ROMANZO DI ANTONIO CACCIANIGA

Quarta Edizione

MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1888.

PROPRIETÀ LETTERARIA Tip. Fratelli Treves.

IL BACIO DELLA CONTESSA SAVINA

I.

Il romanzo della mia vita incomincia quando io avea diciott'anni, e passavo gran parte del giorno al balcone, in casa di mio zio canonico. Allora la contessa Savina di Brisnago aveva sedici anni, e ricamava, seduta presso al balcone dirimpetto del mio. Era una bella giovanetta, aveva un profilo dolcissimo, un nasino provocante, una bocca soave, capelli neri rilevati sulla fronte, occhi bruni, divini. Mi pareva un angelo sceso dal cielo, tanto i suoi movimenti erano leggiadri e maestosi. Io non mi saziava mai di contemplarla, ella di tratto in tratto alzava la testa dal lavoro, si passava una mano sulla fronte, si lisciava i capelli, poi con aria distratta guardava il cielo, le case di fronte e le tendine della finestra. Il suo sguardo percorrendo questa linea attraversava naturalmente il mio balcone, e quantunque passasse come un lampo, pure mi gettava lo scompiglio nell'animo. Non saprei spiegare l'arcana attrattiva, che come un filo invisibile mi legava a quella fanciulla, tenendomi immobile per delle ore.

Veronica, entrando nella mia stanza come una valanga, rompeva sovente quel fascino annunziandomi il pranzo. Allora io scendeva e andava a collocarmi a mensa dirimpetto dello zio, che mangiava con grande appetito, mentre io inghiottiva ogni cibo con ripugnanza. Egli mi interrogava sui miei studi, mi parlava di pedagogia, di metodica, d'aritmetica; io rispondeva sbadatamente, pensando a quella finestra. Finito il pranzo, mio zio si ritirava a fare il suo chilo, ed io ritornava alle mie estatiche contemplazioni. In casa Brisnago pranzavano molto più tardi di noi, e talvolta prima del pranzo andavano a fare un giro pel corso. Allora ella si alzava da sedere, dava un'occhiata fuori della finestra, guardava alla sfuggita la nostra casa, ed io sentiva il dardo fatale entrarmi nel cuore e lacerarlo. Essa scompariva, e qualche tempo dopo lo scalpito dei cavalli e il rumore della carrozza mi avvertivano della partenza.

Allora io prendeva il mio cappello, e me ne andava girovagando per le vie di Milano sulle traccie della mia stella. La trovavo quasi sempre sui bastioni, i nostri sguardi si scontravano rapidamente ed io rimaneva come sbalordito a contemplare quel cocchio che correva portando con sè qualche cosa di me stesso; tanto è vero che imbattendomi per via in taluno de' miei amici che si arrestava a parlarmi, io faceva la figura di un imbecille, e mi restava appena appena tanta intelligenza da accorgermene.

Mio zio canonico non s'avvedeva di nulla; rinchiuso nella sua sfera d'azione, egli compieva le sue evoluzioni quotidiane con esattezza inappuntabile. La messa e la colazione, le sacre funzioni ed il pranzo, il breviario e il passeggio, il chilo ed il sonno si succedevano per lui con tale regolarità, che i nostri vicini se ne servivano per regolare gli orologi, e dicevano: — il canonico Carletti va a dir messa: sono le otto; il canonico va a cantar vespro: sono le due. La nostra vita rassomigliava perfettamente ad un cronometro; Veronica era la seconda ruota, come io era lo scapamento che riceve l'impulso, e tutto si muoveva per addentellato del motore principale, ossia del padrone di casa.

Mio zio metteva la felicità nella precisione dei movimenti, e ciò appunto formava la mia desolazione, sentendo il bisogno di muovermi secondo i variabili impulsi della mia natura. Ma bisognava rassegnarsi a trascinare la catena che mi veniva imposta dal mio benefattore, perchè io non era che un povero orfano. Privo delle carezze dei genitori, in tenera età, mio zio ricoverandomi in casa sua mi salvava dalla miseria; io non aveva ereditato che una piccola medaglia di bronzo che mia madre teneva al collo per divozione, e che dopo la sua morte venne appesa al mio letto, come talismano dell'infanzia. La mia sommessione era dunque un dovere e in pari tempo una necessità, che per mezzo dell'educazione mi apparecchiava l'indipendenza per l'avvenire.

Ma io mi risarciva della schiavitù personale colla libertà dello spirito. Sdraiato sul canapè della mia cameretta accendeva uno sigaro e mi metteva in viaggio. La mia fantasia usciva dalla finestra sulle spire del fumo, e volava per l'ampio orizzonte con la rapidità del pensiero. Se potessi rammentarmi quelle peregrinazioni meravigliose, scriverei un bel volume. Mio zio mi destinava all'istruzione, io accettava il suo piano come un mezzo d'emanciparmi, ma mi pareva di sentire in me stesso una voce che mi chiamasse a più alti destini. Quel sentimento d'amore che mi agitava l'anima aveva acceso nella mia mente una scintilla che mi svelava un nuovo mondo; i miei pensieri si elevavano ad un'altezza sublime che, rivelata con l'arte, avrebbe destato la meraviglia universale. L'amore mi additava il cammino della gloria e della fortuna. Avevo incominciato una tragedia, il Lucchino Visconti, ove tentava rivelare gli arcani d'un'anima innamorata e mi pareva che la comparsa del mio lavoro avrebbe introdotto una riforma radicale del teatro italiano. E mi sembrava già di vedere il pubblico, esaltato dall'entusiasmo, portarmi a casa in trionfo.

All'indomani dovevano naturalmente piovermi addosso gl'inviti, le onorificenze e il denaro; ad ogni produzione l'oro invadeva il mio scrittoio. Una nuova poesia era comparsa alla luce col corteggio della ricchezza; il poeta tradizionale lacero, tapino e ridicolo cedeva il passo al principe delle lettere, del quale tutti ambivano i favori. Egli dava vita alle sue stupende creazioni in una splendida dimora, fra i bronzi, i marmi, le pitture, e il lusso d'un palazzo incantato.

Con tali presagi nell'animo mi affacciavo alla finestra; gli occhi della mia musa si alzavano, e un fluido celeste mi avvolgeva, come in un nimbo di gloria. Niente mi pareva impossibile nella vita: io sentiva una fiamma che mi rendea onnipotente.

Un giorno fra gli altri me ne stavo assorto in una di queste estasi eteree, quando la Veronica entrò nella stanza.

— Daniele, — essa mi disse, — avete pensato che s'avvicina l'inverno, che il freddo incalza, che avete il pastrano sdruscito, gli stivali sgualciti, i calzoni rattoppati?

— Veronica, — io risposi gravemente, battendomi sul petto, — io tengo qua dentro dei tesori che possono procurarmi tutti gli agi della vita....

Essa mi guardava con tanto d'occhi spalancati credendo che alludessi al mio portafogli, poi mi domandò ansiosamente:

— Avete dunque molto denaro in saccoccia?

— Io?... non ho che cinquanta centesimi....

— Ma dunque di che tesori mi parlate?

— Vi parlo dei sentimenti del cuore che ispirano la mia mente... e la rendono capace di produrre quelle opere che attirano l'ammirazione degli uomini, e arricchiscono gli autori. Sono sicuro dell'avvenire!

— Tanto meglio.... ma l'avvenire è in mano di Dio.... invece i vostri vestiti li tengo nelle mie mani ogni giorno, ne conosco tutti i sdruciti e le mende, e vedo la necessità che il sartore ve ne faccia di nuovi. Monsignore vi vuol bene, ma i canonici non possono conoscere tutti i bisogni della gioventù. Tocca a voi domandare quanto vi manca.... Su via, volete che gliene parli io?...

— Cara Veronica.... come siete buona!... avete sostituita mia madre sulla terra.... che il cielo vi benedica mille volte.

E pensando alla mia miseria e all'ottimo cuore di quella donna, io piangeva come un fanciullo. Allora essa mi calmava chiamandomi matto, smemorato, fantastico, epiteti coi quali soleva generalmente esprimermi la sua affezione. Poi correva ad enumerare i miei bisogni allo zio, ed il buon vecchio mi apriva la borsa. Io mi limitava al necessario ed egli, dopo pagate le spese, si lodava della mia discrezione e modestia.

Così, io passava la vita tranquilla alla superficie, burrascosa nel fondo. Quell'inverno mi fuggì rapidamente; meno qualche ora di scuola e di passeggio, io viveva in casa, ritirato nella mia cameretta, ma col cervello sempre in viaggio. Una finestra e dei libri mi davano maggiori occupazioni, gioie, ansie, affanni, peripezie che non ne provassero i viaggiatori più arditi che investigavano le sorgenti del Nilo o l'interno dell'Africa. Difatti la prospettiva di quella finestra ove stava seduta la contessa Savina corrispondeva per me ai più stupendi panorami del globo, e la mia fantasia percorreva le ridenti regioni dei sogni, più vaghi di qualunque altro paese. E se i viaggiatori avevano a temere i selvaggi e le fiere, io pure aveva da paventare i potenti rivali che circondavano il mio idolo. Essa frequentava le conversazioni, i balli, i teatri, ed io non poteva seguirla che col pensiero; e l'accesa immaginazione la vedeva corteggiata da giovinotti suoi pari nei salotti eleganti, nel palchetto del teatro, o trasportata nelle loro braccia nei vortici delle danze, fra i doppieri ardenti, il profumo dei fiori, e l'ebbrezza d'una musica affascinante.

Quando alla sera io udiva dalla mia cameretta il rumore della carrozza che la conduceva ai piaceri del mondo, mi sentiva il raccapriccio come un uomo assalito dalla febbre. Quante notti insonni ho passate a raggirarmi nel letto, quanti strani progetti ho concepiti colla fantasia malata, rammentandomi il pugnale d'Otello, e di tutti gli amanti che vendicarono gli oltraggi ricevuti dalle donne adorate! La sola diversione, l'unico conforto dei miei affanni era lo studio assiduo ed intenso.

La libreria dello zio non mi forniva che i classici, ma un professore che mi voleva bene mi somministrava un'ampia messe di produzioni moderne. Io mi perdeva nelle meditazioni, e passava le lunghe sere del verno avvolto in un vecchio tabarro del Canonico, a leggere ed annotare i più celebrati lavori dello spirito umano: e quando la divina fanciulla, reduce dalle feste del gran mondo, dopo la mezzanotte, saliva alla sua stanza signorile nel palazzo Brisnago, essa poteva vedere il pallido lumicino dello studente che vegliava agghiacciato, per arricchire la mente di quelle cognizioni che innalzano l'uomo sapiente al disopra dei nobili, dei ricchi e degli eletti della fortuna.

Mi coricavo assai tardi affranto dalla fatica, intirizzito dal freddo, oppresso da pensieri dolorosi e da atroci sospetti, ma all'indomani uno sguardo di quegli occhi rasserenava il mio spirito, e scacciava le ombre dei cupi pensieri, come il sole che sorge scaccia le tenebre e ridona alla terra lo splendore e la vita.

Tuttavia un dubbio funesto veniva sovente nella solitudine a colpirmi con dolorosi tormenti. Quella fanciulla che con uno sguardo accendeva nel mio cuore una fiamma celeste, che esaltava il mio spirito con ispirazioni sublimi, che mi parlava con l'arcano linguaggio degli occhi, sentiva essa all'unisono colla mia anima, riceveva essa da me le stesse impressioni?... O m'ingannavo nel tradurre il sanscrito del cuore e i geroglifici della passione?... Tale sospetto mi gettava nello sgomento, e mutava i rosei sogni della mia fantasia negli abissi della più cupa disperazione. Allora attendeva ansiosamente la ricomparsa di lei, per rileggere con raddoppiata attenzione in quegli occhi misteriosi, eppur tanto fatali. E immobile al balcone contava le ore che passavano lentamente, fino a che un lieve agitarsi di seriche tende annunziava la presenza della mia sfinge!

Oh Dio, quali momenti!... Essa guardava altrove, arrestava il suo sguardo sulla via, il mio cuore batteva tanto forte da rompermi il petto, se non lo avessi compresso colla mano, il dubbio terribile stava per diventare certezza, mi sentivo venir meno, e se fosse partita senza alzare lo sguardo, forse mi avrebbero trovato morto al mio posto. Ma essa volgeva la testa tranquillamente a diritta ed a manca, e a poco a poco mi passava davanti col suo sguardo profondo, rapido ma penetrante, che m'immergeva in un'estasi di amore e di delizie. Ah sì!... quello sguardo era una espressione viva e sincera dell'anima, un'espressione che non aveva parole corrispondenti nell'umano linguaggio, era assai più soave d'un profumo, più armonioso d'una melodia, era un fluido supremo che m'invadeva, indefinito, indefinibile, sottile, impalpabile, ma positivo come la luce e l'elettrico.

Quello sguardo mi rassicurava pienamente con effetto istantaneo, ma poi a poco a poco, a cagione di nuove reazioni, quella persuasione scemava colle ore che passavano, col sole che tramontava, col buio della notte che mette in dubbio ogni cosa. All'indomani nuova prova e nuovo trionfo, indi nuove lotte fra la speranza e la ragione, fra la fede ed il dubbio.

Tali burrasche mi condussero alla primavera. Alla primavera ogni semente germoglia, sboccia ogni gemma, ogni pianta fiorisce, ogni cuore si espande. Una corrente invisibile attraversa la vita, l'agita, la suscita, la rinnova. Io mi sentiva scorrere il sangue per le vene con ardore inusitato. Le lotte interne del mio animo indicavano il bisogno d'una prova decisiva. Ma quale prova? un abboccamento era impossibile, un viglietto era pericoloso. Il ridicolo, la volgarità m'incutevano una ripugnanza insormontabile. Il mutuo linguaggio degli occhi esigeva una spiegazione discreta, corrispondente al mistero usato fino allora, senza imprudenze, nè audacie le quali rompessero la catena che legava segretamente due anime in celeste armonia.

Ma una prova io la sentiva necessaria, inevitabile. Da essa doveva dipendere l'avvenire, cioè la vita o la morte.

Pensai per molti giorni al modo più opportuno, e lo fissai d'accordo ai miei sogni orientali. Il linguaggio dei fiori m'offriva un mezzo analogo a quello degli occhi, ma più positivo e sicuro per interrogare l'oracolo. Io vedeva ogni giorno che la contessa Savina passeggiava per qualche istante nel giardino che fiancheggiava il suo palazzo e la strada. Mi decisi di procurarmi alcuni fiori, di farne un mazzetto, e di gettarlo ai suoi piedi, attendendo la mia sorte dal suo contegno. Se non mi amava, sarebbe passata oltre con disprezzo, e forse con isdegno, se mi amava avrebbe raccolto i miei fiori. Con tale determinazione mi recai da un giardiniere ed acquistai delle violette mammole e dell'eliotropio.

Il mazzetto voleva dire: — modestia, vi amo con ebbrezza. Avrebbe essa inteso o indovinato il mio pensiero? era dubbio; ma in ogni caso i miei fiori avevano un significato evidente, e ciò bastava per darmi la prova del suo aggradimento o del suo disprezzo.

Me ne tornavo a casa deciso di tentare la sorte, quando la Veronica mi venne incontro sulle scale annunziandomi che mio zio s'era messo a letto colla febbre. Deposi il mazzolino di fiori nella mia stanza, e corsi pel medico che condussi subito dal malato.

Il dottore lo conosceva da molti anni, lo esaminò attentamente, e toccandogli il polso lo interrogò. Mio zio accusava una prostrazione di forze generale, e molte sofferenze nervose.

— Monsignore ha forse ottemperato con troppo rigore ai digiuni quaresimali?

Veronica dietro le tendine del letto dimenava la testa in segno negativo.

Mio zio rispose che non potendo alterare le sue abitudini senza danno della salute, s'era sempre cibato col solito sistema.

— Ma pure, — insinuava il dottore, — deve essere avvenuta qualche infrazione al metodo regolare di vita.

— Sicuro, — rispose Veronica, — dopo cambiato l'orario del coro, Monsignore non è stato più bene.

— È verissimo, — soggiunse il malato, trovandosi cambiata l'ora del vespro, ho dovuto alterare di conformità l'ora della messa, della colazione, del passeggio e del pranzo. Il ritardo del vespero ha perturbato l'ordine della mia vita e delle mie funzioni.

— Ecco, ecco, — soggiunse il medico, — ecco scoperta la causa. Ripareremo facilmente allo sconcerto, ma bisogna assolutamente che Monsignore si decida a modificare il suo sistema di vita. Non va bene rendersi troppo schiavi delle proprie abitudini, perchè ad ogni fortuita alterazione s'arrischia di cadere malati. Monsignore ha bisogno d'esercizio all'aperto, all'aria ossigenata dei monti.

Scrisse la ricetta, poi continuò:

— Mi pare che Monsignore posseda un poderetto in Valtellina?

— Oh, — rispose mio zio, — una casetta e pochi campi.

— Benissimo. Nella prossima estate bisogna visitare la casetta e andare ai bagni di Bormio.

— Sono tanti anni che non mi muovo da Milano....

— E appunto per questo bisogna rompere le abitudini troppo regolari, per ristabilire le forze. Monsignore non è vecchio, ma la vita sedentaria rende flosci, e ci apparecchia una vecchiaia precoce e piena di sofferenze. Monsignore vada ogni anno a prendere i bagni, si muova, respiri l'aria pura dei monti....

— Vedremo, vedremo, — rispondeva mio zio.

Il dottore avendo date le sue istruzioni alla Veronica, raccomandò al malato la quiete, e partì, ma le sue idee avevano sconvolto la casa. Mio zio al solo pensiero d'un viaggio provò una recrudescenza di tutte le sue sofferenze, ed alla sera si sentì raddoppiata la febbre.

La Veronica non poteva darsene pace:

— Benedetti dottori! — esclamava, — essi trovano tutto facile, ordinano colla stessa indifferenza un decotto di camomilla e l'amputazione d'una gamba. Bisogna non conoscere il padrone per imporgli un viaggio in Valtellina. Misericordia!...

Basti il dire che riceve le visite di riguardo tenendo l'occhio fisso sul pendolo, e quando la lancetta dei minuti indica il momento preciso destinato ad altre occupazioni, si alza, con un pretesto rompe il colloquio più interessante, ed obbliga i visitatori ad andarsene.

Un giorno mi raccontò che avendo incontrato l'Arcivescovo, e questi avendolo invitato a seguirlo per intrattenerlo d'un affare importante, sul più bello del discorso lo abbandonò in mezzo alla strada con una scusa, avendo udito suonare l'ora del pranzo.

Se trova sul piatto il tovagliuolo piegato in bislungo invece che in quadro, tale disordine gli fa perdere l'appetito. Se alla sera quando va a letto vede la boccia dell'acqua davanti i fiammiferi, mi fa una scena del diavolo enumerando tutti gli inconvenienti ai quali lo espongo, caso mai avesse bisogno di accendere il lume nella notte. Immaginarsi d'esporre un tal uomo ai ritardi delle diligenze e dei battelli del lago, è cosa da farlo morire!... —

Io cercavo di consolarla alla meglio, ma invano.

Il giorno seguente il medico trovò il malato più tranquillo, scrisse un'altra ricetta, ordinò dieta più sostanziosa, e due dita di vino vecchio... poi soggiunse:

— Monsignore si troverà bene dopo i bagni di Bormio e il suo viaggio nelle montagne....

Veronica alzava gli occhi al cielo e dimenava la testa.

Per buona fortuna il malato non tardò molto a ristabilirsi ed a riprendere le sue abitudini.

Ma intanto, occupato nell'assistenza di mio zio, non ebbi il tempo di fare la progettata esperienza e i miei fiori appassirono. Poveri fiori!... ho passato una sera a contemplarli come un triste presagio. Essi mi presentavano l'immagine della gioventù che passa, mentre la mia stella brillava forse in qualche festa spargendo dintorno la luce e il profumo della sua bellezza! Mi affacciai alla finestra odorando distrattamente il mio mazzetto avvizzito. Essa comparve improvvisamente, e mi sembrò di scorgere nel suo rapido sguardo un leggiero indizio di sorpresa, dissimulato ben tosto, ma non abbastanza prontamente da non lasciarmi indovinare dal cipiglio severo un senso di malcontento, che interpretai come un effetto di gelosia. Come era bella con quel cipiglio che pareva dirmi: — chi vi diede quei fiori?... In quell'istante passava per la via uno spazzino, io gettai con destrezza il mazzetto di fiori nella sua carriola; essa vide il mio atto, i suoi lineamenti mutarono espressione, sorrise a fior di labbra, mi guardò con soddisfazione e scomparve.

Io aveva letto sul suo volto una nuova prova d'amore. Leggiero come l'uomo felice, volai per le scale, e accorsi al negozio di fiori. Mi feci approntare un nuovo mazzetto più bello del primo. Si componeva d'una rosa nel centro, circondata da violette mammole ed eliotropi. Quei fiori esalavano un profumo soave, e dicevano chiaramente: bellezza e modestia, vi amo con ebbrezza. Ritornato a casa, aspettai la solita ora nella quale vedevo la contessa Savina passeggiare in giardino. Intanto io deponeva un bacio sopra i miei fiori e invidiando la loro sorte, insegnavo loro che cosa dovessero dire se ella si fosse degnata di raccoglierli; e parlavo a quegli esseri delicati come si farebbe con dei fanciulli, incaricandoli d'una commissione importante. E pensavo al destino della vita, alla bontà della natura che metteva in mia mano quei simboli dell'anima innamorata, affinchè fossero gli interpreti del mio affetto giovanile, coi loro vaghi colori, e gli olezzi penetranti, sotto gli occhi di una leggiadra fanciulla!

Finalmente sonavano le due ore dopo il mezzodì quando dalla mia finestra la vidi entrare in giardino come un'apparizione celeste.

Era una splendida giornata di maggio, e pareva che ne aspirasse con voluttà l'aria oscillante e pregna d'atomi fecondi di vita.

Contemplò le piante con ammirazione, innalzò al cielo uno sguardo sereno, poi rivolgendo gli occhi, mi vide alla finestra coi fiori.

S'era arrestata un istante, allungando il braccio per ispiccare un ramoscello, quando il mio mazzetto cadde a' suoi piedi.... Ebbe un leggiero sussulto come di paura, lo vide, rimase alquanto perplessa.... mentre io sentiva la mia vita sospesa. Poi abbassandosi lentamente lo raccolse, l'odorò, se lo pose in seno, alzò il capo lanciandomi uno sguardo ineffabile.... ed io non vidi più nulla.

Una nube mi oscurò la vista, e caddi nella stanza come privo di sensi.

Dopo qualche istante ritornai alla finestra, ma essa era partita.

II.

Erano passati alcuni giorni da quell'istante che mi rendeva felice, quando incominciai a scorgere una insolita mestizia sul volto della contessa Savina.

Oh come avrei voluto interrogarla, conoscere il motivo del suo turbamento, e consolarla. Impossibile!...

Io leggeva bene ne' suoi sguardi un'espressione d'affanno, ma come decifrarne la causa? Una sera pareva che non potesse staccarsi dalla finestra; il suo sguardo melanconico non prendeva più le precauzioni del solito giro per giungere a me, ma mi colpiva direttamente, e durava a lungo, languido e doloroso. Finalmente l'oscurità succedendo al crepuscolo, gli oggetti apparivano indistinti, io non distingueva più i suoi lineamenti, e solo discerneva la sua graziosa persona, flessibile come il gambo d'un fiore, appoggiata alla finestra; e mi parve di scorgere che mettesse una mano sugli occhi, e un'altra mano sul cuore.... e poco dopo scomparve.

All'indomani tutte le imposte del palazzo erano chiuse, essa era partita. Partita da Milano!... e le carrozze continuavano a circolare nelle vie, la gente andava e veniva come al solito, tutti i negozi erano aperti, il sole brillava sulle aguglie del duomo.... eppure Milano mi pareva morta, le strade squallide, il cielo buio, la folla un assembramento di fantasmi. Mi sembrava impossibile che la vita potesse ancora durare in quel vuoto, mi pareva che le anime dei miei concittadini fossero uscite dalla città, e che i corpi continuassero materialmente il loro giro automatico in un mondo spento. Entro di me era uno sbalordimento, una malattia dell'anima, dalla quale s'era staccata una parte, e la migliore. Vagai tutto il giorno per le vie come un insensato, urtando i passanti, guardando macchinalmente le carrozze, ove mi pareva che sedessero donne di legno cogli occhi di vetro.

Gli organetti mi mettevano in fuga, la musica mi batteva nella testa come un martello, gli uomini che ridevano mi parevano matti, e mi facevano paura.

Mi trascinai a casa per l'ora del pranzo, pensando che un ritardo avrebbe potuto far ricadere malato mio zio, e mi misi a tavola senza poter inghiottire un boccone. Alle sue interrogazioni risposi confusamente accusando un dolore di capo.

Dopo pranzo la Veronica venne a raccontarci come la cosa più naturale del mondo, che i nostri vicini erano partiti per la campagna. I conti di Brisnago lasciavano Milano ogni primavera, e non ritornavano che alla fine d'autunno. Io non ne sapeva nulla. Avevo veduto la Savina per la prima volta nel passato novembre, e avanti quell'epoca ignoravo perfino chi abitasse il palazzo, e non mi accorgevo se fosse chiuso od aperto. Dopo di averla veduta, non vidi altro che lei sola in tutto Milano, e dentro il mio cuore. Non mi ero mai interessato di conoscere la sua famiglia, il padre, la madre, i parenti. Vedevo bene una signora attempata al suo fianco, nel salotto o in carrozza, ma la vedevo come un'ombra, senza arrestarvi sopra nè l'occhio, nè il pensiero.

Le notizie di Veronica mi sbalordivano, come qualche cosa di straordinario, tanto mi pareva impossibile che Savina fosse una donna come le altre.

Alla sera nel mio letto, pensando ai lunghi mesi che avrei dovuto passare nella solitudine, inondai il mio guanciale di lagrime, e durai alcuni giorni trasognato e ingrugnito.

La partenza di mio zio fu il primo diversivo che venne a mettermi nuovamente in comunicazione colle cose volgari della vita. Malgrado l'opposizione insistente di Veronica, il dottore aveva perseverato nella sua opinione, dimostrando la necessità di mandare mio zio ai bagni di Bormio. Essendo molti anni che non visitava la sua casetta in Valtellina, appigionata a un vecchio maestro di scuola, mio zio contava arrestarsi due giorni dal parroco del villaggio di X**, e poi di passare al paese dei bagni.

I preparativi della partenza furono lunghi e laboriosi. Da un mese non si parlava d'altro, mio zio prendeva continue informazioni sulle ore della partenza e dell'arrivo delle vetture, e sulle fermate, i prezzi dei posti, le coincidenze dei battelli sul lago, sul viaggio da Colico a Bormio, sui locali, e il regime dei bagni e le analisi chimiche delle acque. Poi enumerava i beneficii, gl'inconvenienti, i pericoli, i disagi della cura ordinata, le speranze che dovevano sostenerlo all'impresa. Veronica apparecchiava i sacchi da notte con tutte le precauzioni immaginabili, mettendo in ordine i tabarri di varie gradazioni, e tutti gli accessorii occorrenti, le pastiglie per la tosse e la magnesia calcinata, il tabacco da naso e i fiammiferi. Si prendevano note per non dimenticare gli oggetti indispensabili, per ricordarsi le minime precauzioni, per seguire a puntino le raccomandazioni del medico.

La diligenza per Como partiva alle dieci, e al giorno fissato mio zio mi fece svegliare col lume, prima del levare del sole, per tema di trovarsi in ritardo avendo mille commissioni da darmi. Abbiamo lasciata la casa un'ora prima della partenza; preceduti da un facchino che portava il bagaglio e l'ombrello, e seguiti fino alla porta dalla Veronica, che piangeva raccomandando a Monsignore di guardarsi dalle correnti d'aria, dai cibi pesanti, dal freddo e dal caldo, chiedendogli se avesse in saccoccia la scatola, gli occhiali, il portafogli, i guanti di lana, pregandolo di scriverci subito appena giunto.

Egli voleva fare il disinvolto, ma si vedeva dalla sua fisonomia che sentiva tutta la gravità dell'impresa. Voleva rassicurarci, ed era più agitato di noi e camminava rammentandoci le sue commissioni, la lettera al Cancelliere arcivescovile, il libro a Monsignor Decano, un piccolo pagamento, una mancia, i saluti all'abate X** e a sua sorella.

Finalmente quando piacque a Dio si giunse all'ufficio della diligenza. Colà mille domande calorose agli impiegati che rispondevano freddamente, senza nemmeno alzare la testa dai loro registri. Raccomandazioni iterate ai facchini sul collocamento del bagaglio, che gettavano sulla carrozza col capo ingiù e con tale sguaiataggine da far raccapricciare la Veronica se li avesse veduti. Quando i viaggiatori salirono in carrozza, mio zio mi diede due grossi baci sulle gote, io gli raccomandai di aver cura della sua salute e rimasi fermo sulla via, rispondendo a' suoi saluti, ed ai suoi cenni fino a che la vettura scomparve. Allora mi avvidi che volevo bene a quel povero vecchio, sentendo come un groppo che mi strozzava la gola. Talvolta io lo trovava noioso, ed anche ridicolo; ma tali passeggiere impressioni non mi rendevano ingrato verso colui che mi aveva raccolto come un figliuolo, e mi colmava di benefizi. La vita comune ci avvezza all'affetto, ma le separazioni lo rivelano. Ritornando sui miei passi io faceva caldi voti per la sua salute, e pregava il cielo di rimeritarlo del bene che mi aveva prodigato.

La casa mi parve deserta senza di lui, e la Veronica ed io non eravamo i soli a provare quel vuoto prodotto dall'assenza; anche il suo gatto prediletto lo andava cercando per le stanze, miagolando con affannosa insistenza. Povera bestia! io che prima non lo guardava nemmeno, sentivo il bisogno di carezzarlo, e di dargli qualche bocconcino in ricompensa dell'affezione che dimostrava pel suo buon padrone.

Oh! la vita è tutta un intreccio d'affezioni e di distacchi, di legami e di lacerazioni, di conquiste e di sconfitte, e il cuore invecchia, come il veterano che ha perduto le gambe sui campi di battaglia.

Ho passato l'estate studiando ed apparecchiandomi agli ultimi esami, che ebbi la fortuna di compiere felicemente procurandomi la soddisfazione di annunziare con una lettera a mio zio, che avevo ottenuta la patente di maestro, con attestati di lode.

Finite le occupazioni scolastiche, ripresi con grande alacrità la mia tragedia, per dare qualche sfogo alla passione che mi esaltava.

L'espressione d'un amore represso mi faceva sgorgare dei versi ispirati, e quantunque il palazzo Brisnago fosse sempre chiuso, la divina mia musa mi appariva come in celeste visione; la lontananza aveva idealizzato il mio amore, io la vedeva coll'immaginazione, circondata da un'aureola di luce, mandarmi un pensiero, che attraversando rapidamente lo spazio giungeva nella mia cameretta come un raggio vivificante.

Un giorno divagavo la mente in quel modo fantastico che sorrideva alla mia solitudine come un preludio di gloria e d'amore, quando la Veronica, spalancata violentemente la porta, mi annunziò il ritorno dello zio, correndo precipitosamente giù dalla scala per incontrarlo. Scosso dall'ebbrezza de' miei pensieri, come un uomo destato improvvisamente dal sonno, gli corsi incontro barcollando. Egli si gettò nelle mie braccia e mi strinse affettuosamente sul cuore. Mostrava un aspetto floridissimo. Il dottore aveva avuto ragione, il viaggio e i bagni gli tornarono utilissimi. Mi disse che da principio ebbe a soffrire qualche incomodo per le mutate abitudini, ma poi l'aria dei monti, l'esercizio, il buon regime e la lieta compagnia lo ristabilirono perfettamente in salute.

Finiti i reciproci abbracciamenti, e soddisfatta pienamente la curiosità di Veronica intorno ai minimi incidenti dell'assenza e del viaggio, mio zio mi prese per mano con insolita gravità, mi condusse nello studio, chiuse la porta, si sedette sulla sua vecchia e prediletta poltrona di pelle, mi fece sedere vicino a lui, e con accento affettuoso incominciò a parlarmi in questi termini:

— La lettera che mi annunziava il risultato finale de' tuoi studi mi ha portato somma consolazione, e desideravo vivamente di tornarmene a casa per farti a voce le mie congratulazioni. Hai finito lodevolmente la prima parte della vita, quella che apparecchia l'avvenire, quella dalla quale dipende in gran parte tutta la nostra esistenza. L'età matura e la vecchiaia possono considerarsi come legittime conseguenze della gioventù. Le prime impressioni riescono più durevoli; appunto perchè sono le prime esse trovano il campo libero e fresco, la natura ingenua, l'età opportuna a ricevere ogni forma. Nella quiete e nella solitudine di questa casa, tu non hai ricevuto che buone impressioni, e le hai coltivate collo studio assiduo; le lunghe ore passate nella tua cameretta daranno i loro risultati, ne sono sicuro. Ora è giunto il tempo che devi entrare coraggiosamente nella vita sociale, e prendere il posto che ti è destinato dalla Provvidenza. Ci hai tu pensato, Daniele?...

— Ci ho pensato sovente, — io risposi, — e spero, caro zio, che un giorno non avrà a pentirsi di avermi raccolto in casa, permettendomi d'attendere agli studi.

— Ne sono sicuro e spero bene tanto della tua condotta morale, quanto della tua cultura. Ma per giungere ad una meta bisogna mettersi in istrada, e compiere il dovere che il Signore prescrisse ad Adamo: « mediante il sudore della tua faccia, mangerai il tuo pane. »

— Sono pronto, — risposi, — a dimostrarle la mia buona volontà alla prima occasione....

— L'occasione si presenta opportuna, — egli soggiunse, — e appunto la tua lettera ti aperse la porta....

— Come mai?...

— Io la comunicai ad alcune persone influenti, che mi accordarono la loro benevolenza, vivendo in rapporti quotidiani nello stabilimento balneare di Bormio, e mi promisero il posto di maestro appunto nel villaggio di X**, ove andresti ad abitare la mia casetta....

— In Valtellina?...

— In Valtellina! Il vecchio maestro mio locatario ha ottenuta una pensione dal Comune, e si ritira a Sondrio coi suoi parenti. Io pongo a tua disposizione la mia casetta e i pochi campi, una sommetta di denaro pei necessari ristauri, ti raccomando al mio buon amico il parroco don Vincenzo Liserio, ed all'ottima famiglia Bruni, che conosco da tanti anni, e te ne vai a vivere beato e felice in quell'aria elastica delle montagne che stuzzica l'appetito e conserva la salute.... Ecco quanto mi premeva di comunicarti, e credo che sarai contento di così bella notizia!...

Rimasi sbalordito, e senza parole. Pensando alla finestra del palazzo Brisnago, che si sarebbe fra poco riaperta, alla riapparizione della divina fanciulla, alla felicità di rivederla e di riprendere quelle soavi contemplazioni, tanto indispensabili alla mia anima, quanto l'aria ai miei polmoni, Milano mi appariva in tutta la sua bellezza. Io vedevo come in un sogno rapido, intenso, tutti gli splendori della città, il lusso, i corsi, i teatri, una scena spettacolosa irradiata da uno sguardo che animava ogni cosa, mentre le parole dello zio m'indicavano confusamente e lontano un povero villaggio deserto al piede delle Alpi, con un orizzonte di montagne nevose nel fondo.

Mio zio mi guardava in silenzio, aspettando tranquillamente la mia risposta. Io sentiva tutto l'orrore della mia posizione, ed una lotta terribile si agitava nel mio animo. Finalmente, vedendomi esitante, egli soggiunse:

— Io confesso che aspettavo tutt'altra accoglienza alla mia proposta, e mi sorprendo assai della tua esitazione.

— Caro zio... l'idea di abbandonare Milano mi opprime talmente, che forse mi sfuggono i vantaggi della proposta che mi fa. Un collocamento che mi permettesse di continuare a vivere presso di lei sarebbe il mio più ardente desiderio, ma allontanarmi dalla sua casa, e da Milano, io solo, per recarmi in un ignoto villaggio, è un progetto che mi spaventa... le confesso ingenuamente la verità....

— Ma come vuoi che un giovane appena ottenuta la patente di maestro trovi il modo di collocarsi a Milano? questa è davvero una strana pretesa! Bisogna che ciascheduno percorra la propria strada, incominciando dai primi passi; quando avrai acquistati dei titoli maggiori potrai ottenere degli avanzamenti, e coi meriti e il tempo ritornare anche a Milano. Ma dovendo incominciare con un posto modesto, dimmi ove potresti essere più felice che in un villaggio, nel quale trovi una casa e dei campi che ti vengono ceduti gratuitamente, e dei vecchi amici della nostra famiglia disposti ad accoglierti colle braccia aperte, come un'antica conoscenza?... Tutti non hanno di queste fortune... ma nessuno sarebbe così difficile di contentare... e devo dirtelo francamente, nessuno tanto ingrato verso la sorte!...

Il malcontento di mio zio era evidente, e d'altronde l'obbligo di lasciare Milano mi sembrava che corrispondesse ad una sentenza di morte. Tuttavia per rinunciare ad un impiego, con l'aggiunta di eccezionali vantaggi, ci volevano delle ragioni importanti. Diventava inevitabile la necessità di manifestare il vero motivo che metteva ostacolo alla mia riconoscenza per questo nuovo benefizio offerto con tanta cordialità. E mi parve che l'amore irresistibile che accendeva il mio cuore dovesse giustificare pienamente la mia condotta, e spiegare la fede che animava i miei lavori letterari, i soli che potessero aprirmi la strada della fortuna. Pensai dunque che fosse giunto il momento d'aprire sinceramente il cuore a chi mi teneva luogo di padre, pensai che la mia ingenua confessione l'avrebbe commosso e convinto, e che avrei trovato nel suo cuore generoso un consiglio e un aiuto. Deciso a tale rivelazione, ruppi il silenzio colle seguenti parole:

— Zio!.. la mia gratitudine per tutte le bontà che mi ha prodigato avrà fine colla vita.... Ma io non posso lasciare Milano; la mia partenza è impossibile. Un vincolo superiore alla volontà decide del mio destino!... Io non sono più padrone di me stesso!...

Il povero canonico cogli occhi spalancati dalla sorpresa, colla bocca semichiusa, mi fissava in volto attentamente senza pronunziare parola, ma il suo sguardo doloroso e severo m'interrogava con ansiosa inquietudine. Sentii la necessità di abbreviare le sue pene, e soggiunsi:

— Non tema nulla per la mia onestà, non ho commesso veruna azione malvagia, la coscienza non mi rimprovera alcuna colpa... ma io amo, amo teneramente una fanciulla, e tutte le mie aspirazioni tendono a meritarmi la sua affezione.... abbia pietà del mio cuore....

Mio zio si alzò in piedi, e fece un giro per la stanza, come se volesse acquetare l'animo esagitato, prima di rispondermi. Io pure m'ero alzato da sedere, e diritto in un angolo della stanza, rivolto verso il mio giudice, colle mani giunte e con voce commossa, andavo ripetendo queste parole:

— Abbia pietà del mio cuore.

Dopo alcuni giri, egli mi si arrestò dirimpetto, esclamando con parole interrotte:

— Non me l'aspettavo... così presto!... Ah gioventù, gioventù! che non sa mettere freno alle sue passioni, che si lascia trasportare facilmente in balìa del pericolo... che non diffida dei precipizii!... mah!.. fragilità dell'umana natura!...

E continuava i suoi giri. Dopo qualche sospiro che parve sollevarlo da un peso, raddolcendo a poco a poco la voce, come un uomo rassegnato che ha preso una determinazione decisiva, soggiunse:

— Ebbene... pazienza!... pazienza!... vedremo di accomodare anche questa.... Sei molto giovane... ma privo di famiglia... e talvolta una buona compagna può salvare un giovane da pericoli gravi... Iddio benedice le buone famiglie... e il mio desiderio è di vederti contento.

A tanta bontà caddi ginocchioni ai suoi piedi, io sentiva la riconoscenza fino all'entusiasmo, la vita mi sorrideva, presi le mani di mio zio e le ricopersi di baci, e vidi due grosse lagrime che scendevano sulle guance rugose del povero vecchio, commosso dalle mie dimostrazioni affettuose. Io mi sentiva rinascere.

Poi dopo breve sosta, guardandomi con occhio benevolo,

— Su via, — mi disse, — ora puoi completare la confessione, e dirmi senza altre ambagi il nome della tua innamorata!

Mi alzai, e sorrisi ingenuamente, ma esitavo a pronunziare il suo nome. Egli mi fece coraggio dicendomi:

— Su via, sbrigati... andiamo alla fine.

Allora io dissi balbettando:

— È la contessa Savina Brisnago....

Non mi è possibile descrivere l'effetto prodotto sullo zio dalle mie parole.

Dapprima rimase come istupidito dall'impreveduta sorpresa, poi diede in uno scroscio così impetuoso e violento di risa, che temetti per un istante che gli avesse dato di volta il cervello. Furono tre assalti successivi, così clamorosi, così sbardellati, e irresistibili, che lo facevano evidentemente soffrire, ma non poteva calmarsi. Si contorceva sopra una sedia, convulso; pareva che si calmasse un istante, soffiava e ansava, e poi già un altro assalto più sganasciato del primo, accompagnato da singhiozzi e da lagrime... una vera tortura.

Ritto, immobile, insensato, io era rimasto al mio posto, e un brivido mi percorreva le membra, come se mi fosse caduta addosso una doccia d'acqua gelata.

— Mio Dio!... non ne posso più... — furono le prime parole di mio zio... poi il pover'uomo mi domandava scusa, voleva riprendere la sua serietà, ma ricadeva nelle risa. Dopo una lunga vicenda di soste e di ricadute, finalmente giunse a calmarsi intieramente, e mi disse:

— Vedi, Daniele, non è per offenderti, ma la tua ingenua rivelazione mi riuscì così impreveduta, così strana, così esorbitante, che ne rimasi colpito, e poi una convulsione irresistibile mi assalì con tale violenza, che credevo morire. Che vuoi?... se tu fossi uno sciocco, non mi sarei sorpreso di nulla, ma colla tua intelligenza, col tuo buon senso, colla tua modestia e moderazione in ogni cosa, vederti così tranquillamente annunziarmi il nome della contessa Savina come la cosa più naturale del mondo... ne sono rimasto colpito... e mi hai fatto terribilmente soffrire.... Ora che è passata, ti prego di dirmi, come mai ti è entrata in testa una simile dabbenaggine!... Tu non ignori certamente il numero di milioni attribuiti alla famiglia Brisnago?...

— Non ci ho mai pensato....

— Non hai mai veduto i dodici cavalli delle scuderie, il lusso degli equipaggi, lo sfarzo signorile della casa, i numerosi domestici....

— Ho veduto... e non ho veduto... ho veduto materialmente cogli occhi, ma non ci ho mai arrestato il pensiero. Non ho mai pensato nè all'ineguaglianza sociale che ci divide... nè alla mia miseria... nè alla loro opulenza... ho amato! ho adorato con entusiasmo... ecco tutto!

Allora raccontai distesamente a mio zio i più minuti particolari della mia cieca passione, gli sguardi modesti di lei, ma perseveranti che mi colpirono, tutti gli atti che interpretai in mio vantaggio ed agitarono il mio cuore, l'evidente gelosia dei fiori appassiti, il mazzetto raccolto in giardino, la mestizia manifestata la vigilia della partenza, l'addio misterioso della sera... la mia disperazione... e le mie speranze.

Egli mi ascoltò con profonda attenzione, e poi mi disse:

— Pur troppo nei giovani l'amore nasce da un nonnulla, vive di tutto, e non ragiona mai. Le fanciulle hanno l'istinto innato di farsi ammirare. Si fanno belle, vogliono piacere a tutti indistintamente, e credono che uno sguardo non dica nulla; poi, quando travedono d'aver colpito, provano una soddisfazione che le spinge a rinnovare la prova e ignorando le conseguenze della replica, a poco a poco si avanzano con leggerezza nella via pericolosa spinte da sentimenti diversi di simpatia, d'ambizione, di riconoscenza; animate al giuoco fatale dalla voluttà del mistero.... In vero non cercano altri trofei che quelli dell'orgoglio soddisfatto, e per ottenerli slanciano delle freccie; queste possono colpire gravemente, ma i feriti non hanno altro vantaggio che di passare all'ambulanza, e soffrirne con rassegnazione i dolori, mentre un eroe predestinato dalla sorte trionfa senza aver combattuto. Talvolta avviene che qualche audace assalitrice rimane vittima della propria imprudenza, ed allora porta per tutta la vita la cicatrice d'una ferita ricevuta scherzando nei ludi giovanili. Per questo il candore dell'anima è tanto raro e prezioso, e la prudenza è una delle prime virtù che le madri dovrebbero insegnare alle fanciulle. Tu sei rimasto vittima, povero Daniele, d'uno di questi filtri sociali tanto diffusi, e tanto pericolosi, dai quali si guarisce però colla ragione e col tempo. Ma quando si rimane feriti sul campo di battaglia, bisogna ritirarsi, per evitare inutilmente nuovi pericoli. Questa tua disgrazia aggiunge nuovi e più forti argomenti alla tua partenza. Non tarderai molto, io spero, ad aprire gli occhi; intanto ritirati tranquillamente, riposa il tuo spirito, richiama il senso comune al suo ufficio... un altro giorno parleremo con calma del resto.

Uscii dallo studio di mio zio vergognoso e confuso della triste figura che avevo fatto; e non avendo più forza da sostenere una seconda diatriba, non dissi una parola sulle mie speranze letterarie; il modo col quale era stato accolto il mio amore non m'incoraggiava a parlare della gloria con un canonico che non poteva conoscere nè una cosa, nè l'altra.

Ritirato nella mia stanza, mi gettai sul canapè, piansi dirottamente, e mi addormentai oppresso dalla stanchezza.

III.

Mio zio ebbe la delicatezza di non ritornare a parlarmi nè de' suoi progetti, nè de' miei amori, lasciando al tempo ed alla riflessione l'incarico di accomodare ogni cosa. Intanto io passava giorni malinconici e notti irrequiete, rotolandomi nel letto senza trovare riposo. Mi sarebbe impossibile raccapezzare tutti i torbidi pensieri di quelle notti insonni, che inauguravano la mia gioventù come le nuvole burrascose dell'aprile annunziano la primavera. Ma il pensiero dominante era questo: — mi ama o non mi ama?... Il dileggio e le riflessioni di mio zio non avevano ottenuto altro risultato.

L'amore è sempre stato uguale sulla terra, ce lo dimostra l'adolescente degli antichi, che porta le ali sul dorso, e la benda sugli occhi. L'innamorato continua sempre i suoi voli senza saper ove vada; esso non conosce gli ostacoli che quando vi batta sopra col capo, come le vespe alle invetriate. L'amore non conosce ineguaglianze prodotte dalle vicende o dalle leggi sociali: esso è un impulso della natura, è un'aspirazione dell'anima che cerca il complemento di cui manca.

Io dunque non pensava più di prima nè alle mie tasche vuote, nè ai milioni di casa Brisnago; io pensava semplicemente a questo: — mi ama o non mi ama? — E sentivo dentro di me che mi amava, me lo diceva una voce arcana, un senso inesplicabile, un fremito irresistibile che ricercava tutte le mie fibre, non solo alla sua comparsa, ma semplicemente all'udire il suo nome, o nel vedere un oggetto qualunque che le appartenesse. Ma per convincere i profani, come mio zio, io sentiva il bisogno d'una prova materiale, evidente, sicura. Uno sguardo, un sospiro, un sorriso, una lagrima, sono prove sufficienti per l'innamorato; ma il mondo? Il mondo domanda di più. — E il mazzetto di fiori raccolto? — potrebbe essere un tratto di cortesia, di stima, di deferenza, mettiamo anche di simpatia e d'amicizia... ma d'amore? Nessuno potrebbe asserirlo. Ci vorrebbe qualche cosa di preciso, per persuadere mio zio dell'amore di Savina, qualche cosa di decisivo anche per me.

E se alla prova essa negasse l'amore... se osasse confermare l'accusa di civetteria che le venne slanciata da mio zio!... I sospetti sono contagiosi, ed io incominciava a dubitare di lei, di me stesso, d'ogni cosa. Se mi fossi ingannato! Se si burlasse di me! — quale atroce derisione! Eppure una ricca e bella signora può essa amare sinceramente, candidamente un povero diavolo! un povero orfano senza pane! — E poi, se ancora mi amasse, che cosa ne penserebbero i suoi parenti? — Forse potrebbero sospettare che io fossi un ambizioso, spinto dall'avidità, innamorato dei milioni!... Quale umiliazione! Ci avrà essa pensato!.. quali possono essere i suoi progetti? O mi ama come io l'amai sempre... senza pensare ad altro che ad amare?... Quali dubbi, quali incertezze, quanti sospetti mi entrarono nell'anima!... E se tali sospetti dovessero mutarsi in realtà!.. partirei da Milano all'istante. — Ma se all'opposto il suo amore fosse puro ed ingenuo come il mio, se avesse fiducia nella mia fede, nel mio disinteresse, nel mio ingegno, che può offrirmi i mezzi d'innalzarmi sino a lei, potrei io abbandonarla, tradire le sue speranze, partire, lacerando la sua anima!.. no, mai! — Un'ultima prova è dunque necessaria, deve essere franca e decisiva.

Con tale determinazione io aspettava ansiosamente il suo ritorno, discutendo in me stesso i diversi progetti che si presentavano al mio spirito come i più opportuni alla prova fissata. Ma ogni piano incontrava insormontabili ostacoli. Impossibile parlarle, difficile farle pervenire uno scritto; e poi provavo un'insormontabile ripugnanza a confidarmi ai domestici, e a comprometterla. Volevo qualche cosa che non lasciasse traccia, un cenno davanti a Dio, senza altri testimoni.

Ho deciso finalmente, dopo maturo esame, di attendere il suo ritorno, e di mandarle un bacio appena si presentasse alla finestra. E pensava: se mi renderà il bacio, nessuno a questo mondo potrà mettere in dubbio il suo amore. Allora il mio dovere sarà fissato, — meritare la sua affezione, ed esserle fedele ad ogni costo. Siamo giovani entrambi e possiamo aspettare; e col tempo e col lavoro si possono fare miracoli. Si videro tanti poveri che coll'ingegno e col pertinace volere raggiunsero le più cospicue posizioni sociali, che il ritentarne la prova non può dirsi pazzia. Se mi ama davvero, ho trovato il punto d'appoggio che domandava Archimede, e posso muovere il mondo!...

Se non mi ama, avrò almeno la forza di partire, e di secondare i progetti di mio zio. Se non mi ama, che m'importa in quale angolo devo portare le mie ossa? — Contessa Savina Brisnago, ecco un uomo in vostra balìa; potete salvarmi od uccidermi. Se i vostri occhi non mi hanno ingannato, voi mi amate. Se mi amate, vi domando un bacio a dieci metri di distanza... ma un vostro bacio darebbe la vita anche attraverso l'Oceano! Ritornate dunque alla vostra finestra, e decidete della mia vita.

Alla mattina seguente mi affacciai al balcone, ma le imposte del palazzo Brisnago erano sempre chiuse e le mie invocazioni disperse al vento.

Così passarono molti giorni. Mio zio mi osservava e taceva, io dissimulava i miei pensieri, e si tirava avanti, egli per lasciarmi agio a riflettere ai miei casi, io aspettando nell'ansia dei timori e delle speranze il momento fatale che doveva decidere del mio avvenire.

Finalmente una mattina essendomi alzato per tempo, vidi molte finestre aperte nel palazzo Brisnago. I domestici mettevano in ordine gli appartamenti, e tutto annunziava il prossimo arrivo.

Quella giornata mi parve un lungo periodo di secoli, ogni minuto durava un anno, un anno di pensieri, di sogni, di progetti, d'entusiasmo e di pene! Guardavo l'orologio, e pensavo: forse ella sarà qui fra due ore, e sentendo al pari di me gli impeti di una passione che trabocca, che dopo lunga compressione domanda imperiosamente di espandersi, risponderà al mio bacio ardente con un bacio modesto, ma soave come il profumo d'un fiore suscitato dagli aliti estivi. Sentivo che quel rapido istante avrebbe bastato ad infondere il genio nell'anima più fredda, era il soffio creatore che dava vita alla mia creta, m'innalzava al disopra degli altri mortali, m'illuminava di quella luce divina che eguagliando l'uomo agli Dei, lo rese talvolta capace di creare di quelle opere che eccitano la meraviglia dei secoli. E progredendo su questa scala, colla accesa fantasia salivo fra le nuvole ove dopo i più strani pellegrinaggi finivo all'apoteosi!.. compiuto il sogno riguardavo l'orologio, e non erano passati che pochi minuti!.. ma dunque le lancette non camminavano?... sì, camminavano come i cavalli da nolo, mentre il mio cervello volava colla rapidità dell'elettrico.

Se fossi morto quella sera mi sarebbe parso di aver vissuto una lunga esistenza. Dunque tutto è relativo nella vita, il tempo e lo spazio, la miseria e la ricchezza, le tenebre e la luce.

Finalmente uno scalpito di cavalli, un rumore di carrozze che si arrestarono mi scossero dal letargo. Mi slanciai alla finestra, e vidi i grandi cancelli del palazzo Brisnago che si aprivano, e gli equipaggi che entravano. Risoluto all'atto solenne, mi appoggio al balcone ed aspetto. Pochi istanti dopo odo un rumore di porte, e vedo un'ombra lontana che si avanza... era lei!... — Ancora col cappellino sul capo veniva sorridente alla finestra, a darmi il saluto del ritorno. Ebbe appena il tempo di vedermi, che io deponendo un bacio ardente sulle estremità delle dita della mano diritta raccolta davanti le labbra, glielo gettava in faccia, come un oggetto che potesse realmente caderle sul viso. Essa spalancò gli occhi sbalordita, e fuggì....

La sua repentina scomparsa mi rese immobile per qualche tempo, e quasi asfissiato nel vuoto, e cieco come un uomo, che abbagliato dalla luce istantanea, rientra immediatamente nelle tenebre.

Illusioni, speranze, amore, tutto era svanito: la vita mi sembrava un'ironia atroce, un inganno, un supplizio!

Mi trascinai fino ad una sedia, caddi colla testa sul tavolino e le braccie penzoloni. Non so quanto tempo rimanessi in quella posizione, ma quando alzai la testa era notte.

Presi una risoluzione assoluta, corsi dallo zio, gli annunziai l'arrivo della famiglia Brisnago e la mia partenza per l'indomani.

Mi applaudì, e s'accinse subito ad apparecchiarmi le lettere di raccomandazione, mentre io corsi ad assicurarmi la vettura, ed a prendere le necessarie disposizioni.

Alla sera tutto era pronto, Veronica aveva fatto la mia valigia, e collocato in un baule i libri, le carte, i vestiti e quanto mi apparteneva. Mio zio mi consegnò il denaro necessario al viaggio ed al mio assetto, con le lettere pel parroco, don Vincenzo Liserio, ed il signor Nicola Bruni, aggiungendo istruzioni e raccomandazioni infinite, sugli affari della casa e dei campi, e sulla mia condotta morale. Poi colle lagrime agli occhi mi diede la sua benedizione e mi congedò, non volendo alla mattina alzarsi prima dell'alba, per non rompere tutto l'ordine della giornata.

Io gli baciai la mano teneramente, assicurandolo della mia riconoscenza per tutti i benefizi ricevuti, della mia ferma volontà di camminare sulla via dell'onore, e lo lasciai balbettando le ultime parole strozzate dall'emozione.

Mi coricai colla testa sconvolta, e piansi tutta la notte. Alle quattro del mattino accesi il lume e mi alzai. Presi la medaglia che stava da tanti anni appesa al mio letto, le diedi un bacio, e mi parve di sentire la benedizione di mia madre. Mi posi in tasca quella santa reliquia con religioso rispetto. Era il solo retaggio di famiglia del povero orfano, che ritornava a trovarsi solo sulla terra!...

Apersi il balcone quando le stelle incominciavano ad impallidire alla luce del crepuscolo. La finestra dicontro era chiusa; la contemplai lungamente, e sentivo di non poter distaccare qualche cosa di me stesso, forse un lembo dell'anima che rimaneva attaccato a quel palazzo.

Intanto ella dormiva certamente d'un sonno tranquillo sotto le candide cortine del suo letto, e mentre nell'alcova elegante aleggiavano dei sogni color di rosa, il povero orfano, ferito mortalmente, abbandonava il tetto ospitale, e andava incontro all'ignoto, disingannato di quegli sguardi fatali che gli promettevano il cielo, e poi lo abbandonavano ramingo sulla terra.

Veronica entrò nella stanza, portandomi del caffè e latte caldo, del pane abbrustolato e del burro, volendo che non partissi digiuno. Cure affettuose d'una povera donna che non mi doveva nulla, e che pure ebbe sempre tanti delicati riguardi per me.

Non poteva staccarmi dalla mia cameretta, muto testimonio di tanti sogni, e girava gli occhi intorno, quasi salutando quelle pareti che per tanti anni mi avevano ricoverato, e veduto crescere, amare, soffrire e vivere d'illusioni.

Ma essendo giunta da un pezzo la vettura, dovetti risolvermi, e scendere le scale, accompagnato dalla Veronica che singhiozzava. Giunto alla porta, mi fu impossibile dirle alcuna cosa, le strinsi la mano, essa mi gettò le braccia al collo.... ci siamo baciati piangendo e partii.

Attraversando le vie di Milano, sentivo di amare teneramente tutte le case, i selciati, gli alberi, i banchi di pietra della mia città; li conosceva tutti, mi ricordavo di averli veduti tante volte e mi pareva impossibile di poterli lasciare; ma ero trascinato dal destino, rappresentato da una vetturaccia da nolo e da un rozzone coi sonagli.

Pochi momenti dopo, essendo uscito dalla città ed avviato per la strada postale da Milano a Como, mi nicchiai nell'infausto veicolo, e chiusi gli occhi per meditare con pieno raccoglimento sulle mie sventure.

Non conosco l'intensità del dolore che accompagna il viaggio degli esiliati in Siberia, ma non posso persuadermi che le loro ambascie giungano a superare gli affanni che ho provati in quel giorno. Al pari di loro io perdeva la patria, la famiglia, le affezioni e le speranze della vita, e mi avanzava verso le fredde regioni dell'esilio e della solitudine.

Era il mio primo viaggio, non essendo mai uscito da Milano che a piedi e per poche miglia. Altre volte l'idea d'un viaggio mi avrebbe acceso d'entusiasmo, allora invece mi metteva spavento; le montagne della Valtellina mi si presentavano alla mente come l'estremo lembo del mondo; chiuso nel mio dolore io non sentiva nemmeno il bisogno di osservare le campagne che fiancheggiavano la via, e i vari paesi che si attraversavano. Il vetturale si arrestava ad ogni osteria, il cavallo non andava mai avanti, e arrivammo a Como dopo la partenza dei battelli a vapore.

Essendo costretto di attendere l'indomani per continuare il viaggio, avrei potuto visitare la città e i suoi monumenti, e percorrere quei deliziosi contorni che attirano l'ammirazione dei viaggiatori. Invece mi chiusi in una stanza d'albergo coi miei pensieri.

Il primo disinganno è forse il massimo dei dolori, perchè non siamo ancora avvezzi a soffrire. Le tinte rosee che abbellano l'orizzonte all'aurora della vita, come il firmamento all'alba d'un giorno sereno, se si mutano all'improvviso nelle tetre nubi d'un temporale, incutono lo spavento che presentano tutti i disordini della natura. Però tanto nella primavera quanto nella gioventù l'orizzonte cambia sovente d'aspetto, e talvolta un raggio di sole attraversa le nuvole dell'uragano. Questo raggio di sole comparve al mio spirito sotto la forma d'un dubbio!... — Se ella non avesse osato corrispondere al mio bacio?... Io mi era preparato con lunga premeditazione a quell'atto decisivo; ma essa fu colta improvvisamente dalla sorpresa. È naturale che la mia audacia insolita ed inaspettata l'abbia gettata nello sgomento. E poi chi sa quale aspetto presentava il mio volto agitato e sconvolto da un'esaltazione febbrile sopportata per varie ore!... forse le ho fatto paura.... E poi una fanciulla che non s'adombra ad un tale atto ha oramai perduto il fiore più soave della gioventù.... Essa ignorava completamente le varie peripezie che mi trascinarono a tale tentativo, essa giungeva calma e tranquilla dalla campagna, desiderosa di vedermi, e me ne dava una prova presentandosi immediatamente alla finestra. Dapprima io doveva mostrarmi grato alla sua bontà, riconoscente della sua cortesia, e poi a poco a poco condurla, trascinarla per gradi a quella dimostrazione decisiva. Invece con un atto brusco ed acerbo ho precipitato la catastrofe, ho commesso un'azione grossolana e volgare, ingiustificabile, che doveva produrre un effetto contrario al desiderato. Che cosa prova dunque la sua fuga?... poteva essa fare altrimenti?... Io non sono che uno sciocco, ho scalzato le fondamenta d'un edifizio, e poi mi sorprendo che la fabbrica crolli. Io sono un imbecille.... ecco la verità! Quella simpatia irresistibile, alimentata dalle assidue contemplazioni che andava sempre maggiormente prendendo l'aspetto d'una passione sincera, rivelata da lunghi e profondi sguardi, e da mille prove che non isfuggono al giudizio acuto di chi ama, quella passione che progrediva lenta, ma tenace nel suo cammino, e già dimostrava d'avere resistito alla lontananza ed alle varie distrazioni di un'intiera stagione, quella passione soave io l'ho troncata con un atto violento, imprudente, inesplicabile, io stesso l'ho obbligata ad arrestarsi, a misurare il pericolo, a fuggire spaventata!...

Imbecille!... ed ho disertato il mio posto al primo rovescio, senza riparare il mio fallo, senza tentare una nuova prova! All'indomani avrei potuto dimostrare il mio pentimento, e mi avrebbe perdonato. Calmata la prima impressione, ella stessa forse pensa di riparare la troppo brusca ripulsa, forse il suo cuore le spiega l'arcano, ed essa mi attende alla finestra, per consolarmi con uno sguardo divino del suo rifiuto!...

Oh! non è possibile esitare un istante di più, io devo ripartire immediatamente per Milano, e riparare il torto della mia fuga precipitosa, una risoluzione insensata non deve decidere la sorte di tutta la vita.... Con tali pensieri uscii dall'albergo per correre in traccia d'una vettura.

Vagai lungamente per le vie senza sapere ove andassi, lottando fra gli opposti pensieri. Che cosa avrei detto a mio zio per giustificare il mio ritorno? Come mi avrebbe egli accolto? aveva io il diritto di scialacquare il denaro ch'egli aveva destinato al mio viaggio ed alla mia dimora mostrandomi leggiero, capriccioso, vano, insensato? Una volta entrato nella via delle riflessioni non mi mancarono argomenti per persuadermi che era tempo di finirla colle pazze fantasticherie, e di pensare in sul sodo. D'altronde, ritornandomi in mente le savie osservazioni del mio benefattore, coll'accompagnamento delle risa convulse, mi si risvegliava quel senso di dignità che l'amore aveva assopito. Pensai che i grandi favori della fortuna non bisogna chiederli, ma meritarli, pensai che nella solitudine che mi attendeva avrei forse trovato nuove forze per tentare la prova letteraria che mi restava ancora come un filo di speranza per l'avvenire. Allora mi parve nuovamente che il mio Lucchino Visconti rivelasse tale novità e altezza di concetti da aprirmi l'adito ad una splendida vita letteraria. Tale fiducia nell'avvenire mi spinse a tentare nuove prove, e decise della mia sorte. — Partirò per la Valtellina, dissi fra me; alcuni mesi di lavoro basteranno a completare la mia tragedia ed a perfezionarla. Ritornerò a Milano col mio tesoro nel sacco; e quando avrò raccolto la palma del trionfo, quando tutti i giornali avranno proclamato l'immenso successo del Lucchino Visconti.... mi presenterò alla finestra.... rinnoverò la prova.... allora la gloria mi darà diritto all'amore.... forse potrò sperare d'aver meritato un bacio dalla contessa Savina.

IV.

Dopo lungo girovagare, avvicinandosi la notte e sentendomi stanco, sfinito, rientrai nell'albergo. Nella gioventù le passioni più violente tolgono l'appetito ed il sonno fino ad un certo punto, oltre al quale la natura si rivolta e reclama i suoi diritti. Chiesi da pranzo, e subito da bere, chè mi sentivo la gola inaridita. Mi servirono un vinetto bianco che mi parve il néttare degli Dei, c'era qualche cosa in quel vino che calmava l'anima agitata, esilarava lo spirito, sorrideva alle illusioni, rinfrancava le speranze. Mangiai con sufficiente appetito per un innamorato cotto, e mi sentii rinfrancato lo stomaco, ma oppresso dalla stanchezza. Rientrato nella stanza mi coricai. La veglia della notte antecedente, il viaggio mattinale, la fatica del lungo passeggio, il cibo sostanzioso e il vino eccellente m'immersero in un sonno così intenso, che non mi risvegliai che all'aurora. Era una deliziosa mattina d'autunno, io mi sentiva rinvigorito dal riposo, consolato da una speranza di gloria, e predisposto dall'amore a sentire le bellezze della natura. A vent'anni non si possono trovare migliori condizioni per godere quello stupendo spettacolo del lago di Como. Salito sul ponte del battello a vapore io non sapeva ove arrestare gli sguardi, e quando uscii dal porto la mia sorpresa sorpassò ogni aspettativa, e concentrò tutta la mia attenzione.

Un cielo perfettamente sereno, un'aria leggera e trasparente permettevano all'occhio di distinguere con precisione i monti più lontani colle vette acuminate tinte in violetto dai raggi del sole, le colline boscose che scendono fino al lago e si specchiano nelle acque, colle loro ville sontuose e coi paesetti pittoreschi che torreggiano sulle rive. Alcune barchette pavesate vagavano sulle acque calme, che apparivano verdi o turchine secondo la luce del cielo o le ombre delle rive.

Io osservava estatico quel delizioso paesaggio che varia lo spettacolo a misura che si avanza, e sentivo che l'aspetto di una bella natura è benefico agli afflitti, e infonde la rassegnazione e la calma. La mestizia dei pensieri mi rendeva più attraente l'incanto di quelle delizie che sembrano un sorriso di promesse e di gioia. La fantasia mi riportava sovente a colei che stava in cima dei miei pensieri, e l'immaginazione giovanile si piaceva dipingermi la vita al suo fianco in una di quelle villette circondate da ombre misteriose di fitte piante, e abbellite di fiori che eccitavano la mia ammirazione. E talvolta sognavo che ella fosse divenuta la mia compagna, ch'io l'avessi lasciata per qualche giorno e ritornassi alla nostra villa; e mi sembrava vederla appoggiata ad una terrazza aspettando il mio arrivo, e mi sentivo il bisogno di annunziarle la mia presenza, sventolando il fazzoletto.

Ma ciò che per me era un sogno, per altri era realtà. In ogni paesello, ad ogni approdo, si vedevano dei volti sorridenti accogliere gli ospiti, gli amici, i congiunti, o salutare i passaggeri. Io solo non avevo una mano che si stendesse per mandarmi un saluto, io povero orfano andavo a guadagnarmi il pane in un deserto villaggio delle montagne, e fuggivo lontano da colei che avrebbe potuto fare la felicità della mia vita. Fantasticando in tal modo sugli umani destini, il mio sguardo si arrestava sopra le povere casupole dei pescatori, e pareva che una mano misteriosa mi additasse quelle catapecchie per mostrarmi che dovunque si vada la miseria sta al fianco della ricchezza, e talvolta si avvicendano sulla ruota della fortuna; la miseria è sovente il prodotto dell'ignoranza, come le ricchezze sono il frutto del lavoro e dell'ingegno, e appunto molti di quei caseggiati sul lago rappresentano il guadagno di grandi artisti che col loro genio seppero raggiungere la celebrità e la fortuna.

Allora mi parve nuovamente che il Lucchino Visconti dovesse aprirmi la strada a lucrosi guadagni, che mi avrebbero permesso un giorno di acquistare uno di quei deliziosi villini e di condurvi la contessa Savina.

A poco a poco il lago si faceva più solitario e più grave. Alle villette signorili succedevano i paeselli laboriosi e le nude roccie. È sempre così nella vita: ai sorrisi della gioventù succedono i pensieri dell'età matura, alla poesia che apre lo spettacolo dell'esistenza seguono le gravi cure degli affari; la vita procede meno bella, ma più seria e più utile; voltandoci indietro vediamo il cammino percorso, e guardando avanti possiamo calcolare la breve distanza che ancora ci divide dal porto.... infatti poco dopo il battello giunto davanti Colico si arrestava, terminando così le mie divagazioni poetiche e il viaggio.

Ogni poeta diventa positivo davanti i fatti volgari della vita, ed io ho dovuto abbandonare i miei sogni per correr dietro al mio bagaglio; ma quando mi accorsi che bisognava scendere a terra, il ponte del battello era già sgombro, e i viaggiatori s'erano precipitati sulla riva. Non potevo staccare il mio sguardo da quel panorama del lago, e mentre il mio occhio saliva dalle colline ai boschi, dai boschi alle nude roccie, ed alle cime imbiancate dalla neve, i miei compagni di viaggio entravano nel paese. L'ultimo facchino mi offrì i suoi servigi che accettai, sbarcando colle mie valigie quando gli altri passeggieri erano già molto lontani.

Fra le raccomandazioni di mio zio c'era anche quella di non fermarmi a Colico per evitare il pericolo delle febbri palustri. Chiesi dunque immediatamente un mezzo di trasporto.

— La diligenza parte in coincidenza col battello a vapore, — mi rispose il facchino.

— Benissimo. Conducetemi alla diligenza.

— Ci siamo in due passi.

Mi fece camminare un quarto d'ora, e vi giungemmo che l'imperiale era già carico; e i viaggiatori più accorti di me erano corsi ad assicurarsi i posti migliori. Il coupé era completo, e non restava che un solo posto all'interno. Mi affaccio allo sportello e vedo cinque persone stipate, che aspettavano l'ultimo compagno di sventura, come il ceppo aspetta il cuneo che deve spezzarlo. Un'enorme matrona raccoglieva le pieghe monumentali delle sue vesti per apparecchiarmi una tomba al suo fianco. Retrocessi inorridito; la morte non mi spaventa, ma l'idea di trovarmi sepolto vivo mi fa orrore!...

Lasciai partire la diligenza senza di me, e ne ebbi le benedizioni dei viaggiatori, a me più grate della loro compagnia in condizioni inaccettabili. Non mi restavano altri mezzi di trasporto che le mie gambe, le quali a vent'anni sono ancora il migliore di tutti, specialmente nelle regioni montuose ove l'aspetto della natura compensa largamente la fatica. Consegnai all'ufficio della diligenza il mio bagaglio da spedirsi l'indomani a Tirano, ove lo avrei fatto ricuperare a mio comodo. Feci colazione da un trattore, e partii.

Mi ricorderò fin che vivo quel viaggio pedestre veramente meraviglioso per un milanese che non era mai uscito dal nido. L'aspetto del lago di Como aveva attirato la mia attenzione, come il soave preludio che apre una sinfonia.

Io entrava per la prima volta nelle regioni sublimi delle montagne, a passi lenti, e con rispettoso raccoglimento, come un devoto che penetra nel tempio di Dio. Le valli ondulate chiuse fra eccelse rupi, i boschi d'abeti che s'arrampicano sulle roccie fra i precipizii, le acque rumoreggianti che saltavano di balzo in balzo fino al profondo torrente arrestarono lungamente i miei sguardi incantati.

Solitario in quel sublime deserto, io restava colpito da voci e da suoni ignoti, che mi eccitavano sorpresa e venerazione. Il vento aveva dei sibili umani fra le chiome di quei boschi, le acque imitavano il fragore del tuono, e gli uccelletti associavano i gorgheggi e le variazioni dei loro canti a quei cupi fragori. Tutto eccitava la mia curiosità, dall'orrido precipizio che si sprofondava negli abissi, al grazioso fiorellino delle Alpi che smaltava le rive. E sentivo in me stesso che la mestizia d'un amore infelice predispone l'anima soavemente all'ammirazione della natura.

In un sito incantevole presso Morbegno mi sedetti sulle sponde del torrente Bitto, e rimasi lungo tempo in contemplazione. All'aspetto di quei monti sormontati da altri monti lontani, più alti e scoscesi, in quella solitudine completa io sentiva la piccolezza dell'uomo, e la coscienza del mio isolamento attristava il mio cuore. Ignoto ai mortali, lontano dalla società e dalle sue agitazioni, un solo filo mi teneva legato alla terra, un filo invisibile che mi univa ad una lontana finestra di Milano ove una fanciulla attendeva il mio ritorno, guardava furtivamente il balcone della mia cameretta deserta, pensava tristamente al mio abbandono, si avvedeva della mia partenza, e nascondeva una lagrima. Quel filo invisibile era però tanto potente da tener legati due pensieri lontani, da far battere all'unisono due cuori separati violentemente da condizioni fatali; alle due estremità di quel filo cadevano due lagrime per uno stesso dolore, prodotto dalla lacerazione di due anime che la natura voleva congiunte, e che la società condannava al distacco. Io non potevo sapere ciò che pensava in quel punto la contessa Savina; eppure avrei messo pegno la vita, che essa pensava a me, come io pensava a lei; la grande distanza non poneva ostacolo alla nostra arcana corrispondenza, io la sentiva con una certezza che non ammetteva dubbio. I presentimenti d'amore non sono che rivelazioni profetiche. E mentre la mia stella mi attirava co' suoi raggi nell'unico angolo dell'universo ove io poteva essere felice, io invece vagava solitario per monti e per valli, in opposta direzione, abbandonando il sicuro, per andare in traccia dell'ignoto!... Pur troppo, questo è sovente l'umano destino. La mia compagna, quella che la natura mi aveva destinato, mi attendeva invano; io era smarrito in un deserto, solo, poveretto... solo al mondo!...

Questi erano precisamente i miei pensieri quando un lieve calpestio sulle foglie secche cadute dagli alberi mi fece voltare la testa. Un cane nero mi guardava con occhi pietosi dimenando la coda. L'osservai dapprima con diffidenza, poi con simpatia. Egli s'avvide del cambiamento, e mi si avvicinò lentamente, quasi interrogandomi sulle mie intenzioni. Lo accarezzai, ed egli appoggiando le sue gambe anteriori sui miei ginocchi, allungò il muso e si mise a lambirmi il viso, poi seduto sulle gambe posteriori continuava a guardarmi. Allora pensando che forse il suo padrone lo cercava, m'alzai e ripresi la strada, ed egli mi seguì da vicino. Guardai lontano a diritta ed a sinistra, sui dirupi del monte e sul pendìo della vallata, e non vidi nessuno. Allora, additandogli il cammino verso Colico, gli dissi:

— Va', cerca il padrone, va' via.

Il cane, vedendo che lo minacciavo per farlo partire, si gettò a terra sul dorso, colle gambe in aria, guardandomi con uno sguardo pietoso.

Dunque, dissi fra me, se non vuole andare verso Colico, è segno che il suo padrone ha preso la direzione di Sondrio; dovendo io fare la stessa strada, lo troveremo; e ripresi il viaggio. Il cane mi seguiva tranquillamente. Ad una svolta della via m'incontrai in uno stradino che acciottolava la strada e gli chiesi:

— Conoscete questo cane?

Egli lo guardò con indifferenza e mi rispose:

— Non l'ho mai veduto.

Allora mi decisi di abbandonarlo sulla via per non distrarlo dalla ricerca del suo padrone, e presi un sentiero che salendo in fianco alla strada s'inerpicava sulla montagna; ma egli mi seguì tranquillamente; mi arrestai a contemplarlo, e pensai: esso è solo al mondo, povero cane, e il suo istinto lo spinge a trovarsi un compagno. Era più brutto che bello, ma aveva due occhi umani pieni di bontà, e guardandomi con tenerezza pareva mi dicesse:

— Siamo soli tutti e due, non mi abbandonate, possiamo vivere in compagnia.

Mi ricordai d'aver udito varie volte a raccontare che due uomini essendosi incontrati per caso, ed entrati in intimità senza conoscersi, ne derivarono poi gravi disordini, ruberie e disgrazie; ma non avendo mai udito che simili conseguenze fossero derivate dall'intimità dell'uomo col cane, mi decisi di conservare il mio compagno, almeno fino a che avesse ritrovato il padrone. E supponendo possibile che fosse digiuno da varie ore, m'arrestai davanti l'osteria di un villaggio che aveva una baracca rizzata sulla via, coperta di paglia, con sotto al rustico tetto un tavolo e sedili di rozze assi inchiodate sopra quattro pali. Domandai pane, vino e dell'acqua.

Povera bestia, con quale ingordigia addentava i primi bocconi! Mangiammo insieme pacificamente, poi gli diedi dell'acqua nel piatto, e bevette con avidità. La più viva riconoscenza brillava nel suo occhio, nei suoi movimenti, nel suo dimenar di coda.

Rifocillati per bene riprendemmo la via, e passammo l'intiera giornata, camminando per la strada maestra, con alquante diversioni per boschi e frane ove mi attirava o il bisogno di riposo, o il desiderio di osservare una cascata, o un punto di vista pittoresco. All'ora del tramonto giungemmo a Sondrio, ove avevo deciso di passare la notte. Entrai in un albergo ove una folla di gente ingombrava il pianterreno e il cortile, e in quella confusione non vidi più il cane. Pensai che avesse trovato il suo padrone, e ne provai vero rammarico; — tanto è facile a risvegliarsi l'affetto nelle anime solitarie, che sentono il bisogno di un compagno nella vita.

Il cameriere mi serviva da cena nell'angolo d'una stanza, quando vidi il cane nella sala vicina, inquieto ed ansante, che andava fiutando la terra percorrendo il cammino che io aveva percorso. Esso cercava di me, mi raggiunse poco dopo, e non potendo frenare la sua letizia mi saltò addosso leccandomi le mani, e mugolando con acuti guaiti che esprimevano il dolore d'avermi smarrito, e la gioia immensa d'avermi finalmente ritrovato. Confesso la mia debolezza: la sua perdita mi aveva fortemente attristato, il suo ritorno mi consolava come una felice ventura. Io sentiva di non essere più solo al mondo, poichè avevo guadagnato l'amicizia d'un cane.

Dopo d'aver cenato in compagnia, dormimmo nello stesso letto, essendosi egli coricato ai miei piedi, come se fosse una vecchia abitudine.

Risvegliandomi al mattino, osservai ch'egli non dormiva più, ma mi guardava immobile, per non disturbare il mio sonno. Quando vide che mi mossi venne a darmi un saluto affettuoso. Io mi vestii e suonai il campanello per chiedere il conto. Ma quando udì il cameriere che batteva alla porta, il cane si mise ad abbaiare come un disperato, volendosi anche dimostrare capace di difendermi.

Dopo una piccola refezione siamo usciti da Sondrio entrando in quella strada pittoresca fiancheggiata dall'Adda, che conduce a Tirano. Questa seconda giornata fu più felice della prima, a motivo della compagnia del mio cane. Egli andava e veniva allegramente per la via. Talvolta saliva sopra un sasso, ed osservava con attenzione gli oggetti sottoposti, poi ritornava indietro facendomi ogni sorta di dimostrazioni affettuose, e si vedeva chiaramente ch'egli era contento al pari di me d'aver trovato un amico.

Una volta adottato il mio compagno, sentii la necessità di mettergli un nome, e cercai lungamente. Sulle prime non mi sarei immaginato la difficoltà che s'incontra a trovare il nome d'un cane, quando si voglia evitare in pari tempo la volgarità e la pretesa. Per un cristiano il lunario ci aiuta, e poi il nome dell'uomo non indica mai nulla, nè si trova inconveniente che si chiami Candido un furbo, Amadio un ateo, Leone un timido, Adone uno sciancato, Fedele un ladro e Felice un ministro. L'uomo si classifica dalla sua condotta, dalla moralità, dall'intelligenza, da tutti gli atti della vita, il suo nome è un caso; ma per il cane non è così. Provate a chiamar Lesbino un molosso, o Turco il cagnolino d'una signora. In esitanza mi sedetti sulle rive dell'Adda, e chiesi al mio cane:

— Come devo chiamarti, caro amico?... Egli mi guardava tranquillamente. — Fido?.. è troppo comune. Falco?.. non significa niente. — Azor?... non mi piace. Egli stesso si mostrava insensibile a questi nomi. Vorrei un nome che ci ricordasse il nostro felice incontro sulle rive del torrente Bitto. Se ti chiamassi Bitto?... Bitto... Bitto, gli dissi con voce carezzevole, vuoi che ti chiami il mio Bitto?...

Egli scodinzolava in segno di assentimento, io gli feci una carezza affettuosa, egli venne a lambirmi la mano, e così gli diedi, ed egli accettò cordialmente il nome di Bitto.

Quel giorno pranzammo lietamente a Tirano, e usciti dal paese, prendemmo un'oretta di riposo sull'erba all'ombra d'antiche piante sui confini d'un bosco.

Il villaggio di X** al quale io era diretto trovandosi fra Tirano e Bormio, mi mancavano poche miglia per arrivarvi, ed avevo deciso di giungervi sull'imbrunire per evitare la noia dei curiosi che mi avrebbero molestato coi loro sguardi indiscreti.

Ripresa la via, e sentendo avvicinarsi il luogo destinato al mio esilio, io provava quell'inquietudine che nasce dall'ignoto, e mi doleva d'essere al termine di un viaggio pittoresco. Colla sola compagnia del mio cane e dei miei pensieri non mi sarei stancato di percorrere il mondo. Ma ogni viaggio che incomincia deve in qualche maniera finire. Pur troppo è così, ed ogni viaggio ci rammenta la vita umana. Una volta incominciato il pellegrinaggio, ogni ora che passa ci avvicina alla meta....

Con tali pensieri malinconici vidi per la prima volta da lontano il campanile acuminato, le casupole e le capanne di X**. Entrai nel villaggio quando il sole scendeva dietro i monti tingendo in rosa le nuvolette spezzate.

Le mandre rientravano dai pascoli salutando la sera con lunghi muggiti. I passeri si raccoglievano sugli alberi cinguettando, e raccontandosi i loro pettegolezzi del giorno.

I camini fumavano, le famiglie si raccoglievano per la cena. Tirai fuori dal mio portafogli la lettera di raccomandazione di mio zio all'egregio signor Nicola Bruni, e domandai della sua dimora al primo venuto.

— È quel palazzino bianco, isolato, sulla collina a diritta con molte adiacenze e varie cataste di legna intorno.

— Vi ringrazio.

Presi la strada indicata sulla salita, e giunto all'uscio picchiai. Un ragazzotto mi aperse la porta.

— È in casa il signor Nicola Bruni?

— Che cosa dice?

— Se il signor Nicola Bruni è in casa?

— Signor no... non è in casa... se fosse in casa non sarebbe in cortile... ma è in cortile....

Una voce tonante interruppe il dialogo.

— Imbecille... perchè tieni la gente sulla porta?

— Ecco il signor Nicola che mi chiama, — disse il ragazzo, — è dunque entrato in cucina... se vuole parlargli, eccolo qui.

In quel momento vidi un uomo ben tarchiato che veniva verso di noi, con un cappello a larghe falde, una giubba di fustagno e calzoni simili che entravano negli stivali. Mi venne incontro con faccia aperta dicendomi:

— Di chi domanda?

— Del signor Nicola Bruni.

— Sono io.... Venga avanti.

— Io sono Daniele Carletti, nipote di Monsignor Giusep....

Non mi lasciò finire, ma gettandomi le braccia al collo mi baciò sulle due gote, colla più cordiale espansione.

— Bravo per Dio!... Caro signor Daniele... benissimo; venga avanti, e si accomodi... ma non sarà solo forse?

— No, signore, sono in compagnia del mio cane.

— Ma vengano avanti tutti due... ma dov'è il bagaglio?... La vettura, il cavallo? — Martino, su via, presto, corri ad aprire il cancello del cortile, fa entrare la vettura che ha condotto il signore... animo, corri....

Non era possibile interromperlo, e Martino era già corso ad aprire, quando ho potuto dirgli ch'ero venuto a piedi, spiegandogli il motivo.

— Oh per Bacco!... quale fatalità! Se mi avesse scritto, avrei mandato a prenderlo coi nostri cavalli. Io pure, veda, non posso soffrire le diligenze.

Lo assicurai che mi ero divertito moltissimo, e che quel viaggio era stato per me un sommo piacere.

— Benissimo.... Benissimo... bravo da senno. — Andò poi a' piedi della scala e gridò a piena gola: — Giovanna.... Agata.... Marta... venite subito abbasso, ma presto.

Eravamo entrati in un salotto terreno. Bitto s'era accovacciato in un angolo, e ansava colla lingua pendente. Il signor Nicola mi fece sedere sul canapè, e incominciò a chiedermi notizie della salute dello zio, e degli effetti provati dopo la cura dei bagni. Quando entrò la signora Giovanna seguita dall'Agata, egli si alzò per le presentazioni, e mi disse:

— Mia moglie... mia figlia... — poi rivolto a loro, — il signor Daniele Carletti, nipote di monsignor Canonico, e futuro maestro del nostro villaggio.

Io feci le mie riverenze, e le signore i soliti complimenti; e sedemmo tutti in circolo a parlare di mille cose.

Il signor Nicola aperse la finestra che guardava sul cortile, e chiamò:

— Martino?

— Eccolo.... — rispose il domestico avvicinandosi.

— Che cosa fai?

— Ho aperto il cancello.

— E non hai veduto che non ci sono vetture?

— Ho veduto.

— Ebbene, ora che fai?

— Aspetto la vettura....

— Come?... Vuoi che le vetture che conducono i viaggiatori arrivino dopo di loro?... Chiudi il cancello... chiama la Menica... accendi il fuoco... corri... imbecille!...

— Sì, signore!...

Il signor Nicola chiuse la finestra e mi disse:

— Caro signor Daniele, non dovete giudicare il paese dal campione che vedeste. Abbiamo una popolazione intelligente e laboriosa, il mio domestico è un asino, ma non ne ho trovati di migliori. I nostri montanari sono pronti e svegliati, ma preferiscono la vita avventurosa dell'emigrazione alle cure servili ed alle meschine risorse del villaggio. Tutti gli uomini validi se ne vanno a cercar fortuna, la coscrizione porta via la gioventù, e non ci restano che gl'imbecilli per farci servire. Non si trovano più buoni domestici!...

La signora Giovanna alzava gli occhi al cielo, confermando coi moti del capo e delle spalle le asserzioni di suo marito; la signora Agata rideva.

Agata era una ragazza bionda cogli occhi chiari, ma per me una bionda non era una donna, od era una donna incompleta ed incolore. Avevo sempre presente come unico modello di bellezza femminea la contessa Savina, co' suoi capelli neri, cogli occhi e i sopraccigli corvini. L'Agata non poteva piacermi, e per giunta era vestita come una bambola di Norimberga, senza grazia nè moda, e non poteva reggere al confronto delle signorine eleganti di Milano, alle quali erano avvezzi i miei occhi.

Essendosi fatta notte, la vecchia Menica venne a deporre sul tavolo un'antica lucerna d'ottone che mandava una luce rossastra, ed avendo fatto cenno alla padrona, questa la seguì accompagnata da sua figlia. Bitto uscì egli pure dalla stanza, attirato forse dall'odore della cucina, ed io rimasi solo col signor Nicola, che mi mise al corrente di quanto poteva interessarmi.

Il signor Nicola Bruni, antico amico di mio zio, che desso pure era oriundo di Valtellina, era diventato da tanti anni l'amministratore onorario del piccolo patrimonio del Canonico, consistente nella casetta appigionata al maestro, con poca terra annessa, e l'aggiunta d'un altro ettaro di terreno diviso in sei appezzamenti sparsi per la montagna. Pagate le imposte e gli ordinari ristauri della casa, la terra rendeva circa l'uno e mezzo per cento del suo valore. Per altro quell'ettaro di terra così frazionato si sarebbe venduto senza la casa, un quattordici o quindicimila lire sonanti, tanto si apprezza in quelle montagne il diritto di proprietà. La terra era data a mezzeria, e produceva castagne, patate, legna, fieno, fagioli, e un po' di vino. Potevo calcolare in media sopra una rendita di circa dugento lire l'anno. Lo stipendio al maestro essendo fissato a lire settecento, e non mancando gl'incerti, consistenti nei regali dei parenti degli scolari, e qualche gratificazione comunale, poteva contare sopra una rendita fissa di novecento lire annue, e l'abitazione gratuita.

— Da vivere onestamente.... — conchiuse il signor Nicola.

Io pensava in quel punto ai milioni di casa Brisnago, ed alla mia intenzione di ritornare una volta o l'altra a Milano a rinnovare il tentativo del bacio. Intanto col mio ingegno doveva studiare il modo di pareggiare la differenza fra le mie rendite e quelle della contessa Savina!.. ma ero innamorato stracotto e la parola impossibile non si trova nel dizionario degli innamorati. E poi avevo sul telaio il mio Lucchino Visconti, e nessuno poteva indovinare ove mi avrebbe condotto una tragedia.

— La casa, — continuò il signor Nicola dopo una breve pausa, — la casa ha bisogno di qualche ristauro, ma l'annata è stata buona, ed io ho fatto dei risparmi che il vostro buon zio mi ha autorizzato di spendere per mettere in assetto conveniente la vostra dimora.

— Non basta, — io soggiunsi, — tengo anche un gruzzoletto d'oro che il povero vecchio mi ha consegnato al momento della partenza, per il viaggio, i primi bisogni e gli arredi di casa.

— Allora siete un signore addirittura, — disse il signor Nicola, — e con un po' di economia e di giudizio, in queste montagne si vive da papi. Tutto sta nel non avere delle idee superiori alle forze, contentarsi del proprio stato, non aspirare a quelle grandezze che non si possono raggiungere....

Voltai la testa, tirai fuori il fazzoletto, e mi soffiai il naso tanto da nascondere la mia confusione; perchè mi pareva proprio che il signor Nicola mi leggesse i pensieri sul viso. Per buona fortuna entrò la Menica, che si mise a distendere sulla tavola una bianca tovaglia di bucato, poi distribuì i tovagliuoli, i piatti, le posate, e apparecchiò in ordine ogni cosa. Il signor Nicola tirò fuori da un armadio parecchie bottiglie, dicendomi:

— Ecco il vino di Sassella, onore della nostra Valtellina; ed assaggerete anche degli altri vini dei nostri monti che non sono privi di merito.

Poco dopo entrarono le signore portando ciascheduna qualche cosa. Osservai che Bitto, il quale non aveva idee preventive riguardo alle donne, seguiva la signora Agata con qualche dimostrazione di simpatia, ed essendomi venuto vicino continuava ad osservare i movimenti di lei, poi mi guardava in un certo modo che pareva volesse dire:

— Sta attento, se hai fame, questa è una buona ragazza; e si leccava i baffi.

Finalmente la Menica venne a portare in mezzo alla tavola una famosa zuppa di polli, fumante, che spandeva un odore appetitoso.

Ci sedemmo tutti in circolo intorno la tavola: alla zuppa seguì un arrosto eccellente di beccaccie, del prosciutto, del formaggio, della frutta, e con quest'agape domestica venne lautamente celebrato il mio arrivo. Il signor Nicola mi versava continuamente da bere, l'Agata accarezzava Bitto e gli dava dei buoni bocconi, egli divorava ogni cosa, e continuava a guardarmi con gioconda espressione, quasi volesse dirmi:

— Bravo Daniele, hai trovato una casa ove si fanno le cose per bene.

Dopo cena il discorso si fece animato. Io raccontai gli episodi del mio viaggio, omettendo od aggiungendo quello che mi pareva opportuno, od interessante per gli ospiti. La mia ammirazione per le montagne produsse un effetto eccellente.

— Vedrete... vedrete tutto a suo tempo, — mi ripeteva gongolando il signor Nicola, — in genere di montagne abbiamo delle meraviglie; dalle più ridenti alle più orride, dal pingue pascolo agli arridi burroni, alle nude roccie, erte, diritte, scoscese, coperte d'eterne nevi! Vedrete le nostre mandre, le nostre vigne, i nostri boschi di castagni e d'abeti: e pareva ch'egli fosse felice d'aver trovato un ammiratore del suo paese.

Narrai anche il mio incontro con Bitto, e la gioia reciproca dei due poveri vagabondi che si fecero buona compagnia, consolandosi a vicenda della solitudine, ma dovetti tagliar corto al racconto, perchè mi parve di scorgere sul volto della ragazza dei segni non equivoci d'emozione, ed io non intendeva d'intorbidire la festa facendo versare delle lagrime. Mi sorprese però che una donna incolore potesse mostrarsi sensibile per così poco.

Non tardai parimente ad avvedermi che l'Agata era la delizia di tutti: sua madre la contemplava con tenerezza, suo padre le sceglieva i bocconcini più ghiotti, e glieli offriva con compiacenza, la Menica girando intorno la tavola l'ammiccava con un sorriso, Martino la serviva con diligenza e premura, Bitto non si distaccava più dal suo fianco, ed era cane di buon naso. Io solo non sapevo trovarle veruna attrattiva. I miei occhi non vedevano che una bruna fanciulla, resa eterea dalla distanza; il mio cuore aveva sete d'un bacio non restituito, del quale sentivo d'essere in credito. Quella sera la veglia fu prolungata da mille discorsi animati da copiose libazioni che mi diedero un alto concetto enologico della Valtellina. Io che a Milano m'immaginava queste montagne come le gelide regioni del polo nord e del mar glaciale, fui ben sorpreso la prima sera del mio arrivo di trovare la temperatura del Senegal, andando a letto tanto caldo che soffiavo come un mantice, e non potevo sopportare le coltri.

Il mattino seguente, che era una domenica, mi alzai per tempo, apersi la finestra, e respirai a pieni polmoni la brezza mattutina, contemplando lo stupendo panorama delle Alpi che mi stava davanti, e volando colla fantasia attraverso la strada percorsa da Tirano a Sondrio, per Morbegno, Colico, Como e Milano. Vedevo come in sogno lo zio canonico che andava a dir messa, il gatto di casa che miagolava fregandosi alle sottane di Veronica, mentre essa apparecchiava la colazione, entravo nella mia cameretta deserta, aprivo il balcone, e stavo aspettando che la contessa Savina comparisse alla finestra dirimpetto, per pagare il suo debito, restituendomi il bacio.

A farmi cadere dalle nuvole non ci voleva altro che il confuso pigolìo che saliva dal sottoposto cortile. Abbassai gli occhi e vidi l'Agata accoccolata che sminuzzava della polenta chiamando i polli. Alla sua voce il gallo, le galline, le chioccie e i pulcini accorrevano da tutte le parti saltellando, svolazzando e cantando, le saltavano d'intorno festosi, rubandosi i bocconi dalle mani. Essa parlava con loro, incoraggiando i timidi, sgridando gli sfrontati, correggendo gl'indiscreti; ed io la guardava dall'alto con sorpresa, senza farmi vedere. Poco dopo comparve la Menica colle sottane rilevate fino al ginocchio, le gambe nude, gli zoccoli di legno, e le maniche della camicia rimboccate fino al gomito, portando un mastello di lavature, dentro le quali gettò una manata di crusca, e poi aperse il porcile. Allora ne uscì un mostruoso maiale, che saltellando goffamente mandava grugniti nervosi, e immergendo il grugno in quella poltiglia lo tirava fuori tutto imbrattato e gocciolante, ne spandeva da ogni parte, e pareva che se ne ridesse, quell'imbecille....

Ahimè! come ero lontano da Milano, dal corso, da quelle strade pulite, da quella vita elegante!... Sentivo una profonda tristezza, e in pari tempo un certo orgoglio della mia patria, e della nobile missione che andavo ad intraprendere, apportando la civiltà a quelle rozze popolazioni di montanari. Immaginarsi una ragazza che s'alzava mattiniera per dedicarsi a quelle occupazioni scurrili!... I polli mi facevano ridere, il maiale mi faceva ribrezzo. Io non ne aveva mai veduto, o solamente qualche testa pulita, rasa, incoronata di mortella, nelle vetrine dei nostri salumai, e non mi sarei immaginato l'immondo animale che mi stava davanti, servito da due donne, come un signore.

Agata consigliava la Menica, entrava ed usciva; finalmente si mise a chiamare Martino. Alla sua voce, Bitto, che dormiva saporitamente ai piedi del letto, alzò la testa, e ascoltò attentamente.

— Martino.... Martino.... — essa ripeteva.

Bitto diede un guizzo, saltò a terra, si mise a gemere presso la porta, raspando colle zampe, guardandomi, ed abbaiando. Gli apersi, ed egli in due salti fu abbasso. Bisognava vedere le smorfie che quel vile adulatore faceva alla ragazza! L'attaccamento, l'affezione, la riconoscenza verso chi dà da mangiare sono le virtù delle bestie, e specialmente dei cani. L'uomo invece conserva la sua indipendenza, dimentica il beneficio, e mostra la dignità dell'ingratitudine.

V.

Scendendo incontrai il signor Nicola che mi strinse la mano come ad un vecchio amico di casa. Dopo colazione mi condusse a visitare i miei possessi dispersi in tutti gli angoli del paese. Mi parvero siti selvaggi, e li avrei ceduti per un sorriso della mia lontana divinità, che avrebbe riso sicuramente se avesse veduto i miei feudi in dose omeopatica.

La casa si componeva di due piani ed era circondata da un appezzamento di terra mal coltivata, ove crescevano liberamente i cardi e le ortiche.

Il vecchio maestro mi venne incontro, come collega e vassallo ad un tempo, lamentando le miserie dei maestri e quelle dei coltivatori. Il signor Nicola per consolarmi mi parlava di riforme, di piantagioni, di concimi, e di raddoppiati prodotti mediante le cure necessarie. Introdotto nella mia futura dimora, mi parve scombussolata, rovinosa, sporca, mi metteva tristezza. Il signor Nicola la trovava comoda, facile a ripararsi con poca spesa; buone stanze ariose. Era cosa naturale: quasi tutti i vetri erano rotti, e l'aria campeggiava liberamente. La cucina appariva tutta adorna di casseruole.... dipinte sul muro col carbone. Il salotto mostrava delle teste di guerrieri colla pipa in bocca, opere tutte alla maniera dei tempi preistorici della pietra, che rivelavano un artista primitivo. I pavimenti solcati, le pareti bucherate e sparse di chiodi, i soffitti facevano ventre da per tutto; i ragni s'erano impadroniti degli angoli, e le scope erano state bandite con sentenza inesorabile.

E mentre il signor Nicola parlava col mio onorevole antecessore, io girava per quelle stanze, pensando fra me stesso: — quale splendido appartamento sarebbe questo per la contessa Savina Brisnago, e quale giardino! e mi metteva le mani nei capelli.

In poche parole fummo d'accordo sulle condizioni dello sgombro, che era assai facile; se ne usciva il vecchio maestro e le spazzature, la casa poteva consegnarsi subito agli operai affinchè la rendessero abitabile pel nuovo maestro e il suo cane. Ma per tale sgombero mi chiesero quattro giorni, che gli vennero concessi. Allora credette opportuno di farmi conoscere il sistema scolastico e le sue abitudini domestiche. Gli scolari per turno gli tenevano in ordine la casa (come abbiamo veduto!), lavoravano l'orto e andavano ad attinger l'acqua alla fontana. Pel vitto s'era accomodato colla vicina famiglia dell'organista, uomo gioviale ed onesto. Forse l'organista avrebbe accondisceso a continuare le sue prestazioni, qualora ci fossimo intesi sulla relativa contribuzione.

— Va benissimo, parleremo di tutto questo con quiete, alle mie donne, — disse il signor Nicola.

Ma quando il maestro si mise a parlare dell'insegnamento, del metodo, della severità dei precetti, dei testi impiegati, il mio compagno incominciò a tirarmi per le falde del vestito, e vedendo che s'annoiava, feci i miei saluti a quell'uomo dabbene e ringraziandolo delle sue informazioni ci congedavamo, per andare alla messa parrocchiale.

Le campane suonavano a festa, e l'eco si ripeteva confusamente intorno la valle, riempiendo l'aria di onde sonore. I montanari scendevano dalle alture, accompagnati dalle loro donne, vestite a varii colori. Era una bella giornata d'autunno, e la popolazione raccolta sul sagrato della chiesa dava un aspetto allegro al villaggio. Tutti mi guardavano con curiosità, e salutavano rispettosamente il signor Nicola.

Agli ultimi tocchi comparve la signora Giovanna con l'Agata, ed al loro passaggio tutti si levavano il cappello, e si vedeva chiaramente dalla franca cordialità dei saluti che tutti volevano bene a quella famiglia.

Dopo messa andammo a far visita in Canonica, e venni presentato a don Vincenzo Liserio parroco del villaggio, al quale consegnai la lettera di mio zio. M'accolse cortesemente, come maestro e nipote d'un canonico, ma con una certa solennità, da uomo che misura le parole per non compromettere l'avvenire, guardandomi sott'occhio per istudiare la fisonomia.

Mi fece tutte quelle offerte generiche che sono dell'occasione, ma non incoraggiano a recare disturbi, perchè si capisce subito ciò che valgono.

Ritornati in casa Bruni, entrammo nel salotto, e dopo breve conversazione in famiglia, la Menica chiamò la signora Giovanna; e Martino si presentò sulla porta.

— Che cosa vuoi? — gli chiese Nicola.

— C'è qui Giacomo che aspetta i vostri ordini.... fino da questa mattina.

— Giacomo, chi?

— Giacomo, fratello di Perina, moglie di Pietro cognato di Battista.... quello che ha un figlio soldato.... e un altro che ha emigrato in Germania il giorno che si andava a....

— Non lo conosco.

— Non si ricorda, che ieri sera mi ha ordinato di farlo venire con degli uccelli?

— Ah! è l'uccellatore?

— Sicuro.

Il signor Nicola alzò i pugni stretti, ed aveva un volto da far paura. L'Agata, che entrava in quel momento, dando un colpo d'occhio a suo padre, gli fece mutare l'espressione della collera in uno sberleffo. Uscì precipitoso dando uno spintone violento alla porta. Martino era svignato. Il signor Nicola aveva un carattere impetuoso, e sul primo momento avrebbe schiacciato un uomo come una mosca; ma per buona fortuna il suo furore non durava che due minuti. Martino, che conosceva bene il padrone, quando vedeva negli occhi di lui i primi lampi che annunziavano l'uragano, spariva sul momento, e restava assente per cinque minuti. Il padrone si gettava contro i muri, le porte, le sedie e quanto gli stava davanti, e slanciava dei calci, che quegli oggetti inanimati non sentivano.... e il domestico non li sentiva nemmeno.... — E poi dicevano che era un imbecille! Allora l'Agata mi spiegò che il signor Nicola, nella sera antecedente, avendo ordinati degli uccelli per il pranzo, l'uccellatore li aveva portati per tempo; ma Martino lo tenne varie ore nella stalla ad attendere gli ordini del padrone che era uscito con me. Intanto le signore aspettavano con impazienza l'arrivo del futuro arrosto, il quale aspettava per essere apparecchiato chi non doveva arrivare che per mangiarlo.

Si dovette ritardare il pranzo d'un'ora, richiamare il fuggitivo che almeno venisse a spennare il corpo del suo delitto, e mentre il signor Nicola e sua moglie erano occupati in altre faccende, l'Agata venne a farmi compagnia nel salotto. Mi domandò con interesse molte cose di Milano, ed io le descrissi le feste, i corsi, gli spettacoli della città, l'eleganza delle signore, il lusso delle carrozze....

Essa mostrò di conoscere non solo i principali monumenti, ma bensì la vita intellettuale ed artistica, e mi sorprendeva assai che una fanciulla che si occupava de' suoi polli, parlasse di cose elevate con non volgare giudizio. Mi disse che i suoi genitori l'avevano condotta a Milano, quando era uscita dal collegio di Como, ove era stata in educazione. Io arrossivo pensando d'essere stato a Como senza vederlo. Poi per farmi passare il tempo aspettando l'ora del pranzo mi condusse a visitare l'orto e il giardino. Nell'orto la mia ignoranza fece la sua prima comparsa. Io non distingueva le piante delle patate dai pomidoro, le carote dal prezzemolo, confondeva il rosmarino colla lavanda, le zucche coi poponi. Essa rideva di cuore, e mi diceva:

— Eppure a Milano si trovano ogni sorta d'erbaggi; ne vidi di bellissimi sul mercato.

— È vero, ma io non li conosco che quando li vedo cotti....

Allora mi svelò l'estetica degli erbaggi facendomi osservare minutamente l'eleganza e la varietà dei loro portamenti, l'increspatura, i frastagli, le tinte differenti delle foglie, la bizzarria delle forme, la singolarità dei profumi; mi faceva odorare il timo, la salvia, il ramerino, il finocchio, il cerfoglio, il targone, la rucola, la maggiorana, la menta, e mi diceva: — Vedete la grande varietà di aromi indigeni coi quali possiamo condire le vivande senza il soccorso delle droghe che andiamo a prendere alle Indie. Vi prego di considerare la grazia d'un fiore di borragine, ma guardate se può darsi un turchino più limpido, un bianco più puro, un nero più spiccato: e il frutto del peperone, e la leggerezza dello sparagio quando si adorna delle sue sementi rosse come coralli. Guardate le foglie glabre e frastagliate dei carcioffi come sono ornamentali!... e il frutto? non ha esso servito mille volte alle arti ed alle industrie? Le zucche e i meloni non sono forse piante e frutti magnifici, e i fiori di tutti i legumi non sono forse i più vezzosi?... Guardate i ceci, i fagiuoli, i piselli! Credetemi, signore, chi non vede la bellezza della natura in un orto, non la vede intieramente nemmeno sul lago di Como.... Nella natura come nelle arti non basta apprezzare l'insieme, ma bisogna saper conoscere anche i pregi d'ogni singola parte. Chi non ama che il frastuono d'una sinfonia, e non gusta un motivo melodico, non può dire d'intendere la musica; chi non ammira che la sublimità delle montagne e non ha mai contemplato il fiorellino che cresce sui loro crepacci, non conosce la natura. Le scene grandiose le vedono tutti, la musica rumorosa colpisce tutte le orecchie, ma le anime delicate soltanto sanno scoprire il bello nelle cose minute, e godere le delizie della natura e dell'arte davanti gli oggetti impercettibili agli sguardi volgari.

Rimasi maravigliato de' suoi discorsi!... Passammo in giardino, e quivi mi rinnovò la lezione, mostrandomi tutto quello che io ignorava delle bellezze delle piante. Quivi, credendo opportuno di svelare finalmente qualche cognizione, le dissi:

— Sono sicuro che conoscete il linguaggio dei fiori.

— Lo conosco, — mi rispose, — ma lo trovo puerile.

— E perchè?

— Perchè i fiori parlano un linguaggio che si intende da chi ama la natura e vive nella sua intimità, senza bisogno di chiedere le loro espressioni ad emblemi convenzionali. Un fiore qualunque, il più modesto fiore del prato, parla al nostro cuore se ci rammenta un istante memorabile della nostra esistenza, un paese, un amico, una parola, se la sua vista risveglia la memoria assopita d'una persona lontana, o d'un giorno felice.

Tali discorsi portavano naturalmente il mio pensiero al mazzetto gettato alla contessa Savina, e pensavo: chi sa, se vedendo una rosa, delle violette e degli eliotropi, essa rivolgerà la mente al povero esule che non vede al mondo che lei!... e camminavo mesto e silenzioso per quel giardino, seguito dall'Agata; avevamo l'aspetto di due ombre che vanno vagando pei Campi Elisi. Quella conversazione e que' fiori che ci stavano d'intorno m'aveano rapito in un'estasi poetica, quando Martino venne ad annunziarci che il pranzo era servito. A questo mondo tutto finisce in prosa!

Durante il desinare venne in campo il discorso del mio prossimo sgombero e del sistema di vita che mi sarebbe convenuto. Il signor Nicola accennò al consiglio che mi venne dato dal vecchio maestro, di accomodarmi coll'organista pel vitto, e rivolto all'Agata le disse:

— Che te ne pare?

— Il vecchio maestro, — essa rispose, — si trovava in condizioni diverse; la defunta sua moglie era sorella di Tobia l'organista, i legami di famiglia facilitavano le loro relazioni; ma non so se ciò che conveniva a due vecchi cognati di Valtellina possa offrire gli stessi vantaggi ad un giovane milanese avvezzo ad altro sistema. Poi il signor Daniele non conosce Tobia, non l'ha ancora veduto... è un buon diavolo, ma originale.... ed ha la lingua un po' troppo lunga. I due cognati andavano d'accordo in molti punti, per esempio nel giudicare l'ordine e la nettezza come cose di lusso; ne sia prova l'abitudine del maestro di farsi servire dagli scolari, che gli mettevano la casa a soqquadro e ne facevano un letamaio.

— Allora, — soggiungeva il signor Nicola, — bisogna pensare ad altro. Ci permettete, non è vero, Daniele, di trattarvi in amicizia e di occuparci dei vostri affari?...

— È il massimo favore che possiate farmi....

— Orbene, che ne pensi, Agata?

— Mi pare, — ella soggiunse, — che si potrebbe trovare una buona donna di servizio pel maestro, che gli tenesse in ordine la casa, e che sapesse fargli da pranzo e il bucato. In fine dei conti la spesa sarà eguale, se non minore, la salute se ne troverà meglio, e in caso che fosse indisposto non sarà solo.

Mi pareva strano che una persona che si occupava di polli e dell'orto potesse avere tanto buon senso. Io approvai intieramente il suo piano e tutti i consigli che vi aggiunsero i genitori, tanto solleciti del mio bene.

— E chi potrà trovare facilmente una donna che mi convenga? — io chiesi.

— La troverò io, — soggiunse l'Agata, e mi mostrò tanta bontà premurosa, e mi spiegò con tanta grazia che cosa dovessi fare, e come contenermi per i miei piccoli interessi di casa, che davvero, se non fosse stata troppo bionda, l'avrei forse trovata anche bella.

Essendo giorno festivo, non fu possibile mandare a Tirano a prendere i miei bagagli, ma quell'ottima famiglia non mi lasciò mancar nulla che mi fosse necessario, mettendo a mia disposizione la più bella biancheria del signor Nicola. Una sola cosa mi faceva difetto: un libro per la sera. Essendo avvezzo da lunghi anni a leggere a letto, e privo da tanti giorni d'un tal piacere, ne sentivo vivamente il bisogno; onde mi feci animo, e dissi all'Agata:

— Siete tanto buona, che vorrei domandarvi un nuovo favore da aggiungere agli altri.

— Tutto quello che abbiamo è a vostra disposizione.

— Come siete gentile!... vorrei pregarvi di favorirmi un libro da leggere.

— Ben volentieri.... Volete storia, romanzi, viaggi, drammi, poesie?...

— Ve ne lascio la scelta... ben sicuro che mi darete il libro che mi conviene di più.

— Benissimo... farò il possibile per scegliervi una lettura utile e piacevole.

— E di vostro gusto.

— E di mio gusto.

Alla sera dopo cena mi consegnò il libro; io la ringraziai caldamente, e salii tutto contento nella mia stanza. Appena entrato mi avvicinai al lume per guardare il frontispizio del volume, e ne rimasi sorpreso e pensieroso. Era sincerità od ironia?... era un atto d'ingenuo interesse od una lezione arguta?... Profondo mistero!... Il fatto sta che quel libro era l'Ortolano dirozzato di Filippo Re.

VI.

All'indomani Martino andò a Tirano a prendere il mio bagaglio, dimenticandosi nell'ufficio della diligenza l'ombrello, che ho potuto ricuperare qualche giorno dopo col mezzo d'un amico del signor Nicola. Sono incalcolabili le noie e gl'imbarazzi causatici dagli imbecilli fra le vicende della vita. Siccome non possono essere occupati che in cose da nulla, e le fanno male, così ci obbligano a rifarle, annoiandoci in frivole cure per le quali li avevamo pagati. Ma in tutte le condizioni sociali siamo pur troppo condannati ad attraversare il pelago dell'umana imbecillità, e questa navigazione desolante ci ruba delle ore preziose, e quindi ci accorcia la vita. Maledetti gli imbecilli!...

Io ero capitato al villaggio appunto per distruggere l'ignoranza e l'imbecillità, e mi ripromettevo grandi vantaggi da questa nobile e santa missione, ed aspettavo l'apertura della scuola per gettarmi a corpo perduto nelle cure della pubblica istruzione.

Intanto la prosa dell' Ortolano dirozzato mi produceva ogni sera il suo effetto infallibile, addormentandomi d'un sonno denso, tenace, profondo, e talvolta facendomi vedere in sogno una testa bionda di donna col sogghigno dell'ironia, fra un cavolo navone e un cavolo rapa.

Non mi ero degnato mostrarmi offeso della scelta del libro, e tacqui fino a che un giorno l'Agata mi domandò se io facessi progressi nell'orticoltura.

Allora gli dissi un po' risentito che non mi sentivo davvero chiamato a quel genere di studi.

— Avete torto, — mi rispose.

— Che volete!... se preferisco Monti, Foscolo, Alfieri a Filippo Re, la traduzione d'Omero, i Sepolcri e le tragedie ai poponi ed alle zucche, non è mia colpa... i gusti son gusti.

— Non si tratta di preferenze, — essa insisteva — ma di assoluta necessità. Ogni persona di buon gusto, dopo pranzo, preferisce un mazzo di fiori ad un pezzo di pane; ma se i fiori sono vaghi, profumati e deliziosi, non sono necessari come il pane. Per coltivare dei fiori bisogna vivere, e per vivere bisogna mangiare, dunque il necessario deve passare prima del dilettevole, i campi prima dei giardini, l'orto prima della poesia. La poesia è cosa sublime, è un ornamento della vita, ma per vivere bisogna lavorare sul positivo e sul sodo. La vita è cosa seria, ha doveri e necessità dalle quali non si sfugge senza grave danno. Sapete di quell'astronomo che camminando assorto nella contemplazione degli astri è caduto in un pozzo. Sta bene guardare in alto, ma non bisogna cadere nei pozzi, e ce ne sono tanti sulla terra.

Ci sono poi certi poeti che cercano le ispirazioni in aria, e rapiti dai loro voli pindarici non vedono il bello che li circonda, non sanno ammirare i pregi della natura che passa davanti i loro occhi, disdegnano come volgarità la semplice poesia della vita. Io invece trovo la poesia anche nel cortile e nell'orto, ove osservo tanti doni della natura che crescono a beneficio dell'uomo, e mi rammentano i piaceri della mensa, che, raccogliendo la famiglia e ristorando le forze, procura anche i piaceri morali che provengono dallo scambio dei pensieri e degli affetti.

Tali discorsi mi conducevano a serie riflessioni; io le chiedeva scusa del mio sussiego, mi desolava delle mie idee storte, vane e confuse, e mi battevo la fronte. Allora essa rideva, e lodando i miei gusti letterari, incoraggiava i miei studi; e mi consigliava a ripartire il mio tempo fra la prosa e la poesia, fra le cose positive e le amenità.

— Se dovete vivere in campagna, — essa aggiungeva, — avete bisogno d'un orto; se sapete coltivarlo ne caverete degli utili, e poi imparerete anche a coltivare i fiori.

Le promettevo di occuparmene seriamente... ma quando aprivo il mio Ortolano dirozzato, e leggevo quelle elucubrazioni sulla cultura dei cavoli, il libro mi cadeva dalle mani, e contro mia volontà mi addormentavo.

Il vecchio maestro era partito, il mio casino era in ristauro. Il signor Nicola lo aveva consegnato ai muratori, falegnami, fabbri-ferrai, ed ogni giorno andavamo insieme a visitarne i lavori. Io non vedeva che martelli che battevano, seghe ed accette che dividevano e sgrossavano legnami, pialle che spianavano tavole, lime, raspe, tanaglie che rodevano e sconficcavano, cazzuole che muravano, pennelli che imbiancavano, tutto ad onore della mia persona. Ma il signor Nicola vedeva meglio di me che una screpolatura richiedeva un arpese, che un muro faceva corpo, che le assi del solaio non erano ben commesse, e raccomandava ai muratori l'economia della calce, ai manovali di sgomberare i pavimenti dai rovinacci, di spazzare i trucioli che volavano giù dalle scale. Esaminava l'intonaco, e le varie opere del legnaiuolo, e faceva le sue osservazioni. Il giorno dopo si tornava a vedere se i suoi ordini erano stati eseguiti, e se tutto procedeva secondo le convenzioni stipulate cogli operai.

Poi facevamo lunghe escursioni visitando i boschi, i pascoli e le cascine; il signor Nicola mi parlava di migliorie da introdursi, e dei redditi aumentabili, ed io lo ascoltava guardando le belle vedute che si stendevano davanti i nostri sguardi. Bitto ci seguiva dappertutto, e andava avanti ad esplorare il terreno.

Una sera passeggiando con tutta la famiglia Bruni alle falde d'una collina, io osservava attentamente il mio cane che correva dietro agli uccelli svolazzanti sulle siepi, abbaiando furiosamente perchè non si lasciavano prendere.

— L'ingenuità di Bitto vi sorprende.... — mi disse Agata, — ma molti uomini fanno come lui: vorrebbero volare senza ali e si lamentano di non poter raggiungere coloro che s'innalzano perchè hanno forze superiori.

La guardai in faccia sospettoso, perchè mi parve alludesse al mio caso, ma vidi che la sua fisonomia non indicava alcuna malizia, e pensando d'altronde ch'essa non poteva conoscere le mie aspirazioni mi tacqui, e meditai lungamente sulla rassomiglianza dei miei gusti con quelli del mio cane.

Quando il mio casinetto mi parve in ordine, pregai le signore Bruni di volerlo onorare d'una visita, anche per favorirmi i loro consigli sulle ultime disposizioni. Accettarono con piacere la mia proposta, e v'andammo insieme; ma mentre mi aspettava dei complimenti sul mio buon gusto, dovetti invece subire le giuste critiche dell'Agata. Infatti fui forzato di riconoscere che mi ero dimenticato le cose più indispensabili agli usi domestici.

— Ecco i poeti!... — mi disse sorridendo la ragazza, — più fortunati di Bitto hanno le ali per volare al disopra delle cose terrene, ma però, meno positivi degli uccelli, si dimenticano gli agi del nido, che hanno pur tanta parte nella poesia della vita.

L'Agata era troppo buona per aver l'intenzione di pungermi sul vivo, tuttavia ogni qual volta mi metteva al confronto cogli altri animali, io figurava sempre al di sotto della bestia... Non potevo sopportare in pace ogni attacco, nè dissimulare la mia stizza, ed essa, invece di mostrarsi dolente del mio dispetto, pareva si godesse. Alla fine, convinto dalle sue dimostrazioni che gli uomini hanno meno attitudine delle donne per mettere in ordine una casa, la pregai di volermi assistere come una buona sorella, incaricandosi di completare le mie disposizioni e di compiere l'opera che sembrava troppo superiore alla mia capacità. Avendo accettato cordialmente l'incarico col consenso dei genitori, le consegnai il denaro che restava disponibile facendole ampia procura di spenderlo secondo i suoi gusti e il suo giudizio. Due giorni dopo essa partì per Sondrio, accompagnata dal padre, per fare le spese necessarie, ed al suo ritorno venne spedito un carro a prendere gli oggetti acquistati che giunsero in buon ordine, certo a motivo che Martino non faceva parte della spedizione.

Allora l'Agata accordò la Rosa al mio servizio, e volle stipulata una convenzione fra noi, cioè ch'io non entrassi più nella mia futura dimora fino a che l'opera non fosse compiuta. Così, mentre l'Agata e la Rosa, accompagnate dal signor Nicola, dalla signora Giovanna e da Martino, andavano a lavorare a mio vantaggio, e si affaticavano a mettere a posto ogni cosa, io non aveva altro incarico che di passeggiare dalla parte opposta del paese col sigaro in bocca, come un vero sibarita.

In pochi giorni tutto fu messo in assetto, e finalmente ottenni il permesso di visitare la casa. La trovai trasformata, e ne rimasi sbalordito. Essa respirava una modesta agiatezza, piena d'attrattive. Si vedeva dappertutto la mano della donna, si sentiva la sua influenza e il suo intento. Ogni stanza aveva le sue tende, i mobili opportuni, puliti, e collocati a dovere. Al pianterreno un allegro salottino, con un bel tappeto davanti al canapè, un tavolo rotondo nel mezzo; uno studiolo colla stufa, e gli scaffali pei libri, un tinello colla sua credenza a invetriate ove si vedevano le stoviglie, le tazze, i cristalli che brillavano per nitidezza; ed una cucina ben fornita di pentole e pentolini, casseruole e girarrosto. Sugli scaffali si vedevano tutti gli oggetti destinati agli usi domestici, ch'io aveva dimenticati, dal macinino del caffè allo scaldaletto, dalle caffettiere alle lucerne, dai piatti alle scodelle. Davanti al focolare due alti seggioloni a bracciuoli invitavano a sedersi al fuoco. La catena e gli alari lucenti stavano al loro posto. Dopo la cucina si entrava in una piccola dispensa collocata a settentrione, fresca e ventilata per conservare le carni, poi c'era un magazzino ad uso di legnaia e cantina, provveduto dell'occorrente.

Al primo piano due belle stanze da letto, una per me, un'altra a disposizione dello zio quando volesse arrestarsi andando ai bagni di Bormio. Una stanzuccia per la Rosa, un'altra ad uso di guardaroba, un'altra ancora disponibile e vuota.

Tutte le stanze avevano l'occorrente, ma quello che mi colpì di più furono i quadretti appesi ai muri, e i vasi di fiori sui tavoli, e vari altri piccoli oggetti da collocare i sigari e i fiammiferi. Nel gabinetto da studio figuravano le più belle vedute di Milano, che mi arrestai a contemplare con uno stringimento di cuore. Il tinello aveva due bei panorami del lago di Como, e le pareti del salotto portavano i ritratti di alcuni fra i più grandi benefattori del genere umano.

Sulla porta della cucina stava affisso il lunario, e un calendario dell'ortolano, nel quale si leggevano i lavori e le semine da farsi ogni mese.

Quella buona ragazza così sensata e positiva, visti i miei piccoli mezzi, mi aveva dichiarato non occuparsi che del solo necessario; essa aveva dunque trovato necessario coprire la nudità delle pareti, riposare i miei sguardi sulle care memorie della patria, ricondurre il mio spirito di quando in quando per le vie della mia cara Milano, rammentando l'aspetto ridente della natura coi più bei siti contemplati sul lago, e richiamandomi alla mente le grandi virtù dagli uomini che onorano l'umanità.

Di quella povera casa, così deserta, tacita, e nuda, essa aveva fatto una dimora piacevole, comoda, popolata di ricordi, eloquente d'insegnamenti, fornita di graziose opere d'arte, un rifugio tranquillo e sereno, che invitava alla pace ed allo studio.

Commosso e riconoscente, non sapevo in qual modo dimostrarle la mia gratitudine. Essa aveva apparecchiato il nido al povero esule, s'era studiata di rendergli meno squallida la vita solitaria. Come una buona sorella aveva prodigate le cure più affettuose nell'allestimento d'ogni stanza, usando gli accorgimenti più delicati, le previsioni più sottili. Io andava pensando a qualche regaluccio che le provasse la mia piena soddisfazione, ma mi trovavo nell'impossibilità di poter acquistare un oggetto qualunque al villaggio.

Mi si presentò il pensiero di offrirle la medaglia di mia madre.

Era quanto io possedessi di più prezioso, e vi tenevo tanto che dapprima respinsi tale idea come una tentazione. Non sapevo risolvermi a privarmi di quella santa memoria; respingevo il progetto, e lo riprendevo esitante e sconvolto da mille diversi pensieri, quando la Rosa venne a dirmi che l'Agata mi attendeva ansiosa di conoscere l'effetto prodotto dalle sue disposizioni.

Dovetti risolvermi a partire colla medaglia o colle mani vuote; o quella o niente!... In tale dolorosa alternativa, piuttosto di passare per un ingrato ho preferito lacerarmi le fibre del cuore, presi la medaglia deciso e rassegnato al dolore di privarmi dell'ultimo residuo della famiglia, dell'unico segno che mi rammentasse mia madre, e corsi a casa Bruni.

L'Agata era nel suo giardinetto aspettando il mio ritorno, quando io le comparvi dinanzi tutto sconvolto dall'interna lotta delle mie sensazioni. Vedendomi ne rimase confusa, temendo di non avere incontrato il mio gradimento. La rassicurai piuttosto coi gesti che colle parole, perchè mi mancava la voce. Poi le presentai la medaglia dicendole:

— Questo è l'oggetto più prezioso che posseggo, è l'unico ricordo che mi rimane della mia povera madre; vogliate accettarlo come un pegno della mia viva riconoscenza.

Fece un moto di sorpresa e rifiutò: una grossa lagrima scese sulle sue guancie, indi mi rispose:

— La vostra soddisfazione mi ricompensa largamente del poco che ho fatto. L'allestimento della casetta è stato per me un vero divertimento, il dono che vorreste farmi mi prova che sono riuscita al di là delle mie speranze, io ne sono contentissima e non desidero altro.

— Non rifiutate, vi supplico, di accettare questo piccolo segno della mia gratitudine.

— Ma nemmeno per sogno, caro Daniele, io sarei ben crudele se vi privassi d'una tale santa memoria!

— Eppure, Agata, sento dentro di me una ispirazione che mi spinge ad insistere, sento come la voce di mia madre che mi ordina di mettere questa medaglia nelle vostre mani, come un sacro deposito.... rifiuterete la preghiera di una povera madre morta?

Allora, vedendomi umiliato e dolente della sua esitanza, stese la mano dicendomi:

— Come semplice deposito l'accetto. — Prese la medaglia, la guardò attentamente, le diede un bacio, se la pose in seno, ed aggiunse: — Essa mi darà il diritto di trattarvi come fratello.... fin che saremo vicini.

— Mia madre vi ascolta a vi benedirà, — risposi.

Le baciai la mano con affetto fraterno, mi ritirai nella mia stanza, perchè sentivo bisogno di trovarmi solo, per piangere in libertà.

VII.

Il giorno seguente presi possesso della mia nuova dimora, dopo di aver dimostrato come seppi meglio tutta la profonda riconoscenza per la cordiale ospitalità ricevuta in quell'eccellente famiglia. La partenza da casa Bruni mi riuscì dolorosa come se vi avessi vissuto degli anni. Vi sono a questo mondo luoghi ai quali non ci avvezziamo nemmeno dopo una lunga dimora; ve ne sono altri nei quali si sta bene fin dal primo giorno, e che non si vorrebbero lasciare. Generalmente in questi si è destinati a passare rapidamente, e negli altri a consumare la vita! ecco il nostro destino!

Pregai quei buoni signori di continuarmi la loro amicizia.

— Nulla è cambiato, — mi rispose il signor Nicola, — avete due case invece d'una sola, ecco tutto!...

Volevo baciargli la mano, ed egli si è rifiutato, dandomi due grossi baci sul volto. Mi accompagnarono fino alla porta della loro casa, mi strinsero le mani affettuosamente. Martino portava il mio sacco da notte, le signore mi dicevano:

— A rivederci.... a rivederci.

— A rivederci.... questa sera, — io risposi, — e partii salutando colla mano, seguito da Bitto, che, colla coda bassa, dimostrava non essere più contento del suo padrone.

La Rosa m'aspettava sulla porta della casa, mi venne incontro per alcuni passi, prese il sacco dalle mani di Martino, e m'introdusse nel mio nuovo possesso.

Salii il primo piano seguito dalla fantesca, ed affacciandomi alla finestra che guardava sul cortile vidi un bel gallo a penne variopinte, il quale scuoteva la cresta orgogliosa, sorvegliando quattro belle galline che razzolavano in terra.

— Ove avete trovato quei bei polli? — chiesi alla Rosa.

— È un dono della signora Agata, che volle piantarvi il pollaio co' suoi allievi. Rammentandosi gli elogi fatti a colazione sulla freschezza delle uova, desiderò che continuaste a trovarne d'eguali sulla vostra tavola.

— Eccellente creatura!... cuor d'oro!...

— E testa fina!... — soggiunse la Rosa.

— Sicuro!... sicuro!... ma.... ma.... e ripeteva dentro di me: ma peccato che sia bionda!

Io era sempre perdutamente innamorato della contessa Savina, alla quale non avevo mai parlato, e che aveva rifiutato di restituirmi il bacio. Ma.... ma!... e andavo girellando per le camere come un uomo che cerca qualche cosa. Cercavo infatti lo scioglimento d'un problema: — date due donne giovani, ed amabili entrambe, una lontana e inaccessibile per la distanza, la nobiltà, la ricchezza, le condizioni sociali, e l'altra vicina, accessibile per relazioni di famiglia e opportunità d'ogni genere, un giovane s'innamora della prima e disdegna la seconda. Qual è la forza che lo spinge di preferenza verso l'impossibile?... ecco l'incognita.... Ho passato il primo giorno nel mio nuovo domicilio occupato esclusivamente di questo problema, che mi pareva un'equazione algebrica fra le più complicate e difficili. Chiuso nel mio studio, coi gomiti appoggiati allo scrittoio, e le mani nei capelli, io meditava le condizioni della vita e delle umane passioni, inesplicabili. Udivo al di fuori della gente che domandava alla Rosa:

— È in casa il signor maestro? — ed essa rispondeva:

— Sì, è in casa, ma non posso disturbarlo. Sapete che i maestri hanno delle occupazioni.... degli studi seri.... ritornate più tardi.

Io lasciava che andassero; infatti che cosa al mondo poteva interessarmi di più dello scioglimento del mio problema? non era esso il mistero della mia vita?... La contessa Savina era per me la più bella, la più seducente, l'unica donna!... L'Agata era una sorella. Il suo volto? io non lo vedeva! Il viso della contessa Savina mi stava impresso nel cuore con indelebili tracce. Per vederla viva e presente io non aveva che a chiudere gli occhi.... Essa era lì, alla sua finestra, coi suoi bruni capelli rilevati sulla fronte, con quello sguardo penetrante.... con quella scintilla che accende e consuma!... Ma e gli ostacoli?... Nel dizionario d'amore, ostacolo significa eccitamento, stimolo, sprone, prestigio. Tuttavia la ragione, il buon senso?... Che ragione! l'amore è una pazzia.... lo sento nei lucidi intervalli, che non mi servono a nulla. Dopo qualche breve sosta, la demenza riprende il suo dominio, e mi fa vedere le cose a rovescio. L'impossibile mi sembra facile.... e sento che in certi momenti posso diventare un eroe.... o un imbecille!

Il fatto sta, che quando il cuore è saturo d'un amore non ci sta altro, gli occhi non vedono più, il cervello è tutto occupato dai fumi del cuore; che possano allignare insieme due amori, è credere all'impossibile, all'assurdo. Chi s'illudesse di amare due donne in una volta, può essere sicuro che non ne ama nessuna. Io amo la contessa Savina, l'amo perchè l'amo, perchè è stata il primo raggio di luce della mia vita, il primo palpito del mio cuore, l'amo....

— Signor maestro, il pranzo è servito.... — mi disse la Rosa picchiando leggermente all'uscio.... — mi dispiace incomodarlo, ma è l'ora precisa che mi ha fissata.

— Vengo subito, — risposi, ed aggiunsi fra me: — maledetta prosa della vita!... Massaie indiavolate, siete tutte uguali! dalla Veronica alla Menica, dalla Menica alla Rosa, dalla Rosa alle sue pari! ogni giorno vi fanno discendere il pensiero sulla tavola, vi abbassano i vostri sogni al livello del loro focolare!...

— Il falegname ha portato l'ultima polizza, — mi disse la Rosa quando sedetti a mensa. — Anche il calzolaio voleva consegnarle questa nota, ma non ho voluto disturbarla. Tobia l'organista m'ha detto che i maestri sono come i santi apostoli.... bisogna lasciarli in pace, che si preparino ad insegnare agli altri.... Va bene di sale?

— Benissimo, benissimo.... ma dov'è Bitto?...

— Bitto?... Ah! se sapesse come ho avuto paura di perderlo. Si figuri che non si poteva trovarlo. Ma dopo averlo cercato in tutto il villaggio finalmente l'ho trovato.

— Ove l'avete trovato?

— In casa Bruni, si sa; mentre il maestro studiava, egli si è ricordato che era l'ora del pranzo in casa Bruni, e vedendo che qui il fuoco era ancora spento, è andato a chiedere da pranzo alla signora Agata. Essa mi ha detto: — lasciatelo qui fin che ha mangiato, povera bestia, mi vuol bene, si ricorda di me, gliene sono grata, e non posso rimandarlo a digiuno. Bisognava vedere come la guardava, che feste, che scodinzoli; pareva che intendesse le sue parole, e gli dicesse: — vi ringrazio.

Poco dopo ecco Bitto che ritorna a casa contento, abbaiando e saltandomi addosso come se volesse rendermi conto de' fatti suoi.

Da quel giorno prese il suo partito, andando regolarmente a pranzo in casa Bruni, colla scrupolosa esattezza che metteva mio zio canonico per andare a vespero. Io era destinato ad avere sempre sotto gli occhi l'esempio dell'ordine, dagli uomini o dalle bestie, senza approfittarne. Dopo pranzo Bitto se ne tornava a casa, a fare la sua guardia alla porta, e guai se qualcuno s'avvicinava. Egli dapprima abbaiava francamente, poi incominciava a latrare, e finiva con un certo ringhio che metteva tutti in riguardo. La mia voce lo calmava. Egli lasciava passare i visitatori che venivano invitati ad entrare, ma non permetteva che nessuno entrasse senza essere invitato.

Quando andavo al passeggio mi accompagnava, e se ero diretto a casa Bruni lo indovinava a mezza strada, giungeva prima di me, e mi aspettava sulla porta; alla notte dormiva sempre ai piedi del mio letto: alla mattina divideva la mia colazione, ma ripartiva regolarmente pel pranzo, e pareva che mi volesse dire: — la mia fedele amicizia non ti sarà troppo a carico, povero maestro; tu pensi che il cuore non può contenere che un amore solo, io ti mostrerò che l'amicizia è meno esigente, e può vivere benissimo in compagnia.

Appena presa residenza stabile in paese, il signor Nicola mi condusse a fare le visite di dovere alle autorità municipali, che dimoravano nel capoluogo del comune, a poche miglia dalla nostra frazione. Tutti mi accolsero cortesemente, e mi venne consegnato l'atto di nomina a maestro, già deliberato dal Consiglio Comunale fino dai primi giorni del mio arrivo.

Durando tuttora le vacanze mi misi a lavorare assiduamente intorno alla mia tragedia. Nel rileggere le pagine scritte a Milano, trovai necessarie alcune correzioni e di rifare introducendo nuovi incidenti e nuove scene. Fuggivo l'imitazione servile, volevo riuscire poeta originale, i personaggi d'Alfieri mi parevano convenzionali, io sentiva il bisogno di studiare l'uomo dal vero, ma temevo di non trovare in un piccolo villaggio di Valtellina i modelli necessari alle mie scene del medio evo. Tuttavia, pensando che il cuore umano è sempre lo stesso malgrado la diversità dei tempi, mi decisi di studiare le umane passioni nei soggetti che mi stavano intorno tenendo conto delle proporzioni. La distanza era immensa, formidabile! ma l'anatomico che studia l'uomo sul cadavere mi pareva in condizioni peggiori di me. Difatti due uomini vivi, anche distanti di qualche secolo, devono rassomigliarsi fra loro assai più d'un uomo vivo ad un cadavere. I tempi modificano le passioni, ma la morte le annulla addirittura. Il morto non è più che un misero avanzo inanimato dell'uomo. Dall'uomo vivo al cadavere la distanza è assai maggiore di quella che passa fra Giacobbe che inganna suo padre colle pelli d'agnello, e sor Isacchetto, mercante d'abiti fatti, che inganna il suo avventore.

Tali considerazioni mi spinsero a far conoscenza coi maggiorenti del villaggio, che visitai e ricevetti in casa, coll'interesse d'un professore di storia naturale che si circonda d'ogni sorta d'animali necessari a' suoi studii. Io studiava attentamente i miei interlocutori, scrutavo la loro indole, le loro inclinazioni, analizzavo minutamente i loro istinti, la depravazione, i vizii delle loro nature, e li classificavo esattamente, secondo un sistema adottato per mia istruzione. Ogni individuo che manifestasse delle tendenze virtuose o perverse corrispondenti ad un personaggio della mia tragedia, riceveva il suo nome relativo e veniva sottoposto ad attento esame.

Assorto nell'intensità della mia osservazione, è naturale che io rispondessi talvolta sbadatamente alle loro frivole cicalate, e ciò mi valse la riputazione d'uomo superficiale, leggiero e distratto; ma invece, mentre mi credevano colla testa in aria, io era entrato nel loro cervello e nel loro cuore. Con questo sistema penetrante pervenni a trovare nel villaggio tutti i modelli viventi dei miei personaggi.

Il signor Marco Canziani mi servì di modello pel Lucchino Visconti, e offrì tratti magnifici al mio marito tiranno. La signora Pasquetta, moglie del dottore, divenne un'Isabella Fieschi impareggiabile. Essa amava segretamente Ugolino Gonzaga, parte rappresentata al naturale dal giovane farmacista signor Gaspare Zapolini. I caratteri degli amanti, le loro ansietà, l'ardore dei loro sguardi, le insidie tese al marito, le inquietudini della donna colpevole, le aspirazioni impazienti del seduttore, si presentavano alla mia osservazione nelle varie circostanze che mi mettevano in presenza de' miei modelli. La loro ingenuità me li abbandonava in piena balìa; ben lontani dal sospettare il particolare interesse della mia inchiesta, essi non avevano altra mira che fuggire i pericoli che li minacciavano direttamente, e così, schivando il marito, cadevano nelle braccia del tragico. Il povero don Vincenzo Liserio, studiato a rovescio, divenne Giovanni Visconti arcivescovo di Milano. Il signor Nicola Bruni, che si trova spesso in opposizione col medico, specialmente nelle gravi disquisizioni del tarocco ove cercava di sbancarlo, conveniva benissimo coll'indole del congiurato Francesco Pusterla. Ma il più bello di tutti era il mio vicino Tobia, piccolo possidente, ma grande filosofo ed organista. Egli passava in paese per una lingua malefica, un maldicente velenoso, ma per me era un perfetto modello di ghibellino, sempre in lotta col parroco, colla camarilla, coi seguaci, pronto a battere in breccia la canonica, il campanile, la sacrestia e tutti i ridotti del clero. Egli s'incarnava a meraviglia nel mio Uguccione della Fagiuola, e mi si mostrava, senza sospetto, un tipo originale e degno di figurare fra i migliori della tragedia. Aveva il portamento bellicoso, quando ritto della persona teneva le braccia a semicerchio, e alzando la testa in segno di provocazione, faceva far la ruota al randello, mosso dalle sue mani scarne e nodose. Capelli radi, sopraccigli incrociati, orecchie larghe e staccate in alto presentavano i segni caratteristici del suo volto. Aveva il naso lungo e diritto come un dardo, le labbra tumide, le guancie scarne, i zigomi spiccati, la barba rasa. La sua parola era sentenziosa, i suoi movimenti rapidi, decisivi, taglienti; e l'occhio iniettato di sangue gli rendeva lo sguardo feroce.

È certo che ci voleva un grande sforzo d'immaginazione a trasformare il cappello a cilindro diritto, lungo, a tese strette, rosso, spelato, unto, contuso di Tobia coll'elmetto a piume di Uguccione; la giubba corta e i larghi calzoni di fustagno dell'organista colla corazza, i cosciali e le gambiere del guerriero, ma le vesti non sono che la scorza dell'uomo, ed io trovava sotto quelle spoglie miserande un magnifico Uguccione della Fagiuola, con un'anima piena d'ardori velenosi, e d'odio profondo pel partito avverso.

Così io m'ero formato un medio evo artificiale e travestito nel quale vivevo, studiando e meditando le umane passioni e traendone ispirazioni al mio lavoro. Era una specie di carnevalone di Milano trasportato in Valtellina per mio uso e consumo, che mi rendeva il clima meno uggioso, mentre se ne avvantaggiavano i miei studi sull'uomo, e i versi della mia tragedia.

La scuola comunale era collocata a piccola distanza dalla mia casa. Io l'aveva aperta all'epoca indicata dal regolamento, e mi vi recavo esattamente ogni mattina. Poco prima di mezzogiorno, Bitto passava per andare a pranzo a casa Bruni, e al suo passaggio gli scolari si apparecchiavano alla partenza; alla comparsa del maestro si aprivano le lezioni, a quella del cane si chiudevano; il comune era servito a meraviglia da due individui, e non ne pagava che uno solo.

Io rientrava in casa, pranzavo, facevo un giro pel paese fumando un sigaro, poi mi chiudevo nel mio studio per raccogliere le ispirazioni, prender nota, e architettare i versi della tragedia. Passavo la sera in casa Bruni o alla farmacia, e scoprivo sempre dalle mie osservazioni che le medesime passioni agitavano gli uomini, cambiando forma ed importanza, ma restando sempre eguali nel fondo.

Dall'epoca della mia tragedia ai nostri giorni erano passati circa cinque secoli, e mutata anche la scena dalla città di Milano ad un piccolo villaggio della Valtellina, io trovava gli stessi uomini.

Però uomini e passioni erano ridotti a dose omeopatica. L'amante Ugolino Gonzaga, invece di correre le giostre colla lancia in resta, imbrandiva tranquillamente la spatola e faceva pillole; ma il suo amore colpevole aveva le stesse tendenze, le medesime astuzie, gli eguali ardori. Il Duca di Milano faceva il medico condotto, ma cavava sangue e denaro dai suoi soggetti, e condannava a morte gl'innocenti, come nel medio evo. La natura tollerante dell'arcivescovo Giovanni trovava il suo riscontro nella rassegnazione di Don Vincenzo Liserio, che cedeva ai fabbricieri il diritto d'amministrare la parrocchia, limitando la sua autorità alle cose ecclesiastiche. Uguccione della Fagiuola, abbandonato il suono dell'armi, si contentava di quello dell'organo, ma continuava la guerra ai guelfi, e li feriva colla lingua.

Pusterla congiurava sempre contro Lucchino celando accuratamente le spade, i bastoni, le coppe e i denari che dovevano abbatterlo. L'autorità del potere era contrastata da mille insidie, e minacciata da impreveduti stratagemmi che concentravano tutta l'attenzione del tiranno. Uguccione della Fagiuola sosteneva i ghibellini, l'Arcivescovo secondava il fratello; la lotta dei partiti era accanita, e il tarocco contrastato fino all'ultima carta. Frattanto Ugolino Gonzaga, approfittando dell'ardore della mischia, si allontanava dal campo, chiudeva lentamente la porta del suo laboratorio farmaceutico, e correva sotto ai balconi d'Isabella Fieschi!... Io lo seguiva da lontano con prudenza: e lo udivo confabulare colla sua bella:

— Ove sono?

— Tutti intenti al tarocco!... apri.... siamo sicuri!...

Isabella chiudeva il verone, scendeva precipitosa, e nel buio della notte si vedeva il lumicino che percorreva le scale. L'uscio veniva aperto, e Ugolino entrava di soppiatto nel covo del tiranno.

Io ritornava tranquillamente in farmacia, Lucchino si dibatteva invano.... la partita era perduta!...

O mondaccio perverso! è stato sempre così!... una partita di tarocco!

Epoca del ferro o della carta, c'entrarono sempre le coppe e le spade, e i mariti dabbene, e le notti buie, e i capitani di ventura, e gli speziali. Da Eva alla sora Pasquetta le donne furono sempre tentate dal serpente e dal pomo. La virtù della resistenza è il prezioso prestigio della donna onesta, e beati i tiranni, i medici condotti e tutti i giuocatori di tarocco, le cui mogli non possono servir di modello nè alla commedia, nè alla tragedia.

Io studiava coscienziosamente i miei modelli, e ne traevo partito. Quando il medico condotto mi compariva davanti col suo aspetto grave ed altero, le guancie sostenute dai solini bene inamidati, e il ciuffo irto sul capo come le aste dell'istrice, io diceva a me stesso:

— Ecco Lucchino Visconti.

Egli lamentava continuamente l'egoismo dei villani, l'ingratitudine di coloro, ai quali pretendeva d'aver salvata la vita, e che credevano sdebitarsi d'un tale beneficio, coll'offrirgli in dono una magra ricotta affumicata!... Io afferrava subito il pensiero dominante, e lo traducevo in versi tragici:

« Popolo sconoscente... che le gravi

Cure del regno con l'oltraggio paghi

E con l'infame tradimento!... »

Una domenica, dopo la messa solenne, i parrocchiani usciti di chiesa s'intrattennero sul piazzale in conversari amichevoli. Gaspare il farmacista si avvicinò alla signora Pasquetta, e mentre il dottore scambiava una presa di tabacco con un cliente, io udii la signora che diceva sotto voce all'amico:

— Questa sera fanno il tarocco in casa Bruni.... io sarò sola....

— A rivederci.... — l'altro rispose.

Ed io corsi subito a casa, e presa la penna scrissi:

« Al chiaror della luna, quando il suono

Dell'armi, nel vicino castel, chiama

I guerrieri, vien, mio diletto, involto

Nel tuo bruno mantel, che mi rammenta

I segreti misteri della notte. »

Un altro giorno Tobia corse da me tutto ansante per isfogare il suo dispetto contro il parroco, che avendolo ricevuto pranzando, aveva osato trinciargli sotto al naso un pollo arrosto fumante senza dargliene un boccone, e vuotare un intiero fiasco di vino senza offrirgliene un bicchiere.... Egli declamava contro l'avidità del clero, ed io pronto col mio Uguccione della Fagiuola ad esclamare:

« Ingorda razza!... che il feroce acciaro

Immergi in petto all'innocente! e bevi

Fino all'ultima stilla il sangue puro

Del mio amico fedel.... forse tu ignori

Ch'io ti guardo fremente... e aspetto il giorno

Della vendetta!... »

Uguccione della Fagiuola, non trovando nel mio sguardo quelle scintille di sdegno che secondo le sue idee avrebbero dovuto accendere un incendio al racconto dei casi suoi, andava dicendo in paese che io era uno scettico, un uomo senza cuore, un cervello balzano, un enigma vivente!

Così cavando dei versi tragici dalla prosa slombata del villaggio, osservando col microscopio gli omuncoli del mio tempo e vestendoli all'antica, io passai il primo inverno, col corpo in Valtellina, col pensiero nel medio evo, col cuore a Milano; diviso in tre parti, una che tremava dal freddo sotto le Alpi, l'altra sepolta fra le tenebre del passato, la migliore che, accovacciata alla finestra di mio zio canonico, aspettava il bacio della contessa Savina.

Finalmente venne la primavera, e coi tiepidi aliti dell'aprile io sentii nel mio cuore innalzarsi anche la temperatura dell'amore, assopito sotto le nevi del verno.

VIII.

Chi nega l'influenza della primavera sull'amore non ha mai studiato la natura, e vivendo in un mondo artificiale non ha mai sentito il profumo delle prime mammole rifiorire nel suo cuore le aspirazioni alla suprema felicità. Colui che schiude il suo cuore nella stagione del gelo, ha vissuto certamente nell'atmosfera artificiale delle conversazioni, dei balli e dei teatri, e come una pianta esotica in serra calda ha fiorito precocemente per effetto dei caloriferi. Ma nel libero regno delle montagne, dei campi e dei mari, gli animali e i vegetali sono soggetti agli stessi fenomeni, dipendono dagli stessi agenti, subiscono la stessa influenza delle evoluzioni del globo. E quando nelle belle sere d'inverno si passeggia solitari al chiaro di luna per le strade deserte, mentre la brezza notturna forma delle stalattiti di ghiaccio sulle grondaie con l'acqua sgocciolata dalle nevi del tetto, quando la brina gelata sugli alberi li fa sembrare coperti di candida ciniglia, quando spira dalle gole dei monti quel zeffiretto del polo a dieci gradi sotto lo zero, che solidifica le cascate, io sfido qualunque innamorato lontano dalla sua bella, a non sentirsi il cuore indurito e la punta del naso rossa.

Invece quando il nostro pianeta si avvicina all'equinozio di primavera, e le nevi si sciolgono sui monti gonfiando i torrenti, e la terra e gli alberi si vestono di fiori come per celebrare il risveglio della natura, si sente il sangue scorrere più rapido per le arterie, il cuore battere più forte, il cervello espandersi in soavi pensieri. In tale epoca io pure sentii farsi maggiore l'attrazione della lontana finestra del palazzo Brisnago.

Era magnetismo?... non saprei dirlo, ma era un fatto in armonia col resto della natura: il risveglio del mio cuore si trovava all'unisono con quello delle piante; e alla sera, scartabellando l' Ortolano dirozzato, mi son trovato d'accordo colla fioritura delle carote.

Mio zio canonico mi scriveva regolarmente ai quindici d'ogni mese, senza mai alterare d'un giorno l'epoca precisa della sua corrispondenza periodica. Le sue lettere occupavano una pagina e un quarto di foglio, e credo anche che avessero lo stesso numero di linee. Il giorno 13 aprile ho ricevuto una sua lettera. Giorno nefasto! Al solo vederla mi si drizzarono i capelli sulla fronte. Era impossibile che mio zio avesse anticipato due giorni la sua corrispondenza mensile, senza un grave motivo. Apersi la lettera con mano tremante, essa portava un poscritto; un'altra novità minacciosa!... Nel poscritto l'occhio mi corse subito sulla parola « Savina ». Mi appoggiai al muro per non cadere, e lessi: « Questa mattina, nella chiesa di S. Babila, venne celebrato solennemente il matrimonio della signora contessa Savina di Brisnago col signor conte Azzone di Montegaldo ».

Il foglio mi sfuggì dalla mano, dovetti sedermi, appoggiai la testa sullo scrittoio, e rimasi lungamente sbalordito, come allo scoppio d'un fulmine!... Addio bei sogni della primavera che sorridevano ai miei pensieri, che illuminavano la mia mente come il sole che sorge i fiori sul prato! Addio speranze di supreme gioie!... addio fede nell'amore della donna! addio vane illusioni giovanili!... Ecco il primo disinganno... e il più amaro!... Ah! mio zio aveva ben ragione di ridere delle mie stolte pretese!... o vanità delle vanità!... Io aveva creduto agli sguardi d'una fanciulla, come si crede alla santità d'un giuramento... ma quegli sguardi non erano che un inganno!... il profumo d'un fiore che esala i suoi aromi, che imbalsama l'aria, che inebbria e svapora!... Io avevo creduto sentire una voce arcana che mi parlasse d'amore... e non era altro che l'eco del mio cuore!... Io aveva sognata una vita di paradiso, ove l'amore era melodia di due anime, che come due arpe unissone mandano lo stesso suono!... Ahimè! vane illusioni dello spirito umano, che confonde i desiderii colla amara realtà!... le due arpe dopo un soave preludio ruppero l'incanto — una ha stonato!... Rotta l'armonia succedeva nel mio cervello un caos di suoni discordi, rauchi, reboanti, che mi davano il capogiro.

Per raccapezzarmi ripresi la lettera di mio zio, e rilessi quelle parole fatali, come l'annunzio funebre del mio cuore.... esso era morto!... morto.... ucciso a tradimento!... da chi?... da chi?... chi ha ucciso crudelmente il mio cuore?... chi l'ha ucciso? io chiedeva — come un giudice inquisitore che cerca un assassino — chi ha ucciso il mio cuore?...

Una voce misteriosa mi rispondeva: — la contessa Savina!... La contessa Savina?... impossibile! quell'angelo di bontà!... il sorriso della mia vita!... il raggio della mia aurora!... l'immagine soave della dolcezza... l'espressione sincera e profonda del primo affetto!... impossibile, quella divina creatura non è capace d'uccidere un cuore.... un cuore che l'adora.... che confida nel suo amore!... essa non è capace d'un tal delitto contro natura!... essa mi ama.... io lo sento.... sì, quella voce arcana che parlava al mio cuore era la sua.... no, non era un'eco del mio cuore, era l'espressione della sua anima ingenua.... che si sentiva spinta da un impulso ineffabile ad incontrarsi coll'anima mia!

Chi ci ha divisi?... Essa non è colpevole... essa è una vittima al pari di me!... Chi ha dunque ucciso i nostri cuori innocenti? Chi ha imposto l'atroce sacrifizio?.. ove sono dunque gli assassini?...

Io mi scontorceva nelle convulsioni, mi strappavo i capelli come un disperato! Ho passato ore spaventose chiedendo conto alla società della sua fellonia, poichè essa mi rapiva ciò che la natura mi aveva dato.

Ah, nell'abbattimento della stanchezza, quando la calma della prostrazione succedette alla lotta del cuore, meditando sulle umane sorti... ho trovato gli assassini!... sì, li ho trovati. — Sono i milioni... quei maledetti milioni... quei miserabili milioni che, affluendo nelle casse forti dei Brisnago, incatenano quella fanciulla alla schiavitù, la sottomettono al loro dominio dispotico, la obbligano a rinunziare agli impulsi della natura, alle aspirazioni del cuore, ai desiderii dell'anima, per trascinarla alle gemonie dei ricchi, sulla strada fatale prescritta dalla sorte, condotti alla perdizione a quattro cavalli, lacerando i loro cuori, e gettandone i frammenti ad altri milionari, al pari di loro costretti dalla necessità a seguire le stesse vie, a formare delle famiglie senza inclinazioni naturali, senz'anima, senza amore... maledetti, miserabili, vili milioni!...

Gli abbaiamenti persistenti e reiterati di Bitto arrestarono il delirio del mio cervello esaltato, e la Rosa entrando nella stanza mi annunziò la visita del mugnaio Zaccheo, che voleva assolutamente parlarmi.

— Non sono in caso di parlare con nessuno!... dite al mugnaio....

Ma il mugnaio, che l'aveva seguita con insistenza, forzava la consegna, e mi si presentava mio malgrado sulla porta, col suo cappello a larghe falde, le vesti e il volto infarinati come un pagliaccio.

Era impossibile evitarlo; dovetti subirlo.

— Venite avanti, — gli dissi.

— Signor maestro, scusi il disturbo, ma in due parole mi sbrigo.... Siamo al quarto sacco di farina.... e avrei assoluto bisogno che me ne pagasse l'importo.

— Capisco, avete ragione, ma oggi mi è impossibile soddisfarvi.... Aspetto del denaro da Milano; quando mi sarà giunto vi pagherò....

— Mi dispiace, ci avevo contato sopra... l'ultima volta che sono venuto a trovarla mi aveva promesso il pagamento pei primi del mese... siamo alla metà... ho anch'io le mie spese....

— Avete ragioni da vendere... ma un povero maestro non ha il diritto di battere moneta.... Se non ne ho, non ne ho... non c'è rimedio....

— Pazienza... pazienza... — ripeteva il mugnaio con impazienza, — ma siamo povera gente, l'aspettare ci molesta... tuttavia se oggi non può pagarmi, ritornerò domani....

— Domani!.. domani! potrebbe darsi che domani fossi nel caso d'oggi, in ventiquattr'ore non si fanno miracoli... diamine! per quattro sacchi di farina... non avete dunque fiducia nella mia onestà?...

— Ma che cosa dice? s'immagini!.. le domando scusa... se non si fosse povera gente... se non ne avessi proprio bisogno, non sarei venuto a disturbarla....

— Abbiate un po' di tolleranza per alcuni giorni... verrò io stesso al molino a soddisfare il mio debito....

— Non s'incomodi per questo... io passo due volte al dì, e non mi disturba fermarmi....

— Verrò io stesso, vi ripeto... fra pochi giorni... ve lo prometto....

— Come crede... dunque mi raccomando....

— Siamo intesi... che Dio vi benedica... e che il diavolo vi porti, mormorai fra i denti, quando quell'importuno se ne andava, e mi lasciava finalmente tranquillo.

E ritornato solo ripeteva fra me:

— Quattro sacchi di farina di debito, e non ho un soldo in saccoccia!... io mangio il pane a credito, molestato dal mugnaio... e chi sa quanto denaro si sarà sprecato nei fiori e nei bomboni... per celebrare le nozze... senza amore... della contessa Savina!...

Maledetti milioni!... sono la rovina del genere umano... la rovina di chi li ha... e di chi non li ha!...

E ripensavo al mugnaio che, gettandomi in faccia i suoi quattro sacchi di farina, mi faceva vedere più chiaramente la mia posizione!... Io era un uomo assurdo!... un uomo che nell'amore non vedeva che la donna, senza guardarsi in saccoccia!... un uomo che si permetteva un affetto... senza farina!... con una donna milionaria!... un cieco che aspirava alla luce... senza chiederne il prezzo alla direzione del gas!... Un aspirante a diventar milionario, senza saperlo... che adora un angelo, e si trova davanti una barricata di milioni!... — Miserabile!.. la società si burla di tali insanie, essa mi avrebbe chiamato ambizioso, avido, ingannatore, astuto... ed io non sono che un imbecille!... che credeva all'amore ideale, segreto, ignoto, misterioso, imprevidente, senza altre aspirazioni che d'uno sguardo... senza altro desiderio che d'un bacio... l'amore per l'amore... imbecille!...

Forse, nell'assurda ingenuità del mio spirito, avrei trovato naturale che una moglie milionaria pagasse un po' di farina al marito povero!... quale aberrazione! il superfluo che provvede il necessario!... La società condanna severamente tali aspirazioni!... Meno male ch'io non ci aveva pensato, e davanti la mia coscienza era innocente. Ma il mondo non lo avrebbe creduto. Il mondo avrebbe creduto il mio amore un pretesto, e vero scopo i milioni; e la società crede che lo sposo ricco domandi la mano della fanciulla pei suoi begli occhi? È tutto il contrario che è vero... ma andate mo' a dire alla gente che un povero diavolo può innamorarsi d'una ricca signora senza ambizione. Nessuno gli presterebbe fede. Così vuole il mondo che l'oro vada sopra l'oro, e i cenci e la miseria si mettano insieme. Questi sono i matrimoni bene assortiti. Il mio amore mi conduceva direttamente all'infamia!.. la società non mi avrebbe mai perdonato di diventar milionario senza averci pensato; mio zio mi aveva mostrato il precipizio, ma io camminava cogli sguardi rivolti al cielo, io non vedeva che in alto, la mia stella, e la terra col suo fango sfuggivano alla mia vista!

Quel mio primo amore, ingenuo, fervente, celeste, non è stato che un viaggio aereo. La punta d'uno spillo aveva forato il globo che mi trasportava in aria, il gas era uscito dal forellino, io era precipitato al suolo, restando morto sul colpo!.. morto!

— Meglio così! — esclamai, — tutto è perduto, meno l'onore.

Ma se l'anima è volata all'empireo, la materia rimane. Eccomi ancora al mondo senz'anima. Eccomi solo davanti la nuda realtà, solo!... in un mondo scellerato... in mezzo a quattro sacchi di farina da pagarsi... e colla borsa vuota. — Senz'anima e senza denaro!.. solo!.. quale parola spaventosa!...

IX.

Bitto, venendomi incontro con aria carezzevole, con mille affettuose dimostrazioni, guardandomi co' suoi grandi occhi pietosi, girandomi d'intorno, fregandosi alle mie gambe, e lambendomi le mani, pareva mi accusasse d'ingratitudine verso la sua razza, e mi dicesse: — Non diffidare della vita, gli uomini sono egoisti, le donne sono leggiere... ma i cani sono fedeli!...

Uscimmo insieme come due veri amici che non si abbandonano nel dolore, e intendono dividere le amarezze della vita. Vagando pel villaggio, io dissimulava agl'indifferenti la burrasca che mi agitava tutte le passioni dell'animo. Il mio cuore, ch'io credeva morto, non era che ferito mortalmente, e dava dei guizzi turbinosi, come una balena moribonda che si rotola nelle convulsioni, e intorbida la profondità dell'oceano, mentre la superficie ne rimane tranquilla. Guai però al bastimento che naviga in quei paraggi! mentre scorre a piene vele in un mare senz'onde e sotto un cielo sereno, la balena con uno slancio supremo s'innalza dal fondo e manda in aria la nave. Toccava al dottore il rappresentare la parte del bastimento. L'incontrai per via, che andava a fare le sue visite, colla sua aria soddisfatta di sè stesso e del mondo. Il suo miele mi fece sembrare più amaro il mio assenzio. Mi arrestò per raccontarmi i suoi trionfi. Il momento era cattivo, anzi pessimo.

— Sentite, — mi disse, — un bel caso d'alienazione mentale.

— Un bel caso!...

— Sì, un caso di pazzia furiosa... con assalti convulsi da rompere le corde più grosse, superando le forze riunite di quattro guardiani....

— Un bel caso!

— Bellissimo. Sangue, doccie e deprimenti... ho potuto domarlo... abbatterlo... risanarlo... non si muove più dal suo letto... è tranquillo come un fanciullo....

— Lo credo bene, se lo avete svenato!

— Non fa niente, il sangue ritorna... ma la pazzia è svanita. Figuratevi che il pover'uomo s'era fissato in mente d'essere un Dio!...

— E voi lo avete guarito! — io esclamai.

— Guarito perfettamente, — soggiunse con albagia.

— Ebbene! — io gli dissi, — il matto siete voi!...

Il dottore rimase per un istante sbalordito, poi mi fissò in faccia con due occhi di civetta, e fattosi tutto rosso, alzò la testa, e m'interrogò come un giudice alle assisie:

— Che cosa intendete dire?...

— Intendo dire che colui che d'un Dio ha fatto un uomo, è un malfattore. Voi avete trovato un essere felice, e ne avete fatto un disgraziato, un meschino. L'uomo non è realmente che quello che crede di essere. Tutte le umane felicità non sono che sogni! Chi risveglia l'uomo felice non è che un idiota o un briccone!... La vostra scienza non è che malvagità.... La vostra pretesa guarigione non è che un'insania. Dunque adesso avrete inteso che cosa ho voluto dire. Il sapiente è scomparso, il vostro trionfo non è che una corbelleria, avete fatto un infelice di più, ecco la vostra opera... il matto sussiste sempre... è colui che d'un Dio ha fatto un uomo... il matto siete voi!... Ad ognuna delle mie frasi, il medico dava uno sbalzo, e i suoi occhi mi fulminavano.

— Signor Daniele Carletti?...

— Signor Marco Canziani?...

— Voi avete bisogno d'un salasso... non vi dico altro... i vostri occhi sono iniettati di sangue, la vostra ragione vacilla... la vostra vita è in pericolo....

— Andate al diavolo... voi... i vostri salassi... e la vostra pazzia!.. ma lasciate dunque vivere e morire in pace la gente, abbiate un po' di rispetto per l'umanità sofferente che vi serve di zimbello. Risanate voi stesso della vostra mania, della vostra presunzione, che vi spinge a credere di dar vita alle vostre vittime. Voi non siete che un flagello sociale, la malattia delle malattie, il tiranno della natura... che vi rinnega. Vero tiranno in carne ed ossa, coll'eroismo di meno, e il ridicolo di più!... Un povero tiranno in caricatura, coi solini inamidati, il cappello a cilindro, i ciondoli dell'orologio che battono sulla pancia l'ora perpetua della dabbenaggine! Un vero matto che intende guarire i matti felici, ed è più matto di loro... mille volte più matto di tutti!...

La balena aveva dato il suo balzo alla superficie.

Il dottore, barcollante come un naviglio che sta per affondare, mi faceva veramente pietà. Lo piantai sulla strada, in quella posizione disastrosa, e ritornando sui miei passi rientrai in casa; dissi alla Rosa che un urgente affare mi obbligava a partire sul momento, che non sapevo quando sarei ritornato, e camminando rapidamente, per non rispondere alle sue inquiete interrogazioni, sempre in preda d'una grande esaltazione, mi misi a correre pel villaggio, seguito dal cane, e presi un sentiero che s'inerpicava sui monti.

Gli uomini m'erano venuti in uggia, le donne in odio, la società mi faceva paura, io correva in cima alle Alpi colla speranza di trovare una tribù d'orsi fra i quali potessi eleggere domicilio, e vivere in pace e libertà. Il silenzio e la solitudine delle montagne erano i soli farmachi convenienti ai miei mali. L'Alpe è opportuna a tutte le vittime umane, ai rejetti ed ai profughi, ai derelitti che piangono, agli innamorati nell'abbandono, che cercano delle scene corrispondenti all'immensità dei loro dolori. Lo spettacolo che presentano i secoli accumulati davanti i grandi fenomeni geologici rende più tollerabile ogni affanno mortale, i disinganni della politica, dell'ambizione, dell'amore, l'ingratitudine della patria e dell'innamorata. In cima delle montagne anche i molluschi diventano fossili, il tempo e l'alito delle ghiacciaie possono forse pietrificare anche il cuore. Così pensando io vagava per le cime deserte, cercando la mia tribù degli orsi per diventare selvaggio. Non trovai che pastori, i quali, pascolando gli armenti come gli antichi patriarchi, viveano in solitudine e in contemplazione davanti le opere più sublimi della natura. Mi sedetti con loro, guardando in silenzio l'orizzonte lontano che si perdeva nella nebbia, e si confondeva col cielo. La natura parla un linguaggio che calma l'anima esagitata, e consola gl'infelici con sublimi ispirazioni.

L'acre sentore delle piante alpine sembra assopire i dolori morali, come i loro succhi sanano le ferite.

Vagai lungamente in quei deserti col mio povero Bitto, riposandomi all'ombra aromatica dei boschi, dormendo sulle foglie secche, assopito dal suono monotono delle cascate, risvegliato dal fischio acuto degli uccelli di rapina, cibandomi di latte e pane inferigno nelle capanne dei pastori. Ma l'uomo non è fatto per vivere lungamente ramingando nella solitudine; la società lo reclama, il suo destino lo condanna a lottare co' suoi simili, ad impiegare le sue forze per il bene comune. Tali saggie riflessioni mi vennero suggerite dalla cura debilitante del latte, che raccomando caldamente a tutti i giovani innamorati senza speranze.

Ritornai a casa, sfinito dalla fatica e dalla fame; gli innamorati che hanno perduto l'appetito possono tentare una salita sul Monviso o sul Monte Rosa con molta probabilità di riacquistarlo.

Appena rientrato in casa, la fantesca mi disse che il farmacista, venuto per parlarmi, era ritornato più volte per sapere se fossi di ritorno, mostrando gran bisogno di vedermi il più presto possibile, e dichiarando che mi aspettava con impazienza.

Ma io mi trovava nell'assoluta necessità di rimettere le forze esauste con qualche alimento sostanzioso: ordinai alla Rosa di farmi da pranzo, e rimisi ad altro momento la visita alla farmacia. Dopo pranzo sentii il bisogno d'un liquido corroborante, che in casa mi faceva difetto, e andai a cercarlo dove sapevo che i bevitori più intelligenti del paese lo trovavano eccellente. Mi rammentavo benissimo che anche a Como avevo trovato un valido conforto ai miei affanni amorosi nel fondo d'una bottiglia; e volli ritentarne la prova.

Aprendo la porta dell'oscura osteria, i fumi del vino e del tabacco mi resero esitante, e sarei retrocesso se la voce rauca d'Uguccione Della Fagiuola non avesse pronunciato il mio nome con accento di sorpresa.

— Oh!... oh!... avanti, avanti, caro maestro... non abbia paura.... il dottore non è qui.... egli sfugge questi luoghi tenebrosi.... venga avanti, l'asilo è sicuro....

E tutti ridevano in coro.

Io entrai, ordinai all'oste il vino migliore, e mi sedetti sorridendo tranquillamente, come un idiota che non capisce nulla di quanto gli succede dintorno.

— Via da bravo, non faccia il gnorri.... tutti abbiamo cara la nostra pelle....

— Ma di che cosa si tratta? — io chiesi.

— Ah! vuol fare proprio il misterioso! ma è troppo tardi, caro lei! tutto il villaggio sa che ella ha insultato il dottore.... poi è fuggito, per paura di un duello!...

E giù tutti d'accordo con una nuova risata.

Allora compresi finalmente l'enigma, balzai in piedi d'un tratto, diedi un pugno sul tavolo, e dissi, con volto risoluto:

— Se il dottore è offeso delle mie parole, sono pronto a dargli qualunque soddisfazione. Io non sono mai fuggito in veruna occasione, perchè non ho paura di nessuno, e ne sia prova che dichiaro vile chi sostiene il contrario, pronto subito a battermi con qualunque arma, fosse anche il coltello. Invito a levarsi in piedi chi non mi crede!...

Tutti rimasero seduti e in silenzio. Allora io narrai semplicemente la mia diatriba col medico, dissi che lo credevo abbastanza punito del suo fallo dalle mie parole, che ero andato a fare un'escursione sui monti, ignorando il resto; che se il dottore non era contento, io era disposto a fare a piacer suo quanto fosse possibile per soddisfarlo.

Allora pensando alle visite reiterate del farmacista, sospettai che avessero qualche rapporto col fatto, e pregai l'organista a seguirmi per avere le prove delle mie asserzioni.

Egli si rifiutava, ma io insistetti, e dopo d'aver bevuto un bicchiere di vino, ci recammo insieme alla farmacia. Il farmacista ci raccontò come era passata la storia. Dapprima il dottore credeva ch'io vaneggiassi, e supponendomi minacciato di congestione cerebrale mi propose un salasso; ma poi, ferito sul vivo dalle mie risposte impertinenti, se n'era offeso altamente, ed esitava sul partito da prendersi.... in questo punto la balena lo aveva colpito, e andò a naufragare in farmacia.

— È entrato barellando come un briaco!... — diceva il farmacista, — ed è caduto su questa sedia con tale precipitazione, che l'ho creduto colpito d'apoplessia. Gli portai subito dell'acqua fresca, volevo bagnargli la fronte, egli me lo impedì, e tutto ansante mi raccontò le vostre invettive.... a dire il vero un po' troppo vivaci!... Poi, — continuò il farmacista, — mi chiese consiglio sulla condotta da tenersi. Cercai di calmarlo, gli dissi che siete un giovane dabbene, alquanto strano di carattere, ma onesto nel fondo, ch'io non dubitavo punto che ogni cosa si sarebbe accomodata senza scandali nè rancori. Egli si mostrava inquieto, agitato e ripeteva:

— È un cervello balzano!... è stata una vera provocazione!... Chi sa! Avrà forse bisogno di fare una prodezza, e mi ha scelto come capro espiatorio....

Questa idea dì capro espiatorio mi ha fatto sorridere; il farmacista abbassò gli occhi, e continuò:

— Esso ha forse sete del mio sangue! — egli esclamava, — il duello è divenuta una mania del giorno, un atto indispensabile per la gioventù alla moda.... questi giovinotti milanesi se ne fanno una necessità, guai a colui che non ha da vantare una simile fanfaronata!... È certo ch'io diventerò il suo trofeo, la vittima della sua ambizione.... io sarò assassinato!!... — Aveva gli occhi stravolti, i lineamenti alterati, la faccia accesa e il sudore gli grondava dalla fronte a goccioloni.

Per tranquillarlo mi incaricai di mettermi di mezzo, e terminare ogni cosa senza lesione d'onore e senza disgrazie....

— Andate, andate, — egli mi diceva, — cercatelo in casa, procurate di raggiungerlo prima che nascano ciarle, pettegolezzi, complicazioni.... è un esaltato, procurate di abbonirlo.... chiedetegli una ritrattazione semplice.... dichiari ch'io non sono matto.... che non ha inteso di offendermi.... non domando altro che di salvare il decoro.... che mi rispetti, ecco tutto.... tutti abbiamo il diritto d'essere rispettati.... non gli domando altro.... andate.... andate subito.

Corsi a casa vostra, e la Rosa mi disse che siete rientrato per un solo momento, molto agitato, inquieto, annunziandole un viaggio repentino.... impreveduto.... e che vi siete posto a correre, senza nemmeno prendere un sacco da notte.... e non sapeva quando sareste di ritorno. Tornai più volte per vedere se foste rientrato; ma essa mi ripeteva le stesse cose, aggiungendo ogni volta qualche nuova espressione d'inquietudine, di dubbio, sulla vostra precipitosa partenza, senza indicare nè il tempo dell'assenza, nè il luogo.... infatti, a dire il vero, le parole della vostra fantesca indicavano piuttosto una fuga che un viaggio, ed io era costretto di riferire l'avvenuto.

Alla prima ricerca il dottore rimase inquieto e mi spinse a cercarvi con maggior attenzione; alla seconda, ed alla terza volta il suo ardire si andava rialzando, e quando gli comunicai i miei sospetti sulla vostra fuga, e le precise parole della fantesca, allora ricominciò ad alzare la testa, a parlarmi con gravità magistrale, aggiustandosi il solino, rilevandosi il ciuffo, mettendo i pollici nello sparato delle maniche del vestito, gettando indietro il soprabito, soffiando lentamente dalle labbra strette, e pensando fra sè stesso se poteva arrischiarsi a proclamare la sua indignazione. Finalmente, avvicinandomisi con aria misteriosa, ed urtandomi il petto col gomito, mi disse:

— È fuggito!... fuggito... che cosa ne pensate voi? — soggiunse.

— Veramente, — gli risposi, — tutto lascia supporre che sia fuggito!...

— È fuggito, — egli ripeteva, alzando sempre più la voce, — è fuggito dalla mia giusta indignazione.... mi ero ingannato nel giudicarlo, esso è tutt'altro che un rodomonte.... esso è un vero vigliacco!... un insolente di cattiva lega, che vi getta in faccia l'oltraggio, e poi si nasconde; ma le cose non possono passare così.... non si offende impunemente il dottore Marco Canziani.... Il signor maestro Daniele Carletti mi ha offeso, esso intendeva evidentemente colle sue parole di macchiare il mio onore, e di nuocere alla mia riputazione.... io lo sfido all'ultimo sangue.... voi siete il mio primo testimonio, trovatene un secondo, stendete un processo verbale, e constatate il fatto vergognoso e disonorante pel mio avversario, che abbandonando il terreno, è fuggito vilmente, rendendosi indegno di qualunque ulteriore giustificazione....

— Vi ha detto proprio così?... — io chiesi al farmacista.

— Precisamente!... le stesse parole, aggiungendone delle altre. Eccoli, — egli diceva, — eccoli questi giovanotti, che portano la testa alta, che fanno i sacripanti coi timidi e i tapini, eccoli come si mostrano davanti chi sente la propria dignità, davanti chi non tollera ingiurie, ed alza la testa.... fuggono come tanti conigli! Caro Gaspare, voi siete stato presente alla mia sfida ed alla sua fuga, non ci rimane altro da fare che il processo verbale, nel quale dovete constatare esattamente i fatti, autenticandone le firme. Vi prego di farne varie copie.... a tutte mie spese; e vi raccomando la verità, — cioè la mia sfida ad oltranza, e la fuga precipitosa dell'avversario e basta così. Ora, come vedete, tutto è finito; il mondo pronunzierà la sentenza!...

E lasciandomi tale incarico, se ne andò, tutto gonfio e pettoruto, a fare un giro pel villaggio, raccontando a tutti, con un sogghigno malizioso, la provocazione, la sua risposta, e la vostra fuga.... e conchiudeva sempre alzando la mano, movendola rapidamente; e dicendo: — scomparso, fuggitivo, d'ignota dimora.... corre.... corre.... e non si volta nemmeno indietro. Tutto il villaggio ne fece le più grasse risate....

La condotta del medico aveva reso impossibile ogni accomodamento, ed io dichiarai immediatamente che una soddisfazione all'onore era divenuta indispensabile. Io non era nè un insolente, nè uno spadaccino, nè un vigliacco; io aveva una mia opinione, e la sosteneva; io dichiarava, che dato un uomo che crede essere un Dio, è pazzo colui che gli toglie una così beata illusione; io dichiarava stimare malefica la medicina che disinganna un uomo felice, dichiarava imbecille colui che sostiene il contrario. In quanto alla pretesa mia fuga, essa non era stata realmente che un'escursione sui monti durante due giorni di vacanza, ed ero rientrato nel villaggio ignorando le ciarle del dottore e le sue ricerche. Che egli alla sua volta aveva offeso gravemente il mio onore, il solo bene ch'io possedevo, e intendendo di conservarlo con ogni scrupolo, accettavo la sua sfida all'ultimo sangue, deciso di mostrargli che si è completamente ingannato sul mio conto, ch'io facevo pochissimo caso della vita, ed offrivo il mio sangue, per sostenere la mia onesta riputazione.

Pregai l'organista Tobia di volermi servire di padrino, e gli diedi l'incarico di riferire esattamente tali dichiarazioni al dottore, lasciandogli la scelta delle armi, a patto che stesse ferma la sfida all'ultimo sangue.

Il farmacista si unì a Tobia, e così Ugolino Gonzaga ed Uguccione Della Fagiuola si presentarono a Lucchino Visconti.

X.

Il tiranno s'era appena seduto a mensa davanti un bel piatto di maccheroni al sugo, s'era cacciato nella cravatta un lembo del tovagliuolo per conservare illibato da ogni macchia il panciotto; e dalla serenità del suo volto traspariva ad evidenza l'uomo doppiamente soddisfatto del suo onore.... e dei suoi maccheroni.

L'annunzio del mio ritorno gli fece cadere dalle mani la forchetta, l'annunzio della mia accettazione alla sfida gli strinse la gola come un capestro. Addio maccheroni! non gli restava che l'onore da salvare, e poteva costargli la vita. Ecco il mio argomento sulla pazzia convalidato da un nuovo avvenimento; ove è il matto?... È quello che s'illude sul piacere di mangiare un piatto di maccheroni, o colui che lo richiama alle amare realtà della vita?... Lasciate dunque che l'uomo creda nei maccheroni, e non fatevi un vanto di lacerare le sue belle illusioni per mostrargli la canna d'una pistola o la punta d'una spada. Questo avvenimento che condanna la filosofia realista, condanna in pari tempo il duello. Il duello non prova nulla. Togliete un uomo ai maccheroni per darlo in preda alla morte; che cosa avete salvato?... l'onore, la verità, la giustizia?... Credere che un uomo che abbandona un piatto appetitoso per uccidere o restare ucciso possa salvare qualche cosa è una vera insania, che ripugna al buon senso. Esso non può salvar nulla, e può perdere tutto, i maccheroni e la vita. Due buone cose, delle quali ognuno ha l'obbligo di tener conto, e che pur troppo si giuocano sovente per una chimera!... Ma fin che dura il pregiudizio sociale del duello, sarà necessario lasciare i maccheroni per battersi coll'avversario, e quindi il dottore Canziani dovette alzarsi da sedere e disporsi al doppio sacrifizio.

Però tale risoluzione gli pesava assai, non si poteva decidere, e siccome nelle più gravi sventure la speranza è l'ultima che ci abbandona, così un raggio di speranza illuminò la sua mente scomposta. Egli esaminò con uno sguardo scrutatore i due testimoni, e sembrandogli di scorgere sul loro volto la calma dell'uomo senza pensieri, si mise a ridere cordialmente.... si sedette di nuovo.... aspirò con voluttà l'esalazione gastronomica che gli saliva dal piatto, e disse:

— Ho indovinato tutto!... è uno scherzo!...

Anche la calma dei testimoni lo aveva illuso; i testimoni sono sempre sereni, essi non hanno nulla da perdere, nè l'onore, nè la vita, nè i maccheroni. Ed essi dovettero rispondergli:

— Dottore carissimo, non si tratta di scherzi, ma di pura verità, e pur troppo d'una verità molto seria; — e Tobia soggiunse:

— Ella ha accusato di viltà il maestro, lo ha reso ridicolo a tutto il villaggio, lo ha sfidato all'ultimo sangue. Simili provocazioni non si possono accomodare; favorisca dunque di seguirci in un luogo più opportuno per convenire sulle condizioni.

Allora il tiranno, assumendo una posa tragica, si alzò, e dimenticando di togliersi il tovagliuolo, si mise a declamare sulla inopportunità di tali pretese.

— È troppo tardi!... — egli diceva dimenandosi furiosamente ed agitando il tovagliolo che gli scendeva sul petto. — È troppo tardi!.. il termine fissato da ogni convenienza è trascorso, il processo verbale è redatto e firmato in pieno ordine, l'ho aspettato abbastanza l'avversario, il tempo utile per ogni reclamo è trascorso, gravi occupazioni umanitarie reclamano le mie cure, e non posso nè devo trascurare i doveri del mio stato per secondare un capriccio.... — e si agitava furiosamente, guardando di sbieco i maccheroni, che svaporavano e diventavano freddi.

Tobia alzava le spalle con impazienza, e quando il dottore finì di parlare, gli rispose:

— Questa volta la prescrizione del medico non ha valore, è affatto arbitraria, è priva di diritto. Nessuna legge, nessuna abitudine, nessuna convenzione ha mai limitato il tempo di chiedere riparazione a chi ha ricevuto un oltraggio. Il maestro ignorava la sfida e le offese che la accompagnarono: appena di ritorno da una escursione, vedendo che tutti gli ridono in faccia ne domanda la cagione, e viene a scoprire la calunnia che lo rese ridicolo. Egli non ha perduto un istante di tempo, ci ha mandati ad avvertirla che non solo accetta la sfida, ma esige che il duello abbia luogo in modo tale da risarcire interamente il suo onore.

Il dottore indispettito, non sapendo come sfuggire alla posizione nella quale s'era collocato per imprudenza, si strappò con impeto stizzoso il tovagliolo, ed alzando la destra in tono tragico esclamò:

— Poichè si esige assolutamente del sangue, ebbene sia!... non la giustizia, ma la sorte deciderà della vita d'un uomo... e forse d'un innocente assalito sulla pubblica via, colle ingiurie più scandalose... — e aprendo la porta che metteva al suo studio, accennò ai testimoni che volessero entrare.

— Oh Dio!... Oh Dio!... vogliono assassinare mio marito!... — si mise a gridare la signora Pasquetta, che fino a quel momento aveva assistito a quella scena, muta e sbalordita... — Oh Dio! Gaspare... per amore del cielo... oh Tobia!.. calmateli, fate la pace....

Tobia la guardava impassibile sulla porta, il medico uscì mettendosi le mani nei capelli, e la signora Pasquetta si precipitò nelle braccia del farmacista, che procurava invano di calmarla....

— Gaspare!.. salvatelo... salvate la sua vita!.. è vostro dovere!.. voi sapete ch'egli è innocente... è una vittima della sua debolezza.., è un uomo tranquillo... pacifico... che non ha mai preso un'arma in mano... Gaspare... la vita di mio marito è nelle vostre mani.

Tobia mi ha confessato poi che quella scena di una ribelle, perorante in favore della legittimità nelle braccia dell'usurpatore, sorpassò la commedia dei maccheroni.

— Belle scene! comiche tutte due! — egli mi ripeteva; ma la fisonomia del farmacista superava ogni aspettativa. È vero che il disinganno del medico davanti i maccheroni fumanti aveva il suo valore, ma il disinganno dell'innamorato davanti l'affetto coniugale che si risveglia nel pericolo, destava un grande interesse morale!... Io stava per iscoppiare dalle risa, quando la cuoca, attirata dal rumore, entrò nel tinello, proprio in tempo opportuno per ricevere fra le sue braccia la padrona svenuta. Abbiamo colto il momento favorevole per entrare nello studio del medico. Egli ci attendeva nell'attitudine d'un uomo deciso... a risparmiar la pelle. Volle dapprima mostrarsi pronto ad ogni estremità, dicendo:

— Poichè si esige assolutamente ch'io uccida un uomo... ebbene, l'ucciderò!...

— Uno più, uno meno, non fa gran caso!... — rispose Tobia....

Il medico, nuovamente colpito da questo dardo fulminava l'organista con isguardi di fuoco... poi tentando una nuova scappatoia, saltò su a dire:

— E che cosa farebbe quel signorino se io mi rifiutassi di prestarmi ai suoi capricci... che lo espongono a commettere un delitto... e ad essere condannato in prigione per omicidio?...

— Che cosa farebbe! — soggiunse Tobia, — le darebbe uno schiaffo in pubblico!...

Il dottore diede un balzo, poi, gettandosi violentemente sopra Tobia! voleva metterlo alla porta.

— Insolente!... provocatore!... — egli esclamava, — siete voi colla vostra lingua di vipera che mettete tutto il paese in iscompiglio... voi colle vostre punture... colle maldicenze... colle calunnie, che spargete il veleno nelle famiglie tranquille, che aizzate le collere, che esagerate le offese... che inventate mille fandonie per suscitare le discordie ed accendere gli animi alla vendetta. Voi siete la peste del paese!...

A tali parole Tobia, che tremava per la bile concentrata, non potè più reggere, gettò lungi il lungo cappello a cilindro che faceva girare nelle mani convulse, si alzò in due tratti le maniche che gl'ingombravano i polsi, e alzati i pugni in aria si slanciò verso il medico. Esso erasi rifugiato dietro ad un tavolo; il farmacista fermò l'assalitore per le spalle, e nell'impeto della lotta caddero per terra con gran rumore le sedie, i libri, il calamaio, e tutti gli oggetti circostanti. Fu un tafferuglio del diavolo, che durò alcuni minuti. A quanto mi si raccontò, Uguccione Della Fagiuola era divenuto una iena, Lucchino Visconti un serpente a sonagli ed Ugolino Gonzaga si trovava trasformato in domatore di belve feroci, le quali avevano ridotto lo studio del dottore in una gabbia; l'organista voleva battere il tempo sulla testa del medico, e questi voleva cavar sangue per forza all'avversario. Il farmacista, privo d'ogni mezzo terapeutico per deprimere quelle convulsioni, non trovava al momento altro rimedio pratico all'infuori di quello di batterli tutti e due e menava colpi a dritta ed a sinistra per dividere i contendenti.

Ci volle tempo e fatica per raggiungere lo scopo. La musica dell'avvenire è meno fragorosa di quella che sonava l'organista, la medicina antiflogistica è più mite di quella che voleva esercitare il medico sull'avversario.

— Ammazzatevi in nome di Dio!... ma da galantuomini, — gridava il farmacista; — non è lecito rompersi la testa a pugni, il decoro esige che gli uomini onesti si sbudellino colle regole cavalleresche; cessate dunque dalle ceffate e dai cazzotti e usate le armi più nobili!... — Tobia abbrancava un dizionario per rompere la testa al medico.... — Alto!... ferma!... gridava il farmacista, arrestando il braccio furioso dell'assalitore... urlando con quanto fiato aveva in gola: rispettate la casa, rispettate l'ospitalità, ascoltatemi, uccidetevi in regola, a tempo e luogo opportuni.... Finalmente con improba fatica potè calmare quei furibondi e dividerli.

Ridotti in due angoli opposti, si guardavano in cagnesco, quando Gaspare nel mezzo, alzando le braccia minacciose verso entrambi, pronunciò la sentenza finale: — Capisco che ogni conciliazione è divenuta impossibile... ma cessi ogni lotta ignobile, e si porti lealmente sul terreno ogni questione per finirla con decoro ed onore. Allora di comune accordo vennero fissate le condizioni del duello, e scelte le armi. Tobia troverà un altro testimonio pel maestro, Gaspare un secondo padrino pel medico. Dopo il primo duello si potrà vedere se ci sarà motivo per un secondo assalto fra il medico e Tobia; per ora non si parli che del primo scontro. L'ora?... domattina, al levar del sole. Il luogo?... il prato delle quercie dietro il cimitero. Le pistole di misura normale, a quindici passi di distanza, col diritto di tirare a volontà, e di avanzarsi per iscaricare le armi, anche a bruciapelo.

Poichè il dottore ebbe accettate tutte le condizioni, i due padrini vennero a farmi la relazione dell'affare conchiuso, narrandomi esattamente i più minuti particolari di quell'episodio tragico-comico, finito con alcune contusioni da ambe le parti, che precedevano gli ulteriori ferimenti, come l'antipasto il banchetto!

Ascoltai con amarezza il racconto di quelle scene volgari, che incominciando la lotta con assalti villani, toglievano al duello il carattere cavalleresco che solo può renderlo tollerabile. Ma come fare?... Non toccava a me decidere quanto i costumi grossolani del villaggio avessero pregiudicata la questione rendendola ridicola. Io poteva soltanto deplorare la sorte che mi condannava a subire una legge assurda in sè stessa, resa affatto inconveniente dalle circostanze. Ma non mi era possibile ritirarmi senza far ricadere sopra di me solo i torti altrui. Ho dunque accettate tutte le condizioni senza commenti, approvando l'incarico assunto dai due primi testimoni, da completarsi, trovando gli altri due che mancavano.

Era già notte avanzata quando fui lasciato solo, e mi restavano poche ore per giungere al momento fissato di trovarci sul terreno.

Mi gettai vestito sul letto pensando ai casi miei e confesso ingenuamente d'aver passato una pessima notte. Il matrimonio della contessa Savina era la causa di tutte le mie disgrazie. Essa aveva spente le mie illusioni giovanili, aveva acceso il mio furore, m'aveva tolto il senno, e forse mi toglieva la vita!... Che cosa ero venuto a fare a questo mondo io?... Ad amare una fanciulla alla distanza di venti metri, per poi fuggirla senza ragione, e vedermela rapire senza giustizia... e poi morire per mano d'un medico!... Questa seconda parte la trovavo abbastanza regolare, e non mi sorprendeva punto.... Ma la prima parte mi pareva incompleta... evidentemente vi mancava qualche cosa.... Ah! se almeno avessi ottenuto quel bacio!... quel bacio e morire... la mia vita non mi sarebbe sembrata incompleta!

Facendo il mio esame di coscienza come un moribondo, trovavo dapprima che avrei potuto impiegare meglio il tempo, e forse se non avessi incominciato a vivere con una chimera, ora non arrischierei di morire per una imprudenza. Poi, scendendo sempre più profondamente nella mia anima, vi trovava dei misteri... sentivo che la gioventù, l'amore della vita, malgrado i disinganni e i dolori, mi tenevano ancora avvinghiato alla terra. La vita mi appariva sotto un nuovo aspetto al momento di perderla; e mi pareva che non fosse tanto atroce, da lasciarla per sempre senza rimpianto. Era forse viltà?... era paura?... non lo so; ma scrutando attentamente nelle più profonde latebre del mio cuore, vi trovava di peggio, vi trovava del fango!... Sicuro, del fango!.. un desiderio colpevole che serpeggiava in quegl'imi recessi della vita!... — La contessa Savina non è morta... io pensava... fin che vive non ho perduta ogni probabilità di rivederla.... Rivedendola... ed essa rivedendomi... forse... chi sa!... Chi può prevedere i casi della vita?... Dunque un atomo di speranza agitava ancora il mio cuore; una speranza colpevole, la speranza d'un bacio! ecco il fango! era una speranza quasi impercettibile, come un infusorio... ma era viva!...

La morte vicina mi produceva l'effetto d'una lente, m'ingrandiva gli oggetti... la speranza si allargava, si moveva, diventava visibile!... il fango fermentava, come le materie palustri, e mi dava la febbre!...

La natura umana è fatta così; e non sono io che l'ho fatta!...

La morte soltanto distrugge ogni speranza d'amore... e forse nemmeno la morte la distrugge interamente.

L'amore appartiene alla tribù degli antropofagi... che si mangiano fra di loro. La morte raffredda, ma non distrugge l'antropofago; la distruzione ha luogo soltanto quando l'antropofago vivo divora l'antropofago morto: allora solamente non resta più nulla... tutto è finito.

Divagavo fra gli antropofagi quando la luce del crepuscolo venne a richiamarmi alla dura realtà. Apersi la finestra, l'aria imbalsamata del mattino entrò nella mia stanza, la natura si risvegliava dal suo letargo e rivolgeva un sorriso al cielo sereno. Il capinero cantava sul biancospino fiorito, le nuove foglioline degli alberi appena sbocciate oscillavano alla brezza mattutina e lucevano al sole. La vita mi sembrava bella... e bisognava apparecchiarsi a lasciarla... nella primavera della vita e dell'anno.

Rivolsi un pensiero affettuoso a mio zio canonico, e un altro pensiero non meno tenero a Bitto. Perchè nascondere la verità? Ho avuto delle stranezze, ma non sono mai stato un ipocrita: dico sempre quello che sento. Non mi vergogno d'aver amato un canonico... nè un cane. Entrambi mi diedero prove d'affetto, ed io sento riconoscenza eguale per chiunque mi fa del bene. Se taluno pretende che si devono distinguere gli uomini dalle bestie, mi provi che i primi furono sempre superiori alle seconde. Intanto, io che ho trovato molte volte la bestia superiore all'uomo, li metto insieme, e credo di non far torto a nessuno.

Deciso di morire onorato, diedi un addio alla vita, e non pensai più che a finirla con una morte dignitosa. Volli pulirmi e pettinarmi come un uomo che va ad una festa, e uscito tranquillamente di casa mi recai al luogo fissato. Poco dopo vidi comparire Tobia accompagnato dal signor Nicola Bruni, seguiti a piccola distanza dal farmacista e dal suo praticante. Mi sorprese alquanto la presenza del signor Nicola, che non mi sembrava uomo adatto a simili affari; ma l'impreveduto non succede che nel nostro cervello, perchè tutto quello che succede di fatto doveva naturalmente succedere.

Il signor Nicola mi diede una stretta di mano, annunziandosi con brevi parole per mio secondo testimonio.

— Vedendo il caso inevitabile, — mi disse, — quantunque con sommo rammarico, non ho voluto rifiutarvi la mia assistenza in questo momento....

Lo ringraziai cordialmente della sua bontà, e accennai a Tobia la mia soddisfazione per la scelta che aveva fatto.

A compiere la tragedia non mancava più che il tiranno.

— È capace di non venire, — disse Uguccione della Fagiuola.

— Sarete sempre una cattiva lingua, — soggiunse il farmacista, indicando col dito un gruppo d'alberi, dietro ai quali compariva il dottore.

— Domando scusa del ritardo.... — disse il tiranno al suo arrivo.... — ma anche gli affetti di famiglia hanno i loro diritti,... e i loro doveri.... ho dovuto ingannare mia moglie....

Tobia alzò le spalle, un impercettibile sorriso sfiorò le labbra del farmacista, mentre il dottore continuava:

— Ho dovuto assicurarla che ogni differenza s'era appianata amichevolmente, e che il signor Daniele non mi aveva rifiutata la sua mano.... — e così dicendo mi stendeva la destra, in atto modesto e quasi supplichevole.

In quel momento, dimenticando ogni altra cosa, non vidi che il tiranno della mia tragedia divenuto affatto ridicolo, n'ebbi dispetto, e girando sui talloni gli voltai la schiena.

— Animo, alla decisione, — disse Uguccione.

Allora i padrini misurarono la distanza, caricarono le pistole, ce le consegnarono montate, e ci posero in guardia. In quel momento, avendo paura d'aver paura, io non pensava più a nulla. Guardai in faccia il dottore, che aveva i capelli irti, ed era pallido come un morto. Pareva che la sua testa si sostenesse più del solito sui solini, la sua bocca faceva uno sberleffo. Egli si teneva immobile colla pistola tesa. Io mi avanzai verso di lui lentamente, e giunto circa alla metà dello spazio che ci divideva, mi fermai e lo presi di mira. Eravamo a sei passi di distanza. Allora, sentendo il pericolo imminente, egli si decise a tirare pel primo, alzò la pistola all'altezza del mio petto, e fece partire il colpo. Io rimasi incolume, e immobile continuai ad osservarlo; egli era divenuto verdognolo. M'avanzai lentamente, colla mano ferma e l'indice sul grilletto; ad ogni passo che io facevo, i suoi lineamenti si alteravano, la tinta del suo volto si oscurava, ed io avanti, avanti, avanti. Egli era divenuto livido quando gli posai la bocca della pistola sul cuore. Chiuse gli occhi, alzò la testa, abbandonò le braccia come un uomo che sta per cadere. Allora gli dissi lentamente:

— Signor dottore, se io non fossi matto vi ucciderei, ma io sono matto e vi dono la vita. Imparate a rispettare i matti, e non occupatevi altro a guarirli. — E così dicendo gettai la pistola sull'erba e gli stesi la mano. Egli me la strinse fortemente colla sua che era fredda come quella d'un cadavere, e stava per profferire qualche parola, quando Uguccione della Fagiuola, raccolta la pistola carica, mi disse:

— Adesso tocca a me!... io pure sono stato offeso dal dottore, ed esigo che mi domandi scusa.... o si apparecchi a morire....

Il tiranno aggrottando le ciglia balbettava parole incomprensibili. Le sue mani avevano contrazioni nervose, e pareva che si sentisse stuzzicato a gettarsi al collo d'Uguccione.... quando il farmacista saltò su a dire:

— Finiamola.... basta così.

— No, — rispose l'ostinato, — è troppo orgoglioso, voglio castigarlo. Dottore, io rappresento in questo momento tutti i cadaveri che avete mandati al diavolo prima del tempo. Io rappresento la congiura dell'inferno contro l'omicida, raccomandate al cielo la vostra anima.... e morite.

E così dicendo lo prese di mira a soli quattro passi di distanza, e fece partire il colpo. Io pensai che l'organista fosse diventato pazzo improvvisamente; feci un salto per isviare il suo braccio, ma giunsi troppo tardi, il colpo era partito. Quando il fumo mi permise di vedere il dottore, esso traballava.... e colle mani strette sul petto, come un uomo che si sente gravemente ferito, esclamava con voce semispenta e interrotta:

— Sono as....sas....si....nato!...

Tobia dava in uno scroscio di risa sgangherate.

— È un brutto scherzo, — soggiunse il signor Nicola, — ma non è un assassinio.

— Ma io sono ferito.... — disse il medico con voce lamentevole....

— Dal semplice stoppaccio.... — rispose il signor Nicola.... — perchè le pistole non erano caricate che a polvere....

Io alzai la testa sdegnato a tale notizia, e non volevo accettare la burla, ma il signor Nicola, mettendomi una mano sulla spalla, mi costrinse a tacere.

— Giovinotto, — mi disse, — basta così. Nessuno di noi sarebbe venuto ad assistere ad un omicidio. Se voi avete perduta la testa, non l'ho perduta io. Le ciarle sono ciarle, ma la vita è cosa seria, nè deve togliersi per così poco. Noi ci dobbiamo tutti alla famiglia ed al paese. Il diritto di morire da galantuomini si acquista studiando, lavorando, affaticando pel bene comune; morire da fanfaroni è una leggerezza colpevole, uccidere il proprio simile è un delitto. In ogni questione ci sono torti e ragioni, bisogna chiarirli colla giustizia e ripararli coll'onestà. Nel nostro caso il maestro offese il dottore coi suoi soliti paradossi, il dottore offese il maestro accusandolo di vigliaccheria... ebbero torto tutti due.... Il medico fa il suo dovere curando i malati, il maestro è un giovane incapace d'una viltà. Le offese si complicarono per imperizia dei testimoni; non era più possibile calmare i contendenti, bisognava dare qualche soddisfazione da ambe le parti, e finirla alla meno peggio. Ma non ci potevano essere scuse per permettere un omicidio. Bisognava salvare l'onore e la vita di tutti due. Io ho accettato d'essere padrino a tali condizioni, e gli altri secondarono la proposta con animo lieto. Gaspare per il primo si prestò con ogni argomento a convincere Tobia della necessità di non commettere delitti nè imprudenze, a non versar sangue, a risparmiare le lagrime alle famiglie, e a non dar motivo ai Tribunali di aprire processi togliendo la pace al nostro tranquillo villaggio.

Tobia è un po' mordace talvolta, è una testa calda, ma ha buon cuore, e non si fece troppo pregare per deporre i rancori e finirla a modo nostro. D'altronde, siccome i duellanti ignoravano completamente il nostro piano, così il duello fu leale e soddisfacente anche per gli scrupolosi e pei battaglieri. I campioni non hanno certo passato una buona notte, nè l'uno nè l'altro; dico questo senza offendere il loro onore, perchè sul terreno si mostrarono coraggiosi e decisi. Per altro è stata una buona lezione, e vi furono momenti terribili.... Non ne parliamo più, l'onore è intieramente soddisfatto.... stringetevi tutti la mano.... e come siete stati avversari leali, siate in seguito amici costanti, e noi, salvando due vite, egualmente utili alla società, abbiamo fatto il nostro dovere.

Ci stringemmo tutti la mano, e la pace fu fatta.

Tuttavia mi restava un dubbio nell'animo, cioè se quella mistificazione fosse lodevole o censurabile, se i più validi argomenti contro il duello potessero autorizzare una burla. Mi pareva di no. Impedire un duello sta bene, ma renderlo fittizio mi pareva poco decoroso. Solo le circostanze eccezionali potevano giustificare la condotta dei nostri padrini. Le cose erano spinte a tal punto, che una prova di coraggio era divenuta indispensabile per togliere ogni sospetto che potesse offendere il nostro onore. Fecero dunque bene mettendoci alla prova, e salvandoci in pari tempo da ogni pericolo.

Mentre tali pensieri mi giravano pel cervello, udimmo i tocchi della campana maggiore che annunziavano un funerale. E infatti poco dopo entrava in cimitero il morto portato dai becchini, seguito dagli amici e parenti che lo accompagnavano mestamente all'estrema dimora.

Quel nero drappo che copriva la bara, le preci dei sacerdoti, la fossa aperta che attendeva il cadavere, mi fecero passare un brivido per le ossa, e furono l'argomento finale che mi persuase dell'infamia del duello, che non appiana veruna questione, ma uccide spietatamente, ciecamente, ingiustamente, leggermente, impunemente. Una sola parola, un malinteso, un atto fortuito basta per condannare un uomo alla morte, mentre sommi filosofi e giureconsulti accumulano argomenti incontrastabili a provare la necessità di abolire la pena di morte, anche per gli assassini!.... Ci arrestammo tutti con tacito consenso davanti a quella fossa, ed assistemmo col cappello in mano alla mesta cerimonia, pensando che l'indomani uno di noi avrebbe potuto subire la stessa sorte, non chiamato dalla natura, ma da un fatale pregiudizio, il quale continua a mietere le sue vittime alla luce di civili costumi.

XI.

Finiti i funerali, il signor Nicola ci annunziò che le donne ci aspettavano tutti a pranzo in casa sua, per suggellare la pace fra i bicchieri. Don Vincenzo Liserio venne invitato a seguirci, e avendogli comunicato il motivo del nostro ritrovo ne rimase tanto sbalordito, che continuò per tutta la strada a trattenerci colle sue interrogazioni, colle sue sorprese, co' suoi fremiti e co' suoi applausi.

La comitiva raccoglieva i personaggi principali della mia tragedia, e mi pareva d'essere un capocomico che conduce al teatro la sua compagnia. E infatti dovevamo assistere ad una commedia o ad una farsa in casa Bruni.

La commedia incominciò al nostro ingresso. Isabella Fieschi, che attendeva ansiosamente il marito, per dimostrargli la gioia che sentiva rivedendolo incolume, si gettò fra le braccia del suo Lucchino Visconti riconquistato, con attitudini degne d'un quadro storico.

Ugolino Gonzaga, trovando quell'entusiasmo esagerato, si mordeva le labbra, e pareva quasi pentito d'aver cooperato a salvare il tiranno. Uguccione della Fagiuola, al quale nulla sfuggiva, mi accennava con due occhiacci stralunati, e con un sogghigno sardonico quel marito soddisfatto, quella moglie affettuosa e quell'amico malcontento; indicandomi in pari tempo la beata fisonomia dell'arcivescovo Giovanni, che ammirava in quegli amplessi la santità del matrimonio.

Francesco Pusterla congiurava come al solito, apparecchiando una serie di bottiglie, destinate, come la macchina infernale di Fieschi, a far saltare in aria o cadere in terra la comitiva, Uguccione della Fagiuola, all'aspetto di quegli apparecchi, rasserenava il volto, mostrava uno sguardo benigno, dal quale traspariva un'intima soddisfazione, piena di promesse per darsi un contegno conveniente: egli andava lustrando coll'avambraccio il suo lungo e speluccato cappello a cilindro, il quale, partecipando dell'indole testereccia del cervello che proteggeva dalle intemperie, si mostrava ribelle ad ogni pulitura e si conservava a strapelo.

Il tiranno aveva assunto l'aspetto dignitoso dell'uomo importante; la moglie, rassicurata sulla vita del marito, temeva di avere oltrepassato i limiti dell'entusiasmo, e procurava di riprendere il terreno perduto sbirciando i più teneri sguardi verso Ugolino Gonzaga, che trovandoli irresistibili, deponeva il sussiego della illegittima gelosia, per corrispondere degnamente al nuovo invito.

Infatti pareva che tutto si disponesse a rientrare nell'ordine.... o nel disordine normale, quando un improvviso fracasso proveniente dalla cucina venne ad annunziarci un nuovo avvenimento. Finita la commedia, incominciava la farsa.

Attirati dal rumore siamo corsi tutti in cucina, e vedemmo una finestra caduta in frantumi, una damigiana rovesciata, un lago di vino sul pavimento, la Menica colle mani nei capelli, Martino che fuggiva per evitare il primo impeto del padrone. Che cosa era avvenuto per causare tanti disordini?... Una piccolissima causa aveva prodotto quei terribili effetti, proprio come molte questioni di duelli. Ogni momento che passava ci portava il suo insegnamento. Ecco il fatto. Un sorcio era entrato in cucina, la Menica aveva chiamato Martino in aiuto, ed esso, armato d'un bastone, pieno d'ardore contro il nemico, s'era slanciato nella lotta con un colpo decisivo.... che gettò in terra la damigiana, facendola in pezzi, poi cadde sulla finestra e ruppe quattro vetri, aprendo una larga breccia, per la quale il sorcio spaventato, ma incolume, aveva battuto la ritirata. Cosicchè tutti correvano: noi per assistere allo spettacolo correvamo sul teatro dell'avvenimento, il vino correva per la cucina, il sorcio correva pei campi, Martino correva per la corte, il signor Nicola correva dietro a Martino, la Menica correva dietro al signor Nicola, e lo raggiunse abbastanza in tempo per salvare il domestico da un colpo di bastone, che avrebbe dovuto piuttosto uccidere il sorcio.

— Calmatevi.... — gridò Ugolino Gonzaga, — è meglio spargere il vino che il sangue....

— Non sono di questa opinione! — rispose Uguccione della Fagiuola, — e questa volta vado d'accordo col medico....

— Che cosa volete dire?... — gli chiese il dottore, offeso di trovarsi d'accordo in qualche cosa con un individuo che gli era antipatico.

— Intendo dire che voi coi vostri salassi spillate più sangue che vino, e questo va bene, perchè un eccesso di sangue può togliere la vita, quando un eccesso di vino non fa che esilararla, o tutto al più addormenta tranquillamente per alcune ore. È meglio dunque spargere il sangue.... e riservare il vino, per beverlo in buona compagnia. Per me avrei preferito che Martino avesse rotta la testa al sorcio e salvata la damigiana. Se il dottore pensa diversamente, le opinioni sono libere.... ed anche le bestie hanno diritto di difendersi.... e avvicinandosi a me, mi ripetè sottovoce guardando il dottore.... anche le bestie hanno il diritto di difendersi scambievolmente.

Il dottore non gli rispose, ma gli diede un'occhiata incendiaria che voleva dire:

— Linguaccia malefica, se ti potessi cavar sangue, te lo caverei fino all'ultima stilla!

Il signor Nicola, passato il primo impeto, ritornò tranquillamente in cucina, rimproverando la Menica d'aver chiamato Martino per uccidere un sorcio.

— È un imbecille, — egli continuava, — capace di demolire una casa per prendere una mosca....

Allora il dottore aggiunse sentenziosamente:

— Per liberarci dai nemici interni, non dobbiamo mai contare sull'intervento degli stranieri!...

— Che ne dite, Tobia?... — chiese il signor Nicola all'organista. Ed egli rispose:

— Io penso sempre il contrario di quello che pensano i medici e sto benissimo.

— Cattiva lingua.... — soggiunse il signor Nicola ridendo. Il medico finse di ridere esso pure, per mostrarsi disinvolto, ma la sua fisonomia tradiva i suoi pensieri. Esso aveva l'aspetto d'un uomo che mastica fiele e vuol far credere che gli trova il gusto dello zucchero.

Per attendere l'ora del pranzo si misero a giuocare alle carte su due tavolini: il dottore ed il parroco dirimpetto al farmacista e all'organista; la signora Pasquetta col signor Nicola a fronte della signora Giovanna e del giovane allievo del farmacista, che aveva servito di secondo padrino al dottore.

Io accompagnai l'Agata che andava in cerca di Martino fuggiasco, per annunziargli l'amnistia ottenutagli dal padre.

Desideroso di sapere come fossero passate le cose ch'io ignoravo intorno alle predisposizioni del famoso duello, gliene chiesi qualche notizia ed ella mi disse ingenuamente:

— Dopo la partenza dei testimoni dalla casa del dottore, la signora Pasquetta, spiritata, era corsa in casa Bruni.

— Presto... presto per carità... chiamatemi il signor Nicola... che ci salvi tutti... Vogliono uccidere mio marito... mio marito vuol uccidere Daniele e Tobia; domani sarà un macello, che farà inorridire il paese.

Mentre essa raccontava gli orrori e le lotte di quella sera e la sfida per l'indomani, comparvero i testimoni che erano stati da me, e che si recavano dal signor Nicola per tenere consiglio intorno alla condotta da adottarsi. La signora Pasquetta venne congedata con promessa formale di accomodamento, prima però che si fosse nulla deciso intorno al partito da prendersi, raccomandandole caldamente di evitare nuovi scandali, di lasciare che suo marito si recasse all'indomani al suo posto, ed ella confidasse in loro.

Ma la conferenza dei testimoni che si protrasse a tarda notte non sapeva trovare uno scioglimento che appagasse ogni esigenza, quando l'Agata manifestò modestamente il suo parere.

— Impedire il duello, — disse, — mi pare impossibile; lasciare che si ammazzino è ancor peggio; o dunque perchè non dareste ai duellanti due pistole cariche a sola polvere, ond'essi ignorandolo possano provare tutte le peripezie del duello, senza subirne le terribili conseguenze? Dopo lunghe discussioni venne accettata la proposta, con giuramento solenne di conservare il segreto fino al termine dell'affare. E così fu fatto.

— In tal modo, — io dissi all'Agata, — voi avete inventato un nuovo genere di duello, che tuttavia non può aver luogo più di una volta sola.

— A me bastava salvare la vita e l'onore di due persone; al resto non ci pensavo.

— E come avete fatto a scoprire questo stratagemma?

— È stata una ispirazione, — ella soggiunse, — un'ispirazione d'un'anima santa che veglia in cielo sopra di voi. Mentre mio padre parlava concitato con Gaspare e Tobia, cercando di persuaderli ad evitare una disgrazia, io sentiva sul mio seno la medaglia di vostra madre, che pareva mi pulsasse per chiamare la mia attenzione. Allora mi parve ch'ella mi dicesse dall'alto « salvate l'onore e la vita a mio figlio » e certo i miei pensieri mi vennero infusi dalla potenza sovrumana d'una madre. — Qui, ritirando dal seno la medaglia, me la porse dicendomi:

— Datele un bacio, e un'altra volta siate più savio.

Io baciai affettuosamente la medaglia, ella se la ripose in seno, e camminammo lungamente in silenzio. Sentivo qualche cosa che mi strozzava la gola e mi toglieva la facoltà di parlare.

A mezzogiorno preciso Bitto comparve, come al solito, ad annunziare l'ora del pranzo.

La riunione intorno alla mensa ospitale fu lieta e conciliante. Il vino ingurgitato ci fece dimenticare quello perduto. E succede sempre così a questo mondo: i piaceri che consolano i nostri sensi ci fanno dimenticare i mali sofferti... dagli altri.

Alla fine del pranzo abbiamo chiamato Martino e ci siamo fatti raccontare la sua lotta col sorcio, ma nel punto più interessante, la vivacità del racconto esponendoci al rischio di veder rinnovata la catastrofe, abbiamo dovuto rimandarne la continuazione ad un altro giorno... come le appendici dei giornali.

— Tregua ai pericoli, — diss'io, — non bisogna provocare troppo la sorte. Oggi ci dovevano essere dei feriti e degli uccisi, e tutti furono salvi... uomini e bestie.

— Meno la damigiana!... — soggiunse Uguccione con rammarico, chè, quantunque saturo di vino, non ne era ancor sazio.

Quando la conversazione si fece generale, e tutti parlavano in una volta, l'Agata, che mi sedeva vicina, mi disse all'orecchio:

— Gli uomini furono salvi senza loro merito... invece la bestia dovette la salute alla propria intelligenza, evitando il pericolo con destrezza, cogliendo il momento opportuno per cavarsela dalla sola uscita possibile, schivando i colpi malaccorti d'un uomo stupido.

— L'uomo, — io le risposi, — non si fa merito di evitare i pericoli colla fuga, ma preferisce di salvar l'onore a rischio della vita.

— Ma se le bestie, — ella soggiunse, — non sentono il bisogno della riparazione delle offese, gli è perchè fra loro non corre l'uso dell'oltraggio. Vivono più concordi degli uomini, hanno il coraggio di difendersi contro i propri nemici, quando ne vedono la possibilità, ma non si espongono leggermente a tanti pericoli.

— Perchè non possono contare sull'intervento della donna, — io aggiunsi, — la quale, rappresentando la Provvidenza, trova sovente il modo di accomodare col cuore ciò che l'uomo guasta colla testa!...

Abbassò gli occhi e tacque. — Alla sera, separandoci, eravamo tutti ritornati amici... almeno in apparenza.

XII.

Un buon sonno mi riposò di tutte le scosse morali del giorno. Il sonno è lo spazio vuoto che divide le strofe del poema della vita. In quei giorni nei quali hanno termine i più gravi avvenimenti finisce anche il canto.

All'indomani del mio duello io cominciai dunque un altro canto colla sua nuova serie di strofe, cioè ripresi la vita, colle sue note liete e dolorose, colle sue rime obbligate e monotone, colla sua misura prescritta dalla prosodia, positiva come il materialismo del verso.

Le note liete mi venivano dalla natura in fiore, che consolava la vista coi sorrisi della primavera; le note dolorose erano l'eco del primo amore perduto, delle speranze deluse, dei dolci sogni svaniti. La monotonia la trovavo nella scuola, ove un gregge d'idioti imparava a leggere per conoscere anche i mali passati, a scrivere per offendere la grammatica, a far conti per ingannare il prossimo. Il lato positivo della vita mi veniva rappresentato da quattro sacchi di farina che mi pesavano sulle spalle, come all'asino del mugnaio!... Bitto, che non aveva di questi pensieri, russava tranquillamente a' miei piedi, aspettando l'ora del pranzo, che non gli sapeva di sale quantunque andasse a chiederlo in casa altrui.

All'amore deluso avevo tempo da pensarci, la scuola andava avanti da sè, ma la farina bisognava pagarla.

Mi decisi al taglio d'un boschetto che avrebbe aspettato con vantaggio per qualche anno; ma quando si ha assoluta necessità di denaro, e si può trovarlo in un bosco senza assassinare un cristiano, si assassina il bosco, e si lasciano cantare i giornali, che deplorano il diboscamento delle pendici, perchè non hanno boschi da tagliare... ma tagliano i panni addosso ai galantuomini, come se fossero meno sensibili delle montagne!

Venduta la legna e intascato il danaro, partii per pagare il mio debito al mugnaio.

Il mulino è collocato in posizione pittoresca, alle falde d'una montagna vestita d'abeti, sulle rive scoscese d'un torrente, alimentato da una cascata.

Al cupo fragore della cascata, al gorgogliare delle acque spumanti che s'infrangono sui macigni caduti dall'alto, e serpeggiano fra i sassi e le ghiaie del torrente, si confonde il tonfo regolare delle ruote nella gora, e i battiti dei palmenti. Tutti questi suoni formano un accompagnamento grave e solenne al gorgheggio melodioso di qualche uccello sugli alberi, e al cigolare degli assi di ferro che girano sui perni asciutti. Questo è per l'udito. Per gli occhi, essi nuotano in un tal lusso di colori da restarne inebbriati. Dal tenero arbusto che si agita alla brezza sulla sponda del torrente, all'albero gigantesco colla cima infranta dal fulmine che protende le antiche fronde sui crepacci delle roccie ingombri delle sue tortuose radici, dal musco che copre di velluto i legnami fradici del mulino alla vitalba vagabonda che s'arrampica sulle piante vicine e ricade in festoni, dall'edera che tappezza i vecchi muri crollanti alle cupe ramificazioni degli abeti che ascondono i precipizi, si possono annoverare tutte le gradazioni del verde, e le sue decomposizioni dal giallo bruno al dorato, dal più cupo azzurro al turchino. Il candore delle spume del torrente illuminate dal sole, la lucida trasparenza delle acque bianche e cilestri nel letto di ciottoli, le nude roccie del fondo di colore cenerino contrastano colle tinte forti dei vicini clivi boscosi, e colle dense ombre che confondono l'acqua col terreno e le pietre, e il folto degli alberi coll'angolo della casa.

La scena era stupenda, ma il personaggio ch'io andava a visitare mi era antipatico come un creditore impaziente, come un orco che mi aveva divorato un bosco. Ma quale non fu la mia sorpresa quando, avvicinandomi al mulino, vidi comparire sul pianerottolo delle chiaviche la più bella testa di donna che possa aspettarsi un pittore in cerca del suo modello nella campagna di Roma. Era proprio uno di quei bei tipi della Sabinia che si vedono sovente alle esposizioni sotto al vago costume romano. Bruni i capelli e la pelle, l'occhio grande e vivace sotto due lunghi sopraccigli; un busto rigoglioso, due braccia ben tornite che finivano con una mano pienotta, un complesso di donna vigorosa e fresca, ecco l'aspetto della mugnaia. Un fiore di geranio rosso collocato leggiadramente sui capelli armonizzava cogli orecchini che le pendevano dalle orecchie, e con un filo di corallo che le cingeva il collo. Una leggierissima velatura di farina copriva quella deliziosa apparizione, e dava al suo viso il vellutato delle pesche non ancora spiccate dall'albero. È certo che l'aspetto d'una bella mugnaia deve aver ispirato la moda della cipria sui capelli e sulla pelle. Pareva che un nume propizio volesse ricompensarmi a misura di carbone dell'esile brunetta perduta a Milano, mettendomi davanti una bruna raddoppiata, e incipriata per giunta. Sorrisi della bizzaria del caso, e se mi fossi contentato di ammirarla da lontano come la prima, non ci sarebbe stato nulla di reprensibile... ma un pensiero infernale attraversò la mia mente, come una tentazione del diavolo!.. Se mi vendicassi?.. io pensai... ah! l'uomo che ha ricevuto le lezioni dell'amore impara a vivere, dissi fra me... e passati i vent'anni l'amor platonico non è più di stagione... Io non intendo, — ripetevo a me stesso, — io non intendo passare la vita adorando le donne a venti metri di distanza... perchè si burlino poi di me, e mi voltino le spalle... E meditando l'abbandono della contessa Savina... e pensando alla offesa ricevuta dal mugnaio... mi passò per la mente questa idea infernale: se mi vendicassi con una vendetta complessiva degli oltraggi dell'amore... e della farina?... della contessa... e del mugnaio?...

Come se la contessa Savina fosse obbligata ad amarmi per forza... ed il mugnaio a fornirmi la farina per amore!... Ma la natura perversa dell'uomo gli fa confondere sovente il desiderio col diritto, ed esso scompiglia la società per tradurre i suoi desiderii intemperanti in fatti compiuti. Fatto sta che l'aspetto della mugnaia fomentava le mie cattive inclinazioni, provocando in me un vile desiderio di rappresaglie. Non era un nuovo amore incipiente che mi spingesse verso di lei; era l'amore deluso, che m'indicava una vittima sulla quale potevo esercitare la mia vendetta. Pareva che la sorte offrisse un'occasione di sfogo ai miei rancori. Una brunetta m'era sfuggita di mano, un marito mi tormentava per cavarmi del denaro... eccomi una bruna forte... e forse una moglie debole... che poteva saziare la mia avidità di vendetta.... Bisogna conquistare quella mugnaia, come la più bella delle vendette possibili!... Con tali atroci sentimenti entrai nel mulino.

Io sperava che il mugnaio fosse assente, ma avevo fatto i conti senza l'oste.

Egli se ne stava in cucina, e tenendosi un marmocchio sui ginocchi, gli dava la pappa.

— Cospetto!... — dissi, — sor Zaccheo, siete nel pieno esercizio delle vostre funzioni di balio....

Mi guardò sorridendo, e continuando tranquillamente il suo ufficio, mi rispose:

— Che vuole! dopo le fatiche ho diritto anch'io di godere qualche consolazione, l'affetto del mio bimbo; e la sua gioia quando gli dò la pappa è il massimo dei miei piaceri... veda come mangia con appetito!

— È un vero Gargantua, un lupo cerviere....

— Ha la buona salute di sua madre... poveretto... — poi rivolto al marmocchio gli diceva: — Mangia, mangia, il mio bimbo, che la fatica di guadagnarti il pane mi è più cara dell'ozio del milionario che non ha figli.

Io interruppi le considerazioni patetiche del mugnaio per dirgli:

— Sor Zaccheo... sono venuto a pagare il mio debito.

— Ha voluto proprio disturbarsi a fare questa gita... poteva farmi avvertire....

— Ho fatto la passeggiata con vero piacere... ora eccovi il denaro.

— Prenda una sedia e s'accomodi, — mi rispose; — poi si mise a chiamare: Giustina.... Giustina.... Giustinaaa.

La bella moglie comparve sulla soglia colla testa alta, le mani sulle anche, i gomiti sporgenti.

— Ohè... che c'è di nuovo?.. — e quando mi vide seduto in un angolo, mi fece una riverenza.

— È il signor Daniele Carletti....

— Ah... benvenuto, signor maestro, sta bene? — mi chiese come se fosse una vecchia conoscenza.

— Grazie, sto benissimo....

— Tanto meglio... la salute è la prima cosa di questo mondo... chi ha salute ha denaro... perchè quando si sta bene si lavora... e si mangia... — soggiunse, guardando con compiacenza il suo marmocchio che spalancava la bocca, dimenando allegramente le braccia, e le gambe, mentre Zaccheo prendeva la zuppa col cucchiaio di legno, vi soffiava sopra, l'avvicinava alle labbra per sentire se scottava, poi coll'indice l'accompagnava lentamente nella voragine di suo figlio.

— Giustina, — disse il mugnaio, — puoi fare il conto al maestro, che si è disturbato venendo in persona a pagarlo.

— Come? — essa domandò con sorpresa, — ella è venuto in questi greppi deserti per tale bazzecola?.. è una stradaccia rotta e faticosa.

— Non me ne sono accorto, — risposi. — Sono siti che mi piacciono assai, ho percorso un cammino delizioso, per giungere in un eden... ove si vedono le più belle cose del mondo! — e così dicendo la guardavo con un sorriso significante... ma essa non intendeva nulla, e rimase indifferente, anzi sorpresa del mio entusiasmo, talchè mi rispose ridendo:

— Tutti i gusti son gusti... ma questi orridi siti piacciono a poca gente... nessun viandante s'arresta fra i nostri burroni... anche i pastori vi passano in fretta per condurre le pecore sulle cime. Sono boschi e montagne senza paesi... buoni solo pei mugnai, che hanno bisogno d'acqua per far girare il mulino.

— A me sembrano siti deliziosi... incantevoli... vi passerei volentieri la vita.... — e le lanciai una occhiata assassina... Ma che! fu come se avessi scagliato un uovo in una roccia!... quella donna era un macigno!... Essa alzò le spalle ridendo, e concluse:

— Se venisse qui al tempo della neve e del ghiaccio, scapperebbe via spaventato.

Non c'era verso di persuaderla; intanto il marmocchio avea vuotata la scodella della zuppa e piangeva. Zaccheo se lo prese in braccio, e cullandolo leggermente gli disse alcune parole senza significato, ma carezzevoli tanto che lo calmarono.

Allora la donna prese da uno scaffale un libraccio infarinato, un vero dizionario della crusca, perchè conteneva tutti i conti del mulino, ove si registravano i tesori della lingua: il pane e la polenta che alimentano la popolazione. Deposto il volume sul tavolo, si sedette gravemente, e sfogliandone le sacre pagine andò a cercare il mio nome fra i debitori morosi. Il marito si teneva in piedi dietro di lei col bimbo fra le braccia; io, sedutole vicino mentre essa calcolava il mio debito, contemplavo la fina lanugine che ombrava leggermente il suo labbro superiore, e pensavo che le avrei dato volentieri molto più di quanto mi domandava....

Contatole il denaro, se lo pose in tasca, intinse una penna di tacchino in un calamaio di legno, e con solenne gravità prese nota del pagamento.

Allora si parlò e si rise sopra varii argomenti. Io canzonavo Zaccheo sulle funzioni muliebri, egli accarezzava il bimbo, mi rispondeva che i giovinotti si burlano di ciò che non conoscono, che il cuore non ride mai... che nelle affezioni si confondono i sessi e le età, che il padre è come la madre, il nonno è come il nipote.

Mi disse che sua moglie era occupata negli affari, che fra l'uno e l'altro bisognava aiutare la barca. In tal modo presi conoscenza del loro sistema di famiglia, nel quale la donna primeggiava col pensiero e l'uomo con l'opera manuale; la prima ordinava, dirigeva, registrava le entrate e le spese, il secondo la serviva come un famiglio, andava a prendere il grano per le case dei villaggi vicini, lo gettava nella tramoggia, e ne riportava la farina. Infatti la moglie aveva la suprema direzione degli affari, il marito e l'asino facevano il resto.

Lo squallore del volto del mugnaio, aumentato dalla velatura di farina che avvolgeva tutta la sua persona, contrastava grandemente colla freschezza della moglie, la cui rara avvenenza era rilevata da una salute così vegeta che sforzava le cuciture.

Osservandola attentamente io andava sempre più confermandomi nel sinistro progetto di farne la conquista, e per facilitarmi le operazioni dell'assedio trovai necessario di prendere alcune precauzioni, predisponendo le cose in modo che gli approcci alla fortezza non riuscissero sospetti. Dissi che mi dilettavo di pittura, occupando le ore che mi restavano libere dopo la scuola a riprodurre le più belle vedute del paese. Mostrai il desiderio di copiare quella stupenda cascata; e questo primo stratagemma mi riuscì a meraviglia. Mi rispose ch'io non ero il primo che mandasse ad effetto tale divisamento, avendo già veduto varii artisti seduti per intiere giornate sotto un albero disegnando il paesaggio. Mi offersero anzi l'ospitalità, se avessi bisogno di riposo, e la loro ingenua cordialità avrebbe dovuto farmi subito desistere dalla mia scellerata macchinazione.

Non intendo giustificare un attentato che ora risveglia i miei rimorsi e mi fa arrossire di vergogna, ma credo d'aver diritto di reclamare le circostanze attenuanti. Se la bellezza della greca Frine la fece uscire dall'Areopago assolta da ogni accusa, io sono convinto che all'aspetto della mugnaia i miei giudici non potrebbero essere più severi dei vecchi senatori d'Atene e dovrebbero giudicare con indulgenza un giovane di vent'anni che aspirava alla conquista della Frine del mulino.

Fatto sta che alcuni giorni dopo la prima visita volli eseguire alcune ricognizioni nei dintorni della fortezza, per conoscere i movimenti del nemico, e riuscii a scoprire le ore precise delle uscite giornaliere del presidio.

Il presidio nemico si concentrava naturalmente nel mugnaio, ed io, nascosto dietro una roccia, lo vidi varie volte alla solita ora comparire sopra il suo asino, sul vertice d'una collina dietro la quale s'ascondeva il mulino. E dopo tanti anni mi pare ancora di vederlo. L'asino, il sacco ed il mugnaio formavano un gruppo d'una mezza tinta uniforme come il marmo piramidale secondo le leggi scultorie, e spiccava pittorescamente sul verde scuro del bosco che formava il fondo del quadro. Mi riuscì dunque agevole impadronirmi del mulino in un momento opportuno, e gettare qualche razzo incendiario, in via d'esperimento. Tentativo fallito!... La minaccia d'una vigorosa risposta mi consigliò subito a battere la ritirata, aspettando una migliore occasione per ritornare all'assalto.

L'assedio procedeva regolarmente, con tutte le regole indicate dall'arte. Al mattino andavo a disegnare la cascata: era una finta necessaria per ingannare il nemico sui miei movimenti; più tardi rientravo al bivacco, cioè facevo colazione al mulino coi commestibili che portava meco per alimentare la truppa all'assedio. Talvolta mi procacciai qualche ghiotto boccone, e dell'ottimo vino... sperando di prenderla per la gola, ma i miei tentativi riuscirono vani. La mugnaia accettava cordialmente le mie offerte, se le divorava senza cerimonie, e colla stessa semplicità mi obbligava di prendere i suoi frutti secchi, il pesce fritto e la polenta del mulino. Era uno scambio di cortesie leali e nulla più. Io approfittava di quei momenti per avanzarmi di qualche passo, colle parallele del sentimento, ma essa mi rispondeva con un'artiglieria che distruggeva le mie operazioni preparatorie, e rendeva vane anche le piccole scaramuccie.

Stanco e annoiato di perdere tanto tempo senza frutto, un giorno, con un rapido movimento, girando la posizione di fronte per l'ala sinistra, volli tentare di prendere la piazza con un ardito colpo di mano. Ma anche questa sorpresa ebbe un esito infelice... e pericoloso. Sono sfuggito per miracolo ad un rovescio, che mi avrebbe causato delle gravi perdite, se avessi mancato di quel genio che guidava il principe Carlo d'Austria nelle sue ritirate davanti l'impeto degli eserciti del primo Napoleone.

Con destrezza insuperabile ho salvata la testa! le difficoltà si facevano sempre più gravi, la fortezza presentava una resistenza insormontabile, ed io rientrava sovente nei miei quartieri ferito nell'orgoglio, e talvolta anche altrove, ma spinto da ogni nuova ripulsa a tentativi più arditi.

Una sera me ne tornavo dall'attacco rimuginando col pensiero qualche astuzia guerresca, quando sentii Bitto da lontano che abbaiava allegramente, come soleva fare incontrando gli amici. Infatti alla svolta del monte vidi una brigata di persone che avanzava dalla mia parte. Era la famiglia Bruni, e il dottore con sua moglie che facevano una passeggiata vespertina.

Quando mi furono dappresso, m'avvidi che si scambiavano delle occhiate d'intelligenza, e che ciascheduno aveva un sorriso o un sogghigno sulle labbra.

— Oh... quale sorpresa! — esclamò il signor Nicola, — il maestro Daniele da queste parti... a quest'ora....

— Nessuna sorpresa... — io risposi... — perchè vedo che mi siete venuti incontro.

— Sì... no... è vero... non è vero, — tutti volevano dissimulare la verità, ma colla franchezza della mia risposta io avevo gettato il disordine nel campo nemico.

— Infatti, — soggiunse il signor Nicola, — è lecito sapere che cosa vi attira da queste parti?...

— Perbacco, — io risposi, — vogliono che io faccia dei misteri?... vado a studiare una cascata....

— Ah!... ah!... ah!... benissimo... è ben trovata, — osservò il signor Nicola.

— Va a prendere delle doccie.... — proseguì il medico.

— Ha ragione, signor maestro, fin che è giovane si diverta, — continuò la signora Pasquetta, che si mostrava sempre indulgente pei peccatuzzi dell'umana fragilità.

— Eppure, — riprendeva il signor Nicola, — quella cattiva lingua di Tobia pretende che abbiate degli interessi al mulino.... e siate infarinato a dovere!...

— Ahimè, povero Zaccheo!... — replicava il dottore levandosi il cappello, e simulando colle dita sulla testa certi ornamenti animaleschi, che facevano arrossire la signora Pasquetta fino al bianco degli occhi.

Vedendo il dottore a fare quegli scherzi, non ho potuto trattenere le risa, e diedi in uno scroscio sgangherato accompagnato dai singulti del signor Nicola, che scoppiava nella pelle. La signora Giovanna rideva essa pure, ma il dottore rideva più di tutti.... Agata era andata avanti con Bitto, e gettava dei sassi, che egli correva a prendere, riportava e depositava a' suoi piedi, abbaiando con insistenza per ottenere che la ragazza li gettasse nuovamente.

Intanto noi si rideva allegramente vedendo il dottore contento come una pasqua dell'effetto irresistibile prodotto da' suoi scherzi; egli, incoraggiato dal buon successo, continuava a burlarsi di Zaccheo, malgrado le preghiere di desistere che gl'indirizzava la moglie, divenuta pavonazza dalla tortura.

Essendoci accorti che la signora soffriva davvero, abbiamo abbandonato il soggetto scabroso, cambiando discorso.

Era l'ora del tramonto, e volendo rientrare al villaggio prima di notte abbiamo abbandonata la strada maestra, prendendo una scorciatoia per un sentiero tortuoso fra due siepi.

La viuzza angusta non permetteva il passaggio che a due sole persone di fronte. Io precedeva la comitiva insieme con l'Agata, poco dopo seguiva il signor Nicola colla signora Pasquetta, ed ultimi il dottore colla signora Giovanna. Bitto andava avanti e indietro, su e giù per l'erta, come sogliono fare i cani... e gl'innamorati.

Il sole, dardeggiando i suoi ultimi raggi dietro la montagna, tingeva di porpora e d'oro le nuvolette increspate che vagavano pel firmamento.

— Come sono stupende queste scene della sera fra i monti!... — io osservava.

— Soltanto dopo un giorno sereno.... — mi rispondeva l'Agata. — Ma i giorni burrascosi hanno un tetro tramonto, senza luce, senza splendore, con un corteggio di nuvoloni neri, minacciosi.... Avete mai pensato alla rassomiglianza fra il periodo d'un giorno e l'intiero corso della nostra vita?

— Ci ho pensato sovente.... — io soggiunsi, — e se dipendesse da me, vorrei che ogni giorno fosse sereno, ogni vita felice, ogni tramonto bello come quello di questa sera....

— Il giorno bisogna prenderlo come ci vien dato dalla natura.... ma dipende da noi che la nostra vita sia calma o burrascosa, senza macchie, senza rimorsi, senza nuvole al tramonto, come una giornata serena.

La guardai in volto tacendo, e mi parve grave e severa.

Camminavo in silenzio dopo qualche istante, quando un magnifico falco attraversando la valle ci passò rapidamente davanti gli occhi, penetrando nel bosco vicino, dal quale dopo uno stormire di fronde s'intese un confuso cinguettìo, e si videro uscire alcuni uccelletti spaventati.

— Un bel falco!... — dissi io.

— Bello, ma crudele!... — essa mi rispose. — La bellezza è un dono della sorte, non è un merito; e, — proseguì, — se la bellezza non è accompagnata da buon cuore e da onestà, io la compiango. Quando vedo un falco, non penso alla sua bellezza, ma al dolore dei poveri uccelletti che avranno il nido invaso e insanguinato dal rapitore, che, portandosi via la madre a tradimento, mette il padre in disperazione, e lascia i piccini nell'abbandono.... Mio Dio! quante vittime per una preda!...

Io sentiva che i colpi venivano al mio indirizzo.... e che erano meritati.

Pensai seriamente alla colpevole leggerezza che mi valeva quella severa lezione. Anch'io come il falco grifagno tentava rapire la pace ad una onesta e tranquilla famiglia... che nel suo eremo, ai piedi delle Alpi, non era ancora abbastanza riparata dalla rapacità d'un cuore spietato.... Ma almeno il falco cercava una preda per vivere.... io invece facevo il male per soddisfare un vano capriccio.... per saziare un desiderio colpevole.... per distrarmi da un dolore profondo con una insidia.... per vendicarmi contro persone innocenti dei mali prodotti dalla mia dabbenaggine!... ed ecco che come al solito io compariva peggiore della bestia.... più crudele del falco.... e meno fortunato di lui, perchè non avevo nè la sua destrezza per cogliere la preda, nè le ali per fuggire dalle maledizioni delle vittime!...

Io invidiava la sorte di quell'uccello di rapina, che dopo il delitto poteva almeno volare in lontane regioni, ove si ignoravano le sue prodezze sanguinose!... io invece non potevo nascondere la vergogna davanti al mio giudice.

Tuttavia sentivo il bisogno di rispondere qualche cosa; ma misurando i miei torti non trovavo giustificazioni ammissibili, e mi sentivo così aggravato, che proruppi in queste parole:

— Agata, avete ragione, disprezzatemi, io sono un uomo abbietto!.... se fossi vicino ad un precipizio, mi vedreste scomparire dai vostri sguardi....

— Con un delitto non si ripara una colpa.... — mi rispose freddamente.

Allora mi venne il pensiero ch'essa mi credesse forse più colpevole che in fatto non era, e volli giustificarmi.... per non essere condannato in contumacia.

Le confessai ingenuamente la mia ammirazione per la bellezza plastica della moglie di Zaccheo, assicurandola però che tale ammirazione non ebbe altro effetto che alcune visite senza conseguenza.... Tacqui dell'assedio tentato invano, della resistenza valorosa e dell'artiglieria formidabile della mugnaia, e promisi che avrei abbandonato per sempre il mulino, e gli studi delle cascate!...

— Me lo promettete seriamente?... — mi chiese.

— Ve lo prometto sulla mia parola d'onore.

— Accetto la promessa in nome di vostra madre, — ella mi rispose, — della quale m'avete impartita l'autorità. — Così dicendo mi sporse la mano.

Io gliela strinsi coll'animo commosso e le chiesi umilmente:

— E mi perdonate?...

— Vi perdono, — mi rispose, — a condizione che siate galantuomo... ricordandovi che chi ruba la donna altrui è un ladro più infame di chi invola il denaro... Il denaro rapito può lasciare le vittime nella povertà... ma la donna che tradisce il marito lo lascia nel disonore, che è peggior cosa d'ogni miseria!...

Eravamo giunti al villaggio e dopo i soliti saluti rientrammo nelle nostre case.

XIII.

Ho dunque abbandonato l'assedio, e ripiegata la tenda; non più marcie forzate, nè speranze, nè timori, nè tutte le emozioni della lotta. Ho battuto la ritirata, per riprendere la vita monotona del soldato di guarnigione.

A vent'anni avevo già spasimato d'un amore ideale, e raccoglievo un amaro disinganno; avevo tentato l'amore positivo, materiale, il frutto vietato; e ne riportavo qualche ferita e un rimorso. In complesso erano due fiaschi solenni coi quali inauguravo la mia esistenza, due fiaschi che mi mettevano in uggia le ragazze e le donne.

Ora, a vent'anni, senza un amore che riscaldi il cuore, come si fa a vivere in un gelido villaggio della Valtellina?...

La scuola?... me ne appello a tutti i maestri spregiudicati: la scuola, tanto per chi insegna quanto per chi ascolta, non è che una fabbrica di noia perfezionata. La tragedia?... essa giaceva abbandonata sul tavolo, ogni ispirazione era svanita, il fuoco sacro s'era spento alla scomparsa della Vestale; non avvi poesia senza musa, nè arte senza donna!... L'orto?... era incolto, vi crescevano i cardi selvatici e le ortiche. Senza famiglia non si hanno nè fiori.... nè legumi. L'uomo, solo, vive di qua e di là, senza centro e senza circonferenza. Avrei potuto cercare qualche divagamento nella coltura delle piante, ma ignoravo ancora quest'arte, trovandomi sempre alle prime pagine dell' Ortolano dirozzato.

Non sapevo più a che santi votarmi. Psiche, Venere e Melpomene mi erano sfuggite di mano; del divino Olimpo non mi restava altro che Bacco. Mi sono dato alla divozione del suo culto, e mi parve che mi si mostrasse propizio.

Questo nume benefico agli infelici, esiliato dagli altari dell'umana ingratitudine, andò vagabondo e ramingo sulla terra, arrestandosi di preferenza sui clivi ridenti di vigneti, ove continua in modo clandestino l'esercizio dei sacri suoi riti. Tutto il bene e il male del mondo, l'amore o l'odio, le gioie e le lagrime, la poesia e i dolori della vita umana, l'incenso profumato, e il fumo graveolente dei roghi, tutto svapora, tutto sale all'empireo, tutto si confonde nell'etere. Le meteore raccolgono tutte le emanazioni della terra, materiali e morali, visibili ed invisibili; il vento le agita, il tuono le scuote, il fulmine le riscalda, l'umidità le discioglie, e quando piove tutto ricade sulla terra. Questo è il circolo eterno dello spirito e della materia; nulla si perde nell'universo, tutto si rinnova. Colla pioggia benefica ritornano al nostro globo gli elementi vitali del corpo e dell'anima umana. Le piante assorbono quegli umori, li elaborano, ed essi ritornano all'uomo cogli alimenti. Le pioggie benefiche apportano la gioia; le grandini sono maledizioni retrocesse, le rugiade baci ed amplessi che brillano nuovamente sulla superficie terrestre, e ingemmano l'erbe ed i fiori colla loro comparsa. Per questo sulla terra germogliano sempre le stesse piante e le stesse passioni, nascono gli stessi animali, e si ripetono le medesime vicende.

Ogni pianta ha le sue facoltà assorbenti, non solamente per i principii materiali che somministra la terra, ma altre pei principii spirituali che oscillano nell'aria, riscaldati dal sole. Il frumento non assorbe soltanto i fosfati, ma raccoglie dall'aria gli elementi confusi del bene e del male; e l'uomo, nutrendosi di pane, inghiotte non solo un alimento sostanzioso, ma altresì gli elementi delle gioie e dei dolori che si manifesteranno nella sua vita.

Alcune piante godono lo speciale privilegio di non assorbire che un solo principio. Se è il principio del male sono piante velenose, come la cicuta, la belladonna, il giusquiamo; se è il principio del bene sono piante benefiche, come la china del Perù, l'arancio, la vite. Le prime uccidono, le seconde risanano l'uomo.

È certo che le dosi modificano la loro azione, potendo tornar giovevole una piccola dose di veleno, e micidiale una forte dose di vino. Ma nel mondo morale succede lo stesso: un eccesso di gioia uccide, un dolore corregge un vizio.

La vite ha la specialità di non raccogliere colle sue radici, e di non assorbire colle sue foglie altro che gli umori soavi ed esilaranti: lo spirito, l'ilarità e l'entusiasmo. Ecco il motivo pel quale mi sono votato a Bacco: mi pareva nelle mie critiche circostanze d'aver sommo bisogno della particolare assistenza di questo dio. Infatti esso distilla nel succo dei grappoli la quintessenza dell'umana felicità. Questa si assimila al vino, entra nelle botti e nelle bottiglie, brilla nei bicchieri come i rubini e i topazi d'oro, esala nell'aria gli effluvi de' suoi aromi sottili. Buon vino e buon umore sono sinonimi, e chi ne ha ne usi moderatamente per goderne a lungo, e chiuda le bottiglie con tappi solidi di sovero di Spagna, e metta capsule metalliche sul turacciolo per conservare scrupolosamente il profumo e lo spirito dell'umana felicità distillata. Nel fondo d'ogni buona bottiglia si trovano arcane consolazioni, affatto ignote a chi non beve che acqua. Ma le passioni intemperanti spingono l'uomo ad abusare di tutto, ond'egli avvelena l'aria destinata al suo respiro, intorbida le pure sorgenti e guasta i migliori succhi della vite. Con alcuni buoni pensieri si possono fare pessimi vini; la colpa è tutta dell'uomo, di questo guastamestieri della natura.

Ma non basta fare il vino eccellente, bisogna anche saperne usare con moderazione.

Che cosa è più soave negli ardori della canicola d'una immersione in un bagno fresco? ma l'uomo non si contenta di tuffarsi nell'acqua fino al collo, egli corre ove il fiume è più rapido, ove il mare è più profondo; non si limita a nuotare alla superficie, ma vuole entrare sott'acqua colla testa, e trova talvolta un pescecane che lo divora.... o un filo d'erba che gli lega una gamba.... e l'uomo s'annega.

L'umana intemperanza riduce la vita ad un incubo insopportabile, quando si potrebbe goderne come d'un sogno delizioso!

Così pure il vino subì la sorte di tante cose eccellenti e salubri ridotte nauseanti e pericolose. Bacco ci offre un frutto che contiene le dosi d'un elisire di lunga vita, e noi troviamo il modo di snaturare l'essenza di questa divina materia per produrre un tossico ingrato e micidiale! E i legislatori che condannano ai lavori forzati il falsario delle monete, non trovarono la benchè minima pena per punire i falsificatori del vino, che sono causa di gravi mali sociali, che avvelenano i loro simili, che guastano gli stomachi e i cervelli, che producono coliche e delitti!

L'oste del mio villaggio, come tutti gli osti che godono questa impunità, aveva del vino buono e del cattivo. Dapprincipio preferii la qualità alla quantità, e ne sentii gli effetti benefici al corpo ed all'anima. Il buon vino mi facilitava la digestione e mi disponeva ad una benevolenza universale: io sentivo un bisogno di perdonare le offese, di tollerare le imposte più gravose, dimenticavo i mali sofferti, speravo nell'avvenire. I più dolci pensieri danzavano nella mia fantasia come sopra un tappeto di fiori, uno spirito di conciliazione animava il mio cuore, e mi addormentavo contento e beato, e sognavo che la contessa Savina mi dava un bacio, che la mugnaia me ne dava due, e poi si baciavano fra loro, e ci abbracciavamo tutti e tre. Erano visioni di paradiso!...

Ma io non ho saputo contenermi nei limiti prescritti dalla ragione, dal buon senso e dall'onestà!

Tuttavia, prima di raccontare i particolari di questo nuovo errore della mia gioventù, sento il bisogno di reclamare nuovamente le circostanze attenuanti, anche a benefizio di Bacco, accusato ingiustamente di connivenza ai miei falli.

No, il vino non è la causa della mia intemperanza, come l'acqua non è responsabile dei suicidii che si commettono nel suo seno.

Non è l'uso del vino, è l'abuso che mi trascinò... sotto al tavolo.

La giustizia deve passare prima di tutto; nè il vino, nè l'oste sono colpevoli; io solo devo subire la censura d'una condotta irregolare.

Se il vino lo avessi portato a casa, e me lo fossi bevuto a pranzo, mi avrebbe fatto del bene. M'ha fatto male perchè ho sbevazzato all'osteria, senz'ordine e senza misura.

Il vino è assolto.... veniamo all'oste.

L'oste, poveretto! quando s'accorse che il mio cervello divampava, ha fatto la parte del pompiere, mettendomi dell'acqua nel vino, procurando con sincera filantropia di moderare l'incendio che non poteva più spegnere.

È verissimo che nel conto mi ha fatto pagare il vino annacquato come vin pretto, ma anche questo è lodevole, tenuto conto dell'intenzione che deve averlo guidato d'infliggere una multa alla mia intemperanza. — Ma chi ha dato diritto all'oste di far pagare ai suoi avventori più di quanto gli è dovuto?... Forse l'agente delle tasse, il quale attribuendogli una rendita immaginaria, superiore alla vera, e facendogli versare una imposta relativa, aperse la strada dell'arbitrario, divenuto indispensabile per pagare l'ingiusto! — Dunque si assolva anche l'oste.

I veri colpevoli furono i falsi amici e i cattivi compagni. Alla testa di tutti pongo Uguccione della Fagiuola, il quale avendo scoperto in me i germi d'una nuova passione, che si andavano sviluppando, invece di mostrarmi i pericoli a cui andavo incontro, mi fece coraggio a persistere nelle prave abitudini. Egli era molto più vecchio di me, e l'esperienza doveva tenergli luogo d'educazione. Avrebbe potuto dirmi amichevolmente: — Bada, Daniele, a quello che fai; tu sei costantemente innamorato delle cose pericolose, e trapassi con inconcepibile leggerezza dall'amore della donna all'amore della botte. Sta in guardia, non fidarti troppo nè dell'una nè dell'altra; entrambe ci lusingano da principio con prestigiose illusioni, entrambe producono soavi emozioni, brillano ai nostri occhi con ismaglianti colori, sorridono ai nostri sguardi, ai primi baci esaltano il nostro spirito, ci promettono la suprema felicità!... ma poi!... a misura che la passione si riscalda, esse abusano della loro fatale influenza, intorbidano la nostra mente, ci espongono a mille pericoli, e ci fanno smarrire la ragione ed il senno!... Daniele, non fidarti nè della donna nè della botte; tu non sai quanto il loro profumo sia ingannatore, tu ignori gl'istinti malvagi che ascondono in seno, e i funesti veleni che circolano nel loro sangue. Fuggi la donna e la botte. Se m'avesse detto così, io andava frate, e tutto sarebbe stato finito; rinunziando alle gioie terrene mi assicuravo almeno il paradiso per l'altro mondo, ma Uguccione tenne un altro linguaggio.

— Bevi, bevi, — egli mi diceva, — il vino consola di tutto, la vita non ha che disinganni e dolori, in fondo della bottiglia si trovano le illusioni e le gioie: bevi e cerca l'oblio dei mali nel bicchiere, esso ti farà dimenticare la miseria e i tradimenti, gli amori infelici, le noie della solitudine, le amarezze del destino; bevi e sarai felice.

Ed io bevevo... ma bevevo come un sifone....

Egli mi faceva compagnia, e si stava allegri. Poi, per tenermi più a lungo all'osteria, mi mise in mano le carte. Dapprincipio giuocavo con indifferenza, ma a poco a poco m'entrò la passione dei fanti e dei cavalli, delle spade e delle coppe; gli assi mi mettevano in convulsione, avrei dato cento scudi per un dieci di danari, mi pareva impossibile che l'uomo potesse vivere senza le carte, ci pensavo il giorno e la notte, e le vicende del giuoco unite al liquore di Bacco mi agitavano il sonno terribilmente. Le giornate mi parevano più lunghe, la scuola sempre più noiosa; io attendeva con ansietà il momento di fare la partita, e quando all'ora della mia passeggiata Bitto voleva condurmi per la campagna a respirare l'aria pura e serena, io obbligava la povera bestia a rinunziare a questo esercizio salutare per accompagnarmi all'osteria a passare la sera in quell'afa infetta di vivande, di vino e di tabacco. Le carte non rispettano le affezioni più sacre, non riconoscono amici, nè credono ad altri piaceri all'infuori di quelli del tavolino.

Così in breve tempo divenni giocatore e beone.

Pare impossibile come è facile diventare viziosi quando il cammino della virtù riesce tanto faticoso! Eppure l'esperienza insegna che l'uomo non può essere felice se non ha la coscienza tranquilla. Tutti vogliono essere felici, ma molti fallano la strada, cercando da lontano e per vie remote ciò che si trova da vicino, anzi dentro di noi.

Io giuocavo e bevevo gran parte della notte; le perdite al giuoco mi animavano a raddoppiare le partite, e il vino mi eccitava la sete. Uguccione della Fagiuola colle carte, e l'oste col conto mi pelavano penna a penna, come si farebbe d'un pollo. Io era sempre pronto ad essere spiumato da tutti e due; giuocavo come una ruota, bevevo come una spugna, ed alla notte soffiavo come un mantice.

Una sera giuocando e bevendo, bevendo e giuocando, ho perduto tutto il denaro che doveva bastarmi per vivere un mese; poi non avendo più denaro, e volendo prendere la rivincita, ho perduto l'orologio, poi la giubba, poi la cravatta... poi il cervello e le gambe, e sono andato a finirla sotto al tavolo!...

Dopo un sonno profondo mi svegliai indolenzito, ammaccato, scapigliato, sconcio, colla testa pesante e la borsa leggiera, in maniche di camicia.

Ero sotto il tavolo, all'oscuro, dimentico d'ogni cosa, sbalordito.

Chiamai la Rosa. Bitto venne a leccarmi il volto con affezione inquieta, e pareva che volesse parlarmi. Non sapevo ove fossi, strepitai tanto che finalmente vidi comparire l'oste in mutande e pantofole, con un fanale in mano.

— Ha chiamato, signor maestro?

— Altro che chiamato!...

— Ebbene come va?

— Ma!.. mi pare che la vada malissimo... che non potrebbe andar peggio. Ditemi un po' che cosa faccio qui in questo arnese... e in questo letto un po' duro, ma a padiglione?

— Eh, quando si ha un buon sonno si dorme da per tutto.

— Benissimo... che ora è?

— Incomincia il crepuscolo.

— E perchè mi avete lasciato in terra tutta la notte?

— Per non farle male... gli ubbriachi bisogna rispettarli.

— Vi ringrazio dell'onore... ma come mi trovo qui?

— Vedo che la cotta è stata proprio solenne, se non si ricorda più nulla! Ecco come passarono le cose: ha giuocato e bevuto fino a che ha potuto reggersi in piedi, poi ha scivolato sotto al tavolo. I suoi compagni volevano accompagnarlo a casa, ma erano cotti fino alle midolle; ho pensato che andrebbero a dormire in un fosso. Ho detto fra me: vadano pure, essi sono veterani avvezzi alle bastonate, ma un coscritto non bisogna abbandonarlo. Se si rompe la testa possono darmene la colpa, e così mi sono fatto scrupolo di disturbarla. Dormiva tanto bene che pareva morto.... L'ho lasciato in pace al posto naturale scelto dalla natura... ed io pure sono andato a dormire.

— Nel vostro letto.

— S'intende... nel mio letto.

— Fortunato mortale!... Ed ove sono i miei panni?

— Li ha giuocati e perduti, con l'orologio... povero maestro!

— Ora mi rammento benissimo... pazienza... è stato il fante di spade che mi ha tradito!.. Mi dispiace che non avendo più un soldo nè in tasca nè in casa, non posso pagarvi il mio debito prima d'aver trovato i contanti.

— Di questo non si dia pensiero, signor maestro, mi pagherà un altro giorno. Intanto vada a casa a vestirsi finchè le strade sono deserte; e non si perda di coraggio per così poco. E mi aperse la porta.

Uscii con Bitto, che vedendomi mezzo spoglio mi guardava con compassione.

Io mi vergognavo davanti al mio cane.

Spirava una fresca brezza mattutina, il cielo era sereno, l'aurora tingeva i monti d'un roseo dorato. Il sorriso della natura mi faceva male. Avevo in saccoccia la chiave di casa, entrai come un ladro, penetrando con precauzioni infinite nella mia stanza per non essere sorpreso in quello stato miserevole dalla Rosa. Il sole si alzava quando io poggiava sul cuscino la mia povera testa pesante, e grave di pensieri dolorosi ed umilianti.

All'indomani tutto il villaggio parlava della mia avventura. Uguccione della Fagiuola l'aveva raccontata in piazza, il campanaro in canonica, il cursore in ufficio, le donnette ai mariti. Le autorità civili ed ecclesiastiche censurarono altamente la condotta scandalosa del maestro, tutti ciarlavano, commentavano, infioravano, esageravano il fatto e ridevano.

Se la coppa dell'amore appressata due volte alle labbra mi lasciò sempre deluso, anche in mezzo ai fiaschi... ho fatto fiasco!... Tre delusioni successive era troppo! Avrebbero bastato a schiacciare un gigante; io, che non era che un insetto, mi trovai polverizzato addirittura.

Più di tutto mi crucciava il pensiero di ciò che avrebbe pensato la famiglia Bruni de' miei stravizii, e mandai la Rosa con un pretesto per esplorare il terreno. Al suo ritorno le andai incontro per abbreviare la mia ansietà.

— Ebbene, che cosa pensano di me?... — le chiesi.

— Dicono, — mi rispose, — che siete un buon ragazzo, onesto e dabbene, vittima degli astuti, degl'intriganti, degli arruffoni, che abusando della vostra bonarietà vi rendono tributario dei loro disordini, dei loro vizii, e poi vi denigrano e vi mettono in ridicolo.... La signora Agata vi aspetta dopo pranzo per fare una gita con sua madre, non potendo il signor Nicola accompagnarle a motivo delle sue occupazioni.

XIV.

All'ora fissata v'andai. M'aspettavo una ramanzina in piena regola, invece fui sorpreso che non parlassero nemmeno de' miei malanni. Mi accolsero colla solita benevolenza, chiedendomi scusa d'avermi incomodato; ma conoscendomi compiacente e gentile, le signore mi pregavano di accompagnarle in un sito deserto della montagna, essendo il signor Nicola impedito, e non osando avventurarsi sole con Martino in quei greppi.

Partimmo subito, seguiti dal domestico che portava un cesto coperto, e preceduti da Bitto che andava ad esplorare il terreno, ed abbaiava alle pecore che pendevano dall'erta e ci guardavano passare con attenzione e diffidenza. Pare che certe bestie non abbiano troppo buona opinione dell'uomo.

La strada fu lunga e faticosa per l'ardua salita, ma la buona compagnia, l'aria fresca ed elastica e l'aspetto pittoresco e variato del paesaggio me la fecero sembrare agevole e breve. Strada facendo aveva chiesto dove s'andava, e l'Agata mi aveva risposto:

— Andiamo a fare un po' di bene... ve ne dispiace?

— Ne sono contentissimo, e ne sento bisogno io che faccio tanto sovente del male.

Non mi rispose, e poco dopo continuò:

— I nostri montanari hanno l'abitudine d'emigrare in lontani paesi per sostentare le loro famiglie col lavoro e fare qualche risparmio. Talvolta ritornano a casa ricchi o almeno ben provveduti, talvolta affranti dagli stenti, dalle privazioni, ammalati e più poveri di prima. Ecco il nostro caso. Si tratta di un padre di famiglia ritornato misero e infermo.

Intanto eravamo giunti davanti una catapecchia affumicata che sorgeva come una vedetta a picco della valle, in un angolo sporgente a diritta della strada maestra. Eravamo ad una grande elevazione; si vedeva al basso il torrente come un nastro azzurro, serpeggiante fra le piccole colture frastagliate, poi come un anfiteatro a scaglioni ove verdeggiava un magro frumento in piccoli spazi di terreno sostenuti da muricciuoli a secco, qualche casupola sparsa e biancheggiante fra i cespugli, e più in alto i pascoli interrotti dalle frane e dalle valanghe, sparsi di alcuni castagni giganti che si aggrappavano ai crepacci colle grosse radici; grandi e piccoli macigni franati dalle cime erano sparsi sugli strati erbosi che giungevano al margine dei precipizi. In alto e da lontano le aride giogaie erano spruzzate di neve, che brillava al sole e spiccava sull'orizzonte turchino.

A sinistra della strada s'alzava un bosco di abeti, che secondando le curve della montagna andava a perdersi fra le gole lontane. Sul margine del bosco in cima al muraglione sostenente il terreno tagliato dalla strada, pascolava una capra, vicino alla quale sedeva una bambina bionda e ricciuta, bianca e rossa ch'era una bellezza a vederla.

Al nostro avvicinarsi la capra alzò la testa mandando un lungo belato, e la bambina s'alzò in piedi per fuggire. Allora s'aperse l'uscio del tugurio che stava dirimpetto, e comparve sulla porta una donna giovane ancora, ma sparuta, solcata dalle rughe d'una precoce maturità, lacera nelle vesti, scapigliata e affranta dalle veglie, squallida dalla miseria.

Vedendo l'Agata alzò le mani e gli occhi al cielo esclamando:

— Benedetto Iddio!... ecco la Provvidenza!...

Agata l'interruppe interrogandola ansiosamente:

— Come va il povero Beppo?

— Sempre lo stesso, signora!... sempre la febbre... e i dolori. Ma se vuole consolarlo si mostri sulla porta.

— Entriamo, entriamo, — disse l'Agata, e la povera donna c'introdusse nella stanza dell'infermo.

Da una sola finestra vestita di carta entrava nello stambugio una luce smorta. L'infermo smunto, giallognolo, colle occhiaie incavate e segnate da un cerchio livido, cogli zigomi protuberanti, le labbra violacee, i capelli rabbuffati, l'occhio semispento, stava seduto sul suo giaciglio colle braccia distese sulle coltrici rattoppate, rotolando l'estremità del suo lenzuolo di stoppa nelle scarne mani. Al comparire d'Agata schiuse le labbra ad un sorriso, i suoi occhi parvero avvivarsi, poi due grosse lagrime gli corsero sulle guancie. Ci salutò con un cenno del capo accompagnato da un'alzata di mano, e ripeteva con voce fioca:

— Grazie... grazie... ho pregato per voi tutto il giorno... non posso far altro, grazie pei poveri bambini... e per le donne... che per la vostra carità non hanno più sofferto la fame!... Iddio salverà la vostra famiglia dalle disgrazie, io confido in lui... per me sia fatta la sua volontà... anch'Egli ha sofferto tanto per il bene, la giustizia e l'umanità.... — e così dicendo accennava colla mano un Cristo che pendeva a capo del letto, un Cristo colla testa cadente incoronata di spine, colle piaghe sanguinose, e i piedi insudiciati dai baci di varie generazioni di devoti e di moribondi.

La povera moglie ci raccontò allora le lunghe sofferenze di suo marito. Egli era partito con profondo rammarico dal suo tugurio, ove lasciava quanto aveva di più caro sulla terra: la vecchia madre, la moglie, tre bambini che gli saltellavano intorno, sempre allegri e contenti, e volevano seguirlo dappertutto. La bambina, la sua delizia, lo accompagnava sul monte nella stagione della falciatura del fieno, e s'addormentava all'ombra. Egli la coricava sulla sua giubba e le copriva il volto col fazzoletto per ripararla dagli insetti. Alla sera se la portava a casa in braccio, contenti tutti e due. Lasciare tali abitudini, tanti affetti di famiglia, e andar ramingo in lontani paesi gli tornava amaro, doloroso, straziante. Ma mancava il lavoro, e quindi il pane per tutti. Partì col cuore lacerato quando cadevano le foglie e la cattiva stagione s'avvicinava a gran passi. Una mattina, preso sulle spalle un piccolo fardello, baciò la madre e i bambini e seguito dalla moglie uscì dalla sua capanna, ove avrebbe vissuto felice se avesse potuto vivere. La sua donna lo accompagnò fin fuori della valle, parlando dei loro interessi. Ma quando non vide più la sua dimora, fu inquieto e la rimandò. Si lasciarono con un cenno del capo e della mano, senza poter proferire una parola, nè l'uno nè l'altra: il dolore li strozzava.

Durante l'inverno quei tapini rimasti alla capanna, quasi sepolti sotto la neve, ricevettero qualche soccorso dall'estero. Il cursore comunale portava le lettere, e la povera donna sfidando le intemperie scendeva dal monte, trovava il danaro assicurato alla posta, faceva le sue provviste al capoluogo, e rimontava lentamente colla neve fino al ginocchio, e le spalle cariche della gerla piena. Ma sapeva almeno che il marito stava bene e pensava a loro, e li sosteneva lontani; i bimbi l'aspettavano sulla porta, battevano le mani all'arrivo di lei, facevano mille feste alla comparsa di tante buone cose che portava, e la nonna riceveva il tabacco e il pane, e tutti avevano da vivere in pace aspettando la buona stagione. La solitudine, l'isolamento, il freddo in mezzo a quei monti ricoperti di neve non ispaventavano quella povera famiglia quando aveva della farina e del sale, del formaggio e del latte. Il giorno, se brillava il sole in un cielo sereno, i bambini giocavano sulla neve, vi facevano banchi, grotte, edifizi fantastici, e quando imperversava la bufera, si raccoglievano colle donne intorno al focolare, rannicchiati sotto la cappa del camino, come i pulcini sotto la chioccia. Abbruciavano i rami odorosi dell'abete e del ginepro, cuocevano le patate sotto la cenere, la fiamma viva li compensava del sole assente, il gorgogliare della pentola li consolava dei sibili del vento, e i vortici del fumo erano a loro meno molesti delle pungenti ambizioni che agitano la società. Nè trovavano verun motivo di lamentare la loro sorte, e non si sarebbero mai immaginati che a questo mondo si possa desiderare di più!...

Alla sera si mettevano tutti in ginocchio, e dicevano le orazioni tutti in comune. Pregavano per la famiglia, per gli assenti, i viandanti, gli emigrati, gli infermi, ed invocavano la salute e le benedizioni del cielo, e si raccomandavano alla divina Provvidenza che li proteggesse in questa vita mortale, rendendoli degni di meritare nella vita eterna il compenso delle sofferte afflizioni. Dicevano requiem pei morti, e ringraziavano il padre che sta nei cieli del pane quotidiano, lo pregavano di perdonare i loro peccati, di difenderli dalle tentazioni, di liberarli dal male. Poi indirizzandosi alla Madonna la supplicavano della grazia di rivedere presto il loro padre, il marito, il figliuolo, in buona salute... e intanto che il Signore lo benedica e difenda dalle disgrazie. E si coricavano tranquilli, pieni di fede, di speranza, di carità.

Finalmente venne la primavera, sempre gradita a tutti, ma specialmente a chi ha vissuto sei mesi sotto la neve. I geli si disciolsero ai tiepidi raggi del sole, e ricomparvero le foglie sugli alberi, e il verde tappeto sui pascoli. Coll'arrivo delle rondini la madre di famiglia attendeva il ritorno del marito assente, e molte volte al giorno gettava un'occhiata sulla strada maestra, per vedere se da lontano si vedesse comparire qualche viandante. I bambini pure aspettavano il babbo, e si ripromettevano dei ghiotti bocconi, coi quali avrebbero celebrato il sospirato ritorno. La nonna seduta al sole guardava parimente la strada, aspettava e pregava tutto il giorno per lui. Ma le rondini libravano il volo da lunghi giorni sulla valle cacciando gl'insetti, i nuovi nidi erano già costruiti, le fronde s'addensavano, l'erba e il frumento crescevano rigogliosi.... e l'emigrato non compariva. E non solo non si vedeva di ritorno, ma non giungevano più nè lettere, nè danaro. I primi giorni che oltrepassarono il termine supposto al rimpatrio si cercò d'ingannare l'ansietà dell'aspettativa con argomenti immaginari. Un lavoro impreveduto, un ritardo prodotto da necessità insuperabili, strade cattive, tempi perversi, combinazioni che succedono in viaggio. Ma mentre crescevano le inquietudini mancavano i viveri.

Fortunatamente nacque un capriolo, che venne portato al mercato, onde si cambiò il danaro negli oggetti più necessari. Poi anche queste piccole provvigioni si esaurirono, quantunque misurate a rigore, appena da non morire di fame. Bisognava contentarsi d'un po' di polenta senza sale, bagnata nel latte di capra. Pazienza anche questo, se almeno il cuore fosse stato contento, ma l'amarezza profonda che dilaniava le viscere delle povere donne condiva colle lagrime lo scarso alimento.

Alla fine giunse una lettera, scritta da un compagno di sventura, la quale annunziava che il loro diletto languiva in uno spedale della Germania. Le fatiche di un intenso lavoro, il clima incostante, le privazioni imposte dalla necessità di assicurare il vitto all'amata famigliuola, avevano stremate le forze dell'infelice, caduto vittima del suo coraggio. La ripugnanza d'entrare allo spedale gli aveva fatto consumare nei primordi della malattia tutti i suoi risparmi. Affranto dal male, e mancante d'ogni mezzo dovette rassegnarsi ad entrare all'ospizio. Così passarono due mesi d'incertezza, di terrori, di patimenti aggravati dal patema d'animo che l'opprimeva.

Tali notizie gettarono nella desolazione le povere donne. — Forse non lo vedremo mai più!... fu il loro primo pensiero, al quale s'aggiunse il secondo: — Lontano, povero e infermo, e non abbiamo nessuna probabilità di raggiungerlo, di mandargli dei soccorsi, di prodigargli la nostra affettuosa assistenza!... noi qui nella miseria, egli più misero di noi in mani straniere!... Morirà di crepacuore, e l'agonia non sarà consolata da un solo sguardo dei suoi cari. Le donne pensavano queste cose, e la moglie ce le raccontò come le fu possibile, col linguaggio del cuore.

In tale frangente bisognava pensare ai bambini che avevano fame, bisognava ingegnarsi in qualche modo, e lavorare coll'anima lacerata dal dolore e col corpo affranto dagli affanni, dalle veglie, dai patimenti d'ogni fatta.

La misera donna raccoglieva della legna secca nei boschi, col pericolo d'essere arrestata dai guardiani e condotta in prigione, poi la portava da lontano sulle spalle attraversando burroni e precipizii, coi piedi insanguinati dai frammenti delle roccie. Venduta la sua fascina, riportava un po' di pane alla famiglia per incominciare da capo all'indomani le stesse tribolazioni.

Quanti stenti, quanta miseria, e quanti dolori!... Nelle città non si hanno idee di tali patimenti umani.... E quella povera famiglia si prostrava a terra, ogni sera, per ringraziare Iddio d'averla fatta campare, offrendo le sue pene, le angoscie e la fame in espiazione dei peccati. E supplicava tutti i santi di muoversi a pietà di tante sventure. I tre bambini pregavano colle manine giunte e gli occhi rivolti al cielo come la madre e la nonna, perchè il dolore si sente a tutte le età; esso fa maggiorenni i pupilli prima del tempo legale.

Una sera, mentre stavano tutti ginocchioni davanti il Cristo, videro aprirsi la porta e comparire sulla soglia uno spettro che traballava sulle gambe... Era lui.

— Grazie, Iddio!... — egli disse con voce sepolcrale.... — Grazie, Iddio! che mi avete conceduto di venir a morire sul mio letto.

Le donne saltarono in piedi, e giunsero in tempo di sostenerlo fra le loro braccia, mentre cadeva privo di sensi.

Il desiderio di rivedere la sua famiglia gli aveva somministrato le forze sufficienti per alzarsi dal letto dell'ospitale, dissimulare ai medici le sue sofferenze, protestare contro la loro insistenza di volerlo curare, e chiedere come un sommo favore di tornarsene a casa. Non ci fu verso di persuaderlo che sarebbe morto per via: volle partire.

Senza forze, senza danaro, e colla febbre indosso aveva fatto il viaggio a piedi, chiedendo la elemosina per via, e dormendo sulla nuda terra, quando al suo aspetto spaventoso i contadini si rifiutavano di lasciarlo passare la notte sul fieno.

Un pensiero lo sosteneva nei disagi: abbracciare ancora una volta i suoi cari. Egli varcò i monti barcollando, trascinandosi a piccole giornate, salendo talvolta sopra qualche carro sul quale veniva raccolto dai carrettieri mossi a pietà del suo stato.

L'energia della sua volontà vinse gli ostacoli, lo sostenne nel suo proposito, fu più forte del male, e potè trascinarlo fino alla porta del suo tugurio. Steso sul letto, lo credettero morto; ebbe un lungo svenimento, ma rinvenne. L'aspetto dei volti che stavano contemplandolo piangendo lo compensò dello sforzo sovrumano del viaggio. Egli aveva raggiunto la meta, si beava in quegli sguardi amorosi, e si lasciava morire in pace.

Ma appena riavuto, le donne si misero in traccia di quanto potevano offrire al diletto infermo. Santo Dio! mancavano di tutto, non avevano da offrire al moribondo che acqua!... Ma era l'acqua del suo torrente, l'acqua che scorreva ai piedi del monte che lo vide nascere, quella che bevevano sua madre, sua moglie, i suoi bambini; era più che un'acqua medicinale... era un'acqua santa!

La bevette con voluttà, e parve che ne sentisse sommo benefizio perchè potè dormire per alcune ore. Ma compiuto lo sforzo della natura, il male riprendeva il suo vigore. Tuttavia benediceva Iddio, lo ringraziava del sommo favore ottenuto, e sperava nella divina misericordia. Colui che aveva fatto il miracolo di ricondurlo a casa avrebbe potuto anche salvargli la vita, e assistere la famiglia durante la sua infermità. E di fatti fece anche questo. La moglie corse a chiamare il dottore Canziani, il quale, esaminato il malato, udita la storia dolorosa, veduta tanta miseria, raccomandò la povera famiglia all'Agata, avendo esperimentato altre volte quanto avesse giovato ai miseri il patrocinio di quella pietosa fanciulla.

Agata mandò subito i primi soccorsi, poi volendo conoscere la povera moglie, se la fece venire in casa, le somministrò gli oggetti più indispensabili ai malati, e i viveri per la famiglia. Finalmente si decise di visitare in persona l'infermo e vi andò con suo padre, carica di nuovi doni.

Uditi i miei stravizii, pensò che l'aspetto delle umane sofferenze potesse essere un farmaco salutare a chi cade in errore senza aver l'animo guasto, e colse questa occasione per procurare un doppio beneficio, giovando a due malati in una volta, uno colpito nel fisico, l'altro nel morale, soccorrendo d'un tratto la miseria e la corruzione.

Ecco il motivo della nostra gita, che l'Agata voleva dissimulare, ma che mi venne rivelato dalla coscienza. Lo scopo era raggiunto: io mi sentiva commosso fino al fondo del cuore, sentivo il rimorso della mia condotta, pensando che mentre un uomo laborioso languiva nello squallore d'uno spedale straniero e lontano, mentre una povera moglie desolata, una vecchia impotente, dei bambini innocenti soffrivano il freddo e la fame sotto la neve, io scialacquavo in una notte sbevazzando e giuocando, in crapulosa compagnia, ciò che avrebbe bastato a coprire quei miseri, a farli campare per molto tempo, a soccorrere un infermo, a pagare una vettura che lo avrebbe ricondotto alla sua famiglia senza disagio.

Chi spreca il danaro in vizio dovrebbe rammentarsi talvolta che al mondo non mancano mai miserie da soccorrere, nè sventure da riparare.

Intanto ch'io facevo tali considerazioni, Martino vuotava il cesto, e ne uscivano provvigioni d'ogni fatta. Le benedizioni di quegli infelici erano largo compenso all'animo gentile delle signore, che frenavano a stento le lagrime.

Usciti dalla camera dell'infermo incontrammo gli altri due figliuoli che rientravano colla nonna, portando delle erbe per la cena, e della legna da fuoco. La madre presentò alle benefiche donne i ragazzi e la vecchia rugosa e ricurva, che piangeva dalla consolazione in vederle, mentre la bambina ricciuta, superata la sua timidezza in forza della curiosità, scendeva tranquillamente dal monte colla sua capra, e veniva a completare la famiglia, ed a ricevere i bomboni dell'Agata e i nostri baci.

Il sole era tramontato quando partimmo, onde giungemmo al villaggio a notte inoltrata. La strada, meno faticosa per la discesa, ci parve anche breve, perchè i pensieri che occupavano la nostra mente ci facevano passare il tempo con rapidità. Giunti alla porta di casa Bruni, salutai la signora Giovanna, e dissi alla ragazza:

— Vi ringrazio, Agata, della buona sera che mi avete fatta passare. Sapevo che la beneficenza è un dovere, ma ignoravo che fosse uno dei sommi piaceri della vita, di quei piaceri che entrano nell'anima e vi lasciano una dolce ricordanza. Vi ringrazio anche della lezione!... essa non sarà perduta. Dal rimorso al ravvedimento non c'è che un passo. Vi prometto che non avrò mai più ad arrossire della mia condotta.

— Vostra madre vi ascolta!... — mi rispose, e fissandomi con uno sguardo significante si ritirò dietro sua madre.

Io rientrai in casa, cenai con appetito, perchè avevo il corpo stanco e l'animo lieto, e quando Bitto, secondo il suo costume, mi fece molte carezze, sentii che quel giorno non ero indegno dell'affezione del mio cane.

XV.

Per riparare almeno in parte i passati miei torti io visitai sovente il povero infermo, portando il mio obolo al tugurio, e qualche dolciume ai fanciulli che mi presero presto in amicizia. La loro ingenua affezione mi tornava assai più grata di quella dei miei compagni di disordine, e seduto su quei greppi colla bambina, mentre la capra rosicava le foglie dei mirtilli e dei roveti, e Bitto vagava pel bosco alla caccia di tutto quello che brulicava sulla terra e sugli alberi, io mi sentiva calmo e predisposto a fare il bene; l'aria pura ed elastica della montagna mi risvegliava teneri sentimenti ed elevati pensieri, l'esalazioni silvane esilaravano il mio spirito, il silenzio solenne di quelle solitudini mi facevano fantasticare gradevolmente, e mi pareva impossibile di aver per qualche tempo abbandonato i miei passeggi e le mie contemplazioni per vivere in cattiva società nell'afa dell'osteria, grave ai polmoni, che esalta il cervello ed abbrutisce il cuore.

Uguccione della Fagiuola non era contento, e tentò, ma invano, d'eccitarmi a non abbandonare gli amici e la partita, rinnovandomi il suo panegirico del vino, e dicendomi che il soldato non deve mancare di coraggio per una battaglia perduta. Gli risposi con fermezza irremovibile che avevo rinunziato per sempre al giuoco ed all'osteria, senza rinunziare per questo ai buoni amici e al buon vino, ma aggiunsi che non stimavo buoni amici coloro che mi spogliavano mentre ero ubbriaco, nè buon vino quello che mi faceva dormire sotto ai tavoli. In quanto all'esempio del soldato, gli risposi che chi aveva la testa rotta era autorizzato a passare agli invalidi, e che in quanto al coraggio, ce ne voleva talvolta di più per sostenere una ritirata che per tornare alla lotta. Io parlavo per esperienza, non potendo vantare nella mia vita una sola vittoria, ma molte sconfitte.

Uguccione non si mostrava persuaso de' miei argomenti, ma non sapendo che cosa rispondere, agitava furiosamente il suo cappellaccio in segno di disapprovazione, ed essendo testardo ed organista ad un tempo, mi risuonava continuamente lo stesso motivo, con poche e cattive variazioni, fermandosi lungamente sopra una nota, come soleva fare nell'organo. Il giuoco abbandonato lo crucciava più del dovere.

— Ma non volete nemmeno tentare una rivincita? — mi diceva. — Ma tentate dunque una rivincita.... e vedrete i capricci della fortuna.

— La rivincita, — io rispondevo, — l'ho ottenuta il giorno che feci solenne giuramento di non prendere più in mano una carta da giuoco; da quel momento ho guadagnato tutto quello che avrei perduto giuocando, senza tener conto del denaro risparmiato nel vino.... e nell'acqua che vi si trova sovente commista, nè della salute perduta a forza di disordini, nè della riputazione pregiudicata a mio danno.

A me, caro Tobia, basta una sola lezione, la perdita d'un solo orologio, una sola notte funesta!...

Uguccione, vedendo impossibile il convertirmi, si metteva a ridere con quella bocca sperticata, spalancando le sue labbra da Cafro con strani sberleffi, ed accusandomi di subire le malvagie influenze del clero.

Questo Ghibellino arrabbiato aveva in parte ragione, perchè due giorni dopo tal dialogo giungeva al villaggio mio zio, e l'arrivo del canonico riconducendomi a visitare il parroco mi gettava nuovamente nelle braccia dei Guelfi, capitanati dall'arcivescovo Giovanni.

Uguccione sghignazzava co' suoi amici sulla mia apostasia.... egli aveva perduto il suo pollo.

Mio zio, che si recava ai bagni di Bormio, volle farmi il favore di arrestarsi qualche giorno al villaggio; ond'io gli feci ammirare i restauri del suo casino, la modesta agiatezza succeduta al lurido disordine del mio antecessore, ed egli ne rimase soddisfatto.

L'accompagnai in casa Bruni per ringraziare quei buoni signori di tutte le bontà che mi andavano prodigando. Essi diedero un pranzo in onore di lui, e furono tanto cortesi non solo da tacere la mia condotta, ma anche da farmi degli elogi.

Io era tutto contento di rivedere il mio vecchio zio, ambizioso di fargli gli onori di casa, lieto di prodigargli le più delicate attenzioni, e tutte le cure d'una ospitalità previdente.

Io avevo dato alla Rosa le opportune istruzioni; abbandonare ogni grettezza, procurarmi i cibi migliori, i vini più scelti, e far debiti in caso di bisogno. Io sedevo a tavola dirimpetto a mio zio, lo servivo con sollecitudine affettuosa, gli mettevo sul piatto i migliori bocconi, e gli tenevo il bicchiere sempre ricolmo. Egli mi accennava di arrestarmi, ma poi cioncava e stava allegro. Tutto procedeva a meraviglia. La Rosa faceva miracoli, e Bitto lambiva le mani a mio zio e gli faceva mille feste. Il cane ha un istinto che non l'inganna, egli sente a usta gli amici e i nemici del padrone, mena la coda o abbaia secondo il caso.

L'Agata, alla quale la Rosa s'era raccomandata per avere dei consigli risguardanti la cucina, mandava invece dei cibi squisiti, belli e pronti da mettersi in tavola. Ah se tutti i consiglieri facessero così!...

La Veronica m'aveva mandato per mezzo dello zio squisiti manicaretti milanesi dei quali mi sapeva ghiotto, e così si faceva ogni giorno baldoria, e si stava a mensa lungamente.

Io vedeva in mio zio non solo il più prossimo parente, il benefattore ed il padre, ma bensì il mio liberatore dall'esilio di Valtellina, che mi pesava assai e non aveva più scopo. La contessa Savina maritata, io poteva ritornare a Milano. Questa era la mia ambizione e il mio sogno; io mi proponevo di svolgere tutti gli argomenti possibili per persuadere il mio buon zio a questo passo; e non avevo motivi che mi facessero temere un rifiuto. Egli mi chiese conto naturalmente delle mie occupazioni e de' miei studi; ed io gli risposi:

— Caro zio, la scuola rurale è un incubo, una penitenza, una espiazione. La mia vita è un continuo sacrifizio, e mi è chiuso ogni adito ad una carriera onorevole. A che cosa può condurmi l'insegnare l'abbicì ai piccoli idioti delle montagne? Senza un avvenire in prospettiva, mi manca anche il coraggio di studiare. Per lavorare bisogna avere una meta, ogni studio ha bisogno di un fomite. Quivi non posso sperare nessuna risorsa, nessun compenso alle mie fatiche.

Volendo evitare ogni allusione al passato, mostrai d'attribuire al mio esilio il solo scopo di mettere in assetto l'amministrazione rurale della piccola proprietà, e quello d'acquistare un titolo in qualità di maestro, incominciando l'insegnamento dal primo scalino, e proseguii:

— Ora, avendo restaurata la casa, diventa più facile affittare vantaggiosamente la terra; io ho fatto le prime prove nell'istruzione, e posso aspirare ad un posto superiore. Quivi io non istudio, non imparo, sono lontano dai superiori e dalle occasioni di farmi onore; mi avvilisco, mi scoraggio, non vivo, ma vegeto!...

Mio zio mi ascoltava tacendo. Il suo silenzio mi urtava i nervi, i nervi agitati fanno dire delle bestialità, ed io venni alla conclusione seguente:

— Vuol dire che oziando, passeggiando e fumando il sigaro, aspetterò un migliore avvenire dalla Provvidenza!

Non so se sia stata l'assurdità della frase o la Provvidenza invocata che abbia scosso mio zio; ma il fatto sta che si scosse.

Certo era assurdo che la Provvidenza fosse tanto improvvida da proteggere un ozioso che ne aspettava i benefizii passeggiando e fumando; e mio zio, che per me rappresentava la Provvidenza, se ne commosse.

— Hai torto di sragionare, — mi disse, — e di non apparecchiarti una strada collo studio e la coltura, ma hai ragione di desiderare una sorte migliore, e ti prometto che intendo occuparmene e soddisfarti. Puoi credere quanto mi deva esser caro il tuo ritorno a Milano, non avendo altri parenti vicini, che possano tenermi compagnia e sostenere la mia vecchiaia. Abbi un po' di pazienza, non bisogna precipitare, ma al mio ritorno mi darò premura di soddisfare i tuoi voti, e di trovarti un collocamento a Milano, che ti permetta di farti conoscere.

Tale promessa mi ridava la vita; m'alzai, presi la mano di mio zio, la copersi di baci, la bagnai di lagrime. Il pensiero di ritornare nella mia cameretta di Milano m'aveva esaltato. Accorgendomi però che mio zio mi guardava con qualche sorpresa, procurai di calmare il mio soverchio entusiasmo per non destare sospetti, e poco dopo cambiai discorso.

L'ora del pranzo era quella delle ciarle, delle confidenze, e dell'espansioni. All'indomani mio zio mi raccontava le novità di Milano, mi rendeva conto degli amici, dei conoscenti, dei vicini.

— A proposito, — diss'io con aria indifferente, — come va il matrimonio della contessa Savina?

Mio zio mi guardò in faccia prima di rispondere. Io affettai una tale bonarietà che dovette ispirargli fiducia, ed egli un po' esitante rispose:

— Veramente.... se devo dire il vero.... non va troppo bene.

— È dunque un matrimonio infelice?

— Non dico questo.... ma non è troppo felice.

— Così presto!... — io esclamai. Poi volendo dissimulare la mia sorpresa e l'emozione, mi versai da bere; procurai di mostrarmi freddo e distratto, lasciai passare qualche tempo, cacciando giù un boccone per forza, poi soggiunsi:

— Se non m'inganno, mi pareva che la contessa Savina avesse sposato un signore....

— Sicuro, ha sposato un signore della più alta nobiltà, molto ricco, ma scialacquatore.... un vizioso, un donnaiuolo, un beone.... un cattivo soggetto.

— Diamine!... come mai ha potuto innamorarsi d'un tal personaggio?

— Innamorarsi, — disse mio zio, chiudendo gli occhi ed alzando le spalle, — sai bene che i gran signori si maritano senza conoscersi, guardano al nome ed alle sostanze e basta. Il conte Azzone di Montegaldo aveva tutte le qualità richieste per fare un eccellente matrimonio. Appartiene a famiglia ricchissima e d'antica nobiltà, ed avrebbe potuto scegliere fra i migliori partiti; ma non ci pensava nemmeno, vivendo gran parte dell'anno a Parigi, ove si dice che tenesse una famiglia.... illegittima. Sembra che gravi perdite al giuoco lo abbiano costretto a cercare una dote, non essendogli possibile di trovare del denaro sugli stabili coperti da ipoteche. Col suo matrimonio ha potuto pel momento riacquistare il credito e chiudere le breccie.

Meno male se avesse fatto giudizio, ma si pretende a Milano ch'egli continui la tresca, e non abbia abbandonato il giuoco, nè gli stravizii. Intanto la povera moglie oltraggiata paga le spese.

— È un'infamia!... — io gridai; — questo non è un matrimonio, ma è piuttosto la prostituzione legale della donna!... Se le leggi fossero giuste per tutti, il conte di Montegaldo dovrebbe essere condannato all'ergastolo, come coloro che tradiscono la buona fede e l'innocenza!... come i ladri.... come i frodatori.... come i sacrileghi.... — e non sapendo più frenare la mia esaltazione, fuori di me dalla indignazione, acciecato dalla collera, diedi un pugno così potente sulla tavola, che feci saltare le stoviglie, le posate, i bicchieri, e ruppi una bottiglia inondando la mensa di vino.

Mio zio rimase sbalordito, la Rosa accorse al rumore, io abbassai il capo confuso e pentito della mia escandescenza.

Cercai ogni argomento possibile per giustificare tale esaltazione, ma era troppo tardi. Mio zio aveva aperto gli occhi, e mi leggeva nel cuore; io non dovevo più sperare sulle sue prestazioni per farmi ritornare a Milano. Tutto era perduto!... Io conoscevo troppo gli scrupoli di mio zio per poter dubitare un solo istante della sua risoluzione. Certo egli mi condannava all'esilio perpetuo per salvarmi dai pericoli, e per non portare sulla coscienza il rimorso d'aver contribuito a facilitare un amore colpevole.

Io non potevo più contare che sopra me stesso, e il pensiero della infelicità di colei che mi stava fissa nel cuore mi dava tanto coraggio da tentare la mia emancipazione, ad ogni costo, senza il soccorso di nessuno. Quando si è giovani ed innamorati tutto sembra facile; guardando alla meta lontana non si prevedono gli ostacoli, l'amore è cosa troppo elevata e sublime per occuparsi del denaro necessario ad ogni impresa; e dopo pranzo, collo stomaco soddisfatto, non si pensa che bisogna desinare ogni giorno.

Ho passato una notte d'inferno, raggirandomi smanioso nel letto senza trovare riposo. Io vedevo la contessa Savina infelice, derelitta, immersa nelle lagrime, e pensavo al modo di vendicarla, di consolarla. La nostra santa affezione, inspirata dalla naturale simpatia, ci avrebbe resi felici in tutte le condizioni della vita. Le ricchezze erano la prima cagione della sua infelicità, come la miseria era il solo ostacolo che mi tenesse lontano da lei. Se fossi ricco! io pensavo, andrei a stabilirmi a Milano, troverei una finestra dirimpetto al palazzo Montegaldo, e un bel giorno le comparirei davanti come al tempo felice che dalla casa di mio zio stavo in adorazione davanti al palazzo Brisnago. Ma cambiate le circostanze, e avendo imparato dall'esperienza a che giovi l'amor platonico, questa volta il nostro amore prenderebbe un'altro indirizzo... questa volta, se non rispondesse al primo bacio, non vorrei disertare dal posto senza aver tentato il secondo.... e il terzo.... e il quarto.... ed avrei parole e mezzi per ottenere sicuro il bacio della contessa Savina, quel bacio che certo non vorrebbe negarmi, del quale io prelibo la voluttà.... come l'Arabo assetato fra le aride sabbie del deserto quando pensa alla fresca fontana dell'oasi.

Con tali pensieri m'addormentai verso il mattino; all'ora che il crepuscolo apporta un po' di calma a chi ha passato la notte agitata. Dapprima divagai in sonni confusi, poi mi parve di vedere chiaramente la contessa Savina ad una finestra bassa d'un palazzo in una strada deserta. Io la contemplavo assorto in estasi, quando mi fe' cenno d'avvicinarmi. Giunto sotto al balcone, le mandai un lungo bacio amoroso. Essa mi guardò con un mesto sorriso e scomparve. Io rimasi estatico al mio posto, non so quanto tempo, senza perdere la speranza di rivederla.

Essa ricomparve, vestita di bianco, pallida, come una fidanzata che aspetta lo sposo per recarsi alla cerimonia nuziale. Io congiunsi le mani in atto di preghiera, essa mi guardava fisso, e pareva che mi dicesse: t'aspetto.

Le feci cenno che sarei ritornato, e andai non so dove a prendere una scala di corda. La scala aveva da un lato due ganci, che gettai sul balcone. La contessa Savina non si prestò, nè si oppose; essa aspettava sempre pallida e immobile. Io tremavo come una foglia, la scala era assicurata, ed io incominciai a salire. Ad ogni scalino che mi avvicinava al balcone distinguevo più chiaramente i lineamenti della contessa. I suoi occhi leggiadri mi guardavano con affettuosa espressione, le sue labbra si atteggiavano ad un mesto sorriso.... ed io salivo sempre. Le giunsi tanto vicino che vidi il suo seno agitato dai moti violenti del cuore... stavo per afferrare la meta, quando d'un tratto si ruppe la corda ed io precipitai nella strada.

Il colpo violento mi risvegliò. Volli dormire nuovamente per riprendere il filo del sogno.... impossibile!... Perfino il sonno si rifiutava alla mia felicità!...

M'alzai conturbato. Mio zio, vedendomi sofferente, s'accorse che avevo passata una cattiva notte.

— Povero Daniele!... — mi disse con affezione, — tu pensi sempre alla contessa Savina!...

— Nemmeno in sogno!... — gli risposi, temendo quasi che potesse scoprire i misteri della notte, e soggiunsi: — Tutto è finito.

— Finito di sicuro, — osservò mio zio, al quale premeva togliermi ogni speranza; — finito per varii motivi: primo, perchè bene o male maritata essa appartiene per sempre a suo marito; secondo, perchè è donna onesta e virtuosa fino allo scrupolo, e questo te lo diranno tutti; terzo, perchè se la natura ti aveva spinto verso di lei con tanta violenza, vuole onestà che tu faccia ogni sforzo per starle lontano, evitando ogni pericolo che possa aggravare la sua infelicità, e renderti colpevole di maggiori sventure.

— Le ripeto che non ci penso nemmeno, — risposi, — e che anche se fossi tanto pazzo da pensarci, credo di essere un galantuomo, e di non aver mai fatto dubitare della mia condotta.

Lo zio si mostrò soddisfatto della mia dichiarazione, ma io credo che egli realmente prestasse poca fede alle mie parole, come io stesso non era convinto che fra me e la contessa Savina tutto fosse finito.

XVI.

Il giorno seguente mio zio partiva pei bagni, lasciandomi travedere d'aver modificato le sue idee sul mio conto, mostrandosi sempre meno propenso a favorire il mio ritorno a Milano, e sempre più convinto che la ferita che aveva colpito il mio cuore non fosse ancora perfettamente cicatrizzata. Io cercavo di persuaderlo della mia completa guarigione, ma egli mi ascoltava con diffidenza implacabile, dimenando la testa in segno di dubbio, ed atteggiando le labbra ad uno spietato sorriso. Non desidero a nessuno d'aver per giudice negli affari d'amore un canonico.

Dopo la partenza di mio zio incominciai a mulinare mille progetti, uno più assurdo dell'altro. L'amore eccita l'immaginazione come le bevande alcooliche, e suscita la pazzia. Ma ogni pazzia ha i suoi lucidi intervalli, e quelli sono i peggiori momenti; infatti la ragione che entra in un cervello malato produce l'effetto d'un raggio di sole che entra negli occhi di chi soffre d'oftalmia. Nei momenti d'esaltazione ero felice. Pensavo che un giovane coraggioso trova mille strade aperte per far fortuna; basta muoversi, cercare, abbandonare la squallida solitudine per gettarsi nella folla e nell'onda sociale. Maledetta la bonaccia! essa tiene sempre immobile allo stesso posto, e lascia morire di fame. Nella tempesta sono le grandi emozioni. La burrasca sommerge o getta i naufraghi sulla spiaggia. Nel primo caso è finita presto ogni pena, nel secondo si va a rompersi le ossa sopra uno scoglio o si arriva in un'isola. Meglio morire sopra uno scoglio che in bonaccia; la morte più rapida è la migliore. L'isola potrebbe essere abitata dai cannibali, ma la cosa è incerta; in ogni caso è sicuro che in società chi non mangia sarà mangiato, e quindi un povero diavolo non perde nulla cadendo nell'isola dei cannibali.... Ma se fosse un'isola fortunata, gioconda, aurifera, piena di tesori? Allora si conquista l'isola, si uccidono gli abitanti, e si ritorna al paese ricoperti di gloria e di ricchezze!... Le ricchezze sono la potenza universale; colle ricchezze si ottiene ogni cosa.... Io ritornerò a Milano in carrozza a quattro cavalli, diventerò l'amico del conte di Montegaldo, giuocherò i miei tesori per ottenere d'essere presentato a sua moglie. Diventerò l'amico di casa, quello che gode piena fiducia.... e potrò fuggire colla contessa Savina, fuggire lontano dall'Europa corrotta, lontano da questa vecchia ed inferma società che vaneggia inutilmente per legalizzare i suoi disordini, per riparare le sue miserie, per trovare il bandolo di tante matasse!

Fuggiremo in un'isola di meravigliosa bellezza e fecondità come Taiti o Madera, ridente come il golfo di Napoli.... rinnoveremo la storia del Paradiso terrestre.... senza il serpente!

Tali erano le fantasie del mio cervello esaltato.... i momenti migliori della mia vita!... un po' di poesia fra la prosa di tante volgari realtà.

Nè certo sarei andato a cercare il dottore Canziani per farmi guarire colle sue droghe del solo bene che m'era conceduto.... i miei sogni!

Gli uomini gravi diranno che tali pensieri erano divagazioni d'un pazzo, io li credo invece l'unico conforto d'un infelice. Ma gli uomini gravi non sono talvolta che vecchi panciuti e barbogi che si dimenticano d'essere stati giovani leggeri. — Eppure ogni zucca ha avuto il suo fiore!

Ciò che generalmente si chiama la ragione mi riconduceva pur troppo alla vita positiva... al realismo. Allora svanivano le ridenti fantasie. Povere fantasie giovanili!... che ci dipingono la vita più bella del vero, che ci fanno sperare supreme felicità non esistenti sulla terra, che ci lasciano credere alla gloria, all'amore, alla poesia, a tutte le nobili aspirazioni!... E poi, più tardi, s'impara che la vita si compone d'un'altra pasta!...

Sogni vaporosi, nel mondo letterario non siete più di moda!... L'arte ha le sue vicende come tutti i capricci della vita esterna. Ora all'ideale succede il realismo, che non è il naturale ma l'evidente, l'uomo esterno a piedi o a cavallo, in ufficio, a tavola, in letto; la donna coi capelli posticci, i talloni alti, e le maniche larghe. Il positivo in tutto. Ma come si fa quando in vita domina il negativo, quando il tessuto d'una esistenza si compone con trame d'illusioni e con ordito di sogni?... Per me la vita ideale, intima, invisibile fu tutto; il positivo nulla. Lo so che sopprimendo il sentimento e il pensiero riuscirei un fantoccio alla moda.... ma io preferisco comparire un uomo alla vecchia, intiero e completo, aspettando che il mondo sazio di racconti materiali ritorni a gustare le peripezie dell'anima umana.

Tuttavia, se avessi voluto seguire l'andazzo dell'arte moderna, non mi sarebbe mancato il realismo!... Pur troppo!... e la Rosa me lo rammentava ogni volta che la vita dell'anima me lo facea dimenticare.

Il realismo!... per me consisteva nel riscuotere mensilmente il modico stipendio, che unito al ricavo delle patate, delle castagne e dei fagiuoli mi serviva a pagare la farina al mugnaio, le polizze ordinarie del beccaio e del pizzicagnolo, e le straordinarie del calzolaio e del sarto.

Insegnare l'abbicì a idioti impuberi, e far di cappello a idioti virili, vivere e conversare coi montanari maliziosi, cogli artigiani furbi e viziosi, barcamenando cogli ambiziosi, gli astuti, gl'ipocriti d'ogni condizione, lottando contro l'egoismo di tutti, privandomi spesso del necessario, dimostrando di godere il superfluo per non umiliarmi cogli avversi e non incomodare gli amici, restringendo infine i bisogni numerosi e le idee infinite alla smilza figura del borsello: ecco il realismo!... Ciascheduno ha il suo, dal villaggio alla borgata, dalla città alla capitale; soltanto le passioni, i vizii e i delitti crescono in proporzioni relative al numero degli abitanti, e si complicano in ragione diretta della coltura. La rappresentazione letteraria di tali complicazioni è una moda rifritta come tutte le altre; nulla è nuovo sotto al sole; soltanto, quando il buono, il bello e il semplice divengono stucchevoli pel lungo uso, si cerca la novità nel turpe, nel brutto, nel complesso, e il mondo se ne compiace. Gli ottimi modelli non sono d'ostacolo al traviamento. Bernini scolpisce gli svolazzi barocchi delle sue statue presso le Veneri greche e il Mosè di Michelangelo. Dopo l'Ariosto il Marini, dopo gli oratori vengono gli Accademici, dopo le guerre l'Arcadia.

Io non intendo appartenere a nessuna scuola, a nessun sistema; io seguo l'istinto che mi spinge a rivelare schiettamente le mie passioni, a raccontare con pari ingenuità le avventure e i pensieri della mia vita. Ritorno dunque ai miei sogni.

Essi svanivano sovente al tocco della realtà, ma mi restava sempre un granello di speranza, come una semente pronta a germogliare in condizioni favorevoli.

All'uragano che mi sconvolse colla prima notizia del matrimonio della contessa Savina era succeduto quel freddo che segue la grandine. Poi le mie illusioni erano cadute come le foglie d'autunno, e l'inverno m'era penetrato nell'anima.

Quando le neve ricopre il terreno si crede che la natura sia morta, ma alle brezze della primavera i germi assopiti si sviluppano ed una nuova vegetazione incomincia.

Il racconto di mio zio, che mi svelò l'infelicità di quel matrimonio e le condizioni funeste che amareggiavano l'esistenza della sposa, mi fece l'effetto delle meteore d'aprile, che si risolvono in pioggia feconda, e risvegliano la natura. Sentii il sangue scorrermi più rapido nelle vene, agitando le mie speranze che rigermogliavano ai tepori del cuore.... Confesso che tali speranze erano colpevoli; secondo i principii sociali, la società condanna ogni violazione della proprietà; ma se la legge esaminasse a fondo i titoli d'ogni diritto, scoprirebbe sovente che esso ha per base l'usurpazione fraudolenta, l'inganno od il furto. Io premeditavo di rubare al ladro l'oggetto involato, e la natura m'avrebbe assolto, perchè essa riconosce soltanto il diritto di reciproco consenso, libero da ogni pressione sociale.

Meno male per la società che ci stava di mezzo un canonico, deciso di difendere ad ogni costo i diritti ecclesiastici e civili riconoscendo la legalità dei fatti compiuti.... e tanto peggio per me!...

Mentre con tali argomenti io andava fantasticando in balìa del più sfrenato idealismo, mio zio, in preda del più crudo realismo, si cavava le calze rosse, spogliava le vesti sinodali ed anche quelle che vi stanno sotto, e libero d'ogni indumento ecclesiastico e civile, ridotto in costume adamitico, entrava in un bagno d'acqua minerale di Bormio. Così, deplorando altamente le mie inclinazioni naturali e volendomi schiavo dei doveri sociali, egli abbandonava ogni scrupolo, deponeva le sacre vesti sacerdotali e ritornava in seno della natura per riacquistare la perduta salute.

Ma è lecito invocare le Najadi e non Cupido!... Realismo incompleto.... Mio zio tuffandosi nelle onde salutari colla voluttà d'un pagano, restava teologo per congiurare contro un povero nipote, giudicandolo gravemente affetto da un male clandestino dei più perniciosi, condannandolo ad espiare colla deportazione colpe non perpetrate, e facendo dipendere un'intiera esistenza da un amore tacito, ignoto, inoffensivo, innocente!

Tale era mio zio!... inflessibile come il destino, uomo eccellente nel fondo, ma canonico fino al midollo!...

Al suo ritorno dai bagni mi significò il decreto d'esilio da Milano, e il domicilio coatto in Valtellina. Nessun ragionamento, nessuna promessa valsero a smuoverlo dal suo crudele proposito. Era una sentenza inappellabile. A questa condizione soltanto mi assicurò del suo affetto e della sua protezione, minacciandomi di completo abbandono qualora avessi osato emanciparmi.

In tale circostanza ho imparato a conoscere la libertà. Essa venne definita in maniere diverse; io offro la mia definizione per quello che può valere.

Eccola: — La libertà è un filtro composto d'oro e salute. Con tal filtro, l'uomo è libero in qualunque paese del mondo, senza questo filtro può credere di esser libero, ma tenta invano di muoversi. Taluno grida, si agita, combatte e rovescia un governo dispotico per conquistare la libertà, poi dopo di aver fondata la repubblica, mancando d'oro o di salute si trova più schiavo di prima. Che cosa deve fare allora?... La sola cosa possibile: abbassare il capo e rassegnarsi al destino! È quello che ho fatto io stesso, non potendo fare altrimenti.

Mio zio, volendo in qualche modo ricompensare la mia obbedienza, mi regalò una piccola somma per far fronte ai bisogni del verno vicino, colla quale ho potuto pagare i miei debiti, vestirmi, e comperare un orologio migliore di quello che avevo perduto al giuoco nella notte memorabile che Bacco mi precipitò nelle braccia di Morfeo, senza concedermi il tempo di raggiungere il letto.

E il buon canonico accompagnò il dono con un predicozzo, che mi trovava favorevolmente disposto dall'argomento dell'esordio.

— Daniele, — mi disse, — se questo denaro non bastasse a procacciarti il benessere d'una vita agiata, non aver riguardo di scrivermi, sono disposto a fare maggiori sacrifizii, compatibilmente al mio stato, pur di vederti felice, nei limiti delle cose lecite e oneste. Procura di star sano ed allegro, cerca le distrazioni permesse, e fa ogni sforzo per correggere il tuo carattere capriccioso, leggero, eccitabile, fantastico.... e cocciuto nel voler l'impossibile. Avvezzati a prendere il mondo come sta; Dio l'ha creato così ne' suoi imperscrutabili disegni, e gli uomini si travagliano invano per riformarlo: l'uomo è impotente a modificare l'opera di Dio! Cammina dritto per la tua strada, non desiderare nè la roba nè la donna d'altri, non fidarti al prestigio del frutto proibito che ha perduto i nostri progenitori, contentati di quello che puoi raggiungere senza sforzi, nè frode, nè violenza, nè colpa. Chi esce dalla propria via per gettarsi nelle avventure non trova che precipizi. Domina le tue passioni colla ragione, non chiuderle in seno come una mina pericolosa. Non essere ambizioso, non aspirare alla conquista del vello d'oro; credi alla mia vecchia esperienza, tutto è vanità sulla terra.... vanità delle vanità!... Infine dei conti i piaceri leciti sono i migliori: una stanza calda l'inverno e fresca l'estate, un buon letto, una buona cucina, una cantina ben fornita, vivere nella calma onestà, guidati sempre dalla coscienza tranquilla.... —

Discorsi da canonico!... Io diceva fra me, ascoltandolo con rispettosa attenzione. Lo ringraziai del dono e delle offerte, e gli promisi di fare il possibile per contentarlo. Ma io vedevo la vita proprio tutto il contrario di lui. Questione di lenti!... Io guardavo le cose attraverso la gioventù, ed egli attraverso la vecchiaia.

Essendo il tempo delle vacanze autunnali, m'offersi di accompagnarlo fino a Como; ma egli non volle accettare la mia compagnia che fino a Colico; e giunti colà, mi diede un abbraccio cordiale e mi obbligò a retrocedere. M'avvidi che entrambi avevamo pensato agli incontri fortuiti sui battelli a vapore del lago nella stagione d'autunno. Colla differenza però ch'egli diceva:

— Guai!... — ed io.... — Magari!...

Rifacendo la strada pensavo alle delizie che il mondo m'offriva, ed alle misere condizioni che mi obbligavano a rinunziarvi. Io avevo le ali.... come i polli, che la natura ha forniti di questi organi che potrebbero innalzarli al disopra dell'uomo, ed essi si lasciano prendere bonariamente, e mettere allo spiedo!

Sentivo dentro di me un bollore di sensazioni diverse, mille desiderii confusi, aspirazioni e bisogni contrari, e dovevo rinunziare ad ogni cosa.

Amori sublimi ed eterei.... amplessi positivi e terreni, idealismo e realismo.... contessa e mugnaia, tutto m'era interdetto.

La prima era troppo alta.... la seconda troppo bassa!... e così la sorte mi condannava a girare intorno al mio asse, sempre ad eguale distanza dal sole e dalla luna, perduto negli abissi dell'universo come un bolide.

Venni assalito da una profonda melanconia, che si alzava nel mio animo come la nebbia d'autunno che ci asconde gli oggetti. La vita ha bisogno d'uno scopo; vivere per vivere è la cosa più sciocca del mondo.

Andavo vagando colle mani in tasca, il sigaro in bocca, il cappello da una banda, e il naso in aria, aspettando che cadesse qualche cosa dal cielo per rompere la monotonia della mia vita.

E dopo una lunga aspettativa cadde, finalmente.... la neve.

Di tutte le cose che si attendono, le sole che non mancano mai all'appuntamento sono le stagioni. Il mondo gira colla scrupolosa precisione di mio zio canonico, ed entrambi hanno il segreto di trovare la varietà nella monotonia.

Le disgrazie non vengono mai sole, e quando giunse la neve a chiudere gli armenti nelle stalle, io dovetti aprire la scuola per accogliere i miei scolari.

La neve e la scuola mi privarono dei passeggi, grave inconveniente, perchè le gambe che camminano giovano assai ad un cervello che trotta, e quando sono costrette a fermarsi, nasce un disquilibrio: la mente si affatica e il corpo riposa, e da tale sconcerto di funzioni fisiche e morali nasce come naturale conseguenza la noia, la malinconia, la paturna, lo spleen degl'Inglesi.

Dopo la lezione mi chiudevo nello studio, aprivo un libro, ma guardavo fuori dalle finestre leggendo in aria tutto quello che sta scritto nel firmamento, nelle meteore, nello spazio, nel tempo. La solitudine, il silenzio, il cielo nuvoloso, la terra ricoperta dalla neve, come feretro d'una fanciulla del candido tappeto simbolico, portavano i miei pensieri alle più tetre considerazioni. Meditavo sulla morte della natura, e sulla probabilità d'una prossima fine del mondo, quando la Rosa mi consegnò una lettera di mio zio che mi annunziava il parto felice della contessa Savina, che aveva dato alla luce un bel maschio. Ecco ancora il realismo!... Il mondo non era disposto a finirla. — « Il nobile neonato, mi scriveva mio zio, promette meraviglie, poichè appena venuto al mondo ha assunto le funzioni di giudice conciliatore. » Credevo che mio zio diventasse matto, ma invece faceva lo spiritoso, continuando in questi termini: « Infatti bastò la sola comparsa di questo rampollo per far sparire ogni dissenso fra gli sposi, che dimenticate le passate discordie, si sono riconciliati nella gioia del grande avvenimento. Vi furono splendide feste, rinfreschi, confetti, e un codazzo di carrozze alla porta. » E qui con un lirismo declamatorio, mio zio mi andava annoverando le consolazioni materne che compensano largamente le pene d'una moglie onesta, la nobile missione di allevare un figlio che porti con onore il nome illustre, e contribuisca coll'avito censo al lustro della casa e al decoro della patria.

Il parto della contessa aveva messo in vena mio zio canonico, che s'era sgravato alla sua volta di tutti i luoghi comuni accumulati da tanti anni nel suo cervello dai quaresimali del Duomo, accompagnati da uno scialacquo di rettorica. La sua lettera era tutta ingemmata di dilemmi, sillogismi, metafore, tropi, pleonasmi ed iperboli, e tutto questo lusso di figure per persuadere un nipote spiantato ad abbandonare ogni più lontana velleità di affezione verso una contessa milionaria, moglie d'un dissoluto, convertito a miglior vita in virtù d'un giudice conciliatore neonato!... Egli si diffondeva prolissamente sulla deplorabile insania di chi spera nella colpa, sulla atrocità degli attentati alla pace e all'onore delle famiglie, sulla imperdonabile depravazione di chi aspira alla donna degli altri!... e conchiudeva: « Fortunata la contessa Savina d'aver ottenuto dalla Provvidenza il dono prezioso d'un figlio che la consola di ogni amarezza, riconduce il marito al focolare abbandonato, rende la famiglia completa, e la difende dai pericoli e dalle tentazioni del diavolo. »

Presi in mano la penna, per confutare la lettera di mio zio scrissi d'un fiato dieci pagine assurde, piene di sarcasmi, di cinismo, d'invettive, di bestemmie contro l'amore e il matrimonio, la fede e la virtù, i neonati e la rettorica, le donne, i canonici e il diavolo. Poi le rilessi, le lacerai, e gettandole sul fuoco accesi il sigaro, e mi misi a correre sulla montagna attraverso la neve. Il freddo a sei gradi sotto zero mi riuscì sempre giovevole come calmante dell'amore e della collera. L'aggiunta di qualche bicchiere di vino scelto ha contribuito vantaggiosamente ad ottenere l'effetto. Il ghiaccio ed il vino, cioè l'antitesi, mi riesce l'antidoto degli eccessi. L'esperienza m'aveva insegnato la dose, limitandomi all'uso, e schivando l'abuso, lasciandomi il convincimento che una bottiglia di vino buono sia un farmaco eccellente contro i dolori morali. Con tale sistema non sono morto disperato, e all'indomani d'una batosta stavo ancora in piedi. Chi sa quante vittime del suicidio avrebbero rinunziato al progetto di togliersi la vita, se invece di due pistole si fossero trovate nelle mani due bottiglie!

Confesso che il matrimonio dapprima, e poi il parto della contessa Savina mi gettarono due volte alla disperazione, eppure io non avevo diritto di sperare nè al suo celibato nè alla sua sterilità; essa non poteva nè correre in Valtellina a chiedermi il favore di divenire mia sposa, nè una volta maritata rimaner senza figli; quello che era succeduto doveva naturalmente succedere; ma l'uomo si dispera sovente non solo di ciò che succede d'impreveduto, bensì dei fatti naturali o sociali che stanno nell'ordine delle cose. Chi giuoca si dispera di perdere!... e quanto più siamo fantastici, tanto più dobbiamo aspettarci di soffrire, perchè oltre alle perdite positive, che sono pur tante, avremo anche a deplorare la scomparsa delle illusioni, delle chimere e dei sogni.

Ma la speranza è un fiore bizzarro della vita, che sovente si pasce di vento, eppur vive e ci consola col suo olezzo; simile a certe orchidee delle regioni tropicali, le quali, appese in panierini nelle serre, si nutrono d'aria e di vapori, e tuttavia vegetano rigogliose e producono fiori stupendi, ed esalano soavi profumi. Mio zio coll'uragano della sua rettorica aveva tentato di schiantare la mia orchidea, ma il cuore l'aveva assicurata contro i danni della grandine, ed essa viveva ancora.... quantunque appesa ad un filo....

XVII.

Il tempo, la lontananza, il soffio continuo dei gelidi aquiloni del polo, rappresentati dalle lettere di mio zio canonico, il quale coglieva ogni occasione favorevole per gettarmi una doccia d'acqua fredda sul dorso, finirono collo spegnere quasi intieramente la fiamma che mi abbruciava fino dai primi giorni della mia gioventù. Io contemplavo con tristezza le ultime faville che salivano al cielo, pensando che, spenta la fiamma, manca la luce e il calore e non resta che fumo, cenere e carboni.

Dentro di me sentivo il vuoto, di fuori vedevo buio, la vita mi sembrava un viaggio notturno in globo areostatico, sotto un velo di nuvole che copriva le stelle. Con tali disposizioni entravo nella stagione d'inverno.

Un dopo pranzo mi riscaldavo al fuoco del mio focolare deserto, quando udii che picchiavano all'uscio. La Rosa corse ad aprire e mi apportò un viglietto. L'Agata m'invitava a nome de' suoi genitori a passare il Natale con loro, e aggiungeva che c'era un posto anche per la Rosa, fra la Menica e Martino, quel giorno nessuno dovendo star solo. Bitto non aveva bisogno d'essere invitato, avendo sempre conservata la sua abitudine di pranzare in casa Bruni. Tale invito era un omaggio alla scuola rurale, rappresentata dalla mia piccola famiglia colla triade del maestro, la donna ed il cane: cioè la mente ed il cuore che insegnano.... e la bestia che ascolta. Era qualche tempo che non passavo un'intiera giornata in quella eccellente famiglia, e il giorno di Natale entrai in casa Bruni con l'animo lieto e riconoscente dalla costante e cortese amicizia. Essi mi accolsero come un fratello, con cordiale domestichezza, scambiando i più sinceri auguri di felicità per il vicino capo d'anno.

Li trovai tutti seduti intorno al fuoco, e si restrinsero per farmi posto.

— Così mi piace il focolare, — io dissi, — circondato da parenti ed amici, non deserto come il mio.

Il ceppo e i tizzoni ardevano crepitando, mentre girava nello spiedo il più grasso tacchino delle stie. La pace spirava da tutti quei volti, e la serenità predisponeva al buon umore.

Il signor Nicola si burlava di Martino, il quale non osava appressarsi al fuoco per timore che le scintille prodotte dallo scoppiettare della legna gli abbruciassero l'abito nuovo d'inverno, che dovendolo preservare dal freddo, lo obbligava intanto a star lontano dal caldo. Dunque lo scopo de' suoi lunghi risparmi era mancato.

— Se tu avessi il vestito vecchio, — gli diceva il signor Nicola, — staresti qui vicino a noi a godere la fiammata, e invece sei schiavo del lusso!...

Martino rideva come un imbecille, perplesso nel dubbio, se dovesse andar superbo delle vesti nuove, o rimpiangere la libertà dei suoi stracci, cosicchè quando credeva d'aver raggiunto la meta delle sue aspirazioni, un rammarico impreveduto gli avvelenava la gioia. Ecco la vita!... la speranza è sovente più bella della realtà. L'orchidea quando vegeta in aria sembra un portento, ma presa in mano non è che una cipolla. Martino lo sentiva al pari di me, ma non sapeva dirlo; ed entrambi stavamo cocciuti nell'opinione, egli di conservare i suoi abiti nuovi, ed io le mie vecchie illusioni.

Eppure in quel momento la realtà poteva bastare a tutti i nostri bisogni, ed era anche bella a vedersi. Avevamo appetito e quelle esalazioni gastronomiche che ci accarezzavano l'olfatto erano larghe di promesse. Quel dolce tepore, quel crepitare del fuoco, messi a raffronto colla temperatura esterna e il desolante spettacolo dell'inverno, ci confortavano le membra. Quella luce calda che inondava la cucina, che brillava sugli alari e sui rami lucenti ond'erano ornate le pareti, rischiarava una scena d'interna felicità. Intorno a quel focolare si raccoglievano le gioie facili e positive d'una buona famiglia. In quell'ambiente calmo e sereno io mi sentivo rinascere ad una vita nuova. Come alcuni animali che, giunti ad un certo punto del loro sviluppo, mutano la pelle, così io credo che l'uomo, passato l'ardore della prima gioventù, subisca una crisi che ne modifica l'organismo. Sembra ch'io fossi giunto a quel punto, perchè sentivo di subire una trasformazione importante. Ed è forse in quell'epoca della vita che le malattie ereditarie incominciano a manifestare i loro importanti sintomi insidiosi. Difatti, a misura che mi cadevano le spoglie dell'età giovanile, mi sentivo circolare nel sangue i gusti di mio zio canonico: — l'amore della pace.... una stanza calda, una buona cucina, una cantina ben fornita.... e una buona moglie!... aggiungevo io.

Le mie aspirazioni mutavano indirizzo, l'idealismo svaporava ed incominciavo ad apprezzare i gusti moderni, a diventare seguace del realismo; e andavo rimuginando come fosse possibile di mettere insieme una famigliuola come quella che mi stava davanti: semplice, agiata, tranquilla, onesta, felice! Ripensando agli amori elevati ai quali avevo aspirato, mi ritornavano alla mente gli abiti da festa di Martino, che appena indossati gli apparecchiavano un disinganno, e dicevo fra me stesso: — Chi sa?... forse sarebbe stata la mia sorte!... e chi cade dall'alto s'ammazza. Sarebbe meglio contentarsi del poco, ma sicuro. Ora sarei contento d'una vita ragionevole, confacente ai miei casi, senza lusso nè sfarzo, senza pernici coi tartufi.... Una moglie modesta, una cucina calda, e un tacchino arrosto!... ecco i miei nuovi desiderii.

Pur troppo anche col realismo io ricadevo nei sogni... perchè per me era un sogno tutto quello che oltrepassava il valore d'un modico stipendio, e il ricavato di poca terra. La base del realismo è il denaro, quindi mancandomi la base del nuovo sistema, tornavo mio malgrado idealista.

Tuttavia per quel giorno l'arrosto non era un sogno!... e la cucina calda nemmeno... per la moglie ci penserò dopo pranzo: dissi fra me. Intanto non mi stancavo mai di contemplare quel quadro che mi stava davanti, palpitante di vita nelle persone e nelle cose; tutto si muoveva in quello spazio fortunato, dall'uomo allo spiedo, e s'udiva un lieto e confuso mormorio di voci umane e di marmitte.

E mi figuravo se fossi io il sor Nicola!... Egli mi rappresentava l'uomo felice. Riscaldato dalle fiamme della sua legna, consolato dalle emanazioni della sua cucina, amato da sua moglie, da sua figlia, circondato da' suoi amici, dissetato a tavola dai suoi vini, egli non aveva nulla a desiderare sulla terra che non fosse suo!... e tutte le cose sue cooperavano alla sua felicità.... Io non avevo nulla di mio, la casa era di mio zio, la scuola del Comune, e quando ero innamorato non era mia nemmeno la donna! nè poteva divenirla. Erano mie le noie dell'insegnamento... i miei debiti... i miei difetti... e il mio cane!... Sì, questi era proprio mio, per l'affetto scambievole che ci legava. Un cane sembra poca cosa, ma io ero più soddisfatto di dire: « il mio cane, » che certe mogli di dire « mio marito, » certi ministri « il mio ministero, » certi sovrani « il mio trono! »

— Signori, la minestra è in tavola, — annunziò la Menica.

Caddi come al solito dalle nuvole, ove mi aveva trasportato la fantasia, per recarmi al posto che mi venne destinato.

Il salottino da pranzo faceva voglia a vederlo. La tovaglia e i tovaglioli sentivano il bucato, i cristalli limpidissimi brillavano alla luce delle candele; piattini d'acciughe, di prosciutto, di butirro fresco e di sedani ornavano il servito, mentre sui palchi della credenza le frutta di tutti i colori facevano corteggio ad un magnifico panettone di Milano, che pareva pavoneggiarsi della sua obesità, fra la mostarda e il torrone, come il Figlio del cielo chinese fra i Mandarini.

Io sedevo dirimpetto al signor Nicola, fra l'Agata e la signora Giovanna; la Rosa ci serviva, mentre in cucina la Menica e Martino approntavano le vivande, e Bitto passava in rivista i piatti di ritorno aspettando la sua parte.

La trasformazione morale apparecchiata dal tempo e dai disinganni e compiuta all'aspetto della pace domestica intorno d'un focolare lautamente ornato, mi aveva eccitato l'appetito. Come il baco da seta che dopo cambiata la pelle mangia con voracità, io faceva onore al banchetto, d'accordo con mio zio, che la coscienza tranquilla ci fa sentire lo stomaco vuoto e ci predispone favorevolmente al nobile ufficio di riparare le perdite della natura.

I fumi delle vivande e del vino rendono la conversazione vivace, lo spirito pronto, l'animo espansivo ed allegro. Quell'agape fortunata fu lieta dal principio alla fine, ed io me ne ricordo i più minuti particolari, perchè segna nella mia vita un punto memorabile.

Quel giorno, cadendomi un velo dagli occhi, ho potuto scoprire ciò che prima m'era sempre sfuggito alla vista.

Conversando con l'Agata m'avvidi per la prima volta che la bionda fanciulla aveva lo sguardo d'una soavità affascinante, una luce viva illuminava la sua pupilla, azzurra e profonda come le acque d'un lago. Sentivo dentro di me la sublime emozione del cieco che ritrova la vista, l'entusiasmo di Colombo davanti una terra ignota, la soddisfazione di Galileo che scopre i tesori del cielo.

La fede illumina i credenti, io mi sentivo convertito all'adorazione... delle donne bionde! Come mai non avevo ancora veduto quelle fossette impresse dalle Grazie su quella pelle di roseo candore? Come mai m'erano sfuggiti all'ammirazione quei lineamenti delicati, quella mobilità del volto che indica tutti i moti dell'animo? Come mai non ero rimasto colpito da quel raggio penetrante che brillava nel suo sguardo?... Come potevo guardarla senza vederla, avvicinarmi a lei senza provare quel senso arcano che rivela la bellezza, sfiorare le sue vesti senza sentire un fremito al contatto della sua persona?... Misteri del magnetismo e dell'amore!... Forse le impressioni ricevute dagli occhi non sono che superficiali qualora un'immagine fissa nel cuore non permette l'ingresso a nuovi oggetti; o forse le emanazioni dell'animo offuscano la vista, come i vapori appannano i vetri?... Fatto sta che nelle mie lunghe conversazioni con l'Agata io non aveva veduto i pregi di lei, e m'era sfuggita la bellezza di quegli occhi, che finalmente mi si rivelava con grata sorpresa.

Così senza aspettare gli aliti primaverili, proprio nel mezzo del verno, il mio cuore si schiudeva in serra calda, come una pianta forzata ad arte, come la semente dei bachi messa a prova, e da tale schiudimento nasceva un nuovo amore... quel tale antropofago destinato a mangiare il suo simile... già quasi morto di fame.

Passai qualche ora deliziosa e troppo rapida, in adorazione davanti alla mia scoperta, chiudendo dentro di me le sensazioni e i pensieri tumultuosi che succedevano ai loro antecessori, coll'inevitabile scompiglio d'un cambiamento di guarigione; e prima d'incominciare una nuova lotta sentivo il bisogno di riorganizzare la truppa.

I nostri dialoghi sulle cose più comuni mi giovarono ad apparecchiare il terreno, e furono come una prefazione in prosa davanti un nuovo volume di poesia.

Parlando degli incomodi della stagione, l'Agata mi domandò:

— Come passate le sere di queste lunghe notti d'inverno?

— Nel tedio della solitudine, — io risposi, — solo col mio cane!...

— E perchè non venite da noi a farci un po' di lettura?

— Volete che venga a leggervi l' Ortolano dirozzato?

— No, no, — mi rispose ridendo, — quello dovete leggerlo voi solo, come eccitante al lavoro dei campi... come calmante di certe passioni....

— E come sonnifero, — io soggiunsi, — più potente dell'oppio!

— Quanto ne avete letto finora?

— Cinque pagine.

— Cinque pagine in più d'un anno!...

— Che volete!... non mi entra nel cervello.

— Avete dunque la testa dura?

— Sì, — risposi, — ma il cuore no....

E le piantai uno sguardo negli occhi come una lancia. Ne rimase sorpresa, confusa e ferita, perchè il sangue le salì al volto e si fece tutta rossa. Non era avvezza a quelle occhiate, abbassò le pupille, tacque per qualche istante, poi riprese il discorso.

— Vi assicuro che noi passiamo delle serate deliziose, in eccellente compagnia....

— Del dottore, del farmacista e del parroco?

— No, abbiamo abolito il tarocco; e i vecchi amici, fedeli alle loro affezioni per le carte da gioco, seguirono i re, i fanti e i cavalli, e portarono altrove le loro tende. Adesso vengono a farci qualche visita di complimento, alla sfuggita e di giorno, lasciando libera la sera alla nuova compagnia.

— Ma che razza di compagnia avete trovato al villaggio?... Forse la rustica progenie dei montanari colle loro ubbie in testa e gli zoccoli ai piedi.

— V'ingannate. Godiamo d'una scelta società. Chiusi in salotto, con la stufa ben calda, una eccellente lucerna con un cappelletto che concentra la luce sul tavolo rotondo, noi evochiamo le ombre degli uomini illustri di tutti i tempi e di tutte le nazioni. Essi compariscono e spariscono ai nostri ordini senza cerimonie. Ci raccontano i loro viaggi, la loro storia, i romanzi, le poesie, le memorie che destarono il più vivo interesse nei paesi più colti del mondo.... E le notti d'inverno ci sembrano brevi, perchè si va lontano da casa senza muoversi, e dalle steppe della Russia, dai pampas d'America, dai deserti africani si fa una scala e si trova il proprio letto.

— Benissimo!... ho pensato sovente alle delizie della lettura in comune, in condizioni gradevoli; ma anche questo diletto, come tanti altri, è rimasto per me un vano desiderio.... E che cosa leggete?

— Ve l'ho detto, ogni sorta di buoni libri... esclusi soltanto i noiosi!

— Come l' Ortolano dirozzato.

— Sicuro, perchè ci sono libri noiosi che possono tornar utili a chi li studia, ma non hanno diritto d'essere ammessi alle riunioni serali del circolo di famiglia. Essi devono limitarsi alla cattedra ed allo scrittoio dello studioso, ma per entrare in società bisogna deporre la toga dottorale, e vestire l'abito del gentiluomo, il quale si fa scrupolo d'annoiare gli amici, di far dormire le donne e i fanciulli

— E dove trovate i libri?..

— A Milano, a Firenze, a Torino, a Parigi. Ritornata dal collegio, ove una direttrice intelligente mi aveva fatto intendere che alla scuola s'impara soltanto a studiare, ma che in casa bisogna completare l'istruzione con una scelta lettura, ho voluto che mio padre mi promettesse d'introdurre nel bilancio domestico una somma annua per il pane intellettuale, necessario quanto il pane di farina. A che cosa serve la scuola, se l'educazione non continua? Forse che nei pochi anni di studio s'impara lo scibile? S'imparano appena appena gli elementi delle scienze più necessarie. Dunque la lettura è il complemento indispensabile d'una buona educazione, ed è strano che ogni famiglia non spenda ogni anno nei libri una somma proporzionata alle sue rendite. Eppure queste idee così naturali sembrarono strane a mio padre, che non aveva mai provato il bisogno di acquistare un libro, e leggeva appena un cattivo giornale... e il lunario. Essendo figlia unica e amata dai miei genitori più che non merito, mio padre accondiscese alla mia domanda, chiese ai librai i loro cataloghi, ed ogni mese acquistiamo le novità che c'interessano. Mio padre mi diceva l'altro giorno, che adesso gli sembra impossibile d'aver potuto vivere tanti anni senza libri, e senza sentirne il bisogno. La privazione dei libri sarebbe ora per lui il maggiore dei sagrifizii. La lettura serale forma la sua delizia, poi legge anche solo nella sua camera e sotto la pergola del giardino. Questo sistema è necessario per tutti, ma per chi abita la campagna è indispensabile quanto il lume a chi cammina di notte.

— Verissimo... avete sempre delle idee giuste che mi colpiscono... ed eccitano la mia ammirazione pel vostro buon senso, in età così giovanile. Ah! la lettura dei buoni libri, ecco la spiegazione dell'enigma. Ora non mi sorprenderò più udendo dalla vostra bocca opinioni, consigli, parole che non si possono intendere da certe donne mature, le quali dopo uscite di collegio non hanno letto che il giornale delle mode!... Così in un villaggio deserto voi siete più colta di molte signore cittadine, che vivono in società come i fiori in un mazzo, cioè senza sostanziale alimento, corolle variopinte sopra un fusto di fil di ferro, belle una sera al ballo e al teatro, poi all'indomani avvizzite.

Agata m'ascoltava senza falsa modestia, continuando a mostrarmi i piaceri e i vantaggi della lettura, ed eccitandomi a far parte del loro circolo delle letture serali.

— Verrò di certo, — le risposi con riconoscenza, — e sono sicuro che le notti di quest'inverno saranno per me più belle dei giorni estivi, più utili di qualunque altro studio, più care d'ogni diletto cittadino.

Mi ringraziò con uno sguardo grazioso; io corrisposi con uno sguardo affettuoso, lungo, eloquente. I nostri occhi si scontrarono, e rimasero qualche tempo come legati fra loro da una forza irresistibile.

Ed io, che in amore non conoscevo altro linguaggio che quello degli occhi, rimproveravo a me stesso di non aver mai saputo leggere, prima d'allora, in quelle vaghe pupille.

Era quasi mezzanotte quando uscii di casa Bruni colla Rosa e con Bitto.

Spirava una di quelle brezze che arrestano l'acqua delle cascate cambiandole in cristallo, eppure io non sentivo il freddo, tanto era elevata la temperatura del mio cuore.

Strada facendo la Rosa mi raccontò che Beppo stava meglio e lo aveva saputo dalla moglie di lui che era venuta durante il pranzo a prendersi un cesto apparecchiato dall'Agata, nel quale c'era del brodo, del pane, del manzo, del vino e dei dolciumi pei bimbi. Così anche il povero convalescente e la sua famiglia avranno celebrato lietamente il Natale: e i miei ospiti avevano resa completa la loro letizia con un atto benefico, non essendo che gli egoisti che possano godere del loro bene senza farne parte a chi manca di tutto. A compiere la felicità d'ogni animo bennato è necessaria la soddisfazione d'aver alleviate le pene degli infelici.

A quella buona giornata tenne dietro una notte tranquilla, e al mattino mi svegliai col dolce presagio di giorni migliori.

I miei scolari mi trovarono ilare, indulgente, e ne approfittarono subito mostrandosi indisciplinati e tumultuosi. Ma quando il cuore è contento anche le scabrosità sembrano liscie, e pare che sorridano perfino gli sberleffi.

Alla sera accorsi in casa Bruni, e ritornandovi ogni giorno non tardai ad acquistare la più cara abitudine. Se c'era gente io ne approfittava per conversare con l'Agata, se la famiglia era sola si faceva la lettura in comune.

Allora incominciai ad interessarmi a nuove ed importanti scoperte. E in primo luogo, osservando l'Agata quando rideva, vidi che schiudendo le labbra fresche come rose, mostrava due file di candidi denti, che mi parvero un portento della natura; quando un raggio di luce batteva sui suoi capelli si vedevano brillare dei riflessi dorati, come in un campo di spiche mature; quando alzava il libro per avvicinarsi alla lucerna le dita delle sue piccole mani parevano trasparenti, tanta era la delicatezza della sua pelle; quando s'alzava per prendere qualche oggetto, il suo corpo flessibile si piegava colla grazia d'un fiore agitato dalla brezza, e il suo piedino snello camminava con tale leggerezza che appena toccava il pavimento. Quando leggeva delle pagine commoventi, degli atti generosi, delle azioni che onorano l'umanità, tutti i muscoli del suo viso si atteggiavano alle emozioni dell'animo con tale espressione, che io deploravo di non essere fotografo per poter fissare sulla carta con una riproduzione istantanea quelle sfuggevoli oscillazioni dei suoi lineamenti.

Quale stupenda immagine dell'anima sensibile sotto quella pelle agitata da un delizioso movimento nervoso, da una contrazione di muscoli ravvivata da un lampo degli occhi, o stemperata in una lagrima!... Guardandola, io paragonava il suo viso a quei poemi che ci rivelano sempre nuove bellezze ad ogni lettura, e mi sorprendevo meno di non averla capita prima. Tornandomi poi alla mente tutto il suo contegno verso di me, la sua pietosa vigilanza, il buon senso, le virtù che ornavano il suo nobile carattere sotto il velo d'una apparente semplicità, lo spirito senza pretesa, l'umore uniforme e benevolo, io incominciavo a sentirmi preso da una seria ammirazione, da un affetto rispettoso, e andavo alimentando desiderii e speranze superiori alla mia povera condizione.

I Bruni non erano certo da paragonarsi ai Brisnago, non avevano nè milioni nè lusso; ma vivendo in campagna in agiata semplicità, con ordine ed economia, se la passavano egregiamente, e l'Agata, essendo figlia unica, assai bella, molto colta, e in pari tempo ottima massaia, aveva diritto di trovare un marito, se non superiore per ricchezza, almeno pari, e certo in posizione più elevata d'un povero maestro rurale, alloggiato per carità in casa d'uno zio canonico.

Questa volta il mio amore ragionava e faceva i suoi conti.

— Ahimè!... cattivo segno, — dirà taluno.

— Niente affatto... io rispondo.

L'amore fantastico a diciott'anni conduce alle stelle, l'amore ragionevole dopo i venti conduce al matrimonio. Sovente il primo non è che un sogno, un'orchidea che vegeta e fiorisce in aria, il secondo è un fatto positivo, che ha per legittima conseguenza la moltiplicazione della specie, ed entra nei dominii del realismo.

E un misero maestro rurale incaricato d'istruire gli ignoranti non deve ignorare che il suo meschino stipendio lo condanna al celibato perpetuo se non trova una moglie più ricca di lui, o che almeno si guadagni il pane. L'associazione della miseria gli viene interdetta dal buon senso, che lo consiglia a non accrescere il numero degli spiantati che ingombrano la terra per loro disgrazia e a grande noia e desolazione del corpo sociale.

Tali ragionamenti mi conducevano ad apparecchiare il mio avvenire con qualche criterio; e valutando la mia educazione come un fondo produttivo, la mia professione come una rendita, e mio zio canonico come un capitale messo a mutuo, mi pareva d'aver diritto d'esigere una dote corrispondente dalla moglie.

Ah, questa volta la mia speranza non era un'orchidea!... Io non aspiravo a voli pindarici, nè mi esponevo a precipizi. Deponevo la mia semente sulla terra e coltivandola secondo le norme dell' Ortolano dirozzato avevo motivo d'aspettarmi che germogliasse.

Che cosa nascerà?... io chiedeva a me stesso... una quercia o una carota?... Voglia il cielo salvarmi dalle risa sardoniche dei canonici.

XVIII.

Una sera, appoggiato al balcone della mia stanza, contemplavo la campagna, fantasticando sul nuovo amore e sulle nuove speranze, e pensavo all'oro dei suoi capelli, e, senza pregiudizio della passione, anche all'oro della borsa del babbo, che accompagnato ai pregi materiali e morali della figliuola poteva comporre una famigliuola felice. Mi compiacevo nell'idea d'essere finalmente riuscito a mettere d'accordo il cuore e la ragione, quando vidi passare da lontano i coniugi Bruni senza la figlia. — L'Agata sarà sola in casa, pensai subito; prendiamo l'occasione pei capelli! E corsi difilato in casa Bruni. Infatti l'Agata era sola, ma non mi ricevette più nel salotto come soleva fare in passato, e invece mi trattenne in cucina con Martino e la Menica. O perchè dunque non mi riceveva più come le altre volte, coll'intimità di un fratello?... A tale domanda, che io facevo a me stesso, rispose subito la mia coscienza: Ecco, essa mi diceva, i tuoi sguardi amorosi le hanno rivelata la tua passione. Hai perduto i diritti acquisiti, per acquistarne altri, con altro titolo ed altre condizioni.

Il concittadino che diventa pretendente esce dalla legge, deve apparecchiarsi alla corona o all'esiglio e rinunziare alla vita comune.

Mi rassegnai al mio destino, e soddisfatto del suo onesto contegno, procurai d'apparecchiarmi.... alla corona.

Per fortuna, la Menica andava e veniva senza darsi pensiero dei nostri discorsi, Martino intendeva il senso delle parole assai meno di Bitto, chè il suo dizionario non aveva che poche pagine, e per lui tutto ciò che non era volgare era arabo. Poco dopo la Menica scomparve, Martino la seguì e restammo soli. Io mi sedetti al focolare, scaldandomi le mani, parlando di cose indifferenti, e guardando l'Agata con affettuosa attenzione, mentre essa in piedi raccoglieva i tizzoni colla molle, e disegnava dei geroglifici sulla cenere.

Come era bella!... le morbide treccie le cingevano la fronte serena, come un diadema; l'occhio limpido e profondo brillava d'una luce tranquilla fra i molli contorni del volto, che colla dolcezza del sorriso rivelava la soavità del sentire. Le movenze delle sue membra snelle e flessibili non accusavano artifizi, ma una naturale mollezza le rendeva eleganti.

Confrontando i pregi di lei colla mia tempra e colla riputazione di cervello balzano confermata dai miei stravizi, mi mancava affatto il coraggio di esprimerle colle parole quello che le avevo già detto cogli occhi.

Dopo qualche esitanza, pensai che prima d'espormi con una dichiarazione imprudente era meglio mi assicurassi della sua opinione sul mio conto, e tremando per la risposta, rivoltomi a lei con uno sguardo supplichevole, la interrogai in questi termini:

— Agata... ditemi francamente che cosa pensate di me....

— Che siete un galantuomo... quantunque un poco fantastico; un uomo intelligente, quantunque poco studioso... ecco tutto.

— Riconosco la vostra indulgenza... siete buona come siete bella, vorrei aprirvi il mio cuore... dirvi che mi foste sempre simpatica... ma che da qualche tempo questa simpatia minaccia di far progressi... e di trascinarmi... Infatti temo di perdere la vostra stima... non oso sperare... nè dirvi di più.

Essa alzando gli occhi, e guardandomi in faccia apertamente, mi incoraggiò con uno sguardo che voleva dire: — Vi amo!

Io le risposi con una di quelle occhiate che non lasciano dubbio, che si leggono a prima vista anche dagli analfabeti, e che significano chiaramente: — Vi adoro!

I nostri occhi scambiarono lungamente i loro raggi, fino a tanto che io mi sentii affascinato da quella luce; essa abbassò le pupille facendosi rossa come una bella rosa di maggio. Allora, esaltato dall'entusiasmo, esclamai:

— Agata... vi ringrazio... ora sono felice!

— Felice di che cosa?... — mi chiese con un'aria che mi fece rabbrividire, — e di quale favore mi ringraziate?

Mi sentii vacillare... mi pareva di guardare nel fondo d'un precipizio... mi sentivo attratto dal vuoto... i capelli mi si drizzavano sulla fronte... Credo che essa abbia avuto paura, perchè mi posò una mano sul ginocchio, chiedendomi con inquietudine:

— Che cosa avete?

— Mi sento morire!... — risposi.

— Mio Dio!... come passate rapidamente dalla felicità... alla morte! Su via... fatevi animo... qual è il motivo di tali eccessi?

— Voi... voi sola.

— Io?... Ma che cosa vi ho fatto io?

— M'avete detto: vi amo! e poi avete finto d'ignorarlo.

— Ma io non ho mai pronunciate quelle parole!

— È vero... non me lo avete detto colle parole, ma cogli occhi... quelle possono mentire, questi non mentono mai... io so leggere negli occhi meglio che nei libri... e con essi mi avete detto: vi amo!... Potete negarlo?...

Sorrise graziosamente, rinnovò la dolce espressione degli occhi, e mi disse:

— Come siete esperto nella conoscenza del linguaggio arcano dell'anima!... lo avete dunque studiato lungamente?...

— Domanda insidiosa!... — io soggiunsi. — Risponderò sinceramente a suo tempo, ma ora m'interessa di più conchiudere la quistione che mi tiene sospeso tra la vita e la morte. Ditemi, ve ne prego: quando io ho tradotto nel linguaggio volgare l'espressione dei vostri occhi, mi sono ingannato?...

— Siete un traduttore traditore, — mi rispose ridendo.

— Ma vivaddio!... vi costa dunque tanto una spiegazione sincera? temete forse di qualche cosa?...

— Avete indovinato anche questa volta. Sì, temo mille cose. Vi sono parole che dette una volta segnano il destino della vita, e non si possono pronunziare senza esitanza. Bisogna pensarci seriamente; da una sillaba dipende talvolta la nostra sorte: sì o no, possono significare talvolta una lunga serie d'anni felici o dolorosi, è il dado gettato che decide delle gioie o delle sventure non d'una persona, ma d'una famiglia e forse d'una lunga generazione! Bisogna pensarci seriamente.

— Ma il cuore?...

— Ah il cuore!... ebbene è appunto il cuore leggiero che più pesa gravemente su tutto e su tutti!... È il cuore leggiero che si lascia trascinare troppo facilmente dalle sue inclinazioni subitanee, senza dar tempo alla mente di ponderarle, che poi trascina alle gemonie i suoi seguaci, e li precipita con sè stesso negli abissi di sventure che fanno della vita domestica un inferno... macchiano d'infamia i nomi più onorati... e talvolta spingono alla disperazione e al delitto!... Vi par facile a voi dire sì o no sulla strada da seguire nel pellegrinaggio terreno; eppure è la decisione più grave della vita!...

— Ma l'amore è cieco, — io osservai.

— Bisogna guarirlo, — mi rispose.

— Oh sta a vedere, — io soggiunsi, — che voi proponete di mandar l'amore in un istituto oftalmico, oppure all'istituto dei ciechi per fargli insegnare a leggere sulla scrittura in rilievo, e imparare un mestiere.

— Sicuro, l'amore moderno deve essere ragionevole, ponderato, prudente.

— Agata, — io esclamai, — per una ragazza siete troppo positiva.

— Vi piacerebbe meglio che fossi più fantastica?... più accessibile alle illusioni, più facile alle lusinghe... che cercassi l'uomo ideale?!...

— No, per carità, Agata... gli uomini e le donne ideali non si trovano che nei romanzi.

— Ebbene siamo dunque d'accordo: l'amore degli antichi non è più dei nostri tempi. Noi gli abbiamo tagliato le ali, è vero, ma lo abbiamo anche guarito dalla cecità. Ora egli va per la sua strada in costume moderno, e non è più pericoloso. Per questo ogni ragazza onesta può viaggiare sola e sicura attraverso l'Europa, frequentare le Università e le Accademie, rispettata da tutti. Anticamente non era così. Cupido si cacciava dovunque. Quel fanciullo colle ali e la benda agli occhi, munito d'arco, freccie e faretra, tirava a caso sui passanti, e metteva tutti in pericolo. Se lo vedete ancora ai nostri tempi raggirarsi nella società, penetrare di soppiatto nelle case coll'astuzia raffinata del contrabbandiere, dite pure francamente che è un malfattore... o un imbecille. E guai alle sue vittime!...

— Avete ragione... anche nelle affezioni bisogna dar luogo alla ragione, e mettere d'accordo il cuore e il buon senso. Io ho fatto anche questo, e offrendovi un amor cordiale e profondo, credo in pari tempo di potervi assicurare che ho consultato anche la ragione e le convenienze. A meno che voi e i vostri parenti non mi troviate troppo povero per aspirare alla vostra mano. Questo dubbio mi ritenne di manifestarvi prima d'ora la mia affezione.

— I miei genitori vi stimano e vi vogliono bene, e non intendono certo di vendermi al maggior offerente, ed io credo che veramente poveri non sieno che gli oziosi... e gl'ignoranti. Chi studia e lavora ed ha un buon capitale nel cervello, non è mai povero.

— Dunque voi non sarete contraria ai miei voti e non mi stimate indegno d'aspirare alla vostra mano?

— Solo una vaga apprensione mi arresta.... un timore indeterminato di pericoli ignoti.... di non bastare alla vostra felicità.... di non avere virtù sufficiente per fissare la vostra vita.... Ve lo confesso francamente: io non avrei la forza di sopravvivere al minimo disinganno.... Intendo offrire tutta me stessa a chi mi possa promettere altrettanto.... per la vita.... per l'eternità.... senza restrizione di sorta.... fino l'ultimo pensiero.... O tutto o niente!...

Dicendomi queste cose il suo occhio aveva assunto un'animazione straordinaria, che dava alla sua attitudine una posa decisa ed energica. Era un nuovo aspetto della sua bellezza. Fiera come una regina che impone le sue condizioni all'alleato, essa attendeva una risposta breve ed esplicita come la sua sentenza. Non la feci attendere lungamente:

— Avrete tutto!... — le risposi. — Ve lo giuro sull'anima di mia madre!...

Essa mi stese francamente la mano, dicendomi:

— Sarò vostra per la vita!

— Dunque mi amate veramente?

— Sì, vi amo....

I nostri sguardi dissero molto di più, perchè non vi sono parole in nessuna lingua per esprimere certi sentimenti dell'anima. L'eloquenza dell'amore sta nel silenzio.

Stemmo fino a notte inoltrata soli ed al buio, senza scambiare una parola. Io aveva presa una sua mano nelle mie, e un fluido arcano aveva messo in comunicazione i nostri cuori che corrispondevano fra loro.

La Menica rientrando accese il lume, Martino mise della legna sul fuoco che era quasi spento, e i signori Bruni, ritornati dalla loro escursione, ci trovarono seduti uno vicino all'altro come due colombi in un nido.

All'indomani scrissi una lunga lettera a mio zio nella quale gli svelavo il mio amore per l'Agata e il progetto di matrimonio chiedendo il suo assenso.

Non appena partita la lettera, rammentandomi il passato, incominciò a frullarmi per la testa che il lirismo delle mie frasi potesse produrre un funesto effetto sull'animo positivo di mio zio. Egli che giudicava l'amore coll'aritmetica, che alla poesia d'un primo affetto opponeva l'ostacolo dei milioni, che sfoggiava tutta la sua rettorica per dimostrarmi che un misero non ha il diritto d'ammirare la bellezza risplendente fra i fulgori della fortuna, egli avrebbe riso certamente anche questa volta della mia nuova pretesa.

Ma ov'era la mia colpa, s'io non sapevo trovare le perle negli stracci, se, attirato dalla bellezza d'un volto e dal prestigio d'un sorriso, m'imbattevo sempre nella trappola dello scrigno, senza vederlo?...

È dunque facile immaginare quale fosse la mia sorpresa quando ricevetti una lettera dello zio, che aderiva pienamente al mio piano, lodava l'ottima scelta, mi muniva d'una commendatizia pel signor Nicola, nella quale appoggiava la mia domanda con argomenti decisivi, e prometteva d'intervenire alle nozze. Però, secondo i miei presentimenti, l'aritmetica non mancava, ma questa volta i calcoli del buon zio non erano fatti per dimostrare la mia inferiorità, ma per rialzare il mio valore. Non si trattava più d'una sottrazione, ma d'una moltiplica. Vedendo la necessità d'accogliere degnamente una sposa, avvezza agli agi della vita, esso destinava immediatamente una somma per l'allestimento della casa e le spese occorrenti, e mi faceva un annuo assegno, per mettere la mia condizione economica in armonia con quella della sposa.

Questi atti generosi mi commossero fino alle lagrime e mi posero in condizioni tali da poter chiedere la mano d'Agata senza arrossire. Un padre affettuoso non avrebbe potuto fare di più, e la mia risposta fu quale doveva essere quella d'un figlio che riconosce il beneficio, e che esprime la sua gratitudine con tutta l'espansione del cuore.

L'esito della domanda formale della sposa fu quale potevo desiderarlo.

Il signor Nicola mi gettò le braccia al collo dicendomi che da quel momento mi considerava quale suo figlio, la signora Giovanna mi baciò con pari affezione, e l'Agata, che ci guardava commossa, mi parve più bella che mai; la Menica piangeva della nostra allegrezza, e Martino, incerto se dovesse ridere o piangere, restava fra le due, cogli occhi lagrimosi e la bocca ridente, come le selci delle sue montagne all'aurora d'un giorno sereno, bagnate dalla rugiada e rischiarate dal sole.

L'epoca del matrimonio venne fissata per le vacanze autunnali; allora gli sposi sarebbero liberi, lo zio avrebbe risparmiato di fare il viaggio apposta fermandosi al villaggio dopo i bagni, e intanto ci restavano alcuni mesi di tempo per mettere in assetto la casa e apparecchiare il corredo. Quell'inverno scorse rapidamente, e fu uno dei più fausti della mia vita. La felicità dell'aspettativa d'un bene assicurato è superiore alla felicità del bene conseguito, perchè alla più dolce realtà si accoppia sempre qualche piccola dose d'amarezza. L'assoluto non esiste che nel cervello.

Facevamo ogni sera lunghe letture confacenti allo stato dell'animo. Leggevamo dei romanzi nei quali la vita era una burrasca, e l'amore trovava ogni sorta d'ostacoli per giungere al suo scopo; il confronto colla tranquilla esistenza, che sorrideva ai nostri voti, accresceva il valore di quella pacifica condizione, che ci rendeva tanto facile ciò che a personaggi eroici costava sforzi inauditi.

I nostri occhi s'incontravano sovente, e mettevano i cuori in comunicazione; talvolta l'Agata poggiava leggermente il suo piede sopra il mio, e quella dolce pressione rendeva più soave l'armonia delle nostre anime, producendo l'effetto dei pedali sul pianoforte.

Al di fuori, il nostro matrimonio era divenuto il soggetto principale di tutti i discorsi. Si parlava della mia fortuna, e si diceva che il signor Nicola sacrificava l'unica figlia, concedendola in isposa ad un povero maestro. Altri rispondevano che un maestro foderato d'un canonico diventava morbido come un cuscino imbottito. Le donne citavano le mie prodezze al mulino e mettevano fuori dei cattivi pronostici; chi ricordava la notte all'osteria, il vizio del giuoco e del vino, chi mi dipingeva come uno scioperato, senz'ordine e senza giudizio, e tutti facevano le meraviglie della incredibile condiscendenza dei Bruni.

Basta avere una fortuna a questo mondo perchè gli oziosi e i malevoli si scaraventino contro di voi, vi facciano l'esame di coscienza come i giudici inquisitori, vi contino in tasca i quattrini, e vi taglino i panni indosso. Tutta invidia!... Nella pentola sociale bolle sempre l'antico intingolo delle streghe, composto di mille sozzure, ove si confondono i rospi coi serpenti, e tutte le carogne che appestano l'aria. Non c'è rimedio, bisogna lasciare che la pentola bolla senza coperchio, affinchè il vapore non si condensi e scoppii con grave pericolo.

Uguccione della Fagiuola, che era stato il primo a trascinarmi all'osteria e a mettermi in mano le carte, era il primo anche a denigrarmi ed a pungermi colla sua lingua di vipera. Egli sosteneva che tutti i canonici hanno dei nipoti che vengono rappresentati sulla cappa magna da quelle code nere che spiccano sulla pelle dell'ermellino, come tante macchie!... Colui ch'era stato il fomite principale de' miei stravizi diventava il propagatore più maligno delle contumelie. I malvagi sono sempre funesti; bisogna fuggire il loro contatto. Essi vivono nei siti uggiosi e nel fango come i funghi velenosi; e sono veramente i funghi sociali.

Uguccione coll'organo della chiesa scorticava le orecchie ai divoti, e coll'organo della sua voce cavava la pelle ai galantuomini. Esso rappresentava a perfezione la maldicenza con tutte le sue voci discordi ed abbominevoli. Invece il campanaro, venuto a cognizione del mio matrimonio, raddoppiò le sue riverenze, coll'intenzione di raddoppiare il suono dei sacri bronzi, il giorno delle nozze, a gloria ed onore degli sposi.... e della mancia che si aspettava in ricompensa del frastuono col quale assordava il paese. Esso era l'avidità in persona.

Ugolino Gonzaga si struggeva di rancore, vedendo un maestruncolo del villaggio salire più in alto di lui, che credeva di rappresentare la scienza medica colla scatola delle pillole, e non poteva rassegnarsi che il sillabario avesse soperchiato la terapeutica. Esso faceva la parte dell'invidia. Il medico censurava il possidente più ricco del paese che scendeva a stringersi in parentela con un orfano sprovveduto di censo, quando avrebbe potuto maritare la figlia a un signore.

Insomma la maldicenza, l'avidità, l'invidia, la superbia serpeggiavano nel piccolo villaggio, unitamente all'ignoranza e ai pregiudizii che ne formavano il fondo.

Nauseato di tante ciarle volgari, irritato da tante calunnie, inasprito da così malevoli insinuazioni accolte da una ciurmaglia d'idioti, io esclamava:

— La natura è bella al villaggio, ma sarebbe più gioconda se si potesse distruggere la razza malvagia degli abitanti!...

Poi ritornato in calma, e moderato dalla ragione e dal cuore, riprendevo:

— Distruggerla moralmente, come si distrugge l'ignoranza, col mezzo dell'educazione, trasformando quegli animali selvaggi in uomini ragionevoli, onesti e civili.

XIX.

Amore e sdegno risvegliarono la mia musa; il miraggio della gloria ritornò a inebbriarmi, i sogni teatrali di Milano vennero nuovamente a cullare le mie speranze, ripresi la tragedia, ispirato dalle diverse passioni che mi agitavano l'anima innamorata e sdegnosa.

Scrivevo lunghe tirate di versi da perdere il fiato, volavo all'empireo sull'ali dell'iperbole, vedevo gli uomini al basso piccini piccini che si raggiravano come formiche intorno al formicaio, e la mia elevazione mi lusingava di giungere agli astri.

Finalmente finito, corretto, messo in netto, declamato nella solitudine della mia stanza, il mio Lucchino Visconti mi parve un capolavoro. Desideroso di farne una prima prova, senza esporre il mio nome, dissi di aver ricevuto da un amico di Milano il manoscritto di una tragedia, e pregai l'Agata di fare degli inviti per darne lettura.

Per tale trattenimento letterario venne fissata una domenica, si apparecchiarono dei rinfreschi e si mandarono ad invitare i notabili del villaggio e dintorni. Tutti coloro che senza saperlo mi avevano servito di modello facevano parte del pubblico: il parroco, il medico e sua moglie, il farmacista, l'organista, il signor Nicola, e per giunta i miei colleghi del circondario, i curati delle vicine parrocchie, i cappellani, i fabbricieri, i sagrestani, i segretari comunali e i cursori.

Alla sera del giorno fissato io giunsi col mio manoscritto sotto il braccio, e trovai la società raccolta che mi attendeva con grande aspettativa. Il salotto era stato apparecchiato opportunamente, le sedie formavano un semicerchio intorno d'un tavolo coperto d'un tappeto verde, e munito d'un bicchier d'acqua e d'una lucerna. Il paralume, concentrando la luce sul manoscritto, lasciava nella penombra gli uditori, ch'io non vedevo. La lettura incominciata alle otto finì alle dieci. Tutto concentrato in me stesso io declamava con passione, con impeto, con ardore o con tenerezza secondo i casi. Alla fine d'ogni atto mi riposava pochi istanti, ed allora scoppiavano degli applausi clamorosi che raddoppiavano la mia forza.

Finita la lettura, il battere delle mani e dei piedi, le acclamazioni iterate, le esclamazioni di sorpresa, gli elogi enfatici ed entusiastici annunziarono un vero trionfo.

— È un capolavoro!... stupendo.... inarrivabile!... — dicevano in coro, — è un'opera destinata ad uno strepitoso successo.... l'autore è un genio.... altro che Alfieri!...

Incominciò il rinfresco; vini fini, pasticcerie, salumi, liquori, caffè, una gozzoviglia improvvisata, ma abbondante e saporita; tutto si consumava, tutto scompariva nelle bocche spalancate come voragini, i tavoli forniti di squisiti manicaretti restavano spogli come le campagne dopo il passaggio delle cavallette. Uguccione della Fagiuola, l'uomo più mordace del paese, non aveva il tempo da biasimare la tragedia: la maldicenza tace quando ha la bocca piena.

Calmato il primo furore dell'entusiasmo e dell'appetito, s'erano formati dei gruppi secondo le condizioni e le tendenze delle persone, chi per digerire in pace e tranquillità quanto aveva divorato, chi per sputare sentenze, chi per udire modestamente le opinioni dei giudici più competenti.

Il dottore, colla solita prosopopea, lisciandosi i capelli, alzando la testa, accomodandosi i solini, circolava pettoruto e tronfio come un diplomatico ad un ballo di corte, ascoltando le conversazioni con un sorrisetto beffardo, alzando le spalle di tempo in tempo in aria di canzonatura, con evidente desiderio d'essere invitato a dire il suo reputato parere.

Molti se ne avvidero, e finita la refezione, divorate perfino le bricciole, e tracannata fino all'ultima goccia, egli venne pregato da varie parti di presentare una critica assennata e sapiente di quel lavoro letterario, lasciando da parte le opinioni volgari ed incompetenti, pronunziando un giudizio definitivo e inappellabile. Dopo essersi fatto pregare alquanto, colle solite giustificazioni della falsa modestia, finse di cedere per cortesia al voto generale, e andò a sedersi nel centro dell'uditorio, come un professore che deve dare la sua lezione. Incominciò a soffiarsi il naso e a tabaccare con gravità, poi chiuse gli occhi e si passò una mano sulla fronte, come per raccogliere i reconditi pensieri che vagavano nelle cellule del suo cervello, e finalmente, accennando di far silenzio, diede un'occhiata all'intorno e incominciò in questi termini:

— Signore... e signori, è cosa ardua ed ardita ad un tempo il voler giudicare un lavoro importante dopo una sola audizione. Tuttavia, senza veruna pretesa, eccovi per sommi capi il mio giudizio: prima di tutto questa produzione drammatica non può dirsi tragedia, a stretto rigore di termine, e secondo le classiche tradizioni. Se gli antichi devono essere maestri, essi ci fecero vedere che ogni catastrofe che non finisca col ferro non ha diritto di vestire il coturno....

Siccome la maggior parte dell'uditorio non intendeva niente alle elucubrazioni dottrinarie del dottore, così le trovava sublimi. Per gl'idioti il sublime sta nell'ignoto. Egli continuava con sussiego magistrale:

— Il brando e il pugnale sono i soli arnesi degni degli eroi da tragedia, il veleno è cosa volgare, buono pei drammi prosaici dei teatri diurni. La tragedia vuol sangue!... sangue, non droghe!... Lucchino avvelenato fa la figura d'un marito babbeo vittima di un farmacista!...

Qui scoppiarono delle risa da varii punti della sala, il farmacista fremeva, la signora Pasquetta si dimenava sulla sedia come se fosse seduta sulle spine. Soddisfatto dell'effetto prodotto, il dottore sorrise alla sua volta, e poi riprese il discorso:

— L'intervento della farmacia mi guasta la tragedia, il decotto fa nausea, il tiranno colla colica diventa ridicolo.

Allora le risa ripresero con maggior forza di prima, e l'oratore dovette subire una lunga interruzione. Egli stesso cercava invano di frenare la ilarità che lo invadeva, e non riusciva che a singhiozzi interrotti.

Finalmente si giunse a ristabilire il silenzio ed egli riprese:

— Se il tiranno è un babbeo, suo fratello, l'arcivescovo Giovanni, lasciato in disparte negli affari di Stato, fa la figura d'un idiota!...

— È giusto.... — disse il parroco don Vincenzo Liserio.

— Ed Uguccione della Fagiuola, — soggiunse il dottore, — è un imbecille!...

— Verissimo! — esclamò Tobia.

— Ma ciò che toglie all'azione ogni dignità, ciò che fa cadere il fatto principale a livello degli intrecci comici di Pulcinella, si è la balordaggine del protagonista che non s'avvede d'essere tradito dalla moglie....

La signora Pasquetta diventò pallida, il farmacista si fece rosso, il pubblico non osava fiatare, e il dottore imperturbabile proseguì:

— Per me dichiaro apertamente che Lucchino Visconti non merita gli onori della tragedia, la quale non deve occuparsi che degli eroi... o degli scellerati, e lasciar da banda i minchioni. L'eroe, tradito nell'onore, immerge la spada fino all'elsa nel cuore dei traditori!...

La signora Pasquetta diede un guizzo dal raccapriccio, ma uno sguardo rassicurante del farmacista parve calmarla.... Il pubblico rideva sempre di più.

— Avete ragione di ridere, — continuava il dottore, — i mariti ignoranti non sono fatti per la tragedia, ma per la commedia. Lucchino è una vittima come se ne vedono tante! La moglie infedele lo rende ridicolo facendolo morire nel suo letto per mezzo di un farmacista, dopo d'avergli gettato nel fango la corona ducale, e d'avergli messo sulla testa la corona... del martire!...

A questo punto le risa sbardellate divennero convulse, non si sentivano che gemiti e guaiti, pareva che subissasse la camera, anzi la casa; la mimica che accompagnò le ultime parole del dottore era riuscita irresistibile. Bisognava ridere o morire.

Il critico ebbe un successo molto superiore a quello ottenuto dal tragico; così alla tragedia promessa era succeduta una farsa impreveduta, e lo spettacolo fu completo.

Il dottore assaporava il successo con ebbrezza, vedeva in lui l'uomo felice, e a chi gli faceva degli elogi, egli rispondeva:

— Ecco, io son fatto così!... non ho riguardi per nessuno... a chi tocca tocca... io intendo la critica in questo modo... tanto peggio per le vittime... non c'è merito... la franchezza del mio carattere è un dono di natura.

Così finì allegramente quella serata, con grandissima soddisfazione degli intervenuti, e specialmente del dottore, che ritornandosene a casa a braccetto della moglie, gongolava del suo trionfo e ripeteva al farmacista che li accompagnava:

— Dite la verità, Gaspare, vi pare che io abbia sfoderato dello spirito?... Non voglio adulazioni, ma dovete confessare che ero in vena. È inutile, ci vogliono delle occasioni favorevoli per farsi conoscere. Io era nato per il fôro e la tribuna!... sarebbe la mia passione demolire gli avversari. Povero Lucchino Visconti, l'ho polverizzato!... Ma è un fatto positivo: il tempo delle tragedie è finito!...

All'indomani, entrando in casa Bruni, il signor Nicola mi venne incontro dicendomi:

— Ti prego per carità di non venirmi più a leggere delle tragedie, se non vuoi farmi morire dal ridere... mio Dio! Dopo iersera mi duole ancora la milza!...

Io corsi dall'Agata per sentire il suo parere, essendomi stato impossibile di chiederglielo la sera antecedente.

— Avrei due cose da dirti in proposito, — mi rispose, — ma non posso dirtene che una sola.

— Bene, intanto sentiamo questa.

— Tu sei l'autore della tragedia.

— È vero. Chi te l'ha detto?

— L'ho sentito dentro di me. Oramai ti conosco, e quando si conosce l'albero, si conoscono le frutta.

— Questa è un'idea... orticola. Ma nelle lettere non è così: l'arte copia la natura, o crea degli esseri immaginari che non hanno verun rapporto coll'indole dell'autore.

— Scusami, ma io scopro sempre l'autore nel libro, qualunque sia il suo prodotto.

— Dunque tu credi che un autore che racconta una storia di briganti omicidi abbia nell'anima qualche cosa dei delitti de' suoi personaggi?

— È tutto il contrario. Io credo invece che i briganti assassini d'un racconto abbiano sempre qualche cosa dell'autore... che li ha messi al mondo. Per esempio: un'anima mite e serena non è capace, non solo d'inventare, ma nemmeno di copiare esattamente dal vero personaggi turbolenti e feroci; nè una mente fiera, esaltata, rabbiosa sarebbe capace di creare tipi delicati ed angelici.

— Potrei citarti mille esempi contrari a quanto asserisci....

— Contrari in apparenza, ma in realtà no... sarebbe assurdo; dovresti provarmi che in un libro manca l'autore... L'uomo non vede che la superficie, e quando tiene in mano un bel pomo non si immagina che dentro vi sia un verme che lo divora. Il crogiuolo per fondere le anime non è ancora trovato, quindi non è possibile scoprire ciò che si mescola a questa parte ignota dell'uomo; però sappiamo che la natura ha le sue armonie, e possiamo dedurre dal noto all'ignoto che, come ogni rosa ha le sue spine, ogni limpido ruscello il suo fango, così può anche darsi che nell'anima dell'uomo più mite ed onesto si nasconda qualche punto nero che sfugge ai nostri sguardi, come nell'anima dell'uomo tenebroso si rifletta qualche raggio di luce.

— Potrebbe essere così, ma nel caso concreto della mia tragedia io non vedo che un marito tiranno, un rivale ribaldo, una moglie infedele, un amante insidioso... o vuoi forse farmi figurare sotto le spoglie dell'amante insidioso?

— Non dico questo... lo vedremo in seguito; finora veramente non ti posso ravvisare sotto quel triste soggetto.

— Dunque ove mi vedi?...

— Ti vedo e non ti vedo... ti sento piuttosto, mi pare di scorgerti fra le linee, dietro i punti e le virgole. Tu cerchi di nasconderti nei vani... dietro una parentesi... ti metti in maschera... ma io ti conosco, e sento il tuo alito.

— Il tuo occhio inquisitore mi fa paura!

— Non fare il male... e non abbi paura.

— In ogni modo, questa è una teoria affatto nuova....

— Ebbene, domanderò il brevetto d'invenzione, col privilegio di tenerlo a mio vantaggio per un decennio.

— Siamo intesi.... Ora ritorniamo alla tragedia, e dimmi francamente la tua opinione.

— Questa è la seconda parte... che non posso dire.

— Cattivo segno!... vedo che non ti piace.

— Ti prego di dispensarmi da un giudizio... io non so mentire... e temo che l'esser sincera mi faccia torto.

— Nulla può farti torto nel mio cuore; anzi la tua sincerità mi sarà grata, come una nuova prova della rettitudine del tuo carattere.

— Ebbene, poichè vuoi assolutamente che ti dica la verità, devo confessarti che la tragedia in generale non piacque....

— Ma e gli applausi?

— Meno poche eccezioni, dormivano tutti. Quando alla fine dell'atto non intendevano più il suono della tua voce, si svegliavano ed applaudivano con frenesia, per far credere che ascoltassero. Gli applausi più clamorosi li udisti alla fine, e volevano dire: finalmente è finita la noia, e incomincerà la refezione. È vero che i più intelligenti ascoltavano, ma non potevano dissimulare interamente la fatica; a certi punti tragici ridevano per alcune analogie trasparenti....

— E il dottore non li vedeva ridere?

— Sai bene che il dottore non vede niente!

— Ma dimmi finalmente la tua opinione.

— Giudica dall'effetto generale... la tragedia riuscì a tutti noiosa.

— Ma io non faccio caso di quel pubblico... idiota. Tu sei più intelligente di tutti coloro... e tu non dormisti.

— Non tieni conto del mio affetto?... ogni tuo lavoro non può che interessarmi assai... ma altro è l'interesse dell'affezione... altro un giudizio imparziale e spassionato.

— Dunque il tuo giudizio imparziale si è che la mia tragedia è noiosa?

— In complesso è noiosa... è inutile farsi illusioni. Vi sono però varie parti interessanti. Per esempio, quando parli d'amore vi sono espressioni vere, sentite profondamente, veramente ispirate e sublimi!... ma il resto è troppo lungo, prolisso... insomma noioso.

— Ti ringrazio, — io conchiusi, — apprezzo il valore della tua sincerità, e saprò trarne partito.

— Ma figurati!... nemmeno per sogno! — e parlammo d'altro.

Ora confesso che non solo m'ero offeso, ma dentro di me avevo giudicato l'Agata una saccentina sconclusionata, incapace di dare un giudizio apprezzabile sopra un simile lavoro. Dissimulai la stizza dell'amor proprio oltraggiato, e presi le mie misure in segreto per ottenere un giudice competente.

Avendo saputo che c'era a Sondrio in quel momento un capocomico generalmente stimato come uomo esperto nell'arte sua non solo, ma altresì di molto merito letterario, gli mandai il manoscritto pregandolo di leggerlo, e di dirmene francamente la sua opinione.

Pochi giorni dopo mi restituì la tragedia, con una lettera cortesissima, ma sincera. Mi diceva in poche parole: « Non voglio ingannarvi, nè adularvi, sarebbe far torto a chi non lo merita. Si vede in voi un giovine ingenuo ed onesto, esaltato da una passione che gl'ispira pensieri elevati, sogni poetici, qualche buon verso. Tutto il resto non ha valore.

« Non siete chiamato pel teatro, ne ignorate completamente l'arte, e tutti gli amminicoli che assicurano il buon successo, e vi manca la scintilla che rischiara la via. Smettete l'immane sforzo che deve costarvi un lavoro letterario; e pensate che la mediocrità si affatica invano per arrivare alla gloria, riservata al solo genio.

« Attribuite la mia severità al desiderio d'esservi utile. Una indulgente reticenza che vi lasciasse nel dubbio potrebbe nuocere al vostro avvenire. Basta talvolta una vana speranza per mantenerci sulla via dell'errore.

« Credendo di saper nuotare, l'uomo s'affoga; invece di fargli animo a proseguire con nuovi tentativi è meglio prenderlo addirittura pei capelli, e gettarlo sulla riva. Il vostro lavoro rivela un intelletto ricco di molti doni di natura. Ogni uomo intelligente e laborioso può raggiungere una meta che ricompensi le sue opere. Voi avete fallato indirizzo, siete entrato in una foresta piena di triboli. Uscite di là, cercate altrove la vostra strada, e vivete felice. »

La parola franca ed onesta di quell'uomo dabbene fece svanire intieramente il sogno de' miei trionfi e della fortuna chimerica che aveva illuso la mia gioventù, e risparmiò al pubblico dei teatri quelle noie alle quali è condannato sovente dalla caparbietà dei mediocri, che, prendendo per genio la loro boria, si ostinano a voli ripetuti, i quali finiscono in vergognose cadute.

Icari della scena, colle ali saldate a cera, e che, per uscire dal labirinto sociale, vanno a cadere nel mare drammatico; gente cui torna più caro un biasimo che la classifica fra le persone in marsina, di un elogio che la metta colle giacchette; vogliono essere piuttosto autori seccanti e fischiati che onesti pizzicagnoli: aristocrazia della democrazia!...

Ma non si deve disputare dei gusti.

Io invece ringraziai il capocomico con pari sincerità della sua, ed ho avuto mille occasioni di benedirlo. Senza la sua leale franchezza, chi sa di quanti piaceri mi sarei privato nella vita, di quanti ameni passeggi mattinali pei campi, di quante buone letture sul canapè!... per abortire qualche sconcia tragedia, o qualche dramma turpe e sonnifero! — Benedetto il capocomico che mi ha aperto gli occhi, tenendomi abbassato il sipario.

Cadutomi il velo che mi offuscava la vista e riconosciuto l'acume che avea guidato l'Agata nel suo giudizio, le confessai francamente la colpevole diffidenza che mi spinse al nuovo tentativo; manifestandole in pari tempo l'effetto ottenuto e chiedendole scusa del mio stolto orgoglio, le giurai che la mia prima tragedia sarebbe stata anche l'ultima.

— Ho tracannato un fiasco solenne!... — le dissi, — e ne sono morto. I fiaschetti ubbriacano, i fiasconi uccidono addirittura. Se almeno mi fossi contentato del tuo giudizio!... ma la vanità si ribella alle critiche sincere e benevole; l'orgoglioso si ostina a credersi un destriero, fino a che un giudice competente gli dica chiaro: sei un ciuco!... Ho avuto torto! e ti ringrazio della tua sincerità....

— Ho preferito il coraggio di dirti il vero, quantunque amaro, alla viltà d'una menzogna, — essa mi rispose; e dopo breve pausa, riprese: — ho sempre pensato che questa deve essere la norma costante di coloro che vogliono vivere insieme onestamente, formando una famiglia proba e leale fino allo scrupolo... Del resto, — essa aggiunse, — se ti manca l'attitudine a scrivere pel teatro, ti confesso alla mia volta che non ne sono troppo dolente, e mi pare, da quello che ne dicono i libri e i giornali, che dietro le scene non si tenga scuola di morale, e piuttosto si celino dei pericoli per la pace delle famiglie, che è miglior cosa evitare.

— Saresti forse gelosa?

— Sì.... sono molta gelosa, te lo dichiaro. Chi non teme non ama. Non ambisco se non a ciò che ho diritto d'ottenere, ma non ammetto restrizioni ai miei diritti: ad un affetto leale e santo esigo condizioni pari. Le doppiezze e l'inganno nella vita domestica mi paiono delitti; il giorno in cui il cuore vacilla è meglio dirlo francamente, e dividersi subito: preferisco la più atroce lacerazione all'onta d'una finta carezza; la morte non mi fa paura, ma l'oltraggio si!... — Tutto o niente!... ecco il mio motto... se non sai custodire il pensiero... siamo ancora in tempo... puoi scegliere altrove altra moglie.

Le baciai la mano con effusione d'affetto, dicendole:

— Ti prometto sull'onore che divido perfettamente le tue idee su questo punto. Ho sempre detestato ogni inganno, ma nel matrimonio lo trovo obbrobrioso. Se il cuore esce di casa, uscite con lui... ma uccidere col ridicolo chi porta il vostro nome, è peggio che uccidere col coltello.... No, mai... te lo giuro: sarò fedele per la vita.... e caso mai.... caso impossibile.... ma lo noto per rassicurarti.... caso mai non mi sentissi più degno di te.... non mi vedrai più!... saprò scomparire dalla terra.... Non ti domando nemmeno se il tuo cuore sarà costante....

— Il mio cuore!... è tuo per sempre....

— E pel tuo amore io rinunzio a tutto!...

— No, questa sarebbe un'ingiusta pretesa, — soggiunse, — e non l'accetto. Se hai un'attitudine qualunque che possa renderti utile alla società e alla famiglia, non posso che incoraggiarla, e desiderarti la migliore riuscita. La buona moglie divide col marito le pene e gli onori. Studia, lavora, e se ti senti inclinato alle lettere, scrivi dei libri.

— Veramente non ne sento proprio il bisogno. I clamorosi successi del teatro mi sorridevano con abbagliante prestigio. Mi elettrizzavo all'idea della folla plaudente in massa, e vedevo in sogno delizioso il bagliore delle faci, lo splendore delle gemme e dei fiori sulle donne eleganti, commosse alle mie parole. Dopo il trionfo, la fama porta il nome dell'autore da un capo all'altro del paese e racconta a tutti quella notte di entusiasmo che fece palpitare il cuore di mille persone, raccolte e frementi davanti la scena.

— Il libro non mi presenta tali attrattive. Dopo le lunghe fatiche che costa la sua composizione, esso si presenta modestamente nelle vetrine dei librai, confuso co' suoi confratelli di tutti i colori, taluno anche più vistoso di lui. La folla passa, e non se ne cura. Chi lo guarda il povero libro?... qualche raro letterato con pochi soldi in saccoccia, che esamina le novità, e che vorrebbe anche comperarne taluna, se lo stomaco non fosse più esigente del cervello, e il trattore più indispensabile del libraio. Il giornalista non parla che degli amici, il critico volgare non esamina che i libri che gli vengono offerti in dono, l'artigiano vuol leggere a macca, e trova nelle biblioteche popolari, come nelle cucine economiche, da saziare la fame.

Il ricco ha altro per la testa! il lusso dei libri è l'ultimo della casa; esso vien dopo gli arredi, la cucina e la stalla, meno le eccezioni delle famiglie veramente distinte per solida e completa educazione, che sono tanto rare. Come farà dunque il povero libro a farsi largo tra la folla, a farsi conoscere, ad entrare nelle famiglie, e cadere sul tavolo degli sfaccendati, a penetrare nello studio del marito e nel salotto della dama?... Ci vuol altro!... è una lotteria; per essere fortunati, bisogna avere un buon numero; ma molti sono i chiamati e pochi gli eletti.

Intanto i nuovi volumi cadono come valanghe sul dorso del povero libro in aspettativa, e il libraio, costretto di far posto ai nuovi venuti, lo relega negli ultimi scaffali della bottega, all'ombra, sotto la polvere e le ragnatele, ove non uscirà dalla nicchia se non per mano d'un modesto bibliofilo, che si contenta di conservarlo intonso nelle sue collezioni; o per bocca d'un ardito sorcio che lo riduce in frantumi.

In conclusione, se la scena m'invitava alle sue lotte, la vita solitaria del libro mi spaventa. Ce ne sono anche troppi, e non so a che cosa potrà un giorno servire tanta carta imbrattata d'inchiostro. Bando dunque anche ai libri.... cioè ai miei libri!...

— Hai torto di preferire la vampa alla cinigia. Essa è luminosa come una meteora, ma abbaglia più che non riscaldi, è una baldoria che presto passa, scottando gl'imprudenti, e non lasciando talvolta che l'impressione del fumo.... e dopo la sua scomparsa l'aria sembra più fredda di prima....

Al contrario la cinigia, più modesta, non abbaglia, è vero, ma non nuoce, nè incomoda, e col blando calore, riscalda lungamente.... Con ciò intendo dire che il trionfo d'un dramma può essere clamoroso, ma effimero. Talvolta un'arte sottile lo impone alla folla che cerca forti emozioni, ma il suo rapido effetto non dura. I lumi non sono ancora spenti, la folla plaudente non è ancora dispersa, e già nuovi pensieri la occupano, nuove correnti la travolgono, nuovi piaceri la chiamano. Del dramma non resta altro che una debole memoria, misurata alla stregua d'un'ora perduta.

Il libro invece non fa tanto chiasso, anzi fugge dai luoghi clamorosi, ma, modesto e tranquillo, va a trovare chi lo accoglie come un amico. Esso racconta, istruisce, diverte, riposa dalle gravi fatiche del giorno, fa dimenticare le lunghe sere del verno alla famiglia raccolta, consola il solitario e il derelitto, riempie gradevolmente le notti insonni, distrae l'ammalato da' suoi dolori, il convalescente dalla noia, porta fuori del carcere il prigioniero, fa sopportare al soldato il tedio della vita di guarnigione, al viaggiatore gl'incomodi del viaggio, alle donne la vita casalinga! Onorato dalle lagrime, dai sorrisi, dalla simpatia dei suoi amici, il libro li accompagna dovunque, e sovente riposa con loro sotto al capezzale. Le impressioni che produce, essendo più prolungate, sono maggiormente durevoli di quelle del dramma, e se ha saputo meritarsi la nostra stima e la nostra riconoscenza per le buone ore che ci ha fatte passare, vien legato in pelle con fregi d'oro come un gioiello, e conservato con cura. Finalmente, il libro rappresenta l'autore che sopravvive a sè stesso; è una parte della sua anima che rimane sulla terra dopo la morte, è il suo pensiero che vola attraverso i tempi, e manifesta ai venturi una voce del passato!

Daniele, essa concluse, dovresti fare un buon libro.

— Preferisco, — io risposi, — passare la vita in pace al tuo fianco, lavorare per la famiglia, contento di sopravvivere nei figli, e di rivivere nell'eternità indiviso dalla mia compagna.

— Così, — ella mi disse, — potrai un giorno servir di modello a qualche autore che voglia descrivere il tipo d'un marito perfetto.

— Non c'è pericolo!... non si scrivono che le vite degli uomini illustri.... e quelle dei bricconi.

— Se fosse possibile scrivere la vita d'ogni persona, io credo che molti terrebbero una diversa condotta, per non passare alla posterità come cattivi arnesi.

— Non lo credo. La pubblicità delle cause celebri non ha impedito un solo assassinio. In quanto al gusto dei lettori, è positivo che le gesta degli assassini vengono sempre preferite a quelle dei galantuomini, e lette col più vivo interesse. Nella vita sociale il galantuomo è stimato, ma in letteratura riesce noioso. Io sono convinto che la vita veramente felice d'un uomo possa raccontarsi in una mezza pagina, in istile epigrafico o telegrafico. Si dicono fortunate quelle nazioni che non hanno storia; io credo parimente fortunate quelle famiglie che non hanno romanzi.... o avventure romanzesche.

— È ben vero!... il turbinìo delle passioni mi spaventa.... mi piace meglio l'idillio....

— È un genere falso, ma molte volte è preferibile al vero. Non ti ricordi la nostra lettura sulla rivoluzione francese? Le scene pastorali di Trianon erano false e mi piacevano tanto!... Maria Antonietta, vestita da pastorella, distribuiva il latte delle sue cascine, pescava nello stagno, leggeva sotto l'ombre profumate del parco fra i figli e il marito... una regina che preferisce la vita rustica agli splendori del trono!... è falso!... ma a me piaceva quella falsità. La prigione, gli insulti d'una plebe selvaggia, i processi, il patibolo... furono veri... e mi fecero raccapriccio.

— Prendiamo la vita come viene, — io dissi, — senza forzarne gli avvenimenti. Non sarà nè un idillio, nè un romanzo, ma avrà giorni lieti e tristi come al solito.... sarà una vita naturale.... senza artifizii.

— E nemmeno questo mi piace, — rispose con vivacità. — Non faremo nè romanzi, nè idilli, ma dobbiamo fuggire il male con fermezza, volere il bene con energia e pertinacia, e prendere per guida d'ogni azione la virtù....

— E l'amore.... — io soggiunsi.

— Siamo intesi; — e con dolce sorriso mi porse la mano, ch'io baciai con tale tenerezza ch'ella fu costretta di ritirarla.

E così facevamo sovente lunghe conversazioni, con divagazioni interminabili, e le ore volavano rapide, mentre stavamo predisponendo a modo nostro l'avvenire... l'avvenire sempre incerto, che dipende in parte da forze superiori alla nostra volontà, e ci apparecchia soventi volte sorprese imprevedute.

XX.

Mio zio capitò nel mese di luglio, e gli feci quelle festose accoglienze che meritava. In casa Bruni vi furono banchetti d'onore, brindisi, e mille felici pronostici per gli sposi. Il buon canonico si fermò qualche giorno al villaggio, esaminando e lodando i nuovi restauri della casa, e tutte le mie disposizioni pel prossimo matrimonio. Doveva rimanere convinto della mia perfetta conversione, tuttavia non mancò di raccomandarmi di far giudizio, d'essere ragionevole, sodo e ponderato, apparecchiandomi ad una vita positiva ed onesta, senza chimere nè sogni.

Io non avevo bisogno di tali consigli; amavo l'Agata teneramente, d'un amore pieno di stima, avevo rinunziato spontaneamente ad ogni idea che non avesse rapporto diretto col futuro mio stato, m'ero quasi dimenticato il passato... o perchè dunque è venuto fuori a parlarmi di chimere e di sogni?... Precauzioni balorde!... parlandomi di ciò che avevo dimenticato, me l'ha fatto tornare in mente.

Mio zio canonico colle sue reticenze irritava il mio carattere, suscitava i miei nervi, mi faceva l'effetto d'una mosca molesta, o d'un indiscreto che con un fuscello stuzzica un uomo che dorme!... non ci può essere di peggio!... Quando un cavallo cammina tranquillamente, lasciatelo andare in pace per la sua strada; se lo toccate colla frusta, imbizzarrisce, e forse vi trascina in un fosso!...

Esso evitava di parlarmi della contessa Savina.

Ma di che cosa aveva paura!... il mio prossimo matrimonio doveva rassicurarlo pienamente. Qualunque notizia m'avrebbe trovato indifferente; invece il suo silenzio provocava i miei sospetti e mi faceva fantasticare.

Finalmente lo zio essendo partito pei bagni di Bormio senza rompere il silenzio su tale soggetto, il mio umore se ne risentì, mi parve una ingiusta diffidenza, me ne crucciai fortemente, e per qualche giorno mi fu impossibile di nascondere l'uggia all'occhio chiaroveggente dell'Agata.

Dovetti giustificarmi con pretesti che vennero accolti freddamente, senza fiducia; ed ecco come un semplice vapore, sollevato dal fondo d'una palude, s'innalza a poco a poco e diventa una nuvola capace d'oscurare anche il sole, se non spira qualche brezza che la disperda.

Le dolci parole della mia fidanzata fecero l'ufficio della brezza: in breve tempo dispersero ogni vapore, e l'animo ritornò sereno e illuminato della luce benefica de' suoi sguardi.

Avendo dato termine anche in quell'anno alla scuola, e messo all'ordine ogni cosa, al ritorno dello zio venne fissato il giorno delle nozze.

Agata manifestò il desiderio di partire dal villaggio appena compiuta la cerimonia, per apparecchiarsi con qualche giorno di raccoglimento alla nuova vita. I parenti approvarono tale divisamento, mio zio ci propose un viaggio in Toscana, perchè non mi venisse l'idea di condurre la sposa a Milano. Io propendeva per Venezia. Le mie letture m'avevano affascinato, io vedevo quella città di marmo sulla laguna, coronata di cupole, cinta di navi, adorna di monumenti insigni. Pensavo alla bruna gondoletta che mi avrebbe condotto colla sposa attraverso quei canali misteriosi, davanti quelle basiliche e quei musei, ove quattordici secoli d'indipendenza e di gloria lasciarono traccie immortali. Sognavo la voluttà di quelle notti rischiarate dalla luna riflessa dalle onde, sentivo l'eco lontano delle serenate, immaginavo le gite sul mare, e il mio cuore palpitava d'ammirazione....

Ma la scelta spettava di pieno diritto alla sposa. Senza esitare un solo istante essa scelse la Svizzera.

La mattina del giorno solenne apersi per tempo la finestra dopo una notte insonne, e respirai con voluttà l'aria refrigerante dell'aurora. Era un bel giorno d'autunno, e mi pareva strano che tutti non celebrassero la mia festa. I pastori uscivano al pascolo col gregge, il belato delle pecore risuonava nella valle, unitamente al tintinnìo dei campanacci delle capre.

Le povere donne colla gerla sulle spalle salivano ai monti, l'operaio si metteva al lavoro, tutti seguivano le loro abitudini quotidiane.

Le abitudini non cambiavano che per me solo, io incominciavo una nuova vita.

Indossati gli abiti da sposo, corsi in casa Bruni. Agata era pronta; il pallore del suo volto, il languore de' suoi occhi, l'aspetto esitante raddoppiavano la sua bellezza. Il velo nuziale, assicurato ai capelli da qualche fiorellino d'arancio, le scendeva sulla candida veste, avvolgendo l'elegante persona. Il suo sguardo, inumidito da una lagrima, chiedeva pietà e tenerezza. Le baciai la mano tremante, col rispetto con cui da fanciullo baciavo la Madonna. Essa, trattomi nel vano d'una finestra, mi mostrò la medaglia di mia madre che teneva sul seno, dicendomi con tremula voce:

— Essa ci accompagna... quando saremo davanti l'altare, tua madre ci guarderà dal cielo... Daniele!... preghiamola insieme che ci benedica.

I miei occhi si gonfiarono di lagrime.

Di quel giorno non ricordo con precisione che quel momento. So che in chiesa mi pareva di vedere mia madre fra gli angeli, e pregai l'Essere Supremo di purificare la mia anima, e di rendermi degno della sposa che il cielo mi aveva destinata. Poi non mi rammento più nulla.

Alla nostra partenza le lagrime e i singhiozzi di tutti ci accompagnarono; i parenti non potevano distaccarsi dalla figlia; mio zio, impaziente, coll'orologio alla mano, ci dava premura, dicendoci che la vettura ci aspettava da un pezzo, che l'ora si faceva tarda, che non era prudente trovarsi fra le montagne di notte, e parve felice quando, entrati in carrozza, chiuse lo sportello, accennando al cocchiere di partire, e salutandoci colla mano e colle benedizioni del cielo.

Dalla Valtellina, attraversando lo Spluga, entrammo nel Cantone dei Grigioni. Agata piangeva, io cercava di consolarla senza impedire le sue lagrime, sfogo necessario del dolore che provava lasciando i genitori e la casa paterna, ove aveva vissuto fino allora felice. Guardando attraverso lo sportello, io non vedeva che squallide rupi pendenti minacciose sul nostro capo, e precipizi spaventosi ai nostri piedi.

Incominciavo la vita matrimoniale fra gli orrori di nude e brulle giogaie, trascinato a gran fatica da cavalli ansanti che salivano l'ardua montagna.

Io mettevo le Alpi fra il celibato e il matrimonio, deciso di difendere con vigore il mio nuovo stato dalle invasioni dell'antico. Ahimè!... io pensava, le Alpi non furono riparo sufficiente alla patria contro gli stranieri, potranno esse salvarmi dalle insidie delle passioni che assalgono l'anima umana?... In ogni caso sono deciso a vincere o morire, piuttosto di darmi prigioniero al nemico. La leggiadria che spirava da tutta la persona della mia sposa convalidava i miei santi propositi.

Chi ha viaggiato nelle regioni pastorali della Svizzera con una donna adorata al fianco crederà facilmente alla sincerità delle mie risoluzioni e all'entusiasmo della mia luna di miele.

Le aride montagne e i torrenti hanno un termine anche nella Svizzera... come le lagrime sul ciglio delle spose. Allora si rivede il sole. Varcata l'ultima gola, spariscono le roccie ferrigne, le nevi perpetue e i ghiacci eterni, e si scoprono le vallate ridenti di verdura, irrigate da limpidi ruscelli, sparse di casolari, circondate da boschi, popolate d'armenti vaganti sui pingui pascoli.

Nei deliziosi pellegrinaggi pei monti e per le valli, la natura alpina lussureggiante eccitava la nostra ammirazione fino all'entusiasmo. Quando un sito incantevole ci attirava gli sguardi, volevamo raggiungerlo ad ogni costo, « quali colombe dal desio chiamate, » si saliva, e si arrivava trafelati, ma contenti, alla meta. Seduti sull'erba al rezzo d'un antico albero scapigliato, in qualche sito aprico, davanti allo stupendo panorama delle Alpi, si dimenticava la vita mortale, si respirava in un etere superiore alle umane miserie, lo spazio ci appariva infinito come il firmamento, il tempo non aveva più misura, e il sole soltanto, scendendo dietro le rupi, ci annunziava la prossima fine d'un giorno felice, e ci avvertiva di ritornare fra gli uomini, per non smarrirci di notte tempo fra i precipizi.

Un giorno fra gli altri, uscimmo a passeggiare lungo la riva sinistra del lago di Zurigo. Graziose villette suburbane fiancheggiano la strada adorne di aristolochie, di bignonie, di glicini, che salgono sulle colonnette delle loggie, corrono sui ballatoi, circondano di festoni i terrazzini, e tappezzano i muri fino alle cornici. I giardini spiegano gran lusso di fiori in eleganti canestri che spiccano sul verde smeraldo dei prati e sul fondo cupo degli alberi, sotto alle cui ombre si perdono tortuosi sentieri.

Ammirando quelle dimore campestri, e le acque cerulee del lago, e le punte acuminate dei campanili sul fondo violetto delle montagne, e quelle gradazioni infinite di colori e di tinte armoniose, ci siamo allontanati assai dalla città e siam giunti stanchi, sfiniti, in un piccolo paesello che si specchiava nell'acqua.

Seduti sotto un rustico pergolato, che sorgeva davanti un'osteria, si fece colazione all'aperto, con cibi semplici, ma con appetito complicato.

Non si vedeva degli abitanti del villaggio che la nostra ostessa e il suo gatto, che faceva il chilo sopra un tavolo. Tuttavia ci parve che il luogo fosse ancora troppo popolato, e finita la refezione ci siamo allontanati per cercare la solitudine completa. L'abbiamo trovata sotto un salice piangente, in un angolo romito, ove l'acqua lambiva i ciottoli ai nostri piedi. Il sole era splendido, l'aria olezzante, la natura incantevole; il silenzio non era interrotto che dal lieve mormorio delle onde che si frangevano sulla riva, e dallo stormir delle foglie agitate dalla brezza. Gli uccelli svolazzavano sui cespugli vicini senza timore, pascolavano sui greti saltellando d'intorno, mandando qualche allegro garrito a mezza voce, mentre il capinero solfeggiava sugli alberi e l'allodola intuonava un a solo melodioso innalzandosi sull'orizzonte.

Le acque erano limpide come l'aria, azzurre come il cielo, dolcemente agitate come le anime che contemplavano quello spettacolo. Una sublime armonia univa i nostri sensi alla natura esterna; i nostri pensieri, la nostra anima rispondevano unisoni al creato. Non potevamo rompere quella malìa, nè abbandonare quel posto. Io manifestava alla mia giovane sposa la pienezza delle emozioni: essa mi rispose:

— Tu mi esprimi benissimo tutto quello che sente il tuo cuore e che pensa la tua mente; se la tua anima potesse custodire come un tesoro le impressioni di questo giorno, la mia felicità sarebbe assicurata....

E ritornando verso Zurigo, osservò:

La vita sarebbe troppo bella se potesse scorrere sempre così, a contemplare le meraviglie della natura, ad amare teneramente, ad essere amati ardentemente, davanti a questo lago, a questi monti in un'eterna verdura, senza nuvole, senza uragani, e senza inverno. Tuttavia si può essere felici anche in condizioni assai più semplici e modeste. La felicità nasce in noi, si espande nel mondo esterno, e lo abbella co' suoi raggi; ma la natura più splendida non ha il potere di riscaldare il nostro entusiasmo se la felicità si è spenta nel suo focolare. Il sorriso della natura fa oltraggio alle lagrime degli infelici, esso non può trovare ricambio che nelle anime soddisfatte, le quali però, quantunque predisposte favorevolmente ad ammirare gli spettacoli più sublimi, sanno anche contentarsi delle cose più schiette. Un breve angolo di terra abbellito dalle nostre mani può bastare alla felicità, se l'affezione costante ci conserva la serenità dell'anima. A tale patto si soffrono con rassegnazione anche le disgrazie; senza di ciò tornano vane tutte le delizie del mondo.

A Friburgo passammo trepidando sul ponte di fil di ferro sospeso fra due montagne; io le dissi:

— Guarda... fa raccappriccio a pensare che la rottura d'una corda ci potrebbe precipitare nell'abisso!...

— Pensa, — mi rispose, — che anche la felicità non è attaccata che a un filo!...

Nel viaggio da Losanna a Ginevra, passando vicino a Coppet, siamo venuti naturalmente in discorso di Madama di Staël. Io manifestavo la mia ammirazione per questa donna insigne, che sotto al giogo napoleonico fece vergognare gli uomini della loro bassa servilità ed ebbe il coraggio virile di protestare contro la tirannide, spronando le nazioni alla libertà.

Agata mi ascoltava in silenzio, non osando contraddire ai miei sentimenti; ma, eccitata a dirmi francamente la sua opinione, rispose:

— Riconosco il genio di Madama di Staël, ma come donna mi è antipatica. Essa amava il rumore e gli splendori della gloria, io il silenzio e l'ombra del focolare domestico. Non ho stolti pregiudizi sulle letterate, non nego alle donne il diritto d'avere dell'ingegno e d'impiegarlo in onore della patria; i soli letterati gelosi possono dire il contrario: ove il genio risplende è un delitto il mettere lo spegnitoio. Non trovo strano che ogni rosa d'odore esali il suo profumo, ma come il fiore olezza al suo posto, così penso debba fare la donna.

Abbiamo esempi d'illustri poetesse, che furono ottime madri di famiglia e mogli affettuose. Madama di Staël mise per condizione del suo matrimonio l'obbligo del marito svedese di non costringere la moglie a seguirlo in Isvezia. Vedi che non è la letterata che mi sciupa la donna, è la moglie bizzarra che mi disgusta della letterata.

A Ginevra nuove discussioni intorno Rousseau. D'accordo entrambi nell'ammirare il profondo sentimento della natura del filosofo, non potevamo intenderci sulle altre qualità. L'Agata mi diceva:

— Un uomo che mette all'ospizio dei trovatelli i propri figli non ha cuore.

Io, deplorando questa macchia della sua vita, difendevo il cuore di lui, citando le sue passioni amorose.

— Troppe donne!... — essa mi rispondeva, — troppe donne!... Rousseau fu un giovane leggiero... e divenne un vecchio pazzo. È sempre così!... ogni causa ha i suoi effetti: l'uomo non è altro che la continuazione del giovane, la vita è una catena, il primo anello trascina all'ultimo, le abitudini della vecchiaia sono la legittima conseguenza delle abitudini giovanili; il giovane è il fiore, il vecchio è il frutto; l'uomo rimane sempre quello che è: il serpe resta serpe, e così l'uccello; chi ha volato in gioventù continua a svolazzare fino alla fine!...

Dovetti tacere, e ripiegarmi sopra me stesso meditando sulla mia sorte.

Attraverso il Lago Maggiore, siamo passati a Como e arrestandoci qualche giorno in Tremezzina, andavamo vagando nei paesi più pittoreschi del Lario. La nostra vita era un sogno delizioso nel paradiso terrestre.

Finalmente il bisogno di riposo ci spingeva verso il nido, ed avendo annunziato il nostro ritorno, siamo giunti al villaggio una bella sera al tramonto del sole.

I parenti, che ci aspettavano sulla porta del Casino, si gettarono nelle nostre braccia, mentre Bitto, esaltato da parossismo di gioia, mugolava correndo su e giù per le scale, le stanze e la strada, saltando addosso ai passanti, ed entrando dai vicini con latrati convulsi per manifestare la sua immensa gioia del nostro felice ritorno. Poi si slanciava sopra di noi dimostrandoci in mille modi la sua irrefrenabile contentezza.

La Rosa mi raccontò che i primi giorni della nostra partenza egli rifiutava gli alimenti, vagava continuamente dal casino a casa Bruni, e sulla sera si gettava sulla soglia collo sguardo fisso dalla parte dalla quale eravamo partiti e ci aspettava tristamente mandando qualche gemito che faceva pietà.

Dopo il nostro arrivo non abbandonò più la casa all'ora del mezzogiorno; egli vedeva i suoi amici riuniti sotto un medesimo tetto, e viveva contento.

Quell'autunno fu impiegato dall'Agata a completare l'assetto del nostro nido, e a far lavorare la terra circostante, secondo i suoi disegni. Beppo, il povero emigrato, era guarito, e per dargli lavoro vicino alla sua famiglia, lo prendemmo a giornata, e veniva occupato tutto il giorno con Martino a saccheggiare gli orti e il giardino de' miei suoceri. Mia moglie voleva abbellire la nostra dimora con piante robuste che producessero pronto effetto, e prendeva quelle che aveva educate con tanta cura nella terra paterna. Era un viavai di carriole cariche d'alberi, di cespugli, di fiori, di terricci, di concime, di vasi e d'innaffiatoi, ed io stesso dovevo prestarmi aiutando a trapiantare e lavorare colla vanga e colle mani, quantunque fossi ancora un ortolano assai poco dirozzato.

Quando l'inverno ci chiuse in casa, trovai la mia piccola dimora piena di vita. Agata vi aveva trasportato i suoi canarini che cantavano a squarciagola, un gatto che faceva le fusa e si lisciava il capo colla zampa o stava in contemplazione sui balconi, e de' bei colombi che beccavano le briciole sul pavimento o tubavano sulle porte. Aveva fatto un cuscino ben soffice per Bitto, che se lo godeva in santa pace russando tutto il giorno e svegliandosi soltanto per esprimere la sua soddisfazione alla padrona con occhiate piene d'affetto, ogni volta che gli passava dappresso.

Tutto era lindo, pulito, elegante, tiepido. Alcuni vasi di tulipani e giacinti vegetavano sulla stufa del salotto e mentre di fuori nevicava ed infuriavano gli aquiloni, la cucina ben riparata offriva un asilo gradevole, ove si alzava la fiamma viva e crepitante di ginepri, e i fornelli esalavano odori appetitosi. Gli scaffali della libreria s'erano arricchiti di nuovi libri acquistati in viaggio, che ci deliziavano nelle ore tranquille della sera.

Qualche buon giornale ci teneva in comunicazione col resto del mondo, e ci convinceva sempre più coi fatti diversi che la società è piena di trappole e di miserie, che le gioie strepitose non valgono le gioie della vita tranquilla, che le ambizioni smodate costano care e sovente si risolvono in disinganni, che la vera felicità rifugge dalla folla, e si nasconde di preferenza in luoghi romiti.

Al Carnevale si rideva leggendo le relazioni dei baccanali popolari e delle feste ufficiali, ove la diplomazia banchettava, faceva brindisi e alzava le gambe in cadenza musicale al suono di violini, viole e violoncelli, nell'interesse dei popoli... i quali intanto correvano per le vie in maschera da pantaloni, meneghini, gianduie, stenterelli, brighelli, pulcinelli, arlecchini e pagliacci. I più moderati col naso posticcio, per ridere, e far ridere. E noi ridevamo infatti!... di pietà.

I bagordi carnevaleschi, colla ciurmaglia che li accompagna, ci passavano danzando davanti gli sguardi, come i ballerini sulla scena davanti il Re e la Regina. I racconti di quei sollazzi letti davanti il severo aspetto delle Alpi, in un villaggio silenzioso, coperto di neve, producono l'effetto preciso d'una relazione medica sull'alienazione mentale, colla descrizione di tutti i sintomi della demenza, e di tutte le stranezze dei matti.

Alla primavera mi fu dato d'ammirare gli effetti dei lavori autunnali colle prime foglie che produssero un cambiamento completo di scena. Al momento dei trapianti non avevo veduto che ramoscelli sfrondati; la bella stagione, vestendoli di foglie e fiori, trasformò il casino e il suo giardinetto in un piccolo Eden. Una bella glicine s'arrampicava sulla facciata e passando sotto i balconi del primo piano profumava l'appartamento col soave odore esalato da' suoi grappoli violetti. I peri del Giappone erano coperti di fiori rossi, le spiree e i citisi di fiori bianchi e gialli. Gli anemoni, i mughetti, le primule schiudevano i loro bottoncini ai tepori primaverili. Le rose spiegavano la pompa dei loro colori, la grazia delle forme, l'olezzo soave che imbalsamava l'aria. Ogni pianta prometteva i suoi doni di fiori e di frutti, il suo tributo di colori, di balsami, di aromi o di sapori squisiti. Tutto questo lusso della natura mi rendeva gradito il soggiorno della casa.

Dietro una siepe viva di biancospini e cotogni s'udiva chiocciare, stridere, squittire, pigolare. Avvicinandosi si vedeva una coorte di vaghi volatili, anitre, tacchini, galline e pulcini che razzolavano sul lettame, svolazzavano, beccavano e correvano allegramente, e un bel gallo a penne variopinte, baldanzoso colla cresta e i bargigli rubicondi, pareva che dominasse sugli altri, e di tratto in tratto dirizzava il collo e mandava un superbo cucurucù.

Un maiale grugniva nel porcile, e sporgendo la testa dal foro che s'apriva sulla mangiatoia, v'immergeva il grugno, e poi lo alzava coperto di crusca che sbocconcellava avidamente, disperdendone d'intorno con agitazione convulsa, come quello che avevo veduto al mio arrivo in casa Bruni. Dall'altra parte c'era l'orto dapprima pieno d'ortiche e cardi selvaggi, ora tirato a cordetta, colle sue aiuole ricche d'erbaggi e pulite dalle male erbe, colle piante sarchiate a dovere, diradate in ordine, circondato da spalliere di viti, fiancheggiate da orli di fragole in fiori. Infatti il regno animale e il vegetale gareggiavano per farci ghiotte promesse, e l'occhio si riposava dovunque sull'abbondanza d'ogni bene. Ma una più lieta sorpresa mi attendeva nelle intime confidenze domestiche. Un bel giorno l'Agata commossa mi annunziò che sentiva la suprema consolazione di divenir madre. Allora incominciò a prodigare le sue cure al corredo che stimava necessario al fortunato mortale, atteso tanto ansiosamente, come il necessario complemento della nostra felicità, e lavorava tutto il giorno in fascie e guanciali, in benduccie, camicine, gonnellini, bavagli e cuffiette a pizzi che era una vaghezza a vederli.

Poi comparve una bella culla imbottita, e posata sugli arcioni per poter cullare il bambino, e questo era un dono dei futuri nonni.

La regia posta apportò l'annunzio a mio zio che alla sua venuta troverebbe la triade domestica completa. Mi rispose subito cortesemente ch'egli intendeva gli venisse riservato il piacere d'essere il padrino, e così correvano lettere, timbri postali, e fattorini a motivo d'un individuo che non era ancora venuto al mondo, e che già esercitava un'influenza sociale ed economica. Non dico niente dei nostri pensieri!... sarà un maschio od una femmina?... qual nome dobbiamo dargli?... e si studiava sul lunario la lista dei santi. Poi si pensava all'educazione, agli studi universitari, alla carriera. Vorrà fare il medico, l'ingegnere, l'avvocato o il notaio?... Sarà sindaco, deputato, ministro?... era quasi ministro, e ancora non era comparso nel mondo!

Finalmente, un anno circa dopo le nozze, nasceva, non un maschio, ma la mia cara bimba, che il reverendissimo Monsignor Canonico Don Giuseppe Carletti teneva al sacro fonte battesimale, imponendole il nome di Giuseppina.

Tutti dicevano che era belloccia, a me pareva un angelo addirittura, e non mi saziava mai di guardarla, compiacendomi con mia moglie di tanta delizia.

— Guarda, — le dicevo, — guarda le sue manine, guarda l'unghia del suo dito mignolo, guarda la sua boccuccia, e quel nasino, e quegli occhietti, come è carina!... come dorme tranquilla... senza rimorsi!

Mia moglie sorrideva d'un sorriso celeste, se la voleva sempre vicina, se la teneva stretta alla mammella, la guardava teneramente, le scacciava le mosche dal viso, la copriva di baci. Appese alla sua culla la medaglia di mia madre come una benedizione della povera nonna morta, e quando piangeva le cantava subito la ninna nanna per farla dormire.

Quando dopo un lungo sonno la bimba apriva i suoi occhietti, incontrava subito lo sguardo e il sorriso di sua madre che sorvegliava il suo riposo e aspettava che si svegliasse. Allora la chiamava con cento nomi diversi, pina... nina... tina... etta... nanina... e la bimba rideva come un angelo.

La nostra felicità era perfetta, e chi non crede alla felicità non ha mai avuto figli da una donna adorata. È certo che la felicità perfetta sulla terra guizza come il lampo.

Quella che proviene dai figli, se non s'ammalano prima, dura fino a che mettono i denti. Colla dentizione incominciano i primi affanni, che ci accompagnano, con corti intervalli, per tutta la vita.

Durante il suo puerperio mia moglie mi raccomandò caldamente di osservare con attenzione i suoi animaletti e le piante, affinchè ai primi non mancasse il cibo, nè alle seconde l'innaffiamento o i sostegni.

Mi ricordo d'un giorno che la Rosa essendo occupata nella stanza, l'Agata sentì un pipilare smanioso nel cortile, e se ne mostrò inquieta. Per tranquillarla scesi al pollaio, e vidi che il cibo mancava. Andai subito a provvederne, e ritornato in corte me ne stavo rannicchiato a sminuzzare della polenta ai pulcini che mi saltellavano intorno e mi beccavano le mani, quando udii una smascellata di risa dalla parte della strada. Alzai la testa e vidi il mugnaio Zaccheo sul deretano dell'asino, che guardandomi attentamente si sganasciava dal ridere.

— Buon giorno, Zaccheo, — gli dissi, — me ne consolo che siete di buon umore.

— Non può essere altrimenti, — mi rispose, — quando mi rammento che vi siete burlato di me perchè davo la pappa al mio bambino, ed ora vi vedo dare il pasto ai pulcini.

— Ridete che avete ragione, — soggiunsi, — quando mi burlavo di voi ero un imbecille, e non capivo che non si deve vergognarsi che a fare il male....

L'asino e il mugnaio si allontanarono, il primo camminando lentamente sotto il peso del secondo, il quale continuava a ridere della sua scoperta, bastonando in pari tempo la sua vittima, per farla andare avanti con maggior sollecitudine.

Io lo guardai lungamente pensando che il mio giudizio si maturava cogli anni, i quali apportano la calma della ragione; e sentivo finalmente con imparzialità i miei torti verso il mugnaio... e i torti di lui verso di me. Nè io dovevo ridere d'un padre affettuoso, nè egli d'un marito dabbene. Quando il maestro insultava il mugnaio, questi valeva più di lui; ma quando il mugnaio rideva del maestro, egli era un imbecille, perchè mentre io facevo del bene alle bestie, egli faceva loro del male, aggravando un asino laborioso del peso d'un uomo ozioso.

Chiunque lavora onestamente ha diritto d'essere rispettato, qualunque sia la sua posizione sociale, sia un maestro od un asino. Al mulino la macina e il mugnaio non fanno che girare, ma non lavora seriamente che l'asino, il quale apporta il grano sulle sue povere spalle, e riporta la farina, col peso del padrone sopra i sacchi. Per questo la tassa sul macinato, trovata troppo pesante dai contribuenti, riesce troppo mite per gli asini, che lascerebbero volentieri al mulino, per conto dell'erario, una dose maggiore di farina... ed anche il mugnaio per giunta.

Io richiamavo sovente alla memoria dei miei scolari l'esempio dell'asino e del mugnaio, e dicevo loro:

— Osservate l'uomo infingardo che pesa sulla bestia laboriosa... e ditemi francamente chi merita la lode e chi il biasimo?... O gioventù, imitate sempre l'asino: esso vi offre l'esempio del lavoro, della rassegnazione, della obbedienza!... quando il mugnaio rappresenta l'egoismo, la crudeltà, l'ozio gaudente e la spietata tirannide!...

Quando l'Agata m'udiva declamare con enfasi magistrale tali insegnamenti, essa pretendeva che mi restasse ancora sullo stomaco un po' di rancore indigesto, prodotto dal fiasco del mulino, ma non è vero; è proprio l'istinto naturale che mi ha sempre ispirato una viva simpatia per gli asini, e un grande rispetto per le loro virtù!...

XXI.

La scuola progrediva migliorando, per le buone massime ch'io inculcava agli scolari, e m'avvedevo che un padre di famiglia è più opportuno d'uno scapolo all'insegnamento; le sue idee sono più posate, la moralità più sicura, la pazienza più longanime, e l'amore verso i fanciulli più naturale e sincero. E il maestro ammogliato trova esso pure maggiori compensi alle sue fatiche, perchè rientrando in famiglia dopo le ore di scuola, si rasserena alla vista dei bambini che gli corrono incontro, della moglie che gli sorride, del desco che lo attende, povero sì, ma consolato dalla presenza de' suoi cari. Eppure certi paesi civili che soppressero i conventi, ove il celibato spontaneo trovava una famiglia di confratelli, condanna i poveri maestri, con un meschino stipendio, a vivere nel celibato forzato senza famiglia.

Chi deve istruire i giovinetti, apparecchiando i materiali del futuro edifizio sociale, non conosce sovente le fondamenta della società: la famiglia.

La sua povera condizione l'ha costretto ad abbandonare il tetto paterno per recarsi lontano a guadagnarsi il poco pane che basta appena per la sua esistenza, e quindi gli viene interdetto il matrimonio dalla povertà. Egli non ha mai veduto una moglie affettuosa nella sua casa deserta, non ha mai udito nè il caro vagito dei bimbi, nè la voce stridula dei fratellini maggiori, non ha mai parlato di sante affezioni intorno al suo squallido focolare... esso è cieco, sordo e muto!... e deve mostrare la luce ai figli altrui, e udire le loro obbiezioni, e parlare il linguaggio paterno ad estranei.

Dura condizione, e funesta al paese!

Io era una delle rare eccezioni, e la mia vita diveniva sempre più lieta per le cure affettuose di una moglie che metteva la sua gioia nell'amore della figlia e del marito, e impiegava tutta la giornata a farli felici. Al mio ritorno dalla scuola l'Agata mi aspettava sulla porta colla bimba in braccio, e le insegnava a farmi festa. Io le baciavo entrambe, prendevo la piccina con me fin che la madre apparecchiava la colazione od il pranzo, e si mangiava lietamente, colla bambina sui ginocchi, godendo de' suoi attucci, de' suoi movimenti vezzosi, del sorriso, della grazia colla quale chiedeva di far bombo, o mostrava di volere il cucco. Dopo pranzo, sparecchiata la mensa, la piccina vi danzava sopra sostenuta da sua madre, ed io passava un'ora senza accorgermi a farle il bau bau; e questo era il mio teatro. Altro che tragedie!...

Mia moglie si compiaceva di farmi delle grate sorprese. Un giorno trovavo sullo scrittoio del mio studio un bel mazzo di fiori, un'altra volta un lavoruccio di panno per pulire le penne, o una ghiotta pietanza in tavola, o un bel piatto di frutta. E sempre con qualche delicata attenzione mi faceva vedere che pensava a me anche quando ero assente. Se aveva delle buone notizie da darmi, mi veniva incontro per annunziarmele più presto; e mi faceva parte d'ogni minuzia, dicendomi che tutto doveva essere in comune nella vita domestica, e non mi risparmiava nulla:

— Sono nati i poponi; i piselli sono maturi, la magnolia ha fiorito, e ti aspettavo per condurti a vederla.

Un'altra volta trattavasi di casi più gravi. Erano nati venti pulcini da ventidue uova, uno s'era rotto, l'altro non si sapeva perchè si fosse ostinato a restare nel guscio. Un giorno poi la nonna aveva mandato in dono alla sua mimma un bel dente di cinghiale guarnito in argento, con una campanellina, da appendere al collo, e quello fu un vero avvenimento.

Ma quando aveva da darmi delle cattive notizie mi disponeva a poco a poco a riceverle con rassegnazione, evitandomi la scossa delle impressioni dirette e imprevedute, e così me le rendeva meno dolorose. Talvolta me le lasciava anche ignorare per evitarmi inutili amarezze, ed ordinava a tutti il silenzio. E se me ne accorgevo più tardi, e chiedevo conto d'un tacchino o d'un vaso di porcellana che non vedevo più, tutti, tutti d'accordo mi rispondevano: « Eh, eh!... è tanto tempo che è morto!... sono tanti mesi che è rotto!... » e non se ne parlava più. Non c'era rimedio, e se tutti s'erano consolati, non mi restava che a fare come gli altri.

Ma chi potrebbe descrivere con verità l'entusiasmo materno e paterno alla prima parola balbettata dai propri figli? Ma qual lingua è più eloquente di quella d'un bimbo che dice per la prima volta mamma e babbo?

Forse chi non ha mai inteso questo linguaggio dai proprii figli troverà più ameno e interessante un discorso accademico. Per me protesto altamente contro tale eresia. E chi potrà spiegare fedelmente l'effetto prodotto nei genitori dai primi passi della loro creatura? quantunque il bimbo si regga appena col sostegno d'una mano sotto l'ascella e avanzi esitando il piede tremante, tuttavia la mamma esclama con ammirazione:

— Vedi.... Vedi come cammina bene!...

E il primo dentino che spunta, ancora impercettibile, che appena si sente col dito, esso è più prezioso pei parenti del dente d'avorio d'un elefante trasportato in Europa colle carovane attraverso le steppe e i deserti!

Queste sono le piccole gioie e i piccoli dolori della vita domestica, ma pur troppo vengono anche i grandi. È appunto coi dolori della dentizione che incominciano le prime ansietà e le prime paure. Talvolta tali sofferenze producono la febbre. Quando un bambino ha la febbre, la buona madre non vive più, prostrata davanti la culla essa studia tutti i moti, gli sguardi, i gemiti più lievi e i sospiri del piccolo infermo, lo ricopre con somma cura e delicatezza, gli tocca la testa e le gote accese, lo bacia e lo inonda di lagrime. Vorrebbe dare la vita per vederlo guarito, e non può fargli nulla. Per essa quella febbre è il più grande avvenimento del giorno. Annunziatele la morte d'un uomo illustre... la perdita d'una battaglia... la caduta d'un regno... essa non se ne cura, non ascolta, non intende nulla; il suo bambino è ammalato, essa attende ansiosamente la visita del medico, e quando esso è giunto davanti la culla gli racconta minutamente i più piccoli sintomi scoperti e indovinati dalla sua chiaroveggenza e colle pupille intente nel volto del dottore ne indaga le intime impressioni, ne scruta il pronostico sulla fisonomia, teme d'essere ingannata per pietà, e vorrebbe indovinare il futuro.

Le malattie dei bambini!... ecco l'amaro realismo che attossica il dolce idillio, ecco il primo scoglio che incontra la felicità coniugale. Quante angosce, quanti spasimi che succedono imprevveduti e repentini alle delizie della culla!...

Eppure gli stessi dolori servono a serrare sempre più il sacro nodo che stringe la famiglia, e ne rende più prezioso il legame. Che cosa resta nella sventura se manca il compianto di chi ha divisa la gioia?!...

Nei giorni nefasti, quando la mia Giuseppina cadde ammalata per la dentizione e il morbillo, la desolazione aleggiava sulla casa, e la nostra vita sembrava sospesa. Agata non abbandonava un minuto la sua creatura, nè di giorno nè di notte; beveva appena qualche sorso di brodo per sostenersi, e non chiudeva gli occhi oppressi dal sonno che col capo appoggiato al capezzale della piccola inferma, svegliandosi al rumore d'una mosca. Mia suocera era accorsa ad assisterci e a farci coraggio, la Menica aiutava la Rosa, Bitto non lasciava che di rado la camera dell'ammalata, ed io avevo perduta la testa, e non servivo che d'imbarazzo.

Ogni gemito della bambina ci gettava tutti nell'angoscia, ad un suo sorriso i nostri volti si illuminavano come l'orizzonte alla comparsa del sole, e quando migliorava sensibilmente, era una gioia universale.

Giuseppina era dotata d'una costituzione robusta; sua madre colle cure intelligenti del cuore aiutava potentemente la natura e la scienza, e grazie al cielo nostra figlia ci fu conservata, e passate le burrasche d'infanzia crebbe in buona salute, acquistando vigore dall'esercizio delle membra nell'aria pura ed elastica delle montagne.

Agata la sorvegliava e dirigeva con intelletto d'amore, secondando il bisogno costante dei fanciulli di muoversi, di correre e saltellare, ma occupandosi in pari tempo dello sviluppo del corpo, della mente e del cuore. Non rispondeva mai alle sue domande con quelle erronee asserzioni che lasciano nei fanciulli un lievito d'idee false e di pregiudizi. Le spiegava ogni cosa con verità e precisione; evitando soltanto ciò che sfiora il candore e l'ingenuità giovanile, ma aguzzando il suo intelletto, ed alzando il suo pensiero ad elevati concetti; coltivando nel suo cuore i sentimenti più nobili, delicati, gentili, che avvezzano a pensare agli altri prima che a sè, godendo maggiormente del bene operato in favore altrui, che d'un piacere personale. E la bambina cresceva sana e affettuosa, forte e sensibile, e con gusti semplici.

Quando muoveva i primi passi ancora incerti, si abbrancava al pelo dello schiena di Bitto, e si teneva salda al suo appoggio, ed egli andava avanti pian piano, l'aiutava a camminare, mostrandosi altamente compreso della sua responsabilità. Bitto fu il primo amico di Giuseppina, e certo il più devoto e fedele; compagno inseparabile della sua infanzia, fu in pari tempo il suo protettore e la sua vittima. Egli la seguiva dovunque, coll'intento evidente di sorvegliare i suoi passi, e guai se un uomo od una bestia le bazzicava troppo vicino! egli li avvertiva con un grugnito significante, di passare al largo, e nessuno se lo faceva dire due volte, nè aveva voglia di scherzare quando il guardiano mostrava i denti.

Quando il cane si sdraiava maestosamente sulla soglia, la bambina andava a sedergli in grembo, egli si acconciava in semicerchio per riuscire più comodo, e talvolta essa, appoggiando la bionda testa ricciuta sul nero pelo del suo amico, s'addormentava tranquilla; e non c'era pericolo che Bitto si movesse fin che durava quel sonno. Quando essa apriva gli occhi egli la guardava con affezione, e se la piccina piangeva, le lambiva il viso e le mani per consolarla.

La vita intima e solitaria sprona naturalmente alle confidenze. Parlavamo con mia moglie del passato, dei parenti morti, dei giuochi d'infanzia, delle prime conoscenze, si voleva che nulla rimanesse segreto fra noi. Agata mi raccontò i primi anni della sua vita, passati come la nostra Giuseppina fra le carezze dei genitori e i fiori del giardino; la sua dolorosa partenza pel collegio di Como, i giuochi colle compagne, le amicizie, le gelosie di quel piccolo mondo, i sogni color di rosa dell'educanda, il lieto ritorno alla casa paterna, i giorni sereni passati accanto alla madre, le occupazioni della vita domestica, i piaceri del giardino e dell'orto, i passeggi, le letture, le opere di carità verso i poveri e finalmente la mia fatale comparsa.

Pare ch'io portassi meco da Milano una cert'aria che produsse l'effetto dei venti alisei sul mare in bonaccia. Io ascoltava con naturale soddisfazione le ingenue confessioni dei primi torbidi prodotti dalla mia presenza in quell'anima pura. La mia fredda indifferenza ispirandole piena fiducia, essa si era abbandonata senza timore, e senza sospetti, a studiare il fenomeno interessante della caduta d'un Milanese in Valtellina. Ma non si scherza col fuoco, signorine!... ed è certo che l'amore intenso che ardeva nel mio petto per la contessa Savina emanava un calore latente, che pervenne a scottare il cuore dell'Agata.

Potrei paragonarmi ad una stufa ignara delle sue facoltà.

Da tali confidenze venni anche a scoprire che la simpatia dell'Agata sul mio conto fu dapprima combattuta da' suoi parenti, e ritengo per fermo che ciò abbia contribuito non poco a sviluppare l'amore successivo, perchè le figlie d'Eva conservano sempre una tendenza ereditaria pel frutto proibito; perciò avviene sovente che l'opposizione ad un matrimonio fa l'effetto del mantice nella fucina: ravviva la fiamma.

Le mie scappatelle offersero validi argomenti ai signori Bruni per farmi la guerra, ma l'Agata mi difendeva accusando i perversi compagni che mi trascinavano mio malgrado sulla strada del male e così dimostrava senza saperlo che i cattivi soggetti sono talvolta più fortunati dei buoni anche presso le donne oneste. Ed è naturale: i piatti ghiotti non sono i più semplici.

Le dissidenze domestiche rimasero sospese fino al momento della mia dichiarazione d'amore, la quale avendo gettato della paglia sul fuoco fece divampare un incendio irresistibile. Allora i parenti cedettero perchè non siamo più ai tempi dei Capuleti e Montechi; essendo soppressi i conventi, Giulietta non trova più il frate Lorenzo che le somministri il sonnifero, e i buoni genitori volendo vedere l'unica figlia felice, lasciano che sposi il suo Romeo, anche se questi non è che un povero maestro rurale.

D'altronde le idee dell'Agata erano assai modeste. Essa non aveva che un solo desiderio: trovare un marito che non fosse un piffero di montagna, e vivere vicino ai genitori, nel villaggio ove era nata, occupandosi del suo compagno, dei figli, coltivando i fiori, allevando degli animali, e rendendo tutti felici, uomini e bestie. Era convinta che non occorre cercar la felicità da lontano, che sta dentro di noi, e che da per tutto le buone mogli fanno i buoni mariti, e viceversa.

Non faccio per vantarmi, ma essa poteva dire di aver guadagnato al lotto, sposando un galantuomo, che in fine dei conti non era nè un allocco nè un povero, essendo milanese e nipote d'un zio canonico.

Io pure alla mia volta le feci le mie confidenze esplicite, franche ed ingenue, senza restrizioni mentali. Le raccontai per filo e per segno il mio amore petrarchesco per la contessa Savina, muto ma profondo come il silenzio, e condensato come l'acqua bollente nelle caldaie a vapore; alimentato dalla fiamma di due occhi più vivaci del sole. E non le tacqui le mie ridicole illusioni intorno all'amore e alla gloria, nè le feci mistero del mazzetto di fiori raccolto e del bacio respinto, e le narrai fedelmente le mie follie, le lagrime versate, le ansietà e le speranze, i disinganni e i dolori che furono le conseguenze di questo errore giovanile.

Agata mi ascoltava attentamente richiedendomi sempre nuovi particolari, e obbligandomi di disotterrare le minuzie insignificanti che stavano sepolte nella mia mente sotto la motta degli anni. Poi si arrestava a considerare tutti i motivi che potevano aver spinto la contessa Savina a raccogliere il mio mazzolino di fiori, a mostrarsene soddisfatta, e poi a non corrispondere al mio bacio. Analizzava con sottili argomenti il cuore della fanciulla, e volendo giudicarla dai risultati, conchiudeva accusandola di leggerezza, d'ambizione, di civetteria. Tale giudizio sembrandomi ingiusto, la difendevo, forse con troppo calore, e allora l'Agata mi guardava fisso e impallidiva... e io tacevo.

Talvolta voleva una esatta descrizione della persona e delle vesti, e doveva spiegarle come era pettinata, quali fossero i suoi gioielli e i colori preferiti, e tutto questo mi faceva ripensare a molte cose dimenticate, e in fine si soffriva tutti e due.

Ero quasi pentito d'aver toccato un tasto doloroso; forse commettevo un'imprudenza scoprendo una mina che non aveva scoppiato, ma mi sembrava un dovere di coscienza non aver segreti per mia moglie, alla quale avevo oramai dedicata tutta intiera la vita.

Siccome il cielo non può rimanere sempre sereno, ed anche nei climi migliori si vedono delle nuvole, così la più onesta e felice esistenza ha i suoi giorni burrascosi. La gelosia venne a intorbidare la nostra pace, una gelosia retrospettiva, la peggiore di tutte; e perchè è impossibile annullare il passato, e siccome è una passione cieca, che si pasce di vani fantasmi, che si adombra del vuoto, così la ragione non basta a calmarla, nè a premunirci contro le uggiose sorprese di questa strega, che rode sè stessa e rende ingiusti e cattivi. Erano piccoli attacchi, ma essendo immeritati, irritavano il mio carattere onesto, mi toglievano la pace, e mi mettevano di pessimo umore.

Agata, prendendo nelle braccia la nostra bimba, mi diceva:

— Ti pare che rassomigli alla tua contessa?

La mia contessa!... questa parola mi urtava i nervi, e rispondevo con troppa vivacità, o con sdegnosa ironia.

— Ecco!... — essa continuava, — non si può parlare di lei senza metterti in agitazione.

— Ma non è perchè mi parli di lei, che mi fai dispetto, sibbene perchè ne parli come non hai diritto!...

— Scusami se manco di rispetto... ad una civettuola.

Io prendevo il cappello e fuggivo, coll'intenzione di lasciarla sola un paio d'ore per infliggerle una punizione e tenerla nell'inquietudine... ma dieci minuti dopo tornavo indietro per darle un bacio e la trovavo cogli occhi rossi.

— Ma, santo Dio!... che cosa hai adesso?... Che cosa vai sognando per intorbidare la nostra vita onesta e tranquilla?... Grazie al cielo nessun dolore ci opprime, nessuna pena ci affanna, e tu vai cercando il pelo nell'uovo!... Che cosa hai bisogno di andare a pescare in un passato remoto... che è scomparso per sempre!...

— Per sempre!... — essa riprendeva, — chi ti assicura per sempre!... Puoi tu conoscere quello che ci riserva l'avvenire?... Ho sempre udito dire che il fuoco più pericoloso è quello che cova sotto la cenere... la contessa è ancora giovane... e poi che può fare l'età?... gli anni passano egualmente per l'uno e per l'altro, e così si resta eguali. Le passioni più violente non sono le prime, ma le ultime... se poi sono le prime, riprese dopo un desiderio infinito, allora ti voglio!...

— Ti prego in grazia, lasciami tranquillo; sei ingiusta e un po' troppo caparbia!... non rispetti la mia onestà... e nemmeno l'evidenza... noi siamo in Valtellina, e la contessa è a Milano... o forse altrove.

— Le montagne stanno ferme, ma gli uomini camminano.

— Insomma non mi seccare... e basta.

Essa abbassava il capo e taceva, ma si sentiva nella stanza la temperatura della Siberia; io non mi potevo rassegnare, e saltava su nuovamente.

— Dimmi, Agata... tu hai dunque perduto la stima di tuo marito?

— No... ma...

— Ma che cosa?

— Che so io?... ho sempre un pensiero molesto che mi tormenta, e che cerco invano di soffocare... o almeno di rinchiudere in me sola....

— Qual è questo maledetto pensiero!

— Penso a quel bacio!...

— Ebbene quel bacio... che cosa significa quel bacio?... Allora io non ti conoscevo, non avevo ancora vent'anni, ero un ragazzo senza testa... ma libero delle mie azioni... ti ho confessato che ero innamorato... come tutti i giovani della mia età... e non mi pare d'aver perpetrato un delitto... irreparabile per aver mandato un bacio ad una ragazza... a venti e più metri di distanza!... e che essa non ha nemmeno restituito!...

— Si vede che te ne dispiace ancora!...

— Invece ti giuro che adesso non me ne importa affatto!

— Essa forse non pensa così!... e vorrà pagare il suo debito!

Per non cadere in escandescenza io fuggivo precipitosamente, chiudendo le porte con violenza, e correvo attraverso i prati decapitando col mio bastoncello tutti i fiori che alzavano la testa sugli altri e maledicendo la sorte, il passato, il presente, ed avrei mandato a rotoli il mondo.

— Come mai!... — io dicevo fra me, — come mai!... un marito fedele... una moglie virtuosa, con una bimba diletta!... che si adorano, vivono onestamente, non hanno disgrazie, e non possono essere felici!... Che diavolo! il mondo è dunque una trappola, dove si trovano dei sorci arrabbiati che si divorano fra loro?... ma l'onestà non è dunque altro che un infame chiappoleria per ingannare i babbei!... e mandava sospironi che minacciavano di convertirsi in bestemmie....

E meditando sul mio caso speciale io ritornava su quel misero bacio, un bacio in aria, una puerilità, una bolla di sapone, scoppiata da tanti anni! e quella inezia aveva la forza di farmi infelice! ma perchè?... perchè mia moglie mi amava talmente, che era gelosa perfino del passato!... Dunque era l'eccesso della mia felicità che mi rendeva infelice! era la dolce sorgente d'amore che avvelenava i miei giorni, era il miele che mi sembrava sì amaro!... era per un bacio e in mezzo a due amori che io mi struggevo d'odio contro la vita!...

I paradossi mi riconducevano al domicilio coniugale, rassegnato a vivere o a morire, secondo il destino.

Non ho potuto mai sopportare lungamente i musi lunghi, ho sempre preferito l'odio al rancore, la morte ai tormenti; perciò dopo le lotte fui sempre il primo a presentare i preliminari di pace, e siccome l'avversario aveva quasi sempre consumate le munizioni e bruciate tutte le polveri, così si andava presto d'accordo. A poco a poco il barometro segnava il sereno, ed il termometro indicava una temperatura più calda.

Ma le vicissitudini dell'atmosfera e i quarti di luna esercitano realmente una costante influenza sul carattere della donna: e mi era impossibile di realizzare sotto al piccolo tetto domestico la felicità della pace perpetua, sognata da certi filosofi per l'umanità tutta intiera.

Un nonnulla dava soggetto talvolta alle nostre beghe; uno scherzo degenerava in alterco, o finiva in considerazioni melanconiche.

Un giorno, passeggiando in giardino, l'Agata venne a posarmi un fiore nell'occhiello dell'abito. La ringraziai con un bacio sulla fronte, ed essa mi disse:

— Te lo pongo a credito... ma a condizione che se l'altra paga, io sospendo i pagamenti.

— Che cosa vuoi che paghi?... — io risposi con qualche impazienza, — nessuna donna ha debiti verso di me.

— Sta zitto!... — riprese, — non negare almeno che sei in credito d'un bacio!...

— È una strana pretesa davvero, — io soggiunsi, — la tua gelosia ti esagera di molto il diritto degli innamorati. Essi non tengono conto nè scrittura doppia dei crediti e dei debiti delle loro passioni, nè possono esigere la liquidazione di partite abbandonate da un pezzo.

— Eppure scommetto cento contro uno che la contessa desidera pagarti il suo debito.

— Prima di tutto questo è un oltraggio che offende gratuitamente una persona onesta, ma è il solito della gelosia. In secondo luogo ti ripeto per la millesima volta che la contessa non ha verun debito verso di me... io non le ho fatto cambiali, e se un bacio è una cambiale, essa non l'ha pagata alla scadenza, io non le ho fatto in tempo il protesto, e quindi non ho più diritto all'esazione. Metti che sia fallita, e finiamola.

— Io conosco dei falliti galantuomini, — essa riprese, — che sono andati a far fortuna in America, e al loro ritorno hanno soddisfatto interamente ai loro impegni.

— Consolati, sono casi tanto rari, — io le risposi, — che non hai nulla a temere.

Ed essa di rimando:

— Ciò che è raro non è impossibile!... — e dopo una lunga pausa, quando io sperava che fosse caduto il discorso, essa esalò un profondo sospiro e riprese: — le donne hanno una seconda vista e presentimenti che non fallano. Io sento dentro di me che un giorno tu riceverai un bacio dalla contessa Savina!...

— No... no... mille volte no, nè essa vorrebbe darmelo, nè io vorrei riceverlo; i nostri cuori vennero separati per sempre, noi non siamo più liberi, siamo onesti, abbiamo figli e famiglia che non vorremmo tradire, e sante affezioni che c'impongono dei doveri....

— I doveri cedono sovente alle passioni... che sono più forti della volontà. Verrà un giorno!... — e qui alzava il braccio in aria fatidica, quando io le chiusi la bocca con una mano, e con l'altra arrestai il gesto minaccioso, dicendole:

— Basta così... Agata, tu metti troppo a cimento la mia pazienza, e la tua ostinazione nelle accuse ingiuste e irritanti potrebbe condurci nostro malgrado a ciò che vogliamo e dobbiamo fuggire!... basta così.

La nostra bambina col suo celeste sorriso comparve tra i fiori, come un angelo disceso dal cielo a calmare le nostre anime, raddolcite dall'amore... e amareggiate dalla gelosia.

XXII.

Così fra il dolce e l'amaro, coi quali si compone la vita, passavano gli anni, e la nostra bimba era diventata una bella ragazzina, sapeva leggere, scrivere e far conti. Sua madre ed io andavamo a gara nell'istruirla, ma il pensiero di completare la sua educazione ci preoccupava gravemente. Non essendo possibile conservarla al villaggio ove mancano tutti i maestri, ci venne l'idea di collocarla nel collegio di Como, ove sua madre era stata educata con ottimo risultato. Mio suocero scrisse in proposito ad un suo corrispondente per nuove informazioni, e gli fu risposto che, essendo morta la vecchia direttrice, il collegio era caduto in discredito. Non bisognava più pensarci. Allora scrissi a mio zio canonico, il quale ci propose subito un eccellente istituto di Milano, diretto da una donna di molto senno e gran cuore. Di più egli si profferiva cordialmente di visitare spesso la fanciulla e di renderci esatto conto della sua salute e de' suoi progressi, e questo era per noi un argomento di gran valore. Ma l'idea d'una separazione ci spaventava: la Giuseppina era la nostra delizia, e si temeva che la vita rinchiusa la facesse ammalare. Essa era avvezza all'aria libera, e manifestava un continuo bisogno di agreste libertà. Nel breve tempo delle sue lezioni stava seduta per forza, e appena finito il còmpito correva dietro alle farfalle, seguita da Bitto, e spariva su per le colline, cantando allegramente le sue canzoni. Poi ritornava a casa ansante colle braccia piene di erbe e di fiori odorosi raccolti sui poggi. Sua madre la sgridava, essa rispondeva con baci che rasserenavano il volto materno. Ella era l'amore dei parenti, l'amica dei fanciulli, la provvidenza dei poveri, la vaghezza del villaggio. Il pensiero di allontanarla era sentito da tutti come una privazione comune. Tuttavia bisognava pensarci seriamente, aveva raggiunto i dieci anni e la sua bella intelligenza meritava un'accurata coltura; il nostro affetto era troppo indulgente, mancava dell'energia necessaria ad imbrigliare la sua eccessiva vivacità. L'interesse della nostra creatura c'imponeva il sacrifizio del cuore, e quindi si discusse lungamente la proposta dello zio. La troppa distanza dalla Valtellina veniva compensata dal valore dell'istituto, e dall'affettuosa oculatezza d'un parente di nostra piena fiducia. Ci siamo dunque decisi per Milano, e prese le opportune disposizioni, venne fissato il principio di novembre per condurla in collegio.

L'Agata ed io dovevamo accompagnarla, quando negli ultimi giorni d'ottobre mio suocero cadde gravemente ammalato. Avevamo deciso di ritardar la partenza, ma mio zio ci scriveva lettere sopra lettere, eccitandomi all'esattezza, osservando che la direttrice non intendeva transigere sui regolamenti del collegio, perchè la regolarità dell'istruzione non permetteva di ammettere nuove educande, oltrepassata la metà del novembre.

Il termine si avvicinava, e la malattia di mio suocero si andava aggravando; esso non gradiva che le cure della moglie e della figlia, la quale non poteva abbandonarlo. Bisognava dunque che io solo accompagnassi la Giuseppina a Milano; necessità non ha legge.

Una tale prospettiva conturbò fortemente il mio spirito, mettendomi in seria apprensione per le noie che mi sarebbero cagionate dalla gelosia di mia moglie. Infatti non m'ingannavo, ed essa incominciò colle solite insinuazioni a manifestarmi i più atroci sospetti. Che fare?... Io rinunziava di buon grado a tal viaggio. Agata lottava fra il desiderio di rimandarlo all'anno venturo, e il timore di privare sua figlia della necessaria istruzione; ma l'età della fanciulla esigeva una sorveglianza resa sempre più difficile dalla necessità che legava mia moglie al letto del padre infermo. Mio zio c'insinuava il sospetto che, oltrepassata l'età normale, nostra figlia non sarebbe più ammessa in collegio; ella stessa desiderava compiere il suo destino e dedicarsi interamente allo studio: perciò dopo mature considerazioni, secondando anche l'opinione espressa dai miei suoceri, venne finalmente deciso che la Giuseppina entrasse in collegio, e che io solo andassi ad accompagnarla. Mi dovetti rassegnare; ma qualche giorno prima della partenza i sospetti di mia moglie si accrebbero in modo tale da farmi perdere la pazienza. Tempestai pieno di sdegno per così insana ingiustizia: le parole che mi sfuggirono dall'irritazione della collera la persuasero maggiormente ch'io avessi cessato d'amarla, la mia indignazione per tale assurdità la riconfermava nel suo giudizio. Essa era profondamente convinta che la contessa Savina mi amasse ancora, e che io non saprei resistere alla minima seduzione; il mio racconto, troppo ingenuo e imprudente, l'aveva persuasa che quell'amore non fosse che semplicemente sospeso in causa di forze contrarie, come una pianta che ritarda la sua fioritura a motivo delle brine d'una primavera tardiva, ma che schiuderà i suoi bottoni nella stagione più avanzata, e non avrà minore profumo per aver sbocciato più tardi, sotto l'influsso d'una temperatura elevata. Essa mi sosteneva che il primo amore è il solo vero, sincero, durevole; lo diceva per prova, non avendo essa amato che me solo.

— Tu dunque non ammetti secondi amori?... — io le chiedeva.

— No... — mi rispondeva sospirando, — non sono che ripieghi....

— Allora perchè mi hai sposato?

— È stata forse una follìa... prodotta anche questa dal primo amore che ne fa tante!... forse sarà una disgrazia... perchè ti dichiaro che io non sono donna da sopravvivere a un tradimento!... pensaci bene!...

— Non hai dunque fiducia nella mia affezione... nel mio onore... nella mia onestà?...

— Tutte parole... che svaporano al soffio delle passioni!... più forti della volontà... specialmente per certi uomini... troppo leggieri!...

— Ma che cosa puoi dire sul mio conto?

E qui saltava fuori la storia della mugnaia!...

— Ebbene, manda la bimba con chi vuoi, ma io non parto.

Allora nuove scene, perchè diceva che tradivo la mia debolezza, e non mi sentivo abbastanza forte per affrontare il pericolo!

— Ebbene... partirò!...

Allora le pareva sicuro che il mio soggiorno a Milano avrebbe servito a rannodare il passato al presente. Diceva che se la contessa ed io avevamo perduta l'ingenuità e la freschezza giovanile, avevamo d'altronde guadagnato in esperienza e coraggio, che la donna doveva aver deplorata la soverchia timidità della fanciulla, e che certamente aspettava la prima occasione favorevole per rifarsi. Infatti io potevo contare di sicuro per questa volta sul bacio della contessa Savina!

Io sentivo invece dentro di me il profondo convincimento che mia moglie aveva torto, che la mia coscienza era forte della sua onestà, e quindi quegl'ingiusti pronostici mi accendevano di sdegno; accusavo l'Agata di essere un'ingrata, visionaria, e taccagna!... ma invece di calmarla, l'esasperava... e si passavano notti d'inferno!...

E mentre forse molti bricconi dormivano in pace, noi, onesti entrambi, legati da un'affezione leale, sincera, scambievole, con una cara bambina che cementava la nostra unione, noi eravamo agitati da fiere burrasche, infelici senza giusto motivo e senza colpa! A furia di giuramenti sulla medaglia di mia madre, sulla vita della mia bambina, giunsi finalmente a moderare la sua fantasia, e ad assicurare alquanto il suo cuore. Vedendola, se non più ragionevole, almeno più rassegnata, aggiunsi tutti quegli argomenti che militavano in mio favore; e il più importante di tutti era questo: la contessa Savina aveva un marito, essa lo aveva seguito al domicilio coniugale, in conseguenza non dimorava più in casa Brisnago, ed io non sarei certo andato a cercarla davanti al palazzo di Montegaldo, che non sapevo nemmeno dove fosse. Di più non mi sarei fermato a Milano che il tempo necessario per completare il corredo della bambina in collegio: e sarei ritornato subito a casa, sperando di trovarla più ragionevole, altrimenti malgrado la mia sincera affezione, e tutta la sua, mi sarei gettato nel lago con una pietra al collo per finire una vita sciocca, insopportabile e immeritata. Ed essa di rimando con nuove spiegazioni, accompagnate da lagrime e singhiozzi, mi dichiarava il suo affetto profondo, del quale pretendeva che le sue inquietudini dovessero essere la prova più convincente.

— Grazie tante! — io rispondeva, — se queste scene sono prove d'amore, preferisco l'odio che mi assicura la pace.

Ed era davvero l'amore d'una moglie riamata che pesava sulle mie spalle, come peserebbe un carico di miele.

Giunse anche il giorno della partenza. Il povero nonno, accasciato dalla malattia nel suo letto di sofferenze, non poteva lasciarci partire, e si teneva la bimba stretta per mano, quasi avesse timore che le sfuggisse per sempre; voleva ancora un altro bacio, poi un altro, e ancora un saluto, e una carezza sui capelli, poi non potendo più reggere all'angoscia ricadde sull'origliere con un singhiozzo... e ci lasciò andare.

La nonna ci accompagnò in anticamera, ma sentendosi soffocare dall'emozione, baciò più volte la Giuseppina, la strinse al seno teneramente, e ritornò presso il malato. L'Agata aveva dimenticato i pericoli del marito per occuparsi intieramente della figlia che stava per lasciare. Quella separazione lacerava crudelmente il suo cuore, eppure si forzava di dissimulare il dolore per non aggravare quello della sua creatura, già troppo intenso. Sono momenti terribili, e chi si trova in condizioni tali da poterli evitare, fa benissimo a tenersi le figlie vicine, educandole in casa sotto la sorveglianza materna. In quanto poi a quelle madri che senza assoluta necessità mettono le loro figlie in collegio, per sollevarsi da un peso importuno, fanno ancora meglio; le figlie non possono che guadagnare nel cambio.

Dopo ripetute raccomandazioni, baci, amplessi e sospiri, l'Agata ci accompagnò sulla porta, e saliti nella vettura che ci aspettava da un pezzo siamo partiti, mentre tutti ci mandavano i più cordiali saluti coi cenni delle mani, e coi fazzoletti spiegati.

La gioventù si rassegna più facilmente dell'età matura, e l'aspetto dei paesaggi pittoreschi della Valtellina, e poi il panorama incantevole del lago di Como valsero a calmare nella bambina l'affanno provato per lasciare la madre, i nonni e il villaggio, e a distrarla dai suoi dolorosi pensieri.

Appoggiati al parapetto del battello a vapore, io le indicava i più bei siti delle due sponde, i paeselli pittoreschi e le splendide ville, e le facevo osservare col cannocchiale le note cime dei nostri monti lontani, già spruzzati del primo nevischio.

È cosa piacevole assai servire di guida ai fanciulli nelle loro prime escursioni, e specialmente ai propri figli; l'assistere alle continue sorprese che li colpisce, il rispondere alle ingenue domande, l'osservare l'intensità della loro ammirazione.

Alcuni viaggiatori stranieri, che entravano per la prima volta in Italia, arrestarono i loro sguardi con viva simpatia e somma benevolenza sulla vispa e svegliata ragazzina italiana, che davanti le opere stupende della natura e dell'arte manifestava tanto entusiasmo, con precoce intelletto del bello. Ed io andava superbo e soddisfatto che il primo successo di mia figlia facesse onore alla patria.

Giunti a Como, la condussi a visitare la città, poi ci siamo rimessi subito in viaggio. Quando vidi da lontano l'aguglia maggiore del Duomo di Milano, sentii dentro di me un rimescolamento di gioia e di paura. Godeva di rivedere alfine il mio paese, e mi pareva d'essere minacciato da un pericolo imminente. Erano circa dodici anni che non entravo nella diletta città, impedito dapprima da mio zio, poi da mia moglie, sospettando entrambi che io volessi scalare il cielo di nuovo. La mia insania giovanile li spaventava ancora, e per avere osato, come Prometeo, alzare gli occhi al fuoco celeste, ero condannato in perpetuo a restare incatenato ad un monte, e dilaniato il cuore da un avoltoio col becco a due mascelle taglienti: l'amore e la gelosia.

Entrammo in Milano sulla sera, quando i fattorini del gas accendevano i fanali. Il rumore delle carrozze, il movimento animato delle vie, lo splendore dei magazzini, l'eleganza delle donne, il suono degli organetti, mi allucinavano lo spirito. Mi pareva di destarmi da un lungo sonno, nel quale avessi sognato un matrimonio fra i monti e conosciuto dei personaggi fantastici, bizzarri, impossibili. La vettura ci trascinava attraverso quelle vie che mi ricordavano la gioventù e l'amore. Ogni signora che attraversava la strada mi sembrava la contessa Savina.... Le interpellanze di mia figlia mi richiamarono alla realtà, essa mi manifestava la sua ammirazione per quello spettacolo nuovo per lei, per quelle belle vie larghe e pulite, per quell'elegante brulichìo di gente ammodo, così diversa dai rustici montanari del villaggio.

Alfine giungemmo alla porta della casa di mio zio, e suonando il campanello, non potea frenare la mia curiosità, e diedi un'occhiata in isbieco al palazzo Brisnago. Tutte le gelosie erano chiuse.

Al suono della mia voce, Veronica mi corse incontro precipitosa, seguita da mio zio che mi aperse le braccia, fra le quali gettai la mia Giuseppina, che esso strinse al seno teneramente. Salite le scale, mi ricomparvero dinanzi quelle stanze piene di ricordi giovanili, riconobbi l'odore speciale di quei luoghi poco ventilati; quei mobili, quei quadri mi facevano l'effetto d'antiche conoscenze che sorridessero al mio ritorno. La Veronica non si saziava di contemplare la bambina e di accarezzarla:

— Come è bella... e grande... — essa ripeteva; — mi pare proprio impossibile che sia vostra figlia!

Mio zio mi chiedeva conto dell'Agata, della suocera, della malattia del signor Nicola, del parroco, del dottore, e di tutte le sue conoscenze.

La cena ci venne servita nel solito tinello, ove il canonico, durante il pranzo, soleva in altri tempi chiedermi conto de' miei studi pedagogici e delle mie occupazioni del giorno, quando io gli rispondeva di straforo, non potendo parlargli nè dell'amore, nè della tragedia. Dopo alcune ore di ciarle, di domande, risposte ed esclamazioni, ci siamo alzati da sedere per andare a letto. Mio zio si ritirò nella sua stanza, augurandoci un buon riposo.

Veronica mi annunziò che condurrebbe la Giuseppina nella bella camera vicina alla sua, e mettendomi in mano il lume acceso, mi disse:

— Voi non avete bisogno che v'insegni la vostra camera; felice notte, Daniele, dormite bene.

Diedi un bacio alla bimba, e ripetendo gli augurii di buona notte, mi ritirai alla mia volta.

Era nella modesta ma cara cameretta dello studente ch'io rientrava finalmente dopo lunga assenza, quando i varii casi della vita avevano fissato il mio destino in modo impreveduto. Chiusi la porta e m'arrestai alquanto sulla soglia, contemplando con mesto raccoglimento quell'asilo ove s'era ricoverata la mia gioventù; quella serra calda ove avevano fiorito i pensieri della mia primavera; poi ne feci il giro lentamente, come i divoti nei luoghi santi, guardando attentamente quelle pareti ch'io conosceva perfino nei minuti rilievi e nelle minime anfrattuosità, come un monaco la sua cella, come un prigioniero il suo carcere; e ne scoprivo ancora i segni tracciati colla matita, e gli spruzzi delle penne; indi osservai con pari interesse il letticciuolo de' miei sogni giovanili, il canapè dei sospiri, delle lagrime, delle illusioni, il tavolino di studio sul quale scartabellai tante carte, raccolsi tanti concetti, formulai tante idee, e ne riconobbi ancora le macchie d'inchiostro, rammentandomi gli accidenti che le produssero.

Sedetti e meditai lungamente, e ripensando al passato dimenticavo il presente, e gli oggetti che mi stavano sotto gli occhi mi facevano scomparire i lontani: la distanza offuscava la vista come la nebbia.

In Valtellina mi pareva di veder Milano nascosto dietro i monti, i laghi, le campagne, lontano, lontano, nell'ombre semibuie del vespero. Nella mia cameretta di Milano la Valtellina mi compariva alla sua volta sfumata in un'atmosfera brumale, come una catena di montagne grigie che si confondono colle nuvole in fondo d'un quadro.

Quei muri, quei mobili, quella finestra mi parlavano come amici da lungo tempo abbandonati, io stavo ascoltandoli con religiosa attenzione.

Rivivendo nel passato si vive due volte, e la natura ci spinge con istinto irresistibile a raddoppiare la vita.

Quando la stanchezza eccessiva ed il sonno persistente mi chiudevano le pupille mi coricai, e dormii profondamente, ma la luce del crepuscolo entrando per gl'interstizii delle gelosie mi trovò desto. Balzai dal letto, mi vestii, ed aperta la finestra aspirai avidamente le brezze mattinali.

Il palazzo Brisnago era sempre chiuso, le piante del giardino erano cresciute: tanto meglio! potevo guardare francamente senza scrupoli. La finestra e il giardino mi rammentavano naturalmente il mazzetto raccolto e il bacio respinto, ma mi dicevano in pari tempo: tutto è finito!...

E chiedevo a me stesso: Chi sa in qual angolo di Milano sarà collocato il palazzo Montegaldo?...

Sarebbe bene che lo sapessi, per evitare quella via, e non offrire il minimo pretesto di sospetti al mio ritorno.

L'Agata mi chiederà subito: — l'hai veduta?... — ed io potrò rispondere: — non solo non l'ho veduta, ma non sono nemmeno passato davanti la sua casa.... No... no... non devo dire così... io devo ignorare la sua dimora. Non potrei mai persuadere l'Agata d'aver ricercato la località del palazzo Montegaldo per evitarlo. Nel dubbio, la gelosia preferisce sempre di credere al peggio; la gelosia ha bisogno di tormentarsi, e quando non trova motivi di farlo, li crea. Essa non crede a nulla che possa calmarla, e presta fede a tutto quello che può sconvolgerla; essa costringe gli onesti a farsi ipocriti per dissimulare il vero... il quale viene spesso interpretato a rovescio!... quale fatalità!...

E se mio malgrado incontrassi la contessa per via?... Spero che non mi toccherà questa tentazione!... Milano è grande, ed io posso evitare benissimo i luoghi frequentati dalle signore.

Però quel palazzo chiuso mi rattristava. I vecchi saranno tutti morti! io pensava, i mobili dispersi, le stanze nude e deserte.

Divagavo in questi pensieri, quando lo scricchiolare d'una gelosia mi fece alzare la testa. Una finestra al terzo piano del palazzo si apriva lentamente: — C'è un guardiano... dissi fra me. Le gelosie rimasero semichiuse durante una mezz'ora, poi vennero spalancate d'un tratto, ed una donna vestita di bianco apparve davanti i miei occhi... era la contessa Savina!...

A prima vista non la conobbi: la ragazza s'era fatta donna, al fiore era succeduto il frutto. Era bella d'un'altra bellezza. I lineamenti avevano acquistato un carattere deciso, lo sguardo s'era fatto più grave e melanconico, le forme s'erano arrotondate, e un certo abbandono della persona indicava la fatica di pensieri dolorosi.

Appena aperte le imposte, la contessa si arrestò un istante come attonita a guardarmi, forse al pari di me stupefatta dalla sorpresa, e dubbiosa della scoperta. Poi mi parve, da una contrazione quasi impercettibile del volto, che mi avesse riconosciuto: chiuse le invetriate e si ritirò lentamente. Io rientrai, caddi sul canapè, sopraffatto da confuse emozioni, nelle quali però dominava una strana paura... paura di quel fantasma che mi perseguitava con implacabile fatalità... paura di me stesso... paura di nuovi tormenti, di nuove noie sotto al tetto domestico. Avrei voluto fuggire ogni pericolo, sottrarmi alla sorte che si ostinava a rendermi vittima di nuove complicazioni, allontanarmi subito da quella malìa che si faceva giuoco della fermezza delle mie buone intenzioni... ma come avrei potuto partire?... Impossibile! bisognava abbassare il capo davanti il destino e lottare!...

Allora mi spiegavo il motivo della desolazione eccessiva dimostrata da mio zio per la malattia di mio suocero!... egli rimaneva deluso nella speranza che venissi a Milano con mia moglie. Tuttavia, vedendomi al fianco la Giuseppina, mi pareva più fiducioso del solito. Divagavo nelle smanie della mia posizione imbarazzante, quando la Veronica entrò nella stanza. Non era in caso d'aspettare lungamente la spiegazione di tanti misteri, e le dissi subito senza esitare:

— Ditemi francamente, Veronica, qual è il motivo per cui la contessa Savina di Montegaldo si trova nel palazzo Brisnago?

— Come?... non sapete nulla?

— Non so nulla....

— Il conte di Montegaldo è morto, or son tre anni, coperto di debiti. La contessa ha dovuto vendere il palazzo del marito per soddisfare agli impegni che egli aveva incontrati co' suoi vizii... ed essa è ritornata a casa sua.

— La contessa è vedova?...

— Vedova... e la credo meno infelice di quando viveva il marito, che gliene ha fatte passare d'ogni sorta! Figuratevi... un giuocatore... un donnaiuolo.... un dissipatore.... insomma uno scapestrato!...

— Ma... e perchè l'aveva essa sposato?...

— Sapete bene, i signori!... l'ha sposato senza conoscerlo... imposto dai genitori, perchè dicevano ch'era d'antico casato... un bel nome insomma... e lo credevano ricco... e lo sarebbe stato senza i suoi vizi....

— La contessa fu dunque infelice?

— Infelicissima... e già pochi mesi dopo le nozze si parlava di divorzio... poi venne alla luce il figliuolo....

— Ah sì!... il giudice conciliatore!

— Che cosa dite?

— Dico che questo rampollo fece le veci d'un giudice conciliatore, e ricongiunse il marito alla moglie....

— Come il galeotto al suo compagno di catena, — soggiunse Veronica, alzando le spalle con aria sprezzante. — Bene o male rimasero legati per riguardi di famiglia, fino alla morte.

— E il figliuolo è con lei?

— È la consolazione della madre; un buon ragazzo!... La contessa gli darà un'educazione che lo tenga lontano dalle abitudini paterne... e ne farà un uomo onesto.

— Che il cielo l'aiuti!... — io risposi.

E la Veronica si mise a parlarmi di mia moglie, del suo desiderio di conoscerla, e non finiva mai di farmi gli elogi della bambina. Io la ringraziai della sua costante affezione e dei regalucci che non mancava di mandarmi ogni anno cogliendo l'occasione del viaggio dello zio quando recavasi ai bagni, ed ella, per sottrarsi alla dimostrazione della mia gratitudine, si ritirò, col pretesto d'apparecchiare la colazione.

Rimasto solo, incominciai a rimuginare le cose udite, considerando gli effetti fatali d'una inclinazione giovanile, che, quantunque soffocata in germe, continuava a far sentire il suo influsso sulla esistenza di due persone. E mi proposi d'evitare con ogni cura un simile destino a mia figlia chiudendola per tempo in collegio, e riservandomi a sorvegliarla attentamente al suo ritorno in famiglia. Intanto doveva pensare a sorvegliare seriamente me stesso, per evitare, non pericoli impossibili, ma le occasioni più innocenti che potessero offrire il benchè minimo pretesto alla cieca gelosia di mia moglie. E pensavo con raccapriccio a quel momento terribile nel quale sarei costretto di raccontarle la impreveduta ricomparsa della contessa Savina davanti la famosa finestra!

La infelicità del suo matrimonio verrà attribuita certamente alla sua inclinazione per me, la sua vedovanza le darà indizio d'imminente pericolo, il suo ritorno alla casa paterna verrà interpretato come un'insidia, la sua innocente ricomparsa come un tentativo di seduzione. E troverà le prove evidenti di tutto!... Se le racconto questi fatti, dirà che non posso tacere nemmeno con lei di ciò che mi trabocca dal cuore; se non gliene parlo, quando li sentirà raccontare dagli altri, dirà che il mio silenzio rivela la colpa!...

Che fare in posizione così imbarazzante?... questo mi pareva un problema più insolubile della quadratura del circolo!

Incominciai allora a fantasticare sulle probabilità compromettenti: per esempio, se realmente la contessa mi amasse davvero?... e rimpiangesse gli anni giovanili, e disingannata della vita positiva volesse ritentare un affetto sincero?... Se per vendicarsi dei pregiudizii sociali che la condannarono ad un'unione forzata, volesse reclamare i diritti naturali che ci spingono nelle braccia dell'amore spontaneo?

Chi sa!... forse essa deplora di non aver corrisposto alla mia dimostrazione d'affetto!... forse mia moglie ha ragione, e i suoi presentimenti non l'ingannano!... forse la contessa Savina desidera restituirmi il mio bacio!...

Sarei quasi curioso di farne il tentativo, io pensava fra me, e questa non sarebbe una colpa d'amore, ma una vendetta!... Essa ha rinnegato il mio amore per orgoglio, quando era libera d'accettarlo. Io ho diritto di dirle: — vedi? il tuo rifiuto ti rese infelice!... te ne penti ora? — Sì, me ne pento, ed eccoti un bacio!... — Ebbene, io risponderei, questa volta sono io che non l'accetto, non sono più libero, e riprendi il tuo bacio... e che tutto sia finito!... Se facessi così!... e andavo scrutando se un bacio possa considerarsi sempre come una colpa... e mi pareva di no. E cavillando sull'argomento, mi andavo persuadendo esservi baci che non costituiscono un'infedeltà, e peroravo col calore e l'eloquenza di un avvocato il quale si sforza di dimostrare che vi sono assassini galantuomini, e che si può anche ammazzare un uomo senza essere colpevoli d'omicidio, o almeno almeno con circostanze attenuanti... e aspettavo la sentenza del giudice.... Questa volta il giudice era la mia coscienza... ed essa con voce severa mi diceva: — sei pazzo!... tu mediti un tradimento. Gli assassini sono sempre assassini... e i baci sempre baci... talvolta più pericolosi degli assassini!...

E in quel punto mi rammentavo d'aver promesso davanti l'altare d'essere fedele a mia moglie, e poi avevo giurato sulla medaglia di mia madre, e sulla vita di mia figlia, di mantenere la promessa. Mio Dio!... la vita di mia figlia!... al solo pensiero di esporre ad un pericolo la vita della mia creatura, di attirare la vendetta del cielo sul suo capo innocente, di colpire con una colpa due vite in una volta... perchè l'Agata sarebbe morta se avesse perduta la Giuseppina!.., mi si dirizzarono i capelli sulla fronte, mi sentii i brividi della febbre.... Corsi tutto ansante nella stanza della bambina che terminava di vestirsi, mi parve di vedere l'Agata col suo sorriso e il suo sguardo, le baciai teneramente la fronte, e sentii che la coscienza soddisfatta mi rendeva forte contro ogni pericolo.

Rientrato nella mia stanza, scrissi una lettera affettuosa a mia moglie, nella quale le parlava del viaggio, della nostra bambina, e del desiderio di ritornare nel mio nido tranquillo... e felice!

Quel giorno mi recai al collegio in compagnia di mio zio, e, prese le debite informazioni, venni a sapere che, mancando molti oggetti necessarii al completo corredo dell'educanda, era costretto di trattenermi a Milano più di quanto avrei desiderato.

Scrissi nuovamente all'Agata annunziandole l'indispensabile ritardo, pregandola d'aver pazienza, perchè gli operai non sono sempre esatti nella consegna dei loro lavori.

Intanto io andavo sollecitando le commissioni, mentre Veronica conduceva la Giuseppina a spasso e a fare le spese minute.

Le ore che mi restavano libere girovagavo per la città visitando le strade nuove, o passeggiando negli antichi quartieri per rammentarmi le cose vecchie. Poi andavo a riposarmi sul canapè della mia cameretta, e colà ricostruivo la passata gioventù. L'inveterata abitudine d'affacciarmi alla finestra mi vi spingeva sovente senza pensarci; l'affetto per l'Agata e la paura della contessa mi allontanavano, la curiosità di contemplare sul volto della vedovella le modificazioni prodotte dagli anni e dalle prove della vita mi veniva contrastata dal timore di compromettermi, e mi pareva debolezza tanto il cedere quanto il resistere, perciò i miei brevi riposi venivano paralizzati da una continua lotta, e quei giorni passati a Milano dopo una lunga assenza, che avrebbero dovuto formare la mia delizia, furono invece un continuo tormento. Non volendo espormi ad un'imprudenza, cadevo in una sguaiataggine: tutto mi faceva ombra, ogni accidente mi si presentava come un pericolo.

Quando udivo aprire una finestra del palazzo Brisnago, io chiudeva rapidamente le gelosie; quando vedevo un movimento dietro le invetriate, mi ritiravo in fretta abbassando le tendine; era una pantomima continua, che poteva dare negli occhi e suscitare sospetti.

O non sarebbe stato meglio abbandonare addirittura la finestra?...

È più facile il dire che il fare: e dice anche il proverbio che la lingua batte dove il dente duole. Chi si propone di non rivolgere lo sguardo ad un oggetto qualunque, si trova spinto dalla parte vietata con irresistibile impulso. Ignoro il nome di quella forza arcana che mi faceva roteare nello spazio, ma è positivo ch'io mi trovavo nell'identica condizione di un pianeta che gira intorno a due stelle.

Per determinare la mia orbita bisognerebbe calcolare le forze complesse che lottavano fra loro. Io amavo l'Agata sinceramente, essa aveva tutto il vantaggio dell'attrazione e tutto il danno della distanza, la contessa Savina perdeva nell'attrazione in forza della mia onestà, ma la distanza quasi nulla che mi divideva da lei le dava un grande vantaggio. E credo che, se l'uomo fosse costretto di subire le leggi che trascinano gli astri, io sarei caduto come un bolide nel palazzo Brisnago.

Per buona sorte non fu così, ed anche per quella volta la profezia di mia moglie non si è avverata; il creditore fuggiva la debitrice morosa, la quale forse, come molti debitori, non aveva nessuna volontà di pagare.

È però vero altresì che finchè vivono i debitori, e finchè sono solventi, non è tolta la possibilità di riscuotere, quantunque certe partite, che passano agli arretrati, vadano scemando di continuo il valore.

Avendo finalmente collocata la figliuola in collegio, mi decisi di partire immediatamente per la Valtellina, sollecitato anche da lettere pressanti dell'Agata, che mi annunziavano un progressivo peggioramento nella salute di suo padre.

Desideravo sinceramente rivedere mia moglie, rientrare nella mia casa, riprendere le mie tranquille abitudini; ma devo confessare con pari franchezza che al momento di lasciare la mia cameretta mi sentii una spina al cuore!... O perchè?... Domandatelo a chi può conoscere a fondo gli atomi più riposti del nostro fango!... io non comprendevo me stesso. Qual legame poteva sussistere ancora fra me e la casa Brisnago, se io con deliberato proposito aveva fuggito il benchè minimo rapporto, cancellata ogni traccia del passato, spento, o supposto di spegnere, ogni lievito che potesse minacciare il futuro?... Misteri incomprensibili!

Mia moglie aveva dunque ragione co' suoi presagi? ed io tentavo invano di far scomparire intieramente le traccie della gioventù; nè la probità, nè le oneste intenzioni, nè gli affetti domestici potevano assicurarmi la pace dell'età matura.

Quel primo amore, così esile in apparenza, resisteva a tutte le vicissitudini della vita, come quelle sementi minute, impercettibili, che gettate una volta sul terreno, sfidano l'inclemenza delle stagioni, e presto o tardi germogliano.

Dunque la spada di Damocle pendeva continuamente sul mio capo, ed era vana ogni speranza di liberarmene?...

Dunque quel bacio fatale stava sempre scritto nel libro della vita come una partita da liquidarsi?... Io aveva rinunziato fermamente ad ogni pretesa, io non voleva nulla... che cosa poteva restarmi nel cuore?... c'è forse al mondo qualche cosa di più forte d'una volontà indipendente?...

Ma!... l'antica sapienza giudicava inutili gli sforzi umani contro i decreti del fato!...

XXIII.

Giunto al villaggio, trovai l'Agata che piangeva nella braccia di sua madre; il mio povero suocero era agli estremi, tuttavia mi riconobbe, mi sorrise tristamente, e con voce semispenta mi chiese nuove di Giuseppina.

L'amor figliale davanti al letto del padre moribondo assopiva tutti gli altri sentimenti nel cuore dell'Agata, la quale mi domandò poche cose di Milano, che non avessero diretto rapporto con nostra figlia, e si tenne paga delle mie risposte sommarie.

Il dottore mi avvertì che ogni speranza di salvare il signor Nicola era perduta, l'Agata non abbandonava più la camera dell'infermo, nè il giorno nè la notte, prodigandogli le cure più affettuose insieme alla madre.

Una mattina egli volle ricevere i sacramenti, circondato da tutti i suoi cari. Sono momenti solenni, che si scolpiscono indelebilmente nella memoria.

Eravamo tutti inginocchiati intorno al suo letto, le lagrime ci offuscavano la vista, e quando il sacerdote uscì dalla stanza, il moribondo ci chiamò da vicino, e con voce fioca ed interrotta pronunciò poche parole d'addio:

— Sono rassegnato... — ci disse, — quantunque mi dolga lasciarvi, per non vedervi più sulla terra... vi ho sempre amati teneramente... ero felice con voi.... Giovanna, perdona il mio carattere e ricordati il mio cuore.... Daniele, ti raccomando mia moglie... e l'Agata... sii fedele... e vogliatevi bene. Agata, tu fosti sempre la delizia della mia vita... tu parlerai alla nostra bambina del suo povero nonno... Vivete in famiglia uniti, e modestamente... sarete felici.... Io vi benedico tutti... e spero di rivedervi nell'eternità....

Poco dopo entrò nell'agonia, che pareva un'estasi consolata da soavi visioni. Sulla sera, quando l'ultimo raggio del sole illuminava il suo pallido volto, spirò tranquillamente, come un fanciullo che s'addormenta.

Tutto il villaggio seguì la bara che trasportava al cimitero le spoglie mortali del buon padre di famiglia. Alcuni devoti cantavano le preci dei morti con aria distratta, ma il mio caro Bitto seguiva il corteo in attitudine di profonda tristezza.

Il testamento nominava l'Agata erede di tutta la sostanza, assicurava alla vedova una rendita vitalizia, destinava a me l'orologio del defunto in ricordo, e fissava alcuni piccoli legati a parenti lontani e ai domestici.

L'eredità risultò superiore di molto a quello che lasciavano supporre i semplici costumi conservati da mio suocero nella famiglia. Eravamo ricchi, e siccome l'amministrazione della sostanza richiedeva le assidue mie cure, rinunziai alla scuola, e appigionato il casino al maestro mio successore, fissammo la nostra dimora in casa Bruni, insieme colla vedova.

Se fui arcicontento di sbarazzarmi delle noie scolastiche, lasciai invece con rammarico la casa che parlava al mio cuore con dolci memorie. Mia moglie raccomandò caldamente le piante al nuovo maestro, e sofferse al pari di me nell'abbandonare il piccolo nido.

Gli affari attirarono tutta la mia attenzione, e la nostra vita prese un andare tranquillo ed uniforme come la superficie d'un lago in bonaccia.

Le lettere dello zio e della Giuseppina ci annunziavano la buona salute d'entrambi, e ci assicuravano dei progressi di nostra figlia.

Ogni anno facevamo una gita a Milano per visitare la nostra bambina; ma la corsa era così rapida e piena d'occupazioni, che non mi lasciava il tempo d'arrestarmi davanti le finestre del palazzo Brisnago... cosicchè il bacio della contessa Savina restava sempre iscritto a suo debito senza ch'io pensassi più a reclamarlo.

Intanto gli anni passavano, e quantunque il cuore si conservasse sempre giovane, tuttavia i capelli bianchi che spuntavano, e le rughe che mi solcavano la fronte, sembravano un buon antidoto contro la gelosia: infatti mia moglie aveva deposti i sospetti, e non mi parlava più della mia contessa.

Dico deposti, non spenti, chè guai se, prevedendo il futuro, taluno le avesse detto: — Verrà un giorno nel quale il debito contratto alla finestra del palazzo Brisnago sarà pareggiato... il bacio verrà restituito a vostro marito dalla contessa Savina! — Guai!... Guai!... Eppure doveva essere così.... Ma chi può prevedere il futuro?!

L'educazione di nostra figlia era finita, e stavamo facendo i preparativi per recarci a Milano a levarla dal collegio, quando una lettera pressante venne a precipitare il nostro viaggio. Eravamo minacciati da una nuova disgrazia. Il nostro medico di Milano mi scriveva che mio zio era stato colpito da un accidente apoplettico, e che lasciava poche speranze. Giunti ad una certa età, siamo sorpresi sovente da così dolorose notizie. È la generazione antecedente che cade negli abissi dell'eternità e ci scopre le sponde del precipizio. Invitati a raccogliere gli estremi aneliti dei nostri cari, i battelli a vapore e le ferrovie ci sembrano lenti, e pur troppo noi siamo giunti a Milano troppo tardi. Al nostro arrivo la Veronica ci accolse singhiozzando, col triste annunzio della morte del povero zio.

Interrotta dalle lagrime, essa ci faceva l'elogio del suo padrone, e conchiudeva dicendomi:

— È morto esattamente, come ha vissuto, avendo chiusi gli occhi al sonno eterno all'ora precisa che li chiudeva ogni sera per dormire una notte!...

Il capitolo della cattedrale l'onorò di solenni funerali ed io gli feci collocare sulla tomba una lapide che ricorda il suo nome e le sue virtù; ma non potevo consolarmi di non esser giunto in tempo di chiudere gli occhi al mio benefattore, del quale conserverò fin che vivo la più grata ed affettuosa memoria.

Nominato erede universale, col solo obbligo d'una pensione vitalizia alla Veronica, anche questa volta mi sono trovato più ricco di quanto poteva supporre. Il buon vecchio metteva a mutuo i suoi risparmi a benefizio del nipote, e ne aveva raccolto un bel gruzzolo.

Il denaro capita quasi sempre quando non se ne ha bisogno. In gioventù, col cervello pieno di sogni e col cuore riboccante di desiderii, io avevo le tasche vuote. Quando l'età matura venne a consigliarmi la sobrietà in ogni cosa, mi son trovato a nuotare nell'abbondanza. È una delle tante ironie della vita!

Dopo la morte del povero zio avendo fatta uscire di collegio la Giuseppina, ci siamo decisi di passare l'inverno a Milano per regolare i diversi interessi della successione. Mia suocera si rassegnò ad attenderci in Valtellina, avendo potuto ottenere che una lontana parente andasse a tenerle compagnia durante la nostra assenza.

La Veronica, quantunque potesse vivere indipendente colla sua pensione, desiderò rimanere con noi, e così ci siamo accomodati nella casa ereditata, mia moglie ed io nella stanza dello zio, e nostra figlia nella mia cameretta di studente.

La natura aveva prodigato i suoi doni alla nostra ragazza; ell'era leggiadra di forme, e vispa come uno spiritello. Aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri, e la candida pelle di sua madre, ma il tipo s'era perfezionato e raddolcito, presentando i lineamenti d'un antico cameo. In quanto ai doni morali, mostrava molta intelligenza, e l'umore un po' bizzarro e gioviale del babbo, con qualche reminiscenza degli impeti del nonno.

Le modiste e le sarte di Milano, con arte elegante, ne avevano fatto spiccare le grazie native della persona, mettendo in rilievo le forme agili e snelle. Il bruno delle vesti dava gran risalto alla delicatezza del volto ed una certa gravità all'aspetto giovanile.

Dovunque si andasse, il suo passaggio attirava la simpatia e l'ammirazione, e l'Agata ed io ne andavamo superbi.

Abbiamo passato l'inverno mestamente, occupandoci degli affari, visitando i monumenti della città, e facendo lunghe passeggiate. Il vuoto lasciato nella casa dalla morte del povero zio mi aveva prodotto una profonda tristezza, e fatto dimenticare intieramente la contessa Savina. Mia moglie, partecipando al mio lutto, aveva abbandonato le ubbie sospettose, e fidente nella mia onestà, mi lasciava tranquillo. Tutti gli affetti s'erano concentrati sull'unica figlia, che colla sua vivacità giovanile leniva le nostre afflizioni. Avevamo adottato delle usanze urbane regolari e casalinghe, ma quando gli aliti primaverili ci apportarono gli effluvi delle prime violette, ci si ridestò il desiderio dei monti. Oramai io era avvezzo da tanti anni a respirare l'aria libera della campagna, che a lungo andare i muri della città mi opprimevano: poi le memorie, le abitudini, gli affari ci creano bisogni ai quali non è facile sottrarsi.

Mia moglie assai più di me anelava al ritorno, desiderosa di riabbracciare la vecchia madre che ci aspettava ansiosamente, di rivedere i fiori, gli alberi e gli animali che reclamavano le sue cure, e di rimettersi alle occupazioni domestiche, alle quali doveva iniziare la figlia. Aggiungasi che, sbrigati gli affari pressanti, s'incominciava a sentire la noia della vita disoccupata, che ci spingeva al ritorno; ma la Giuseppina ci tirava in lungo con sempre nuovi progetti. Un giorno voleva ritornare alle gallerie di Brera, un'altra volta desiderava rivedere il Museo, o risalire sul Duomo o rivisitare qualche chiesa, o passeggiare in piazza Castello fino all'Arco della Pace, o fare il giro dei bastioni.

Il nostro affetto ci portava alle concessioni, eravamo felici di sacrificarci per contentarla e si diventava schiavi de' suoi capricci.

Talvolta, sorpreso da domande di nuove dilazioni, le chiedevo con impazienza:

— Come mai non desideri ancora di rivedere il tuo paese?... e la buona nonna che ti aspetta con tanta impazienza per stringerti finalmente al seno?...

— Anzi, lo desidero moltissimo, — mi rispondeva, — ma abbiamo tempo... la vita è così lunga!...

— Ma chi ti ha detto che la vita è lunga?

— Lo sento io... il tempo non passa mai!... a te dunque non parvero lunghi i sei anni che ho passati in collegio?... a me sembrarono eterni!... chiusa in prigione... e lontana da voi!...

— Ma ora che sei libera, che hai veduto tre o quattro volte tutti i monumenti, i giardini, i passeggi, i corsi di Milano, non sei ancora sazia di questa vita scucita, scioperata, monotona?

— Io la trovo deliziosa!... non mi stancherei mai di Milano, sento che ho del sangue milanese nelle vene... questo movimento continuo, questa vita romorosa e svariata mi occupa immensamente. Ogni giorno si vedono novità interessanti, le industrie fanno un'esposizione perenne dei loro prodotti, le vie sono popolose, allegre, la musica echeggia da ogni parte, tutto si muove, sorride, cammina, svolazza; qui si sente di far parte d'una società intelligente, elegante, vivace.

— Ma bisogna pure una volta o l'altra rassegnarsi a partire.

— Pur troppo!... — conchiudeva con un sospiro, e alzando gli occhi al cielo. Poi mi supplicava con tanta grazia di concederle ancora qualche giorno, che non era possibile resistere. Sua madre, che era la prima vittima di tale sacrifizio, diventava il suo avvocato patrocinante, ed io cedeva, sempre rassegnato ad aspettare senza limiti.

Non sapevo però spiegarmi tanta renitenza al ritorno, quando una catastrofe impreveduta venne a sciogliermi l'enigma.

Un giorno ch'io ero uscito solo di casa, rientravo col naso in aria, guardando sbadatamente la nota finestra del palazzo Brisnago, quando — oh meraviglia!... vedo un mazzetto di fiori che vola attraverso la strada, e partendo dal palazzo va a cadere sulla finestra della mia antica cameretta.

Sbigottito, commosso, confuso, mille pensieri mi assalgono, e mi par di sognare. Dopo tanti anni!... il mio mazzetto ritorna indietro!... che cosa significa questo mistero?... Mi agito, mi scuoto, mi decido a voler vedere che cosa succede, mi colloco in posizione opportuna per osservare nella stanza del palazzo... e vedo con sorpresa il figlio della contessa Savina, il conte Saverio di Montegaldo, il giudice conciliatore, che gettava baci alla mia finestra, e li gettava con tale entusiasmo, che pareva diventato cieco e insensibile a quanto lo circondava.

Balzo rapidamente dalla parte opposta, e vedo mia figlia che, tenendo in mano il mazzetto di fiori, lo copriva di baci, e poi li soffiava dall'altra parte!...

Gli occhi mi si offuscarono, le gambe mi traballarono come se dovesse mancarmi il terreno sotto ai piedi, dovetti appoggiarmi al muro per non cadere. Il mondo mi pareva trasformato, capovolto. Una volta... ai miei tempi... la contessa era fuggita... adesso mia figlia rimane... e ricambia i baci... ah civettuola!... non c'è dunque più ritenutezza, nè pudore, nè modestia... nemmeno nelle fanciulle!... ed io pensavo alla mia timidità giovanile... alle mie esitazioni!... È vero che io non ero stato educato in un collegio femminile... ma tuttavia!... o poveri genitori!...

Mi feci coraggio, rientrai, salii rapidamente le scale, e senza chiedere ove fosse mia moglie, corsi difilato verso la mia antica cameretta, e spalancata la porta con un calcio, comparvi improvvisamente davanti a mia figlia.

Allo strepito della mia entrata il conte sparì, Giuseppina diede un guizzo, ed esclamò:

— Oh Dio!... papà... mi hai fatto paura!...

Era pallida, ed appoggiandosi una mano sul cuore, con l'altra sosteneva impassibilmente il suo mazzolino.

La fissai per qualche istante in silenzio, chiusi la porta, indi proruppi con accento severo reso più grave dalla situazione:

— Giuseppina!... so tutto!...

— Che cosa sai, papà?... — mi rispose tranquillamente.

— O come?... Osi ancora mostrarti indifferente alla desolazione di tuo padre?... dopo esserti lasciata sedurre dalle moine del conte di Montegaldo?...

— Allora vedo che non sai proprio niente!... — mi rispose con imperturbabile calma.

— Come!... oseresti ancora negare?

— Sicuro!... devo negare ciò che non è... non è il conte Saverio che mi ha sedotta... sono io che ho sedotto lui!...

Tale risposta mi parve d'un cinismo così rivoltante... che mi venne la tentazione di darle uno schiaffo... e feci due passi avanti col volto tanto sconvolto, che essa ne ebbe paura e fece due passi indietro. Allora procurai di moderarmi, chiusi anche le invetriate, tirai le tendine, e sentendo che le forze mi venivano meno, mi gettai sopra una sedia, mi tersi il sudore dalla fronte, e le dissi:

— La vostra impudenza richiede una spiegazione....

Ed essa di rimando:

— Ecco la spiegazione: i primi giorni che abitai questa cameretta mi alzavo per tempo, come è mio costume, e mi mettevo a ricamare al balcone. Il conte Saverio veniva a fumare il suo sigaro alla finestra dirimpetto e mi salutava cortesemente....

— Egli ti salutava?... e tu?

— Ed io naturalmente rispondevo al saluto....

— Ma dunque in collegio non ti hanno insegnato che una ragazza onesta non deve rispondere al saluto d'un uomo che non conosce?...

— Me l'hanno insegnato benissimo... come mi hanno anche insegnato che non è creanza non rispondere al saluto di chi si conosce. Ed io che conosco il conte Saverio....

— Come?... tu conosci il conte Saverio?

— Eh eh!... lo conosco, non solo, ma siamo vecchi amici!

— Amici da quanto tempo?

— Da sei anni; cioè dall'epoca che siamo venuti a Milano, quando mi hai condotto in collegio.

— Allora tu eri una fanciulla di dieci anni, ed egli ne poteva aver dodici... e come avete fatto a conoscervi?

— La Veronica, vedendo che io ammiravo dalla finestra gli alberi e i fiori, promise di condurmi a vedere il giardino Brisnago, a condizione che tenessi la cosa in segreto, perchè altrimenti sarebbe stata sgridata da Monsignore, che non voleva aver relazione con quei signori. Io giurai di star zitta, e tenni la mia parola fino a questo momento!... Quando tu e il povero zio canonico eravate andati pei fatti vostri, Veronica scendeva a far conversazione col portinaio che era suo amico, e mi faceva entrare in giardino.

Io non la vedevo più per un pezzo, mi diceva che andava a far la spesa, e veniva a prendermi più tardi.

Colà conobbi Saverio, egli mi fece gli onori di casa guidandomi intorno a quelle belle piante, poi mi propose di saltare la corda e di giocare a gatta cieca, e così ci siamo divertiti più volte.

Un giorno me ne tornavo a casa colla Veronica, mentre rientrava la contessa Savina. La Veronica volle ch'io baciassi la mano alla signora quando discese dalla carrozza. Avendo udito chi fossi, mi diede un bacio e mi accarezzò lungamente i capelli, guardandomi con bontà, e facendo il mio elogio. Mi fu subito molto simpatica, e la rividi sempre con piacere in collegio quando veniva con suo figlio a visitare una mia compagna loro parente. Portava sempre dei bomboni anche per me, dicendo: povera ragazzina che ha i genitori lontani!... E la contessa mi dava dei baci!... Ma che cosa hai, papà, che ti vengono gli occhi rossi?..

— Io?... t'inganni, non ho altro che il dolore di scoprire tanti intrighi, che finiscono con un altro amore impossibile!...

— Impossibile!... e perchè?... se ci amiamo, l'amore non è impossibile!... infatti....

— Infatti come è finita?...

— Ma!... devo ripeterlo... è finita che l'ho sedotto!...

— Ma come diamine l'hai sedotto?

— Oh bella!... non sai come si seduce?... Stando seduta al lavoro. Egli mi guardava lungamente... io fingevo di non vederlo, e lo facevo aspettare un bel pezzo... poi alzavo la testa con aria indifferente e gli davo un'occhiata. Poi le occhiate divennero più frequenti... e più lunghe....

— Tutte compagne!... — dissi fra me, ed essa continuò:

— Finalmente un giorno mi disse ch'io l'avevo sedotto!...

— Ma che!... vi parlate dunque attraverso la strada?...

— Oh!... come puoi credere ad un simile scandalo?...

— Ma dunque?...

— Diavolo!... ci scriviamo.

— Come?... avete anche l'audacia di scrivervi?

— L'audacia!... perchè l'audacia?... A che cosa servirebbe l'aver imparato a scrivere, se non fosse per esprimere i propri pensieri?... a che cosa servirebbe la posta, se non fosse incaricata di trasportare i segreti di chi non è in caso di parlarsi?...

— Ma ricevi le sue lettere per la posta?

— È il mezzo più sicuro... e più economico.

— Ma tua madre non legge le tue lettere?

— Vuoi che mi faccia un simile oltraggio!... non siamo più ai tempi dell'inquisizione... la mamma mi domanda chi mi scrive... io nomino una compagna di collegio, che mi scrive realmente... accompagnandomi, per favore, le lettere di Saverio.

— Una volta non si osava tanto!... i tempi sono cambiati.

— Sono cambiati in bene, lo sai!... lo dicono tutti!...

— Ma non ti è mai venuta l'idea che la tua condotta fosse censurabile?

— Altro che!... m'è venuta sovente questa idea....

— E dunque?

— E dunque ho pensato di attendere i consigli dal tempo, per scegliere con maturità e con sicurezza il partito da prendersi.

— E non sarebbe stato meglio, prima di abbandonarti a simili avventure, di pensarci sopra, e di consultare tua madre?...

— È vero... è verissimo... ti assicuro che queste cose me le sono ripetuta le cento volte... ma che vuoi?... quella maledetta finestra... io non so che cosa abbia... c'è un'attrattiva fatale... irresistibile che mi trascinava al suo davanzale, che mi obbligava a girar la testa... e allora vedevo Saverio dall'altra parte... e tutte le ragioni svaporavano!...

— È una vera fatalità!... — io esclamai abbassando il capo, e meditai lungamente questo pensiero.

Si dice che Napoleone I, avendo saputo che ogni notte una sentinella si suicidava nella stessa garetta, l'abbia fatta abbruciare, e non si ebbero più a deplorare suicidii in quel posto. Ci sono ancora tanti misteri inesplicabili nella vita!... Se dopo la mia partenza mio zio avesse fatto murare il balcone della mia camera, mia figlia, molti anni dopo, non sarebbe rimasta vittima della stessa malìa....

Sentii compassione di lei, e le dissi:

— Se non fossi tuo padre, potrei burlarmi della tua leggerezza e riderti in faccia!... figlia d'un povero maestro, tu aspiravi dunque a diventare contessa?... vergognati del tuo orgoglio, e rassegnati al destino che ti condanna a non guardar tanto in alto!... Procura d'aver coraggio... e rinunzia a questa prima affezione!...

— È troppo tardi!... — mi rispose con voce solenne.

Diedi un guizzo sulla sedia, feci un salto fino a lei, presi le sue mani nelle mie, e fissandole gli occhi in faccia, le chiesi con ansia convulsa:

— Oh perchè è troppo tardi?... rispondi la verità... subito... tutta la verità....

Rimase imperturbabile, e mi rispose tranquillamente:

— Perchè il mio primo amore sarà anche l'ultimo!...

— Mi parve di udire ne' suoi accenti la voce dell'Agata quand'era ragazza, dopo d'aver sentito nelle sue rivelazioni il mio cuore giovanile rivivere in lei!...

Dopo una breve pausa ripresi il mio posto, e le dissi:

— Non hai dunque pensato mai alla distanza che divide la tua modesta famiglia dal nobile casato dei Montegaldo?

— Oh papà, queste sono idee vecchie!...

— Benissimo!... e il denaro?...

— Ebbene, del denaro ne abbiamo anche noi... dicesti l'altro ieri che siamo ricchi.

— Sì, relativamente alla mia passata miseria... ma in confronto dei Montegaldo... e dei Brisnago, le nostre rendite non basterebbero a comperare il fieno pei loro cavalli.

— Tanto meglio.... Sarò sicura che non mi sposerà per la dote!...

— In quanto poi alle qualità personali del conte Saverio non le conosco, ma ti faccio osservare che è figlio d'un scialacquatore, d'un giocatore, d'un vizioso, che rese infelice la moglie, lasciando di sè una triste memoria!...

— I figli — mi rispose gravemente — non sono responsabili dei torti dei genitori. Saverio è un ottimo ragazzo, mi vuol bene e sarà mio marito!...

— Non fidarti!... — le dissi. — Quando i giovani hanno rette intenzioni, si presentano i genitori. Non ti dirò che cosa io pensi d'un signorino che getta baci dalla finestra alle ragazze... sono cose che si sono vedute ancora... ma non si è mai veduto che una fanciulla onesta li accetti... e li rimandi!...

— Credi dunque che il caso sia nuovo?...

— Se non è nuovo, non merita d'essere imitato....

— A venti passi di distanza!... ne ho avuto l'assoluzione dal confessore... e tu non sarai più severo di lui!...

— Non lo so, — risposi bruscamente, — ma intanto apparecchiati a fare la penitenza, perchè domani partiremo per la Valtellina....

Uscito dalla stanza mi recai subito a partecipare all'Agata la mia scoperta. Essa ne rimase colpita ed esclamò:

— Maledetta finestra!... sentivo dentro di me che mi doveva essere fatale!...

Corse subito dalla Giuseppina, che si gettò nelle braccia materne piangendo.

Piansero insieme, mentre io faceva i preparativi della partenza.

Alla mattina seguente, lasciando la casa in custodia alla Veronica, prima del levar del sole eravamo in vettura.

XXIV.

Il viaggio fu malinconico. Giuseppina era pallida e pensierosa, Agata accorata, io malcontento ed inquieto. Mia suocera, che ci aspettava con espansiva letizia, ci trovò tutti oppressi da incomprensibile tristezza, e ne rimase rammaricata, quantunque sua nipote le prodigasse le più affettuose carezze. Giuseppina, salita nella cameretta che sua madre le aveva allestita con tante cure delicate, ne rimase commossa, ed accorse a baciarla teneramente, per esprimerle la sua viva riconoscenza; ma l'Agata ed io pensavamo che quella maledetta finestra di Milano, che aveva attristata la mia gioventù, avrebbe continuato a molestare col suo influsso la nostra famiglia e ad amareggiarci la vita.

Un'ora dopo l'arrivo la cena era pronta, e ci sedemmo intorno al solito tavolo rotondo del tinello, ma il posto vuoto del povero nonno Nicola ridestò il dolore della sua perdita, e Giuseppina, non potendo più oltre frenare l'affanno che l'opprimeva, diede in uno scoppio di pianto. Ci volle molto tempo a calmarla, pareva che i singhiozzi la soffocassero. Così nei giorni più solenni della vita, il pane della famiglia è sovente bagnato di lagrime, ma quelle lagrime cementano le sante affezioni e le onorate memorie, mentre le risa dei baccanali sono lampi fra le tenebre, nella solitudine del cuore.

Bitto, oramai vecchio decrepito, trascinandosi lentamente ai piedi dell'antica sua amica, che vedeva immersa nel dolore, le posò il muso sui ginocchi, e guardandola con occhio pietoso, pareva le dicesse: divido le tue pene.

I primi giorni del ritorno al villaggio furono dunque piuttosto tristi che lieti; e forse, se alcuni anni dopo la morte ritornassimo al mondo, avremmo parimente più motivi di piangere che di rallegrarci, anche senza tener calcolo dell'accoglienza degli eredi!

Giuseppina ricevette le visite di tutti gli antichi amici, li accolse con affettuosa cortesia, ma dopo che erano partiti faceva le meraviglie trovandoli tanto invecchiati.

Il parroco avea i capelli bianchi, Tobia era calvo e stecchito, il farmacista aveva le rughe, il medico s'era fatto floscio e panciuto; la signora Pasquetta sola era ringiovanita, il bruno de' suoi capelli aveva acquistata una tinta così intensa, che in qualche sito si fondeva sulla pelle.

In complesso il villaggio non presentava a nostra figlia quelle attrattive che avremmo desiderato. Essa parlava continuamente delle belle cose di Milano, del buon gusto delle signore, del lusso delle carrozze, della vita che pullulava in tutti gli angoli della città.

Desideroso di ricondurla ai gusti materni, un giorno le presentai l' Ortolano dirozzato eccitandola alla lettura.

— Lo conosco, — mi disse guardandomi con malizia, — l'ho spolverato per tanti anni sul tuo scrittoio! — Poi si mise a scartabellarlo sbadatamente, e trovato il segnale alla pagina 10, me lo restituì con un sorriso, soggiungendo:

— Ti prego di non privartene; me lo darai quando avrai finito di leggerlo.

M'avvidi pur troppo che, per sua disgrazia, essa aveva molti gusti del babbo, e procurai con buoni consigli di persuaderla a moderare la fantasia per non esporsi ai disinganni, evitando, per quanto fosse possibile, di apprendere la vita dall'esperienza, e attenendosi agl'insegnamenti di chi ne aveva subìte le dure lezioni. Ma non c'era più verso di ridurla a crearsi delle abitudini semplici e confacenti alla nostra condizione. Essa tagliava, disfaceva e riformava ogni tratto i suoi abiti nuovi, per ridurli alla foggia del giorno; alzava od abbassava i capelli secondo le indicazioni dell'ultimo figurino. In breve tempo divenne il modello dei paesi vicini; le signore dei dintorni venivano a passeggiare nel nostro villaggio per vedere come era tagliato il suo abito, ed imitarla.

Essa consigliava le amiche e le vicine sul modo di vestirsi, e si udivano lunghe e gravi discussioni sopra la dimensione delle gonne, gli svolazzi, lo sparato delle maniche, le guarniture di frangie o di sghembi, e si questionava seriamente sul nodo vagabondo della cintura. La signora Pasquetta esprimeva il suo debole parere, mia figlia sorrideva sdegnosamente, presentava obiezioni irresistibili, e dichiarava con profondo convincimento che quella foggia era divenuta impossibile, che quel tale oggetto si doveva bandire.

— Ma perchè?... se è tanto bello!... se fa tanto effetto!

— Non si porta più!... — rispondeva mia figlia, con sentenza assoluta ed inappellabile.

Tutto il circolo femmineo che la stava ascoltando la guardava con ammirazione. Così i giovani impongono ai vecchi i nuovi usi e costumi, e portano dal collegio alla casa ed alla società nuove idee che modificano le arti e le industrie, e producono rivoluzioni politiche, letterarie ed artistiche, le quali sconvolgono il mondo con nuovi sistemi, nuove poesie, o nuove giubbe, secondo la forza degl'innovatori. Peccato che le cose recenti non sieno sempre migliori delle antiche; ma bisogna tacere, altrimenti dicono che si diventa vecchi.

Intanto che mia figlia si occupava delle frivolezze della moda, io andava mulinando le cose serie pensando come sarebbe finita la faccenda della finestra; e mia moglie, come al solito, accumulava sospetti sopra timori, calcolando tutte le conseguenze d'una passione rinchiusa nel cuore d'una fanciulla; prevedendo che un'idea fissa le avrebbe fatto perdere delle buone occasioni di matrimonio, condannandola ad accettare più tardi un partito qualunque, per non restare zitella.

Agata rievocava lo spettro della mia gioventù, vedendo che mia figlia mi somigliava nelle mie inclinazioni fantastiche, e negli amori vaporosi e perfino nelle ambizioni sfrenate; io le avevo avute per la tragedia del medio evo, essa le aveva ancora per la commedia... della moda.

Io mi forzavo dimostrarle, che le conseguenze dei miei errori giovanili non furono poi disastrose, e non mi avevano impedito di diventare buon marito e buon padre, e abbastanza felice, per quanto lo consenta l'umano destino... e la turbolenza femminea.

Si rabboniva, dovendo confessare che non ero una cattiva pasta, che dopo il matrimonio la mia condotta fu sempre regolare ed incensurabile; ma non poteva dimenticare la fatale influenza di quella finestra sulla nostra famiglia.

Infatti quella finestra coi nuovi amori ci dava sempre dei pensieri smaniosi. Che fare?... Dobbiamo distrarre l'innamorata con un viaggio od attendere? interpellarla o tacere?... e dopo lunghe discussioni intorno al partito da prendersi, si restava sempre nell'incertezza.

Eravamo in questi termini, quando una mattina il procaccino mi consegnò una lettera col timbro di Milano, e con soprascritta di carattere ignoto. L'apro, corro con l'occhio alla firma, e leggo — Savina Brisnago di Montegaldo!...

Essendo la prima volta che mi venivano alla mano i suoi caratteri, non è da sorprendersi se un'emozione indefinibile mi corse per le vene, e per qualche istante me ne rese impossibile la lettura.

Finalmente ho potuto scorrere la lettera da capo a fondo. La contessa, coi modi più garbati, mi chiedeva la mano di Giuseppina pel conte Saverio suo figlio.

Corsi dall'Agata e le dissi:

— Giuseppina mi ha dichiarato a Milano che il primo suo amore sarà anche l'ultimo. Tu vedi che non somiglia a me solo, essa ha le cattive qualità del babbo, e le buone della mamma. Vuoi renderla felice e uscire da ogni incertezza?... Ebbene; tu sai che il segreto per sciogliere lodevolmente il nodo di tutti gli amori si trova nel matrimonio. Se concedi tua figlia in isposa al conte Saverio di Montegaldo, tutto è finito per il meglio, nel migliore dei modi.

— È una bella scoperta, ma come se ne può fare l'applicazione?

— Rispondendo favorevolmente alla domanda della contessa Savina... — e così dicendo le porsi la lettera.

Mia moglie la lesse rapidamente, e ne rimase sbalordita... La prima impressione fu buona, essa non pensò che a sua figlia... poco dopo, pensando al resto, esclamò:

— Povere madri!... a quanta abnegazione siete costrette talvolta, per assicurare la felicità dei vostri figli!...

Tacque qualche istante, indi soggiunse:

— Daniele, rendimi giustizia, confessa che i miei presentimenti avevano ragione... io sentiva che quella finestra doveva rapirmi qualche cosa!... è meglio però che prenda mia figlia, e mi lasci il marito!... Almeno le nostre questioni saranno finite!

Ci voleva proprio il giudice conciliatore per terminarle, — io osservai; — è un originale venuto al mondo a bella posta per accomodare le differenze fra mogli e mariti.

Chiamata la Giuseppina, le abbiamo subito comunicata la nuova. Ci parve lieta, ma non sorpresa.

— Sei contenta, — le domandai, — se mandando alla contessa la nostra adesione, invitiamo lo sposo a sollecitare la sua venuta?

— Non occorre, — mi rispose, — perchè è qui da varii giorni.

— Poffare del mondo! — esclamai... — io non sono di questo secolo!

Il conte Saverio era infatti al villaggio, accomodato alla meno peggio all'osteria, aspettando la lettera di sua madre e il nostro consenso. Durante il giorno si teneva nascosto, riservandosi di confabulare colla sua bella al chiaro di luna, quando tutto il villaggio dormiva. Al segnale convenuto Giuseppina apriva pian piano le persiane della sua cameretta, e si affacciava alla finestra, Saverio era lì che l'aspettava, e passavano lunghe ore, egli in mezzo alla strada, ed essa al balcone, facendo la serenata colle armonie del cuore, e trovando sempre nuove variazioni sullo stesso motivo.

Dopo ricevuta la lettera della contessa, e udita la narrazione di mia figlia, andai io stesso a liberare Saverio dalla sua prigione, e gli apersi le porte di casa. Mia moglie e mia suocera lo accolsero come un figlio. Egli non ebbe parimente a lodarsi di Bitto, che lo ricevette come un ladro, abbaiando furiosamente, e minacciandolo se avesse osato avanzare. L'intervento della promessa sposa calmò i furori del cane, che anche questa volta dovette rassegnarsi alla volontà della sua amica; ma non lo fece però senza malcontento, continuando a ringhiare per qualche tempo sotto al tavolo, e guardando di cattivo occhio colui che ci veniva a rapire il tesoro più prezioso della casa.

Io mi ritirai per rispondere alla contessa Savina, che onorati altamente della sua domanda, ci eravamo affrettati di accogliere il conte Saverio come un figliuolo, lieti di affidargli la felicità di nostra figlia; e proseguivo con rispettose espressioni, che mi venivano suggerite dalla circostanza. Scrissi quattro pagine e mi recai a sottoporle al giudizio di mia moglie.

Leggendo attentamente la lettera, essa dimenava la testa in segno di disapprovazione, dicendomi: — Questa frase ha un doppio senso... questa è un'evidente allusione al passato... questa espressione è troppo sentimentale... l'altra è poco rispettosa. — Trovava altre frasi che non erano assolutamente necessarie, nè convenienti, nè del caso. Perciò, finite le amputazioni, non restavano che poche righe e la firma. Dovetti passare due ore con l'Agata, pesando tutte le parole, e credo che nessun diplomatico al mondo avrà ponderato un dispaccio che decideva dei destini d'una nazione con precauzioni maggiori di quelle che vennero usate da mia moglie per accettare una semplice domanda di matrimonio.

Pochi mesi dopo si celebrarono le nozze, e gli sposi partirono il giorno stesso per fare un viaggetto in Toscana.

Non racconto la storia del distacco per non rinnovarne il dolore. Agata ne fu ammalata parecchi giorni, e non poteva riaversi, e da quel momento incominciò a coltivare l'idea di abbandonare il villaggio, e di fissare la nostra dimora a Milano per vivere presso la figlia. Ma due gravi ostacoli si opponevano alla esecuzione di tal disegno: l'età avanzata di mia suocera, che non avrebbe abbandonato senza pericolo le vecchie abitudini, e un fondo persistente di gelosia, che la consigliava di tenermi sempre lontano dalla contessa Savina.

Sei mesi dopo il matrimonio gli sposi vennero a farci visita, e dieci mesi appresso l'Agata riceveva una lettera di Giuseppina che la pregava di recarsi a Milano per assistere al suo primo parto. Essendo la stagione del taglio dei boschi, mi era impossibile di abbandonare il paese; perciò mi limitai ad accompagnare mia moglie fino a Como, ove mio genero l'aspettava per condurla a Milano. Io ritornai in Valtellina e la settimana seguente ricevetti il lieto annunzio che nostra figlia aveva dato alla luce felicemente una bambina, e che la neonata e la puerpera godevano una perfetta salute. Mia moglie ritornò a casa pochi giorni dopo, e dandomi buone notizie della nuova famiglia, mi raccontò le cortesi accoglienze ricevute dalla contessa Savina, la quale, — aggiungeva mia moglie, — malgrado gli anni è sempre una bella donna! e così dicendo si mordeva il labbro inferiore e mi fissava con due occhi scintillanti, che indicavano chiaramente i sospetti della gelosia risvegliati alla vista d'una bellezza che, quantunque matura, non escludeva il pericolo. Oramai ero avvezzo alla sua cecità, e non tentavo nemmeno di guarirla, proponendomi il solo scopo di fuggire tutte le occasioni che potessero aggiungere esca a quel fuoco.

L'inverno successivo sarebbe passato tranquillamente, se una perdita dolorosa non fosse venuta ad amareggiarlo: il povero Bitto morì di vecchiaia. Da qualche tempo la paralisi delle gambe lo obbligava a non muoversi dal cuscino, e solo le nostre assidue cure lo tenevano in vita. Giunto agli estremi, fissò l'occhio affettuoso ne' suoi amici e spirò.

Avendo confessate francamente tutte le nostre debolezze, non vedo il motivo di nascondere le lagrime che abbiamo versate per la sua morte, nè di tacere della modesta ma decente sepoltura che gli abbiamo eretta in giardino, in memoria della sua fedele amicizia. Chi non è contento di ciò se ne dolga pure con quegli amici che ci abbandonano nella sventura, e con quegli uomini che non sanno meritare l'affetto che ispirano i cani.

I nostri figli vennero due volte in Valtellina, ma la loro bimba era rimasta a Milano colla sua balia. Io desiderava vivamente di vederla, tuttavia i soliti motivi d'affari e di prudenza mi vi tenevano lontano. La malferma salute di mia suocera impediva a mia moglie d'allontanarsi di casa, ed io non volevo andar solo a Milano, senza un motivo plausibile che giustificasse il mio viaggio. Non mi sentivo ancora abbastanza forte per affrontare un pericolo che mi esponeva a perdere per sempre la pace domestica, e a compromettere l'onore di due famiglie. I sospetti di mia moglie accrescevano la mia paura.

Ma l'occasione venne a tirarmi per i capelli, ed io ho dovuto ubbidire. Una lettera pressante d'affari mi chiamava a Milano; si trattava di salvare o di perdere un capitale importante, onde mia moglie stessa dovette spingermi alla partenza.

Apparecchiai in fretta la mia valigia, presi congedo da mia suocera inferma e mi avviavo verso la vettura che stava attendendo, quando mia moglie, accompagnandomi all'uscio, mi disse con un profondo sospiro:

— Finalmente potrai avvicinarti per la prima volta alla contessa Savina, guardarla negli occhi, udire la sua voce, stringere la sua mano!...

— M'immagino, — le risposi freddamente, — che non mi tratterai da briccone! Non vorrai dimenticare i nostri figli!...

— È così bella!... — essa mi rispose mostrandosi indifferente a ogni altra considerazione. — Infatti, — soggiunse, — va, che Dio ti benedica; a questo mondo nessuno può fuggire alla sorte che gli è riservata!... Io ti stimo abbastanza per pensare che, se cadi, la forza che ti spinge è irresistibile.... Va... e ritorna presto... che sia decisa una volta, se posso vivere in pace gli ultimi anni della vita... o se devo morire desolata!...

Era inutile di discutere. Le diedi un bacio sulla fronte, essa mi strinse la mano; e, allontanandomi, lessi nel suo sguardo ciò che non osava dirmi col labbro.

Partii amareggiato da così persistente ingiustizia, considerando fra me stesso l'infamia della gelosia, che espone l'accusato a compromettersi colle goffaggini che fa per salvarsi, che spinge insensibilmente l'innocente verso la colpa, la quale gli procura dei benefizi che non peggiorano la sua condizione, ed anzi la rendono più sopportabile, perchè le giuste accuse riescono sempre meno dolorose delle false.

Giunsi a Milano a notte avanzata, triste e pensieroso, tanto mi crucciava trovarmi costretto all'intimità della contessa Savina. Ma questa volta non potevo fuggire.

La Veronica, che mi aspettava, m'aveva apparecchiata la mia cameretta ed allestita la cena; mi sentivo stanco, era troppo tardi per recarmi in casa Brisnago; andai dunque subito a letto, rimettendo la visita all'indomani. Ho dormito inquieto, agitato, con sogni paurosi; m'alzai al mattino colla testa pesante, e le idee confuse.

Apersi la finestra quando le imposte del palazzo Brisnago erano ancora chiuse, e mi sedetti davanti al tavolino per prendere varie note intorno ai miei affari. Ma quella benedetta camera era così pregna di memorie giovanili, che mi faceva dimenticare il presente, respingendo tutti i miei pensieri al passato.

La mia mente era ritornata, mio malgrado, ai bei giorni della gioventù, ai primi sogni d'amore, quando entrò la Veronica, dicendomi che aveva già fatto annunziare il mio arrivo in casa Brisnago. Mi versò nella tazza il caffè che aveva apportato, e mentre io lo andavo sorseggiando col pensiero sempre fisso al passato, essa guardava fuori dalla fatale finestra. Tutto d'un tratto vedo che si volta rapidamente e mi dice:

— Venite... presto... la contessa Savina vi manda un bacio!...

Mi è caduta la tazza dalle mani, le forze mi mancarono per alzarmi.

— Mio Dio!... che cosa avete?... — mi chiese ansiosamente la Veronica.

— Lasciatemi tranquillo... è un'indisposizione che passerà subito... — il cuore mi batteva, la testa mi girava, vedevo tutto buio....

Veronica mi offriva dell'acqua... io la respinsi.

— Non è nulla! — balbettai... — incomincio a rimettermi... — e poco dopo mi alzai macchinalmente.

— Venite... venite dunque, — mi ripeteva la Veronica.

Avanzai barcollando, e senza sapere ove andassi, mi affacciai alla finestra. Oh quale spettacolo!... una vezzosa bimba, portata sulle braccia d'una contadina brianzola, mi mandava un bacio.

Era il primo bacio della contessa Savina... a suo nonno.

Assorto ne' pensieri remoti, io aveva completamente dimenticato che la mia piccola nipote portava il nome... della nonna.

Così il debito della contessa Savina di Brisnago veniva pagato dalla contessa Savina di Montegaldo, discendente diretta della prima, erede legittima e responsabile della sostanza attiva e passiva degli avi.

Liquidata in tal modo la partita pendente, scomparvero le allucinazioni che mi avevano lungamente molestato. La luce serena del vero, illuminando il numeroso corteggio degli anni che mi trascinavano alla vecchiaia, e l'ilare aspetto dell'innocenza che apriva la serie de' miei discendenti ristabilirono pienamente nel mio spirito la calma serenità della ragione.

Tirata una linea di demarcazione sui conti arretrati, ho potuto presentarmi in casa Brisnago col solo titolo di parente, e in conseguenza con puri e santi affetti nell'animo.

Mia figlia e mio genero si gettarono fra le mie braccia colla loro bimba, e quando entrò nella stanza la contessa Savina, ci siamo stretti la mano in mezzo alla nostra famiglia, come dovevano stringersela due nonni....

XXV.

Sono passati molti anni da quel giorno. Poco dopo morì la mia buona suocera in Valtellina: noi abbiamo appigionate le terre, e siamo venuti a prendere stabile dimora a Milano, nella casa ereditata dallo zio canonico dirimpetto ai nostri figli e nipoti, la serie dei quali si è arricchita di due maschi, Azzone e Daniele, e dell'ultima bambina, che si chiama Agata.

La povera nonna Savina è mancata ai vivi nel mese decorso.

Incaricato da mio genero di ricercare un documento di famiglia in un armadio di sua madre, che egli non osava dischiudere per non inasprire la ferita troppo recente, io andavo rovistando con mano tremante le carte della defunta, quando mi capitò sotto gli occhi un involto legato da un nastro nero.

Avendolo aperto, cadde sul tavolo il mazzetto di mammole ed eliotropii colla rosa nel mezzo, che io le aveva gettato dalla finestra nella mia gioventù.

Diseccato dagli anni, non aveva ancora perduto ogni profumo. Lo tenni lungamente fra le mani piangendo. Era il mio ultimo tributo al passato.

Un mazzetto di fiori secchi, bagnati di lagrime... ecco quanto restava d'un primo amore!...

Però quel mazzetto, reliquia insignificante ai profani, era per il mio cuore pieno di eloquenti e supreme rivelazioni.... In esso io leggeva la seconda parte del romanzo della mia vita... la più interessante, ma che resterà inedita per sempre... Essa non mi appartiene, è il segreto d'un nobile cuore coperto da un drappo funebre.... Io non ho nè la potenza di far rivivere quel cuore, nè il diritto di profanare un morto con postume inquisizioni.

Ho narrato la sola parte che mi riguarda nell'interesse de' miei nipoti.

Leggendo un giorno il racconto del nonno potranno forse sfuggire a quei sottili prestigi che affascinano l'incauta gioventù con allucinazioni che sembrano inoffensive, ma che talvolta esercitano una fatale influenza su tutta la vita.

Voglia il cielo preservare i miei cari dal benchè minimo pericolo, rendendoli modesti e prudenti in gioventù, e sempre virtuosi, assennati e felici, fra le cure operose del loro stato e nella pace della vita domestica.

Villa Saltore, 25 maggio 1874.

FINE.

DEL MEDESIMO AUTORE:

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I CODICI D'ITALIA

conformi al testo ufficiale, col riferimento degli articoli fra essi, e colle Leggi, Decreti, Regolamenti, Circolari, ecc., che completano, spiegano e modificano le disposizioni dei Codici: nonchè con tutte le principali Leggi e Regolamenti, ecc.; con indice alfabetico analitico ragionato delle materie. L'ordinamento e le note sono dovute all'avvocato Enrico Rosmini.

I. Codice Civile.

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II. Codice Commerciale.

Il nuovo codice di commercio del 1882, col regolamento; codice di marina mercantile, col regolamento; Leggi commerciali; Privative industriali; Cassa depositi e prestiti; Diritti d'autore; Convenzione di Berna; Magazzini generali; Credito fondiario.  L. 3 50

III. Codice politico-amministrativo.

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IV. Codice Penale.

Codice penale; Codice di procedura penale; Disposizioni per le assise e i giurati; Codice penale per l'esercito e per la marina; Legge e regolamento sulla Pubblica sicurezza; Leggi sulla stampa.  L. 3 —

V. Codice Finanziario.

Imposte dirette: Leggi e regolamenti sui fabbricati; Perequazione fondiaria; ricchezza mobile; riscossione. — Tasse sugli affari: Registro e bollo; manomorta; ipoteche; concessioni governative; carte da giuoco. — Dogane, Dazi, Privative, compreso il testo completo della nuova Tariffa Generale. — Dazi di consumo. Tasse di fabbricazione. Provvedimenti finanziari del 1887. — Leggi del Debito Pubblico.  L. 4 50

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Le nuove edizioni che si ripetono annualmente contengono le leggi nuove o modificate, in ogni materia.

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COMPENDIO POPOLARE del Codice Civile del Regno d'Italia PER CURA DELL'AVVOCATO ENRICO ROSMINI

Terza edizione completamente rifusa dall'autore, con numerose aggiunte. Un volume in-16 di 260 pagine.  L. 1 50

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LA CAMBIALE nel nuovo Codice di Commercio, note illustrative dell'avvocato L. Gallavresi ad uso dei legali e dei commercianti, con raffronti colle altre legislazioni cambiarie (1883). Quarta edizione.  L. 2 —

L'ASSEGNO BANCARIO (chèque), studio teorico-pratico dell'avvocato L. Gallavresi.  5 —

IL NUOVO CODICE PENALE PER IL REGNO D'ITALIA, progetto presentato dal Ministro di Grazia e Giustizia Vigliani al Senato nel febbraio 1874, preceduto dalla relazione del Ministro. Seconda edizione.  1 —

CODICE PENALE PER L'ESERCITO DEL REGNO D'ITALIA (promulgato col Regio Decreto 28 novembre 1869), spiegato colla giurisprudenza pratica, per cura dell'avvocato Antonio Vismara. Seconda edizione.  1 —

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NOVO DIZIONARIO UNIVERSALE DELLA LINGUA ITALIANA compilato dal professore P. PETROCCHI

Nello stesso formato dei nostri grandi Dizionarii di Geografia, Storia e Biografia, — di Scienze, Lettere ed Arti, — di Economia politica e Commercio, — abbiamo impreso la pubblicazione di questo della lingua.

Il migliore Vocabolario, fu detto, è quello che rimanda più raramente senza risposta chi lo consulta. Perciò il nostro nuovo Dizionario, compilato da un egregio filologo toscano con la scorta di tutti i dizionarii fin qui pubblicati, comprende:

1.º) la lingua dell'uso, o lingua viva, giovandosi dei grandi vocabolari del Giorgini, del Tommaseo, del Rigutini e del Fanfani.

2.º) la lingua fuori d'uso, o lingua morta, con la scorta del Vocabolario della Crusca, del Nannucci, ecc., e aggiungendo una gran quantità di vocaboli che si trovano ne' primi scrittori della nostra letteratura.

La lingua d'uso e la fuori d'uso si trovano nella stessa pagina, ma affatto separate, in forma nuova, a due piani: in alto la lingua viva; in basso, la lingua fuori d'uso, scientifica, ecc.

3.º) la lingua delle varie città toscane; — la lingua contadinesca e delle montagne toscane.

4.º) la lingua d'arti e mestieri; i forestierismi entrati nell'uso.

5.º) la retta pronuncia di ogni parola, indicata con segni speciali.

6.º) le coniugazioni de' verbi irregolari, e le flessioni o formazioni irregolari storiche o dell'uso, non registrate dalle grammatiche.

7.º) gli esempi: per la lingua viva, tratti semplicemente dall'uso; — per la lingua morta, dagli autori.

8.º) in fine un elenco di nomi propri di paesi e di persone per insegnarne la pronunzia e la misura.

Questo nuovo Dizionario viene pubblicato nel formato dei Dizionarii-Treves, in caratteri fusi appositamente.

Ogni mese esce una dispensa di 64 pagine a 2 colonne.

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