FEDELE.

ANTONIO FOGAZZARO

FEDELE

ED ALTRI RACCONTI

X EDIZIONE

MILANO CASA EDITRICE GALLI DI G. GALLI & LELIO OMODEI-ZORINI SUCCESSI A CHIESA — OMODEI — GUINDANI

Galleria Vittorio Emanuele, 17-80

1897

PROPRIETÀ LETTERARIA

Milano, Tip. degli Esercenti, Via Vincenzo Monti, 31.

INDICE

NOTA DELL'AUTORE ALLA PRIMA EDIZIONE.

Animato dal cortese signor Chiesa a raccogliere in un volume sette mie novelle, pensai di frapporvi alcune poesie a modo d'intermezzi, com'è uso trattenere gli spettatori, fra un atto di commedia e l'altro, con qualche breve pezzo di musica.

I miei intermezzi sono appunto versioni dalla musica. E qui debbo pure chiarirne, in due parole, il concetto.

La musica migliore genera in molti e anche in me ombre vane, per così dire, di sentimenti; gioia e dolore senza causa, desiderio, sgomento, pietà senza oggetto, baldanze superbe che cadono con l'ultima nota, violenti impolsi ad impossibili azioni. Suggerisce pure confuse immagini alla fantasia; arriva a significare torbidamente un discorso, un dialogo, un dramma, incomprensibili perchè la lingua n'è ignota e lontana da ogni altra, ma improntati, nel suono, di passione umana, e svolti, persino, giusta un ordine di premesse e di conseguenze, che somiglia indubbiamente ai raziocini migliori di questo mondo. Allora lo spirito nostro si avventa al mistero, vi batte follemente e vi fiacca le ali sulla porta impenetrabile, cade vinto. Io per parte mia ho talvolta cercato di consolarmene immaginando e scrivendo ciò che la lingua ignota potrebbe forse significare, ciò che vi potrebb'essere al di là della porta impenetrabile, le cause arcane di quei sentimenti la cui sola ombra mi commoveva tanto. Così mi vennero composti cinque intermezzi su temi di Boccherini, Martini, Clementi, Chopin e Beethoven.

Fermo di mantenere debitamente distinte le due arti, sperai che questi temi diventassero nelle mie versioni pura, indipendente poesia, e forse ottenni soltanto che cessassero di essere buona musica. Certo non mi accinsi a tradurli prima di averli intensamente meditati, e nessuna persona ragionevole saprà dimostrarmi aver io peccato d'infedeltà.

Ho posto dopo le novelle un breve scritto escito l'anno scorso sopra un giornale di Roma in forma di lettera al direttore del giornale e col titolo «Liquidazione». Presto si vide, con mio rossore e con sorpresa di alcuni onesti lettori, che quel titolo era stato poco sincero e il mio ritiro dalla letteratura una vana illusione. Ne fui meritamente censurato, e ristampo qui lo scritto colpevole, per ammenda.

A. Fogazzaro.

FEDELE.

— Soffio, signor Fogazzaro — disse, quella sera indimenticabile del 1.º agosto 1884, il generale Trézel, pigliandomi una delle mie povere pedine. — Stia attento!

— Alle dame — gli rispose per me la signorina Prina toccandomi il braccio con la penna. — Avanti! Detti! Mi, co te vedo, sento Un certo non so che; e poi?

— Scusi, generale — diss'io dopo aver mossa una pedina a caso. — E digo che nol sento, E digo che nol gh'è.

— Fa piacere, Filippo! — disse la signorina a suo fratello che cercava inutilmente sul piano il motivo dell' Aria di Chiesa di Stradella.

Continuai a dettare la vecchia canzonetta che piaceva tanto alla società milanese, molto intelligente, molto distinta, dell'Hôtel Brocco.

Mi me se inchiava i denti

Quando te voi parlar;

E digo: i xe acidenti...

Qui mi mancò la memoria. La signorina Prina, le altre amabili signore e un paio di giovinotti molto disposti a usare della graziosa strofetta per i loro fini particolari, se ne desolavano. Il verso non venne e io potei solo ripetere alla damigella con il più sentimentale accento che seppi:

Mi me se inchiava i denti

Quando te voi parlar.

I xe acidenti — osservò sorridendo donna Luisa Trézel con la sua solita finezza benevola e ironica insieme. — Chi sa — soggiunse sotto voce — che il signor Fogazzaro possa avere il versetto dalla sua fedele.

Tutti risero e io mi seccai. Mi rimisi a giuocare con attenzione; poi, siccome Filippo non veniva a capo di nulla, mi alzai, gli accennai con la mano destra le prime battute dell' Aria di Chiesa.

— Mangio, signor Fogazzaro — disse il generale che non aveva mai tolto gli occhi dallo scacchiere se non per guardare di traverso, qualche volta, pianoforte e suonatore. La sua signora mi domandò se fossi in collera con lei. Non ero in collera, ma mi seccavano le allusioni a quella persona che donna Luisa chiamava la Sua fedele. Era una giovane signora arrivata da tre giorni a S. Bernardino, sola. Nessuno la conosceva. Salutava molto gentilmente ma non parlava mai con nessuno. La gente dell'albergo asseriva ch'era veneziana. Sul cartoncino che là usano allacciare intorno alle salviette, perchè i forestieri vi scrivano il proprio nome, ell'aveva scritto con una calligrafia punto inglese, punto elegante:

Signora Fedele.

Era bionda: non alta ma snella; bellina assai ma più delicata e graziosa che bella. Lo confesso, non saprei dire con certezza il colore de' suoi occhi; avevano forse il colore mutabile del mare presso il quale era nata. Portava sempre lo stesso costume grigio, la stessa toque di pelliccia nera, gli stessi guanti neri. Usciva tardi per qualche passeggiata solitaria; alla fonte non si vedeva mai. La sera scendeva al caffè verso le nove. Se si faceva musica, restava lungamente nel suo angolo scuro, lontano dal pianoforte; altrimenti prendeva il caffè e spariva.

Si facevano commenti infiniti sulla sua origine, sul suo contegno misterioso, sul nome Fedele che serviva persino al generale Trézel per illudersi di avere spirito. Mi accadde una volta, nel solito crocchio della loggia, prender le sue difese contro le signore, che mi parevano troppo maligne. Ella passò in quel momento improvvisamente, salendo dalla via. Era molto accesa in viso, ma non guardò alla nostra volta. Mi guardò invece quel giorno stesso, passandomi vicino nella sala da pranzo, con uno sguardo che a' miei amici parve di gratitudine. Ne avrei proprio fatto a meno, perchè poi non mi tribolassero tanto.

— Che miracolo, stasera, esser venuta giù così presto? — disse piano Filippo che le aveva probabilmente dedicato i suoi pasticci musicali.

Infatti la signora Fedele era già nel suo angolo e suonavano in quel punto le otto.

— Aspetterà il concerto — disse la signora Prina.

Ci avevano annunciato per quella sera il concerto d'un cieco suonatore di pianoforte.

Un signore che stava in piedi presso a me, guardando giuocare al biliardo, ci disse che il concertista si era fatto scusare per una indisposizione del suo compagno.

A questo punto qualcuno disse sull'entrata del caffè:

— Nevica.

Le signore si alzarono esclamando, i giuocatori di biliardo gittarono le stecche, i giuocatori di tarocco le carte. Perfino il generale Trézel accordò una tregua alle mie pedine. Tutti si precipitarono in sala e di là in loggia. Non accade così facilmente di veder nevicare in agosto.

A me, antico frequentatore di quelle Alpi, ciò era successo più volte. Mi alzai tranquillamente e mi accostai a una finestra.

Era uno spettacolo fantastico, una magnifica festa notturna che il vento del Nord e la neve offrivano alla luna. Ella sorgeva sopra mille punte d'abeti, fra due montagne enormi, nel sereno. Ora la vedevo lucida, ora un turbinare di fumo argenteo la nascondeva nella sua stessa luce. Perchè non si poteva propriamente dire che nevicasse. Era neve delle cime, cacciata dalla tormenta. Fra un turbine e l'altro si vedevano tutte le creste bianche fumar su nel cielo azzurro.

— La scusi, signor Fogazzaro — mi disse in veneziano una voce tremante. — Non c'è il concerto, stasera?

Mi voltai, sorpreso.

— Scusi la libertà — riprese la signora Fedele. — So che siamo quasi concittadini.

Ma non mi ero tanto sorpreso del suo improvviso interrogarmi come della commozione strana, profonda, che sentivo nella sua voce, in una domanda così volgare. E poi il caro dialetto usato così di primo acchito, e quel chiamarmi per nome, mi avevano avvicinato con violenza alla misteriosa signora; con una violenza certo voluta da lei chi sa per qual fine.

— S'immagini! — le risposi. — Non credo che ci sia concerto. Ho udito che il compagno del cieco è malato e che questi s'è fatto scusare.

— E andrà via, forse? Non suonerà più?

I begli occhi mi parvero a un tratto più grandi, la voce più tremante.

— Non lo so davvero — risposi. — Credetti poi di dover soggiungere per cortesia:

— Lei ama molto la musica?

Ella non rispondeva, guardava fuori nella tempesta, nel baglior di luna e di neve. Scorso qualche momento, mi domandò ancora:

Il compagno, ha detto?

— Un signore, poco fa, diceva il compagno; ma ora, pensandoci, credo che s'inganni. Credo che sia una compagna, una signorina.

Ella appoggiò la fronte alle invetriate, come per veder meglio; in fatto, per non esser veduta in viso da me; e ricominciò a parlar con voce più sommessa di prima, più rotta dall'emozione.

— Sono qui senz'amici — diss'ella — senza nessuno, e posso aver tanto bisogno di un'anima buona. Penserà male di me, Lei, adesso? No, sa, non pensi male. So che Lei non mi giudica come gli altri. E poi m'hanno detto che ha famiglia. È per questo!

Parlava, così accorata!

— Si calmi, signora — risposi. — Se posso qualche cosa...

La gente tornava allora correndo, schiamazzando, allegra e intirizzita, dallo spettacolo della neve, e il generale mi cercava con gli occhi per finire la partita. Ci dividemmo rapidamente. Subito dopo, il padrone dell'albergo venne a fare pubblicamente le scuse del concertista, signor Zuane, impedito dalla indisposizione di sua figlia, che doveva accompagnarlo anche al piano. Lo stesso signor Brocco ci informò poi delle tristi condizioni di questo poveruomo, che, senza il concerto, non saprebbe come pagare lo scotto dell'infimo albergo dove alloggiava. Le signore, impietosite, mi pregarono d'andarlo a pigliare. Un valente allievo del conservatorio di Milano s'offerse di suonare con lui.

Partimmo subito, il giovinotto ed io, pieni di zelo. Il cieco signor Zuane ci accolse con gratitudine dignitosa, con grave cortesia da re in esilio, parlando un italiano floscio che affondava ogni momento nelle mollezze del mio dialetto natio. Era insieme comico e triste di udirlo discorrere così solennemente, accompagnando alle parole il gesto ampio e interrompendosi tutto perplesso quando incontrava con la mano il cappello nevicato che il mio compagno gli aveva storditamente posto davanti sul tavolino. Udivamo la signorina Zuane tossire nella camera vicina, aperta, da cui entrava una luce affatto superflua al signor Zuane, affatto insufficiente a noi. La signorina ci pregò, nello stesso morbido linguaggio paterno, di venire a prenderci il lume. La sua voce mi colpì; quando poi vidi lei a letto, credetti proprio vedere i capelli biondi, il delicato viso della signora Fedele.

— Le raccomando tanto papà, signore — mi disse. — Sento che sono così buoni!

Poi alzò il capo dal guanciale e mi accennò di accostarmi a lei.

— La scusi, per carità — mi sussurrò ansiosa. — Conosce Lei qui una signorina veneziana, bionda, che mi somiglia?

— Sì, la signora Fedele.

— Per carità, non la lasci parlare a papà, La supplico a ogni costo! Glielo dica magari a nome mio. A nome della Lisetta, dica. Adesso no, adesso no per carità!

Non si spiegò più di così. Partendomene con il signor Zuane, cercavo invano, fra me e me, di penetrare il mistero di dolore che avevo sentito prima nelle parole della Fedele, poi in quelle della signorina Lisetta; e mi pesava assai d'essermivi lasciato immischiare.

Non vidi bene lo Zuane in viso che all'Hôtel Brocco, davanti alle candele del piano, quand'egli aspettava, in piedi, che aprissero lo strumento, che ne portassero via le montagne di musica e si accomodassero gli sgabelli. Altissimo della persona, si teneva immobile ed eretto come una statua d'imperatore antico, levando sopra noi tutti la faccia più marmorea e tragica ch'io abbia incontrato mai. Era una faccia color di cera, senza un pelo, dal naso scultorio, dall'austera fronte imperiosa, piena d'anima sopra gli occhi sinistramente chiusi, piena quasi di un arcano sguardo che vi si spandesse sotto, cercando uscita.

Non c'era moltissima gente, perchè la società dell'Hôtel Ravizza non aveva osato affrontare il vento e la neve. La signora Fedele era là, nel suo cantuccio favorito. Guardava il cieco, ma non accennava di volerlo accostare.

Nei brevi momenti della mia visita allo Zuane e del tragitto all'albergo, lo avevo udito parlar dell'arte sua con la devozione sincera, profonda di un fanatico. Egli era, tuttavia, assai mediocre artista. Aveva più forza ed esattezza che espressione, e mostrava poi, nella scelta dei pezzi, un gusto molto dubbio. Il pubblico, tocco dalla sua sventura, applaudì il primo ed il secondo pezzo, applaudì più ancora il terzo, una fantasia a quattro mani in cui l'allievo del Conservatorio si fece troppo onore con scarsa carità del povero cieco.

Ma il programma era soverchiamente lungo. Parecchi uscirono a guardare il tempo, a giuocare nel gabinetto attiguo al caffè. I pochi rimasti chiacchieravano. Durante il quinto o sesto pezzo, non ricordo bene, la signora Fedele si alzò e venne dov'ero io, presso al piano, nel vano della finestra. Guardava, molto pallida, quelli che uscivano, guardava quelli che conversavano, con occhiate, non dirò di sdegno ma di tristezza amara. Io tremava che, finito il pezzo, ella volesse appiccar discorso con lo Zuane. Avevo ancora negli orecchi gli scongiuri della signorina malata, quel suo affannoso «La supplico!» Mi chinai e le dissi:

— La signorina Lisetta La scongiura di non parlargli, adesso.

Ella trasalì, m'interrogò con uno sguardo attonito e diffidente.

— Non so niente — risposi. — Lei ha detto così. Non so altro.

— Non parlerò — diss'ella sottovoce, rapidamente. — Ma Ella ha promesso il suo appoggio a me, sa, prima che alla Lisetta!

In quel momento lo Zuane pose fine al suo faticoso pezzo. Egli pregò alcuno dei signori presenti a volersi compiacere di raccogliere le offerte. Io stava per farmi avanti, quando la signora Fedele mi trattenne e mi chiese di avvertire lo Zuane che una signorina gli offriva di chiudere il suo concerto con un pezzo vocale; e che sarebbe bene non uscire col piatto che poi. Io esitava, ma il ragazzo Prina, che stava lì a mangiarsela cogli occhi, colse a volo le parole di lei, e si affrettò di pubblicare la proposta, cui lo Zuane accolse con l'usata solennità, fiutando l'aria mentre parlava, in qua e in là, come per iscoprire dove la gentile donna fosse.

La Fedele mi susurrò all'orecchio:

— Lei mi accompagna l' Aria di Chiesa? Gliela ho udita suonare, stasera.

Mi scusai, con ottime ragioni. Ella preferì allora non pregare altri e accompagnarsi da sè. Mentre si toglieva i guanti feci alzare il signor Zuane e lo condussi, di proposito, a sedere alquanto discosto dal piano. Intanto la gente, avvertita come per incanto, rifluiva nel caffè a udir la bella venezianina. Lo Zuane si trovò subito in mezzo a un gruppo di persone.

La signora si pose al piano. Io ero in piedi vicino a lei; potevo vedere il leggero tremito delle sue mani, l'inquietudine delle sue labbra. Mi chinai per dirle all'orecchio che avrei potuto pregare l'allievo del Conservatorio di accompagnarla. Scosse il capo nervosamente e incominciò subito, con mano sicura il preludio. Prima di finirlo, mi diede un'occhiata come per dirmi: «Le pare?»; come per mostrarmi il suo viso pallido, ma risoluto.

Vorrei poter esprimere la timida dolcezza accorata del suo canto quando incominciò sottovoce:

Pietà, Signore

Di me dolente.

Guardai involontariamente i Prina e i Trézel, dei cui bisbigli, dei cui sorrisi ironici m'ero bene accorto. Non sorridevano più. Gli occhi miei, tornando lentamente al piano, incontrarono a caso il volto del cieco, mentre la dolce voce saliva con un fremito di passione alle parole:

Se a te giunge il mio pregar

Non mi punisca il tuo rigor.

Lo Zuane porgeva il viso accigliato verso la musica, ascoltando a bocca semiaperta. A un tratto lo vidi piegarsi a destra, susurrar qualche cosa a un vicino che gli rispose guardando la Fedele, come se gli parlasse di lei. Ella cantava allora con uno straziante spasimo nella voce:

Ah non fia mai che nell'inferno

Io sia dannata al fuoco eterno.

Lo Zuane si alzò in piedi con una faccia terribile, agitò le braccia verso la parte opposta al pianoforte, quasi per farsi strada fra la gente. Tutto il pubblico si voltò a lui, zittì così imperiosamente, ch'egli si fermò sull'atto, si ripose a sedere. La signora Fedele s'imbarazzò nell'accompagnamento, smarrì l'intonazione, si coperse il viso con le mani.

— Coraggio! — le dissi sotto voce — Avanti!

— Non posso, non posso — rispose senza scoprirsi. — Sto male, faccia le mie scuse.

Dissi forte che la signora si sentiva male e non poteva proseguire. Vi ebbe un momento di agitazione, perchè i vicini dello Zuane e anche altri sospettavano una occulta relazione fra l'atto del cieco e il turbarsi di lei; ma poi uno, due, quattro batterono le mani, scoppiò l'applauso da tutta la sala. Parecchie signore si accostarono alla Fedele, offrirono il loro aiuto, insistettero perchè prendesse qualche cordiale, perchè si ritirasse. Rifiutò l'una e l'altra cosa ringraziando umilmente, ma più quasi con gli occhi e il piegar del capo che con la voce. La voce pareva rotta, spenta. Si alzò dal piano, sedette nel vano della finestra.

Volli starle vicino e pregai il Prina di raccogliere le offerte. Le monete piovevano nel piatto. Lo Zuane volgeva il capo a destra e a sinistra dietro al tintinnio dell'argento. Pareva impaziente di fare o dire qualche cosa.

La signora Fedele seguiva cogli occhi intenti ogni suo moto. Il Prina le si accostò esitante, dubitando se dovesse rivolgersi anche a lei o no. Ella gli accennò col capo di venire e, trattosi un anello, lo posò sul piatto.

— Io ringrazio questi gentili signori — disse lo Zuane quando gli furono recate le offerte — io ringrazio questi gentili signori e prego che il danaro sia dato per i colerosi di Marsiglia.

Le ultime parole furono proferite da lui con una subita energia di voce, con un aggrottar fiero di ciglia, con un gran gesto d'ambo le braccia.

La Fedele non diè segno nè di sorpresa nè di collera. Guardava sempre lui, sempre quella faccia marmorea, quegli occhi spenti.

— Le hanno dato anche un anello, signor Zuane — disse il Prina.

Il cieco stese un braccio, brancicò le monete del piatto, prese l'anello, lo palpeggiò con le dieci dita, alzando la fronte.

— Non accetto quest'anello — diss'egli. — La persona che lo ha dato lo riprenderà. — Suppongo — soggiunse con voce quasi iraconda — ch'è ancora presente.

Nessun fiatò. Lo Zuane ripetè la domanda. Allora la Fedele accennò al Prina che rispondesse di no, come infatti rispose immediatamente.

— Pregherò i signori che m'hanno accompagnato, di restituire l'anello domattina — disse il cieco. — Intanto è mio dovere esprimere la mia gratitudine a questi signori.

Si fece condurre al piano e cominciò a tempestarvi su il suo pezzo di ringraziamento, mettendo in fuga la gente, che andò a passeggiare e a commentare l'accaduto nella sala vicina. La signora Fedele, l'allievo del Conservatorio, il giovinetto Prina e io eravamo soli presso al piano.

— Sento che la sala è vuota — disse lo Zuane cessando dal suonare. — Vi è qualcuno presso di me?...

— Sì, sì — risposi.

— Ah, quel signore veneto — diss'egli. — Io sono stato poco gentile, stasera, e devo almeno a lei qualche spiegazione.

Stavo proprio sulla brage e protestai di non volere spiegazioni; ma quegli insistette e la signora mi scongiurò, in silenzio, a mani giunte, con un viso disperato, di lasciarlo parlare. Guardai involontariamente gli altri che intesero e piano piano, molto a malincuore, se ne andarono.

— Non potevo prendere del denaro guadagnato da lei, capisce — disse lo Zuane. — È mia nipote, l'ho allevata io, l'ho educata io. Una cosa orribile! Mi ha tradito.

Soffrivo inesprimibilmente, mi pareva d'essere un traditore io stesso, a permettere ch'egli parlasse così davanti a lei; ma ella lo voleva. Aveva voltato il viso alle finestre, adesso. Chi ci spiava dall'altra sala poteva credere che guardasse la luna e la tormenta. Dio, perchè si ostinava a star lì? Le toccai leggermente una spalla. Ella m'indovinò, negò del capo con la stessa muta energia di poc'anzi.

Lo Zuane tacque un poco, aspettandosi forse qualche domanda. Poi riprese:

— Quell'anello mi era caro, una volta; adesso no, adesso no!

Io lo interruppi, gli offersi di accompagnarlo a casa, dove la signorina Lisetta stava forse in angustia. Potrebbe parlarmi per via se volesse.

— Sì sì — rispose senza muoversi — ma del resto è presto detto. Tutte le miserie che si possono soffrire in terra io le ho sofferte dodici anni perchè questa creatura diventasse artista. Ella lo aveva promesso fin da bambina, prima a Dio poi alla Madonna — ogni artista è credente, signore! — E lo diventava. Grande artista! Io morivo di fame e di consolazione, signore. Ebbene, viene un giovane, un ricco, uno che non sa cosa sia l'arte, uno che dice: ti sposo, ma niente scena, ma niente grandezza, ma niente gloria. E allora si dimentica Dio, si dimentica la Madonna, si dimentica tutto, signor mio, si spezza il cuore a questo vecchio. Non basta.

— Insomma, signor Zuane — esclamai, non potendo più reggere — è tardi, andiamo.

— Non basta — prosegui egli alzandosi. — Il marito muore, perchè lassù, capisce, vi è una giustizia.

La povera signora, sopraffatta, giunse le mani.

— Dio, questo no! — diss'ella.

Non potrei raccontar bene ciò che seguì in quel punto. Forse nessuno lo potrebbe. So che lo Zuane gridò, che accorse gente, che vi fu un tafferuglio, che il cieco fu condotto via, che la Fedele mi scongiurò di accompagnarla fuori subito subito, all'aria, alla solitudine.

La tormenta non soffiava più, ma il freddo era pungente. La guglia del Piz Vogel fumava ancora di neve. Ci avviammo in silenzio dall'altra parte, verso la luna e l'orizzonte basso, largo, tutto dentellato, fra due grandi montagne argentee, di punte nere d'abeti. Di là dalla villetta dell'ingegnere C. faceva meno freddo; la mia compagna rallentò il passo.

— Mi perdoni — diss'ella — se Le reco tanto disturbo. È la prima e l'ultima volta, sa. Non mi vedrà più, mai più. Domani spero che avrà la carità di fare ancora qualche piccola cosa per me e poi non udrà neppure più il mio nome. Mai più. Fedele è il mio nome di battesimo. Non posso esser altro che fedele.

Su queste ultime parole la sua voce si abbassò, quasi si spense, come se avessero qualche triste senso nascosto. Le vidi brillare gli occhi di lagrime. «Non mi vedrà più, non udrà più il mio nome». Perchè diceva così? Cosa voleva fare? Mi si stringeva il cuore. Doveva soffrir tanto, pover'anima delicata, e mi si rivelava così pura! Con quel viso, con quella voce, con quel tenero nome insolito, mi pareva una delle creature che si amano in sogno.

— Mi ha posto nome lui, Fedele — diss'ella. — Ha ben capito, non è vero, ch'è mio padre? Poveretto, non lo ha voluto dire. La vergogna gli pareva troppo grande. Non dico mica di non avere colpa, sa. È vero che avevo promesso a Dio e alla Madonna. Povero papà, forse aveva fatto troppo conto sulle promesse d'una bambina: forse il Signore non ne ha fatto tanto. Ma non voglio mica giudicarlo, povero papà. È la disgrazia nostra, di tutti, che abbia un sentimento così. Io non ho nessuna amarezza con lui. Solo non ho potuto...

Non seppe reggere al ricordo delle parole dure che più l'avevano offesa. Le mancò la voce.

— È stata troppo amara — soggiunse dopo un istante, sospirando. — Troppo amara! Perchè lui, caro, gli voleva bene, malgrado tutto, al mio papà, e quel che ho fatto per tornare con il mio papà, me lo ha insegnato lui dal paradiso. Solo non voleva che andassi sul teatro. Il papà credeva che dopo la disgrazia lo avrei accontentato, ma non è mica possibile; bisogna bene che lo ubbidisca più di prima, mio marito, caro. Oramai poi ho perso tutte le speranze che il papà faccia pace. Neanche l'anello della povera mamma è giovato a niente. Ma l'aspettavo, sa, ma volevo pur tentare un'ultima volta. E adesso vorrei pregarla di parlare domani alla Lisetta.

Le dissi che disponesse pure di me per qualunque cosa.

— La ringrazi tanto, prima di tutto, la Lisetta — diss'ella. — Ha fatto quello che poteva, poverina, per aiutarmi. Le dica che non le scrivo perchè proprio non posso, e non so neanche se le scriverò più; ma che tutta la roba mia è sua e che le carte e i denari sono a Milano in mano dell'avvocato Benvenuti, via S. Andrea, n. 23. Vuol prender nota?

Notai nel mio portafogli, al chiaro di luna, il nome e l'indirizzo. Il cuore mi batteva forte, sentivo di scrivere qualche cosa di sinistro, la fine, quasi, di un'esistenza, la fine di quella dolce, bella creatura, tanto giovane, tanto amante, tanto mite con il fanatico furioso che l'uccideva.

— Ecco — dissi, riponendo il portafogli.

Eravamo giunti a quella fornace dove si spicca dalla via maestra il sentiero del laghetto.

— Vorrei andare al lago — diss'ella tranquillamente come se tutto fosse oramai finito in pace; e mi nominò un mio libretto, dove si tocca di questo lago alpino. L'idea di andare al lago a quell'ora, dopo quei discorsi, mi colpì tanto che me le opposi con troppo manifesto orrore. Fedele sorrise un poco. — Torniamo pure — diss'ella; e fatti pochi passi in silenzio, si pose a cantar sottovoce:

Ah non fia mai che nell'inferno

Io sia dannata al fuoco eterno.

Ne fui rassicurato. Solo mi doleva di averle potuto attribuire per un momento quell'idea orribile e d'essermi tradito. Volevo ora domandarle che intendesse fare, e non osavo. Ella non parlava più. Passata la villetta C., mi disse che voleva farmi sapere il suo nome, che suo marito si chiamava Vida, e ch'ella aveva tenuto nascosto questo nome acciocchè suo padre, venendo per caso a udirlo, non fuggisse addirittura da S. Bernardino.

Giungemmo al villaggio deserto, tutto bianco di luna. Nel porre il piede sugli scalini dell'Hôtel Brocco, mi feci coraggio e incominciai:

— Lei parte?

— Domattina.

— E posso sapere...?

Fedele esitò.

— Glielo dirò — rispose a bassa voce — ma non lo ripeta a mia sorella. Me lo prometta! Vado a Marsiglia.

La guardai, le stesi la mano senza poter parlare. Ella mi diede la sua.

— So che ci muoio — soggiunse — ma in ogni caso andrei suora.

Ci parve udir parlare nell'albergo.

— Domani — diss'ella in fretta — non venga mica a salutarmi quando parto. I suoi amici sono troppo cattivi, mi criticheranno, già, per la mia famigliarità di stasera. Non racconti mica niente, sa. El ghe diga ch'el xe el nostro far, de nualtre veneziane.

Le strinsi la mano forte forte, con ambo le mie. Fu il nostro muto addio.

— Dunque — mi disse l'indomani mattina, alla fonte, la signorina Prina, tutta sfavillante d'ironia — glielo avranno ben trovato, quel verso, iersera?

— Che verso? diss'io.

— Caro! — esclamò la signorina; e si mise a declamare con un enfasi sarcastica:

Mi me se inchiava i denti

Quando te voi parlar;

E digo: i xe accidenti...

Me l'avevano trovato, il verso, sì. E digo: el xe el mio far. Ma io lo tacqui, sdegnai concedere ai motteggi di quell'altera signorina, che m'era del tutto indifferente, le ultime parole di Fedele.

PRIMO INTERMEZZO.

CLEMENTI Op. 26 — Lento

L'AMANTE

Batto piano nel silenzio de la notte a la tua porta,

Palpitando, pien d'orrore; ho sognato ch'eri morta.

Ch'io t'abbracci, anima, vita, ch'io ti baci, ch'io ti miri,

E se tutto a noi si nega, ch'io ti senta se sospiri!

VOCE DALL'OMBRA

A quest'ora chi mai batte, chi mai geme, chi mai chiama?

L'AMICA

M'oda m'oda egli che teme, m'oda m'oda egli che ama.

Vado in sogno a la foresta dove un dì posar ne piacque;

Ride il sole, accennan l'ombre, cantan venti, parlan acque.

Una dice: l'ami ancora? — Quando torna? l'altra dice.

Io le ingenue voci ascolto, taccio e rido in cor felice.

L'AMANTE

Batto ancor, tu sei felice, io qui solo tremo e anelo,

La mia casa è sì lontana, vento e luna son di gelo.

Sorgi, vieni, mi raccogli nel tuo sogno se lo sai.

L'AMICA

Seguo il sogno, vo tra il verde, vo tra l'ombre, il vento, i rai.

Taccio e rido a la fontana, poi folleggio, corro e canto,

— M'ama un poco — ai fior susurro, grido al cielo — l'amo tanto!

— Presto è mio — racconto al sole, — sarai fuoco — mi risponde,

— Presto è mio — racconto al fiume — or sii pura! — sclaman l'onde.

Dico al vento: va ov'è luna, va ov'è gel con un addio,

Con l'odor de le mie chiome, col tepor del labbro mio.

UN'IDEA DI ERMES TORRANZA

I.

Il professor Farsatti di Padova, lo stesso ch'ebbe con M.r Nisard la famosa polemica sui fabulæque Manes di Orazio, soleva dire di Monte San Donà: «Cossa vorla? Poesia franzese!» Il solitario palazzo, il vecchio giardino dei San Donà gli erano poco meno antipatici di «monsiù Nisarde» sin dall'autunno del 1846, quando vi era stato invitato dai nobili padroni a mangiare i tordi, e fra questi gli si erano imbanditi degli stornelli. Dal viale d'entrata, con i suoi ippocastani tagliati a dado, al laberinto, ai giuochi d'acqua, alla lunga scalinata che sale il colle; dalla base all'attico pesante del palazzo, l'eccellente professore trovava tutto pretenzioso e meschino, artificioso e prosaico. «Cossa vorla? Poesia franzese!»

Al tempo degli stornelli, forse, sarà stato così. Il professore non ha più voluto rivedere Monte San Donà e dorme profondamente da parecchi anni nel suo campo di battaglia, come posson ben dirsi:

...... Nox fabulaeque Manes

Et domus exilis Plutonia.

Adesso la famiglia San Donà, che ha vissuto con un certo fasto sino al 1848, pratica rigidamente, sotto l'impero del nobile sior Beneto, la economia di cui qualche indizio apparve sino dal 1846. Per il sior Beneto non esiste poesia francese nè italiana; e, sulla collina, il giardino, lasciato pressochè interamente in balìa delle proprie passioni, ha sciupato le fredde eleganze, ha preso, fra i vigneti blandi degli altri colli, un aspetto selvaggio, vigoroso, che gli sta molto bene in quel seno solitario degli Euganei. Al piano il laberinto fu messo a prato; i tubi dei giuochi d'acqua son tutti guasti; agl'ippocastani il sior Beneto ha sostituito due filari di gelsi. Voleva abbattere con lo stesso scopo scientifico i pioppi secolari del viale pomposo che da Monte San Donà mette ad un'umile stradicciuola comunale; ma la signorina Bianca li difese con passione e lagrime contro l'acuto argomento di papà: «bezzi, bezzi». Quando, nell'aprile del 1875, Bianca sposò il signor Emilio Sparcina di Padova, chiese ed ebbe in dono dal padre la promessa di lasciar in pace i cari pioppi che l'avean tante volte veduta correre e saltare, prima del collegio, con le sue rustiche amiche, e più tardi leggere Rob Roy, Waverley e Ivanhoe, tre poveri vecchi libri della sottile biblioteca di casa, tre poveri vecchi libri immortali che ora aspettano sul loro scaffale altre cupide mani, altri ardenti cuori inesperti della nostra grande arte moderna.

Ermes Torranza, il poeta, le diceva che ella stessa, a quindici anni, pareva un piccolo pioppo ridente a ogni soffio di vento, e che certo le colossali piante la ricambiavano di tenerezza paterna. Torranza lo diceva sul serio; egli aveva nel sangue questo fantastico sentimento della natura, questi istinti che i nostri freddi critici corretti gli rimproveravano, forse a torto. Infatti, nel settembre del 79 Bianca tornò a Monte San Donà, sola, col cuore amaro; e le parve, passando fra i pioppi, che Torranza avesse ragione, che le piante pigliassero con lei la espressione di quel biasimo affettuoso che vien significato con la tristezza e il silenzio. Il piccolo sior Beneto non tenne questo metodo. Lo aveva sempre detto, quel padre sapiente e profetico, che la sarebbe andata a finire così, che troppi libri e troppa musica non conducono a niente di buono, che a forza di volersi raffinare ci si scavezza. Credeva, la signorina, di esser nata per sposare un principe, un Creso, un chi sa cosa diavolo mai? Eran questi gli esempi avuti dalla santa donna di sua madre? La mansueta signora Giovanna San Donà, una santa per forza, non partecipò alle collere del suo temuto signore, anzi godè segretamente che la ragazza non si fosse lasciata metter i piedi sul collo e santificare come lei. Bianca aveva riamato abbastanza sul serio il bel giovinotto biondo fattosi avanti, dopo un lungo sospirare, per la sua mano; ma i suoceri grossolani, avari, stizzosi, le eran riusciti intollerabili. Il marito, buono ma debole, non osava proteggerla a dovere; indi sdegni e lagrime. Non c'erano figli; e così Bianca aveva potuto, in un impeto di collera, tornarsene al suo solitario angolo degli Euganei, ai suoi pioppi venerabili.

Aveva creduto, sì, a prima giunta, esserne guardata severamente; ma poi raccontò loro tante e tante cose che ogni freddezza fra le vecchie piante e lei ne fu tolta. Due mesi dopo il suo ritorno, quand'ella vide, un lucido giorno di novembre, che le ultime brine e il gran vento del dì innanzi le aveano spogliate di foglie sin quasi alla vetta, quei tremoli pennacchi giallo-rossicci le misero una malinconia da non dire; sentì che i pioppi la salutavano da lontano come amici fedeli, prossimi a venir meno, a perder la parola ed i sensi.

Tutto veniva meno con essi nella gran pace, nella luce limpida del pomeriggio di novembre; tutto, tranne il bruno dorato dei cipressi che dai vigneti deserti presso a Monte San Donà si rizzavano qua e là sul cielo biancastro d'oriente. La giovane signora avea lungamente passeggiato i vigneti, e ora, al cader del sole, scendeva piano piano la costa che ne beve con i suoi cavi sassi e con le quercie inclinate l'ultimo tepore. Ella guardava, distratta, più le foglie dense sul sentiero, più l'erbe grigie e gialliccie dei pendio che il piano e i colli dorati, e il tenero cielo caldo del ponente. Perchè mai aveva pensato, la sera precedente, appena spento il lume, a Ermes Torranza? Perchè ne aveva sognato tutta la notte? Perchè non poteva ancora liberarsi da questa immagine? Eran pur quasi tre mesi che non vedeva il poeta, di cui nessuno a Monte San Donà le parlava mai; ed egli le avea scritto una volta sola in principio d'ottobre per inviarle una romanza da camera. Bianca credeva ai presentimenti, non dubitava che avrebbe presto riveduto l'amico suo; ma pure, come spiegare una impressione così forte? Ella ammirava l'ingegno di Ermes Torranza, gli voleva un gran bene per la squisita nobiltà dell'animo, per la conoscenza che aveva sin da bambina; ma il poeta era sui sessant'anni, e benchè le portasse un'amicizia più appassionata che paterna, e la sapesse esprimere molto bene in prosa e in versi, con la musica e i fiori, non poteva turbare il cuore della giovine signora; la quale correva, con esso il solo pericolo di offenderlo quando bisognava posare una delicata parola fredda sulle sue effervescenze troppo giovanili. Avea ben pensato a lui tante volte con affetto, povero Torranza; non era mai stata assediata come ora dalla sua immagine. Proprio nello spegnere il lume le era venuto in cuore il nome strano Ermes; e subito aveva veduto l'uomo, la barba bianca, l'abito nero, la gardenia all'occhiello. Si fermò involontariamente per una foglia che cadeva in lenti giri, davanti a lei; e ripensò come lo aveva riveduto in sogno, i versi dolcissimi che le aveva letti, la divina musica che aveva suonato stendendo la mano sul piano senza toccarlo. Venendole meno la vivezza del ricordare, a poco a poco le voci lontane per la pianura, un frequente zittir d'insetti nell'erba la richiamarono al vero. Si ripose in cammino sotto le quercie piene di sole, guardando trasparir dal fogliame secco gli antichi tronchi verdi d'edera che le parlavano, anch'essi! della strofa in cui il Torranza parla a certa gente del proprio ideale:

Se voi seguite, aride foglie, il vento,

Tutti vi sdegna il mio fedele cor;

Di ruine, com'edera, è contento,

Sul nobil tronco ch'egli ha amato, muor.

Glieli racconterebbe, a Torranza, questi fatti bizzarri. Lui già metterebbe in campo il suo spiritismo, la occulta influenza di una psiche sopra un'altra. Quest'idea le toccò il cuore come la sensazione di un mondo strano, forse non reale ma possibile; e, se reale, anche presente, anche circonfuso a lei; non solamente circonfuso, ma nascosto nel suo petto, inconscio nei misteri dell'anima.

Una campanellina flebile suonò le ore da lontano, in mezzo ai campi; una, due, tre e mezzo. Non era più da credere che Torranza venisse in quel giorno.

Bianca trasalì. Le pareva udire una carrozza sulla strada di Padova; ma ne passavano tante! Tutti volevano godere quelle deliziose giornate di novembre. Sì, sì, i cani della fattoria abbaiavano, le ruote stridevano sulla grossa ghiaia del viale d'entrata. Bianca affrettò il passo. Per tornare alla villa doveva scendere, poi risalire.

Presso a casa trovò un ragazzo che veniva in cerca di lei. Erano arrivati tanti signori in due carrozze e la padrona gli aveva detto di correre a cercare la padroncina. Non sapeva il nome di questi signori, nè se ci fosse tra loro un vecchio vestito di nero, con la barba bianca. Gli pareva di sì, ma non n'era sicuro.

Bianca entrò trafelata nella sala a pian terreno dove tutti erano ancora in piedi e Beneto distribuiva, qui i suoi ossequi, lì le sue riverenze, a destra i suoi rispetti, a sinistra la sua servitù, qualche complimentino sotto voce, qualche risatina cerimoniosa. Bianca si fermò sulla soglia, raccolse tutta quella gente in un'occhiata; il poeta non c'era. Erano i Dalla Carretta con i loro ospiti, un piccolo museo archeologico di lunghi scialli scuri, di cappellini barocchi, di calze e nappe canonicali, di facce slavate; gente noiosa che veniva lì una volta l'anno, per convenienza, a sedersi in giro e a guardarsi un tratto in viso senza saper che dire; dopo di che un vecchio servitore in giacchetta bigia entrava molto dignitosamente portando il caffè e i pandoli che il cavalleresco Beneto serviva con i suoi scherzetti sempre uguali, di cui la compagnia rideva regolarmente ogni anno sullo stesso tono e sulla stessa misura. Perdere un bel tramonto di novembre per costoro! Bianca non li poteva soffrire, le toglievano il respiro.

— Non so — le disse fra un sorso di caffè e l'altro il canonico Businello — non so se La sappia la brutta notizia...

— No. Che notizia?... — rispose Bianca a fior di labbro.

— Ah, sicuro — dissero due o tre voci sommesse. — Ah, sicuro.

— Il povero Torranza, poveretto... — soggiunse compunto il canonico, intingendo nel caffè l'ultimo pezzetto della sua ciambella.

Bianca si sentì una stretta al cuore, un formicolìo freddo al viso; e non potè articolare parole.

— Pur troppo — disse monsignore agitando la tazza in giro per sciogliere lo zucchero rimasto al fondo. — Mancato, sì, poi... — Vuotò la tazza e soggiunse sospirando: — Iersera, alle undici e mezza.

Bianca perdette un momento la vista, ma oppose all'emozione un voler violento, un impeto, quasi, di collera, e vinse. La signora Giovanna la vide farsi pallida pallida e fu per alzarsi sgomentata; una rapida occhiata dura di sua figlia la fermò sull'atto. Le signore Dalla Carretta, che conoscevano certi maligni epigrammi corsi a Padova sulle fiamme senili di Torranza, si guardarono alla sfuggita e tacquero.

Intanto il canonico raccontava che Torranza s'era posto a letto due o tre giorni prima senza sofferenze gravi, però con tristissimi presentimenti. La catastrofe doveva esser avvenuta improvvisamente; ma egli non poteva affermarlo. Era partito da Padova poche ore dopo, alle dieci del mattino. La città era già piena della notizia; si sapeva che la Giunta Municipale doveva raccogliersi d'urgenza.

— Le solite commedie — esclamò il sior Beneto. — Beata, quella gente là, di poter far del chiasso e spender dei soldi. Capaci di ringraziar Dio che quel povero infelice sia morto adesso che ci son loro in Comune. E cosa crede, Monsignore, che vogliano onorarlo per quei quattro versi? Ma neanche per idea! È perchè era famoso anche lui a spendere e spandere. Basta questo, caro lei. Un uomo grande!

— Papà — disse Bianca agitatissima — se deliberano qualche cosa per Torranza, fanno più onore a sè che a lui.

— Idee tutte vostre, queste — replicò Beneto dispettosamente. — Idee tutte vostre. Non mettetevi mica in mente ch'egli fosse poi questa gran cosa. Non m'intendo di versi, ma siamo stati a scuola insieme, con Torranza, e posso dirlo. Volete metter la testa di Farsatti?

— No, no, no — interruppe con certa secchezza molle il canonico. — Per talento, lasciamolo stare, il povero Ermes ne aveva più del bisogno; ma criterio, signora! criterio, La mi scusi proprio, neanche una briciola.

— Egli era de' miei amici, l'avverto, monsignore — rispose Bianca. — A me queste cose non si possono dire.

— Ah, bene! — fece monsignore scuro. I Dalla Carretta si rannuvolarono. Ma Beneto non permise che la finisse così, in un silenzio burrascoso.

— Monsignore parla benissimo — disse egli — e mi meraviglio di voi che non le abbiate mai capite, certe cose.

— Basterebbe l'affare dello spiritismo — osservò a mezza voce il vecchio conte Dalla Carretta, rivolgendosi con un sorrisetto al canonico, per confortarlo.

— Euh! — disse questi, alzando gli occhi e le sopracciglia. — Io non parlo.

Una zitellona della compagnia chiese, facendo l'innocente, se Torranza fosse proprio spiritista. Il canonico, che non voleva parlare, si sfogò. — Spiritista fanatico, era. Aveva una biblioteca di pubblicazioni tedesche, francesi, inglesi, americane sullo spiritismo. Stava traducendo un libro di un certo Fechte o Fochte o Fichte, pieno di quelle minchionerie.

— Sì capisce che Lei non lo ha letto — interruppe Bianca.

— Sta a vedere — saltò su il sior Beneto — che mi diventate spiritista. Vorrei vedere anche questa.

Bianca fu per dare a suo padre una risposta audace e pungente. Si contenne e rispose solo che non amava i pregiudizi di nessun colore.

— Adesso gli potremo dare la prova, allo spiritismo del povero Torranza — osservò un signore — perchè, e questo l'ho udito io con le mie orecchie da Pedrocchi, egli diceva che dopo morto si sarebbe fatto sicuramente vedere e intendere da qualcheduno.

Beneto nitrì una risata gutturale, a bocca chiusa.

— Gesummaria, papà! — disse la contessina Dalla Carretta al suo genitore.

— Matto, cara, matto! — rispose questi.

— Eh, matto, poveretto; eh, matto. — Ciascuno guardava il suo vicino, gli passava la parola a mezza voce. Bianca si alzò senza dir nulla, spinse via nervosamente la sua sedia e uscì.

Beneto fremeva, la signora Giovanna stava sulle spine. Dopo un breve silenzio, la Dalla Carretta guardò, imbarazzata, suo marito, piegando la persona; in un attimo tutti furono in piedi, contenti, sollevati da un gran peso. Beneto discese la scalinata a braccio della contessa, che gli espresse, con molta ipocrisia, il suo rincrescimento per i discorsi che si eran fatti prima, per il dispiacere arrecato alla signora Bianca. Beneto protestò. Aveva gusto che sua figlia imparasse a conoscer meglio il mondo; era stato anche lui amico di Torranza, per tradizioni di famiglie; ma pur troppo quel vecchio matto aveva esercitato una pessima influenza in casa Squarcina. Intanto, dietro a loro, scendeva la brigata tutta susurri maligni, interrotti prudentemente da qualche osservazione a voce alta sul tramonto vermiglio, sulle campane della parrocchia che suonavano per l'ottavario dei morti, sul nero nebbione che si levava dall'orizzonte, soffiando.

Ecco i due carrozzoni che si fanno avanti: ecco daccapo gli ossequî, i rispetti e i doveri. I lunghi scialli scuri, i cappellini barocchi, le nappe canonicali, le slavate faccie noiose si allontanano sotto i pioppi, e il sior Beneto ritorna su, borbottandosi la lettura di un foglio consegnatogli dal cursor comunale che lo segue col berretto in mano. Giunto sulla spianata, trova un servitore uscito ad avvertirlo ch'è in tavola; e fa chiamar fuori la padrona.

— Qui c'è l'annuncio di Torranza — diss'egli — e questo galantuomo ha un'altra lettera. Pagate voi?

— Cosa? — diss'ella timidamente.

— Cosa? La multa, cosa! Se vostra figlia si fa scrivere da dei disperati che riempiono Dio sa quanti fogli e poi non sono in caso di metter fuori otto palanche, suo danno! Io non pago sicuro.

La signora Giovanna guardò la lettera.

— Viene da Padova — diss'ella esitando.

— Eh, si sa, cara, che pagate!

— È urgentissima — susurrò la povera donna.

Beneto le domandò qualche cosa con gli occhi e un cenno del capo.

— No — diss'ella. — Mi pare e non mi pare di conoscerlo, il carattere: ma di quella casa là no certo.

— Benone! — esclamò l'ironico marito. — Adesso poi, siccome sarebbe una pazzia, così son sicuro che pagate. Accomodatevi pure.

Ed entrò in casa.

La signora non aveva un soldo in tasca, ma fece subito qualche segreta convenzione col cursore, che salutò e sparve nella nebbia, dilagata, in un batter d'occhio, sul piano. Il triste oceano bianco fumava su tutti i pendii, metteva le prime ondate taciturne sulla spianata di Monte San Donà. Ancora un momento e avrebbe chiusa la casa nel suo vapor denso, avrebbe affacciata a tutte le finestre la sua malinconia stupida.

— Ci vorrà un lume, a tavola — disse al domestico la signora San Donà, rientrando.

— Niente, niente — gridò Beneto dal salotto — non occorre lume che ci si vede benone. Sbrigatevi e dite alla principessa che si degni, almanco, di non farsi aspettare.

II.

L'annuncio così crudo, inatteso, della morte di Torranza era stato per Bianca un colpo di sgomento e di dolore, che volle celare, quanto potè, a quella sciocca compagnia pettegola. Comprimer lo sdegno le riusciva men facile; e, venuti in campo i discorsi di Torranza al caffè Pedrocchi, era uscita per non prorompere contro suo padre che rideva e gli altri che compativano.

Si chiuse in camera. L'immagine di un nuovo Torranza, di un Torranza morto assai più grande e buono che non le fosse mai parso il vivo, le riempiva l'anima; e lo pianse, meravigliata delle proprie lagrime, di sentirsi una tenerezza tanto profonda. Averlo lasciato partire così, senza un addio! Ecco, se non fosse stato quel ch'era stato, ella si sarebbe trovata a Padova, lo avrebbe potuto vedere. Si rimproverò d'aver risposto un po' tardi all'ultima sua lettera, di non averlo ringraziato bene della romanza. Tante altre sue piccole negligenze, tante altre lievi freddezze punto necessarie che avevan forse rattristato il poeta, le tornavano tutte al cuore, le facevano male. Egli, un potente creatore d'anime e di figure ideali, l'aveva cullata, da bambina, sulle sue ginocchia, l'avea consigliata dopo il collegio, negli studi; sposa, l'aveva condotta alla più squisita intelligenza d'ogni arte; finalmente s'era innamorato di lei come delle creature a cui il suo genio aveva dato vita e passione. Adesso Bianca voleva persuadersi d'essere stata amata così; sentiva più pura, in questo concetto, la memoria del poeta, a sè più alta, più vicina al paese in cui vivono i sogni dei grandi poeti spiritualisti. Egli l'amava ancora, povero amico; le si era voluto ricordare dal paese dei morti appena giuntovi. Era spirato alle undici e mezza; e Bianca si era sentito, prima della mezzanotte, il suo nome strano nel cuore.

Si picchiò all'uscio; era la signora Giovanna con una lettera urgentissima. Bianca prese la lettera senza guardarla, pregò sua madre di scendere a pranzo, di lasciarla sola. Non voleva trovarsi con papà prima d'essere un po' più calma; temeva che certi discorsi la irritassero troppo, le facessero dire quello che non avrebbe voluto. La signora Giovanna se n'andò sospirando mentre sua figlia, chiuso l'uscio, si sorprendeva dell'oscurità sopravvenuta nella camera, del torbido mare che saliva davanti alle finestre. Vide per un momento ancora i fantasmi dei vasi ritti sul muricciolo della spianata, qualche altro spettro di piante vicine; poi niente, neppure un'ombra nel bianco immenso, eguale, impenetrabile. E stette a guardarvi su, attonita, sentendo la voluttuosa dolcezza di trovarsi lì nella sua piccola camera tepida, a pensare, in grembo a quell'oceano silenzioso; sentendo una rispondenza arcana, indefinibile delle cose esterne con i pensieri che le empivano il cuore. Si ricordò a un tratto della lettera che aveva in mano, l'accostò a' vetri per decifrarne il carattere.

«Oh Dio!» diss'ella.

L'aperse in furia con le mani convulse. Vi trovò uno scritto e una fotografia. Ravvisò tosto la barba bianca, l'abito nero, il fiore all'occhiello; lui insomma, Ermes Torranza.

Sentiva di dover leggere subito, non ci vedeva, non sapeva che si facesse, andava per la camera con la lettera in mano cercando a tastoni una candela che non v'era. Abbrancò un cerino sul suo tavolino da notte e l'accese. La fiammella mise un picciol lume sul legno lucido e sul crocefisso di bronzo, un gran buio nella camera. Bianca s'inginocchiò, macchinalmente, e lesse, sempre ginocchioni, lo scritto che segue:

Padova, 26 ottobre 1879.

«Cara, non si turbi, non si sgomenti; legga questa lettera come io la scrivo, con la tranquillità più serena. Non è niente; il vecchio codino Torranza, che cosa strana! se ne va. Mi dia la buona notte, cara Bianca; dispongo perchè questa lettera Le sia inviata appena spento il lume.

«Avvertito da una voce interna, ho fatto stamane, spontaneamente, quello che fece, prima di morire, il codino mio padre; adesso mi sento nel cuore qualcosa che si allenta, e insieme un silenzio pieno di riverente aspettazione. Avrò forse ancora quattro, sei, otto giorni; mi basta un'ora, per Lei.

«Bianca, nei nostri passati colloqui Ella mi parve temere, qualche volta, di un'ombra; il suo gentile affetto per me n'era turbato, non sapeva come esprimere un risentimento. Non è vero? Pure vi è solo nel mio cuore una tenerezza che in questo stesso momento solenne non offende i pensieri più alti; tutta la colpa è del vecchio sangue fantastico che lascia sempre un po' di colore sui sentimenti e sulle parole. Mi perdoni e sorridiamone insieme, oramai.

«Ho a farle un'altra preghiera e voglio porvi su il suggello della morte. Mi è amaro non averle dato in addietro più prudenti consigli circa i Suoi dissensi domestici e discender nella tomba con questo pensiero. Bianca, per il bene Suo, per il bene di persone che Le son care e un poco anche per la mia pace nel mondo a cui vado, mi ascolti; non resti a Monte San Donà. Ella, in fondo al cuore, ama certo ancora Suo marito. Questo povero giovane fa pietà. L'altro giorno mi ha parlato di Lei per un'ora, con le lagrime agli occhi. Mi disse di averle scritto più volte, mi riferì le Sue risposte che gli tolgono ogni speranza se i vecchi non acconsentono a una separazione, o, almeno, se non promettono mutare contegno con Lei; e coloro non piegano nè all'una nè altra cosa. Bianca, pensi che qualche diritto ceduto in silenzio, qualche torto patito senza sdegno, non per timore, ma per pietà delle persone ingiuste che ci pensano offendere, leva l'anima nostra al di sopra del loro contatto irritante. Torni con suo marito. Non vi è tanto amore nel mondo da gettar via questo ch'è pur fedele, pur tenero, e non toglie la pace.

«E ora, se si ricorda le nostre conversazioni sul mondo invisibile e sui fenomeni che il secolo nega perchè lo umiliano, non troverà strano ch'io desideri manifestarmi a Lei, dopo la mia morte, in qualche modo sensibile. La sera del giorno stesso in cui riceverà questa lettera, si trovi sola, fra le dieci e le dieci e mezza, nella Sua saletta del piano. Apra la porta che dà sul giardino; le ombre della notte devono poter entrare. Suoni quindi la breve introduzione della romanza che Le ho inviata venti giorni sono. Dopo di questo, se Dio permette ch'io sia presente e possa darne segno, anche lieve, lo darò. Ella non conosce paura e vorrà consentire all'ultima fantasia sentimentale di un vecchio poeta che muore.

«È tempo di dirvi addio, Bianca. Ho qui davanti a me la testina leonardesca che Vi somiglia. Gli occhi dell'incognita sono men grandi, i capelli più chiari; ma l'espressione originale del viso è la stessa. Questo dolce sole d'ottobre che passa tra i miei libri chiusi, brilla sul quadretto. Vi vedo viva, depongo la penna, Vi guardo, Vi guardo, un'ultima irragionevole lagrima mi cade e si perde per sempre, come lo merita. Addio, addio!

«Ponete questo ritratto nel vostro salotto di Padova.

« Ermes Torranza ».

— Sì, sì, sì — singhiozzò Bianca appassionatamente. — Tutto! — Si chiuse il viso tra le mani, promise a Torranza, con uno slancio del cuore, che avrebbe appagato tutti i suoi ultimi desiderî e pregò, senza parole, per esso.

Cadendo quell'impeto di fervore, il suo pensiero si assopiva, si perdeva, senz'avvedersene, in un altro campo. Ella non pregava più; aperte le mani, guardava la fiammella del cerino, si sentiva tornar nel cuore le conversazioni avute con Torranza sui misteri d'oltre la tomba. Non cercava nè combatteva queste memorie; le lasciava venire, inerte. Ad un tratto spense il cerino, pregò un altro poco e si rizzò. Era notte, il bianco oceano silenzioso empiva sempre le finestre; pareva essere in un'isola. Le venne in mente, malgrado sè stessa, un racconto meraviglioso fattole dal poeta, una camera buia nel vecchio castello reale di Stoccolma, in mezzo al mare; il re Carlo XI che siede taciturno al fuoco ascoltando il dottore Paumgarten parlar della regina morta, poi si alza, va alla finestra e dice al conte Brahe: Chi ha acceso i lumi nella sala degli Stati?

Qui non apparivano lumi; appoggiando il viso ai vetri si vedeva in alto, nella nebbia, un diffuso chiarore lunare. Bianca non potè a meno di pensare alla sala del piano, di vedervisi sola con le candele accese, ad aspettare uno spirito.

Alle sette e mezza uscì di camera senza lume, discese la scala rischiarata dai quattro finestroni che rompono tutto un fianco del palazzo, del primo piano alla cornice. Attraverso i due superiori si vedeva la luna mancare e tornare fra le nebbie fumanti; dei vani azzurrognoli si aprivano e si chiudevano nel cielo.

— Sei qua? — disse dal fondo della scala la signora Giovanna.

Subito dopo, la fessa vocina stizzosa di Beneto gridò più da lontano:

— Presto! Oramai, tanto, la poteva anche andare a letto, mi pare. Presto!

Bianca non gli badò. Quel padre amoroso voleva proprio farle costar poco il ritorno in casa Squarcina!

Egli era in salotto, picchiava e ripicchiava sulla tavola un mazzo di carte, impaziente che sua moglie venisse per la solita partita.

— Qua! — diss'egli, brusco. — Qua! Andiamo!

La rassegnata signora prese il suo posto all'angolo della tavola, presso una lucerna a petrolio. Bianca sedette sul canapè, nell'ombra. Povera mamma, pensava, che vita! Emilio era debole, non sapeva proteggerla; ma però, qual differenza da suo padre! Ella era sicura che suo marito, se non ci fossero i vecchi, la farebbe regina in casa propria. Era andato a piangere da Torranza, povero Emilio! Sentiva di volergli bene anche lei; e bisognava pur prenderlo come la natura lo aveva fatto.

A vu! — brontolava tutti i momenti il sior Beneto. — A vu! Presto!

Egli non rivolse mai una parola a sua figlia, e dopo le otto e mezzo se n'andò, com'era solito, a letto. Allora la signora Giovanna, che prima non aveva mai osato fiatare, si pose attorno a Bianca perchè pigliasse qualche cosa, offerse quanto seppe con una premura timida e appassionata nel tempo stesso; ma Bianca non accettò nulla.

— Quella lettera? — disse sua madre. — Era di casa tua?

— No.

— Disgrazie?

— No, mamma.

— Perchè ho visto urgentissima — rispose l'altra, esitante.

Bianca si rizzò e l'abbracciò.

— Mamma — diss'ella sottovoce — se andassi via presto? Se tornassi con Emilio?

— Oh Dio! — rispose la signora Giovanna commossa — cosa vuoi che ti dica? In coscienza non potrei mica dirti di no.

— Forse lo faccio, mamma.

Alla signora Giovanna vennero le lagrime agli occhi.

— Ma che ti maltrattino poi, no, sai! — diss'ella con voce soffocata, e soggiunse dopo un breve silenzio:

— Se fosse per il papà, sai bene com'è fatto. Non bisogna mica badare a certe apparenze.

— No, mamma, non è per il papà.

— Bene, cara, cosa vuoi che ti dica?

La povera donna prese la sua calza e si mise a sferruzzare frettolosamente. Dopo le asciutte risposte di Bianca non osava toccar della lettera urgentissima, quantunque comprendesse bene che il segreto di questo probabile ritorno in famiglia doveva trovarsi lì. Lavorava e taceva, sperando ottenere qualche spiegazione col silenzio ch'era come un dignitoso dolersi del riserbo di Bianca, un espresso aspettare che parlasse. Ma Bianca non aperse bocca, per cui, verso le dieci, la buona signora, mortificata e non avendo il coraggio di usare autorità, posò il suo lavoro, chiese alla figlia se volesse andare a letto.

Bianca rispose di non aver sonno. Sarebbe andata volentieri nella saletta del piano a fare un po' di musica. La mamma voleva tenerle compagnia, ma ella protestò tanto nervosamente che la signora Giovanna le chiese scusa e, accesale una candela, salì le scale con la sua cerea faccia curva sul lumicino a petrolio.

Bianca s'avviò invece per il corridoio che mette alle camere deserte nell'angolo nord-ovest della casa. Entrò in una sala non grande, ma molto alta, tutta istoriata di affreschi mitologici, vuota; e accese con mano ferma le candele del suo piano attraversato a un canto. La lenta luce si allargò, a destra, sopra un tavolino zeppo di musica; a sinistra, sopra una giardiniera; in alto, su per le membra enormi di non so quali Divinità. Non v'erano altri mobili in tutta la sala; i passi della giovine signora vi pigliavano un suono lungo, vibrante.

Ella guardò l'orologio: le dieci erano imminenti. Cercò un pezzo di musica e lo posò sul leggio del piano. Poi si trasse dal petto il ritratto di Torranza, guardò a lungo la calva testa scultoria del poeta. Oh, voleva bene accontentarne l'ultimo desiderio quand'anche fosse una follìa, voleva fedelmente comporgli la scena poetica, cui egli aveva forse pensato con qualche compiacimento prima di morire!

Si giustificava, così con sè stessa, dei suoi preparativi e della sua emozione, senza confessarsi che aspettava davvero, con uno scuro istinto del cuore, qualche cosa di straordinario. Posò il ritratto sul leggìo e stette un momento, involontariamente, in ascolto. Che cosa si muoveva dietro a lei? Niente, un foglio scivolava dalla catasta della musica. Bianca si piegò a leggere i versi riprodotti sulla copertina del pezzo che aveva davanti. Erano stati composti, lo sapeva, fra il contrasto della passione con il sentimento religioso, da un giovane amico di Torranza, morto pochi mesi dopo, presso la donna non sua che amava malgrado sè stesso, in silenzio; e dicevano così:

Ultimo pensiero poetico

Le finestre spalanca a la luna;

T'inginocchia, mi sento morir.

Da i terror de la cieca fortuna,

Da la guerra de i folli desir,

Esco e salgo ne' placidi rai

Lo splendente universo a veder,

A bruciar ne l'amor che bramai,

Che non volli qui impuro goder.

Ma se orribile un ciel senza Dio

Tra le stelle funeree mi appar,

Ricadrò su quel cor ch'era mio,

Disperato m'udrai singhiozzar.

Bianca si coperse il viso con le mani, si rivide dentro alla fronte le sinistre parole:

Ma se orribile un ciel senza Dio

Tra le stelle funeree mi appar.

Immaginava con un brivido quel che proverebbe se udisse piangere vicino a sè nel vuoto. Aperse la romanza per dar una passata all'introduzione, non troppo facile, che avea letto una volta sola. Ma le pagine non volevano stare aperte, si chiudevano tutti i momenti fastidiosamente. Le fermò col ritrattino di Torranza e suonò, sotto voce, le quindici o venti battute d'introduzione che ricordano molto, in principio, la Dernière pensée musicale di Weber.

Dio, come parlava quella musica! Che amore, che dolore, che sfiduciato pianto! Entrava nel petto come un irresistibile fiume, lo gonfiava, vi metteva il tormento di sentirne la passione sovrumana senza poterla comprendere. Bianca si alzò con gli occhi bagnati di lagrime, andò ad aprir le imposte della porta che mette in giardino. «Le ombre della notte» aveva scritto Torranza «devono poter entrare nella camera».

La notte era chiara. Gli alberi del giardino si vedevano sfumati nella nebbia lattea. Non un susurro, non un soffio; la nebbia, muta e sorda, era immobile.

Bianca tornò con un leggero tremito al piano. Guardò ancora l'orologio; erano le dieci e un quarto. Allora si decise, si raccolse nella musica che aveva davanti, bandì ogni altro pensiero, ogni trepidazione, come se vi fosse dietro a lei un'attenta folla severa, e strappò dal piano, con la sua grazia nervosa, il primo accordo.

Ella suonava ansando, per lo sforzo di metter tutta l'anima nella musica, di non pensare a quel che forse verrebbe dopo. Le fu impossibile eseguire le ultime note smorzate dell'introduzione; il cuore le batteva troppo forte. Passarono dieci, venti, trenta secondi eterni.

Silenzio.

Bianca alzò un poco la testa. In quel momento due colpi sommessi, affrettati, suonarono vicino a lei, che balzò in piedi con un subito ritorno di energia calma, e stette in ascolto.

Altri due colpi affrettati, più forti dei primi; poi un tocco leggero sulla soglia della porta aperta alle ombre della notte. Bianca guardò. Era entrata un'ombra, una figura umana. La giovine signora gittò un grido:

— Emilio! — diss'ella.

Era suo marito.

Egli si fece avanti rosso rosso, a passo incerto e a braccia distese, con la stessa ingenua contraddizione negli occhi, d'imbarazzo e di ardore. Bianca pietrificata, non si moveva.

— Mi aspettavi bene! — diss'egli supplichevole, fermandosi.

Fu un lampo. Bianca vide confusamente che Torranza, chi sa come, avea combinato questo, e rispose: — sì — buttando le braccia al collo di suo marito con impeto così repentino che il povero giovane, tra la felicità e il non capir niente, perdette addirittura la testa e non sapeva che ripetere, fra un bacio e l'altro: scusa, scusa. Ma ella non lo udiva neppure e piangeva piangeva, sentendosi una tenera gratitudine per il suo povero amico, una gran consolazione di esser al posto che Dio, finalmente, le aveva dato nel mondo, presso un cuore forse debole, forse male atto a comprenderla, ma buono e fedele.

— Star qui con la porta aperta — susurrò il giovane carezzevolmente — a quest'aria umida, con il dolor di capo che hai! Non voglio mica, io.

Ella passò in un baleno dal pianto al riso, e rise, rise sul suo petto, rise deliziosamente sentendo tornar l'allegria pazza del suo viaggio di nozze. Povero caro Emilio, credere che un doloruccio di capo di due mesi prima le durasse ancora! Egli restò un momento perplesso e poi rise anche lui di tutto cuore.

— Senti — diss'ella a un tratto, facendosi seria: — adesso spiegami bene tutto.

Suo marito parve sorpreso. — Ma se lo sai! — rispose.

— Lo so, ma ho piacere di udirlo da te. Vien qua, conta.

Camminarono su e giù per la sala, cingendosi l'un l'altro la vita con un braccio, parlando piano.

Lui aveva fretta, voleva sbrigarsi in due parole, dir che Torranza gli aveva scritto di venire, e basta. Ma lei non la intendeva così! Aveva egli seco la lettera di Torranza? No. Quando gli era pervenuta? Questa mattina stessa, prima di mezzogiorno. E cosa diceva, proprio? Diceva presso a poco: la sera del giorno in cui riceverai questa lettera, trovati fra le dieci e le dieci e mezzo, a Monte San Donà. Se vedi lume nella sala del piano, se odi suonare e se la porta è aperta, entra, che Bianca ti aspetta, ed è disposta a tornare con te. — Che data aveva la lettera? Anche la data? Egli non voile più rispondere nè ascoltare; la sua gioia, la sua passione avevano bene il diritto, oramai, di passare avanti a tutto. E si strinse Bianca tra le braccia, le soffocò nel collo un tal impeto di tenerezza che ne perdette anche lei la parola. Ma, improvvisamente, un lieve suono blando lo scosse.

— Zitto! — diss'ella rialzando il viso. Puntò le mani al petto di suo marito e guardò là ond'era venuto il suono.

Al leggìo del piano la romanza Ultimo pensiero poetico si era chiusa sul ritrattino che Bianca, poco prima, vi aveva posato a trattenere le pagine; Ermes Torranza non si vedeva più. Parve all'amica sua che quello fosse il promesso segno sensibile, l'addio del poeta, il quale, compiuta l'opera propria, si ritraesse chetamente, si dileguasse nell'ombra, o per le condizioni misteriose della sua esistenza superiore, o, fors'anche, per effetto di un malinconico sentimento che si poteva comprendere.

— Cosa è stato? — chiese Emilio. — Cos'hai che sospiri?

Bianca tornò a piegargli il viso sul petto.

— Niente — diss'ella.

SECONDO INTERMEZZO

VAN BEETHOVEN. Op. 27

ADAGIO

Il sole è morto, è nero il cielo,

Tutto tace, la terra è gelo,

Sol ne le tenebre

Ondula, palpita

Ancor l'Oceano.

Un canto potente, dolente

Nel profondo del mar si sente.

Per le voragini

Piangendo salgono

Voci di spiriti.

Peccar, miseri, in ciel; li ha infissi

Dio terribile ne gli abissi

Per tutti i secoli

Insino a l'ultimo

Dì de la collera.

Son l'arcano dolor del mondo

Che gemeva nei venti, e in fondo

Talor de l'anime

Sorgeva, incognita

Ombra funerea.

Corre il mare un susurro, un lume

Di lievi, fosforiche spume;

A galla rompono

Nel baglior livido

I tristi spiriti.

Torna buio, muore pur l'onda,

La prece nei ciel si profonda

Solenne, flebile

Di lor che ultimi

Vanno al Giudizio.

IL FIASCO DEL MAESTRO CHIECO.

I.

Rilessi nel vecchio quaderno, dove l'avevo trascritta molti anni addietro, questa sentenza di Lessing: «Lass dir eine Kleinigkeit nicht näher gehen als sie werth ist». — Non lasciarti toccare da una inezia più ch'essa nol meriti. — Alzai gli occhi e vidi la mia vita, vuota e amara per l'oblio di quelle parole sapienti. Anche lei, però! Sì, lei era stata troppo orgogliosa, troppo fiera; ma se io le avessi detto sorridendo: — Badi, le Sue rose avevano questa spina, e mi ha punto qui e vi è rimasta — ella avrebbe levata la spina e forse anche baciata la ferita. Invece io m'ero fitta in cuore, con una strana e crudele compiacenza, quella sua lieve allusione a un passato di cui ero geloso. Il cuore aveva poi date parole acerbe che fecero stupore e offesa; l'amor proprio era entrato subito in mezzo, come naturale nemico di quell'altro amore, a reprimere ogni slancio generoso delle anime; e così, reciso dalla piccola spina un legame che pareva eterno, io non avevo più sposata donna Antonietta, la giovane vedova del tenente colonnello D'Embra di Challant.

Quando chiusi sospirando il vecchio quaderno, m'accorsi d'una lettera col francobollo austriaco, che mi avean gittata sulla scrivanìa senz'avvertirmene, al solito.

Era quel matto del maestro Lazzaro Chieco, il famoso violoncellista e compositore, che mi scriveva così:

Castel Tonchino (o che diavolo è) 24 giugno 1883.

Caro Cesare,

Hai da sapere che il povero Chieco sta da quindici giorni in un Castel Catino del Tirolo, fatto così. C'è un diavolo di montagna a picco, tutta nuda; sotto c'è la strada; questa strada tocca dall'altra parte un laghetto celeste e vi caccia dentro uno sperone di terra e sassi; in cima a questo sperone c'è Castel Tapino. Dovevo andare ai bagni di Comano, ma passando ho visto questo castello che non c'è più stupendo posto per comporre, e ho detto: Chieco mio, se tu non fai il primo atto della Tempesta qui, leverito! come dicono a Fiumelatte, tu creperai senza farlo. E ci sono e scrivo. Tu sai, caro Cesare, che gli amici musicani di Milano mi sputavano su questo soggetto per la gola che n'avevano; ma lo straccione calabrese vuole che se òngen tutti questi ragionàt quanti sono.

Solo che tu mi devi aiutare perchè il poeta veneziano ha il secondo atto in corpo e ponza; e io gli scrivo corajo, corajo! e lui mi risponde grassie grassie, el vien, el vien! ma non viene un accidente. Dunque va in via Brera, pigliamelo per il collo, e se non ti dà l'atto, strozzalo. Quindi tu vieni qua e stai tre giorni con il povero Chieco. Il primo giorno riposerai, il secondo ascolterai la mia musica, il terzo mi rifarai alquanti versi che non vanno e se li mando in via Brera, te saludi! Il quarto te n'andrai fuori dei lazzarei piedi.

Il tuo

Lazzaro Chieco.

PS. — Non mi guardare le donne belle del Tirolo che sono tutte mie. Povero Chieco, e come si fa?

II.

Avevo in mente di lasciar presto Milano e di passare il luglio a Madesimo, ma conoscevo tanto il maestro Chieco e tanto poco il Tirolo, che forse avrei mutato piano, se quella bestia, secondo la quale, tra parentesi, a Milano neppur si fa un risotto senza il ragionàt, il ragioniere, mi avesse indicato meglio il suo Castel Tonchino o Catino o Tapino e la via da tenere. La lettera, per verità, aveva il timbro di Trento, ma era poco. Mi stizzii e non ci pensai più.

Otto giorni dopo ricevetti un'altra lettera con il timbro di Vezzano, dove una tale Purgher scriveva che il signor maestro Chieco, alloggiato nel suo albergo, era pericolosamente ammalato e mi desiderava come il migliore dei suoi amici. La signora Purgher m'indicava di prendere a Trento la diligenza delle Giudicarie fino al ponte delle Sarche, dove nei giorni quattro e cinque luglio avrei trovato persona incaricata d'accompagnarmi dal mio amico. Partii subito e arrivai nel pomeriggio del quattro luglio sotto un sole cocente, al ponte delle Sarche.

Pochi minuti prima avevo riconosciuto a destra la nuda montagna scoscesa sopra il mio capo, a sinistra il laghetto celeste ai miei piedi. Scure collinette boscose lo cingevano dall'altro lato: dietro a quelle si levavano altri monti di un verde più gaio; ma laggiù verso il Garda, il cielo scendeva quasi fino alle ondicelle azzurre, tutte trepidanti nell'ôra del gran lago marino invisibile a mezzogiorno. Vidi il pugno di terra sporgente dalla riva, e sulla punta, il castelluccio ritto e fiero come un falco.

Al ponte delle Sarche trovai una servotta tedesca che mi seppe solo dire «Purgher, Purgher». Entrai con lei nella piccola penisola, seguendo un parapetto merlato, un vecchio baluardo a riposo, contento di cipressi e di rose. Fuori dai merli luccicavan l'acque, tutte vento e sole; dentro viveva e si moveva, sotto l'alto fantasma del castello, un affollato disordine di erbe rigogliose, di fiori incolti, di arbusti selvaggi, di piccoli pini imbozzacchiti.

Ascendemmo, lungo il giro del parapetto, sino all'andito male intagliato nella viva roccia che mette nel cortile del castello; un gibboso macigno, questo cortile, inquadrato di mura nere, di logge medioevali con pitture mezzo stinte, con un chiasso, sui parapetti, di geranî in fiore.

III.

Il castello era un vero eremo. Neppure l'albergatrice si lasciò vedere, e fu la serva che m'introdusse nel camerone bianco dove giaceva, sul cuscino di un letto colossale, il mefistofelico viso del mio povero amico Chieco. Me gli accostai in punta di piedi. Aveva gli occhi chiusi, ma la fisonomia era composta. Dormiva? Mi arrischiai di dirgli piano all'orecchio:

— Lazzaro!

Mi rispose con un fil di voce:

— Chi è?

— Cesare — susurrai — sono Cesare — Allora Chieco, senza aprir gli occhi, sbattè la bocca come un cane che azzanna a vuoto, dicendo sottovoce: — asino! E continuò con una diabolica rapidità, crescendo: — cane, brigante, assassino, ragionàt! — aperse quei suoi carboni sfavillanti d'occhi, saltò in piedi sul letto ballonzolando e gridando come un ossesso: — Entrate, o Purganti di Castel Porcino, entrate a vedere il principe degli straccioni che, se non si crepa, non viene! — e si pose a tirarmi tutto che aveva sul letto, mentre entravano ridendo la tonda signora Purgher e la serva. Colei incominciava a scusarsi meco della burla quando Chieco, non avendo altro nelle mani, fece atto di tirarmi la camicia. Fughe, strilli e risate; restammo soli.

Chieco saltò dal letto, corse così com'era, scalzo e in camicia, a pigliar il suo violoncello e, sedutosi in faccia a me, se lo piantò fra le gambe, attaccò un delizioso andante appassionato. La Purgher e la serva fecero subito capolino all'uscio, ma il maestro s'interruppe, si diede a sgambettar verso il soffitto, fischiando in un suo modo infernale, per cui le donne scapparono da capo, non ci seccarono più. Egli, suonando mi guardava sempre. I visacci che faceva non si scrivono; non sapevo se commuovermi della melodia dolcissima, o ridere della bizzarra faccia, ora lugubre ora sfavillante, ora solenne ora furbesca, ora patetica ora beffarda, comica sempre. Chieco ha trentott'anni, barba e capelli misti di nero e d'argento; ciò accresce la stranezza della sua fisonomia napoletana, piena di sentimento umano e di brio diabolico. Finalmente depose lo strumento. — E come si fa? — diss'egli. — Caro Cesare, e come si fa?

Gli domandai che musica fosse quella.

— Povero Chieco! — mi rispose serio serio: — io ho detto tutto, e questo infelice ragionát non ha capito niente. La mia musica significa, o straccione, che io sono innamorato e che tu ti devi ammogliare.

Io pigliai la cosa come una delle sue solite pazzie per quanto mi giurasse che non aveva mai detto in vita sua parola più vera.

Egli conosceva benissimo le mie passate relazioni con donna Antonietta e me ne parlò in modo tale che lo pregai a smettere. — Quanto sei asino! — diss'egli. — Tu le vuoi ancora bene. — Diventai troppo rosso, forse, ma negai; ahimè, più di tre volte. Intanto Chieco ripeteva su tutti i toni, infilando le mutande: — Quanto sei asino! quanto sei asino! — Tuttavia non mi parlò più di Antonietta.

Invece, appena compiuta la sua toeletta, m'invitò a vedere «Castel Pulcino». Prima di tutto mi condusse in cucina vociando: — O Purganti, o Purganti del diavolo, dove siete? — E trovata, invece della Purgher, la servotta tedesca, incominciò a farle boccaccie, a gesticolarle davanti, a stordirla con un diluvio di schlicche schlocche, da cui la disgraziata doveva capire di preparar subito da pranzo per due; ed accennò d'aver capito tanto bene che Chieco la volle abbracciare prima di portarmi fuori.

Il castello non aveva proprio niente di raro, toltone la postura e quel cortile pittoresco; ma quando Chieco s'infatuava d'un luogo, lo sentiva da gran poeta fantastico, lo idealizzava con una potenza straordinaria.

— Questo è Castel Divino, capisci? — mi diss'egli nel cortile, estatico davanti a un capitello gotico dei più comuni. — Guarda che bestia gentile dev'essere stato lo scultore di quella graziosa porcheria lì! Sono dieci anni ch'io passo otto mesi dell'anno a Parigi e puoi pensare se ho visto Pierrefonds. Ho visto anche i castelli del Reno. Ebbene, sono niente rispetto a questo; ti dico niente. Qui, se tu non sei troppo asino, ci vedi tutti i tempi. Questo pavimento non sa che sia scalpello, tu lo vedi; è ancora dell'età della pietra. Le fondamenta di queste mura son romane. Va qui vicino dal prete di Santa Pazienza, ch'è un sant'omo, a domandare se i Romani non praticavano qui. E poi c'è tutto questo Medio Evo; e poi nelle camere tu hai veduto il Rinascimento fino al rococò; e poi ci sono i Purganti che sono il vile presente; e poi ci sono io che sono l'avvenire!

Gli chiesi se avesse fatto gite.

— Che gite, che gite! — mi rispose. — Queste sono idee da ragionàt. Mi volevano ben mandare a Santa Pazienza, a Mancavino, al diavolo che li porti. Ma io, questi nomi, li fiuto e mi basta. Vado qualche volta a Comano, ecco tutto. Domattina, per esempio, vado a far colazione a Comano.

— Vengo anch'io! — dissi.

— No! — gridò Chieco. — Nossignore! Domattina Lei resta a Castel Tavolino e mi rimpasta qualche dozzina di versi. Io vado per intendermi sul ballo.

— Che ballo?

— Il ballo che si dà qui domani sera. Una cosa magica, mio caro; vedrai. Ho invitato tutti quegli straccioni di Comano per aver lei. Si fan due passi fuori?

— Chi, lei?

Chieco mi piantò per ricomparire due minuti dopo in ombrellino, panama e babbucce.

— Si deve capire ch'io sono in casa mia — diss'egli — e che tu sei uno straccione qualunque. Del resto eccoti lei, ma somiglia poco.

Mi diede la fotografia d'una signora che non mi parve assai giovane, nè assai bella.

— Somiglia poco — ripetè. — La vedrai. È una musica dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Povero Chieco!

Grossi nuvoloni uscivano dalla gola delle Sarche, raggiungevano e celavano il sole; l' òra del Garda soffiava sempre più forte nei pini e negli arbusti, sul lago tumultuante, tutto mobili luci plumbee. Chieco si buttò a giacer supino nell'erba con le mani intrecciate sotto la nuca, e mi volle accanto a sè.

— È una musica — diss'egli. — È la più morbida, fine musica ch'io conosca; è del Bach, per Sebastiano!

Balzò su a sedere per potersi sfogar meglio. Non pareva più il matto di prima.

— Tu sai — diss'egli — o piuttosto tu non sai come disegna Bach. Ebbene, quando lei si muove e io vedo svolgersi tutte le linee del suo dolcissimo corpo e ondulare in aria, così così, dietro di lei, io penso sempre alla musica di Bach.

Scosse forte il capo piantandosi le cinque unghie della mano destra nella fronte.

— Cosa vuoi? — disse. — Ha un orecchio, per esempio, che lo può fare solo il mio violoncello. E due labbra poi, due labbra così frementi di passione e di sensi, di tutti i peccati capitali, mio caro! Benchè sia santa e prude come una vecchia diavolessa inglese. È questo che ti frigge il sangue, capisci? Non ti parlo degli occhi, non sono mica il Padre Eterno per poterne parlare. Ma le mani, per Bach, ma le mani! C'è un birbaccione di professore tedesco che gliele studia con gli occhiali, e gliele ha trovate psichiche! Maledetto, come ha trovato bene! È un pezzo di quattrocento.

Continuò a lungo su questo tono misto di fuoco meridionale e di finezza parigina, di sensualità e di poesia, levando a cielo persino le toelette della dama, delle quali tremava che fossero una cosa sola con quel corpo e quell'anima, che le crescessero vive intorno come il calice al fiore. L'anima? Ah l'anima era musica italiana del settecento, così ricca di vena, così delicata nello scherzo, così composta e precisa nel sentimento, sempre penetrata da una ragione luminosa. Insomma questa donna era la sola degna di sposare Lazzaro Chieco, la sola cui avrebbe voluto sacrificare la sua libertà.

Questo accesso di febbre matrimoniale mi strappò una esclamazione molto ammirativa. Allora Chieco mi parlò con toccante gravità della tristezza ch'era in fondo al suo cuore, sotto tanti pazzi umori, come l'acqua morta, scura in fondo al lago sotto tanto ballare e luccicare d'onde. Era stanco, disgustato di tutto fuorchè della musica e di un suo antico ideale d'amore, non detto mai ad alcuna delle tante femmine che aveva prese un momento.

— Ho trentott'anni — mi diss'egli — ma potrei forse amare ancora ed esser felice come un fanciullo di venti.

— E perchè non lo sarai? — diss'io.

— Perchè questa stupida non mi ama — rispose.

La signora Purgher chiamò da una finestra. Chieco balzò in piedi e, ficcatosi un dito in bocca, cacciò il suo fischio diabolico.

— Andiamo a tavola — diss'egli.

IV.

Mi fece udire quella sera stessa, sopra un piano scellerato, la sinfonia e, in parte, il primo atto della sua Tempesta. Per vero dire, la imitazione delle onde, del vento, dei tuoni, delle urla non mi è sembrata mai, con licenza dell'amico, straordinariamente felice in quella sinfonia; l'ultima melodia, che figura il canto d'Ariele quando acquieta il mare, è soave, ma ricorda forse un po' troppo la Canzone di primavera di Mendelssohn. Invece il pezzo sinfonico che segue, eseguito dall'orchestra a sipario alzato e scena vuota, mi parve veramente, come parve al pubblico sublime. La musica non è descrittiva, ma seconda mirabilmente l'immaginazione dello spettatore che sappia esser quella un'isola deserta dell'Oceano, popolata da spiriti obbedienti a un mago, e dove si prepara uno strano dramma in cui avranno parte quelle aeree potenze misteriose e tante passioni umane.

L'amico mio infondeva nella sua esecuzione una vita indiavolata, mi gridava i nomi degli strumenti, li imitava con la voce, urlava nei punti di grande sonorità, rovesciando il capo all'indietro, tempestando con le braccia e con le gambe. Mi fece udire con gli altri pezzi, il duetto originalissimo di Calibano e Ariele, di cui non erano per anco scritti i versi. — E il duetto dell'anima — mi disse Chieco. — Shakespeare non lo ha immaginato, ma io sì. Lo faccio precedere da un assolo di violoncello ch'è divino. Te lo suonerò poi, fuori di qui.

Il bizzarro uomo suonò infatti più tardi questo pezzo ispirato a capo della scala che scende nel cortile, presso una finestra poetica da cui si domina il lago e si vedon giù, porgendo il capo, le alte mura, lo scoglio, i salici e i fichi selvatici che ne sbucano a pender sull'acqua. Io sedeva sulla scala, cinque o sei gradini più sotto.

Il violoncello sospirava e gemeva più dolcemente di qualsiasi voce umana. Il vento sibilava nelle logge, sbatteva ogni tanto qualche uscio per le solitudini del castello. Un soffio più forte spalancò la finestra, portò dentro il rumore delle onde. Pareva di essere in un'altra isola incantata, di udire un altro Ariele, altre voci confuse di spiriti. Possibile che la sera prima, a quell'ora, io stessi pranzando in Galleria Vittorio Emanuele? Mi pareva un sogno, mi sentiva una vaga commozione, una inquietudine inesplicabile.

V.

Il mattino dopo l'amico mio se n'andò a Comano per tempo. Io vagai lungo il lago, e prese le zette dell'Imarò che fiancheggiano i precipizi in fondo a cui si rigira, per un bagliore di ghiaie, la Sarca verde, giunsi a veder là di fronte, fra montagna e montagna, un cocuzzolo bianco, il ghiacciaio della Tosa. A colazione ebbi con la signora Purgher un lungo dialogo su Chieco. — Matto — diceva — ma che cuore! — Gli avea visto prodigare oro ai poveri come un principe e parole assai più preziose dell'oro; abbracciare una vecchia pezzente che somigliava a sua madre. Di questa lo aveva udito parlar con un fuoco che gli empiva gli occhi di luce e di lagrime. Peccato che non avesse freno nel trattar con le donne! Era un orrore per quello. La signora Purgher finì col farmi acquistare, era la sua frase, un eccellente bicchier d'Isera, dopo di che mi accinsi a rabberciar le strofette melliflue del poeta B. secondo certi concetti shakespeariani espressimi la sera antecedente dall'amico Chieco.

Il pomeriggio di quel giorno e tutto il giorno appresso furono interamente occupati dai preparativi del ballo. Chieco ne parlava come se l'offrisse lui questo ballo, ma in fatto non aveva offerto che la sua direzione, la sua camera, la musica e l'acqua. Le provvigioni, i fiori, i fuochi d'artificio vennero, per cura della società di Comano, in parte da Comano, in parte da Trento, insieme a tre famelici musicanti, un pianista e due violinisti, che noi battezzammo Trinculo, Stefano e Calibano. Chieco ne elesse subito uno a suo gran tappezziere, un altro a suo gran facchino, il terzo a suo grande sottocuoco. Lavoravano come scimmioni goffi, istupiditi da quella novità di mestiere e di padrone, guardando costui con un comico sgomento, non osando ribellarsi nè sapendo se almeno fosse loro lecito di ridere.

— Tu non fai niente, brutto straccione — mi disse Chieco — ma stasera ti cambio nome, vestito e mestiere, ti sollevo a mio primo lustrascarpe e barcaiuolo. Ho fatto venire apposta un canotto da Riva. Gli chiesi il perchè di tanto onore, ma egli non me lo volle dir subito. Dopo pranzo mi prese a braccetto e mi condusse in giardino.

— Parliamo sul serio — diss'egli. — Poichè non la posso sposare io, come si fa? la devi sposare tu. Maledetti voi che siete nati uno per l'altro!

— Mi dirai almeno il suo nome! — interruppi ridendo.

— Non ridere! Tu non sai quanto bestia io sono in questo momento e quanto stupido sei tu. Perchè lei ti vorrà bene, capisci, e tu ne vorrai a lei, e io che se ci penso ti strozzerei come l'ultimo dei piccioni, te la do, te la do e che siate maledetti!

Ciò detto mi saltò al collo, mi baciò, mi strinse in modo che lo credetti impazzito davvero.

— Ti voglio bene, sai — diss'egli — perchè ci conosciamo da tanti anni, perchè non scrivi musica e ti piace la mia; ma se mi amasse, tu non saresti qui. Non ridere e non domandare il suo nome. La vedrai stasera. Se non ti piace è inutile che tu ne sappia il nome. Le ho già detto che ho qui un canotto e un domestico, e che questo domestico sa remare e ch'ella potrà fare una corsa sul lago. Ha accettato a patto ch'io non venga. Andrà con te solo, dunque. E adesso mi dai trentadue lire e settantacinque centesimi.

Feci un atto di meraviglia.

— Oh! furfante! — esclamò Chieco. — Vuoi che l'abbia fatto venire a mie spese il canotto? Vuoi fare all'amore tu e ch'io paghi? Come sei ragionàt!

Non capivo bene, sulle prime, se scherzasse o no, ma il dubbio durò poco. Chieco voleva veramente le trentadue lire e io le sborsai, dichiarando tuttavia che in canotto non ci sarei andato, poichè la sua incognita non mi tentava affatto.

— Oh — diss'egli — tu vuoi farti rendere il denaro?

Alle corte, dovetti promettere, per non offenderlo, di fare a suo modo, ma soggiunsi che non sarei uscito un momento dalla mia parte di barcaiuolo.

VI.

Alla sera Chieco, in frac e cravatta bianca, raccolse una banda di ragazzotti, distribuì loro delle lanterne di carta e delle torcie a vento, li schierò in colonna, vi collocò in mezzo i due violinisti, e, salito sull'asino di casa Purgher, si pose a capo di una bizzarra marcia alle fiaccole, in omaggio a quelli di Comano che doveano trovarsi al Ponte delle Sarche dopo le nove. I violini stridevano, Chieco zufolava, i portafiaccole facevano un chiasso d'inferno, il terzo musicista tirava razzi dal nero culmine del castello, sul monte Cavedine sorgeva un fantasma velato di luna. Io m'imbarcai per una corsa di prova. Il canotto era un vecchio arnese pesante, troppo alto di sponde, fatto per i flutti e le collere, fluctibus et fremitu, del Garda, ben diverso dalla elegante barca inglese che il maestro aveva a Fiumelatte; ma stava a galla, e io non desideravo di più. Approdai subito al luogo indicatomi da Chieco e vi attesi che le fiaccole e i clamori tornassero dal Ponte delle Sarche. Faceva quasi freddo, l'aspettazione di questa signora che piaceva tanto a Chieco m'era sgradevole. Mi dolevo di avere scritto una certa lettera ad Antonietta, di non essere invece partito per S. Vincent dov'ella si trovava. Le avevo scritto per chieder perdono e pace, ma la penna non aveva forse scritto come il cuore dettava, la penna aveva forse talvolta sentito il freno del maledetto orgoglio; non mi si era risposto. Perchè scrivere? La febbrile visione di un incontro con Antonietta venne improvvisamente sopra di me. Era di una vivezza e, in pari tempo, di una mobilità tormentosa. Ora Antonietta mi passava a fianco senza salutarmi, conversando e ridendo con altri, ora mi diceva un freddo «buon giorno», ora il suo lungo sguardo mi correva deliziosamente le vene. Intanto i clamori e le fiaccole tornarono. Udii il fischio di Chieco. Voleva dire che la signora c'era e che mi tenessi pronto.

Ero uscito dal canotto e mi preparavo un'attitudine ossequiosa di barcaiuolo che aspetta, quando comparve Chieco tenendo a braccetto la dama avviluppata in uno sciallo bianco.

— Entra, entra tu! — mi gridò il maestro. — E a posto! La signora siede a prua e al canotto gli dò una spinta io. — Presto! — soggiunse, parlando a lei. — Facciamo presto, altrimenti ci prendono!

Infatti si gridava dietro a loro: Chieco! Chieco! anche noi! Dove siete, Chieco?

Entrai nel canotto, sedetti sul banco di mezzo voltando le spalle alla prua, e impugnai i remi. In un baleno la signora balzò dentro, il canotto fregò, saltando indietro, la sabbia. — Presto, presto! — ripeteva Chieco. — Gira, gira! — Feci girare a tutta forza quella vecchia carcassa e la misi con quattro colpi di remo alla corsa.

Si tagliava diritto all'altra sponda, quando la dama, che non aveva ancora aperto bocca, mi disse:

— Fate il giro del castello.

Dio mio, che dolce voce era questa? N'ebbi tronchi, per un momento, il moto, il respiro, il pensiero; era la voce sua. Appena potei, ripresi a remare a caso, immaginando febbrilmente ch'ella sapesse, che non sapesse, non osando volgere il capo, sentendo che era un momento supremo.

Ella ripetè: — fate il giro del castello! — con una leggera impazienza, stavolta. No, no, non poteva saper niente, Chieco l'aveva ingannata come me. Obbedii; piegammo verso lo scoglio del castello, incendiato ingiro dal bengala. Qualcuno gridò: — donna Antonietta! A terra! A terra! — Ella mi chiese allora se si potesse approdare dall'altro lato della penisola.

Esitai un poco, e risposi con voce involontariamente alterata:

— Non lo so.

Antonietta non replicò nulla, ma subito dopo sentii il canotto piegare sul fianco destro.

Certo ell'aveva fatto un movimento, aveva cercato vedermi in viso. Anche la sua voce mi parve leggermente alterata quando soggiunse:

— Voglio tornar indietro, all'approdo.

Pensai che mi avesse riconosciuto, che forse mi credesse complice dell'inganno. Guai se credeva questo, lei, col suo carattere! Non c'era da sperar più nella pace. Voltai il canotto, silenziosamente, per ricondurla all'approdo. Ero ben risoluto di parlare, ma solo quando ella fosse libera di scendere, di lasciarmi. La luna usciva brillante di sotto un nuvolone: entrai nell'ombra del muro di cinta.

— Vi sono altri forestieri qui nel castello? — chiese Antonietta colla stessa voce di prima. Eravamo a una trentina di metri dall'approdo. Non risposi. Ora avrei dovuto voltar il capo verso di lei per approdar bene. Remavo adagio, adagio, il cuore mi batteva in tutto il petto. Antonietta non ripetè la sua domanda. L'angolo del muro di cinta mi comparve a fianco, era lì che dovevo approdare. Trassi di un colpo i remi nel canotto e balzai in piedi voltandomi a lei che si rizzò in un lampo e fece l'atto di slanciarsi a terra.

— In nome di Dio — esclamai stendendole le braccia — non sapevo niente! Mi crede, mi crede? Non è possibile che non mi creda!

In quel punto il canotto urtò la riva. Antonietta non parlò nè si mosse.

— Esci, se vuoi — proseguii tra l'angoscia e la speranza, giungendo le mani. — Proibiscimi di seguirti, di parlarti, ma credi!...

— Se non lo sapeva — interruppe Antonietta — perchè questa commedia?

Saltai a lei, le afferrai una mano ch'ella nè mi abbandonò, nè mi tolse, le raccontai con affannosa fretta quello ch'io pensavo allora essere uno scherzo di Chieco, le parlai del mio folle orgoglio distrutto dal dolore, dell'ardente speranza che mi riprendeva, della vita mia ch'era in sua mano, come anche l'anima, forse! Ebbro di gioia sentii quella mano cedere, cedere; potei stringere fra le mie braccia la dolce fidanzata che nulla, neppure la morte, potrà mai più interamente dividere da me.

Mi disse che avea creduto riconoscermi al mio primo «non lo so», ma che n'era stata sicura solo quando non avevo risposto alla sua domanda. Vinsi così presto perchè la mia lettera, arrivata a Saint Vincent, quando Antonietta n'era partita per non trovarvisi bene, l'aveva raggiunta, dopo lunghe peregrinazioni, a Comano, la mattina di quel giorno stesso. Le proposi di restare in barca, di pigliare ancora il largo. Non le parve conveniente; e neppure ch'io, mutata qualità, l'accompagnassi al ballo. Ma prima di andarsene dovette pur dirmi qualche cosa di Chieco. Egli le aveva infatti parlato d'amore; trivialmente, sulle prime, a modo suo; più tardi con una serietà e una passione di cui Antonietta aveva creduto capace il violoncello, ma non l'uomo. Respinto in tutti i modi, le aveva detto male di me, scandagliando il terreno, giurando che non si sarebbe fatto alcuno scrupolo di prendere ciò che io non avevo saputo tenere. A questo punto Antonietta gli aveva chiuso la bocca con due parole asciutte cui egli dichiarò di accogliere come il turacciolo del fiasco, soggiungendo però che farebbe vedere alla signora chi fosse Chieco, che testa e che cuore.

— Aveva ragione — disse Antonietta abbracciandomi dopo il suo racconto. — Ci ha intesi molto bene ed è stato molto buono. Ed ora vado, sai.

— Va va — risposi trattenendola più forte che potevo.

— Come mandi via la gente, tu! — diss'ella con una boccuccia e un accento di bambina dolente, aggiustandomi i capelli sulla fronte. Mi pose le labbra all'orecchio, mi susurrò: — ho piacere che siamo qui al buio, che tu non mi veda bene negli occhi, altrimenti ci tornerebbe troppo orgoglio qui dentro!

Ritirò il viso, rise un poco, mi diede un bacio, saltò a terra e fuggì.

Io mi scostai dalla riva remando in fretta e, deposti quasi subito i remi, mi abbandonai all'ebbrezza che m'invadeva cuore, pensieri e sensi. Non so quanto tempo rimanessi così sdraiato sul banco del canotto, con la nuca a una sponda, i piedi all'altra, le braccia incrociate, gli occhi alla luna; so che mi scosse il fischio di Chieco. Mi rizzai e remai a terra. Egli era là, sulla riva. Quando mi vide a pochi metri disse: — e come si fa? — Vi era in me una battaglia di sentimenti diversi; pure saltai subito fuori ad abbracciarlo. Io non potevo parlare, egli ripeteva: — come si fa? Poco somigliante la fotografia! Come si fa? — Avevamo gli occhi umidi, credo, tutt'e due.

— Povero Chieco! — diss'egli. — È stato un gran fiasco!

Intanto un carro s'era fermato lì vicino sulla strada e alcuni uomini vennero difilati al canotto.

— Cosa succede? — diss'io al maestro.

— Succede che la barca e io andiamo via. Mi seccava di vederti, ma ti sei andato a cacciare in mezzo al lago, bisognava bene farti venire a riva. Adesso si mette il canotto sul carro, Chieco sul canotto e Castel-t'-inchino.

Così fu. In un attimo si caricarono il canotto e i bagagli. Nel castello ballavano e suonavano, nessuno sapeva niente, tranne la signora Purgher che credeva sognare e venne tutta commossa per un ultimo saluto. Chieco, seduto sopra un baule, non volle stringerle la mano, pretendendo che non fosse pulita; e le ordinò bruscamente di avvertire le signore e i signori che il maestro non cavaliere Chieco stava per partire e avrebbe degnato dar loro un saluto.

Si udirono presto dei passi rapidi, delle grida, delle esclamazioni, il carro fu attorniato di gente che lo voleva prender d'assalto per tirar giù a forza il maestro. Ma questi cacciò tali improperi napoletani e lombardi da fare scappar le signore e star quieti gli uomini.

— Adesso — diss'egli — o straccioni, vi saluto. Se volete poi sapere perchè ne ho abbastanza di voi, ecco qua.

Trasse il suo magico violoncello, incominciò la melodia dolcissima, appassionata ch'è del duetto nel secondo atto della Tempesta, la troncò subito con quattro raschiate buffonesche, ripose lo strumento e gridò — avanti! — I buoi si mossero, le ruote stridettero, gli uomini salutarono con la voce e il cappello, le signore col fazzoletto, due o tre giovinotti saltarono sul carro. Vedo ancora Chieco buttarli giù a calci, l'odo ancora gridar loro in segno di vittoria: — e come si fa? E come si fa?

TERZO INTERMEZZO.

BOCCHERINI MINUETTO IN la

Secolo XVIII. Una festa da ballo.

La scena rappresenta un elegante gabinetto a pian terreno fra la sala da ballo, zeppa di gente, e il giardino. Musica. Un cavaliere e una dama ballano il minuetto.

DAMA ( ballando )

Sebben rido così, sospiro nel mio cuore.

CAVALIERE ( ballando )

Sebben rido così, è il riso mio dolore.

( Riverenze )

M'inchino a Lei, signora.

DAMA

Signore, a Lei m'inchino.

CAVALIERE

La musica è dolcissima, è splendido il festino.

( Si avvicinano ballando )

Doman sarò lontano, ti stringo in fantasia

Sul cor, ti bacio gli occhi, ti dò l'anima mia.

( Si allontanano )

Ballar bisogna e ridere, avendo a gola il pianto.

DAMA ( ironicamente )

Sì, sì, ballare e ridere; siamo felici tanto!

( Riverenze )

CAVALIERE

M'inchino a Lei, signora.

DAMA

Signore, a Lei m'inchino.

Che grazia, che malizia nel trillo del violino!

( Si avvicinano )

CAVALIERE

Cedi, t'adoro, vieni, parti con me se m'ami!

DAMA

Non dir così, l'eterna sventura mia tu brami.

( Si allontanano )

È gaio il minuetto, ma pur talvolta piange.

CAVALIERE

È gaio il minuetto, ma pur il cor mi frange.

( Riverenze )

M'inchino a Lei, signora.

DAMA

Signore, a Lei m'inchino.

Oh guardi, alate maschere salgono dal giardino.

Entra una mascherata di Zefiri

GLI ZEFIRI

Siam venti correnti dal gelo a l'ardor,

Da l'ombre al fulgor,

Dal tedio al piacer;

Soffiamo nei cor

Furor di goder;

Siam Zefiri a Venere ministri e ad Amor.

Se teme e non osa sul labbro salir

Un dolce sospir,

Se langue e non vien

La voce al desir

D'un fervido sen,

Desiri e sospiri a noi tocca dir.

Da i vezzi e gli arcani d'un mondo sì bel

Ogn'invido vel

N'è caro turbar.

Modestia crudel

Noi deve negar;

Siam aure innocenti, spiranti dal Ciel.

( Escono gli Zefiri )

DAMA ( ballando )

Rida! Con la sua dama v'era lo sposo mio.

CAVALIERE

Il caso è assai bizzarro, ma rider non poss'io.

( Riverenze )

M'inchino a Lei, signora.

DAMA

Signore, a Lei m'inchino.

( Piano )

Io rido, sì; quei Zefiri soffiato ha qua il destino.

( Si avvicinano )

Io rido, sì, ti giuro seguirti ovunque vai,

Io rido, sì, oh mio amore! Non mi lasciar più mai.

( Si allontanano. Riverenze )

M'inchino a Lei, signore.

CAVALIERE

Signora, me Le inchino.

( Pianissimo )

Dio, come muor di gioia il trillo del violino!

EDEN ANTO

Un amico mio, profondo in zoologia, e convinto da lungo tempo che se il più vecchio degl'ippopotami viventi camminasse ritto sulle zampe posteriori, somiglierebbe tutto, almeno da tergo, al dottore Marcòn, assessore in una cittadina del Polesine, non importa quale, e gonfiato da piccolo notaio a gran riccone, non importa come; tanto che sarebbe pura giustizia chiamarlo ippopotamo d'oro, costui, e non vitello. Due immani piedi che invadono, l'uno il levante l'altro il ponente; due divergenti gambe colossali; un zimarrone mostruoso; nessuna traccia di collo, ma due vaste spalle curve e un testone tanto affogato in esse che la tesa del cappello posa sulla schiena; un enorme braccio proteso in fuori sopra una massa troppo corta; ecco il dottore Marcòn a posteriori.

Egli sguazzava l'altro giorno per le pozzanghere della piazza dove abita, con la ilarità pesante, nell'andatura, di un ippopotamo che fiuta l'acqua.

— Avvocato! — gli gridò un pretino arrancandogli dietro affannosamente. — Avvocato! La permetta!

Marcòn sguazzava sempre via per le pozzanghere senza voltarsi. Il prete lo inseguì ripetendo: Avvocato! Avvocato! Avvocato Vasco! — fino a che lo raggiunse, gli si appigliò allo zimarrone. Soltanto allora il notaio si voltò, senza fermarsi.

— Scusi, sa — diss'egli sorridendo e toccandosi il cappello. — Non sono mica l'avvocato. Servitor suo.

L'altro rimase lì di stucco, contemplando la schiena mostruosa allontanarsi placidamente.

Veduto così, Marcòn pareva tutto Vasco. Solo, Vasco era forse un hippopotamus minor che si distingueva pure dall'altro per le gambe ercoline, per il testone inchinato un poco a sinistra con una linea di melanconica mansuetudine.

Lo strano è che il dottore Marcòn sfangava appunto verso l'abitazione dell'avvocato Vasco. Chi sa che inquietudine nella mole mansueta, nel roseo faccione liscio dell' hippopotamus minor se avesse presentito il venire dell' hippopotamus maior! Ma egli, probo, mite e timido uomo, di origine e abitudini signorili, scivolato lentamente, a settant'otto anni, senza macchia e senza lagno, in una povertà tuttavia nascosta ma paurosa, non pareva pensare in quel momento al suo creditore Marcòn, nè ad alcuna miseria di questo mondo. Stava nel suo studio, ora scrivendo sopra un gran foglio di carta turchina, ora meditando sul frontispizio di un volume in quarto, ingiallito dai secoli. Sviscerato bibliofilo, possedeva una certa cultura classica, larga ed imperfetta, bizzarramente colorita di quel suo ingegno fantasioso che si compiaceva dei pregiudizi più insoliti, dei riavvicinamenti più inattesi, delle induzioni più poetiche, più abborrite dalla grammatica. L'età grave gli aveva tolto ormai di attendere alla sua professione; dalla famiglia non aveva che tribolazioni; dei vecchi amici solo qualche libro gli restava vivo e fedele.

Quel giorno la sua serva era uscita senza chiudere la porta e il dottore Marcòn infilò senz'altro la scala buia, venne su soffiando, aggrappandosi alla ringhiera, sostando ad ogni tre scalini.

— Senti il bestione — disse forte dall'alto la voce aspra della signora Vasco.

— Sarà andato al caffè, già, signor bestia — diss'ella sporgendo dalla ringhiera l'allampanata figura, il secco viso bilioso. — Quanto ci vuole a tirar su quella pancia? Oh Dio, dottore, scusi per carità, credevo che fosse mio marito.

— Niente, signora Carlotta — rispose Marcòn, pacifico. — È fuori di casa quell'altra pancia? —

La signora Carlotta corse a vedere, ritornò subito dicendo che Vasco era nel suo studio, e vi accompagnò il notaio.

— Zanetto — diss'ella spalancando l'uscio — guarda il dottore... Eh, vado vado — soggiunse, perchè il dottore si era voltato a lei con una faccia molto eloquente.

Intanto Zanetto, recatasi una mano alla papalina, si veniva levando su su dal seggiolone, guardava con due occhietti bambinescamente timidi e dolenti l'enorme visitatore piantato sulla porta a braccia e gambe aperte, con il cappello nella destra e la mazza nella sinistra.

— I miei complimenti, dottore — diss'egli, umile. — Si accomodi. —

L'altro disse solo:

Patròn.

E venne avanti cercando con gli occhi una sedia. L'avvocato finì di alzarsi; trottò a corti passi frettolosi, crollando il ventre, le spalle e la nappa della papalina, a prendere ed accostare due sedie.

Vi calarono piano piano a sedere, guardandosi, il Marcòn molto duro, l'altro molto trepidante.

— La permette? — fece il dottore coprendosi.

— Per amor del cielo! — rispose premuroso il signor Zanetto; e, incoraggiato da quell'ombra di cortesia, trasse la tabacchiera, offerse una presa al Marcòn, ne assorbì un'altra egli stesso; dopo di che i due personaggi, affondando il mento nello sparato, chini gli occhi e aggrottate le ciglia, fecero pulizia a buffetti nella camicia e nell'abito.

Finalmente il dottore Marcòn, spazzati via con quattro dita gli ultimi granelli di tabacco, rialzò la faccia.

— Dunque? — diss'egli.

Il povero Vasco si lasciò lentamente andare sulla spalliera della seggiola e, allargate le braccia cadenti, guardando in alto rispose:

— Non posso, proprio non posso.

Marcòn inarcò le sopracciglia, agitò le grosse labbra pendenti.

— La guardi bene — diss'egli. — La guardi bene, perchè La sa i nostri patti.

— Eh, sissignore. So i patti. Cosa vuole? Faccia. Mi rincresce per la Carlotta che si cruccerà, povera donna, con la sua tenerezza per me, immaginandosi che abbia a crucciarmi molto io. Io invece... cosa vuole?

Vasco abbassò la voce, fece un gesto solenne.

— Ghiaccio, signor mio — diss'egli — ghiaccio in punto... Oh bene — soggiunse — Le dirò che, essendo ghiaccio, cupio dissolvi, questo sì, cupio dissolvi.

Il ventre e le spalle gli sussultarono d'un breve riso amaro.

— Bravo da senno! — proruppe Marcòn. — Dica che non Le importa nè di debiti nè di creditori, caro Lei! Perchè non si dà le mani attorno? Questo Suo cognato a cui si doveva rivolgere? Questo figlio che Le doveva mandar denari?

— Sissignore, lo voleva, poveretto, perchè il cuore è grande; ma poi è mio figlio, quindi disgraziato. Come ufficiale di marina gli tocca andare in Africa, si figuri. Non parliamo, questa sarà una gloria della mia famiglia. Mio figlio scrive beato. Cosa vuole? Beato. Scrive una lettera che fa tenerezza, da eroe. Ma intanto gli occorre un cavallo subito, perchè gli ufficiali di marina potranno essere comandati a terra, e il ministro li obbliga a fornirsi di cavalli. Non crede? Le farò vedere la lettera.

— Gli mandi dell'asino — urlò Marcòn — che gli andrà benone!

Il povero avvocato, ferito nel suo amor paterno, nella sua buona fede, si storceva tutto, mettendo dei brontolii sommessi, qualche «o Dio» di meravigliato e timido risentimento.

— E il cognato? — chiese Marcòn.

— E il cognato... il cognato... — borbottò Vasco che di questo burbero parente aveva uno spavento orribile. — Per dirle la verità, non gli ho ancora parlato; volevo appunto andare da lui stamattina.

— Voleva? Ma vada, vada subito. Non abita qui vicino? L'aspetto. —

Vasco, levatasi la papalina con la sinistra, si grattò la nuca con la destra; quindi, potendo il terrore presente più del futuro, sospirò il suo solito ossequioso «con permesso», e uscì tentennando, con una faccia lugubre.

La signora Vasco udì giù per le scale i tonfi misurati del suo passo gridò, «serva sua, cavaliere» e corse allo studio del marito.

— È andato via, quel cane? — diss'ella aprendo. Vide Marcòn, strillò e fuggì tanto in furia che costui, quand'ebbe finito di girar verso lei la sua mole, il suo faccione sorridente, non la vide più.

Rimase lì un poco a considerar l'uscio, e poi si alzò, fece pian piano il giro dello scrittoio, guardò che cosa diavolo stesse scrivendo quell'imbecille di Vasco.

In capo al gran foglio di carta turchina si leggeva:

ULTIMO DESIDERIO

Seguivano alcune righe tagliate da due gran tratti di penna in croce.

«Condotto in questa mia cadente vecchiaia a dolorose strettezze, non valendo l'indebolito mio spirito a sopportar l'aspettazione angosciosa di tale miseria che neppur soffra un sottilissimo velo di esteriore decoro, convinto non potere ormai riuscire che di afflizione e gravezza alla mia moglie amorosa, non che al figlio dilettissimo, io...»

Lo scrittore s'era fermato qui. Seguiva uno spazio in bianco. Più sotto si leggevano queste altre parole:

«Condotto in questa mia vecchiaia a miserevoli strettezze, e confidando che la Divina Provvidenza si compiacerà, come dal profondo del cuore ne la supplico, togliermi prontamente questa troppo salda vita, grave alla mia famiglia, presso che incomportabile a me, ringrazio la virtuosa mia moglie di tutto il bene che mi volle e fece, benedico il mio figliuolo dilettissimo, e prego tutti a voler conservare buona memoria di me.

«Se in settant'otto anni di onesta e laboriosa vita, io ho in qualche misura bene meritato del mio paese natio, spero possa avere effetto il novissimo voto ch'esprimo a' miei parenti ed amici, alla degna Deputazione della Patria Biblioteca, all'onorevole Municipio. Desidero che il mio prezioso esemplare dell' Orlando Furioso edito da Francesco Rosso di Valenza il 1º ottobre 1532, con privilegi di Clemente VII, del doge Gritti e di Francesco Sforza, passi alla nostra Biblioteca. È la terza edizione del poema, l'ultima delle uscite vivente il poeta, stimata già superiore a tutte le altre dall'illustre Apostolo Zeno, che ne possedette un esemplare postillato dall'Aretino. Cinque soli esemplari si conoscono di questa edizione, uno dei quali fu venduto in Inghilterra dal conte Garimberti di Parma, per lire quattromila. Lire tremila mi furono offerte per il mio esemplare dal libraio R. di Roma. Il frontispizio del volume è disegnato e intagliato da Tiziano Vecellio. A mezzo il lato inferiore vi è raffigurata una fenice sorgente dal rogo ad ali aperte, e sopra la fenice si leggono due misteriose parole che molti dotti uomini si studiarono invano d'interpretare: EDE NANTO. Io credo esser giunto, dopo lungo studio e meditazione, a penetrarne il segreto; ed è mia preghiera che ove il volume possa essere salvato alla Biblioteca, vi s'inserisca uno scritto ricordante il nome mio, il desiderio qui espresso e la mia interpretazione delle due parole arcane.

«Mi parve anzitutto che non avendo i detti vocaboli significato alcuno nel nostro idioma nè in altro moderno nè in quello del Lazio, convenisse ricorrere a un linguaggio mistico del quale sarebbe ora vano ricercar la chiave, oppure alla sacra favella dell'Ellade, ben conveniente al dipintor delle Veneri che tributa omaggio al ferrarese Omero. Di ciò convinto, indagai lunga pezza invano come avessero i due vocaboli a leggersi grecamente, nè potei vedervi lume sino a che non li divisi così: EDEN ANTO; brillandomi allora l'origine loro dalle voci greche δαιω ardo e ἄνθος fiore, e questo significato; arse (o ardeva) con fiore: stupendo significato, sia nel senso proprio riguardo alla fenice, sia nel senso figurato riguardo al Poeta; e meraviglioso di grecità parrà a ciascuno che ricordi il πυρος ἄνθος di Eschilo. Potrà forse taluno...».

Qui finiva il manoscritto; ma quando il passo dell'avvocato scosse l'anticamera, Marcòn non aveva letto oltre al periodo delle tremila lire offerte per il libro e stava ancora contemplando quella cifra con un vago sorriso affettuoso. Egli andò alla finestra e finse di guardar nel cortile.

Il signor Zanetto entrò, affannato, più sepolcrale assai che non fosse uscito.

— E così? — disse Marcòn.

— La scusi — rispose l'avvocato, sedendo. — Quel che m'immaginava, caro Lei — soggiunse poi ch'ebbe ripreso fiato. — Mi ha anche strapazzato.

Marcòn sedette anche lui, grave. Seguì un lungo silenzio. Guardavano diritto davanti a sè, uno la porta e l'altro la finestra.

— E come facciamo? — disse finalmente Marcòn. — Vede bene, sono duemilacinquecento lire.

— Signor padrone, — disse la serva entrando, — Le ho portato il caffè.

L'avvocato non si scosse se non quando si vide il vassoio davanti.

— Portatene due — diss'egli sottovoce.

La serva disse che ci aveva pensato, ma che la padrona era uscita con le chiavi, ed ella non aveva altro caffè. Allora il povero uomo, avvezzo da cinquant'anni a quel caffè pomeridiano, lo offerse con un gesto a Marcòn, che ringraziò e allungò sorridendo le mani al vassoio, malgrado gli occhiacci della serva.

— Comanda che ne pigli un altro al botteghino? — chiese costei al suo padrone. — Devo anche uscire, adesso.

— No, Tonina, no — sospirò Vasco, dolcemente. — Piuttosto fate un po' di fuoco qui.

La serva si mise all'opera, ma forse pensando ad altro, per cui Marcòn, dopo due o tre occhiate oblique, dopo due o tre sordi brontolii gutturali le disse:

— Cara lei, si sbrighi.

In quel punto la fiamma brillò e la donna si alzò dal caminetto, prese il vassoio dispettosamente e se ne andò sbattendo l'uscio con un colpo tale che Marcòn fece «ohe!».

— Senta — diss'egli poi. — Faccio, naturalmente, il mio interesse, ma son di carne anch'io, ho cuore e mi ripugna di venire a certi passi con una degna persona come Lei. Guardi se non ci potessimo accordare amichevolmente. Ella ha forse qualche oggetto prezioso, qualche gioiello di famiglia, non so, delle argenterie...

Vasco lo considerò un poco, cacciò la destra nello sparato della camicia, e dopo avervi frugato alquanto, ne la trasse con una medaglina d'argento che fece vedere al Marcòn, quindi alzò ed allargò le braccia; tutto questo in silenzio.

— E quadri? — chiese Marcòn.

— Oh Dio, quadri! Il ritratto di mia moglie. Buono, per questo, buono. Le dirò. Ma è della Carlotta.

— Niente niente, per amor di Dio! — esclamò Marcòn inorridito. — Lasciamo stare... Ma, La senta — riprese dopo una pausa. M'inganno, o aveva Lei dei libri antichi di un certo pregio?

— Sissignore — rispose Vasco masticando la parola, dimenandosi e guardando dappertutto fuorchè in faccia al suo interlocutore. — Sissignore, ma... cosa vuole?.. Andati... venduti... divorati...

— Allora... — disse Marcòn, alzandosi. Guardò in giro come per vedere dove avesse posata la mazza, fermò gli occhi sullo scrittoio.

— Cosa studia di bello? — diss'egli sorridendo.

— Oh, niente — balbettò Vasco, inquietissimo. — Niente. Cerca il Suo bastone?

Marcòn non gli rispose; si accostò allo scrittoio.

— A proposito — diss'egli — quello è un libro vecchio, per esempio.

— Oh nossignore... cioè sissignore, ma un libro di nessun conto o almeno di poco conto. Noialtri si direbbe «un pestalardo».

— È un Ariosto, però, vedo. Un gran poeta, capperi. Potrebbe valere dei bei denari se non fosse così sporco. Lo ha inzuppato nella cioccolata?

— Sporchissimo — rispose Vasco, rasserenandosi alquanto. — Cosa vuole? Rovinato.

Adesso Marcòn tolse gli occhi dal libro e li piantò in viso al suo sciagurato debitore; due occhi lucenti di una bonarietà maliziosa.

— Quanto Le pare — diss'egli — che possa valere in questo stato?

All'avvocato Vasco mancarono il cuore e le gambe. Dovette sedersi.

— Non saprei — rispose — non saprei. Cosa vuole? Per me ha un valore relativo, un valore di affezione.

Gli parve una buona uscita, questa. Le rughe della sua fronte, gli angoli della bocca non posavano un momento. I miti occhietti infantili, intenti al fuoco, comparivano e scomparivano sotto il battere delle palpebre.

— Bene — disse Marcòn — non Le ho detto che ho buon cuore? Faccio una minchioneria, adesso. Prendo l'Ariosto, vado a casa e Le mando la cambiale.

— Lei ha letto! — esclamò l'avvocato con voce soffocata levandosi in piedi e appuntando a Marcòn l'indice tremante della destra. — Lei ha letto! Ma non si porterà mica via il libro, capisce? Nossignore che non lo porterà via!

Il suo testone oscillava convulso, negli occhietti brillavano, sotto il battere delle palpebre, due lagrime.

— Le dico la verità, avvocato — disse tranquillamente Marcòn — avevo sempre pensato ch'Ella fosse un galantuomo.

— E non lo sono? — esclamò Vasco.

— Ecco — rispose il notaio — non so se un galantuomo cercherebbe, come Lei, di frodare i creditori.

L'avvocato guardò il suo avversario con orrore e terrore, cadde sulla sedia. Due o tre singhiozzi lo scossero tutto.

— Non volevo frodar nessuno — diss'egli a bassa voce e senza guardare Marcòn. — Volevo che quel libro restasse qui sino alla mia morte. Pensavo che, morto io e conosciuta quella carta, un poco per il merito del libro, un poco per la memoria di questo povero vecchio, o il Municipio, o i cittadini, o cittadini e Municipio insieme avrebbero riscattato il libro dai creditori, e resterebbe nel mio paese un ricordo del mio nome, di quei pochi studi che ho potuto fare. Ma se Lei mi crede capace di voler frodare i creditori, eccolo là il libro, se lo prenda se lo porti via.

— Ma non intende, caro avvocato, — esclamò Marcòn — che Lei mi deve ringraziare? Di un libro in quello stato prendere duemilacinquecento lire?

Ciò detto Marcòn prese l'Ariosto.

— Avvocato, servitor suo — diss'egli.

* * *

Vasco non seppe alzarsi nè articolar parola, nè fare un cenno. Era come istupidito e non si mosse che al terzo appello dell' hippopotamus maior incagliato con la sua preda sulla porta.

— Cos'è questo imbroglio? — brontolava colui girando e rigirando inutilmente la maniglia dell'uscio. — Cos'è questa faccenda? La scusi, avvocato. Favorisce, avvocato? Avvocato, dico!

L' hippopotamus minor capitò barcollando, si studiò inutilmente di aprire e mise quindi il naso alla toppa, esplorò. L'altro gli pendeva sopra, enorme, palpitante di aspettazione.

— È chiuso per di fuori — mormorò Vasco, rialzandosi. — La donna ha forse dato un colpo troppo forte e allora succede spesso così.

— Suoni — disse Marcòn.

Vasco suonò due, tre, quattro volte. Nessuno comparve. Marcòn diede allora una tale strappata al campanello che ruppe il cordone.

— Adesso è finita — sospirò l'avvocato.

— Chiami! Gridi! — esclamò l'altro. Il pover'uomo ritornò all'uscio, vi appoggiò la testa e si provò di metter fuori un po' di voce, ma non aveva fiato.

— Cosa vuole che sentano? — gridò, infuriato, Marcòn. — Aspetti me.

E, posato il libro, si diede a mugghiare con il suo vocione bovino, assestando di gran colpi all'uscio fra una chiamata e l'altra, con la mazza. Ma la padrona stava al confessionale, dicendo male di suo marito; e la serva stava da un tabaccaio dicendo male del notaio Marcòn.

Non v'erano altre uscite. L'unica finestra guardava il cortile. Marcòn aperse, chiamò. Il cortile era deserto, nessuno rispose. Il notaio si voltò a Vasco, sbuffando:

— Non mi è mai toccata — disse — una cosa simile. Ella sta lì a guardarmi ma io devo andar via, capisce? Assolutamente! Ho affari.

— Senta — disse l'avvocato, immerso nella sua idea fissa. — Mi perdoni. Non sarebbe possibile ch'Ella mi lasciasse adesso il libro onde io vi facessi inserire la mia interpretazione? E non sarebbe possibile che Ella disponesse in modo da farlo pervenire un giorno o l'altro alla nostra Biblioteca?

— Non mi secchi! — gridò Marcòn. — Non m'importa un fico nè d'interpretazioni, nè di biblioteche. Se la tenga la Sua interpretazione. Il libro poi lo vendo magari in America, se occorre!

L'ira incominciò a bollire nell'adipe dell'uomo pacifico.

— Il libro vale quattromila lire — diss'egli, alzando la voce. — Almeno mi dia cinquecento lire da mandare in Africa a mio figlio!

— Che cinquecento lire! Che figlio!

L'inferocito uomo si affacciò ancora alla finestra, urlando senza ascoltar Vasco, che, tremante di collera, gli fremeva nella schiena:

— Sarò un imbecille, ma questa porta è la Provvidenza che l'ha chiusa!

Prese l'Ariosto, e affrettandosi in punta di piedi, con un occhio al caminetto e uno alla schiena mostruosa, posò il libro sul fuoco. Quindi ritornò, pallido come un morto, sul seggiolone, e, chiusi gli occhi, rovesciato il capo all'indietro, alitava affannosamente. Si suonò al cancello dell'antiporto, più volte. Marcòn si sbracciava a chiamare dalla finestra l'incognito visitatore, che non essendogli aperto e udendo un tal vociare, venne nel cortile. Era lo stesso prete che aveva scambiato Marcòn, in piazza, per Vasco. Egli guardò su, vide alla finestra un testone, due spallacce. «Avvocato!» disse salutando. «Almeno questa volta son sicuro ch'è Lei, perchè un'ora fa...». — Non La vede, don scempio — gridò Marcòn — che sono ancora quello di un'ora fa? Non La capisce che non possiamo aprire? Vada a cercare la signora Carlotta o la serva di casa, dica che vengano subito! Cosa fa lì, con la bocca aperta? Si muova!

Il prete pareva schiacciato dalla sorpresa, guardava su, ripeteva «ma come? ma come?» Ci volle del buono prima che capisse e se n'andasse.

Marcòn stette ancora un poco alla finestra, andò ad origliare all'uscio, se udisse qualche rumore di buon augurio, poi ritornò alla finestra, maledicendo tutte le serve del creato. Finalmente udì delle voci nell'antiporto; due stizzose voci femminili, la signora Carlotta e la Tonina, che, invece di aprire subito, si bisticciavano.

— Dove ho posto il libro, adesso? — diss'egli. — Avvocato, dov'è il libro?

Vasco aperse gli occhi, levò una mano spiegata e disse solennemente:

Eden Anto.

— Domando — replicò Marcòn — dov'è il libro.

Vasco alzò anche l'altra mano e ripetè:

Eden Anto.

— Oh, non scherzo mica, io, sa? — esclamò Marcòn; e data un'occhiata in giro per la camera senza scoprire libro alcuno, si accostò all'avvocato coi denti stretti:

— Non facciamo commedie! — diss'egli. — Fuori questo Ariosto! Fuori subito!

— Ella — rispose Vasco — vuol avere un libro di quella fatta e non sa il greco? Ella vuole la fenice di Tiziano? Eden Anto, signore; arse, arse con fiore.

Appuntò l'indice al fuoco e proseguì:

— Guardi là. Se vorrà la cenere...

Marcòn mise un grido soffocato alzando le braccia come gli mancasse il respiro, andò al caminetto, e giratosi subito a Vasco, fece due passi verso di lui con la mazza in aria. Si arrestò, mise, scrollando le braccia minacciose, un muggito sordo, trottò a dar di fianco nell'uscio come una catapulta, e, spaccata di colpo la serratura, passò fra la signora Carlotta e la Tonina, traboccò giù per le scale.

Le due donne saltarono nello studio.

— Cosa è stato? — chiese la signora Vasco.

— È stato — rispose suo marito, ancora tremante di emozione — che voleva rubarmi e l'ho fatto scappare.

— Rubarti che, straccione?

— Oh, niente — disse il povero signor Zanetto senza guardar sua moglie e scotendosi tutto in un singulto di riso forzato. — Un libro.

— Un libro? Hai un libro di valore, tu?

— Peuh, peuh — fece Vasco, ricominciando a soffiare — poca cosa. Qualche centinaio di lire... forse cento... anzi cento al più... fra le cinquanta e le cento insomma.

— Ah brutto tabaccone, — esclamò la signora. — Hai un libro così e non dici niente, e fai patire tua moglie e tuo figlio! A me questo libro!

L'avvocato allibì, non rispose.

— Gliel'avresti dato? — disse sua moglie con una faccia, con una voce da far paura.

— No, no, no — rispose Vasco di fretta. — Non gli ho dato niente. Però, se non lo do a lui, bisognerà che lo dia a un altro, perchè la roba mia è tutta dei creditori.

La signora Carlotta non avrebbe creduto che buaggine umana potesse toccare a tal segno, e guardava suo marito con uno sguardo ineffabile, in silenzio. Quindi scoppiò in insulti, in invettive, fulminando tutto intorno a lei, il pancione stupido, la casa coniugale, la Tonina che difendeva il padrone. Le intimò di uscire; e poichè colei si ribellava, le afferrò un braccio, la trasse alla porta. Se n'andarono così tutt'e due, tempestando, via per l'anticamera.

Vasco, intontito da' primi colpi, non udì altro. Dopo un certo tempo s'accorse che lo avevano lasciato solo, riconobbe sullo scrittoio il suo manoscritto dell' ultimo desiderio, e pianse lagrime lente, le più roventi, le più amare della sua vita; lagrime, quasi, di una profonda intatta vena, cui finalmente il dolore arrivasse.

* * *

Intanto il giorno cadeva, lo studio si faceva scuro. Venne l'ora del pranzo, ma nessuno chiamò l'avvocato, nè lui ci pensò. Preso dal freddo, si trascinò stentatamente a chiudere la finestra, e sedette poi davanti al caminetto, dove poche brage ardevano ancora mettendogli un lieve tepore alle gambe, un chiaror fioco sullo sparato della camicia e sulla fronte. Il capo gli si faceva grave e torbido, ma una calma nuova gli entrava nel petto. Si sentiva meglio, si veniva quietando nella confusa idea d'un bene vicino. Vedeva con soddisfazione inesplicabile, lì nel caminetto, il suo caro Ariosto fatto cenere e brage, vedeva e di tempo in tempo mormorava le parole misteriose: eden anto. Si stupì di trovare allora per la prima volta come si convenissero anche a lui, alla sua propria vita, che, nella mente scossa, gli comparve florida e lieta, piena solo di ardente amore per i suoi, per la verità e la giustizia. Quest'allucinazione della memoria gli generò poi un dubbio bizzarro, materia di stupore ancora e di meditazione profonda: come mai avesse potuto proporsi, anche un solo istante, di morir volontariamente. Pensò, pensò, non intese, sorrise di sè stesso. E qui il suo spirito intenerito passò a considerar la bontà e la grandezza di Dio, giunse a poco a poco al barlume di quest'altra idea che la Provvidenza faceva a lui, come al suo Ariosto, la grazia di sciogliersi in calore e luce, tranquillamente.

Qualcuno bussò all'uscio, e non udendo rispondersi, lo aperse pian piano con un timido «è permesso?»

— È permesso, avvocato — ripetè, entrando, quel prete che da tanto tempo era in traccia di lui. Pensò che Vasco, di cui vedeva la mole oscura, si fosse appisolato.

— Sono don Clemente — disse a voce alta.

Allora finalmente l'avvocato mormorò «servitor suo», si agitò un poco, tentando, per un'ossequiosa abitudine, alzarsi.

— Comodo comodo comodo — s'affrettò a dire don Clemente. Gli sedette accanto, mise fuori qualche frase sul freddo, sull'umido, sui piaceri del caminetto e dell'oscurità. Vasco non rispondeva mai.

— Mi son permesso d'incomodarla — disse poi il prete — perchè avrei da comunicarle qualche cosa su quel famoso frontispizio. Si ricorda che quando ebbi l'onore di fare la sua conoscenza, abbiamo parlato di un'edizione antica dell'Ariosto?

Eden anto — susurrò Vasco. — Sissignore.

— Appunto, eden anto. Ossia, Lei leggeva eden anto, e anche l'abbate Bottoni di Ferrara ha letto così; ma è un equivoco.

— Nossignore — susurrò Vasco.

— Scusi, non c'è dubbio. Non ci può esser dubbio. Se si ricorda, mi pareva licenziosetto quel greco, licenziosetto. Adesso mi hanno scritto da Roma. È una cosa conosciutissima. I caratteri sono sbiaditi, vede; possono trarre in inganno. Bisogna leggere F. DE NANTO abbreviazione di Franciscus de Nanto de Sabaudia ch'è il nome dell'intagliatore perchè Tiziano ha solamente disegnato. Questo stesso frontispizio lo ha l'edizione romana delle lettere del cardinal Bessarione contro i Turchi.

Vasco tacque.

— Accendendo il lume... — soggiunse il prete, esitante — se Lei ha una lente... si potrebbe vedere...

— Nossignore — balbettò l'avvocato.

L'altro non osò insistere, suppose che il vecchio avesse un sonno invincibile. Si trattenne ancora un poco, in silenzio; quindi dal respiro affannoso dell'avvocato argomentò che dormisse, e uscì a tentoni, in punta di piedi.

Il povero Vasco si disponeva infatti a dormire un sonno invincibile. Pochi minuti più tardi, il rapido fuoco senza fiamma, che correva talora per le reliquie nere del volume, rivelò scomposta la sua mite accorata faccia di bambino. Sulla soglia del Vero, l'ultima illusione gli dava l'ultimo calore, l'ultima luce.

Morì nella notte.

QUARTO INTERMEZZO

MARTINI GAVOTTA

( Imitazione all'8ª )

(Un vecchio e una fanciulla ballano la gavotta all'aperto, conversando. A misura che la fanciulla dice, il vecchio segue).

EGLI ELLA

Leggero e grazïoso

Ballate com'io ballo.

Leggero e grazïoso Movo col suono e poso

Guardami come ballo. Piede non metto in fallo

Dietro a te movo e poso.

Sol se tu falli io fallo. Sorrido e vo pensando

Nel core mio, ballando,

Sorrido e vo pensando Un folle giovinetto

Nel core mio, ballando, Che adesso avria dispetto

La Lena giovinetta Mentr'io col mio vecchietto

Che a casa ora m'aspetta Ho placido diletto.

Bisbetica vecchietta. Lesto, messere, a voi!

Qual tratto avria vendetta, Porgetemi il mazzetto.

Tempo già fu, di noi.

Eccovi i fiori in fretta. Dolce così ballare

Come si balla noi,

Bello così ballare Ridendo, pianamente;

Come si balla noi, Il cor non s'infiammare,

Pian piano, dolcemente, Non perdere la mente.

E non sudar, soffiare,

Pigliarsi un accidente. Dolce ballar così

Sul fresco prato a sera

Dolce ballar così Or che odorosa è qui

Sul fresco prato a sera Tepida primavera.

Con te che ridi qui.

Vezzosa primavera. O l'una o l'altra gota

Baciatemi, messere,

Tra l'una e l'altra gota, Come gavotta vuole.

Un bacio, a mio vedere,

Meglio posar si suole. M'è vostra usanza ignota;

Amabil cavaliere

Ah, tale usanza ignota Baciar così non suole.

A le tue labbra fiere

Non insegnar mi duole. Ballate com'io ballo

Che piè non metto in fallo.

Io come posso ballo Lasciate il sospirare,

E sospirando fallo. Follia ch'è stata è stata;

Mi muove a sospirare Potrò dimenticare

La bocca tua rosata, Che fui così baciata.

Vorrei dimenticare

Ch'è a sera la giornata. Posiam, forse v'offende

Omai l'umida notte,

Il tuo parlar m'offende La tosse vi riprende,

E non l'umida notte, Vi mordono le gotte.

Amara mi riprende Messere, ite a la Lena.

Tristezza e non le gotte.

Miglior di te era Lena. Ed io sui prati errando

A la nascente luna,

I prati attraversando Cantando andrò, lodando

A la nascente luna Mia vita e mia fortuna

Meco verrò ammirando Sì placida e serena;

Sì come ancor fortuna Con riso andrò pensando

A naufragar ci mena Quale follia vi mena

In savia etate, quando Tutti ad un laccio stretti,

Ne tenta una sirena. Vecchietti e giovinetti.

Addio, torno a la Lena, Messere, ite a la Lena,

Vado a trar lei di pena, Ite a trar lei di pena,

Bella, addio, buona notte, buona notte. Ite ite, buona notte, buona notte.

Buona notte. Buona notte.

UNA GOCCIA DI RHUM

Gli occhi suoi mi dissero di tacere; un domestico entrava con il vassoio del thè.

— Per me sola — diss'ella a mezza voce — come Leopardi. — Amava, benchè straniera, Leopardi, che io le leggevo qualche volta; e non soffriva, allora, che chicchessia ne udisse un sol verso. Quella sera non leggevo, avevo una febbre di passione troppo forte; dicevo all'amica mia le visioni avute di lei e del nostro amore immortale prima di conoscerla, prima ch'ella venisse in Italia. Non so qual genio m'ispirasse le parole ardenti che salivano dal mio cuore come onde in furia, mi si rompevano sulle labbra. I domestici non avevano, forse, molto ad apprendere sul nostro legame; ma Elena si crucciava veramente che altri m'udisse, anche solo un momento e per caso, nelle rare effusioni dell'anima mia.

— Accendete — diss'ella al cameriere. Mi spiacque che non lo congedasse subito, e, quando restammo soli, tacqui guardando sul vassoio la pura fiamma azzurrina come uno spirito dell'argento. Elena pure taceva; ma, dopo un lungo silenzio, vidi due lagrime rigarle il viso, benchè gli occhi gravi non esprimessero, quasi, dolore.

— Elena! — esclamai.

Ella fermò il mio slancio con un sorriso ed un gesto. Mi accennò di spegnere e disse:

— Devo parlarvi.

Non mi sorprese che adoperasse il voi invece del tu; qualche volta diceva anche lei, ed ero avvezzo a queste bizzarrie; ma mi fece paura l'accento. Non parlò subito; vôlta alle grandi invetriate che chiudon la loggia da ponente, guardava giù nella scura notte piovosa i lumi di Firenze, stringendo una fronda del colossale rhododendron, tutto fiori sanguigni sopra il suo capo.

Il thè era pronto. Lo versai nella tazza d'Elena e ricacciandomi l'angoscia in gola, le feci con la solita voce la solita domanda:

— Latte o rhum?

Mi si permetta di non dire perchè Elena non voleva che io le domandassi mai espressamente di rimanere con lei un'ora o due dopo la mezzanotte, quando si spegnevano, di solito, i fanali del cancello, la lampada del vestibolo. Era convenuto fra noi che se Elena prendeva rhum nel suo thè, invece di latte, questo favore mi veniva concesso. Dunque le domandai:

— Latte o rhum?

Elena si voltò. Non le si vedevano più in viso le due righe lucenti.

— Senti — diss'ella come se non avesse intesa la mia domanda — mi hai detto una volta che vi sono troppi enigmi nel mio carattere, ch'esso è troppo inverosimile per farne una creazione artistica. Non me l'hai detto?

Era vero e lo confessai.

— Non dev'essere così — riprese Elena con impeto. — Tu ami troppo le donne della tua fantasia! Io sono più bella, più viva e più vera! Chi è questa gente che mi troverà inverosimile? Che t'importa di loro, a te? Credi forse che avrai mai fama? Non ti amerei tanto! Io non degno neppur ricordarmi di tutta questa povera gente al di sotto di noi. Voglio che tu faccia di me un poema quando cominceresti a dimenticarmi.

La interruppi protestando, le afferrai una mano.

— Voglio — proseguì abbandonandomi la sua gelida mano — rinascere nella tua mente, essere amata da te come le altre e più ancora. Me lo prometti?

— Elena — esclamai — mia, per sempre mia Elena, perchè mi parli così, come mai pensi?...

Ella impallidì, gli occhi suoi lampeggiarono d'impazienza.

— Me lo prometti? — ripetè affannosa — me lo prometti?

— Sì, sì — le risposi, e volevo soggiungere altro; ma ella si portò con tant'impeto la mia mano alle labbra che una commozione senza nome mi spense la voce.

— Guardami bene gli occhi — diss'ella, alzando il viso: — devi essere un pittore fedele.

— Mai mai — le risposi — non potrò descrivere i tuoi occhi magnetici!

Ella lo sapeva, glie lo avevo detto altre volte che non c'era espressione umana per descrivere il carattere singolare del suo sguardo. Sorrise tristemente e soggiunse ponendosi la mano sul cuore:

— Ma il più difficile è qui.

— Elena — le dissi con tenerezza — è per questo che piangevi, è per questo che mi hai fatto paura?

Fu allora ch'ella mi disse le parole amare di cui, dopo tanti anni, la memoria mi assale ancora di notte e nella solitudine. Le avevano scritto dalla Lituania; parenti poco degni di lei, forse poco leali, facevano appello, dopo una lunga storia, alla nobiltà del suo cuore, perchè ritornasse colà nella fredda patria; ed ella, sapendo che il clima e l'amore l'avrebbero uccisa, partiva l'indomani, con la sua fatale sete di sacrificio, per Vilno, dove nessuno la poteva seguire.

Vorrei dimenticare le folli cose che dissi e feci, malgrado la mia solita calma scettica, in quell'ora terribile; ma avrei spezzato il marmo del tavolo che tempestavo col pugno fremente, prima di piegar Elena con le preghiere o lo sdegno. L'accusai per ultimo di egoismo; le dissi che pensava solo a sè, sempre a sè; che metteva la virtù come un abito di Parigi e il sacrificio come un gioiello, per ammirarsi sopra ogni creatura. E subito le caddi a' piedi, le chiesi perdono.

— No — diss'ella, alzandosi — è forse meglio lasciarci così; si soffre meno.

Invano la supplicavo, la scongiuravo, sempre ginocchioni, trattenendole una mano.

— Si soffre meno — ripeteva — si soffre meno.

La sua voce lottava col pianto, ma vi si sentiva il dispetto di questa debolezza dei nervi; la mano che trattenevo mi fu tolta.

Sorsi in piedi. In quel momento suonò mezzanotte.

Elena, ritta, non mi parlava, non mi guardava, pareva aspettar ch'io partissi.

Tolsi dal volume di Leopardi, ch'era sul tavolino, un ramoscello d' olea fragrans postovi da lei per segno la sera innanzi, e dissi piano:

— Permette?

Allora ella mi guardò con quel suo sguardo divino di una volta, ma non fe' cenno nè disse parola. Posai il ramoscello; mi sentivo morire.

Mi fermai prima d'uscire, sulla soglia e mi voltai per un tacito saluto. Elena susurrò senza muoversi:

— Lei mi farà migliore e mi amerà più nel suo libro che viva.

Il domestico entrò ad avvertire che c'era la mia carrozza, ma che pioveva molto.

— La prego — mi disse Elena sorridendo, come per nascondere a colui la nostra emozione — un'altra goccia di rhum.

Mi accostai al tavolo barcollando come un ebbro, mentre il domestico usciva. La boccia di cristallo era vôta. Nei miei trasporti di prima le avevo fatto un'incrinatura sul fondo, e il rhum era colato silenziosamente sul pavimento.

— Ve n'è ancora per due — disse Elena.

Ell'aperse una piccola custodia nel suo braccialetto d'oro, vi raccolse, sorridendo fra le lagrime, l'ultima goccia di liquore che oscillava sull'orlo del cristallo, la povera ultima goccia del nostro tempo felice. Si recò il braccialetto alla bocca; ma, prima che lo porgesse alla mia, io colsi sul suo labbro l'umore ardente.

Ne serbo ancora nel petto un fuoco che solo la morte può estinguere: e sempre sempre, quando lavoro al libro in cui Elena rivive, tutto quello che mi esce veramente dal cuore ha la straniera fragranza, il fuoco fantastico di quella goccia di rhum.

QUINTO INTERMEZZO

CHOPIN Opera, 17 — N. 4

(Parla una donna al marito, che giace sul letto, morto)

Placido posa il mio amore, nè un lieve respir si sente;

Lo vo' svegliare pian piano, gli vo' cantar dolcemente.

Non dormir, folle amor mio; non sai? la diletta è qui.

Ancor? No, no! Mi fai male! Ah scherzi, forse, così.

Deh scherza, sì, con un riso balza su, stringimi al cor.

Non lo fai? Ma perchè mai? Or mi sdegno, mio signor.

Avevo, signore, un dono qui sulla bocca per Lei;

Or no, non più, ho male al core, tu l'amor mio più non sei.

No, così parlai per giuoco, scherzo io pur, non t'adontar,

Perdono! Son gaia, vedi! Vo' rider, caro, e danzar.

Che folle gioia danzare ne le tue braccia possenti,

Come portata dal mare, come aggirata dai venti,

Col viso stretto al tuo petto, bevendo il tuo ebbro diletto,

Bevendo te pien di me che un tal paradiso aspetto!

E dormi ancor! Palpitando le man ti bacio; che gel!

Che gel! Non so, non intendo che abbia la mano fedel.

Tremo, mi slancio alla bocca; è gel! T'abbraccio sul cor;

Tace! Che angoscia! M'ascolta; ti parlo a ginocchi, amor.

Odi ben, ti parlo grave, se lasciarmi pensi è male,

Tu lo sai cos'hai giurato, non puoi farti disleale.

Dimmi in che t'offesi mai, qui lo dici a Dio presente,

Egli giudichi se amai! Terra e cielo mi eran niente.

A me stessa cara io fui sol perchè mi avesti cara,

Patria, casa e madre mia senza te mi parve amara.

Nulla posso ancora offrirti, tutto, misera, donai,

E tu freddo, senza un bacio, da me tacito ten vai.

A te grido, al mondo, a Dio, chiamo, chiamo, mi dispero;

Ahi per me nessuno è pio, tutto è sordo, è muto, è nero.

Oh signor, tu sei sovrano, la mia bocca or delirava,

A tua posta vieni e parti; che t'importa s'io t'amava?

Ma pur se una volta ancora, se un'ora sola, un istante...

(Eri sì dolce e clemente, eri sì tenero e amante!)

... Se, sorridendo di questa tua semplicetta che resta,

Tanto, lo vedi, soletta, tanto, concedilo, mesta,

Pria di partir tu volessi un solo istante serrarmi

Ma tutta, così, ma forte, Dio! sul tuo seno e baciarmi...

Pietà, pietà, mi dispero!

Amore mio, dormi ancor,

Son stanca, sento mancar pensiero, voce, dolor,

Ho sonno, sorrido a le ombre d'un sogno, manco, ma in pace.

Con te?... Su questo tuo letto...? O mio sovrano, ti piace?

Quanto è potente il mio sposo, quanto serena mi rende,

Com'è profondo il riposo che dal suo letto mi ascende!

Lo sguardo mio più non vede, l'orecchio mio più non sente,

Ne l'ombra lenta del sonno si oscura e perde la mente.

PEREAT ROCHUS

I.

— Bel caso, don Rocco — disse per la quarta volta il professore Marin, raccogliendo le carte e sorridendo beatamente, mentre il suo vicino di destra inveiva furioso contro il povero don Rocco. Il professore durò a perseguitare costui con un risolino a bocca chiusa, con lo sguardo scintillante di benevola ilarità; poi si volse alla padrona di casa che dormigliava in un angolo del canapè.

— Un bel caso, contessa Carlotta!

— Ho capito — rispose la signora — e mi parrebbe anche ora di finirla; non è vero, don Rocco?

— No, don Rocco — riprese il professore, serio. — Se ci pensate bene, è un caso da congrega.

— Altro che da congrega! — disse il vicino di destra.

Don Rocco, rosso come un papavero, ficcate due dita nella tabacchiera, taceva a capo chino con un certo suo cipiglio compunto, opponendo alla tempesta il cranio lucido, guardando sottecchi, fra un batter di ciglia e l'altro, le carte sciagurate. Quando udì ripetere dal suo temuto compagno la parola congrega, gli parve che le cose volgessero al faceto, fece un sorrisetto e strinse il tabacco fra le dita.

— Eh, voi ridete! — ripigliò l'implacabile professore. — Non so se avendo giuocato a terziglio, e fatto prendere un cappotto simile al vostro compagno, possiate celebrare in pace, domattina.

— Eh, posso posso — borbottò don Rocco, aggrottando ancora le ciglia e levando un poco la sua buona faccia contadinesca. — Fallano tutti, fallano. Falla anche lui; e anche Lei, forse, qualche volta.

La sua voce pareva il grugnito di una bestia pacifica, tribolata oltre ogni mansuetudine. Al professore scoppiavano le risa dagli occhi.

— Avete ragione — diss'egli.

Il giuoco era finito, i giuocatori si alzarono.

— Sì — disse il professore con serietà canzonatoria — il caso di Sigismondo è più complicato.

Don Rocco strinse in un sorriso gli occhietti lucenti, chinando il capo con un misto incomprensibile di modestia, di compiacenza, di turbamento, e brontolò:

— Anche quello va a tirar fuori!

— Vedete — soggiunse il professore — che sono informato. Si tratta, contessa, di un caso che don Rocco deve sciogliere alla prossima congrega.

— Qui non c'è congreghe — disse la contessa. — Lasci stare.

Ma non era così facile cavare una vittima dalle unghie del professore.

— Non ne parliamo più — diss'egli tranquillamente. — Sentite però, don Rocco; io non la penso come voi su quel punto. Per me, pereat mundus.

Don Rocco fece un cipiglio feroce.

— Io non ho parlato con nessuno — diss'egli.

— Don Rocco, avete chiacchierato, e lo so — riprese il professore. — Abbia pazienza, contessa, giudichi Lei.

La contessa Carlotta non voleva saperne, ma il professore tirò via imperturbato a esporre il caso di Sigismondo, come la Curia vescovile lo aveva proposto.

Un tale Sigismondo, colto da improvviso malore, chiede di confessarsi. Appena è solo col prete si affretta a dirgli che altri sta per compiere un omicidio di cui egli fu istigatore. Proferite queste parole perde la voce e i sensi. Il sacerdote dubita se Sigismondo abbia parlato in confessione o no, e non può impedire il delitto, non può salvare questa vita umana in pericolo, se non usando della confidenza ricevuta. Deve egli farlo, o lasciar uccidere un uomo?

— Don Rocco — conchiuse il professore — vorrebbe che il prete facesse da carabiniere.

Il povero don Rocco, martoriato nella coscienza dallo scrupolo di trattare questo argomento in una conversazione profana e dall'ossequio al suo canzonatore, ecclesiastico di età matura e professore nel Seminario vescovile di P., si contorceva, masticava delle scuse.

— No... ecco... dico... mi pareva...

— Mi meraviglio che si scusi, don Rocco — disse la signora. — Mi meraviglio che pigli sul serio gli scherzi del professore.

Questi protestò e strinse con sottili domande i panni addosso a don Rocco, si mise a spremerne adagio adagio quella miscela d'istinto retto e d'argomenti storti che aveva in capo, ripulendolo con garbo d'ogni cattiva ragione e d'ogni buon senso, per lasciargli uno stupore pieno di contrita umiltà. Ma il giuoco durò poco, perchè la signora congedò la compagnia col pretesto ch'eran suonate le undici. Trattenne però don Rocco.

Era la contessa Carlotta che lo aveva scelto, pochi anni prima, a rettore della chiesa di S. Luca, proprietà della signora stessa. Ella pigliava con lui un'aria vescovile che il giovane prete, semplice di spirito quanto umile di cuore, comportava in santa pace.

— Farebbe meglio, caro don Rocco — diss'ella quando rimasero soli — a occuparsi meno dei casi di Sigismondo e più dei Suoi.

— Perchè? — chiese don Rocco, interdetto. — Non so niente.

— S'intende; lo sa il Comune, ma Lei non sa niente.

Gli occhi della signora soggiunsero chiaramente: povero mammalucco! Don Rocco tacque.

— Quando torna la Lucia? — chiese lei.

Questa Lucia era la serva di don Rocco ch'egli aveva lasciato andare a casa per quattro o cinque giorni.

— Domenica — rispose. — Domani sera. — Ah! — esclamò a un tratto sorridendo assai soddisfatto della propria intelligenza. — Adesso ho capito, adesso so cosa Lei vuol fare. Niente, non è vero niente.

Aveva finalmente inteso che si trattava di chiacchiere corse in paese su certi amori della sua serva con un tal Moro, un pessimo soggetto, pratico da un pezzo della Pretura e del Tribunale, che univa diabolicamente l'astuzia al malvolere e alla forza. Qualcuno teneva che non fosse interamente malvagio, che il bisogno, i mali trattamenti d'un padrone ingiusto lo avessero tratto alla colpa; ma tutti lo temevano.

— Non è vero niente? — replicò la signora. — Allora non so cosa dirà il paese quando alla serva del prete succederanno delle novità.

Don Rocco diventò di fuoco e fece un cipiglio spaventoso.

— Non è vero niente — diss'egli brusco, risoluto. — La ho interrogata io stesso appena udite quelle chiacchiere. Son cattiverie della gente. Non lo vede neanche mai quell'uomo.

— Senta, don Rocco — disse la signora. — Ella è buono, buono, buono. Ma siccome il mondo non è così, e siccome c'è scandalo, così se Lei non si risolve a mandar via subito quella creatura, bisogna che mi risolva io a qualche cosa.

— Farà quello che vuole — rispose il prete, asciutto. — Io debbo considerare la giustizia, non è vero?

La contessa lo guardò e disse con una certa solennità:

— Va bene. Vuol dire che Lei ci penserà ancora stanotte, e domani mi darà l'ultima risposta.

E suonò il campanello per far recare una lanterna a don Rocco, essendo la notte assai oscura. Ma, con sua grande sorpresa, don Rocco ne estrasse delicatamente una dalla tasca posteriore del soprabito.

— Cosa Le è venuto in mente? — esclamò la signora. — Mi avrà macchiata la sedia, adesso!

Si alzò malgrado le assicurazioni di don Rocco e, pigliata una delle candele che ardevano ancora sul tavoliere da giuoco, si chinò a considerar la sedia in questione.

— A Lei! — disse. — Vi metta il naso. No, macchiata; rovinata!

Don Rocco si chinò anche lui, aggrottò le ciglia sopra una larga macchia d'unto, un'isola nera nella tela grigia, susurrò gravemente «oh, sì» e rimase assorto in quella contemplazione.

— Adesso vada — disse la signora. — Quel ch'è fatto è fatto.

Parve infatti ch'egli aspettasse il permesso di alzare il suo naso posto in penitenza.

— Vado, sì — rispose accendendosi la lanterna — perchè adesso a casa son solo e ho anche paura d'aver lasciata la porta aperta.

In un batter d'occhio disse «felice notte» e scomparve, senza nemmeno guardar la signora.

Ella rimase sbalordita.

— Gran villano, mio Dio! — disse.

II.

Era un'umida, nuvolosa notte di novembre. Il piccolo don Rocco arrancava verso il suo romitaggio di S. Luca a scosse di passi sgangherati, tutto d'un pezzo, le braccia in parentesi, la schiena in arco, facendo Dio sa qual cipiglio alla ghiaia della strada maestra. Ruminava le parole oscure della signora Carlotta, la cui gravità gli entrava adagino nel cervello grosso. Ruminava pure la prossima congrega, il pereat mundus e le sottili ragioni, mal capite, del professore; e anche la spiegazione del Vangelo per l'indomani, che non era ancora ben pronta. Tutta questa roba gli s'impasticciava qualche volta insieme nella testa. Non si doveva condannare la innocente Lucia, pereat mundus. La signora Carlotta era quasi una padrona per lui; ma quell'altro gran padrone? Nemo potest duobus dominis servire; così, fratelli dilettissimi, l'odierno Vangelo.

Aveva anche perduto al terziglio, povero don Rocco, come sempre; e ciò gli tingeva un poco di grigio le idee malgrado la sua proverbiale trascuranza di ogni interesse mondano. Quel buco nella tasca, quella goccia continua gli dava pensiero. Non sarebbe stato meglio fare elemosina?

«C'è di buono» pensava «che mi secco e tutti mi strapazzano. Non giuoco mica per piacere».

Ecco a sinistra della via uno scuro d'alberi, un ascender lento di questa oscurità informe a tre grandi cipressi ineguali, neri sul cielo. Là tra i vecchi cipressi posa la romita chiesetta di San Luca e, addossato a lei, un piccolo convento, vuoto da cento anni. Il breve poggetto inghirlandato di viti non porta altre case. Nè dal convento nè dal prato che regge la chiesetta vegliata dai cipressi si scorge la via maestra, ma solo altri poggi gai di vigneti, di ville e case campestri, isole d'un immenso piano che va da colline più lontane alle alpi, e sfuma a levante nei vapori del mare invisibile. Il semplice cappellano della signora Carlotta viveva solo nel convento come un sacerdote del silenzio, contento della magra prebenda, contento di predicare a più non posso nella sua chiesetta, di esser chiamato il giorno a benedire i fagiuoli e la notte ad assistere i moribondi, di coltivarsi le viti con le proprie mani; contento di tutto, insomma; anche della serva, una brutta zitellona sui quarant'anni, a talento della quale mangiava, beveva e vestiva rassegnatamente, senza scambiare con essa dieci parole l'anno.

— Se la mando via — diceva tra sè, passando fra le alte siepi della stradicciuola che sale dalla via maestra a San Luca — è un danno, è un disonore per lei. Non posso in coscienza, perchè son sicuro, caspita, che non è vero niente. Col Moro, poi!

L'orologio del campanile suonò le undici, don Rocco pensò alla predica, di cui un buon quarto era ancora da scrivere, e traboccò giù in furia dal prato della chiesa al portone del suo cortile, affondato lì presso, sotto il campanile, in capo a un viottolo scosceso. Aperse il portello, attraversò a mezzo il cortile e si fermò su' due piedi. Una fioca luce usciva dalle finestre del suo salotto, l'antico refettorio dei frati, a pian terreno.

Don Rocco era uscito alle quattro per andar a parlare con la contessa Carlotta e non era rientrato più. Non poteva aver dimenticato il lume acceso. Doveva esser tornata la Lucia, dunque, prima di quel che aveva promesso; certo, certo. Non affaticò il suo cervello in altre supposizioni ed entrò in casa.

— Siete voi, Lucia? — diss'egli. Nessuno rispose. Entrò nel vestibolo, s'affacciò alla cucina, rimase lì, immobile, sulla soglia.

Un uomo stava seduto sotto la cappa del camino con le mani protese sulle brage. Voltò il viso al prete e disse senza scomporsi:

— Don Rocco, servitor suo.

Al chiarore del fumoso lume a petrolio che ardeva sulla tavola, don Rocco riconobbe il Moro.

Egli si sentì un certo leggero rammollimento del cuore e delle gambe. Non si mosse nè rispose.

— Resti servito, don Rocco — riprese il Moro imperturbato, parlando come se fosse in casa propria. — S'accomodi qui anche Lei, che fa freddo stasera, fa umido.

— Fa freddo, sì — rispose don Rocco con una forzata benevolenza nell'accento. — Fa umido.

E posò la lanterna sulla tavola.

— Venga qua — riprese l'altro. — Aspetti che L'accomoderò io. — Andò a pigliar una sedia e la piantò sul focolare a fianco della propria,

— Ecco — diss'egli.

Intanto don Rocco veniva ripigliando fiato e facendo con un cipiglio terribile dei faticosi ragionamenti interni.

— Grazie — rispose. — Vado a metter giù il tabarro e torno subito.

— Lo metta giù qui il tabarro — replicò il Moro non senza una certa fretta, una nuova imperiosità, che piacquero pochissimo a don Rocco. Egli depose silenziosamente sulla tavola il tabarro e il cappello e sedette sotto la cappa del camino, a fianco del suo ospite.

— Mi scuserà se ho fatto un po' di fuoco — riprese questi. — È una buona mezz'ora che son qui. Credevo che Lei fosse in casa a studiare. Non è sabato, stasera? Avrà bene a dire, domattina, le solite quattro minchionerie ai villani!

— La spiegazione del Vangelo, vorrete dire — rispose vivamente don Rocco, che su quel terreno lì non conosceva paura.

— Lei capisce le cose in aria — disse il Moro. — Mi scusi, son villano anch'io, si parla alla buona, ma con rispetto. Vuol favorirmi una presa?

Don Rocco gli porse la tabacchiera.

Da trozi? — fece l'altro con un'occhiata d'intelligenza. Da trozi ossia da sentieri chiamano in quel paese il tabacco che entra di furto nello Stato.

— No — rispose don Rocco alzandosi. — Forse ne posso avere un poco di sopra.

— Lasci stare, lasci stare — s'affrettò a dire il Moro. — Qua, qua.

E affondate tre dita nella tabacchiera, vi attinse una libbra di tabacco e se lo fiutò a piccole riprese, contemplando il fuoco. La fiamma moribonda gl'illuminava la barba nera, il viso terreo, gli occhi vivaci, intelligenti.

— Adesso vi sarete riscaldato — s'arrischiò a dire don Rocco dopo un momento di silenzio. — Potrete andare a casa.

— Hum! — fece l'altro con una spallata. — Avrei qualche affaretto, prima.

Don Rocco si contorse un poco sulla sedia, battendo forte le palpebre, con un cipiglio straordinario.

— Dicevo così perchè è tardi — borbottò fra il rustico e il timido. — Ho appunto a far qualche cosa anch'io.

— La predica, eh? La predica, la predica — ripeteva l'altro, macchinalmente, guardando il fuoco e pensando. Senta — conchiuse — facciamo così. Ho visto che in salotto c'è penna, carta e calamaio. Lei si accomoda lì e scrive le Sue chiacchiere. Io, intanto, se per Sua buona grazia mi permette, mi prendo un boccone, perchè sono sedici ore che non assaggio cibo. Quando abbiamo finito si parla.

Don Rocco pareva poco persuaso sulle prime; ma quanto era focoso nell'eloquenza sacra, altrettanto era impacciato nella profana. Non seppe che contorcersi e metter qualche sommesso grugnito di dubbio; dopo di che, l'altro tacendo sempre, si alzò dalla sedia più stentatamente che se vi si fosse invischiato.

— Vado a vedere — diss'egli — ma ho paura che troverò poco. La serva....

— Lei non s'incomodi — interruppe il Moro. — Lasci fare a me. Vada a scrivere, Lei. — Saltò giù dal focolare, accese un altro lume e lo portò nell'attiguo salotto che aveva le finestre a mezzogiorno, verso il cortile, mentre le finestre della cucina si aprivano a tramontana, sul lato posteriore del vecchio convento, dov'erano la cantina e il pozzo. Poi tornò lesto a spiccare, sugli occhi dell'attonito prete, una chiave appesa nell'angolo più buio della cucina, ne aperse un'armadio a muro, vi alzò la mano sicura a un formaggio di capra, di cui don Rocco non sospettava neppure l'esistenza; tolse il pane in una credenza, il coltello in un cassetto della tavola.

Fu questa la terza o la quarta volta nella vita di don Rocco che il famoso cipiglio, per alcuni istanti, scomparve. Anche le palpebre restarono di battere.

— Lei mi guarda, don Rocco — disse il Moro, compiacendosene — perchè son pratico di casa Sua. Badi a scrivere. Sentirà poi. — Terremo anche vivo il fuoco — soggiunse, quando il prete, rinvenuto poco a poco dal suo sbalordimento, passò in salotto.

Prese il soffietto di ferro, una specie di canna da spingarda, ne volse un capo alle brage e soffiò nell'altro in modo così insolito che ne uscì un fischio potente. Quindi die' di piglio alla cena.

Che diavolo aveva? Ora divorava, ora levava la faccia e rimaneva lì trasognato, ora camminava su e giù per la cucina, urtando le sedie e la tavola. Pareva una bestia prigioniera che ogni tanto leva il muso dall'osso, ascolta e guarda, lo acciuffa, lo lascia, dà una girata rabbiosa per la gabbia, torna a sgretolare.

Don Rocco intanto pendeva sul suo scartafaccio, ammirando ancora ciò che aveva veduto, non sapendo trarne, nel suo candore, alcuna induzione, ascoltando in pari tempo i passi e i rumori della camera vicina, con certa torpida inquietudine che somigliava vagamente alla paura, come la intelligenza dello stesso don Rocco all'ingegno. Sentirà poi — si diceva. — Cosa ho a sentire? Che sa dove sono i denari? — Li aveva messi nel cassettone della sua camera da letto, ma erano in tutto due biglietti da dieci lire, e don Rocco pensò con soddisfazione che il vino nuovo non era ancora venduto e quei denari là eran sicuri dalle unghie del Moro.

Violenze non pareva che costui ne minacciasse. — Infin dei conti andranno venti lire — concluse don Rocco adagiandosi nella sua filosofica e cristiana noncuranza dell'oro. Abbandonò mentalmente le venti lire al loro destino e cercò ricondurre i pensieri al sacro testo «nemo potest duobus dominis servire.» Nello stesso momento gli parve udire fra i passi affrettati del Moro un gran colpo sordo, più lontano, come di un uscio che si sfondi; poi il tonfo d'una seggiola rovesciata in cucina; poi un altro colpo lontano. Il Moro entrò in salotto e chiuse violentemente l'uscio dietro di sè.

— Don Rocco, son qua — diss'egli, — Ha finito anche Lei?

— Ci siamo — pensò il prete, a cui ogni altra cosa che quella presenza uscì di mente.

— Finito, no — rispose. — Ma finirò quando sarete andato via. Cosa volete?

Il Moro prese una seggiola, gli sedette in faccia, incrociò le braccia sulla tavola.

— Faccio una brutta vita, signore — diss'egli. — Una vita da cane e non da cristiano.

A don Rocco, per quanto disposto placidamente al peggio, si allargò il cuore. Egli rispose severo, e con gli occhi bassi:

— Si cambia, figlio, si cambia.

— Son qui apposta, don Rocco — replicò l'altro. — Voglio confessarmi.

— Adesso subito — soggiunse perchè il prete taceva.

Don Rocco battè le palpebre e si contorse alquanto.

— Bene — diss'egli, sempre con gli occhi bassi. — Adesso potremo parlare, ma per la confessione abbiamo tempo. Per la confessione potreste ritornare domani. Ci vuole un poco di preparazione. Bisognerà anche vedere se siete istruito.

Il Moro tirò con tutta placidità e dolcezza tre e quattro cannonate contro Dio in sacramento, come se recitasse un' Ave, per conchiudere che ne sapeva quanto un chierico.

— Ahi, ahi, vedete, vedete — disse don Rocco contorcendosi più che mai. — Si comincia male, figlio caro. Volete confessarvi, e bestemmiate.

— Lei non deve guardare a queste piccolezze — rispose il Moro. — Il Signore Le assicuro io che non ci guarda. È un'abitudine, così, della lingua. Niente altro.

— Brutte abitudini, brutte abitudini — sentenziò l'accigliato don Rocco, guardando nel fazzoletto che si teneva sotto il naso a due mani.

— Insomma, mi confesso — insistette colui. — Taccia, taccia, non dica di no; ne udrà delle belle.

— Adesso no, assolutamente no — protestò don Rocco, alzandosi — Adesso non siete preparato. Adesso ringrazieremo il Signore e la Madonna che ci hanno toccato il cuore e poi andrete a casa. Domattina verrete alla Santa Messa e dopo la Santa Messa staremo ancora insieme.

— Va bene — rispose il Moro. — Faccia pure.

Don Rocco s'inginocchiò a terra presso un canapè e parve attendere, girando il capo, che colui lo seguisse.

— Faccia faccia — disse il Moro. — Io ho male a un ginocchio e reciterò le mie orazioni seduto.

— Bene, sedete qui sul sofà, vicino a me che starete meglio, accompagnate le parole col cuore e tenete gli occhi a quel Crocifisso là in faccia. Da bravo, preghiamo il Signore e la Madonna che vi mantengano in queste buone disposizioni onde abbiate la fortuna di fare una buona confessione. Devoto, da bravo!

Ciò detto, don Rocco incominciò a recitare dei Pater e degli Ave, alzando spesso, devotamente, il suo cipiglio. Il Moro gli rispondeva seduto sul canapè. Pareva lui il confessore e l'altro il penitente.

Finalmente don Rocco si fece il segno della croce e si alzò.

— Adesso segga qui che mi confesso — disse il Moro come nulla fosse. Don Rocco gli diè sulla voce. Non erano già intesi che si sarebbe confessato all'indomani? L'altro faceva il sordo da quest'orecchio, continuava a battere il suo punto con una placidità ostinata. — Finiamola — disse a un tratto. — Stia attento che incomincio.

— Vi dico che non è possibile e che non voglio — ribattè don Rocco. — Andate a casa vostra, vi dico. Io vado a letto, adesso.

S'incamminò subito; ma il Moro lo prevenne, balzò all'uscio, lo chiuse a chiave e si cacciò la chiave in tasca.

— Nossignore — diss'egli. — Lei non se ne va. Non posso morire stanotte io? Non basta che il Signore mi soffii su, là, così?

Soffiò sul lumicino a petrolio e lo spense.

— E se vado all'inferno — continuò con voce cupa nelle tenebre — ci viene anche Lei, sa!

Il povero prete, a quell'improvvisa violenza, a quel buio, perdette la tramontana, non sapeva più in che mondo si fosse, ripeteva «andiamo, andiamo!» cercando il canapè a tentoni, urtando l'aria con le palme distese. Il Moro si accese uno zolfanello sul braccio e don Rocco ebbe una visione della tavola, delle seggiole, del suo strano penitente prima che il buio tornasse più nero di prima.

— Ha veduto? — disse colui. — Adesso incomincio; dal peccato più grosso. Sono quindici anni che non vado a confessarmi, pure il peccato più grosso è questo, che ho fatto all'amore con quella brutta figura della Sua serva.

— Corpo di bacco! — fece don Rocco involontariamente.

— Se son pratico della cucina — continuò il Moro — è perchè sarò venuto qua cinquanta volte, la sera, quando Lei non c'era, a mangiare e bere con la Lucia. Lei forse si sarà anche trovato a mancare qualche lira...

— Non so niente, no, non so niente, no — borbottò don Rocco.

— Qualcuna di quelle poche lirette del suo cassettone, primo cassetto a sinistra in fondo.

Don Rocco mise una sommessa esclamazione di sorpresa e di dolore.

— Per me ho finito di rubare — continuò l'altro — ma quella strega Le porterà via la casa. Brutta donna, don Rocco, brutta donna! Bisogna che ce ne liberiamo. Si ricorda di quella camicia che Le è mancata l'anno scorso? l'ho addosso io e me l'ha data lei. Restituirla non posso, perchè...

— Non fa niente, andate là, non fa niente — interruppe don Rocco. — Ve la dono.

— Ci sarà poi anche qualche bicchiere di vino, ma non l'ho bevuto tutto io. E poi c'è la tabacchiera d'argento con Pio IX.

— Corpo di bacco! — esclamò don Rocco che credeva avere nel cassettone questa preziosa tabacchiera regalatagli da un vecchio collega. — Anche quella?

— Bevuta, sì signore. Bevuta in quindici giorni. Non si riscaldi che siamo in confessione.

— Cosa c'è?

Un colpo sul portone del cortile. Un gran pugno o una sassata.

— Malviventi — disse il Moro. — Bricconi che girano la notte. — O qualche malato, forse. Adesso vado io a vedere.

— Sì, sì — fece don Rocco in fretta.

— Vado e tornerò domani — continuò quegli — perchè vedo che Lei già non ha voglia di confessarmi, stanotte.

Trasse gli zolfanelli e riaccese il lume dicendo:

— Senta, don Rocco. Voglio fare il galantuomo, lavorare; ma dovrò cambiar paese, e i primi giorni, come si mangia? Mi capisce.

Don Rocco si grattò la nuca.

— Domattina venite, già — diss'egli.

— S'intende! Ma avrei anche qualche debituccio qui, e andando in giro di giorno vorrei mostrare la mia faccia senza riguardo a nessuno.

— Bene — fece don Rocco, molto accigliato ma con accento benevolo. — Aspettate.

Prese il lume, uscì dal salotto, e ritornò subito con un biglietto da dieci lire.

— A voi — diss'egli.

Colui ringraziò e partì, accompagnato col lume fino a mezzo il cortile da don Rocco, che aspettò lì fino a quando l'altro, uscito dal portone, gli ebbe gridato che non c'era nessuno. Allora andò a chiudere e rientrò in casa.

Non potè coricarsi subito. Era troppo agitato. — Corpo di bacco! — ripeteva fra sè. — Corpo di bacco! — Non avrebbe mai saputo immaginare un caso tanto straordinario, e toccava proprio a lui. Si sentiva un testone enorme come quando giuocava a tresette e non capiva il giuoco e tutti lo strapazzavano. Che caos ci aveva dentro di bene e di male, di amarezza e di consolazione! Quanto più la cosa gli pareva straordinaria, con tanto maggior fede, con tanto più trepida riverenza la riferiva alla mano di Dio. A ripensare il suo affacciarsi alla cucina e quell'uomo seduto al focolare, la memoria gli metteva uno sgomento più forte di quello recatogli dalla realtà; e subito vi sottentrava un'ammirazione mistica per le arcane vie del Signore. Certo la colpa della Lucia era amara, ma come si vedeva chiaro il disegno della Provvidenza! Condurre l'uomo in casa del prete; per il peccato, alla grazia. Che gran dono gli aveva fatto Iddio, a lui, l'ultimo dei preti della parrocchia, uno degli ultimi della diocesi! Un'anima così perduta, così indurata nel male! Gli venne scrupolo d'essersi lasciato rincrescer troppo l'inganno della serva, la perdita della tabacchiera. Inginocchiato al suo letto, recitò, battendo a furia le palpebre, una interminabile serie di Pater, Ave, Gloria, pregò il Signore, S. Luca e S. Rocco che lo aiutassero a diriger bene quella conversazione, ancora immatura. Caspita, venire a confessarsi con una fila di moccoli e accusare più gli altri che sè? A don Rocco il cuore del Moro si rappresentò con una similitudine di cui si compiacque, tanto gli parve nuova ed evidente. Un frutto sano con una prima punta di putrefazione; ma tutto questo a rovescio.

Quando fu a letto e coricato sul fianco per dormire, gli venne in mente che all'indomani sarebbe arrivata la Lucia. Questo pensiero gliene suggerì subito un altro. Si voltò di colpo a giacer supino.

Si trattava in fatti d'un problema grave. Aveva il Moro parlato della Lucia in confessione o no? Don Rocco si ricordò di non aver fatto osservazione alcuna quando colui, spento il lume, aveva dichiarato di volersi confessare, nè poi quando gli aveva detto: «non si riscaldi che siamo in confessione.» Dunque vi era per lo meno un dubbio grave che si trattasse di vera confessione; e se il penitente l'aveva poi interrotta, ciò non poteva togliere affatto il carattere sacramentale, posto che vi fosse stato; e allora? La Lucia? La risposta alla signora Carlotta? Corpo di bacco! Pareva il caso di Sigismondo. Don Rocco fece alle travi un cipiglio formidabile.

Si ricordava il pereat mundus e gli argomenti di quell'arca di scienza, di quella cima d'uomo del professore. La Lucia non si poteva ora mandar via. Le parole oscure della signora Carlotta gli entrarono finalmente del tutto nel cervello. Doveva andarsene lui: pereat Rochus.

Le ore suonarono all'orologio del campanile. Gli era cara, nella notte, la voce dell'orologio. Il suo ruvido cuore si rammollì un poco e Satana colse il destro di fargli vedere la devota chiesuola con i cipressi attorno, sua, tutta sua, e un certo caro fico sotto il campanile; di fargli sentire la dolcezza delle celle santificate da tante antiche anime pie, la dolcezza di vivere in quella nicchia quieta di S. Luca, così bene adatta all'umile persona di lui, esercitando il ministero dell'opera e della parola senza brighe mondane, senza responsabilità di anime. Satana gli mostrò pure la difficoltà di trovare un discreto collocamento, gli ricordò i bisogni del vecchio padre, della sorella, poveri contadini, l'uno ormai troppo vecchio e l'altra troppo infermiccia per poter lavorare e guadagnarsi il vitto. Finalmente Satana si fece casista e cercò dimostrargli che senza tradire il segreto, si poteva congedar la serva con un pretesto o anche senza; ma a questo suggerimento di approfittare della confessione, don Rocco fece un cipiglio così spaventevole che il diavolo scappò senz'altro. Tenersi la Lucia dunque, e lasciare che ci pensasse lei a mettersi d'accordo col sacro testo: nemo potest duobus dominis servire. Guardate un po' come le sante parole venivano a capello! Don Rocco si studiò di cucire mentalmente insieme gli ultimi periodi del sermone. Era un'impresa troppo faticosa per lui. Ci sarebbe tuttavia riuscito, ma in un passaggio di grande difficoltà cadde addormentato.

III.

Dormì poco e s'alzò all'alba. Prima di scendere si affacciò alla finestra per guardare il tempo. Nel ritirarsi gli cadde sott'occhio l'uscio della cantina. Era aperto.

Don Rocco discese ed entrò in cantina. Ne uscì subito con una faccia straordinaria. Il vino non c'era più. Nè vino nè botte. C'era invece, lì fuori, una traccia fresca di ruote.

Don Rocco la seguì fino alla strada maestra. Là si perdeva. Non ne restava che un breve arco dall'orlo al mezzo della via, al labirinto di tutte le altre rotaie. Don Rocco non pensò lì per lì d'andare in cerca di qualche autorità per denunciare il fatto. Le idee gli venivano adagio adagio; e forse questa non poteva arrivare prima di mezzogiorno.

Tornò invece, meditabondo, a S. Luca. — Quei colpi! — diss'egli fra sè — quella sassata! Per fortuna il Moro era con me, allora; altrimenti si sarebbe sospettato di lui. — Ritornò alla porta della cantina, ne considerò minutamente l'uscio sconquassato, contemplò il posto della botte e, grattatasi alquanto la nuca, se n'andò in chiesa a dire un po' d'uffizio.

IV.

A Messa c'era folla. E prima e poi si fece un gran parlare del furto. Tutti vollero vedere la cantina vuota, l'uscio malconcio, la traccia delle ruote.

Due bottiglie sfuggite ai ladri scomparvero nelle tasche di un fedele. Non si capiva come il prete non si fosse accorto di nulla; poichè lui asseverava, senz'altre spiegazioni, non avere inteso nulla. Le donne lo compiangevano, ma gli uomini, per lo più, ammiravano il colpo e ridevano del povero prete che aveva il torto grave di essere astemio, di non saper stringer con la gente quella fraterna dimestichezza del bicchieretto vuotato assieme.

Ridevano, specialmente durante la predica, per il cupo cipiglio che volevano attribuire al vuoto della cantina.

Del Moro nessuno parlò, ed egli stesso non comparve in S. Luca nè alla Messa nè poi, onde il povero don Rocco era pieno di scrupoli e di rimorsi, temeva di non essersi saputo regolare a dovere. Vennero invece, sul tardi, i carabinieri, esaminarono tutto, interrogarono il prete. Non aveva sospetti? Nessuno. Vollero sapere ove dormiva. Come mai non aveva udito? Ma! non lo sapeva nemmeno lui; aveva avuto persone in casa. A che ora? Tra le undici e il tocco, circa. Uno dei carabinieri, sorrise malignamente, ma don Rocco, innocente come un bambino, non se ne avvide affatto. L'altro domandò, se non avrebbe sospettato di un certo Moro, sapendo, come loro sapevano, che poco prima delle undici era stato veduto salire a S. Luca. Allora don Rocco s'infervorò a protestarsi certo dell'innocenza di colui, e, incalzato un poco di domande, mise fuori la sua gran ragione: era appunto il Moro che l'aveva visitato a quell'ora, per affari suoi. — Forse non erano gli affari che Lei ha creduto — disse il carabiniere. — Se sapesse cosa penso io! — Don Rocco non lo sapeva e non cercò neanche, nella sua umile placidità, di saperlo. Non s'impacciava mai, lui, dei pensieri degli altri. Gli bastava la fatica di vederci un po' chiaro nei propri. Coloro gli fecero ancora alquante domande e se n'andarono portando seco l'unico oggetto trovato in cantina, un cavaturaccioli che lo scrupoloso don Rocco non volle affermare, per difetto di sicura memoria, che gli appartenesse, benchè lo avesse pagato al suo predecessore il doppio del giusto. Adesso la sua cantina e la sua coscienza erano egualmente pulite.

Verso l'imbrunire di quel giorno don Rocco leggeva l'uffizio passeggiando su e giù nel cortile per fare un po' di moto senza dilungarsi da casa. Chi sa? Forse poteva ancora venire, colui. Ogni tanto don Rocco si fermava e tendeva l'orecchio. Non udiva che voci di carrettieri giù nella pianura, rumori di ruote, abbaiar di cani. Finalmente ecco un passo nella stradicciuola che scende fra i cipressi; un passo tardo ma non pesante, un passo signorile con un certo strider sommesso di scarpe ecclesiastiche, un passo che ha il suo recondito significato, che esprime, a chi lo sa intendere, uno scopo non urgente ma grave.

Il portello si aperse e don Rocco, fermo in mezzo al cortile, vide comparire il fine viso ironico del professor Marin.

Il professore, veduto don Rocco, si piantò sulle gambe aperte, e, giunte le mani dietro alla schiena, si diede a dondolar silenziosamente il capo e le spalle a destra e a sinistra sorridendo con un misto indescrivibile di condoglianza e di canzonatura. Il povero don Rocco lo guardava anche lui, taceva anche lui, sorrideva ossequiosamente, rosso come un pomodoro.

— Tutto, ohe? — disse finalmente il professore, interrompendo la sua mimica e facendosi serio.

— Tutto — rispose don Rocco, sepolcrale. — Non ne han lasciato un sorso.

— Corpo! — esclamò l'altro, soffocando una risata; e si fece avanti.

— Niente niente, sapete, figlio — diss'egli con improvvisa bonarietà, — Datemene una presa. — Niente — proseguì, fiutato il tabacco. — Cose che si accomodano. La signora Carlotta ne ha fatto tanto del vino, che per lei già, io dico, botte più, botte meno... Mi capite! Una buona donna, figlio, la signora Carlotta; una buona donna.

— Eh buona, buona — brontolò don Rocco guardando nella tabacchiera.

— Siete fortunato, voi, caro — riprese Marin battendogli sulla spalla. — State da papa qui.

— Mi contento, mi contento — fece don Rocco sorridendo e spianando per un momento le ciglia. Era lieto di udir questo linguaggio da un intimo della signora Carlotta.

Il professore si guardò attorno con una faccia ammirativa, come se vedesse il luogo per la prima volta.

— Un paradiso! — diss'egli, girando gli occhi per le mura sudicie del cortile. Li levò alla ficaia pittorescamente acquattata sotto il campanile, nell'alto angolo fra il portone e il vecchio convento.

— Solo per quel fico! — soggiunse. — Non è bello? Non dice la poesia d'un mezzogiorno d'inverno, tepido, quieto? È una parola di dolcezza, d'innocenza lieta, che tempera la severità delle mura sante. Bello!

Don Rocco guardava il suo fico come se lo vedesse per la prima volta. Gli voleva bene, ma non ne aveva mai sospettate tante qualità.

— Fa i fichi piccoli — diss'egli con la voce d'un padre che ode lodare il figlio presente, ne gode, e dice qualche parola ruvida perchè quegli non invanisca, per nascondere la propria commozione. Poi invitò il professore a restar servito in casa.

— No, no, caro — rispose il professore, ridendo silenziosamente dell'uscita sui fichi piccoli. — Facciamo due passi, è meglio.

Attraversarono il cortile adagio adagio, uscirono nel vigneto che accavalla i suoi festoni a' due declivii del poggio, e presero la facile salita erbosa fra un declivio e l'altro.

— Una delizia — disse il professore. Fra l'immenso cielo freddo e l'umide ombre del piano l'ultima luce moriva dolcemente sull'erbe grigie della collina, sulle viti rubiconde, sciolte nel riposo. L'aria era tiepida e immobile.

— Tutto vostro, qui? — chiese il professore.

Don Rocco, fosse umiltà, fosse apprensione di un imminente avvenire, tacque.

— Sappiateci stare, figliuolo — continuò l'altro. — Io so, conosco, credetemi; di posti beati come questo non ve n'ha un altro in tutta la diocesi.

— Eh, per me!... — fece don Rocco.

Il professore Marin si fermò.

— A proposito! — diss'egli. — La contessa Carlotta mi ha parlato. Caro don Rocco, dico! Spero bene che non faremo sciocchezze, eh!

Don Rocco si guardava trucemente i piedi.

— Diamine! — prosegui l'altro. — Qualche volta è un tomo la Carlotta, ma stavolta, figliuolo caro, ha ragione. Sapete che io parlo schietto. Voi siete solo a non conoscerle queste cose. Uno scandalo, figliuolo. Tutto il paese che grida.

— Non ho mai udito, non ho — borbottò don Rocco.

— Ma ve lo dico io! E la contessa ve l'ha detto più d'una volta.

— Saprà cosa le ho risposto iersera?

— Delle belle minchionerie, avete risposto.

A questa legnata don Rocco si scosse un poco, abbaiò ruvidamente, tenendo gli occhi bassi, le proprie difese.

— Ho risposto secondo la mia convinzione, oh bella! e adesso non posso cambiare.

Egli era umile di cuore; ma qui si trattava di giustizia e di verità. Parlare secondo la verità, secondo quello che si crede la verità, è un dovere; dunque, perchè lo tribolavano?

— Non potete cambiare? — fece il professore, piegandosegli addosso e ficcandogli in viso due occhi stralunati. — Non potete cambiare?

Don Rocco tacque.

L'altro si drizzò e si ripose in cammino.

— Va bene — diss'egli con ostentata pacatezza. — Padrone.

Si voltò improvvisamente a don Rocco che lo seguiva mogio mogio.

— Per bacco — esclamò con dispetto — credete proprio avere in casa uno stinco di santa? Non tenete conto, voi, delle chiacchiere che si fanno, dello scandalo? Andar contro il paese, andar contro chi vi mantiene, andar contro il vostro bene, contro la Provvidenza, per quel bel tipo? Davvero che se non vi conoscessi, caro don Rocco, non so cosa penserei.

Don Rocco, si contorceva, batteva furiosamente le palpebre, come se lottasse con angosce segrete, con parole affannose che gli volessero uscire suo malgrado.

— Non posso cambiare, ecco — diss'egli a conclusione delle smorfie. — Non posso.

— Ma perchè, in nome del cielo?

— Perchè non posso in coscienza.

Don Rocco alzò finalmente gli occhi. — Ho già detto alla signora che contro la giustizia non posso andare.

— Che giustizia? La vostra è orba, caro. Orba, sorda e zuccona. E se avete detto una corbelleria ieri, volete ripeterla anche oggi? E se non credete quel che si dice della Lucia, mancano ragioni di mandar via una serva? Mandatela via perchè non vi leva l'unto del soprabito, perchè non vi rattoppa le calze, che so io! Mandatela via perchè vi fa i maccheroni senza sugo e la zucca senza sale.

— La ragione sarebbe sempre quell'altra — rispose don Rocco, cupo.

Neanche il professore Marin potea facilmente rispondere a un argomento come questo. Potè solo brontolar fra i denti: — che testardo, Maria!

Arrivarono ai pochi cipressi rachitici che coronano il dorso del poggio in faccia ad un valloncello, a un altro poggio più alto. Là sostarono ancora; e il professore che aveva caro don Rocco per la sua semplice bontà e anche un poco per il vario soggetto che gli forniva di amabili celie, se lo fece sedere a fianco sull'erba, tentò un ultimo assalto, cercò ogni via di strappargli le ragioni per cui durava tanto a credere nell'innocenza della Lucia. Non ci fu verso che venisse a capo di nulla. Don Rocco si riferiva sempre al discorso tenuto la sera prima con la signora Carlotta, ripeteva di non poterlo mutare.

— Allora, addio S. Luca, figliuolo — disse, rassegnato, Marin.

Don Rocco battè molto le palpebre ma non fiatò.

— La contessa Carlotta vi aspettava oggi — disse il professore — e voi non ci siete andato. Così ha dato a me l'incarico di dirvi che, se non consentite subito a licenziar la Lucia per il primo dicembre, siete in libertà per l'anno nuovo e anche prima se volete.

— Non potrò partire prima di Natale — disse don Rocco timidamente. — Il parroco ha sempre bisogno d'aiuto in quel tempo.

Il professore sorrise.

— Cosa credete? — diss'egli. — Che la signora Carlotta non abbia un prete bello e pronto? Pensateci che siete ancora in tempo.

Don Rocco si raccolse in sè stesso. Di rado gli accadde far un ragionamento così rapido. Posto che questa donna era causa di scandalo nel paese, che la signora aveva sotto la mano un altro prete, il partito da prendere era ovvio.

— Allora — rispose — partirò il più presto possibile. Mio padre e mia sorella dovevano venire a trovarmi uno di questi giorni. Così invece andrò io da loro.

C'era nel suo cuore anche l'idea di portar questa donna via del paese. I suoi non avevano bisogno di serva, ed egli, tardando a collocarsi, non avrebbe potuto mantenerla. Ma certe idee ragionevoli, certe necessità delle cose non gli arrivavano mai al cuore e assai tardi alla testa, cui allora don Rocco si percoteva subito davanti o si grattava di dietro, come se ne avesse molestia.

Nel discendere a S. Luca il professore raccontò che i carabinieri erano in cerca del Moro, sospettato complice di una recente grassazione, alcuni autori della quale erano caduti, quella mattina stessa, in mano della giustizia. Don Rocco udì la cosa non senza soddisfazione; si spiegava ora perchè non fosse venuto.

— Chi sa — si arrischiò a dire — che sia andato via, che non ritorni più. Allora ecco che finiscono anche queste chiacchiere. Non Le pare?

— Si, caro — rispose il professore intendendo la mira del discorso — ma voi conoscete la signora Carlotta. Oramai, che il Moro vadi o resti per lei non rileva. Bisogna licenziare la Lucia.

Don Rocco non parlò più e il professore nemmeno. Il primo accompagnò l'altro fino ai cipressi della chiesa, si fermò a guardargli dietro fino a che scomparve in fondo alla stradicciuola e tornò sospirando a casa.

Più tardi, mentre, curvo sotto il ferraiuolo, attraversava col lume in mano il corridoio che mette al coro di S. Luca, gli si affacciò con violenza il dubbio della notte precedente. Era proprio stata confessione? Si fermò nell'ombra del corridoio deserto, guardando il lume, lasciando per un momento salire i dolci pensieri tentatori nello spirito inerte. Pigliar un pretesto, licenziar la donna, vivere e morire in pace nel suo S. Luca. A un tratto il cuore incominciò a battergli forte. Eran pensieri che venivan dal diavolo! Come forse nel tempo antico aveva fatto in quello stesso luogo qualche frate tormentato dalle calde visioni notturne dell'amore e del piacere, don Rocco si fece in furia il segno della santa Croce, s'affrettò al coro e s'immerse nella lettura devota del breviario.

V.

Dieci giorni dopo, alla stessa ora, don Rocco stava in preghiere davanti all'altare della Madonna, sotto il pulpito.

Era alla vigilia di lasciare S. Luca per sempre. S'era accordato con la signora Carlotta di fingere un'assenza breve, una visita di quindici giorni al suo vecchio padre; di scrivere quindi che, per circostanze di famiglia non sarebbe più ritornato. Era poi successo questo, che il povero vecchio contadino prima di sapere la novità, aveva scritto chiedendo soccorsi; e don Rocco aveva dovuto vendere qualche po' di mobili tanto da risparmiar la spesa del trasporto e da non arrivare a casa a mani vuote. Ci andava con il proposito di starvi il minor tempo possibile, di andar cappellano dovunque piacesse alla Curia, cui si era raccomandato.

Nè del vino nè dei ladri si sapeva ancora notizie certe: ma si parlava di sospetti a carico di un'ostessa, di una nuova favorita del Moro, la quale avrebbe ricettato il vino. Del Moro si diceva da alcuni che fosse fuggito, da altri che stesse nascosto. Pareva che i carabinieri fossero di questa seconda opinione. Andavano e venivano, frugavano dappertutto, sempre inutilmente.

La Lucia era tornata e aveva tenuto per qualche giorno un contegno insolito e strano. Trascurava il servizio, era aspra col padrone, piangeva senza motivo apparente. Una sera uscì dicendo di voler andare alla parrocchia per le sue devozioni. Alle nove don Rocco, vedendo che non tornava, se ne andò filosoficamente a letto e non seppe mai a che ora avesse rincasato. Si rallegrò bensì il giorno dopo del felice mutamento operato in lei dagli atti religiosi, perchè non pareva più quella, era tranquilla, attenta, premurosa, parlava con soddisfazione della prossima partenza, del collocamento che don Rocco si riprometteva trovarle presso certo arciprete, suo conoscente; una promozione. Aveva poi degli ardori ascetici affatto nuovi. Quando don Rocco si coricava, lei andava in chiesa, vi passava ore ed ore.

E adesso, dunque, don Rocco aveva presa l'ultima cena nel refettorio dei frati, leggeva il breviario per l'ultima volta nella chiesetta di S. Luca, rustica, semplice e devota come lui, dal pavimento alle travi nere del soffitto. Aveva il cuore pesante, povero prete. Partire così dal suo nido, senza onore! Portare umiliazione e amarezza a suo padre e a sua sorella, di cui era tutta la speranza, tutto l'orgoglio! Aveva ben ragione di fare il cipiglio al breviario.

Quand'ebbe finito di leggere, sedette sul banco. Penava a staccarsi dalla sua chiesa. Era l'ultima sera! stava lì con l'occhio immobile, battendo regolarmente le palpebre, accasciato, cupo come una bestia atterrata che aspetta la scure. Avea passato alcune ore del pomeriggio intorno alle sue viti, a quelle piantate tre anni addietro, che gli avean già dato il primo frutto. I grandi cipressi, la splendida veduta del piano e degli altri colli non gli movevano un solo sogno; il suo cuore di contadino s'inteneriva per le belle viti, per i solchi fertili. Aveva preso, arrossendo e vergognandosi, un tralcio di vite e una pannocchia di granoturco per portarseli via come ricordi. Era la sua poesia. Della chiesa non poteva portar via niente. Vi lasciava invece il cuore un po' dappertutto; sull'altare delle sue prime spiegazioni del Vangelo, sulla pala antica che gl'ispirava devozione nel dir la messa, sulla bella Madonna cui era stato rialzato il manto intorno al collo per la sua pudibonda intromissione, sulla tomba d'un vescovo a cui due secoli prima la pace di S. Luca era parsa migliore che gli splendori mondani. Chi sa se avrebbe mai più avuto una chiesa così sua, esclusivamente sua? Non poteva levarsi, si sentiva uno struggimento interno di cui non aveva mai avuto l'idea. Batteva, batteva le palpebre come se battesse via faticose lagrime. In fatto non piangeva ma i suoi occhietti luccicavano più del solito.

Alle nove e mezzo entrò in chiesa, dal coro, la Lucia, a veder del padrone. — Vengo subito, vengo subito, andate là — rispose don Rocco.

Egli si credeva solo in chiesa ma rovesciando il capo all'indietro avrebbe potuto vedere qualche cosa di straordinario. Adagio adagio una testa umana si affacciò al pulpito nella fioca luce del lume a petrolio e guardò giù il prete. Erano gli occhi diabolici del Moro in una faccia ecclesiastica tutta rasa. La testa si venne alzando nell'ombra, due lunghe braccia levarono in aria un violento gesto d'impazienza. Nello stesso punto don Rocco ripetè alla donna esitante; andate là, andate là, vengo subito.

Ella uscì.

Allora il prete si alzò del banco e salì all'altar maggiore. La figura umana del pulpito ridiscese, si nascose rapidamente.

Don Rocco si voltò, stando in cornu epistolae, ai banchi vuoti, se li figurò pieni di popolo, del suo popolo d'ogni domenica, e uno spirito di eloquenza entrò in lui.

— Vi benedico tutti — diss'egli, forte. — Vorrei che foste presenti, ma non posso, perchè non si deve saper niente. Vi benedico tutti e scusate se ho mancato. Gloria Dei cum omnibus vobis.

La tentazione fu, per qualcuno, troppo forte. Una voce cavernosa risuonò nella chiesa vuota.

Amen.

Don Rocco rimase senza fiato, con le mani in aria.

— Si sbrighi — disse la serva, tornando. — Non si ricorda che deve lasciarmi fuori il pastrano e gli abiti?

Il povero don Rocco si trovava assai male in arnese, portava addosso omnia bona sua, e c'era da cucire, da smacchiare alquanto, diceva la Lucia, per poter mettersi in viaggio l'indomani mattina. Don Rocco discese dall'altare senza rispondere e fece il giro della chiesa, porgendo il lume fra i banchi e i confessionali.

— Cosa c'è? Cosa cerca? — chiedeva ansiosamente la serva venendogli dietro. Don Rocco non rispose per un pezzo.

— Ho fatto due parole di preghiera — diss'egli finalmente — e ho udito rispondere «Amen».

— Avrà creduto — replicò la Lucia. — Si sarà immaginato.

— No no — fece don Rocco. — Ho proprio udito dire Amen. Pareva una voce che venisse di sotterra. Un vocione grosso. Non pareva un uomo. Pareva un bue, come.

— Sarà stato il vescovo — suggerì la donna. — Non c'è sepolto un vescovo, qui? Si sono udite ancora di queste cose.

Don Rocco tacque. Nella sua semplicità, nella sua innata disposizione alla fede, egli era inclinato a credere volentieri ogni cosa sovrannaturale, specialmente se si collegasse con l'idea religiosa. Più eran grosse, più faceva, in segno di riverenza, scuro il cipiglio, e beveva divotamente.

— Adesso andiamo — ripigliò l'altra. — È tardi, sa, e ho a lavorare un pezzo.

— Recitiamo almeno un Pater, Ave, Gloria a S. Luca — disse don Rocco. — È l'ultima sera che faccio orazione qui. Bisogna lasciar un saluto.

Aveva detto: un Pater, Ave, Gloria; ma ne infilzò almeno una dozzina, trovando altrettante ragioni di salutare altri santi e sante di sua particolare conoscenza. Chi doveva fornire ai due devoti la salute eterna, chi la salute temporale, chi la grazia di vincere le tentazioni, chi un collocamento ragionevole, chi una buona morte e chi un buon viaggio. L'ultimo Pater fu recitato da don Rocco con singolar fervore, per la conversione piena di un'anima peccatrice. Se il prete fosse stato meno assorto nei suoi Pater, avrebbe forse potuto udire, dopo il quarto o il quinto, qualche sommessa giaculatoria di quel tal vescovo umorista dell' Amen. Ma egli udì solo la Lucia rispondergli con molta compunzione e ne fu tocco nel cuore.

Pochi minuti dopo meditava ancora, al buio, nel povero lettuccio della sua cella, sul contegno della Lucia, sul suo turbamento dei primi giorni quando certo una grossa battaglia si combatteva nell'animo di lei, sui salutari, evidenti effetti della grazia divina che aveva cercato nei sacramenti. Meditò anche sull'atto del Moro, sul raggio balenato in quella coscienza tenebrosa, foriero, se non altro, di una luce migliore e durevole. E vide nella sua mistica immaginazione, le fila della Provvidenza che lo compensava di un sagrificio sostenuto per il dovere. Era una beatitudine di pensare a questo, di sapere che perdeva tutte le sue poche comodità terrene per un premio così. Offerse anche il dolore di suo padre e di sua sorella, l'umiliazione sua propria, le strettezze in cui si sarebbe trovato. Vedeva in faccia al letto, per la finestra, il vago, lontano chiarore del cielo, sua speranza, suo fine. Gli si chiusero a poco a poco gli occhi, in una soave sensazione di fiducia e di pace. Si addormentò profondamente.

VI.

Non era ancora ben desto quando l'orologio di S. Luca suonò le sette e mezzo. Subito dopo suonarono anche le campane poichè don Rocco aveva, il giorno innanzi, avvertito il ragazzo solito a servirgli la messa, che l'avrebbe detta verso le otto. Balzò dal letto e andò a prendersi gli abiti che la Lucia gli doveva aver posti fuori dell'uscio. Niente. Chiamò una, due, tre volte. Nessuno rispose. Tornò perplesso in stanza e chiamò dalla finestra: Lucia! Lucia! Silenzio perfetto. Finalmente comparve il piccolo sagrestano. Non aveva veduto la Lucia. Era venuto a prender le chiavi della chiesa, aveva trovato aperto il portello del cortile, aperto l'uscio di casa; nessuno in cucina, nessuno in salotto. Non rinvenendo le chiavi era entrato in chiesa per il corridoio interno. Don Rocco lo mandò in salotto a pigliargli gli abiti, poichè era lì che la Lucia soleva lavorare di sera. Il ragazzo tornò a riferire che non c'erano abiti. Come non ci sono abiti? Don Rocco gli ordina di far la guardia davanti all'uscio di casa e scende a cercarli egli stesso, in camicia. A mezza scala si ferma e fiuta. Che abbominevole odor di pipa è questo? Don Rocco, molto buio in fronte, procede. Va diritto in salotto, cerca, fruga; niente. Torna in cucina con un certo battito di cuore. Puzzo orrendo, ma niente abiti. Sì, sotto la tavola v'è un mucchietto di roba sucida; una giacca, un paio di calzoni, un cappello da contadino. Don Rocco raccoglie, spiega, esamina col cipiglio più minaccioso. Gli pare averla veduta ancora, quella roba. Il suo cervello non capisce ancora niente ma il cuore comincia a capire e batte più forte di prima. Egli si prende il mento e le guancie con la sinistra, stringe, stringe, cerca spremersi fuori il dove, il come, il quando. Ed ecco che gli occhi suoi fermi sulla parete si accorgono finalmente di qualche cosa che il giorno prima non v'era. Vi stava scritto col carbone, a destra: «Tanti saluti». E a sinistra:

«Buono il vino

Buona la serva

Buono il gabano

E buono don Rocho».

Lesse, si recò la mano alla nuca, rilesse, gli parve di smarrir la vista, sentì un freddo, un torpore diffonderglisi dal petto a tutta la persona. Qualcuno gridò nel cortile: «dov'è questo don Rocco?». Egli risalì a fatica nella sua camera, si ripose a letto senza quasi sapere che si facesse, senza pensiero, quasi, nè senso.

Abbasso lo cercavano, lo chiamavano. C'era il professore Marin e poche altre persone, venute per la messa. Nessuno capiva come la porta della chiesa fosse tuttavia chiusa. Il professore entrò in casa, chiamò la Lucia, chiamò don Rocco senza che anima viva gli rispondesse. Capitò finalmente in camera del prete e si fermò sulla soglia, sbalordito di vederlo a letto.

— Ohe! — diss'egli. — Don Rocco! A letto? E la messa?

— Non posso — rispose sotto voce don Rocco, supino, immobile come una mummia.

— Ma cosa? — replicò l'altro accostandosi al letto con sincero sgomento. — Che avete?

Quel viso turbato, quell'accento affettuoso ammollirono al povero don Rocco il cuore pietrificato dal dolore e dalla sorpresa. Stravolta dalle palpebre inquiete spicciarono due vere lagrime. La bocca serrata si torceva, tremava, ma resisteva ancora. Vedendo che non rispondeva parola, il professore corse alla scala, gridò giù d'andar a chiamare il medico.

— No, no — si sforzò a dire don Rocco, senza muoversi. La voce era soffocata dai singhiozzi. Lo udì solo il professore tornando a letto.

— No? — diss'egli. — Ma cos'avete, dunque? Parlate!

Intanto tre donnicciuole e un vecchio accattone ch'eran venuti per udire la messa, entrarono spaventati in camera circondando il letto, interrogando don Rocco alla loro volta. Egli taceva come il santo Giobbe, cercando padroneggiarsi. Forse la seccatura di tutte quelle faccie curiose, pendenti sopra la sua, lo aiutò.

— Andate — diss'egli, finalmente, agli ultimi venuti. — Non occorre medico, non occorre niente, andate!

Le quattro faccie si ritirarono alquanto, ma guardandolo sempre fisso con una espressione forse di accresciuto sgomento.

— Andate, vi dico! — replicò don Rocco.

Uscirono piano e si fermarono fuori ad origliare, a spiare.

— Dunque? — fece il professore. — Cosa vi sentite?

— Niente.

— E perchè state a letto, allora?

Don Rocco si voltò con la faccia al muro. Le lagrime tornavano, adesso. Non poteva parlare.

— Ma in nome del cielo — insistè il professore — cosa c'è?

— Mi passa, mi passa — singhiozzò don Rocco.

Il professore non sapeva che fare nè che pensare. Gli chiese se volesse acqua e il vecchio accattone scese tosto a pigliarne un bicchiere, lo pose al Marin. Don Rocco non ne aveva la menoma voglia, ma ripeteva: «grazie, grazie, mi passa» e bevve ossequiosamente.

— Dunque? — domandò ancora il professore.

— Aveva ragione Lei — rispose don Rocco.

— Di cosa?

— Della femmina.

— La Lucia? Bravo, a proposito; dov'è la Lucia? Non c'è? Scappata?

Don Rocco accennò di sì. Il Marin guardava stupefatto, ripeteva «Scappata? Scappata?» I quattro tornarono in camera, fecero eco. «Scappata? Scappata?»

— Ma sentite — disse il professore. — State a letto per questo, voi? Volete avvilirvi così? Via, vestitevi!

Don Rocco lo guardò, diventò rosso fino al sommo del cranio, e strinse gli occhietti umidi in un sorriso che significava: adesso riderà, Lei!

— Non ho abiti — diss'egli.

— Cosa?

Il professore aggiunse alle parole un gesto per dire: «Li ha portati via lei?» Don Rocco rispose pure con un cenno muto del capo; e, veduto che l'altro frenava a stento uno scoppio di riso, si sforzò di sorridere anche lui.

— Povero don Rocco — disse il professore, e aggiunse, sempre col riso alla gola, parole afflitte, parole di pietà, di conforto, chiese ogni ragguaglio dell'accaduto. — Ah se mi aveste dato retta!... — concluse. — Se l'aveste mandata via!

— Sì — fece don Rocco, pigliandosi mansuetamente anche questa. — Aveva ragione Lei. E adesso, cosa dirà la signora?

Il professore sospirò.

— Cosa volete che dica, figliuolo? Non dirà niente. Accade anche questo che il vostro successore ha scritto ieri di essersi sciolto definitivamente dagl'impegni suoi attuali e di trovarsi a disposizione della contessa.

Don Rocco tacque, accorato.

— Guardo — diss'egli, dopo un'istante di silenzio — che alle nove e mezzo saranno qui col cavallo a prendermi! Bisognerebbe che l'arciprete o il cappellano potessero prestarmi un abito.

— Io, io! — esclamò il professore, pieno di zelo. — Vado a casa e ve lo mando subito. Me lo restituirete con comodo, quando potrete.

Una viva gratitudine colorò il viso e agitò le palpebre di don Rocco.

— Grazie! — diss'egli guardandosi umilmente il naso. — Grazie tante!

— Corpo di bacco! — soggiunse fra sè, mentre il professore scendeva le scale. — È una spanna più alto di me. Adesso mi viene in mente!

Ma non gli venne certo in mente di richiamarlo.

VII.

Alle nove e mezzo don Rocco apparve sulla porta di casa per fare il suo esodo. Il soprabito del professore gli ballava sulle calcagna e gl'inghiottiva le mani, sino alla punta delle dita. Il cappello a cilindro, enorme, gl'inghiottiva gli orecchi.

Il professore gli veniva alle spalle ridendo silenziosamente. Nel cortile parecchia gente corsa al rumore dell'accaduto, rideva. Solo non rideva il vecchio accattone, bizzarro uomo, mezzo filosofo. — Oh don Rocco, cosa pare! — dicevano le donne. E chi gli raccontava un fatto della Lucia, chi un altro, cose d'ogni colore ch'egli non aveva sospettate mai. — Basta, basta — rispondeva lui, turbato nella coscienza di questo sparlare. — Oramai è fatta, oramai è fatta.

Si avviò seguito da tutti, diede un'ultima occhiata al fico del campanile e, passando fra i cipressi di fronte alla chiesa, si voltò alla porta, si levò divotamente il cappello e piegò un ginocchio.

La carrettella lo attendeva sulla strada maestra. Il vetturale, vedutolo in quell'arnese, non rise meno degli altri.

Allora don Rocco si congedò da tutti, ringraziò nuovamente il professore, mandò a riverire la contessa, fece tacere quelli che dicevano ancora improperi alla Lucia. Quando fu a posto, l'accattone gli si avvicinò, gli mise la mano destra sopra una scarpa.

— Questa è Sua? — diss'egli.

— Sì sì, le scarpe sì — rispose il prete con una certa soddisfazione mentre il cavalluccio partiva.

L'accattone si recò alla fronte la mano che aveva toccato la scarpa di don Rocco e disse solennemente:

In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

R. SCHUMANN

R. SCHUMANN ( Dall'Op. 68 )

Si ardeva, l'altra sera, nel salottino giallo di donna Valentina. Il calorifero ci soffiava fuoco nelle gambe. La bella dama vi brillava tra un sistema planetario di globi lucenti; perchè una lampada splendeva sul piano, due lampade splendevano sulle consoles, un astro discreto luceva fra le orchidee della giardiniera, un astro azzurrognolo, sospeso a mezz'aria, fiammeggiava sul nostro capo. E poi c'era una fragranza così turca di sigarette di Salonicco; e poi donna Valentina era così africana, con quei capelli neri più folti, con gli occhi più grandi e indolenti che mai, con la corazza nera, con i guanti che le facevano due lunghe, sottili mani d'ebano. Io guardavo, inquieto, la signora; suo marito guardava, inquieto, il termometro; gli altri personaggi, un giovane biondo, un vecchio elegante e un maturo ufficiale di artiglieria, innamorati tutti e tre di donna Valentina, erano in ebullizione.

A lei poi venivano delle idee nubiane. Si disputò se la musica possa raccontare e descrivere, o no. Donna Valentina compativa nel suo languido modo indolente, con le sopracciglia e il sorriso, con qualche parolina sommessa, il povero marito infuriato al no contro i tre che lo caricavano, artiglieria in testa. Io tacevo. A un tratto la signora si alzò dal divano, pigliò fra la sua musica un fascicolo dell' Arte antica e moderna di Ricordi; il fascicolo decimoquarto, mi pare. I tre si ritirarono subito, in disordine, per acclamarla e accendere le candele del piano. L'uno d'essi, però, il vecchio signore, non fu abbastanza lesto e rimase prigioniero fremente del marito, che non gli dava quartiere con le sue mazzate di positivismo greggio.

— Una prova — disse la signora, aprendo il fascicolo sul leggìo. — Io suono Loro due pagine di musica. Se v'è musica che parli, è questa. Qui c'è una scena e una storia, chiarissime. Ciascuno di Loro me la traduca subito in iscritto. E non ci sono scuse! — Lei tradurrà in versi — mi diss'ella.

Chiesi venir dispensato dai versi, avendo posata, secondo il solito, la mia letteratura nell'anticamera, con il soprabito. E poi una traduzione in versi non s'improvvisa. Intanto i due zelanti accendevano una candela per ciascuno, e io nascosi male un sorriso, chinandomi a leggere, in capo alle due pagine di musica:

R. SCHUMANN ( Dall'Op. 68 )

Donna Valentina vide il sorriso e, perchè ci conosciamo bene, v'intese un volume di cose, sorrise pure, con la finezza più europea, con uno sguardo molto lungo, molto sospetto; il quarto o il quinto che avevo da lei, quella sera.

— Scettico! — diss'ella, sotto voce. E strappò dalle viscere del piano il ripetuto angoscioso gemito che apre quella stupenda pagina di musica e vi ritorna ogni momento.

Aveva una sera felice. Nel pianissimo del ritornello, dopo le prime otto battute, mi parve proprio udire il lamento di un'anima. Gli adoratori della dama, tuffati in tre poltrone, ascoltavano con una tal quale segreta angustia, contemplando l'astro azzurrognolo sospeso in aria. Finito il pezzo, ne chiesero ed ottennero la replica; dopo di che il salottino giallo diventò un Parnaso all'opera.

L'ufficiale, che nel conversare sciabolava de omni re scibili, si trovò, dopo due minuti, tutto attonito di non essere in vena; smise, per il suo meglio, di tirarsi i baffi e le idee. Il vecchio signore, il giovine biondo ed io, presentammo a donna Valentina le nostre opere complete.

— Adesso si legge — diss'ella. Già la scena è del deserto, e sono due amanti che vi muoiono insieme.

Il giovine diventò rosso e voleva riprendere il suo parto, ma donna Valentina non lo permise, riconobbe che la musica era una lingua senza dizionario e senza grammatica da non potersi tradurre lì per lì con sicurezza, e lesse ad alta voce questa prosa del vecchio signore elegante, persona molto a modo, del resto, e ingegno colto, ch'era una pietà di vedere umiliato ai piedi di lei da una passione ridicola.

MONDO DEI SOGNI — VALLE DELLE ROSE All'aurora

— Folle sogno! Folle sogno! Nel caldo Oriente io poso giovane con lei su le rose.

Folle sogno! Folle sogno! Baciami, non parlarmi, bocca soave, non mi destare.

È lontano, è lontano il freddo paese della neve; son lontani, son lontani i tristi giorni della vecchiezza.

È fuoco nel core, nel sangue, è fuoco nel mare di rose, è fuoco nel cielo profondo. Bocca ardente, bocca ardente, fuoco tu sei e mi divora la molle fiamma.

Ti scongiuro, ti scongiuro, non obliarmi poi quando ci desteremo nel freddo paese, nei giorni tristi, quando scura, muta sarà la fiamma che divora il mio petto, ma fervente, ma potente a tornarti su le rose voluttuose per un giorno, per un'ora, a spirar fuoco nel tuo cuore, nel tuo sangue, ne l'aura amorosa a le tue grazie circonfusa.

* * *

— Pompe! Acqua! — susurrò l'ufficiale, mentre il marito, che aveva spesso scompigliate, con il suo riso grossolano, le rose dell'oriente, esclamava: — grazie di quel deserto! Grazie di quegli amanti che muoiono!

— Deserto sì — disse la signora sorridendo amabilmente all'autore. — Suppongo che i Suoi amanti non ci vorranno mica dei flâneurs in questa valle delle rose. E se non muoiono, dormono, sognano. To die, to sleep, perchance to dream. — Adesso la Sua — soggiunse sorridendo, stavolta, al giovane biondo. E lesse:

UNA CATTEDRALE Notte

La penitente. — Che dolore! Che dolore! Egli morì da tanti anni ed è ancor piena di peccato l'anima mia.

L'amo ancora! L'amo ancora! Cerco Dio, non trovo che lui, ardo sempre delle passate ebbrezze.

Uno spirito. — Amami ancora! Amami ancora! Da tanti anni, nell'ombra della morte, sono ancora pieno di te.

Non ti dolere! Non ti pentire! Solo mi ristora, nel tormento eterno, il tuo amore.

Il confessore. — No, non t'accostar così al Sacramento, non muovere ad ira il Signore, va, prostrati sul marmo di gelo, prega e piangi, prega e piangi, forse il tuo cuore avrà pace.

La penitente. — Egli soffre! Egli soffre! Io lo sento, io non prego, non voglio esser mai felice, non dolermi, non pentirmi; forse lo ristora, laggiù nei tormenti, l'amor mio.

Il confessore. — Empia, va, esci dal luogo santo, io t'abbandono all'impuro fuoco. Forse perdona, forse perdona il Signore a lui, non a te, mai.

La penitente. — Padre mio! Padre mio! Non lasciarmi, t'oppongo le mie disperate braccia, prego e piango, prego e piango, mi pento, mi pento, cado infranta a' piedi tuoi, Signore!

* * *

— Conserva di romanticismo alle cipolle — disse l'ufficiale. — Una cosa lagrimevole.

— Io la trovo bellissima — mormorò la signora con una squisita dolcezza d'ammirazione rattenuta, guardando ancora lo scritto.

— Specialmente — soggiunse il marito perchè la cattedrale è un deserto; non c'è nemmeno il sagrestano, se quei due lì, in confessione, gridano come disperati. E gli amanti non solo muoiono, ma uno è bell'e andato da un pezzo.

— Battista — disse donna Valentina — non essere insopportabile! — Vediamo un poco Lei, cos'ha scritto — soggiunse volgendosi a me. — Sono curiosissima.

Prese le mie povere fatiche, le percorse con una rapida occhiata e susurrò quasi parlando fra sè e sè:

— Non capisco.

— Lei sarà stato sublime — mi disse l'ufficiale.

— Grande — gli risposi inchinandomi. — Sublime è stato il Suo silenzio.

La signora lesse:

IL POETA E LA DAMA

Il poeta

— Mia signora! Mia signora! Come può Lei sopravvivere a questo diabolico inverno?

— Mia signora! Mia signora! Non gela il Suo piccolo tepido cuore?

La dama

— Mio signore! Mio signore! Come vive Lei col Suo cuore di ghiaccio?

Mio signore! Mio signore! Io ho un morbido nido caldo.

Ho la mia stufa legittima che conserva ancora qualche bragia e manda di tempo in tempo qualche languido focherello. Ma non basta! Ma non basta! Ho un giovane caminetto dalle vampe bionde, che non mi brucia, mi consola, mi fa sognare. Ma non basta! Ma non basta! Ho un maturo, bollente scaldamani, una palla di cannone, coperta di panno ricamato d'oro, ch'io prendo tal volta per trastullo, posando il libro o l'uncinetto. Ma non basta! Ma non basta! Ho un vecchio devoto scaldapiedi che mi serve tanto e manda pure il suo timido tepore. E se talora ho troppo caldo, apro la finestra, e guardo il cielo. Pur non basta! Pur non basta! Vorrei il Vostro spirito di poeta, vorrei un'azzurra fiamma d'alcool per il mio thè, per il diletto degli occhi miei.

Il poeta

— Mia signora! Mia signora! Io mi faccio, con il mio spirito, il mio umile caffè. —

* * *

Questa roba agghiacciò tutti.

— Scusi — mi disse donna Valentina — cosa L'è venuto in mente?

— Che vuole? — risposi. — Non capisco la musica. Ho scritto una sciocchezza a caso.

— Va bene — replicò la dama. — In pena, Lei non avrà il Suo caffè, stasera. O thè con noi, o niente.

LIQUIDAZIONE

LETTERA AL DIRETTORE D'UN GIORNALE

Signor Direttore,

Ella mi propone, molto cortesemente, di lavorare per il Suo giornale. Grazie tante, ma non sa, caro signore, cosa c'è di nuovo? Chiudo l'officina. Che vuole? I miei libri non vanno, è gran ventura se qualcuno me ne arriva alla seconda edizione; capisce, a questi tempi! Intanto gli anni passano, l'ingegno si stanca, mi cade il cuore. Creda, non v'è più avvenire per me. Ora, gli scrittori nuovi, chissi so bravi, come diceva don Ciccio De Capo a Massimo d'Azeglio. La roba mia non ha il taglio nè il colore che piacciono al pubblico, e non c'è rimedio; chiù d'accussì no saccio fare. Vuole che mi ostini a questo melanconico mestiere? Chiudo l'officina e vendo quel po' di ferri. Tutta roba in cattivo stato, roba di poco valore, ma tanto ne vorrei pur trarre qualche cosa e prego anzi Lei di venirmi in aiuto.

Ci ho, per esempio, dei meccanismi usati da romanzo. Li darei per una miseria; supponga per il volume Chérie di Goncourt; e con pochissimo si possono rimettere a nuovo come tanti sanno fare.

Lei mi dice che non usano più, che ora si fa tutto vivo e naturale; tanto è vero che poi i libri muoiono naturalmente, da sè; una cosa prodigiosa. Ha ragione, non ci avevo pensato. Allora mi accontenterò se un confratello del mio stampo me li prende per qualchecosa meno di Chérie, per un giuoco di pazienza, per una scatola di frasi da comporre odi alcaiche, supponga. È ancora troppo? Piglierò gl' Inni Sacri del Manzoni, che non valgono più niente, e facciamola finita.

Ho pure delle vecchie lenti da presbite, per osservare le cose e le anime. Veramente sono in forse di spezzarle per uno scrupolo di coscienza. Dopo averle adoperate un pezzo in buona fede, m'è venuto il dubbio amaro di non so quale occulta falsità nel cristallo. Che non sieno del tutto acromatiche mi pare impossibile; tuttavia, passi! Si può credere che abbiano preso il colore del mio spirito. Sarebbe un piccolo guaio. Una goccia d'alcool e io le garantirei perfettamente e per sempre oggettive a ogni valoroso artista che sappia guardare senza spirito. Ma il peggio si è ch'io vedo un mondo diverso da quello che vedono i miei confratelli d'arte; diverso dal vero, insomma.

Vedo un mondo ove appare del brutto, del sudicio, del vile più ancora che non ne rispecchino certi libri dei miei colleghi; e appare anche del buono, del bello che non esiste certo, perchè in que' libri non si trova mai. Pare impossibile, ma io non vedo dei grandi uomini che tutti vedono, e vedo poi invece delle donne grandi che nessuno conosce. Leggo le fantasie degli scogli alpini benchè siano così alte, e non posso leggere quelle di certi scrittori benchè siano così basse. Vedo in tutte le anime qualche riflesso bagliore di una luce ignota, di una idea sovrana; e non posso veder la luce dell' idea sperimentale neppure nel cervello di Emilio Zola. Non vorrei che una goccia di maledetta poesia fosse stata mista al cristallo; perchè l'artefice fece queste lenti prima che il romanzo diventasse scienza, prima che un maestro, discorrendo di tale mirabile evoluzione, correggesse timidamente Voltaire così, presso a poco: Nul genre n'est bon si ce n'est le genre ennuyeux.

Sa, signor Direttore, come finiranno queste lenti? Nè le vendo, nè le spezzo; le tengo, le faccio legare in oro perchè mi ricordino il generoso fuoco del mio cuore quando s'illudeva, folle ma felice, di penetrar con esse l'universo, per trarne, secondo una propria idea dell'arte, fantasmi d'anima eterna e vive ombre di esseri; perchè mi ricordino qualche spirito fedele e ardente che voleva pur seguirmi e guardar con esse, sdegnando chi ci sdegnava. E prima di morire gitterò in mare, come il vecchio re di Thule, cristallo ed oro, perchè nessuno più se ne inebbrii dopo di noi e si perda.

Lei mi chiede: e documenti umani? Ne tenevo parecchi, ma davano pessimo odore. I rispettabili personaggi delle mie collezioni ne erano stomaccati; qualcuno ne soffriva addirittura nella salute. Una bella signora altera della collezione d'ideali, un abate e due venerabili dame della collezione di macchiette parlavano di andarsene. Ho dovuto gittare dalla finestra quanto avevo di poco pulito, beneficando forse, senza saperlo, qualche spazzaturaio della letteratura; qualche povero collega, avido di lettori, di quattrini e di fama. Non dico mica di non possederne ancora, documenti umani. Ne ho di rari e curiosi che mi costarono un occhio quando li raccolsi, con infinita compiacenza, nel taccuino. Pure li cedo tutti per un solo biglietto circolare di ferrovia, de' più modesti. Quando osservo la vita, e la penso e la porto nel mio petto, essa vive ancora, dentro a me, del mio stesso calore, del mio sangue; quando la noto nel taccuino, vi muore miseramente, vi si dissecca, io vi cerco invano una ispirazione, la mia fantasia la sdegna, il mio cuore non la sente più. I miei migliori documenti umani non sono miei; mi vivono bensì intorno o almeno passano davanti a me.

Poveri ideali miei, e voi pure andrete dispersi. Questo me ne consola, che tutti, anche la bella signora schifiltosa, conoscono il fango della via e degli uomini, perchè è appunto là ch'io gl'incontrai veramente. E questo ancora me ne consola, che nessun nemico inferiore, nessun poeta dell'arte nuova dirà loro villania che li tocchi, tanto al di sopra della folla passa il loro sguardo inteso al di là della vita. Io apro ai nobili signori, inchinandomi, la porta, onde tornino nel mondo, le donne pure ad amare e soffrire, gli uomini forti a soffrire e operare. Se parleranno di me che li ospitai, certo diranno che la mia casa non era degna di essi, ma che la mia devozione lo era.

Quanto alle macchiette, ai personaggi di seconda riga, è un altro discorso. Qui faremo affari, signor Direttore. È tutta roba da vendere e da vender bene. Ne tengo di ogni qualità, vecchie e giovani, brutte e leggiadre, stupide e argute. Tengo qualche gentile signora, qualche bel cavaliere che Lei, a prima giunta, piglierebbe per ideali. Li smonti un poco e vi guardi dentro; vedrà che non c'è l'ombra d'un'idea, sono macchiette. Tengo dei personaggi solenni, dei dignitari, delle celebrità, degli aristocratici che mi guardano dall'alto in basso e non sospettano di essere graziose macchiette della mia collezione, classificate per ordine di ridicolo, ciascuna con l'etichetta della propria particolare vanità, ciascuna atteggiata giusta la propria linea comica, interna o esterna.

Poi ci ho le macchiette serie, le macchiette amabili, atte a sostituire, occorrendo, gl'ideali, a rappresentare le prime parti.

Mi pesa di staccarmene, perchè la loro conversazione quieta e modesta mi riposa lo spirito e parecchie sono veramente amiche mie, persone care.

Queste le potrei cedere solo a qualche delicato artista, capace di rispettarle, di metterle in scena con lo stesso ambiente degno, buono in cui vivono la vita reale; capace di rappresentare con maggiore sentimento, finezza ed effetto ch'io non saprei, quel vero nè sublime, nè basso, nè patetico, nè ridicolo, che si trova tutti i giorni in tutti i luoghi.

Avrei dei paesaggi quasi finiti. Ahimè, non c'è abbondanza d'altro in Italia. Il sentimento della natura, da dieci anni in qua, ce l'hanno tutti; ed hanno una ricchezza di tavolozza ch'io non possederò mai. Non ho cobalto, si figuri; come farò a descrivere un cielo che adesso paia tollerabile?

Come saprò io mettere in un volume i colori che altri oggi sa mettere in un sonetto?

Lessi di recente dei prodigi d'analisi ottica, degli spettri solari in versi. Cosa vuole che faccia io senza neanche cobalto? Chiudere, chiudere e vendere i miei paesaggi a peso di carta.

Io sono solito tenere un fiore sul mio tavolino.

Se mai vi fosse nel mondo qualche semplice creatura di molto cuore e di poco spirito che avesse letto le cose mie con una tal quale benevolenza per esse e per me, le offrirei la bianca ultima rosa che muore sulle carte abbandonate. Ci siamo amati, la povera regina ed io. Ella era una mistica poesia, uno slancio idealista della terra amorosa, e mi diede la sua idea di bellezza, il suo arcano spirito di fragranza. Io le diedi un rispettoso culto, una dimora semplice dove nè voce nè pensiero mai poterono offendere la sua fiera purezza.

Avrei ancora, signor Direttore, un po' di vecchia fede, che m'ha servito, lo dico apertamente, a scrivere. Ma, se la vendo, come vivrò?

FINE.

INDICE

Pag.

Nota dell'Autore alla prima edizione 9

Fedele 15

Primo intermezzo: Clementi (op. 26 — Lento) 51

Un'idea di Ermes Torranza 55

Secondo intermezzo: Van Beethoven (op. 27) 105

Il fiasco del maestro Chieco 109

Terzo intermezzo: Boccherini (Minuetto in LA ) 151

Eden Anto 159

Quarto intermezzo: Martini (Gavotta) 199

Una goccia di rhum 205

Quinto intermezzo: Chopin (op. 17, n. 4) 217

Pereat Rochus 223

R. Schumann (op. 68) 305

Liquidazione 321