ÈL SGNER PIREIN

ANTONIO FIACCHI ANTONIO FIACCHI

ÈL SGNER PIREIN

SCRITTI SCELTI EDITI ED INEDITI

A CURA DI ORESTE TREBBI.

CON PREFAZIONE

DI LORENZO STECCHETTI

TERZA EDIZIONE CON AGGIUNTE E DISEGNI DI AUGUSTO MAJANI

BOLOGNA NICOLA ZANICHELLI EDITORE

PROPRIETÀ LETTERARIAINDICE

PREFAZIONE

E così fugge la vita, ora lieta, ora trista, lasciandosi dietro uno strascico di ricordi e di rimpianti tormentatori dell'età che declina. Così si riaffacciano alla mente le imagini dei morti che non vogliono esser dimenticati, degli amici caduti lungo la strada che par seminata di sepolcri come la Via Appia Antica.

E non è certo per la vanità dell'odiosissimo io che ricordo l'ultima volta in cui vidi Antonio Fiacchi appunto sull'Appia Via, funeralmente silenziosa, in un grigio pomeriggio di ottobre, in faccia alla deserta maestà della campagna romana. Forse la desolata solitudine del luogo e la mestizia del giorno morente ci vincevano, opprimendoci con una vaga sensazione di malessere che spuntava i motti e ci faceva parlare sotto voce. Così, di quest'ultimo nostro colloquio, serbai e serbo un ricordo velato di tristezza, come se udissi ancora i corvi gracchiare tra le rovine.

E qualche cosa di triste era anche nella arguzia del Fiacchi, uomo di ingegno assai più alto di quello che la sua modestia lasciasse credere e che solo gli intendenti indovineranno sotto l'apparente facilità di queste pagine buttate giù come per svago negli intervalli tra le cure burocratiche, così ripugnanti alle cure dell'arte. Poichè è notevole come l'amaro dell'umorismo pervada e contagi spesso le opere degli stipendiati che si lasciarono tentare dal demonio delle lettere. Furono impiegati il grandissimo Porta, il Belli, il Zorutti e tanti altri che per avi ebbero il Berni, il Tassoni ed altrettanti illustri, costretti ai lavori forzati dello scrittoio e degli uffici. L'Ariosto reggeva un'umile podesteria in Garfagnana, il Rabelais fu correttore nella tipografia del Grifio e il Dickens era resocontista parlamentare quando esordiva coll'immortale Pickwick. Pare che l'arte di mascherare le miserie della vita sotto il lepore della forma sia il retaggio della famiglia di Monsù Travet!

Fatte le necessarie proporzioni, anche il Fiacchi fu di questi minuti funzionari la cui opera, spesso dialettale, lascia per lo più la impressione salsa ed amara di una ingenuità disarmata contro gli assalti della mala fortuna attribuita a personaggi deboli, candidi e quasi deficienti, facile preda d'ogni più facile astuzia, vittime destinate del superiore imbecille, della moglie inacetita, del collega crudele o del primo raggiratore che capita. Tipi ferravilliani e pur veri, tipi che da Giovannin Bongée ad Oronzo E. Marginati ci passano accanto ogni giorno e che, appena esagerati dall'arte, ci muovono prima alla ilarità, poi alla compassione.

Ai tempi dei tempi, viveva in Bologna un giornaletto ebdomadario nel quale era in grande onore il dialetto e che perciò non usciva dalla cerchia delle mura cittadine e in dialetto si intitolava « Ehi! ch'al scusa...» formula garbata che si adopera per fermare qualcuno e parlargli. E garbato era il giornaletto che aveva per impresa — « Colle persone usare modi gentili » —, massima del Galateo. Non conosceva politica e non si mischiava nelle piccole contese municipali, ma si volgeva specialmente ad un pubblico simpatico di signorine e di signore cui tributava l'omaggio di sonetti lusinghieri e di allusioni urbanamente madrigaleggianti.

A questo giornaletto il Fiacchi recò fortuna colla creazione di un tipo comico — Èl sgner Pirein Sbolenfi — incarnazione di un petroniano antiquato, pesce fuor d'acqua nella vita moderna, alle prese col tenue bilancio famigliare e afflitto dalla moglie Lucrezia incresciosa e pettegola e dalla figlia Argia, già allieva delle Scuole Normali, sempre nubile, con pretese letterarie ed isterismi romantici che la condussero poi a non bella notorietà. Le risibili tribolazioni del povero uomo, esposte in lettere stravaganti ed infarcite di bizzarri idiotismi, ebbero in Bologna così allegra fortuna che in un lieto Carnevale fu eretto un villaggio di legno di cui fu acclamato Sindaco èl Sgner Pirein, sotto le spoglie dei povero orefice Magagnoli il quale fece discorsi, emanò regolamenti e mise fuori certi ameni manifesti che molti Sindaci del Regno dovrebbero invidiargli per lo spirito fine e l'acuto giudizio.

Ma il creatore del Sgner Pirein era impiegato alle Poste e fu trasferito a Roma. Lasciò qui gli amici, il giornaletto, le piacevoli consuetudini ed ogni cosa più caramente diletta per andar lontano dalla sua materna Bologna a riassumere pratiche, ad evader note e a rivedere statistiche. Così la radice era strappata dal suolo nativo. Mandò parecchie lettere datate « dalle rive del Colosseo », ma ben presto il giornaletto sfiorì e morì ed anch'egli si spense quando la vita gli sarebbe stata più benigna e ridente.

I bolognesi però non hanno dimenticato ancora il loro Sgner Pirein e ricordano la sua cara e buona imagine, tanto argutamente sincera, anche nella caricatura, così che ne vollero raccogliere alcune pagine calde ancora della festività antica, non per sforzarne il valore oltre quella misura che al Fiacchi piacque, ma come affettuoso e pietoso ricordo di un egregio uomo che in altre condizioni avrebbe senza dubbio prodotto di più e di meglio che un giocondo epistolario la cui vivace genialità male si può intendere da chi non vive all'ombra della torre degli Asinelli. Pietoso ufficio al quale attese con animo devoto il signor Oreste Trebbi, amico e collaboratore del Fiacchi nei giorni sereni in cui questi scherzi uscivano dalla facile vena di un umorista che non potè e forse non volle tentare le aspre vie che conducono alle cime. Pietoso omaggio di concittadini a chi tanto amò il suo nido natio e lumeggiò, sia pure con lo sarcasmo che nasconde la pietà, l'uggia dolorosa che incombe su quegli umili pei quali la rassegnazione è la sola ragione del vivere.

Sia leggiera la terra del sepolcro al povero Fiacchi e leggero il giudizio dei lettori per queste reliquie sue!

(1912)

L. Stecchetti

LA FAMIGLIA SBOLENFI

La nonna — Il nonno — Il papà

dall' Ehi! ch'al scusa... del 9 febbraio e 16 aprile 1888.

Èl sgner Pirein (dall'infanzia all'adolescenza) — La famiglia Sbolenfi

LE VICISSITUDINI DÈL SGNER PIREIN

I M'HAN FATT CORRER?

Sissignore, se fosse vero non lo negherei e a dirè senza renitenza: sè, èl prem dè d'avrel mi hanno fatto caminare; avrei èl curagg ed direl... Percossa far di misteri?, dseva quèl ch' guardava èl pordgh ed S. Lùcca, ma questa è un'idea dia mî famèja, che anche lui, quant al sintirà comme è la fazzènda, converrà nella negativa. Dònca sabet, l'era ott òur che am era livà in quèl mumèint e mi affibiavo i tirant del bragh, lo so che non usano più, ma d'altra banda mî mujer l'am dis sèimper ch'am tegna sù, e che mi tenghi su, per via del decoro, e come si fa a tenersi su sèinza i tirant?! Al dis al fa, si metti la cinghia, ma nossignore che quel restringimento a travers fa male alle viscere del padre com l'ha fatt mal a quèlli dla fiola, il quale ci è una delle mie ragazze che dòp che si ostinò a andare in cinta, dsevla lî, e strecca e che te strecca, ha finito per prendersi un'applicazione di cuore, una spezia d'urisma, che quando ci vengono gli eccessi la fa pietà a tutti quelli che la circondano. Ma dscurrèin ed coss alligri, dseva quèl marè ch'cuntava la mort ed la sô spòusa... e si torni nell'argomento.

Dunque mi affibbiavo i tiranti, quand viene dentro la Lucrezia con una cassettina che fava molta fatica a portarla... e dice: Pirein, auf! cum l'è pèisa sebbèin che sia piccina... al la manda èl sgner Vermicelli e ti prega ed purtarla alla Madonna grassa, da Stricchetti... bada però ch' l'è èl prem dè d'avrel.

L'usservaziòn era giusta, chè mî mujer l'è una furba e mèzz, ma d'altra part io non conoscevo èl sgner Vermicelli e tanto meno il signor Stricchetti: su la cassettina c'era l'indirizzo, dunque? non ci poteva essere inganno, qualunque nei suoi pagni avrebbe detto lo stesso.

A ciap sù la cassetta che pesava, e dalla porta della Mascarella dove cè la civica mia abitazione, am l'avvei vers la Madonna grassa... una bella aguliata! Quand a fo lè da Bentivoglio apponzai sul murizzolo la cassareina, e sudavo come se fossi una bestia.

In quèl mèinter però che am spazzava la fronte ammatita di sudore, a pinsava che l'era una cossa uriginal che uno che non sapevo chi fosse mi caricasse di un carico da purtar a un'altra persona incognita... ma poi pensavo quanto si è serviziali non bisogna guardare in faccia a nessuno e prestarsi per la umanità in genere. E acsè a fe, con uno strascino che en vlènd sagattar il continente nella cassetta che si erano raccomandati che la portassi para, non potetti neppure profittare dell' Omnis e tanto meno del Tramwaj che è quello senza le rotatorie fora ed porta[1] che cè il caso che i cal, con rispetto dei piedi, vadino a finire nella punta dei capelli e vice versa. Basta, uscito di casa alle 9, arrivai dai signori Stricchetti al 12 e mèzz, tutto trasudato, e anellante che mi favo compassione da per me. Mi viene aprire una ragazza e mi si butta a riddere in faccia e mi pianta lì come un palio.

Finalmente arriva un zuvnein ducatissimo, che con un ammasso di complimenti, mi dice:

Am indspias, ma ci è un equivoco, quella cassettina che lì va a degli altri Stricchetti che stanno alla porta di S. Felice, sono nostri cucini; in quèl mèinter dedrî da di ùss saltava fora del tèst cun del stiuppà, delle schioppettate, di ridere.... Bella ducazione! Eh, a sfid, esclamai, l'è bèin lunghètta, ma bisugnarà rasegnarsi e andar alla porta ed S. Flis.

Nella fretta d'uscir di casa am era dscurdà anch èl portafoi, una cossa che mi va succedendo, e per conseguèinza aveva una gran fam, e non potevo pagarla. Con quèl car pèis sotto il braccio e dei finimenti di stomaco che si poteva vedere, arrivo al 2 ¼ alla porta ed S. Flis a quèl nùmer che mi avevano anzidetto.

Ma dentro da quella porta an i stava endson che si chiamasse per cognome, e tutti mi dicevano che provi a st'altra porta que attèis...ma erano tutte chiuse, e attèis non ce n'era nessuna.

Oh sangue d'un fnocc', d'un fenocchio...che quant am vein sù i ciû...i barbagianni, a biastèm com è un turch...questo l'è un vago affare...e d'altronde ste sgner Vermicelli che io non conoscevo, cuss'arèl pinsà ed me se non avessi consegnato quella benedetta cassettina così pesante?!

E dmanda pur int el buttèigh, mo tùtt is mitteven a redder, ma nessuno conosceva la famiglia Stricchetti, si vede che è gente ch'fa una vetta artirà...e tal sia di loro.

Un ragazzèl d'un barbir, a cui mi ero rivolto per chiarificazioni, al s'mett a redder e po al fa: badi che sarà un pesce!.... Acsè pèis?! bazzurlone: mo senti bene questa cassettina premma ed dscòrrer, ah, che pèss tamogn?! si cacciò in una sboccalata...e an savè cuss'as dir.

Basta, j eren el quatter che me a j era anch a batter a tùtti el port ed S. Flis in cerca di questi signori Stricchetti, e con una sete che se non era un ragazzol che mi concedesse un spiguel, uno spigolo di arancio, am srê vgnò la poligola cum è al galleinn.

All'infine poi me aveva fatto il proprio dovere, e ero fuori dai miei obblighi, che quanto siamo agli ultimi, io non ero obbligato a ciapparum una malattî per far un piacere a uno che non conosco, e decisi ed ripurtarum a cà la famòusa cassteina che avevo poi capito che doveva contenere dla conftura perchè as sinteva che ci ballava dentro.

Arrivò in seno alla famiglia ch'l'era 5 òur sunà, stoff mort, moj spòult, affamà comme un lupo.

Quel donn j eren in angostia perchè ci era una lettera urgente per me, e fenna che in me vdeven non la potevano consegnare...sono state abituvate così fenna da piccine...e sanno contenersi nelle traversioni della vitta.

A âver la lettra: l'era èl sgner Vermicelli che al mi diceva che non importava più che portassi il noto collo, al la ciama un col una cassètta, a destino, e che me la regalava a me. Quanta gentilezza, puvrètt, si vede che mi ha della fezione sèinza mî demerit.

Allòura fumo tutti felici, e quelle mattaciuole del mî fioli mi cominciarono a saltare intorno che volevano la confettura.

Stà boni, lassà far a Biasi che fava le corna agli asini! ah, a seinter questa materia, si può figurare che risat...hanno tutte il morbino, e poi anche non l'avessero, a sfid a star seri anche il più mognone di questa terra.

Basta, tolsi un coltello e a cminzipiò a cavar la copertura, ch'l'era inciudà...mo s'imagini bene cossa ci era dentro? — Dla giara — dla più bèla giarleina...ch' la pareva fatta a macchina. Si vede che era un campione: èl sgner Vermicelli al srà un neguziant in quel genere che lì.

Quel talp ed quel donn che non hanno idea della industria e dei movimenti commerciali, el saltonn fora a redder e a dir che im aveven fatt correr perchè l'era èl premm de d'avrel...e anch adèss sono imedesimate in quel pensiero e non è possibile cavarglielo.

Ma io ce la feci bella: a ste asptar che el fossen andà dla tùtti, e po a dess: Au! purtam que la brètta, gajardi...e a l'aveva in tèsta!!!....

Chi ha còurs?...Pirein nò ed zert....

— A me non la si fa, dseva quèl ch' studiava èl sulfègg...e tersuà a lòur sgnòuri.

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 8 aprile 1882.

OH! LA CUMÈTTA!!

Che cosa è una cometta?

Em dmandava l'alter dè l'Ergia, che ha sete di sapere, puvreina, e che per l'istruzione l'andarè a cà ed clò, a casa di colui.

Adèss cè venuto in mente di studiare il todesco nelle scuole serali, che se le facessero di giorno per me am srè più comod, ma ciò non vuol dire che infine fa lo stesso.

A st'òura lî zò s'è cumprà la grammatica, e la sa bale com' as dis pader, mader, pan in tudèsch che a tavla a la fèin po dscòrrer sèinza capir nient, che l'è un piacere, e me e la Lucrezia si guardiamo negli occhi che sono accosì belli, come dice il paggio Fernando, e si commoviamo a vedere una ragazza che, povra diavla, quanto nacque la n' in saveva rèbsa[2] e che ora è struita quasi più dei suvoi genitori, che grazia Dio hanno fatto i suoi studi in rèigla, perchè mî mujer l'è arliva del pùtti del padre Gallini là dal Zugh dèl ballon, ed io ho fatto il corso regolare delle quattro prime operazioni, che se non erano i maiestri che per gelosî, cunsionn mî pader a troncarmi a mezzo, perchè dsevni lòur, l'era trî ann che non passavo in un'altra scuola, adèss potrei essere com'è tant alter, o avvucat, o arziprit, o sendich, o pussidèint, val a dir d'aver fatto una carriera per esser messo poi fra i deputati comme sono quelli che sono attaccati su per i muri adesso, che un consumo di cola comme si fa l'è un affar seri.

Ma èl pover mî pader non volle, e tal sia di me.

Sicura; l'alter dè, mentre si facevano due chiarle accosì per passare il tempo dòp dsnà, quella spipola d'Ergia l'am salta fora a brusapèil, digand: Papà, che cosa è una cometta?

Dichi mo che questa domanda l'avesse diretta a un asino, che figura ci faceva?

Ed star zett, forsi, ma me nò, che per furtouna se n'era parlato poche sere primma al caffè dove vado qualche volta tùtt el sir a fare un 150, e dovve recapitano dei vomini com va, struiti, che leggono e che i san arspòndrov anch se non li interrogate.

La cumètta l'è una strèla che ce venuto un buco, dseva èl nostr'amigh, ed è un fatto.

Al dice al fa, che cossa è una stella? L'è un globo con dèinter una lùm di materie infiammatorie. Dònca, fa mo cònt che in qla bòmba opaca ch'è lè fora dove cè scritto: vini e liquori, ci venisse un bel busino, grande come un centesimo da due, cossa succederebbe? Che ci salterebbe fuori un codino di luce che quelli che passassero direbbero: Ohi, guarda, a s'è ròtt la bòmba, quèl è sta una sassà...ed ecco che quant una stella comune ciappa còntra a cvèl e sì rompe, nasce le stelle comette.

Com a s' capess l'omen ch' passà la sô vetta int èl studi, l'è un cupesta d'l'avvucat Sberli...a savèir ed quel stori lè, non bisogna micca essere privi dell'uso della ragione.

E che mi scusi bene, a dmandò me, che mi piace ed ciarificar el coss, come avengono poi queste rotture in cielo?

— Per l'affare delle costellazioni. Non si sa che cè l'ariete, il toro, e una scurnà ed qui bî matton, basta per ròmper zenqv o sî strèl int una volta, e farne tante comette. Al voi dir che noi non ne vediamo che una, perchè si sa che a quelle altre a j è dinanz o una cà o un alber, mo in cielo ve ne sono di quelle poche.

Sicchè, ricco ed sta bèla spiegaziòn, feci restare a bocca aperta la intera famiglia che ci va a venir voglia d'andar a vèdder la cumètta.

Eh, mo siv matti! An savi che si alza nelle quattro e che per vèdderla bisògna andar chissà dov, certo poi fuori di casa e che l'aria dl'alba fa male ai nervi.

Non ci fu verso, el s'ficconn in tèsta, si gettarono in testa, ed vlèirla vèdder e bisognò cuntintarli.

Allòura a stabilenn d'andar a letto prestino e po livars nelle 3.

Io andai un momento al caffè a seinter dal cupesta dovve si vedrebbe meglio, lui mi disse su per la mura di Strada Stefano.

A tòuren a casa: j eren tùtt a lètt che dormivano.

Ah, sèimper spiritòusi el mî donn!!

Mo me furb, a pensò: se a vad a lètt ci è il caso che mi addormenti e allòura chi ci chiama?

Mo sicuro! slèin livà dònca, e per distrarmi am mess a sgar di zuccadein in cuseina. Non lo avessi mai fatto, che un aquilino ch'sta lè dsòtta, gente senza ducazione, am ciama dalla fnèstra della corte, e am cmèinza a dir degli intemperi, e che doppo mezzanotte non si deve segare, e lassa pur dir, che al pareva lui il padrone e che me non pagassi il fitto, per far i mî comod.

Me a j arspòus che il galateo lo conoscevo più di lui, e che non cè nessun codice che proibisca tali operazioni in casa propria, quando non ridondano a danno di terzi, dònca lù al s'ciamava Tortellini e non aveva ragione di espellere lagnanze.

L'amigh al s'la tols persa, se la prese perduta, e rimase mutto, me a seguitò a sgar, e dòp un mumèint a seint el mî ragazzoli urlar, e mî mujer l'istess: — Mo Pirein dvèintet matt! far un diavleri acsè a j ho cherdò che al sia èl tèrremot.

— Papà, che pora, tra che am insugnava la cô dla strèla!!

— Zitto tutte, e livav ch'l'è òura.

Al trèi e mèzz avreven la porta; appènna fora a vèdd ch'al suèbbia, e l'è un bur ch'an si vèdd una gòzza, una goccia, a tòuren indrì a tor l'umbrèla e vî, tùtt cunteint pensando allo spettaccolo che si preparava.

Qla mattazzola d'Ergia, che a j aveva fatt impressiòn l'affar dal busanein, non vedeva l'ora di vederlo.

Arrivèin dalla mura. En pinsand che a j era l'erba moja, volli fare il bravo e a corr sù, ma mi manca un piede e a rozzel, rotolo per terra insujandum, tùtt, e fagand cascar anch la Lucrezia che mi veniva didietro. Per furtouna, allo infuori dla malta, che lassandla scar nel mattino susseguente la si sgaramuflava, non ci facemmo la più lieve conclusione, e quindi tutto finì in riddere che a j era quel ragazzi che si trattenevano le costolette che non potevano più.

E raggiungessimo la meta, ma l'acqua vgneva zò più fort, e que la cometta non si veddeva. Quel donn s'incominciavano a impazientire, e la Ergia andava guardand con di vider affumgà che ci erano serviti per veddere l'accless; ma an s' vdeva nient.

— Mo che as'siamen sbalià mura? a pinsò me, che nei frangenti più critichi so conservarmi freddo, dseva quèl ch' lavurava int la nèiv, e detto fatto a ciappèin sù arm e bagai e andiamo lì dalle guardie daziarie con preghiera di schiarimenti.

E lì, gentile, si dice che bisogna andare nella mura di Saragozza perchè l'era passà per d'là.

E que l'acqua cherseva. Mo ci eravamo... e vî ed scappà vers Saragozza — un arloj sunava el 5 ½ e cominciava a slomberzare.

Arriviamo alla Porta di Saragozza, ma quella caduta che a botta fresca non mi aveva fatto nulla, adesso mi faceva male e a caminava zoppicando. Mî mujer l'arstò per di dè nezza abbenchè fosse nata in Savoia.

Basta, a forza ed sforz arrivò int la mura, ma non si veddeva nulla. Sòtta al pordgh dèl Mlunzèl a j era una lumeina, mo me a degh ch' l'era un lampiòn; quel donn disen mo che fosse la stella, basta èl fatt è che venne giorno, e l'acqua seguitava, sicchè a pinsò ch' l'era mei turnar a casa, che a j eren moi spult, bagnati sepolti come pipiini.

Turnand zò a incuntrò un zuvnein, di questi sapientoni, che si mise a riddere quanto ci dimandai come poteva essere che non si vedeva la cometta.

— Imbecille! ai dess in cor mî, il riso non è una risposta.

E andonn a cà. Quant a fo dalla porta, a lassò andar sù quel donn perchè a vols andar a tor dl'arnica perchè a sinteva che il male alla parte offesa dla cascà, aumentava.

Ma non l'avessi mai fatto, chè in quèl mèinter che a turnava e saliva le scale con la mi buccteina in man, am seint arrivar un bastòn zò pr'el spall e una vòus ch' dseva:

Ah, t'em vu insgnar al galateo, asen d'un vècc, ciappi quèsti, e impara a dsdar i can ch'dormen... te sèiga la lègna a un'òura dòpp mèzzanott... e me at dag èl lègn zò per la vetta!

La mî furtouna fo che l'arnica rumpand la buccètta l'andò a spargujars tra 'l bastòn e me ed mod tal che servì come antidoto alle funeste conseguenze.

È inutile che ci dichi i versi di quelle donne nel vedersi così maltrattate nella persona di suo padre...

Mi misero a letto, ma non vi fu luogo a procedere perchè èl duttòur, sumaròn, non seppe distinguere le lividure prodotti dalla cascà, da quelle del bastone...

Me però a cunfèss che almanch ql'amigh em fe vèdder sù pr'el scal qla strèla che an aveven psò vèdder int la mura... Per cossa po non la vedessimo? Mo, sarà sempre un mistero!

E po an s'ha da dir che el cumètt el porten dsgrazia?

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 4 novembre 1882.

CHE BARBERO DESTINO!

Caressum sgner Derettòur,

Che al staga bèin bòn, che a momenti l'am scappa!... I disen: sta pazient com è quèl ch'durmeva int l'aldamara, scusi il termine, ma la storia anch ch'la sia putrida, bisogna dirla, e io rispondo: padrunessum ed durmir dove meglio l'agrada, che è quella strada acquatica lè avsein alla Carità, ma me che non ho quel genio di dire d'adagiarmi in quel letto non di rose, ho anche il deritto ed lassarum scappar la pazeinzia, quanto vien messa ad una prova dura, com dseva quèl tusètt che an i turnava èl cònt.

Corpo d'un fnocc'! è da qualche tempo che le ho tutte dietro: e se avess da cascar un còpp a sòn zert che al ciapp me in tla còppa... Dònca, come ci narrai per l'affare della cometta, a cascò a rotoli zò dalla mura, e se questo non basta, em favurenn anch del bastunà, ingiustamente se vogliamo, che anzi l'aquilino che me le somministrò, quanto sentì che me a vleva andar per la via dei tribunali, am dscunsiò digand che era meglio che voltassi pel borgo delle tovaglie e al m'invidò a dsnar dov quasi quasi arrivò int èl bòurgh del cass.

Questa cossa mi fece capire che l'era quistiòn ed bòn cor e ci perdonai... mo crèddel che questo atto generoso mi portasse fortuna? Ah! lei s'incanna, perchè dòp che fumo stati in buona armonia durante la mensa e che me volevo andar sù per riabbracciare i miei cari, a cmèinz a vèdder che am gira la tèsta sebbèin che me a staga fèirum; chissà, forse effetto di stomaco mal digerito, ma niente pavura e drett com è un anzein a insfilzò el scal... ma am inzamplò int la mî òmbra, e patatrach, zò a ruzzlut; quant l'aquilein em livò sù a j era zopp stlà, stellato.

Ma il peggio l'era che aveva battò la frònt nel manutengolo della scala, che a ciappò ùna ed quel zuccà, piz che se avess tolt del cartèl del prestito Lamasa, senza nessuna idea poetica, talchè la mî Lucrezia ci toccò di star in pî tùtta nott, a seder lè avsein al mî lètt a farmi di fumeint ed carta strazza bagnà int l'acqua zlà per evitare la bergnoqla, infatti la matteina non ci fu verso che potessi indossare èl ginnasi tant mi si era sollevata la fronte, e la gamba non la potevo muovere più di così.

Com s' fava mo per esercitare il deritto della lezione, chè l'era proprio il giorno che si dava il voto?

E qui bisogna che lo dichi, la fo propri la mî ragazzola che ci venne questa idea, di dire che ci scrivessi una lettera e cossì feci come segue:

Signor Presidente DELLA SEZIONE 31 VIA BOCCA DI LUPO, DALL'L ALL'X

Bologna

Comme saprà mi trovo in condizioni di non potere indossare il cappello, mercè le cure di mia moglie spero di mettermi presto al punto di farlo.

Se lei crede di tener in sospeso l'urna sino alla volta di martedì, bene con bene, ed io verrò a vuotare, in caso contrario lo facci dare alla ragazza che gli porta questa mia, la quale non solo è mia figlia Ergìa, ma sa leggere e scrivere e fare la regola del tre. Lei sa le mie intenzioni per il bene della patria e dell'umanità.

Suo Servo lettore Pietro Sbolenfi

E po alla tusètta ci diedi la mia brava scheda con cui approvavo l'abolizione del sale, quella del macinato, e pregavo anche ed pruvèdder perchè abbiamo la fuga ed cuseina che l'è un pzulètt che tiene il fummo, e la mandai con Dio.

Mo dòp un poch, me la vedo turnar indietro tùtta spavintà perchè j aveven dett che as sinteva la vòus ed Garibaldi che la dseva: All'urna, all'urna! E lî puvreina, che è spaventosa in un modo straordinario, non ci fu verso che la s'attintass più a purtar la lettra.

Basta, ci attaccai un francobollo e la feci mettere in busa, e così quantunque infermo, ho portato il mio contingente per la prosperità nazionale.

Mo credde che sia finito qui l'inventario delle mie disgrazie?! gnanch per burla: mo cuss'oja fatt, ho forse morduto il seno alla genitrice?! che senti cossa mi recapita.

L'era èl prem dè che sortivo di casa, e èl gennasi am striccava anch per la zuccata come sopra.

A pass per la vî Nova, e c'erano dei monelli che si divertivano a zugar al ballòn, chè adèss dòp Ziotti e Bossotto[3] e cossa soja me, i biricchein j ein dvintà piz dèl Moro[4]: j han sèimper la balla.

Io tiravo dritto per il mio viaggio, quant am arriva un ballòn propri in mèzz al cappèl e non solo me lo schiaccia, ma me lo compenetra in modo che dû policeman accorsi a soccorrermi, e che j ein pratich ed sti coss, non erano capaci di estrarlo, talchè si dovette ricorrere a l'imputazione dl' alia perchè la bergnoqla iritata di bel nuovo, l'aveva fat un livadur che mi tampellava da vgnir a cô, a coda.

E quei bardassi, in quella vece di mostrarsi spiacevoli dla dsgrazia, i rideven senza ritegno e i dseven:

— T'al dsevia me, che ai vleva ciappar in mèzz?!

Am tuccò d'andar a cà con un fazzulètt ligà alla muntanara, e èl gennasi in man, diviso in due parti, e coi monelli didietro... che mi toglievano in giro.

Mo cossa oja fatt da essere perquisito a sta manira dal barbero destino?! Me am dsbattzarè, dseva quell'ebreo, per savèir il perchè tutti mi tolgono a streina, a brucciaticcio; se a foss una bèla macia, une belle tache, com dis i franzis, eh! direi, meno male me lo sono meritato, ma viceversa, credo di non esserlo, anzi, se mai am s'prè intaccar di accessiva furbezza, eppur io sono sempre vittima... e mai... carnefice.

L'alter dè a incònter ùn che an so gnanch chi al sia, e di punto in bianco al m'affèirma e al dis: Scusi, ho dimenticato il portafogli a casa, avrebbe da prestarmi due lire, che domani gliele restituisco?!

Ch'al scusa, sgner Derettòur, int i mi pagn, se ci andassero bene, cussa arêl fatt?... Ben volontieri, a dess me, e ci diedi le due lire.

Lei non lo crederà! mo êl mo persuas che non ho più avuto indietro neanche un centesimo... ma se lo incontro, viva il cielo, a j ho del boni man, dseva quèl camarir ch'ciappava del manz, e ci farò capire che an sòn brisa da tor int i rozzèl com è che a fùss un pèzz ed masègna... ma sènnia o en sènnia un omen seri?!

E tùtt quèst que l'è anch nient, in confrònt dl' angùstia che a j ho adoss, dòp èl fatt che ho letto nel giornale dovve si predice nientemeno che la fein dèl mònd, causa una cumètta ch's'ha da inzuccar int èl sòul! Bazzurlòuna! Lassà inzuccar èl vein, e tirà drètt pr'èl voster viazz! Mo lî zert non darà nè retta, nè curva ai mî cunsei e l'andarà a batter èl zùcch còntra al sgner Febo, e ci verrà la bergnoccola sèinza carta strazza, che lassù di pastarû non ce ne sono, e allora noi diverremo tant brustulein... o tante bistecche a scelta, ma è più facile brustulein perchè del j anum ed zùcca a j n'è parecchie in fra di noi...

Basta, se ciò avverrà, me am arcmand a lù, sgner Derettòur, che abbia cura della mia famiglia che rimarebbe orba, cieca del genitore, il quale me sarei sicuro che int una catastrofe acsè general ai armitrè la vetta, con brusòur, mo ai l'armitrè.

E tersuà a lòur sgnòuri.

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 11 novembre 1882.

EL TRIBULAZIÒN DÈL SGNER PIREIN IN CAUSA DLA «CORDELIA» ED GOBATTI[5]

Caressum sgner Derettòur[6]

Chi dovesse dire: l'è cattiva, no, mentirebbe per la gola... che io non ho mai capito cuss'al voja arrivar a dir, mo, l'è nojosa, ah, quèst sè, perchè per esempio del volt am artir tardètt cossì mi perdo con qualche amico che ritrovo, e si fanno venire quelle undici e mezzo; ed ecco che quand arriv a casa, lî cminzeppia a coprirmi d'interrogazioni e duv ît stà Pirein, ah tu ti dimentichi della tuva Lucrezia, e lasciala pur dire a lei che non la finisse più... una vèira petma, una epitome per direl un poco più in buona lingua.

D'altra banda torla sigh, l'è una benedetta donna acsè pigra, così pecora, che a dispostarla ci vogliono gli argini, si figurano se io potevo strascinarla fenna lassù, nel lubione del Comunale, per la premma sira dla Cordelia. Eppur a fe, a fe, e poi ci caddi! Lî la dseva bèin: va là Pirein, non strusciare quei soldi che possono far del bene alla famiglia, ma Dio santo po, un poch ed divagamèint ci vuole, e poi era un vago tira tira quello di questa opera del giovane maestro che tutti dicevano si fa, eppoi no, che non si capiva niente.

Io per non aver noie, simulai un pretesto e dissi che andava a truvar un mio amico èl quâl, puvrètt, è in letto che èl professòur Gotti ci ha astratto le cattedrali dagli occhi con felice risultato, che lui diceva con me: ah quel Gotti l'ha del man che lù ai cava i dapertùtt, lù al lavòura int i ucc' in mod da avanzar lè a bòcca averta e con tant ed nas per la maravèja... oh l'è una gran tèsta! ed aveva ragione.

Ma veniamo allo scopio per la quale ci scrivo, cioè a descriverci la vitta che feci io, che dicco la verità, ci fu un momento così critico che mi raccomandavo l'anima e vedevo la Lucrezia vedova per causa mia.

Alle 4 pomeridiane del dopo pranzo, arvujà int la mî caparlètta, mi misi come suol dirsi colla schiena al muro còntra alla porta del lubione e dicevo fra io: figli di buscherone, appena aprite chi è il primo ad entrare? Mo Pirinein! e fanatizzato da questa risposta spiritosa che mi davo da per me, a riddeva, perchè sono sempre allegro, ed anche spiritosello, come dice lei, micca lei, lui sa, ma lei mia moglie che mi credeva, povera ingenova, a far compagnia a quèl dalle cattedrali.

Intanto si aggiungeva sempre ramo alla mescola, cioè la gente, e io mi ero ridotto che non potevo tirare il fiato e mi adannavo a dire: L'è inùtil chi spénzen; più in là di cossì non si va, cè la porta! Questa cosa spiritòusa mise l'ilarità nel pubblico, e cominciarono a capire che volevo poche litanie, e abbozzarono cercando d'ingrazianirsi. Ùn em tuleva èl gennasi e se lo provava, ql'alter mi tirava per la capparella, un ragazzèl tentava di pestarmi i piedi... Quèl mo nò, ci dissi: caro mio ho con rispetto i callici... eh, a seinter sta matiria ci si sarebbero cavati i denti dal gran redder... Per quello, aver dello spirito è una gran fortuna, dseva quèl che si fava il caffè a macchina... Ma non precipitiamo gli avvenimenti... Si sentono a levare i catenacci, l'è la porta che si apre! e patapunfete tutti dentro a togliere i biglietti... Me, che aveva sèimper tgnò in man èl franch e mèzz, nella confusione non li trovo più... quèl ragazzèl che voleva pestarmi i piedi mi salta davanti e sèinza andar in bisacca sborsa il contante, strappa il biglietto e su per le scale com è un fulmine. Io vorrei accendere un fiammiffero e cercare fra le gambe di tutte quelle persone, ma l'è tèimp e sulfanein strascinati. Furtouna che avevo due franchi di scorta e li dò all'omarino dai biglietti, il quale nella confusione consegna il resto a un altro che non ero io... ma noti sono micca un martuffo, e uso prudenza aspettando che tutti abbiano preso il biglietto e che i sien andà sù, e poi dicco: Io ci ho dato due lire e èl rèst lù al l'ha dà a un alter, e non lo neghi perchè ho visto con questi occhi.

— E allòura percossa n'al dir sùbit?!

— Che bella ragione, soja me che quello là, invece di darli a me, tira di lungo... lo credda in consenzia.

— Vedo che è un galantuomo, ma non so cossa farci...

— Oh del resto senta an sòn megga fiol ed dis bajoch, e con tùtt i mî comud mi avviai sulle scale, brusand un puctein per aver speso 3 lire e mezzo in una cossa che pegli altri costava 30 soldi, ma la passerà, dseva quèl che aveva preso la cassa; coi concenti della musica tutto sparisce... e sù che andava, ridènd al spall di quei disgraziati ch'j eren còurs sù pr'el scal striflènds e facendosi venire la batteria di cuore e l'affanno di respiro, o l'asma che dir si voglia.

Arriv finalmèint sù, e la maschera mi dice. — Al pol pruvar ma non ci è più posto! — Ah, lo trovo io, lassà pur far a Pirein... e quello al fa, al dice: Il biglietto?!

— Ohi, mo adèss che penso, non me l'ha micca dato... quel bazzurlone, bisognerà che torni giù,... oh Dio, quèst mo am agriva, dseva quèl ch' s'era scavzà l'oss dèl col...

— Mi dispiace, ma non si passa se non si ha il biglietto...

— Mo tu hai piucchè ragione, sei nei tuoi deritti, che diascane, credi che ti volessi far prendere una bravata, pover spirt... eh, bisugnarà rassegnarsi e turnar zò a reclamar... stasira non me ne va bene una.

La maschera però l'am zigava drì, mi piangeva dietro: Ch'al bada che è pieno tutto, che non cè dubbio ch'al trovi posto...

— Stòfila pur cinein, tu non sai che a Pirein ci basta l'animo di farsi strada... son voluto bene da tutti e po a j ho del relaziòn ed sgnòuri di quelli che siedono su per la cassa della cera, quindi... non si ha pavura.

Arriv zò, e appena mi presento dalla graticola dei biglietti a seint che l'omarino al bròntla in fra i deint: Ah l'è que sta seccata!

— Scusi, io non secco nessuno, a sòn vgnò a tor èl bigliètt che nello scompiglio lui non mi ha dato...

— Oh, una storia nova adèss, premma a j era èl rèst che non ha avuto, adèss salta fora èl bigliètt, sa cossa ci devo dire che se si vuole andare a teatro a scrocco non si viene qui...

— Ah, che scusi, ma misura i termini, che sono i principî di educazione, ma per chi mi ha tolto, sono un galantuomo incapace di dire una cossa per un'altra... Se ci dicco non l'ho avuto l'è la verità.

A tale inserzione che me a fe in mod risolut, al dess: senta, torni quando ho fatto i conti, e se al m'avanza fora è segno che cè dippiù ed è il suo.

La cossa l'era ciara, mo come si faceva a sentir l'opera se i cont li favano finito lo spettacolo?! E io che era senza un centesimo... comme si fa?! Tornare a casa, la mi vèccia s'insospetta, duv oja da batter la tèsta? dseva quèl marè ch'aveva pora d'sgarujar la muraja...

Mi viene un'idea, d'andare da un mî amigh con recapito al caffè del Corso, io ci domando il prestito d'un franch e mèzz... detto fatto, aslùng èl pass pr'i Placan... che veniva tardi e cominciava a pernottare.

Quant arriv lè dalla Salgà ed strà Mazzòur, ci era alla fontanina dû o trî di quei ragazzi, che hanno il morbino, e uno al fa al dice: Ehi ch'al scusa, si fermi lì un momento sòtta al pordgh. Mo ben volontieri, a degh me, che mi piacciano tanto i ragazzi allegri... e mi fermo; non lo avessi mai fatto, quel mattarello mette il ditino nello spinello della fontana e la spinge còntra ed me che in uno spillo, int un agucciòn, rimango moj spòult, bagnato sepolto da cap a pî!

— Cuss' arêl fatt nei miei pagni... così bagnati?!

Io dissi, siete i gran bei originali... e mi dovetti risolvere a scappar a cà che favo il vialino comme un cane che sia stato all'acqua.

Ma questo era nulla, la fazzènda l'era cossa dovevo dire alla mia moglie, puvrètta, che mi vedeva giungere sotto le tegole coniugali in quèl stat...

— Ohi, Pirein, cosa ti manca lo spirito sul più bello?! Lù forsi esclama accosì, sgner Derettòur; ebbene, s'immagini mo cossa pinsò Pirèin di dire alla sô dona, parlo della consorte e brisa dla serva che non ho, lo indovina?

Aj dess che a j era acsè moj dal lagrum che aveva sparse èl mî amigh per la ricuperata vesta... ma lei che non ha spirito, non l'ha creduta e mi ha mandato a letto senza cena, dsandum dèl vècc' matt e coprendomi d'improperi... furtouna ch' l'era ferschein.

Però èl zùff cè durato per diversi giorni e me am è dà fora un ferdòur che mi tocca di respirare per le orecchie, e grazia che non mi vengano i dolori particolari...

Ah, a quali estremiti mi ha strascinato la prima sera della Cordelia... senza averla sentita!

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 17 dicembre 1881.

ECHI DI CARNEVALE

Sgner Derettòur!

Am pias ch'i disen: badate ai fatti suvoi, e nessuno v'infrangerà le devozioni! Eh, questo è un averbio scrett da uno che non aveva l'esperienza del mondo di dire che vi sono dei vomini nati a bella posta per dar noja a j alter, quasi si direbbe le pulci, scusino il paragone estivo, sissignore, le pulci della Società.

Se an tirava mo d' longh me, l'ultum dè ed carenval sòtta al pordgh dèl Pavajon, e se non inculcavo mo io al mî ragazzi ed badar lè, e di non guardare alle maschere ch'es passaven avsein, me an so chi l'avesse potuto far meglio.

Mo cossa giovva essere prudenti e rettilinei, quanto vi sono dei sfacciati che vi intralciano il camino, e che in s'arvisen brisa a loro stessi, dal mumèint ch'j ein in maschera?

Ma si venghi al motivo per cui ci scrivo, che è vergogna, perchè se la libera stampa non presta apoggio a un vero padre di famiglia tolt in gir da della gente che non si conosce, me a dmand e dicco dovve è andato a star di casa il principio che l'ha da èsser la fein dei giornali cittadini di sostenere i pacifici viandanti, quando si trovano nel frangente uguale al mio; ma car èl mî sgner Derettòur, mi condoni èl sfugh dettato dai nezz che tuttora sopporto con erovica rassegnazione, ma loro signori i prumetten dell'appoggio a tutti, e po quanto siam nell'ultimo vi lasciano andar per terra anch che si sia assiduvi lettori com a sòn me, il quale assalito dall'influenza di mascarutt, mi trovai abassato nel marmo del portico, per mancanza d'appoggio!

Èl duttòur al dis: non dovevate andare fra quei pazzarelli che si vogliono divertirsi alle spalle altrui; ma io a j arspònd che dal momento che uno paga la tassa di famiglia ha il deritto di menar a spasso la medesima, sia pure anche l'ultimo giorno di carnevale, sèinza avere molestie nè per sè, nè per le proprie figlie, che im li scantalufonn in una manira che c'era l'Ergia che poverina l'andava digand: babbo mi fanno la ghittole, non posso più dal riddere e tante alter coss in italiano.

Ma quèst l'è ov e zùccher, e se si fossero limitati sino a lì, meno male, as sa, si è di carnevale e anch'io a so compatir, so compiangere, lo sfogo della giovinezza, ma quant mi trovai circondato da sette o otto Turchi, che mi distaccano dal mî creatur, e cominciano a darum dei soffittoni sul ginnasio, e a strapparum vî la caparèlla, che a j aveva tgnò sòtta èl paltunzein che porto per la magione, un puctein lèis negli avambracci, e con degli intoppi di stoffa diversa, opera dla mî Lucrezia, che è una donna tutta di casa, ah quando mi si scoperchiano in tal mod i rapezzamenti di una famiglia che vuol sostenersi nel decoro esteriore, in mèzz a un Pavajòn, che scusi sgner Derettòur, se lui la prende in riddere bisògna ch'al sia un gran asen, e questo lo dicco perchè a so che non farà accosì, ma avrà delle parole biasimevoli per quei Turchi che misero in mostra coram populo, nel cuore del popolo, el mî miseri, rattopate dalla Lucrezia è vero, ma sempre umilianti.

Intant el mi ragazzi el j eren sparè; duve giovani con èl paltò all'erversa e un naso fittizio, se le erano prese sotto il braccio, e ci dicevano delle galanterie, e me intant protestavo e chiedevo comme di giostizia il rimborso dei danni, per vi 'd dèl ginnasi infranto e del tabarrino trascinato nel fango della terra. E siccome loro fingevano di non capire e seguitavano a riddere e a farum ballar per forza, io dissi che il suo agire era da gente senza contegno, che se l'avessero avuto quello era il sito da mostrarlo, perchè le persone... come va? non c'è male, grazie, si conoscono in maschera, anch quant non si conoscono! Uno dei mascarotti, forse un po' urtà dagli urti che riceveva, am cminzeppia a dir una mùccia, una catasta, di insolenze. Me credevo che scherzasse perchè la maschera tutta sorridente che lo ricopriva non dava dei segni di collera, e io dicevo: mo va là, sta zitto non dire bazurlonate... Ma lù per tùtta risposta al m'arriva un cazzott int èl stòmgh, che mi tolse il respiro e po un alter int la tèsta che mi fece schiamazzare per terra, e zò e zò che pareva una gradinata. Arrivarono le guardie e mi liberarono dal Turch, che fu costretto a cavars la maschera. Che s'immagini mo chi l'era?

Uno che non conosco, che mi dice: scusi l'avevo preso per un altro.

— Ma fiol mî, aggiungo io spazzandom, scopandomi il sangue che veniva giù con rispetto dal nas, per le botte sofferte; mo fiol mî, percossa torum in sbali, se me lo avessi detto prima si poteva risparmiare il conflitto.

Al fatto sta che ci toccò d'andar entrambi sù in questura per depòrr, me el bôtt che aveva avò, e il mio competitore la ragione incognita per cui me le aveva somministrate.

I ragazzù, gentilmente si condussero fenna in Palazz zigands drî, piangendoci dietro, sabbion, sabbion!

Esposte, trovatelle, al signor Delegato le proprie ragioni, si accordò la libertà, doppo avermi detto che un padre di famiglia l'ha da usar sèimper prudèinza e non insultare le persone che non si conoscono, e che il mascherotto era da compiangere se sentendosi punto, con delle parole, si era legittimamente difeso.

Lì giù dall'incordonà, che guida in questura, ci era il popolo che si attendeva, i Fratelli Amato[7] con el bandir, ed altri coi stendardi, e ci accolsero con una dimostrazione d'ucclà, chiamandomi per nome, chè ero già stato conosciuto e dicevano: Ehi! sgner Pirein, el sòu ragazzi el j ein alla birrarî dla Mort con dei giovenotti...

— A proposit, l'è vèira, mo il mio sangue...

— Al j è vgnò zò dal nas, con rispetto... arspundeva un mattazzol che mi stava didietro.

Intant quèl che mi aveva dato i pugni, al fa al dice: Se non disturbo, vengo anch'io alla birreria, così sigilliamo la pace con un mangino.

— Anzi, anzi, dicco io e andiamo là. Appènna dèinter, al cherdrel mo? Era vero che el mî dòu fioli erano attavolate comme se niente fosse con duve di quelli dal paltò all'erversa, col naso fittizio come sopra, che se ne bevevano allegramente.

Ah! allòura, lo confesso mi venne un gruppo alla gola e non potetti fare a meno di esclamare:

— Ingrati! mèinter voster pader è stato lì lì per scendere il patibolo, vualter av dà in preda, in pietra, alle gozzoviglie, con dei nasi ignoti?

Sti pover ragazzi, dietro a questa terribile mortificazione, tant più che si era nella birreria della Morte, mi corsero al collo e mi baciarono in più volte, talchè io dissi: basta, vi ho perdonate, e presentand èl Turch che si era tornato a mettere la maschera, a dess:

— Presento quel signore che mi ha preso in isbaglio.

Quî dai nas si allevarono in piedi e si mettemmo al tavolino. Rivolto al suddetto, a faz a degh:

— Cossa si prende?!

— Oh, se vi fossero gnocchi li gusterei, ho faticato un poco e mi sento appetito. Me invez aveva un dulòur al stòmgh per il pugno avuto.

— Vengano i gnocchi, e io a turrò, toglierò, un piccolo rhum! A j era lè po qui alter che avevano usato tante gentilezze al mî ragazzi, raccogliendole quant el staven pr'arstar orbi dèl pader, e che ci avevano dato da bere un bicchier di birra, dònca per indebitarmi con loro ci dissi: Essi gradirebbero qualche cosa? Perchè no, prenderessimo anche noi i gnocchi. Quel ragazzi ne facevano anch'esse la volontà, percui si disse: sei porzioni di gnocchi, e po veins l'arfrèdd, e po una zùcca ed Chianti... e di chifel per castigh. Tutti avevano buon appetito, grazia Dio!

Quèl dai pogn po al tirò zò a caruzzein dscvert, a crèdd che al magnass anch un pzol ed tavlein, anzi me per dir una barzelètta, a fazz: In Turchia si mangia bene a quel che pare; e lù al fa:

— Au, cinein, dsmettla bèin sùbit, se nò a t'in dagh di alter!!

Capii l'antifona, e abuzzò, ordinando un po' di anicione.

Endson vols mortificarum, offrendo il pagamento della propria parte, e io dovetti pagare per tutti. Fortuna che la figlia del padrone, mi conosce e mi fece credenza perchè non ne avevo abbastanza. Èl Turch volle anche dei zigari e l'andò vî mezz instizzè quasi sèinza salutarum, i giovenotti dai nas ed cartòn esibirono il braccio al mî tusètti e me am l'avvei con èl pover gennasi tùtt squizzà, ma quando siamo fuori a seint un impressiòn atmosferica, e mi accorgo allora della mancanza dla capparèla. A fazz a degh: Au ragazzoli andiamo mo lì dall'Archigenasio a vèdder se cè anche il mio tabarro.

L'Ergia, che l'è sètt cott e una bujida, la saltò sù: Mo an j è dùbbi papà, a quest'ora l'avranno già preso su. Difatti ci accolse, perchè an j era nient.

Oh! armettri po la capparèla l'è tropp, tant più che era serata umida e avevo pavura di prendermi delle affezioni romantiche.

Mo zò quant el coss el j han da èsser bisògna ch'el sien, perchè an aveva fatt 20 pass che a vèdd vgnir in zò èl Turch con un alter mascarott ch' l'aveva adoss un tabarr, ci guardo: êrel mo èl mî?!

Lo fermo e dicco: Scusi, quello che lì è mio.

— Ah l'è èl sô?! Me a l'ho cumprà da un ragazzol, a j ho dà 5 franch ch'al sra una mèzzòura.

— Tropp giosta, adesso non tengo le cinque lire, al vol dir che se dmatteina a passà in via tale, numero tale sarete rimborsato.

Èl Turch intant al s'in fumava sèinza dscòrrer; si vedde che si era offeso del mio procedere.

Però am tuccò d'andar a casa in bèla vetta e guadagnarum un ferdòur. Quant a fonn dalla porta, i giovenotti strinsero le mani al ragazzi e a me, e se ne andarono. A degh: Chi êni mo quî lè?

— Che dmanda, dis l'Ergia, se si volessero far conoscere non andrebbero in maschera!!

Sta risposta em zlò, non vi era modo di replicare. Andò a lètt, ma il giorno appresso non ci fu verso di rilevarsi, ero tutto un nizzo e bisognò chiamare il dottore che am fe far delle confricazioni colla solita arnica.

Più tard veins quèl da la capparèla, che ci dovetti dare 10 lire perchè, dsevel lù, a j era tuccà ed perder la giurnata a zercarum, non ricordandosi l'indirizzo, e finalmèint veins la lesta dla birrarî: 14 franc!!

Ah! va pur là, che il carnevale è una gran bella istituzione!!

Dall' Ehi! ch'al scusa... del 21 febbraio 1883.

ZOBIA GRASSA[8]

Gentilissimo Signore,

Lui mi prega e, a dirci no, al parrev che volessi dargli una negativa, mèinter l'è bèin tùtt alter, o sì! non lo dovrei dire perchè chi s'loda s'insbroda, dseva quèl ch's'arbaltava la mnèstra sù pr'el bragh, ma d'altra banda è così: io sono un vomo cardiaco, vale a dire che a j ho dèl cor, e quanto mi toccano nella beneficenza, ecco che non mi so tirare indietro, com dseva quèl ch'era còntra al mur.

Gran bèla cossa questa istituzione della carità cittadina di dire che in quel mentre che si divertiamo, da un lato, as fa un po' ed bèin da ql'alter e cossì anche quello che per mancanza di mezzi an s'po vstir da puricinèlla, sente l'avantaggio ugualmente in causa dell'obolo come sopra.

A proposit di carnevale, ed mascher, e di altre sciocchezze, che al seinta cossa mi capita due anni fa, che se non si avesse della ducazione el srenn coss da inquietars int èl seri.

Ero stato a pranzo dai Scattabrugi, una nobile famiglia ricaduta, e per sô grazia hanno della differenza per me e per la Lucrezia, il quale sentendosi predisposta aveva preferito ed star a casa e cossì dicasi di quelle ragazze, che se non viene la mamma non veniamo neppur esse.

Allora la signora Scattabrugi, che è di una gentilezza che passa i limiti, quant a sòn per vgnir vî, mi chiama in un angolo remoto dla stanzia da dsnar, e mi tiene il seguente discorso:

— Che non se ne offendi, siccome la sô famèja non è potuto venire a pranzo, quèst l'è un poch ed latt mel da purtari: e così dicendo, estrae, la tira fora, dallo stracantone una bèla tarineina piena di latte miele coi cialtroni, e me la mette int un tvajulein... e felicissima notte.

Figurarsi la mî cuntintèzza per poter radolcire la bòcca al mî donn, e vî e vî ch'andava col mio involucro astrech e par, per pora di non rovesciarlo.

L'era l'ultum sabet ed carenval... e le maschere scorazzavano, el scurazzaven per la città... Incontro un turch che mi dice: addio Pirein, stala bèin l'Ergia? — Sè, sè benone... e vî d'longh... e sin lì andò bene, che anzi el mascher acsè peini ed spirit em piasen dimondi; ma non ho fatti pochi passi che am trov in mèzz a una massa ed mascarutt che im cmèinzen a saltar d'intòuren.

Io ci dicco subito: fate piano ragazzi per vî'd dèl latt mel!!!

Non lo avessi mai detto... strapparum vî èl fagutein di mano, cavarum èl cappèl e mettrum in tèsta la tareina cun èl latt mel, fu un punto solo... e po vî che se la diedero a gambe in quel mentre che tutto il liquido-solido em culava zò per la fazza che non facevo la parata a leccarmi, con buon rispetto, e me lo sentivo compenetrare zò pr'i sulein e lungo il filone della vitta.

An poss gnanch dir che al s' metta int i mî pagn, perchè si può figurare in che stato erano ridotti... e cossa si faceva in quel frangente? Eh, io leccai fino che potetti, poi am spazzè alla mei cun èl tvaiol coadiuvato dai passeggeri i quali, secondo il solito, riddevano del male altrui e dai biricchini che em vgneven dattòuren a alcarum fenna dov i pseven.

E èl gennasi?! Mo sissignore che qui brùtt mascarutt mi avevano trafugato èl cappèl, un cappello a cilindro quasi nov... oh, e nota che io non li conobbi micca perchè j aveven la maschera... basta ql'affar del mascher me an al poss mandar zò, dseva quèl ch' pluccava un oss ed brasadla, perchè secondo me, va bene che si vadi in maschera, ma a s'arè sèimper da dir: sono il tale dei tali, acsè quell'altro si regola e sa con chi ha a che fare.

Comme nel caso mio pr'esèimpi da chi andàvia a dmandar èl mî gennasi?

Diedi io la rinuncia alla questura, ma quanto mi domandarono i connotati dell'agressore e io ci dissi: naso lungo un 30 centimetri circa, il delecato si gettò a riddere come un sesso, dicendo: non può essere...

Ma che mi lasci finire, soggiunsi me: l'era èl nas dla maschera!!! d'altronde io non ci potevo dare altri connotati... Oh quant a pèins a qla sira!... E dir che èl carenval l'è fatt per divertirs!!!

Che stiino bene, e tersuà a lòur sgnòuri.

Bologna, febbraio 1885.

ALLA CÒURT D'ASSISI[9] (PR'ÈL PRUZÈSS DLA ZERBINI)

Caressum sgner Derettòur,

Acciderboli!... Che non mi faccino bestemiare fuori della convenienza... perchè ci dicco la verità che ne ho empie le tasche!! Cossa ci va a venire in mente a quel sig. Ciliegia[10] di scrivere che anzi fanno bene ad andarci, mentre tutti gli altri dicevano che non sta bene perchè bisogna ogni tanto diventar rosse, il quale è una bella fatica per chi ci avesse perduto l'abitudine. Il rosore per certuni l'è com i lampion di trabai, che se il conduttore al se dscorda di cambiare il vetro rimangono o bianchi, o verdi per tutta la vitta!!

Sicuro, dunque comme ci dicevo, la mia Ergia, fenna che i giornalisti stampavano che le persone di sesso diverso, non conveniva andassero alla causa e slanciavono del biasimo contro a quelle che c'erano, non cercò mai d'andarci contentandosi ed lèzzer i bolettini dovve vi sono le metafore ed mod che li potrebbe leggere anch un urbein, senza temma d'arstar uffèis nell'amor proprio della suva famiglia.

Ma sissignore che un dè l'Ergia l'am corr incòntra con questo giornale in mano digand: Papà che mi ci vi conducca, al le dis èl foi, guardi qui l'è il sig. Ciliegia, lui dice che facciamo bene ad andarci, dunque che al toja mo èl sô catubein (la pazzerella, chiama accosì il mio cappello a cilindro), èl sô tabarrein, e si vadi alle Assisi!!

Cossa volni che avessi detto dal momento che mi presentava la carta che canta ed il villano che dorme?! Detto fatto: a ciapp sù e colla mia ragazza si avviamo al palazzo Baciucchi.

Appena entrati vediamo tanta gente ch' s'era messa a seder lè int la còurt su pei moriccioli, fitonzini ed altri loco sigilli, per usare una frase dei tribunali, tanta era l'influenza delle persone. L'Ergia che le ha sempre pronte, la fa, la dis: an s' po negar che l'an sia la còurt d'assisi!!

Nel momento confesso il mio debole, non l'avevo afferrata, mo quant dòp una mèzz'òura, capii l'antigona, non potetti intrattenere il riso che mi uscì copioso dalla bocca, com è un suldà che ci abbia fatto male èl rang, il raglio.

Intanto cerchiamo d'infilzare le scale, ma cè tale una ressa che pare una rissa, la mia ragazza diventa rossa e ai garantess che lè in mèzz nessuno russa. Questo gioco di parole che mi venne fuori spontaneo an so gnanca me da dovv, mentre im striccaven i pagn adoss, fece riddere i vicini e la mî spepla saltò su: Bravo papà tu hai fatto un meclemburg! Intant là, da un ussulein, si vede un po' di parapiglia ma sembra che si trattasse di un piglia senza il para, perchè un forestiere che è vicino a mia figlia dice: «Una femme ha donato un sufflet a una guardia!!»

— Bona quèsta! a degh me: che vagh regal da far a una guardia, dal mumèint che ha il pipì in tèsta, cossa se ne deve fare d'un sufflet?

Allòura èl furastir soggiunge: «Je comprend che vous ne comprenez pas le français!»

Mî fiola che studia il tedesco da 6 anni e non sa neanche cossa s' voia dir chartreuse, non ci parve vero ed metters a baccajar col etranger comme dice lei, e sèinza l'incomud ed far i pirù si trovassimo trasportati nell'aula.

Ai degh la verità che ne ho provato delle strettoje durante la mia esistenza, ma quella che lì an m'la dscord per zio!! Io vedevo la mî ragazza che suvo malgrado si era appiccicata al forastiero e che si allontanava sèimper più dall'autorità paterna... meno male se fosse stato un bolognese, si sa dal più al meno dove stanno di casa, ma quello lì, se me la conduceva al suo pajese, dov l'andàvia a pscar per combinare il matrimonio?

A proposit: quèl biricchein del copista l'ha piantata... ma adèss a n'ho tèimp ed perdrum sugli assessori.

Appena entrato in sala e che gridavo: Ergia, attaccati al vecchio genitore! mi impongono silenzio e i cmèinzen a dir: «Ehi! abbass il gennasio! ohè! Vicolo quartiroli... al n'èl sa brisa che bisògna cavars èl cappèl... Ehi sumaròn, si scopra, abbass, abbass!»

Io che ho sempre conosciuti e rispettati gli obblighi dei proprio stato, io che la ducazione la insegnerei allo stesso Galateo, bruciavo di questo apostrofo ingiusto poichè non mi era possibile muovere le braccia rimaste coinvolte nella caparella e fra della gente che spingeva da tutti i lati.

Me però che mi premeva di giustificarmi col sig. Presidente, esclamai: Scusi! sono impotente!! Cossa volni vèdder! a questa dovuta giustificazione si scatenò una ilarità generale... e uno che mi era vicino e che aveva una mano libera, mi levò gentilmente il ginnasio, ma invez di tenerlo in custodia lo cominciò a passare ad un amico, e quello a un altro e così di seguito ed mod che io veddevo passeggiare il mio cappello comme se fosse abitato, cossa che ci giuro che non mi era mai succeduta! E io ero sempre nella condizione di un ragazzol ed nassiòn, quando è fasciato comme uno zampone di Modena nel momento della cucitura. Ormai èl mî pover cappèl era sparito e d'altra banda cossa potevo fare per ricuperarlo?! Perduta la figlia, perduto il cappello... che cossa mi rimaneva?! Oh! ce lo dicco subito: La rassegnazione, e così feci, a lassò incossa in braccio agli eventi e mi misi a stare attento alla causa del processo.

Am pias che dicono: sono vietati i rumori nella Corte... at lass po dir se fossero permessi!

Mentre ero in quella ristrettezza di spazio che ci ho detto, a sinteva lì giù propri int la còurt quî dai foj che i zigaven, piangevano i bollettini del resoconto... dei cani che favano il bordello, e quindi per quant stassi inorecchiato, an m'era fattebil capir quello che dicevano quî dalla toga, che c'era uno che parlava di medicina, sebbèin che al fatt succedesse a Bologna, e lascia pur dir a lui che per me non avevo altro intento che il pensiero della ragazza che aveva già fatto relazione con l'etranger e se la riddevano, lungi da questo povero padre che a forza ed sacrifezzi a l'ho tirà su per le vie della onestà e della temperanza.

E èl mî pover gennasiein che era già scomparso dalla superficie e che non ci contavo più sopra?! Mah! sono vaghi fasti dell'esistenza umana e chi lo avrebbe detto che uscito in cappello, a srè andà a cà in cavî?!

Intant lo stringimento era dvintà acsè terrebil che c'erano dei discorsi a psèir avèir èl respir, quindi am veins la bona ispiraziòn d'andar fora... ah, la presenza di spirito in certi casi l'è una gran risòursa, dseva quèl ch'aveva veint 12 sold al luttein.

Percui sèinza gnanch salutar il signor Presidente che m'aveva gentilmente permesso d'andar dèinter, a furia ed lavurar di gomito, a riussè a vgnir fora!

Che s'imaginano bene cossa mi tocca di vedere? Èl mî cappèl mess sù pr'una man di quelle statuve ch' j ein a custodia degli scaloni... e un biricchein che stava lì a riddere e poi diceva:

— Quai a chi lo tocca!

Puvrein! Sintî ch' catarr!! dseva quèl ch'era custipà. Senza darci neanche mente, ripresi il mio cappello e me l'avviai bestemmiando, si lo confesso anche la bestemmia mi uscì dal labbro e a dess: Malendrein i bambuzz!!! E vî ed scappà... ma quant a fo presso il Pavaglione am vein in mèint che am era dscurdà la mî Ergia... Oh! pader snaturato, a dess in cor mî, e retrocessi indietro, ma non sono appena dall'Istituto technico, che adèss i disen Crescenti, e a vèdd tutto il popolo che veniva fuori coi giudici che si erano già vestiti da vomini, mo l'Ergia, niente... A dmand ai soldati della guardia che venivano via, si mettono a riddere e mi rispondono in napoletano. A vad sù dalla duneina dai baston che fava fagotto, niente, indson l'aveva vesta... e per cavarsela i disen che non la conoscono.

Cossa avrebbe fatto lei, che lo dichi pure, sgner Derettòur?

Io per mia parte, comme uomo mi misi in una collera che arè magnà la mî òmbra, ma comme padre che sa il proprio dovere, mi gettai a piangere e dissi al portiere che caso la trovassero im la condusessen a casa che si sarebbe dato una competente mancia...

A lass èl purtinar interessantissimo della cossa, e a vein zò per il marciapiedi, quand a sòn lè da quel caffè in piazza dei Tribunali a seint una gran risata e veggio l'Ergia sotto il braccio all'etranger che erano stati a bere il vermutte.

Ingrata, sèinza ed me! e dir che la sa che quella bibita è la mia passione!

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 2 febbraio 1884.

ÈL SGNER PIREIN

DIES IRAE[11]

Sgner Derettòur!

Ah, che al vada pur là, ch'a sòn arrabè com è un can, non tanto contro quello che l'ha scritto, quanto con lui che lo ha stampato. Ma mi scusi bene, dov'è la ducazione di dire si insulta un collega, e io ci tengo il bordone?

Perchè se lui non lo stampava, la cossa poteva rimanere in famiglia, invez acsè me l'ha resa di pubblica ragione e lui ha avuto torto, perchè che io faccia quello che diceva la povesia è una bella bugia, che in ogni modo an s'in dscòrr brisa in un sonetto, fosse pure a rime obbligate. Ah! la mî Ergia ha altro da pensare adèss che alle acque del signor Coltelli, che è per quello che saranno di ferro, in causa che i proprietari sono del medesimo. Ah, povra ragazzola, se vedessero comme è diventata gialla, la fa cumpassiòn ai sass, com dseva quèl salghein.

Ed io non voglio digerire nient affatt l'insulto fattomi in testa al giornale, che an s'po gnanch dir un insulto gratuito perchè al còsta un sold. Ma cossa mi creddono perchè sono vecchio che an m'attrova anca me la cavallarî adoss di dire che se offendono il mio sangue io non sia pronto a spargerlo?

Sono paziente, ma se am suvramònta la mòsca al nas, a dvèint anca me una bistia come lòur sgnòuri quanto giustamente vengono presi dalla bile di dire mi hanno insultato e voglio la soddisfazione.

Ah, qualunque cossa ci mettessero in mezzo me ai saltarè per dsòura... me a voj arrivari d'cô, dseva quèl ch'andava sù int la tòrr!

Poche litanie, e all'armi, che io sono pronto. L'è trî dè che a j ho tolt fora la spada di quanto ero nella guardia tuccheina, e l'ho confricata sù int èl stiar che è diventata lucida e aguzza comme che ci avessi dato la pietra in taglio. A n'ho megga pora me, a j è la mî Lucrezia che dice che non mi riconosce più, a vedermi cossì pieno d'ergìa bellicosa, che tutto il giorno an fazz che eserzitarum còntra a un umarein che ho dipinto nella muraglia con del lustro da scarpe, e ci ho scritto sotto avversario pr'en me sbagliar nel conflitto, e per mantener vivo èl sparazisum dell'odio e dell'avversione. E vèdder com a j acciap! A st'òura l'è tùtt sbusanà int'èl pètt che al par un sculadur, e dalla muraja ai salta vî di pzû ed stablidura, che ci si vedono le pietre che sembrano gli interiori del nemico.

Am sòn infurmà da delle persone pratiche, per fare le cosse in regola, e mi hanno detto che intant io studi bene la scherma col sistema che creddo meglio, e quanto sono in ordine che chieda la soddisfazione onoraria, per avere nel sonetto medesimo della una cossa che desideravo rimanesse fra noi — e po allòura ci tiro il guanto — anzi ci nacque un po' di tafferuglio fra i pedrini, perchè io misi sulla tavola una butteglia e di bicchir, questo si sa, ma anch il quesito se si poteva usare come guanto di sfida uno di quelli di filo di scozia, anch un poch ròtt nelle diverse estremità ditali. Chi dseva ed sè e chi dseva ed nò, e si finì per stabilire così, e finalmente la cossa la finè benone.

I pedrini che ho scelti io, che bisognava trovare degli vomini d'arum pratich di cose di guerra, j ein èl piantòn ed S. Ptroni, che poveretto al m'insgnò sùbit la ritirà in caso di sconfitta, e ql'alter l'è alla sua volta èl piantòn dla mî parocchia, che per il giorno dello scontro al m'ha prumess d'imperstarum la raviola con èl spnacc a salice torchino per intimorire l'avversario, e un zuvnein ch' sta lè dsòuvra si è esibito di darmi la sô visira di quanto andò nel corso l'ann passà, sebbene che al l'ava ardotta come copripiatto, mittandi un pomino che viene a riferire sulla punta del naso.

Ma quisti j ein assessori, dseva quèl sendich che presentava la giunta, perchè l'esenzial l'è quel di difendere a qualunque costo l'onore della famiglia e chiunque si faccia avanti, fosse anche èl sgner Dalpein[12] io ci tiro il guanto, sebbèin che lui non sappia cosa farsene, che li dà agli altri, poi ci mando i miei pedrini in fiacre, che siamo cossì d'accordo perchè ai dà fastidi a correr, e voglio che i patti siano che il primo che resta morto sia quello che ha torto, acsè io rimango in vitta perchè tutti dicono che ho ragione, anche il giury d'onore che a fe lè in casa con mî mujer e 'l mî ragazzi.

Dònca lù l'ha capè, sgner Derettòur, se l'avtore della povesia non si fa avanti, io la faccio con lui, ma in un modo o in un'altro voglio la soddisfazione d'andare sul terreno, che per lo più è sempre di nessuno dei duve, per far veddere che quella cossa di dire: borghesi, alla circostanza si sa essere militari, colla spada nel pugno alla difesa della verità e della giustizia.

All'armi! all'armi!

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 4 agosto 1883.

I BIGLIETT DLA LUTTARÌ

Caressum sgner Derettòur!

Mo el j ein vaghi coss quèsti, dseva quèl sart ch' pruvava el brag a Bergunzòn[13], che non si abbia d'avere un momento di pace! Finè onna sòtta ql'altra e via che la vadi che è un vero piacere... Se ci dicco che al mondo quando si nasse disgraziati, sarebbe meglio tornare indietro... in ti n'i mod per quello che si gioisse, si è sempre a tempo, l'è quèl che dice sempre la mia Lucrezia ed ha ragione, come l'ho anch'io. Non faccio per farmi l'apologia, che an j è dùbbi che a sia ed quî dai reclam, comme dicono adesso, a quelli che si arampigano da per tutto...; mo non faccio del male neanche ad una mosca... d'inverno spezialmèint... e sissignore che trovo sempre della gente ch'em tol a streina, a bruciaticcio, e mi perseguita vitta natural durante! Mo che senti cossa mi capita. L'era un pzulètt che quel ragazzi mi stavano dietro dicendomi: vadi là babbo comperi i biglietti della lotteria di Verona, che si può vincere per fino 20 lire... e a dirla, non parlavono a un sòurd, come dice l'averbio, perchè i giuochi d'azzardo sono la mia pasione e anzi, quant a mi trov, non guardo alla spesa, che tùtt i ann per la lotteria dèl giovedè grass, am acquistava èl mî brav bigliètt[14] in sozietà con la mî famèja e a dir la verità però quelli che lì della lotteria di Verona erano bellini l'è vèira, ma j eren anch carùzz, una lira l'ùn che capiranno che può essere anche un discapito per chi non abbia che 19 soldi.

Basta, io però a stava sempre in cerca per vèdder di avere qualche facilitazione, e un dè che transigevo per Via Rizzoli, a vèdd in mòstra dal tabaccaio delle Spaderie dei biglietti che erano andati piuttosto giù di colore a star lì alla polvere ed alle intemperie.

Io che sono filosofo, a fazz, nel mio interno, a degh: quelli che li è certo che a una sibizione diminuita me li ammollano che non ci par vero, e a m'inòulter int èl negozi e dicco: scusi, il prezzo ristretto di quei bigliettini che lì? A j è poch ed prezi ristrètt, mi si risponde: un franco l'uno. — Va bene pei nuovi, a degh me, ma non vede quelli in mostra come sono deperiti nel colore, e qua e là, col debito rispetto, vi sono delle evacuazioni moscovite?

Per tutta risposta mi si gettano a riddere in faccia come avessi detto una facezia! Io faccio le mie giuste creminazioni... e loro si macellano sempre più dal riddere... e me ne vado col sorriso della compassione sopra i labbri, che voleva proprio dire: Poveretti si capisse che non mi capite!! Ma non per questo avevo dimesso il pensiero. Picchiate, picchiate e sarete aperto, com suzzèss a quèl ch' j spaccon la tèsta, e anch'io feci lo stesso.

A dess colla mia famiglia... — Abbiate piacenza, lasiamo pasare la smania della lotteria, e vedrete che li avremo a prezzi ridotti.

E quando me la sono messa in testa, dseva quèl ch' s'incollava la pirocca, è difficile che me la levino.

La mia idea fitta l'era dònca di volere dei biglietti di Verona a prezzo più basso. Infatti la decorsa settimana a pass per via Broccaindosso e a vèdd due monelli che si divertivano a zugar con questi biglietti, e ne dovevano avere otto o dieci e favano conto ed zugar al cart. Ecco Pirein, mi dicco in un orecchio, il parmense ti cade sui maccheroni, e mi avvicino con disinvoltura ai ragazzetti esclamando: oh che bei bigliettini! Scommetto che se vi dò mezzo franco cadauno me li cedete eh?

E poi mi venne lo scrupolo di dire: abuserei forse della sua inespertezza? Sarebbe per caso un caso di truffa fraudolenta come diccono alla Corte d'Assisie? e allora aggiunsi: badà che so che costano un franco, ma j ein tant strafugnà che per quel prezzo l'è diffezil vèndri.

Il maggiore di quell'altro, mi risponde: Mo ci pare, ce li diamo anche per niente, capirà noi ci siamo divertiti abbastanza e li rigettiamo via.

Allora mi son creduto nei propri deritti di accettarli pel prezzo suddetto, piuttosto che lasciarli finire nel rusco, e a j ho sbursà cinque lirette.

Vado a casa feliz e cuntèint, per la bazza comme sopra e scadagnon può ben di leggeri figurarsi la gioja dell'intera famiglia.

L'Ergia che come sassi l'è la più struvita, chè l'è arliva del scol ormal, la dis: Babbo per vedere se abbiamo vinto bisogna andar dal sgner Bus, dal signor Buchi, che fa il cangia-valute lì in principio del portico lì presso Scagliarini il cappellaio.

Non me lo faccio dire duve volte, e vado filato da lui, e faccio, dicco:

— Che scusi bene, arêl la pazenzia ed guardarum a sti bigliett di Verona, che a j ho cumprà stamatteina? Non avevo finito la parola, che lui si teneva duro l'epa tanto scrichiolava dalle risa... esclamando:

— Mo, stamatteina cossa? S' l'è un mèis che la vendita è finita, e la luttarî è già stata estratta... mi dispiace dirle che lo hanno mistificato, questa è carta sporca... e niente altro!!!

I vomini di spirito si riconoscono alle circostanze, e me mi hanno appunto riconosciuto quando riprendendo i miei biglietti, me li sono rimessi in saccoccia digand: benone, i sran bon pr'impiar la peppa. Si figurino che fra le altre cose da dòp che a sòn al mònd a n'ho mai spèis un zentesum nè in pepp, nè in bucchein, e gnanch in zigal; insomma il fummo in genere mi rivolge lo stomaco, scusino, ma è così. La cossa però era spiritosa lo stesso e fece furore...

Come po quî ragazzû avessero ancora dei biglietti mentre avevano già fatta l'astrazione, quèst è quèl che nè io, nè la mia famiglia arriveremo mai a capire.

Mo, al dè d'incû zo, bisògna asptarsli tùtti, com dseva quèl cuntadein che i polisman cunduseven in Palazz.

Dal rèst però, s' crèddni che a brusa? com dseva quèl rustezz moi... e tersuà a lòur sgnòuri.

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 26 aprile 1884.

SAN MICHEL

Caressum sgner Derettòur!

A tanto intercessor nulla si nega, dseva quèl ch'j assaltaven con èl curtèl alla gòula... e cossì dicasi di me che non potrei mostrarmi negativo alle suve preghiere, quantunque a dirla stièta, an sia brisa int el mî pigh, com dseva quèl ch'era arpiatà int la cassètta d' la stû e via discorrendo.

Che si figuri bene sgner Derettòur, che doppo quella cara battosta per Padre Agostino[15] che come saprà im rumpenn, con bòn rispètt, una custa, nel sortire da S. Petronio, se ce lo debbo dire, an sòn più sta me, e quanto vuol fare il tempo cattivo sento delle fittole nelle parti offese che vedo le stelle...

Ah! ma se ci dovessi descrivere che momento che fu quanto me la ruppero; già venni meno e più èl mal em cherseva, e me sempre più venivo meno, ed mod tal che a srev andà a finir int i nient, se mercè la cura della mia Ergia coadiuvà dal piantòn ed S. Ptroni, che con quella forza da leone di cui può disporre pr'el sollenità, mi sollevò di peso e ajutà da altre otto o dieci persone, mi trasportò alla ditta Zanelli sotto il portico della Banca con terra cattù romantica. Èl sgner prof. Gambarein mi osservò la costoletta mancante, ossia che si era stroncata causa un gòmd di un gentile signore che voleva passare per forza, e mi disse che non era niente, e che mi facessi coraggio... Io poi dicevo fra gli spasimi del dolore, perchè si ha un bel dire che non è niente, come diceva lui, ma ognuno si sente il proprio, e per parte mia bisògna che a degga che l'era grand dimondi e lo sa bene la povera Lucrezia che ci toccò, poveretta, ed far la nott sterleina, stellina, per i bagni freddi e per gli ululati che gettavo fuori da svegliare gli aquilini che stanno disopra.

E tùtt per causa ed qla braghira dell'Ergia che, poverina, si era accosì infanatichita ed quèl brav predicatòur, che lei tutti i giorni la vleva assistere alla salita in carrozza... e finalmèint un dè, am tuccò qla bèla bazza comme sopra.

Basta, adèss ha fatto gomma e consoliamosi perchè am pseva capitar ed piz; am arcord un mî amigh, che cadde e si ruppe la chiavicola dalla parte sinistra che lo curarono a forza ed balleina da stiopp, quella che fa tanto male agli uccelli nel tempo della caccia.

Bèin dònca, in quèl mèinter che avrei bisogno di stare in riposo per paura che mi si stacchi di nuovo, sissignore che mi capita fra cap e col, e cavolo, èl San Michel, che èl zil l'ava in gloria, chè un'ammazzamèint, un'uccisione, cumpagna non l'augurerei al più celere nemico! La Lucrezia puvrètta i va a vgnir in mèint che la sia una cà poch sana, perchè dònca am s'è scavzò la custa a me, perchè a l'Ergia ai fe mal dl'arvèja e delle altre superstizioni. D'altronde io non fui buono di farcelo entrare in testa, e bisognò che mi cacciassi a zercar casa. Infatti passando per la vî di Malcunteint a vèdd dû che guardavano alla casa Coloniesi con dei gesti.

— A fazz, a degh: Scusino, è d'affittare?

— Sissignore, risponde lui.

— Quante stanze, s'l'è lèzit? a dmand me.

— Quattro stanze e la cucina, granaio, cantina e èl stanziein del galleinn!

— Eh! ma qui si va col vento in poppa, com dseva qla balia ch'era ai zardein quant veins l'uragano, fa proprio per io, a dess me e da chi mi debbo dirigere?

— Ecco, questo biglietto serve per lo scritto, lei l'otto maggio si presenti con questo e ci saranno consegnate le chiavi. L'affitto è 250 lire!!

Mo cossa ci debbo dire?! L'è un atto di fiducia, che me a n'ho nè parol, nè caldareina, bastevoli per dirci la mia gratitudine, e vî che andai felice come si può imaginare. El bigliètt al dseva, tutto ben stampato: « Gaetano Serrazanetti rovina orologi. Da San Gervasio presso l'Hôtel Brun ». Dònca me a j era int una bòtt ed fèr, com dessn'i maranghein ch'arrivonn alla Banca, e come chiunque avrebbe fatto nei suoi pagni, me an pinsò più ad alter.

Mî mujer, el mî fioli, vleven pur savèir dov l'era sta cà, ma io le volevo tenere nell'aceto, com è i pevron, e gli rispondevo col vecchio adagio: al cemento si vedrà!! Agli otto maggio lo saprete! talchè misero il suo cuore in pace come di regola, e prepararono il tutto pel San Michele Arcangelo. Intanto ci eravamo tolto l'encomiato e la nostra cà appena si seppe, i l'affitonn sobit a una che tiene di dozzena, quanto venne a vederla che ce la mostrò mia moglie, l'aveva sigh dòu ragazzi che alla zira el pareven furastiri, vestite tutte di raso, e infarinà che parevano da friggere.

Finalmèint vein i ott ed st'mazz. Quell masti del mî fioli en vdeven l'òura d'andar alla cà nova e per savèir dov l'era. A cumbeinn con un umarèl, che ha una bella biroccia, e po a toi un alter dsgrazià e si prepara la prima carica di diverse ciangatole, e me glorioso e trionfante ci faccio strada con int'una man le tre grazie del Casanova, in gesso, ravoltolate in un Secolo, da quell'altra parte, la Madonna dla scranna, che è una bellezza, e in bisacca il mio vecchio biglietto.

Quî pover umarì si adannavano a tirar sta brozza carga pulit, che ci si accoppavano sotto, e a tors dalla porta di Castiglione senna in Via Malcontenti l'è una bèla agugliata.

Alt! a fazz me, giunto che fui alla casa Coloniesi, e faccio per suonare alla porta, quant im disen: se non è addetto ai lavori, an va megga dèinter!

— Che lavori?!

— Ohi, an vèdd che i la fecchen zò?

— I la fecchen zò?! Difatti alzo gli occhi e cossa veddo? Il suddetto atterramento. Allora capirà bene che giustamente a zèirch di quel signor Serrazanetti... per dir le mie ragioni...

Mi si gettano a ridere in faccia come fossi un mentecato!

E quî dalla broza bestemmiavano comme turchi, e si cominciava a formare dei campanelli di gente, di ruglett com a dsèin nualter.

Finalmèint passò una persona che si capiva istruita e di grande ingegno, che la saltò fora con èl dùbbi che mi avessero tolto a gabbo, e mi consigliò di persuadermi che una casa in demolizione non si poteva abitare.

Com s' fava mo con quel donn della casa vecchia, che j asptaven ansanti che le guidassi alla cà nova? E là che quèlla del duzinanti l'aveva zò cminzipià a purtar un pianoforte vertebrale, una bèla spcira, un divano rosso, e tanti bei quadri da non potersi descriversi, non poteva più servire a noi. Dònca tradott in vulgar as trattava che un pover galantomen e la sua famiglia si trovavano in mezzo ad una strada, senza tetto, sèinza tètt, cossa che se a me non procurava forte disagio, am figurava èl dspiasèir ed quell donn, che doppo tutto si sa che ci tengono e giustamente, perchè la casa è il nido della famiglia. Viva la fazza ed quî ch' viven con la tèsta int èl sach, com è i cavall di fiaccaresta, almanch lòur non hanno di queste noje, che ci assicuro che danno pensiero.

Eh! lì c'era poco da pensarci sopra, si trattava ed rimediari e alla svelta, e così fu fatto.

A cminzipiò a vangare nella mia mente tutte le conoscenze che per sua buona grazia avevo, e po via con la broza drî.

Da ùn, che va sèimper a lètt frèdd, ai depositò èl prit, che al l'aggredè dimondi e così via discorrendo: da un alter quatter scrann, da ql'alter la ruscarola, da di alter el trèi Grazi, fenna che sono riuscito a metter tutto al coperto. Capisco ch'l'è un po' incomod perchè pr'esèmpi èl mî cumà a l'ho mess da un amigh alla porta ed San Flis e quant am vol un fazulètt da nas, bisògna che a vada senna là, da fuori di Galliera perchè nualter si siamo rifuggiti colla sola vitta, in casa d'una cuseina ed mî mujer, che si ha messi a durmir int la medesima e che abita alla Zucca.

L'Ergia, èl sô tavlein da lavurir lo ha consegnato a una cumpagna che sta in via Orfeo e l'alter dè per darsi dei punti non so dovve, bisognò che a la condusess senna là; l'am par lùnga! com dseva quèl ch' guardava alla tòrr di Asnî!

Basta, adèss mo mi hanno promesso che appena finè la via Indipendenza, un quartierino sarà a nostra disposizione, e a dirla propri senza l'ambagi ai n'ho pein el scattel, cossa che non possono sempre dire quî ch' vènden i sulfanein.

La vitta nomade è fra i miei ideali, sissignore, ma fatta stando fermo in quel sito medesimo, ma quèl correr a cà da quèst e da st'alter per tor e la pistadura, e la rameina, e poi adoperati che si siano riportarli ai singoli domicili, perchè mî mujer giustamente non vuole che si confondino con quelli di suva cucina, l'è una cossa che a lungo andare la finess per far male alle piante, con buon rispetto, dei piedi.

A colmare po la misura ed sti noj, che facci mo la gentilezza di aggiuntarci che l'Ergia l'è sta ciappà, accalappiata, dall'impressione dei nervi per l'affare dell'idrofobia, che adèss purtropp è venuta in voga, che il ciel lo liberi anche lui sgner Derettòur, che lî puvreina appena che vedde un cane che viene in za, lî l'am scarta e vuol rivoltare indietro con dei versi, che la par allujà... e dice che non può vincersi... e che non può vincersi, e anche qui ci vuol la pazienza di Giacobbe, che poveretto dormiva nel concime senza idea d'ingrassarsi.

E anche se hanno la musarola per lei è lo stesso; si vede proprio che l'è effetto del sangue, che comme giustamente osservano gli scienziati, non è acqua.

Del resto anche questo passerà, come passano tutte le cosse di questo mondo, e lui mi deve perdonare il giusto sfogo d'un povero vomo con una costa accomodata di fresco, senza tetto proprio e con una fiola impressionata pei cani di qualsiasi razza.

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 13 maggio 1885.

S' PO DAR ED PIZ?

Sicura, èl mî barbir mi dice: — Lù ch'al zèirca casa, vadi in Predalà al N. 2 che mi hanno detto che cè un bel quartierino, al secònd pian, trèi stanzi, la cuseina, granar e canteina...

— E èl prezi? a faz me, che ero in un momento di buon umore...

— Ah, prezzo da convenirsi... arspònd Zanein ridendo della mia materia.

— Ci vado subito! E sòuvra pinsir, am liv sù ch'aveva anch mèzza barba con èl savòn, lo sappiamo.

— Ohè, sgner Pirein, cossa fal? Al posto! che a voi finir ed dscurdgarel!!

— Tu sei sempre un bel burlone! E cossì fece. Me a tols sù el mî bravi brasadel e a còurs a cà a togliere el mî donn perchè sono loro che ci debbono stare più di noi... e po la mî Lucrezia è piuttosto epitome per la cà, che se non ha il buco dei zolfi in quèl dal sit, e èl stanziein dalla roba sporca, con rispetto, in ql'alter cantòn, lî non ha requia.

Dònca a ciappenn sù me, lî e l'Ergia, che non dovrei dirlo che è mia figlia, ma ha messo su uno di quei catubini di felpa nera fatt con un mî vècc gennasi tajà, che per fortuna l'unto n'era gnanch arrivà al zùch, che sta d'un bene che tùtt j guarden drî e lî, povra ragazzèla, a vedersi cossì ammirata la sguazza e anche noi che l'abbiamo fatta, as vgnarè voja ed magnarla... ed bas, povra sfusgnètta!

Basta, arrivèin in Predalà al numero indicatomi e naturalmente io suvono alla porta, un campanein dur che qla mattazzola d'l'Ergia la dis:

— Bisogna darci l'olio!!

A crèdd d'èsser anch drî a redder; l'ha del scappà tùtti sòu.

Mo sòuna una volta, sòuna dòu, niente.

A degh me: Endson tira in sta cà?! e indignato come di dovere, am attach al campanein propri da sradicarlo...

Finalmèint i tiren, mo int un mod che al pareva che la marlètta foss dvintà matta. Arrivèin int la loza dove cè una corte e a seint da una fnèstra lassù una vòus ch' la dis:

— A voi mo vèdder chi è quî villan ch' tiren zò èl campanein...

L'Ergia ch' l'è la furbarî in persòuna, la fa sobit: Babbo, credo che dichino con noi!!....

A alz sù i ucc'e a vèdd un tstein che non capivo di chi fosse, che al dis:

— Mo bravo i cuntadein, chi j insègna ed sunar acsè da matt?

— Mo scusi, a fazz me, che a n'ho brisa pora: nessuno tirava!

— A sfid me, i daven una sunà sòul, che i van dai Perpignani, che an j è endson, e s'i veinen que bisògna daren dòu...

— Scusi, an al saveva brisa... Êl que ch'j è un quartir d'affittar?

— Ah, i veinen a vèdder la cà? Benone, l'è propri que... ch'i s'accomoden pur... che i traversen la còurt, quel scal lè indrett...

E questo lo diceva con un riso così sardonico, che capî subito che bruciava, e quant andaven sù, a dess con le mie donne:

— Oh! qui cè del brusco, com dseva quèl ch' magnava d'l'û aserba. Arrivati ad un uscio che al dseva: C. Cartilagini, facciamo sosta, perchè la Lucrezia a far le scale la vènd j anser, com dis qla bazzurlòuna dl'Ergia, mo appena lì, ecco che si spalanca l'uscio e as presèinta una dunneina, un prein sèch, un perino secco, con èl sô brav scaldein sòtta al grimbal dovve c'erano i suoi bravi bucanini, per non morire sfisiata, e con due occhi fuori di loro, la si salta ai medesimi digand:

— Ah, j ein mo lòur, ch'ein d'accord con èl padròn per fars mandar vî?! Crèddni che an al savamen, che j ein sta lòur che j han esibè deppiù... brùtti... — e qui diceva delle cosse che mi dispiacevano per vî 'd dla ragazzola — mo me a sòn bona ed ficcari zò dal scal con di calz int èl..., loro già da un prèss e poch i capessen dov la s'intindeva quell'osesa che non si lasciava gnanch èl tèimp d'avrir bòcca per giustificars.

— Ma scusi, credda, ch' l'è sta èl barbir... il padrone non lo conosco.

— Ah, vèddel che al le dis anca lù ch' l'è sta èl barbir... quèl bèl sgner Gheitanein, ch' l'è tant che al s' fa la guèrra...

— Credda che è un equibio...

— Mo bèin e lòur s' crèddni forsi ed psèir vèdder la cà? Puvrett lòur, s'i stessen tant a magnar i murirenn bèin ed fam... brùtt ghignus ed fastidi... Auf, t'en seint! fars dar èl cummià per vgniri a stari lòur!!! Va mo là ch'el j ein bèli sagum... L'è pò lî la spasimati dèl padròn... va mo là ch' l'ha fatt un bèl bùcc... la par la vèccia di burattein... e lù al fa bèin a purtar la catobba, vècc bacùch!!!

— Ah, perzio! quèst è tropp! Fenna che la non si toccava nel onore, a j ho dett: ti compatischi, l'è una povera donna in bruciore, che ci dà fastidio il San Michele, e a j ho tasò, mo adèss che lei insulta la mia Lucrezia, e l'an rispètta neanche sta povra ingenova che deve essere aspettatrice delle contumelie, mi accingo a dirci l'animo mio...

— Mo ch'al dscòrra bèin in bulgnèis, sgner Tabarein, che an me fa megga pora... s' crèddel che an al sava che èl padròn al s' manda vî per metter que la sô... dona, ch' l'è maridà propri con ùn ch' va sèimper in gennasi... com l'è lù... e al fa bèin... anzi bisugnarè che al le purtass alt com è un campanell... Mo ch'is metten bèin in mèint che in sta cà que in i veinen gnanch s'i zighen... fenna che a j è viva la Giolia, che a sòn po me, lòur que in i batten barbein... garantè a limòn... anch che i vegnen con quî dèl numrein... a sòn bona ed fari ruzzlar tùtt zò dal scal!...

— Mo si persuadi che me an sòn brisa quello che crede; la mia Lucrezia non fu mai fedifraga...

— Auf! insòmma falla finè ed dscòrrer tuscan e va vî con el tòu... altrimenti at squezz èl catubòn con ste scaldèin...

Quando viddi che l'affare si fava serio, da vomo prudente, am l'avviò con le mie donne cariche di tante ingiurie e apostrofate, sèinza che cominciassero per vocale, che poverine el fàven pietà ai sass... e dire che quella donna seguitava là dentro in casa a urlare dei nomi sconci contro di me... che a sentirla, mi potevano prendere per un altro...

L'Ergia int'al vgnir zò la dseva: — Dio, babbo, che scavezzeria di gambe...

E la Lucrezia lagrimando: — Essere stata presa per una di quelle!!

Io incoraggiavo l'una e l'altra e per sostenerle le presi a braccetto ùna d'zà e una dlà, cosichè favo la pentola come si suol dirsi... e arriviamo int la còurt... ma non siamo appena a metà, che ci arriva adosso un squasso d'acqua... che non ci dicco la qualità... che rimanemmo andgà addiritura... e questo accompagnato da delle ingiurie... di quella donna che riddeva comme una matta, a vedersi in quello stato...

Non dico che si mettano nei nostri pagni perchè j eren moi spult... èl capplein d'l'Ergia al culava da tùtt i là... c'era fino della cenere tra quèl pastrocc'... anzi creddo che fosse lascivia...

Èl fatto sta che ci ho dato quarela... e a rivedersi dal signor Pretore...

Ah, povr'om me!

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 20 gennaio 1887.

E DÒU!

Ah, che stiano buvoni, che non si siamo neanche riavuti dalla battosta! Mo pensare di dire: un capplein nov, che l'Ergia lo spianava quel giorno che lì, essersi ridotto impotente a qualunque uso, sono cosse che oltre l'aquerella che cè l'ho data nel mandamento di mezzogiorno, bisugnarè togliersi la soddisfazione di andarci a dire l'animo suvo a qla brùtta pettegola, senza educazione, tanto più che potiamo giurare che a j eren inuzeint comme un bambino latitante!!... E non cè micca verso ed rimediari; al purtò me alla scuffiara la mattina doppo l'eccidio, che al lassò in stû tùtta nott, mo lei, poveretta, la dis, la fa: L'è la fèilpa ch'ha patè, e la si è arruffata e po èl zùcch al s'è dsculà... non ci è il prezzo dell'opera... e me ne sono tornato a casa con èl mî capplein in bisacca.

E se ciò non bastasse el bragh che aveva me, e ch'el guzzaven com è che al j avess messi int un'òlla, el sein artirà in mod che mi arrivano appena alla cavicciola, sicchè alla povra Lucrezia è toccato ed mettri una giunta, che per fortuna non è dimissionaria!

Mo a j importa bèin a lòur sgnòuri del mî miseri, e io mi rassegnerei per forza alle controversie del destino crodele se avess truvà cà. Ma purtroppo senòura a n'j è nient ch'hava garb! Del pisòn da far adrizzar i cavî, e dei bucanini strett int un mod che pare impossibile in questi tempi di dilatazione universale.

Perchè po a dirla qui che nessuno si senta, a j è anch quel poco di decoro da tener su... quindi non conviene andare da bass — o in certe strade, loro mi capiscono. — Me ne avevano proferito uno didietro da Ranuzzi, mo a dir la verità ed sira el j ein strà poco luminose... al par d'èsser int èl festival la premma sira e quelle donne hanno cominciato a dire che el starên in pènna quant a foss fora...

Intanto con tùtti sti bèlli stori, a m'è tuccà d'andar in gir da per me; e che gir... perchè ci sono poi dei begli spiriti ch'is diverten a fare degli scherzi. Uno pr'esèmpi am dis che c'era un quartierino in Via Mazzini al N. 1. Me che a j era alla porta ed Saragozza... a sgambèttel fenna là: l'è la tòrr di Asni! Graziòus, puvrinein, si creddono di fare i giovani disinvolti... ai vol alter!

Un alter am dà l'indirezz in via S. Isaia al N. 90; a corr, l'è èl manicomi!

Finalmèint martedè un mî bòn amigh mi insegna un quartir, vî tal, nùmer tal, che è d'affittare. — Vado là e mi viene aprire una ragazza che mi dice che facci il piacere d'aspettare un momento che viene subito, e l'am mett in un anticamareina che ha la luce da un cortile.

La casa è ben messa. Appesi alle pareti a j è i solit ritratt ed famèja a oli, èl marè con la popla, èl goscè e èl baver ed vlud, con in man una lettra che cè scritto: Al signor Domenico Cantagalli Priore della parocchia di S. Michele dei Leprosetti — e da ql'alter là, la mujer, una bèla dona, tùtta peina ed gioj, com è una madona miracolòusa con in testa una piuma a divers culur e in man un arloj d'or, per far vèdder tùtt j ugètt prezius d' la famèja.

Sù pr'un tavlein tònd a j è in mèzz èl Dom ed Milan, lavoro di pazienza fatt a forza ed foj d' carta rintajà, opera o dèl ragazzein nei giorni di vacanza, o dèl sgner Cantagalli durante la convalescenza d'una malattî ed feghet, perchè èl ritratt l'ha un culurit piuttost bruttazz, a meno che an sia l'oli ch'è dvintà ranz.

Dintòuren al Dom ed Milan, che as j è dspiccà del gùlli forsi pr'èl pèis dla polver, vi sono dei frutti di alabastro; una dunneina ed purzlana con la tèsta attacca all'erversa con della cera lacca rossa che sembra un caso di non riuscita decapitazione; un cabarunzein con dei biglietti di visita; un vastein ed fiur fatt a forza ed perleini a culur, opera di un qualche carcerato, e una bumbunira che hanno accalappiato int èl còurs ql'ann che a j era èl carr del strej.

Lòur i diran che faccio l'inventario, mo Dio sgnòur cossa avevia da far, se mi piantano lì e non si vedeva più nessuno! Quella ragazza la dis: s'accomodi che vengo subito... car èl mî sùbit... andava guardand l'arloj sù pr'èl caminètt mo l'era fèirum, e nutar che dsòuvra a j era Gallileo Gallilei tùtt indurà con una carta in man ch' dseva: Eppur si muove!

L'era propri èl cas ed dir: Lù al le vèdd e me an èl vèdd!!

Dedrì dall'arloj a j era un spècc che al fava una fazza lùnga e smorta che am ciappò mèzza pora... mo a capè che l'era ùn ed quî ch'es paghen a un tant al mèis, quindi si va per le lunghe... e bisògna cuntintars...

Int una curniseina ed paja, ligà con di nastrein vird, a j era una fotografì d'un ragazzol in pì int una scranna, tùtt pnà ch'al pareva una passareina bagnà int l'acqua, e con l'amdaja dla duttreina cristiana in mèzz al pètt, dedrî a j era scrett: Al mio carro papà il suo Gigietto Ducca in S. Steffano.

E per far pandan a quèst, int una curniseina d'alabaster a j era èl ritratt ed qla ragazza ch' m'era vgnò avrir. Anca lî la s'era fatta ritrattar in via Indipendenza, con una man appuggià a una balaustrà, dov j era sù un vas pein ed fiur...

Quèl ch'am fe un po' ed scurezz al fo un gatt arcamà in lana sù int un cussein ch'era sù pr'èl sofà. Figurav che era un gatto bianco e rosso con dû ucc' nigher ch'i parêven dòu gran d'ù sècca e i baffi ed crèina...

Ma con tùtti sti bèli coss, que an s'vdeva endson e si faceva tardi...

Am fazz curagg, e a tir un campanein ch'era lì nella muraglia, mo era finto, ossia avevano messo il tiro tutto ricamato, attaccà a un ciod e nient alter...

Allòura a vad fora int èl prem sit e con rispètt, am sburgh: mi sborgo, ma an seint un zitto. A batt a un ussulein paramuro e a seint una vusleina ch' la dis:

— Avanti... l'è tant che a ciam!!

— E me l'è un pzol che aspètt... e cossì dicendo am introdus.

— Ajut! Ajut! Povra dona me! Lassum la vetta... Ajut! Ajut!

Chi era ch'urlava acsè, l'era una povra dona decente in letto per indisposizione, e che vedendomi entrare senza conoscermi la mi tolse per un altro...

Io m'adannavo a dir: No, scusi, mi hanno lasciato solo... ero venuto a veddere il quartiere; mo lî; puvrètta, impressionata ci era venuto il convulso e la vleva saltar zò dal lètt... con duve occhi stralunati che favano spavento...

Quant a vèdd acsè... per impedirgli il raffreddore... la trattengo fra le coltri e lî mi si avincola al collo digand:

— Assasino! assasino! lasciami la vitta! e po va fuori dei sensi e l'am avanza agramplà con la crisi nervosa che an me pseva più mover...

Cossa avevia da far me?

A j era lè sù per la cumudeina una massa ed buttiglieini, ed scattleini ed bcon... Mo cossa savevia me quali fossero i buvoni per la circostanza?

Sunar, me an pseva perchè èl tir l'era luntan, e intant ql'altra striccava, furandum con el j oss, puvrètta, che fava compassione...

— Mo che si faccia coraggio... sono un galantuvomo... Sono venuto a veddere il quartiere e m'hanno piantato lì...

Basta, a forza ed dîren, cominciò a tornare in essa, e la potetti rimettere al coperto, perchè dalle smanie l'aveva ficcà vî incossa, e quant a l'avè ajustà, ci spiegai le cosse... come stavano...

— Se sapesse la pavura che m'ha fatto... l'è mèzz'òura che a sòun, e la Carleina l'an s'fa viva... am crèdd ch'la sia lî invez l'era lù che an al cgnoss brisa...

— Puvrètta, lei ha piucchè ragione, anca me a l'arè tolta pr'una ladra se il fatto avveniva viceversa: quèst dipende da quella ciproca stimma che ci abbiamo scambievolmente fra noi, uno all'inverso dell'altro.

— Oh! com al dscòrr pulid! Hâl mujer lù? Io son scapola... e soffro il nervoso...

— Ah, poveretta, me invez ho moglie e una figlia ch'è un tesoro...

— Beata quella donna che è sua compagna... con quanto amore mi ha soccorso... io ti deggio la vita, mio angelo...

— Ah, mo cossa dice!! ai degh che a j ho mujer... a j ho capè! poveretta dà al zanfanello!

— È l'esterismo! sta qui a farmi compagnia... E la Carleina duv êla andà... Dammi un amplesso!...

— A degh che ai gira la boccia! adèss se la m'insègna dov a j ho d'andar per rinvenire la Carleina...

— Va in cucina... quell'uscio vicino all'armario, e poi torna... non mi abbandonare...

— Sì, torno subito... Se a poss aviarumla, t'aspètt un bèl pzol...

A vad in cuseina... c'era comme suol dirsi il gatto nel fuoco... un silenzio di tomba... alter che una gòzza d'acqua ch'batteva int èl stiar, d'un calzèider ch'fava dann: int un furnèl a j era la cugma ch'al pareva ch'ai foss vgnò mal perchè era finè èl carbòn dov l'era appuggià...

Me a cmèinz a ciamar: Carleina! Carleina... ah! tempo perso!

La povera mentecata intant la sunava èl campanein com un'anma dannà, urland: Ove sei bel garzone?!

A tòurn int èl prèm sit e a vèdd l'ùss ed cà in fèssa... a vad fora e a guard zò per la tròmba del scal: Sissignore che sù int l'ùss ed canteina a j era la Carleina che la s'in riddeva con un sargente foriero del 89º reggimento, senza più ricordarsi di io che mi aveva piantato nell'anticamera, e di quella patrona che ha il nervoso testuale.

A fazz me, a degh: — Ehi quella giovene, venite ben su...

E lî sèinza movers:

— Ohi, guarda, l'è vèira che a j era la sù quèl tabalori... hâl vest la cà, i piasla?

— Scusate, fate il piacerino di venir sù che ql'ammalà l'urla com è un acquila... l'è un urladòura ed premma forza.

— Lassa pur ch'l'urla... acsè che a si sfuga la matiria!... Che al lassa l'ùss in fèssa... e che al vada pr'i fatt sû...

Io a dir la verità non me lo feci dire due volte, l'era più d'un'òura che a j era lè e ero atteso a casa... dònca andò zò; mo quanto fui vicino alla Carleina e a quel sargente non potetti a meno di dirci:

— Scusate, ma non è micca questo il modo di far veddere le case e di abbandonare la padrona inferma...

— E in canteina i val lù forsi?!

Allòura ci ho dato un'occhiata che voleva dire: se ci andassi non toglierei meco l'esercito!

E li ho piantati lì polverizzati!

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 5 febbraio 1887.

SÈIMPER DEL DSGRAZI!

A j degh po bèin la verità, dseva quèl ch' zurava èl fals, la vitta l'è una gran sequella di dispiaceri, finè ùn sòtta ql'alter, com è j avintur dai barbir, che se non fosse perchè si deve aver la forza di lotare, a s'andarè per tèrra tùtt i mumeint, figurativamente parlando per esprimere l'idea di dire che le ganosse fanno sogombere.

Sicuro, avèin avò la povra Ergia che è stata lì lì per trapassare che quant a j pèins mi vengono i brigidi, come deve avere ogni padre quando vede colpita la sua prole dal feretro della morte.

L'altra sira, eravamo lì intorno alla tavola, con l'aquilina che sta disopra e che viene poi a conversazione da noi; la Lucrezia che fava le staffette ai calzettini, e l'Ergia che lucidava la punta di un fazzoletto per ricamo. Aveva dunque il disegno disoto e lei ci andava disopra nella tela coll'apis. Ce l'ho detto tante volte: non prenderlo in bocca che è un momento a scivolare giù, tanto più che è sottile. Ma lei ostinata, ogniqualvolta che deve muovere il disegno e che ha bisogno d'aver le mani libere ed indipendenti, ecco che se lo mette in bocca... vizio buscherone! L'altra sera era in quell'attitudine che lì, quando l'aquilina che ci viene sonno, grondava, accosì colla testa avanti comme quanto si è ebri di obriachezza, e poverina mi guardò, e io ci feci la bocca del riddere... Ah! quant a j appèins... era meglio che avessi pianto! L'Ergiola a vèddrum me acsè, fece una sboccalata e per trattenerla la mett fora l'aria all'erversa, per ql'alter bus insòmma, e l'apis, ch'era tra i deint, ci va in gola...

Eh!! chi non ha visto quella scena, non è possibile che l'abbia veduta comme la viddi io. Sta povra ragazza l'era dvintà pavonazza, pareva un monsignore, cogli occhi fuvori dalla testa...

Sô mader, vèirda com è una luserta, ci dava dei pugni nella schiena, che i pareven canunà; la sgnera Virgenia, l'aquilina, l'era andà a tor una candèila da mettri zò per gòula e me a j era andà a zercar un truvlein per vèdder se si poteva perforare l'apis e tirarlo su comme as fa i toragioli delle bottiglie coi tirabusoni.

Ma bisògna direl che chi la liberò fo la povra Lucrezia, a forza ed pùgn, che fecero sì che l'apis andò giù dal buco buvono, e accosì la claringa rimase libera e l'aria tornò a zircular per la sua vera strada.

Appena che potette inarticolare qualche parola, la puvreina, disse subito: Ah mamma tu sei stata la mia liberatrice... se non pugnavi accosì, a quest'ora sarei già sofogata, e qui ci mettessimo tutti a piangere di gioia per lo scampato pericolo, anche l'aquilina che ha un cuore che si liquifarebbe per tutti.

Passata la batosta, e dòp che l'Ergia ebbe dato sfogo a tutte le conseguenze della pavura — riprendessimo il nostro lavoro, che me a j era drì che a cruveva, con buon rispetto, una comodina con di scatlein da sulfanein — che diventa una vera galanteria — quant la mî ragazza, vera martire della fatalità, getta un urlo acsè acut che io credetti nel momento che ci fosse passata una carrozza sù int un cal.

— Ah! carissimi genitori, per me l'è fatta!!

— Cossa è suzzèss? a faz, più mort che viv!

— Mo l'apis, invez d'vgnir sù, al n'è andà zò?! com faroja? l'è impussebil che arriva a digerirel — a sòn speccia, sono spicchia?!

La Lucrezia a seinter acsè, a pensar ch' l'era vèira e che forse i suoi pugni erano stati il movente, voleva darsi alla disperazione, quant am veins una edea luminòusa, una specie d'edea lucciola, comme si direbbe in figurato.

— Mo sta bona Ergia at ajost me, ti restauro io, basta che t'em dagh mèint e che facci a mio modo.

Calmati bene — e non aver pavura che non è niente. — Mo scusami, io ho visto un chinese che mangiava le spade com è niente, e anche doppo stava benissimo...

— Mo e quello di Fiorenza che strangualciò una sforzina ed pacfom?! Saltò sù a dir l'aquilina che puvrètta a parlare toscano non ci ha derma, non morse micca per quello che lì, è campato tanto e stava bene, e se è morto l'è mort ed vciaia!

— E quèl che dormiva a bocca aperta e che ci andò giù un topo, dess la Lucrezia, ma dopo non si sentiva mo a rosegare int èl stòmgh, e avendoci un gatto miacolato lì vicino, lui scappò per tutt'altra strada?!

— Sì ma intanto mi sento un bruciore fra èl pein e èl vud, e il vuoto.

— Bèin! ecco che a j ho truvà èl rimedi!!

— Ah babbo, babbo me lo dichi subito.

— Mo dsi bèin sù, cuss'êl ch' fa andar vi l'apis?!

— La gomma elastica... Ah babbo mio che ingenio, che ingenio! E la mî povra tusètta mi si atorciliò al collo chiamandomi il suo salvatore.

Per furtouna che ce n'era proprio lì su che l'adoperava per scancellare il disegno se si sbaglia — e io ne tagliai un bel pezzetto e lo feci trangugiare e cossì di seguito che sono tre giorni secutivi che fa la cura suddetta, a tre pezzi al giorno e me a sper che l'apis al sia bale andà vî tùtt. Lî puvreina, dice non lo sente. Eh! l'era tanto sotilino e corto; j ein ed quî che si tengano nel catovino che ci dicono anche il carmè, ma adesso mo tùtta sta gomma elastica ci ha gonfiato lo stomaco e anche la panzina in modo che dico che a moversi per il letto la fa di sbalanz; si vede che l'elastico non lo può degerire e se seguita così ho pensato di darci l'olio, com s' fa ai battò, e credo se ne libererà subito — acsè, sicur che è un incomodo — anch incù l'ha urtà un poch fort con èl stòmgh còntra la tavla e sùbit l'ha cminzipià a far di sbalanz per la stanzia, che se an sòn svelt a ciapparla, chissà duv l'andava a finir.

Dall' Ehi! ch'al al scusa..., 6 aprile 1889.

EM CÀPITEN TÙTTI A ME!

Pregiatessum Sgner Derettòur!

Mi fanno tanto riddere quanto diccono questo che qui non puvò essere, quello che là è una fandonia, comme quando in questo giornale c'era quella signora che raccontava le bazzurlonate della propria servente, che anche a me, bisogna dirlo per debito di parzialità, mi fecero esclamare: oh, questa è una lochina, inventata tanto per empiere il foglio.

Adèss però a crèdd incossa, doppo i fatti della vigilia di Natale, me a degh che tutto è possibile sotto la K del sole, sebbèin che sabet passà an i foss èl sòul, e an se stess bèin che sotto la K del camino... che si poteva dire proprio che era il camin di nostra vitta, tant as sinteva ristaurà nelle sue vicinanze.

Ma questo non suffraga, dseva quèl prit ch' cantava èl Tantomergo invez dèl Miserere, chè bisogna raccontare da rè a ròn[16] quello che mi successe a me, la vigilia del Natale prossimo passato che sono di quelle cosse da far avanzar ed strazz fenna èl separi ed Brunètt che è tutto dire.

La mî Lucrezia, pochi giorni primma della vigilia, si era avuto un pranzetto abbastanza lauto, e chissà per quale combinazione, proprio accanto alla tavola ove aveva avuto luogo èl banchètt, il panchetto, a j era cascà una scarfoia ed zivòlla; si vede che lei senza vederla ci sopramontò sopra, e la t'um sblesga e nel volersi sostenere la casca sul pavimento del piancito battènd i cavî per tèrra, e quindi riscuotendone spasimo anch a la tèsta ch'j era sòtta. Le pronte cure dell'amorosa famiglia a nulla valsero pr'impedir èl nezz, che poteva avere serie conseguenze se, mettiamo, dovve urtò col capo, ai foss sta un spunciòn ed fèr o un altro oggetto da far del male maggiore, e fu un vero miracolo che non accadesse di peggio. Basta, la quistiòn l'era che la fazza l'era dvintà culòur ed carota, e non era esponibile al pùbblich, e comme si fava per la spesa, che me non sono pratico, quell ragazzi non ci è la convenienza del decoro di dire d'andare in piazza; e d'altra banda bisògna pur magnar!?

Allora mi venne una edea, cioè ed trovar una ragazzèla che per questi giorni venisse a fare il servizio senna che la Lucrezia foss turnà del suvo colore natio. Dett e fatt a incònter per la strà un'ortolana che per di ann la dà èl latt alla mî cà, e ci dicco: — Dsì sù Ruseina, avresti una ragazza accosì, accosì, ecetera, ecetera?

— Mo sissignori, ai mandarò mî fiola, una più bona diavla, svelta... che farà al suo caso.

— Brava, mandamla per dmatteina che essendo la vigilia di Natale, sebbèin che non lo sia, ne abbiamo bisogno.

— Che an s'indobita e al vdrà ch' j ein cunteint dia mî Jusfula.

— Êla mai sta a servir?

— Oh gnanch da burla, a faz giùst per fari un piasèir a lù, che la mî tusètta, grazia Dio, n'ha megga bisògn... l'am aiuta a preparar j erbagg...

— Va bèin, allòura, dmatteina al j ott ch' la sia a cà mî e dai sigh dû card, un soquant casp d'insalà e dei prasegoli, pagamento a tre mesi data, com dis i scambiavalut.

Infatti alla mattina alle otto in punto arriva la Jusfula, una tassagnotta visibile, con un corgh in tèsta dov ai dseva èsser una vinteina ed card e una piramida d'insalà che si sarebbe mangiato in venti asini e più.

— Cuss è tùtta ql'erba fiola mî? a faz me, nel aprirci le imposte dirette.

— La mama m'ha dett ch'ai porta dû card e...

— Ah, ma duve di numero, non per modo di dire.

— Oh, poch mal, ch'i droven quî ch'i volen, quî alter ai purtarò indrî stasira.

— Brava, gajarda, vein mo a tor j urden da mî mujer che l'è anch a lètt, perchè l'ha sbattò la tèsta per tèrra, puvrètta, e non si sente bene, e la introduco dalla Lucrezia.

Mî mujer j òurdna un pèzz ed can, che è la mia passione, dòu tarantèl, del j ov ed pèss, dl'oli fein, dèl pan spzial alla certosina e dèl rinfrèsch del dottor Collina da S. Domenico, che è squisito. A tùtti el spiegaziòn ch'i dà mî mujer per fari capir pulid ed cossa as tratta, lî l'arspònd:

— Eh, diamine, an sòn megga una zuccòuna, a capess pr'aria, me... e pò a forza ed dmandar as fa tùtt quèl ch' s' vol...

— Bravo Jusfeina, acsè am pias, fa perstein perchè èl can ci vuol del tempo a cucirlo.

— Bravo Pirein, dseva la Lucrezia, ti mo andà a dstanar una ragazzèla com va...

Sòuna el dis, sòuna el j onds, sòuna mezzodì, e la Jusfeina en s' vèdd. Mia moglie comincia ad istare impensierita, e me a zèirch ed divagarla perchè il pensare con la tèsta acsè nezza, gli può essere dannoso, mo a Lei non glie lo nascondo, sgner Derettòur, a lù che chissà quant ai n'ha vest ed sti cas, io ero angustiato più di lei, anch per la responsabilità in fazza alla mader, no, perchè io dicevo: con l'umidità che cè, se questa ragazza mi fa una caduta e che si rovini, con chi la fa sua madre?! con me!!

Basta, quand Dio vols l'arrivò a cà che al dseva èsser un'òura, ròssa, tùtta affanà, con el lagrum a j ucc.

— Mo di bèin sù duv ît sta fenna adèss? Coss'è quèl rotol ed carta, cuss'è qla zùcca d'acqua rinfrescativa... Mo Sgnòur bendètt che diavel hât imbrujà... oh povr'om me!

— Am maravèi che i dscòrren, se a cherdeva acsè an vgneva megga sani... Arturo, al m'èl dseva che j ein tùtt mizz matt...

— Mo adasi bèin, cineina, perchè 'l j insulèinz non le deglutino... cuss'è suzzèss? sintèin...

— Ohi, appènna fora a j ho dmandà dov a pseva truvar un quart ed can...

— Mo che quart?!

— Vlevel che al tuless tùtt intir per lòur ch'j ein in puch.

— Intir nò, mo anch un quart...

— Bisògna vèdder ed che razza, perchè se al foss un livrir che a j cava el j oss, poch j avanza... basta, im han insgnà d'andar fenna fora dla Mascarèla, con sta bèla stasunzeina e po quant a sòn sta là, i s'ein mess a redder e i m'han dett che non ne vendono al minuto...

— Ah, che bistia, puvrètt me... e quèl rotol cuss êl?

— Ohi! a j ho dmandà dov s' còmpra el tarantèl, i m'han insgnà da Trebbi quèl dla musica, ecco que a j n'ho tolt dòu, al dis che sono bellissime.

— Ah, dsgrazià d'una stùpida, guardà que; Tarantella, trascrizione per piano... asna, sumara... e l'acqua rinfrescativa per chi êla?...

— À sòn andà là dal sgner duttòur Collina e a j ho dett: a vrê un quèl ed rinfrescativ... an m'arcord più pulid... E lù al dis: mo ch'al sia rinfrèsch o acqua rinfrescativa?!

— Mo, an m'arcord più.

— J'è brisa di amalà in casa?

— Sissignore, a j è una dona a lètt...

— Allòura, l'è acqua rinfrescativa, e al m'ha dà sta zucca...

— Bravo Jusfeina! E èl pan spzial?

— Ah, quèl i l'han d'andar a tor lòur alla Zertòusa, cun ste paciugh a n'i vad brisa...

— Anzi t'ha rasòn, e l'oli l'hât tolt?

— Ecco que!

— Coss'è sta pùzza? ma quèst l'è oli ed lein.

— Ohi, in han dett: ed lein?!

— Fein, brisa lein... Ah, va pur là la mî ctà, t'î una brava ragazza...

Mo com s' fa adèss?! Bisognarà pur magnar... Oh infein! a far i fatt sù an s'insporca brisa el man, dseva quèl ch'era zò pr'un foss e ch' cujeva del foj ed vid. Andarò me a far spèisa... e te sta lè a badar a cà.

Infatti a ciapp sù, e me ne vado con la mî brava caparèla tratta sù all'eroica per cruver la zùcca d'acqua rinfrescativa che a vleva tintar di concambiare colla:

Melissa Carmelitana Eccellente Antisterico Ricreante e Stomatico Stabilimento Chimico Piazza San Domenico Num. 502

Passand avsein a una marunara am arcord che a j ho da tor i maron, che sono la passione del mî ragazzoli e ne compro due soldi avvitichiati in un Secolo e a mi mett dèinter int èl gennasi onde si conservino più caldi, e pr'en me far vèdder con un avvoltojo in man.

A dir la verità l'era un pzulètt che sentivo un calore in tèsta e a dseva: mo bene come sono caldi, quand a incònter delle persone da ariguardo che conosco, ed ero costretto a cavarum èl gennasi, difatti alla mej faccio l'atto di salutare, mo sissignori che mi fermano; una mamma con dòu fioli, e im cmèinzen a dmandar novelle ed ca mî.

In quèl mèinter un biricchein ch' passava al fa, al dis:

— Ehi! ai fùmma èl caminarol, èl canòn dla stû al brusa!!

Le mie interrogatrici a vèdd che mi guardano fisso il ginnasio, ed esclamano:

— Ma scusi bene, lei abbrucia!

Istantaneamente a mett la man al cappèl, e una pioggia d'arrosti e 'd carta brusà casca adoss ai capplein del sgnureini e tùtt sù per la mî capparèla, mèinter con l'aria che ci era compenetrata èl zùcc dèl cappèl al fava la fiamma. Un zelant per vlèir mandar vî un pzol d' carta impià che si era fermata int èl mi tabarr am dà un pogn int la zùcca dall'acqua rinfrescativa e zò, tutto il liquido adoss a me e alle suddette signore.

Io non ci do il prezzo di quella critica situazione, fatto segno alle beffe dei monelli che riddevano e che i seguitaven a dir:

— Brusa la fuga! Eh! che pozza d'ùnt; accidenti! la par la padèla da frezzer!

Le signore erano sparite, e me a scappò in piazzola ad acquistare un alter cappèl.

Ql'asna dla marunara, as vèdd che tra j arrosti ci aveva lasciato una bracia che a contatto del Secolo, che è di così facile inflammazione, procreò l'incendio fatale.

Intant el tarantèl che aveva tolt da purtar indrî a Trebbi el j eren in cola, perchè la bisacca dov a li aveva si impinì di acqua medicinale.

Mî mujer, intant dòp che a j era vgnò vî me, l'aveva dmandà alla ragazèla s' l'era almanch bona ed preparar i card, arcmandandi che j arstassen bianch.

Dòp un poch, ci arriva di là, con dû card invujà int un pèzz ed stura, digand:

— Dov j oja da supplir, perchè per fari arstar bianch, nualter urtlan a fèin acsè!!!

Arriv a cà me, e l'am cònta sta storia... e me a fazz: — A proposit, el j ov ed pèss, che l'al j ava po tolti?!

Interrogata, risponde: — Nossignori, a sòn andà da tùtt el cuntadeini, el j aveven del j ov ed toch, ed galleina, d'anadra, mo ed pèss in n'aveven brisa!!

— Va in cuseina sùbit, e ringrazium se an t' fecch fora dall'ùss!!!

El mî ragazzi, puvreini, i l'aveven tolta in redder, e quant im vèsten tùtt moj causa la rottura dla zùcca, ci si sarebbero estratti tutti i denti dal gran riddere che favano, quel bazzurlunzèli!

Basta, quant Dio vols, volse, as messen a tavla; ma aveven appènna finè la mnèstra, che la nostra brava Jusfula l'arriva dèinter spalancand l'ùss e digand:

— Ehi ch'i baden mo que, che a j è di sgnòuri ch'j dmanden.

J'êren dû spazzacamein ch'êren vgnò all'ùss a dar el bonn fèst, e lî la si cundus propri al noster cospetto in quèl mèinter che si inghiottiva quel boccone di cena.

Dòp un poch i tòurnen a sunar, l'era un urbein che ci dava gli auguri come sopra.

Ai dagh dû zentesum, perchè an me pias ed farum guardar drì da quî dsgrazià, e po ai degh che la porta in tavla el zavatt ed mî mujer, che a j aveva cumprà da bagnar int èl vein.

Spetta e spira an s' vdeva indson; a vad a vèdder coss'era suzzèss, e a l'incònter con la lùm in man ch' la vgneva sù dal scal.

— Duv siv sta? a fazz me.

— Ohi! vdand ch'a j era anch el scal buri, a sòn sta a far lùm all'urbein perchè an casca.

— Oh povr'om me, perchè ch'al vèdda i pirù n'è vèira? Puvrètt lù, e più puvrètta te! Va là dònca porta sti zavatt ed mî mujer... metti sù int'un cabarà.

Al cherdreni?! Dòp un poch as la vdèin arrivar nella Salle a manger, comme dicono nelle locande, con el paposs ed la Lucrezia sù pr'èl cabarà, le paposie che ci ricamò l'Ergia nel suo onomastico di lana con fiori che sono bellissime e che, con rispetto, le incalza la mattina allorchè ascende dal letto nunziale.

Quel tusètti che sono allegre sempre, si gettarono int una sbuccalà da non poter più, e la mî Lucrezia quantunque indisposta la teins, si tenne mettere a riddere alla sua volta, talchè la rabbia ch' m'era vgnò rimase disarmata e a finè per torla anch'io con un sorriso.

Finè la zènna a ciamonn èl caffè, ma non l'aveva fatto perchè, dseva lî, an s' vleva masnar per quant la prillass.

E sè che èl masnein è nov! porta que che a vèdda!... mo t'en vî, a sfid me, t'ha mess el grann dèinter int la cassètta invez d' metterli que sù.

Fa bèin a mî mod, mettet sù èl fazzulètt e at cundus sùbit da tô mader...

In quèl mèinter a vèdd che lei vacilla, e che da alle onde, a guard alla buttiglieina dèl rinfrèsch, preparata col servizio da caffè, e a vèdd ch' l'è quasi vuda.

La ragazza intant la s' mett a zigar e l'am abbrazza basandum com è che a foss stà èl sô mròus: l'era una durèzza, che ci aveva preso in tenerezza con lagrime! Arriva mî mujer, el mî ragazzi: a vedere quell'amplesso inorridiscono!

Lo dichi mo lei, se si può essere più disgraziati?

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 30 dicembre 1882.

PINGUEDINE ARIOSA!

Sgner Derettòur!

Hâl mai vest un pader furibònd? Che mi guardi io e ne avrà una pallida edea, perchè a sòn smort com è una pèzza lavà, ben inteso. Vergògna! non è il modo quello che lì di mettere nel repentaglio l'amòur propri del genitore che l'ha riposto tutto nelle sue creature, zercand che venghino su abbastanza nutrideini. Ma sta a vèdder adèss che ci debbono essere le misure decimali altresì per il corpo del vomo, il quale quanto andava a scola dicevamo che vale anche per la donna, se si usa pel genere umano tutto intero, preso colativamente!

El j ein coss turchi! dseva quèl ch'j impalaven, che si abbia da vedere esposte nelle vetrine... oh! mo cossa dirà Sant'Agata, megga il professore[17], che lui poveretto son di quelle cosse che non se ne occupa, ma voglio illudere propri a lei che è la protettrice.

Al dis: sono di gomma! sissignori nessuno vuol dire all'incontrario, ma Dio buvono, cossa importava a scrivercelo di sopra?! Mettere accosì l'alarme nella popolazione... i dubbi nei gioveni, il desiderio della verifica, e che soja siasi di me...

Si sa dove si comincia, ma non si sa dove si vadi a finire, dseva quèl ch' ruzlava zò dal scal.

Ah sgner Cassarini[18], lui mi ha amareggiato l'esistenza, e perchè?! Lui dirà... Perchè l'Ergia che è vogliosa di tutto ciò che è il progresso... l'ha cominciato a dire: Vadi là, papà, me ne compri, me ne compri!!

— Mo, Ergia, senna adèss ti sei contentata accosì, che infine poi ve ne sono di quelle che sono orfane adderittura, e perchè tùtt int una volta t' vû armettert, mentre chi ci rimette sono io, che chi sa cossa costano, che fanno pagare la novità e l'asparmi del nutrimento come sopra.

A crèdd d'avèiri dett altre fiate che la mî ragazza è di fondo buono, ma nella superficie l'è testarda com è un mùl, e questo gli provi la mia parzialità anch se parlo del proprio sangue, ch' l'è la cossa più cara che ci fosse al mondo fenna a l'alter dè, mo dòp la spèisa che ci narro, la cossa più cara l'è dvintà quella che lì, e poi resa inservibile dentro la giornata, come ci spiegherò in avanti.

Dònca la mia voce persuasiva a nulla valse: el rasòn che gli diceva la mî Lucrezia, lei poveretta che si è sempre contentata del proprio stato, non gli fecero nè caldo nè freddo, cominciò a calpestare i piedi e a zigar digand: Le voglio!! le voglio!! che la pareva un ragazzol lattitante, quand la balia l'è fora ed cà.

Cossa avrebbe fatto nella mia sitovazione? Siamo sempre lì, a stare stranei, as dis: bisògna èsser furt, ma quando si hanno le mani in pasta, dseva qla serva ch' fava la spoja, non si ha il coraggio e si cede com fa la gòmma... Accidenti!! alla medesima, che era meglio che non l'avessero scoperta!

Basta, si facci anche questo sacrificio, e via che andassimo da San Salvatore.

La ragazza, dopo tanto diavolerio, non s'attentava di dire con quello di dietro al banco: vorrei... accosì e si volle esprimere colla mimica di dire, tacendo, le parole, — ma lui non capì bene e ci disse che se aveva male allo stomaco favano bene j odur ed potassia, gli odori di potassa.

Ecco ùn di cas in cui il padre l'è in obligh d'intervgnir colla esperienza del mondo, per estrarre dall'imbarazzo qla povra età, ch'era dvintà ròssa causa il giusto podore, e faccio, a degh: — Si tratta di cossa puramente esteriore che è in mostra...

Allòura capì e ce ne fece vedere, spiegandoci il macchinismo di dire bisògna suppiari dèinter a piacimento, conforme il desiderio e la larghezza dell'abito, perchè as sa che ogni cossa ha un lemit, com dseva quèl ch' stiuppava!

Stettimo lì a stiracchiare e finalmente si combinò in un prezzo, che an i degh èl prezi, mo per le mie finanze assai gravoso: ce le incartarono, e vî a casa drett, che qla mattazola non vedeva l'ora di provare.

La Lucrezia e l'Endricca, per quant facessero le disinvolte, as capeva che le avrebbero desiderate, e questa quì diceva: Ergia! me le impresti una qualche volta?!

— Non voglio far altro, arspòus sùbit quèl spiricecc, che ha un po' il defetto del govismo di dire: Dio me la diede guai a chi la tocca! E questa preposizione che disse Napoleone 1º, quanto era dentro nella corona ferruginosa, io potrei dirlo dla mî Ergia che l'è sbaldanzosa, incapace di dare un sorcio d'acqua anche se morisse di sete!

Basta, io per mettere la pace in casa, a dess int una urèccia all'Endricca che se stava buona e che abozzasse, arev vest di procurarcene, sèinza grave dispendio, perchè una volta cgnussò la teoria sulla quale is basen, si baciano, se ne possano costruvire in famiglia.

L'Ergia intant smaniosa di fare l'esperimento, la si era già applicato il macchinismo, e la povra Lucrezia, suppiandi dèinter come sopra, otteneva quella misura prestabilita.

Bisògna cunvgnir però che non pareva più lei: sembrava che fosse successo uno di quei cataplasmi che i descriven nelle storie, quand le pianure diventarono montagne e il mare diventò terra e lascia pur dire, che di liber a j n'ho vest magara.

Figurarsi, sè qla bazurlunzèla vleva star in casa, adesso che era accosì ben pasiuta, mo gnanch a dirlo! infatti: Vadi là papà andiamo a far due passi, mi conduchi dalle Sberli! che sono suve amiche, compagne di educandato, quand j andaven al scol comunal, che non è per menarmi il vanto, mo per l'educazione delle mie figliole a n'ho mai guardà a la spèisa!

A la guid dai signori Sberli, eccelenti persone, gentili, che non si va una volta che non vi esebiscono dell'acqua di limone, che la fa lui, che l'è buonissima perchè non si sente la parte limonacea che è quella, com dis èl sgner Aldvigh, che fa spadere i denti e gnanch il dolce dello zucchero ch' fa la nauvsea di dire: guasta l'appetito e rovina l'indigestione.

Appènna che si presentiamo, l'as veins avrir la sgnera Cleria e la fa: — Oh chi è que?!

— Mo de' sù Ergia?! T' scherzerà? ma comme ti sei rimessa!!! Ragazzi vgnî bèin que, vgnî a vèdder sta visita... mo ît sta in campagna?! Vèner quant at incuntrò, ch' t'êr con la mammà, an m' n'accurzè megga ed qla gnexa!!

Intant era arrivà anch el ragazzi, puvreini, che sono piuttosto magrine, el guardaven mî fiola con occhio fra èl surprèis e l'invidiòus.

La granda, che si doveva far la sposa e che poi andò al monte, la dis:

— Mo Ergia, com t'î bèla! Sat ch' t'î grassa nezza...

Io che so capire le sitovazioni, vdènd che mî fiola si confondeva, a fazz a degh:

— L'è un fatto che da tre giorni che toglie l'olio di merluzzo, si trova molto contenta e la si va mettendo in carne... e tanto per divacare il discorso a degh:

— Eh! dovve manca natura arte procura, dseva quèl ch' s' mitteva j ucc ed vèider! Cossa volni vèdder!! Finire queste parole, e l'intera famiglia Sberli ficcars, slanciarsi int una risata, fu un punto solo.

L'Ergia, puvreina, si toglieva sempre più giù, e squasi squasi ci minacciavano le lucciole agli occhi.

La più grande però, quella del matrimonio sfumato, capì che non istava bene quell'indecenza del riddere, e prese l'Ergia per mano e si misero a chiarlare, in quèl mèinter che quelle altre mi vollero favorire la limonata, che era all'ultimo grado della perfezione, perchè an s' sinteva nè l'amore del limone, nè eziandio quèl del zùccher.

La sgnera Cleria venne a farmi una massa di finezze e el sòu fioli el j êren là tùtti d'intòuren all'Ergia a abbrazzarla e striccarla e io, a dir la verità, a stava un poch in pènna, perchè soia me, el dsgrazi el j ein sèimper preparà; è vero che saranno robuste, ma tuttavia...

Finalmente, se ne andiamo, e quant a fonn fora, l'Ergia l'am cònta l'angostia che ha provato, perchè volevano il modello del corsetto e che se lo cavasse lì di là.

Per fortuna che c'era venuto un lampo, una losna ed geni, dicendo che i pton dèl cursètt erano accosì cattivi da fiubbar, che ci voleva èl fiùbbaguant tùtti el volt.

Con sta stasunazza incostante, che dei momenti è caldo e degli altri tira un zefiro freddo da ficcar per tèrra un omen, si era alzato un po' d'aria fresca, e a fazz con l'Ergia: — Tienti ben appuntato lo sciallino lì davanti!!

En l'avessia mai dett, che lî, puvreina, obbediente agli ordini del genitore, si punta un uguccione proprio sovra il seno, in quèl sit che i canten int la Sonambula.

Me a seint un feschi, come se partisse una locomotiva, con una currèint d'aria che mi viene nella mia faccia, mo un cvèl che proprio si sentiva ch' era aria di famiglia!

A guard a l'Ergia e la veggo impallidire int èl mustazz, e, un momentino più giù, a turnar nello stato di prima!!!

L'infelice, si era perforata! Il dispendio del padre, le fatiche della genitrice, tutto fiato sprecato; in un istante le cosse erano tornate allo stato primitivo...

Lî puvreina, la non sapeva in dove mettersi. Dû zuven che ci erano all'impàri, a vèdderla a dimagrire così a vista d'occhio, i dessen sùbit che si trattava di tisia fulminante, perchè erano di quelli che ci diccono gli studenti di Medicina, mentre non sono di quel paese e vanno all'università.

Ma, non risposi, e me la cavai con un atto di testa.

L'Ergia che lungo lo stradale, n'aveva mai avert bòcca, appènna a casa, la dè int un ròtt ed piant, in uno spezzato di pianto, tant più quant l'Endricca la j cminzipiò a dar la fuga, il camino, e a diri: — Ti sta bene, ai govisti magari il doppio!

A n'ho rasòn d'essere fuori di sè, pensando che dòp aver speso tanto, mi è rimasta la figlia sècca stlà, stellata, come era in antecedenza?

J' han da dir quèl ch'i volen, ma el coss d'aria, se an s' branca in robba ed premma qualità, el duren da Nadal a San Steven.

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 7 aprile 1883.

L'INÈST DÈL VAROL

Appena che si cominciò a balbettare dèl varol, la Lucrezia, sempre salvaguardosa per la suva famiglia, la s' mess a piular... a piallare, perchè si facessimo l'inaculazione del medesimo. Me che a dirla stièta, meno am impacciugh, mi infango, a stagh mei, mi ci vi opposi, digand che era effetto di destinazione e che se a s'era destinà d'avèirel, al vgneva lo stesso anch coll'inaculazione... Mo un poch la pora, un poco messo su dall'aquilina lè indrett che ci mise delle pulci od altro nella testa, fatto sta che an s'aveva più un minut ed pas, e l'Ergia che primma era disinvolta e la dseva: Anche se mi viene, lascia che venga e se rimango bucanata chi se ne importa, chi mi vuol guardare, bene, altrimenti si volti in là... e rideva; nossignore, che a forza di dscurs ed sô mader, la finè anca lî per cunvertirs e spiattonarmi perchè la facessi inaculare.

In quel mentre che stavo per piegarmi, am veins un'edea e a pinsò dèinter ed me: Se mi facessi mo inacular io, in qualità ed cap ed cà e per cònt ed tùtta la famèja? La srè più sbrigativa ed economica: a j ho vest che int el lapid del volt al dis: per sè e suoi... dònca io faccio altrettanto.

Con l'edea di farci una burla an degh nient in cà e vado dal duttòur ed famèja, accosì buvono, accosì paziente, che conosce l'impasto della mia casa come che lo avesse fatto lui... e ci espongo la cossa... per inestarmi nel braccio... Lù al s' mett a redder e mi dice che in questo caso èl pader non ha niente a che fare colle figlie... e colla moglie e che bisognava che scadagnon se lo inestasse nel proprio.

La mia edea dunque non potette fettuarsi e si stabilì, che il giorno precedente a quello dopo l'altro, lui sarebbe venuto per l'operazione.

Quand andò a cà e che ai dè la nova, l'estrazione, la Lucrezia la dvintò culòur d'una pgnuccà e la cminzipiò a dir: Faral mo mal? e l'Ergia, con tùtt èl sô spirit, l' am andava dmandand: Papà comme farà a fare l'inaculazione? Che si senta mo male? Che si faccino mo dei versi?! E tante altre domande che io non ci potevo risponderci, perchè quant a nassè, non era ancora stato inventato il vaiolo e quindi nè io, nè èl pover mî fradèl, che morì nel darsi alla luce, non si inacularono mai!

Èl sgner duttòur poi mi aveva messo un poco nello imbarazzo, perchè al m'aveva dmandà se volevamo il vaccino proprio di vacca o dal braccio al braccio... e io a dirla schietta, non essendo mai stato su quella, an capè la forza e per cavarumla, risposi invasivamente: A sentirò el mî donn! Intant, per star int' èl sicur, venghi con l'uno e l'altro.

Quindi, era mio dovere o no, ed dmandar alla mî famèja qual sistema preferiva?

Non l'avessi mai fatta! dseva quèl che veniva sorpreso da un polisman. Papà, cossa vuol dire vacino? m'interscolava qla speppla dl'Ergia.

E sô mader tùtta arrabè, cominciò a darmi sulla voce, digandum dèl vècc matt, a aggiungendo che non era prudente mettere il vacino nelle vene d'una ragazza... che non si può mai sapere i felomeni... e che piottost l'era da proferir il braccio, quando fosse d'un vero galantuomo...

Ma, d'altra banda, non potevo entrare in lotta, perchè non ero competente, e finì per decidere che arè dezis èl sgner duttòur, èl quâl avrebbe capito meglio di noi quèl ch' cunvgneva alla Ergia, che messa sù dalla mader, la sgnulava che voleva il braccio!!

Finalmèint veins l'ora fissata e me aveva zò fatt preparar un cadein pr'èl sangv, del pzoli, èl zirein, l'asà nel caso di qualche smalvino, dèl lauden, avanzo delle precauzioni estive, e po con un certo convulso stavamo tùtt inurcè, inorecchiati, per seinter l'arrivo del dottore.

Infatti, eccolo che arriva e dice subito che il braccio non cè e che l'ha sigh èl vedrein dove ci sta il pus vacchico.

Mî mujer la cmèinza a dir che per la ragazza non vuole... che non ci faccia muovere qualche cossa... che non si disturbino gli umori e che non vadi incontro alla malattia umoristica... Me ai fava di zegn... che la facesse finita perchè dal momento che lui se ne intende e di ragazze e di vaccino, è segno che va bene accosì... Ma l'Ergia spaventà da quel stori di sua madre... pareva che non volesse saperne e la dseva: Oh Dio, arè da dvintar quèst... arè da dvintar st'alter... e lasciala pur dire, che per le apoposi l'è nada a posta. Allòura èl duttòur, che non ha tempo da perdere, che ha tanti avventori, mise giustamente la schiena al muro e disse: Sù, che a vdamen! Andèin, Ergia che la sia buneina! Mo la Lucrezia sempre più viperita la fa la dis: Ma sù cossa? Scherzerà!!

Sù la mandga! arspònd èl duttòur con la pazeinzia ch'i scappa con ogni diritto... E l'Ergia, puvreina, mansuefatta dal parere medico, fa per tirarsi su la manica, mo quella moda messa fuori certo primma della inaculazione, delle maniche ristrette, j impedess di sguainare il braccio e non cè rimedio bisogna ricorrere all'altro mezzo, quello ahimè, dla disfiubbadura dèl cursètt, e po dla maiteina e pò finalmèint della camicia... che se si fosse immaginato, è certo che sarebbe potuta essere più bianca... Sô mader puvreina corse a mettri un sciallein ed lana bianca e zelèst... pervid del giusto riguardo e pel raffreddore e cossì la presentò èl brazz alla operazione. Io ci misi sotto il catino... e sô mader ci teneva la bozzolina dall'aceto dei sette malfattori vicino alle narici del naso... Èl duttòur con una grande disinvoltura tolse fuori il coltello e cminzipiò a tajar èl brazz ed qla povra anma che la stava lè impassebil, con un curagg da leòn! Me am sinteva èl sangv di pî che am vgneva alla tèsta, e al capeva dalla pozza ed marucchein, perchè avevo le scarpe nuove!! Sô mader am aspttava che venisse meno tant êrla bianca!!

Me a dess pian con èl duttòur: hal preparà la lazza per ligar el j alteri?

Si gettò a riddere come un alienato, e mittand vî i pzû ed vedrein, che non erano passati pel taglio fatto al braccio di quella martire eroica, al dess: Mo che ligadura, ecco fatto tutto, adèss fasciamo ogni cosa e stia riguardata dall'aria. Avanti, sgnera Lucrezia, a sòn que da lî... Cussa vliv vèdder sta dona dvintar un mascaròn... L'è impussebil che io m'assoggetti a spogliarmi... non cè dubbio, preferisco la pidemia del vajolo... Mo va là bazurlòuna, il signor dottore si volta in là! Mo cossa cè di male, si tratta per la salute... mo sfibbiati... non si sa che il tempo tutto consuma... el vèira sgner duttòur?... d'altronde ai suoi tempi l'ha fatto di bî arliv... e la nostra Ergia ne è la prova... è vero com l'è fatta bèin!... Ma la Lucrezia non è possibile persuaderla... e èl sgner duttòur doppo aver tentato ogni via, se la prende perduta e si rivolge a me digand: Andèin, sgner Pirein, persuada coll'esempio la suva signora...

Se debbo proprio dirla, am sintè un calzèider d'acqua giù per il filone della vitta... mo l'amor proprio vinse e mi denudai la parte richiesta, non sòul, mo ci stetti a guardare.

L'Ergia, che natoralmente si era fibiata e l'aveva ciappà dl' argoi, dell'orgoglio, l'am dmandava: È vero, papà, che non si sente niente? Pare un forotto di uno spillo o un becco di zinzella, non è vero?

— Accidenti! Ahi, quèst è sta piottost fort... Mo quant m'in fâl? Anch in st'alter?

— Essendo padre di famiglia, am dess èl sgner duttòur, bisògna farien sî!

— Com è el mistuccheini! saltò sù l'Ergia che ha suggito il spirito dell' Ehi! ch'al scusa...

— Giustissima... e adèss sòtta te Lucrezia! Va mo là gajarda ubidessum... se la quistione è per sbottonarti at stagh dinanz... così non si vedrà il deficit...

— Preferisco morire!!...

Che si figuri che legge le pendici del Secolo e quanto si altera un poco, ci vengono delle edee tragiche: me che acgnoss l'umòur dla bistia, non dovrei dirlo che è mia moglie, l'è mej farsla ed zira, farsela di cera, e acsè a dess al sgner duttòur che, poveretto, avrebbe pur voluto persuaderla...

La migliore l'è abbuzzar, schizzare, e lassarla int la sô edea... che è più facile si ricredda...

Èl duttòur s' n'andò e sono cinque giorni che abbiamo le epistole nei bracci, che a dirla em dan noja... brucciano e fanno scadore... a j è l'Ergia che ci fa male solo se deve soppiarsi, con rispetto, il naso, che ci tocca di prendere il fazzoletto con quest'altra mano...

E po, ce lo debbo dire? Sembra una sciocchezza, ma dopo il vacino l'ha una zert inquietudin adoss... dorme male... si sogna sempre d'essere in campagna in un bel casino... colle vacche, i bovi e el j alter bisti assessori, che sono proprio della vigilatura... e qui ci si muove il riddere che sghergnazza sempre come che ci facessero il sollecito.

Sô mader invez... gran dona ed spirit!!... non essendo inoculata la sta benone...

Come si spiegano questi felonemi? Capessni cvèl lòur? Me nò!! Tersuà a lòur sgnòuri!

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 20 novembre 1886.

BAGN D' MAR... A DOMICILIO!

Al fa un vagh caldazz: per dinci, ci dicco la verità, che se an fùss perchè an l'ho brisa, andarè a star in canteina. Una volta almanch a j era i caftir che cercavano di creare delle allusioni, mittènd fora un cartèl che diceva: oggi si gela, mo adèss, che ci vuole il francobollo, lo fanno lo stesso, ma non lo dicono. E noti bene che noi proprio non avressimo ragione di lagnarsi, perchè èl noster camerone è abbastanza areoso, e a j è la Lucrezia che la sa conservare il fresco, òura mittènd el fnèster in casòn, casoni, òura tgnand l'ùss sbadà... anzi questa sbadatagine, fatta a posta, andò a rischio di pagarla cara... ossia coi 47 centesimi ch' custava èl taj ed manz ch'aveven tolt per fare il brodo e l'umido e una bistecchina per l'Ergia, che ce l'ha ordinata il signor dottore.

Sicuro, dònca, essendoci l'uscio semi aperto, veins dèinter un gatt, sotto mentite spoglie, e era proprio lì lì per comettere il borseggio dla carne, quand se ne accorsero e l'Ergia la ci tirò dietro la Portatrice di pane, che non ci prese, ma lo spaventò totalmente, ch'al scappò per la fissura, che si sono persuase di tener chiusa... L'era vari volt che ce lo dicevo: tgnî assrà la fissura che si possono introdurre gli estranei... e lòur nò! Se sentisse babbo che buon freschino... Adèss, doppo l'affare del gatto, i l'han accapè... e la Lucrezia l'è la premma a tgnirla assrà.

Mo in questi giorni avèin passà un bèl stricott, che quando penso a quello che ci poteva succedere, am vein schermlezz.

L'è tant che alla mî povra ragazzola ci vanno insinuando i bagni di mare, che tutti dicono che per l'enemia sono un portento, che robustiscano il fisico e si vedono dei miracoli. Infatti c'era una sposa che stava lì di sopra nella casa di prima, che poverina aveva una passione che si poteva veddere, di non fare dei bambini, e il professore che andò al consulto di dire come potrei fare per diventare madre, lui ci disse: vadi ai bagni del mare e niente paura...

Infatti colla cossa che avevano i mezzi, il marito fa l'oste, la mandò a Rimini, e sissignori che si verificò la cossa di dire che ebbe un bel bambino... che il marito non si sa dar pace della potenza dell'Adriatico.

Sicuro, vedendo questi felomeni, anch'io arê pur vlò mandarci l'Ergiola, che è proprio lì che fa compassione, mo la spesa è troppo grave. Mandarla cogli scrupolosi degli ospizi marittimi, ha passato l'età e la n'è brisa d' quel malattî per d' fora, comme le vogliono loro.

Lî puvreina, che è capace di tutto, la vidde in un giornale di mode e confezioni, un vestiario per bagni, blù e rosso, e lei, coi suvoi risparmi, si comprò una più bella robina compagna a quella che là e si fece il suvo bravo copripolvere per andar int l'acqua e cioè i calzoncini a mezza gamba, il corsettino a mezza vitta e la scoffia a mezza testa. Suva madre, che è sempre giustamente stata nemica della scolaciatura, la la voleva su a collo e i calzoncini fino ai garetti... Ma io ci feci riflettere che in quant al gambeini... erano accosì insignificanti, i pareven dû sparz, da non temersi lo scandalo, in quant al resto si era talmente in pianura, che non c'erano che duve catenaccini che parevano el manètt d'un cantaran.

Mo il costume era il meno, il difficile era il mare...

Anche lì, me non l'ho mai capita, quella cossa di dire, siamo tutti italiani, siam stretti ad un patto, paghiamo tutti le tasse nella stessa maniera, e perchè mo dei concittadini si possono tuffare nelle onde, che ne hanno sino alla gola, che è poi per quello che si anegano, mèinter alter che i tùffen e che ne avrebbero di necessità, nossignori che an s'in trova neanche un pentolino?!

Non cè la giostizia distributiva di dire si abbia tutti un mare e tutti un'alpe! Ma non dovrebbe tardar molto l'epoca della vera uguaglianza, che ognuno abbia la sua brava porzione di mare, di monte e di pianura, da farsene quel che si vuole...

Basta l'Ergia, puvreina, non potendo sfogarsi in altro, si vestiva cossì per casa in costume da bagno, che non dovrei dirlo che è mia figlia, ma era una vera galanteria... Ci fu il signor curato che venne a fare lo stato delle anime parochiali, col guardiano che ci portava il calamajo, che puvrètt si gettò a ridere, e domandò se l'era il seguito della edea fissa, osservando che per quant as trattass d'una semplice esposizione ossea, però era bene che una giovinetta figlia dei miei cari genitori, comme si chiama lei quanto ci scrive, vestisse da donna compagno delle altre.

L'Ergia rimase mortificata, puvreina, e tèndra di attaccagnolo com' l'è, quasi quasi fava la mestola, la mèsqla.

Quand dòn Vizinzein s'accorse d'avèir involontariamente murtificà la famiglia, si voltò da me e al fa al dis:

— Ch'al scusa bèin se am sòn permèss d'ammunir lo sô ragazzeina... ma è accosì miserina, che fa compassione... ossibus et nervis compegisti me...

— Mo ci pare, sgner curat, a fe me, e per fari vèdder che un po di latino al savèin anche noi, a j azzuntò: quod difertur non aufertur.

Cum spirito tuo, saltò sù èl guardian, cherdand che a dsessen mèssa.

Dòp avèir tolt zò el nostr'anum, che zò el j ein sèimper quèlli, se ne andarono un po' risentiti dalla terribile lezione che ci avevo dato.

La mî fiola, doppo avere combattuto corpo a corpo colle lacrime, non ci fu verso, la teins scoppiare, con danno della suva salute.

— Mo sta bona, ci dicevo io, se ti ha trovata magrolina, ti rimetterai... se potrai fare i bagni.

— Non me lo dichi, non me lo dichi! Comme posso fare se qui non abbiamo onde?!

— Sta bona, che vedremo di arimediarci.

— Chi in fess mo vgnir una castlà da Remin? dess la Lucrezia, che per qla sô ragazza l'andarè int'èl fugh...

— Magara! a fe me, per non dire nè sì nè no...

Mo da edea nasce edea, come dice l'averbio, quindi am veins in mèint che lì in un cantone, fra gli oggetti del padrone di casa, c'era una bella olla, appuntata, come le guardie di P. S., che si capiva che una volta ci tenevano le ceneri dei camini, oh! un'olla granda, proprio da famiglia.

— Mo fiola mî, a fazz me, e noi ci stiamo a capovolgere il cervello per i bagni?... Mo qui dentro a quest'olla, tu fai tutti i bagni che vuoi, sèinza muoverti di casa... e si divertiamo tutti...

— Ah, Pirein, t'î la più gran tèsta ch'hava acgnussò! Dess la Lucrezia sbalzandomi sul seno e dandomi il bacio dell'ammirazione.

L'Ergia l'era arstà acsè fra la sorpresa e lo sconforto... perchè lei diceva che nel mare cè il cielo azzurro e i dolfini che saltano, e i marinari che tengono su quelle che studiano la nautica, e la brezza, la brizzi, vespertina... tutte storie lette in qualche romanzo, che è giusto quello che si è rovinata la salute, comma dice il signor dottore, perchè corre sempre dietro a un edeale che non può mai raggiungere e natoralmente la s'arscalda...

Mo fiola mî, lo sai pure che il lino e il resto an l'avè che Barbazza, contentati dunque dell'olla, e la tua salute rifiorirà...

Senza induggio, a salt dèinter int l'òlla, e comincio a polirla dagli avanzi delle ceneri, ci assicuro il suo bironzino, e po col pozzo che per fortuna è lì nella corte, a cminzeppi, un calzidrein alla volta e vuda e vuda, senna che l'òlla fo quasi peina...

Ci dicco io che avevo le braccia che non le sentivo più e a sudava... che a j era l'Ergia che diceva... Povero babbo, quanta riconoscenza ti deggio!

Intant la Lucrezia aveva mess sù una bèla caldareina d'acqua e me cossa fazzia?!

Per darci sempre più l'edea del mare, a toj la pgnatta dèl sabbiòn e la vuoto nell'olla, che a guardari là in fònd al pareva propri d'esser alla spiaggia... e pò aveven int una bumbeina due pesci rossi, ùn tùtt nèigher e ql'alter bianch... e dentro che li metto anche loro, che i sguazzaven, e finalmente a toj un bèl pogn ed sal, per formare proprio l'acqua marina e dèinter anca lù.

La caldareina bujeva e la Lucrezia la la fecca int l'òlla, sèinza pensare ai pesci che puvrein vengono subito a gala bî e cutt!!

Per l'Ergia al fo una passione, perchè ci voleva bene e anche loro ci erano affezionati, che ci dava da mangiare le ostie alla veneziana.

Essendo che erano salati e tutto, li mangiai io che erano eccellenti.

Cavà èl pèss, j andò la ragazzola, felice di poter sperimentare il costume e me che a m'era mess in tèsta un vecchio palancà e al col un fazzulètt ed sèida nèigra per farmi creddere un marinaio a sustgneva la fiola che si debatteva felice e beata nelle onde, dicendo che si sentiva già più arbosta.

Me a vdeva che l'acqua la dvintava ròssa, e l'abito del bagno dvintava smort... e faccio e dicco: stai poco bene?

— No, marinaio, la fa lî scherzosa, sto benone... Non l'avesse mai detto; se si arricordano l'olla era appuntata come sopra... Sia stato il calorico, sia stato i scambiett che fava l'Ergia per nuotare, èl fatto sta che tutto in un momento i punti si lasciano e l'òlla se spacca in dû pizz... tutto il mare si reversa nel camerone che non ci posso descrivere lo spettacolo... la povra mî fiola casca tra i sduzz e ai vein mal. La Lucrezia crede che si sia annegata, e la voleva prendere per i piedi e metterla in sgòzla...

Io la tranquillizai e moj spòult, sepolto, com a j era, la prendo su di peso e la porto sul letto... sô mader si cinge a cavari il vestito marino, che si imaginino bene! povra creatura, a j era avanzà stampà in tùtt èl corp il quadronzino blù e rosso, che pareva sempre vestita anche doppo che era spogliata.

As tuccò ed lavarla con dl'acqua rasa e poi in certe situazioni ci è restato ancora l'ombra, che col sederci su speriamo che vadi via. Il dottore ha detto che non è cosa pericolosa...

Questo non toglie che l'inondazione ci abbia fatto del danno, e che se non c'ero io pel salvataggio, si sarebbe registrata un'altra vittima dei bagni di mare.

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 16 luglio 1887.

ÈL SCIOPER DI FURNAR

Sicuro, vado per prendere il pane... perchè bisogna che sappino che in esequie all'asioma di M.me Pampadur che: A faire les zatins de la maison on ne se sporch pas le mains, io la mattina vado a fare quelle piccole provviste che nessuno se ne accorge nemmeno, perchè quanto si ha il suo bravo fazzolettino da mettercela dentro, voglio vedere chi la vede. L'è zert che se uno si mette a far l'enalisi vedendo che dal fagottino saltano fuori i selleri, o èl col dell'impolina dall'olio, allòura potranno dire quello è uno che ha la serva indisposta, mo per la maggioranza che vanno dilungo per il suo viaggio e non si perdono in quei 15 quattrini, pari a soldi 3 e frazione, il fagotino passa inosservato e il decoro della famiglia resta invulnerabile.

Dunque l'altra mattina vado per prendere il pane, e il sig. Giovanni che è tanti anni che ci vado, al fa al dice:

— Caro sig. Pierino, per oggi bisogna far senza!! E fava il disinvolto ridendo, mo as capeva che riddeva coi dolori al ventre comme si suol dirsi.

— Senza di che? a vleva dir, ma dando un'occhiata all'ingiro scopro il pane che non c'era!!

— Cossa è suzzèss?! L'hanno forse valigiato?!

— Ah, è lo sciopero dei lavoranti.

— E daila! Mo questo è un bel incalio, perchè in questi giorni di sudore, con rispetto, della fronte, cossa deve bagnare l'operaio onesto se non ha il pane?!

C'era li un signore che rimase statico a questa giusta riflessione, e mi disse: bravo! lei deve proteggere il proletariato, deve riconoscere il dovere degli ambienti di darne a quelli che non ne hanno...

E mentre diceva accossì, am n'accorz che aveva seco una donina colla sporta che ci saltava fuori un bel bastone di pane lungo e grosso comme il mattarello della spoglia, e allora a faz a degh:

— Bravissimo, questi sono di quei sentimenti che non si trovano in tutti gli usci, e allora mi faccio ardito di chiederci la metà di quel pane che io non ho.

— Ah, questo che qui è mio, e se lei ne vuole se la distrighi, e vî che al vultò, lasciandomi col palmo nel naso comme si suvol dirsi.

— Ohi! faccio io, al par che i fatti non corrispondino alle parole... ma caro èl mî sgner Giovanni, lasciando da banda gli scherzi, comme debbo fare a cibire la famiglia?!

— Vadi nella Borsa che ce n'è per castigo! dess una duneina che ne aveva in braccio una tira che pareva un pargoletto.

— Se crede si facciamo compagnia, mi disse un galantuomo che passava, anch'io ho bisogno di pane.

— Mo ben volentieri, aggiungo io, cossì si facciamo compagnia.

Quando siamo fuvori, il mio amico mi dice:

— Io ci debbo confidarci un segreto, che neanche l'aria lo sa.

— Facci conto di parlare con quella muraglia che lì.

— Sappia che lo sciopero durerà chissà quanto, e purtroppo finiremo per morire tutti di fame!!

— Mo lui scherza! a fazz me, che mi veniva in mente la vignetta del sig. Conte Ugolini.

— Scherzo?! Vedrà bene! Mo ci conta sopra lei alla Borsa?

— Oh Dio! per quel poco che cè dentro...

— Parlo del pane che oggi vendono là.

— Ah, non crede che duri?

— Ma che! adesso se va là non ne trova più neanche un grostino, ed è finito per sempre!

— Mo sa che lei mi fa pavura sul serio — se dovessimo morire di fame, mi dispiacerebbe.

— Non abbia pavura che sono qua io. Sappia che io ho modo in tutta secretezza di farci avere il pane vitta natural durante, ma a patto che non lo dichi con nessuno che sarei compromesso.

— S'accomodi, a fazz me sòuvra pensir — stia certo che l'è l'istèss ch'al dscòrra con un fittòn, come sopra.

— Bene dunque: lei riceverà sino a casa giornalmente il pane che ci occorre pei suvoi bisogni, di ottima qualità e sino che dicca basta.

— Ma lei è il nostro salvatore. L'averto che per la Lucrezia ci vuole di quello tenero perchè l' ha pers, ha smarriti, diversi denti.

— Non dubiti che sarà servito. E quando ce ne abisogna al giorno?

— Oh, siamo in tre, compresa la figlia che il nervino ci toglie l'apetito, sicchè con 3 soldi campiamo tutta la giornata.

— Va bene, mi favorischi il suvo indirizzo e l'ora del pasto...

— Vicolo Tentinaga, n. 3, colazione alle 12, pranzo alle 6.

— Benone. Adesso lei mi anticipa 5 franchi e accosì si assicura il vitto per un mese. — Lasci pure che vengano tutti i scioperi.

— O comme ci sono obbligato, che garbata persona. E così dicendo ci consegno un buvono da 5 franchi, che in quel momento, non mi vergogno a dircelo, era tutta la mia sostanza; mo boschera! si trattava d'assicurarsi l'esistenza e non si poteva far di meno!

— E, dissi poi io: per oggi comme faccio, chè a casa m'aspettano colla spesa?!

— Non ci pensi, che fra mezz'ora riceveranno il pane pattovito, e così di seguito... mo mi raccomando che non dichi che ce lo finisco, potrei andare incontro a dispiaceri, lui mi capisce!

— Lo capisco tanto che ci sono finitamente obbligato, e arrivedersi.

Lui gentilmente mi striccò la mano e io pian piano me ne andai verso casa, guardando con aria di compassione, tùtt quî dsgrazià che correvano alla Borsa a cumprar èl pan — anzi trovai la serva degli aquilini che stanno lì disopra e a fazz a degh:

Ohi Carolina, duv curriv con qla speinta?!

E lî, che parla il taliano la fa: — Mi tocca di andare fino in Palazzo che dice che cè il pane...

Io mi gettai a riddere e ci feci vedere il fazzoletto della spesa vuvoto.

— Comme non ne ha aritrovato?!

— Mah! Io spero che me lo portino fino a casa...

Quella matazola si mise a riddere anche lei, dicendo: Il sig. Pierino ne ha sempre delle fresche... e via che scappò.

Allora capî la fortuna che avevo avuto e quant a fo a casa, quelle donne mi vennero incontro: Babbo ai preso i radicci pel canerino?! e il latte, e la bistecca per la nemìa e io senza parlare distendo il fazzolettino vuvoto come il cielo l'aveva creato!

Eh! quell donn!! non è possibile descrivere lo strillo che fecero!

— Mo t'arà pers èl giudezzi!! Dseva la Lucrezia che si sentiva la languidezza e che aveva la cogomina del caffè di janda in bollorre.

— Ah! babbo, io vengo meno dal finimento di stomaco, ripeteva la povera Ergia, che aspettava il latte munto dalla bestia; un soldo ci dura quattro giorni.

— Calma, calma, faccio io, perchè grazie al cielo siamo tutti di carne, e se faccio senza io che sono il capo di casa, a crèdd che per un giorno potiate fare altrettanto.

E qui ci venni a spiegare tutta la faccenda della sventura cittadina dello sciopero e del pane nella Borsa e della minaccia di morir di fame.

E l'Ergia andava dicendo: Ebbene se non c'era pane, perchè non hai comprato il resto...

— Del Carlino, a fazz me, per tenerla ilare...

Ma lei che ha la nervalgia, e si arabisce per niente, grida:

— Io dicco perchè se non c'era pane non hai preso altre vettovaglie?!

— Perchè cara mia, se mi lasciaste parlare, quando parlo, sapreste che per assicurarci la vitta in questi giorni il quale molti saranno costretti a morir di fame, io ho speso i 5 franchi...

— Senza portare a casa neppure una festucca di cibo?! Esclamò l'Ergia indignata in causa dei finimenti che ne soffre molto.

— Se hai pazienza, vedrai che avremo il pane fresco e abbondante...

— Chi lo deve portare?!

Allora raccontai tutta la storia di quel dabben uomo, che ci aveva salvati da sicura morte, e la mia previdenza nell'assicurare il pane per un mese.

— E comme si chiama questo vomo?! mi domanda la mî ragazzola, che è furba più dei sette furbi!

— Oh, questo mo non ce l'ho domandato — mo adesso quanto viene a portare la razione di oggi, ce lo domando subito.

E qui si dà la fatale combinazione, che si muove la sbadiglieria in famiglia.

L'avranno provato anche loro, che quant'uno comincia l'altro attacca e così di seguito sino alla settima generazione.

E d'altra banda non ci poteva darci torto, l'era da quell'altro giorno alle 6 che an aveven guastà, sciupato, il digiuno, e un po' di fame si faceva sentire.

— Come tarda! Andava digand l'Ergia fra un sbadacc e ql'alter!

— A cminzipièin mal, dseva la Lucrezia, la puntuvalità è la prelogativa dei Sovrani...

— Però spendere tutte le 5 lire hai fatto male.., cossa si mangia poi col pane!

— Mo fiola mî! e grazia che ci sia questo, che l'è il capo senziale. Èl pan sùtt al fa i bî pùtt!

— Mo se non cè neppur questo!

— Abbi pazienza che arriverà...

················

È già notte, e an s'è vest endson!!! Il languore è al colmo...

All'Ergia cè venuto uno smalvino. Li abbiamo dato da nasare dell'aceto romantico, che ci regalò un modenese... Dà qualche lontano segno di vitta...

Si vedde che quel galantuomo ha perduto l'indirizzo!

L'Ergia fa un urlo improvviso che ci fa venire la pelle ochina a tutta la famiglia:

— Babbo, avrei fame!

— Ah fiola mî, anch'io — ma se non si vede: chi ne ha la colpa?...

Anche a io comincia a capogirare la testa dalla debolezza... le mie donne fanno già carozino, la vista si infusca; sempre più mi sento venir meno!...

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dall' Ehi! ch'al scusa... all'Esposizione, 18 agosto 1888.

LA CROCE DEL POTERE[19]

Ah! l'aveva pur rasòn èl poveta quand al scriveva:

«Non è il mondan romor altro che un vento che esce ora da questo ora da quello e muta nome perchè muta il lato!»

Basta am la sòn cavà, com dseva quèl ch'aveva la pirocca, e ne ringrazio il cielo.

An capess davèira, come vi siano di quelli che abbiano l'ambenzione di dire salisco in alto, sono potente... ma io preferisco d'essere impotente e di starmene da bass, se per star sù, an s'ha da seinter che dl'amarèzza, come dseva quèl ch' bveva èl lègn squassi!

Loro hanno già capito che am sòn artirà dalla carica che gentilmente i m'aveven favurè, e che se la tenghino pure tutta per loro, che me ai n'ho avò sagg e caparra... Mo, comme dicevo colle mie donne quand a j eren lè a magnar quèl bcòn da dsnar, dovve è quella beata libertà di dire faccio quel che mi pare e nessuno ci guarda? Invezi, non cè essere più sindacato d'un sendich!

Alla matteina la Lucrezia, andava natoralmente col suvo cabà a far la spesa e tùtt i zercaven di appiccicarci la roba più iniqua che fosse nel mercato! Sono arrivati perfino a venderci del pesse di due settimane primma, che quant la veins a casa al pars che ci venisse il colera... e quant me andò a spalancar el fnèster dal lâ dla piazza, al fo un urel di gioia per parte dei negozianti sottoposti, ch'j urlaven: èl sendich l'ha la banda in casa!

La povra Lucrezia, d'altra part, non ne aveva colpa, perchè nel parto d'Ergia perdette l'uso del naso, che se può andar bene fenna che a s'ha i bambini piccoli, al dvéinta una dsgrazia, comme nel caso attovale, quand si deve acquistare una partida ed pèss!

E queste schernie che dimostrano la baseza dei miei incrati suditi, sono uova e zucchero, in paragòn delle calunnie il quale mi hanno fatto segno da tùtt i lâ. Per darcene una edea smorta, pallida, basta che ci dichi che per l'affare d'aver inavgurato i becchi del gas, mi dicevano: èl sendich di becch, e una note lo venero a scrivere nei muri del Monicipio col pane di gesso.

E questa guerra sorda, per fortuna suva, che almanch non sentiva le ingiurie che mi dicevano, l'am era stà dichiarà dagli impiegati del Comune, i quali lasciati in balìa di loro stessi, dai miei successori baroni, bisògna direl, venuti primma di me, ci dava fastidi che me a fùss andà là, coll'animo liberato di fare il suvo dovere e togliere j abus, gli abuchi, che cè n'erano sine fidicente.

Per esempio, j aveven numinà medico condotto, che nessuno poi conduceva, ùn che aveva studiato da ingeniere... di modo tale che io mi credetti in obligo d'intervenire.

Premma però di domandarci che mi mostrasse il deploma medicinale, a ciamò l'impiegato dello Stato Civile, che al s' fava vèdder ogni sette o otto giorni, per sapere quanti morti si avevano...

Prese tempo una settimana perchè era in aretratto, e perchè lavorando in casa, èl ragazzol ci aveva portato via qualche nato e due o tre decessi.

Cossa arêni fatt lòur? Me an al so, mo per parte mia ci aggiunsi ed purtar sùbit tutta la popolazione in Comune e a mettersi subito in corrente, tant da psèir savèir, se non preciso, almanch un zirca, i morti dentro l'anno.

Infatti doppo quindici giorni am purtò una carteina, dov risultava che a lui non risultava nessun morto, però aveva sentito a dire che nel cimitero era stà suplè un omarino, che infatti non si vedeva più a girare per il paiese.

Stabilito quindi su dati statitici che la mortalità non c'era, an vols più vèdder alter e dissi all'ingeniere che rimanesse pure al suvo posto, che fava benone.

Il dazio di sportazione per esempio, non era micca osservato. Tanti donn passaven con la sô brava sporta, e nessuno ci guardava dentro.

A ciamò el guardi daziari e a li amunè; non l'avessi mai fatto! Im saltonn a j ucc' comme duve galletti, esclamando che la sua spezione l'era quèlla di badare ch'in purtassen dèinter di bû viv e delle castellate, e che l'era inùtil guardar al donn nella sporta come sopra.

Mo negli altri siti, comme ci dicevo io, i spunciòunen, punzecchiano, fino i carri del lettame per vèdder che a n'i foss tramèzz, soja me, un rifreddo, o una pasta margheritta, e qui invece danno dei calci idraulici, per vî' d dèl moj ch'j è atach ai stival, a delle sorcenti inesorabili di ricchezza mobile, mo è per quello che siete così in bolletta, e se non vi decidete di fare il fisco anche qui, avrete la bancarotta, com è quèlli del scol comunal, che non cè n'è una che stia più insieme, tanto sono sguinguagnate. Pensate che sono appunto i fischi, l'ultima espressione della vera libertà.

Questo io lo dicevo nel Consiglio Comunale, mo i cunsîr favano orecchi da mercanti, perchè j eren giùst mercant, uno da porci all'ingrosso, ne comprava uno d'ammazzar in dòu volt per averlo sempre fresco, un'alter commerciava in erbagg, mazz ed sulfen, fava mareina, spazzareinn, una specie di bottegajo e quindi quella cossa di dire del dazio ci dava fastidio — e j aveven propost di metterlo, con un articolo che esclodesse i consilieri e gli accessori comunali — e non il Sindaco? a fazz me, dando un pugno sù int la tavla, ma dice uno, lui è estero, non è dei nostri, quindi deve pagare. Capessni che belle edee di govismo di dire a noi sì, a lui no?

Mo, non avevano micca da fare con un subiol, con un flauto, io dissi: mettiamola ai voti, lòur erano duve e i messen int la pgnatta, che favo servire per urna, un fagioleto bianco caduno e me, ne gettai un pugno neri, e quant si fu allo scrotinio di lista, c'era 27 di maggioranza contro duve.

Loro dissero che non era giusta, ma io risposi che nei grandi centri si fa accosì, e i s' messen quiet. Èl purtir al sguazzò perchè, doppo il voto, al s' fe la mnèstra... che era cellente.

Un nuovo cespite di risorsa comunale che avevo pensato di metter su, l'era quèl della Società vespasiana, che essendo un paese convulsivo piuttosto, si potevano fare ottimi affari, mo per farmi dell'opposizione anche in questo, i cminzipionn a tirar in ball i calcol che sono i nemici di tali industrie.

Da qui hanno da capir che strazz, che cencio di una babilogna a m'era andà a tirar adoss; e che an me pseva aritrovar bene. Aggiunghino, per piacere, l'aria che non conferiva alla famiglia, che a j era la mî Ergia che sèimper l'am piulava, mi piallava, perchè la conducessi nel villino, dsevla lî, che ci aveva detto che era nei pressi d'Ùngia ed toch, perchè fra quelle mura telluriche non mi ci si posso veddere, puvreina! La casa poi si capiva che era fatta di fresco, tant es sintêvel a stari dèinter, con un umido, che ci siamo presi tutti dei dolori romantici che l'è un piacere. Dal lato dell'interesse non è possibile che me la cavi, com dseva la Lucrezia che per la colomia domestica l'è nada a posta. E cossa doveva star a fare allora? Ci fù un momento che al pareva che alla ragazza ci fosse capitato un partito, mo sul più bello, l'era partito davèira e lei, poverina, ci venne il magone, come d'uso, che pianse amaramente e disse: babbo, babbo involiamoci da queste mura, che non ci hanno dato che dei dolori tanto interni che di fuori!

Sapendo che i miei buoni amici dell'Ehi! ch'al scusa... mi avrebbero sempre ripreso di nuovo con essi, gettai il manico dietro l'accetta e accettai i consigli delle mie donne, abbandonando l'ingrata unghia tacchina e tornando alla mî Bulògna e nel camerone. È vero che sono senza casa, ma la trovarò; la mî Ergia è feliz, la Lucrezia anche, dunque mettiamosi tranquilli e speriamo in venti migliori.

Io poi ci scrivo tutto questo perchè am indspiasrè che i signori dla Gazzètta d'Ùngia ed Toch[20] dovessero menarsi il vanto di dire che sono essi che mi hanno tronizato, perchè non è vero. Si persuadino pure che non mi hanno fatto nè caldo nè freddo. Quel suo organo l'era propri sèinza cann... e se i consir non venivano alle sedute, che tanti volt ho dovuto deliberare io e l'Ergia che fava da segretario, se non si pagano le imposte, che giustamente dicano che non le hanno nelle sue finestre, se gli impiegati comunali in van mai all'uffezzi, se il dazio delle bestie viene mangiato dai cristiani, questo è usanza del paiese, e brisa frut di quel giornaletto, che mi fava compassione e nient'altro.

Am sòn artirà, l'è vèira, ma pr' èl frèdd, pel nervino dell'Ergia, per la mancanza di mezzi, ma non perchè abbia avuto pavura di quegli attacchi poverili.

Torno dunque fra voi a fare il vomo pubblico, ben felice di non essere più al potere che tanti disicanni e amarezze mi ha procurato.

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 3 marzo 1888.

GIURÌ PEL VINO (ESPOSIZIONE DI BOLOGNA 1888)

E natoralmente acetai, trattandosi di vino. Dichino pure la verità, non avrebbero acetato anche loro nei miei pagni?

La lettra la dseva: «Lei è invitato a far parte del giurì che deve giudicare sulla bontà delle bevande vinose, alcovoliche ed arti affini».

Non so comme quei signori del comitato âven savò che nella bevanda non mi tiro indietro, ma po che sia compatente in materia, questo non potrei giurarlo. Sicuro che se uno mi presenta ex abruto un bicchiere esclamando: È nero o bianco? Ci rispondo di sì o di no conforme il caso. Basta, è stata una prova di stimma e li ringrazio tanto.

L'altro giorno abbiamo avuto la seduta preparatoria e abbiamo parlato a lungo sòuvra ai biron, che ve ne sono di diverse dimensioni e io dissi una materiolina che fu piaciuta dagli intervenuti; a fazz a degh: Sti biron, che siano mo parenti dèl famòus lord Biron, il poveta inglese?! Per me del resto il più bel sistema di birone è quello che passa il recipiente da parte a parte e, con una caveccia, si assicura dall'altra banda.

Poi pasasimo a oservare i bovinelli e le salvavine, che fanno parte delle arti affini perchè sono l'agnello di congiunzione, comme diceva giustamente un giurì che mi era vicino, fra il liquido esteriore e il recipiente, che va dalla zucca dell'acqua rinfrescativa sino a delle botti accosì grandi che cè fino l'uscio per andarci dentro. Anzi io feci l'osservazione dell'inconveniente di uno ch' se dscurdass l'ùss avert quando cè il vino dentro, e si prese nota per fare l'abiezione al fabricatore. Io ci misi dentro la testa e non vedendoci perchè era buio, esclamai: botte da orbi! comme dice l'averbio. Anche questa riflessione fece efetto e pasasimo ai turacci e bigonzi, tutte cosse che hanno enologia fra di loro e che dicevano: per sapere l'enologia bisogna avèir fatt di studi spezial, farmacisti, ma io lo nego, perchè basta il buvon senso di dire: questo è compagno di questo o si arvisa... ecco che l'è enologich... l'è tant ciar! com dseva quèl ch' bveva dèl brod d'ustarì!

Doppo dessimo un'occhiata al pòndghi, ossia sorcie di vetro, quelle che servano per i travasi che si succhia il vino dalla damigiana per passarlo in un'altra bottiglia, senza bisogno di prenderla per la pancia e rivoltarla, che cè il caso che si sfondi mentre il deposito si dibatte, che è poi per quello che il vino diventa nuvolo e s'intorbidisce... e quanto si va per berlo o fa le filacce o ha preso il punto, che è poi per quello che i toscani dicono: non mi piace punto, e hanno ragione.

Dietro le sorcie, si portarono da esaminare quelle altre trombe di latta e quelle di gottaperca che sono le più comode perchè si possono portare anch'in bisacca, un bisogno che uno vadi via a pranzo o vogli bere sèinza tôr sù la butteglia, che ci mette dentro la suva brava canna e sugge quanto ci pare.

Io proposi il premio e venne approvato alla unanimità di tre voti contro sette contrari che votarono per la pòndga di vetro comme sopra.

A dir il vero però a cminzipiava averne piene le tasche di tutti questi assessori, perchè per me quando il vino è buvono e sia mantenuto in recipienti senza fondo, ossia che non facci il testo nella botte, che sia poi dentro a un zuccone o a un fiasco, per me è lo stesso.

Ed infatti entrasimo nella stanza dovve c'era una gran tavola tutta carica di bottiglie, con dei piatti d'olive salate, che è la mia passione tanto mi piaciono, e diversi inservienti con un casetto di tirabusoni, che anche quelli erano da sperimentare e cossì dicasi dei bicchieri che ce n'erano dei grandi e dei piccoli, di quelli verdi per chi soffre di male agli occhi, degli altri rossi per far credere che si beve vino anche quando cè l'acqua e per togliere la vista disgustosa delle mosche che ci cascano dentro.

Dei tirabusoni poi ve ne sono dei graziosissimi. Vi sono quelli che s'introducono senza romper niente coi busanini nella punta che va a pescare nel vino e lo fa venir fuori di sopra e doppo si levano via e si chiude la perforazione con della cera compagna a quella che è intorno al toraciolo, e pare impossibile che si sia già bevuto.

Quello lì serve per i serventi che vogliono bere i vini navigati, senza che i padroni se ne accorghino.

Cè quell'altro che si attacca con due catene al soffitto doppo averlo introdotto nel suvero, poi l'individuo ci si attacca di peso alla bottiglia e giù, punf!

I più semplici erano quelli pei vini spumanti, che non c'erano, perchè il turaciolo salta via da sè.

Quando avessimo finito, assegnando il premio a questi ultimi, ci mettessimo a sedere intorno alla tavola e gli inservienti allòura si fecero avanti e i messen al col a ognuno dei membri, un cartèl con nome, cognome e indirizzo per poter sapere poi dov i s'aveven da purtar, il quale l'ho poi capito doppo, perchè nel momento credetti fosse uso nelle commissioni, per tenere quell'ordine di dire che uno non si debba confondersi con un altro.

Il signor Presidente diede il segnale dichiarando che pr'incû, allora era incû, ma adesso sarebbe un altro giorno, si sarebbero saggiati quattordici fatta di vino, tutte della stessa famiglia e arti affini.

E per fare il parangone di dire questo è più buvono di quello lì bisognava, diceva il signor Presidente, berle tutte 14 in una volta colla divisoria di duve olive cadauna per rimettere il senso palatino allo stato ormale.

E qui cominciò l'assaggio, e uno che ci piaceva dolce diceva: Come è buvono! e quell'altro: Buvono! È una melagna, a me piace il vino grosso di quello che, con rispetto, uccide i vermini ed è stomachevole.

Allora nacquero le diatride perchè dicevano che il giudizio an s'ha brisa da basar sull'amore del vino, ma sulla qualità; che ve ne puvò essere del grosso che abbia meno forza di quello che ha l'uno e l'altro, e cossì per il colore che certuni dicevano il nero non mi piace, invece un altro non ci piaceva il bianco.

Intanto però o nero o bianco, o grosso o sottile, qui si beveva giù a cariolino scoperto... e sebbene in origine fossimo stranieri l'uno per l'altro, fatta cezione per quelli che si conoscevano primma, cominciassimo a prendersi della confidenza e a dire delle materioline uno con l'altro, sicchè un signore vicino a me che aveva vuotato tutti i quattordici bicchieri, mi arrivò all'improvviso uno scopazzone sul ginnasio che aveva il permesso di tenerlo causa la caduta dei capelli.

A dir la verità am n'indspiasè perchè era un ginnasio quasi nuovo, lùster col mio sistema, che quanto è unto sino a metà lo faccio ungere sino in cima, accosì non si capisce più niente; ma il signor Presidente che fava degli omarini sù int la tavla, bagnand el dida nei bicchieri, si gettò a ridere comme un mantecato, e disse: Stia tranquillo che un bel cappello ce lo faccio dare dal Comitato: ne hanno presi tanti!

Io lo ringraziai commosso perchè il vino mi rende tènder d' piccaja, di attacagnolo, e si seguitò a bere.

Il segretario che doveva fare il verbale della seduta, al s' diverteva a tirare nel naso agli intervenuti le anime d'oliva, e beveva senza tener nota del parere che si diceva.

A poch a poch, e bèv e bèv, cominciassimo ad esilerarsi e intonassimo il coro: O fosco cielo, la notte bruna... accompagnandosi con i pugni sulla tavola, che faceva scodociare i bicchieri e le bottiglie.

Gli inservienti, che avevano bevuto a sorci il collo delle bottiglie che andavano distoppando, si erano esilerati anche loro e ce n'era uno che arrivava dei copponi al signor Presidente, che si era fatto un cappello col regolamento della giuria, e cantava a squarzagola.

Un altro si era estratto la uniforme e cossì in busto di maniche diceva che era Ziotti e giocava al ballone colle bottiglie di vino, insomma bisogna dire che l'unica etichetta che fosse rimasta, era quella incolà nel ventre delle medesime.

E qui si seguitava a bere e a mangiare le olive, io a dire proprio la verità non avevo fatto colazione, perchè credevo che ci fosse lì — perchè a pinsava che mentre si mangia un boccone si beve il vino, e cossì ci sembrerà più saporito — laonde nel mio stomaco c'era appena appena un caffè col latte, senza bagnarci niente dentro, e con èl stomgh acsè vud, tutto quel vino di diverse qualità più le olive, mi fece una brutta burla, cioè che mi girava la testa che a pareva sù int la giostra.

Tùtt j urlaven, sèinza avèir mai fatt j urladur, e insòmma al pareva, brisa l'ultum dè dèl giudezzi, mo ql'alter sùbit quant dèl giudezzi a n'i n'è propri più.

E que il giramento seguitava, sicchè mi tenevo duro alla tavola, mentre gli inservienti favano la corsa dintòuren, e anche loro retribuivano a far crescere il giramento, sicchè am veins una spezia d'un vèil, di una trina, dinanz a j ucc' e confesso che non capii più niente.

················

Dop dû dè am dsdò e mi trovai nel suo letto circondato dalle cure della famiglia, che mi disse che mi avevano condotto a casa cargà int un fiacher, assistito da due inservienti che dissero d'avèirum truvà int la mùccia, ch' s'era furmà sotto la tavola in unione al signor Presidente, e fortuna che ci erano i cartellini colle annotazioni, altrimenti chissà dove andavamo a finire. Mi dicano quelle donne che stettero in pena perchè a pareva un zoch e ci toccò perfino di estrarmi le scarpe, con rispetto dei lettori gentilissimi; sicchè si temeva d'un colpo popletico.

Ma poi si consolarono quant am mess a cantar: Eri tu che bagnavi quell'angolo...

Domani si aduniamo per dare il voto, non ai bicchieri, ma proprio a quelli che sono già stati stabiliti di darcelo, dovve non si sa, ma pare nel salone dei concerti.

Non ci nascondo che a sòn sbumbanà, mi fanno male le ossa, ho la bocca che sembra un pantano. Ma cossa sarà stato? Èl sgner duttòur dice che fossero le olive che ci hanno fatto male, ma me a ritein invezi che sia stato quel po' di vino a stomaco vuvoto.

Basta all'avèin scappà, l'abbiamo fuggita, e sia ringraziato il cielo.

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dall' Ehi! ch'al scusa... all'Esposizione, 4 settembre 1888.

DALLE RIVE DEL GOLISEO

(ÈL SGNER PIREIN A RÒMMA)

IMPRESIONI ROMANE

Romma 23 giugno 1889.

... Chi lo avrebbe detto l'anno pasato che io ero a Bologna senza nessuna edea di dire vado via, e invece quest'anno che sono qui all'ombra del goliseo, comme dicano, ma che non è micca vero, perchè invece cè un sole che si cuciscono le ova in bisacca, a quelli che le avessero ben inteso.

La Lucrezia poveretta da para suva, si climatiza abastanza, non accosì l'Ergia, che ha sempre l'agitazione di dire che passano gli anni e sono sempre qui, e quanto poi sente che qualche signorina si è fatta alla sposa, colle compartecipazioni tutte indorate a diversi colori, ci torna la tosse nervina, che il professore dice che non è niente e ci ordina la noce vomica, e non ha micca tuti i torti perchè si diventa anzianete condanate a stare collo scaldino vicino al fuvoco comme quel cane che va a dormire sul casonzino dalla legna da bruciare con dei gnicchi che pare un omarino vero.

Non ci starò a descrivere le belezze della città dei Cesari Lugli[21] che lo vedo sempre che fa il calegino e il giovinotto perchè già lui le conosce che vi sono dei marmori e delle stoccature che le danno anche qui che bisogna provare per crederlo. Quando si va dentro si dice: è tutto qui? Ma poi basta misurare gli spargolini dall'acqua santa per dire che strazz d'una cisa, che cencio di una chiesa! Quando si viene fuvori i duve fontanoni che primma si vedevano davanti si vedano didietro che fanno l'acqua polverizata e cossì quelli che per la meraviglia restano a bocca aperta fanno le nalazioni a gratis e nel mezo cè una punta di macigno con dei gerolifici che sono belli perchè nessuno li capisce.

Su per la scalinata vi sono dei nidi di ciucciari vomini, donne e piccolini che diccono che sono lì per beleza perchè sono artistichi e quanto più sono sporchi, e più di accosì non si potrebbe, tanto più sono artistichi, e che viene ad essere comme la corconzola, il quale dicano che con più cè la muffa e i bigattini tanto più è buvona, ma io primma ci vorrei dare la santonina. Non ci pare?

In quanto alle donne che si veddono, io ci guardo poco perchè la Lucrezia è celosa, ma sono fatte senza colomia e i neonati posono dire: va là mònd ch'a t'ho gudò, perchè sembrano proprio i macamondi di dire questa è l'Africa e questa è l'America, quella che lì la via lattea e via discorrendo.

I mezzi di trasporto sono infiniti e gli omnis che per tre soldi vi conducano a spaso per delle mezze ore intere, siccome si va su e giù, così ora vi sono quattro cavalli, ora tre, ora duve e ora si potrebbe fare anche con nessuno, ciovè nelle disese che si andrebbe anche senza tirare nessuno.

E la cirandola? Che la chiamano accosì per fare dei complimenti, comme quando si invita a pranzo che si dice vieni a mangiare una suppa e poi invece vi sono i tortellini e tante buvone piatanze, lo stesso ci diccono una cirandola, eppoi sono dei più bei fuvochi con un palazzo fatto a forza di luce che si resta inochiti per venti minuti circa.

Ma io ci vengo a contare delle cosse che lei sa benissimo, mentre èl scopi di questa lettera era quello di farci tanti auguri di felicità, prosit, grazie e... tersuà a lòur sgnòuri.

Da una lettera gentilmente comunicata dalla signora Margherita Buldrini vedova Orlandi.

TRASLOCO INFAVSTO!

Caro signor Derettore,

Romma, 10 maggio 1892.

Anche che a lui non c'importi, io desidero di dirci che sono infranto, scoraciato, causa quanto segue.

Comme saprà qui non vi sono i sanmicheli propriamente detti, comme si usa nella mia cara Bologna dove l'otto maggio squasi tutti i mobili petroniani fanno una specie di primo suddetto, scendendo nella strada comme un sol vomo, a zigar sulle barelle, spesso feriti a morte, con el gamb ròtti o la pelle scuargiata, mentre gli uni saliscano, gli altri discendano, e spesso ruzzolano giù dalle scale, e i più cattivi sebbèin che j lighen com è salam, hanno il coraggio ed scapar vî dalla broza, e spacarsi il cranio sui sassi, comme mi successe una volta con ùn ed qui Napoleon prem ed zèss che un facchino anarchico, aveva mess a mia insaputa in zemma al carr, sotto cui, am arcord, ligà una caldareina che con melanconico dondolìo, secondava i sussulti del veicolo, rimpiangendo forse l'abbandonato ramponzino nella vecchia cucina, e spaventata sull'ignoto avvenire.

Bèin, questo stupendo spettacolo: una delle manifestazioni più simpatiche della intelligenza bolognese che dice: ah! tu cambi domicilio? ma lo voglio cambiare anch'io e nello stesso giorno..., accosì non sarà tanto facile trovare i vomini e i veicoli pratici della partita; e spenderemo un occhio della testa (del resto di occhi, propriamente detti, non ne ho mai visti che lì!) perchè giustamente, vogliono quel che vogliono e ricoreremo ai carri coi buvoi rurali, che, molti esperti a caricare delle canape, non sanno poi mettere su un canapè e succede non di rado che i metten di spicc' in fònd al carr, e sòuvra j armari e i cumà, con quale egatombe è facile figurarsi se si sa la fracilità della cristalleria in genere; bèin, questo stupendo spettaculo non si puvò gustare nella città dei Cesari... dovve: tremendo egheggierà, comme diceva la Norma presentendo forse lo scoppio della polveriera[22].

*

Ma turnand a Bulògna, dovve mette lei, sgner Derettòur, l'emozione che si prova in questa gran giornata, quant a mèzzdè non si sono potute avere ancora le chiavi del nuovo appartamento, perchè gli aquilini, si sono bistigiati col padrone di casa, che aveva la strana pretesa di voler la ratta di fitto e per farci dispetto, si tengono le chiavi suddette, e la fanno con me, nuovo arrivato, che non ce ne ho nè colpa nè peccato, come si suol dirsi, costringendomi a tenere il mobilio imobile sopra il carro, magari sotto la sferza della pioggia, che non so poi percossa abbiano dato la sferza al sole, mentre mi pare che la vera sferza l'abbia l'acqua che viene giù che sembrano proprio tanti curdseini d'arzèint.

D'altronde l'ott ed mazz, che piovi, nevichi o tempesti, an j è rimedi, bisogna andarsene a spass colle zangatoline famigliari, mostrando a tutti le proprie miserie, depositandole magari sotto un portico, se non si potè trovare il buco che vi convenisse, pagando prima, s'intende, perchè giustamente i proprietari non sanno disgrazie e dicono: una volta dèinter chi si è visto si è visto!...

Qui a Romma invece che è la capitale del Regno, si cambia casa comme i Ministeri quando si vuole, talchè nel cuvore della notte, si vedono dei Sanmicheli... di gente che per non incomodare nessuno se lo fa da sè, e così procurano al padrone di casa un quarto d'ora o anche 22 minuti di buon umore, quando la mattina trova sulla scala la chiave di un quartiere dal quale doveva avere il fitto di duve mesi, perfettamente vuoto, e senza aver modo di seguire le orme dei pazzarelli che ci fecero la burla, perchè, natoralmente, avevano dato un nome e cognome falso comme quasi dicessi j urcein che indossa la mî Ergiola, e d'altra banda dovve cercarli nella vastità di Romma che si sta dei mesi senza incontrarsi l'uno coll'altro? Ma l'affare delle picioni scadibili di mese in mese ha dei vantaggi che una persona d'ingegno può rilevare di leggieri. Pr'esèimpi, a Bologna si capita in una casa dovve la cocina ritiene il fummo e nosignore che bisogna stare per un anno a far la vitta di bucchein ed spomma o di persùtt ed Vignola, mentre qui as tôl sù arum e bagai e si va dovve ci sia una cocina più ragionevole e che facci il suvo dovere.

Per questa facilità dei trasporti che si verificano ogni giorno, vi sono delle società di fattorini pubblici, pratici di smaneggiare il mobilio, e così anche che lo rompino, si può accomodare facilmente.

················

A me successe che per lo scoppio della polveriera si ruppero i cristalli della finestra davanti che per fortuna, erano di carta. Il padrone col pretesto della forza maggiore, non volle saperne di rimetterceli del suvo e diceva che toccava a me, io invece sostenevo che toccava a lui, basandum, baciandomi, sul concetto, che lo scoppio di una polveriera non è cossa che succeda proprio tutti i giorni e che nessuno poteva prevvedere primma che succedesse, dunque per stretta locica, comme disse un avvocato che interpellai, doveva pensarci lui... e lui forse ci pensava, ma un bel pensier non fu mai un lastrone! comme dissi io per far la materiolina, e doppo che ci fummo presi un bel mamone per cadauno, io, la Lucrezia e la mî cara Ergia, dormendo sòul con i tlar che tengono poco, disdissi regolarmente il contratto e fermai un bel quartierino al primo piano, cominciando dal disopra, in via: Testa spaccata che, comme sa, rimane vicino a via Macel dei Corvi, nomi di strade che fanno venire la pelle ochina e vi fanno pensare a duve appendici del Secolo o a duve drammi di Ulisse Barbieri, invece sono le strade più pacifiche e più... sporche della vecchia Romma, amess che la Romma giovane sia meno sudicia di quella che là.

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Il quartierino fava al caso nostro e io lo fisai, depositando duve mesi di picione, e pagando all'esattore incaricato dal padrone, anche il primo mese anticipato comme si usa. Essendo vuoto, ai pseven andar a nostro bene placido, ma quel donn, per far le cosse in regola ci volero andare doppo un mese, cioè quanto cominciava il contratto. Allòura a tolsen due fattorini con una bèla brozza e combinai il prezzo, più un fiasco di vino per la suva buona grazia.

Il corteo era accosì composto: dinanz il caretto che uno tirava e quell'altro spingeva, comme si usa anche fra noi quando non vi sono asini, mulli o altri quadrupedi, con sopra il nostro mobilio, che contrariamente all'uso del paese, quel donn j aveven vlò spulvrar, mentre in generale, qui nei traslochi as porta vî incossa: el tèil ed ragn, la pòlver alta un dit sù int i armari, e perfino le tende le tolgono tal quali dalle finestre con i ridò, i fir e i curdon, nigher comme la fuga, e coi ragnetti ed altre bestioline, che scorazzano spaventate e spiacenti di dover faticare al nuovo domicilio a rifabricarsi la tela.

La mî Ergiola invece, contraria alla massima: «Paese che vai usanza che aritrovi» volle pulir tutto, e volle asistere al caricamento del caretto che comme dissi, apriva la marcia. Alla destra, a j era me, cun il Dvomo di Milano, di carta intaliata, dirò accosì, un mio errore di giovinezza al quale però ho afezione perchè am custò dla fadiga e otto soldi di gomma, che allora era di quella vera arabica, brisa com è quella d'adesso che as lècca, as lècca e l'è l'istèss che niente. La mî Ergia, puvreina, l'aveva in brazz la sô tulètta, coperta se vogliamo da un burazino il quale lasciava però che si vedessero le forme dell'oggetto in questione. La mî Lucrezia l'aveva dsfudrà una bursa ed pèll, che io a dir la verità an j aveva mai vesta, un aricordo di un suvo fratello morto in Russia congelato con Napoleone il grande, e ci aveva messo dentro le gioie della famiglia, poche e, per la maggior parte, matti, pazze, e in brazz da ql'altra banda l'aveva ùn ed qui bambinein ed zira che sembrano vivi, e che lei tiene caro perchè dice che assomiglia alla nostra Ergia quant l'era ceina.

················

Il tragitto dalla casa vecchia alla nuova era lungo e faticoso, èl sòul al scùttava e propri ed bèl mèzzdè si toccò di traversare la piazza dei cinquecento, che si chiama accosì perchè non cè mai un'anima. La Lucrezia avendo le mani ingombre non potette ripararsi coll'ombrellino da quel sole, che pareva di pasare la zona torbida, comme diccano i viaggiatori, o quando fummo all'ombra, s'imaginano mo? Il povero bambino era colato; la testina l'era arstà una balutteina tònda, che pareva il pomo d'un bastone, e il resto del corpo l'era andà in consumaziòn sicchè as vdeva èl fil ed fèr dello scheletro a trasparire. Non ci descrivo la disperazione d' qla povra dona, e la suva rabbia nel vedere che i fattorini, quella birichinella dell'Ergia ed i passanti, favano le più grasse risate per quella cera che se l'era fatta di cera, sotto la cappa del cielo.

Io la rincorai dicendoci che era meglio si fosse disfatto quel bambino che lì che la nostra cara figliola, e dietro questa giusta ed afettuosa riflessione non fece più lamenti e decise d'utilizzar la testina, comme ha fatto, pr'inzirar èl rèif da cuser.

Finalmente giungemmo alla meta e a cminzipiaven a dscargar, quant veins fora èl purtir, e con modi cortesi, perchè qui la cortesia è all'ordine del giorno, al fa, al dis:

— Che tu possa morir amazzato! o che ve salta la fantasia de portar qui sti stracci!

— Stracci?! a fazz me, mo prima di giudicare facci il piacere di guardar pulito. Sòul ste quader che è di buona mano...

A seinter a dscòrrer di buona mano si fece subito più dolce dicendo:

— Ma che vieni a far qui, sangue delli mortacci tui, che è tutto pieno!

— Tu hai voglia di scherzare, a degh me, tuland fora il mio bravo contratto di fitto...

E l'amico nel guardarci comincia a macellarsi dalle risa dicendo:

— Quello vale molto! L'è fatto dal sor Pagliacetti, l'esattore che è scappato col vostro e tanti altri depositi, e il padrone si è messo ad affittare per conto suvo e qui ora tutto è pieno...

Non ci nascondo che parve proprio che mi venisse un colpo!... ma pensi alla nostra situvazione?

Scusi bene, sgner Derettòur, cossa avrebbe fatto Lei, con buon rispetto, nei miei piedi?!

Lo sa lei? no?!... e neppure io!

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dall' È permesso?..., 15 maggio 1892.

ASSICURAZIONE «LA FONDIARIA»

Caressum sgner Derettòur

Romma, 25 agosto 1892.

Io se debbo dire la verità, alla teorì dla strèla, ci avevo sempre creduto poco, mo a veddere la continva seguela di disgrazie che mi succedono, succedendosi le une alle altre con una persistenza da mosca autunnale, ho dovuto convenire che sia nato sotto una stella inversa, che per quanto facci non riesco a malciparmi.

E senta se non ho ragione di dire accosì.

Ho fatto relazione con un mio compagno d'ufizio, un buvon omarino, che per sua grazia qualche volta m'invita a bere un bichirott, in casa suva colla famiglia, e si passa la sera in alegria.

Avevo visto che sul usio della casa sudetta c'era un cartellino di metallo inchiodato che diceva: La Fondiaria, e ci domandai cossa voleva dire, e lui mi spiegò che era l'assicurazione dei mobili contro l'incendio che se a lui ci fosse attaccato fuoco, al ciappava duve mila lire.

L'edea lì per lì mi piacque, poi an i pinsò più; quando l'altro mese, passand un merquel da Campo dei fiori, che sarebbe la piazzola della Capitale, mi viene sott'occhio in un banco d'un zavai un cartello preciso di quello che là... un po' sucido, ma polibile facilmente. Mi metto in trattative e con 30 centesimi me lo porto via e appena a casa me lo apigigo sul usio dopo averlo lustrato con del petrolio che stava benissimo.

L'Ergia era tutta contenta perchè diceva che ci dava dell'aria signorile, chè quei cartelli che lì, li aveva visti nelle case nobili.

La Lucrezia, che ha sempre avuto pavura del fuoco, al pùnt che quand la fo musgà da Tabarein, un cagnuolo di suva sorella, non ci fu verso che si volesse lasciare cicatrizzare, l'era tùtta feliz, finalmente siamo sicuri dagli incendi.

Credete mo alla ficacia di certi rimedi! adèss la va digand!! Sarà l'affare di 10 giorni fa, anzi era sera, e la mî Ergiola che ha duve mani più industriose della coda d'un castoro, aveva finito una portierina per l'usio del salottino, fatta con la tela d'impalaggio, che ci servì a coinvolgere le poche zangatoline quando si fece il trasbordo da Bologna alla Capitale, e sopra ci aveva aricamato con del cotone da calze e cose affini, di color sangue... diciamolo pure, ed purzèl, d'un effetto straordinario. D'intòuren c'era un melandro fatto accosì: bordo geometrico e nel mezzo un arlichein con una gambeina pr'aria, che pareva parlante.

Smaniosa di vedere l'effetto, la salta in pî int la scranna e soleva la purtireina dicendo: guardate che bellezza!

Non aveva finito il concetto del suvo discorso, che con un pidein la ciappa còntra a la tavla, il lume a petrolio di vetro s'arbalta rompendosi propri adoss alla coda della portierina che si trascinava per terra, le fiamme invadono il melandro e arlichein, la mî ragaza urlando comme un osesa lascia la preda e cade svenuta fra le braccia di suva madre che esclamava: Bel preservativo quèl cartlein! Ciarlatani, incantabess, questo è un incendio bell'e buono!

Lî, puvrètta, aveva inteso male la missione di quella Fondiaria, mo io invece, visto che il fogatino si era circoscritto in mèzz alla stanzia, e si limitava al tavolino e a una scranna mèzza dscalastrà, non mi perdetti d'animo e anzi a lassò correr fin che viddi che le fiamme si facevano alte, e allora con due secchi d'acqua... perchè poi secchi? a smurzò incossa lasciando intatte le macerie per la verifica, comme mi aveva insegnato il colega.

L'Ergia, puvreina, per lo spavento, fu presa dal solito delirio e diceva sempre: Voglio Arlecchino... Arde la Vampa... e tante altre cosse sconese.

All'atto pratico, io pensava, non dicco che mi diano duve mila lire, perchè il mobilio che si è bruciato non è molto, mo una buvona sometta è certo che me la danno, tenuto conto anche che non ho chiamato i vigili, perchè allòura l'era zert che andava pr'aria lo stabile intero.

Alla mattina appena in ufezzi, conto il fatto al colega che mi consiglia d'andar subito all'ufizio della Fondiaria, a denunciare la cossa perchè mandino la visita.

Difatti ci corro, e la prima cossa, mi domandano il nome dell'assicurato: Pietro Sbolenfi a servirli, a fazz me.

— Sbol! sbol! sbol? diceva l'impiegato sfogliando la rubrica.

— Da quanto tempo ha presa l'assicurazione?

— Saranno due settimane a Campo dei fiori...

— A Campo dei fiori? ed ha pagato il premio?

— Premio? nossignore, il prezzo patovito in 30 centesimi.

— Ma lei scherza?

— Scherzo? se viene a casa mia gliela faccio vedere! l'ho attaccata sopra l'usio...

— Ma quello non significa niente... caro lei!

— E i mobili che mi sono bruciati?

— Eh! non so che farci... e mettendosi a riddere come un pazzo am piantò lè!!

Io però non mi dò vinto; ed ho deciso di mettere la cossa nelle mani d'un avucat!

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dall' È permesso?..., 28 agosto 1892.

AMORE MODERNO

Nel fondo la Fedora, non sarebbe micca cattiva, ma sono i nervi, puvreina, che la fanno soffrire.

Lui era uno studente, e non esendo pasato all'esame, diede dei pugni al profesore di genastica, che avendoli presi tutti senza restituirli, si capì che non aveva capito lo scopo della materia che insegnava ciovè il pogilato, e lo licenziarono, poveretto, quasi accusato d'apropriazione indebita.

Lî poverina faceva la grestaia, e leggeva le apendici. Naturalmente si inamorarono a un Politeama Rappini di Romma... e, si sa bene, ragazzi che non hanno pratica, vennero a star lì, senza ocuparsi delle formalità che noi, vecchi del mestiere, faciamo col dire poi: è contento di sposare, ecc. ecc.

Sulle prime, nualter, non essendo pratici di questo genere d'amore, as ciapaven pora, la Lucrezia spezialmèint che diceva: — Mo Pierino, che diavel fani? anca nù a sèin sta spus zuven, mo non abbiamo mai fatto tant diavleri!

— Eh! allora non usavano i nervi, o a j era sòul quèl dèl sgner pader, che vi arrivava nella schiena quand an s' zerlava brisa pr' èl drett.

Erano continue scorrerie; scrann ch' vulaven pr'aria; culp ed revolver; urel; gemiti; rantoli; e, doppo una specie di assopimento generale, si sentivano venir giù dalle scale: — Questa è vitta! la dseva lî, se tu mi avessi a tradire colla Tosca, io uccido te, lei e poi me.

E lui ci rispondeva: — Ma tu non sai i deliri dei sensi; la sugestione dello spirito; la psigolocia di questo fremito che si invade!!

E accosì parlando, lù al sugava èl sangv, ch'i fava un sgranfgnott sòtta a un occ, e lî zercava ed cruvers èl nas che cominciava a far l'iride pr'un pogn ricevuto nei momenti in cui l'afetto era al colmo!

Una sira, l'era d'inveren, a vad a cà e nella penombra della scala am par ed vèdder un'òmbra a seder sui gradini della sucesiva, che singhiozzava borbottando: — Sei un mostro! eppur t'adoro!!

Fatta l'abitudine alle tenebre, riconosco la Fedora. Si sa, quando si ha la stofa del gentilvomo, anche che sia lèisa, la si sente sempre e, faccio, dicco:

— Scusi bene, ha forse perduta la chiave? a star lì accosì si prenderà un raffredore... se vuvole profittare, il mio tetto è a suva disposizione...

— Ah signore, se sapesse... non mi vuvol aprire, perchè dice che sono venuta a casa troppo tardi...

— Oh, si sa, a fagh me, ci vuvol altro, alle volte manca la coincidenza del trabai: e poi sa, noi vomini, abbiamo dei momenti di cattivo umore; bisogna compatirci. Guardi io, se per caso ho le scarpe strette, divento una vipera senza saperlo...

— Caro signore, lei vuvol confortarmi... ma ho l'animo esasperato; il cuore gonfio; lo spirito affranto... i nervi in convulsione...

— Se vuvole, la Lucrezia ci farà la camomilla, venghi dentro...

— Quanta bontà! quanta gentilezza! E nel dire accosì, poverina, la si alza su e mi getta le braccia al collo, arstand inschè come la lingua di Menelich quant a si soppia dèinter.

La Lucrezia che mi sentiva borbotare, la spalanca l'ùss, e non avezza ai tablò che adèss usano per chiudere i drami della vitta, la fa la dis: Vècc matt! Pèisa in cà sùbit!

— Mo Lucrezia, non vedi l'infelice che mi spenzola dal collo? Sùbit la camomella!!

Non avevo finito di pronunciare questa frase accosì calmante, che a seint trî, quater culp ed revolver e un forsenato che si precipitava dalle scale.

Lei, poverina, scossa da quel romore, scappa dèinter da no, e lui comincia naturalmente a darum di cazzut da cunfsiòn. La Lucrezia cerca di farmi scudo, mo lù al la ciapa per quel piccolo scodaino di capelli che ancora ci rimane e la getta per terra int èl premm sit. La Fedora, poverina, pratica della sitovazione, l'era andà a gattamion sòtta al lètt.

Quello che non fece quel vomo in casa nostra è impossibile descrivercelo. Ruppe parecchia cristaleria; al spudò int la faza a mî mujer... e quand l'avè tirà fôra pr' el gamb quella povera martire, e la vidde livida e contrafatta, si mise a gemere, dicendo:

— Perdonami Fedora... amor mio! mio angelo! mia vitta!!... E tutti duve seduti per terra con el gamb sòtta al lètt, e la bandinèla dla querta in tèsta, cominciarono a farsi tanti ziricocchini che, per non disturbarli, ci dovessimo ritirare, sino a che, facendoci un mondo di scuse, i saltonn fora tenendosi a braccetto, e ci abraciarono e baciarono senza distinzione di sesso, al punto che ci dovessimo dire: — Quando ci favoriscano fanno sempre un piacere.

*

Ma... comme sia stato, non lo so. Quel furibondo è scomparso, e Fedora fa una vitta più tranquilla; viene, ogni sera, un suvo zio, un vomo serio, che ha per la nipote tante premure, sicchè lei dice con la purtinara: — Eh, Palmira, non è meglio accosì? Meno pugni e più quattrini.

Ed ha ragione. Non sarà amore moderno... anzi sarà affetto antico, ma la cristaleria non sofre ed i nervi si limitano al puro necesario.

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dal Bologna che dorme, 29 dicembre 1898.

DA UN MSTIR A QL'ALTER

Car èl mî sgner Derettòur...

Romma, dicembre.

Sono purtroppo a spasso... Per quello considerata la cossa dal per d' fora, diremo, non è micca da disprezzarsi, perchè non più tardi di ieri me ne andai al Pincio con un sole più bello che si poteva veddere, cossì che qualunque fossi in gavardina, non davo nell'occhio, ma la peggio era il per di dentro che, non mi vergogno a dirlo, e tanto per non sentir molto gli stimoli della gola, ho trovato il sistema che diviso il pane in tre parti, si giuocchiamo a briscola quel po' di superfluvo che sarebbe il companatico, non essendovene per tutti, e quello che vince mangia e gli altri duve stanno a veddere che si divertano una massa comme è natorale.

Del resto la mî Lucrezia, che viene comme me da una buvona famiglia, ci piace di salvare il decoro degli indumenti, e dice, con ragione, che gli interiori nessuno li vede; io però mi guardo bene di fermarmi di sera con la lus elettrica che mi percuota nella schiena perchè ho timore di trasparire e che si vedda èl mî pover stòmgh poco persuaso di quel nulla che ci vorrei sgabellare, per dire in classico, per nutrimento da galantvuomo.

Mo se l'essere a spasso da un lato, comme ho detto, fa bene alla salute, produce poi il danno delle scarpe che a dire la verità, purtroppo, hanno le suole con qualche bucanino nella pianta sicchè mi ci va dentro la polve... il quale sebbene sia polve d'eroi, comme dice Pavolo nella Francesca t'amo, fa però un brutto sentire, pegio poi quando, comme mi sucese ieri ci penetra qualche sasolino, che essendo in compagnia dovevo fare il disinvolto, e ogni volta che deponevo il piede in terra era uno spasimo; basta quando Dio volse, rimasi solo e potei estrare il proietile provando grande sollievo. Beati quelli che vanno a cavallo, a dseva, che almeno anch se j han el scarp ròtti non soffrono i tormenti dei sassolini, ma io purtrop, non ho neanche quel vantaggio che lì, e in questa circostanza sarebbe una vera providenza.

Non credda micca signor Derettore che io stia colle mani alla cintola, comme si suol dirsi, chè fra gli alter coss an la port brisa, la zengia. Mi sono andato a raccomandare da per tutto — sino in Vaticano, chè mi avevano detto che c'era morto uno di quelli ch' dan al tèil ed ragu alla Cappella del Papa, ma avevano già nominato il successore.

Avevo trovato un prenditore del lotto d'andarci il giovedì sera, che mi dava una mezza lira e un busslott ed sgadezza, ma sventuratamente capitò un signore che fece una giuocata di terni e quaderne per 14 lire e 75 centesimi e quando ebbe in mano i polizzini, mi disse che aveva lasciato la borsa dentro ai pantaloni per casa, e che li andava a prendere. Io natoralmente da persona educata risposi: mo ci pare! facci pure il suvo comodo!! Ma o che non ritrovasse la borsa, o che dimenticasse il numero della bottega, il fatto sta che, poveretto, non si vidde più e chissà che notte d'angustia avrà passato.

Il padrone natoralmente se la prese con me, perchè diceva che non si fa credito, e non solo non mi diede il mezzofranco pattovito, ma avrebbe avuto la bella pretesa che pagassi io l'importo, sì, con questi quattro? E sta a veddere che ci debbo stare davanti io se uno perde la borsa!

Per fortuna che non cè n'è venuto neppur uno per quel verso!!

E così appena dischiusa una onorifica carriera, il fato viene a troncarla miserabilmente.

L'altro giorno vedo fuori un avviso di concorso per posti d'allievo macchinista nella R. Marina e io, spunzecchiato anche dalla Ergia, che l'edea dell'ocevano ci piaceva per sentirsi, comme diceva lei, sdondolarsi in braccio ai tridoni, vado e l'impiegato mi dice: Si tratta di un suvo figlio?!

— Mo che figlio! Io non ne ho, e anche ne avessi non li slancerei in alto mare senza che avessero la vitta stagionata dall'esperienza!

Questo giovinotto si mise a riddere comme per prendermi in giro; per fortuna che lì vicino c'era un altro, una persona educata che mi disse:

— È dunque lei che vuole arolarsi?

— Sissignore, io Pietro Sbolenfi.

— E sta bene, ma bisogna che Lei si sottoponga alla visita medica e m'introdusse in una camera chiamando altri tre o quattro, tutte persone allegre, e mi ordinò di spoliarmi.

Fortuna che mi ero cambiato di camicia, la mattina, che anzi non avendone più delle mie, ne avevo una dell'Ergia racorgiata con apposite bastine sino alla misura ragionevole e ricamata a giorno nella orlatura superiore colle maniche a balanzino.

Le mie, per quanto le avessi date ad una lavanderia a vapore, ci metteva più tempo delle altre.

Benchè fosse freschino, mi spoliai proprio come un Adamo, se vogliamo, a scartamento ridotto, perchè sono piuttosto mingolino, e solo chiesi il permesso di tenere il ginasino per evitare di prendere il rafredore, il che mi fu accordato ad unanimità.

Intanto quello che disse d'essere il medico cominciò a picchiarmi con un certo vigore nelle costole, e a contare i paternoster della spina orsale, dicendo che pareva ne mancasse uno: io l'assicurai che non mi ricordavo d'averlo mai perduto, e si persuase.

Poi cominciò con di quei metri a cordella a misurarmi la grossezza e la lunghezza di tutte le membra umane trovandole ora troppo lunghe ora troppo corte; e dettando i numeri a uno che scriveva, comme fanno i sarti quando si fa un paltonzino nuovo, cossa che io mi ricordo in barlume.

Tutto era andato bene, quando sisignore che arrivato, con buon rispetto al piede sinistro, trova che l'anulare è piegato ad arco da ponte, e allora io pensai che è poi per quello che sotto ci passa l'acqua, quando entra nei bucanini, e quindi disse che non potevo essere ammesso.

Io ci feci notare che per stare in un bastimento...

— Nel bastimento sta bene, sogiunse lui, ma quando si va in terra?!

— Ah, credda signore, che se andassi in terra, troverei la forza di rialzarmi per il bene inseparabile... ma ad onta della mia eroica risposta, fui dichiarato inabile per anulare arcuato a schiena di giumento, e cossì eccomi chiusa da un dito la via ad una brillante carriera!

················

Avevo anche trovato d'andar a lèzzer i Promessi sposi a un vecchio signore russo, sòurd com è una zùcca e che non capiva una parola d'italiano.

Appènna che am vdeva al s' ficcava int un urèccia un coren che ci forniva sua moglie, e io ci dovevo urlar dentro un capitolo al dè.

Una di quelle fatiche da rimeterci un polmone, mentre poi l'amigh non se ne dava per inteso — e il peggio si era, che tanto lui che la suva signora che non stava mai lì, ma era sempre di là a studiar l'italiano con dei maestri sempre nuvovi e gioveni, non parlavano del molumento in una lira per capitolo, non compresa la peste, che essendo il più lungo, la signora disse che fava un conto a parte.

Finalmèint, spinto proprio dai bisogni più urgenti, finito il capitolo aggiungo del mio, dèinter int èl coren: «Monsù, escusez bien... mais arè besoin de bajochs».

Cossa volel vèdder, sgner Derettòur?! Se avess mess una brasa int l'urèccia a un sumar, non avrebbe fatto il salto che fece quel russo che lì, e poi mi cominciò a correre dietro per discendere a via di fatto, mentre nella suva lingua mi diceva di quelle insolenze che ci dicco la verità se non trovavo l'usio mi poteva accadere di peggio, però una mi colpì nella testa che giunto a casa dovetti meterci della carta cencia bagnà int l'acqua, ma la bergnocola ci venne e a purtò èl nezz premma zall e po ròss e po nèigher che mi disero poi che era la bandira rùssa.

Cossa dice mo lei che sia stato quel vago felomeno che lì, di quel vomo che ci aveva già pasato per le orecchie 10 capitoli del Manzoni, senza che dimostrasse di aver capito niente, e con quelle poche parole del mio, che ci si sviluppa quèl strazz d'ira da scacciarmi quasi a furore di popolo comme ci avessi detto più del suvo nomme?!

Natoralmente io non ci ho messo più piede e lui sarà là ad aspettare la peste, se! cinein, avrai un bel da ziffolare se l'aspetti da me! ed anche Lucrezia dice che ho ragione.

Dall' È permesso?..., 4 dicembre 1892 e 8 dicembre 1894.

L'AMORE È UN DARDO...

Romma, 22 gennaio 1899.

Anzitutto li prego di non parlare colla mia buvona Lucrezia di questo fatarelo, micca per niente, ma alle volte, è un momento a turbare l'armonia, e loro sanno che tanto una famiglia comme il Liceo Rossini, non sarebbero completi se an i foss l'armunì.

Sicuro ero lì per Via Nazionale, acosì tanto per far venir sera, quando veddo una donina, smilza con duve piedi che parevano quelli di suvo fratello, dei capelli comme la pirùcca di Messalina e la faccia cosparsa di crusca da sembrare una pagnotta da suldà, e soridendomi come quèll tèst ed tigra ch'han fora i plizzar, mi si rivolge dicendomi diverse parole, da cui comprendo ch' l'era una furastira, perchè i furastir j ein com'è èl mal ed stòmgh; is capéssen dalla lèingua.

— Scusi, a fazz me, ma non ho il bene di capirla... E ricordandomi i vecchi studi d'inglese, ci sogiungo: Ai not studerland, che come sanno, vuol dire: Non capisco!

Ma lei poverina, diventando rossa e verde com'è un fugh dal bengala, pareva che non potese star ferma, e finalmente la dice:

Vater closet...

— Ah, ho capito: non closet, vuol dire soda-water, venga meco, che la conduco alla farmacia.

Ma lei, ostinata, fava di no colla testa e sempre più si smaniava.

— Si spieghi colla mimica, a fazz me. E ci faccio capire coi gesti, che se aveva sete si tocase la boca, e via discorrendo: ciovè, tutt'altro perchè accosì non si parla.

Ma si vede che, oltre non comprendere l'italiano, l'era anch zuccòuna ed sô fatta, perchè tirand fora un apis, la scriv un 100 còntra la muraja e me lo indica.

— Ah, finalmente! esclamo io, mi dispiace, ma non ne ho degli spicci; eh! cambiar cento lire non è micca accosì facile... può provare da un cambiavalute.

Intanto pasava un altro signore e lei, senza neanche dirmi grazie per gli schiarimenti datici, va da lui e mi pianta lì; ma ci è stato bene, perchè lei si vede che cercava il palazo delle Belle Arti, e quèl sumaròn ci insegnò invece, poveretta, una di quelle che suvonano la sera i soldati nella piazeta dei Servi, e che è li vicina.

Imbecille! Ma pure, ce lo debbo confesare? Quel breve coloquio intimo con una signora che, senza dubio, era la figlia della bionda Albione, mi risvegliò nell'animo una simpatia profonda, poichè compresi quanta cultura e gentilezza di animo si racchiudevan sòtta a quèl capplein ed tèila inzirà, nèigra, che ci dava l'aria d'una butteglia incatramà, e mentre mi parlava, col vivo desiderio di essere capita, si leggeva su quel viso poch sdazzà, ma sempatich, una lotta interna, da lasciarmi capire che ci avevo fatto una certa impresione.

Accosì, quasi intratenuto da una forza irresistibile, a stè asptar; ma si vedde che non c'era subito lì il guardia-portone a dirci che s'era sbagliata, sicchè tardò un pochino a tornar fuvori, e, vedendomi lì, diventò nuovamente rossa, e siccome stava chiudendo il catovino degli spezzati di bronzo, preparò quattro soldi, e pare volesse darli a me, ma poì si pentì... e sorridendo nel guardarmi la si avviò.

Ed io: dietro! Cossa avrà significato con quella mimica che lì di dire dei quattro bajocchi? Chi lo conosce il gergo dell'amore per dlà dalla Mandga?

Che abia voluto farmi veddere che è ricca e puvò accosì far felice il vomo che la farà suva?

Basta, lei, ogni tanto, si voltava, e finalmente veddo che infila il giardino del Quirinale e parla con una guardia che è sempre lì, poi si mette a sedere togliendosi di tasca un giornale del suvo paese...

Io mi metto a fare il ronzinante intorno alla banchina e lei, per non compromettersi, invez ed guardarum a me, pareva che facese l'ochietto alla guardia, un piò brùtt rosp, e lui, per ingrazionirsi, fava il geloso sorveliandomi comme che fosi un sogeto pericoloso. Comme sono rari i vomini di spirito! com' dseva quèl che guardava una butteglia ed rusoli fatta con èl bost ed Garibaldi!

Ma la fiama entro di me, incigantiva; l'edea di essere amato da un cuvore straniero, era accosì nuova e accosì lusinghiera per me, che senza dar tempo a nesuno di meravigliarsi e dòpp avèir spulvrà alcune vecchie parole britaniche, mi getto a sedere nella banchina, esclamando:

Vere vell zengu'ju!

La guardia fa l'atto di prendermi — ma l'angelo mio, perchè in quel momento era diventata un angelo, si mette a riddere... e ci fa cenno di lasciarmi stare. Il sentire la propria lingua in terra straniera, l'aveva comosa — poverina — e per dimostrarmi la sua gratitudine, la fa, la dis:

Yes!

— A per zio, a fazz me, la voce del cuvore deve essere uguale in tutto l'universo, perchè i suvoi batiti hanno da per tuto la stesa cadenza... e accosi tu devi capire il mio amore, sebene non te lo sapia tradure in inglese. Lei seguitava a riddere e la guardia che capiva l'italiano, riddeva più di lei... Si capisce! gente materiale che credde che il feminismo consista fra una serva e quell'altra.

Però vedendo che per quanto quella donna mi amase, non riesciva a capire quello che dicevo, ci domandai, coi gesti, l'apis con cui poco primma aveva scritto il misterioso 100, int la muraja, e lei gentilmente me lo favorì dandomi anche un pezo di carta che aveva in tasca. Appena mi cinsi a scrivere, tutti mi furono sopra a veddere, e dei bambini rampicantisi sulle mie genocchia dicevano: Bravo, ci facci degli omarini!! Stufilà pur vualter, dicevo fra me, io stò lavorando per la mia felicità, ed infatti presento a lei, poverina, l'opera mia: un cuvore trapasato da una freccia.

Per disimolare naturalmente la propria pasione, la si mise a riddere tenendosi le mani dove avrebbe dovuto avere la panzina, ma quegli ineducati, che mi circondavano, compreso la guardia, cominciano a fischiarmi e a tirarmi delle breccie contro il ginasio... Oh sta a veddere che in duve minuti avrebero preteso che dipingesi chissà cossa.

È un lavoro fatto senza pretesa, e che solo lei deve capire ed aprezare.

Ma, non ci fu verso; j urel si favano sempre più forti e i ragazini non mi lasciavano in pace — talchè essa lasciando cascare, chissà con quale strazio, quella carta con il mio cuvore, la scappò zò dalla scalinà, mentre io, fatto eroico dalla potenza del nostro afeto, ingiunsi alla guardia di farmi largo in mezzo a quel monelismo di dire d'essere fatto a bersalio dla giarleina municipale.

················

Sono pasati parecchi giorni — ma per quanto abbia gironzato preso gli Alberghi e nei fori dovve vanno i forestieri, non mi fu più dato di vederla, infelice, chissà comme sarà disperata!

Intanto l'unico conforto che mi resti è quello di andare tutte le matine a basar quèl 100 scrito dalle sue belle manone int la muraja!

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dal Bologna che dorme, 26 gennaio 1899.

ÈL TÈRRAMOT

Romma, 23 luglio 1899.

— Che cossa è il terremoto?

Èl tèrramot sono i sborborismi della terra, la quale, chissà che diavel la magna, ci si sviluppa dell'aria nelle viscere e produce qui sù e zò e quegli scuotimenti, comme succede nelle panzine umane.

Io ero lì sul letto che mi spezavo da solo il pane della sienza, quando sento il giacilio che pareva volesse malciparsi... Ohe! giudizio, signorine! a fazz me, ritenendo fosse una sciochezzina di alcune bestiole, che alle volte, nostro malgrado, alignano int i paiazz, che è poi per quello che si sente a dire che hanno bruciato il paglione.

Ma mentre facevo questa ipotisi, mi accorgo che anche altri ogeti apesi alle pareti, parevano scudrinà; tutta la verità mi si afaciò d'un tratto nella camera oscura dell'intelligenza... Non c'era dubbio: si trattava del terremoto... e che tèrramot d'un tèrramot!! Mi pareva di essere sull'altalena.

Intant la Lucrezia palida come il chiaror che vien dagli astri d'or; con quî quatter splùch drett sù int la tèsta, de parèir una sdareina fuori d'uso, con j ucc' fora dalla tèsta com è un ranocc' dscurdgà, la m'ariva int la stanzia urland:

— Ah, Pierino! Pierino! si spalanca la voragine. Salvami!...

È certo che lo scherzo è bello quando è breve, e la sdundlà la cminzipiava a èsser lùnga... Sicchè visto che non la voleva smettere, mi decisi a vgnir zò dèl lètt; se lo scopo che si era prefisso era questo, niente di meglio che livarum, per farlo cessare.

Infatti accossì fu, e la povra Lucrezia, riconoscente d'averci fatto finire tanto il susultorio che l'ondulatorio, si slanciò fra le mie braccia, ed io fra le sue che a pareven dòu vit sècchi di un vigneto abbandonato.

Questo lungo amplesso col contato dei nostri seni, ci rinforzò comme succede negli accumulatori dei trabai quando toccano il palo di carica ed io sciogliendo quella specie di nodo gordiano, a fazz:

— Ah, se Dio vol, anch quèsta è fatta!

— Pierino mio, che pavura... ho creduto nel momento di essere io, che mi venisse un improviso malore... e quando ho capito che era il taramoto, son corsa da te che sei il mio rifugio... pensando: almeno si schiaceremo asieme...

— Povra la mî cocca, il tipo vero della fedeltà coniugale di dire, se si dobiamo strifolare, strifoliamoci asieme, propri io sono come quel Polione, amante di Norma, che per quanto faccia per liberarsene, lei ci dice: « sul rogo isteso che ti divora, sotterra ancora sarò con te...». Che strazz d'una fedeltà!!

— E non deve essere accosì l'afeto che non ha confini, com è un Comune senza cinta daziaria?!

— Sì cara, l'è però una dsgrazia pr'i presentein!

— Chi êni i presentein?...

— Le guardie daziarie... sotto il vecchio regime... e se ci levi la cinta, cossa j arèsta, puver diavel?... la daga nò ed zert...

Ma mentre noi si giocarellava accosì di spirito per riaversi dal sacussot, che fava più impressione a pensarci su, di quello che nel momento culativo; sulle scale del casamento si sentiva un bacano d'inferno e anche noi, per non parere di volersi mantenere govisticamente estranei alle sventure cittadine, sortissimo sul pianerotolo.

Non ci so dire la confusione: vomini in bùst ed mandg; delle signore in corseto da note aperto davanti e che si facevano un X cole bracia sul seno per via del pudore; delle serve con la bòcca sporca ed pomdor pr'avèir pilucato èl cucciar ed l'ùmid; dei pargoli in patajola per star più freschi; una ragazzeina esterica, tremante com è una foja, centellinando un bichirein d'alchermes di S. Maria Novella... l'incombenza inevitabile per chi si reca alla città dei fiori.

Tutti parlavano in una volta, tutti nel rispettivo piano, con la tèsta vultà in sù com è ch'ai fùss un ballòn pr'aria, o vultà in zò com è ch'ai fùss cascà èl calzèider in fònd al pòzz.

Tutti, natoralmente cuntaven cossa i staven fagand nel momento della impazienza celeste, comme ci dirò poi che la spiegava quel fachino.

Sòul due sposini gioveni che stanno al quarto piano, smurt comme duve pezze lavate, erano talmente imbacuchiti che uno diceva una cossa, uno un'altra, e fra sti coss non si capiva cossa stavano facendo.

L'Ermenia, la serva dei Brigoli, stava macinando il caffè quant a j è cascà adoss la scatla dèl lùster ch'era sù per la fuga, fagandi vgnir èl nas nèigher com è èl Duttòur Balanzòn.

La signora Birilli, una vedovina tutta gas e benzina, apoponas e china Migone, dice, che era disinta e stava scrivendo un carmine, perchè si diletta di povesia, quando ha sentito quel affare, nel momento ha creduto fosse uno stiramento di nervi, poverina, è tanto nervosa, ma fatta consia della verità si è infilata la vestalia ed è corsa sulle scale... e dicendo a così lascia vedere una gambina nera con delle ciabattine già ricamate in lana.

Un socio dello sport fava lo spavaldo dicendo che appena aveva sentito il terremoto si era messo a cantare: «Celeste Aida».

La portiera dal fondo del abiso, chiedeva se era vero che fra duve ore sarebbe venuto il contracolpo, perchè, diceva, che la roba che si era spostata doveva tornare a posto.

Un professore, che sta al mezzanino, che ha in corso di compilazione una gramatica greca, al punto che la povera suva signora la tein purtar un fazzulètt ligà com è quant s'ha la flussiòn, per vî 'd ed tgnir a post el mandebol dal gran sbadacciar, si accinge a spiegare alla portinaia che cossa sia il felomeno del terremoto...

Allòura molti stanno per ritirarsi nei proprî apartamenti, presi da quel malesere che fa nascere il ricordo dei tempi felici nella miseria, quando io dall'altezza del mio quinto piano svincolandomi dalla Lucrezia che non mi vorebe lasciar parlare, per tema che dichi delle bazurlonate, a fazz a degh:

— Scusi professore, permete che ce la dicca io la spiegazione del terremoto comme la dava un fachino della mia città nativa?

— Facci, facci pure, m'arspònd il dotto vomo, arabè perchè ci rubavo il mestiere.

— Jusfètt dmandava a Pirein: Te ch' t' cgnoss tanti coss, em sat dir, cuss è èl tèrramot?

— Ai vol poch. Hât vest èl Pader eteren ch' l'ha èl mònd in man con in zemma una crusteina?! Bèin, ogni tant al cava la cròus e al guarda zò. Quand al vèdd che a fèin i matt, al dà una scussadeina digand: Ohe! galantomen, druvà giudezzi!

Un rumagnol che sta al primo piano al fa:

— L'è vèccia più ch'è èl cùcch!

— Mo è bellina...

E i spuslein, el seruv, i padron, el ragazzi, i tusett, eccetera, i turnonn rinfrancati dèinter in cà a finir le cose lasciate in sospeso.

Per parte mia, ad esser proprio sincero, con loro ormai posso dirci tutto, un po' di impressione mi è rimasta, ma micca per quelo pasato, ormai quelo non sdondola più, ma per i casi avenire, col distacamento dei calcinaci, e le screpolature delle pareti, che si finirà di non avere la libertà propria e as vivrà in una specie ed capunara com è el galleinn, e quèst em sècca, com dseva quèl furmèint ch'i mitteven al sòul.

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dal Bologna che dorme, 3 agosto 1899.

A CHE GIOVA LA CLOVACA MASSIMA?!

Romma, 22 ottobre 1899.

Sentino: dacchè sono al mondo, ne ho visti degli acquazzoni, che vien giù, comme si dice, a gatinelle, ma il diluvio della scorsa settimana qui a Romma, è rimasto indimenticabile; è proprio stato un diluvio universale perchè c'era anche l'arca... che veniva dalle rispettive fogne, comme ci spiegherò in seguito.

Io ero andato fuori per fare il chilo, doppo aver bevuto una tazetta di caffè surogato, comme ci dicono adesso, e sicome c'era un po' di nubiferio, la Lucrezia, sempre previdente, la fa la dis:

— Pierino, prendi bene l'ombrelo, non si puvò mai sapere! È un omberlina che mi capitò non so comme, di quella seta di cotone gloria, che si chiama accosì perchè quando ci si è sotto si vede il cielo comme il gloria in excelsis di presèpi.

Io la presi, mai pensando che mi dovesse servire, perchè le nubi c'erano, ma accosì vagabonde che pareva impossibile si dovessero combinare fra di loro...

Mi aviai verso il Panteon, e intanto la luce si fava sempre più serale al punto che un capo scarico, che mi stava davanti, incontrando un amico, al fa al dis:

— Oh! buona sera!

El j eren el dis e mèzz, e si figurino quindi se non si fecero le grasse risate... io non potetti a meno di stringerci la mano esclamando:

— Felice lei che è un vomo di spirito!

Ma non avevo terminato la parola, che mi sento nella coppa una gòzza granda com è un scud, e po un'altra... e, in tèrra, il marciapiede era diventato in un momento che al pareva un leopard.

Allora ricorsi al pensiero gentile della mia Lucrezia... aprii cioè l'umberleina, che ad ogni gòzza ch'j arrivava adoss, non essendo ancora bussata, la dava un termlutein, e lasciava passare alcuni spruzzetti sulla faccia, com fava quèl barbir ed campagna, che non avendo il polverizzatore, al tuleva una bcunà d'acqua e, con molta arte, al la spudava in fazza all'avintòur.

Quel giovene di spirito intanto, al seguitava a diren ed quèlli da far redder un par ed scarp novi.

— Se piovesse del vino, non sarebbe meglio?! accidenti! è acqua che bagna, e simili barzelette.

Intant mi si era arotolato dietro, e siccome i goccioloni che servono d'esordio alle piovute ben organizzate, si erano convertiti in tanti cordoncini d'acqua fitti fitti che venivano diagonalmente sulle gambe per via dello stravento, accosi corsi anch'io, con molti altri, sotto il portico del Panteon, a quello che ci dicono il pronao, tanto per rendere dificili anche le cosse più facili.

E il matacchione pure, fu fra quelli che mi seguirono, tanto più che aveva dimenticato di prendere l'ombrello, un ombrello, comme mi diceva, di seta e l'ossario di balena e il manico d'avorio con un intaglio finissimo, rappresentante una battaglia navale.

— Per bacco! a fazz me, vada per la mia, che ha questa testa di cane, che cè saltato via un occhio, povera bestia, eppoi nell'assieme è uno straceto; però il suvo servizio lo fa.

E lui mi dice:

— Vede quelle finestre che là all'angolo della Maddalena, dovve cè quel vaso di prasegoli?

— Benissimo!

— Bene, quella è la mia casa. Se lei mi presta il suo ombrello per cinque minuti, io vado a prendere il mio, e accosì ci faccio veddere un capolavoro.

— Mo ben volentieri, ci dicco io, prendi pure io sono al coperto.

Lui mi ringrazia e via di corsa con la mî umberleina, che a vèdderla in man a un alter l'an me pareva più quèlla, avezzà com a j era a vèdderla sèimper per dsòtta. Forsi al pruvarè l'istèssa impressiòn èl Papa, se al s' dezidess a vgnir fora da S. Pir a vèdder la copola che da tant ann al va vdènd sòul da dsòtta insù.

Mentre correva, si voltava indietro a salutarmi ridendo... e intanto l'acquazone si era convertito in tale uno squinterno che, non so se loro siano pratici di Romma, ma che faccino conto che la fontana di Trevi e quella Pavolina del Gianicolo, el s' fossen vultà a gamb a l'aria.

In un momento le strade erano rimaste deserte, non si vedeva, fra la nebbia, che qualche carozela in cerca di naufraghi, traversare a guado la fiumana che scorreva iruvente, sbocando da ogni viotolo e venendo verso di noi, perchè, si sa che il Panteon rimane in una bassa.

Quelli che avevano l'ombrello e che sapevano l'idraulica di dire, fra dieci minuti l'acqua ci arriverà alle ginocchia, preferirono sfidare l'acqua di sopra, meno danosa di quella disoto, si diedero a saltare, e delle signorine si favano portare in braccio da dei vomini del mestiere, dietro equo compenso, sicchè mi pareva di asistere al rato delle Sabine...

Ma io che favo? Oltre a essere senza ombrello, avevo l'apuntamento con quel signore della battaglia navale, e non sarebbe stata da gentiluomo abbandonare il posto. La gente mi diceva:

— Venghi anche lei! Si copri il ginasino col fazzoleto, guardi che l'acqua crese, dovrà poi usire a nuvoto...

Ma io che so la ducazione li lasciavo dire e col soriso del martire del dovere aspettavo, sì, non lo nascondo, spinto ancora dalla curiosità di veddere un capolavoro.

D'altronde si capise che lui non poteva espore un ombrelo di quel genere, alle intemperie cittadine.

Mo l'acqua cherseva e l'amico non si vedeva! Era già giunta alla cavcèla... e la gente rifugiata sotto i portoni circostanti, mi urlava:

— Si salvi! si salvi!!

Le chiaviche rigurgitavano: invece di inghiottire, mandavano fuvori, si vede che avevano lo stomaco guasto!

Allora, ci dicco la verità, provai comme un senso di timore di dire: io grazie al cielo, non sono una clovaca, e se l'acqua mi vien dentro non la metto più fuvori!!

A trovarmi poi lì solo, a dar spettacolo, mi sentii mortificato; diedi un'ultima ochiata a via della Maddalena, per vèdder se vedevo la mî umbrèla; pensai all'angustia di quel disgraziato che forse stava smaniandosi fra le braccia della moglie che non lo voleva lasciare uscire comme Roberto nei Duve Sergenti, e levatomi il capellino che involtai in un giornale di scorta che porto sempre nella taschina interna del paletò, mesomi in testa il fazoleto, che era rimasto sopra al livello del mare, mi diedi a fendere le onde con le gambine che erano coperte di rigurgito sino alle genocchia.

Fu allora che capii come l'arca... entrasse nel diluvio!

Il momento fu terribile! La cittadinanza trepidante assisteva a questa specie di autosalvatagio... Qualche vocina di donna mi incoraggiava:

— Si facci animo!... Adagio che non si pianti nella fanghiglia.

E tanti altri saggi consigli...

Io sentivo che ero già fuvori dal pronao perchè la pioggia mi colpiva il fazzoleto che mi ero messo legato sotto alla gola comme le caje forosete; già il livello dell'acqua intorno a me era calato... quando la fatalità vuvole che non mi ricordi più che c'era il gradino del cancello, e patatrach che casco bocconi.

L'urto em fa scappar èl genasi, che si mette a galeggiare sulle onde... fortuna vuvole che i pompieri arrivati in quel momento per il salvatagio, mi sollevino e mi portino quasi in trionfo sino dall'obelisco fra le turbe degli astanti, ed io lieto da un lato, nel vedermi accosì ben voluto da tanta gente che non conoscevo, mi adoloravo dall'altro a veddere il mio capellino che si manteneva a gala dondolando sulle acque, comme succede delle sostanze untuvose, senza che potessi riabracciarlo...

La pioggia intanto cadeva con più garbo, e la gente si era afolata intorno a me che ero più bagnato d'un savuiard int una limunà, talchè il cuvoco della Rosetta che era uscito a veddere lo spettacolo, moso a pietà del mio stato, mi ricoverò nella suva cucina. Io, nel seguirlo, diedi una ultima occhiata al mio capellino ch' l'era là che al prillava tònd su di un gorgo d'acqua che lo avrà assorbito, all'arversa d'un stupai int èl tirabussòn!

Quel buvon uomo mi mise vicino al fuvoco, e mi lasciò asciugare i pagni, anzi mi diede i burazi che poi servivano per i piatti, onde mi pulisi le gambine dalla melma.

Le pietanze cuocevano con un odore delizioso... io avevo già fatto il chilo... ma lui, natoralmente, non era il patrone... Quando mi sentii asiuto, andai via a testa nuda, si capisce, non pioveva più, e d'altronde crederanno che a vada lè a ql'altra porta!

Quand'arrivò a casa, la Lucrezia, al solit, andò sulle furie. Io la mattina dopo andai in via della Maddalena a zercar quello dalla battaglia navale, ma lo crederebbero?! non sono riuscito a trovarlo!

Vorrei vedere le pene di quel disgraziato che è costretto a tenere un ombrello non suvo!!

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dal Bologna che dorme, 26 ottobre 1899.

ÈL SGNER PIREIN FILOSOF

SI FISOFOLEGGIA!

Li prego prima di tutto di non chiedermi ancora notizie sulla tormentosa pasione in precedenza descritta[23], essendomi già aperto sino dovve potevo poichè si sa che quando si arriva, diciamo cossì, alla linea del pudore, bisogna far sosta, più ubidienti del treno d'Ancona ch'al seint a urlar: Fermo! e lù s'avveja l'istèss.

Lasino dunque che conservi in fondo alle catacombe dell'anima mia i preziosi avanzi d'una pasione che si cuoce in sè stessa, com è la panzètta, e incolland in quella tabella d'afisione, che è la faccia del vomo, l'avviso della gaiezza, pasi a fare il filosofo.

················

Che cosa è la tomidezza?

La tomidezza l'è la mancanza dèl stupein! Sisignore! il timido sa, come gli altri, preparare la girandola d'un discorso, il razzo d'una burletta, lo scopiettio d'una bella dichiarazione di amore, ma in tùtt sti fugh a j amanca èl stupein, per fari scuppiar, brillar, saltar pr'aria!

Èl temid al sa benessum com s' fa a dar un stiaff, ma ci manca la molla che ci facci alzar la mano! Non cè vomo che capisca meglio del timido l'erovismo ed il coraggio, ma ci manca la forza per essere erove e coragioso.

Al va da un calzular a cumprar un par ed scarp fatti. Se ne prova un paio che ci sta dentro due volte.

— Ci vanno queste? Dis l'umarein che ce le ha messe, e ch' l'è anch in znocc in tèrra.

— Mi sembrano un pochino vantaggiose...

— Proviamo queste altre! E ce le mette con tali sforzi da dvintar ròss com è un gamber.

— E queste?

— Mi sembrano un tantino strettuccie...

— Ma scusi, non lo sa che la pelle cede? E poi ha delle calze così grosse... quando le ha tenute un poco, le si adattano... sembrano fatte su misura...

— Allora va bene... prenderò queste... ma adesso me le vorrei levare...

— Che levare! Ora bisogna le tenga per darvi la forma... Alè, giri!... su via!...

— Ma cossì, al primmo momento, mi pare mi faccino male...

— Sfido! in confronto di queste due barche... Da chi le ha prese? Scommetto alla Cooperativa... Conosco le suole di cartone... vuole che ce le incarti?

— Anzi... ma mi pare che queste mi siano strette... a girare sento uno spasimo...

— Che bella idea! Non sente che siroco: tutti abbiamo male ai piedi in questi giorni... Non ha fatto cento passi fuvori dal negozio che non sente più nulla...

— Allora... scusi se l'ho fatto impazzire, a rivederla.

E brancolando drî a la muraja, arriva ad aferare un omnibus, per giungere a casa con i sudur fredd per cavars le duve morse che ha nei piedi e rimettersi le vecchie, dòp avèir fatt, in tla stanzia da per lù, una scena con èl calzular, dicendo tutto quello che aveva pensato durante la suva seduta in botega, mo che a j era mancà èl stupein per farel saltar fora!

La differenza fra il timido e lo stupido sta in questo: che l'uno ha i fochi ma non ha lo stupino, e l'altro ha questo... ma ci manca il resto.

Le idee del timido sono paralizzate nelle gambe, nascono, crescono, ma non escono di casa; oppure sono talmente misantrope, da usire soltanto quando nessuno le vede. Ed ecco la scena fatta da quèl del scarp strètti, nella solitudine della propria stanza.

Am arcord una volta che a incuntrò un mî amigh, di quella razza, ch' l'aveva in tèsta un caplein che ci stava lassù in cima alla testa, che se ci veniva lo starnuto ai saltava da que a là...

— Cossa è suzzès? a fazz me, ti sei meso il capello di tuvo fratello il piccolo?

Lui diventa rosso, poi dice:

— Cossa ha di straordinario? È di ultima moda!

— Benone, ma per un altro... Non vedi che non ti sta in testa!...

— El caplar al m'ha dett che andando incontro all'estate, è meglio che becchi in stretto, perchè si suol farsi tosare a teso...

— Allora hai ragione, caro mio. E accosì dicendo ci astricai la mano con tanta energia, che èl caplein cascò in terra, non dico con grave scorno dell'amico, perchè era nubile.

················

Ma a vrè savèir una cossa.

Perchè mo mi è saltato in mente di dire tante sciocheze su quella anemia dello spirito che è la tomidezza?

— Ah! forse perchè ieri sera la Clelia, che, poverina, va venendo a farci compagnia mi domandò:

— Comme va, signor Pierino, che lui mi dà tanta soddizione?

— Ai voi poch a capirel: perchè tu ti senti più asina di me!

La materiolina ci piacque, e seguitò:

— Perchè quand s'ha suddiziòn si suda?

— Perchè ci sentiamo il bisogno di farci piccini, quindi la pèll s'artira, e sforzando, i pori lassen vgnir fora la parte umida dell'individuo, com è a striccar èl pimazzol int l'acqua ed rèmel, con la quale si lavano i panni colorati.

— E com êla che quand a s'ha pora as trèmma?

— Perchè tutte le parti del corpo vrên scappar vî e siccome non lo possono, perchè sono congatenate, l'animo umano rimane sospeso per quelle forze che vorrebbero andarsene per suvo conto, comme un pinein ch' fazza: vòula, vòula, e da lì la termarî.

— E il coraggio?

— Cara mia, tu vuvoi sapere troppo... sòul at dirò che al tempo che si favano i colmi, io feci questo:

Il colmo del coraggio: Confessare di non averne.

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dal Bologna che dorme, 18 maggio 1899.

PRENDI MARITO!!

Se la ricordano, la Clelia, quella povera ragaza invachita del granatiere di dire che fava l'amore da sè perchè lui non se ne dava per inteso, sebbèin lî povra ctà sospirasse com è un suppiadur ch'hava ròtta la pelle di contorno; e, giacchè ci sono, noto, accosì di pasagio, comme questo dòp el stû e le cucine a gas, sia diventato uno strumento fuvori d'uso, e scometo che vi sono i nati della classe 1899 e anche primma che non sanno cossa sia?:

Èl suppiadur, perdonino la degresione, era una specie di polmone artificiale che tirava il fiato per un bligolino e lo mandava fuvori da un cannunzein sottoposto, spingendo per aria la cenere; ficcand vî el bras e facendo ardere il fuoco quand era finè incossa.

Sicura, alla Cleliùzza ci è capitato un buon ragazzo che sta nella stazione a dir: «Partenza per la linea di Milano, Torino, Genova!» con una voce robusta, sapendo quelo che dice, brisa da papagal, la quale ripete ciò che ci insegnano, che se un furastir ci domanda:

— Scusi, è partito il treno di Romma?

L'ERGIA

Lui ci risponde:

— Quello per la città dei Cesari, va via alle 21 e 30!

Facendo capire accosì coi Cesari, che conosce la storia antica, e con il 21 e 30 quella moderna.

La paga per ora è pochina, ma i superiori, conoscendolo accosì struvito ci hanno promesso un avanzamento, e se non ce lo danno dentro l'anno, per quest'altro è sicuro, e allora passerebbe nell'interno a dire: «Sortita! Sortita!» con due filetti int èl bertocch.

Lui è solo; suva madre, poveretta, ci morì nel dare alla luce suo fratello, il padre non lo ha conosciuto di persona essendosi estinto prima che venisse al mondo; e soltanto l'ha in fotografia, quasi scomparso, perchè allora non ci facevano i bagni per fermarli, e i poveretti, nella stagione estiva, se l'aviavano pian piano, lasciando soltanto j ucc e i cavî ritoccati colla china... che allora non era neanche Migone.

Ma mentre lui si capisce che ha preso la scufia, lei ha sempre il pensiero a quel benedetto ufficiale che quando lo vede, la dis che si sente èl solit calzèider d'acqua frèdda giù per il filone della vitta; il cuore ch'i dà del zampà int èl pètt, com è un can assrà in cà, e el gambeini s' pighen com fa quî meter ch'i porten in bisaca j inzgnir.

La dis:

— Signor Pierino mi consigli lei, cossa debbo fare?!

— Fiola cara, a fazz me, non lo sai, che la vitta si divide in duve parti sostanziali. Quella fantastica, che se la fa e se la dice dentro al pomo di quel bastonzino che si chiama il vomo, il quale senza spendere un centesimo si crea delle gioie, delle felicità, dei gavdi incredibili. Poi viene l'altra parte che l'è quella buvona ciovè le esigenze fisiche di dire che bisogna formarsi una posizione; e qual'è cara la mî Cleliùzza, la posizione della donna? Cè poco da eludersi, se non ne ha del proprio, bisogna accetti quelo del vomo, che ci dice comoso: Ecco il pane bagnato col sudore della fronte, mangialo per amor mio e declina il tuo capo, doppo che ti sei liquefatto èl pulptunzein tratenuto dalle forcinele, su nel cuscino di crine vegetale. Cossa vuvoi rispondere, ragazza mia, a un galantuvomo che ti offre un par ed linzû nuv, un po' ruvidi sulle prime, ma che non tarderanno a far la plùmma; un letto di ferro con degli efeti di luna utgnò con la madreperla; una spartura in cuseina che puzza d'olio cotto; delle oleografie rappresentanti «Otello e Amleto» pagabili a duve lire la settimana; una sveglia ch' salta pr'èl cumà per essere puntuvale all'uficio e le scranine gialle impagliate a colori. Cossa vuvoi pretendere di più?!

— Mi è antipatico!

— Oh, è quistione di abitudine, eppoi fino a che lasi atacata al chiodo cardiaco l'efigie ed quèl capitani che se ne inziffola di te, l'è inùtil, tutti ti sembreranno brutti, antipatici e che so io. — Ma se ti muvore tua zia, poveretta, che il cielo te la conservi, com èl pèver èl mî paltò da inveren, cossa vuvoi fare, disgraziata?!

— La maiestra!

— Ma se non hai la patente! E poi anche che l'avessi, credi che sia facile trovare il collocamento di dire alla cantonale di Sant'Isaia o di Azzo Gardino?

Sono obìe, cara la mî ragazzola, il vero mestiere della donna è quello di essere la madre dei propri figli, artesta egreggia che fa delle statovine movibili sèinza che ai sia bisògn ed cargarli dedrî; che diccano papà e mammà sèinza che abbiano nello stomaghino una pivetta o un urganein. Tu mi dirai: Ma si prova del male! Fiola cara, in tutte le cosse prima si soffre e poi dopo si sta bene. Quand èl barbir vi raschia la faccia, av fa vèdder el strèll doppo vi lava coll'acquina profumata e provate un godimento intellettovale da non dirsi; un contadino vi schiaccia un piede con tutto il suo peso, e voi provate uno spasimo atroce, ma quando si decide a cavars la scarpa, provate un sollievo senza precedenti.

— Ma, questo lo capisco se sposassi il mio ideale...

— Eh, ma non dire delle siocheze! l'ideale è una cossa di lusso, com è la emicrania e le giaretiere da cinque lire, che io poi vorrei sapere a cossa serve a spendere tanto, mentre se si ha intenzione di stare comma si deve, andarè bèin anch un sfurzein... Diccono: ma se tira del vento?! Eh, cossa vanno a pensare!! Se mai, se le mettino di marzo e basta.

L'ideale l'è comme la propria ombra, che a si corr drî e non si ragiunge mai, che ora è lunga, ora è corta, òura l'è dinanz, òura dedrî, conforme la luce che la proieta, ma per quanto tu facci, resta sempre sola, e non cè dubbio che tu ci vegga spuntare per mano un ragazzol che saltella giulivo a caio, conscio che

Il mondo è una danza

Corriamo a danzar!

Se aspetti ed magnar dell'ideale in umido, farai la fine di quella pulce che nacque col pudore di dire di non voler andare dovve vanno le suve compagne, perchè aveva pavura di stare al buio, e morì d'inedia.

Aldvighein, l'è un ragazz, che puvò arrivare sino a capostazione con dei filetti di più del tuvo capitano; che ti farà star bene anche quando sei malata, mentre se prendesi un'altra carriera, se si sta poco bene spesso, o vi licenzian, o nessuno vi guarda più. Pensa che ti condurrà all'Arena a sentire la Signora dalle Camelie, in casa tuva sarai la gran padrona, e se qualche volta per un malinteso ti dovesi prendere un smataflòn, pasata la burasca, proverai la gioia inefabile del rapatumarsi: ma solo la parola non ti dà l'edea ed spazzar vî ogni lordura dalla strada della felicità?!

Va là, va là e fa prèst premma ch'al s' pintessa.

— E se quando sono legata, eternamente legata, dovessi incontrarmi in quell'essere che è l'anima dell'anima mia?!

— Ma cossa vai a pensare a sti sciucchèzz, bazzurlòuna! Non si sa che dov magna ùn magna dû!...

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dal Bologna che dorme, 20 luglio 1899.

LO SPIRITO

Non si creddino micca che ci vogli parlare di quello spirito che vende il signor Musi[24] ed arti affini, chè sarebbe un argomento che al svapurarè sùbit o che intontirebbe in modo, da sentirsi poi a dir: «duro!» dai piccoli gentilvomini delle scuvole comunali.

Questo è spirito che si lasia a quelli che vogliono conservare gli sbagli della natura, il quale si dice poi: «la fe un mòster, un maestro, e i l'han mess int un vas alla Specola, puvrein, al fa pora! A sfid, andò a vedere la lanterna magica, che c'erano delle figure spaventose e lo fece tal quale!».

Se non fosse perchè non voglio che dicchino che ho il vizio d'andar fuori dal seminario, comme fanno quelli che non vogliono farsi preti, ci direi degli studi che ho fati sull'influenza delle impressioni esteriori sulla costruzione del vomo entro le visere materne, ma ne parleremo un'altra volta e accosì acquistando tempo, non se ne parla mai più.

Lo spirito che mi intendo io, ed è una grande fortuna, perchè quando una cossa la capise quello che la dice, può andar superbo nel pensiero che non morirà incompreso, come favano le erovine dei romanzi di una volta, estinte dalla languideza o anegate nelle lagrime esteriche delle lettrici che si sostentavano con el mnestreini d'ov e la tazteina ed brod..., con la prèisa dèl pèver per incalorire lo stomaghino sonechioso e imbazurlito per mancanza di lavoro, sicuro, lo spirito in questione, sebbèin che endson degga nient, è quello che ogni vomo ha in sè steso, non per la conomia vitale, che allòura as dirè l'anma, ma quello che adeso, dopo il Fanfulla, il Don Chisiotte e gli altri sfogli umoristici, tutti voliono usare.

Uno dice un'insolenza e quell'altro se la prende, ridendo come un mato, e questo è un vomo di spirito, com'è di spirito colui la quale chiedendovi cinque lire in prestito non ve le restituvise più.

E lo strano è che chi volesse far la storia di questo spirito che qui, atraverso i secoli si vedrebe che una cossa adeso spiritosa, in altri tempi non lo era o viceversa, se si vuvole cominciare dall'altra parte.

Adeso duve amici s'incontrano e subito: «Addio stupido, imbecile, cretino!» e ciò non di rado accompagnato da qualche pugno nella schiena.

Questa specie di saluto, diciamo, alla rovescia, fa sì che il candidato crede di esere tutto l'oposto, ciovè: spiritoso, svegliato, inteligente e, meso su questa falsa via, finise per persuadersene e quel ch'è pegio, se ne persuvadono anche gli altri, ed ecco per lo meno un Consiliere Comunale, non senza nutrir speme d'arivare a Montecitorio.

Una volta si salutava diversamente o con èl Salve, Salvete, Salvetote vos! oppure retrocedendo ancora: Ave Maria gratia plena! E le nostre buvone genti del contado: «Ch' at ciappa un azzidèint! pust arrabir!... ch'at vegna èl mal zittòn, l'è veint ann che an s' vdeven, boia d'un Pirètt!!» e buon per il visitatore se an j arriva una sbadilà int la scheina.

Ma scusino bene: la Lucrezia, micca mia moglie, poveretta, incapace di far male a una mosca, fosse pure di Milano, mo la Lucrezia, quella di Golatino che preferisce la cortelata alla macchia del disonore, ci pare una donna di spirito? La vitta bisogna guardarla nelle suve linee generali e non col dettaglio di dire marito e moglie, che sarebbero i posti numerati, nel grande spettacolo della umanità, ma vomo e dona presi colletivamente colla loro misione moltiplicativa senza incaselamento enagrafico, lasciati in platea a chi tocca tocca, com è i pondg e i burdigon, e questo si chiama avere dello spirito evitando il delitto della cortelata sudeta, mentre poi puvò darsi benissimo che interpelato il proprietario, avese preferito, diciamo il lapsus... pasegero, alla perdita definitiva di quel bel pezzo di compagna della suva assistenza. Ma non si capise che se non cè la colpa manca il mezzo per la generosità del perdono? E la dolcezza delle lagrime di pentimento, quando strangussand e detergendosi le nari, si mormora: An èl farò mai più!

E non erano poveri di spirito quelli che andavano a fare la lotta collo Stiancone e dicevano: «Ciao Cesare, i muratori ti salutano?!» e questo per ricordargli di fare la bandiga a quelli che avevano costruvito il Goloseo?

Lo spirito moderno invezi insegna di conservare l'esistenza nella lusinga che nella vitta tutta intelettovale che oggi si vive, posa scaturire una qualche buvona edea, comme la logismografia; far èl vein sèinza ù e i portafoi di pelle di coccodrillo che si mettono a piangere doppo che hanno divorato i boni da mille!

L'unica esclamazione che nell'epoca attovale si puvò paragonare al saluto dei lottatori romani l'è èl mùtel ch' fan el bisti buveini in via per il macello, che sembra che capischino la non lontana smazzolata.

Ed eccoci arrivati allo spirito di nuster vicc, uno spirito castigato com è un ragazzol cattiv, ancora aranzinato par la pora dèl Sant Ufezzi, e osequente delle Chiavi con la relativa manara, lontano quindi anche da ogni ilusione politica o scolacciata.

E accosì la bestemmia... pensata, si convertiva sul labro in una graziosa materiolina:

— Per d...is e dû dòds!

— Sangv ed la M...arscota!

— Per din dirin dòlla!

— Vat fa f...rezzer!

— Ch'at vegna trî trî e quèlla ed còpp.

Augurio questo finamente ironico, pensato, forse in qualche salotto aristocratico, da un poco fortunato giocator di tresette.

Ma dovve lo spirito degli avoli era più acuto, si da far pensare al sarcasta signor di Voltère, era nella frase graziosa, sallace, esilarante...

Per esempio, volendo accennare di andare a casa:

— A vad a casalècc!

O parlando d'un bevitore:

— L'è dla bevrara!

Arrivando:

— A sòn que...nds e ùn sèds!

Cadendo un oggetto:

— Al s'afèirma per tèrra!

Detto questo, che racchiude la scienza di Nevton, colla arguzia di Budelario:

— A vad a teater a casa Bianchetti; per indicare che si va a letto e via di questo passo, mentre gli astanti non conoscendo nulla di meglio, i rideven a crepa pelle, com fa el scarp ed pèll lùstra se si piglia la zuccata.

Che cossa è l'umorismo?

— Le ghittole dell'intelligenza... e tersuà a lòur sgnòuri.

Dal Bologna che dorme, 1º giugno 1899.

LA GELOSÌ (FRA ME E UNA SECCATURA)

— Che cossa è la gelosî?

— La gelosî l'è qla gradleina ed lègn ch' sta int el fnèster ch' guarden sòtta al portgh, comme risponderebbe uno stupido per far dello spirito.

La gelosî invezi è il colmo del govismo in amore.

Al dice: — Si deve aver fede nella fedeltà della donna che si ama... — Va benone, mo quando si è struviti e si è sentito il tenore che canta: «la donna è mobile» e lo dice frulland una scranna, e spesso il pubblico ne chiede il bis, diciamo bene la verità, anche il vomo più cieco, l'avrà un uccein in fèssa, per sorvegliare la sitovazione di dire: ma ho io abbastanza attrative per fermare «la piuma al vento?»

E si guarda nello specchio e ci pare di essere meno bello di un altro che baziga nei pressi della dona del cuvore, vestito all'ultima moda, con qualche baiocchino in tasca... e sente che se la fanciulla li mette sù int la balanza della vitta pratica, lù al va pr'aria fagand vèdder el bragh arpzà, e ql'alter se ne scende a posare patriarcalmente fra la mamma che spera assicurato il grostino della vecchiaia e la figlia che sogna gli sfronzoli, non mai sperabili da quèl boletari!

E ne viene il cozzo della pasione di dire di lui, poverino, che ha la scufia sul serio; la ragaza che vorebe disfarsene con onore; la madre che stringendo i freni, e non sonecchiando più nelle lunghe serate invernali, la spera ed stufar èl ragazz.

Invece succede l'efetto all'incuntrari com è quèl ch' s'era mess el scarp all'arversa e che cherdand d'andar zò in canteina al s'truvò sù int èl granar.

Il mosconzino ronzante, eccita viepiù la pasione del fidanzato, che si sente pungere nello amor proprio, sicchè a quelle donne succede il fatto di una passareina ciappà con èl vesti che più si dibatte per scappar, più ci si apicica èl stèch ed granà con la mandleina ed pulèint.

— Ma quèsta la n'è megga gelosî, è un fondato timore di un rivale pericoloso.

— Lei dice bene, ma la gelosia, diciamo accosì, per la gelosia, non esiste, o la diventa una indisposizione fisica, — infatti quel vomo di cacao e zucchero, che strozò la misera consorte comme un'anadra, ebbe bisogno di una base: un mogighino, base debole, sisignori, tanto che una lavandara la poteva perdere, ma pure se non c'era quella pezuola, le insinovazioni del signor Jago, sbiòssi, sbiòssi non avrebbero ragiunto la catastrofe racapriciante, riprodotta in oleografia.

E sicom io mi servo spesso e volentieri dei tenori per dar forza alla filosofia di dire la cossa è accosì perchè è accosì, aggiungerò che quando Nemorino canta nella Sonambula: «Son geloso dell'avra che spira che ti scherza col crine e col velo». Non si tratta della gelosia ed cioccolata comme sopra, ma del desiderio di non voler molestato un oggetto caro, com fa quî ch' teinen el ciav dla porta dèinter int una burseina ed pèll, e che i porten i ghett perchè i stival non abbiano a soffrire il freddo.

Cè poi la gelosia che chiamerei: «Perchè la zèint en degga...» che è forse la più comune, certo la più noiosa.

Èl sgner Carlein è zò vgnò trèi volt int un mèis a fari visita: bisògna aluntanarel! Jusfein l'ha tolt a teater lo scanno vicino a noi; Pavolo lo abbiamo incontrato duve volte nello stesso sito — quelli che veddono diranno che cè la conivenza... e ridderanno alle mie spalle. Sono certo che lei non ci pensa; posso anche dire che a me comme me, non mi importerebbe niente... ma an voj che la zèint degga!... Sono mansueto comme un agnello, mo am indspiasrè ed crèsser!...

— E accosì, secondo lei, la gelosia assoluta?

— Non cè; si tratta sempre di un composto o di un derivato di altre debolezze umane; di invidia, quando si dice che si è gelosi del bene altrui; di govismo perchè non si vuvole neanche che il prossimo posi lo sguardo sull'ogeto del vostro cuvore; di ambizione di poter dire io solo qui regno; di seticismo perchè non si crede alla saldezza degli affetti ed alla onestà della dona...

La gelosia insomma, l'è una cossa di lusso, che serpeggia fra quelli che hanno del tempo da perdere e che fanno la psigolocia. Quant a s'è tirà int la sèiga tùtt èl dè, e che as va a cà stùff, a s'ha alter in mèint che vstirs da moro e guardar sòtta al lètt... tant più che dei fazzoletti non è accosì facile a trovarne... Quel giorno però che la pisunèinta mett la pùlsa int l'urèccia... vengono in mente i savi insegnamenti ed Sandròn. Èl mattarèl dalla spoja al dvèinta il protagonista... Ecco la sola, la vera gelosia, insegnata col sistema froebeliano...

Ma non ci pare che, acsè, as ciama assrar la stalla quand i bû j ein scappà?

— Sè, i bû sran scappà, mo a j è arstà la...

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dal Bologna che dorme, 6 aprile 1899.

LA VITTA COLLETTIVA

Che cossa è la Società?

— Secondo: se la fa i ritratt, si chiama Società fotografica bolognese con Sandrino Buvongiorgi, che per quanto finga di non saperlo, deve avere più anni di un altro che sia meno vecchio di lui; se si sentono delle schiopetate, è la Società del tiro a segno, anche che non colpiscano nel medesimo; poi cè quella delle levatrici emiliane che aiuta a nascere; quella della « pro-scola » che aiuta a insporcarsi le mani coll'inchiostro; ql'altra del risveglio cittadino, che potevano risparmiarsela, perchè non si gode altro che a dormire — meno male la pro-Via Farini, che almeno uno se ha bisogno d'andar in Strasteven, la percorre libero, o magari non ci passa perchè ci conviene meglio andare pr'èl stradlein di Pèpol.

Mo dichino la verità, non ci pare che con questo abuso del pro, si cominci a sentir la voglia di un po' di contro?!

Se si seguita accosì, èl capèl si chiamerà pro-testa; la stiopa: pro-caccia e un giurnal, se è noioso: pro-cesso!

Mo cossa vado a tirar fuvori, mentre non ci ha niente a che fare col mio discorso.

La Società l'è un nucleo di persone che si riunisce per vivere in consorzio nazionale... tgnand èl cadnaz all'ùss, el fnèster assrà, èl librètt dla Cassa d'arsparmi arpiattà int èl paiazz — che studia ed far crèdder ed trattarsla brusand dla carta ùnta int l'òura che ai srè da far l'arrost; zercand di guadagnare sul prossimo, che non è mica vero che si ami comme sè stesso, prova ne sia che se un vicino muvore, ci si va dietro pr'èsser zert ch'an tòurna brisa indrî, mentre ciò non si farebbe se si trattasse del proprio corteo.

Nel momento del maggior gaudio, dirò sociale, quando per uno spettacolo tutti accorrono nello stesso posto, ùn pesta i pî al fratello che gli sta accanto o fa le materioline alla sorella che ci volta le spalle, e ognuno si arrampica sulle membra del confinante nella speranza di vedder meglio, e rompendo, non di rado, diverse costole ad un ostinato che, messo fra lui e il muro, non ci lasciava libero il passo.

Ed ecco la poliambulanza che accomoda le costole al ferito, visto che ora non ci è più bisogno di adoperarle per fare delle donnine, come il Signore nel paradiso terrestre.

Certo che il vivere sociale ha dei grandi vantaggi, comme quello che ci si incontra sulle scale senza dirsi neanche: a rivedersi; ma poi se si va a domandare un fiamifero perchè i nostri si sono accesi tutti in una volta, come le lampade eletriche in via Nazionale a Romma, si è sicuri d'avèir l'usio sul naso; e non parliamo di nasi... perchè a fazz com è èl fazzulètt di cuntadein che al scappa vî premma ch'j al tojen fora d'in bisacca!

Lor signori forse dirano che io veddo tutto nero, com è quèl ch' guardava dèinter int èl calamar; ma invece ci so dire che anch'io veddo benissimo che ogni dritto ha il suo rovescio. Ed infatti, chi è quello, per quanto ignorante, che non capisca se ùn al va in là o al vein in zà?! Anch'io so aprezare i vantaggi della convivenza di tante migliaia d'anime aglomerate entro la cinta daziaria, che la srè comme dire la gusia d'un grande melone! Usite di casa e cè il lustrascarpe che ve le fa diventare uno specchio; il giornalista che vi prepara il vostro parere sulla sitovazione; èl tabaccar che vi somministra i zigari che non tirano come i due ucelini atacati al carro di Venere: la quale, hanno un bel dire che era una donina leggera, ma per tirarla su ce ne volevano altro che duve!... non ci pare?

Eppure, o su o giù, è un fatto che nel vomo cè l'estinto di andare dovve ve ne sono degli altri — se un benestante di campagna mette assieme qualche bajocco, ecco che si sente trasinato verso il centro, lasia la suva modesta casetta, circondata da latuga e cipolle, con un'aria pura da non consentir spazio fra il pranzo e la cena, con Turco che baia alla lòuna e Mascarein ch'al fa el canèl in grembo alla spòusa vstè ed rigadein, si capisce, lî, megga èl gatt!

Viene in città, a un quinto piano, con del stanzieini, che la moglie paragona ad un alveare; con disopra il proletario, che ubriaco, nel cuor della note, bastona la compagna della suva miseria... e quattro o cinque pezzi d'infanzia abandonata; con disotto alle finestre il fumo d'uno stabilimento di bagni; con di faccia della gente che vi fa l'inventario delle zangatole, magari a traverso i muri, e il Don Giovannino che bombarda colle pupille quel boccon di carne che sa di sole, dalla virtù incavtelata, perchè nata e cresciuta nella solitudine.

O incavti! Avete trovato bene il parangone dell'alveare, data l'angustia delle celle, con la differenza che quelle bestie che lì, guidate dall'estinto, non sbagliano la strada... ma in zittà a se sbaglia bus, spèss e vluntira!

E ci dicco la verità, che avendo in casa un poch ed zitrà ed magnes, un persuttein attaccato al soffitto, una zùcca ed vein, una buttsteina d'arnica pr'el bergnoquel dei pargoli, è pur sempre bella la solitaria vitta dei campi da cui deve essere venuto il «campare» cioè vivere con un occ rivolto alle stelle e ql'alter nel sorriso della famiglia. Se lo figurano un uomo in questo stato? No? Mi dispiace per la pochezza della loro imaginativa, invezi l'è una cossa che viene da sè, di raccogliere ciovè da un lato il sentimento della natura e versarlo da quell'altro sul seno dei propri cari...

Tersuà a lòur sgnòuri.

Dal Bologna che dorme, 29 giugno 1899.

LE PARENTESI DELLA VITTA (DA UNA CONFERENZA)

— Che cossa è una parentesi? Dmandava ùn. La parentesi, arspundeva ql'alter, è un poco di epulone che copre un pezzetto della via del discorso. Infatti quand una carozza dòp avèir ruzlà sù pr'i sass, l'arriva in uno spazio coperto dal suddetto per infermità, parla sommessa e riprende poi il suo tono normale quand la tòurna sù int la tèrra nuda. La parentesi l'è, insomma, quella cossa di dire che non ha niente a che fare nè con quello che cè primma, nè con quello che vien doppo, segregato dal resto da quei duve quarti di luna che si guardan sempre e non si toccan mai...

La parentesi sembra raffigurata in quelle due pistagnine dorate che portano di dietro j uffizial ed stat mazzòur, e che potrebbe chiamarsi la parentesi del... passato remoto; come i favoriti di camarir potrebbero dirsi: parentesi facciali.

Èl Pavajòn si potrebbe dire una parentesi luminosa, in mèzz a Bologna al bur, com'è una parentesi orchestrale la pscarì[25] per quant el dòu ungià non chiudano bene tant dal là di via Rizzoli che da ql'alter, sicchè la sinfonia si ripercuote sotto il naso dei buvoni petroniani, poco frequentatori di quel cimitero del tèinch e di ranucc pscà int i masnadur.

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Tutto al mondo ha la suva parentesi: el ferrovî j han i tunnel: i fiùm j han i pont: el zittà j han la cinta daziaria; i quattrein j han la cassa-forta, j han èl catuein, j han èl buslot d'l'urbein sù int la porta dla cisa. Èl vein, dalla zada ch'assrava la vegna, al passa int la castlà, int èl tinazz, int la bòtt, int la butteglia, int èl bicchir e in bòcca, l'ultima parentesi che per lui si apre e che lo giudica in articola mortis. A j è infenna la parentesi commerciale, ciovè il fallimento che si apre a richiesta d'un creditore feroce e si chiude con il cinque per cento, dopo di che il negoziante riprende il suo traffico comme primma.

E cossì la vitta ha il primmo periodo dell'infanzia che si comincia col tenere il nasino fra le... parentesi del seno materno e si finisce con le cinque elementari, dopo essere pasati per la trafila dla fersa, del busanch e di quella tirania di dire di dovere andar vestiti a modo degli altri con di bertuch fatt in cà, el calzètt confezionate dalla nona, i cavî lùngh anch d'estad, magari col relativo scadore, perchè il papà dice che al s'arvisa a Raffaello; con di pagn, o trop grand perchè a s'è in crèsser, o trop cein perchè l'ha da far anch st'ann, e tuttociò spesso condito con l'oli ed merlùzz, el scoppel dei fratelli maggiori e el srigtà dèl sgner Mèster.

Questa l'è la parentesi che non ha proprio più a che veddere col resto del periodo, mentre si apre quella più ghignòusa per sè e per gli altri, ciovè la parentesi del baiocchismo di dire delle aspirazioni premature e dei fanatismi di pasagio.

Ai più calmi ai vein pr'esèimpi la voja ed lavurar in cartòn, ma presto passa il furore e la scatla da lavurir, fatta per la mammà, rimane comme unico ricordo di questa breve parentesi, mentre di pzû ed cartòn e èl caldarnein da la cola giacciano polverosi sù int èl granar. Questo esercizio però non riesce del tutto inutile per la pratica che si acquista nell'arte attaccaticcia, sì da riuscire periti nell'appiccicare i francobolli sulla corrispondenza. Per altri invece a j è il passeggero entusiasmo pr'i rintaj in lègn, quei nidi da polvere fatt colle seghine, diremo, adolescenti, tanto son piccole: di questo rimangono la curnis dèl ritratt della zia Carlotta, un porta musica per la Clelia che suvona sul piano: « Caro nome che il mio cor » ed anche questo pasatempo adestra la mano per di lavurir più in grand. Gli arditi invez, quelli che ci fumma la cavallina, aprono la parentesi con un prillamèint ed tèsta pr'avezzars a fumar: un nezz sòtta a un occ pr'un pùgn di contracambio d'un collega liceale e con un scantalufott alla serva, che gli procura una severa paternale condita da qualche calcio int'èl poggiascranna, per ragione di patria potestà sulla sudeta fantesca. Questa parentesi si chiude colla licenza da unire, in seguito, a molte istanze per concorsi a pubblici impieghi, con esito quasi sempre negativo.

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E po ai vein la parentesi marziale, ciovè la chiamata sotto le armi, ma anche questa nel chiudersi con il congedo, non lascia traccia nella vitta, non restando, nel ritorno in famiglia, che la giacca da fatica ed tèila d'Africa da purtar per cà; èl bertoch, privo del numero del reggimento, pr'el galleinn che preparano il gesso nelle fabbriche in costruzione ed il foglio del congedo.

La donna, invez, che vive più di tradizioni, non ha che una parentesi comune che abbraccia, fortonata lei, tutta l'infanzia e la conseguente crescimonia, chiudentesi con la patente di maestra o con un marito... ed è qui che si apre l'altra parentesi cioè quando non più attaccata alle sottane materne comincia a fare di propria iniziativa ed è poi allora che, per certune, il cuvore, questo affittacamere, cosciente della propria missione al lassa andar vî èl studèint pr'èl sgner avvucat, il quale più fortunato del suo predecessore, al trova i linzû ch' n'han più èl rovd dèl nov, e l'ùss ch'en ziga più int l'avrirel int la camera ch'al tôl in affett.

Ogniuna di queste simpatie a fior di pelle o sti sbali, com j ciamen indulgentemente le compagne di sventura, sono tante parentesi che fanno da sè, non avendo alcun legame fra loro e non lasciando adentellato di sorta.

Infatti, le amiche nel leggere la vitta di quella che si confidò con loro, quand el j arriven a questi cambiamenti di aquilini, sèinza asptar j 8 ed mazz, se li sussurrano all'orecchio, facendo accosì una parentesi crudele in mezzo al discorso a voce alta, narrante la vitta di figlia, di sposa e magari di madre, percorsa sulla via maestra sèinza scappuzzar int èl pulòn. E tutti questi fatti, che hanno un principio ed una fine determinanti, sono indipendenti dalla parentesi madre, quella ciovè che segrega ciascun individuo dal discorso collettivo e che si apre col primo vagito e si chiude con l'ultum scarabaccein. Sotto di essa però scorre un filo di continuità, sul quale si alternano da capo a fondo le duve forze elettriche: ùna ch' fa andar èl tram della esistenza, l'altra ch' tein impià la lampada dell'intelletto: l'amore e il sentimento. Se su questo filo si apre una parentesi, la corrente cessa e si diviene o inerti o snaturati.

················

L'amore l'è quèl ch'av ciappa tùtt e che voi assorbite com è una fètta ed pan messa int èl vein, sicchè esso rimane intero ed intenso in tutto voi, cominciando a parlarvi alto, anche che non si sia sordi, ai primi baci della mamma e cessando coll'ultimo sospiro com è Margherita Goutier.

Anche questo amore però ha le sue parentesi: le braccia del bimbo al collo della mamma, le braccia dell'amante al collo dell'amata, con in lontananza il canto: addio mia bella addio...

E così il sentimento non ammette parentesi, esso vibra potente innanzi ad un splendido tramonto, com me a vèdder la ciozza con i pulsein; ammira l'arte in tutte le suve manifestazioni dall' Apollo di Belvedere al figureini ed Santa Luzî, dalla Divina Commedia al Casamia; dalla Gioconda di D'Annunzio al Bologna che dorme.

Mo qui minaccio d'andar fuvori d'argomento, com dseva quèl ch' n'aveva brisa i bajucch pr'èl bigliètt dèl teater. E sanno da che dipende? Debbano sapere che quando mia madre, poveretta, era incinta di io, trovandosi in campagna, veniva spesso a Bologna con èl cuntadein che aveva uno di quei soliti somarini ch'i volten a tùtt i purton, ed io che mi trovavo in ebolizione, si vede che assorbetti questo vizio, e, mio malgrado, a vad fora ed carzà, com dseva quèl ch'era cascà int èl foss, scusino dunque e si torni sulla retta via del vero sentiero.

················

Lasino perciò, che a avra la parentesi delle parentesi, quèlla dèl mònd che le abbraccia tutte, beato lui, ed ste pover mònd, che ci sopporta da secoli e che anch adèss ne vede cominciare un altro, sempre cogli stessi personaggi, cogli stessi venti, le stesse inondazioni; l'eterna lotta tra Caino ed Abele e fra la Gazzetta e il Carlino, el soliti tajadèl sùtti, la solita storia di chi sale e chi scende com è el mastèl int una zisterna; questo mondo accosì povero di Lucrezie e accosì ricco di Lanciotti, costretto a cercare il godimento intellettovale sòtta al vultòn dèl Pudstà, e di inghiottire gli sbadigli alla Società del quartetto, è pur sempre la nostra custodia naturale, com è quella del pussà d'arzèint, che offre un soffice cuscino agli ospiti che sanno farvi l'impronta.

················

E questa del mondo è la grande parentesi che ci separa dall'infinito... l'infinit; una cossa che non ha confine, ve la figurate voi? me nò, avezzo comme sono a vèdder che incossa finess: dai baiucch in bisacca ai stradlein murt, ai vicoli defunti.

E qui faccio sosta, com dseva quèl caval che ai vgneva l'arstein, doppo avervi pregato di considerare questa cicalata, comme la più brutta parentesi della mia vitta e tersuà a lòur sgnòuri.

(1899)

IL TARNASISMO UMANO

Êl un usèl? Punf, una stiuptà, e zò! Êl un pèss? Se il pescator non dorme, ecco che al casca int la rèid e quindi passa nel corpo musicale dla pscarî.

Lui è il padrone del mondo: al dscordga i gatt per far la gulètta dla plezza; l'attacca i caval al tram per dimustrar comme quattr'oss in cròus possano trascinare quaranta grassi borghesi; al smazzola i bû per fars del bistèch; i can al j ajùsta a sô mod taiandi el j urècc e la cô; al brusa el rugh; al bastòuna i palpastrî; al dà èl tabach al lusert; al ròmp la teila ai ragn e el scatel al prossum: alle api al fa da Luvein; el pùls le perseguita perchè el j fan scadòur; el zinzal le asfissia con i fidibus Zampironi.

Lui è il re, e quindi può tagliar la testa al toro; far castelli in aria, sciogliere il nodo gordiano, mettere la cuffia del silenzio, cascare dalle nuvole sèinza fars nient.

Non cè buco in cui non metta il dito.

Cerca il pasato sottoterra, felice di trovare la tieina dovve gli etruschi si cucivano le ova, e le ossa di bestie più grosse delle attuvali; o alargando il foro romano per trovarvi delle vestali sèinza tèsta o il Lapis niger, che fa perdere la medesima agli studiosi.

E non è solo il pasato che lo attira, ma anche, diciamo accosì, l'avenire, ciovè va a cercare le terre sconosciute e adeso ci è venuta anche la smania di arrivare a veddere dove s'impernia il mondo, che poi ci vuol poco a figurarselo quando si è visto il globo teracqueo a scuvola coi suvoi chiodini girovaghi dentro al meridiano.

E questa febbre di tarnasismo di dire: ho la sete del sapere, voglio mettere il naso da per tutto! lo spinge, questo povero re della natura, ad entrare anche dovve si direbbe: È vietato l'ingresso a chi non è adeto ai lavori, e accosì se usite di casa con un paio di brache nuove, non tardate molto a trovare l'amico il quale vi dice:

— Oh che bî pantalon, quant j hât dà?

Se dovesse rispondere il vero dovrebbe dire:

Dati?!... non ancora, ma glie li darò...

Invece per saziare la sete del sapere l'arspònd:

— 25 lire in oro!

E il sole non giunse ancora all'occaso... che tutti gli amici ed quèl dal bragh novi, sanno che ci costarono 10 lire, poichè per tenere il prosimo fra gli umili lo si tartassa sempre dal lato delle finanze.

E l'occhio indagatore, avido di scoprire, spinge le ricerche dèinter dal fnèster; da qui l'inventezza delle tende onde evitare che il mondo sapia a che ora precisa uno si è mutata la camicia, o ha fatto, con rispetto, il codiluvio.

Lui è il sovrano; tutto è messo a suva disposizione: taglia le anose quercie per far di steccadeint; congiunge i mari; cambia il corso ai fiumi; trafora i monti al punto che èl mònd l'è dvintà una fètta ed mental; al sèiga èl zervèll a i can per vèdder se i muden ed pensir; con quèl che al mett fora al fa crèsser quèl ch'ha d'andar dèinter; al sbraghira dapertùtt; int èl sòul; int el strèl; sott'acqua per coier el spòngh, èl curaj, el perel.

Va fino a mettere le mani, brutto porcone, nel seno della terra, per purtari vî l'or, èl fèrr, la sòulfna, coi relativi scioperi. A Vienna ai veins in mèint ed studiar el bistieini dla fivra zalla, e fa morire delle povere infermiere... al corr a Oporto a studiar la pèsta, mentre con un po' di pazienza la poteva avere, magari a domicilio, sèinza ricorrere al Portogall.

Lui squarta il suvo simile; ai tira fora j intestein; soprime le superfluità a quelle soferenti di tanti disturbi, inutili per se e molto noiose per gli altri; radrizza gli stropizzi; al da di pùnt al cor com è s'al fùss una scarpa ròtta; al trapana èl crani, e al fa dvintar supran un bass prufònd... s' l'è stùff ed star in tèrra al va int èl ballòn; s' l'ha cald al va in Svezzera; s' l'ha frèdd al va sòtta l'equatore, disperandosi poi pr'avèir pers la sô òmbra.

L'ha voja d'acqua, si getta nel Tevere; l'ha voja ed fugh, al s' dà una stiuptà int la tèsta; l'ha voja ed saltar, al s' fecca zò dal Dom d' Milan.

È lui il re! Fa nascere, fa vivere, fa morire! Al mett in gabbia dal grell a l'elefant; al magna dai prugnù ch' fan int el zad, agli averi delle vedove e dei pupilli; al bèv dal tè ed camamella, all'acido prussico...

È lui il re...

Mo se l'incòntra dû ucciein che lo afasinano, al piga j usvei e al s' mett a far caruzzein com è un pipiein ch'ava magnà un'agòccia, cade in una specie di catalessi, e l'eroe, ucisore di fiere, perforatore di monti, si lascia menare per il nasino, fanciulleggiando. E Dalila taja i cavî a Sansòn... ed Ercole s' mett a filar com è la Vèccia d' mèzza quarèisma...

O uccisore di microbi... perchè non schiacci quelli dell'amore?

Che bèla dmanda!...

Perchè quand i nassen, lù al perd el forz per fari murir... sono essi che tengono vivo il sburzighlino di dire: vieni fra le mie braccia... e tersuà a lòur sgnòuri.

Dal Bologna che dorme, 19 ottobre 1899.

APPENDICE

IL DRAMA DELLA VITTA

OVEROSIA

LA STAMPIGLIA DELL'UMANITÀ

SAGIO DI SIMBOLISMO

Prologo

Un'arcòvva con el purtir zò...

( alcuni strilli )

Atto I

Una cmar, un filein ed sèida, una cadinèla d'acqua calda...

( molti strilli )

Atto II

Un signor maestro, di liber strazzà, dla carta inscarabutà, qualche scopola...

( qualche strillo )

Atto III

Diversi professori, molte sigarette, una porta con sòuvra scrett:

Dott. N. BARUCCO Consultazioni dalle ore 14 alle 16

( uno strillo acutissimo )

Atto IV

Per d' dèinter: Una panza con sòuvra una sciarpa tricolore; piuttosto usata; un rigester dov as firma anch quî ch'en san scriver, un ussir ch'aspetta la manza.

Per d' fora: Una carozza ed Mazzètt; di fiur ed Gnudi; dei confetti ed Viscardi...

( lo strillo... del vapore )

E que tòurna da cap la stampeglia, cminzipiand con l'arcòvva, magari sèinza strilli... e così di seguito.

················

Epilogo

Un falegname ch' pianta quatter ciud; alcune parole fra due liste nere nei giornali cvotidiani; un poch ed tèrra mossa là fora ed Sant'Isî... e tersuà a lòur sgnòuri.

Dal Bologna che dorme, 5 gennaio 1899.

LA CONFERENZA DÈL «SUMAREIN DÈL RUSCAROL»

Signore e signori,

Am è d'avvis ed seinter tutto quello che giustamente diranno a vèddrumm que su questo bergamo, dovve si sono seduti, anch stand in pî, delle illustrazioni italiane, megga stampà dal sgner Treves, ma proprio vive e palpitanti d'attualità.

Se loro quindi mi dibattono nel muso la taccia di temerario, io ci dirò che ne sono più parsuvaso di lui, ma d'altronde io amo la popolarità e quindi visto che le conferenze hanno preso non solo piede, ma eziandio la gamba... perchè si parla fino di cosse dell'Alpinismo, che in fondo poi non c'è niente, perchè se si salisse su di un monte si fanno tanti squarci, mentre se si va su di un montone che è il superlativo, nessuno si fa caso, sebbene che ve ne sono tanti...

Ma se sòuvra a un Dant hanno durato a discorrere per dei mesi, e i dseven che parlavono in un canto, mèinter erano nel mezzo del camin di nostra vitta, che si può tradurre: «in metà dla fuga dla nostra scheina?».

Non sarà poi da mettermi il bronzo, se anche me sono qui in questa sala[26] carica di quadri di persone armoniche, che, cun rispètt di lor signori, chi più chi manch j aran scrett chissà quant azzideint, che nel gergo musicale sono i diesis, bî mol... in quant ai bî quader non sarei del suvo parere perchè ve ne sono dei bruttini...

Ma qui non si tratta di fare la storia dell'ambiente, ristorato di fresco, nè di tutte le cosse che ci si sono fatte dentro, dai congressi ai saggi, dai concerti, alle volte sconcertati, ai discorsi spesso più sconcertati di quei concerti, dalla musica detestabile alle famose mattinate della Società del Quartetto sotto la verga magica dèl sempatich Mancinelli, ci dicco la verità che per quant a hava còntra la vesta el sbactà, quanto fosse lui che me le somministrasse le toglierei volentieri... almanch a srè sicur che anderebbe in tempo!

Ma veniamo al dunque... ch' l'è òura.

A dir la verità sono stato un po' incerto premma ed dezidrum: espormi al pubblico dall'alto di questo seggio, me, che non ho una felice comunicazione, e con una pronunzia cossì infelice, che a sussezz... salciccio... chè da cinein non mi tagliarono il filetto.

Tuttavia pinsand che ci fu uno una volta che fece una conferenza sòuvra a Sarah Bernardt sèinza avèirla mai sintò, cossa di cui con ragione lî ciappò cappèl, in modo che li vende Marchesini[27] da San Nicolà dai Alber che secondo il solito c'è di tutto fuorchè degli alberi, incoraggiato da quanto sopra, dissi fra io, dscurrand cun quel signore gentilissimo che è, come si vede nella calce dell'avviso: Dichi bene, senza complimenti, mi permetterebbe di fare una conferenza? Scusi bene sa, ma mi è saltato il grillo: — Oh anzi si potrebbe fare a beneficio della dote del Teatro Comunale.

— Oh come vuole lui, per io sono differente...

— E qual tema?

— Eh sicuro, un po' di pavura l'ho ma...

— Oh, intendo il soggetto...

— È quello che mi tiene in soggezione, cussa volel mai, a star int la stalla, di suggètt non se ne trovano, tuttavia l'alter dè che tirava del vento, a vest ruzzlar vî un balocch, un giuocatolo di pelo che mi era crodato, e a pinsò: se favellassi mo sul pelo?... al srè un argumèint che si presterebbe per me, che ai stagh in mèzz tùtt l'ann... e così fu, e mi diedi a tutto asino a studiari sòuvra, quantunque non sia di stagione, che è caldo.

Ed ora che sapete lo scoppio che qui mi ha strascinato, lassam rusgar due granelli di biava gentilmente offertami da alcuni ammiratori e poi entreremo nell'argomento che porta per titolo: Del pelo nei suoi rapporti colla natura e colla civiltà.

Signori e signore!

Io non sono sofistico e quindi non andrò a cercare il pel nell'ovo, nè mi occuperò di accennare che èl sgner Raoul[28], quanto ebbe sentito il titolo si tastò in testa e sentendo che di pelo ci era piuttosto scarsezza, esclamò: per me siamo fuori d'argomento... e per parte mia non creddo di tirarglielo pei capelli.

E qui non crediate micca che a voja andar a perdrum tra i cavî, il quale volere o non volere è pelo bello e buono, ma la materia non calza, e pr'un asen l'è una cossa che dispiace, tanto più che non sarebbe nuova l'edea di dire che la natura si esprime col pelo suddetto servendosi dei capelli biondi per dimostrare la bontà, la gentilezza, la povesia che vi trascina, come per esprimere la risolutezza mette fuori i capelli neri... e viceversa. Ma tutto quello che luce non è oro, che il vomo ha trovato modo di incannare gli altri sottoponendo il proprio pelo a dei bagni contro natura, e come da una casa vèccia si può cavare una casa nova imbiancandla, altri invece agiscono all'incontrario mettendo il nero sul bianco, senza essere scrittori, e cossì una signora che la sera era eburnea, la matteina mi salta fuori con i cavî ross o vird, di modo che non si sa più comme la pensi, amesso che i cavî siano un segno esteriore del pensamento interno.

Ma non è di questo che qui che dobbiamo occuparsi, le conferenze sui colori furono compiute e piuttosto am lemit a tuccar i cavî e el barb nel loro andamento, val a dir quî a spein zervein dèl sgner Ricci[29], che dimostrano èl desideri che hanno ed penetrar nella storia antica; qui dèl prof. Ferri[30] che rientrando in loro stessi i pèinsen al diversi misur di crani e in s' troven brisa sèimper d'accord fra d' lòur, mèinter la barba dividènds in dòu pùnt, la corr drî ed cuntenuv agli idei dèl sô padròn èl qual al corr drî alla sô barba; non accenno a quelli dèl sgner prof. Mattioli[31] che non rispondono all'appello per assenza giustificata.

Nè si voglia credere che i capelli i sien l'arfiad delle proprie idee, perchè allòura quî ch'han la pirùcca chissà in che mod i la pinsarenn, non essendo i veri proprietari della propria capigliatura.

Ma l'è del pelo di noi altre bestie, o cortesi uditori, che vi voglio intrattenere. En guardadi al mî, che ormai non c'è più, a furia di vicissitudini che sarebbe lungo l'indicare, ed anche, non mi vergogno a dirlo, per età avanzata, che se passano per me debbono passare anche per gli altri; ma me a voi faruv cgnosser quanta gratitudin voi dobbiate a coloro il quale vi forniscono il pelo, specialmente le signore.

Quand tira qui bî zagnoch, cum faressi se an avessi delle pelli di belve cunzà, condite, che si fanno poi di quelle pelliccie così poco espansive che el s' teinen incossa dèinter e che vi arrivano fino dai piedi che parete, o belle uditrici, tante Madonne di Loreto foderate di pelo? E voi fattori di campagna che venite a Bologna colla goletta di lepre, come fareste a ripararvi se la medesima si facesse tosare e andasse dal barbiere come fanno gli vomini che si cavano la barba se si eccettua quelli che la tengono come il signor prof. Magni[32] ed il signor Dallanoce[33] il cronichista in partibus della Stella d'Italia?

Come conservereste le vostre manine gentili, o sempatiche uditrici, se non vi fossero i manicotti di pelo lustro che i paren murî d'anguella o di quelle altre ch'i paren ed gatt strinà int la scheina, ovverosia di castracane, e perfino di penna, che allora poi entrando in iscena gli uccelli io non c'entro più, che i dan di bcutt e non li voglio a mano.

Ci fu un lusignolo che al dè un bcot int un occ a un sumarein mio amico, il quale poverino al pers l'occ, smarrì l'occhio, e rimase guerz, cardine, per tutta la vitta.

E al pelo quale espressione dei sentimenti umani non ci avete mai pensato?

Cussa fa un gatt quanto vede un cane? l'arùffa èl pèil, quel pelo che è sorgente delle falistre elettriche il quale sfergandel int la scheina in una camera oscura si vede un luciore che pare una scatola di fiammiferi.

E in generale tutte le bestie che vanno nella medesima, perchè accecate dall'ira, si esprimono tutte per mezzo del pelo che si indirizza chi da una parte chi dall'altra, se si eccettua quelle che non ne hanno, come le mosche e i ricci porcellini, i quali sono calmi, per conseguenza... infatti del mòsch arrabè non ne ho mai sentito a dire.

E che èl pèil sia un coifficiente della civiltà, ne sia prova che dappertùtt lù al j èintra... dèinter int el scarp ed vivagn per i dilettanti ed busanch... sù int i sach di suldà, dintòuren ai paltunzein di uffizial ed cavallarî e di altre armi; e poi, ditemi bene, senza pelo, sarebbe egli possibile lo czar di tutte le Russie? O gnanch da burla; e questo vi provi che l'è propri il segnacolo della civiltà... sebbèin che alla Corte di Russia più che Laurati, prev guadagnar Facchein, quèl dalla canva, perchè dla corda se ne va consumando!!

Ma ciò non toglie che èl pèil sia l'espressione del lusso e della ricchezza! Qual è quèl rè di burattein che non abbia la gabbana guarnita di conino?

Quale quel gran Sultano, per piccolo che sia, che non sia guernito di pelo?

Quale quel trono che non abbia il suo bravo pelo di ermellino con i su scudajein nigher?

Qual è quèl bavoll antigh che non abbia sul suo dorso la peluria messa pr'ingannar gli insetti ch' fan termar l'estat la lana, il quale si perdono fra quel pelo e non pensano ad entrarvi?

Nè crediate già che il pelo sia un'invenzione moderna, perchè sèinza andar fenna a Adamo e a Eva, di cui si ignorano le opinioni in proposito, noi troviamo Assalonne che arèsta impiccà pr'i cavî a un alber, e questo prova che allòura n'usava nè i pètten nè el strègg; abbiamo Sansone che aveva la forza nei capelli, e Dalila lo tosò, scoprendo così l'arte del barbiere; ed infine ci è quel verso che dice:

«Un vecchio bianco per antico pelo» sicchè, se oltre all'esser bianco l'era anch antico, mittiv in mèint in quali remoti tempi s' perdeva qla caviara... simile forse a quella ed monsgnòur Gulfir[34], che distratt cmod l'è, una volta al sustgneva d'èsser tusà alla Fieschi.

Signori e signore!

Qui ha fine il mio dire, e persuaso come sono che vualter an avadi brisa il cuor col pelo, a sper che avrete compassione di io che per pruvaruv che l'asen perde il pelo ma non il vizio, am sòn intestardà di tenere questa conferenza a cui Dio voglia manchi almeno un pelo, a arvinar la riputaziòn dèl voster

Sumarein dèl ruscarol Dall' Ehi! ch'al scusa..., 30 giugno 1882.

ARRIVA LA MADÔNA[35]

— Ecco èl dòppi a S. Pavel... a momenti l'è que... Ergia, vein sù pr'i pirù di Zelestein, guarda quanta zèint, che fess ch'as fa. Ergia, bada que, cum t'î distratta... fala finè ed guardar qla schivèzza ed ql'umarein.

— Mo ch' la staga mo bona... che non guardo a nessuno...

— S' l'è tùtt incû ch' t'en fa che filar... chi êl? me al vrev savèir.

— Mo nessuno...

— Un bolettari ed zert, se al foss un sgnòur an guardarev megga a te ch' t'î una povra ragazza...

— Insomma, sa che è una bella noia lei con queste storie..

— An importa che a dscurradi in tuscan per dirum del j insulèinz, che av dagh dû smataflon in bulgnèis... que in mèzz a la strà... impertinèinta d'una sfazzà!

Perchè l'è stà alle scuole ormali, l'as crèdd d'èsser chissà cossa... da' n rispettar più sô mader... e po t' vû tor marè con quèl caratter, pover omen! an vrè gnanch èsser int el sòu zavatt... A ecco i tambur, ecco la banda... l'è que, l'è que la vèira mader di Dio. Vein pur sù pr'i pirû, acsè a vdèin benone sèinz'èsser asquizzà.

— Ci sarà poco da vedere.

— Zò! perchè as tratta d'una cossa religiòusa, quand as trattava d'andar al còurs a fars infarinar, allòura a j era quâl da vèdder... qui bî baccî ed qui carr... qui grazius... dl' Ehi! ch'al scusa... che im ficcon una spaluzzà ed zèss propri int èl cappèl che al n'è mai più andà vî... allòura tùtt andava bèin... Fèinla finè, che a j è que la prozessiòn. Ecco la banda, j ein quî dal pipî zal.

— Mamma, che dici? Kepì... e non...

— L'è l'istèss, dutturèssa ed santa mader cisa... guarda che fess, tùtt drî alla banda, in mèzz ai sunadur, sèinza rèigla... guarda i pover Sabadein armistià alla zèint... guarda èl sgner Luvigien che al s' saluta... cheini bèin la tèsta, hât pora ed cumprumetter la nubiltà, a salutar un Sabadein?... Beata me dicent... arspònd bèin: Santa Maria mater Dei...

— Ecco dòn Ignente èl fiol dla furnara... Ehi, a degh con te, bada che se t' seguit a filar con quèl ghignòus... a in fazz ùna del mî... Ecco l'inno, st'ann al l'ha fatt pader Capanna... almanch che j èl cantassen adèss! Guarda èl sgner Luvigein Bartolomasi... ch'al coj... quèl lè in abit, eh! almanch che am vdess... che am darè una Madôna... ohi! cminzeppia èl clero... ai voi cuntar: dû e dû quatter... Dòn Angiolini, e dû sî... ora pro nobis... arspònd bèin anca te, t'en seint ch'i disen el tani... ora pro nobis... e dû trèintadû... ora pro nobis, Dòn Sberli... ora pro nobis... Però! j ein quasi un zintunar... Bazzurlòuna! Tirar un tremlot perchè i liven èl dòppi ai Zelestein?! Hât pora che at vegna in tèsta èl campanel?! Ecco i seminari... guarda èl fiol dla sgnera Sùnta com al dvèinta grand... l'è ùn ed quî della redità Pallotti... Eh! la vol èsser furtouna... sè, basta, lassèinla lè... Santa Maria mater Dei...

— Ecco i curat; guarda èl noster! sta bèin cmod va... l'è zò èl più bèl... che bèla stola, al fu èl regal dla rettòura l'ann passà, l'è un arcam del sòr del Sacro Cuore... Auh! guarda èl guardian, al par un cavalir.

— Cussa j è in quèl fagott vèird...

— Èl tabar e èl capèl dèl sgner curat... ohi, ohi; al guarda; dè bèin del j uraziòn...

— Quèl zuvnein la, êl èl curat nov di Zelestein?

— Ah, quèl lè l'è dòn Carpanèl quèl dl'Eternità... lo que, quèl di Zelestein, an pôl megga gnanch èsser in prozessiòn al n'ha gnanch avò l' exequatur da Ròmma.

— Cuss'êl po l'exequ...

— L'è èl bòl, che sèinza ed quèl lè, in polen entrar in pussèss...

Ecco èl Capetol ed S. Ptroni... dòn Tunein, quèl ch'ha qla gran vòus...

— Acsè cinein...

— Sè, ohi! cum'êla che an j è brisa monsgnòur Gulfir?!... Puvrètt, guarda lè monsgnòur Bedetti, un sant omen... a j in vrev dimondi ed qui lè...

— Ecco S. Pir, dòn Zarri, dòn Uless Parisein...

— È parente del maestro di musica che si veniva a insegnare le arie dei motivi nelle scuole normali?

— Sô fradèl, e anca lù l'è un brav mèster ed musica... Ecco la Madôna! Mettet in znocc e pregla ed cor che ti provvedda per l'avvenire, che ti facci capitare un buon partitino... brisa quèl dsgrazià là... sta bèin raccolta, Ave Maria... Guarda che fadiga ch' fa qui puver prit a purtarla... gratia plena... guarda quanti gioj... dominus tecum... tein zò qui ucc... tu in mulieribus... Ecco èl cardinal, guarda che cô... puvreina, la nostra Madôna, anch per st'ann...

— Chi è quell'altro vicino all'Arcivescovo?...

— L'è èl vèscov Ratta che l'è vescov int'ùn ed qui sit dov j è i gatt maimon, j omen salvadgh... Ecco tùtt i servitur con el torz... Casa Bevilacqua, Marselli, Guidott, la Davî cun el solit livrè vèirdi, ecco i fedeli... ohi! a j è anch la sgnera Claudia con èl sô candlott, eh! è meglio tardi che mai, puvrètta: una volta l'aveva alter da pinsar che alla prozessiòn... basta, lassèinla lè che an voi dir mal dèl prossum... Oh che brùtta prozessiòn prèss'a una volta che a j era èl senatòur, tùtt i professur d' l'università... e po la trùppa... la guardia d'unòur ed qui ed Palazz... che i biricchein i la ciamaven po la guardia tuccheina... a j era anch tô pader...

Seint èl dòppi ed S. Pir... che blèzza, adèss a stèin asptar ch' daga zò la zèint e po a s' l'avvièin in cisa.

— Oh... voglio andare a spasso...

— Ergia, en me seccar... a mumenti cun quèl tstimoni lè impalà, a la finess me... Andèin vein vî...

— Ma non l'abbiam già pregata la Madonna?

— Sè pulidein... ch' t'êr sèimper distratta... e po t' m'ha sèimper fatt ciaccarar che a n'ho dett niente pr'èl drett, vein pur vî gaiarda...

Eccoci, avsein a San Pir, seint te che sgumbei!

Povr'urbein, sgnòura...

— A n'ho nient, puvrètt...

La Madôna e l'uraziòn, la panira e tùtt pr'un bagaròn...

— Ohi! Valeri...[36]

Èl pover stroppi... quaranta al baiocch el caramèl... frische e bona... gelata frische...

— Che tèsta ch'i fan vgnir...

Seint Ergia che bèl dòppi, al dà consulaziòn!

Bel, bal, bel, boon!

La mujer dèl sgner Pirein

ME PTÈIGLA?![37] (MONOLOGO... IN DÛ PERSUNAGG)

Una stanzia mudèsta — Tavla peina d' lavurir — La sgnera Marieina a seder avsein a la tavla con èl scaldein sòtta al grimbal. Una scranna vuda indrett a lî dov as figura sia a seder la sgnera Neina.

Marieina. — ... Ah, che piasèir ch' l'ha m'ha fatt, la mî sgnera Neina... l'era un gran pèzz ch'an s'êren vesti...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Eh puvrètta, al so me ch' l'ha poch tèimp. E la sô Clelia com vâla?

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Oh guarda! Puvrèina, acsè bleina!... Mo la vdrà che con la bona stasòn la guarirà dèl tùtt. Sâla chi sta mal? la Viola.

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Sicura, benessum, la fiola dla sgnera Catareina...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Com disla?

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Nò, nò, ed quèl lè la guarè. Adèss as tratta d'un mal ai polmon — speriamo nella gioventù! Quèl ragazz ch'j andava, al n'i va più...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Sicuro, as capeva ch' l'era un scalda-scrann, mo qla sô mader per la smania ed maridarla l'avra l'ùss a tùtt...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Bravo, la m'ha tolt la parola d'in bòcca... chissà che la causa dèl mal non sia il matrimonio andato a monte... Viva la mî fazza che d'omen an n'ho mai vlo savèir...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Com disla? sè, sè, Aristide, una cossa prinzipià e finè, zert ch'al srêv sta un bòn partè — mo quand a vèdd quèsta que indrett: la Farnesi...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — L'an la cgnoss brisa?! Eh! l'è in sfròmbla tùtt èl dè. — Una bèla dona — almanch j al disen — al le sa èl duttòur Carini, che al la va a curar anch quand la sta bèin — acsè a j ho sintò dir, perchè me a viv tra stel quatter muraj e an me cur di fatt di alter... hâla abastanza fugh int èl scaldein... a j è que la palteina ( la tôl da la tavla una palètta e l'armèsda èl sô scaldein ) l'an fazza cumplimeint! l'è zindrein dèl furnar que zò... quèl ch'i disen che al mett la pòlver ed marum tra 'l pan perchè ch'al pèisa... mo zò chi dess mèint al mali lèingv... a fazz bèin me a badar ai prassû dla mî stanèla... Ah, la redd, sgnera Neina, mo al n'è vèira?... Dònca, turnand alla Farnesi, sô marè l'è minester int la drugarî dla semmia, e sebbèin ch' l'ava una pagteina appènna, appènna, al fa un lusso che bisògna vèdder — scusum cassètta se at dagh una strètta.

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Sicura, propri quèl bèl girungein, che al par un suspir ed Santa Bregida, — e po l'ha una ch' sta int'èl Burghètt, una bèla ragazza, che al la manda con tùtti el premmi mod, e se an bastass a j è el seruv che an li lassa viver...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Mo zò, in ein mai cunteint, l'alter dè a j era giùst tra la grella, megga per star a sbraghirar, mo per ciappar un poch d'aria, e in quèl mèinter che la sgnòura stava in anticamera col dottor Carini, perchè soffre del nervoso, èl marè fava èl burdèl con un spaipètt d'una brusa-pgnatt, ch' l'ai piantò po in s'dû pî, perchè in casa di quei Principi as magna da magher anch i dè da grass. Gran bèla cosa badar ai fatt sû, che an s'ha mai nient da dir con endson. A j è i Barletti ch' stan a l'ùss que indrett, che i troven da litigar con tùtt — e se che lî spezialmèint, l'arê un bèl da star zetta... l'è la protetta ed dòn Bergonzi èl caplanein.

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Mo sicura. — Al la vein a cunfsar spèss, perchè, puvrètta, ci dà fastidio a stare in chiesa. A proposito: êla stà a seinter èl predicatòur ed San Pir?

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Nò?! ch' l'ai vada! Che brav omen! anch stamateina a in dscurreva con èl mî cunfsòur, indegnamente, a sòn andà a far un poch ed bèin...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Ah, sè, cosa disla mai! una Santa? ai vol alter bèin, insòmma, lassèinla lè; e am dseva che non ha mai sentito un oratore accosì eloquente... Bèin dònca, turnand ai Barletti, j han del cuntenvi lit con i Trivellini ch'i stan d' sòuvra, e me am divert po a seintri da la fnèstra ed cuseina ch' la dà int l'istèssa court. — La Barletti la vrè che quî d' sòuvra en s' muvessen mai, l'as figura ch'j han trî ragazzû, èl più grand, Amonasro, l'ha ott ann, e la sgnera Peppina, la Trivellini, ch' l'era una lavuranta d'Ambrosi e l'ha truvà èl bòn omen ch' l'ha spusà, la j in dis ed tùtt i culur, e me am divert e a redd com è una matta...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — L'incomod? L'incomod l'è stà èl sô, a vgnir sù da stel brùtti scal, brùtti com è èl sô padròn, che i disen ch' l'ha mess insèm i bajucch, a tirar i vidî sù per la mura...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Ch' la staga bèin que un alter puctein...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Andèin; la n'ha megga i tusett ch'aspètten la tètta... E pur se tùtt fossen com a sèin nualter, da badar a sè, comme la società andrebbe bene. Èl predicatòur l'alter dè al trattò, della maldicenza int un mod che am era vgnò voja ed diri fort: bravo, bravo! t'ha rasòn!... A proposito, a la predica a vest la Letizia, povra ctà... l'è int el dsgrazi... almanch am pars ed vèdderla, s' la m'accapess... Eh! al saveva me che ql'avvucatein non poteva dire sul serio con quèl pover strafiri ch' l'ha dèl gran fùm ma poch arrost, colla patente da maestra, sissignore, ma sèinza un bajocch... e lù l'è un zòuven ch' sta bèin, ed bona famèja e che al farà carrira, sè a degh: l'è stà, lè, lè per dvintar cunsîr comunal.

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Oh, an la voi tratgnir de più, perchè a star con me, a j è da sbadacciar... ma d'altronde quant an s'è ptèigli, braghiri e che an s' vôl dir mal dèl prossum, an s' sa com s' far a tratgnir la zèint...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Al so benessum che anca lî l'è dla mî razza che an'i pias el ciaccher, e l'è per quèl che ai vôi bèin...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Oh, grazia ( si alza ), ch' l'am vegna dònca a truvar prèst, ai cuntarò el scenn tra i Barletti e i Trivellini, che a j è da murir dal redder... Trivellini al fa l'usurari e Barletti, i disen ch' l'è sta dèinter perchè al fava el cambial falsi... ( s'avvia verso la porta di destra fingendo di tener per mano la sua amica, senza però lasciar lo scaldino che terrà sempre sotto il grembiule ) mo! anma sô, piccaia sô... grazia tant dla bèla visita...

Neina. — . . . . . . .

Mar. — Eh! mo cossa? La m'ha fatt un regal... un vèir regal ( entra e prosegue a parlare ) a rivederla, tanti saluti alla sô bèla Clelia... grazie, sè; a rivederla... ( Rumore di una porta che si chiude. Esce con due scaldini in mano ). Con bèla manira la s' l'avviava con èl scaldein... Auf! che noja! che strazz d'una lèingva!... puvreina lî... e dir che con la Sbregoli l'ha dett che me a sòn una ptèigla! me ptèigla?! e se ch' l'harê un bèl da star zetta. ( Nel frattanto avrà messo a posto le sedie, messo in terra uno degli scaldini e venendo avanti coll'altro che mescola e vi soffia per ravvivare il fuoco ). ( Al pubblico ): Qla Clelia, una brùtta semmia, l'è sô fiola ( indicando l'uscio da cui figura uscita la Neina ) ma... il padre? Basta lasciamola lì, che dmatteina a j ho d'andar alla Pasqua!! ( Via ).

A ME DL'OCA?! (fra Sozera e Nora)

— Me a j degh che da dòp che a sòn al mònd an ho mai sintò a dir che in tla pgnatta a si metta dla pistinaga...

— E me av degh invezi ch' la si mett... Al m' l'insgnò èl cugh dla Martinètta, ch' l'era un franzèis... eh, pover Monsù Luis, am l'arcord com è che al foss adèss, am dseva: comme siete sciolì!!

— Al sra di ann dimondi... basta, me a j degh che anch che a j l'avess insgnà èl cugh dèl Rè, me la pistinaga int la pgnatta an la voj brisa, la dà un tùff al brod... tra che al par acqua!!

— Va bèìn, bravo Pinco! Dèl tùff la pistinaga, ch' l'è quèlla ch' l'ai tol vî èl cattiv...

— Allòura a i in vrê del carra, perchè bisugnarè mettren fenna int èl vein, ch' l'è robba ch'en s' pôl bèvver. Ai fo l'alter dè ch' veins la mammà e l'aveva sèid, a j in dè un did appènna... l'al spudò vî... e l'as maraviò com Endricco permettess che a bvess ed qla robba...

— Oh? davvèira?... perchè in cà tô t' bvev sèimper vein ed butteglia... bordò da pasto, com al s' regalava Monsù Luis...

— Oh, brisa bordò, mo zert che in cà mî a s'è sèimper magnà pulid e bvò mej... e an s'è mai mess la pistinaga int la pgnatta, che quant al cuntò a la mammà a crèdd che la sia anch drî a redder... a si srè cavà tùtt i deint...

— Tùtt? mo se a momenti la n'i n'ha più, puvrètta?

— Mo cossa? La mî mammà la n'ha più deint? Mo ch' l'am scusa, la vaneggierà... A j ho capè, l'è la pistinaga ch'j è andà alla tèsta!!

— Nò impertinèinta! L'è, che quant a s'è vècci, bisògna direl, cum a fazz me, e brisa far el zuvnètti... vressi dir forsi che la sgnera Teresieina l'ha tùtt i deint?

— Oh, Dio, che rasòn, chi è mo quèl, anch zòuven, che an j in manca... zert, povra mammà, ch' l'ha avò del flussiòn, e ai n'è salta vî... a j in pra mancar una vinteina...

Bravo dònca, e cuss'hoja dett? Che a momenti la n'i n'ha più, am par, a j n'avanza dis...

— A proposit! La degga bèin un'altra vinteina...

— Bravo Pinco! En savèir gnanch quant deint possa cumpurtar una cariatura... e t' vû far la sapièinta...

— Basta, me a so che la mammà riddeva d' gùst po anch, e po dimondi, a seinter cuntar che lî la mett la pistinaga int la pgnatta...

— Eh, a sfid, chi n'ha mai avò del relaziòn cun del persònn com va, con zèint ch'ha dl'esperièinza... is fann cas d'incossa...

— Ah, davvèira? Per bacco! E sti persònn com va, el srenn po, pr'esèimpi, èl sgner Cònt Lavapiatt in casa Martinetti...

— Monsù Luis, un lavapiatt? Asna d'un'ignuranta! Un omen ch'ha dà da magnar a Napoleone il grande, ch' l'ha avò èl curagg ed metter a tavla 150 persònn cum è che nient fùss... En crèdder megga che el sien fôl, perchè la sgnòura Martinètta, sè, era una dama della Croce Stellata, e la stava ed cà, ch' l'era sô ed fònd, dov'adèss va a scola Dulfein, èl fiol dla Sùnta que sù, int èl culègg ed Dòn Ungarèll...

— Mo cuss'è mai tùtti sti ciàccher che n'han nient a ch' far con quèl che a dseven... cioè che me, capessla bèin, me, an voj brisa la pistinaga int la pgnatta...

— E me invezi ai la mett, perchè la j è sèimper andà, perchè la j andarà sèimper...

— Mo chi al dis?

— Mo me, la mader ed tô marè; quèl bòn cstian, che al s' lassa infnucciar dal tòu ciacher...

— Bèin, perchè la dis acsè la vdrà se a n'i fazz proibir da Endricco ed metter la pistinaga int la pgnatta... int l'ultum èl padròn l'è lù...

— Mo padròn ed cossa, per l'amòur d' San Fnocc'?! Padròn del j oss dla pulèint!!

— Insòmma: chi è ch' mantein la famèja?

— Sè, l'è lù, cun el fadigh dla povra sô mader ch'am sòn struzzà per arlivarel, mandarel al scol... che a j era Monsù Luis, bona anma, che am dsèva sèimper: Povera Madama, voi faticate e Enrì le colisson, cum al dseva lù, quanto serà anè, che al vol po dir grand, prenderà la femme, e vu non sarete più la metress dla mason...

— Oh che bèl franzèis...

— Mei dèl tô, che t'en in sà una parola...

— Me an m'importa niente... mo in st' mèinter la pistinaga int la pgnatta la n'i va brisa, ohi, ohi, la n'i va brisa...

— Clelia, fala finè, en me stuzzigar, che s'am scappa la pazeinzia, t'in vèdd del bèli...

— Oh, zò, cun la educaziòn ch' l'ha lî, an j è dùbbi che a fazza el maravèj a vèdder del piazzat...

— Oh, asna d'una insulèinta! Chi è ch' dscòrr d'educaziòn? Una villana che quand la s' liva la mattèina, mai una volta ch' la degga: buon giorno...

— Va bèin! a proposit; una volta che a j al dess la m'assrò l'ùss int èl mustazz...

— Impustòura! busadra! adèss pr'en savèir cossa s' dir la va a dstanar el j oss ed mî nona... T' sa mei ed me che al fo èl vèint... e te istèssa t' n'arstass persuasa...

— Sè, per cuntintar Endricco...

— Ah sè? Bèin, allòura per cuntintarum me, a vad mo a metter la pistinaga... una bèla pistinaga acsè lùnga int la pgnatta...

— E me a la cav...

— Mo nò! per quèl t' fa po èl piasirein d' lassarila!

— Nò, mammà, a la vad a cavar...

Tegna buscaròuna! A la vdrèin chi la veinz!!

Oh, a la veinz me, a còst ed ficcar la pgnatta cun la caren e tùtt, in mèzz ed cuseina...

— Benone! Anzi, acsè t' fa vèdder la tô educaziòn feina...

— O feina o grossa, dl'educaziòn a crèdd d'avèiren più d' lî...

— Mo sè, com t' vû, am cunsòul che èl pover Monsù Luis, am dseva sèimper che avevo un tratto da gran dama, e che se a foss andà a Parig...

— Eh, l'arè fatt fanatisum...

— Ah, sicura!... Intant guarda mo, Clelia, che bèla pistinaga... e adèss: zò int la pgnatta!...

— Al n'è brisa vèira!

— Guarda mo!

— Ah, mammà, ch' l'an me fazza andar fora dal mandgh!! Ch' la cava vî qla pistinaga, o a tir pr'aria la pgnatta...

— Me ai la mett, te po fa quèl... t' vû...

— Ah, vèccia tarraghegna!...

— A me dla vèccia... brùtta sfazzà, porca...

— Porca, cossa? Avanti bèin... lî ch' l'è acsè educà!

— Ecco la pistinaga ch' boj...

— Ah sè?... la guarda mo coss a fazz...

— Ah, serpèint perfid: guarda!! Arbaltà incossa; èl brod corr vî per cà... Me?! ah, lassa bèin ch' vada incossa, al vol dir che quand vein a casa Endricco al magnarà la mnèstra cotta int l'acqua...

— Sè, an srà brisa la premma volta, e me ai dirò che an voj più star que... che am arvein èl sangv... che am ciapp del j imbillà...

— Va bèin; e me stòppa! Sè, cineina, va pur là che t'i un bòn pzulein ed caren... e dir che im dseven t'êr un'oca...

— Dl'oca a me? Ah! an la voj brisa... chi l'ha dett?

— Al l'ha dett... me al degh!!

«TERSUÀ A LÒUR SGNÒURI»

— Ah! lî?... Ch' la ciappa!!

— La pistinaga int la fazza... Ah l'è tropp!!!

— E quèst l'è un campiòn, vèccia buzzaròuna... teint a mèint che me dl'oca an in voj...

— E allòura me at degh t'î un'oca...

— E te ciappa...

— A t'em pecc con la pistinaga, anma dannà! I sòunen all'ùss...

— Al srà Endricco...

— Sè, bèin, al vût savèir, l'era lù ch'al dseva ch' t'êr un'oca...

— Bèin! da mî marè a la tugh e an m' n'ho brisa permal, ma da lî nò, vèccia... pistinaga!!

Dall' Ehi! ch'al scusa..., 10 giugno 1882.

INDICE

Prefazione Pag. v

Le vicissitudini dèl sgner Pirein :

I m'han fatt correr? Pag. 1

Oh! la cumètta!! 6

Che barbero destino! 13

El tribulaziòn per la Cordelia ed Gobatti 19

Echi di carnevale 25

Zobia grassa 32

Alla Còurt d'Assisi 35

Dies irae 41

I bigliett dla luttarì 45

San Michel 50

S' po dar ed piz? 57

E dòu! 62

Sèimper del dsgrazi! 70

Em càpiten tùtti a me! 74

Pinguedine ariosa! 84

L'inèst dèl varol 91

Bagn d' mar... a domicilio! 97

Èl scioper di furnar 104

La croce del potere 111

Giurì pel vino 117

Dalle rive del Goliseo :

* Impresioni romane 127

Trasloco infavsto! 130

Assicurazione “La Fondiaria„ 138

* Amore moderno 142

Da un mstir a ql'alter 146

* L'amore è un dardo 152

Èl tèrramot 157

A che giova la clovaca massima?! 162

Èl sgner Pirein Filosof :

Si fisofoleggia! 171

Prendi marito!! 176

Lo spirito 181

La gelosì 186

La vitta collettiva 190

Le parentesi della vitta ( da una conferenza ) 194

Il tarnasismo umano 201

Appendice :

Il Drama della Vitta 207

La conferenza dèl Sumarein dèl ruscarol 209

Arriva la Madôna! 217

Me ptèigla?! ( monologo ) 222

A me dl'oca?! 228

N. B. — Gli scritti contrassegnati con * sono stati aggiunti in questa terza edizione. Finito di stampare il dì 30 aprile 1920 nella Tipografia di Paolo Neri in Bologna