Galleria Vitt. Eman., 17 e 80

1888

PROPRIETÀ LETTERARIA

Milano—Tip. Filippo Poncelletti, Via Broletto, 13.

All'on. sig. Direttore della Nuova Antologia.

Egregio Signore,

Una dama, che non ho l'onore di conoscere personalmente, mi ha inviato l'unito manoscritto. Vorrei pure trasmetterle, signor Direttore, la squisita lettera che l'accompagna; ma mi è vietato. Non ho quindi che ad indicarne, per sommi capi, la sostanza.

Questa dama ebbe il manoscritto in legato dall'autore, che militò non senza lode nelle lettere italiane ed è morto, quasi repentinamente, pochi anni addietro. Egli vi rivela una parte occulta, secondo credette, della sua vita, e vi prescrive all'amica di pubblicarne, in un caso preveduto, il racconto. Ora parrebbe che s'illudesse, da poeta, sul punto del segreto; e che, nella città di Lombardia dove visse, l'arcano fosse sufficientemente noto a parecchi. Ciò posto, non sarebbe più da pubblicare nulla; ma la signora non lo vuole comportare, parendole indegno di tener celata la descrizione di un amore ch'ella chiama eccelso, mentre tante descrizioni di amori volgari corrono il mondo. Propone quindi di pubblicare il manoscritto in forma di romanzo, tacendo il nome del protagonista e modificando gli altri, tranne uno solo cui non le regge il cuore di toccare. Propone altresì che il romanzo s'intitoli Il Mistero del Poeta; e confida in me per farlo uscire nella Nuova Antologia, dove altri lavori della stessa penna uscirono fra il 1865 e il 1880.

Non sono disgraziatamente abbastanza giovane per commovermi di un racconto simile, quanto se ne commosse la gentile signora. Tuttavia, non vorrei negare che vi si tratti di un amore assai più insolito nella letteratura odierna che nella vita reale; e mi piace di adoperarmi a farlo conoscere. Che i nomi si tacciano, si mutino o no, mi pare indifferente per noi, che possiamo lasciarne decidere alla coscienza della signora. Solo le scrissi che, mutandone alquanti, li muterei tutti. Che cosa ell'abbia risposto e fatto non può importare ad alcuno.

Il titolo proposto è desunto da certa conversazione riferita nelle ultime pagine del racconto, e io non ci ho a ridire. Quanto all'aprirgli le colonne della Nuova Antologia, veda Lei; spero che non ci saranno difficoltà. Se acconsente, La prego di pubblicare in fronte al Mistero del Poeta queste poche mie righe, che serviranno di introduzione.

Accetti, egregio signor Direttore, i miei anticipati ringraziamenti e l'espressione del mio perfetto ossequio.

Vicenza, 15 Novembre 1887.

ANTONIO FOGAZZARO.

Nota— Il Mistero del Poeta venne infatti pubblicato nella Nuova Antologia. L'EDITORE.

I.

Oggi, 2 novembre 1881, ho deciso di porre in iscritto il segreto ch'è la vita, la ricchezza e la potenza dell'anima mia. Nè i miei parenti nè i miei amici ne hanno, ch'io sappia, sospetto alcuno. Una sola persona vivente, in Italia, ne apprese da me qualche cosa; ma ella è tale che certo non ne ha fatto parola.

Parlo della persona che riceverà da' miei eredi questo manoscritto; parlo di Lei, cara e fedele amica. Se leggendo qui si ricorda di una chiesetta longobarda posata nel verde di campicelli montani; se si ricorda di una sottile voce d'acque nella solitudine, ricorderà pure quella mia confidenza, rotta da singulti senza lacrime, da una emozione che non era dolore. Io rimetto in Lei, oramai, il parlare e il tacere. Se il mondo continuerà ad ignorare il mio segreto, non ne parli, amica mia, che a Dio, nella preghiera; se qualche letterato, viaggiando fuori d'Italia, ne avrà incerta notizia e pretenderà poi far vedere il mio cuore per due soldi in qualche Fanfulla o Pungolo della Domenica, senz'altra offesa che della esattezza storica, dica Ella privatamente il vero a coloro che in quel tempo mi ameranno ancora. Ma se si scriveranno di noi cose false che possano turbare ed affliggere, io La prego, a mani giunte, col cuore pieno d'affanno, a voler pubblicare il mio racconto. Avevo scritto d'affanno e di sdegno, ma ho cancellato lo sdegno, che spiacerebbe alla diletta come un'impurità. Non vi ha oramai per lei e per me che un solo pericolo su questa terra: un solo dolore chiediamo a Dio di allontanare da noi: lo scandalo. Esso è appena possibile, e spero che saremo esauditi; ma se nella sapienza divina fosse altro consiglio, faccia, amica mia, tutto, tutto ciò che faremo noi, se vivi. Ove non si credesse alla mia parola, la confermi con testimonianze e documenti; Le saranno forniti, ad ogni richiesta, dal mio amico Dottor Paul Steele, di Rüdesheim am Rhein, Prussia.

È il giorno dei morti, la nebbia fuma intorno alle finestre della solitaria villa dove son ospite dei miei nipoti, mi chiude nelle memorie del passato. Qualcuno ripete sotto di me, al piano, non so che musica monotona di esercizi: odo nella stanza vicina passi tranquilli di servi. Nessuno immagina quel ch'io faccio, quel ch'io sento. La mia mano trema, il mio petto è un palpito solo, le lagrime mi ascendono alla gola. E il racconto parrà poi a me stesso così freddo! Vorrei parlare, ma non con la parola che muore, parlare dall'ombra del mondo ignoto con la voce viva che va, che va, d'atomo in atomo, non posa mai, è udita forse nei mondi inaccessibili all'occhio umano, se vi sono colà spiriti potenti a sentire ogni moto. Vorrei poter parlare non alla folla, ma solo ai cuori generosi che una calunnia avrà contristati e ai cuori perversi che ne avranno goduto. Devo io dunque deporre la penna e affidarmi a Dio? Penso a lei, alla stella mia, e odo la sua dolce voce straniera, la voce più dolce, io credo, che abbia suonato su labbra umane, dirmi teneramente: caro, scrivi; write, love.

II.

Ella sa, amica mia, che fino al 1872 non ebbi segreti per Lei. Se non ci siamo amati, quantunque liberi, fu perchè, forse, v'era tra noi troppa affinità di sentimenti, troppa comunanza d'idee, troppa fraternità di natura; e l'amore, tra noi, sarebbe stato una specie d'incesto. Tale è la ragione bizzarra che ne trovammo insieme una volta. Non era tuttavia la sola, certo; ne avevamo altre, Lei e io. Non toccherò delle Sue, naturalmente; ma si ricorda del sogno che Le raccontai appunto nell'inverno del 1872, una sera ch'eravamo soli e ch'io Le avevo portato un libro curioso: «Du sommeil et des rêves?» Forse non se ne ricorderà. Lo strano del sogno è questo, che lo feci due volte a un intervallo di nove anni. Lessi nella mia prima giovinezza la poetica leggenda tedesca del pozzo tanto profondo da non potervi nè occhio, nè strumento umano arrivare all'acqua. Viene un trovatore, siede sul pozzale e suona dolcemente; l'acqua si muove; colui suona e suona; l'acqua sale poco a poco, sale sempre, brilla sulla bocca. La notte dopo sognai di salir da non so quale abisso per la potenza di una voce soave che diceva in alto, con accento straniero, parole incomprese. Mi svegliai piangendo, in preda a un orgasmo che mi durò parecchie ore, pieno di questa irragionevole idea, che la voce udita in sogno esistesse veramente, richiamandone alla memoria, più forte che potevo, il timbro singolare, tremando di dimenticarlo. Lo dimenticai in fatti e presto, ma non dimenticai il sogno, e non mi uscì di mente l'idea che fosse un sogno profetico, una comunicazione arcana della Divinità.

Nessuna voce femminile mi fece poi risovvenire di quella; ma nel gennaio del 1872, durante una convalescenza, rifeci l'identico sogno, riudii la dolce voce dall'accento straniero. Otto o dieci giorni dopo venni da Lei e Le portai il libro: «Du sommeil et des rêves.»

È quasi impossibile ch'Ell'abbia dimenticata la mia agitazione di quella sera. Può essere ch'io sia mistico per natura e inclinato a credere in certe occulte potenze dello spirito umano, in certe sue relazioni segrete col soprannaturale; è sicuramente vero che prima del gennaio 1872 avevo già fatto esperienza due volte, non in sogno, di tali comunicazioni dirette; una volta a dodici anni, un'altra sui quattordici. La prima volta ne riportai commozione e spavento benchè fosse un lieto presagio; tanto era nuovo a me quel concetto, tanto fu improvvisa e chiara la voce interna che mi parlò. Il presagio si avverò sedici anni dopo. La seconda volta non si trattò di presagi, e solo nella vita futura saprò se fu un delirio dell'anima o veramente la voce d'un altro spirito, come credetti e credo e sta scritto in certo mio libro. Era dunque naturale che la impressione del secondo sogno fosse in me fortissima. Credevo nella esistenza reale della voce udita, con più ardore ancora, se possibile, che la prima volta; credevo all'influenza salutare e potente cui avrebbe dovuto esercitare un giorno sopra di me la persona che parlava così. Immagini la mia angoscia Lei che sa in quali circostanze mi trovassi nel gennaio del 1872. Mi tenevo allora già legato e forse per sempre. Quando penso alla origine e alla natura di quel legame mi viene alle labbra un sorriso amaro, compiango la signora, compiango e derido me stesso. Di questo legame si è parlato nel mondo, falsamente; e non è male ch'io ne debba scrivere qualche cosa qui. Ella sa ch'io conosceva da molto tempo quella bella e intelligente dama, a cui il mondo attribuiva, prima che le relazioni nostre si facessero più strette, un amante. Andavo qualche volta da lei e c'incontravamo spesso in società. Credevo d'esserle affatto indifferente e la ricambiavo d'indifferenza; ma poche persone mi ponevano, come lei, in vena di spirito sarcastico. Una sera, a teatro, incontrai due volte col mio binoculo il suo rivolto a me, e la seconda volta ella sostenne alquanto il mio sguardo, prima di volgersi altrove. Credetti averne il cuore lievemente tocco, ma forse erano invece i nervi della vanità e della curiosità che simulavano un palpito. Attesi e ottenni ancora spesso quello sguardo: poi visitai la dama nel suo palchetto. Ella ebbe con me un contegno affatto nuovo, e mi diede, in presenza di altre persone, così evidenti segni di favore da imbarazzarmi. Mi figurai, andando a casa, d'esserne innamorato, e mi figurai in pari tempo che glielo dovevo dire. Adempiei questo imperioso dovere due giorni dopo. Si trattava di una signora maritata, ed è mia maggior colpa l'aver ceduto allora non alla violenza del vero amore, bensì ad un'ombra vana di amore. Ella mi rispose di essere dolentissima delle mie parole. Soggiunse, con mia grande sorpresa, che s'era accorta da un pezzo di questa simpatia, che non poteva nascondermi una certa inclinazione per me seguitane da parte sua, ma che avrebbe preferito non si fosse parlato mai, fra noi, di questo. Era risoluta di non mancare ai suoi doveri. Prima sarebbe stato possibile vedersi con molta frequenza ed intimità, come amici; adesso non era più da pensarvi. Mi consigliò di soffocare il mio amore che non poteva aver messe ancora profonde radici; così si sarebbe potuto fra qualche tempo godere in pace i beneficii di una pura e intima amicizia di cui avevamo forse bisogno ambedue.

Allora mi avvidi con sgomento che non l'amavo affatto, tanto mi gelò questo discorso; mi dissi ch'ero caduto da stupido nel laccio d'una civetta sleale, ma pure mentii per un falso sentimento d'onore, non accettai l'uscita ch'ella mi offriva, le risposi che l'amicizia non poteva bastarmi. Iddio sa se fui punito di una tale viltà, quando la raccontai palpitando a lei, insieme a tutti i falli, a tutte le miserie che mi rendevano indegno di quell'amore sublime. Una tenera parola grave, un bacio delle sue labbra mi hanno rifatto puro, come ci rifà puri l'onda d'infinito che passa talvolta per l'anima nostra dopo la preghiera; non sento più dolore nè vergogna di quel passato.

Tale fu l'origine del mio legame. Non credo che neppure la signora m'abbia veramente amato mai. Credo che le dicerie sparse prima d'allora su lei e il marito d'un'amica sua fossero false; ch'ell'abbia pensato un modo, poco felice, di smentirle; che la vanità l'abbia indotta a sceglier uno che scriveva versi di cui la gente e i giornali qualche volta parlavano; che finalmente ell'avesse una certa curiosità intellettuale dell'amore, forse anche un certo bisogno morale di emozioni, un inesplicabile bisogno di soffrire o far soffrire, tanto per sentir fortemente questa vita senza tuttavia porre l'altra in pericolo. Mi disse infatti che se volevo amarla con un affetto contenuto dal dovere non poteva vietarmelo, ma che saremmo stati infelici ambedue. Ell'avrebbe anche il rimorso di allontanarmi dal matrimonio, così desiderabile a me, rimasto senz'altri parenti che un fratello ammogliato; e l'età mia non pativa lunghi indugi. Più mi confortava a staccarmi da lei, più resistevo, più mi sentivo legare e stringere.

Che anno infelice fu quello per me! Qualche volta m'illudevo di amare la signora, e allora m'irritavo di trovarla sempre così rigida e sicura nella sua virtù, così padrona di sè. Molto più spesso mi sentivo freddo e soffrivo di esser falso, soffrivo delle esigenze di lei che, dicendosi gelosa della mia musa, avrebbe voluto regnar sola nel mio intelletto, ispirarmi secondo le sue idee e le sue inclinazioni. Non difettava d'ingegno nè di coltura, ma se tra me e Lei, cara amica, vi è forse troppa affinità d'anima, ve n'era invece troppo poca fra me e quella signora. Ell'aveva la religione dell'eleganza. Non la sola eleganza della persona o delle vesti era in lei seducente; anche la forma di ogni menomo gesto, della parola, di tutto il contegno era squisita. Ciò mi attraeva, ma ella portava questo culto anche nell'arte, e qui vi era nella nostra relazione una scissura sottile come un taglio di rasoio, appena visibile alla superficie, ma netta sino al fondo. Benchè non me lo dicesse, trovava certo i miei versi troppo democratici nella veste, troppo lontani da quella ricercata nobiltà di forma, senza la quale, per lei, non v'era poesia. Lo indovinai discorrendo con lei di altri poeti, e ne rimasi ferito. Mi offese il suo giudizio, mi offese una tale indipendenza del giudizio dal sentimento, poichè ella mi aveva confessato più volte, a voce e in iscritto, di amarmi. Avevo un altro ideale dell'amore, ero stato anche amato, tempo addietro, in altro modo, con la prepotenza del cuore su ogni facoltà e inclinazione della mente. Tuttavia, se mi avesse dato altri segni di un sentimento forte e profondo, se l'avessi veduta, almeno qualche volta, incapace di dominar la passione, non mi sarei offeso di questa sua indipendenza di giudizi. Ma ella si dominava sempre, e, discorde da me in molte questioni, anche di poco momento, ha sempre tenacemente insistito sul proprio punto. Mi convinsi dunque che il suo sentimento non era l'amore, e, poichè non l'amavo io stesso, risolsi di allontanarmene.

Ella dovette sospettarlo quando ci ritrovammo in città nel dicembre del 1871, dopo due mesi di separazione. Avevo in mente di partire a Natale per San Remo e di passarvi l'inverno; ma caddi malato. Allora ella fu di proposito imprudente e volle vedermi. Io vivevo con mio fratello ed ella non visitava mai mia cognata. La visitò in questa occasione, le chiese di potermi salutare. La mia pia cognata ne rimase talmente sbalordita, talmente scandolezzata che, malgrado la sua timidezza, esitò alquanto a consentire, e sono sicuro che poi se n'è confessata. Infatti in città si fece un grande scalpore di questa visita. Io lo seppi dopo la mia guarigione e temetti commettere, partendo, una ingratitudine, una viltà. La mia vita era così; un continuo fluttuare della mente e del cuore, ambedue senza luce.

La notte fra il 12 e il 13 gennaio 1872 rifeci il misterioso sogno. Venni da Lei appena fui in grado di uscire la sera; il 20 o il 21. Cara amica, Ella ebbe ragione di risentirsi con me. L'avevo, da un anno, trascurata indegnamente. Non era venuta meno in me l'amicizia antica, ma vergognavo di me stesso, e ciò mi teneva lontano da Lei. Quella sera venni come portato da una tempesta e Le dissi tutto, le raccontai il sogno con tale accesa fede nella sua origine sovrannaturale, nel suo senso profetico, che Lei mi credette minacciato di follia. Mi disse che non stavo ancora bene, che avevo bisogno di quiete morale, che dovevo svagarmi, viaggiare un poco, e non scrivere troppe lettere.

Lo avrei fatto se non si fosse risvegliata finalmente allora la gelosia del marito. Da capo credetti non poter abbandonare la signora. Ci vedevamo assai meno, ma pure non so per quale spirito di ribellione, per quale perverso istinto del cuore, appunto quando vi fu nell'amarsi angoscia e pericolo, appunto quando un'altra persona incominciò a sentirsene offesa o a soffrirne amaramente, quando la gente ci biasimò, parve che un soffio di vera passione entrasse in noi. La signora non si mostrò più tanto sicura di sè. Che il mondo ci giudicasse colpevoli era come un freno levato di mezzo; era un potente eccitamento al male quel subirne già gli effetti così. Per parte mia avevo la coscienza di scendere pian piano verso un abisso da cui salissero vampe calde a infiammare i sensi, a oscurare il pensiero. Sapendo di perdermi, mi ci sentivo tuttavia tratto da quello stesso istinto perverso. Però qualche volta mi arrestavo con terrore, mi proponevo di resistere. Una simile passione, fuoco di sensi più che di spirito, era contro la mia fede, contro l'alto ideale cui avevo desiderato conformarmi nella vita e nell'arte. Mi pareva di stare imprimendo un marchio d'ipocrisia o di vergogna sulla mia vita, sull'opera mia, sulla mia memoria presso i venturi, di tradir vilmente la mia bandiera. Ma poi non avevo la forza di astenermi dal vederla sola le poche volte che ciò era possibile, sapendo con quale fede ero atteso; e quando ero con lei, la sua bellezza, il suo turbamento mi toglievano quasi la mente. Per fortuna questi convegni non furono molti, nè lunghi, nè segreti, nè sicuri; ed è anche giusto dire che in lei durava sempre, quantunque un poco smossa e malferma, la buona volontà. Così passarono alcuni mesi fra i più agitati e tristi della mia vita. Fu quello il tempo per me della maggiore aridità e inerzia intellettuale; non so d'avere scritto in quei mesi un sol verso nè d'avere studiato mai.

Cara amica, mi sono assai dilungato su questo episodio che appena si lega con l'argomento del mio scritto, perchè volevo dire entro quali termini veramente si contenne, e anche espiare, almeno in parte, la mia debolezza colpevole, con un racconto che potrà temperare nella mia città la memoria di un passato scandalo, ma mi scemerà certo riputazione fuori, presso coloro che avranno letti i miei libri e ignorate queste miserie. E l'essermi indugiato in un proemio a me doloroso mi scusi se ora camminerò ancora più lento. Arrivo alla infinita dolcezza di disegnare in qualche modo e rivedermi anche sotto gli occhi vivo quel tempo, che nella mente mia è fatto eterno. Melius quam cum aliis versari est tui meminisse. Buona amica, le cose ch'io verrò parlando, un poco ogni giorno, con Lei, diventeranno Sue; se dovrà farle sapere al mondo, al mondo senza cuore, provveda Lei a che l'amico suo non sia giudicato senilmente verboso e importuno. Non Le dico questo per amor proprio; mi perdoni, è un folle dubbio fantastico il mio. Forse il bene ed il male che si pensa e si dice di noi sulla terra dopo la nostra morte, ci tocca tuttavia, in quanto è frutto delle nostre opere, con premio o con pena; mi par quasi che quei duri giudizi umani possano giungere al luogo eterno, e, più che me, contristar la diletta.

Scrivo queste ultime parole d'introduzione alle sei del mattino. L'aria è pura, un mite lume di luna cede quietamente all'alba serena; a piè della casa un bianco mare di vapori pesanti dorme sulla valle. Vorrei che fosse così, amica mia, anche là dove saremo dopo la morte e prima dell'ultima aurora, del giorno eterno; vorrei che dalla terra, tutta avvolta ancora d'ignoranza e di tristizia umana, nessun vapore maligno salisse a noi.

III.

Nel giugno del 1872 la signora andò col marito a passare l'estate sul lago di Ginevra. Intendevano ritornare in Italia per il Sempione e trattenersi poi alquanto sul Lago Maggiore, a Stresa o a Pallanza. Ella mi doveva scrivere da Ginevra se una mia visita segreta colà fosse possibile. In caso diverso avrei tentato vederla sul Lago Maggiore. Le promisi di lavorare, nel frattempo, alacremente.

Ella era infatti alquanto sorpresa e mortificata dell'assoluta inerzia intellettuale di cui l'amore mi aveva colpito, e ch'io, nel mio segreto, mi spiegavo perfettamente. Durante un anno e mezzo non avevo scritto che quattro o cinque liriche amorose, eleganti secondo il poter mio, perchè tale era il suo gusto, ma freddine. Ora ella si era innamorata degli Idyls of the King di Tennyson e avrebbe voluto ch'io scrivessi un poemetto di quel genere, il più raffinato, il più aristocratico possibile. Le promisi di fare qualche cosa, e sentendomi bisogno io pure di aria montana e di quiete, pensai di salire a Lanzo d'Intelvi dove conoscevo l'Hôtel Belvedere, comodo, elegante, ammirabilmente posto in una pittoresca solitudine, frequentato quasi esclusivamente dagl'Inglesi. Vi avrei potuto lavorare in pace.

Vi andai il 28 giugno, per Argegno. Trovai la valle così fresca e verde, l'aria così pura! Mi pareva di respirare libertà, innocenza e vita. Il mio vetturino si fermò alcuni minuti nel paesello di Pellio, poche casuccie fra i castagneti, con le finestre fiorite di garofani. Discesi alla fontana. Una giovinetta bellissima, dalle mani abbronzate e dalle braccia di latte, stava attingendo acqua e me ne offerse. Le chiesi se l'acqua era buona. Rispose nel suo dialetto:

La guariss de tucc i maa (guarisce tutti i mali).

La guardai con ammirazione. «Proprio tutti?» replicai. Ella non rispose più, arrossì e sorrise come se mi avesse letto nel pensiero. Bevvi alla secchia della bella giovinetta, e partendo da Pellio pensavo che forse la sua piccola bocca, il suo piccolo cuore, le sue braccia di latte avrebbero potuto veramente guarire ogni male. Era forse lei l'idillio che cercavo, con un poco di dramma e di mistero? Quelle braccia così bianche non eran d'alpigiana ma di dea; leukôlenos Hêrê.

Osservavo, salendo adagio fra le montagne, che la natura, mia vecchia amica, dopo due anni di silenzio, incominciava a parlarmi ancora. Bisogna essere un visionario inutile per sapere che gioia è questa di sentirsi in istato di grazia presso i sassi, le acque o le piante. Mi parve un segno che avrei finalmente potuto scrivere. Quando la montagna mi parla, il primo effetto n'è una dolcezza malinconica, un molle desiderio di sciogliermi nella vita delle cose; ma poi viene il fervore del concepire e la facilità dello scrivere. È lo stesso effetto che mi fa qualche volta Mendelssohn.

All'albergo non trovai lettere di Ginevra e n'ebbi piacere. Io che quando ho amato non ho mai amato più forte che nell'assenza, adesso, lontano dalla signora, non la sentivo più. Non v'era molta gente. Alla table d'hôte delle sei eravamo una trentina, quasi tutti inglesi. Io sedevo presso una bella ed elegante signora bionda, dagli occhi orientali come il profumo di rose audacemente singolare che usava. Le altre signore erano quasi tutte vecchie e bruttissime. Gl'italiani, non più di quattro o cinque, avevano, fra tanto grave silenzio di esotici, un'aria assai compunta, e mi guardavano con la evidente ingordigia di arruolarmi per le passeggiate, le chiacchiere e il biliardo. Ciò mi metteva orrore, per cui fui gelido con un piccolo vecchio signore, il quale, dopo pranzo, fatto un preambolo sui miei celebri poemi (!), mi disse che lui o i suoi compagni si trovavano molto a disagio fra gl'inglesi ed erano felici della mia venuta. Soggiunse di chiamarsi il cavalier Tale; gli altri si chiamavano il conte Tale e il cavalier Tal altro; il quarto non aveva titoli, ma era tuttavia una persona molto civile. Finalmente questo povero signore mi promise di parlare al cuoco per ottenere un po' meno plum-pudding, un po' più di rispetto alla minoranza nazionale; e mi lasciò in pace, nè più ci siamo parlato.

Uscii a prendere il caffè sotto i tisici ippocastani del belvedere, dove anche la mia bella vicina stava ammirando l'infocato tramonto e, all'orizzonte, il lungo arco, la magnifica pompa lontana della nevi eterne. Ma io non guardavo il cielo, nè le Alpi, nè lei; guardavo là in faccia, oltre il lago scuro affondato ai nostri piedi in un abisso di settecento metri, oltre la prima fronte erbosa della montagna opposta, uno scoglio colossale con la sua famiglia di torrioni diroccati attorno, noto e caro agli occhi miei da molti anni. Sono stato un fanciullo timido e orgoglioso. A sedici anni, con la testa piena di Leopardi e di Victor Hugo, di panteismo e di pessimismo, con un gran disprezzo esteriore dell'umanità e un'intima disperata voglia d'esser lodato dagli uomini e amato dalle donne, m'era venuta la melodrammatica idea di farmi seppellire lassù. Non vedevo lo scoglio da un pezzo, esso ignorava affatto i miei stupidi amori con la signora, e tutti i pensieri della mia adolescenza, mezzi falchi e mezzi passerotti, vi avevano ancora il nido. V'erano ancora le mie malinconie calde, l'orgoglioso sdegno di ciò che udivo da' miei compagni chiamar l'amore, i fantasmi femminili che soli mi parean degni di me. Se allora mi avessero detto: t'invischierai senz'amore, per debolezza, a una donna che ti avrà cercato senz'amore, per vanità, avrei risposto: no, mai! E invece! Non avrei davvero meritato di giacer solo, da poeta delle montagne, in quel sublime sepolcro.

Mi diedero una camera con due finestre al Nord. Anche alla sera vidi lo scoglio nero coronato di stelle, che mi gittava in faccia i ricordi della mia adolescenza pura e superba. Tentai lavorare; dalle mie prostrazioni di spirito basta qualche volta a rialzarmi l'ala d'un verso felice. Mi provai a disegnare una tela d'idillio, pensai alla bella giovinetta dalle braccia di latte, alla sua fontana sul crocicchio, alle finestre fiorite di garofani; pensai anche a Lei, mi perdoni, amica mia. Ella sa il mio metodo di lavorare; piglio una figura vera e ci filo attorno poesia, seguendone le forme e insieme nascondendole altrui. Ma quella sera non trovai un solo filo fine e forte, non feci che imbrattar carta inutilmente. Mi cadde il cuore.

Cosa dice Heine? «Il mio cuore somiglia al mare.» Io, piccolo poeta, dirò solo che il mio cuore somiglia ad una laguna misera, senza perle nè coralli, che tuttavia ascende e ricade come il mare, ogni giorno, per la propria natura e l'arcano influsso di qualche potenza occulta nel cielo.

L'indomani mattina mi arrivò la lettera di Ginevra. Mi si attendeva fra dodici giorni, dopo i quali ci saremmo trovati soli e senza sospetto. In seguito a questo esordio venivano raccomandazioni solenni che parevano rimproveri; mi si proibiva la menoma famigliarità. Tutto ciò mi parve gesuitico e disgustoso e mi venne subito in mente di non andare; ma poichè avevo ancora sei giorni di tempo, mi proposi, secondo una viziosa abitudine, di deliberare all'ultimo momento. Intanto la svogliatezza e l'inerzia antica mi riprendevano. Abbandonai la ricerca dell'idillio; non mi destavano interesse nè gl'italiani, nè la bella signora bionda, nè alcun'altra persona dell'albergo. Passavo le mie giornate vagando col cuor pesante per le campagne, sedendo lunghe ore sull'erba ad ascoltar il vento e a contemplar i moti lenti delle ombre. I castagni di Pellio, i prati del pian d'Orano, le gole solitarie della Val Mara devono ricordarsi di me. Nelle mie corse non incontravo mai nessuno; non vedevo esseri civili che alla table d'hôte, sempre silenziosa e solenne.

La sera del primo luglio, verso le dieci, stavo leggendo nella mia camera colle finestre aperte quando udii suonare sul cattivo piano della sala di conversazione la Gran scena patetica di Clementi, che ho udita da Lei tante volte. La mano mi parve eccellente, e discesi. Suonava una signora inglese e c'erano in sala, credo, tutti gli ospiti dell'albergo. La sala è a pian terreno; ha una porta e due finestre sulla fronte della casa. Andai a sedermi fuori nel buio.

La notte era tempestosa. Un balenar continuo senza tuono batteva, di là dal lago, le nuvole nere e le creste selvagge, che, in quei sùbiti bagliori, parevano vivere. Sul nostro capo il cielo restava buio, restava buio l'abisso a' nostri piedi; e, quando il piano tacque, si udirono giù nelle valli profonde tutte le campane dei paeselli. Due signore uscirono e sedettero poco discosto da me. Non le potevo vedere, ma sentii il profumo di rose della mia vicina. «Molto bene, non è vero?» disse questa, in inglese. Era la sola voce femminile che conoscessi lassù.

Non vi fu risposta. Dopo brevi momenti udii un'altra voce dir piano:

The bells (Le campane).

Ho sempre pensato, e non so come questo strano pensiero sia nato in me, che l'odore dell' olea fragrans possa dare un'idea della dolcezza di quella voce. Trasalii e mi domandai dove l'avessi udita. La signora dall'essenza di rose disse ancora qualche cosa che non intesi e la voce dolce rispose:

Yes, there is hope (Sì, vi è speranza).

Ebbi come un baleno interno; era la voce del mio sogno. Mi misi a tremare, a tremare senza saper perchè, senza capir più niente, sebbene le due voci parlassero ancora. Tre o quattro altre signore uscirono dalla sala e tutta la compagnia s'avviò poi verso gli alberi. Io non pensai a seguirla, avevo una indicibile avidità di esser solo. Corsi nella mia camera e là mi sfogai.

Ero come pazzo, m'inginocchiavo a ridere e piangere, balzavo in piedi a pregare, sentendo Iddio infinito e me niente, stendevo dalle finestre le braccia verso il nero scoglio sovrano battuto dai lampi, gli dicevo con trionfante gioia di volermi bene ancora perchè ne tornavo degno. Parlavo così a voce alta e poi ridevo di me stesso, ridevo di esaltarmi per una persona di cui non conoscevo ancora il viso; ma era un ridere felice, pieno di fede, senza la menoma ironia. « There is hope, there is hope » ripetevo «vi è speranza.» E poi mi coprivo il viso colle mani, pensavo; e lei? e lei? Chi sa se aspetti anche lei, chi sa se abbia avuto sogni, presentimenti? Che viso, che nome avrà? Poi non pensavo più a nulla, mi riprendeva il fremito di prima. In un'ora triste dell'adolescenza, vagando per le colline in fiore della mia patria, mi ero veduto nell'avvenire una scura e fredda giovinezza e, sul cader di questa, uno splendido fior di passione, improvviso come il fiore dell'agave. Ora il mio cuore batteva «l'agave, l'agave!» Vi strinsi ambo le mani su, ansando. Credetti in quel punto che gli occhi miei mandassero veramente luce.

IV.

Quella notte non dormii affatto e la mattina seguente fui il primo a entrar nel salottino attiguo alla sala da pranzo dove gli inglesi scendevano fra le sette e le nove a prendere il thè. Mi era venuto nella notte il dubbio che la dolce voce appartenesse ad una signora che avevo veduto per la prima volta il giorno innanzi, e che era discesa a pranzo con l'altra dal profumo di rose. Quest'ultima venne a prendere il thè, sola, alle otto e mezzo. Subito dopo qualcuno entrò dall'uscio, cui volgevo le spalle, e salutò. Era la voce di lei.

Sino a quel momento ero stato agitatissimo, ogni passo mi aveva fatto palpitare. La voce sua mi chetò sull'atto come un ghiaccio che colga l'onda. Tutto tacque in me; mi trovai tranquillo, ma senz'altra coscienza che del momento presente.

La nuova venuta sedette in faccia all'amica sua. Mostrava un venticinque anni, era alta, bionda, aveva una fine fisonomia delicata, due occhi quieti che parevano veder poco e somigliavano alla sua voce per la soavità leggermente fioca, come per l'intima espressione d'intelligenza; la mano piccola e bianca aveva una simile espressione. Mi colpì un anello d'oro, liscio, all'anulare della mano sinistra.

Ella non mi guardò neppure e si mise a parlare con l'altra signora. Sorrideva deliziosamente, e, quando sorrideva, era una musica così tenera! Intesi che domandò notizie di un disastro avvenuto la notte sul lago. Io solo ne avevo. Era infatti scoppiato, dopo la mezzanotte, un temporale furioso, e un comball carico di sabbia si era sommerso con gl'infelici barcaiuoli. Colsi la buona occasione e tentai di raccontare la cosa in inglese. Ella mi guardò un po' sorpresa e mi rispose qualche parola nel più puro italiano, mortificandomi così alquanto; poi fece atto di ringraziarmi con un leggero cenno del capo, con uno sguardo serio e benevolo; e riprese il suo dialogo con l'amica. Allora uscii, contento di quello sguardo, non senza, però, una penosa trepidazione, un dubbio nuovo. Mi pareva di amare già e che ella non somigliasse a nessun'altra donna; che la sua bellezza, quasi chiusa agli altri, dovesse riuscire squisitamente singolare e varia per un amante; che anche l'anima sua avesse un tal velo, un tal segreto. Ma era libera? Mi potrebbe amare? Questo era il dubbio nuovo e l'affanno. Mi succedeva come quando immagino una composizione artistica e me ne innamoro nella fantasia, che poi trovandomi la penna in mano e un foglio bianco davanti, mi assalgono mille dubbi e scoramenti.

La rividi più tardi sotto gl'ippocastani dove stava sola, leggendo. Io guardavo, a due passi da lei, con l'eccellente cannocchiale dell'albergo, ora le torri del mio scoglio, ora gl'imi paeselli, ora un vapore che pareva immobile sull'acqua verde, ora la città di Lugano, dove si potevano distinguere le persona sui quais. Guardavo solo per starle vicino, pensando sempre come le potrei parlare. Ella chiuse un momento il libro. Allora le offersi, stavolta in italiano, d'indicarle il posto ov'era affondata la barca di sabbia. Accettò molto cortesemente e, posato il libro, si alzò, venne alla ringhiera che cinge quella specie di bastione coronato dagli ippocastani. Osservai che il suo passo era un poco incerto; che la sua gamba sinistra era un poco intorpidita. Forse anche il braccio sinistro non aveva il vigore dell'altro. Me ne sentii a un tratto il cuore tanto più tenero per lei; e non voglio cercare perchè me ne sia venuta insieme una gioia di speranza. Ella intese prontamente che conoscevo i luoghi, e aveva incominciato a domandarmi nomi di paesi e di montagne, quando un cameriere dell'albergo venne a dirle:

—Il signore La desidera subito.

Trasalii. Sul suo viso passò, malgrado lei, un'ombra fugace di malcontento, e poi, quando se n'avvide, un lieve rossore. Si scusò con una parola gentile e partì, lasciandomi più felice e più turbato che non posso dire. Il signore! Chi era questo signore? Qualche cosa d'indefinibile nell'aspetto, nei modi di lei, l'anello, i pendenti di piccoli brillanti, mi lasciavano poca speranza che fosse libera.

Aveva dimenticato lì il suo libro. Vidi con molta meraviglia le poesie di Leopardi. Sul frontespizio era scritto per isbieco questo nome:

Violet Yves

Sperai che ritornasse, ma invece venne il cameriere a prendere il libro. Seppi da lui che la signora era arrivata da una settimana con suo marito e che questi si era ammalato subito. Però stava già meglio. Benchè mi aspettassi la parola «suo marito,» n'ebbi un colpo di dolore. Mi mancarono la voglia e la forza di fare a colui altre domande.

Mi tenevo sicuro, nella mia fervida fantasia, che la signora Yves non fosse felice. La sua pronta cortesia verso di me; la compiacenza quasi evidente con la quale si era trattenuta meco, mi dicevano che non era innamorata d'alcuno. Ciò temperava la mia amarezza. Avrei voluto sapere l'età e l'aspetto di questo marito, ma tuttavia mi astenni dal chiederne, non tanto per timore di tradirmi quanto perchè mi pareva, con tali domande, di offender lei e di abbassare me.

Ella non discese a pranzo. Alla sera si fece musica. Io andavo e venivo dalla sala aspettandomi ad ogni momento di vederla comparire. Non venne; verso le dieci me n'andai sconfortato a sedere sotto gl'ippocastani. Era una notte incantevole; e la luna, sorgendo alle nostre spalle, lasciava nell'ombra noi, il pendio ruinoso della montagna fino al fondo, una curva lista di lago lungo le prode; al di là, tutto, dall'acque al cielo, dalle prossime guglie di levante alle nevi remote di ponente, luceva in una luce d'argento. Mi affacciai alla ringhiera sospirando.

—Molto bello, non è vero?

Mi sfuggì un'esclamazione di sorpresa. Era la signora Yves che aveva detto così, a pochi passi da me.

—Lei?—dissi.

Forse vi era nella mia voce troppo più senso che nella mia parola. Ella non rispose.

—È troppo bello qui—soggiunsi.—Fa persino male.

Essa lasciò cadere anche questa frase.

—Stamattina—disse—volevo domandarle il nome di quello scoglio là in faccia che mi piace tanto.

—Non lo so—risposi.—Non credo che abbia nome.

Dopo brevi momenti di silenzio la dolce voce riprese più sommessa, quasi timida:—Dovrebbe mettergli un nome Lei ch'è poeta.

—Lei lo sa?—esclamai.—Lei mi conosce?

—Sì signore—rispose.—Ho letto una sua novella in versi, Luisa.

—Ha letto Luisa?

Tacemmo ambedue per un buon tratto.

Una profonda, deliziosa commozione impediva a me di parlare; ed ella era rimasta sorpresa di sentir così commossa la mia voce.

—Vede che lo conosco molto—riprese finalmente.—Luisa mi ha fatto pianger tanto. Non potevo credere che l'autore fosse un uomo. Ho saputo oggi da un signore italiano ch'era proprio Lei. Credevo che fosse una fanciulla, una Luisa. Oh come desideravo di conoscerla!

—Anch'io desideravo di conoscer Lei.

Queste parole mi sfuggirono e tacqui subito. Non sapevo se dovessi spiegarle; intanto ella osservò che era tardi e si ritirò. Qualche cosa nel suo saluto mi fece male e passai una notte inquietissima, pensando ch'ella mi era stata molto vicina per un momento e che poi si era allontanata da me. Certo aveva trovate stupide o troppo ardite le mie ultime parole. Ne soffrivo e ne godevo insieme, parendomi aver veduto un poco del suo sentimento. Com'era fine, come era elevato! Adesso bisognava toglier l'equivoco subito. Mi addormentai verso la mattina, sognai che spiegavo tutto a Mrs. Yves, che la dolcissima voce mormorava: lo sapevo, lo sapevo; ma che il viso era triste.

V.

L'indomani mattina scesi alle sei e incominciai subito ad aspettarla; scioccamente, perchè non era probabile che scendesse prima delle sette e mezzo o delle otto. Discese alle nove e la vidi un solo momento; forse aveva preso il thè in camera. Era in toeletta da passeggio e mi salutò come chi vuol essere cortese ma non desidera compagnia. Partì subito con un ragazzo che le portava uno sgabello, un ombrello e un album. Il cameriere mi disse che andava a dipingere e che il ragazzo doveva accompagnarla alla chiesa di S. Nazaro. Ero ben risoluto, comunque lei l'intendesse, di parlarle; mezz'ora dopo mi avviai alla volta di S. Nazaro. Con che tremor di cuore, con che confusione di pensieri, con che intorpidimento di membra feci quella strada! Assorto nel sentimento di dover dire parole decisive, andavo, andavo, senza badare alla via, portato dall'istinto; non udivo che le voci, non vedevo che le immagini del mio pensiero. A pochi minuti da San Nazaro incontrai il ragazzo, che mi disse spontaneamente:

—La signora è giù presso la chiesa.

Ignoro se mi abbia creduto il marito o altri; a me parve una voce dello stesso Ignoto che mi aveva mandato il sogno.

La signora Yves stava in un praticello poco discosto dal sentiero, disegnando. Alzò il capo, mi vide e continuò a disegnare. Discesi lentamente sul prato e mi fermai a pochi passi da lei. Essa mi guardò daccapo, rispose sorridendo al mio saluto e tornò a lavorare in silenzio. Io non sapevo ancor leggere le tacite parole avvolte ne' suoi sorrisi; mi parve tuttavia che quella fosse pungente. Mi avvicinai, e si parlò un poco della chiesa longobarda ch'ella stava disegnando. Il tono della signora era affabile ed indifferente.

—Ho trovato bene—mi disse rispondendo ad una mia frase sull'atto pittoresco della chiesuola, che mi pareva tutta raggomitolata nella sua umile vecchiaia.—Se Lei ora va cercando poesia, altrettanta fortuna!

Ella desiderava che io partissi, ma non volevo partire così. Nel silenzio che seguì si udiva il gorgoglìo roco dell'acquicella che casca dal prato.

—Senta la poesia come chiama!—dissi.—La poesia è qui.

Vidi Mrs. Yves aggrottar le ciglia. Non rispose e disegnava in fretta; i suoi occhi andavano e venivano rapidamente dalla chiesa all'album.

—Non Le pare poesia?—ripresi.

—Sì—rispose alquanto nervosa.—E mi fa molto piacere di non saper dove passa questa poesia così pura, perchè è forse in un tubo assai comune.

—Signora—diss'io allora—ho paura ch'Ella non abbia bene intesa, iersera, una mia parola.

—Non so che parola—rispose tranquilla.—Non faccio mica tanta attenzione alle parole. E Lei crede che sarebbe una disgrazia se non l'avessi intesa?

—Sì signora.

Mrs. Yves ebbe un tocco di riso argentino.

—Questo è troppo italiano per me—diss'ella.

—Le ho detto—ripresi senza curarmi della sua ironia—che desideravo di conoscerla, ed Ella ha preso forse queste parole per un complimento. Non faccio complimenti. Desideravo di conoscerla solo perchè molti anni sono ho udita la Sua voce senza vedere il suo viso.

Alzò bruscamente il capo dal disegno e mi guardò sorpresa. Adesso l'anima sua non era più del tutto chiusa; gliela potei vedere in fondo agli occhi mentre diceva:

—Dove mi ha udita?

—Questo non importa molto—risposi.—Solo mi rincresceva che una parola indifferente fosse presa per una parola sciocca. Adesso scusi, la lascio disegnare in pace.

Mi congedai così, sentendo il mio vantaggio e non volendo perderlo. Ella fu tentata un momento, lo vidi, di trattenermi, ma non lo fece.

Andai a meditar la mia piccola vittoria nell'ombra del vallone vicino, a ripensar il particolare fascino di quel viso e di quella voce nell'ironia.

«Quando mi amerai!» dicevo tra me. «Quando vorrai e non vorrai dirlo!» Non volevo pensare che non fosse libera, mi pareva che amandomi lo diventerebbe; e mi stringevo le mani al petto, Davvero il mio petto era troppo breve per una gioia così grande, mi doleva già. Sentivo il bisogno di stancarmi e feci un lungo giro per valli e boschi, camminando a slanci come portato da ondate di vento, sorridendo a me stesso, dicendo insulti con allegra tenerezza alle care stupide piante e ai sassi che non capivano niente. Ecco un semplice odor di liquore forte come mi ubbriacava.

A pochi passi dall'albergo, dove arrivai tardi, incontrai Mrs. Yves che dava il braccio a un signore pallido, magro, evidentemente malato. Era facile indovinar chi fosse. Alto, rigido, pareva toccare i cinquant'anni; aveva un viso triste e duro, una fissa intensità ostile di sguardo. La signora mi salutò; il marito nemmanco mostrò di avermi veduto.

Per tre giorni non ebbi più occasione di parlare a Mrs. Yves. Era sempre col suo convalescente; passeggiavano qualche poco, sedevano lungamente insieme sotto gl'ippocastani. Ella mi salutava con la sua soavità seria, ma non cercava parlarmi, né io cercavo parlare a lei, pure gli occhi nostri s'incontravano non di rado e mi pareva che le facesse piacere di trovarsi vicina a me; lo stesso maggior riserbo che ora s'imponeva per la presenza del marito mi pareva pieno di dolcezza. Talvolta ella gli leggeva un giornale; io fingevo allora leggerne un altro e me le ponevo tanto presso da poterla udire. Quando se ne accorgeva lo sentivo, per un istante, nella sua voce. La bella signora dal profumo di rose conversava spesso amichevolmente con la Yves e scambiava poche parole con l'accigliato marito. Cercai di stringer relazione con lei per avere qualche cosa, almeno indirettamente, di Mrs. Yves, ma poi credetti leggere in un'occhiata di quest'ultima che le dispiacesse; ne fui felice ed evitai quind'innanzi la signora. Mrs. Violet aveva l'ultima camera dell'ala di ponente, al secondo piano, e la terrazza attigua. La sera stava con suo marito nella sala di lettura fino alle nove; poi salivano insieme. Io allora uscivo portando meco il tesoro d'uno sguardo, d'un saluto e restavo fuori per tutto il tempo che le piccole finestre lucevano. Mi pareva talora indovinar sulla terrazza la forma di lei; ma la mia vista corta e l'ombra dei boschi che dal monte scendono sull'albergo me ne lasciarono sempre in forse. Quanto mi fosse doloroso il subito mancar del lume alle finestre, come mi tormentassero allora il cuore e la fantasia, non lo voglio neanche ricordare. Il mio stato era insomma un misto, un'alternativa incessante di delizia e di pena, in cui venivo legandomi sempre più strettamente a lei e sentendo sempre più che pensava a me. Ci eravamo divisi sul prato di S. Nazaro, con un saluto freddo, non le avevo più detto parola; e dopo tre giorni mi pareva che al primo trovarci soli ci saremmo parlati come amanti.

Nel pomeriggio del quarto giorno la trovai sulle scale dell'albergo. Mi salutò così tranquillamente che tutti i miei sogni, per un momento, caddero; poi mi chiese sorridendo se le tenevo il broncio. Io protestai che me ne stavo in disparte perché la vedevo occupata di suo marito e non volevo essere indiscreto. Mrs. Yves arrossì molto, rispose che lo sapeva e che aveva scherzato; soggiunse di volermi domandare qualche cosa sui miei libri e anche su altri libri italiani. Ci accordammo di trovarci alle cinque sotto gl'ippocastani.

VI.

Avevo la febbre dell'impazienza; alle quattro e mezzo fui al posto del convegno. Sapevo che Mrs. Yves sarebbe venuta sola perchè il marito aveva passato una cattiva notte ed era rimasto a letto. Venne infatti sola, qualche eterno minuto dopo le cinque. Aveva un elegante costume celeste, con pizzi neri al collo o al seno, collana e pendenti di monetine romane d'oro. Il collo non m'era parso mai tanto puro di forma e di candore, il viso tanto delicato. Teneva in mano il volume di Leopardi. Credetti doverle chieder subito di suo marito. Arrossì ancora e mi rispose tanto sotto voce che non l'intesi.

Voleva sapere se la Luisa della mia novella fosse una persona reale. Le risposi che non era, ma che aveva molte linee e colori di persone vere. Non capiva questo metodo; le pareva che dovesse necessariamente uscirne una creazione senza individualità, vaga e falsa nell'insieme. Si acquietò alla mia ragione che anche in natura è così, che ciascuno di noi somiglia per qualche linea o per qualche colore ad alquanti altri; e che il fonder bene queste linee e questi colori è appunto il più delicato e difficile lavoro dell'artista. Bisogna con le note comuni comporre un accordo che abbia varie dissonanze e un suono suo proprio.

—È vero—diss'ella.—Non ci avevo pensato. Ma crede Lei che si possa veramente trovare una Luisa? Che ci sia qualcuno davvero incapace d'amare due volte in qualunque circostanza?

—Sì signora.

—Io no. Ho cento volte meno fede di Lei nell'ideale, io.

La sua voce era così sommessa! Pensai sentirvi un'amarezza tanto profonda che ne rimasi muto, accorato. Ma ruppi subito il silenzio, affrontai per istinto l'argomento dove sentivo un'ombra e un pericolo. Dissi che vi è, sì, una sublime poesia nella creatura mite, umile, di fantasia scarsa e di cuore profondo, che ama una volta sola; ma che vi hanno pur nature nobili, tanto impetuose di cuore che facilmente si feriscono nel loro slancio, perdono, per così dire, i sensi dell'amore e della fede, giacciono come morte, come aquile stordite dal fulmine; ma poi si muovono, si alzano, si slanciano ancora. Sono nature ricche di energia vitale, forti di volontà, alate di fantasia, che amerebbero una volta sola se s'incontrassero; nature attive e potenti che amano come il cielo ama la terra nelle tempeste di primavera, sciogliendo in un'altra anima ogni intimo gelo, traendone tutto ch'è vita, ch'è verde e fiore.

Mrs. Yves mi guardò senza rispondere. Non sono io un morto che parla, non posso dire il vero senza rispetti umani? Bevvi nel suo lungo sguardo un'ammirazione inebbriante. Solo per questo rispetto della vanità fui sempre, amica mia, poeta vero; prima di amare come amo adesso dubitavo del paradiso, non sapendo come vi si potesse avere ammirazione o esser felici senza di essa. Mi parve che il lungo sguardo dicesse pure: è proprio così? Lo ha provato Lei? La signora non proferì parola e aperse il volume di Leopardi.

—Volevo anche domandarle qualche cosa di Leopardi—disse, sfogliandolo.—Amo tanto Leopardi, io. E lei, ama più Leopardi o Manzoni?

—Leopardi.

—Oh, anche Lei. Come ne sono contenta! Non è vero ch'è più grande?

—No, è assai meno grande, ma lo amo di più.

—Oh,—diss'ella chiudendo il libro,—non capisco questo. Mi spieghi.

Le spiegai il mio sentimento.

—Scusi—mi disse poi senza pronunciarsi.—Lei che parlava di nature nobili, vuol dirmi cosa pensa di questi versi?

Cercò nel volume la Ginestra, e mi fece leggere i versi che incominciano:

Nobil natura è quella Ch'a sollevar s'ardisce Gli occhi immortali incontra Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al ver detraendo, Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale…

—Penso—risposi—che abbraccerei Leopardi e piangerei con lui, e gli direi: che poeta sei e che cieco! Questa nobil natura che si contrappone così grande e forte alla madre maligna degli uomini, chi te l'ha infusa? La stessa madre maligna? No. Te la sei creata tu? No, no. Ma bisogna dunque che tu abbia un padre benigno; e questo fonte di bene, chi è? Sai perché ti ha fatto un tal dono! Sai cosa ti domanda, cosa ti prepara? Tutta la tua nera filosofia cade.

—Come dev'esser felice, Lei,—disse Mrs. Yves—di pensare così. Io non posso. Io non credo che sia un bene neppur la natura nobile. E poi non credo nella stabilità di alcun sentimento umano. Mi hanno detto di Leopardi ch'ebbe anche lui paura di morire.

Le osservai, un po' tristemente, che non sapevo come le potessero piacere, con queste idee, i miei versi.

—Oh sì—diss'ella.—Tanto mi piacciono. Amo di poter sognare che ha ragione Lei, che vi sono veramente degli esseri, dei sentimenti come quelli che immagina Lei. Vorrei almeno essere sicura che Lei ci crede. E vorrei anche persuadermi che gli uomini non sono tanto piccini, miseri, come mi paiono, e che questa vita vale qualche cosa, vale la pena di essere continuata, in questo o in un altro mondo.

Io pendevo dalle sue labbra, avido di penetrare il segreto del suo cuore. Credetti d'intravvedere un passato d'impetuoso amore e di dolor mortale, un presente di ghiaccio e di silenzio, ma con i primi manifesti segni della seconda vita. Quand'ebbe finito di parlare la guardai muto, non come un amante, bensì come un medico indagatore e dubbioso. Arrossì lievemente e mi disse:

—Cosa pensa di me?

—Ch'è ammalata e che non deve leggere Leopardi.

Sorrise e rispose:

—Lei sarebbe un medico severo. Vede che non leggo mica solamente Leopardi; leggo anche libri di buona fama e timorati come i Suoi.

Replicai che importava poco pigliasse il veleno col vino o col brodo o col caffè. Le parlai quindi del mio culto appassionato d'una volta per Leopardi, delle mie malinconie morbose d'allora, del sepolcro che m'ero scelto. La signora mi ascoltava con attenzione intensa; ebbi l'idea che mi studiasse, com'io poco prima avevo studiato lei. Volle guardar la mia rupe col cannocchiale che io le disposi. Nel porre l'occhio alla lente perdette la buona direzione; la cercammo insieme, le nostre mani si sfiorarono, Mrs. Yves non ritirò subito la sua; me ne corse in tutta la persona un brivido delizioso.

—Io non potrei salire sul Suo sepolcro—diss'ella sorridendo.

Fui sul punto di domandarle se, quando fossi morto, vorrebbe portarmi un fiore. Ero troppo agitato; non lo seppi dire. Mrs. Yves mi domandò se mi piacerebbe ancora di esser sepolto lassù, risposi che in quel momento non lo sapevo io stesso. Aspettavo che mi chiedesse spiegazione di quanto le avevo detto sulla sua voce, ma questa domanda non veniva mai. Mi chiese invece se avessi composto dei versi sullo scoglio del sepolcro e, udito che no, se ne mostrò sorpresa; mi disse che dovevo comporne. Glielo promisi sull'atto. Nè l'uno nè l'altro lo disse, ma intendemmo bene ambedue che dovevano essere per lei. Solo dopo qualche momento di silenzio ella susurrò:

—Amerei avere una memoria di questi luoghi.

Una subita angoscia mi strinse il cuore. Domandai a Mrs. Yves se intendesse partire presto.

—Sì,—mi rispose con un soave accento dolente,—credo che partiremo appena sarà possibile. Non siamo contenti dell'aria.

La commozione mi tolse di parlare. Non m'era mai venuta questa idea tanto ovvia, che gli Yves potevano partire; mi pareva che tutto dovesse continuar sempre così.

Credetti che si avvedesse dell'effetto delle sue parole e che cercasse mitigarlo chiedendomi finalmente, in tono sommesso, dove avessi udita la sua voce. Questa domanda così semplice mi recò infatti, in quel momento, dolcezza infinita.

—In sogno—risposi.

Ella impallidì e non disse parola. Riaperse Leopardi, ma non credo che leggesse. Ci fu un lungo silenzio.

Ripresi palpitando:

—Ho sognato la sua voce due volte; la prima molti anni sono, la seconda son pochi mesi. Stavo tanto male in quei sogni, ero tanto misero, e la Sua voce era la vita e la speranza. Mi sono trovato male, molto male, per colpa mia, anche fuori dei sogni, e ho sempre avuto una fede così grande che incontrerei la voce viva, la persona vera!

Alcune signore venivano alla nostra volta. Dovetti accostare il mio viso a quello di Mrs. Yves, finger di leggere nel suo libro per udir il susurro della sua risposta.

—Non ne ho neanche per me. Nè vita nè speranza.

Le altre signore sedettero presso a noi. Era impossibile di parlare ancora; forse eravamo anche troppo agitati ambedue per poter parlare. Le mani di lei tremavano, il seno e le spalle salivano e scendevano.

Ed io? Non so che aspetto avessi; avevo certo un tumulto nel cuore e una nebbia sugli occhi.

Vennero ad avvertire Mrs. Yves che il signore desiderava vederla prima del pranzo. Attese un poco e poi si alzò. L'accompagnai in silenzio sino all'entrata dell'albergo.

—Le vorrei dire una cosa,—mi susurrò prima di lasciarmi,—ma non credo che avrò il coraggio.

—Perchè?—esclamai, ansioso.

Non mi disse questo perchè; mi salutò con una grazia squisita e gli occhi suoi salirono un momento alla mia fronte. Parecchie altre volte, in quei tre giorni, ella mi aveva guardata la fronte. Perchè? Ciò mi piaceva e mi turbava insieme; era come se preferisse me a me stesso. È possibile questo? Non lo so; sentivo così.

VII.

Appena suonato il pranzo mi vi recai, quantunque non fossi in grado di prender cibo. Ella non venne che tardi, verso la fine. Scambiò qualche parola con Mrs. B., la signora dal profumo di rose, e a un tratto mi guardò arrossendo come se avessi potuto intendere qualche loro parola; ma io approfittavo dell'insolito dialogo per poterla contemplare liberamente, ed ero tanto assorto nel suo viso, nella sua mano elegante, nella musica della sua voce, che non prestavo attenzione al senso delle sue parole. Mi guardò qualche volta ancora, ma forse meno del giorno prima. Appena finito il pranzo scomparve e ridiscese mezz'ora dopo. L'amica sua le propose un breve passeggio. Ci aveva forse veduti conversare insieme prima di pranzo; nel passarmi accanto mi disse amabilmente: viene? Mrs. Yves non ebbe un cenno, nè una parola; pure accettai subito e si prese insieme il pittoresco sentiero che conduce a Lanzo fra i castagneti. Mrs. B. parlava molto, ma solamente in inglese; a me il parlar l'inglese riesciva difficile e difficilissimo l'intenderlo. La signora sorrideva, mi correggeva amabilmente. La Yves taceva quasi sempre, nè io sapevo rivolgerle la parola; e vi era nel nostro silenzio un'occulta complicità che mi pareva più dolce di un dialogo indifferente. Ella diede presto segni di stanchezza; ci sedemmo sull'erba, a pie' di un castagno.

Sotto il giro delle oscure selve che vestono il monte, ridevano i prati e i frumenti d'oro sull'altipiano aperto fino alla opposta cerchia di dorsi accavalcati, sfumanti nei chiarori della sera via via sino al profondo sereno dell'oriente. La B. parlava e parlava di Firenze, dove aveva passato l'inverno; io non ascoltavo, e neppure Mrs. Yves. Mi pareva che i nostri pensieri fossero tanto uniti, ch'ella sentisse, come me, la molle poesia dell'ora e del paesaggio. Adesso gli occhi nostri s'incontravano più spesso, e i miei dicevano certo: «mi ama?» e i suoi rispondevano «sì.» Nel ritorno le diedi il braccio; la nostra compagna ci precedeva di alcuni passi. Andavo adagio; era così delizioso il tocco, il profumo, il tepore della cara persona! La pregai con passione di dirmi quello che prima non aveva osato. Violet mi raccontò poi che in quel momento i miei occhi scintillarono.

—Non posso—diss'ella.—Non oso ancora. Credo che non oserò mai. Forse potrei scrivere.

—Devo aver paura—dissi—di questo segreto? Mi toglierà la speranza? Mi toglierà la vita?

Il suo braccio trasalì, la sua mano si muoveva convulsa, come in una corrente d'elettrico.

—Lei non deve perder niente per me—rispose Violet con voce tremante.—Io spero che troverà un'altra più libera e più degna. Temo di aver avuto colpa io se Lei sente e dice queste cose, ma era una colpa molto dolce e poi ci dobbiamo lasciar così presto e per sempre. Lei mi racconta che ha sognato e a me pare di vivere in un sogno, di essere e di non essere la stessa persona di prima. Sa, come in sogno.

Il nostro sentiero toccava la stalla degli asinelli che si noleggiano di solito agli ospiti dell'Hôtel Belvedere. Mrs. B. s'era fermata a discorrere col padrone. Noi passammo avanti.

—Adesso—riprese Violet quando ci fummo dilungati abbastanza—comprendo che devo scrivere questa cosa. Non è un segreto, ma è una cosa ch'Ella non sa e che deve sapere. Il suo libro Luisa m'ha fatto una impressione profonda, più che non le ho detto finora, e la Sua simpatia mi è tanto cara; mi sarebbe molto dolore non solo s'Ella mi dimenticasse ma anche se pensasse di me come non bisogna! Io parto presto e non ci sarà mai più occasione di spiegare le cose.

Un gelo mortale mi prese, ebbi appena la forza di rispondere che mai mai la dimenticherei e che ora desideravo di essere sepolto sullo scoglio; quanto più presto, tanto meglio.

La sua mano convulsa mi afferrò il braccio.

—No—diss'ella.—Non voglio! Non voglio!

A questo punto sopraggiunse la B. e non ci lasciò più fino all'albergo. Mrs. Yves salì subito alle sue stanze e io corsi a chiudermi nella mia. Un momento mi disperavo, un momento la gioia d'essere amato divampava in me. No, aveva detto Violet, non voglio! Afferrai la penna e scrissi:

Ah no, se tu m'ami, vorrei Posar nel più fondo vallon. Nè pietra nè croce vi avrei, Tu sola, sapresti ove son;

Nè il secol maligno che accora Direbbeti oltraggio per me. Direbbe: la fredda signora Ondina ne l'Alpe si fè.

In riva d'ombroso torrente Fa con l'acque pure a l'amor; Sul musco si posa languente, Ai deserti dona il suo cor.

Diletta, sarei nei vivaci Gorgoglii de l'onda che va Con un suon sommesso di baci Che sosta in eterno non ha.

Diletta, nel musco sarei Che gode il tuo corpo legger; Al picciolo orecchio direi Il mio dolce, folle piacer.

Sarei ne l'odor de' ciclami Che ti bea, nel limpido sol Che fende gli avversi fogliami Sul meriggio e caldo ti vuol.

Nel cielo che l'occhio tuo mira Cercando la spume e la fè, Nel vento che gira e sospira. Diletta, in passar presso a te.

Quand'ebbi scritti questi versi li ripetei cento volte, stando alla finestra, guardando il mio scoglio illuminato dalla luna. Mi proposi di offrirli all'indomani mattina. Avrei pur voluto che le arrivassero subito! E immaginavo febbrilmente che ne fosse commossa, che cedesse all'amore. Dov'era allora la memoria del mio sogno, dell'abisso tenebroso, della salutare potenza che ne traeva? Non me ne ricordavo più, non pensavo ad ostacoli conosciuti o misteriosi, legittimi o illegittimi, non avevo in mente che il suo viso delicato, la snella persona, la voce, la mano che aveva lasciato un profumo al mio braccio, lo spirito intelligente e triste, tutto profondità ignote, piene di passione occulta. Era un altro abisso verso cui tendevo il cuore e le braccia, un abisso peggiore del primo, perchè un amore così, se corrisposto, non avrebbe sofferto confini. La mano di Dio era già sopra di me, mi portava sulla via diritta; io non lo sapevo, camminavo nell'ombra, pieno di errore, affinchè un giorno dessi gloria della mia salute a Lui solo.

L'indomani mattina discesi per tempo, e fui bene sorpreso di trovare nella sala di lettura Mrs. Yves che stava scrivendo. Mi stese la mano; i miei occhi la interrogarono sul suo scrivere.

—Sì—diss'ella con voce fioca. Sorrideva, ma era pallida pallida.

Le posai accanto i miei versi in una busta chiusa, dicendo:—La poesia.

Sulle prime non capì, parve non ricordare; poi fece—Oh!—gli occhi le brillarono e aperse subito la busta. Lesse e rilesse. Ogni tanto gli occhi soavi si alzavano a me, si fermavano nei miei con una espressione indicibile. Finalmente ripose i versi e si abbandonò, guardandomi, sulla spalliera della poltrona.

Non avevo mai veduto uno sguardo simile, uno sguardo tanto intenso, vitreo, gelido, appassionato. Amore, dolore, terrore; quello sguardo disse tutto con una lunga fissità paurosa. Poi lo vidi improvvisamente offuscarsi. Finalmente Mrs. Yves mi disse «grazie» e tornò a scrivere. Siccome restavo ancora in piedi davanti a lei, alzò un poco la testa e mi fece un lieve sorriso. Intesi, mi ritirai nella sala vicina e aspettai.

Credo avere aspettato mezz'ora. Udii Violet alzarsi, e tornai da lei per conoscere il mio destino. Ella si teneva una mano sugli occhi e aveva lo scritto nell'altra. Me lo porse e disse piano in inglese, quasi singhiozzando:

Forgive me! Be kind to me! —Mi perdoni! Sia buono per me!

Poi uscì senza ch'io ardissi trattenerla.

Aveva scritto così:

«Non sono Mrs. Yves come Lei crede. Non ho marito; il signore che mi accompagna è mio zio, Questo non è un segreto. Qualcuno qui si è immaginato, senza una ragione al mondo quando non fosse per il mio anello, che siamo marito e moglie; e noi abbiamo lasciato dire. Ma io non posso invece lasciar Lei pensare di me secondo tale inganno; credo che vi sarebbe forse del male da parte Sua e quindi anche da parte mia. Tuttavia, il dire a Lei una cosa tanto semplice mi è ben doloroso e difficile.

«Ci siamo incontrati da pochi giorni per la prima volta, ma la conoscenza che abbiamo l'uno dell'altra è molto più antica. Ella mi ha parlato di un sogno. Anch'io ho conosciuto Lei in una specie di sogno, l'anno scorso, a Roma, quando lessi Luisa. Il mio spirito, ch'è molto più tranquillo e positivo del Suo, ha paura di vaneggiare un poco se pensa alle circostanze di quella lettura. Ero già da qualche anno come senza cuore, voglio dire come se il mio cuore fosse gelato e non sentisse più di avere freddo. La primavera dell'anno scorso riebbi qualche sensibilità, qualche ora di tristezza dolce.

«Un giorno, precisamente il 24 aprile, andai verso il tramonto al cimitero protestante di Porta S. Paolo, che non conoscevo ancora. Lo camelie e le azalee erano in fiore e le vecchie mura con l'erbe selvatiche, con le rose gialle, con i gruppi di cipressi erano così belle all'ultimo sole! Presso alla pietra di Percy Bysshe Shelley trovai nell'erba un libretto col titolo: Luisa. Forse l'avevano smarrito alcuni signori usciti quando entravo io. L'apersi, e gli occhi, mi caddero sul passo dove si accenna alla leggenda del Diletto, che mi duole ancora di non conoscer bene, di non sapere a qual popolo appartenga. Mi fece, forse anche per il luogo e l'ora, una impressione tale, mi sentii così improvvisamente rivivere il cuore che n'ebbi sgomento e affanno. Non volevo! Deposi tosto il libro dove l'avevo trovato. Il custode me lo recò quando uscivo, pensando che l'avessi smarrito io, e durai fatica a persuaderlo del contrario. Tre giorni dopo, un'amica, cui avevo chiesto qualche cosa d'italiano moderno, mi recò Luisa. Mi pareva esserne perseguitata, avrei voluto rifiutare, dissi che non desideravo versi; la mia amica insistette e ho ceduto.

«Lessi Luisa in una notte. Fu come un sogno di quelli che fanno piangere. Non mi pareva possibile che l'autore non fosse una donna, ma non volevo dare importanza a ciò, benchè forse non vi fossi indifferente; mi studiavo invece di penetrare se credesse o no alle sue idealità. Volli persuadermi che non credesse e che il poeta fosse falso come la storia. Tuttavia non potei dimenticare il libro, nè soffocare il desiderio dl conoscere chi l'avea scritto.

«Il mio desiderio si è compiuto qui. Ella mi ha espresso ben prontamente una simpatia che mi ha sorpreso. Le confesso che sulle prime mi ha fatto dispiacere, perchè mi pareva una specie di cortesia francese, affatto non sincera; non credevo possibile altro! Mi è parsa questa, per un momento, come una pena di non avere ascoltata la mia ragione, di non essermi tenuta più lontana dall'autore di Luisa, di avergli domandato se credesse nell'opera sua, ammettendo così che una tal fede fosse possibile. Sono ancora molto profondamente e molto tristemente scettica sulla natura umana, ma non voglio adesso pensare che la Sua simpatia non sia in questo momento sincera. Se mi è doloroso e difficile il dirle che mi chiamo semplicemente miss Yves, è perchè forse una tale parola da parte mia Le farà pensare cose che non sono possibili.

«Sono fidanzata e il mio destino è di vivere in una piccola città lontana di là dalle Alpi, con una persona che conosco e stimo abbastanza per aver consentito a questa unione; nella quale del resto non cerco felicità nè credo poterne offrire.

«Lei mi ha testè portata la Sua poesia. Sono commossa, molto commossa; ha potuto vederlo! Chiedo a Dio perchè non ci abbia fatti incontrare molti anni prima, quando forse potevamo essere felici. Sono tuttavia contenta, in certo malinconico modo, anche di un incontro così tardo e breve. Benchè io non creda alla stabilità degli affetti umani, credo tuttavia che la memoria possa indefinitamente conservare alcun profumo di sentimenti troncati e che non hanno più vita. Ella troverà freddo e duro questo parlare, ma io l'ho appreso ad una scuola molto più fredda, molto più dura, molto più amara che non so, o voglio dire. Per ora il nostro desiderio di conoscerci non ci frutterà che dolore; il solito frutto del desiderio! Ma il tempo vi rimedierà, per Lei e per me; il tempo ci lascierà appena, al posto della ferita, una lieve sensazione, intermittente secondo i venti e la pioggia. Ella non avrà il vano conforto ch'io venga a piangere sul Suo sepolcro. Ella vivrà, come ardentemente io spero, assai più a lungo di me che sono tanto inutile, e farà conoscere, per la consolazione di molti e anche, lo so, per il salutare esempio, tutto quel bene che crede essere nel cuore umano. Se anche ne venga solo qualche minima opera buona, qualche fuggitivo pensiero generoso, chi non ha la Sua fede dovrà confessare che la illusione, nebbia com'è, può talvolta condensarsi in una stilla, cadere sopra un filo d'erba, dare un ristoro.

«Ella aspetta ch'io finisca e devo pure affrettarmi perchè è tempo di tornare da mio zio. Il Suo sentimento mi onora e mi commove tanto ch'io devo essere interamente sincera con Lei.

«Mi sono fidanzata liberamente ad un uomo che stimo, ma vi hanno difficoltà più grandi di questa perchè io consenta al mio cuore di amare uno straniero. Passate vicende mi tolgono di esser felice per questa vita, come di render felice altrui. Perchè non lo direi? Ella sa indovinare tanto! Ho amato ancora, ho amato troppo. A venticinque anni è come se ne avessi cinquanta; debbo considerare ogni nuovo movimento del mio cuore come una debolezza spregevole, una follia.

«Addio. Ho considerato un momento se potevo soggiungere «amico mio» se potevo corrispondere almeno con questa innocente parola allo slancio della Sua fantasia. Ho giudicato contro la parola innocente, mi son detta ch'è più prudente accontentarsi di quanto abbiamo avuto, un'ora di contatto spirituale e di simpatia. Una relazione d'amicizia, una corrispondenza potrebbe forse nel futuro non esser buona, renderci più penoso il nostro stato. Noi conserveremo così più intatto e poetico il ricordo di quest'ora.

«Io parto posdomani e forse anche domani, se sarà possibile. Addio ancora. Mi perdoni e non cerchi, La supplico, rendermi difficile ciò che la mia ragione e la mia volontà riconoscono necessario. La ringrazio dei versi, che non mi lascieranno più. Dio La benedica in tutto che opera, in tutto che ama.

«VIOLET YVES.»

VIII.

Le sue parole «forgive me! Be kind to me!» mi avevano messo in cuore un gelo di spavento. Alle prime righe avevo esultato, e poi letto rapidamente, divorato ogni frase amara con avidità, volendo conoscere il peggio. Quand'ebbi finito mi turbinava dentro una passione tale, una tal febbre di prepotente vita che mi pareva troppa per il mio petto angusto. Era libera, mi amava, mi aveva sognato anche lei. L'unica volta in vita mia mi scoppiarono dal cuore dei versi belli e fatti, il primo dei quali pare insensato e l'ultimo ha un'elissi spaventosa; ma non si cambiano!

Ecco, superbo ascende il fior de l'agave, Arde nel cielo splendido il mio sol; Ebbra di fuoco, ebbra di luce l'anima Spande l'ali e in tempesta agita il vol

Se lunghe, amare furono le tenebre, Degna è quest'ora tutto di soffrir.. . . . . . . . . . . . . .

No, cuore mio, sta tranquillo, non si cambiano; il tuo primo getto della gioia infinita, eterna, non si tocca più.

Era fidanzata, aveva perduta la fede nell'amore, negli uomini, in sè stessa, forse. Tali difficoltà mi accendevano e non mi atterrivano. Ah questo sì era uno spasimo, che avesse amato tanto, che non si potesse assalire il passato!

Stetti sepolto, non so per quanto tempo, nella poltrona dove si era seduta miss Yves; poi l'aspettai andando da una sala all'altra, vagando intorno all'albergo. Non so cosa si sarà detto di me, poichè mi sorprendevo io stesso a guardar fiso la gente, a parlar da solo. Passavano ore ed ore, miss Yves non veniva mai. Avrei voluto scriverle, ma tremavo che intanto scendesse, che mi sfuggisse. Verso l'ora del pranzo mi risolsi a preparar due righe nella sala di lettura.

Scrissi:

«Non voglio morire, no, se mi ama; se è libera non voglio il sepolcro sulla montagna, nè il sepolcro nella valle, voglio te che sei la speranza e la fede, la vita e la luce. Voglio portarti sul mio petto, forte con te, forte per te, attraverso le cose e gli uomini, amici o nemici, fino all'altra sponda, fino a Dio. Non mi parli di sponsali, non mi parli di vicende che furono, io l'amerò tanto che Lei crederà nell'Ideale come io vi credo, e noi saremo uniti quanto i due nella leggenda sublime del Diletto, Essa è islamita, suona così:

«Un'anima pellegrina giunge dalla terra alla dimora del Diletto, batte alla porta. Una voce dall'interno chiede: chi sei? L'anima gli risponde: son io.—Non vi ha posto—suona la voce—non vi ha qui posto per te e per me.—La porta rimane chiusa.

«Allora l'anima ridiscende sulla terra, passa un anno nel deserto a pregare, piangere e far penitenza. Poi risale alla porta, vi batte ancora. Ecco la voce che dice: chi sei? Ella risponde tremando IO SONO TU. La porta si apre.

Che dolcezza immensa! Io sono tu. Possa Ella sentire più fortemente qui una tale parola scritta da me palpitando, che non l'abbia sentita presso al cuore silenzioso di Shelley e le rose funebri dove Dio gliela fece trovare la prima volta! Ho la ferma fede che le nostre labbra se la potranno dire un giorno. Lei non sa la mia storia, Lei non sa il mio sogno, Lei non sa il destino, non il destino, l'Amore infinito che ha pietà di noi due; e dice che parte, che non vuole amicizia nè corrispondenza alcuna con me! Oh come non sa, come non intende e qual errore di dire che ha amato troppo! Dovunque lei vada io pure andrò; Ella non ha amato abbastanza.»

Il Leopardi di miss Yves era in sala di lettura. Vi misi dentro la mia lettera. Il libro aveva un leggero profumo, il profumo delle sue mani, della sua persona, mi metteva le vertigini.

Ella discese qualche minuto dopo suonato il pranzo, in una elegante toelette nera, con lunghi pendenti di turchesi che le stavano assai bene fra i crespi capelli biondi e il collo bianco, delicato. Era con Mrs. B., ma forse non avrei avuto un altro momento opportuno; le porsi il libro. Appunto perchè il momento non era opportuno, m'intese. La vidi esitare un attimo.

—Non lo posso portare a pranzo—diss'ella con un lieve sorriso.

—No—risposi—ma credo v'abbia dimenticato qualche cosa di Suo.—Violet esitò ancora, poi prese il libro e ne tolse la lettera.

—Andiamo—disse l'altra.

Durante il pranzo gli occhi di miss Yves non si volsero a me che una volta. Ella si alzò da tavola prima della frutta e scomparve. Era impazienza di leggere la mia lettera? O proposito di evitarmi? La seguii col pensiero. Stava leggendo, aveva letto, combatteva con le ombre del suo cuore. Penoso momento! Vinceva lei? Vincevano i fantasmi nemici? Era duro di non saper nulla, di non poter aver un segno. Però aveva presa la lettera. Mi dissi che avevo torto di dubitare e di temere, che Dio non mi avrebbe deriso, non mi avrebbe mandati quei sogni e lei per togliermi poi tutto così.

Seduto in faccia allo scoglio sovrano, condussi mentalmente a fine la poesia sgorgatami dal cuore alla mattina:

Se lunghe, amare furono le tenebre, Degna è quest'ora tutto di soffrir; Di rifiorente giovinezza irrompermi Sento nel petto gl'impeti e gli ardir.

Sublime Iddio che mi darai la morte, Ed or mi doni un più potente amor, Sia benedetta la mia dolce sorte! Qual onda al cielo, a te si slancia il cor.

Sentivo che avrei amato, felice o no, sino alla morte, ed anche in questa consapevolezza era un'acuta felicità. Il pensiero della morte mi brilla sempre davanti ne' miei più forti ardori di spirito, però in forma diversa; nelle commozioni che mi ha dato il sentimento intenso della natura, specialmente se misto ad occulte amarezze, ho sospirato di sciogliermi nelle cose; nelle commozioni dell'amore ho desiderato un mondo più alto, il mondo della luce e della vita che mi sentivo in cuore, tanto diverse da ogni luce e vita terrena, tanto superiori.

Quella sera miss Yves non discese più.

IX.

All'alba dell'indomani udii due carrozze fermarsi davanti all'albergo. Mi balenò un sospetto, balzai alla finestra. Vidi una carrozzella e una carrettina; presso quest'ultima una catasta di bagagli che i facchini stavano già caricando.

Quand'ebbero finito, un signore ed una signora uscirono dall'albergo, seguiti dall'albergatore e dai camerieri. Riconobbi subito miss Yves.

Rimasi alla finestra, istupidito, guardando come se fosse una partenza ordinaria, del tutto indifferente a me. Non credo però che avrei potuto muovermi, nè parlare. Miss Yves fece salire in carrozza suo zio, l'avviluppò bene in iscialli e mantelli, poi scomparve un momento fra gli ippocastani. Tornando alla carrozza, alzò il viso verso la mia finestra; quindi salì accanto a suo zio. Tutti salutarono e la carrozzella partì.

Dicono che sia piacevole di ricordarsi, nel tempo felice, della miseria; nelle ore più felici mi ha sempre fatto male di ripensare a quella. Il pensiero vi corre ancora, qualche volta; subito un fremito mi prende al petto, mi sento un piombo sul cuore e dico a me stesso: «No, no!» Non è la sola voce mia che dice così nel mio interno; non l'ascolterei, forse; è pure la voce della Diletta. Mi pare che la dolcissima voce abbia lagrime. Cara, io so quanto ti affanni il ricordo di tutto ciò che soffersi, amando te, per la tua resistenza, e ascolterò anche adesso il tuo «no, no» come quando me lo dicevi stringendoti a me in un abbraccio angoscioso; non descriverò quei momenti.

Ell'aveva lasciato una lettera per me. Se, smarrito nelle ombre della notte più nera, vedessi balzar su dall'orizzonte il sole, non mi farebbe un effetto diverso da quello che mi fecero i noti caratteri. Devo anche dire come mi batteva il cuore e che le mie mani tremanti non riuscivano ad aprir la busta?

Violet scriveva:

«Lei non mi ha ascoltata, ha voluto farmi soffrire molto. Ora vede ch'è stato inutile; ora tocca a me di far soffrire Lei, benchè Iddio sa che non vorrei far soffrire mai alcuna creatura vivente, è in ciò non mi piace distinguere chi mi vuol male da chi mi vuol bene. Quando leggerà queste righe sarò lontana.

«Se mi ama non mi segua. Perderebbe la mia simpatia e la mia stima. Ah, non so come esprimere questa mia intensa volontà! Posso immaginarmi che siamo ancora insieme e Le domando la Sua parola. Se io la domando con affetto nella voce e con lagrime negli occhi, vorrà Lei negarmela? No, sento di stringere la Sua mano mentre Lei risponde: sì, prometto.

«Non so la Sua storia, dice Lei, il Suo sogno, il destino! Ah ma e Lei, dunque? Sa Lei la storia mia, il destino mio? Dice che mi farebbe credere all'Ideale. Io vi credo già, ma esso non esiste su questa terra, esso è altrove, è un errore terribile di cercarlo qui. Ella si figura ch'io sia l'ideale Suo e che sarebbe felice con me. Io sono talmente convinta che s'inganna! Ha sognato, sì, lo credo, e sogna ancora. Mi ha Ella solamente veduta bene? So che ciò non potrebbe adesso raffreddare il Suo sentimento, ma dica: ha Ella solamente veduta la mia infermità? Lei è poeta, mi risponde di sì, e che anzi mi vuol più bene per questo. Ma sarebbe sempre così? Non è mica per la infermità, del resto, o almeno non è principalmente per essa che combatto il mio cuore.

«È poeta. Altrimenti, come avrebbe potuto amarmi in così breve tempo? Io La conosco da tanto più. Forse la mia voce per Lei (oso dire così!), forse la Sua poesia per me sono come una musica che fa provare vera gioia o vera tristezza ma senza soggetto, e quando tace, tacciono anche questi sentimenti vani.

«La sublime leggenda del Diletto non è per noi. Si consoli se questo può consolarla! Non è per alcun'altra coppia umana, se non in qualche fugace momento che dopo si espia, il Diletto, l'Essere a cui si dice «io sono tu» è nella casa misteriosa, non si vede, non si è veduto mai. Solo in un freddo amaro senso gli uomini posson dirsi l'un l'altro «io sono tu.» Significa: ecco, sono debole, ignoro, amo, erro e soffro come te.

«Mi chiesi e mi consentii di lasciarle in ricordo il Leopardi. Lo troverà nella sala di lettura. Il mio ricordo di questi giorni sarà, oltre a' Suoi versi, di non avere e di non leggere più quel libro come Lei ha desiderato. Veramente io ho una grande simpatia con la tristezza di Leopardi, perchè ha lo stesso colore della mia, non perchè abbia la stessa sostanza. Sono più credente di lui in quello ch'è fuori del nostro mondo e meno credente di lui in ciò ch'è umano, in me stessa.

«Scriva, combatta per quanto Le pare buono e vero. La voce a Lei cara non sarà con quelle della fama, con le dolcezze terrene che bisogna deporre, pregando e digiunando, nel deserto, prima di battere all'uscio arcano. Vorrei ch'Ella potesse trovare la mia voce dentro la casa del Diletto.

«VIOLET YVES.»

Passai tutto quel giorno sulle alture del Pian d'Orano ascoltando il vento, come uno stupido, e guardando le nuvole. Non pranzai a table d'hôte perchè, malgrado me stesso, gli occhi mi si empivano di lagrime ogni momento. Risolsi di procacciarmi nell'albergo ogni notizia possibile di miss Yves e poi di partire. Non per seguirla! Sentivo che non lo potevo, che non lo dovevo.

Alla sera, affacciandomi alla porta dove avevo udita la prima volta la sua voce, sentii il noto profumo di rose. Dovetti ritrarmi, con tanto impeto venivano i ricordi di quel momento felice e dell'ultima passeggiata. Mrs. B. s'avvide di me e mi domandò colla sua vocina petulante perchè fuggissi.

Mi parlò di Violet. Lì faceva scuro, per fortuna; ella non poteva vedermi in viso. Mi fece grandi elogi di miss Yves che chiamava sua amica, e si burlò di me, che l'avevo creduta maritata. L'anello pareva nuziale, ma non era del tutto liscio. Ella era solamente fidanzata e non pareva affatto innamorata del suo fidanzato; suo padre era inglese, sua madre italiana; ella stessa era nata in Italia. Aveva perduti i genitori nell'infanzia e ora viveva con tre zii paterni, stabiliti in Baviera, a Norimberga, per ragioni di commercio.

Questo era il capo della famiglia e viaggiava per salute. Avrebbero passato il resto dell'estate e l'autunno sui laghi, l'inverno a Roma o a Napoli, il matrimonio non potendo aver luogo, per certe ragioni ignorate da Mrs. B., prima di un anno. Una visita del fidanzato era attesa per la metà di agosto. La leggera imperfezione fisica di lei l'aveva colpita nella fanciullezza, in seguito ad una febbre violenta. Più di così la B. non mi seppe dire; nè come si chiamasse il fidanzato, nè se miss Yves avesse altre affezioni. Era però già molto per me di sapere dove abitava, benchè l'appellativo di «piccola città» non mi paresse convenire a Norimberga; ed era molto, sopratutto, di sapere che sarebbe rimasta libera per un anno ancora.

La sera stessa scrissi a quella tale signora che le sue raccomandazioni erano savie e giuste; che le chiedevo perdono di averle meritate; che per un grande mutamento avvenuto in me avevo preso la risoluzione di non venire a Ginevra; che di questo mutamento io non avevo merito alcuno, ma che confidavo essere per la nostra pace, per il nostro bene comune. Soggiunsi che sarei partito da Lanzo per un viaggio, e che, non sapendo ancor bene dove andrei, non potevo fornirle indirizzo alcuno.

Il mattino dopo mi recai a S. Nazaro per dire addio al prato, all'acqua cadente e alla chiesetta longobarda disegnata da lei; andai pure a salutare il vecchio castagno al cui piede ci eravamo seduti. Finalmente dissi addio al mio scoglio, e partii. Mi ricordo che durante il viaggio tenni sempre il Leopardi tra mano, che una volta, aprendolo, vi lessi:

Perì l'inganno estremo, Or poserai per sempre Stanco, mio cor…

e che allora baciai il libro. Mi pareva quasi che il poeta unisse nella sua desolazione mortale le anime nostre. Però il sottile profumo che diceva dal libro l'alta gentilezza e anche la tristezza di lei, diceva altresì una dolce parola di fiori, incomprensibile ma consolatrice.

X.

L'idea di viaggiare m'era venuta in fatto, ma l'abbandonai subito. Mi ritirai in campagna. Mio fratello e una cognata erano ai bagni, e Lei sa che non abbiamo vicini; mi trovai dunque affatto solo; era il mio desiderio.

La sera stessa del mio arrivo le scrissi, Non sapevo ancor bene, incominciando la lettera, dove l'avrei diretta, e non sapevo neppure se fosse opportuno scrivere così presto. Le stelle e una voce interna mi dicevano «scrivi, scrivi!» Appena prendevo la penna in mano mi assalivano i dubbi, la pesavo ancora. Finalmente le tempeste del sì e del no presero insieme un solo furioso corso. La penna non poteva correr tanto. Raccontai questi miei dubbi, queste paure, la voce delle stelle che vedevano in quei momenti lei e me, la prepotente voce interna. Dissi che avevo potuto compiere il sacrificio di non seguirla, solo per la mia ardente fede che Dio ci avrebbe uniti. Ora lo confesso, la mia fede soffriva spaventose eclissi! Cercai dirle quale cammino avesse fatto l'amore in me dopo la nostra separazione, come avesse oscurato ogni altro sentimento tranne il sentimento della Divinità, col quale si confondeva, perchè lei, Violet, era una parola di Dio, susurratami nell'ombra. Finalmente le dicevo che, come il mio presente e il mio avvenire le appartenevano, pure doveva appartenerle il passato, e che volevo raccontarglielo tutto.

Così feci in più lettere. Scrivevo ogni giorno, e sempre le impressioni del presente erano miste alla storia del passato. Non spedivo lo scritto che una volta per settimana e dirigevo le lettere a Norimberga. Non conoscevo Norimberga, ma avevo degli amici a Monaco e mi venne in mente di pregarli ad informarsi se dimorassero colà tre fratelli Yves, industriali. Seppi così che vi dimoravano veramente e non dubitai che le mie lettere non capitassero, girando per lassù, a miss Yves.

Scrivevo, di solito, a tarda notte. Con quale indicibile desiderio, con quale impeto le aprivo il mio cuore, che voluttà era di dire a lei antiche colpe, antiche miserie di cui prima non avevo quasi osato parlare a me stesso! Ospiti amari della mia coscienza si levavano uno dopo l'altro ed uscivano. Qualcuno vi dormiva in fondo, dimenticato. Si svegliava a un tratto, tocco da questo fuoco nuovo dell'animo, si rizzava, mi batteva. Un lampo di dolore, un impeto di lotta, una vampa vincitrice; era scritto, era fuori di me per sempre. Che ristoro! E dicevo anche il poco bene che mi pareva aver fatto in qualche occasione; lo dicevo colla gioia d'un bambino che dopo aver confessato un grosso fallo si affretta a dire, tutto palpitante, tutto sorridente di speranza, le piccole opere buone che pure ha. Talvolta, finita la lettera, mi correva su dal petto al volto un riso come d'infermo che rapidamente risana, mi si bagnavano gli occhi. Poi giungevo le mani, mi dicevo «crederà, crederà» andavo a guardar le stelle, a ripeter loro «crederà, guarirà con me.»

La mia vita esterna si dice in due parole, ma la mia vita interna è un fortunoso dramma, che mi occupò molte lettere. Miss Yves non mi rispondeva e non la richiedevo nemmeno di rispondermi. Volevo solo preparare un futuro momento, poichè non sapevo dove, non sapevo quando, ma certo un giorno sarei andato a tentar l'ultima prova, a chiederle, con la mia voce, di esser mia.

Quand'ebbi detto tutto della mia vita sino all'incontro con lei, le mie lettere diventarono anche più gradevoli a scrivere. Ella non poteva specchiarsi nelle acque torbide del mio passato; solo ne avevano qualche luce i due sogni! Ma ora l'immagine sua viveva in me, pensava ne' miei pensieri, amava nel mio cuore, ogni giorno più intensamente, tanto che ne stupivo io stesso, dubitavo talvolta di amare una miss Yves ideale, distinta dalla vera, e provavo il bisogno, per sincerarmene, d'immaginar la cara persona, l'amor felice, perdendone quasi il lume degli occhi e il respiro. Oramai parlarle di me era come parlarle di lei stessa.

A mezzo l'autunno mi venne in mente di comporre un romanzo. All'idillio non pensavo più, tra per l'essermi stato suggerito dall'altra signora, tra perchè trovandomi la testa piena di motivi non solamente patetici ma anche comici, il verso m'avrebbe fatto impedimento. Ne scrissi subito a Violet; le scrissi, mano a mano, le prime idee confuse che mi vennero e tutti i pentimenti per cui passarono, le ritrassi le figure vere da cui volevo prendere i miei personaggi. Oggi pensavo un modo di aggruppare e di sciogliere i nodi della azione, domani ne pensavo un altro. Le scrivevo tutto. Sapevo di guastare così l'effetto futuro del libro sopra di lei, ed ero appunto felice di sacrificare una soddisfazione perchè ella sapesse tutto tutto dell'anima mia, i miei tentennamenti, le aridità della fantasia, la parte del caso nelle mie trovate artistiche. Volevo essere amato senza fine, ma l'idea di farmi ammirare da Violet più che non meritassi, mi metteva orrore come un inganno.

Dopo un mese d'incessante lavoro fantastico il mio manchevole ingegno non era ancor giunto a concepire un intero piano di romanzo che mi soddisfacesse. Non ne avevo in mente ben chiari che i primi tre o quattro capitoli. Intesi che ostinandomi a immaginare tutto il romanzo di primo getto, avrei finito con darmi per disperato, e mi buttai addirittura a scrivere, nella fiducia che, piantata bene l'azione, si sarebbe poi svolta, anche più naturalmente, da sè. Trascrivevo regolarmente il mio lavoro per Violet e glielo mandavo ogni settimana. Alla fine del quarto capitolo ebbi un assalto di malinconia nera. Incominciò col dubbio di non saper continuare; il dubbio diventò terrore; poi anche i capitoli scritti mi parevano assurdi, gelidi, pessimi; poi mi figurai di perdere l'ingegno, di non sapere, di non poter più niente. Mi persuasi che se Violet non si era risolta di mandarmi una sola parola, era per questa indegnità dell'opera mia. Le scrissi come soffrivo e caddi al fondo dell'abbattimento. Per due settimane tralasciai ogni corrispondenza.

Il 12 dicembre mi arrivò da Napoli una lettera con l'indirizzo di pugno di miss Yves. Conteneva la vetta d'una foglia di palma e una violetta bianca; nient'altro. Mi sentii mancare di gioia, appena ebbi forza di baciar la lettera, il fiore, l'aria odorosa.

Ebbra di fuoco, ebbra di luce l'anima Spande l'ali e in tempesta agita il vol.

Era ancora così. Tutto era ritornato in un lampo, la fede in me stesso e la potenza. I miei capitoli mi ridiventarono vivi e belli, e quando pensavo al futuro cammino del romanzo, non lo vedevo ancora tutto, no, ma un lampeggiar continuo mi mostrava tante scene, tante fila d'intreccio. Ripresi tosto il lavoro, e so che non ebbi mai una vena altrettanto copiosa. Non parlo della risposta che feci a Violet sull'istante. Bastava veder quei caratteri per intender la furia della mia gioia.

A mezzo dicembre ritornai in città. Che inverno fu quello! Studiavo accanitamente di tutto. Non era la prima volta, per verità, che spaventandomi di larghe, vergognose lacune del mio sapere, non certo sospettate dal mondo, m'infuriavo a studiare. Divorai in pochi mesi la Storia del Papato di Ranke, tutto Alfieri, tutto Mickievicz, non so quanti volumi di poesie popolari italiane, buona parte del Wilhelm Meister di Goethe, i Principles of Sociology di Herbert Spencer e le commedie di Plauto. In pari tempo m'era imposto un canto di Dante, cento versi di Virgilio e cinquanta versi dell'Odissea al giorno. Faticavo immensamente, non trovando ristoro che nelle lettere a Violet, nel romanzo e in Omero. Benchè sapessi pochissimo di greco, Omero mi riposava come un bagno in una grande acqua pura e limpida. Andavo pure in società e facevo delle apparizioni in teatro. Lei ricorderà che non mancavo mai ai Suoi mercoledì. Visitavo qualche volta, per le apparenze, la mia antica fiamma. Credo che avesse nell'oscuro miscuglio del suo cuore e della sua coscienza un caritatevole odio per me; ma non me ne curai, benchè sentissi un'ostilità sorda in lei come nelle persone cui era più legata; e indovinassi che sparlavano dei miei libri e di me. Ho sdegnato sempre, e allora più che mai, occuparmi di cose simili. Forse avevano ragione, ma se Violet mi amava e mi mandava una palma, cosa era questa gente per me? Se mai ho pensato ad essi ed alle loro accuse fu con una specie di gratitudine, essendo salutare all'uomo, e sopratutto a noi poeti, razza vanitosa, di sapere che tutta la diretta lode umana di cui c'inebbriamo, è mista di menzogna, perchè, comunemente, lodando in faccia uno scrittore o si mente del tutto o si mente in parte. Sono io stesso affatto senza colpa? Omnis homo mendax, ne sono convinto, e quando ne ho la riprova nelle acerbe censure che mi si fanno alle spalle da chi m'ha lodato in faccia, godo di confermarmi nel vero, godo di costringere il mio orgoglio a considerar le ragioni dei detrattori, prendo il buono, disprezzo il resto e poi sento la terra più salda sotto i miei piedi, l'ingegno più libero, il cuore più forte.

La gente mi trovava cambiato. Si facevano commenti sulla mia rottura con la signora, non si poteva credere che non avessi un'altra amante, si arrischiavano supposizioni, si scoprivano false. Qualche signora civettava un pochino con me e smetteva presto, giudicandomi di ghiaccio. Mio fratello e mia cognata non erano meno sorpresi de' miei modi, del mio umore, del mio aspetto istesso. Dapprima mi fecero qualche interrogazione, poi vedendo che non le gradivo o che rispondevo sulle generali, non parlarono più. Credo che mia cognata—glielo perdono—abbia persino osservato la calligrafia delle lettere che mi pervenivano, onde vedere se qualche mano ignota mi scrivesse spesso.

In principio d'aprile riseppi da' miei amici di Baviera che il signor Yves era atteso a Norimberga verso la metà di maggio. Giudicai venuto il momento di vedere Violet. Le scrivevo sempre, le scrivevo tutto; era leale di tacerle il mio proposito per riuscire più facilmente nell'intento, per evitare un rifiuto e sorprenderla? Non era leale; scrissi che partivo.

Non partii subito. Aspettai per otto giorni una lettera di miss Yves, che non venne. Il 15 aprile ero a Napoli.

Non ci voleva una fede meno salda della mia per mettermi in Napoli a quella ricerca, senza un aiuto al mondo. Dopo otto giorni di corse inutili, di speranze e di angoscie, trovai una traccia, inaspettatamente, al Museo Nazionale. Vedutevi alcune signore intente a copiare quadri, mi venne in mente di domandare se miss Yves ne avesse pure chiesto il permesso.

Così potei scoprire che una miss Violet Yves aveva infatti frequentato il Museo dal dicembre al marzo. Uno dei custodi finì con ricordarsi di lei e mi assicurò che da oltre un mese non si vedeva più. Supposi allora che fosse a Roma presso i suoi parenti, e partii tosto per Roma.

Ricorderò sempre quanto palpitai alla stazione di Albano, vedendo alle spalle una giovane signora, alta, bionda, che camminava come lei. Non era lei. Salì nel mio coupè e vidi che somigliava un poco a Violet anche in viso. Non so come la guardai; certo il mio sguardo ebbe qualche cosa di singolare, perchè ella arrossì e si mise tosto a discorrere co' suoi compagni. Era tedesca, bellina, aveva una voce piuttosto aggradevole e trovava che il lago di Nemi era märchenhaft. Io trovavo in lei un'ombra di Violet. Gentile straniera, avete indovinato perchè vi guardavo? Ella rispondeva talvolta al mio sguardo senza civetteria, con una limpida meraviglia. Quando non guardavo lei, guardavo col cuore oppresso il solenne deserto e le rovine spettrali della Campagna. Mi si affacciava, mi tornava sempre, malgrado me stesso, l'idea della morte di miss Yves, di una lunga vita deserta e gelata.

Corsi al cimitero dei protestanti. Non dubitavo che miss Yves l'avesse visitato. Interrogai il custode, ma non ne potei spremer niente. Gliela descrissi, lo pregai di fare attenzione ai visitatori, caso che la signorina ci capitasse. Mi pareva probabile che volesse rivedere la pietra di Shelley prima di partire per la Germania. A Roma non avevo che questo fioco lume, non sapendo il nome dei parenti di lei, e andavo ogni giorno a Porta San Paolo, trovavo ogni giorno la stessa risposta sconfortante. Frequentavo il Pincio, la chiesa anglicana, tutti i luoghi ove potevo sperare d'imbattermi in lei. Era un vivere tormentoso, un continuo crucciarmi di non poter essere contemporaneamente dappertutto, di perdere forse la mia fortuna per un minuto di ritardo o d'anticipazione. Correvo sempre, la sera mi sentivo morire di stanchezza e l'implacabile cuore mi martellava ancora: «va, va!»

Intanto era venuta la fine di aprile. Forse miss Yves aveva affrettato la sua partenza dall'Italia e io non potevo durare a quella febbrile fatica; fermai di cessare dalle mie vane ricerche e di partire per Norimberga. In questo tempo avevo scritto a Violet due volte; la prima da Napoli, la seconda da Roma. La scongiuravo, s'era vicina a me, di rivelarsi. Nella seconda le indicavo pure la pietra di Shelley per luogo di convegno. Per designare il giorno avevo calcolato largamente il tempo necessario alle lettere per andare a Norimberga e tornare. Stetti nel Camposanto quattr'ore ad ascoltare il silenzio mortale, a vedere ondeggiare nel vento le rose banksiane sulla torre in rovina dietro Shelley, a leggere e rileggere:

Nothing of him that doth fade But doth suffer a sea-change Into something rich and strange.

Immaginai che i versi arcani incisi sulla tomba del poeta parlassero del mio amore. Fiorirebbero solo, chi sa con quale splendore strano, nel mondo promesso cui occhio mortale non vide. Come non mi bastava una così lontana, incerta speranza, con che disperata passione abbracciavo in mente la donna mia, la sposa mia viva, palpitante di questa vita che muore, la difendevo, stringendola sul mio petto, contro l'ignoto, chiedevo a Dio, per pietà, un giorno, un'ora sola!

Ella non venne. Partii col treno della notte per l'Alta Italia, e pochi giorni dopo, il sette maggio, correvo sulla via del Brenner.

XI.

Chiedevo invano ai boscosi poggi, ai pendii fioriti, all'Eisack sonoro se avessero veduto Violet. Che inesprimibile senso d'incertezza e di angoscia mi possedeva, come mi accresceva trepidazione il corso violento e sicuro della locomotiva! Se miss Yves, pensavo, non fosse ritornata, se mi allontanassi da lei! Era la prima volta che passavo il Brenner e ancor più mi pareva solenne quell'uscire dalla patria, quel novo aspetto delle cose, quel sentire al di là di tante gelose montagne enormi il mistero ormai vicino di un grande paese non conosciuto se non per le nuvole che me ne portavan fantasmi, per i venti che me ne portavano suoni di poesia malinconica e di musica strana. Le acque deserte del Brennersee, vive come un occhio profondo, mi parvero, quanto il lago di Nemi alla signorina tedesca, märchenhaft: e poco dopo, alla stazione di Innsbrük, passeggiando lungo il treno, in un vento furioso, tra il viavai della gente straniera, credevo veramente sognare, aver varcata la soglia di un mondo fantastico.

Ero, durante il viaggio, in questo singolare stato d'animo, che più mi avvicinavo alla meta lontana, a Norimberga, più avrei voluto differire il momento di giungervi, differire i giorni in cui, se trovavo Violet, avrei conosciuta la sorte mia. Il mattino dopo il mio arrivo a Monaco passeggiavo per tempo le verdi solitudini dell' Englischer Garten, tutte placido sole e sfondi nebbiosi, tutte vive d'ali per le ombre e di trilli. Sostai in riva al lago torbido e immobile, contemplando quella pace di natura che tanto riposa dopo un lungo viaggio. La sensazione che avevo provato ad Innsbrük tra i rumori delle locomotive, della gente e del vento mi riprese più forte. Il sogno era stavolta così dolce e torbido, so süss, so trüb! Ero nel paese dove aveva vissuto miss Yves, respiravo quasi, nell'aria, i pensieri di lei, e l'acqua opaca, i vapori in cui sfumava ogni cosa lontana mi circondavano del mistero che circonda i sogni.

XII.

Partii per Norimberga con un treno del pomeriggio. Quando uscimmo dalla blanda valle erbosa dell'Altmühl per correre, fra sterminati orizzonti, diritto al nord, non era lontano il tramonto. Assorto in una sola idea, scosso ad ogni momento da vampe di accese immaginazioni, non avevo quasi mai avuto coscienza del paese così diverso dall'Italia che veniva continuamente mutando sugli occhi miei; ma pure la mobile visione si mescolava al mio pensiero, lo colorava, in qualche modo, di sè. Guardando, nello splendore del sole cadente, la quieta Altmühl così azzurra tra l'erbe dorate, riposavo un poco, mi venivano immagini di un avvenire sereno. Quando non la vidi più, il mio cuore riprese a palpitar forte. Sapevo che Norimberga non era lontana, il sole infuocava un rossastro paesaggio solenne di alte pinete e di sabbie immense, l'aria soffiava fredda, e se porgevo il capo a guardar dove ci portasse la locomotiva, non vedevo all'orizzonte che nebbie; sentivo il nord, mi pareva che quello fosse il vero cielo, il vero paese di un'anima come Violet. Là mi aspettavo di trovarla ancor più grave e triste, ancor più chiusa nel cupo fuoco del suo cuore. Ma la troverei, la troverei?

Verso le otto mi affacciavo dai tozzi baluardi medioevali, dai passaggi bui del Frauenthor a un largo di lastricati tra due scomposte fughe di case aguzze, a torri che salivano giganti, sul fondo, nei misti chiarori del crepuscolo e della luna. Norimberga, l'enigma, era davanti a me.

All'albergo domandai della famiglia Yves. I camerieri non la conoscevano, il padrone nemmeno. Questi ne chiese a due signori che stavano cenando. Uno di costoro sapeva soltanto che vi era una fonderia Yves nella Burgschmiedstrasse. Non posso dire l'impressione che mi fece il nome Yves pronunciato con indifferenza in quella sala d'albergo.

The very music of the name has gone Into my being.

«Persin la musica del suo nome è infusa nell'esser mio.» Il mio orecchio coglie nella voce che lo pronuncia ogni intimo disaccordo con la musica eterna che suona dentro a me; e più è grande, più ne soffro.

Uscii la sera stessa, girovagai a caso, pensando che l'indomani mattina andrei nella Burgschmiedstrasse, trovando intanto una voluttà profonda nel mescolarmi quanto più potevo, fra le ombre della notte, a questa sognata Norimberga, nel pensare che l'una o l'altra casa potrebbe forse esser la casa degli Yves e qual cuore avrebbe Violet se sapesse ch'io passavo sotto le sue finestre. Questo era un mondo ben più fantastico che la valle dell'Inn e l' Englischer Garten. Entrai nell'ombra della nera Lorenzkirche, dietro alle cui torri enormi si alzava la luna, discesi e risalii per ineguali andirivieni di vie, ora scure ora sfolgorate nel mezzo da una lampada elettrica, sospesa in alto. Intorno al fulgor d'argento nereggiavano le case vecchione, con i lor grandi cappelli aguzzi, tutti scolpiti, aggruppate per diritto e per isghembo, ciascuna secondo il proprio talento. Passai pei vicoli tenebrosi da un bagliore all'altro, e so d'essermi fermato gran tempo sur un crocicchio pendente al fiume, con la sua lampada nel mezzo, fra cinque o sei bocche di vie inclinate per ogni verso. Ombre silenziose andavano e venivano nella intensa luce bianca. Mi ero fitto in mente che mi fosse più probabile di abbattermi in miss Yves sull'incontro di tante vie; e mi tenevo sicuro di riconoscerla da lontano, almeno all'andatura. Ma il tempo passava, le ombre dei viandanti si facevano più rade, la mia speranza veniva meno. Finalmente, adagio adagio, me ne partii.

Venivo su per la Königsgasse, che lì è stretta e scura, verso il mio punto d'orientazione in quel mondo sconosciuto, le torri della Lorenzkirche presso alla quale alloggiavo. Un landau scoperto, senza fanali, che mi precedeva al passo, si fermò quasi dirimpetto al caffè Sonne.

Un piccolo signore ne discese, chiuse lo sportello e vi appoggiò i gomiti parlando vivacemente ad alta voce. Subito dopo udii un riso e un'altra voce che mi pietrificarono.

Sie Böser! Cattivo!

Era Violet.

Mi fermai, palpitante, a due passi dalla carrozza. L'uomo voltò il capo verso di me. Allora girai dietro la carrozza, mi fermai in mezzo alla via, fingendo di guardare il tetto e i pinnacoli della casa Nassau che spuntavano nel chiaro di luna. Violet e colui continuarono a parlare, lei in tono affettuoso, egli in tono gaio. La voce sconosciuta non era giovanile. Pareva che disputassero sul vedersi o non vedersi all'indomani.—E così?—disse finalmente miss Yves.—A posdomani mattina?—A posdomani—rispose l'altro.—Alla stazione alle sei e mezzo.

Si salutarono. L'uomo entrò nel caffè e Violet si chinò avanti per parlare al cocchiere. Allora io dissi abbastanza forte i due primi versi della poesia tanto a lei cara:

Ah no, se tu m'ami, vorrei Posar nel più fondo vallon.

Ella si voltò di slancio a me ch'ero già allo sportello. Le presi ambo le mani; per alcuni istanti non fummo in grado di proferir parola, nè lei, nè io. Faceva scuro, ma eravamo così vicini ch'io potei vederle negli occhi e sulla fronte la stessa improvvisa passione cupa di quel felice momento in cui, letti per la prima volta i versi dell'amore e della morte, mi aveva guardato in silenzio. Ella gittò quindi un'occhiata al cocchiere, ritirò le mani rapidamente,

—Qui?—mormorò in italiano—Come è qui?

—Lo domanda?—risposi.—Come mai lo può domandare? Vengo da Napoli.

—Oh viene da Napoli!—esclamò in tedesco.—Bravo! Si ferma? Oh!—soggiunse, stavolta, in italiano e nel tono di prima.—Non doveva venire! Dio mio, perchè è venuto?

Tacque un istante e poi mi chiamò sottovoce, deliziosamente, per nome; ebbe ancora come un sussulto, uno slancio represso di tutta la persona verso di me.

—Addio!—riprese.—Non posso più restar qui e non La posso rivedere. Hanno anche avuto sospetti, per le lettere.

—Non mi può rivedere?

La mia voce dovette suonare molto accorata!

—Mio Dio!—rispose miss Yves.—Egli sa se voglio farle del male. Forse non dovrei far questo, ma senta; dov'è alloggiato?

—All'albergo Zum rothen Hahn, qui vicino.

—Domani avrà una mia lettera. Addio! Il Signore La guardi. E grazie di tutto! Non sono mica un'ingrata, sa.—Addio,—riprese in tedesco,—se non ho il piacere di rivederla, si diverta e buon viaggio. Mi saluti Napoli e lo scoglio.

Si era intanto venuta levando un guanto e mi stese la mano, che afferrai con ambe le mie e baciai.

—Mi dica dove sta—susurrai.—Non verrò, ma me lo dica!

—La prego!—rispose, atterrita, disperata, come se si difendesse a un punto da me e da sè stessa.—Le scriverò. Addio!

—Mi dica—replicai—se quegli che parlava con Lei…

—No no!—diss'ella, e sorrise. Solo quando sorrise le vidi lagrime negli occhi.

Mi balenò un sospetto; che fosse già sposa. Glielo dissi; non lo era ancora.

—Non importa—diss'ella.—Lo sarò.

—Lei mi ama,—risposi,—non cedo. Lo sappia bene!

Furono le ultime parole. Violet ritirò la sua mano e disse qualchecosa al cocchiere. La carrozza partì, andò a voltarsi nella vicina piazzetta e mi tornò incontro al trotto. Passarono i cavalli, passò miss Yves salutando col capo, passò tutto, rumore e visione, giù nella discesa ombrosa della Königsgasse.

Andai all'albergo e mi chiusi nella mia camera a palpitar senza pensiero nella dolcezza intensa del momento appena trascorso. La idea che là, ond'eran venuti i sogni profetici, veniva pure quest'ultimo incontro, questa offerta suprema, era per me di un'evidenza fulminea. Avevo trovata miss Yves, sapevo che mi amava e ch'era tuttavia libera; adesso toccava a me non perdere un solo momento.

All'indomani riceverei la sua lettera. Mi apprenderebbe qualche cosa su queste nozze certo imminenti, sulle ragioni che ve la costringevano? Forse; ma intanto dovevo informarmi per mio conto. Cercai subito, sulla pianta di Norimberga, la Burgschmiedstrasse, dov'era la fonderia Yves. Se gli Yves non abitavano colà, mi vi farei almeno indicare la loro dimora. L'incognito e Violet si erano dati appuntamento alla stazione per le sei e mezzo del mattino; trovai nell'orario che fra le sei e le sette partiva un treno per Monaco.

Prima di coricarmi apersi la finestra, guardai la selva di tetti acuti e le torri della Lorenzkirche, oltrepassate oramai dalla luna, che ne inargentava gli alti trafori gotici. Contemplai lungamente la città dove aveva vissuto miss Yves, dov'ella, chi sa in qual parte, stava allora pensando a me. Provai l'ebbrezza spirituale del viaggiatore che giunto in un paese d'antica fama vede tutto insolito e grande intorno a sè, e discopre, non senza commozione, che fra questo ignoto paese e il proprio sentimento vi è qualche affinità misteriosa; che anche quest'altra parte della terra è un poco, non sa come, la patria sua.

XIII.

L'indomani mattina uscii di casa alle cinque e mezzo. Piovigginava, la nebbia velava, in fondo alla contrada, il torrione rotondo del Frauenthor. M'incamminai verso il posto dove avevo incontrato Violet. Non si vedeva anima viva, il caffè Sonne era tuttavia chiuso, si udiva solo la quieta voce della vicina fontana di bronzo. Per andare nella Burgschmiedstrasse dovetti attraversare la città grigia di nebbia, deserta, fantastica nella sua venerabile vetustà; vidi fra ponti potenti un fiume scarso, avvallato entro due argini di casupole nere, coronati di torri e di pinnacoli persi nei vapori; vidi squisiti monumenti intatti di un genio morto; vidi santi, frati, guerrieri di quel tempo antico, pietrificati sugli spigoli delle case, infissi sopra le porte, sui parapetti delle logge, sugli esagoni balconi ogivali sporgenti dalle facciate. Pareva che le generazioni umane fossero spente e il sole oscurato da lungo tempo, che quelle vie fossero una visione magica del passato, ed io un'ombra.

Trovai la fonderia Yves poco fuori del Thiergärtnerthor. Un tale, fra l'operaio e il soprastante, mi disse che gli Yves abitavano nella Theresienstrasse, e m'indicò pure il numero della casa. Gli domandai se il padrone sarebbe venuto, più tardi, alla fonderia.—Quale?—mi rispose.—Sono tre fratelli.—Allora parlai di quello ch'era stato in Italia e seppi ch'era tornato con la signorina da venti giorni, che non stava troppo bene, che veniva poco alla fonderia, ma che all'indomani vi sarebbe venuto certo. Chiesi se all'indomani non intendesse invece partire per Monaco. Quegli affermò che era impossibile. Prima di partire mi arrischiai a domandargli se gli operai non preparassero un regalo alla signorina per le sue nozze; mi disse di non saperne niente.—Sapete almeno—soggiunsi—quando si fa il matrimonio?—No,—rispose con indifferenza—questo non mi riguarda.

In dieci minuti fui nella Theresienstrasse, passando accanto ai viali ombrosi della Burg, dove forse Violet soleva passeggiare, e trovai, presso una fontana, la casa indicatami. Era elegante, nello stile del Rinascimento tedesco, con i balconi sporgenti e i pinnacoli dal cappello chinese sugli angoli del tetto. Due finestre vicine, al primo piano, avevano fiori. Erano quelle di Violet? Stava ella forse scrivendo a me? Chiesi a una donna, che attingeva acqua alla fontana nella sua gerla di metallo, se quella fosse la casa Yves. Non lo sapeva. La pioggia cadeva ora più fitta e tutte le finestre restavano chiuse. Passai e ripassai davanti alla casa, non sapendo se fosse bene o male di farmi vedere da Violet, non potendo staccarmi dal posto. Finalmente vidi un friseur aprire il suo gabinetto, ed entrai, sperando cavar qualche cosa da costui; un giovinotto in abito nero ed occhiali, che pareva uno studente di metafisica. Anche nel salutarmi al mio entrare aveva l'aria di affacciarsi con pena e stupore dall'origine delle idee a questo basso mondo, male rischiarato con poco chiaror di nuvole e una sottile fiammella di gas. Ne estrassi a stento che la casa vicina apparteneva ai fratelli Yves; che gli Yves erano celibi e tenevano presso di sè una nipote, la quale doveva sposarsi presto ad un tale professore Topler; che il professore Topler aveva vissuto parecchi anni a Norimberga ed insegnava attualmente nel ginnasio di Eichstätt. Appresi altresì che il Topler toccava la quarantina, ch'era piccolo e grosso e portava i baffi. Gli stessi occhiali del flemmatico parrucchiere mi parevano stupefatti; certo non gli era mai toccato discendere dalla metafisica per un avventore altrettanto curioso.

Eichstätt? Il nome non mi era nuovo; mi sembrava averlo letto il giorno prima sulla fronte di una stazione solitaria fra colli e boschi, e fors'anche udito dai miei amici di Monaco. Uscii nella strada assai soddisfatto di questo primo raggio di luce. Pioveva ancora, nessuna finestra della casa Yves si era aperta. Pensai di ritornare all'albergo e di cercare Eichstätt nel mio Baedeker.

Vi trovai ch'è una piccola città molto antica, a cinque chilometri dalla sua stazione sulla linea Norimberga-Monaco. Certo miss Yves sarebbe andata ad Eichstätt, l'indomani; certo vi sarei andato anch'io. Mentre stavo pensando come spiegherei, occorrendo, la mia andata colà, bussarono all'uscio e un cameriere venne ad avvertirmi che nella sala da pranzo c'era persona dalla quale potrei avere le informazioni chieste inutilmente la sera prima. Discesi e trovai un signore dall'aria franca e cordiale, che stava mangiando e conversando col padrone. Mi rivolse subito la parola per dirmi che conosceva perfettamente gli Yves, padroni di una fonderia, onestissime persone; non facevano buoni affari come una volta perchè la costruzione delle macchine, der Maschinenbau, era in decadenza, a Norimberga; ma si reputavano tuttavia solidi. Capii che m'aveva preso per un viaggiatore di commercio. Egli stesso si avvide tosto che desideravo altro, e mi prevenne chiedendomi se volessi informazioni personali. Risposi con la maggior disinvoltura possibile di non tenerci gran fatto. Avevo conosciuto uno dei fratelli Yves in Italia, e passando da Norimberga m'era venuta la curiosità di saperne qualcosa. Il signore me ne fece allora molti elogi stando sulle generali e soggiunse che il viaggio d'Italia non aveva rinfrancata la sua salute. Quando seppe che restavo poco a Norimberga, e che non avevo intenzione di visitare gli Yves, ne parlò più liberamente. Il discorso arrivò subito a Violet. Il mio interlocutore non le aveva parlato che due o tre volte, ma n'era entusiasta e capii bene che la teneva di gran lunga superiore per ingegno, coltura e sentimento, agli zii, e che, secondo lui, ella non poteva avere, in casa Yves, una buona respirazione morale. Gli zii erano galantuomini, ma troppo nel Maschinenbau; alquanto bisbetici, per giunta, e d'idee anguste. Il padre di Violet aveva fatto il pittore, si era accasato in Italia, ed era morto in Inghilterra poco dopo la sua giovane sposa romana, lasciando non ricca l'unica bambina. Gli zii l'avevano raccolta.

Ora miss Yves era sui venticinque anni. Si era detto che, parte per la sua infermità, parte per una certa storia di anni addietro, avesse rinunciato al matrimonio; poi un bel giorno fu annunciato che sposava il signor Topler. Questo signor Topler era un professore molto stimato, molto rispettabile, ma non troppo adatto, pareva, ad una giovine signora di gusti squisiti come miss Violet. Insegnava nel ginnasio di Eichstätt. Il matrimonio, stato differito più volte, doveva celebrarsi alla fine di luglio, immediatamente dopo la chiusura delle lezioni.

Tutto ciò mi fu raccontato a riprese dall'incognito signore col quale avevo finito per fare colazione, onde agevolare il dialogo. Quando disse una certa storia di anni addietro, mi sentii male al cuore. L'avevo inteso subito che la tristezza di Violet era il guasto lasciato da una gran tempesta di passione; lei stessa, parlando meco e scrivendomi, aveva alluso a un simile passato; pure soffersi come se prima vi fosse stata in me una irragionevole speranza che Violet non avesse detto il vero. Non osai chiedere una spiegazione lì per lì. Si parlò d'altro, dell'arte a Norimberga, di Veit Stoss e Krafft, del Museo germanico. Il mio interlocutore mi disse che se volevo avere un'idea del professor Topler guardassi, recandomi al Museo germanico, l'antico frate di pietra ritto sul canto della Karthaüsergasse. Allora avventurai in tono indifferente una domanda sulle vicende passate di miss Yves.—Cose vecchie,—rispose colui,—cose tristi. Troppa fede negli uomini!

Egli aveva finita la sua colazione, e con queste parole si alzò, lasciandomi l'animo ancora più amaro e turbato di peggiori pene, di peggiori sospetti. La fantasia non mi dava pace, mi mostrava continuamente immagini che non poteva nè spengere, nè sopportare. Dovetti soffrire molto, stancarmi il cuore prima di trovare quasi rinnovata di freschezza, di dolcezza, di ristoro, almeno per qualche tempo, l'idea che adesso Violet amava me.

XIV.

Con la prima distribuzione non ebbi alcuna lettera. Risolsi di passare al Museo germanico le tre ore che mancavano alla seconda. Mi aggiravo da un'ora per quel laberinto di alte sale, di scale marmoree, di chiostri gotici, dove zampilli mormorano nella penombra e una fioca luce cade dai cristalli dipinti, colora sculture sepolcrali. Sostavo talora a guardare da una porticina aperta il vivo verde di un cortile, a respirar l'aria chiara e pura, e guardavo appunto il colossale Orlando di Brema nel cortile, non so se ventesimo o decimonono, quando udii dietro a me una voce che mi parve riconoscere. Mi voltai; un vecchio signore dall'aspetto ecclesiastico parlava adirato con un custode che lo ascoltava sorridendo. Conoscevo una voce simile, sì; ma l'uomo non l'avevo mai veduto. Egli inveiva contro l'asineria di chi aveva levato non so qual San Giorgio di pietra da una casa di Norimberga, per collocarlo nel Museo. Poi lasciò il custode e mi passò davanti tutto fremente per uscire nel cortile a vedere d'appresso l'Orlando. Nel passare mi piantò in viso gli occhi furibondi come per dirmi «e Lei non mi dà ragione?» Vestiva tutto di nero, era piccolo e alquanto curvo; al fuoco degli occhi contraddiceva l'apparenza senile della persona. Fece rapidamente il giro dell'Orlando e ripassandomi davanti mi borbottò con una spallata «Cement!» Mi domandai ancora dove diamine avessi udita quella voce.

Lo ritrovai in una cappella della chiesa che ha le collezioni di arte ecclesiastica. Era seduto davanti al quadro di Kaulbach, dove il giovane Ottone III, dopo un banchetto in Aquisgrana, irrompe con i suoi compagni d'orgia, per un capriccio di ebbro, nella tomba del grande imperatore Carlo, e ne scopre al chiaror delle fiaccole il cadavere in trono, maestoso e terribile. Lo sconosciuto sfogava la sua ammirazione da solo, ripetendo «bello! bellissimo!» Si alzava dal suo sgabello, correva a fiutare, quasi, col suo lungo naso aguzzo, le figure, e tornava frettoloso a sedere. Mi vide e mi disse, tutto ancora scintillante in viso, ma di piacere:

—Questa è una consolazione.—La mia memoria ebbe un lampo; era la voce dell'uomo che aveva conversato con Violet la sera prima, davanti al caffè Sonne. Mi affrettai a parlare, a consentire con lui, ma solo in parte, per pungerlo e trattenerlo. Ammirai la composizione del quadro e feci qualche appunto al colore, torbido e languido. Non so come glielo dicessi, perchè parlo un tedesco assai stentato e scorretto. Credetti che mi volesse mangiare.— Wie! Wie! Wie! Es ist ja eine Gruft! Est ist ja eine Leiche! —Come? Come? Siamo in una fossa! Vi è un cadavere!—Mantenni la mia opinione. Le ombre del quadro sono scure, ma non hanno profondità, la luce delle fiaccole sul cadavere è gialla ma non viva, il rilievo delle figure è scarso. Discutendo, lo sconosciuto diventava più mansueto.—Finalmente—disse egli—io non posso discorrere molto sul colore, io vado all'idea; l'idea è la linea che in natura non esiste, che esiste nella mente. La mia mente vede in quella del grande poeta che ha dipinto qui. Una grande idea! Una grande visione del passato! Cosa m'importa che sia languida o torbida? Mi fa più impressione così. Lei è francese, signore? Quando udì ch'ero italiano, mostrò una vivissima e lieta sorpresa. Mi afferrò le braccia.

Aus Rom, mein Herr? Aus Rom? —Intesi che la mia risposta gli riuscì una delusione. Sperava che fossi di Roma o almeno di Venezia, o di Firenze; ma si rassegnò subito alla mia modesta patria lombarda.

—Oh Italia, Italia!—diss'egli— Ille terrarum mihi præter omnes angulus ridet! Lei capisce?

Ubi non Hymetto —risposi— mella decedunt ….

Credo che mi avrebbe abbracciato; oramai eravamo amici.

Si visitò assieme le collezioni ecclesiastiche. Lo sconosciuto discorreva molto e piacevolmente. Non era la prima volta che visitava il Museo; non ne voleva vedere se non due o tre sale per volta. Infatti i custodi lo conoscevano. Ne udii uno che lo additava ad un collega, e diceva ridendo: der Schwabe! Intanto era venuta l'ora della seconda distribuzione postale e mi congedai dal mio compagno, che volle ci scambiassimo le nostre carte di visita. Trasalii leggendo sulla sua: Dr. STEPHAN TOPLER. Non ero sicuro se fosse un prete o no; ma che fosse il fidanzato non era possibile!

XV.

La lettera di miss Yves mi aspettava all'albergo. È la sola che non ho conservata. La bruciai dopo averla letta o riletta infinite volte, in un impeto d'orgoglio, di gelosia, non potendo sopportare presso a me certe parole che mi dovevano guarire col ferro e col fuoco e solo mi mettevano una febbre amara, che conoscevo, che avevo prevista, che tanto più m'irritava quanto più ero sicuro di vincerla. Non ricordo l'esordio troppo bene. Miss Yves cominciava, mi pare, con attribuire in gran parte alla sorpresa il suo turbamento della sera precedente, e parlava poscia con gratitudine delle lettere in cui le avevo aperto l'animo mio: prometteva serbarne affettuosa memoria. Non dimenticai una sola delle parole che seguivano

«Vi hanno per me invincibili ragioni di non andare più oltre. Se lo facessi, mi risospingerebbero indietro i rimproveri del mio passato, l'impero del presente, le minaccie dell'avvenire.

«Mi sono convinta, dopo una notte di riflessioni non piacevoli, che devo essere ancora più dura di così. Fin da quando c'incontrammo la prima volta con simpatia ebbi lo stesso concetto della mia situazione che ne ho in questo momento. Io fui debole quando Le inviai quel fiore da Napoli e fui debole anche iersera. Devo impedirmi simili debolezze per l'avvenire, devo pregarla di considerare cessata ogni relazione fra noi, meno che nella memoria. Se Ella non accetta e cerca vedermi ancora dovrò mostrare d'aver perduta anche la memoria di Lei.

«Non è vero ch'Ella non m'infliggerà un simile dolore? Ciò che Le ho scritto è la mia inflessibile volontà. Se questo può temperare la sua passione, sappia che io ho amato anni sono come non potrò amare mai più e mi sarebbe vergogna se lo potessi. Ella non saprebbe rendermi nè felice, nè infelice quanto un altro mi ha resa.»

La mia mano vibrava di commozione tenendo questa lettera in fiamme. Erano parole false che s'incenerivano, era un'artificiosa freddezza che ardeva; tutte queste inutili menzogne sparivano fra lei e me. E se hai amato, le dicevo abbracciandola in mente con passione e con ira, se hai amato altri prima di me, cosa m'importa? Puoi tu sapere, tu che mi ami, quanto ti renderò felice? E qual è, in nome di Dio, il passato, qual è il presente, qual è l'avvenire che può toglierti a me?

Risposi sull'atto, così:

«Ho bruciata la Sua lettera. Un giorno, quando Iddio ne avrà uniti, Le potrebbe dolere ch'io la avessi serbata.»

Recato questo biglietto, di mia mano, alla posta, mi sentii sufficientemente tranquillo e andai a vedere la città.

Per verità pensavo molto più al momento in cui miss Yves mi avrebbe veduto alla stazione, al momento in cui mi avrebbe udito nominare Eichstätt, che ad ammirare la vecchia Streusandbüchse des deutschen Reiches, come i tedeschi chiamano Norimberga. Perchè mi proponevo far sapere a Violet il più presto possibile che andavo a Eichstätt, che conoscevo la meta del suo viaggio. Non cercai vederla; appena nel salire da S. Sebaldo alla Burg guardai un momento, dalla bocca della Theresienstrasse i balconi eleganti di casa Yves. Più tardi, andando al vecchio cimitero di S. Giovanni, dove dorme Alberto Dürer, passai dalla porta della fonderia senza nemmanco guardarvi dentro.

Pensavo più all'amore che all'arte. Confesso tuttavia che qualchevolta l'energia e la grazia di un antico artista mi esaltavano, mi traevano a sè, non sopra l'amore, ma sopra le cure e le incertezze presenti. Davanti al Schönen Brunnen, al tabernacolo di Adamo Krafft nella Lorenzkirche, alle porte insigni della Sebalduskirche mi assaliva la gioia della bellezza, mi gloriavo d'essere io puro artista, pensavo felice che l'amore di Violet avrebbe saputo trarre anche da me un fuoco d'idee e di opere. L'altra signora si diceva gelosa della Musa; ma Violet! Negli amori e nell'anima mia Violet vedrebbe sè, sempre sè, dappertutto sè, come il sole potrebbe veder sè in ogni cosa vivente. Quell'altra povera donna parlava di gelosia perchè non sapeva come si ama.

Mi ricordo che quando salii sul Vestner Thurm pioveva, folate fredde di vento e pioggia entravano per le finestre senza vetri in quella stamberga a tetto, dove il custode della torre indicava placidamente, con la pipa, le altre torri, le chiese, i monumenti della città, poi le nebbie lontane, nominando con gran sicurezza paesi invisibili. Gli domandai da qual parte fosse Eichstätt. Quegli ripetè sorpreso—Eichstätt? Lei dice Eichstätt?—e, steso il braccio da una finestra, si diede a menar di taglio la mano verso il Sud, come chi dice un lungo, lungo cammino. Rimasi lì trasognato a guardare senza veder niente, senz'accorgermi del vento e della pioggia che mi battevano in viso.

XVI.

L'indomani mattina brillava il sole. Fui alla stazione un'ora prima del tempo. Solo allora, passeggiando su e giù per il piazzale deserto fra la Stazione e la Posta, mi venne in monte che Violet poteva aver mutato piano, che qualche impedimento poteva essere sopraggiunto. Torturato dalla fantasia mi rimproverai di non essere corso prima nella Theresienstrasse a vedere se i balconi dessero qualche segno di una levata mattutina della famiglia. Avrei voluto corrervi allora, ma tremavo di non essere in tempo, ed esitai tanto che la cosa divenne impossibile. Cominciarono ad arrivare le carrozze, e, per fortuna le mie angustie non furono lunghe, il landau di Violet comparve dal Frauenthor alle sei e mezzo.

Tre signore ed un cavaliere accompagnavano miss Yves. Ella era così pallida! Sorrideva però. La vidi scendere faticosamente di carrozza. Appena discesa si guardò attorno come per cercare qualcheduno; essendo miope non si accorse di me, che m'ero tenuto alquanto discosto. Poi la vidi entrare colle altre signore nella sala di 2^a classe. Pochi minuti dopo vi entrai io pure. Le compagne di Violet ridevano discorrendo col loro cavaliere, un uomo maturo, di qualcheduno che si faceva aspettare. A un tratto si affrettarono tutte, meno Violet, verso l'entrata. In quel momento io che camminavo su e giù per la sala le passai vicino e fui veduto da lei.

Non feci atto di salutarla, ma la guardai con volontà che lo sguardo parlasse. Ella trasalì tutta, mi parve che chiudesse gli occhi, girò subito il capo. Nello stesso tempo entrò alquanto rumorosamente con l'ombrello nella sinistra e una grossa mazza nella destra, colui ch'era atteso, il mio amico del Museo germanico.

Egli non mostrò curarsi molto delle altre signore che lo festeggiavano e andò diritto a stringere la mano di miss Yves. Violet era accesa in viso; i suoi dolci occhi non potean dirsi scintillanti, ma pur lucevano d'inusata luce. Il dott. Topler le sedette accanto e una bionda giovinetta della compagnia esclamò, battendo le mani, con una vocina brillante di riso:—Oh prego, prego, bitte, bitte, guardate Violet!—Vidi miss Yves arrossire ancor più e fare un atto d'impazienza, di rimprovero; udii il Topler prendersi beatamente, scherzando, tutto il merito di quei rossori, Violet disse certo alla sua giovane amica una parola acerba che non intesi, perchè la biondina fece un visetto mortificato e tutti tacquero. Io continuavo a camminare con un tal bollimento interno! Il dott. Topler alzò gli occhi, mi riconobbe e venne a me salutandomi in latino a braccia distese, come un vecchio amico. Diedi un'occhiata a Violet; ci fissava, pallida per la sorpresa. Gli altri pure ci guardavano curiosamente. Topler mi domandò se andassi a Monaco. Risposi ben chiaro e forte che non andavo a Monaco ma ad Eichstätt. Esclamazioni del signor Topler,—Allora viaggiamo insieme!—diss'egli.— Misere cupis abire! Dobbiamo viaggiare insieme!—E mi raccontò che andava ad Eichstätt anche lui con altri amici. Poi mi voltò le spalle e corse tentennando sulla sua mazza e il suo ombrello a edificar gli amici sul conto mio. Il giorno prima non avevo mancato di sfoggiar quanto latino e quanta letteratura tedesca avevo in testa e m'ero fatto di lui un ammiratore; adesso intesi da' suoi gesti che stava raccontando a miss Yves grandi cose di me. Miss Yves avea fatto un viso gelido, pareva ascoltarlo appena. Al momento della partenza l'altro signore le offerse il braccio, le tre dame o damigelle si avviarono insieme e Topler volle venire con me. Mi disse che dovevo assolutamente stare con lui, che aveva tante cose a domandarmi sull'Italia dove intendeva recarsi, per la terza volta, fra poco. Insomma mi trovai, senza la menoma indiscrezione da parte mia, in una stessa carrozza con miss Yves che era turbata quanto me, non volgeva mai il viso dalla mia parte. Pigliammo posto il più lontano possibile l'uno dall'altro. Le due amiche si guardavano sorridendo e poi guardavano me, come scusandosi per gli eccentrici modi del loro Schwabe. Mi dicevano con gli occhi: che ne penserà Lei? Topler non se ne dava per inteso, mi tempestava di domande sulle novità edilizie di Roma e di Firenze, sui restauri di Venezia e sulla musica italiana moderna. Rispondevo come potevo, e allora era un veloce fuoco di commenti vivacissimi; ora la gioia, ora la collera gli scintillavano dagli occhi e persin dai capelli. Notai però che se parlando di Roma gli toccavo del Papa e degli ordini nuovi, diventava muto, mi sfuggiva subito di mano. In musica era un antiwagnerista furibondo, un focoso ammiratore dei vecchi maestri italiani, specialmente di Clementi. Dapprima si parlava soli, lui e io; ma poi egli si posò a gittar motti a destra e a sinistra come uncini, strappando qua un sorriso, lì una parola e gli riuscì di cucire un dialogo generale. Solo non venne a capo del silenzio di Violet.

Io non parlavo che per lei. Si finì con discorrere un po' di tutto, d'arte, di natura, d'Italia e di Germania. Era per Violet che dipingevo Venezia alla giovinetta bionda, curiosa del mare, delle gondole e dei colombi. Ell'aveva l'aria di non conoscere l'amore, di non pensarvi mai; e io dissi che il silenzio molle, lo strano aspetto, l'aria obliosa di Venezia erano per le anime ferite, bisognose di amare dimenticando.—Allora Venezia non è per me—diss'ella volgendo a Violet il suo visetto sfavillante di riso, mentre una fiamma correva le guance di questa.

—Silenzio e oblio si trovano anche ad Eichstätt—osservò il dottor Topler—e adesso vi si trova pure un orribile ponte di ferro, forse come quelli che avete fatto a Venezia. Non ci sono più Alpi con questa civiltà. Barbari noi, barbari voi, barbari tutti.—Il signore viene ad Eichstätt—soggiunse parlando agli altri.—È un italiano molto più ardito di Cristoforo Colombo. Viene a scoprire Eichstätt.

Tutti si sorpresero che uno straniero desiderasse vedere Eichstätt, un paese, secondo il Topler, tanto deserto e triste che persino l'Altmühl, il fiume, ci veniva a malincuore e il più lentamente possibile. Forse lo disse per pungere le signore, che infatti protestarono vivacemente. M'accadde di nominare que' miei conoscenti di Monaco dai quali avevo appresa l'esistenza di Eichstätt. Le signore esclamarono, la biondina battè le mani. Erano, mi dissero, loro intimi, carissimi amici. Topler fece—ah, ah, ah!—tutto contento. La biondina non capiva come Violet non trovasse strana l'avventura. Mentre le altre mi chiedevano di una di quelle persone che allora si trovava in Italia, ella si mise a interrogare sotto voce miss Yves e poi ad accarezzarla, a susurrarle non so che all'orecchio, probabilmente delle dolcezze. Violet un po' negava del capo, un po' sorrideva, un po' pareva seccata, ma non parlò. Fu il dottor Topler che la vinse.

Egli le lanciava ogni tanto delle occhiate inquiete, e, poi che vide la biondina parlarle, borbottò a quest'ultima una domanda cui ella rispose sottovoce—no, dice che non ha niente.—Egli non parve tuttavia contento.

Correvamo oramai lungo l'Altmühl fra i poggi boscosi e i prati che ridevano al sole nel mattino vaporoso. Topler mi disse:

—Tutta questa poesia è ben tedesca.

Ciò ne condusse a parlar di letteratura e di lingua. Io tirai subito in campo l'inglese. Parlandone non guardavo Violet, temendo tradirmi, destare almeno un sospetto. Dissi che l'amavo molto, che su certe labbra mi suonava più soave di ogni altra, che talvolta era tanto rapida, limpida e delicata da somigliare, quanto è possibile, al pensiero.

—Sente, sente, sente?—disse, interrompendomi, il mio amico Topler a miss Yves,—È contenta?

Violet mormorò qualche parola che non s'intese.

—La signorina è inglese, capisce?—mi disse Topler.—Io sono un vecchio gufo selvaggio della Selva Nera che adesso vuole diventare un pappagallo della buona società e farà le presentazioni in regola.

Tutti risero, meno Violet ed io. Topler si pose a frugare nel suo portafogli.

—Credo di dover principiare da questo signore che non parla—diss'egli accennando del capo al suo compagno, una faccia buona e insipida che in fatto non aveva aperto la bocca due volte.—Prima però devo ricuperare la carta di visita del signore italiano, perchè il suo nome è bellissimo, ma molto più facile a conservare nel mio taccuino che nella mia memoria.—Il signor Treuberg—ripresa dopo aver trovata la mia carta—il signor*** Devo fare esercizio di pronunciare questo nome. Il signor***, la signora Treuberg, la signorina Tecla von Dobra e la signorina Luise sua sorella.

Restava Violet. Un lampo sincero degli occhi suoi mi disse: evitate questa commedia! Ma era troppo tardi.

—Il signor***—ripetè Topler coscienziosamente—miss Yves.

Io salutai e Violet non potè a meno di piegare un poco il capo. Per fortuna il treno entrava allora in una lunga galleria ch'è tra Pappenheim e Dollnstein; nessuno badò più a noi. Topler era ansioso di guardare il paesaggio, mi faceva vedere, con grandi esclamazioni, gli scogli bianchi sparsi per il verde delle praterie. Poi un gran sasso con poche rovine in testa e poche casupole ai piede, cinto di mura medioevali, lo trasse fuori di sè.

—Presto siamo ad Eichstätt—osservò la biondina, la signorina Luise. Allora Topler parve tornare dal cielo in terra.—Le bottiglie?—diss'egli.—Avete le bottiglie?—Il signore taciturno lo rassicurò; le bottiglie c'erano. La signora Treuberg, che pareva la più legata con i miei amici di Monaco, disse una parolina all'orecchio di Topler. Questi si volse a me tutto esultante:

—Queste signore le fanno un invito—diss'egli.—Lei sa cos'è il nostro Maiwein?

Confessai che non lo sapevo.

—Lo saprà oggi. Queste signore le offrono di far colazione con noi nel bosco.

La signora Treuberg confermava sorridendo. Ella mi spiegò che la città di Eichstätt è lontana dalla stazione e che un sentiero vi conduce attraverso il bosco, dove si farebbe colazione. Se andavo con loro avrei potuto raccontare ai comuni amici di aver veduto il Bahnhofswald ch'essi avevano molto caro.

L'anima mia era tanto presa da un solo pensiero, era tanto attenta ai menomi casi di ogni momento, che se non l'avessi riveduto più tardi non ricorderei il quieto verde grembo del Giura di Franconia, dove la solitaria stazioncina di Eichstätt si affaccia alle rotaie fra colli selvosi e deserti. Un signore, salutato allegramente da' miei compagni di viaggio, venne allo sportello ed aiutò Violet a scendere, mentre il dottor Topler agitandogli incontro le braccia, vociferava non so che cosa a tutta velocità.—Il mio signor fratello!—mi disse fra una schiamazzata e l'altra:— Toplerus junior! —Egli ed io scendemmo gli ultimi. Intanto il fidanzato di miss Yves parlava colle signore stando a fianco di Violet, pallida come una morta. Se ne scostò un momento per porger la mano a suo fratello e aiutarlo a discendere. Questi mi presentò; ci scambiammo un cenno di saluto senza stringerci la mano. Il signor Topler juniore parve non aver capito molto di questa presentazione e mi guardò tra l'ossequioso e lo sbalordito, fino a che suo fratello lo spinse via a due mani brontolando e additandogli Violet, che s'era incamminata verso la stazione senza attendere il suo braccio.

Egli era piccolo e tozzo di statura, mostrava circa quarantacinque anni. Aveva i capelli bruni, i baffi biondi, corti, una fisionomia poco intelligente, una simpatica guardatura, piena di timidezza e di bontà; aveva nell'insieme l'aria dell'uomo più felice e più impacciato di questo mondo. N'ebbi una impressione inesplicabilmente penosa. Non mi sentii geloso di lui; lo giudicai alla prima occhiata di coloro che noi uomini volentieri vantiamo alle donne come degni di essere amati, sapendo che non li ameranno. Ciò che io provavo somigliava al rimorso, alla improvvisa coscienza d'una slealtà. Non avrei dovuto io dirgli ch'ero per lui un nemico mortale? La limpida sincerità del suo sguardo mi strinse il cuore.

Mentre Topler seniore mi guidava a consegnar il mio bagaglio all'omnibus, udii la dolce voce, ancora più fioca del solito, dire qualche cosa che suscitava proteste e lamenti, specialmente della signorina Luise. Pareva che miss Yves proponesse di rinunciare alla colazione nel bosco, che temesse del tempo o che fosse stanca. La biondina aveva quasi le lagrime agli occhi e offriva le braccia dei fratelli Topler per portare l'amica sua; il fidanzato, che aveva certo apparecchiate grandi cose per la refezione, non osava insistere e guardava mogio mogio ora noi, ora miss Yves, ora le sue provvigioni; queste ispiravano al flemmatico signor Treuberg una repentina eloquenza contro la proposta. Topler seniore intervenne con l'usato impeto e annunciò poi a me, che mi tenevo un poco in disparte, come il maiwein si sarebbe fatto e bevuto nel bosco. Infatti vidi scintillare il visino della signorina Luise, che cinse con un braccio la vita di Violet, le baciò una spalla, corse avanti saltellando, trillando, battendo le mani e poi si voltò per dirle in faccia, con uno slancio d'effusione, due versi di cui non avrei mai capito il primo senza l'aiuto del dottor Stephan:

Du, mei flachshaarets Deandl, I hab di so gern.

Avevamo a fronte le ripide salite ombrose del Bahnhofswald. Mi parve che miss Yves faticasse molto. Il suo fidanzato le parlava e le parlava, tutto premuroso e umile; si capiva che ringraziava, si scusava, che sospirava una parola affettuosa.

Ho davanti a me, in questo momento, alcune foglioline secche, alcuni anneriti fiori di Waldmeister del bosco di Eichstätt. È solo nell'immortale pensiero umano che la bellezza e la giovinezza della natura diventano pure immortali. Se chiudo gli occhi vedo vivo in me il fiorellino bianco quale Topler seniore e il signor Treuberg me lo fecero osservare nelle prime frescure dei faggi. Sento il suo mite odore nell'odor forte e vitale del bosco, odo il cicalìo dei fringuelli e dei tordi, le voci e le risate delle signorine sparse davanti a noi, nel profondo verde, in cerca di Waldmeister. Solo non odo nè vedo Violet, che ci segue col suo fidanzato. Le signore ora compaiono, ora scompaiono sui dorsi e dentro i seni della costa, si gettano strilli di gioia ad ogni conquista, ci domandano degli sposi.

La signora Treuberg gridò a suo marito di andar a vedere se miss Yves si sentisse male. Il signor Treuberg, che s'era fermato a soffiare e a farsi vento col fazzoletto, prese un'aria malinconica e discese.

—Adesso non sarà buono a risalire—mi susurrò il dottor Topler.—Io La prego di non prendere quest'ottimo signor Treuberg per un esemplare della nazione tedesca!

Dibattè le mani in aria, scotendo via, a capo chino, un frettoloso riso muto.

—Prenda me, piuttosto—diss'egli poi—prenda mio fratello, benchè noi siamo molto diversi!

Guardò in giù. Non si vedeva ancora nessuno.

—I Tedeschi sono spesso buoni e pazienti—soggiunse—come cammelli; e spesso s'innamorano come non so quale altra bestia più romantica. Questi due lati del carattere tedesco li ha mio fratello. Voi lo vedete, pare pieno di birra ed è pieno di chiaro di luna. Quanto a pazienza, vedrete che adesso verrà su con miss Yves in un braccio e il signor Treuberg nell'altro. Io sono molto diverso, molto diverso.

Intanto la signorina Luise e sua sorella litigavano poco lontano per alcuni fiori che la prima aveva colti e che l'altra diceva non esser vero Waldmeister. Adesso la vocine della biondina parevano piccoli colpi di becco. Rideva, ma credo che avrebbe pianto volentieri. Chiamarono il dottor Topler, e poichè con lui riuscirono solo a litigare in tre, chiamarono poi anche suo fratello e il signor Treuberg, appena sopraggiunti. Così rimasi solo, per un momento, con miss Yves.

Ella pallidissima, si diede subito a chiamare la signora Treuberg con la sua voce soave che moriva a due passi.

—Violet—diss'io. Non aggiunsi altro, ma forse non avrei potuto dir niente di più appassionato e umile. Ella mi guardò, malgrado sè stessa, un istante. Pareva uno sguardo severo, ma v'era bene in fondo l'amore. Gli occhi miei ne dovettero brillare, perchè si affrettò a dirmi:

—Quello che fa, Le pare leale?

Una luce mi balenò in mente e risposi con impeto:

—Lo dirò.

—Dio, no!—diss'ella.

Non fu possibile parlare, ma io ero felice della mia e della sua risposta. Era un'acuta dolcezza di sentirsi supplicar da lei con tanta angoscia, di sentir che non si teneva sicura del suo proposito, dell'avvenire.

Ci raccogliemmo per la colazione a pochi passi dal viottolo, presso una tonda macchia di sole che brillava sull'erba tra la corona dei faggi e degli abeti, sotto un occhio di cielo azzurro. Qualche tronco mozzo vi nereggiava nel mezzo.

Il signor Treuberg sturò due bottiglie di Rüdesheimer e le signorine v'introdussero capovolti due mazzolini del bianco Waldmeister, che doveva morire così, cedendo al vino il suo dolce profumo selvaggio. Mentre gli altri vi erano attenti come ad un rito sacro, potei guardare Violet. Gli occhi suoi ebbero ancora quell'angoscioso no; i miei dovettero rispondere di. Era seduta sull'erba e teneva fra le mani l'ombrellino chiuso. Chinò il capo, le congiunse in atto supplichevole. Io mi misi a parlare del Maiwein con la signorina Luise.

—Il vino ed il fiore—disse il dottor Topler—sono diverse espressioni del suolo tedesco e noi ne facciamo una sola poesia.

Non solo nel Maiwein ma in tutta la silvestre scena vi era una poesia che il segreto dramma mi impediva allora di gustare, ma che ritorna ora serena nella mia mente. Si stava aspettando che l'odore del Waldmeister passasse nel vino, e io parlavo con la signora Treuberg dei nostri amici comuni. Ella ricordava lontani giorni passati con loro nella piccola città silenziosa, allegre partite in quello stesso bosco, mi descriveva fanciulli che io avevo poi conosciuti uomini, mi raccontava cose intime della famiglia, piaceri e dolori cui ella aveva preso parte come amica. Si ricordavano le idee, i sentimenti di queste persone lontane. Alla signora parerà impossibile trovarsi lì senza di loro, saperli dispersi nel mondo, non intendeva come i boschi potessero essere ancora così gai, verdi e odorosi, come i fringuelli cantassero ancora tanto allegramente quanto in quel tempo della sua giovinezza. Intanto il fidanzato di miss Yves e il signor Treuberg toglievano le provvigioni dalla cesta, e il dottor Topler parlava con Violet. Violet gli faceva delle domande che non intendevo. Mi parve udirgli rispondere qualche cosa sul Museo germanico e sul quadro di Kaulbach. Gli aveva ella chiesto come mi conoscesse? Voleva forse parlare prima di me?

Ecco la signorina Luise venir saltando in punta di piedi con un dito alle labbra, portarsi via, a gesti, i Topler e i Treuberg per far loro vedere qualche cosa. Rimasi ancora solo con miss Yves.

—Non dica niente—susurrò in fretta—prima di avere parlato con me. Spero che avrò la forza!—Oh mio Dio!—diss'ella coprendosi il viso colle mani. Poi riprese: Discorriamo un poco insieme adesso. Così Lei mi verrà a trovare in casa Treuberg. Non sono sleale, faccio questo perchè credo che quando saprà non vorrà più…

Non potè proseguire e passò qualche momento prima che gli altri tornassero. Intanto tacemmo ambedue. Sapevo che niente mi avrebbe diviso da lei, ma il cenno al suo misterioso passato mi empiva d'un inesprimibile sgomento amaro. In pari tempo l'idea di avermi presto a trovar solo con lei, l'idea che forse dopo questo ultimo sforzo ella cederebbe, mi faceva battere il cuore a precipizio.

—Oh Violet!—gridò la signorina Luise venendo verso di noi.—Se tu avessi veduto! due scoiattoli così carini! Correvano su e giù per un albero con le loro codine ritte, si fermavano a guardarci con quei cari musini, con quei cari occhietti!

Era ben carina anche lei, la signorina Luise. La sua snella personcina aveva una grazia deliziosa di movenze pronte in cui l'ultima gaiezza infantile si mesceva alle prime mollezze, al riserbo della maturità, e il vero vergissmeinnicht tedesco fioriva nei suoi occhi cerulei. Sedette accanto a miss Yves, si mise ad accarezzarla, a parlarle sottovoce. Le ero tanto grato di questa tenerezza, essendo vietato a me un solo sguardo d'amore; pure le sue carezze, per la stessa cagione, mi facevan soffrire. Violet le strinse la mano, la baciò sui capelli.

Fu lei che mi parlò per la prima. Mi domandò se conoscessi la Riviera. Si scoperse che aveva passato alcuni giorni a Bordighera mentre io era a Ospedaletti. Avrei potuto vederla nelle mie passeggiate vespertine, seduta sugli scogli del Capo di S. Ampelio a contemplare, verso la Francia, il tramonto. Fui per dirle che una sera, ebbro di quel mare e di quel cielo congiunti in un fuoco immenso, avevo inciso nel macigno la parola Love. Era vero, ma mi trattenni. Ella pure non mi disse di avere inciso un nome, non il mio nome, sopra l'ultimo dei piccoli pini che ombreggiano la via dove, uscendo da un bosco di palme, sale verso Bordighera vecchia a scoprir la marina; e che le aveva fatto una profonda impressione di ritrovare quel pino, due giorni dopo, troncato dalla tempesta. Avevamo passeggiato ambedue fra Ospedaletti e Bordighera nel cuor di gennaio all'aurora, avevam veduta la luna pendere smorta a ponente sugli alti uliveti delle colline, e, attraversando l'altra boscaglia d'ulivi a mezza via avevamo veduto giù tra le frondi ondular in mare la lunga riga d'oro del sole nascente. Io parlavo con un turbamento profondo. Violet mi intendeva, la sua voce diventava sempre più sommessa, qualche volta tremava. Gli altri pendevano dalle nostre labbra. Quando si tacque la signorina Luise sospirò, annunciò che aveva un gran desiderio di vedere l'Italia, incominciò a dire i versi di Mignon e s'interruppe a mezzo.

—Dahin, dahin—esclamò il dottor Topler, brandendo le due bottiglie di Rüdesheimer:

Möcht ich mit dir, o mein Geliebter, ziehn*.

* Colà, colà vorrei, o mio diletto, andar con te.

Si rise. Gli occhi di miss Yves s'incontrarono un momento coi miei. Ah non parlavano prudenti come avean parlato le labbra! Li volse subito altrove, ma io ne avevo già la dolcezza elettrica nelle ossa.

—Come sarebbe bello di vivere là—disse a mezza voce la biondina.

—Sì—rispose Violet nello stesso tòno—ma vorrei morire qui.

—E non vivere?—le disse il suo fidanzato timidamente, cercando di prenderle una mano. Violet la ritirò in fretta.—Sì, sì—rispose frettolosa, come per correggere la ripulsa—anche vivere.

Il signor Treuberg prese finalmente parte alla conversazione, esprimendo il parere che il Maiwein fosse pronto.

Il limpido Rüdesheimer così odorato di bosco e di primavera era mite, acquoso al palato, ma mi correva come fuoco nel petto, vi divampava in gioia. Ero ebbro di quell'ultimo sguardo e della speranza di stringermi un giorno Violet fra le braccia, mia sposa, mio corpo, anima mia per sempre. Degli altri il solo Treuberg e il dottor Topler bevevano. La signorina Luise compativa il vino in grazia del Waldmeister e si accontentò di libarlo. Lo mesceva invece a noi molto generosamente. Quando ne versò a me ed io la ebbi ringraziata, il dottor Topler mi disse che in nessun paese come in Italia aveva trovato tanta gente pronta a far su due piedi una fila di brindisi in versi; e che avrei dovuto improvvisarne uno per la signorina von Dobra. Accettai e mi ritirai un poco in disparte. Subito dopo udii acclamare gli sposi.—Tocchi dunque!—diceva quindi con voce concitata il dottor Topler:—beva dunque!—Non potevo vedere a chi parlasse; ma non era difficile immaginarlo. Dio, come Violet doveva soffrire, com'era doloroso e dolce per me di sentirlo!

Scrissi presto i versi cui nessuno poteva intendere tranne lei. Si volle ad ogni modo che io li recitassi; si era curiosi della loro musica. Fui ascoltato religiosamente dalla brigata grave e composta, come dai faggi e dagli abeti. Solo il signor Treuberg approfittò dell'occasione per mangiarsi l'ultimo Würstchen. Tutti gli altri, tranne miss Yves, mi guardavano a recitare.

A te, bionda fanciulla, io bevo il vino biondo, Il riso del tuo sole, de' colli tuoi l'odor. Bevo e mi veggo sorgere dentro al pensier profondo Il Reno sacro, i clivi, torri, vigneti e fior.

Bevo ed il vin divampami nell'estro suo straniero, Mi batte ed arde un novo cor di poeta in sen. Bevo e mi bacia un alito, un'anima, un mistero Che dal più dolce fiore de la foresta vien.

Violet fu richiesta di tradurre a voce le due strofe, e le tradusse speditamente, facendomi ripetere ciascun verso. Solo gli ultimi due la fecero esitare. Tradusse mi bacia con ich fühle (io sento), e provai in questa infedeltà la squisita dolcezza di essere inteso.

Ammirai quindi la sua perfetta disinvoltura nella parte che si era imposta di parlarmi o farmi parlare con lei. Tanta forza di volontà e di intelligenza era una rivelazione per me, che n'ebbi uno slancio d'orgogliosa gioia e compresi forse per la prima volta quanto sarebbe stata potente la unione delle nostre anime. Solo una volta smarrì, voluttuosamente per me, la signoria di sè stessa. Si parlava di letteratura. Mi avevano fatto confessare ch'era la mia occupazione, e il professor Topler, il fidanzato, mi disse, alludendo al brindisi, che d'allora in poi mi avrebbe ispirato la musa tedesca.

—Oh no!—esclamò Violet.

Tatti la guardarono sorpresi ed ella arrossì forte. Cara, non voleva ch'io rinnegassi l'arte della mia patria. La ringraziai cogli occhi, le dissi col pensiero che poteva star tranquilla; e risposi al fidanzato che, viaggiando in Germania, il Rüdesheimer, il Waldmeister, i ricordi di grandi e amati poeti potevano bene ispirarmi un momento, ma che mai non mi sarei legato ad alcuna musa straniera; nemmanco, aggiunsi con intenzione, alla musa inglese che pure aveva un vero fascino per me.

Topler seniore andava facendo da un pezzo segni d'impazienza e proruppe a esclamar che suo fratello non capiva niente, che portare il patriottismo nell'arte non era degno di un tedesco nè, con mio rispetto, d'un poeta.—Tutta la poesia—diss'egli—ch'è buona solo per voi italiani o solo per noi tedeschi, eccola!—e buttò a calci una bottiglia vuota giù per la china del bosco. Il professore cercò di giustificarsi, ma non aveva affatto inteso la questione. Suo fratello crollava a furia il capo e le spalle e si volse a me senza dargli più retta.— Geklingel —diss'egli— und nichts weiter *.

* Suono e niente altro.

—No, no—disse Violet sorridendo.—Lei è stato troppo cattivo, credo, con quella povera bottiglia. Credo che vi sarà stato dentro ancora qualche profumo del Reno e di Waldmeister.

Ella parlò quindi con graziosa semplicità della poesia puramente nazionale, della poesia popolare così ricca di fragranze naturali. La sua voce pareva anche più melodiosa del solito. Si dolse lievemente di non poter cantare alcun Lied, e sorrideva dicendolo; ma le si vedeva la tristezza amara negli occhi. Forse neppure lei aveva perfettamente intesa la questione, ma pure fummo tutti d'accordo contro il dott. Topler che per l'inno alla Campana di Schiller avrebbe dato tutto il Wunderhorn. La signorina Luise batteva i piedi dal dispetto: Dir male dei suoi cari Lieder! Così graziosi, so nett! Non aveva dunque affatto cuore il dott. Topler?

Topler juniore la pregò di cantarne uno.—Sì signore—disse ella—perchè Lei è stato buono—e cantò con un fil di voce ma con grazia incomparabile, queste strofette in dialetto ch'ebbi più tardi da lei stessa, manoscritte. Non ne intesi, allora, una sola parola.

Und a gschnippigi gschnappigi Dalketi dappigi Na das is aus Muasst es hab'n im Haus.

Aber a willigi billigi Rührigi, gfürigi Das is a Leb'n Ko koan lustigers geben.

La cara fanciulla cantava appoggiata al tronco d'un faggio. Bionda, elegante, col suo bel visetto lucente di gaiezza e di malizia, pareva bene una piccola fata scherzosa della selva tedesca. Intanto sua sorella andava silenziosamente cogliendo fiori, la signora Treuberg, alquanto rossa in viso, guardava spesso i due fidanzati con una curiosità per me incomprensibile, Violet guardava alla sua volta, sorridendo, il vecchio Topler che seguiva attentamente la canzonetta con una mimica strana della fisonomia. Quanto allo sposo, poichè la signorina Luise cantava per lui, egli compieva con ogni scrupolo il suo dovere di tenerle gli occhi addosso. Non aveva una fisonomia mobile ed espressiva come quella di suo fratello; mi parve tuttavia vedervi un'ombra di turbamento. Pure il signor Treuberg gli faceva, ridendo, dei gesti, malgrado le occhiate di sua moglie, come per dirgli che la canzonetta pareva fatta apposta per lui. Avrei voluto poter godere a cuore tranquillo della graziosa scena che pareva tolta da una vecchia vignetta tedesca. Gli abeti sparsi tra i faggi improntavano di tristezza nordica la poesia del verde, dei fiori, delle macchiette; quanto al costume non mi era difficile immaginare un codino dietro all'arguto viso imberbe del vecchio Topler e molta cipria sulla testa bionda della signorina Luise. Ma col cuore che avevo, l'idea mi venne e mi passò ad un punto.

Quando la piccola fata ebbe finito il suo Lied, solo miss Yves le disse—brava.—Tutti gli altri mi parvero imbarazzati, meno il dottor Topler che taceva e durava a guardare la giovinetta col suo sorriso acuto. Ero incerto se domandare o no il significato delle strofette misteriose, quando la signora Treuberg propose di partire, e tutti si alzarono con un'aria di contentezza. Mi proponevo d'interrogare il mio amico Topler, ma Violet lo rimproverò dolcemente di averla abbandonata nel primo tratto di via e lo pregò di non ricadere in fallo. Soggiunse che avrebbe forse avuto bisogno di un secondo cavaliere. Mi accompagnai alla signora Treuberg e mi arrischiai a parlarle della canzonetta.—Non era a posto, non era a posto,—mi rispose.—Erano lodi di una sposina molto allegra e molto svelta. La nostra povera amica non può essere così.—Vidi che la biondina aveva intesa la propria storditaggine: per meglio dire, sua sorella gliela aveva fatta intendere. Prima n'era rimasta tutta mortificata; poi si era messa attorno a Violet, con mille carezze, con mille premure.—Povera amica!—susurrò la mia compagna.—Oggi cammina peggio del solito.

Si uscì, dopo brevi passi, all'aperto, sul dorso quasi piano della collina, dove un viale volge a sinistra verso Eichstätt invisibile nell'altra valle, e a destra corre via lungo e diritto l'orlo del bosco. Ricordo il liquido canto, davanti a noi, d'un'allodola perduta nella immensità serena. Violet si fermò come per ascoltarla. Gli altri discussero intanto se scendere direttamente ad Eichstätt o prendere a destra e scendere per il Parkhaus e le Anlagen.

—Temo—disse Violet—di dovermi riposare un poco al Parkhaus. Sono molto stanca.

Vidi tosto che non si trattava di sola stanchezza. Il suo fidanzato, mezzo tramortito, guardava lei, guardava suo fratello, non sapeva che si fare, aveva manifestamente paura di riuscire importuno per troppo zelo, mentre io subivo il crudele tormento di dovermi mostrare presso che indifferente. Violet desiderò sedere un poco e poi si ripose in cammino appoggiandosi alle sorelle von Dobra. Non diceva cosa si sentisse, ma aveva bisogno di fermarsi a ogni due passi. La signora Treuberg disse piano al vecchio Topler che sarebbe stato bene far salire un medico al Parkhaus. Topler alzò gli occhi al cielo.

—Scenderà con lei—mi diss'egli.—Adesso li accompagniamo sin presso al Parkhaus e poi noi due prendiamo le Anlagen.

Nel congedarmi dalla comitiva, dissi a Violet che sarei forse rimasto qualche tempo ad Eichstätt, e che speravo rivederla e in buona salute. Mi rispose ch'era ospite della signora Treuberg. Questa mi aveva già invitato a casa sua.

Appena fummo soli, Topler cominciò a brontolarsi, camminando via curvo con gli occhi a terra:—Oh che bestia! Oh che bestia! Oh che povera stupida bestia!

Non pensavo a domandargli di chi parlasse; ero nella massima angustia e pensavo solo al modo di procacciarmi presto notizie. Intanto gli chiesi coll'accento più indifferente che seppi, se la signorina fosse cagionevole di salute.

—Ma non vede?—mi rispose incollerito come se l'avessi offeso.—Non s'è accorto? Non ha osservato? Non capisce che non può camminare? E mio fratello la vuole sposare per forza! Non gli dice stupido?

—Oh no!—esclamai.

—Come, no?—gridò Topler.—Come, no, se lei sposerebbe me più volentieri di lui?

Non potei a meno di sorridere.

—È sicuro—riprese l'altro.—Per lui ha stima, s'intende; non vi sono in tutta la Baviera due caratteri d'oro come mio fratello; ma per me ha simpatia.

Non mi piaceva entrare in questo argomento. Ero fermo nel proposito, espresso a Violet, di manifestare le mie intenzioni, ma non era giunto il tempo: e intanto non stimavo leale giovarmi dell'ignoranza di Topler per ottenere da lui informazioni di carattere intimo. Lasciai quindi cadere il discorso e discendemmo in silenzio.

Uscendo da una fitta selvetta di giovani faggi e scoprendo la quieta valle dell'Altmühl, le prime case di Eichstätt, mi vennero in mente le parole dettemi da Violet, al Belvedere, sulla piccola città tedesca, dove la chiamava il destino. Non l'avrei creduta così divisa dal mondo e dalle sue vie, così mascherata di alture deserte. Quando vidi sotto il brullo monte opposto la sua cinta turrita, e giù ai miei piedi le torri della cattedrale, quand'ebbi percorsa quasi tutta la discesa senza incontrar mai anima viva, senza udire un suono di ruote nè di opere, l'idea di un triste e solenne destino congiunto a quel luogo risorse in me.

Toccando il fondo della valle, dove colossali pioppi congiunti da una folta siepe fiancheggiano le chiare acque del fiume, passando lo stretto ponticello che le cavalca, la solitaria cittadetta mi parve meno triste, e pensai che vi si potrebbe nasconder bene, secondo il precetto antico, una vita felice. Mi congedai dal mio compagno sulla porta dell' Aquila Nera, dove mi aspettava il mio bagaglio. Erano circa le due e Topler mi promise che mi avrebbe fatto sapere qualche cosa di miss Yves la sera stessa.

XVII.

Attribuivo il malessere di miss Yves alla sua emozione e allo sforzo di reprimerla! per cui le mie angustie non erano senza molta speranza che ella si rimettesse prontamente. Soletto in una camera d'albergo, andavo pensando alla mia situazione. Quando potrei veder Violet? Quando sarebbe bene di parlare al dottor Topler? Perchè intendevo fare la mia confessione a lui; ciò che gli avevo udito dire del matrimonio di suo fratello m'inanimava. Pensai pure a casa mia dove non avevo ancora scritto, alle meraviglie che farebbe mio fratello vedendosi arrivare una lettera da Eichstätt; pensai agli uffici pubblici che tenevo nella mia città e che avrei dovuto trascurare se l'attuale incertezza fosse durata lungamente. Me ne doleva, ma mi dissi che in quel tempo, più o meno breve, si sarebbe deciso che la mia vita avvenire avesse a salir molto in potenza o ardore di opere buone, o molto a discendere. Così tranquillai la mia coscienza, com'è sempre il primo studio di ciascuno che la sente inquieta; e quantunque il modo che tenni fosse dei più volgari e fallaci, posso affermare di avervi portato una fede profonda.

Il bisogno di parlare a Violet e ch'ella sapesse un giorno quali fossero stati, dopo il nostro incontro, i miei pensieri e il mio cuore, mi fece scrivere in certo quaderno, mio fedele compagno, quel che segue:

«Eichstätt, albergo dell'Aquila Nera, 11 maggio 1872.

«Cara, sono ancora con te. Chiudo gli occhi e costringo l'anima mia ad uno slancio, il più intero e veemente. Forse mi senti, ne hai ristoro. Quanto è debole lo spirito umano! Non posso durare in questo sforzo, sono ripreso dalle sensazioni del presente, e ciò mi rattrista come se dentro a me tante ali cadessero. Dovevo dire: quanto è debole il mio spirito. Ma solo adesso mi avvedo che la vanità egoista ha voluto dire in quell'altro modo.

«Sono debole di mente, sono vano. Il mondo non lo crede, ma che m'importa del mondo? A te, a te lo dico, a te che mi ami. Mi tormenta l'idea che tu non sappia, malgrado le mie lettere, quanto sia povera e inferma l'anima mia. Che dolcezza, che infinito riposo quando ti avrò detto tutto tutto, e m'amerai ancora! Sarà come un'ombra della vita ventura, dopo l'ultimo perdono.

«Dio, non oso quasi dirlo a me stesso! Vedo te che rileggi queste linee dopo lunghi e lunghi anni felici, quando non avrai più di me che la memoria e la speranza. È questo il posto d'una lagrima tua?

«Palpito, fuoco, amor diventa verso! Entra nei dolci occhi di lei, va immerso Nel fedele suo cor, sciogliti allora, Torna palpito, fuoco, amore ancora.»

Più tardi uscii dall'albergo, non senza la lusinga irragionevole d'incontrar chi venisse dal Parkhaus; non vidi alcuno. Prima di uscire avevo chiesto dove abitasse la famiglia Treuberg. M'indicarono una casa del Rossmarkt, piccola, bassa, graziosa; in fondo alla via si leva sopra i tetti il dorso verde di un colle. Non ci vidi altro segno di vita che le finestre del primo piano aperte. Tornando per la Residenzstrasse, sostai nelle ombre di un giardino ad ascoltar la voce blanda di una fontana, l'unica voce della strada deserta. Era domenica e me n'ero dimenticato. Mi venne allora il pensiero che l'uomo non dovrebbe lasciarsi signoreggiar così dall'amore, e mi sovvennero le parole di un libriccino che dai venticinque anni in poi io porto meco ovunque vado, gli Essays di lord Bacon. Mi dissi però tosto che le parole del Saggio sull'amore non facevano per l'amore mio, destinato a suscitar il fiore dell'agave. Allora tutto era tumulto, tutto era discordia nell'anima mia, tutto era fervore di una trasformazione che altri vi operava, che rendeva attonito me stesso, mentre sentivo in me il germinar oscuro di tante idee, di tanti sentimenti nuovi e persino gli occhi pareva che cominciassero a vedere in un modo diverso.

Verso sera uscii nuovamente e combinai il dottor Topler che veniva appunto ad annunziarmi il felice arrivo di miss Yves, la cui indisposizione era stata di breve durata. Mi domandò se mi trovassi bene all' Aquila Nera e mi propose di accompagnarlo a casa sua.

—Lei mi piace molto, signor poeta—diss'egli ex abrupto.—Cosa diavolo è venuto a fare ad Eichstätt?—Come?—soggiunse, vedendomi esitare.—Lei non domanderebbe questo ad un amico?—Credo—risposi—che Le dirò perchè sono venuto ad Eichstätt, ma non adesso.

Il dottor Topler si piantò, come un quadrupede curioso, su i due piedi, la canna e l'ombrello, torcendo in su il viso a guardarmi senza dir nulla; e riprese la via.

Egli alloggiava con suo fratello, presso al monumento del vescovo S. Villibaldo. Volle che salissi—Mio fratello sarà a casa Treuberg—diss'egli.—Aspettava me pure a prendere il thè, ma non ci vado. Non posso sopportare nè il thè nè il padrone di casa. Ho capito stamattina che Lei ama molto la musica e voglio farle sentire della musica italiana.

Non potrò mai dimenticare la figura del vecchietto curvo che portava il suo lungo naso a destra e a sinistra sopra la tastiera, dietro al moto composto e agile delle mani. Quelle dita scarne, aggrappate come uncini ai tasti, si discorrevan sotto, non parendo quasi muoversi, una musica quieta, legatissima, serena con qualche punta di affetto e di scherzo.

Ogni tanto esclamavo—bello!—ed egli rideva muto, suonando; poi diceva suonando sempre—Sa di chi è? Sa di chi è?—Gli nominavo qualche nostro maestro antico. Rideva, suonava e non rispondeva.

Toplerus —mi disse quand'ebbe finito il pezzo.— Toplerus senior, organista di villaggio.

Credo di avere interamente conquistato il suo cuore quella sera. La sua musica, così bella, non era originale; non riesce difficile a un compositore d'ingegno che abbia dimestichezza con le opere dei nostri primi classici scrivere in quello stile per modo da ingannar un dilettante; ma io, preso così alla sprovveduta, ne rimasi stupefatto. Topler ne era felice e mi fece udire non so quante suonate e toccate. L'ultimo pezzo fu uno scherzo capriccioso intitolato Nonnenschlacht —Battaglia di monache—che Topler mi commentò suonando. Faceva oramai buio. Quando tacquero le ultime note gravi del pezzo che figuravano i rimbrotti rauchi della vecchia badessa e che Topler accompagnava con certi sordi abbaiamenti orribili, osai pregarlo di chiarirmi un dubbio, di dirmi se fosse sacerdote.

—No—rispose molto gravemente—ho voluto diventarlo un giorno e non ne fui degno.

Più di così non mi disse e più di così non potei saper mai, neppure in seguito.

Egli fece portare un lume e il caffè; immaginando di offrirmi uno squisito regalo. Il caffè, per verità, era detestabile, ma non mi pareva vero di legarmi sempre più con Topler, il quale mi confessò alla sua volta ch'era felice di conversare con un italiano.—Con Lei mi accordo—diss'egli—più che con parecchi dei miei compatriotti.

Poco dopo arrivò suo fratello da casa Treuberg. Miss Yves stava oramai bene; tuttavia il fidanzato pareva assai pensieroso e si ritirò quasi subito. Io mi alzai, ma il mio vecchio amico non mi permise di partire. Egli era venuto osservando suo fratello con l'attenzione di un padre e non sapeva nascondere le sue angustie. Mi disse che temeva suo fratello non si sentisse bene, e mi chiese licenza di andargli a parlare un momento. Quando ricomparve aveva una faccia piuttosto dispettosa che triste.

—Qualchecosa di male?—diss'io.

—Oh no no, eine alte Geschichte, storie solite.

Si tacque entrambi un poco, e poi Topler mi lasciò finalmente andare.

Prima di ritornare all'albergo passai sotto le finestre illuminate di casa Treuberg, e guardai lungamente la porta dove avevo oramai deciso di entrare all'indomani.

XVIII.

Erano appena suonate le due pomeridiane quando m'avviai a casa Treuberg. Camminavo a capo basso e ho nette in mente le ombre delle case lungo il marciapiede che seguivo. Fino al momento di uscire dall'albergo avevo molto fantasticato se la vedrei, se non la vedrei, se potrebbe parlarmi o no; postomi in cammino, non fui più in grado di pensare a niente.

Suonai e domandai della signora. La cameriera mi rispose che tutta la famiglia era uscita, che c'era in casa soltanto la signorina Yves.

Mi balzò il cuore. Provai una sensazione di sgomento e di riverenza, di gratitudine violenta verso Dio quasi come quando rifeci il sogno memorabile, come quando, a Belvedere, intesi per la prima volta la dolce voce.

—Allora—risposi—vedrò miss Yves.

La cameriera non domandò il mio nome, mi credette forse uno straniero amico della signorina straniera, e m'introdusse. Attraversammo l'anticamera; la cameriera aperse un uscio e disse:—Un signore cerca di Lei.—Vidi Violet che stava scrivendo.

Non era sola; una bambina leggeva presso a lei, un'altra giuocava con la bambola, silenziosamente. Miss Yves alzò la testa e mi diede il buon giorno con un lieve sorriso, tranquillamente. Non vidi che viso avesse, perchè voltava le spalle alle finestre. Le bambine mi guardavano, attonite.

—Lei scriveva?—dissi, in tono di scusa.

Violet mi rispose sotto voce, in inglese, qualche cosa che non intesi bene.

—Per me?—domandai.

—Sì—diss'ella.

—È subito finito—soggiunse.—Non posso dirle questo a voce.

Aspettai, accarezzando la piccola lettrice. L'altra piccina avea posata la sua bambola ed era venuta a porre il capo in grembo a miss Yves. Questa mi porse il foglio e si mise pure a baciare ed accarezzare la testolina bionda. Lessi stando in piedi presso al tavolino.

Violet non aveva cuore di dir ciò che scrisse, e io non ho cuore di riferirlo qui nella soave, squisita forma in cui lo conservo. Mi perdoni, amica mia, non lo darei a leggere nemmanco a Lei. Miss Yves si doleva, con parole accorate, ch'io non l'avessi obbedita, e diceva di aver consentito a parlarmi ancora, solo per la fiducia che dopo il suo racconto mi allontanerei da lei per sempre. Mi pregava quindi di usarle pietà, di non dirle parole dure, di congedarmi da lei con clemenza.

Io ero commosso sino al fondo dell'anima, mi mancava il respiro; Violet pure ansava, con una faccia smarrita. Stesi le mani come a prendere le sue. Ella accennò rapidamente alle bambine, onde compresi che, sola, me le avrebbe concesse.

—Lo prometto—le dissi in italiano, con voce soffocata.—Mi crede, non è vero?

Violet rispose, pure in italiano:—Sì.

E si alzò.

—Crede—diss'io—di potermi parlare subito?

Ella rispose ancora:

—Sì.

Penava a reggersi in piedi e si appoggiò alla parete fra le finestre. Le venni vicino; ero tra lei e le bambine.

—E se—le susurrai—dopo il Suo racconto La pregassi di essere mia moglie?

Ella teneva ora il capo chino sul petto, e lo scosse un poco senz'alzarlo.

—No?—chiesi angosciosamente—No?

—Non mi pregherà—rispose. La voce soave non s'udiva quasi più.

Restammo alquanto senza parlare.

—Allora…—diss'ella.

Si accostò alla bambine e parve ritrovare l'usata grazia serena. Diede loro un libro illustrato, le pregò di star tranquille e poi mi offerse di mostrarmi un albo di fotografie inglesi.

Sedemmo ad un altro tavolino nell'angolo più scuro della stanza. Nell'aprire l'albo Violet urtò leggermente un vaso di porcellana che portava delle rose sciolte. Una piccola rosetta incarnatina cadde sulle fotografie.

Miss Yves cominciò il suo racconto sottovoce, con gli occhi fermi alla rosetta. Parlando e parlando prese il fiore nelle mani, che si aprivano e si chiudevano con lenti moti convulsi, e non lo lasciò più.

Mai non vorrei raccontar per disteso la sua storia dolorosa e forse non lo potrei neppure. Molte cose non intesi, ed ella soffriva tanto nel dirle che non osavo pregarla di ripeterle. Io stesso soffrivo e preferivo cento volte non intender tutto.

Fino ai diciannove anni ell'aveva pensato che la sua imperfezione le togliesse di esser amata. Uscita di questo errore si era sulle prime alquanto difesa, poi aveva risposto alla passione con tale fuoco ed impeto che non si credeva capace di amare così mai più.

La udii raccontar le vicende angosciose di questo amore dicendo tutto, fermandosi quando la parola era dura a metter fuori, non togliendo mai nè le mani nè gli occhi vitrei dalla rosetta. La sua voce diventava sempre più rotta, sommessa e torbida; quanto a me, la gelosia, la pietà, il dolore, l'ammirazione e l'amore mi facevano in mente una sola tempesta. Era la storia del più appassionato e cieco fra i cuori, dell'anima la più fiera, e insieme la più equa verso chi l'avea fatta soffrire, la più grande persino negli errori suoi, nello sdegno, forse talora ingiusto, di ciò che la comune opinione pronuncia. Il suo amore era stato distrutto d'un colpo, non dirò come; ella s'era trovata quasi senza cuore fino al giorno in cui avea letto il mio libro.

Non versò, parlando, una lagrima sola, ma tutta la povera rosa perì, e sulla fine, le convulse mani che l'avevano unita si stringevano a vuoto come in delirio. Io le raccolsi, le chiusi nelle mie, le serrai sul mio petto, dissi piano qualche parola di conforto. Mi parve che la cara persona si elettrizzasse tutta, che piegasse a me, che gli occhi avessero un lampo di sereno. Le bambine la chiamarono in quel momento: miss! miss! Ella ritirò le mani e accennò che tacessero; non ci fu verso, dovette alzarsi, trascinarsi a stento fino a loro. Mi alzai pure. L'avevo confortata, ma col petto oppresso da un dolor mortale. Mi posi a camminar lentamente su e giù per la stanza, e feci alquanti giri prima d'accorgermi che miss Yves era ancora là al tavolino, col viso tra le mani. Me le accostai, le domandai:

—E questo matrimonio?

Ella scostò le mani dal viso ma non alzò gli occhi a me.

—Per i miei parenti—rispose.—Lo hanno tanto desiderato. Sono povera, sono un peso per essi. No, mi vogliono bene, ma non sono una figlia. Mio padre e mia madre sono morti.

Che pietà udirla parlare così sconsolata, con quella infinita dolcezza di voce, vederla tanto pallida e affranta, pensare che coraggio magnanimo e che tormento era stato il suo di raccontarmi tutto così! Avrei voluto stringermi la sua testa sul cuore, ma forse anche senza la presenza delle bambine non l'avrei potuto. No, non l'avrei potuto contro il dolore e l'orgoglio. Non sapevo che mi facessi nè che mi dicessi. Mormorai:

—Grazie, Dio La consoli, Dio La benedica.

Ella scosse ancora il capo in silenzio come per soffocar le lagrime e si mise a brancicar i petali sparsi della rosetta. Sapevo bene che la mia dolorosa pietà, il mio turbamento dovevano essere terribili per lei, quantunque preparata. Era uno strazio per me di saperlo, ma pure non potevo ancor dirle la parola che sentivo lottare e lottare in fondo all'anima mia. Violet fece atto di gittar da sè le foglie di rosa. Allora finalmente posai la mia sulla sua mano e le dissi con dolcezza:

—No.

Trassi una vecchia lettera, vi raccolsi ad uno ad uno i poveri petali dispersi. Ella mi guardava la mano senza dir niente e solo dopo alcuni momenti mormorò:

—Cosa fa?

Non potei rispondere, continuai a raccoglier le spoglie della rosetta ed ella non mi interrogò più. Una fogliolina era caduta sul pavimento. Violet si chinò a raccoglierla e me la porse.

—Povera rosa!—diss'ella.

Le presi la mano, gliela strinsi forte, ripetei:—povera rosa!—Subito gli occhi suoi s'empirono di lagrime.

—Starà con me—dissi—sempre con me. Nessuna rosa mi sarà più cara di questa che ha sofferto tanto.

Miss Yves non parve intendere ciò che volevo dire.

—Ho ucciso qualche cosa—diss'ella a voce bassissima—anche nell'anima Sua, non è vero?

—Credo di sì—risposi—ma vi è anche nata qualche altra cosa.

Era vero; mi pareva di esser passato per un gran fuoco e che i momenti fossero stati anni, e che il mio amore e il mio cuore si fossero trasformati interamente.

—Adesso—ripigliai—Ella mi è cara in un modo più profondo, in un modo più sacro; è tanto più unita a me di prima.

Miss Yves ansava, ansava e non rispondeva.

Le sedetti accanto, le susurrai all'orecchio:

—Violet, vuol essere unita a me interamente, davanti a Dio, davanti a tutti?

Ella trasalì, mi afferrò una mano, la strinse con lo spasimo nervoso di prima e mi disse piano, tenendo sempre il viso chino e gli occhi bassi:

—Non può essere! Non lo dica! Non lo dica!

L'uscio dell'anticamera si aperse; Violet ebbe appena il tempo di ritirare la mano, ed il signor Treuberg entrò. Sua moglie era presso un'amica malata e faceva avvertire miss Yves che non avrebbe potuto rientrare prima di notte. Promisi al signor Treuberg di ritornare presto per riverire madama, e mi congedai portando meco l'ultimo sguardo di Violet, uno sguardo appassionato e triste in cui mi si abbandonava tutta per un lampo e mi ripeteva insieme: Non può essere, non può essere!

XIX.

Vissi fino all'indomani mattina come un malato di terzana ardente che lavora con la torbida fantasia e non sa bene se goda o se soffra. Mi domandavo se il fiore dell'agave fosse veramente sbocciato a Belvedere di Lanzo, o se solo adesso incominciasse con tormento e con ebbrezza a lacerarmi l'anima per uscirne. Il mio amore per Violet si era fatto più intenso; la sua confessione ci aveva più avvicinati e stretti che nè lei nè io potessimo prevedere. E potevo io immaginare certe stranezze della mia natura? Avevo a difendermi, nel mio accoramento geloso, da un acre istinto che mi faceva desiderare Violet più impetuosamente perchè era stata tanto amata e aveva tanto amato ella stessa.

Alla sera mi recai da Topler. Non c'era; c'era invece suo fratello. Lo avrei evitato volentieri, ma non mi fu possibile, perchè mi aperse egli stesso; parve felice di vedermi e mi fece le più vive istanze perchè entrassi. Non sapevo spiegarmi, sulle prime, tale inopportuna cordialità; poi intesi che avrebbe voluto parlarmi di qualche cosa e non sapeva venirne a capo. Finalmente, dopo non so quante cerimonie, mi confessò arrossendo che sperava molto nel mio aiuto per scegliere alcuni libri italiani cui aveva divisato di offrire in dono alla sua fidanzata. Gli risposi che non ero in grado di accontentarlo. Rimase, naturalmente, sorpreso o mortificato, e si scusò col solito ossequio. Egli aveva un'aria così modesta e buona nella sua timidezza! Lo sentivo migliore di me che stavo per togliergli il suo tesoro, la sua speranza, la sua felicità. Fu quasi una consolazione per me di pensare che Violet mi aveva detto «non può essere» che non ci eravamo accordati contro di lui a sua insaputa.

Volli dirgli che avevo necessità, per motivi urgenti, di parlare a suo fratello. Più tardi egli ricorderebbe queste parole e il mio accento commosso, intenderebbe quanto mi fosse stato a cuore di non essere nè parer disleale. Il mattino seguente ricevetti questa lettera di miss Yves:

«Mi credo in dovere, benchè spossata a morte, di soggiungere qualche cosa circa il mio matrimonio, avendone parlato non bene nella commozione di poco fa.

«Ho dato liberamente una parola non inconsiderata. Conosco da un pezzo il prof. Topler, l'ho sempre stimato profondamente onesto e buono. Non potendo ricambiare il suo sentimento, lo pregai che si allontanasse da me. Egli obbedì, umile; continuò ad amarmi o ad aspettare nell'ombra. I miei parenti mi disapprovarono e me lo dissero. Dopo qualche tempo T. mi fece chiedere il permesso di vedermi ancora. Esitai lungamente, considerai la mia situazione di fronte a' miei parenti per la cui pietà vivo, considerai che la mia salute mi toglie di provvedere da me alla mia esistenza. Malgrado la mia grande stima e la mia gratitudine per T., l'idea del matrimonio m'ispirava un invincibile orrore; mi domandai se il suo amore, veramente alto e nobile, non potesse accontentarsi di una convivenza fraterna e del nome di sposo, se non gli potrei proporre una tale unione. Così feci, e la mia offerta fu accettata con gioia. Rimasi mortificata di pensare che forse quest'uomo semplice era più nobile di me, malgrado i miei raffinamenti di sentimento e d'intelletto. Questo fu per me il principio d'un nuovo scetticismo, il più amaro; divenni scettica verso me stessa. Una persona pia mi disse che ciò era buono per il mio orgoglio, che mi avvicinavo a Dio; non lo so.

«Veda se posso mancare alla mia promessa! Pur troppo temo avervi già in parte mancato, pur troppo fui già debole o forse malaccorta verso di Lei. Sento che non avevo neanche più intero il diritto di confidarmi a Lei. Fu la sua minaccia di parlare a T., che mi spinse.

«Ignoro se Le sarà di conforto il sapere che qui in terra una cosa amara mi dovrebbe in ogni caso dividere da Lei per sempre, che dovrei essere per lei soltanto un'amica fedele.

«Le ho detto cosa pensassi, fino ai diciannove anni, della mia imperfezione fisica. Mai non avrei creduto poter essere amata. Dopo i ventidue ho pensato invece che potevo ispirare un capriccio, anche una passione, ma che nessuno mi sposerebbe; e quand'anche uno potesse acciecarsi tanto, il giudizio de' suoi parenti e de' suoi amici, e, passata la prima ebbrezza, il suo stesso giudizio lo farebbero pentire in breve tempo. Ciò non rispondeva al mio ideale dell'amore, ma non ho accusato gli uomini di essere troppo bassi, mi son detta che non ne avevano colpa. Accettando l'offerta di T. ero sicura che anch'egli si pentirebbe, un giorno; ma lo conoscevo tanto buono, tanto umile, sapevo che mi conserverebbe rispetto e amicizia: non desideravo amore.

«Più tardi ho conosciuto il Suo libro, ho conosciuto Lei. Fin da Belvedere di Lanzo mi venne l'idea che forse potrei essere amata durevolmente. Sa cosa mi dissi allora? Tuo padre morì di paralisi a trentasei anni, hai perduto una zia e uno zio nello stesso modo, tu sei già tocca dal destino, non potresti esser sua, saresti colpevole. Dio mio, saremmo colpevoli!

«E ora, ne la scongiuro, non parli ai T., non faccia soffrire alcuno inutilmente, parta. Grazie della tenera pietà per la rosetta. Addio, l'ultimo addio!

«VIOLET YVES.»

Lessi, piansi, rilessi, baciai e ribaciai lo scritto, come se fossero le sue mani, i suoi capelli, i suoi occhi, le sue labbra, singhiozzando: no, no, non è l'ultimo addio, no! Non potevo a meno di dirle ad alta voce: non parto, ti amo, sarai mia, non è una colpa. Uscii subito e andai diritto a casa Topler per dir tutto al mio vecchio amico. Come lo avrei detto, come avrei giustificato un atto simile, cosa avrei chiesto e che ne sarebbe uscito, io non sapevo affatto. Non ne avevo la menoma idea.

A casa Topler non trovai nessuno. Seppi dalla domestica che il professore e suo fratello erano partiti colla famiglia Treuberg. La donna supponeva che fossero andati a Obereichstätt a vedere una fonderia e che avrebbero pranzato fuori, forse a Marienstein. Lasciai un biglietto per avvertire l'amico mio che avevo grande necessità di trovarmi con lui solo e che sarei venuto nella sera.

Chiesi dove fosse Marienstein e andai a passeggiare da un'altra parte, verso il Parkhaus, col desiderio di tornar nel bosco che avevo attraversato insieme a miss Yves, di star con lei come potevo. Il cielo era grigio, l'aria quieta e tepida. Sedetti sopra un banco delle Anlagen, trassi, palpitando, dal portafogli la busta dov'erano i petali della rosetta e immaginai alcuni versi da offrire a Violet. Finivano così:

Or nel mio amore v'ha un profumo santo, Una dolcezza tenera e nascosa; In quella sera ch'ella soffrì tanto L'hai perso tu, mia poveretta rosa.

Mi par rivedere, scrivendo, quel banco delle Anlagen sopra una svolta della costa e del sentiero, la mite collina con i suoi alberi pensosi, l'Altmühl chiara giù nella valle. Sulla spalliera del sedile si legge forse anche adesso «V. Y.» Dalla mia adolescenza in poi non ero più stato tanto fanciullo! Mentre incidevo le due lettere sopraggiunsero dall'alto le sorelle von Dobra con un ragazzo e un gran bottino di fiori del bosco.

La signorina Luise parve tutta contenta di vedermi e andò subito a mettere il suo nasino sulle lettere.

—Queste non sono le Sue iniziali!—diss'ella, candidamente. Non le venne in mente che potessero esser quelle della sua amica. Sapeva della gita e mi fece una graziosa pittura di Obereichstätt, della chiesetta antica di Marienstein, e dei bei prati in riva all'Altmühl.

—Peccato—disse—che non ci siamo anche noi! Violet si divertirebbe di più.—Mi pareva che sua sorella disapprovasse tanta famigliarità con me e che volesse andarsene. Io pensavo, vedendola così bellina, così graziosa, che fortuna sarebbe stata se il professore Topler si fosse innamorato di lei.—Vengo, vengo!—esclamò la cara biondina impazientita dei cenni di sua sorella.—Ma prima voglio domandarle una cosa. Non è un orrore che Violet sposi quel brutto uomo? Lo dica, lo dica, lo dica!

Ella batteva il suo piedino e io non lo dicevo ancora, non lo potei dire. Invece il fratellino delle signorine, un monello di undici anni, esclamò senza altro:—È zoppa! Nessuno dovrebbe sposarla!—La biondina, inviperita, lo voleva battere. Il ragazzo scappò gridando che lo aveva detto papà, le sorelle lo inseguirono, udii la signorina Luise gittarmi un «adieu!» e non vidi più alcuno.

«Nessuno dovrebbe sposarla.» Ecco la dura prudenza umana, la prudenza dei savi, dei buoni, dei pii, di tutti. Mio padre e mia madre, con il loro gran cuore, con il loro alto carattere, non avrebbero detto diversamente. Violet stessa lo diceva nella sua lettera; era una colpa. Io avevo gridato nel primo impeto della passione: no, non è colpa; ma potevo proprio credere a me, a me solo contro tutti?…

Mi feci questa domanda e giudicai di slancio contro il mondo e la prudenza umana. Sia, mi dissi; soffriranno coloro che verranno da noi e noi soffriremo in essi; ma se adesso che non sono ancora, potessero scegliere, come non accetterebbero una vita terrena tribolata e breve, pure di uscir dal niente, pur d'intendere, pur di amare, pur di salire a una forma superiore ed eterna, dove queste miserie della polvere non seguono l'uomo? Nessuno dovrebbe sposarla. Almeno dicessero: nessuno dovrebbe amarla! E allora perchè è lei più dolce che non possa essere acerba qualunque pena, perchè ha un cuore fatto di passione, perchè sento io che sono in lei, solo per lei è la gloria e la potenza della mia vita, è la pace in cui sempre mi riposerò di qualunque dolore?

Palpito ancora, nello scrivere, d'amore e di collera; forse anche contro di Lei, buona amica, cui dedico queste memorie! Perchè mi figuro che anche Lei pensi come gli altri, e più avversari mi trovo a fronte, più sale il mio sdegno. Non è una colpa, mi ripetevo io allora in mente, e mi pareva di serrarmi Violet sul cuore, di convincerla con i miei baci, di dirle ch'era la mia sposa, il mio corpo, l'anima mia, il mio piacere, il mio desiderio per sempre; e che di ciò non daremmo conto agli uomini, ma solo a Dio.

XX.

Verso le sei pomeridiane di quello stesso giorno, quando stavo per uscire dall'albergo, il dottor Topler entrò da me.

—Eccomi—diss'egli.

Non lo attendevo e non avevo ancora pensato bene il modo d'incominciare la mia confessione. Vedendomi perplesso, Topler aggrottò le ciglia, prese quell'aria grave che molti prendono in ciascuna parta del mondo, quando temono si chieda loro del denaro. M'affrettai a dirgli ch'era venuto il momento di fargli sapere perchè fossi ad Eichstätt.

La sua fronte si spianò. Come si celasse nell'anima sua calda e franca una segreta punta di avarizia, non lo so, ma vi era; e certe tracce del sole e della terra sul suo abito nero non erano, lo seppi di poi, interamente effetto di trascuratezza artistica o filosofica. La sua fronte si spianò e i suoi occhi curiosi brillarono.

—È un debito di lealtà da parte mia—soggiunsi.—Forse quando Lei saprà perchè sono venuto ad Eichstätt…

—Ebbene?—fece Topler.

—Non saremo più amici.

Egli trasalì, si rizzò sulla persona, mi guardò a sopracciglia levate. A me premeva oramai d'arrivare in fondo, e ripresi:

—Ieri non era la prima volta che vedevo miss Yves. L'ho veduta in Italia. Sono venuto in Germania per lei.

Topler mi guardava petrificato.

—L'altra sera—continuai—a Norimberga, ho udito il loro dialogo davanti al caffè Sonne e ho saputo a che ora dovevo trovarmi alla stazione per viaggiar con Loro.

—Lei non sapeva—esclamò Topler—che miss Yves è fidanzata?

—Sì signore, lo sapevo. Lo sapevo da lei stessa,

—Ah! Miss Yves La conosce?

—Sì signore.

—Oh!

In questo lungo oh! come sul viso improvvisamente severo del vecchio vi era meraviglia e biasimo.

—Miss Yves—esclamai—mi respinge. Ha fatto il possibile, prima perchè non venissi in Germania, poi perchè partissi subito. Lei ha potuto osservare che durante tutto il tragitto da Norimberga ad Eichstätt non mi ha rivolto una sola parola, mentre tutti gli altri hanno invece conversato con me.

—Ma allora Lei…—scattò su Topler, e s'interruppe. Dopo un lungo mugolio sordo, come chi esita davanti a una parola, riprese a voce bassa guardando qua e là per la camera:

—Avrei quasi detto che Lei…

—Che sono pazzo? Non lo credo.

—Questo lo capisco—replicò Topler bruscamente.

—Devo pure dirle—soggiunsi—che malgrado la volontà di miss Yves resterò qui e farò il possibile per vincere questa volontà.

—E cosa dovrò dunque dir io?—proruppe Topler.

—Che non ho voluto tacere ed approfittare dell'amicizia Sua per giungere copertamente a' miei fini.

—Questo lo ha già fatto! E adesso quale azione è la Sua di perseguitare una signorina che non è più libera e che La respinge?

—Signor Topler—risposi—non mi giudichi, non…

—Io La giudico!—-esclamò Topler furiosamente.—Giudico Lei e le Sue azioni come mi pare e piace! E le proibisco di restare ad Eichstätt! Le proibisco di molestare la fidanzata di mio fratello!

—Scusi—replicai tranquillamente.—Miss Violet Yves mi ama.

Stavolta Topler mi appuntò al viso l'indice della mano destra, mi guardò a bocca aperta e non disse verbo. Parve che la sua collera si sciogliesse in stupore.

Dopo un minuto di contemplazione attonita i suoi occhi si ravvivarono improvvisamente, il suo viso si colorò. Trasse di tasca un grande fazzoletto giallo e rosso, vi guardò dentro, brontolò: è matto; poi si soffiò fragorosamente il naso, e, fatto un nero cipiglio, raggomitolandosi in furia il fazzoletto fra le mani, vi borbottò su a precipizio:

—È matto è matto è matto è matto.

—No, caro signor Topler—diss'io con un certo freddo sdegno nella voce—non lo creda.

—Ma cosa mi ha detto poco fa?—ribattè iracondo.—Non mi ha detto che miss Yves La respinge? E adesso vien fuori che L'ama?

—Scusi—gli risposi dopo un breve indugio—la confessione che per lealtà Le dovevo fare gliel'ho fatta. Solo con un amico vorrei spiegarmi di più, Lei mi dirà che oramai non possiamo essere amici. Capisco. Però io Le conserverò sempre una grande stima e una grandissima simpatia; e se Lei fosse disposto ad ascoltarmi un'ultima volta con amicizia…

Tacqui e tacque lui pure. Passati pochi secondi mi alzai con un gesto di rassegnazione. Anch'egli si alzò, prese il cappello e la mazza.

—La ringrazio a ogni modo—gli dissi tristemente, avviandomi all'uscio—di essere venuto.

Egli mi guardò negli occhi, parve scrutarmi sino in fondo all'anima; poi buttò sulla tavola cappello e mazza, allargò con impeto le braccia, ed esclamò:

—Dica!

Fui, nella mia contentezza, per afferrargli le mani. Egli si restrinse in sè, mi diede un'occhiata diffidente. Finsi di non avvedermene e presi a raccontargli la storia del mio amore, rifacendomi dall'incontro con Violet a Belvedere di Lanzo. Quando toccai de' miei due sogni per dirgli l'effetto primo della voce di lei, Topler approvò ripetutamente del capo, come un medico che oda dall'infermo la descrizione di nuovi sintomi rispondenti alla sua diagnosi del male. Ma poi, mentre venni parlando dello spirito di miss Yves, delle sue idee amare e tristi, del bene che avrei voluto farle ricevendone da lei molto più, il vecchio, che prima se ne stava a capo chino, mi levò gli occhi in viso sì che potei vedervi sorgere un vivo interesse, sparire i sospetti, ritornare la stima.

Tacqui delle lettere direttemi da Violet e delle sue ultime confidenze. Dissi solo che Violet mi amava e che mi respingeva per voler mantenere la parola data liberamente al professor Topler. Soggiunsi che avevo fede, per tanti segni misteriosi, in una volontà superiore propizia a me, in una promessa divina di concedermi ciò che avevo sognato.

Topler mi guardò un tratto in silenzio, poi esclamò:

—E che intende farà?

—Tutto il possibile—risposi.

Egli si prese le tempie fra le mani, ripetendo sottovoce:— Was für eine Geschichte, was für eine Geschichte! Oh che storia, oh che storia!—

—Senta—mi arrischiai a dirgli.—Lei non mi pareva contento, ier l'altro, che suo fratello sposasse miss Yves.

—Lasci stare, lasci stare, non posso aver detto questo—brontolò Topler come stizzito da un ricordo molesto, e stette ancora alquanto con la testa in mano.

—Io sono come un padre per mio fratello—diss'egli con voce commossa.—Io non ho che lui, ed egli, povero ragazzo, lo vede bene, s'immagina di avere Dio sa cosa, ma in fin de' conti non ha che me. Se questo matrimonio è un errore, bene—oramai l'ho accettato, l'ho accettato.

Ripetè fra sè—l'ho accettato—e stette pensieroso, mostrando nella fronte, nelle mobili labbra mute, nella inquietudine di tutta la persona un contrasto interno. Finalmente rialzò il viso ed esclamò con energia per far tacere tante occulte voci contrarie:

—Insomma, l'ho accettato!

E subito si rifece pensoso, inquieto. Le occulte voci non tacevano ancora; le leggevo sulla fronte, nei movimenti muti delle sue labbra. Sarebbe stato lieto che il matrimonio sfumasse, era fieramente tentato di darvi mano egli stesso, ma il dolore di suo fratello gli metteva paura. Quest'ultima angoscia superava ogni altro argomento. Povero vecchio, egli dava di gran rabbuffi a suo fratello, si burlava del suo chiaro di luna, ma lo amava colla tenerezza d'una madre.

—Vede, per esempio—uscì improvvisamente a dirmi—Lei ricorda che ier l'altro, uscendo dalla stanza di mio fratello, esclamai «solite storie!» L'avevo trovato a piangere come un fanciullo perchè miss Violet era stata così fredda. Io allora gli ho detto «e tu lasciala!» Sa cosa mi rispose? Mi domandò se volevo la sua morte. Capisce?…

Molte risposte e proposte mi fremevano in gola non convenienti, per un verso o per l'altro, a dire, qualcuna forse nemmanco a pensare. Quindi tacqui. Anche Topler cercava febbrilmente come coglier quest'occasione di liberar suo fratello senza spezzargli il cuore, non trovava niente, avrebbe pur voluto farsi aiutare da me, sentiva di non poterlo convenientemente fare, e taceva. C'intendevamo, nel nostro silenzio, a vicenda, anche senza guardarci; perchè se io guardavo Topler, egli guardava piuttosto le pareti e il soffitto. Così ci accordammo a trovare, senz'altre parole, che non c'era uscita, e ci alzammo da sedere, pressochè ad un punto.

Nel congedarmi da lui fui per domandargli se ci potevamo vedere ancora, e mi trattenni per non correre il pericolo della risposta peggiore. Mi parve delicatezza non stendergli la mano. Fu lui che per il primo ne fece l'atto e subito si pentì, pensando a suo fratello. Così ci separammo senz'alcun segno d'amicizia; pure nel cuore eravamo più legati di prima.

Scrissi subito a Violet:

«Ho parlato al dottor Topler, in questo momento. Gli ho detto che amo miss Yves, che ella mi ama e mi respinge, che Dio me la concederà.»

Recai immediatamente questo biglietto alla Posta, nella speranza che Violet lo potesse avere la sera stessa.

XXI.

Due ore dopo mi avviai verso il Rossmarkt, tanto per vedere le sue finestre. Camminavo adagio, evitando il chiaro di luna come se i rari viandanti potessero riconoscermi e leggere ne' miei pensieri. Nella Residenzstrasse udii voci e passi suonar dietro a me nella strada vuota; credetti poi distinguere il riso argentino della signorina Luise. Forse andava a casa Treuberg. Scivolai nelle ombre del Residenzgarten e sedetti presso la Mariensäule, ascoltando i passi e le voci che sopraggiungevano. Non riconobbi quella della Luise. La comitiva passò e si allontanò; in breve non udii più che il susurro delle fontane. La luna risplendeva in faccia a me sopra un lungo tetto erto a quattro piani d'abbaini, posava sull'alta statua di Maria, sulle vette degl'ippocastani fioriti di rosso, che il vento agitava. Pensai ad un lontano avvenire quando avrei ricordato questa notte di passione in Eichstätt, la luna, le fontane e le piante mormoranti, l'aspetto delle case straniere. Entrando nel Rossmarkt udii suonare e cantare. Le finestre di casa Treuberg erano aperte ed i suoni uscivan proprio di là; passai con un gran battito di cuore sotto il fanale vicino e andai ad addossarmi al canto oscuro d'un'altra casa. Tre o quattro persone si erano fermate in mezzo alla via ad ascoltare; in quel momento la musica cessò e i tre o quattro curiosi se n'andarono. La notte era così chiara e placida; speravo che Violet si affacciasse alla finestra. Non vidi mai nessuno. Invece un baritono cantò detestabilmente qualche cosa di wagneriano e poi una fresca voce di giovinetta disse con grazia Haidenröslein di Schubert, che avevo già udita canterellare in un mite pomeriggio di novembre, fra le ultime rose della mia collina italiana. Allora la semplice poesia di Goëthe, la semplice musica di Schubert con quella loro spensieratezza piena di occulta malinconia, mi avevano stretto il cuore; adesso mi mettevano uno spasimo di dolor geloso, adesso mi torcevo le mani perchè la dolce Röslein auf der Haide, la rosetta della landa, si confondeva nel mio segreto con la rosetta mia, con la rosetta della storia amara. «Il fanciullo disse: ti schianto; la rosetta disse: ti pungo.» Dio, povera rosa! Che voglia avevo di baciarla, di stringerla, di farle male e di piangere, rosetta, rosetta, rosetta mia, oh non Röslein roth, rosetta pallida! Non ressi ad ascoltar la fine e me ne venni via.

XXII.

Trovo fra le mie carte i seguenti versi, senza data, cui mi pare avere scritti quella notte, pensando al viaggio da Norimberga e alla colazione nel bosco. Prima di questo amore ho pensato male dei poeti che si mettevano a verseggiare quando l'arte, secondo me, doveva esser più lontana dei loro pensieri. Me ne pento. Ella potrà trovar fredde, amica mia, le interpolazioni metriche del mio racconto; pure è vero che io scrivevo versi allora come un altro avrebbe versato lagrime, senza pensare menomamente all'arte, per necessità e sfogo di passione.

Se parlo a l'altre dame e tu presente In disparte tacendo te ne stai, Te anelo e chiamo e stringo e bacio in mente, E tu in mente ne godi che lo sai.

Parlo altrui non so che, sorrido e soffro, Chi mi parla non vedo e non ascolto, Tutta l'anima mia con gli occhi t'offro Quando mi doni un lampo del tuo volto.

A te il genio, a te il cor, tu sei la sola, Sei luce, gloria sei, potenza e vita; Sei del Signor la tenera Parola A me ne l'ombra susurrata e udita.

XXIII.

L'indomani mattina, uscendo dall' Aquila Nera, m'incontrai faccia a faccia col professore Topler, che veniva a riparlarmi dei libri italiani. Mi crucciai in cuor mio che suo fratello non gli avesse ancor detto niente. Risposi che non potevo assolutamente incaricarmene e che il suo verehrter Herr Bruder ne sapeva il perchè.—Oh oh!—fece il professore ossequiosamente.—Oh oh, bene! Oh oh, bene!—Nella cerimoniosa Germania non ho conosciute due persone cerimoniose come il professore Topler, che anche nominando suo fratello gli appiccicava degli aggettivi rispettosi. Vedevo che gli pareva scortese di lasciarmi così su due piedi, e che, mortificato dalla mia repulsa, non sapeva quale discorso tenermi.

—Iersera abbiamo fatto musica in casa Treuberg—diss'egli.

M'inchinai in silenzio.

—C'era—soggiunse—anche la signorina Luise.

M'inchinai daccapo. Egli attese ancora un poco, mi fece un profondo saluto e se n'andò.

La signorina Luise! Mi pareva che volesse un gran bene a Violet, e ciò la rendeva ben cara anche a me. Avrei voluto vederla, parlare con lei di miss Yves, ma non sapevo se fosse conveniente di farle una visita. Mi ricordai che mi aveva chiesti i versi italiani fatti per lei nel Bahnhofswald, e risolsi di portarglieli. Il vecchio Topler, scendendo meco dal Parkhaus, mi aveva indicato la casa dei von Dobra nella Marktgasse. Me la ricordavo bene per una statua della Madonna col Bambino infissa fra due finestre. Topler mi aveva detto che le signorine, orfane della madre, abitavano lì col loro papà, membro del Landesgericht di Eichstätt.

Suonavano allora le undici, e trovai che la signora Luise era uscita da una mezz'ora per andar a prendere una sua sorellina alla Volkschule delle Benedettine nel convento di Santa Valpurga. Mi feci insegnare la via, passai dal convento, incontrai molte bambine che ne uscivano, ma non lei. Tirai avanti per la Westenvorstadt e la trovai poco lontano, in un prato lungo l'Altmühl, a coglier fiori con la sua sorellina. Mi chiese se andavo al Tiefenthal, e parve molto lieta di apprendere che invece ero venuto in cerca di lei con quei versi. Le domandai di miss Yves. Rispose che aveva passato una bella serata con lei in casa Treuberg, che una sua cugina aveva cantato molto bene e un signore di Monaco molto male.

—Sua cugina—diss'io—ha cantato Haidenröslein.

—Oh come lo sa,?—esclamò la biondina battendo palma a palma. Risposi ch'ero passato sotto le finestre di Treuberg, ed ella mi sgridò, mi disse che ero stato molto cattivo di non salire.

—Iersera ci sarebbe proprio stato bisogno di Lei—soggiunse—Il vecchio Topler voleva assolutamente sapere l'indirizzo esatto dei…

Nominò la famiglia di comune conoscenza che dimorava a Monaco.

—La zia Treuberg—proseguì—non lo ricordava bene. A me pareva che fosse così.

Me lo ripetè ed era esatto, ma io tacqui assorto com'ero nell'immaginar le ragioni di Topler. Pensai subito che volesse chiedere informazioni sul mio conto. E poi?

—Ci aiuti a coglier fiori—disse la biondina.—Non si pranza mai senza fiori sulla tavola, noi. Domani si ha gente a pranzo e andrò a prenderne di più belli nel bosco e anche a Waldmeister; ma oggi non ho tempo. Se ci aiuta bene, Le faccio poi fare un bel giro, si torna in città da quei pioppi là, sotto la Burg. Non è vero ch'è bellina la nostra Eichstätt? Questo edificio grande con il campanile è il convento di S. Valpurga, lo sa bene; e quell'altra chiesa a destra e la Jesuitenkirche, e quella più a destra è la Heiligengeisteskirche. E questi prati, non sono carini?

Ella chiacchierava e coglieva fiori e li gettava nel grembiale della sua sorellina, dove li faceva posare anche a me, sgridandomi quando i gambi non erano abbastanza lunghi. Io cercavo pure di ricondurla all'argomento di prima. Le chiesi se oramai miss Yves stesse veramente bene.

—Credo di sì,—rispose,—ma è tanto triste. Anche iersera quando mia cugina cantava era pallida pallida; ho avuto paura che svenisse. Ma già ci doveva essere qualche mistero iersera.

—Perchè?

—Perchè quando andai a casa Treuberg trovai Violet così turbata, così distratta! Ne domandai a lei, mi disse che non aveva niente; ne domandai alla zia, mi rispose ch'era diventata così da un quarto d'ora, dopo aver ricevuta una lettera. Fui poi presente quando arrivarono i fratelli Topler.

—Ebbene?

—Non so, si guardarono in un certo modo diverso dal solito. Il vecchio Topler poi non pareva più lui. Era così serio!—Sì, sì—soggiunse la signorina porgendo due labbrucci malcontenti—ma Lei non pensa che a Violet, non si occupa dei miei fiori.

Finita la raccolta, Luise ne fece imbarcare, ciascuno con un fascio di margherite, garofani chinesi e anemoni, nel rozzo canotto di un pescatore che ci portò all'altra riva dell'Altmühl. Ella m'indicò dal fiume la casa che il professor Topler stava preparando per la sposa e mi disse che miss Yves vi era già andata e vi doveva ritornare quel giorno stesso. Giudicava poi da qualche frase della stessa Violet ch'ella si sarebbe trattenuta ad Eichstätt molto meno di quanto aveva divisato prima. Non avrei dovuto stupirne, ma pure n'ebbi una stretta al petto. Miss Yves voleva dunque fuggirmi; se ora il vecchio Topler non parlasse a suo fratello, che potrei fare? Un momento prima avevo il cuore pieno di speranze; adesso tremavo di essermi illuso. La gentile signorina Luise dovette rimanere ben poco soddisfatta di me che guardavo stupidamente nell'acqua o nell'erba invece di mostrarmi amabile cavaliere, o almeno di ammirare la sua linda cittadetta accoccolata nella valle, la processione dei pioppi, e, là in alto, il fantasma della vecchia Burg in rovina. Tacendo io, finì anche lei con tacere. A pochi passi dalla città, ritornandovi, colse certe foglie odorose dicendo di voler portare a Violet il suo prediletto sweetbriar. Mi domandò quindi se intendevo andare, quella sera, a casa Treuberg. Prima avevo deciso di andarvi, ma poichè il vecchio Topler aveva chieste informazioni sul mio conto in Italia, e forse le attendeva per parlare col fratello, per pigliare una risoluzione definitiva, siccome una mia visita avrebbe potuto affrettare la partenza di Violet, mi parve opportuno di astenermene per ora, quantunque il sacrificio mi fosse doloroso; risposi che non vi sarei andato.

Accompagnai la signorina fino a casa, dove mi fece conoscere suo padre: un signore molto garbato che mi parve devoto suddito della bionda figliuola. M'invitarono al thè per la sera successiva.—Sarà contento—diss'ella con un sorriso.—Il nostro thè è eccellente.—Mi sentii arrossir forte. Il sorriso della biondina era il suo solito sorriso benevolo sulla bocca ma non negli occhi. Gli occhi brillanti dicevano chiaro: troverà miss Yves.

XXIV.

L'indomani sera mi recai a casa von Dobra verso le nove. Nella giornata non avevo veduto nessuno. Il signor Treuberg era venuto a portarmi una carta all'albergo e avevo ricevuto una lettera da mio fratello. Questi mi riferiva, scherzando, la voce corsa nel mio paese che il mio viaggio avesse uno scopo galante. Non so esprimere la irritazione, il disgusto che ne provai. Come mai s'era diffusa una voce simile? Mi sdegnavo, senza ragione, anche con mio fratello per quella odiosa parola: galante. Questa gente pettegola e stupida mi sciupava l'amore! Allora per la prima volta sentii orrore di far conoscere Violet a' miei concittadini, se mai giungessi a possederla. L'idea che il nostro amore e la sua persona fossero tema di commenti e di scherzi mi riusciva intollerabile.

Trovai le sorelle von Dobra sole con il loro papà. La signorina Luise era un po' meno brillante del solito; invece sua sorella, di cui prima avevo appena udita la voce, parlava assai e di tanto in tanto mi guardava, come mi parve, curiosamente. Una volta ch'ella discorreva con suo padre, Luise mi disse quasi sottovoce:—Il thè non sarà così buono come credevo.—Un quarto d'ora dopo di me vennero una vecchia dama, un giovane signore e una giovinetta che mi furono presentati da Luise come Haidenröslein, sua madre e suo fratello; con la dichiarazione che quest'ultimo era la unica spina di una così bella rosetta. Dopo ch'ebbero scherzato e riso alquanto, la signorina Haidenröslein domandò:—E miss Yves?

—Non viene—rispose la sorella di Luise. E soggiunse guardandomi:

—Ne siamo tutti così desolati!—Vidi Luise mandarle un'occhiata di rimprovero.

—E il vecchio Topler, almeno?—riprese l'altra.—Ho tanta voglia di udirlo! M'han detto che suona anche col naso e con le ginocchia.

—Non verrà neanche lui, credo—rispose Luise.

Non ne dubitai più; la causa di queste assenze ero io, e le sorelle von Dobra ne sapevano qualche cosa. Chi aveva parlato? Cosa era successo fra i Topler e miss Yves? Desideravano essi evitar me, o evitarsi a vicenda? La mia ebbra fantasia immaginava anche questo. E non saper niente, non potere saper niente! Il signor von Dobra mi parlava, forse dell'Italia, forse dei sandwiches preparati dalle sue figliuole. Dio solo sa come lo ascoltai e cosa intesi. Debbo sorridere ancora quando penso alle mie risposte assurde e a' suoi occhi stupefatti. Preso il thè, la cugina, di cui non ricordo il nome, cantò Haidenröslein. Stavolta mi toccò udirla tutta, ma n'ebbi una impressione diversa; per meglio dire, non n'ebbi quasi alcuna impressione, tanto era presa la mia mente dalle incertezze presenti. Poi la signorina cantò ancora, cantò fra l'altre cose un lungo duetto con suo fratello. Durante questo pezzo Luise sedette presso a me e mi disse sottovoce:

—Devo dirle qualche cosa da parte di una persona, ma ora è impossibile. Vado dalle Benedettine ogni mattina alle dieci e mezzo e poi nei prati.

Più tardi trovò un altro momento per dirmi pure in segreto:

—Credo che parta domani.

La sorpresa e la commozione mia nell'udire ch'ell'aveva una parola di Violet per me non si dicono. Non era ancora nè gioia nè spavento, perchè non potevo sapere quale parola fosse; quando intesi che miss Yves partiva all'indomani, sorse in me insieme al subito terrore, più forte del terrore, l'antica fede, la volontà indomita di vincere. Tornai tranquillo, complimentai la cantatrice, scherzai con le signorine di casa, lodai al loro papà l'Italia e i sandwiches, e mi congedai dalla compagnia col sorriso sulle labbra.

O luna tedesca, com'eri grande e spettrale, quella sera, in faccia a me, fra i tetti acuti di Eichstätt! La notte, la solitudine, il silenzio quietarono presto il mio orgasmo. Camminando, mi tornavano spontaneamente alle labbra alcuni versi pensati pochi mesi prima, nel passeggiare di notte la mia città:

È mezzanotte, al mio passo La strada vuota risuona Mentre men vo lento, lasso, E ai sogni il cor s'abbandona.

Le nere alte case gotiche Sfolgora un lume d'argento; Non so che peso di secoli, Che stanco dolor vi sento.

Tu in faccia mi splendi, o luna, Fra i tetti obliqui sorgente. Ahi che un'amara fortuna Pur nel tuo volto si sente.

Deserta, in cielo, tu sei; Di tanta gloria che fai? O luna, s'io non ho lei Splender poeta ch'è mai?

Passai dal Rossmarkt; la casa era tutta buia. Il pensiero che all'indomani sera Violet non sarebbe più là, che forse non saprei dove seguirla, mi diede un acuto ma breve spasimo. Passai gran parte della notte alla finestra, immaginando ciò che poteva essere accaduto in quel giorno, ciò che potrebbe succedere all'indomani.

La mia finestra guardava il fianco della fontana di San Villibaldo, e a poco a poco la figura benedicente del mansueto vescovo, con i piedi nell'ombra e la testa nella luna, mescolavasi ai miei sogni.

XXV.

Alle dieci la mattina seguente ero già fuori della Westenvorstadt. Luise comparve colla sua sorellina all'ora indicatami. Era molto pallida e seria; pareva commossa quanto me. Io aspettavo in silenzio che parlasse. Avevo inteso la sera prima, e ora il suo viso mi confermava che sapeva tutto; ciò e l'aspettazione affannosa mi toglievan la voce. Ella mi guardò, sorpresa del mio aspetto; quasi atterrita, mi parve. S'affrettò a dirmi che aveva per me un saluto, un solo saluto. Sentivo che aveva altre cose a confidarmi e non ne trovava la via; nè io trovavo la via d'aiutarla. Non seppi dirle che questo:

—Un saluto di miss Yves?

Ella non rispose; mi disse invece sottovoce e in fretta:—Voglio bene a Violet, mi rincresce che sposi il professor Topler.

Dimenticai ch'eravamo in istrada, le presi una mano, gliela strinsi. Un subito rossore le divampò in viso; ritirò la mano. Le chiesi scusa, ciò che la fece arrossire ancor più.—È un'idea mia—disse—quello che faccio,—Nessuno dovrà saperlo mai mai. Mi prometta che non dirà niente a nessuno.

Povera cara fanciulla, se avesse avuto ancora la sua mamma non avrei mai saputo nulla di quest'idea, probabilmente, neppur io; così seguiva il suo cuore caldo e la sua testolina immaginosa. Però esitava, aveva paura, come un ragazzo che conduce solo un cavallo ardente, ne gode e trepida.

—Mi prometta anche questo—soggiunse dopo una breve pausa—mi dia parola d'esser sincero con me. Pensa male di me, crede che sia una pazzia di mescolarmi in questa cosa?

—Ma no!—esclamai.

—Perchè—diss'ella—a casa mia lo crederebbero di certo. Però mi fido di Lei.

In fatto non so come la cara giovinetta potesse avere fiducia in me che conosceva appena, e certo il suo atto non era conforme alla prudenza del mondo. Credo averlo giudicato anche allora, quando disse: mi fido di Lei. Confesso che tacqui, con un lampo di rimorso, il mio giudizio e la pregai, palpitando, di parlare.

—Vorrei che la mia amica fosse felice—disse ella arrossendo ancora—e credo di aver capito come lo sarebbe.

Giunsi le mani in silenzio; una gratitudine, una tenerezza troppo forte mi facevan groppo alla gola.—Ho saputo tutto dalla zia—riprese Luise—che lo sapeva dal dottor Topler. Violet non mi ha raccontato niente. Mi ha detto solamente che parte stasera e che se vedevo Lei, Le facessi i suoi saluti. Allora la zia non mi aveva ancora parlato e mi meravigliai molto di questa partenza affrettata. Violet mi abbracciò, mi baciò, mi disse: cara bambina!—e niente altro. Io l'amo quanto posso, ma già lei mi tratta sempre così: «cara bambina, cara bambina!»

Le vidi gli occhi umidi.

—Ha torto—riprese—ma non importa. Ne chiesi a mia zia e capii subito che sapeva e non voleva parlare. Povera zia, quando voglio io!…

Stavolta gli occhietti azzurri scintillarono di malizia e di orgoglio. Ella mi raccontò poi che Topler aveva pregato sua zia Treuberg di chiedere informazioni sul mio conto e che intanto aveva interrogato Violet, la quale si era mostrata fermissima nel proposito di tenere la promessa data al professore, anzi lo avea caldamente pregato di tacere del tutto con quest'ultimo. Allora Topler era ritornato per consiglio dalla signora di Treuberg, la quale riteneva che di fronte a un contegno risoluto di miss Yves io mi sarei dato per vinto, e che quindi si potrebbe tacere ogni cosa al fidanzato. Perciò fu deciso che Violet, con un pretesto, partisse subito per Norimberga. Il povero Topler, nuovo a simili impicci, ora dava in escandescenze, ora cadeva in abbattimenti, ci si smarriva e si affidava in tutto ai consigli della signora Treuberg, che era una buona creatura, ma non la sapienza in persona, secondo Luise.

—E dunque?—diss'io storditamente.

Luise mi guardò. Il suo sguardo penetrante mi umiliò, mi rivelò di botto una donna nella giovinetta. Diceva: come mai domanda? Come mai non intende che deve seguire Violet? Come mai ama? Nessuna parola umana avrebbe potuto significar ciò più chiaramente di quegli occhi.

—Lo so!—esclamai senza ch'ell'aprisse bocca.—Mai non mi darò per vinto! Ma credevo che Lei avesse ancora qualche cosa a dirmi.

Luisa richiamò la sua sorellina che correva verso il fiume.

—No—diss'ella poi—non ho altro.—Cioè—soggiunse precipitosamente—ci sarebbe un'altra cosa, ma questa non è necessario che la dica.

La scongiurai di dirmi tutto, tutto.

—No—diss'ella, sfavillando a un tratto del suo solito malizioso brio.—Non la dico e non la dico!

Mi parve che si ostinasse in parte per divertirsi, in parte per la fierezza del suo spirito ribelle a qualsiasi violenza. Lessi in pari tempo sul suo viso che non avrebbe ceduto a un re.

—Non deve credere,—soggiunse,—perchè Le ho detto tanto, che Le direi tutto! E adesso io ritorno sola in città. L'avverto che Violet parte alle quattro e mezzo.

La ringraziai di quanto aveva fatto per me, di quello che sapevo e di quello che non sapevo; ma ella rifiutò i miei ringraziamenti dicendo che cercava solo il bene della sua amica, e che non poteva soffrire il signor Topler con tutta la sua gran bontà noiosa, che ciascuno lodava. Un uomo così vecchio, così goffo, così plump, voler sposare Violet Yves! Ma la colpa maggiore era di quegli stupidi zii di Norimberga.

Ci dividemmo. Ella rientrò in città, e io m'indugiai un tratto sui prati a cercar senza frutto che potesse esser mai l' altra cosa taciuta.

XXVI.

Non c'era dubbio che avrei seguito Violet a Norimberga; ma per un giusto riguardo a lei, ai Topler, direi quasi, a me stesso, non l'avrei certo seguita troppo palesemente, viaggiando nel medesimo treno. Volevo però vederla, foss'anche da lontano, quando partiva, e mi tenni nei pressi della stazione fino all'ora della corsa. Arrivarono omnibus, vettore e pedoni; non vidi miss Yves. Giunto il treno di Monaco, mi avviai a piedi verso Eichstätt per la strada maestra. Non incontrai nessuno; non sapevo che pensare. Passai dal Rossmarkt, e avvicinandomi a casa Treuberg vidi entrarvi frettolosamente due uomini, che riconobbi, all'ombrello e alla mazza del più magro, per i fratelli Topler. Mi recai daccapo alla stazione per il treno diretto delle nove e venti pomeridiane. Nessuno.

(Dal mio quaderno).

«Perchè non sei partita? Spero, spero. E se fossi malata?

«Ho deposto la penna, ho chiuso il viso tra le mani, ho distrutto per aver pace lo spazio ed il tempo, ho riso dolcemente con te, mia sposa, non importa dove, non importa quando, di queste passate angustie.

«Ritornando dalla stazione camminavo nell'ombra; la luna batteva l'altro fianco della valle. Ti ricordi quella notte a Belvedere di Lanzo? Eravamo nell'ombra e la luna illuminava Lugano, tutte le montagne in faccia; illuminava le torri del mio scoglio. Allora la luna mi faceva fantasticare, e adesso no; allora eravamo seduti l'uno presso all'altro e pur tanto lontani ancora; adesso invece non ci vediamo, non ci udiamo e siamo tanto vicini. Sono come un viandante che dall'alto scopre, non lontano, ma oltre boscaglie impervie, il tetto del suo riposo. Come arriverò a te? Non lo so ancora, vado avanti con le braccia distese. Forse quando più ti sarò presso smarrirò la tua vista, temerò, spasimerò non sapendo se ti perdo, ma mi slancierò avanti e, se cadrò, sarà nelle tue braccia.

«E se tu fossi malata? Vi sono degli esseri nervosi, delicati, che ora, nel mio caso, sarebbero avvertiti da una voce interna, avrebbero il senso di ciò che tu soffri. I miei nervi sono ottusi, muti.

«La signorina Luise mi ha detto che ami lo sweetbriar. Ne ho colto alcune foglie ritornando a casa; la loro fragranza mi parla di te, della tua persona, de' tuoi capelli. Una volta, a Belvedere, disponendo il cannocchiale per te, e anche qui, il giorno della rosetta cara, ho sentito l'odore lieve dei tuoi capelli. Somiglia a questo. Mi piace anche il dolce nome sweetbriar, mi fa venir in mente il tuo verde paese in mezzo al mare. Se non potessi viver teco in Italia, sognerei una piccola casa vestita di rose, fra le colline della tua merry England, in faccia all'Oceano. Che sogni! Si farebbe salire lo sweetbriar alle nostre finestre e non desidererei altro al mondo:

For in my mynde—of all mankynde I love but you, but you alone.

«Sai che anche prima di conoscer te, nessuna canzone popolare del mio paese, nessun Lied tedesco mi è stato mai più caro di questa antica ballata inglese?

«Sono tanto triste, ho tanto bisogno di te, vorrei andare alla finestra, chiamarti nella notte.

«Violet, Violet! Darling!»

XXVII.

All'indomani, molto per tempo, ricevetti il seguente biglietto:

«Fanny Treuberg, nata von Dobra, dolente di non esser stata in casa ier l'altro, aspetta il signor*** oggi, domenica, dopo le undici.»

Suonai il campanello di casa Treuberg al battere delle undici; nessuno al mondo sarebbe stato capace, nel posto mio, d'attendere un altro minuto. M'introdussero nel salotto stesso dell'altra volta e mi dissero di aspettare la signora, che sarebbe venuta subito. Non osai domandare di miss Yves. Vi era ancora il vaso di fiori, ma senza rose, stavolta; v'erano le fotografie. Solo le sedie non erano al posto di quel giorno. Mi accostai al tavolino. Sentivo ancora il profumo de' suoi capelli, mi serravo sul petto le sue mani gelate. La signora Treuberg entrò.

—Ho mio marito a letto da ieri—diss'ella.—È un male da nulla, ma egli è inquietissimo, mi vuol sempre in camera.

Non compresi che significasse questo esordio. Feci un gesto come per giustificarmi d'essere venuto e per prender licenza.

—Ma no, ma no!—esclamò La signora.—La ho ben pregata io di venire. Sieda! Mio Dio, non so come incominciare.

Sedetti in silenzio.

—Lei adesso ha capito—riprese.

—Sì signora—risposi.—Mi dica.

—Ecco che cosa succede. Santo Dio, è un tal seguito di cose e anche questo colloquio con Lei è tanto strano per me! Aggiunga lo stato di mio marito. Proprio c'è da perderne la testa. Aspetti, dunque. Lei ha parlato al dottor Topler.

—Sì signora.

—Topler è venuto qua giovedì mattina. Pover'uomo, era fuori di sè. Ha parlato a miss Yves. Miss Yves è stata perfettamente sincera con lui, ma gli ha detto che intendeva tenere la sua promessa e lo ha pregato, anzi, di tacere tutto a suo fratello. Allora Topler si è consigliato con me. Adesso Le parlo schietto; il mio consiglio è stato che si facesse il desiderio di miss Yves, che non si dicesse niente al professore e ch'ella anticipasse la sua partenza, con un pretesto, per Norimberga. Così fu deciso. Io ne parlai a miss Violet e si doveva partire ieri, sabato, alle quattro e mezzo; perchè la avrei accompagnata io. Siccome erano venute notizie non tanto buone dallo zio Yves, quello ch'è stato in Italia, così s'è detto al professore che si anticipava il ritorno a Norimberga per lui; quando ieri, prima ancora che mio marito si sentisse poco bene, capita Topler, il vecchio, tutto ansante, tutto sottosopra, e mi dice di sospendere la partenza perchè c'è una novità, e questa novità è che suo fratello sa ogni cosa.

—Lo sa?—esclamai. Non tanto la cosa in sè, quanto il modo in cui sentivo che Topler l'aveva detta, mi fecero balzare il cuore di speranza.

—Sicuro—rispose la signora.—Il professore ha saputo tutto da una lettera che ricevette ieri mattina. Pare sia sottoscritta, ma da persona che prega di non essere nominata. Infatti il professore non l'ha voluta nominare. Solo ci affermò che non l'aveva scritta Lei.

—Luise—pensai con uno slancio di gratitudine.—Il segreto di Luise.

La signora continuò a raccontare che Topler le aveva espresso la ferma volontà di suo fratello, di parlare a Violet il più presto possibile, appena ne fosse stato in grado.—Il vecchio—diss'ella—era in un grande orgasmo e mi pareva tutto meravigliato che suo fratello, malgrado un tal colpo, non fosse ancora morto. Egli non poteva star quieto sulla sedia e corse via appena fatta la sua ambasciata.—Debbo anche dir questo—soggiunse dopo un momento di esitazione.—Topler vide presso di me una lettera di Monaco in cui si parlava molto di Lei, e in modo da persuadersi che una ragazza sarebbe veramente fortunata…

La interruppi, ma ella mi disse che nella commozione di Topler questa lettera ci entrava molto.

—Alcune ore più tardi—continuò la dama—egli ritornò con suo fratello.

Si udì un colpo di campanello.

—Mio marito!—diss'ella.—Ritorno subito.

Ritornò quando a Dio piacque, esclamando:—Ah questi uomini, questi uomini!—e dolendosi con un fiume di chiacchiere dell'intolleranza di suo marito, come se io non stessi sui carboni ardenti. Finalmente riprese il filo del discorso.

—Vorrei che li avesse veduti. Noi conosciamo da poco tempo i fratelli Topler, specialmente il vecchio; i nostri più stretti legami sono colla famiglia di miss Yves. Anzi, se vuole, per quanto il professore sia un uomo stimabile, questo matrimonio mi andava poco; ma ieri mi hanno proprio toccato il cuore, povera gente. Il professore pareva addirittura un morto e sotto gli occhiali gli si vedevano gli occhi rossi. Sa, non è bello mai; si figuri! E non parlava. Insomma era una gran compassione di vedere in quello stato un uomo della sua età e della sua figura. Ma il vecchio inteneriva ancor più. Si vedeva che soffriva di veder suo fratello così, e che faceva ogni sforzo di nascondere l'animo suo, di parer tranquillo. Parlava lui. Bisognava sentire, se diceva una parola a suo fratello, che tono di voce! Bisognava vedere che occhiate di angustia gli gettava ad ogni momento, quasi di soppiatto! Il professore andò da miss Yves ed egli restò con me. Si capiva che faceva un sacrifizio a non accompagnarlo, ma insomma lo lasciò andare. Ogni tanto giungeva le mani, alzava gli occhi al cielo e andava sulla porta ad origliare, aspettando il suo passo. Il professore ricomparve dopo un bel pezzo. Cosa si abbiano detto, Violet e lui, non lo so; certo egli era ancora più contraffatto di prima. Suo fratello lo prese a braccetto e lo condusse via. Non potei andar subito da miss Yves perchè intanto mio marito s'era sentito male. Vi andai più tardi. Ella mi disse che avrebbe voluto tacer tutto al suo fidanzato, ma che, interrogata da lui, non aveva potuto mentire. Non sapeva cosa il professor Topler avrebbe fatto; a ogni modo, lei desiderava di ritornare a Norimberga il più presto possibile. S'immagini che imbarazzo; ieri non c'era più che il treno delle nove e mezzo. Io, avendo mio marito a letto, non potevo accompagnarla e mai non l'avrei lasciata partire sola. S'ebbe appena il tempo di combinare che partisse stamattina con mio fratello e mia nipote Luise, che Ella conosce. Intanto venne una lettera del fidanzato che la lasciava libera.

—Ah!—esclamai.

—Senta, signore—riprese la Treuberg con un certo imbarazzo,—capisco la sua gioia. Come amica di Violet Yves, credo che potrei molto rallegrarmi anch'io, ma non so se miss Yves, quantunque certo ben disposta verso di Lei, accoglierà una sua profferta di matrimonio. La ho invece pregata di venire da me per dirle questo. Per amor del cielo non vada subito a Norimberga, per amor del cielo non cerchi presentarsi subito alla famiglia Yves come un pretendente! Lei non conosce gli zii Yves. Sarebbe la disgrazia della nostra amica.

—La disgrazia?

—Oh Dio, sì. Lei non sa quanto gli zii tenessero al matrimonio Topler; e io temo pur troppo che invece…

La signora s'interruppe.

—Non sarebbero contenti di me?—diss'io.

—Cosa vuole?—esclamò la povera donna.—Avrebbero torto, ma temo che sarebbe così. La madre di Violet era romana; una dolce creatura! Ma non direi che lei e i suoi cognati avessero due idee comuni; e loro già s'immaginano che tutti gl'italiani sieno così. C'è anche una questione di religione in fondo.

Mi feci spiegare queste ultime parole. La madre di Violet, cattolica, aveva sposato William Yves protestante, col patto che i figli maschi sarebbero allevati nella religione protestante e le femmine nella religione cattolica. Si diceva poi che William, presso a morire, avesse abbracciato la religione della diletta che lo aveva preceduto nell'eternità con questa speranza. Gli Yves lo credevano. Era una grande amarezza per loro e l'attribuivano al proselitismo italiano.

A questo punto la signora mi apprese che il signor Topler era protestante. N'ebbi grande sorpresa pensando agli scrupoli del mio vecchio amico, al suo rispettoso riserbo circa il Papa e Roma. Lo dissi alla signora, ed essa mi rispose che di quello là nessuno poteva dire con sicurezza cosa veramente fosse.

Promisi alla signora che almeno per alcuni giorni non mi sarei fatto vedere a Norimberga e, ringraziatala, mi congedai. Corsi subito a casa per scrivere a miss Yves.

Non ho ritrovato questa lettera, ch'era uno scoppio di gioia e un assalto agli ultimi ostacoli che dividevano Violet da me. Annunciai anche il mio proposito di partire fra due o tre giorni per l'Italia onde dar sesto alle mie faccende nella previsione di un'assenza più lunga. Scrissi così, ma per essere interamente sincero avrei dovuto anche dire che se indugiavo due o tre giorni a lasciare Eichstätt, era per attendere il ritorno di Luise, e non soltanto per esprimerle la mia gratitudine! Mi tenevo sicuro che mi avrebbe recato almeno un saluto.

Nel mattino del lunedì andai a prendere notizie del signor Treuberg con la speranza di saper qualche cosa di Luise; poichè a casa von Dobra m'avevano detto che l'altra signorina era presso sua zia e i domestici non sapevano quando il padrone sarebbe tornato. Là seppi che i von Dobra dovevano arrivare la stessa sera o il mattino vegnente; e là incontrai il mio amico Topler.

Ero da dieci minuti presso la signora quando il vecchietto entrò tutto fremente, tutto scintillante negli occhi. Mi alzai per congedarmi.

—No no no—diss'egli, accennandomi di rimanere. Salutò la signora, poi venne da me, serio, con le braccia aperte—Addio, caro—diss'egli; e mi abbracciò senz'altro. Quindi si parlò di musica, di Eichstätt, di Eugenio Beauharnais, di Re Luigi, di tutto, tranne di quanto avevamo in cuore. A un tratto Topler mi domandò se contavo restare qualche tempo a Eichstätt.

—Parto domani sera—risposi.

Non replicò verbo, e ricordo che poi si parlò della signorina Luise. Qualche sorriso di Topler, qualche parola un po' severa della Treuberg mi fecero sospettare che il suo segreto fosse stato indovinato. Temendo che il dialogo pigliasse una piega inopportuna, mi alzai. Topler si alzò pure e uscì con me. Nello scender le scale mi domandò se alla sera mi avrebbe trovato in casa; il suo tono di voce era molto amichevole, ma molto serio. Non soggiunse altro. Ci stringemmo la mano e ci separammo.

Venne all' Aquila nera dopo le nove. Appena entrato mi prese a braccetto e mi disse risolutamente:

—Venga con me.

Gli chiesi dove volesse condurmi ed egli rifiutò di dirmelo. Ripeteva—venga con me, venga con me—-Pensai che i von Dobra fossero ritornati e ch'egli sapesse di un messaggio per me.

Ma non andavamo verso casa von Dobra, andavamo verso casa Topler.

Possibile? Quando non ne potei dubitare mi fermai con un—ma…?—interrogativo.

—È necessario—rispose Topler vivacemente, afferrandomi per un braccio—è necessario.

—Ma non è possibile!—esclamai.

Non credo che nessuno si sia trovato in un imbarazzo simile. A fronte del professor Topler, in quello stato di cose, mi poteva condurre un insulto, una sfida, e non altro, viva Dio. Ora suo fratello non cercava questo, sicuro. Cosa cercava, dunque? Topler insistette:

—Le dico che è necessario!

—Ma suo fratello? È qui?

—Sicuro.

—Ma lo sa che Lei vuole condurmi a casa sua?

—Sicuro, sicuro, sicuro! Lo sa. L'aspetta. È necessario.

Ebbene, pensai, al postutto, se lo vogliono, ci pensino loro e tal sia.

Topler, giunti che fummo a casa sua, mi fece entrare nel salotto del piano e mi lasciò solo. Aspettai quasi un quarto d'ora. Ogni tanto udivo la voce del vecchio in un'altra camera, ma non era possibile intendere le parole. Finalmente l'uscio si aperse. Primo comparve il mio amico; l'altro seguiva esitando. Il paralume della lucerna mi tolse di vederlo bene in faccia.

M'inchinai in silenzio, e non vidi neppure se mi rendesse il saluto. Topler seniore lo accompagnò ad una poltrona, e gli disse dolcemente di sedere. Quando sedette lo vidi.

Notai allora per la prima volta la sua singolare rassomiglianza, non col frate di Norimberga, ma con un altro frate afflitto di certa antica incisione satirica che io possiedo. L'accasciamento di un dolore profondo, che avrebbe reso grottesca la sua figura agli occhi del mondo, la rendeva invece rispettabile e toccante agli occhi miei; sentivo che un solo movimento di riso interno mi avrebbe fatto disprezzare da me stesso.

—Hai bisogno di parlargli, non è vero?—disse Topler seniore, affettuosamente. Il professore assentì col capo. Allora l'altro si volse a me e ripetè:

—Ha bisogno di parlarle.

In pari tempo si alzò e andò a chiudere una finestra da cui poteva venir dell'aria a suo fratello.

—Va bene?—diss'egli.

Seguì un lungo silenzio.

—Dunque, fratello mio?—fece il vecchio.

L'altro tacque ancora un poco e finalmente rispose:

—Potreste parlar voi, intanto.

Topler seniore sbuffò e brontolò:

—Non eravamo intesi?… Allora parlerò io—diss'egli poi, sospirando—e tu mi correggerai se sbaglio.—

Quindi continuò volgendosi a me.

—Ecco. Mio fratello si crede in dovere, nella sua coscienza, di farle una comunicazione. Veramente tutto avrebbe consigliato, nelle circostanze presenti, una comunicazione indiretta per mezzo mio o di altri; oppure almeno una comunicazione scritta, per lettera. Ma ripugna a mio fratello scrivere certe cose e non vuol dir tutto, pare, neppure a me. Vede, io dovevo trovarmi qui semplicemente come testimonio, però capisco che a mio fratello manchi il coraggio d'entrare in argomento. Già, è inutile dirlo, si tratta della persona le cui relazioni con mio fratello si sono mutate in questi giorni. Si tratta della salute di questa persona. Prima di partire per l'Italia, l'anno scorso, ebbe una indisposizione alquanto seria. Fu nel maggio, mi pare. Va bene, Hans?

—Nell'aprile—rispose il professore, quasi sotto voce.—Il 22 aprile.

—Bene—proseguì Topler seniore.—Il 22 aprile.

Quando guarì, il suo medico chiese a mio fratello, un colloquio.

Qui Topler s'interruppe e guardò suo fratello, che si coperse il viso con le mani.

—Vuoi raccontarlo tu?—diss'egli.

Colui scosse il capo.

—Dunque—riprese l'altro rassegnatamente—il medico incominciò a dire che desiderava avvertire…—

Una voce sommessa interruppe dalla poltrona:

—Ch'era in dovere.

—Oh santo Dio!—esclamo Topler, stizzito. Riprese subito l'impero di sè, e si corresse con mansuetudine:

—Sì, caro, ch'era in dovere. Era in dovere di avvertire mio fratello che la salute di quella persona non ispirava inquietudini per il momento; ma che vi erano serie minaccie per l'avvenire, specialmente considerando…

Qui Topler esitò come se non fosse sicuro di ciò che diceva e si volse a suo fratello.

—Questo non importa—mormorò il professore—questo non importa.

Topler seniore non comprendeva gli scrupoli di suo fratello e lo guardò, attonito.

—Se si tratta—diss'io—dei precedenti di famiglia, parli pure, li conosco.

—Poichè lo sa—riprese il dottor Stephan guardando ancora il fratello, come per giustificarsi con gli occhi—poichè lo sa, lo dico. Appunto. Specialmente considerando i precedenti di famiglia. Però, secondo il medico, è possibilissimo che si vada avanti, molto avanti senza guai, se si evita qualunque emozione violenta, sia di dolore, sia di gioia. Ciò che conviene alla signorina è una vita uniforme, tranquilla. Una emozione violenta sarebbe fatale.

Io ascoltavo rabbrividendo. Le cose udite non mi destavano meraviglia. Non avevo mai voluto fermare il pensiero su questo punto, perchè mi faceva spavento. Inconsciamente avevo le stesse apprensioni del medico.

—Ella può esser chiamato—conchiuse Topler seniore—a vegliar sulla salute della signorina. Capirà perchè mio fratello abbia desiderato…

Ringraziai e domandai se avessero altro a dirmi.

I due si guardarono ed il professore disse piano qualche cosa. Il vecchio s'alzò, poco persuaso, mi parve; e uscì dalla stanza brontolando, senza salutarmi.

—Scusi,—disse il professore,—il mio riverito fratello, non sapendo… non potendo… era una cosa convenuta fra la signorina e me…

Forse aveva preparato un esordio, ma per effetto della commozione o del suo naturale imbarazzo, si smarrì nella prima frase, rinunciò all'esordio.

—Insomma—diss'egli, buttando fuori, frettolosamente e senza guardarmi, le sue conclusioni,—con me la sua vita sarebbe stata più sicura.

Più sicura? Era una visione d'orrore ch'egli mi levava in faccia così.

—Questo—esclamai—è in mano di Dio!

Parve che la passione del mio grido si apprendesse a lui.

—Sì signore! mi rispose balzando in piedi.—Più sicura! Questo è vero! Questo Lei non lo può sapere!

Sapevo benissimo ciò che voleva farmi intendere e la credetti una vendetta della sua gelosia. Tentava egli avvelenarmi l'avvenire? Lo interruppi con ira, ne lo accusai. Egli protestò, convulso, pallido come un morto. Replicai, mi rispose. Suo fratello saltò in camera, si cacciò fra noi, tempestò con me, tempestò con l'altro, afferrandoci per le braccia, gridando a me ch'ero un uomo indegno se non credevo al cuore più leale del mondo, gridando a lui ch'era uno stupido, due, quattro, dieci, cento volte stupido. A misura che ci placavamo noi, si rabboniva lui pure, scendeva a meno bollenti rimproveri, a parole mansuete, a scuse. Finalmente mi stese la mano, abbracciò suo fratello, e poi andava per la camera fregandosi le mani, borbottandosi tutto accigliato, ma con un accento di soddisfazione profonda:—siamo tre galantuomini, siamo tre galantuomini.

Me n'andai subito ed egli mi volle accompagnare sino a piedi della scala:—Lei è andato in collera—diss'egli nel lasciarmi—ma mio fratello è più che un santo. Io, al suo posto, o mi sarei fatto ammazzare o avrei ammazzato Lei. Questi sono spropositi, ma, insomma, capisce! Domani me lo porto via, me lo porto nello Schwarzwald. Là lo guarisco. Ci ho già la sposa pronta. Altro genere!

Qui Topler, spingendo i gomiti in fuori e arrotondandosi il cavo delle mani sul petto, fece una mimica che non mi sarei aspettata da lui.—Buona fortuna!—diss'egli.

Amica mia, cui dedico queste memorie, non pensa Lei che Hans Topler fosse migliore di me? Allora ne ho dubitato, e adesso ne sono sicuro. Egli era uno degli ultimi che saranno primi un giorno. Io fui quella sera ingiusto e forse anche insolente con lui. È quasi un sollievo per me di confessarlo; non ho giustificazioni nè scuse, e vorrei che si sapesse come mi accuso. Iddio sa se tornato in calma non mi dolsi di me stesso, se non mi rimproverai la mia natura pronta sempre alle belle parole, ricca di sensi nobili in astratto, ma poi debole, ingenerosa nei cimenti della vita reale.

Il giorno seguente mi recai a visitare i von Dobra. Vidi Luise, ma non sola. Era triste. Mi accolse gentilmente, però fu meco molto più riservata del solito e non mi fece in alcun modo intendere d'aver messaggi per me. Suo padre mi parve imbarazzato. Nessuno parlò di miss Yves nè del viaggio a Norimberga; ogni discorso cadeva. Mi alzai presto, dicendo che partivo per l'Italia e che a Monaco avrei veduti i nostri conoscenti comuni.

—Lei già—disse Luise—non si lascerà più vedere ad Eichstätt.

—Difficile—risposi.—Però in Germania ci ritorno di certo e presto.

—Bravo—diss'ella, quasi sottovoce. Fu l'unica parola significativa ch'ebbi da lei. Poi soggiunse malgrado il silenzio accigliato di suo padre e di sua sorella:—Si ricordi un poco anche di noi.

Non ho più riveduta Luise, che lasciò Eichstätt da un pezzo; non so che sia di lei presentemente e non spero rivederla mai più se non là dov'è Violet. Non la ho dimenticata nè la dimenticherò un momento, la cara biondina. Non ho detto che, richiesta da me, mi diede manoscritte, in cambio del mio brindisi, le strofette popolari, cantate da lei nel Bahnhofswald. Le conservo presso alle mie memorie più care, insieme alle foglie di Waldmeister; e quante volte non le riprendo ancora, non le rileggo con tenerezza!

Du, mei flachshaarets Deandl I hab di so gern Und i kunnt weg'n dein Flachs Glei a Spinnradl wer'n.

Mai non scorderò la graziosa cantatrice del bosco; molto meno scorderò i fiori colti in riva all'Altmühl, il salottino di casa von Dobra e l'appassionata giovinetta che tanto osava per Violet. Possa ella aver incontrato un amore degno del suo generoso cuore, possa essere felice! Aveva certo un cuore fedele, un cuore che non muta, che non oblìa. Se queste pagine vedranno mai la luce, se verranno alle sue mani, sia pure in un giorno assai lontano, io so ch'ella ne avrà una commozione simile alla mia presente; io so che penserà a Violet ancora con lagrime, che penserà a me ancora con il sentimento di quando mi disse—mi fido di Lei.—Preghi allora per noi, cara Luise; e si fidi, si fidi di noi, della Sua amica e di me, che con tenera gratitudine pregheremo per Lei.

Volli andare alla stazione a piedi, per il sentiero del bosco, mentre il mio bagaglio viaggiava nell'omnibus. Dissi addio ai faggi e agli abeti che mi avevano veduto con Violet. Quante cose in otto giorni! Era il tramonto; sopra la stazione il sole infocava le boscaglie deserte. Quante cose! Avevo l'idea di non tornare mai più ad Eichstätt, e fu allora che colsi per memoria le foglie del profumato Waldmeister.

XXVIII.

Mio fratello e la sua famiglia sospettarono certo di qualche cosa perchè non espressero sorpresa alcuna del mio sollecito ritorno nè della intenzione, che io manifestai loro, di ripigliar presto il viaggio interrotto. Accolsero le mie parole in silenzio e non toccarono mai più, con me, questo punto. Avrei spontaneamente confidato il segreto a mio fratello, ma non mi tenevo sicuro che tacesse con mia cognata, la quale, alla sua volta, non sarebbe stata zitta di certo. Ora è a Lei, amica mia, che io debbo domandar perdono, perchè La vidi in quei giorni e Lei mi domandò se le voci corse fossero vere; al che io risposi, con alquanta ipocrisia, che voci siffatte non erano mai da raccogliere. Forse Lei non si lasciò prendere a questa smentita apparente, perchè mi replicò, secondo il suo solito, che già ero un libro chiuso; ma intanto io non fui sincero.

Giudichi se, in quella incertezza di cose e posta la mia natura, mi fosse facile di parlare. Se mi trova in colpa mi perdoni e mi tenga conto, a ogni modo, delle confidenze che Le feci più tardi là presso la chiesetta longobarda e della sincerità piena di quest'ora.

Ero arrivato a casa il 21 maggio, e al 1° giugno non sapevo ancora niente di Violet: mi venne il dubbio che ella mi avesse scritto fermo in Posta, e corsi a sincerarmene. All'ufficio non trovai nulla, ma poi incontrai il postino del mio quartiere che mi porse una lettera col francobollo straniero. L'afferrai; era lei.

Poteva esser la vita, poteva esser la morte; non ebbi il coraggio d'affrontare la mia sentenza in mezzo al viavai della gente. Lei conosce la stradicciuola senza nome lungo il fianco orientale di S. Maria ad muros, a due passi dalla Posta? Corsi là. Qualcuno mi fermò per via, mi rimproverò di non salutare gli amici. Forse uno di questi amici ricorda ancora di avermi detto:—Ti senti male? Sei pallido.—Fu in quella stradicciuola erbosa, fra i bastioni e la chiesa solitaria, che apersi la lettera e lessi queste parole:

«Mio Dio, cedo. Se sapesse, dovrei essere tanto afflitta, e sono tanto felice! Non mi troverà più a Norimberga. Partirò dopo la metà di giugno e il primo di luglio sarò a Rüdesheim am Rhein, presso la famiglia Steele, per ora; più tardi, forse, mi recherò in Inghilterra. Oh amico mio, non ho più che Lei!—V. Y.»

La porta laterale di Santa Maria era aperta. Vi entrai.

Anche adesso, quando sono in città, vado ogni giorno a Santa Maria, nella terza cappella a sinistra, quella grande, scura, con le due finestre gotiche dai vetri dipinti, dove andai allora; e sarebbe un vivo dolore per me se avessero a cambiare il vecchio banco dove m'inginocchiai fra la balaustrata e il confessionale.

Tali momenti sono inenarrabili. La gioia, la gratitudine dell'anima mia non avevan parole. Se qualche sommessa voce mi usciva dal petto mentre mi premevo le mani sul viso, eran voci quasi dolorose, gemitus inenarrabiles. Cosa ne posso dire? Ho avuto questo senso, che Dio mi era vicino vicino, e che il mio spirito ne delirava.

Una digressione per Lei sola, amica mia. Vorrei che la filosofia positiva studiasse questi misteri, che ne apprezzasse imparzialmente il valore. Vorrei che comparasse fra loro la emozione dello scienziato che scopre una importante verità, la emozione dell'artista cui balena in mente un concetto di grande bellezza, la emozione di chi immagina e si propone un eroico sacrificio per il bene. Mi pare che la somiglianza loro si troverebbe facilmente. Tutte generano un piacere spirituale intenso, tutte staccano lo spirito umano dal mondo sensibile che lo circonda, lo spingono nel contatto inebbriante di qualche cosa che prima non era in loro, che si potrebbe ancora, lo sentono, allontanare da essi, che deve quindi esistere anche distintamente per sè, benchè non s'intenda come. Noi possiamo però immaginare che tali contatti diversi avvengano per altrettante azioni diverse di un Essere solo, perfetto. Ora, se questo Essere esiste, ogni altro immaginabile contatto con Lui deve dare una emozione di egual natura. Ebbene, l'anima religiosa cerca appunto il contatto di un Essere perfetto in verità, in bontà, in bellezza; lo slancio religioso aspira ad esso in tutti i suoi attributi, ed ecco seguirne questa emozione di eguale natura, ma più intensa delle altre in cui il contatto inebbriante è più angusto. Se immaginiamo uomini vissuti nelle celle tenebrose di un ipogeo, e la fulminea impressione di un raggio solare che arrivi loro per il prisma, a questa cella d'un colore, a quella d'un altro, li vedremo tocchi così di emozioni senza nome, inconsci così che tali emozioni abbiano la stessa origine, il sole cui ciascun colore si conviene, il sole che rende più felici noi cui risplende intero. Cara mia, Lei sa che io ho pur troppo sempre avuto un debole per i pasticcetti di metafisica azzurra; ho davvero paura di averne cucinati troppi, l'inverno, nel suo salotto dove non mi mancavano nè la metafisica, nè l'azzurro, nè il caldo. Questo è ben l'ultimo; si consoli.

Andai a casa e parlai a mio fratello.

Egli mi disapprovò. Non intendo ora dolermi di lui. Era un uomo retto, un uomo di cuore, e fu sempre affettuoso per me che ora ne tengo come posso il posto presso i figli, orbati in sedici mesi di ambedue i genitori. Ma forse allora non ponderò abbastanza l'obbligo morale che già mi legava a miss Yves e cercò rimovermi dal mio proposito con troppo calore. Me ne sdegnai forte ed ebbi il torto di lasciarmi sfuggire, nella collera, alcune parole circa il fine della sua opposizione che giustamente l'offesero. Gliene chiesi scusa sull'atto, ma la impressione non ne fu tolta. Egli si chiuse in un freddo riserbo e io posi fine al colloquio pregando di non manifestar la cosa ad alcuno. Certe domande di mia cognata sui protestanti di Germania e d'Inghilterra, e il viso lugubre con cui le faceva, mi diedero poi a sospettare ch'egli avesse parlato; perchè non gli avevo detto che Violet era cattolica. Ciò m'indispose ancor più.

Un altro discorso di mia cognata mi ferì. Io occupavo, in casa, quattro camere, e la casa è grandissima, non serviva, per un buon terzo, a nessuno; due famiglie vi potrebbero alloggiare comodamente. Ella mi domandò una delle mie camere per una istitutrice che voleva prendere, e mi fece capire che giudicava la casa appena bastante per sè. Io veramente avevo pensato di non restarci se prendevo moglie, ma intanto tutte queste ostilità più o meno coperte m'irritavano e pensai allora per la prima volta di abbandonare la mia città nativa, di portare Violet a Roma o a Napoli.

Non riferirò ciò che risposi a miss Yves. Allora mi parve che le mie parole avessero il fuoco dell'anima e così parve a lei pure. Rileggendole invece più tardi, mi parvero e mi paiono ancora tanto inadeguate a ciò che sentivo. No, non le trascriverò, sono foglie disseccate dell'agave; le lascio cadere.

XXIX.

Dato sesto alle mie faccende per un pezzo, mi dimisi da un ufficio pubblico cui più avrei mancato e ne ritenni alcuni altri senza importanza, per non dar luogo a troppi commenti. Partii quindi per Milano e presi la linea del Gottardo. Fui a Magonza il 21 giugno, avendo in animo di partirne la mattina del 25 col battello a vapore discendente che tocca Rüdesheim, sulla destra del Reno, alle nove. Arrivai a Magonza di sera, da Francoforte. M'ero messo in testa che Violet dovesse passare di là e avevo pigliato quel giro vizioso per fare, almeno in parte, la stessa via. Giungendo al ponte di ferro sul Reno, una gran commozione mi prese. Avevo veduto il Reno molti anni prima, alle radici del Rheinwaldhorn. Ero allora giovanissimo, avevo la testa piena dei versi di Heine, delle ballate del Wunderhorn e di figure tedesche, da Criemhilt e Hagen al Trompeter von Säkkingen. Per me le acque del Reno celavano un tesoro di fantastica poesia oltre a quello dei Nibelunghi; il suo nome solo m'inebbriava ed era stato il mio sogno di vederlo nel tratto più glorioso, fra Worms e Colonia. Non so cosa festeggiassero, quella sera, a Magonza. Il famoso fiume era zeppo di barche, sparso di lumi erranti; vapori andavano, vapori venivano, lentamente, con musiche o fuochi artificiali a bordo; la luce argentea di un faro elettrico batteva da lontano e oscillava sulle case della città, sulle rive gremite di popolo. Non credevo che il Reno fosse già così ampio a Magonza, e la mia prima impressione fu di stupore; ma poi dimenticai subito lo spettacolo, pensai solo che quella gran corrente mi avrebbe portato laggiù, oltre i lumi e le barche, al mistero delle ombre lontane, a questo ignoto Rüdesheim, a lei.

La sera stessa passeggiai lungo il Reno. Il nero spaventoso del cielo, i lumi del fiume, la folla silenziosa e ferma sulle rive, le musiche trionfali cui si mescevano di quando in quando da un vicino serraglio ruggiti di belve irritate, facevano uno spettacolo festoso e lugubre a un tempo che mi metteva sinistri pensieri. Me ne partii presto, mi misi a caso per viuzze deserte e mi trovai improvvisamente a fianco del Duomo colossale, cinto di silenzio. Mi fermai a contemplare la incerta enormità delle cupole e delle torri nelle tenebre. Là ritrovai la mia profonda gioia e me ne ritornai all'albergo.

XXX.

(Dal quaderno).

Magonza, Hôtel Karpfen, 21 giugno.

Amica mia, tu vorrai sapere cosa ho sentito questa sera, a Magonza. Ecco: di essere sulla soglia d'un'eternità. Anche la prima sera che udii la tua voce ebbi una simile impressione, ma allora la porta dell'eternità era chiusa. Adesso, diletta mia, io sono tu, la porta è aperta, odo la voce tua, sento che mi rinnovo, ch'entro in un mondo superiore. Cara, forse io pecco d'orgoglio, mi pare che nessun altro amore somigli al nostro, che siamo veramente uniti in Dio; questo pensiero mi esalta, mi inebria tanto! Credi, credi anche tu così! Ho avuto stanotte uno slancio tale di questa fede, contemplando sopra i fanali di una piazza deserta le sommità oscure della cattedrale. Ho alzato al cielo le mani congiunte.

Diletta, sei tu che mi rinnoverai. Se tu sapessi, sono come un fanciullo che sento di trasformarsi in un giovane, e ne ha la febbre. E la giovinezza, la vita piena, la potenza, la gioia sei tu. Tu mi farai quello che sarò poi sempre, poichè questa giovinezza che mi comincia ora è eterna. Lo credi, lo sai ch'entriamo nell'eternità? Stringiti a me, stringiti a me, perchè tu pure sarai rinnovata con me. Tutte le tue tristezze, tutti i dubbi, tutto l'amaro dell'anima tua, tutte le spoglie della prima imperfetta vita cadranno. Puoi tu immaginare il tempo che verrà poi?

Amore mio, senti questa cosa; noi non vediamo ancor bene. Quando saremo un solo, non ci potremo più dire a vicenda: «Tu sei la vita, la potenza e la gioia;» ma gli occhi nostri si apriranno, e noi, cercando nel nostro cuore, nei nostri pensieri, nelle nostre opere, in tutte le cose, l'Amore infinito, diremo a Lui, sempre a Lui: «Sei nostra vita, potenza e gioia!».

Dove sei tu in questo momento? Addio, ti amo!

(Versi pensati stasera in ferrovia, tra Francoforte e qui, non disciplinati nè disciplinabili):

Il treno va e tuona. Guardando la fioca Lucerna che trema, Io penso la fine, La dolce, la cara Lontana persona Che posa pensando Me solo, e, pensando, A me s'abbandona; Il treno va e tuona. Guardando le stelle Immobili, austere, Guardando le nere Parvenze de l'ombra Che fugge, che vola, Io penso lei sola, Io vedo lei sola, Respiro lei sola, Ovunque presente Nel cielo, ne l'ombra, Ne l'aria fuggente, Ne l'ebbra mia mente, Io sento il suo cuore Che batte, che batte, Le voci sue rotte Che dicono: «Vieni, Cedo, vieni, vieni.» Il treno va e tuona.

XXXI.

Il 25 mattina, alle sette e mezzo, partivo da Magonza sul vapore Loreley. Pioveva e tirava vento; le umili rive e le isole del fiume con i loro grandi pioppi sfumavano nella nebbia. I gioghi del Taunus non si vedevano affatto; ad un certo punto poco più si vedeva che i fiotti giallastri rotti dal piroscafo. Finalmente dietro i grandi alberi d'un'isola, al piede di fosche alture, ci apparve Rüdesheim.

Discesi all'Hôtel Krass. Sapevo che Violet non era a Rüdesheim, ma pure la sola aspettazione della venuta sua, un presentimento di ore felici, una incertezza del dove, del come, del quando le avrei parlato, mi fecero battere il cuore appena messo piede a terra. Guardavo avidamente le case, il fiume, le colline di questo paese che doveva diventarmi familiare e caro quanto altro mai. All'Hôtel Krass mi diedero una cameretta piccina, presso la sala da pranzo. L'unica finestra guardava il giardinetto a pergolati dell'albergo, un piccolo dado di ombra, di verde e di rose; di là dal giardinetto la ferrovia, il gran fiume verdognolo, le alture del Rochusberg. Tutto era nuovo per me, nulla mi pareva straniero.

Chiesi subito al cameriere, un gobbo chiacchierino, se vi fosse a Rüdesheim una famiglia Steele. Quegli mi rispose, spalancando gli occhi per la meraviglia, che sì. Il signor Paul Steele e la sua signora erano tra le persone più distinte del paese. Avevano degli ottimi vigneti sotto il Niederwald e sul Rochusberg, un gran palazzo a Magonza. Viaggiavano assai; il cameriere credeva che in quel momento fossero assenti; mi promise, a ogni modo, informazioni esatte. Seppi infatti da lui, più tardi, ch'erano a Francoforte e che quel mattino stesso avevano telegrafato di mandar loro certi oggetti a Magonza, dove intendevano trattenersi alcuni giorni. Non perdetti un minuto e scrissi a Violet per farle sapere dov'ero. Nella incertezza, feci due lettere; ne indirizzai una a Norimberga e l'altra a Magonza. Poi mi feci indicare la casa degli Steele, un villino elegante nello stile tedesco antico, alla estremità orientale del paese, presso all'incontro della strada di Geisenheim con la ferrovia.

La sera del secondo giorno dal mio arrivo ebbi questo biglietto da Magonza:

«Dovevamo restar qui una settimana, ma ho ottenuto che si parta domani. Oh non posso, non posso più stare lontana da Lei! L'anima mia è più che mai Sua, tutta Sua, ma, nella lontananza, le antiche obbiezioni mi combattono ancora. Io non voglio più ascoltarle, però soffro, soffro, ho infinitamente bisogno di esser con Lei. La mia amica desidera viaggiare di notte; così partiremo col treno della riva sinistra che arriva a Bingen prima dell'alba. Gli Steele hanno molte cose a fare colà e non si sa ancora quando tragitteremo a Rüdesheim. Se Lei ode il treno, metta un lume alla sua finestra; credo che lo vedrò benissimo anche dalla sponda opposta del Reno e sarò tanto felice di vederlo! Non venga a Bingen e neanche cerchi di vedermi nel passaggio dallo sbarco di Rüdesheim al villino Steele. Venga al villino alle cinque; allora ci troverà di sicuro.

«Addio, addio. I love you.

«V. Y.»

XXXII.

(Dal quaderno).

Ad alta notte rombando Passava il treno lontano. Venni al balcon palpitando Con la lucerna a la mano.

Laggiù correvi correvi Tu via nel treno veemente, Come una stella vedevi La mia finestra lucente.

Allor ti strinsi al mio petto Con un fulmineo pensiero; Tu pur sul core m'hai stretto Nel più profondo mistero.

Passàr le rote remote, Io sul balcone impietrai; Mirai le tenebre vôte Ed il silenzio ascoltai.

XXXIII.

Non cercai di veder Violet al suo arrivo. Dal momento in cui mi scrisse «cedo» mai mai cosa alcuna mi fu più dolce che obbedire a un desiderio dell'amica mia, contrario al mio egoismo, ai desiderii miei. Io spero avere così amata una tale creatura, avere così usato un tal dono di Dio il meno indegnamente possibile. Solo mi permisi di andare verso le sei della mattina, allo sbarco del vaporetto che corre continuamente fra Bingen e Rüdesheim, essendo sicuro, per la lettera di Violet, ch'ella non sarebbe arrivata così per tempo. Mi trattenni colà un'ora a godere profondamente, ma tranquillamente, il momento futuro in cui sarebbe passata lei e io avrei dovuto starmene lontano. Ascoltando i mormorii della corrente veloce che spumava e luccicava sulle catene tese delle barche, non potevo fare a meno di pensare che forse anche il mio prossimo tempo felice passerebbe velocemente. A quest'idea non potevo reggere, la cacciavo da me con orrore.

Passai gran parte della giornata nei boschi del Niederwald, parlando alle piante e alle ombre, cercando e trovando con gran commozione il bianco Waldmeister del Bahnhofswald d'Eichstätt, declamando come un ebbro, per le verdi solitudini, i versi di quel giorno:

Bevo e mi veggo sorgere dentro al pensier profondo Il Reno sacro, i clivi, torri, vigneti e fior.

Alle cinque precise entravo nel villino Steele, Il domestico annunciò il mio nome in un salotto terreno dalle finestre gotiche, cui le invetriate a piccoli ottagoni, dipinte, davano ben poca luce. Per un momento, venendo dal sole, non vidi nulla. La voce di Violet disse «buona sera» e distinsi lei che mi veniva incontro porgendomi la mano. Accennò tosto coll'altra mano a una seconda ombra che si avvicinava. «La signora Steele» diss'ella. Si sentiva vibrar nella sua voce una repressa gioia, ma ella era tuttavia perfettamente signora di sè, aveva l'usata grazia disinvolta. La signora Steele mi diede il benvenuto molto cordialmente, mi strinse forte la mano e mi presentò ad alcune altre ombre femminine e mascoline, pronunciando il mio nome con una sicurezza che mi fece piacere come se vi sentissi un poco dell'amore di Violet che doveva avermi nominato a lei ben di sovente. Ella condusse, o per meglio dire, lasciò cadere la conversazione in modo che in breve tempo i suoi visitatori, uno ad uno, se n'andarono. Quando uscì l'ultimo il cuore mi batteva da spezzarsi.

—Se permette—mi disse la signora—vado ad avvertire mio marito.

Rimasto solo con Violet, me le accostai rapidamente. Ella si alzò in piedi, mi piegò, abbracciandomi, la testa sul petto. Nè lei, nè io potemmo proferire parola. Non avevamo più senso del mondo esteriore e neppur coscienza di esistere divisi.

Fu lei la prima che alzando il viso e gli occhi velati, smarriti in una felicità intensa, disse sotto voce:

—Mi ami?

Presi il caro viso fra le mani, lo trassi a me senza rispondere, posai le labbra sulle sue labbra, mi si oscurarono gli occhi, mi parve aspirar tutta l'aria, tutta la luce, tutta la vita del mondo. Udimmo in quel momento le voci dei signori Steele, ed avemmo appena il tempo di separarci. Quanto a me non potevo ancora parlare. Per fortuna gli amici di Violet intesero e parlarono sempre loro. Sulle prime non capii affatto ciò che dicevano; palpitavo ancora nella tempestosa gioia del momento appena trascorso, avevo i sensi troppo pieni di lei. Poco a poco intesi che mi consideravano una vecchia conoscenza, che sapevano già tanto di me e della famiglia. Avevano udito per la prima volta il mio nome non da miss Yves ma da una signora di Kreuznach, che aveva tenuto con me una corrispondenza letteraria. Mentre la signora Steele mi raccontava questo, Violet si ritirò.

—Un mese fa—disse allora ridendo il signor Steele, che mostrava non più di quarant'anni—non mi sarei certo immaginato d'avere così presto una figlia fidanzata.

Si entrò così nell'argomento. Dopo avermi fatto i maggiori elogi di Violet e avermi parlato di suo padre, ch'era stato forse il più caro e intimo amico della famiglia Steele, il signore e la signora mi dissero che tenevano da miss Yves l'incarico di raccontarmi cosa fosse accaduto a Norimberga dopo ch'ella vi era ritornata da Eichstätt. Ma Violet ricomparve prima che il racconto fosse incominciato, e il signor Steele rise molto della sua fretta.

La signora ci propose di uscire nel giardino, cui lei e suo marito desideravano, dopo la lunga assenza, dare un'occhiata. Presto mi trovai solo con Violet ed ella si lasciò cadere sopra un sedile rustico, pallida, con una espressione cupa negli occhi. Mi spaventai.

—No, no—diss'ella—sono troppo felice.

Sedetti accanto a lei. Ci guardavamo in silenzio, e certo il mio viso esprimeva una segreta angustia, perchè Violet mi stese la mano e la sua fisonomia irrigidita mutò improvvisamente, si ricompose in un sorriso dolcissimo.

—Ho paura di perderti—mormorò, e mi strinse la mano con un vigore di cui non l'avrei creduta capace; l'espressione cupa di prima le ricomparve in viso per un istante.

—Violet—susurrai.—Sposa mia.

I suoi occhi si velarono, la sua dolce voce mi disse con timida passione:

—Per sempre?

—Per sempre, per sempre.—Il mio cuore, mentre scrivo, risponde ancora così.

Non parlammo più. L'odor fresco del verde, il brillar del puro sereno, la nostra felicità, eran così dolci a godere in silenzio! Solo quando vide ritornare gli Steele, Violet mi disse:

—Domattina venga alle undici; mi troverà qui.

Venga? —diss'io— mi troverà?

—Vieni—rispose Violet sorridendo—mi troverai. Ma per noi soli, finora; quando ci saranno altri, dirò ancora Lei. Domani—soggiunse piano e timidamente—spero avere da te…

Non osò compiere la frase e intanto sopraggiunsero gli Steele. Pigliai presto congedo; il signor Steele mi accompagnò a casa.

Egli potè allora finalmente raccontarmi la crisi di Norimberga. Al suo ritorno da Eichstätt miss Yves vi era stata accolta dagli zii con la freddezza la più accigliata. Costoro avevano ricevuto dal professor Topler un biglietto, in cui egli, riconoscendo di non poter rendere felice la signorina, si scioglieva da ogni impegno. I compagni di Violet, Luise von Dobra e suo padre, erano stati immediatamente sottoposti a un interrogatorio, riuscito alquanto burrascoso perchè Luise aveva arditamente difesa la amica sua e perorata la mia causa. Gli Yves non avevano poi parlato alla nipote per sei giorni, durante i quali non si sapeva se avessero chieste altre informazioni o scritto a Topler o che diavolo avessero fatto. Finalmente, una mattina, avevano espressa a Violet, in forma solenne, la loro disapprovazione, ed ella non era riuscita a persuaderli di non avere colpa alcuna, di essersi mantenuta sempre fedele, per parte sua, all'impegno preso col professor Topler, benchè avesse detto ben chiaro fin da principio che non lo amava. Gli zii le dichiararono che la famiglia Yves aveva già troppo sofferto per l'infelice, mal consigliato matrimonio di uno de' suoi membri con una persona straniera e cattolica, perchè essi potessero consentir mai che il fatto si rinnovasse. Rispondendo lei che non era affatto risoluta di prender marito, gli zii le imposero di promettere formalmente che mai non avrebbe sposato l'italiano. Violet respinse una simile proposta. Coloro insistettero e le accordarono otto giorni per decidersi, aggiungendo che se non promettesse non potrebbe continuare a vivere sotto il loro tetto. La Provvidenza aveva voluto che gli Steele capitassero a Norimberga, di ritorno da un viaggio in Sassonia, proprio in quei giorni. La loro amica soffriva crudelmente. Sentiva, da un lato, quanta gratitudine dovesse ai suoi parenti; dall'altro lato le riusciva impossibile di subire una simile pressione. Gli Steele s'interposero, ma senza frutto. Allora miss Yves si decise e accettò l'ospitalità loro per un tempo breve, non conoscendo ancora le mie idee circa l'epoca del matrimonio e dovendo forse recarsi prima in Inghilterra presso una vecchia cugina che le aveva sempre mostrato benevolenza.

Il signor Steele non dubitava che sarebbe rimasta a Rüdesheim fino al matrimonio. Gli dissi allora che per parte mia intendevo di affrettarlo il più possibile, e che ne avrei parlato a Violet l'indomani.

XXXIV.

(Dal quaderno).

Rüdesheim, 28 giugno.

Come un vivo sepolto che tenta Spasimando la pietra e s'avventa A un lume subito, Io così t'ho abbracciata in tempesta, Io ti strinsi così su la testa Man, labbra ed anima.

Aria bevvi, ciel, sole splendente, Un immenso che vince la mente, Che il mondo ha in sè; E ogni cosa di fuor s'oscurava, Pien di te, pien di te il petto ansava, Di te, di te.

XXXV.

L'indomani alle undici trovai Violet in giardino. Nello stringerle la mano la sentii di ghiaccio, ma il viso era tanto raggiante! Mi aspettava da un'ora, pur ricordando di avermi detto alle undici. Le diedi le due strofe che precedono e un biglietto con cinque versi che mai altri occhi umani non videro nè vedranno. I suoi lampeggiarono di gioia quando le parlai di queste poesie, scritte nella notte.

—Ecco—esclamò—la mia speranza di ieri!

Ma quando vide com'erano scritti i cinque versi e quale inesprimibile amore dicevano, mi guardò fiso con lo stesso scuro fuoco del giorno innanzi, mi strinse le mani con la stessa energia convulsa, senza potere articolar parola.

—Ho paura—diss'ella finalmente, sottovoce, tenendo gli occhi bassi e accarezzandomi la mano—che Dio ci castighi perchè a Belvedere hai cominciato ad amarmi credendomi maritata, e io te lo lasciai credere. L'ho tanto pregato che ci perdoni, sai. Pregalo anche tu, caro. Non voglio mica perderti presto; non mi basta di sapere che sarai mio per sempre nell'altra vita. Dio, sono tanto attaccata alla terra adesso! Ti voglio anche qui, anche qui. Tu non puoi intendere, vedi, come ti amo.

Mi spieghi Lei, amica mia, come si possono confondere nel cuore una tale angoscia e una tale dolcezza quali ne provai a un punto per le parole appassionate di Violet. Mi rimproverai tacitamente di averla troppo commossa, di non aver fatto maggior violenza al mio sentimento, e la scongiurai di serbarsi tranquilla, perchè le emozioni troppo forti potevano porre a cimento la sua salute.

—Allora calma, calma, calma!—diss'ella sul serio.—Diventi di gelo anche Lei.

Questo Lei involontario, eppure così naturale in quel momento, ci fece ridere di cuore.

Le presi la mano sinistra.

—Questa non può stringere come vorrebbe—disse Violet un po' tristemente—ma le devi voler bene come all'altra.

Era così elegante quella piccola mano segretamente offesa, così delicata e diafana!

—È la più bella mano che il mondo abbia—diss'io.

—Non dica questo cose—rispose Violet tornando al Lei e arrossendo.

Sorrisi e replicai:—Non le dirò più.—Ella esclamò allora con impeto:—Sì, le dica!

Il mio pensiero passò naturalmente dalla sua infermità a un'altra idea.

—E i tuoi parenti? Cosa dicono? Lo domando perchè mi pare che dovrei scrivere a tuo fratello.

Qui la mia coscienza mi accusa di una colpa che il mondo, ingannato dai nobili sentimenti profusi senza fatica nei miei libri, forse non mi avrebbe attribuita, ma che risponde pur troppo alle intime pravità e miserie della mia natura. Non avevo perdonato a mio fratello le sue obiezioni di prima, la sua freddezza di poi, ne serbavo un risentimento ingeneroso. Inoltre, per la mia orgogliosa ed egoistica inclinazione a considerarmi vittima dell'ingiustizia umana, a supporre negli altri antipatie, invidie deliberate, noncuranze verso di me, mi figuravo che mio fratello e mia cognata fossero molto più avversi al mio matrimonio, molto più amaramente ingiusti verso Violet e me di quanto erami lecito credere. E mi compiacevo, quasi, per la mala abitudine del mio cuore, di una tale ingiustizia che mi rendeva, in certo modo, più caro a me stesso. Ora l'idea che Violet scrivesse una lettera affettuosa a mio fratello mi destò una subita ripugnanza. Non la seppi vincere e nemmeno seppi, purtroppo, esser sincero; risposi che non avevo ancor detto nulla a' miei parenti, che per ora non era necessario di scrivere e che ad ogni modo sarebbe toccato a me di partecipar loro il nostro matrimonio e quindi a mio fratello di scrivere per il primo alla fidanzata.

Violet parve sorpresa e mortificata dalle mie parole. Allora compresi che questo silenzio serbato co' miei parenti la poteva offendere, e ciò mi recò più dolore che il non aver detto la verità.

—Non vorrei dividerti dalla tua famiglia—diss'ella senza guardarmi.

La pregai di non turbarsi con questa idea, le dissi che prendendo moglie mi sarebbe stato materialmente impossibile di rimanere nella casa paterna e che pensavo portar la mia dimora in Roma o in Firenze, insomma in una grande città dove gli studi fossero più facili e il clima migliore che nel mio paese natio.

Mi parve che Violet non fosse molto persuasa de' miei progetti, che temesse di esser lei la causa d'una risoluzione simile.

—Ne parleremo—diss'ella col suo sorriso dolcissimo.—Parleremo seriamente di molte cose serie, non è vero? Poichè dobbiamo avere tanto giudizio!

Allora si parlò del nostro matrimonio. La prima idea di Violet era stata che si facesse in Inghilterra, presso una vecchia cugina che le aveva sempre voluto bene; non essendo ella sufficientemente legata coi pochi e lontani parenti che teneva in Roma. Ma la cugina, cui Violet ne aveva scritto un cenno, s'era evidentemente spaventata, per la sua cattiva salute, di queste nozze in casa, e aveva risposto in modo poco incoraggiante. Si decise quindi di accettare l'amichevole offerta degli ottimi signori Steele, affrettando però il giorno della nozze quanto fosse possibile. Io non conoscevo la legislazione prussiana sul matrimonio degli stranieri, non sapevo affatto quali pratiche fossero necessarie, di quali documenti avrei avuto bisogno. Neppure il signor Steele, cui ne parlammo subito, lo sapeva. Allora mi venne in mente che si sarebbe potuto fare a Rüdesheim il solo matrimonio religioso, salvo a fare il matrimonio civile in Italia. Violet vi era indifferente, ma mi parve che agli Steele la proposta non tornasse pienamente gradita. Perciò la abbandonammo e si convenne d'informarsi subito circa le disposizioni della legge prussiana.

Ritornando, quel giorno, all'Hôtel Krass, la mia poca sincerità con Violet, a proposito de' miei parenti, mi pesava sul cuore. All'albergo trovai una malaugurata lettera di mio fratello che non ricorderei se non fosse per chiarire com'egli non abbia mai avuto, sino al mio ritorno, sicura notizia di ciò che avveniva a Rüdesheim.

Evidentemente, mio fratello aveva scritto e mia cognata aveva pensato. Non debbo nè voglio serbarne rancore alla memoria di questa povera donna, ma certo la lettera fu male ispirata, e tradiva ad ogni riga una certa lotta fra la mano e il pensiero. La sostanza n'era questa. Mio fratello mi faceva intendere che se io mi accasavo non avremmo potuto vivere insieme, sotto lo stesso tetto. Soggiungeva, che siccome la casa paterna era di proprietà comune, desiderava conoscere per tempo le mie intenzioni; che egli era disposto ad acquistare la mia quota di proprietà; che se ci accordavamo a questo modo, e se io non avevo in animo di stabilirmi altrove, egli si sarebbe adoperato per cercarmi un quartiere e per metterlo in assetto, giusta le istruzioni che gli darei. Di Violet, nè per Violet, non una sola parola.

Gli risposi immediatamente poche righe gelate. Dicevo che mi sarei stabilito altrove e che avrei dato incarico a un avvocato di trattare con lui la cessione di comproprietà che mi proponeva. Mio fratello non mi scrisse più.

Quando io penso ai venticinque giorni che seguirono questo, mi smarrisco nella luce, ricordo tanti momenti con una vivezza acuta, ma non so più come si leghino insieme, non so più quale sia venuto prima, quale poi, ho perduta l'idea del tempo, tutto succede ancora contemporaneamente e per sempre nella mia memoria come se questi miei ricordi, parte della piena felicità ventura, appartenessero già all'eternità, pigliassero la forma di un perpetuo presente. Non avevo, dapprima, in animo di parlarne, ma mi tenta la gran dolcezza e cedo, poichè Lei sola, cara e fedele amica, mi ode. Racconterà dunque il tempo felice, così senz'ordine come vien su dal cuore.

XXXVI.

Una sera, al tramonto, Violet e io eravamo seduti sotto il tiglio di Geisenheim, mentre la signora Steele faceva una visita nella villa Monrepos. Ricordo il gran tiglio, vecchio di quattro secoli, la vicina chiesa con le sue torri medioevali, le villette posate tra i fiori, tra il cicaleccio degli zampilli e degli uccelli, la dolcezza della luce e dell'ora, un odor di glicine in fiore. Per via si era conversato di cose indifferenti. Appena partita la nostra compagna, Violet mi aveva detto «mi ami?» I miei occhi, non le mie labbra, avevano risposto e non s'era parlato più, se non col silenzio stesso, pieno di passiono.

—Com'è dolce, qui!—diss'ella a un tratto.

—Vuoi che ci restiamo?—risposi.—A vivere e morire?

—Oh no!

Aveva detto «oh no» così risolutamente! La guardai, sorpreso. Ella pure mi guardò, ma sorridendo. Si vedeva che aveva una parola sul cuore. Susurrò:—Dove fiorisce l'agave?—e un lieve color di rosa le corse in viso. Parlavamo in italiano, nè so perchè io le abbia allora risposto in inglese, come se qualcuno avesse potuto comprendere:

I kiss you.

Si tacque ancora un poco, e poi Violet mi pregò a dirle i versi dell'agave:

Ecco, superbo ascende il fior dell'agave. Arde nel cielo splendido il mio sol.

Li recitai o soggiunsi tosto che non pensavo più alla gloria, che pensavo solo ad esser felice con lei, per lei, di lei sola. Meglio se potevamo nascondere la nostra vita in qualche umile paese come Geisenheim.

Violet mi guardava con uno sguardo smarrito, velato, e accennò di no. Solo dopo qualche tempo mi rispose dolcemente:—No, caro, no.—E perchè io la guardavo come aspettando le sue ragioni, riprese che avrebbe tante cose a dirmi ma che quando era con me diventava incapace di ricordarle, incapace di ragionare. Preferirebbe scrivere. Appena detto così sorrise, e intesi subito a cosa aveva pensato. Ella mi lesse in viso e s'affrettò a dirmi che stavolta non si trattava di cose amare come a Belvedere, dove m'aveva annunciata la sua prima lettera colla stessa frase. La pregai di scrivere presto.

Promise di farlo la sera stessa.

Io pensavo a ciò che direbbe in questa lettera, e credo d'aver preso involontariamente un'aria grave. Allora fu lei che mi disse— I kiss you —e soggiunse con un delizioso accento di angustia:

—Non devi fare un viso così serio!

La signora Steele veniva verso di noi e in quello stesso punto passò una bambina, recando dei fiori. Violet la chiamò, come per dissimulare all'amica sua il nostro turbamento.—Che fiori hai?—diss'ella.

—Waldmeister.

—Dove l'hai colto?

—Sul Niederwald.

—E come ti chiami?

—Luise.

—Oh!—esclamammo insieme—Luise!

Il Waldmeister ci ricordò il bosco di Eichstätt e il nome della nostra amica, della cara giovinetta, ci punse il cuore di rimorso e di tristezza, perchè non avevamo ancora parlato di lei e ci pareva questa una colpa comune. Violet trasse a sè questa piccola Luise, e la baciò teneramente.

XXXVII.

Ecco la lettera di Violet:

«4 luglio.

«Appena sei partito ho data la felice notte ai miei amici ed eccomi nella mia camera. Voglio tanto bene a questi perfetti amici, ma quando tu mi lasci soffro di stare con altri, desidero esser sola per ritrovar te, per stringerti al mio cuore nel più profondo mistero, come dice la cara poesia.

«Non ti scrivo per dirti che ti amo, benchè avrei tanti volumi da riempire con questo. Ti scrivo per tenere subito la mia promessa di Geisenheim.

«Caro, io credo di averti amato molto presto, a Belvedere; molto prima di quanto potresti credere. Allora pensavo, contro la mia volontà, che sarei felice di vivere presso a te come la più umile persona della tua casa, assistendo, ignorata da te, alla tua vita intima, udendoti parlare con altri più degni di me e leggendo… sì, sognavo anche questo peccato!… leggendo di nascosto le tue carte. Poi, quando seppi d'essere amata n'ebbi una vertigine, e desiderai nella mia fantasia che tu avessi a scrivere per me sola. Questo l'ho desiderato anche più tardi, una volta. Viaggiando in ferrovia da Firenze a Roma ho udito parlare di te come scrittore idealista, in modo che mi fece male. Avrei pianto di collera e pensai che diventando mio non daresti più al mondo un solo verso. Ma era un pensiero che, allora, non poteva durare. Conoscevo tanto meglio di prima, per le tue lettere, l'anima tua; sapevo che, per quanto riguarda le idee, sei capace di seguire il tuo cammino col più risoluto disprezzo degli attacchi che giungono e di quelli che non giungono a te. Adesso io sono tua ed ecco ciò che ho nel cuore:

«Noi dobbiamo vivere nel tuo paese, là dove tu hai le memorie più care, dove le voci delle cose ti hanno parlato la prima volta, un giorno della tua fanciullezza, con tua grande confusione e stupore, e ti hanno poi appreso in seguito ch'eri poeta e che bisognava rispondere ad esse. Ricordi bene, non è vero, di avermi raccontato questo? Là tu hai conosciuto la vita e i cuori degli uomini che in parte sono già ne' tuoi libri e in parte nella tua mente; là tu hai sentito spesso col sentimento di tutto un popolo. Noi dobbiamo vivere là, non perchè tu goda tutte queste dolcezze della patria, ma perchè mi pare che sieno quasi l'alimento del poeta, e tu devi esser poeta sino all'ultimo, con tutta l'anima tua e con tutta la mia.

«Caro, io sono forse in parte troppo scettica e in parte troppo entusiasta; di quest'ultimo guaio ne hai colpa tu che mi hai ridonato il mio cuore di diciott'anni. Io penso che tu possa realmente far bene, come poeta, a pochissime anime, e penso in pari tempo che il valore di questo ristretto beneficio sia inestimabile e che saresti colpevole di non recarlo. Non basta; io sono una personcina molto ignorante e da nulla, ma tuttavia presuntuosa assai; e oso adesso dire cosa vorrei che tu facessi in avvenire come artista. Il romanzo che hai incominciato mi piace immensamente e so come vi lavorerai quando sarai mio. Io mi vedo già seduta vicino a te, con un lavoro fra le mani molto più umile del tuo, guardandoti e baciandoti col desiderio mentre scrivi, e tenendo gli occhi bassi quando alzi i tuoi dalla carta, per non tentarti, per lasciarti tranquillo. Ma vorrei che ne' tuoi futuri libri non vi fosse solo die vornehme Welt, come dicono qui, una elegante società di signori e signore; e nemmeno che ci fossero solamente contadini e operai; vorrei che tu prendessi in mano tante persone di ogni specie, come si mescolano o si toccano o almeno si vivono accanto nella vita reale. E vorrei un'altra cosa più grande assai; che tu fossi per questa gente il poeta della verità e della giustizia.

«Dio mio, come mi batte il cuore pensando che lo sarai! Ti abbraccio, mi stringo a te nel pensiero, ti amo tanto e sono tanto felice che ne soffro.»

«5 luglio.

«È l'alba e io scrivo presso la finestra aperta, per aver luce. Non ho potuto dormire, ma ho riposato e l'aria così pura e fresca mi ristora, mi dà una gioia tranquilla.

«Il caso e le condizioni della mia esistenza, alquanto vagabonda, mi hanno fatto conoscere molte persone e molti atti di queste persone che sono ignoti alla maggior parte della gente fra la quale vivono. Ho udito il mondo esaltarle o deprimerle con giudizi di errore e poche cose che mi hanno fatto altrettanto sdegno, altrettanta amarezza. Avevo forse appena tredici anni quando questi stupidi giudizi umani incominciarono a farmi soffrire. La mia adolescenza fu assai fantastica e ambiziosa. A sedici anni sognavo la gloria come un ragazzo, credevo poter diventare un grande scrittore e m'inebbriava l'idea di far giustizia colla penna senza rispetti umani. Forse, col carattere focoso e altiero che avevo allora, pensavo più a castigar degl'ipocriti che a premiare la virtù sconosciuta. Le mie illusioni, la mia folle ambizione caddero presto e di quell'ideale non è rimasta in me che un'alta, inaccessibile immagine; ma ho sempre pensato che invece di porre in scena caratteri non mai esistiti o fatti di rappezzi, il poeta dovrebbe portare intere ne' suoi libri le persone che ha conosciute nel mondo, rappresentandole secondo verità e giustizia, in modo che possa servire di premio o di pena. Io so che non dobbiamo giudicare i nostri fratelli e che nè la perfetta scienza, nè i definitivi premi e le pene del cuore umano sono in nostro potere; ma sento con tutta l'anima che il poeta è chiamato a prendere sulla terra, per ombra e figura, questa parte divina, a esercitarla, non per uno sfogo di passione come avrei fatto io qualche volta, ma col solo intendimento del bene, per correzione ed esempio, e con le prudenti cautele che ha o dovrebbe avere chi pronuncia in chiesa la parola di Dio, quando apre le anime e vi mostra il peccato.

«Caro, ti faccio io sorridere? Credo veramente che sorridi, mi accarezzi e mi baci, molto come il tuo amore che sono e un poco pure come una bambina che ti sembro in questo momento. Perchè io La credo capace, sarcastico signore, di questa cosa mostruosa: ridersi di me. Ciò ch'ella del resto non potrà, un giorno, fare impunemente, perchè se io Le ho già morso un dito, piano piano, per amore, saprò mordere anche per vendetta, e forte! Ma no, è vero, non tocca a me dirti qual è la tua via; a me tocca solo seguirti, seguirti sempre, al tuo fianco quando la via è piana, nelle tue braccia quando è difficile. Spero che sarà molto difficile, sai?

«Ecco una lunga lettera e non vi è ancora ciò che mi fu cagione di scriverla. È una cosa contro il mio cuore, ma secondo la mia mente e la mia coscienza. Non ho mica presa sul serio la tua proposta di Geisenheim; ma sai perchè non vorrei vivere a Geisenheim nè in qualsiasi altra solitudine? Perchè occuperei troppo tutta la tua vita! Per me sarebbe il paradiso, ma non dev'essere, non lo voglio. Voglio essere una nuova fiamma in te per le opere del bene e dell'arte, e ritroverò me in tutto che penserai, in tutto che farai, quantunque in apparenza estraneo e in fatto superiore a me. Voglio però anche essere la tua vanità; io sola, che sono parte di te, una parte inferiore, io sola voglio essere la tua vanità. Se tu ti sforzi di non curar le lodi dei giornali e della folla, ti abbandonerai, invece, senti come sono orgogliosa!, alla dolcezza di esser lodato da me, che non so ancora lodare, che invidio, per questo, le donne italiane, ma che cercherò d'apprendere, e se non saprò scioglier la mia lingua legata, ti parlerò colle mie carezze!

«Solamente, se ci saranno ne' tuoi scritti eleganze classiche, bellezze puramente italiane, temo che non le saprò intendere. Me le insegnerai tu, caro. Quante cose mi devi insegnare! Quando penso come sono ignorante di tante cose che ogni scolaretta sa, mi copro il viso. Ti piace ch'io mi copra il viso?»

XXXVIII.

Rientravamo in giardino dal passeggio.

—Perchè mi ami?—diss'ella.—Ancora per il sogno?

—No no—risposi ridendo.—Per i sogni… La prego di dire per i sogni, signorina… capisco adesso che non L'ho amata mai.

—Questo?—esclamò Violet sorpresa, ma con un viso felice.—Allora Lei mi ha indegnamente ingannata, gentile signore. Lei mi ha recitato una perfetta commedia a Belvedere con quelle belle frasi sulla mia voce, la vita e la speranza. Ma bravo! E quando mi hai fatto l'onore di cominciare a volermi bene?

—Non ti ho mai ingannata un momento—replicai—ma credo di essermi ingannato io stesso, credo che quella gran commozione per la tua voce fosse puramente un'ebbrezza di fantasia. Sai quando mi figuro d'aver cominciato ad amarti veramente? Sul prato di S. Nazaro quando sei stata tanto cattiva, quando mi hai detto quella bella impertinenza del tutto volgare.

—Oh che tardi!—diss'ella giungendo le mani; e rise. Com'era piacevole e ricreante di ricordare le sue pungenti parole, il suo sussiego di quel giorno, e d'udirla adesso a ridere così, di dirle tu!

Prese a un tratto un'aria compunta, abbassò gli occhi e sospirò:

—Povera me, io ho cominciato molto prima.

—A Roma?—diss'io.—Dopo aver letto Luisa?

Violet si mise a ridere.—Troppo presto!—diss'ella.—Com'è presuntuoso il signore!

Poi mi confessò sul serio che quando a Belvedere le aveano annunciata la presenza dell'autore di Luisa, ella, che aveva attribuito il libro a una donna, n'era stata scossa nel cuore malgrado sè stessa.

—Ti vidi—continuò—prima che tu mi parlassi. Ti trovai un'aria così grave e severa che la idea dell'amore si allontanò da me e ne fui contenta; ma quando mi parlasti la seconda volta ne rimasi un po' colpita, e quando poi le nostre mani si sfiorarono sul cannocchiale sentii per un attimo con tutta me stessa che ci potremmo amare. Le tue parole su coloro che amano due volte mi fecero rimescolar tutta; però resistevo e sopratutto volevo nasconderti il mio sentimento; alcune altre tue parole che in fatto non mi piacquero m'aiutarono a fingere. Dio mio, sul prato di S. Nazaro ti amavo già e mi costò tanto di essere così dura! Potevi ben capire che lo ero troppo!

—E quella partenza—diss'io—quanto male m'ha fatto!

—Non ne parlare!—rispose Violet sotto voce, ma con un impeto d'angoscia.—Non parlar mai più del male che t'ho fatto!

Camminammo in silenzio fino a casa. Appena passata la soglia Violet mi accostò le labbra all'orecchio, mi bisbigliò con voce lenta, grave di passione:

—Voglio essere amata col cuore, sai, non colla fantasia.

XXXIX.

Adesso è la cara, nitida Heidelberg che mi vien su dal cuore. Si va dall'Hôtel Victoria al Castello per la Wolfshöhle cogli amici nostri che hanno proposta e diretta questa gita di tre giorni.

Che ombre quiete, che verde odoroso, che musica di primavera in quei boschi profondi della collina, dove tanti viali salgono, girano, s'incrociano, si perdono nelle solitudini e mostrano ai crocicchi tacite indicazioni di luoghi invisibili!

Fairyland —mi disse Violet, sorridendo.—Sì—risposi macchinalmente— Fairyland.—E mi passò il cuore un presentimento del tempo in cui quell'ora sarebbe lontana nella mia memoria, vi diventerebbe visione d'un Fairyland goduto un momento, perduto per sempre. Violet mi guardò.

—A che cosa pensi?—diss'ella.

—A niente—risposi.

Ella si dolse e si rise di me ad un tempo; ma poi mi disse sottovoce:

—Ho visto che hai pensata una cosa triste. L'ho pensata anch'io.

—Quale?—risposi.

—Che io sono la tua Fairy, una povera fata così debole e stanca; ferita!—

Soffriva, quel giorno, di spossatezza e io le avevo proposto di rinunciare la passeggiata, ma ella vi si oppose, e non insistetti perchè vidi che la mortificazione di non poter venire era forse un male peggiore. Questo pensiero ch'ell'avrebbe voluto essere sana e robusta per me, venne una volta sola sulle sue labbra; negli occhi lo aveva ogni volta ch'era sofferente.

Gli Steele vollero salire a Molkencur e noi li aspettammo non lontano, mi pare, dalla Kanzel dove la via gira cingendo il colle a mezza costa. Dal nostro sedile ci vedevamo a piedi la valle chiusa del Neckar, e di fronte ancora lontano, sopra un'altra sporgenza della costa, il vecchio Schloss, con le sue torri enormi in rovina, sommerso nel verde. Bianche nuvole passavano allora sul sole, un'aria molle ci ventava in viso. La via era deserta, ci sentivamo più soli che a Geisenheim; Violet mi abbandonò la sua mano, e le parlai del primo tocco delle nostre mani a Belvedere, della mia gioia di quell'istante.

—Adesso non senti più così—disse Violet.—Sei troppo avvezzo ad avere la mia mano.—Devi tornare come a Belvedere—soggiunse togliendomela.

Ella si mise a scherzare con una civetteria, con una grazia indescrivibile. Adesso aveva sovente di questi momenti deliziosi in cui mi pareva un'altra Violet, una tale Violet che non avrei mai creduto potesse esistere, che mi faceva quasi impazzare d'amore e insieme di terror geloso. Ah se mai si mostrasse ad altri così! Fui per serrarla nelle mie braccia ed ella se ne avvide, si sgomentò alla sua volta, tornò seria e tranquilla, e mi susurrò poi che non sapevo ancora niente, che neanche le parole sue più amorose conoscevo ancora e che bisognava aspettare a quando sarebbe mia moglie.

Tacque perchè si avvicinava una comitiva di bambini e di signore; passata la comitiva, mi porse sorridendo un suo piccolo portafogli perchè vi scrivessi qualche verso in memoria di Heidelberg. Mi parve un po' sorpresa e forse anche mortificata di apprendere che non sapevo scrivere versi così all'improvviso, e io pure credo essermi un po' turbato di questa sua sorpresa come se ne potessi scadere nell'affetto suo. Ella protestò senza parole, ma con un tale represso slancio della persona, con una luce tale negli occhi!

Presi il portafogli.

—Sai?—diss'ella sottovoce—anche se tu perdessi tutta la tua ispirazione di poeta, sempre ti amerei così!

La sua tenera voce era commossa come se veramente mi accadesse in quel punto la disgrazia che diceva; volle, non so perchè, celarsi a me e piegò il viso sul libriccino che teneva fra le mani. Sfiorai colle labbra i folti suoi capelli odorosi, ma non n'ebbi allora vertigini. Sentii che avevo baciato i capelli non di un'amante, ma della cara compagna mia, congiunta a me da un sentimento sacro e solenne cui erano oramai indifferenti la gioventù, la bellezza e tutto quello che passa.

Scrissi nel portafogli:

FAIRYLAND.

In un paese d'incanto Passo una selva profonda; Sospiro e immagino intanto Dove la fata si asconda.

Or geme il bosco ed or tace Ora si schiara, or s'oscura; Riposa immobile in pace, Spande la inquieta verdura.

Stupido io miro la via Che sale, gira e si perde; Vorrei saper dove sia Più scuro e segreto il verde,

Perchè se dai passi miei Colà rifugge turbata, Chetar co' baci vorrei La bionda timida fata.

E se la via m'è straniera, E se mistero m'è il bosco, Forse nell'ombra più nera Le fini labbra conosco.

In vita mia non mi vennero mai scritti venti versi così presto; però vi erano tante correzioni che Violet ne fu esterrefatta. Tentò decifrarle, ma inutilmente; dovetti legger io. Contavo molto sull'effetto dell'ultimo verso, e m'ingannai perchè fin dalla prima strofa Violet non ebbe il menomo dubbio di non essere lei la fata.

—Come puoi essere tu la fata—esclamai—se dico che vorrei sapere dove si nasconde?

—Sì, sì,—rispose,—ma già sono io.

E quando udì l'ultimo verso disse solo:

—Ecco.

Intanto sopraggiunsero gli Steele innamorati di Molkencur e risoluti di ritornar lassù con noi al tramonto. Vi salimmo infatti il signor Steele ed io a piedi, le signore in carrozza. Vi passammo due ore deliziose ad un tavolino appartato, con l'acceso tramonto e i piani vaporosi del Palatinato a fronte, colla valle del Neckar e lo Schloss a' piedi, bevendo l'aria pura dei boschi cui l'amico Steele aggiunse per suo conto alquanti chopes di birra. La piccola rotondetta signora Emma, piena d'intelligenza e di bontà, sosteneva contro di me la preminenza della letteratura tedesca sulla inglese, mentre suo marito, più giovane, più vivace, e meno colto di lei, andava e veniva dalla birra a questo o a quel punto di vista, arrabbiandosi di non poter discernere all'orizzonte la cattedrale di Spira.

—Si capisce—diss'ella ridendo—che Lei ammiri tanto tutto quello ch'è inglese, ma si provi d'esser sincero, se lo può! Mi dica se, come artista, preferisce la donna nella nostra letteratura o nella inglese; mi dica se le donne di Goethe non sono più vere delle stesse donne di Shakespeare!

—Oh!—fece Violet come se non potesse prestar fede a' suoi orecchi.

—Ma sì!—riprese la signora Emma.—Più vere! Io credo che nessun poeta abbia creato donne così vere come Goethe, ed essendo tanto vere così care e graziose. Le donne di Shakespeare sono tutte un poco del paese dei sogni; le cattive sono mostri orrendi, e le buone, scusa, cara Violet, mi parvero sempre un po' sciocchine.

—Già—replicai scherzando—Desdemona, Miranda, Giulietta, Jessica erano disgraziate Wälsche che non avevano studiato a Nymphenburg, nè fatto ginnastica col bastone Jäger, che non possedevano la menoma idea sul libero esame e non amavano di pattinare sul ghiaccio. Ofelia non aveva seguito suo fratello a Gottinga, e ora si crede che non fosse nemmanco abbonata alla Gartenlaube.

—Lei è perfido!—esclamò la signora.

—Cosa c'è, cosa c'è, cosa c'è?—fece suo marito, che disperando di scoprire Spira, si ritirava lentamente sulla sua chope.

—Senti—gli rispose sua moglie—aiutami. Il nostro amico preferisce la donna nella letteratura inglese e io preferisco la donna nella letteratura tedesca. Cosa pare a te?

—A me pare—rispose con mansuetudine filosofica il signor Steele—a me pare di preferir la donna fuori da ogni letteratura.

Noi si rise e la signora fece una spallata.—E a te, Violet?—diss'ella—Cosa pare a te? Dimentica per un momento la tua patria e dì quel che senti.

—Ho la mia opinione—rispose Violet—e non so fare bei discorsi. Non sono letterata—soggiunse sorridendo—non so che scrivere il mio nome qui.

E trasse a sè l'albo dei visitatori di Molkencur che ci avevano portato poco prima. C'era una colonna per il nome, un'altra per la patria; Violet vi scrisse invece del proprio il nome fantastico di una donna immaginata da me e vi pose accanto l'altro dolcissimo nome: Italia. Gli Steele avevano già scritto nell'albo al mattino ed io solo vidi l'amoroso pensiero di Violet. Non ne parlai, non ne avrei parlato a ogni modo quand'anche Violet non mi avesse fatto cenno di tacere; sentivo bene che questo doveva restare tra lei e me, ch'erano solo due parole d'amore, forse fra le più tenere possibili e pie. Io fui tanto felice che lasciai la signora Emma interamente padrona del campo.

Quando scendemmo la luna sorgeva sulle alture boscose del Königstuhl. Violet volle far la discesa a piedi, appoggiata al mio braccio. Un suono lontano di campane dalla città andava e veniva col vento, il cuculo cantava nei boschi cui la luna radeva le vette agitate. Gli Steele ci precedevano ridendo tra loro e io dicevo a Violet la commozione provata nel leggere il suo nuovo nome, la sua nuova patria. Ella mi strinse forte il braccio senza rispondere, e perchè passavamo allora nell'ombra di un gran castagno era ben naturale che la mia fata mi ricordasse nel modo più dolce i versi fatti per lei:

Forse ne l'ombra più nera Le fini labbra conosco.

XL.

Io le dicevo tutti i miei pensieri, tutti i movimenti buoni e cattivi dell'anima mia con la stessa sete di sincerità, per così dire, che avrei dovuto provare parlando a Dio, Quanto più era penoso e umiliante per me di confessarmi a lei, con tanto maggior ardore lo facevo. Se talvolta ho dubitato di un atto o di un pensiero che fossero o non fossero riprovevoli, mi bastò sempre a chiarirmi di ogni dubbio e mi basta ancora il giudizio recatone dentro a me da quella invisibile Violet che sempre fu ed è nella mia coscienza; giudizio sicuro e severo, ben più severo di quello che ne recava la Violet esterna, visibile. Pensando a ciò mi colpì un'analogia singolare e ne vennero questi versi composti sul battello a vapore, andando a Magonza:

Nel mio mortal tu vivi, imago eterna: Ami negli amor miei, ne' pensier pensi, E, più divisa da' terreni sensi, A la mia coscienza sei più interna.

Giusto ministro a Dio, quivi governa L'occhio tuo, speglio a' Suoi chiarori immensi; Levando in core mal vapor non viensi Che l'ombra ei non ne segni e non ne scerna.

Ma se da te rimorso, idea severa, Dico tremante la fralezza mia A la mortale tua persona vera,

Sorridendo mi bacia tanto pia Ch'io veggo in te come in arcana spera Quanto il Signor giusto e clemente sia.

Violet era rimasta a Rüdesheim perchè certi suoi conoscenti di Norimberga le avevano promessa una visita; ed io avevo scelto quel giorno per andare a Magonza dove intendevo acquistare un dono per lei.

Tornai con un braccialetto assai semplice e con questi versi di cui ella comprese subito il concetto benchè avesse bisogno di qualche spiegazione speciale. Il concetto le piacque; i versi non le parevano miei, li trovava così differenti da tutti gli altri che le avevo dati. Lo capivo perfettamente, ma tuttavia le domandai in che li trovasse differenti. Mi rispose ch'erano più difficili, che le ricordavano molto più degli altri le sue letture di classici italiani e le facevano un poco l'effetto d'essere stati scritti da un pittore quattrocentista.

—Ho letto e riletto non so quante volte la poesia—mi diss'ella all'indomani—ed è una cosa strana ciò che provo. La forma mi pare un poco meno viva che negli altri tuoi versi, ma mi compiaccio assai più di ritrovarmi in questi che in quelli.

Osservai che ciò avveniva per il loro concetto.

—No—rispose—sento chiaramente che non è solo per il concetto; è anche per il linguaggio che l'aria così antica, spirituale. Dimmi se in Italia piace più questo genere o l'altro.

—Lasciamo stare il mio sonetto—risposi.—In Italia piacciono i versi migliori di questi. Non vi manca del resto chi dice che si dovrebbero scrivere versi di concetto moderno e di forma antica, ma è un errore perchè bisogna che il concetto nuovo si generi la sua forma nuova e anche la sua nuova armonia.

Violet pensò un poco, diventò rossa, mi prese il capo a due mani, mi sussurrò sulla fronte:

—Io ti amerò sempre sempre come adesso, ma il mio viso invecchierà, la mia povera voce che ti piace non sarà più dolce. Cosa farai tu allora?

Le sue mani mi strinsero alle tempie quanto forte poterono.

—A che pensi mai!—risposi.—Allora non sarò più buono a far versi, non saprò che ripeterti questi ogni giorno.

Poi scherzai sulle nostre tenerezze senili. Violet se ne offese, un po' sul serio, un po' da burla, e mi disse ch'ero un cinico odioso, che trovavo dappertutto il ridicolo, che questo le era molto piaciuto in me da principio perchè è una follia della donna d'innamorarsi degli uomini cattivi, ma che adesso non mi voleva più così.

—Anch'io—diss'ella—una volta ero sarcastica come te; adesso non lo sono più.

Dovette ridere dicendolo, perchè lo era molto spesso ancora; aveva sorrisi fini e parolette brevi ch'entravano nella gente come spilli. Lo riconobbe, ma protestò d'essere sempre in lotta, a questo proposito, colla sua inclinazione e sostenne che il sentirsi tanto felice, l'amare e l'essere amata la rendevano insensibile al ridicolo.

—Dunque—diss'ella—questo senso del ridicolo non dev'essere una cosa buona, non deve potersi accordare con la pienezza della felicità e dell'amore. Anche tu cercherai di perderlo, non è vero?

Rise ancora, vedendo la mia faccia dolente, quasi sgomentata; e mi domandò se fosse un'impresa tanto difficile. Risposi che sì ed ella mi replicò, che essendo artista, potevo sfogarmi senza malignità nei miei libri.

—Però—dissi—sarebbe meglio di frenarmi anche lì?

—Forse sì—mi rispose sottovoce—forse i libri più nobili non rappresentano il ridicolo.

Sostenni con calore, con troppo calore, che ciò non era esatto; e cercai quindi scusarmi dalla taccia di malignità, dissi che quando ero ridicolo io stesso ne avevo il senso acuto ed esilarante.—Sei maligno verso di te—rispose Violet—E in me troverai tu mai il ridicolo?

—Che peccato!—risposi sospirando.—Temo di no.

XLI.

I versi che seguono furono probabilmente scritti alcuni giorni dopo Heidelberg perchè so di averli pensati alla finestra dell'albergo, appena sorta la luna; e ricordo ch'era oltre la mezzanotte. La luna si alzava a sinistra, rossastra e falcata, di là dal Reno, sopra Ingelheim; un obliquo raggio dorato tagliava le tenebre del fiume.

—Sai—dissi a Violet l'indomani mattina in presenza degli Steele—stanotte si è trovato il tesoro dei Nibelunghi.

Lo dissi con un tale accento di sincerità che la signora Steele si lasciò sfuggire un oh!

—L'ho trovato io—soggiunsi—Ed è tutto per miss Yves.

E le diedi questi versi:

Sorge la luna e l'oro Brilla nel fiume nero; Lo splendido tesoro Toglier a l'onda io spero.

Rugge il Reno, i giganti Pioppi fremon su i lidi, Mi corre il vento avanti, Mi cinge d'alti stridi.

Il fulgido tesoro Nel sacro Reno immerso Pe' tuoi capelli d'oro Rapisco nel mio verso.

Or buia piange l'onda I suoi perduti rai; A la tua testa, bionda Non si torran più mai.

Dovevamo andare a Bingen, quella mattina, col vaporetto e quindi al Maüsethurm, e ci eravamo dato convegno allo sbarco. Violet vi era andata quasi un'ora prima per farvi uno studio di acqua e di cielo. Prese i versi e mi ringraziò con un lungo sguardo mentre gli Steele consideravano il suo lavoro.

—Violet lo ha già dipinto e Lei lo dipingerà, il nostro Reno—mi disse la signora Steele.

—Lo ha già dipinto anche lui—mormorò Violet.

—Io?—esclamai, sorpreso.

—Pare di sì—disse la signora Steele con un sorriso interrogativo.

—Ma è la prima volta—replicai—che vedo il Reno.

—Faccia così—disse il signor Steele—ce lo dipinga adesso, ci scriva cosa vede. Sentiamo come vede un poeta e sapremo se dipinge meglio Lei o miss Yves.

Gli Steele erano come ragazzi che quando passa loro per la testa un'idea assurda se ne ubriacano e nessuno è capace di levargliela. Non ci fu verso ch'io potessi sottrarmi a un tale capriccio quantunque mi sentissi ridicolo. Avrei creduto che Violet mi aiutasse; invece si unì agli altri due contro di me e volle darmi ella stessa la carta e la matita.

Là dov'eravamo il fiume ci discendeva da levante diritto incontro, chiaro come il cielo a perdita d'occhio, con la sua larga distesa d'acque egualmente veloci, che appena una sottile striscia di case e di alberi divideva, in faccia a noi, dall'orizzonte, fra il tozzo nero Adlerthurm di Rüdesheim a sinistra e verdi pioppi di isole, sfondi azzurri di colline a destra. Presso a noi, lungo la riva destra, una riga di barche nere si dondolava sull'acqua tutta bollimenti e luccicori intorno alle catene tese delle ancore. Il fumo di un vapore, la Criemhilt, alzandosi a globi s'inargentava nel sole. Credo avere indicato così, o presso a poco, ciò che vedevo; non ho più quel foglietto che gettai subito nel fiume.

—Ecco—disse Steele—io, che non sono poeta, vedo una grande quantità di acqua, molta più del necessario; non guardo i pioppi ma il mio vigneto del Rochusberg che ha un'aria assai malinconica; la mia vista prima di arrivare all'Adlerthurm, si ferma sulla gobba del suo cameriere dell' Hôtel Krass che sta pescando alla lenza qui vicino; la quale gobba non mi pare poi indegna di essere osservata da un poeta. Del resto mi permetta di dar la palma a miss Yves perchè Lei non ci ha nemmeno detto che colore abbia l'acqua del Reno.

Risposi che davanti a tedeschi avrei preferito definire il colore della metafisica di Hegel anzi che quello del Reno. Violet mi disse più tardi, sul vaporetto, che quanto avevo veduto io, l'aveva veduto anche lei come pittrice, ma che quella non era poesia, non era il Reno, era un fiume qualsiasi. Il Reno lo avevo veduto più da poeta, parevale, la prima volta, nel mio pensiero eccitato dal Rüdesheimer, lo avevo meglio dipinto senza dipingerlo, in un verso solo:

Bevo e mi veggo sorgere dentro al pensier profondo Il Reno sacro, i clivi, torri, vigneti e fior.

—Questo è il Reno vero—diss'ella.

XLII.

Fu appunto a bordo della bianca e verde Criemhilt, tornando da una gita a St. Goar che Violet mi disse:

—Cosa ti scrivono i tuoi amici? Lo sanno che fai questa follia?

Eravamo in mezzo a una folla di signore e signori e Violet si divertiva a dirmi ogni sorta di cose da farsi baciare o mordere, sapendo che non potevo fare nè l'una nè l'altra cosa.

—Tu taci—soggiunse con gli occhi maliziosi di quella Violet che avevo veduta un istante nei boschi di Heidelberg.—Si vede che non l'hai osato. Ti vergogni di me. Tu vorresti abbracciarmi adesso tanto per non avere a rispondere, ma non hai neppure il coraggio di far questo. E io sarei tanto felice se tu sapessi disprezzare per amor mio questi rispetti umani; io sarei capace di disprezzare tutta la gente intorno a noi.—No, pietà, no, ti scongiuro—diss'ella sottovoce, atterrita dall'atto ch'io feci di pigliar sul serio le sue provocazioni. Mi rifece più tardi la stessa domanda di prima, sul serio. Dovetti allora confessarle che in Italia nessuno sapeva niente dei miei amori tranne mio fratello.

Violet tacque un poco.

—Ecco—disse poi—se ora cadessi nel Reno in Italia non si saprebbe neppure che ci siamo conosciuti. Perchè tu non diresti mai niente, non è vero?

Tardavo a rispondere.

—Oh sì—diss'ella—promettimi che non diresti niente! Mi basta di vivere in te, non mi piace di pensare che il nostro amore vada, senza necessità, per le bocche di tanta gente. Parleresti solo se in Italia si venisse a sapere qualche cosa e si dicesse ch'ero un'amante non una fidanzata.

—Violet—risposi—non rattristiamoci inutilmente così! Pensiamo invece a preparare la lista di tutti i nostri parenti e conoscenti d'Italia, di Germania e d'Inghilterra a cui si dovrà mandare la partecipazione.

—Sì—diss'ella—questo è necessario; lo faremo. Però mi pesa, molto più ora, sapendo che nè tu nè io abbiamo amici nè parenti che possano esser felici di vedere felici noi. Ma lo faremo, lo faremo.

Ella tornò quindi a domandarmi se, avendo a perderla, parlerei mai più di lei con alcuno e non mi diede tregua fino a che non ebbi risposto che avrei sofferto moltissimo di non poter parlare di lei a cuore aperto, con qualcuno che fosse contento di ascoltarmi. Feci allora una vaga allusione a Lei, amica mia.

—Hai Emma Steele—diss'ella.

—A proposito, quei poveri Steele!—esclamai per cambiar discorso.—Li lasciamo un po' troppo soli, mi pare.

Ci alzammo dal nostro posto di prora e li raggiungemmo alla poppa. Violet si mise a discorrere colla signora Emma e l'amico Paolo mi fece una dissertazione sui vigneti che, scarsi di vegetazione e mondi affatto d'erba, avevano un aspetto fra giallognolo e grigio, quasi triste, sotto i boschi vigorosi delle cime. A Oberwesel mi parve veder salire sul vapore, con ombrello e bastone, certo piccolo personaggio da me conosciuto; mi spiccai dalla compagnia e andai a stringer la mano al mio caro amico Topler seniore dopo essermi bene assicurato che Topler juniore non era con lui.

Egli fece, ravvisandomi, un gran chiasso da quel buon Schwabe ch'era, e durai fatica a fargli intendere di star cheto, perchè miss Yves era sul battello e non avevo piacere, desiderando evitarle ogni emozione, ch'ella si avvedesse di lui.

—Geloso, geloso, geloso!—diss'egli.—Avete ragione; era innamorata di me.

Mi raccontò che era andato a Oberwesel a trovare un amico pittore, che aveva visitato non solamente die Katze, ma anche die Maus (due rovine di castelli) e che adesso andava a trovare una signora a Kreuznach, per cui sarebbe disceso a Bingen. Conosceva molto imperfettamente gli avvenimenti di Norimberga e mi domandò come ci trovassimo lì. Io non gli avrei chiesto del professore; fu lui che mi disse d'essere abbastanza contento, senza spiegarsi di più.

Intanto il cielo s'era venuto oscurando e un improvviso rovescio di pioggia mise lo scompiglio sul battello. Corsi da Violet, ma ella era già discesa sotto coperta, e trovai una tal ressa di gente sulla scala che dovetti rinunciare a scendere io pure e mi rifugiai sotto l'immenso ombrello verde di Topler. Egli sapeva il Reno a memoria, ma n'era entusiasta come un giovane che lo vede per la prima volta, si affacciava ai parapetti del vapore col lungo naso al vento, tutto ridente di ammirazione, noncurante della pioggia; mi domandava se fossi stato qua, se fossi stato là, mi suggeriva gite opportune anche per Violet, mi fece promettere di visitar con lei il Drachenfels nel Siebengebirg. Gli dissi che avevo il progetto di andare a Wetzlar per le memorie di Goethe e lo vidi rannuvolarsi tutto.

—No, no—diss'egli bruscamente—non andate a Wetzlar.

—Perchè?—esclamai sorpreso—Che male ci sarebbe?

—Non ne vale la pena—rispose Topler, e si mise a parlarmi di Rheinstein, la cui bandiera e i baluardi merlati, ritti sopra uno scoglio a picco, apparivano allora dietro ondate di pioggia tra le boscaglie della riva sinistra, in faccia ad Assmannshausen. Questo contegno del mio vecchio amico mi pareva misterioso e non me lo sapevo spiegare se non supponendo che Topler juniore fosse a Wetzlar. Non avevo ancora parlato con Violet di questa gita e risolsi subito in cuor mio di non parlargliene più.

Topler discese a Bingen. Prima ancora che si ripartisse smise di piovere e si fece la traversata da Bingen a Rüdesheim con un riso splendido di cielo e di Reno. Violet era felice, scherzava, rideva; quanto a me non mi sentivo allegro, mi pareva aver qualcosa sul cuore, e non sapevo che.

XLIII.

Eccomi al principio del dolore, di ciò che ho insieme orrore e avidità di raccontare. Mi par di viaggiare in ferrovia, d'aver finora percorsa con lentezza un'ampia valle variata di aspetti dolcemente malinconici, di aspetti ridenti, e che ora le montagne si stringano improvvise e sinistre addosso al treno che accelera e precipita la fuga, furioso di spavento. Infatti questo vivere mio presente che segue agli eventi raccontati qui, non somiglia egli un correr nella galleria centrale di qualche gran valico alpino? Non vengo io dal sole, dai piani ridenti, dalle valli selvagge a queste tenebre sonore dove son portato a precipizio, senza tregua, nell'ansiosa attesa di uscirne, non so quando, non so dove, ma nel sole?

È alla sala d'aspetto della piccola stazione di Assmannshausen che ora io penso. Tre giorni dopo la gita a St. Goar salimmo al Niederwald insieme agli Steele e a certi loro amici di Magonza. Era una domenica e s'incontrò molta gente allegra che usciva dai boschi con mazzi di fiori e di frondi, le donne in mano e sul seno, gli uomini al cappello. Presso al monumento nazionale, di cui non sorgeva ancora che la base, un gruppo cantava qualche cosa di patriottico che pareva religioso. V'era una lontana minaccia di temporale e non dimenticherò mai l'effetto di quel cielo nero verso la Francia, di quel gran fiume a' nostri piedi, disputato dalle genti, di quel canto grave e solenne. Violet aveva fatto la salita a cavallo, non essendovi ancora in quel tempo la ferrovia da Rüdesheim al monumento, e mi pareva aver sofferto di questa cavalcata, benchè non lo volesse ammettere. Dallo Iagdschloss dove comincia la discesa sull'altro fianco del monte, fino ad Assmannshausen dove intendevamo prendere il treno per Rüdesheim, ella discese a piedi, appoggiata al mio braccio. Si fermava spesso, e allora mi si appoggiava pure con la spalla: una dolcissima cosa, ma insolita. La discesa essendo così ripida, le chiesi più volte se fosse stanca; sempre mi rispondeva di no e sorrideva un po' tristemente. L'ultima volta non rispose alla domanda.—Ti amo—disse—ti amo tanto, sei il mio sole, sei tutto, in questa vita, per me, e sarebbe un tal dolore se non potessi arrivare a esser tua moglie!

Le sue parole mi commossero e mi atterrirono più ch'io non sappia dire. Perchè parlava così? Lì per lì non potei saperne nulla per colpa dei nostri compagni, ch'erano allegri, loro; e avevano raccolto, da buoni tedeschi, una gran quantità di fiori cui facevano adesso a gara, ridendo e contendendo assai, di offrire a Violet. Questa aveva veduto il mio sgomento e cercava distruggere in me con una gaiezza nuova l'impressione delle sue parole tristi. Quando Dio volle s'arrivò a quel malinconico Assmannshausen, un villaggio posato in fondo al valloncello di vigneti grigi per cui eravamo scesi, sul fiume stretto, scuro e iracondo. Mancando quasi un'ora all'arrivo del treno, Violet e io entrammo nella stazione, mentre gli altri andavano a bere il celebre vino rosso del paese.

Ella mi confessò allora che durante la notte si era svegliata di soprassalto sentendosi male; quasi mancar la vita. Era passato prestissimo, ma intanto le era rimasta l'impressione di un gran pericolo corso, e l'idea che un altro assalto potrebbe riuscir fatale.

La rincorai come potei, l'accarezzai. Ella alzò il viso che teneva basso, mi guardò, sorrise.—Adesso sei pallido più di me—disse. Non seppi rispondere che uno sciocco—no.—Mi mancò la voce. Dopo un breve silenzio Violet mi susurrò che doveva dirmi un'altra cosa. Cosa? Ella non parlava più, io non sapevo immaginar niente, ma il petto mi faceva male.

—Iersera—diss'ella a capo chino, sottovoce—ho avuto una lettera di…

Nominò la persona cui aveva amato un tempo. Udendo quel nome pronunciato in quel modo, un doloroso gelo mi colse, lasciai la mano di lei che prima tenevo tra le mie. Essa la riafferrò ansante.

—Non far così—disse piano—non far così, non far ch'io lo debba odiare!

Mi dolsi di me stesso, le chiesi perdono di quell'atto.

—Lo sai—mi rispose con dolcezza dolente—che tu sei tutto per me nel mondo, ch'io sono una parte di te.

Poi, rinfrancata, mi raccontò ch'egli aveva diretta la lettera a Norimberga, e non pareva saper nulla dell'attuale posizione di lei; ch'era molto infelice, che tutte le sue aspettazioni erano state deluse, tutti i suoi piani troncati, ch'era senza forza e senza speranza. Si rivolgeva a lei invocando almeno una parola pietosa, dicendo che il rimorso di aver fatto male a lei era uno de' suoi maggiori tormenti; chiedeva, non espressamente ma in nube, se il cuore di lei fosse libero o preso.

Io ascoltavo Violet in silenzio, collegando il suo accesso della notte, il suo aspetto triste colla lettera, soffrendo e sforzandomi di non lasciarlo apparire sia per alterezza, sia perchè sentivo non aver diritto nè ragione di dolermi. Quando tacque non le domandai niente, neppure di dove la lettera fosse venuta. Desideravo solo non se ne parlasse più, preferivo non saper dove quest'uomo fosse, relegarne la immagine fuori, quanto potevo, dalla realtà. Violet fece un nuovo sforzo per dirmi che credeva suo dovere, dovere di carità, non lasciare una lettera simile senza risposta. Parve alla mia fantasia gelosa ch'ella dicesse questo in modo da esprimere una risoluzione che avrebbe mantenuta, benchè a malincuore, anche contro di me; immaginai che, pure amando me, si compiacesse femminilmente di essere sempre amata da colui, e un tal sospetto mi irritava. Per fortuna Violet non mi lasciò il tempo di proferir una sola parola sgradevole, e mi porse la sua risposta che aveva seco. Vi erano parole di severa e misurata pietà, savie parole di consiglio, e finiva con queste:

«Il mio cuore appartiene oramai, tutto e per sempre, ad un uomo che mi ama come io amo lui, con l'amore più intenso. Mai non saprò ringraziar abbastanza Iddio che ha fatto incontrare le nostre vie. Il paradiso è in qualche modo incominciato per me che non potrò più essere, checchè avvenga, del tutto infelice. Se Ella ha influito sulla mia vita in modo ch'io fossi libera quando conobbi, in un lontano paese, il mio fidanzato, non deve certo avere rimorsi.

«Sia forte e si ricordi pure che fu amato da me, se questo può valere a tenerla sul retto cammino.»

Queste ultime parole mi guastarono l'impressione dolcissima delle precedenti e pregai Violet di toglierle. Ella vi consentì sorridendo con dolcezza indulgente, come chi cede per affetto e non per convinzione, sì che io mi pentii della mia domanda, ne vergognai, e quando fummo di ritorno a Rüdesheim pregai Violet di mandar la lettera come stava.

Ella volle incaricar me di recarla alla Posta; allora vidi ch'era diretta a Wetzlar, e compresi il consiglio di Topler.

XLIV.

Da questo momento entrò nella mia passione un'acre e divorante impazienza. Non credevo provar gelosia di alcuno, ma il fuoco geloso ardeva tuttora in me e aveva preso quest'altra forma. Feci ogni prova di affrettare il matrimonio, tentai ancora, ma senza successo, rendere accetto agli Steele il piano di celebrare il rito religioso a Rüdesheim e il civile in Italia. Violet l'avrebbe accolto volentieri, ma le dispiaceva di andar contro la ripugnanza de' nostri ospiti, che la consideravano una figlia; e mi persuase di rinunciarvi. Così fu stabilito che il matrimonio civile e il religioso seguissero il 25 agosto, ch'era, per le pratiche richieste, il termine più breve possibile. Dopo il matrimonio v'era solo questo di fissato: che a mezzo ottobre si andrebbe a Roma per passarvi almeno l'inverno, salvo a stabilirvici definitivamente se così ci piacesse dopo la prova di qualche mese. Dal 25 agosto a mezzo ottobre tutto era incerto. Violet mi parlò una volta della Selva Nera, d'una casina solitaria su le praterie ondulate, presso all'azzurro Danubio, fra Willingen e Donaueschingen. Io le proposi Venezia ed ella accettò subito, non solo per compiacermi, disse, ma anche per civetteria, perchè in Venezia, grazie alla gondola, mi sarei accorto meno della sua imperfezione. Soggiunse ch'era contenta di andar meco a Venezia come mia moglie, altrimenti ne avrebbe avuto paura, tale era l'impressione strana che ne serbava. Non volle spiegarsi di più; pretese di aver detto anche troppo; poi mi appoggiò il viso ad una spalla e mormorò che si sarebbe spiegata a Venezia. Più volte dopo la sua morte ricordando ciò che quelle parole e quel tocco leggero, quell'alito caldo alla spalla mi avevan fatto sentire, pensai che Iddio separandoci così presto ne volesse preservare dall'accecamento d'una passione troppo forte che divorandomi intero, non avrebbe lasciato posto nel mio cuore ad altra creatura umana nè forse a Dio stesso.

Ma chi sa se sarebbe veramente stata una passione così, se dopo la violenza dei primi trasporti, la donna mia non avrebbe saputo dirigermi, senza parere, ad un ordine più ragionevole di sentimenti? Io che perdevo per un alito il lume degli occhi, ero pure lo stesso che ad Heidelberg aveva baciato i capelli tepidi e odorosi di lei con un affetto quasi religioso, pieno di pace. Miseri uomini che siamo, diversi ad ogni momento da noi stessi e misero orgoglio umano, che s'inalbera di quest'accusa! Le ore della sera ci piegano alla terra, le ore del mattino ci levano verso il cielo, non sappiamo amare nè volere un giorno intero allo stesso modo, checchè la nostra bocca orgogliosa ne dica. È giusto riconoscere che se talvolta la causa dei nostri oscuramenti di spirito è ignota a noi stessi, talvolta invece la troviamo in un'ombra di male accolta volontariamente, anche per un attimo, nel nostro pensiero.

Io avevo sempre amato Violet con tutto me stesso, ma se ora tacevano, quasi, i miei sentimenti più elevati, e mi dominava sola una febbre che toglievami sonno e riposo, era per quell'ingiusto movimento geloso, accolto dalla mia volontà. È vero che avevo detto a Violet «perdonami» e che anche il perdono umano purifica, ma Violet su questo punto era troppo umile, non aveva voluto trovar materia di perdono.

Parlando con gli Steele del nostro viaggio di nozze, ella disse che le rincresceva di lasciar la Germania senz'aver veduta Colonia. Steele propose subito una gita a Colonia. La proposta mi spiacque, poichè tutto m'era indifferente tranne Violet, e mi pesava di perdere, foss'anche per due giorni, le ore deliziose che passavo da solo con lei. Ma Violet invece si mostrò felice di quest'idea e io fui felicissimo di sacrificarle il piacere mio più squisito.

XLV.

È fra le mie ultime gradite memorie la sconosciuta signora bruna, di sorprendente bellezza, che salì sul nostro vapore a Bonn. Non ricordo più affatto il suo viso, ma certo era impossibile non ammirare la sua grazia seducente, i suoi occhi mobili, parlanti e voluttuosi. Siccome i pochissimi viaggiatori erano tutti sotto coperta, compresi gli Steele, e sul ponte non eravamo che Violet e io, così la bellissima signora si mise a guardarmi come sua preda e trastullo di viaggio, tanto più di proposito, credo, quanto più si capiva ch'ero legato alla mia vicina. Quella fu la prima e l'ultima volta che vidi Violet tocca da un'ombra di gelosia. Ella si crucciava e ne rideva insieme, tutta palpitante; rideva di sè stessa nel parlare sdegnosamente di quella signora, nel giudicarla una merciaiuola benchè fosse elegante assai; rideva confessando che non temeva di me, ma che la sfacciataggine di colei la irritava; rideva del contegno di alterezza e di sfida ch'ella stessa pigliava talora involontariamente. Per me questa sua gelosia era talmente nuova e deliziosa che me ne inebbriavo tacendo o lodando la bellezza e l'eleganza dell'altra. Se ne avvide subito e si finì col ridere ambedue di cuore sino a quando apparvero davanti a noi fra le nebbie dell'orizzonte e del fiume, in mezzo al piatto paese nudo, le torri colossali del Duomo di Colonia.

A Colonia passammo un giorno e mezzo. Se visiterà, amica mia, la santa, lunata Colonia, vada in quel fantastico San Gereone e vi preghi per lei che fu là dentro tanto gaia e felice e si divertì tanto di un ridicolo frate scolpito nella Vorhalle da averne poi quasi rimorso. Vada altresì nel chiostro di San Pietro così nero intorno al giardinetto così verde, e vi colga un fiore in memoria del ristoro che Violet trovò in quella pace innocente dopo il raccapriccio recatole dall'orribile Rubens ch'è nella chiesa. Vada finalmente al Museo e guardi in una sala a pian terreno, le mani spirituali di una Madonna di Guglielmo da Colonia; potrà dire d'aver vedute le mani di Violet. La signora Emma pretendeva trovare la stessa rassomiglianza anche nel viso; ma il viso ideato dal pittore antico era molto più soave e mistico, aveva un carattere affatto diverso da quello della bellezza di Violet, piena di pensiero moderno e di sentimento nascosto. Io trovo—disse Paolo molto bene—che questa Madonna non somiglia a miss Yves, ma ha la sua stessa voce.

Ritornando da Colonia sostammo a Königswinter e salimmo, verso il tramonto, alla Drachenburg. Gli Steele mettevano in gesti ed esclamazioni il loro entusiasmo per la splendida, bizzarra Burg polifronte, tutta guglie, pinnacoli, torri, scale, balconi, sculture di marmo e di bronzo, versi e motti parlanti al sole, ai venti, al Reno profondo che si perde curvo all'orizzonte di levante, si perde curvo all'orizzonte di ponente; visione dell'antico appassionato di sentimento moderno, gittata da un grande poeta della pietra in quell'alta solitudine, a duecento metri sul fiume. Violet era muta, oppressa dall'ammirazione. Sedette presso all'entrata della fronte opposta al Reno, riposando quasi lo sguardo sulle vicine cupole verdi dei coni che sorgono dietro il Drachenfels; e dichiarò che non avrebbe potuto ammirare altro così presto, e che rinunciava quindi a salir sulla cima dove son le rovine del castello antico. Volle però ad ogni costo che vi salissi io. Gli Steele, che conoscevano già le rovine, decisero di rimaner con Violet; Paolo andò a esaminare da vicino gli animali di bronzo che posano sulle terrazze esterne, e la signora Emma si mise a trascrivere sul suo taccuino l'iscrizione che si legge sulla fronte nord-ovest della Burg. Quando partii Violet era sola. Vicino a lei stava scritto a mosaico sul suolo:

Geh' hin, geh' aus Bleib' Freund dem Haus*.

* Entra ed esci, Resta amico della casa.

Bleib' Freund!—diss'ella porgendomi la mano con un sorriso.

Le accennai di no, senza parlare; odiavo la gelida parola, amico: Ella m'intese, non sorrise più, accettò il mio rifiuto porgendomi anche l'altra mano. Tenni la sue mani un momento; quando le lasciai mi disse sottovoce:

—Ho dei cattivi presentimenti.—Trasalii; anch'io ne avevo spesso dopo Assmannshausen, ma li cacciavo come pensieri maligni. Se Violet mi pareva pallida e dimagrita, cercavo persuadermi che fosse per effetto di tante agitazioni passate, non volevo confessare a me stesso che ogni mattina, recandomi da lei, tremavo di trovarla malata. Ora le chiesi se si sentisse male, protestai di non voler salire al Drachenfels. Ella mi rispose che stava bene e che dovevo andare subito subito; le sarebbe stato troppo dispiacere che, per causa sua, non lo vedessi.

Non mi pare aver impiegato più di quindici o venti minuti dalla Drachenburg alla cima. Non so che convegno vi fosse, quel giorno, sul Drachenfels; vidi scendere e salire molta gente, a piedi e a cavallo, signore, soldati, studenti di Bonn dai berretti d'ogni colore. Oltrepassai l'osteria della Terrasse, piena di bevitori e di baccano, toccai il cocuzzolo deserto del monte, colsi tra le macerie un fiore per Violet e, data un'occhiata distratta alle torri diroccate e agli abissi, ridiscesi a salti, impaziente di lasciare quella sinistra solitudine, impaziente di rivedere la mia fidanzata, immaginando sventure e rimproverandomene come di una pazzia.

A pochi passi dal cancello della Drachenburg incontrai Steele. Sorrideva, ma con imbarazzo; e mi chiese subito, con gran premura, le mie impressioni. L'osservai, era pallido; vide un sospetto negli occhi miei e fece atto di trattenermi—Dio mio!—esclamai, slanciandomi avanti.—Cosa c'è?

Egli mi afferrò alle braccia e ripeteva:—Si fermi, non c'è niente, ma si fermi un poco.—Mi strappai da lui e corsi dove avevo lasciato Violet.

Ella non v'era più; non v'era nessuno. Mi guardai attorno smarrito.—Senta! mi gridò Steele che stava per raggiungermi. Non lo ascoltai e feci rapidamente il giro della villa. Dall'altra parte, davanti alla fronte che guarda il Reno, vidi Violet e mi fermai di botto, senza respiro, come colpito al cuore.

Era in piedi, non mostrava di aver male alcuno e parlava, voltandomi le spalle, con un giovane signore a me sconosciuto. Vi era pure la signora Steele che, quando mi vide, mi venne incontro per trattenermi come aveva fatto suo marito. Violet parlava con veemenza a quel signore che l'ascoltava a quattro passi da lei, col cappello in mano, colla fronte alta e corrucciata.

Indovinai sul momento ch'era l'uomo di Wetzlar; egli pure mi vide e indovinò chi ero io.

Violet, al lampo che brillò negli occhi di lui, comprese, si voltò a me.

—Eccolo—disse; poi sorrise e soggiunse—venga—accennandomi del capo con uno sguardo così tenero e lieto che tutta la mia gelosia svanì e fui subito al mio posto, presso a lei.

—Un conoscente di Norimberga—mi disse Violet—il signor***.—Poi pronunciò il mio nome e soggiunse:—mio fidanzato.—Prese in pari tempo il mio braccio, vi si appoggiò tutta e salutò colui del capo senza stendergli la mano, dicendo:

—Addio, signore. Buona fortuna.

Credetti per un momento che l'uomo volesse rispondere qualche cosa d'acerbo, mi tenni pronto. Invece si frenò, fece in silenzio un inchino esagerato, pieno d'ironia, e partì a gran passi agitando il cappello che teneva in mano.

Violet mi trasse dalla parte opposta stringendomi il braccio forte forte. Gli Steele, imbarazzati, si fecero in disparte, ci lasciarono soli. Io mi sentivo soffocare dall'emozione, non potevo proferir parola, non potevo che rispondere col mio braccio alla sua stretta.—Caro, caro—mi diss'ella teneramente, sottovoce, tenendo gli occhi ansiosi nei miei—come ti amo, come ti amo! Lo sai che sei tutto per me? Non potrei più rinunciare a te, non so come ho potuto resistere tanto tempo. Hai sofferto, caro? Soffri ancora? Non voglio che tu soffra. Io sono tu.

Le risposi ch'ero commosso; come non lo sarei stato? Ma che non soffrivo perchè sapevo bene quanto ero amato. Sentivo che la mia voce era alterata, mi forzavo a renderla naturale, non vi riuscivo. Soggiunsi che temevo per lei, temevo che soffrisse lei di questa scossa, proprio materialmente, nella salute.

—Oh no—diss'ella.—Mi sento assai bene. Bene davvero.

Fui ben cieco e stupido di non avvedermi degli eroici sforzi che faceva per reggersi e nascondermi il suo stato, A pochi passi da Königswinter si fermò, mi fece vedere il sole rovente che scendeva dietro i pioppi delle isole in un freddo cielo da inverno.

—Come si sente il nord!—disse.—Come son felice che tu veda questo paese!

Appena dette, con un ultimo sforzo, queste parole, venne meno e sarebbe caduta s'io non l'avessi stretta tra le mie braccia.

XLVI.

Seguì un accesso nervoso che durò quasi tutta la notte. Ella fu assistita da un medico, dalla signora Emma e da una figlia dell'albergatore. Io vegliavo nella camera vicina.

Il medico voleva partire quasi subito, ma lo supplicai tanto, che si trattenne fino a mezzanotte. A mezzanotte se ne andò sorridendo de' miei timori e ripetendo nell'accender la pipa:

—Io conosco, io conosco, io non vedo niente di pericolo, io non vedo niente di pericolo.

Verso il mattino Violet si quietò alquanto. La signora Emma uscì di camera e venne a dirmi che miss Yves voleva assolutamente partire col primo treno possibile.

—Lei si sarà opposta?—diss'io.

La signora tacque. Capii dal suo silenzio che non s'era opposta e che ne aveva qualche particolare cagione cui non osava addurre.

—Credo che sia meglio—diss'ella finalmente;—e credo che Violet ne sarà in grado.

Conoscevo la signora Steele per una donna intelligente e savia; piegai il capo sotto il doloroso peso delle sue cagioni segrete. Mezz'ora dopo Violet mi fece chiamare. La trovai affranta, ma in piedi e ferma di partire; e avendo arrischiata una parola per dissuaderla, n'ebbi in risposta che desiderava considerarsi già come mia moglie, che mi ubbidirebbe in tutto, ma che mi pregava di rimettermi, in questo, al giudizio suo. Ella fece quindi uscire con un'occhiata la signora Steele. Capii che voleva raccontarmi l'incontro della Drachenburg e la scongiurai di tacere, di non commuoversi; ella mi abbracciò nascondendo il viso sul mio petto, e dopo un lungo silenzio mi disse con voce soffocata:

—Ti prego, ti prego, andiamo via.

Alcune ore dopo giungevamo, abbastanza felicemente, a Rüdesheim. Durante il viaggio non si parlò mai dell'accaduto, e quando fummo a casa, Violet, cedendo alle nostre preghiere, si pose a letto. Il mattino vegnente, per tempissimo, ebbi queste sue righe:

«Caro,

«Quando ieri a Königswinter sono rimasta sola con te, avrei voluto dirti tutto, ma non ho potuto, lo hai visto; ho solamente potuto stringerti fra le mie braccia, perchè tu sei la mia forza e la mia vita e avevo tanto bisogno di te. Ho pensato un momento di farti parlare da Emma, che sa quasi tutto; ma poi mi son detta che fra me e te non deve interporsi mai nessuno e che avevo a parlare io stessa.

«Tu sai come e perchè io abbia cessato di amarlo; ora egli si è posto in capo, disgraziatamente, di farsi amare ancora e di essere mio marito. Non credevo che l'amore potesse rinascer così; perchè certo vi fu un momento in cui parve ch'egli pure non mi amasse più affatto, quantunque ora lo neghi. Egli conosce Emma, che fu anzi un tempo la sua confidente; trovandoci insieme alla Drachenburg volle ch'ella fosse presente alle sue offerte, alle sue suppliche appassionate. Io lo respinsi con quanta forza potei, con un orrore che l'offese. Minacciò di chiederti un colloquio, ripromettendosene la rottura delle nostre nozze, benchè io gli dicessi che tu sai già ogni cosa; minacciò, se non potesse avermi, di togliersi la vita.

«Io fuggo a te, mi aggrappo a te; dimmi, per amor di Dio, che niente, che nessuno ci potrà mai dividere.

«Non voglio che tu gli parli, non voglio che tu lo veda. Non temo già ch'egli ti possa raccontare più ch'io non raccontai, ma sento che ha ragione quando dice come l'ho amato, come il mio amore pareva inestinguibile, com'io stessa lo credevo tale e quanto è doloroso che anch'io sia come tutte le altre che possono amare due volte. No, egli ha gravemente mancato verso di me e non è in diritto di dolersi se ti amo; ma tutti quelli che hanno fede nella nobiltà umana sono in diritto di dolersene, e tu stesso, ascoltando ciò da lui, non avresti che a piegar la fronte. Ora io non voglio che tu pieghi la fronte davanti ad esso, per causa mia, mai!

«Io non voglio più pensare a lui nè alla sua minaccia d'uccidersi; ne l'ho rimproverato come d'una viltà, e non posso aver altri doveri. Ora voglio solo esser tua, irrevocabilmente tua il più presto possibile, e poi andar lontano; dove ti piacerà, ma ben lontano.

«Vieni alle nove; ho già parlato a Steele per affrettare il matrimonio; Paolo è un caro amico pieno di zelo, e, per fortuna, si trova in ottime relazioni col vescovo di Magonza. Combineremo tutto.»

Ho già detto come i nostri amici non approvassero che si facesse a Rüdesheim il solo matrimonio religioso, salvo a fare il civile in Italia. Ora le pratiche per il matrimonio civile erano bene avviate ma non compiute, e lo stato di Violet appariva tale che Paolo mi disse—adesso è una questione di vita o di morte—e partì immediatamente per Magonza.

Eravamo a martedì, e la prima pubblicazione, sì a Rüdesheim che in Italia, doveva farsi alla domenica seguente. Non so come l'amico Steele abbia potuto persuadere il vescovo; insomma, vi fu uno scambio di telegrammi fra Magonza e Roma, e venerdì a mezzogiorno arrivò la dispensa di tutte le pubblicazioni. Fu lo stesso Paolo che la portò a Rüdesheim. Eravamo nel salotto della sua villa quando egli entrò. Violet lesse subito nel suo viso che la dispensa era ottenuta, che fra poche ore sarebbe diventata mia moglie; si fece pallida pallida e si strinse le mani sul petto. Io ringraziai Steele con un abbraccio silenzioso.

—Siate sempre così felici—disse la signora Emma abbracciando la mia fidanzata.

—Povera mamma—susurrò Violet singhiozzando,—povero padre mio!

—Sono qui con te—le rispose, pure commossa, l'amica sua.—Non li vediamo, ma sono qui per benedirti, per affidarti a tuo marito.

Violet mi stese la mano, coprendosi gli occhi con l'altra.

—Ti ricevo da loro—dissi stringendo quella mano.—Li sento tutti…

Non potei continuare. Allora ella venne a me con un viso così dolce e grave, mi posò le mani su le spalle e mi mormorò all'orecchio:

—Sì, caro, anche il padre tuo, anche la mamma tua. Sono qui. Li amo tanto.

Uscii insieme a Steele per intendermi col parroco circa l'ora della cerimonia nuziale. Io ero sotto l'incubo di una preoccupazione gravissima. Avevo ricevuto nel mattino una lettera di colui, colla data di Bingen; due sole righe in cui mi chiedeva un colloquio per l'indomani. A Violet non ne avevo fatto parola; ma ora dovetti parlarne a Steele perchè s'adoperasse meco a ottener dal parroco che il matrimonio venisse celebrato con segretezza, nel cuore della notte. Colui era a un quarto d'ora da Rüdesheim, certo si teneva informato, e Dio sa che avrebbe fatto se fosse venuto a sapere ciò che si preparava. Il parroco si persuase sulla nostra parola che le stesse gravissime ragioni per cui s'era accordata la dispensa, richiedevano che il matrimonio avesse luogo alle due antimeridiane. Così potevamo passare, dopo la cerimonia nuziale, dalla chiesa alla stazione per prendere, alle tre, il treno del Sud e andare, non sapevo ancora se fino a Triberg o se solamente, per quel primo giorno, fino a Stuttgart.

Quando riferimmo quest'accordo alle signore, la signora Emma se ne meravigliò assai; non si poteva dar pace che fosse stata scelta un'ora così incomoda e romanzesca. Perchè non si poteva partire col treno di mezzogiorno e fare il matrimonio alle nove o alle dieci? A questo modo Violet non potrebbe neanche mettere il suo abito bianco di sposa, sarebbe costretta di andar all'altare in toletta da viaggio.

Risposi che preferivo viaggiar di notte, evitare il sole e la polvere almeno per qualche ora. Violet sorrideva. Vedevo bene ch'ella stessa, in fondo, trovava singolare la mia idea, ma le bastava che venisse da me per accettarla e difenderla. Tremavo non si accorgesse dei cenni che Steele veniva facendo a sua moglie perchè si chetasse. Fortunatamente non ne fu nulla.

—Venga—mi disse la signora Emma;—guardi, uomo barbaro e crudele.

E mi fece vedere spiegato sopra un letto, nella camera vicina, accanto a due scarpettine di raso, l'elegantissimo abito bianco della mia fidanzata. Mi parve, in quel punto, esser tratto con violenza nella intimità della bella persona che doveva appartenermi, diventarne ed esserne riconosciuto signore; e n'ebbi una stretta di piacere.

Violet pensò forse la stessa cosa, perchè arrossì fino al collo.

Mi congedai in fretta e corsi all'Hôtel Krass, dove avevo bisogno di parecchie ore per disporre le cose mie.

Scrissi una infinità di lettere a parenti ed amici, annunciando ex abrupto il mio matrimonio. Avevo l'intenzione di metterle alla Posta il giorno dopo, a Triberg o a Stuttgart; benchè immaginando il giorno dopo, mi paresse impossibile avere il capo ad altro che all'amore e alla gioia. Scrissi pure a mio fratello, poichè la idea di recare all'altare un'ombra sola di risentimento contro di lui mi metteva raccapriccio. Gli scrissi breve ma affettuoso, ed aggiunsi una riga gentile per mia cognata. Avrei creduto, prima, che questa riga mi dovesse costar molto. Non fu così; ero felice e sentivo in me lo spirito generoso di Violet come se fossi già una persona sola con lei.

Era già notte quando mi posi a scrivere una fila di nomi e d'indirizzi che dovevo lasciare all'amico Steele per le partecipazioni ufficiali a stampa da spedirsi più tardi, appena fossero pronte. Alzando qualche volta il viso a pensare, a raccapezzar qualche nome mezzo uscitomi dalla memoria, vedevo dalla finestra i lumi di Bingen, mi assaliva l'immagine di quell'uomo che voleva parlarmi. Dio mio, indovinavo ciò che avrebbe voluto dirmi, e la sola possibilità di udirlo mi metteva una irritazione terribile. Perchè si ostinava egli mai? Intendeva forse di riprendere Violet a forza, di averne il diritto? Era tanto pazzo da venire a dirmelo?

Mi parlavo così fremendo e almanaccavo dove l'uomo potesse essere in quel punto, se a passeggiar sotto i lontani fanali o forse a vigilare sotto le mie finestre, o fors'anche a spiar sospettoso e appassionato la stessa dimora di Violet. Allora il cuore mi batteva di collera. Poi rimproveravo la mia immaginazione, mi chetavo, tornavo a scrivere. Verso le undici feci portare il mio bagaglio alla stazione e lasciai l'albergo.

Non vi erano stelle nè luna e nelle vie silenziose di Rüdesheim faceva tanto buio che non potevo assolutamente vedere se qualcuno mi seguisse o mi precedesse. Di tratto in tratto mi fermavo istintivamente, stavo in ascolto. Non una voce, non un passo; udii solo il fragore d'un treno della riva sinistra e pensai al treno che aveva portato Violet, quando io stavo alla finestra col lume, palpitando.

—Voi siete un vero poeta—mi disse la signora Emma quando entrai.—Non avete pensato al Vostro testimonio.

Mi battei la fronte, era vero! Per meglio dire, ci avevo pensato e avevo scelto il cavalleresco signor Andrea Grossmann di Wiesbaden, antico mio professore in Italia e reduce in patria dopo il 1866, ma in questo precipizio di cose m'ero affatto dimenticato di lui. Presi certo un'aria molto desolata perchè la signora si affrettò ridendo a dirmi che ci aveva pensato suo marito, il testimonio di Violet. Egli era uscito da mezz'ora per andar a svegliare un amico e imporgli questa parte. Mentre discorrevamo un uscio si aperse piano piano e comparve Violet nell'abito bianco da sposa che avevo veduto prima. Feci un'esclamazione di sorpresa.—Almeno vederla!—disse la signora Emma.—Adesso la guardi bene; io penserò a un po' di cena, intanto.

Ella uscì ed io stesi le braccia alla mia fidanzata.

—Hai piacere—susurrò sul mio petto—di vedermi con quest'abito? Tutti gli altri vedono la loro sposa così; ho voluto che mi vedessi così anche tu.

E rialzò sorridendo il viso, un viso timido e luminoso. Poi lo chinò ancora e disse con voce spenta:

—Ne sono degna?

Non le risposi con parole ma intese bene la mia risposta.

—L'ultima volta—riprese dopo un lungo silenzio—l'ultima volta che siamo soli da fidanzati. Ho avuto tanta paura di morire prima! Sai cosa ho scritto poco fa?

Rise un breve riso argentino, mi posò le mani alle spalle e la bocca all'orecchio.

—Il mio testamento—diss'ella. Ritrasse il viso, mi guardò negli occhi e soggiunse ridendo ancora:

—Non ti lascio niente, sai.

Poi si fece cupa, mi gittò le mani alla testa, mi baciò con impeto.

—Mio Dio!—esclamò.—Pensare che ti ho resistito tanto!

Le raccontai che io pure avevo fatto testamento, forse nel tempo stesso.

—Ah—diss'ella—se Dio ci facesse morir insieme! Non ho coraggio di pregarlo che faccia morir me prima perchè soffriresti tanto.

—Sia fatta la Sua volontà—diss'io.

—Sì, sì, sia fatta la Sua volontà, ma se io vado avanti non ti devi accorare, devi essere certo che sono con te, sempre. Con Dio e con te.

Passi e voci nel giardino; Violet si ritirò.

Erano Paolo Steele e il mio testimonio che non avevo mai veduto nè tampoco inteso nominare. Paolo aveva la faccia d'uno che ha giuocato qualche bel tiro al prossimo e se la gode; quell'altro, una figura gotica in giubba e cravatta bianca, con un palmo di collare sulla nuca e due braccia di coda sotto la schiena, con una tuba enorme da museo, aveva l'aria di sognare ancora e mi fece due o tre inchini rispettosi e spaventati come s'io fossi stato l'imperatore della China.

—Ah Ella è qui!—fece Steele.—Passando dall'Hôtel Krass m'era parso veder un'ombra entrar nella stradicciuola fra il giardinetto e l'albergo e credevo fosse Lei.

Quest'ombra nei pressi dell'Hôtel Krass mi colpì e mi dispiacque.—Oh—disse Steele—sarà stato un forestiere romantico.

Mi presentò l'altro signore, e poi, impaziente di farlo vedere in quel costume, corse a chiamar sua moglie che rise in faccia al povero diavolo senza tante cerimonie. Venne subito anche Violet ma nè lei nè io avevamo voglia di ridere malgrado i cenni e le smorfie dell'amico Paolo. A mezzanotte fummo chiamati a cena con grande stupore del signor Bröhl, mio testimonio, il quale prese il suo coraggio a due mani e domandò segretamente a me se queste nozze si facevano davvero o se non era tutta una graziosa burla del suo ottimo amico.

La cena non riuscì molto allegra malgrado le brillanti descrizioni che Paolo veniva facendo della sua visita notturna al signor Bröhl. Violet ed io non eravamo in grado di prender cibo, e ci erano poi anche troppi lumi, faceva un gran caldo; per le finestre aperte si vedeva un lampeggiar frequente, si udiva qualche rombo sinistro di tuono. Verso la fine bevemmo il generoso Rüdesheimer dell'ospite, e la signora Emma che sapeva dell'altro Rüdesheimer bevuto nel bosco di Eichstätt, mi pregò di ripetere i versi fatti per Luise. Steele osservò che ora avrei dovuto dire il primo così:

A te, mia bionda sposa, il bevo il vino biondo,

e s'incaricò egli stesso di un brindisi poetico a Violet. Poi volle costringere il povero signor Bröhl a farne uno a me. Questi si schermiva quanto poteva, protestando di non essere poeta.

—Ma, santo Dio,—gridò Paolo—alza il bicchiere, di' «evviva lo sposo» e poi bevi!—Bröhl alzò il bicchiere; in quel punto scoppia un tremendo tuono, Bröhl lascia cadere il bicchiere, il vino salta in aria, la signora Emma strilla, Paolo fa dello strepito per quattro e il mio infelice testimonio resta di sasso. Stavolta Violet rise di cuore e non posso esprimere la gioia che n'ebbi. Mi parve che quel riso limpido portasse via dall'anima sua le ultime ombre di tristezza.

Al tocco e mezzo cominciava a piovere e le carrozze non erano ordinate che per portarci dalla chiesa alla stazione. Ci avviammo subito alla chiesa onde evitare l'acquazzone imminente. Non si passò all'Hôtel Krass; perciò non potei vedere se l'ombra scoperta da Steele ci fosse ancora. Del resto pioveva e sarebbe stato ben difficile a ogni modo che io la discernessi. La chiesa non era ancora aperta e si dovette aspettare più di cinque minuti alla pioggia che allora cadeva dirotta. Anche lì, nessuno.

Quando finalmente potei inginocchiarmi accanto A Violet nella chiesa tenebrosa temo non aver saputo ringraziar umilmente Dio di avermi data, anima e corpo, la parola udita in sogno; temo aver consentito ad un movimento d'orgoglio, pensando alla mia lunga guerra vinta con la costanza e la forza. Violet dal canto suo pregava col viso chino sul banco e allorchè si accesero i lumi dell'altare mi disse che aveva tanto pregato di potermi render felice.

Incominciò il rito nuziale. Prima di rispondere in tedesco alla domanda del sacerdote risposi sì, in italiano, e mi pare aver udito pure dalle labbra di Violet un impercettibile sì. Eravamo un solo, oramai; un solo anche nella riverenza della cara lontana Italia, madre mia. Si udì una carrozza giungere rumorosamente e fermarsi alla porta; il prete ci disse gratulor, gratulor salutandoci a due mani, io diedi il braccio a mia moglie ed uscimmo, Dio mio, quanto felici!

I bagagli di Violet erano già alla stazione, ma salendo in carrozza ella s'accorse di aver dimenticato in camera certe chiavi. La stazione di Rüdesheim, rispetto alla villa Steele, è proprio all'angolo opposto del borgo e la chiesa cattolica sta presso a poco nel mezzo. Non c'era moltissimo tempo da perdere dovendo far la spedizione dei bauli; e Paolo si offerse di andar lui in cerca delle chiavi per raggiungerci poi alla stazione. Accettammo. Intanto pioveva sempre a dirotto.

I bagagli erano molti e l'impiegato alquanto sonnacchioso; ci volle del buono prima che venisse a capo di spedirli. Mentre io attendevo a questo Violet e la signora Emma erano sole nella sala di aspetto perchè avevamo mandato a casa il signor Bröhl. A un tratto udii la voce di Paolo che rideva colle signore e faceva suonar le chiavi. Corse subito da me vantandosi a gran voce di aver fatto presto, e, quando mi fu vicino, mormorò:—attenzione, perchè l'uomo di Bingen è qui.

Il mio primo movimento fu di uscire e affrontarlo. Finsi di parlare a Paolo dello scontrino che avevo in mano e gli chiesi se colui fosse nella stazione.

—No—rispose—l'ho visto suonare all'Hôtel Krass. Avrà dei sospetti e vorrà sincerarsene.—Respirai. Sperai che avessero tardato ad aprirgli, a intenderlo, a rispondergli. Fra cinque minuti doveva arrivare il treno; sperai partire prima che egli venisse alla stazione, fargli perdere le nostre traccie.

—Adesso vi lasciamo—mi disse Steele.—Se lo trovo lo trattengo.—Raggiungemmo le signore; Paolo prese il braccio di sua moglie.

—Senti—diss'egli—forse questa povera gente non ha la fortuna di trovare un coupè vuoto. Regaliamo loro cinque preziosi minuti di solitudine.

La signora aperse la bocca per protestare, ma una stretta eloquente del braccio di suo marito gliela fece chiudere. Nè lei nè Violet capivano quest'idea, e Paolo non lasciò loro il tempo di pensarvi. Appena potei abbracciare questo incomparabile amico e dirgli una parola di gratitudine. Egli trascinò via sua moglie e disparve nella pioggia.

Due minuti dopo arrivò il treno da Assmannshausen. Feci salire Violet nel primo coupè che trovai aperto, benchè vi fossero due signori e Violet esitasse, mi interrogasse collo sguardo. Passammo fra i due viaggiatori che stavano allo sportello e ci collocammo al lato opposto del coupè. Subito udii qualcuno correre, udii gridare «presto!» Un'ombra comparve allo sportello, fece atto di cacciar dentro la testa a guardare; i nostri due compagni furon pronti a farsi avanti dicendo—non c'è posto, non c'è posto.—Quegli tirò via, i conduttori. gridarono ancora—presto, presto!—la campanella della partenza suonò, il treno si mise lentamente in moto. Dio mio, quell'ombra! Era egli dunque sfuggito a Steele? Ed era poi salito nel treno o no?

Violet non s'era accorta di nulla. Si levò il cappello e i guanti e poichè la lucernetta del coupè aveva il paralume e noi eravamo nell'ombra, mi appoggiò il capo alla spalla e abbandonò le sue mani nelle mie. Poco a poco se le trasse sul cuore, sorridendo, guardando se i nostri compagni non l'osservassero e mi disse sottovoce quando il treno correva già forte:

Io sento il suo cuore Che batte che batte, Le voci sue rotte Che dicono «vieni Cedo, vieni, vieni.»

Io tacevo; le baciavo piano piano e lungamente i capelli, respiravo il suo amore, il suo pensiero e il suo corpo.

Viaggiavamo forse da venti minuti quando il treno rallentò la corsa e si fermò. Nè si udirono voci, nè si apersero sportelli; guardammo fuori; eravamo fermi nella campagna deserta in riva al Reno scuro e rumoreggiante, a poca distanza da Erlach, credo. Uno dei nostri compagni si scosse, parlò ad un conduttore che passava; questi rispose e della sua risposta intesi solo fünf Minuten, cinque minuti. Il viaggiatore tornò a dormire. Violet, che aveva pure guardato dal finestrino, si appoggiò daccapo a me e mi domandò se all'indomani, posto che ci fermassimo a Stuttgart, doveva metter lo stesso costume o se avrei preferito l'abito di lana bianca a risvolti di velluto bianco che avevo ammirato moltissimo. Stavo per risponderle quando una testa si levò improvvisamente nel vano del nostro finestrino, vi restò un attimo e ridiscese. Riconobbi l'uomo, scattai avanti stringendo forte le mani di Violet che si voltò di botto. Colui era già scomparso.

—Cosa c'è?—diss'ella,

—Niente—risposi.

—No, c'è qualche cosa, dimmi cosa c'è.

Ella mi aveva veduto in viso un lampo di sorpresa e di collera e non voleva credermi. Non eravamo soli, quindi non poteva interrogarmi con l'impeto che aveva in cuore; mi stringeva il braccio e mi ripeteva piano, in inglese:—Dimmi, dimmi.—Replicai che avevo creduto veder muoversi qualche cosa nella notte, ma che non era stato niente.

Violet non mi disse più nulla; tuttavia mi guardò con uno sguardo appassionato come se temesse ancora. Le parlai dell'abito di lana bianco nel quale desideravo vederla l'indomani, e del cappellino di Panama a tese piane, col nastro di raso bianco, che le andava a meraviglia con quell'abito. Non ebbe una parola nè un sorriso e continuò a guardarmi come prima. A un tratto mi prese il braccio a due mani e mormorò, sempre collo stesso sguardo:

—Non ingannarmi mai.

I nostri due compagni dormivano; mi chinai e baciai con tutta l'anima la diletta moglie mia che non intese, stavolta, il senso del mio lungo bacio e tornò serena, si appoggiò ancora alla mia spalla, sorridendo!

Un altro treno ci passò accanto e il nostro si mosse. Arrivammo in un quarto d'ora a Biebrich dove avviene lo scambio per Wiesbaden. Sentivo di dover impedire che Violet vedesse quest'uomo, che si accorgesse della sua presenza; e poichè sfuggirgli era oramai impossibile, non restava che cercar di lui, imporgli di non perseguitarci. Perciò discesi, dicendo a mia moglie che sarei tornato subito. Lo trovai nella carrozza vicina, ch'era piena di gente. Io non lo avrei forse riconosciuto, ma egli riconobbe me e saltò a terra. Ci domandammo ad un punto, io con voce sommessa ma risolata che mai volesse da mia moglie e da me, lui in tono di sfida e con faccia stravolta da maniaco perchè non gli avessi fatto l'onore di rispondere alla sua lettera. Gli dissi che lo avevo creduto inutile e lo richiesi di non molestarci mai più. Egli uscì allora in parole di collera e di minaccia, protestando di non voler subire intimazioni, io mantenni il mio diritto di fargliele, mentre egli vociferava che non aveva l'abitudine di molestare le signore, ma che voleva soddisfazione da me; risposi che non lo temevo.

I conduttori invitavano la gente a salire.

—Vada!—disse forte colui.—Ella mi vedrà presto ancora. Ciò che Le volevo dire in segreto glielo dirò in pubblico, davanti alla signora, nel giorno e nel momento che sceglierò.

Gli voltai le spalle e saltai nel coupè. I due viaggiatori erano discesi, trovai Violet sola e compresi tosto che aveva udito. Mi guardò, ansando in silenzio, con un viso sfigurato che mi fece terrore, mi si avventò al collo, mi cadde addosso. Il treno partì. Sedetti stringendomi in braccio il caro corpo tutto sussulti e spasimi, baciando la testa bionda che mi pesava sulla spalla, palpitando e ansando io stesso, ma senza comprendere ancora qual cosa terribile si compiesse, per arcano volere di Dio, in quel momento. Chiamavo: Cara! Cara! Non rispondeva. La stretta delle sue mani al mio collo si veniva rallentando, ma non era tuttavia possibile disgiungerle. Allora mi alzai per coricarla sul sedile; la testa le cadde lungo il mio braccio, le mani rimasero congiunte. Gridai singhiozzando inutilmente nel fragore del treno, chiamai con voce disperata Iddio che solo poteva udirmi. M'inginocchiai, la deposi supina, la copersi di baci e di lagrime levando ogni momento il viso dal suo corpo immobile a gridar aiuto, supplicandola di udirmi, di rispondermi. Le sue braccia inerti mi trattenevano ancora, ma pure incominciavo ad aver la terribile idea che morisse e mi sforzavo di gridare, di gridare sempre, non avevo più lena, non avevo più voce contro la stupida violenza del treno, cacciavo come un frenetico i pugni per arrestarlo. E le mani di lei non si disgiungevano; le baciavo la bocca, gli occhi, i capelli, le spalle, il petto; caro amore, non avrebbe potuto avere più baci da me se fosse stata piena di vita. Se un sobbalzo del treno le faceva muovere il capo o i piedi, ridevo, fra i singhiozzi, di speranza e di gioia. Ma il suo povero viso diventava freddo, solenne; non gridai più, non feci che chiamarla teneramente.

Quando Dio volle arrivammo a Kastel. Gridai tanto che si venne ad aprire prima ancora che il treno fosse fermo e molte persone accorsero.

—Un medico!—esclamai, e mi portai giù la mia diletta da solo, passai fra la gente che ripeteva:—Un medico! Un medico!—l'adagiai sopra un canapè, nella sala d'aspetto di prima classe. In un attimo la sala fu piena di curiosi. Qualcuno mi voleva rincorare, mi diceva che la signora si riavrebbe; altri veniva a guardare e si allontanava tacendo. Quando fu annunciato l'arrivo del medico vidi due signori stringersi nelle spalle. Il medico entrò, si accostò alla giacente, la guardò in viso; un silenzio mortale si fece nella sala. Io guardavo lui, trattenendo il respiro. Alzò le sopracciglia senza dir parola; quindi si provò di separar le mani tuttavia congiunte, ma lo supplicai, più con gli occhi che con la voce, di smettere. Tastò i polsi, ascoltò il cuore senza dare alcun segno del suo giudizio; finalmente domandò un cerino che non si trovava mai. Quando lo accostò alle labbra di Violet non osai guardare, mi copersi il viso. Allora udii che tutti si avvicinavano in punta di piedi; poi un silenzio profondo, lungo; poi un soffio, un rumore lieve di molti passi che si allontanavano; poi silenzio ancora.

Una mano mi toccò; apersi gli occhi, ma non vedevo nulla. Il medico mi chiese se la signora fosse mia moglie; udito che sì, disse solamente:

—Povero signore.

M'inginocchiai presso al canapè, alzai piano le care mani, vi passai sotto il capo, me le posai sul collo, e non mi mossi più.

È finito, ho detto tutto.

XLVII.

Diletta mia, Violet, compagna eterna, hai ragione di guardarmi così, di guardarmi fiso accarezzandomi con la diafana mano i capelli e sorridendo; non è finito, non ho detto tutto. Debbo pur dire, o infinitamente cara, quanta parte di te Iddio mi concede ancora dopo dieci anni, quanto sei viva per me e qual è il frutto della nostra unione da che sei fatta invisibile.

L'ottobre cade e io scrivo quest'ultima pagina nel paesello perduto fra le montagne, dove la mia famiglia ebbe il suo umile principio, dove uso condurre ogni anno, in perfetta solitudine, un mese di vita più semplice e contemplativa che gli amici miei non comporterebbero. Il mite sole autunnale, la grande quiete del mezzogiorno, il suono della campana che commoveva la mia fanciullezza immaginosa, entrano per le finestre aperte in questa camera dove dormirono i miei venerati genitori e ch'io scelsi per camera mia nuziale, per camera nuziale della morte. Dio mio, l'abito nuziale di Violet non è qui, i miei amici Steele sanno dov'è; ma la sua piccola toque da viaggio, il grazioso costume che portò nelle ultime ore, la semplice veste bianca ch'ella aveva a Rüdesheim quando la strinsi per la prima volta nelle mie braccia, pendono qui dall'attaccapanni. Il suo fazzoletto colle cifre di sposa, i guanti, l'orologio, il ventaglio di marocchino, i braccialetti e gli anelli sono sul marmo del cassettone col nastrino di velluto nero in cui sento e bacio ancora il tepore fragrante del suo collo. Sul letto il suo guanciale porta la sua cifra e il suo tavolino da notte porta i suoi prediletti sonetti di Shakespeare, la sua Imitazione legata in avorio; un lume di bronzo donatole dalla signora Emma, un ritrattino in miniatura di sua madre fatto da suo padre e ch'ella portava sempre con sè. Sulla scrivania, fra le carte odorate di mughetto, odore e fiore a lei cari, vi è una sua lettera ai signori Giacomo e Roberto Yves di Norimberga, incominciata a Rüdesheim e non finita. Era nella sua borsa da viaggio con due rose del giardino Steele di cui conservo la polvere come dell'altra rosetta che perdè il profumo

In quella sera ch'ella soffrì tanto.

Nella stessa scrivania son pure i versi e i ricordi scritti da me per lei e riferiti qui solo in parte; i versi di Rüdesheim e alquanti altri di cui nessuno leggerà mai parola.

Reliquie preziose, ma ben altro mi resta di lei; mi resta la sua presenza. Non si tratta di manifestazioni spiritiche, non sono spiritista, non ho bisogno di una dottrina nuova per credere nella sopravvivenza delle anime e nelle nostre comunicazioni con quelle che uscirono dalla vita mortale; non domando quindi e non vedo fantasmi, non ascolto e non odo i susurri dell'invisibile, non ho misteriosi contatti di ombre. Ciò che possiedo è migliore, è vita vera, è potenza. Sento la diletta mia con la fede soltanto, ma con un vero e proprio senso altresì, benchè intermittente; con un senso che non ha nome ancora, ma ch'è, direi la sostanza, il principio degli imperfetti sensi corporei e che mi dà lampi di certezza. Sento Violet, di tratto in tratto, in quella parte dell'anima dove nascono i pensieri senza la nostra volontà, dove sorgon gl'impulsi al bene ed al male, al tedio e al fervore, alla ilarità ed alla tristezza. La sento sempre nei movimenti buoni e anche talora in alcuni pensieri singolari che mi vengono, benchè non comprenda come li operi in me. Ella vive poi nella mia coscienza come quando scrissi il sonetto:

Nel mio mortal tu vivi, imago eterna.

A lei sottopongo ancora ogni parola, ogni pensiero, ogni azione della mia vita, e non è possibile ch'io resti mai più in un dubbio grave circa i miei doveri verso Dio e verso gli uomini, tanto è pronto e netto il mio consiglio, il quale ha tuttavia un'impronta personale benchè alquanto mutata; ha, voglio dire, l'impronta delle sue idee, della sua rettitudine, del suo sdegno d'ogni pregiudizio e di ogni rispetto umano, ma non l'impronta di alcune lievi imperfezioni che furono in lei e che certo rimasero in terra colla sua spoglia mortale, perchè io che un tempo le conobbi e le amai, non so più immaginarla con esse. Per esempio, le fu difficilissimo, mentre visse, di perdonare le offese recate a me, i giudizi acerbi sulle opere mie. Ora non è così e se leggo un'ingiuria contro di me, subito è lei che mi chiama e mi leva a sè amorosamente fuor d'ogni rancore, in una calma non superba. Allora, come ogni volta ch'io le obbedisco, la coscienza del nuovo bene ch'ella opera in me mi mette questa divina gioia di saper che ne ha sicuramente un premio, che ne crescono la sua felicità e la sua gloria. È vero che io, misero, spesso fallisco al proposito di regolar la mia vita come Dio mi mostra per mezzo di lei, perchè le mie infermità sono molte, le prave inclinazioni della mia natura non sono estinte. Anche le tristezze sterili, che una volta mi assalivano di frequente, non sono scomparse del tutto. In quell'abbattimento perdo il senso della compagna mia e delle cose divine, il dubbio mi gela e mi prostra, e, quasi approfittando dell'assenza di lei, pensieri indegni ascendono, malgrado me stesso, nel mio cuore. Se la mia opposta volontà oscilla e cade, ecco spandersi in me un improvviso dolore che non è solamente mio, ecco il senso acuto del ritorno di lei ed ecco quindi il suo perdono benchè non tanto sollecito e sereno quanto me l'avrebbe accordato da viva. Allora è la mia pena di sentire ch'ella ha sofferto e soffre per colpa mia; come poi questa sofferenza si accordi col suo stato felice, vicino a Dio, Egli lo sa. Se ricordo il sogno in cui ho prima udita la sua voce, sento che mi ha tratto dall'abisso ma che potrei ricadervi ancora; e in tale idea è umiliazione, è dolore che io accetto come conducenti a salute.

Qualche volta, questa è la confessione più dura presso a donne giovani e belle che potrebbero forse amarmi, ne rimango turbato e immagino la possibilità d'essere infedele a Violet benchè il cuore non vi avrebbe parte. Sono allora assalito da incredibili terrori e agitazioni di spirito onde mi rifugio affranto e mi riposo nell'appassionata speranza di esser sciolto dal corpo mortale.

Adesso non la odo mai, in sogno, la dolce voce; e ben di rado veggo lei. Quando la sogno mai non mi apparve venuta da morti, ma sempre come nella vita prima; e ben di rado mi abbraccia e mi bacia come amante. Quando ciò avviene mi sveglio e mi dispero che non sia presso a me, non lo posso credere.

Sì, anche questo mi fa guerra, l'inestinguibile amore per il suo corpo. Vi hanno momenti in cui l'idea di una ventura trasformazione del suo corpo sia pure gloriosa, mi opprime. Vorrei che nella vita futura Violet avesse i suoi capelli ricciuti, i suoi occhi color dell'onda, le sue bianche mani, ah le sue labbra così dolci. Vorrei che avesse la sua stessa persona con quell'andatura stanca, la vita sottile che io cinsi, le braccia che cinsero il collo a me. Non sogno splendori, vorrei che non fosse più bella di quando era qui.

Ma so come son ciechi e stolti questi desideri, riconosco la impotenza del cuore e della immaginazione umana a concepire il nostro stato di futura gloria, credo che la essenza di ciascun corpo rimane riconoscibilmente, comprimo in questa fede i miei sensi, e riposo.

Su argomenti d'arte non ho mai da lei comunicazioni interne. Quando eravamo fidanzati mi chiese se le avrei permesso di starmi vicina durante il mio lavoro, e mi promise con un sorriso, con un accento indimenticabile, di tacer sempre, di non guardarmi neppure. Così fa. Mi guarda, forse; ma tace. Intende tuttavia ed ama tutto quello che scrivo, ne gode umilmente, come in vita; e se i miei libri non piacciono altrui, lo si dica, lo si predichi, lo si stampi e mi si lasci in pace, poichè io mi contento per mio premio, di questa umile gioia.

Il mondo, amica mia, non me la guasterà mai come invece mi ha guastato. Le dirò in qual modo la dolcezza del mio segreto e del mio rifugio. Dieci anni son passati dalla morte di Violet ed io mi tengo sicuro di aver soddisfatto, in sostanza, il desiderio espressomi da lei quando navigando il Reno da Bingen a Rüdesheim mi disse che se fosse improvvisamente scomparsa non avrei dovuto far saper niente a nessuno, in Italia, del nostro legame. La sventura accadde e fu conosciuta a Rüdesheim prima che Steele spedisse le lettere di partecipazione; ed io tenevo ancora presso di me per recarle alla Posta di Stuttgart le lettere che avevo dirette ai parenti e agli amici più stretti. In Italia non mi confidai che con mio fratello e n'ebbi la promessa formale e solenne del segreto. Lei mi riferì poi le dicerie corse sui miei amori e le trovai lontane dal vero. La presente narrazione era già molto inoltrata quando Ella m'invitò a' suoi grandi ricevimenti di quaresima. Ci venni, se si ricorda, tre volte, e l'ultima volta ebbi una conversazione abbastanza lunga colla bella e ammirata signora… che ostentava, quella sera, di ricercare la mia compagnia. Trovandomi forse troppo diverso dagli altri, mi disse: «O Le sono antipatica o Lei nasconde nel cuore qualche segreto» e si mise a interrogarmi sul colore dei capelli e degli occhi della mia amante, mi domandò a quante centinaia di chilometri la stessi adorando col mio spiritualismo trascendentale. Siccome io rispondevo un poco ironicamente, la signora mi susurrò:

—Guardi bene, io so cosa c'è nella Sua casa di… non ricordo il nome del paese, adesso; ma insomma lassù fra le montagne.

Come lo sapeva? Qui non porto domestici, qui non ricevo amici. Replicai subito, benchè colpito al cuore, che poteva parlare ad alta voce perchè in casa mia non vi erano misteri. Allora Lei ci si avvicinò e disse: che conversazione animata!—Subito si fece ardito d'intervenire il nostro vecchio amico X, innocente corteggiatore della dama, che ci girava intorno da un pezzo, pieno di sospetto.

—Parleranno di qualche libro, m'immagino—diss'egli.

—Appunto—rispose la mia interlocutrice.—Si parlava di un libro interessantissimo, non ancora pubblicato, che avrà per titolo: Il mistero del poeta.

Si ricorda? Lei mi diede un'occhiata compromettente e c'invitò a prendere il the. Ci alzammo e la conversazione fa rotta. Riavutomi dal primo turbamento mi persuasi che se una curiosità profana è entrata qua dentro, non abbia tuttavia potuto decifrar l'enigma di queste reliquie. Però mi pesa che il mio tesoro non appartenga quasi più a me solo.

Ora ho finito davvero. Pensava Lei che nel Libro chiuso, com'Ella usa chiamarmi, fossero tali pagine, e Le pare che il mondo avrebbe ragione di sospettarle? Non prendo io parte alla vita comune, non lavoro, non mostro goder la bellezza delle cose, non mi toccano il tragico e il comico della natura umana, non sono quasi sempre sereno, non sono qualche volta gaio? No, il mondo può frugare nelle mie camere; legger nel mio cuore non può.

Guardo l'orologio; le cinque del mattino! Mi trovo qui a scrivere dalle undici di iersera e ho la testa grave di sonno, di fantasmi confusi; sono tuttavia contento di aver finito a quest'ora perchè l'alba è vicina e il mio lume muore. Non è un buon augurio? Addio, amica mia.

FINE.