IL ROCCOLO

DI

SANT'ALIPIO

RACCONTO DI

ANTONIO CACCIANIGA

MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI. 1881.

PROPRIETÀ LETTERARIA.

Tip. Fratelli Treves.

AL SIGNOR CAVALIERE DOTTOR LUIGI COLETTI.

Egregio Signore ed Amico,

La difesa del Cadore è uno dei più eroici episodi delle nostre guerre d'indipendenza. Se io conosco nei più minuti particolari quei fatti memorabili lo devo alla vostra somma benevolenza. Voi mi avete confidato con amichevole cortesia quelle memorie personali, ove raccoglieste quasi giornalmente tutti gli avvenimenti di quell'epoca, nella quale foste l'inseparabile compagno del capitano Calvi, e mi avete comunicato tutti i preziosi documenti che avete conservati come membro del Comitato di difesa.

Ospite in casa vostra, a Pieve di Cadore, m'avete fatto partecipe della vita cadorina, abbiamo visitato insieme i siti ove ebbero luogo le azioni più rimarchevoli della difesa, m'avete fatto conoscere degli uomini che vi presero parte; siamo saliti sui monti, abbiamo penetrato nelle vecchie case, ci siamo seduti intorno ai focolari del popolo facendo come un'inchiesta rigorosa sulle memorie domestiche, e sui costumi locali.

Ci siamo riposati al Roccolo di Sant'Alipio, soffermandoci in quel nido delizioso del Montericco, contemplando da quel pittoresco romitaggio la stupenda valle del Piave, e i monti che le fanno corona. A merito vostro conosco per nome tutte quelle cime, tutti quei boschi, tutti quei paeselli, e tutte quelle persone gentili che soddisfecero pienamente la mia insaziabile curiosità.

Questo libro che racconta le semplici vicende d'una famiglia, in quei tempi burrascosi è uscito dalle vostre note, e dalle nostre comuni inchieste; esso vi appartiene intieramente, e mettendo il vostro riverito nome in testa di questo volume, io compio un dovere di giustizia, nell'atto che vi offro una prova della mia perenne riconoscenza.

Vogliate essermi indulgente per tutto quello che ho guastato nel quadro, tanto nelle macchiette che nel fondo, e perdonate se non ho saputo riferire con precisione le nostre impressioni, che tuttavia conservo vivissime.

Mi rammento, come se fosse ieri, quel giorno che abbiamo incontrato Sior Antonio dietro le vecchie case affumicate di Auronzo....

Ma non posso rifare il libro in questa lettera, e mi limito ad augurare agli italiani di far conoscenza intima di questo angolo romito delle nostre Alpi,... tanto dilette agli inglesi.

Stupendo paese!... ricco d'antiche virtù e d'onesti costumi, d'uomini forti come le sue rupi, fedeli nell'amore della patria colla tenacità degli abeti barbicati nelle roccie delle loro montagne, costanti negli affetti domestici che consolano quelle modeste dimore con gioie soavi e salutari come il profumo dei loro boschi.

Con animo grato per le vostre cortesie, vi presento questo libro che porta un nome a tutti noto alla Pieve, pregandovi di raccomandarlo all'egregia vostra famiglia, e ai vostri amici, come il ricordo di un'ammiratore sincero del Cadore che non sa dipingere al vivo quello che sente, ma che sa valutare quanto meritano quei semplici costumi in mezzo di quella natura sublime.

E conservatemi la vostra benevolenza.

Villa Saltore, 30 luglio 1880.

devotissimo amico

Antonio Caccianiga.

IL ROCCOLO DI SANT'ALIPIO

I.

La neve cadeva a larghe falde a Pieve di Cadore, e il vento che soffiava dall'Antelao la portava sui ballatoi e sulle scale esterne delle vecchie case di legno, sui poggiuoli e sulle cornici dei balconi delle case nuove. Il nevischio penetrava in tutti gli angoli, si accumulava sugli abbaini dei tetti, si distendeva sugli spigoli sporgenti dai muri. Nella penombra della sera si vedevano i fuochi accesi nelle cucine; e il fumo che usciva dalle porte dei casolari, e dai camini delle case, spargeva d'intorno un odore di resina misto di fritto e di arrosto, che invitava gli abitanti a rientrare in fretta al loro domicilio.

E infatti tutti i viandanti imbaccucati nei loro tabarri o stretti nei panni affrettavano il passo, e si dileguavano per le vie, mentre si chiudevano tutte le imposte, e le strade si facevano deserte.

Era il giorno di Natale del 1847, e in casa Lareze ardeva sul focolare una fiamma viva che faceva bollire varie pentole, bronzini, e marmitte, e riscaldava tutta la famiglia seduta sulle panche intorno al camino. Sior Antonio ascoltava i sibili esterni del vento, e udendo il vicino gorgogliare delle pentole si fregava le mani, e fiutando quelle esalazioni appetitose, e guardando una damigiana dall'ampio ventre che era stata depositata sopra un tavolo, pareva ringraziasse il cielo di non avergli fatta una parte troppo brutta nel mondo. Sua moglie Maddalena sorvegliava ogni cosa, alzava i coperchi per vedere se le vivande bollivano, assaggiava il brodo, accomodava la legna sul fuoco, e le brace intorno ai vari recipienti, assistita da Bortolo il giovane domestico, un generico di casa che faceva un po' di tutto, mentre la Betta madre di lui, e vecchia serva della famiglia, apparecchiava la tavola.

Tiziano l'unico figlio dei padroni si scottava le gambe davanti la fiamma e attendeva silenzioso l'ora del desinare, mentre Fido il cane da caccia russava a suoi piedi. Gli apparecchi promettevano una lieta serata, tuttavia un'aria malinconica dominava quella famiglia, tutti se ne stavano in silenzio, e ciascheduno aveva un pensiero che non osava manifestare. L'anno antecedente, nello stesso giorno di Natale c'era davanti a quel fuoco anche un buon vecchio, il quale essendo partito per l'altro mondo lasciava un vuoto doloroso. Il povero nonno Taddeo nel corso dell'estate era morto di vecchiaia, e appunto perchè aveva vissuto lungamente nessuno credeva di perderlo. Piccolo possidente, e agente principale d'una ricca famiglia che faceva il commercio del legname a Venezia, Taddeo nella sua gioventù era stato alla dominante a far visita ai padroni, aveva veduto l'antica e gloriosa repubblica di San Marco, ed era rimasto colpito dal lusso dei palazzi, dalla maestà delle chiese, dalla profusione dei marmi orientali, dall'oro dei mosaici, dallo splendore delle pompe, dalla magnificenza delle feste. E raccontava sovente i suoi tempi, compiacendosi di ritornare colla memoria nell'età giovanile, rammentando specialmente con piacere la piazza di San Marco colla fiera dell'Ascensione, ove si trovavano esposti in bell'ordine tutti i prodotti del mondo, che egli non finiva mai di descrivere, colla stessa prolissità che raccontava l'arrivo del papa Pio VI.

Quest'ultimo avvenimento che accoppiava la maestà della religione alle pompe del governo, aveva esaltato la sua immaginazione a tal segno, che nella più tarda età conservava ancora vivaci le impressioni ricevute.

Egli descriveva una loggia tutta oro e damaschi in campo San Giovanni e Paolo, nella quale apparve il sommo pontefice Pio VI, accompagnato dal patriarca Federigo Maria Giovanelli e dal Doge Paolo Renier, seguiti dai cardinali, dai Vescovi, e dal Senato. Il popolo affollato stava silenzioso ed in ginocchio sulla piazza, e si accalcava alle finestre e sui tetti delle case. Alzate le mani al cielo il papa benediva i veneziani fra vortici d'incenso mandati dai turribuli, mentre l'organo della chiesa faceva echeggiare i suoi concenti, tutte le campane della città suonavano a gloria, e i cannoni tuonavano da lontano dalle navi e dal porto.

Quelle feste solenni, grandiose, i monumenti della città singolare, tutto quello che aveva udito narrare delle glorie di Venezia, delle sue sterminate ricchezze, della sua potenza esterna ed interna, della severità delle leggi, gli facevano considerare la repubblica di San Marco come il tipo più perfetto di governo che si potesse desiderare, e trovava pienamente giustificata la devozione figliale che ne mostravano i cadorini. E invece quando gli parlavano del governo Austriaco alzava gli occhi al cielo e crollava le spalle in segno di disprezzo.

Infatti dopo le guerre napoleoniche egli aveva veduto i tedeschi entrare in Cadore laceri e pidocchiosi, e deplorava vivamente che le vicissitudini delle armi avessero condannato il paese a subire quel giogo umiliante ed assurdo. Ed ogni inverno nel suo cantuccio prediletto del focolare egli raccontava per la centesima volta quelle vecchie storie aggiungendovi delle riflessioni politiche e morali, che suo figlio Antonio approvava, mentre Tiziano e Bortolo dormivano profondamente, perchè la morale dopo il pranzo e intorno al camino è sempre riuscita un potente narcotico per la gioventù d'ogni paese.

Però le massime dei nonni, anche poco ascoltate, s'infiltrano nel sangue, e si trasmettono alle future generazioni, come un legittimo retaggio di famiglia, e il vecchio Taddeo conchiudeva tutte le sue narrazioni ripetendo le glorie di San Marco, e sostenendo che il governo Austriaco era una vergogna grandissima e un danno perenne per l'Italia. E con tali sentimenti visse ottantacinque anni e sette mesi, e morì fedele al suo Dio ed alla sua patria, circondato dalla stima e dalla venerazione di quanti lo conobbero.

Sior Antonio, degno figlio di lui, era un vero tipo cadorino del vecchio stampo. Giubba di fustagno giallo a coda mozza, calzoni corti della stessa qualità, scarpe grosse da montanaro, cappello a cilindro a pelo lungo, un po' più largo alla sommità che alla base, senza cravatta, col volto raso completamente, e un sorrisetto sul labbro fra il bonario ed il furbo. Erede del modesto censo e delle massime paterne, agente generale degli stessi padroni, probo ed onesto a tutta prova, ma un po' taccagno coi vicini coi quali era in continue brighe per dissensi interminabili di confini. In quei monti, dove la piccola proprietà è frazionata all'infinito, la terra coltivata si limita in spazii angusti, ogni palmo di terreno è prezioso, e suscita questioni interminabili.

Col lavoro e col risparmio, Sior Antonio, secondato da sua moglie Maddalena, sobria ed economa padrona di casa, ha potuto dare una completa educazione all'unico figlio Tiziano, scopo onorato di tutti i loro sforzi, di tutte le privazioni, di tutte le fatiche d'una laboriosa esistenza.

Tiziano era dunque cresciuto con altri destini. Frequentò le scuole locali, scorrazzando sui monti il resto della giornata, coi suoi compagni, o con Bortolo il quale era nato in casa dal matrimonio d'un vecchio e fedel servitore colla Betta, la quale rimasta vedova, allevava il figlio colle massime dei genitori, perchè potesse servire fedelmente i padroni di suo padre.

I due ragazzi passarono insieme l'infanzia, crebbero come fratelli, e quando Tiziano venne mandato a studiare il latino nel seminario Gregoriano di Belluno, Bortolo fu iniziato ai vari servizi di stalla e cucina, con l'aggiunta di cento altri mestieri.

Gli studi classici, i libri letti alla macchia, la società di compagni svegli ed intelligenti affinarono in Tiziano i sentimenti di devozione all'Italia, coi quali era stato allevato in famiglia.

Michele Malacchini suo compatriotta, condiscepolo fino dalle scuole elementari, e suo collega in seminario, divenne il più intimo dei suoi amici, e l'indivisibile compagno della sua vita. Questo giovane rimasto orfano nell'infanzia venne raccolto in casa da Sior Iseppo, un vecchio zio bisbetico divenuto suo tutore, che considerava il nipote come una tassa forzosa impostagli dalla natura. Il nipote considerava lo zio come un tiranno, e soleva chiamarlo l'orso domestico, perchè quando usciva dal covo della sua stanza, perseguitava il giovanetto con continui grugniti, che volevano riuscire sermoni, ma che non raggiungevano l'intento.

Nelle vacanze autunnali, Tiziano e Michele correvano i boschi e le valli collo schioppo ad armacollo, accompagnati dai loro cani, ed inseguivano le lepri, i francolini, i cedroni, i coturni, e più tardi i daini ed i camosci sulle più erte rupi delle montagne.

Terminati gli studi del Seminario i due amici passarono insieme all'Università di Padova, prendendo alloggio nella stessa casa in due camere contigue. Tiziano studiava matematica per diventare ingegnere, Michele diceva di studiar legge, ma andava a scuola di rado, col pretesto che l'aria mefitica delle aule chiuse gli opprimeva il respiro, e che egli aveva bisogno d'aria, di luce, di movimento, e non potendo andare alla caccia dei selvatici per le strade di Padova, si divertiva ad inseguire le sartine e le crestaie, e slanciava dichiarazioni amorose a tutte le donne, dimenticandole il giorno dopo.

La vita universitaria aveva però completata la loro educazione politica, e i giovani sempre più insofferenti del giogo austriaco, procuravano di apparecchiarsi ad una riscossa che potesse liberare il paese dal dominio straniero. E si raccoglievano in segreto fra loro, comunicandosi le idee, leggendo avidamente gli scritti di Mazzini, Balbo, Gioberti, D'Azeglio. Recitavano degli squarci delle tragedie di Niccolini, imparavano a memoria i versi di Giusti e Berchet, declamavano focosamente i più caldi capitoli dei romanzi di Guerrazzi, e apparecchiavano congiure e piani di rivoluzione, tenendo corrispondenze coi capi delle sêtte all'estero, e cogli affiliati delle società segrete italiane.

All'autunno ritornando a Pieve di Cadore, animati da sentimenti patriottici, si raccoglievano nel roccolo di Sant'Alipio, ove comunicavano le speranze d'Italia a Isidoro Lorenzi che era il capo dei liberali cadorini, e il più fervente promotore della liberazione d'Italia sulle Alpi; il quale quantunque avesse oltrepassata la quarantina, conservava tutto il vigore della gioventù, e in quell'angolo romito delle montagne, che sfuggiva ad ogni sorveglianza, apparecchiava alacremente gli animi dei suoi compatriotti alla ferma volontà di emanciparsi dagli stranieri.

Il roccolo di Sant'Alipio è una piccola proprietà destinata specialmente a prendere nelle reti gli uccelli che passano in quella stretta gola del Piave. È collocata nel fianco del Montericco, sotto i ruderi dell'antico castello di Pieve di Cadore, a pochi passi dal paese, ma in un sito recondito, quasi a picco sul torrente, nascosta a tutti gli sguardi in mezzo d'un bosco di larici, con un prospetto meraviglioso dei monti e delle selve che chiudono la vallata.

È composta di una casetta di legno, e di un terreno coltivato con pittoresco disordine che forma una specie di oasi capricciosa di fiori e di frutta, d'erbe vagabonde e cereali che crescono confusamente in mezzo alle piante orticole ed agli alberi. Una pergola di carpini fiancheggia il precipizio e va a terminare in un gabinetto di verdura nascosto in fondo al roccolo, incantevole ridotto, circondato da panchine, e quasi sospeso sulle roccie a grandissima altezza, che Tiziano aveva denominato il nido di Montericco, e che veduto da lontano sembra effettivamente un nido d'aquila nascosto in una anfrattuosità inacessibile della montagna.

Isidoro Lorenzi, il fortunato possessore di questo romitaggio, viveva colà con l'unica sua figlia Maria, con una vecchia serva, e con Turco, il suo cane da caccia. Vedovo da qualche anno aveva concentrato ogni suo affetto nella figlia, una bella e robusta ragazza con grandi occhi neri e capelli corvini, di soave fisonomia, che gli rammentava la cara compagna della sua vita, troppo presto perduta. Passionato cacciatore ed uccellatore, e grande ammiratore della natura, egli passava i giorni in quella solitudine, occupato a tendere le reti sul roccolo, a governare gli uccelli da richiamo, a coltivare ogni sorta di piante in un caos inestricabile che formava la sua delizia, e che sembrava un gigantesco canestro di piante coltivate collocato in mezzo di un bosco. E quando era stanco di correre e lavorare intorno alle sue colture, andava a sdraiarsi sull'erba, colla pipa in bocca, e Turco ai suoi piedi, e contemplava lungamente lo stupendo spettacolo che gli stava davanti, la pittoresca vallata del Piave fiancheggiata da monti boscosi, sparsa di paeselli biancheggianti alle falde di verdi colline, che finisce lontano lontano in una tinta azzurognola sfumata che si confonde col cielo. E non usciva dal suo ritiro che per vedere qualche amico, per parlare degli affari italiani, per comunicare delle notizie importanti a delle persone che aspettavano i suoi cenni, e obbedivano ai suoi ordini, o per battere i boschi e salire sui dirupi alle grandi caccie del camoscio, nelle più alte montagne. E tirava sempre sulle aquile, uccellaccio che aveva in odio a motivo di quella che portava due teste, e che sperava un giorno di accalappiare, per mandarla impagliata a qualche museo che doveva collocarla fra le bestie più nocive.

Tiziano e Michele frequentavano il roccolo, entrandovi però sempre con molte precauzioni, per non essere veduti e non eccitare sospetti alla polizia, la quale doveva ignorare che in quella macchia di fiori e frutta si nascondevano i suoi nemici più acerrimi.

Quando Isidoro era in casa, si mettevano in compagnia a fumare la pipa ed a ciarlare di politica al piede d'un albero; quando era uscito per recarsi alla caccia sulle montagne, andavano a far conversazione con Maria che era stata la compagna dei loro giuochi infantili, e che amavano fino dall'infanzia. Essa andava a lavorare d'ago nel gabinetto di verdura in capo alla pergola, nel nido di Montericco, e i giovani le facevano compagnia, e allora dimenticavano affatto la politica, giuocavano come fanciulli, e Michele raccontava a Maria delle storie impossibili, burlandosi poi della sua ingenua credulità, e facendola arrossire di vergogna della sua buona fede. Per vendicarsi, essa lo condannava a dipanare delle matasse intricate, ma egli allontanandosi a poco a poco colla matassa fra le mani, il filo diventava lungo, e quando si arrestava ad un intoppo la fanciulla era costretta di alzarsi, e avvicinarsi al fuggitivo facendo il gomitolo per giungere a distrigare il garbuglio; e ridevano di tutto. Talvolta Michele le narrava le burle degli studenti alle pattuglie notturne dei croati; le corde tese attraverso la via per farli incespicare, i mattoni appesi ai ferri sotto ai portici oscuri, che dato un allarme per far correre i soldati, sbattevano sui loro volti. Tiziano contemplava la natura, osservava gli abeti che si alzavano ritti sul monte opposto e fra i crepacci delle roccie scoscese, seguiva cogli occhi il volo delle farfalle, le danze degli insetti in un raggio di sole, un'ape che succhiava il nettare di un fiore sul margine di un precipizio. E se Michele andava a saccheggiare le frutta sugli alberi, Tiziano restava solo con Maria, le sedeva dirimpetto, la fissava lungamente, e taceva. Maria lavorava in silenzio, e allora si udiva il canto degli uccelletti di richiamo, lo stormire delle fronde, e il frastuono del sottoposto torrente che si frangeva nei sassi.

E se talvolta rompevano quel silenzio era per ricordare la loro infanzia; e rammentavano con piacere quel tempo nel quale andavano a giuocare sul colle della Schipa insieme agli altri fanciulli. Michele era stato sempre turbolento, ma Tiziano proteggeva Maria dalle insidie dei furfantelli, e la difendeva arditamente dagl'insolenti, l'accompagnava se aveva paura, la sosteneva se dovevano arrampicarsi sull'erta, e dividevano insieme le merendine che le buone mamme avevano deposte nei loro cestelli.

Nella stagione propizia Tiziano e Michele seguivano Isidoro sui monti, egli li addestrava alla caccia del camoscio, e li guidava con pratica sicurezza sulle cime più eccelse, giudicate inacessibili dagl'inesperti. Collo schioppo ad armacollo, le munizioni nei fiaschetti e la carniera del mestiere, muniti di punte alle scarpe, di bastoni ferrati e di corde, partivano da Pieve, seguiti da Fido e da Turco, che correvano su e giù per le rive, e accompagnati da Bartolo che apportava i viveri ed altre provvisioni, e andavano nelle montagne d'Auronzo, e attraversando il bosco di Sommadida rimontavano sino alle sorgenti dell'Ansiei arrestandosi all'osteria delle Alpi sul lago di Misurina ove mangiavano le trote eccellenti da Giacomo Croda, famoso cacciatore di camosci, che si univa alla loro compagnia, e tutti insieme salivano quei dirupi scoscesi, e non tornavano mai a casa senza una buona preda.

Tiziano accanto al fuoco rammentava le vicende dell'ultima caccia, e per indicare il momento che aspettava il camoscio si metteva in agguato come avesse lo schioppo al viso, e simulava il colpo che aveva colpito l'animale mentre saltava un precipizio.

Fido aveva capito benissimo che il padrone raccontava un'avventura di caccia, e lo stava ascoltando attentamente, colle orecchie tese, e dimenando la coda, mentre la mamma Maddalena serviva la minestra, e tutti si mettevano a tavola.

Il desinare fu lieto. Tiziano seguitò per qualche tempo a raccontare le sue caccie, fino a che sior Antonio incominciò a parlare delle seghe, e dei menadàs[1], delle taglie e delle tavole, dei rulli dei zappoli e delle chiavi[2]. Maddalena manifestava alla Betta le sue opinioni sulle galline, e sulla produzione degli ovi. Bortolo faceva l'elogio della Nina, la cavalla di casa, assicurando i padroni che essa conosceva le ore senza bisogno d'orologio, e assai meglio dei ragazzi che vanno alla scuola, perchè ogni mattina, alle nove in punto, batteva le zampe e nitriva per domandare l'avena, mentre gli scolari dimenticando l'ora di scuola stavano ancora a scivolare sul ghiaccio.

Finito il pranzo, e vuotata in gran parte la damigiana, sior Antonio riprese il suo posto sulle panche intorno al camino, e accese la sua pipa. Tiziano fece lo stesso. Bortolo aiutava sua madre a sparecchiare la tavola, Maddalena rimetteva ogni cosa al suo posto, il gatto divorava gli avanzi, e Fido tornava a russare regolarmente ai piedi del padrone, mentre la legna resinosa d'abete ardeva sul focolare crepitando, e mandava col fumo le sue esalazioni profumate.

Vennero presto le dieci, il fuoco incominciava a languire, la conversazione era cessata, gli occhi semichiusi degli astanti indicavano vicino il momento di andare a letto, quando un colpo forte alla porta li scosse all'improvviso, li fece alzare la testa e mettersi in ascolto. Fido balzò in piedi mandando acuti latrati. Intanto bussarono alla porta un secondo colpo più forte del primo.

— Chi è? chiese sior Antonio, ordinando al cane di tacere.

— Aprite in nome della legge — risposero dal di fuori.

Il cane ricominciò ad abbajare, e tutti si guardavano in volto con sorpresa.

— Aprite subito o gettiamo la porta, gridarono quei della strada.

Tiziano voleva metter mano allo schioppo, ma sior Antonio con un segno imperativo gli ordinò di deporre l'arma, e andò ad aprire.

Entrò un commissario di polizia, seguito da due gendarmi, e si disse incaricato dall'autorità superiore di praticare una perquisizione.

— Veramente, osservò sior Antonio, mi pare che questo non sia nè il giorno nè l'ora di entrare in una casa di galantuomini, e di turbare la pace d'una famiglia onesta.... ma se tali sono gli ordini di chi è più forte di noi, è inutile di fare opposizione.

Allora incominciò quella minuziosa ed insolente manomissione che il governo austriaco soleva praticare nelle case degli italiani sospettati del grave delitto di amare la patria. Vennero esaminati tutti i mobili, guardandovi dentro per di sopra e per di sotto, disfatti i letti, smossi i pagliericci, tastati i materassi, i capezzali, i guanciali, le coltrici, capovolti i canapé, indagati i sacconi, vuotati a fondo i canterani, aperti i cassettoni e le scrivanie, scompigliate le vesti e i pannilini, frugate le carte, i registri, le lettere, profanate tutte le più sacre memorie domestiche.

Sior Antonio li seguiva stringendo i pugni, e mordendosi la lingua per non parlare.

Tiziano prese in un angolo sua madre e potè dirle senza essere inteso:

— Manda subito ad avvertire Michele....

Maddalena desiderando che Bortolo eseguisse sull'istante la commissione, gli andava facendo dei segnali che egli non intendeva, pareva diventato scemo, e poi un gendarme lo teneva d'occhio e non avrebbe lasciato uscire nessuno.

Trovarono degli scritti inconcludenti, delle lettere d'amici, delle note, delle memorie, che posero sotto sigillo, e quando ebbero finito di mettere la casa sottosopra senza costrutto, e si credeva che se ne andassero, il commissario dichiarò che il signor Tiziano doveva seguirlo.

— Io rispondo di mio figlio — disse sior Antonio — domani mattina andremo insieme dal signor Commissario distrettuale che mi conosce da un pezzo e....

— I miei ordini sono precisi — soggiunse il commissario di polizia — io devo arrestare il signor Tiziano Larese, e condurlo in ufficio....

— Lo conducete in prigione!... — esclamò Maddalena disperata — mio figlio è un galantuomo, e non ha fatto mai torto a nessuno.

Sior Antonio incominciava ad incrociare le ciglia, ed era cattivo segno. Tiziano prevedendo una fiera burrasca volle evitarla, e disse con calma:

— Non vi affannate, non vi date pensiero, nessuna ragione può valere contro la forza. Il diritto, la giustizia non possono opporsi con parole alla violenza, io seguirò il signor Commissario protestando che cedo perchè sono il più debole, che il governo commette un'ingiustizia.... e voi sapete quello che dovete fare.... — e così dicendo fissò in volto sua madre e le fece un segno d'intelligenza.

Poi prese il cappello e il tabarro, e seguì i gendarmi e il loro capo, ed usciti dalla porta ne trovò altri due che aspettavano davanti l'uscio, ed altri due che giravano intorno la casa, e tutti uniti si avviarono all'ufficio, camminando in silenzio sulla neve.

Erano poco lontani quando la povera Maddalena tutta in lagrime, comunicò a suo marito il desiderio del figlio:

— Basta che non sia troppo tardi!... egli esclamò, ma in ogni caso bisogna tentare.... e chiamato Bortolo lo ammonì come dovesse con immense precauzioni avvicinarsi alla casa di sior Iseppo, procurando di non essere veduto da nessuno, chiamare Michele, avvertirlo dell'arresto di Tiziano, e metterlo in guardia sulla sua sorte.

Bortolo partì, prese una scorciatoja, osservò attentamente se qualcuno si avvicinasse, e potè essere introdotto in casa senza essere veduto.

Il giovane, sorpreso, non perdette tempo; seguì il messo senza fraporre alcun indugio, e si allontanarono chetamente dalla casa per un viottolo nascosto fra stretti muri, e non erano ancora molto lontani, quando la luce d'un fanale che si avanzava, riflesso ad intervalli dalle baionette, li avvertì che una pattuglia si avviava verso la casa dalla quale erano usciti in tempo. Si nascosero nel vano d'una porta, e poterono osservare, senz'essere veduti, il commissario e i sei gendarmi che picchiavano all'uscio.

— Oh i birboni! esclamò Bortolo, li riconosco, sono quelli stessi di poco fa!...

Le pedate sulla neve avrebbero potuto tradire il loro nascondiglio, dovettero dunque allontanarsi e raggiungere la strada principale, ove la neve era già pesta, e dietro l'angolo d'una casa stettero ad attendere il ritorno della spedizione. Ma la visita fu assai più lunga della prima. Sospettando che Michele fosse nascosto rovistarono la casa dalla cantina fino al tetto.

Intanto Michele s'informava da Bortolo di tutti i particolari dell'arresto, e così venne a sapere che doveva la sua salvezza all'amico, e in parte anche al caso fortunato che in quel momento non si trovassero in Pieve che sei gendarmi, ciò che rendeva impossibile di fare due arresti nello stesso tempo. Anzi non ce n'erano che quattro, gli altri due erano giunti da Ceneda la sera stessa, insieme al commissario mandato apposta da Venezia per arrestare i due giovani.

Quando la triste falange uscì dalla casa colle mani vuote, assai malcontenta della impresa fallita, si fermò alquanto sulla via a consigliarsi, poi uno dei gendarmi allontanandosi dai compagni andò ad appiattarsi dietro un angolo del muro mentre gli altri ritornavano mogi mogi al loro quartiere. Era evidente che colui che stava nascosto aspettava il ritorno di Michele, nella supposizione che non fosse ancora rientrato in casa, per arrestarlo sulla porta prima che fosse avvertito dai parenti di mettersi in sicuro.

Era necessario di prendere una decisione, e di procurarsi i mezzi di salvezza, ma ciò non riusciva tanto facile in un piccolo paese, e in una notte d'inverno e colla neve.

Dopo varie considerazioni Michele non seppe trovare migliore espediente che di ritirarsi con Bortolo in casa dell'amico, come in luogo oramai sicuro, per prendere gli opportuni concerti con sior Antonio, su ciò che fosse da farsi; e camminando con infinite precauzioni per non essere scoperti si raggirarono per vie remote, penetrarono in un orto confinante colla casa Larese, ove entrando per le adiacenze, senza far rumore, comparvero improvvisamente in mezzo alla famiglia, immersa nella desolazione per la recente sventura.

Furono tutti sorpresi di veder Michele, e trovarono imprudente la sua venuta, ma egli non tardò ad assicurarli che non si correva nessun pericolo, e che i gendarmi non sarebbero venuti due volte in una notte. Allora incominciarono le spiegazioni fra lui e sior Antonio; il quale gli chiese con vivo interesse:

— Che cosa avete fatto per essere arrestati?

— Niente.... niente di male. Qualche scherzo ai croati....

— Via, parlate schietto.... nell'interesse di Tiziano.... per apparecchiare la sua difesa bisogna sapere di che cosa può essere incolpato....

— Frivolezze.... declamazioni.... brindisi.... che so io!...

— Ma che brindisi avete fatti?

— Dopo la laurea abbiamo invitato a pranzo gli amici.... siamo stati allegri come potete immaginare.... abbiamo bevuto alla salute d'Italia.... abbiamo gridato Viva Pio IX!... Viva Gioberti!... Viva Guerrazzi!... Viva Mazzini!...

— Ah disgraziati che cosa avete mai fatto!... ne avete per vent'anni di Spielberg!... quel povero Silvio Pellico ne ha fatto assai meno di voi!...

— I tempi sono cambiati. Pio IX ha aperta l'era della libertà... noi tutti vogliamo l'indipendenza... vostro padre, il povero nonno Taddeo, ci diceva sempre che il dominio straniero è una vergogna per l'Italia.... e voi avete sempre pensato egualmente....

— È vero.... ma bisogna agire con prudenza.... ci vogliono fatti e non ciarle, mio caro, per liberare l'Italia.... voi siete stati imprudenti.... avete congiurato....

— Potete essere sicuro che non abbiamo carte compromettenti, che non si troveranno argomenti per fondare un processo.... la nostra congiura sta dentro di noi, nell'unanimità dei nostri voti, nella fermezza del nostro volere.... nella coscienza del nostro diritto.... nel nostro onore!... Noi non siamo più una setta, nè una legione.... ma siamo un popolo di fratelli.... vogliamo essere padroni in casa nostra.... non vogliamo più stranieri in Italia.... non abbiamo più paura nè delle prigioni, nè dei patiboli, nè delle baionette.... moriremo tutti.... o saremo liberi!...

Sior Antonio dimenava la testa, stringeva le labbra, mormorava delle parole incomprensibili, una lotta interna lo agitava, egli si era sempre mostrato ottimo patriotta, ma davanti all'arresto di suo figlio le sue idee si confondevano, il dolore soperchiava ogni altro sentimento; suo figlio in mano dell'Austria, gli faceva rammentare i processi di stato, le vittime sagrificate, e fremeva di sdegno, di diffidenza, di paura. Maddalena non intendeva ragioni, essa pensava a suo figlio, e si disperava di vederlo caduto in mano dei barbari, la Betta piangeva, Bortolo aveva il viso sconvolto dalle varie e successive emozioni di quella notte, e dava ragione a tutti contraddicendosi senza avvedersene: quando Michele annunziava la volontà degli italiani, egli alzava i pugni minacciosi, quando sior Antonio accusava i giovani di imprudenza egli assentiva coi segni del capo; piangeva e minacciava, ora sembrava spaventato dalla sorte del suo padroncino, ora mostrava di non temere tutte le forze dell'Austria, e pareva che le dichiarasse una guerra d'esterminio.

Dopo una lunga discussione, senza poter concordarsi sopra un piano da seguire, sior Antonio pensando che la sorte di Michele non era ancora decisa, gli chiese:

— E voi che cosa pensate di fare?

— Bisogna che me ne vada.... egli rispose, meglio uccello di bosco che uccello di gabbia.... ma sono qui senza vesti, senza denaro, e nell'impossibilità di rientrare.... perchè un sacripante mi aspetta per prendermi al collo.... mi aspetterà un bel pezzo quel minchione!... se volesse prendere in cambio mio zio!... sono gli orsi che si devono mettere in gabbia!...

Sior Antonio non lo ascoltava che distrattamente, stette alquanto pensieroso, poi ordinò a Bortolo di dar l'avena alla Nina, e di tenerla pronta a partire, e condusse Michele nello scrittoio, ove tenne con lui una conferenza assennata e senza testimoni, per fissare il modo di sottrarre dagli artigli tedeschi colui che poteva ancora sperare di mettersi in salvo; e sulle misure da prendersi per giovare a Tiziano che colto per sorpresa non aveva potuto provvedere alla sua libertà.

Michele ricevette da sior Antonio del denaro, del quale gli rilasciò ricevuta, e Maddalena lo fornì di biancheria e d'altri oggetti indispensabili, che vennero collocati in un piccolo sacco da viaggio, e dopo di aver ringraziati con parole cordiali quei buoni amici, augurò loro che non avessero a soffrire lungamente per la detenzione di Tiziano, pel quale li assicurava che non ci potevano essere motivi fondati per procedere; e prima dell'alba, uscito da quella casa con ogni precauzione, entrava in un sentiero nascosto fra i boschi, e andava a riuscire sulla strada maestra, a qualche distanza dal paese, ove Bortolo doveva subito raggiungerlo colla timonella tirata dalla Nina.

Sior Antonio rientrato in cucina procurò di calmare sua moglie che continuava a piangere dirottamente, e le disse:

— Bisogna aver coraggio, e non abbandonarsi ad una sterile disperazione. Le lagrime non possono servirci a nulla. Adesso invece dobbiamo occuparci seriamente del nostro Tiziano. Appena giorno io andrò dal commissario per vedere che cosa pensa di fare, poi ho l'intenzione di far una visita al consigliere, per aver qualche consiglio utile, da un uomo esperto in queste faccende. E tu non lasciarti vedere troppo accorata dalla gente; e questo per due motivi: prima di tutto si farebbe torto a Tiziano, lasciandolo credere colpevole, poi sembrerebbe che la nostra famiglia conosciuta pei suoi antichi sentimenti di patriottismo, fosse disperata alla prima prova, e scoraggiata alla prima sventura. Animo dunque, chiudiamo l'amarezza nell'anima, e mostriamoci forti nella sventura.

E preso il cappello se ne andò prima di tutto da Sior Iseppo per avvertirlo dei provvedimenti presi riguardo a suo nipote, e sulle misure fissate d'accordo con lui per facilitargli la fuga.

Trovò il vecchio ancora indignato contro i tedeschi che si erano permessi di rompergli il sonno, come se non avessero potuto arrestare suo nipote senza disturbarlo.

Sior Antonio gli rese conto di quanto aveva fatto per Michele, facendogli sperare di poter fra breve ricevere sue notizie da un luogo sicuro. Sior Iseppo alzando la destra, fece un rapido movimento che pareva volesse significare: — che il diavolo se lo porti in malora! — e continuò a lamentarsi che gli avevano sconvolta la casa per cercarlo e che in fine dei conti un po' di prigione non gli avrebbe fatto male per insegnargli l'economia, la disciplina e la quiete. — Uhm! uhum! mormorava sior Iseppo, teste calde!... gioventù senza giudizio!... — Tuttavia volle regolare i conti e restituire a sior Antonio il denaro sborsato, ma lamentandosi continuamente dei disturbi, delle spese, dei sacrifizi ai quali si trovava esposto per le scapataggini di quel matto di suo nipote.

II.

Intanto che Michele prendeva la strada di Auronzo per cercare un rifugio in casa d'un amico, Tiziano partiva per Venezia accompagnato dal commissario che era venuto ad arrestarlo e scortato da due gendarmi a cavallo, che trottavano in fianco della vettura; e quando sior Antonio si recò alla mattina dal commissario distrettuale per aver notizie dell'arrestato, questi era già partito da un pezzo.

Il povero padre sorpreso a tale annunzio protestava vivamente, voleva seguire subito suo figlio, ma il commissario lo consigliò a starsene in casa tranquillo, assicurandolo che se non era colpevole sarebbe rimandato in famiglia fra pochi giorni, e lo esortava a confidare intieramente nella clemenza del paterno regime di Sua Maestà Imperiale Reale ed Apostolica, la quale non voleva altro che la felicità de' suoi sudditi. Il padre desolato non rispondeva per non aggravare la condizione del figlio, ma frenava a stento la sua indignazione e i suoi sospetti, avendo udito a narrare tante volte i processi del vent'uno, le condanne a morte ed all'ergastolo, le lunghe prigionie dello Spielberg ove degli uomini onesti che non volevano altro che l'indipendenza della patria, erano stati trattati peggio dei ladri e degli assassini, e fremeva pensando a suo figlio caduto in quelle mani spietate. Però dovette fingersi fidente e rassegnato e ritornarsene a casa a riferire il risultato della sua visita.

Intanto la notizia dell'arresto s'era diffusa nel paese, tutti ne parlavano con sdegnosa sorpresa, in piazza si formavano dei capannelli di persone ove taluno raccontava il fatto alla sua maniera agli uditori indignati. I quattro gendarmi che erano rimasti a Pieve andavano in giro a due a due, sospettosi e guardinghi, vedendo che la gente li guardava con disprezzo, e quasi in aria di sfida.

Un amico di Tiziano corse a dar relazione del fatto al roccolo di Sant'Alipio, fece piangere Maria e dovette consolarla colle solite speranze, mentre suo padre Isidoro, maledicendo l'odiato aquilotto bicipite salì nella sua camera e si mise in tutta fretta a bruciare varie carte.

Sior Antonio rientrato in casa trovò sua moglie malata, assalita da convulsioni, impaziente di aver notizie del figlio, amareggiata di non riceverne, e vari amici di famiglia che lo assalirono di pressanti domande; chi voleva sapere se la tal carta era stata sequestrata, se la tal lettera era stata distrutta in tempo, e chi voleva conoscere i particolari della perquisizione, e chi la fuga di Michele. Dopo di aver soddisfatto alla meno peggio ai desideri di ciascheduno, sior Antonio si ritirò nello scrittoio, e scrisse una lunga lettera ai suoi padroni raccomandando il figlio e chiedendo consigli.

Più tardi gli venne in mente di fare una visita ad un I. R. consigliere di Tribunale posto in quiescenza col titolo di consigliere imperiale, che viveva in Pieve in grand'auge presso tutte le autorità governative, come uomo influente pei suoi rapporti nelle alte sfere, e di raccomandarsi alla sua protezione, pregandolo di volerlo indirizzare sulla condotta da tenersi per far risaltare l'innocenza dell'arrestato.

Il consigliere imperiale era un personaggio grave e compassato che nel lungo servizio austriaco aveva acquistata quella rigidezza tedesca, che rende gli uomini duri, e tutti d'un pezzo. Egli aveva una fede illimitata nella potenza assoluta della monarchia austriaca, non ignorando però che era detestata dai cadorini, amici della libertà, e insofferenti del giogo tedesco.

Sior Antonio venne fatto entrare dalla governante nello studio, ove gli si affacciò subito allo sguardo un grande ritratto di S. M. I. R. A. Ferdinando I per la grazia di Dio Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria, di Boemia, di Lombardia e Venezia, con dieci o dodici righe di titoli che finivano col gran Voivoda del voivodato di Serbia, e i soliti ecc., ecc. Sulle altre pareti della stanza pendevano gli arciduchi e marescialli, come in corteggio del sovrano, sotto al quale siedeva in poltrona il consigliere imperiale, davanti lo scrittoio, come un magistrato in funzione, col volto raso, e cravatta bianca. Egli accolse l'introdotto, col solito sussiego, accompagnato da un sorriso d'indulgente benevolenza, e se lo fece sedere dirimpetto.

Sior Antonio gli raccontò in poche parole la sua disgrazia, con quei commenti, che la sua naturale ingenuità gli faceva trovare opportuni, e lo pregò di volerlo proteggere e consigliare, in questa grave e dolorosa contingenza.

Il consigliere imperiale ascoltò impassibile ogni cosa, senza che un minimo movimento del volto annunziasse le sue impressioni, e quando l'altro ebbe finito egli incominciò col deplorare la insania di coloro che senza armi nè aiuti si mettevano in testa di voler obbligar l'Austria a cedere i suoi dominii italiani, che erano considerati come frontiera indispensabile alla sicurezza della Germania. E fabbricando un edifizio di argomenti perentorii su questa base, veniva alla conclusione finale che l'Italia deve rassegnarsi in eterno ad essere governata dai tedeschi, e che era una vera pazzia lo scaldarsi la testa con idee sovversive che non potevano condurre che alla galera ed alla forca. È facile immaginare come riuscissero confortanti all'animo afflitto del povero padre, quegli argomenti così lampanti delle idee del magistrato, che dimostravano con tanta evidenza la protezione che si poteva sperare da lui, tuttavia l'affetto paterno è così grande che mentre l'istinto naturale lo spingeva a prenderlo per il collo e a gettarlo dalla finestra, il desiderio di giovare a suo figlio lo tenne inchiodato sulla seggiola e lo forzò a mostrarsi pacifico e rassegnato, giustificando come meglio poteva quella strana monomania di certi giovani esaltati, che si permettevano di pensare che l'Italia potesse avere il diritto di comandare in casa propria, e di non volere stranieri!.... Idee stravaganti ed assurde, certamente, ma che bisognava condonare alla gioventù senza esperienza, esaltata dagli atti inconsulti del nuovo pontefice Pio IX, il quale aveva commesse le imprudenze di benedire l'Italia, di richiamare in patria gli esuli e di liberare i condannati al carcere che il suo predecessore aveva trovati colpevoli di amare la loro madre.... la patria.... l'Italia!

Il consigliere imperiale alzava le spalle in segno di pietà ed osservava che la vera patria dei veneti e dei lombardi non era evidentemente che l'impero d'Austria, riconosciuto da tutte le potenze che riconoscevano parimenti il Napoletano, le Romagne, la Toscana, il Piemonte, ma nessuno conosceva l'Italia; un nome antico, che aveva un valore storico, ma che in politica non contava che come uno zero!...

Tali osservazioni punsero acutamente la probità naturale del buon cadorino, nato e cresciuto col senso retto del giusto e del vero indipendente dalle assurdità dei trattati, e non potè a meno di soggiungere:

— Mi pare che sia il paese e non il governo che fa la patria.... il Cadore è in Italia, e noi siamo italiani, malgrado il governo austriaco, i piemontesi, i toscani, i romagnoli, e i napoletani, sono tutti italiani al pari di noi!... nessuno può distruggere quello che ha fatto la natura!...

— Queste sono le idee sovversive, coltivate dalla vostra famiglia, e per le quali vostro figlio è in prigione. Ecco il frutto delle aspirazioni illegali, che espongono gl'incauti ai giusti rigori del governo, obbligato di tutelare i propri diritti e l'ordine pubblico. Il governo austriaco non vorrà mai cedere davanti le idee rivoltose di pochi agitatori....

— Veramente il fermento generale dimostrerebbe che gli agitatori non sono pochi, rispose sior Antonio, il paese è assai malcontento.... il governo non deve spingere l'irritazione agli eccessi con atti di rigore.... si ricordi signor consigliere che in Cadore c'è della gente risoluta, che non ha paura di nessuno, e non è prudente turbare la pace delle famiglie con violenze inesplicabili....

Il consigliere imperiale sapeva benissimo che i Cadorini erano tutti liberali e nemici del governo, s'avvide d'essere un po' trascorso coi discorsi, temette di compromettersi col paese, e come impiegato in quiescenza non voleva incorrere in pericoli e in disgrazie da nessuna parte. «Non si sa mai!» egli pensava fra sè, anche una passeggiera rivolta potrebbe costar cara ai troppo zelanti difensori dell'Austria la quale sarebbe sicura di reprimere ogni insurrezione, ma non potrebbe salvare le prime vittime del furore popolare. Era dunque miglior partito non scoprirsi intieramente, e cambiar tuono per vivere in pace, e senza pensieri, e modificando a poco a poco le sue espressioni, egli procurò di persuadere sior Antonio che parlava per vero interesse del paese, perchè giudicava che le imprudenze erano sempre dannose. Ciascheduno poteva pensare a suo modo senza esporsi a pagare per tutti. Del resto egli era animato dalle migliori intenzioni, sempre disposto a giovare al suo paese, e ai suoi cari compatriotti, e finì la sua seconda cicalata, in contraddizione colla prima, offrendo i suoi buoni uffici presso qualche persona autorevole per vedere se fosse possibile di mitigare la sorte del prigioniero, e per giovargli davanti le autorità superiori.

Dopo d'aver discusso sul modo di agire, venne deciso di aspettare una risposta alla lettera scritta a Venezia, per appigliarsi ad un partito:

— E intanto siate prudenti!... raccomandava il consigliere dal quale sior Antonio prendeva congedo, siate prudenti, che il paese stia tranquillo!... che ognuno attenda ai fatti suoi!... questo lo dico nel vostro interesse.... ve lo raccomando per l'interesse di vostro figlio!

Costretto di aspettare i consigli dei padroni, sior Antonio riprese tristamente le sue occupazioni, ma quando si recò alla sega per visitare i lavori e dare degli ordini, trovò i segatini, i menadàs e i zatteri fortemente indignati per il caso avvenuto, come se il governo avesse colpito un loro figliuolo, e volevano ad ogni costo recarsi a Pieve per reclamare il prigioniero. I zatteri alzavano le loro scuri in atto minaccioso, i menadàs agitavano le stanghe armate dall' anghier a due punte, i segatini mostravano il coltello, e tutti gridavano: vendetta.

Ci volle molta prudenza ed abilità per persuaderli che avrebbero aggravata la condizione di Tiziano con una dimostrazione tumultuosa che non poteva avere altro risultato che di fare nuove vittime, che conveniva aspettare un momento più opportuno per ottenere giustizia, e che per ora era necessario di astenersi da ogni atto imprudente ed intempestivo.

Frattanto Bortolo era ritornato colla Nina portando le prime notizie del fuggitivo, che era giunto felicemente in Auronzo. Per via non avevano incontrate persone sospette. Stavano sempre attenti guardando da ogni parte se vedessero spuntare l'elmetto dei gendarmi o se qualcuno li seguiva, o veniva ad incontrarli.

Prima di giungere in Auronzo si separarono, Michele volle entrare nel paese a piedi pei sentieri e i viottoli nascosti dietro le case mentre il suo compagno di viaggio riprendeva la strada di Pieve. Bortolo non sapeva altro, e tutto contento della sua impresa felicemente riuscita, fregava la Nina con due manate di paglia, e vedendola sfinita inzaccherata fino al ventre, e bagnata di sudore, procurava di consolarla con delle buone parole:

— Povera Nina, le diceva, ti darò una buona porzione di avena e crusca, e sarai contenta, e potrai riposarti al caldo.... e quella brutta gente non avrà il gusto di chiapparlo il nostro amico.... noi lo abbiamo salvato. Avessimo potuto salvare anche il nostro padrone!... mah! povero Tiziano.... Povero Tiziano!...

Fido accovacciato in un angolo della stalla stava ascoltando i discorsi del giovane, e avendo udito il nome del suo padrone assente, alzava gli occhi malinconici, e mandava un guaito doloroso.

Michele aveva un amico in Auronzo, nella cui casa poteva starsene al sicuro, apparecchiando la sua fuga in modo da farla riuscire, mentre la polizia lo cercava da ogni parte, e ne mandava i contrassegni al confine.

Da colà egli faceva avvertire segretamente Giacomo Croda del suo arrivo, e d'accordo con lui e con l'amico venne stabilito di cacciarsi nelle montagne del Tirolo e di attraversarle per recarsi nella Svizzera. Nel cuore dell'inverno l'impresa era assai faticosa, ma non impossibile per due intrepidi cacciatori di camosci, e specialmente colla guida di Giacomo il quale dall'osteria delle Alpi sul lago di Misurina conduceva i viaggiatori pedestri, tedeschi ed inglesi, sulle più eccelse cime dei monti, nei mesi estivi, e faceva anche il contrabbandiere in tutto il tempo dell'anno con inarrivabile destrezza.

Quando il tempo si mise al sereno passarono l'Ansiei, e ben muniti di provvisioni s'inoltrarono per un sentiero appena praticabile dalle capre. Varcarono montagne che parevano inaccessibili, costeggiando i precipizii alle falde di eccelse rupi che alzavano a perpendicolo le creste nude, frastagliate ed aguzze, come gigantesche muraglie diroccate, veri baluardi naturali dei confini d'Italia.

Attraversarono vallate boscose e profonde solitudini, ove non si udiva altro suono che il fragore dei torrenti, il sibilo del vento, e gli acuti stridi degli uccelli di rapina. Non traccia d'uomo in quei selvaggi deserti, ma una natura sublime che elevava lo spirito al di sopra della terra, e delle umane miserie. Rupi sopra rupi, accatastate, rotte dalle frane, frastagliate di boschi, cime nevose d'ardua salita, ove appena raggiunta la sommità si vedevano nuovi massi spaventosi che si dovevano superare quasi a perpendicolo, aggrappandosi colle mani ai magri virgulti che sporgevano dai crepacci. Ma quando avevano guadagnata la più eccelsa vetta della più alta montagna, e il loro sguardo dominava le cime sottoposte e l'immensa pianura che si stendeva fino ad una linea azzurra che indicava l'Adriatico, allora si credevano i padroni dell'universo, e non avevano più nulla a temere dalle tirannidi dei governi e dalle insidie degli uomini. Michele saliva sopra una roccia, faceva dei segni cabalistici in aria, e quando Giacomo Croda gli chiedeva delle spiegazioni, egli rispondeva:

— Maledico i tiranni, scaglio anatemi a tutti coloro che pretendono dominare in casa degli altri contro il diritto di natura. Verrà un giorno nel quale saranno sepolti dalla giustizia popolare, come quelle pietre che credevano di stare al sole per lungo corso di secoli, e che ora sono sepolte dalle valanghe e stanno ai nostri piedi.

Alla notte i due viandanti si riposavano nelle baite, capanne abbandonate dai pastori che all'inverno si ritirano nei villaggi o scendono alla pianura. Accendevano il fuoco con rami di abeti e di ginepri, cenavano tranquillamente intorno alla fiamma. Michele trovava eccellente ogni pasto, dichiarando che il pane nero delle carceri non avrebbe mai avuto l'onore di entrare nel suo stomaco. Poi accendevano le pipe, e ciarlavano fino alla comparsa del sonno. Allora si coricavano al suolo avvolti nelle loro coperte o sepolti sotto le foglie secche, se avevano la fortuna di trovarne in quei tugurî, e russavano fino al mattino.

Talvolta però il freddo era così acuto che tagliava il viso, toglieva il respiro, gelava le estremità, diventava pericoloso. Ma il pensiero della libertà rianimava il coraggio di Michele, il quale piuttosto di vivere nell'aria cupa e mefitica d'una prigione, preferiva di morire intirizzito sulle Alpi.

Talvolta potevano anche scendere in qualche villaggio, ed entrare in qualche capanna conosciuta da Giacomo, ove i contrabbandieri si davano la posta, e trovavano un rifugio sicuro. E colà poterono refocillarsi, dormire sopra un letto, e rinnovare le provvisioni. Vicino ai confini raddoppiarono le precauzioni e la vigilanza; e sovente nascosti dietro una roccia videro passare da lontano le guardie doganali che perlustravano i luoghi sospetti; ma uscirono sempre felicemente da ogni pericolo, e dopo molti giorni di marcie faticose attraverso le Alpi tirolesi, entrarono finalmente nel Cantone Ticino. Appena varcato il confine, Michele salutò con entusiasmo la Svizzera, e messosi in ginocchio volle baciare la terra della libertà.

Dopo d'essersi riposati qualche giorno si divisero. Michele consegnò a Giacomo alcune lettere per lo zio, per Sior Antonio e per l'amico d'Auronzo, e partì pel Piemonte. L'altro, fatte le sue provviste di tabacco e sigari, si unì a dei colleghi che avevano gli stessi motivi di lui per evitare le strade maestre, e ritornò in Cadore, dove consegnò le lettere ricevute.

Sior Antonio fu contento di sapere che Michele era giunto felicemente in paese libero, ma sentì doppiamente il dolore della prigionia di suo figlio, ed era grandemente meravigliato di non aver ancora ricevuto nessuna risposta da Venezia.

Finalmente dopo lunga aspettativa giunse un messo mandato a posta dai padroni il quale giustificò il motivo del loro silenzio. Avevano ricevuto la sua lettera, ma era sfuggita per miracolo alla sorveglianza della sospettosa polizia, e non era prudente di mandare per la posta delle comunicazioni segrete, perchè tutte le corrispondenze sospette venivano aperte, e potevano compromettere molte persone.

Sior Antonio corrugava la fronte e incrociava i sopracigli, poi coll'indice della destra toccandosi una dopo l'altra le dita della mano sinistra, aperta come un ventaglio, diceva:

— Violato il domicilio domestico; violato il segreto delle lettere; punito l'amore di patria come un delitto; arrestati i galantuomini; obbligati a fuggire dal paese quelli che non vogliono andare in prigione. — E qui cambiando mano, e coll'indice della sinistra, toccando successivamente le dita della destra, continuava: — la coscrizione manda gli italiani in Ungheria, gli ungheresi in Boemia, i boemi in Austria, gli austriaci in Croazia, i croati in Italia! ogni popolo è mandato dall'imperatore a ribadire le catene dei suoi vicini, e tutti si lasciano condurre come tante bestie a compiere i voleri di un uomo a proprio danno. Il denaro dei contribuenti parte per Vienna ad impinguare le case tedesche; tutti i capi d'ufficio sono mandati dall'Austria; è proibito a chi soffre di lamentarsi, sotto pena della galera; vietate le armi per difendersi.... ed avendo esaurite le dieci dita nell'enumerazione delle piaghe principali della patria, sior Antonio alzava ambe le mani in aria, e battendo i piedi in terra, gridava: — Calpestati e vilipesi in casa nostra!.... disprezzati dagli stranieri! questa è la nostra condizione.... e gli italiani hanno la viltà di tollerarla!...

Il messo correva a chiudere la finestra, e gli faceva cenno di tacere, di non commettere nuove imprudenze, ma quando sior Antonio aveva incrociati i sopracigli, non era facile calmarlo.

Alfine dovette starsi zitto, e lasciare che anche l'altro parlasse.

Costui gli disse che pur troppo i padroni non potevano nulla per suo figlio, che essi pure erano sospetti al governo, che andasse egli stesso a Venezia, e procurasse di farsi raccomandare da qualche autorità locale, che non c'era tempo da perdere, che lo aspettavano senza ritardo, e che giunto in casa loro sarebbe consigliato e diretto nell'interesse di Tiziano. Si decise subito per questo partito, e mentre che Maddalena gli apparecchiava la valigia, egli corse di nuovo dal Consigliere imperiale, il quale non potè esimersi di raccomandarlo ad un segretario di Tribunale, con una di quelle lettere insignificanti ed ambigue, che vogliono dire, a chi sa leggere fra le linee: «vi raccomando il portatore della presente, perchè non posso fare altrimenti. Tiratevi d'impiccio come potete, che ve ne sarò gratissimo, come d'un favore personale. E comandatemi liberamente, che io sarò sempre disposto di fare altrettanto per voi.»

Sior Antonio, che non sapeva leggere fra le linee, e che credeva che un segretario del tribunale dovesse conoscere tutti i segreti necessari per mettere in libertà un carcerato, fu soddisfattissimo della missiva commendatizia, alla quale attribuiva la potenza d'infrangere i ceppi e i chiavistelli di tutte le prigioni di stato della monarchia. Ringraziò il Consigliere colle lagrime agli occhi, e gli promise la sua eterna riconoscenza.

Di là passò al roccolo di Sant'Alipio, e chiese a Isidoro Lorenzi se potesse giovarlo egli pure, raccomandandolo a qualche amico di Venezia.

— Ma senza dubbio, caro sior Antonio, figuratevi se non farò tutto il possibile per aiutarvi a liberare dagli artigli dell'aquilotto il povero nostro amico Tiziano. Sedetevi qui con Maria, e torno subito con una lettera, che vi potrà essere utilissima.

Maria colmò di attenzioni sior Antonio, si mostrò profondamente addolorata della sventura toccata al compagno della sua infanzia, incaricò il povero padre di mille affettuose espressioni pel prigioniero, che essa sperava di vedere fra breve nella loro casetta, che, dopo la sua partenza e quella di Michele, le pareva muta e deserta. Egli doveva dire a Tiziano che si parlava tutto il giorno di lui, che il suo pensiero lo accompagnava di giorno e di notte, che il suo ritorno sarebbe una bella festa per tutti gli abitanti del roccolo.

Isidoro ritornò colla lettera che portava il seguente indirizzo:

«All'egregio Signor avvocato Daniele Manin, a San Luca, Ponte San Paternian, Venezia. S. P. M.»

— Voi avrete udito a parlare dell'avvocato Manin.... — gli disse Isidoro, consegnandogli la lettera.

— È la prima volta che sento questo nome, — gli rispose sior Antonio.

— È un bravo avvocato, e un buon patriota, che potrà esservi utilissimo. Mi sorprende che non abbiate udito a parlare di lui a proposito della eterna questione della Strada Ferrata Ferdinandea, nella quale si è mostrato valente difensore degli interessi e del decoro del paese.

— Quando lo dite voi, basta. Sarà l'avvocato di mio figlio, e spero che saprà difenderlo a dovere, in caso di bisogno.

Dopo cordiali ringraziamenti, salutando amichevolmente, uscì dal roccolo, ma prima di rientrare in casa deliberò di fare una visita al signor Arcidiacono, d'implorare anche la sua assistenza, e di udire i suoi consigli.

L'Arcidiacono lo ricevette nel suo studio colla consueta benignità, se lo fece sedere dirimpetto, gli fece portare un fiaschetto di vino di Conegliano, lo interrogò con interesse sulla salute della Maddalena, procurò di consolarlo della sua disgrazia, incoraggiandolo a sperare nell'esito d'un processo, che non poteva rinnovare le passate condanne, in un epoca nella quale il capo supremo della chiesa aveva dato un magnanimo esempio di clemenza coll'amnistia, insegnando ai regnanti a secondare la voce del popolo, che è voce di Dio, facendo sperare all'Italia dei giorni migliori.

Sior Antonio apriva l'animo a tali speranze, si sentiva più tranquillo, alzava gli occhi al cielo, e il bicchiere verso l'Arcidiacono, per indicargli che beveva alla sua salute, e incoraggiato dalla benevola accoglienza, si fece coraggio di chiedere anche a lui una qualche raccomandazione per Venezia.

— Anzi, ben volentieri, caro sior Antonio, ben volentieri, ripeteva l'Arcidiacono, fregandosi le mani per riscaldarle, e accompagnando le sue parole con un propizio sorriso. E presa la penna si mise a scrivere una lettera, mentre l'altro guardava i santi in litografia che ornavano le pareti della camera, in compagnia di Pio IX e del Vescovo di Belluno e Feltre, poi gettava un'occhiata sui libri ben legati e messi in fila sulle scansie della libreria di noce a lustrofino, e in quelle osservazioni dei quadri e dei libri il buon cadorino pareva compendiare i pregi dell'Arcidiacono, santità ed eloquenza, e infatti era un buon uomo, buon patriota, che faceva del bene ai poveri ed agli infelici, predicava con ardore contro tutti i peccati, descriveva a meraviglia il paradiso e l'inferno, e avrebbe mandato al diavolo i tedeschi, se lo avesse potuto.

Il buon prete scriveva in silenzio, e si udiva la penna che scricchiolava sulla carta, senza sosta, e con movimento accelerato.

Quando ebbe finito piegò la lettera, gli fece la soprascritta, e gliela porse dicendo:

— Eccovi servito. — All'illustre signor Nicolò Tommaseo — Venezia, — e non occorre altro indirizzo, perchè tutti lo conoscono. Ne avrete già udito a parlare?

— Veramente no!... fuori del Cadore non conosco anima viva, ma è probabile che lo conoscano i padroni....

— Senza alcun dubbio.... è uno dei più insigni letterati d'Italia, uno scrittore purista, ed erudito, un uomo pio, amico del popolo, e dei sacerdoti, giusto come l'oro, vi riceverà con carità cristiana, e potrà giovarvi moltissimo colle raccomandazioni e coi consigli...

— Non ho parole per ringraziarla...

— Vi desidero buona fortuna, e vi sarò gratissimo se mi farete conoscere l'esito delle vostre sollecitudini per il figlio...

— Anzi a questo proposito devo pregarla d'un altro favore. Io non posso scrivere a mia moglie, la quale non sa leggere che lo stampato. Io scriverò a lei, e favorirà di far avere le mie notizie a Maddalena, e se avrà bisogno di consolazioni la raccomando alla sua bontà.

— Benissimo, caro sior Antonio, potete essere sicuro di tutta la mia premura... ma vi raccomando siate prudente.... nell'interesse comune.... non bisogna fidarsi della posta.... non dimenticatevi mai questo consiglio.... però con quel buon senso che non vi manca, saprete trovare il modo di farmi indovinare le cose che non potete scrivere. Non mostrandovi mai avverso al governo, non vi riuscirà difficile di farmi intendere come stanno le cose.

— Ho capito tutto.... non stia a dubitare che da parte mia non ci saranno pericoli.... e saprò trattare le cose da uomo prudente.

Volle baciare la mano all'Arcidiacono, lo pregò di ricordarsi di lui nelle sue preghiere, e non rifiniva di ringraziarlo di tanti favori. L'Arcidiacono lo accompagnò fino alle scale, e incaricandolo di tanti saluti per sua moglie, lo congedò cortesemente, gridandogli dietro, mentre scendeva le scale:

— Buon viaggio.... buon viaggio.... che il Signore vi benedica!....

Il giorno seguente sior Antonio partiva di buon mattino da Pieve di Cadore, nella sua timonella, tirato dalla Nina, che Bortolo aveva messa in gambe con una buona profenda di biada, e dopo due giorni di viaggio arrivava a Mestre, ove consegnato allo stallo della campana, la bestia ed il veicolo, prendeva una gondola e partiva per Venezia.

III.

Una bella mattina i padroni di sior Antonio se lo videro capitare in casa tutto fidente nelle lettere commendatizie del Consigliere imperiale, d'Isidoro, e dell'Arcidiacono, e non poterono ritenere una solenne risata nel dargli l'annunzio che mentre egli faceva il viaggio la polizia metteva in prigione l'avvocato Manin, e il letterato Tommaseo....

È più facile immaginare che descrivere l'espressione del viso di sior Antonio a tale dolorosa sorpresa. Sbalordito, mutolo e quasi scemo, non sapeva più che pensare, gli pareva che le cose di questo mondo si fossero capovolte, tutti i galantuomini andavano in prigione ed erano obbligati di fuggire, e gli usurpatori, ossia i ladri, facevano da giudici, perchè gli stranieri gli parevano ladri in scala grande, introdotti con violenza in casa altrui.

Gli restava la lettera pel segretario, la quale gli servì ad ottenere il permesso di entrare in prigione per vedere suo figlio. Favore che lo umiliava, perchè gli veniva concesso da coloro che egli giudicava come i veri colpevoli, persecutori degli innocenti; come i veri turbatori dell'ordine sociale, che non avevano altro diritto di comandare che quello ottenuto dalla forza brutale; che li rendeva gli oppressori d'un paese che era stato il loro maestro di civiltà!.... La sua coscienza era la sola norma della sua ingenua politica, e gli pareva che il semplice buon senso dovesse essere la sola base del diritto, e andare al di sopra della ragione di Stato.

Quante lezioni di scaltra diplomazia gli dovettero inculcare i padroni per salvarlo dal pericolo d'essere arrestato anche lui, e messo in prigione insieme col figlio, perchè si ostinava a voler dire ai giudici apertamente e schiettamente quanto egli credeva fosse davvero giusto ed onesto; quando invece era tutto il contrario, perchè l'usurpazione era un diritto, la forza un'autorità, l'amore di patria una colpa, il desiderio di liberarla dall'oppressione un grave delitto di Stato! L'ipocrisia diventava una necessità, l'umiliazione davanti la potenza dei nemici una assoluta necessità, per salvare le vittime cadute nelle loro mani. Sior Antonio sbuffava, incrociava le sopracciglia, batteva i piedi, ma doveva piegarsi, se voleva vedere suo figlio, e non nuocergli.

Finalmente potè essere condotto alle carceri criminali, accompagnato da un impiegato che assistette all'intervista del detenuto con suo padre.

Ma quelle porte chiuse, quei catenacci, quelle chiavi, quell'aria uggiosa e ammuffita del carcere gli misero nelle ossa un ribrezzo che gli faceva tremare i ginocchi. Quale triste domicilio per un giovane avvezzo all'aria aperta e profumata delle montagne!

Il povero Tiziano era pallido, smunto, cogli occhi pesti, come un uomo sepolto vivo. Il padre ne fu desolato, lo abbracciò teneramente, gli teneva serrate le mani, aveva gli occhi gonfi di lagrime, e gli mancavano le parole.

Tiziano gli fece animo, gli chiese notizie di sua madre, di Maria, degli amici, del paese, di tutti di casa, compreso Fido, e con dei giri di parole procurò di sapere se Michele fosse salvo. Sior Antonio dapprima non capiva niente, ma poco a poco incominciò a famigliarizzarsi col linguaggio arcano degli schiavi, vide come si doveva esprimere il pensiero velato, mascherato, allusivo, senza compromettere nessuno; e strizzando l'occhio a Tiziano gli disse:

— A proposito devo dirti che l'uccellino che cantava così bene nell'orto di sior Iseppo, e che volevano accalappiare per metterlo in gabbia, non si è lasciato prendere ed ha spiccato il volo sulle montagne....

L'allusione era troppo poco velata perchè l'impiegato che assisteva al dialogo non dovesse comprenderla, ma finse di non aver inteso e lasciò andare la cosa senza osservazioni.

Tiziano avendo capito che l'amico era in salvo si rasserenò alquanto, e procurò d'infondere coraggio a suo padre, si mostrò sempre dignitoso, e ritornò alla sua prigione rasserenato ad aspettare il processo che gli facevano i tedeschi, perchè egli italiano, amava l'Italia.

Sior Antonio aveva saputo che i personaggi più cospicui, e le famiglie più stimabili di Venezia si erano rese invano garanti perchè l'avvocato Manin venisse processato a piede libero, e vedendo che non c'era nulla a sperare da un governo spietato e sospettoso, e convinto che bisognava forse aspettare lungamente l'esito del processo, voleva ritornarsene in Cadore dove lo chiamavano il dovere e le necessità degli affari, ma i suoi buoni padroni lo forzarono a rimanere con loro, procurando così al padre ed al figlio l'unica consolazione alla quale potevano aspirare, quella di vedersi qualche volta, e di essere vicini.

Allora il bravo cadorino per togliere la moglie dall'ansiosa aspettativa, decise di mandare sue notizie all'arcidiacono non dimenticando i prudenti consigli di lui, e quelli dei padroni, che gli raccomandavano tanto d'essere guardingo e di misurare le parole, e fatto anche un po' esperto per l'esercizio dei dialoghi che teneva con suo figlio nel parlatorio del carcere, si accinse a scrivere con somma precauzione, quanto desiderava di far noto ai parenti ed agli amici. Ma fra il bisogno di render conto d'ogni cosa, e il timore di compromettere qualcuno con imprudenti espressioni, egli si trovò nel più grave imbarazzo, e costretto di pesare ogni pensiero, e di misurare ogni parola, rimaneva lungamente colla penna in mano, prima di scrivere una linea. Ogni pagina gli costava sudori, tuttavia scrisse a varie riprese le seguenti lettere, che dobbiamo pubblicare come documenti indispensabili che servono a far conoscere il successivo sviluppo degli avvenimenti che interessano il presente racconto.

«Reverendissimo Signor Arcidiacono

Vengo con questa mia a renderle conto del mio viaggio, che è stato faticoso per la Nina, e per l'umile sottoscritto, però siamo giunti entrambi in buona salute. Ho lasciato la Nina sotto la campana di Mestre, e sono arrivato a Venezia coll'ajuto di Dio. Le persone che io doveva vedere sono in villeggiatura, e quindi non possono giovarmi come io sperava. Mi sono assai sorpreso del loro gusto di ritirarsi in campagna nel cuore dell'inverno, ma Ella sa benissimo, Signor Arcidiacono che a questo mondo si fa sempre quello che si può, e non sempre quello che si desidera. Ho veduto mio figlio che sta bene di salute, quantunque starebbe meglio a casa, ma questo per ora non è possibile, perchè Sua Maestà imperiale reale ed apostolica, colla sua eccelsa volontà, si degna di tenerlo in prigione, del che siamo rispettosamente dolenti. Intanto rimango a Venezia per vedere se sarà liberato dalla giustizia di Sua Maestà, con tutto rispetto parlando.

Vado ogni giorno in chiesa a San Marco e mi raccomando caldamente alla Madonna della Consolazione, che si trova sotto un arco a sinistra del coro, — la Madonna non la consolazione — la quale mi manca del tutto, per i supremi voleri dell'altefatta Sua Maestà.

Null'altro per ora avendo da aggiungere, la prego, reverendissimo Signor Arcidiacono, di compatirmi sempre, salutandomi la Maddalena, a nome anche di Tiziano che le raccomanda il cane, e li saluta tutti, lei compreso, ed anzi per il primo, colle quali cose, malgrado le amarezze che mi rendono stupido, la prego di tenermi pel primo della parrocchia nell'ossequioso rispetto col quale me le dichiaro, e sono suo obbligatissimo e affettuoso

Antonio Larese del fu Taddeo.»

«Reverendissimo Signor Arcidiacono

Siamo tutti peccatori, e bisogna far penitenza, e per questo nessuno fuma più tabacco. È la più grande penitenza che abbia fatto in mia vita, dopo quella di cavarmi il cappello davanti i birbanti, ma per non cadere in tentazione ho rotto la pipa. L'altro giorno della gente senza creanza che fumava per le strade, è tornata a casa colle coste rotte. I facinorosi dichiarano che erano cagnotti della polizia, cioè rispettabili impiegati di Sua Maestà. Un'altra penitenza è quella di fuggire la musica. Quando si presenta la banda militare, la piazza diventa un deserto, invece si va a passeggio da un'altra parte in onore di Pio IX, e là si trova una folla del diavolo, dove io non manco mai, per divozione del papa. Adesso si porta il cappello colla fibbia del nastro sul davanti, ed anche io vado all'ultima moda; ma siccome io portava la fibbia dalla parte opposta, così il mio cappello vecchio pel lungo uso aveva la falda bassa davanti e alta di dietro, e adesso è tutto il contrario, ciò che mi permette di vedere il sole. Dicono che questa moda sia fatta per contare gli italiani, e così si fa l'anagrafi per la strada, e si vede che siamo nel numero dei più, senza esser morti. I poveri militari della Sacra Maestà dell'Imperatore vivono isolati, i facinorosi li guardano di cattivo occhio, e la gente li schiva come se avessero la peste. Colla quale prendo congedo da vostra signoria, afflittissimo che i popoli ribelli non abbiano il dovuto rispetto ai croati di Sua Maestà; e salutandolo con la Maddalena, mi dichiaro, colla fibbia davanti

Suo obbligatissimo servitore Antonio Larese del fu Taddeo.»

«Reverendissimo Signor Arcidiacono

Devo prevenirlo per sua regola e norma, e per avviso ai Cadorini, che S. M. I. R. A., con venerato decreto sovrano, si è graziosamente degnata di proibire tre colori che non gli vanno a sangue, e sono il bianco il rosso ed il verde. Ogni sovrano ha pieno diritto di bandire i colori che gli riescono antipatici, ma temo pur troppo che le nostre povere montagne dovranno andare in prigione come ribelli, perchè in primavera non potranno nascondere la neve, l'erba e le fragole. Qui le donne sono sorde, e portano fiori e nastri coi tre colori proibiti, e faranno benissimo di metterle tutte dentro, e se come si vede, anche gli uomini seguiranno l'esempio, Sua Maestà sarà costretto di far chiudere le porte delle città, e di considerare i suoi sudditi come tanti prigionieri di Stato. In tale previsione vorrei prendere il largo, ma i miei padroni persistono a non lasciarmi partire. Mi hanno detto che jeri sera vi fu un gran baccano al Teatro della Fenice, e venne freneticamente applaudito un coro nel quale si cantava: «la patria tradita.» L'altra sera ad un ballo nominato la Siciliana, i facinorosi e male intenzionati hanno gridato Viva Napoli, perchè quel re ha dato la costituzione.

Io non frequento il Teatro, ma assisto ogni domenica alla messa a San Giacomo all'Orio, dove si trova sempre il console del papa, e la gente è tanto fitta che un grano di miglio gettato dall'organo non potrebbe cadere sul pavimento. Credo che se Pio IX venisse a Venezia non avrei da invidiare le feste vedute dal mio povero padre per la venuta di Pio VI, delle quali non si è mai dimenticato in tutta la vita. Ma credo che il nostro imperiale e regio governo non sarebbe troppo contento di questa visita, per cui io non domando altro che di riverirla unitamente a tutti di casa, e mi dichiaro in buona salute, anche per notizia di Maddalena, colla quale le presento la assicurazione d'ogni rispetto del suo devotissimo,

Antonio Larese del fu Taddeo.»

«Reverendissimo Signor Arcidiacono

I venerati decreti di S. M. I. R. A. proibiscono «i discorsi antipolitici» e le riunioni di più persone. E infatti «i facinorosi e male intenzionati» furono causa di nuovi ribaltoni. Il governo fece chiudere varie botteghe e mise in prigione i negozianti che vendevano oggetti coi tre colori ribelli. Guai se un trattore mette nella stessa vetrina delle uova, dei cavoli, e della carne di manzo, questa mostra ostile al governo lo farebbe dichiarare «facinoroso e male intenzionato» e lo condurrebbe direttamente in prigione.

I fedeli poliziotti sono trasformati in imbianchini, e percorrono le vie con un mastello di calce ed un pennello per cancellare le iscrizioni di «Viva Pio IX, viva l'Italia, morte ai tedeschi,» e devono anche lacerare tutte le cartoline collate sui muri, che dicono cose da far drizzare i capelli ai buoni sudditi. Si dice che anche nelle provincie le popolazioni manchino di rispetto ai croati, mandati da qualche giorno in gran numero, per consolare la gente dabbene. A Padova venne chiusa l'Università, dove quei matti di studenti, mostravano la strana pretesa che gl'italiani dovessero essere i soli padroni d'Italia. Non avrei mai creduto di udire simili enormità, che sono severamente punite dalle leggi. Temo che il mondo vada a gambe levate, colle quali ho paura che voglia colpire le parti deretane di certa gente senza giudizio. In questi giorni abbiamo avuto molta pioggia, senza contare quella delle dimostrazioni antipolitiche, ma siccome il lunario annunzia giorni sereni pel secondo quarto della luna, così mi rassegno al fango colla speranza d'un migliore avvenire, il quale le auguro felice, e in piena salute, come Ella mi intende, mentre mi inchino colla solita venerazione; e mille cose alla Maddalena.

Suo obbligatissimo ed affezionatissimo servitore Antonio Larese del fu Taddeo.»

«Reverendissimo Sig. Arcidiacono

Quello che adesso è arrivato me lo aspettava da un pezzo. Sua Maestà il nostro amatissimo sovrano nella sua paterna sollecitudine pei sudditi si è graziosamente degnato di ordinare «il giudizio statario» per tutto il Regno Lombardo-Veneto, ciò che vuol dire che chi non avrà giudizio dovrà subirlo per forza, e il più statario che sarà possibile. Questa veneratissima sovrana patente, abbassata da Vienna, promette d'innalzare alla forca chiunque non pensasse come viene prescritto dall'eccelso supremo governo aulico, il quale ordina i processi sommari, e la immediata esecuzione delle sentenze di morte, senza altri diritti di ricorsi o grazie, imperiali, e in caso d'un equivoco si provvederà un'altra volta, non si ammettono nè giustificazioni nè difese, e chi credesse di aver ragione avrà torto, e sarà impiccato. S. M. I. R. A. nella sua sovrana clemenza si riserva di far cessare tali misure, quando non saranno più necessarie le impiccagioni per la salute e la felicità de' suoi sudditi. Altro non posso aggiungere per ora, e tenendo la testa stretta alle spalle per non lasciar passare la corda del boja di Sua Maestà, non intendo con questo di mancare ai riguardi dovuti all'altissimo funzionario che strangola i cristiani per dovere d'ufficio. E mi auguro di rivedere la Maddalena senza giudizio, il quale quantunque abbia il pregio di essere statario, desidero che sia in ritardo, per quanto è lecito di sperare senza offendere la maestà della legge. Mando a Maddalena i miei saluti, e quattro paja di calze che hanno bisogno d'essere rammendate con giudizio statario, per rimandarmele alla prima occasione unitamente a due camicie, e a dei fazzoletti da naso. E le domando scusa sig. Arcidiacono se le manco di rispetto con questi discorsi anticivili, ma se gli uomini devono vivere senza patria per ordine di Sua Maestà e in obbedienza alle leggi austriache non possono stare senza calze, senza violare le leggi della buona creanza, e con questa le bacio rispettosamente la mano e mi dichiaro

Suo obb. ed oss. servitore Antonio Larese del fu Taddeo.»

«Reverendissimo Sig. Arcidiacono

Evviva la libertà, evviva l'Italia, evviva Pio IX!... Siamo tutti liberi e salvi!... Viva, Viva San Marco! gli austriaci sono partiti, le prigioni sono aperte, Tiziano è in mezzo dei nostri buoni padroni che lo colmano di attenzioni e finezze. Finalmente posso scrivere schietto e netto tutto quello che vedo e che penso, senza tanti raggiri. Il giudizio statario, il boja e la forca hanno colmato la misura e tutto è andato sossopra. I Veneziani indignati di tante sopraffazioni si sono rivoltati in massa, i tedeschi hanno ceduto senza spargimento di sangue, e tutto è finito per sempre. Il popolo ha rotto i cancelli delle prigioni, l'avvocato Manin e il letterato Tommaseo sono stati portati in piazza in trionfo fra gli applausi e gli evviva a San Marco, gridati da ogni parte da una folla immensa. Tiziano si è gettato fra le mie braccia, io lo sentiva, lo stringeva senza vederlo, perchè le lagrime mi offuscavano la vista. La bandiera italiana sventola sulle antenne della piazza, tutti hanno la coccarda tricolore al cappello ed alla bottoniera. — Viva l'Italia — Viva San Marco — questo è il grido che si sente dovunque. Se mio padre fosse ancora al mondo vorrei vederlo a Venezia!... Signor Arcidiacono corra da mia moglie, e la consoli, nostro figlio è libero; e dica a tutti i nostri cari compatriotti che l'Italia è finalmente libera e indipendente, e che gridino tutti in coro — Viva l'Italia — Viva San Marco — Viva Pio IX.

Non so precisamente quando saremo di ritorno ma spero assai presto, e intanto, coi nostri saluti, Tiziano ed io le baciamo le mani con tutto il rispetto. Mille cose a Maddalena, e sono sempre

Suo obb. ed oss. servitore Antonio Larese del fu Taddeo.»

IV.

Il grido di Viva San Marco della prima rivoluzione di Venezia è stato criticato come inopportuno e municipale; ma esso sorgeva spontaneo dalla tradizione storica, dalle memorie domestiche, dalla fede religiosa del popolo veneziano, rinvigorito dall'aspetto dei monumenti, dalla insigne basilica, dalle colonne e dal leone della piazzetta, che ricordavano la repubblica che vantava quattordici secoli d'indipendenza. Dopo la sua caduta, Venezia non aveva veduto che la demagogia e la invasione straniera, il popolo non conosceva altri governi possibili; insorgendo contro l'Austria, Venezia ignorava la rivoluzione di Milano che si compieva nello stesso giorno, non sapeva che cosa avrebbero fatto gli altri paesi, le era impossibile di rappresentarsi istantaneamente il grande concetto della unità italiana. Al colosso che cadeva essa non poteva sostituire un'incognita, un mito futuro; ma vi sostituiva un nome immortale, il governo de' suoi antenati, la cui bandiera aveva dominato i mari, ed era stata onorata non solo dall'Europa, ma dai popoli più lontani.

Non era una sollevazione premeditata che la spingeva alla rivoluzione con piani studiati e preconcetti, era l'indignazione unanime, spontanea d'un popolo mite e civile angariato da odiose vessazioni, umiliato nei sentimenti più delicati della sua dignità, offeso nelle sue più sante memorie, risvegliato dall'esempio di Roma risorta, incoraggiato dalle rivoluzioni di Parigi e di Vienna; era un entusiasmo passionato, un'ebbrezza accompagnata da tutti i lirismi della poesia, da tutte le imprudenze dell'ignoranza. Tutti quei popolani avevano avuto un padre devoto a San Marco come sior Antonio, un nonno come Taddeo, che accanto al focolare domestico, aveva le cento volte rammentato ai nipoti le pompe de' suoi tempi, le feste religiose e civili del governo caduto. E tutti avevano detestato le sevizie dell'Austria, e ritenevano come un insulto gli arresti dei più degni cittadini, l'invasione dei croati, e la bandiera gialla e nera che sventolava sulle antenne che rammentavano le glorie veneziane, di Cipro, Candia, e Morea.

In quei giorni febbrili del primo risorgimento pareva che il leone di bronzo agitasse le ali sulla colonna di granito della piazzetta, e il sole che dardeggiava i suoi raggi in quegli occhi lucenti li faceva brillare d'un fuoco scintillante, che pareva precedere un tremendo ruggito. Al solo guardarlo, il popolo si sentiva trascinato al grido d'entusiasmo di Viva San Marco!...

Manin, liberato improvvisamente dal carcere, non ebbe il tempo di rivestirsi completamente cogli abiti che gli recarono gli amici, e venne trasportato in trionfo sulle spalle del popolo, calzato con uno stivale in un piede ed una pantofola nell'altro. Tommaseo uscito a capo scoperto dovette accettare il berretto d'un popolano. La liberazione di Manin è ricordata da una medaglia che rappresenta questa scena, colla iscrizione: — Liberato dal popolo il 17 marzo liberatore del popolo il 22 marzo 1848.

Dopo la presa dell'arsenale, e la capitolazione degli austriaci, i nostri due cadorini, lieti della libertà e desiderosi di rivedere le loro montagne, partirono da Venezia.

Usciti dalle vie tumultuose, ove il popolo faceva gazzarra fra gli evviva alla patria indipendenza entrarono in gondola, e solcarono la calma e silenziosa laguna, che sotto un cielo sereno, e davanti a quegli azzurri orizzonti non pareva destinata alle orribili scene di fuoco e di sangue che dovevano consacrare la sua libertà. A Mestre rividero la Nina la quale appena riconosciuti i padroni li salutò con allegri nitriti, ben felice di lasciare la stalla chiusa per ritornare ai freschi pascoli delle Alpi. Trovarono Treviso nell'esultanza, costituito in governo provvisorio coi suoi bravi ministri, delle finanze, delle pubbliche costruzioni, dell'istruzione e del culto, e perfino col dicastero della guerra e diplomazia, al quale non mancavano altro che gli ambasciatori e i soldati. Rividero con gioja l'ampio letto del Piave, che dietro la corrente delle sue limpide acque portava l'aria fresca del Cadore. Si arrestarono per riposarsi alquanto a Conegliano, ove Tiziano contemplava estatico il ridente panorama dei colli sormontati dai ruderi delle torri medioevali, in fianco al tempio greco di casa Gera, stupendo prospetto che si sostituiva davanti i suoi sguardi alle tetre mura del carcere; e finalmente sulla sera attraversarono Ceneda, e giunsero a Serravalle ove passarono la notte. Al mattino seguente si alzarono per tempo, la Nina riposata e nutrita largamente di biada si mostrava ben disposta d'intraprendere col consueto vigore le salite faticose dei monti. Uscivano dalla stretta gola di Serravalle quando il sole nascente indorava i tabernacoli di Sant'Augusta scaglionati sulla montagna, mentre la valle opposta appariva ancora confusa nell'ombra. La brezza mattutina increspava le acque dei laghetti, e agitava le canne palustri, che mandavano quel lieve bisbiglio che trascina la fantasia a pensieri vaganti nell'infinito, e dispone lo spirito ad una dolce malinconia.

Giunti al lago morto scesero di timonella per rendere meno penosa l'ardua salita alla povera bestia che ansava, e la seguirono a piedi, silenziosi. Tanto il padre che il figlio erano invasi da molteplici pensieri, che le emozioni varie, i tumulti e gli entusiasmi dei giorni trascorsi avevano assopiti, ma che rigermogliavano rigogliosi nel silenzio e nella pace di quelle solitudini montane. Alle amarezze del passato remoto, alle soddisfazioni del presente, succedevano le incertezze dell'avvenire. In tempi di rivoluzione la vita è una continua vicenda di burrasche interrotte da brevi bonaccie. Non si è usciti felicemente da un pericolo che già minacciano nuove peripezie. — Quale sarà l'avvenire?... Sior Antonio vedeva torbido, e temeva rappresaglie e vendette austriache. Egli si rammentava le parole del Consigliere imperiale, che l'Austria non cederebbe mai i suoi domini in Italia, e che sarebbe sempre sostenuta dalla Confederazione germanica, che trovava utile di fissare i suoi confini in casa degli altri. E gli si affacciavano alla mente tutte le difficoltà d'una guerra nazionale, contro potenze sostenute da eserciti regolari, e munite d'armi e materiali che mancavano intieramente all'Italia. E il suo primo entusiasmo per la libertà si attutiva davanti ai nuovi pericoli che sovrastavano al paese, egli vedeva la vita di suo figlio esposta ai rischi d'una probabile difesa della patria, le proprietà violate e manomesse dalla guerra, le famiglie angariate, le seghe minacciate di saccheggi, gli operai dispersi, gli affari incagliati da disordini e disastri.

Tiziano invece sognava placidamente le dolcezze dell'amore e della pace domestica, nella indipendenza, e nella libertà. Egli s'immaginava finito per sempre il dominio straniero, e incominciata per la patria una nuova êra, piena di dignità, di felicità, di ricchezze. E Maria stava in cima de' suoi pensieri, come l'angelo sorridente della nuova fortuna, la meta di tutte le sue aspirazioni, il supremo compenso delle sue pene, delle sue fatiche, la consolazione della sua vita.

Ciascuno guarda l'avvenire colla propria lente, ma l'avvenire nessuno lo vede, e la lente non fa che riprodurre quello che si trova nel cervello del riguardante, cioè le speranze e i sogni della gioventù, o il senno dell'esperienza nell'età più matura.

Così divagando colla fantasia fra mille cose diverse e confuse, costeggiando i monti franosi di Fadalto, i nostri viaggiatori senza quasi avvedersene giunsero a Santa Croce ove si arrestarono per rinfrescare la Nina, e far colazione. Dopo un conveniente riposo risalirono nel loro veicolo e proseguirono la strada in fianco al lago che si stende fino ai colli d'Alpago, alle falde del bosco Cansiglio. Attraversato il Piave a Capodiponte si avviarono verso Longarone, ove fecero un'altra sosta, prima di riprendere la strada per Castellavazzo, e sempre in riva della Piave, e in fianco d'alte montagne raggiunsero il paesello di Termine, ed entrarono finalmente in Cadore.

Perarolo è l'emporio generale del legname cadorino, e presenta il carattere speciale di questa regione alpina, che mostra tutta la sua ricchezza forestale nelle taglie ammonticchiate davanti le chiuse che sbarrano il fiume torrente, e con voce locale si chiamano cidoli. Quando si apre il cidolo le taglie scendono pel torrente ed entrando nei canali artificiali vanno ad alimentare le centotrentadue seghe che sorgono sul Piave da Perarolo a Longarone, e che forniscono in media dai tre ai quattro milioni d'assi all'anno, le quali legate a fasci con cavicchie di faggio, e gettate in acqua, in una specie di bacino di carenaggio, vanno a formare circa 3200 zattere, che galleggiando sul fiume e sulle lagune giungono a Venezia dove vengono spedite ai magazzini della penisola, o caricate sui bastimenti partono per la Sicilia, le Isole Jonie, la Grecia, Malta, Alessandria d'Egitto e di colà sul dorso dei cammelli entrano talora fino nel centro dell'Africa.

A Perarolo molti zatteri, segatini, e menadàs vedendo sior Antonio con suo figlio si fecero loro incontro, plaudendo clamorosamente alla liberazione di Tiziano, e in breve tempo la timonella fu circondata da amici, da conoscenti e da curiosi che udite le novelle di Venezia corsero a propagarle nel paese, e a spiegare le bandiere tricolori che erano già pronte nelle case.

Fu non piccola difficoltà liberarsi da quella folla che seguiva i reduci fino sulla strada detta la cavallera, che sale sul monte in zig-zag con arditissime curve.

Finalmente giunti al sommo della salita, vennero salutati da un ultimo applauso, e da un ultimo addio, ed entrarono nel bosco che domina la valle di Caralte appiè di altissimi monti, sul margine d'un profondo burrone, dal quale si ode il cupo mormorìo della Piave che batte le sue onde spumanti nelle pareti di macigno della sua base. Quando ebbero percorso il lungo tratto di via che attraversa i boschi, e s'interna nei prati, e giunsero a quel punto dove la strada esce all'aperto, Tiziano scorgendo Montericco e i ruderi dell'antico castello, sentì che il cuore gli batteva precipitoso, e guardando a quei gruppi d'alberi che gli nascondevano il nido diletto, provava quella beatitudine, che è così bene espressa sui volto ascetico dei santi, che in un'estasi soave travedono il paradiso, nei dipinti dei pittori insigni delle vecchie scuole italiane.

Sul tramonto del sole passavano per Tai, e sull'imbrunire entrarono in Piave, e poterono raggiungere la loro dimora senz'essere veduti da nessuno. Non ebbero nemmeno bisogno di picchiare alla porta. Fido, riconosciuto da lontano il passo della Nina, s'era messo ad abbajare, e saltando all'uscio con indizi evidenti d'impazienza e di gioja domandava che si corresse ad aprire. Bortolo, che dopo l'arresto di Tiziano aveva veduto il cane costantemente malinconico, accovacciato in un angolo della cucina o della stalla, vedendolo colle orecchie tese stare in ascolto e poco dopo saltare in piedi, balzare verso la corte abbajando e agitando la coda, comprese subito ciò che voleva dire la buona bestia, e corse ad aprire. Poco dopo, la timonella coi viaggiatori, entrava nel cortile, e Fido vi saltava dentro, prima che avessero il tempo di discendere, e con dimostrazioni di letizia convulse e rumorose accarezzava i padroni, poi correva tutto intorno alla corte con allegri abbajamenti, come per avvertire quelli di casa, e tutto il vicinato del felice avvenimento, e non finiva più di manifestare in varie forme le ripetute prove della sua immensa contentezza. Intanto la Betta era accorsa col fanale acceso, seguita dalla padrona che s'era gettata nelle braccia del figlio.

I baci, le carezze, le domande e le risposte durarono un bel pezzo mentre che Bortolo conduceva in stalla la Nina, la stropicciava affettuosamente, le lavava gli occhi e la bocca, le apparecchiava un buon letto di paglia, e finalmente tutti entrarono in casa. Era bello trovarsi ancora riuniti intorno a quel santo focolare, da ove erano stati rapiti e divisi dalla violenza di stranieri dominatori che non avevano altro diritto che quello della forza. Era una grande consolazione sedere a quella mensa di famiglia, ove da padre in figlio s'erano succedute parecchie generazioni di galantuomini, che prima di dormire in pace nella tomba, avevano trasmesso nei figli dei loro figli il loro tipo caratteristico, le loro abitudini, la lingua e le storie del paese, gli affetti e le memorie domestiche. E quella sera la cena fu lunga, e i racconti infiniti. Maddalena non poteva saziarsi di contemplare suo figlio, lo trovava patito, sofferente, voleva conoscere i suoi dolori, dividere le ansie della prigione e i pericoli del processo ascoltando il suo racconto, e godeva di udire dalla voce del marito la collera dei Veneziani contro i tedeschi, la loro concordia nel manifestarsi malcontenti e decisi di finirla, l'entusiasmo del popolo, lo sgomento delle truppe, l'audacia fortunata di Manin all'arsenale, la sua fermezza e la sua autorità, quando imponeva a tutti l'ordine, la concordia, la disciplina; e si esaltava ella stessa, quando Tiziano esclamava:

— Ah se il nonno Taddeo avesse udito nuovamente quelle grida di — Viva San Marco! — che avevano risuonato alle sue orecchie al tempo della repubblica!... se avesse assistito all'imbarco dei tedeschi, mentre la bandiera italiana sventolava sulle antenne della piazza!...

La Betta ascoltava in silenzio, rideva e piangeva, Bortolo interrogava, voleva che gli spiegassero minutamente ogni cosa, s'inteneriva o si accendeva di sdegno secondo le impressioni ricevute, e così passarono una gran parte della notte, e non si decisero di andare a letto che quando cascavano tutti dal sonno, e che mancava l'olio alla fiorentina.

Sior Antonio ritornato nella sua camera dopo la lunga assenza, faceva gli elogi della bontà dei padroni, che lo avevano ospitato e consolato con tanta cordialità, descriveva alla Maddalena il lusso del palazzo, le diceva che aveva dormito in un letto da principe, sotto un baldacchino di damasco... poi mettendosi in testa il berretto da notte conchiudeva:

— Dopo tutto questo non vi sono stanze reali, nè letti sontuosi dove si stia meglio della nostra camera, e del nostro letto, e stirandosi le stanche membra sotto la vecchia coperta di lana, si addormentava profondamente.

Il giorno appresso essendosi già sparsa per tutto il Cadore la notizia della partenza delle truppe austriache di Venezia e dalle provincie, e del ritorno dei Larese, la loro dimora fu invasa dai parenti, dagli amici, dai conoscenti, e dai curiosi, avidi di abbracciare i reduci, e di udire le novelle della rivoluzione.

L'Arcidiacono accorse fra i primi a congratularsi con Tiziano per la sua liberazione, ed a ringraziare sior Antonio delle sue lettere. E più tardi si vide comparire anche il Consigliere imperiale con tanto di coccarda italiana sulla bottoniera, col viso atteggiato ad uno sberleffo che voleva essere un sorriso di compiacenza, ma che malgrado lo sforzo non riusciva all'intento. Fra le visite più gradite Tiziano potè abbracciare strettamente il suo caro Isidoro Lorenzi che gli portava i saluti di Maria, e veniva ad invitarlo a passare tutto l'indomani al roccolo di Sant'Alipio.

Tiziano non si fece pregare, e di buon mattino attraversò il bosco dei larici, ed entrò in quel delizioso romitaggio la cui lontananza lo aveva fatto soffrire più di tutto nei carcere di Venezia.

Isidoro era uscito per tempo per predisporre coi suoi amici la convocazione della Comunità Cadorina, e Maria aspettava Tiziano alla finestra. Quando lo vide entrare diede un guizzo, scese precipitosamente la scala, e corse ad incontrarlo. Tiziano la prese per le mani e le depose un bacio sulla fronte; si dissero delle parole confuse dalla commozione pronunciate colle labbra tremanti, e s'avviarono a quel padiglione di verdura che il giovane aveva denominato il nido di Montericco. Il sole brillava nel cielo sereno, l'aria leggiera era pregna d'esalazioni resinose, la Piave sussurrava fra i sassi del suo letto, e si udiva il muggito delle mandre che uscivano dalle cascine per abbeverarsi nel torrente, e un lieve stormire di fronde confondeva tutti quei suoni lontani col canto degli uccelli, col ronzio degl'insetti, e col soave mormorìo delle loro confidenze. Tutte le angoscie passate apparvero a Tiziano come le dolorose impressioni d'un sogno svanito. Quale cambiamento di scena! dalle tetre mura, dalle doppie inferriate, dalla triste solitudine e dall'afa nauseante della prigione, egli era passato rapidamente all'entusiasmo turbinoso d'una rivoluzione popolare, e da quei fragori assordanti, si trovava trasportato come per incanto fra le armonie soavi della natura, davanti l'aspetto ridente delle montagne, delle colline boscose, della vallata pittoresca, nel nido di Montericco accanto a quella bella fanciulla, fra i profumi della terra e delle piante.

L'ebbrezza della libertà, della gioventù, della vita lo tenevano sollevato dalle cose terrene, in un etere splendido, sottile, in un'estasi di delizie sovrumane; e così assorti entrambi in un magico prestigio, rimasero lungamente in silenzio a sentirsi vivere in quella strana esistenza.

Finalmente ruppero il silenzio per raccontarsi le reciproche impressioni dei giorni dolorosi. Essa gli narrò il raccapriccio provato alla notizia dell'arresto, le ansietà di quei giorni pieni di amarezza, le preghiere che aveva fatte al cielo per la sua liberazione, la felicità nell'udire l'annunzio del vicino ritorno. Egli le raccontò i dolorosi pensieri del carcere, le soavi rimembranze del passato che venivano a rendere più desolante la sua prigionia, e a fargli doppiamente sentire la privazione della libertà, la mancanza d'aria e di luce, le ore solitarie passate sul pagliericcio della prigione coi pensiero intento al roccolo di Sant'Alipio, a quel nido di Montericco, veduti da lontano fra le nuvole, come un paradiso antecipato sulla terra, che forse non lo avrebbe mai più consolato nella vita.

E ai lunghi discorsi affettuosi, succedevano nuovi silenzi ancora più eloquenti, e quando la bocca taceva parlavano gli occhi, quell'arcano linguaggio che senza alfabeto scritto, nè segni convenzionali, imprime e scolpisce con indelebili impronte. Così si amavano profondamente, senza aver mai pronunciata una parola d'amore.

Nella prima infanzia crebbero insieme come fratelli, poi divennero colleghi nella scuola della maestra; e nei giuochi giovanili Tiziano prediligeva Maria, era sempre il suo confidente, il protettore, l'amico inseparabile, che essa chiamava in soccorso in ogni pericolo. Quella grazia e quella forza si erano legate insieme fino dai primi anni della vita come l'edera e la quercia che nascono da vicino, la pianticella rampicante si attacca al tenero arboscello e crescono insieme congiunti, e l'albero diventa il gigante della foresta, senza essersi mai diviso dalla sua fedele compagna, che gli si è radicata intorno, e vive della vita di lui. Una tale affezione, subì naturalmente tutto il successivo sviluppo della loro esistenza. L'inclinazione naturale fra i bimbi divenne predilezione, simpatia, amicizia cordiale, e tenerissimo amore, passando lentamente, gradatamente, insensibilmente, alle successive trasformazioni, come l'infanzia passa alla gioventù, alla pubertà, ed alla età virile. Le separazioni subite a vari intervalli spingevano a queste modificazioni, che ad ogni ritorno crescevano d'un grado. La predilezione si trasformò in amicizia dopo la separazione del seminario; l'amicizia divenne amore dopo l'assenza degli studi universitari, ma l'intervallo del carcere fece crescere grandemente questa passione che s'era accesa nella solitudine, e nella sventura. E nelle successive trasformazioni di questo affetto non c'era mai stato un momento nel quale la parola — ti amo — avesse potuto uscire opportunamente dalle loro labbra; e come essi ignoravano l'origine del loro amore così non potevano ammetterne il fine, pareva che le loro anime si fossero amate in una vita antecedente all'umana esistenza, e certo quell'amore avrebbe sopravissuto alla tomba, «Ti amo» non è che un presente che può stare anche senza passato e senza futuro. Tutti gli amanti si promettono un'amore immortale, essi sentivano un amore eterno, infinito. L'amore era per essi come Dio, superiore ad ogni volgare dimostrazione lo sentivano dentro nell'anima, ma non avrebbero potuto esprimerlo con umane parole. Ecco perchè non s'erano mai detto — ti amo — parola che avrebbero trovata fredda, insignificante, ed inutile. Tale era il loro amore, tale lo sentivano espandersi d'intorno negli aliti della natura, nelle oscillazioni, dell'aria, nell'azzurro del cielo, nell'infinito universo; era una fiamma che ardeva perenne, e mandava scintille, un olezzo di fiore che imbalsama l'aria. Nei loro silenzi le anime rapite in un estasi soave volavano in un'etere celeste, come due angeli insieme congiunti nell'adorazione dell'ente supremo raffigurati da fra Angelico in mezzo alle nuvole illuminate da raggi divini. E dopo quei voli vorticosi scendevano a riposarsi sulla terra, e trovandosi seduti vicini nel nido di Montericco, riprendevano tranquillamente a parlare delle cose mortali.

Michele, il loro amico d'infanzia, tornava in campo sovente nei loro dialoghi. Rammentavano la sua vivacità, i suoi motti, la sua fortuna d'essere sfuggito agli artigli dell'aquilotto bicipide, e in pari tempo al grugno dell'Orso, e lo attendevano di ritorno dall'esiglio.

S'intrattenevano con tali discorsi quando i latrati di Turco li avvertirono che Isidoro rientrava al roccolo. Tiziano gli corse incontro, si strinsero al seno affettuosamente, e Turco, riconosciuto subito l'amico del padrone, e il compagno di caccia, gli saltò addosso con ripetute dimostrazioni di letizia.

Maria rientrò in casa per assistere la vecchia serva negli apparecchi del desinare, che un'ora dopo era servito in tavola sulla loggia, ove i tre amici sedettero lietamente davanti il prospetto di quei monti e di quelle valli che formavano per loro le gigantesche pareti della più meravigliosa sala del mondo.

Dopo il pranzo Isidoro tirò fuori la sua pipa, ma rammentandosi la dimostrazione italiana di astenersi dal tabacco, domandò ridendo a Tiziano:

— È permesso di fumare?..... il tabacco di contrabbando?...

— È permesso qualunque tabacco — gridò Tiziano — e viva finalmente la libertà!...

Passarono un bel giorno, e separandosi a notte avanzata, Tiziano ed Isidoro si diedero appuntamento per l'indomani nella sala della Comunità ove erano convocati i rappresentanti di tutto il Cadore.

Quando Tiziano fu solo nella sua camera aperse le finestre. La luna spandeva sui monti la sua candida luce, tutto era pace e silenzio. Pensò a Maria, al dolore che provava ogni qual volta doveva lasciarla, anche per poche ore, sentì come senza di lei fosse un vuoto insopportabile nella vita, e il mondo apparisse una triste solitudine, gli parve dunque necessario di trovare il modo di averla sempre vicina, e non ce n'era che uno solo, quello di farla sua moglie. Di ciò non le aveva mai parlato, ma sentiva benissimo che non ce n'era bisogno, e che fra loro il matrimonio doveva essere sottointeso. E questo desiderio ardente del suo cuore diventava anche un obbligo di galantuomo, perchè vicino a lei si sentiva rapito da tali ebbrezze, da diventar cieco, con grave pericolo di entrambi.

In un trasporto d'amore, egli avrebbe potuto dimenticare tutti i doveri della vita, e trascinare colei che adorava fino all'orlo della colpa.

Maria rimasta orfana della madre essendo ancora bambina, era cresciuta nella libertà della natura fino al tempo che venne istruita da una brava e saggia maestra, che seppe non guastare la semplicità della sua vita innocente, secondata dall'affetto d'un padre affettuoso probo ed onesto, il quale era così alieno dal male che non poteva sospettarlo negli amici, e lasciava la figlia insieme a tutti i suoi colleghi dei primi anni, con la buona fede dell'uomo intemerato. Offendere quella fiducia, tradire quell'uomo, non era possibile coi costumi semplici ed onesti del Cadore, e Tiziano non si sarebbe mai perdonato un errore che avesse macchiato la candida veste di sposa di colei che doveva entrare nella sua famiglia, e portare il suo nome onorato. E così si decise a non tardare più oltre a rendere sacro e rispettabile il suo amore colla promessa di sposo, che assicurava la sua felicità, e giustificava la sua condotta.

Con l'animo lieto, e la coscienza serena per la presa determinazione, dormì tranquillamente tutta la notte, del sonno del giusto.

Alzatosi di buon mattino, andò a trovare sua madre, la prese per mano, la condusse nello scrittoio ove sior Antonio allineava i suoi conti, e confidò ai genitori riuniti il suo amore, e il desiderio di farsi sposo; che venne accolto da entrambi con sincera soddisfazione, perchè amavano e stimavano Isidoro, e sua figlia Maria, ed erano lieti di accoglierla in casa come una figlia. E fu subito stabilito che dopo la riunione nel palazzo del Comitato, sior Antonio andrebbe al roccolo di Sant'Alipio, a domandare formalmente ad Isidoro Lorenzi la mano di sposa di sua figlia, ed a fissare i preliminari del matrimonio.

V.

Il mattino del primo d'aprile gli abitanti di Pieve udirono il suono d'una campana ch'era rimasta in silenzio per cinquant'anni.

— È la campana dell'arrengo!... esclamavano i vecchi, levandosi il cappello, e i giovani, che non l'avevano mai udita, la ascoltavano con religioso raccoglimento, come fosse la voce solenne dei loro padri.

Quei popoli del Cadore erano uniti da secoli in una sola comunità, che aveva antichi statuti raccolti fino dal 1300; e leggi civili e criminali che provvedevano all'amministrazione della giustizia, e vigilavano affinchè non venissero lese le loro franchigie.

Monsignor canonico Ciani che scrisse la Storia del popolo Cadorino, loda la sapienza di quel governo popolare «che non mutò mai, nè mai ebbe in sì lungo giro di secoli chi macchinasse di abbatterlo»; dice che quelle leggi «mantennero sempre la santità e bontà del costume sì pubblico che privato, ed erano assai severe coi violatori, e specialmente coi ladri, che in certi casi speciali venivano anche impiccati»; ma il buon canonico, nelle sue dotte indagini sui più antichi documenti, non ha mai trovato nessuna menzione sull'esecutore di tali sentenze, e ricercandone le traccie nelle tradizioni locali, soggiunge: «i vecchi ricordi ci fanno sapere che, sempre che il boja o carnefice occorresse, il che accadde due o tre volte, veniva dalle vicine terre teutoniche, e ad assai modico prezzo.»

Quando si pensa che la storia di monsignor Giuseppe Ciani venne pubblicata durante il sospettoso e suscettibile dominio austriaco, si deve convenire che egli non mancava di coraggiosa franchezza, stampando questa sua erudita scoperta sul boia tedesco a buon mercato. E infatti, egli, ottimo cadorino, non poteva sopportare in pace la vergogna del governo straniero che, oltre tutti i malanni dell'occupazione, aveva anche rotta l'unità del suo paese dividendone il territorio in due distretti.

Ed appunto perchè gli austriaci s'erano ritirati da Venezia e dal Cadore, si suonava nuovamente la campana dell'arrengo e si schiudevano le porte della sala dell'antica comunità, ove per il primo d'aprile erano stati convocati tutti i rappresentanti dei 21 Comuni, e invitato qualunque buon patriotta volesse prender parte ad un'assemblea deliberante sui destini del paese.

E accorrevano a Pieve da tutti i Comuni quei buoni montanari, e le vie si affollavano di gente commossa dai grandi avvenimenti del giorno, avida di conoscere la sorte che sarebbe riservata alla patria. Tiziano ed Isidoro, riuniti gli amici accorsi subito all'appello di Pieve, si mettevano d'accordo sulle deliberazioni da prendersi. Seguivano più lentamente fra il popolo, sior Antonio e sior Iseppo, il primo manifestando la sua letizia per la liberazione del Cadore, l'altro brontolando come al solito sulle vessazioni dei tedeschi e sui mali prodotti dal governo degli stranieri.

Il consigliere imperiale in quiescenza andava orecchiando fra i vari gruppi, accigliato o ridente secondo le persone che gli stavano davanti, abbottonando o sbottonando il soprabito per nascondere o lasciar vedere la coccarda italiana attaccata al petto della casacca, secondo i casi che si presentavano alla sua prudenza.

Entrarono nell'aula 69 rappresentanti dei comuni e 44 notabili dei diversi paesi i quali videro comparire il vecchio ottuagenario Alessandro Vecelli, che sostenuto da due amici, salì alla tribuna. Commosso fino alle lagrime, benedì i lenti rintocchi di quella campana che gli rammentavano gli anni vigorosi della sua gioventù e i bei tempi della repubblica veneta, alla quale il Cadore si era dato spontaneamente fino dal 1420, senza perdere veruno de' suoi privilegi, e trovando anzi molti vantaggi al suo commercio, e valida protezione contro le invasioni dei confinanti. Poi proponeva che fosse subito abolita la odiosa divisione imposta dal governo austriaco, e che il Cadore fosse ritornato all'antica e gloriosa Comunità.

L'assemblea animata da vivo entusiasmo applaudiva freneticamente la proposta del suo anziano, e decretava l'unità per sentimento di reciproca fratellanza e per attingere la forza necessaria nei momenti del pericolo.

Dopo tale voto passava alla deliberazione di mandare pronta adesione al governo provvisorio di Venezia, congratulandosi della risorta repubblica, rinnovando l'antico atto di dedizione della Comunità Cadorina, e manifestando i più caldi voti di perpetua libertà. E vennero delegati sei rappresentanti incaricati di recarsi subito a Venezia a portare il verbale dell'adunanza, col relativo indirizzo.

Mentre nell'aula si udivano i più caldi discorsi di amor patrio il popolo si affollava nell'atrio, sulle scale, e nella piazza, in mezzo alla quale s'era innalzata un'antenna, dalla cui cima sventolava la bandiera tricolore italiana, improvvisata dalle donne di Pieve, portante nel centro il leone alato di San Marco. Persone d'ogni condizione, d'ogni età, fra le quali si vedevano i costumi di tutti i paesi cadorini, circolavano intorno al nuovo stendardo, applaudivano ai rappresentanti raccolti, colle grida di viva il Cadore, viva la patria italiana, viva la repubblica veneta, viva Pio IX.

E quando videro uscire dal palazzo la comitiva dei rappresentanti ed udirono le loro deliberazioni, raddoppiarono gli applausi, le grida di contentezza, e di entusiasmo per la libertà.

Sior Antonio uscito coi notabili del paese era commosso più degli altri, il suo affetto inseparabile per la famiglia e la patria gli faceva provare doppia soddisfazione per la libertà conseguita e la casa vendicata dell'insulto ricevuto dagli stranieri. Si cavava il cappello davanti la folla plaudente, stringeva la mano agli amici, ai conoscenti, e salutava perfino gli avversari, proponendosi di venire a transazioni coi suoi confinanti, contro i quali aveva incominciate varie cause per turbato possesso, deciso di finire ogni questione per dar l'esempio della concordia e dell'unità del paese.

Il consigliere imperiale, vedendo che faceva caldo, s'era deciso di levarsi addirittura il soprabito, e così messa in mostra la sua enorme coccarda italiana, passeggiava pomposo in mezzo alla folla, giudicando l'Austria bell'e spacciata colla capitolazione di Venezia, e calcolando che quel governo dovesse anzi trovarsi soddisfatto di uscire da tanti imbarazzi e da tante spese che doveva subire da qualche tempo, a motivo dei sudditi ribelli.

E vedendo che il vento spirava favorevole al nuovo ordine di cose, fece acquisto dei due ritratti di Pio IX e di Carlo Alberto, e li sostituì nel suo studio all'imperatore Ferdinando ed ai marescialli austriaci, che fece sparire in un angolo della soffitta.

Sior Iseppo avendo ricevuto una lettera di Michele che gli domandava denaro per ritornare in patria, si era ritirato in casa, assai malcontento, e col profondo convincimento che tanto sotto i governi dispotici, quanto col regime della libertà, suo nipote gli avrebbe sempre spremuta la borsa, e deplorando che dopo di essersi astenuto dal matrimonio per economia, era costretto di mantenere il figlio di suo fratello, e brontolava fra i denti mille imprecazioni, coi fremiti del suo malcontento.

Dopo la solennità, sior Antonio si era recato da Isidoro a chiedere la mano di Maria per l'unico suo figlio Tiziano, mentre costoro giravano spensierati fra le piante del roccolo, raccogliendo dei fiori.

Chiamati a comparire davanti i genitori li trovarono gravemente seduti intorno al tavolo, sul quale erano stati deposti dei bicchieri e delle bottiglie. Maria s'era messo fra le treccie un papavero rosso, e portava in mano un fascio di biancospini e di lilla odorosi. Isidoro le annunziò in poche parole la domanda di Sior Antonio, chiedendole se fosse contenta. A tale proposta inaspettata, si fece tutta rossa, e guardando Tiziano con uno sguardo di dolce rimprovero gli disse:

— Traditore!... non mi ha detto mai niente!....

— Dunque.... soggiunse suo padre, non sei disposta di concedergli la tua mano?...

Maria guardò negli occhi il suo amico, e gliele sporse tutte due. Egli se la strinse al seno dicendo: — Siamo nati per vivere insieme!... E riempiuti i bicchieri, tutti bevettero alla salute dei promessi sposi.

Venne poi pattuito di comune accordo, che se l'Austria si decidesse a resistere, e rendesse necessario di combattere per l'indipendenza della patria, le nozze avrebbero luogo a guerra finita.

Intanto anche i Cadorini che dimoravano a Venezia facevano pervenire a quel governo provvisorio le loro adesioni, raccomandandogli caldamente la difesa delle loro montagne, e il governo rispondeva alle loro dimostrazioni con un manifesto «ai popoli del Cadore» ricordando che l'antica repubblica li chiamò «fedelissimi» rammentando loro le patrie vittorie, e con platonici sentimenti, come era nelle abitudini declamatorie del momento, scambiava le più ingenue dichiarazioni d'amore, dicendo a quel popolo: «Cadorini, credete all'affetto nostro, e noi al vostro crediamo, perchè sappiamo bene che le anime sincere sono le più generose ed ardenti.»

Ma siccome nelle rivoluzioni e nelle guerre una buona carabina è assai più vantaggiosa della rettorica, anche se accompagnata da cordiali dimostrazioni d'affetto, così i Cadorini si ostinarono a domandare al governo di Venezia, armi, munizioni, e soccorsi per resistere ad una possibile invasione, e per loro parte si mettevano subito all'opera organizzando dovunque la difesa, istituendo le guardie civiche, raccogliendo tutte le armi che potevano trovare, fortificando i punti più importanti di Venàs, di Vallesella, e di San Vito; ed alcuni drappelli più animosi erano anche andati a tenere in sorveglianza il confine malsicuro di Ampezzo e di Montecroce. I Cadorini sentivano d'essere le sentinelle avanzate sui confini d'Italia, e che la difesa delle Alpi avrebbe deciso la sorte della patria comune. L'arsenale di Venezia era bene provveduto di armi da guerra, e coll'insistenza dei cadorini dimoranti colà si ottennero finalmente 400 stutzen, 5 cannoni, ed alquanti barili di polvere.

Al loro arrivo in Cadore queste armi furono accolte con segni festosi di gioja, i cadorini andarono ad incontrare i carri che le portavano, li scortarono come in trionfo, ma erano sempre poche al bisogno, e affatto insufficienti al gran numero d'uomini che correvano volonterosi a difendere le gole dei monti. Così mentre in molte città d'Italia si facevano romorose dimostrazioni, o vane pompe di facili trionfi, in quei monti ignoti o appena noti a gran parte d'Italia quegli animosi montanari si apparecchiavano arditamente alla difesa. Le miniere d'Auronzo fornivano il piombo, le donne preparavano le cartucce e le filaccie, gli uomini si esercitavano al maneggio delle armi.

Tiziano viveva una vita piena d'entusiasmo, ora in soavi colloqui colla adorata fanciulla, ora col fucile in ispalla, attendendo il nemico alla frontiera in difesa della patria. E dopo una notte passata in un bosco per sorvegliare i confini, egli correva sotto al noto balcone ad aspettare il primo raggio di sole. Al crepuscolo si apriva la finestra, e compariva Maria, che gli pareva più bella dell'astro che tingeva di rosa le cime dei monti.

L'amore della patria si animava dell'amore della donna, e si concentrava in una sola aspirazione: far rispettare tutto ciò che l'uomo ha di più sacro sulla terra, il suolo nativo e la famiglia, l'onore della nazione e i tesori del cuore.

E in mezzo a quelle alpi sublimi, nel roccolo di Sant'Alipio, nel nido recondito sospeso sulle roccie di Montericco, nelle ore concesse al riposo del soldato, l'amante s'inebbriava del sorriso della sua fanciulla e la loro gioventù si alimentava di speranze e di voluttà, e Tiziano stringendo la mano di Maria, trovava ancora più stupenda la bella natura che gli stava davanti, e in quella varietà di tinte, d'ombre, di luce, di canti e di profumi trovava più adorabile la sua fidanzata, che gli faceva tutto sentire ed ammirare attraverso il prestigio della passione. Quella stagione del rinnovo gli apparve come uno spettacolo meraviglioso, ed infatti era per lui la primavera della vita, la primavera dell'amore, la primavera della patria, che si associavano alla primavera dell'anno. Il mattino era un incanto di paradiso in quel sito, le tinte rosee del cielo si riflettevano sulle cime dei monti, l'aria leggera ed odorosa echeggiava di mille voci sonore che salutavano il ritorno della luce. A mezzo giorno, tutto era silenzio, pace, e profumi; al tramonto, il cielo le nuvole le alpi parevano di fuoco, e i sospiri del cuore si confondevano colle brezze vespertine.

Quando il dovere chiamava il soldato alle armi durante il giorno, ed alla sera si cambiavano i drappelli che erano stati di guardia, dopo un breve riposo Tiziano correva al roccolo di Sant'Alipio, ove Maria lo aspettava, e passavano delle ore deliziose al chiaro di luna. Le loro parole sommesse, bisbigliate in quella solitudine incantevole, parevano preghiere, ed erano poesie, ignote a chi non ha amato con purezza di sentimento in quei tempi in quei luoghi in quelle circostanze. E quella poesia era la realtà di quella scena e di quei cuori, come le lubriche scene dei vizii cittadini sono la realtà d'altri tempi e d'altri costumi.

Ai primo alito di libertà il paese si sentiva vivere di nuova vita.

Era in tutti un desiderio d'operare pel bene comune, una fratellanza di sentimenti, di voti, di aspirazioni, una curiosità intensa di notizie delle altre parti d'Italia, che recavano sempre nuove sorprese.

All'ora dell'arrivo della diligenza giornaliera una folla di curiosi le si accalcava d'intorno avida di udire le novità e di ricevere le corrispondenze e i giornali, e in tal modo la popolazione di Pieve veniva a conoscere gli avvenimenti che si succedevano continuamente, impreveduti, meravigliosi.

Tutte le città del Veneto, meno Verona, avevano superati gli ostacoli, e allontanati gli austriaci. A Udine avevano obbligato le truppe a ritirarsi a Gorizia, a Treviso una capitolazione aveva costretto il presidio a sgombrare, lasciandovi un battaglione del reggimento Zannini, tutto di Trivigiani, che avevano fraternizzato col popolo. A Padova il tenente-maresciallo D'Aspre firmava una convenzione con quel municipio, obbligandosi ad uscire dalla città, evacuava anche Vicenza soggetta al suo comando, e si ritirava nel quadrilatero. Treviso aveva istituito i Cacciatori del Sile, e la legione Italia libera, Padova la legione Euganea.

Ma come avviene ordinariamente ne' tempi di rivoluzioni e scompigli, le notizie invece di giungere positive e veritiere pareva che si gonfiassero per via, e si sballavano grosse, esagerate, ed anche false ed inventate di pianta. A udire quei viaggiatori di passaggio l'Austria era caduta in dissoluzione, era morta e sepolta; non se ne parlava nemmeno; e i paesi erano intieramente preoccupati dal pensiero della forma di governo da adottarsi; chi voleva la repubblica, chi la monarchia, chi la casa di Savoia e chi il papa, chi la federazione e chi l'unità.

Mazzini predicava per un partito, Gioberti declamava per un altro, ed entrambi ottenevano applausi, dimostrazioni clamorose, e trionfi.

A tali racconti i buoni patrioti si attristavano grandemente; sior Antonio agitava la testa e stringeva le labbra, sior Iseppo grugniva, il consigliere imperiale crollava le spalle, Isidoro si lasciava trasportare dall'entusiasmo, assicurava in piena buona fede che tutto sarebbe finito a meraviglia, Tiziano vedeva color di rosa, la politica e l'amore, e si esaltava gridando:

— Viva l'Italia!... viva la libertà!...

Un giorno che si aspettava colla solita ansietà l'arrivo della diligenza, la si vide da lontano che saliva la costa, e si distingueva una macchietta sull'imperiale che sventolava una carta. Grande impressione nella folla a quel segnale! Che cosa poteva essere?... chi diceva una bandiera bianca, chi vedeva un brutto presagio, chi sperava l'annunzio d'una buona vittoria, o un trattato di pace che consolidasse l'indipendenza italiana. L'agitazione andava sempre crescendo, tutti spalancavano gli occhi, molti corsero incontro alla diligenza per essere i primi a conoscere il fatto straordinario che si annunziava...

Era Michele che ritornava dal suo breve esilio in Piemonte e che aveva cominciato da lontano ad agitare in aria il manifesto del Re Carlo Alberto — Ai popoli della Lombardia e della Venezia.

Quando la diligenza si arrestò in mezzo alla folla stipata davanti l'Ufficio della Posta, Michele, in piedi sull'imperiale, si mise a declamare ad alta voce il manifesto — «I destini d'Italia si maturano; sorti più felici arridono agli intrepidi difensori dei conculcati diritti.» Uno scoppio di applausi frenetici fece sospendere la lettura, la quale fu costantemente interrotta dal crescente entusiasmo degli spettatori, e dalle grida romorose di chi domandava il silenzio. Quando udirono che il re del Piemonte entrava in Lombardia col suo esercito, gli applausi non finivano più, e Michele accennava colle mani che stessero zitti se volevano udire anche il resto. Quando fu possibile di riprendere la lettura, il giovane continuò con voce stentorea: «Seconderemo i vostri giusti desideri fidando nell'ajuto di quel Dio che è visibilmente con noi, di quel Dio che ha dato all'Italia Pio IX, di quel Dio che con sì meravigliosi impulsi pose l'Italia in grado di far da sè.» — Tali parole eccitarono una irresistibile frenesia nella folla, e non fu più possibile di calmarla. Le grida assordanti di Viva Pio IX si confondevano con quelle di viva l'Italia, viva la libertà, viva il Cadore, Viva Carlo Alberto. — Viva la repubblica di S. Marco!... La fine del manifesto non si è potuta udire che dai più vicini, e Michele saltato abbasso dalla diligenza si trovò stretto e quasi soffocato dagli amici. Sior Antonio piangeva dalla consolazione: egli vedeva la patria liberata, la famiglia tranquilla, e il legname delle seghe fuori di pericolo. Il Consigliere imperiale assicurato dall'intervento del Piemonte, giudicò l'Austria perduta senza remissione, e vedendo l'entusiasmo del popolo, stimò opportuno per la propria sicurezza, e per garanzia della pensione, di dare una prova evidente di patriottismo, e si mise a gridare — «morte all'Austria! fuori i barbari dall'Italia! viva Carlo Alberto e l'esercito piemontese!» I popolani gli strinsero le mani, in segno di ammirazione pel suo generoso entusiasmo, ed egli ringraziava modestamente, mentre Michele sfuggito alla folla correva a casa col suo sacco da notte, ad abbracciare lo zio orso e ad ascoltare con rassegnazione le sue ramanzine.

Però gli avvenimenti non erano così assolutamente decisi come si credeva nel primo entusiasmo dalla poca esperienza politica delle popolazioni appena uscite dalla dominazione straniera. L'esercito austriaco sorpreso dalla rivoluzione nelle varie città non era punto disfatto. Anzi si andava raccogliendo regolarmente, e i vari corpi dispersi con poche perdite si concentravano nel quadrilatero dove il vecchio feldmaresciallo Radetsky organizzava le truppe e stava attendendo i rinforzi che aveva domandati, per uscire da' suoi ripari e riprendere il terreno perduto.

I volontari che sotto gli ordini del generale Sanfermo si batterono coraggiosamente contro gli austriaci a Montebello dovettero soggiacere al numero superiore che li assalì, a Sorio, dove fu un vero macello, e si pagò uno dei primi tributi di sangue per la difesa del territorio veneto. Il generale Durando col suo corpo d'esercito pontificio non si decideva mai a varcare il Po, malgrado le vive sollecitazioni che gli venivano fatte dal governo di Venezia e dal generale Lamarmora, che lo eccitavano a portarsi sull'Isonzo dove il Nugent raccoglieva uomini, armi e munizioni per scendere nel Friuli e recarsi a Verona in soccorso di Radetsky.

Pio IX dopo di aver benedetto il 25 marzo dall'alto del Quirinale la bandiera delle truppe regolari che partivano per la guerra dell'indipendenza, si mostrava esitante e mal contento, e finalmente dichiarò coll'enciclica del 29 aprile che non aveva mai inteso di far la guerra all'Austria.

L'indignazione fu grande in tutta Italia, e a Roma principalmente, ove i genitori, i parenti, gli amici dei militi partiti per la guerra temevano di vederli cadere in mano del nemico ed essere trattati da ribelli.

In tali condizioni di cose premeva grandemente che i soldati volonterosi di battersi per l'indipendenza nazionale avessero dei capi che sapessero dirigerli, e i cadorini pressavano il governo provvisorio di Venezia di voler provvedere a questa necessità, per difendere validamente le Alpi.

E infatti il 18 d'aprile Daniele Manin fece chiamare il dottor Luigi Coletti, reduce dalla lotta di Sorio, e gli presentò Pietro Fortunato Calvi, nominato capitano delle armi del Cadore, con decreto del 17 dal governo provvisorio della repubblica.

Pietro Fortunato Calvi era nato nell'antico castello di Briana in provincia di Padova, comune di Noale il 15 febbraio 1817, aveva dunque appena compiuto 31 anno, e ne mostrava assai meno. Era un bel giovane biondo, di nobile fisonomia, di aspetto marziale, di carattere dignitoso, schietto, leale, che attirava la simpatia di quanti lo vedevano. Il parroco del villaggio fu il suo primo maestro, poi continuò i suoi studi nel ginnasio di Padova, e dopo passò nel collegio militare del genio a Vienna da ove uscì col grado di tenente nell'arma di fanteria del reggimento Wimpfen. Trovatosi per vari anni di guarnigione a Venezia, venuto a contatto cogli ufficiali di marina, che memori delle glorie passate, colleghi dei Bandiera e di Moro, nudrivano sentimenti italiani, fattosi amico di alcuni giovani veneziani che gli parlarono di patria e di libertà, il giovine tenente s'avvide a poco a poco che le tenebre politiche avevano oscurata la vista a molti italiani, che ignoravano di avere una patria, e si mostrò pronto a riconoscerla e deciso a servirla. I suoi superiori si accorsero delle nuove idee che germogliavano nella mente del giovane ufficiale, e per allontanarlo dalle tentazioni e guadagnarlo coll'ambizione soddisfatta, lo traslocarono a Gratz col grado di capitano. Ma ai primi movimenti del 48 diede le sue dimissioni, che non vennero accettate, ciò che non gl'impedì egualmente di lasciare il servigio straniero, e recatosi a Trieste uscì dal porto in una barca peschereccia ed attraverso mille pericoli giunse a Venezia. Colà si faceva conoscere dal governo il quale lo accoglieva con distinzione e gli dava l'incarico di andar a dirigere la difesa del Cadore. Il giorno 19 aprile egli partiva per la sua destinazione insieme al compagno che gli era stato dato e il giorno successivo sulla sera, entrava a Pieve e prendeva alloggio in casa Coletti.

Presentato al Municipio che riconobbe subito il suo incarico, venne tosto deliberato di convocare nuovamente pel giorno 25 i deputati di tutti i comuni del Cadore, i capi delle guardie civiche, e tutti i maggiorenti del paese. Intanto il capitano prendeva conoscenza dei luoghi e delle persone.

Il giorno 25 nella sala della Comunità, ai rintocchi della campana che aveva suonato al 1º del mese si raccolse l'assemblea, con meno trasporti frenetici della prima volta, ma con pari patriottismo, più positivo e più grave, decisi tutti a qualunque sacrificio per vietare l'ingresso delle Alpi all'esercito imperiale; che si presentava minaccioso alla frontiera.

Il Municipio di Pieve presentò ai convocati il capitano Calvi, come capo delle armi cadorine, eletto dal governo centrale. Esso venne accolto da unanimi applausi, e fece un breve discorso all'adunanza, manifestando il suo fermo proposito di dedicare la vita alla difesa e al bene del paese, nel quale con suo sommo piacere era stato mandato. Le sue parole vennero ascoltate in rispettoso silenzio, seguito da manifestazioni di gioia, e da esclamazioni di entusiasmo guerriero. Si fece qualche altro discorso, e poi si passò subito alla nomina del Comitato di difesa, al quale presero parte i più distinti cittadini.

Dopo alcune altre formalità secondarie, si stava dettando il protocollo delle prese deliberazioni, quando si vide entrare nella sala un uomo pallido in volto, che teneva in mano un foglio stampato. Era il signor Luigi Galeazzi di Perarolo il quale veniva ad annunziare all'assemblea che gli Austriaci avevano passato l'Isonzo, che Udine aveva dovuto capitolare, e quel foglio conteneva appunto il testo della capitolazione, ed era la prova evidente della nuova invasione.

A tale sorpresa successe qualche istante di silenzio. Era una trasformazione impreveduta di scena che faceva cadere ad un tratto molte illusioni, smorzava molti entusiasmi, risvegliava timori e paure, e smascherava alcune persone accorse all'assemblea colla fiducia di qualche vantaggio personale, spinte a secondare la corrente e a mostrarsi fra le prime ad adorare il nuovo astro che sorgeva all'orizzonte. Chi avesse osservato in quel momento le contrazioni muscolari del viso del Consigliere imperiale avrebbe veduto un tipo curioso ed interessante di quell'epoca, uno di quei personaggi che dopo d'aver servito con molto zelo il governo straniero, procuravano dopo la sua caduta di far dimenticare un passato pericoloso, e si mostravano fra i più ardenti promotori del nuovo ordine di cose, insinuandosi astutamente nelle pubbliche adunanze, gridando più forte degli altri, infiltrandosi a poco a poco, e penetrando nei nuovi uffici, per riprendere influenza nelle cose pubbliche, assumere nuova autorità, sollevarsi dalle rovine, cercando nuove soddisfazioni all'ambizione, e nuovi lucri all'avidità.

Il consigliere imperiale, avvedutosi in quel momento d'aver avuta troppa fretta a mostrarsi liberale, avrebbe voluto tirarsi indietro senza compromettersi, ed agitato dalla lotta che si combatteva nel suo cervello, presentava una fisonomia, che sarebbe sembrata molto comica, se le gravi preoccupazioni del momento non avessero attirato altrove gli sguardi. Ma se c'era un consigliere imperiale, e qualche timido che viste le critiche circostanze avrebbe voluto subito rinunziare ad ogni resistenza, l'assemblea si componeva la maggior parte di animosi patriotti come Tiziano, Michele, Isidoro, e tanti altri disposti a dare la vita per la patria, decisi di resistere alla nuova invasione, i quali non avevano che un solo timore, quello di riveder l'Italia ricadere in mano degli stranieri, e non erano animati che da una sola ambizione, quella di offrire tutto il loro sangue per salvarla da questa nuova sventura.

Il generoso patriotta che stava al fianco di Calvi prese la parola, dicendo:

— A che ci siamo qui raccolti?... Nol sapevamo noi che il nemico ci stava alle porte deciso d'invadere nuovamente la patria?... Non è forse il pensiero della difesa che ci ha qui condotti?... A che dunque occuparsi di difesa se non si avesse avuto presente che fra poco avremmo avuto il nemico da combattere?

Queste ragionevoli domande, che contenevano la risposta perentoria, vennero accolte con sommo favore dalla maggioranza, ed al breve silenzio prodotto dalla sorpresa, successero i più vivi applausi e gli evviva iterati all'Italia, alla repubblica, ed a Pio IX, e finito in fretta il protocollo verbale, e firmato dal maggior numero degli intervenuti, l'assemblea si sciolse, accolta dal popolo stipato nella piazza, con ripetute acclamazioni, e con voci d'incoraggiamento e di concorde adesione.

Il consigliere imperiale corse a chiudersi in casa, deplorando la sua imprudenza, ritirò dalle pareti del suo gabinetto il ritratto di Pio IX e quello di Carlo Alberto, e li portò in soffitta, dove si mise con ogni cura a ritirare la polvere e le ragnatele dai ritratti dell'imperatore Ferdinando, e a quelli dei marescialli dell'Impero, che rimise con grande rispetto nelle loro cornici, e dopo lavati i vetri appese di nuovo al loro posto, dal quale erano stati ritirati prudentemente davanti le energiche manifestazioni cadorine in favore della libertà, e nascosti dietro le casse coi vecchi mobili abbandonati. E tutto intento a tale operazione, deplorando la precipitazione dei primi giorni giurò solennemente che in avvenire sarebbe più cauto, non ammettendo mai più nelle sue stanze altro che i sovrani riconosciuti regolarmente da tutte le potenze d'Europa.... e delle nazioni più forti delle altre parti del mondo.

Ma in quello stesso giorno la popolazione di Pieve celebrava la festa di San Marco nella chiesa di Santa Maria, stipata di gente d'ogni condizione, e il reverendissimo Arcidiacono che officiava solennemente, circondato dal clero, dava la benedizione alla bandiera della Guardia Civica. La religione e la patria si erano congiunte in uno stesso sentimento di devota affezione, e quelle buone, semplici, ed energiche popolazioni delle montagne, prostrate devotamente davanti gli altari, domandavano a Iddio la protezione delle armi per difendere valorosamente il loro territorio e le loro case dalla invasione degli stranieri.

VI.

Il Comitato di difesa si mise subito all'opera alacremente, aprendo i ruoli dei volontari, esercitandoli al maneggio delle armi. I cadorini hanno la consuetudine di emigrare ogni anno per alcuni mesi, in vari paesi d'Europa, esercitando diverse professioni, ma in quell'anno non erano partiti, od erano ritornati più presto a motivo degli sconvolgimenti politici. I giovani accorsero subito ad iscriversi nella milizia, e in tal modo vennero prontamente costituiti i Corpi franchi destinati al servizio attivo ai confini, lasciando alla guardia civica il servizio interno d'ordine e sicurezza. Fissato il giornaliero assegnamento dei volontari, furono presentati al Comitato, davanti il quale giurarono solennemente di servire per tre mesi come soldati regolari, sotto il supremo comando del capitano Calvi. E in pochi giorni si raccolsero 380 uomini che vennero divisi prima in quattro poi in cinque corpi di 75 a 80 uomini ciascheduno. Ogni drappello aveva la sua bandiera tricolore che lo precedeva nelle marcie, e veniva piantata nel punto fissato per la difesa. La fretta rese impossibile di adottare una assisa uniforme, soltanto portavano un ramoscello d'abete sulla coccarda italiana fissata ad una falda del cappello rilevata ed aderente alla cupola. I capi si distinguevano per dei segnali bianchi alle maniche.

Mentre venivano istruite queste milizie il capitano Calvi col suo inseparabile compagno del comitato percorreva il Cadore, prendendo conoscenza delle posizioni, ispezionando quanto era stato operato dai cadorini fino a quel momento per la difesa dei loro confini, e disponendo tutto ciò che era da farsi secondo i luoghi e le circostanze. Trovarono il confine di Montecroce bastantemente premunito per cura di Giovanni Coletti comandante della guardia civica del Comelico superiore.

Le accoglienze fatte dalle popolazioni del Comelico al capitano mandato dalla repubblica di Venezia, ed al capo del comitato che lo accompagnava, dimostrarono come anche in quella parte del Cadore fosse vivo il desiderio dell'indipendenza, e come quei paesani fossero fermi e ben disposti a difendersi ed a respingere con energia l'invasione tedesca. Ed era assai bello il vedere quei montanari del Comelico superiore, che sono generalmente alti della persona e robusti, vestiti del loro costume di festa, che consiste in una tunica bianca di lana, affatto particolare al paese, portanti sulle spalle la scure dei boscajuoli e la zappetta, inghirlandata di verdi fronde, col cappello ornato di nastri, e la coccarda tricolore sotto al ramoscello d'abete.

S'erano raccolti ad aspettare il capitano sulla piazza di Padola, villaggio estremo del Cadore, collocato in un'ampia valle palustre, in mezzo a monti coperti di foreste, attraversati da torrenti, colle alte cime di nude roccie acuminate, costantemente nevose. Quella brava popolazione intelligente e svegliata ascoltava estatica i discorsi dei loro capi, applaudiva concorde, e prometteva costanza e fedeltà.

A Treponti il capitano Calvi ordinò alcuni lavori per barricare il passo e fece alzare un fortino a sinistra del Pieve, sotto il bosco di Gogna, per collocarvi due cannoni.

La valle del Boite, le gole d'Oltrechiusa e il confine Ampezzano avevano avuto le principali cure dei Cadorini, poco sicuri dei loro vicini tirolesi. Quelle valli che dalla chiusa di Venàs si estendono fino ai confini di Ampezzo, presentano dei prospetti assai pittoreschi. Il torrente Boite che scaturisce dalle alpi tirolesi scorre alle falde dei monti profondamente incassato, corre a sbalzi, e si stende come un verde cristallo nei siti piani e profondi, e si trasforma in candide spume spruzzanti e rumorose quando s'infrange nelle roccie cadute dalle cime più eccelse nel suo letto tortuoso. La strada detta d'Alemagna, tagliata nei macigni a grande altezza dal torrente, si raggira in varie curve secondando i seni e i dorsi dei monti, ed ora presenta alla vista una vallata ridente di poggi, di pascoli, e di verdi boschi di larici e abeti, ora si va stringendo in gole minacciose, e fra nude rupi a picco, che pare devano rendere impossibile l'uscita.

A destra del Boite torreggia il Pelmo che s'innalza a 3161 metri sul livello del mare, a sinistra l'Antelao s'innalza a 3255 metri, in mezzo d'un corteggio di monti minori. Monte caro e terribile ai Cadorini che lo ammirano da lontano, coronato di nevi o di tempeste, nero di nubi o irradiato da rosei colori dell'alba, o dal fuoco vivo d'incantevoli tramonti. Gigante dolomitico spaventoso ai vicini, colle sue orribili frane, la cui storia è tremenda per villaggi sotterrati dalle rovine e sepolti per sempre. Egli sorge squallido, nudo, frastagliato, nevoso, in mezzo ai deliziosi boschetti di Valle, paesello ridente d'ortaglie e frutteti, che guardano paurosi il fantasma che li sovrasta. Le case antiche di Valle tutte di legno, affumicate, coi loro ballatoi, ingombre di scale, poggiuoli, coi tetti sporgenti, formano dei gruppi di linee stupende e di colori pastosi e robusti, davanti un orizzonte ondeggiante in amenissimi declivi ornati d'alberi ramosi che sporgono le loro braccia ritorte fra le fabbriche e i muri cadenti coperti di edere, dietro i quali si vedono i lontani boschi di larici dalle fogliette glauche, che rendono più dolci i passaggi dalle tinte cariche e cupe del primo piano al fondo cinereo dell'Antelao che spicca maestoso sull'azzurro del cielo.

A Costa un ponte d'un solo arco s'innalza sull'acqua del torrente a 59 metri, e, appoggiandosi sulle roccie sparse d'abeti che crescono fra i crepacci, congiunge le due rive e conduce sulla strada di Cibiana. Nel 1823 il monte franato fermò il corso del Boite per 12 ore, e finalmente rotta la diga, le acque si versarono furiosamente nella valle e alzandosi fino a 25 metri, inondarono Perarolo apportando desolazioni e rovine.

Anche Vodo offre amenissimi paesaggi e prospettive stupende; monti sparsi di boschi, seguiti da altri monti e da altri boschi a tinte sempre più digradanti quanto più si allontanano dalla vista, con declivi a dolcissime curve e toni sempre più languidi e sfumati che finiscono con nude roccie grigie filettate di neve e confuse colle nuvole.

Presso l'antichissimo paesello di San Vito, il Pelmo presenta le sue sterili roccie che ascondono orridi precipizi dietro ai verdi promontori ricoperti di fittissimi boschi, che lo fanno sembrare ancora più squallido e nudo. La campagna vicina è sguarnita d'alberi, meno qualche frassino sparso qua e là, che colle sue foglie oscure spicca sul verde tenero dei larici. Dirimpetto al villaggio, a destra del Boite, presso alcuni avanzi d'una strada abbandonata, si trovano traccie di villaggi scomparsi, e si scorge una miniera di ferro abbandonata, che si scavava al tempo della repubblica veneta. Nel 1848 le donne di questo paese preferivano ancora il pittoresco costume antico. Adesso appena qualche vecchia ne conserva le ultime traccie che stanno per perdersi nella comune uniformità. Vestivano una sottana nera, increspata di dietro ed orlata al basso da una frangia scarlatta. Panciotto rosso filettato di nero con sovrapposta pettorina quadrangolare a fondo rosso, ornata traversalmente da galloncini, e orlata di frangie d'oro o d'argento secondo il caso di festa o di lutto. Mettevano al collo una collana di grossi coralli, o una catenella d'argento, portavano in testa un cappello largo e rotondo in cima stretto al basso, e senza falde, come quello dei sacerdoti armeni; usavano calze rosse e scarpe scollate.

Gli abitanti d'Oltrechiusa sono generalmente tenaci dei loro diritti, laboriosi e interessati; le donne hanno aspetto maschile, fisonomie gravi, andamento risoluto. Sono molto amanti della vita domestica e patriarcale, e si conobbero famiglie composte di cinquanta persone, e di sette matrimoni, che vivevano in perfetta armonia.

Calvi che era grande ammiratore della natura si piaceva assai fra quei monti, ove ad ogni svolta di strada si presentano nuovi oggetti degni d'attenzione, e stupendi prospetti. Si arrestava in contemplazione nei siti più pittoreschi, si animava alla difesa della patria, che la natura aveva dotata delle Alpi, come formidabili fortezze, ai confini. Conversava con piacere cogli abitanti, nei quali ammirava la semplicità unita al buon senso, la sobrietà che risparmia i frutti del lavoro, la lealtà ardimentosa, la cordiale e franca ospitalità, virtù indigene d'un paese poco noto, e così degno d'essere conosciuto. E andava ambizioso d'essere scelto per guidare quella gente nelle battaglie dell'indipendenza, e di poter vietare agli stranieri la violazione di quei focolari che raccoglievano famiglie così oneste, e così degne della libertà. E andava studiando, e indicando tutti i mezzi più opportuni per resistere all'invasione, con lavori che rendessero inespugnabili quei passaggi.

I cadorini avevano costruito a pochi passi da Chiapuzza a sinistra del Boite un lungo fossato, formando un terrapieno col materiale scavato a guisa di parapetto verso settentrione, che veniva sorvegliato da sentinelle, ma il luogo parve poco atto ad una lunga difesa, e venne deciso per consiglio del capitano, di disporre perchè la difesa maggiore in caso di bisogno si portasse alla Chiusa, presso Venàs.

Uno dei primi lavori, in questa località, fu quello di rompere un tratto di strada che dal precipizio di Chiusa va verso Peaggio, rendendo il sito rovinoso e impraticabile, franando con mine la roccia fino al letto del Boite, e formando, all'altezza di circa 20 metri, sulla rupe che sovrasta la strada, un pianerottolo sul quale collocarono dapprima un cannone, e più tardi due, levandone uno da Treponti. Nè vi fu bisogno d'altri lavori, essendo tutta quella linea perfettamente difesa dalla natura selvaggia, dalle rupi a picco, irte, scoscese, rotte da dirupi alpestri e franosi. Fatti alla Chiusa questi apparecchi vennero posti sotto la custodia della guardia Civica di Venàs, il cui comandante era Federico Albuzzi, antico soldato di Napoleone, che seppe organizzare perfettamente la difesa di quel punto importante.

Compiuta questa prima ispezione e ritornati in Pieve posero mano ad altre disposizioni non meno gravi e necessarie. Calvi si occupò particolarmente dei soldati, il suo compagno costituì l'ufficio del Comitato di difesa nel palazzo della Comunità. Si nominarono i segretari, i cancellieri, ed un cassiere, e vennero elette varie commissioni per tutelare l'ordine interno, con l'appoggio della guardia civica, dispensata dal servizio attivo, ed incaricata di sorvegliare l'annona e le proviande militari, con facoltà di requisire viveri, rilasciando viglietti di credito.

Sior Antonio venne utilizzato negli uffici, ove la sua probità lo rendeva autorevole, e il suo odio per la dominazione straniera gli era sprone a spingere la resistenza con tutte le forze del paese. Il Consigliere imperiale vedendolo salito al potere lo trattava con deferenza marcata, non più come un inferiore, ma come un eguale.

Le amministrazioni dei boschi e della giustizia rimasero affidate alle autorità che non abbandonarono il loro posto, ma che non ebbero mai nulla da fare perchè l'amore della patria, come una nuova religione aveva fatto dimenticare le questioni dei confini privati, erano cessate le liti, le gare, le discordie, e fino la menzogna, l'ubbriachezza e la bestemmia. Ogni colpa era giudicata come un offesa a Pio IX, ogni offesa al creduto redentore d'Italia come un insulto alla patria risorta. Non si pensava più che a combattere per la salvezza del territorio sotto la protezione di Dio.

Quando i Corpi franchi furono bastantemente istruiti per stare in fila e comprendere il comando, vennero passati in rassegna dal Comandante davanti il Comitato, nella piazza di Pieve, ove la gente era accorsa in folla da ogni parte per vederli passare. La Maddalena e la Betta si affrettavano a giungere sul luogo con altre donne del paese che avevano i loro figli nella milizia. Maria e le sue amiche volendo vedere gli amanti, i fidanzati, i padri, i fratelli sotto le armi, accorrevano esse pure. All'ora fissata sfilarono in bell'ordine colle bandiere spiegate, al suono del tamburo, col viso animato rivolto al Comandante, e un aspetto così risoluto e marziale che eccitava l'entusiasmo degli spettatori, i quali applaudivano clamorosamente coi soliti evviva. Tiziano, Michele e Isidoro erano stati nominati ufficiali, e marciavano alla testa del loro drappello. Il padre di Maria aveva passati i quarant'anni, ma la vita di cacciatore e l'amore di patria gli conservavano il vigore della gioventù. Bortolo era semplice soldato, ma alla Betta pareva un eroe, e vedendolo passare colla testa alta in mezzo de' suoi colleghi non potè frenare delle lagrime di soddisfazione e d'orgoglio che le rigarono le guancie.

Essendo stato fissato il giorno seguente per la partenza dei Corpi franchi, i militi passarono la sera nelle loro famiglie fra teneri addio, e voti ardenti per la vittoria. Maddalena e la Betta recitarono il rosario insieme ad altre madri, che invocavano la protezione del cielo sulla patria, e sui figli.

Sior Antonio incontrando per via sior Iseppo gli offerse una presa di tabacco, dicendogli:

— Ci siamo... e che il cielo ci aiuti!...

Al che l'altro rispose:

— E ci salvi dai tedeschi.... e dai matti!....

Nel roccolo di Sant'Alipio fu una vera festa. Gli ufficiali vennero invitati da Isidoro a bere il bicchiere della partenza alla salute d'Italia. Egli era andato a snidare dalla cantina alcune vecchie bottiglie di vino di Conegliano, riservate per le grandi occasioni, e le aveva portate nella loggia ove si erano accesi molti lumi. La bella Maria faceva gli onori di casa, ma versando il vino nei bicchieri le sue mani tremavano.

Essa restava sola, con una vecchia serva, nel suo romitaggio; suo padre, il suo fidanzato, e i loro amici partivano per la guerra. In tutte le case non rimanevano che le donne, i vecchi, e i fanciulli, e per quanto sia grande l'amore del paese, il momento d'una partenza per affrontare pericoli non può a meno di affliggere grandemente le anime affettuose. Tutti non ritornano mai, chi avrebbe mancato?... Tale preoccupazione velava il volto della fanciulla di profonda mestizia, e qualche lagrimetta furtiva spuntava da' suoi begli occhi, mentre le labbra tentavano invano di sorridere. Tiziano voleva farle coraggio, ma egli stesso non si sentiva abbastanza forte per infonderle quella sicurezza che gli mancava.

Michele colla solita spensieratezza raccontava ai colleghi i suoi stratagemmi per cavare un po' di denaro dallo zio, ma osservava che gli orsi sono troppo sobrii per comprendere e compatire i bisogni degli altri animali. Solitari, selvaggi, non vorrebbero mai uscire dalla loro caverna. Ad ogni domanda ragionevole oppongono un ruggito, e bisogna prenderli col miele.

Quella sera parlarono molto di Calvi, delle sue belle qualità, della simpatia che ispirava a quanti lo avvicinavano. Maria che lo aveva veduto alla rassegna osservò che aveva una fisonomia dolce e giovanile, e gli pareva impossibile che potesse avere l'energia necessaria alla sua missione.

— Lo vedremo davanti il nemico... soggiunse Isidoro — l'ardire viene dal pericolo e dalla responsabilità.

Passeggiarono lungamente sotto agli alberi al chiaror della luna, Tiziano e Maria poterono ritirarsi in disparte per qualche istante senza essere osservati, e ripetersi quelle eterne parole d'amore, le più antiche e le più nuove del mondo, sempre eguali in apparenza, ma applicate ad infinite varietà di sensazioni, brevi ed ardenti, che sono ricordi e promesse, sante come le preghiere che si innalzano agli esseri superiori, insidiose come le tentazioni del diavolo, divine e pericolose ad un tempo.

Ad ora avanzata ciascheduno si ritirò alla propria dimora per prendere un po' di riposo; ma quella notte fu vegliata da molti sull'insonne letto; madri, amanti, sorelle, versarono molte lagrime nel segreto della solitudine e del silenzio.

Ma il sole nascente non vide che entusiasmi, ardore di battaglie, uomini vigorosi che partivano decisi di dar la vita per la salvezza e l'onore del paese, e donne rassegnate ad ogni sacrifizio.

Il primo fatto d'arme ebbe luogo in Oltrechiusa. La mattina del 2 maggio, duemila uomini circa del reggimento Provaska, con 52 Ulani a cavallo, insieme con molti Jegher e gran numero di Sizzeri dell'Ampezzano, e dei vicini comuni tedeschi, messisi in marcia comparvero improvvisi sul confine, e uccisa la sentinella cadorina, lo varcarono, disponendosi in lunga fila dal Boite alla strada, e dalla strada più in su sulle roccie.

Dato il segnale d'allarme al presidio, i cadorini si avanzarono verso il nemico, e gli abitanti di Chiapuzza e di San Vito data mano alle campane si misero a suonare a stormo per avvertire la popolazione dell'imminente pericolo. Intanto un ufficiale austriaco si era avanzato con bandiera bianca domandando di parlamentare cogli avversari. Ignazio Galeazzi, comandante d'uno dei corpi franchi, gli andò incontro. L'ufficiale tedesco mostrando la capitolazione di Udine invitava i Cadorini a sgombrare il passo, consigliandoli ad accettare gli stessi patti.

Il comandante italiano gli rispose che i Cadorini avevano giurato d'impedire agli austriaci di varcare le Alpi, che erano al loro posto per la difesa del paese, e che sarebbero morti prima di mancare al dovere.

Intanto che aveva luogo questo dialogo, l'annunzio dell'avvicinarsi dei tedeschi si era diffuso in tutto il Cadore, e le campane di tutte le parrocchie rispondevano al primo segnale, sollevando in massa gli abitanti, che correvano al luogo minacciato. L'ufficiale austriaco, udendo il suono delle campane che echeggiava dovunque, domandò al giovane avversario che cosa significasse quello scampanio, al che egli rispose:

— Le campane suonano o la vostra o la nostra agonia....

E si vedeva da lontano scendere dalle montagne quelle popolazioni decise di contendere il passo agli invasori. Gli abitanti di Venàs avevano portato fuori dalla loro chiesa un antico vessillo di S. Marco, che nel cinquecento aveva condotto alla vittoria i loro padri; e da ogni parte spuntavano le guardie civiche seguite da turbe armate ove c'erano giovani e vecchi, ricchi e poveri, donne e fanciulli, accompagnati dai loro preti, e si vedevano avanzarsi rapidamente, minacciosi, perchè quantunque non avessero che schioppi da caccia, lancie conficcate in bastoni, forche e falci da fieno, spiedi, scuri e coltelli, tuttavia quelle armi agitate in aria luccicavano da lontano confusamente con strani bagliori.

A quella vista il nemico aveva sospesa la marcia, e s'era disposto in ordine di battaglia un miglio distante dalla linea di difesa.

Calvi con una rappresentanza del Comitato era accorso sul luogo, accompagnato dai Corpi franchi, che fece schierare in due ali per un gran tratto della strada, sul grande declivio che si distende lungo le pertinenze dell'Antelao, attraversando anche il Boite, e penetrando oltre il fiume nei boschi che dominano la strada. Era uno spettacolo stupendo: da una parte le truppe regolari austriache, le assise uniformi, i migliori fucili, gli ufficiali esperti al comando, i soldati disciplinati ed avvezzi al maneggio delle armi; dall'altra parte i Corpi Franchi, e le guardie Civiche, vestiti in varie forme paesane, e seguiti da un'accozzaglia disordinata di gente, tutta una popolazione sollevata in massa, ed accorsa colle sue donne, i bambini, ed i vecchi, intorno alle loro bandiere ed agli stendardi della parrocchia, che gridavano, urlavano, mandavano esclamazioni di entusiasmo ed evviva, anelanti di slanciarsi sui tedeschi, mentre le campane continuavano il loro lugubre scampanio.

I tedeschi stavano immobili nella loro posizione, i cadorini attendevano con impazienza l'ordine di assalire gl'invasori. Quest'ordine non si fece attendere lungamente.

Erano circa le due pomeridiane, quando il capitano Calvi comandò all'unico tamburino che aveva al fianco di dare il segnale della marcia, e gridò:

— Avanti!... — ed egli primo colla sciabola sguainata s'avanzò sulla strada verso il nemico, accompagnato dal rappresentante del Comitato.

Al primo tocco del tamburo, la voce — avanti avanti — era passata di bocca in bocca, e si era fatta il grido universale. L'ala destra dalle alture fino al Boite fu la prima a dare l'attacco. La fucilata cominciò nel sito più alto sotto le roccie, dove alcuni esperti cacciatori erano saliti rapidamente per sorprendere un drappello di tirolesi che stavano su quelle alture a bivacco, e con fucilate ben dirette li posero in fuga. Gli austriaci risposero con una scarica di plotone, ma i cadorini gettandosi a terra scansarono le palle, e ricaricando i fucili, continuarono ad avanzare a passo di corsa.

La popolazione quasi inerme seguiva la marcia dei militi con grida spaventose, con ululati selvaggi, che echeggiavano sinistramente pei monti. La fuga dei tirolesi aveva animato maggiormente i cadorini, che raddoppiarono le scariche, cercando di mirare diritto cogli stutzen, di colpire con precisione, e di avanzare sempre con coraggio.

Eppure tanto quei soldati improvvisati, quanto lo stesso loro capitano non avevano ancora veduto il fuoco d'una battaglia, e Calvi confessò francamente che sentiva per la prima volta il fischio d'una palla nemica.

All'ardito avanzare dei cadorini, seguiti da quella massa dall'aspetto imponente e bellicoso, i tedeschi incominciarono a retrocedere, e si vedeva da lontano che passavano dietro le valanghe di neve che ingombravano ancora il terreno, e si ritiravano verso Ampezzo. Tuttavia le palle piovevano come grandine, ma non arrestavano la marcia di quegli animosi difensori delle Alpi. Giunti al confine dove la strada fa una svolta, il nemico collocato in posizione vantaggiosa, si arrestò e si mise a bersagliare i cadorini con vivissimo fuoco.

Calvi inebbriato dall'ardore della lotta saltò sul parapetto della strada, e sollevando sulla punta della spada lo stampato della capitolazione di Udine, ed agitando colla sinistra un fazzoletto rosso, sfidava il nemico in atto di scherno. Una salva di moschetteria fu la risposta, ma egli rimase illeso fra le palle che gli fischiarono intorno.

Quest'atto coraggioso, questa fortunata incolumità fra i proiettili, infuse tale audacia nei suoi, che cacciatisi dietro di lui che avanzava, si precipitarono con ardito slancio fra i nemici e li posero in fuga.

Alle sei della sera i tedeschi erano in piena ritirata; i fucilieri dell'ala destra dei Corpi Franchi occuparono le posizioni dei nemici, li bersagliarono dalle loro trincee d'Acquabona, ed assistettero allo spettacolo del loro ritorno, che mise in fuga ed in iscompiglio gli abitanti d'Ampezzo.

I cadorini animati dalla lotta avrebbero voluto inseguire il nemico, e vendicarsi dei traditori Ampezzani, che avendo in altra epoca fatto parte del Cadore, s'erano poi gettati in braccio dell'Austria, e le servivano di guida per invadere le terre dei loro fratelli. Ma la prudenza del Comitato li obbligò a fermarsi e ad attendere il mattino seguente per prendere una decisione, impiegando la notte a sorvegliare il confine, ed a guardarsi bene da qualunque sorpresa.

Meno qualche ferito leggermente non si ebbero a deplorare altri danni; si seppe poi che gli austriaci ebbero morti e feriti, ma in piccol numero, per la pronta ritirata, che li pose in salvo dal tiro preciso dei fucilieri delle Alpi.

Durante la notte gli abitanti di Pieve collocarono ingegnosamente sopra un carro l'unico cannone che restasse disponibile dei cinque mandati dal governo di Venezia, e trovato a caso un uomo che sapesse maneggiarlo lo spedirono in Oltrechiusa, scortato da altri drappelli d'armati accorsi da ogni parte all'annunzio della battaglia.

Al mattino seguente Calvi dispose le due ali come il giorno prima, e i combattenti pieni di ardore marciarono verso il confine decisi di dare una buona lezione ai tirolesi, quando con generale sorpresa videro comparire una bandiera bianca portata da una commissione composta di un capitano tedesco, del capo comune d'Ampezzo, e da una decina d'ampezzani che venivano a parlamentare.

Ricevuti dai capi Cadorini giustificarono i fatti del giorno innanzi, dimostrarono l'inutilità pei destini d'Italia, d'una lotta fra cadorini ed ampezzani, e mostrandosi desiderosi di vivere in buona armonia coi vicini, proposero di smettere le armi, riprendendo le usate relazioni di concordia. I Cadorini aderirono alla proposta e di comune accordo venne pattuito un armistizio coll'obbligo reciproco di rispettare i confini. È facile immaginare l'esultanza dei vincitori pei risultati ottenuti. Gli evviva all'Italia ed a Pio IX accompagnati da canzoni patriotiche salivano al cielo, ripetuti dagli echi dei monti. Lasciato uno dei Corpi Franchi a custodia del confine, gli altri ritornarono a Pieve, e il popolo accorso in massa rientrò alle sue case, soddisfatto.

VII.

A Pieve la popolazione aspettava in piazza il ritorno dei suoi difensori, e grandi furono gli applausi, i segni di contentezza e l'entusiasmo.

Sior Antonio si sentiva ambizioso pel suo paese, portava la testa alta, e offriva una presa di tabacco agli amici, con l'aria d'un diplomatico che rappresenta una nazione vittoriosa. Il consigliere imperiale guardava attraverso le tendine della sua camera il movimento della piazza, ma non si lasciava vedere all'aperto. Sior Iseppo fumava la sua pipa alla finestra, ed avendo saputo dalla serva che suo nipote era rimasto in Oltrechiusa a comandare il drappello che custodiva i confini faceva l'occhiolino, e con un sorriso maligno rispondeva:

— Adesso l'Italia è al sicuro, e l'Austria in pericolo! — e sghignazzando rientrava nella sua camera.

Isidoro e Tiziano si ritirarono al roccolo, fecero colazione con Maria, e suo padre le raccontò coi più minuti particolari le varie vicissitudini della lotta. Essa lo stava ascoltando con tale attenzione, che senza avvedersene si atteggiava a vari movimenti, secondo le impressioni ricevute. Tutti i muscoli del suo volto presentavano le immagini successive della sorpresa, del terrore, della ferocia, l'ansia dell'attacco, l'ebbrezza del trionfo. La sua ammirazione per Calvi la spingeva ad espressioni che colpirono Tiziano, ed eccitarono in lui un senso di gelosia che non aveva mai provato. Egli la trovava troppo facile ad esaltarsi, troppo esagerata nell'ammirazione del coraggio, troppo sensibile a certi fatti naturali, che non hanno nulla di straordinario. Come mai poteva avere gli occhi gonfi di lagrime, perchè suo padre le raccontava che le palle fischiavano intorno al capitano?... Costui l'aveva dunque colpita con una di quelle impressioni potenti, subitanee ed irresistibili, che feriscono il cuore d'insanabile piaga, e fanno sembrare fugaci e volgari tutte le affezioni antecedenti?...

Assorta col pensiero in quei fatti, coll'immaginazione esaltata dal racconto di quella giornata, essa prestava poca attenzione alle parole di Tiziano. Quell'occhio ardente d'entusiasmo non penetrava più come al solito negli sguardi di lui, essa non poteva parlare d'altro argomento, nè altro la interessava fuori delle gesta del suo eroe del quale chiedeva al padre perfino le abitudini più insignificanti, volendo conoscerne gli atti e le parole. E la sua ammirazione si spingeva fino alle qualità personali, ai suoi biondi capelli, al suo aspetto giovanile, alla dolcezza de' suoi lineamenti.

Tiziano soffriva terribilmente, e sperava che Isidoro sarebbe andato a prendere un po' di riposo, per chiedere delle spiegazioni a Maria su questo strano entusiasmo, quando si udì da lontano il suono del tamburo che invitava i militi ad accorrere sotto le armi. Isidoro e Tiziano balzarono in piedi, e si disposero a partire, quando Maria, afferrato un fucile da caccia di suo padre, con uno slancio ardito esclamò:

— Vengo anch'io, voglio seguir Calvi, e tirare sui tedeschi!...

Questo ardore guerresco in una donna può sembrare strano a chi non conosce le cadorine, e il loro ardire in quell'epoca, ma le memorie del quarantotto rammentano che le donne si mostrarono pari ed anche superiori agli uomini nella difesa delle loro montagne. Un testimonio occulare, l'inseparabile compagno di Calvi, dalle cui note manoscritte ricaviamo i fatti precisi della difesa, scrisse che le madri e le mogli eccitavano i figli ed i mariti ad accorrere sul luogo del pericolo, e ricorda una donna di Sottocastello che udite le campane che suonavano a stormo per chiamare gli abitanti alla difesa, vedendo che il marito esitava a partire, lo rimproverava del ritardo. Egli credette giustificarsi col dire che non aveva armi, ma essa gli chiese: — «Ci vogliono delle armi per difendere la patria?!...» e battendosi il petto soggiunse: — «Questo solo basta per difenderla, contro ingiusti oppressori!»

Un'altra donna del popolo di Pieve, mentre tutti gli uomini, meno i vecchi, si trovavano alla Chiusa impegnati al combattimento, udendo le campane di Calalzo che suonavano a stormo, per chiamare a soccorso contro una colonna nemica che si avanzava, corse sulla strada gridando: — Fuori tutte.... accorriamo noi donne a difendere il paese; ho tre figli esposti alla morte, ma non importa, per la patria moriamo tutti!...

Nella lotta d'Oltrechiusa il capitano s'era accorto che dalla vecchia strada d'Ampezzo, a sinistra della nuova, il nemico avrebbe potuto fare una sorpresa, e i fucilieri essendo tutti impegnati all'assalto, invitò alcuni uomini armati di sole lancie ad occupare quella strada. Essi si mostravano alquanto esitanti, ma due donne, una di Valle, e l'altra di Pieve, pronte gridarono: «verremo noi, signor capitano, verremo noi» ed essendo accorse rapidamente a quella volta, i lancieri li seguirono subito nel luogo indicato.

Maria aveva udito raccontare da suo padre questi atti generosi, aveva sentito l'entusiasmo delle battaglie, ed aveva provato quanto fosse più penoso per un'anima amante, attendere inerte il ritorno dei suoi cari esposti al pericolo, che dividerlo al loro fianco, e si era decisa di accompagnarli, come avevano fatto tante altre donne. Suo padre si oppose energicamente alla sua volontà, e Tiziano lo secondava, ma essa rispondeva:

— Ah! se sapeste quanto lunghe ed ansiose sono le ore dell'aspettativa, quanti fantasmi spaventosi vengono ad assalirmi nella mia solitudine inerte, mentre odo dovunque il lugubre tuono delle campane, e le scariche delle armi, e penso che voi siete esposti a quel pericolo, e non solo a morire, ma forse anche a soffrire feriti senza soccorsi d'una figlia, o d'un amico. Lasciatemi venire con voi, sarò molto più felice nell'ardore della battaglia, che nella mia desolante solitudine.

Suo padre le fece osservare che non è nell'ardore della mischia che si sente la fatica della guerra, ma nelle lunghe marcie, e nelle notti esposti alle intemperie, e a tutti i disagi ai quali non può reggere una giovine non avvezza ai lavori faticosi, come le povere donne delle montagne.

Maria dovette cedere suo malgrado all'autorità paterna, ed alle preghiere di Tiziano, il quale non solo non poteva tollerare che essa si esponesse ad ogni pericolo, ma non voleva nemmeno che si trovasse in presenza del capitano vedendola troppo calda ammiratrice delle sue gesta. Ed avendola consegnata tutta in lagrime nelle braccia della vecchia domestica, chiusero la porta del roccolo e corsero in fretta dove li chiamava il dovere.

Le notizie che giungevano in Cadore erano sempre esagerate, incerte, e contraddittorie. Chi pretendeva che il generale Durando accorresse in soccorso, e fosse anche giunto a Ceneda colle truppe pontificie; chi diceva aver veduto a Feltre truppe italiane che si avanzavano verso Belluno, chi assicurava che gli austriaci si erano trincierati sul Piave, chi voleva sostenere che Verona era in mano dell'esercito piemontese, e Radetzky prigioniero.

Invece la verità era assai dolorosa, e la patria versava in grave pericolo.

Il generale Nugent dopo riconquistato il Friuli occupava Feltre e marciava verso Treviso tendendo a ricongiungersi con Radetzky in Verona. Belluno era caduta egualmente in mano degli austriaci, e i croati s'incamminavano verso il Cadore, per giungervi da quella parte dalla quale si attendeva il soccorso.

In quel tempo mancava il telegrafo, tutti gli affari erano sospesi, nessuno si metteva in viaggio senza gravi motivi, e nel silenzio di quelle valli solitarie, nella solitudine di quelle montagne si avrebbe creduto che la pace regnasse profonda nel mondo, mentre gli eserciti stranieri, irti di baionette, e seguiti da innumerevoli convogli di cannoni calpestavano il suolo italiano, e apportavano la desolazione e la morte alla nostra patria.

I cadorini però non si perdevano d'animo, decisi di far pagar caro agli stranieri il delitto dell'invasione, e sperando che la loro valorosa resistenza dovesse apportare più felici risultati all'Italia, chiudevano i passi delle Alpi, decisi di morire al loro posto.

Mancavano però sempre d'armi sufficienti, ed anche di viveri, e ne chiedevano con insistenza a Venezia, decisa al pari di loro di resistere allo straniero. Da Venezia si rispondeva che «resistessero ancora per otto giorni», che poscia sarebbero soddisfatti, ma gli otto giorni passavano e non si vedevano arrivare nè soccorsi, nè uomini, nè armi, nè provvisioni.

Le strade intercettate dagli invasori non erano più sicure. Il Comitato di difesa continuava a tenersi legato al governo centrale, al quale chiedeva ordini e consigli; per fargli tenere con sicurezza i suoi dispacci aveva stabilito un servizio di appositi messi, tutti gente fedele, montanari avveduti, che varcavano le montagne per vie ignote, attraversavano gli eserciti invasori, deludendo destramente i loro sospetti, penetravano furtivamente nelle lagune, portavano le carte e ripartivano colle istruzioni, che giungevano sempre al loro destino.

Tra questi messi si distingueva Giacomo Croda, il contrabbandiere di Misurina, che aveva condotto in salvo Michele, e che poi si era messo in relazione coi contrabbandieri delle lagune, percorrendo le paludi che da Altino alla Cava Zuccherina presentano un gran tratto di terre fangose coperte di canneti ed altre piante palustri e percorse da canali che formano un inestricabile labirinto. Da quei canali entrando nella laguna penetravano a Venezia durante l'assedio, apportando viveri e corrispondenze all'eroica città, che con questo solo filo impercettibile all'occhio acuto del nemico, si teneva ancora legata al resto del mondo.

I corpi franchi chiamati dal rullo del tamburo vennero spediti senza indugio a Perarolo, essendo pervenuta al Comitato la brutta notizia che i tedeschi si avvicinavano a Longarone. Il teatro della difesa veniva spostato, e invece di temere un attacco dalla parte del Tirolo, l'invasore essendo già entrato nel Veneto, minacciava dall'interno, ove non si era mai pensato di doversi guardare. Fu necessario raccogliere i soldati di Pieve, richiamare in tutta fretta i corpi franchi dal confine d'Ampezzo, e dalla valle del Boite, e mandarli a marcia forzata nella valle del Piave, fra Ricurvo e Termine, e apparecchiarsi alla difesa.

Calvi alla testa dei Corpi che si trovavano a Pieve accorse subito, facendosi seguire dall'unico cannone col relativo cannoniere che formavano tutto il treno dell'artiglieria mobile di quell'esercito in miniatura, che andava ad incontrare un esercito regolare e bene agguerrito. Il capitano venne subito seguito dalle Civiche di Pieve, Calalzo, Domegge, Valle e d'altri paesi vicini, e nella notte seguente giungevano anche i corpi di Lozzo, Lorenzago, Vigo ed Auronzo, e gente d'ogni villaggio che si metteva a disposizione del condottiero e del Comitato. Si potevano calcolare 300 uomini circa di Corpi Franchi, e 1800 delle guardie civiche di tutto il Cadore, meno il Comelico che non poteva abbandonare il passo importante di Montecroce. Ma di questi 2100 uomini appena 400 erano armati di carabine e fucili, gli altri portavano le solite armi, forche, manaie, falci, spiedi, picche, bastoni, e molti erano anche accorsi colle sole braccia. Questi vennero impiegati di tutta notte ad apparecchiare delle mine nelle roccie che sovrastano la strada, dalla cascata d'acqua della Tovanella al ponte detto del Tedesco, e furono postate le vedette in vari punti dai quali vedevano da lontano.

Il mattino del 7 maggio Calvi comparve sul luogo, montato sopra un cavallo bianco. Egli era raggiante di sicurezza e d'ardire, e secondato dagli altri capi dispose gli uomini armati di fucile sul pendio boscoso che sovrasta alla Tovanella, il resto intorno al cannone collocato in una sporgenza che dominava un bel tratto di strada. Gli uomini delle mine furono muniti di miccie.

Era convenuto di lasciar marciare il nemico nella stretta gola sotto le roccie che soprapiombavano sulla strada. Al momento opportuno Calvi avrebbe fatto tirare il cannone e questo sarebbe stato il segnale per scaricare i fucili e far saltare le mine. Tutti attendevano il nemico con l'ansia della trepidazione che precede i grandi avvenimenti, quando si videro spuntare da lontano i croati che venivano da Termine e furono subito conosciuti alle vesti oscure, alle nere tracolle, ai calzoni stretti del loro uniforme. La prima colonna apparve in cima alla riva che scende al ponte del Tedesco, e avanzava a suono di tamburo preceduta dagli ufficiali, e seguita da carri. Cominciavano già ad entrare sotto le roccie, e mancavano pochi momenti che il corpo fosse giunto al posto fissato per farlo saltare in aria quando fatalmente un fuciliere, per impeto o per impazienza o forse per involontario movimento, fece partire il colpo del suo fucile, che fu creduto da tutti come il segnale pattuito. Dato fuoco alle mine scoppiarono con terribile rimbombo che echeggiò spaventosamente intorno la valle tutta offuscata dal fumo.

Le roccie saltate in aria ricaddero con fracasso sul suolo, ma non colpirono che la testa della prima colonna, mancando per troppa fretta l'intento.

I nemici a quello strepito inaspettato, a quella grandine micidiale di pietre terra e frantumi, si diedero a fuga precipitosa, e molti per essere più sicuri si misero a passare il Piave in catena, ma i cadorini bersagliandoli col cannone e col fucile ruppero la catena, e videro i morti e i feriti affondarsi nel fiume. Ciò accrebbe lo spavento dei fuggitivi che corsero precipitosamente verso Termine.

I cadorini baldanzosi del successo si mettono ad inseguire il nemico; Calvi cerca invano di arrestare gl'imprudenti; ogni suo sforzo torna inutile.

Tiziano pensando forse al prestigio col quale l'eroismo del capitano aveva colpito l'immaginazione di Maria, spinto dalla emulazione, dalla gelosia, dall'ebbrezza della lotta, si slancia fra i primi, Calvi suo malgrado è trascinato dalla corrente, tutti avanzano arditamente alla rinfusa, e attizza il loro impeto il poter fare alcuni prigionieri, e il raccogliere per via armi e munizioni, e due carri di attrezzi da campo abbandonati dai nemico.

I croati giunti a Termine si rifugiano nelle case, corrono alle finestre donde tirano fucilate sulla strada, e mostrano di volersi difendere.

Davanti a quel pericolo Calvi perviene ad arrestare la foga imprudente degli assalitori, punta il cannone verso il paese e procura di raccogliere i suoi soldati. Ma Tiziano insensibile al suono del tamburo, che batteva la ritirata, e indifferente agli ordini del capitano, si avanza sempre fra le palle eccitando colla spada alzata i fucilieri che lo seguivano, entra audacemente nel paese con alcuni compagni, e scomparisce alla vista degli amici che lo chiamavano invitandolo a retrocedere con loro.

Calvi faceva tirare il cannone contro il paese, ove le palle producevano delle breccie, ma era tanto bizzarramente montato, che ad ogni colpo retrocedeva di alcuni passi, e riusciva più pericoloso agli assedianti che agli assediati.

In un colpo più forte degli altri andò a colpire con tanta violenza nel muro della strada, che si spezzò il timone del carro.

I croati trincerati nelle case apersero un vivissimo fuoco contro il drappello che difendeva il cannone e molti uomini caddero morti o feriti.

Intanto il tamburo tedesco sonava a raccolta, e Calvi avvedendosi che si apparecchiavano all'assalto fece retrocedere le munizioni, e fu appena in tempo di richiamare i dispersi, spingendoli a riprendere le posizioni del mattino, costretto di abbandonare il cannone a motivo del timone infranto. Giunti alla Tovanella si accorsero di tutti gli errori commessi in quella giornata, che costò cara ad ambe le parti. I tedeschi ebbero molti uccisi ed annegati, i cadorini ebbero a deplorare nove morti, alcuni feriti e vari scomparsi, fra i quali Tiziano di cui s'ignorava la sorte. E pur troppo si venne a sapere che i croati inferociti avevano trucidati alcuni prigionieri, che si erano lasciati prendere nell'ardore della mischia.

A Pieve attendevano ansiosamente le notizie del giorno. Alla sera le donne s'erano raccolte in una casa amica, e tutte in ginocchio pregavano per Calvi e pei loro cari, quando giunsero le prime relazioni della lotta.

La difesa trionfava, il Cadore era chiuso all'invasione, il nemico non osava avventurarsi in quelle gole tremende, ma disgraziatamente s'erano perduti degli uomini. A tale annunzio doloroso le donne sbigottite si affollarono intorno al messo, e tutte in una volta volevano conoscere la sorte dei loro congiunti. Costui nominava i morti, i feriti, gli scomparsi, e quasi ad ogni nome pronunziato si udiva un grido, poi succedevano lagrime, gemiti, desolazioni, manifestazioni di dolore, accenti d'ira e tremende imprecazioni. Quando venne annunziato che Tiziano era smarrito lo strido fu doppio, perchè la madre e la fidanzata erano entrambe presenti, quando poi si udì che i croati nel furore della collera avevano ucciso i prigionieri, allora la disperazione, e lo sdegno raggiunsero il colmo, il desiderio di vendetta divenne frenesia e invase quelle disgraziate che passarono la notte in scene strazianti, deplorando le perdite irreparabili, progettando le più strane rappresaglie.

Si piangevano i morti, e si tremava pei vivi. Maria voleva assolutamente partire, voleva vedere suo padre, voleva conoscere con precisione e certezza la sorte del suo fidanzato; l'incertezza le sembrava insopportabile.

Sior Antonio, colpito egli stesso dalla sventura, era costretto a calmare la esaltazione della sposa, e doveva studiarsi di consolare la madre immersa nel dolore, con supposizioni e speranze che non poteva dividere. La desolazione era penetrata in tutte le famiglie, le relazioni succedevano alle relazioni, sempre contradditorie ed esagerate con invenzioni esorbitanti di fatti inauditi, e con tutte quelle incertezze che agitavano gli animi oppressi, con amarezze peggiori della morte.

Era poi sicuro che i tedeschi non si sarebbero arrestati ai primi tentativi falliti, sarebbero ritornati alla prova sempre più numerosi, più agguerriti, più feroci, e che cosa avrebbero fatto i cadorini per prolungare la resistenza in attesa di qualche valido soccorso?....

Anche Calvi attendeva un nuovo attacco e si apparecchiava a riceverlo con coraggio, ed a respingerlo con vigore. Le varie vicende del giorno 7 avevano convinto tutti che il migliore partito era quello di tenersi alla difensiva, di non lasciarsi trascinare dall'entusiasmo d'un successo, di obbedire agli ordini del capitano, di aspettare il nemico nelle posizioni preparate per distruggerlo.

Il punto scelto per la nuova difesa fu quella gola di monti fra Rivalgo e Ricurvo, che dai più esperti fu riconosciuta opportuna, ed accettata da tutti. Sono in quel sito altissime montagne che chiudono il Piave in angusto letto. Il fiume torrente scorre tortuoso e profondo fra i burroni in fianco alla strada sulla quale s'innalzano a picco nude roccie, con massi sporgenti che sembrano sospesi sulla testa dei viandanti. Chi attraversa quell'orrido e stretto passaggio crede di trovarsi nel fondo d'un pozzo, e guardando in alto non vede che un breve lembo di cielo, come da un pertugio praticato nella rupe.

All'altezza di circa 150 metri quelle roccie presentano l'aspetto d'un parapetto perpendicolare sulla strada, dietro al quale si stendono estese praterie, vasti pascoli e malghe, ove si trovano innumerevoli frammenti di roccie franate dalle più alte montagne e grossi macigni arrestati sul pendio dai cespugli o da altre pietre.

Salendo dai fianchi praticabili a quella specie di terrazza, i cadorini muniti di leve rotolarono e disposero sul margine del precipizio un'immensa quantità di quei massi enormi, in modo tale da poterli precipitare nel fondo con una spinta, e colla massima facilità. Poi sopra una rupe di Rivalgo, con pietre, alberi e zolle erbose costruirono una specie di fortino sul quale collocarono dei fucilieri, per difendere da ogni assalto gli uomini addetti al lavoro dei sassi, o come dicevano essi, alle batterie di sassonia. In altri siti approntarono delle mine, e alle seghe di Venago, sulla sinistra del Piave, si disposero dei gruppi di fucilieri. Un altro cannone, fatto venire con somma sollecitudine da Treponti, venne collocato dietro una barricata in sito da dominare la strada.

Predisposta in tal modo la difesa, con apparecchi affrettati nella notte, e condotti a compimento prima dell'alba, presi gli opportuni concerti tutti in silenzio e in ordine, aspettarono la nuova comparsa degli austriaci.

Verso le sette del mattino apparvero infatti i croati dalla svolta di Candidopoli, avanzandosi lentamente, ed occupando tutta la strada verso Rivalgo. Erano molto cresciuti di numero, ed avevano un aspetto marziale imponente. Le loro baionette percosse dal sole brillavano di luce sinistra.

Giunsero fino a Rivalgo. I Cadorini aspettavano ansiosamente che avanzassero per passare sotto le batterie di sassonia, quando invece con somma sorpresa videro uscire dal villaggio un uomo vestito in borghese con in mano un lungo bastone sul quale sventolava una bandiera bianca, e presso di lui un ufficiale austriaco.

I Cadorini dietro la barricata alzarono un fazzoletto bianco, ed invitarono i due parlamentari ad avvicinarsi.

L'ufficiale era il tenente colonnello del genio cav. di Haunesthein, il quale essendo stato lungo tempo di guarnigione a Venezia conosceva Calvi, e il suo compagno del Comitato. Si strinsero reciprocamente la mano, poi egli dichiarò che veniva a nome del generale comandante del corpo d'armata di Belluno.

Il generale deplorava gli avvenimenti del giorno antecedente, e domandava il passaggio delle sue truppe sulla strada d'Alemagna, dovendo recarsi in Tirolo. Gli risposero che l'Austria aveva terminata la sua dominazione in Italia, e che avrebbero accordato il passaggio alle truppe qualora deponessero le armi, e ritornassero al loro paese alla spicciolata. Il colonnello accolse tale proposta con un assoluto rifiuto, e continuavano a discutere sull'argomento, quando si udì gridare da più parti: — tradimento!... tradimento!....

I Croati infatti avanzavano, e abbandonata la strada procuravano di guadagnare le alture ove sorgevano le batterie dei sassi. Gli uomini che circondavano il gruppo dei parlamentari puntarono le armi per arrestare il colonnello, il quale impallidito protestava della sua innocenza. Allora Calvi, rendendosi garante della lealtà dell'ufficiale che conosceva da un pezzo, rese possibile il suo ritorno.

Egli si era appena ritirato dietro le truppe austriache quando il primo corpo dei croati si avanzava nella gola più stretta occupando tutta la strada da Rivalgo a Ricurvo e già si avvicinavano alla barricata quando i Cadorini diedero fuoco al cannone. Era questo il segnale convenuto, e questa volta veniva in punto. Lo scoppio delle mine, la valanga dei macigni e le scariche dei fucili furono istantanei e sparsero nella valle un turbinio di fumo, di fuoco, di polvere e di frantumi, come l'eruzione d'un vulcano combinata colla caduta d'un monte. Fu una vera carneficina, una scena d'orrore e di sangue. La strada fu trasformata in un mucchio di rovine sotto le quali i soldati trovarono la morte e la sepoltura.

Diradato il fumo e la polvere, cessato ad un tratto il frastuono, si vide il terreno coperto di cadaveri frantumati fra i macigni caduti, e il sangue che correva a rigagnoli sulla via fra i corpi mutilati e le membra disperse; e si udiva fra il cupo rumore della Piave gli urli dei feriti e i gemiti dei moribondi. Alcuni morti galleggiavano nel fiume sbattuti sulle rive dalle onde insanguinate, e i superstiti spaventati corsero in fuga precipitosa, e non si arrestarono che a Longarone.

Il numero dei nemici morti in quel giorno non si seppe mai, ma deve essere stato grandissimo a quanto asseriscono i bellunesi, che, invece della menada delle taglie, videro galleggiare nel Piave che attraversa la città, una menada di croati. Si dicono «taglie» i tronchi d'alberi tagliati nei boschi del Cadore, che vengono spediti al loro destino mettendoli a fluttuare liberamente nel fiume, sul quale vengono raccolti nei punti designati.

Quella fiera ecatombe di vittime umane è uno dei fatti più spaventosi e meno noti delle nostre guerre d'indipendenza, e in quel giorno il bravo ingegnere Paladini che diresse le terribili batterie di sassonia, venne nominato per acclamazione dei suoi colleghi, Duca di Rivalgo. Quanti titoli assai meno meritati vengono presi sul serio!....

Tra i feriti in quella strage vi fu anche il cav. di Haunesthein, e se ne popolarono gli ospitali militari di Belluno e Serravalle.

Ai feriti raccolti dai Cadorini e trasportati a Pieve vennero prodigate le stesse cure che si ebbero pei propri feriti; e alcuni croati sani, trovati nascosti sotto ai ponti, dai quali non osavano uscire, fatti prigionieri ebbero tale trattamento, che mai non fu superato nei più bei giorni della loro esistenza.

Lungo tutta la strada si rinvennero assise militari, armi, munizioni e vari altri oggetti perduti dai fuggiaschi e dai morti.

Calvi ritornò a Pieve chiamato dal Comitato per provvedere con nuove disposizioni urgenti ad altre minaccie tedesche che mettevano in pericolo il Cadore, e condusse con sè uno dei Corpi Franchi, e quello appunto nel quale trovavasi Bortolo, il figlio della Betta, il domestico dell'ufficiale Tiziano, perduto nell'attacco di Termine.

Appena questo giovane fu libero, per un'ora corse ad abbracciare sua madre; e Maria, saputolo di ritorno, corse in casa Lareze per aver notizie precise del suo povero fidanzato.

Bortolo che era stato testimonio dell'orrendo spettacolo del giorno antecedente, era ancora sbalordito, e riportava idee confuse e spaventose delle batoste guerresche.

Tutti gli chiedevano ansiosamente i più minuti particolari del fatto d'armi nel quale il suo padrone era scomparso, ma era impossibile di cavarne un qualche costrutto. Nella confusione della lotta egli non aveva veduto che sè stesso, e raccontando quanto aveva fatto, gli pareva di render conto di tutto. Invece di dire che alle prime fucilate egli si era nascosto in un fosso, egli diceva: — ci siamo riparati in un fosso,... poi siamo saliti in un bosco, e dietro una roccia abbiamo veduto i croati che avanzavano. — Sior Antonio impaziente di sapere qualche cosa di preciso sulla sorte di suo figlio procurava di fargli delle domande semplici e chiare, ma era fatica sprecata.

— Ma infine, gli disse il padrone, quando l'hai tu veduto per l'ultima volta?...

— Veduto?... io non l'ho veduto!... egli rispose. Io stavo dietro il tronco d'un albero... i croati tiravano dai balconi delle case... perchè....

— Ma tu non lo vedevi dunque mai?... non gli stavi mai vicino?

— Sempre vicino... al rancio... si sa... perchè alla guerra tutto si confonde e non si capisce più nulla... e quando fischiavano le palle... io stavo fermo... perchè....

— Ma lui andava avanti, lo stesso?...

— Sicuro che andava avanti... e gridava «avanti, sempre avanti» e non ascoltava più nessuno... nemmeno il capitano che lo chiamava indietro... e avanti... avanti... palle... fumo... polvere e confusione... non ho veduto più niente!...

— Ma hai udito dire che sia stato ferito?...

— Ferito no!...

— Dunque morto?...

— Nemmeno!... non ho udito niente, e nessuno sa niente. Dicono che quelle bestie croate abbiano massacrato i prigionieri....

A tali parole lo spavento alterava tutti i volti, allora egli si pentiva d'aver detto troppo, voleva lasciar sperare, e si contraddiceva.

— Bortolo, parla schietto... siamo disposti a tutto... è meglio sapere la verità,... tu hai udito dire che Tiziano è stato massacrato....

— Ecco... ho udito che hanno massacrato i prigionieri... ma....

— Ma che cosa?...

— Ma nessuno può sapere esattamente ciò che sia succeduto... noi ci siamo ritirati... e il padroncino ha mancato all'appello... ecco tutto!...

E queste furono tutte le notizie che si poterono raccogliere sul povero Tiziano. Si è per altro saputo che fuori di casa egli parlava più francamente, e che coi padroni non si sentiva il cuore di spaventarli raccontando tutte le crudeltà dei croati che fucilavano i prigionieri e trucidavano i feriti, e li descriveva simili alle belve feroci, neri come spazzacamini, brutti come il diavolo, capaci d'ogni atto il più atroce, ed inumano, gente che faceva paura!...

In quanto poi al terribile macello del giorno prima, quando lo interrogavano egli si metteva le mani nei capelli, contorceva gli occhi, ed esclamava:

— Figuratevi la fine del mondo!... io posso dire d'aver veduto la fine del mondo!... ed anche peggio!... prima di tutto ho veduto... che non si vedeva più nulla!... poi una specie di terremoto con lampi e saette, poi una vera beccheria di carne umana!... Ahi! ahi quale spavento!... teste schiacciate coi cervelli sgusciati, e gli occhi a penzoloni, le budelle uscite dal ventre, il sangue che correva sulla strada,... e morti orrendi da per tutto!...

Sior Antonio, Maddalena, Maria erano inconsolabili, la Betta piangeva il padroncino morto poveretto!... ma ammirava l'eroismo di suo figlio, e andava orgogliosa di poter vantare un simile figliuolo. Ma avrebbe voluto che in un modo o nell'altro tutto fosse finito, e non si tornasse da capo a mandar la povera gente in tanti pericoli. E intanto metteva sotto al naso del suo eroe delle gran zuppiere di minestra, per riparare le sue forze, e gli soffiava all'orecchio:

— Bortolo... sii prudente!... non andare mai avanti da minchione. Hai fatto abbastanza, e se non puoi essere ufficiale, procura almeno di conservarti sano e salvo... in mezzo a tanti pericoli!...

Egli le faceva l'occhiolino in segno d'adesione, e macinava a due palmenti.

Fido, malinconico, stava sdraiato ai piedi del giovane, e alzava verso di lui i suoi grandi occhi pietosi, come per domandargli notizie del suo amico che aspettava invano ogni giorno, dopo la sua partenza.

VIII.

La storia delle guerre dell'indipendenza non ha finora tenuto tutto il conto che doveva dell'eroica difesa del Cadore, del coraggio e dei sacrifizi di quelle brave popolazioni, le quali hanno fatto vedere che se le Alpi sono fortezze naturali che alzano le eccelse cime sui confini d'Italia, gli alpigiani hanno la tempera dei loro monti, e sono capaci di farli rispettare, uno contro venti. Quel pugno di montanari isolati in mezzo ai loro dirupi, senza nessun soccorso, scarsi di munizioni e di viveri, fecero prodigi di valore, ignoti ancora alla maggior parte degl'italiani, che ignorano parimenti la stupenda bellezza di quelle vallate le quali possono rivaleggiare colla Svizzera, pei pittoreschi prospetti d'una ammirabile natura.

Queste povere pagine nelle quali si raccontano semplicemente le vicende domestiche di qualche famiglia Cadorina non possono diffondersi a narrare le diverse alternative di quella lotta meravigliosa, ma tutti i fatti storici narrati sono della più scrupolosa verità, attinti direttamente sul luogo stesso, da testimoni oculari.

Gli austriaci ingrossati a tutti i confini minacciavano il Cadore da vari punti, nessun aiuto esterno veniva a sostenere il coraggio dei difensori, che resistevano senza speranza di buona riuscita per solo amore di patria, per l'onore della nazione, come una protesta davanti l'Europa indifferente del diritto delle genti violato dall'Austria, e del predominio della forza sulla giustizia. E difendevano ancora i loro focolari, le care famiglie, le proprietà e le case invase e saccheggiate da crudeli stranieri, che commettevano esecrandi delitti, quando trovavano popolazioni inermi e fidenti nella loro tranquillità.

La convenzione stipulata cogli abitanti d'Ampezzo venne violata dopo pochi giorni, contro la volontà dei tirolesi; le truppe austriache ingrossate da rinforzi passarono nuovamente il confine, uccisero la sentinella e penetrarono in Cadore. Il piccolo Corpo Franco che sorvegliava la Chiusa dovette ritirarsi davanti il numero imponente di nemici, i quali avanzando sempre più, uccisero a colpi di moschetto un uomo di S. Vito che fuggiva.

Il giorno 10 maggio una pattuglia tedesca sorprese una povera donna, Giustina Belfi-Morel, con un figlio ed una figlia, nella loro cascina di Col. Il figlio che era andato ad invitare i tedeschi ad entrare, offrendo loro una refezione, cadde ferito mortalmente da quei soldati, i quali penetrati poi nel casolare, trassero fuori le due donne spaventate, fecero nefando strazio della figlia, e poi uccisala ne trasportarono il cadavere accanto al fratello non ancora morto, obbligando la madre a scavare la fossa pe' suoi figli. Poi la condussero in uno stanzone di Vodo con altri prigionieri tormentati in tutto quel giorno con terribili angoscie. Saccheggiarono il paese e trovatovi un povero pazzo lo unsero col sego e gli diedero fuoco, e dopo di avergli tagliata traversalmente la pelle del ventre lo finirono a colpi di moschetto.

Respinti dai cadorini accorsi da ogni parte, dovettero ripassare il confine, ma tali efferatezze sparsero la desolazione ed il terrore in tutto il paese.

Allora, prevedendo la possibilità d'una invasione per sorpresa, e temendo giustamente non solo le depredazioni, i saccheggi, gli incendi, ma ancora più gli spaventi, gl'insulti, le torture morali, e tutti gli altri pericoli, si venne nella determinazione di far ritirare in luoghi sicuri la popolazione inerme con gli oggetti preziosi, o più facili a trasportarsi.

Quest'esodo alpino del 1848, certamente ancora ignorato fuori del Cadore, è un fatto assai curioso ed interessante delle guerre d'indipendenza, e merita d'essere raccontato.

Tutti gli uomini validi erano sotto le armi, intenti alla difesa dei confini. Si lasciarono nelle case le sole persone strettamente necessarie all'assistenza dei mariti o dei figli, che compiuto il loro turno nel servizio della difesa, ritornavano a casa per riposarsi qualche ora, e si fecero partire le donne, i vecchi, i fanciulli, coi gioielli, le argenterie, i rami di cucina, le biancherie, gli arredi che si tenevano più cari.

Da ogni paesello delle Alpi salgono sull'erta dei sentieri serpeggianti fra le macchie e i frammenti di roccie caduti dall'alto; stradicciole praticate soltanto dalle mandre, che costeggiano i precipizi, entrano nei boschi, e riescono sulle cime, dove a grandi altezze, si distendono vastissime praterie, sparse d'armenti al pascolo. In quelle malghe si fecero salire le donne, i vecchi, ed i fanciulli, che si ricoverarono nei casolari dei pastori, o in quelle capanne dette baite dove si ripone il fieno falciato sulle alture e che sono costruite con tronchi d'alberi soprapposti, uno sugli altri, coi tetti contesti di pezzetti di legno collocati a foggia delle squame d'un pesce.

Ogni paesello del Cadore fissava il monte dove credeva trovare maggiore sicurezza e minore disagio. Era cosa commovente vedere quell'emigrazione di donne che, abbandonate le dolci abitudini e gli agi delle loro dimore, andavano ad esigliarsi in luoghi inospiti, lontane dai loro cari che lasciavano esposti a tutti i pericoli della guerra, e salivano pel faticoso sentiero portando in braccio i bimbi ancora lattanti, trascinando per mano quelli che camminavano appena; precedute dai più grandicelli che stavano in fianco alle guide, seguite dai vecchi ansanti, affaticati per l'erta e scabrosa via, e dalle donne di servizio colle gerle sulle spalle, cariche di provvisioni, di fardelli, e masserizie d'ogni fatta. E la lunga fila saliva lentamente, arrestandosi talvolta sotto un albero, o sopra una roccia sporgente, per riprender fiato e mandare un saluto affettuoso alla casa lontana, e al caro paesello abbandonato.

E dopo molte ore di cammino, trafelati dal sudore, giungevano in quelle eccelse regioni del silenzio, in quelle solitudini sublimi e severe, sotto l'aspre giogaie irte di scogli nudi e minacciosi. Colà si arrestavano, davanti una squallida capanna, che, ripulita e riparata con tende, offriva un rifugio dalle intemperie, e dagli uragani delle Alpi. E tutte le donne si accingevano con operoso coraggio ad allestire alla meno peggio il loro accampamento.

La cucina veniva approntata in pien'aria, e lontano dalla baita per timore degl'incendi, e si faceva il rancio come i soldati. Il salotto di società che serviva anche di sala da pranzo aveva sul pavimento un verde tappeto, uno strato erboso colore di smeraldo, sparso di fiori alpini; le pareti rappresentavano le catene delle Alpi colle cime nevose, con monti che succedevano ad altri monti, e boschi ad altri boschi, ed era soffitto l'azzurro padiglione del cielo. Nelle baite si dormiva sul fieno, che offriva un letto soffice ed odoroso. Cosicchè nessuna città poteva vantare più pittoreschi prospetti, nè giardini più spettacolosi, nè aria più pura, nè letti più profumati di quella colonia femminile. La quale per non vivere nell'anarchia aveva messo in ordine i suoi affari, nominando un consiglio con una direttrice, e dei regolamenti di reciproca utilità, ed aveva attivato un servizio postale che portava regolarmente le notizie dei paesi vicini, e i bollettini della guerra.

E in quei dolorosi frangenti, in mezzo ai pericoli, ai disagi, ai timori, alle ansietà, chi credesse che quelle donne si fossero abbandonate ad una desolante tristezza, sarebbe in errore. Regnava invece un buon umore perenne, e quella vita nomade presentava delle attrattive imprevedute, e il sacrifizio degli agi aveva i suoi compensi nella bizzarra novità di quella esistenza, nella quale bisognava spesso aguzzare l'ingegno per trovare continui ripieghi a casi impreveduti. I bambini erano felici, correvano, cantavano, danzavano, coglievano fiori, spargevano la gioia dovunque, e si vedeva davvero che la libertà è un gran bene, che l'uomo in società mena un'esistenza artificiale, in continua contraddizione cogli istinti della natura.

La montagna scelta da alcune famiglie di Pieve pel loro rifugio fu quella di Medole, e molte altre fissarono il loro accampamento sui dorsi più elevati della montagna di Vedorchia. Per recarsi in quest'ultima bisogna prima discendere per la lunga e rapida strada che va fino al ponte di Ranza, famoso per la sua posizione sopra un'altissima gola di roccie. Da Ranza convien salire per sentieri erti e malagevoli, il lungo cammino in zig-zag che conduce ai Tabiadi, ossia fienili di montagna; disposti in diverse località sulla schiena del monte. Colà fissarono allegramente la loro dimora le donne di Pieve, quasi tutte di civile condizione, e molte signore ricchissime, gentili, avvezze a tutti gli agi di una elegante esistenza, e vi rimasero lungo tempo, anche dopo l'entrata dei tedeschi, non osando fidarsi della promessa di costoro di rispettare le persone e le proprietà dei cadorini, preferendo ogni privazione piuttosto di tollerare l'aspetto degli abborriti invasori.

Quei fenili sconnessi per vetustà lasciavano entrare il vento da ogni parte, e mal si potevano riparare con coperte o lenzuola; la pioggia penetrava dai tetti, filtrava dalle pareti, correva sul pavimento. Nei giorni burrascosi era impossibile di reggere all'aria aperta. Ciò non ostante non vi fu in tutto quel tempo nessuna malattia di conseguenza, e se ne stettero sempre allegre, passando il tempo in conversazioni sul solito tema della guerra, e sulle vicende del giorno, con reciproche confidenze delle intime storie di ciascheduna.

L'arrivo delle notizie guerresche era naturalmente il momento delle grandi emozioni, ma per fortuna dopo gli ultimi fatti di Vodo regnava una specie di tregua, che quantunque foriera di più gravi avvenimenti, pure teneva in sospeso almeno i dolori acuti di perdite subite, e quantunque lasciasse temere nuovi pericoli, pure non mancava anche di alimentare nuove speranze. E in mezzo a tante gravi preoccupazioni, e a tante privazioni, l'energia di quelle donne non si smentì mai, ed esse tennero vivo l'ardore dei combattenti, animandoli alla pugna colle loro corrispondenze epistolari, nelle quali raccomandavano sempre la resistenza. E nella loro solitudine innalzavano preghiere a Dio per la patria, e la vittoria, e intuonavano canti di libertà.

La signora Enrichetta Giacobbi-Solero, donna veneranda per età, ricca di censo, rispettabile per senno virile, di modi cortesi ed affabili, di umore gaio e pieno di risorse, simpatica e cara a tutte le compagne, era stata eletta per acclamazione direttrice della piccola colonia di Medole, e tutte le signore e signorine dipendevano dai suoi ordini; ed essa trovava sempre il modo di aver notizie, e di tener viva la corrispondenza fra gli uomini della difesa e le esigliate del monte, conosceva tutto l'andamento degli avvenimenti, sapeva consolare e tacere in tempo; e quando giungeva la notizia d'una vittoria, era una festa per tutte, una gioja giovanile di canti e di balli, ed alla notte si accendeva un fuoco, al quale rispondevano tutte le altre colonie con altri fuochi sulle cime di tutti i monti, che era uno spettacolo consolante pei combattenti, terribile pei nemici.

E quando il silenzio della sera non era rallegrato da qualche buona notizia, allora davanti l'ampio orizzonte, cinto dalle nebbie della notte, tutte quelle signore unite all'ottima donna che si erano eletta per capo, si mettevano in ginocchio, ed alzavano al cielo ferventi preghiere per la patria, per la salvezza dei padri, dei mariti, dei figli, dei fratelli, dei fidanzati.

Al mattino alzate per tempo correvano all'aperto salivano a qualche punto che dominava il sentiero, e spiavano attentamente l'arrivo d'un parente, d'un amico, d'un messo. E davvero le visite non scarseggiavano a quell'attraente eremitaggio, ed ogni interessato trovava la sua volta per salire, ed ogni riposo concesso ai combattenti era impiegato in una gita sul monte. Le donne possono ricoverarsi in fondo al mondo, gli uomini troveranno sempre il tempo di raggiungerle.

Ogni babbo, fratello, marito od amante che saliva era sempre ricevuto come il re della giornata, e fatto sedere nel centro del grazioso cenacolo doveva raccontare tutto quello che sapeva dell'universo. E lo servivano di panna fresca, e d'altre ghiottonerie giunte non si sapeva come in cima della montagna. E aveva mille motivi di meravigliarsi di quanto vedeva d'intorno; delle risorse inconcepibili create da quelle esiliate, per rendere meno incomodo il loro soggiorno, e di certe raffinatezze impreviste che scaturivano improvvisamente in quei siti selvaggi. E quando il visitatore partiva non rifinivano d'incaricarlo delle loro commissioni a voce ed in iscritto, segrete o palesi, lo accompagnavano per un pezzo, gli raccomandavano caldamente di mandare amici e parenti, invitandoli a pranzo, e promettendo le più laute imbandigioni per quei tempi di guerra, di carestia, e di miseria. Ritornando indietro salivano sulle roccie sporgenti ed agitavano i fazzoletti in segno d'addio fino che fosse possibile di vedersi.

Così coglievano ogni occasione per ridere e stare di buon umore.

A mantenere costante la loro ilarità contribuì largamente un certo signor Taddeo, il quale benchè giovane e robusto aveva un carattere eccessivamente pusillanime, e s'era rifugiato egli pure colle donne e coi vecchi in cima della montagna. Il suo volto rotondo, paffuto, le sue membra grasse e ben tarchiate, le sue perpetue paure, lo rendevano il personaggio più comico della comitiva, ed era la vittima degli incessanti motteggi, dei frizzi, e degli scherzi delle più vispe ragazze, che si godevano un mondo a mettergli spavento con notizie inventate. Un giorno gli si annunziava la leva in massa di tutta la popolazione: uomini, donne, fanciulli rifugiati sul monte dovevano scendere per incontrare il nemico; un'altra volta erano i croati che avevano circondato il loro rifugio coll'intenzione di passare per le armi tutti i fuggiaschi. E gli mettevano i brividi raccontandogli le crudeltà degli austriaci, i villaggi saccheggiati, distrutti a ferro e a fuoco, e simili altri disastri della guerra, che doveva estendersi ovunque.

Egli studiava tutti i mezzi possibili di salvezza, ma veniva confutato, allora voleva discutere di politica, e le donne ridevano a crepapelle dei suoi sproloqui, e lo mettevano in canzone; e così Taddeo per fuggire dalle palle austriache era divenuto il bersaglio di quelle lingue mordaci, la vittima, il capro espiatorio di quel terribile drappello femminile che lo dilaniava fino sull'osso.

Che se talvolta per placare quei disprezzi, o per ingannare il tempo piacevolmente, tentava di fare il galante, veniva immediatamente denunziato alla pubblica indignazione, avendo tutte quelle donne giurato solennemente di condannarlo al celibato perpetuo, senza concedergli le attenuanti, in pena della sua vergognosa poltroneria. Allora egli crollava le spalle, si mostrava rassegnato, accendeva il sigaro, ed accennando colle braccia aperte all'ampiezza del mondo, diceva che ogni peccato ha diritto all'assoluzione, che ogni idea la più strana ha incontrato dei sostenitori, che tutto si dimentica, che i più timidi finiscono sempre col trovare indulgenza, e forse anche maggiori compensi degli eroi; e in questo non aveva tutto il torto, perchè giudicava i fatti positivi, senza tener conto della coscienza del dovere, che è il giudice supremo dei galantuomini.

Le donne più robuste, le più giovani, le più coraggiose scendevano sovente a Pieve a passare la giornata e ritornavano alla sera alla montagna, cariche di provvisioni, e fornite di notizie che raccontavano alle compagne che venivano ad incontrarle.

Maddalena e Maria vivevano appartate sulla montagna, colpite dal dolore nel profondo dell'anima per l'incerta sorte di Tiziano, non prendevano mai parte alle gaiezze dell'allegra brigata delle altre donne, e si erano ricoverate in un angusto tugurio isolato che serviva di rifugio ai pastori quando l'uragano li sorprendeva lontano dalla baita. Per solo compagno d'esiglio avevano condotto seco Fido, il cane di casa Lareze, l'amico del povero scomparso, e scendevano spesso a Pieve ansiose di sapere se fossero giunte notizie del loro caro, Maddalena per vedere suo marito, Maria per abbracciare suo padre, quando tornava nel roccolo a riposarsi qualche ora dalle dure fatiche del campo.

Le buone signore ricoverate a Medole salivano poche per volta a visitare le due afflitte nel tugurio, si studiavano di consolarle; con speranze che non potevano dividere, ma che erano balsami pietosi per quelle anime esulcerate.

Nelle lunghe ore solitarie si comunicavano le loro idee, rammentavano le rare doti di Tiziano, e piangevano insieme. Fido doveva certo comprenderle, e sdraiato ai loro piedi le contemplava cogli occhi mesti, partecipava al loro dolore, e pareva che avesse riportato a Maria il tenero attaccamento che lo legava a Tiziano, e lambiva le mani alla fanciulla guardandola con espressione affettuosa.

Sior Antonio si recava spesso a visitarle, portando i pochi viveri necessari alla vita, del pane bigio, del formaggio, e qualche frutta. Saliva lentamente per la via tortuosa colla sua pipa in bocca e il fardello sulle spalle. Fido lo scorgeva da lontano, avvertiva le donne abbaiando in modo singolare e correva incontro al padrone salutandolo con molte carezze, e scodinzolando in segno di contentezza.

Le donne non osavano interrogarlo, ma procuravano d'indovinare dalla espressione del suo volto se aveva delle buone o delle cattive notizie; egli preveniva tanto le vane speranze che i timori paurosi, e appena giunto esclamava: — niente di nuovo!... — e accompagnava queste parole con un profondo sospiro, e qualche volta con una lagrima.

Dopo alcuni giorni di tregua gli austriaci si fecero più minacciosi, passarono i confini in vari punti, sempre respinti dall'indomabile resistenza dei cadorini, dall'attiva vigilanza del Comitato della difesa, dall'instancabile attività del capitano Calvi che pareva avesse il dono dell'ubiquità, perchè compariva sempre in tutti i pericoli.

Lo si vedeva passare rapidamente pei paesi quasi deserti, montato sul bianco cavallo, e accorrere dove si udiva il suono del cannone o delle fucilate.

Animava i combattenti, si metteva alla testa dei drappelli che andavano all'attacco, dirigeva i movimenti, ordinava ogni cosa coll'audacia che sfida le maggiori difficoltà, colla calma che calcola freddamente le conseguenze d'ogni azione. E tutti lo seguivano con fiducia, con entusiasmo, con slancio irresistibile, e nessuna fatica eccessiva, nessuna marcia forzata, nessuna privazione faceva uscire un lamento, da quegli uomini forti, risoluti e coraggiosi.

Ma era impossibile trovarsi sempre in tutti i siti minacciati, e un giorno 300 cacciatori tirolesi passata la Forcella d'Antelao per un varco poco praticabile sopra San Vito penetrarono nella valle d'Otten, e giunsero fino alle prime case di Calalzo. Il paese era deserto, ma due donne avvedutesi del pericolo corsero in fretta al campanile, diedero di piglio alle campane, e suonarono con tanto furore che poco dopo si udirono tutti i campanili vicini che suonavano a stormo. Allora i nemici si credettero circondati da ogni parte, e si dettero a fuga precipitosa.

Sarebbe troppo lungo e troppo straziante il narrare tutte le barbare uccisioni di gente inerme, tutte le atrocità, gli incendi, le sevizie, le rapine di quei barbari invasori stranieri, e tutti gli atti eroici dei cadorini, in quelle gole deserte e sconosciute, dove sovente dieci patriotti risoluti facevano retrocedere cento soldati. Le sole donne salvarono più volte i paesi minacciati, con quell'ardire che nasce dal semplice e santo amore della famiglia e della patria, senza il pungolo degli onori e della gloria che animano i soldati.

Il generale Stürmer con 5000 uomini da Longarone giunse a Rivalgo, fece vani tentativi per penetrare più avanti, e fu sempre respinto. Ai razzi alla congreve slanciati per atterrire i difensori essi rispondevano col grido di «viva l'Italia» e sapevano schivarli, quando invece le carabine dei cacciatori Cadorini abbattevano ad ogni colpo un soldato tedesco.

Furibondi per l'impossibilità di vincere quella tenace resistenza, gli Austriaci misero il fuoco al paese, e si ritirarono, e le rovine di Rivalgo, dopo più di trent'anni, non del tutto riparate, conservano le traccie di quella barbarie, attestano l'infame procedimento degl'invasori, e mostrano ancora alla nazione la necessità di saper trattare le armi per la sicurezza della patria, per la difesa dell'onore, della libertà, e della famiglia, contro gli assalti degli stranieri.

Dopo ripetuti tentativi in Oltrechiusa riusciti tutti vani, un corpo di 3000 tedeschi si presentò nuovamente a quel confine. I Cadorini trovandosi in numero assai ristretto si ritirarono fino alla Chiusa ove li attesero imperterriti; operarono prodigi di valore, e li obbligarono a retrocedere.

Allora i tedeschi essendo numerosi in Friuli tentarono d'introdursi in Cadore dalle gole della Carnia, ove il confine era stato poco premunito per la difesa, non avendo giudicato probabile che dovessero penetrare da quella parte.

La sera del 23 maggio giungeva al Comitato l'annunzio che circa 3000 Austriaci avevano passato il Fella, che si dirigevano per Tolmezzo e quindi pel Cadore, attraversando il Mauria; seguiti da altri 700. Poco dopo, un altro messo portava la notizia che altri 1200 tedeschi passavano pel canale di Gort, e che sarebbero penetrati in Cadore per la via di Forni-Avoltri e Sappada.

Calvi fece tosto suonare il tamburo per le strade di Pieve per raccogliere i Corpi Franchi che si trovavano in paese. Michele ed Isidoro accorsero subito, ordinarono i loro militi, e tutti uniti partirono sul far della sera, col capitano Calvi alla testa, montato sul solito cavallo bianco, salutato con entusiasmo dai pochi abitanti che si trovavano in paese. Marciarono tutta la notte in silenzio, ciascheduno raccolto ne' suoi pensieri. La luna batteva i suoi pallidi raggi sul condottiero, che pareva un fantasma vagante di notte tempo fra quelle tetre montagne, seguito da ombre fantastiche che di tratto in tratto sparivano nelle cupe tenebre dei villaggi per ricomparire confusamente nella luce azzurrognola ove si allargava la valle libera dalle case e dagli alberi.

All'alba trovarono i paesi sgomenti per la notizia dell'invasione che s'era propagata rapidamente. Gli abitanti avevano passata la notte sulla via, esitanti sul partito da prendersi, ascoltando le diverse opinioni, consigliandosi fra vicini. Le donne cariche di fardelli partivano coi bimbi, i vecchi esortavano i giovani alla difesa, ma nella confusione e nel disordine nessuno prendeva un partito. Ma ecco il primo raggio di sole che batte sul cavallo bianco che si avanza da lontano, con un codazzo di gente armata, ecco il tamburo che chiama il villaggio alle armi. A quella vista un grido di esultanza esce dalla folla, tutti si rivolgono da quella parte al grido di viva l'Italia, ogni esitanza è scomparsa, tutti si sentono animati alla difesa ed accorrono ad afferrare le prime armi che trovano in casa per accompagnare i corpi franchi. Le campane suonano a stormo, tutte le campane dei villaggi vicini rispondono, e da Lorenzago, da Vigo, da Lozzo, da Auronzo gli abitanti corrono in massa per difendere i valichi minacciati. Il passaggio dei Corpi Franchi ha raccolto tutti gli abitanti dei villaggi che scendono come una valanga da tutte le alture. Calvi arringa quelle masse, le elettrizza colla sua parola che risveglia ogni nobile sentimento. Egli li ordina, li fa procedere regolarmente, e giunto al fine della marcia unisce tutte le forze che ha raccolte per via, e le colloca opportunamente intorno al passo della Morte.

Il passo della morte è una strettissima gola, che si nasconde tra due angusti dirupi, alla sinistra del Tagliamento. La strada passa fra un muraglione e le roccie tagliate a picco come una breccia scavata nel monte. Una barricata venne innalzata davanti all'apertura, sotto la quale praticarono delle mine. I fucilieri vennero distribuiti sulle coste del monte e si mandarono sulle alture gli uomini disarmati, per accumulare sassi e macigni e apparecchiare le mine da seppellire sotto i frantumi coloro che osassero attraversare il varco vietato.

Il mattino del 24 gli esploratori spediti da Calvi verso il nemico udirono un suono d'armi e di armati oltre il Rio Verde, ad un chilometro e mezzo dalle barricate, e videro l'avanguardia austriaca che avanzava. Retrocessero subito per darne l'avviso, mettendosi tutti in pronto per la difesa.

Giunti al Rio Verde i nemici si fermarono sviluppandosi in catena sopra e sotto la strada, e mandando avanti un pichetto di pochi uomini fino all'imboccatura del passo.

Alla loro comparsa s'udì un colpo di fucile, senza sapere da che parte venisse, ed anche questa volta venne preso pel segnale che era stato convenuto dai difensori, e subito dopo si scaricarono le armi da ambe le parti, scoppiarono le mine, e si precipitarono i sassi con orribile fracasso, quando soltanto pochi nemici erano penetrati nella gola. Dileguato il fumo della polvere gli Austriaci erano scomparsi, lasciando pochi feriti e qualche morto sotto le rovine, e spaventati dal tremendo spettacolo delle montagne che si rovesciavano davanti di loro, fuggirono in precipitosa ritirata verso la Carnia. Ma due uomini erano caduti anche fra i Corpi Franchi colpiti dalle palle nemiche, ed uno di questi era Isidoro Lorenzi, il padre di Maria.

IX.

Maria desiderosa di vedere suo padre, che doveva trovarsi a Pieve, dopo essere stato vari giorni alla difesa d'Oltrechiusa, era discesa tutta sola dalla montagna di Medole, promettendo a Maddalena di ritornare per tempo. La povera donna, affranta dal pensiero della sorte del suo Tiziano, che dilaniava costantemente il suo animo esulcerato, non si era sentita in caso di accompagnarla, e non volle opporsi alla sua partenza, ma la vide allontanarsi con rammarico, e passò tutto il giorno in un angolo del suo eremitaggio, funestata da paurosi fantasmi. Seduta sopra uno di que' sgabelli a tre piedi che servono ai pastori per mungere le mucche, coi gomiti appoggiati ai ginocchi, e la testa nelle mani, pensava a tutte le speranze svanite, a tutte le disgrazie che continuavano a funestare il suo paese, al vuoto della casa, all'avvenire senza conforti, alla vecchiaia deserta, e le ore succedevano alle ore, lente, eterne, affannose.

Quei maledetti stranieri avevano scompigliata la sua tranquilla esistenza; privata del figlio, del marito, della casa, delle care abitudini domestiche, la sua vita non era più che una continua vicenda di amarezze, di dolori, di lagrime.

Il sole si abbassava dietro il monte, e Maria non era ancora di ritorno.

Maddalena si metteva sulla porta del casolare, guardava, ascoltava, ma invano.

Fido fissava la padrona col suo occhio intelligente, e vedendola inquieta indovinava forse il motivo del suo tormento, faceva un giro intorno la bicocca, si avvicinava al sentiero, fiutava l'aria, poi tornava indietro colla testa bassa e si sdraiava per terra scoraggiato.

Giunta al colmo dell'inquietudine, vedendo che dopo il tramonto Maria non era ancora di ritorno, raccolte le poche forze che le restavano, e fattosi animo, decise di andare ad incontrarla, perchè la fanciulla tutta sola e in tempo di notte non si smarrisse, o cadesse in pericoli fra quelle rupi deserte. Camminò qualche tempo, ma invano, sedette, ascoltò attentamente, le parve di udire un passo che calpestasse le foglie secche, chiamò Maria a più riprese, ma nessuno rispose. Sola, sorpresa dal buio della notte, impaurita da due occhiacci scintillanti che la guardavano fra i rami d'un albero, ristette alquanto indecisa se dovesse avanzare o retrocedere, quando tutto d'un tratto udì un rapido movimento che le fece credere d'essere assalita da qualche disertore croato. Era invece un uccellaccio di rapina che fuggiva al suo avvicinarsi urtando le grandi ali negli alberi. Un brivido di spavento le ricercò tutte le membra, dovette sedersi a terra per qualche tempo, poi ritornando indietro si trascinò barcollando fino al tugurio, accompagnata da Fido che la seguiva da presso, e pareva impressionato esso pure da quelle apparizioni notturne. Giunta al suo rifugio, ascoltò ancora sulla porta per qualche istante, alzò gli occhi al cielo stellato, poi, chiuso l'uscio, si mise in ginocchio a pregare ferventemente pel figlio, pel marito, per Maria, per tutti coloro che soffrivano nel suo paese, in quel tempo di uccisioni, di stragi, d'incendi, di sventure; e le parve che la preghiera le togliesse un peso dal cuore, e la lasciasse più calma. Allora si gettò sul fieno stanca, sfinita, e passò tutta quella notte tremenda ed angosciosa fra l'assopimento e l'insonnia rivoltandosi sul duro giaciglio, ora angustiata da affannosi sogni, ora tormentata da paurosi pensieri, cercando invano di calmare quell'agitazione morbosa con ogni argomento che potesse giustificare l'assenza di Maria: e andava dicendo fra sè: sarà forse rimasta al roccolo per rendere qualche servizio a suo padre rientrato stanco, si sarà ritardata per attendere delle notizie, e non avrà più osato avventurarsi di notte per questi greppi; forse mio marito non avrà voluto lasciarla partire sola all'avvicinarsi della sera.... forse i tedeschi saranno entrati in Pieve!... e a tale pensiero le si rizzavano i capelli, un cupo terrore invadeva il suo spirito, e il sangue le saliva alla testa.

Finalmente il barlume che penetrava dalle fenditure l'avvertì che era l'alba, scese dal fieno, aperse l'uscio sconnesso, e uscì a respirare l'aria fresca e balsamica del mattino. Il sole sorgeva nel cielo sereno e rischiarava con rosea luce i lontani paeselli sparsi nella valle e sulle falde dei monti.

Era una splendida giornata di maggio, e Maddalena si decise di scendere a Pieve, per sapere più presto che cosa fosse avvenuto. Appena avviata al sentiero che scendeva dalla montagna, Fido indovinò il pensiero della sua padrona e cominciò a precederla nel cammino, divagando di qua e di là su e giù per le rive e talvolta mettendosi in ferma davanti un cespuglio dal quale faceva levare qualche uccello selvatico, poi entrava in un bosco mentre la donna continuava a scendere lentamente per l'arduo declivio.

Dopo di aver percorso un breve tratto di cammino udì che Fido abbaiava allegramente, come soleva fare incontrando qualche persona di casa, poi lo vide che le veniva incontro, abbaiando nuovamente, e dimenando la coda. Certo era Maria che attardata sulla sera avrà passata la notte a Pieve e saliva di buon mattino per non tenerla in pene più a lungo. Ma fu grande la sua sorpresa quando invece di Maria scoperse da lontano suo marito solo, che saliva lentamente la montagna.

Maddalena affrettò il passo, e quando si arrestarono faccia a faccia, entrambi sorpresi, scambiarono la stessa domanda:

— Dov'è Maria?....

— Maria?!.... ripetè sior Antonio sbalordito, ma non è dunque a Medole?...

— Maria è scesa a Pieve fino da ieri mattina... non l'avete veduta?...

— Signor benedetto! disse sior Antonio, alzando le braccia al cielo, dove avrà dunque saputo la sua disgrazia?...

— Un'altra disgrazia?... hanno ucciso anche Isidoro!... lo indovino al vostro viso sconvolto....

— Pur troppo!... soggiunse sior Antonio, levandosi in furia il cappello, e guardando in alto con un'espressione mista di disperazione e di pietà.

Ma avvedendosi che sua moglie barcollava, e poi stava per cadere in deliquio, le si accostò in fretta per sostenerla, e giunse appena in tempo da rallentare la sua caduta. La coricò dolcemente sull'erba, e le sostenne la testa che si piegava sulle spalle, mentre le appariva sul volto il pallore della morte.

Ah i soldati uccisi e i feriti sul campo di battaglia non sono le sole vittime della guerra; essa getta da lontano i suoi dardi avvelenati, e lacera i cuori dei genitori, delle sorelle, delle spose, e trascina dietro alle sue carneficine una lunga catena di sventure e di morti!

Quando Maddalena ritornata in sè fu in caso di sostenersi, appoggiata al braccio del marito, rifece lentamente la strada percorsa, e ritornò alla cascina, ove sior Antonio si studiò con ogni cura possibile di rianimarla, raccomandandole di dominare il dolore, per essere in caso di mettersi sulle traccie di Maria, alla quale non restavano che loro sulla terra, che dovevano considerarla come figliuola.

I poveri vecchi seduti accanto uno dell'altro piansero insieme, poi la misera donna si fece ripetere con precisione quello che si poteva sapere sulla triste notizia, e voleva conoscerne i particolari, che erano ancora ignoti.

Sior Antonio le disse:

— È morto colpito in fronte da una palla nemica.... altro non so... Jeri sera ne giunse l'annunzio a Pieve. Non trovando riposo nel letto, non potendo chiuder occhio, ho dovuto alzarmi senza attendere il mattino, e così di notte sono venuto su per apparecchiare Maria al colpo tremendo!... Ah povera Maria!... povera Maria!...

— Ma dove sarà? — soggiungeva Maddalena — dove potremo trovarla?... sarà essa giunta al roccolo ignorando la sua disgrazia, o l'avrà udita per via?... e se non è stata in caso di continuare la strada, chi l'avrà raccolta?... o che sia caduta in pericoli?... che abbia fatto dei brutti incontri?...

E prostrata dal dolore, agitata da tante incertezze, turbata da sospetti e presentimenti che le laceravano il cuore, ora sentiva mancarsi le forze, ora riprendeva un repentino vigore, e voleva partir subito per rintracciare Maria. Suo marito non lo permise, procurò di calmarla, la obbligò a prendere qualche riposo, e facendola coricare sul fieno, la consigliò di starsene tranquilla qualche tempo. Intanto egli si recò nella malga più vicina, trovò del latte fresco dai pastori, e ritornato alla baita volle che Maddalena v'inzuppasse un po' di pan bigio che rimaneva delle provvigioni, persuadendola dolcemente che per mettersi in cammino doveva riparare le forze esaurite dal digiuno, dalla fatica, dal dolore. Essa rifiutava con insistenza, ma per non contrariare troppo il marito dovette rassegnarsi a questo sforzo, e inghiottiva qualche boccone in mezzo alle lagrime che cadevano nella scodella, e ripeteva fra i singhiozzi:

— Noi non abbiamo più figli!... li abbiamo perduti tutti due!... il mio povero Tiziano è morto di sicuro!... e la sua povera Maria... non la vedremo mai più!....

Quando fu in caso di partire cominciarono a scendere lentamente, seguiti dal cane, e lungo tutto il sentiero Maddalena non cessava di fare le più strane supposizioni. Sior Antonio procurava di persuaderla, che l'avrebbero trovata al roccolo di Sant'Alipio, dove colpita dalla funesta notizia, sarà rimasta a piangere la morte del suo povero padre, dimentica d'ogni altro pensiero, tutta assorta nell'immensità del dolore.

Spronata da tali supposizioni essa affrettava il passo, esclamando:

— Sarà nostra figlia!... doveva sposare il nostro povero Tiziano.... ha perduto lo sposo, ed il padre... ma troverà ancora dei parenti che faranno le veci de' suoi genitori... povera orfanella!... così giovane, e rimasta sola nel mondo!....

La strada pareva più lunga del solito, e riuscì faticosa ai poveri vecchi affranti da tante sventure, che sulla sera giunsero a Pieve estenuati. Poco prima del loro arrivo, Calvi aveva attraversato il paese sul bianco cavallo coperto di spuma sanguinosa, accorrendo ove minacciavano nuovi pericoli. La poca gente che si trovava in piazza lo pregò di fermarsi, avida di notizie della guerra, e di schiarimenti sulle cose del giorno. Egli si arrestò per pochi minuti, e pareva turbato e malcontento. Confermò le notizie del giorno antecedente. I tedeschi erano stati respinti al passo della morte, ma ingrossavano a tutti i varchi; i cadorini avevano a deplorare alcuni uomini uccisi, fra i quali il prode ufficiale Isidoro Lorenzi. E dopo queste poche parole cacciando gli sproni nei fianchi del cavallo, spariva rapidamente nell'ombra delle montagne.

Sior Antonio e Maddalena, invece di rientrare in casa, si recarono al roccolo di Sant'Alipio. La vecchia serva era sola, e non sapeva nulla dell'avvenuto; allora spaventati corsero subito a casa coll'ultima speranza di trovarvi la ragazza, ma la Betta che corse ad aprire la porta fu sorpresa della loro domanda, essa non l'aveva veduta!....

Dove era dunque Maria?....

Maria, discesa il giorno prima dalla montagna di Medole, appena attraversato il ponte di Ranza, si era fermata davanti un gruppo di contadini che ascoltavano da uno sconosciuto il racconto della difesa al passo della morte, che nominava anche i morti, fra i quali udì il nome di suo padre.

Ricevuto il colpo fatale rimase sbalordita, si allontanò rapidamente, non fu conosciuta da nessuno. Camminò lungamente senza sapere dove andava, era fuori di sè, come stupida e pazza. Poi sentendosi mancare le forze si lasciò cadere lunga distesa sull'erba, e rimase colà lungo tempo priva dei sensi. Ritornata in sè stessa si mise a piangere dirottamente, ma in quella profonda solitudine nessuno udì i gemiti dell'infelice, nessuno poteva accorrere in suo soccorso.

Dato sfogo al primo impeto del dolore, un solo pensiero dominò la sua mente: — vederlo, vederlo almeno un'altra volta!... deporre l'ultimo bacio sulla fredda fronte del padre, tributargli le ultime prove d'affetto prima che la terra lo involasse per sempre ai suoi sguardi!... Con tale idea fissa nella mente, entrò in Pieve, attraversò le vie deserte senza essere veduta da nessuno e continuò la strada verso Domegge pensando al suo povero morto, e dimenticando ogni altra cosa del mondo.

Chiusa nel suo intenso dolore camminava colla testa bassa, cieca ed insensibile allo spettacolo incantevole che presentava la primavera.

Tre giorni prima, suo padre pieno di vita passava per la stessa strada, esaltato dall'entusiasmo delle patrie battaglie, e pieno d'affetto per le sue belle montagne, ammirava quella stupenda natura, che brillava con tutte le ricchezze del maggio. I frutteti in piena fioritura spiccavano colle tinte bianco rosate sul fondo oscuro dei coniferi e sulle brune pareti delle vecchie case affumicate. I prati a mille colori, parevano tappeti distesi in mezzo ai campi in un giorno di festa. Gli abeti erano in piena vegetazione, e i nuovi germogli di verde mare spiccavano sul verde cupo dei vecchi rami come frangie ornamentali, sulla bruna veste di quei giganti delle Alpi, i quali ora salgono alla spicciolata sui clivi come bersaglieri che aprono il fuoco colle prime scaramuccie, ora stretti in grossi battaglioni si raccolgono a sfidare gli uragani, e appariscono da lontano sulle cime acuminate come un esercito in ordine di battaglia.

L'aria era imbalsamata dalle esalazioni resinose, e dai confusi profumi del biancospino, dei lilla e dei caprifogli delle siepi che dividono quelle piccole proprietà. Il fumo che usciva dalle porte e dai balconi delle case di legno, tutte senza camini, raccogliendosi nei vicoli, avvolgeva i paesi in una nuvola azzurrognola che si stendeva fino alle rive sinuose del torrente, mentre le nude cime illuminate dal sole brillavano di vivida luce, in un atmosfera trasparente. Le mandre uscivano dalle stalle, avviandosi lentamente al pascolo, al suono dei campanacci appesi al loro collo, e le capre salite sull'erta si voltavano indietro a salutare il villaggio con tremuli belati. Le rondini volavano a larghe onde lungo la valle cogliendo insetti, ed apportandoli ai nidi costruiti sotto le travi affumicate dei poveri tetti. La natura era tutta un sorriso ed una promessa, e Isidoro contemplava quello spettacolo poche ore prima di chiudere per sempre gli occhi alla luce. La palla straniera che colpiva il padre, generoso difensore della patria, andava a ferire di rimbalzo il cuore della figlia che nel fiore della giovinezza restava insensibile a tante delizie della primavera paesana.

Quelle pacifiche popolazioni patriarcali, che vivevano tranquille nei tuguri dei loro monti, senza invidie, nè avidità, nè ambizioni erano turbate nella loro quiete serena, e spinte alla disperazione ed alle armi, da quelle turbe rapaci che, senza altro diritto che quello della forza brutale, venivano da lontano a violare quel territorio, a profanare e saccheggiare quelle case, e spargere il terrore e la morte in quella scena pastorale.

Ogni volta che le campane suonavano a stormo le popolazioni si levavano in massa, e le intiere parrocchie marciavano contro il nemico coi loro preti alla testa.

Gli austriaci giunti a Sauris varcarono le alte cime del monte Razzo, e si avanzavano per un sentiero aperto in mezzo alle nevi, scendendo cautamente, senza trovare ostacoli nel loro cammino.

Intanto Maria era giunta sulla sera fino a Laggio alle falde del monte Adiès, che sorge fra il Tudaio a sinistra, e l'altissimo monte Schiavone a destra. Sfinita dalla fatica del lungo cammino, e affranta dal dolore, entrò in una cascina, e chiese ricovero per la notte. L'apparizione di quella ragazza di fiero aspetto, ma straziata da profonda afflizione, che si manifestava dai lineamenti scomposti, in quei giorni di scene atroci, e di grandi eroismi, impressionò vivamente quella famiglia di pastori, e tutti le si strinsero intorno chiedendole con cordiale interesse quali sventure l'avessero condotta in quel sito.

Seduta fra loro scoppiò in dirotte lagrime e non le fu possibile di parlare. La compassione trascina al pianto ma attutisce gli affanni, e dopo qualche istante parve più calma. Aveva sete, era esausta di forze; le presentarono del latte che bevette avidamente, poi chiese di riposarsi, e sdraiata sopra un mucchio di fieno, il bisogno di natura vinse il dolore, e si addormentò d'un sonno profondo che durò senza interruzione alcune ore.

Svegliatasi prima dell'alba, non si rammentava più dove fosse. Un lumicino che ardeva davanti una Madonna rischiarava debolmente la stanza, si alzò sopra un gomito, guardò intorno, e a poco a poco le ritornarono alla mente tutte le vicende del giorno prima, fino al suo ingresso nella cascina. Allora ripensando al passato si sentì oppressa dal rimorso di non aver annunziata la sua partenza alla povera Maddalena. Udendo rumore nella stanza vicina sorse dal suo giaciglio e trovò i suoi ospiti già occupati a mungere le mucche. La vecchia moglie del pastore la forzò a prendere nuovamente un po' di latte, con del pane di granoturco. Allora potè raccontare la sua storia dolorosa a quella famiglia raccolta che pendeva dal suo labbro, dividendo le sue angoscie. Manifestò il desiderio di vedere suo padre, e di poterlo baciare ancora una volta prima che fosse sepolto; poi domandò se fosse possibile di mandare un uomo a Pieve per portare una lettera. Un giovanetto trilustre si offerse spontaneo, ma l'affare più difficile era quello di poter scrivere una lettera, ove mancava la carta, le penne o una matita. Il vecchio pastore propose alla ragazza di condurla dal capo comune, ove non solo troverebbe il necessario per scrivere, ma sarebbe anche istrutta sul modo di mandare ad effetto il suo pio desiderio.

Partirono subito seguiti dal ragazzo e giunsero in breve tempo all'uffizio Comunale, ma non fu possibile di parlare immediatamente al Capo Comune, il quale s'era chiuso in una camera appartata, coi notabili del paese, per decifrare i dispacci giunti la notte. Intanto il vecchio cursore somministrò la carta e la penna richieste, e Maria scrisse sul tavolo d'uffizio le poche parole seguenti: — «Sono a Laggio colla speranza di poter vedere ancora una volta il mio povero padre. Avvertite a Medole la mamma Maddalena, attribuite alla mia disperazione la improvvisa partenza e perdonatemi.» — Poi piegato il foglio vi scrisse sopra l'indirizzo, — Al signor Antonio Lareze — Pieve — (pagate il messo).

Finalmente comparve il Capo Comune, col volto scombussolato, seguito da varie persone gesticolanti in modo strano, e, rivolto a diversi individui che aspettavano notizie, annunziò che gli austriaci si avvicinavano minacciosi da varie parti.

Successe un parapiglia indiavolato di gente che correva qua e là interrogando, consigliando, discutendo sul partito da prendersi.

Non fu facile a Maria di farsi ascoltare, e quando potè annunziare il motivo della sua presenza, e chiedere come e dove potesse vedere suo padre, le fu risposto che Isidoro Lorenzi era stato sepolto la sera prima, e che non sarebbe possibile nemmeno di visitare il tumulo recente, perchè nessuna strada era sicura, e forse quel terreno era già occupato dai nemici.

Questo nuovo dolore spinse alla disperazione quella desolata, che in un accesso di furore gridò:

— Anima benedetta di mio padre!... potessi almeno vendicare la tua morte e quella del mio Tiziano, e ammazzarne uno di questi cani arrabbiati, colle stesse mie mani!...

Non aveva ancora finito di pronunciare queste parole che udì il cupo suono delle campane che suonavano a stormo, accompagnato dalle grida delle donne e dei fanciulli, dagli urli della gente che correva confusamente per la strada, armata di schioppi, di lancie, di spiedi, alla quale si univano altri drappelli di combattenti che scendevano da ogni parte per difendere il paese minacciato dagli austriaci che avanzavano dalla valle d'Antoja.

— Datemi un'arma!... un'arma a me pure!... gridava Maria spinta al parossismo dell'esaltazione, dell'eccesso del dolore, eccitato dal tramenìo degli accorrenti spinti da diverse passioni, secondo il sesso, l'età, il carattere degli individui, che vociavano confusamente per la strada, con accenti confusi di entusiasmo, di collera, e di spavento.

Maria, cogli occhi accesi di sdegno, scuotendo violentemente per un braccio il vecchio cursore sbalordito, esclamava:

— Datemi un'arma!... che voglio vendicare mio padre!...

Il cursore, agitato dallo spavento, aperse la porta d'un gabinetto ove stavano raccolti alcuni fucili e varie lancie che scomparvero in brevi istanti, portati via dalla folla invadente.

Maria afferrò una lancia, e agitandola in aria, si precipitò furiosamente verso le scale per unirsi agli uomini, alle donne, ai fanciulli, che correvano tutti confusi verso il nemico, ma il pastore che la seguiva da presso l'arrestò per un braccio e le disse:

— Dove avete lasciata la lettera?...

La ragazza si scosse, si palpò intorno, trasse il foglio dal seno ove lo aveva collocato, e consegnandoglielo gli raccomandò di spedirlo subito al suo destino.

Il pastore raggiunse il ragazzo che attendeva sulla porta, gli pose una mano sulla spalla, gli consegnò la lettera, e lo ammonì con queste parole:

— Va ad avvertire tua madre che faccia salire le vacche in montagna, e si allontani il più presto possibile; gli dirai che io parto cogli altri contro i tedeschi. Tu andrai difilato a portare la lettera a Pieve, e se Iddio ci salverà dalle disgrazie, ci troveremo a casa quando avremo liberato il paese dai nemici.

Il ragazzo scomparve, il pastore raggiunse Maria, e si confusero colla folla che progrediva, gridando, — Viva l'Italia — Viva Pio IX — morte ai tedeschi!

X.

Le masse popolari armate venivano dalla valle d'Ansiei, da Lozzo, Vigo, Lorenzago, e da S. Stefano del Comelico, e si unirono a Laggio ascendendo la riva di Mondéron e per Sottonovada giunsero a Costadoro davanti la valle del Piona fiancheggiata da nere selve, col monte Cornon dirimpetto. Procedevano lentamente cantando inni nazionali, preceduti dai fucilieri ai quali venivano dietro gli uomini e le donne armati di lancie, di forche, di spiedi e di falci.

Questa turba veduta da lontano, che seguiva i sentieri tortuosi dei monti, pareva un nero serpente gigantesco. Penetrava nei tetri boschi d'Aunede, si distendeva in lunga fila sulla salita di Fontanelle e s'arrestava davanti il ruscello di Rendimera, che scende precipitoso fra le roccie di Starezza, sul margine della foresta. Dall'altra parte del ruscello si vedeva un drappello di fucilieri cadorini che retrocedeva lentamente davanti un corpo numeroso d'austriaci che avanzava. Quando i cadorini che avevano attraversato il Rendimera, si videro sostenuti dalla massa del popolo accorso, ripresero ardire, e riparati dietro gli alberi e le roccie tirarono contro il nemico, mirando dritto colle carabine, e facendo cadere un soldato ad ogni colpo; e ad ogni nemico che cadeva il popolo mandava urli e grida frenetiche di viva l'Italia, viva Pio IX.

Gli austriaci rispondevano colle fucilate e coi razzi, ma senza avanzare, credendo che il bosco fosse tutto invaso da soldati che li attendessero in agguato, quando invece non c'era che una popolazione quasi inerme dietro ai soli ottanta fucilieri armati d'arme da fuoco.

Verso mezzogiorno, un ufficiale austriaco ed un tamburino essendo rimasti uccisi, un caporale dei fucilieri di Auronzo alzatosi in piedi per veder meglio i caduti, fu colpito da una palla in fronte che lo distese morto all'istante. Dopo un altr'ora di lotta gli austriaci appiccarono il fuoco ad un fienile, e si vedeva da lontano divampare l'incendio, fra vortici di fumo e di fiamme, e i tedeschi raccolti i loro cadaveri li portavano al fienile e li gettavano nel fuoco.

Mentre alcuni soldati erano intenti a questa operazione, gli altri si tenevano nascosti fra gli alberi alle falde del monte, quand'ecco tutto ad un tratto una grandine di macigni che scende dalle cime, schianta gli alberi, schiaccia gli uomini e seppellisce sotto le macerie tutto ciò che non travolge nei gorghi del torrente, fra le acque tinte di sangue. A quel miserando spettacolo si univano gli applausi e le grida della popolazione raccolta nel bosco, colpita dalla sorpresa di quella scena, e dalla gioia di vedersi liberata dal nemico, il quale spaventato dall'impreveduto massacro, esterrefatto dal terrore, correva di qua e di là senza ordine nè ritegno, bersagliato dai tiri dei fucilieri che abbattevano i fuggiaschi.

Erano stati gli abitanti del Comelico, che, giunti di soppiatto sulla cima del monte, avevano precipitato le roccie sull'abisso nel cui fondo stavano i nemici. Una fucilata partita dal bosco colpì anche il comandante austriaco, che fu subito raccolto dai suoi soldati, e portato verso la tettoia in fiamme; ciò fece credere ai cadorini che lo gettassero nelle fiamme ancora vivente.

Intanto gli ufficiali superstiti tentavano di raccogliere i soldati, facendo battere la ritirata; e si vide il nemico allontanarsi per selva Antoja e salire verso Losco. Allora i fucilieri cadorini animati dall'entusiasmo della vittoria, si slanciarono avanti arditamente inseguendo i fuggiaschi fino quasi ai fienile abbruciato, seguiti dall'immensa massa di popolo urlante e frenetico che usciva dal bosco e scendeva confusamente dalla pendice.

Ma la retroguardia austriaca, minacciata alle spalle, si volse indietro, spianò i fucili contro gli assalitori, li attese a piede fermo, e quando giunsero a buon tiro fece una scarica di plotone che colpì molti fucilieri, ed uomini e donne che venivano dietro, mettendo in iscompiglio quella folla disordinata, che esaltata dallo spavento si diede a fuggire nella massima confusione, precipitandosi nel bosco, e correndo senza posa dalla parte di Laggio.

Intanto a Pieve sior Antonio aveva ricevuto il viglietto di Maria, e preso seco il ragazzo che lo aveva portato, dopo essersi consigliato in fretta con Maddalena, era partito egli pure alla volta di Laggio. La Nina col solito passo resistente saliva le rive, senza bisogno di frusta, e in poche ore li condusse al paese. Appena giunto procurò di aver notizie di Maria, e venne a sapere dal Capo Comune che essa era partita insieme alle popolazioni insorte dei villaggi vicini, e che armata di una lancia pareva fermamente decisa di affrontare il nemico, per vendicare la morte di suo padre, non avendo avuto la consolazione di vederlo prima che fosse sepolto.

Sior Antonio crollò le spalle ed alzò gli occhi al cielo, mosso a pietà da tanta insania, prodotta da eccessivo dolore, esaltato dagli avvenimenti strani nei quali si trovava avvolta, e rimproverava il Capo Comune di non essersi opposto a tale pazzia, raccogliendo sotto la sua protezione quella povera ragazza; quando si udirono le grida frenetiche, e gli ululati della gente che tornava indietro, spaventata e confusa, dal combattimento di Rendimera, in un parapiglia indescrivibile.

Allora sior Antonio lasciato l'ufficio municipale, si mise a correre verso la gente affollata ed ansante, in cerca di Maria, interrogando varie persone, per sapere dove fosse. Tutti gli facevano dei discorsi spropositati, e rispondevano alle sue domande con narrazioni spaventose. Dicevano che gli austriaci dopo d'essere stati schiacciati dalle rovine del monte, risorgevano dalla terra, e sbucavano da ogni banda in falangi innumerevoli, che si avanzavano rapidamente uccidendo e massacrando quanti trovavano per via, incendiando i paesi nel loro passaggio, e gettando nelle fiamme i feriti.

Ma il fatto più tremendo per sior Antonio, era quello di non poter trovare Maria, di non poterne avere nessuna notizia. Finalmente il fanciullo che aveva portata la lettera a Pieve, scorse fra la folla suo padre, gli corse incontro, e lo condusse a sior Antonio che lo interrogò ansiosamente, ma il pastore tutto sconvolto e sbalordito, non seppe rendergli conto di nulla. Egli raccontava di non averla abbandonata mai, ma essa gli era scomparsa fra il fumo della fucilata quando all'avanzare dei tedeschi le donne e i fanciulli spaventati si misero in fuga precipitosa, e trascinarono tutta la gente confusa, attraverso il bosco, nel quale si udivano fischiare le palle nemiche che battevano nei tronchi, e spezzavano i rami degli alberi che cadevano sui fuggiaschi. In quella terribile confusione, tutti avevano perduto qualche cosa, e il pastore smarrito fra la folla aveva perduto di vista la fanciulla che gli aveva parlato poco prima; e soggiunse:

— Quando ci siamo finalmente arrestati, a qualche distanza dal bosco, essa non si trovava più fra noi, ed era impossibile tornare indietro a cercarla, perchè i tedeschi che c'inseguivano uccidevano tutti senza misericordia!...

A tale racconto sior Antonio raccapricciava, aveva i capelli irti sulla fronte, gli occhi stralunati, un colore di cadavere. Egli vedeva la fanciulla esanime, caduta al suolo colpita dalle palle nemiche, o peggio ancora in mano dei soldati ubbriachi, e le gambe gli tremavano, e deplorava di non esser morto prima che tali orrori fossero venuti a funestare la sua patria.

I fucilieri erano rimasti fuori del paese ad aspettare il nemico, ed era tutto disposto per suonare le campane a stormo al suo avvicinarsi, tutti decisi a precipitare in massa sopra i soldati per salvare il villaggio dal saccheggio.

Intanto, essendo notte avanzata, sior Antonio fu costretto di rifuggiarsi all'osteria, ove passò varie ore in dolorosa ansietà, sotto la cappa del camino, in mezzo ai reduci della spedizione, che colle armi alla mano aspettavano d'essere chiamati a dare lo scambio ai colleghi che facevano la sentinella; e intanto mettevano fuori i più strani racconti sulle varie vicende di quella giornata.

Ce n'erano anche di quelli che avendo udito parlare della fanciulla smarrita, sostenevano d'averla veduta coi loro occhi, in mezzo dei croati, che la trascinavano nella parte più fitta del bosco.

Dopo la mezzanotte, essendo giunta la notizia che i tedeschi erano retrocessi, tutti si ritirarono nelle loro case per prendere qualche riposo, e chiusa l'osteria, gli ospiti vennero condotti nelle rispettive loro camere.

Sior Antonio si gettò sul letto senza spogliarsi, e funestato da spaventosi fantasmi non potè chiuder occhio per quanto fu lunga la notte. Sfinito di forze, abbattuto fino alla prostrazione, gli mancava ogni vigore materiale e morale. Vedeva l'impossibilità di penetrare fra i nemici per cercare le traccie di Maria, e non aveva il coraggio di ritornare a casa, senza una qualche notizia, che pure non voleva ricercare per tema che fosse spaventosa, e terribile.

Alla mattina per tempissimo percorse il paese, orecchiando qua e là le dicerie assurde che si andavano propalando non si sa come, nè da chi, nè a quale scopo, e che ingrossavano gradatamente a misura che venivano diffuse. Interrogava tutti coloro che gli ispiravano qualche fiducia, chiedeva avvisi e consigli, e non sapeva a quale partito appigliarsi, e così divagando da varie parti, le gambe lo portarono nella valle d'Antoja, ove seduto sopra un promontorio stette lungamente a guardare da lontano quella parte del bosco che fu il teatro degli avvenimenti del giorno antecedente....

Al momento di quel terribile tafferuglio, nel quale le donne spaventate abbandonarono le loro provvisioni per correre senza impicci Maria poco curante della vita, non si era sgomentata al frastuono della fucilata, e lasciando che la gente fuggisse fra il parapiglia della paura, era rimasta sola nel bosco. Tutto il terreno era sparso de' vari oggetti smarriti, fra i quali vedevansi delle lancie, ed altre armi consimili, dei vestiti, dei cibi e delle bevande o collocati nelle sporte, o deposti al piede degli alberi.

Partiti i tedeschi da una parte, e i cadorini dall'altra, la fanciulla vide avvicinarsi l'ora del tramonto nella solitudine e nel silenzio della selva, e le pareva che i dolori che la opprimevano e i trambusti di quel giorno non fossero altro che sogni d'infermo. Sedette sull'erba ai piedi di un albero assorta in strani pensieri. Quanti e quali avvenimenti in breve tempo!... quali scene desolanti di massacri e di sangue successi ai giorni felici e sereni passati al roccolo di Sant'Alipio!... ed ora che cosa doveva aspettarsi dalla vita, dopo aver perduto quanto aveva di più caro al mondo, un padre adorato, uno sposo che le assicurava un avvenire tranquillo nella pace della famiglia?... e tante altre cose le attraversavano la mente come ombre paurose.

Intanto la notte veniva a sorprenderla nella solitudine di quel bosco; e dopo la strage che l'aveva sbigottita, dopo l'odore della polvere, le grida frenetiche d'una moltitudine divenuta crudele davanti al pericolo, dopo il fragore delle roccie cadenti, e il frastuono dei fucili che portavano la morte, tutto taceva, e quel silenzio solenne non era interrotto che dal lene mormorìo delle acque del Rendimera che saltavano sui sassi, e da un lieve stormire di fronde. La terra esalava i suoi sentori aromatici, e un usignolo modulava i più armoniosi solfeggi sul margine del suo nido.

La natura è bella, ma insensibile agli umani dolori essa sorride sulle stragi, e l'erbe e i fiori germogliano più rigogliosi sopra i tumuli dei morti.

Maria ascoltava, meditava, mandava profondi sospiri dall'anima dolorosa, e dimenticava sè stessa, quando udito un rumore che veniva dal fitto del bosco si rizzò in piedi esterrefatta. Essa non temeva la morte, ma il solo sospetto d'una sorpresa notturna le metteva raccapriccio. Afferrò la sua lancia e stette in orecchi decisa a difendersi da disperata e morire.

Non udì più nulla. Gli antichi popolarono le foreste di spiriti tutelari; la poesia ellenica animava gli alberi di Driadi ed Amadriadi, di Napee, Oreadi ed altre leggiadre divinità. Vi furono numi che vissero negli asili boscherecci, ninfe, fauni, e sileni, incoronati di verdi fronde intrecciavano allegre danze sotto le annose piante, mentre Silvano custodiva i confini.

Svanita l'antica fede e cresciuta l'ignoranza, si conservò il culto delle selve, e i bassi tempi trascesero in fantastica fantasmagoria di nuove superstizioni. La rozza immaginazione dei popoli settentrionali popolò le foreste di elfen, di larve, di fate, di spettri e di congressi notturni di demoni e di streghe. Il gufo, la civetta apparvero sinistri augelli, l'allocco rappresentò un principio maligno, e la paura generò nuovi fantasmi.

Il mondo moderno non crede più a niente, ma il sacro orrore delle foreste sopravvive agli dei scomparsi, e ai miti superstiziosi, ed anche al presente i boschi hanno i loro misteri, e specialmente di notte vi si veggono dei fantasmi che stendono le braccia nel buio, degli occhi lucenti che guardano nell'ombra, e si odono sibili, bisbigli, sussurri, dei passi, degli strisciamenti, dei colpi, degli stridi, delle voci arcane che mettono paura.... anche alle fanciulle più coraggiose.

In quei momenti di guerra e di agguati il pericolo appariva più evidente e più spaventoso; Maria non si sentiva tranquilla, e decise d'uscire dal bosco. La notte era oscura, e rade stelle brillavano al firmamento. Scese all'aperto nel prato, volgendosi peritosa di tratto in tratto per osservare se taluno la seguisse da lontano, e s'avviò verso il fienile incendiato che si andava spegnendo, mandando gli ultimi sprazzi di luce, e quando gli fu presso sentì scricchiolare i legni bruciati, o forse anche le ossa dei cadaveri gettati nelle fiamme.

Osservando quei terreni rovinati dagli orrori della guerra, quegli avanzi fumanti dell'incendio, le si risvegliò nell'animo indignato l'odio per gli stranieri che erano venuti a desolare i suoi monti, ad uccidere i suoi cari, a lasciarla sola nel mondo. Le tremule fiammelle fra i carboni mandando una luce sinistra rischiaravano un tratto di terreno e facevano apparire più cupe e profonde le tenebre della notte. I monti boscosi parevano alti muraglioni percorsi da neri spettri, il padiglione del cielo sembrava il funebre lenzuolo che copre la bara dei morti, e quella fanciulla vagante nella tetra solitudine, cogli occhi scintillanti di luce sinistra, coi capelli scomposti, col volto sparuto, le vesti lacere, armata d'una lancia, presentava il truce sembiante del genio della vendetta, che attende una vittima per vibrare i suoi colpi.

Immobile e silenziosa ascoltava attentamente il crepitare del fuoco, quando le parve udire un gemito che uscisse dalle rovine. Ritenne il respiro, e udì distintamente una fievole voce che chiamava: — Maria.

A quel suono, a quel nome, un freddo sudore la invase, un fremito le percorse tutte le fibre, si sentì mancare le forze, e dovette appoggiarsi alla lancia per non cadere....

— Maria.... Maria.... ripeteva debolmente quella languida voce, e un lungo gemito doloroso seguiva quel nome.

Le parve riconoscere la voce di suo padre moribondo.... si fece animo, girò intorno all'incendio e scorse a breve distanza una piccola tettoia che trovandosi sottovento era stata risparmiata dall'incendio, ed essendo aperta dalla parte opposta al fuoco, si trovava immersa nelle tenebre.

Maria entrò barcollante sotto quella tettoia, e vide confusamente nel buio un uomo disteso sul terreno.

— Papà mio!... esclamò esterrefatta, sei tu che mi chiami?...

La voce rispose:

— Abbiate pietà d'un povero moribondo....

Quella non era la voce di suo padre; essa indietreggiò di due passi, e non ebbe il coraggio di avanzare in mezzo all'oscurità.

Si trascinò fino al fienile incendiato, afferrò un tizzone ardente e ritornò alla tettoia, ove vide un'ufficiale austriaco steso al suolo in una pozza di sangue. Era il capitano ferito che i soldati per ordine dei loro superiori avevano collocato in quel sito riparato non potendo portarlo con loro, e che i cadorini, non vedendo da lontano la tettoia nascosta dall'incendio, avevano creduto che lo avessero gettato nelle fiamme ancora vivo.

Il sangue perduto aveva esaurite le sue forze, il pallore della morte gli stava sul volto, gli occhi incavati erano circondati da un cerchio azzurro.

Maria mossa a pietà dal misero stato di quell'infelice gli chiese dove fosse ferito. Egli accennò un braccio ed una gamba, e gli fece comprendere che non era in caso di muoversi: l'emorragia gli esauriva gradatamente le forze.

Tutto mancava di quanto è necessario per soccorrere un ferito; tagliò colla spada le vesti dell'ufficiale, lacerò in fretta la sua sottana e ne fece delle bende, lacerò un lembo della camicia, lo addoppiò per fare dei guancialini che applicati alle ferite arrestarono il sangue, poi li assicurò con delle fasciature legate strettamente, e corsa al rivolo inzuppò d'acqua un brandello della sua veste, e lavò il sangue rappreso intorno alle ferite. Poi rammentandosi degli oggetti abbandonati nel bosco, si fece animo, vi rientrò e raccolse del pane, del vino, dei vestiti, e ritornò alla tettoia carica di provvisioni. Fece bere un po' di vino al ferito che parve rianimarsi alquanto, gli collocò sotto la testa dei panni, lo coprì con quelli che gli restavano; e dispose dei rami d'abete per sostenergli le membra.

Riavuto alquanto da quelle cure, il capitano chiese alla fanciulla:

— Chi siete voi, così buona e pietosa?...

— Sono la figlia infelice d'un uomo ucciso dai vostri soldati!... — essa gli rispose.

Il ferito alzò gli occhi al cielo, e soggiunse:

— Terribile sventura la guerra!... per tutti!... La vostra carità vi onora doppiamente.... Che Dio ve ne ricompensi, concedendovi ogni bene possibile sulla terra!

— Nessun bene è più possibile per mio conto!... non posso avere che lagrime, per piangere i miei poveri morti. Ho perduto anche il mio fidanzato.... non mi resta più nessuno!...

— Povera ragazza!... anche il vostro fidanzato è morto combattendo?...

— È scomparso in un combattimento.... morto, o ferito, o prigioniero, nessuno seppe più nulla di lui.... si dice anche che sia stato massacrato dai soldati che lo avranno preso!...

— L'uomo inferocito dalla lotta diventa una belva.... ma voi come vi trovate in questo luogo?...

Maria gli raccontò il suo pellegrinaggio, e le vicende del giorno antecedente.

Durante questo racconto egli impallidiva sempre più. Maria vedendolo venir meno inzuppò del pane nel vino e glielo porse. Egli lo prese ringraziando, poi ne chiese ancora, e così a varie riprese, e parve riacquistare un po' di vigore.

La fanciulla lo vegliava come una suora di carità, e vedendolo un po' meno abbattuto volle appagare una sua curiosità, e gli disse:

— Quando io mi aggirava intorno al fienile incendiato, voi avete chiamato distintamente, e più volte Maria.... che cosa significa questo nome in vostra bocca?...

— Maria è il nome della mia fidanzata.... povera Maria!... essa prega da lontano, unitamente a mia madre.... prega per la mia salute.... spera nella pace e nell'avvenire.... e ignora ch'io sono vicino alla morte.... non ci vedremo mai più!... essa pure al pari di voi sarà vedova prima delle nozze!... — ed una lagrima gli solcava le guancie.... e due singhiozzi convulsi gli strozzarono le parole nella gola.

— Quale strano accidente! esclamava la fanciulla.... io pure mi chiamo Maria!...

— Forse la suprema provvidenza non è estranea a questo caso, egli le rispose. Una donna che porta il nome della mia fidanzata mi chiuderà gli occhi.... e farà sapere alla mia famiglia che io sono morto col pensiero rivolto ai miei cari!... — tacque per qualche istante, poi riprese — La mia povera madre attendeva il mio ritorno per celebrare le nozze!... Maria aveva appena finito il suo corredo quando è scoppiata la guerra.... io doveva lasciare il servizio militare, e una casetta di campagna ci attendeva all'ombra d'antichi alberi, ove ho passata la mia gioventù.... ho tutto perduto per questa guerra maledetta!...

— Noi almeno, soggiunse Maria, noi ci battiamo per difendere la patria.... ma voi!...

— Noi ci battiamo per dovere di soldati.... per l'onore che ci obbliga a seguire la nostra bandiera!...

A questo dialogo seguì un lungo silenzio, il ferito non voleva offendere la pietosa fanciulla che lo aveva soccorso con tanta bontà, ed essa non voleva amareggiare un moribondo.

Sospiravano entrambi, concentrati in dolorosi pensieri.

Ai primi barlumi del crepuscolo quella scena si disegnava distintamente. L'austriaco prostrato di forze giaceva al suolo impotente, la fanciulla accovacciata in un angolo sorvegliava i suoi movimenti, per accorrere in suo soccorso ad ogni bisogno. L'invasore era protetto dalla vittima; la debolezza, trascinata alla vendetta dalla violenza, all'aspetto della sventura aveva mutato l'odio in carità. Il dolore aveva appianate le differenze, e scriveva in caratteri parlanti e concisi la storia di tutte le guerre: — Vittime, morti, incendi, desolazioni da ogni parte. La ragione e la giustizia in balia d'una forza cieca e brutale, che può dare risultati contrari ad ogni previsione.

L'aurora tingeva il cielo di porpora, e pareva il riverbero del sangue versato sul campo di battaglia.

L'ufficiale ferito alzò lentamente il capo, ed osservò con attenzione le cime dei monti, verso la Carnia, poi rivolto alla fanciulla le disse:

— Guardate bene su quei monti, oggi i soldati scenderanno numerosi da quelle roccie.... ed entreranno in Cadore da ogni parte....

Maria si rizzò prontamente, aguzzò l'occhio raccogliendo la luce colla mano distesa davanti la fronte, ma nessuna traccia di gente armata appariva, per quanto si poteva vedere da lontano.

L'ufficiale continuò:

— Il Cadore è stretto da un cerchio di ferro e di fuoco, nessuna forza potrà resistere più lungamente alle armi imperiali.... Voi buona fanciulla potreste salvare molte vite umane avvertendo i vostri coraggiosi compatrioti di cessare da ogni inutile resistenza....

— La mia voce non sarebbe ascoltata, rispose Maria, e tale missione non può convenire ad una donna del Cadore, dove non si contano mai i nemici.... ma si muore, non solo per difendere la patria, ma per protestare davanti al mondo contro una scellerata invasione....

— La vostra difesa sarà memorabile, quantunque sostenuta dalle truppe regolari piemontesi, napoletane, romane.... quanti italiani delle varie regioni calcolate che sieno venuti in vostro aiuto?...

— Neppure uno!... gridò la fanciulla alzando fieramente il capo. Noi siamo soli!... i difensori del Cadore sono tutti cadorini.... con poche armi.... ma con animo risoluto.... è vero che ci siamo tutti, ma proprio tutti, soggiunse, giovani e vecchi, donne e fanciulli!...

L'ufficiale che la contemplava cogli occhi spalancati, le chiese:

— Posso credere sul vostro onore che quanto asserite è la pura verità?...

— Ve lo giuro sull'anima benedetta del mio povero padre.... morto in difesa della patria!...

— Quando è così.... soggiunse il ferito, sollevandosi con uno sforzo, ed alzando la testa.... siete un popolo di eroi!!..

Ed entrambi rimasero lunga pezza in silenzio.

L'ufficiale guardava sempre le montagne, e Maria lo vide alzarsi di nuovo, e fissare, lungamente immobile, un punto preciso. Riprese varie volte questa attitudine, e ad un certo momento le parve che i muscoli del suo volto si agitassero vivamente, e l'occhio s'animasse, e nello stesso istante stendeva il braccio, e la mano, dicendo:

— Guardate attentamente da quella parte.... a diritta.... sul margine di quel bosco,... sotto quella cima coperta di neve....

Maria fissò lo sguardo nel punto indicato e vide un bagliore scintillante come di stelle vaganti. Erano baionette austriache che brillavano al sole.

— Ecco i miei soldati!.... esclamò il tedesco.... siete perfettamente in tempo di ritirarvi al sicuro.... nè la mia riconoscenza, nè la mia autorità sarebbero sufficienti a salvare la vostra bellezza dagli insulti di soldatesche eccitate ad ogni violenza dalle vicende d'una lotta irritante.... Maria, la memoria della vostra carità resterà scolpita nel mio cuore fino che mi duri la vita... la vita che forse mi avete salvata colle vostre cure pietose. Se devo morire fra poco delle mie ferite, Iddio vi compenserà del bene che mi avete fatto; se devo vivere, ditemi... che cosa posso fare per voi?

— Spero che vivrete, rispose la fanciulla, che potrete riabbracciare vostra madre... e rivedere la vostra Maria... alla quale direte che un'altra Maria di lei più infelice, ha avuto la fortuna di fare per voi ciò che vorrei fosse fatto al mio fidanzato in simile caso.... La religione fece di tutti i cristiani tanti fratelli.... la maledetta frenesia delle conquiste muta gli uomini in cannibali... io vi auguro ogni bene, e non vi domando che una sola grazia. Se vi sarà dato di avere qualche notizia della vita o della morte del mio fidanzato, vi supplico di farmene conoscere i più minuti particolari.... e se riuscite vincitori della mia povera patria siate miti e pietosi coi vinti!

L'ufficiale la pregò di levare un portafoglio dalla sua veste, e di scrivere colla matita il suo nome e quello del suo fidanzato, coll'indirizzo preciso. E la fanciulla scrisse: — Tiziano Lareze, e Maria Lorenzi, che l'amore doveva congiungere in matrimonio, e che la guerra ha divisi, forse per sempre — Pieve di Cadore, al roccolo di Sant'Alipio. —

Il ferito lesse queste parole, promise nuovamente di occuparsene, se avesse la sorte di vivere, poi le disse di prendersi il suo viglietto di visita, sul quale stava scritto il nome di Kasper Kraus i. r. capitano d'infanteria.

Maria ponendo in seno il suo viglietto, gli disse

— Sarà un ricordo di questi giorni tremendi....

Poi gli ripose in tasca il portafoglio, e prima di lasciarlo volle che riprendesse ancora un po' di pane inzuppato nel vino, visitò attentamente le fasciature, e avendole trovate in ordine disse addio al capitano con voce commossa, perchè le comuni disgrazie e la pietà congiungono gl'infelici in una specie di parentela, consacrata dalla sventura; gli raccomandò di tenersi tranquillo, lo salutò a più riprese, e uscì dalla tettoia, commossa, ed afflitta di abbandonare il ferito.

Egli la salutava con la mano e col capo, ma l'emozione che gli stringeva la gola, non gli permise di pronunciare una parola. Le lagrime gli velavano gli occhi, e gli scorrevano sul volto, che quantunque abbattuto, conservava ancora un aspetto marziale.

Salendo sull'erta, Maria vedeva dalla parte opposta gli austriaci che si avanzavano lentamente in due ale, seguiti da cannoni e carriaggi, e dopo di aver osservato per qualche tempo i loro movimenti affrettò il passo alla volta di Laggio.

Giunta a piccola distanza dal paese, le parve di riconoscere da lontano sior Antonio che le veniva incontro. E infatti era proprio lui, che, scorgendola sulla strada, era sceso dal promontorio, e sorpreso dalla comparsa della fanciulla correva quanto le forze glielo permettevano per raggiungerla il più presto possibile. Essa pure si mise a correre, fino che giunse a precipitarsi nelle sue braccia.

Nè l'uno nè l'altro non poteva parlare. Sior Antonio la guardava ansiosamente, con uno sguardo inquieto e scrutatore, e quelle vesti lacere e quel viso sconvolto atteggiavano i suoi lineamenti allo spavento. Dopo qualche istante, cacciandole la mano tremante nei capelli le alzò la testa, interrogandola:

— Povera figliuola mia!... tremende sciagure ti hanno colpita!....

— Tremende!... essa rispose...

— Sei caduta in mano dei croati?...

Allora Maria comprese la causa dello spavento di sior Antonio, e si affrettò a rassicurarlo.

— La morte di mio padre!... la perdita di Tiziano mi resero come pazza... mi sono esposta a tutti i pericoli.... ma coll'aiuto del cielo sono salva....

Sedettero sull'erba al piede di un albero, sior Antonio si asciugava il sudore della fronte, e le chiedeva mille spiegazioni su quella notte di angoscie.

Maria, ripresa un po' di calma, potè finalmente raccontargli la sua storia.

Durante il racconto sior Antonio spalancava gli occhi che pareva un ossesso, e mandava profondi sospiri come se sentisse sollevarsi un gran peso che premendogli il petto gli togliesse il fiato.

Dopo una lunga sosta ritornarono a Laggio, ove annunziarono l'avvicinarsi del nemico, e in mezzo alla confusione generale degli abitanti che correvano alle armi ed alle campane, sior Antonio attaccò la Nina alla timonella, e, fatta salire Maria, percorsero rapidamente la strada che li ricondusse alla Pieve.

La fanciulla estenuata si gettò piangendo nelle braccia di Maddalena, la quale invece di rimproverarle il crudele abbandono, e i pericoli ai quali s'era esposta, non pensò che a consolarla con affettuose parole, dicendole a cuore aperto:

— Vieni, la mia povera orfana, vieni povera derelitta... hai perduto un buon padre... ma è morto per la patria!... ed hai trovato dei nuovi parenti che ti aprono le braccia e ti adottano come figlia diletta. Mio marito ti sarà padre affettuoso, io sarò sempre per te la più tenera delle madri.

— E il mio povero Tiziano!... esclamò Maria con un grido disperato.

A questo nome Maddalena non ebbe la forza di rispondere, e la sua testa cadde sulle spalle della fanciulla, che si avvide troppo tardi d'aver inasprita una piaga dolorosa a chi cercava di lenire i suoi dolori. Allora stringendosi al seno con affannose convulsioni, le due donne scoppiarono in acuti singhiozzi, e piansero lungamente sulle loro sventure.

XI.

Pochi giorni dopo questa scena gli austriaci ingrossarono a tutti i confini. Il Cadore non aveva più munizioni, nè pane; e gli uomini dispersi su vari punti per respingere i molteplici attacchi, non erano più in numero sufficiente per una efficace difesa. L'ultimo tentativo venne fatto da Calvi in Cima Mauria, ma se non si fosse ritirato in tempo col suo piccolo drappello, sarebbe stato preso in mezzo dai nemici che irrompevano da ogni parte.

Il giovane condottiero portato rapidamente dal bianco cavallo attraversò per l'ultima volta quelle vallate a lui tanto care, e che aveva difese con tanto ardimento, secondato dall'entusiasmo di quelle popolazioni, che avevano imparato ad amarlo come il loro dio tutelare.

La sera del 4 giugno egli ordinava ai vari presidi di ritirarsi sui monti; i Corpi franchi furono sciolti dal giuramento di fedeltà, e il Comitato della difesa cessò di esercitare il potere, trasmettendo al Municipio l'amministrazione del paese.

La sera del 5 giugno giungevano a Pieve tre battaglioni austriaci, ed alcune compagnie di croati, e attraversarono le vie silenziose, davanti le case chiuse, come un convoglio funebre in tempo di peste.

Il solo consigliere imperiale giudicò opportuno di recarsi allo stato maggiore, in frac e cravatta bianca, per presentare l'omaggio della sua rispettosa sommissione quale imperiale regio impiegato in quiescenza, giustificandosi presso i conoscenti col dire che si era sacrificato a quel passo nell'interesse del paese, per evitare nuove disgrazie, e raccomandare agli ufficiali il rispetto delle persone e delle proprietà.

Una taglia di dieci mile fiorini venne promessa a chi avesse consegnato Calvi nelle mani del vincitore, mentre tutti andavano a gara per servirgli di guida attraverso le montagne.

L'Austria che conosceva per prova l'eroismo di quei montanari, ne ignorava le altre virtù, l'ospitalità antica, la fede inconcussa, l'onore personale, ed avrebbe potuto mettere una taglia di dieci milioni, collo stesso risultato, senza che il più povero di quegli abitanti avesse mai pensato di commettere un tradimento.

Calvi, anche solo, avrebbe potuto attraversare tutti i paesi del Cadore assai più sicuro d'ogni ufficiale austriaco in mezzo ai suoi soldati. La lega dei galantuomini è la più valida difesa contro ogni insidia. Alcuni amici accompagnarono Calvi, non per salvarlo da' pericoli impossibili, ma per tenergli compagnia.

Varcate le montagne di Cimolais, giunsero a San Fiore nella villa Cadorina, poi passarono a Oderzo, e colà si divisero, stringendosi la mano, colla reciproca promessa di presto rivedersi, per tener ancora fronte al nemico.

Calvi e un suo compagno passarono per Ceneda e Serravalle, attraversarono il canale di San Boldo e andarono a rifuggiarsi a Mel, ove si riposarono alcuni giorni.

Poi passato il Piave rasentarono Feltre, toccarono Quero e Possagno, sempre costeggiando i monti, finchè giunsero a Trebaseleghe. La pianura era piena di croati, e ne incontravano dovunque le pattuglie, ma proseguendo tranquillamente la strada giunsero a Briana dove Calvi potè gettarsi nelle braccia di sua madre, lieta di stringerlo al seno, ma tremante per la sua sicurezza. Colà passò la notte col suo compagno, ed al mattino seguente partirono insieme per Conche, ove presero una barca per Chioggia, e di colà giunsero sulla sera a Venezia.

Michele fu il solo, dei tre amici del roccolo di Sant'Alipio, che fosse rimasto incolume nella difesa del Cadore. Appena ritornato a Pieve, corse in casa Lareze ad abbracciare quella sventurata famiglia, colpita da tante sciagure. Colà potè stringere affettuosamente la mano di Maria, che al solo vederlo si sciolse in amare lagrime chiamando invano fra i singhiozzi suo padre e Tiziano.

Il roccolo di Sant'Alipio era chiuso; ogni coltura abbandonata, le erbacce e le ortiche crescevano fra i fiori e le frutta che nessuno coglieva; le piante curvate dai venti alpini pareva che piangessero, e sembrava che la natura vestisse il lutto per la morte di chi l'aveva amata con tanta passione.

Bortolo era ritornato a casa sano e salvo anche lui, bene accolto da tutti, compreso Fido, che non rifiniva di manifestargli a suo modo la gioia di rivederlo. Quel buon giovane aveva contratte facilmente le abitudini militari, si teneva ritto sui talloni, e non si cavava più il cappello per salutare, ma alzava la mano alla fronte. Era dolente che tutto fosse finito, e non poteva rendersi conto come dopo d'aver sempre vinto, si avesse finito col perdere la partita, e ne accusava il destino. E quando gli amici andavano alla mattina a trovarlo in stalla mentre governava la cavalla, e gli parlavano dei tedeschi ritornati, egli strigliava la Nina con tanto furore, che la povera bestia sentendosi lacerare la pelle menava calci e nitriti da disperata.

Michele prese congedo dalla famiglia Lareze, augurandole giorni migliori, ed annunziò la sua partenza per Venezia, ove si andavano raccogliendo i combattenti dispersi in tutto il Veneto. Egli non metteva nessun dubbio di superare le difficoltà che si opponevano al viaggio, deludendo la sorveglianza della polizia, e trovando un mezzo di trasporto, ma la faccenda più seria fu quella di ottenere nuovi fondi dallo zio. Sior Iseppo pretendeva che tutto fosse finito, e per sempre. Glielo aveva assicurato il Consigliere imperiale, il quale andava ripetendo a chi gli dava retta che i cadorini dovrebbero essere convinti che non si schiaccia l'Austria colle mani, come se fosse un pane di butirro!... E al nipote che voleva persuaderlo che il Consigliere era un idiota ed un vigliacco, sior Iseppo rispondeva:

— Sei matto!... è un uomo di mondo, è un uomo d'esperienza che la sa lunga, e che vede chiaro. Voi giovani siete buoni tutt'al più a farvi rompere la testa... e a rompere le tasche ai vostri parenti. Ti ho mantenuto a tutte le scuole per darti uno stato... ahimè che cosa sei diventato?... quale mestiere, quale professione hai mai scelto?... che cosa hai fatto finora a questo mondo?... non sei buono da niente!... congiurato... per farti mettere in gabbia, emigrato per girare il mondo a spese di tuo zio minchione... politicante per turbare la quiete della gente dabbene... soldato per farti battere!... ed ora che tutto è finito che cosa pensi di fare?... Ehm! vergognati una volta, pensa a far giudizio che è tempo!... cessa alfine di spender bezzi e di cavarmi sangue, senza guadagnare un quattrino... credi che io abbia una miniera?... e con questi anni di miserie!... ehm!... ahu!... — e andava via dimenando la testa, e brontolando fra i denti, tirandosi il berretto di lana nera fino alle orecchie.

Michele gli faceva le corna per di dietro, e lo mandava a tutti i diavoli, lo chiamava vecchio imbecille, sordido, avaro... ma dentro i denti, e senza lasciarsi intendere, e lasciava passare la bufera per tornare alla carica a tempo più opportuno.

Una mattina, gli austriaci, passati in rassegna da un generale, suonarono il tamburo molto per tempo sotto i balconi di sior Iseppo e gli ruppero il sonno prima dell'ora abituale. Sior Iseppo andò in furia, e camminando in fretta per le sue camere, colle mani dietro la schiena, andava mormorando:

— Maledetti bestioni!... pare che sieno a casa loro.... farebbero assai meglio a star tranquilli, e non far saltare la mosca al naso ai cadorini!...

Michele colse il momento favorevole, e disse allo zio:

— Ho ben pensato alle vostre osservazioni, e sono deciso di restare in Cadore, e di domandare un impiego....

— A chi?... gli chiese indignato sior Iseppo, fermandosi tutto d'un tratto e fissandogli in faccia due occhi da basilisco. — A chi vuoi domandare un impiego?...

— Non posso domandarlo che al governo...

— Domandare un impiego ai tedeschi?...

— E che cosa posso fare dei miei studi legali se non domando un impiego? avvocati e notai ce ne sono più del bisogno.... Colla protezione del Consigliere imperiale potrò ottenere un buon posto... forse col tempo diventerò commissario di polizia!... farò arrestare i liberali... sarò l'amico dei retrogradi... e degli austriacanti... e così sarete contento!...

Allora il vecchio sior Iseppo, in un accesso di indignazione, gettò violentemente il suo berretto di lana, e tirandosi i pochi capelli che gli restavano sul cranio, sbuffando dalla collera rispondeva:

— Fai apposta per contrariarmi!... ti burli di tuo zio... mi togli l'onore, e non pensi una parola di quanto mi dici!...

— Lo credo bene!... se pensassi in questo modo meriterei d'essere gettato dalle finestre... a calci nel deretano!... non c'è un solo cadorino che possa soffrire i tedeschi in Italia. I giovani vanno a Venezia a combatterli fino all'ultima cartuccia, i vecchi aiutano come possono i giovani... e i tedeschi dovranno lasciare l'Italia!.... E quando saremo liberi i codini pagheranno tutte le spese!...

Sior Iseppo fissò in volto il nipote con occhio truce, e gli disse bruscamente:

— E tu perchè non fai come gli altri?... se io non fossi vecchio sarei al mio posto da un pezzo, e non starei qui ad ascoltarli passare con tanta burbanza....

— Non mi manca che il vostro passaporto!... — e fregando il pollice sull'indice faceva vedere a suo zio ciò che gli abbisognava.

— Partirai domani mattina, gli disse sior Iseppo con voce cavernosa, e girando sui talloni scomparve.

Prima di sera lo chiamò nella sua camera, gli diede del denaro, raccomandandogli di tenerne conto, se non voleva farlo morire nella miseria, poi lo congedò con queste poche parole:

— Fermezza e concordia!... bisogna che facciamo tutti dei sacrifizi per la patria... ma voi non concedete nessuna tregua, che quando avranno ripassato le Alpi....

Intanto gli austriaci ben fortificati in paese s'erano messi a sorvegliare tutti i passi, accorgendosi che la gioventù partiva per Venezia, ove si andava raccogliendo per ricominciare la lotta. Non potendo viaggiare per la strada maestra senza pericolo d'essere arrestato, Michele dovette prendere le scorciatoie dei monti, e Giacomo Croda che era tornato a Pieve a render conto al Comitato della sua ultima spedizione, volendo ritornare alla laguna, si offerse ben volentieri anche questa volta a servirgli di guida.

I monti hanno vie sacre agli esuli, ai fuggiaschi, ai contrabbandieri, e segreti ignoti agli estranei. Colà il montanaro è in casa sua, e in mezzo al croato ed allo sgherro che corrono sulle sue traccie egli siede sovrano, e guarda da lungi in atto di sfida chi non sa raggiungerlo sulla roccia fedele, e colà si riposa in sicurezza, e fuma pacifico la pipa in barba ai persecutori.

Era però amaro per Michele trovarsi come fuggiasco fra quei monti, che pochi giorni prima coi suoi amici aveva contesi agli invasori stranieri sui quali avevano tirato come sugli orsi, facendoli fuggire spaventati.

Sulle erte pendici boscose che sovrastano Pieve, Michele guardava con amore il suo paese, e si attristava di dovervi lasciare i soldati stranieri, che si vedevano dall'alto brulicare sulla piazza deserta d'abitanti, e parevano formiche che circondano un cadavere.

Quelle casupole nere, affumicate, miserabili, non avevano potuto sfuggire alla conquista di genti straniere, che avevano abbandonato i loro paesi e le loro case per correre fra mille pericoli in mezzo a quei monti ove gli abitanti li aspettavano colla carabina in guardia per fulminarli. Ed ora che erano divenuti i padroni, gli pareva che quei monti diventassero inabitabili, uggiosi, opprimenti; quelle rupi smisurate, quei massi giganteschi spaccati dai secoli, quei crepacci irti di piante selvaggie, quelle frane ridotte in frantumi, sui quali crescevano degli abeti rotti dagli uragani, quelle nevi eterne sulle cime inacessibili, gli stringevano il cuore, e le sfuggiva inorridito.

Pochi giorni dopo per vie nascoste entrava in Venezia. Quivi era un altro spettacolo, la bandiera italiana coll'antico Leone di San Marco sventolava sulle antenne della piazza. L'orizzonte era aperto, ampio, infinito. Il sole sfolgorante faceva sembrare la laguna sparsa di brillanti. Era tutto un sorriso di natura, d'arte e di ricchezza unite insieme. I mosaici d'oro, le colonne di marmi orientali pompeggiavano nel tempio, i palazzi come gioielli preziosi si alzavano dalle onde turchine, i gondolieri cantavano canzoni patriottiche, le donne si ornavano il crine coi tre colori nazionali, e i loro occhi gettavano dardi d'amore.

Questo lembo delizioso d'Italia era libero, e spiegava il mistero dell'invasione. Ecco perchè gli stranieri avevano lasciate le loro case, e sfidata la resistenza dei confini, ed erano penetrati in quei monti aspri e terribili che li schiacciavano sotto le loro rovine.

Varcate quelle Alpi spaventose c'era il paradiso terrestre che attendeva i vincitori, c'era il sorriso d'Italia che compensava di tutte le pene subìte c'era il dolce riposo in grembo del bel paese prediletto dalla natura.

— Bisogna finirla!... esclamava Michele nell'entusiasmo; questa terra benedetta è nostra. Iddio ce la diede a dimora, essa venne illustrata dai nostri antenati, e noi non possiamo dividerla con altri popoli, fino che intendono dominarla come padroni. Fuori gli stranieri rapaci, o moriamo tutti; difendiamo la patria e la libertà in questo antico rifugio della laguna.

Quest'idea dominava tutte le menti, oscillava in quell'aria salina, si diffondeva colle brezze del mare; era il pensiero di Venezia.

Il Cadore aveva fatto il possibile per vietare l'ingresso degli stranieri, ma questi erano penetrati da ogni parte come un'inondazione che allaga un paese.

I cadorini caduti gloriosamente combattendo, sopraffatti soltanto dalla potenza superiore del numero e delle armi, si rifugiavano a Venezia in mezzo ad altri italiani provenienti da tutte le provincie, per tentare se il mare fosse barriera più sicura delle Alpi, e per vedere ancora una volta se i diritti della natura e della storia potessero soverchiare la forza brutale che voleva soggiogarli.

E gli altri Stati d'Europa assistevano impassibili a questa lotta, perchè tutti più o meno portavano il marchio infame della conquista, tutti furono più o meno invasori. L'Italia ne aveva dato il primo esempio, e ne subiva per legittima conseguenza una terribile punizione. Dal suo isolamento sorse il detto famoso «L'Italia farà da sè!»

E nella rivoluzione di Milano e nelle battaglie combattute sul Mincio e sull'Isonzo, nelle giornate memorabili di Sorio e Cornuda, nell'eroica difesa del Cadore, nei fatti gloriosi di Vicenza si versò molto sangue italiano, ma i volontari poco esperti e male armati dovettero soccombere al numero prevalente dei nemici che avevano conservate le fortezze ed erano perfettamente disciplinati ed agguerriti.

Allora si cominciò a vedere chiaramente il grave danno delle divisioni territoriali ed a sentire l'assoluta necessità dell'unità nazionale, che sola può assicurare l'indipendenza. La dinastia di Savoia aveva tradizioni gloriose, disponeva di un esercito regolare, e sola in Italia teneva alzata la bandiera nazionale, aveva accettato uno statuto liberale e possedeva un territorio sufficiente per essere considerato come il primo nucleo della nazione. Nei momenti dolorosi delle prime sventure, gl'italiani sentirono il pericolo delle loro funeste divisioni, e la necessità di raccogliersi sotto quella bandiera. La Lombardia ne diede l'esempio, le città venete la imitarono fondendosi al regno Sabaudo, e Venezia pure votò l'immediata fusione della città e provincia che venne accettata dal Parlamento di Torino; ed eletti i Commissari piemontesi che costituirono il nuovo governo, Manin ritornava alla vita privata.

Intanto l'esercito di Carlo Alberto perdeva terreno, ed era vittima di disastri prodotti da varie cause. Però la guerra d'indipendenza veniva onorata da fatti memorabili e gloriosi, e fu detto più tardi da un illustre generale (Alfonso La Marmora) che «la sconfitta di Custoza può essere riputata una vittoria, poichè essa provò una volta di più quanto sia grande il valore italiano.»

La notizia dell'esito funesto di Custoza si sparse rapidamente per tutta l'Italia.

L'armistizio fra il Piemonte e l'Austria fece temere per Venezia l'estrema sciagura di ricadere in mano del nemico. L'agitazione, il timore si manifestavano su tutti i volti, la desolazione si sparse in tutta la città. In piazza San Marco il popolo si affollava, gridando: — «notizie!... notizie.... vogliamo notizie del campo» e in mezzo ad altre manifestazioni di sdegno e di timore si udirono le grida di «abbasso i Commissari, viva Venezia, viva San Marco!» e la folla invase le scale, penetrò nel palazzo governativo.

Nel momento più pericoloso di tale rivolta giunse Daniele Manin. La sua presenza, le sue parole, i suoi gesti bastarono a calmare l'effervescenza della folla. Affacciatosi alla finestra chiese di parlare; ed un perfetto silenzio succedette alle grida scomposte e disordinate. Allora egli disse:

— I commissari regi dichiarano astenersi fino da questo momento di governare. L'assemblea della città e della provincia di Venezia si riunirà dopo domani per nominare un nuovo governo. Fino a quel momento, per queste quarantott'ore governo io.

Il popolo con evviva entusiastici dimostrò la sua approvazione per la dittatura dell'uomo che godeva la sua piena fiducia, e questa nuova rivoluzione si compì senz'altri disordini, senza spargere una goccia di sangue.

La gente affollata domandava armi per correre contro gli austriaci:

— Armi non mancheranno, rispondeva il novello dittatore, tutto serve di arme ad un popolo che vuole difendersi: ricordatevi il 22 marzo, con quali armi avete scacciati gli austriaci!... Adesso sgombrate la piazza; perchè io possa provvedere alla salute della patria mi occorre silenzio e calma.

Pochi minuti dopo la piazza era deserta; tutti avevano obbedito.

Il Tenente Maresciallo Welden, che comandava le forze austriache nel Veneto, annunziando l'esito della battaglia di Custoza, dichiarava completamente distrutto l'esercito di Carlo Alberto, e invitava il governo di Venezia a trattare la resa della città prima della sua estrema rovina.

Si rispose: speravasi provare che Venezia era ben lontana dal pericolo di cadere. E Manin indirizzò un manifesto all'esercito esortandolo a compiere l'alta impresa di difendere e salvare Venezia, nell'interesse della libertà e dell'indipendenza d'Italia: «il momento è solenne, diceva, si tratta dell'esistenza politica dell'intiera nazione; i suoi destini possono dipendere da quest'ultimo baluardo».

L'assemblea convocata per nominare il governo proclamò la dittatura di Manin.

Un decreto del governo invitò i cittadini a portare al Comitato, nello spazio di quarantotto ore, tutti gli oggetti d'oro e d'argento, per essere convertiti in numerario, obbligandosi di rimborsarli a guerra finita. Tutti obbedirono, e fu tanta la folla accorsa all'invito che convenne prorogare di quattro giorni il termine fissato. Ricchi e poveri correvano a portare gli oggetti preziosi, le popolane consegnavano gli orecchini e gli smanigli, i ricchi le argenterie e i gioielli ereditati dagli avi. E si pensava alle armi che dapprima si erano pur troppo trascurate nel trasporto d'ebbrezza della miracolosa emancipazione. Si provvide alla disciplina delle milizie, si accrebbero gli artiglieri, si organizzò il corpo intitolato Bandiera e Moro, composto di giovani reclutati fra le migliori famiglie del Veneto.

I Cadorini accorsi a Venezia facevano ressa per essere accolti alla loro volta, e rappresentare nella difesa il loro paese. La prima idea fu quella di formare un corpo col nome di Cacciatori del Cadore, e se ne compose il primo nucleo e siccome mancava il denaro si dovette battere alle porte dei ricchi cadorini residenti a Venezia, che colle loro offerte fornirono i mezzi necessari; e così fu creata quella legione di valorosi montanari, che preso un nome più generico, si chiamò dei Cacciatori delle Alpi; della quale venne eletto capo l'audace condottiero dei cadorini, Pietro Fortunato Calvi, col grado di Tenente Colonnello.

Appena aperto l'arruolamento vi accorsero in gran numero i giovani provenienti dal Cadore, da Agordo, da Zoldo, da Belluno; e accorse fra i primi Michele, che fu subito nominato ufficiale, e lieto di riprendere le armi si mise con vera passione ad istruire i giovani coscritti, promettendosi di vendicare l'invasione del Cadore.

Un giorno egli stava ciarlando sulla porta della caserma con alcuni commilitoni, quando un giovanotto gli si slanciò improvvisamente fra le braccia, e lo strinse al seno con affettuosa tenerezza.

È facile immaginare la sua sorpresa quando riconobbe il diletto amico Tiziano Lareze, che aveva pianto per morto; ed anche vedendoselo davanti vegeto e sano lo andava palpando, per assicurarsi che non fosse un sogno, un'allucinazione, od un'ombra.... ma era proprio lui!...

Essendo l'ora della colazione non avevano nulla a fare di meglio che andare insieme al Cavaletto a raccontarsi la loro storia. E strada facendo, Michele sbalordito dalla comparsa dell'amico non rifiniva d'interrogarlo, con successive e confuse domande, senza lasciargli il tempo di rispondere.

— Dunque non sei proprio morto!... mi pare ancora impossibile!... ma non hai ricevuto una palla croata all'assalto di Rivalgo?... non sei stato preso e fucilato?... nè trucidato dai soldati furibondi, come ce l'avevano fatto credere in Cadore?... Dove sei stato fin adesso?... perchè non hai avvertito la tua famiglia, e la tua povera fidanzata, che eri ancora vivo?... perchè non hai mai scritto agli amici?... come sei giunto a Venezia?... hai notizie della famiglia.... e di Maria?...

— Se mi lascerai parlare risponderò a tutto, gli diceva Tiziano, ma intanto andiamo a far colazione.

Entrarono al Cavaletto, e si ritirarono in uno di quegli stanzini che sembrano fatti apposta per le intime confidenze, raccolti, ristretti, senza altro foro che quello per il quale si entra. Fecero portare del vino, e del migliore, e cominciarono a fare un evviva al Cadore, ed alla futura indipendenza della patria; poi bevettero alla salute dei morti risuscitati, e dei vivi che s'incontrano mentre le montagne stanno ferme.

Michele dovette frenare la sua impaziente curiosità, e lasciare che l'appetito del suo amico fosse soddisfatto prima di ottenere il racconto delle sue avventure. Finalmente giunti al termine della colazione, accese un sigaro, e appoggiandosi coi gomiti sulla tavola, stette ad ascoltare senza batter palpebra quanto gli narrava Tiziano:

Egli cominciò in questi termini:

— Prima di tutto è necessario che ti confidi un segreto. Devi dunque sapere che dopo la venuta di Calvi in Cadore, Maria divenne così entusiastica ammiratrice delle sue geste, e della sua persona, che non si poteva intrattenerla d'altro argomento. Essa non viveva più che per udire quanto faceva il capitano, voleva conoscere i più minuti particolari della sua vita, voleva vederlo, applaudirlo, seguirlo col fucile in spalla, pregava ferventemente per lui, lo trovava sentimentale, bello, sublime!... Ne fui grandemente geloso!... te lo confesso senza raggiri.... vidi che per Maria la gloria aveva un prestigio irresistibile, e mi sentii trascinato da un ardente bisogno d'eroismo.... il mio amore per la patria, e per la libertà, s'era fuso coll'amore per Maria, ed io mi sentivo spinto da un ardente impulso verso tutte le imprese più difficili, e mi pareva di doverle superare colla forza della mia volontà.

Imitare il coraggio di Calvi mi pareva la cosa più naturale del mondo, volevo superarlo, volevo compiere qualche fatto straordinario, raggiungere la gloria o morire!... Nudrivo questi sentimenti nel segreto dell'anima ardente, quando chiamati sotto le armi fummo mandati a Ricurvo per impedire l'entrata dei tedeschi che avanzavano da Termine. Ti rammenti tutte le peripezie di quella memorabile giornata.

Ubbriacato dall'esaltazione del mio cervello, eccitato maggiormente dall'odore della polvere, e dalle grida vittoriose dei nostri, mi pareva che Maria mi guardasse, non volevo lasciarmi passare da nessuno, mi sentivo le ali che mi portavano, ed una forza erculea che mi rendeva capace di difendermi contro venti. Udendo la voce di Calvi che mi chiamava indietro ho supposto che egli invidiasse la mia audacia, e raddoppiai la corsa fra una grandine di proiettili che mi fischiavano intorno lasciandomi incolume, e inseguendo il nemico che fuggiva entrai nel paese colla spada alzata, eccitando i miei soldati a seguirmi.

I tedeschi penetrati nelle case di Rivalgo tiravano dalle finestre, io menava la spada furiosamente quando fui colpito da varie palle e caddi come morto per terra. Questa è stata la mia salvezza, tutti gli altri furono presi, trucidati, e fucilati come briganti. Io rimasi abbandonato coi morti. Non apersi gli occhi che a notte avanzata, e mi vidi davanti il barlume d'un fanale, ed un uomo che mi stava osservando. Udii che diceva ad un suo compagno: «Questi non è morto».

«Chi siete voi?...» io gli chiesi.

«Ufficiale d'ambulanza....» egli mi rispose, e soggiunse, «dove siete ferito?...»

«Io non so nulla....» risposi. Egli mi esaminò attentamente, poi parlò in tedesco con coloro che lo assistevano, e fui alzato da terra ove stavo come sepolto fra il sangue, la polvere, le macerie, i corpi morti e i feriti delle altre vittime.

Allora al primo movimento incominciarono i dolori alle mie ferite, dolori acutissimi ai quali avrei preferito la morte. Mi collocarono in un carro d'ambulanza, solo italiano fra croati feriti e moribondi, e fra gli spasimi i più atroci, dopo un eterno viaggio notturno, nel quale ogni scossa mi faceva credere che fosse l'ultima che potrei sopportare, giungemmo all'ospitale di Belluno, ove fui portato più morto che vivo in una sala piena di letti e d'infermi, che mandavano gemiti dolorosi. Mi rammento appena come d'un sogno d'aver veduto a tagliare in fretta gambe e braccia che venivano gettate lontano, raccolte e trasportate da infermieri. Venuta la mia volta mi furono estratte delle palle, fui lavato e fasciato, ma non avendo ossa fratturate non ho subìto amputazioni. Però non ebbi nemmeno il tempo di pensare ai miei casi, ed una grave malattia mi tolse i sensi per molto tempo.

Quando mi risvegliai come da un lungo letargo, tutto era finito in Cadore, ma io rimasi ancora su quel letto sfinito di forze, e come in fine di vita, incapace di concepire un'idea, smemorato, nell'impossibilità di pensare a dar l'annunzio del mio stato alla famiglia. Vedevo bene come da un'altra vita Maria, i miei genitori, gli amici, ma tutto confuso come in un mondo fantastico, fra le nuvole, senza rendermi conto precisamente di nulla. Finalmente la forza della gioventù, il vigore della mia costituzione, prevalsero nella lotta colla morte, e a poco a poco riebbi i sensi, vidi più chiaro, cominciai a rammentarmi i fatti trascorsi, a comprendere la mia posizione, ma talmente sfinito di forze che mi mancava l'energia necessaria a chiedere o a volere qualche cosa. A poco a poco le piaghe di varie ferite si andarono rimarginando, ed io riprendevo qualche forza. Il mio più vivo desiderio era di far conoscere il mio stato alla famiglia, ma non sapevo a chi indirizzarmi; fra gl'inservienti dell'ospitale non conoscevo nessuno, non ero circondato che da stranieri che non m'intendevano; i medici e gl'infermieri erano tutti tedeschi, quest'ultimi poi avevano maniere d'aguzzini e mi facevano ribrezzo; mi avevano rubato il denaro e l'orologio, e non avevo più un soldo.

Quando cominciai a stare un po' meglio entrò nell'ospitale un nuovo medico assistente che parlava qualche parola d'italiano, e potei comprendere da lui che ero considerato come prigioniero di guerra, e che non ero conosciuto che per un numero, non avendo potuto sapere il mio nome nello stato nel quale venni raccolto. Appena fui in caso di scrivere due righe lo pregai che volesse farmi il favore di far sapere alla mia famiglia che ero ancora vivo, e che mi trovavo ammalato in un'ambulanza militare di Belluno. Mi fece dare il necessario per scrivere, e fu tanto cortese da incaricarsi egli stesso di gettare la lettera alla posta.

Tre giorni dopo mio padre era al mio letto, e mi portava i baci di mia madre e di Maria. Tutti mi avevano pianto per morto. La mia emozione fu grande e pericolosa, e seguita da un deliquio. Ripresi i sensi, mio padre mi teneva per mano raccomandandomi di star tranquillo. Il medico lo aveva assicurato che io non aveva bisogno che di quiete per riacquistare le forze perdute. Egli aveva ottenuto il permesso di visitarmi ogni giorno, ed anche di ricondurmi a casa appena fossi stato in caso di ritornare al mio paese. Alla terza visita quando mi vide più calmo e più forte, mi annunziò con infinite precauzioni la morte del povero Isidoro, la disperazione di Maria, la sua avventura a Rendimera, le lagrime versate per la mia scomparsa.... e mi disse che tu eri a Venezia, sano e salvo, sempre fedele al tuo dovere, malgrado le tenaci opposizioni dello zio. Il vivo desiderio di rivedere Maria, e di riabbracciare mia madre, affrettò la mia guarigione. Mio padre aveva scritto alla famiglia annunziando il nostro prossimo arrivo, e intanto veniva ogni giorno a farmi compagnia, mi raccontava gli ultimi fatti del Cadore, e mi dava del denaro, oh!... sovrumano portento della pecunia!... alla vista delle mie monete d'argento gl'infermieri tedeschi intesero l'italiano, si fecero gentili, e divennero le migliori paste del mondo. Il cibo che mi feci portare dal di fuori contribuì grandemente a mettermi in forze, e non tardò molto ad arrivare il bel giorno della mia liberazione.

Quando abbiamo preso congedo dal medico egli raccomandò a mio padre di tenermi in quiete e riposo, lontano da ogni rumore, e da ogni cura della vita. E finalmente eccoci fuori dalle miserie dell'ambulanza, all'aria libera e al sole!...

— Cameriere un'altra mezzina.... — domandò Michele.

Toccarono i bicchieri, e bevettero facendo un evviva all'Italia.

E dopo una breve sosta, Tiziano riprese il suo racconto.

XII.

Mi ricorderò fin che vivo — egli disse — l'effetto che mi fece il sole, e l'aria aperta delle montagne alla mia uscita dall'afa nauseabonda dell'ospitale. In principio mi pareva di star peggio, avevo gli occhi abbacinati dalla luce, e l'aria balsamica mi dava il capogiro. A poco a poco mi parve di rinascere, e infatti ero proprio come un bimbo, mi mancavano le forze, non potevo camminare senza appoggiarmi ad un braccio che mi reggesse, e dovetti fare il viaggio da Belluno a Pieve in due giorni.

Il primo giorno ci siamo arrestati a Longarone, ove la mia buona madre mi attendeva impaziente di rivedermi. Quale abbraccio fu quello della povera donna, che dopo d'avermi creduto morto, non poteva persuadersi che fossi ancora vivo. Mi stringeva fortemente al seno, e non mi voleva lasciare; e piangeva dirottamente.... per la consolazione di rivedermi!... Poi mi contemplava lungamente e non poteva rassegnarsi di trovarmi così debole, e sparuto da far compassione ai sassi. Quale beatitudine io provai nel poggiare la testa sulle sue spalle.... nell'accarezzare i suoi grigi capelli, nel consolarla colle mie assicurazioni, nel dirle che mi sentiva rinascere all'idea di rivedere il paese.

Mi raccontò che dopo la morte del povero Isidoro avevano adottato Maria, e se la tenevano in casa come figliuola. Quando giunse la mia lettera che mi annunziava ancora vivente e vicino, la loro gioia fu tale che ogni altro pensiero venne dimenticato, ma quando passato il primo slancio di contentezza si cominciò a pensare alla istallazione del reduce, allora la mia buona madre fu assalita da scrupoli che la misero in grave imbarazzo. E infatti quando un morto ritorna al mondo, si capisce che deve recare qualche disturbo. Non si poteva allontanare Maria adottata per figlia, e non si voleva ammettere che prima delle nozze io convivessi colla sposa. Consultato mio padre, egli rispose bonariamente che non ci vedeva inconvenienti, che ci considerava entrambi suoi figli, e che era ben contento di vederci tutti riuniti sotto lo stesso tetto.

Mia madre oppose che la convivenza degli sposi prima delle nozze era vietata dalla chiesa. Mio padre sempre titubante fra la ragione e la fede, sempre tenace alle sue idee, e in pari tempo rispettoso alle credenze della moglie, non sapeva a quale partito appigliarsi, e fu necessario di far intervenire l'arcidiacono per sciogliere l'arduo problema. Egli trovò subito un espediente, e disse:

— Non è possibile di allontanare Maria dal vostro tetto dopo che l'avete giustamente adottata per figlia, e non è possibile nemmeno di violare le leggi della chiesa che non permettono la coabitazione degli sposi prima delle nozze. Ebbene, mi pare che sia facilissimo di combinare le cose senza nessun inconveniente, anzi con vantaggio di tutti. Il convalescente con sua madre vada ad abitare al roccolo di Sant'Alipio; nella quiete serena di quel tranquillo rifugio, nel silenzio e nella pace che gli sono ordinate dal medico, la sua vista non sarà turbata dall'aspetto dei croati. Maria resterà con sior Antonio e la Betta, e dopo le nozze o potrete fare una sola famiglia, o la madre tornerà a casa, e la sposa andrà a coabitare collo sposo, nel roccolo.

Tale decisione fu accolta con piacere da tutti; mia madre non domandava che di starmi vicina, per curare a modo suo la mia salute, Maria era felice di aprirmi la sua casa, che doveva portare in dote; e mio padre fu soddisfatto della buona idea di tenermi lontano dal brutto aspetto dei croati che giravano in paese. Tutti furono dunque contenti. Mio padre venne a Belluno, e mia madre appena avvertita del nostro arrivo fu ad incontrarmi a Longarone, ove abbiamo passato il primo giorno all'albergo della Posta. Maria mi aspettava ansiosamente.

Al mattino seguente ci siamo messi in viaggio per tempo. Nell'aria fresca dei monti sentivo l'alito della patria. La Nina ci condusse allegramente come sempre, col suo passo animoso, mandando i soliti nitriti all'avvicinarsi della stalla. Siamo andati a smontare di carrettina a casa nostra. La Betta ci aperse il portone, e quando mi vide si mise a piangere e a ridere nello stesso tempo, e teneva le mani giunte, e gli occhi rivolti al cielo, in atto di ringraziare Iddio pel mio ritorno. Bortolo afferrava Fido pel collare, e lo teneva con ambe le mani, per timore che nell'impeto dell'entusiasmo potesse gettarmi a terra, ma la povera bestia faceva sforzi disperati, e mandava guaiti affannosi, sentendosi contrariata nell'espressione del suo affetto, e voleva saltarmi al collo, accarezzarmi, e lambirmi le mani; e poi urlava, perchè la gioia eccessiva rassomiglia al dolore, non solo nell'uomo, ma anche negli animali suoi amici. Abbracciai tutti teneramente, sorpreso di non vedere Maria, la quale credendo che si andasse a smontare al roccolo, stava ad aspettarmi per fare gli onori di casa. Mia madre ed io siamo corsi subito a raggiungerla, e mio padre rimase in casa a sbrigare gli affari più urgenti, che si erano accumulati per la sua lunga assenza.

Ah! Michele! quali sensazioni ho provate in quel giorno!... — e qui tremava la voce a Tiziano, a tal punto, che dovette sospendere il racconto per qualche momento. Finalmente continuò: in piazza di Pieve sventolava la bandiera gialla e nera, con l'aborrito acquilotto bicipide. I croati facevano la guardia. Passammo oltre rapidamente. Io mi appoggiava al braccio di mia madre, e con un bastoncello nell'altra mano reggevo i miei passi. Entrammo nel boschetto dei larici dalla porticina che era aperta, ed eccoci davanti la casa di legno, ove Maria ci aspettava tutta vestita di nero per la morte di suo padre. Quando mi scorse, essa mandò un grido e si precipitò nel mio seno; mia madre ci gettò le braccia al collo, ci strinse insieme, e così restammo qualche tempo, senza poter proferire una sola parola. Poi mi presero una per parte, e sostenendomi con ogni cura mi introdussero nella loggia.

Un bel mazzo di fiori, bianchi e rossi, circondati da verdi foglie stava sul tavolo davanti al canapè, per farmi vedere che il nostro nido s'era conservato italiano, senza macchia e senza paura.

L'aspetto dei noti monti, quell'orizzonte che mi richiamava alla mente tante memorie, quelle piante, quelle esalazioni della terra, quei profumi... e la mancanza d'Isidoro, mi penetrarono il cuore di tante emozioni, che io proruppi in dirotto pianto.

Maria si gettò in ginocchio ai miei piedi e pianse con me, mia madre voleva consolarci, e pianse con noi. Fu un'ora d'amara tenerezza e di dolorosi compianti.

Alfine le due donne mi sedettero da presso, e si cominciò a rammentare la lunga serie dei nostri dolori, ai quali non era possibile nemmeno di aprire uno spiraglio alla speranza, tanto eravamo circondati da luttuose ambascie, e da pungenti sventure!...

Sulla sera mio padre venne a prendere Maria, ed io presi possesso, con mia madre, della tranquilla dimora.

Al mattino seguente mi alzai per tempo, ed uscii a respirare le brezze dei miei monti, recandomi in devoto pellegrinaggio al santuario del mio amore, al verde nido di Montericco, ove sedetti lungamente solitario, pensando al passato e all'adorata fanciulla.

Colà mi sorprese mia madre portandomi una scodella di latte appena munto, che mi parve concentrasse tutti gli aromi delle nostre Alpi, tutto il miele dei nostri fiori.

Dopo di averla assicurata che mi sentivo bene, le chiesi di Maria e mi promise che sarebbe venuta ogni giorno a passare alcune ore con noi. Tale notizia mi riempì di gioia, e mi fece conoscere come, il nido di Sant'Alipio, sarebbe sempre il mio paradiso terrestre... anche mentre ci stava intorno l'inferno.

Andai vagando lentamente nell'ameno ricinto, esaminando ogni albero, ogni arbusto, ogni erba, ogni viale, a me tanto cari per sante memorie, e alzando gli occhi mi si affacciava allo sguardo quell'incantevole panorama che fu il fondo pittoresco di tutte le scene della mia giovinezza, dei giuochi, dell'amicizia, delle congiure... e del più tenero amore!...

Povero Isidoro, quest'oasi che fu il pacifico rifugio della tua vita modesta, ti faceva rivivere e palpitare nel mio cuore, ed io ti vedevo, come un'ombra, fra quel caos d'erbe, di fiori, di alberi, e di viali. Mi sembrava d'averti parlato poco prima mentre stavi attento a fare un'innesto, o salivi la scala a mano per potare i fruttai, o per distruggere i bruchi; e mi pareva di udire la tua voce, quando seduto sullo scoglio in fondo al terreno, ti burlavi dell'aquilotto, fumando pacificamente la pipa, con Turco sdraiato ai tuoi piedi.

Maria mi comparve davanti, come una divina apparizione, mentre andavo divagando fra i miei sogni, e non mi raccapezzavo bene se fosse illusione o realtà. Rimasi lungamente a contemplarla in silenzio, in un estasi di ammirazione.

«Che cosa hai che mi guardi così?...» mi chiese in aria sospettosa.

«Mi sembri sempre più bella!...» le risposi, «ed io così accasciato non mi trovo più degno di te!...»

«È tutto il contrario» essa mi osservò «le tue sofferenze ti circondano d'un'aureola che ti rende superiore ad ogni altro uomo. Ora che al mio amore si aggiunse l'ammirazione pel tuo eroismo, tu sei per me il tipo più perfetto che abbia sognato sulla terra!...»

Allora mi rammentai il suo entusiasmo per Calvi, la sua attrattiva per la gloria militare... le strinsi la mano con effusione di cuore... mi trovai ampiamente ricompensato dei patimenti sofferti.... mi parve d'essere più grande, e più degno di lei.

Appoggiato al suo braccio, ci avviammo al nostro nido, ove cacciate le mani ne' suoi bruni capelli la baciai sulla bocca... e vidi il cielo risplendere d'una luce divina.

Più tardi mia madre ci raggiunse, e si parlò lungamente di mille cose, ed io raccontando a Maria le affettuose accoglienze di Fido le chiesi dove fosse il vecchio Turco, il nostro compagno di caccia, l'amico fedele e inseparabile di Isidoro.

Maria congiungendo le mani in atto di pietà, mi disse:

«Tuo padre non ti ha dunque raccontato la sua storia?...»

«No, le risposi, egli evitava di narrarmi tutto ciò che poteva commovermi; ora che sono più forte, parla pure senza paura.»

Allora essa mi raccontò coi più minuti particolari la storia di Turco, che tu devi conoscere.

— Io l'ignoro completamente, non essendomi trovato col povero Isidoro al momento fatale della sua morte.

— Eccoti il fatto in poche parole. Sai che Turco voleva sempre seguire il suo padrone, ma siccome egli intendeva la parola, ed era obbediente e disciplinato come un eccellente soldato, così bastava un cenno del padrone perchè egli andasse a cuccia senza esitare.

Nell'ultima sua partenza da casa il cane si rifiutava ostinatamente di ubbidirlo, e voleva seguirlo per forza. Non c'erano nè comandi, nè minaccie che potessero farlo rientrare. Fu d'uopo che Isidoro lo conducesse per mano, e lo chiudesse in camera. Ma Isidoro non era due chilometri lontano da casa, che voltandosi indietro vide Turco che seguiva tranquillamente il drappello dei militi, colla coda bassa, umile, avvilito di dispiacere al padrone ma trascinato a seguirlo da una forza irresistibile.

Isidoro gli andò incontro, e quando gli fu vicino, stese la destra verso Pieve, gli fece cenno imperioso di ritornare sulla sua strada, dicendogli: — Va subito a casa... Turco a casa subito... ma subito. — Il cane si gettò a terra colle gambe in aria in atto di domandare pietà.

Isidoro era buono, amava Turco come un amico, e vedendo che il cane non cedeva, cedette lui, sorrise, gli perdonò quella strana insistenza, e facendogli segno d'alzarsi gli disse: — Vuoi assistere per forza anche ad una caccia ai croati, ebbene la vedrai.... è meno bella di quella degli uccelli.

Il cane lieto del perdono ottenuto accompagnò costantemente il padrone... e dopo la fatale giornata fu trovato sulla sera che lambiva la fronte del cadavere, ove era passata la palla che lo avea colpito. E quando portarono Isidoro al cimitero, Turco seguì mestamente la popolazione che accompagnava la bara, si coricò sul tumulo che copriva il padrone, nè fu più possibile a nessuno di ritirarlo, nè di fargli prendere qualche alimento, e dopo alcuni giorni morì al suo posto, di dolore, e di fame... fedele oltre la morte!... —

Dopo il racconto di questo episodio, i due amici rimasero lungamente in silenzio, pensando certamente al soldato morto per la patria, al cane morto pel padrone, e a quei tanti misteri che nessuno sa spiegarsi, e a quelle fantastiche spiegazioni che non si osa nè ammettere, nè confutare. E infatti davanti a tante cose che non si comprendono il silenzio è più ragionevole delle ciarle.

Michele, curioso di conoscere la fine della storia dell'amico, lo pregò di riprendere il suo racconto, ed egli continuò:

— La solitudine con Maria... altro io non avrei desiderato al roccolo di Sant'Alipio, ma non poteva rifiutarmi di ricevere le persone che venivano a farmi visita, e a congratularsi della mia ricuperata salute, perchè stavo sempre meglio, e le cure della mia buona madre, e la cara compagnia di Maria, e l'aria pura delle mie montagne mi ridonavano il perduto vigore. L'arcidiacono fu fra i primi a visitarmi; buono e pietoso coi deboli e coi vinti, era dignitoso e severo coi superbi e coi vincitori, egli mi provò colla sua condotta che un prete può essere buon cristiano e buon patriotta ad un tempo. Non sono che i preti sciocchi, e gli ambiziosi, che non sappiano mettere insieme due cose che non possono andar disgiunte — Dio e la patria. Una visita seccante e noiosa fu quella del Consigliere imperiale, che ho dovuto subire per non contrariare mio padre, il quale mi diceva che anche le banderuole sono buone a qualche cosa, non fosse altro che per sapere che vento spira. E il vento spirava terribilmente da tramontana, perchè il consigliere, mostrandomisi dolente della delusione del Cadore, mi assicurava che l'Austria non avrebbe mai a nessun patto cedute le nostre provincie, che giudicava indispensabili alla sicurezza della Germania. Al che io gli rispondeva tranquillamente che questo era un assurdo, e che se un giorno l'Italia diventasse più forte dell'Austria, sarebbe al pari censurabile se pretendesse occupare alcune provincie della Germania per la sicurezza d'Italia. — Io penso, gli dicevo, che ciascheduno ha diritto di essere padrone in casa propria, e nessuno in casa altrui — ed egli mi rispondeva — Questo va bene in teoria!... ma in pratica ogni nazione ha un piede fuori di casa, — ed io conchiudeva — bisogna dunque esser forti per esser liberi, e se tutti avessero fatto come il Cadore, l'Italia si sarebbe liberata per sempre degli stranieri.

Ed ecco la politica che ritornava a martellarmi col ritorno della salute; e appena mi sentii la forza di reggere la spada, mi tornò il desiderio di alzarla contro i nostri invasori.

Nelle ore tranquille io andavo frugando fra i libri di Isidoro per trovare qualche cosa da leggere. La sua piccola libreria non era composta che di opere d'agricoltura, di botanica, di storia naturale, e dei migliori poeti. Egli amava la natura, ne penetrava i misteri, ne ammirava il bello, studiava le virtù delle piante; e godeva di sentire le idee che erano state ispirate dalla bellezza di un fiore. Passava volentieri dalla scienza alla poesia. Egli leggeva o per imparare qualche cosa di pratica utilità, o per sollevare lo spirito al di sopra delle umane miserie. Scartabellando quei volumi leggichiavo qua e là per passatempo, e mi arrestavo a guardare le vignette. Una mattina mi cadde in mano una bella edizione del Tasso, l'apersi a caso e caddi sul canto XVI che lessi tutto d'un fiato da capo a fondo. Dopo uscito dal Seminario non avevo più letto la Gerusalemme liberata, e mi parve assai bella e tanto più meravigliosa in quanto il mio caso rassomiglia in qualche parte al caso di Rinaldo. Anch'io viveva in un giardino incantato, inebbriato d'amore, mentre altrove ferveva la guerra e si decidevano le sorti della patria.

Rimasi tutto quel giorno pensoso ed umiliato, e passando davanti uno specchio che pendeva dal muro della mia camera, mi arrestai a guardarmi. Il mio viso era ritornato fresco e rubizzo, e ne ebbi vergogna come Rinaldo davanti lo scudo adamantino d'Ubaldo; e

«Qual uom da cupo e grave sonno oppresso

Dopo vaneggiar lungo in sè riviene,

Tale io tornai nel rimirar me stesso....

e parlai a Maria della mia vergogna, dell'impulso che mi spingeva a raggiungere i miei amici, che oltre l'amore di patria e di libertà, mi sentivo anche animato dal desiderio di vendicare suo padre.

Alla prima impressione, questo nuovo colpo inaspettato le riuscì assai doloroso. Essa doveva dunque perdermi nuovamente, ritornare alla squallida solitudine, oppressa dal continuo timore di sapere la mia vita esposta a mille pericoli.... Doveva dunque mettere in dubbio l'avvenire?... e la nostra felicità!....

Doveva piangere nuovamente con una madre desolata, con un padre continuamente oppresso dal timore di perdere l'unico figlio!.... no, essa non si sentiva più la forza di ricominciare quella vita di ansietà, di tormenti, di affanni, di perdite disperate! Io aveva fatto il mio dovere, essa diceva, avevo pagato il mio tributo di sangue alla patria... essa aveva perduto il padre... non intendeva di perdere anche lo sposo... nessuno poteva esigere da una sola persona tali sacrifici... essa aveva diritto di vivere... e la mia morte sarebbe stata anche la sua... e forse anche quella dei miei genitori!....

Io le risposi tranquillamente:

— Tu ami dunque meglio diventare la moglie d'un vile... e vedere l'Italia oppressa dagli stranieri?... perchè se tutte le donne pensassero così, l'indipendenza italiana sarebbe spacciata per sempre!.... Pensa alla vita obbrobriosa ed umiliante che ci aspetta sotto al dominio straniero, pensa alla vergogna degli italiani... ridivenuti gli schiavi dei tedeschi!... essi ci faranno le leggi, e prenderanno i nostri figli per farne dei soldati obbligati di combattere contro la patria... e contro la libertà degli altri popoli!...

Maria, alzando gli occhi al cielo, soggiungeva:

— Hai ragione!... sono osservazioni giustissime!... ma tu non puoi uccidere tua madre... tuo padre... la tua sposa... per salvare la patria!... anche questo è contro natura!... e se tu dovessi morire, è sicuro che moriremmo tutti!... non si sopravvive a due di questi colpi... quando non si è ancora guariti del primo!... pensa all'avvenire e decidi...

— L'avvenire è in mano di Dio!... — io le risposi. — La morte è sempre preferibile al disonore. E poi non tutti i soldati muoiono alla guerra!.... Tu desideri che passino almeno sei mesi dopo la morte di tuo padre per darmi la mano di sposa. Io ti comprendo e ti approvo; ma intanto che posso io fare onoratamente qui in Pieve, solo di tutti i giovani della mia età, mentre i miei amici sono a Venezia, sotto la nostra bandiera, a sostenere l'onore e il diritto d'Italia.... Posso io rimanere qui ozioso, infingardo, senza arrossire, mentre tutti i miei comilitoni hanno ripreso le armi?!...

Essa mi rispondeva piangendo, e non avendo buone ragioni da oppormi, aveva lagrime che mi scendevano al cuore, e mi toglievano il coraggio.

Con tali lotte che amareggiavano la nostra vita, abbiamo passati alcuni giorni; la mia famiglia cominciava insensibilmente ad abituarsi a questa idea di nuove prove, alle quali mi vedeva risoluto; e se non poteva convincersi di questa necessità, sentiva di doversi rassegnare alla sorte. Mia madre dapprima si mostrò disperata, mio padre andò in collera, dicendo che io non finiva, più, che ero troppo fanatico, che ero un egoista, che non pensavo mai a lui, che egli era vecchio, stanco, sfinito, che aveva bisogno della mia assistenza. Io lasciavo passare tutte queste burrasche, rispondendo con poche parole, e talora pungenti, che facevano breccia.

La notizia giuntaci da Venezia della creazione dei Cacciatori delle Alpi mi decise intieramente, e alfine tutti dovettero piegarsi alla mia volontà di partire.

Bortolo che aveva riprese con piacere le sue occupazioni pacifiche, e si sentiva poco disposto a ritornare alle fatiche ed ai pericoli della guerra, si mostrò esitante nelle nostre dispute di famiglia, ma quando mi vide risoluto ad accorrere a Venezia cogli altri, provò qualche vergogna delle sue incertezze, e si dimostrò deciso ad accompagnarmi. La Betta si opponeva con tenace resistenza, e diceva a suo figlio: «Ti proibisco di allontanarti da Pieve, sei figlio di madre vedova, e devi sostenere la mia vecchiaia.» Questa opposizione lo pungeva, ed egli le osservava che la sua vecchiaia non aveva bisogno di aiuti, perchè i suoi buoni padroni non la avrebbero mai abbandonata.

Quando mi vide fare seriamente gli apparecchi per la partenza, mi dichiarò apertamente che mi avrebbe seguito, e che niente avrebbe potuto arrestarlo.

La Betta rinnovò con maggior energia la sua proibizione, dicendogli severamente: — Tu devi obbedire tua madre!... — Si, sempre!... egli le rispose, meno quando mi ordina di non fare il mio dovere!...

Alfine tutti dovettero cedere, e furono ammirabili in questo nuovo e doloroso sacrifizio! Decisa la mia partenza, i miei stessi genitori desiderarono che Bortolo mi accompagnasse, e così anche la Betta dovette rassegnarsi.

Io mi credeva il più forte di tutti, ma all'ultimo momento mi mancò ogni coraggio, e sentii profondamente il dolore della separazione di quanto aveva di più caro sulla terra!...

Si scambiarono molti baci, cogli occhi velati dalle lagrime, colla voce soffocata dall'emozione. L'addio della partenza fu una lacerazione violenta, e straziante. Uscii di casa che non vedevo più nulla. Udii un grido disperato, un singhiozzo angoscioso al quale risposero altri singhiozzi....

Bortolo mi aiutò a salire in carrettina, mi si sedette vicino... e si trottava verso Tai che ancora l'interna lotta sconvolgeva i miei pensieri in un caos, e gli oggetti esterni mi passavano davanti confusi, come nell'ambiente vaporoso di un sogno.

Il vecchio Anselmo guidava la Nina, e così tutti i vecchi del Cadore ritornavano dalla giubilazione al servizio attivo, perchè i giovani erano tutti scomparsi.

Prima di uscire dalla Valle di Pieve ci rivolgemmo entrambi un'ultima volta a salutare il paese ed io sentiva un vuoto profondo dentro di me. Il mio cuore era restato al roccolo di Sant'Alipio; e pensavo che forse non avrei veduto mai più il nido di Montericco!...

Quando siamo discesi a Perarolo, la gente che ci vedeva passare ci salutava cordialmente con un sorriso amichevole ed un cenno del capo che era una manifesta approvazione alla nostra partenza. C'intendevamo senza parlare; tutti indovinavano che si andava a riprendere le armi, e ad offrire il nostro sangue per la liberazione della patria.

Anche a Longarone non c'erano più giovani, e i vecchi patriotti ci stringevano la mano con affezione dicendoci: — Bravi... bravi... fate buon viaggio... e felice ritorno....

Queste dimostrazioni cortesi ci infondevano il coraggio che avevamo perduto al momento della partenza, e siamo giunti a Serravalle tranquilli e soddisfatti d'aver seguita la via dell'onore, ove la bandiera italiana raccoglieva nuovamente gl'intrepidi difensori del Cadore.

È inutile che ti racconti tutti i giri e raggiri che abbiamo dovuto fare, per deludere l'attiva sorveglianza degli austriaci, ma in questa lotta fra la vigilanza e l'astuzia siamo riusciti vincitori... ed eccoci da poche ore a Venezia. —

Finito il racconto di Tiziano, Michele aveva ancora molte curiosità da soddisfare, per cui le ciarle continuarono un bel pezzo, e si convenne sul modo di vivere insieme, e su quanto era da farsi. Poi i due giovani si recarono da Calvi, e presero con lui gli opportuni concerti. E quando Calvi stringeva la mano di un cadorino pareva che rivedesse un fratello.

Il giorno seguente Bortolo veniva arruolato nei Cacciatori delle Alpi, ed entrava in caserma ove trovava gli antichi commilitoni; e Tiziano ripreso il suo grado di ufficiale si alloggiava in una stanza vicina a quella di Michele, e prendeva conoscenza alla sua volta, della vita che il suo amico conduceva a Venezia.

XIII.

Non erano le sole imprese guerresche che tenessero occupato Michele, il quale divideva le sue occupazioni fra la difesa dei forti, e l'assedio di una terrazza. Le milizie alternavano i giorni di servizio con quelli di riposo, e così il suo tempo si trovava diviso fra le ore nelle quali arrischiava la vita e quelle che impiegava per consolarla.

S'era trovato un alloggio all'ultimo piano d'una vecchia casa, per combinare l'economia col bisogno d'aria e di sole, e di là poteva vedere la laguna sopra i tetti delle case, e respirare l'aria pura ad un'altezza che gli rammentava le montagne. Per giungere a tale dimora, partendo da piazza San Marco, era necessario di percorrere mezza Venezia; introducendosi in calli storte ed anguste sotto alte case passare per sotto portici e viottoli misteriosi, attraversare rivi e canali tortuosi, sopra ponti in isbieco da dove si vedevano case rientranti e sporgenti, poggiuoli di ferro e di marmo, balconi gotici, marmi orientali e mattoni scalcinati, come le quinte d'un teatro, che devono servire a varie rappresentazioni, e che si trovano miste e confuse fra loro. E tutto questo ammasso di fabbriche, palazzi, casipole e catapecchie sorgeva dall'acqua nel buio, si alzava a varie altezze, e nei piani più elevati un bel raggio di sole sbatteva i muri a sghimbescio, illuminando abbaini, loggie, e camini a cono tronco rovesciato.

Si entrava nella sua casa per un andito tenebroso, verdognolo per vegetazioni muscose prodotte dall'umidità permanente, e dalla luce assente, e si saliva per una scala tortuosa, che non finiva mai, fino che giunti all'ultimo piano, e aperta la porta della camera, si entrava in un'onda di luce che penetrava da due larghe finestre sempre spalancate, dalle quali si vedeva da lontano, sopra i tetti, un ampio spazio turchino di laguna, a macchie gialle prodotte dai bassi fondi, solcato da battelli e barche di pescatori, con qualche gondola raminga, e qualche vela riflessa nelle onde.

Era un orizzonte infinito come in cima d'un campanile.

La casa dirimpetto, più bassa della sua, finiva con due camerette a piccoli balconi ed era fiancheggiata da una di quelle terrazze che a Venezia si chiamano altane.

Michele alla finestra contemplava estatico l'ampio panorama che gli si stendeva davanti, e fumava in una pipa turca. Un giorno che stava meditando sulle tristezze della vita solitaria, una vezzosa apparizione attirò i suoi sguardi all'altana.

Una bella ragazza, di forme snelle, si mise a stendere il bucato sopra le cordicelle appese alle pertiche fissate negli angoli, cantando una canzonetta veneziana con voce melodiosa, che armonizzava perfettamente coi delicati lineamenti d'un pallido viso, illuminato da due grandi occhi vivaci che brillavano sotto una fronte serena incoronata da morbide treccie di capelli castani.

Allora era l'epoca della fratellanza universale alimentata da curiosità, da speranze, da timori comuni, nella quale tutti si parlavano senza conoscersi, e colle reciproche confidenze in pochi istanti si stabiliva l'intimità. Michele salutò la fanciulla che cortesemente rispose, dapprima scambiarono qualche parola insignificante, ma a poco a poco acquistarono confidenza e s'intrattennero a parlare degli affari del giorno. Essa era lieta di poter aver notizie della guerra da un Cacciatore delle Alpi, ed egli era felice di poter conversare con una graziosa vicina e riposare gli occhi sopra un bel viso giovanile, che rasserenava il suo spirito.

Lo sguardo della donna è sprone alla gloria, nè si potrebbero comprendere le giostre dei tempi cavallereschi senza la presenza incoraggiante delle dame che assistevano ai combattimenti, e ricompensavano i prodi vincitori. Quella modesta altana, sorgente sopra un povero tetto, in un angolo romito di Venezia, esercitava la sua influenza elettrica su tutti i forti della città, nei quali Michele portava successivamente gli ardori accesi dalle scintille di due begli occhi. Gli occhi di Maria avevano fatto di Tiziano un eroe delle Alpi, gli occhi della bella veneziana facevano di Michele un eroe della laguna. Come le immagini che si venerano sugli altari possono rappresentare la divinità, così il volto d'una donna, può personificare la patria, e Michele sentiva da lontano quello sguardo che gl'infondeva audacia davanti il nemico, e lo rendeva più risoluto in faccia al pericolo. E quasi tutti quei giovani soldati erano legati da quei fili invisibili che facevano balzare i loro cuori di ardente entusiasmo per Venezia, che riassumeva tante attrattive e tante passioni personificando la bellezza, l'amore, la patria.

Nei forti di Marghera, di Brondolo e di Chioggia, si lottava non solo colle artiglierie austriache, ma ancora colle insidie d'un nemico nascosto fra le canne palustri, e le acque stagnanti, che infondeva nelle membra dei combattenti la squallida febbre. E quando Michele ritornava sfinito dalle fatiche e dai pericoli della difesa, un bel sorriso lo attendeva dirimpetto ai suoi balconi, e gli pareva che quella ragazza con uno sguardo riconoscente lo ricompensasse di tutte le pene.

Il blocco chiudeva la città per terra e per mare, i viveri cresciuti di prezzo rendevano assai cara la vita, ma nessuno si lamentava, e tutti cercavano di ingegnarsi per non aggravare le tristi condizioni con vane recriminazioni. Michele vedeva ogni notte un lumicino che ardeva nella povera cameretta dirimpetto, e la fanciulla dell'altana che lavorava assiduamente fino ad ora avanzata. Ammirando quella vita laboriosa, ne prese vivo interesse, e afferrata ogni occasione d'interrogarla non tardò molto a conoscere il nome, e la semplice storia della sua bella vicina.

La Gigia era una povera e onesta fanciulla. Rimasta orfana ancora bambina, era stata allevata e custodita dalla nonna che le aveva insegnato il suo mestiere di cucitrice.

La nonna era una vispa vecchietta, che apparteneva all'ultima generazione della repubblica, nella quale aveva vissuto allegramente nella prima gioventù, e rimpiangeva sempre quei bei tempi color di rosa, deplorando tutti i mali successivi come se fossero i soli frutti del secolo presente, e le naturali conseguenze del governo straniero che detestava a suo modo, cioè burlandosi dei tedeschi, della loro dabbenaggine e spilorceria che, messa a confronto col fasto e le pompe dei nobili del suo tempo, le pareva una vera miseria. Colpita dagli acciacchi della vecchiaia, che attribuiva in gran parte all'influenza dei tempi, conservava tuttavia il suo umore brioso, e raccontava piacevolmente le balordaggini attribuite ai tedeschi, sempre disprezzati dal popolo veneziano che li trattava da bambocci, non ignorando che erano entrati in Venezia non per merito di vittorie, ma per semplice effetto d'un trattato diplomatico, stipulato dall'Austria con Buonaparte traditore della repubblica. Fino l'ultima plebe di Venezia sentiva un certo orgoglio delle cadute grandezze dell'antico governo di San Marco, e calcolava che i tedeschi non conservassero il dominio che per la sola forza materiale prevalente, caduta per sorpresa, come un peso morto sulle spalle del leone, il quale appena aveva potuto muoversi se n'era liberato. E per tali idee il popolino Veneziano trattava i dominatori colla superiorità del disprezzo, dava del tu a tutti i soldati, si burlava della loro bonarietà, pareva sentisse che i suoi quattordici secoli d'indipendenza e di grandezza, gli dessero i diritti dei vecchi sui bimbi. La nonna Giovanna era stata moglie d'un marinaio della repubblica, di quelli che avevano accompagnato Angelo Emo sulle coste dell'Africa, e nell'ultima spedizione di Tunisi, e avvezza fino dall'infanzia ad ammirare la destrezza dei marinai veneziani nel maneggio del loro mestiere, si sbellicava dalle risa quando vedeva dei soldati tedeschi imbarazzati a condurre una barca di pagnotte nei canali, ove ingarbugliavano i remi dentro o sotto le altre barche, con pericolo di cadere in acqua, e il gondoliere che passava rapidamente, tenendosi ritto sulla gondola leggiera, li trattava da ragazzi principianti, e li canzonava, dicendo loro in aria di protezione: — «Andè a casa putei, che no i xe afari per vualtri!»

Divenuta vecchia la Giovanna doveva lavorar cogli occhiali, il lume della lucerna le indeboliva gli occhi sempre più, e la Gigia la mandava a letto per tempo, e lavorava soletta fino che il sonno le faceva cader la testa sul lavoro, ma non voleva che la povera nonna avesse a mancare di nulla.

— Quella sarebbe una donnetta per me!... pensava Michele, se dopo la guerra potessi stabilirmi a Venezia, a fare l'avvocato, perchè non sarebbe mai possibile di condurre quella colomba nella tana dell'orso; — chè con tal nome chiamava sempre suo zio.

E con tali idee si diportava colla fanciulla da vero galantuomo, senza dichiarazioni avventate e fuori di tempo, procurando di meritare la sua fiducia, e la sua amicizia, e di entrare nelle buone grazie della nonna, il che non era tanto difficile per un difensore di Venezia, — bastava che si mostrasse sempre pronto a respingere i tedeschi, e fosse di buon umore, e ben disposto a riconoscere che Venezia era la più bella città del mondo, e il governo della repubblica, il migliore dei governi.

Appena Tiziano prese possesso della camera vicina, Michele lo presentò alle sue nuove conoscenze, come un compatriotta, che quantunque fatto sposo d'una buona e brava ragazza tuttavia arrischiava la vita per la patria pensando che il dovere del buon cittadino deve passare prima di tutto.

Gigia ammirò la virtù del nuovo vicino, lo osservò col più vivo interesse, raccontò alla nonna la condizione del giovane....

— Deve essere un bravo figliuolo, rispose la nonna, non dico che il signor Michele sia da meno di lui... ma talvolta ha dei tiri da matto.

La Gigia ridendo raccontò a Michele il giudizio della nonna, ed egli le rispose:

— La nonna va perfettamente d'accordo con mio zio orso, e a guerra finita procureremo di combinare il loro matrimonio, così io ci guadagnerò una bella cuginetta.... e ridevano di cuore.

Quelle buone donne s'erano fatta una dolce abitudine della conversazione dei vicini, cosicchè se mancavano un giorno di presentarsi alla finestra, era per loro una vera privazione, e per godere più spesso della lieta compagnia, li invitarono a salire alla loro dimora. Michele ne fu felice, e la relazione assunse il carattere d'una amichevole intimità, soddisfacente per tutti quattro. I giovani salivano allegramente quelle scale, e passavano qualche ora in vivace conversazione, le donne intente al lavoro, i due ufficiali occupati a raccontare le vicende dell'assedio.

Quando i due amici erano liberi entrambi ci andavano insieme, quando uno era di guardia l'altro andava solo. Però in mezzo ai lieti conversari c'era sempre un grave pensiero dominante da parte delle donne — il pericolo al quale erano esposti quei bravi giovani.

Venezia abbandonata da tutti si difendeva eroicamente. Le batterie nemiche fulminavano le fortificazioni, ove i soldati dovevano rimanere al loro posto per dodici ore continue. Quando tuonavano le artiglierie dai tre forti di San Secondo, Sant'Antonio, e San Giuliano, il popolo veneziano diceva che i tre santi erano in baruffa.... e la baruffa fu lunga e tremenda. Quando Michele raccontava le scene di lutto che erano avvenute sotto ai suoi occhi, le donne impallidivano, e sospendevano il lavoro assorte in dolorosi pensieri. Egli non parlava che di feriti, di morti, di rovine. Quando Michele era di guardia, Tiziano solo andava a visitare le vicine, e allora la Gigia gli domandava mille cose di Maria, e il giovanotto le narrava i suoi amori descrivendole il roccolo di Sant'Alipio, e il nido di Montericco. Egli si teneva in continua corrispondenza colla famiglia e con Maria per mezzo di Giacomo Croda che faceva il contrabbando, e introduceva a Venezia ogni sorta d'oggetti specialmente di provianda, sfuggendo con rara destrezza alla severa sorveglianza del blocco.

Bortolo faceva il suo dovere come soldato, e quando non era di servizio e poteva uscire dalla caserma andava a zonzo per Venezia, il naso in aria e le mani in saccoccia, arrestandosi a bocca aperta davanti i monumenti e le chiese, e soffermandosi ad esaminare attentamente le mostre delle botteghe, guardando dagli orefici se vi fossero degli orecchini di filigrana non troppo cari, e pensando che prima di ritornare in Cadore li avrebbe comperati per regalare a sua madre un bel ricordo. Girando per la città aveva anche incontrato dei compatriotti, e rinnovate delle conoscenze cogli offellieri cadorini di San Vito e di Borca stabiliti a Venezia, e coi venditori di zaleti (pane di granoturco), coi fabbricanti di storti (cialdoni) e di panna montata, e nelle ore perdute andava ad aiutare un suo compatriotta a maneggiare la pasta, in un'offelleria, e raccoglieva in quei negozi le ciarle, i pettegolezzi e le notizie politiche popolari, che poi andava a comunicare al suo padrone ed a Michele. Ma nei primi tempi della sua dimora, ogni volta che voleva recarsi a trovarli in casa si smarriva per via, e faceva doppia strada, non sapendo raccapezzarsi in quel complicato labirinto di calli, ponti, vicoli, rivi e canali che lo mettevano nell'imbarazzo, e non volendo chiedere l'indirizzo per trovarlo da sè, giungeva ansante e trafelato, lamentandosi delle vie troppo strette, delle case troppo alte, dei canali infetti, e rimpiangendo le sue montagne, le case basse, l'odore del fieno, e la Nina.

Cercavano di consolarlo, gli facevano raccontare quelle notizie che li metteva di buon umore per la ingenua stranezza. Un giorno egli annunziava il prossimo arrivo di centomila ungheresi, che sbaragliato l'esercito austriaco accorrevano a liberare Venezia; un altro giorno era la flotta Sarda che si avvicinava, o i francesi che scendevano le Alpi accorrendo in aiuto dell'Italia.... E siccome non mancava mai di accorrere in piazza ad ogni annunzio di pubblica solennità, così aveva sempre qualche cosa da descrivere, dimostrazioni, attruppamenti, fischi ed applausi, annunzi di trionfi di vittorie o di tradimenti che circolavano nella folla.

E s'ingarbugliava nella narrazione di tante cose, mescolando le grandi colle piccole, e non sapendo render ragione di nulla. Manin, Pio IX, San Marco, la repubblica, Carlo Alberto e Mazzini si confondevano nella sua ammirazione, colla solenne inaugurazione del caffè Bassi e del caffè Gavazzi, che avevano preso i nomi dei due frati patriotti per attirare la gente allo spaccio. E non poteva perdonare agli italiani delle altre regioni di ritardare la liberazione di Venezia, lasciandola tanti mesi senza soccorsi e senza viveri, in mezzo a tutta quell'acqua, ove c'era da marcire.

Talvolta lo mandavano dalla Gigia con qualche prodotto delle fabbriche Cadorine, scelto da lui nelle pasticcierie dove prestava i suoi servigi, e quando la ragazza rosicchiava i croccantini facendone l'elogio, Bortolo vantava il mestiere de' suoi compatriotti, esperti pasticcieri, spiegava i segreti di quelle ghiotte manipolazioni, e li giustificava di non poter far meglio, perchè cominciavano a mancare molti ingredienti, divenuti irreperibili a motivo del blocco.

— E se non fosse Giacomo Croda, egli diceva, la sarebbe finita per gli offellieri; perchè....

— Perchè?.. domandava la Gigia.

— Perchè mancavano gli ovi... e le galline... i tedeschi non lasciano passar nulla, e non ci mandano che palle di tutti i calibri... che romperebbero gli ovi... se ce ne fossero... ma....

— Ma ce ne sono pochi, diceva la Gigia.

— Quelli soli che Giacomo Croda fa passare in faccia ai cannoni tedeschi, e sotto le fucilate... senza romperne mai uno!...

La nonna rideva allegramente della dabbenaggine dei croati, che con tutte le loro artiglierie non sapevano rompere le uova nel paniere del bravo cadorino, che le portava felicemente a Venezia.

Ed alla sera nella conversazione coi giovani ufficiali Bortolo diventava il protagonista della commedia, e si raccontavano ridendo le espressioni della sua ingenuità; ma dopo tutto non mancava di qualche merito che lo rendeva stimabile. Era onesto e fedele, ed offriva il suo sangue alla patria, non chiedendo altro compenso che di vederla liberata dagli stranieri.

E ce n'erano tanti di quei bravi giovani, pronti ad ogni sacrifizio con abnegazione personale completa. Ed ogni regione d'Italia ammirava la resistenza di Venezia agli stranieri, senza darsi pensiero della forma di governo che aveva scelto. In quel tempo Gioberti ministro della monarchia scriveva a Manin dittatore della repubblica, annunziandogli in questi termini la prossima spedizione d'un sussidio: — «Siate persuaso che il Piemonte non cede a nessuno in zelo ed in ardente simpatia per l'eroica Venezia; nello stesso modo che Venezia è oggi al disopra di tutte le città d'Italia e dell'Europa per la grandezza della sua virtù civile, è al primo rango nell'affezione e nell'ammirazione degli uomini!»

Dopo la battaglia di Novara il feroce Haynau, grondante del sangue di Brescia, scrisse da Padova al governo di Venezia, che la città non aveva da sperare altro appoggio «alle sue ribelli tendenze» intimando di «cessare una resistenza inutile, e a rimettere la città al suo legittimo sovrano l'augusto imperatore d'Austria.»

Radetzky vincitore del Piemonte venne apposta a Mestre per esortare Venezia alla capitolazione «un ultima volta, coll'olivo in una mano, colla spada nell'altra per infliggere la guerra sino allo sterminio se persistesse nella ribellione.» Venezia impavida si mostrò sempre ripugnante a patteggiare cogli austriaci. Venne convocata l'assemblea, in quel giorno (2 aprile 1849) che resterà memorabile negli annali del risorgimento d'Italia.

Nella magnifica sala storica del palazzo ducale, nella quale si erano radunati i magistrati della repubblica per quattordici secoli indipendente, l'assemblea in solenne silenzio attendeva il dittatore. Egli entrò, salì alla tribuna ed annunziò con semplici parole il disastro di Novara e l'abdicazione del re Carlo Alberto in favore di suo figlio Vittorio Emanuele. Allora ebbe luogo quel dialogo fra Manin e l'assemblea, del quale dice uno storico insigne: «nè più breve nè più grande ricordano altro le storie» (C. Cantù Cronistoria).

— Che volete fare?.... chiese il dittatore.

— Il governo medesimo proponga.

— Volete resistere?

— Sì — fu la risposta unanime.

— Ad ogni costo?

— Ad ogni costo.

— Volete dare poteri illimitati al governo per dirigere la resistenza, per reprimere, ove occorra, quelli che pretendessero impedire che si resista?....

— Noi lo vogliamo — risposero ad una voce.

— Badate che v'imporrò sacrifizi enormi.

— Noi li sosterremo.

E fu votata la seguente deliberazione:

«L'assemblea dei rappresentanti dello Stato di Venezia, in nome di Dio e del popolo unanimamente decreta: Venezia resisterà all'austriaco ad ogni costo. A questo scopo il presidente Manin è investito di poteri illimitati.»

Tale decreto venne mandato in risposta alle intimazioni di Radetzky e di Haynau.

XIV.

Al diritto di natura, al sacro dovere di difendere la patria, gli austriaci non avevano da contrapporre altro che ferro e fuoco, bombe e cannoni, il diritto della forza brutale. L'Europa attonita contemplava con ammirazione i veneziani che difendevano la loro città, un giojello d'arte, un museo di glorie patrie, e guardavano gli aggressori stranieri con orrore e indignazione.... ma non si muoveva. Questa è una seria lezione che deve ammonire i popoli quanto possano contare sull'aiuto dei vicini amici, e sulla giustizia delle nazioni. Altro è giustizia altro politica, altro il singolare, altro il plurale. I tribunali d'ogni stato infliggono pene infamanti ai piccoli usurpatori che si chiamano ladri, ma i governi onorano col titolo di gloriose vittorie le grandi usurpazioni che si chiamano conquiste, ove stranieri senza diritto invadono l'altrui territorio, uccidono, rubano ed usurpano la roba degli altri. La grandezza del furto trasforma il ladro in conquistatore, è vergogna rubare un pane od una lira, è gloria decantata rubare un paese e dei milioni. L'omicidio è punito in tutti gli stati, i massacri delle guerre sono iscritti nella storia a titolo di onore e di trionfo, non di chi aveva ragione, ma di chi ha vinto.... e guai ai vinti!.... E sarà sempre così fino a che il culto della vera giustizia, della morale e della logica non ottengano la sanzione di tutti i popoli, e fino a che l'amore della patria non diventi la religione universale dell'umanità.

Il popolo veneziano plaudente alla resistenza ad ogni costo — perchè la morte è sempre preferibile al dominio straniero — spiegò un immenso vessillo rosso sulla cima del campanile di San Marco, in segno di sfida ai tedeschi, e questo simbolo di libertà indicava alla flotta nemica ed all'esercito assediante, che avrebbero pagato a fiumi di sangue la conquista d'una città decisa a difendersi fino all'estremo. E in segno di adesione ogni veneziano portava un nastro rosso alla bottoniera, che voleva significare — «approvo la resistenza ad ogni costo.»

Così Venezia entrava nella nuova fase della disperata difesa, il ruggito del vecchio leone trasformava la sirena in amazzone, e la bella voluttuosa si rialzava nel sentimento della sua dignità e dell'onore.

Regnava nella città assediata un'attività febbrile. Non potendo vettovagliarsi a motivo del blocco, si contarono i viveri per limitare la parte di ciascheduno; mancavano i mulini, se ne edificarono a vapore, e si allestirono delle macine a mano per uso delle famiglie. Venne fondata una fabbrica di polvere, e seicento cannoni cingevano la città, senza contare quelli della marina, distribuiti sui vari forti della laguna. Radetzky ordinò d'investire la fortezza di Marghera. Il generale Guglielmo Pepe inviò a comandarla il colonnello Girolamo Ulloa, che ridotto il forte all'ultima perfezione ne diresse eroicamente la difesa fino all'ultimo momento. Ogni giorno piovevano le palle come grandine; nel solo 4 maggio l'assediante tirò 7000 colpi, e gli assediati circa 9000. I cannoni veneziani venivano smontati, i parapetti e le palizzate fracassati, i ponti di comunicazione fra i vari centri di difesa bersagliati ed infranti: ma tutto invano; altri cannoni venivano sostituiti agli inservibili, altri soldati ai morti ed ai feriti; di notte si lavorava alacremente per rialzare le opere cadute, e Venezia resisteva eroicamente a quei formidabili attacchi. Un giorno che Michele e Tiziano erano di guardia a Marghera, il comandante Ulloa ordinò una sortita per molestare i lavori d'approccio dell'inimico. Sull'imbrunire, i soldati guidati dai loro ufficiali uscirono da Marghera, e avvicinandosi chetamente agli austriaci, con vicini e spessi tiri, gettarono la confusione e la morte nei loro ranghi. Ma quell'impresa riuscì micidiale per molti, e mentre Michele guidava arditamente all'assalto il suo drappello, venne colpito da una palla che lo gettò a terra fra i morti ed i feriti. E certo sarebbe caduto in mano del nemico senza il pronto soccorso di Tiziano che accorse subito in suo aiuto; e assistito da Bortolo, giunse in tempo a raccoglierlo, e fra le palle che fischiavano da ogni parte, poterono riportarlo a Marghera, in mezzo ai loro compagni che si ritiravano ordinatamente, protetti dall'artiglieria del forte. Fasciata in fretta la ferita, venne subito trasportato a Venezia.

I feriti, i malati di febbri miasmatiche che infierivano dalle paduli, erano cresciuti a tal numero che gli ospitali furono insufficienti per tutti accoglierli e curarli.

Il governo si rivolse alla carità cittadina, e in pochi giorni le offerte di materassi e biancherie furono tante che più di quattromila letti vennero allestiti in vari locali, destinati alle nuove ambulanze. E tale era lo slancio di carità, che vi furono delle povere famiglie che si spogliarono del necessario per concorrere alla fornitura degli ospitali, dicendo che bisognava pensare ai difensori di Venezia prima che a sè stessi. Le donne del popolo, che lavoravano nelle fabbriche del governo, lasciarono spontaneamente il quarto della scarsa mercede giornaliera, come loro offerta, e in ogni famiglia le donne preparavano filacce e bende pei feriti, o raccoglievano denaro per la difesa, o accorrevano negli ospitali in mezzo all'afa nauseante di quelle sale, fra le grida dei mutilati, per soccorrere quegli infelici, curare gl'infermi, e consolare tanti afflitti; vere suore di carità in veste dimessa, perchè avevano donato alla patria tutti i loro ornamenti.

Michele fu ricoverato in una di quelle ambulanze, e quando Tiziano potè recarsi a visitarlo, lo trovò in pessimo stato. Prostrazione completa di forze per abbondante emorragia, minaccia d'infezione e cancrena. Lo vide in grave pericolo, procurò di consolarlo, ed alla sera ne dette il tristo annunzio alla Gigia ed alla nonna, che ne rimasero afflittissime, e piansero amaramente sulla sorte dell'infelice e prode soldato.

Così passò molti giorni fra la vita e la morte, poi cominciò a manifestarsi qualche miglioramento, e i medici vedendo che la ferita prendeva un corso normale, assicurarono i suoi amici, che se nessun male insidioso sorgeva improvvisamente si poteva sperare nella guarigione del ferito, il quale sarebbe in caso di ritornare alla prova, e vendicarsi col nemico dell'offesa ricevuta. Le donne, dapprima grandemente angustiate, si aquietarono alle buone notizie, e Bortolo le fece anche ridere, forzandosi di sostenere che una ferita più lunga a guarire sarebbe stata più vantaggiosa.... perchè i feriti stavano meglio dei morti, ed erano più sicuri di vivere dei sani.... esposti ogni giorno a mille pericoli.

Fra le dame che visitavano regolarmente l'ambulanza, Michele si sentì trascinato ad un'estatica ammirazione per una gentildonna d'imponente bellezza, che accostandosi ogni giorno al suo letto lo consolava con angelico sorriso e modi gentili, mostrando d'interessarsi vivamente alle varie alternative delle sue sofferenze. Ogni mattina egli attendeva quella visita con grande ansietà, la presenza di quella donna gli riusciva benefica, le sue parole gli risuonavano lungamente all'orecchio, lo sguardo gli penetrava nel cuore, il profumo della persona olezzava lungamente intorno al suo letto, anche dopo la sua partenza, gli produceva l'effetto dell'aria imbalsamata dagli effluvi di primavera; e gli penetrava nel cervello inebbriato, riempiendolo di fantasmi e di sogni.

La leggiadria della persona, la soavità dello sguardo, l'armonia di quella voce, il morbido crine biondo come le spighe mature, l'occhio turchino come il cielo, profondo come la laguna, gli facevano credere ad un apparizione divina, della quale conservava gelosamente il segreto, se ne faceva un culto misterioso, adorando in silenzio quell'immagine, della quale presentiva tutte le delizie del paradiso.

Questa bellissima gentildonna si chiamava Marina Steno, ed all'incesso maestoso, all'antica nobiltà dei lineamenti, s'indovinava il sangue ducale che scorreva nelle sue vene.

Quando essa consolava l'infermo colla dolcezza carezzante del suo dialetto, egli sentiva nell'inflessione di quella voce un accento di mestizia che lo affascinava, ma la sua ammirazione era così rispettosa che mai non avrebbe osato interrogarla. Essa non gli parlava che delle sofferenze che lo privavano della soddisfazione di combattere, dell'evidente miglioramento che lo avvicinava sempre più alla guarigione, della gloria che onora il soldato ferito, e gli rialzava talmente lo spirito, che si sentiva beato del sangue sparso, e gli pareva poco, anelando alla salute per slanciarsi nuovamente contro il nemico, e meritare gli elogi di quella donna.

Nelle lunghe ore silenziose ed insonni egli pensava continuamente a quel sembiante maestoso, e facendone il paragone colla vezzosa semplicità della Gigia, trovava nella prima la dignitosa grandezza dell'antica nobiltà, nella seconda la grazia ingenua del popolo e pendeva incerto quale fosse più degna d'amore. Un giorno trovandosi più espansivo, e meno geloso della sua divina suora di carità, si decise di presentarle il suo amico Tiziano, che era venuto a fargli un po' di compagnia. Essa s'intrattenne cortesemente con lui a parlare dei monti del Cadore che conosceva ed amava, e dell'eroica difesa di quegli abitanti, che le aveva eccitato il più vivo entusiasmo.

Prima di uscire dall'ambulanza invitò Tiziano a visitarla nel suo palazzo, e lasciò i due giovani immersi nell'ammirazione. Michele incoraggiò l'amico a non mancare la visita, e a ritornare a raccontargli le meraviglie del palazzo incantato di quella fata. Ed egli non tardò molto a presentarsi in casa Steno, e venne accolto con somma cortesia dalla gentildonna, che lo presentò a suo marito, il conte Ermolao, il quale era un tipo curioso di quell'epoca. Egli apparteneva ad una minoranza che non esercitava nessuna influenza sugli avvenimenti, e si componeva di pochi individui, che lasciavano correre le cose come se fossero prescritte dal destino, e le subivano senza opposizione, e come una necessità insormontabile. E infatti se un'immensa maggioranza conveniva concorde nella ferma volontà di respingere lo straniero ad ogni costo, non è da credersi che tutti indistintamente intendessero il sacrifizio alla stessa maniera, nè che ogni veneziano fosse un eroe.

Il conte Ermolao Steno era un rampollo di quei veneziani della decadenza, che avvicinandosi il generale Buonaparte alla testa dell'esercito francese, temevano che non si potesse più dormire tranquilli nel proprio letto. La vita molle alla quale si era abituato fino dalla prima gioventù lo rendeva affatto inetto alle azioni eroiche. Bonario, senza albagia, egli aveva tutte le ingenuità delle nature svigorite, e pensava che ciascheduno dovesse offrire alla patria il superfluo, conservando il solo necessario. E per lui era necessario di bere ogni giorno a tavola una bottiglia di vino eccellente, di mangiare il suo bisogno, e di non occuparsi d'altro che di passeggiare in piazza, fumare il sigaro, e far la partita. E il superfluo, che sacrificava alla patria, si componeva di tutti i piaceri e gli agi della vita, gli spettacoli, i teatri, la villeggiatura, le scarrozzate in campagna, le gite ai bagni d'estate, e i viaggetti d'autunno. Tali privazioni forzate egli le subiva con rassegnazione, e mostrava di sopportarle con uno stoicismo degno dell'antichità. Ma il suo sangue se lo teneva nelle vene con ogni cura, e non essendo avvezzo a nessuna fatica, lasciava ai giovani ardenti ed agli uomini robusti l'onore di difendere Venezia e di morire per la patria. Su tutti gli altri argomenti di noia inerenti alle condizioni dell'assedio, non voleva intender ragione, e fino dai primordi del blocco egli si bisticciava col cuoco che non poteva più soddisfare i suoi naturali capricci.

— Come mai!.... egli esclamava con indignazione, vi è impossibile di trovare delle quaglie?....

— Impossibile, eccellenza!... rispondeva il cuoco.

E quando incominciò a scarseggiare la carne ed a mancare affatto il pane bianco gli parve d'aver raggiunto il massimo martirio che si possa infliggere ad un uomo. Ma a poco a poco dovette sottomettersi alle più amare privazioni, e sospendere la partita a tresette da Florian, ed a sentirsi rotto il sonno dalle bombe che lo obbligarono ad alzarsi dal letto prima delle undici antimeridiane, caso inaudito nella sua vita.

Tiziano ritornato all'ambulanza descrisse all'amico le meraviglie del palazzo Steno addobbato con lusso orientale, in armonia colla sua architettura. Il vestibolo, con arcate di stile moresco sorrette da colonne di marmo greco con capitelli bizantini. I muri rivestiti di marmi preziosi con scolture e statue collocate nelle nicchie. I cancelli in ferro dorato sormontati dallo stemma degli Steno incoronato dal corno ducale. La cisterna del cortile scolpita al modo bizantino. Eleganti, maestose le scale, la sala immensa, le camere coperte di arazzi antichi, o di quadri dei più famosi pennelli, i soffitti a cassettoni dorati od a stucchi, i pavimenti a mosaico a disegni, o coperti di preziosi tappeti. I mobili d'antica magnificenza con leggiadri intagli. Immensi i camini di marmo con alari di bronzo. Poi dalla casa passando agli abitanti si mostrò colpito d'ammirazione per la stupenda bellezza della gentildonna, dotata d'una grazia veramente incantevole ed attraente. E raccontando le bizzarrie del marito fece il ritratto del conte Steno, e lo descrisse come un filosofo d'una tempra singolare, che si teneva superiore alle umane miserie, indifferente alle comuni preoccupazioni del giorno, abbastanza ingegnoso da saper trovare dei conforti in mezzo alle privazioni dell'assedio, e dei compensi ai sacrifici che gli venivano imposti dalle circostanze.

Michele lo ascoltò attentamente, invidiando la sorte dell'amico che poteva penetrare in quel santuario, e quando rimase solo, pensò lungamente alle cose udite, e gli parve che quella donna non dovesse essere pienamente soddisfatta dell'indole del marito, il quale col suo egoismo ingegnoso poteva servire d'esempio del come si possa anche in mezzo alle più dolorose contingenze, trovare qualche consolazione a spese degli altri. E cominciò a meditare nel profondo segreto del suo animo, se un povero soldato ferito non avesse diritto anche lui di ottenere qualche cosa in compenso delle privazioni del blocco, e delle palle dell'assedio. E quando la gentildonna ricomparve davanti al suo letto egli si mise a dardeggiarla di tali sguardi fulminei, che non avevano riscontro che nelle batterie di Campalto colle quali il nemico bersagliava Marghera.

Ma se ai poveri soldati feriti non restava altra risorsa che di assediare le dame pietose delle ambulanze, cercando di penetrare nei loro cuori colle paralelle del sentimento, e con un fuoco incrociato di sguardi e sospiri, i soldati sani continuavano a tirare sui tedeschi con delle palle di grosso calibro, e ad assalirli furiosamente nelle trincee a colpi di fucile, ed anche colla baionetta nelle reni.

Le sortite di Mestre e del Cavallino che avevano respinto vittoriosamente il nemico, coprendo di gloria i Cacciatori del Sile, i Cacciatori del Reno, e i lombardi, risvegliavano una nobile invidia nell'animo ardimentoso dei Cacciatori delle Alpi, che desideravano essi pure ardentemente un occasione favorevole per venire alle mani col nemico.

La penuria sempre crescente offerse questa occasione. La Commissione annonaria aveva reggimentato i contrabbandieri di Venezia, che si spingevano arditamente attraverso agli avamposti nemici e riuscivano talvolta a deluderne la vigilanza introducendo a Venezia ogni sorta di viveri. Ed anche questo era eroismo, perchè quando cadevano in mano dei tedeschi erano immediatamente fucilati, per la legge che condannava a morte ogni violatore del blocco.

Si dovevano alimentare duecentomila abitanti, e perciò ogni barca carica di granaglie, di animali bovini e di vino che giungesse a Venezia era festeggiata da tutti, e ricevuta come in trionfo.

Ma per ottenere dei risultati importanti era necessario di appoggiare i contrabbandieri, respingendo il nemico, e tale era lo scopo delle sortite nelle paludi dell'estuario.

Tiziano avendo ricevuto l'ordine di partire per Chioggia colla sua compagnia corse all'ambulanza a stringere la mano dell'amico, e salì a salutare le donne che lo videro allontanarsi trepidanti ed angustiate, quantunque egli si mostrasse allegro e ben disposto.

Il generale Rizzardi, comandante il circondario di Chioggia, quantunque quasi giornalmente dovesse combattere col nemico che avanzavasi sotto al tiro dei suoi fucili, risolse di eseguire una ricognizione di qualche importanza, e nello stesso tempo requisire tutti i viveri che sarebbero caduti in sue mani. Prese seco 1200 uomini e li divise in tre colonne, la prima delle quali, forte di circa 600, affidava al colonnello Morandi con l'incarico d'inoltrarsi lungo il Bachiglione sulla destra di Brondolo oltre il terreno di Cabianca, verso Corezzola; la seconda colonna, di circa 400 uomini, comandata dal maggiore Materazzo, doveva esplorare tutto il terreno del centro, cioè a destra del canale di Valle, compreso fra l'Adige, Cavanella, ed il Gorzone; la terza finalmente, comandata dal tenente colonnello Calvi, aveva l'incarico di battere il terreno sulla sinistra fra Bussola, il mare e l'Adige.

Tiziano fu lieto, che alfine anche i Cacciatori delle Alpi potessero provare il loro valore in una sortita, raccomandò a Bortolo di farsi onore, e intrattenendosi con Giacomo Croda che seguiva la spedizione per raccogliere ed imbarcare le requisizioni, s'intesero fra loro di tenersi d'occhio, e di aiutarsi scambievolmente in caso di bisogno. Tiziano contava molto sulla destrezza e sul coraggio del contrabbandiere cadorino, ed era lieto di vederlo far parte della spedizione. Partirono da Chioggia per Brondolo, ove passarono il ponte che a tale scopo era stato espressamente costruito sul Brenta, e le tre colonne si misero in movimento, secondo gli ordini ricevuti.

Il terreno sul quale camminavano i Cacciatori delle Alpi guidati da Calvi era molle e sabbioso, interrotto da pozzanghere e intersecato da rivoli che ora si allargano in estesi avvallamenti, ora si restringono in stretti canali, che si dividono e suddividono in varie guise e possono considerarsi come le vere vie di quelle paludi, ove le barche sono il solo veicolo possibile.

Quelle estesissime maremme sparse di stagni o laghetti salsi che si chiamano valli non hanno altre abitazioni umane che qualche misera capanna di pescatori. I Cacciatori delle Alpi avanzandosi cautamente in quel deserto, giunsero ove il terreno più asciutto è ridotto a coltura e sparso di case coloniche, e colà incontrarono il nemico, che fu subito attaccato vigorosamente e obbligato di retrocedere. Ma per snidare i tedeschi da tutte le case fu necessario distaccare dal corpo principale alcuni drappelli di militi, i quali scortando i contrabbandieri si sparsero in varie località, dovettero battersi isolati contro soldati dispersi, ed operare le requisizioni, mentre il corpo principale combatteva per respingere il nemico. Tutti i viveri raccolti si facevano entrare nelle barche e partivano per Brondolo. Tiziano entrato con alcuni suoi soldati in una casa ove si riparavano degli austriaci, li pose in fuga, e mentre i suoi tiravano dalle finestre sui fuggiaschi per obbligarli a sgombrare il terreno, egli ordinava a Giacomo Croda, che lo seguiva, di condur fuori della stalla i due buoi che vi si trovavano, e consegnava al colono il relativo certificato di requisizione.

Mentre si eseguivano tali operazioni, gli austriaci che si erano ritirati ritornarono alla carica, rinforzati da altri compagni, e intanto che Giacomo fuggiva coi buoi, Tiziano e i suoi cacciatori attaccarono nuovamente il nemico, lo obbligarono a ritirarsi, lo inseguirono per un bel tratto di strada, e si tenevano sicuri dell'esito dell'impresa, quando poco dopo s'avvidero dell'imprudenza d'essersi troppo inoltrati, vedendo sbucare da ogni parte gli austriaci che tendevano a circondarli. Per non cadere in mano del nemico non restava altro espediente che ingannarlo sulla loro direzione, tirare da una parte, e dileguarsi dalla parte opposta protetti dalle canne palustri che si alzavano dal palude. Così fecero per ordine di Tiziano, ed uno di qua l'altro di là se la svignarono con somma destrezza, mentre i tedeschi, indispettiti di vederseli sfuggire di mano quando credevano di averli presi, li cercavano da ogni parte, come cacciatori che inseguono la selvaggina arrestandosi e tendendo le orecchie, attenti ad ogni stormire di foglie per scoprire le traccie, frugando colle baionette nelle canne palustri, indirizzandosi dove udivano il minimo rumore; e talvolta quando credevano di aver scoperto un avversario nascosto, vedevano un anitrella selvatica che si alzava dalla macchia.

Le fucilate echeggiavano da ogni parte, il cannone risuonò nella valle per tutto quel giorno, gli italiani si ritirarono ordinatamente inseguiti dagli austriaci fino al punto ove giungevano le palle del forte di Brondolo che proteggeva la ritirata.

L'esito di quella sortita fu assai proficuo, poichè furono requisiti più di 300 animali bovini, oltre molti maiali, pecore, cavalli, e una grande quantità di provvigioni in vino, ovi, pollame ed altri viveri. Si fecero alcuni prigionieri al nemico, che ebbe molti morti e feriti, ma anche gl'italiani subirono delle perdite; e quando giunsero a Brondolo molti mancarono all'appello e si deplorava specialmente la mancanza del prode ufficiale Tiziano Lareze.

XV.

Tiziano sfuggendo dalle mani del nemico aveva un solo intento, quello di salvare il bottino che costituiva il trofeo della sua impresa. Quando Giacomo Croda era uscito dalla stalla coi buoi, egli lo avviò sul sentiero che conduce ad un bosco detto il pineto dei Nordi, col pensiero che penetrando fra gli alberi cogli animali sfuggiva al pericolo di essere veduto dal nemico.

Guidato da quest'idea prese la stessa direzione, e credendosi sicuro dai tedeschi che più non vedeva proseguì il suo cammino. Aveva smarrito i compagni, mancava d'ogni notizia sul suo corpo di truppa, ma avviandosi verso Brondolo non poteva ingannarsi, e presto o tardi sperava di giungere alla fortezza.

Ma appena penetrato nel bosco si accorse che era circondato dai tedeschi, i quali trasportavano i loro morti e feriti, e raccoglievano vari oggetti requisiti dagli italiani, poi abbandonati per qualche ostacolo insormontabile nella fretta del ritorno, o al momento d'imbarcarsi nei canali.

Trovandosi nell'impossibilità di proseguire la strada per raggiungere il suo corpo, si raggirò lungamente nel bosco fino a notte inoltrata, quando vide da lontano dei tedeschi armati di scuri che si dirigevano alla sua volta.

Allora, protetto dal buio, e con somma attenzione di non far rumore, si arrampicò sopra un albero, e salì più in alto che gli fu possibile, fino ad un ramo nascosto dalle fronde sottostanti, e sul quale mettendosi cavalcioni poteva riposarsi senza troppo disagio. I tedeschi erano venuti a far legna pel loro rancio, e andavano e venivano con infinite precauzioni, guardando sospettosamente d'intorno. Poco dopo ne giunsero degli altri colle marmitte ripiene, e cominciarono ad accendervi il fuoco d'intorno. Tiziano immobile sul ramo, stanco dalle fatiche del giorno, ma rassegnato a passare la notte in quel rifugio, si assettò alla meno peggio, assistendo dalla sua specola allo spettacolo che gli offriva il nemico. Alcuni soldati soffiavano nel fuoco, chi rompeva legna, chi giaceva sdraiato per terra, borbottando in tedesco coi compagni, e fumando la pipa.

Lo spettatore sull'albero trovandosi al sicuro, godeva quella scena, promettendosi al suo ritorno di raccontare agli amici, che era rimasto fuori della fortezza per andare al teatro, dove da un posto riservato aveva assistito ad una bella commedia intitolata: il rancio notturno dei croati in un bosco.

Ma lo spettacolo incominciò a perdere qualche attrattiva, quando il vento cambiando direzione spinse dei vortici di fumo intorno all'albero del Cacciatore delle Alpi, entrandogli nel naso, negli occhi, nella bocca, col pericolo di farlo tossire, ed anche di asfissiarlo. Per buona sorte sviluppandosi prontamente la fiamma, cessò in gran parte quel fumo, ma si presentò un nuovo pericolo. La luce si diffuse fra gli alberi, e un certo tratto del bosco parve illuminato a giorno. I tedeschi ammiravano il magnifico effetto prodotto dal fuoco in mezzo a quelle piante, che presentavano un ampio spazio circolare rischiarato vivamente, in mezzo alle tenebre profonde. I soldati alzavano la testa, guardavano in alto e d'intorno, in quella rete complicata di rami, ed alzavano le braccia nella direzione di Tiziano, indicando qualche cosa in tedesco. Il povero Cacciatore delle Alpi passò un brutto quarto d'ora. Ad ogni momento gli pareva d'essere scoperto, e gli sembrava di vedere quei selvaggi afferrare i fucili per punzecchiarlo colle baionette e farlo discendere fra le beffe della brigata. Ma la stanchezza e la fame prevalsero alla passeggiera ammirazione, si sdraiarono tutti sull'erba, tenendo in mano la gamella per la cena, che finalmente era cotta. Allora scoperchiate le marmitte, un buon odore di brodo salì alle narici del povero soldato italiano, che non aveva preso cibo dalla mattina, e quelle esalazioni gl'inasprirono talmente la fame, che forse si sarebbe deciso a rendersi prigioniero, se fosse stato sicuro di aver la sua parte del rancio. Ma guardando i ceffi neri di quei barbari, rischiarati dalla luce sinistra del fuoco che si andava spegnendo, gli parve di non essere abbastanza sicuro, e preferiva morire di fame piuttosto di cadere in quelle mani. Poi osservando un bel pezzo di carne nuotante nel brodo, si sentì l'acquolina in bocca, e si mise a pensare se fosse possibile d'impadronirsene con qualche stratagemma. Forse l'apparizione impreveduta ed istantanea d'un fantasma notturno, forse la comparsa del diavolo, sorprendendo di notte in una foresta quel drappello avrebbe potuto metterlo in fuga precipitosa.... Ma il tentativo gli parve troppo audace, e poco sicuro, e guai se non fosse riuscito. In ogni caso, supposto anche un improvviso sgomento che li avesse fatti fuggire, c'era da scommettere cento contro uno che sarebbero fuggiti colla carne, e in tale previdenza non conveniva arrischiare la vita, e lo spettatore digiuno si rassegnò anche a questo sacrificio, e li vide farsi le parti, e divorarle, e trasportare altrove alcune marmitte destinate ad altri soldati che attendevano certamente in altre parti del bosco.

Poco dopo, cambiate le sentinelle, si distesero sulle foglie secche che avevano raccolte, e si misero tranquillamente a dormire.

Durante il silenzio della notte Tiziano non udì altro rumore che il lontano muggito del mare, e il fischio di qualche uccello palustre, e sorpreso dal sonno dormì come gli fu possibile in quell'incomoda posizione.

Prima dell'alba il tamburo tedesco che suonava a raccolta si fece sentire da lontano, i tedeschi si alzarono in fretta, indossarono i sacchi, presero i fucili e le marmitte, e partirono.

Il giovane cadorino mandò un profondo sospiro come se gli avessero levato un peso dal petto, potè stendere le membra aggranchite e dolorose per la lunga immobilità, ma non osò ancora discendere, e stette qualche tempo ad ascoltare, con grande attenzione.

Il suono del tamburo si allontanava, il sole era già alto, e tutti gli indizi raccolti gli facevano presumere che i tedeschi ritirandosi nei paesi vicini avessero abbandonato il bosco, e i suoi dintorni.

Poi il belato d'una pecora che giunse al suo orecchio parve rassicurarlo maggiormente, col pensiero che se i pastori uscivano al pascolo, era sicuro indizio che il terreno circostante si trovava affatto sgombro da soldati.

Scese dunque dall'albero, guardò intorno, ascoltò nuovamente, e non vide nè udì nessuna cosa sospetta, anzi il belato della pecora si avvicinava, e lo rendeva più tranquillo e sicuro. Osservò attentamente sul terreno se gli fosse dato di scorgere qualche avanzo del festino al quale aveva assistito; un boccone di vecchia pagnotta gli sarebbe sembrato un dono prezioso della divina provvidenza; ma non restavano nemmeno le bricciole. Bisognava rassegnarsi per forza, ed avviarsi verso Brondolo, ove non gli sarebbe mancato nessun soccorso. Si incamminò da quella parte, e poco dopo vide la pecora che pascolava tranquillamente al piede d'un albero, alzando talvolta la testa per mandare qualche belato, come se chiamasse le compagne dell'ovile. Tiziano cercò di qua e di là le altre pecorelle e il pastore, per chiedergli qualche informazione, ma invano.

Era evidente che la povera bestia requisita il giorno prima, era stata perduta dai conduttori nella confusione della raccolta, e nella fretta di far avanzare tanti animali diversi per imbarcarli in tempo, prima d'un attacco nemico.

In tale supposizione la pecorella smarrita apparteneva al governo di Venezia che l'aveva pagata coi buoni, e bisognava condurla al suo destino.

Tiziano tirò di tasca il fazzoletto, lo assicurò al collo della pecora e cercò di trascinarla con sè, ben lieto di non ritornare ai compagni colle mani vuote. Ma la bestia invece di seguirlo si ostinava a pascolare l'erbetta appetitosa del bosco, e il giovane ufficiale procurava di farla camminare, ora invitandola colla mano come se le offrisse del sale, ora spingendola per di dietro. Intento a tali manovre non tardò molto ad avvedersi che la pecora era da latte, e questa gli parve davvero una stupenda scoperta. Aveva sete, e bisogno d'alimento, e il latte poteva soddisfare a queste due necessità; si mise dunque a mungerla con una mano studiandosi di raccogliere il latte nell'altra, ma ne poteva conservare assai poco.

Allora si decise di lasciarla pascolare in pace, e coricandosi a terra prese un capezzolo in bocca, come fosse un agnello, e assaporò lentamente e voluttuosamente quel latte caldo e sostanzioso, che fu per lui un vero balsamo, ed una colazione di gran lusso, per un povero soldato del blocco di Venezia, smarrito in un bosco.

Si è in tale deliziosa occupazione che venne sorpreso da una pattuglia austriaca, che gli arrivò addosso improvvisamente senza che l'avesse nè veduta nè udita. Appena un rumore di passi vicini gli fece alzare la testa, egli si vide circondato dai soldati tedeschi colle baionette abbassate.

Il caporale gli disse alcune parole in tedesco, che egli non intese, ma indovinò benissimo che gl'intimavano l'arresto.

Tiziano sbalordito restava seduto sull'erba guardando in faccia i soldati, senza rendersi conto della situazione. Ma quando dovette alzarsi e gli fu tolta la spada, e si trovò prigioniero fra i tedeschi, e vide che un soldato si tirava dietro la pecora, legata ancora col suo fazzoletto, che doveva servire come corpo del delitto di violazione del blocco, allora comprese la gravità della sua condizione, e si vide perduto.

Dopo d'averlo fatto camminare per un bel pezzo di strada, lo introdussero in una casa isolata, ove una sentinella faceva guardia alla porta, in fianco alla quale alcuni soldati fumavano la pipa. La pattuglia condusse il prigioniero in una camera invasa dal fumo del tabacco, nella quale sedeva un sergente davanti un tavolo coperto di carte, fiancheggiato da varie sedie vuote. Il caporale parlò al sergente in tedesco, e poi si tirò da parte coi soldati. Il sergente, che borbottava un po' d'italiano, spiegò in poche parole al prigioniero la sua condizione.

— Voi trovato pattuglia oltre linea plocco con pestia per introducione Vinedig!... Capitano assente — presto torna. — Voi sicuro poche ore fucilato dietro muro....

Poi rimettendosi in bocca la pipa, apparecchiò un foglio di carta, prese una penna, la intinse nel calamaio, e incominciò l'interrogatorio, domandandogli:

— Nome, cognome, patria, contitione.

— Tiziano Lareze, rispose il giovane, ufficiale dei Cacciatori delle Alpi, nativo di Pieve di Cadore....

A tali parole il sergente alzò la testa, si levò la pipa di bocca, e facendo un terribile sberleffo, gli chiese con due occhi da basilisco.

— Ti stato forse in Cadore con pricanti.... anno passato?...

— Coi briganti no! disse Tiziano, ma coi miei compatriotti cadorini ho difeso la patria, come era mio dovere!...

— Catorina grande canaglia!... esclamò il sergente — fatta guerra coi sassi!... e mi quasi morto!... ma ti morto sicuro domani!...

E dopo una breve sosta, durante la quale mandò fuori dalla bocca tre o quattro rapide sbuffate di fumo, riprese a dire:

— Nostra compania quasi tutta morta sotto montagne!.... ti paga per tutti!.... — poi rivolto al caporale gli disse alcune parole in tedesco, e questi preso per un braccio il prigioniero, lo condusse in una stanza, chiuse il balcone e la porta, e lo lasciò solo nel buio.

Pochi istanti dopo il sergente batteva alla porta per ammonirlo:

— Se ti mette testa al palcone, ti stato subito morto. Aspetta un poco, processo sommario... poi tutto finito presto!...

Tiziano sapeva benissimo che le leggi di guerra sono sempre implacabili, e che non aveva nulla a sperare, ma la sua condizione era tanto più terribile quanto più i tedeschi dovevano essere ancora irritati dalla recente sortita di Brondolo, alla quale non avevano potuto impedire quelle numerose requisizioni che erano andate a vettovagliare Venezia. Il colmo poi della sua sventura consisteva nel dover comparire davanti un consiglio di guerra composto da militari battuti in Cadore, e fortemente indignati per le terribili disfatte che avevano subite. Bisognava dunque apparecchiarsi a lasciare il mondo fra breve, ed era vano sperare misericordia.

Con tali pensieri il prigioniero camminava lentamente su e giù nella stanza nella quale era rinchiuso, rivolgendo la mente alle persone più care che doveva disporsi a non vedere mai più!

La stanza nella quale fu introdotto Tiziano faceva parte d'una povera casa rurale, occupata dai soldati dopo la fuga dei coloni. Non aveva nè inferriate nè invetriate, ma imposte rotte dalle quali sarebbe stato agevole di uscire, se le sentinelle non fossero state pronte a tirare al minimo tentativo di fuga. La porta era chiusa esternamente da un catenaccio sconnesso, e senza chiave. Ma si udivano i passi dei soldati che vigilavano attentamente, da ogni parte. La sorveglianza era tanto più rigorosa, quanto doveva essere più breve, essendo evidente che coloro che venivano sorpresi sul fatto a violare le leggi del blocco, restavano poche ore in quella camera, e dopo un breve processo sommario e spicciativo, venivano adossati al muro esterno della casa e fucilati.

— È finita!... pensava Tiziano, seguitando a girare per la camera al barlume che entrava dalle fenditure delle imposte, e dopo qualche tempo, avendo scorto un materasso in un angolo, vi si lasciò cader sopra estenuato dalle violenti emozioni del giorno, che gli abbattevano terribilmente le forze; e pensava:

— Ancora poche ore e sarò morto!... quanto meglio sarebbe stato se una buona palla mi avesse ucciso nel fervore della mischia, o in quel giorno famoso di Ricurvo, o sui forti di Venezia... o nella sortita di ieri!...

Poi rivolgeva il pensiero al Cadore, a Maria ed al roccolo di Sant'Alipio, alla sua famiglia, alla sua povera madre, al vecchio padre infelice, a Michele, alla Gigia, alla gentildonna Marina, a Bortolo, ai commilitoni!... forse nessuno verrà mai a sapere in qual modo ignobile sarò morto!... fucilato in fianco ad un muro, vicino i paludi, nella squallida solitudine, a poco più di venti anni!... senza gloria!... povera patria!... povera Italia, quanti martiri ignoti saranno necessari ancora alla tua indipendenza?... .... Possano un giorno gl'italiani liberati dagli stranieri non dimenticare giammai la tirannide del loro dominio... i martiri che ne furono vittime!... l'umiliazione... la vergogna del paese, espiate con tante lagrime e con tanto sangue!...

E poi tutte queste riflessioni, tutti i nomi e le persone più care gli si confondevano nella mente esagitata, in una specie di sogno d'agonizzante.

Le ore passavano lente, affannose, piene di paurosi fantasmi. Egli ascoltava ansioso ogni calpestio, aspettando il momento di comparire davanti il tribunale di guerra, che doveva condannarlo, e gli pareva di udire la sentenza di morte, di vedere il drappello che lo conduceva all'esecuzione... gli bendavano gli occhi, e traforato dalle palle cadeva....

Rimase tutto il giorno in quella dolorosa aspettativa; i soldati andavano e venivano, in movimento continuo; udiva cambiare le sentinelle, uscire e rientrare le pattuglie, udiva i loro dialoghi tedeschi, e soffriva di non poterli comprendere.

A poco a poco la camera divenne affatto buia, e si avanzava la notte, quando udì ad un grido della sentinella, che tutti i soldati correvano ai loro fucili, ed a mettersi in rango. Allora ebbe un raggio di speranza, credendo ad una nuova sortita da Brondolo, all'arrivo de' suoi liberatori, alla fuga dei tedeschi, ma non tardò molto ad avvedersi della vana illusione. I soldati erano corsi sotto le armi scorgendo da lontano i loro superiori che si avvicinavano, e pensò che il Consiglio di guerra si avanzava per venire a giudicarlo. Allora riflettendo ai continui pericoli delle sorprese che molestavano spesso gli assedianti, comprese benissimo e trovò naturale che durante il giorno stessero in continua sorveglianza, e non si occupassero d'altro, e che si raccogliessero di notte in consiglio di guerra per prendere gli opportuni provvedimenti, o per giudicare gli arrestati in flagrante violazione delle leggi, che venivano poi fucilati al levare del sole.

Infatti udì che si spalancavano le porte della camera vicina che serviva di ufficio, s'accorse che accendevano i lumi, sentì entrare un personaggio che doveva essere un capo, conobbe la voce del sergente che gli faceva il rapporto, e certo gli rendeva conto della cattura.

Dopo un lungo silenzio durante il quale non sentiva che i battiti del proprio cuore, e delle arterie ai polsi ed alle tempie, un comando militare mise in moto alcuni uomini, la sua porta s'aperse e due soldati armati di fucile accennandogli di seguirli lo introdussero nell'ufficio, dove il capitano e il sergente sedevano al tavolo, fra due candele accese, scartabellando alcune carte. I soldati di scorta chiusero l'uscio e rimasero ai lati della porta a far guardia. Tiziano nel mezzo attendeva di essere interrogato.

Il capitano gli fece ripetere le indicazioni già date al sergente, poi gli disse:

— Voi siete accusato del flagrante delitto di rottura del blocco.

Tiziano voleva parlare, ma il capitano lo fece tacere con un cenno imperioso della mano, e soggiunse:

— Domani mattina sarete tradotto a Correzzola dove si trova il Consiglio di guerra, che deve giudicarvi, unitamente ad altri individui sorpresi dalle nostre pattuglie con viveri destinati a Venezia. Questo non è che un corpo di guardia avanzato, per la sorveglianza della linea. — E dopo tale spiegazione lo fece condurre nella sua prigione provvisoria.

Tiziano si gettò nuovamente sul materazzo col pensiero che quella era l'ultima notte che passava a questo mondo, e voleva dedicarla interamente ai suoi cari, vivendo in ispirito con loro le ultime ore della vita, ma era continuamente distratto da un andirivieni di gente, e da un ripetersi di comandi che metteva in movimento uomini ed armi. Indovinò che erano pattuglie notturne che ricevevano gli ordini e partivano al loro destino. Quel movimento durò circa un'ora, e finalmente gli successe un perfetto silenzio. Allora soltanto i pensieri del prigioniero poterono concentrarsi, e dovette provare il massimo dolore di ricordarsi del tempo felice nella miseria. Rivide il roccolo di Sant'Alipio, e il nido di Montericco con tale lucidità, che la sua anima pareva aver abbandonato il corpo per trasportarsi in quei luoghi diletti, sentiva la voce di Maria, sentiva la freschezza delle sue labbra che gli davano l'ultimo bacio.... In questo punto la porta si aperse e vide entrare un uomo rischiarato da un fanale semispento. Il prigioniero appoggiandosi ad un gomito alzò la testa, e mettendosi una mano distesa sopra gli occhi per concentrare la poca luce, osservò attentamente l'uomo del fanale, e conobbe il capitano, il quale, essendosi avanzato fino a lui, gli disse:

— Alzatevi.... la vostra Maria vi salva la vita....

Tiziano sbalordito non capiva nulla, e chiedeva ansiosamente:

— Maria?... dove è Maria?...

— Essa vi aspetta a Pieve di Cadore.... quando questa maledetta guerra sarà finita.... Alzatevi e partite.... le direte che il capitano Kasper Kraus ha fatto il suo dovere. Ora non c'è tempo da perdere. Ho mandato le pattuglie a diritta ed a sinistra, voi non avete che a prendere la strada diritta che vi sta dirimpetto, e spero non incontrerete nessuno. Camminate tranquillamente, domani mattina per tempo sarete al sicuro sotto le mura di Brondolo.

Così dicendo il capitano aveva spalancato il balcone, e fatto uscire dalla camera Tiziano, ne aveva chiusa esternamente la porta. Quando giunsero all'uscio della casa, il capitano mise in mano del giovane un fiaschetto d'acquavite, un pezzo di pane, e la spada che gli era stata tolta, e stringendogli la mano, gli disse:

— Addio.... addio.... che il cielo vi salvi.... non perdete tempo....

Tiziano confuso, sgomento, voleva ringraziarlo, ma gli mancavano le parole. Gli strinse fortemente la mano dicendogli:

— Spero che ci vedremo ancora a questo mondo!... la mia riconoscenza.... la mia gratitudine....

— Non perdiamo tempo.... andate.... sempre diritto in questa direzione.... con somma precauzione e prudenza.... non ho mancato di assicurarvi la strada libera.... ma sapete che un accidente impreveduto può cambiare ogni cosa.... se ricadete in mano d'una pattuglia mi sarà impossibile di salvarvi nuovamente. Siate cauto ed avveduto.... io non posso così fare di più.... addio....

— Il cielo vi compensi!... addio!... — e stringendosi nuovamente la mano si separarono.

Tiziano si mise la via fra le gambe, nella direzione indicata; e alzando il fiaschetto alla bocca, sorseggiava ad ogni tratto un po' d'acquavite per riprendere vigore, o inzuppava un pezzetto di pane, e lo mangiava camminando. Al minimo rumore si fermava, non osava tirare il fiato, si accoccolava dietro una pianta od un rialzo di terreno, e non riprendeva la via che quando era ben sicuro che non c'era pericolo.

Il capitano non rientrò in casa, ma scomparve dalla parte opposta per un sentiero che penetrava nelle campagne. Al mattino seguente, ritornando al corpo di guardia, trovò il sergente furibondo per la fuga del prigioniero e finse di dividere la sua collera, ma gli fece osservare che alla guerra bisogna sempre tener conto dei fatti principali, e non curarsi troppo degli accessori. E facendolo sedere al suo posto nella camera d'ufficio, gli dettò il solito rapporto sugli avvenimenti della notte, annunziando al Consiglio di guerra che avendo avuto relazione dagli esploratori che si tentava un colpo per far entrare a Venezia delle provvigioni, egli era stato costretto di mandare in pattuglia tutti gli uomini disponibili nei siti indicati dalle spie, nel qual tempo il prigioniero essendosi senza dubbio avveduto della partenza dei soldati aveva aperta la finestra ed era fuggito. Appena avvedutosi della fuga dell'arrestato aveva spedito nuovamente i suoi soldati per dargli la caccia, e non disperava di rintracciarlo, per farlo tradurre immediatamente davanti al Consiglio di guerra.

Intanto Tiziano proseguiva la sua strada, guardando da ogni parte se vedesse comparire da lontano qualche pattuglia. Camminò tutta la notte col vigore d'un uomo che fugge la morte, e giunse sull'alba davanti un canale tortuoso che attraversava le paludi. Osservando attentamente da lontano vide una macchia nera che si muoveva nell'acqua. Sospettando un pericolo si mise in agguato nascosto fra i canneti, e non tardò ad avvedersi che era una barca, che si avanzava lentamente alla sua volta. Che cosa trasportava quella barca?... forse una pattuglia tedesca che cercava d'impedirgli il passaggio, o una pattuglia italiana che esplorava il terreno?... Dovette aspettare che si avvicinasse maggiormente per riconoscerla. Alfine la riconobbe per una di quelle barche di Chioggia che avevano servito al trasporto delle requisizioni. Quale era lo scopo di quella imbarcazione che si avventurava con tanta audacia in mezzo ai nemici?... S'avviò da quella parte per incontrarla, e quando le fu vicino interrogò i barcaiuoli dai quali seppe che venivano alla ricerca d'un certo Giacomo Croda che il giorno della sortita di Brondolo era giunto troppo tardi, ed avendo trovato tutte le barche piene non potè caricarvi due buoi requisiti, nè aveva voluto abbandonarli. Lasciato sul terreno coi suoi animali, non si era più veduto, e si tentava di rintracciarlo colla speranza che non fosse caduto in mano del nemico. Alcuni esploratori erano sparsi in varii punti delle paludi pronti ad assicurare i barcaiuoli d'ogni sorpresa, annunziando l'avvicinarsi delle pattuglie nemiche, con segnali convenuti. I barcaiuoli speravano al primo indizio di un pericolo di giungere in tempo di mettersi in salvo colla barca sotto la fortezza di Brondolo, e in caso disperato erano decisi di abbandonare la barca e di fuggire a piedi. La speranza d'una ricompensa generosa, il piacere di giovare a Venezia, la stessa voluttà del pericolo li spingeva ad ogni audace tentativo. Ogni giorno raccoglievano degli uomini dispersi nella sortita, e non disperavano di rintracciare anche il contrabbandiere smarrito.

— Povero Giacomo! — esclamò Tiziano, lo avranno preso e forse questa mattina sarà giudicato dal Consiglio di guerra di Correzzola.... e immediatamente fucilato!... la notte che seguì la sortita, e la mattina seguente tutto il terreno venne esplorato con ripetute ricognizioni, e assai pochi possono essere sfuggiti alla vendetta del nemico.... ma voi fino a dove volete avanzarvi?...

— Noi siamo decisi di attendere nascosti fra le canne di quell'angolo del canale dal quale si può vedere lontano senza essere veduti.

Tiziano li seguì dalla riva, e quando giunsero al punto fissato, si fermarono, e sedettero tranquillamente sulle banchine della barca, colla fredda indifferenza di chi ha l'abitudine di affrontare ogni pericolo.

Tiziano aveva fretta di mettersi in salvo, poco disposto di tornar da capo con tutte le peripezie del giorno antecedente, ma il vivo interesse che portava al suo compatriotta, e la pungente curiosità di assistere allo scioglimento di quella avventura, gli fecero dimenticare ogni altra preoccupazione, e lo arrestarono forzatamente sul sito.

Ma poco dopo gli parve di vedere da lontano un movimento di colori sospetti, che potevano essere anche croati che lo inseguissero, e cominciava a pentirsi della nuova imprudenza. Nascosto dietro un banco di sabbia, coi piedi quasi nell'acqua, stette immobile per qualche tempo aspettando che quella macchia lontana si disegnasse più chiaramente all'orizzonte.

Dopo lunga aspettativa, e molte incertezze, gli parve alfine di riconoscere due buoi trascinati da un uomo, ed osservando attentamente credette di poter essere sicuro, che il conduttore degli animali fosse Giacomo Croda.

Quell'audace contrabbandiere cadorino al servizio di Venezia era dotato d'immensa perspicacia, unita alla più raffinata malizia felina, e le sue membra nerborute erano in pari tempo così flessibili ed elastiche, che poteva strisciare fra le canne come un serpente, correre come un capriolo, saltare come una pantera, e i tedeschi non potevano gareggiare con lui in nessuna circostanza. Infatti egli sfuggì cento volte dalle loro mani, e giunse sempre sano e salvo colla sua preda a Venezia, deludendo vittoriosamente tutta la sorveglianza degli assedianti, e tutti i rigori del blocco.

Giacomo Croda si avanzava tranquillamente verso la barca, con l'andatura d'un mercante di bestiami che si reca al mercato, e la raggiunse come se arrivasse ad un approdo ordinario in tempo di pace. Tiziano gli andò incontro, e quella fu una bella sorpresa, perchè non sapeva più nulla di lui, scambiarono alcune congratulazioni reciproche, e poi senza perder tempo fecero entrare i buoi nella barca, e dati i remi nell'acqua ripresero tutti uniti la direzione di Brondolo, conservando un rigoroso silenzio, e non perdendo mai di vista i dintorni. Avevano percorso un breve tratto di cammino quando Tiziano s'accorse di alcuni punti neri che si avanzavano da varie parti, concentrandosi evidentemente verso la barca. Ne diede subito l'avviso, la barca fu arrestata, ma non si tardò ad avvedersi che erano gli esploratori che avendo veduto l'esito felice della spedizione ritornavano indietro per rientrare colla comitiva nel raggio della fortezza.

Quando si credettero abbastanza sicuri da poter ciarlare senza timore che una distrazione potesse tornare funesta, si accinsero a raccontarsi le loro vicende. Tiziano gli narrò il caso strano che gli avvenne, e poi mostrandosi sorpreso di rivederlo dopo due giorni, sano e salvo, e ancora accompagnato dall'imbarazzante bottino, volle sapere in qual maniera fosse pervenuto a sfuggire alla vigilanza del nemico, senza nemmeno perdere i due animali requisiti. E Giacomo gli rispose subito:

— Nella sera della sortita non essendo giunto in tempo d'imbarcarmi colla nostra preda, sono andato a nascondermi coi buoi in una catapecchia diroccata di pescatori, le cui rovine erano nascoste fra i canneti d'uno stagno. Appena ricoverati gli animali, li ho provveduti d'erba, tagliata in fretta, e dopo di averli muniti del necessario alimento, mi sono ritirato in un nascondiglio, a qualche distanza, per riposare in quiete, senza il timore d'essere tradito dal muggito dei buoi. Ieri ho cercato invano una barca, e poi ho dovuto nascondermi nuovamente, perchè i tedeschi avevano invaso il palude, e mi giravano intorno senza vedermi; però non hanno mai avuto l'idea di penetrare nella capanna in rovina, e i buoi ebbero il buon senso di starsene tranquilli e silenziosi. Questa mattina ho perlustrato attentamente i dintorni, li ho trovati tutti sgombri dal nemico, e quando ho scoperto la barca da lontano sono andato a prendere i miei buoi con piena sicurezza, ed eccoci in salvo.... come al solito.

Giunti davanti il forte di Brondolo i barcaiuoli apersero la cassetta di poppa, ne trassero fuori la bandiera tricolore col leone di San Marco, e la issarono sopra un piccolo albero della barca. E così arrivarono trionfalmente all'approdo, fra gli applausi dei loro commilitoni e gli evviva della popolazione festante.

Il giorno seguente i Cacciatori delle Alpi ritornavano a Venezia applauditi con eguale entusiasmo dai Veneziani.

XVI.

Appena ritornato a Venezia, Tiziano corse all'ambulanza ad abbracciare l'amico, ed a raccontargli le sue avventure e lo trovò in piedi, in piena convalescenza; ma a misura che la ferita della palla tedesca si andava cicatrizzando, una nuova ferita gli si apriva, prodotta da quegli occhi cerulei, da quegli sguardi pietosi, che volendo consolare gli ammalati li colpiva con acuti strali nel cuore. Michele non rifiniva di raccontare all'amico le cure sollecite, affettuose di quell'angelo che rappresentava così bene Venezia al letto dei feriti, facendoli sopportare con eroica rassegnazione i loro dolori, rendendo dolci e soavi i farmachi più disgustosi che somministrava con quelle morbide mani patrizie.

Tiziano diceva all'amico:

— Le tue membra robuste lacerate dalle palle nemiche si rimettono presto, ma hai l'anima di troppo facile combustione, e difficilmente resisti al prestigio della bellezza. Appena giunto a Venezia dimenticavi le tue fiamme cadorine per la Gigia, venuto all'ambulanza al primo sguardo della contessa Marina dimentichi la Gigia....

— Ah mio caro, questo è il fatale destino di chi non ha mai ricevuto una ferita insanabile al cuore, come tu l'hai ricevuta da Maria. Essa ha tutte le qualità che possono soddisfare un'intera esistenza. Invece le donne che io adoro hanno sempre qualche piccolo neo che col tempo si sviluppa e diventa una macchia. Gli incanti della bellezza non durano se non sono accompagnati costantemente dalla bontà, e dal buon senso. Si ammira il volto della donna prima di conoscerne il carattere e l'intelligenza, e le nature complete sono rare. Ecco perchè io volo come l'ape di fiore in fiore, e il più bello mi attrae, e mi fa dimenticare gli altri!... Come vuoi che in mezzo a tante belle suore di carità un povero giovane possa rimanere insensibile?...

— In conclusione tu sei più in pericolo all'ambulanza che a Marghera!... — e ridevano entrambi di cuore.

Tuttavia a Marghera il fuoco continuo del nemico presentava l'aspetto d'una densa nube solcata da lampi. Le bombe e le palle austriache cadevano da trenta a quaranta al minuto sulle lunette, sui bastioni, ed in mezzo al forte. Le casematte prese di mira dai grossi Paixans di Campalto cominciarono ad essere smantellate, mentre le bombe ne fracassavano le volte.

In mezzo a tanta rovina non si faceva nessuna confusione nel forte, gli artiglieri rispondevano in ordine, e tranquillamente, come se fossero stati ad una manovra inoffensiva. Il Corpo Bandiera e Moro, composto tutto di giovani veneti d'ogni classe, ricchi e poveri, studenti, impiegati, letterati, mostrò un eroismo degno di vecchi soldati. L'artiglieria di terra e di mare li eguagliava in fermezza ed in valore; tutti gli altri corpi li secondavano. Noncuranti della vita, dimenticavano la stanchezza e la fame, e non chiedevano mai riposo davanti al fuoco incessante del nemico.

Rotti e smontati tutti i cannoni, Marghera divenne un mucchio informe di rovine, ed il governo veneto ordinava di abbandonarla, e fu evacuata con indescrivibile dolore dei soldati.

In questo memorabile assedio gli Austriaci lanciarono entro Marghera 70,000 proiettili, fra palle, bombe e granate, oltre un numero sterminato di razzi, con gravissime perdite da ogni parte.

A Venezia il pane cominciava a scarseggiare e si componeva di varie farine, frumento, segala, granoturco, avena, fagiuoli, ceci, e Bortolo assicurava che vi si metteva dentro un po' di tutto, e nulla di buono. Era una pasta bruna, ingrata al palato, e di difficile digestione. La farina di granoturco veniva distribuita a razioni ed era in parte avariata. Mancavano le carni ed il pesce, i pescatori venivano bersagliati dalla flotta austriaca, e calati a fondo. La poca carne di cavallo si vendeva tre lire la libbra, un ovo venti soldi; il vino era tutto consumato, meno il così detto vino di Cipro, fabbricato dai Giacomuzzi, che si vendeva assai caro. I soli ospitali avevano del pane bianco, e della carne pel brodo, ma mancava affatto il ghiaccio indispensabile ai feriti, e la china necessaria ai febbricitanti. I soldati inzuppavano il pan nero nell'acquavite, per poterlo inghiottire con meno nausea.

Quel diavolo di Bortolo l'aveva indovinata mettendosi a fare il garzone dilettante dal pasticciere suo amico, il quale si era immaginato di fabbricare una specie di pane di lusso, assai peggiore del pane comune dei tempi ordinari, ma meno orribile di quello del giorno. Era una specie di zaleto misto, che però non conteneva le segature di legname introdotte in certi altri pani.

Bortolo otteneva sempre qualche zaleto in compenso delle sue prestazioni, ed egli se ne privava e correva a portarlo in dono alle vicine dei suoi padroni, le quali pativano realmente la fame, e si mostravano assai commosse e riconoscenti della bontà del giovane cadorino, il solo dei tre che era rimasto fedele alla loro conversazione. Dopo la ferita di Michele erano state quasi abbandonate anche da Tiziano, il quale impiegava le ore disponibili andando a far compagnia all'amico infermo, ma anche queste ore erano poche, perchè i bisogni del servizio militare diventavano sempre più pressanti, a motivo dei morti e dei feriti messi fuori di combattimento. Bortolo però otteneva dei permessi dall'autorità dei suoi capi perchè serviva gli ufficiali, e si rendeva utile ai malati colla sua assistenza, e con molte prestazioni. Egli era dunque il solo che visitava sovente le donne, con somma loro consolazione, perchè oltre dei doni preziosi, le informava delle notizie dell'assedio, e le aiutava con mille piccoli servigi, in mezzo alle angustie d'ogni fatta di quei giorni tremendi. La Gigia che quando riceveva le visite degli ufficiali lo trattava da subalterno, trovandosi abbandonata da loro, ed assistita cordialmente da lui lo trattò da eguale, e con delicati riguardi, la nonna poi era innamorata addirittura di quel bravo giovane, così serviziato, gli manifestava apertamente la sua affezione, e gli raccontava tutte le sue disgrazie. I viveri tanto cattivi erano saliti a prezzi esorbitanti, e mancando il lavoro mancava anche il denaro necessario.

Bortolo ne parlò al suo padrone, si raccomandò a Michele, e fra l'uno e l'altro coll'intervento della gentildonna Steno, informata dei bisogni urgenti delle povere donne, trovarono dei lavori, e vennero ordinate delle camicie pegli ospitali. Bortolo, lieto di giovarle, apportava le commissioni e accompagnava le donne quando andavano a riportare i lavori ed a riscuotere i denari.

Così la nonna non mancava delle cose più necessarie, la Gigia era contenta, e Bortolo esercitava sopra di loro una sorveglianza attiva, ed una specie di tutela benefica, le consigliava in tutti i loro affari, provvedeva ai loro bisogni, ed insegnava alla ragazza a cavar partito di tutto, ad essere previdente ed economa, virtù che scarseggiavano in quelle donne che avevano vissuto fino allora senza tanti pensieri, per l'abbondanza d'ogni derrata a buon mercato, ordinaria a Venezia nei tempi normali.

Allora poi che pareva ogni cosa volgesse al precipizio, le prestazioni e le assistenze del buon cadorino erano un vero beneficio per due povere donne, esposte a tutti i pericoli. E veramente Venezia aveva raggiunto il colmo delle sventure e dell'eroismo. Al blocco ed alla conseguente miseria si era aggiunto il bombardamento, ed il colera. La pioggia di fuoco era incessante, e i proiettili cadevano sulla città senza risparmiare nè gli ospitali, nè i monumenti, nè le opere d'arte insigni; e nemmeno le più sacre memorie erano rispettate dall'esercito assediante. Le bombe, le palle, gli obici colpivano i vecchi, le donne, i neonati in seno alle madri, i supplicanti inginocchiati ai piedi degli altari nel tempio, che imploravano la divina misericordia su tante disgrazie che affliggevano la patria. Il caldo eccessivo, i miasmi palustri, la fame, i cibi corrotti, i disagi d'ogni genere avevano diffuso il morbo in misura spaventosa, tanto che mancarono perfino le braccia per seppellire i morti.

Lo squallore regnava dovunque, gli abitanti scarni, scolorati, silenziosi, dovevano abbandonare le loro case esposte alle bombe, ed emigravano da un punto all'altro della città, trascinandosi dietro i bambini ed i vecchi, portando gl'infermi, mentre tuonava il cannone e le bombe cadevano sulla via, poco lontano dalla piazza di San Marco.

Taluno esclamò: — Ci trarranno dalle nostre case, ma non ci metteranno spavento. — Un cittadino, disfattogli da una palla il letto dove dormiva, se lo fece rifare e ci si ricoricò. Una fanciulla, raccolta la palla cadutale accanto, ne racconterò, disse, quando sarò vecchia. Una madre, al figliuolo che la invitava a sloggiare dalla casa in pericolo, rispose tacciandolo di viltà; ed aggiunse: qui sono nata, qui voglio morire.

Vi furono atti memorabili, abnegazioni generose, virtù ignote nella storia di quel terribile assedio; e in mezzo a tante agitazioni e a tanti scompigli, quell'eroica popolazione si conservò pura da ogni delitto fino alla fine, ma certo non mancarono quelle tristi figure che vengono a galla nella schiuma di tutte le rivoluzioni, per pescare nel torbido e suscitare disordini. Vissuti oziosi durante l'assedio, a mormorare sulle panche delle bettole e dei caffè, quando ogni ulteriore resistenza era diventata impossibile, essi censuravano acremente la fiacchezza del governo, e colle solite declamazioni eccitavano le passioni popolari, volevano la resistenza prolungata fino alla totale distruzione della città, e mandavano le turbe, esaltate dai loro discorsi, ed interessate al disordine, a urlare sotto i balconi del governo per opporsi ad ogni capitolazione.

Ma quando Manin compariva al verone del palazzo ed affidava alla guardia civica l'onore e la sicurezza di Venezia, i sovvertitori trovandosi in minoranza dovevano mettere le pive nel sacco e ritirarsi.

Il dittatore eccitava i Veneziani a non mai disperare della patria anche se dovesse soccombere pel momento, osservando riguardo all'Austria: «che male si edifica sull'abisso, e che per le nazioni il martirio è anche la redenzione.»

Il conte Ermolao era tanto convinto di queste massime che sopportò sempre con rassegnazione il suo martirio, ed era tale la sua fiducia nel capo del governo, nella milizia, e nella guardia civica, che non trovò mai necessario di accettare nessuna carica, e si astenne sempre con eroica risoluzione dall'afferrare un fucile sia per la difesa contro il nemico, sia per conservare l'ordine interno, il quale egli trovava tanto bene affidato alla guardia civica che trovava affatto superfluo di farne parte, lasciandole anche con piena fiducia l'incarico di custodire le sue proprietà, e tutta la sua fortuna.

Anche per evitare il pericolo del coléra egli assicurò che bastava starsene in casa per fuggire il contagio, e la sua perspicace prudenza avendogli consigliato di rispettare un vecchio deposito di bottiglie, dimenticate in un armadio ignoto a tutti i suoi famigliari, e perfino a sua moglie, che avrebbe potuto abusarne per la sua mania delle ambulanze, egli ne faceva uso, moderato, ma giornaliero, inzuppandovi qualche biscottino inglese conservato in scattole di latta, messe da parte nei primi tempi del blocco; e rompeva l'aria infetta dall'epidemia fumando dei buoni sigari d'avana, acquistati per amore di patria, quando non si dovevano fumare i sigari dell'appalto austriaco, e poi tenuti di riserva in un cassettone della sua camera, per offrirne agli amici... se le condizioni di Venezia non lo avessero privato anche di questo piacere.

Ma i veneziani che non avevano saputo imitare la previdenza del conte Ermolao, avevano tutto consumato; ridotti senza munizioni e senza pane, uccisi dalle palle, dalle febbri, dal coléra, vedendo che le case bruciavano, e che sarebbero morti tutti di fame si risolsero a malincuore a capitolare, dopo 14 mesi d'assedio e 24 giorni d'incessante bombardamento.

Quegli ultimi giorni furono pieni di ansietà, di dolorosi congedi, e di lagrime. Michele, zoppicante, sostenuto da Tiziano, uscì dall'ambulanza, e ritornò al suo alloggio per disporsi alla partenza. Egli era deciso di recarsi in Piemonte, per riprendere le armi, appena ristabilito in salute. I due amici si recarono a dare il loro addio alle buone vicine e abbracciarono cordialmente la nonna, la quale dopo tante privazioni deplorava che Venezia fosse costretta di cedere, ed avrebbe acconsentito di buon animo a soffrire ancora per lungo tempo, piuttosto di dover rivedere nuovamente quei brutti ceffi croati. Anche la Gigia si mostrava afflittissima che tutto fosse finito, e assicurava i suoi vicini che quella vita agitata e piena di pericoli non le dispiaceva punto, e la preferiva al silenzio della tomba che avrebbe invaso Venezia al ritorno degli austriaci.

Bortolo colle sue economie s'era finalmente deciso di comperare gli orecchini per sua madre, e li ottenne in ribasso da un contrabbandiere che li aveva salvati dalla fusione prescritta dal governo. Poi era andato a salutare l'amico offelliere il quale gli propose di rimanere a Venezia al suo stabilimento, assicurandolo che stava per tornare il tempo dei buoni affari pel suo commercio, perchè gli austriaci sono gran consumatori di ciambelle e cialdoni, e gli promise un buon salario, colla giunta di un benefizio negli utili. Ma Bortolo non volle accettare quelle vantaggiose proposte, sembrandogli che il lavorare di ciambelle pei tedeschi fosse quasi un delitto contro la patria e contro il senso comune. Ma per non offendere l'amico giustificò il suo rifiuto dicendogli di dover seguire il padrone, che gli era stato affidato dai parenti, perchè dovesse stargli sempre vicino, ed al quale era legato d'affetto quasi fraterno. Era nato in casa Lareze, ove suo padre era morto, ove sua madre serviva ancora, e non avrebbe potuto decidersi di abbandonare quella famiglia, che considerava come la sua.

L'offelliere insistette, dicendogli che ciascheduno aveva diritto di migliorare la propria condizione, e si forzava di convincerlo della convenienza di rimanere, tanto gli piaceva quell'uomo, semplice, laborioso ed onesto, e lo vedeva partire con vera afflizione. Ma Bortolo si mostrava irremovibile, allora l'offelliere gli disse:

— Pensa che qui ti si presenta un bell'avvenire; io divento vecchio, certe fatiche non posso più sopportarle, sento gran bisogno di riposo, e se posso rifarmi delle perdite che ho subite in questi ultimi tempi, desidero di andar a morire al mio paese, nelle nostre montagne.... allora ti cederò il negozio a buoni patti.

Alla fine per liberarsi da quella insistenza, Bortolo conchiuse col dirgli che ci avrebbe pensato in seguito, che si sarebbe consigliato col padrone, e con sua madre, ma che al momento non voleva vedere i tedeschi a Venezia, dopo d'aver rischiato la vita per farli partire, che aveva bisogno di rivedere il Cadore, e la famiglia che lo aspettava, e gli promise che gli avrebbe scritto fra qualche tempo, per dargli una risposta definitiva.

E quando fu decisa la partenza andò a prender congedo da quelle buone donne alle quali aveva tanto giovato durante le strettezze dell'assedio, e salì quelle scale col cuore lacerato dall'amaro pensiero dell'ultimo addio.

Esse lo accolsero come un vecchio e carissimo amico, al quale dovevano la più viva riconoscenza; si mostrarono inconsolabili della sua vicina partenza, e la nonna cogli occhi rossi gli disse:

— Quasi quasi mi dispiace d'avervi gratitudine; vi volevo proprio bene come ad un figlio, lo sento adesso che ci dovete lasciare... private della vostra compagnia proveremo un gran vuoto... e mi dispiace d'esser vecchia perchè non potrò più rivedervi....

— O perchè?... gli rispondeva Bortolo, sapete che le montagne stanno ferme e che gli uomini camminano.... Io mi sono abituato a poco a poco a Venezia, mi ci trovo bene... mi dispiace tanto di lasciarla... e desidero ritornarci.

— Bravo! così mi piace, soggiungeva la nonna, mantenete la vostra parola, tornate presto... e intanto non mancate di scriverci, per farci sapere le vostre notizie.

La Gigia cogli occhi intenti al suo lavoro non fiatava. Egli la osservava attentamente, e la gli sembrava cambiata.

Rimase con loro un bel paio d'ore, che gli passarono come un lampo.

Non poteva decidersi d'andarsene. Gli pareva di aver sempre qualche altra cosa da dire, e ci pensava sopra in silenzio, senza trovarla.

Finalmente si alzò da sedere, andò a dare un bacio alla nonna che se lo strinse al seno, bagnandolo di lagrime, e forzandosi invano di parlare, perchè la parola gli si strozzava in gola. Poi quando fu davanti alla Gigia, i suoi occhi si scontrarono in uno sguardo strano, in uno sguardo nuovo per lui, così lungo, così profondo ed espressivo, che lo colpì, e gli fece sentire una sensazione nuova, ignota, dolce e dolorosa ad un tempo.

Quando egli le stese la mano, essa si alzò, depose il lavoro, e mostrò di volerlo accompagnare alla porta. Salutò nuovamente la nonna che piangendo gli mandò l'ultimo saluto con un cenno del capo, e seguì la ragazza che aveva aperto l'uscio e lo attendeva sul pianerottolo. Le prese la mano, e sentì che tremava, volle dirle qualche cosa e non gli fu possibile di raccapezzare un'idea. S'avvide che essa aveva gli occhi velati di lagrime, e dopo un breve silenzio le disse addio; essa non gli rispose che con un cenno della mano.

Scese le scale come cieco, si rivolse un'ultima volta a salutarla, e quando non la vide più udì un singhiozzo mal represso che gli penetrò nel profondo dell'anima, volle ritornare sui suoi passi, ma udì il rumore della porta che si richiudeva, e rimase immobile a quel posto, appoggiato alla ringhiera.

Dopo qualche istante continuò a scendere le scale, senza sapere dove poggiava i piedi, sbalordito, confuso; attraversò le solite vie, senza vederle, e giunto in piazza si perdette fra una folla di gente che gridava:

— «Non vogliamo cedere, vogliamo sortire in massa» ed anche lui si mise a gridare come un disperato: — «bisogna resistere e difendersi, non si deve deporre le armi.»

Ma la capitolazione era firmata, e il dittatore aveva già rassegnati i suoi poteri al Municipio. Il sacrifizio era consumato.

La libertà di Venezia cadeva quando Roma era occupata da sei settimane, la restaurazione del duca di Firenze effettuata da due mesi, la pace fra il Piemonte e l'Austria stipulata da diciotto giorni, l'Ungheria ritornata al servaggio.

Manin s'era imbarcato colla sua famiglia sul piroscafo francese Il Plutone e usciva da Venezia alle tre pomeridiane del 23 agosto 1849. Otto altri navigli imbarcavano i quaranta proscritti dall'Austria, seguiti da numerosi esuli volontari, che non volevano vedere i tedeschi.

All'ora nefasta dell'entrata delle truppe austriache il conte Ermolao s'era affacciato ad un balcone del suo palazzo per veder passare gl'invasori. Nessuno li guardava in faccia, il popolo fu dignitoso, altero, glaciale, e i croati gettavano delle occhiate sospettose, temendo ad ogni istante di saltare in aria.

La contessa Marina Steno s'era vestita in lutto, e desiderava di lasciare Venezia, un vapore inglese attendeva ancora gli ultimi emigranti, ma il conte Ermolao resisteva, desideroso di non alterare le sue abitudini, e di non abbandonare gli agi aviti del suo palazzo. Ma quando vide passare il nuovo padrone di Venezia, il tenente-maresciallo Gorzkowsky, generale di cavalleria, con quel piccolo cheppì che gli lasciava scoperta la nuca, e coprendogli la fronte gli si appoggiava alla sommità del naso, piccolo cheppì bizzarro, sormontato da un pennacchio di penne verdi, che lo facevano rassomigliare ad un vasetto di maggiorana sulla testa d'un cosacco, provò un tal senso di ribrezzo insormontabile, che non si sa bene se sia provenuto da indignazione patrizia, o da paura; il fatto sta che chiamata in fretta la moglie, si dichiarò pronto a seguirla, e fino che i domestici approntarono le valigie, la fece entrare in una gondola che li condusse a bordo del vapore.

Appena saliti sul ponte videro il colonnello dei Cacciatori delle Alpi che guardava mestamente Venezia, conversava con un suo ufficiale che si reggeva ad una stampella.

Calvi e Michele, salutavano la città perduta dal ponte della nave straniera che doveva condurli in esiglio, e giuravano che un giorno l'avrebbero vendicata.

Udito il fruscìo d'una serica veste, Michele sempre sensibile a quel suono, rivolse la testa, vide la gentildonna vestita a bruno; le si inchinò profondamente, e rivolto a Calvi, gli disse:

— L'anima di Venezia parte con noi!... noi abbandoniamo ai Tedeschi un cadavere, le mura infrante d'una città devastata dalla loro barbarie.... lo spirito, il cuore, il prestigio di Venezia escono dalla laguna cogli esuli e coi proscritti.... per fare appello agli Italiani.... e spingerli a riconquistare questo prezioso gioiello della patria!...

XVII.

Pochi giorni dopo la caduta di Venezia, sior Antonio veniva avvertito da una lettera del figlio del giorno preciso del suo ritorno, e attaccata la Nina al solito veicolo, andava ad incontrarlo fino a Longarone, come gli era stato chiesto.

Tiziano rivedendo i suoi monti si sentiva aprir l'animo a nuova vita. Uscendo da Venezia bersagliata dal ferro e dal fuoco, prostrata dal coléra e dalla fame, aspirava avidamente l'aria balsamica della campagna, si sentiva rinascere al contatto della vigorosa natura alpina, e anelava di rivedere le persone dilette che lo attendevano ansiosamente. Bortolo invece era triste, preoccupato, malcontento; gli pareva che i monti gli opprimessero il petto e gli togliessero il respiro. Si lamentava che gli mancasse l'orizzonte infinito del mare, e quell'ampio specchio azzurro della laguna, dalla quale sorgevano tante cose meravigliose. E si burlava delle catapecchie di montagna, affumicate, nere, cadenti, e delle rustiche chiesuole dei villaggi, che messe a raffronto dei palazzi di marmo e delle basiliche di Venezia gli facevano pietà.

L'incontro con sior Antonio fu dei più espansivi, e l'entrata nel vecchio cortile di casa riuscì commovente per tutti. Due madri attendevano i loro figli, tanto lungamente desiderati, una sposa rivedeva alfine il fidanzato reduce da tanti pericoli, e Fido riconosciuti i suoi vecchi amici prendeva viva parte a quelle gioie domestiche. Ma siccome è assai raro che nella vita ci sieno contentezze complete, così un grave malanno amareggiava quel ritorno; l'Austria aveva vinto da ogni parte, e l'abborrito governo straniero stringeva ancora l'Italia nella sua mano rapace.

— L'ho sempre detto, ripeteva il Consigliere imperiale, l'ho sempre detto che l'Austria non vorrà mai abbandonare il suo dominio in questa Italia, che del resto non sarebbe capace di governarsi da sè!....

Dopo la caduta di Venezia egli riteneva che tutto fosse finito per sempre. Salì in soffitta, spolverò i ritratti dell'imperatore, degli arciduchi, e dei marescialli, e li rimise al loro posto, d'accordo con tutte le Potenze europee che la pensavano come il Consigliere, e ritenevano l'Austria invulnerabile, e l'Italia spacciata.

Maria era ritornata ad abitare il roccolo di Sant'Alipio con la sua vecchia fantesca, e riceveva ogni giorno il suo fidanzato, che aveva tante cose da raccontarle dopo così lunga assenza. Il nome del capitano Kasper Kraus tornava sovente nei loro discorsi, e le avventure del passo della morte e di Brondolo li faceva pensare ai passati pericoli, agli arcani della provvidenza, alla dura sorte riservata al loro paese, dopo tante vittime, e tanti sacrifizi.

Al frastuono dei cannoni, al fumo della polvere, ai pericoli ed alle desolazioni della guerra era succeduta una pace profonda, un silenzio solenne, un tenero amore che domandava alfine d'essere soddisfatto colle dolcezze della vita comune.

Il matrimonio fra i due giovani venne dunque fissato per la fine d'autunno; e fu pattuito in famiglia che fondendo insieme gli averi dei due sposi, essi avrebbero abitato il roccolo di Sant'Alipio per vivere tranquilli in quell'angolo romito delle Alpi.

E venne finalmente anche quel giorno tanto desiderato. L'arcidiacono celebrò solennemente il matrimonio, Michele fu il compare, rappresentato da Bortolo che aveva ricevuta la procura dall'esule, unitamente ai doni per gli sposi.

Sior Antonio dichiarò agli amici che quello era il più bel giorno della sua vita, Maddalena pianse di letizia, come aveva pianto di dolore, le lagrime sono per molte donne l'espressione dei punti salienti della vita, e la manifestazione spontanea di sensazioni contrarie. Bortolo si mise in guanti per la prima volta in sua vita, offrendo così un intermedio fra l'abito nero di Tiziano, e le brache corte di sior Antonio, stonature dei costumi di montagna che rappresentano alla metà d'un secolo gli avanzi del passato e i gusti dell'avvenire, in una famiglia che passa dalla originaria semplicità, alle esigenze d'una classe superiore modificata dall'educazione.

Tutto il paese applaudì a quelle nozze, ed alla sera gli sposi si ritirarono al roccolo, ove un raggio di luna rischiarava la modesta casetta di legno e gli effluvi delle piante imbalsamavano la camera nuziale, nella quale non penetrava altro rumore che l'a solo d'un usignuolo, pieno di soavi melodie, fra un coro di grilli, accompagnati da lontano dal cupo rumore della Piave che s'infrange fra i sassi in fondo della valle.

E così la vita riprendeva il suo corso normale, in completa bonaccia, come il mare dopo una fiera burrasca.

Tiziano assisteva il padre nell'amministrazione degli affari dei suoi padroni di Venezia, e si occupava del taglio dei boschi, delle seghe, della spedizione dei legnami, e quando rientrava al roccolo incontrava lo sguardo sereno e soddisfatto di Maria che gli correva incontro per avere un bacio.

E nelle ore perdute, Tiziano continuando le abitudini di Isidoro, coltivava il terreno circostante, colla stessa anarchia d'una volta, volendo ricavare da quella poca terra tutto ciò che essa può produrre in quel clima, dei fiori e delle frutta, del frumento, del granoturco, delle patate, dei fagiuoli, del grano saraceno e delle fragole, tutto misto e confuso cogli alberi e le erbe aventizie, in pittoresco disordine, percorso dalle farfalle.

Alla sera colla pipa in bocca e l'anaffiatoio in mano egli bagnava le sue piante, mentre Maria riparata da un cappellino di paglia coglieva le frutta per la cena.

Pareva che la loro vita dovesse scorrere come un fiume di latte e miele nella modesta semplicità di quell'idillio, ma l'esistenza non si uniforma mai alla parte esterna delle cose, ma si compone a seconda dei pensieri e dei caratteri. La felicità o la sventura stanno dentro di noi stessi, ci accompagnano dovunque, e si manifestano costantemente nelle più svariate circostanze. Così anche in mezzo ai sorrisi di natura, in quella pace irradiata d'amore, un'ombra cupa, tenebrosa, si alzava sull'orizzonte, e ne offuscava il sereno.

Michele scriveva dal Piemonte che era entrato nei bersaglieri, che tutto non era finito, che bisognava apparecchiarsi a nuove guerre, per compiere l'emancipazione d'Italia. Maria leggeva quelle lettere, che le piantavano una spina nel cuore, e interrogava il marito:

— Che cosa faresti se ritornasse la guerra?...

— Il mio dovere... le rispondeva il marito.

Ora era evidente per Maria che il primo dovere d'ogni galantuomo è sempre e dovunque quello di difendere la patria, e fino a che i tedeschi la scialavano da padroni in Italia, l'onore degli italiani era offeso e la patria disonorata. Era certo per tutti, che alla prima occasione favorevole gl'italiani avrebbero riprese le armi, per continuare le guerre d'indipendenza, fino alla fine; e con questa spada sempre sospesa sul capo, la completa felicità della famiglia era affatto impossibile.

Maria comunicava sovente a sior Antonio le sue impressioni ed egli le rispondeva:

— Il Consigliere mi assicura che tutto è finito... io dico di no.... ma intanto passano gli anni, e quando si diventa vecchi non si è più buoni da niente!...

E gli anni passavano davvero, ed anche se Michele scriveva di quando in quando che la guerra era vicina, che bisognava star pronti, tuttavia le cose fruste si andavano sempre rappezzando, e si tirava avanti.

Un anno e mezzo circa, dopo il matrimonio, Maria con supremo contento, sentì il palpito d'una nuova vita che le si agitava nel seno. Trepidante di gioia annunziò al marito che lo avrebbe reso padre, ed essa si apparecchiava a ricevere il bimbo da buona madre, allestendo con operosa sollecitudine tutti gli arredi necessari, quando le lettere di Michele si fecero più pressanti, eccitando l'amico ad apparecchiarsi a nuove lotte. Ecco la gioia avvelenata da mille apprensioni. Il primo frutto del loro amore stava per venire al mondo, e già si apparecchiavano nuovi pericoli, e si prevedevano nuovi sconvolgimenti, e quindi nuovi lutti. L'esperienza del passato ammoniva Maria di tutte le difficoltà alle quali si andava incontro lottando col potente nemico. Per apparecchiare la lotta in segreto si arrischiava la prigione, e qui sorgevano i fantasmi dell'arresto, della partenza, dei lunghi processi, le sofferenze del carcere, l'abbandono della casa, e per quelli che restavano fuori, il terribile isolamento, il continuo timore, le smaniose incertezze, e la separazione di due anime legate dall'affetto, destinate a vivere insieme per allevare i figliuoli nella pace domestica, per farne degli uomini onesti utili alla patria.... La patria!... questa santa parola rammentava l'onta del dominio straniero, il dovere di lavarla nel sangue.... il sangue!.... bisognava dunque spargerne ancora, dopo tanto che se n'era invano prodigato, e si richiedevano nuove vittime per ottenere la libertà!...

— Oh maledetti gl'invasori!... maledetto colui che calpesta la terra bagnata del sudore dei nostri padri!... Che ciascheduno viva e comandi in casa propria, questa è legge di natura, questo è il più sacro diritto di tutte le nazioni del mondo!... Dopo il pericolo della prigione si presentava quello dell'esiglio. Se la congiura non riesce a buon effetto, se l'Austria cerca i congiurati per seppellirli vivi nelle sue carceri della Moravia bisognerà cercare la salvezza in un paese sconosciuto, abbandonare la casa paterna e le dilette montagne, vivere isolati lontani dai parenti, dagli amici, dalle dolci abitudini, dalle consuete occupazioni, e forse anche chi sa! mancare del necessario, vedere i figli nella miseria, e non poter provvedere nè alla loro educazione nè al loro benessere!...

E se la congiura riusciva alla rivolta, bisognava apparecchiarsi nuovamente a combattere, e allora si presentavano tutti gli orrori della guerra. Vi saranno dunque nuovi massacri, nuove carneficine, verranno a prenderci i mariti, i padri dei nostri figli, per mandarli contro i fucili e le baionette tedesche!.... —

A tali dolorosi pensieri Maria piangeva nella sua solitudine, e Tiziano rientrando in casa la trovava cogli occhi rossi, e sofferente, mentre aveva bisogno di buona salute per due. Ed egli pure era infelice in quella lotta dell'odio e dell'amore. E quanto più gli erano cari i suoi diletti, la moglie e il futuro figliuolo, tanto più detestava l'umiliazione della dipendenza dagli stranieri, e il loro dominio gli pesava sul cuore come un'offesa alla sua dignità di cittadino, di marito, di padre. Vivere sotto l'incubo di leggi imposte dagli stranieri, chiedere a loro il permesso di esercitare ogni diritto, di muoversi, di pensare!... allevare i propri figliuoli per la loro coscrizione, destinata a fare degli schiavi, allo scopo di conservare la schiavitù d'altre nazioni, è tale vita ignominiosa che non può immaginarla chi non l'abbia subita, e non è tollerabile per chi sente e per chi pensa alla umana dignità.

Tiziano sentiva una gioia suprema all'idea di divenir padre, sior Antonio aspettava ansiosamente un nipotino, Maddalena provava il bisogno di ringiovanirsi colle cure di un bimbo figlio di suo figlio, ma tutti vivevano malcontenti ed inquieti, tormentati da mille timori, prevedendo nell'avvenire le amarezze che sarebbero sorte da quella letizia, i dolori che sarebbero derivati da quella gioia. Tale è il destino della famiglia sotto la dominazione straniera!... E tutti osservavano con dispetto il sorrisetto di scherno del Consigliere davanti i buoni patriotti, che egli chiamava gli esaltati, e che sior Iseppo riteneva tutti matti, come suo nipote.

Le lagrime nascoste, i sospiri repressi, ma invano dissimulati dalla donna diletta, quelle apprensioni della famiglia, affliggevano sommamente Tiziano, e per tranquillare la moglie dovette prometterle che non l'avrebbe mai abbandonata, limitandosi al semplice dovere di cooperare alla liberazione del territorio cadorino, caso mai una insurrezione od una guerra rendessero possibile la lotta.

Questa assicurazione egli l'aveva fatta col convincimento di una prossima sollevazione del Cadore, promossa dallo stesso comandante della difesa.

Calvi rifugiato a Torino teneva viva corrispondenza coi suoi vecchi comilitoni, colla speranza di poter penetrare nei monti, di liberarli dai Tedeschi e di annodare l'insurrezione del Cadore ad un nuovo sollevamento d'Italia.

A tale scopo si erano costituiti dei comitati a Venezia ed a Pieve, i quali cercavano di riorganizzare gli avanzi dispersi dei Cacciatori delle Alpi, per gettarli sui monti bellunesi e cadorini, dove l'audace condottiero li avrebbe raggiunti.

Ma davanti la formidabile potenza dell'Austria, non si trovò prudente di secondare per il momento tale impresa, e si decise di attendere un tempo più opportuno.

Intanto durante questa calma apparente, Maria mise alla luce il suo primo bambino, al quale venne imposto il nome di Isidoro, per ricordare il povero nonno, morto in difesa della patria. E i fiori e le erbe vagabonde del roccolo di Sant'Alipio, agitate dalla brezza del mattino parevano in festa, quando echeggiarono fra le altre armonie della natura, anche i primi vagiti del neonato.

La vita allora si fece più lieta, quel bimbo fu la gioia di due famiglie, la delizia di due case, e pareva che il Consigliere imperiale avesse ragione e che tutto fosse finito.

La forza materiale pesava sul diritto come un macigno caduto dall'erta sopra il ramo staccato di un albero. La rassegnazione nata dalla necessità faceva che tutti i giorni si rassomigliassero, e che gli anni scorressero monotoni non lasciando altre traccie sul sentiero della vita, che di modesti avvenimenti domestici, di gioie e di dolori delle diverse famiglie.

Non si parlava d'altro che del taglio dei boschi e del commercio dei legnami; e la cronaca quotidiana raccontata nei circoli dell'intimità non ripeteva che i casi della vita privata, i morti, i matrimoni, i neonati, o lo scandalo di qualche frutto proibito rosicato in silenzio dai discendenti non ancora degeneri di Adamo ed Eva.

Fra i vari casi di quel tempo, sior Iseppo offrì argomento di malinconiche riflessioni sugli uomini avari, essendo restato colpito d'apoplessia, e rimasto paralitico e scemo, proprio nel momento che suo nipote Michele divenuto capitano in Piemonte, non gli domandava più denaro, e lo rendeva lieto di rilevanti risparmi che il vecchio zio andava accumulando con sommo piacere, non si capisce a quale intento, nell'avanzata sua età.

Pochi giorni dopo il fatale accidente, sior Iseppo morì senza avvedersene, e Michele rimase l'erede naturale, per diritto di successione, come il più prossimo parente del defunto, ed entrò in legittimo possesso di tutte quelle sostanze le cui economie gli costarono tanti sacrifizii, e tante privazioni, per non privare lo zio della soddisfazione di accumulare il denaro in una cassetta dell'armadio.

Michele elesse a suo procuratore sior Antonio, il quale appena raccolta la eredità, mandò i conti all'erede, che ordinò una bella lapide da collocarsi sul muro del cimitero, ove era stato sepolto sior Iseppo, e vi fece incidere una delle solite iscrizioni, colle consuete menzogne, prodigate dai nipoti sulle tombe degli zii avari, che hanno fatto colla morte onorevole ammenda dei loro torti.

Se sior Iseppo avrà contemplato dall'altro mondo quello spreco di denaro, lo avrà anche cordialmente disapprovato, e non senza ragione, perchè in effetto quella spesa non fu rimborsata dall'eredità, che riuscì passiva all'erede.

E infatti mentre Michele sperava di migliorare le sue condizioni nell'esiglio, colle rendite della sua sostanza, ne rimase dolorosamente deluso. L'Austria non si contentava d'invadere l'Italia e di soggiogarla, e di mettere in prigione i buoni patriotti, essa spingeva la perfidia fino a perseguitarli nei paesi indipendenti dal suo dominio, e colpendo di sequestro i beni degli emigrati, mostrava al mondo tutta la raffinatezza della sua tirannide. Michele vedendo che i vari Stati d'Europa lasciavano correre senza opposizione simili eccessi di violenza, si rassegnò come gli altri ad attendere dalla suprema giustizia dei popoli indignati, la riforma dei Governi, affrettando con ogni forza l'avvenimento della libertà, per emancipare il genere umano dal giogo del dispotismo.

Intanto gli anni passavano, e Maria metteva alla luce una bambina alla quale venne posto il nome di Adria, in memoria e in venerazione di Venezia, e venti mesi dopo le nasceva il terzo bambino che veniva nominato Taddeo per ricordare il bisnonno di venerata memoria.

Il Cadore era in apparenza tranquillo, ma un fermento sotterraneo minava il dominio straniero, e mandava qualche lampo foriero dell'uragano.

In quel torno il Consigliere imperiale fece un viaggio misterioso a Venezia, e a Pieve si bisbigliava che fosse stato chiamato dal Governo per avere degli schiarimenti intorno a certe macchinazioni sulle quali correvano dei sospetti, e che si volevano reprimere con qualche esemplare espiazione.

Un costante pericolo pendeva in tal modo sul roccolo di Sant'Alipio, mentre quella famiglia viveva in pace. I bimbi crescevano sani e robusti, e i vagiti dell'ultimo neonato aggiunti agli strilli de' suoi fratellini riempivano l'aria di quei segnali di vita ripullulante che potrebbe chiamarsi la primavera della famiglia.

Maria appena uscita dal puerperio portava il nuovo bimbo all'aria aperta, seguita dalla piccola Adria, e da Isidoro che aveva quattro anni, e Tiziano guardava con compiacenza la sua bella famigliuola che veniva su con tutto il rigoglio di quelle vigorose popolazioni delle Alpi.

Ma ecco nuove apprensioni che ritornano ad intorbidare quella serena esistenza.

Calvi era partito da Torino dirigendosi verso il Cadore colla sua idea fissa di suscitare l'insurrezione delle montagne, e colla fiducia d'essere secondato da tutta Italia. Tiziano che faceva parte del Comitato nazionale segreto ne ricevette l'annunzio coll'ordine di apparecchiare l'insurrezione.

Michele gli scrisse in pari tempo, disapprovando il movimento intempestivo, e così gettò l'incertezza nell'animo di colui che aveva bisogno di tutta la sua energia per secondarlo. E quantunque Tiziano volesse conservare il più rigoroso segreto sugli avvenimenti che si apparecchiavano, pure le insolite assenze, l'espressione stessa del volto che tradiva l'ansietà di serie preoccupazioni, non sfuggirono allo sguardo perspicace di Maria, avvezza a leggere i più reconditi pensieri sulla fisonomia del marito.

Una sera mentre i bimbi dormivano, essa si precipitò piangendo nelle braccia di lui, mostrandogli il più vivo rammarico pei misteriosi raggiri che egli cercava di nasconderle, e supplicandolo in nome di quelle care creature a volerle svelare la verità; lo assicurava che sarebbe più forte a sopportare qualunque pericolo piuttosto di vedersi tormentata con sospettose paure che la rendevano infelice, le toglievano il sonno, ed alteravano il latte col quale doveva nutrire il suo bimbo.

Procurò d'acquietarla con ogni possibile persuasione, resistette lungo tempo alle sue affettuose sollecitazioni, ma non le fu possibile di perseverare nelle negative davanti le lagrime, i singhiozzi di quella desolata, che avrebbe fatto pietà ai cuori più duri; e facendole giurare il silenzio sulla vita stessa dei figli, le confidò il segreto, annunziandole che Calvi era già in viaggio per entrare in Cadore, ch'egli sarebbe partito il giorno seguente per andare ad incontrarlo con Giacomo Croda, che le armi e gli uomini erano pronti per la sollevazione generale.

Quale notte dovette passare quella povera donna, condannata a rimaner sola coi suoi tre bambini, mentre il marito esponeva nuovamente la vita per la libertà!...

E quale doloroso distacco al mattino della partenza!...

Giacomo Croda era giunto al roccolo di tutta notte, e prima del levare del sole si misero in viaggio.

Passarono due giorni pieni di tristezza e d'ansietà, ed al mattino del terzo giorno giunse a Pieve un giornale che annunziava la cattura di Calvi coi suoi complici.

A tale notizia la povera donna perdette i sensi, e cadde sul pavimento come morta. Il medico chiamato in fretta ebbe molta difficoltà a richiamarla in vita. Sior Antonio, invaso egli pure dallo spavento, non era in caso di consolarla; Maddalena col bambino in braccio correva per la casa come demente, e non aveva più lagrime: tutta la casa era in subbuglio.

Si capiva a prima vista che sarebbero tutti mandati al patibolo; e si attendevano notizie coll'ansia della febbre. Il giornale del giorno seguente, annunziava che gli arrestati messi in ferri, e sotto buona scorta, erano stati condotti a Trento e poi tradotti al Castello di Mantova.

Maria cadde gravemente malata, perdette il latte, e fu necessario di trovare una balia pel piccolo Taddeo. Sior Antonio pareva pazzo furioso, e invece di cercare dei conforti per la moglie e la nuora, come aveva sempre fatto in tutte le altre occasioni, aggravava i loro affanni, e cresceva il loro spavento accennando a tutte le torture alle quali la crudeltà austriaca assoggettava i prigionieri di stato.

La Betta non abbandonava mai il letto di Maria, Maddalena curava i bambini, sior Antonio girava tutto il giorno in cerca di notizie, passava la sera al roccolo, e non rientrava in casa che assai tardi.

Una notte, mentre stava spogliandosi per coricarsi udì picchiare fortemente all'uscio di casa. Bortolo che era andato a letto da qualche tempo russava come un mantice. Le percosse alla porta si rinnovarono con tenace insistenza. Sior Antonio aperse la finestra, e messa fuori la testa domandò:

— Chi è che batte alla porta?... che cosa volete a quest'ora?...

— Zitto.... aprimi... sono io... — gli rispose Tiziano.

Invece di correre ad aprire sior Antonio sentì mancarsi le gambe, gli prese un capogiro, e credette di essere colpito d'apoplessia. Credeva suo figlio nel carcere di Mantova, e udiva la sua voce alla porta di casa!... la sorpresa improvvisa gli paralizzava le forze. La gioia è più pericolosa del dolore. Tiziano al colmo dell'impazienza batteva i piedi, alzava le mani, ma suo padre non compariva mai ad aprirgli la porta, non potendo riaversi da quello smarrimento nervoso. Finalmente, quando a Dio piacque, giunse a trascinarsi giù dalle scale, aperse l'uscio con mano tremante, e gettandosi nelle braccia del figlio gli disse:

— Portami dentro perchè non posso reggermi in piedi.

Tiziano lo sostenne, chiuse l'uscio, e trascinandolo davanti una panca lo aiutò a sedere, gli fece animo, e gli chiese notizie di Maria, dei suoi bambini, di sua madre e lo consigliò a calmarsi da quella pericolosa agitazione.

— Siamo tutti ammalati! — gli rispose sior Antonio.... — meno i bambini che non capiscono i nostri terrori.... ma tu parla.... dimmi, come sei qui.... come hai fatto a fuggire da quel maledetto castello di Mantova?...

— Fuggire?... non ho avuto bisogno di fuggire.... io non sono stato arrestato....

— Come?... non ti hanno arrestato con Calvi?...

— Ma no!... Calvi non lo abbiamo nemmeno veduto.... ci mancavano ancora poche ore per giungere al sito fissato pel nostro incontro, quando essendo entrati in un osteria per rifocillarci abbiamo udito raccontare il suo arresto. Abbiamo fatto come se l'affare non ci riguardasse nè punto nè poco, e dopo esserci riposati alquanto fingendo di continuare la via, abbiamo fatto una giravolta, ricalcando i nostri passi, e siamo tornati indietro tranquillamente, e grazie al cielo senza cattivi incontri.

— E perchè non avete mandato subito le vostre notizie?...

— Oh bella!... come si fa in cima i monti a trovare il modo di mandar notizie?... Rientrati in Cadore ci siamo divisi. Giacomo Croda ha preso la strada d'Auronzo, io sono qui, per non spaventare Maria con un'apparizione notturna.

Allora sior Antonio rimesso in gambe apparecchiò da cena al figliuolo, lo lasciò mangiare in quiete, poi a poco a poco gli annunziò la malattia di sua moglie, prodotta certamente dallo spavento.

Tiziano voleva correre subito al roccolo, ma il padre lo trattenne, mostrandogli i gravi pericoli di quell'imprudenza, e lo persuase a non lasciarsi vedere se prima egli non avesse apparecchiato Maria al suo ritorno, la sua comparsa improvvisa potendo riuscire fatale.

Andarono dunque a letto, e alla mattina per tempo sior Antonio si recò al roccolo, dicendo che aveva ricevuto buonissime notizie da Tiziano, che stava benissimo, non era mai stato arrestato, e sarebbe di ritorno in giornata, dimostrò chiaramente che i loro timori erano stati precipitosi e mal fondati, e d'accordo con sua moglie predisposero con tanta avvedutezza la povera malata, che il ritorno del marito invece di riuscirle funesto, fu il farmaco più propizio a migliorare il suo stato, e le rese più facile il ristabilimento in salute.

Quando Tiziano entrò nella stanza e corse al letto della moglie, essa se lo strinse al seno inondandolo di lagrime, e volle che la suocera andasse a prendere tutti i bambini e li conducesse al babbo, che non rifiniva di dar baci e di riceverne, prendendosi in braccio il piccolo Taddeo che gli veniva portato dalla balia, sostenendo sui ginocchi Adria che succhiava un zuccherino, e tenendo per mano Isidoro che gli stava davanti in piedi sorridente, mentre la nonna gli accarezzava la testa; sior Antonio confuso dalla contentezza, adombrato da sospetti, sbalordito dalla sorpresa, aveva il volto talmente scomposto da tante impressioni successive ed opposte che pareva un morto uscito dalla sepoltura.

Venuto il medico a fare la sua visita trovò Maria in uno stato d'eccitazione violenta che era necessario di far cessare. Consigliò tutti a ritirarsi, a lasciarla tranquilla, ordinò dei calmanti, e promise che tolta la causa prima del male, non avrebbero tardato a scomparire anche gli effetti, ma ci voleva prudenza, tranquillità assoluta di spirito, e completo riposo.

Intanto si andavano facendo degli arresti in vari siti del Cadore, e bisognava tenere la notizia scrupolosamente nascosta a Maria, che agitata da nuovi timori e da nuove ansietà, sarebbe ricaduta gravemente ammalata. Ma Tiziano e sior Antonio non vivevano senza apprensioni, e discutevano nascostamente che cosa fosse da farsi. Il padre propendeva per la fuga, promettendogli che avrebbe persuaso Maria a questa prudente precauzione, ben preferibile ad una lunga prigionia, e a quegli eterni processi di stato, che finivano sempre con spietate condanne. Accomodandosi le faccende, egli sarebbe ritornato, o dovendo prolungare l'esiglio, sua moglie e i bambini lo avrebbero raggiunto. Ma Tiziano amava troppo il Cadore, e quei monti ove era nato, aveva passata l'infanzia, aveva fatto il suo nido, l'idea dell'esiglio lo attristava profondamente, e non poteva decidersi a questo passo senza un'evidente minaccia di pericolo. Egli sperava nell'ignoranza della polizia austriaca che non riusciva mai a colpire i capi delle congiure, che quando le cadevano nelle mani per imprudenza. Sperava nell'isolamento del suo romitaggio che lo nascondeva agli occhi delle autorità sospettose, e contava sulla prudenza che guidava le sue azioni, essendo sicuro che nessun nome, nessuna carta compromettente erano usciti dalle sue mani, che tutti ignoravano la sua partenza ed il suo ritorno, e quindi si decise di attendere, dimostrando a suo padre che una fuga lo avrebbe compromesso assai più d'una cauta aspettativa, e promise di stare in guardia, e di ritirarsi in tempo se il pericolo si facesse imminente.

E infatti in quei momenti l'Austria non poteva contare nemmeno sui segreti d'ufficio, quell'aborrito governo non poteva conservare fedeli gli impiegati subalterni che servivano per necessità, non avendo altri mezzi di sussistenza, ma che si sentivano italiani, e cercavano di giovare ai loro fratelli, avvertendoli in tempo d'ogni pericolo. Così fu deciso di attendere con oculatezza, apparecchiando tutti i mezzi più sicuri per la fuga, senza precipitarla.

Intanto Maria cominciò ad alzarsi dal letto, e a scendere all'aperto, e il vigore della gioventù, l'aria elastica, e specialmente il cuore contento la guarirono in breve da ogni sofferenza.

Il roccolo di Sant'Alipio riprese le sue pacifiche abitudini, ma le notizie che giungevano dal processo di Mantova facevano l'effetto d'una nuvola nera che sorgesse all'orizzonte, e quella pace domestica non era che superficiale, intorbidata nel fondo dalle crudeltà di quegli stranieri che facevano da padroni, processando le virtù, e condannando l'amore di patria come un delitto.

A quel sorriso di natura che si presenta dal roccolo di Sant'Alipio faceva prospetto lontano lontano, come un fantasma minaccioso, il tetro castello di Mantova dove si svolgeva il lugubre dramma del capo militare del Cadore.

Il colonnello Calvi, sepolto vivo in quei torrioni, pensava alla libertà delle montagne, e l'afa del carcere gli riusciva più pesante. Il suo tentativo non era stato che un sogno. Sincero, franco, inflessibile, egli non dissimulava ai suoi giudici i suoi intenti, e non taceva che i nomi dei congiurati. Egli esponeva con dignità il sacro dovere di difendere la patria da ogni insulto, come nostra madre, e di liberarla dall'oppressione. Negli orrori della cella segreta, nella lontananza da tutti i suoi cari, nella certezza che la sua lealtà lo avrebbe condotto alla morte, esso non smentì mai il forte carattere, non cedette mai nè alle lusinghe nè alle minaccie, sereno ed impavido fino alla fine.

Il 1 luglio 1855, davanti la corte speciale istituita dagli stranieri, Calvi fu condannato alla morte. Richiesto se voleva ricorrere per la grazia sovrana, rifiutò. L'eroico condottiero dei difensori delle Alpi morì a 38 anni sul patibolo!... e venne sepolto accanto agli altri martiri di Belfiore.

La truce notizia giunta in Cadore sollevò l'universale indignazione.

Le sole nazioni libere accordano l'asilo agli emigrati politici, ma tutti i popoli del mondo pongono fra gli eroi i soldati che difendono la patria, e muoiono per la sua indipendenza.

L'odio verso gli stranieri crebbe in tutti i cuori italiani, davanti le crudeli esecuzioni di Mantova, e la libertà avanzò d'un passo sicuro davanti il sacrificio di quelle vittime.

Tiziano, inorridito di tanta crudeltà, rinnovò il giuramento di dare la sua vita e quella de' suoi figli per la liberazione della patria; e istillava nel loro animo infantile l'amore della libertà, e il sacro dovere di difenderla in ogni occasione.

Qualche tempo dopo quel lugubre processo il Consigliere imperiale ricevette da Vienna un decreto dell'imperatore d'Austria che lo nominava cavaliere di terza classe dell'ordine della corona di ferro. I Cadorini dicevano che era una ricompensa per aver fatto la spia, ma sior Antonio lo difendeva dicendo in un orecchio agli amici, che colla valida protezione di lui, suo figlio era sfuggito all'arresto minacciatogli nel processo di Mantova. Ma i Cadorini crollavano le spalle e rispondevano:

— Esso ha ingannato tutti... il governo ed il popolo... gli oppressori e gli oppressi.

XVIII.

Bortolo non poteva dimenticare Venezia. Quella città era diventata il punto saliente di tutte le sue aspirazioni, ma continui ostacoli si frapponevano a' suoi piani, e gl'impedivano di rivederla. Egli aveva fissato di accettare le proposte dell'offelliere, ma fu trattenuto in Cadore, prima dal matrimonio di Tiziano, poi dalle preghiere della madre, e finalmente fu indotto a ritardare la partenza dal desiderio di sior Antonio che aveva bisogno di lui per gli affari del legname. Tiziano poi lo consigliava di attendere la liberazione d'Italia che non doveva tardare. Intanto passavano gli anni, ma il più bel sogno della sua vita non si dileguava, e pareva anzi che ingigantisse col tempo; ed era mantenuto da una corrispondenza affettuosa colla Gigia, alla quale comunicava i suoi progetti, e le cagioni che ne ritardavano l'esecuzione. Ed essa gli rispondeva esattamente con inviti incoraggianti, ed intime confidenze cordiali, nelle quali parlava del passato con espressioni di rimpianto, e dell'avvenire come un mistero che il suo cuore non osava indagare, e che non dipendeva da lei.

Le robuste ragazze del Cadore, di forme ben tarchiate e gagliarde, non avevano nessuna attrattiva per Bortolo, il quale s'era fatto un ideale del tipo snello, mingherlino e sentimentale della Gigia. E quando andava alla fontana, guardava con profondo disprezzo le servotte del paese, che si burlavano di lui, e lo chiamavano il frate.

Quando seppe che Calvi s'era posto in viaggio per sollevare il Cadore, sperò negli eventi d'una ripresa d'armi, travide attraverso lo spazio la delizia d'un nuovo assedio di Venezia, ma l'arresto del condottiero e la successiva catastrofe lo persuasero che era vano aspettare dalla politica e dalla guerra una sorte felice, e si convinse che per raggiungere il suo scopo ci voleva una ferma volontà ed una energica risoluzione, e si decise a metter termine ad ogni esitanza scrivendo all'offelliere che se lo voleva ancora egli sarebbe a sua disposizione, e non aspettava che un ordine per partire. Ed avendo ricevuto una risposta favorevole, annunziò la presa decisione a sua madre ed ai padroni, i quali vedendo che non c'era modo di farlo cambiare d'idea, dovettero sostituirlo, e lasciarlo andare liberamente al suo destino.

Egli prese congedo da tutti, abbracciò teneramente sua madre, e partì.

E ciascheduno aveva riprese le proprie abitudini, col convincimento che bisognava rassegnarsi alle circostanze, sempre però coll'opinione che non si trattava che d'una sosta, e perciò l'attenzione generale era rivolta al Piemonte da dove si attendeva con fiducia il segnale della nuova riscossa.

Infatti nel 1859 scoppiò nuovamente la guerra nella quale gli italiani non domandavano che di essere alfine padroni in casa propria, ed arbitri dei loro destini, mentre l'Austria vantava dei diritti ereditari sul nostro paese, mercanteggiato da genti estranee, al tempo che si vendevano i popoli come le pecore.

Ma il re di Sardegna si annunziava come il primo soldato dell'indipendenza, e la Francia si univa all'esercito piemontese, composto oramai di italiani di tutte le provincie, per far finalmente cessare il dominio austriaco «dalle Alpi all'Adriatico».

Molti cadorini accorsero ad arruolarsi volontari in Piemonte, ove sotto il comando di Garibaldi, si organizzarono nuovamente i Cacciatori delle Alpi coi Cacciatori degli Appennini, della Stura, della Magra, a misura che i giovani giungevano da ogni parte.

Tiziano si limitò a predisporre segretamente il Cadore in modo tale che giunto il momento opportuno tutto fosse pronto a dare un bel colpo di mano ai liberatori; da ogni casupola alpina sarebbero usciti degli uomini armati, e nessun rinforzo austriaco avrebbe potuto penetrare in quei monti.

E qui nuovi timori di Maria, e nuove ambascie, combattute dal suo amore di patria, e dal vivo desiderio di finirla una volta per sempre, ma eccitate ad ogni momento dall'affezione profonda di moglie e di madre.

E quando Tiziano partiva per le sue spedizioni segrete, essa non viveva più fino al suo ritorno, e dormiva raramente di notte, sempre agitata dal timore di qualche brutta sorpresa.

Si attendevano ansiosamente le notizie, e fu un bel giorno quello nel quale si venne a sapere che il re di Piemonte e l'imperatore dei francesi erano entrati trionfalmente a Milano dopo la battaglia di Magenta.

La battaglia di Solferino ove s'impiegarono tutti i terribili congegni dell'arte guerresca moderna, colle nuove armi di precisione, e le palle coniche scoppianti, fu anche seguita da un violento temporale, e riuscì una vera carneficina.... Michele la descrisse a Tiziano in una lunga lettera nella quale gli annunziava che era uscito incolume per miracolo, ed essendo stato destinato a comandare una scorta delle ambulanze, aveva potuto vedere il campo appena cessata la terribile strage.

Vi furono feriti o uccisi tre marescialli, nove generali, 1566 ufficiali, di cui 650 austriaci, e da quarantamila soldati e bassi ufficiali, di cui 13 mila austriaci. I cadaveri e i feriti giacevano a mucchi fra i cassoni rotti e i cavalli uccisi. I morti periti sul colpo avevano la faccia calma, ma i lacerati morti lentamente fra gli spasimi e le convulsioni di lunga agonia, avevano le membra livide, i capelli e i baffi irti, le mani aggrappate al terreno, gli occhi spalancati, e i denti serrati dallo sgrigno convulso.

Gemiti, urli, convulsioni di feriti mettevano orrore, alcuni erano impazziti dallo spasimo, altri colle membra stritolate dal passaggio dei carri e dei cannoni invocavano d'essere uccisi. Un ufficiale austriaco di forse vent'anni era divenuto canuto.

Ed a questo spaventoso massacro seguiva l'armistizio e la pace di Villafranca, che lasciava ancora il Veneto in mano dell'Austria trincierata nel quadrilatero.

Tale notizia giunta in Cadore sparse lo sgomento dovunque, e la più cupa desolazione. Tutti si accingevano a sostenere risolutamente l'ultima lotta, a compiere l'ultimo sacrificio per la sospirata indipendenza... e invece bisognava deporre le armi, e nasconderle.

Cosicchè alle vergogne e ai danni della schiavitù si aggiungevano continuamente le amarezze d'una esistenza intorbidata d'ansie perenni, da congiure senza fine accompagnate da pericoli sempre sospesi sul capo delle famiglie. Ma dopo lo strappo doloroso della speranza, dopo lo spasimo del disinganno, ottenuta l'emancipazione della Lombardia, gli animi degli italiani da un punto all'altro della penisola si ridestarono al voto ed alla fede dell'unità, e si accinsero ad ottenerla con unanimi intenti, e perseveranti conati, e le successive annessioni congiunsero al Piemonte la Toscana e l'Emilia, e accrebbero sempre maggiormente il nucleo della libertà.

L'insurrezione della Sicilia fece accorrere nuovamente la gioventù italiana sotto il patrio vessillo, e così si raccolsero quei mille che guidati da Garibaldi divennero leggendari, e qui ritornò in campo il nome dei Cacciatori delle Alpi, che sostituirono al cappotto grigio la camicia rossa, e la Sicilia mostrò al mondo per la seconda volta come si libera un paese dagli oppressori per la volontà d'un popolo unito.

Passato lo stretto, Garibaldi entrò in Napoli in carrozza, la città lo attendeva in festa, esso rappresentava la volontà della nazione, l'indipendenza e l'unità, e davanti all'entusiasmo suscitato dalla libertà i Borboni bombardatori e spergiuri fuggivano nelle torri di Gaeta, come le nottole al levare del sole.

Gli stati romani si unirono al resto della penisola, e non mancavano che Roma e Venezia per compiere l'Italia rigenerata.

Venezia fremeva attendendo il suo giorno. L'eroismo mostrato al tempo dell'assedio aveva consacrato il suo diritto alla libertà, davanti l'Europa. L'Austria accampata militarmente nel Veneto era convinta che il suo governo militare non sarebbe che una tregua fra due battaglie.

Gorzkowsky col suo vasetto di maggiorana sugli occhi, il sciabolone a fianco, e i suoi bravi speroni da generale di cavalleria, eccitava un'irresistibile ilarità quando passeggiava in piazza San Marco, sbirciando avidamente le donne, le quali ne avevano paura. Non un cappello si abbassava alla sua presenza, e al suo passaggio i gondolieri si davano l'occhio fra loro, e tutti si voltavano a guardare con sorpresa quel generale di cavalleria mandato dall'Austria a governare la sola città marittima ove non possono girare i cavalli; e la musica militare che suonava davanti le scranne vuote dei caffè, nella piazza deserta.

Corsero per qualche tempo delle trattative segrete per la cessione della Venezia, ma sempre invano, e si dovette venire alle armi. Vittorio Emanuele che «non era stato insensibile ai gridi di dolore che si levavano dall'Italia oppressa» riprese la spada e si accinse a compiere la gloriosa sua impresa, fidente nel diritto del popolo e nella simpatia dell'Europa, e tutti i partiti si trovarono concordi nel grande intento della completa indipendenza, e fecero scoppiare il grido di guerra come il voto universale della nazione.

L'esercito discese nella valle del Po, e Garibaldi raccolti nuovamente i volontari si avviò verso i monti.

Quando giunse in Cadore la dichiarazione di guerra, coll'annunzio che le ostilità erano incominciate, Tiziano, dato un bacio ai bambini ed alla moglie, corse a dare il segnale della sollevazione, raccolse i giovani sotto alle armi, e si udì nuovamente nelle Alpi le campane che suonavano a stormo per invitare le popolazioni alla lotta decisiva.

Maria memore delle battaglie del quarantotto, dello smarrimento del fidanzato, della morte del padre, colpita dai più angosciosi presentimenti, si mise in ginocchio coi suoi tre figli e tutti uniti pregarono ardentemente per la salvezza d'Italia, e pel capo della famiglia esposto nuovamente alle palle nemiche.

Maddalena e la Betta pregavano esse pure, mentre sior Antonio in grande agitazione, girava il paese in cerca di notizie, pensando al figliuolo, alla moglie, alla nuora, ai nipoti, alla vita costantemente intorbidata, e chiedeva a tutti delle informazioni, senza nemmeno intendere le risposte.

Le bande dei volontari cominciarono a formarsi nelle valli di Calalzo, ove erano convenuti alcuni garibaldini, e molti giovani veneti disposti a difendere le Alpi. Un drappello venne spedito a Borca, un altro in Auronzo.

Gli austriaci si erano dapprima ritirati davanti la sollevazione minacciosa, ma si organizzavano ai confini, ingrossati dai volontari tedeschi che allettati dalla paga d'un fiorino al giorno accorrevano per ammazzare ed opprimere.

Quando si credettero pronti alla lotta, penetrando per un difficile sentiero giunsero a Collina, poi a Sigileto e a Forni Avoltri, donde salirono a Sappada, entrando nella valle del Piave. Erano oltre a mille uomini bene armati, molti anche con fucili ad ago, e guidati da provetti capitani, quali il colonnello conte Arturo Mensdorf-Puilly, fratello del ministro, il conte Coronini, il maggiore conte Lamberg, ed altri devoti alla monarchia austriaca. Era loro intento di attraversare il Cadore per unirsi al corpo austriaco che dai monti feltrini combatteva contro Medici.

Alla notizia del loro appressarsi i Cadorini sono andati ad incontrarli, decisi di far pagar cara la prova agl'invasori. I difensori della patria giunti da varie parti s'incontrarono a Treponti, ove disposero le loro ali alla destra dell'Ansiei ed alla sinistra del Piave, salendo sui monti verso Tudaio, spingendo delle ricognizioni fino a Cimagogna, e tenendosi in osservazione sulle strade di Comelico e Auronzo.

La notte passò tranquilla, ma sull'alba del 14 agosto, i nemici che avevano pernottato a Santo Stefano, salirono a Danta, ed alle sei e mezza del mattino erano già discesi a Santa Caterina in numero di cinquecento e si disponevano ad avanzare, quando incontrati i Cadorini apersero il fuoco.

I tedeschi tentarono a più riprese di passare il ponticello di Campo e guardare l'Ansiei per girare l'ala sinistra e cogliere il centro alle spalle, ma vennero vigorosamente respinti.

Tiziano guidava i suoi compatriotti da vecchio soldato, avanzando alla loro testa in mezzo alle palle che gli fischiavano intorno. Una mossa eguale venne tentata alle falde del Tudaio, sull'ala destra, che si trovava maggiormente esposta perchè spoglia d'alberi e di difese naturali, ma anche da questa parte trovò una forte resistenza, e il fuoco continuava da ambe le parti vivissimo.

Intanto sparsasi pel Cadore la notizia della nuova invasione, tutti i paesi si sollevarono in massa, accorrendo verso Treponti.

Mancavano le armi. Come nel quarantotto, si ebbe ricorso ai fucili da caccia, alle falci, agli spiedi; le donne accorrevano cogli uomini, la gente confusa saliva sull'erta, chi era armato entrava in linea a rinforzare i volontari, chi non aveva armi diventava per forza spettatore, e cercava un posto per vedere la lotta. Cosicchè il campo di battaglia presentava l'aspetto d'un anfiteatro, ove il pubblico assisteva allo spettacolo. Un bellissimo sole splendeva sulla scena, e faceva brillare le baionette dei tedeschi che si aggiravano intorno d'un fenile sul colle di Cortàs aspettando rinforzi.

Verso mezzogiorno i Garibaldini si slanciarono contro il nemico e con ardito assalto alla baionetta lo respinsero fino all'osteria della Gaja, obbligandolo a ripararsi sulle circostanti colline, ma accortisi d'una imboscata ripiegarono sul centro, chiave della posizione, e allora il nemico provocato, e forte d'altri cinquecento uomini scese di nuovo alla pugna, che venne ripigliata su tutta la linea con maggiore accanimento.

Intanto altri corpi di volontari provenienti da Belluno si aggiunsero ai Cadorini infondendo nuovo ardire. Il nemico si avanzava pel piano boscato, e le ale degli Italiani si concentravano verso Treponti ove ferveva l'ardore della mischia. Successero quattro ore d'una lotta tenace. Gli Austriaci si avanzarono in mezzo al fuoco decisi di prendere il ponte d'assalto, Garibaldini e Cadorini li respinsero con imperturbabile valore.

Gli uomini disarmati eccitavano i combattenti, le donne strillavano per animare i volontari, i bimbi correvano a svelare gli agguati. Era tutto il paese raccolto in un centro per difendere il suo territorio dall'invasione.

Cadono morti e feriti da ambe le parti, il sangue delle vittime anima i combattenti, e tutto si confonde nella violenza della lotta, entro i vortici di fumo prodotti dalla polvere.

Pendeva incerta la pugna, e si alternava animosa fra gli attacchi e le ripulse, quando tutto ad un tratto si vede sorgere sul ponte impreveduta una bandiera bianca, e in pari tempo un'altra bandiera eguale sorse dalla parte del nemico, e s'udì gridare dovunque a squarciagola: — cessate il fuoco.

Molti sospettarono un tradimento, e continuavano a tirare, e le fucilate non cessavano malgrado gli ordini superiori. Ci volle una grande fatica a far sospendere il combattimento, che pareva una frenesia. I Cadorini indignati domandavano ragione di quella sorpresa. Quale ne era la causa? — Un parlamentario venuto al campo aveva portato i dispacci di Lamarmora e Medici che annunziavano l'armistizio, e davano ordine di por fine alla lotta.

Quest'ordine venne accolto a malincuore, ma si obbedì.

Il colonnello Mensdorf-Pouilly si avanzò verso il ponte ove la strada era aperta, e in mezzo ad un semicerchio formato dai volontari italiani si levò il berretto e mandò un cortese saluto ai suoi valorosi nemici.

Allora si radunarono in quel punto gli ufficiali tedeschi ed italiani, i Garibaldini e i Cadorini si confusero cogli Austriaci, la gente scese dalle alture colle donne e coi bimbi, il campo di battaglia si trasformò improvvisamente in una specie di festa campestre. La comitiva degli ufficiali si recò all'osteria. Mensdorf lodò altamente il valore de' suoi avversari, desiderò conoscerli personalmente, ed allora ebbero luogo le reciproche presentazioni, colle rispettive strette di mano.

Gli ufficiali austriaci erano tutti distintissimi soldati di mestiere; degl'italiani neppur uno apparteneva all'esercito. Un garibaldino, annunziando il nome de' suoi commilitoni, ne aggiungeva la relativa professione, e così si udirono successivamente le seguenti qualifiche: — possidente, negoziante, avvocato, medico, ingegnere, giornalista....

Poi si toccarono i bicchieri, e si bevette alla salute d'ambedue le nazioni belligeranti, e gl'italiani e i tedeschi che poco prima si volevano distruggere, si trattarono con espansiva cortesia, si scambiarono brindisi ed auguri.

Così pure i soldati delle due nazioni fraternizzarono, e confusi insieme sulla spianata si mostravano scambievolmente le armi, mentre le donne e i bimbi abbracciavano i loro cari rimasti sani e salvi.

Ma a questo strano spettacolo, che aveva cambiato il campo di battaglia in una specie di fiera, faceva riscontro una scena assai triste che si presentava nell'interno del bosco. Entro d'un fenile vuoto si erano raccolti i morti e i feriti, si udivano dei gemiti dolorosi, e un prete raccomandava l'anima ai moribondi.

E fra i feriti c'era pure Tiziano; una palla venuta di fianco gli aveva strisciata la fronte e lacerata la pelle, coprendogli gli occhi e il viso di sangue. Il medico, fasciandogli la ferita, gli disse: — Per mezzo centimetro avete salva la vita, un piccolo movimento della testa, o una linea di differenza nel tiro, ed eravate spacciato.

Egli cercò di lavarsi bene tutto il sangue che aveva indosso, ma quando venne trasportato a casa fu una scena desolante. La testa fasciata, il volto pallido, la camicia intrisa di sangue colpirono terribilmente il cuore sensibile di Maria che assalita da fiere convulsioni fu più malata di lui. Egli fece il possibile per rassicurarla, ma essa si angustiava doppiamente, prima per la ferita e poi pel pensiero del grave pericolo incorso, e non rifiniva di dolersi della sorte che la bersagliava.

Il medico di casa, avendo esaminato accuratamente la ferita, raccomandò il silenzio, la quiete, l'oscurità, perchè il malato accusava dolori di testa, e non si poteva sapere se il colpo della palla avesse prodotto dei disordini nel cervello. Procurò di rassicurare i parenti, ma teneva un altro linguaggio cogli amici dichiarando di non poterli assicurare della vita di Tiziano non essendogli possibile di prevedere tutte le conseguenze del male.

Sior Antonio era inquieto ed accasciato da tante prove, ma dissimulava le sue apprensioni per non impressionare maggiormente sua moglie e la nuora, e spiava ansiosamente l'andamento della cura, brontolando fra i denti delle imprecazioni, alzando i pugni e torcendo gli occhi minacciosi, non si sa se contro la guerra, contro gli stranieri, o contro la politica.

Quando si seppe in modo positivo che la pace era stata firmata colla cessione del Veneto, mandò un profondo respiro, augurandosi il ristabilimento del figlio per non essere trascinato dalla disperazione a trovare troppo cara la liberazione della patria.

Intanto il quadrilatero era stato consegnato agli Italiani senza smuovere una pietra de' suoi bastioni, e Venezia aveva assistito ad uno spettacolo che pareva miracoloso. Senza aver udito un colpo di fucile, una bella mattina si videro scendere le bandiere austriache dalle tre grandi antenne della piazza San Marco, e si vide salire il vessillo italiano. I tre colori nazionali, tanto vietati, sventolarono da tutti i monumenti, dai balconi di tutte le case, dai navigli e dalle gondole; La città era stata sgombrata pacificamente dalle truppe straniere. Il generale Alemann, ultimo governatore militare austriaco, s'era imbarcato in un vaporetto, all'approdo del palazzo reale, con tutto il suo stato maggiore in gran tenuta di gala, e dopo d'aver preso congedo cortesemente dai Commissari italiani ai quali aveva fatto la regolare consegna della città, salutava militarmente la folla che assisteva in silenzio alla sua partenza, e passando davanti la piazzetta si levò il cappello in segno d'addio a Venezia e ai Veneziani stipati sulla riva.

L'ingresso delle truppe italiane in ogni città del Veneto fu accolto dalle popolazioni con tale entusiasmo che toccava la frenesia.

Il Consigliere imperiale di Pieve di Cadore sbalordito dagli avvenimenti e inquieto sul contegno dei Cadorini a suo riguardo giudicò prudente di battere in ritirata, e dichiarandosi disposto a presentare i suoi omaggi al nuovo sovrano partì per Venezia.

Colà egli passeggiava sotto le Procuratie sorridente, come un uomo soddisfatto, stringendo la mano agli amici che incontrava, dichiarando che alla fine si respirava liberamente, ed esprimendo la sua contentezza per aver vissuto tanto da vedere la sua Venezia liberata dagli stranieri.

Volle essere presentato al Regio Commissario come un vecchio magistrato che porta la sua adesione al Governo nazionale, lieto di poter mostrarsi devoto alla dinastia che ha saputo realizzare i voti della sua anima eminentemente italiana.

Un giorno incontrò Bortolo per via, il quale avendolo riconosciuto si permise di arrestarlo per chiedergli le notizie dei suoi vecchi padroni, e le novità del paese. Il Consigliere gli raccontò con entusiasmo il fatto di Treponti, lodando il valore dei Cadorini, ed annunziandogli però la disgrazia toccata al suo padrone, la cui vita era ancora in pericolo. Bortolo ne fu afflittissimo, e attribuì alla confusione di quei giorni, ed alla preoccupazione delle famiglie, il fatto spiacente di non aver ancora ricevuto notizie da casa.

Bortolo si mostrò felice dell'ottenuta liberazione del Cadore e di tutto il Veneto, al che il Consigliere rispose:

— L'ho sempre detto che la fermezza degl'Italiani sarebbe riuscita all'intento, e che l'indipendenza d'Italia era sicura!...

Aveva sempre detto il contrario, ma tutte le parole non si mettono a processo verbale, e guai se non si dimenticasse il passato!...

Dopo tante vicende Bortolo non si rammentava più le opinioni del Consigliere, e pieno d'affetto pel suo paese nativo non vedeva in quel vecchio che un compatriotta, amico dei suoi padroni.

Egli invitò il Consigliere a visitare il suo negozio d'offelleria vicino alla piazza, perchè era diventato padrone di bottega, e fra breve doveva prender moglie. Il Consigliere che era stato sempre un po' goloso non esitò ad accettare l'invito, immaginandosi che il brav'uomo non avrebbe mancato di offrirgli in dono le migliori pasticcierie del negozio. E infatti aveva indovinato. Così andava spesso a trovar l'offelliere, il quale si tenne onorato di poterlo presentare alla promessa sposa, come il più distinto magistrato di Pieve. Il Consigliere fu assai galante colla Gigia, e piacque molto alla nonna, che lo trovò un perfetto gentiluomo, caldo d'amor patrio. Ed egli vedendo che la buona vecchia si burlava dei tedeschi, le tirava fuori degli aneddoti piacevolissimi sulla loro babbuaggine, e la faceva ridere di cuore.

Invitato alle feste del conte Pasolini ossequiava tutte le nuove autorità, voleva essere presentato a tutti gli uomini che avevano contribuito alla redenzione d'Italia, ne esaltava i meriti, ed enumerava i patimenti del Veneto sotto la tirannide austriaca. Taluno dei più perspicaci, guardandolo bene in faccia, sospettava l'ipocrisia sotto la maschera di quel viso lisciato dal rasoio, che aveva delle linee e degli angoli che lo facevano rassomigliare a certi tipi diplomatici della vecchia scuola di Talleyrand; ma la maggior parte di coloro che ricevevano le lodi esagerate, le trovavano giustissime, e andavano dicendo che il consigliere imperiale era uomo perspicace, pieno d'esperienza e di senno, che era necessario di tener conto dei vecchi impiegati austriaci, che si doveva profittare della loro conoscenza del paese, e della pratica degli affari.

Nel giorno del solenne ingresso a Venezia di Vittorio Emanuele, il consigliere imperiale aveva trovato il modo di cacciarsi in una gondola del Municipio, e batteva le mani, ed agitava il cappello in aria con rimarchevole entusiasmo.

La nebbia che aveva invasa Venezia in quella mattina contribuì non poco a rendere più fantastico quel memorabile ingresso. Pareva che il re si avanzasse in mezzo alle nuvole, come gli antichi numi dell'Olimpo. Il primo soldato dell'indipendenza italiana stava ritto in mezzo d'un tempio dorato che avanzava lentamente sul canale, e collo sguardo franco ed ardito osservava d'intorno l'accompagnamento delle barche ornate con bizzarra fantasia, nei modi più capricciosi, pavesate di bandiere, adorne di festoni d'ogni colore, coperte di velluto con nappe d'oro e d'argento, trascinate nell'acqua; e la folla compatta e plaudente sulle rive, sulle finestre, sui ponti, sui tetti. A pensarci solo, dopo tanti anni, rammentando i giorni luttuosi dell'assedio, della fame, delle bombe, quell'ingresso meraviglioso sembra il sogno d'un altro mondo!...

Qualche giorno dopo quella festa, il Consigliere imperiale passeggiando sulla riva degli Schiavoni incontrò Michele che era diventato maggiore dei bersaglieri. Gli diede un grande abbraccio complimentandolo sulla fermezza, sul coraggio, sulla perseveranza, che gli meritarono quel bel grado nell'esercito. Michele gli strinse cordialmente la mano, gli mostrò il più vivo desiderio di rivedere finalmente il Cadore, e disse che vi sarebbe andato subito, se gravissime occupazioni non glielo avessero impedito. Il Consigliere che s'informava di tutto venne a sapere facilmente che le gravi occupazioni del maggiore consistevano in grandi manovre tendenti ad una nuova conquista. E infatti la sua vita militare che aveva per base l'amore d'Italia si completava d'una lunga serie di piccoli amori verso le donne italiane d'ogni classe e d'ogni colore che lo colpivano continuamente col prestigio della loro bellezza, e lo tenevano schiavo, mentre egli combatteva per la libertà.

E passava da una conquista ad un nuovo assedio, e da una vittoria ad una sconfitta, colla stessa bravura che lo aveva sostenuto in tutte le guerre dell'indipendenza.

Nelle ore che gli restavano libere, Michele andava da Bortolo, il quale, dopo di avergli annunziato il prossimo matrimonio colla Gigia, lo aveva pregato di essergli testimonio, o come si dice a Venezia, compare.

— Ah non ti basta d'avermela portata via!... vuoi ancora che ti faccia il testimonio!... sei un gran furfante! — gli diceva ridendo, — e la Gigia è una birbona!... ma accetto la carica... perchè conosco i privilegi dei compari... e saprò approfittarne!... ne puoi essere sicuro....

Bortolo lo guardava con gli occhi attoniti e sospettosi che accrescevano l'ilarità del maggiore che si godeva un mondo a far dannare gli sposi con allusioni maligne, mettendo di buon umore la nonna, la quale diceva a tutti i suoi conoscenti che lo sposo è un bravo galantuomo, ma che il compare era una volpe fina!...

E tutti uniti salivano sovente all'altana per guardare la camera dirimpetto ove Michele era stato alloggiato nel quarantotto, e quelle memorie, e il panorama che si presentava alla vista, li richiamava alle passate vicende e ai lunghi anni trascorsi con delle speranze che parevano chimere, e che tuttavia erano diventate realtà.

E quando il maggiore si trovava solo con Bortolo lo canzonava sulla sua fedeltà fenomenale che lo trascinava a sposare dopo tanti anni, una donnetta ancora piacevole, ma oramai attempatuccia.

— Gli anni sono passati anche per me, gli rispondeva il buon cadorino, e un poco la politica e la guerra, un poco la difficoltà d'assicurarmi i mezzi necessari per vivere in famiglia, mi hanno fatto passare la gioventù come a tanti altri.

— Va benissimo, tu hai avuto la pazienza d'aspettare la libertà della patria per metterti le catene del matrimonio, ma sei poi sicuro che la Gigia abbia avuto la stessa pazienza, e ti sia stata sempre fedele per tanti anni?...

— Ohh!!... esclamava Bortolo, con accento di sdegnosa sorpresa, metterei la mano nel fuoco!...

— Lo credo!... rispondeva Michele, voi altri pasticcieri, avvezzi al calore del forno, non avete mai paura di bruciarvi le dita!...

Finalmente ebbe luogo anche il matrimonio, che se fu un bel giorno per gli sposi, non fu meno lieto per la nonna, che vedeva finalmente assicurato l'avvenire della cara nipote; e la buona vecchietta andava superba di appoggiarsi al braccio del compare in grande tenuta di maggiore dei bersaglieri col petto coperto di decorazioni e delle medaglie di tutte le guerre dell'indipendenza.

Il Consigliere imperiale fu invitato a nozze, e a tavola fece un brindisi al valoroso esercito italiano, al quale rispose Michele, bevendo alla salute degli sposi, ed alla felicità nuziale, onorato compenso a tutti i superstiti delle patrie battaglie.

Gli sposi fecero un viaggetto di nozze alla Pieve, ove vennero accolti in casa Lareze colla consueta cordiale ospitalità del Cadore, la Betta e la Gigia si abbracciarono affettuosamente, Bortolo condusse la sposa al roccolo di Sant'Alipio, la presentò a Maria che le disse di conoscerla da tanti anni per le relazioni avute da suo marito, il quale la rivide con piacere, e ancora convalescente dell'ultima ferita, fu lieto di rammentarsi i giorni dell'assedio di Venezia. Poi presentò i suoi figli agli sposi, esclamando:

— Eccoci finalmente tutti tranquilli. L'indipendenza della patria assicura la pace delle nostre famiglie. L'onore è soddisfatto, il dovere è compiuto. Ora possiamo trascorrere gli ultimi nostri giorni nella quiete della vita domestica, lavorando per la prosperità della nazione, e per dare una buona educazione ai figliuoli, dai quali dipende la sorte dell'avvenire.

XIX.

Isidoro, il figlio maggiore di Tiziano, aveva già raggiunto i sedici anni e dimostrava tutte le inclinazioni del nonno materno del quale portava il nome; l'amore della caccia, delle montagne, degli esercizi che danno vigore alle membra. Adria toccava i quindici anni, era d'indole soave, mesta e pensierosa, forse in causa dei tempi dolorosi nei quali era nata. Taddeo, a soli tredici anni pareva seguire gl'istinti del fratello maggiore, voleva imitarlo in tutto, e lo avrebbe seguito dovunque, se le forze non gli fossero mancate.

Maria respirava più liberamente, e incominciava a godere i benefizi della vita tranquilla, ma tuttavia ogni timore dell'avvenire non era ancora totalmente svanito, e Tiziano le faceva impressione quando inculcava a suo figlio maggiore le massime di rigido patriottismo che egli aveva costantemente professate, raccomandandogli di tenersi obbligato a compiere tutti i doveri d'ottimo cittadino, che deve esser sempre pronto a servire il paese senza ambizioni nè avidità, e sempre disposto a dar la vita per l'onore e la libertà della patria.

La pace era stata firmata dai sovrani, ma i popoli non l'avevano convalidata colla loro adesione; durava sempre la ruggine fra italiani e tedeschi, e tale antipatia poteva degenerare in odio nazionale, e trascinare da capo alle armi.

Queste erano le preoccupazioni di Maria, quando un giorno giunse al roccolo una lettera indirizzata a Tiziano, che portava il timbro postale di Vienna.

— Che sarà mai?... chi può scrivere da Vienna a mio marito?... pensava Maria in attesa del suo ritorno.

Appena Tiziano rientrò in casa aperse la lettera, e corse cogli occhi alla firma. Era il capitano Kasper Kraus, il quale gli scriveva che dovendo attraversare il Tirolo, sarebbe disceso alla stazione di Toblac, colla intenzione di recarsi a Schluderbach. Non voleva entrare in Cadore, memore dell'odio dei cadorini pei tedeschi, ma toccandolo così da vicino sarebbe stato felice se avesse avuto la fortuna d'incontrarlo, e di stringergli la mano, desiderando vivamente di aver notizie della pietosa suora di carità che gli aveva salvata la vita, ed alla quale avrebbe voluto far nota la sua eterna riconoscenza. E gli mandava il suo indirizzo, perchè gli facesse il favore di rispondergli.

Kasper Kraus!... quante memorie dolorose si risvegliavano a quel nome; e in pari tempo quale scambio di solenni servigi, in mezzo ai più gravi pericoli. Quel tedesco non era un ingrato!... si rammentava ancora la notte terribile nella quale Maria lo aveva soccorso, e poi l'aveva generosamente ricompensata, salvando la vita a Tiziano, il quale gli doveva egualmente un'eterna riconoscenza. Maria sentiva essa pure il bisogno di ringraziarlo del favore ricevuto, e mostrava il più vivo desiderio di rivederlo.

Tiziano restava esitante sul partito da prendersi, poi osservò alla moglie:

— Non mi pare conveniente che tu vada ad incontrarlo... ma io andrò con sommo piacere a Schluderbach, per mostrargli che la nostra riconoscenza è pari alla sua....

— Questo non basta!... soggiunse Maria, non vedi che egli conserva un pregiudizio ingiusto, che è necessario distruggere. Non è vero niente affatto che i cadorini abbiano in odio i tedeschi. Essi non vogliono stranieri per padroni di casa, ma sono amici di tutti gli stranieri che vengono a visitarci senza queste pretese; sieno russi, inglesi, francesi o tedeschi. Quando eravamo nemici ci siamo battuti coraggiosamente per difendere il nostro territorio, ma adesso tutto è dimenticato, e noi intendiamo che tutti i popoli sieno fratelli. D'altronde bisogna provargli che i cadorini non sono ingrati, e che l'ospitalità del Cadore non è superata da nessun paese del mondo!...

— Hai ragione, disse Tiziano, gli scrivo subito che vado ad attenderlo a Schluderbach, per condurlo in Cadore, ove sarà accolto da tutti come un amico.

E dopo d'avergli scritto, andò inteso col padre perchè si apparecchiasse la più bella camera della casa in onore dell'ospite, non essendo possibile di alloggiarlo nell'angusta dimora del roccolo, ove per altro intendeva imbandirgli un banchetto.

Sior Antonio si stimò ben contento dell'occasione che gli si offriva di poter mostrare la sua gratitudine verso l'uomo al quale era debitore della vita dei figlio, e non è necessario di dire quanto Maddalena fosse lieta di questa congiuntura per unire le sue materne dimostrazioni a quelle del marito.

Al giorno fissato Tiziano partì col domestico che era succeduto a Bortolo, trascinati dalla povera Nina divenuta vecchia, ma ancora salda in gambe, e si fece accompagnare fino ad Auronzo, da dove li rimandò a casa, deciso di attraversare a piedi il bosco di Sommadida, e di provvedere a Schluderbach un altro mezzo di trasporto.

Il bosco di Sommadida è un magnifico dono che la Comunità del Cadore fece alla repubblica di San Marco nel 1463, e quindi questa foresta appartiene allo Stato. Dalla valle del torrente Ansiei sale fino alla sommità dei monti, e corre in lunghezza circa tre miglia. È il più bel bosco del Cadore. Gli abeti grossissimi svelti e diritti si alzano a straordinarie altezze e somministrano agli arsenali le più grandi antenne per le navi.

Facendo questo presente alla repubblica, la Comunità scriveva al Doge Cristoforo Moro: «Se guardiamo alla vostra celsitudine, il dono che il popolo cadorino spontaneo vi offerisce, è piccolissimo: tuttavia osa sperare che esso sarà in tutti i tempi avvenire un solenne testimonio dell'affetto, della fede, e della divozione, che il donatore ha verso la repubblica potentissima, che l'ha preso nella sua tutela. Accettatelo, ve ne preghiamo, con lieto animo; il vostro gradimento varrà a confermarci nella fede che vi giurammo, sì noi che i nostri figli, e nepoti saremo in ogni tempo i più acerrimi difensori vostri.» E i generosi cadorini tennero parola da padre in figlio, tenendo sempre sacra la volontà dei loro antenati.

L'aspetto pittoresco di questo bosco arresta continuamente i passi del viandante, e lo sforza a contemplare ed ammirare lungamente la stupenda varietà, e il maestoso sviluppo de' suoi prospetti. L'ampia valle s'allarga e si serra, si eleva e si sprofonda con diverse vicende, e gli abeti salendo dalle malghe ove pascolano gli armenti si distendono sulle alture che ricoprono di cupa verdura, e s'innalzano colle punte accuminate fino alle nude roccie, strisciate di neve, e tagliate a perpendicolo.

La strada tortuosa, ora attraversa il bosco passando fra gli alberi giganti, ora serpeggia in mezzo a verdi pascoli, ove gli alberi fanno corona alle falde dei monti, e seguendone le curve ricoprono i clivi lontani come se chiudessero ogni uscita. Il profondo silenzio che regna in quelle regioni solitarie non è rotto che dal frastuono delle acque cadenti negli abissi, dal fischio degli uccelli di rapina, dal muggito delle mandre, o dal rumore del vento fra i rami degli alberi. Qualche pastore sdraiato sull'erba saluta il viandante che passa, mentre gli animali alzano la testa per osservarlo.

Dopo lunghi raggiri fra montagne boscose si esce in un altipiano, ove il lago di Mesurina riflette nelle sue onde tranquille gli abeti che lo circondano, sormontati da nude roccie, abitate dai camosci.

Nel fondo si vede una capanna isolata sulle rive del lago. È l'osteria delle Alpi, ove si vende vino, pane, e carne di cavallo affumicata. Colà Tiziano ritrovò Giacomo Croda, che teneva ancora l'osteria, e faceva da guida ai viaggiatori. Dopo d'aver servito la patria nella difesa del Cadore e nell'assedio di Venezia egli aveva sposato la Giovannina, una buona ragazza d'Auronzo, piccoletta come la capanna, ma piena di vivacità e di buon senso, che sa far l'interesse del negozio, senza mai disgustare i viandanti. Oramai è conosciuta da tutti gli alpinisti che visitano quelle solitarie regioni, ai quali essa crede di parlare in tutte le lingue d'Europa, perchè sopprimendo la grammatica alla lingua italiana cerca d'imitare l'accento degli stranieri, e si aiuta con una mimica ingegnosa e intesa da tutti. I touristes siedono davanti il balcone d'una stanza che prospetta il lago. Allora la Giovannina offre vino bianco o vino nero a loro scelta. Generalmente si domanda il migliore. Essa porta subito il bianco che non è bevibile, si prova anche il nero che è peggiore, e si pagano tutti due, col pane per giunta, più duro dei macigni. Allora per avere una memoria di quel sito pittoresco, si compera un corno di camoscio, e questo è quanto può offrire di meglio la Giovannina, a merito di suo marito, che è il primo cacciatore di camosci della contrada.

Tiziano s'intrattenne alquanto col suo antico compagno delle guerre d'indipendenza, e seduti fuori della capanna rammentarono con piacere le vicende del passato, e i corsi pericoli. Giacomo gli mostrò con orgoglio le sue carabine, gli raccontò i suoi tiri portentosi, e i casi strani di quelle caccie sui precipizii, e davvero era un bel tipo alpino, coi suoi scarponi ferrati, colla penna di falco sul cappello acuminato, la cintura di pelle, e la pipa corta, col bocchino che gli usciva dalle tasche della giacchetta di fustagno verde.

Avvicinandosi la sera, Tiziano strinse fortemente la mano di Giacomo, salutò cortesemente la Giovannina e continuò la sua strada.

Usciti dalla valle di Misurina il bosco si fa sempre più denso, e le gole dei monti si restringono. Venuta la notte Tiziano affrettava il passo, perchè quella tetra solitudine gli pesava sul cuore. Ma la strada è assai lunga, e sempre boscosa, e gli alberi impediscono di veder da lontano, per cui riesce ancora più noiosa, e sembra interminabile.

Cammina cammina, in quel buio e fra quegli alberi, la monotonia pesa e la notte fa scambiare in fantasmi quei tronchi infranti dagli uragani, coi rami irti che alzano le braccia come disperati. Mille forme fantastiche, attristanti, minacciose vi attendono immobili, e pare che vi seguano quando siete passati, e si va avanti stanchi ed oppressi, per mancanza d'uno spazio aperto, e privi della luce che abbellisce ogni cosa.

Per cui è un bel momento, quando in quella solitudine profonda ed uggiosa, si presenta improvvisamente a diritta del viandante un lungo fabbriceto con tutti i balconi illuminati da splendida luce e si vede nell'interno un mondo di gente che sta mangiando allegramente intorno a tavole ben servite da ragazze che vanno e vengono sollecite ed affrettate, e si ode il suono dei piatti e dei bicchieri, e si sentono le esalazioni d'una cucina appetitosa.

Ancora pochi passi e Tiziano passava dallo squallore notturno d'una foresta a tutti gli agi della vita sociale.

Eccolo giunto finalmente a Schluderbach davanti il Gasthaus, Monte Cristallo, un grande Chalet con vaste dipendenze, ed un'annessa succursale dirimpetto, ove non è sempre facile trovar alloggio, tanta n'è l'affluenza dei viaggiatori, specialmente tedeschi, che frequentano quel sito alpino, collocato nel centro d'interessanti escursioni.

Primo rappresentante della civiltà si presentò davanti a Tiziano uno storpio che domandava la elemosina sulla porta dell'albergo. Nell'atrio stavano esposti in vendita dei bei lavoretti d'intaglio in legno che si eseguiscono a Brunen, e che, ben distribuiti in vetrine e rischiarati da lampade a petrolio, formano una mostra permanente delle industrie locali.

La porta a diritta in fondo dell'atrio si apre sulla sala da pranzo che era quasi completa. Tuttavia Tiziano trovò un posto vuoto, sedette, guardò d'intorno, non vide il capitano, e chiestone conto alla padrona seppe che non era ancora arrivato. — Verrà certo domani, pensò, e intanto si fece portare da cena, e mangiò con grande appetito dopo quella lunga e faticosa passeggiata, e poi andò a coricarsi.

Alla mattina assai per tempo era in piedi e visitava i dintorni.

Lo Schluderbach non ha altre case che l'albergo, il quale sorge sulla strada d'Alemagna, ad un'ora da Toblac, nella valle di Landro, a 1440 metri sul livello del mare, e in prospetto del monte Cristallo.

Il sito fresco e romito vi attira in estate molta gente, ed al mattino per tempo si vedono numerose famiglie, uomini donne e bambini che escono dall'albergo, muniti dell'alpenstok, e si dirigono pei vari sentieri montuosi che salgono in mezzo ai boschi, e vanno in traccia d'aria ossigenata e di salute.

È un recesso tranquillo, piuttosto malinconico, molto opportuno al riposo di chi è costretto di vivere tutto l'anno nel tumulto delle città popolose, fra gli affari e le passioni d'una vita agitata. La valle angusta, ma d'un bel verde perenne, mantenuto da irrigazioni, è sparsa di mandre che vanno al pascolo facendo suonare i loro campanacci appesi al collo, e mandando lunghi muggiti che echeggiano nel silenzio. Il fondo è chiuso da alte montagne ricoperte da bruni coniferi colle cime aguzze, e che finiscono con nude roccie nevose, dalle quali scendono le valanghe, che, passate attraverso i boschi, vanno ad accumulare nella valle gl'infranti macigni.

A piccola distanza del prato sparisce anche la vista dell'albergo, non resta più nessun indizio dei luoghi abitati, nessun rumore della vita sociale, nessun frastuono d'industria, nessuna traccia d'agricoltura, non si odono che le voci gravi e solenni d'una natura selvaggia, nella pace profonda d'una completa solitudine.

Tiziano si aggirava intorno ai sentieri di Waldruhe che dominano la strada maestra quando il rumore d'una vettura accompagnato dai sonagli dei cavalli e dalle schioccate della frusta attirarono la sua attenzione. La vettura si arrestò davanti all'albergo, ed egli vide uscire dallo sportello il capitano Kasper Kraus, il quale aiutò a discendere una signora e due ragazzi, che accolti alla porta dai padroni accorsi entrarono nel Gasthaus.

Tiziano discese subito all'albergo e si gettò nelle braccia del suo liberatore, il quale alla sua volta lo strinse al seno, come un vecchio amico, gli presentò sua moglie e i suoi figli, e tutti uniti s'indirizzarono alla sala da pranzo per far colazione.

Caduta Venezia nel quarantanove, il capitano Kasper Kraus aveva ottenuta la pensione ed aveva sposato la sua Maria, invocata non invano quando giaceva ferito sotto la tettoia, al passo della morte. La signora era una bionda pallidetta, dagli occhi cerulei, non troppo grande, ma di forme ben tornite. Olga, la figlia maggiore, e Frantz, il secondogenito, rassomigliavano perfettamente alla madre.

Tiziano, interrogato col più vivo interesse su tutto quello che riguardava la salvatrice del capitano, parlò con affetto della sua Maria e dei loro tre figli, e la signora tedesca mostrò vivo desiderio di conoscerla e d'abbracciarla, riconoscendo d'esserle debitrice della sua felicità.

Tiziano rinnovando al capitano l'invito di recarsi in Cadore lo assicurò che lo aspettavano degli amici, tanto più cordiali quanto erano stati nemici implacabili, ed aggiunse che la sua bella famiglia accresceva interesse e simpatia a quella gita.

Accettò di buon animo la proposta, e trovata una vettura partirono per Cortina d'Ampezzo, e di colà percorsero lentamente la strada che fu scena delle prime lotte fra tedeschi ed italiani in Oltrechiusa. Attraversarono i paesi pittoreschi che sorgono alle falde delle montagne sulle rive del Boite, San Vito, Borea, Vodo, Vinigo, Venàs, scendendo spesso di carrozza, e facendo a piedi dei lunghi tratti di strada per veder meglio i siti più interessanti, ed osservare attentamente le località rese famose dalla guerra. Il capitano approvava i lavori eseguiti per la difesa, rendeva giustizia al coraggio ed al patriottismo dei cadorini.

La signora si fermava estatica ad ammirare quelle vallate, così tranquille e pastorali in tempo di pace, e si fermava davanti a quei boschi di larici e d'abeti, cresciuti rigogliosi fra i crepacci, e sotto quelle roccie smisurate che sovrapiombano sulla strada.

Tiziano le additava a diritta il Pelmo nevoso, a sinistra le faceva osservare l'immenso Antelao, squallido, nudo, minaccioso, e le raccontava dei paesi intieri sepolti sotto le sue frane, e l'amore degli abitanti per quei siti pericolosi che li spinge costantemente a rialzare le nuove capanne sulle rovine che hanno sotterrato le dimore dei loro parenti. Questo spiega la natura tenace dell'alpigiano, e il coraggio che dimostra nella difesa del suo territorio.

Olga, timidetta, si teneva stretta alla madre, e pareva che quella natura selvaggia e gigantesca le mettesse paura. Invece Frantz saliva sulle erte pendici, e andava erborizzando con grande attenzione fra i dirupi. Sua madre disse a Tiziano che il fanciullo era appassionato per lo studio della botanica, e sarebbe divenuto un solerte cultore delle scienze naturali. Allora Tiziano cercava di assisterlo e di secondarlo nelle ricerche, e mentre la signora e sua figlia siedevano sopra un masso contemplando col cannocchiale il paesaggio, Tiziano, il Capitano e Frantz penetravano nei boschi, esploravano il terreno, e s'arrampicavano sulle cime.

E così raccolsero una bella messe di fiori fra i quali primeggiava il pallido Edelweiss, quel bel fiore d'argento che in tedesco significa bianco-nobile, e che i botanici vedendo non si sa come un piede di leone in quelle forme graziose non si peritarono di chiamarlo Leontopodio ( Gnaphalium leontopodium ).

Così viaggio facendo le reciproche relazioni si resero sempre più intime, e Tiziano, che era buon padre ed amava i giovani, era lieto di secondare i gusti del ragazzo, di scoprire delle piante rare pel suo erbario e di offrire dei fiori alla fanciulla. E si mostrava dolente di non conoscere la lingua tedesca, e pensava che anche questa ignoranza era un effetto del rancore che divideva i due popoli, rendendo odioso agli italiani il linguaggio dei loro dominatori, e pensò alla necessità di far imparare il tedesco ai suoi figli.

Così divagando per diversi motivi passarono da Valle al tramonto del sole, ed era già buio quando attraversarono Tai, dirigendosi alla volta di Pieve, ove giunsero a notte inoltrata.

XX.

Le due Marie si baciarono in volto e divennero amiche, come se si fossero conosciute da lungo tempo; e infatti le loro anime s'erano già intese da lontano attraverso un filo arcano che congiungeva i loro cuori col legame della gratitudine.

L'italiana rivide con piacere il tedesco la cui felicità domestica la compensava del bene che gli aveva fatto, e del beneficio ricevuto colla liberazione di Tiziano, il quale alla sua volta era debitore delle sue gioie domestiche alla generosità del nemico.

Sior Antonio e sua moglie manifestarono alla famiglia del Capitano la espansiva riconoscenza dei loro cuori onesti e soddisfatti, ed esercitarono quell'ospitalità franca e spontanea, che senza cerimonie nè affettazioni considera l'ospite come un membro della famiglia stessa e lo ammette alla comune intimità.

I figli delle due famiglie non potevano parlarsi fra loro, perchè non sapevano che la propria lingua, ma si guardavano con simpatia, si sorridevano, si facevano dei segni, e passeggiavano insieme, tenendosi per mano.

Tiziano e Maria apparecchiarono un lauto banchetto sotto gli alberi del roccolo di Sant'Alipio, ove vollero fare gli onori di casa agli ospiti, prima della loro partenza. Alloggiati in casa di Sior Antonio non avevano ancora veduto quel romitaggio, e furono sorpresi del suo aspetto strano, pittoresco, selvaggio, ed incantevole. Passarono l'intiera giornata in quella solitudine, contemplando estatici quei monti, quelle valli, quel torrente, quei boschi, ascoltando con religioso raccoglimento le armonie della natura che rompono di tratto in tratto quel solenne silenzio.

E udirono, parte da Maria, e parte da Tiziano, la storia di quel nido delle Alpi, semplice storia d'una famiglia ignota e modesta, eppure così varia per gli affetti, le speranze, le sorprese, i dolori, le gioie; così piena di casi luttuosi e di giorni felici, di ansietà, di amori, di congiure e d'eroismo, e finalmente di feste nuziali, di serene e liete feste domestiche.

E mentre i genitori raccolti nel nido di Montericco si comunicavano le loro impressioni, rammentavano i momenti terribili della guerra, e le supreme felicità del ritorno e della pace, i figliuoli s'erano recati tutti insieme in cima al castello, per vedere da quella sommità lo spettacolo della valle del Piave. E incominciavano a intendersi abbastanza bene. Isidoro guidava sui dirupi la bionda Olga, ammirando quei morbidi capelli d'oro lucente, e penetrando collo sguardo in quegli occhi cerulei e profondi come un lago. Frantz seguiva Adria sui ruderi dei muraglioni caduti, e divagavano intorno alle rovine in cerca di piante alpine. Il giovane tedesco le faceva osservare con attenzione la struttura dei fiori, le indicava la vaghezza dei colori, le grazie dei frastagli, la varietà delle forme e raccoltone un bel mazzo ne faceva un presente alla sua compagna. Essa si mostrava assai lieta del dono, distaccava il fiore più bello del mazzo e lo offriva al giovane con uno sguardo soave e significante che diceva chiaramente — conservate questo ricordo. — Egli tirava fuori tranquillamente il portafogli, vi riponeva il fiore con ogni cura, e scriveva sul foglietto la data di quel giorno, il luogo nel quale lo aveva ricevuto, e il nome della donatrice. Poi faceva vedere alla fanciulla lo scritto, ed essa approvava coi cenni del capo guardandolo fisso in modo da farlo impallidire. Il piccolo Taddeo correva dietro alle farfalle, completamente dimenticato dai fratelli e dai loro amici; malgrado le raccomandazioni della mamma che li aveva ammoniti di tenerselo vicino, perchè non cadesse in pericoli.

Il pranzo imbandito sotto gli alberi del roccolo fu lieto, ma non loquace, perchè la vicina partenza aveva già steso un velo di mestizia in tutti i convitati. Gli sguardi si incontravano malinconici, pareva che gli occhi raccogliessero avidamente le immagini degli amici per stamparli nei loro cuori con indelebile impronta.

In fine di tavola si fecero dei brindisi cordiali alla reciproca felicità nella vita domestica, all'Italia, all'Austria, non più nemiche ma sorelle.

Così la pace sottoscritta dai Sovrani venne sancita da due famiglie, che rappresentavano le due nazioni.

E come ebbe fine quel banchetto potrebbe anche aver fine questo libro, se a qualche benevolo lettore, che ci ha accompagnato fino a questo punto, non restasse il desiderio di conoscere la fine dei nostri personaggi pei quali ha voluto prendere un qualche interesse.

Nella supposizione di così cortese curiosità siamo costretti di andare avanti ancora per qualche pagina.

Il capitano Kasper Kraus colla sua famiglia partì dal Cadore assai soddisfatto dell'ospitalità ricevuta, convinto che le guerre di conquista sono barbarie contro natura, che ogni popolo ha diritto di vivere in libertà entro ai suoi confini naturali, che gli odii fra le varie nazioni non sono altro che un effetto delle insanie degli uomini, e della politica. Che l'interesse delle famiglie è l'interesse degli Stati, che la casa è il vero perno della nazione, che ogni singolo individuo deve cooperare col suo lavoro alla concordia ed alla felicità del genere umano.

I figli del Capitano sono partiti col desiderio di imparare l'italiano, e i figli di Tiziano dichiararono di voler imparare il tedesco. Ciascheduno pensava ad un viaggio nella nazione vicina, colla speranza di rivedere gli amici, ai quali sentiva il bisogno di manifestare chiaramente i propri pensieri.

Tre anni dopo quel banchetto, Isidoro entrava nell'esercito per pagare il suo tributo alla patria, e poco dopo entrava in Roma divenuta capitale dei regno.

Ritornato nel Veneto ebbe la fortuna di assistere all'inaugurazione della statua di Calvi a Noale, e a quella di Manin a Venezia, e di vedere l'imperatore d'Austria che venne a far visita al re d'Italia. Tutti avvenimenti memorabili, che consolidarono la fondazione del regno, colla più viva soddisfazione di tutti gl'italiani.

Poi avendo ottenuto il suo congedo ritornò in patria, e prese parte come semplice cittadino all'inaugurazione del ricordo eretto a Pieve all'eroico condottiero del Cadore: — A Pietro Fortunato Calvi e ai prodi combattendo con lui per la patria indipendenza nel 1848.

Il piccolo monumento, concepito con opportuno disegno, ed eseguito con egregio lavoro, rappresenta una piramide di pietre di Castellavazzo che porta nel centro un medaglione in marmo di Carrara col busto di Calvi, sovraposto ad un trofeo d'armi, di falci, di lancie, di scuri, eseguite in bronzo, intrecciate di corone di quercia, di alloro, e d'olivo, col motto: Più che l'armi valsero concordia costanza fede.

Il tempo implacabile ha esatto la sua imposta umana. Hanno pagato il tributo la Betta e la nonna di Venezia. Bortolo e la Gigia chiusero gli occhi alle loro cure, e adesso invecchiano alla lor volta, continuando a vivere discretamente colla fabbrica di paste dolci. La Gigia trova il mondo meno bello di quando era giovane, dice che gli uomini sono meno amabili, e brontola sovente sugl'inevitabili disinganni dell'esistenza. Bortolo cerca di consolarla colla riflessione che non tutte le ciambelle riescono col buco.

Michele, ritirato in Cadore, soddisfatto dell'ottenuta indipendenza italiana, ha rinunziato ad ogni genere di conquiste, costretto a camminare col bastone in conseguenza delle ferite riportate nelle varie battaglie della sua vita, e si consola col vino di Conegliano delle perdite sofferte e del vigore smarrito.

E a coloro che si sorprendono che non sia diventato generale, egli risponde additando Tiziano che ebbe due volte rotta la testa per l'indipendenza, e non è nemmeno cavaliere.

In compenso di qualche inevitabile dimenticanza governativa il Consigliere imperiale è divenuto Commendatore, e mostra a tutti coloro che gli fanno visita il ritratto del re d'Italia, che occupa il primo posto nel suo studio fra i vari principi della famiglia reale. I ritratti dell'imperator d'Austria, degli arciduchi e feld marescialli li ha nuovamente rilegati in soffitta; ma non li ha distrutti, perchè sono belle incisioni, e poi non si sa mai!... I repubblicani li riceve in un gabinetto speciale ove si trova il ritratto di Garibaldi.

Il conte Ermolao Steno è divenuto Senatore del Regno, e per mostrarsi sempre imparziale, e alieno da ogni partito, non va mai a Roma, limitandosi alla modesta soddisfazione di mettere il titolo nei viglietti di visita.

Isidoro ha sposato una bella ragazza cadorina, e i suoi genitori gli hanno ceduto il roccolo di Sant'Alipio, tanto opportuno alla luna di miele. Così il nido di Montericco ha ancora i suoi colombi che tubano l'eterna canzone d'amore, davanti l'eterna bellezza della natura.

Tiziano e Maria cogli altri due figli sono andati ad abitare in casa Lareze, ove la famiglia ha ripreso l'antico sistema.

Tiziano ha assunto la piena direzione degli affari, Maria ha preso il posto di Maddalena, che vive tranquilla dopo d'aver ceduto alla nuora l'azienda domestica.

Sior Antonio divenuto vecchio e sordo ha preso il posto del nonno Taddeo sull'antico seggiolone, e l'inverno quando la neve cade a larghe falde e la famiglia si raccoglie intorno al focolare, egli racconta sempre le stesse storie del quarantotto ai suoi nipoti, che si addormentano profondamente, come faceva il loro padre Tiziano quando il nonno Taddeo gli raccontava i fasti della repubblica di San Marco. E così passano gli anni, e si succedono le umane vicende in questo rapido sogno della vita.

FINE.

DELLO STESSO AUTORE.

  • Il Bacio della Contessa Savina.
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  • La Vita Campestre.
  • Le Cronache del Villeggio.
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D'IMMINENTE PUBBLICAZIONE.

  • Sotto i ligustri.