IL DOLCE FAR NIENTE.

IL DOLCE FAR NIENTE

SCENE DELLA VITA VENEZIANA DEL SECOLO PASSATO

DI ANTONIO CACCIANIGA

TERZA EDIZIONE.

MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1891.

PROPRIETÀ LETTERARIA

Riservati tutti i diritti.

Tip. Fratelli Treves.

IL DOLCE FAR NIENTE

I.

Nel secolo passato, al tempo che i nostri nonni in parrucca colla coda, facevano una corte spietata alle nostre nonne in toppè, la città di Treviso non era così linda come al giorno d'oggi. Fabbricata, a quanto sembra, prima dell'invenzione dello spago, la linea retta non appariva che per accidente. Ogni persona che fabbricasse una casa, aveva qualche motivo per collocare la sua fabbrica un passo più avanti o più indietro del vicino, o formava un angolo a dritta o a sinistra, per vedere il sole più presto o più tardi secondo i suoi gusti. Allora nessuno parlava di libertà, ma nessuno s'immaginava che si potesse impedire ad un cittadino di erigere una casa a suo talento, anche in mezzo alla piazza se lo avesse trovato opportuno. Frutto dell'assoluta libertà era che ognuno pensava per sè, per la qual cosa Treviso è risultata di un pittoresco indescrivibile. Le strade a zig-zag alte e basse, ad angoli sporgenti o rientranti con le finestre e le porte a capriccio, con portici o senza portici, secondo le idee del proprietario. La polizia municipale non era ancora inventata, i municipi non avevano nè il medico, nè l'ingegnere, nè la commissione dell'ornato, che sorvegliassero l'igiene pubblica, le strade ed i fabbricati.

In conseguenza le vie non erano selciate nè illuminate di notte, e tutti gettavano dalle finestre le immondizie delle case. L'erba cresceva rigogliosa per le strade, ove i polli ruzzolavano nelle spazzature e le lavandaje distendevano il bucato.

Al tramonto del sole suonava l'Ave-Maria, e mezz'ora dopo si poteva giuocare a gatta cieca e rompersi il collo per la città, immersa nelle tenebre più profonde.

Chi voleva veder chiaro andava a spasso col suo lanternino in mano, o attaccato al cappello a tre spicchi; e chi preferiva le tenebre non aveva bisogno di spegnere i lumi; e non abbiamo mai udito che i nostri nonni si sieno lamentati di tali abitudini. Anzi abbiamo delle ragioni per credere che gl'innamorati ed i ladri, fra i quali corrono certe analogie, fossero perfettamente soddisfatti.

I frati e le monache avevano prodigati i loro conventi, ed ogni mattina l'aria echeggiava del continuo frastuono delle campane, suonate alla distesa ed a tocchi, a gloria del cielo e dei santi ed in perpetuo tormento delle orecchie dei peccatori.

In quel tempo, ed appunto in una mattina di primavera del 1771, due giovani della medesima età, uscivano da porta Altinia, e si avviavano a piedi verso Venezia.

Erano entrambi, come succede sovente a questo mondo, ricchi di genio e poveri di contanti; ma la ricchezza dei giovani non istà nella borsa, ma nel cervello e nel cuore, e in questo senso erano milionari. Portavano il fardello sulle spalle colla baldanza dei loro quattordici anni, e aspiravano l'aria fresca della campagna con un'ebbrezza che brillava negli occhi, e sulle labbra. Andavano a Venezia per la prima volta, a cercare fortuna nell'arte: avevano in tasca delle lettere commendatizie, nel cervello un mondo di sogni, e nel cuore una fiamma perenne.

Venezia era allora la ricca e popolosa dominante della repubblica, la città delle arti belle, la sede del buon umore, il teatro delle avventure misteriose e dei facili costumi. Il nome di Venezia risuonava in tutto il mondo col supremo prestigio delle glorie passate, e delle voluttuose seduzioni del presente.

I due giovani viandanti sentivano le pulsazioni del loro cuore accelerarsi all'idea di raggiungere la piaggia felice della quale aveano tante volte udito vantare i fasti, e narrare il fascino e le meraviglie, dai signori villeggianti.

A Mestre incominciava a quei tempi il movimento che indicava la vicinanza della grandiosa dominante. Dai grandi alberghi e dalle locande che fiancheggiavano il porto, uscivano ed entravano ad ogni ora del giorno grandi e piccole carrozze da viaggio, sedioli, cavalieri e pedoni. Vedevansi degli alti carrozzoni dorati con vaghe miniature agli sportelli, con entrovi eleganti gentildonne in toppè e gran signori in parrucca incipriata, con la coda riparata in un sacchetto di seta che sbatteva le spalle. Andavano e venivano per le vie popolose, ridendo e scherzando, arrestandosi a conversare cogli amici e conoscenti che incontravano. Ad ogni momento arrivavano o partivano le gondole dalla riva, caricavano o scaricavano i patrizi, i magistrati, i ricchi cittadini, accompagnati dalle loro dame e damigelle, dagli abati di casa, dai segretari, e da numerosi staffieri, servitori e cameriere d'ogni fatta, che portavano tabarri, ombrelli, cesti, sportelle, casse e bagagli. Sul porto era un continuo movimento, un incessante ed animato tramestìo d'uomini e di cose, che formava un quadro bizzarro di costumi originali e di colori spiccati, degna prefazione del gran libro di Venezia.

I due modesti viaggiatori dopo un'opportuna refezione si decisero a scendere in una peota che partiva sul momento carica di viaggiatori stipati fra le stie dei polli, e le provvisioni svariate di frutta e d'erbaggi.

Quando ogni cosa fu all'ordine la barca si distaccò dalla riva, e i barcajuoli incominciarono a dare dei remi nell'acqua. Le donnicciuole di Mestre che avevano accompagnate all'imbarco le comarelle e le amiche, si sbracciavano sul molo in mille segnali, auguri e saluti, e facevano un cicalìo che si confondeva col tonfo dei remi, e si perdeva incompreso per l'aria. Gli uomini salutavano con le braccia protese e i berretti sollevati.

Nella barca rispondevano sventolando le pezzuole, o coi cenni della mano, o con qualche lagrimetta furtiva, dissimulata dal bianco fazzuolo del capo.

Spariti gli ultimi gruppi della riva, incominciava la conversazione in comune. Ognuno prendeva un posto conveniente alle proprie idee. I vecchi cercavano un cantuccio tranquillo ben riparato dall'aria e dal sole, le donne fingendo nascondersi, studiavano una posizione avvantaggiosa; i giovani facevano prospettiva alle donne, o si sedevano loro da canto per raddolcire le noje del lento viaggio, con una conversazione geniale. I battellieri calcavano il tabacco nella pipa, e i due giovani viaggiatori si collocavano a prora per dominare liberamente il nuovo e stupendo spettacolo.

Frattanto uscivano dai tortuosi e torbidi canali di Mestre, ed entravano nella vasta laguna. I nostri due compagni di viaggio, cogli sguardi intenti verso la lontana Venezia, contemplavano estatici il magnifico quadro che compariva davanti ai loro sguardi.

Le acque azzurre, appena increspate dalla brezza vespertina, si stendevano come uno specchio infinito, riflettente le rosse nuvolette della sera. Di tratto in tratto dai banchi di sabbia verdeggianti per le alghe, si levava un qualche uccello marino, e si alzava sbattendo le bianche penne, e poi discendeva in graziosissime curve con l'ali stese ed immobili, sfiorando l'acqua, o immergendosi un istante per cogliere di passaggio la preda.

Qualche battello peschereccio raccoglieva o gettava le reti, o scioglieva le vele pel ritorno. Le brune gondolette passavano davanti la lenta peota. I gondolieri e i pescatori cantavano, tutto respirava la pace e il contento, tutto presentava alla vista un aspetto singolare e fantastico.

Da lungi fra i vapori trasparenti e dorati della sera vedevasi Venezia come una sposa avvolta nel velo nuziale, circondata da una aureola di luce divina. Il sole cadente s'immergeva nelle acque che parevano fiammeggianti di liquido oro sopra strati di porpora. A poco a poco si distinguevano le gugliette, i campanili, le cupole e le case, confuse fra gli alberi e le antenne delle navi. Gli ultimi raggi del sole battenti sopra l'ampie invetriate dei lontani palazzi pareva che mandassero in fuoco quelle principesche dimore. La calda luce del crepuscolo non era ancora scomparsa, che dalla parte opposta si levava la luna, e le prime stelle brillavano in cielo, come fosse convenuto fra gli astri di darsi il cambio sull'eccelso diadema della regina del mare. A poco a poco sorgeva la notte serena, e involgeva nel suo bruno mantello la misteriosa città.

Entrarono in Venezia, attraversando il Canal grande, e sbarcarono al molo della Piazzetta: la luna sbatteva i suoi raggi sul palazzo ducale, e riproduceva sui muri del fondo le agili colonnette e i trafori. La basilica di San Marco appariva indistinta fra molteplici gruppi di colonne di marmo sostenenti archi di mosaici di oro, incoronati di cupole lucenti. La doppia fila d'arcate che fiancheggiano la piazza, i sovrapposti palazzi, le gigantesche colonne della piazzetta, i leggiadri stendardi, tutto quell'insieme vario ed artistico, grandioso e imponente, sembrava ai giovani viaggiatori una sublime visione.

Penetravano in Venezia come nel regno dei sogni soavi; le loro forze giovanili misuravano dei lunghi anni felici, le loro speranze dipingevano sulla facile fantasia una serie di gioje recondite; e la gloria possibile fra le meraviglie delle arti e della natura!

Ma chi erano quei due giovani viaggiatori, così ardenti d'entusiasmo e di genio? — Uno si chiamava Vittore Valdrigo, e l'altro Antonio Canova.

II.

Il giorno di tatti i Santi del 1757, la natura melanconica si apparecchiava all'inverno, le foglie cadevano dagli alberi, l'erbe ingiallivano. Nel piccolo villaggio di Possagno, i paesani si recavano nella vecchia parrocchia di San Teonisto per ascoltare la messa. Niente indicava un avvenimento rimarchevole pel modesto paesello, nè il reverendo parroco che battezzava un neonato s'immaginava che il nome impostogli al sacro fonte avrebbe fra pochi anni meritate le lodi di tutto il mondo civile, e sarebbe divenuto la provvidenza del paese nativo, cosicchè il buon sacerdote aprendo colla solita tranquillità i registri parrocchiali, vi iscriveva colla massima indifferenza sotto agli altri poveri nomi, il nome che doveva diventare famoso di Antonio Canova, figlio legittimo di Pietro Canova di Possagno e di Angela Zardo di Crespano.

Finita la cerimonia, il prezioso fanciullo veniva trasportato a casa senza altre solennità, e colà pochi parenti ed amici celebravano tranquillamente la sua nascita rompendo dei biscotti e assaporando alcuni bicchieri di vino. E chi poteva leggere nel libro dell'avvenire? Generalmente le madri coltivano i sogni più ridenti sulla culla dei loro bambini; Angela Zardo avrà essa pure fatti i suoi sogni, ma questa volta erano certo al di sotto della realtà.

La sua fantasia si sarà limitata alle comuni speranze, e se una voce arcana le avesse profetizzato i grandi destini del figlio, essa non avrebbe creduto alla profezia. Eppure egli doveva dar vita ad una serie gloriosa di candide divinità, innalzare colossali mausolei a pontefici e a principi, riprodurre col marmo i più illustri personaggi del suo tempo, scolpire le statue di futuri eroi e di graziose principesse, e con parte del denaro ricavato innalzare un tempio greco sui colli di Possagno in luogo della povera chiesuola nella quale era stato battezzato.

E chi poteva annunziare agli abitanti di Carrara che era nato un fanciullo a Possagno che fra pochi anni avrebbe cavato dal marmo delle loro cave una Psiche celeste, un gruppo delle Grazie veramente divino, e un drappello di altre bellezze molli e quasi palpitanti di vita? E pensare che un colpo d'aria, o qualunque minimo accidente sarebbe bastato per spegnere quella vita, e togliere al mondo il lavoro di quelle mani portentose che doveano secondare con tanta maestria le creazioni del genio!...

E chi sa quanti genii nascono ogni giorno in Italia, e si spengono senza aver dato il loro frutto! Chi sa quanti uomini di Stato, quanti germi di generali e di magistrati muojono nelle fascie di spasmodia o di morbillo! e chi sa quanti nascono con la scintilla del genio e muojono nell'età senile senza lasciare una traccia del loro passaggio nella vita, tutta trascorsa in vane contemplazioni, in sterili sogni, in un perpetuo assopimento, in una molle apatia, in un dolce far niente!

Mentre che a Possagno la nascita di Canova passava inosservata, a Venezia si celebravano con gran rumore di campane e gran scialacquo di versi, i natali degli illustri rampolli della veneta nobiltà. I discendenti dei famosi dogi erano accolti in questo mondo coi più solenni pronostici.

Circondati di trine e di giojelli venivano trasportati al sacro fonte fra una folla d'amici e seguiti da un codazzo di servi in livree ricamate colle armi gentilizie della casa. Al ritorno dalla chiesa si facevano dispendiose feste e rinfreschi, ove si prodigavano i più fini confetti e i vini più prelibati, e i poeti d'occasione andavano a gara nel mettere in rime le geste gloriose del futuro eroe, annunziando a Venezia la sua nuova fortuna. Ma pur troppo quei poeti furono falsi profeti, ed alla caduta dell'antica repubblica gli eroi si nascondevano in cantina esclamando coll'ultimo doge le memorabili parole: «questa notte non saremo sicuri nemmeno in letto!» Ogni fanciullo che nasce è un mistero!

III.

Saltore è una tranquilla e verdeggiante villetta, a poche miglia da Treviso e dal Piave. La pittoresca catena di montagne che fiancheggia la provincia forma una deliziosa prospettiva al villaggio. Queste montagne che dominano i colli sottoposti, e il bosco del Montello, ergono la cresta orgogliosa di nuda roccia, e sono incoronate sovente di bianche nevi, che nelle serene aurore e nei dorati tramonti si tingono d'una vaga luce rosea o violetta, e nei giorni più foschi si velano di azzurre nebbie trasparenti, o si ascondono in parte fra vapori fantastici che a poco a poco diventano nuvole e vengono poi ad inaffiare la sottoposta pianura. Le falde verdeggianti dei monti sono tutte seminate di paeselli, di casolari, di chiesette circondate di macchie boscose, e di vigne che presentano alla vista un incantevole e variato prospetto. Dalle gole ove discende il Piave, penetra quell'aria pura ed elastica che conserva la salute, apporta l'appetito, e invita i Veneziani a godere i piaceri campestri, per cui tutto il territorio è sparso di palazzi e di case che abbelliscono l'antica Marca; la quale per la sua amenità, meritò dai nostri antenati il lusinghiero epiteto di Amorosa[1].

Sembra che anticamente Saltore sia stato un feudo o un'abazia dei conti Collalto. Osservansi ancora in alcune case coloniche gli avanzi di antichi conventi, e rimangono sui cadenti muraglioni le traccie delle celle dei frati e gl'indizi non dubbi di religiosi istituti. In epoche remote la nobile famiglia Sugana veniva a villeggiare nel paese, che fu celebrato in quei tempi per i magnifici palazzi e i sontuosi giardini.

Avanzo di questa dimora dei Sugana, rimaneva ancora, sono parecchi anni, una antica torre diroccata in fianco d'un ponte che cavalca la Mignagola, modesto ruscello, ma limpido come il più terso cristallo. Dai ruderi del palazzo signorile era sorta una rustica catapecchia, composta di rottami di cornici di pietra, e di vecchi mattoni, coperta di tegole e paglia. Una tettoja posta a ridosso della torre era sostenuta da fusti infranti di colonne e da tronchi d'albero colla loro corteccia, e da qualche ramo che faceva le funzioni d'architrave. Il pianterreno della torre era divenuto una stalla, il primo piano una camera da letto, alla quale si saliva da una scala esterna coperta, e intorno della quale una vite vagabonda arrampicandosi ai pilastri era andata a raggiungere il tetto e ricadeva in festoni. Un'adjacenza conteneva la cucina, le altre stanze e il fienile, il tutto fabbricato a varie riprese, con idee diverse, con materiali antichi o recenti, da artisti che non conoscevano nè regolo, nè compasso, nè squadra. Sopra la camera da letto la torre non aveva che tre lati che terminavano in frastagli cadenti sopra qualche foro a sesto acuto, ove di giorno i colombi stavano al sole a lisciarsi le penne. Il tetto aveva il suo declivio dal lato mancante. Nelle fenditure dei vecchi muraglioni, nei crepacci e nei fori, le civette e i pipistrelli facevano il nido, e si erano accomodati a meraviglia fra una vegetazione fantastica di fichi selvatici, di pruni e ligustri. L'edera correva su pei muri e ne formava il più grazioso ornamento. In fianco alla bizzarra dimora sorgeva un gruppo d'antichi olmi che rendeano completo il quadro. Il cortile terminava al ruscello, tutto ricinto di siepi di biancospino, di aceri, di evonimi e di sicomòri; era brulicante d'animali domestici, che vivevano in perfetto accordo fra loro, e andavano beccando i granelli sparsi sul terreno. Un superbo gallo razzolava il letame per discoprire dei lombrici da regalarne le sue galline che gli stavano d'intorno come tante odalische. I polli d'india facevano la ruota colle penne della coda, una chioccia conduceva al passeggio i pulcini pigolanti. Le anitre si diguazzavano nell'acqua, un grosso majale grugniva in un canto, sdrajato sopra un mucchio di foglie. Il cane vegliava alla porta, il gatto, ricoverato sulla sommità della scala, stava contemplando la rustica scena, con una immobilità monsulmana.

Tutti erano felici, ciascheduno vivendo secondo le sue idee, in piena libertà e sicurezza. Quel cortile presentava l'immagine di un perfetto governo nel quale regnasse l'ordine, la pace, l'armonia. Le rondini, innamorate del beato soggiorno, facevano il nido sotto ai tetti, ed ogni primavera, reduci dai loro viaggi lontani, ritornavano ad abitare le loro costruzioni, le quali non avevano bisogno che di qualche leggiero restauro.

Dietro la corte c'era l'orto fornito a dovizia di erbaggi e di frutta, e dopo l'orto vasti campi adorni di viti; ed estesi prati nei quali gli armenti trovavano dei pingui pascoli, e una quiete beata.

IV.

Zammaria Valdrigo era l'affittuale del podere. In quella solitudine le sue idee s'erano naturalmente circoscritte alle istruzioni del parroco, ed alle tradizioni di famiglia. Dal primo aveva imparato materialmente a recitare i misteri, a balbettare le orazioni latine, a venerare i santi in generale, accordando però una particolare preferenza ad alcuni che godevano il privilegio di speciali facoltà, ed erano dichiarati protettori d'alcune professioni, o degli ammalati o delle bestie. Per esempio, i calzolai dovevano invocare san Crespino, gli epilettici san Valentino, e in caso di malattie della vacca o del porco bisognava raccomandare il sofferente a san Bovo, o a sant'Antonio abate. La speranza del paradiso e la paura dell'inferno e del diavolo erano naturalmente il fomite delle buone azioni, e il freno degli istinti perversi; in quanto al purgatorio egli non ne aveva tanto spavento, perchè quantunque il bruciare nelle fiamme per alcuni anni dovesse essere una cocente punizione, pure poteva sperare d'uscirne col mezzo di opportune indulgenze, di qualche messa, di qualche elemosina, di una candela, o di altri suffragi.

A queste nozioni generali del sovranaturale, si aggiungeva la fede nella potenza delle benedizioni del parroco per ispaventare i sorci, o mettere in fuga le formiche, e le tradizioni di famiglia riguardo al massariol, essere misterioso e notturno che fischia da lontano nei campi, ed entra nella stalla ad intricare le criniere ai cavalli. E le streghe che gettano la mala sorte, e le anime dei morti che non trovano pace, e vagano di notte per le strade deserte.

In quanto alle idee civili, si riducevano a poco. Come la celeste gerarchia, la podestà della terra dividevasi in gradi. Al sommo stava il Doge, e poi venivano il Consiglio dei Dieci, il Senato e i gentiluomini. Dopo i gentiluomini i lustrissimi, e finalmente la povera gente che deve obbedire. Per le nozioni agricole tutto si riduceva a seminare od a mietere in crescente o calante di luna secondo i casi, a lavorare le terre coll'aratro ereditato dal nonno, il quale lo aveva avuto dal bisavolo che lo teneva dal trisavolo, e così avanti, ossia indietro fino ai tempi di Trittolemo.

Del resto, malgrado tanta semplicità, Zammaria sapeva fare i suoi conti, e presso gli altri contadini egli passava per un esperto massaio. Rispettoso e diffidente, faceva profondi inchini ai padroni, ma misurava le parole, rideva sempre con un occhio solo e con metà della bocca, e dalla bonarietà superficiale del volto gli trapelava un'aria di nascosta malizia, che dava alla sua fisonomia un carattere singolare.

Sua madre era una vecchia grinzuta e ricurva, che tutto il paese chiamava per antonomasia, la nonna.

Sua moglie era una svelta e robusta contadina. Bianca e rossa come un bel pomo maturo, la Rosa andava e veniva tutto il giorno dalla cucina alla corte, dalla corte alla stalla, dalla vacca ai pulcini, dal marito al maiale, dai figliuoli ai colombi; una vera provvidenza che vegliava su tutto, e non dimenticava nessuno. Un fazzoletto a quadri sul capo, le maniche rimboccate fino al gomito, la gonnella che appena oltrepassava il ginocchio, lasciavano piena libertà alle sue mosse rapide e gagliarde, e dall'alba al tramonto si udivano i tacchi de' suoi zoccoli che battevano il terreno con un suono uniformemente accelerato. Pareva che il suo cómpito sulla terra fosse quello di rappresentare l'abbondanza; la quale spiccava dalle rotondità delle sue membra, dal volume degli alimenti somministrati alla famiglia e agli animali, e dal numero de' suoi figli. Ne aveva avuto una decina fra maschi e femmine, alcuni erano morti, gli altri correvano i campi, al sole e alla pioggia, forti come la madre, vegeti come la natura, selvaggi come gli uccelletti del bosco.

V.

C'era però una eccezione. Vittore era nato con una fibra più molle degli altri fratelli, ed aveva sofferto alla prima infanzia alcune malattie che lo lasciarono più delicato e più debole. La buona madre sentiva il bisogno di distinguerlo dagli altri, riparandolo con cura dalle intemperie, rinforzandolo con cibi migliori, sorvegliandolo ad ogni istante perchè non si esponesse ad esercizii violenti e dannosi. Le sofferenze fisiche lo rendevano più sensibile alle impressioni, e le abitudini calme e tranquille introducevano nel suo cervello il dominio delle idee, ed una naturale tendenza alla osservazione minuziosa degli oggetti che gli stavano intorno. Seduto sotto gli olmi che sorgevano fra la casa e il ruscello, egli contemplava e comparava ogni cosa. Seguiva il volo della rondine che sfiorando l'acqua cristallina coglieva la preda, l'apportava al nido ove i neonati l'aspettavano col becco dischiuso, e con allegro garrito ritornava alla caccia per i prati e pei campi. Osservava il bacio dei colombi, le collere del gallo contro i tacchini, ammirava i vaghi colori delle farfalle, e le ali dorate degli insetti che passeggiavano sotto ai muschi crescenti sulle corteccie degli alberi; e ascoltava attentamente i varii mormorii della campagna, che con un'armonia indefinita rompevano i silenzii della tranquilla dimora.

Turco, il cane da guardia, era il fido compagno delle sue escursioni vagabonde, e con lui faceva lunghe peregrinazioni attraverso i vicini paesi e fino alle ghiaie del Piave, ove si arrestava davanti l'impetuoso torrente, a contemplare quelle vaste solitudini, e il lontano prospetto del castello di San Salvatore, e la catena dei monti.

E nelle lunghe sere d'inverno, rannicchiato in un angolo del focolare, o seduto accanto dei buoi, ascoltava le fiabe della nonna, che popolavano la sua mente di bizzarre avventure, e conducevano il suo spirito nella regione dei sogni.

VI.

Nel vicino paesetto di Vascon villeggiava in quel tempo l'antica e nobile famiglia veneziana degli Orseolo. La pittoresca dimora dei Valdrigo serviva spesso di meta alle passeggiate vespertine della nobile famiglia, che si piaceva di quelle scene campestri, e si arrestava volontieri alla rustica cucina all'ora della cena, ad osservare la Rosa che distribuiva le parti alla nonna, a Zammaria, ai fanciulli, dispersi qua e colà sopra una sedia, sul focolare, o sulla soglia.

La fisonomia intelligente di Vittore piacque alla nobildonna Fulvia che s'intratteneva con piacere a conversare con lui, ed egli divenne ben presto il compagno inseparabile d'Alvise e di Silvia, nobili rampolli dell'illustre casato. Silvia era una bambina di quadro anni, suo fratello ne aveva due di più, la medesima età di Vittore. Ogni autunno Alvise e Silvia appena giunti a Vascon correvano in traccia di Vittore, lo regalavano di vesti, lo conducevano a casa con loro, ed egli passava tutta la stagione cogli Orseolo dividendo coi fanciulli i giuochi, i balocchi, i bomboni, i piaceri e gli studi. Quando Silvia entrò in convento, ed Alvise ebbe un istitutore, la nobil donna Fulvia raccomandò Vittore al parroco di Varago, affinchè gl'insegnasse a leggere e a scrivere; e poco tempo dopo, ottenne dai parenti di lasciarlo continuare gli studi presso un prete di Treviso che teneva alcuni ragazzi in pensione. Gli Orseolo pagavano la spesa, Zammaria brontolava, ma la Rosa era contenta; e ogni autunno Alvise e Vittore ricominciavano le loro escursioni e i soliti diletti campestri.

Il giovine Valdrigo fece in pochi anni rapidi e portentosi progressi, e mostrò una straordinaria inclinazione per la poesia e per le arti. Egli disegnava con rara maestria, e riteneva a memoria i motivi musicali, uditi anche solo una volta. La vita contemplativa dell'infanzia aveva certamente predisposte le sue facoltà ad una intensa osservazione, che gli rendeva più facile la riproduzione delle impressioni ricevute.

La contessa Fulvia degli Orseolo parlò del suo protetto al senatore Giovanni Falier, grande amatore delle arti belle, e mecenate degli artisti, il quale sapendo che lo scultore Torretti doveva recarsi a Treviso, lo incaricò di esaminare le tendenze del fanciullo. Il Torretti lo trovò degno delle sue cure, e lo condusse seco a Pagnano ove compiva dei lavori per le chiese dei paesi vicini.

La nobile famiglia Falier villeggiava allora nel suo principesco podere di Pradazzi, nelle vicinanze di Pagnano e di Possagno. In quella nobile dimora il vecchio e burbero Pasino presentava a Giovanni Falier il suo timido nipote Antonio Canova, il quale rimasto orfano del padre, era stato allevato dall'avolo a trattare il marmo, professione di famiglia, nella quale i suoi parenti lavoravano con discreta abilità.

Il benefico Falier raccomandava anche il giovine artefice al Torretti, nel cui studio di Pagnano si conobbero e si amarono Antonio Canova e Vittore Valdrigo.

Finiti i lavori che lo tenevano occupato nei contorni di Asola, il maestro scultore ritornò alla sua residenza di Venezia, invitando i suoi giovani allievi a seguirlo nella artistica città, ove fra le meraviglie delle arti avrebbero sviluppata la mente all'amore e all'intelletto del bello.

Con questo scopo si recavano a Venezia i due modesti viaggiatori, dopo di aver abbracciato i parenti, e dato un addio al nativo villaggio.

VII.

Antonio Canova, entrato nello studio del Torretti a Venezia, si esercitava a maneggiare i marmi, a trattare gli scalpelli, i trapani, le scuffine e le raspe, ma non tardava ad accorgersi che i minuziosi lavori del maestro mancavano d'ispirazione e di genio.

Il Torretti era seguace di quell'arte convenzionale che abbandonato lo studio del vero, cercava gli effetti nelle movenze esagerate, e negli adornamenti pomposi o bizzarri. Trascurava lo studio del nudo, e non facea caso degli antichi modelli della Grecia, nei quali il genio dell'artefice traducendo la natura nel marmo sapeva cogliere in un punto il vero ed il bello, e creare delle opere divine.

Ma il giovane modesto e rispettoso lavorava in silenzio, aspettando il tempo opportuno per spiegare il libero e sublime suo volo verso più puri orizzonti.

Il suo vecchio nonno, il Pasino, vendeva per cento ducati l'unico poderetto di famiglia con lo scopo di mantenere un anno a Venezia il nipote, e il nobile Falier raccomandava il giovanetto al nobiluomo Farsetti, che con patrizio splendore, aveva raccolto nelle sale del suo palazzo di Venezia i migliori modelli antichi di scultura, e ne lasciava libero l'ingresso agli studiosi. Canova profittando di tale libertà, passava delle lunghe ore fra quelle statue, che parevano svelargli con muti cenni, da lui solo compresi, gli arcani dell'antica arte di Fidia, da tanti secoli smarriti.

In quel tempo due vivissime fiamme ardevano nel cuore del giovinetto scultore, l'amore e l'arte, e si giovavano a vicenda. Una vezzosa montanina di Possagno che egli aveva un giorno incontrata ad una festa del villaggio, lo aveva ferito con un lampo degli occhi.

Nella sua patria si vedevano sovente, e si pascevano di sospiri, di silenzii e di sguardi.

Nobile amore che ricercando le fibre più riposte del cuore lo rendeva capace di generosi sentimenti, e disponeva la sua mente a concepire sublimi pensieri, e a comprendere per intuizione i misteri del bello. Elisabetta Biagi, e le statue del palazzo Farsetti, ebbero per Canova una eguale influenza nelle prime rivelazioni dell'arte. Dagli occhi della Lisa egli ricevette la scintilla che accende l'anima, e apporta la luce necessaria alla comprensione delle linee greche, che svelano la suprema venustà della forma negli antichi modelli.

Quella vita di studio e di affetto rendeva l'artista insensibile alle seduzioni di Venezia.

VIII.

Nello studio del Torretti, e nelle sale Farsetti frequentava pure Vittore Valdrigo, ma in altre condizioni di vita. Un casto affetto non custodiva il suo cuore, e i lunghi ozii dell'infanzia lo avevano reso inetto alle occupazioni laboriose.

Il suo spirito si evaporava in infiniti e chimerici progetti, i quali poi si dileguavano al primo soffio di vento. Il suo ingegno versatile lo spingeva ad abbracciare troppe cose, che abbandonava al primo ostacolo, scoraggiato, avvilito.

La famiglia degli Orseolo lo teneva presso di sè. La munificenza di quella casa gli largiva una pensione, e dandogli una stanza nel palazzo, lo lasciava libero di seguire i suoi studi, e gli schiudeva gli aditi alla vita di Venezia, alle distrazioni, agli stravizi, e la imperiosa voce della necessità non batteva mai alla sua porta per eccitarlo ad affrettare il lavoro.

Ciò nonostante, la feconda natura del suo ingegno lo rendeva atto ad ogni cosa.

Disegnava con grazia e maestria, ed incominciava a dipingere con franchezza e con forza. I suoi pennelli scorrevano sulla tela colla arditezza d'un artista provetto, e la sua tavolozza s'impastava coi colori della famosa scuola veneziana. Con poche linee segnate con rimarchevole talento egli tracciava un somigliante ritratto, con pochi tocchi di pennello lo dotava di anima e di vita.

Amante passionato della musica, aveva imparato a suonare il violino, e lo maneggiava con destrezza e con passione, ma piuttosto per natura che per arte, non avendo la pazienza di attendere a lunghi e severi studi, e così mancante della istruzione necessaria per suonare un pezzo di musica completo, egli abbandonava il suo arco sulle corde in traccia di scucite e vaghe fantasie, di modulazioni capricciose e improvvise. Leggeva rapidamente ogni volume che gli cadesse fra le mani, e passava le intiere notti intorno alla lettura d'un libro che consonasse col suo cuore, o dilettasse il suo spirito. Ogni libro grave o noioso gettava con disprezzo, e condannava con inappellabile giudizio.

Egli sapeva a mente i più bei versi dei migliori poeti, e li declamava con maschia energia, e con intelligente espressione. La sua infanzia quasi selvaggia lo aveva reso indipendente dall'influenza del gusto corrotto del giorno, ed aveva predisposto il suo cure al sentimento della natura e del vero, cosicchè egli sentiva tutto il falso della poesia dominante, e ne parlava con ironia e con disprezzo. E sovente improvvisava dei versi e delle strofe ispirate che si perdeano per l'aria, e non lasciavano che una dolce e confusa rimembranza a' suoi amici che lo eccitavano invano a scrivere ed a pubblicare le sue poesie.

Ma ogni suo lavoro rimaneva incompleto, non perchè gli mancasse l'ingegno per compierlo, ma per colpevole indolenza. Le sue ispirazioni, i suoi slanci erano fantasie passeggiere. Ad un tratto il suo volto s'irraggiava d'un'estasi sublime, i suoi muscoli si agitavano, i suoi occhi vibravano lampi di luce. Allora la sua mente cercava splendide immagini, e nuovi concetti, le sue labbra proferivano parole strane e concitate, se prendeva la matita tracciava lo schizzo d'un quadro, che rivelava un pensiero stupendo, o se afferrava il violino ne traeva delle note soavi, dei sospiri armoniosi, degli accenti melodiosi che rapivano i sensi. Gli astanti rimanevano stupefatti e commossi, ed egli si arrestava come il viandante spossato dopo l'erta salita d'un monte, e si sedeva sfinito ed esausto.

In quei momenti d'esaltazione, quando gli si risvegliava nell'anima la potenza creatrice, se egli avesse potuto disporre di tutte le ricchezze del mondo, non avrebbero bastato a soddisfare gl'immensi capricci del suo pensiero. Egli concepiva dei piani giganteschi di nuove città meravigliose, e dava vita a nuovi mondi, a nuovi universi!... Ricaduto nella calma trovava tutto superfluo nella vita, meno la pipa e il sofà sul quale passava delle lunghe ore solitarie, mandando delle boccate di fumo, e contemplando dalla aperta finestra una nuvola che passava, o una stella che brillava nel cielo.

A' suoi amici che gli rimproveravano il vergognoso letargo egli rispondeva: «Le delizie del dolce far niente sono un dono prezioso impartito dal Creatore alle creature privilegiate. I sogni dell'anima sono più belli delle prosaiche realtà della vita, come la Venere greca è più bella della donna; e la contemplazione delle opere di Dio è un omaggio alla divinità, superiore ad ogni più fervente preghiera. Lasciate che io preghi ed ami secondo il mio istinto.... Ascoltate una storia del millecinquecento:

Un muratore innalzava un muro in Val d'Arno, assistito dal suo manovale. Uno portava i mattoni, i sassi e la calce, l'altro andava avanti col muro. Sapete che fa caldo in Toscana! orbene, era appunto il mese di luglio, il sudore grondava dalle fronti abbronzate dei due lavoranti, mentre un uomo stava tranquillamente sdraiato al rezzo d'una pianta fronzuta, e li guardava. Il muratore vide l'ozioso, e disse sdegnato al manovale: — Guarda un po' il fannullone, che mentre noi sudiamo al lavoro, egli si gode a far niente! — Ora sono tre secoli che il muratore e il manovale son morti e dimenticati, il muro è caduto, e non ne restano nemmeno le traccie, è morto anche colui che li stava osservando senza far niente, ma è rimasto il suo nome, egli era Michelangelo Buonarroti, che meditava una delle sue opere.

Fra gli antichi ruderi della Campagna Romana, un capraio osservava un bel giovine seduto a fianco d'una vaga fanciulla, e lo credeva un ozioso; era Raffaello che studiava le pose delle sue Vergini, e le pieghe delle vesti della Fornarina.

Il dolce far niente per le anime dei poeti e degli artisti è il preludio delle sublimi creazioni, è la contemplazione che genera l'ispirazione, è il sogno sublime che apparecchia l'opera divina del genio.

E in queste stesse lagune, quanti ozii, quante ore beate di riposo trascorsero nella tranquilla barchetta, i nostri grandi artisti veneziani, Giorgione, Paolo Veronese, Tiziano, e tutta la gloriosa coorte; e mentre solcavano l'onde coricati sui molli origlieri della gondola che cullava i loro sogni, parevano assopiti da un dolce far niente, e invece meditavano quelle stupende creazioni che sono adesso i tesori dell'arte, ed una delle più belle glorie di Venezia.

Ed io, povero insetto della terra, nel dolce far niente dell'infanzia ho imparato ad ammirare la potenza di Dio che faceva germogliare il germe confidato alla terra, che provvedeva il nutrimento al falco che mi passava sul capo nelle alte regioni dell'aria, ed all'insetto impercettibile che faceva un lungo viaggio sopra un filo di musco. Ed ora appoggiato al balcone, e contemplando questa azzurra laguna che si perde nei lontani orizzonti, ora io sento...... e s'arrestava tutto d'un tratto dando in un solenne scroscio di riso, e lasciando gli astanti nella sorpresa e nel dubbio se avesse parlato da senno o da burla, e staccando il violino dal muro improvvisava mille capricciose melodie che ora imitavano i gemiti del dolore, ora il canto di un'allegra canzone, e finivano colle note affettate d'un mellifluo minuetto, sospeso poi da un'altra solenne risata.

IX.

Mentre che Valdrigo fantasticava coi più strani paradossi, Canova lavorava modestamente intorno due canestri di fiori e di frutta. Col ricavato di questo primo lavoro, eseguito per commissione del nobile Falier, il giovane scultore ebbe agio a procurarsi un locale conveniente a studi più vasti. Egli cercava un luogo romito e silenzioso, e lo trovò nell'antico monastero di San Stefano.[2]

Quel chiostro eretto sui disegni di frate Maestro Gabriele di Venezia tornava perfettamente opportuno alla quiete dello studio. L'architetto monaco e artista aveva creato un rifugio per le anime meditabonde e pei pensieri elevati. Contribuivano ad ispirare la mente le memorie del passato parlanti dalle tombe d'illustri antenati; perchè colà riposavano nell'eterno sonno le ossa gloriose di Francesco Morosini, di Andrea Contarini, e di tanti altri, magistrati e guerrieri. Quelle mura solitarie rammentavano i pensieri, i dolori, le speranze dei loro abitatori. Esse avevano raccolto le anime troppo timide per affrontare i rischi della vita, o i cuori già offesi da insanabili ferite riportate nella lotta di mondane passioni. La fede nei misteri della religione consolava quelle anime meste o desolate che travedevano dopo le pene della vita, i giorni sereni d'una esistenza immortale; la fede nella potenza dell'arte consolava Canova delle privazioni continue e delle difficoltà del lavoro, e lasciava travedere alla sua anima il compenso d'ogni sofferenza e d'ogni fatica nell'immortalità del suo nome.

Nei silenzii notturni di quel chiostro, che più non risuonavano di lente salmodie, egli avrà veduto coll'ardente fantasia le pallide ombre di quei frati, attraversare i lunghi corridoi, prosternarsi sulle tombe degli antichi Veneziani, e coll'immagine della morte frenare i battiti del cuore eccitati dalle tentazioni di mondane cupidigie.

Molti artefici insigni avevano illustrato quel convento colle loro opere; e fra gli altri Giannantonio Regillo da Pordenone aveva apportato in quella pacifica dimora il genio del pittore e le passioni dell'uomo. Dipingendo nella corte alcune sacre storie, egli animava il suo pennello col vigore della gelosia che lo rodeva, del grande Tiziano. Ma il vento degli anni trasportò la polvere sollevata da' suoi passi, e rese muto anche l'eco che ripeteva sotto agli archi la voce di Canova.

Nella cella dell'ultimo frate disceso nella tomba, apportò il giovane scultore il corpo nudo di Euridice; il cui modello in creta, eseguito a Possagno, era il suo primo studio dal vero. Quivi poi scolpì in marmo l'Orfeo, disperato d'aver perduto per sempre la sua donna, ma sotto quella pietra parlante non scorreva il sangue del nume, e forse in altri tempi, nella medesima cella, sotto allo scapolare d'un frate, batteva il vero cuore d'Orfeo!

X.

Valdrigo ammirava i progressi dell'amico, ma non aveva la forza d'imitarlo nella assiduità al lavoro, nel disprezzo d'ogni piacere che non venisse dall'arte. Sfuggiva la fatica, e appena prodotto qualche saggio incompleto che rilevava il suo genio, lo distruggeva malcontento, trovando l'opera mancata, confessando la sua impotenza a dar vita al concetto sublime che gli balenava nello spirito e scoraggiato si arrestava a maledire sè stesso, ad imprecare contro le difficoltà materiali dell'arte, a bestemmiare contro al facile contentamento dell'altrui dappocaggine. Egli sogghignava con disprezzante cipiglio davanti alle opere manierate e convenzionali degli artisti viventi; e comparandole alle opere antiche sentenziava la generale decadenza delle arti, del costume e della patria.

Invano Canova gli ripeteva quelle massime che diressero sempre la sua nobile vita. Lo consigliava amichevolmente ad essere più indulgente, ed a correggere i difetti degli altri piuttosto coll'esempio del meglio che con le acri invettive, e le critiche amare. E soggiungeva essere più facile la critica d'un'opera insigne, che la produzione d'un mediocre lavoro. Valdrigo voleva sostenere che il genio deve creare senza fatica, e che il lungo studio è il retaggio dei mediocri. — «Queste sono tutte ciarle,» rispondeva Canova, e annoverando gli uomini illustri incominciando da Giotto e da Cimabue, gli dimostrava che le loro opere erano il frutto della fatica e del lavoro.[3]

Sovente visitavano insieme gl'insigni monumenti delle arti che adornano le chiese ed i palazzi di Venezia, e Canova arrestandosi davanti il quadro d'un famoso pennello, esclamava: «Vedi quest'opera? chi l'ha fatta non andava girando divertendosi come noi facciamo.»[4]

Le semplici e ragionevoli osservazioni dello scultore, calmavano i sensi agitati del suo amico, il quale si proponeva mille stupendi progetti di nuova vita, di lunga abnegazione, di ritiro completo, di abbandono assoluto agli snervanti piaceri di Venezia, e deliberava d'intraprendere lunghi e difficili studi, precursori di grandi lavori.

Ma ogni giorno trovava i più futili pretesti per rimandare ad altro momento l'esecuzione de' suoi piani. Se brillava uno splendido sole, egli usciva, per una passeggiata al lido in traccia d'ispirazioni, e rientrava affaticato e distratto. Se il tempo nuvoloso si disponeva alla pioggia, egli aspettava il sereno per mettersi al lavoro. Finalmente un purissimo cielo, un'aria imbalsamata lo mettevano in buone disposizioni quando la visita d'un amico, lo sguardo d'una vicina, un rumore della strada mettevano in fuga l'occasione, ed il principio degli studi veniva rimandato al domani.

Ma all'indomani era venerdì, giorno nefasto per principiare qualche cosa; il sabato essendo l'ultimo giorno della settimana, gli sembrava ridicolo che dovesse essere il primo d'una nuova esistenza. La domenica è giorno di riposo, anche per quelli che non fanno mai niente ed egli aspettava ansiosamente il lunedì, con fermo e tenace proposito.

Sventuratamente al lunedì si rinnovavano gli ostacoli per impreveduti accidenti; e così passavano i giorni inerti, le settimane improduttive, e fuggivano gli anni. La sua cameretta collocata al quarto piano dell'antico palazzo degli Orseolo, portava tutte le traccie del suo talento e della sua accidia. Il disordine d'una stanza di studio indica sovente le prolungate veglie, o l'assiduo lavoro, ma il caos sarà sempre l'indizio del perpetuo abbandono. Sul tavolo, sul sofà, sulle sedie rovesciate e per terra giacevano confusi e sconvolti mille oggetti diversi. Di qua libri aperti e chiusi fra i manoscritti, i disegni, la musica, il tutto sovrapposto a dei vasi di majolica, a delle vesti abbandonate, a dei pennelli sostenuti da frammenti di stoviglie. Di là giubbe e pannilini accanto al calamajo, in fianco d'un mazzolino di fiori inariditi e d'una spazzola. Sui muri si vedevano appesi insieme il violino, uno spadone, il busto d'una Venere, una corazza irrugginita, e una barbuta sostenente una vecchia parrucca incipriata. Il cavalletto per dipingere era incoronato da un vecchio cappello tricuspide, e sosteneva una tavolozza imbrattata da colori confusi e disseccati, l'archetto del violino, e una pipa turca. Parecchie tele appena sbozzate, o lasciate in abbandono a lavoro avanzato, pendevano parimente dai muri, o si ammonticchiavano negli angoli, fra le tele dei ragni, presso un armadio semichiuso dal quale uscivano le falde o le maniche d'una veste. Un tale miscuglio d'oggetti costituiva un completo labirinto, fra il quale bisognava raggirarsi con infinite precauzioni per giungere al letto nel fondo della stanza, ove il giovane artista meditava le sue opere future, fra mezzo ai saggi dispersi del suo genio, del suo disordine e della sua infingardaggine.

XI.

Il giorno della Ascensione del 1779 Venezia brillava di straordinario splendore. Tutte le campane della città suonavano a festa, tuonavano le artiglierie dalle navi e dai porti. L'aria che spirava dal mare apportava di tratto in tratto il suono festoso di musicali concenti, la folla accorreva premurosa sul molo zeppo di gente.

Era il giorno della gran festa nazionale, nella quale il Doge recavasi in pompa solenne agli sponsali del mare. Venezia risplendeva di tutta la sua antica potenza, l'amore e l'orgoglio della patria univa tutti i cittadini in festosa concordia, ed eccitava negli stranieri l'ammirazione e il rispetto. Il Bucintoro che solcava maestosamente quelle onde coi suoi fianchi dorati, dirimpetto alla città meravigliosa, era il simbolo della grandezza della antica repubblica. La poppa raffigurava una Vittoria navale coi suoi trofei. Le pareti esterne erano tutte adorne di bassorilievi dorati, rappresentanti le virtù e le arti.

Il salone coperto di velluto cremisino, era ornato di frangia, galloni e fiocchi d'oro. Verso la poppa s'innalzava sopra due gradini il seggio ducale fiancheggiato da due figure rappresentanti la Prudenza e la Forza; colle quali la politica Veneta seppe sostenere il governo pel lungo corso di quattordici secoli.

Il Doge si presentava al pubblico in tutta la pompa delle sue vesti, coperte d'oro e di gemme; accompagnato dalla Signoria, dal Senato, dal Maggiore Consiglio, e dagli ambasciatori delle primarie Corti d'Europa. Seguivano il ducale corteggio numerose galee, le barche dorate del dominio, le lancie ed i caicchi degli ufficiali di mare, i capi principali del commercio, fra i quali primeggiavano le eleganti peote dell'arte Vetraia, e delle Conterie di Murano, e finalmente una infinita quantità di gondole e di barchette che ricoprivano la laguna da San Marco fino al lido, adorne di festoni di fiori, di rami di lauro, rallegrate dalla musica e dalle canzoni d'un popolo soddisfatto. I vascelli di guerra e le navi mercantili, ancorati lungo la riva degli Schiavoni, salutavano il corteggio cogli spari delle loro artiglierie. Fra i vortici del fumo, e le onde agitate, le belle Veneziane passavano intrepide nell'agile gondoletta, e mollemente adagiate sui cuscini di piume, sfoggiavano il lusso delle seriche vesti, la grazia dei seducenti sorrisi, il fascino ammaliante degli occhi.

Il giorno ebbe termine col solenne banchetto del palazzo ducale, al quale furono convitate le primarie autorità dello Stato e il Corpo diplomatico. Sua Serenità sedeva sul seggio ducale circondato dagli ambasciatori, dopo dei quali venivano in ordine i Consiglieri, i capi del Consiglio dei Dieci, gli Avvogadori, i presidenti dei Tribunali giudiziari, e gli alti Magistrati che avevano assistito dal Bucintoro allo sposalizio del mare. Il pubblico, durante il primo servizio, aveva libero l'ingresso nella sala, ove accorreva ad ammirare lo splendore degli arredi, e il lusso delle laute imbandigioni. Uscito il pubblico, entravano i musici della Cappella ducale che rallegravano il convitto con armoniosi concerti.

Alla sera la piazza di San Marco offriva lo spettacolo meraviglioso d'una folla brulicante, briosa, ma ordinata e cortese. Fra un bisbiglio di voci liete e graziose, si vedevano i più bizzarri contrasti di colori e di costumi. I nobili e i magistrati colle sfarzose loro vesti, i cittadini coi mantelli bianchi o scarlatti, coi cappellini piumati a tre spicchi, le gentildonne in guardinfante e collo strascico, gli ambasciatori e i forestieri coi loro costumi nazionali, fra i quali risaltavano particolarmente i Turchi, i Greci gli Armeni.

Le donne sciorinavano i più ricchi abbigliamenti, stoffe di raso e di seta a larghe fioriture, con trapunti in oro, o ricami, con maniche e collari di merletti e di pizzi di meravigliosa fattura. Le alte pettinature brillavano di preziosi giojelli. Accanto alle gravi e magnifiche matrone sfilavano le vezzose e vispe lustrissime dal misterioso zendaletto, o dalla ricca bauta e offuscavano lo splendore dei brillanti delle gentildonne colla luce degli occhi parlanti; e una semplice rosa sul crine incipriato ornava talvolta quelle fronti giovanili, con più effetto d'un diadema. Le livree dei domestici, i costumi dei gondolieri e dei marinai, le donnicciuole del popolo di Burano e di Chioggia con le gonnelle sul capo, formavano un quadro d'un carattere originale, unico al mondo.

Venivano tutti col pretesto della Fiera dell'Ascensione, splendido mercato che si teneva in piazza San Marco, ma l'ammirazione non era esclusivamente concentrata sulle merci esposte in vendita, chè gli avidi sguardi dei giovani miravano maggiormente gli oggetti che non si potevano acquistare a denaro, ma che talvolta si conquistavano con un assedio perseverante di sguardi pietosi, e con l'arcana potenza di qualche parola furtiva.

Tutte le celebrità di quell'epoca intervenivano pompose nella piazza, come in una meravigliosa sala, comune a tutti, cittadini o stranieri, e passeggiavano lentamente fra gli sguardi rispettosi della folla, le ripetute riverenze e i profondissimi inchini.

Per di qua si vedeva fra un corteggio di eleganti incipriati, la bella e briosa gentildonna Giustina Renier, da quattro anni soltanto sposa al patrizio Marcantonio Michiel. Tutti ammiravano il lusso e le grazie della nipote del Doge, che rivolgeva la parola a suo zio materno Lodovico Manin, predestinato dalla sorte a seppellire la repubblica. Di là usciva dalla procurativa, seguita da un codazzo d'ossequiosi cicisbei, e si pavoneggiava per la piazza la pomposa matrona Caterina Dolfin Tron, sorridendo a diritta all'eccellentissimo Quirini, giunto apposta per la festa dalla sua deliziosa villa d'Altichiero, o scherzando alla sinistra col vecchio e curvo conte Gaspare Gozzi, canzonandolo con un piglio fra l'indifferente e il geloso sulla sua inclinazione per la francese Sara Cenet.

L'arguto poeta e gazzettiere, se ne scusava con motti piccanti e fini, e si rivolgeva come ad un appello decisivo, al potente procuratore marito, che li seguiva da vicino, corteggiato da una caterva di adoratori della moglie.

Passava un altro gruppo d'eleganti, facendo gran chiasso per lo splendore delle vesti, e il numeroso e scelto corteggio. Era la vezzosa gentildonna Contarina Barbarigo, la potente ed ammirata veneziana, che due anni prima aveva vinto l'Imperatore Giuseppe II in una graziosa lotta di spirito e di galanteria. La circondavano il cavaliere procuratore Alvise Pisani, Francesco Pesaro, e Nicolò Barbarigo, ed altri, astri minori, ma tutti brillanti di quell'epoca.

La vecchia gentildonna poetessa Cornelia Barbaro Gritti camminava cautamente, sostenendosi al braccio del figlio Francesco, parimenti poeta; come una stanca musa che invoca l'ajuto d'Apollo per salire al Parnaso. La vecchia musa in toppè era pastorella d'Arcadia, e veniva conosciuta dai pastorelli suoi amici, Algarotti, Metastasio, Frugoni e Goldoni, col dolce nome di Eurisbe Tarsense.

Ma in fianco a questi nobili avanzi di caduca poesia passeggiava un uomo antico, che con la mano ferma sull'elsa della spada parea sfidare i nemici della patria. Era l'illustre capitano Angelo Emo, ultima gloria delle geste militari di San Marco.

Infatti tutti i più bei nomi di Venezia si incontravano in quel ricinto di marmi, e spiccavano fra la folla mista d'ogni classe sociale. Ma anche nel ceto cittadino e popolare non mancavano rimarchevoli individui. Un grande originale era il burbero e sospettoso Carlo Gozzi, che sfilava brontolando fra gli archi delle Procuratie, desolato da un fatale contrattempo.

Il popolo indicava a dito il rivale di Goldoni, l'applaudito autore delle favole drammatiche, il quale dopo le sventure del perseguitato Gratariol, vittima delle Droghe d'Amore, sfuggiva gli sguardi della Ricci, attrice di moda, e suo malgrado la scontrava a ogni svolta di calle, accompagnata dal vecchio capocomico Sacchi, il più famoso arlecchino di quei tempi.

In un angolo della piazza un cavadenti vantava ai curiosi i miracoli d'un suo elisire, mentre dietro una colonna un individuo segnava in una carta quel gruppo. Questi era il pittore Pietro Longhi che studiava dal vero i costumi veneziani dell'epoca.

Il giovane Antonio Lamberti inseguiva da vicino la bionda Marina Benzon, e ispirato dalle grazie dell'avvenente persona e da qualche sguardo incoraggiante, andava componendo le strofe della canzonetta veneziana, divenuta tanto popolare: La biondina in gondoletta.

Un altro giovane poeta, che viveva in quei tempi in Venezia di un modestissimo impiego, andava in traccia d'Irene. Era il bassanese Jacopo Vittorelli, già celebre pel suo poema sul Toppè, allora innamorato d'Irene e dei maccheroni, che celebrava egualmente colle sue rime. Ma Irene in bruno zendaletto si confondeva fra la gente, e cogli occhi furbetti rispondeva ad altri sguardi. Noncurante della gloria futura la vispa popolana, sedotta da un piattello di calde frittelle, fuggiva con Fileno fra le braccia dell'Imeneo, lasciando che il poeta abbandonato morisse d'amore in piazza San Marco, e dopo morto cantasse a suo bell'agio:

Non t'accostare all'urna

Che il cener mio rinserra

e terminasse la sua funebre anacreontica prima di salire al letto deserto, dicendo all'infida Irene:

Rispetta un'ombra mesta

E lasciala dormir!

La folla aumentava sotto le loggie della fiera, che si componevano di vaste ed eleganti botteghe mobili, in legno, che venivano levate al termine delle feste. Era una pubblica mostra delle merci più pregiate, e delle migliori produzioni delle arti. Vi si vedevano a profusione i prodotti naturali ed industriali dell'Oriente, accanto delle produzioni nazionali. Abbondavano i broccati d'oro, le stoffe sontuose, i giojelli e i merletti. Vi si ammiravano dei ricchi arredi, dei mobili e delle cornici d'intaglio, l'arte vetraria spiegava tutto il lusso delle varie sue opere, le perle, i lampadari di cristallo, gli specchi tanto famosi.

Il gusto naturale dei Veneziani per le arti guidava ogni anno gl'intelligenti nel riparto consacrato all'esposizione dei lavori degli artisti viventi, ove si collocavano le incisioni, i quadri, le statue. In quell'anno la folla che circondava il locale destinato alle arti belle era talmente stipata ed incessante, che riusciva malagevole avvicinarsi alla meta. Eppure un solo gruppo attirava tutti gli sguardi, ed eclissava ogni altro lavoro. Questo gruppo rappresentava Dedalo ed Icaro, scolpiti in marmo da Antonio Canova.

Era la natura riprodotta in plastica con verità impareggiabile. Pareva che il sangue scorresse sotto la pelle rugosa del vecchio, il quale adattando le ali alle membra giovanili del figlio, mostrava la sua agitazione, colla contrazione delle linee del volto. Il fanciullo Icaro colla sua ingenuità pareva lieto dell'idea paterna, e sorrideva al pensiero di sciogliere il volo nelle regioni dell'aria. La folla si accalcava intorno a quel gruppo, e ripeteva con rispetto il nome dell'artefice insigne.

Filippo Farsetti, il fondatore della Galleria di Scultura nella quale studiava il Canova, accorreva ad ammirare il lavoro, insieme al Senatore Giovanni Falier, il protettore del giovane artista. Si scontravano per via col Procuratore Pietro Vittore Pisani che aveva allogato il bel gruppo, e che andava superbo di poter abbellire le sue magnifiche sale di un'opera che otteneva gli applausi universali. E in vero quelle due statue erano così superiori alle produzioni dell'epoca, che la stessa invidia taceva, e gli artisti viventi confessavano il rinnovamento dell'arte e volevano stringere la mano che sapeva così bene trattare lo scalpello ed imitare la natura.

Il modesto Canova fuggiva le pubbliche ovazioni, e assaporava le intime gioie del suo primo trionfo nella cella solitaria di san Stefano, già adorna d'altri pregevoli lavori. Infatti prima del Dedalo ed Icaro aveva condotto a termine il busto del Doge Renier per commissione del nobile Angelo Quirini; aveva ripetuto l'Orfeo con modificazioni del primo pel Senatore Grimani; aveva condotto in marmo un Esculapio e modellato un gruppo d'Apollo e Dafne.

I giovani suoi amici ed ammiratori andavano a visitarlo, e lo trovavano sempre intento al lavoro. Erano fra i più intimi il giovane scultore veneziano Antonio d'Este, che gli fu fedelissimo e stretto amico sino alla morte, il trivigiano Carlo Lasinio, incisore e pittore stimato, e Vittore Valdrigo.

Costui uscendo a notte inoltrata dallo studio di Canova si aggirava solitario per le calli deserte di Venezia, assorto nelle più gravi meditazioni. Quel grande e nobile esempio agitava il suo spirito, egli era costretto di confessare che le opere applaudite dell'amico erano il risultato dei continui studi e delle perseveranti fatiche, egli conveniva che il genio non fruttifica se non è fecondato dal lavoro, e sentiva nel profondo dell'anima una voce misteriosa che gli prometteva la gloria, qualora acconsentisse a consumare i pennelli sulla tela, come Canova usava gli scalpelli sul marmo.

Passeggiando in fianco alle Chiese e ai Palazzi, egli si arrestava a contemplare quei monumenti, e le forme fantastiche di quelle antiche dimore in parte immerse nelle ombre della notte, in parte illuminate dalla luna, secondavano le sue tendenze e lo trascinavano nel regno dei sogni. Dimenticando affatto il presente, egli riviveva nei secoli andati, e gli pareva che quelle mura gli rivelassero i segreti delle arti e della politica; e cercando di penetrare nei misteri degli anni svaniti, gli sembrava di vedere gli uomini delle morte generazioni e ne studiava i caratteri, e voleva indovinarne i pensieri. Davanti una maestosa basilica, che disegnava le sue cupole nel cielo sereno, egli pensava: — Quivi Tiziano si sarà soffermato a contemplare questo spettacolo sublime, e avrà meditato il pensiero dell'Assunta. — Poi raggirandosi per le oscure vie, e pei ponti ricurvi che presentano alla vista le case del popolo sporgenti o rientranti nell'acqua dei canali, se un lumicino rischiarava una finestra, con una luce rossastra, gli pareva di vedere coricata in quella stanza la più bella Venere uscita dai pennelli del medesimo artefice, chiamato dal Buonarroti «il gran confidente della natura, il maestro universale, e il solo degno del nome di pittore». E seguitava il suo notturno pellegrinaggio attraverso l'antica Venezia, evocando il passato. Sotto al campanile di san Marco gli sembrava di riconoscere il vecchio Sansovino che si compiaceva nella contemplazione della sua loggia; sulla riva degli Schiavoni, s'immaginava di incontrarsi con Alessandro Vittoria che aveva dimorato in calle della Pietà. Ora si arrestava a dialogizzare col Tintoretto, ora chiedeva a Paolo Cagliari delle spiegazioni intorno ai suoi gruppi, o domandava a Giorgio Barbarelli i segreti della sua tavolozza, e le sue opinioni intorno alla maniera del maestro Giovanni Bellino.

Davanti l'ampia superficie della laguna pensava ai grandi capitani che conquistarono il dominio dei mari, e piantarono l'onorato vessillo di San Marco in lontane regioni. Si figurava i battiti del cuore di Marco Polo nel giorno del suo arrivo a Venezia dopo la lunga assenza dalla patria, e rammentava le glorie dei Morosini, dei Dandolo, dei Foscari, dei Zeno, dei Mocenigo, dei Pesaro. Anime grandi! bei tempi per Venezia! che ben a ragione andava superba de' suoi fasti politici, della sua sapienza civile, delle sue glorie artistiche!...

Ma tutto ad un tratto un rumore dapprima indistinto e confuso, e poi assordante e disgustoso, lo risvegliava da' suoi sogni. Era un nembo di maschere sibilanti, accompagnate da stromenti scordati, rischiarate da palloncini variopinti, seguite da una folla plaudente di curiosi e di sfaccendati. Valdrigo ritirato nel vano di una porta lasciava passare la valanga, e quando il silenzio della notte riprendeva il suo dominio egli faceva il paragone della antica Venezia colla nuova, e mettendo a riscontro le feste nazionali delle vittorie, coi baccanali senza tregua, gli uomini d'una volta con quelli del giorno, il suo cuore lagrimava di compassione. Allora rientrava in casa, abbattuto e desolato d'esser nato troppo tardi, in un'epoca di corruzione e di decadenza; e trovava miglior consiglio spegnere l'intelletto nello stordimento delle feste, al tocco dei bicchieri, al suono d'una musica festante, fra i baci voluttuosi dei facili amori!...

E così invaso dallo scoramento e prostrato dagli stravizi, dimenticava il grande esempio dell'amico, il quale, modesto, laborioso e solitario, si levava sempre più alto e dominava i tristi tempi, colla grandezza del genio e coll'incanto delle divine creazioni.

XII.

Un ardente desiderio, un pensiero tenace, turbava i sonni, e dominava le ore di studio di Antonio Canova. Un nome grande risuonava nel suo cuore, una voce misteriosa e prepotente lo chiamava da lontano. Questo pensiero, questo nome, era Roma. Roma circondata da un prestigio infinito, nome eterno e venerato dal mondo per le sue grandezze e per le sue rovine. Colà la Grecia mostra ancora le immortali bellezze de' suoi marmi; e le glorie della repubblica e dell'impero sfidano i secoli sulle pietre imperiture dei loro monumenti. La nuova era della fratellanza cristiana, fondata sulle macerie del mondo antico, narra i suoi martirii e i suoi fasti, colle catacombe e colle basiliche. Il genio dell'arte eterna ha trasfuso la sua scintilla nell'anima di Michelangelo e di Raffaello, e il fuoco sacro arde fra quelle mura, che custodiscono i tesori della civiltà greca, romana e cristiana. Il gruppo di Dedalo ed Icaro e la statua del marchese Poleni fornirono al giovine scultore i mezzi necessari per soddisfare i suoi voti, e nell'ottobre del 1780, lieto e felice, partì finalmente per Roma.

XIII.

In quello stesso mese un pesante carrozzone da viaggio, e un barocchissimo biroccio, andavano barcollando per le strade rotte e guazzose dei contorni di Treviso, trasportando la nobile famiglia degli Orseolo che si recava a villeggiare nel suo palazzo di Vascon.

Vedevasi nel carrozzone principale la nobildonna Fulvia in gran toppè seduta accanto del nobile Giuliano Partecipazio, suo cavaliere servente di servizio, e dirimpetto a loro, Silvia ed Alvise. Sedevano nel secondo biroccio il nobile marito conte Almorò degli Orseolo, l'elegantissimo abate Don Lio, poeta arcade, membro dell'illustre accademia dei Granelleschi, istitutore del giovane Alvise, e cavalier servente onorario della contessa. In faccia a loro stavano Vittore Valdrigo, e la cameriera Lucietta. Gli altri servitori e staffieri camminavano in fianco alle carrozze per sostenerle quando minacciavano di ribaltarsi, o per spingerle avanti, quando le ruote sprofondandosi nel fango, si arrestavano. Erano partiti da Venezia avanti il levare del sole colla speranza di giungere alla villa prima di notte. In due ore si attraversava la laguna, ma ci voleva una intiera giornata a percorrere le quindici miglia da Mestre a Vascon, ben fortunati quando non si aveva bisogno di quattro buoi per rimorchiare i cavalli e le carrozze attraverso i rompicolli, che allora si chiamavano strade.

Silvia era diventata una bella ragazza. Prima di ritirarla dal convento era stata fidanzata al signor conte Alberto Leoni, che aveva vent'anni più di lei, ma le era eguale in nobiltà e superiore in ricchezza, perciò tutti trovavano il maritaggio perfettamente assortito, e la ragazza non aveva nulla da dire, non potendosi ammettere in quei tempi dalle famiglie dei nobili, che le fanciulle avessero un'opinione qualunque sullo sposo a loro destinato dai genitori, secondo la nobiltà del casato e le convenienze relative.

Avanti che i nobili viaggiatori giungano alla meta, possiamo a nostro bell'agio visitare il loro palazzo di compagna e passeggiare il giardino in compagnia del cortese lettore, o della graziosa leggitrice, ciò che sarebbe per noi una maggiore fortuna.

Il castaldo Angelo Rotondo dà l'ultima spazzatura al selciato davanti della casa, dopo aver messo in ordine l'interno, e fatte sparire quelle cose che i padroni non devono vedere. Sua moglie Fiorina è tutta in faccende per ripulire le stoviglie, spiumacciare i materassi, dispiegare i coltroni, spazzare le stanze e spolverare le suppellettili.

L'antico e vasto palazzo sorge maestoso in mezzo di spaziose adjacenze che contengono una grande quantità di locali a diversi usi. Dall'ampia sala del mezzo partono le larghe scale che conducono agli appartamenti superiori. Altre scale segrete e secondarie mettono negli anditi, e conducono alle stanze dei domestici.

Le ampie camere sono quasi tutte riquadrate di capricciosi stucchi alla maniera di Carpofero, e si svolgono in curve barocche, chiudendo nel mezzo antichi ritratti di famiglia un po' affumicati dal tempo, entro a cornici d'intaglio bizzarramente accortocciate, e sormontate dagli stemmi della famiglia, incoronati dal corno ducale.

Nelle sale di ricevimento pendono dal soffitto ricche lumiere di cristallo, e graziose girandole di Venezia, con pendagli brillantati, e goccie tagliate a faccette, e adorne di vasi di fiori e frutti in vetro, maestrevolmente dipinti. Sopra ai grandi e profondi camini di marmo, che possono contenere dei tronchi d'albero intieri, veggonsi lucenti specchi di Murano entro a cornici dorate, con vaghi andari di foglie che si aggirano fra i cartocci e le volute, condotte con arte ingegnosa. Larghi e pesanti seggioloni di cuoio con borchie di metallo, e tavoli a piedi ricurvi, ricoperti da ricchi tappeti di stoffe pesanti, a grosse frangie d'intorno, e grandi armadi colle cornici sostenute da cariatidi, con ampie invetriate entro alle quali fanno bella mostra i vasi di Faenza e i bicchieri di cristallo di monte.

Il giardino è circondato da lunghi viali di carpini, tagliati regolarmente ad arco. Le viuzze regolari e simmetriche, e le ajuole dei fiori sono fiancheggiate da bossi ridotti in forma di verdi muricciuoli. Gli alberi mozzicati e ritondati dalla forbice inesorabile del castaldo, hanno perdute le loro belle forme naturali, e presentano il monotono aspetto di vasi, piramidi e globi. Le piante dei cedri che esalano un soave profumo, compiono l'ornamento del giardino, unitamente alle statue, collocate ad eguali distanze, e riguardantisi fra loro. Il dio Pane coi piedi caprini, con la testa cornuta, con la zampogna nelle mani, fissa con stupido sguardo una Diana indifferente che con una mano accarezza il suo levriere, e con l'altra prende dal turcasso una freccia. Un Zeffiro enfia le gote, e sembra burlarsi d'una Flora gentile che gli offre un canestrino di fiori. Vertunno fa degli sberleffi a Pomona, che gli mostra ingenuamente delle frutta, senza intendere le malizie del suo innamorato. Un grosso e allegro Bacco incoronato di pampini leva in aria una tazza, e sorride bestialmente a Cerere incoronata di spiche, la quale levando la falce sembra che minacci di recidergli il capo.

Gli agricoltori romani si prosternavano riverenti davanti a questi dèi, ai quali chiedevano quelle benedizioni e quelle grazie che ora la castalda Fiorina domanda al vecchio curato trattando poi con irrispettosa noncuranza gli antichi numi, alle sacre membra dei quali attacca una corda, per distendere al sole il bucato.

Niente ricorderebbe la schietta natura in mezzo alla miseranda accozzaglia delle piante frastagliate, se un rustico boschetto sfuggito per miracolo alle cure micidiali del castaldo non fosse stato abbandonato alla sua vegetazione naturale. Questi alberi dovettero la loro salvezza al sito remoto, nel quale si ascondevano alla vista degli uomini. Gli uccelli frequentavano quel delizioso boschetto che stendeva le sue ombre ospitali sulle verdi erbe d'un prato, in fianco d'un ruscello mormorante fra candide ghiaie, e in primavera vi facevano il nido, e coi loro gorgheggi sembravano protestare contro le forme artefatte degli alberi del giardino, che secondo Angelo Rotondo erano la natura privilegiata, il boschetto rappresentando la natura selvaggia; ma quell'animale ragionevole giudicava la qualità degli uomini dalla forma della parrucca e il merito delle piante dal lavoro della forbice, autorizzata dalla moda a commettere un delitto di lesa natura. Eppure quel tranquillo recesso offriva un beato ricovero alle persone modeste che amavano fuggire il sole, annoiate dalle importune suggestioni di Bacco, e dalla immobile pantomima delle altre statue dabbene.

Il giardino regolare formava naturalmente le delizie dell'istitutore d'Alvise, che per dovere della carica, si teneva strettamente legato ai precetti dell'estetica del giorno. Don Lio era uno dei più eleganti abati di Venezia. Egli portava il collarino bianco, con lattughe staccate sul petto, e manichini ai polsi artificiosamente elaborati; anellini alle dita, orologio a pendagli, ferrajuolo di seta svolazzante al vento, fibbie dorate alle scarpe, e il cappellino a tre punte appoggiato sull'orecchio. E tuttociò secondo la tolleranza dell'epoca, malgrado le severe proibizioni dei sinodi patriarcali.

Passeggiando fra i muri del giardino egli invocava le aonie muse, delle quali era bigotto, e si sentiva trasportare sul Parnaso. Ad ogni occasione d'inclite nozze egli rischiarava gli sposi colla face d'Imeneo, e con un solenne epitalamio metteva in campo Apollo, Venere e le Grazie. Per vestizioni di monache egli penetrava coll'audace fantasia nel tempio di Vesta, ed animava il fuoco sacro, sordo alle proteste di Cupido. Alla morte d'ogni illustre patrizio lo raccomandava a Caronte, dopo un'apostrofe umiliante per l'ignaro Esculapio, e una imprecazione alle Parche.

Col lodevole scopo di avvalorare i suoi precetti coll'esempio, egli aveva adottato per sistema un linguaggio costantemente figurato. Alla mattina egli vedeva la rosea Aurora sul risplendente suo carro, a mezzogiorno egli usciva coll'ombrello per evitare i dardi di Febo, alla sera egli salutava la bianca figlia di Giove e di Latona che faceva capolino dalle nubi. Usciva a respirare i soffi di Zeffiro, rientrava in casa incomodato dalle furie di Eolo, d'Austro o di Borea. Nelle tazze del caffè egli assaporava il néttare, e a mensa trangugiava l'ambrosia delle prelibate bottiglie. Finalmente alla notte si abbandonava nelle braccia di Morfeo. Alvise trovava il suo maestro eminentemente noioso; il conte Orseolo lo stimava un insigne poeta, e Vittore Valdrigo sosteneva che Don Lio era un essere completamente felice.

La religione cristiana gli prometteva il paradiso dopo la morte, la religione pagana gli concedeva in vita l'uso degli Elisi, e l'abuso dei suoi numi. Venezia gli offriva i suoi piaceri, l'Arcadia lo convitava alle agresti sue gioie. Senza sudori sulla fronte egli coltivava il Parnaso, e passava i giorni beati dalle più dolci visioni, accompagnate dagli agi materiali. Smarrito in una selva selvaggia ove Dante avrebbe incontrato una lonza, un leone ed una lupa, ove i pastori sarebbero stati assaliti dagli orsi, egli non vedrebbe che le Driadi e le Napee sorridenti e ben disposte in suo favore; e certo cadendo in acqua sarebbe salvato dalle Najadi, o almeno ripescato da Nettuno.

Angelo Rotondo ascoltava a bocca spalancata gli squarci d'erudizione coi quali Don Lio si degnava talvolta onorarlo; e strabiliava a tanta sapienza, chiedendo spiegazioni e commenti. Durante la villeggiatura la sua ammirazione riceveva continui alimenti dalle declamazioni serali dell'arcade abate, e nei mesi d'inverno non dimenticava mai d'inviare i suoi rispettosi inchini all'illustre poeta, nelle indecifrabili epistole indirizzate all'agente generale di Venezia, nelle quali ommettendo i punti e le virgole, parlava alla rinfusa degli animali e dei padroni, dei polli, dei cavoli, e di Don Lio, chiudendo colla firma paradossale dell'umilissimo e devotissimo servo Angolo Rotondo.

Ma ecco la rubiconda Fiorina che dai cancelli del giardino annunzia l'arrivo degli illustrissimi padroni e del loro corteggio.

XIV.

La vita di campagna dei nobili veneti di quel tempo si allontanava di poco dalle abitudini cittadine, e poteva chiamarsi una variazione sullo stesso motivo. Il dolce far niente di quelle esistenze senza scopo, non veniva interrotto che dai lauti desinari, o dal giuoco. In città passavano le ore in frivole occupazioni, o colle visite, o al teatro. Alla villa il tresette della mattina teneva il luogo delle visite, il tresette della sera suppliva al teatro. La coltura del suolo era tenuta a vile e abbandonata ai bifolchi; l'aratro che onorava i consoli romani, era disceso fra gl'istrumenti più umili della plebe rurale.

Le arti, le mode, la poesia, tutto tendeva a dissimulare la natura, e la vita era ridotta un artifizio sostenuto da idee false, da pregiudizi inveterati, da privilegi politici e civili, conservati da secolari abitudini e da leggi severe.

Vittore Valdrigo amava la natura per istinto, e per l'influenza delle sue memorie d'infanzia, amava l'arte come quella che gl'insegnava a discernere il bello e ad elevare lo spirito, e disprezzava l'arteficioso ed il falso di quelle esistenze signorili, delle quali era divenuto testimonio quotidiano e attento osservatore. Ma legato alla famiglia degli Orseolo per la riconoscenza dei beneficii ricevuti, per la necessità de' suoi studi, per l'impossibilità di mantenersi da sè, o di tornare nell'isolamento della rustica famiglia, egli si lasciava andare per la china delle contratte abitudini, e viveva all'ombra dei suoi protettori che amavano i suoi capricci, e gustavano i paradossi del suo spirito, come fuochi d'artificio che svegliano dall'assopimento, come il certo preludio d'un futuro grand'uomo. Cosicchè le sue stranezze divertivano quei nobili signori, superbi d'aver pescato ne' bassi fondi sociali un originale che poteva un giorno far dire ai Veneziani: — La nobile famiglia degli Orseolo protegge le arti! —

Rosa giudicando che i nobili e i signori venivano al mondo per far niente, ringraziava la divina provvidenza d'aver collocato suo figlio nella vera posizione che gli poteva convenire, essendo troppo molle di fibra per sostenere l'aratro e i duri lavori della terra. Non è a dirsi se quella tenera madre fosse felice vedendo il suo prediletto diventato un lustrissimo; essa attribuiva quella sorte fortunata alla mistica influenza delle candeline offerte alla Madonna della neve di Saltore, alla quale porgeva continui voti, e indirizzava devoti rosari, per ottenere al figlio più dilicato una facile esistenza come domestico o poeta in una casa signorile, ciò che per la buona donna sembrava ad un di presso la stessa cosa.

Nei mesi della villeggiatura Vittore visitava spesso i parenti, portava qualche dono a sua madre e ai fratelli, e rifaceva solitario i passeggi dell'infanzia. In quelle dolci solitudini tutto parlava al suo cuore; l'aria emanava un profumo speciale, il mormorio dell'acqua aveva dei significati reconditi ed eloquenti, lo stormire delle frondi era un linguaggio inteso dalla sua anima, avvezza a conversare colla natura. Coricato sotto le antiche piante che avevano consolata la sua infanzia colle loro ombre, egli contemplava estatico le scene tranquille dei campi, il pascolo dei buoi sul prato vicino, i progressi dell'edera sugli avanzi della torre, le tinte rosseggianti della vite che faceva cornice alla scala, il bacio dei colombi che da padre in figlio ereditavano i nidi dei loro antenati.

Quante meditazioni in quella mente! quanti raffronti fra la semplicità e il silenzio di quei campi, e il lusso romoroso di Venezia; fra la vita primitiva e innocente de' suoi parenti, e le raffinatezze e la corruzione d'una nobiltà decrepita; fra l'ignoranza delle classi rurali e la scienza degli uomini illustri.

Chi più felice?... Arduo problema! Che cosa è la gloria? Chiedetelo a Tiziano nella sua tomba. La vita e la morte saranno sempre i grandi misteri!

Qualche volta sulla sera, quando stava per rientrare al palazzo, scontrava per via la comitiva dei nobili villeggianti, e si univa con loro per accompagnarli nel passeggio vespertino.

La nobildonna Fulvia camminava maestosamente in mezzo a' suoi cavalieri serventi. Il nobile Partecipazio, discendente degli antichi dogi, era onusto di scialli, di ombrellini e di ventagli, pronto a soddisfare i bisogni della dama, a coprirla, a scoprirla, a ricoprirla secondo gl'influssi della luna, e i capricci di zeffiro. Don Lio portava fra le sue braccia la cagnolina Tisbe che ringhiava all'approssimarsi dei profani, e sembrava riconoscente alle cure del poeta, che la celebrava ne' suoi versi. Seguiva un codazzo d'ospiti, di nobili vicini, coi figli e il marito. Il conte Orseolo corteggiava le dame, i cui mariti corteggiavano le amiche delle mogli, essendo suprema legge del codice elegante d'allora il cedere i propri diritti, l'invadere il terreno degli altri. Il giovane Alvise provava le prime armi con una briosa villeggiante di Lancenigo, che aveva dieci anni più di lui, molto opportuni per le lezioni d'esperienza, che servono di guida agli inesperti. Silvia restava indietro cogli invalidi, e i pensionati del regno di Cupido, o si univa con Vittore quando faceva parte del seguito.

XV.

Silvia, come tutte le ragazze della sua età, era un prodotto misto della natura e della educazione. La natura l'aveva dotata di una bellezza delicata, di forme snelle, di biondi capelli, d'occhi azzurri e profondi, come le acque del mare, dal quale la sua famiglia aveva in origine attinte le glorie e le ricchezze. La mente ed il cuore erano l'opera delle istituzioni claustrali, nelle quali era stata allevata, sotto la direzione d'una zia paterna, suor Maria Serafina, divenuta monaca secondo gli usi del tempo, per conservare intatto l'avito retaggio al fratello primogenito. L'affetto della zia alleviava alla educanda le fatiche dello studio e le aumentava la porzione delle ciambelle, che si distribuivano nei giorni solenni. La buona monaca aveva consigliato la fanciulla a preferire il maritaggio imposto dai parenti, alle eterne noie del chiostro. Negli anni d'istruzione essa aveva assorbite tutte le superstizioni e tutti i pregiudizi del suo tempo, ed aveva ignorato completamente le realtà della vita. Essa usciva dunque nel mondo fidanzata al conte Leoni, prima che il suo cuore avesse parlato, ed arrivava nella società, come i naviganti nelle terre scoperte, cioè in paese ignoto, fra costumi bizzarri, colle idee d'un altro mondo.

Ma gli uomini coraggiosi che intraprendono delle spedizioni per scoprire nuove terre sono già avvezzi alle fortune di mare, esperti nella nautica, accompagnati da arditi marinai, provveduti di armi e munizioni. La povera fanciulla veleggiava sola per mari ignoti, non coadiuvata dalla scienza, inesperta degli scogli nascosti sotto le onde, e senza pilota.

In quei tempi le madri erano troppo occupate per potersi dedicare all'educazione delle figlie. La mattina era tutta impiegata davanti la sapiente tavoletta, segreto laboratorio dei donneschi artificii, ove la crema d'alabastro e il rosso di serkis, componevano il roseo incarnato delle guancie; il bianco di Sultana, il latte di cocomero, o l'acqua d'Ispahan, servivano a nascondere le rughe, un neo ben collocato attirava gli sguardi degli ammiratori, e metteva al bersaglio un occhio languidetto, o una bocca lusinghiera. Poi l'acconciatura del capo esigeva lunghe cure, ed esperte mani per sollevare i capelli ad altezze meravigliose, sostenerli al loro posto, fissarli colla pomata circassa, rivolgerli col ferro caldo, imbiancarli colla cipria.

Più tardi venivano le visite, le adorazioni dei cicisbei, il pranzo, il teatro, il ballo; e in mezzo a tante brighe bisognava pure soddisfare alle convenienze sociali, concedere qualche istante al riposo, qualche abboccamento segreto, appagare il gusto del cavaliere servente, riconoscere i suoi diritti, e qualche volta transigere colle esigenze del marito.

È dunque evidente che i figli erano veri imbarazzi, importuni testimoni, pericolosi confronti, certificati autentici dell'età approssimativa dei genitori. Perciò la gentildonna Fulvia teneva sua figlia a rispettosa distanza, limitandosi a raccomandarle la massima semplicità nelle vesti, e un contegno riservato. Ma la giovanile freschezza suppliva ad ogni ornamento, e una modesta gonnella, un bruno zendaletto, una rosa sui biondi capelli, bastavano a farne una deliziosa creatura. Silvia dunque viveva nell'isolamento, quantunque si trovasse fra numerose persone, e si concentrava in sè stessa cercando d'indovinare i misteri della vita, osservando ogni cosa, studiando e meditando gli usi, le abitudini, gli individui. Guidata dall'istinto, coadiuvata dalle circostanze, essa andava modificando le sue idee, e arricchendo la sua mente di quelle cognizioni che il convento le aveva nascoste, e che pure le sembravano necessarie per sapersi regolare nel cammino della vita. I passeggi solitari in giardino erano il suo principale diletto, l'innocenza ama la natura, le fanciulle amano i fiori, gli alberi, il cielo aperto dei campi. Pensava al suo futuro matrimonio col conte Leoni che avea veduto due volte nel parlatorio del convento, il giorno della presentazione, e il giorno che venne fissato il matrimonio. Il fidanzato dopo d'aver baciato la mano rispettosamente alla promessa sposa, in presenza dei genitori e della badessa, era ripartito per un paese lontano ove rappresentava la repubblica, dopo d'aver convenuto che il matrimonio avrebbe luogo al termine della sua missione diplomatica.

La fanciulla studiava i rapporti conjugali dall'esempio dei parenti, e giudicava naturalmente che nella famiglia il marito è un essere secondario che dà poca noia alla moglie, e richiamando alla memoria i lineamenti del futuro suo sposo, trovava che per un semplice marito non c'era troppo male. L'affare più grave le sembrava la scelta del cavaliere servente; l'importanza della carica era evidente a' suoi occhi, il marito, essa diceva fra sè, non sta insieme alla moglie che le brevi ore della notte, quando si smorza il lume e si dorme, ma il cavalier servente è il compagno inseparabile, l'ombra del corpo. Se fosse una persona noiosa come Don Lio, o affettata come il nobile Partecipazio!... Povera mamma, essa pensava, come deve pesarle l'obbligo sociale che la tiene incatenata a un tal uomo, quanto sarebbe stato meglio per lei se il papà fosse stato il suo cavaliere servente, e Partecipazio suo marito!... Come si fa a trovare il cavaliere servente? ho sempre udito dire che la scelta appartiene alla sposa. Guai se anche questo mi venisse consegnato dai parenti, mi darebbero certo il conte Mocenigo, un ganimede che tabacca; o l'Ambasciatore Daniele Dolfin Savio del Consiglio, cavaliere della Stola d'oro, noioso come le cerimonie, o il grave inquisitore Grimani che fa paura a guardarlo, o il vecchio Senatore Foscari colla sua parrucca per traverso!... Sarebbe meglio Ermolao Tiepolo, se non camminasse saltellando, o Alvise Pisani se non fosse tanto languido, o Lodovico Manin se si mostrasse meno timido e sospettoso... Oh! infatti è un affar serio, e non vedo l'uomo secondo le mie idee.... Mi piacerebbe un carattere franco, disinvolto, coraggioso senza burbanza, e poi di bella presenza, buono, dolce, che odiasse il tresette, l'odore d'ambra, e il tabacco di Spagna.... ove trovarlo?...

Mentre la fanciulla passeggiava con queste idee per la testa, vide da lontano Valdrigo, e si mise a chiamarlo con tutta la forza della sua voce argentina: — Vittore, Vittore, Vittore....

Il giovane accorse in tutta fretta, e le chiese in che cosa potesse servirla. La fanciulla fattoselo sedere dirimpetto gli disse: — Voglio domandarvi un consiglio.... ma in segreto. Credete voi ch'io possa essere preoccupata da gravi pensieri?...

— Lo credo.

— Mi promettete il più profondo segreto delle mie confidenze?

— Lo prometto.

— Siete disposto a rendermi un segnalato servigio?

— Dispostissimo.

— E a rispondere francamente a tutte le mie domande?

— Dipende....

— Come dipende?

— Dipende dalle domande.

— Vi sono dunque delle domande alle quali non vorreste rispondere?

— Certamente!

— E perchè?...

— Perchè non potrei dirle la verità.

— Allora temo che la mia domanda sarà inutile!

— Si provi.

— Or bene, proverò.... Sappiate dunque che io vorrei ottenere un consiglio da voi, intorno alla scelta del mio futuro cavaliere servente.

— Sono dolentissimo di non poter soddisfare un tale desiderio....

— E perchè?...

— Perchè non ammetto i cavalieri serventi....

— Come?... Non ammettete nemmeno i cavalieri serventi!... Don Lio ha dunque ragione, siete un vero originale!... e perchè non ammettete i cavalieri serventi?...

— Perchè mi pare che debbano bastare i mariti!...

— Mio Dio! quali stranezze!... ma se i mariti non fanno mai nulla!...

— Bisogna farli fare!...

— Oh bella!... cosa direbbe il mondo, se vedesse una dama accompagnata dal marito.... corteggiata dal marito.... non sono cose possibili.... sono idee che farebbero ridere.... la stessa cosa come se un gentiluomo si presentasse in piazza senza coda e senza parrucca!... ma sapete che siete un grande originale!...

— Lo so, e ci tengo, perchè il plurale è così melenso al dì d'oggi, che preferisco il singolare.

E ridevano insieme, come di cose che non ammettono discussione, entrambi perfettamente convinti delle proprie idee. Ma poi nella solitudine Silvia ritornava col pensiero alle cose udite, e meditava a fondo sulle discussioni tenute.

Una volta essa consegnò misteriosamente a Vittore un libriccino, raccomandandogli di leggerlo con molta attenzione. Egli lo portò nella sua stanza, gettandosi sul sofà, aperse il volume e si trovò fra le mani: Il giardino di poesie spirituali, diviso in quattro parti, di Suor Maria Alberghetti, viniziana fondatrice delle Dimesse di Padova. — Lesse per obbedienza, e dormì d'un sonno consolato di celesti visioni.

Era un dono della zia badessa.

Finiti i pochi libri che aveva portati dal convento, Silvia sentiva il bisogno di nuove letture, e s'indirizzava alle amiche vicine, le quali le consegnavano di soppiatto le opere in voga. — La Marfisa Bizzarra, poema del conte Carlo Gozzi. — II Tirsi e il Narciso, di Apostolo Zeno. — Il Re Pastore e L'Astrea placata, di Metastasio. Questi libri accendevano il suo entusiasmo, allargavano il ristretto orizzonte delle sue idee, le facevano battere il cuore, e versava torrenti di lagrime. Nel bisogno di comunicare le sue emozioni ad un amico, aspettava Valdrigo in giardino, lo invitava a seguirla sotto l'ombre del boschetto, e colà narrava ingenuamente i suoi trasporti di ammirazione per le pagine divorate nella cameretta solitaria.

Valdrigo ascoltava con un'aria di affettuosa compassione, o di muta sorpresa; la giovinetta lo interrogava ansiosa:

— Cosa pensate di Carlo Gozzi?

— Scipito, rispondeva Vittore con un sospiro.

— E di Apostolo Zeno?

— Noioso.

— Ah! non potete negare che Metastasio non sia uno de' più grandi poeti?

— Lo nego!

— Come! avreste il coraggio di non piangere ai suoi drammi? di non rimanere commosso alla lettura de' suoi versi?

— Ahimè! pur troppo debbo confessare che i suoi versi mi fanno ridere....

— Basta.... Basta.... Non vi credeva un cuore di marmo, mi fate compassione.... voi non sentite niente!... non amate niente!...

— Niente!... rispondeva Valdrigo con un sorriso affettuoso, e se ne andava.

Silvia ritornava alle predilette letture, e mentre il suo cuore si disponeva alla tenerezza, udiva una musica soave uscire da una stanza del palazzo. Era Valdrigo che trasmetteva al suo violino un'espressione della sua anima, un pensiero di sublime dolcezza. La giovinetta ascoltava quella voce arcana che molceva le più riposte fibre del cuore, e sospendeva la lettura, per non perdere una nota della lontana melodia. Poi essa pensava: — quel giovane è un mistero!

Un giorno passeggiando in giardino con lui si mise a lodare l'elegante forma dei carpini tagliati in vasi e piramidi, e ammirando l'arte del giardiniere si rivolse al suo compagno, e con un'aria burlesca, gli disse:

— Ci scommetto io, che voi non amate quest'arte!...

— Ma niente affatto! rispose tranquillamente Valdrigo, anzi la detesto. Come vuole che io ammetta Angelo Rotondo censore della natura, l'opera di Dio!...

E qui una lunga discussione, come al solito, sulla stupidità degli usi, sulla corruzione del gusto, e sull'eccellenza della natura, e sempre camminando e andando a finire sotto le ombre del prediletto boschetto. Giunti colà, Silvia, incrociate al seno le braccia, e fissando in volto Valdrigo collo sguardo scrutatore d'un inquisitore di Stato, gli disse:

— Voglio vedere fino a qual punto giunga il vostro superbo disprezzo per le cose tenute in venerazione dal comune degli uomini. Da quattordici secoli la repubblica di San Marco forma l'ammirazione del mondo, orbene, qui nessuno ci ascolta, e potete parlare senza tema del supremo tribunale; sareste voi capace di burlarvi del Doge, serenissimo principe della repubblica, di ridere della maestà dell'Eccellentissimo senato, di mancare di rispetto all'Eccelso consiglio dei Dieci? sareste capace di dubitare dell'eterna durata d'un governo fondato dai nostri padri, guidato dalla sapienza civile e politica dei secoli, sostenuto da una nobiltà devota alle antiche istituzioni, e da un popolo rispettoso e felice?... rispondete.

— Come mai possono venirvi in mente tali domande?... a che possono servirvi i miei pensieri in proposito?...

— Il desiderio di conoscervi a fondo, mi spinse a cercare nella mia mente qualche cosa di grande dopo Dio, per vedere ove si arresti la vostra manìa di contraddire le idee generalmente adottate; i vostri pensieri poi mi servono a pensare tutta sola, a ragionare fra me, a discutere nel silenzio fra le idee comuni e le vostre, a distinguere il pregiudizio dalla verità. Ditemi francamente, ve ne prego, credete voi ad una lunga prosperità della repubblica?...

— Non ci credo.... la repubblica è vecchia, e piena di magagne, e i vecchi devono morire!

— Mio Dio!... mi fate paura.... e sapete cosa penso qualche volta di voi?... penso che siete pazzo!...

— Sicuro che sono pazzo.... egli rispose con un'aria naturale e convinta. Esser pazzo significa vedere le cose in modo diverso dagli altri.... Gl'inquisitori del Santo Ufficio giudicarono pazzo Galileo Galilei, perchè sosteneva che la terra girava attorno al sole, e l'obbligarono colla tortura a confessare la sua eresia.... Tutti i dotti trapassati e viventi davano torto alle sue nuove teorie, ma il dubbio era gettato, e la tortura non bastava a distruggerlo, bisognava dimostrare il contrario con prove scientifiche.... le prove si fecero, e dimostrarono ad evidenza che i dotti trapassati e viventi erano asini.... compresi gl'inquisitori del Santo Uffizio.... e che Galileo era un genio!... I Genovesi, i Portoghesi, gli Spagnuoli trattarono da pazzo Cristoforo Colombo, che si era fissata in mente l'idea di scoprire un nuovo continente oltre i mari conosciuti. Si figuri, se la dotta antichità poteva ignorare qualche cosa! I dotti contemporanei si burlavano di lui, la dotta Salamanca si sbellicava dalle risa, egli vagava invano per l'Europa alla ricerca d'un pazzo suo pari, che volesse aiutarlo procurandogli i mezzi di viaggiare in traccia delle sue chimere. Finalmente la presa di Granata mise in possesso della regina di Spagna tutte le provincie che si stendono dai Pirenei alle frontiere del Portogallo, la buona regina Isabella trovandosi la borsa ricolma ebbe il capriccio di gittare un poco di denaro dalla finestra, e malgrado l'opposizione insistente del marito, mise a disposizione di Colombo tre poveri vascelli, coi quali al dì d'oggi non si farebbe un viaggio in Dalmazia. Ella sa il resto; l'ignoto continente esisteva, Colombo lo ha scoperto; anche questa volta il creduto pazzo era un genio, e gli asini si trovarono nella dotta Salamanca e nelle Accademie scientifiche di quel tempo. Un altro pazzo era Torquato Tasso, l'autore della Gerusalemme liberata, un poema che vostra eccellenza farebbe bene di leggere, e che troverebbe certo migliore della Marfisa Bizzarra del conte Carlo Gozzi.

— E chi osò trattare da pazzo questo insigne poeta?

— Il Duca Alfonso di Ferrara, che lo tenne in prigione....

— E perchè?...

— Perchè il povero poeta aveva osato levare gli occhi alle stelle.... perchè aveva amato la Duchessa Eleonora, la sorella d'Alfonso....

— Oh ve ne prego, raccontatemi la storia degli amori del Tasso e di Eleonora....

Vittore ignorava quasi intieramente quella storia, ma la sua fantasia era abbastanza feconda per supplire ai documenti mancanti, e creò un racconto interessante della fiamma del poeta per la bella duchessa, e vi aggiunse le più tenere avventure, e le relative osservazioni filosofiche e comparative fra la nobiltà dell'intelletto e la nobiltà dei natali, e sul pregiudizio della nobiltà ereditaria.

Un altro giorno lesse a Silvia l'episodio d'Olindo e Sofronia, spiegando alla fanciulla le allusioni del poeta, e disponendola all'intelletto della vera poesia.

Tali frequenti ritrovi, resi interessanti dallo scambio reciproco dei sentimenti e delle idee, strinsero la intimità dei due giovani, e divennero oltremodo graditi al loro bisogno d'espansione. Silvia andava colla cameriera Lucietta a trovare la Rosa, e colà si univano a Vittore che le faceva correre attraverso la campagna. Osvaldo, un fratello di Vittore, prendeva le reti, e andavano alla pesca portando con loro delle frutta per una modesta colazione sull'erba. Talvolta Lucietta si perdeva pei campi con uno sbarbatello dei contorni che le prometteva di farla contessa, e allora Silvia e Vittore vagavano solitari, conversando e questionando di mille cose diverse. Valdrigo la proteggeva dall'ululato dei cani, dai pericoli provenienti dagli animali pascolanti, dalle spine dei roveti. La portava attraverso i ruscelli, la teneva per mano nelle salite più ardue, la difendeva dal sole con dei rami degli alberi, e dal vento coprendola colla sua giubba.

Dopo lungo cammino si siedevano a riprender lena sotto agli alberi, e Silvia scherzando gli diceva: — Riposiamoci un poco, ma poi andiamo avanti, avanti, sempre avanti fino a quei monti lontani, e dopo varcheremo anche i monti, e sempre avanti....

Egli le prendeva la mano, e la guardava negli occhi tacendo. Tacendo colla parola, perchè gli occhi parlavano abbastanza, e le anime si trovavano in armonia, come due arpe che mandano il medesimo suono. L'ingenuità della fanciulla la rendeva sacra a Valdrigo che la circondava del rispetto dovuto dai mortali verso gli angeli. Quella pura ammirazione era una sorgente d'ispirazioni novelle, di pensieri elevati. Nella sua tranquilla cameretta egli tracciava delle immagini celesti degne della matita di Raffaello; e traea dal violino dei canti di suprema dolcezza, e sovente improvvisava dei versi sublimi riboccanti d'entusiasmo e di gemiti, che si perdeano per l'aria, e svaporavano come diamanti consumati dalla combustione. Cosicchè non restava mai nulla di tante effimere creazioni. Nessuno era presente per colpire sul fatto le idee del poeta o le note del suonatore, ed egli stesso obliava ogni cosa quando cessata quella specie di ebbrezza che agitava il suo spirito, si lasciava cadere sopra il letto, sfinito ed esausto.

Anche gli abbozzi sparivano, nei momenti di scoramento, quando misurando le difficoltà che avrebbe incontrate nella completa esecuzione di pensieri appena accennati, egli distruggeva quelle forme indeterminate, come aborti indegni dell'arte.

Una mattina d'ottobre uscì per tempo a respirare l'aria aperta. Le foglie cadendo dagli alberi disponevano la mente ai pensieri melanconici, entrò nel boschetto e si trovò dirimpetto di Silvia. Una lagrima scendeva sulle guancie della fanciulla, che vedendosi sorpresa si passò rapidamente una mano sul volto, e finse un sorriso. Ma Valdrigo se n'era avveduto e fattosele incontro, le chiese con affettuoso interesse il motivo della sua tristezza. Essa negò fermamente d'aver pianto, e volle rassicurarlo che nulla agitava il suo spirito. Passeggiarono insieme qualche tempo, in silenzio, poi Silvia volle uscire dal boschetto, Valdrigo la pregava a rimanere, ma essa gli rispose con aria risoluta:

— Usciamo, ve ne prego, non dite una parola di più....

Si separarono in giardino, Silvia, rientrò nel palazzo, Valdrigo uscì alla campagna, in traccia di solitudine.

XVI.

Vi sono dei giorni d'autunno ne' quali sembra che la natura si disponga a dare un ultimo addio alla bella stagione, avanti il sonno delle piante, avanti le brine del verno. Il sole risplende in un cielo perfettamente sereno, l'aria è tranquilla, gli uccelli cantano sugli alberi, i fiori emanano le più soavi esalazioni, tutta la campagna presenta un aspetto di pace e di felicità. L'indomani dell'ultimo incontro di Silvia e di Vittore era uno di quei giorni. Ogni volta che i due giovani uscivano in giardino i loro passi si dirigevano verso l'ombrose macchie del bosco, quasi vi fossero attirati da una forza misteriosa; talvolta, appena entrati, Silvia voleva ritornare in giardino, e sembrava dominata da due genii contrari, uno che la invitava, l'altro che la respingeva da quel delizioso recesso. Quella mattina pareva che i genii si fossero messi d'accordo, perchè i due giovani entrarono francamente nel bosco, senza esitanza, e Silvia, sedutasi ai piedi d'un albero, disse a Vittore: — Qui non saremo disturbati, e la quiete che ne circonda in questo luogo romito, si presta perfettamente all'intento. Leggete dunque i versi che avete composti ier mattina passeggiando per la campagna, dopo la vostra pretesa scoperta.

Vittore rispose: — Manterrò la promessa.... — e spiegando un foglietto si mise a leggere una poesia che aveva per titolo: Le lagrime d'una fanciulla.

Egli leggeva con una voce dolce e commossa, e la giovinetta impallidiva, il suo seno si sollevava agitato, le labbra semichiuse reprimevano invano i sospiri, e gli occhi umidetti non potevano rattenere le stille che le irrigavano le guancie. Finita la lettura. Vittore fece in mille brani il foglietto, e disperdendolo al vento, esclamò: «Andate, poveri sogni, nel regno dei fantasmi, questa vita non è fatta per la poesia!...» Silvia levatasi con un rapido slancio voleva arrestare Valdrigo, ma troppo tardi, che già i piccoli frammenti scendevano al suolo fra le foglie secche degli alberi. Allora trapassando con repentino movimento dall'emozione alla collera: — Ebbene, disse, addio!... mi avete dato una ferita mortale, e per voi sono morta!... — e si mise in via per uscire.

Valdrigo sbalordito dalla sorpresa le corse presso, la ritenne per la mano, la ricondusse sotto l'albero, la fece sedere nuovamente, ma essa non lo guardava, e non rispondeva alle sue scuse. Allora, disperato d'averla offesa, disperato d'aver perduto quello sguardo che gli penetrava nell'anima come un raggio di luce divina, si gettò a' suoi piedi in ginocchio, e colle mani giunte, e le lagrime del pentimento sul ciglio, gli ripeteva: — Perdonate, Silvia, perdonate, io non credeva quei versi degni di voi, la vostra collera mi uccide, ogni vostro desiderio è sacro per me, voi avrete quei versi che io tengo nella mente, ne avrete ancora degli altri, se non mi negate quello sguardo che m'ispira i più sublimi pensieri. — Allora Silvia volgendo lentamente la testa verso Vittore lo guardò e lo vide sconvolto dal dolore, cogli occhi infuocati pieni di lagrime, che domandavano pietà. Commossa fino al fondo del cuore, gli pose una mano sul capo, e pronunciando la dolce parola: vi perdono, avvicinò il suo volto a quello del giovane, ed entrambi, trasportati da quell'estasi che inebbria le anime giovanili, suggellarono con un bacio reciproco la pace, e rimasero un minuto fuori del mondo.

Ma ohimè! la realtà della vita li richiamava sulla terra per mezzo d'un fastidioso accidente. Uno scroscio di risa ruppe istantaneamente l'incanto, come lo scoppio di un fulmine che sveglia dal sonno e disperde i sogni beati da soavi visioni. Don Lio aveva sorpreso i due giovani nell'atto del bacio, e ne menava uno scalpore indiavolato.

— Bravi, ripeteva battendo le mani, bravissimi!... Brava la futura sposa del conte Leoni, bravo il nemico delle muse, lo schernitore di Cupido! Egli confida nel silenzio delle Amadriadi e simile a Prometeo tenta la salita del cielo per rapire il fuoco divino!

Le sue declamazioni mitologiche attirarono servi, la confusione si diffuse per la casa. Silvia umiliata si ritirò nella sua stanza, Vittore tentò invano di giustificare la fanciulla. Don Lio fu l'implacabile accusatore del delitto. Il nobile Almorò degli Orseolo, intimò a Valdrigo lo sgombro immediato dalla casa. La nobildonna Fulvia non poteva darsi pace d'un tale scandalo, il cavaliere servente Partecipazio ne strabiliava. Don Lio accusava il seduttore d'insaziabile ambizione, Partecipazio sosteneva che il popolo è divenuto oltremodo vizioso, che non bisognava troppo proteggere la gente bassa, e rimproverava alla nobildonna la sua debolezza, il suo capriccio di tollerare in famiglia un villano, e dichiarava che tutti devono rimanere al loro posto, i bifolchi alla marra, i nobili alla toga. — Per quanto farete, egli andava ripetendo, i villani resteranno sempre villani, il sangue non si cambia, la nobiltà dell'uomo scorre nelle vene. Il mondo sarà sempre così! e Don Lio approvava abbassando la testa, sollevando le braccia e agitandole in segno di profondo convincimento.

La figlia colpevole dovette comparire davanti alla madre, alla quale spiegò ingenuamente il motivo di quel bacio tanto fatale. La madre la minacciò di rimetterla in convento fino al ritorno dello sposo, al minimo indizio di civetteria; la ammonì a tenersi in riserva, e soggiunse: — Se Valdrigo fosse stato un nostro pari, certo non avrei permesso la vostra intimità, ma come poteva io sospettare che un uomo senza nascita potesse farvi discendere sino a lui? Quando sarà finita questa benedetta missione diplomatica del conte Leoni faremo subito il matrimonio, ed allora sarete libera; ben inteso, sempre nei limiti delle convenienze, scegliendo il vostro corteggio nel libro d'oro, e possibilmente fra quelli di antica data.

XVII.

Vittore Valdrigo si rifugiò nel seno di sua madre. La povera donna piangeva con lui, e si desolavano entrambi, non per la perduta protezione, ma per le false accuse colle quali interpretavano uno slancio di sentimento non disgiunto dal più profondo rispetto. La povera Rosa consolava suo figlio con ingenue ma affettuose parole, perchè il suo linguaggio era quello della semplice natura.

Dopo il primo sfogo violento dell'anima offesa, Valdrigo scrisse una lettera ai nobili Orseolo nella quale giustificava la sua condotta, e dichiarava la sua eterna riconoscenza dei benefici ricevuti. Non risposero, ma gli fecero pervenire tutti gli oggetti che gli appartenevano, come ultimo indizio di completo abbandono. Rosa sgombrò la stanza della torre, la fece imbiancare, vi collocò un buon letto, un tavolo, due sedie, e vi depose con religiosa attenzione tutte le quisquiglie da rigattiere che costituivano il corredo del figlio. Egli si abbandonò ad una profonda tristezza, ad un letargo che pareva assopire il suo dolore, ma non era che l'effetto d'un vuoto immenso che isolava la sua esistenza. La buona Rosa lo osservava di sottovia, rispettava i suoi lunghi silenzi, lo serviva colla assiduità instancabile dell'affetto materno. Alle sue parole di riconoscenza rispondeva con un bacio, alle sue domande d'acqua gli portava del vino, e gli metteva sul tavolo del pane caldo, dell'uva secca, delle frutta. Per lui ci doveva essere ogni giorno la panna, il butirro fresco, e si dovevano raccogliere nel pollajo le uova ancora tiepide. Zammaria brontolava, ma Rosa levava la testa e gli faceva certi occhiacci che dovevano significare una spaventosa minaccia, perchè a quel cenno il marito cessava da ogni lamento ed usciva zufolando un'arietta concitata, ma inoffensiva.

Quando le sembrava di poter parlare senza essere importuna, la Rosa si studiava di consolare suo figlio, dicendo: — Fatti animo che non siamo poi tanto poveretti, quantunque contadini. Gli animali della stalla sono tutti nostri, e qualche bel zecchino l'ho messo da parte colla mia economia. Nel fondo del cassone ho un involto di ducati nascosto in un pajo di calze, e tu potrai disporne a tua voglia. Zammaria ripete sempre al padrone che gli anni sono cattivi, ma non è vero, naturalmente queste cose si debbono dire perchè non crescano gli affitti, ma coll'ajuto del cielo, si vive, e si mette anche qualche cosa da parte.

Egli ringraziava sua madre, e dichiarava non aver bisogno di nulla.

A poco a poco l'abitudine prese il suo dominio; e i giorni passavano vuoti di opere ma ripieni di pensieri, di contemplazioni, di sogni. I progetti tenevano luogo dei fatti, chè Valdrigo vedeva bene gl'inconvenienti d'un ozio prolungato, e confessava a sè stesso che la sua educazione, e il suo genio lo chiamavano altrove, che il momentaneo ritiro nella solitudine doveva essere una specie di cura medica delle ferite del cuore, non mai l'ultimo destino della sua vita. Ma la cura era fallata e invece di sanare le piaghe inacerbiva le ferite. La solitudine ingrandisce i fantasmi, stende un velo sul mondo positivo, e dischiude l'adito al regno dei sogni. Nella solitudine Silvia gli sembrava più bella, e nel vasto universo deserto, essa dominava con tutta la forza del mistero. Agli occhi di Valdrigo essa non era più donna, ma apparteneva alle fantastiche legioni degli angeli, anime tutte divine, vestite di candide forme e di eterei sembianti. Nella solitudine l'amore diventa una religione, e gli amanti simili ai devoti eremiti si lasciano assorbire dalla adorazione degli idoli, ingranditi ai loro sguardi per l'effetto dell'esaltazione mentale. Questa vita di contemplazione bastava al suo spirito. Intanto venne l'inverno, e sua madre tentava invano di fargli abbandonare la campagna deserta, e invano ogni giorno gli offriva del denaro perchè potesse recarsi a Venezia o almeno a Treviso per seguire il suo destino, e guadagnarsi una vita onorata con un lavoro adeguato alla sua educazione ed alla sua capacità. Egli le prometteva sempre di partire, ma rimaneva.

Le nostre cortesi leggitrici, se avremo l'alto onore di averne, diranno: — Ma che cosa poteva fare un artista alla campagna, d'inverno in una bicocca di contadini, nella più profonda solitudine?... — Gentilissime signore, riflettete un momento che gl'innamorati non sono mai soli, e gli artisti nemmeno. Valdrigo passeggiava in compagnia d'una donna immaginaria, la più bella fra le belle, la più sommessa fra le schiave. Ella era tutta sua, e gli teneva luogo d'un popolo: quelle solitudini abbellite dalle sue chimere erano il suo dominio, e gli tenevano luogo d'un regno. Egli faceva un sogno delizioso e non voleva essere risvegliato. E quante volte, cortesi leggitrici, non avete trovato voi stesse i vostri sogni segreti più belli della realtà!

Permettete dunque che Valdrigo rimanga qualche tempo in campagna, malgrado la perversità della stagione, che egli però trovava secondo i suoi gusti. I rami secchi degli alberi, le foglie cadute, il cielo nebbioso, la natura morta convengono perfettamente a certe condizioni dell'animo, quando un pensiero e un'immagine riempiono il cuore. Le anime leggere e i cuori vuoti cercano avidamente i frivoli piaceri del mondo, i balli, i teatri, le feste. Ciascheduno ha bisogno della folla per cercare un compagno. Chi l'ha trovato, chi l'ha perduto per sempre può vivere nella solitudine.

Valdrigo usciva a passeggiare pei campi deserti, quando l'aria gelata aveva cristallizzata la nebbia sugli alberi. Quella scena era per lui uno spettacolo fantastico, un mondo di cristallo. I rami delle piante, le siepi, l'erba secca delle rive si trasformavano in lucidi brillanti, i salici piangenti parevano diventati fiocchi giganteschi di candida ciniglia, il ghiaccio dei fossi presentava l'apparenza dei moarri di Lione che servono di veste alle regine, ma che sono una debole imitazione della natura. E i giorni di neve le vaste campagne coperte da un bianco tappeto mandavano dei riflessi azzurri, e presentavano l'aspetto di quei deserti del polo, che ci vengono descritti dagli arditi viaggiatori. E alla notte la luna battendo sulla neve i suoi raggi raddoppiava la luce pel riflesso della bianca terra, e faceva brillare uno strato infinito di diamanti. Chi non ha veduto la campagna d'inverno non conosce uno spettacolo degno d'ammirazione.

Venne la primavera, coi fiori delle siepi, col canto degli uccelli, cogli aliti imbalsamati pregni di amorose malìe. Chi avrebbe abbandonata la natura nel momento incantevole che si desta dal sopore del verno?... Non certo un innamorato, un poeta, un sognatore. L'estate offriva al pittore i più vaghi motivi d'ombra e di luce. La falciatura dei prati gli apportava il profumo dei fieni recenti, la mietitura del frumento gli mostrava l'effetto della porpora sull'oro, per mezzo dei rossi papaveri confusi ai covoni delle spiche mature. Il canto dell'allodola pareva rispondere alla canzone della spigolatrice, entrambe solitarie, e forse entrambe innamorate. L'autunno lo riteneva col prestigio delle sue frutta, col gajo spettacolo dei pampini carichi d'uve, colle tinte variopinte delle foglie.

Egli osservava e ammirava, voleva imitare le armonie della natura col suono del violino, e colla matita disegnava i gruppi degli alberi antichi, le movenze degli animali pascolanti, gli atteggiamenti delle rustiche fanciulle che danzavano sul prato, o andavano alla pesca lungo le rive, o nelle acque cristalline. Così passò il primo anno. All'autunno i nobili Orseolo vennero a villeggiare senza Silvia. La nobildonna Fulvia, per salvarla dalle supposte insidie dell'ambizioso Valdrigo, l'aveva confidata ad una amica elegante che villeggiava sulla Brenta in mezzo a numeroso corteggio di sdolcinati cicisbei.

Vittore si decise di ritornare a Venezia, terminato l'autunno, ma i giorni di novembre erano così belli di tristezza che lo ritennero con una forza insormontabile. Alla madre che gli chiedeva il giorno preciso della partenza per le ultime disposizioni da prendersi egli rispondeva: — Domani. — Domani! arcana parola, giorno indeterminato che esiste ma non è iscritto precisamente in nessun mese dell'anno, in nessuna divisione della settimana! Domani vuol dire il futuro misterioso, l'avvenire che sta in mano di Dio! Tutti abbiamo un domani fatale; oggi la vita, domani la morte! oggi i lampi del genio, domani le tenebre della tomba!

Il domani di Valdrigo non arrivava mai. Oh! l'indolenza delle anime quanti furti commette verso la patria. Quante opere insigni, non si fecero per aspettare un domani il quale non giunse che per annunziare la vanità degli umani progetti! — Domani diceva Valdrigo, e accendendo la pipa si gettava sull'erba fra i vortici di fumo. L'indolenza è una malattia dell'anima raramente acuta, quasi sempre cronica e incurabile. Quando s'incomincia a far niente, non si esce dall'incanto di quella dolcezza senza una scossa violenta. È la storia di Rinaldo nei giardini di Armida. Chiunque avrà provato in sua vita la malattia del far niente, non sarà punto sorpreso al nostro annunzio che Valdrigo passò il secondo anno come il primo, sempre disposto a partire, sempre ritenuto da una abituale indolenza.

Finalmente venne il secondo autunno, e come al solito ricomparve a Vascon la famiglia degli Orseolo col consueto corteggio di Don Lio innamorato fedele delle muse, e col nobile Partecipazio sempre più ringiovanito dalle pomate e dai cosmetici coi quali cancellava le rughe del suo volto, come i ristauratori dei quadri antichi riparano i guasti del tempo. Questa volta poi c'era anche la Silvia, perchè l'esperienza aveva insegnato a sua madre che amori della durata di due anni non esistevano al mondo, e quindi secondo le sue massime ogni pericolo era tolto.

L'arrivo della fanciulla scosse Valdrigo dal letargo; e indovinate che cosa fece!

Valdrigo fuggì.

Cercando di vederla si sarebbe esposto a nuovi insulti, a nuove calunnie, e il suo carattere non era tale da affrontare una seconda volta l'alterigia patrizia. Averla vicina e non vederla era cosa insopportabile al suo cuore, era lo stesso come il pretendere che il ferro si allontanasse all'avvicinarsi della calamita.

Dalle lotte colla natura si fugge con energica risoluzione, ma non si resiste nè si vince. Valdrigo dunque partì, ma non per Venezia che non aveva per lui più attrattive, ma per un viaggio pedestre ed artistico sulle Alpi che contemplava da lontano e non aveva mai vedute da presso. Entrò nel Cadore, la Svizzera del Veneto, e costeggiando la Piave visitò quei boschi antichi, e quei monti scoscesi che offrono tanti spettacoli sublimi all'ammirazione di chi ama la natura, e la grande poesia delle sue opere. La donna de' suoi pensieri lo seguiva dovunque, e disponeva la sua mente alla contemplazione di quelle scene stupende che le anime volgari guardano stupidamente senza gustarle.

In quelle solitudini alpestri egli meditava le grandezze delle opere di Dio e la caducità delle umane produzioni. Quelle roccie sfidavano gl'insulti dei secoli, e le opere più solide dell'uomo non potevano sopravvivere alle spente generazioni. L'antico Egitto scomparve, Gerusalemme non è che un mucchio di macerie, la divina Atene è caduta, e di tanta scienza, e di tante arti gentili, e di tante sublimi o graziose produzioni non ci restano che pochi frammenti che rendono più amaro il tramonto di ogni grande civiltà.

Volle compiere un pio pellegrinaggio al paese che diede i natali al grande Tiziano; e in quella valle pittoresca che fiancheggia la Piave cercava i punti che avranno arrestati gli sguardi dell'immortale pittore. Visitò la casa abitata dall'artista ancora fanciullo, e baciò la parete ove appena decenne quella mano divina aveva dipinto una Vergine col succo d'erbe spremute e di fiori. Era quello il primo lavoro dell'uomo davanti al quale l'imperatore Carlo V, doveva inchinarsi a raccogliere il pennello caduto, rispondendo alla sorpresa di lui: — Tiziano è degno d'essere servito da Cesare.

Ritornò a Saltore in novembre, quando tutti i villeggianti erano partiti, e rifece solitario i passeggi che doveva aver fatti la Silvia, e seguiva le sue traccie coll'istinto, e gli sembrava di vederla. Talvolta si arrestava dietro un albero ad osservare il giardino e il palazzo. Ma le chiuse imposte gli pesavano sul cuore come le memorie dei morti. Angelo Rotondo vangava la terra intorno agli dèi venerati da Don Lio, Fiorina copriva i garofani per ripararli dal freddo, e il boschetto era deserto.

Un giorno ritornando dal solito passeggio trovò sua madre sulla porta che lo aspettava, tenendo fra le mani una lettera. Vittore riconobbe sull'indirizzo il carattere di Antonio Canova. Il collega ed amico gli scriveva da Roma la relazione del suo primo trionfo.

Il grande monumento del pontefice Ganganelli era stato scoperto al pubblico nella chiesa dei santi Apostoli. Canova gli raccontava la storia dei suoi lavori, degli studi intrapresi, delle fatiche sostenute per superare le difficoltà dell'arte, e gli svelava ingenuamente le gioje provate a lavoro compiuto, e le agitazioni sofferte davanti al giudizio del pubblico, e accennando le lodi ricevute e le critiche soggiungeva: «le critiche danno luogo a riflettere ed insegnano: le lodi sovvertono ed addormentano; tolgono la smania di andare avanti, di tenere in attività lo spirito per distinguersi»[5].

Ai discorsi dell'arte seguivano le confidenze del cuore; il quale soffriva per un amore infelice. Lo scultore amava la figlia d'un altro artista, Domenico Volpato. Erano stati fidanzati, ma inesplicabili misteri aveano rotto quel nodo, e in luogo delle nozze era seguito l'abbandono. Ma egli cercava nel lavoro un sollievo al dolore, e così anche le ambascie d'un amore tradito divenivano fomite all'arte e aggiungevano espressione alle opere.

Canova chiudeva la lettera eccitando l'amico a mettere a prova il suo genio con qualche opera di lena, e lo invitava a dargli notizia dei lavori compiuti.

Il rossore della vergogna coloriva le guancie del giovane, il rimorso del tempo perduto gli lacerava la coscienza, l'esempio glorioso dell'amico lo scoteva finalmente dal lungo letargo, e presa una risoluzione irremovibile, si diede a raccogliere gli studi dispersi, a mettere insieme i suoi libri, gli arredi, e gli utensili dell'arte mentre che la madre gli apparecchiava il fardello delle vesti, per la partenza.

All'indomani alzatosi per tempo abbracciava i parenti, stringeva al seno sua madre che piangeva a calde lagrime, dalla gioja di vederlo risoluto a lavorare e dal dolore di perderlo. La buona donna gli metteva in mano le sue economie, gli raccomandava il coraggio, lo accompagnava per un tratto di via. I suoi bagagli partivano sopra una carretta condotta fino a Mestre da Osvaldo, egli se ne andava a piedi, come la prima volta, ma con qualche anno di più con qualche illusione di meno, con l'anima ferita, col rimorso del tempo perduto.

Per via sua madre gli prodigava i consigli dei cuori semplici, lo pregava di conservarsi onesto, di meritarsi la stima di tutti, di non lasciarsi invadere dall'ozio, di aver fede in Dio, di voler bene a lei che pregava sempre per la sua felicità, e invocava sul suo capo le benedizioni del cielo. A Lancenigo si separarono con nuove lagrime e baci; la buona Rosa ritornò a Saltore col cuore stretto dall'affanno, e Vittore giunto a Mestre, e preso posto in una barca, arrivava alla sera in Venezia.

XVIII.

Sbarcò in casa d'un amico, e si mise tosto in traccia d'un alloggio modesto. Nel tempo che dimorava al palazzo Orseolo aveva fatto conoscenza con un certo Beppo Caruga battelliere, che conduceva gli artisti al lido, e nelle gite dei dintorni.

Avendolo scontrato per via gli chiese delle indicazioni in proposito. Beppo offerse una stanza nella sua casa, che venne subito accettata, e trasportativi i bagagli prese immediatamente possesso della nuova dimora dopo aver fissato un modesto contratto per l'alloggio e pel vitto.

La casa del povero pescatore era situata in un quartiere remoto di Venezia. Essa formava l'angolo di una calle che finiva in laguna, e la stanza di Valdrigo aveva tre finestre, una guardava la strada, le altre l'acqua. Da lontano la catena dei monti formava la cornice del quadro. Quella camera era stata la stanza nuziale dei genitori di Beppo, morti entrambi da due anni. Ripulita e imbiancata, si voleva affittarla, ma non trovava aspiranti perchè se la stanza era vasta, ariosa e decente, l'aspetto esterno della casa era affatto miserabile, cosicchè quell'alloggio riusciva troppo povero e lontano dal centro per le modeste fortune, e di troppo lusso per i poveri. Valdrigo vi si trovava a meraviglia, e sosteneva che l'esterno era più bello dell'interno. I muri scalcinati, i modiglioni sporgenti, le reti distese sulla facciata che si asciugavano al sole, i canestri panciuti del pesce che circondavano la porta, i laceri pannilini che sventolavano dalle finestre sopra un lungo bastone, come le banderuole dei navigli in un giorno di festa, davano veramente a quella casa un certo che di pittoresco, che conveniva perfettamente alle idee di Valdrigo. La vista poi dalle finestre era magnifica, e si estendeva sopra un vasto orizzonte. Alcune bianche vele disperse per la laguna si riflettevano sulle acque e parevano uccelli fantastici vaganti sulle onde azzurre del mare. Nelle ore del riflusso gli strati scoperti apparivano come verdi tappeti galleggianti, e i cercatori di crostacei vagavano per le alghe ricurvi il dorso, in traccia della preda. Al tramonto del sole le montagne lontane si tingevano di colori cangianti dal giallo d'oro al rosso porporino, dal rosso al violetto, e finalmente all'azzurro, fino a che le nevi brillavano ai languidi chiarori della luna. Tutto il giorno la laguna era popolata di barche, le più vicine apparivano distinte coi loro accessorii più minuti, le lontane parevano un punto nero nello spazio. Entravano di continuo nel canale, passavano o si fermavano alla riva battelli, burchi, caicchi, gondole, peote, e ogni maniera di barche. Sulle fondamenta le donnicciuole si sedevano al sole, rattoppando i cenci, o facendo i calzetti, querelandosi fra loro, mormorando del prossimo, lamentandosi della crescente miseria. I fanciulli giocavano, i battellieri si riposavano sulle soglie delle porte o apostrofavano i compagni, o si burlavano dei passeggieri, o con un segno degli occhi imberciavano certe gondole che uscivano al fresco con due innamorati.

Quel luogo, quantunque lontano dal centro romoroso di Venezia, pure non era il più opportuno per decidere al lavoro il nostro indolente Valdrigo. Mille motivi lo attiravano alla finestra, mille altri ve lo ritenevano in osservazione. Da un lato studiava la natura, dall'altro le scene popolari che aveva sotto gli occhi. Dagli alberi e dai campi di Saltore, alle barche ed alle acque di Venezia il mutamento era troppo grande per non attirare gli sguardi d'un artista. Dalla solitudine della campagna alla bizzarra conversazione del popolo di Venezia la differenza era troppo rimarchevole per non servire di distrazione, a chi tanto facilmente si lasciava distrarre.

La famiglia de' suoi ospiti si componeva di tre soli individui. Beppo, sua sorella Maddalena, e la vecchia Marta, la nonna degli orfani, una povera vecchierella grinza e rugosa. Beppo era un ardito pescatore, laborioso sul mare, scioperato sulla terra. Marta aveva dieciotto anni, i capelli castagni, gli occhi briosi, una bocca ridente che lasciava vedere il candore dei denti, la carnagione brunetta, la figura snella. La gioventù e la salute andavano d'accordo nell'abbellire la modesta popolana la quale aggiungeva a questi doni della natura la pulitezza della persona, un abito semplice, un grembialino fiorito, un monile di corallo coi relativi orecchini.

Quando usciva di casa battendo i tacchi delle pianelle sul selciato, dimenando i fianchi con una particolare leggiadria, col fazzuolo bianco sul capo, e l'aspetto franco e sicuro, tutti gli sguardi la seguivano; i giovinotti si volgevano indietro a guardarla con quella attenzione avida ad un tempo e stizzosa colla quale il cacciatore osserva una rara selvaggina che gli passa sotto al tiro, ma vola rapidamente e sparisce, prima che possa montare lo schioppo per farla cadere a' suoi piedi. E i vecchi libertini stralunando gli occhi per vederla tutta intiera, si passavano la lingua sulle labbra come il goloso gastronomo davanti l'evaporazioni solleticanti d'un delizioso manicaretto che non è destinato per lui. Ma nessuno osava importunarla, tanto la sua fisonomia incuteva rispetto, per una certa aria fra l'innocente e il risoluto, che pareva dire — non avrete niente, o uno schiaffo. — Valdrigo la guardava sottecchi coll'ammirazione del pittore, ma colla indifferenza dell'innamorato di un'altra.

I primi giorni, Maddalena portava nella stanza del giovane il suo modesto desinare che era trovato sempre eccellente, ma poi egli chiese di far tavola comune cogli ospiti, e dopo alcune cerimonie venne accettato. La mensa si allestiva in cucina, e dopo il pranzo prendevano tutti una fiammata davanti al camino. Quando nevicava, o soffiava il vento, la conversazione si prolungava qualche ora. La vecchia si addormentava la prima, e Beppo le teneva compagnia poco dopo, cosicchè Vittore e Maddalena restavano soli a contarsela.

Taluno dei nostri giovani lettori si aspetta adesso una dichiarazione d'amore, e un dialogo passionato. Tutt'altro, signori, Valdrigo parlava a Maddalena del buon tempo e della pioggia, del caldo e del freddo, — non vi ricordate che egli era innamorato di Silvia? e di che sorta d'amore! di quegli amori che scompariscono dal mondo coll'abolizione delle classi privilegiate, col principio dell'eguaglianza.

L'amore cresce sempre in ragione diretta delle difficoltà che incontra, e degli ostacoli che si frappongono al suo corso regolare, come quei torrenti che ingrossano davanti agli argini e alle dighe, e diventano minacciosi pei campi sottoposti. Quando gli odii politici dividevano le famiglie, rendendo impossibile ogni alleanza fra i nemici, allora si vedevano gli amori di Giulietta e Romeo; quando si divisero le nazioni fra nobili e plebei con una sbarra insormontabile, si videro fra i giovani delle due parti degli amori d'una tenacità pari all'alterigia dei nobili, e questo era il caso di Valdrigo. Le leggi della ingenua natura sono semplici e piane, la fecondazione delle piante succede spontaneamente sul campo, la fecondazione degli animali bruti è sottoposta alle stesse condizioni dei vegetali, e così sarebbe anche della razza umana, al cui naturale connubio la natura non domanda altro che un maschio ed una femmina. Ma l'uomo essendo un animale ragionevole non ha trovate giuste le leggi di natura, si è incaricato di correggerle ed ha emanate delle leggi civili che costituiscono la base della nostra società. La natura diceva: un matrimonio è bene assortito quando due giovani di sesso diverso si sentono chiamati da una istintiva inclinazione a formare una sola famiglia. E sembra che questo fosse un grande sproposito, che venne corretto nel modo seguente: La società dichiara un matrimonio bene assortito quando i nobili sposeranno i nobili; quando i ricchi si uniranno coi ricchi e i plebei coi plebei, e in altre parole un matrimonio sarà bene assortito quando una donna con ricca dote sposerà un uomo che nuota nell'abbondanza, e quando un uomo che non ha nulla per vivere formerà famiglia con una donna che muore di fame. La società avendo fissati questi principi fondamentali, la natura si oppose e protestò, e da questa lotta fra le leggi di natura e le leggi sociali nacquero tutte quelle sventure amorose e i conseguenti delitti che troviamo registrati nelle storie, raccontati nelle cronache, esagerati nei romanzi.

E siccome noi non vogliamo esagerare questa storia perchè non si dica che scriviamo un romanzo, diremo francamente che Vittore Valdrigo, quantunque perdutamente innamorato di Silvia, pure non si trovava male con Maddalena, e senza avvedersene egli stesso le stava volontieri vicino.

Ma non essendo punto innamorato di lei, le sue idee non subivano quella specie d'esaltazione cerebrale che innalza i pensieri al disopra dei tetti, cosicchè le sue idee volgevano al positivo e al comune, e riscaldandosi al camino andava dicendo fra sè stesso: — È egli giusto ed onesto che per il piacere di riscaldarmi con questa buona ragazza io debba consumare la legna de' miei ospiti?... È egli giusto ed onesto che intanto che a Saltore abbonda il combustibile, io mi riscaldi colla legna che scarseggia a Venezia? — Così riflettendo prese una lodevole determinazione e scrisse a sua madre che mandasse Osvaldo a Mestre con un buon carro di legna, e ne fissava il giorno preciso. Rosa, ricevuta la lettera, corse dal curato per farsela leggere, e ritornò a casa decisa a farsi onore, ma Zammaria si mise a brontolare e a mendicare dei pretesti, e finì dichiarando che la legna bisogna venderla pei bisogni di famiglia, e incominciò una resistenza ostile e una scaramuccia che a poco a poco divenne un vero combattimento. La Rosa impiegava invano la solita artiglieria degli sguardi fulminei, chè Zammaria prevedendo i mezzi del nemico si difendeva voltando la schiena agli assalti. Allora la Rosa, assalito di fronte l'avversario, gli gettò due parolette nell'orecchio che parvero far breccia; e come al solito mormorando per la sofferta sconfitta, cedette il campo di battaglia, e se ne andò nella stalla a sfogare la sua collera coi buoi, sopra i quali menava la striglia con tanto furore che i poveri animali si dimenavano spaventati e mandavano dolorosi muggiti.

Al giorno fissato Valdrigo pregò Beppo di accompagnarlo a Mestre colla barca ove egli disse, che suo fratello lo aspettava con alcune masserizie. Partirono e trovarono esattamente Osvaldo che li aspettava col carro. La buona madre aveva interpretato largamente la commissione del figlio, perchè, oltre la legna in abbondanza, la spedizione comprendeva quattro magnifici capponi, del formaggio fatto in casa, del butirro, delle uova, e un bottaccio del vino saporito di Saltore. I fratelli avevano voluto aggiungere le loro offerte a quelle della madre, a motivo delle prossime feste del Natale, e così c'erano delle noci, dei pomi ed una zucca formidabile, la quale soddisfaceva l'ambizione d'Osvaldo nella sua qualità di ortolano. Vittore rimase commosso, non sorpreso della bontà e dell'affetto materno. Egli aveva portato da Venezia un bel fazzoletto rosso per sua madre, una tabacchiera per suo padre, del buon caffè, del levante e dello zucchero per tutti, e consegnò ogni cosa ad Osvaldo, raccomandandogli di non dimenticarsi i suoi baci, e le più tenere espressioni di gratitudine e di affetto. Non è a descriversi la gioia di Beppo che si manifestava con espressioni volgari e troppo colorite; ma è certo che non dissimulava il suo contento con ipocrite cerimonie. Trasportati gli oggetti dal carro alla barca, e rinnovati i saluti al fratello, si misero in viaggio, Osvaldo per ritornare a Saltore, gli altri due per Venezia. Valdrigo pensava con tenerezza a sua madre, e Beppo ripeteva ogni momento le stesse parole: — Paron benedetto, che cuccagna! —

Così per merito di Valdrigo e della buona Rosa, la famiglia dei pescatori passò le feste, come non le aveva forse mai passate, e crebbe l'intimità e l'amicizia fra l'artista e i suoi ospiti, ed egli poteva prolungare le sue sedute intorno al focolare senza rimorsi. Le provvisioni ricevute eccitando la curiosità delle donne, che incominciavano a crederlo un principe travestito e a sospettare delle sue intenzioni, resero necessari degli schiarimenti e delle giustificazioni.

Valdrigo dovette quindi raccontare la sua storia, ben inteso riveduta, corretta e diminuita dall'autore, il quale stimò necessario di tacere intieramente il motivo dell'abbandono degli Orseolo, e tutti i particolari relativi alla sua passione per Silvia. Questo amore pareva ingrandito dalla distanza, fomentato dalle impossibilità, inasprito dagli ostacoli insormontabili. A che scopo ostinarsi ad amare una nobile e ricca donzella, fidanzata ad un potente signore? a che scopo conservare nel cuore questa fiamma che gli consumava la vita?... Andatelo a domandare agli innamorati!... andate a domandare all'incendio con quale scopo egli distrugga i palazzi, i teatri, i dipinti preziosi, le suppellettili, i libri, i documenti più rari!

Lo abbiamo detto, l'amore nella natura è un dolce sentimento che guida alla felicità, l'amore inasprito dalle leggi o dai pregiudizi sociali è una passione che conduce alla disperazione e alla pazzia.

Talvolta in qualche sera di gennaio veniva giù una pioviggina gelata che metteva i brividi al solo vederla. Sul focolare dei pescatori brillava una viva fiamma, la bella Maddalena sedeva sotto la cappa del camino, ed una sedia vuota dirimpetto pareva messa a posta per Valdrigo. Egli guardava colla stessa indifferenza il fuoco crepitante, il posto vacante e la ragazza, e involgendosi nel ferraiuolo attraversava Venezia fra il fango e l'intemperie per procurarsi l'indescrivibile contento di contemplare le invetriate del palazzo Orseolo. Le stanze essendo illuminate e la calle oscura, si distinguevano abbastanza bene le persone che si avvicinavano alla finestra.

Talvolta era un domestico in gran livrea, o il volto color di rosa di Don Lio, o la candida parrucca del nobile Partecipazio. Vittore passava la sera spiando avidamente ogni movimento, e premendosi il petto colla mano quando un'ombra passaggiera gli faceva battere il cuore con soverchia violenza. Intanto il vento gli soffiava la pioggia sul viso, e lo faceva battere i denti dal freddo. Solo risultato di tali prove amorose era una qualche violenta infreddatura che lo confinava a letto per tre giorni. Così non giungeva mai il momento del lavoro e del giudizio, e passavano i mesi coi soliti prodotti del dolce far niente.

La convalescenza riconduceva l'infelice innamorato sotto la cappa del camino, e ristabiliva le conversazioni colla Maddalena. La buona ragazza compiangeva le sofferenze di lui, gli riscaldava le tisane per la tosse e gli parlava di sua madre.

Se egli le avesse fatto delle dichiarazioni amorose, essa si sarebbe tenuta in guardia, ed avrebbe chiuse le porte del cuore, per istinto d'onestà, ma il contegno di Valdrigo rendeva inutile ogni precauzione, ed escludeva qualunque pretesto di diffidenza. Ma a quanto sembra, l'amore è una passione insidiosa, ed avendo trovate aperte le porte del cuore di Maddalena, vi entrò, senza chiederne il permesso. Un bel giorno la povera fanciulla si trovò il nemico in casa senza sapere da che parte vi fosse entrato, cosicchè mentre Vittore adorava la Silvia, la Maddalena adorava Vittore.

XIX.

I giorni dell'inverno son brevi e se le cure d'un amore infelice assorbono alcune ore e i bisogni della vita alcune altre, che cosa resta per lo studio? Aggiungete il tempo perduto in pensieri amorosi ed artistici, i sogni del cuore, i voli della fantasia, ed anche il timore di non riuscir bene nel lavoro. Certi giovani pensano sempre alle grandi difficoltà di compiere un'opera perfetta, all'ingratitudine del mondo che non tiene conto delle privazioni, delle pene, delle fatiche dell'artista, e così via fino al disprezzo della gloria, fino al disprezzo della vita. Sono le solite idee di chi non ha voglia di far niente.

Canova in Roma non pensava a queste cose; egli era invaso da una specie di febbre, e gli pareva di non mai lavorare abbastanza; non pensava alle difficoltà che per vincerle, e alla gloria che per meritarla.

Modellando la creta egli sentiva nell'animo il sublime entusiasmo di colui che vede il suo pensiero trasformarsi in realtà, e si agitava sotto la foga d'una ispirazione più pronta della mano. Nelle ore che riposava dal lavoro della plastica, si dedicava allo studio delle lingue straniere, alla lettura delle opere classiche, letterarie, erudite ed artistiche, o delineava degli studi dagli antichi modelli o dal nudo, apparecchiandosi così un vasto terreno sul quale potesse spaziare il suo genio.

Valdrigo studiava in altro modo; passeggiando per Venezia, osservando gli effetti della luce sulle sculture dei palazzi, ammirando i colori del tramonto sulle nuvole e sull'acque, cercando i motivi delta tavolozza della veneta scuola sulle figure dei passanti, sulle quali non trovava più le robuste tinte che si ammirano nei quadri degli illustri maestri.

O percorreva la laguna sulla barca di Beppo osservando da lontano lo stupendo spettacolo della città, che pareva galleggiante sulle acque trasparenti, come un'isola fantastica, troppo bella per rimanere sulla terra, troppo grave di peccati per salire verso il cielo. Un giorno invaso da' suoi sogni poetici, rimase lungamente immobile nella barca a contemplare Venezia lontana immersa in un velo di nebbia che la rendeva più bella del solito, e ritornando alla riva si trovò tutte le membra intirizzite dal freddo. Entrò allora in una bettola, e per riscaldarsi tracannò in tutta fretta uno dopo l'altro alcuni bicchieri di vino di Dalmazia, e uscì tosto a passeggiare al sole sulla riva. Vagando da una strada all'altra si trovò in Campo San Giovanni e Paolo, e sentendosi stanco entrò in chiesa ove andava sovente ad ammirare le cospicue opere d'arte che abbondano in quel Pantheon delle Venete glorie.

La luce esterna entrava nel tempio illanguidita e variopinta attraversando le ampie invetriate a colori; le lampade accese davanti gli altari gettavano un riflesso rossastro sulla penombra dei monumenti, l'odore dell'incenso si spandeva nella grave atmosfera, e contribuiva a rendere misterioso e solenne il sacro luogo. Valdrigo entrando a destra si sedette dirimpetto al monumento lavorato da Pietro Lombardo, e si mise a contemplare con un occhio istupidito l'urna sepolcrale, portata sul dorso da tre guerrieri, sulla quale s'erge la statua del doge Pietro Mocenigo. Tutto ad un tratto gli parve di vedere che i guerrieri si movessero, e che il principe scosso dal lungo sonno aprisse gli occhi. Un brivido gli passò per il corpo, si levò in fretta, fece alcuni passi e si sedette nuovamente in faccia al Mausoleo del generale Orsino, ma levato lo sguardo vide le statue della Prudenza e della Fede che si abbassavano per salutare la statua equestre dell'eroe, il quale agitando leggermente le gambe sembrava voler conficcare gli sproni nel ventre del cavallo per farlo avanzare. Valdrigo, sbalordito, mandò un grido di sorpresa, poi chiusi gli occhi si mise a urlare di spavento. Poco dopo sentendosi cadere dell'acqua sulla fronte riaperse gli occhi e si trovò circondato da una folla d'individui. Allora parve si facesse animo perchè ringraziava gli astanti, ma poco dopo soggiunse: — Voi siete certamente gli eroi di queste tombe mossi a pietà del mio male. Grazie, Capitano Orazio Baglioni, grazie, illustre Bragadino, e voi che mi guardate, serenissimi principi Vendramino, Loredano, Morosini, Cornaro, lasciatemi in riposo, e ritornate in pace ai vostri Mausolei...

XX.

Alla mattina seguente Valdrigo ritornando alla sua dimora trovava i poveri pescatori nella più grande inquietudine. Maddalena appena lo vide gli si fece incontro dicendogli:

— Non ha avuto disgrazie?... Ove ha passato la notte?

— Nessuna disgrazia... ho passato la notte tranquillamente in un buon letto, in casa del sagrestano di san Giovanni e Paolo...

— Come?...

E qui le raccontò ingenuamente l'effetto impreveduto del vino di Dalmazia, ajutato dall'incenso e dalla fantasia predisposta alle allucinazioni. Gli eroi che lo circondavano in chiesa erano naturalmente i devoti attirati dalle sue grida, e il sagrestano accorso con dell'acqua per calmare le sue sofferenze. Il bravo uomo mosso a pietà per l'accidente del giovane, e conoscendo per pratica che un buon sonno lo avrebbe guarito, non volle deporlo sul lastrico, e assistito da' suoi colleghi lo trasportò sopra un letto in casa sua, seguendo la massima cristiana «fare agli altri quello che si vorrebbe che fosse fatto a sè stessi.»

L'apprensione degli ospiti, e certi sospetti di Maddalena finirono con una bella risata e con l'osservazione dell'artista: che se il vino di Dalmazia fa risuscitare i morti, minaccia per riscontro di far morire i vivi.

Intanto erano trascorsi alcuni mesi dal giorno ch'egli s'era proposto di darsi seriamente al lavoro senza che nessuna opera compiuta fosse uscita dalle sue mani, meno alcuni ritrattini che gettava giù in fretta per guadagnare qualche cosa e non rimanere di aggravio a sua madre. Come le api che cercano il miele su tutti i fiori egli cercava un alimento al suo spirito sulla superficie delle arti, ed evitava di penetrare nel fondo ove si trova la gloria, ma a prezzo di sudori e di stenti. In quel tempo l'atmosfera di Venezia era pregna di molecole soporifere e di emanazioni debilitanti, che penetravano nelle fibre umane come una fatale epidemia e le rendeva floscie e cascanti. Valdrigo invaso da una passione infelice sciupava il genio improvvisando versi ispirati dalla sua diva, o gettava sulla carta degli schizzi di quadri futuri, o prendeva il violino e trasfondeva la sua anima sulle corde armoniose, dalle quali cavava delle espressioni che mancano alla parola umana, ed erano i suoi lamenti dolorosi, o il canto delle sue aspirazioni.

Maddalena aveva la sua stanza sopra quella dell'artista, dirimpetto alla laguna; i suoi balconi erano adorni di vasi di garofani e di geranei odorosi, e quando udiva le soavi melodie del violino, apriva la finestra ed ascoltava con religiosa attenzione. L'esalazione dei fiori, l'aspetto delle acque azzurre che si confondevano col cielo, e quella musica strana, lamentevole, piangente, agitavano i sensi della fanciulla innamorata. Erano voci d'amore ch'ella traduceva a meraviglia, era il linguaggio d'un cuore derelitto, ch'ella intendeva a perfezione, erano accenti d'un'anima solitaria che vagando per l'aria andavano a ricadere sopra un'altra anima solinga e non intesa. Le deliziose armonie ricercavano i più reconditi recessi di quel cuore di dieciott'anni, ma il pensiero funesto che non erano per lei, rivolgeva in amarezza l'incanto, e due lagrime furtive uscivano da quegli occhi dolenti, e irrigavano le fresche guancie della bella fanciulla.

Quante notti al chiarore della luna Valdrigo contemplando il firmamento sereno, suonava a mezza voce il violino, credendo quelle melodie trasportate dal vento e perdute nella solitudine, quando invece penetravano fatali per una finestra dischiusa ed andavano a ferire un cuore innocente, e a turbare un sonno dianzi tranquillo.

Sarebbe inutile il raccontare i mesi e gli anni trascorsi in varii progetti, in speranze vaghe e chimeriche, in proponimenti di studio, svaniti all'indomani; la vita dell'uomo indolente non lascia traccia di sè, e guardando il suo passato egli non distingue un anno dagli altri che per rari avvenimenti smarriti in uno spazio vuoto, come il punto nero d'una barca lontana sull'oceano.

Finalmente dopo ripetuti tentativi abbandonati e ripresi più volte, il pittore si decise di dar principio ad un quadro. Il soggetto, apparecchiato in un abbozzo in piccole dimensioni, era una partenza per la pesca. Vari pescatori apparecchiavano sulla riva le reti, le corde, gli attrezzi marinareschi, alcune donne assistevano alle ultime operazioni della partenza, ed esprimevano il dolore del distacco per un viaggio talora pericoloso; sul fondo si vedeva la barca ed il mare. Il costume nazionale dei pescatori veneziani, i vari atteggiamenti, e le diverse espressioni rendevano interessante quella prima composizione dell'artista meditata da tanto tempo e preparata da studi speciali. Gli ospiti pregati a volersi prestare in qualità di modelli di buon cuore aderirono, e Beppo trovò gli altri individui, alcuni dei quali vennero rifiutati dal pittore, e si dovette sostituirne degli altri di suo gradimento. La vecchia Marta seduta sulla porta a rattoppare le reti era una figura degna d'un pennello fiammingo, e la bella Maddalena che con un'aria dolente dava l'addio al fidanzato il quale le mandava da lontano l'ultimo bacio, era collocata in modo da far risaltare a meraviglia le bellezze della espressione e i rari pregi del vezzoso modello.

Diede mano alla tela in bella proporzione, e i suoi modelli posavano a vicenda davanti all'artista, ora l'uno ed ora l'altro, secondo il suo desiderio.

Maddalena vi si prestava con grazia, e la sua espressione era molto naturale e diffatti essa non doveva fingere gran fatto per dimostrare l'affanno d'un distacco dal fidanzato. Il partire, o il non giungere costituiscono l'assenza che causa il dolore; e se per lei realmente non partiva un amoroso, certo l'amato non giungeva, o quantunque vicino colla persona, era lontano col cuore.

Il pittore assorto nel lavoro non vedeva in Maddalena che una bellezza plastica, un tipo di rara perfezione. Il grazioso modello cercava nel sorriso del pittore una scintilla dell'anima, egli studiava sul modello un'ombra della fronte, una sfumatura delle guancie, la luce delle pupille, l'espressione delle labbra passionate, ed osservando con uno sguardo d'artista i lineamenti leggiadri e la tinta armoniosa del volto, egli esclamava con naturale ingenuità: — Cara Maddalena, voi siete una rara bellezza!...

La fanciulla abbassava gli occhi, diventava tutta rossa, e il pittore temendo d'averla offesa, soggiungeva: — Scusate, sapete, ma per noi altri artisti i modelli non sono donne, ma statue, con la durezza di meno, e la morbidezza di più, ma sempre statue!...

Maddalena sospirava, e taceva.

Egli pensava fra sè: — La gloria vale la nobiltà, ed anche più, secondo la mia maniera di vedere. Se questo quadro mi riesce, egli sarà l'equivalente d'un titolo, egli nasconderà la mia origine, egli mi metterà al pari coi più superbi signori. Silvia non isdegnerà di compensarmi con uno sguardo, per un'opera che avrà meritati gli applausi di Venezia, e chi sa!... chi sa!... gli Orseolo andranno superbi d'aver protetto i primi passi dell'artista.... essi chiederanno di vedermi, e forse, forse il matrimonio progettato dai parenti non avrà più il consenso della sposa. Prima di tutto passano gli anni e il conte Leoni non ritorna. Egli sarà innamorato di qualche principessa della Corte ove risiede, e non si cura di tornare col pretesto degli affari diplomatici, e se tornando dopo una lunga assenza, Silvia dichiarasse di non accettare la sua mano!... Chi sa!... talvolta il prestigio degli applausi prodigati ad un artista può infondere il coraggio in una donna, e Silvia non è donna volgare! La vorranno seppellire in un chiostro.... ma non sarebbe il primo caso d'una fuga!... Mio Dio! quale ampio compenso alle mie fatiche una parola di Silvia che dicesse: — Sono vostra pei diritti del cuore! — vi aspetto — scalate il muro del convento, sarò nel giardino a mezzanotte!... Una gondola pronta, due valenti rematori, e poche ore dopo si varcano i confini, e addio Venezia per sempre!... — E viaggiava con Silvia rapita, e la nascondeva nella capanna d'una valle solitaria fra i monti lontani, e viveva una vita di delizie vicino alla donna del cuore. Con questi sogni andava avanti e lavorava con lena. Arrestato dalle difficoltà dell'arte, pensava alla gloria, e alle conseguenze della gloria; copiava esattamente Maddalena, ma coll'immagine di Silvia davanti agli occhi, e colla speranza nel cuore.

Ogni giorno riprendendo i pennelli e la tavolozza trovava qualche difficoltà per rimettersi al lavoro, tanto l'abitudine dell'ozio è difficile a lasciarsi vincere, guardava fuori dalla finestra gli uccelli marini che svolazzavano sulle acque, poi si stirava le membra, sbadigliava, osservava il quadro in distanza, ma la presenza della modella che aspettava un suo cenno per mettersi al posto, lo scoteva dall'inerzia, e si sedeva davanti al cavalletto. Allora continuava materialmente il lavoro, ma col pensiero rivolto a Silvia tornava a rimuginare il progetto della fuga, ne prevedeva le peripezie, e sfidando audacemente i pericoli incorsi si compiaceva immensamente dell'esito finale dell'avventura.

Intanto il quadro andava avanti, e l'artista incominciava a sentire le intime soddisfazioni dell'opera avanzata, delle vinte difficoltà, dei mirabili effetti ottenuti, e si compiaceva nel contemplare quelle arie naturali dei volti, quelle movenze spontanee, e l'insieme armonioso dei vari gruppi. Quando usciva un'ora a prender aria non si allontanava molto da casa, ma girava in quegli estremi confini della città, ove nessun rumore distraeva il suo spirito, e l'aspetto della laguna lo teneva nel soggetto del quadro.

Beppo approfittava delle corte assenze di Valdrigo per introdurre in casa gli amici e mostrare il dipinto ai vicini. Le comarelle della calle entravano chete chete, coi gondolieri della riva, i facchini e i fanciulli. Collocati davanti alla tela, la loro ammirazione non aveva confini, e le loro esclamazioni di sorpresa rallegravano Beppo in tal modo, che sembrava che il pittore fosse lui, ed era tanto superbo di vedersi esattamente riprodotto sulla tela che non sapeva frenare il suo giubilo. — Guardate, egli diceva, guardate Tita Bosi e Nane Orada che tirano la corda, dite se non sono vivi e parlanti?... e quell'altro lo conoscete?... e accennava al suo ritratto; e tutti rispondevano in coro: guarda Beppo, guarda Toni, guarda Nane.... e la Maddalena, e la nonna Marta.... e quella cesta, e quelle reti! oh che bellezza, oh che meraviglia, oh che bravura! — poi uscivano ad uno ad uno lodando il lavoro, e congratulandosi con Beppo e colle donne. La Maddalena godeva in suo cuore del trionfo dell'artista, e ansiosa aspettava il termine dell'opera colla speranza di udire gli applausi di tutta Venezia in favore dell'uomo che stimava.... ed amava.

Valdrigo ignorando le visite clandestine dei suoi ammiratori non sapeva spiegarsi le straordinarie sberrettate, e le profonde riverenze che da qualche giorno gli venivano prodigate dai vicini. Il popolo d'allora, avvezzo a rispettare ogni superiorità, aveva il buon senso di onorare specialmente le qualità personali, e di tenerle come un giusto titolo alla stima del pubblico; e la stessa aristocrazia rendeva giustizia al merito, e vantava fra le glorie della patria gli artefici insigni che l'avevano illustrata colle loro opere.

Un giorno, di quelli che s'erano fatti più rari, ma che non erano intieramente scomparsi dalla esistenza del pittore, Valdrigo si sentì un irresistibile bisogno di far niente.

La ragione voleva ritenerlo al lavoro, il capriccio resisteva, e cercava pretesti per vincere.

Una voce arcana gli ripeteva: — Sta in guardia!... Un passo sul declivio, e il fondo t'inghiotte! — Un'altra voce soggiungeva: — Il riposo è necessario all'uomo, esso rimonta le forze, e giova al lavoro — infatti il capriccio sosteneva che la ragione aveva torto; La ragione soccombette alla lotta, perchè lo spirito d'inerzia si era alleato un desiderio d'amore; Valdrigo sentiva un'altra voce che con irresistibile attrattiva lo chiamava da lontano, e gli diceva: — Vieni ad ispirarti davanti al santuario che rinchiude la tua divinità, l'aspetto di quelle mura infonderà nuove fiamme al tuo genio! — Chi avrebbe resistito a quella voce?... Rimandò i suoi modelli, e preso il cappello se ne andò fantasticando per la strada, e cercando lo scioglimento d'un problema che gli tornava importuno allo spirito: — Se Silvia, egli pensava fra sè, fosse un giorno costretta dalla spietata severità de' suoi parenti di vestire l'abito monacale, è evidente che nel giorno della fuga non potrebbe conservare quelle vesti, che renderebbero ardua e pericolosa l'impresa!... Quale sarebbe il modo più opportuno per evitare questo ostacolo?...

E cercando uno stratagemma plausibile camminava attraverso il labirinto delle calli che conducono in Piazza, da ove pensava indirizzare i suoi passi verso i balconi del palazzo Orseolo, da qualche tempo non visti. Giunto sotto la torre dell'orologio la gente s'era accalcata davanti una bottega di caffè, e impediva il passaggio. La curiosità è contagiosa, ed egli divenuto curioso fra i curiosi, si spinse avanti per iscoprire l'oggetto della pubblica attenzione. Alcune carte stampate pendevano alle invetriate della bottega, e sovra d'esse gli parve di vedere il nome di Silvia, ma una nube gli offuscava la vista, e il sangue gli montava dal cuore al cervello con tale rapidità che non fu in caso di leggere più oltre. Fattosi animo alquanto, e facendosi largo fra la folla, giunse alfine davanti alle carte e vide una serie di sonetti e canzoni, che portavano la seguente intestazione: — Per le inclite nozze della nobile donzella Silvia degli Orseolo, con sua Eccellenza il nobile signor conte Alberto Leoni.

Una fiamma repentina gli tolse la vista, lo colse un capogiro, e barcollando come un briaco uscì da quella folla, ad uno pestando i piedi, ad un altro lasciando andare i gomiti nello stomaco, urtando e rovesciando ogni cosa che gli si parasse d'innanzi, e gesticolando per la strada scomparve, sollevando dietro a sè i lamenti delle sue vittime che lo guardavano fuggire indispettite e sorprese, come chi s'imbatte a caso in un matto. Ristabilito l'ordine nella folla, i curiosi continuarono a deliziarsi nella lettura dei versi di Don Lio il quale celebrava le auspicate nozze mettendo a contribuzione il Parnaso, e facendo nuove vittime fra le stanche Muse, il vecchio Apollo, il decrepito Imeneo, e gli altri suoi martiri dell'Olimpo.

XXI.

Valdrigo, quasi uscito di senno, rientrava in casa cogli occhi stralunati, ribaltando l'arcolajo della nonna che seduta pacificamente sull'uscio, stava dipanando una intricata matassa. Rientrato in stanza diede un calcio così potente al cavalletto che mandò in aria la tela la quale ricadde sull'armadio sopra alcune tazze di caffè che volarono in mille scheggie, ribaltò un tavolo che sosteneva i colori e i suoi libri; l'olio da dipingere andò ad allagare le sue carte, le sedie andarono a cadere sulle sedie, e v'ebbe un tale baccano indiavolato che tutti i vicini si gettarono alle finestre per vedere se cascava il mondo.

La Maddalena spaventata corse precipitosamente nella stanza, e vide una specie di caos, e Valdrigo ai piedi del letto privo di sensi. Chiamò aiuto; Beppo giunse dalla riva, e vedendo il quadro rovesciato lo levò dall'armadio, e l'osservò attentamente; per fortuna era salvo meno qualche striscia, se lo prese con molte precauzioni, e lo trasportò in una stanza più sicura.

Maddalena spruzzava con acqua fresca il pallido volto del giovane, Marta apportava dell'aceto, Beppo ritornava nella stanza, e levando da terra Vittore, lo spogliava, e lo collocava nel letto. Ma tutte le loro cure non valsero a fargli riavere i sensi smarriti. Beppo corse alla più vicina farmacia, e poco dopo ritornò con un medico il quale esaminato attentamente il malato lo dichiarò in grave stato per violenta congestione cerebrale, gli fece un abbondante salasso, ordinò dei senapismi alle gambe, ed il riposo assoluto.

Nei vaneggiamenti della febbre egli mormorava delle parole confuse fra le quali l'attenta Maddalena udì sovente il nome di Silvia.

La malattia perseverava nella sua gravità e quindi i poveri pescatori pensarono di avvertirne la madre col solito mezzo del curato, indicato da Valdrigo. Beppo andò a prenderla a Mestre, e la buona Rosa accorse al letto del figlio che la riconobbe e mostrò coi cenni il contento di averla vicina e con uno sguardo commosso ringraziò Maddalena alla quale attribuì la delicata attenzione. La Rosa e Maddalena vegliavano al letto dell'infermo e gli prodigavano tutte quelle cure che i più nobili affetti ispirano alla donna e che sono i validi ausiliari della scienza. La buona madre chiedeva alla fanciulla le origini della malattia di suo figlio, ed essa rispondeva che il medico accusava il sole di aver causato l'accesso, ma non si mostrava convinta del giudizio; le rivelazioni raccolte l'avevano persuasa che se Vittore era vittima delle funeste influenze d'un astro, quell'astro non dovea essere il sole.

La bellezza di Maddalena, e le sue attente e perseveranti prestazioni convinsero ben tosto la chiaroveggenza della madre dell'affetto della fanciulla per suo figlio, e la andava studiando col più vivo interesse cercando di scoprirne le diverse qualità, i pregi e i difetti per trarne partito a suo tempo. Le loro reciproche confidenze a mezza voce servivano all'intento: e in pochi giorni la Rosa fu convinta che Maddalena era una buona ed onesta ragazza, che avrebbe potuto formare la felicità di Vittore.

A poco a poco il male diminuiva d'intensità, e il medico nelle sue visite aveva cessato di far quei cenni colla testa che volevano dire — affar grave! — Il malato incominciava a parlare, e quando la Rosa si trovava sola con lui lo interrogava da lontano sugli ospiti. Non tardò ad avvedersi, con sua grande sorpresa, che il figlio non pensava punto a Maddalena, o l'amava colla riconoscenza d'un amico, colla affezione d'un fratello.

Valdrigo teneva chiuso in seno il segreto del suo amore infelice, e della fatale sorpresa che lo aveva colpito, egli spiegava i sintomi provati, i capogiri, l'esaltazione cerebrale e la successiva spossatezza, ma ne taceva le cause.

Maddalena custodiva il segreto delle confidenze della febbre, forse per delicato sentimento, forse per iscoprire più facilmente le traccie della possente rivale. Ma il suo amore rinchiuso cresceva d'intensità in ragione della pressione sofferta e le sue guancie impallidivano, e i begli occhi illanguiditi rivelavano le interne lotte d'una passione agitata dalla gelosia.

La Rosa attribuiva l'abbattimento di Maddalena alla veglie prolungate, e le ne faceva un merito presso Vittore, il quale voleva pagare il suo debito di riconoscenza colle più dolci espressioni, cogli elogi più eloquenti che inacerbavano la piaga; e credendo di recare il balsamo apportavano il fiele.

Il medico propose che la convalescenza si facesse in campagna, e questo consiglio piacque al malato ed alla madre; dispiacque a Maddalena. Ma la Rosa se ne avvide e trovò un pronto rimedio. Essa voleva ricompensare in qualche modo le cure che gli ospiti avevano prodigate a suo figlio, e si proponeva in pari tempo di secondare l'affetto di Maddalena, e di ottenere da Vittore un sentimento pari che li avrebbe resi entrambi felici. Invitò dunque Maddalena ad accompagnarli a Saltore, e a rimanersi qualche tempo con loro. A questo invito un lampo di felicità brillò negli occhi della amorosa fanciulla, tanto più lieta quanto più Vittore ne sembrava soddisfatto. Qualche difficoltà insorta per le opposizioni di Beppo e della vecchia Marta venne presto appianata dalla volontà di Maddalena, e dalle promesse della Rosa, e prese le opportune disposizioni partirono per Mestre nella barca di Beppo. Colà presero a nolo una vettura che li condusse felicemente a Saltore.

XXII.

Era di primavera. Le prime fogliette spuntavano dagli alberi, e l'aria tiepida esalava il soave profumo delle prime violette. La giovane veneziana non era mai uscita dal suo nido, la sua infanzia s'era passata sulle rive della laguna, in un'aria pregna di emanazioni saline, commista all'ingrato tanfo dei canali ed alle esalazioni di pece delle barche. I suoi occhi avvezzi all'azzurra superficie dell'acqua, o al freddo aspetto dei muri, non si erano mai posati sopra una vasta campagna. Essa non aveva mai contemplato la natura rurale che nei prodotti degli orti delle isole, esposti nei cestoni dell'erberia; e i pochi alberi dispersi fra le case, e i modesti vasi di garofani e geranei della sua finestra, erano per lei i soli rappresentanti del regno vegetale.

Il movimento continuo della città, il canto dei gondolieri, le ciarle delle donnicciuole, le baruffe dei facchini, le diverse grida dei pescatori e dei vari venditori ambulanti che annunziano per le strade le loro merci avevano sole risuonato alle orecchie della fanciulla, con l'accompagnamento delle musiche dei menestrelli vagabondi, e del suono delle campane, tutti rumori che confusi fra loro danno un certo suono generale che si potrebbe chiamare la voce delle calli di Venezia.

Al Saltore la scena era affatto diversa, il silenzio della notte non era interrotto che dal canto dei grilli e da qualche latrato dei cani, al giorno era la canzone degli uccelletti fra gli alberi, le varie voci degli animali domestici, lo stormire delle fronde agitate dagli aliti della primavera.

Il verde tappeto dei prati si smaltava di bianche margherite, e gli armenti vaganti per la campagna mandavano i loro muggiti, come un saluto alla pace che regnava dovunque.

Nella rustica dimora, l'abbondanza prodigava i suoi doni. Non era più come a Venezia, ove ogni cosa si misurava in proporzioni meschine, ove sul tavolo della cucina si vedeva una libbra di farina, un bicchiere di latte, un cavolo, un pollo, un piattello d'insalata; nella cucina del colono entravano ampi catini di latte, cesti ricolmi di erbaggi, il farinaio riboccava di farina, gli scaffali di formaggi, e dalle travi affumicate pendevano i salami ed il lardo. Il cortile brulicava di polli, e il bravo Osvaldo aveva introdotto sotto al portico alcuni alveari che gli davano ogni anno un miele dorato, eccellente.

Rosa faceva gli onori della casa alla sua ospite meravigliata di tanta agiatezza, sorpresa del nuovo spettacolo dei costumi campagnuoli.

Durante l'assenza della moglie, Zammaria era un uomo impacciato e disperato. La casa gli pareva un deserto, i polli erano inquieti, il majale grugniva dalla fame, il gatto miagolava, il cane da guardia giaceva malinconico in un angolo del cortile, dopo d'aver invano cercato la sua padrona da ogni parte. Il ritorno di Rosa fu una vera festa per tutti, il cane le saltava addosso urlando ed abbajando dalla gioia, tutti gli animaletti le correvano incontro, il maiale dava segni evidenti di soddisfazione, i figliuoli la baciavano, e Zammaria sbalordito rimaneva immobile in mezzo del cortile, si cavava la beretta di lana per inchinare Maddalena, e rideva colla bocca, mentre due grosse lagrime di consolazione gli correvano giù per le guancie.

La Rosa gli corse fra le braccia, lo baciò in viso e tutti entrarono in cucina. Allora disfatti i bagagli saltava fuori una bella giacchetta pel marito, una berretta col fiocco per Osvaldo, e fazzoletti rossi e variopinti per gli altri. Poi vennero i rinfreschi, il latte, le frutta per la bella veneziana, che tutti guardavano colla bocca spalancata e gli occhi sorridenti.

Maddalena osservava quel quadro di felicità, e pensava come sarebbe bella la vita in questa pace, accanto all'uomo amato, in mezzo ad una famiglia contenta! La Rosa presso a poco pensava egualmente, e rifletteva che per Vittore una signora sarebbe una vera disgrazia, una contadina troppo poco, e faceva i suoi castelli in aria. Si potrebbe, diceva fra sè, restaurare la casa con poca spesa, Vittore farebbe dei bei santi per le chiese, Maddalena lo renderebbe felice, e mi assisterebbe nelle faccende di famiglia, saremmo tatti uniti! e si proponeva di mandare alcune candele alla Madonna della Neve per ottenere questa grazia.

Vittore per sua parte pensava: — Silvia è la più divina creatura che abbia vissuto sulla terra, i suoi sguardi mi sono fitti nel cuore con indelebile fermezza, mi par sempre di vedere quell'occhio limpido e profondo, azzurro come il cielo, veggo sempre la sua bocca soave, ahimè la sento ancora sulle labbra!

Orgoliosi! egli ripeteva fra sè, orgoliosi! gettare un fiore del paradiso fra le braccia d'un vecchio consumato dagli stravizi, soffocare le aspirazioni di quel cuore innocente per considerazioni ambiziose!... No! essa non può essere rea d'un oblìo contro natura, essa fu vittima d'un pregiudizio fatale!... — E la sua mente lottava e si agitava fra l'amore e l'odio, fra l'affetto per Silvia, fra il disprezzo pei nobili inumani, e quella violenta passione dominava tutte le facoltà di quell'anima esaltata dalle aspirazioni del cuore e amareggiata dai disinganni della vita!

Nelle ore della solitudine, Valdrigo viveva concentrato in sè stesso coi pensieri condensati dall'affetto, evocava le immagini del passato, riviveva nei giorni felici, conversava col suo idolo, lo circondava d'un prestigio fantastico, lo adorava con tutte le forze del cuore. Richiamato alla vita reale da qualche accidente volgare, chiudeva nel cuore e nella mente le sensazioni e i pensieri reconditi, come si chiudono le lettere d'una amante riamata entro ad una cassettina segreta per rileggerle e ribaciarle a suo tempo; e usciva dalla sua stanza col volto sereno, coll'aspetto tranquillo, avendo preso il partito di dissimulare le interne agitazioni con una superficie calma, di vivere con lei sola nella segreta intimità dell'anima, e di vivere con tutti secondo le convenienze della comune esistenza.

La gratitudine che provava verso Maddalena per le cure ricevute lo obbligava a mostrarsi cortese ed affettuoso, ed a renderle gradevole e lieto il soggiorno di Saltore. Quindi scherzava con lei, e le indirizzava sovente quei complimenti abituali, che i giovani usano con le ragazze, e sono parole che spuntano spontanee sulle labbra all'aspetto della gioventù e della bellezza. Ma essa le ascoltava con grande attenzione, se le metteva da parte, le pesava colle bilancie dell'oro, e se le teneva come tante dichiarazioni mascherate d'un amore incipiente e forse troppo timido, per manifestarsi a volto scoperto. In fondo non erano che paglia, ma vicino al fuoco del cuore, sollevavano un incendio.

Ogni giorno egli la conduceva al passeggio, e le ingenue sorprese della fanciulla alla quale tutto era nuovo, gli eccitavano una ilarità superficiale e burlesca. Ella che lo vedeva sempre cupo, si attribuiva il merito di scacciare le tetre nubi di quell'anima misteriosa, e di ricondurre i giorni sereni.

Una mattina passeggiavano per le strade deserte di Vascon, e giunti davanti al palazzo degli Orseolo, Maddalena voleva entrare per vedere il giardino. Valdrigo le disse che dopo uscito da quella casa, non vi aveva più riposto il piede, e non voleva rimetterlo, perchè l'orgoglio di quei signori, rendeva amaro il beneficio ricevuto. Maddalena guardava pei cancelli le statue e le ajuole fiorite, e Angelo Rotondo fingendo di non vedere nessuno faceva segno col gomito a Fiorina, dicendo: — Guarda un po' se l'ha trovata la sua veneziana, e più bella della padroncina. Questa è proprio un bel pezzo di ragazza, un bocconcino che mette in appetito.

— Taci su, birbonaccio, — rispondeva Fiorina, — sei proprio come il lupo che perde prima il pelo che il vizio.

Maddalena ricondusse in campo la storia degli Orseolo, che Valdrigo le aveva raccontata a suo modo sotto la cappa del camino a Venezia, e volle sapere il nome d'ogni singolo individuo componente l'illustre famiglia. Quando udì il nome di Silvia, sentì come una punta nel cuore, e il suo volto espresse l'impressione dolorosa, ma Vittore non se ne avvide, ed essa non osò spingere le ricerche più avanti; ma disse fra sè: — Ecco trovata la Silvia, che Vittore invocava nei vaneggiamenti della febbre.

Un'altra volta ritornando sullo stesso discorso, seppe che la nobile fanciulla era andata a marito, ma questa notizia non valse gran fatto a calmarla. Ne parlò alla Rosa con aria d'indifferenza, e i suoi sospetti ebbero nuovo alimento dalle spiegazioni della buona donna che volendo giustificare suo figlio lo accusava, ed imbrogliava l'intrigo.

Le cose erano a questo punto quando un giorno giunse Beppo da Venezia all'improvviso. La cucina della Marta non gli andava troppo a sangue, la buona vecchia gli aveva bruciata una frittura di sogliole, la casa era in disordine, ed egli richiedeva sua sorella. Non ci fu caso di protrarre il soggiorno della ragazza, Beppo doveva partire per la pesca, la nonna Marta era sorda, e non si fidava di lasciarla sola a Venezia. Maddalena dovette cedere, e lasciò i buoni coloni con dirotte lagrime; essa sarebbe rimasta per sempre in quel beato soggiorno, Rosa la baciò colla tenerezza d'una madre, la consolò con future speranze, e la congedò colle dolci parole: — A rivederci presto.

Partì con Beppo, ma il suo cuore rimase a Saltore; l'ultimo sguardo dato a Valdrigo avrebbe commosso una pietra: Vittore pensava fra sè: — Potessi almeno rivedere Silvia, e disse ad alta voce alla fanciulla: — Addio, buona Maddalena, a rivederci fra pochi giorni a Venezia, che qui non ci posso più stare.

Queste parole, che essa interpretava a suo modo, furono la sola consolazione della fanciulla durante il suo viaggio, nel quale si sforzò a gran fatica di reprimere le lagrime e di soffocare i singhiozzi.

XXIII.

L'aria pura ed elastica che spira dalle montagne e dal Piave ristabilì in breve tempo la salute di Valdrigo, che ritornò a Venezia sano di corpo, ma con l'anima lacerata dall'amore e dall'odio. Nel tempo che visse in casa Orseolo ebbe agio di conoscere le depravate abitudini d'una molle nobiltà che decaduta dall'antico splendore aveva deposte le armi, e s'era data al far nulla ed al vizio. Questa classe infiacchita dominava la repubblica, comandava a Venezia con un orgoglio proporzionato alle glorie passate, e teneva il popolo a vile come una razza inferiore di sangue plebeo, condannata a servire. L'oltraggio sofferto in casa Orseolo e l'amore infelice avevano inasprito il cuore di Valdrigo, e la sua mente esaltata esagerava l'ingiustizia dei privilegi e i difetti del governo. Egli andava quindi meditando il modo più opportuno d'umiliare la superbia dei nobili, di ristabilire i diritti del popolo, di demolire i pregiudizi, di emancipare la patria dal dominio d'una aristocrazia orgogliosa e decrepita. Succede troppo spesso negli Stati che le passioni politiche si alimentano di privati rancori, e gli odii diventano spietati perchè confondono il bene della patria colla brama di particolari vendette. Ogni congiura rappresenta un bisogno, ogni bisogno si accompagna ad interessi, nei quali talora le speranze dell'individuo prevalgono alla fede del cittadino. Così nessun Governo potendo soddisfare ogni suddito, ogni Stato ha i suoi malcontenti che mormorano, pronti a denigrare le migliori intenzioni, attenti ad esagerare ogni fallo, ad avvalorare ogni sospetto, a spargere false notizie, ad attizzare le passioni.

Il popolo di Venezia era semplice e tranquillo, soddisfatto nei bisogni e nei gusti della vita, lusingato da sempre nuovi passatempi, orgoglioso delle glorie d'una patria ammirata da tutti, egli amava e rispettava il suo governo, e giudicava le ineguaglianze sociali come un destino inappellabile, una eterna necessità, una volontà della divina provvidenza.

Soltanto alcune menti filosofiche che meditavano i progressi sociali e osservavano i sistemi invecchiati, e con occhio perspicace ne scoprivano i difetti, prevedevano gli inevitabili mutamenti del tempo.

Il movimento della Francia, non ostante le precauzioni del Governo per tenerlo segreto, penetrava in Venezia, come la luce del mattino entra in una stanza per gli spiragli delle imposte chiuse e delle cortine distese.

I filosofi francesi avevano i loro seguaci nella repubblica, e le nuove dottrine battevano in breccia l'edifizio diroccato dai secoli e guasto dagli abusi.

Si temeva ancora la severità del Governo, ma nel segreto del gabinetto si divoravano i libri che venivano dalla Senna, tradotti nella Svizzera e in Olanda.

I dettami della ragione, e i diritti dianzi incontrastati, ma finalmente analizzati con fina critica e anatomizzati con implacabile verità scotevano dalle fondamenta le leggi avite. I frizzi, i sarcasmi scemavano il prestigio delle antiche istituzioni, i diritti dei nobili e i doveri dei plebei si confondevano nei diritti dell'uomo, e uno scetticismo spietato surrogava la venerazione d'ogni autorità.

Alle ragioni dei filosofi si associavano le querele e le accuse dei malcontenti i quali si reclutavano fra gli ambiziosi delusi, fra gl'invidiosi, fra i rovinati dal giuoco o da cattive speculazioni, e che speravano rifarsi disfacendo gli altri e sovvertendo l'ordine, per abusare del disordine. Infatti tutte le umane passioni apportavano il loro contingente alle idee di riforma, nate nelle menti sublimi d'uomini immortali, secondate dai piccoli cervelli, dalle torbide aspirazioni, dai minuti interessi di volgari litiganti.

L'amore deluso spinse Valdrigo nella corrente, trascinato in buona fede dalle apparenze d'una filantropia che incominciava da sè, e d'una politica che allo scopo di sopprimere i disordini, voleva immergere il mondo nel caos per rifarlo. Frammischiandosi ai malcontenti e facendo lega con loro, il giovane artista trovò facile adito nei conciliaboli segreti, e a poco a poco guadagnando terreno meritò la stima e la confidenza dei compagni che gli proposero d'iniziarlo nella vasta associazione dei Franchi-Muratori.

Avendo accettato con giubilo la proposta venne iniziato alla setta con tutti i misteri allora usati. La loggia dei Franchi-Muratori si era stabilita a Venezia in una casa posta nella deserta contrada di San Simeone grande, in un sito appellato Rio Marin, di proprietà del procurator di San Marco Contarini, allogata a pigione ad un Colombo[6].

Una notte Vittore Valdrigo fu introdotto in tale casa da due amici, che dopo attraversata la camera detta delle riflessioni, lo fecero entrare nel Tempio, locale bujo colle pareti tappezzate di panno nero. Nel mezzo sorgeva un trono coperto di drappo turchino guernito di trine d'oro; e vedevasi uno specchio con cortina di velo ceruleo, che ad aurei caratteri aveva a trapunto la seguente iscrizione: Se avete un vero desiderio, se avete coraggio ed intelligenza, tirate questa cortina ed apprendete a conoscervi. — Un lettuccio coperto di nera tela sopra cui stava impressa una croce bianca e rossa ed un ramo d'ulivo; tre gradini con vari candelabri; una piramide; un quadro a chiaroscuro rappresentante un sasso ed una squadra col motto: Dirigit obliqua; altro quadro nel quale era dipinta una nave trabalzata da burrasca colla sentenza: In silentio et spe fortitudo nostra; un terzo quadro colle immagini di una colonna a spira e di una squadra, leggendovisi sotto: In præsenti modo adhuc stat; la statua di Cupido cogli occhi bendati, e da ultimo un telaio con una pelle tesa dipinta a geroglifici, standovi appeso un maglio per batterla a guisa di tamburo. Quivi gli bendarono gli occhi e lo accompagnarono nella sala vicina che si chiamava la Loggia. Colà fattolo sedere in una scranna a braccioli gli dissero che qualora udisse tre colpi si sbendasse. Appena uditi i tre colpi si tolse la benda e si trovò dirimpetto ad una tavola coperta da un bruno tappeto sopra cui stavano un teschio, un lumicino, e la iscrizione: Pensaci bene. Pendevano intorno ai muri cazzuole e martelline dorate, spade con elsa d'argento e di acciajo, stili, fazzoletti bianchi macchiati di sangue, ossarii, anfore e altri oggetti bizzarri.

Poco dopo entrarono alcuni individui coperti di lunghe vesti nere col bavero turchino orlato di bianco, alle cui estremità risaltavano una piccola squadra e due spadine incrociate di metallo dorato. Erano le cariche della Loggia: il Venerabile, il Vigilante, il Fratello terribile, il Maestro delle cerimonie, il Tesoriere, l'Elemosiniere, il Segretario, e il Grande Esperto; il quale fattosi innanzi al candidato gli disse: — Udite le massime principali dei Liberi Muratori, e i tremendi castighi inflitti ai traditori, — e con voce lenta e grave, in mezzo al generale silenzio pronunciò queste parole: — «Dio ha creato l'uomo in libertà naturale e pienissima, siamo quindi tutti eguali. La libertà non si restringe senza grave ingiuria verso Colui che a tutti la diede. Per questa pienissima libertà naturale a noi tutti così benignamente impartita, Dio s'appaga dell'omaggio degli atti interiori, e non cura le esterne cerimonie. A Lui solo spetta il dominio assoluto della terra ove pose l'uomo il quale violando la libertà naturale della creatura, insulta il Creatore. Ora la Maestà suprema di Dio è stata lesa, e l'umana libertà poco meno che distrutta dalla malvagità degli usurpatori del diritto comune, che con colpevole violenza assunsero gli attributi dell'Essere Supremo, e dominarono sulla ignoranza degli uomini, i quali permisero tale usurpazione a proprio danno, e ad oltraggio della giustizia di Dio! È dunque grande e nobile impresa, e degna d'uomini onorati ed onesti quella di togliere l'umanità dalle tenebre dell'ignoranza e dalle pressure della tirannide, è un sacro dovere l'armarsi contro gl'infami usurpatori, ed anche ucciderli essendo rei d'usurpazione verso i diritti degli uomini e la divina podestà! Nè cotanto nobile e generosa impresa viene interdetta all'ebreo, al protestante, al cattolico, al maomettano o a qualsiasi setta, avvegnachè a tutti interessi altamente l'umana libertà e la divina potenza! Ardua però e tremenda è l'impresa, dovendosi lottare con forze organizzate e possenti, laonde si rende necessaria la scelta d'uomini di solida tempra, di spirito forte ed ardito. Il segreto deve essere inviolabile, pena la morte! piuttosto che svelare l'arcano e tradire la nostra società, il fratello deve lasciarsi estirpare le viscere e svellere il cuore dal petto senza proferire un accento; chi non si sente forte abbastanza per giurare sulla sua anima di conservare il silenzio anche a queste condizioni, si alzi, e si allontani...»

Valdrigo rimase fermo al suo posto. Allora il Fratello terribile snudandogli un braccio ed una gamba, e bendatolo di nuovo lo condusse in altra stanza. Colà gli venne chiesto il nome, il cognome, il padre, la patria, la professione, e gli annunziarono un salasso e delle botte di fuoco. Valdrigo rimase imperterrito, e non gli fecero niente. Allora una voce profonda gli chiese cosa volesse, ed egli rispose — la luce — che così gli avevano prima insegnato. Allora toltagli nuovamente la benda si vide in faccia d'una fiamma, circondato da spade colle punte rivolte verso il suo petto, e la solita voce gli diceva: — In qualunque tempo della vita sarete difeso — e avanzatosi d'un passo gli venne ordinato di appoggiare una mano sul vangelo aperto sopra un tavolo, e di giurare obbedienza e fedeltà. Dopo di che chiamandolo fratello e baciandolo in volto gl'indicarono i toccamenti o segnali per conoscere i soci, che consistevano nel mettersi una mano sotto la gola; o colla mano sinistra prendere l'indice della destra e dargli col pollice tre colpi. Gl'insegnarono inoltre una parola d'ordine, e il modo di servirsene. Finite le cerimonie si sedettero ad un banchetto fraterno ed alla parola — mano all'arme — fuoco — bevettero porgendo un brindisi al fratello principe di Brunswich, alla madre Loggia di Londra, e ai fratelli di Venezia![7]

Valdrigo dopo quel giorno prese parte esattamente a tutti i segreti convegni della setta, ed ebbe libri e comunicazioni importanti sui movimenti della rivoluzione francese. Le notizie estere venivano raccolte da viaggiatori espressamente spediti, i quali talvolta appartenevano alle classi sociali più elevate. Angelo Quirini che sedeva in Senato faceva parte della Loggia, e visitò i confratelli della Svizzera e di alcune città della Francia, e venne accolto ed ospitato a Ferney da Voltaire. Altri viaggi in varie parti d'Italia, in Germania ed in Svizzera vennero fatti dai due Liberi Muratori Sebastiano Grotta e Francesco Battagia, ragguardevolissimi patrizii, e i gran Maestri e graduati convennero in una Dieta Generale Massonica aperta a Wilhemsbad nel granducato di Assia-Darmstadt[8].

Nelle riunioni dei Franchi Muratori Valdrigo riconobbe con sorpresa molti veneti patrizii che aveva veduti in casa Orseolo, e che erano stimati solidi sostegni del Governo e degli abusi prevalsi. Fra questi egli notava Girolamo Giustinian, Bernardo e Lorenzo Memmo, Alvise Pisani, Morosini, Soranzo, Falier Erizzo, Andrea Tron e Giovanni Pindemonte. V'erano tre parrochi, quello di San Michele Arcangelo, di San Maurizio, e di San Giovanni Crisostomo, e perfino un Gesuita Agostino, Signoretti[9].

Strinse particolare amicizia coi due fratelli Giuseppe ed Alessandro Albrizzi, distinti amatori di belle arti, e quindi legati d'intimità coi migliori artisti di Venezia.

Allo scopo di propagare le massime adottate, Valdrigo si frammischiava col popolo; e per non eccitare sospetti indossava le vesti dei pescatori. Portava i zoccoli di legno cogli alti talloni, le calze lunge sopra i calzoni, la maglia a larghe righe bianche e cerulee, il ruvido cappotto col cappuccio, il berretto dei chioggiotti. Seduto con Beppo e gli altri battellieri intorno ai tavoli delle bettole affumicate trincava alla salute dell'avvenire, mentre il presente se ne andava coi vortici di fumo della sua pipa di terra cotta. Le teorie dell'eguaglianza sociale solleticavano generalmente i gondolieri senza impiego, i pescivendoli senza soldi, e incontravano la diffidenza e le opposizioni di quelli che trovandosi al servizio delle case patrizie gavazzavano nell'abbondanza, e si sentivano dei bei ducati in saccoccia.

Pochi intendevano il vero senso delle dottrine propagate da Valdrigo, pochissimi avevano fiducia nelle sue promesse, e in un mutamento qualunque. Per altro qualche parola gettata per caso, qualche lamento circolante oscurava l'orizzonte, e si sentiva in aria un certo che d'inusitato e di strano. I vecchi rimpiangevano i giorni beati della loro gioventù, i bei tempi passati, ed accusavano i giovani di perdere il rispetto all'autorità e alla vecchiaja, di mettere in derisione gli usi e i costumi della patria, di riscaldarsi la testa con novità da sognatori e da matti.

Valdrigo censurava l'albagia dei nobili, le loro pretese, i privilegi usurpati al popolo, e sforzandosi di pensare alla patria, pensava a Silvia, e l'amore soffiava nella politica gonfiando gli argomenti.

Maddalena sollecitava invano il giovane pittore a riprendere il lavoro, egli rispondeva col solito domani che aveva servito di risposta alle preghiere materne, oppure metteva in campo pretesti d'occupazioni più gravi e più utili, o voleva dimostrarle la vanità di un'opera che certo non avrebbe raggiunto il merito dei più insigni pittori; e quindi egli soggiungeva: quando nelle arti non si perviene a trovare la perfezione, è meglio far niente.

E usciva con Beppo, e talvolta giungeva a persuadere la Maddalena ad accompagnarli alla pesca; essa non resisteva gran tratto e lieta di passare alcune ore con lui s'imbarcava coi pescatori, e uscivano dal porto.

La pronta intelligenza serve l'uomo in ogni occasione; e Valdrigo non aveva impiegato molto tempo a diventar marinajo. La vita del mare aveva fortificato le sue membra, e abbrunato il suo volto. Nei facili tragitti egli era in caso di dirigere il timone, ed aveva imparato ad issare e ad ammainare le vele, a legar le sarte all'antenna, a gettare e raccogliere le reti.

Egli non usciva alla pesca quale semplice spettatore, ma prendeva parte alle fatiche dei compagni, e divideva con loro le lotte contro i furori del mare.

Maddalena lo contemplava con sorpresa, e ammirava la versatilità di quell'uomo, deplorando vivamente che la mobilità del carattere gli rendesse impossibile la perseveranza e la fermezza nelle cose intraprese.

Nelle ore di bonaccia egli si gettava sul ponte vicino a Maddalena e le faceva osservare la sublimità dell'infinito davanti la solitudine, e le spiegava i piaceri della navigazione, la libertà del mare, la superiorità di quei silenzi, sui silenzi della terra, la bellezza di quelle acque azzurre e di quel cielo sereno. Essa lo ascoltava con religioso raccoglimento, al tocco delle sue mani fremeva, al suo alitare sentiva un tremito in tutte membra, lo fissava in volto con uno sguardo d'adorazione, ed egli levando gli occhi al cielo varcava gli spazii sulle ali della fantasia, e pensava... alla Silvia.

XXIV.

Silvia era diventata la stella di Venezia. La nascita cospicua e l'illustre maritaggio l'aveano collocata al primo rango della nobiltà, la grande opulenza del conte Leoni la metteva al pari colle più ricche famiglie, le grazie della persona, e i vaghi lineamenti del volto le assicuravano il primo posto della bellezza, ed era infatto riconosciuta da tutti come la più bella fra le belle.

Quando compariva nelle pubbliche feste colla fronte sfolgorante di brillanti che davano un singolare risalto al languore degli occhi trasparenti e profondi, vestita di ricche stoffe ricoperte di pizzi preziosi e di gemme, la folla rispettosa le cedeva il passo e un confuso mormorio d'ammirazione irresistibile seguiva il suo passaggio.

Un sorriso misterioso muoveva le sue labbra esprimente la bontà rassegnata d'un'anima priva di letizia, e un velo di melanconia cresceva la bella espressione de' suoi sguardi.

Dal giorno che l'abbiamo lasciata fanciulla, vittima d'un ingenuo impulso del cuore, lunga sarebbe la storia de' suoi intimi pensieri, breve quella dei fatti.

La natura e l'educazione, l'istinto e il pregiudizio lottarono nella sua candida coscienza con tutta la forza d'una passione segreta. Un arcano misterioso s'era svelato con un bacio, il bacio del perdono era divenuto il bacio dell'amore, e quelle labbra congiunte per un minuto avevano lasciata una traccia indelebile. Quel bacio era un nodo stretto dalla natura, rotto istantaneamente dagli uomini; quella lacerazione aveva prodotto una piaga e un intenso dolore; i farmachi impiegati per sanare la ferita la inasprivano, non erano balsami ma fiele; l'ironia, lo scherno, la minaccia.

La fanciulla offesa aveva nascoste le sue pene nei più impenetrabili recessi dell'anima, decisa di custodire le sue sensazioni per sè, di cedere al mondo quello che il mondo reclama, le apparenze esterne, il sorriso delle labbra, le parole di convenzione. — La sua mente perspicace, illuminata dai discorsi dei parenti, dagli esempi e dai consigli delle amiche, le dimostrava chiaramente l'inutilità d'una lotta colla famiglia, e colle convenzioni sociali, lotta ineguale, impossibile; che cosa avrebbe potuto ottenere una voce del cuore contro il sistema sociale e politico, contro le tradizioni dei secoli, contro l'autorità assoluta dei genitori, e la loro onnipotente volontà?

D'altronde una opposizione tenace l'avrebbe confinata in un chiostro, e quale sarebbe il vantaggio di tanto sagrifizio?... la tomba prima della morte!...

Che cosa chiedeva il suo animo?... un affetto per Vittore. Che era l'affetto?... Un pensiero perenne, un'arcana aspirazione, una tenerezza misteriosa, un'adorazione sublime... e tutto questo era possibile nell'intimo segreto della vita interna, senza turbare l'andamento delle cose terrene e l'irrefragabile volontà del destino.

Visse dunque sommessa in apparenza, ma ribelle nel fondo alle leggi della sua classe, aspettò il conte Leoni, come si aspetta la fatalità, come si aspetta la morte, e pensò a Valdrigo come si pensa all'impossibile, o alle cose d'un altro mondo, all'eternità, al paradiso.

Era sorvegliata col rigore dei prigionieri di Stato, non parlò mai più con Valdrigo; non lo vide che rare volte, da lontano, alla finestra per un secondo, o di passaggio alla chiesa. Nessuno se ne avvedeva, soltanto i due giovani si scambiavano uno sguardo, un lampo!... ma quel lampo teneva vivo il fuoco sacro, ed equivaleva ad un linguaggio sublime, il quale bastava ad occuparli intiere settimane nella traduzione talora impossibile dei concetti trasmessi.

Così passarono dei mesi, e il tempo, che distrugge gl'imperi e le nazioni, esercitava la sua lenta ma inevitabile potenza anche sul cuore di Silvia. Il tempo scema ogni dolore e medica ogni piaga, ed ogni malato deve sottomettersi al supremo destino di guarire o morire. Silvia non guarì interamente, ma la piaga divenne cicatrice segnando un solco profondo e incancellabile.

Intanto il conte Leoni, terminata la lunga missione diplomatica che lo teneva lontano da Venezia, ritornò in patria, si presentò alla futura sposa, e vennero fissate le nozze. Quest'uomo era immerso nella politica segreta, e nei raggiri diplomatici di quei tempi minacciosi. Conservatore per educazione e per nascita, apparteneva a quel partito che non voleva transigere colle novità della Francia, e giudicava un pericolo la minima concessione. Passava quindi per implacabile nemico d'ogni più ragionevole riforma, ed era odiato dai partigiani della libertà, e dalle sètte che volevano abbattere i privilegi e proclamar l'eguaglianza. Di ricco censo, avvezzo al lusso delle Corti e splendido per le avite tradizioni, egli presentò alla sposa i doni nuziali colla prodigalità d'un principe, e gli Orseolo avevano apparecchiata una dote degna dell'illustre prosapia, gareggiando collo sposo nella sontuosità degli arredi e delle gemme; di modo che il proemio al matrimonio non fu per Silvia che una lunga tortura di sartore e modiste che le provavano le vesti, e spiegavano davanti ai suoi sguardi le magnificenze delle arti, che più solleticavano la vista. I preziosi smanigli, le filze di perle, i diademi di brillanti, gli abbigliamenti di broccato, i rasi ricamati, gli sciamiti di seta doppia trapunta d'oro, i pizzi e i veli trasparenti e leggiadri per vaghezza di disegno, i nastri, le nappe, le pelliccie, ed una varietà innumerevole di pannilini d'ogni foggia e d'ogni uso.

Il dire che Silvia rimanesse indifferente davanti a tante meraviglie, non sarebbe l'espressione del vero, che anzi assorta nella contemplazione di tali accessorii, essa dimenticava il principale.

Cosicchè il giorno delle nozze giunse come improvviso, e la pompa solenne parve un sogno alla fanciulla sbigottita dagli omaggi delle matrone e dei patrizii, e sbalordita dalle cerimonie religiose e domestiche. Alla consacrazione davanti l'altare succedettero senza posa i rinfreschi, il banchetto, le danze, la musica, e la sua mente vacillava confusa fra il bagliore delle faci, il fruscio delle vesti, il bisbiglio misterioso e confuso della folla elegante.

All'indomani della festa, un'infelice di più imprecava alla amara sorte riservata alla nobiltà ed alla ricchezza, e invidiava i modesti sponsali del popolo consigliati da reciproche attrattive e consolati da un amore concorde.

Ma il popolo alla sua volta, mancando spesso del necessario, invidiava il superfluo dei nobili e così pochi erano contenti. Questa è la sorte comune della società, e ancora non si è trovato un sistema di governo che renda tutti felici, e crediamo non si troverà così presto; quindi la rassegnazione è stata sempre e sarà ancora per lunga pezza una delle più belle ed utili virtù.

Silvia, che certo non mancava del superfluo, fra il quale considerava anche l'epitalamio di Don Lio, si trovava priva del necessario, che per lei era un cuor giovane e amoroso che rispondesse a' suoi sentimenti. Legata per legge divina ed umana ai destini d'un estraneo al suo affetto, essa soffriva il matrimonio come una malattia della sua razza e ne cercava qualche rimedio adottando francamente la vita di Venezia che moltiplicando le veglie, i piaceri e le feste, teneva lontani i mariti, e liberava le mogli dalle loro noiose assiduità, giudicate ridicole dai costumi eleganti, e assolutamente proscritte dalla società dei patrizii e rilegate tra le abitudini volgari del popolo.

Così essa trovava la libertà nei legami del matrimonio, tanto è vero che le leggi che si allontanano dai dettami di natura non ottengono lo scopo che si propongono, e si conservano apparenti nella forma, ma illusorie nel fondo. Di tale libertà però Silvia non abusava, chè se i tempi corrotti autorizzavano e rendevano facili gl'intrighi, l'amor vero non ha mai congiurato contro l'onore per deliberazione spontanea, ed è rimasto sempre il guardiano del pudore e della virtù. Chi ama non ardisce, e chi ardisce non ama, disse un sapiente scrittore, e appunto Silvia amava, e non ardiva confessarlo a sè stessa. Però schiava del dovere e dell'onestà, non poteva nè voleva raffrenare la libertà del pensiero, il quale correva senza ostacoli alle memorie del passato, e nelle ore di solitudine vagava in traccia d'un'anima sorella nel dolore e nelle aspirazioni, del pari solinga e abbandonata dall'avverso destino!... Infatti Silvia pensava sovente a Valdrigo.

XXV.

Esistono forse dei rapporti arcani, e una voce misteriosa che metta in comunicazione due anime unite dalla simpatia e allontanate dal destino?... Questo è ancora un problema oscuro, ma sembra che il fenomeno esista, e se la scienza non ha saputo fino ad ora spiegarlo, l'empirismo degli amanti ci crede. Si raccontano su questo rapporto dei casi strani e meravigliosi di sensazioni lontane ma unisone, di presentimenti profetici, e si narrano storie bizzarre di fatti creduti sovrumani che nel Medio Evo si attribuivano alle streghe, e ai tempi presenti si dichiarano effetti del magnetismo animale.

Forse alcuni fenomeni d'una apparenza sopranaturale sono naturalissimi e normali, ma la dabbenaggine umana grida al miracolo, perchè ne ignora le cause, ma l'uomo nel breve corso di sua vita mortale non può conoscere tutte le leggi immortali dell'universo. Dopo una lunga serie di secoli nella quale la scienza umana si arricchì di numerose e sorprendenti scoperte, quanti sublimi misteri si celano ancora nelle tenebre, quante leggi naturali rimangono ancora nascoste ai nostri sguardi!...

Questa dissertazione metafisica ha lo scopo di avvertire il lettore che Silvia e Valdrigo non si vedevano mai, ma si parlavano attraverso gli spazi, attraverso i muri di Venezia, a grandissime distanze, senza comunicazioni materiali, e le cose suddette giustificano la nostra ignoranza con l'ignoranza universale, incapace di spiegare il misterioso fenomeno. Ma il fatto esisteva, e forse esiste tuttora od esistette fra la persona che legge queste povere pagine e qualche anima lontana. Non è vero che si parla attraverso le montagne e l'oceano?... Sicuro che il linguaggio di due spiriti non è composto di accenti comuni e volgari, sicuro che quella voce arcana non dice: — Buon giorno, signore, come sta lei?... vorrebbe favorirmi i numeri che si cavano al lotto?... o dirmi il corso dei valori di borsa?.. — Queste cose le può dire il telegrafo!... — Il telegrafo elettrico!... chi ci avrebbe creduto nel Medio Evo?... Orbene, abbandoniamo la spiegazione del telegrafo amoroso alle future elucubrazioni della scienza, e per ora teniamoci paghi del fatto. Il fatto, quantunque misterioso, è incontrastabile.

Silvia seduta mollemente in un ampio seggiolone a bracciuoli, in una magnifica stanza tappezzata di antichi arazzi, e colle finestre ricoperte da impenetrabili cortinaggi di ricche stoffe, stava tutta sola pensando. Valdrigo cullato dai flutti del mare, coricato sul cassero d'una barca peschereccia, contemplava il cielo sereno. A poco a poco una corrente misteriosa d'idee gettava un filo invisibile dal cuore di Valdrigo al cuore di Silvia; ecco il telegrafo amoroso fissato, sul quale i sentimenti facevano i loro uffici, come le parole attraverso il filo metallico del telegrafo elettrico. Che cosa dicevano? Erano pensieri intangibili, sensazioni inesprimibili, fantasie vaporose, aspirazioni vaghe indefinite, estasi e rapimenti che si possono comprendere soltanto da chi li abbia provati.

La povera Maddalena, innamorata al pari di Silvia, non incontrava nel cuore di Valdrigo che una elettricità negativa, egli si trovava a un passo dalla bella popolana e a cinque miglia da Silvia; ma parlava a questa e la vedeva parlante, e l'altra così vicina, gli era mille miglia lontana dal cuore. O misteri della vita!...

XXVI.

Un giorno il nostro pittore s'era seduto in faccia al quadro dei pescatori, e lo andava contemplando. — Non ci sarebbe troppo male!... egli ripeteva fra sè, ma ci vorrebbe il coraggio di finirlo. Chi mi darà questo coraggio?... e sospirava.

Alcuni colpi vigorosi del battente di casa lo scossero dai suoi pensieri, e udendo una voce che chiedeva di lui, saltò in piedi, corse precipitosamente ad aprire la porta della stanza.... e vide Antonio Canova.

Reduce da Roma ove aveva scolpito il Teseo sul Minotauro, una statua di Marte, un Amorino, Venere che inghirlanda Adone di rose, la Psiche, vari bassirilievi e finalmente il grandioso Mausoleo di papa Clemente XIII, collocato nella basilica di san Pietro, lo scultore era venuto a Venezia per rivedere gli amici, e recarsi a respirare l'aria nativa dei suoi colli di Possagno, per ristorare le forze affrante dalle lunghe fatiche. Il Doge ed il Senato lo avevano accolto come un figlio prediletto, e i più illustri patrizii andavano a gara per onorarlo come una nuova gloria della patria, e gli allogarono il monumento dell'illustre capitano Angelo Emo.

Fedele alle sue affezioni d'infanzia, Canova volle abbracciare Valdrigo, e lo sorprese nel suo alloggio. Quella visita inaspettata sbalordì Vittore, stupefatto ad un punto dalla gioia e dalla vergogna. La fama gli aveva narrate le opere dell'amico; che cosa aveva egli da contrapporre a tante insigni produzioni?.... nulla! Il piacere di stringere fra le braccia un antico collega era dunque avvelenato dal rimorso del tempo perduto fra le passioni dell'amore e della politica. L'inerzia arrossiva davanti al lavoro. Partiti entrambi da uno stesso punto, con eguali attitudini, uno aveva proseguito il cammino con perseverante costanza, superando con coraggio gli ostacoli, l'altro s'era arrestato ad ogni scabrosità del terreno.

Scambiate le prime espansioni, lo scultore cercò un punto opportuno per contemplare il quadro dei pescatori, e il pittore movendo il cavalletto verso la luce si poneva da un lato, studiando l'espressione della fisonomia dell'amico, ed aspettando trepidante il suo imparziale giudizio.

Canova collocato a qualche distanza fissava attentamente quella tela, ora concentrando la luce con le mani raccolte intorno agli occhi, ora retrocedendo d'un passo, mettendosi in fianco per giudicare un effetto, o avanzandosi per osservare da vicino alcuni tocchi di pennello; esaminò attentamente ogni singola figura, ogni accessorio, il prossimo terreno e l'orizzonte lontano, e poi raccogliendo i vari gruppi in uno sguardo sommario, per vedere se l'armonia delle varie parti corrispondesse all'insieme, studiò l'effetto generale del quadro, e colla testa alta e gli occhi semichiusi stette lungamente immobile e muto a guardarlo.

Finalmente cessando tutto a un tratto dall'esame coscienzioso e severo, si slanciò al collo dell'amico, e baciandolo in volto con affettuosa e sincera affezione gli disse: — Vittore, il tuo quadro è un capolavoro. Prendi i pennelli e compi l'opera, e fra pochi giorni il tuo nome sonerà con elogio in Venezia, e tu sarai stimato nuovo decoro alle arti.

Valdrigo piangeva, e confessava ingenuamente i suoi slanci sublimi e le lotte colle tetre nubi della vita che gli oscuravano gli orizzonti sereni dell'arte, e il continuo ondeggiare fra i lampi delle sue ispirazioni, e le tenebre d'una molle apatia la quale spegneva a poco a poco il sacro fuoco del genio che si sentiva ardere in cuore ed affraliva la sua volontà con una colpevole accidia che lo rendeva inetto al lavoro.

Allora Canova confortava di nobili consigli quell'anima addolorata, e gli ripeteva le massime che guidarono la sua gloriosa carriera e che vennero scrupolosamente raccolte e conservate da Antonio d'Este suo intimo amico, e da Melchiorre Missirini suo ammiratore e biografo, e che noi riportiamo testualmente ad onore del nostro grande concittadino, e per guida dei giovani artisti che vogliono seguire le sue traccie immortali. — «Il decoro e la grandezza del nome d'Italia debbono sempre starci fissi nella mente. Gl'Italiani sono stati destinati dalla provvidenza a condurre a fine ogni gran cosa. Essi fanno uscire nella luce del mondo capolavori d'ogni maniera, e si acquistano il merito di essere a tutti insegnatori e maestri per solo spontaneo irresistibile impulso del loro genio, recato a creare grandi cose senza emulazione, senza premio e molte volte senza lode, anzi per mezzo tutti gli ostacoli e le contrarietà delle opposizioni dei governi, e delle censure fra loro medesimi, e fra le allettatrici distrazioni di un cielo mite e di un'aria benigna che ne consiglia e sospinge alle ricreazioni e ai diporti...»

«Compiango quei giovani che credono poter comporre piaceri d'ogni maniera coll'arte. L'arte sola deve stare in cima al pensiero dell'artista, e per essa vivere e volgere in essa ogni sua cura. Non devesi sviare l'intelletto nè abbattere il corpo.»

«Chi è stanco della musica, della veglia e del ballo, del passeggio, della cena, come mai di buon mattino potrà recarsi allo studio per lavorarvi con quell'ardore che vi bisogna? Quindi si diviene neghittosi, e all'ignavia vien dietro la noncuranza della gloria e l'appagarsi della mediocrità. La vita dell'artista debbe essere un continuo studio, non v'ha cosa più preziosa del tempo. Il grande artista deve pensare a vivere più nel futuro che nel presente...»[10].

Queste gravi e solenni parole colpirono profondamente il cuore commosso di Valdrigo, che promise di mettersi con fermezza a terminare il suo quadro, seguendo i consigli dell'amico, che lo assicurava delle supreme consolazioni del lavoro, come farmaco infallibile che risana ogni dolore dell'anima, e consola il cammino della vita.

In mezzo a questi propositi si separarono, fra le scambievoli dimostrazioni di amicizia e di stima, e Canova parti per Possagno.

XXVII.

La gloria ha le sue sublimi soddisfazioni, ma non va esente da penosi supplizi.

La grande modestia di Canova lo esponeva sovente alla tortura della pubblica ammirazione, e il suo viaggetto a Possagno costò molte pene all'illustre scultore. Egli s'era proposto di giungere tranquillo al suo paesello, contemplando per via quei bei colli che gli rammentavano i giorni sereni dell'infanzia, e il pensiero di gustare in pace quel silenzio e quella solitudine era un grande conforto al suo cuore. Vane illusioni! I bravi possagnesi volevano onorare il loro esimio concittadino divenuto famoso in Europa. Canova giunto a Bassano in compagnia del suo amico Antonio D'Este, trovò il Senatore Rezzonico che lo aspettava per onorarlo con sontuose accoglienze. Le cerimonie incominciavano a intorbidare la gioja del viaggio. A Crespano sboccavano da tutte le vie i curiosi che accorrevano a vederlo. Colà scese di vettura per montare a cavallo, le strade essendo impraticabili ai ruotabili, e poco dopo s'incontrò con un drappello di giovani suoi compatrioti che venivano a riceverlo, e fargli scorta d'onore. — Addio, solitudine! — Erano una quarantina sopra cavalli adorni di alloro, ed avevano il capo incoronato di fiori. Canova voleva sollevarli dall'incomodo, ma il suo amico D'Este gli mostrava l'impossibilità di calmare il loro entusiasmo. Bisognò dunque galoppare di conserva fra la brigata trionfale, e giunti al confine del territorio di Crespano, dopo il quale s'entra nel comune di Possagno, trovarono «la strada coperta di lauro, di mirto e di fiori; e ai lati della medesima, un folto popolo d'ambo i sessi, che con rami di lauro, battendo le palme gridavano: Viva il Canova.... Viva il patriotta[11]

A misura che avanzavano crescevano gli applausi e la folla, e giunti finalmente al paese il popolo accorso era immenso, e il frastuono degli evviva, e dei trasporti di allegrezza si confondeva col suono festivo delle campane, colle allegre musiche, e lo scoppio dei mortaretti! — Addio, silenzio!

Arrivati sulla Piazza i rappresentanti del Comune e del Clero si fecero innanzi con grave incesso ad ossequiare la vittima della gloria, che in quel momento avrebbe pagato la più bella delle sue statue per trovarsi sulla cima inaccessibile della più alla montagna del globo. Ma le patrie onoranze non erano finite, e fu costretto di subire un discorso «commoventissimo, e molte poetiche composizioni in vari metri che terminarono con un sonetto di Marco Bastasini in dialetto del paese»[12].

Non mancava altro!... ma l'eco di quella festosa e cordiale accoglienza risuonava ancora molti anni dopo la sua morte nelle pagine d'Antonio D'Este che ne faceva un grottesco racconto[13].

Rimase due settimane a Possagno, invocando invano la pace e il riposo. I conviti succedevano ai conviti, i versi piovevano sui lauti banchetti, e i soliti numi dell'Olimpo scendevano dagli Elisi ad onorare l'artista. Il ritorno attraverso l'Italia venne parimenti onorato da continui trionfi, che pesavano a Canova, il quale lamentava il tempo perduto e i lavori sospesi.

Ritornato finalmente in mezzo ai prediletti studi di Roma, il suo genio riprese il volo sublime nelle regioni supreme dell'arte, e diede vita a nuove e immortali creazioni.

XXVIII.

Un alito del genio alacre di Canova, aveva dato l'impulso al genio inerte di Valdrigo. Ripreso il lavoro, e richiamati i modelli, non deponeva la tavolozza che poche ore, per cibarsi o dormire, non usciva più di casa e pareva dominato da uno spirito creatore che sostenesse le sue forze. Serio, concentrato, intento a trattare i pennelli con un'attenzione sostenuta, pareva isolato dal mondo, e reso insensibile ad ogni impressione che non avesse un'influenza diretta al suo scopo. Maddalena raggiante di gioja gli stava di rimpetto silenziosa per non turbare quel sublime raccoglimento, e mentre egli dava gli ultimi tocchi alla tela, essa ammirava sul volto del pittore le traccie d'un'anima soddisfatta dalla coscienza del proprio valore.

Un giorno aveva radunato nella stanza tutti i modelli che collocati nella rispettiva posizione presentavano l'aspetto generale del quadro; tutto ad un tratto Valdrigo saltando in piedi sullo scanno sul quale stava seduto gettò in aria la tavolozza e i pennelli e gridò — basta!

A tal grido, Maddalena che conosceva le ubbie del pittore divenne pallida pallida, e stava certo per cadere svenuta dal dolore d'un nuovo capriccio del bizzarro suo ospite, quando egli soggiunse: — basta, ho finito!

Un profondo sospiro sollevò il cuore oppresso della povera fanciulla, ed una lagrima di gioja le bagnava le guancie, mentre le sue labbra si atteggiavano al più soave sorriso.

I pescatori circondavano il quadro, guardandosi ed ammirandosi riprodotti sulla tela, e lodando il pittore che sempre in piedi sullo scanno dominava le loro teste e rideva allegramente delle ingenue osservazioni, e degli applausi sollevati dal più sincero entusiasmo. Poi saltando sul pavimento li baciava tutti dalla gioja incominciando dalla nonna Marta, e terminando colla Maddalena, la quale al tocco di quelle labbra sentì una burrasca interna e il capogiro, ma egli come al solito non avvedendosi di nulla, stava vuotando le sue tasche sul tavolo, dalle quali uscivano gli ultimi ducati, una bella giustina d'argento, un'osella cogli orli frastagliati e alcuni traeri anneriti e consunti, e invitando Beppo a raccogliere questo suo fondo di cassa gli diceva:

— Invito tutti a pranzo, va a provvedere i bocconi più ghiotti, i vini più morelli, evviva l'arte e l'allegria!... — Evviva Evviva! ripetevano i convitati fra gli applausi universali, e le risa sgangherate che facevano tremare le pareti; e tutti se ne andarono lieti e contenti aspettando l'ora del banchetto; il quale non è a dirsi se fu allegro e clamoroso. Basti il sapere che tutti erano soddisfatti, e il vino buono e abbondante.

Quando la tela fu asciutta, Valdrigo vi distese sopra una bella mano di vernice che fece risortire le velature, e le luci, ed avendo trovato da un intagliatore una magnifica cornice dorata, potè ottenerla a credito colla promessa di pagarla dopo venduto il dipinto, che collocato al suo posto produceva un effetto veramente meraviglioso.

Pochi giorni dopo, il quadro colla sua cornice figurava al balcone d'una delle più belle botteghe di Piazza San Marco, con sotto il nome di Vittore Valdrigo, e attirava da ogni parte i curiosi, che si affollavano per contemplarlo e applaudirlo.

Il pittore penetrava spesso fra la gente, e s'inebbriava del trionfo, maledicendo gli anni sprecati a far nulla. Maddalena volle vedere il quadro esposto al pubblico, v'andò in segreto con una amica, godendo, degli elogi fatti all'artista come d'un bene suo proprio, ma dovette allontanarsi in fretta dagli sguardi delle persone che avevano subito riconosciuto il modello principale, e gli scoccavano degli epigrammi un po' troppo arguti e indiscreti.

Intanto il nome di Valdrigo si diffondeva per Venezia, e l'esposizione del quadro era divenuta un piccolo avvenimento. La folla attirava la folla, tutti volevano vedere l'opera della quale avevano uditi gli elogi, gli artisti discutevano fra loro sui meriti del disegno e del colorito, il popolo ammirava i suoi costumi nazionali riprodotti con inusata verità, e i nobili nelle loro radunanze esaltando il talento di Valdrigo, onoravano la loro classe che lo aveva tratto dalla oscurità, e protetto nei primi passi dell'arte. E si diceva da per tutto: — i nobili sono i benefattori degli artisti, i Falier hanno sostenuto Antonio Canova, gli Orseolo hanno assistito Vittore Valdrigo. — Il museo Farsetti ha cooperato allo sviluppo di due geni che saranno nuova gloria alla patria, i patrizi veneziani mostrarono sempre un amore vivissimo alle arti belle, ne siano prova le chiese, i palazzi e le gallerie che formano di Venezia una meraviglia del mondo.

Molli ricchi patrizi entrarono nella bottega per acquistare il dipinto, il negoziante scriveva il loro nome e rispondeva: — Non so se il quadro sia già venduto, in ogni modo farò noto al pittore il desiderio di vostra eccellenza.

La lista degli aspiranti all'acquisto venne infatti presentata a Valdrigo, il quale; percorrendola rapidamente, si arrestò tutto ad un tratto davanti al nome del conte Alberto Leoni. Era evidente che acquistando il primo lavoro di Valdrigo, il conte Leoni subiva una influenza. Naturalmente gli Orseolo gli avevano lasciato ignorare la scena del boschetto, e Don Lio celebrando nel suo Epitalamio il candore della sposa, era convinto della necessità d'usare una tale licenza poetica, ma ne sogghignava maliziosamente sottecchi.

Ma certo il nobile carattere di Silvia consigliando al marito l'acquisto del quadro, intendeva soddisfare un dovere di giustizia, dimostrando a Vittore che essa non era complice della calunnia che lo aveva colpito. — Il sentimento delicato della donna riparava i torti dell'altero casato, riabilitando l'onestà offesa ingiustamente, e rendendo omaggio al genio derelitto che trionfava d'ogni ostacolo colla sola forza del proprio valore.

Che se scrutando i più reconditi ripostigli di quel cuore generoso, si avesse scoperto un istinto più intimo che animava i suoi nobili impulsi, la purezza d'un tale sentimento non avrebbe punto offuscata la virtù, nè scemato il pregio della Sua nobile condotta.

Valdrigo comprese il significato di quel nome, ne fu commosso nel profondo del cuore, e ordinò che il quadro venisse subito portato in casa del conte Leoni.

All'indomani il giovane pittore riceveva un bel gruppetto di zecchini accompagnato da una lettera di elogi, che terminavano colla preghiera al pittore, di volersi recare al palazzo Leoni per collocare egli stesso il suo quadro nella luce più vantaggiosa.

Dopo lunghe meditazioni sulle sue nuove fortune, Vittore pensò a sua madre, a' suoi ospiti, a sè stesso. Mandò a Saltore del denaro e dei doni, fece un bel presente a Maddalena, e chiamato un sarto che vestiva i più eleganti damerini di Venezia, gli commise un vestito completo d'ultimo gusto, coi bottoni diamantati. Uno dei millecinquecento parrucchieri[14] che in quell'epoca acconciavano le teste dei veneziani, gli pettinò una zazzera incipriata da zerbinotto vaporoso, un calzolajo rinomato gli calzò un pajo di scarpini colle fibbie, un cappellajo gli fornì una leggiadra schiaccina da tenere sotto il braccio, ed ecco in pochi giorni un uomo rifatto e degno della più eletta società. Alcuni suoi conoscenti, che pochi giorni prima scontrandolo per via lo salutavano appena, vedendolo in così splendido arnese gli facevano delle profonde riverenze, e i suoi fornitori che dapprima lo tormentavano per un minimo credito, gli andavano poi incontro per offrirgli del denaro. Così va il mondo! malgrado il proverbio che l'abito non fa il monaco.

Trovatosi in tutto punto, Valdrigo accorse trepidante al palazzo Leoni. Nel salire le ampie scale gli vacillavano le ginocchia per modo che dovette arrestarsi alquanto a prender lena. Il cuore gli palpitava con violenza e gli battevano i polsi al punto da offuscargli la vista. Un servo lo condusse dall'entrata all'anticamera, era un vecchio cameriere in gran livrea gallonata, gli si fece incontro con un profondo inchino, e chiestogli il nome gli aperse l'uscio della stanza vicina, annunziando:

— L'illustrissimo signor Vittore Valdrigo.

Vittore si avanzò lentamente, il cameriere chiuse l'uscio. Un soavissimo profumo dominava la tiepida atmosfera, debolmente rischiarata da una luce rosea, trapelante attraverso pesanti cortinaggi. Nel fondo della stanza, Silvia stava seduta in un ampio seggiolone e leggeva. Il libro le cadde dalle mani, mentre Valdrigo rispettoso s'inchinava e con voce tremante balbettava un complimento. Essa con un cenno della mano lo invitava a sedere, quando aprendosi una porta, entrò il conte Leoni. Silvia presentò il pittore al marito, il quale fattosegli incontro col tratto d'un gentiluomo avvezzo alle maniere di Corte, animò la timida esitazione del giovane colla più benevola accoglienza, e lo colmò d'elogi e d'incoraggianti promesse. Dopo breve conversazione lo condusse a visitare la galleria, ove Valdrigo collocò il suo dipinto; e invitandolo a pranzo per un altro giorno, lo accompagnò fino alla porla della scala, ove prese congedo con un cortese complimento.

Il giorno del pranzo si trovò in un'ampia sala in mezzo alla più scelta nobiltà, fra la quale gli Orseolo, come lo avessero lasciato amichevolmente il giorno prima, lo trattarono con famigliare cortesia, e Don Lio che adorava sempre l'astro nascente, volle onorare il pittore riabilitato, con un sonetto, nel quale chiamava Valdrigo figlio di Minerva, e lo invitava a salire sul Pegaso per recarsi in Elicona a visitare Apollo e le Muse. Valdrigo lo ringraziava colle labbra, ma col cuore lo mandava al diavolo co' suoi sonetti granelleschi e mitologici.

Ritornava spesso al palazzo colla speranza d'incontrarsi solo con Silvia, ma la trovava sempre circondata dalle visite o dai parenti; fosse il caso o un progetto meditato, questo poi era un mistero.

Maddalena sapeva molte cose dallo stesso Valdrigo ed altre ne indovinava, e fremeva. Ma con quale diritto sarebbesi ella opposta alle visite del pittore in casa Leoni?... Chiudeva dunque in seno il dispetto e la gelosia e sperava che la condizione elevata di Silvia l'avrebbe tenuta sempre lontana dall'intimità del pittore, il quale stanco delle vane aspirazioni e umiliato dal disinganno, avrebbe finalmente aperti gli occhi e trovato nella sua condizione una creatura degna di lui, ambiziosa del suo affetto, che ad altro non aspirava che a renderlo felice e beato coi trasporti dell'amore, colle gioje della famiglia.

Ma ben altre speranze alimentava l'amore di Valdrigo, irritato dagli ostacoli superati, acceso dalle nuove probabilità, fomentato dalle frequenti visite, nelle quali i suoi occhi incontrandosi con quelli di Silvia si scambiavano delle ferite invano dissimulate da lei, sotto un aspetto di affettata indifferenza. Per aumentare le occasioni di vederla, Valdrigo s'era dato intieramente alla vita della migliore società, e si faceva presentare nelle case frequentate dalla famiglia Leoni, e fra le altre ebbe la somma fortuna di conoscere e di apprezzare la più distinta riunione di quei tempi, la conversazione d'Elisabetta Marini.

XXIX.

Elisabetta Teotocchi-Marini, che fu poi Isabella Albrizzi, donna di sangue e di bellezza greca, veneziana d'indole e di spirito, accoglieva a circolo in sua casa un'eletta società. Le sue conversazioni di Venezia possono compararsi ai celebrali ritrovi del famoso palazzo Rambouillet di Parigi. Isabella Albrizzi ebbe molte rassomiglianze colla illustre marchese, la quale, scrive Tallement de Reaux[15], fu «bella, saggia e ragionevole.» D'Isabella scrive Ippolito Pindemonte «saggia, bella, amabil donna, di caldo cuore e d'ingegno felice.» Un francese[16] asserisce che la Marchesa fu «ammirabile, buona, dolce, benefica, cortese e aveva lo spirito giusto e retto.» Un italiano[17] assicura che Isabella aveva «l'animo benefico, e che l'avvenenza della sua persona andava di pari passo colla coltura e colle grazie dello spirito.»

Madama di Rambouillet, amava passionatamente gli uomini di spirito[18]; però nulla d'importante lasciò scritto; l'Albrizzi circondata sempre dagli uomini più dotti e più stimati della sua epoca, si occupò di letteratura nazionale e straniera, e pubblicò alcuni scritti d'immaginazione e di critica assai stimati al suo tempo. Lord Byron la proclamò la Staël di Venezia[19]. Dobbiamo poi osservare per onore d'Italia, che la famosa marchesa di Rambouillet, della cui grazia e cortesia tanto scrissero i francesi, fu di puro sangue italiano, essendo stato suo padre Vivone Pisani, e sua madre una Savelli[20].

E quivi gioverà rilevare una cosa, fino ad ora poco o nulla rimarcata, ed è che la tanto celebrata pulitezza dei francesi, l'eleganza, la cortesia delle loro maniere, che pure gode ancora l'ammirazione del mondo, essi l'ebbero, come molte altre cose, in retaggio dagli italiani, e di questo ne conviene il celebre Vittore Cousin, il quale dichiara che la pulitezza e la leggiadria dei costumi furono apportate in Francia da Caterina de' Medici[21].

Alle barbare guerre civili, alla licenza dei costumi dei tempi di Enrico IV succedette in Francia il gusto delle cose di spirito, dei piaceri delicati e delle occupazioni eleganti. Il potente Richelieu coltivò questo fiore rinascente delle belle lettere e dei gentili costumi, e nel palazzo Rambouillet, giunse al sommo splendore ed alla massima fragranza. Nella splendida sala azzurra[22] si radunavano le persone più distinte per il bel garbo, lo spirito e la coltura, e vi venivano accolti con pari cortesia i principi e le principesse di sangue reale, ed i modesti letterati.

A Venezia la conversazione d'Isabella si componeva di quanto di più illustre potevano vantare il patriziato, le scienze, le lettere, le arti belle. La sua stanza di ricevimento era un Areopago, nel quale sedevano a giudici e dettavano leggi non solo quanti di più famosi vantava l'Italia, ma l'Europa.

La società del palazzo Rambouillet, giunta al sommo della grazia, cadde nell'affettato e meritossi la sferza di Molière che colpì senza pietà le Preziose ridicole. Le conversazioni dell'Albrizzi si mantennero senza degenerare fino alla morte d'Isabella, e in mezzo agli stravizi d'una vergognosa decadenza, furono come un'oasi di sociale urbanità e di gentili costumi. Goldoni non trovò argomenti che si prestassero al ridicolo nelle elette adunanze di Venezia, e dovette scendere fra il basso popolo per iscoprire le Donne curiose.

Sul finire del secolo scorso le conversazioni della nobildonna Elisabetta Marini brillavano di vivacissima luce. L'emigrazione francese accolta cortesemente dall'ospitalità veneziana, vi univa lo spirito di Parigi al brio garbato di Venezia.

Vispi e bizzarri caratteri forestieri, accanto di garbati e dotti italiani formavano un circolo originale, animatissimo. La saggia Isabella «tutta amore e indulgenza per tutti»[23], colle maniere cortesi e la geniale sua voce, dominava quegli spiriti diversi, trovava per ciascuno una parola gentile, frenava i troppo audaci con uno sguardo pietoso, animava i timidi con una lode incoraggiante, ed eccitava lo spirito di tutti con un baleno degli occhi bruni e scintillanti.

I celebri Maury e Lally Tollendal sfogavano le loro collere contro la rivoluzione francese, mentre un giovane visconte rovinato dalla confisca, cercava di consolare le noje dell'esiglio facendo la corte alle gentildonne di Venezia, colla speranza che il prestigio delle sue sventure politiche lo attirasse nella via delle buone fortune galanti. Ma la sua ignoranza della lingua italiana e dei costumi veneziani, lo rendeva un personaggio ridicolo, e l'Isabella con prudenti consigli lo compensava dei disinganni d'amore.

Crussol e Polignac consolavano colle loro promesse di prossime vittorie la elegante marchesa De Groslier, amica calunniata della regina Maria-Antonietta, cantata da Voltaire, il quale conquiso dallo spirito di lei, le offerse di appropriarsi quell'oggetto della sua dimora di Ferney, che meglio le piacesse, ed essa scelse e conservò la penna dell'illustre filosofo. Era poetessa ammirata in Francia e pittrice distinta, Canova la chiamò il Raffaello dei fiori. Sedeva fra i suoi compatriotti il marchese di Maisonfort, vero tipo dell'emigrato francese, dice Valéry, per la sua indolenza, per la leggerezza dei costumi, e l'Isabella colla sua naturale benevolenza lo giudicava «un francese di Luigi XIV, per la preziosa gentilezza ed urbanità, per la vivezza e la rapidità delle idee, dotto senza intolleranza, ingegnoso senza artifizio, fornito di squisitissimo gusto; pel cui animo affettuosissimo, era vera morte l'indifferenza, vita l'amore»[24]. Rimarchevole fra gli originali era D'Hancarville «con parrucca in testa per forma e per colore bizzarra, con tabarro rovescio indosso e tutto cadente da un lato, con curva schiena e passo frettoloso....»[25] Ignorava il suo secolo, e viveva nel passato che conosceva a meraviglia. Prodigo ed affabile nella goduta opulenza, era sobrio ed altero nella povertà. Antiquario, pubblicò opere erudite; sibarita diede alla luce un libro osceno.

Il commendatore di Châteauneuf, costantemente distratto da sembrare stupido, era invece dotto e studioso. Avido di lodi, queste non gli sembravano mai esagerate. Spingeva la sua mania di declamare la tragedia fino a rendersi ridicolo. Un giorno sorpreso a gesticolare fra due porte, gli fu chiesto se si sentisse male: — non è niente, rispose, mi agito per ispirarmi.

Il cavaliere Vivante-Denon, gentiluomo ordinario di camera di Luigi XV e Luigi XVI, perseguitato come aristocratico in Francia, emigrò a Venezia ove venne perseguitato come giacobino[26]. Diplomatico, artista, letterato «ameno e felice parlatore sempre vero e naturale» l'Isabella comparandolo a Voltaire al quale rassomigliava, trovava comune ai due francesi «lo spirito, la vivacità, il movimento e quel non so che di malizioso nello sguardo che tanto si teme e che pur tanto piace[27]

Ma lasciando nell'ombra i meno illustri stranieri, passiamo agli italiani. Fra i primi apparisce la curiosa persona d'Ippolito Pindemonte. Ora poeta «acceso d'estro Febeo» ora macchina di regolari ed invariabili abitudini. Viaggiatore e misantropo, platonicamente innamorato della saggia Isabella. «Non mai scompagnato da lieto e soavissimo sorriso, il suo metodo di vita è così inalterabilmente uniforme, che non si sa bene distinguere, dice l'Albrizzi[28], s'egli siasi fatto schiavo del tempo, o se abbia reso il tempo schiavo di sè.» Ascoltava attentamente un discorso interessante, ma sul più bello della narrazione, udendo scoccare l'ora da lui preventivamente fissata alla partenza, si levava ed usciva, abbandonando ad un tratto il narratore, sbalordito ed offeso. La cortese Isabella lo scusava dicendo: — «Egli va a dipingersi»[29], volendo dire che andava a scrivere i suoi versi, dai quali traspariva chiaramente la sua indole mite e indolente. Reduce da lunghi viaggi in Italia, Francia, Inghilterra e Germania, scrisse un lungo carme per burlarsi dei viaggiatori, e persuadere la gente a non uscire di casa propria. Egli ingenuamente confessa che «il desiderio delle cose lontane, il tedio delle vicine e la vaghezza di raccontare un dì sul patrio fiume le meraviglie viste, lo condusse fuori de' suoi colli e gli fece varcare i monti nevosi. «Ahi! quale errore!...» egli esclama, e faceva giuramento ai suoi colli romiti, alle brune foreste, alle argentee fonti, di non più partire. Ardeva incendio di guerra per tutto, l'Europa si destava dal lungo torpore, i popoli gridavano all'armi! all'armi! ed egli ritiravasi «nelle valli segrete, nei taciti boschi, fra i suoi riposi e gli ozii tranquilli, fra i buoni agricoltori e l'innocente popolo degli augelletti e degli armenti, e in compagnia delle celesti muse a vivere una vita secura, erma, pensosa, e sparsa di pensieri melanconici»[30]. Però quando egli era in vena di raccontare, rammentava le memorie delle sue peregrinazioni, il silenzio dominava la sala, e tutti pendevano dal suo labbro gentile. Essendo vissuto a Parigi famigliare all'Alfieri, egli narrava gli strani capricci e gli slanci intemperanti del famoso Astigiano, e l'affabile bontà della sua nobile amica Luisa Stolberg contessa d'Albany, che gli raddolciva l'animo amareggiato e sapeva farsi amare teneramente da quell'anima fiera. Il molle e verecondo Ippolito correggeva talvolta gli scritti ardenti e robusti del tragico, il quale poi presentava il suo censore ai conoscenti, dicendo: — «Ecco la mia lavandaja»[31].

Ippolito raccontava motteggiando come lo scrittore che tanto in prosa che in verso declamò contro la tirannide, avesse poi fraintesa la rivoluzione che si proponeva di abbatterla proclamando i diritti dell'uomo. Quel movimento che doveva rovesciare tanti troni e sconvolgere l'Europa, Alfieri lo chiamava «una tragica farsa»[32] e si andava lamentando che «gli operai della tipografia del Didot consumavano le intere giornate a leggere gazzette e a far leggi, invece di occuparsi a comporre, correggere e tirare le dovute stampe delle sue tragedie»[33]. Irritato abbandonava gli studi e correva in Inghilterra a comperare cavalli, e ne comperava quattordici, perchè avendo scritto quattordici tragedie, calcolava d'aver guadagnato un cavallo per ciascheduna[34]. Ben inteso guadagnato moralmente, che del resto pagava colle rendite delle sue terre i cavalli e le stampe, perchè col ricavato dei suoi lavori letterari non avrebbe potuto pagare un asino, vogliasi pure vecchio, ombroso e restio. — L'Isabella lo diceva «una divinità corrucciata, nel cui cuore ogni passione diventa tempesta, divenuto atrabiliare e furioso a colpa del secolo, come uomo condannato a vivere fra le serpi e le tigri»[35].

Quando il discorso cadeva sugli illustri italiani che vivevano a Parigi, il Denon si metteva a parlare di Goldoni che aveva conosciuto alla corte di Versaglia. Un altro originale!... che avea paura del calore all'inverno e del freddo all'estate[36], e che mettendosi a letto componeva un dizionario del dialetto veneziano «per dormir facilmente.» Del resto le principesse amavano la bonarietà del loro maestro d'italiano, e dopo d'averlo retribuito largamente, gl'insegnavano anche il francese per giunta.

Goldoni le faceva leggere i classici italiani, prosatori o poeti, egli balbettava una cattiva traduzione, le principesse la correggevano con grazia ed eleganza, e il maestro imparava più che non poteva insegnare[37]. Quando dava la sua lezione a madama Elisabetta, sorella del re, Goldoni le faceva leggere le sue commedie. La principessa, una dama d'onore e una dama di compagnia, recitavano la parte delle donne, Goldoni la parte degli uomini e ridevano di cuore[38].

In quell'epoca il Delfino essendo costantemente indisposto, questa disgrazia unita ai meriti dell'autore delle trentadue disgrazie d'Arlecchino, gli valse il favore d'essere alloggiato nella reale dimora di Versaglia nella stanza dell'ostetrico, i cui servizi diventavano inutili.

Colà Goldoni compose una cantata italiana che posta in musica venne eseguila dalle sue reali scolare. La delfina suonava il clavicembalo, madama Adelaide accompagnava col violino, madamigella Hardy cantava; Goldoni ricevette i complimenti di tutta la corte, e quella sera il Delfino cantò davanti al poeta italiano Il pellegrino al Sepolcro.

Qualche tempo dopo quella lieta serata il delfino moriva a Fontainebleau, la delfina non tardava a seguirlo nella tomba, il resto della famiglia reale finì sul patibolo o vagò ramingando per l'Europa!... — Il povero poeta italiano morì negletto e lontano dall'Italia nella quale non aveva trovato da vivere, malgrado le cento cinquanta commedie colle quali si era studiato di dipingere i costumi della patria, e di rallegrare un pubblico ingrato.

Le avventure di Goldoni mettevano il discorso sul suo competitore Carlo Gozzi, dal quale si passava naturalmente al fratello. Allora la voce magistrale del procuratore di San Marco Andrea Tron, prendeva la parola dicendo: — Gaspare Gozzi e Carlo Goldoni ebbero qualche cosa di comune in vecchiaja; entrambi furono consolati da donne francesi, Goldoni da principesse, Gozzi da una modista, la quale però più felice delle principesse non fu mai minacciata dal patibolo, nè amareggiata dalla perdita violenta dei suoi cari.

Sara Cenet prodigò le sue cure al vecchio Gaspare fino all'ora estrema, e lo pianse defunto, ma le povere principesse separate dal loro precettore, dalla morte o dall'esiglio, dovettero abbandonarlo in balìa del destino, ed egli forse udì tremando fra lo squallore di Parigi le grida dei forsennati che trascinavano al patibolo i suoi protettori.

Andrea Tron rammentava le ultime lettere indirizzate da Gaspare Gozzi alla nobildonna Caterina sua moglie[39].

L'illustre letterato si piaceva molto a Noventa, ove alla bottega del ponte scontrava gli eleganti di Venezia, ma in mezzo al fracasso di tante grandezze ci voleva più d'un'ora per ottenere un'acqua di limone, pregando in ginocchioni[40].

L'Eccellentissimo procuratore Morosini, lo vedeva con molta cordialità, ed egli attirato dal vocione dell'eccellentissimo Valaresso andava a complimentarlo.

La marchesina arrivava colla sua carrozza, guidando ella stessa sei cavalli «come l'aurora»[41]. Al dopo pranzo c'era il giuoco di pallone, alla sera conversazione in casa Vendramini»[42].

Egli si compassionava di continuo, si confessava: «Un barbero zoppo che tira coll'alzaia i burchielli[43], una delle più celebri carogne della terra»[44].

«Un povero vecchio magagnato»[45]. Però la quiete e l'aria balsamica dei campi gli ristabiliva la salute, e faceva le sue cavalcate «sopra d'una rozza di quelle che tirano le barche»[46], un «suo coetaneo» come egli diceva, «un contemporaneo al cavallo di Troia»[47].

Ridotto «coi nervi di lasagne cotte»[48], «avendo tutte le coscie come quelle di Giobbe»[49] immagrito «come le mummie del deserto, movendosi a stento, tirando appena il fiato»[50] viveva ancora fra i libri, la sua mente serena conservava tutto il vigore della gioventù, e lo spirito vivace, arguto e faceto lo accompagnò fino all'ultima ora.

Ma un originale più bizzarro, era Carlo suo fratello, l'avversario di Goldoni. Egli sosteneva che la Putta Onorata del suo rivale, non era nè onorata nè onorevole[51], e incominciò a burlarsi delle Spose Persiane, delle «bestiali Ircane, dei sozzi Eunuchi, delle Curcume nefande» e pubblicò un libretto burlesco sulle novità teatrali del giorno. Goldoni, in una composizione stampata in omaggio del patrizio Veniero che ritornava da Bergamo ove era stato Rettore, trattava la satira di Gozzi da «rancidume, da ululato da cane, da spaventacchio inetto e insoffribile.» Così incominciò quella guerra accanita sostenuta da Gozzi alla testa dei Granelleschi, contro Goldoni e il suo teatro. La bottega del librajo Paolo Colombani, ove si pubblicavano gli atti della famosa Accademia, era il centro delle operazioni bellicose, e colà si radunavano i nemici di Goldoni accusandolo di portare sulla scena le trivialità e le bassezze popolari, e chiamandolo «logoratore di penne, e diluvio d'inchiostro»[52]. I Goldoniani alla lor volta dichiaravano i Granelleschi «maldicenti, ed ingiusti.»

Goldoni indicava il concorso popolare come una prova del suo merito; Gozzi per confutarlo promise di farsi applaudire con una commedia tratta da una fiaba che le nonne raccontavano ai loro nipotini. Scrisse e fece rappresentare: — L'amore alle tre melarancie, e la gente accorse in folla ed applaudì. Incoraggiato dal successo, Gozzi si diede tutto al Teatro, diventò il compare del vecchio arlecchino Sacchi, e l'amico di tutti gli attori, l'innamorato della prima donna Teodora Ricci. Vissuto lunghi anni fra le quinte del teatro, tutto ad un tratto gli vennero a noja le scene, e chiusa la porta in faccia ai comici, non volle più sentirne a parlare. Ma chi non lo conosce a Venezia? soggiungeva Andrea Tron. Grande della persona, se ne lamenta «pel molto panno che occorre ne' suoi tabarri»[53]. Colle ciglia aggrottate, il passo lento, cerca taciturno i passeggi solitari[54]. Litigatore instancabile al foro, e amante dei piaceri a buon mercato, passa la mattina in mezzo dei legali, degli avvocati, dei notaj, e poi va a merenda alla Giudecca, a Campalto, alla Malcontenta, a Murano, e nelle altre Isolette, con qualche amico suo pari, spendendo trenta soldoni per testa. — Sarebbe felice, se una strana idea non gli tormentesse il cervello. Egli ha fissato che un fatale influsso di contrattempi preseguiti la sua esistenza. Questa stravaganza è sovente avvalorata dai fatti. Talvolta mentre egli cammina solitario per Venezia lo prendono in iscambio per un altro, e lo tormentano «con doglianze, ringraziamenti, richieste, prestiti, querimonie»[55], egli giura, protesta che non è il tale e non gli credono. Una sera egli passeggiava in Piazza San Marco al chiarore della luna col patrizio Francesco Gritti, si sente dare un pugno nella schiena, e trattare da asino: lo avevano preso in isbaglio[56].

Un'altra volta lo baciano ed abbracciano con trasporto, ed egli non può svincolarsi da quelle noiose dimostrazioni dovute ad un altro. Se esce di casa senza ombrello, una pioggia dirotta lo coglie, si ferma lunghe ore sotto un portico. Vedendo che il diluvio non cessa, spinto dall'impazienza, si sottomette al destino, e corre a casa grondante d'acqua; appena aperto l'uscio e posto in salvo, cessa tosto la pioggia, si diradano le nubi, e il sole che risplende nel cielo, sembra sorridere al suo lungo fastidio[57].

Se vuole studiare, persone noiose lo interrompono; quando incomincia a radersi la barba, lo chiamano in fretta per urgenti negozii, ed è costretto ad uscir di casa con la barba rasa per metà[58]. Sovente sorpreso per istrada da una furiosa necessità va cercando qualche solitaria viottola per sgravarsi del molesto bisogno, ma appena avvicinato all'angolo tanto desiderato, si apre un uscio ed escono due signore, passa in fretta in un altro cantuccio, s'apre un'altra porta, escono altre signore, egli corre invano qua e là e trova sempre contrattempi ed intoppi[59]. Ma queste piccole disgrazie non sono che fastidiosi moscherini, egli dice; il cattivo influsso lo tormenta in cose maggiori. Una volta fra le altre, mentre egli trovavasi in villa nel novembre inoltrato, il patrizio Gasparo Bragadino volendo festeggiare suo fratello creato Patriarca di Venezia, e trovandosi ristretto di fabbricato, ebbe l'idea di gettare un ponticello dalla sua casa in quella del Gozzi che gli dimorava dirimpetto, e diede una splendida festa da ballo in casa del letterato assente, il quale giungendo dalla campagna stanco e mezzo morto dal freddo e dal sonno, trovò questa bella sorpresa, e dopo di aver ascoltate le riverenti scuse del vicino indiscreto, è costretto di andarsi a coricare alla locanda, e di passarvi tre giorni![60]

I Veneziani ridevano de' suoi giusti lamenti, e trovandolo per via, collo sguardo bieco e sospettoso, se lo mostravano a dito, e questo era l'ultimo contrattempo che affliggeva quell'uomo dabbene.

Ai viaggi del Pindemonte, alle relazioni del Denon, ai racconti del procuratore Tron succedevano nelle conversazioni d'Isabella vivacissimi discorsi del Dottore Francesco Aglietti, acutissimo ingegno, medico, giornalista, bibliofilo, operosissimo, che esercitando la medicina con una numerosa clientela, trovava ancora il tempo di pubblicare due fogli periodici — Il giornale per servire alla storia della medicina, e le Memorie per servire alla storia letteraria e civile. — L'Isabella diceva «che la maschia giovialità del suo spirito, le sue universali cognizioni, la sua facondia, fan sì che il suo conversare venga sempre condito da preziosa amenità, egli favellava dottamente di mille e mille cose diverse, e portava indosso tanti libri, quante aveva saccoccie nei vestiti: — e la sua bella, vegeta e robusta sanità, era quasi insegna d'uomo che di ricca merce abbondando, ad altri magnanimo la dispensa»[61].

Accanto dell'erudito parlatore, sedeva sovente un «genio timido» come lo giudicava Isabella, «un preticciuolo in abito schietto e disadorno, freddo, taciturno, imbarazzato di sè e degli altri.»

Ma eccitato a parlare «saltava fuori con uno spirito vivo, focoso, rapidissimo, il dolce far niente gli stava sempre sulle labbra, pure l'immaginazione sua, e la sua penna non avevano posa. Il suo idolo era il bello morale; capo e centro de' suoi affetti l'amore. Applausi, titoli, onori letterari erano per lui noje, imbarazzi e torture; amare ed essere amato, ecco l'unica ambizione di quel cuore soavissimo»[62]. Avendo pubblicata una traduzione d'Omero, qualche tempo dopo giunse da Roma un figurino che rappresentava la testa dell'antico poeta greco, sopra un corpo vestito alla foggia francese, con sotto l'iscrizione Omero Tradotto[63].

I nostri lettori hanno riconosciuto l'abate professore Melchiorre Cesarotti, il quale un giorno presentò alla cortese Isabella un suo scolare, autore d'una tragedia inedita, ma giovane di grandi speranze.

Essa disse di lui che pareva «un rozzo selvaggio fra i filosofi d'allora, di fervido e rapido ingegno, nudrito di sublimi e forti idee, adoratore delle cose patrie, disprezzatore delle straniere oltre il giusto»[64]. Il suo nome ancora sconosciuto era Ugo Foscolo, e così egli dipingeva sè stesso: «Di volto non bello ma stravagante e d'un'aria libera; di crini non biondi ma rossi; di naso aquilino, ma non piccolo e non grande; d'occhi mediocri, ma vivi; di fronte ampia, di ciglia bionde e grosse, e di mento ritondo. La mia statura non è alta, ma mi si dice che deggio crescere; tutte le mie membra sono ben formate dalla natura, e tutte hanno del rotondo e del grosso. Il portamento non scopre nobiltà, nè letteratura, ma è agitato trascuratamente[65]

All'età di sedici anni Foscolo parlava già «dei suoi giorni perseguitaii ed afflitti[66];» a diciott'anni scriveva ad un amico: «le sventure mi oppressero, le immagini di piacere si dileguarono, e vanno languendo persin le speranze;» era nato per la solitudine, pativa il male di melanconia[67], leggeva l' Ossian, la Nina pazza per amore, e piangeva, si dichiarava «infelice, abbandonato, compagno delle sciagure, e menava gli egri giorni fra la solitudine e il pianto[68]. Il giovane Ugo amava teneramente il Cesarotti, e andava a trovarlo per rompere le sue «cupe meditazioni»[69], e parlando di questo suo maestro scriveva: «la luce di quest'angelo è tutelare e vivificante, la presenza di questo uomo è consolatrice e soave»[70]. Piacque alla saggia Isabella lo strano giovinetto, e conosciuta la sua indole, gli diede un consiglio opportuno, ch'egli ebbe a rammentare più tardi — «volere fortemente e chiedere dolcemente»[71]. — Le donne sublimi, hanno dei detti memorabili per le persone alle quali prendono interesse. Felici coloro che incontrandole nel cammino della vita, sanno meritare la loro amicizia.

Frequentava le conversazioni di casa Marini il grave e dotto abate Morelli, eletto dai Veneti Senatori a custode della Ducale Biblioteca di San Marco; il quale «senza essere mai uscito di Venezia, conosceva le grandi biblioteche di tutto il mondo, i più preziosi musei dell'antichità, i più doviziosi gabinetti di medaglie, le più insigni gallerie di pittura, e ne parlava con profonda dottrina»[72]. Era fra i più assidui Aurelio De Giorgi Bertola, poeta di tempra molle, amabile, ma volubile in amore: «si direbbe, scriveva l'Isabella, che la natura volle fare di lui un uomo perfetto, ma si pentì a mezzo lavoro»[73].

Fracesco Franceshinis seduto in un cantuccio ascoltava tutti, ed evitava di prender parte al discorso; d'ingegno finissimo, di coltura somma, capace di molte cose, non fece mai nulla, aspirando sempre ad una perfezione impossibile[74].

Lauro Quirini, gentiluomo di maniere aperte e cordiali, prendeva parte alle discussioni più animate, per consigliare l'indulgenza. Di carattere gioviale «trovava sempre qualche bene nel male, e niun male nel bene.» Amava tutti i piaceri facili con moderazione discreta e sempre eguale; metteva le donne, il teatro, la tavola sullo stesso rango, nè sospettava punto di far cosa inconveniente[75]. Il cavaliere Zulian, uno dei primi sostenitori di Canova, parlava con ammirazione del suo protetto, e l'Isabella, esaltando i meriti e le virtù dell'esimio scultore lo proclamava «sommo artista, eccellente cittadino, eccellente figlio, eccellente fratello, eccellentissimo amico» e riteneva che non avrebbe potuto esprimere nelle sue statue così mirabilmente tante morali virtù, se non le avesse avute tutte nell'animo[76].

Le dame che frequentavano la conversazione erano fra le più distinte di Venezia, amabili, vezzose, vivacissime. Che se la coltura e il brio d'Isabella attirava di preferenza in sua casa i più illustri letterati, molte altre gentildonne presiedevano pure a geniali ritrovi nei loro splendidi palazzi, e spiegavano tutte le grazie del loro sesso, e lo spirito particolare delle veneziane, ammirate non solo dai propri concittadini, ma bensì dai più cospicui forestieri, dai principi e dai sovrani che visitavano la gemma dell'Adriatico.

La procuratessa Tron, quando l'imperatore Giuseppe II visitò Venezia cogli arciduchi suoi fratelli, Massimiliano, Ferdinando e il Granduca di Toscana, invitò questi principi ad un ballo improvvisato in ventiquattr'ore, al quale intervennero circa duecento gentildonne.

Il fascino della bellezza gareggiava in alcune col prestigio dello spirito a tal punto che l'Imperatore rimase cinque ore in piedi davanti a Contarina Barbarigo, assorto in una gara di galanti e geniali discorsi.

Cornelia Barbaro-Gritti, poetessa, e madre di brioso poeta, riceveva in casa i più illustri ingegni del suo tempo, fra i quali vantava amici Algarotti, Frugoni, Metastasio e Goldoni. E pure di uomini preclari si circondava la bella e briosa gentildonna Giustina Michiel-Renier, di onoranda memoria pel caldo amore portato alla cara sua patria da lei nobilmente illustrata col racconto delle sue feste, dei suoi costumi e delle sue glorie. Nè si può lasciare in obblìo la vezzosa contessa Benzoni, il modello che servì ad Antonio Lamberti per dipingere la Biondina in gondoletta, nella famosa canzone. Dotata del più fino e piccante spirito veneziano, meritò l'amicizia e gli omaggi di Lord Byron, al quale faceva udire sovente aspre verità col gentile dialetto, che in sua bocca acquistava una grazia incantevole.

Tanta luce di spirito e d'urbanità spandeva i suoi raggi nelle vicine provincie che vantarono donne colte e cortesi, fra le quali resteranno nelle memorie contemporanee, i nomi della contessa Elisabetta Spineda di Treviso, e di Francesca Capodilista di Padova, e Verona ricorderà sempre con giusto orgoglio le riunioni di Silvia Verza, e dell'imcomparabile Anna Serego Alighieri. Le conversazioni di quei tempi agevolavano i sociali rapporti, erano decoro alla città, esempio ai giovani di modi garbati, di colti ed onorevoli costumi.

XXX.

L'irresistibile attrattiva di tanti nomi illustri, e di tanti bizzarri caratteri, ci trattenne forse soverchiamente nella conversazione della gentildonna Marin, ove Valdrigo ebbe campo di conoscere gli uomini più celebri del suo tempo; ma ciò ch'egli ricercava di preferenza in quelle scelte e numerose riunioni, erano gli occhi di Silvia, le stelle del suo firmamento, le luci che illuminavano la sua vita.

Ai suoi sguardi concentrati in un punto solo sfuggivano le curiosità della sala. Egli non osservava la puntualità minuziosa di Pindemonte, nè la flemma di Cesarotti, nè la parrucca d'Hancarville che eccitava l'ilarità degli astanti; nè poteva apprezzare le grazie d'Isabella, nè i tratti di spirito che volavano per l'aria come fuochi d'artificio. L'innamorato non vede al mondo che una donna.

Silvia, accortasi più volte dell'assiduità di Valdrigo, incominciava a temere che l'imprudenza del giovane potesse comprometterla agli occhi del mondo, e aspettava un'occasione favorevole per consigliarlo a vegliare sopra sè stesso e a non dimenticarsi ch'ella era la moglie del conte Leoni. Ma o l'occasione le mancava, o giunto il momento propizio le veniva meno il coraggio e si taceva. D'altra parte Valdrigo aspirava ardentemente a un lungo abboccamento, e sentiva un bisogno irresistibile di dare sfogo ai sentimenti repressi del suo animo, ma quando per qualche istante giungeva a sedersele vicino gli mancavano le parole e rimaneva muto. Però le cose erano giunte a un tal punto, che una spiegazione era diventata necessaria. Ad un torrente ingrossato bisogna opporre in tempo degli argini affinchè non abbia a traboccare con danno irreparabile, rompendo i troppo tardi ripari. È vero che gli occhi avevano parlato e le anime compreso, ma quel linguaggio misterioso è talora uno slancio irrefrenato, una promessa vaga e indeterminata, un'imprudenza lontana dal pericolo che poi la ragione condanna ed il labbro sconfessa. Bisognava dunque spiegarsi, ma era evidente che le spiegazioni non sarebbero nè brevi nè calme. Silvia amava Vittore, ma non voleva convenirne, conosceva di essersi tradita e voleva protestare, negando colle parole l'espressione degli occhi; Vittore aveva espresso il suo affetto coll'intensità degli sguardi, e voleva ad ogni costo confermare colla voce i sentimenti del cuore. Dunque entrambi erano decisi di metter fine all'ansietà che li opprimeva, e mentre Vittore meditava il modo di chiedere un colloquio, Silvia lo aspettava, ben decisa di accordarlo. — Ci sarà una lotta, diceva Silvia fra sè, ma avrò il coraggio e la forza di combattere e vincere. — Ci sarà una lotta, pensava Valdrigo, ma essa mi ama e il trionfo è sicuro!

La difficoltà stava nel trovare il tempo necessario e il luogo opportuno, perchè il palazzo Leoni era costantemente frequentato dalle visite e il conte andava e veniva per la casa a tutte le ore coi suoi amici di Venezia, e con gli ospiti illustri che gli arrivavano di continuo dalle più cospicue città dell'Europa.

Il carnevale venne a proposito a facilitare il desiderato abboccamento. Il carnevale di Venezia!... cioè il turbinio confuso delle passioni e dei piaceri della vita, che col mistero della maschera agevola ogni incontro, protegge ogni abuso, copre ogni disordine, che sotto un volto impassibile di tela cerata asconde i rossori della modestia e rende gli occhi più vivaci e la parola più ardita, che colla certezza dell'incognito rispettato, autorizza le espressioni più audaci, infonde ai timidi il coraggio, ai pusilli lo spirito, e involge di arcano prestigio le confidenze susurrate all'orecchio! Il carnevale di Venezia erigeva in diritto la licenza dei costumi, col delirio della pazzia autorizzava tutte le ebbrezze, scioglieva ogni legame di famiglia, esponeva i sensi a tutte le provocazioni del linguaggio, e spingeva l'innocenza e la virtù sul margine di tutti gli abissi. Il carnevale di Venezia gettava il popolo fra i tripudii, e trascinava la gioventù ai baccanali, mentre le armate tedesche e francesi si contendevano il suolo d'Italia, e decidevano dei nostri destini.

Valdrigo ottenne finalmente da Silvia un appuntamento ad una festa da ballo mascherata nelle sale del Ridotto. Gli accordi erano i seguenti: Vittore sarebbe in tabarro e bauta con un nastro azzurro scendente dalla spalla sinistra. Silvia e la sua cameriera sarebbero mascherate in veste e zendado, con una rosa sul crine, a diritta. Il conte Leoni le accompagnerebbe da lontano, senza maschera, ma certo si sarebbe seduto a qualche tavoliere di giuoco, e allora uniti insieme, uscendo dal ridotto, sarebbero andati a passare un'ora nel casino che il conte teneva presso a San Gallo; Silvia ne avrebbe chiesta la chiave per avere un rifugio ove riposarsi in caso di bisogno.

Era costumanza di quei tempi che molte famiglie ricche oltre al palazzo tenevano anche un piccolo ma elegante casino in vicinanza della piazza, e colà andavano a riposarsi dal passeggio o invitavano a cena gli amici dopo il teatro, senza cerimonie e in piena libertà. Naturalmente alcuni mariti se ne servivano per dei ritrovi misteriosi, senza l'impiccio della moglie, e alcune mogli facevano altrettanto senza l'incomodo dei mariti. In apparenza quei casini erano una stazione centrale per gli affari o i comodi della vita, e in realtà una succursale della casa per ogni uso segreto, per ogni stravizzo.

Il conte Leoni possedeva uno di quei fantastici ricoveri nel quale egli aveva prodigato tutto il lusso delle arti. Pendevano appesi alle pareti dei preziosi dipinti di Canaletto, dei quadretti di soggetti veneziani del Longhi, ed alcuni bei pastelli di Rosalba Carriera. Gli stucchi del Vittoria si raggiravano capricciosamente intorno a dei graziosi medaglioni entro ai quali erano dipinte delle scene amorose di ninfe ritrose e di pastori procaci. Le pareti ed il soffitto d'un gabinetto erano ricoperti da splendidissimi specchi, ed un caminetto di marmo bianco collocato dirimpetto a un molle divano sosteneva dei candelabri di bronzo dorato. Il salotto per pranzare era mobigliato con delle poltroncine antiche d'intaglio, coperte di damasco, e degli scaffali d'egual lavoro, contenenti delle stoviglie di Faenza e dei vetri di Murano, e dal soffitto pendeva una magnifica lumiera di cristallo. Dei morbidi tappeti coprivano i pavimenti, e pesanti e doppii cortinaggi scendevano sulle finestre.

Valdrigo aspettava la sera dell'appuntamento come il giorno più solenne della sua vita, nè poteva pensarci senza che un brivido gli percorresse il corpo dalla estremità dei capelli alla punta dei piedi.

Una mattina, chiamata Maddalena in disparte, la pregò di volergli trovare a nolo un vestito nuovo da maschera, tabarro e bauta, e di fargli l'acquisto d'un bel nastro azzurro di seta da collocarsi sulla spalla sinistra, e tutto questo per il prossimo ballo al Ridotto.

Maddalena non poteva rifiutarsi a servirlo, e quantunque la commissione le pungesse, dissimulò le interne agitazioni, e finse di prestarsi di buon animo, ma il nastro azzurro le trottava per la testa, perchè comprendeva in aria che esso significava un segnale. E andava fra sè fantasticando quali intrighi potessero preoccupare il pittore già tanto distratto dalla gloria, dai zecchini ricavati dal quadro, e dalla vita mondana nella quale s'era slanciato col solito entusiasmo. Nuovi amorazzi!... essa pensava, sarà già stanco della gentildonna Leoni, e ingolfato in qualche nuova avventura perde il tempo nell'ozio, e impiega il suo talento nelle imprese galanti!... e sospirava. Al giorno si sedeva a lavorare alla finestra che guardava la laguna, e mentre le dita conducevano l'ago a rammendare pannilini, il suo pensiero vagava in traccia di tormenti pel cuore, e qualche lagrima le cadeva sulla mano. Le acque tranquille e il cielo sereno le rammentavano i bei tempi delle gite sul mare, la partenza per Saltore, l'entusiasmo del lavoro dopo la visita di Canova, i giorni della speranza e della pace. Ora tutto era mutato, il giovine pescatore che amava le fatiche del mare, il pittore che passava i giorni coi pennelli alla mano, era diventato un cicisbeo perduto fra i ritrovi dispendiosi e le donne galanti!... Ai giorni pensierosi e melanconici succedevano le notti insonni e irrequiete, e l'accesa fantasia le dipingeva allo spirito mille fantasmi tormentosi, e le immagini di fortunate rivali laceravano il suo cuore e accendevano la sua gelosia.

Le disposizioni sul ballo del Ridotto fomentarono le pene segrete, e vogliosa di vedere coi suoi occhi il nuovo oggetto che occupava Valdrigo decise di unirsi ad una amica, e di assistere mascherata a quel ballo. Le fu facile il trovare la compagna colla quale si apparecchiò di nascosto.

Una semplice veste, una gonnellina fiorita cinta ai fianchi e rovesciata sul capo secondo il costume delle donne di Chioggia, fornirono gli abiti da maschera alle due fanciulle del popolo. Fissarono che appena uscito Valdrigo si sarebbero vestite, e il segnale del nastro azzurro avrebbe servito a scoprirlo nelle sale del ballo. Venne finalmente la sera desiderata; Valdrigo uscì mascherato, e poco dopo Maddalena e la sua compagna attraversavano Venezia per spiare la sua condotta e scoprir le sue tresche. La folla entrava a fiotti nelle sale del Ridotto, riboccanti di maschere.

I doppieri delle pareti e le lumiere appese ai soffitti gettavano una luce rossastra sul turbinìo della calca variopinta e strillante. Era un andirivieni tumultuoso, un agitarsi di piume, e di sonagli, un fruscìo di vesti di seta e di velluto gallonate d'oro e d'argento, un urto di guardifanti schiacciati nella pressa, uno scialacquo di pizzi e di fiori, uno sdruccio di ricchi costumi, che strappati dai movimenti disordinati, coprivano il suolo di frammenti. Il gridìo confuso delle maschere, era dominato dal frastuono dell'orchestra, e un'afa soffocante toglieva il respiro.

A chi ama l'aure pure del mattino, sotto un cielo sereno, e le voci della natura, le ebbrezze dei baccanali notturni entro alle chiuse sale sembrano aberrazioni della follia, o frenesie di anime dannate. Ma l'onda delle passioni getta l'umanità nei tumulti della vita, ove molti cercano la lotta, alcuni l'oblìo, pochi trovano il diletto, nessuno la felicità.

Le anime frivole seguono l'andazzo, come le piume travolte dai raggiri del vento, e trasportate nel vortice si agitano per l'impulso ricevuto. Poche menti sane chieggono alla ragione i consigli della vita, e cercano la felicità nelle tranquille soddisfazioni del cuore, e nell'adempimento dei propri doveri. L'umanità è un mare in continua burrasca, e le sue onde non trovano la calma, che in qualche seno riparato dagli uragani, in qualche angolo nascosto agli sguardi volgari.

Le appariscenze d'un ballo mascherato, ascondono le piaghe sociali sotto ai volti di cera e i bizzarri abbigliamenti. Tutte le passioni disordinate prestano il loro concorso a quello spettacolo dell'umana intemperanza, e la Maddalena che andava in traccia di Valdrigo, non aveva certo nel cuore i fremiti della gioja, ma sibbene tutte le amarezze della gelosia. Invano ella cercava nella folla la maschera avidamente desiderata, ed alla sua anima tormentata dall'inquietudine, si aggiungeva la nausea provocata dai riboboli degli arlecchini, e dalle facezie grossolane dei pagliacci e dei pantaloni.

Finalmente dopo lunghi e faticosi raggiri per le stanze che circondavano la sala, vide da lontano una bauta con un nastro azzurro sulla spalla sinistra e un sussulto del cuore l'avvertì, che quella maschera ascondeva Valdrigo.

Si fece largo da quella parte, e dopo qualche lotta coi gomiti, assistita dalla compagna che s'interessava vivamente alla sua curiosità, lo raggiunse di fianco, e lo seguì. La folla calcava talmente le persone che Maddalena si trovò spinta alle spalle di Vittore, con immediato contatto.

Egli si teneva in mezzo a due graziose mascherette in veste di seta nera e zendado con una rosa sul capo, ma indirizzava il discorso ad una sola, e le diceva:

— Se possiamo arrivare alla scala, sarebbe meglio uscire addirittura da questa babilonia.

— No, rispondeva la mascheretta, è troppo presto, vediamo piuttosto di penetrare nella stanza del giuoco....

E andavano passo passo camminando dietro agli altri fra le spinte degl'indiscreti, e le grida acute dei mascheroni, con Maddalena e la compagna dappresso, le quali studiavano ogni mossa, ed ascoltavano ogni parola. Valdrigo non si permetteva veruna intimità colla sua mascheretta, le parlava anzi con rispetto, e la difendeva dagli urli dei vicini con ogni delicata attenzione.

Attraversate tre stanze in linea retta, nella quarta presero una porta a sinistra, ed entrarono in un locale ove intorno a dei tavolini coperti di monete d'oro e d'argento, si tenevano i giocatori di faraone e bassetta.

La folla diradata lasciava libero il respiro, il rumore cessava, e s'udiva solo il suono del denaro deposto e raccolto. I giocatori parevano di marmo, cogli occhi intenti sulle carte, collo sguardo animato dalla speranza, o abbattuto dal disinganno. Alcuni grandi personaggi giocavano freddamente, e guadagnavano o perdevano colla stessa indifferenza, e fra questi stava seduto il conte Leoni. Le mascherette condotte da Valdrigo gli passarono da vicino colla massima indifferenza, e attraversata la stanza entrarono sul pianerottolo in capo alla scala.

— Dunque usciamo, diceva Valdrigo, con una voce supplichevole....

La mascheretta pareva esitante, soggiungeva: «aspettiamo ancora.... più tardi....»

Ma questi rifiuti sembravano agitarlo, e con voce alterata egli ripeteva:

— Ve ne prego, Silvia, non mi rifiutate il favore di parlarvi senza testimoni, non vi chieggo che qualche istante; sono lunghi anni che tengo chiuso nel seno un segreto che mi soffoca, permettete che vi dica una parola.... e poi basta!...

— Andiamo!... disse la maschera con una risoluzione istantanea, e scendendo rapidamente le scale scomparvero.

Maddalena voleva seguirli, ma le mancarono le forze, essa aveva tutto compreso. Quella maschera era Silvia Leoni, quell'amore di tanti anni era ancora una passione segreta. Valdrigo non s'era mai trovato solo con Silvia, quali ostacoli avessero potuto impedire una dichiarazione d'amore, in tante visite fatte dal pittore al palazzo Leoni, questo era un mistero per Maddalena, ma le parole di Valdrigo non ammettevano un dubbio. — Fosse virtù di donna onesta, o mancanza d'occasione propizia, o timore di vendette terribili, il fatto stava che Valdrigo non aveva ancora aperto il suo cuore. Tante rivelazioni in un minuto avevano stravolte l'idee della povera innamorata, avevano colpito il suo cervello con una sorpresa istantanea, avevano animati i suoi sensi con una arcana speranza, quando ad un tratto, quella rapida decisione di Silvia l'aveva nuovamente colpita sul vivo. La lunga aspettativa aveva raggiunto il suo termine, la donna cedeva alle preghiere d'una intervista segreta, la sicurezza del marito lontano accresceva il pericolo, la passione svelata avrebbe sormontato ogni ostacolo, la notte avrebbe protetto ogni oblìo. Le memorie della prima giovinezza, il fuoco rinchiuso, la costante resistenza, tutto rendeva quella passione violenta e irresistibile, e una volta consumato il sacrifizio, Silvia non era donna da capriccio, ma da tenace fermezza... Valdrigo era perduto per sempre!...

Tutte queste idee attraversarono rapidamente il suo spirito, le paralizzarono le forze, la resero immobile e stupida. Il fuoco della gelosia venne a risvegliare la sua mente, allora volle inseguirli, arrestarli par via, smascherarli, e scese precipitosamente le scale si trascinò dietro la compagna che invano si studiava di calmarla, coi consigli della ragione e della amicizia. Maddalena non udiva le sue parole, e non ascoltava che gl'impeti d'una passione esaltata. Giunte sulla via, le maschere che andavano e venivano dal Ridotto impedivano il passo, i venditori di melarancie confondevano la loro voce strillante coi fischi dei birichini, colle risa dei gondolieri, col variato gorgheggiare dei venditori ambulanti che accrescevano la confusione e il rumore della strada.

Uscite da quel miscuglio di gente si trovarono in una calle più tranquilla, ove poterono levarsi la maschera, asciugarsi il sudore del volto, e riprendere un po' di lena, l'aria fresca e salina che spirava dalla laguna rinnovava il respiro. Maddalena irrequieta non voleva fermarsi, e pretendeva inseguire i fuggitivi, ma la compagna la calmava, mostrandole le strade deserte, le traccie perdute, il rispetto prescritto verso le maschere, il nessun diritto di agire, l'insulto ad una donna dell'alta nobiltà, e finalmente la collera di Valdrigo, il suo odio e la sicura vendetta. Ma essa ascoltava ogni consiglio come trasognata, e piuttosto di dar retta all'amica, pareva che pensasse ai mezzi per mandare ad effetto il suo funesto pensiero.

Veduta l'impossibilità d'inseguirli, si rimise la maschera e volle ritornare al Ridotto. La compagna che la teneva per braccio sentiva un tremito in tutti i muscoli della povera fanciulla, sorda ad ogni preghiera, e dovette seguirla macchinalmente, sperando che le distrazioni del ballo avrebbero calmati i suoi sensi.

Risalite le scale, e penetrata nuovamente nella stanza del giuoco, essa andava vagando trascinata dalla passione e guidata da un pensiero che dominava il suo spirito. Pareva che cercasse taluno nella folla, finalmente svincolandosi dall'amica, si avanzò verso un tavoliere di giuoco, e avvicinandosi al conte Leoni che teneva le carte fra le mani gli disse all'orecchio:

— Conte, vostra moglie è uscita or ora dal ballo, appoggiata al braccio d'un uomo mascherato...

Il giuocatore rivolgendo rapidamente la testa, squadrò la maschera per bene, e con volto serio rispose:

— E che importa a voi questo?...

— A me niente... conte... ma a voi deve importare moltissimo!...

— E se questa maschera fosse suo fratello, che avreste da dire?...

— Se non conoscessi chi si asconde sotto la maschera, non sarei venuta ad incomodarvi, ma ho creduto rendervi un servigio...

— Sette a due zecchini... diceva il conte attento al giuoco... e perdeva. Fante a sei zecchini... e perdeva. Paroli, e perdeva il doppio. Allora muto e freddo in apparenza, ma dentro iracondo e ostinato, ripeteva asso a tre zecchini...

— Ci va del vostro onore, gli sussurrava Maddalena all'orecchio, ed egli:

— Asso, quattro zecchini...

— Conte, una amica della vostra casa voleva salvarvi l'onore, scusate l'incomodo... addio...

— Aspettate un momento, rispondeva irritato il conte, afferrando con una mano convulsa le vesti di Maddalena, e gridando... dieci zecchini sull'asso di spade!...

— Buona fortuna, signore!... e lasciatemi andare... Ripeteva la maschera.

— Vi chieggo un momento per cortesia... il due di bastoni a quattro zecchini... aspettate ancora un giro e parleremo...

— Sarà troppo tardi!...

La passione del giuoco teneva il conte inchiodato davanti al tavolino, la gelosia lo agitava fortemente e l'interna lotta si manifestava sul suo volto contratto dalla impazienza e dalla collera. Deciso di levarsi da sedere, la comparsa d'una carta lo ripiombava sulla sedia, e mentre con l'occhio intento seguiva le vicende del giuoco, colla attenta orecchia ascoltava gli eccitamenti della maschera che gli diceva:

— Peccato!... un angelo di bellezza... accogliere di notte in sua casa un amante all'insaputa del marito!..

— Li raggiungo fra un istante... aspettatemi... quattro zecchini sul cinque di bastoni...

— Per quattro zecchini... esporsi a perdere un tesoro... esporsi alla vergogna... al ridicolo...

— Sono con voi... Paroli...

— Troppo tardi!... È già un'ora che sono partiti... forse fuggiti da Venezia...

— Fuggiti!... e gettando le carte sul tavolo, con gli occhi stralunati e scintillanti di collera, si levò ad un tratto, gettò a terra la sedia e presa sotto al braccio la maschera la trasse in un canto della sala. La folla si restrinse intorno al tavolo, e il suo posto venne occupato subito da un altro, come nelle battaglie quando si chiudono le file per riempire i vuoti lasciati dai morti.

Allora il conte, esaminando attentamente la maschera, voleva ad ogni costo scoprire la persona che si permetteva d'insultarlo in quel modo e di provocare la sua collera e la sua gelosia. Vani tentativi. Allora sospettando ancora un qualche imbroglio, un raggiro immaginato con uno scopo secondario, e dubitando della sincerità della maschera, le chiese:

— Potreste dirmi il nome della persona che accompagnava mia moglie?...

— Certamente!... il suo primo innamorato di Villa Saltore... il pittore Valdrigo...

— Basta così!... rispose con cupa fisonomia il conte Leoni, e senza proferire altra parola si allontanò dalla maschera, e uscendo dalla stanza scese rapidamente le scale.

Maddalena e la compagna lo seguivano ad una certa distanza, ma appena liberato dalla folla, si mise a camminare con passi tanto frettolosi che volto il canto d'una via lo perdettero di vista nell'oscurità della notte fra il labirinto delle calli.

La compagna che aveva assistito a tutta la scena, invano tirando per la veste Maddalena, o stringendole le braccia, e susurrandole all'orecchio le parole — basta — prudenza — trovandosi finalmente sola con l'amica, le disse con un accento di paura:

— Che cosa hai fatto mai!... Maddalena!...

— Ho salvato Valdrigo da una relazione colpevole... Con una donna troppo superiore alla sua condizione... da una maledetta passione...

— Lo hai perduto!... rispose la compagna affannata; hai esposto la sua vita al più grande pericolo... forse...

— Taci per carità!... mio Dio... se il conte Leoni lo ammazzasse!...

Allora arrestandosi per trovare un appoggio al parapetto d'un ponte, si asciugava i sudori del volto e mandava lampi dagli occhi. La sua fantasia le dipingeva il conte Leoni con un coltello alla mano, in traccia dei colpevoli... apriva una porta... li trovava abbracciati... Allora ritornando alla collera ed alla gelosia che le ardeva nel cuore, soggiungeva:

— Ebbene, li ammazzi tutti e due... e col braccio levato in aria faceva segno di ferire, e raddoppiava i colpi con un sogghigno di gioja spaventosa, ripetendo ogni volta — li ammazzi... li ammazzi!...

Ripresero il cammino verso il loro quartiere conversando concitate per via sulle avventure della notte, e sui timori delle conseguenze probabili.

Essendo vicine di casa si congedarono all'uscio, e ciascheduna entrò nella propria dimora. Maddalena entrata nella sua stanza, si spogliò in fretta e gettandosi macchinalmente sul letto incominciò a pensare a' suoi casi. Ora si sentiva dilaniare dal rimorso, ora la collera le accendeva lo spirito e la spingeva a desideri di vendetta e di sangue. — Che cosa sarà succeduto?... chiedeva a sè stessa... e si cacciava le mani nei capelli, e sospirava e piangeva. Poi riteneva il fiato e ascoltava tremando. Ogni persona che passava per via risvegliava i suoi sospetti... se venisse a casa ferito!... e pensava non senza una certa gioja alle cure che gli avrebbe prodigate, alla guarigione sicura, al pentimento, e, chi sa!... forse avrebbe aperto gli occhi e conosciuto il suo amore... poi tornava a tormentarsi con più gravi paure... se lo portassero a casa moribondo!... mio Dio!... per causa mia!... la sua morte!... sua madre!... povera Rosa... e piangeva, affranta dal dolore.

Le ore battevano lentamente all'orologio della chiesa vicina, il silenzio regnava nella strada, non si sentiva che il tonfo dei remi di qualche gondola che passava nel canale, e la voce del gondoliere — stali premi — all'atto di sboccare in laguna. I minuti le parevano infiniti... il cervello in ebollizione la trascinava da un pensiero ad un sogno, da una reminiscenza ad un timore, senza transizione regolare, colla confusione del caos. Gli orecchi le tintinnavano ancora della musica da ballo e del gridio delle maschere, vedeva l'oro dei tavolieri del giuoco, e poi pensava ad una stanza silenziosa, a due innamorati, ad un bacio, ad una donna svenuta in un'estasi d'amore e d'obblio... e poi vedeva gli occhi ardenti del conte Leoni, un coltello... un lago di sangue! Finalmente le parve di riconoscere un passo lontano, tese l'orecchio con attenzione sostenuta, il passo si avvicinava, e il cuore le diceva — è Valdrigo. — Poco dopo udì che s'arrestava alla porta, e la chiave che entrava nella toppa. Aperto l'uscio, Valdrigo saliva le scale ed entrava tranquillamente nella sua stanza.

XXXI.

In generale i mariti ammazzano raramente gli amanti, a Venezia poi nel secolo passato non li ammazzavano mai. C'era una gran licenza di costumi, ma ciò non escludeva affatto la virtù. Silvia desiderava e temeva un abboccamento con Valdrigo. Essa sentiva la necessità di frenare gli slanci imprudenti del giovane, ma sentiva in pari tempo il pericolo della lotta. Voleva dissimulare una ferita, ma temeva che mettendovi sopra le mani il dolore la scoprisse. Andò al ballo con l'idea di condursi Valdrigo al casino per fargli una predica sulla sua condotta inconveniente, ma confessava a sè stessa d'averlo talvolta incoraggiato cogli sguardi che tradivano il cuore, cosicchè essa si trovava giudice e colpevole a un tratto, e temeva giustamente che l'accusato diventasse accusatore. Dapprima esitava dunque a mandare ad effetto il suo piano, poi temendo le conseguenze del rifiuto si decise a finirla, ma giunta sulla via si pentì, ed avrebbe voluto ritornare sui suoi passi. Così le farfalline svolazzano intorno al lume fino che a forza di raggiri cadono nella fiamma e si abbruciano le ali. Non osando retrocedere, e non volendo avanzare, perdeva il tempo per via, e a Valdrigo che la sollecitava con affettuosa insistenza, rispondeva mostrandogli l'ombre cupe dei canali, e i pittoreschi effetti della notte sui palazzi, e sull'acqua.

In tal modo impiegarono molto tempo nel breve tragitto, ma finalmente giunsero al casino. Entrati, accesero il lume, e salite le scale, la padrona ordinò alla cameriera di accendere un po' di fuoco al caminetto. Valdrigo non ne aveva bisogno, ma Silvia temporeggiava per raccogliere le sue forze, e farsi animo. La cameriera indovinava le impazienze del giovane, e mossa da pietà si affrettava a metter legna e a soffiare, ma appunto le cose fatte in fretta non approdano, e invece del fuoco uscivano dei nuvoli di fumo che invadevano la stanza; e quindi fa necessario aprire le finestre e le porte. L'aria entrando facilitò l'operazione, e una bella fiamma crepitante brillò nel camino. Chiuse nuovamente le imposte, la cameriera accese due doppieri, ed uscì serrando l'uscio. Non aveva ancora attraversata l'anticamera quando s'udì una violenta scampanellata alla porta di casa: era il conte Leoni. Vi fu un minuto secondo di stupore, ma Silvia ordinò tosto si aprisse. Pensi il lettore allo stato di Valdrigo; è certo che se Don Lio avesse conosciuta in quel momento la posizione del giovane, avrebbe paragonato il suo affanno alle pene di Tantalo. Egli rimase immobile e quasi pietrificato fissando gli occhi istupiditi nella fiamma, come dovette trovarsi la moglie di Lot, quando contro al divino comando si volse a contemplare l'incendio di Sodoma. Il conte Leoni entrò nella stanza raffrenando il suo impeto, ma lasciando intravedere i suoi sospetti dall'occhio scrutatore e dalle ciglia aggrottate.

Silvia lo attendeva davanti al caminetto col fiero cipiglio della virtù offesa, e colla dignità della donna che può levare la fronte senza rossore; in quel momento di suprema soddisfazione essa sentì tutto il valore della sua onestà, tutta la forza dell'innocenza. I loro sguardi si scontrarono, l'interrogazione del marito fu muta ma eloquente, la risposta della moglie fu assoluta e severa; essa fissò gli occhi nel marito con tale sicurezza imperiosa ch'egli dovette abbassarli; perchè realmente egli era colpevole. — Passato quel primo momento essa ruppe il silenzio; e rivolta al conte gli disse con un'aria indifferente:

— Allo scampanio, non credeva che foste voi... non mi avete avvezzata a questi modi...

— Scusate, egli rispose, l'agitazione della corsa m'aveva irritato i nervi...

— E perchè avete corso?...

— Vedendovi uscire dal ballo temetti... qualche improvvisa sofferenza... pel caldo... in mezzo a tanta folla...

— Diffatti, interruppe Silvia, che lo vedeva imbarazzato, diffatti non sto bene... un'oppressione, un bisogno d'aria mi costrinse d'uscire... Ho pregato Valdrigo d'accompagnarmi...

— Vi ringrazio, caro Valdrigo, soggiunse il conte porgendo la mano al pittore, e stringendogli la destra ch'era fredda come quella d'un morto.

A poco a poco la conversazione prese l'andamento ordinario e parlarono di cose indifferenti, chè in fine dei conti, avevano tutti e tre delle ragioni per essere contenti.

Più tardi il conte propose di cenare. La cameriera uscì per fare alcune provviste ad una vicina trattoria, che nelle occasioni dei balli, stava aperta tutta la notte.

Valdrigo dovette apparecchiare la tavola, il marito apriva un armadio e ne tirava delle bottiglie di vino di Cipro stravecchio coperte di ragnateli e di polvere. E mentre la Maddalena esterrefatta vedeva nelle sue spaventose fantasie il marito che versava il sangue dell'amante, il conte Leoni mesceva il Cipro a Valdrigo, e toccando i bicchieri, bevevano insieme alla salute dalla Dama. — Fedele! pensava il marito — perduta! ma non per sempre, diceva a sè stesso il giovane innamorato.

XXXII.

La prudenza consigliò Valdrigo ad astenersi per qualche tempo dalle visite in casa Leoni, malgrado l'ardore sempre crescente della sua passione. Maddalena lo sorvegliava da vicino, studiava i suoi andamenti, leggeva nella sua fisonomia i desideri repressi, e le inquietudini d'un'anima esaltata. L'amore che essa teneva celato nei più profondi penetrali del cuore si nudriva di speranze future, e infiammava la sua gelosia irritata dalle fatte scoperte. La cieca gelosia si nutre di chimere, e guida a fatali consigli.

La povera fanciulla, incoraggiata dal felice risultato della sua prima resistenza, diceva a sè stessa. — Bisogna ch'io perseveri.... Bisogna che io continui ad attraversare i suoi progetti, ad impedire ad ogni costo i progressi d'una passione fatale, bisogna ch'io trovi il modo di rompere gli anelli d'una catena che lo trascina alla perdita della sua felicità, che lo allontana dal mio cuore; i continui ostacoli devono stancare la sua pertinacia, compromettere la Dama, risvegliare i sospetti del marito... egli sarà costretto di rinunziare all'impresa...

La ferita sarà dolorosa, ma il tempo sana ogni piaga, io consolerò le sue pene raddoppiando le cure, cercherò di ricondurlo al lavoro, alla pace... aspetterò che gli anni calmino le sue passioni violente... e forse un giorno, troverò nella sua felicità la ricompensa degli affanni, coi quali, senza avvedersene, mi avvelena la vita.

E nelle lunghe notti insonni, rivolgendosi nelle coltri affaticate, meditava uno stratagemma che riuscisse a tagliare il nodo gordiano con rottura irreparabile, senza gravi pericoli per nessuno, senza che si potesse scoprire la mano che colpiva. Dapprima pensava di mettersi d'accordo con la Rosa, di farlo chiamare a Saltore con un pretesto, per allontanarlo da Venezia, ma egli avrebbe tosto scoperto l'inganno e sarebbe ritornato. Un nuovo avviso al conte non voleva arrischiarlo, era cosa pericolosa, ed aveva tremato troppo della sua prima imprudenza per volerla tentare di nuovo, dal lato della signora non vedeva nessuna cosa possibile.

Di tutti i suoi progetti quello di allontanarlo da Venezia le pareva il più opportuno, ma non trovava il modo di mandarlo ad effetto, e poi temeva che il pittore uscito una volta dalla sua casa, potesse non tornarvi mai più, o stabilirsi in altri paesi, e perderlo per sempre. Avrebbe voluto poterlo chiudere nella sua stanza, e tenerlo tutto per sè, ma siccome la cosa non era fattibile, cercava come si potesse rendergli impossibile l'accesso alla Dama, senza troppo allontanarlo da sè, e qui stava appunto la difficoltà.

Mettendo il cervello alla tortura coi più strani pensieri, finì a coltivare un'idea, che le pareva avere del buono e del cattivo come tutti gli altri progetti, ma che presentava un incontrastabile vantaggio, ed era di mettere il Consiglio dei Dieci in alleanza colla sua gelosia. Ecco come ragionava la fanciulla: Una falsa accusa farebbe mettere Valdrigo in prigione, e l'accusa essendo falsa la prigionia non potrebbe oltrepassare la durata del processo. L'innocenza dell'accusato, e la giustizia dei giudici renderà impossibile ogni pericolo di condanna, ma forse il semplice fatto della prigione, basterebbe ad allontanare per sempre il Valdrigo dal palazzo Leoni anche dopo la sua liberazione, perchè l'esalazione del carcere rimane sempre indosso a tutti i prigionieri di Stato, innocenti o colpevoli, nè l'alterigia patrizia può ammettere nella sua società un uomo sospetto di congiura, liberato per sola mancanza di prove.

Il piano dunque le sembrava magnifico, ma teneva la sua decisione in sospeso, a motivo delle privazioni alle quali avrebbe esposto Vittore. Veramente aveva sentito dire che mentre dura il processo i prigionieri non sono da paragonarsi ai condannati, pure sentiva dentro di sè una voce tormentosa che biasimava i suoi pensieri, e le minacciava le amarezze del rimorso. Nella calma della ragione essa vedeva che provocare l'arresto di Valdrigo era un delitto, che privava ingiustamente un uomo della libertà, che gettava un innocente nella tristezza e nelle miserie del carcere, e pensando ai timori del giovane, alla dolorosa solitudine, alla privazione d'aria e di luce, al silenzio senza interruzione, ai dolori senza conforto, alle sofferenze senza lenimento, malediceva il suo progetto, si strappava i capelli dall'affanno, e giurava di frenare una passione violenta che la trascinava a colpe tanto crudeli.

Ma quando Valdrigo usciva di casa, galante e profumato come un gentiluomo, con l'aspetto ardito e l'occhio scintillante, con un'aria di provocazione e di conquista, allora la ragione taceva, allora i buoni sentimenti svanivano, e i più dolorosi sospetti entrando nel cuore, risvegliavano le furie della gelosia e la brama d'arrestare ad ogni costo il trionfo d'una pericolosa rivale. I più forsennati progetti le ripullulavano in mente, nessuna pena le sembrava soverchia pel colpevole, avrebbe pagato col suo sangue una catena, il truce aspetto delle porte ferrate, dei grossi chiavistelli e delle doppie sbarre sorrideva al suo spirito agitato, come le promesse di un amico sicuro.

Esitante sul partito da prendersi, spiava ogni passo di Valdrigo, e porgeva attenta orecchia ai discorsi del popolo che incominciando ad inquietarsi sui destini di Venezia, mormorava sotto voce del governo e d'alcuni nobili, fra i quali ritornava sovente in campo il nome del conte Leoni, detestato dai partigiani delle nuove idee, come il più accanito nemico d'ogni transazione e il più tenace difensore dell'antico sistema.

Le passioni represse fermentavano, un ardente desiderio di novità e di riforma lottava contro i difensori della Serenissima Repubblica, della quale vantavano le glorie passate e amavano le presenti dolcezze, il vivere beato e pacifico, i continui passatempi, il libertinaggio protetto dalle abitudini e dalla tolleranza del governo. Il lungo abbandono delle armi e la vita molle avevano infiacchita la fibra del popolo e della nobiltà, e abbassato il livello dei caratteri. Perduta ogni morale dignità ed ogni nobile sentimento nazionale, l'egoismo signoreggiava i magistrati del governo ed i privati cittadini.

I principî della rivoluzione francese che proclamavano i diritti dell'uomo alla libertà ed all'eguaglianza, si chiamavano il gallico veleno, ed era perfino proibito di parlarne. Intanto i francesi entravano in Italia, e i Savj seguitavano a chiudere le orecchie ai consigli più assennati, e continuavano a far la corte alle dame ed a frequentare i pubblici spettacoli colla maschera sul volto. All'invasione delle idee, il governo si opponeva colla proibizione degli scritti; alla invasione delle armi straniere, rispondeva colla neutralità disarmata. In conseguenza di ciò, mancavano le armi e i soldati, le piazze forti erano sguarnite nè si pensava gran fatto alle difese, nè ad accrescere la flotta, nè ad acquistare le armi o fabbricare la polvere; per riscontro si vietavano in Teatro le tragedie perchè sollevavano e concitavano gli animi. Le rivelazioni più importanti dei residenti alle Corti straniere e i dispacci degli ambasciatori veneti in Francia, che annunziavano i disordini, le minaccie e i pericoli imminenti, non venivano nemmeno letti al Senato per non turbare il sonno ai patrizii, e per ordine degli eccellentissimi Savj di settimana, tutte le carte risguardanti tali argomenti si passavano nella Filza delle comunicate non lette[77].

Volevano ad ogni costo la pace, il riposo ed il sonno, e dichiaravano la guerra alle mode di Parigi, ai bottoni, ai ventagli rivoltosi, alle foggie giacobine; spendendo ragguardevoli somme per ispiare la condotta dei soggetti. Lo spionaggio era una delle basi del governo, ed i magistrati dopo d'aver spiati i sudditi si spiavano fra loro. I Tre spiavano i Dieci, i Dieci spiavano i Tre, l'Avogador del Comun spiava gli uni e gli altri. Le spie frequentavano tutti i luoghi pubblici, le vie, i teatri, le chiese, e perfino le private dimore, e i loro servigi venivano retribuiti con salvacondotti temporanei, con denaro, con esenzione dalle tasse, con privilegi, impieghi, onori e impunità di delitti. Malgrado però di questa rigorosa sorveglianza e della severità delle leggi, la Voce della libertà trapanava da ogni parte e la si sentiva ondeggiare per l'aria come i profumi della primavera. Entravano furtivamente in Venezia, libri, fogli, programmi, gazzette, coccarde, ed ogni altro incentivo. Il Villetard, segretario della legazione francese, tendeva la mano ai malcontenti, favoreggiava le congiure e fomentava gli spiriti più audaci. I fucili e i cannoni della rivoluzione erano ancora lontani, ma penetravano in Venezia le massime, i pensieri, le idee che precedono ogni mutamento sociale, apparecchiano il terreno delle riforme, minano gli antichi propugnacoli e segnano le fondamenta dei nuovi edificii.

Maddalena passando una mattina per una calle remota, vide un gruppo di persone che ciarlavano con aria misteriosa, guardandosi intorno. Erano suoi conoscenti e vicini; si mise dunque in loro compagnia per udire le notizie del giorno. La fanciulla non potendo suscitare sospetti, essi continuarono i discorsi. Uno fra loro mostrava i pugni in atto di minaccia e diceva:

— Ancora un poco e dovranno deporre la toga, i parrucconi!... Cosa sono i nobili più di noi?... I francesi vengono avanti... avanti... avanti...

Uno degli uditori voltava la testa con aspetto pauroso e mandava fuori un soffio prolungato che voleva dire — Bagattelle!...

Un altro interrompeva il narratore con un — tss — tss! — e indicava con l'occhio un balcone, dal quale un individuo sospetto faceva capolino.

— Eh! non abbiate più paura!... continuava il narratore, sono appena due giorni che alcuni detenuti per sospetto di congiura contro la repubblica, vennero rilasciati in libertà per l'influenza d'un alto personaggio della legazione francese....

— Come? chiedeva il più timido, non li hanno condannati?...

— Non hanno osato torcer un capello a nessuno!... guai se lo avessero fatto!... eh! non sono più i tempi delle violenze tenebrose.... bisogna che ci pensino due volte....

Maddalena pensava dentro a sè: — La mia idea è dunque buona, e posso salvarlo senza pericoli. — L'egoismo delle passioni è sì grande che sovente confonde il proprio interesse con l'altrui. E la povera fanciulla traviata da una furente gelosia, aveva smarrito il buon senso.

Interamente dominata dal fatale pensiero che preoccupava il suo spirito, non ascoltava più che macchinalmente le declamazioni del narratore, quando il nome del conte Leoni la scosse dall'astrazione che aveva invaso il suo spirito e tendendo attentamente l'orecchio udì le seguenti parole:

— Il conte Leoni partirà fra due giorni per Vienna con una missione diplomatica.... il dispotismo si lega al dispotismo, egli è il degno sostenitore degli abusi, ma verrà il giorno della giustizia ed allora....

Maddalena non volle ascoltare più oltre, e se ne andò ferita da un nuovo colpo nel cuore. Le parole: il conte Leoni partirà fra due giorni per Vienna — le si erano scolpite nelle mente come una tremenda minaccia. Il momento fatale era giunto, l'impunità degli amanti assicurata. I vapori della gelosia le salivano al cervello, come i fumi del vino ai bevitori. Vacillava e non vedeva innanzi a sè che un velo che le offuscava la luce. Poi le ritornavano alla mente le altre parole: — I prigionieri sospetti di congiura vennero liberati. — Bisogna decidersi ad agire con risoluzione, essa pensava fra sè, il tempo stringe e fra due giorni sarebbe troppo tardi!

Con tali idee giunse a casa, si chiuse nella sua stanza, e vi stette lungamente vaneggiando coi fantasmi della gelosia e dell'amore che le passavano davanti lo spirito come una coorte d'anime dannate confuse cogli spiriti eletti. Erano sogni d'ineffabili dolcezze turbati dalle minacce d'una possente rivale, che apparecchiava il suo trionfo, erano promesse di giorni lieti e sereni, disperse dai nuvoloni d'un vicino uragano, solcato da lampi spaventosi, e dal guizzare del fulmine.

La sua mente malata delirava, passando da un pensiero ad un altro senza transizione ragionevole, e portando le immagini agli eccessi dell'esagerazione. Ora si figurava tutti gli orrori, tutte le miserie del carcere, le torture della mente e del cuore, le tenebre, la nudità delle pareti, e Valdrigo pallido e malato in un canto, abbandonato alla vendetta di giudici implacabili, condannato per la sua accusa a finire i giorni in una tomba senza luce.... egli che amava tanto il sole e la libertà, il soave profumo dei campi e l'ampio spazio del mare!...

Allora, disperata e furente, si batteva la fronte, si lacerava le vesti, si scopriva il seno palpitante, apriva le finestre, respirava l'aria a buffate come chi soffoca dall'oppressione dell'asma o dalle perniciose evaporazioni dei carboni incandescenti. La calma della laguna, il cielo sereno, le fresche brezze della sera scendevano come un balsamo sopra quell'anima desolata, e la voce della coscienza parlando al suo cuore il linguaggio dell'onestà, il rimorso degli insani progetti riprendeva il suo dominio e le lagrime del pentimento le inumidivano il ciglio e le solcavano le guancie.

Ma non passava guari di tempo che una bruna gondoletta solcando l'acque davanti alla sua finestra, lasciava intravedere dagli aperti finestrini, un giovine ed una fanciulla che stretti in amplesso affettuoso si scambiavano un lungo bacio sulla bocca.

Quella scena esaltava nuovamente il suo spirito, faceva palpitare il suo cuore con violenza, e il canto del gondoliere che conduceva la coppia felice ai freschi della laguna, risuonava alle sue orecchie come una voce di scherno e d'ironia, riaccendeva la sua collera, avvelenava i suoi sospetti e faceva tacere i rimorsi della coscienza. Si figurava di vedere Silvia e Valdrigo, suggellare con un bacio il lunghissimo amore, e giurarsi una fedeltà a tutte prove, immersi nelle delizie della solitudine, fra il lusso dei ricchi appartamenti del palazzo Leoni. Chiudeva la finestra, e la luce del crepuscolo che tingeva in rosso il firmamento penetrava nella sua stanza cogli ultimi chiarori che invitano la mente ai pensieri melanconici. Una profonda tristezza invadeva i sensi affaticati della povera fanciulla, e un sopore pieno di visioni succedeva alle lotte dolorose del giorno.

All'indomani Valdrigo le appariva lieto e raggiante come un uomo che si aspetta una sicura fortuna. Ella leggeva nel volto di lui il presentimento d'un trionfo vicino, e ne fremeva di sdegno; la stanza di lui esalava un leggiero sentore di essenza d'ambra, profumo sospetto a Maddalena, perchè emanava dalle sue vesti dopo la vendita del quadro, e appunto era incominciato al tempo delle visite in casa Leoni. Rovistando fra le carte del giovane scoperse un ritrattino di Silvia, lavoro condotto di memoria dal pittore innamorato, e una tale scoperta inasprì la sua piaga, e fomentò la gelosia che dilaniava il suo cuore. Ma ciò che mise il colmo al suo furore, fu un viglietto profumato all'indirizzo di Valdrigo, apportato da un gondoliere. Appena uscito il messo, sospinta da' suoi sospetti, essa stava per aprire il foglietto suggellato, quando entrando Vittore glielo vide fra le mani e se lo prese. La fanciulla con uno sguardo scrutatore interrogò il volto del giovane, e le parve di vedere in un bagliore degli occhi un lampo di felicità.

Era troppo!... Divenuta cieca dalla gelosia, fremente dalla collera, eccitata da tante circostanze, e spinta a provvedere dall'imminenza del pericolo, salì rapidamente alla sua stanza, e preso un foglietto di carta, con la mano tremante, e le vertigini, si mise a scarabocchiarvi sopra le seguenti parole: — Vittore Valdrigo congiura contro il governo. — La sua inesperienza dello scrivere la obbligava a tracciare le lettere una per volta, ora grandi ed ora piccole, alte e basse come le onde del mare in burrasca, che indicavano perfettamente lo stato del suo animo, e in capo ad una mezz'ora aveva finito la sua delazione, col relativo indirizzo dell'accusato. La solita voce della coscienza la mordeva fortemente, e forse la avrebbe condotta a distruggere l'infame foglietto, quando la melodia del violino di Valdrigo le giunse all'orecchio come un preludio di divina dolcezza, come il canto dell'anima accesa dall'amore e dalla speranza che inneggiava alla divinità una sublime rivelazione.

Postosi un fazzuolo sul capo, usci col viglietto nascosto in seno, e attraversò rapidamente la via, senza vedere i passanti. C'erano in quel tempo in Venezia alcune cassette collocate in vari luoghi, che rappresentavano una testa di leone nella cui bocca si gettavano le denunzie segrete. Giunta davanti ad una di quelle tremende cassette, si guardò d'intorno, e trovandosi sola, gettò il biglietto nella bocca del leone, e partì.

È facile immaginare come abbia passato la notte che seguì la sua fatale risoluzione; punta dal rimorso, turbata dalla paura, ad ogni piccolo rumore trasaliva nel letto e le pareva udire gli sgherri che venissero ad arrestare Valdrigo. Ma la notte passò senza che si avverassero i suoi presentimenti, e il mattino sereno e tranquillo precedette un giorno di pace, senza avvenimenti che agitassero il suo spirito. Alla seconda notte, nuove paure vennero a funestare le lunghe ore delle tenebre, e l'insonnia manteneva sul trasudato origliere tutte le torture dell'incertezza, e tutte le palpitazioni dello sgomento. Al terzo giorno Valdrigo uscì come al solito, ma non rientrando alla ora consueta, i sospetti incominciarono a bazzicarle pel capo e pensava — sarà stato arrestato per via — ed allora sentiva un dolore intenso che soffocava i suoi sospiri, ma poi si rimetteva pensando che forse era andato in casa Leoni — allora sarebbe corsa ella stessa fra gli sgherri a strapparlo dalle braccia della rivale fra le quali lo dipingeva la sua fantasia riscaldata.

Finalmente Valdrigo ritornò a casa canterellando come era solito, e preso il violino gli fece uscire delle note misteriose e gementi, che parevano singhiozzi fra le lagrime. — Sembra il canto d'un prigioniero — disse fra sè la fanciulla, e proruppe in dirottissimo pianto. — Ma poi si consolò pensando che erano già passati tre giorni dalla delazione, e quindi essa diceva: — Non avranno fatto calcolo della mia accusa — tanto meglio! — e ringraziava il cielo con fervore.

Il violino con uno dei trabalzi che erano nelle abitudini dell'artista, cambiò metro ad un tratto, e si mise a suonare una danza brillante che era la franca e briosa espressione della gioja.

Il sole tramontava quando deposto il violino Valdrigo cambiava i suoi abiti usuali con gli abiti nuovi. Maddalena che stava sempre in agguato, guardava per il buco della serratura, e seguiva i movimenti del giovane. Egli pettinava i suoi capelli con una accuratezza straordinaria, li andava lisciando col cosmetico, e rivolgendo con arte studiata in modo da scoprire tutta l'ampiezza della fronte. Poi guardava se i manichini staccati formassero una cadenza regolare, e se le lattughe della camicia presentassero delle piegue aggraziate ed ammodo. Metteva le scarpette lucidissime colle fibbie d'argento, e tirava le calze di seta con tanta cura che non facevano una piega, e parevano una seconda pelle che coi suoi lucidi riverberi dava maggior risalto a tutti i movimenti dei muscoli.

La gelosia si riaccendeva nel cuore di Maddalena. Il conte Leoni doveva essere partito, quella era dunque la sera fissata d'un abboccamento con Silvia.

La fanciulla si torceva le mani, e rientrando nella sua stanza malediceva l'indolenza del governo, e mormorava fra i denti: — Cosa fanno questi balordi d'inquisitori di Stato?... perchè non mandano ad arrestare un accusato?... a che servono le bocche del leone?... a cosa servono le denunzie segrete?

Ma intanto che ella fremeva dalla collera, dopo d'aver assistito agli apparecchi di una spedizione galante, la notte scendeva propizia agli innamorati, e prometteva di proteggere colle tenebre i loro misteriosi ritrovi.

Valdrigo era all'ordine, ed uscito dalla sua stanza, ne chiudeva l'uscio e scendeva tranquillamente le scale, e la povera fanciulla ascoltava i passi di lui coll'ansia affannosa dell'avaro che sente il rumore dei ladri che si avvicinano allo scrigno, e si apparecchiano ad involargli tesori.

Giunto alla porta di strada mentre egli teneva in mano il bottone del chiavistello per aprire, dall'altra parte suonavano il campanello. Valdrigo aprì, e si trovò in faccia di quattro persone di sinistra fisonomia, una delle quali gli chiese: — Il signor Vittore Valdrigo?...

— Sono io — rispose il giovane, cercando di dissimulare una vaga inquietudine che lo assaliva. — Allora favorisca rientrare, io sono il fante dei cai[78] e vengo per ordine degli eccellentissimi inquisitori di Stato. — Gli altri erano, Messer Grande e due birri. La forza morale dei fanti, esecutori degli ordini dei tribunali, era così grande in Venezia, che bastava il loro nome per far abbassare la testa e tremare.. Rimontarono le scale, entrarono nella stanza di Valdrigo e l'obbligarono ad aprire tutte le cassette e gli armadi. Rovistarono il letto, misero sossopra ogni suppellettile, indagarono accuratamente ogni ripostiglio segreto, ogni angolo, ogni accessorio della mobilia, e batterono sui quattro lati del muro ascoltando se il suono manifestasse dei vuoti nelle pareti. Raccolte tutte le carte rinvenute le involsero in un foglio, e dopo di averlo suggellato con molta attenzione, invitarono Valdrigo a seguirli. Egli chiese in grazia d'avvertire i suoi ospiti, e questo gli venne concesso. Entrò nella stanza di Maddalena, sempre accompagnato dai quattro inseparabili compagni, e trovò la ragazza sfigurata a tal punto che ne sentì più compassione che della propria sventura. Essa aveva udito ogni cosa, voleva accorrere, ma le mancarono le forze, e cadde sopra una sedia, pallida come un cadavere, cogli occhi infossati, i capelli irti sulla fronte, la bocca arida ed amara, i denti serrati, il cuore palpitante, le membra distese dalla rigidezza dei muscoli, le mani chiuse con violenza. Valdrigo si fece a consolarla alla meglio, dicendole: — Fatevi animo, Maddalena, deve essere un errore, e ci rivedremo fra breve.

Poche altre parole potè aggiungere, che essa quasi nulla intendeva, e lo guardava fisso con due occhi incantati che parevano di vetro.

La vecchia Marta era accorsa in aiuto della nipote, Beppo era assente, il fante intimò la partenza. Valdrigo commosso per la pietà della fanciulla le si avvicinò accorato e con l'affetto d'un fratello le depose sulla fronte fredda un bacio d'addio, ed uscì senza volgersi indietro perchè gli mancavano le forze. — A quel bacio la fanciulla era caduta come colpita dal fulmine.

XXXIII.

Valdrigo venne condotto nelle prigioni dette dei Piombi, perchè, come è noto, si trovavano sotto al tetto del palazzo ducale. Colà egli aveva tutto il campo di meditare sulle sue disgrazie, e sulle umane vicissitudini; le quali poi non sono così indipendenti dalla volontà dell'uomo quanto vorrebbero pretendere coloro che attribuiscono troppo sovente alla fatalità della sorte, quello che in fatto non è che la legittima conseguenza delle loro azioni. Così Valdrigo colla sua invincibile tendenza al dolce far niente s'era creata un'esistenza avventurosa e da nulla, ed abbandonando il lavoro che gli avrebbe fruttato soddisfazioni e benefizi, perdeva i giorni e smarriva l'ingegno in vane e sterili occupazioni.

Invece il suo compagno d'infanzia perseverando nelle fatiche e negli studi, avanzava ogni giorno d'un passo, ed aveva oramai raggiunto un tal merito da bastare alla immortalità. Il Senato gli aveva decretata una medaglia d'oro del valore di cento zecchini, e gli assegnava una pensione vitalizia di cento ducati d'argento mensili, in compenso del monumento scolpito in onore d'Angelo Emo. E mentre Valdrigo entrava in carcere, Canova riceveva dall'ambasciatore della Repubblica presso la corte di Roma la medaglia commemorativa. La presentazione del dono del Senato venne fatta con molta solennità nella sala grande del Palazzo di Venezia (residenza dell'ambasciata a Roma) fra le persone addette alla legazione ed i più distinti personaggi invitati per la cerimonia. L'Ambasciatore presentò al Canova la medaglia, dicendogli: — «A voi, cittadino, onore dell'Italia, e della nostra patria, il veneto Senato mi commette presentarvi questo ricordo, in segno del suo gradimento per l'opera vostra, già collocata nel nostro arsenale, ove a gloria vostra e nostra, vivrà per molti secoli a comune compiacenza e decoro»[79].

XXXIV.

Beppo rientrando in casa trovò la Maddalena a letto col medico da una parte, e la Marta dall'altra. Il suo svenimento aveva durato quasi un'ora, e la povera vecchia, credendola morta, aveva gridato con voce disperata e chiesto ajuto dalle finestre.

Accorse le donnicciuole delle case vicine, prodigarono le prime cure alla fanciulla, e cercarono il medico.

Intanto la notizia dell'arresto di Valdrigo s'era sparsa per la calle, e diffusa per la città, e tutti fantasticavano sui misteriosi motivi d'una tale misura. Cogli animi concitati dagli avvenimenti politici tutti discutevano gli atti del governo, e ciascheduno spiegava le cose a suo modo. I timidi rientravano in casa sospettosi, bruciavano le carte e i giornali proibiti, e accusavano d'imprudenza i turbatori della pubblica quiete.

Beppo rimasto con Maddalena volle che sua sorella gli raccontasse esattamente i particolari dell'arresto, e quando udì che avevano trasportate le carte del giovane si cacciò le mani nei capelli esclamando: — Egli è perduto!...

Maddalena, quantunque abbattuta da un'eccessiva prostrazione di forze, alla parola del fratello balzò sul letto spaventata, e rizzandosi a sedere gli chiese con voce fioca ed affannosa, il motivo di tale giudizio.

Allora Beppo, dopo essersi assicurato che la porta era ben chiusa, e che nessuno ascoltava, avvicinandosi alla fanciulla tremante le disse all'orecchio: — Valdrigo è frammassone! cioè affigliato ad una società segreta, che congiura contro il governo, egli aveva carte e libri proibitissimi; faceva la propaganda fra il popolo, dei principi d'eguaglianza fra gli uomini, e predicava la libertà e la distruzione dei privilegi!...

Ad ogni parola ascoltata, Maddalena mandava un gemito profondo, il suo seno agitato palpitava con trabalzi interrotti dall'asma, con una mano nervosa serrava il braccio del fratello, e finalmente ricadde sull'origliere, con un singulto tanto profondo, e continuato che pareva il rantolo della morte. Beppo si pentiva ma troppo lardi delle sue rivelazioni, accorreva a chiamare la Marta, ritornava dal medico, ma il male era fatto. Si dichiarò una febbre violenta con vaneggiamenti, nei quali la povera fanciulla pronunciava voci sconnesse prive di senso, chiamava Valdrigo.... e balbettava sovente la parola perdono.

Intanto si spargeva anche a Treviso la notizia dell'arresto del giovane pittore, e la povera Rosa andando al mercato, udì la triste novella. Ritornata in fretta a Saltore, trovò la casa in iscompiglio e il marito nella desolazione.

Avendo scoperto un tumore in un bue, Zammaria era corso a chiamare il veterinario, il quale aveva dichiarato l'animale affetto da spina ventosa, incurabile.

L'annunzio dell'arresto di Vittore accrebbe la disperazione di Zammaria, il suo cervello non era suscettibile di sopportare due disgrazie in un punto senza gravi conseguenze.

Alla prima contrarietà egli diventava muto, alla seconda imbecille. Oppresso dall'affanno per i pericoli del figlio, minacciato di perdere un bue, e il migliore della stalla, sbalordito dal discorso della moglie, egli se ne stava colle mani in tasca, il naso in aria, la bocca spalancata, gli occhi stralunati, come trasognato e smarrito. Le sue idee erano confuse, egli non vedeva più chiaro, il bue malato e la prigione di Venezia, suo figlio, gl'inquisitori di Stato, e la spina ventosa gli trottavano per la testa in una nube misteriosa; il boia e il veterinario gli stavano davanti minacciosi, e la moglie spaventata aumentava i suoi terrori con le sue lagrime, e i suoi lamenti.

La Rosa si decise a partire per Venezia, e raccomandando alle cure di Osvaldo gli affari di casa, il bue ammalato e il marito istupidito, si mise in via per Mestre, e colà entrata in una barca giunse sulla sera alla casa degli ospiti di suo figlio.

Venne ricevuta dalla vecchia Marta e da Beppo colle lagrime agli occhi, e tosto la introdussero nella stanza di Maddalena. La povera malata entrava in convalescenza dopo lunghe sofferenze, superate per le cure della nonna, per l'assistenza delle amiche, ma più di tutto per l'influenza d'un pensiero che dominava il suo spirito e sosteneva le sue forze. Passata la prima violenza del male, essa aveva pensato con rimorso alla commessa imprudenza, aveva meditato ai modi di riparare la colpa, al dovere d'adoperarsi in vantaggio dell'infelice prigioniero, e di tentare ogni via per salvarlo. Il sentimento d'un tal dovere le era penetrato talmente nel cuore, che secondava i consigli del medico per ristabilirla in salute. L'energia della gioventù e la forza della volontà sono due potenti rimedi per ogni malattia. Vedendo entrare la Rosa, le parve che il cielo le inviasse un'alleata, e dopo d'aver sfogato colle lagrime l'espressione del cuore, promise alla buona madre di assisterla nelle sue supplicazioni in favore del giovane; e promise a sè stessa di prestarsi a salvarlo a costo d'ogni sacrificio.

Le loro espansioni affettuose e le reciproche promesse invigorirono il coraggio e la speranza d'entrambe, e incominciarono subito a far progetti ed a stabilire un mezzo che si mostrasse favorevole allo scopo. Ognuna manifestava le sue idee, la Rosa desiderava presentarsi alla contessa Fulvia degli Orseolo, gettarsi a' suoi piedi, muoverla a pietà, intercedere la sua valida protezione. Maddalena dimenava la testa lentamente in segno di disapprovazione e stringeva le labbra come chi dubita d'una cosa, ma non vuole opporre un'assoluta negativa.

Discussero lungamente sull'importante soggetto, ma la fanciulla meditava un piano che le sembrava infallibile, e temporeggiava soltanto ad annunziarlo per misurare le sue forze. Essa pensava che al mondo non c'è che una cosa sola d'irresistibile — l'amore. — Questa passione, essa diceva fra sè, può spingere a degli eccessi, può fare dei miracoli. Se una persona può salvare Valdrigo questa è Silvia Leoni, essa lo ama, essa troverà il modo di liberarlo. — Ma bisognava raccogliere le forze tutte del cuore e della mente, bisognava disporsi ad una annegazione completa di sè, bisognava rinunziare ad ogni aspirazione, ad ogni speranza, ad ogni gelosia. Questa era però una espiazione necessaria, la giusta punizione della colpa, colle stesse sue armi.

Quando le parve di sentirsi forte abbastanza per affrontare l'impresa, comunicò il suo piano alla Rosa, che vi aveva già pensato, ma non osava proporla per un riguardo istintivo verso la fanciulla della quale indovinava l'affezione, e sospettava la gelosia. Lieta però della decisione secondò il progetto, e fissato il giorno della visita, si disposero tutte due a sostenere la loro parte in modo da ottenere l'intento, la madre pensando a quanto avrebbe detto per intenerire la signora, la Maddalena studiandosi di domare la sua ripugnanza verso la rivale e di dominare la sua passione, sagrificando sè stessa all'interesse del giovane amato.

Giunta la mattina stabilita si misero in via, ed entrambe col cuore agitato da diversi sentimenti entrarono nel palazzo Leoni. Avendo chiesto di parlare alla padrona, un servo gallonato, le introdusse in un'ampia anticamera dicendo: — Accomodatevi qui ed aspettate.

In simili circostanze l'aspettativa è un supplizio, i minuti sono lunghi come le ore, e i pensieri tristi si accumulano nello spirito e pesano gravemente sul cuore.

Finalmente il servo ricomparve, aperse una porta, e tenendosi indietro disse: — Venite pure avanti....

Le donne entrarono in una stanza resa oscura dai pesanti cortinaggi delle finestre, ed esalante un leggiero profumo d'essenza d'ambra che salì al cervello di Maddalena come l'emanazione d'un veleno. Chiusa la porta dal domestico che rimase di fuori, si avanzarono lentamente, e si arrestarono dirimpetto ad un ampio seggiolone sul quale sedeva la dama.

Silvia, vestila a bruno, e più pallida del solito pareva oppressa da una profonda tristezza, ma quando riconobbe la Rosa si alzò in piedi, la accolse con pietosa dolcezza, se la fece sedere da presso e le disse con voce compassionevole:

— Povera Rosa!... m'immagino il motivo della vostra visita. — La Rosa scoppiò in un dirotto pianto, e dimenticò le belle espressioni che aveva apparecchiate per intenerire il cuore della signora, ma le sue lagrime erano più eloquenti di qualunque altro discorso.

Silvia indicò una sedia a Maddalena che si teneva in piedi cogli occhi bassi, e continuò:

— Siamo in tempi funesti per tutti, povera Rosa.... i torbidi delle provincie, le minaccie degli stranieri, l'audacia dei nemici del governo, rendono i giudici più severi.... ma qui si arrestò, perchè s'avvide che con tali parole raddoppiava il dolore della povera madre, e soggiunse: — fatevi coraggio, io non ho aspettato la vostra visita per occuparmi in favore di vostro figlio, ma vi ripeto, i tempi sono cattivi....

E mentre parlava andava esaminando attentamente la fanciulla che non conosceva, la quale sentendosi osservata arrossiva, e non osava alzare gli occhi, finalmente spinta dalla curiosità Silvia chiese alla Rosa:

— Chi è questa ragazza che vi accompagna?...

La Rosa esitava a rispondere, ma poi si decise, e disse con voce singhiozzante:

— È la nipote della padrona di casa di mio figlio....

Silvia e Maddalena si scambiarono un colpo d'occhio eloquente. La prima pareva che chiedesse con amaro sospetto: — saresti forse una innamorata di Valdrigo? — l'altra con fiero cipiglio sembrava dire: — Conosco i segreti del vostro cuore.

— State in casa con Vittore?... chiese Silvia con apparente indifferenza.

— Sì, signora.... rispose Maddalena, con un'aria di trionfo.

Allora Silvia, come per investigare dalle espressioni del volto, gl'interni sentimenti della fanciulla, soggiunse:

— Si potrebbe forse ottenere la liberazione di Vittore, dal carcere, ma sarebbe impossibile di salvarlo dalla espulsione dal territorio....

— Tanto meglio!... saltò fuori a dire Maddalena, che non seppe frenare la sua gioia. E la Silvia che studiava coll'istinto della donna i lineamenti della fanciulla sospetta, indovinò dall'atteggiarsi del volto e dall'improvvisa risposta, l'amore e la gelosia.

Allora, desiderosa di mettere alla prova l'intensità di quell'affezione, e forse anche di punire l'audacia d'una rivale dal cui amore sentiva offesa la sua dignità, continuò il suo discorso indirizzandosi alla Rosa, ma osservando sottecchi ogni movimento della fanciulla:

— Se potessi ottenere il suo esiglio, egli potrebbe andare in Carinzia. Io devo passare di là per recarmi a Vienna a raggiungere mio marito, e lo prenderei volontieri con me. A Vienna potrei giovarlo molto colle relazioni dei nostri amici. — Maddalena si mordeva le labbra, e le vene della sua fronte ingrossavano. — Silvia osservava ogni movimento di quel volto alterato, e continuava con apparente tranquillità: — È certo che l'esilio chiude per sempre le porte della patria, ed egli non potrebbe più entrare nei domini della repubblica.... ma piuttosto che marcire in una prigione, piuttosto di non vedere più il sole....

La povera Rosa teneva le mani giunte, e cogli occhi gonfi, infiammati, e pieni di lagrime, levava la fronte verso il cielo, che metteva compassione a vederla. — Maddalena lottava fra l'amore e la gelosia, fra il desiderio ardente di salvare Valdrigo, e il dolore di vederselo rapito per sempre. Ma alle ultime parole di Silvia, fatto come uno sforzo sovrumano sopra sè stessa, ruppe il silenzio, ed esclamò:

— Purchè sia salvo dalla prigione vada pure in esilio, purchè sia libero e possa rivedere il sole e la campagna che egli ama tanto... parta pure da Venezia... e... sia felice... e sia fatta la volontà di Dio!... Voleva dire: — e siate felici, ma si avvide che non conveniva, e mutò la frase.

Silvia intenerita da tanta annegazione, pensò: — lo ama più di me! — e stesa la mano alla fanciulla, volle tener stretta la destra di lei in atto di perdono e di simpatia, e le disse con sincera espressione:

— Siete una buona fanciulla... e il cielo vi proteggerà...

Questa specie di capitolazione istantanea stravolse i pensieri della povera Maddalena, che non trovando più la forza di frenare le sue emozioni proruppe in singhiozzi affannosi, ed in lagrime abbondanti.

Silvia avvicinatasi alla fanciulla la consolava con dolci parole, e Maddalena sempre più intenerita, le ripeteva fra i singhiozzi e le lagrime: — Salvatelo... salvatelo ad ogni costo... voi sola potete salvarlo.

Così fra le varie e strazianti commozioni rimasero lunga ora, piangendo insieme, pregando e promettendo a vicenda, sperando, e sospirando quando un domestico venne ad annunziare alla signora che Sua Eccellenza il conte Orseolo la aspettava nel gabinetto del conte Leoni per una comunicazione importante.

Silvia si levò, e congedandosi dalle donne, disse loro: — Consolatevi, mio padre deve essere andato alla legazione francese per parlare in favore di Vittore... Ahimè! pur troppo il Serenissimo Doge, l'Eccellentissimo Senato, e tutti i Magistrati della Repubblica, sono oramai i vassalli della Francia nostra nemica, e dipendono dalla sua possente volontà... a rivederci un'altra volta... Rosa, sperate... e voi pure, Maddalena... un giorno sarete forse felice... ed io vi prometto di cooperare alla vostra felicità, perchè sento che la meritate... e ne avete più diritto di... di altre persone. — Voleva dire più di me, ma corresse la frase prima di pronunciarla.

XXXV.

Quando un paese subisce gli ordini degli stranieri, l'ora della sua morte è vicina. La neutralità disarmata, cioè il dolce far niente, abbandonava Venezia inerme in balìa dei francesi. Spento l'antico valore nei baccanali, e ammollite le fibre dei cittadini nella lunga pace, nelle abitudini effeminate, nei piaceri d'una vita dilettosa, l'indolenza aveva preso il posto dell'operosità, e la paura succedeva al coraggio. I tempi delle guerre di Costantinopoli, Candia, Cipro e Morea erano tramontati per sempre. Colla morte d'Angelo Emo erano spenti gli eroi della tempra di Enrico Dandolo, di Vittor Pisani, di Carlo Zeno, di Francesco Morosini. La vecchiaia aveva rimbambito la Repubblica, le altere minaccie che avrebbero animato gli antichi alla lotta, facevano piangere l'ultimo Doge. Spento ogni vigore di governo, la città si divideva in partiti.

I sostenitori delle antiche leggi e degli aviti costumi, si stempravano in lamenti imbelli e odiavano i francesi; ma alle armi che invadevano lo Stato, rispondevano con impotenti proteste. I partigiani entusiasti delle nuove idee spingevano la patria alla rovina, colla stolta fidanza di trovare la libertà nella perdita della indipendenza. Fra questi estremi in lotta si agitava il partito che si solleva in tutte le rivoluzioni, come la schiuma nel mare burrascoso, e barcheggiando fra gli uni e gli altri, cerca di cavarne il denaro, e gli onori.

Il governo mandava deputati a Bonaparte vincitore, il quale rispondeva: — «Io sarò un Attila per lo Stato Veneto. Non voglio più Senato, non voglio più inquisizione. Verrò io a rompere i piombi, barbarie dei tempi antichi... le opinioni devono essere libere!» —

Tutto era perduto!... Mancava la forza per resistere e il genio per governare; dovevasi aprire la porla alla libertà, e chiuderla in faccia agli stranieri. Hanno fatto tutto al contrario!...

Il giorno 12 maggio 1797 fu l'ultimo per la repubblica che da Paolo Lucio Anafesto a Lodovico Manin visse quattordici secoli indipendente e gloriosa!

Una colonia di famiglie sfuggite alle stragi dei barbari venne a piantare le sue tende sulle isolette deserte della laguna. Povera, ma laboriosa fabbricò le sue piccole dimore di legno, e le modeste barchette necessarie alla sussistenza dei pochi abitanti.

Crebbe a poco a poco col traffico, abbellì la sua modesta dimora col frutto degli onesti guadagni. Aumentata la popolazione e la ricchezza, ampliò le case fino a che giunse a fabbricarle coi marmi dell'Oriente, ad abbellirle colle statue della antica Grecia; le barchette pescareccie diventarono forti navigli, che percorsero i mari, e tornarono in patria onusti di tesori e di gloria. Dapprima marinaia, commerciante e guerriera, fu poi madre e nutrice di sapienza e d'arti gentili.

Ma l'acquisto di Cipro le apportò colla ricchezza l'amore della voluttà, le morbidezze di corrotti costumi; la scoperta d'America le fu fatale al commercio. Giunta all'apogeo della fortuna s'arrestò a godere la conquistata grandezza.

Ma chi s'arresta è sorpassato da chi avanza. Venezia cinta del gemmato diadema si adagiò mollemente sul manto ducale, e immersa in voluttuosi pensieri mentre il leone ammansato dormiva ricevette gli omaggi del mondo che ammirava lo splendore della sua bellezza. Nei giorni del pericolo la sua spada irrugginita e il braccio infiacchito rifiutarono il loro uffizio, essa non aveva più forze, il suo leone non aveva più ruggiti. Allora fidente nella costanza della fortuna e nel prestigio de' suoi vezzi, si cinse di fiori, e assopita dal dolce far niente, chiuse gli occhi... — Quando li riaperse lo scettro e il diadema erano scomparsi, i fiori s'erano mutati in catene, il leone, ferito nel cuore, spirava... Fece uno sforzo per difendersi, ma troppo tardi!... la regina era divenuta una schiava...

XXXVI.

L'ultimo giorno della repubblica, caduto l'antico governo avanti che il nuovo regime entrasse in funzione, Venezia fu in preda all'anarchia. Il popolo sommosso commise violenze e saccheggi guidato da alcuni capi frenetici ed avidi di bottino, che eccitavano gli animi con declamazioni violente, e si trascinavano dietro una folla esaltata da tutte le passioni sfrenate.

Si apersero le carceri, e Valdrigo si trovò liberato al grido di viva la libertà e l'eguaglianza! e sceso in piazza fra il popolo agitato, apprese la caduta della repubblica. I diversi partiti minacciavano la guerra civile, e gli scaltri birboni si studiavano di approfittarne gridando ora viva san Marco, ora viva la libertà, tanto da fomentare le discordie, la confusione e le ire. Alcuni cialtroni indemoniati calunniando i vinti provocavano le vendette per trarne il loro vantaggio, e si mettevano alla testa delle orde furibonde per guidarle al saccheggio.

Al grido — morte all'aristocratico Leoni, morte al nemico del popolo, — Valdrigo che si era incamminato verso la sua dimora si arrestò commosso dall'indignazione e dal raccapriccio, e mutata strada seguì la ciurmaglia scapestrata che correva armata di picche e di fucili ad assalire il palazzo.

Deciso di difendere la dimora del suo protettore, egli si faceva largo fra la folla, per giungere fra i primi, e il pensiero che forse avrebbe potuto salvare la Silvia dall'imminente pericolo, animava il suo coraggio. Quell'orda ubbriaca di truffatori mandava urli minacciosi, imprecazioni e bestemmie, e Valdrigo ringraziava la Provvidenza d'averlo riservato alla sorte fortunata di esporre la vita per la donna che dominava il suo cuore.

Trovato chiuso il portone del palazzo si misero ad abbatterlo a colpi di martello e di scure ed ogni colpo risuonava nell'anima di Valdrigo con dolorosa impressione.

Gettata abbasso la porta, i saccheggiatori invasero il palazzo, Valdrigo li seguì, e penetrando di soppiatto in una stanza che conduceva agli appartamenti di Silvia, chiuse l'uscio dietro di sè, e si mise a correre per quelle camere deserte, senza trovare nessuno. Allora uscito per un'altra porta salì al piano superiore, ma ogni appartamento era deserto, che gli abitanti avvertiti in tempo erano usciti per una porta di dietro e si erano rifugiati in casa Orseolo.

Intanto il palazzo era stato invaso da ogni parte, gli armadi venivano infranti e depredati, ogni cosa manomessa, in preda della distruzione e della rapina. Valdrigo vagava come forsennato, coi capelli irti sul capo, cogli occhi spaventati, sospinto dall'onda degli invasori, ludibrio di forze irresistibili, spettatore impotente di tanta desolazione.

Confinato dalla folla irrompente, nel vano d'una finestra, vide con indescrivibile spavento delle nubi di fumo uscire vorticose dal lato della galleria.

Gl'infami predatori, non potendo forzare le porte le avevano incendiate, e il fuoco s'era appiccato ai quadri e distruggeva le opere preziose dei più insigni pittori.

All'anima dilaniata dalla vista delle profanazioni di tanti oggetti consacrati dalla sua venerazione e dal suo amore, s'aggiunse lo spettacolo dell'arte violata e distrutta dalla barbara brutalità degli scellerati. L'amante e l'artista erano parimente colpiti.

La sua esaltazione giunse al colmo; egli sentì il delirio della collera che gli invadeva il cervello, e gli metteva in oscillazione tutte le membra frementi spingendolo alla vendetta.

Era disarmato, ma dato di piglio ad un brandone di legno staccato da un mobile infranto si fece largo fra la folla, e sceso nella galleria cogli occhi che gli uscivano dalle orbite s'arrestò nel luogo ove pochi mesi prima aveva collocato il suo quadro dei pescatori. — La tela era stata distrutta dall'incendio, ed appena una parte della cornice pendeva ancora dal muro!... Il fuoco era stato spento dagli stessi incendiari, i quali temendo di non poter uscire per l'ingombro della folla, spaventati dall'idea di morire bruciati, ed anche spinti dall'avidità del furto, avevano soffocate le fiamme.

Vittore, divenuto come pazzo dalla disperazione di veder distrutta un'opera che gli costò tanta fatica, si mise a menare dei colpi disperati nelle gambe, nelle schiene e nelle teste dei birboni, che tagliavano le tele per distaccarle più presto dalle cornici.

Ai primi colpi, spaventati o colpiti, vollero fuggire, ma poi rianimati dai compagni che udito il tafferuglio erano corsi in aiuto, e resi audaci dall'isolamento dell'assalitore, gli si scagliarono contro coi coltelli.

Mentre ferveva la lotta, alcuni cittadini, armati in fretta per ristabilire l'ordine turbato, seguiti dai buoni arsenalotti e da un drappello di bombardieri accorrevano al palazzo Leoni per frenare il furore del popolo. All'intervento della forza regolare i saccheggiatori sgombrarono dal luogo, abbandonando Valdrigo disteso sul pavimento della galleria, privo di sensi ed innondato di sangue.

XXXVII.

Rosa e Maddalena, appena udita la liberazione dei prigionieri, erano accorse verso le carceri per incontrare Valdrigo. Giunte in Piazzetta, lo cercarono inutilmente fra la folla, ed avendo inteso parlare d'una ciurma minacciosa che s'era indirizzata al palazzo Leoni, congetturarono tosto che si fosse recato colà per prestare la mano alla difesa. Vi giunsero qualche tempo dopo l'arrivo de' soldati, mentre un medico assistito da qualche altra persona, collocava Valdrigo sopra un letto, apportato nella stessa galleria, non giudicando prudente di trasportare il ferito. È più facile immaginare che descrivere la loro desolazione, però la necessità del momento le obbligò a soffocare ogni dolore per darsi all'assistenza del povero giovane, che aperti gli occhi parve consolarsi della vista della madre e della fanciulla, come della apparizione di due angeli discesi dal cielo in suo ajuto.

Ripararono alla meglio il disordine del locale in parte saccheggiato, in parte guasto dalle fiamme, in parte ancora adorno di stupendi dipinti.

Essendo infrante le invetriate, chiusero le finestre colle porte degli appartamenti vicini, e con dei frammenti di tappeti, lacerati dagli invasori, cercarono d'impedire l'ingresso dell'aria. Il chirurgo medicando le gravi ferite scuoteva il capo in alto di sfiducia; Rosa e Maddalena gli prestavano la più affettuosa assistenza. Alcuni cordiali opportunamente somministrati parvero giovare alquanto al malato, e la speranza ravvivò lo spirito affranto delle povere donne.

Sulla sera, Silvia accompagnata dai suoi parenti dai quali s'era ricoverata nel momento del pericolo, rientrò nel suo palazzo scompigliato dal saccheggio, attristato dalle lagrime e dal sangue, e accorse subito a visitare il ferito che alla sua vista atteggiò il pallido volto ad un mesto sorriso, che pareva volesse esprimere il seguente pensiero:

— Sono lieto di morire, perchè non sono stato degno di vivere....

Silvia pensando con raccapriccio al passato, ai pericoli incorsi nella sua vita, ed alla tremenda catastrofe del giorno, osservava con pietoso sentimento lo sguardo eloquente di Vittore, e pareva che gli rispondesse col muto linguaggio dell'anima:

— Tutto svanisce nella mia vita!... il primo, l'unico amore! — la gioventù — la speranza di giorni migliori — la patria e le glorie degli avi, calpestate dal furore del popolo.... non ho serbato che una cosa sola, la virtù!... essa mi darà la forza di sopportare ogni disgrazia, e di aspettare senza rimorsi.... il giorno del riposo.... l'eternità!

Alla notte le tre donne si chiusero nella galleria, e vegliarono intorno al letto dell'infermo, rischiarate da una lampada che mandava una languida luce su quella scena di dolore.

Valdrigo con l'occhio del moribondo guardava ora l'uno ora l'altro di quei volti che assistevano con tanta pietà alle sue pene. Gli si leggevano i pensieri sui lineamenti sparuti, agitati a seconda delle sensazioni.

Fissava la Rosa con un'espressione d'affanno. La madre gli ricordava la famiglia, le gioje innocenti dell'infanzia, la pace serena dei campi illuminati dal sole, l'alito della vita che moveva le piante e gli animali con un fremito arcano, sottomessa alla sublime volontà della natura. Rivolto a Silvia, l'occhio semispento si animava d'una scintilla, le labbra tremolavano d'un fremito convulso. Essa gli rappresentava l'amore sublime, l'aspirazione perenne della sua anima verso una felicità inarrivabile, il pensiero animatore della sua esistenza. Guardando la Maddalena egli volgeva la testa verso il quadro distrutto, ed una lagrima inumidiva le sue ciglia. Essa era stata per lui il tipo perfetto dell'arte, il modello de' suoi studi, la causa del suo trionfo d'artista. — Tutto era perduto!... Le gioje della vita, la felicità dell'amore, le glorie dell'arte!...

Il moribondo chiudeva gli occhi, e il rantolo dell'agonia gli opprimeva il respiro. — Allora forse un rimorso gli mordeva la coscienza e amareggiava i suoi ultimi istanti. — L'apatia, l'indolenza, l'inerzia avevano dominata la sua vita e soggiogato il suo genio! — La natura lo aveva dotato di rari doni, egli li aveva sprecati. Nell'arte voleva raggiungere la perfezione, nell'amore aspirava all'impossibile, della vita non coltivava che le chimere ed i sogni!...

La contemplazione inoperosa, il dolce far niente, gli rendeva amara la morte, il pensiero di non avere recato alcun vantaggio colla sua esistenza, di non lasciare veruna traccia del suo passaggio sulla terra, era il tormento della sua ultima ora. Alla mattina aperse gli occhi, e quando il sole salutava i campi coi primi suoi raggi, egli coll'estremo anelito della vita proferiva queste parole che riassumevano il suo destino: — Ho aspirato a cose troppo sublimi! — e abbandonato il capo sull'origliere, spirava.

XXXVIII.

La bruna gondoletta che menava all'estrema dimora Vittore Valdrigo tracciava un solco nella laguna, che appena aperto svaniva senza lasciare veruna traccia del suo passaggio. Tale fu la vita di lui, tale è l'esistenza di chi perde i giorni nell'ozio, e spreca le ore in vuoti vaneggiamenti e in chimere. Ciascheduno deve il suo tributo alla società in ragione delle sue forze. Il dolce far niente è la rovina degli individui, delle famiglie, e degli Stati.

Nel giorno che il giovane pittore scendeva nella tomba, lo scultore suo compagno di studi, esponeva in Roma la bella statua di Psiche, nella quale aveva trasfusa la sua anima.

La vita operosa gli fruttava onori e ricchezze. Egli visse ancora molti anni circondato dall'ammirazione del mondo, eresse sui colli del suo paesello nativo un tempio che rivela il suo amore per la patria e per l'arte, e scolpì delle statue e dei monumenti che lo ricorderanno alla più tarda posterità. Morendo lasciò i beni della fortuna alla famiglia, e trasmise all'Italia il glorioso retaggio delle sue opere e del suo nome immortale.

Villa Saltore, gennaio 1869.

FINE.

DEL MEDESIMO AUTORE:

Il bacio della contessa Savina . 4.ª edizione L. 1 —

Villa Ortensia 3 —

Il Roccolo di Sant'Alipio 3 50

Sotto i ligustri . Novelle e memorie 3 50

Il Convento 3 50

La famiglia Bonifazio 4 —

Brava gente! 3 50

NOTE:

1 . Veggasi le antiche cronache, e le Memorie Venete raccolte da Giambattista Galliciolli, stampate in Venezia nel 1795. Tomo VII, pag. 100. 2 . Missirini . Della vita di A. Canova . Prato, 1824. Libro I, Cap. II , pag. 24. 3 . Pensieri di Canova tratti dalle Memorie scritte da Antonio d'Este . Firenze, p. 73. Le Monnier, 1864. 4 . Parole di Canova . Opera sopra citata, p. 67. 5 . Parole di Canova, citate nelle memorie scritte da Antonio d'Este. 6 . Ballarini, Lettera 14 maggio 1785 — citata da Fabio Mutinelli nelle Memorie storiche degli ultimi cinquant'anni della Repubblica Veneta . Venezia 1854. 7 . La descrizione dei locali e delle cerimonie è presa esattamente dalle Memorie storiche degli ultimi cinquant'anni della Republica Veneta , di Fabbio Mutinelli, il quale parimenti la trascrisse dai documenti autentici esistenti nell'Archivio degli Inquisitori di Stato, nell'Archivio generale e nella Raccolta del Museo Correr. 8 . Mutinelli, opera citata. 9 . Esistono due cataloghi dei Liberi Muratori Veneziani, dai quali vennero estratti questi nomi con storica esattezza, e si conservano nell'Archivio del Governo democratico e nella Raccolta Correr. 10 . Parole tutte di Canova, citate da Missirini nella Vita che scrisse di lui. 11 . Memorie di Antonio Canova scritte da Antonio D'Este: — Firenze. Le Monnier, 1864, p. 68 12 . Citazione testuale delle suddette memorie scritte da A. D'Este, p. 69. 13 . Egli dipinse l'illustre suo amico in procinto di cadere da cavallo per la soverchia emozione, ed aggiunge ingenuamente: «nè io poteva prestargli ajuto, trovandomi nel medesimo stato. Di ciò avvedutisi alcuni dei più spediti giovani, vedendo aumentarsi il di lui abbandono, gli si fecero ai fianchi per sorreggerlo.» Pag. 69. 14 . Veggasi le memorie storiche di Mulinelli più volte citate, a pag. 74. 15 . Historiettes de Tallement de Reaux , vol. II, pag. 233. 16 . Segrais ( Œuvres . Amsterdam, 1723,) Mémoires anecdotes , pag. 29. 17 . Antonio Meneghelli . Notizie bibliografiche d'Isabella Albrizzi , nata Teotocchi , pag. 12 e 53. 18 . M. Victor Cousin , Madame de Longueville . Paris. Didier, 1853, pag. 136. 19 . Valery , Curiosité et anecdotes italiennes . Paris. D'Amyot, 1842, pag. 353. 20 . Cousin , opera sopracitata, pag. 136. 21 . Cousin , op. cit., pag. 141. 22 . Idem ibid, pag. 139. 23 . Ugo Foscolo , Lettera ad Isabella Albrizzi nella Raccolta d'alcune lettere d'illustri italiani . Firenze, per Le Monnier, pag. 30. 24 . Dai Ritratti scritti da Isabella Teotocchi-Albrizzi . Venezia, Alvisopoli, 1816. Terza edizione, pag. 54. 25 . Albrizzi . Ritratti , ecc., pag. 67. 26 . Obbligato dal Governo di lasciare Venezia come sospetto di giacobinismo, portò seco un ritratto della Albrizzi, opera di madama Lebrun. Ritornato in Francia all'epoca della Restaurazione dei Borboni, morì a Parigi, ove dopo la sua morte il conte Tommaso Mocenigo Soranzo acquistò il ritratto d'Isabella e lo offerse in dono al di lei figlio Giuseppino Albrizzi. 27 . Albrizzi . Ritratti sopracitati, pag. 26 e 30. 28 . Albrizzi . Ritratti sopracitati, pag. 5 e 6. 29 . Id., pag. 7. 30 . Sono tutte sue espressioni tolte dal suo lungo sermone sui viaggi. Veggasi le poesie originali di Ippolito Pindemonte. Firenze, per Barbéra e Bianchi, 1858. 31 . Veggasi il discordo di Pietro Dal Rio premesso alle poesie originali pubblicate a Firenze. — Sulla vita e sulla opere di Ippolito Pindemonte . 32 . Veggasi Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso. 33 . Id. Ib. 34 . Veggasi Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso. 35 . Ritratti sopracitati, dalla pag. 95 alla 98. 36 . Mémoires de M. Goldoni pour servir à l'Histoire de sa vie , etc . Paris, par Duchesne, 1787. Tome III, pag. 30. 37 . Mémoires sopracitate, pag. 54. 38 . Id. Ib, pag. 197. 39 . Scritti di G. Gozzi , scelti e ordinati da N. Tommaseo Firenze, per Le Monnier. Lettere a Caterina Tron, vol. III. 40 . Id. Ibid. vol. III, pag. 475. 41 . Scritti di G. Gozzi , sopracitati. 42 . Id. Ib., 477. 43 . Id. Ib., 490. 44 . Id. Ib., 491. 45 . Id. Ib., 495. 46 . Id. Ib., 496. 47 . Scritti di G. Gozzi sopracitati, pag. 496. 48 . Id. Ib, 507. 49 . Id. Ib., 532. 50 . Id. Ib., 533. 51 . Memorie inutili della vita di Carlo Gozzi, scritte da lui medesimo e pubblicate per umiltà . Venezia, Stamperia Palese, 1797. 52 . Memorie sopracitate, vol. I, cap. XXXV. 53 . Opera sopracitata , vol. III, pag. 101. 54 . Id. Ib., pag. 103. 55 . Opera sopracitata, vol. III, pag. 189. 56 . Id. Ib., pag. 190. 57 . Opera sopracitata, vol. III, pag. 192. 58 . Id. Ib., pag. 193. 59 . Id. Ib. 60 . Opera sopracitata, vol. III, pag. 193. 61 . Albrizzi , Ritratti , pag. 43, 44, 51. 62 . Albrizzi. Ritratti , pag. 81 e 82. 63 . Emiliani Giudici. Storia delle belle lettere in Italia . Lezioni XIX. Firenze. Le Monnier 64 . Albrizzi . Ritratti , pag. 58. 65 . Questo ritratto non essendo fatto pel pubblico deve essere rassomigliante, è delineato poi precisamente a Venezia nel 1795, epoca del nostro racconto; trovasi nell'Epistolario di Ugo Foscolo pubblicato a Firenze da Le Monnier nel 1854. Vol. III, pag. 281. Lettera a Gaetano Fornasini. Può vedersi la differenza col suo ritratto scritto per il pubblico, nel sonetto: «Solcata ho fronte, occhi incavati, intensi, ecc. ecc.» Trovasi nel volume unico di Poesie pubblicate a Firenze nel 1856 dallo stesso Le Monnier, e che forma il volume XI delle opere edite e postume: pag. 194. 66 . Veggasi l' Epistolario sopracitato. Vol. I, pag. 1. 67 . Epistolario sopracitato, pag. 4. 68 . Id. Ib., vol. III, pag. 279. 69 . Id. Ib., pag. 280. 70 . Id. Ib. 71 . Veggasi una lettera di Ugo Foscolo stampata in un opuscoletto pubblicato a Firenze da Le Monnier nel 1856, col titolo: — Alcune lettere d'illustri italiani ad Isabella Teotocchi-Albrizzi , pubblicate per cura di Nicolò Barozzi. 72 . Albrizzi. Ritratti , pag. 14. 73 . Id. Ib., pag. 71. 74 . Albrizzi. Ritratti , pag 93. 75 . Id. Ib., pag. 63, 64. 76 . Id. Ib., pag. 38, 40. 77 . Veggasi la Raccolta cronologica-ragionata dei documenti inediti che formavano la storia diplomatica della rivoluzione e caduta della Repubblica di Venezia (Tentori). 78 . Il fante dei cai , ossia dei capi, cioè dei Dieci, e degli inquisitori di Stato: Messer grande era il bargello. 79 . Memorie di Antonio Canova , scritte da Antonio d'Este . Firenze, Le Monnier, 1864, pag. 87.