Il Dolore nell'Arte

DISCORSO

Marchio tipografico

MILANO Casa Editrice BALDINI, CASTOLDI & C.º Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80 1901

PROPRIETÀ LETTERARIA

MILANO — TIP. PIROLA & CELLA DI P. CELLA

I.

Nota. — Il presente discorso, tenuto la prima volta in Torino l'11 aprile 1900 per invito di quella Società di Cultura, venne quindi pubblicato nella Rassegna Nazionale.

Sull'orlo di un lago bizzarro che io amo, verde ai due capi, sottile e torto per sinuose gole di colli selvaggi e di montagne tragiche, sereno a mezzo il corso nell'arco di un golfo idilliaco, si affaccia allo specchio maggiore delle acque una densa e signorile corona di ombra. Sovente per le vie solitarie di quell'ombra fui preso dal senso di una bellezza che più si prometta di quanto si sveli. Non la scoprivo intera nel tremolar lucente del lago tra i tronchi, nelle pensose montagne assise a levante del bosco, nelle alte scene lontane, dorate di sole, che mi apparivano tratto tratto a settentrione. Mi sorgeva invece nel cuore e me lo riempiva di sè l'idea di una possibile parola unica nella quale consuonassero tante diverse voci di cose; di una profonda parola di bellezza, tentante e inafferrabile come la parola di accordi musicali che annuncino, preparino una successiva rivelazione di suoni e invece si spengano senza seguito nel silenzio. Così penetrato dall'anima occulta delle cose che mi figuravo desiderosa e incapace di esprimersi a me com'ero io di comprender lei, movevo alla più recondita sede di quel regno di ombra dove i maggiori alberi, fronteggiandosi in giro, congiungendosi a grande altezza in un'ascensione unica, fanno di sè ghirlanda e tempio a un cupo fantasma.

Una giovine donna, bellissima, dai capelli scomposti, dalle vesti cadenti, siede là sopra un alto seggio, piegato il busto gentile in avanti, puntati i gomiti alle ginocchia, strette le guance fra i pugni chiusi, fissi gli occhi tordidi nel vuoto. Il viso rivela una intelligenza forte che affonda nella follia. Nessuna cura stringe più costei nè del mondo nè di sè. Nessun vivente presuma, per esserle stato caro, poterle recar conforto. Ella non torcerebbe un momento gli occhi suoi avidi dalla visione di angoscia che la impietra; e tuttavia ci balena che possa repente balzar dal seggio con uno strido, avventarsi là dove guarda, tanto potente vita spirò nel marmo il grande artista che le pose nome «Desolazione». Si soffre davanti all'alta Dolorosa, e si gode intensamente di soffrire. Ci partiamo pensosi e la visione di lei ne persegue al sole, per le ombre che il vento scompiglia, lungo le rive sonore del lago scintillante. Non ci guasta l'incanto dei colori e dei suoni ma vi spira una malinconia segreta che lo rende più soave, infonde alle voci delle cose un accento nuovo e profondo. Pare che l'enigma di bellezza oscura onde avemmo dianzi turbato il cuore vi ritorni, lo prema più forte, quasi vi si disveli. I susurri del fogliame paiono prima dire dire incalzando e poi dolersi, nel venir meno, di non essere intesi.

II.

Ma non è nel vento, è sulle labbra silenziose della bella creatura di marmo che ci si disegna la prima parola del mistero. Perchè costei che se fosse viva ci agghiaccerebbe il sangue con la sua vista, ci distruggerebbe l'incanto del giardino, perchè si mesce, fatta visione e opera d'arte, con la bellezza delle cose in un'armonia che ci muove al desiderio e al sospiro, a un turbamento non simile alla pietà, simile piuttosto alle inquietudini dell'amore nascente? S'ella fosse raffigurata nell'atto del pregare o del piangere, di una emozione insomma tenera e calda, si direbbe che l'attitudine sua genera il sentimento nostro; ma non è così. Il dolore e l'amore di lei, compenetrandosi a vicenda, si sono indurati in un'angoscia torva, senza tenerezza, senza fiamma. È forse la leggiadria del volto e del corpo che può tanto sopra di noi? No, la sua bellezza è troppo cupa, troppo sinistro il disordine dei suoi capelli e delle sue vesti. La potenza sua fascinatrice è nella grandiosità del suo dolore impersonale, senza nome. Ella non è una madre, non è un'amante, è il dolore stesso, è l'idea pura, fatta marmo, dell'universale dolore, del dolore che oscura presto o tardi ogni vita umana. Ma se l'idea pura del dolore, sensibilmente rappresentata dall'Arte, ne accende l'anima di pensieri alti e soavi, conviene che in lei si asconda qualche occulta bellezza; e poichè solo ha potenza di commuovere l'opera d'arte che fu creata nella commozione, convien pensare che il creatore di quel marmo abbia concepito con entusiasmo, prima di noi, una occulta bellezza del soffrire. Pure, se io potessi evocare dai morti Vincenzo Vela, l'artefice sovrano, e interrogarlo, egli mi risponderebbe di non avere pensato mai a una bellezza del soffrire.

III.

Signori, le sorgenti della ispirazione artistica sfuggono alla coscienza stessa dell'artista. Esse si celano in una regione misteriosa dello spirito umano, nelle tenebre inferiori alla coscienza dove giacciono tesori di ricordanze oscurate e lampeggiano meravigliose facoltà del conoscere cui non sono ministri nè i sensi nè il ragionamento. Laggiù sono le inaccessibili fonti della ispirazione artistica insieme alle fonti degli oscuri presentimenti, della malinconia e della ilarità senza causa conosciuta, delle dolcezze mistiche. Di laggiù è balzata in un'ora di emozione creatrice questa mirabile forma cui l'artista, vagheggiandola e meditandola, condusse poi a perfezione squisita; e non è temerità di pensare che nelle ombre del subcosciente un'arcana bellezza del dolore fosse da lui appresa. Non è temerità di pensare che quando erravamo per i viali deserti ascoltando la voce del vento e delle onde colla mente piena della Desolata, una bellezza mistica del dolore fosse appresa da noi stessi, che pur non ne avevamo coscienza. Non esclamate, signori, ch'è temerario innalzare su questa sola pietra la strana dottrina di una bellezza recondita del dolore. No, io ho incominciato col parlarvi di quella pietra perchè il dolore vi si rivela nella sua forma più alta, la sofferenza morale, e perchè altro che dolore la sublime forma non dice; ma evochiamo insieme dalle reliquie dei secoli morti, dalle pagine degli antichi poeti le creature che l'Arte innamorata del dolore partorì nobili di bellezza immortale.

IV.

Esse ascendono in folla al richiamo, turbinano davanti a noi come le anime dolenti nel tenebroso vento che Dante ideò, e Voi tutte le riconoscete al viso, alle vesti, alle attitudini, perchè i loro nomi di gloria vi sono familiari. Io non so come si ardisca insegnare alle turbe in prosa e in rima che la visione artistica del dolore ha origini cristiane, che procede dalla glorificazione di un infame strumento di tortura e di morte, che l'arte antica fu solo una fioritura di bellezza serena e di gioia. Voi tutti sapete che non è vero. Altro che armoniose membra di Veneri caste e di efebi divini, altro che placide maestà di volti olimpici ha dato l'arte antica. Vedete Laocoonte che passa contorcendosi fra le spire dei draghi, levando al cielo clamores horrendos; vedete il bel guerriero ferito del Campidoglio che reclina tristemente il capo nelle ombre della morte, e se l'una opera e l'altra Vi paiono pensate e condotte dagli artefici a prova della loro scienza e della valente mano, se il dolore fisico Vi sembra predominar troppo in esse sul dolore morale, vedete Niobe che impietrata piange ancora secondo il tragico mito, piange spaventosamente per gli occhi di sasso, Niobe, il sempiterno dolore inflitto alla creatura umana dall'Invisibile, che innamorò di sè l'arte greca e la sua imitatrice latina. Ecco le creazioni dei grandi tragici. Prometeo, che soffre in fiero silenzio mentre i carnefici ne configgon le catene alla rupe e, appena è solo, caccia un urlo, chiama, come il profeta, le genti «HIdesthe me». «Attendite et videte». Ecco la frigia Cassandra, schiava nella reggia degli Atridi, ululante nel suo barbaro linguaggio quale una belva prigioniera. Ecco il dolore disceso fin nelle tombe a invader le ossa dei morti, il fantasma del vecchio re Dareios che piange con Atossa, la compagna sua tuttora vivente, sulle sventure del figlio Serse, e la dolce Elettra singhiozzante sopra una ciocca di capelli sconosciuti, Antigone e Ismene che a vicenda si eccitano al pianto. Ecco Edipo e l'ombra sinistra del Destino. E che è mai finalmente la tragedia greca se non la forma di bellezza onde si vestì un grandioso concetto del dolore e del suo ufficio nel mondo? Il dolore vi è rappresentato come un frutto inevitabile del disordine, come un castigo che persegue il sangue colpevole di generazione in generazione e punisce nell'infante in cuna il delitto degli avi. Lo spettacolo del soffrire fatale, immeritato dagli afflitti avvinse a sè la mente dei tragici di Atene e, per opera loro, il cuore del popolo. Certo quei grandi poeti non videro in esso che crudeli vendette divine e il volere del destino implacabile, non ebbero coscienza di un'azione provvidenziale e salutare del dolore; ma vi divinarono tuttavia la forma di un ordine onde non valevano a penetrare l'essenza. La stessa Iliade prende bellezza e grandezza sovrana dal suo elemento tragico, dal Fato che v'incombe agli uomini e agli Dei e il poeta di Achille non lo ha forse mai tanto amato come quando a lui, salito alle vendette sul suo carro di battaglia, fa profetare dal cavallo Xanto una sinistra profezia di sventura.

Ed ecco tra i fantasmi omerici anche Ulisse pensoso in riva al mare colla cara lontana Itaca nel cuor pesante, e presso a lui Calipso, la triste impotenza dell'amore e della bellezza immortale contro un destino che mostra la felicità e la rifiuta. Ecco passar gemendo con i capelli al vento le creature ahimè troppo verbose della poesia elegiaca, nate dal fascino che il dolore ha esercitato, come soggetto d'arte, sull'anima pagana. Ecco la Musa malinconica e appassionata di Virgilio, una voluttuosa della tristezza, che sentì le lagrime delle cose, e si compiacque di ascoltar i lamenti dei boschi e dei laghi:

Te nemus Anguitiæ, vitrea te Fucinus unda
Te liquidi flevere lacus:

che si arrestò sospirando a contemplar gl'insolubili enigmi dell'Universo, il mistero delle cause prime.

V.

Ed ecco, in ogni attitudine che ogni dolore compone, infiniti fantasmi cui l'Arte diè vita e nome dopo che un dramma di passione divina ebbe trasformato il mondo. Disponendomi ad additarvene alcuni tra i più famosi, penso di escluderne le creazioni dell'arte sacra, delle quali è difficile riconoscere fino a qual punto sieno state ispirate dalla fede e dalla bellezza ideale della religione piuttosto che dalla bellezza ideale del dolore. Mi sia solamente concesso di affermare che nessuna fede religiosa si richiede a godere di tante magnifiche rappresentazioni del soffrire; che davanti alla Pietà scolpita da Michelangelo e alla Pietà dipinta da Van Dyck anche uno scettico, se ha intelletto e cuore, sente, insieme all'ammirazione artistica, le inquietudini di una simpatia profonda. Egli si accuserà forse di debolezze atavistiche e la sua ragione insorgerà contro il suo sentimento, ma questa presunta debolezza sentimentale non è in fondo che la intuizione incosciente di una bellezza intellettuale e morale del dolore, segreta sì, ma, come dirò più tardi, non impossibile a scoprire meditando. E ora passate in silenzio, legioni afflitte! Passate, madonne del Beato Angelico, di Giambellino e di Sassoferrato, dolci creature sacre al dolore, che tanto soavemente piegate sotto il dono misterioso e terribile; passate, nobili immagini del vir dolorum, che il genio di Rubens e di Michelangelo evocò sulla tela e dal marmo, biondi adolescenti che Luino assise pensosi a piè della Croce, penitenti e martiri irradianti da mille famose tele la divina luce di un dolore che giunto dai sensi al più interno dell'anima vi è trasmutato in un'aurora di gioia eterna. Passate accompagnati da quelle melodie sovrumane che suonarono nella mente di Francesco Francia quando dipinse i suoi musicisti del cielo. Passate, cedete ad altri fantasmi!

VI.

Ecco le visioni dantesche del dolore. Considerate, signori, come fra tante ammirabili forme che vincono i secoli, quelle ci rapiscano a entusiasmi quasi tormentosi nella loro dolcezza, nella loro misura superiore alla parola, le quali ci rappresentano un dolore almeno in parte immeritato, almeno in parte inesplicabile. Quando Dante ci descrive una pena giustamente commisurata alla colpa, mai non si mesce all'ammirazione nostra il sentimento dolce e tormentoso di cui vi parlo. Solo fra i dannati ci commuove così Francesca. Il poeta rappresentò Francesca e la sua colpa per modo che la sua pena eterna non consuona, inconsci o no che ne siamo, con il nostro intimo sentimento della giustizia. La dolce Francesca, che dall'impeto colpevole del volere altrui, d'improvviso, in un momento di oblio, fu tratta al peccato, che neppur nell'Inferno ha smarrito il senso riverente del divino, il desiderio della preghiera, il gentile rispondere dell'animo alla pietà, ci commuove tanto perchè nella nostra mente, consci o no che siamo, la misura della sua pena eccede la misura del suo consenso al male. E Dante stesso mentre creava per l'Inferno l'amoroso fantasma pare avere in qualche oscuro modo sentito così perchè dannò alla profonda Caina il marito punitore e non mosse Virgilio a rimproverarlo, come in altra parte del poema, per una pietà contraddicente al giudicio divino. La stessa potenza per la stessa cagione ha il fantasma del conte Ugolino, la visione non del tormento infernale, ma del dolore che il vivo patì con gl'innocenti compagni suoi e che non sappiamo accordare con la nostra conoscenza della giustizia. E soave nell'aura di un dolore senza giusta causa sofferto tu passi davanti a me, ombra della Pia che Maremma disfece; più soave nella memoria per un solo cenno di quel dolore che qualsiasi beato spirito raggiante nel paradiso del tuo Poeta.

VII.

Ecco, tra le infinite ombre che seguono, venute da ogni tempo e da ogni paese, il Pensieroso di Michelangelo, solitario sul suo seggio di principe, contemplante nel vuoto come in uno specchio invisibile qualche idea triste della sua mente. Ecco, un tragico sciame di anime che il soffio di Shakespeare ha suscitato dal niente e porta nei secoli; il buon vecchio Re pazzo, errante a caso nella notte e nella tempesta, il principe infelice, meditabondo in faccia al delitto, i dolci, pallidi visi di Cordelia la semplice e di Desdemona la fedele, strangolate. Ecco il giovine Werther che scrive l'ultimo addio a Carlotta e alla vita. Ecco, nelle gelide nebbie di una notte invernale, il padre straziato che cavalca fra i grigi ontani stringendosi in braccio il figliuoletto morente, delirante, chiedente aiuto invano contro un caudato e coronato spettro che lo chiama, che lo vuole, che lo afferra, che lo uccide. Ecco la sconsolata Margherita che geme ginocchioni davanti a una immagine della Mater Dolorosa e Tecla invocante la stessa Pia che a sè la richiami da questo basso mondo ove per lei l'ora dell'amore e della intensa vita passò; e bella, florida di speranze come a primavera la spica, come il tralcio d'estate, nell'ombra d'un carcere, con l'orrore della ghigliottina negli occhi, la fanciulla che Andrea Chénier udì singhiozzare, avvinghiandosi disperatamente alla vita; « je ne veux point mourir encore! » Ecco il Bonnivard di Byron che nel nero Chillon apprende ad amare la disperazione. Ecco la Musa di Leopardi assorta nella contemplazione dell'universale soffrire che mette capo al nulla, vaga della morte, intenta continuamente a ornarsi di queste tristezze magnifiche, sia detto senza offesa del grande Poeta, come predilige i pizzi e i velluti neri una dama che li sa confacenti alla sua bellezza. Nella più squisita coppa che arte di poeta lavorasse mai per quest'uso, Leopardi ne porge la più pura essenza del dolore del mondo e noi ne leviamo le labbra sospirando per una mistica ebbrezza che ne invade, che ne innamora di sè, che nei cuori giovanetti torna in idolatria vana del dolore, in concepimenti di poesia sconsolata, falsa e debole perchè artificiale ma tuttavia documento dell'occulto fascino di bellezza cui possiede il concetto più puro e più vasto del dolore, l'idea di un dolore inesplicabile, infuso al mondo dalla ignota sua Causa per modo che la stessa natura inferiore ne ha senso e lamenti e ne ha strazio di dubbi angosciosi l'intelletto umano, che senza posa ne domanda inutilmente il perchè al silenzio formidabile dell'Infinito. E non è misterioso il soffrire della donna più cara nell'opera di Alessandro Manzoni?

Te dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l'offesa,
E dritto il sangue e gloria
Il non aver pietà,

Te collocò la provvida
Sventura fra gli oppressi.

Certo il poeta non pensò illuminar le leggi della sventura con quel provvida che par sancire un immeritato dolore, annullare, compensandole fra loro, le sofferenze degl'innocenti. Crudele parola, indice di una legge storica che infligge dolore non giusto secondo il veder nostro, che ha dunque una intima ragione di mistero; crudele parola e in tutto il coro la pia potente, per questo appunto che ci suona tanto amara. Ecco la lunga tratta dei pellegrini polacchi che passano cantando le litanie di Mickiewicz: «Per tutte le ferite, le torture e le lagrime dei prigionieri, dei proscritti, dei pellegrini polacchi, liberaci, Signore!» Se la infelice Polonia ricuperasse un giorno l'indipendenza troverebbe l'arte polacca nella gioia le ispirazioni sublimi ond'ebbe gloria nel dolore? In Italia, signori, si può dubitarne. Quando l'anima italiana diede al dolore nazionale un'espressione artistica trovò accenti immortali; e che trovò invece quando la indipendenza e l'unità della patria furono raggiunte di slancio? Quale fu il grande artista di questa gioia se non Iddio solo che impresse agli eventi impeto e splendore di poema?

VIII.

E ora, signori, se volgendo le spalle alla folla spettrale che ci fluì davanti noi entriamo negli studii dei nostri artisti, dei nostri poeti, dei nostri romanzieri, ci appare intatta l'antica potenza fascinatrice del dolore. Siamo pure condotti a considerare che nell'arte moderna si manifesta più e più la inclinazione a un uso razionale del dolore per diversi scopi di cui è conscia. L'arte moderna volentieri filosofeggia e parteggia, volentieri rappresenta il dolore come prodotto di esistenti ordini morali e sociali cui l'artista vuole additare come opposti a un ideale della sua mente e possibili a riformarsi giusta questo ideale. Noi osserviamo in pari tempo che il dolore così manifestamente rappresentato in servizio di tesi morali o sociali non ci commuove nell'opera d'arte quanto il dolore che procede dall'ineluttabile, dalle fatali condizioni della vita sulla terra, dalla morte, dall'amore, dai problemi della sorte umana, dalle ombre dell'al di là. Noi possiamo abborrire la guerra e consentire con l'artista che per un intento civile ce ne rappresenta gli orrori, noi onoriamo l'arte sua, ma poi davanti al Napoleone morente di Vela un diverso, un più forte fascino ci arresta palpitanti, dimentichi di quell'arte civile, dimentichi del bene e del male, dimentichi di noi stessi. Quando i poeti socialisti ci descrivono miserie atroci di lavoratori, possono richiamarci da un colpevole oblio alla meditazione delle piaghe sociali e dei rimedi, ma la emozione artistica che suscitano in noi immediatamente si trasforma, si converte in desiderio di azione sociale, non è comparabile, nè per intensità nè per durata di piacere, alle emozioni che non trovano sfogo in alcun'azione possibile perchè loro materia, offerta dall'Arte, è un dolore che non ha nè rimedio nè riparo. Il soffrire dei minatori nelle viscere della terra, il soffrire della piccola cucitrice costretta a un lavoro assassino della giovinezza e della gioia, non hanno, come contenuto di forme artistiche, la potenza fascinatrice che ha il soffrire di Enoch Arden naufrago del mare e dell'amore, che ha il soffrire del piccolo venditore di zolfanelli morente sulla via, benchè l'ingegno di chi scrisse Germinal e di chi scrisse il Canto della camicia non ci paia inferiore all'ingegno di Tennyson e di Andersen.

IX.

E lo stesso che dell'arte socialista può dirsi di quell'arte che rappresenta il dolore a scopo espresso d'insegnamento morale. Leone Tolstoi, nel porsi a raccontare la storia di un adulterio quando le ragioni pure dell'Arte informavano ancora l'opera sua di scrittore, premeditando di condurre la sua eroina dalla colpa grado grado alla disperazione e al suicidio, parve temere che il dolore castigo, il dolore inflitto dalla giustizia offesa, non avesse sufficiente efficacia artistica, e seppe con una ispirazione geniale infondere all'opera sua il fascino eterno del dolore prescritto dal Destino, del dolore senza causa conosciuta. Considerate le infinite rappresentazioni artistiche moderne della morte tanto più potenti sull'animo nostro, tanto più attraenti quanto più questo fatto della morte, abborrito dalla natura umana, ci è mostrato nelle sue parvenze maggiormente odiose, maggiormente contrarie all'idea nostra del giusto e del ragionevole, quando colpisce l'innocenza, la grazia, la bellezza, l'amore, le giovanili speranze. Chiudo il libro dove Enrico Sienkiewicz ha dipinto un'epoca famosa dell'antica Roma con il largo pennello, con la violenza di luci e d'ombre che una distanza di tanti secoli richiedeva, e sento dolce nella memoria non tanto Licia la martire, l'amante cristiana scomparsa nelle ombre discrete di un idillio nuziale, quanto Evnica l'infedele, che per amore consente senza speranza di futuro premio alla morte il fiore degli anni suoi e della bellezza. Supremo dono, io penso, del poeta alla sua prediletta, la morte! Per l'apoteosi del patrizio e della schiava, perchè andasse ad essi il più intimo profondo sospiro di chi palpitò per la sorte di Licia e Vinicio, non altro poteva l'Arte dopo averli creati entrambi così belli e generosi, che donar la vita agli amanti cristiani e la morte ad essi, la morte sulla scena, la morte lenta, la morte nei vincoli del più fervido e splendido amore; e anche questo è a me argomento di rifiutare al libro il carattere di apologia cristiana.

X.

Signori, prima di esporvi il mio concetto circa la natura di questa intima bellezza del dolore che innamora gli artisti e le moltitudini raggiando nel loro inconscio, mi piace dire alto che nessuno mi vince nel sentire la grandezza e la bellezza della gioia, nell'Arte. Non mi rapiscono palpitante a sè le sublimi forme di poesia che Dante creò per la gioia quando immaginava esser tratto dagli occhi sfavillanti di Beatrice per entro un riso dell'Universo? Non ebbi io brividi di sacro entusiasmo davanti alla Vittoria di Samotracia, a quel divino corpo slanciato nel vento da una gioia che lo libera dall'impero della terra? Nel metro stesso dell'Inno di Schiller alla Gioia, nel flutto dei versi rapidi con maestà, delle alterne rime incalzanti, non sento io con un lieto tumulto dell'animo lo spirito di fuoco che ha posseduto il poeta? Nei più delicati cantori voluttuosi dell'Antologia greca, nelle più molli canzoni veneziane non assaporo l'incanto di un'arte che alle gioie dell'amore diviso e pago fa partecipare lo spirito senz'abbassarlo? Persino davanti al meraviglioso dipinto di Jordaens «Le roi boit» mi sono inebbriato di quella trionfale gioia del vino che vi spuma sull'obeso volto del mite monarca beone, sorridente in estasi alle fragranze dell'aureo liquore, del cortigiano acclamante alle sue spalle col calice in alto, dei cavalieri barbuti e delle donne floride trincanti a cerchio dell'anfitrione gioviale, del bimbo ignudo in grembo alla madre, nel quale si ostenta, ignuda del pari, la innocenza magnifica della natura.

XI.

Appunto perchè godo inesprimibilmente le armonie della gioia con l'Arte, mi riesce più mirabile che l'Arte renda dilettoso al cuore umano ciò ch'egli per natura più abborre. L'abitudine c'impedisce di apprezzar degnamente questo fatto che ci turba se lo consideriamo come nuovo, come appreso da noi quando nel dolore non ci appariva che il gran nemico e nell'Arte non ci appariva che la grande consolatrice. Diremo forse che un sottile egoismo ci rende piacevoli le rappresentazioni del dolore altrui? Non lo diremo, perchè se questo egoismo ha talvolta luogo riguardo a dolori reali, il piacere dell'egoista che Lucrezio descrive seduto sul lido del mare in cospetto del travaglio e del pericolo altrui è troppo diverso da quel dolcissimo sentimento, che, destato dall'opera d'arte, sovente si sfoga in lagrime. Non lo diremo perchè del proprio dolore stesso l'artista s'innamora. Diremo forse, invece, che il sentimento nostro è una forma di amore, è una essenza di pietà, e che la pietà è dolce a sentire? Sì, la dolcezza del sentir pietà è senza dubbio parte dell'emozione che il dolore espresso dall'Arte suscita in noi, ma non è, non può essere questa emozione intera. Se commossi amaramente da uno spettacolo di reale dolore, specie di quel dolore ingiusto, fatale, inesplicabile che più sarebbe atto ad accoppiarsi con l'Arte, noi sottoponiamo ad analisi la nostra emozione, essa ci si scinde subito in due elementi: la pietà per chi soffre e un trepido moto dell'anima verso la causa di quel soffrire. Espresso dall'Arte, il dolore c'ispira una emozione non più amara ma deliziosa nella quale l'elemento della pietà per un particolare soffrire si è attenuato, è anzi talora scomparso; e ne invoco a prova quell'arte che a me par sovrana.

XII.

Quando, posseduto ancora nel pensiero dal fantasma della Desolata, camminavo lentamente lungo il ritmico fragore delle onde cadenti sulla riva, pensai ai profondi accordi che aprono la Mondscheinsonate di Beethoven. Se adesso, pieno il cuore delle ombre dolenti che ho evocate davanti a voi, mi figuro di ascoltare in una solitudine o nelle tenebre quel sublime adagio, vi sento l'anima unica, vi odo l'unica voce di tutti i dolori del mondo. Non è un lamento, è un canto solenne e grave che insiste in suoni profondi, echeggianti nelle viscere immote delle cose, sotto un ondeggiar vago di parvenze mutabili. Dolore, mistero, inesprimibile bellezza; questo mi dicono i sovrumani accordi e una voluttuosa pena simile alla pena dell'amore m'invade, un desiderio infinito di confondermi all'onda sonora del canto che ascende come la preghiera di tutto che soffre verso un Potere immenso e silenzioso. Suprema forma dell'arte, primizia quasi di parole e d'idee superiori allo stadio presente della intelligenza nostra, la musica sola vale a esprimere il dolore impersonale e puro, e allora nel suo linguaggio magnifico è sempre un elemento di preghiera, di aspirazione a qualche ignoto stato felice ch'è nelle possibilità del futuro, di speranza nell'ordine ideale di un mondo sul quale si apre la porta di uscita delle generazioni umane. Anche quando a commento di poesia la musica esprime ebbrezze amorose, le avviene talvolta d'infondere nelle parole più tenere e liete un'anima di tristezza. «Sommesso nella notte» dice il poeta «il canto mio a te sospira, vieni, rendimi beato». La musica di Schubert si slancia con un grido amoroso, cade, rinnova lo slancio, ricade in accorato pianto. Vede ella forse venir l'ora delle lagrime dopo l'ora della gioia o non dice piuttosto ch'è impossibile sulla terra di amare senza dolore perchè le condizioni della vita terrena non concedono la unione completa e perpetua che dell'amore è inestinguibile sete? Neppure Schubert saprebbe rispondere, ma certo il divino incanto della melodia è in quell'accento di tristezza che vi risponde all'amoroso richiamo.

XIII.

Quale sarà dunque la intima bellezza del dolore che si rivela nell'inconscio dell'artista e ci attrae inesplicabilmente nell'opera d'arte?

Il dolore è per sè così ripugnante alla natura umana che se lo si considera non solamente all'infuori di ogni specificazione individuale ma puranche all'infuori dell'ordine delle cose esistenti, è impossibile a chi senta l'impero della ragione attribuirgli bellezza alcuna. Ove in un mondo ordinato alla gioia entrasse un giorno senza causa, nè apparente nè occulta, il dolore, non si concepisce come un essere intelligente potrebbe compiacersi di esprimerlo ad arte, come altri potrebbe compiacersi di contemplarne o leggerne o udirne la studiata espressione. Quindi la bellezza del dolore non può essere che nell'ordine suo con le cose esistenti, come la bellezza di una seconda minore, per sè il più spiacente connubio di suoni, non può essere che nell'ordine degli accordi cui è inserta. Ora non è difficile a chi mediti le cose umane scoprire normali funzioni benefiche del dolore nell'ordine delle cose esistenti. Io medesimo ebbi a rappresentarlo come un grande artefice di progresso, perchè fu veramente il dolore inflitto dagli elementi, dalle belve, dai morbi, che costrinse l'umanità primitiva a difese ond'ebbero crescente vigore l'intelligenza e crescente impulso la civiltà. Veramente dal terrore degli Dei, da temuti guai nacquero l'astronomia e le matematiche, come dalle zuffe che insanguinarono il suolo per la sua spartizione nacque la geometria. L'orrore della indigenza e della morte generò l'alchimia, madre della chimica. La dottrina della fraternità umana insegnata dal Cristianesimo generò, accomunando le sofferenze, quel mirabile lavoro scientifico che a gloria del nostro tempo combatte indefesso il dolore individuale e sociale e con le sue continue conquiste accumula potenza nello spirito. Il dolore purifica e ritempra, precede ogni nascita anche nell'ordine delle grandi idee sorgenti a illuminare e dirigere la evoluzione della razza. Il dolore finalmente, tanto nell'ordine morale quanto nell'ordine fisico, non altro è che il salutare indice del disordine. Tali visibili aspetti di bellezza morale ha dunque il dolore nell'ordine delle cose esistenti. Bastano a spiegare come l'Arte volentieri s'ispiri ad esso? Non lo credo. Comprendo come un'arte moralista si compiaccia di rappresentarci il dolore che procede da un disordine morale, il dolore che ammaestra; come un'arte socialista si compiaccia di rappresentarci il dolore che procede da un disordine sociale, il dolore che richiama a giustizia; come un'arte civile si compiaccia di rappresentarci il dolore che procede da un disordine nelle condizioni della patria, il dolore che infiamma all'adempimento del dovere civile; ma non posso dimenticare che il dolore nell'opera d'arte mi apparve testè tanto più attraente quanto più inesplicabile, quanto meno visibilmente rappresentato dall'artista per un suo fine straniero all'Arte. Mi dico inoltre che il dolore espresso dalla musica pura, disgiunta dalla parola, tanto potente sull'animo nostro, è impossibile a collegare con alcun disordine apparente. Vi ha dunque una suprema bellezza del dolore che ancora si nega alla mente indagatrice, che senza un conosciuto perchè ci solleva nel petto il più voluttuoso pianto, che non risiede in alcun visibile ordine delle cose esistenti e ha quindi la ragione propria o in un ordine ignoto e impenetrabile di esse o in un ordine più ampio del quale il mondo presente non sarebbe che un termine intermedio. Qui, o signori, noi tocchiamo i confini prescritti alla conoscenza umana, qui l'esploratore che avanza passo passo nell'ombra crescente, ode il fragore, sente l'alito di quel mare che non ha barca nè vela. Egli ristà.

XIV.

Si mette invece per le onde oscure, qualunque sorte lo attenda, il poeta. Se la suprema bellezza del dolore risiede forse in un ordine diverso da quello che soltanto collega fra di esse le cose del mondo presente e se deve per necessità esser simile alla bellezza di una dissonanza musicale genialmente preparata e risoluta, ne balenan lampi che da un passato più lontano della nebulosa originaria vanno a un avvenire più lontano del giorno in cui si compierà la evoluzione del sistema solare. «Niente avviene senza causa» dice Eliphaz nel libro di Job «e il dolore non nasce dal suolo.» No, il dolore inesplicabile che echeggia nelle viscere della musica non è senza causa e la sua causa non è nella Terra. Risalendo a ritroso con la fantasia il moto della evoluzione universale, mi è difficile arrestarmi alla materia prima, inorganica, informe, tenebrosa di questo mondo e non pensare che pur essa è uno stadio di quel moto, che altre forme dell'essere l'hanno preceduta. Mi risovvengono allora parole arcane del Libro Sacro accennanti a un mondo di gloria e di colpa scomparso ma non estinto, connesso e compenetrato copertamente con le cose presenti; e mi dico che in quel mondo hanno la prima radice gl'infiniti guai di cui tanto ci turba nel mondo presente lo spettacolo amaro, il soffrire degl'innocenti, le ingiustizie crudeli della fortuna. Le tristezze che ci ascendono talvolta nell'anima senza che ne sappiamo il perchè, le tristezze che allora rispondono a noi dalle cose quasi amorosamente, quasi a consenso di pena in una comune sorte, tutto procede da quel mondo prenebulare di cui la memoria è spenta nella coscienza umana ma vive sotto di essa. E comprendo come l'Arte, che attinge le proprie ispirazioni all'inconscio, crei, quando prende a soggetto il dolore che non ha visibile causa, forme di bellezza sovrumana perchè lo intuisce occultamente nell'ordine che collega la dissonanza intermedia del mondo presente a due mondi sovrumani appunto, a un mondo passato di splendore e di colpa dove si è dischiuso il seme del piangere, a un mondo futuro sulla cui soglia il dolore conduce le creature rifatte splendide per esso e spira. E se la Intelligenza ordinatrice dei mondi dispose l'Arte a elevare l'ideale del piacere sopra ogni tetra febbre per modo che i desideri umani aspirino a un'armoniosa gioia dello spirito e della sua veste, comprendo pure che abbia disposto l'Arte anche a render voluttuosa non la sofferenza ma l'idea del soffrire; così che gli uomini vi si soffermino liberamente e richiamino allora in sè le ombre di ogni dolore del mondo, afferrino, almeno per un momento, il più intero disegno di questa vita terrena e almeno per un momento sentano quel desiderio indistinto d'infinito, quell'amore che punge il pellegrino di Dante

.... se ode squilla di lontano
Che paia il giorno pianger che si muore.

Indefinibile palpito, pieno di rimpianti e di aneliti, ricordo di un tempo felice trascorso, presentimento di un tempo felice venturo, anello sensibile di due mondi inaccessibili al senso.

L'Arte che obbedisce a questo divino appello non esercita un insegnamento morale esplicito e diretto che la diminuirebbe, solamente imprime all'anima umana un moto che seconda il moto volgente tutte le cose a uno stato superiore. Più che mai si conviene all'Arte nel nostro tempo di glorificare la gioia vera e intera, mentre i desiderii degli uomini volgono a un ideale di soddisfazione comune che appaga sì lo spirito in quanto un principio di giustizia nel riparto dei beni economici lo attrae, ma che soverchio potere per la felicità umana conferisce a ciò che l'uomo tocca un momento e subito abbandona. E mentre la scienza, mentre tutte le forze operose del Bene combattono con gloria i dolori sanabili della terra, più che mai si conviene all'Arte, che pure a questo bene soccorre, di allettare gli uomini alla contemplazione del dolore insanabile, fatale e fermo, perchè soltanto dalla piena coscienza di tutto il dolore può emergere un perfetto sperato ideale di gioia; e un perfetto sperato ideale di gioia, un intero sperato possesso del bene è già così gran parte della possibile felicità umana, è del Bene stesso artefice così potente!

XV.

Signori, io non ho inteso con queste ultime mie parole rivolgere agli artisti, inutile retore, precetti o consigli. È una divina legge dell'Arte che addito e proclamo, una legge superiore alle volontà umane, la riconoscano o non la riconoscano, poichè coloro che Iddio chiama all'Arte non sono liberi di escludere il dolore dal campo del lavoro artistico nè il pubblico è libero di passar noncurante o sdegnoso davanti all'opera che gli rammenta con efficacia di forme ciò che di più acerbo ha la condizione umana. Io vedo la legge che ho glorificata operare infallibilmente nell'avvenire, vedo andar diminuendo per opera della scienza e della civiltà le sofferenze umane sanabili, vedo le insanabili disegnarsi appunto per questo sempre più nettamente nel loro carattere di limite fatale della potenza nostra, di manifestazione d'una potenza superiore; e vedo l'Arte richiamar sempre più forte ad esse il pensiero dell'uomo. Vedo in lei e per lei levarsi inquieti dai beni che avran raggiunto nello spazio e nel tempo e tendere all'infinito immensi desiderî umani cui la scienza non appagherà mai, cui la Fede non avrà raccolti ancora, li vedo chiedere dolorosi all'Arte il ristoro di una forma di bellezza, e nel moltiplicarsi di tale bellezza io credente vedo moltiplicarsi realmente i contatti del desiderio umano con l'infinito, vedo quello più e più nel contatto accendersi, questo più e più concedersi clemente, e così predisposta la ultima gioia del loro congiungimento, mi si rivela intera nel suo sublime disegno la elaborazione del dolore nell'Arte dalle oscure fonti di lei sino alla foce tutta riverberante gl'imminenti splendori del regno di Dio.