si abbandonano alle ombre di un giardino, di un brolo.

Nelle piccole città c'è più riposo per l'anima e la giovinezza può esiliarsi perchè la conduce un silenzio amoroso.

Non nelle metropoli regali può vivere una santità d'amore tanto grande.

Spadarella sorrideva e i suoi grandi occhi belli vedevano lontano, una strada... una casa... Ed ella udiva una fresca parlata...

— Perchè non canti ancora, Spadi?... Mi ero fermato a sentirti!... Non volevo più entrare!... Spadi, ho allevato un rosignolo, per te... Lo vuoi? Te l'avevo portato...

Infatti perchè non cantava più?

Il rosignolo era in una gabbia verde, di brilli, coperta da una tela cerata verde.

— Lo vuoi?

— Sì.

Avevano cercato un chiodo sul muro, vicino alla porta, nella casa bianca, in mezzo al giardino.

— Così canterà col sole e con le stelle...

E c'era questo nuovo abitatore, presso i tre scalini che si salivano per entrare nella casa in mezzo al giardino.

— Addio, Spadarella...

— Grazie, Paolo...

E si era avviata a riaccompagnarlo fino all'usciuolo che si apriva nel muro di cinta.

Poi, lungo la strada, aveva raccolta una gardenia.

— La vuoi?

— Grazie.

— Aspetta...

E aveva cercato l'occhiello per il fiore e si era tolto uno spillo dalla veste, per fermar la gardenia, chè non dovesse perderla.

Poi lentissimamente, guardando sempre nel vano, sempre più piccolo, aveva richiuso l'usciuolo.

Girolamo e Stefano lavoravano ad un'aiuola di gigli.

Ogni torre ed ogni campanile aveva una corona di rondini.

In un'ora della vita si ritrova Iddio che sorride, ma non più di una volta perchè l'anima conosce una strada ed una sola che arrivi tanto lontano. E, dopo, la mente si annebbia fra le ciarlatanerie dei sapienti, o si estrania e si imbraca nella torpida vita senza più luce.

L'amore ci insegna la strada... ma una volta sola.

Una sera estiva.

— Quando sei ritornato, Paolo?

— Ier l'altro.

— Ti fermerai?

— Sì, fino a quest'autunno.

— E dopo?

— Andrò a Milano.

Stefano e Girolamo passarono e si tolsero il cappello. Avevano compiuta la loro fatica anche per quel giorno.

— Buonasera, Spadarella.

— Buonasera.

Se ne andarono lungo il muro, senza parlare, curvi, la giacca sopra una spalla.

Una donna, seduta innanzi alla porta di una casa vicina, cantarellava una nenia a un suo bimbo che teneva sul grembo. Due comari sbraitavano, più lontano, con una frotta di marmocchi. Passò un carro rosso, trascinato da due enormi buoi; una bimba scalza li precedeva reggendo la corda della nasaiola; venivano dietro due contadini scamiciati, taciturni e gravi.

Dal fondo della strada, che moriva fra gli orti, era nata la stella del vespero.

Poi suonò l'Ave.

Passò l'Angelo sopra una piccola città del mondo.

Non si guardavan negli occhi; egli guardava le colline che si vestivan come le fanciulle a primavera, di un color di violette e di lillà.

Disse:

— Domani andrò a Premilcore...

— Dai tuoi parenti?

— Sì.

Ella sentì, nell'anima accorata, una nostalgia di perdute distanze; le pareva che, oltre quel soavissimo smorir di colline, incominciasse la strada che è solamente nei sogni.

L'usciuolo era dischiuso; Spadarella si appoggiava allo stipite della piccola porta che si apriva sul muro di cinta del suo giardino. Ogni tanto guardava verso il fondo della strada.

— Dove sarà Spina Rosa?

Egli guardò con lei, senza dir niente.

Poi un brivido l'aveva fatta arrossire. Egli aveva detto all'improvviso:

— Come ti sei fatta bella!...

Poi le siepi finiscono e si apre la larga, la campagna sconfinata, tutta a grani e a lupinelle. Ed ivi non sono che allodole e nuvole; e sentieri che non finiscono mai.

Qualche piccola casa è sul confine delle larghe; qualche casa con la sua porta rossa.

Chi starà mai laggiù, sotto il sorriso del cielo?...

Un giorno le fanciulle partono, attraverso le lupinelle in fiore, sotto il volo delle allodole e delle nuvole... solo per vedere... per sapere chi abiti mai, dentro la piccola casa dalla porta rossa, sotto il sorriso del cielo.

E sono scalze... e veston di niente... e portano il loro cuore che canta, attraverso il mare delle lupinelle.

Laggiù ma' mai!...

C'è sempre un porto più lontano, per le fanciulle che migrano verso il loro sogno d'amore.

Chiuse le palpebre e vide un'ombra d'oro; e in quell'ombra si immerse.

Le api, i calabroni, le pecchie le ronzavano intorno.

Un frutto cadde dal melo. Un frusciar dolce di foglie discendeva nell'ombra d'oro, con lei.

Ella non avvertì più che l'estate: il caldo, il languore, la chiarità, la promessa dell'estate. L'essere suo si distese, si perse nell'universale. Ella non si sentì più nella sua vita: si sentì pari alle cose che non parlano e a quelle che non si vedono e sono per la stessa legge come noi siamo. E le parve che un sonno le sopravvenisse ma non era il sonno, bensì una coscienza diversa.

Solo languiva e non sapeva di che; e un po' di angoscia era nel suo riposo. Non c'era più parola, al mondo, per la sua attenzione; c'era solamente una incerta attesa.

Aveva pensato a una strada, a una casa, al volto di un giovane; ora anche queste cose eran dileguate nella profondità dell'ombra d'oro ed ella non pensava più e il cuore di lei era vuoto di immagini.

Ma il sole aveva anche per Spadarella l'ardor che matura le frutta; anche per Spadarella, la calda estate recava nel grembo un segreto d'amore.

Un segreto, ma quale?

Ella si sentiva battere i polsi e non sapeva di che sorridesse; anche non sapeva perchè il suo volto si facesse del color dei gerani. Non era il caldo, era qualche altra cosa dolce, ignota e divina. Era la sua giovinezza.

Perchè ella camminava, con la sua giovinezza, da stagione a stagione, e gli occhi suoi grandi erano chiari e le cose si illimpidivano, specchiate nella loro chiarità; ma la sua compagna, quella che teneva gli anni di lei fra la sera e il mattino, si era turbata di una cosa che non era tuttavia un desiderio, ma un presentimento e si era ferma nel sole come il frutto che matura per qualcuno che deve passare.

Tra le siepi, sulle rame, nei pomarii e nei roveti maturan le frutta per l'errante desiderio del mondo e la stagione arriva per le fanciulle.

Anche le prugnòle si fan dolci nel cuor dell'estate!

Ebbene, l'anima di una vergine, ad un punto della sua giovinezza, sente che la purità sua non sarà guasta se l'amore arriverà ad amarla; sente che, sotto il confine del cielo, non v'è altra poesia ed altro più grande destino. E il suo desiderio arriva come una rondine che appare in un mattino di aprile.

Essere amata!

A un tratto, in un'ora della vita, questa sconfinata dolcezza si appena in una attesa da core:

Essere amata!...

Chi l'avrebbe attesa in fondo all'ombra d'oro di quell'estate regale? Chi avrebbe colto il primo bacio della sua bocca vermiglia? Chi l'avrebbe stretta fra le braccia per mormorarle le parole che si ascoltano ad occhi chiusi?...

Ella non udiva che il frusciar delle foglie del melo e Iddio era con lei.

Qualcuno l'aveva chiamata dalla distanza del mondo.

Qualcuno che aveva detto:

— Levati e cammina perchè sei giovane e bella, e prendi la pena del tuo cuore e vienmi ad incontrare!...

Ora ella aveva ubbidito.

— O Spadarella?... Dormi?...

Ella aprì gli occhi, in sussulto. Lo zio Giovanni stava di fronte a lei, nel sole.

— Hai tardato tanto, zio!

Fu in piedi; si riassettò le vesti.

— Che ore sono?

— Le dodici e mezza — rispose lo zio Giovanni. — Bisognerà spicciarsi. Spina Rosa ci aspetterà brontolando.

— Io sono pronta. Il mio cappello l'ho lasciato in camera tua. Vado a prenderlo, zio. Permetti?

— Sì. Fai presto.

Ella si avviò innanzi correndo. Il Cavalier Mostardo le teneva dietro passo passo. Come fu alla porta del cortile, incontrò Rigaglia.

— Ci sono queste lettere per voi.

— Chi le ha portate?

— Il postino.

Le prese le rivolse da ogni lato; non capiva chi poteva avergli scritto.

Ne aprì una, guardò la firma... era una donna.

— Margherita?... E chi è questa Margherita?...

Perchè Spadarella non sopravvenisse, ficcò la lettera in tasca.

— La leggerò dopo.

Ne aprì una seconda. Incominciava:

Uomo del mio sogno,

mi sono decisa a scrivervi dopo aver lungamente combattuto con me stessa, col mio dovere... eccetera, eccetera...

Era firmata Maddalena.

— Maddalena? Margherita e Maddalena?... E da dove escono tutte queste donne?...

Ficcò in tasca anche la seconda. Spadarella poteva arrivare.

Aprì la terza ed ultima. Diceva:

Amore mio,

tu non mi conosci, ma tu sei l'oggetto di tutti i miei sogni. Io ho desiderato sempre un uomo come te: forte, gagliardo, temerario... etcetera, etcetera...

Era firmata Claretta.

— Margherita... Maddalena... Claretta?... No!... Non può essere che uno scherzo!... È possibile che io sia diventato il gallo della Checca?...

Ficcò in tasca anche l'ultima e si fermò in mezzo al cortile ad aspettare Spadarella.

— Per Bios! Ma che cosa mi capita in questi giorni?

Poi, dal fondo del giardino, venne innanzi un ragazzo con una lettera.

— Per chi è? — domandò Spadarella.

— Per Mostardo — rispose il ragazzo.

Il Cavalier Mostardo guardò di traverso il sopraggiunto.

Prese la lettera, lacerò la busta, lesse:

Amico mio,

Sono al Conventino. Devo preparare la villa. Sono sola. Se passaste a tenermi compagnia, mi farebbe piacere. Non mi garba di restare isolata in campagna, specialmente di notte. Se foste con me, non avrei paura. Potete arrivare quando vi piaccia: tanto di giorno, quanto di notte. Vi aspetterò.

La vostra

Ninon Fauvétte.

Piegò la lettera e la pose in tasca con le altre.

— E quattro! — esclamò.

— Quattro, che cosa? — domandò Spadarella.

— Quattro... quattro spropositi! È meglio non parlarne.

CAPITOLO X. Qui battagliano gli eserciti dei Rossi e dei Gialli; qui appare la bene organizzata Anima Economica delle moltitudini nemiche di Dio e parla, per la prima volta, l'Uomo Pacato.

Alla Camera Rossa era un andirivieni continuo di compagni in bicicletta. Assoluto Malvagni, il segretario di detta Camera, si sentiva, quel giorno, l'anima precisa e concreta di un Imperatore. Radunava le fila; metteva in moto le moltitudini. Tutto dipendeva da un suo cenno.

Si ha un bell'avere saldi principii democratici, ma certi poteri finiscono per inebbriare chi li esercita. Chiamarsi Segretario piuttosto che Re o Imperatore, poco importa; il tutto consiste nell'essere padroni del popolo.

Assoluto Malvagni era padrone del popolo; o meglio, di quella parte del popolo che militava con lui sotto le bandiere del socialismo.

Assoluto Malvagni si era fatto su Marx e, passando di plusvalore in plusvalore, era diventato una testa grande. Come avvocato non aveva assunto il patrocinio se non di un furto di galline. Riuscito a far condannare il ladruncolo, aveva preferito poi alle pandette la politica.

Suo padre, integerrimo falegname, si era illuso di possedere nel figlio, un grand'uomo e, per condurlo agli studi universitari, dopo essersi indebitato fino ai capelli, aveva venduto le ultime seghe.

Carpita la laurea, il povero Assoluto era ritornato alla Città del Capricorno nella speranza di guadagnarsi rapidamente una vasta clientela. Ciò non ebbe a toccargli e Assoluto se la prese dapprima con l'indelicata società poi con la grassa borghesia.

Una volta entrata in ballo la grassa borghesia, Assoluto di Patroclo Malvagni sentì di aver afferrata la fortuna per le corna e si valse delle medesime.

Andò innanzi a cornate. Questo è un mestiere che riesce bene, se uno non ha troppi scrupoli.

Incominciò con l'avere un serio litigio col suo papà.

Il suo papà, come abbiamo detto, era un repubblicano a fondo perduto, di schiatta legnosa. Egli stava alla sua convinzione politica come una cariatide al proprio sostegno e non avrebbe ammesso che il figlio degenerasse. Ma il figlio, di Repubblica non volle saperne. Vi furono litigi seri. Una volta Patroclo, afferrata una seggiola, voleva romperla sulla testa di Assoluto; però, non essendo Assoluto dello stesso parere, il vecchio Patroclo si convinse che quella non era la forma migliore per far entrare un'idea nelle testa del figliolo e le cose rimasero al punto di prima.

Assoluto si buttò al socialismo. Grande oratore non era, ma sapeva dire quattro minchionerie con una certa foga.

Poi doveva vendicare l'oltraggio che la società gli aveva fatto, non riconoscendolo grande avvocato.

Il suo odio si vestì di ingiustizia sociale. La grassa borghesia era là, pronta ad essere presa a calci in qualsiasi parte; Assoluto incominciò l'operazione per conto del proletariato.

Per meglio fare fondò un giornale: « Il Faro Socialista », e in pochi anni si sistemò.

La borghesia finì per rispettarlo. Gli stessi che avevano deriso l'avvocato povero diavolo, ammirarono il direttore del Faro Socialista.

Dati i quali trionfi, l'avvocato Malvagni divenne più Assoluto che mai e tempestò, e minacciò e scrisse come una bestia, ma con quella tale bestialità che è necessaria al popolo, a volerne essere amati. Fu un organizzatore instancabile; si prodigò in comizi e conferenze; parlò sempre, in qualsiasi ora del giorno o della notte e in qualunque luogo si trovasse. Così crebbe in importanza e in misura e dominò la massa.

Ora egli predisponeva la battaglia dalla sua sede nella Camera Rossa. Aveva innanzi, una carta topografica della provincia e veniva riempiendola di segni cabalistici, con matite di vario colore. Riceveva e rimandava, con ordini brevi e precisi, i capi delle varie sezioni; precisava le ore dell'attacco, le strade da battere, le precauzioni da prendere, il numero di uomini da usare.

Ora un bracciante stava presso il tavolo di lui: il cappello in testa e le mani in tasca.

— Dunque hai capito, Giorgione?

— Ho capito.

L'avvocato Malvagni non alzava il capo dalle sue carte.

— Dovete cominciare dall'aia dei Baten.

— Va bene.

— A partire da San Girolamo e ad andar di traverso pei campi, impiegherete tre ore...

— ... buone!...

— Sì, tre ore.

— Ma avete pensato — riprese Zurzôn — che a battere la strada che avete detto voi ci son da traversare tre grandi fossi?

— Ci ho pensato. E non è per questo che ho fatto seguire la macchina da tre carri di fascine?

— Va bene.

— Allora non ho altro da aggiungere.

— Posso andar via?

— Sì.

Si lasciarono. Arrivarono gli informatori.

— Ci sono incidenti?

— Poca roba. Una bastonatura alla Rotta; qualche schioppettata a San Casciano.

— Feriti?

— Nessuno.

— Sì — soggiunse un secondo: — due donne!

— Come due donne?

— Una rossa e una gialla.

— E dove?

— Alla Pieve Quinta. Hanno incominciato a graffiarsi, poi si sono sparate contro.

— Ferite gravi?

— No.

— Sono dentro?

— Una è dentro e l'altra è all'ospedale.

— Bene. E le macchine sono in moto?

— Le prime, sì.

— Dove?

— A San Casciano, alla Rotta, a San Pietro, a San Zaccarìa...

— Gli uomini sono armati?

— Armatissimi.

— Si sono divisi in tre squadre?

— Sì.

— Avete altro da dirmi?

— Ci sarebbe il caso Borgnini...

— Be'?...

— Il popolo vuole soddisfazione.

— Il popolo aspetterà. A questo penso io.

— C'è molta gente che brontola.

— Qui bisogna ubbidire e non brontolare!

— Però...

— Non c'è però che tenga!... Quando sarà tempo penseremo a Borgnini. La disciplina di partito assegna a ciascuno la propria responsabilità e un compito preciso. Andate.

E anche gli informatori andarono.

Assoluto Malvagni rimase al proprio lavoro, tetragono al caldo, alle mosche, alla stanchezza.

Le trebbiatrici erano partite alla chetichella dal loro grande deposito presso la città del Capricorno e si erano sparse un po' qua un po' là per la campagna, fermandosi nei luoghi più opportuni a prendere l'avvio per muovere all'assalto delle aie. Tale dislocamento era stato studiato tanto dai rossi quanto dai gialli con minuziosa cura e, molte volte, i due avversari si trovavano all'agguato a poche centinaia di metri.

In questi casi, la reciproca sorveglianza era accanita e continua. Ora, fra i tanti, uno dei punti di maggiore pressione era San Zaccaria, dove le squadre rosse e le squadre gialle erano più numerose, più agguerrite e più violente.

Si avvicinava l'ora dell'attacco. Una placida sera di estate moriva nell'immensità di un cielo tersissimo. Pei campi, biondi di stoppie, non erano voci di biolchi, chè le terre non si aravano ancora; appena passava qualche tocco di campana raminga, chissà da quale pieve deserta. Una campana per le anime dei morti, non per un solo vivente, chè, in quelle plaghe, di Iddio e del padrone ne avevano fatto un solo fascio per un odio solo. E i poveri piccoli bruti, sotto la guida di qualche positivista o materialista di quinta mano, si gonfiavan d'aria e di parole, di oscenità e di penosa miseria rinegando la sola scarsa poesia della vita.

Nè Dio, nè padrone.

Passava appena, nel cuore del silenzio campestre, un alito di campana moritura per le anime di un tempo, per la dolcezza e la poesia di un tempo.

Poi anche la sera se ne andò per lasciar posto alle stelle.

L'estate indiadema il cielo, apre le strade profonde per chi guarda lontano.

Con la notte illune, le due parti si disposero all'uscita.

Furono primi i rossi. Quattro macchine erano in pieno assetto di guerra, le grandi ruote fasciate di paglia.

Per ingannare la sorveglianza dell'avversario conveniva sopprimere ogni suono e la cosa non era agevole dati gli enormi ordigni che si dovevano trasportare e le improvvisate strade da battere; ma i meccanici avevano lavorato e giorni e notti intiere a ripassare pezzo per pezzo ed erano corsi fiumi di lubrificanti. Ora il miracolo si era compìto. Le trebbiatrici dalle ruote fasciate di paglia, scivolavan nel silenzio trainate da tre, da quattro coppie di buoi.

Si formò una colonna.

Andavano innanzi gli esploratori armati, seguivano i carri con le fascine, poi un primo gruppo di braccianti muniti di vanghe, di zappe, di leve, di badili, di funi, di trivelle, di seghe, di travi: seguivan le macchine circondate da tutto il corpo, uomini e donne, che doveva farle agire: chiudeva la colonna un secondo gruppo di braccianti, più folto e numeroso.

Torno torno sorvegliava un nugolo di informatori e di esploratori.

Non appena uscita dal ricovero e spiegata sulla strada, la colonna sostò.

Ermenegildo Casagrande, detto Pulôn, era il generale. Un vecchio bracciante ispido come un carciofo. Pulôn, fermata la colonna, parlò a bassa voce a coloro che aprivan la marcia. Nessuno si accostò che non fosse chiamato.

Con Pulôn si raccolsero gli anziani.

— Adesso — disse Pulôn — dovete voltare per quel viottolo e prendere di traverso per i campi.

— Ci sarà da fare! — rispose Masino.

E Ricôn:

— Ma dove andiamo?

— All'aia dei Battisti.

— E non è da un'altra parte?

— Tu sta zitto!

Ricôn tacque perchè il generale non ammetteva che gli ordini suoi fossero discussi.

— Bene — riprese Masino — allora bisogna mandare avanti gli uomini con le fascine.

— Quanti fossi ci sono prima di arrivare alla casa dei Fiori?

— Alla casa dei Fiori?... Nessuno!

— Sei sicuro?

— Se ve lo dico!

— E terre lavorate?

— Neppure.

— Allora si può andare avanti tranquilli?

— Sì.

Pulôn dette il comando e la colonna svoltò per la viottola.

Furono alla Casa dei Fiori la quale non distava se non trecento metri dalla strada comunale. I Fiori erano coloni noti in tutti i dintorni per la loro fede socialista. La prima mossa di Pulôn non poteva destar sospetti nella parte gialla.

Una macchina rossa entrava in un'aia rossa; senonchè il piano del generale era ben diverso.

Egli fece sostare la trebbiatrice sull'aia e, come seppe dagli informatori che i gialli non erano all'agguato nei dintorni, mandò innanzi il carro con le fascine ed i pontieri.

— Preparate la strada attraverso ai campi. Fra tre ore, la macchina deve essere nell'aia dei Battisti.

C'eran da traversare tre campi arati. I braccianti andarono innanzi coi badili e le vanghe.

Aprirono la strada alla Bandiera Rossa!

E un giorno se ne parlerà, un giorno lontano, quando fiorirà ancora l'ulivo per una pace più o meno transitoria e si udiranno cantare i terrazzani, come una volta, essendo ritornata l'anima a Dio; perchè dovrà ritornarvi, nonostante gli Assoluti Economici e le varie idiozie correnti che hanno fatto del popolo una pazza bestia senza costume, urlante per gli sterquilinii della sua infinita miseria.

Attraverso i campi arati, come per una vergine terra, la taciturna masnada apriva il cammino alla Bandiera Rossa:

Larga la strada e rossa la bandiera:

La tomba la sarà per i padroni!...

Ci passerà la forca e la manêra[3]

Quando faremo la Rivoluzione...

La canzone vermiglia era nei cuori se non sulle bocche dell'accolta ostile. Il grido augurale, il programma minimo di ogni buon lavoratore, saturo dell'Assoluto Economico.

Ammazzare!...

Una qualsiasi idea di giustizia e di bontà, travagliata nei secoli, arriva al popolo come un mostricciattolo ambiguo senz'occhi e senza cervello.

Come sulle porte dei macellai di campagna, la storia ha i suoi giorni segnati ed espone il cartello per le turbe in continuo affanno:

«OGGI SI AMMAZZA!».

Vi sarà carne per la fame e per lo scialo di molti, ma qualcuno rimarrà senza, per conservare la rossa sementa della nuova tappa più o meno lontana. Il progresso è solo delle esigue minoranze minacciate di continuo dalla barbarie che non si può snidare dalle moltitudini.

In meno di un'ora i braccianti aprirono la strada fra i campi. Allora si fecero innanzi i pontieri seguiti dal carro carico di fascine. Si dovevano colmare due grandi fossi per far passare le trebbiatrici. Anche questa volta l'opera fu come una febbre.

Poi venti uomini armati si spinsero fino all'aia dei Battisti. Si udiva, di lontano, il fragore e il rombo della trebbiatrice messa in moto. Pulôn, per ingannare i gialli, fingeva di trebbiare tranquillamente il suo grano rosso con la sua macchina rossa.

L'aia dei Battisti era deserta. Intorno intorno, dietro le siepi, per le callaie, lungo i fossi non era anima viva. Evidentemente i gialli avevan dimenticato i Battisti. Il colpo si presentava di sicura riuscita. I venti esploratori ritornarono di gran corsa. Trovaron Pulôn che li attendeva a mezza strada.

— Va bene? — domandò Pulôn.

— È la volta nostra!... Bisogna far presto!... — rispose Calisto che era un bracciante analfabeta e anarcoide.

— Non c'è nessuno a guardia dell'aia?

— Nessuno.

Allora Pulôn chinò la faccia e, annodate le mani dietro le reni, ritornò sui suoi passi lentamente. Che avrebbe deciso? I compagni non osavano interrogarlo. Sulla sua faccia ossuta e fosca non si poteva leggere nè il bene nè il male. Ciò che passava dietro la sua piccola fronte rugosa, mezzo nascosta dagli incolti capelli, era un mistero per tutti. Pulôn non aveva amici e non conosceva abbandoni; non dava e non chiedeva niente; i suoi simili gli erano tutti egualmente lontani e indifferenti. Non aveva che da soddisfare, con cieca brutalità, un odio atavico. Se il destino gli avesse dato il potere, avrebbe rizzata una forca ad ogni bivio; un patibolo in ogni piazza. E dal patibolo avrebbe amministrata la sua fiera giustizia livellatrice. Niente, come una lama o una corda, può far scomparire le differenze fra gli uomini. Pulôn saliva dalla moltitudine; il cuore indurito dai secoli. Le sofferenze millenarie delle plebi avevano il nome e la faccia di lui. Il popolo doveva rifarsi. Troppo si era ammazzato nel nome della civiltà; ora la rossa fiumana avrebbe avuto un nome diverso.

Camminò fra il silenzio della sua gente. Ad un tratto chiamò:

— Pi-ross?

Si fece innanzi un giovane.

— Va'... corri... dì che attacchino sei paia di buoi alla macchina e che vengano avanti di forza. Fa presto.

— Li aspettate qui?

— Sì. Fa presto!

Pi-ross partì come una palla da schioppo. L'ordine fu dato. Si trassero i buoi giganteschi dalle stalle, furono aggiogati, unendo poi l'un paio all'altro per mezzo delle zerle, e come la lunga fila si spiegò sull'aia, gli uomini, coi pungetti ne provocarono la forza. Uno strattone, il pesante ordegno fu spostato; i buoi si avviaron quasi di corsa. La trebbiatrice ondulava sussultando per le ineguaglianze della viottola erbosa.

Sulla piattaforma, in alto, erano in piedi le donne e le ragazze addette a sciogliere i covoni. Un trepestìo sordo, un affanno continuo nei punti più difficili, quando la forza dei bovi pareva non reggesse all'impresa. Allora un nugolo di uomini, con leve, paletti e vanghe si affollava intorno alla macchina testarda e chi, puntata una spalla a una traversa della trebbiatrice, si inarcava nell'impeto di uno sforzo erculeo, chi spianava il terreno, chi accorreva con assi e fascine a farne letto alle ruote, chi punzecchiava i bovi; e grappoli umani, in un aggroviglio magnifico di membra, disposte quasi circolarmente nello sforzo combinato, spingevan pei raggi le ruote, ad unir forza a forza nella disperata energia di una volontà invincibile.

Così anche i mali passi eran superati. Sul molle terreno si imprimevano fondi i solchi delle ruote.

La chiara notte estiva era senza voce. Ad un tratto, sulla non remota collina, apparve un fuoco. Forse una bica che ardeva o un fuoco di gioia per una sagra?

Le donne e le ragazze, sull'alto della trebbiatrice, si volsero a guardare.

Una gran fiamma lontana, nel cuor della notte, ha sempre un singolar fascino e chiama l'anima delle genti disperse per le solitudini agresti, come le torme degli uccelli migratori.

A mezza strada incontrarono Pulôn. I pontieri avevan compìto l'opera: attraverso al gran rio, pienato di fascine, si apriva una strada di travi e di solide assi di quercia.

Pulôn esaminò l'opera e fu contento. Gridò:

— Avanti!

La fiumana si rimise in moto.

Già apparivano, dietro gli olmi, i pagliai dell'aia dei Battisti. La mèta era prossima. Gli scamiciati sentivan l'ardore dell'urlo e dovevan tapparsi la bocca. Non si poteva. Il Generale aveva imposta la fatica; aveva comandato il silenzio. Da filare a filare, per tre campi e più si distendeva l'esercito degli assalitori; il formicolìo degli uomini, dei buoi, dei carri e dei carretti. Pulôn guardò quel suo popolo in marcia: l'avvenire veniva innanzi così, per l'assalto. Oh! poter condurre quella gente a un improvviso assalto della Città del Capricorno!... Tutti i gialli, cianciatori di Repubblica, avevano pensato mai di impadronirsi del potere?... E non era difficile! Bastava tagliar i fili del telegrafo e del telefono; assediar la stazione, devastare i binari, far saltare i ponti. I guardiani della borghesia erano scarsi e non sarebbero usciti dalle caserme. Pochi uomini di buona volontà e bene organizzati potevano condur la sorpresa. Pulôn sentiva che il domani era in suo potere.

Camminava così, sempre solo, le mani annodate dietro le reni, a fianco della trebbiatrice, quando si fermò ad attendere un uomo che correva a lui.

— Che c'è di nuovo?

— Hanno acceso un razzo, laggiù... dietro la strada maestra, verso i campi dei Tugnòla.

— Ma i Tugnòla son dei nostri.

— Può darsi ci chiamino in aiuto.

— Vai a vedere.

— Di qui ci saranno quattro chilometri.

— E tu corri!

— Va bene.

L'uomo ripartì come era giunto.

Pulôn ebbe un attimo di esitazione; poi chiamò gli anziani ed ordinò che la colonna fosse spinta innanzi con maggiore rapidità.

Gli uomini si assiepavano intorno alla trebbiatrice che era il sacro palladio, il conteso carroccio.

In tutti era la ferma convinzione di « farla ai gialli ».

Avanti! Avanti!... I dodici buoi puntavano affannando sotto la sferza dei bifolchi; la trebbiatrice traballava da buca a buca minacciando capovolgersi; ma eran cinquantine e centinaia che la sorvegliavano; era la turba d'assalto che le si raccoglieva intorno decisa piuttosto a farsi schiacciare anzichè vederla riversa e inutilizzata fra i campi.

— Su, ragazzi, per la bandiera rossa!...

Ecco l'ebbra visione, ecco l'ipnotizzante balenìo nel vento della battaglia!

Si torcevan nello sforzo inaudito; l'ultimo tratto di strada era impervio. Ma, anche nella fonda notte, risplendeva sulla moltitudine, la vermiglia visione della bandiera rivoluzionaria; sventolava sotto le stelle, si spiegava sulla sacra terra da conquistare.

Tutto era conquista terrena, nella legge democratica.

« Tu non avrai, innanzi a te, altro Ventre che non sia il tuo Ventre ».

« Il tuo Dio sarà nel tuo pane e nel tuo companatico e tu vivrai contento del tuo sterquilinio, nè cercherai, altrove, altre cose che non ci sono ».

« I padroni ti avevano insegnata la falsa strada di Dio. La Scienza li ha smascherati. Da oggi tu sai che non vi è altro Iddio innanzi a te, all'infuori del tuo Ventre ».

Codesta ebbra predicazione arrivava alle moltitudini attraverso all'Assoluto Economico.

Molti asini ragliavano insieme. Molte bestie addottorate danzavano i tresconi con la sgonnellante Scienza; e si facevano innanzi a scrutar l'abisso col lanternino del positivismo, del monismo, del materialismo.

Conveniva sgombrare il cielo dal fantasma di Dio e negare il Mistero.

Era piovuta, fra le illuminate pecore, la Causa delle Cause. L'Enigma era risolto. Caduto Iddio non restava che il Ventre; e l'uomo si avviava ad essere un più o meno ingegnoso scarabeo stercorario, nel risolto problema dell'Universo.

Ora la turba era giunta a un cinquanta metri dall'aia dei Battisti, e Pulôn aveva spedito innanzi venti uomini chè abbattessero le siepi verso i campi. Non voleva passare dalla strada.

Per quanto il silenzio fosse stato rispettato, data la moltitudine e l'opera compiuta, qualche rumore poteva esser giunto alla casa in mezzo all'aia; ma pareva che i Battisti dormissero il sonno della morte. Non un lume, non un sussurro. Ciò non era naturale. O conveniva pensare che i Battisti, accortisi della masnada che sopravveniva, avessero tale e tanta paura da non rifiatare, nascosti nelle loro buie stanze; o bisognava concludere che la casa fosse deserta. Ma era possibile che dei contadini abbandonassero così i loro beni senza neppure un tentativo di difesa? Perchè i Battisti non eran nè rossi gialli, ma semplicemente clericali. Rappresentavano un anacronismo nella terra rivoluzionaria. Formavano una numerosa famiglia, ligia ancora al prete e all'altare. Per questo eran segnati a dito e vituperati quotidianamente nella classica terra della libertà.

Ora Pulôn sapeva che i Battisti si erano accordati con l'Agraria e che avrebbero trebbiato il grano con una macchina gialla. E ciò non doveva essere. Dall'aia dei Battisti, e cioè dall'aia nera, doveva partire la prima affermazione di principio e il primo trionfo dei rossi.

Abbattuta la siepe si trattava di far superare al Santo Carroccio della Democrazia gli ultimi cinquanta metri di sconvolta strada.

Pulôn tolse il divieto del silenzio.

So', rugiè burdèll, c'ai sén! (Su, gridate ragazzi, chè ci siamo!).

Allora l'urlo contenuto per tanto tempo scoppiò dilagando, si elevò altissimo. Donne, ragazzi, uomini si unirono nello stesso impeto. Parve il mugghio del mare. Migrò lontano; si perse nella più remota distanza della notte.

I Battisti avrebbero udito!

Ma la casa rimase buia; nessuno si affacciò alle finestre.

Ed eccoli a venti metri dall'aia nera, eccoli sulla soglia.

Ogni cuore cantava la diana del Partito.

Da cento voci si elevò il coro:

Larga la strada e rossa la bandiera;

La tomba la sarà per i padroni...

Ma di un subito ogni impeto cadde e ogni tumulto. La gioia rossa fu troncata da una, da venti detonazioni.

I Battisti non dormivano. I gialli non avevano dimenticata l' aia nera!

Una ragazza, sull'alto del Santo Carroccio, fu colpita e cadde riversa con un urlo straziante. Il miaolìo delle palle da schioppo fece sudar freddo a più d'uno che si era ubbriacato di vittoria. Seguì un momento di esitazione. Di fronte alla sorpresa, le volontà ondeggiavano e la salda compagine stava per disgregarsi; già molti cercavan di svignarsela, e qualche fosso incominciava a riempirsi di fuggiaschi. Ora, sorpreso sul punto di una strepitosa vittoria, Pulôn pensava ai casi suoi. Però, non ebbe tempo di pensar troppo perchè si accorse che, se indugiava ancora, tutto sarebbe stato travolto e perduto. Allora, raccolti gli uomini, fece allontanare donne e ragazzi.

E ricominciò la solfa delle schioppettate.

Ma, dall'altra parte, c'era l'indemoniato genio del Cavalier Mostardo! Egli aveva visto e previsto.

— Ah, vuoi farmela?... Bene! Arrivi al momento giusto!

Il Cavalier Mostardo ritornava dall'aver partecipato a una seduta al Circolo Mazzini e non era di buon umore. Si era parlato del caso Borgnini e i signori della Cattedra avrebbero preteso di tenere a mezz'aria Bucalosso.

Nè fuori dal Partito, nè dentro al Partito. A questo si era opposto con ogni sua energia il Cavalier Mostardo e tanto aveva detto e tanto perorata la sua causa, che le cose erano rimaste al punto iniziale e nessun giudizio era stato dato e nessuna decisione presa.

Ma quel voler giudicare gli uomini di azione in base ai così detti principii etici (che cosa fossero poi questi principii etici, egli non sapeva davvero!), lo indispettiva oltre il verosimile. Il fatto sta che era partito verso le dieci di notte, dalla Città del Capricorno, con un diavolo per capello e, se non si fosse trattato della sua riputazione, avrebbe mandato al diavolo tutto quanto.

Ma i suoi informatori lo avevano avvertito di fatti gravi e non poteva piantare in asso la cosa quando più si rabbuiava. E siccome sapeva che si sarebbe trovato di fronte a qualche centinaio di individui aveva mobilitato l'intiero esercito giallo. Egli stesso doveva dirigere l'azione. Si sarebbe valso di quel po' di scienza militare che aveva imparato guerreggiando dall'America del Sud alla Grecia, per una libertà che era stata sempre più grande nel cuore di lui che non nei fatti.

Pertanto aveva dato ordine che una macchina gialla fosse spedita innanzi sotto buona scorta; ma nessuno doveva attaccare i rossi fin ch'egli non fosse stato presente.

Impartiti gli ordini, stava per licenziare Rigaglia, quando questi disse:

— Vengo anch'io.

Il Cavaliere balzò sulla seggiola:

— Tu?

Era possibile che quella specie di fornicario dimostrasse a un tratto tanto coraggio?

— Tu vuoi venire?... Ma non sai che c'è da lasciarci la pelle?

— Lo so.

— Che cosa succede questa sera, Rigaglia?

— Bella roba!... Come se non fossi stato alla guerra almeno dieci volte con voi!

— Già, ma allora eri un altro! E ci venivi perchè non potevi farne a meno.

— Lo dite voi! Lo so io che cosa mi è costata l'Albania!

— Dovresti ringraziare il tuo Dio che ti ha salvato dall'orribile avvenimento del matrimonio! Be', poche chiacchiere! Se vuoi venire io parto subito.

— Sono pronto.

— Hai attaccato il cavallo?

— Sì.

— Allora andiamo.

Ed eran partiti insieme.

Ora il Cavalier Mostardo ispezionava il suo fronte. Vista riuscita la prima sorpresa, pensò di non por tempo in mezzo e di approfittare dell'improvviso disordine che scompigliava le fila di Pulôn.

Bisognava piombare sulla macchina rossa e fare avanzare la macchina gialla fin sull' aia nera.

Divise le sue forze in due gruppi. Formò coi più giovani un primo gruppo di assalto e al secondo gruppo, degli anziani, dette ordine di far avanzare la trebbiatrice verso l'aia e di farvela entrare a tutti i costi. Postosi poi a capo dei giovani e urlando:

Ripobblica!

Si scagliò all'assalto dei rossi.

Non occorre raccontare quanto accadde in seguito. Non insistendo i rossi nel loro proposito, vennero a un patto coi gialli i quali permisero loro di trascinare la loro macchina altrove. Fu segnata una momentanea tregua. La Repubblica era generosa e Pulôn se ne andava con una solenne scornatura. Ma non si era che agli inizi e la lotta si spostava di aia in aia, di parrocchia in parrocchia, sempre più accesa.

I Battisti erano comparsi tutti quanti: uomini, donne e fanciulli.

Pierone, il capoccio, tentò di baciar la mano al Cavalier Mostardo che non si volle prestare al nefando segno della servitù antica.

— Voi, Pierone, siete un galantuomo, ma avete il torto di rimanere attaccato alla porcinaglia! Siete una vittima di Ticchi Marmissi e del perfido clero. Vi pare che nel nostro secolo, dopo l'ottantanove e con gli imbrogli universali che si preparano per domani, un uomo deva ancora baciar la mano a un suo simile? Toglietevi quel giogo, Pirôn, e venite con noi, nel nome dei proclamati diritti dell'uomo e nel segno della santa libertà!

Pierone rise e chiamò le sue donne che dessero bere a Mostardo. Si fece innanzi una ragazzona giovereccia che recava un enorme boccale verde e un bicchiere stillante. Il Cavaliere si dissetò poi volse gli occhi intorno a cercare Rigaglia.

— Dov'è Rigaglia?

— È in casa — fece Pierone.

— E che fa?... Si sente male?... È ferito?

— No, parla a mio fratello.

— Ma che vuole?

— Sbrigano un affare. Rigaglia deve avere dei danari da noi e adesso si accomoderà la cosa col grano.

— Ecco, perchè è venuto, quel versipelle! — gridò Mostardo — E chi lo muoveva dal suo buco se non cantavano i palanconi?... Dì che mi venga intorno un'altra volta!... Diglielo, sì, che ritroverà quello che va cercando!...

Poi dette ordine gli portassero il cavallo. Quando arrivò e quando fu seduto sul barroccino, ecco sbucar di gran corsa, dalla casa dei Battisti, il modesto Rigaglia.

— Padrone?... Padrone?...

Il Cavalier Mostardo trattenne Carlotta. Si volse a sbirciare Rigaglia e gli domandò bruscamente:

— Cosa vuoi?

— Vengo anch'io.

— Dove?

— A casa.

— E chi va a casa?

— Dove andate allora?

— All'inferno! Vuoi venirci?

— Cosa vuol dir questo?

— Vuol dire che se mi prendi un'altra volta dal lato politico, per combinare i tuoi affari, ti capita tale lezione che te la devi ricordare per un pezzo!

— Ma che cosa ho fatto?

— Ne parleremo domani!

E frustò la cavalla, la quale si allontanò di un balzo galoppando via per la strada polverosa.

Erano le due dopo mezzanotte e Carlotta, chissà perchè, aveva abbandonata la strada maestra e si allontanava trotterellando per certe straduccie comunali che pareva conducessero a ritrovi pieni di discreto silenzio, sotto le stelle.

Non si sentiva più niente, ma solo i grilli, i grilli e i grilli.

Nelle notti estive, questi cantori dei campi conducon via la mente a certe fantasticherie che sciolgono il cinto di Venere a coglierne le grazie, il riso, i vezzi, le lusinghe, i piaceri. Un uomo si sente preso da una calma improvvisa, poi un desiderio gli si insinua nel cuore, un desiderio primevo che lo riconduce a ciò che fu fin dal primo principio. E nasce la donna, come nacque nella notte di Adamo: osso delle sue ossa, carne della sua carne.

« Or amendue, Adamo, e la sua moglie, erano ignudi, e non se ne vergognavano ».

Anche il Cavalier Mostardo sentiva che non se ne sarebbe vergognato perchè ritornava ai tempi del Paradiso Terrestre.

In verità di Paradisi Terrestri se ne possono trovare molto spesso, a sapersi contentare; e il serpente è una persona cordiale.

Ora se un uomo rifà il gesto di Adamo e si pensa ignudo con una donna ignuda, in un paradiso di purificazione pieno di poma succose; se disdegna le foglie sul chiaro orizzonte del mondo, e si incammina per le tepide strade che conducono al frutto nascosto; se questo immagina, nel cuore di una notte estiva, sonnoleggiando i grilli la loro nenia distesa, è certo che, prima o poi, ritornato nella contingente disgrazia de' suoi giorni correnti, deve pensare a una mèta, deve vedere una soglia.

Incontro a lui, senza tormento di operazioni costali, deve balzare una donna che è poi sempre la prima, e nello stesso paradiso.

Il Cavalier Mostardo saliva in ardore così, piano piano, mentre la buona Carlotta lo conduceva via (chissà poi perchè?...) per le stradicciuole più remote, più amorose, più lontane dalla tormentata bufera.

E immaginando e immaginando finì per sentirsi acceso e innamorato.

— Bene, bene, bene!... Ho fatto anche troppo!... Adesso voglio riposare anch'io.

E frustò Carlotta la quale incominciava ad andar troppo adagio.

Ma se il desiderio pungeva il Cavaliere non arrivava più alle soglie del cuore della sua buscalfana la quale, sopraggiunta all'età della moderazione, nulla sognava ormai che non fosse placido e riposato.

— Le due e mezza!...

Si udiva il chiù da una selvetta. Contava gli anni di qualche romantico cuore.

— Forse è tardi!... Dormirà?

Parlava al suo turbamento.

— Mi ha scritto: A qualsiasi ora!... Ma... la discrezione?

E il chiù dàgli col suo verso monotono, sempre più lontano, sempre più sospirato.

Senza nessun pensamento incominciò a contare i sospiri del chiù:

— Uno... due... tre... quattro... cinque... sei... sette... otto... nove...

Un gattaccio nero attraversò la strada. Carlotta, che se lo trovò fra le zampe, ebbe uno scarto improvviso e, quasi quasi, ruzzolava nel fosso col barroccino e tutto.

Mostardo riprese le redini:

C'sa fètt, Carlota?... (Cosa fai, Carlotta?...).

Ma non badò al gatto nero. Non era superstizioso.

Poco più innanzi si trovò ad un bivio. Bisognava decidere. Fermò la cavalla.

— Ci vado?

Il chiù continuava a cantare.

Azzidenti a j'usèll!... (Accidenti agli uccelli!...). Non ci vado?...

Quando gli si sarebbe ripresentata una simile occasione?

Forse mai più. La campagna, il silenzio, il colmo della notte... nessuno poteva vederlo e quei guastamestieri degli amici suoi non lo avrebbero importunato coi sottintesi, le baie e vai discorrendo.

Però l'ora non gli sembrava opportuna. Sì, si trattava di amore e l'amore fa a meno di tante convenienze, però... Fosse stata una donna del suo paese, almeno! Con una donna del suo paese avrebbe potuto agire con maggior disinvoltura.

— Insomma, ci vado o non ci vado?

La Carlotta si addormentava, le froge sulla polvere.

Allora arrivò ad un divisamento supremo: avrebbe lasciata la decisione alla sorte. Il chiù cantava ancora; avrebbe incominciato a contare; se, dopo tredici singhiozzi, l'uccello notturno la smetteva, sarebbe andato al convegno d'amore; se continuava, non ne avrebbe fatto niente.

Incominciò, ma, a vero dire, non era troppo tranquillo:

— ... sette... otto... nove... dieci...

Si volse verso gli alberoni dai quali proveniva la notturna malinconia:

— ... undici...

Per Bios!

— ... dodici...

Non finiva più, quel versipelle?

— ... tredici!...

Riprese le redini; stava per avviarsi; la sorte gli era stata favorevole; ma in quel che si chinava per raccogliere la frusta, l'assiolo ricominciò la sua solfa:

— ... quattordici... quindici... sedici...

Ciò riempì di dispetto il Cavaliere. Dunque qualcuno poteva opporsi alla sua felicità? Ed egli doveva sottostare al capriccio di un canta-di-notte qualunque? Doveva lasciarsi guidare da un uccellaccio? Ma neppure per sogno!

— Su, Carlotta!...

La buscalfana levò il muso e incespicò nell'avviarsi.

— Andiamo, dunque!... Valà, Carlotta!...

Carlotta aveva un sonaglio fermato al sellino. Questo sonaglio incominciò il suo ritmico dondolìo.

Dilìn-dlin... dilìn-dlin... dilìn-dlin...

E cantavano i grilli, sempre i grilli, solamente i grilli.

— Quanti chilometri ci saranno ancora?... Tre chilometri!... Su, Carlotta, da brava!...

Un cane da pastore, balzato fuori da un'aia, si precipitò addosso all'equipaggio, la bocca spalancata.

Questo cane aveva gli occhi rossi. Mostardo vide due punti fosforici nel buio. Prese tranquillamente la pistola dalla tasca della cacciatora e sparò addosso alla belva domestica, tre, quattro volte. Si udì un guaito acutissimo e il can da pastore ruzzolò in un fosso.

Dilìn-dlin... dilìn-dlin... dilìn-dlin...

E cantavano i grilli, sempre i grilli, solamente i grilli.

— Carlotta, ci siamo...

Ecco che si apriva discretamente una porta senza far rumore.

— Oh!... siete voi.

— Sono io!

— Perchè tanto tardi?... Entrate.

— Mignon siamo in battaglia.

— Lo so, caro amico...

La porta si richiudeva piano piano, dolce dolce.

Come vestiva di poco quell'assassina! E quanto ben fatta! Il collo nudo... le braccia nude... la gola nuda... il resto, quasi quasi...

— Per Bios, cara Mignon, io, questa sera ho un certo convulso attorno!

— Cosa avete!...

— Non vi vorrei guardare, ecco!

— E perchè?...

Si mordeva una mano.

— E mi domandate perchè, boccone di paradiso?...

Mignon rideva... egli le passava un braccio sopra la vestaglia che c'era per modo di dire. E sentiva certi rilievi... e certe affossature! Poi gli sopravveniva un grandissimo caldo.

— Questa notte si scoppia!

— Anzi si sta bene.

— Sì... si sta molto bene... moltissimo bene... benissimo!...

E si volgeva a guardarla, e la faccia di lei non si discostava e scoppiava il primo bacio come una girandola rossa. Il sapore di glicerina non c'era più.

— Per Bios, Mignon!... Ho il cuore che mi balla i tresconi!...

— State attento al lume!

— Datelo a me.

E prendeva il lume; poi non ne poteva proprio più e prendeva anche lei, sull'altro braccio, come una bambina. E via di corsa, su per le scale.

Una stanza... due stanze... quattro stanze...

— Ci siamo... ci siamo, Gianni!...

Rideva soffocando il suo riso contro il collo di lui. E i suoi capelli scompigliati gli facevano il solletico.

— Quanto sei bella!

C'era un gran trono dorato per starvi distesi a dormire: il trono delle cose discrete ed estreme.

— Eccoti, regina!

Ma ormai non si lasciavano più, non potevano più separarsi.

Il lume si spegneva, ma della luce ce n'era anche troppa.

— Amore mio!...

Era lei che lo diceva, morendo:

— Amore... amore mio!...

Lui non diceva più niente; navigava in un delirio.

E tutto era come doveva essere, senza una cosa in più, senza una cosa in meno. Il gran tremito delle creature che si uniscono con perfetta stima.

Dopo tre o quattro ore egli sospirava:

— Mignon...

Ella sospirava:

— Gianni...

Ed erano come la vitalba e il biancospino... stretti stretti.

Poi...

Dilìn-dlin... dilìn-dlin... dilìn-dlin...

— Su, Carlotta!... Da brava!...

E cantavano i grilli, sempre i grilli, solamente i grilli.

Quando arrivò al Conventino erano le tre dopo mezzanotte. Il Cavalier Mostardo guardò l'orologio e discese dal barroccino brontolando. Legò Carlotta ad un albero, vicino all'ingresso della villa e si avviò a piedi lungo il viale principesco.

Voleva fare il minor rumore possibile. Non si sapeva mai!

La villa si vedeva appena, in fondo in fondo, nascosta da una gran macchia di alberi. Cercò di ammorzare il passo sulle ghiaie. Come fu giunto a un ampio piazzale, ristette. Gli sembrò di veder scivolare un'ombra per una bianca scalinata di marmo.

Aguzzò gli occhi ma non vide cosa che si movesse. Allora si accostò piano piano. Il cuore gli batteva forte. Da quale parte sarebbe entrato, se doveva entrare? Non certo da quella scala monumentale che gli dava soggezione. Era la prima volta che si accostava al Conventino, alla famosa villa dei marchesi Alerami, e tutto quel fasto, quella solennità, quell'imperio di cose disposte come a comandare, non gli suggerivano una grande disinvoltura. Era colto dalla timidezza antica, dalla timidezza de' suoi quindici anni erratici. Tutto quanto il Cavalier Mostardo, con il suo orgoglio di uomo nuovo e di avvenire, non era più niente. Provava soggezione. Erano le cose che lo soggiogavano. I marchesi Alerami non gli avrebbero fatto nè caldo nè freddo; il Conventino lo raumiliava sotto una fiumana di ricordi e di miseria antica. Alzò gli occhi alle finestre cercando attraverso alle imposte, almeno uno spiraglio di luce. Tutto era buio, severamente buio. Possibile che la sua Mignon dormisse là dentro, in quella casa di maghi?... Come poteva entrar l'amore fra tanta severità arcigna?... L'amore che vien via ridendo e butta all'aria il mondo intiero?... Poteva farsi annunziare la dolce creatura di follìa? E passare innanzi al muso dei servi stereotipati? E fermarsi nella sala di aspetto?...

Ma non c'era neppure una finestra illuminata e la villa era grande come un paese.

— Vai pure a pescarla, in questo monumento!... Dove dormirà?...

Pensosamente, pianissimamente girò intorno alla villa. E scrutò finestra per finestra.

— Forse tu dormi e non ti vuoi destare!

E, se l'avesse chiamata?

— Mignon?... Piccola Mignon?... Mignonettina?...

Sì!... Ma se poi c'era qualcun'altro in quel mausoleo?

Se qualcun'altro sentiva e lei no?... Un servitore, per esempio?...

— Accidenti ai servitori! Sempre fra i piedi! Non servono ad altro che a trovarsi proprio là dove non si dovrebbero trovare mai!

Voltò un altro angolo. Il cuore gli dette un balzo. C'era, al secondo piano, una finestra illuminata. Forse Mignon vegliava ancora.

— Cara!...

Ma come avvertirla?

Arrampicarsi fin lassù non era possibile; chiamarla non voleva... e allora?

Ricorse al mezzo più semplice e più antico. Si chinò a raccogliere dei piccoli ciottoli poi, presa bene la mira, incominciò a lanciarli ad uno ad uno contro le imposte. Rimbalzavano sul legno; ricadevano. Parevano nocche che bussassero discretamente alla finestra.

Attese... vide il lume spostarsi... poi la finestra si aprì e un'ombra apparve al davanzale.

— Siete voi, Mostardo?

— Sono io.

— Aspettate.

Come star fermo ad aspettare?

— Mio Dio, ho il cuore che si gonfia!...

Gli si gonfiava il cuore, sotto lo spasimo.

Incominciò a camminare avanti e indietro, avanti e indietro in uno spazio di cinque metri. Poi contò i passi:

— ... sei... sette... otto... nove... dieci...

Gli mancava il respiro; aveva, per tutte le membra, certi stiramenti, certe ansie! Ogni tanto si soffermava a sbirciare una piccola porta.

— Forse verrà per di là! Ma perchè non arriva?... Vorrà vestirsi. Ce n'era proprio bisogno?

Ah, amore, amore!

Udì stridere una serratura (gli pareva di venir meno!); intravvide uno spiraglio di luce; la porta si aprì.

— Mostardo?

— Eccomi!

Di un balzo le fu vicino. Ella lo fece entrare. Era seria seria e vestiva correttissimamente.

Be', che scherzi erano quelli?

Gli fece strada; svoltò a destra senza salir le scale.

Balbettò:

— Vi domando scusa di essere arrivato tanto tardi!

— Vi aspettavo perchè devo parlarvi di una cosa molto grave.

— ... molto grave...?

— Sì.

— E che cos'è successo?

Ninon Fauvétte, fior di Parigi, non rispose a tutta prima; continuò a camminare. Come fu giunta in un salotto dalle pareti rosse, posò il lume sulla tavola e, rivolta a Mostardo che la guardava allibito, gli domandò:

— Non sapete quello che è successo?

— Ma che cosa, in nome di Dio?

— Madama la marchesa è scomparsa!

Il povero Cavaliere fece un salto indietro e si lasciò uscire un: Porco Dacco!... che fece tremare i vetri. Poi rimase così con la più meravigliosa e meravigliata faccia che mai si fosse veduta. Nè, preso nel turbine e trasportato dall'equatore al polo nel cuor di un secondo, poteva in un qualsiasi modo riequilibrarsi, perchè tutto gli sarebbe stato agevole a pensare toltone l'enormità che gli si avventava contro rovinosamente.

Balbettò:

— La marchesa?... Scomparsa?...

— Da un giorno e mezzo, caro cavaliere — riprese Ninon Fauvétte, — e, fino ad ora, ogni ricerca è stata vana.

— Vana?

— Precisamente! Tutto è stato tentato senza frutto. Ora non restate che voi.

— Io?...

— Sì, voi!

Che imbroglio!... Santa Reparata, che imbroglio!... Ripensò alla marchesa Alerama. Una donna sulla cinquantina, magra, rugosa, bianchiccia, tremolante... chi poteva averla rapita?

— Scusate... — incominciò Mostardo che cercava riordinar le idee — a che ora è scomparsa la marchesa?

— È uscita di casa l'altra mattina.

— E non è ritornata?

— No.

— E dove andava quando è uscita?

— A Bologna.

— A Bologna?... Ma allora i miei uomini non ne hanno colpa. Non potevo mica farli correre in treno, io!

— Sì, ma ci è stata segnalata la sua partenza da Bologna la sera stessa.

— E non è arrivata?

— No.

— Be', si sarà addormentata in treno. Questo può capitare anche a una marchesa!

— Abbiamo telegrafato a tutte le stazioni inutilmente.

— Ma... scusate... la marchesa non può mica essere conosciuta da tutta la popolazione del Regno!

— Sì, ma il conte Prezzi assicura di averla veduta discendere a Savignano.

— A Savignano?... E perchè a Savignano e non a casa sua?

— Questo è il mistero!

— Andiamo Mignon!... — Il Cavaliere sorrideva e incominciava ad avere il respiro più libero. — Perchè poi lo chiamate mistero?...

— Caro cavaliere, la cosa è più seria di quanto non pensiate!

— Ma io penso, Mignon, io penso che una signora che discende a un'altra stazione... un poco più lontano... ecco... avrà avuto un motivo per allontanarsi...

— E quale motivo?

— Oh Dio!... Una penombra...

— Non capisco.

— Ma sì... una distrazione! Siamo d'estate... A Savignano ci sono tante ville!... La marchesa guardava dal finestrino... Il controllore non le ha chiesto il biglietto... e, uno dimentica dove deve discendere. Un poco più in là può far più fresco!

— Mi sembra abbiate voglia di scherzare, questa notte! Io non ne ho punta!...

Il Cavalier Mostardo a tale risposta piuttosto arcigna si fece molto serio. Si levò, aprì le braccia come per dire: — Ebbene e che ci posso fare io?.. — Poi cercò il cappello.

— Dove andate?

— A casa. Ho fatto piuttosto tardi. Sono le tre e un quarto.

— E... mi lasciate così?

— Come dovrei lasciarvi?... Ero arrivato come una girandola...

— Non mi date nessuna speranza?

— Ma, cara Mignon, volete che vi dica il mio pensiero?

— Sì.

— Mi pare che, da un fuso, voi vogliate far nascere una rovere!

— Perchè?

— Ma perchè la marchesa, questa sera, discenderà al suo palazzo, fresca fresca!

— Magari fosse vero!

— Ma non crederete mica ve l'abbiano rapita?... A quell'età!... Andiamo!...

— Eppure... una vendetta politica...

— Ma no!... Cosa volete se ne facciano, i tamburieri, di quel campione!...

— Un ricatto.

— Impossibile. Avrebbero preso lui e non lei. Una donna strilla troppo. Poi, una donna di quella razza!...

— E voi non farete nulla?

— Vedremo. Domanderò...

— E le vostre promesse?...

— Già!... Ma... e le vostre?...

— Mostardo!... In questi frangenti!...

— E io non sono sempre fra i frangenti?... Eppure mi vedete qui che pare abbia vent'anni!

Ninon Fauvétte sorrise, il dolce fior di Parigi.

— Siete sempre un poco matto...

— Io sarò un poco matto, ma voi avete una bella ritenutezza!

— Che vuol dire?

— Scusate, Mignon, dopo la vostra lettera?...

— Ebbene?

— Come: ebbene?... Io sono un uomo, mi sembra...

— Chi ne dubita?

— E allora?... Voi siete qui sola... io arrivo, dopo una tempesta, arrivo perchè non abbiate paura e voi... voi non mi date neppure il mezzo per consolarvi!...

Ninon Fauvétte scoppiò a ridere.

— Andiamo, Gianni, sedete qui...

E gli fece posto sul divano.

— Volete una tazza di the?

— Grazie. A quest'ora non bevo.

Una pausa.

— Mignon?...

— Cosa volete?

— Non avete sonno?

— Piuttosto...

— Anch'io! E... questa notte non volete dormire?

— Io?... Sì!...

— Anch'io!... Mignon?... Fate conto che io sia una povera vecchia signora... Sì?... Io sono una povera vecchia signora... Voi avete tanta paura del buio, della solitudine!... Arriva la vostra amica e voi dite: — Ho un letto tanto mai grande!... Un letto di Napoleone. Possiamo benissimo dormirci in due!...

— Scusate... per chi mi prendete?

— Vi prendo solamente per me!... Parola d'onore!...

Ninon Fauvétte gli si abbandonò fra le braccia.

Poi il lume toccò a Mostardo. Salirono due rami di scale. Dopo, entrarono nella strada di Adamo ed Eva.

Quando cantarono i galli il Cavalier Mostardo fu in piedi. Era raggiante. Anche Ninon Fauvétte era raggiante. Questo capita ai buoni camminatori, lungo la strada di Adamo ed Eva. L'ultimo bacio non era mai l'ultimo. O era lei che lo richiamava; o era lui che ritornava. Ninon Fauvétte era bella e le cose ben godute piacciono assai.

— Per Bios, ho davvero vent'anni!...

— Sei un amore!...

Mostardo avrebbe preso il letto di Napoleone, per portarselo via, tant'era grande il suo cuore!

— Se io sono un amore, tu sei la bandiera delle meraviglie!... Tu sei il campanile e la rondinina!... Ts'i tânta béla ch'at magnarèbb viva!... (Sei tanto bella che ti mangerei viva!...).

E aveva certi rinnovati impeti! Ma bisognava partire. Conchiuse:

— Tutto il mondo non è che un trocaico! Solo per te si dovrebbe morire!...

Ella lo abbracciò stretto stretto poi si fece promettere mille cose ch'egli naturalmente promise.

Sulla porta si fermò ancora a guardarla. La luce dell'amore era su quel volto vermiglio. Ninon Fauvètte era veramente bella nel suo armonico abbandono.

E doveva lasciarla!...

Noi non abbiamo ancora definito il temperamento di un romagnolo puro sangue, nè lo definiremo, chè il nostro eroe si incaricherà di dimostrarlo per conto suo, coi fatti.

Come adunque fu giunto sulla porta ed ebbe veduto, rivolgendosi, quale soavità era costretto a lasciare (e restar non poteva, senza compromettere il buon andamento di centomila cose e una!) fu tanto e tale il dispetto che, non potendo prendersela proprio con nessuno, si lasciò andare tale un violento pugno sulla testa, da traballarne. Poi non volle ascoltare la voce e il tenero invito di lei; non volle sapere più niente e, infilate le scale, si buttò giù a precipizio, chè gli avrebbe fatto piacere se si fosse rotto qualcosa. Ritrovatosi all'aperto, si accorse di aver dimenticato il cappello, ma non se ne curò. Infilò il viale di corsa. Era indispettito e felice. Però ad un tratto, impietrì.

Si guardò intorno, si soffregò gli occhi.

— E la Carlotta?...

Non c'era più! Non c'era più traccia nè di Carlotta, nè di barroccino.

— Per Bios, me l'hanno fatta!...

E ritornare non poteva. E non poteva chiedere ai contadini del Conventino se, per caso, non si fossero sbagliati.

Come fare?... Un turbine di dubbii e di sospetti gli annebbiò di un subito la mente. Dal Conventino alla Città del Capricorno c'erano quasi venti chilometri di strada. Egli non poteva percorrere la distanza a piedi e voleva essere a casa prima di giorno.

— Figli di cani!...

Pensò di andare da un contadino, amico suo, che non stava troppo lontano. Si sarebbe fatto ricondurre in città. Ma come spiegare le sua presenza in quei luoghi, così, senza cappello e senza cavalla?

Be', avrebbe inventato qualche storia.

— Sì, ma il tamburiere che mi ha rubata la Carlotta, può ringraziare il suo Signore se arriva alla fine dell'anno!

E, questa volta, il Cavalier Mostardo non diceva per ischerzo.

Allorchè Rigaglia corse ad aprire la porta e si trovò di fronte il Cavalier Mostardo, così senza cavalla e biroccino, tanto fu lo stupore che lo vinse che ne rimase intontito; poi, quando volle aprire bocca, se la trovò tappata. Mostardo aveva previsto le domande del suo fido nemico e siccome aveva deciso di non dir niente, era ricorso alle misure estreme.

— Guai a te se parli e se mi domandi una cosa sola!... Hai capito?... Guai a te!

E siccome il viso di lui era tutt'altro che chiaro, Rigaglia, anche quando si trovò con la bocca libera, non fece parola. Però scosse il testone e ritornò mogio mogio nel cortile come se avesse, sulle spalle, il peso di tutte le disgrazie del mondo.

Mostardo salì in camera sua e fece un po' di toletta; ma non seppe indugiare come al solito.

Non una gli riusciva bene fino in fondo. Tanto amore, tanto abbandono, una così piena conquista, poi il disastro di Carlotta. Egli avrebbe sacrificato certissimamente Carlotta a Ninon Fauvétte, fior di Parigi; non era per il valore della bestia e del biroccino ch'egli si faceva oscuro, ma per il tiro che gli avevano giuocato.

Chi non conosceva la Carlotta in tutta la Città del Capricorno e nel suo territorio? Il ladro adunque non avrebbe potuto approfittarne se non filando molto lontano; però era certo che non si trattava di un ladro volgare. Fin dal primo istante si era detto:

— La Carlotta è coi rossi!

E la Carlotta doveva essere indubbiamente in mano ai rossi, come ostaggio.

— Si tratta di un furto politico!

Be'! Ma ciò che gli seccava di più era la complicazione del Conventino. Chi aveva portato via la sua buscalfana doveva essere entrato nel Conventino: dunque qualcuno lo aveva pedinato e lo aveva visto entrare!

Questa era la spada di Damocle sulla testa della sua riputazione! Perchè non si era mai detto che il Cavalier Mostardo avesse messo una donna in piazza. Nessuno poteva asserire di aver avuto confidenze indelicate da lui, circa le sue avventure amorose; egli si era chiuso sempre nel riserbo più immacolato. Fosse pur stata l'ultima pubblicana, dal momento che gli aveva concesso i suoi favori, gli diveniva sacra. E questo sapeva la gente maligna della città e del contado e per questo, forse, gli avevano giuocato il tiro birbone. Figurarsi se tutti i tamburieri, tutti i versipelle non volevano approfittare della sua entrata nell'aristocrazia!... È ben vero che a lui restava l'intima dolcezza di essersi coricato, per trionfo d'amore, nel letto di Napoleone (ormai aveva fissato che il letto doveva essere di Napoleone!), ma tale dolcezza, per essere compiuta, doveva corroborarsi nella quietudine del segreto; invece....

— Ah, ma, per Bios, io romperò la faccia al primo che aprirà bocca!

Ed aveva risoluto di far questo senza neppur discutere, ricorrendo alla sua vecchia massima romagnola: — Prema dàli, pu prumètli!... — (Prima dalle, poi promettile!).

— E te, poverina (ora parlava a Ninon Fauvétte, fior di Parigi), puoi dormire i tuoi sonni tranquilli! Se ti ho compromessa ti dovranno rispettare come la Madonna del Fuoco!...

Ma nicchiava in sè, il buon gigante e, in verità, era turbatissimo. Anche la faccenda della marchesa non gli sembrava tanto limpida. Perchè, almeno, avrebbe dovuto telegrafare a casa! Ma lo scomparire così, come una giovinetta di sedici anni che si fa rapire da un passerotto innamorato; quel suo dileguarsi nella sera, quel discendere ad una piccola stazione e squagliarsi nel silenzio, non era nè logico, nè naturale.

— Amore?... Per Bios!... Ma una madre di famiglia che avrà quasi settant'anni?... Fosse una verginella con la sua pudicizia da custodire!... Andiamo!... A quell'età, se l'amore torna indietro, la fa più pulita!...

Allora non rimaneva che pensare a un tiro politico.

— Se hanno saputo che io la difendevo è certo che se la sono presa!

Bisognava che, prima di mezzogiorno, egli parlasse con la guardia del corpo. I signori Trancia e Giovannone dovevano rendergli conto esatto del loro operato nelle ultime ventiquattro ore e dovevano eziandio rispondere dell'inopinata assenza della marchesa.

Chiamò Rigaglia:

— Va fuori subito. Cerca Trancia e Giovannone e falli venir qui per mezzogiorno in punto. Hai capito?

— Sì.

Rigaglia se ne andò. Il Cavaliere discese nel cortile... gettò una occhiata verso la stalla e ancora gli prese una grande stretta al core. Povera Carlotta!... Dopo tutto era una bestia tanto affezzionata e vivevano insieme da dodici anni!

— Dove sarai, povera Carlotta?...

Ma anche quella volta, invece del sommesso nitrito del domestico quadrupede, rispose il canto sfacciato di un'altra creatura:

Chicchiricchii... iiiii!...

Al quale squillo, il Cavaliere si volse inviperito:

In't ròba mìga te, bròtt vigliàch! (Non ruban mica te, brutto vigliacco!).

E uscì sbattendo la porta.

Entrò nel Caffè dei rossi e sedette nel centro, battendo sul tavolo il suo nerbo di bue.

— Cameriere?

— Comandi?

Ordinò un caffè e latte e si guardò intorno. Gli amici che cercava non c'erano. C'eran però, in un angolo, Libero Bigatti, direttore dell' Apocalisse, e Ticchi Marmissi, direttore del Sillabo. Parlavan fra di loro sommessamente e con molta animazione. Il Cavalier Mostardo incominciò a squadrarli. Tanto, con qualcuno doveva prendersela. Voleva sfogarsi e vendicar la Carlotta.

Quando il cameriere ritornò col caffè e latte, gli domandò, a voce tanto forte che fece voltar mezza sala:

— Di' su, Tugnîn, se un cane celeste ti insudiciasse il fondo dei calzoni, che cosa faresti tu?

Tugnîn, poveraccio, era analfabeta e non capì il doppio senso.

— Un cane celeste?

— Sì, perchè?... Non lo sai che ci sono anche i cani celesti?

— Io non l'ho saputo mai!

La gente, intorno, incominciava a ridere e a sogghignare.

— Allora te lo dico io. I cani celesti non vanno per le strade e per le piazze, ma camminano fra le colonne dei giornali! Sono i valletti dei tamburieri!

I giornali?... Le colonne?... I tamburieri?... O che farsa era quella?... Il povero Tugnîn scendeva da Rocca San Casciano ed era molto montanaro. Uno di quei camerieri che si fermano nei piccoli caffè delle piccole città di provincia e non ne escono più. I paria della classe nobilissima; si accontentano del soldino e dicono grazie. Dicono anche:

— Il resto, mancia!

E sono due ricchissimi soldi. Imbastiscono il loro mese disperatamente e vestono con gli scarti dei clienti.

— Non avrebbe mica un vecchio smoken?... Un paio di scarpe che non fossero più buone a niente?... Un fracco?... Delle camicie, magari coi buchi?... Una qualche cravatta?... Un vestito felius?[4].

E qualche volta compaiono anche col vestito felius, orlato da un nastro rossiccio; ma, molto più spesso, circolano fra i tavoli degli avventori, in smoken.

Certi smoking tutti patacche e frittelle, simboleggianti le costellazioni, da far vergogna all'ultimo rigattiere. Ma il loro pubblico li ama così. Li vuole così. Se facessero delle eleganze peregrine, li sdegnerebbe. Uno smoken, per democratizzarsi, deve essere molto sudicio; e allora va bene. Le cose nuove putono di borghesia.

Tugnîn, adunque, rimase là con la sua faccia tonda, a guardare il Cavalier Mostardo. Ora deve sapersi che questo Tugnîn, nonostante il suo disperato mestiere, era uomo di molta quietudine e di nobile malinconia. Un figlio del disincanto. E in tale disincanto si rifugiava quando non riusciva a penetrare per entro le cose della vita più o meno arruffate. Professava, in tali frangenti, il suo supremo disinteresse, la sua lontana e tetragona indifferenza. Così quando il Cavalier Mostardo che, dopo tutto, non si occupava nè poco nè punto di lui, ma mirava a farsi avvertire dai due direttori, quando reiterò la domanda: — Hai capito, adesso, che cos'è un cane celeste? — Tugnîn si strinse nelle spalle, atteggiò il viso a una smorfia di umiltà estranea e disse: — Non sono cose per me. Io sono un pessimista!

L'improvviso pessimismo di Tugnîn provocò l'allegria generale e ormai Ticchi Marmissi e Libero Bigatti credevano deviata la manifesta provocazione; ma il Cavalier Mostardo non rise, voleva attaccare prima di essere attaccato. Nel timore che la visita sua al Conventino potesse formare l'oggetto di troppo grandi pettegolezzi e maldicenze, voleva porre sull'avviso le brigate. Sopra tutto voleva intendersela coi due che più temeva, perchè avevano in mano la stampa aggressiva, e cioè: Ticchi Marmissi e Libero Bigatti.

Così il nostro Cavaliere non rise, ma quando il rumor della baia al modesto Tugnîn, accennò a diminuire, levata la voce, e questa volta in tono più deciso e robusto, disse:

— Il fatto sta che questi cani più o meno celesti, e questi rappresentanti della porcinaglia mi hanno gonfiato abbastanza!... E potrei scoppiare!... E, se io scoppio, quei due signori che prendono il caffè a quel tavolo, possono fare un bel volo sulla piazza!...

Ticchi Marmissi era un uomo simile a una larva. Un'ombra d'uomo senza muscolatura. Un ammasso di cartilagini e gelatina. Una testa da chierico, semicalva, sopra un corpicciuolo ammoscito e appenato di dover portare a spasso quella testa ideologa. Smunto, scialbo, pieno di tich nervosi, era un nobile, se non benigno, animale a sangue bianco. Ogni tanto, quando parlava, pareva dovesse guizzar via a un tratto, preso dalla furia fulminea di uno fra i suoi tich. Era una creatura polare; poteva trovarsi altrettanto bene al nord quanto al sud. Si attergava alle cose; le prendeva dal lato meno pericoloso e appariscente; cercava di lasciar un po' dappertutto le sue cacatine, come le sorelle mosche. Aveva due occhi tondi i quali, per essere vivi solo al lume delle ideologie marmissiane, apparivano sempre smarriti, o meravigliati, o natanti in un opaco stupore.

Cotesto giovane decrepito aveva il suo sesso nel suo cervello. Sani impeti e travolgenti strepiti non erano affar suo. La sua immoderata ambizione lo faceva untuosamente servile ed altezzoso a volta a volta. Era sempre una specie di libellula senza le ali: una gran testa sopra un tremolante tubo.

Ticchi Marmissi adunque, all'invettiva del Cavalier Mostardo, si sentì basire e, raccolto dal divano il floscio cappello, stava per svignarsela quando Libero Bigatti lo trattenne:

— Dove vai?

— Ho un affare molto urgente!

— Proprio adesso?

— Sì.

— Lo sbrigherai dopo. Dato l'attacco di quel bestione, non possiamo farci questa figura da vigliacchi!

— Ma che vuoi fare con quello là?

— Questo è compito mio. Non ti muovere e stai a vedere.

Ticchi Marmissi stette a vedere, ma non conviene dire ch'egli fosse soverchiamente divertito dalla cosa.

Ora Libero Bigatti, lo scapigliato, era un giovane sui ventinove anni. Non robusto, nè tale da potersi azzardare a far fronte al Cavalier Mostardo, ma ardito e sfrontato. Egli calcolava sulle virtù della sua parola e della sua ironia. Aveva sempre preso il colosso nella pania, battendo l'identica strada.

Lo affrontava, armato solamente della sua astuta parola e cercava condurlo, così, per sentieri difficili lungo i quali lo spingeva verso l'ostacolo che lo avrebbe abbattuto. Il giuoco, gli era riuscito sempre a meraviglia.

Armato di tale convinzione, atteggiato il volto ad un sorriso ironico, si levò a mezzo dal rosso divano e, appoggiati i gomiti al tavolo, e sportosi un poco verso il Cavaliere, disse:

— Siamo noi che abbiamo l'onore di destare l'attenzione del nostro Mostardo?...

— Proprio voi e il vostro compagno! — fece il Cavaliere.

— E, di grazia, per quale ragione?

— Volete che mi spieghi con maggior chiarezza?... — e il Cavalier Mostardo si levò.

Ahi, che le cose minacciavano di proceder piuttosto buie!

— Restate comodo, Cavaliere!

— No, caro signorino! C'è qualche conto da regolare, fra me e voi!

— Quale conto? Volete alludere agli innocui fasti del Cane Celeste?

— Io non so di tanti cani!... Chi ha la lingua, la sappia adoperare, e quando non sa adoperarla abbia il coraggio di assumere la responsabilità delle sue vigliaccherie!... Perchè, vedi, non so chi mi tenga, — ed era già a un passo dal tavolo di Bigatti e di Marmissi, — non so chi mi tenga dal prendere te, l'Apocalisse e questo pretuolo castrato, e dal schiantarvi le ossa a tutti quanti!... L'hai capita la storia?...

Il pavido Marmissi la capì subito perchè, raccolta la sua modesta penuria, scivolò via come l'ombra, buono buono, zitto zitto, piccino piccino. Ma Libero Bigatti non poteva ormai più fare altrettanto.

Tentò un'ultima strada. Restando sempre seduto, per dimostrare di non aver paura, disse:

— Spero non vorrete usare della vostra forza prepotente contro chi non saprebbe opporvi una forza uguale.

— Vedi che hai paura?... Lo vedi?... — E, rivoltosi al pubblico che non rifiatava: — Eccoli qua i Cavalieri dell'Apocalisse!... Abbaiano e scappano!... Bella gente!...

— Ma, se non mi sbaglio, io non sono scappato ancora.

— Ma ti raccomandi!

— Non mi sembra!

— Allora esci di lì e vieni a spiegarti...

— Non ne vedo il bisogno. Qui si sta benissimo.

— Vuoi uscire, o no?

— Non ne sento l'urgenza.

— Va bene!

Mostardo aveva finito di parlare. Ora erano le opere che incominciavano. Scostato il pesante tavolo si avvicinò a Libero Bigatti, il quale, vistosi ormai perduto, si era rannicchiato in fondo al divano.

— Vieni fuori!

— No!

Allora se lo prese fra le braccia e, come l'altro si divincolava disperatamente e tentava morderlo, afferratolo per la schiena e per il fondo dei calzoni, se lo levò sulla testa e si diresse all'uscita.

Nessuno intervenne. Non era prudente. Fu il caso che salvò l'anarcoide, perchè, proprio in quel punto sopravveniva una comitiva di giovinastri rossi, i quali quella volta non cantavano l'Internazionale, ma una canzoncina di occasione che dovevano aver composto poco prima. E questa canzoncina diceva:

È la Carlotta, un animal cortese

che sempre aspetta e sempre aspetterà,

quando il padrone va dalla francese.

Ma qualche volta se ne stancherà...

E trallalèra e trallallà...

Bene!... Oh, santo cacio sui mitici maccheroni!... Il Cavalier Mostarde vide, udì. La sua centrale vendetta gli veniva incontro.

Posò Bigatti sul selciato della strada e gli gridò:

— Va via!

Bigatti non si fece ripetere l'avviso. Se ne andò ma senza affrettarsi come l'uomo che, disceso da una ascensione involontaria, è ancora un po' tonto.

Mostardo si precipitò nel Caffè, prese il nerbo di bue; uscì. In due balzi fu addosso ai giovinastri, i quali, non attendendo il subito impeto, rimasero dapprima sconcertati e si sbandarono. E le bastonate incominciarono a volare come una fitta gragnuola. Mostardo lasciava andare botte alla cieca, avventandosi nel folto. Sulle prime, ammaccò qualche testa e qualche spalla; ma poi, la cosa, non gli continuò tanto facile perchè gli assaliti, vistisi in buon numero, si riorganizzarono e, afferrate le seggiole del Caffè, si serrarono compatti e assalirono a loro volta, menando già alla disperata.

Vetrine, tavoli, seggiole, fanali andarono in frantumi, e, per un attimo, il Cavalier Mostardo dubitò della sua fortuna. La lotta era impari. Dodici erano i rossi ed egli era solo. Ora doveva difendersi e non poteva aggredire. Infuriato sempre più dal dubbio di essere sopraffatto, teneva testa agli assalitori con tale e tanta violenza da renderli pensosi sul conto loro perchè ben sapevano che se per un attimo solo il Cavalier Mostardo riusciva a riprendere la supremazia, essi erano bell'e spacciati. E così cercavano di tempestare e di stringere sempre più da vicino il fiero avversario, allorchè il Cavaliere udì, dietro le spalle, una voce amica:

— Mmmmo... Mmmostardo, sta fffo-fo... sta fffforte che vve... che vvvvengo io!...

Era Coriolano, il Donzello della Democrazia.

E Coriolano entrò in lizza, con la sua obesità, lanciandosi da destra a sinistra come una palla di gomma elastica. Coriolano non combatteva in silenzio, ma, atteggiata la faccia ai più fieri spasimi, come i guerrieri selvaggi, urlava e combatteva a un tempo gli uomini e il cielo, tant'era la girandola di bestemmie che lanciava all'aria. Ed ottime e risolutive erano le sue intenzioni, povero Coriolano, senonchè una seggiolata maligna, che gli piovve sulla testa calva, lo mise fuori combattimento. Colando sangue si ritirò nel Caffè dove, immersa la testa in un catino, continuò a bestemmiare per darsi coraggio.

Nel frattempo però erano corsi al rumore molti amici di Mostardo e si eran gettati nell'infuriato torneamento. Fra i sopraggiunti erano i due inseparabili, e cioè il Moro Fabrizi e il Gobbo Pulizia.

Il Gobbo Pulizia non poteva molto, ma qualcosa volle fare: avventò contro i rossi il suo lercio compagno, poi, appostatosi dietro una colonna, incominciò a scagliare addosso agli avversari ciò che gli capitava sottomano. Così volarono bicchieri, bottiglie, tazze, frammenti di seggiole e vai dicendo. Faceva quel che poteva, tenuto conto del suo incomodo dorsale.

Ma il molosso sopraggiunse e colui che doveva dar termine alla zuffa.

Veniva via, Bucalosso, per la vastissima piazza deserta e piena di sole. Aveva la doppietta sulla spalla.

Procedeva dondolon dondoloni e pareva non avvertisse il rumore della gran battaglia che faceva accorrere gli scarsi passanti. Non affrettava il passo, non alzava la faccia, invermigliata dal caldo. Ogni tanto levava una mano ad asciugarsi il sudore che gli colava dalla fronte.

Arrivò così, pien di tranquilla serietà, al Caffè dei rossi, e solo quando fu per mettere il piede sotto il portico parve avvertisse lo strepito della battaglia.

Allora si fece solecchio di una mano, per meglio vedere, e, senza perdere l'abituale calma, domandò:

Ch's'èll tota sta cunfusiôn?... (Che cos'è tutta questa confusione?).

Informato dello stato delle cose, e visto il Cavalier Mostardo che perdeva terreno, sempre senza scomporsi, si allontanò di un trenta passi dal campo della lotta, poi, puntata la doppietta e prese di mira le gambe dei rissanti, lasciò andare due solenni schioppettate a pallettoni.

Ne seguì un coro di urla e di strilli; si vide gente spiccar salti prodigiosi poi, in men che non si dica, avvenne una fuga generale.

In quel punto sopravveniva di gran corsa l'onorevole, il quale, veduto Bucalosso che soffiava tranquillamente nelle canne della sua doppietta, gli si accostò di un balzo e gli chiese, trafelato:

— Ma che cosa avete fatto?... Che cosa avete fatto?...

Alle quali affannate parole il nostro leone levò pacatamente la faccia e rispose col suo più bel sorriso:

A j'ho jatt par scumpartii!... (L'ho fatto per dividerli!...).

L'onorevole si trascinò via il Cavalier Mostardo, Coriolano e il Moro Fabrizi. Questi tre erano piuttosto malconci.

— Sssss... sssi! — disse Coriolano — Mmmmm... mo-mo... mmmo le hanno ppppp... le hanno ppppre-pre... le hanno prese loro!...

— Bel conforto! — mormorò l'onorevole.

— In quanto a questo ce ne sono quattro che dovranno andare all'ospedale! — soggiunse Mostardo.

— A Pigrènd la testa glie l'ho rotta io! — disse il Moro Fabrizi.

E Coriolano:

— E a Pppppph... a Ppppu-pu... a Pulìno... chhh... chhhhh... chi glie lo dà... il ddddd... il dddi-di... il ddito che gli ho mangiato?...

Frattanto, sgombro il campo dai rissanti, sopraggiunse la pubblica forza. Allora anche gli ultimi curiosi si sbandarono prudentemente e, fra i rottami, non rimasero che Tugnîn e l'Uomo Pacato.

Dell'Uomo Pacato si nasconde il nome, per non turbare, col benchè minimo rumore, i raccolti silenzi di questo antico goditor della carne, abbandonato ora, poi che, nel suo primo autunno, la vita gli ritorna in cenere, a interminabili meditazioni fra gli orti e i giardini della sua rossa Tebaide.

Alle domande investigative della pubblica forza, Tugnîn si strinse fra le spalle e rispose:

— Io non ho visto niente. Queste cose non mi interessano. Sono un pessimista!

Ma l'Uomo Pacato parlò e disse:

— Signori miei, anche se i mattoni favellassero, e le pietre, voi non avreste il potere di risolver la contesa. Non vogliate ingiustamente accusare l'omertà romagnola. Queste cose si compiono, fra di noi, da duemila anni e più. E sempre ce ne siamo trovati bene, se pure non abbiamo saputo cogliere il saggio insegnamento che poteva derivarcene. Io non sono un lusingatore di plebi e potete ascoltarmi. Mi chiamano l'Uomo pacato. Dopo una consumata vita per tutte le Corti e i Piaceri e le moderne Magnificenze sono ritornato al silenzio dei miei primi giorni. Non ho parte; o meglio non ho se non quella parte che ridonda in maggior e prodigo amore al mio popolo. Potete ascoltarmi. Ciò che qui si è consumato, non ha tragica importanza. È il frutto del luogo. La terra dei cocomerai si inebbria di ogni cosa rossa: così di una bandiera, come di un'idea e del suo sangue. Chi vorreste punire?... La legge non può aver luogo! Non può aver luogo se non a patto di deformarsi e di lasciar le cose come stanno e come sempre sono state. Qui si è combattuto; si vede. Prendete atto dell'avvenimento e non cercate di più. Il Governo della Pubblica Cosa ci venga incontro per altre strade. Noi anche possiamo amare esasperatamente, come esageratamente odiamo per aver dimenticata, in tal modo, l'immensa vanità che non ha più Dio. Anche fra questi rottami Iddio è morto; ma, se rinascesse, in Suo nome, noi, per esser fedeli all'eredità di cui Egli ci volle contrassegnati, spargeremmo il campo di rottami diversi e a Lui vorremmo consacrato il bello e folgorante vermiglio del nostro sangue che fiotta. La Politica è una contingenza, Signori miei. Ma, domani, chi sa di qual nome vorrà fregiarsi la nostra incorruttibile battaglia?...

E l'Uomo Pacato finì di parlare, e, sempre sorridendo ai bracchi governativi, riprese la sua strada nel gran sole dell'estate.

CAPITOLO XI. Qui si fa cenno della Città del Capricorno, de' suoi abitanti, delle sue classi e categorie, del come e del perchè ivi venisse covato l'uovo gallato della Democrazia e di altre cose notevoli, insigni ed ammirabilissime.

A mezzogiorno, il Cavaliere vide il Trancia e Giovannone. Si chiusero in camera segretissimamente.

— Ora mi renderete conto di quello che avete fatto!

— Dovrete ringraziarci! — rispose Giovannone.

— Prima di ringraziarti, di' un po': sei informato di quanto è accaduto?

— Che cosa è stato? — fece il Trancia.

— Come?... non lo sapete neppure?

I due si guardarono negli occhi.

— Volete parlare della marchesa?

— E di chi, allora?... Della signora Zabetta?...

— Bene — domandò il Trancia: — che cos'è capitato alla marchesa?

Mostardo balzò sulla poltrona.

— Una nespola!... Ma niente!... È andata a passar le acque per rinfrescarsi!...

— Vi sbagliate — disse Giovannone.

— Come, mi sbaglio?...

— La marchesa non è alle acque.

— E dov'è, allora?

— È in campagna.

— Non è vero!

Il Trancia e Giovannone dissero ad una voce:

— Glie l'abbiamo mandata noi!

Allora il Cavaliere appoggiò le mani ai bracciuoli della poltrona; spalancò due occhi come due palle da cannone; si sporse e fece:

— Voooooi?...

— State a sentire — disse il Trancia.

Mostardo stette a sentire. Le sopracciglia inarcate; un baffo in giù e l'altro in su; i capelli arruffati; strappate le vesti; insanguinata la camicia; piena di cerotti la testa; una mano nascosta dalle bende; livido e tumefatto. Ma era contento perchè sapeva di aver rotto qualche braccio e qualche gamba, sapeva di aver cambiato i connotati a qualcuno: di aver soppresso il naso a Tizio; di aver riformata una mascella a Caio ed altre coserelle del genere. Era stato sempre lui, anche solo, contro dodici versipelle!... L'uomo che si deve guardare da lontano!... Questo aveva fatto osservare anche all'onorevole, il quale, d'altra parte, non aveva trovato che parole di elogio e di compiacenza per ciò che riguardava l'opera e il comportamento del Gran Mostardo... Solo Bucalosso... Ah, quel Bucalosso, con la sua testa da cioccolatino!... Ma perchè non era nato bue? Come tale avrebbe trovato un posto convenientissimo nella società; ma come uomo?...

— Be'... racconta e fa presto!

Allora il Trancia disse, mentre Giovannone veniva man mano sorridendo di compiacenza:

— Tutti sanno che voi siete stato a far visita alla marchesa; che la francese è venuta qui...

— E che cosa c'entra la francese?

— Dicono sia la vostra amante.

— Non è vero!

— Lo dicono.

— La francese è una donna onesta!

— Be', la gente dice questo. Allora i rossi, dopo il fatto Borgnini, l'avevano pensata bella!

— Che cosa avevano pensato?

— Vi volevano far rubare la marchesa.

— A me?

— Sì, a voi.

— E per che farne?

— Per un ricatto, e sono venuti ad offrirci un buono da mille.

— E voi l'avete preso?

— State a sentire! Dunque noi andavamo in un'osteria, e in questa osteria ci venivano tre uomini che stavano sempre insieme a un tavolo; e ci guardavano, ci guardavano! Una volta dico a Giovannone: — Quelli là vogliono sentire il sapore delle nostre mani!... Dì che non la smettano e vedrai!... — E una notte che ci venivan dietro, mi fermo, deciso a tutto e domando: — Be'... avete niente da spartire con noi?... — Allora uno si fa avanti e dice: — C'è un bono da mille per te e per il tuo compagno. — Insomma, per farvela corta, ci dissero quello che ormai sapete. Noi, sulle prime, facciamo gli sdegnati, poi accettiamo. Allora i compari cominciano a dire: — Voi dovete fare così e così... — Un momento! — rispondo io. — Volete che la marchesa sia rubata?... — Sì!... — Va bene. E noi la ruberemo, ma vogliamo pensarci da soli. — Sì, dicon loro, ma chi ci assicura che non intaschiate i soldi e non ne facciate niente?... — Giusta! — rispondo. — Vuol dire che, quando la ruberemo, sarete con noi. Va bene?... — Rimanemmo d'accordo. Bisognava rubarla...

— E allora?

— Allora io domando di parlare alla marchesa e le spiffero tutto. Se non è morta ci è mancato poco! Le aveva preso un convulso che le ballavano perfino le sopracciglia! Un bel fatto!... — Non abbia paura — le dico — noi siamo qua per la sua salute!... — Io avevo già adocchiato la Spingarda.

— Quale Spingarda?...

— La cameriera. Ha, press'a poco, l'età della marchesa e, anche lei, è un bel spaventa passeri! Dico alla marchesa il mio piano... Così e così!... Chiamiamo la Spingarda. Arriva con una faccia da allocco che pareva piovuta dal cielo. — Tu devi venire con noi e devi fare quello che ti diremo!... — O non si mette a piangere?... Sicuro! Si mette a piangere che pareva una fontana! — Ma va là, che nessuno ti tocca!... Chi vuoi che ti tocchi?... Non ti guardi nello specchio?... Non siam mica bestie!... — Ma dovete sapere che la Spingarda è una Figlia di Maria e le Figlie di Maria hanno giurato di ritornare in Paradiso con tutte le loro cose, senza averle adoperate mai. La marchesa incomincia a parlarle. Dice: — Questi sono galantuomini. Quando te lo dico io!...

Il Cavalier Mostardo scoppiò a ridere e rise anche il Trancia.

— Basta: riuscimmo a convincerla. Adesso, per capir bene, dovete sapere che la marchesa tutte le sere, all' Ora di notte, esce di casa e non so dove vada. La gente dice che va a fare all'amore. Se ne son viste anche delle peggio!... Io dico ai miei uomini: — Domani sera la marchesa uscirà alla tale ora... passerà da questa strada dove non c'è mai nessuno e neppure un fanale. Noi l'aspetteremo e la porteremo via. — Accettato. E, la sera dopo, la Spingarda si veste coi panni della padrona. Ha l'ordine di non parlale, ma solamente di piangere. Arriva, la prendiamo... piange... Il colpo è fatto!

— Ma non l'hanno riconosciuta?

— No. Aveva, sulla faccia, una benda nera.

— E dove l'avete portata?

— In una villa, sopra Dovadola. Lassù non vanno a trovarla, no!

— Ma a chi l'avete lasciata?

— Ai contadini.

— E i rossi sono convinti che sia la marchesa Alerami?

— Convintissimi!

— Bene!... E avranno avvertito il clero!

— Li sentirete, domani, i preti!

— Naturalmente me la sono rubata io, la bella fragola!...

— Sicuro, voi! Per un ricatto.

— Bell'ingegno!... E chi vuoi che lo creda?...

— Caro Mostardo, vi vogliono buttar giù, vi vogliono!... E tutti i mezzi son buoni.

— Staremo a vedere. Per ora vi ringrazio. Avete agito da galantuomini. Sarete contenti di me. Bisognerà che la marchesa rimanga ben nascosta, fino a quando non le diremo di venir fuori.

— Oh, non si muoverà! — disse Giovannone. — Ha troppa paura.

— Ma bisogna avvertirla.

— L'abbiamo fatto — soggiunse il Trancia.

— Benone.

Poi si separarono e tutti erano contenti; ma il Cavalier Mostardo vedeva il cielo del suo trionfo.

Quando fu solo scrisse:

Cara Mignon del mio cuore,

Occhio per occhio e dente per dente! Questa notte tu mi hai aperta la strada del Paradiso! Grazie! Grazie! Sono contento come una Pasqua. Mi hai dato una bella soddisfazione, per Bios! E io ti ho trovata la marchesa. Sì, te l'ho trovata con tutti i suoi ammenicoli sana e salva. Sono bravo? Ma bisogna che rimanga dov'è. Ti dirò poi a voce.

A morte i TAMBURIERI!

Tu sei la mia COCCA! Allegri, Mignon! Non aver paura di niente. Io sono un galantuomo e so tener l'acqua in bocca! Fra noi non c'è stato niente. Se qualcuno parla, lo ammazzo.

Ah, quel letto di Napoleone! Quel letto di Napoleone!...

Rimase così, con la penna a mezz'aria, e guardava il soffitto. Cercava un'idea discreta per dir tutto e per non passare al di là. Però Napoleone lo disorientava un poco. Come avrebbe finito? Si prese la fronte fra le mani: ponzò, riflettè, rincorse l'idea. Ecco:

... L'avevano fatto per le vittorie...

Chi?... Ma il letto, evidentemente! E dopo? Forse bisognava parlar di battaglia. Ma non sarebbe stato troppo? E allora? Scartata la battaglia, che cosa rimaneva per arrivare alla vittoria?... E cancellare non voleva! Incominciò ad aver molto caldo. Rilesse:

— Ah, quel letto di Napoleone! Quel letto di Napoleone! L'avevano fatto per le vittorie... Già!... L'a-ve-va-no fat-to per le vit-to-rie...

Gli venne in mente, guardando intorno, la bandiera. Bene. Ecco l'idea:

... e noi ci siamo passati con la bandiera rossa del nostro amore! Evviva la Repubblica!

Il tuo: Gianni.

Chiuse la busta; scrisse l'indirizzo; ma da chi avrebbe mandato la lettera, per non compromettere Mignon? Non restava che impostarla. Già! Ma a lui premeva di far saper subito alla sua bella come stavano le cose.

Allora Rigaglia?... Benissimo!... E per spedirlo al Conventino?

La sua faccia si rabbuiò.

— Ah, povera Carlotta!...

Quello anche era un dramma della sua vita. Non per il valore, ma per la bestia. Proprio per lei, povera Carlotta, che era tanto affezionata! Tale e quale alla Carlotta del Werther.

Be', avrebbe preso un asino a nolo e avrebbe mandato Rigaglia.

Suonò. Ecco il domestico nemico.

Tok-tok... tok-tok... tok-tok...

Rigaglia entrò. Stette a sentire tutto quanto gli disse il suo padrone. Aveva capito benissimo. Ora stava per andarsene quando si sentì richiamare.

— Rigaglia?

— Eh?...

— Vieni qui.

Tornò indietro.

— Cosa volete?

— Mettiti a sedere su quella seggiola.

Rigaglia guardò la seggiola, guardò Mostardo. Non capiva niente. Domandò:

— Perchè?

— Ti ho detto di metterti a sedere su quella seggiola!

La faccia del colosso era molto nera.

Rigaglia ubbidì senza distaccare gli occhi dalla faccia del padrone. E lo vide levarsi... e lo vide andargli vicino... e non ne fu molto rincorato.

— Togliti le scarpe!

Che cosa?... E perchè doveva togliersi le scarpe?... Il povero Rigaglia guardò i suoi scarponi, guardò il Cavalier Mostardo e domandò ancora:

— Perchè?

— Ti ho detto di toglierti le scarpe!

Bisognava ubbidire. Si chinò a fatica; incominciò a sciogliere i lacci.

— Fa presto!

— Sono dure...

Oh Dio che non volevano venire! Finalmente riuscì a toglierne una e ristette pien di fatica.

— Anche l'altra! Presto, chè non ho tempo da perdere.

Domandò ancora; ma con un filo di voce quasi sentimentale:

— Perchè?

Ma si era già inchinato ad ubbidire. Riuscì a sradicare dagli enormi piedi anche la seconda e la posò accuratamente vicino alla prima. E adesso?... Purtroppo non tardò a capire.

Il Cavalier Mostardo si chinò, raccolse le scarpe di Rigaglia e prese risolutamente la via della finestra.

— Cosa fate?

Ma le adorate scarpe eran già volate nella concimaia.

Allora Mostardo si voltò, con la sua faccia burbera, e disse a Rigaglia:

— Così imparerai ad ubbidirmi!... Quante volte te lo dovevo dire che, in casa mia, non voglio vedere gli scarponi coi chiodi?... Adesso basta e va dove ti ho detto.

E il povero Rigaglia fu costretto ad andarsene in pedùli, senza neppure poter rifiatare.

— E mangiare?

Rigaglia era partito. Eran quasi le due del pomeriggio.

— Andrò da Spadarella.

Gli ritornò una sconfinata allegria. Si guardò nello specchio. Le ammaccature e le bozze e i lividori e i gonfioni non gli deturpavano la faccia. Anzi gli sembrava di essere più piacente.

Chissà che cosa avrebbe detto la sua bambina! Ma ci era abituata. E Spina Rosa?

Jòso, la mi Madona!... (Gesù, Madonna mia!).

— Non fate la sciocca. Sono cose che capitano a chi non sta sempre intorno ai fornelli e per le chiese!

Ma, quel giorno, il centro del suo mondo era Mignon. Ne era ebbro. Se la sentiva ritornare come un profumo che dà le vertigini. E, come gli toccava sempre, quando era al colmo della contentezza, dovette cantare.

Incominciò, mentre si aggiustava la cravatta innanzi allo specchio:

Non conooosc'... iiiil... beel suooooool...

La sua voce si liquefaceva, per la gran dolcezza, sull'ultima o.

... che di porpooooor'è... il cieeeeeeeel?...

Quando cantava, non badava più nè alla grammatica, nè al senso, nè a niente. Era l'aria!... Era il motivo musicale che l'occupava, la gran tenerezza della voce.

Aveva scelto un'aria della Mignon. Sfido! Tutto il mondo era Mignon.

Ora girava per la stanza non rammentando che cosa dovesse fare; ma continuava sempre più intenerendosi; (e aveva una bella voce, l'assassino!..).

... dov'il miiiirt'eeee.... l'alooooooor...

Ci metteva una sola elle, ma il sentimento era lo stesso. Alloro o aloro che cosa importava?... Era quel gran cane del cuore che andava incontro al Paradiso!

... fann' un beel... cespiceeeeeel...

Il cespicello del mirto e dell'alloro (Mostardo pronunziava aloro ), era una sua invenzione. Non rammentando il verso originale ne sostituiva uno purchessia. Ora arrivava il gonfiore armonico!

La — giùuuuuuuu...

... uuuuuuuuuuu...

E si fermò per regalare tutta l'aria che aveva nei polmoni a quell' u.

Vor-rei ri-tor-naaaaa... aare...

Riprese fiato.

A — maaaaaaar'-eee-moriiii-iii-iiir...

Per Bios, che roba!

Lag — giùuuuuuuuuu... Vor-rei

ri-tor-naaa... aaaareeeee...

Alzò gli occhi al cielo turchino.

A — maaaaaaaaaaaaaaaaaaar...

Ma che cos'era, dunque, che saliva, con la sua voce, più su della cima del campanile?

eeeeeeeeee...

Ecco lo spasimo, l'amore, l'elevazione, il sublime, nello spegnimento, nella nota esigua, trasparente, quasi impercettibile come il filo del ragno, salvi i diversi orifici. Ecco...

... eeeeeeeeeeeeeeeee

— punto e virgola —

... moooo — riiiiiiiiiiiiiiiiiir!...

E avvenne ch'egli si trovasse, proprio agli angoli degli occhi, due vergognosi lacrimoni i quali ruzzolaron via presto presto per non farsi scorgere.

Ripetette mentalmente, e l'onda del suono lo teneva tuttavia:

Amar e morir!

Ma sicuro, morire! Quand'un uomo ha dormito in un letto di Napoleone, può ben morire! E Mignon gli si addolciva come una creatura intravista attraverso gli inganni, le lusinghe, le seduzioni, le illusioni dell'arte e del teatro; e il povero Mostardo ne sarebbe morto. Aveva raccolto tanto miele che sarebbe morto senza profferire parola. C'era un mare e ci si buttava dentro. Ci buttava il cuore e l'animaccia entusiasta.

Canta sirena...

la luna è piena...

Elèna... Elèna...

Egli era un gran frequentatore di teatri; ma gli piaceva l'opera. L'opera, il canto. Allora gli si aprivan le porte del paradiso. Ne' suoi bei venti anni, con diciotto o venti soldi in tasca, d'inverno, e la neve riempiva le strade, e il freddo si faceva sempre più cane, con dieciotto o venti soldi in tasca, quando c'era l'opera a Ravenna, o a Imola, o a Cesena, o a Lugo, se ne andava a piedi, coperto solo dalla sua giovinezza, e percorreva trenta e quaranta chilometri per trovarsi alla porta del teatro al cominciare dello spettacolo. Saliva allora, dissanguandosi per pagare il biglietto d'ingresso, in un angolo del loggione, e, una volta lassù, appoggiato al parapetto, gli occhi larghi e la faccia estatica, dimenticava la fatica, la stanchezza, il freddo e la fame. Se c'era uno spettatore che si facesse portar via tutto quanto dall'arte dei suoni e dalla finzione scenica, questo spettatore era lui. Se c'era un cuore che dimenticasse tutto il resto del mondo per abbandonarsi alla suggestione e all'entusiasmo, questo cuore era il suo. E si sbracciava, e strepitava e berciava come un ossesso.

— Bene!... Brava!... Bis... biiis... biiiiis!

Aveva una voce che avrebbe riempito venti teatri. Lo prendevano per un capo-claque e non era che un povero diavolo innamorato. Con tutta la sua miseria si trovava più ricco di un Creso, in quelle sere. Allora, per una prima donna o per un tenore, avrebbe fatto tranquillamente le coltellate. Non già che le prime donne o i tenori lo commovessero come tali; no, non si trattava di questo. Per lui, i celebri canterini, avevano la virtù di continuare a vivere sotto la veste di una Aida, di un Trovatore, di una Traviata; e non avrebbe saputo concepirli diversamente. Li amava sotto la specie degli eroi da ribalta, perchè dalla ribalta la sua esuberante giovinezza traeva il principale, se non il solo alimento agli entusiasmi.

A spettacolo compiuto, rieccolo in via. Il freddo era più cane, la neve era più alta. Certe nottate in cui morivan di freddo anche le stelle. Aveva un cencio di capparella, ma non se ne serviva. Portava con sè il fuoco dell'arte. E, non appena fuori dalla città, in aperta campagna, sotto la furia dei gelidi venti, eccolo a cantare a tutti polmoni. Si portava via, a volta a volta, quasi tutta un'opera. Aveva un orecchio maestro.

E cammina che te cammina; e canta che te canta, le nottate eran ben lunghe, ma l'alba arrivava. Arrivava l'alba e, l'allora Casadei Giovanni detto e' Sparsiôn, era ancora per strada. Ma la Città del Capricorno non era lontana. Vi arrivava a giorno fatto, senza più un soldo in saccoccia, con sessanta o ottanta chilometri sul groppone, con una fame diabolica e doveva andare a bottega. Andava a bottega, ma pestava le droghe cantando e sognando di essere Radames.

Così aveva incominciato la carriera questo grande cuore, questo ultimo idealista, questo genuino romantico, il quale aveva trovato poi tanto spazio alle sue generose strampalerie, alla sua bontà che era schietta ed ignuda; ignuda e indifesa, di fronte al sordido egoismo e alla miseria bruta dei sopravvenienti.

Il Caffè del Gatto Bianco.

Un ritrovo di begli ingegni appartenenti alla più lanciata e cosciente Democrazia, e ad altre fedi e catechismi.

Faceva caldo. Sui ciottoli della piazza erano distesi molti tavoli, innanzi alla bella insegna del Caffè del Gatto Bianco. Un cameriere nerovestito, una sudicissima salvietta sotto il braccio, gironzolava fra i tavoli, un po' scacciando le mosche, un po' ascoltando e compiacendosi delle belle parlate degli avventori.

C'erano molte mosche. Questo cameriere aveva molto da fare. Si chiamava Girolamo; in romagnolo Zìrolum. Zìrolum esercitava una specie di controllo su quanto dicevano gli avventori del Caffè del Gatto Bianco e, se una cosa non gli andava a genio, non si peritava di entrare in discussione e di dar torto marcio e di trattar male colui che l'aveva manifestata. Zìrolum si dava molta importanza. Aveva veduto Garibaldi. Era un uomo con una fitta chioma bianca e ricciuta. Non si era addattato allo smoking perchè i suoi principii non glie lo consentivano; vestiva di nero, ma per principio, per una manifestazione simbolica: portava il lutto della fallita congiura di Castrocaro:

— ... quando non si volle la Repubblica e si mantenne l'Italia in questo stato cadaverico...

Zìrolum, per sua disgrazia, si chiamava anche Savoia. Girolamo Savoia. Il cognome non è infrequente in Romagna. Di ciò si valevano gli avversari suoi, per fargli dispetto. I quali avversari andavano a prender una bibita al Caffè del Gatto Bianco e, quando compariva Zìrolum, esclamavano:

— Ecco un Savoia!

Alla quale esclamazione, altamente incanendosi, il nostro Zìrolum, rispondeva:

— Vorrei che tutti fossero Savoia come me e così smonarchizzati!

Quel giorno Zìrolum si fermava più di frequente ai tavoli ad ascoltare le calorosissime discussioni e più di frequente interveniva a dar torto ai suoi avventori.

All'ultimo dei quali, a un certo Cleto Bonavia, pescivendolo, aveva detto, per troncar corto:

— Voi siete un somaro!

Il signor Cleto, candidato al Consiglio Comunale, gli aveva risposto che il somaro era lui e si eran chetati su tale assioma.

Però faceva troppo caldo e c'eran troppe mosche.

Zìrolum si asciugava il sudore.

— Ah, miseria del proletariato!

Si asciugava il sudore perchè c'erano molte mosche e bisognava correre da un tavolo all'altro a scacciarle e bisognava altresì ascoltare che cosa dicevano i clienti e intervenire nelle conversazioni.

— Il mio è un mestiere cane!

Si suda una camicia e se ne sudan cento;

poi vai a letto e non sei mai contento!...

Zìrolum era poeta. Era nato con questo estro cane! Aveva anche scritto un poema che aveva sempre a portata di mano: La Mazzineide.

— È il frutto delle mie prigioni. Io sono stato un perseguitato politico più del nostro Maroncelli e del molto reputato Silvio Pellico. Il Pellico scrisse le memorie delle sue carceri; io innalzai l'anima a Mazzini e mi venne fuori questa Mazzineide. L'ho riscritta tre volte. Per due volte la finii e i miei aguzzini me la portaron via e la misero al forno. Alla terza volta la scrissi col sangue su qualche lembo della mia camicia. Mi ricordo sempre che, arrivato al verso:

Così Mazzin, da fiera mole assalso...

— Ma si dice: assalito!...

— Non importa. Questa è una licenza poetica:

Così Mazzin, da fiera mole assalso;

Visto che nulla aveva di sè prevalso...

arrivato a questo verso, non avendo più niente da scrivere, dovetti adoperare il rovescio delle mie scarpe, sulle quali, con una scrittura minuscolissima, finii l'opera. Sono cinquemilaseicentoventidue versi, senza i titoli.

La Città del Capricorno conosceva la Mazzineide, se pur non si gloriava del poeta.

Nemo propheta (Zìrolum pronunziava propeta) in patria!

— Ma perchè dici propeta?

— Bella sboccia!... Perchè è latino!

— Ma in latino si dice profeta.

— Sicuro!... Credi che non sappia leggere? L'avrò letto venti volte. C'è un bellissimo pi, con un' acca che non vuol dir niente. I latini avevano un'altra pronunzia.

Zìrolum aveva sempre ragione. Del resto, nel corso della sua vita inconcludente e sbalestrata, aveva veduto Garibaldi e ciò gli conferiva una bella autorità.

— Tu sei un pitecantropo! — gli diceva Libero Bigatti.

— Siamo stati tutti pichetantropi, caro mio, alla nostra stagione! Credete davvero che non sappia che l'uomo discende dalla scimmia.

— E come lo sai?... Chi te l'ha detto?

— La scienza.

— Quale scienza?

— Se volete scherzare è un'altra cosa.

— No, volevo saperlo, perchè a me non è venuto a dirlo nessuno.

— Sicuro!... Verranno a dirlo a voi. Ma chi credete di essere?...

Bigatti rideva. Zìrolum si asciugava il sudore, allontanandosi e brontolava.

— Vorrebbero conculcare anche il libero pensiero! Codini! Se servo il pubblico ho avuto anche tempo per coltivare il mio ingegno. Io sono autodidatta.

Intorno ridevano. Zìrolum non rispondeva più. Gridava verso l'interno del Caffè:

— Un bianco per il signor Calendoli!

Poi, tergendosi la fronte:

— Ah, miseria del proletariato!...

C'era un grande baccano, intorno, e i tavoli erano affollati.

Il sole era disceso dietro il palazzo del Comune. Molti crocchi si formavano qua e là per la piazza.

Ora il povero Zìrolum doveva tener d'occhio più particolarmente i due tavoli degli Agrari dai quali gli era arrivata per due volte la frase tipica: « Socialistaglia luzzattiana...». — Ma come contenersi?... Inveire non poteva perchè ormai gli Agrari se la intendevano coi gialli; inoltre egli era sempre stato, avversissimo al blocco; ma gli Agrari rappresentavano troppo sfacciatamente la borghesia, vittima proletaria, non poteva davvero aver simpatia per coloro che lo avevano preso, dopo la innocua spedizione di Monte Sassone, e, con una scusa qualsiasi, lo avevano ammanettato e chiuso nel fondo di una buia carcere per anni ed anni. Così cercava di ascoltare alla larga, senza compromettersi.

Ora parlava, fra gli Agrari, l'avvocato Paolo Derni, un riccone sfondato, con una faccia da cuor contento che faceva dispetto a vederla. Una vera mostra di boni da mille!... Si leggeva la ricchezza in quelle guancie rotonde, in quella tranquillità patriarcale che non si commoveva mai. Si vedeva un uomo che sapeva sempre dove mettere i piedi. Aveva la terra ferma, sotto. Non si era alzato mai, nel corso della sua vita, con la buia pena di non saper come mettere d'accordo il venerdì col sabato.

— E domani come si mangerà?

Aveva avuto sempre le stie piene di capponi; le cantine ricche di vini e grano nelle soffitte e nelle fosse, e i più bravi cuochi, e le donne più belle, e le centinaia di migliaia alle Banche.

— Porca miseria!...

Savoia Girolamo, e con lui la moltitudine, noi compresi, aveva amato tremendamente e aveva digiunato più di San Francesco, senza farlo, come il gran Santo, per uno scopo spirituale.

— Ah, miseria del proletariato!

Bene! Ora parlava Paolo Derni, l'avvocato milionario, e rideva. Zìrolum si era fermato con un orecchio teso, guardando verso un punto estremo della piazza.

— Già, secondo loro — diceva il pacifico borghese, — secondo loro, noi dovremmo lasciar svolgere liberamente gli elementi del Diritto nuovo! E il Diritto nuovo è quello di occupare le terre del Comune e dei privati, quando questo non sia consentito; quando cioè i legittimi proprietarii vi si oppongano. Come andrà a finire?... Io non sono un professore di Università, nè un filosofo umanitario, nè un deputato con dieci legislature, nè un uomo politico con, didietro, le sante memorie della vecchia Destra. Io sono un uomo che, quando va contro al Codice Civile o al Codice Penale, e si lascia cogliere sul fatto, è chiamato in Questura e fila dritto al Cellulare. Essendo tale, non mi assumerei davvero la responsabilità di coprire la carica di Vicerè delle Romagne! Fin che fossi Vicerè, sarei salvo; ma se la Camera facesse cadere il Ministero, non cadrei anch'io?... Potrei forse contare sull'aiuto di Giolitti? — Con quell'uomo non si è mai sicuri!... La prospettiva di essere processato come capo o complice dei socialisti romagnoli, invasori di terre, non mi sorriderebbe. Accetterei solo ad un patto...

— Quale?

— Che l'idea del Diritto nuovo fosse accettata da tutti, pacificamente!

— Bravo!...

Si levò un tumulto di urla, di risate, di invettive.

Ora Zìrolum ascoltava con due orecchie.

— A questo ci hanno condotto le famose conquiste della Democrazia borghese! — esclamò Angelo Angelotti.

E Floriano Borghi:

— Ciò che fa più schifo è il giuoco del Governo. Associa i socialisti parlamentari alla maggioranza ed ha la faccia tosta di far affermare che questo è avvenuto per puro caso, senza alcun patto con l' Estrema, per pura simpatia!...

— Bubbole! — gridò il marchese della Pipetta. — Il Governo perchè si prende le tasse se deve trattarci così?

— Già, voi vorreste una legione di carabinieri solamente per il vostro palazzo! — gli rispose il conte La Perla.

— Ben detto! — esclamò Zìrolum che ascoltava con tre orecchie.

La discussione crepitava strepitando. Erano una quindicina, in due tavoli del Caffè del Gatto Bianco.

Oltre i summenzionati, c'erano: Loreto Baroni, possidente; Giulio Fienai, possidente; il barone Lorenzo Vichelli, antico cavaliere di cappa e spada; Temistocle Lattonari, regio notaio; Cesare Baccicalupi, dottore in scienze agrarie, notevolissimo; Oreste Malnessi, giovane senza convinzioni, ridanciano e donnaiuolo; Peppino Locchi, perito agrimensore, saldo nella massoneria; Gioacchino Albati, avvocato, ben pensante, pieno di iniziativa e forbitissimo dialettico, ed altri di minore rilievo.

Ora, per non poter noi seguire, nella consueta forma narrativa, l'intricatissima discussione, lascieremo ai nostri Agrari, con la responsabilità delle loro convinzioni, la libera parola.

Loreto Baroni. — ( Agitando un giornale ):

— Avete letto l' Avanti!?

Cesare Baccicalupi. — Chi ha cura del proprio fegato non legge certi fogliettacci velenosi!

Loreto Baroni, Giulio Fienai, Peppino Locchi, Gioacchino Albati. — Non dire sciocchezze!... — Vuoi coprirti gli occhi per non vedere? — Questi sono i vostri sistemi!... E vi trovate il nemico in casa!...

Il barone Lorenzo Vichelli. — Che cosa dice questo Avanti!? Sentiamo.

Molte voci. — Leggi... leggi!...

Loreto Baroni. — Dice... «Se nell'estate prossima i fatti si rinnoveranno, in Romagna, deve l'autorità politica agevolare i proprietari ad opporsi?»

Floriano Borghi. — Ormai l'autorità politica, anzi il disautorato Governo dei conigli, si è compromesso ignobilmente. Bissolati ha parlato chiaro!

Voci. — Ma lascia leggere!

Loreto Baroni. — ( Continuando la lettura ) «... deve l'autorità politica agevolare i proprietarii ad opporsi all'entrata nei fondi mezzadrili, alle macchine non scelte da loro?...».

Floriano Borghi. — Non ci sarà questo pericolo!

Voci. — Silenzio!...

Floriano Borghi. — L' Avanti! conclude: « Se questa autorità si prestasse al capriccio dei proprietari, meriterebbe di essere presa a calci nel sedere ».

Ne seguì un nutritissimo coro di urla, di invettive, di minaccie, di lampeggiante sdegno. I commenti che seguirono parevan contesti di polvere pirica. Molti erano i congestionati.

Zìrolum ascoltava con quattro orecchie.

Paolo Derni. — Ecco una solenne affermazione del Diritto nuovo! Del loro Diritto nuovo!

Il marchese della Pipetta. — Infatti le fonti di questo loro diritto, sono i piedi!

Il conte La Perla. — E camminano!

Il marchese della Pipetta. — Pare ne godiate! Ma se arrivano arriveranno anche per voi, sciagurato!

Il conte La Perla. — E a me che importa? Bisogna vivere nello spirito dei tempi.

Il marchese della Pipetta. — Infatti si vede che cosa state facendo da quando siete nato!

Zìrolum scacciò le mosche da un tavolo più vicino e brontolò:

— Sfruttatori ereditari!... Sfruttatori per atavismo e spirito di casta!... Aguzzini del libero pensiero proletario!...

Allora levò la voce uno che, fino a quel punto, aveva taciuto: l'ex onorevole Adriano Biancini, moderatissimo uomo e chiaroveggente.

Adriano Biancini. — Non siamo più di venti e non riusciamo a metterci d'accordo. Questa è la nostra disciplina! E vorrete meravigliarvi se domani continueranno a vincere come hanno vinto fino ad oggi? Essi hanno una mèta precisa; noi non ne abbiamo nessuna. Appena ieri siamo riusciti ad accordarci per una difesa parziale e non perderemo, forse, perchè i repubblicani sono con noi. Ma credete rimarranno con noi?... Fra un mese saremo più soli e la minaccia si aggraverà. È cieco chi non vuol vedere lo spirito prettamente rivoluzionario di questi moti. Prepariamoci alla spogliazione per gradi o improvvisa. L'una forma o l'altra può dipendere da fatti imponderabili e subitanei. Del resto, la Rivoluzione francese, che si credeva compiuta nel ciclo che chiamerò dell'ottantanove, continuerà a vivere per tutto questo secolo e i nostri nepoti ne avranno anche per il secolo venturo. La Democrazia borghese è ormai sopraffatta e deve cedere il campo ai socialisti rivoluzionari e ai socialisti democratici. La vecchia Repubblica con tutti i suoi idealismi umanitari; la romantica Repubblica del nostro Mingozzi, quella generosa e battagliera, intorno alla quale si raccoglieva la migliore parte della gente nostra, dopo l'epica morte di Antonio Fratti, è venuta cedendo terreno di giorno in giorno ed ora può dirsi si riassuma nel suo ultimo epigone: il Cavalier Mostardo. Siamo ai traguardi, amici miei, e non avremo neppure la magra soddisfazione di arrivare buoni ultimi se non sapremo trovare in noi la forza della concordia.

La disputa si inasprì. Non importava preoccuparsi dell'avvenire, era il presente che conveniva dominare e per dominare il presente occorreva l'aiuto del Governo. Ma il Governo, fra Giolitti, Luzzatti, Calissano, Chimirri giuocava a favorire sempre più la socialistaglia prepotente, aggressiva, sfacciata ed incivile.

— Il Governo ci ha venduti come pecore segnate! — urlò Cesare Baccicalupi, dottore in Agraria.

E il barone Lorenzo Vichelli, antico cavaliere di cappa e spada:

— Ha nominato una Commissione; manda quaggiù dei parolai, ci tiene a bada. E intanto lascia che tutto vada a rotoli. Al tempo antico...

— Lasciate stare il tempo antico! — consigliò Gioacchino Albati, avvocato bempensante, che era un moderatore.

Disse Adriano Biancini:

— Il fatto sta che noi non sappiamo che strepitare e ce ne andiamo come le foglie sulle correnti di autunno.

— È la nostra volta! — mormorò Oreste Malnessi, giovane senza convinzioni.

— E non abbiamo coraggio! — aggiunse il Biancini.

— In quanto a coraggio — gridò Peppino Locchi, perito agrimensore, saldo nella massoneria; — in quanto a coraggio ne avremmo da vendere! Ma siamo l'odiata minoranza e in dieci contro diecimila non si può combattere!

— Allora cediamo il potere e faccian loro!... Tanto, peggio di così non potrebbe andare. — Questo disse Giulio Fienai, possidente, persona perbene e bennata, autorevole in famiglia e ben veduta al Circolo dei Nobili.

Zìrolum approvò:

— Dice bene, il signor Fienai!

Frattanto un'altra lite si accennava fra il marchese della Pipetta e il conte La Perla, i quali erano sempre inveleniti l'un contro l'altro e non si perdonavano neppure il respiro.

— Che cosa ne pensate voi, Biancini, della Commissione governativa? — domandò il conte Angelo Angelotti, uomo senza idee e senza pareri, ma tutto di un pezzo, come suol dirsi.

— La Commissione verrà a scoprir la Romagna, farà un monte di belle chiacchiere; darà ragione a tutti e lascierà le cose allo statu quo ante!

— E allora chi deciderà, nel caso nostro?

— Decideranno i magistrati, sempre che si mantengano gli escomi ai contadini ribelli.

— Per conto mio — disse il marchese della Pipetta, — non cederei neppure se dovessi rimetterci tutto!

E il conte La Perla:

— In quanto a questo, solo che vi dovesse venir meno un palmo di terra, vi calereste dieci brache!

— Del resto — riprese il Biancini, — le cose andranno come devono andare.

— Già, voi siete cultore del mito catastrofico! — esclamò Loreto Baroni.

— Vi pare mi sia ingannato di molto, fino ad oggi?... E pensate davvero che, una volta trovata una morale della violenza, una volta negata cioè la barbarie insita nella violenza e giustificatene le conseguenze estreme, ci si debba arrestar presto?...

— È quello che vedremo.

E il marchese della Pipetta aveva già incominciato a dire:

— Ma sapremo difenderci... — quando balzò in piedi perchè il suo agente di campagna lo aveva chiamato in disparte. Gli amici lo videro impallidire, gestire e l'udirono gridare per due volte:

— Canaglie!... canaglie!...

— Che cos'è stato? — gli domandarono quando ritornò verso il tavolo.

— Nuove prove di civiltà!... Nuove prove di civiltà!...

— Ma di che si tratta?...

— Mi hanno incendiato tre barchi (biche): uno a Magliano; uno a Malmissole e uno a Noceto!...

— Oooooooh!... — fecer gli Agrari.

— Ma non basta! Nella mia tenuta di Vecchiazzano mi hanno tagliate più di cinquecento viti!

— Ooooooh!... — ripeteron gli Agrari.

— Ma non basta!... Hanno saccheggiato il giardino della mia villa a San Pietro in Campiano e hanno incendiata la villa di mio cugino...

— Quale villa?...

— Il Conventino!

— Per Bios!...

Un uomo che si era seduto allora allora a un tavolo non discosto, balzò in piedi rovesciando il tavolo (vassoio, bicchiere e bottiglie compresi!), e gridando:

E' fugh!... E' fugh!... (Il fuoco!... Il fuoco!...) si scagliò verso la torre del Comune.

Era il nostro Mostardo.

Dopo non molto la campana d'allarme suonava a martello, senza tregua, senza riposo, in un impeto disperato. Pareva vi si fosser posti in venti a tirar per la corda. Non la si era udita mai tempestar così, soprapossa!... Annunziava il finimondo!

Dati i tempi che correvano, con quel po' po' di venticello rivoluzionario che spirava intorno, quella chiamata a raduno fece tremebondo più di un core. Suonavano al fuoco, o si voleva il popolo in piazza per altri scopi? Non era forse il tentativo di una rivolta improvvisa? Chi era che suonava?

Gli Agrari furono tutti in piedi, in un battibaleno, il marchese della Pipetta si affrettò a squagliarsi, scivolando via sotto la propizia ombra dei portici. Il conte La Perla voleva farsene beffe, ma la sua beffa avrebbe dovuto appoggiarsi a un esempio che non si sentiva di dare. Anche il conte La Perla, con la scusa di incuorar le sue donne che potevano spaventarsi, dileguò per un'altra via. L'esempio fu seguito dai più. I rappresentanti la classe assalita con tant'impeto dal popolo, si addimostravano veramente, pieni di ferma fierezza e di incrollabile ardire.

Zìrolum rideva. Le mosche non c'erano più; c'era solamente il suo garibaldino core che si divertiva.

Degli Agrari non rimasero che l'ex-onorevole Biancini, Gioacchino Albati, Cesare Baccicalupi e Oreste Malnessi. Quattro persone!... E gli altri avevano avuto molti bisogni improvvisi e molta gamba.

— Ma chi suona? Si può sapere chi suona?

— Credo sia Mostardo, — rispose Zìrolum.

— Mostardo? — domandò l'avvocato Albati. — E perchè?

La cosa turbò molti spiriti.

La borghesia vedeva il Cavalier Mostardo come un diavolo rosso. Se Mostardo dava l'allarme, qualche cosa di molto brutto doveva bollire in pentola!

— Ma perchè suona? — domandò Cesare Baccicalupi. — Suona al fuoco, forse?

Zìrolum strinse la testa fra le spalle:

— Chi lo sa? — rispose.

— Briscola!... — mormorò Oreste Malnessi, che era un giovane senza convinzioni, ridanciano e donnaiuolo.

Primi ad accorrere furono i ragazzi i quali incominciarono a far tanto strepito quanto non ne abbisognava, a mantener la calma nei pavidi cuori. Poi, un uomo che apparve, correndo alla disperata, mezzo vestito in borghese e mezzo in divisa, con, sulla testa un grand'elmo color d'ottone, adorno da un ricco pennacchio rosso e blu; e si diresse all'entrata del Palazzo del Comune, richiamò l'attenzione di molti.

— Ecco Asdrubale Tempestoni!...

— Allora è il fuoco!...

— Che cosa brucia?...

— Dov'è il fuoco?

I quattro Agrari respiraron meglio.

— Povero Asdrubale — sospirò Cesare Baccicalupi, dottore in Agraria, notevolissimo; — povero Asdrubale, è sempre pronto!... Pochi Corpi dei Pompieri sono organizzati come il nostro. Solo in Isvizzera...

— Per carità!... Lasciami stare la Svizzera, adesso! — gridò l'avvocato Albati che era persona dabbene.

Ma il nostro Cesare era piuttosto testardo e aveva uno spiccato debole per la Svizzera.

— Perchè? — riprese. — I pompieri svizzeri possono servire di modello al mondo intiero!

Nessuno gli pose mente.

Asdrubale Tempestoni, come Curzio nella voragine, si scaraventò entro la gran tenebra del Palazzo Comunale. Gli si scagliaron dietro, a mano a mano, i suoi militi.

Giungevan dai quattro punti cardinali, galoppando via a gambe levate, inseguiti da uno stuolo di ragazzaglia urlante. Sorpresi dalla campana di allarme, chi sul lavoro, chi al santo desco, chi in delicate opere d'amore: e questi affaccendato in politici affari, e quegli in legittima guerra con la irosa consorte, spuntavano, sospinti dalla furia del dovere e dell'abnegazione, in sommarii abbigliamenti, così come si trovavano quando il disperato appello li aveva raggiunti. Senza giacca, in mutande, scalzi, in pedùli, una scarpa sì e una no, ma sempre belli di nobile ardore. Ve n'eran di tutte le età: teste calve e teste ricciute; faccie pompose di giovinezza e volti scarni di anziani, provati ormai a tutte quante le stazioni della vita.

E ciascuno pareva si trascinasse dietro, per le voci della ragazzaglia urlante, una vampa. A quando a quando dal nord, dal sud, dall'ovest arrivava un nuovo tumulto, poi ecco spuntare il milite affannoso ed affannato, precedente la torma dei piccoli senza-camicia; i quali piccoli, com'è proprio della natura loro, si eran già inabissati nello sbaraglio e, ebbri di strepito e di fialoppo, si eran creati la grande fantasia incendiaria onde muovere a spavento le donnine, raccolte in su l'usciuolo dischiuso.

Ch' s'èll stè, e' mi Signor? (Che cos'è stato, Dio mio?).

E' fugh!... E' fugh!... E' fugh!... E' fugh!... (Il fuoco!... Il fuoco!... Il fuoco!... Il fuoco!...).

Jòso, purèta me!... (Gesù, poveretta me!).

E le povere donnine, in su l'usciuolo dischiuso, congiunte le palme, e la faccia improntata alla più grande costernazione, davan l'avviso alle ritardatarie.

Aviv sintì, Marièta? (Avete sentito, Marietta?).

Ch' s'èll, néca? (Che cos'è, ancora?).

Dis cu j'è un fugh che mai piò!... (Dicono che c'è un fuoco come non si è mai visto!).

Mo indò? (Ma dove?).

In l'ha dett. An sintì coma che sona la tora? (Non l'hanno detto. Non sentite come suona la torre?).

L'è e castigh de Signor! (È il castigo del Signore!).

Jòso! U s'ha d'avdè dla gran brota roba! (Gesù! Si devon vedere di novità molto brutte!).

Ma, in quella, passavan di corsa, berciando, i nuovi giovani. Allora, la Catarena, si faceva animo e li interpellava.

Dsi so, burdèll, duv'èll e' fugh? (Dite, ragazzi, dov'è il fuoco?).

Mo che fughi... L'è la rivoluziôn!... (Ma qual fuoco! È la rivoluzione!...).

E le povere donnine, in su l'usciuolo dischiuso, si facevano il segno della santa croce, fulminate dalle bestemmie e dallo spavento.

Hai dett la rivoluziôn?... — (Hanno detto la rivoluzione?).

An j' avì sintì, chi asasên? (Non li avete sentiti, quegli assassini?).

Eh?... Ach temp, la mi Catarena!... (Eh?... Che tempi, Caterina mia!...).

E disparivano dietro l'usciuolo, più umili che mai, più piccine che mai, queste povere donnine di Dio, con la loro anima raccolta fra l' Ave Maria dell'alba e la Benedizione della sera.

Frattanto la gente accorreva da ogni banda, verso la Piazza, e la campana di allarme non dava cenno di voler tacere. Tutta la città era in subbuglio e in tumulto. I negozi dei signori avevan già abbassate le saracinesche; sulle soglie delle botteguccie minori, stavan padroni e clienti a guardare, a commentare.

Non si era ben deciso di che si trattasse: se di un enorme incendio o della rivoluzione. Anche si parlava dell'uno e dell'altra insieme. Il contagio della paura faceva sbarrare porte e finestre. Usciva il popolo vero e la sottospecie dei Rigaglia. Le dame e le damigelle che si erano avventurate a fare la quotidiana passeggiata si rifugiavan per gli androni dei rari palazzi non ancora barricati. Per le chiese non sostavano che le piccole vecchie antichissime, le quali non udivan neppur più il baccano e non aspettavano che l' ora su la soglia di Dio. Ma gli scaccini volevan disfarsene; gli scaccini volevano chiuder le chiese perchè temevano il popolo evoluto. Si era mobilitato un esercito di popolani in bicicletta. Apparivan, qua e là, le donne rosse, le più accese; le mani sui fianchi, scapigliate e imprecanti. Gli agenti dell'ordine pubblico, scomparsi. Se il popolo avesse voluto dar di mano alla scure e schiantar tutto, padronissimo di farlo.

Alla Camera del Lavoro era un grandissimo affollamento, ma nessuno sapeva dire di che si trattasse. Un fermento improvviso veniva propagandosi fra la massa. Gli scontenti tempestavano. Si dovevano assalire palazzi e negozi e incominciar subito. Ma gli scontenti non avevano presa sul folto, che è sempre guidato, in Romagna, da un senso di giustizia e di onestà.

E la campana di allarme, dagli a suonare a distesa!

Ciò innervosiva anche coloro che eran leggendariamente calmi e padroni dei loro nervi.

Si vide l'onorevole attraversar la Piazza di gran corsa. Si vide Coriolano tenergli dietro penosamente. Ma sarebbe morto pur di essere là dove era il suo onorevole, in un frangente così catastrofico.

Anche il moro Fabrizi e il gobbo Pulizia correvano qua e là, l'un dietro l'altro.

Dan, dan, dan, dan, dan, dan...

Apparve la tribù dei molossi, guidata da Bucalosso. Rigaglia si era fermato, prudentemente, all'angolo di un vicolo che immetteva nella piazza.

Ecco l'avvocato Suasia, ecco l'ingegner Fias, l'avvocato Relli, Domokos Barbantini, Ildebrando Sgargi, Gerolamo Putti. Ecco Borgnini e la sua coorte; e il conte Polpetta, seguito dai soci dell' Isola Felice.

A una finestra del Palazzo del Comune, si affacciò il signor Sindaco: Alvise Alberghetti. Assoluto Malvagni si fermò sotto a un arco del Palazzo del Podestà; il viso fierissimo.

Marmissi e Bigatti passavano da crocchio a crocchio.

Contro l'androne del Palazzo del Comune, la folla si stipava ondeggiando. Si incrociavano le domande e le supposizioni più svariate. Incominciava a far nero, nell'anima della vasta raccolta.

Uno gridò:

— Evviva la Repubblica sociale!

E un altro:

— A morte la borghesia!...

Quest'ultimo grido si converse nell'urlo della massa.

L'avvocato Albati disse:

— Ora tocca a noi!

I tre compagni suoi non risposero. Erano sempre in piedi presso i tavoli del Caffè del Gatto Bianco. Ormai non potevano più andarsene senza dar troppo nell'occhio.

Arrivò di gran corsa uno che aveva parlato all'onorevole. In men di un minuto ebbe intorno una quarantina di persone.

— Ebbene?... Che cos'è?... Che cosa succede?...

Il nuovo arrivato buttò là una frase che fu come un cataclisma:

— A Roma e a Milano c'è la rivoluzione. Hanno proclamato la Repubblica!...

Uno sbandamento contrito s'impossessò dell'anima dei presenti.

— Ma chi l'ha detto?... L'onorevole?...

— Sì, l'ha detto l'onorevole. Ha ricevuto un telegramma. L'ho visto io!

— E allora perchè suonano?

— Chiamano il popolo. Prima di notte sarà proclamata la Repubblica anche qui.

— Briscola!... — mormorò Oreste Malnessi, che era un giovane senza convinzioni, ridanciano e donnaiuolo. Egli si era accostato prudentemente al crocchio e così, rimanendo alla larga, voltato di fianco per ascoltare meglio e per non sembrare addirittura della partita, aveva colte le ultime frasi. Si affrettò poi a raggiungere gli amici che lo aspettavano a venti passi di distanza, sempre presso i tavoli del Caffè, e disse loro:

— Prima di notte proclameranno la Repubblica!

— Ma dove? — chiese l'ex-onorevole Biancini scattando.

— Qui!... A Roma e a Milano è stata già proclamata!

— Una Repubblica federale come in Isvizzera? — domandò Cesare Baccicalupi, dottore in agraria.

— Ma no! Una Repubblica plutocratica, come nel Paraguai! — riprese l'avvocato Albati che ancora aveva voglia di ridere.

— Ma chi ha detto questa roba? chiese Biancini.

— L'onorevole ha ricevuto un telegramma poco fa.

— E da chi?

— Ma non lo so.

Allora, i quattro, udirono un tranquillo riso dietro le loro spalle e si volsero, non senza un certo brivido.

Era l'Uomo Pacato.

— Oh, siete qua voi!... — esclamò l'ex-onorevole Biancini, andandogli incontro con le mani tese. — Beato chi vi vede!...

— Quando suonano le campane a martello, io non posso dormire fra gli orti! — rispose sorridendo l'Uomo Pacato.

— Avete sentito che cosa si dice?

— Ho sentito.

— E che ne pensate?

— Dico che l'Italia non è il Portogallo. Voi dimenticate sempre questa piccola differenza come la dimenticano, tanto volentieri, i nostri buoni amici francesi ed inglesi. Ma a loro può essere, in linea filosofica, perdonato perchè lo fanno per il loro interesse. A voi no, non si può perdonare. La Repubblica la proclameranno forse i nostri Galli Boi, al Circolo Mazzini, questa notte; ma sarà una Repubblica alla casalinga, come le tagliatelle, e sarà consumata in casa.

— Dunque tutto quello che si dice...

— Onorevole, avete sempre prestato fede, voi, a tutto quello che si dice?

— No... ma, in questo caso...

E il giovane Malnessi:

— È arrivato un telegramma. C'è chi l'ha veduto...

— L'ha veduto, lei?

— Io, no.

— E allora non è arrivato niente!

— Ne è sicuro?

— Sicurissimo.

— ... e la rivoluzione a Roma e a Milano?

— L'ha veduta, lei?

— Io, no.

— E allora non c'è stata mai!

— Come mai siete tanto sicuro? — domandò l'avvocato Albati.

— Per la semplice ragione che sono risalito alle fonti.

— Cioè?

— Ecco qua. Io passo i miei pomeriggi nell'orto mio. Un poco lavoro la terra; un poco mi distraggo con gli autori miei preferiti che sono l'ultima compagnia fedele, nel mondo che mi si è fatto ormai deserto. Oggi, appunto, aspettavo che il giorno morisse e stavo meditando su l' Elogio degli uccelli di Leopardi e mi abbandonavo col libro sulle ginocchia, « scosso dal cantare degli uccelli per la campagna », come Amelio, filosofo solitario, quando il mio godimento e la mia gioia sono stati interrotti dal suono di questa campana. Ora io, pedante, ho incominciato a meditare su cotesto suono e me ne son venuto via dalla mia pace, pensando quali potevano essere le improvvise cause che avevano dato il farnetico al campanaio. Perchè non avevo udita ancora una così spietata raffica di suoni, nel cielo della mia Tebaide. Così sono arrivato alla porta della Torre, e, avendola trovata aperta, sono entrato per sapere quale minaccia gravasse sul mio pacato destino. E che vedo, signori miei? Vedo il più gran colosso della razza nostra, afferrato di gran forza alle corde, dimenarsi e tirar giù a tempesta la campana del Comune, tanto che si sarebbe detto averlo, il demonio, in suo possesso e ben saldo. Allora con la mia voce più forte, gli ho domandato: — O Mostardo, cosa fate? — Mi ha risposto, urlando a sua volta: — Brucia il Conventino! — Ed io: — Vi pare sia degno di voi fare tanto frastuono per una villa dell'aristocrazia?... Lasciatela bruciare, Mostardo, e datevi pace — Mi ha guardato losco e mi ha risposto: — Toglietevi dai piedi! — Il che ho fatto, per buon rispetto suo e mio. Da Asdrubale Tempestoni, uomo più trattabile, ho saputo il resto. Ora la Piazza, attaccata al cuore della sua campana, vive un'ora rivoluzionaria.

— Allora — domandò Malnessi — tutto il resto è fantasia?

— Io direi, caro giovane! Ma voi siete troppo tenerello per poter sapere tali cose.

E l'ex-onorevole Biancini:

— Però guardatevi intorno e, ditemi se, data l'eccitazione del popolo, non c'è da aspettarsi qualche brutta sorpresa.

— Se l'ora è sinistra, onorevole mio, lo è solamente per i fanali e le lanterne. Fra poco, non una fra queste nobili e civilissime cose sarà ancora sana. I fanali costituiscono un caso tipico della nuova fobia proletaria.

— Ben detto! — esclamò Zìrolum.

Ora avvenne un fatto nuovo che attirò l'attenzione del popolo. Di un subito la folla che si stipava innanzi all'androne del Palazzo del Comune si divise in due ali, lasciò un largo spazio nel quale fu primo a comparire Asdrubale Tempestoni, che aveva indossata la divisa grigia di combattimento, sostituendo all'elmo di ottone dal pennacchio rosso e blu, un elmetto in cuoio nero. Era un bell'uomo e forte, con la barba color rame. Pareva un guerriero disceso da un vaso etrusco. Dietro di lui si udiva, nella tenebra del profondissimo androne, uno scatenìo, un rombo, un assordante tempestìo di ferramenta, sì che pareva ch'egli si scagliasse fuor dall'inferno e avesse lasciata la porta aperta.

Il nostro Asdrubale, non appena apparve ci tenne a far palese l'autorità sua, per dimostrare la quale si dette a gridare con quanta voce aveva in corpo:

— I più giovani al timoneeeee!... Via, di corsa!... Avanti la trombaaa!... Dov'è la trombaaaaa?... Lo squillo... suonate lo squillooo!...

Il cuor del popolo fu subito preso da tanto apparato e da tanta energia.

C'eran gli elmi, c'era il frastuono, c'era una dimostrazione di forza e un po' di mistero.

Ma che avveniva nelle viscere del Palazzo del Comune? Tutti i vetri tremavano e la terra, sotto i piedi degli astanti.

Asdrubale Tempestoni gridò ancora:

— Pronti?...

Una voce cavernosa rispose dal fondo buio:

— Pronti!...

— Allora suona!

Si udì un rauco squillo, poi qualcosa accadde che parve, senz'altro, il finimondo. Da una distanza, come di voragine, salì il soffio del turbine, il boato del terremoto. Eran le antichissime volte del gran Palazzo che moltiplicavano e incupivano il suono.

Asdrubale Tempestoni, e il suo aiutante trombettiere, gridavano:

— Largo, largo, largo!...

— Attenti ai bambini!...

— State indietro!...

— Indietro, perdio!...

Ma la curiosità era grandissima; ma il cuore tremava nell'attesa.

— Ecco... vengono! — mormorava la folla.

— Eccoli, eccoli, eccoli!...

— State indietro!

— Se vai sotto a una ruota ti schiacciano!

— Non si possono più fermare!

— Sono palle da schioppo!

Asdrubale Tempestoni li aspettava al varco, puntato sui muscoli saldi, pronti allo scatto.

E allora il popolo vide il prodigio. La prima pompa, la più pesante, quella per la quale occorrevano dieci uomini a trascinarla, ed anche a gran pena, sbucò dall'androne, irruppe sulla piazza, proseguì sull'acciottolato trabalzando via con la velocità di un bolide. E non vi si erano aggiogati dieci o venti uomini, ma due soli: due petti poderosi e quattro braccia di ferro: i petti e le braccia del Cavalier Mostardo e di Bucalosso.

Puntando sulla traversa del timone, aggrappati, bassa la testa come arieti in lotta mortale; in un turgore di tutta la possente muscolatura tesa al massimo rendimento, in una fissità eroica della volontà ipnotizzata da una sola idea, essi erano come un elemento cieco che s'apre una strada fra due punti nell'infinito, e quella sola conosce. Personificavano la bella furia che schianta e travolge; la forza con la quale non si ragiona; l'ardimento che deride la morte.

E il popolo ama questo. Il popolo ama coloro che possono dominarlo come una femina.

Così, quando apparvero; quando attraversaron di gran corsa, come trascinassero una festuca, lo spiazzo lasciato libero fra le due ali di popolo; quando si lanciaron per la Piazza e si videro il vuoto dinnanzi, un grido di ammirazione, li accolse e li seguì. Era la prima volta che si vedeva una cosa simile; era la prima volta, altresì, che il Cavalier Mostardo e Bucalosso correvano all'impazzata, aggiogati ad una pompa.

Ma chiamava, dal fondo della campagna, una voce d'amore e, a quell'ora forse, una gran fiamma minacciava una creatura salita, in una sola notte, ai fastigi di un cuore.

Asdrubale Tempestoni, per motivi tattici, rimase fra la prima e la seconda pompa. Ma la prima era già in fondo alla Piazza, quando la seconda usciva dall'androne. Il povero Coriolano, che si era provato a tener dietro a Mostardo e boccheggiava ora, per l'asma, strappò una bicicletta a un amico e, inforcata che l'ebbe, partì pedalando. I figli di Bucalosso, arrivati in ritardo, si scagliaron dietro al padre e al duce. Il moro Fabrizi era al timone della seconda pompa; il gobbo Pulizia per didietro. Doveva ben fare qualcosa anche lui, povero gobbo, per meritare il perdono di Mostardo!

Ad uno ad uno usciron tutti i carri dall'androne del Comune e inseguirono il primo che filava come una saetta.

Spettacolo superbo!... Ma dove andavano?... Non importava saperlo. Conveniva correre a rovina. C'era forse qualcuno da salvare, in fondo alla campagna. Non si chiedeva niente; era un impeto generoso: via!... via!... via!...

La rivoluzione cambiò faccia. Fu aggiornata. Il popolo della Città del Capricorno aveva trovato qualcosa che gli piaceva quanto la Rivoluzione: il fuoco. L'anima sua si avventava al mistero del lontano incendio. Correre, per dieci, per venti miglia verso un gran barlume nel cielo notturno; correre verso chi implora, verso le donne e i bambini, verso gli uomini impossibilitati ad agire. Essere coloro che possono ancora portare la salvezza: i fratelli liberatori! Un senso oscuro e profondo di solidarietà umana contro il destino nemico aveva fatto scomparire, come per incanto, ogni ostilità, ogni fermento. Travolto dall'impeto dei volontari che si sottoponevano, solo per generosità, a una fatica mortale, il popolo volle essere pari a loro e si riversò per la campagna dietro i pesanti carri trainati dagli uomini. Se qualcuno cadeva, cento erano pronti a sostituirlo. Quando si accenda un simile ardore, nel cuor delle genti, ogni eroismo è possibile. Il Cavalier Mostardo e Bucalosso furon coloro che sgombraron la piazza salvando la pavida borghesia che già tremava d'orrore.

Primi i monelli, poi i giovani e gli anziani fecer fiumana giù per il Borgo fino alle porte della città, per riversarsi sulla strada romana che attraversava i campi, bianca e diritta.

Gli uomini tranquilli e più vecchi si avviarono a passo a passo verso la Porta dei Cotogni per veder se si scoprivano nel cielo le traccie del famoso incendio.

La Piazza diventava muta e deserta. Nessuno accendeva i fanali. Forse i lampionai si eran lanciati, con gli altri, all'inseguimento del Cavalier Mostardo e di Bucalosso.

Il vecchio Zìrolum, che aveva veduto Garibaldi, non poteva logicamente aspettare; doveva essere della partita; così indossata un'altra gabbana, se ne andò in bicicletta senza domandare il permesso al padrone.

— Ah, miseria del proletariato!...

E il padrone del Caffè del Gatto Bianco gli gridò dietro di non ritornare mai più, pur sapendo che Zìrolum sarebbe ritornato e che lo avrebbe ripreso senza aprir bocca.

Non è facile disfarsi di un uomo-istituzione, in una piccola città di provincia.

Era rimasto, impassibile e dominante, sotto l'arco del Palazzo del Podestà, Assoluto Malvagni, circondato dai suoi. Fra gli altri c'era anche il famigerato Borgnini. Assoluto Malvagni parlava molto gravemente, a quando a quando, atteggiando l'apostolica faccia a un sorriso sardonico. I compagni lo ascoltavano con riverente compunzione. Certo, qualcosa si veniva tramando a danno dei gialli.

L'onorevole attraversò la Piazza, la testa bassa, le mani annodate dietro le reni come chi deve portare il peso di gravissimi pensieri. Lo accompagnavano l'avvocato Suasia e l'ingegnere Fias. Scomparvero dietro l'angolo della chiesa, per la Contrada Grande.

Si vedeva tuttavia, oltre la Porta dei Cotogni, una grande nuvola di polvere entro la quale galoppava lontanando il popolo.

Ora lasciamolo correre, guidato dal Cavalier Mostardo, verso l'occulta anima del Fuoco.

Pochi eran rimasti ai tavoli del Caffè del Gatto Bianco, e, fra questi pochi, primeggiava la comitiva che abbiamo abbandonata sul punto in cui Asdrubale Tempestoni si era scagliato, in divisa di combattimento, fuor dell'androne del Palazzo del Comune.

Ora l'ex-onorevole Biancini, Cesare Baccicalupi, il giovane Malnessi, l'avvocato Gioacchino Albati e l'Uomo Pacato, dileguata la minaccia di una rivolta più o meno tempestosa, seduti intorno ad un tavolo, conversavano.

Dell'Uomo Pacato non abbiamo fatto il nome e così non cercheremo tracciarne un ritratto, per non porre sulle traccie di lui una qualsiasi curiosità, e per lasciarlo sempre più lontano, e più solo, per il suo silenzio che sconfina fino al cuore dell'Universo. Nè diremo gli anni suoi che gli pesano, benchè non sian poi tanti da fargli chinar la faccia o da togliere dagli occhi suoi fondi, quella trasparenza e luminosità e quella fiamma per la quale più grande e giovane appare lo spirito suo. No, non diremo i vostri anni, amico nostro scontroso, anche per non farvi vergogna, perchè è vergogna il tempo a chi sente ancora tanta giovinezza cantare, ed è solo; non li diremo anche se riteniamo con certa scienza, che non farebber spavento a chi vi ama, al bel cuore di giovinetta che v'ama e di voi si appassiona. Troppo le parlaste, una sera, perchè ella non vi segua di lontano; e troppo chiara le faceste una strada perchè sempre non ne senta la nostalgia! Ed ora le parole dei coetanei suoi le tornano sorde, aride, vuote! Ed ella vive in un piccolo paese remoto, solo per voi, come se vi aspettasse, e sa bene che non arriverete giammai alla sua distanza.

Ah, Uomo Pacato, potreste ben cantarglielo un sogno che le fosse come un amuleto contro l'inevitabile disincanto, poi che l'avete ammaliata!...

Ora l'Uomo Pacato taceva come se non fosse più della comitiva, ma solo con sè stesso, e lontano.

L'ex-onorevole Biancini discuteva con l'avvocato Albati, e Malnessi e Baccicalupi ascoltavano come coloro che poco avean da dire, e sempre a torto.

Fu Biancini che si rivolse all'Uomo Pacato e gli domandò:

— Se non è indiscrezione, si potrebbe sapere a che pensate?

L'Uomo Pacato levò gli occhi e la faccia.

— Pensavo — rispose — come vi sia facile dimenticare le cose che vi stanno sopra; e come possiate trascorrere dalla paura più grande alla più limpida indifferenza, nel termine di pochi minuti.

— Ma voi stesso ci avete derisi quando si temeva! — disse l'avvocato Albati.

— Sì, perchè esageravate allora, come esagerate adesso.

— E in che cosa, di grazia?

— Nella valutazione di ciò che accade. Ma d'altra parte è il destino vostro. La combattività vostra, della classe che rappresentate, cioè, ha già reso tutto il possibile ed ora non può essere che superata.

La cosa non consolò gli astanti, anzi li indispettì. Fu allora che l'ex-onorevole Biancini, punto sul vivo dai giudizi dell'Uomo Pacato, gli domandò, non senza una punta di acredine:

— Ma scusate, a quale classe appartenete voi?... Se non siete proletario nè aristocratico, dove confinate il vostro destino?

L'uomo Pacato sorrise.

— Avete ragione. Dove confino io il mio destino? Questa domanda non mi è nuova perchè tante e tante mai volte io stesso me la sono rivolta. In tempi di materialismo economico in cui non si esaltano e non si ritengono utili se non i valori di immediata praticità, che cosa rappresento io, nella Città del Capricorno?... Zero!... Domani, imperando la Dittatura proletaria, io, povero uomo dalle mani senza calli, dovrei esulare ed abbracciare l'islamismo o il confucianesimo. Ammettiamo ch'io abbia ingegno; ammettiamo anche che questo mio ingegno possa dar vita a qualche valore spirituale, ciò, imperando la suddetta Dittatura, non farebbe che aumentare il mio crimine di lesa maestà del lavoro manuale. Oggi il mondo si divide fra coloro che fabbricano pentoli e coloro che posson riempirli; l'altra classe, che soleva romperli solamente, non può più sussistere. Oggi l'umanità non ha bisogno di altro cibo che non sia quello della bocca. Liberatasi, per modo di dire, dalla sua eredità millenaria, si rifà da capo con l'idea di instaurare un regno di giustizia universa che incomincia poi da tutte le ingiustizie e da tutte le tirannie. Be', e anche questo è fatale! Il fatto si è che, quando si potrà arrivare ad un assestamento, sempre transitorio, come tutto è transitorio ed eterno nell'Universo, noi non saremo più. Ma oggi come oggi, nel centro di questa Città del Capricorno, che è il cuor di Romagna, io appunto, caro onorevole, non appartengo a nessuna classe, sono uno sclassificato. Da ciò la mia libertà di giudizio, se così vi piaccia giudicarla. Alla fin delle fini, non ho nulla da perdere, nulla da guadagnare. Io non aspetto, accanto, alla mia malinconia, se non l'ultima sorella della nostra vita. E vivo in un orto. Non da principe, ve lo assicuro! Ho, con me, una vecchia donna ed un gatto. Mi accontento. Potevo rimanermene nelle metropoli tumultuanti... ho preferito il nido dal quale credetti allontanarmi per sempre, a sedici anni. Noi, romagnoli, soffriamo di nostalgia acuta. Questa nostra terra non cessa mai di chiamarci, anche nella estrema distanza. Quando si incomincia a sentir di morire, bisogna rispondere alla sua voce lontana. Val la pena di ritornare per ritrovar un po' dei nostri quindici anni all'angolo di una strada malinconica e solitaria, sulla porta di un giardinetto di beghine, al davanzale di una finestrella che non avrà tramutato. Ed ecco perchè io sono ritornato sotto lo stemma del patrio Comune, all'ombra dell'aquila imperiale con l'uovo gallato della Democrazia!... Libertas!... La parola è lassù, guardatela — e levò il braccio verso il fastigio del Palazzo Comunale. — E da più di settecent'anni il popolo nostro, per varie forme e concetti, parla e si ordina in Repubblica! Libertà!... Qui, dove era più caldo il cuore, più facilmente l'uovo dette vita al secolare pulcino. In altri luoghi apparve la stessa parola, ma l'uovo rimase infecondo; solo da noi si dischiuse al destino di una creatura la quale, per sua buona o mala sorte, non potè crescere mai a pieno sviluppo. Da ciò l'eterna giovinezza repubblicana, fra le nostre genti. Ora io amo questa Repubblica nostra in fieri e, sentimentalmente, mi dichiaro repubblicano. Oggi che la sento morire, dopo tanti secoli, questa bella e generosa idea mi appassiona. Viene innanzi qualcosa che non ha il suo lume e la sua bellezza spirituale. Il fiero ed eroico romanticismo de' suoi ultimi epigoni, viene travolto da un'onda limacciosa. Una squinternata baraonda di folli estremismi trascina quella parte del popolo che è più cieca e brutale e io non vedo ancora se domani vi sarà posto per l'anima, il cuore, il gesto di un uomo, nella follìa collettiva dell'uniforme! Sì, vi sarà, ma per quali tragedie dovremo passare, innanzi che i diritti dello spirito e dell'individuo vengano riaffermati?...

Tacque e, con lui, tacquero gli altri. Ciascuno avvertiva la stessa minaccia, ma non uno sapeva rispondere al quesito. Gravò su di loro come un incubo improvviso e il conversare non si rianimò.

Si separarono.

La Città del Capricorno era ritornata tranquilla, come tutte le sere: si raccoglieva fra i suoi scarsi fanali, cercava l'ombra del sonno.

All'altro lato della Piazza sbucò una comitiva di giovani, i quali berciarono per un poco, bestemmiando, come coloro che si sentivano gravidi di avvenire e di strapotenza; poi, una voce rauca intonò l' Internazionale e, dietro la prima, si levaron le altre, a coro.

L' Internazionale, sì, ma sulla porta dei popoli forti e scaltri e non mai allo stesso banchetto!..

Chi penserà a codificare la novissima rettorica delle fratellanze umane?...

Dobbiamo credere decaduto per sempre il mito di Caino, sulla terra?...

Sì, adoperiamoci, fratelli, dietro la rossa ombra di Abele, che è riapparsa, a guidare l'immenso gregge delle razze verso la stesso deserto.

CAPITOLO XII. Nel quale si accenna il quarto d'ora del Cavalier Mostardo; e Spadarella esce dal suo quieto giardino nel mondo.

Era arrivato, era ritornato. Avean fatto bufera per domare l'incendio al Conventino e, dispento l'ultimo tizzone, avevan veduto che il danno si riassumeva in ben poca cosa. Un po' di fuoco in un'ala della vastissima villa: nell'ala adibita alla servitù. La gente fu molto delusa. I pompieri brontolavano come coloro che ben conoscevan la sordida avarizia dei marchesi Alerami. Intanto, dopo aver percorsi quasi venti chilometri, nessuno aveva pensato, o pensava, a dissetarli con un po' di vino generoso. Il Cavalier Mostardo pagò di tasca sua la bevuta. Questo anche non sarebbe stato un gran male, per lui; il suo malumore incominciò da quando si accorse che Mignon non era al Conventino. Allora la gran corsa, la gran furia che scopo avevano? Doveva egli difendere i beni e la vita dei signori Alerami solamente per i begli occhi loro? Convinto che la sua napoleonica dolcezza non era più nel nido della sua notte trionfale, fu preso da sì grande dispetto che, non che spegnere, avrebbe egli stesso dato fuoco alla aristocraticissima villa. Ma c'era il popolo e doveva contenersi. Poi aveva la testimonianza di Asdrubale Tempestoni, il quale sarebbe arrivato al polo, con le sue pompe, solo per il piacere di chiacchierare. Anzi, Mostardo pensò di ingraziarsi l'animo di Asdrubale e, siccome lo sapeva impresario teatrale e appassionatissimo di musica, in una tregua gli disse:

— Sapete, Asdrubale, debbo farvi sentire mia nipote.

— Chi?... Spadarella?...

— Sì.

— E che cosa fa? Canta?

— Ha una voce, caro mio, che desterebbe un morto!

— Fate per ridere?

— La sentirete.

— E dove debutterà?

— Non so ancora. Io non vorrei che andasse sul teatro.

— Perchè?... Può avere un capitale e volete lo butti via? Non è mica signora!

— Be', ci penseremo.

— Mostardo, vogliamo farla debuttare al Comunale? Ci penso me!

Questo, del « me » dialettale, era un vezzo del nostro Asdrubale; ma altri ne aveva che scopriremo in seguito.

Il Cavaliere non disse, sulle prime, nè si nè no, ma poi tanto viva e irruente fu l'insistenza di Asdrubale Tempestoni che finì per compromettersi.

— Va bene, quando debutterà, vi prometto di dare l'impresa a voi.

— Qua la mano!

— Ecco.

Patto conchiuso.

— Però — aggiunse Mostardo — debutterà quando voglio io.

— Sì, ma non più tardi di quest'inverno.

— Vedremo.

— No. Voglio la vostra parola.

— Bisognerà parlare a Spadarella, prima.

— Domani vengo da lei.

— Domani non posso.

— Be', alla fine della settimana.

— D'accordo.

Tempestoni non aggiunse parola e se ne andò. Il Cavalier Mostardo diventava di umore sempre più nero.

Attese, in disparte, che tutti si fossero allontanati; solo, fece cenno a Bucalosso di aspettarlo.

Si era seduto su di una panchina, dietro una macchia di alloro, lungo un viale solitario e lasciava che i suoi pensieri corressero alla disperata nel campo della sua preoccupazione.

La notte moriva.

Sui prossimi colli il cielo imbiancava, nell'alba. Una campana, da una pieve, suonò l' Ave del giorno. Incominciavano a frusciar le foglie, appena appena. Si levava il respiro del chiarore e non faceva più tanto caldo. Un'ora soave, da starsene con l'amore e con la bocca dell'amore, così, perdutamente, per non vivere d'altro che di carezze. E poi dormire. Dormire fino alla fine di ogni suono e di ogni tempestìo, per sempre! Perdere tutte le pene e tutte le angherie del mondo, in un grande sonno.

Forse... se non ci fosse stata Spadarella sua...

Ma come allontanarsi e lasciar sola quella bambina?

Era stanco e la stanchezza gli si convertiva in nausea del mondo.

Si disse:

— Bisogna davvero ch'io sia di ferro, per resistere a tanta fatica!

Ma la fatica era niente. Peggio della fatica erano gli uomini. Ecco il castigo! Egli credeva che il Signore avesse segnata la vera tremenda condanna degli uomini quando incominciò a moltiplicarli sulla terra.

Crescete e moltiplicate. Questa era la maledizione del Signore!

La campana dell'alba suonava sempre. Egli vedeva, nel chiarore nuovo, una piccola casa bianca, levata sulla cima di un colle. Aveva, a lato, tre grandi pioppi che salutavano il sole. Un nido di passeri, nel turchino.

Gli occhi suoi non sapevano distaccarsi da quella visione.

Possibile che la famiglia, la quale dormiva così, sotto quella pace di cielo e di stelle, non dovesse avere un gran riposo in cuore? La invidiò. Egli aveva fatto della sua vita una bandiera e non ne valeva la pena. Meglio sarebbe stato andarsene per il mondo, senza mèta e non conoscere nessuno, oppure aver elevata una casa come quella... un altare bianco sui colli delle rugiade e del sole; un poco di spazio per un'ombra e un silenzio e per la bocca dell'amore...

Il capo gli si curvò.

Aveva un gran sonno. Bisognava infatti che avesse un gran sonno e fosse molto stanco per ragionar così, il Cavalier Mostardo.

Poi non vide più la casa; non vide più gli occhi dell'alba; a poco a poco, a poco a poco si arrovesciò sulla panchina e si chiamò Nessuno, nella tenebra del suo riposo.

Per quanto la faccenda della battitura procedesse con esito favorevole ai gialli, e per quanto l'opera del Cavalier Mostardo cominciasse ad esser valutata ogni giorno più, il nostro eroe non era contento, anzi attraversava un periodo di inconsueta tristezza.

Non gli attacchi del clero e dei socialisti gli annebbiavano la vita, e neppure il gran sussurrìo che aveva seguito l'ultima sua avventura e la scomparsa di Carlotta; ma il silenzio di lei, della sua Mignon, dell'eroina del gaudioso sogno napoleonico de' suoi cinquantacinque anni.

Ella era discesa nel mistero! Dalla notte dell'incendio e dalla sua corsa folle, attaccato ad una pompa, verso il Conventino, non ne aveva saputo più niente. La lettera di lui era rimasta senza risposta. Le sue passeggiate notturne, sotto il palazzo dei marchesi Alerami, non avevano avuto risultato diverso da quello di renderlo ancora più triste. Era la prima volta, nella sua vita battagliera, ch'egli soffriva così, per amore. Se gli avessero detto, un solo mese prima, che si sarebbe disperato per una donna bella e infedele, avrebbe messo alla porta, con palese sdegno, l'insolente.

Ma ora, il povero Cavaliere, si curvava sotto il peso del dolore.

Perchè era dolore, e di quello buono!

Non dormiva quasi più; mangiava quanto un canarino.

Dov'era, dov'era il nobile e robusto Cavalier Mostardo dallo stomaco pugnace?... Dov'era l'eroe delle cene, sempre pronto a sollazzarsi in strippate, scorpacciate e pappatorie? Dove smarrito, l'ubertosissimo colosso che si sarebbe coricato in una leccarda, ai suoi bei tempi, per esser pronto a satollarsi ancora, negli intervalli del sonno?...

Ahi, ch'egli aveva rinnegato, ormai, le buone pietanze grasse e succolenti e, preso dai melanconici umori, si estraniava per le contrade dei sospiri!...

Una grave voce interiore gli aveva detto:

— Hai tu voluto provare la cosa aristocratica?... E ben ti sta!...

Rigaglia lo guardava, scuotendo il testone. Una specie di tenerezza, ch'egli non sapeva neppure che gli covasse in cuore, lo faceva un poco più attento alla vita del padron suo. Si adoperava, intorno ai fornelli, per cucinare le cose che sapeva essere più grate al palato del Cavalier Mostardo; ma i larghi piatti e le ben capaci zuppiere ritornavano in cucina quasi pieni, e ciò rendeva più pensoso Rigaglia, il quale, d'altra parte, si guardava dall'interloquire.

Solo una volta disse:

— E se chiamassimo il dottore?

— Per farne che?... — domandò Mostardo senza levar gli occhi.

— Per farci visitare. Incominciamo ad essere vecchi...

Mostardo alzò la faccia, guardò il fido seguace e rispose:

— Sarai vecchio te!.. Io sono giovanissimo!..

Lè e vera!... (È vero!...) — mormorò Rigaglia e se ne andò.

Un'altra volta disse ancora:

A' j'avên tropi robi par la testa! (Abbiamo troppe cose per la testa!).

— Chi? — domandò Mostardo.

— Noi! — rispose Rigaglia.

— Io non ho nessun pensiero. Ne avrai tu!

Oi... e sarà ichsè!... (Sarà così!...).

E se ne era andato col dubbio tremendo di rimaner vedovo perchè « non la vedeva chiara ».

Me an la vegh cèra! (Io non la vedo chiara!) — aveva già detto a Coriolano, il giorno innanzi.

Mo no!... (Ma no!...) Ssss... sss... sono sssssssph... sono sssssssph... sono spasimi... ddda... dddamo-mo... sono spasimi d'amore!...

— Direte per ridere?... — aveva fatto Rigaglia, spalancando due occhi pieni di incitrullito stupore.

— Se tttttt... se te lo dico io!...

Ma Rigaglia non aveva potuto credere una cosa simile, perchè l'amore e la voglia dell'amore avevan preso, per lui, la via dell'esilio, in Albania, involontariamente sacrificati alla impubere libertà di quei pastori e formaggiai. Ei si era incocciutito nel suo primo pensiero che era quello di una malattia. Il padron suo doveva essere malato di qualche brutto male perchè non l'aveva veduto mai così. E, se fosse morto, gli avrebbe fatto dispetto. Rigaglia avrebbe sofferto di una vera e propria vedovanza. Con chi vivere?... Dove portare le sue scarabattole? Come abbandonare quella casa? A chi ubbidire? Che cosa mettere al posto del Cavalier Mostardo?

Ormai erano assieme da troppo tempo, l'uno e l'altro, il piccolo e il grande; avevano attraversate troppe strade, si erano trovati in troppi pericoli... avevano litigato troppo!... Anche il litigio finisce per diventare una cara necessità, tanto la natura dell'uomo è bizzarra. E Rigaglia viveva in pensiero, cercando la sua minore sgarberia per accostare il Cavaliere che non stava bene.

Ma il Cavaliere, all'opposto, si sentiva benissimo, e i sottili pasti e la leggera insonnia, anzichè minargli la salute, lo ringagliardivano perchè veniva così rinnovandosi negli umori suoi ed espellendo quei pochi veleni che aveva accumulati nel sangue. Solo, non sapeva più ridere a bocca piena, con quella tale sgangherata grazia che era un suo vezzo popolaresco di cui non si era saputo emendare.

Ridere con un certo contegno, sorridere, erano cose troppo remote nella civiltà delle metropoli perchè potessero entrare nell'orbita sua di piena espansione e vitalissima. Così dalla sua risata, omericamente gagliarda, era passato al silenzio per dispiaceri di cuore.

Che poteva avere la sua Mignon? Possibile si fosse stancata di lui, così di punto in bianco, dopo essersi compromessa?

Perchè si era compromessa, e con indicibile trasporto, non gli aveva fatto carestia di niente, nella notte del suo napoleonico abbandono. Era stata veramente imperiale!

Forse lo scandalo l'aveva urtata.

Il furto della Carlotta; le chiacchiere per tutta la città; l'incendio al Conventino, (incendio doloso dovuto certamente a una vendetta dei rossi ); la scomparsa della marchesa; la pubblica lotta ch'egli aveva sostenuto al caffè, dopo aver provocato Bigatti e Marmissi; la schioppettata di Bucalosso; l'escomio dato, dietro consiglio suo, alle famiglie coloniche dei Casaròtt e dei Fèna e le conseguenti minaccie di morte al signor marchese il quale, per la gran paura, aveva preso il treno e non si era fermato che a Taranto col pretesto di assistere a certi scavi; le chiacchiere messe in giro dal cameriere di Casa Alerami; le calunnie dei nemici suoi e infine la campagna della giornalaglia!... Ce n'era d'avanzo! In quanto a questo, s'egli prendeva a proteggere una famiglia, c'era da stare allegri!

Mostardo doveva regolare molti conti, e specialmente col famigerato Don Palotta che aveva pubblicato sulla Famiglia Cattolica, certi trafiletti da non potersi in alcun modo tollerare; ma rimandava la faccenda, sempre per amore di Mignon; per non allargare lo scandalo, per non dar nuova esca alle chiacchiere de' suoi nemici.

E sempre per l'onore e la riputazione della imperatrice sua, aveva escogitato e messo in opera un altro piano. Per salvare Mignon, bisognava deviare all'improvviso, con un bel colpo, l'attenzione del pubblico, far cadere i maldicenti e i nemici nella pania, prenderli allo zimbello dell'inganno. Fu allora che il Cavaliere pensò nobilmente di sacrificare se stesso all'amore di un'altra. Aveva tre innamorate in tasca; non gli restava che scegliere.

Scartata di primo acchito la quarantenne Margherita Ruelli gli restavano Maddalena, che era quella dell'« uomo del mio sogno », e Claretta.

Optò per Claretta. Gli piaceva il nome. La lettera di lei diceva:

Amore mio,

tu non mi conosci, ma tu sei l'oggetto etcetera, etcetera...

Benissimo! Si sarebbe sacrificato a Claretta per salvare Mignon. Ma chi era questa Claretta?... Non gli si sarebbe presentata, putacaso, una qualche ragazza smessa?... Un donzellone che avesse dispettosamente trascinato il proprio pulzellaggio fino alla cinquantina, senza sapere poi rassegnarsi a portarselo con Dio?... Perchè, in tal caso, ah, no per Bios! Il pulzellaggio, se è una cosa di paradiso al tempo giusto, diventa, fuor di stagione, un orrendo sproposito. È buono da rispettare come simbolo, ma alla lontana.

Però non era possibile che una donna di cinquant'anni si chiamasse ancora Claretta; sarebbe stato un anacronismo. Claretta non poteva avere più di venti o venticinque anni. Però come accertarsene?

Le scrisse. Si tenne sulle generali; accusò la propria età.

Signorina,

grazie per la sua lettera e per il suo amore, ma, purtroppo, tutto è illusione! Io ho 55 anni, cara mia!... Una piccola nespola! Che cosa ne pensa lei, coi suoi venti o venticinque annolini? Vuole scommettere che non mi vuole più bene adesso? L'ho sempre detto io, cara mia: è tutta illusione!

Se vuole scrivermi ancora farò un salto per la contentezza.

Il suo: C. M.

E spedì; e aspettò. Dopo un giorno arrivò la risposta.

Amore mio,

se tu avessi anche settant'anni, saresti sempre il mio eroe e il mio amore. Io discendo da una vecchia famiglia repubblicana. Pensa a questo e ti spiegherai tutto. Ho ventott'anni, tanti quanti bastano per farti ancora felice. Se vuoi conoscermi vieni questa sera alle sei alle «ferme in posta». Io domanderò una lettera per Claretta Clari. Avrò un grande feltro rosso sui miei capelli neri.

Ti abbraccia la tua

Claretta

Questa signorina Clari, viaggia in direttissimo! — si disse Mostardo. Poi pensò a tutte le famiglie repubblicane della città del Capricorno.

— Clari?... Mah!... Sarà benissimo ma io non la conosco.

Però ventott'anni!... Andò, sebbene a contraggenio; ma bisognava salvare Mignon. Giurò a se stesso di mantenersi puro.

Alle cinque era pronto, col vestito migliore e una cravatta rossa, a farfalla. Attraversò la Piazza, in pompa magna. Ci teneva che tutti lo vedessero, che tutti lo spiassero.

A Coriolano che andò ad incontrarlo, disse:

— Lascia che me ne vada. Ho un appuntamento.

E il Donzello della Democrazia:

— Un apppph... un apppph...

— Sì, un appuntamento!

— Dddddd... ddddd'amore?

— Pare!...

— Tttttth... tttttu?...

— Io, sì! Perchè?...

— Mmmmostardo, vvvuoi un consiglio?

— Grazie, non ne ho bisogno.

— No. Mostardo stttth... stta-ta... sta-sta... Porco cane!... Sta attento alla tua salute!

Quando Coriolano imprecava, era sicuro di infilare una frase senza interrompersi.

Il Cavalier Mostardo sorrise e se ne andò. Avendo incontrato Coriolano, era sicuro che, in dieci minuti, tutta la città avrebbe saputo della sua avventura; e ciò gli piaceva.

Entrò nel Palazzo della Posta. Eccolo nella sala centrale; molta gente agli sportelli. Girò l'occhio intorno; un feltro rosso non c'era. Erano le sei precise; a Mostardo piaceva la puntualità. La signorina Clari incominciava male.

Aprì Il Nuovo Aristogitone e finse di leggere. Ad un tratto vide un bagliore di fiamma attraversare la sala. La faccia della giovane donna era nascosta dalle enormi tese del feltro rosso.

Mostardo, poi che l'ebbe sbirciata, si nascose dietro Il Nuovo Aristogitone e piano piano, lemme lemme, infilò l'uscita e se ne andò. Ma quando fu sotto ai portici, fu preso da un rimorso.

— Andavi a cercare un'avventura, o a salvare la donna del tuo cuore?... Allora perchè tanti scrupoli?... Deve forse piacerti la signorina Claretta?... Se non è che un paracadute, per te, bisogna che tu non la guardi in faccia. Se è brutta, tanto meglio! Non avrai tentazioni!...

Si fermò, vinto dagli scrupoli; piegò il giornale e lo mise in tasca; si volse, e già stava per ritornare sui suoi passi, quando...

Quando, Domineiddio benigno!... Ecco il fungo rosso, ecco l'allampanata donzella lanciarglisi contro con le braccia tese, con le mani tese e gli occhi giulebbati, e la bocca che occupava buona metà della faccia:

— Ah, Mostardo, Mostardo!... Sei venuto!... Sei venuto!...

Parola d'onore, egli credette di avere a che fare con un'alienata. E quando gli fu a un palmo dal naso e potè vederla meglio, sentì un gran freddo.

— Per Bios!...

Macchè Claretta Clari!... Quella era Proletaria Sapelli, maestra elementare a Dovia. Lei, lei, lei!... Non potevano nascere dubbi. Lei, gran Dio, la nipote di Coriolano.

La nipote di Co-rio-lano!!!

L'aveva fatta bella! E ora se lo vedevano?... Se la voce si spargeva per la città?... Se, putacaso, Coriolano spiava nei dintorni?... Pensò risolvere il gravicornuto problema assumendo un'aria paterna, un tono di bonarietà tranquilla e all'irruente e commossa accoglienza della signorina Proletaria rispose, col suo fare più pacato ed estraneo:

— Oh!... È qua lei, signorina Proli!... Come sta?

E le stese con semplicità cordiale la mano che ella non prese.

No, ella non prese la mano del Cavaliere e il volto di lei, inondato, in un primo tempo, di serenamente chiarezza, affondò ad un tratto in una penombra dubbiosa.

— Ma scusa... — fece madonna Proletaria — scusa... non eravamo intesi?...

Al che, di rimando, con ben quadrata semplicità, il Cavalier Mostardo:

— Quando è arrivata?... Si tratterrà molti giorni fra noi?

Allora ella si illividì.

— Che commedie son queste?

— Commedie?... Che cosa intende dire, signorina Proli?

— Ma... io non so se sogno o se sono desta. Scusa, perchè mi hai scritto?

— Chi le ha scritto, signorina Proli?

— Tu!

— Io?... E quando, ragazza mia?... Saranno due mesi che non prendo la penna in mano!

— Ma come? E questa... — e incominciò a frugare nella borsetta.

— Già!... Due mesi o giù di lì. Ho avuto un panereccio a questo dito. Si figuri di vedere un paracarro, cara Proli! Si fa per dire ma le assicuro che sono stato male. Certe fitte!... Mi ha dato perfino la febbre; e un febbrone da cavalli! Ah, i panerecci! Pare così, ma sono faccende serie!... Uno si vede gonfiare, gonfiare che non sa dove vada a finire. Si addormenta con un dito e si desta con un obelisco...

— Scusa... — continuò la signorina Proletaria Sapelli, che non aveva intesa una sola fra le tante parole pronunziate dal Cavaliere nel frattempo, intenta, com'era, alla ricerca; — scusa, e questa chi l'ha scritta?...

E brandiva, alta, la lettera compromettentissima. Egli la riconobbe alla prima occhiata, però mantenne il punto di intransigente innocenza. E domandò con limpida schiettezza:

— Che cos'è?...

— La tua lettera.

— Cara mia, questo non può essere.

— Smettila di fare lo gnorri.

— Lo gnorri?... Di fare lo gnorri?... — Ecco una parola che lo turbava, per Bios! Una parola della Cattedra. — Cara Proli, lo gnorri potremo farlo insieme; ma io solo, no! Mai e poi mai!...

Credeva di essersi salvato con sottile astuzia; ma Proli gli rise sulla faccia.

— Sei comico!

Quanto dispetto in quelle parole e in quella risata!

— Proli, non si dimentichi che siamo in una piazza.

— E che cosa mi importa della piazza e della gente? Io sono figlia delle mie azioni e non debbo renderne conto a nessuno!

— Credo che Coriolano...

— Coriolano non ha niente a che fare con me. Io sono libera, libera, libera!...

— Lo vedo, cara Proli; ma... le convenienze!... Guardi la gente come ci osserva.

— Peggio per la gente e peggio per te!

E si ostinava a trattarlo con quel pronome confidenziale, come se avessero succhiato il latte alla stessa mammella! Dio, che ragazza sguaiata!... E non giovava ch'egli la trattasse con riservato rispetto e con signorile paternità. Ma che cosa voleva dunque?... L'amore?... Sì, stava fresca!... Piuttosto sacrificarsi come Padre Origene, e gettar nel sepolcro le cose sue delicate, anzichè farne parte a quella specie di viragine urlante.

Allora si risolse e le disse:

— O mi stia bene a sentire, egregia signorina: la lettera che lei fa svolazzare così come se fosse una bandiera, non è mia. Io non posso averle scritto e lei lo deve capire...

— E perchè, per esempio?

— Ma perchè, per Bios!, le pare ch'io sia un giovine studente?

— Uno studente, no; ma un vecchio satiro sì!

Vecchio?... Satiro?... O quando avrebbe finito di insolentirlo? Così, ad occhio e croce, satiro gli suonava come il nome di un animale, ma non sapeva bene di quale specie o sottospecie; però non volle lasciar passare l'insulto invendicato e rispose:

— Vecchio o non vecchio, questa è una faccenda che non la riguarda. C'è chi non la pensa come lei... In quanto al resto... sì, in quanto al resto s'io fossi un satiro, a quest'ora avrebbe visto che bello scherzo le avrei fatto!...

Ella scoppiò in una incontenibile risata. E disse:

— Ma, caro Mostardo, non mi faresti poi tanta paura!

Accidenti alla Cattedra!... Finiva per non capirci più niente.

Frattanto, lo aveva preso sotto braccio e voleva far la graziosa! Si era incamminata trascinandolo via e gli parlava languidamente, con un fare da piccola gatta che fa le fusa! Era ancor più brutta!... Un papero sarà sempre un papero, anche se lo mettono in gonnello!... E una brutta faccia, quando voglia angelicarsi, fa male al cuore.

Spadarella, sì, poteva far le smorfiette e le stavano bene come le rose fra i capelli; ma Proletaria?... Ah, quella no!... Quella no!... La signorina Proletaria avrebbe dovuto capire che certe cose non le convenivano affatto.

E si riempiva sempre più di angustiato dispetto. Poi quel braccio scheletrico che premeva contro il suo in una stretta sempre più insistente, gli faceva male. Ma perchè tanta confidenza?... E se qualcuno li vedeva?...

E Proli parlava parlava:

— Perchè sei tanto cattivo con la tua piccola Proli?... Perchè?...

— Piccola? — pensava Mostardo. — Ed ha il voluminoso coraggio di chiamarsi piccola! Ma non si guarda allo specchio? Non si vede? Non ha la coscienza abbastanza evoluta che le possa dire: — No, no, no!...

E Proli continuava:

— ... perchè saremmo tanto felici insieme! Pensaci Mostardo! Tu ed io. La forza e l'intelligenza... Tu ed io! Avremmo tempo di volerci bene e di consacrare le nostre forze unite alla Repubblica. Faremmo una propaganda strepitosa! Se tu fossi con me dovresti prima essere sindaco e poi deputato. E, se i Savoia non se ne andassero, nella tua vecchiaia saresti senatore!...

— Belle chiacchiere!

— Perchè? Non lo credi?... Allora non mi conosci e non sai che cosa possa fare una donna innamorata!

— Oh, sempre delle sciocchezze!...

— Come sei volgare!

— E due!

— Due che cosa?

— È la seconda volta che me lo dice.

— Ma... scusa, non vuoi capirmi! Non senti come ti cerca il mio cuore?

— Io sento un bell'imbroglio!

— Cosa hai detto?

— Ho detto che parlo turco.

— Perchè?

— Ma perchè facciamo a non capirci.

— Sei tu che non vuoi capire!

— Sicuro!

— Che prima hai cercato di compromettermi e poi...

— Non dite questo!... Vi prego di non dire questo!...

Ora cambiava pronome. Ne aveva fin sopra ai capelli. Quel sentirsela stretta al fianco lo inaspriva troppo, e i tentativi di lei, lo rendevan selvaggio. Sfilò il braccio da quello di lei e, scostatosi di un passo, continuò:

— Ch'io abbia cercato di compromettervi son chiacchiere belle e buone!... Io non vi ho mai detto niente che non andasse bene, e vi garantisco che continuerò per questa strada. Potrei anche trovarvi addormentata che non vi torcerei un capello!...

— Come si vede che non sei più il Mostardo di un tempo!

— Lo dite voi!

— E tu me lo provi.

Bella sboccia!... Perchè sono un uomo di onore.

— Quando ti conviene.

— No! sempre!

— Però Ninon Fauvette...

— Basta!...

— Ninon Fauvette ti conosce come ai tuoi bei tempi dell' alunnato rivoluzionario!

— Queste sono cattiverie che non possono nascere in testa che a una donna! — gridò Mostardo. — E voi non siete neppure una donna!... Voi siete un cacume!... Sì, perchè io non ho trovato mai una linguaccia più perfida, neppure fra i Versipelle dei nostri giornali!...

— Quanto sei carino!

— Io non voglio essere niente per voi e vi prego di finirla. — Era diventato bianco. L'aver tirato in ballo la Mignon del suo cuore, lo aveva fatto uscir dalle staffe. Ora era fermamente deciso di parlar chiaro e di togliersi da torno quel gallinaceo invespito. Ed egli non era, nel fattispecie, disposto a buttar via la gallatura.

Ma ragionando così e incalorendosi seco stesso, gli venne fatto di levar gli occhi e di considerare il luogo nel quale erano giunti camminando passo passo senza badare alla direzione. Guardò e impietrì. Erano sotto alle finestre del palazzo Alerami e vide anche, o gli parve vedere, la sua gioia sporgersi da un davanzale. Tale constatazione lo fulminò.

Si era appena rivolto e, indurite le linee della faccia aveva incominciato a dire, con risolutezza:

— Ed ora vi prego di lasciarmi andare e sia finita una buona volta per sempre!

Appena questo aveva detto quando sentì una mano appoggiarsi familiarmente sulla sua spalla e vide comparire la larga e rotonda faccia del Donzello della Democrazia.

E Coriolano sorrideva, come colui che la sa lunga e come colui il quale, credendo essere possessore di qualche delicato segreto, di qualche amoroso armeggìo sol per questo si ritiene in dovere di assumere un'aria paterna e protettrice.

Sorrise adunque con paterna furbizia, il nostro Coriolano e disse:

— So... so.. sono qua...

— Bravo!... Capiti a proposito!... — gridò Mostardo.

— Conoscerai questa canaglia!... — sibilò Proli che era verde.

Ma Coriolano non si scompose; continuò a sorridere e disse:

— Llll... llllllll... porca miseria!... L'amore comincia sempre così!

— Ma va all'inferno! — gridò Mostardo.

— Aaaa... aaaaaa... amico mio, vuoi un consiglio?... Chhhh... Chhhhhhh... chiudi un occhio!... Prrr... Prrrrrr... Prrrrrrrrr... porco cane!... Proli è un tesoro! siete nati per stare insieme!... L'ho detto sempre io!...

Allora Mostardo più non si tenne.

— Fra te e tua nipote mi avete annoiato anche troppo! Adesso basta perchè non ne posso più... Non ne posso più!... O vi togliete dai piedi, o vi insegno io che cosa vuol dire fidarsi troppo della mia pazienza! — Gridò queste ultime cose perchè potessero essere udite anche dalle finestre del palazzo Alerami, poi, volte le spalle, si allontanò a gran furia brontolando sempre.

Proseguì a capo basso; solo, quando ritenne di esser giunto sotto il davanzale della sua creatura, levò gli occhi. Mignon era là!

Aveva veduto tutto; ma forse non aveva udito tutto. Era là e fu sollecita a ritirarsi non appena lo vide. Per Bios!

Si ritirò e chiuse la finestra con vivace fragore.

— L'ha fatto per me!

Ciò gli dette tale fitta al core che traballò.

— Per Bios!... Ma che cosa le ho fatto?...

Veniva innanzi un temporale catastrofico e il cielo si oscurava.

Camminando così, nel grande travaglio dell'anima, prese uno scivolone che per poco non lo mandò ruzzoloni.

— State attento! — gli disse un passante che era accorso. E Mostardo, pien di dispetto:

S'a chesch, a chesch in tèra; zidenti a ch'im tö sò!... (Se casco, casco in terra; accidenti a chi mi prende su!...).

E continuò la strada.

Ah, Mignon!... Perchè dischiudere un napoleonico giaciglio a un gigante tranquillo, per poi negargli anche la grazia di un sorriso?... Era questo che non riusciva a capire il povero grande Mostardo!

Forse non era stata che una distrazione.

— Una distrazione?... Ma se è stato tutto un dare e un prendere?... Tu per me ed io per te! Dunque?...

E non la digeriva.

— No!... Anche lei mi vuole avvelenare!... A sò un povar sgraziè!... (Sono un povero disgraziato!).

E l'amore, l'amore lo riduceva ai minimi termini, povero grande Mostardo! Perchè, nella sua schietta ed intiera semplicità, non riusciva a capire la donna che oggi si dona e domani ha tutto dimenticato. Come si possono dimenticare certe cose? Ma sono forse una bibita rinfrescante? Già con le donne non si ragiona. Non si ragiona!

E l'affanno gli cresceva a dismisura.

Incominciò un vento gelido di tempesta e suonavano lontano, per le campagne, le campane a scongiurare la grandine.

Era la prima volta, la primissima volta, in vita sua che Mostardo provava il mal d'amore. E questo male lo rendeva cieco.

Errò così in lungo e in largo senza saper dove andasse.

Poi cominciò un tremendo temporale estivo fra grandine, baleni e saette.

Il cielo era livido, nero. Un vento a raffiche si avventava giù dal cielo a rovesciare i camini, a far volare le tegole come le foglie di autunno.

La gente fuggiva spaurita. Mostardo non se ne accorse neppure.

Disse solo, rispondendo all'interno dispetto:

Me avrèbb che piuvèss dal mesan!... (Io vorrei che piovesser macine!...).

E chi lo vide passare lentamente sotto il diluvio ritenne fosse impazzito.

Il cielo pensò a calmarlo un poco. Dopo venti minuti di irrigazione, riaprì l'anima alla speranza.

Poteva darsi fosse stata una giornata di nervi per Mignon. Già le donne moderne eran tutte nervose. L'aveva sentito dire.

Sperò nel giorno dopo.

Poi si trovava sulla soglia del giardino di Spadarella e ritornava il sole.

La sua speranza si illuminò raggiando.

Ecco, fra il sole e il baglior delle foglie, attraverso all'umida dolcezza del giardino che rinasceva più fresco dopo il temporale, ecco l'incantesimo di una voce distesa. Si fermò ad ascoltare.

Dove sei stata questa mattinella?...

Bondì, Mariù!

Dove sei stata questa mattinella?...

Era una vecchia cantata; una fra quelle cantate che aveva udito e imparato quando errava, ancora bambino, scalzo e scamiciato per le strade della sua città.

Poi gli erano uscite di mente con gli anni, gli avvenimenti, le sofferenze; col logorio della vita. Avevano esulato tacite e raccolte come le cose che si portano via a mano a mano un poco del nostro core; un poco della nostra vita.

Si erano rifugiate nel paese delle nebbie lontanissime dove si raccoglie l'ultimo fior dell'anima per morire; e per sempre!

Ora gli ritornavano innanzi le parole e la musica, e gli riconducevano un dimenticato sorriso di giovinezza.

Nel tempo della sua giovinezza andavano in giro quelle canzoni un poco monotone e soavi. Le cantavano le donne, sfaccendando: da una stanza buia, da una terrazza sopra le vecchie case color della ruggine. E portavano il ritmo di un sogno e un poco di sole a tutte le sperdute nel giro dei grigi e soli.

Le portavano i cantanti girovaghi, nei giorni di mercato, per le piazze; poi prendevano il volo per tutta una terra; diventavano patrimonio comune; eran di tutti come le cose che si apprezzano solamente quando sono lontane.

Mostardo sorrideva, disteso in una beatitudine di paradiso. E l'usignuola del suo giardino continuava a cantare.

Poco alla volta, piano piano, passando da aiuola ad aiuola, Girolamo e Stefano si erano avvicinati; ed ora, le nere ed ossute mani puntate sulla vanga, la faccia inchina, immobili, stavano ad ascoltare, dimentichi di ogni altra opera, i poveri vecchi, presso il più bel fiore del loro giardino. Perchè era tanta la soavità di quel canto che le cose stesse vi si immergevano, trasfigurate.

Son stata a coglier l'insalatinella,

mio bel marì!...

Son stata a coglier l'insalatinella!

Poi, di un subito, in un'ultima nota, filata via ad estrema dolcezza fino a morire, fusa nella stessa armonia del silenzio, il canto si spense. Si spense, ma continuò nell'aria un poco; e un po' più nel cuore di chi l'ascoltava.

Caduto l'incantesimo, il cavalier Mostardo non seppe infrenare l'impeto dell'entusiasmo e si dette ad applaudire e gridò con tutta l'anima, levando la faccia verso la piccola finestra racchiusa in un fregio di fior gelsomino; gridò:

— Bravo il mio core!...

Spadarella apparve alla finestra.

— Bravo il mio core!... Bravo il mio core!...

Aveva, agli angoli degli occhi, due grossi lucciconi.

— Per Bios!... Ta m'é fatt piànzar!... (Mi hai fatto piangere!...).

Il fresco riso!... Ed anche l'ultimo sole rise con lei fra i suoi capelli d'oro pallido pallido. Girolamo e Stefano la guardavano senza parlare.

— Che cos'hai fatto, zio?

— Sei un angelo!...

— Ma che cos'hai fatto?... Sei bagnato?...

Ora si spenzolava dalla finestra, a guardarlo.

— Sei bagnato?

— Ma no!

— Come no?... Che cos'è allora?

— Avevo un diavolo per capello. Forse sarà stato il temporale!

— Povero zio!... Aspetta che vengo... aspetta!...

E si udì la sua corsa per la stanza, poi giù per le scale.

Quando uscì nel giardino, Mostardo non si era mosso tuttavia. Stava là, in mezzo alla pozzanghera che aveva formato con tutta l'acqua che gli colava da dosso.

Spadarella si fermò a guardarlo.

— Ma vuoi prenderti un malanno?

— Che cosa vuoi che prenda!... Sono di pelle dura!

— Vieni in casa ad asciugarti.

— Ma non importa!

— Spina Rosa?... Spina Rosa?...

La vecchietta si fece su l'uscio e, come ebbe veduto Mostardo, congiunse le mani e, atteggiata la faccia alla maggiore compunzione, esclamò:

Jòso, la mi Madona!... (Gesù, Madonna mia!...).

Fu acceso un gran fuoco, in cucina; lo zio Giovanni vi sedette accanto, ad asciugare.

La finestra era aperta. C'era un profumo di rose e di erbe aromatiche e il paradiso era in quel luogo, con la beatitudine senza fine.

Mentre lo zio Giovanni, gli occhi perduti nella fiamma, si smarriva nella sua quieta felicità dimenticando ogni più recente pena, Spina Rosa, dietro le spalle di lui, faceva di gran cenni a Spadarella. E Spadarella sorrideva.

Dovevano fare una improvvisata a Mostardo, ma Spadarella non si decideva. Finalmente disse:

— Abbi pazienza, zio; debbo sbrigare una piccola cosa e torno subito.

— Dove vai?

— Devo finire una cosa.

— La finirai dopo. Rimani con me. Non stiamo mai insieme!...

— Ma... era...

E Spina Rosa:

— Lasciatela andare, padrone.

— Be', fa presto!

Spadarella scivolò nella stanza attigua e lasciò la porta aperta. Spina Rosa, ferma presso la tavola, si riaggiustò il grembiale da cucina e levò la faccia in una attesa trepidante. Si udì un suono secco come se il coperchio di un mobile fosse stato aperto a furia.

Cantavan le capinere fra le gaggìe sporte fuor dalle serre aperte, a fiorire. Suonaron le campane del Duomo, suonaron soave rammentando al cuor degli uomini che la sera si avvicinava.

Spina Rosa si fece il segno della croce.

Si udì il trabalzare di un plaustro sui ciottoli della strada. Il tralcio di una rosa rampicante, pendeva nel vano della finestra, assecondando il vento in un dondolìo dolce come se ninnasse i suoi bocci vermigli nel cuor del turchino.

Scendeva piano piano, dall'eternità, l'ora delle rugiade.

Spina Rosa si impazientiva guardando verso la stanza nella quale era scomparsa Spadarella.

Lo zio Giovanni era rientrato nel regno della sua smarrita beatitudine.

— Spadi?

— Un momento!... — rispose la piccola bella. Spina Rosa non poteva trovar pace.

Ad un tratto anche le capinere finiron di cantare e lo zio Giovanni scattò sulla seggiola e si rivolse a guardare verso la stanza nella quale era scomparsa Spadarella.

Nel placido e amoroso tramontar della luce, come le rose fra le foglie, come i fior del ciliegio fra le rame, e le stelle sperdute fra le costellazioni, sbocciavano, a far parte dell'umano Universo, sgorgavano per estenuarsi nel vento e salir verso il cielo, le note di una musica che non aveva ancora un nome, che non aveva ancora un volto, ma nasceva e svaniva, per gli ascoltatori improvvisi, nel subcosciente.

Sì, era Spadarella!...

Era Spadarella, la bionda creatura mattutina, seduta ad un vecchio clavicembalo, chè altro non aveva potuto comprare coi suoi scarsi risparmi. E per lunghi mesi aveva serbato il segreto per giungere all'improvvisata di quell'ora.

Spina Rosa era al colmo della felicità.

Lo zio Giovanni chinò gli occhi e la faccia e non disse niente.

Girolamo e Stefano, in punta di piedi, trattenendo il fiato, entrarono l'un dietro l'altro e si fermarono presso la porta, il capo scoperto.

Non era un po' figlia loro, Spadarella?... Essi lavoravano al nido di lei; facevano nascere i fiori del suo giardino; la tenevano alta nella devozione della loro fatica.

Era la loro piccola madonna; l'angelo che fa perdonare la vita ai poveri poverelli.

E quattro anime eran rapite così nello stesso amore. Fu prima una dolce sonata di Frescobaldi che Spadarella eseguì sul clavicembalo dalla voce dispenta; poi cantò. Cantò un brano della Traviata; un altro dei Pescatori di perle e la romanza della Vally:

... ebben ne andrò lontana...

Ma dove la toglieva, la piccola gola di usignoletta, tanta passione?... Da dove le derivava una così grande intensità di ardore?... Come poteva conoscere tanta tristezza, da far piangere le quattro creature in adorazione?...

... ebben ne andrò lontana

come fa l'eco della mia campana...

Così tutta la nostalgia della povera umanità tribolata partiva con l'anima di Spadarella sul vento della sera. Ella cantava per tutti i cuori che si levano sul vento della sera, quando la malinconia li raccoglie oltre la fatica e il deserto. E la sua voce era la cosa più pura ed angelica che potesse levarsi sul mondo delle anime appenate.

Un altro uditore entrò che si tolse il cappello e rimase fermo sulla soglia: Asdrubale Tempestoni. Nessuno gli pose mente.

Poi scoppiò un urlo e chi gridò più forte fu lui, Tempestoni:

— Questa vale dieci volte la Melba, la Patti, la Tetrazzini, te lo dico me!...

E giù ad applaudire da schiantarsi le mani. Si udiva Spadarella che rideva nella stanza vicina.

Poi incominciò un'aria del Werther.

Il Werther, in Romagna, è una istituzione sociale. Hanno pianto più occhi per i casi di Carlotta, nella terra dei cocomerai, che non siano passate rondini sul Mar Africano. La musica del Werther fra Imola e Cattolica, fra Ravenna e Rocca San Casciano, e dalle Lagune di Comacchio ai confini della Repubblica di San Marino, è più popolare dell' Internazionale. Tutti i teatri, grandi e piccini, hanno avuto il loro Werther.

... Signor, la casa è qui...

l'ora è di riposar...

Oppure:

— Tu mi hai detto:

A Natal...

E ancora:

Come, passato il nembo,

si queta il mar fremente,

il cuor non soffre più...

Chi non canta questa musica? Chi non sa questa musica, per le rosse città della dolce terra armoniosa?...

Tutta la malinconia della razza si è raccolta per le melodie massenettiane e di queste ha fatto la sua passione. Così quando Spadarella, con la sua voce soavissima, incominciò a cantare un'aria dell'opera prediletta, tutti si rizzaron sul torso e l'estasi si dipinse su quei volti rudi e passionati. Poi fu un finimondo di applausi e, quando la piccola comparve sulla porta, lo zio Giovanni se la prese fra le braccia e le disse le cose più belle che sapeva; tutte le cose più belle che sapeva, anche se non eran troppe.

— Dunque — fece Tempestoni — lo facciamo questo contratto?... Ma sì! Deve debuttare nella sua città. Dobbiamo essere noi a tenerla a battesimo. Dove vorreste mandarla?... Questo settembre... al tempo della mia Grande Lotteria, Mostardo!... Vi preparo un teatro da leoni! Vi faccio anche il Golfo Mistico!...

— Voi fate delle chiacchiere!

— No, vi faccio il Golfo Mistico a mie spese, nel Teatro Comunale! Deve correr la gente da Milano e da Roma. Deve essere una cosa che non si è vista mai in Italia. Un paradosso!

Asdrubale Tempestoni non aveva un linguaggio preciso e usava le parole con sfumature tutte sue.

— Lo facciamo questo contratto?... Daremo il Werther, è vero Spadarella?

La piccola sorrideva senza parlare.

— Lasciatemi pensare, prima!

— No, è meglio subito!

— Ma lo sai bene il Werther? — domandò Mostardo a Spadarella.

— Ho cinque opere in repertorio!

— Cinque opere?

— Ma se vi dico che ha fatto miracoli — disse Spina Rosa.

E Tempestoni:

— Dieci sere... diecimila lire!... Die-ci-mi-la belle lirone!... Eh, Spadarella?...

Jòso, e' mi Signor!.. (Gesù, Signor mio!) — mormorò Spina Rosa.

— È che voi non capite niente di teatro, caro Mostardo, perchè se capiste accettereste le mie proposte a braccia aperte!... Solamente il Golfo Mistico!

— Che cos'è questa roba?... — domandò Mostardo.

— Come che cos'è... È una invenzione tedesca o di Wagner o di Biroit, non mi ricordo bene...

— No, signor Asdrubale — fece Spadi, sorridendo. — Beireuth è una città della Baviera nella quale Riccardo Wagner fece elevare il suo famoso Teatro Nazionale.

— Hai sentito?... — fece Tempestoni rivolto a Mostardo. — Spadarella ti può insegnare. Be', io ti faccio, a mie spese, il Golfo Mistico.

— Ma, insomma, che cos'è questo Golfo?

— È una specie di buco per l'orchestra. Wagner la sapeva lunga, Wagner!... Perchè vedere nel muso tutti questi smorfiosi di professori?... Era troppa confidenza per il pubblico! Allora ecco un bel buco e, dentro tutti quanti! Tromboni e contrabassi e la Cassa coi piatti!... Così non si sente che la musica. Poi il teatro al buio!.... È anche una bella economia. Oi!...

— Il teatro al buio?

— Sicuro! La nostra città non avrà mai veduto niente di simile. In quanto a questo, se ne parlerà anche all'estero. Poi, con la mia Grande Lotteria, in quei giorni sarà qui tutta la Romagna. Dunque volete firmarlo questo contratto?

— Oggi no — fece Mostardo.

E Spadarella:

— Il maestro mi aveva già proposta una scrittura per Milano.

— Per Milano?

— Sì. Al Dal Verme!

— Be', il Dal Verme sarà il Dal Verme — fece Asdrubale Tempestoni contrariato. — Però il nostro Comunale col Golfo Mistico...

— Per adesso non voglio sentir niente! — gridò Mostardo. — Voglio pensarci. Non so neppure se manderò la mia bambina sul teatro. Non volete capire che è la mia bambina?... Domani, se qualcuno si pensasse di torcerle un capello, porco Dacco!... Brucio il teatro e il tuo Golfo Mistico, e tutte le scarabattole per suonare!...

— In quanto a questo, non son poi tanto scarabattole! — mormorò Asdrubale, mortificato.

— Bella roba!... Per quello che valgono!...

— Sì! Mo vacci te a suonare! — fece Tempestoni, offeso nel suo amor proprio di impresario.

Poi lo zio Giovanni cedette alla dolce Spadarella. Furono combinate dieci recite del Werther per la seconda quindicina di settembre; una grandissima réclame, il teatro messo a nuovo, il Golfo Mistico e diecimila lire alla piccola.

Stesa la bozza del contratto, Tempestoni volle lasciare una caparra perchè Mostardo non avesse a pentirsi.

Spadarella sarebbe stata una Carlotta paradisiaca.

— Una Carlotta di paradiso, sì!... — Il Cavalier Mostardo scosse il capo guardando i mattoni del pavimento. E un'altra Carlotta era esulata nel campo de' suoi vili nemici!

Asdrubale Tempestoni raggiunse il colmo dell'entusiasmo.

— Ma che Scala e Costanzi!... Dovranno venire da noi, se vorranno sentire il primo Werther del mondo!... La Scala!... Il Costanzi!... Aspetta che ti accomodi io il nostro teatro e poi vedrai!... Non ci deve essere parangone neppure con l' Opera di Parigi!... Io le so fare le cose, io!... Ti faccio un Golfo che ci può venire il Signore a suonare! Te lo dico me! Ti accomodo un teatro che se ci porti la regina Elisabetta o Caterina Sforza, ci devono stare come a casa sua! Ma che cosa vuoi parlare!... Noi siamo sempre estemporanei!... Basta che si dica la Francia, la Germania, l'Inghilterra!... Basta che si dica l'America e il Giappone!... E quello che facciamo in casa propria è sempre una porcheria!... Bella gente siamo! Ma chi te le ha fatte le grandi invenzioni?... E Marconi dove lo metti? E dove metti Michelangelo, Cagliostro, Giuseppe Verdi?... Dove son nati Rossini e Tamagno?... Dov'è morto Dante Alighieri?... Da noi!... Proprio da noi... qui, a due passi: a Ravenna, che era come casa sua!... Altro che storie!... E poi, se si volesse incominciare dai Romani non si finirebbe più.

Perchè fa vergogna!... Se in casa nostra c'è un uomo d'ingegno, lo facciamo morir di fame!... Ma guarda Catalani, per non dir di più! Se fosse nato in Germania avrebbe scritto dieci Vally, avrebbe scritto!... Noi lo abbiam fatto morire che non aveva tre soldi da comprarsi un caffè... E chi più sparla, più ha ragione, da noi! Ai miei tempi i giovani imparavano ed erano pieni di entusiasmo; adesso imparano a dir male degli altri quando hanno ancora i due soldi sull'ombelico!...

Imparate a conoscere l'Italia, imparate!... E lasciatemi stare tutte le Francie e le Inghilterre del mondo!... Sì, va in Francia e in Inghilterra a sentire quello che dicono di noi, quei Padreterni!... L'Italia?... Peuh!... Da buttar via!... E devono venir da noi per imparare! Be', vedrete adesso, che cosa vi combinerò io, che mi chiamo Tempestoni! Tutti a bocca aperta resterete. Ve lo dico me!

— Addio Spadarella! —

E uscì che aveva il colore dei papaveri e un'anima garibaldina, nel rosso crepuscolo estivo.

Rimasero soli lo zio Giovanni e Spadarella. Sedettero all'aperto, nel giardino.

Spadarella stava sulle ginocchia di lui che la guardava senza far parola. Pareva volesse dirgli qualche intima cosa e non ardisse.

— Zio?...

— Cosa vuole la mia bambina?

— Zio... dovrei dirti una cosa...

— Dilla.

— Non so come incominciare!

— È una cosa grande?

— Credo di sì.

— Una cosa molto grande?

— Per me, sì!

— Diavolo, diavolo, diavolo!... E che cos'è mai?

— Zio...

— Avanti. Ti vergogni di me? Non ti voglio bene? Hai timore che ti dica no?

— Non è questo, zio, ma... vorrei tu indovinassi!

— Mi debbo provare?

— Sì, sì!

— Vediamo. Di che si tratta?

— Se debbo dirtelo io, allora...

— No! Volevo sapere... Un momento! Si tratta di affari?

— Oh, no!

— Di cose che ti possono piacere... che so?... di qualche desiderio?

— Neppure!

— Neppure?... Allora... vediamo!... Ora credo di esserci. È una mia vecchia promessa?...

— Non so...

— Sì, bambina mia! È una mia vecchia promessa. Ma sono pronto a mantenerla. Del resto perchè non dirmelo? Non sai che ho solo la mia Spadarella al mondo, io, vecchio matto?... Non sai che se Spadarella mi dicesse: — Voglio il tuo cuore!... — Mi aprirei il petto, per darglielo questo cuore che non è più buono a niente?

— Il mio zio!... — e lo baciò.

— Dunque... allora resta fissato. Andremo a Rimini fra dieci giorni. Ti fa piacere?... Era questo che voleva la mia bambina?...

— No, zio. Non era questo!

— No?... E allora il povero zio Giovanni è una bella bestia! Già, ci vorrebbe il cuore di una mamma per capirle queste bambine!... Io?... Che cosa vuoi che capisca io, che sono uno scapolaccio ignorante...

— Non parlare così! Sai che non voglio!

— Devo provare ancora?

— Sì.

— Vediamo... Ahi, che ho capito Spadi!

— Davvero?

— Questa volta, sì! Ne sono sicuro.

— Allora?... Che cos'è che voglio?...

— Bambina... il grande segreto è qui — e le posò una mano sul cuore.

Spadarella chinò la faccia senza rispondere.

— Vedi?... Ed è una faccenda grave?

— Sì.

— Sei innamorata!

Spadarella non rispose. Gli levò i grandi occhi celesti in volto, e brillarono d'amore e di gioia.

— Sei innamorata... — ripetè lo zio Giovanni. — Già... era da prevederlo! Così bella come sei!...

— Ma non voglio andarmene, zio!

— In quanto a questo, il mio cuore non deve pensare ai vecchi!... I vecchi bisogna lasciarli nel loro cantone, come è giusto. Quando non servono più a niente, il Signore se li deve portar via... Lasciami dire. Io lo so bene come vanno le cose. E poi... credi che lo zio Giovanni vorrebbe proprio guastare la vita della sua bambina? Ma se ne andrebbe, col suo fagotto, centomila volte! Be'... lo so che ti dispiace... lo so che sei buona!... Di questo non parliamo. E... vorresti sposare?...

— Io non so, zio!... Vorrei che tu mi consigliassi.

— È piuttosto difficile, sai?... Ah, è piuttosto difficile!... Vedi bene che non sono mai riuscito a consigliar me stesso, se sono ancora scapolo!

Spadarella rise e gli gettò le braccia al collo.

— Zio... zietto... sì, tu devi consigliarmi! Tu devi consigliarmi!...

— Io ti dirò quello che è giusto e niente di più: fa quello che ti dice il core.

— Mi pare troppo presto, adesso...

— Non hai torto.

— ... e gli voglio bene!

— Beato lui!

— Vorrei aspettare.

— Sì, bambina. Sei tanto giovane!

— Potremmo fidanzarci.

— Fidanzatevi! Però... un momento. Si può sapere il nome di lui?

— Lo conosci.

— Io?... No!

— Sì, zio. Te l'ho detto un'altra volta.

Lo zio Giovanni guardò Spadarella negli occhi, poi abbassò la faccia.

— Ah!... È quello del rosignolo...

Ripetè più sommessamente e più pensoso:

— ... è quello del rosignolo!... Sicuro, sicuro, sicuro... È quello del rosignolo... Non ci avevo pensato. Già... tu me ne parlasti... e poi mi era passato di mente. Sfido, io!... Con l'inferno che è nella mia vita in questi giorni!... Si chiama, già... si chiama, si chiama... ah, Paolo Corani!... Sicuro, sicuro!... E, quando è ritornato?

— Ritornò subito, zio.

— Subito?... Già!... E... è venuto spesso a trovarti?

— Ci vedevamo tutte le sere sulla porta del giardino...

— Tutte le sere!... Paolo Corani... Già, il figlio della Serafina. Suo padre è in America. Scappò con una donnaccia e piantò qua la moglie e il figlio... Sicuro, sicuro...

E tacque.

— A che cosa pensi, zio?...

— Bambina, dimmi proprio la verità; ma dimmela con gli occhi negli occhi e ricorda che non ho in mente se non il tuo bene. Qualsiasi cosa tu abbia fatto, non ti condannerò. Tu sarai sempre sempre il mio core!... Ricordalo... E adesso rispondimi così, come parleresti a e' tu Signurèn in' t' e' zil! (al tuo piccolo Signore nel cielo!). Bambina... ti sei compromessa?

— No, zio.

— Va bene. Ti credo. Tu non sai dirla una bugia. Poi, con me?... Che gusto ci sarebbe se ti perdonerei sempre?

— Come sei buono!...

— No... no!... Io non sono buono. Sono un vecchio catafalco io, lo so... Però vorrei conoscere questo tuo Paolo...

— Sì, zio. Subito.

— Ecco... Subito sarebbe un po' troppo! Mettiamola per domani, ti va?

— Come vuoi, zio.

— Io, intanto, cercherò di sapere tante cose. Però... se a te non fa piacere...

Spadarella gli dette un gran bacio perchè tacesse.

— Vedrò come stanno le cose. Non ti sembra necessario?

— Sì, zio.

— È necessario. Tu sei sola. Quel ragazzo potrà essere una perla, ma potrebbe anche darsi che non lo fosse, e allora...

— Allora?...

— Allora gli rompo la faccia come è vera la Repubblica!

— Zio!...

— Eh, no, bambina!... Eh, no!... Con certe cose non si può scherzare!... Perchè se quel ragazzo ha calcolato di farsi bello con la mia creatura, gli è passato di mente il mio nome e chi è Giovanni Casadei!...

Ora camminavano per il giardino.

Spadarella si era fatta pensosa.

— Zio?... Non lo tratterai male?

— Ma no, bambina!... Gli domanderò solo che intenzioni ha.

Poi il Cavalier Mostardo si fermò chè vide venire innanzi fra le aiuole, Rigaglia.

E si guardava i piedi, forse per la gioia de' suoi riconquistati scarponi.

Quando furono a due passi l'uno dall'altro, Mostardo aggrottò le ciglia e domandò:

Ch' sèll nèca? (Che c'è ancora?).

Rigaglia levò la faccia e rise.

— Che cos'hai da ridere?

— Ditemi grazie! — fece Rigaglia con fare misterioso.

— Cosa vuol dire grazie?... At ziral la baracòcla? (Diventi matto?).

— Dovete dirmi grazie! — ripetè Rigaglia ridendo sempre.

— Non importa che tu faccia lo stupido! Di' quello che hai da dire e fa presto.

— E io non vi dico niente!

— E io ti dò un pugno che ti farà passare la voglia di ridere!

— Bella maniera!...

— Quella che ci vuole con te, brutto testone! Ti credi forse di potermi prendere in giro?

— Già siete sempre voi, chè non vi si può mai parlare!

— Ma vuoi prendermi per il tuo giocattolo?...

Allora Rigaglia, indispettito, brontolò:

— Volevo dirvi che ho ritrovato la Carlotta... ma non ve lo dico più!

— Che cosa?... — gridò Mostardo accostandosi di un passo al suo fido nemico. — Hai ritrovato la Carlotta?

Rigaglia non rispose.

— Hai ritrovato la Carlotta?

— Pare! — nicchiò Rigaglia.

— E dov'è?

— Nella stalla.

— Nella nostra stalla?

— E dove dunque?...

Allora Mostardo si illuminò come il più alto monte quando nasce il sole. Si rivolse a Spadarella:

— Hai sentito?... Ha ritrovato la Carlotta!...

E gli ridevan gli occhi e tutta la faccia.

— Ha ritrovato la Carlotta!... Vieni qua!

Rigaglia non si muoveva. Col suo testone basso si ostinava a guardarsi gli scarponi.

— Ti ho detto di venir qua! Non badi?...

Rigaglia si fece innanzi un poco, come un infante impermalito.

— Adesso ti dico grazie — fece Mostardo e gli posò le larghe mani sulle spalle. — Sì, ti dico grazie perchè sei grande!

Rigaglia nicchiava sempre.

— Che cos'hai da brontolare?

— No!... Con voi non c'è gusto!...

— Vuoi che ti chieda scusa?

— Io non voglio niente!

Vut c'at dèga un bès? (Vuoi che ti dia un bacio?).

Risero tutti tre: Spadarella, Rigaglia e Mostardo.

Poi l'umile e il grande se ne andarono insieme, braccio sotto braccio, come due innamorati.

CAPITOLO XIII. Come il gobbo Pulizia se ne andò a cercar Garibaldi e come gli anarchici dell'Isola Felice cooperarono alla felicità del Cavalier Mostardo.

Era andata così, come raccontò Rigaglia, compiacendosi del busso de' suoi scarponi riconquistati.

Una sera Rigaglia era solo ed aspettava Mostardo. Stava per apprestare la cena, ma prima, quasi per un presentimento, era andato nella stalla e aveva messo il fieno nella mangiatoia e aveva preparato un buon letto di paglia come se la Carlotta dovesse ritornare. Si era sentito una voce dentro che gli aveva comandato di far questo. Poi, compita l'opera, tranquillo e soddisfatto stava per salirsene in cucina quando avevano suonato il campanello.

Chi poteva essere a quell'ora?

Andò ad aprire ed ecco presentarsi un uomo che entrò senza aspettare e senza dir niente. Poi chiuse la porta e gli disse:

— Io sono il conte Polpetta!

Il conte Polpetta?... E poi?... Era quello il modo di entrare in casa d'altri?

— Sta zitto!... Sono venuto perchè ti riporto la Carlotta.

— Che vi pigli un accidente! Dite davvero?

— Voglio che mi scoppi il core, se non dico la verità!

— Ma dov'è?

— È qui dietro, nel vicolo. Vieni ad aprire il portone. Fa presto.

Rigaglia si era messo a correre. Però, prima di aprire il portone, aveva detto al conte Polpetta:

— Non vi venga la voglia di farmi impazzire per niente, perchè questa sera non sono di buona luna!

Il conte Polpetta aveva aperto per suo conto ed ecco il muso della Carlotta, ecco il muso della sua Carlotta, farsi innanzi come per dire: — Buonasera!

Le era saltato incontro; l'aveva abbracciata. Era proprio lei, proprio lei!

Dopo averla riposta nella stalla aveva domandato al conte Polpetta:

— Be', ma come avete fatto?

— Questo non devo raccontarlo a te. Di' a Mostardo che, domani, lo aspetto all'Isola Felice.

E non aveva aggiunto altro e se ne era andato come era venuto solo solo, zitto zitto, magro magro.

Mostardo conchiuse:

— Va bene. Bisognerà che vada dal conte Polpetta.

— Volete che venga anch'io?

— Vieni pure.

Eccoli arrivati ad una porta senza battenti.

— Sarà questa la casa?

Rigaglia aveva risposto:

— Sarà questa!

Il Cavalier Mostardo era andato innanzi. Un androne buio; un fetore di immondizie accumulate. Il pavimento era scivoloso.

— Ma dove siamo?

E Rigaglia:

— Chi lo sa!

— A me pare di entrare in una concimaia.

— Infatti lo stabbio c'è — rispose Rigaglia.

Il grande disse al piccolo:

— Accendi un fiammifero.

Videro allora, in fondo all'androne, una seconda porta e a quella si diressero. Come l'ebbero varcata, ecco un rumore di voci.

— Ci siamo, per Bios!

Erano entrati in una specie di sala rettangolare, illuminata debolissimamente da un lucernario senza più vetri. Detto lucernario doveva aprirsi in un angusto cortile. Lunghe tele di ragno, annerite dalle immondizie, gli facevan torno torno una frangia di viscidume. Anche la luce che riusciva a filtrare da quell'apertura pareva sudicia. Il fetore aumentava.

— Per essere la casa degli anarchici, ci fa un bel puzzo! — esclamò Mostardo.

Dopodichè si affacciarono sulla porta che immetteva nella ex-platea dell'ex-teatro e rimasero là, il piccolo e il grande, disorientati, a contemplare il novissimo spettacolo che si presentava ai loro occhi.

Dovettero, in un primo tempo, abituarsi alla grigia penombra che teneva il luogo in una uguale tinta livida dalla quale non emergeva se non qualche sagoma nera; ma, quando si furono adattati alla luce-ambiente, ecco che poteron vedere di che si trattava. E si trattava davvero di una cosa singolarissima. L'ex-teatro era convertito in un vero e proprio accampamento di zingari. La loro curiosità fu subito attratta da un timido cinguettìo, tanto che Rigaglia, levata la faccia, domandò:

Csa j' èl, di uséll?... (Ci sono degli uccelli?).

E infatti c'erano degli uccelli. C'era un povero canarino in una gabbietta bianca, appeso al parapetto di quel più grande palco che si trova quasi sempre al centro di ogni teatro, e che suol chiamarsi palco reale. Il palco reale, col suo retrobottega, serviva di appartamento alla contessa Penelope Tompinelli.

Noi sappiamo come questa contessa, ridotta al solo possesso del vecchio teatro dei Battuti Verdi, che non le rendeva un soldo, e sul punto di disfarsene, sollecitata dall'arcimiserevole conte Polpetta, il quale veniva ideando, a consolazione sua e dei simili suoi diseredati, l'organizzazione dell' Isola Felice, accondiscendesse a disporre di quest'ultima sua proprietà a profitto del nuovo esperimento comunista; e, raccolta la sua miseria, in detto luogo la traslocasse, unitamente agli altri adepti, in attesa della felicità. Frattanto si era riserbata, non potendo dimenticare di essere padrona, si era riserbata il miglior posto, trattandosi di un teatro, e cioè il palco reale. Nel qual palco, oltre la gabbia di un disgraziato canarino, figuravano alcune casseruole di rame, una pentola, una tenda, un paravento in brandelli, una poltrona con lo stemma, un vaso da notte, un copri-polvere, una scopa e un orologio rotto. Naturalmente non solo le primitive decorazioni del palco erano scomparse, ma il soffitto era crollato e le pareti minacciavano rovina; ai quali danni la contessa Penelope aveva cercato porre riparo inchiodando una tenda a due travicelli del soffitto; e disponendo il paravento a brandelli verso la parete che minacciava maggior rovina. Ed era ricorsa a quest'ultimo rimedio per difendere il suo pudore dal pudore del conte Polpetta che abitava nel palco attiguo.

E il palco attiguo, se così ancora poteva chiamarsi, era tutto un fantastico intrico di assi rotte, di travicelli fradici e di calcinacci. Fra tale pulverulento aggroviglio erano sei vecchie latte da petrolio lungo le quali erano disposte due assi e un cumulo di paglia tritata. Tale era il letto del conte Polpetta; letto difeso dalla pioggia che scendeva libera dal tetto in rovina, da un vecchio ombrello aperto e fermato per mezzo di cordicelle al circostante accatastarsi di assi in isfacelo. Al conte Polpetta altre cose non erano riservate, neppure un coccio per lavarsi le mani. In compenso egli aveva decorata la sua tana, nel prospetto, di tanti cartigli sui quali aveva scritto in grandi caratteri rossi, le sue massime eterne; o, meglio, le eterne massime del comunismo, particolare religione sua, e deciso costume.

Tali massime attrassero l'attenzione del Cavalier Mostardo che incominciò a leggerle.

Ecco la prima:

Donna, che cos'ho io di comune con te?

— Per Bios!... — fece Mostardo.

Io sono venuto a suscitare l'uomo contro il proprio padre e la figlia contro la madre.

Continuò a speculare. Eccone un'altra:

Io sono senza mondo.

E Mostardo guardava Rigaglia; e Rigaglia sputava.

Lesse ancora:

Il mio io è assorto al dominio del mondo.

Ma questa non la capì. Che cos'era questo Io?... Il suo Io?... Il dominio del mondo?...

Scaraventò per l'aria un:

— Per Bios!... — che parve una saetta.

— Che cosa ne dici, Rigaglia?

— Io dico che c'è un bel puzzo.

— Questo è vero!

Nella platea c'era una lunga tavola attorniata da sgangherate panche. Quello, il luogo riservato ai pasti in comune. Poi torno torno, altre rovine di palchi ed altri accampamenti di comunisti. Qua si vedeva la testa di un cane; più oltre gli occhi giallo-verdi di un gatto. In un palchetto di quart'ordine tubavano due tortore.

Ora anche Rigaglia osservò come la parte più caotica del luogo fosse lo spazio riservato un tempo al palcoscenico. Ivi era una garetta rovesciata che serviva da letto; ivi la carcassa di una vettura preistorica adibita a giaciglio; e vasche da bagno in disuso, cassapanche, un armadio sventrato, una cassa da morto.

Era quello un angolo distinto dell'Isola Felice; l'angolo riservato agli anarchici stirneriani. Anche in detto reparto, che poteva chiamarsi degli agitati, non mancavano i cartigli con le diciture più stupefacenti. Le quali diciture si affrettò a leggere il nostro Mostardo che voleva istruirsi. Eccone una piuttosto lunga:

Chi agisce secondo la spontaneità del proprio dovere, NÈ COMMETTE FURTO se si appropria le cose supposte di proprietà altrui; NÈ COMMETTE ASSASSINIO se elimina la esistenza di quei suoi simili che gli appariscono turbatori della libera espansione della sua individualità.

Il Cavalier Mostardo lesse due volte ad alta voce tale apocalittica sentenza, poi continuò:

L'impurità sensuale, di qualunque genere essa sia, non importa un'infrazione ad alcuna legge morale; e, se anche così fosse, non vale la pena di tenerne conto!

— Ma questo è un vero trocaico!... E chi l'ha detto?... — gridò Mostardo.

Allora una voce grave e roca si levò dal fondo del teatro e rispose:

— Sono parole di Max Stirner!

E Mostardo di rimbalzo:

— Bravo il porco!... Andateglielo a dire da parte mia!...

— Max Stirner è morto!

— Bene!... E sulla forca, spero!

— No. Sulla forca morirete voi!

Stava già, il nostro Cavaliere, per lanciarsi alla rapida ricerca dell'ignoto insultatore, quando l'allampanata figura del conte Polpetta gli si parò davanti.

— Siete stato puntuale — disse il conte — e ve ne ringrazio.

— Macchè puntuale!... Voglio sapere...

— Calmatevi Mostardo. Quello non è un comunista; è un anarchico!

— È una canaglia! Un delinquente!

— Bisogna capirlo!

— Io non voglio capire queste immondizie!

— Abbiate pazienza. Forse non sa chi siete. Avete veduto la Carlotta?

Il nome del caro quadrupede ebbe la virtù di calmare il colosso.

— Sì, l'ho veduta, povera bestia! Com'è dimagrita! Ma chi l'aveva?

— Questo non può dirvelo che quel signore col quale stavate per azzuffarvi.

— L'anarchico?

— Sì.

— È lui che l'aveva rubata?

— Anzi l'ha ricuperata.

— Fatemi vedere quest'uomo.

— Venite.

Attraversarono la platea. Si udì il busso ritmico degli scarponi di Rigaglia. Giunti presso il singolare accampamento dei senza-legge, il conte Polpetta chiamò:

Spintàcc?

Al quale richiamo la stessa voce rispose:

— Crepa!

— Vieni fuori, che c'è gente che ti vuol parlare!

Allora si vide uscir lentamente dalla cassa da morto, prima la testa, poi il torso di un uomo il quale, puntate le mani ai lati del singolare giaciglio, volse in giro l'orgogliosa faccia.

— Chi mi vuole? — domandò aggrottando le ciglia.

— Ecco il Cavalier Mostardo! — disse il conte Polpetta.

Spintàcc, al nome solenne, non mutò volto; non dimostrò nè interesse, nè sorpresa; solo, riparati gli occhi dalla luce, col palmo della mano, per distinguere meglio i due sopravvenuti, domandò considerando a volta a volta il Cavalier Mostardo e Rigaglia; Rigaglia e il Cavalier Mostardo:

— Quale dei due è il nominato?

Il solo dubbio di poter essere confuso con Rigaglia finì di inasprire Mostardo, il quale disse:

— È inutile vi diate tant'aria! Tanto non fate paura a nessuno, anche se abitate in una cassa da morto!

— Allora Mostardo siete voi?

— Pare!

— Bravo!

— Bravo un corno!

— Mi fa piacere di non essermi ingannato. Vi avevo immaginato così.

— Cosa vuol dire?

— Vuol dire che rispondete al perfetto tipo del nuovo borghese.

— Io, borghese?

— Voi, appunto! E, con voi, la repubblica!

— Ah, pezzo da galera! Vieni fuori di lì e finisci di fare il cadavere, poi vedi se te l'aggiusto io la borghesia e la repubblica su quella testa da pidocchi!

Spintàcc, sotto il violento assalto del Cavalier Mostardo, sorrise pacatamente e non si mosse. Rispose senza levar la voce:

— Un mio pidocchio val più di tutte le vostre decantate conquiste! E ve lo spiego subito. Abbiate pazienza. Da più di un secolo, durante tutto il vostro lungo e vano alunnato rivoluzionario, voi, fra le mille altre corbellerie, fra le lustre di cui avete pasciuto e pascete la bestialità del popolo, una ne avete posta innanzi sempre più sciocca, fra tutte le sciocche: la libertà, la vostra famosa libertà!... Sicuro, la vostra famosa libertà!... Ma che cos'è quest'araba fenice? Come si manifesta o si è manifestata dopo tanto frastuono, tanta guerra e tanto sangue? Quali intieri e reali vantaggi ha portato ai paria, ai diseredati del mondo?... Nessuno!... Io vi dico, nessuno!... L'egoismo dell'uomo, la sola sacra forza di vita e la sola rispettabile, è stato sempre schiavo della vostra infame concezione statale. Voi vi siete fermati al giusto mezzo, alla mediocrità, alla quiete. Il vostro Stato ha protetto la prepotenza di un gruppo di egoisti. Che cosa hanno reso le tanto decantate conquiste?... Niente!... Io dico niente!... Ora una libertà che non dia niente, non serve a niente! Mettetevi bene in mente quanto sono per dirvi, caro signor Mostardo; la vera libertà deve essere una nostra proprietà, dobbiamo esser liberi di fare tutto quanto ci piace secondo il nostro egoismo e il nostro tornaconto e non dobbiamo riconoscere nessun'altra forza e nessun altro egoismo al di sopra di noi. Ciò che io voglio è giusto; ed è giusto appunto perchè io lo voglio! Guardate che cosa è scritto lassù. Guardate. Voi sapete leggere. Lassù è scritto: — Ciascuno ha in sè la propria causa! — Ciò che vuol dire che ciascuno fa Stato a sè; nel giro di ciò che può compiere è più che Imperatore e più che Dio. Noi siamo finalmente liberi, tutti liberi perchè ci siamo disfatti fino in fondo del peso originale dell'umanità! Ecco dunque perchè un mio solo pidocchio val più di tutte le vostre belle fandonie, caro signor Mostardo!

Rigaglia, a tale sfolgorante parolame, scuoteva la grossa testa a quando a quando e, come Spintàcc ebbe finito mormorò:

L'ha parlè bèn. (Ha parlato bene!).

Allora Mostardo prese Rigaglia per il colletto, lo sollevò da terra due volte e lo sbattè a terra due volte, tanto che il tonfo degli scarponi fu marcatissimo. Poi gli disse:

— Adesso imparerai a star zitto!

Rigaglia, che si era insaccato, si raccolse, sotto l'ombra della sua gabbana che gli saliva fin sopra il cocuzzolo e più non rifiatò. Compiuta questa prima faccenda, il Cavaliere si rivolse all'oratore e domandò:

— Hai veduto che cos'ho fatto a Rigaglia?

— Sì.

— Allora ho ragione io!

— Perchè?

— Perchè ho fatto quello che ho voluto. Non hai detto che ciascuno può fare quello che vuole, quando gli torni conto?

— L'ho detto ed è vero!

— E per te io sono un borghese?

— Lo sei.

— E tu sei un anarchico?

— Lo sono.

— Va bene. Tu sei un anarchico ed io sono un borghese. E, questo, è Rigaglia imbecille, che sarebbe poi il popolo che ti crede. Va bene... Va benone!... Dunque io ho lavorato trent'anni della mia schifosa vita e tu sei andato a spasso a pensare le tue vigliaccherie. Un bel giorno io mi sono messo assieme tre staia di grano e tu solamente i tuoi pidocchi. Io mi sono salvata una casa, col mio onorato sudore, e tu solamente la tua cassa da morto. Siamo d'accordo, è vero?... Fin qui siamo d'accordo!

— Siamo d'accordo!

— Sicuro!... E io mi chiamo Mostardo e tu ti chiami Spintàcc. Io sono un galantuomo e tu una canaglia. Un momento... ho sbagliato! Io sono un borghese e tu un anarchico. Questo è più comodo. Così, a mezza strada, quando io voglio mangiare il mio grano nella mia casa, arrivi tu, versipelle, e mi dici: — Quello che io voglio è giusto! — Poi prendi un fucile, mi ammazzi e ti prendi tutto perchè ti sei messo in testa di essere tu tutto il mondo. Non è vero?

— È vero!

— Ma io la penso in un altro modo. Ti pare?... Io la penso in un altro modo!...

E Mostardo era acceso come un papavero.

— Io ho questa idea... Guarda un po'!... Di prenderti... così, per questa zazzera pidocchiosa, di scrollarti... così, un pochino... di guardarti ben bene sul muso e dirti: — Sta attento e non promettere agli altri quello che non vuoi sia fatto a te!...

E, parlando, aveva sollevato la cassa da morto mandando poi contenente e contenuto ruzzoloni per le terre.

Spintàcc si rialzò, si riassettò un poco e, veduta la mala parata, disse:

— Tu sei più anarchico di me, perchè sei più forte!

Poi le cose si ricomposero. E il Cavalier Mostardo seppe come la Carlotta fosse stata trovata da Spintàcc in un orto che apparteneva al gobbo Pulizia.

Quale oscura faccenda si manifestava attraverso l'avventura della Carlotta?

Il Cavalier Mostardo volle sincerarsene e se ne andò difilato verso la casa del meticoloso Pulizia.

Ecco la casa del gobbo. Una porticina verde e quattro finestrelle: due al pianterreno e due al primo piano; proprio una piccola casa per un piccolo gobbo. Le imposte delle quattro finestre erano serrate. Neppure una fessura, in tutta la facciata, per un poco di aria e di luce.

— Vuoi scommettere che è andato in campagna?

Suonò il campanello ed attese. Poi si fece in mezzo alla strada e chiamò:

— Pulizia?

Nessuno!... Forse non c'era nè l'amico Cesare, nè l'amico Ciliegia.

Ad un tratto udì un passo frettoloso giù per le scale e una voce concitata che non era di buona promessa. La porticina si aprì d'impeto, rabbiosamente e, nel vano, apparve la faccia sconvolta del moro Fabrizi.

Il moro Fabrizi, che si era preparato ad accogliere con ferocia l'importuno, non appena ebbe visto il Cavalier Mostardo, impietrì. E domandò pieno di stupore:

— Da chi l'avete saputo?...

Mostardo aggrottò le ciglia. Dunque arrivava a proposito! C'era qualcosa di grosso da scoprire.

— Da chi l'ho saputo non interessa. L'importante è che lo so!

Il moro Fabrizi impietriva sempre più. Ma che modi eran quelli?... Però, siccome si trattava di Mostardo, chiese, sempre con umiltà:

— Volete vederlo?

— Ma sicuro che lo voglio vedere!... Sono venuto per questo!

— Allora venite con me.

Il moro Fabrizi chiuse la porticina piano piano, poi si avviò innanzi sulla punta dei piedi, cercando di fare il minor rumore possibile. Mostardo lo guardò incuriosito.

— Che cosa sono tutte queste delicatezze?... Chi è che dorme?...

Allora il moro Fabrizi si rivolse:

— Come?... Ma non lo sapete?...

— E che cosa, di grazia?...

— Il povero gobbo...?...

— Be'?...

— Muore!

Mostardo fece un salto indietro.

— Cosa mi dici?...

— Sì. Gli è venuto l'avviso questa mattina. Adesso passa di là!

— Ma non è vero!

— Venite di sopra. È un po' nero in faccia: ma muore bene!

— Che cos'è?... Un colpo?

— Sì. Se ne va che non se ne accorge, il poveraccio!... Proprio la morte che meritava.

— Per Bios!... Questa non me l'aspettavo!

Si infilaron l'un dietro l'altro, su per le scale; e Mostardo tratteneva il respiro.

Ora, nel suo letticciuolo candido, il gobbo Pulizia stava per accomiatarsi da questa vita.

Lo assistevano: la Repubblica, la bandiera rossa, Garibaldi e Mazzini che lo guardavan dalle pareti, fuor da due grandi oleografie. Poi il moro Fabrizi, che era l'amico Cesare dell'amico Ciliegia. E nessun altro.

Il Cavalier Mostardo era capitato là per caso, senza saper niente di quel supremo esilio.

E, non appena entrato, constatò che ciò che aveva detto il moro Fabrizi era vero. Il gobbo Pulizia moriva bene. Se ne andava senza troppo disturbare il prossimo e senza far ribrezzo.

Infatti la sua faccia era cianotica; ma non tanto da non potersi guardare; ed il suo respiro si era bensì convertito in un rantolo, ma non tale da rendersi insopportabile.

Insomma rantolava con discrezione, come per non farsi sentir troppo da chi doveva vegliarlo. Se ne andava discretamente. Combatteva in sordina con la sua morte, senza opporle una troppo vivace resistenza. Pareva le dicesse:

— Ma sì che vengo!... Aspetta ancora un poco; tanto che mi resti tempo di sciogliere l'ultimo nodo!

Il Cavalier Mostardo sedette presso la finestra. Il moro Fabrizi al capezzale del moribondo.

— È venuto il dottore? — domandò Mostardo.

— No. E non l'ho chiamato perchè il povero gobbo non lo voleva mai. Poi a momenti è morto! — rispose il moro Fabrizi.

— Sì; ma un po' di dottore ci voleva! Che medicina gli dai?

— Niente. Dell'acqua da bere. Non è meglio?

— Oi!... — fece Mostardo, che non voleva pronunziarsi.

— Non ha mai preso una medicina in tutto il tempo della sua vita; volete che glie la dia proprio adesso che muore?...

— Però poteva esserci qualcosa per farlo soffrir meno!

— Ma non soffre mica! Poi non capisce più niente.

— Ne sei sicuro?

— Come son sicuro di vedervi!

— Lo dici te; ma lui non te l'ha detto.

— Volete che faccia la prova?

— Fa pure.

Allora il moro si chinò sul capezzale e, posata una mano sulla spalla del moribondo si dette a scuoterlo in malo modo e gli gridò, proprio in un orecchio, usando per maggior efficacia il dialetto nativo:

Vòi gobb?... Eviva la Ripoblica!... (Ehi, gobbo?... Evviva la Repubblica!).

Stette in ascolto un poco; poi quando vide che il trapassante non dava cenno di intesa, si rivolse a Mostardo e disse:

— Avete veduto?... Se avesse capito avrebbe risposto: evviva!

Mostardo scosse il capo e non aggiunse parola.

Aspettarono in silenzio una mezz'ora, poi Mostardo disse:

— Può anche arrivare a domattina!

E il moro Fabrizi:

— Macchè. È questione di poco. Se avete pazienza lo vedete morire.

Mostardo si guardò i piedi. Ora il gobbo Pulizia lottava più fieramente con la morte. A quando a quando uscivan dalle sue labbra tumefatte, parole incomprensibili; ma una, fra le tante, giunse ben chiara all'orecchio del nostro eroe, una parola sintomatica:

— ... cavallo...

— Ahi!... Ci siamo!... — pensò Mostardo e prestò maggiore attenzione.

E il moribondo ripeteva ostinatamente fra gli ultimi rantoli:

— ... cavallo... il cavallo...

Era diventata ormai la sua idea fissa.

— Muore con un rimorso! — pensò Mostardo.

— Il cavallo!... Il cavallo!...

— Ma che cos'ha! — fece Mostardo, rivolto al moro Fabrizi.

— Parla con le ombre!

— Però... questa idea del cavallo?...

— Oi! Si vede che la morte non è arrivata a piedi, questa volta!

— No. Ci deve essere un'altra ragione.

— Sarà così. — rispose il moro.

E il gobbo Pulizia veniva agitandosi sempre più. L'amico Ciliegia gli aggiunse due altri guanciali sotto alle spalle. Ora era seduto sul letticciuolo bianco bianco. La sua faccia si faceva sempre più cianotica e l'agitazione aumentava col rantolo aspro.

Poi vi fu un punto in cui la piccola creatura sul limite dell'ultimo esilio, aprì gli occhi che aveva tenuti fino allora, ostinatamente chiusi; aprì gli occhi pieni di occulto terrore, li sbarrò, immobili verso una lontananza che egli solo sapeva e, rabbrividendo, gridò per tre volte a tutta voce, scandendo le sillabe:

— Il cavallo di Troia!... Il cavallo di Troia!... Il cavallo di Troia!...

Per Mostardo non c'era più dubbio. Esclusa Troia, della quale non conosceva il valore e l'importanza, era certo che il gobbo Pulizia se ne andava col rimorso della Carlotta sulla coscienza. Egli avrebbe appurato la cosa con l'amico Ciliegia il quale non poteva non essere stato a parte della faccenda. Frattanto, per mettere i piedi avanti, disse:

— Hai sentito che ha parlato del cavallo di Troia?

— Ho sentito — rispose il moro.

— Questo deve essere un rimorso!... Muore con un rimorso!...

— Un rimorso di Troia?... Ma no!... È stato un uomo senza vizi!

— Valà! Tu mi capisci bene!

— Se capisco, vorrei che mi cavassero gli occhi!

— Be', tienti in mente questo cavallo. Ne riparleremo.

Ma in quel punto il gobbo Pulizia se ne andava per davvero. Si rivolse al compagno inseparabile, lo chiamò per nome:

— Moro?

Poi incominciò a sbattere le palpebre.

— Cosa vuoi?

Afferrò una mano del compagno; la strinse forte.

Allora la tenerezza dell'amico che rimaneva al mondo doveva ben trovare la parola del supremo conforto per l'amico che partiva, e la trovò il moro Fabrizi, perchè, chinatosi sul moribondo, gli disse con la migliore voce che si trovò in quel punto:

Al vègh t'at mur adèss... Mo un è ignint! Ichsè t'avdirè Garibaldi!... (Lo vedo che muori adesso... Ma non è niente! Così vedrai Garibaldi!).

E dopo qualche minuto la fiera anima rossa del povero gobbo, era salita ai cieli del suo primo eroe.

Poi che fu morto, con squisito senso di conseguenza, lo composero nel piccolo letto; gli gettaron sopra la bandiera rossa e gli adagiarono il capo fra un boccale e un mazzo di carte da giuoco.

E così fu sepolto.

A casa, il Cavalier Mostardo aveva un dizionario enciclopedico. Volle sapere che cos'era questo Cavallo di Troia, per potersi regolare col moro Fabrizi.

E lesse:

Troia, città celebre della Frigia. Questa città sostenne l'assedio dei Greci per lo spazio di dieci anni e fu presa con il mezzo di un gran cavallo di legno che Pallade aveva consigliato ai Greci di fabbricare ed in cui molti guerrieri si rinchiusero. Dopodichè i Greci finsero di andarsene, ed i Troiani, a ciò indotti dagli inganni di Sinòne, fintosi disertore greco, rotta una parte delle mura, fecero entrare il detto cavallo in città. I Greci, in quello rinchiusi, ne usciron di notte e saccheggiarono e distrussero Troia.

Chiuse il libro e si mise le mani fra i capelli.

Frigia... Pallade... Sinòne... il cavallo con dentro i soldati... l'incendio di Troia...

Povera sua testa!...

E il gobbo Pulizia non poteva più dire una sola parola a rischiarare tanto mistero.

In quel punto egli udì lo stridulo canto del gallo Francesco.

CAPITOLO XIV. Qui si vedono molte cose stupefacenti e tali da far passare l'ipocondria a questo livido mondo che ha perduto il sorriso.

Si avvicinava il tempo della lotteria e delle grandissime feste. Asdrubale Tempestoni era sotto pressione dalla sera al mattino.

— Vedrai che roba!

Aveva già gli operai al Teatro Comunale.

— Vedrai che Golfo Mistico ti faccio!

E quando qualcuno tentava di prenderlo in giro un pochino, con questo Golfo Mistico egli, che era sicuro di compire un'opera posteritaria, come diceva lui, e cioè tale da passare alla posterità più remota, rispondeva invariabilmente con una sua frase che tagliava corto a tutto:

Sì, mo fallo te!

E siccome nessuno pensava a rubargli l'iniziativa, aveva sempre ragione.

Aveva tappezzato tutte le città della Romagna con enormi manifesti rossi nei quali era scritto a caratteri cubitali:

PROSSIMAMENTE SPADARELLA!!

e, più sotto, in caratteri più modesti:

La quale debutterà al tempo della Grande Lotteria dei quattro bovi e delle sette vitelle!

E non faceva che parlare di Spadarella e della Lotteria che sarebbe stata, secondo lui, una cosa magnetica e fracassona. E a chi gli faceva osservare come non fosse precisamente il colmo della gentilezza per Spadarella, l'abbinarla così coi bovi e con le vitelle, rispondeva:

— Bella roba!... Io lo faccio per il pubblico che non capisce niente. Anzi la gentaccia farà più festa a Spadarella se ci vede sotto quattro bovi e sette vitelle. Che cosa vuoi parlare dell'arte!... Mo valà!... L'arte non si sporca mica se ci metti vicino un po' di roba da mangiare!... Fa la prova di cantare, te, senza andare a pranzo!

E non volle convincersi.

I biglietti della lotteria erano a due soldi; i biglietti d'ingresso alla prima del Werther, con Spadarella e il Golfo Mistico, erano a cinque lire. Uno sproposito per i tempi che correvano.

Ma Asdrubale Tempestoni era sicuro del fatto suo.

E nel ritmo dei giorni un poco più sereni le cose venivano riprendendo il loro volto per far sopravvivere un'illusione di pace, in una ora del mondo.

La feroce lotta fra rossi e gialli si era conchiusa con la vittoria di questi ultimi; ma il fermento, se pur non aveva le forme appariscenti e di estrema violenza del periodo acuto, continuava, sotto sotto, a preparare nuove e più aspre lotte. Qua e là qualche rosso ammazzava qualche giallo, o viceversa; ma il pubblico non ne faceva gran caso. Era storia antica.

A festeggiare la vittoria, una sera, Bucalosso, si ubbriacò e spintosi fino alla Piazza, in tale stato di galante ebbrezza, si mise in testa di ballare i tresconi con la prima ragazza che passava. La prima ragazza che passò fu Proli. Bucalosso, che era un giocondo Sileno, la prese risolutamente alla cintola e, senza badare agli strilli di lei, incominciò a cantare e a ballare:

Ven iquà, Minghéta, c' at tóca,

Lassa c' at tóca, ca fazz par ridar!

Lassa pu ch'la mama la sgrida...

Dam la strìza, c' at dagh e' gambôn!...

(Vieni qua, Minghetta, ch'io ti tocchi, — Lascia che ti tocchi che faccio per ridere! — Lascia pure che la mamma sgridi... — Dammi la ciliegia che ti dò il picciuolo!).

Fu un divertimento grandissimo e uno scandalo altrettanto grande. Proli non fece che strepitare; ma la voce di lei fu soffocata da quella stentorea del molosso. E la gente rideva intorno e batteva le mani al ritmo indemoniato della danza campestre, mentre il feltro vermiglio della signorina Proletaria, non più fermato sui radi capelli di lei, penzolava come una cosa estranea sulle spalle della malcapitata.

E lo spettacolo inatteso non finì se non quando Bucalosso ne ebbe abbastanza. Allora egli lasciò la preda e, inchinatosi bellamente, disse un: — Grassie! — che rinnovò l'omerica risata del pubblico.

Allora Proli partì inviperita e convinta che tale sconcio non fosse avvenuto se non per suggerimento dell'infame Mostardo; e giurò raddoppiata vendetta. Bucalosso, soddisfatto ormai l'impeto, si diresse al Borgo delle Torri dove aveva sua sede il Circolo Mazzini. Andava verso là, senza un pensiero preconcetto. Camminava e continuava a ridere. Era in una gioiosissima ora della sua vita.

Però, giunto al palazzo del Circolo repubblicano si risovvenne che non poteva entrare perchè la Direzione lo aveva sospeso per due mesi, in seguito alla schioppettata elargita per porre termine alla baruffa fra il cavalier Mostardo e i rossi. Bucalosso si fermò a guardare attraverso all'inferriata. Intorno ad un gran tavolo erano adunati i facenti parte la Direzione. Pensò un poco, poi estratta una pistola a tamburo lasciò partire due colpi a un metro dalle teste dei suoi giudici.

Fumo, urli, pandemonio, terrore.

Bucalosso rimase a godersi lo spettacolo dalla finestra; e quando fu accostato e richiesto del perchè di quel suo gesto, rispose olimpicamente:

— Così la Diressione la si occuperà del mio caso!

Quella sera Il Sillabo, Il Faro Socialista, L'Apocalisse, La vera Croce erano pieni di ingiurie e di allusioni all'indirizzo del Cavalier Mostardo. Una carica a fondo. Argomento principale: la ragion politica e siccome tale ragione voleva essere sostenuta da molte e svariate cose, tema unico di sostegno, pei quattro giornali pettegoli, era la francese.

Il Sillabo la chiamava la Ninfa Egeria, del Cavalier Mostardo.

Ecco il librone che gli serviva per chiarire le oscurità della Cattedra.

« Egeria, ninfa di singolare bellezza, che Diana cangiò in fonte, quando essa, per la morte di Numa Pompilio, secondo re di Roma, si ritirò a piangere nella Arìcia. Numa Pompilio diceva aver avuto da questa dea le leggi che voleva promulgare ».

Il Faro Socialista, con la corrente volgarità adatta a' suoi lettori, vi accennava con le seguenti parole: «... questa istitutrice ritinta, mandataci di Francia a confortare gli infami ozii dei ricchi borghesi e dell'aristocrazia, fra un amore e l'altro, ha trovato modo di prendere nelle sue scaltre reti quel tordo del Cavalier Mostardo, il quale, ne' suoi amori senili, finirà, come ci auguriamo, di rimbecillire ».

Il giornale L'Apocalisse la chiamava addirittura: «... l'annosa Pasìfac che minotaurizza la innocenza dello spodestato poliorcète!...».

Veniva, per ultima La vera Croce. Ecco quanto scriveva Don Palotta:

« Il signor Casadei Giovanni, detto altrimenti, per burlesca riminiscenza, il Cavalier Mostardo, farebbe meglio a ricordarsi della sua fede di nascita, anzichè continuare a dar scandalo, coinvolgendo ne' suoi osceni amori, la dignità e il decoro di una illustre famiglia cittadina la quale non altro torto ha avuto verso di lui, se non quello di aprirgli le porte del suo palazzo. Ma questo succede a chi si fida della supposta onestà di questi villani rifatti.

« Noi ci auguriamo che a questo arruffapopoli in grande disgrazia del resto, sia data la severa lezione che si merita; come ci auguriamo che l'illustre famiglia, alla quale abbiamo accennato, provveda a tutelare la propria illibatezza, disfacendosi di una persona che non ha dimostrato di meritare la fiducia in lui riposta, non solo, ma minaccia di trascinare un nome incontaminato nella più vergognosa avventura ».

Per intendere le quali cose, il Cavaliere Mostardo non ebbe bisogno dell'aiuto del suo librone.

Però, in un impeto d'ira, si alzò e mandò all'aria il pesantissimo tavolo con tutto quanto vi era sopra.

Giusto in quel punto si aprì la porta e comparve Rigaglia il quale, non appena ebbe veduto la rovina e la faccia del suo degno padrone, non attese nè un cenno nè una parola; ma, voltate le spalle, ritornò sui suoi passi quanto più rapidamente gli fu possibile...

E il Cavalier ebbe un bel suonare il campanello; l'onesto Rigaglia non riapparve.

Già Mostardo si disponeva ad andarne alla ricerca, quando qualcuno bussò all'uscio.

Comparvero il Trancia e Giovannone.

— Giusto voi!... — esclamò Mostardo. — Capitate a proposito.

Ma la Spingarda era ritornata; ma la marchesa Alerama era nel suo palazzo nella Città del Capricorno; ma tutto filava sul più dolce vento della più soave primavera.

Evitata ogni complicazione da questo lato, il Trancia e Giovannone avevano una nota di spese da presentare.

— Avanti. Vediamo.

Sopra un sudicio foglio erano molti scarabocchi.

— Che cos'è questo?

— La nota.

Il Cavalier Mostardo inforcò gli occhiali.

— Che cosa?... Otto-cento-sessantadue lire e ottanta centesimiii... Siete matti?...

— Nella nota c'è scritto tutto — fece il Trancia.

— No. Ci manca una piccola cosa!

— E quale?

— La piccola condizione che io vi pago, si; ma vi mando in galera!

Il Trancia e Giovannone non rifiatarono.

— Adesso vado dalla marchesa, — riprese Mostarde. — Ritornate domani chè faremo i conti.

— Va bene.

I due se ne andarono come erano venuti e Mostardo incominciò a passeggiar per la stanza.

Ahi, affanno grandenissimo! L'amore e il dolore, in una stessa tresca confusi, gli inceppavano il passo. Eppure come si era tolto da altri e ben più gravi impacci, da quello doveva togliersi, prendendolo di fronte, alla brava, col suo più spedito intendimento.

Così, senza por tempo in mezzo, incominciò ad agghindarsi, nel risoluto proposito di apparire signore in mezzo ai signori.

Come fu bello e strigliato chiamò Rigaglia il quale apparve in aspetto da mugnaio, tutto pien di farina dalla faccia alle scarpe.

— Che cosa facevi?

— Versavo la farina nel cassone.

— Vai a vestirti.

— Perchè?...

— Mettiti il tuo vestito nuovo!

— Dove andiamo?

Il Cavalier Mostardo era pensieroso. Soggiunse:

— Aspetta...

E, accostatosi all'armadio, lo aprì e ne trasse un vestito nero di buon taglio e di ottima stoffa.

— Mettiti questo.

L'infarinato Rigaglia guardava il vestito e il padrone, il padrone e il vestito, e spalancava la bocca.

Domandò:

— Quello?

— Sì.

— Ma è vostro!

— Te lo regalo.

— Forse... mi sarà grande!

Il dubbio era logico.

— Be', se ti è largo te lo accomodi con degli spilli; ma bisogna tu lo infili subito. E fa presto perchè devi venire con me.

Rigaglia rispose:

— Va bene! — e se ne andò.

Nell'attesa il Cavalier Mostardo discese nel cortile. Incominciò a passeggiare in lungo e in largo.

Egli calcolava di raccogliere, quel giorno la gratitudine della marchesa e di riconquistare le sfumate preferenze del suo napoleonico tesoro. Una volta riassestatosi nel convincimento d'amore e dissipati i dubbi struggenti, avrebbe poi pensato a Don Palotta e compagni traendoli a quella luminosa vendetta ch'egli già meditava.

Veniva battendo così, come a interpunzione fra passo e passo, la sua mazza sul selciato del cortile, quando ecco venir innanzi Rigaglia.

Come si fosse conciato costui e di quale bella apparenza disponesse per rendersi grato e piacente agli occhi degli osservanti, lo si può arguire dal natural garbo che lo sovveniva quotidianamente allorchè attendeva alla cura della sua persona.

Nè poteva muoversi in causa alle scarpe strette, le quali scarpe scomparivano sotto la fiumana degli enormi pantaloni.

Mostardo non si tenne dal manifestare la disapprovazione sua:

— Valà che sei un bell'oracolo!

Rigaglia non rifiatò. Era nell'identico smarrimento nel quale rimangono i cani quando i monelli li abbigliano, con fazzoletti e cappelli.

Il Cavaliere cercò riparare alla meglio alla goffagine di Rigaglia; poi gli disse:

— Adesso devi venire dietro di me, sempre a un passo di distanza. E non parlare mai! Anche se ti parlano, non rispondere. Hai capito?... Non devi rispondere mai!

Rigaglia inghiottì la saliva e disse:

— Sì!

Poi il grande se ne andò innanzi e, dietro, il piccolo con gli occhi fissi ai piedi del padrone perchè si vergognava.

Quando fu per entrare nell'anticamera Mostardo si rivolse a guardare che cosa faceva Rigaglia. Era rimasto sulla porta; sempre zitto, senza batter palpebra.

— Vieni avanti.

Avanzò.

— Togliti il cappello.

Si tolse il cappello.

— Tu starai fermo qui e non ti muoverai per nessuna ragione e non risponderai a nessuno. Hai capito?

— Sì.

Allora, avendo disposto aristocraticamente il suo valletto il Cavalier Mostardo posò mazza e cappello, si guardò in uno specchio, e si avviò verso l'appartamento della marchesa.

Non appena si trovò in una fastosa sala gli giunse, dispento dai cortinaggi, un rumore di voci e un impeto irrefrenato di risa. Evidentemente la marchesa si trovava da quella parte e già stava per aviarsi verso l'entrata dell'occulto ritrovo, quando ecco sbucare un piccolo coso di fra le cortine e muovergli incontro.

Lo sbirciò; lo riconobbe. Era il marchese Futa o della Futa se più vi garba.

— Egregio Cavaliere — diss'egli con la sua vocetta asprigna; — la marchesa mi incarica di presentarle le sue più vive scuse... ma, in questo momento, è veramente dolente di non poterla ricevere come avrebbe desiderato.

Mostardo corrugò il supercilio; non strinse la mano che il marchese della Futa gli tendeva e domandò con rudezza:

— Perchè?

— Perchè ha un ricevimento e non può abbandonarlo.

— Bella scusa!

— Insomma, caro Cavaliere...

Sì, egli doveva essere signore, così per infrenarsi, rispose:

— Mi dispiace, ma non posso accettare!

Alla inattesa uscita il marchese non seppe che rispondere a tutta prima, tanto che i due uomini rimasero là a guardarsi: stupefatto l'uno; aggressivo l'altro.

— È una cortesia che le chiede la marchesa...

— Ma io devo parlarle.

— Insomma... veda...

— Caro marchese è inutile insistere. Ormai sono qui e non mi muovo.

— Ma queste sono prepotenze! Ella dimentica di essere in casa d'altri!...

— Ed ella dimentica di essere un gentiluomo! — soggiunse Mostardo che era già in ebollizione. Che discorsi son questi? Mi credono davvero d'avermi preso a cottimo questi signori dell'aristocrazia?... Io dunque dovrei servire solamente a difenderli e non dovrei neppure avere il diritto di essere ricevuto?... Ebbene a questo non mi piegherò. Il diritto di entrare qui me lo sono guadagnato rischiando la pelle. E ormai ci sono e ci rimango. È inutile insistere, caro marchese. Se lo metta bene in testa. Ormai ci sono e ci rimango!...

Disse queste ultime parole forzando la voce tanto che le cortine della vietata stanza ancora si sollevarono e apparve il conte Lanfranco d'Elmici. Avanzò questi e, senza guardare Mostardo e senza rivolgergli neppure un cenno di saluto, domandò al marchese Leone:

— Che cosa accade?

— Questo signore non vuole andarsene! — rispose il marchese Leone della Futa.

— E perchè?

— Perchè dice che si è guadagnato il diritto di rimanere.

— Ma è pazzo!...

Ora convien notare come tanto il conte Lanfranco quanto il marchese Leone fossero vecchi; il primo aveva infatti settant'anni ed il secondo sessanta, senzadichè non avrebbero potuto, così impunemente, sfidar le ire del Cavalier Mostardo il quale, deciso ormai di affrontare la situazione fino alla fine e postosi a guardia del suo orgoglio ferito, sciolse la scabra situazione con una improvvisa trovata.

Si inchinò infatti, per essere sempre signore, e con risoluto garbo, parlò e disse:

— Loro pensino o facciano quello che vogliono; io intanto vado da queste signore!

Pronunziate le quali ultime parole si diresse alla vietata stanza. Ma l'inviperito conte d'Elmici ancora tentò di non essere sopraffatto e, fidando sull'autorevole imperio della sua vecchiaia, si pose fra Mostardo e la porta.

— Lei non passerà di qui!

— Per Bios!... — e Mostardo serrò le quadrate mascelle.

— Le impongo di uscire da questa casa!

— A me?

— Sì, a lei!

— Guardi che si sbaglia...

— Glie lo impongo!

E il conte Lanfranco aveva fatto la voce grossa.

Allora Mostardo, sempre senza perdere la correttezza, spostò il vecchio nobile, poi, come fu per entrare nel luogo proibito, si rivolse e disse:

— Giù il cappello, codini!... La Repubblica passa!...

E, ampiamente dischiusi i cortinaggi, si fece largo e passò.

Come i passeri a sera, quando si raccolgono all'albergo, si abbandonano a un diffuso e affannoso cinguettìo tanto che tutto il luogo ne risuona; e l'albero scelto ad ospitarli per il corso dell'incerta notte, trema tutto quanto nelle sue foglie e nei fruscoli per il continuo moltiplicarsi dei voli e dei frulli fin che un grido o il ciottolo lanciato da un monello non faccia ricader tutto in un silenzio improvviso; così nella querula accolta di dame e damigelle convenute all'ora del the nel salotto della marchesa Alerama e cinguettanti a simiglianza dei piccoli ospiti di un albero centenne, il sùbito apparire del Cavalier Mostardo fu come il ciottolo nel passeraio e fece seguire un gelido silenzio alla conversazione che ferveva poco prima animatissima.

Tutti gli occhi si rivolsero alla porta sulla quale era apparso e ristava immobilmente il colosso.

E trovarsi così, all'impensata fra quella elegantissima accolta di signore e signorine non valse certo a dare al nostro eroe l'assoluta padronanza di sè stesso; nè il sentirsi osservato con tanta intensità, giovò a elargirgli una grande disinvoltura. Non era quello il campo delle sue vittorie, ed egli, dopo tutto, benchè aspirasse alle maggiori raffinatezze dell'aristocrazia, finiva per non sentirsi l'anima e il costume di un perfetto uomo di mondo; ma ormai era entrato e non poteva pensare a ritirarsi; e qualcosa doveva ben fare o dire.

E, per far qualcosa, si inchinò e disse:

— Scusino queste signore se mi presento così!

Nessuno rispose; nessuno si levò per andare ad incontrarlo non fu rotto il silenzio glaciale che l'aveva accolto.

— Dovrei dire due parole sole alla signora marchesa...

Ma la signora marchesa lo guardava senza rispondere.

— ... due sole parole per un fatto che la riguarda...

E, a tal punto levò gli occhi e vide, in fondo, una faccia che ghignava.

Era Don Palotta, il nemico, la causa prima del suo recente discredito.

— È inutile che il clero sghignazzi — soggiunse. — I conti non sono ancora saldati e io sarò l'ultimo a ridere!

Don Palotta si inchinò con bel garbo e non rispose.

Ora Mostardo era abituato ai violenti contrasti; era abituato a farsi largo fra gente che gli contendeva il passo, ma non agli ostili silenzi passivi della gente bene educata; tali silenzi lo toglievano dal centro del suo dominio. Vedeva egli così la situazione sua aggravarsi di secondo in secondo ma non poteva e non voleva cedere.

Sentì che stava per giuocare tutto per tutto: la posizione, il prestigio, l'onor suo e l'orgoglio. La presenza di Don Palotta era la minaccia più grave perchè era più che certo che il venerando pettegolo non avrebbe lasciata sfuggire l'occasione per attaccarlo una volta ancora sul suo velenoso giornale.

Ora egli era entrato nobilmente nel palazzo dei marchesi, facendosi seguire, come un gran signore dei tempi antichi, dal suo servo; e nobilmente doveva uscirne. Epperò era necessario infrenarsi, cercar le strade più delicate, far di necessità virtù, apparire come il più corretto fra tutti i corretti rampolli che popolavano la sala della signora marchesa. Arrivato a tale supremo divisamento contro ogni sua forza nativa e consuetudine antica, la faccia di lui si schiarì, gli occhi gli si illuminarono, la bocca sorrise. Ma questo non bastava. Sentì che doveva parlare.

Avanzò pertanto di due passi nella sala e, come se parlasse a un pubblico radunato là per ascoltarlo, incominciò:

— Signore mie, io mi sono presentato come una bomba, ma non porto la rivoluzione! Porto il mio cuore che è un povero bagaglio... però senza cattiveria. Domando scusa al clero. Io non voglio tambureggiare in presenza di queste signore...

Si incominciarono a sentire le prime risatine represse. Forse era per vincere... forse vinceva! Ciò lo riempì di immenso conforto. Capì che l'ultimo verbo di suo conio, aveva fatto una certa impressione e continuò:

— Ho detto tambureggiare per la correttezza che mi impongo.

Diremo dunque che io presento i miei omaggi a queste belle signore... a destra e a sinistra... e ai cavalieri antichi... e a tutta la compagnia!... Non escludo i miei intimi rancori perchè i rancori io li tengo per quando sono solo. Qui mi presento con la coda... e... con il core come un garofano!

Scoppiò una risata alla quale parteciparono tutti quanti. La folle gaiezza che avevano ridestato le sue parole, finì per rinfrescare Mostardo il quale non ebbe più dubbio circa il successo e proseguì discioltamente con bella franchezza:

— Se tutte queste belle signore ridono, è segno che ho ragione. E la marchesa Alerama, con rispetto parlando, avrà capito perchè, nonostante la tergiversazione coi due cavalieri antichi qui presenti... io, con una certa insistenza, mi sia presentato.

( Una pausa ).

— Va bene... va bene... chi ride fa buon sangue e, se queste signorie vorranno guardarmi, vedranno che rido anche io, perchè se il fornicario nasconde la faccia e scappa, io ho sempre mostrato e sempre potrò mostrare l'onor del mento. Se non ho dietro di me i secoli, come tutta questa distinta nobiltà, io credo di averli davanti e, se ci vogliamo pensare, in fin dei conti è sempre la stessa cosa. Non è la posizione dei secoli che ingrandisce un uomo. Io sono nato senza trovare niente dietro di me, neppure un principio di madre; sono nato e la donna che mi partorì, rifiutò questo frutto del suo ventre perchè ebbe paura della porcinaglia. Non appena neonato, come dice la Cattedra, fui bandito dal novero dei figli, fui bandito dal seno delle madri, non ebbi il latte della mia fonte naturale, ma un latte mercenario... e imparai a masticare prima degli altri e, prima degli altri feci i denti e le unghie. Bene, io posso dire allora di esser nato da me stesso. Sì, signori! Io solo ho guadagnato i miei secoli che mi stanno davanti!...

Per questo sono qui e posso vedere la loro allegria che mi fa onore.

Ora volgo alla fine...

( Alcune voci: — No!... No!...).

... volgo alla fine, ma ho da dire ancora qualche coserella un poco meno allegra.

La democrazia è un principio e un verbo... è un costume necessario... Sarà il gran temporale di domani. Forse questa nobiltà non si accorge che il popolo scrive la sua storia sui muri delle strade. Chi sa leggere è avvertito. Chi dice: — Me ne infischio!... — e volta la testa dall'altra parte, ha i ladri in casa e non li vuol sentire. Oggi non si possono chiudere le porte, perchè domani possono essere fracassate e allora guai a chi è dentro!...

Io so chi è il popolo, signori!... E ora vedo che non ridete più.

Eppure la signora marchesa conosceva il Cavalier Mostardo!... Sapeva che Mostardo promette e mantiene; che il giorno in cui ha detto: — Ci penso io!... — ... quando ha detto questo, non muta più, e va sempre dritto anche a costo di aver contro tutti, di doverci rimettere tutto.

Signori, la vostra pelle voi la coltivate nel giardino degli aranci ne fate una cosa egregia e profumata; Signori, voi montate la guardia alla vostra pelle ed avete una grandissima paura che ve la tocchino e, a chi ve la chiedesse per favore, rispondereste buttandolo fuori della porta.

Ebbene, ho fatto questo, io?... Ho data la mia parola e l'ho mantenuta; ho presa questa mia vita cane e l'ho messa a guardia di un interesse aristocratico, senza badarci, per una, diciamolo pure, generosa indifferenza.

Io sono stato a guardia delle vostre aie, Signori del blasone; ho difeso il vostro sangue blu; ho attaccato i rossi e li ho battuti fuori dalle vostre terre: ho difesa la vostra proprietà, benchè sappia benissimo come sia un furto!... MA ANCHE LA VITA È UN FURTO!... Sì, o Signori!... Ed è proprio inutile ridere. Anche la vita è un furto quando si attacca alla rovere, come l'edera e vuole ammazzare la rovere per aver tutto lei.

Noi chiamiamo e' rèll, il rillo o l'edero, se così puol dirsi, l'albero che non ha più un ramo libero, neppure un millimetro libero perchè l'edera, lo ha coperto tutto quanto. E quest'albero par sempre verde, sempre con le sue foglie verdissime fino alla cima cima... ma non è vero!... L'albero è morto! È tutta muffa e formiche e stabbio e cenere. L'edera è la sua maschera vigliacca: l'edera che lo ha ammazzato. Tutto quanto quel verde che brilla, nasconde un cadavere. L'edera si stringe al suo morto perchè ne ha bisogno: perchè il giorno in cui questo povero morto dovesse schiantarsi trascinerebbe con sè la sua assassina e tutto sarebbe finito... come finisce quando cominciano gli ordini, verso novembre, e vi pescan le anguille a Comacchio. Allora, una notte, arriva la bora e fa giustizia di tutto, e fracassa tutto... e la vigliaccheria è finita come è vero Dio!...

Non so se mi sono spiegato, signori.

Io intendevo dire, arrivando qui: — Core per core!... — E cioè: la mano nella mano... guardiamoci bene in faccia e amici per la vita. Voi, Signori dal nobile sangue, mi avete ricevuto come si riceve il cane rognoso.

Vi siete vergognati di me e sta bene. Verrà anche il giorno in cui io dirò di non conoscervi e allora guai a voi!... Voi non entrerete nella nostra casa come io sono entrato qui, nonostante tutto.

Ho finito. Signora marchesa, non ho più niente da dirle. Ora me ne vado perchè mi fa comodo di andarmene.

E al clero, a quel falsario di Dio che mi guarda da quel cantone ed è tranquillo perchè si sente al sicuro fra queste nobili sottane dirò che mostri bene oggi la sua faccia alle sue pecorelle: che la mostri bene oggi e che tutti la guardino e se la ricordino perchè, domani... sì, domani io glie l'avrò cambiata quella sua faccia da tamburiere!... E questo è vero come è vero che ti vedo!... E stendo la mano... e te lo giuro sulla Croce di Dio!...

Poi non guardò più nessuno; non sorrise più a nessuno, volte le spalle e senza neppure un cenno del capo, alzò i cortinaggi e se ne andò lasciando la nobile accolta in una discreta costernazione perchè il Cavalier Mostardo, quantunque se ne ridesse a quando a quando, era, in verità, temuto.

Nell'anticamera trovò, nell'identica posizione nella quale lo aveva lasciato, Rigaglia.

Solo si era rimesso il cappello in testa.

Il Cavalier Mostardo si fermò a guardarlo.

— Togliti quel cappello, brutto ignorante!

Rigaglia ubbidì.

— Vienmi dietro!

Gli andò dietro.

Uscirono l'uno dopo l'altro.

Quando furono sul ripiano della scala il Cavalier Mostardo disse ancora:

— Lascia la porta aperta.

E se ne andarono senza chiuder la porta per sommo dispregio.

E Mignon?... Dov'era Mignon, principio e culmine di tutta la sua tragedia?... Gli nacque un sospetto fierissimo. Ripensò all'articolo pubblicato da Don Palotta e concluse:

— Per Bios!... L'hanno mandata via!...

Allora fu colto da una disperata frenesia di rivederla; tutto il suo contenuto amore gli si impose come una inderogabile necessità vitale. Doveva rivederla, doveva parlarle per non morire.

Subito guardò l'orologio poi consultò un orario delle ferrovie. Il primo treno che sostava alla Città di Capricorno sarebbe arrivato fra mezz'ora. Gli restava appena il tempo per correre alla stazione. Non poteva lasciarla partire. Il solo pensiero di non rivederla più lo toglieva di senno.

Ma alla stazione non c'era nessuno. Il treno arrivò e ripartì senza complicare la tragedia di Mostardo, il quale se ne ritornò pedon pedoni, la testa bassa, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni immerso in una meditazione profonda.

Stabilito che Mignon non era partita, bisognava sapere se si trovava ancora nel palazzo dei marchesi Alerami o dove aveva cercato rifugio. Tale ricerca non era facile.

Pensò alla vecchia Tuda che era una stiratrice la quale, per la sua professione, aveva piede libero in tutte le case e i palazzi della Città di Capricorno. Non c'era che la Tuda che potesse informarlo. La vecchietta abitava poco lontano. Mostardo affrettò il passo. Eccolo all'usciolo forato, in basso, dalla gattaiola.

— Si può?

— Avanti!

Trovò la Tuda intenta a stirare innanzi a una gran tavola coperta da un telo bianco. All'entrare del Cavaliere, levò la testa ed ebbe un gesto di sorpresa.

— Chi si vede!... Siete ancora al mondo, padron Giovanni?

— Si campa! — fece Mostardo guardandosi intorno per cercare una sedia. — E voi come state?

— Si tira avanti da poveri vecchi. Com'è che siete qua, padron Giovanni?

— Dobbiamo far quattro chiacchiere, Tuda.

— In quello che son buona potete comandarmi sempre, padron Giovanni. Io mi ricordo di voi. Voi no, che mi avete dimenticata!

— La mia Tuda, sono un disgraziato che non ha tempo neppure per respirare!

— Vi siete messo nella politica...

— Sfido! Quando ci sono degli interessi da difendere!

— Dite bene. Poi cosa volete che ne sappiam noi donne! E io sono ancòra all'antica; una povera vecchia insensata. Al nostro tempo le donne facevan la calza; badavano alla casa fra l'arola e il telaio. Si stava meglio, allora. La gente si voleva più bene. Adesso... ma volete che sia un mondo, questo?... Questo è l'inferno!... Josò, la mi Madôna!... Adesso si sentono i bambini che dicono certe bestemmie da bruciar l'aria. Non c'è più rispetto per niente. Non c'è più riputazione. Nella famiglia comandano tutti; le donne vivono per la strada, vanno alle dimostrazioni, parlano peggio degli uomini. Ma si è sentita mai una cosa simile?... Dove andremo a finire, padron Giovanni?

Mostardo scrollò la testa.

— Torneremo indietro — rispose.

— Indietro?... Ma se si parla sempre di rivoluzione!

— Se ne parla.

— E non la faranno?

— Per far la rivoluzione, bisogna pensare a morire e la gente non ne ha voglia. Be', Tuda, io ero venuto per domandarvi una cosa.

— Dite, padron Giovanni.

— Li servite voi i marchesi Alerami?

— Li servo da più di trent'anni!

— È un pezzo che non andate al palazzo?

— C'ero ieri.

— Allora potrete dirmi una cosa che mi interessa. Per certe mie ragioni vorrei sapere se la dama di compagnia della marchesa è sempre al palazzo.

— Quale dama di compagnia?... Volete dir la francese?

— Sì.

— L'hanno mandata via su due piedi.

Mostardo scattò sulla seggiola.

— E perchè?

— Perchè dava scandalo.

— Quale scandalo?

— Si è fatta trovare coi suoi amanti anche nel palazzo.

— Questo non è vero! Non può essere vero!... Chi vi ha detto questo?

— Cosa volete ne sappia io? Me l'han detto le cameriere. Del resto tutto il paese ne parla.

— Il paese è canaglia; il paese sono i sudicioni che non si occupano che dei fatti degli altri e, quando non avrebbero niente da dire, inventano tutto di sana pianta; questo è il paese, cara Tuda.

Ma chi sarebbe poi questo amante col quale l'hanno sorpresa nel palazzo?

— Non lo sapete?... È il marchese della Pipetta!

Per Bios!... Anche un avversario politico!... Si alzò. Era come un morto.

— Vi saluto Tuda e vi ringrazio.

— Ve ne andate tanto presto?

— Sì.

— Venite a trovarmi qualche volta. Buonasera, padron Giovanni.

Uscì come un sonnambulo; prese la prima strada che gli si parò innanzi, a testa bassa, rasentando i muri. Non aveva mai sofferto così; non era stato mai tanto disperato.

L'amava; e che poteva farci?... L'amava! Era una povera creatura al guinzaglio; si sentiva debole, impossente, rifinito, si sarebbe gettato sullo scalino di una porta per raccoglier la testa fra le mani e restarsene là con tutta la sua tristezza.

Piangere un poco e in silenzio; questo gli avrebbe fatto bene. Lasciarsi andare alla sua desolazione. Tutto era finito; ma tutto e per sempre!...

E non vedeva i passanti; e la sera veniva innanzi. Così camminando senza mèta, venne a trovarsi nel quartiere di quei caratteristici orti romagnoli in cui si adunano le Compagnie, le quali altro non sono se non una raccolta di buontemponi che si danno convegno in uno fra gli orti medesimi, per trincare del buon sangiovese o della dolce albana; per giuocare a bocce; per discutere dei fatti del giorno; per combinare qualche tremenda burla o beffa di quelle che ne usano ancora in Romagna fra gli scapolacci cani o fra la gente di buona digestione.

— La compagnia del bigarone.

Ora, passando, Mostardo si sentì chiamare da un usciolo dischiuso che si apriva sul muretto di un orto.

— Mostardo?... O Mostardo?...

Finse di non aver udito ed affrettò il passo; ma i sozii non lo lasciarono proseguire.

— O Mostardo?... Venite qui!...

— Vieni a bere!...

— Ci sono delle novità!...

Si fermò. Si volse aggrottando le ciglia. Vide fra gli altri, il moro Fabrizi... gli ritornò nella mente il cavallo di Troia.

— Quali novità?

E il moro:

— Venite che ve le dirò.

— Ricordatevi che non ho voglia di ridere, questa sera!

E tornò indietro, senza guardare in faccia i compagni.

Non appena si presentò all'usciolo, fu accolto da un grido altissimo:

— Mostardo!... Evviva Mostardooo!...

— Smettetela!... Non voglio sciocchezze, questa sera!

Allora si fece innanzi Patroclo Caroti, un cappellaio; calvo, rosso come un pomodoro. E disse:

— Compagno, la nostra società ti vuole onorare con un fiasco di albana. Ehi, Saraca?... Porta qua un fiasco d'Albana...

— Io non bevo neppure se vien Dio!... — rispose Mostardo.

E Primo Torsi:

— Vogliamo fare un brindisi alla Repubblica.

— Lasciatemi stare anche la Repubblica!..

Ora, lungo il pallottolaio, c'era una lunghissima tavola nera con, intorno intorno, sconquassate panche e sedie impagliate. Detta tavola era fiorita da ampi boccali verdi, da gotti e bicchieri; da qualche fiasco; larghe chiazze di vino la pezzavano e sudicissime carte da giuoco ne compivano la decorazione.

A detta tavola fu condotto Mostardo il quale dovette sedere nonostante la ripugnanza. Il moro Fabrizi si pose al fianco di lui.

— Be' — fece il Cavaliere — quali sono queste novità?...

— Vi ricordate l'idea fissa del povero Gobbo?

— Il cavallo di Troia?

— Sì, il cavallo di Troia! Be' volete saperlo?

— Che cosa?

— Troia non c'entrava per niente!

— Bella scoperta!

— Come?... Vi dico che Troia ce l'aveva messa lui, prima di morire.

— Io non capisco niente!

— Neanch'io, ma non importa. Quello che importa è questo: quel cavallo era il vostro cavallo!

— Lo sapevo. Era gobbo e ladro!...

— Ma no, poveraccio!... Brutto, era brutto... ma ladro, no!

— Come lo chiameresti tu un versipelle che ti ruba una cavalla?

— Ladro!... Siamo d'accordo!... Ma il Gobbo non l'aveva rubata!...

— No?... E che cosa aveva fatto allora?

— L'aveva presa in prestito. Statemi a sentire. Il Gobbo aveva degli interessi in campagna e voleva difenderli. Per far questo partiva a piedi e, qualche volta faceva più di venti chilometri. Una notte aveva percorsa tanta strada che non stava più dritto. Era vicino al Conventino; fece una bella pensata. Disse: — Adesso entro nel bosco, mi stendo sopra un sedile e mi riposo un poco! — Entrò, e non aveva fatto dieci passi che vede un cavallo e un baroccino. Dice: — Questo è il mio caso! — E si ferma ad aspettare. Aspetta un'ora, aspettane due il padrone non arrivava mai; allora il Gobbo si prese il cavallo e il baroccino e se ne venne via pian piano verso la città. Che cosa doveva fare?... Ditelo voi?... Vuol dire — pensa il Gobbo — che quello che ci sarà da pagare lo pagherò! — E arriva. Ma non è appena entrato in città che uno lo ferma e gli dice: — Dov'è Mostardo?... — Il Gobbo cade dalle nuvole. — Mostardo?... Quale Mostardo?... — E l'altro: — Ma, scusate, questa è la cavalla di Mostardo?... — Il povero Gobbo si fa verde dalla paura: — Questa?... E chi ve l'ha detto?... — Ma la conosco!... Questa è la Carlotta!... — Allora il Gobbo non rispose neppure: frustò e prese al gran galoppo le mura. — Per diana! — pensò. — L'ho fatta bella!... Adesso, se lo sa Mostardo, mi accoppa!... — E, se l'aveste saputo, l'avreste accoppato, voi, caro mio!... Per fortuna è morto!... Be', che cosa doveva fare?... Ormai non c'era più rimedio. Arrivò a un orto; vide il cancello aperto... entrò... non c'era nessuno. Allora... tela!... Poi spifferò tutto, e la cosa arrivò all'orecchio dei socialisti.

Il moro rise e soggiunse:

— Perchè poi, prima di morire, ci abbia messo Troia, non lo capisco! Che cosa è questa Troia?

— È storia greca, somarone!

— Ma fatemi il piacere!...

— Troia era una città della Frigia...

— Sta zitto, ignorante!...

Presentiamo alcuni fra i sozii della Compagnia del Bigarone.

Ecco Giovanni Magnani, detto e' Bìgul, per una sua famosa scommessa. Si era mangiato, costui, per punto d'onore, due chilogrammi di spaghetti al sugo. Aveva vinto la scommessa ma era andato sul punto di morte. A riprova del suo valore gli era rimasto il nomignolo di e' Bìgul. Aveva costui un altro singolare costume quando voleva accelerare il ricambio, entrava nel Duomo « in un'ora postuma », come diceva lui; si toglieva riverentemente il cappello, sceglieva l'angolo più buio e, addossatosi a una polita colonna, e appoggiato il ventre ignudo al freddo marmo, così restava finchè non avesse ottenuto lo scopo prefissosi. Usciva poi a furia, per l'esuberanza del beneficio.

Ecco Egisto Candiani detto l'Uccellaccio, l' Uslazz.

Questo bel tipo possedeva un grande omnibus. Una volta, d'estate, attaccativi due cavalli, se ne andò in Piazza e, fatto sapere che avrebbe condotto gratis al mare tutti coloro che vi fossero saliti, empì in un battibaleno il vecchio arnese.

Eccoli in via. Un bel chiaro, un bel sole, i cavalli se ne andavano come il vento. E l'Uccellaccio a domandare agli ospiti suoi:

— Vi divertite?

E gli ospiti a espandersi, commossi, intorno alla bontà del Candiani.

— Ci divertiremo di più al mare! — soggiungeva l' Uslàzz sogghignando.

Ed eccoli alle saline di Cervia. Fossati a destra e a sinistra della strada e acqua, acqua, acqua. D'improvviso l' omnibus si sbandava, pencolava tutto da un lato. Due ruote correvano sulla riva di un fossato profondo. Strilli, urla, terrore delle donne e dei bambini. Il bel divertimento era iniziato. Il Candiani, impassibile, non udiva niente, ma, lanciati i cavalli da destra a sinistra, passava al gran galoppo da un fossato all'altro, dall'una all'altra riva sempre minacciando di capovolgere.

— Ferma! Ferma! Ferma!

Sì, chi lo teneva più?... In un fragore da cateratta il gran cassone a ruote percorse l'ultimo tratto di strada, attraversò Cervia, e, sempre perdendo qualche ospite per via, infilò il viale che conduce alla marina.

Eccolo alla spiaggia... ecco la fine della giocondissima gita. Ma no... no!.. L' Uslàzz non era contento ancora; bisognava godere fino all'ultimo!..

E l' omnibus gratuito continuò la sfrenata corsa verso il mare, entrò nel mare ed ivi si rovesciò coi disgraziati ospiti strillanti.

Un'altra volta, lo stesso Candiani, andandosene in biroccino verso la Pineta di Ravenna, ebbe a trovare lungo la strada un ubbriaco che cercava invano il centro di gravità.

Puràzz, ven cun me! (Poveraccio, vieni con me!).

Lo prese, lo legò sotto il biroccino e, frustato il cavallo, attraversò per tre volte il Fosso Ghiaia. L'acqua passava sopra i mozzi delle ruote e il discepolo di Bacco per tre volte fu immerso nell'odiato liquido e per tre volte ne uscì. Non contento di questo, il Candiani si ficcò nel più folto della Pineta attraverso macchie di rovi e di ginepri e non fermò il cavallo se non quando fu giunto a Primaro. A Primaro disciolse l'ospite e gli domandò:

Sit guarì? (Sei guarito?).

Ma il disgraziato non rispose. Aveva rotte, fra l'altro, due costole maestre.

Ecco Sulfanlè (Zolfanino), noto per aver indotto il parroco di Villagrappa a legare il proprio asinello dietro il biroccino del suddetto Sulfanlè, il quale aveva un cavallo focosissimo. Il povero Don Pirone non era tranquillo e andava dicendo:

— Mi raccomando a voi, Zolfanellino. Per carità, andate adagio!...

E Zolfanellino:

— Non abbia paura il mio Don Pirone!

Sulle prime andò adagio, ma poi, frustato il cavallo, via di gran carriera.

Accadde ciò che doveva accadere: dopo poco, asino, biroccino e Don Pirone erano per le terre e il povero prete aveva la testa rotta.

Ecco Giorgio Gelli, detto Zurzôn (Giorgione), il famoso organizzatore del Concerto di Russi. Una volta, a Russi, davano una grande festa e Zurzôn pensò di prendere a gabbo gli abitanti della piccola cittadina. Mandò a dire che dalla Città del Capricorno sarebbe arrivato a Russi, il giorno della festa, una eletta schiera di bandisti. La Città del Capricorno andava celebre per il suo concerto cittadino. Grande commozione a Russi e grande attesa. Il giorno fissato arriva. Zurzôn affitta un omnibus, raccoglie venti amici buontemponi ai quali distribuisce trombe, tromboni e clarini, ed eccoli in via.

Naturalmente, non uno fra i tanti sapeva usare lo strumento del quale disponeva. Grandi prove lungo la strada. Zurzôn raccomandava la massima serietà.

Ed eccoli a Russi. Enormi accoglienze, evviva, battimani. Una folla da impaurire. La cosa non era troppo chiara. Ma Zurzôn non poteva ritirarsi. Furono accompagnati in piazza da una turba acclamante. Giunti a destinazione, l'automedonte voleva andarsene allo stallatico con i cavalli; Zurzôn non lo permise.

— Perchè?

— Tu non devi saperlo. Aspettaci qui.

E, fattosi cuor risoluto, disposti che ebbe in un bel semicerchio i suoi bandisti e afferrata la bacchetta dette il segnale di avvio.

All'infernale frastuono che si liberò seguì un primo tempo di stupore, da parte degli ascoltatori; poi un secondo tempo di esitazione; ma, in un terzo tempo, lo sdegno e l'ira furono tali che i concertisti l'avrebbero passata brutta se salvatisi sull' omnibus, non si fossero difesi dalla furia degli assalitori accendendo e lanciando contro i medesimi i razzi che avevano portato per abbellire la festa notturna.

Lo stesso Zurzôn, quando andava a caccia in Pineta, soleva salire sul più alto pino per imitare il verso del chiù e trarre in inganno i compagni. Però, scoperto bene spesso dai compagni, era preso a schioppettate tantochè scendeva col sedere impallinato.

Lo stesso, al gobbo Pulizia, un giorno che lo trovò a dormire in un orto, dipinse col più rosso minio le parti vergognose. Il povero gobbo aveva il sonno durissimo. Quando si destò e si accorse del cambiato colore delle sue delicatezze fu preso da tale e tanto spavento che, corso da un medico, gli riferì il fatto alla disperata, soggiungendo con voce piangente che certo doveva trattarsi di una malattia orrenda.

— Fate vedere — disse l'accigliato medico.

— Oh Dio! — esclamò il gobbo Pulizia. — Come farò?... Come farò?... Faccia conto, dottore, faccia conto di vedere della brace!...

— Ma è tutto? — domandò il medico.

— Come tutto? — fece il povero gobbo, smarrito.

— Sì, tutto l'apparato!

— L'apparato?... Oh Dio!... Ma non è l'apparato! No, non è l'apparato... è qui... come si dice?... — e indicava l'esatta ubicazione — qui... l'organo...

— Ho capito benissimo. Fate vedere.

Ma il gobbo Pulizia era pudicissimo.

— Non può ordinarmi qualcosa... senza...

— Non sono qui per perdere tempo!

— Sa?... Perchè mi fa vergogna!... È una cosa tanto brutta!...

Finalmente si decise e mostrò tutto. Allora parve scintillasse al sole un mobile laccato della Cina.

Il medico, prima guardò da lontano, poi si accostò un poco più, osservando con attenzione il novissimo affare. Chiese:

— Che cosa ci avete messo?

— Che cosa ci ho messo? — domandò il gobbo Pulizia facendo una faccia da nespola.

— Sì, con che cosa vi siete curato?

— Io?... Me ne sono accorto adesso, dottore!... Un'ora fa. Oh, Dio!... Si muore di questo male?...

Il medico si alzò, lo guardò ben bene in faccia, poi scoppiò a ridere.

— Perchè ride, dottore?

— Ma perchè vi hanno dipinto!

— Dipinto?

— Sicuro, dipinto!... E col più bel minio del mondo!

Allora il gobbo si guardò e gli parve di possedere uno di quei fischietti di zucchero rosso che si vendono per le fiere. Ne fu umiliatissimo e, se volle ridare la loro naturale apparenza alle coserelle sue, dovette tenerle per oltre un'ora in un bagno di trementina.

Questi i tipi semiselvaggi che formavano l' élite della Compagnia del Bigarone.

Il Cavalier Mostardo uscì, ripreso nella morsa del suo amore. Guardò il pianeta Venere che era sopra ai pioppi delle mura e gli si empì l'anima di tal pianto che avrebbe voluto fermarsi a un angolo di strada, alla siepe di un orto qualsiasi e rimanersene là a soffrire per soffrire, con tutto il suo smarrimento. Poi gli venne in mente di sapere il perchè del torto patito; volle guardar negli occhi la propria disgrazia, esigere una spiegazione, una parola recisa, una intiera condanna. E prese una strada traversa.

Sotto la gran corsa delle stelle correva il disperato amore del Cavalier Mostardo. Era ormai la notte e una notte estiva di una chiarità superba. Non si vedevan che stelle, stelle, stelle. A volte il fulgore abbagliante di un remotissimo sole o l'immobile e malinconica luce di qualche pianeta; una nuova tristezza ignota nel fondo degli abissi; una disperazione eterna nell'eterna mutazione dei mondi.

Il cielo si apriva per l'anima degli uomini; ma forse solo gli alberi, solo i grandi alberi muti vi si affissavano estaticamente.

Mostardo vide Sirio, il sole abissale dalle cento luci, l'immenso focolare che arde nelle inconcepibili lontananze degli spazi; vide Sirio e per un poco non seppe che guardare lassù, attratto da quel fulgore di vertigine, dal profondo mistero di quella luce spettrale che arriva dall'orrore infinito della tenebra nera. Che passò nel suo cuore?... Quale nostalgico senso di remotissima tristezza?... Quale avvertimento, quale sperduta voce alla sua povera umanità transitante nell'attimo effimero della vita?... Si passò il rovescio delle mani sugli occhi e, per un istante, si smarrì, non seppe neppure verso dove, verso quale lontananza ignota; ma non fu che un istante; subito fu ripreso dalla necessità, dall'urgenza del suo dolore umano, dal peso della sua vita quale doveva essere necessariamente nel limite segnato.

E riprese il cammino fra le siepi e le case degli orti.

Il palazzo del marchese della Pipetta era illuminato. Tutte quante le finestre del primo piano lanciavan nella notte illune fasci di luce dorata. E queste finestre erano aperte, Mostardo si fermò ad ascoltare. Ecco il suono di un pianoforte; ecco una eco di voci festanti. Forse lassù si ballava... forse c'era festa grande. Questo anche gli morse il cuore.

Dunque Mignon, oltre il tradimento col marchese, poteva anche aver l'animo a feste e a balli?... E lui era conficcato nel profondo della sua passione e della solitudine sua, disperatissimamente!... Allora la sua decisione non conobbe più esitanze: a qualsiasi costo voleva e doveva parlare a Mignon.

Il portone era aperto: le scale illuminate... Mostardo infilò l'andito a gran furia.

E volle il caso che, proprio nell'attraversare la prima sala, egli si trovasse a viso a viso con Ninon Fauvétte, fior di Parigi.

Non se l'aspettava. Il cuore di lui ebbe un gran balzo; il viso gli si fece bianco; e trovò solo la forza per mormorare:

— Oh, Mignon!... Voi qui...

Ninon Fauvétte non fu meno sorpresa e di bianca che era si fece vermiglia. Anch'ella mormorò:

— Voi qui...

— Mignon... non ne potevo proprio più... sono venuto...

— Lo vedo!

— Voglio parlarvi.

— Ma questa non è casa mia!

— Non importa.

— E nessuno vi ha invitato...

— Non importa.

— Ma importa a me.

— Vi faccio vergogna?

— No... non è per questo...

— Allora?

— Avete dimenticato tutto?

— Mignon, farò giustizia!

— No, per carità, non fate niente, non vi muovete!

— Ma se vi voglio tanto bene!...

Ninon Fauvétte sorrise, e soggiunse:

— Non mentite, Mostardo!

— Mentire?...

— Sì, vi prego di non mentire.

— Ma fate per ridere o dite sul serio?...

— Dunque sarei io che non vi amo?...

— Sì, voi. Lo so. L'ho veduto.

— L'avete veduto?... Mi avete veduto?... Ma dove?... Ma con chi?

— Mostardo è inutile parlarne.

— No... Mignon...

— È inutile. Ve ne prego!...

— Ma io...

— Qualsiasi cosa poteste dire non mi convincerebbe.

Il povero Mostardo era, di fronte all'arte femminile della simulazione, come un fanciullo ignudo. Non aveva difesa possibile perchè l'ingenuità sua non aveva confine. Poteva non credere a quel che diceva Mignon?... Poteva supporre ch'ella creasse tutta una storiella di infedeltà? Così, com'era, chiaro, espansivo, diritto e illuminato da una parte sola non poteva prendere le parole che per ciò che valevano nell'uso corrente e non poteva supporre che la menzogna gli si opponesse là dove egli portava lo spasimo di tutta quanta la sua vita e la verità del suo essere.

Così al simulato sdegno e all'ironica gelosia di Ninon Fauvétte, fior di Parigi, egli non seppe dapprima quale cosa opporre, tanto si trovò sbalestrato lontano da ogni presupposta accoglienza da parte di lei; e, per non aver la parola pronta, ristette, per qualche istante, sbalordito, in atto di estrema meraviglia: la bocca aperta e le ciglia inarcate.

Ninon Fauvétte che si trovava la vittoria fra mano molto prima di quel che non avesse pensato, ne volle approfittare fino alla fine, sì per togliersi da un punto penoso, come per disarmare il buon gigante; così raccolta la voce alla tonalità più amara; e fredda e impassibile nell'aspetto, riprese:

— Non avrei mai creduto che aveste potuto dimenticarmi tanto presto!

— Mi...

— Perchè vorreste mentire, Mostardo... Tanto la verità non si può nascondere. Io vi avevo dato tutta me stessa e per voi non è stato che un capriccio.

— Per Bios...

— Sì, un capriccio!... So benissimo che siete il beniamino delle donne...

— Io?...

— ... ma avete sbagliato i vostri calcoli il giorno in cui vi siete pensato di trattar me alla stregua delle altre....

— Le mie...

— Le vostre amanti, le vostre amanti!... Chi non le conosce... Valeva proprio la pena di sfidar tutto per voi! Di attirarmi l'odio e il disprezzo dei marchesi Alerami... di perder tutto... di diventar la favola del paese!... Non potevate usare maggior perfidia verso di me.

— Ma no!... ma no...

— Mostardo, io vi chiedo per l'ultima volta, se non una prova d'amore, chè questa non potrei pretenderla, un gesto di amicizia. Posso sperare tanto?...

— Ah, Mignon!... — e aveva il singhiozzo alla gola.

— Datemi la mano... — gliela stese. — E adesso promettetemi...

— Che cosa?...

— ... di non parlare più di tutto quanto è stato. Me lo promettete?...

— Non posso!

— Perchè?...

— Mi scoppia il core!...

— Mi volete negare anche l'ultima prova di amicizia che vi chiedo?...

— Ma no... ma no... Voi non capite niente, poverina!... Vi hanno dato ad intendere tutte queste vigliaccherie!... Vi hanno confusa la testa!... Non è vero!... Ma non è vero, per Bios!... Io non ho veduto neppure una mosca... tutte le donne mi fanno schifo... non ci siete che voi com'è vera l'anima di Dio, Mignon!... Perdessi sul momento gli occhi!...

— Vi prego di non perdere niente!... — diss'ella con un tono gelido e con tanta ironia che Mostardo rimase là come se avesse ricevuto in pieno un ceffone da sbalordire.

— Vedete?... — riprese. — Siete voi che non volete più saperne!

— Sì, sono io! — rispose Ninon Fauvétte senza scomporsi. — Ma ve ne ho spiegata la ragione.

— È falsa!

— Be', basta, Mostardo!... Io non posso star qui fino a domani.

E gli tese la mano e fece l'atto di accomiatarsi.

— Ve ne andate così?... Mignon....

— Vi prego... basta!...

Egli prese la mano di lei.

— Ma io voglio parlarvi... ho il diritto di parlarvi!

— Non adesso.

— Quando allora?

— Non so.

— Mignon, non spingetemi alla disperazione!

— Non posso dirvi quando. Aspettate una mia lettera.

— Una vostra lettera?... Non arriverà mai!

— Se non mi credete non ho niente da aggiungere.

E, tolta la mano dalla stretta di quelle di lui, gli volse le spalle e se ne andò.

Per qualche istante il povero Cavaliere ristette a guardare la porta dietro la quale ella era scomparsa, poi riprese la strada piano piano: la testa bassa e le mani dietro le reni.

Quando fu solo nella notte e ben lontano, si appoggiò a un muro, in un vicolo solitario e, nascosta la faccia, incominciò a singhiozzare.

CAPITOLO XV. Dove Spadarella vive la sua ora di felicità e il Cavalier Mostardo si dichiara un fuorisacco.

Sul morir dell'estate, l'amore aveva compiuto il suo incantevole giardino. Fra le sante preghiere di Spina Rosa e le benedizioni di Girolamo e Stefano si era avverato questo miracolo.

Paolo Corani non era la canaglia di cui aveva potuto sospettare il Cavalier Mostardo; aveva agito da galantuomo e tutte le cose erano in regola con le consuetudini correnti.

Consacrato, nel rito del fidanzamento, l'amore dei due giovani, non rimaneva a Spadarella che un dubbio: avrebbe dovuto seguire la carriera del teatro o non era meglio abbandonarla prima ancora di cominciare? Lasciar da parte ogni vanità o speranza di guadagno per la quieta dolcezza dell'amore...

Paolo non era ricco; guadagnava appena quel tanto che poteva bastare a una vita più che modesta; ma, d'altra parte, Spadarella si accontentava di ben poco ed era sempre tranquilla. Se aveva accondisceso a cantare, non era stato per un sogno di splendori vani. L'anima di lei non era turbata da scomposti desideri, ma placida e mansueta come la sua casa, come le azzurre colline che chiudevano l'ultimo orizzonte della sua casa.

Ora l'estate languiva fra le braccia del giovane autunno. Ogni cosa era quieta e bella. Passava una tregua sul mondo. Era il tempo di volersi bene. Le due giovinezze vicine, si accorgevano di aver fra di loro la felicità. Spadarella aveva quasi paura di essere tanto contenta.

— Che cosa accadrà dopo?...

Perchè si sa che, al mondo, non si può stare in pace col proprio cuore se non per attimi. E, dopo, si sconta la dimenticanza di un giorno. Forse non si sconta sempre, ma si sublima nel dolore.

E l'estate moriva. La Città del Capricorno era tutta quanta tappezzata da manifesti grandissimi. Il nome di Spadarella trionfava su tutti i muri, in tutti i marciapiedi insieme ai quattro buoi e alle sette vitelle. Asdrubale Tempestoni sfidava le critiche de' suoi concittadini. Siccome i manifesti li compilava lui, ne uscivano a volte strampalerie inaudite. Il pubblico ne faceva le matte risate, ma ciò non scomponeva l'organizzatore. Torno torno alla Piazza si potevano leggere, stampate su carta rossa, le seguenti parole:

UN GOLFO MISTICO UNA DIVINA ARTISTA UNA STALLA DI BESTIAME POTRÀ GODERE IL VINCITORE DELLA GRANDE LOTTERIA

oppure, su carta verde:

OLÀ!!! FERMI TUTTI QUI NON SI FANNO CHIACCHIERE! QUI SI POSSONO AVERE SETTE VITELLE E QUATTRO BUOI PER SOLI DUE SOLDI!

Ma intanto, facendo ridere la gente, Tempestoni arrivava al traguardo. I biglietti della lotteria andavano a ruba.

Nello stesso tempo il Teatro Comunale era sottosopra. Il signor Asdrubale lo aveva riempito di operai e vi compariva venti volte al giorno. Egli si era fatto una cultura speciale intorno ai Golfi Mistici e voleva che i lavori fossero condotti sui suoi disegni e sulle sue particolari vedute. A chi gli faceva qualche osservazione usava rispondere invariabilmente:

Mo' cosa vuoi capir te! Ne hai mai fatto dei Golfi Mistici?... No?... E allora sta zitto. Cosa c'è da ridere? È un Golfo o non è un Golfo questo?... Sentirai quando ci suonano, brutto asinone! Ti viene su la musica come dal buco del fonografo!...

E così battagliava da mane a sera, non mai stanco, non mai avvilito, non mai vinto dalle risa e dalle acerbe critiche dei concittadini suoi. Asdrubale Tempestoni era uomo tale che, quando aveva preso una via, la morte sola avrebbe potuto fermarlo. E le sue imprese straordinarie gli andavano sempre bene appunto per tale testardaggine. E le idee gli turbinavano in testa senza posa.

Una notte fece stampigliare tutti i marciapiedi e tutti i muri della Città del Capricorno con le seguenti parole:

SPADARELLA LA GRANDE STELLA

Un'altra volta fece prendere, sempre di notte, tutti i cani e tutti i gatti randagi che trovò, e stampigliò i cani e i gatti col nome della piccola bella dal soave giardino. Quando fu giorno, si vide, ad esempio, una frotta di marmocchi inseguire una cagna nera che recava sul dorso, in grandi caratteri rossi, il nome di

SPADARELLA

E questo nome diventò in pochi giorni celeberrimo. Ma dietro Spadarella era la lotteria e la lotteria non era da meno di Spadarella. Bisognava elevare alla stessa grida e l'una e l'altra; adeguarle nella curiosità e nell'attenzione della gente.

La fucina del baccano, guidata e alimentata da Tempestoni, non aveva mai riposo. Bisognava porre ad effetto una trovata dietro l'altra e tutte dovevano essere originalissime.

Una volta, il nostro Asdrubale, raccolse tutti i poveri caratteristici del paese: Magnamosch (Mangiamosche); e' matt d' Batèla (il matto di Batella); la Margusòna (la Moccolona); e' Zìvul (il Cefalo); Cipolini; e' Gièvul (il Diavolo); Parpàia (Farfalla); e' Parsutên (il Prosciuttino) ecc. ecc. Li divise in tante coppie: un uomo e una donna. Vestì le donne da giovani spose con tanto di ghirlanda di zàgare intorno al velo nuziale; ingolfò gli uomini in grandi frack dai bottoni d'oro; ficcò loro sulla testa una tuba; dispose tante vetture quante erano le coppie degli sposi. Formò, così, un corteo di dodici vetture tutte quante infiorate e addobbate con veli bianchi. Fece precedere il corteo da quattro uomini a cavallo, vestiti da valletti, col tricorno e la parrucca. Questi paggi recavano le trombe egiziane che avevano servito alla rappresentazione dell' Aida, e vi soffiavano dentro a più non posso. In ciascuna vettura poi, gli sposi, reggevano una stanga, in cima alla quale era affisso un cartiglio che recava una dicitura. La prima diceva:

SETTE VITELLE!!!

La seconda:

QUATTRO BUOI!!

La terza:

IL GOLFO MISTICO!!!

E così di seguito. Le quali frasi dovevano essere gridate a voce altissima, a quando a quando, dagli sposi medesimi.

Fu un successone. Era giorno di mercato. Giunto sulla Piazza, il corteo non potè proseguire. La folla gli si stipò attorno tumultuando e berciando. E non furon più gli sposi soli a gridare:

— Sette vitelle... Quattro bovi!... — ma tutta quanta la moltitudine ingaita. Naturalmente alle vitelle si aggiunsero le loro rispettabili madri; ai bovi le loro simboliche corna e fu un carnevale in piena regola.

Poi un qualsiasi Balilla lanciò il primo pomodoro. E fu la festa dei legumi e delle ortaglie. Le vetture furono prese di assalto: le povere spose portate in trionfo dall'ebbra moltitudine, torno torno la Piazza.

Ma Spadarella non sentiva niente; non sapeva niente. Viveva solo del suo amore che le bastava ad amar la vita.

Ad ogni crepuscolo diceva a Spina Rosa:

— Spina Rosa, scendo in giardino.

Girolamo e Stefano l'aspettavano per darle la buonasera, prima di ritornarsene alle loro piccole case dietro le mura.

Una volta, al suono di un Avemaria, chinarono il capo e tacquero assorti mentalmente nella loro preghiera.

Anche Spadarella pregò. In mezzo al giardino, queste tre creature levarono l'anima a Dio, chiamate da un accenno di campana nell'aria della sera; ricondotte al mistero immanente dall'effimera contingenza del loro terreno esilio. Affondarono nell'eterno, lontanando con le stelle del profondo.

E fu un grande silenzio.

Ma ad un tratto scoppiò il fragore di una fanfara: lacerò l'aria violentemente: si impadronì di quell'angolo di mondo con prepotente volgarità.

Le case si palleggiarono, come turbate, l'eco barbarica dell'aspro suono; gli usignuoli, le capinere, i verzellini non cantarono più. Ogni cosa, ogni anima affogava nella crescente marea degli armonici pernacchi che gli uomini traggono, soffiando, da certi imbuti di ottone conosciuti comunemente sotto il nome di trombe. Strepitarono adunque le trombe eroiche di una fanfara socialista; empirono il mondo e il cielo; sostituirono, nel soave declinare dell'ora mistica, il raccoglimento che aduna le anime a un lume ultraterreno: vollero cancellar tutto, essere sole, impadronirsi della Terra e di Dio.

E, per l'attimo in cui tuonarono più vicine, riusciron, tanto, a turbare la quiete circostante; riuscirono a farsi intendere e a intimorire i cuori più pavidi con le minaccie della Bandiera Rossa; ma poi, allontanandosi i discepoli di Eolo e di Marx, i fucinatori di ghigliottine, gli ipertrofici zelatori della buia solitudine terrena, diminuì il loro diabolico fracasso, si spense dietro le case e le strade, si ridusse a niente; a gareggiare appena col tremulo verso di una povera raganella.

Erano passati i rodomonti, gli incinti di Dio, i cannibali sociali, i capovergari della Giustizia Nuova. Erano trascorsi col vento delle loro trombe, con le pernacchianti armonie delle loro apocalittiche catastrofi, pieni di vuoto furore, di fosca ignoranza e di baldracchesca volgarità. Ed eccoli lontani, nel niente, coperti e derisi dal querulo lamento di una raganella sul ramo di un melo, contro un quarticello di luna verdigna.

Si riudì l'ultimo tocco della campana dell' Ave. Girolamo e Stefano si fecero il segno della croce; e anche Spadarella. Poi si volsero intorno e Girolamo disse:

— È tardi. Bisognerà andare.

— Andiamo — rispose Stefano.

Guardarono Spadarella; le sorrisero.

— Felice sera, Spadarella.

— Buonasera, vecchi miei; e buon riposo.

Poi se ne andarono l'un dietro l'altro scantonando per i piccoli viali del giardino.

Passava un rosso barroccio montanaro, carico di una castellata piena di mosto. Una bella castellata dai fondi graffiti e dipinti e dal cocchiume rilevato e contornato da pampini. Il primo mosto che entrava in città. L'autunno. Sul timone del barroccio era infissa una grande caviglia dalle anella. Erano sette anella lucenti che tinnivano, ridevano, cantavano, seguendo l'andatura dei buoi dalla grand'ombra nerastra sotto gli occhi immiti.

E sull'alto della castellata sedeva un giovinetto e cantava:

Gi so, gi so, mio ben, du vliv andare

Ch'avì pulì csé ben vostar cavale?

Ch'avi pulì csé ben la sala d'oro?...

Gi so, gi so, mio ben, vulì ch'a mora?...

(Ditemi, ditemi, ben mio, dove volete andare — che avete pulito così bene il vostro cavallo, — che avete lustrato così bene la sala d'oro?... — Ditemi, ditemi ben mio, volete ch'io muoia?).

Il dialetto montanaro si addolciva ancor più nella cantata. La musica era bella: semplice, vasta, di una tristezza profonda e, più che umana, universa. Il giovine bifolco si portava giù, col mosto, dalle montagne azzurre, una passione antica: sua e di cento generazioni; e passava per la Città del Capricorno come una cosa ormai spaesata.

Il vero, il grande cuore dell'uomo fra le chincaglierie insanguinate della Bandiera Rossa.

Si può anche morire nella farsa.

Il giovine cantava il suo canto, quello del popolo suo, nel quale era l'anima delle generazioni e si sentiva distaccare dalla miseria sua, dal suo dolore, dalla sua fatica; era uno spirito errante sotto alle stelle, con l'amore. Si ricongiungeva inconsciamente al mistero della Terra e del Cielo.

Paolo e Spadarella erano appoggiati al muro di cinta del giardino, presso la piccola porta socchiusa. Si tenevano per mano. Parlavano; ma poi che il barroccio fu per la strada, col suo canto ramingo, non parlarono più. L'aria non più illuminata dal sole, accoglieva le luci dell'infinito.

Ecco la notte.

Ella era felice e non disse niente; era nella serena zona mattutina e poteva guardare e ascoltare in silenzio. Anche per le case era discesa l'ora del raccoglimento soave. Le più alte finestre si illuminavano contro la prima stella. Tutta la sofferenza pareva non dovesse avere nè un grido nè una bestemmia.

Passarono tre rondini smarrite.

— Dunque Spadarella?...

Ella levò gli occhi a un tratto.

— Che cosa?

— Non vuoi?

Arrossi ed abbassò la faccia senza rispondere.

— Va bene — riprese Paolo freddamente e guardò da un'altra parte.

La piccola allora gli prese una mano, glie la strinse, mormorò:

— Sì... voglio...

— Quando?

Tacque ancora.

— Domani?

— Sì... domani...

— Dove ti ho detto?

— ... Sì...

— Verrai davvero?

— ... Sì...

Egli allora se la strinse al petto nella gagliardia ansiosa del suo desiderio; ma Spadarella non rispose all'impeto di lui. Domandò:

— Perchè vuoi questo?

— Mi vuoi bene?

— Si.

— Devi provarmelo. Voglio che tu sia tutta mia.

— E non sono tua?

— No.

— Paolo!

— No no!... Io non posso sopportare questa sorveglianza. Maria Rosa è sempre là che ci spia.

— Ma non è vero!

— Se l'ho vista anche poco fa!

— Ti assicuro che ti inganni.

— Non mi inganno Spadarella!... Poi... fra poco il teatro ti porterà via.

— Te l'ho già detto. Se lo desideri mando all'aria tutto.

— Io non posso voler questo.

— Perchè?

— Perchè si tratta della tua fortuna.

— Ma se io lo voglio?

— Tu sola non puoi decidere.

— Anzi lo posso, Paolo; e tu sai che quando voglio una cosa...

— Ma non potrei assecondarti.

— Dunque ti fa piacere?

— No.

— E allora?

— Che cosa ho da offrirti in compenso? Quale vita ho da offrirti?... Il sacrificio!

— E che mi importa? Sono stata abituata da signora, forse?... Che cosa desidero di più del tuo amore?

— Oggi niente di più; ma domani?... Domani quando l'amore se ne sarà andato?

Allora Spadarella scosse lentamente il capo e sospirò:

— La verità è che tu non mi vuoi bene.

— Ora bestemmi!

— No, Paolo!... Ci vedo chiaro...

Egli tolse la sua mano da quelle di lei e fece per andarsene.

— Non te ne andare!... Paolo?...

Si fermò; si rivolse.

— Vuoi bisticciarti, Spadi?

— Perdonami. Qualche volta non ti capisco.

— E io neppure, sai? Perchè quando si vuole veramente bene non si hanno dubbi... non si pensa il male... non si guarda alle convenienze... non si ha paura di niente quando si vuole veramente bene!...

— No ti ho detto che verrò?

— Sì; ma devo crederlo?

— Guarda: anche se dovessi uscire di casa per non rientrarvi mai più, ti ho detto che verrò e verrò!

— Amore mio!

— ... anche se fossi certa che lo zio Giovanni mi aspettasse all'uscita per stroncarmi; e avessi la convinzione di rimanere in mezzo alla strada solo con questi panni e maledetta da tutti verrei, Paolo. Tu non mi conosci. Ho paura, ho vergogna... ma ho deciso. Ti voglio bene... Vengo da te... fa quello che vuoi... sarà quel che sarà!...

Egli la prese fra le braccia e la coprì di baci in uno spasimo diluviante, in una ebbrezza convulsa.

— Basta... basta... basta, Paolo!... Per carità...

Aveva abbandonato il capo all'indietro, gli moriva fra le braccia.

Fu la voce del Cavalier Mostardo che li riscosse. Si udì nel giardino il suo vocione gridare:

— Spadarella?... Spadarella?...

Paolo si disciolse in fretta dall'abbraccio e disse:

— Allora... a domani, Spadi!

— Te ne vai?

— Sì.

— Tanto presto?

— È più tardi delle altre sere.

— Non vuoi vedere lo zio?

— No.

— Perchè?

— È un uomo che mi urta.

— Ma se è tanto buono!

— Lo so... ma... debbo andare. Addio, Spadi.

— Arrivederci.

Si baciarono poi Paolo prese la strada di furia e scantonò. Spadarella non era più gaia; neppure poteva spiegarsi l'improvvisa malinconia. L'accoglieva con l'anima mansueta delle creature che sanno solamente amare.

— Spadarella? Spadarella?

— Sono qua, zio.

— Perchè non rispondi? È un'ora che ti chiamo!

— Ti aspettavo.

— Che cosa fai qui?

— Stavo per rientrare.

— Sei sola?

— Sì.

— Dov'è Paolo?

— Se ne è andato.

— E perchè?

— Aveva da fare.

— A quest'ora?

— ... non so...

Lo zio Giovanni non aggiunse parola, ma chi avesse potuto vedere la faccia di lui, nascosta nell'ombra, non l'avrebbe trovata soverchiamente serena.

Si avviarono verso casa.

— Ho visto Tempestoni... — fece lo zio Giovanni.

— Bene...

— Ti aspetta domani.

— Domani?... E dove?...

— A teatro.

— E perchè domani?

— Cominciano le prove.

— È proprio necessario ch'io vada? La mia parte la so benissimo.

— Io non c'entro, bambina. Tempestoni mi ha detto che ti aspetta; ti ho fatto l'ambasciata. Del resto farai quello che vorrai.

Camminarono per un poco in silenzio nel tepore della notte.

— Che cos'hai, Spadi?

— Io?... Niente! Perchè me lo domandi?

— Mi pareva tu fossi scura...

— No, zio.

— Davvero?

— Davvero!

— Sarà! Però, bambina, non sei più la mia Spadi di una volta!

— Ti sembro cambiata?

— Ecco... cambiata, no! Non è la parola. Mi sembri più lontana...

— Ma no, zio!

— Lasciami dire. Io, certe cose, le sento, anche se non le capisco e... non mi sbaglio mai.

— Però questa volta...

— Questa volta tu hai qui dentro — e le toccò il core — un bel peso!

— Ma ti sbagli!

— Non mi sbaglio, Spadi!... No, no, non mi sbaglio! Del resto non voglio mica sapere i tuoi interessi. Però, se si trattasse di scommettere, scommetterei che vi siete bisticciati. Di un po; è vero?...

— ...

— Rispondi: è vero o no?

— È vero!

— Vedi?... Lo zio Giovanni ha buon fiuto, il povero zio Giovanni!... Ora, da quando è venuto quell'altro, non vuoi più un gran bene neppure a lui!

— Oh, zio! Perchè dici questo? Non ti bruciano le parole?

E gli si gettò al collo e lo strinse forte fra le braccia.

— Mi sbaglio?

— E non lo senti? — Aveva la voce di pianto. — Questa sera sono un poco malinconica, ecco tutto. Non capita mai a te?

— Oh se mi capita!... — e trasse un grande sospiro.

— E sai il perchè, tutto il perchè della tua malinconia?

— Io sì che lo so!

— No, zio. Forse ti sembra, ma non lo sai.

— Bambina mia, lo so anche troppo!

— Certe volte, forse; ma non sempre.

— Sarà!... Non voglio darti torto. Però se non fosse lei... sempre lei... sempre, porco Dacco!, quella febbre di lei che mi prende, oh!... ti assicuro che, nonostante tutti i Rigaglia e tutti i versipelle, ti assicuro che sarei allegrissimo.

— Lei?... — fece Spadarella meravigliando. — Ma chi è questa lei?...

Il povero Cavaliere si morse le labbra. Gli era scappata. Tentò di fare lo smarrito:

— Ho detto lei? Non me ne sono accorto.

Spadi sorrise.

— Dunque hai un segreto?

— Io?... Ma neanche per sogno!... Che segreto?... Che cosa vuoi che abbia io, vecchio matto?

— Hai qualcosa che ti fa soffrire, zio?...

— Ma se sono un insensato!... Non lo crederai mica davvero ch'io sia diventato tanto imbecille...

— Perchè?

— Ma scherzi?... Io, con tutti i miei anni, innamorato!... Non farei ridere?...

— Perchè, zio?...

— Come perchè?... Ma l'amore è fatto per voialtri giovani che potete sempre riparare a questo grande sproposito: non per noi, vecchi, che non abbiam più tempo neppure per poterci pentire e ci caschiamo dentro da quei grandi balordi che siamo, mani e piedi legati, per ridurci come il campo del mercato, dove tutti sputano!...

— L'amore arriva quando vuole...

— Sì, con l'olio santo!

— Zio... e non gli si può dire di andarsene.

— Ma non si diventa stupidi alla mia età?

— Perchè?

— Ma perchè sì! Perchè si diventa stupidi! Si diventa la favola del mondo.

— Che cosa c'entra il mondo? Tu sei ancora giovane.

— Sì, bel moscardino!

— Sei giovane... e lo sai.

— Io so che, se potessi, mi prenderei la testa e la butterei in un fosso!

— Povero zio!

— Povero?... Già... povero!... hai ragione. In fin dei conti non sono che un disgraziato.

— Non lo dire.

— Un disgraziato, un disgraziato! Voglio urlarlo!... Lasciami sfogare! Che cosa ho, io?... A che cosa mi è servita tutta la vita?... Tutte le mie battaglie, tutti i miei entusiasmi, tutta la mia fatica?... A che cosa?... Ma a che cosa?... Avanti, dillo tu, a che cosa?... A niente!... Bambina, non parlare, io lo so bene: a niente!... Mi sono prodigato e mi è arrivato un calcio; ho combattuto per gli altri e, per tutto ringraziamento, mi hanno sputato addosso; ho dato del mio, di quel mio che mi son pur faticato, se son venuto su dalla miseria, e poco c'è mancato non mi chiamassero ladro!... Il popolo si chiama Rigaglia!... Ma sì, bambina mia!... E sono arrivato a questa età con tutte le mie minchionerie dei vent'anni. Me le sono portate dietro come un imbecille. Eccole qua tutte quante, che non ne ho perduta neppure una per la strada. Bel carattere! Meriterei la forca solo per questo. Perchè un uomo, se ha la fortuna di vivere, almeno impara a conoscere le carogne che si trova fra i piedi. Ed io non ho imparato niente!... Ho imparato ad essere un bambino quando avrei dovuto trattare il mondo per quel che si merita. Ho preso tutto sul serio. Oggi sono solo. E faccia Dio che tu mi sia sempre vicina perchè il giorno in cui mi dessi alla disperazione, guai agli uomini del mio paese!...

— Povero zio!... Soffri tanto?...

— Soffro?... No che non soffro. È la vita che è canaglia! Forse sono stanco, Spadi. Ma non mi domando niente. Aspetto. La mia vita non sarà eterna!

— Proprio, questa sera, non pensi affatto alla tua Spadarella!

— Hai ragione. Non so neppure quel che mi dico. Poi ho qualche cosa per la testa...

— Che cosa?

— Perchè Paolo non mi ha aspettato?

— Te l'ho già detto, zio. Doveva andare...

— Ma capita sempre così quando arrivo io. Ha forse paura di me?... Che cosa gli ho fatto?

— Perchè dovrebbe aver paura? Non essere ingiusto!

— È vero. Perdonami. È la mia testaccia che frulla male.

— Forse se tu volessi parlare alla tua bambina, ti passerebbe.

— Mi passerebbe?... Ho qui dentro una pena... tu sapessi!

— E fin che la tieni chiusa ti farà più male.

— È vero.

— Allora sai bene che non lo racconti a nessuno, se parli a me.

— Non posso. Mi fa vergogna.

Erano arrivati presso la porta di casa. Si vedevano le finestre illuminate. Ristettero. Non avrebbero voluto interrompere la loro solitaria intimità e che nessuno si fosse interposto. Forse lo zio Giovanni aveva ancora tante cose da dire; forse Spadarella avrebbe amato restare nel buio del giardino e seguire la sua indefinita malinconia. Non era il turbamento della promessa ma alcunchè di più remoto, un'ombra sul sogno de' suoi anni radiosi. Che poteva accaderle? Era tanto felice! Ebbene, forse niente sarebbe intervenuto a turbare il ritmo della sua felicità, ma la malinconia si vela di una sola parola per tenere il cuore dei giovani. Quella era una notte del mondo contristata, per lei, e più non avrebbe voluto parlare nè ascoltare la voce e le parole semplici e ignare di Spina Rosa. Avrebbe voluto arrivare alla sua stanza e chiudersi dentro senza che nessuno potesse vederla e senza scambiar parola con nessuno. Sentiva che avrebbe pianto volentieri. E forse c'era la crudezza di una parola, in fondo al cuore di lei, e anche l'ombra di una volontà prepotente ch'ella assecondava ma che turbava un incantesimo. E la felicità è delicata: e di nulla si turba. È come lo specchio di uno stagno fra i boschi; fondo e mutevole. Qualcosa aveva turbato il volto della sua serena e tranquilla felicità, ma di questo non poteva nè voleva convenire seco stessa.

E più si accorava del dolore dello zio Giovanni.

Tacevano fermi così, l'uno vicino all'altra, senza guardarsi. Poi il Cavalier Mostardo si riscosse:

— Spadarella... io non so se tu abbia capito... ma, se hai capito, mi raccomando a te...

— Zio! E puoi credere solamente che io parli?

— No, se ti ho mostrato, il cuore.

— Me ne credi indegna?

— Spadi!

— Allora abbiam chiuso le nostre parole nello stesso silenzio.

Stavano per entrare in casa quando udirono un passo affrettato sulla ghiaia del viale. Mostardo stette inorecchito. Si udiva il busso di due grandi piedi.

— Se non mi sbaglio è Rigaglia.

Si udì un grugnito.

— Te l'ho detto? È lui.

Spadarella sorrise.

— Che cosa sei venuto a far qua?... Che cosa vuoi?...

— Bisogna che veniate subito...

Ansimava.

— Dove?

— Vi aspettano a casa...

— Chi?

— I compagni.

— Ma quali compagni?

— ... dice che muore...

— Muore?... Ma chi muore?... Vuoi spiegarti o no?...

— Ma non ve l'ho detto, santo Dio?... Coriolano!

— Che cosa? Coriolano muore?

— Sì.

— E non sai dirmi chi mi aspetta a casa?

— Ci son due uomini e una donna.

— Una donna? E chi? Ti ricordi almeno come vestiva?

— Io non l'ho guardata ma aveva un cappello rosso...

— Un cappello rosso? Ne sei ben sicuro?

— Sì.

— Allora è lei. Non vengo.

— Ma chi lei, zio?

— Proli.

— La signorina Proletaria?

— Sì. La nipote di Coriolano. Non vengo, non vengo.

— Ma perchè zio?

— Il perchè è troppo lungo, bambina mia. È certo che non voglio trovarmi fra i piedi Proli.

— Allora dirò... — riprese Rigaglia.

— Ma dì tutto quello che vuoi; non mi importa niente. Io sono un fuorisacco!

E mentre Rigaglia si allontanava nella notte, il Cavalier Mostardo si strinse a Spadarella ed entrò in casa.

CAPITOLO XVI. Della morte e della cremazione di Coriolano; della scomparsa di Proli; degli amici di Ninon Fauvétte e di altre disparatissime cose.

La casa era piena e Coriolano stava per esiliarsi nel mistero. Glie l'avevano detto, glie l'avevano predicato:

— Non bere, non straviziare. Alla tua età e coi tuoi mali bisogna adoperar giudizio. Se vuoi rimanere al mondo non devi fare le strippate che fai. Bada che soffri d'asma e l'asma non perdona. Hai un cuore che fa ridere. Una volta o l'altra fai la capriola!

Ma Coriolano duro.

— Qu-qu... qu-qu... qqquando è l'ora... bu-bu... bu-bu... bbbuonanotte!

— Sì, cucù e bubù!... Ma se la bubù ti arriva addosso, sarà lei che farà a te cucù, povero idiota!

— Bbbbbb... bene! E allora, porca miseria! evviva la Repubblica!

E, con questo cuore aveva continuate le sue bisboccie all' Ustarì de Bér (osteria del Montone) nella quale l'oste, che beneficiava appunto, e non sappiamo per quali delicati motivi, del nomignolo di Ber, andava famoso per la sua scienza nell'apprestare certi manicaretti di trippe, celebri in tutta la Romagna.

Ora quando capitava qualche forestiero nella Città del Capricorno, Coriolano si affrettava a invitarlo, o a farsi invitare, alla famosa Ustarì de Bér, per fargli assaporare le trippe.

Necessariamente chi mangiava più di tutti era Coriolano. Dall'antipasto alle frutta (e l'antipasto consisteva in mezzo chilogrammo di pane!) egli si trovava in prima linea, col piatto più colmo e col più vorace appetito. Divorava, urlava, improvvisava discorsi, si prodigava in allegria tenendo la brigata sempre al diapason del cordiale fracasso. Ma, per fucinare tali gioconde serate, occorrevano litri e litri e litri di Sangiovese ed era sempre Coriolano che pensava a far empire i bicchieri, e sempre Coriolano che gridava all'oste:

Bér? Un'étar litar! (Bér? Un altro litro!)

E alla fine del simposio, dopo il rituale brindisi:

— Bevo alla salute della Democrazia, oggi combattente, domani vincitrice! — era costretto a sbottonarsi il panciotto e ad allentare la cintola dei pantaloni. Ma aveva mangiato bene e ciò lo ripagava delle possibili sofferenze alle quali andava incontro.

Dopo tali strippate aveva un sacro orrore del letto e del chiuso e aspettava l'alba accompagnando a casa, ad uno ad uno, tutti gli amici. Rimasto solo, entrava nel Caffè notturno dove erano adunati i mercanti di buoi che stavano per andarsene verso i mercati. Sedeva in un angolo e incominciava a non poter più respirare.

Ma, passando di eccesso in eccesso, l'organismo del Donzello finì per non presentare più resistenza e, un bel giorno, si fece vincere da un attacco cardiaco tanto da disporre l'anima al transito.

Ora le gente adunata nella casa di lui non rideva più. C'era la morte. I romagnoli, quando sono di buono stampo, non hanno paura della morte ma la rispettano. Non che ne avvertano il pauroso mistero, anzi, per loro, tale mistero non esiste; cose astratte non sono per il loro palato; il loro convincimento è che, con la morte, tutto sia, e giustamente, finito; ora quando se la trovano fra i piedi, questa morte ubbriaca, si tolgono il cappello e non parlano più perchè, non foss'altro, avvertono che con lei non si può combattere e che è inutile farsi illusioni.

Nella casa di Coriolano c'era adunque un grande silenzio. Si udiva appena un fruscio di passi guardinghi e qualche frase sommessa.

Erano là, dall'Onorevole a Bucalosso, tutti i maggiori rappresentanti del cuore repubblicano. C'era Tempestoni, c'era il Trancia, l'avvocato Suasia, l'ingegner Fiat, il Sindaco, gli assessori, i pompieri, gli spazzini.

Coriolano era un'istituzione; con lui scompariva un po' di vermiglio dalla bandiera repubblicana. Un po' della vecchia idealità umanitaria, del vecchio entusiasmo romantico, della sacra generosità strepitosa che negava il Re e il Clero per educare il popolo a un'Idea di universa giustizia e di liberi reggimenti politici, se ne andava verso il buio del passato con l'anima di Coriolano.

Questo avvertivano gli intervenuti. La prima concezione repubblicana finiva con gli uomini suoi più rappresentativi. Venivano innanzi i tempi di Rigaglia. La dittatura di Rigaglia era prossima.

Bucalosso si era fermo alla porta a ricevere le visite.

E le stanze si empivano di popolo.

Mostardo arrivò solo e di gran corsa.

Salì gli scalini a quattro a quattro; i compagni gli fecero largo senza dire parola; eccolo al letto del morente.

Coriolano era entrato nello stato comatoso e non lo riconobbe.

Nella stanza pesava un'aria graveolente e irrespirabile.

Nessuno pensava ad aprir le finestre. Tanto ce n'era per poco ancora.

Si udì un rumore nella stanza vicina. Ecco Proletaria.

Si diresse difilato verso il Cavalier Mostardo il quale fece la più brutta faccia che si fosse mai veduta.

— Dov'eravate? Vi abbiamo cercato dappertutto. Abbiamo mandato in giro anche Rigaglia.

— Lo so.

— Come fate a saperlo se non vi ha trovato?

— Me l'hanno detto.

— E chi ve l'ha detto?

— Ma non sono mica qui per rispondere a voi, cara signorina! Abbiate almeno un poco di rispetto per questo disgraziato che muore!

Proli si morse le labbra e non aggiunse parola. Si tolse il feltro rosso e apparve in capelli. I suoi quattro capelli scompigliati, che le ricadevano a teghe sulle orecchie, la facevano ancor più brutta. Girò il letto e andò a porsi all'angolo opposto del capezzale guardando ora il morente, ora Mostardo.

Che cosa meditava?

Mostardo pensò:

— Questa sera non ho pazienza e, se mi guarda male, scoppio!

I loro occhi non si erano incontrati che una volta sola.

— Eh, che disgrazia? — mormorò Proli.

Mostardo grugnì senza rispondere.

— Era ancora giovane, povero zio!

Silenzio.

— Sapeste quanto vi ha cercato; quante volte vi ha ricordato!

— Già.

— Adesso, forse, non potrà riconoscervi più...

— Sicuro!

Proli ebbe una smorfia di repressa ira.

— Si direbbe, non ve ne importi niente.

— Io dico che, al letto di un moribondo, sarebbe meglio star zitti.

Per la seconda volta Proli dovette inghiottire e tacere; questo non le conferiva punto.

— Siete intrattabile!

— Io sarò intrattabile, ma voi siete un bel empiastro.

— Ignorante!

— Pettegola!

Così, con perfetta cavalleria. Proli e il Cavalier Mostardo si incontravano al letto di un moribondo.

Trascorse una tregua; troppo aspri erano stati i primi approcci.

— Poveretto, non potrà vedere il Golfo Mistico! — mormorò Tempestoni.

E l'avvocato Suasia:

— Quando vai in scena?

— Domani incominciamo le prove.

— Allora fra una diecina di giorni.

— Forse meno.

Il maestro Riva disse sonoramente:

— L'anima di questo garibaldino rimarrà nei cieli eroici del pensiero.

E Coriolano non capiva più niente. Rantolava nella gran pena di non poter finire. Ad un tratto si riscosse ed aprì gli occhi. Proli gli si chinò sopra e lo chiamò:

— Zio? Zio?

Coriolano aveva lo sguardo vuoto di coloro che son già nella tenebra eterna.

— Zio, c'è qui Mostardo...

— Mostardo...

— Sì, sì, Mostardo! È qui... guardalo è qui!

— Mostardo... — balbettò Coriolano; — Mostardo...

Allora il Cavaliere si levò e si chinò a sua volta sul trapassante. Questi ebbe un bagliore negli occhi, subito spento, ma non potè mettere insieme una parola in più. Solo si dette a brancolare a brancolare finchè non ebbe trovato una mano di Mostardo; la prese, la trasse a sè e continuò cercando la mano di Proli che, del resto, era già pronta.

Ecco l'idea di Proletaria!... Eccolo eccolo, il tiro assassino!... La pelata vergine aveva addomesticato il moribondo, lo aveva istruito alla manovra ch'egli ora veniva compiendo in un ultimo barlume di coscienza.

Mostardo cercò ritirar la mano ma non osò ricorrere alla violenza che sarebbe stata necessaria perchè Coriolano, e pareva impossibile, stringeva forte.

E l'orrenda cosa si compì, sotto gli occhi degli amici, egli sentì, nella sua, l'ossuta mano di Proli e il moribondo badava a stringere le due mani come a sigillarle in una promessa eterna.

Allora il maestro Egidio Riva disse:

— Qui assistiamo alla tragica e commovente maestà di un rito sacro: l'amore nella morte!

E Mostardo, di rimando:

— Sei un imbecille! Questa non è che la manovra di un pover'uomo che non capisce più niente.

— L'hai voluta? — sussurrarono gli amici.

E Proli:

— Siete più volgare di quanto non avessi immaginato. Non abbiate paura che non vi voglio! Mi fate semplicemente schifo!

Al che il nostro Cavaliere replicò con corretta e breve nobiltà:

— È ciò che desidero!

— Siamo d'accordo!

— Perfettamente!

— Villanaccio!...

— Regina del canapè!

Allora Proli scoppiò a piangere per fare effetto, ma nessuno le badò; poi, in quel punto, il povero Coriolano era entrato in una grandissima agitazione.

Tentò sollevarsi sui guanciali; corsero a sorreggerlo e, quando fu sul torso, riuscì a parlare. Si guardò intorno, accennò un sorriso, disse quanto più forte poteva:

— Compagni... muoio!... Evviva la Repubblica!...

Le balbuzie lo aveva abbandonato ma ormai era troppo tardi.

Poi che fu morto, uno si levò nel silenzio grave e opprimente, il maestro Egidio Riva; si levò, atteggiò la faccia a una smorfia di strazio ed ebbe due sole parole, due parole monumentali, conchiusive, solenni come la morte:

— È soccombùto!

Aveva detto:

— Badate ch'io non voglio far puzzo. La Valle di Giosafatte la lascio a chi ci crede. Sono stato repubblicano da vivo, voglio esserlo anche da morto. Mi dovete bruciare.

Tale era stata l'ultima sua volontà e doveva essere rispettata. Eletti a porla ad effetto furono alcuni sozii della Compagnia del Bigarone.

Nella Città del Capricorno non c'era un forno crematorio; bisognava prendere il morto e portarlo a Bologna. Della cosa si incaricarono: Bucalosso, Giovanni Magnani, detto e' Bigul; Catullo Rava, detto 'e matt d'la Pira; Egisto Candiani, detto l' Uslàzz e Giorgio Gelli detto Zurzôn.

Alle spese avrebbe pensato il Circolo Mazzini.

E un bel giorno costoro si presero la salma di Coriolano e la portarono a Bologna. Non uno fra i cinque aveva veduto in azione un forno crematorio e la curiosità era vivissima in tutti. Durante il viaggio non fecero che parlare di tale faccenda. Come sarebbe stato questo forno? Aperto o chiuso? E il morto si sarebbe prima arrostito e poi bruciato? Oppure si sarebbe bruciato senza arrostirsi?

La cosa era di somma importanza e fu discussa con smodato ardore. Vi fu chi parteggiò per l'arrosto e chi per la bruciatura finchè Zurzôn, non risolse la controversia con un'uscita improvvisa:

— Siete tutti matti e somari!... Ma che cosa credete che adoperino la legna per cremare?

— E che cosa, allora?

— Ma adoperano l'elettricità!

— Sicuro! L'elettricità! Vuoi che gli diano la scossa?

— Per farlo ridere?

— È una scossa tanto forte, povero imbecille, che ti ammazzerebbe cinque paia di buoi senza neanche far bàu!

— A crederci!

— Come a crederci? E in America come ammazzano i condannati a morte? Non li ammazzano con la sedia elettrica?

— Sì, ma la sedia elettrica non è un forno!

— Bella ragione! Se tu metti la sedia elettrica in un forno, invece di ammazzare un uomo, lo bruci.

— Giusta! — disse l' Uslàzz. — E poi l'uomo è bell'e morto.

— Che cosa vuol dir questo? — gridò e' matt d'la Pira. — Morto o vivo è la stessa cosa.

E Zurzôn:

— Perchè, cosa credi tu, che un uomo vivo possa fare le forze con l'elettricità?

Risero tutti quanti, compreso l' Uslàzz.

— Allora lo metteranno a sedere sulla sedia elettrica? — domandò e' Bìgul.

— Questo non lo so — rispose Zurzôn; — però credo di sì.

E rimasero fermi su tale convinzione: che avrebbero posto cioè il povero Coriolano in una sedia elettrica, dentro un forno.

— Allora deve muoversi?

— Sicuro!

— Sarà curioso!

Si proposero di osservare come si sarebbe svolta la faccenda.

Arrivati a Bologna non ebbero tempo da perdere. Il forno non era sempre a disposizione del pubblico; bisognava approfittare dell'ora fissata per sbrigarsi presto. I sozii avevano fame ma convenne rinunziare ad ogni idea di pasto per filar diritti verso il luogo dell'ultima purificazione, il quale era lontano.

Giuntivi dovettero aspettare il loro turno.

— E se lo lasciassimo qui — fece l'Uslàzz — e si andasse a mangiare? Verremmo a prenderlo poi con più comodo.

Ma i compagni non furono dello stesso avviso.

— Non si può abbandonare così un morto! — disse Zurzôn. — Dopo, chissà che cenere ci danno!

Aspettarono. Arrivò il loro turno.

Sbrigata la faccenda, fu consegnata loro una specie d'urna con, racchiusevi, le ceneri del defunto. Quest'urna toccò a l' Uslàzz il quale, trovatasela fra mano, domandò:

Ch's'èll'ste pignàtt?... (Che cos'è questo pentolo?).

L'è la zèndra! (È la cenere) — rispose Zurzôn.

— Quale cenere?

— La cenere di Coriolano.

— Briscola!

E l' Uslàzz volle aprire il coperchio e guardar dentro.

— Ma ci hanno rubato anche nella cenere, questi ladri!... Vuoi proprio che ci sia tutta?... Ce ne hanno dato solo un pugnellino.

— Perchè?

— Non vedi?... Coriolano era un bel pezzo d'uomo e qui c'è la cenere di un rospo.

Brontolarono ma presero ugualmente la via del ritorno perchè avevano una fame diabolica.

— Basta; quando saremo a casa diremo che c'è tutta!

Però, se non vollero perdere il treno, dovettero ripartire senza essersi seduti a tavola. Arrivati alla Città del Capricorno si infilarono nella prima osteria e incominciarono a bere e a mangiare.

L' Uslàzz depose l'urna sopra una seggiola e la coprì col cappello.

L'oste alzò il cappello e incominciò a curiosare.

— Che cosa c'è qui dentro?

Sta férum!... U' j'è un mort! (Sta fermo!... C'è un morto!...).

E giù a ridere. Poi bevvero che si gonfiarono come tanti otri.

— Coriolano, vuoi bere?

— Poveraccio! — fece Zurzôn che entrava nella zona sentimentale.

— Lascialo stare che dorme! — disse gravemente e' matt d'la Pira.

E non si occuparono più del pentolo e del contenuto.

A notte alta erano intenti tuttavia a giuocarsi il litro e il mezzo litro e tutto avevano dimenticato nei fumi del vino.

Poi si presero a braccetto ed uscirono cantando e dimenandosi.

Ad un tratto Zurzôn domandò:

— Dov'è la cenere?

— Quale cenere!

— La cenere di Coriolano!

L' Uslàzz l'aveva dimenticata all'osteria.

Rifecero la strada cercando di sorreggersi a vicenda.

— Bisogna far presto, chè non chiudano.

Trovarono l'osteria aperta; ricuperarono l'urna e uscirono per le strade, cantando.

Cinque ubbriachi e la cenere di un epigone.

Giunti in mezzo alla Piazza, Bucalosso ebbe un'idea. Bisognava salutare Coriolano. Deposero l'urna sui ciotoli poi, presisi per mano e formato un bel circolo, incominciarono a fare il mulinello danzando e schiamazzando.

Senza volerlo, i cinque sozii, iniziavano e consacravamo così il nuovo mito democratico della Morte.

Anche quel giorno il gallo Francesco ruppe il sonno al Cavalier Mostardo il quale, stirandosi fra le coltri, ebbe la non lieta sorpresa di trovarsi ancora al mondo. La sua tristezza veniva a riprenderlo con la luce.

Il dover riallacciare tutte le penose fila della sua angariata esistenza gli era grave tanto che avrebbe preferito esser ripreso dall'annullamento del sonno e non destarsi mai più. Che ritrovava, col ritorno della coscienza, se non cose avverse per l'ultimo deserto della vita sua? Un amore moribondo, una compiuta delusione nel campo politico, una seccatura stomachevole nella condotta di Proli verso di lui. Non sarebbe rimasta che Spadarella, ma anche la piccola più non era lieta e serena ed egli non poteva indovinarne il perchè. Tutto gli andava di traverso; e allora perchè ostinarsi a vivere?...

— Solo perchè mi chiamo Mostardo e per niente di più!

Ma ad andarsene veramente verso la morte, non ci pensava. Avrebbe voluto dormire per svegliarsi col cuore di una volta.

Stava così lasciandosi portare lentamente verso lo squallido paese delle sue più recenti memorie, quando il gallo Francesco cantò per la seconda volta dal cortile.

— Che ore saranno?

Accese la candela; guardò l'orologio; erano le sette.

Si rivolse sull'altro fianco.

— È ancora presto!

Stette così un poco e udì passare il suono di una campana per l'aria; allora gli venne fatto di pensare al Signore.

A quell'ora le porte delle chiese erano aperte ed anche le porte dell'anima sua erano aperte. Se qualcuno lo avesse guidato con parole semplici e grandi, il Signore poteva entrare anche da lui. Per un attimo rivide la sua vita innocente degli otto, dei dieci anni e provò un grande commovimento; ma con l'anima sua di quel tempo ricomparve il clero e l'incantesimo mistico dileguò.

— No!... Il Signore è un'altra cosa!

E, per non sapere come risolvere il dissidio, non volle pensarvi più; ma il gallo Francesco cantò per la terza volta.

Allora Mostardo si levò sul letto e gridò con quanta voce e con quanta violenza si trovò in corpo, gridò verso la porta:

— Ma fatelo star zitto quel gallo!

Rigaglia non era là per ubbidire; nessuno gli rispose; comunque fosse, quand'ebbe gridato questo, si sentì più tranquillo e si ricoricò.

Verso le dieci udì il passo di Rigaglia. Si rivorse fra le lenzuola e brontolò:

— Ecco, il testone!

Udì la voce di lui dietro la porta:

Si pòle?

— Avanti.

Si rivolse a guardarlo col solito cipiglio.

— Cosa vuoi?

— Che cosa devo dire a quelli che vengono a cercarvi?

— Chi viene a cercarmi?

— La gente del vostro partito.

— Ma che gente?

— C'è stato il vostro deputato. Voleva che vi svegliassi. Io non mi sono fidato di venirvi a chiamare.

— Hai fatto benone.

— Credo ci siano degli imbrogli nel partito.

— Lo racconti a me?... Io non c'entro più.

— Avete ragione.

— Io non voglio aver più niente a che fare coi versipelle e con gli eroi della Cattedra.

— Dite bene.

— Sono stanco. Buttarsi via per niente, no e poi no! Perchè se tu lavorassi anche duecent'anni per la Santa Idea, per tutto ringraziamento, ti farebbero morire.

— Ma se ve l'ho sempre detto, io!

— E se il signor Onorevole ritorna, io non ci sono.

— Voi non ci siete!... Lasciate fare a me.

— L' Idea... l 'Idea!... Anzi l' Ideale!... Anzi l' Ideale Umanitario!... Che cosa ne dici, Rigaglia? Abbiam corso mezzo mondo per questo Ideale; sempre col cuore in mano, sempre in prima linea. Ti ricordi?

— Altro!...

— Prima era l'America che combatteva. Combatte l'America?... Ci sono degli oppressi da difendere?... Ti ricordi? Su, Rigaglia; facciamo fagotto. Si deve attraversare l'Oceano..

Potàcchia!...[5]

— ... e attraversiamo l'Oceano! Un mese di navigazione. Un male da regalare l'anima ai pesci. Ci mettono lo stomaco nei piedi; i piedi nel cervello: tutto il mare è una porca girandola che ti macina le interiora. Si sputa sangue e poi si arriva. Ecco i gabbiani che volano... ecco l'America!... Evviva Cristoforo Colombo!... Anche Cristoforo Colombo era partito per l'Idea. Lui scoprì l'America; noi scoprimmo i versipelle di là dal mare!... Sempre loro sono, e dappertutto!.. Per Bios, ci vuole un bel fegato con questa umanità!... Ma non importa. Allora eravamo giovani. C'è da far le schioppettate? Eccomi qua! C'è da far saltare in aria una Corona; da dare un calcio a un Trono; da liberare dei fratelli da un'ingiustizia monarchica?... Eccoci qua, per Bios! Evviva la Repubblica! Abbasso gli oppressori! Noi siamo romagnoli! Ma valà, povero testone! Romagnoli? Sì, buttati via per la gente che ne varrà proprio la pena...

— Ma io ve lo dicevo!

— Tu sì, perchè sei stato sempre vigliacco.

— Ma sono venuto.

— Non potevi farne a meno, sfido! Ero io che ti pagavo e alla carriola non ci volevi ritornare. Sei venuto anche nell'Americaccia del Sud, questo è vero. Basta. Si sbarca... ci guardano come cani rognosi. — Chi siete? Cosa volete? dove andate?... Ti ricordi?... E poi pareva ci facessero la grazia di mandarci a fare le schioppettate! Ci guardavano dall'alto in basso, come a dire: — Chi è questa maramaglia? — E noi avevamo vomitato un mese intiero per l' Ideale Umanitario! Bene; si dimentica tutto; si passa sopra a tutto, c'era l'entusiasmo, c'era il core che gridava la sua vendetta contro gli oppressori; c'era la sete della libertà. Evviva!... Siamo tutti fratelli!.. Ti ricordi?

— Altro!...

— Sì, fratelli!... Ci mandano avanti, ci fanno soffrire la fame e per poco non ci fucilano. Tu, perchè sei stato sempre porco; io perchè ho sempre gridato contro l'ingiustizia.

— Non è vero!

— Sta zitto!... E un bel giorno: pum!... uno schioppettatone mi apre un occhiello nello stomaco. Vedo rosso... sento che mi manca il fiato... bisogna cadere, le gambe non stanno più diritte. — Fratelli!... Evviva... — Sì, evviva un corno!... Ci piantano là, tu ed io, come se non fossimo stati carne battezzata. Quarantott'ore a soffiar l'anima che non voleva andarsene! E poi, e poi tutto il resto. Non siamo morti, perchè c'è la razzaccia della Romagna. E basta! Se rinasco, voglio fare il droghiere, ma l' Umanitario non lo faccio più! Almeno ci avessero chiamati amici, ma nossignore! Il più bel complimento era « sporchi italiani » e « grigno! » e di queste facezie. A ripensarci, il sangue mi bolle ancora!

— Altro!

Rigaglia assentiva senza commentare. Il Cavaliere, nell'impeto de' suoi ricordi, si era seduto sul letto. Era acceso nel viso, scapigliato e scamiciato. Nel suo collo taurino si vedevano pulsare le arterie.

— E dopo? e dopo?... La lezione non era bastata. Ecco la Grecia... ecco l'Albania... E almeno l'Albania ci fosse stata riconoscente. Dice: I turchi qua... i turchi là... questi poveri albanesi se li mangiano vivi; ammazzano i vecchi, le donne, le vergini, i bambini, i lattanti. Abbasso l'Impero della mezza luna! Evviva la libertà! C'è l'Albania che soffre?... Ecco qua Mostardo e Rigaglia. Il nostro Oberdan, il nostro Orsini ci avevano insegnato la strada di combattere la gran canaglia coronata. Per Bios! Dieci soldi in tasca, il cappello di traverso, il fucile sulla spalla e via! E come cantava il cuore! Avevamo la faccenda dell'Austria da sbrigare: la spina di Trento e Trieste, ma non si poteva far niente da quella parte e combattere si doveva. Per tutti gli oppressi in tutto il mondo! Eccola l' Idea, brutto testone! Oltre la nostra patria. Perchè... perchè siamo tutti di carne e d'ossa, perchè dovremmo essere tutti fratelli in questo mondaccio che ruzzola, perchè chi tribola soffre lo stesso male in tutto il mondo: e il dolore è il dolore; e la fame è la fame e la disperazione degli uomini è sempre disperazione, al di qua e al di là del mare!... C'erano delle donne che piangevano; c'erano dei bambini che morivano sotto la spada della soldataglia del Sultano. Domandavano aiuto. Bisognava partire. Evviva la libertà!...

Si asciugò il sudore che gli scendeva dalla vasta fronte...

— Evviva... evviva... e gli albanesi ci trattarono come gli americani. In più ci regalarono i pidocchi. Anche loro pensarono che fossimo andati là per rubare e che al nostro paese non ci volessero più. Hai capito?... E va a sacrificarti, adesso!... Gli uomini sono fatti così. Combattemmo e ritornammo a casa con qualche buco di più nella pelle. E due!... La terza fu la Grecia; ma è meglio non parlarne neppure...

— Sì, è meglio.

— Se mi ritorna in mente il povero Fratti, dritto là, con la sua camicia rossa, con quella sua bella faccia e buona, e piena di forza; se mi ritorna in mente quando si alzò per buttarsi avanti ed era nel sole e riluceva come per mostrare a tutti i vigliacchi del mondo che non aveva paura, per Dio!... Che era un italiano, un romagnolo, un garibaldino e gli piaceva di morire per la sua idea... ecco... bisogna che pianga!... E volle morire!... Glie lo volle far vedere lui, alla grecaglia, come ci si butta contro al pericolo, e come si bagna la terra di sangue quando si è garibaldini!... Domòkos... Domòkos!... Antonio Fratti morì a Domòkos; ma la grecaglia sporca non seppe mai chi fosse questo Cavaliere dell'Umanità!

Rigaglia scuoteva la testa senza dir niente. Mostardo per un poco tacque assorto; riprese poi a voce spenta:

— Be', mezza la vita l'ho spesa così. Che cosa mi rimane adesso? Lo scarto. E sono stato sempre e sempre sarò un disgraziato!

— Non vi lamentate del giusto.

— Tu non puoi capire.

— Capisco magari!

— E che cosa? Se non sai neppure distinguere la fava nera dalla fava bianca!

— Anzi ho qui una lettera per voi.

— Una lettera?... E quando aspettavi a darmela?

— Oi... abbiamo parlato sempre!

E si frugava le tasche.

— L'hai perduta?

— No. Eccola qua.

Glie la tese. Il Cavalier Mostardo, non appena ebbe veduta la soprascritta, si fece bianco come un panno lavato.

Era Mignon che scriveva.

Licenziato Rigaglia e rimasto solo, saltò dal letto, corse al tavolo, sedette guardando sempre la lettera dalla quale si aspettava la grande sentenza.

La palpeggiò, la rivolse per tutti i sensi.

— Quanto ha scritto!

Ma il cuore gli diceva che non c'eran notizie buone per lui; e non si fidava di aprirla. Finalmente piano piano strappò la busta. C'era un gran foglio con poche parole.

Caro Mostardo,

Vedete che è inutile mentire? Vi mando la prova indiscutibile della vostra infedeltà. Quando io non pensavo che a voi, voi mi tradivate tranquillamente. Ora poi non vorrete farmi credere di soffrire, non è vero?

Vivete sano e lasciatemi tranquilla. Non desidero altro da voi.

Ninon Fauvétte

Compiegata con la lettera della francese era la lettera che il Cavalier Mostardo aveva scritto alla signorina Proletaria. La viragine urlante si era vendicata, gli aveva dato il colpo di grazia. Ora egli sentiva per davvero che l'ultima speranza era morta. Ora si sentiva tremendamente solo in una vasta rovina e, dalla lontananza, non gli arrivava che il ghigno e la stridula risata di Proli.

Si alzò e si vestì, deliberato a trovarla a qualsiasi costo. Quel che le avrebbe fatto non sapeva, ma certo ch'egli non voleva lasciar le cose al punto al quale erano giunte senza togliersi almeno la soddisfazione, ben magra ormai, di dimostrare una volta ancora chi fosse il Cavalier Mostardo.

Mostardo sapeva che, dalla morte di Coriolano, madamigella Proli aveva abbandonato Dovia e le Scuole per andare a stabilirsi nella casa del suo defunto zio. Non che la casa l'avesse ereditata, chè non era neppure del povero Coriolano, ma questi aveva diritto di goderne ancora per un anno o due. Ai diritti dello zio era subentrata la nipote.

Era mezzogiorno quando il Cavaliere tirò il cordone del campanello. Gli aprì una vecchia.

— C'è la signorina Proletaria?

— Non c'è più!

— Non c'è più?

— Non lo sapete?... È scappata.

— Dite davvero?

— Saranno cinque giorni! Ha rubato il testamento del povero Coriolano ed è scappata. Il testamento non era stato depositato dal notaio. Pare che Proli fosse stata diseredata dallo zio.

Il Cavalier Mostardo non aggiunse parola, e non volle saper altro. Se ne andò come era arrivato.

A lui non rimanevano che le strade squallide e deserte, buie e cineree della sua disperazione.

Errando di strada in strada, di vicolo in vicolo si fermò, che era già presso il tramonto, ad un'osteria delle mura. C'era un pergolato; qualche tavolo sbilenco, sudicio, pieno di mosche. Si fermò nell'angolo più riposto, dietro una macchia di tamerici; sedette, puntò i gomiti sul tavolo, si prese la fronte fra le mani.

Nessuno andava a chiedergli se volesse mangiare o bere. Rimase solo; si perdette nell'ombra della sua immensa tristezza. Arrivava, per lui, la notte del cuore; la più fonda e tragica.

Ecco che l'idolo del popolo era caduto e una donna lo trascinava via fra la polvere come una immondizia della strada, appiccata a una ruota della sua vettura.

Mostardo, Mostardo!... È finita l'estate, e la tua baldanza che riempiva il mondo, si risolve in una nebbia bassa e pesante che non lascia più neppure un lembo remoto di azzurro. La tua rossa anima si imbianca. Non sei più tu, Mostardo, con la tua leggenda vermiglia. Più non danzi i tresconi, più non gridi per le adunate, più non lanci il tuo cappello in mezzo a una sala da ballo ed obblighi tutti a non muoversi e un valzer è suonato per il tuo solo cappello, in mezzo alla sala, fra il circolo della gente che ti applaude ed ammira.

La leggenda si sfata. Tu curvi il capo e le spalle; tu taci, ti apparti e piangi il tuo pianto senza rumore, mentre Rigaglia ti guarda, disceso dal tuo Calvario, e si appresta alla sua facile gloria che lo condurrà lontano.

Mostardo, Mostardo!... Eran più lievi al tuo desiderio le gioconde donne che sapevan di buono come le mele cotogne e non avevano le labbra di ceralacca; arrivavano per darti la soda freschezza del loro corpo ben fatto e se ne andavano con un bel riso vermiglio, dopo essere state tutte quante tue e avere goduto con te, nel letto a due piazze, fra le lenzuola un po' ruvide, che sapevano di buona lavanda. Allora ti levavi più forte e il mondo era tuo. Allora le baciavi l'ultima volta sul collo ed aprivi loro la porta con gratitudine e libertà come un padrone contento. E dove era Mostardo era il Verbo. E la Rivoluzione potevi infrenarla o scatenarla quando meglio ti fosse piaciuto.

Vedi vedi dove ti ha condotto una repubblicana di Francia?... Eri tu tale da far figura a Parigi, uomo di provincia, e solamente?... La tua sanità non è più che patimento. La cosa aristocratica ti ha sconvolto. Perchè salire altre scale da quelle che ti erano destinate? Parigi non poteva intenderti. Un bello e grande e robusto albero ha bisogno dei campi e non delle vie lastricate. Le grandi vetrine fastose dei negozi di lusso non son fatte per i poveri fiori di campo che vivono solo di un po' di colore e di molto ardore. Ora sei arrivato alla porta dell'ultima sera e dovrai varcare la soglia. Addio!...

E udiva, così stando e in tanta tristezza, il ronzio delle vespe, delle mosche, dei calabroni. Poi avvertì che qualcuno parlava dietro le sue spalle; ma non vi pose mente; solo un nome lo fece inorecchire.

Certo i due conversatori non P avevano veduto e parlavano abbastanza forte perchè non sfuggisse a lui una sola parola.

Diceva l'uno:

— Che cosa vorrebbero fare?

E l'altro:

— Glie l'hanno giurata! Bàgàj è rimasto in mezzo alla strada con quattro bambini, la moglie incinta e due vecchi.

— Non è della Lega rossa?

— Sì.

— E perchè non ci pensa la Lega?

— E dove si trovano i fondi (poderi) per Bàgàj?... Nella sua famiglia non ci sono braccia! È solo a lavorare e deve prendere un garzone e delle opere.

— E il marchese della Pipetta lo ha licenziato per questo?

— No; ma perchè era nella Lega rossa.

— Allora è un vigliacco.

— Oh, la pagherà salata!

— Sì, le parole di Bagàj!... Urla urla e poi non ammazzerebbe neppure una mosca.

— Questa volta, no.

— E perchè?

— Perchè non è lui che deve ammazzarlo.

— E chi allora?

— Sono gli amici di Bagàj che l'hanno giurata al marchese.

— Quali amici?

— Gli uomini dei Turèll.

— Buone pelli!

Jusafin e Plèdga. Li conosci?

— Chi non li conosce? Be'... ma dove lo pescano, il marchese?

— Questa sera deve andare alla sua villa. Lo sanno. Lo aspetteranno per la strada del fiume, dietro ai canneti, Plèdga se tira, non sbaglia!

Non una parola del dialogo degli ignoti era sfuggita al Cavalier Mostardo. Ormai ne sapeva abbastanza; doveva scomparire senza essere veduto per non destar sospetti, per rimaner padrone del segreto carpito occasionalmente e poter agire come meglio gli fosse piaciuto. Si pose gattoni; scivolò dietro la macchia delle tamerici; arrivò al cancello del giardino; si allontanò trattenendo il fiato poi, al primo vicolo scantonò e prese la corsa.

Ad un tratto gridò:

— Spadarella?... Spadarella?...

Era certo di averla veduta in fondo alla strada, in una rossa chiazza del sole moribondo.

Non era possibile che un'altra creatura potesse assomigliare tanto alla sua bambina. Aveva la stessa veste, gli stessi capelli, l'identica andatura.

— Spadarella?... Spadarella?...

Ma la piccola non solo non si rivolse, anzi affrettò il passo e scomparve. Allora Mostardo si mise a correre per raggiungerla; ma, quando arrivò in capo alla strada, ebbe un bel cercare a destra e a sinistra!... Spadarella non c'era più.

— Dove sarà andata?... È possibile non mi abbia sentito?... Forse non era lei!

Riprese la strada; ma una nuova amarezza indefinibile gli si annidava nel cuore.

In una stanza squallida di una casa svergognata, la povera piccola bionda del giardino tranquillo aveva portata la sua verginità all'amore. Ma ritornava senza un canto nell'anima, nella sera rossa come il suo bel volto atterrato.

CAPITOLO XVII. Qui l'amore e la bontà danno scacco matto al cuor di Mostardo e Spadarella canta.

Rigaglia aveva un gran daffare. Tutti i giorni, quando il Cavalier Mostardo ritornava a casa, verso sera, trovava il « brutto testone » in cortile, in mezzo a un crocchio di contadini. E parlava, e gestiva, e discuteva come un invasato, raccogliendo la ferma attenzione e il pieno consenso degli ascoltatori suoi.

Una volta l'udì dire:

Perchè la bassa sflicita debbono comandare; e la terra saranno di chi la lavora!...

Ora, per penetrare nell'ermetismo rigagliano, convien sapere che l'oscurissima « bassa sflìcita » (bassa infelicità) altro non era se non il popolo minuto, la plebe più in basso, la maggioranza dispersa.

Forse in altri tempi, e con altro cuore, il Cavalier Mostardo si sarebbe fermato ad ascoltare i discorsi di Rigaglia e ne sarebbe nato uno fra quei contradditorii ineffabili, in cui il grande trionfava del piccolo non solo per virtù di logica, ma, altresì, per magnanima virtù muscolare e definitiva. Però, essendo tetra l'ora corrente, e a ben altro intesa l'anima affannata del nostro eroe, accadeva che il Cavaliere passasse oltre senza rifiatare.

E questo era piaciuto a Rigaglia il quale moltiplicava i suoi raduni accrescendo sempre il numero degli ascoltatori, tanto che una sera, rincasando il Cavalier Mostardo, trovò il cortile talmente stipato, da non sapere come attraversarlo per arrivare alle scale che conducevano alle stanze del primo piano.

E quella sera chiamò Rigaglia in disparte e gli domandò:

— Mi sai dire che cosa complotti?

— Niente.

— Che fanno qui tutti questi contadini?

— Si parla.

— Ma sei tu che parli sempre!

— Oi...

— Be'... e che cosa dici?

— Un po' di politica, così...

— Con questi insensati?... Vuoi vender loro dei lunari?

— Discutiamo del giusto!

— Nelle tasche degli altri!

— Il santo sudore dei lavoratori...

— Ma va' via, chè sei un versipelle!

E l'aveva piantato in asso, così, perchè tutto gli era indifferente ormai; e avrebbe lasciato crollare il mondo senza muovere un dito.

Non voleva veder più nessuno: nè l'onorevole, nè gli altri uomini minori del partito; in proposito aveva dato ordini severissimi e inutilmente erano andati a cercarlo l'avvocato Suasia e Bucalosso; l'ingegnere Fias e Asdrubale Tempestoni. Egli voleva essere come morto.

Di tale stato di spirito veniva approfittando, come abbiamo veduto, il lento e cocciuto Rigaglia il quale, avendo segretamente saputo che si lavorava, nei circoli repubblicani, a preparare la Settimana rossa, decisosi ad uscir dal suo guscio per entrare nel mondo dei fatti, si preparava gli uomini che potevano intenderlo e sostenerlo, il giorno in cui, stanco di essere nessuno, gli fosse piaciuto difendere gli interessi suoi apertamente e in forma aggressiva.

Come e perchè Rigaglia fosse, arrivato a tale divisamento non sarà di intesa difficile quando si pensi che aveva egli accumulato tanto danaro da pareggiarsi, con giustizia, a un piccolo borghese; ora il solo timore di poter essere compreso nell'odiata classe degli sfruttatori, lo improvvisava e lo manteneva leone.

Si avvicinavano i giorni della Settimana rossa e nessuno poteva supporre che dalla tanto auspicata sommossa dovesse balzare alla luce una nuovissima farsa; molto meno poi Rigaglia testone poteva immaginar questo; egli anzi credeva imminente il Regno del Popolo; e siccome, per aver un certo fiuto pratico, sapeva che tale Regno si sarebbe iniziato con la scalata alle Banche ed alle Casse di Risparmio, voleva, in ogni caso, essere fra i primi a penetrare nei tanto vietati recessi: in primo luogo, per mettere a posto le cose; e, in secondo luogo, per non rimanere spogliato e disautorato.

E il socialismo ch'egli veniva propalando di sera in sera alle sue lanose pecore, nel cortile del Cavalier Mostardo, si intonava a tale caotica semplicità e a tale divina ignoranza da permettergli le speranze e le certezze più strampalate.

Tale era l'apostolo, quale l'oratore; e tale l'uomo, quale l'eterna bestia.

Scrisse una lettera umile come non aveva scritto mai. Il giorno in cui, padrone di un segreto capitale, avrebbe potuto agire con astuzia, fu più ingenuo del solito. Gli doleva il core ed era schiavo del dolore suo che arrivava troppo tardi per esser dominato.

Mostardo conosceva bene i suoi romagnoli e sapeva che il giorno in cui avevano stabilita la morte di qualcuno, tale morte era certa. Sapeva altresì che nessuno avrebbe veduto o parlato. Conosceva l'omertà della sua gente.

Il marchese della Pipetta camminava inconscio verso l'ultima ora sua. Il caso gli toglieva d'attorno, all'insaputa, un rivale. Era vero. Ma lo stesso caso non poteva ridargli il cuore di Ninon Fauvétte. Morto il marchese, la bella donna crudele avrebbe forse lasciato, e per sempre, la Città del Capricorno. Questo non voleva Mostardo. Preferiva saperla in un altro napoleonico giaciglio anzichè nell'ignota e insuperabile distanza. Così si fece umile nella sua tristezza e scrisse a Ninon Fauvétte.

Cara Mignon,

vi siete fatta ingannare da una creatura indegna. La lettera che mi avete spedito come prova della mia infedeltà, non ha nessun valore. Anche i sassi sanno che vi voglio bene e che muoio per voi. Provo le pene dell'inferno. Ma sarà inutile che vi racconti quello che non volete sentire. Però per provarvi ancora una volta ch'io non sono capace di far porcherie, vi dico questo. Mignon: state a sentire. L'uomo che amate corre un tremendo pericolo; non posso scrivervi quello che vi dirò a voce. Datemi un appuntamento subito subito. Bisogna far presto. Io non vi domando niente, non voglio niente, non ho bisogno di niente. Io sono un insensato che vi vuol bene e vuol salvare voi e il vostro uomo. Perdonatemi. Non so scrivere. Se sapessi scrivere vorrei buttarvi qui dentro il mio cuore perchè ci leggeste la malinconia. E vorrei che la carta e l'inchiostro si innamorassero come me per potervi parlare. Ma lo so che non val niente! Io non so mettere quattro parole in croce e voi siete di Parigi. Ah, poveretto me!... Sarebbe stato meglio se il Signore mi avesse fatto morire.

Rigaglia vi porterà questa lettera e aspetterà la risposta perchè bisogna far presto.

Addio, addio.

Il vostro Mostardo

Quand'ebbe scritto, si passò il dorso della mano sugli occhi e ristette immobile, immerso nel profondo del suo smarrimento. Poi si riscosse e chiamò:

— Rigaglia?

Nessuno gli rispose. Attese un poco, poi, contro il suo solito, non dette in escandescenze improvvise, ma si alzò e si accostò alla finestra che dava sul cortile.

In mezzo al cortile era Rigaglia che arringava la sua tribù lanosa e irsuta.

— ... perchè l'ingiustissia socialle l'è il frutto della borghesia. I nostri bambini, le nostre mogli, i nostri vecchi padri muoiono dalla fame per ingrassare i patroni, i vigliacchi borghesi. L'è l'ora di finirla. Su fratelli... su compagni!... La «fitta schiera» sarà la nostra bandiera!... Perchè,

— Il libro del perchè sta sotto il culo al Papa!

Rigaglia boccheggiò e alzò la faccia smarrita.

— Dico a te, Patatùchi!...

Rigaglia non rifiatò. Aveva visto il fiero cipiglio di Mostardo.

— Su, vieni di sopra!

Non si mosse.

— Con chi dico?... Vuoi che venga a prenderti per il colletto?

Allora Rigaglia mormorò qualche parola incomprensibile e sciolse l'adunata.

Eccolo di fronte al Cavalier Mostardo.

— Cosa volete?

— Dì un po' galantuomo, hai presa la mia casa per il Pestapévar?[6]

Me no!

— Allora ricordati che non voglio più avere la tua gente fra i piedi. Ci siamo capiti?

Mo si!

— Va bene. E adesso prendi questa lettera e corri a casa del marchese della Pipetta. Devi domandare della francese e consegnarla nelle sue mani. Hai capito?

— Sì.

— E aspetta la risposta.

— Sì.

— Ma fa presto. Corri.

Rigaglia benchè a contraggenio, partì correndo. Il Cavalier Mostardo uscì a passeggiare nel cortile.

Non poteva attendere in pace.

Quel giorno il gallo Francesco era libero per il cortile e pareva ne fosse padrone. Il Cavaliere se lo trovò fra i piedi tre o quattro volte. Finì per sistemargli un calcio nella coda.

Rigaglia non ritornava e la sera era prossima.

Se il marchese e Ninon Fauvétte erano partiti per la campagna, addio!... Il delitto era consumato!

Perchè Jusafîn e Plèdga avrebbero mirato giusto, e un colpo poteva toccare anche a Mignon.

Quest'ultima possibilità, che ancora non gli era balenata, gli fece insopportabile l'attesa.

Se Mignon fosse morta era più che certo che l'ultimo domicilio di lui, povero grande, sarebbe stato il manicomio di Imola. Certo non avrebbe potuto resistere al tragico crollo del suo amore. La fine irremissibile lo avrebbe stroncato. Piuttosto soffrire così per lunghi anni e saperla fra le braccia dei rivali suoi fortunati, anzichè emigrata dal mondo, nell'ombra inesplicabile.

Epperò tali pensieri e tali tristezze gli lancinavano l'anima; e camminava sempre più spedito per il cortile!

Il gallo Francesco era scomparso verso il pollaio.

Poi la troppo lunga attesa gli si fece insopportabile ed uscì sulla strada.

Da qual parte sarebbe arrivato Rigaglia? Quale strada avrebbe fatto?

Gli balenò un'idea luminosa: bisognava attaccare la Carlotta; tenersi pronto per arrivare con maggior sollecitudine dove fosse occorso.

Rientrò; trasse la cavalla dal chiuso; incominciò a vestirla. In breve tutto fu in ordine. Allora aprì il portone e salì sul baroccino. Aveva appena prese le redini e stava per chinarsi a raccoglier la frusta quando udì per l'àndito il busso disperato degli scarponi di Rigaglia.

Si rivolse. Il brutto testone arrivava di gran corsa.

— Bè?... Cosa c'è di nuovo?

— Sono andati via...

— Ma dove?

— In campagna...

— Tutti due?

— Sì... tutti due... il marchese e la francese...

— Porco Dacco!...

Partì alla disperata, lanciando la Carlotta alla gran carriera, via per gli acciottolati della Città del Capricorno. Lo videro saettare come un fulmine; fu accompagnato da urla e fischi; stritolò due cani e un gatto, rovesciò una carriola e il suo padrone, portò via di netto una ruota a un baroccino da corsa, urtò in un paracarro, salì su cinque o sei mucchi di ghiaia, scortecciò un albero, investì un ciclista, ma tutto ciò non lo scompose; ritto sul baroccino, senza cappello in testa non fece che urlare e frustare. La Carlotta filava via, il ventre a terra, le narici enormemente dilatate, soffiando come una vaporiera.

E scomparvero in un nuvolone di polvere, sotto la sera rossiccia.

Pratico di ogni strada egli pensò di arrivar prima prendendo le scorciatoie. In breve fu in prossimità del fiume maledetto, fra i canneti del quale si nascondeva l'insidia al suo amore. Allora frenò la Carlotta che stava per scoppiare e entrò in un'aia.

Una donna era seduta presso il muro della casa colonica, sotto a una vite a pergolato. Girava un filarello.

Rusina, è in casa il vostro uomo?

— Sì: è nella stalla.

— Chiamatelo.

Pirôn uscì, in maniche di camicia; una forca fra le mani.

Pirôn, fatemi il piacere: staccate la cavalla e datemi la schioppa.

— Cosa volete farne? Volete andare a caccia a quest'ora?

— Sì; voglio andare a caccia!

— Oi...

E Pirôn rientrò ed uscì con la schioppa.

— Badate che è carica a pallettoni!

— È quello che voglio!

Allora Pirôn ammiccò e chiese sottovoce:

— C'è da far del fumo?

— Sì.

— Volete che venga anch'io?

— No. Voi staccate la cavalla e aspettatemi.

— Come pare a voi.

Mostardo prese la schioppa e uscì correndo. Pirôn e la sua donna si fermarono a guardarlo ma non dissero niente.

Non gli costò troppa fatica arrivare alla strada del fiume: ne era distante appena un cento metri; solo, quando si trovò di fronte ai canneti nei quali dovevano essersi nascosti Jusafîn e Pledga, gli nacque il dubbio che la vettura del marchese fosse trascorsa; ma, se era trascorsa, la strada avrebbe dovuto essere logicamente affollata di contadini, nel punto del misfatto; invece non vedeva nessuno; uguale silenzio e uguale deserto. Allora bisognava aspettare; ma dove? Era cosa migliore cacciarsi pei canneti e cercare i delinquenti nel loro agguato, o non piuttosto aspettare in quel punto la vettura del marchese per farla ritornare verso la città? Egli, veramente, avrebbe voluto fare e l'una cosa e l'altra. Nell'incertezza, optò per la prima e, attraversata di un balzo la strada, discese per la riva del fiume e si perse fra il frusciar delle canne.

Il sole era andato sotto; l'ombra incominciava ad addensarsi. Egli non distingueva un gran che a più di tre passi di distanza.

— Per Bios!...

E poi bisognava fare adagio adagio adagio, perchè quelle maledette canne pareva avessero le sottane di seta, tanto frusciavano; e, a muoverne una, si muovevano in cento come se tremasser tutte quante per la paura, o volessero far la spia le assassine!

Allora cercò i piccoli scoli che i contadini hanno cura di tracciare quando piantano un canneto, e si mise per quelli. Procedette curvo, quasi gattoni. Le canne, parlarono meno. A quando a quando si fermò ad ascoltare ma non sentiva niente.

Sentiva solo il verso del chiù, come nella notte che l'aveva condotto all'amore. Quanto lontana!... E gli spasimava in cuore una pena di morirne.

Perchè non essere come gli uomini che sanno distrarsi a scacciare i ricordi che ammalano?... Perchè vi sono certi ricordi malati che riducon la vita a una tristezza nera. E, certuni, non sanno distaccarsene mai più.

Ora cantava il chiù, frusciavan le canne ed egli non poteva scoprire i manigoldi in agguato.

Ma, di un subito, sostò e si disse:

— Eccoli!

Aveva veduto infatti muoversi un'ombra. Eran loro! Si acquattò, trattenne il fiato, procedette pian piano, nell'atto di puntar la schioppa e far fuoco. Non vedeva bene di che si trattasse, ma non voleva accostarsi troppo. Era necessario agir di sorpresa. Quando gli parve di trovarsi alla distanza opportuna inspallò lo schioppo gridando:

— Ferma o ti sparo!

Ma l'altro era già fermo; era fermo ed ebbe paura; ebbe paura e fece per fuggire; ma in quel che si levava avendo dimenticato i discreti bisogni che lo avevan condotto nel cuor del canneto, il Cavalier Mostardo fece fuoco e colse il bersaglio; e il bersaglio non era la parte più eroica dell'uomo, anzi era quella che non si mostra mai al nemico e che è equidistante fra i calcagni e le spalle. Ora tale parte sanguinava per più ferite.

— Oh Dio!... Mi hanno ammazzato!...

Il Cavalier Mostardo fu sopra al contadino:

— Sta zitto, insensato!...

— Oh Dio!... Oh Dio!...

— Oh Dio, un corno!... Non vedi che non è niente?...

— Mi avete scambiato per una lepre?

— Peggio per te che vieni per i canneti a far certe cose!...

— Sono io che devo chiedervi scusa?

Il Cavalier Mostardo stava per rispondere a tono, irritato dal l'errore e dalla maligna sorte che, anche nell'ora più tragica della sua vita, lo perseguitava col ridicolo, quando sussultò allo schianto improvviso di tre schioppettate e a un urlo acutissimo che gli arrivò dalla strada. Allora si gettò attraverso il canneto schiantando tutto innanzi a sè come una raffica.

Vide un uomo fuggire lungo il fosso; gli dedicò l'ultimo colpo che gli restava ma non lo colse.

Fu sulla strada. Vide una vettura ferma e si dette a correre gridando:

— Mignon? Mignon?...

Ma appena la voce di lui si era levata che il cocchiere, frustati i cavalli, partì alla gran carriera.

Quando arrivò sul posto non c'eran che tre o quattro contadini costernati.

Ed uno gli disse sottovoce, accostandogli:

— Cosa hai fatto, disgraziato?...

— Io?...

— L'hai ammazzato!...

Allora Mostardo fu preso da un grandissimo furore. No! Era troppo!... Tutta la sua più profonda umanità si ribellava alla suprema ingiustizia del destino. Il suo cuore ferito non poteva sopportare più oltre il peso tremendo del ridicolo.

Aveva perduto l'amore; aveva perduta la pace; fuori dalla mediocre e quotidiana ventura degli uomini si trovava ai limiti di una tragedia e di una farsa, sbalestrato dall'una all'altra come un cencio, una povera cosa nella grande bufera dell'ombra, uno zimbello del mistero, uno specchio di nullità impossente nel fluire dei fatti di cui si intesse la vita, questa pausa attonita fra i due silenzi.

No, per Dio!... Egli era ancora ben vivo; aveva ancora le braccia e i muscoli saldi, poteva reagire almeno contro coloro che, volenti o no, rappresentavano in quell'istante il suo destino cane.

E, afferrata la doppietta per le canne, incominciò a farla roteare per l'aria come una clava e a menar giù di gran colpi alla disperata.

Rimase solo. Una chiarità di stelle lontane; una apparente tranquillità di mondi negli abissi di Dio.

Si vedevano appena le chiome degli alberi e la strada bianca. Si guardò intorno.

Una larga chiazza di sangue macchiava la strada.

Vide il suo Calvario.

Chinò la testa e si allontanò trascinando i passi, chè gli pareva di morire.

Il teatro era tutto venduto per cinque o sei sere di seguito. Tempestoni aveva realizzato ottimi guadagni. Bene o male che andasse, si era messo al sicuro. Spadarella gli aveva portato fortuna. Il Golfo Mistico era una realtà. La Grande Lotteria dei quattro buoi e delle sette vitelle filava a maraviglia. Asdrubale era contento, ma Spadarella non sorrideva più.

— Che cosa ha fatto la mia bambina?

— Niente, Spina Rosa.

— Ti fa tanta paura cantare in teatro?

— No.

— Non ti senti bene?

— Mi sento bene.

— Allora che cos'hai?

— Non lo so neppur io. Non mi badare.

— Una volta, alla tua vecchia raccontavi tutto. Adesso stai sempre zitta. Perchè? Credi che non sappia che l'altra notte hai pianto?

— Pianto?

— Si. Avevi ancora gli occhi rosa quando sei venuta da me.

— Non avevo dormito.

— Sempre per lui...

— Spina Rosa, sii buona! Non ne parliamo! E Spina Rosa taceva, asciugandosi gli occhi col grembiale.

Una sera, in una stanza squallida di una casa svergognata, la povera piccola bionda del giardino tranquillo, aveva portata la sua verginità all'amore.

E non aveva trovato che la violenza insensata di un bruto. Una accorante volgarità.

Forse Paolo, nell'immensa dolcezza che ella era per concedergli, si sarebbe mostrato diverso; forse le avrebbe aperto l'anima come non glie l'aveva aperta mai; forse le avrebbe detto le cose ch'ella sospirava da tanto mai tempo e la piena gioia del loro amore sarebbe nata dal sacrifizio di lei. Ma tutto questo non era accaduto; ma ella aveva ora la sensazione straziante di essersi prostituita.

Tale sensazione le aveva approfondito gli occhi in un'ombra nuova.

Era uscita da quella casa portando con sè la morte del suo amore. Irremissibilmente. Egli era ritornato con la sciocca arroganza dell'uomo che crede ormai potersi far forte di un diritto acquisito e aveva trovato il pallido sdegno di Spadarella. Ella aveva sopportato gli occhi di lui, fissi ne' suoi grandi occhi chiari: e non aveva arrossito.

— Allora perchè sei venuta?

— Ti volevo bene!

— E adesso?

— Ora è finita.

— Perchè?

Spadarella non rispondeva.

— Ma sai quello che hai fatto?

— Sì, lo so! Sono arrivata fino in fondo con una grande ansia d'amore; ma ciò ch'io cercavo non poteva venirmi da te!

— Ora fai la romantica!

— E tu non insistere. Tanto non puoi capirmi.

— Oh, ti ho ben capita!...

— .....

— So ciò che vuoi!

— .....

— Hai incominciato bene la tua carriera teatrale!...

Ella sapeva trattenere il singhiozzo e non rispondere.

— Allora è l'addio che vuoi darmi?

— Sì!

— Proprio l'addio?... Proprio l'ultimo?

— Proprio l'ultimo!

— Ma che donna sei, tu?

— .....

— Perchè dicevi di volermi bene?

— Oh, Paolo!... Te ne ho voluto tanto!

— A parole!

— E puoi dirlo anche adesso?

— Se non fossero state parole, ti sembra che avresti potuto separarti da me tanto facilmente?

— Come non puoi capire!

— Non vorrai dirmi che soffri!

— .....

— Perchè se soffrissi davvero non saresti così fredda.

— Ma perchè ti tormenti?... Tanto tu non mi hai amata mai e il tuo scopo l'hai raggiunto. Non ti basta?

— No. Tu devi esser mia.

— È inutile. Paolo. Ciò che è morto, è morto!

E l'aveva lasciato così vincendo il pianto e la sconsolata delusione del suo sogno. Ma era forte e sapeva decidere senza pentimento. Non aveva più niente da chiedere; niente più da donare. Tutto si era inaridito nell'improvvisa tristezza.

L'opera prescelta per il debutto di Spadarella fu il Werther.

Se ne dovevan vedere delle lacrime, su per i palchi e in platea!...

Signor... la casa è qui...

L'ora è di riposar...

Quando Spadarella cantava, si sentivan dei muggiti anche nel Golfo Mistico. Erano i professori di orchestra.

— Bravaa... bravaaaa, bravaaaaaa!

E avveniva bensì che il Golfo perdesse tutto il suo misticismo; ma, d'altra parte un romagnolo puro sangue non potrà mai fare del proprio entusiasmo una cosa tascabile.

Asdrubale Tempestoni ne godeva. Qualche volta aveva le lagrime agli occhi.

Or ecco il gran giorno. Per le piazze, per le strade, per i sobborghi, dal Campo degli Svizzeri al Ponte Schiavonìa, si vendevano le ultime cartelle della Grande Lotteria. Tutto il contado era disceso alla città del Capricorno. Le maggiori fiere non avevano raccolta mai tanta moltitudine di genti. Nella Piazza non si circolava; i loggiati eran tutti una massa immobile di persone che si pigiavano disperatamente. Tutti gli amori della campagna si eran dati convegno in città, quel giorno; e, quando i contadini fanno all'amore, si fermano e non li smuove più neanche una vaporiera.

Bisognava farsi largo a furia di braccia e di spalle. C'era, dappertutto, quell'odore di selvatico che hanno gli uomini che si lavan poco. Ora è certo che i contadini si lavano solo durante l'estate e quando hanno a portata di mano un fiume o il mare.

C'era un gran sole e un sereno di paradiso. Rideva il mondo, l'ora e la stagione.

Però, in una casa taciturna, un uomo non rideva: il Cavalier Mostardo. Chiuso nelle sue angosciose meditazioni, non aveva voluto vedere neppur Rigaglia. Che cosa gli sarebbe toccato ora?...

Il marchese era morto. L'aveva saputo prima di rientrare. Glie l'aveva detto l'avvocato Suasia, costernatissimo. La sua Mignon era serrata nella villa remota ed egli certo non avrebbe potuto accostarla. Dirle quello ch'egli aveva tentato per salvar lei e il suo amante, non era possibile. Non gli restava che l'ultima disperazione senza uscita. E poi... e poi...

A quando a quando un'angoscia atroce lo profondava nella più densa tenebra. E s'ella avesse pensato...? E, se tutti avessero creduto...?

— Ah, no... no... no!...

Si alzava; gli mancava il respiro; incominciava un furioso andare e venire da un muro all'altro della stanza.

— Perchè io... per gettare il mio cuore sotto le ruote della tua carrozza, Mignon... io, per gettare il mio cuore sotto le ruote della tua carrozza... e per questo, solo per questo avrei da avere in cambio tanta maledizione?... Io, Mignon? Io?...

E si portava le mani alla testa; e si scompigliava i capelli; e gridava le sue bestemmie al soffitto, ruggendo per la impossibilità che gli chiudeva le strade, tutte le strade e la vita.

Talvolta si fermava; gli occhi fissi nell'ombra e due grandi lucciconi gli tremavano fra le ciglia.

— Perchè? Perchè? Perchè?...

Non gli poteva rispondere che il suo cuore, e il suo povero cuore era deserto. Ogni più cara immagine ne era esultata e non serbava una sola parola che fosse di consolazione. E neppure poteva in qualche modo reagire; anzi, di ora in ora si aspettava il peggio. Tutto era rovina e precipizio.

Aveva sempre innanzi agli occhi il volto livido di Mignon e il suo gesto di spavento quando l'aveva veduto correre verso la vettura.

Dunque ella pensava davvero ch'egli fosse l'assassino? Era possibile una cosa tanto mostruosa? Era possibile, sì, anzi certissima.

— Per Dio, mi ammazzo!

Ora la disperazione gli parlava seriamente e l'idea di andarsene all'altro mondo non era tale da scivolar via senza lasciar traccia nessuna.

— No, mi ammazzo!... Voglio ammazzarmi!...

E incominciò col darsi cinque o sei pugni in testa. Poi si fermò a guardare il cielo. Ed era la sera. La sera pallida si affacciava sopra alle gronde con la sua malinconia e una stella. Anche l'ora gli parve propizia. I primi giorni di autunno muoion così, fra boschi e colline; e il silenzio li prende per mano. Quando appaiono le prime stelle si aprono le strade per le anime sconsolate: le strade eterne.

Era stanco di tutto; aveva nausea di tutto.

— Basta basta basta!

Si accostò alla finestra. C'era il bel campanile col suo cono rossigno, alto alto nei cieli. E le rondini stridevano ancora.

— Addio!

Che avrebbe detto Spadarella? Che avrebbe fatto Spadarella sua? Quanto avrebbe pianto?

E poi... e poi.. chi muore giace e chi vive si dà pace! Sarebbero ritornati i serenanti giorni della gran gioia anche per Spadarella... e senza lo zio Giovanni. Tanto lo zio Giovanni, volere o volare, doveva morire prima della sua bambina. Fosse stato fra trenta anni come quella stessa sera, la cosa non mutava gran che. La precedenza toccava a lui; era la legge... dunque?... Doveva ben scriverle qualcosa però... almeno salutarla. Sì, salutarla!

— Addio, Spadarella. Il tuo povero zio non ne può più e va via. Non importa mica che tu pianga troppo... perchè...

E il testamento? Doveva fare testamento, altrimenti che l'avrebbe goduta la roba sua?... Certo, il brutto testone!...

Si accostò alla scrivania; sedette; scrisse in venti parole il testamento; lo firmò; lo chiuse in una busta.

— Ecco fatto!

Bisognava spicciarsi, adesso. Ma abbandonò un braccio ripiegato sulla scrivania e nascose la faccia contro il braccio.

Addio dolce vita!... Fra un mare di luce e un mare di tenebre era l'anima del Cavalier Mostardo. E quanto più tendeva a intenebrarsi tanto più la chiamava una lontana luce. E la sua povera tenerezza affiorava dallo spasimo, dal tremendo spasimo perchè soffriva la morte, sul punto di scegliere l'esilio che non ha nome ancora e non ha più volto. Solo il brivido e la tenebra desolata.

Addio povero Cavaliere dell'Umanità; addio dolce romantico e strampalato eroe; difensore dei deboli, degli umili, degli oppressi; paladino dell'Idea; innamorato di una piccola anima canora di bambina; addio squinternata esistenza di fede, portata per terra e per mare come una fiaccola fin sulle cime più in cima, sempre urlando, sempre in entusiasmo e in offerta, addio! Era arrivata qualcuna che si era preso tutto ed egli piombava giù, riverso nella sua disperazione.

— Spadarella?... Spadarella?...

Oh, se avesse potuto sentire almeno la sua dolce mano fra i capelli! Se fosse stata là... dietro alla porta...

E si trovò la mano bagnata. Piangeva.

— Cristo!...

Balzò sul torso, di scatto. Si era dunque invigliacchito fino a quel punto?... Fino ad aver tanta paura?

Aprì il cassetto della scrivania, ne trasse il pistolone del Papa, lo esaminò ben bene. Era un pezzo che non l'usava. E se il colpo avesse fallito?

Prese di mira la finestra, tirò il grilletto.

Un grande scoppio... i vetri volarono in frantumi.

— Benone!

Allora lentamente, meditatamente, aprì la bocca, vi infilò la canna della pistola, si appoggiò allo schienale della poltrona. Era pallidissimo, ma compiva gli ultimi preparativi con calma ed esattezza.

Un secondo... due secondi... tre...

Il cuore non batteva più. Pensò:

— Ora conto fino a tre. Al tre mi ammazzo.

Un attimo ancora poi cominciò:

— Uno...

Gli occhi suoi spalancati vedevan già la tenebra dell'Universo. Ma che avveniva nel cortile?

— Due...

Scendeva l'orrore e il silenzio; ma chi si avvicinava, chi gli correva tempestosamente incontro dal silenzio della sua morte? Uno starnazzare... uno strepito... un grido... Chi era?... Chi era?...

Allora scoppiò improvvisamente dal cortile, con un albor di luna, scoppiò dal cortile e salì fino alle stelle il canto del gallo, l'osanna del gallo Francesco:

Chicchirichiiiiii!...

Una risata!... Ma, nello stesso tempo, la porta parve scardinarsi e tutta la stanza e tutto il mondo furon pieni di un urlo; dell'urlo della sua bambina:

— Zio... zio... zio...

Iddio ritornava. Nella stessa tristezza di due anime era ritornato il Signore di questa povera vita.

Che cosa avvenne al Teatro Comunale quella notte, lo poteva raccontare solo Asdrubale Tempestoni con la sua facondia esplosiva. Basti dire che, ad un punto, anche l'orchestra scattò su dal Golfo Mistico in tale clamore di applausi e di grida che l'edificio ne vibrò come per un terremoto.

E le donne piangevano; ed anche gli uomini.

Sul palcoscenico furono gettati fiori, fazzoletti, cappelli, dolci, binoccoli, cuscini, cravatte, guanti, borsellini, scarpette ed ogni ben di Dio. Canzoni e sonetti celebratorii scesero per il vano del teatro a centinaia, in foglietti multicolori. E volaron dai palchi alla scena, e dalla scena ai palchi, accecati dalle lampade: colombi, canarini, passerotti, fringuelli, verdoni. Dal principio del primo atto fino all'ultimo non fu che l'ascendere di un entusiasmo tale che finì in follìa collettiva.

Ma la piccola Spadi era tanto bella!... E cantava come un angelo. Il dolore aveva aggiunto alla calda voce di lei tale profondità di passione, che il popolo più passionale di Italia non poteva limitarsi ad applaudire. Doveva erompere in una frenetica dimostrazione.

Non si era udito mai un simile Werther e non lo si sarebbe udito mai più.

Girolamo, Stefano e Spina Rosa, in un palco di terz'ordine avevan raggiunto l'inebetimento di coloro che non sanno più in quale mondo si trovino.

E, alla fine dello spettacolo, Spadarella fu portata in trionfo torno torno la Piazza; poi, issata sul tetto di una vettura, vollero cantasse ancora.

E cantò. La sua voce si levò alta e pura sul silenzio di diecimila persone. Alta e pura sulla religione di una moltitudine.

Apparve pallida e bianca fra le fiaccole, tutta luminosa della sua divina biondezza.

— Spadarella!... Spadarella!.. Spadarella!..

E il Cavalier Mostardo, nascosto nell'ombra piangeva.

Quella notte la strepitosa Romagna fu tutta quanta fra quei due cuori che cantavano e soffrivano per lo stesso dolore.

CAPITOLO XVIII. Dove si traggono le reti e ci si raccoglie per far vela a più lontani porti.

Siamo quasi giunti, Signori miei, e questa prima parte del dolce-amaro Carnevale volge al suo fine.

Ora, una sera, Rigaglia pensava già di esiliarsi e di piantare in asso il suo vecchio padrone che lo teneva in troppo duro dominio (erano prossimi i tempi della Settimana Rossa); e aveva preparato a questo i Compagni, e già si era eletto un nuovo domicilio presso le mura, in un luogo di malfamati costumi; a tale distacco veniva preparandosi il brutto testone, quando, una sera, qualcuno suonò ripetutamente il campanello.

Mostardo era entrato proprio allora. Sì fermò nel cortile.

— Chi sarà?... Va a vedere!

Rigaglia si avviò per l'andito, e mentre si dirigeva alla porta di strada, senza affrettarsi, fu suonato ancora e con maggior violenza.

— Un momento!... Che cos'è questa maniera?... Morirete?...

E, indispettito dal nuovo procedere degli ignoti visitatori, aprì la porta con malgarbo; ma appena l'aveva aperta che indietreggiò e rimase là, intontito, come un povero scemo.

Sei guardie di pubblica sicurezza, senza badare a lui, si scagliarono dentro dirigendosi di corsa al cortile.

Che cosa avveniva?... Una reazione del Governo borghese?... Ebbe una gran paura e, per non perder tempo a ragionare, guardatosi intorno e vistosi libero, infilò la porta e via a gambe levate verso il vicolo più prossimo, raggiunto il quale, scantonò e non ebbe pace finchè non trovò rifugio in un retrobottega.

Frattanto il Cavalier Mostardo, che si era fermo nel cortile, viste sopraggiungere le guardie ebbe un tuffo al core e tanto sbiancò da parer che morisse. Ecco che il sospetto diventava realtà. L'unico indiziato dell'assassinio del marchese della Pipetta non poteva essere che lui. E il lungo processo interiore che gli aveva tappata la bocca fino a quel punto (chè, se avesse parlato, ogni sua supposta responsabilità sarebbe stata vinta); il lungo processo interiore per il quale era passato, gli ritornò alla memoria.

Un buon romagnolo non fa mai la spia!

Questa la causa morale della tanto biasimata omertà romagnola.

La vittima, con la morte, si esilia e travalca il limite del bene e del male; è una « povera anima »; gli assassini che debbono restare al mondo e sfuggire alle pene che gli uomini sanzionano per simile genìa; gli assassini non sono che « disgraziati! ».

Il Governo è il gran nemico della moltitudine.

Tale concetto che si trascina secolarmente nelle masse e che è il portato della più che millenaria schiavitù e sofferenza, non potrà radicalmente mutare per andar di tempo, per evoluzione di popolo o per novità di regime. Un senso fiero di libertà, di indipendenza e di giustizia lo alimenta. Quando anche tutto fosse virtualmente pareggiato, più dura dovrebbe essere la legge e di conseguenza più forte il senso dell'eterna ingiustizia dal quale nasce il fermento dell'indisciplina. Si procederà per esperienze e adattamenti, restando immutate le virtù e le qualità primigenie delle razze.

Così, in Romagna, un « povero bandito » e cioè un perseguitato dalla polizia, un volgare delinquente sfuggito alla sanzione della legge e costretto a una vita di ansie, di fughe, di travestimenti, raccoglierà sempre la pietà e la commiserazione del popolo. In lui non si vede più l'assassino; la sua colpa è cancellata dall'aspra vita che deve condurre; dall'essere la sua libertà insidiata di minuto in minuto; dal dover restarsene nascosto, durante il giorno, nelle caverne, nelle cantine, nei fienili, per riprendere la strada di notte.

È il camminante del delitto. Trascina la sua pena e la sua colpa nella tenebra, domandando di che vivere ai casolari dispersi. Incute timore; alimenta la leggenda; asseconda l'innato romanticismo dell'anima popolare. Diventa il bandito per antonomasia.

Il Governo perseguita tutti, rappresenta, secondo la mentalità popolare, il male di tutti; all'opposto il bandito non fa male a nessuno (quello che ha fatto è dimenticato) anzi rappresenta un po' della pena di ciascuno e la ribellione delle masse al giogo necessario, all'ingiustizia inevitabile.

La spia che lo consegnasse alla Società, sarebbe bollata dell'infamia e troverebbe, una volta o l'altra, la pena sanzionata dal comune sdegno, in una morte improvvisa.

Questo il processo interiore che aveva trattenuto il Cavalier Mostardo dal denunziare gli esecutori del delitto.

Benchè appartenessero alla Camera rossa, una ragione superiore, radicata in lui come in tutto il suo popolo, lo tratteneva dalla denunzia: non voleva essere una spia!

Sentiva che il giorno in cui gli avessero potuto gettare in faccia l'atroce insulto, sarebbe stato per davvero, e per sempre, un uomo finito.

Così aveva taciuto, pur avendo certezza di dover scontare una colpa non sua.

Solo il senso doloroso di avviarsi verso il culmine del suo Calvario lo aveva fatto impallidire, e la solitudine di Spadarella, e la perduta dolcezza di Ninon Fauvétte, della sua Mignon.

Ma quando le guardie furono per mettergli le mani addosso, gridò

— Un momento!...

Era tanto grave la faccia di lui, in quel punto, e tanto triste che lo lasciarono stare. Non sarebbe fuggito.

Il Commissario si fece innanzi:

— Abbiamo l'ordine di arrestarvi.

— Lo so!

— Dobbiamo condurvi via subito.

— Lo so. Vi domando solo che mi accompagniate di sopra. Devo scrivere due lettere.

Lo seguirono al primo piano della sua casa.

Allora lo zio Giovanni scrisse questa lettera:

La mia Spadarella,

mi portano dentro. Io non ho fatto niente; non ho ammazzato nessuno. Sono sempre un povero diavolo! Non lasciare la mia casa a Rigaglia, quel versipelle me la sgombrerebbe. Aspettami che ritornerò. Se ti faccio soffrire ti domando scusa. È una tribolazione troppo grande questa porca vita!

Ti dò due grandi baci, la mia Spadarella.

il tuo Zio Giovanni

E il Cavalier Mostardo scrisse questa seconda lettera:

Mignon del mio cuore,

Vi ho detto sempre che per voi avrei dato anche la mia pellaccia; oggi faccio quello che ho sempre detto, da uomo di parola.

Però, prima che mi portino via. Mignon, ho bisogno di gridare contro la vostra ingiustizia.

Io non ho le mani insanguinate. Volevo salvarvi l'uomo che mi aveva rubato l'amore. Mi sono buttato fra i canneti, a costo di tutto, per salvarvelo; ma è stato troppo tardi. Ve l'hanno ammazzato fra le braccia e voi, che avevate in pegno il mio cuore, vi siete pensata che fossi stato io!

Mignon, io vi aspettavo per farvi vedere la mia faccia di galantuomo. Dovete sapere che il giorno in cui avessi voluto domandar ragione al povero signor marchese del suo amore per voi, quel giorno, l'avrei aspettato in Piazza e l'avrei sfidato al tutto per tutto, lui ed io, guardandoci bene in faccia.

Io, i miei nemici, li ho trattati sempre così. Non sono una volpe, e non ho paura; ma questo non serve a niente per fare all'amore.

A voi vi piaceva il marchesato, forse, la corona ed io non sono che un povero Mostardo del mondo!

Però oggi vado in prigione per voi, e ci vado volentieri, anche per quella sola notte del Conventino.

Perchè, e questo è il brutto, se piglio una cantonata, la piglio per sempre.

E se voi anche veniste in Tribunale per dire al giudice: «Sì, è stato lui che l'ha ammazzato!...»: vi vorrei bene lo stesso.

Vi vorrei bene lo stesso, perchè sono un insensato e lo capisco; ma non posso farne a meno!

Ormai non vi domando più niente.

Addio, Mignon.

Il vostro

Cavalier Mostardo

Suggellò le buste; scrisse l'indirizzo. Quando ebbe fatto questo, pensò un poco. Non si fidava di Rigaglia. S'egli lasciava le lettere sulla scrivania, Rigaglia non le avrebbe portate mai a destinazione. Doveva impostarle.

Pregò il Commissario di lasciargliele impostare.

Egli stesso si incaricò della cosa.

Allora si alzò e disse:

— Andiamo!

Due guardie gli si avvicinarono e gli presero i polsi.

— Cosa volete fare?...

— È l'ordine che abbiamo.

— A me, le manette?...

— Siete accusato di assassinio...

— A me, le manette?...

Anche l'ultimo oltraggio! Per un attimo pensò di valersi della sua forza prodigiosa; ma poi considerò la cosa e vide che sarebbe stato peggio.

Si lasciò ammanettare. Si lasciò condur via.

Fu per la strada; fu nella Piazza, fra le guardie. In breve ebbe dietro un gran codazzo di gente.

— Il Cavalier Mostardo!... Il Cavalier Mostardo!...

La voce passava come un mormorìo di bocca in bocca fra la costernazione generale.

Pareva che la Romagna stessa andasse in prigione, ammanettata. La stessa Romagna, e il suo cuore che piangeva senza far rumore.

Fu un corteo; una dimostrazione spontanea e muta.

Tutti sapevano che Mostardo era innocente. Tutto il popolo.

E quando fu per entrare in questura; quando fu per scomparire nel grande androne buio, dalla folla stipata si levò una voce forte che gridò:

— Compagni, giù il cappello!..

Allora tutti si tolsero il cappello e non si udì un mormorìo.

E il Cavalier Mostardo passò, alto e pallido, fra la folla muta che lo acclamava così, senza un grido, suo Re e Padrone. Il giorno stesso in cui entrava in galera.

Per espressa volontà del Cavalier Mostardo, le recite del Werther al Teatro Comunale non furono interrotte. Spadarella pianse, ma quando tornò dall'aver visitato lo zio Giovanni in prigione era ben risoluta di continuare fino alla fine nell'impegno preso. Naturalmente si ebbe una dimostrazione di popolo ancor più entusiastica della prima.

E una sera, poi che il tenore ebbe cantato la romanza:

Come passato il nembo,

si queta il mar fremente:

il cuor non soffre più....

non si seppe perchè, ma, come per muta intesa, il pubblico, tutto il pubblico senza distinzione, scattò in piedi in una acclamazione frenetica al Cavalier Mostardo. Fu un delirio. Per venti minuti la dimostrazione si rinnovò sempre più violenta.

Era l'anima rossa della Romagna che scoppiava nella sua necessità di giustizia. Un fiero monito e una torva minaccia a chi doveva decidere.

— Evviva il Cavalier Mostardo!...

— Evvivaaaa!..

Dal Golfo Mistico si levaron gli inni rivoluzionari. Asdrubale Tempestoni improvvisò un discorso. Poi qualcuno gridò:

— Lo vogliam fuori!...

E tale grido fu ripetuto a furore.

Il prefetto era in teatro. Tutto il pubblico gridava, rivolto al palco del prefetto:

— Lo vogliam fuori!..

E quando fu vista l'autorità governativa scuotere il capo affermativamente, il delirio non ebbe più limite. E dovette presentarsi Spadarella a far cessare l'entusiastica bufera.

Spadarella esercitava ormai, sulla massa, un fascino irresistibile. Era adorata. L'anima collettiva si muoveva attorno a lei come nella luce di un altare. Ella poteva domare la gran bestia solo col suo soave sorriso di bambina: solo con un gesto della sua piccola mano bianca. Intorno a lei si faceva il silenzio. Tutti aspettavano dalla sua voce il godimento che transumana.

Stavano ora, essendo disceso un miracoloso silenzio, tutti protesi verso il palcoscenico. Fra gli altri, in una barcaccia di prim'ordine, era l'ingegnere Fias, il quale, appoggiate le braccia al parapetto della barcaccia, si sporgeva verso il palcoscenico come a intendere e a veder meglio.

Ora convien ricordare come l'ingegnere Fias beneficiasse di una cospicua calvizie e come il suo cranio fosse, per la massima parte, polito e lucente a simiglianza di un avorio. Su questo avorio che rifletteva le fiammelle delle lampade, tanto era terso, si appuntò la malnata attenzione di qualcuno che sedeva in loggione proprio sopra all'ingegner Fias. E questo qualcuno, in una pausa musicale, forse per distrarsi o per misurare la sua schietta bravura, lasciò cadere a perpendicolo un grosso sputo il quale, naturalmente, trovò domicilio nel centro della cospicua calvizie dell'ingegner Fias.

Il quale ingegnere, per essere di madre anglosassone, era per sua natura, pacato, riflessivo e alquanto flemmatico.

Avendo avvertito adunque, il Fias, il caldo ospite precipitare e giacersi sulla sua pelata, senza atti scomposti nè parole inutili, si ritirò dal parapetto della barcaccia e agli amici suoi che gli chiedevano:

— Che cos'è stato? — rispose tranquillamente, asciugandosi il cranio col fazzoletto:

— Una lacrima della democrazia!

Alla libertà provvisoria seguì l'assoluzione del Cavalier Mostardo che fu portato in trionfo dal popolo festante.

Certo un nuovo sole sarebbe nato per l'eroe nostro se Ninon Fauvétte non fosse partita senza neppure lasciargli un addio.

Durante la prigionia di lui, la bella infedele aveva preso il volo alla chetichella.

Era ritornata nell'ignoto dal quale era sorta un giorno, per gioia e disperazione del nostro Mostardo.

Ormai la Città del Capricorno era un luogo squallido e desolato per il povero eroe ed egli non ci si poteva più vedere.

Un giorno decise di seguir Spadarella. Ella aveva una scrittura per Milano: sarebbe andato a Milano con lei e Spina Rosa.

Ora, prima di partire, volle mettere a posto alcune cose che non poteva lasciare dietro di sè incompiute.

Una sera si dette a passeggiare per una strada dalla quale doveva passare Paolo Corani. Quando Paolo Corani spuntò, non appena vide Mostardo tentò fuggire. Non gli fu possibile. Il Cavaliere gli fu sopra, lo prese per un braccio e lo attanagliò tanto forte da stroncargli l'ossa.

— Mi fate male!... Lasciatemi stare!...

— Vorresti che ti facessi bene?

— Cosa volete da me?

— Tu non sei degno di stare al mondo!

Poi non disse altro, se lo mise sotto e lo lasciò con quattro costole rotte. Lo lasciò che si rotolava gridando in mezzo alla strada.

Non gli fece pena. Aveva avuto ciò che si meritava e Spadarella era vendicata.

Ancora, un'altra volta, si appostò vicino a una chiesa e aspettò.

Ecco don Palotta, sorridente e paffuto.

— Una parola, reverendo.

Il reverendo sbiancò.

— Sapete voi il male che mi avete fatto con le vostre vigliaccherie?... Siete un cristiano, voi?...

— Ma... io...

— No! Voi non siete un cristiano!

E gli suonò prima uno schiaffo, poi due, poi cinque... Si fermò avvilito.

L'altro non reagiva.

— Per Bios!... Non c'è neanche gusto!... È lo stesso che battere un materasso!...

Lo lasciò là con la sua faccia da pomodoro, senza neppur dirgli l'insolenza finale.

Così aveva pareggiato i suoi conti; ora gli pareva di non aver più niente da mettere a posto. Poteva partire.

E a Bucalosso che gli diceva:

Cumpagno, viene la rivolusione!

Rispose:

— A me non piacciono gli scampoli e la tua rivoluzione non sarà che uno scampolo.

Bucalosso non capì: ma strinse un occhio per dimostrare la sua furberia e soggiunse:

Lo digo anca me!

L'onorevole gli tenne un lungo discorso per convincerlo che il prossimo avvenire era gravido di avvenimenti di importanza decisiva.

— Voi non potete mancare, Mostardo. Si farà la Repubblica.

— Sì; ritornerò quando l'avrete fatta.

E all'avvocato Suasia che gli domandava:

— Dunque non ci credi?

— Ci credo — rispose.

— E allora perchè vai via?

— Perchè voglio vedere il mondo.

— Proprio adesso che abbiamo bisogno di te?

— Ma non vi ho detto che ritornerò?

— Quando?

— Quando avrete fatto la Repubblica.

E non si smosse; fu tetragono ad ogni tentativo. Voleva portarsi lontano il suo cuore esulcerato.

Insieme a Spina Rosa, a Girolamo e a Stefano sfoderarono tutte le vecchie valigie che poteron trovare fra il solaio e la cantina. E incominciarono a studiare ciò che avevano da prendere e ciò che dovevano lasciare. Fu un'opera seria e lunga nella quale Rigaglia non potè mai mettere parola.

Poi tutte le cose furono pronte. Non rimaneva che andarsene.

La casa restava in consegna a Rigaglia, ma ben chiusa in tutte le sue parti. Girolamo e Stefano rimanevano a guardia del dolce giardino fra le torri.

L'ultima notte dormirono tutti insieme in casa del Cavalier Mostardo: anzi nessuno chiuse gli occhi. Dovevan partire la mattina presto.

Alle tre, prima dell'alba, Mostardo era già pronto. Andò a svegliare Rigaglia.

— Alzati, brutto testone!

Il brutto testone si alzò grugnendo.

Quando fu pronto, il Cavaliere gli dette le ultime istruzioni.

— Ricordati ch'io saprò tutto quello che farai.

— Sì.

— Ricordati che in casa mia non voglio contadini.

— Sì.

— E non vender tanti lunari a chi ti crede; perchè, e pare impossibile, è più ignorante di te.

— Sì.

— Ricordati che se predichi la rivoluzione dovrai essere sempre in prima fila dove si faranno le schioppettate.

— Sì.

— Ma tu ti nasconderai perchè sei vigliacco.

— Sì.

— Hai il coraggio di confessarlo?

— Lo dite voi.

— Va bene. Allora hai capito?

— Sì.

— Impara da me e non far l'imbecille!

Ora stavano per mettersi in via.

Spina Rosa piangeva.

Ch' s'aviv da piànzar, cazzamata?... (Che cosa avete da piangere, scioccona?).

Spina Rosa non rispose.

Era ormai vecchia e le pareva di porsi a una cosa tremenda, solo per dover salire in treno.

Spadarella era gaia e il Cavalier Mostardo burbero.

Girolamo e Stefano carichi di un monte di valigie, non facevan che guardare Spadarella.

Rigaglia si guardava gli scarponi.

Tok-tok... tok-tok...

E seguiva la comitiva: la testa bassa e le mani annodate dietro le reni.

Quando furono sulla porta, il Cavalier Mostardo disse a Rigaglia:

— Valà, va a prendere una vettura.

Si fermarono ad aspettare sulla strada. Tramontavano le ultime stelle.

Qualcuno chiamava l'alba dal cortile.

Il Cavalier Mostardo ebbe un scatto nervoso e rientrò dicendo:

— Aspettatemi un momento. Torno subito.

Giunse Rigaglia con la vettura.

— Dov'è il padrone?

— Viene.

Non tardò molto. Quando comparve sulla soglia aveva la faccia rasserenata.

— Adesso possiamo andar via.

Rigaglia non chiuse la porta se non quando li vide svoltare in fondo alla strada.

Allora tirò un sospiro di liberazione e si diresse al cortile.

Tok-tok... tok-tok...

Si fermò all'improvviso. Che cosa vedevano mai gli occhi suoi?

Lungo disteso in mezzo al cortile, sobbalzante ancora negli ultimi spasimi dell'agonia era il gallo Francesco, il suo bel gallo, l'amore dell'alba e della luna piena.

Il Cavalier Mostardo, prima di andarsene, aveva regolato l'ultimo conto: gli aveva tirato il collo.

FINE

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Tre bimbe a vendere! Vitagliano, Milano

ROMANZI

Il Cantico Treves, Milano

IL CARNEVALE DELLE DEMOCRAZIE

Gli uomini rossi Treves, Milano

Il Cavalier Mostardo Mondadori, Roma

AL TEMPO DEL CORE

L'ombra del mandorlo (10º migliaio) » »

Fior d'oliva ( in preparazione ) » »

I ROMANZI DELLA POVERA VITA

Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella (10º migliaio) Mondadori, Roma

Caterina dal doppio erre ( in preparazione )

POESIA

Solicchio Treves, Milano

Il passante Mondadori, Roma

Storie di immagini Istituto Edit., Milano

TEATRO

Le tre fanciulle (commedia)

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Il diario di un viandante Treves, Milano

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Un Tempio d'amore Sandron, Palermo

NOTE:

1 . Essere dentro , locuzione comune in Romagna, e significa: essere in prigione. 2 . Nella Città del Capricorno, in quel di Romagna, è vezzo corrente chiamar «bastardi» anche i figli legittimi. Chi sa poi perchè! 3 . Scure, mannaia. 4 . Errore facile, fra gli incolti, in Romagna. Da Stifelius riescono a vestito felius perchè vstì , in dialetto romagnolo, vuol dire vestito. 5 . Esclamazione romagnola intraducibile. Corrisponderebbe ad un dipresso, a capperi! 6 . Pestapévar era la maschera della Città del Capricorno e una specie di Arena in legno, nella quale si tenevano comizi e si organizzavano danze indifferentemente.