A. GHISLANZONI
LA CONTESSA DI KAROLYSTRIA
Storia tragicomica
MILANO
A. BRIGOLA & C., EDITORI Via Manzoni, 5
Proprietà letteraria.
Milano, 1883.—Tip. Pagnoni.
A SALVATORE FARINA
La nostra amicizia, che dura da anni, e che mai… Perchè mi trema la mano nello scrivere? Donde avviene che dopo aver messe là, sulla carta, una diecina di schiette parole, mi vien meno il coraggio di arrotondare il periodo per dichiararvi tutto l'affetto che vi porto?
Perdonate! Ho appena finito di leggere i due volumi del De-Amicis; due stupendi volumi, pieni di osservazioni vere e profonde, ma… ma… (la colpa non è dell'autore, è tutta mia) tanto affliggenti da produrre lo sgomento.
Eppure, noi siamo amici, io e voi.
Vi è forse dell'orgoglio, da parte mia, nel dichiararlo al cospetto del pubblico?
È possibile. Ebbene, sì! io vado orgoglioso della vostra amicizia; e voi, non ne dubito, vi compiacete della mia.
Ci amiamo noi per simpatia di età, di carattere, di inclinazioni, di gusti letterarî? Io sono un vecchio matto, voi un giovane serio ed assestato; io appartengo alla scapigliatura incorreggibile, voi rappresentate il modello dei cittadini, dei mariti e dei padri; io faccio della prosa per far ridere i buontemponi, fabbrico dei versi per far disperare i maestri, e voi scrivete dei romanzi squisitamente arguti, per educare gli animi a tutto che vi ha di gentile e di onesto; infine, voi recitate, sul palcoscenico della letteratura, le parti dignitose e sentimentali, io recito da caratterista e qualche volta da buffo.
Ed ecco, malgrado questa antitesi, io non mi prendo veruna soggezione a presentarvi e dedicarvi il più balzano, il più strampalato de' miei racconti. Perchè dovrei aver soggezione? Voi non siete di quelli che leggono da giudici i libri degli amici; voi riderete delle mie stravaganze, e mi manderete in ricambio qualche vostra gentile e melanconica novella, che a me, vecchio matto, farà versare delle lacrime soavi.
Dopo tutto, deve esistere fra noi due qualche affinità o consanguineità latente, la quale mi farebbe sospettare che discendiamo dal medesimo ceppo.
Sta a vedere, adesso, che ci troviamo parenti!…
Eppure… eppure… Vediamo un po'!—Voi timido, io timidissimo (come rideranno certi grulloni al vedere che io mi dichiaro timidissimo!); voi amante dei fiori e dei bimbi, io coltivatore di asparagi e di patate; voi schivo dalle combriccole, restio alle pompe insignificanti, alle adunanze accademiche, ai banchetti fraterni (Dio! quanto fraterni!)—io più orso che uomo socievole, più stretto al consorzio dei cani e dei gatti che a quello degli animali chiamati ragionevoli.
Ma non è qui il luogo di sviluppare il parallelo; ne parleremo fra noi a quattr'occhi, forse ne abbiam già parlato e abbiamo concluso affermativamente, senza darci la pena di profferire una parola.
Nullameno—poiché ci siamo—non voglio passarmela senza avvertire il tratto più incisivo di somiglianza che esiste fra noi.—Ed è questo: che essendoci entrambi, per elezione o per caso, applicati a cucinare e ad imbandire delle vivande per la mensa libraria, noi non abbiamo tenuto conto del menu prescritto dai cuochi massimi, e abbiamo dato, ciascuno, ciò che sapeva, e poteva, e voleva dare.
Voi avete recato sulle mense delle gelatine confortanti, delle pesche col rosolio, delle ciambelle leggermente pepate; io dei salsicciotti saturi di grosso sale, delle polpette ripiene di senape e di droghe mordenti. Il fatto rappresenta una antitesi, ma esso deriva da una identica convinzione.
Da circa vent'anni noi assistiamo ad uno spettacolo curioso. Lo si vuol intitolare evoluzione letteraria; e questa evoluzione, se ho ben compreso, vorrebbe indurre quanti sono nel mondo letterati ed artisti a modellarsi sovra un medesimo stampo. Per essere ammessi nella chiesa cattolica governata da codesti massimi centuplicati da tanti minimi, occorre assolutamente di farsi scimmie. L'arte si ha da fare così e così—e mentre si pretende disfare la vecchia rettorica e schiacciare il convenzionalismo, ecco insorgere una rettorica nuova più circoscritta e più gaglioffa dell'antica, un convenzionalismo stupido e barocco, che si arroga di mettere il bavaglio al cervello e di proscrivere la originalità.
Come sarebbe divertente la letteratura, se tutti i poeti emulassero i sonori giambi del Carducci, od il molle elegantissimo erotismo dello Stecchetti! se tutti i romanzieri spaziassero con voi nell'ambiente sereno della famiglia e della società onesta, ovvero si tuffassero, in compagnia dello Zola, dentro i pantani della corruttela e del vizio!
Io fo tanto di cappello al Carducci, trovo gustosissimo lo Stecchetti, delizioso De-Amicis, appetitoso lo Zola, squisitamente arguto il mio ottimo Farina; ma pure io mi riterrei assalito da un primo sintomo di imbecillità il giorno in cui mi sentissi tentato a posare da Carducci, da Stecchetti, da De-Amicis, da Farina e da quant'altri hanno l'onore di piacermi.
E voi pure la pensate così, non è vero? Voi volete esser voi, niun altro che voi, sempre voi, senza la menoma pretesa di crear dei proseliti o di erigervi a caposcuola.
Caposcuola! Che significa?… Victor Hugo lo fu, caposcuola—e nullameno, durante il suo patriarcato, quanti poeti, quanti romanzieri dissimili da lui grandeggiarono e ottennero la ammirazione del mondo! Qual parentela di indole e di gusto letterario tra Victor Hugo e Lamartine, tra Musset e Beranger, tra Dumas e Giorgio Sand, tra Flaubert e Alfonso Karr, tra Coppée e Zola? E in mezzo a tante altezze fosforescenti, non è riuscito ad aprirsi una via e ad occupare un largo posto anche quel buono e poco ornato romanziere che si chiamò Paolo De-Kock, tanto vilipeso dagli insigni e tanto letto dalle moltitudini?…
E da noi, in epoca recentissima, qual differenza tra Manzoni, Guerrazzi, Giovanni Prati, Giuseppe Giusti, Guadagnoli, ecc., ecc.!!!
*
Dunque—per concludere—non c'è proprio bisogno di seguire un andazzo od una scuola. Meglio essere asini per alcuni pochi, che figurare da scimmie al cospetto del mondo intero.
E per oggi faccio punto. Quando verrete a trovarmi, ben altro avrò a dirvi su tale argomento, e voi mi direte il resto. Vi avverto che da due anni all'incirca i proseliti della gran scuola fanno un gran consumo di glauco; il biondo, lo scialbo, il grullo ed il brullo cominciano a scadere di moda. Tanto per vostra norma—perchè il giorno in cui vi accadesse in qualche vostra prosa di lasciar correre il glauco, io ne rimarrei grandemente allarmato.
Nella mia Contessa di Karolystria non c'è ombra di glauco, statene sicuro. Trovatemi un altro libro recente di prosa o di versi che sia immune da questo contagio!…
Vi stringo la mano cordialmente.
A. GHISLANZONI..
Caprino Bergamasco, 12 maggio 1883.
LA CONTESSA DI KAROLYSTRIA
CAPITOLO I.
Caracollando leggiadramente sulla groppa di una puledra maltese, in sul cadere di una splendida giornata di ottobre, la contessa Anna Maria di Karolystria traversava la foresta di Bathelmatt. La contessa, contando di arrivare a Borgoflores poco dopo il tramonto, era partita dal suo castello alle due del pomeriggio.
La città non era discosta, e la brava puledra, dopo quattro ore di marcia forzata, trottava ancora di lena colla foga baldanzosa dei suoi quattro anni.
Quand'ecco, al cominciare di un'erta, tre figuraccie da metter la terzana al vederle, sbucano all'improvviso dai grossi tronchi degli alberi.
—Alto là! grida una voce da toro.
Uno dei tre figuri pianta una grinfa tra le nari della cavalla; l'altro appunta una rivoltella al petto della vezzosa cavalcatrice; il terzo, afferrando la contessa al polpaccetto di una gamba, la trae con poco garbo di sella slanciandola a dieci passi dalla strada maestra.
Di là a dieci minuti, non rimaneva più nella foresta di Bathelmatt che una gentilissima figura di donna nuda, una formosa statua di alabastro vivente, che i ladri avevano spogliata di ogni superfluità signorile. Quei mascalzoni avean spiumata la contessa dei gioielli, delle vesti, delle lingerie, non rispettando che un bel paio di calzettine traforate e due elegantissimi stivaletti, armati di speroncini.
—Che buoni ladri! che ladri discreti!—Non calunniamoli. Se non presero tutto; se fuggirono col grosso del bottino senza darsi la pena di scalzare il più bel modello di caviglia che mai uscisse dalle mani della natura, gli è che al momento in cui si accingevano a tagliare i legacci, i tre briganti erano stati sgomentati e posti in fuga dallo scalpito di un cavallo accorrente. Un cavallo, che sopraggiunge di trotto verso il luogo dove fu consumata una aggressione, apparisce sempre, nell'ombrosa fantasia dell'aggressore, sormontato da un carabiniere.
Frattanto, la bella contessa era rimasta là…. ho già detto in qual semplice abbigliamento….
Dite un po', signorina, che fareste, se mai vi capitasse, e Iddio ve ne guardi, di cadere in una situazione identica a quella della nostra graziosa eroina?… Nuda come una Venere classica, nel mezzo di una foresta, ai lumi di un tramonto fosforescente, mentre un cavallo, probabilmente raddoppiato da un cavaliere, si avanza a galoppo concitato!…
Fuggire…. Via! si vede che non avete pratica di foreste. Non sapete che le foreste son piene di ginepri e di vepri, i quali rimano perfettamente e pungono anche maledettamente le carni?
Celarsi dietro un grand'albero, attendere che il cavallo e il cavaliere passino oltre…. Ma, poi?
Riflettete, carina; cioè, riflettiamo….
Nel caso della contessa non è in gioco soltanto la pudicizia…. Il giorno va imbrunendo…. tra un'ora farà notte… e una dama avvezza al morbidume dei lini non può adattarsi a dormire in un bosco. Se un lupo…. se un orso…. Che orrore!
Ma la contessa era dotata di molto acume pratico. Misurando in un lampo le eventualità della sua posizione, ella non tardò un istante a comprendere che quel cavallo, o piuttosto quel cavalcatore che moveva alla sua volta, era forse l'angelo di salvezza inviatole dalla provvidenza.
Innanzi tutto, pensò ella, vediamo di prendere un atteggiamento che ci permetta di presentarci ad un essere della nostra specie senza troppo compromettere la pudicizia!
Il terreno, come accade in ogni foresta al finire dell'autunno, era sparso di foglie. Lode. all'Altissimo! Non casca foglia che Dio non voglia!
E appena esalata la giaculatoria, la contessa adunò rapidamente colle sue braccia candidissime un bel mucchio di quella grazia di Dio piovuta dagli alberi, vi si tuffò, vi si sommerse, si rese invisibile.
—Opp! Opp! avanti dunque! È la prima volta che mi fai di questi scherzi, Morello! Opp! Opp!
È altresì la prima volta che Morello, il. bel puledro del visconte D'Aguilar, aspira colle sue ampie narici le esalazioni più o meno balsamiche di una contessa sepolta nelle foglie.
Il visconte, balzato di sella, prese a carezzare amorosamente l'ombroso animale, apostrofandolo coi più graziosi vezzeggiativi.
—È un gentiluomo! riflette la contessa, sollevando cautamente la testolina per sbirciare a traverso gli arbusti.
Ma il cavaliere, già entrato in diffidenza all'adombrarsi di Morello, udendo stormire le foglie, e parendogli che sotto quelle si disegnassero i contorni di una figura umana, fece l'atto di scompigliarle collo scudiscio.
Immaginate se la contessa potè star ferma!
—Alto là! gridò ella, dando un balzo, che mise allo scoperto il suo bel volto e le sue spalle di nitido alabastro; se voi siete, quale ognuno vi giudicherebbe all'aspetto, un gentiluomo ed un uomo di cuore, non avanzatevi di un passo; rispettate e proteggete una dama di alto lignaggio, che non poteva, voi lo vedete, cadere più basso.
Il visconte, immobile come un paracarro, guardava e taceva. Ma poichè la contessa gli ebbe narrati i particolari della disavventura che l'aveva tratta al mal partito,—Signora! esclamò egli coll'accento vibrato dei suoi impulsi generosi: io mi terrei il più sciagurato, il più vile dei mascalzoni se un pensiero che non fosse quello di compiere ogni maggior sacrificio per liberarvi dalla vostra falsa posizione, potesse formarsi nella mia mente. A me pare che la vostra necessità più urgente sia quella di mettervi in una veste meno scucita. Se non vi ripugna di indossare i miei abiti, io ve li offro; e al tempo istesso vi do parola che io non sarò mai per volgere gli occhi dal vostro lato fino, a quando voi non vi siate completamente abbigliata delle mie spoglie.
—Ma… voi… signore?…
—Non prendetevi pensiero di me. Affrettiamoci! Eccovi il mio soprabito… eccovi il mio gilet … i miei calzoni…
—Signore!… È troppo!… È una indecenza!… voi dimenticate di essere in presenza di una signora…
Ma il visconte, colla focosa inconsideratezza dei generosi che si sacrificano, in un attimo si era spogliato.
Frattanto la contessa, dopo essersi abbottonato sulle carni quanto poteva occorrerle di vestimento per scattare meno indecorosamente dalla nuvola di foglie dove si teneva rattrappita, drizzandosi della persona e facendo della mano una visiera agli occhi, ripigliava con accento mite e supplichevole:
—Via! poichè volete essere il mio angelo liberatore, fate, o signore, ch'io non sia costretta ad arrossire di aver accettata la vostra protezione! Mettetevi là… (e additava il giaciglio dal quale poco dianzi si era levata). Io non avrò mai coraggio di intavolare una seria conversazione con voi, se prima….
La contessa non ebbe tempo di compiere la frase, che già il visconte si era tuffato fino al collo nel fogliame, esclamando:
—Eccomi agli ordini vostri!
—Voi siete un gentiluomo modello! esclamò la dama coll'accento della ammirazione più enfatica; e in presenza di tanta abnegazione, di tanto eroismo, quasi mi sento umiliata di avere con tanta precipitazione accettato le vostre profferte.
—Signora, interruppe il visconte con voce rotta dai brividi, la notte incalza, il bosco è freddo, il letto punge, le lenzuola non sanno di bucato; convien dunque avvisare subito ai mezzi per trarci entrambi di imbarazzo. Montate sul mio cavallo e partite! In meno di un quarto d'ora sarete alle porte di Borgoflores. Nelle tasche del mio soprabito che indossate, v'è un portafoglio abbastanza colmo di banconote. Con quel denaro voi potrete, appena giunta a Borgoflores, procacciarvi un abbigliamento conveniente al vostro sesso. Appena ve ne sarete provveduta, voi non indugerete a rimandarmi i miei abiti a mezzo di persona fidata. Dalla sella del mio cavallo pendono due rivoltelle. Una per me, l'altra per voi. Va bene così?… Mi occorrerebbe ancora, per ingannare il tempo alla meglio, un buon sigaro di avana…. Nelle taschette del mio soprabito ne troverete di eccellenti… Favorite!… Mille grazie… Ora, non più indugi! Salite a cavallo, e partite di galoppo… Cioè… aspettate!… Sarei io troppo indiscreto, o signora, se osassi, prima che ve ne andiate, di informarmi del vostro nome?
—Eccovi la mia carta di visita… Oh! la smemorata…! Cercava la mia carta nelle tasche del vostro soprabito… Ebbene: io mi chiamo Anna Maria contessa di Karolystria.
Il visconte diede un balzo che proiettò sulla contessa una mitragliata di foglie.
—Avete pratica della cittadella di Borgoflores? domandò egli con qualche ansietà.
—Ci vado per la prima volta, signore.
—Ebbene, smontate all'albergo della Maga rossa. Spero fra un'ora di raggiungervi, e di ridere un poco con voi della strana ventura che mi ha procacciato l'onore di conoscere… personalmente una signora, la cui fama era già pervenuta a me sulle ali della pubblica ammirazione.
Di là a pochi istanti, perfettamente abbigliata e più che mai seducente sotto le flessuosità dell'abito virile, la contessa galoppava a briglia sciolta verso la cittadella.
CAPITOLO II
« Lo giorno se ne andava » e il visconte sepolto nelle foglie, lo zigaro in bocca, la rivoltella in pugno, attendeva colla fede del giusto, colla sicurezza del forte, l'ora della liberazione.
Le tenebre non erano ancora tanto fitte, che l'occhio non potesse discernere i contorni degli oggetti.
Un sordo calpestìo distrasse il visconte dalle erotiche fantasmagorie che lo cullavano in quel letto ancora pieno di tepori e di profumi femminili.
—Così presto! pensò egli, rizzandosi sui gomiti. No! è inverossimile… Non è scorsa mezz'ora dacchè la contessa è partita; impossibile ch'ella abbia già rimandato il mio cavallo e i miei abiti. E poi, soggiunse il visconte dopo aver ascoltato in silenzio, questo cavallo non batte la strada maestra… lo scalpitìo è ammorzato dalle eriche e dalle foglie… A buon conto, prepariamoci agli eventi!
Il visconte balzò in piedi, e appoggiandosi dietro un albero, prese di mira, per quanto gliel consentissero le tenebre, il quadrupede che si avvanzava alla sua volta.
Era una cavalla di purissima razza maltese, una cavalla che i nostri lettori hanno già visto comparire in questo racconto; era, affrettiamoci a dirlo, la elegante e baldanzosa puledra che poco dianzi aveva costeggiato la selva, portando in groppa la contessa Karolystria.
Il visconte, vedendo la bestia soffermarsi, emise dal petto un chi va là? che avrebbe fatto indietreggiare un esercito di dragoni.
Nessuna voce. La cavalla scalpitava e dondolava la testa fiutando il terreno.
L'intrepido visconte si slanciò, afferrò la bestia per le nari, e facendo scattare il grilletto della pistola, proferì una minacciosa intimazione.
—Cos'è dunque codesto carico di stoffe addossato alla sella? esclamò il visconte pienamente rassicurato di non avere a fare con malandrini.
Nulla più, nulla meno che un cumulo di stoffe; e i miei arguti lettori già indovinano che quelle stoffe erano le spoglie della contessa di Karolystria, il prezioso bottino di cui poco dianzi si erano impadroniti i briganti.
Ed eccovi in poche parole la spiegazione dell'enigma. Mentre si affrettavano verso il loro covo per dividere i gioielli e le vesti involate, i tre aggressori della contessa erano stati sorpresi da una pattuglia di carabinieri usciti in quel giorno stesso da Borgoflores a perlustrare la foresta. Si impegnò una lotta tremenda. Fuoco di qua, fuoco di là, fischi di palle, spezzature di crani, stramazzoni, capitomboli, urli di feriti, bestemmie di moribondi. Frattanto, la puledra della contessa, abbandonata ai suoi liberi istinti, avea ripreso il trotto per tornare sul luogo dove i malandrini avevano consumata l'agressione, e appunto era venuta a far sosta a pochi passi dal visconte.
Il visconte, rendiamo giustizia al di lui accorgimento, comprese in un attimo ciò che in tal caso era ovvio a comprendersi. Si accostò alla puledra, e accarezzandole il collo, le tolse di groppa la veste elegante di amazzone, il bizzarro cappello ornato di piume azzurre, tutti gli ornamenti, infine, e i gingilli preziosi che costituivano le spoglie della mal capitata signora.
In quel luogo, in quell'ora, sotto lo stimolo della brezza che gli crespava l'epidermide nuda, quegli indumenti muliebri erano pel visconte un soccorso della provvidenza. Senza indugiare, egli se li pose indosso,—gli andavano a meraviglia,—e dopo essersi abbigliato completamente, spiccò un salto, fu in sella, e via di galoppo alla volta di Borgoflores.
Quando il visconte giunse alla porte della città, le due sentinelle che stavano di guardia incrociarono le alabarde, e un grosso commissario di polizia, avvanzandosi, e trattenendo la cavalla per la briglia, intimò pulitamente al nostro gentiluomo in gonnella di mostrargli il passaporto.
Il visconte, leggermente turbato, riflette un istante e poi disse:
—È strano che in un paese tanto vantato pei suoi civili costumi, sussista ancora la barbara usanza di chiedere il passaporto ai forestieri che si presentano alle porte; più strano ancora che questa formalità vessatoria ed odiosa non venga almeno risparmiata alle persone del mio sesso.
—La società umana, rispose il commissario sorridendo, non rappresenta che un intreccio di stranezze.
Il visconte cacciò una mano nel taschino della gonnella, e trattone il portafoglio, presentò al commissario una carta di visita.
—Se questa può bastare…
—Vediamo!
Poi, con un risolino di soddisfazione, il commissario soggiunse:
—Non serve che la signora contessa ci fornisca altra prova della sua identità… Questa carta ci basta… Si compiaccia dunque di scendere da cavallo e di seguirci.
—Scendere da cavallo! seguirvi! Che vuol dir ciò? domandò il visconte sorpreso,
—Vuol dire, rispose il commissario pacatamente, che noi abbiamo ordine di mettere la illustrissima signora contessa di Karolystria in istato di arresto… E poiché voi, gentilissima signora, siete appunto la contessa Anna Maria di Karolystria, e i tratti del vostro viso, nonché la foggia e il colore del vostro abbigliamento rispondono perfettamente ai connotati che ci vennero trasmessi, così speriamo che di buon grado vorrete ottemperare alle nostre ingiunzioni, piuttosto che costringerci ad impiegare quei mezzi coercitivi…
—Parlate voi da senno! esclamò il visconte irritato; ch'io sappia almeno da qual parte è venuto l'ordine di arrestarmi.
—L'ordine è partito, rispose il commissario sorridendo, da una persona, che essendo legata a voi con nodi indissolubili, ci tiene molto al possedimento delle vostre grazie. Venite, signora! Vostro marito vi reclama, vostro marito non può vivere senza di voi. Ciò deve lusingare grandemente il vostro amor proprio di donna e compensarvi della lievissima pena che noi siamo obbligati ad infliggervi.
Il visconte riflette un istante:
—Questo equivoco, pensò egli, può tornar giovevole alla contessa; le darà il tempo di allontanarsi da Borgoflores e sfuggire alle vessazioni di un marito che la perseguita.
Egli scese da cavallo.
—Commissario, sono con voi! esclamò con piglio dignitoso; voglio sperare che l'ordine di cattura non si stenda a questa mia buona puledra, che ha camminato tutto il giorno, ed ha bisogno urgentissimo di fieno e di riposo. Vorreste voi, signor commissario gentilissimo, affidarla a qualcuno che si incaricasse di condurla all'albergo della Maga rossa?
Il commissario assentì.
Mentre un gaglioffo di doganiere afferrava il morso della puledra, il visconte gli si accostò con un pretesto, e facendogli scivolare nella mano una carta di visita, gli disse sottovoce rapidamente:
—Eccoti l'indirizzo di una dama… Silenzio!… discrezione! fra un mese sarai ispettore… fra un anno prefetto.
Il doganiere partì sbalordito, e il visconte, condotto dal commissario alla caserma delle guardie di pubblica sicurezza, venne rinchiuso in una cameraccia disadorna, a mala pena rischiarata dal fumo di un lucignolo moribondo.
CAPITOLO III.
Non era scritto nei fatti che il nostro gentiluomo in gonnella, dovesse passare la intiera notte in quell'antro di lupi polizieschi.
Infatti, trascorsi pochi minuti, i catenacci cigolarono, e il commissario ricomparendo sulla soglia annunzio con lugubre voce al detenuto la visita del conte Bradamano di Karolystria, elettore dell'impero e arcidecano del grand'ordine della Cervia Massonica.
—Il marito! pensò il visconte trasalendo; s'egli si avvede dell'equivoco, la contessa è perduta… Procuriamo di ritardare la catastrofe…
E mentre il conte Bradamano di Karolystria si avanzava con passo da tiranno, stampando sul suolo delle orme che spaccavano i mattoni, il nostro cavalleresco eroe cadeva in ginocchio a ridosso d'una seggiola appoggiata alla muraglia, e giungendo le mani in atto dì pregare, seppelliva in quelle le sue guancie rubiconde e paffute.
Il conte Bradamano pregò il commissario di ritirarsi, e facendosi più innanzi, investì il genuflesso con una occhiata fulminea. I suoi speroni mandavano un sinistro cigolìo.
La persona, che in atto di umile e desolata preghiera gli volgeva le spalle e le calcagne, non poteva che essere una donna colpevole. Il cappellino bizzarro a piume azzurre, la magnifica veste da amazzone stabilivano l'identità di quella dama. Quel cappellino il conte l'aveva donato a sua moglie nell'anniversario del malassortito imeneo. L'elegante ciarpa di raso, ricamata in oro, che il visconte teneva annodata al collo, ricordava al terribile marito un altro regalo da lui fatto all'indegna, in un lucido intervallo di tenerezza coniugale… Quella ciarpa gli era costata cinquecento rubli… Cappellino, amazzone, ciarpa, tutto concorreva a denunciare la perfida moglie… La contessa era là… L'occhio grifagno, l'artiglio adunco del marito le stavano sopra.
—Sciagurata! tu preghi? esordì il conte con voce sepolcrale…
Il visconte, compreso dalla stranezza quasi inverosimile della propria situazione, sprofondando la testa nelle mani, diede in uno scroscio di risa che sembrava una scarica di singhiozzi.
—E tu piangi! proseguì l'altro, ingrossando la voce…
La seggiola sulla quale il visconte era appoggiato, scricchiolava sotto gli scoppi delle sue risa irrefrenabili.
—Per chi preghi? Per chi piangi?… Ma alzati, dunque! Questi mattoni screpolati ti sciupano la gonnella… Dio! uno strappo!… due strappi!… Quante ammaccature sul cappello!… Un cappello che mi è costato seicento rubli!… Non importa… Oramai tu hai finito di smungermi… Le tue lagrime, le tue moine non fanno più breccia. Mi hai detto mille volte che ero un mezzo uomo; diverrò uomo tutto intero, e un uomo corazzato, per giunta. Non credere che io sia mai per ricondurti al castello dei miei padri. Se ho spedito dei telegrammi a cento città dello impero per ottenere il tuo arresto, l'ho fatto perchè pretendo, perchè esigo che tu mi renda il denaro e i gioielli che mi hai rubati. Mi hai tu capito, o femmina immonda? Il mio denaro, i miei gioielli, e poi il diavolo ti porti!
Le parole: denaro, gioielli, erano articolate su due note rauche e stridenti, che mettevano raccapriccio.
Il visconte, sempre inginocchiato colla testa sprofondata tra le braccia, studiava uno stratagemma per uscire da quella posizione che oramai cominciava ad annoiarlo.
—Ah! tu vuoi dunque che io ricorra ai mezzi estremi! riprendeva l'altro con voce più cupa; ebbene: tal sia di te; ma bada che questa volta ti lascerò il segno… Sai tu cosa significa la forza irresistibile? Rispondi, sciagurata, lo sai?… Or bene: te lo diranno gli avvocati, te lo diranno i giurati alla Corte di Assise… quand'io con queste mie mani, tramutate in artigli da pantera, ti avrò afferrata per il collo e strozzata come un pollastro…
E il conte Bradamano, cogli occhi iniettati di sangue, colla bocca spumosa e le narici frementi, già stava per slanciarsi a ghermire la sua vittima, quando il visconte, balzato in piedi lestamente, lo investì di fronte e gli applicò sulle guancie due schiaffi così poderosi, che avrebbero ammaccata la faccia della luna.
Il conte barcollò…
Tentò di avventarsi… voleva parlare… voleva gridare… ma le gambe lo reggevano a stento e la voce non gli usciva dalla strozza. All'impeto della collera era succeduta in lui una sincope di stupore.
Schiaffeggiato da una donna!… Un conte Bradamano, un elettore dell'impero, un arcidecano del grand'ordine della Cervia Massonica, che si riteneva inviolabile…!
E quella donna (oramai egli era in grado di giudicarne) non era sua moglie, bensì una incognita minacciosa e terribile, che aveva mostrato di saper picchiare più forte di lui.
Mentre i due antagonisti si sfidavano collo sguardo, il commissario di polizia entrò nella stanza, e inchinandosi rispettosamente, presentò al conte una lettera.
Lo scritto era umido ancora… i caratteri eran quelli della contessa di Karolystria.
Livido dallo stupore, il conte leggeva battendo i denti.
«Uomo brutale,
«È vano che tu mi insegua. Al momento in cui ti verrà consegnato questo scritto, io non sarò più in Borgoflores; la mia puledra mi trarrà lungi, ben lungi, ben lungi… Se vorrai prendere alla Maga rossa delle informazioni sulla mia partenza, ti converrà saldare i due conti che qui ti accludo, due conti da me liquidati e fatti iscrivere al tuo nome. Tanto per tua norma.
»ANNA MARIA.»
Sulle due noticine involte nella lettera stava scritto:
» Abito di moerro confezionato, con guarnizione di raso e bott. di corallo L. 600 50
» Per rinfresco a due cavalli e vino al doganiere » 3 50
» Candele steariche e servizio » 10 75
—Commissario, urlò il conte Bradamano, sbarrando gli occhi come un ossesso; per quante porte credete voi che una donna a cavallo possa uscire da Borgoflores?
—La cittadella ha dieci porte, rispose il commissario, e queste, salvo errore, servono tanto per l'uscita come per l'entrata delle persone d'ambo i sessi.
—Or bene: è necessario che sull'istante, da ciascuna porta escano due carabinieri a cavallo… Si tratta di inseguire mia moglie… avete capito, signor commissario?… mia moglie che mi tradisce, che mi deruba, che mi assassina nell'onore… Su, dunque! Che fate lì, con quell'aria da trasognato?… Se entro un'ora voi non riuscite a far trascinare quella perfida a' miei piedi, vi do parola che domani sarete dimesso dall'impiego e punito della vostra negligenza con ventiquattro giri di verghe.
Il commissario, punto atterrito da quelle minaccie, rispose colla massima calma:
—Vi prego, o signore, di riflettere che noi ci troviamo in presenza di una dama la quale venne testè arrestata sotto l'imputazione di essere vostra moglie. Come si spiega ora?…
—Se costei fosse mia moglie, disse il conte bruscamente, credete voi, uomo di poco senno, che io reclamerei l'intervento dei vostri carabinieri per arrestarla?
—Gentildonna, riprese il commissario indirizzandosi al visconte, quando noi, in ossequio agli ordini ricevuti, vi abbiamo intimato di presentarci il passaporto, voi ci avete esibito una carta da visita, affermando nello stesso tempo a viva voce di essere voi la contessa Anna Maria di Karolystria. Ora, come avete udito, l'eccellentissimo signor conte oppone un formale diniego alle vostre asserzioni…. Degnatevi dunque, o signora, di sciogliermi questo enigma. Sebbene nella condotta del signor conte io riconosca esservi qualche cosa di anormale e di inesplicabile, voi converrete, o signora, che anche il vostro contegno in questa imbrogliata vertenza non si presenta abbastanza corretto per escludere ogni supposizione meno favorevole alla vostra onoratezza.
Il visconte, che fin là era rimasto mutolo cercando una scappatoia per uscire da quella falsa posizione, atteggiando il volto a mestizia, con voce supplichevole rispose:
—Io vi ho dichiarato il mio nome, io vi ho presentato un documento, mio marito poco dianzi ha mostrato di riconoscermi. Signor commissario, ne attesto il cielo, ne attesto tutti i santi, io sono la sola donna che sulla terra abbia il dritto di chiamarsi Anna Maria contessa di Karolystria, Via, Bradamano! guardami bene… riconoscimi… Questo elegante cappellino ch'io tengo in testa… questa splendida ciarpa ricamata in oro… questa veste… questi gioielli… non rappresentano altrettanti pegni della tua generosità e del fervido amore che mi portavi in altri tempi?
Il conte guardava fissamente, cogli occhi gonfi di lacrime, e pareva affermasse con meccanico ondulamento del capo.
Poi, come riscuotendosi da una momentanea allucinazione, slanciossi col pugno alzato verso il visconte.
—In nome di Dio! esclamò questi riparandosi dietro le spalle del commissario, difendetemi da questo pazzo furioso!
—Pazzo! lo aveva sospettato… Venite, povera contessa… mettetevi in salvo!
Il conte, avventandosi con tutto l'impeto della sua rabbia, andò a stramazzare presso l'uscio che si chiudeva fragorosamente dietro i passi del commissario e del visconte,
—Maledizione! Maledizione! ruggiva lo sventurato, avvoltolandosi sul pavimento.
Frattanto, il commissario spediva al manicomio un avviso perché gli mandassero due guardie provvedute di una camicia di forza; e il visconte, rimasto libero, scambiate poche parole con un doganiere che lo attendeva alla porta, si dirigeva a passo concitato verso l'albergo della Maga-rossa.
Chi era quel doganiere? domanderanno i lettori meno perspicaci. Perché era là, appostato, ad attendere il visconte? Cosa si dissero in quel breve colloquio?…
Il doganiere era quello stesso (fate di sovvenirvene), al quale il visconte, al momento del suo arresto, aveva affidata la puledra perché la conducesse all'albergo della Maga rossa.
Il buon ragazzo, adempiendo scrupolosamente alla commissione ricevuta, aveva parlato colla contessa, e questa a sua volta lo aveva incaricato, se per caso gli fosse occorso di poter abboccarsi col visconte, di comunicargli colla maggior segretezza i suoi divisamenti.
Per tal guisa, il nostro gentiluomo venne a sapere che la bella signora di Karolystria intendeva partire quella notte istessa alla volta di Mirlovia; che giunta colà, essa avrebbe pernottato all'albergo del Pappagallo per proseguire il viaggio al mattino seguente; ch'ella aveva ripresa la sua puledra, lasciando il cavallo del visconte nella scuderia dell'albergo; che infine gli abiti del visconte erano stati rinviati alla foresta di Bathelmatt a mezzo di un guattero di buona volontà, del quale non si era più avuta contezza.
Raccolte queste informazioni, e promessa una larga mercede al doganiere, il visconte, come abbiam detto, correva alla Maga rossa; quivi giunto traeva dalla stalla il suo Morello, e senza mutare d'abiti, nel suo splendido abbigliamento da amazzone, montava in sella e partiva di galoppo sulle orme della bella fuggitiva.
Il visconte amava dunque la contessa? No. Il visconte amava le avventure, ed era anche (è tempo che i lettori ne siano informati) un enfatico propugnatore dell'emancipazione della donna.
CAPITOLO IV.
La pioggia imperversava; i lampi succedevano ai lampi; pareva che la vôlta del cielo stesse per crollare, bombardata da un esercito di diavoli.
Frattanto, in un modesto salottino al pian terreno, due preti sonnolenti ruminavano gli ultimi crostini di una cena ritardata. In quel giorno, i due preti avevan proprio lavorato da forzati: perocchè all'indomani ricorresse a Mirlovia il centenario della santa patrona del paese.
Figuratevi, dunque, se alla vigilia della grande solennità, il parroco e il coadiutore di Mirlovia dovean esser spossati!
—Peccato! esclamava don Fulgenzio, portando alle labbra un bicchiere di malvasia, questo tempaccio manderà sossopra le porte trionfali e le impalcature che abbiamo erette sul sagrato—Domattina ci converrà esser in piedi di buon'ora e rimetterci di lena al lavoro…
— Ergo, andiamo a coricarci, rispose il parroco levandosi in piedi e stendendo la mano al candelliere. Son l'undici e trenta… Ho dato ordine al sacrista che venga a svegliarci alle cinque…
I due preti eran sulle mosse per salire alle loro stanze, quando alla porta della casa parrocchiale vennero bussati due colpi…
—Chi mai a quest'ora?
—Qualche disgraziato sorpreso dal temporale per via…. Don Fulgenzio, andate ad aprire.
—Vi faccio osservare…
—Andate subito, don Fulgenzio! In una notte come questa sarebbe peccato negare ricovero, ad un cane.
Don Fulgenzio attraversò il porticato e andò a schiudere la porticella che dava sulla, via.
—Dio di misericordia!…. Venite, venite, povera signora! Si è mai veduta una creatura umana più maltrattata dalle intemperie?
Così esclamando, il coadiutore introdusse nella casa una figura animata che aveva tutte le apparenze di una bella e giovane dama, sebbene, allo scompiglio delle vesti ed alla concitazione dei movimenti, sulle prime la si potesse scambiare per un fantasma.
—Grazie! mille grazie, signor abate! esclamava a sua volta quel personaggio in gonnella, che, avanzandosi, lasciava dietro i suoi passi un rigagnolo.
Il parroco, uscito ad incontrare quell'ospite inaspettato, lo introdusse nel salottino, commiserandolo con parole e con sguardi ripieni di dolcezza evangelica.
—Il mio bisogno più urgente, disse il visconte (i nostri lettori lo avran già riconosciuto) è quello di spogliarmi di queste vesti dove sta raccolta tant'acqua da spremerne un mare. Con questa pozzanghera indosso, non posso fare un movimento, non posso sedere… Ah! l'ho scampata bella! Si è mai dato un acquazzone più micidiale? Io veniva da Borgoflores; il mio cavallo, spaventato dal fragore di un fulmine, mi avea balzato di sella… Ho dovuto proseguire a piedi sotto un diluvio dì pioggia, per una strada tramutata in torrente… Buon per me che all'ingresso del paese ho veduto del lume agli spiragli delle vostre griglie; buon per me che, bussando alla vostra porta, ebbi la consolazione di vederla aprirsi immediatamente e di trovar qui l'accoglienza più cordiale ed onesta! Dunque, miei buoni reverendi, non serve che io insista davantaggio…. Compite l'opera di carità, liberatemi da questo incubo di acqua piovana da cui sento a dozzine filtrarmi i reumi nelle carni e nelle ossa. Io spero bene di potere un giorno compensarvi…
—Calmatevi, gentildonna, interruppe il parroco con apostolica benevolenza; poiché il Signore Iddio e la beata Dorotea nostra patrona ci hanno voluto porgere una così bella occasiono di esercitare la carità e la fratellanza cristiana, noi soccorreremo con gioia al vostro infortunio, esclusa ogni idea di compensi terreni. Don Fulgenzio, conducete subito alla guardaroba questa donna sventurata! La nostra guardaroba, o gentildonna, non può fornirvi che degli abiti da prete; ma, tanto, per questa notte vi serviranno… Domani si penserà a far asciugare e stirare le vostre gonnelle; e voi potrete, o signora, colla benedizione di Dio, riposata ed incolume, proseguire il vostro cammino.
Il visconte, amantissimo, come sappiamo, delle strane avventure, all'idea di quel nuovo e bizzarro travestimento, provò un sussulto di gioia, e seguendo senz'altro attendere il coadiutore che lo precedeva col lume, salì con esso alle stanze superiori, dove il dabben prete, dopo avergli messo innanzi un copioso assortimento di braghe e di sottane nere, lo lasciò solo. Era don Fulgenzio uno di quei preti esemplarmente morigerati, ai quali sembra di commettere peccato mortale al solo gettar gli occhi sul collo ignudo di una donna.
In meno di un quarto d'ora la trasfigurazione del visconte fu completa. I due reverendi che lo attendevano nel salottino, al vederlo rientrare, non poterono trattenere un'esclamazione di meraviglia. Essi erano ben lungi dall'immaginare che una donna potesse con tanta dignità e disinvoltura portare l'abito sacerdotale. Il visconte avea le sembianze di un ingenuo e modesto diacono, che rientra dalla chiesa nella sacristia dopo aver celebrata la sua prima messa.
—Miei ospiti reverendi, disse il giovane coll'accento della più cordiale riconoscenza, in questi abiti asciutti e puliti m'è sembrato di rivivere. Ora, vi prego di non darvi altra pena per me. La notte è molto avanzata, andate a riposarvi. Io attenderò il mattino in questo salotto, dormirò sovrà una seggiola….
—Per verità, interruppe il parroco, saremmo stati imbarazzati ad offrirvi una camera ed un letto. Domani, per solennizzare il centenario della nostra santa patrona, deve giungere a Mirlovia l'arcivescovo di Rosinburgos, e noi, naturalmente, abbiamo già preparati i letti e addobbate le camere per alloggiare monsignore ed il suo seguito. Poichè non vi disgrada di passare la notte in questo salottino, vi prego di osservare che qui vi è un divano abbastanza soffice e pulito, dove potrete coricarvi. Buona notte, signora! Sulla mensa c'è del pane e del cacio, nel fiaschetto dell'eccellente malvasia; servitevi a piacer vostro! Noi siamo affranti dalle fatiche della giornata e abbiamo bisogno di dormire in pace qualche ora…. Che il buon Dio vi benedica e guardi noi tutti dalle tentazioni!
— Amen! rispose don Fulgenzio, uscendo col parroco dal salottino.
E il visconte rimase solo a pavoneggiarsi nel suo abbigliamento da abate, in preda ad una esaltazione di ilarità, che mai l'uguale gli era accaduto di gustare nelle molteplici vicende della sua vita avventurosa e brillante.
CAPITOLO V.
La pioggia era cessata, le nubi si diradavano, e all'orologio del campanile battevano i tre tocchi.
—Non mi farebbe male l'adagiarmi per qualche ora su quel divano, pensava il visconte, dopo aver sorseggiato un mezzo bicchiere di malvasia. Alle cinque i miei reverendi ospiti saranno in piedi, ed io… Ma… ho ben inteso? Qualcuno ha bussato alla porta di strada… Due colpi ancora… Chi sarà il malcreato che ad ora sì avanzata della notto osa martellare con tanta ferocia la porta della casa parrocchiale?…
Balzò dalla seggiola, prese il lume, attraversò lesto lesto il porticato, fu alla porta, l'aprì, e il visconte si trovò di faccia un giovinotto, il quale teneva tra le mani un bambinello mal coperto di cenci, che strillava come una capretta…
—Chi siete? che volete? domandò il visconte, fissando nello sconosciuto il suo sguardo penetrante e sereno.
—Mi scusi tanto, rispose il giovine, se ho dovuto disturbarlo a quest'ora… Ma si tratta di un caso molto grave… Un disgraziato forastiero che questa notte ha preso alloggio all'albergo del Pappagallo, versa in grave pericolo di vita e reclama gli estremi conforti della religione. È necessario che vi affrettiate…. Una bella e pietosa dama, che ha prestato al poveretto le prime cure, mi ha raccomandato la maggior sollecitudine. Voi vedete dunque, monsignore reverendissimo…
—Io vedo, rispose il visconte al colmo dello stupore, un neonato che strilla; e tu mi parli di un moribondo!… Che istorie son queste?…
—In verità sono istorie da perderci la testa…. Mentre io bussava alla porta, ho sentito guaire sul lastrico questo marmocchio mal fasciato. Sulle prime ho creduto di aver messo il piede sulla coda d'un gatto… Ma poi… toccando… palpeggiando… ho dovuto convincermi…
—Sta bene! interruppe il visconte; tu m'hai l'aria di un buon figliuolo, ed io do fede alle tue asserzioni…. Questa povera creaturina abbandonata dev'essere il frutto di qualche amore illegittimo; fino quando non saremo riusciti ad emancipare la donna dalla doppia tirannia che la opprime, pur troppo questi casi dello snaturato abbandono della prole non cesseranno di riprodursi spaventevolmente ad obbrobrio della società umana.
—Ma…. signor mio reverendissimo… mi permetto di ricordarvi che il povero moribondo dell'albergo del Pappagallo … non aspetta che il passaporto per andarsene all'altro mondo.
—Là si muore… e qui si nasce! esclamò il visconte, dimenticando per un istante la sua compostezza da sacerdote per assumere l'atteggiamento di Amleto.—Là si muore… e qui si nasce! Prima di assistere al moribondo, è giusto che si provveda al neonato!
E dopo breve silenzio, il visconte si prese il marmocchio tra le braccia, e raccomandato al giovinotto di attenderlo un istante, rientrò frettoloso nella casa parrocchiale.
Puoi tu immaginare, o lettore, da quale farraginoso tramestío di pensieri, di speranze, di dubbi, di desideri e di paure andasse sconvolto, durante quel breve tragitto dalla porta di strada al salottino della parrocchia, il cervello del nostro brillante avventuriere?
Non era egli partito da Borgoflores per correre sulle traccie della vezzosa contessa di Karolystria, che a mezzo del doganiere gli aveva indicato il suo itinerario, e dimostrato il più vivo desiderio di rivederlo? Non dovea la contessa di Karolystria prendere alloggio a quel medesimo albergo del Pappagallo, che a lui si apriva quasi prodigiosamente alle tre ore dopo mezzanotte pei reclami di un moribondo? E chi era quel moribondo? E la dama che gli prestava amorosamente le ultime cure, non dovea, secondo ogni probabilità, essere la contessa di Karolystria? E quali ragioni poteva avere la contessa per vegliare al capezzale di un morente, dopo le tante peripezie e i tanti travagli della giornata trascorsa?
Tali le ansie, i dubbî, i desiderî. A sopracarico di questi, nella mente vulcanizzata del visconte si introducevano scrupoli e paure agghiaccianti.—Non era imprudenza e sacrilegio uscire nella strada in abito da prete, ingannando la buona fede di un uomo presso a morire, e ponendosi nella situazione di dover volgere in parodia gli augustissimi riti del sacramento? E quale indignazione nei due buoni reverendi che gli erano stati tanto larghi di cortesie, se all'indomani venisse a svelarsi l'indegno abuso ch'egli aveva fatto delle loro sottane venerande? E poi….. quel bambinello sudicio e ghiacciaio… uscito dalla terra come un rannocchio… E poi… e poi..,
Che volete, lettori garbatissimi? Gli uomini sono fatti così… Se in questo complicatissimo guazzabuglio non ci fosse entrata una donna, una bella e seducentissima donna, qual era (ve lo giuro sull'onor mio) la contessa Anna Maria di Karolystria, il nostro eroe avrebbe dato la sveglia ai due sacerdoti per informarli dell'accaduto, e avrebbe seguito una linea di condotta più conforme alla squisitezza del suo temperamento ed alle sue abitudini di perfetto gentiluomo.
In quella vece…
Osservate! Il bambinello testè raccolto sulla via ora giace adagiato sul divano del salottino. La Società per la protezione dei. fanciulli non ci troverebbe a ridire. Il visconte, prima di andarsene, non ha obliato di avvolgere il neonato in un nitido tovagliolo, al quale ha sovrapposto un soppedaneo per riparare dal freddo le gracili membra. Il lume è spento—le imposte sono ben chiuse—il bambino ha cessato di strillare—egli ha poppato un bicchiere di malvasia, e dorme saporitamente colle gotuzze iniettate di porpora.
Non mostriamoci dunque troppo severi nel giudicare la condotta del visconte. È ben vero che, per far buona figura nella città, egli si è messo in capo un bel cappello a triangoli: ma è forse detto ch'egli intenda di appropriarselo? Appena sbrigate le sue faccende al di fuori, non ha egli in animo di venire a riprendere gli abiti della contessa e di riconsegnare ai due buoni reverendi ciò che ad essi appartiene?
Via! le intenzioni sono ottime. Per conto mio, do piena assoluzione al visconte.
Ed ora, chi mi sa dire di quanti battiti vada pulsando il nobile cuore del nostro eroe dacché egli ha potuto scorgere, al chiarore della pallida luna, la desiata insegna dello albergo del Pappagallo?
Si arrestò sulla porta, perplesso, smarrito.
Il garzone che lo accompagnava, dovette spingerlo innanzi.
Entrarono—salirono al secondo piano—si diressero verso la stanza segnata col numero 74.
Il garzone bussò leggermente, la porta si aperse, e una bellissima dama…. (via! non facciamo misteri!) la contessa Anna Maria di Karolystria si presentò sulla soglia.
Era pallida, aveva i capelli in disordine, tremava… Pure, un occhio perspicace (il tuo, per esempio, o lettore) osservando con attenzione quelle sembianze, non vi avrebbe scorta veruna impronta di dolore.
—Troppo tardi, reverendo! esclamò la contessa avanzandosi di un passo verso il falso prete.—Il notaio fu più sollecito del ministro di Dio… Così, se lo zingaro Nabakak non ha potuto, prima di esalare l'ultimo sospiro, accomodare le sue partite coll'Essere supremo, egli ebbe però il conforto di veder raccolta e legalizzata la sua ultima volontà relativamente agli affari terreni. La vostra presenza, o sacerdote, sebbene tardiva, non riesce però inopportuna. Sarà bene che voi assistiate alla lettura del testamento che ora verrà fatta nella sala terrena dello albergo, acciò questo atto di volontà suprema, esercitato dal povero defunto in circostanze straordinarie e gravissime, acquisti maggiore autorità, e possa, all'occasione, venire appoggiato da testimonianze sotto ogni aspetto rispettabili. Signor abate, compiacetevi dunque di seguirmi!
Proferite queste parole, la contessa, dalla porta socchiusa, accennò al notaio di seguirla, e tutti discesero nella sala terrena, dove il padrone dell'albergo li attendeva.
—Signori: disse il notaio colla falsa intonazione di una mestizia rettorica; il forastiero alloggiato al numero 74 ha cessato di vivere poco dianzi nelle braccia dell'illustrissima signora contessa Anna Maria di Karolystria qui presente, dopo aver segnato di sua mano un codicillo contenente le sue ultime disposizioni. Vi prego, signore e signori, di prendere atto di questo documento. «Io, sottoscritto, nomino ed istituisco erede di ogni mio avere la signora contessa Anna Maria di Karolystria, la quale pietosamente mi ha assistito negli ultimi istanti della vita, e intendo che immediatamente dopo la mia morte, la suddetta vada al possesso dell'intero mio patrimonio, il quale, essendo in massima parte costituito di enti animati, verrebbe a subire un irremediabile deperimento qualora dovesse anche per poche ore rimanere negletto. Intendo però e voglio che del fenomenale individuo nominato Boo-bom-bomm, da me per molti anni condotto in giro ed esposto sulle piazze di Europa, dove per la sua straordinaria grassezza fu oggetto della universale ammirazione, la signora contessa di Karolystria non abbia a godere che l'usufrutto; e questo fino al giorno in cui alla suddetta venga dato, come io verbalmente le ho indetto, di riconsegnare a chi di diritto quei duecentoventitrè chilogrammi di carne viva, da me illecitamente posseduti e fatti oggetto di lucro. Dopo questo, raccomando la mia anima a Dio e impongo alla mia erede di far celebrare cento messe ad espiazione de' miei peccati.
» Segnato: NABAKAK.»
Durante la lettura di quel documento, la contessa non avea mai distolti gli occhi dal visconte. I tratti di quel volto aristocraticamente profilato, che tanto distonavano colle rozze e mal foggiate sottane del prete, richiamavano al di lei pensiero delle confuse reminiscenze. Ella si chiedeva, non senza un leggero turbamento, dove mai e in quale epoca della vita le fosse accaduto di vedere quell'uomo.
Il visconte, leggendo nel cuore della contessa, la guardava maliziosamente sorridendo, ciò che irritava davvantaggio la di lei curiosità di donna galante e capricciosa.
Nessuno degli astanti, il grosso albergatore compreso, si avvisò di constatare se il testamento, dichiarato olografo dal notaio, fosse redatto nei termini e modi dalla legge prescritti. La eredità di un povero saltimbanco non fa gola a nessuno; e poi… (questa osservazione prima di me l'avranno fatta i lettori), essendo il massimo capitale del legato costituito da un ammasso di carne vivente, da un individuo che pesava duecentoventi chili e altrettanti chili di commestibili poteva divorarsi in una settimana, l'affare, sotto le apparenze più grasse, era da ritenersi magrissimo.
La contessa, dopo aver congedato il notaio promettendogli di recarsi quel giorno istesso al suo studio per adempiere alle ultime formalità dell'atto, pregò l'oste e i camerieri che eran stati presenti alla lettura, di volerla per un istante lasciare sola col prete. La sala in un attimo fu sgombra—il visconte e la contessa si trovarono di fronte.
—Voi comprenderete, diss'ella guardando fissamente lo strano sacerdote che le stava dinanzi col viso compunto e in atteggiamento sommesso—voi comprenderete, reverendo signore, quali ragioni mi obblighino a trattenervi meco un istante, mentre oggi avete tanto da fare in chiesa. In questa casa c'è un morto; nella mia qualità di ereditiera io debbo provvedere alle esequie, e voglio che queste sieno celebrate splendidamente. Circostanze dolorose, stranissime, quasi inverosimili, hanno condotta la contessa Anna Maria di Karolystria, che vi sta innanzi, nella situazione di dover fare assegnamento sul credito del suo nome e della sua alta posizione sociale per ottenere l'esonero dalle anticipazioni richieste dalla Chiesa e dal Municipio per le funebri pompe. Vi parlo schiettamente, signor abate…. Al momento io mi trovo affatto sprovveduta di denaro, nè saprei, in questa umile borgata, dove trovarne. Prima di indirizzare le mie suppliche al Municipio, io mi rivolgo a voi, a voi, ministro di Dio, e membro del capitolo… Fra dieci, fra otto giorni io sarò in grado di rimborsarvi—al momento, ve lo ripeto, sono povera come Eva appena uscita dalle coste di Adamo.
Un uomo di poca levatura, meno atto ad assaporare gli squisiti diletti di una bella situazione drammatica e di un equivoco piccante, al posto del visconte si sarebbe sfasciato in una grassa risata; ovvero, dandosi prontamente a conoscere, avrebbe precipitato lo scioglimento del duetto con una di quelle cabalette che mettono la febbre ai vagneristi.
Da quell'uomo di gusto che egli era, il falso abate rilevò il capo, e posando dinanzi alla contessa in atteggiamento da Levita crucciato:—Signora, le disse, se ciò che voi asserite è la verità, come potrete voi render conto al tribunale del supremo Giudice, alla banca dell'Eterno cassiere, delle trecento cedole da lire venti che ieri sera all'albergo della Maga-rossa erano ancora nel vostro portafoglio, o meglio, nel portafoglio del visconte Daguilar, vostro salvatore ed amico?…
—In nome di Dio! chi siete voi? gridò la contessa arretrando.
—Chi son io! rispose il visconte, passando dal solenne al patetico con una modulazione degna di Salvini—l'ingrata, non mi riconosce! Io sono uno, che per due ore ho respirato, ho palpitato, ho sofferto i più atroci brividi dentro le vostre gonnelle….
—Stelle del firmamento!
—E voi, signora? non avete voi pure la scorsa notte galoppato sul mio Morello e sudato per un'ora nella mia giacca elegante di stoffa di Bristol?…
—Voi siete… dunque!!!…
—Sì, contessa, proruppe l'altro gettandosele ai piedi e abbracciandole le ginocchia con trasporto—io sono il visconte Daguilar… io son quel desso che nella foresta di Bathelmatt, agli incerti crepuscoli della sera, ho potuto ammirare di sbieco i contorni di una Diana nuotante nelle foglie…
—Tacete! alzatevi, uomo incomparabile!… Dio!… Ciò che mi accade è così strano… così fuori dell'ordine naturale… Se sapeste quanto desideravo di rivedervi!… Ma… ditemi… come avviene che io vi trovo qui? Perchè indossate quell'abbigliamento che sì male vi si attaglia? In verità, la sarebbe da ridere, se di ridere fosse capace una donna, agitata, qual io mi sono, da avvenimenti e da preoccupazioni sì gravi, da soperchiare ogni frivolo istinto.
Il visconte, ripresa la spigliatezza della indole sua cavalieresca e brillante, narrò succintamente alla contessa quanto gli era accaduto dacchè si erano separati. Immagini il lettore se quel racconto venne ascoltato con meraviglia e commozione!
—Visconte! esclamò la contessa stendendo al giovane la sua bella mano diafana e sottile—la vostra avventura è davvero singolarissima; pure, se io avessi a narrarvi le strane sorprese a me toccate dacché giunsi in questo albergo, voi rimarreste, pel restante dei giorni che il buon Dio ha segnati alla vostra esistenza, colle ciglia inarcate, Ma questo non è luogo dove si possano senza pericolo rivelare certi segreti… Qualche briccone potrebbe spiarci…. Ascoltate! le campane suonano l' Angelus … a momenti la chiesa sarà aperta ai fedeli… Là potremo rivederci e stabilire i nostri patti d'alleanza offensiva e difensiva… Andate! precedetemi!… fra dieci minuti prometto raggiungervi…
—Ma, vi pare, contessa! con questo abito da prete!…
—È l'abito che conviene all'ambiente.
—E le vostre superbe vesti rimaste nella casa del parroco?…
—A me non preme di riaverle, e il buon prete si terrà soddisfatto del cambio.
—Ma il vostro portafoglio… il vostro orologio…
—Miserie che appartengono al passato. Fra il mio passato ed il mio —avvenire da questo momento si apre un abisso.
—Contessa di Karolystria, vado ad attendere i vostri ordini.
E il visconte, fatto un inchino sbilenco da prete digiuno, usciva dignitosamente dall'albergo per avviarsi alla chiesa, mentre la contessa in preda ad una esaltazione indescrivibile, soffermandosi al banco dell'oste ordinava una colazione di ventiquattro bistecche guarnite di dieci chili di patate fritte.
Quella colazione era destinata a Boo-boom-bom, l'uomo più grasso del mondo, sul quale, in seguito al legato dello zingaro Nabakak, la contessa cominciava ad esercitare i suoi diritti di usufrutto.
CAPITOLO VI.
I rosei crepuscoli del mattino annunziavano una splendida giornata.
Nessuno de' miei lettori avrà il cattivo gusto di esigere che io descriva la chiesa di Mirlovia. Chi desidera vederla si rechi sul luogo; il viaggio non è lungo, e la spesa in proporzione. D'altra parte, i fatti che io vo narrando sono abbastanza interessanti e straordinarî perchè io sia dispensato dallo adornarli di frangie rettoriche.
La contessa non indugiò molto a recarsi sul luogo del convegno, dove il visconte lo aveva preceduta.
La chiesa era quasi deserta, debolmente rischiarata dalla luce funerea che traspariva dai finestroni colorati.
—Innanzi tutto, cominciò la contessa, io debbo chiedervi mille scuse… La sorpresa del rivedervi così inaspettatamente, e sotto quelle vesti, mi ha impedito poco dianzi di esprimervi con parole adeguate la mia riconoscenza. Voi mi salvaste la vita; avete fatto di più, mi avete sottratta al peggiore dei supplizi, quello di ricadere negli artigli di un marito che abbomino. Il caso mi porge i mezzi di offrirvi un compenso…. Sareste voi tanto gentile da accettare la tenue somma di cinque milioni di ducati che io metto a vostra disposizione?
—-Avete… detto…?
—Cinque milioni di ducati, nè più, nè meno.
—La somma è rotonda, ed io l'accetto.
—Sta bene. Ma v'è una condizione…
—Indovino. I cinque milioni di ducati, se è vero ciò che mi dicevate ora è poco delle vostre momentanee strettezze, non esistono che nella vostra fantasia,
—No, vi ingannate. I milioni esistono, i milioni son là, accatastati in uno scrigno, del quale io tengo la chiave. Ora, questa chiave, o visconte, io l'offro a voi… Ve la offro a patto di un ultimo favore, di un ultimo sacrifizio.
—Contessa! la mia vita… il mio sangue….
—No, non si esige tanto, mio bel cavaliere—Ciò che io vi domando è di darmi una mano a salire il primo gradino di un trono.
—(È pazza!) Se ho ben compreso, o signora, il modesto titolo di contessa vi è venuto a noia, e voi aspirate a mutarlo in quello di regina.
—Per lo appunto; ammiro il vostro acume. Ma voi comprenderete parimenti che, per diventare regina, è necessario ch'io sposi un re…
—Lo troveremo…. Converrà affrettarsi a cercarlo, prima che i nichilisti se li mangino tutti.
—Il re è trovato.
—Dunque… che si aspetta?
—Posso io sposare un re, se prima non rimango vedova?
—Avete ragione, non ci avevo pensato.
—Come vedete… è necessario che l' altro muoia…
—Ciò potrebbe accadere… Quasi tutti siamo mortali…
—Ciò deve… accadere, mi capite? E questo è appunto il favore….
Su questa reticenza, la contessa proiettò dai suoi occhioni neri e fosforescenti una scarica di elettricità che trapassò il visconte dal petto alla schiena.
—Ciò che voi mi chiedete, o signora, disse egli con una vibrazione di accento che esprimeva l'indignazione e l'orrore del delitto; ciò che voi mi chiedete, o signora, sarebbe dunque un… assassinio?
La contessa impallidì, e sommessamente, nel timore di avergli recata offesa:
—Signore, disse al visconte, ciò che io intenderei di proporvi non sarebbe un delitto… a meno che voi non giudichiate delitto una provocazione seguita da uno scontro ad armi uguali, in presenza di testimoni, con tutte le regole della più perfetta cavalleria.
—Il duello non rappresenta in molti casi che un surrogato dell'assassinio, rispose il visconte con una intonazione di mestizia che rivelava il pensatore umanitario sotto la scorza del gentiluomo. Pure, o contessa, trattandosi di favorire i vostri alti disegni, io non esiterei ad assumermi il mandato di trapassare con una buona lama di fioretto l'addome dell'importuno compagno de' vostri giorni, se una tale cerimonia non mi apparisse superflua. Per diventare regina, per sposarvi ad un re, non vi occorrono, o signora, dei fatti di sangue. Narrandovi la scena accaduta a Borgoflores fra me ed il conte, vi ho detto che questi è rimasto nelle grinfe degli aguzzini del manicomio… Al momento in cui stiamo parlando, egli è forse là…. ad ululare disperatamente nelle strettoie di una camicia di forza… Ora, voi sapete, o contessa, che il nostro codice accorda piena facoltà di divorzio nel caso in cui uno dei coniugi sia affetto da pazzia incurabile. Il manicomio e la camicia di forza, non dubitatene, contessa, in meno di due giorni condurranno vostro marito al delirio furioso. Il sistema di cura è infallibile, nè farà eccezione in questo caso. Io riparto oggi stesso per Borgoflores, fo constatare dai medici la pazzia del conte, vi riporto il documento; voi presentate subito la vostra domanda di divorzio e fra dieci o quindici giorni…
—Libera! libera! libera! esclama la contessa, battendo le palme. E obliando di trovarsi in una chiesa, in presenza di un uomo che aveva tutte le apparenze di un sacerdote, spiccava dei salti da capriola in amore.
Ahimè! come brevi e fallaci sono le gioie umane! (Frase vecchia, ma sempre opportuna, sempre efficace nelle transazioni del sentimento). Ed ora—come preparare il lettore alla nuova sorpresa?
La contessa, che stava quasi, nell'impeto della riconoscenza e della gioia, per slanciarsi al collo del visconte, arretrò improvvisamente mettendo un grido di terrore.
—Guardate là… là!
Il visconte corse coll'occhio ad una delle porte laterali della chiesa e vide… non vide soltanto… ma riconobbe il conte Bradamano di Karolystria, grande elettore dell'impero e arcidiacono della Massoneria della Cervia, che a passo lento si dirigeva alla sua volta.
—Come salvar la contessa? pensò il giovane rabbrividendo.
Ma la contessa era già in salvo. Prima che egli si volgesse a cercarla collo sguardo, ella si era involata per una porticiuola bassa, che metteva al campanile. Imaginate con quanta lestezza si slanciò sulla scaletta e raggiunse la cima della torre quella donna energica e leggera, creata per salire!
Come avviene, chiederà qualcuno, che il conte Bradamano apparisca ora nella chiesa di Mirlovia, mentre la sera innanzi, a Borgoflores, il commissario superiore di polizia aveva dato ordine di tradurlo al manicomio?
Nulla di più naturale. Si è forse detto che gli ordini venissero eseguiti? Non è più verosimile che il conte, vedendosi al mal partito, abbia dato tali prove di assennatezza e di calma, da indurre il commissario a lasciarlo andar libero, fors'anche a chiedergli scusa dei rigori inconsulti?
Quanto al fatto della venuta a Mirlovia, basti sapere che il conte, appena uscito a Borgoflores dalla caserma dei poliziotti, si era abboccato con quel medesimo doganiere che aveva poco prima recati al visconte i messaggi della contessa. Quel mascalzone, poco soddisfatto delle laute rimunerazioni a lui promesse, per un bicchiere di rataffià aveva tradito il segreto, rivelando l'itinerario e il punto di convegno stabilito fra i due fuggiaschi.
Dopo queste spiegazioni franche e leali, io vi prego quanto so e posso, miei buoni lettori, di non volermi più oltre interrompere. Quella ch'io vo narrando non è storia verista, è semplicemente storia vera: e il vero sfida ogni obiezione, si impone ad ogni criterio.
Dunque… come si è detto…
Ci siamo… Il conte Bradamano si avanzava a passo misurato, guardando a destra ed a manca, esplorando gli intercolonî e le nicchie.
I suoi occhi bigi nuotavano entro due solchi azzurrognoli. Il suo volto pallido, quasi terreo, da marito vilipeso, non rivelava turbamenti profondi, non esprimeva sinistri disegni.
Appressandosi al falso prete, fece un inchino da borghese credente, e a voce bassa, con accento mansueto gli disse:
—Se non vi recasse troppo disturbo, io vi pregherei, monsignore, di voler ascoltare la mia confessione.
Il visconte, per darsi tempo di riflettere, non proferse parola.
—Avete inteso, monsignore? replicò l'altro con una intonazione di voce più vibrata—vorrei mettermi in grazia di Dio, e imploro a tal uopo l'assistenza di un ministro del culto.
Il visconte, che aveva riflettuto, senza venir a capo di indovinare dove si fosse nascosta la contessa, assentì con un cenno del capo, e veduto a poca distanza un confessionale, a quello si diresse, invitando l'altro a seguirlo.
Destino! Destino! Chi oserà più mai in presenza degli avvenimenti che qui si narrano, chi oserà, ripeto, negare la tua potenza, tanto più terribile, quanto più occulta? Io so che di questa apostrofe al fato (da taluni chiamato anche dito di Dio) non va esente verun romanzo dell'epoca antica e moderna; ma, qual sarebbe, senza il fato o il dito, la logica dei romanzi?
Non sa di miracolo ciò che noi vediamo? Quei che la sera innanzi se ne stava prostrato in atteggiamento di vittima, ora siede da giudice sulla cattedra del tribunale di Dio, mirando a' suoi piedi genuflesso colui che poche ore prima avea minacciato di schiantarlo. Imponiamo alla nostra meraviglia, e porgiamo orecchio alla confessione del conte.
—Dall'ultima volta ch'io mi accostai al tribunale di penitenza, cominciò il penitente con voce contrita, io non credo aver commesso verun di quei peccati che la chiesa dichiara mortali ma, in seguito ad alcune recenti peripezie, io mi sento oggi trascinato, ed ho anzi deliberato di compiere un enorme delitto.
—Vuol uccidere la moglie, pensò il visconte; è bene ch'io ne sia prevenuto.
—Uno di quei delitti, proseguì l'altro, che tanto più sgomentano le timide coscienze, in quanto non vi abbia speranza, una volta che sieno consumati, di ottenere l'assoluzione di Dio. In una parola, io avrei deliberato di togliermi la vita.
—Meno male! esclamò il visconte—ciò calzerebbe a meraviglia….
—Ho io ben inteso?… Padre: voi…. dicevate?…
—Ho detto: meno male; poiché vi è grande differenza di colpabilità fra chi toglie la vita ad altri e quegli che con rara abnegazione preferisce di sacrificare la propria.
—Voi mi consolate, buon padre. Ma…. dite un po'… Non avreste voi autorità, in certi casi, nel mio caso per esempio, di assolvere in anticipazione colui che schiettamente si confessa del suo colpevole disegno, col ferino proposito di non più mai rinnovarlo dopo il primo attentato?
—Voi mi proponete, disse il visconte con gravità caricata, una questione che ha fatto perdere il cervello ai più insigni casisti. Converrà, perché io mi metta in grado di giudicare rettamente, che voi mi informiate del cur, quomodo, quando, quibus auxiliis, eccetera, eccetera. Cominciamo, se vi piace, dal cur, ovverosia dalle cause impellenti.
—Ohimè! sclamò il conte, traendo un sospiro dagli stivali, voi dovete sapere ch'io m'ebbi la mala ventura di unirmi in matrimonio ad una di quelle figlie di Satana che l'inferno vomita sulla terra per la disperazione dei mariti…. Non vi dirò quale sia stata la mia esistenza nei due anni che ho vissuti con lei… Ho vegliato sotto un'incudine, ho dormito sovra una graticola rovente.
—L'espiazione ha preceduto la colpa, interruppe il confessore, come se parlasse a sè stesso.
—Ieri… non più tardi di ieri… la sciagurata si avvisa di mettere il colmo alle sue scelleraggini, abbandonando furtivamente il castello coniugale. Un domestico l'aveva spiata…. io fui avvertito…. Su una trentina di fili elettrici corse il mandato di arrestarla, ed io stesso, subodorando le sue orme, mi diedi ad inseguirla…
—Imbecillità manifesta! mormorò il confessore.
—Voi osate trattarmi da imbecille! esclamò il conte con qualche risentimento.
—Io noto e aduno le attenuanti; e voi, figliuol caro, fate di sovvenirvi che l'umile mortale a cui state dinanzi, rappresenta in questo momento il vostro giudice supremo.
Il conte, giungendo le mani, balbettò qualche parola di scusa, e proseguì di tal guisa:
«Sì, ne convengo, fu un atto di imbecillità…. Inseguendo quella donna, io correva dietro alla sciagura, al disonore, al ridicolo… Non vi parlerò dell'infame tranello che mi attendeva a Borgoflores dove l'indegna si era rifugiata…. Vi basti sapere che, arrivato colà, io fui insultato, preso a schiaffi, trattato da demente. Eppure quando seppi che colei era partita dalla città coll'intendimento di pernottare a Mirlovia, io mi gettai ancora come un forsennato sul suo cammino…. Avevo giurato di raggiungerla, di sorprenderla nel sonno e trucidarla colle mie mani. Arrivai a Mirlovia al sorgere dell'alba. E già, coll'atroce proposito in cuore, io dirigeva i miei passi all'albergo del Pappagallo dove sapevo che la turpe donna era alloggiata, quando lo squillo delle campane, quello squillo melanconico e solenne che ha sempre esercitato un gran fascino sul mio spirito, mi arrestò sul cammino…. Al furore subentrò nel mio animo una cupa melanconia. Perchè avrei ucciso quella donna? Con qual frutto? Al ridicolo che già mi copriva, all'ignominia, al dissesto, avrei aggiunto il supplizio dei rimorsi.
»Ecco, buon padre, per qual rapida transazione di sentimenti e di idee, volendo sciogliermi ad ogni costo da questa camicia di Nesso in cui mi trovo da due anni avviluppato, deliberai di troncar il filo dei miei giorni.
—Avete ben riflettuto? chiese il visconte con voce severa. Non nego che la vostra posizione sociale sia pregiudicata… Ma, infine… credete voi che non vi abbia altra via per uscirne, fuori quella disperatissima e peccaminosa del suicidio?
—Nessun'altra, rispose il conte.
—Siete dunque risoluto?…
—Lo sono.
—E se io vi pregassi in nome di Dio?…
—Sarebbe vano. Io vado soggetto, fin dalla mia più tenera infanzia, a fierissimi attacchi di forza irresistibile, e in questo momento mi sento preso più che mai. Credete voi che al tribunale celeste si tenga conto dei casi di forza irresistibile?
—Ne sono convinto.
—Negherete dunque ancora di assolvermi in anticipazione?
—Questo non è permesso dai canoni. Ma, poichè non è dato alla mia eloquenza di arrestarvi sull'orlo dell'abisso, ed io voglio d'altra parte provvedere per quanto da me si possa alla vostra salute eterna, ascoltate bene quanto sono per dirvi. Vi ha un solo modo di suicidio, che, praticato colle debite cautele, può offrire all'anima del delinquente qualche probabilità di salvezza; è il suicidio che si compie precipitando da una altura. In tali casi, la consumazione del peccato ha luogo immediatamente all'atto di spiccare il salto. Se, durante l'intervallo che separa l'atto dall'effetto, vale a dire nel brevissimo tempo che impiega a rotolare nello spazio, il disgraziato suicida si avvisa di recitare un semplice atto di pentimento, non vi è più dubbio che allo sfracellarsi delle membra, l'anima del misero contrito non si elevi perdonata e redenta alle sfere celesti.
—Oh! grazie! grazie, sacerdote!… esclamò il conte in un impeto di gioia—Ora non temo più nulla… Fra dieci minuti tutto sarà finito…. Io vado a precipitarmi dal campanile…
Il conte si era alzato.
—Fermate! è una follia! gridò, alzandosi a sua volta il visconte, nel cui animo era subentrata alla spensieratezza dell'avventuriero la pietà generosa dell'uomo di cuore; io non posso…. io non debbo permettere…
Ma l'altro sì era già discostato dal confessionale, avea trovata la porta del campanile, ed era sparito.
—Non vi è che un mezzo per salvarlo, esclamò il visconte balzando dal confessionale e correndogli dietro; egli è tanto sensibile al suono delle campane…. Dio voglia che queste gli tocchino il cuore!
Ed ora, lettori, ponete ben mente alla situazione dei singoli personaggi.
La contessa di Karolystria, per dar tempo al suo cavalleresco alleato di sbarazzarla dal marito, si trattiene sulla cima della torre, fumando deliziosamente un manilla e conversando colle rondini.
Al pian terreno, un visconte in abito da prete attende che uno scaccino curioso si allontani, per dare una strappata alla corda delle campane….
Frattanto, ansante, sbuffante, il conte Bradamano ha raggiunto la sommità del campanile…
Un urlo baritonale di gioia e uno strillo acutissimo di terrore mandano in fuga le rondini…
—Tuoni e lampi!… tu qui, scellerata!… Era dunque la voce di Dio quella che mi chiamava quassù! Recita la tua ultima preghiera, o donna indegna! Fra un minuto secondo—e tratto di tasca l'orologio lo posava sulla balaustrata—noi giaceremo informi cadaveri al piede di questa torre. Ero venuto per precipitarmi da solo—ti ho trovata—giustizia vuole che tu mi segua…
—Pietà! pietà!
La contessa si era lasciata cadere sul mattonato, afferrando colle mani una colonnetta,
—Io avrò ben forza di strapparti di là! ruggì il conte, precipitandosi sulla sua vittima come un orso inferocito…
Ma al momento in cui il vindice marito, descrivendo colla persona una curva grottesca, si abbassava per afferrare la preda, le ruote delle campane cigolarono, il campanone maggiore si sollevò poderosamente con impeto inusitato; e il conte Bradamano di Karolystria, elettore dell'impero, ecc., ecc., ricevette sulla estremità della schiena un tale spintone, da mandarlo capovolto a rompersi il naso contro il parapetto.
—Maledizione! Maledizione!
La contessa si trascinò carpone fino allo sbocco della scaletta e scivolò lestamente dai gradini col suo piedino elegante e nervoso da pattinatrice.
Negli squilli reboanti dei bronzi si perdevano gli ululati del consorte ferito.
Se il lettore ha provato, nell'assistere a questa tragica scena, una millesima parte del raccapriccio che ci investì nel descriverla, non dubitiamo ch'egli dovrà ora gustare un immenso sollievo rientrando con noi nell'ambiente sereno della casa parrocchiale, dove vedremo svolgersi degli avvenimenti meno tetri, ma per avventura più meravigliosi.
CAPITOLO VII.
Quella notte, don Fulgenzio aveva avuto il sonno leggero. Gli era parso di udire nella casa degli insoliti rumori. E poi…. (perchè dovremmo tacerlo?) una larva seducentissima di donna in sottana da abate non si era mai dipartita dal suo letto.
Per cacciare le tentazioni, si alzò prima di giorno, e attraversando l'anticamera, gettò l'occhio sulle vesti abbandonate la sera innanzi dalla signora ricoverata nel salottino.
—Povera signora! sospirò il dabben prete, converrebbe che qualcuno provvedesse a far asciugare questi panni prima ch'ella si desti! Questo qualcuno… non potrei esser io?…
Detto fatto, don Fulgenzio adunò un bel cumulo di legna sul caminetto, accese un gran fuoco; e schierate a conveniente distanza dalla fiamma una mezza dozzina di seggiole, distese su quelle i drappi umidi e rattrappiti.
Un vapor bianco e molle si diffondeva nella stanza; le nari tumefatte del giovane sacerdote respiravano, colle esalazioni dell'idrogeno, due distinte fragranze di contessa e di visconte. Era pel casto don Fulgenzio la prima estasi peccaminosa che gli fosse accaduto di gustare in sua vita.
Un rumore di passi venne a riscuoterlo. Qualcuno saliva la scala frettolosamente.
Fosse la bella forestiera?…
No, Era il sagrestano della parrocchia, che affannato, coi cappelli irti, cogli occhi fuor dalle orbite, veniva ad irrompere nell'anticamera.
—Che disgrazia! che orrore! chi avrebbe immaginato!…
—Calmatevi, Batacchio… Cos'è accaduto? domandò il coadiutore impallidendo.
—Cos'è accaduto!… Lei mi domanda cos'è accaduto? Ma dov'è il signor parroco? Presto! Corra a svegliarlo… Bisogna informarlo subito… Bisogna trovare un espediente…. Ah! Ella è qui, don Calendario!…
—Che rumore è codesto? disse il parroco avanzandosi mezzo svestito. Cosa vuole a quest'ora il nostro Batacchio?
—Cosa voglio! Cosa voglio! riprende il sacrista giungendo le mani in atteggiamento disperato, vorrei che il Governo piantasse mille forche…
—Ai fatti! ai fatti! interruppe il parroco, che cominciava a presentire qualche cosa di molto serio.
—Ebbene… i fatti eccoli qua, signor curato, e che il diavolo mi strozzi la moglie se io ci ho avuto un briciolo di colpa. Questa notte sono entrati dei ladri nella chiesa, ed han spogliato la santa imagine della nostra venerata patrona, strappandole di dosso le gonnelle, il gran manto a stelle d'oro…. infine, tutto quanto.
—Spogliata… santa Dorotea! esclamano con espressione di orrore i due preti, fulminati da tale notizia.
E il sagrestano, singhiozzando:
—Sì, tutto le han rubato gli scellerati… Della nostra santa benedetta non rimangono che le braccia, la testa e un imbottito di stoppa sorretto da due pali.
—Nel giorno del centenario!
—Nel giorno della processione!
I due preti parevano impietriti.
Don Fulgenzio guardava don Calendario; don Calendario guardava don Fulgenzio, e il sacrista, favorito dallo strabismo, guardava l'uno e l'altro ad un tempo. Dopo un istante di silenzio, girando gli occhi verso il caminetto, il parroco fu colpito da una idea.
—Se quelle vesti si attagliassero al fusto della santa! se alla signora arrivata questa notte non increscesse…
—Ma questa è una ispirazione del cielo! esclama don Fulgenzio.
Il sagrestano, accostatosi al caminetto, si diede a svolgere le stoffe ammirando ed approvando.
L'abito era stupendo, la gran ciarpa trapunta in oro poteva fornire uno splendido manto; il cappello piumato, a dire del sagrestano, si conveniva mirabilmente ad una santa che doveva sfidare il sole nella processione.
Con quattro colpi di spazzola e una ripassata di funi in meno di dieci minuti si aveva un'acconciatura da far invidia allo regine di tarocco.
—Quel che s'ha a fare, si faccia presto! disse il parroco; tu, Batacchio, va a svegliare tua moglie; ella stira perfettamente ed è donna da serbare un segreto. Don Fulgenzio, che quando vuole sa mettere il miele tra i punti e le virgole, scenderà nel salottino a interceder grazia dalla signora… Poi, si andrà in sagrestia a rivestire la santa, e all'ora della messa pontificale ogni cosa sarà in ordine. Vi pare che io dica bene?
Don Fulgenzio in quattro salti fu al fondo della scala.
Una commozione non mai provata agitava i suoi nervi. Svegliare una donna! Per un prete, confessiamolo, la missione era delicata e non scevra di pericoli.
Bussò leggermente all'uscio del salottino.
Nessuna risposta.
Bussò una seconda volta: silenzio.
Don Fulgenzio sentiva i brividi dell'ignoto.
Alla fine, dischiudendo la porta leggermente, come un ignoto ladro od un amante furtivo, spinse innanzi la testa,
Il salottino era buio…
Atterrito dalle tenebre e dal silenzio, don Fulgenzio si avanzò sulla punta dei piedi e aperse le imposte.
—Bontà divina! esclamò il prete dando un balzo che lo inchiodò alla parete.
Al prorompere della luce era insorto da un angolo della stanza un vagito stridulo e mordente, e gli occhi di don Fulgenzio, vitrei, spalancati, grossi di linfe epatica, si affissavano con terrore sovra un bambinello color scarlatto, che scalpitava come un piccolo ossesso tra le ripiegature di un tovagliolo.
L'inaspettato istupidisce; il misterioso terrifica.
Don Fulgenzio voleva gridare, voleva fuggire; ma la voce non gli usciva dalla strozza, le gambe non lo reggevano.
Egli era preso da una vertigine di stupore e di sgomento.
Il parroco ed il sacrista, dopo aver atteso un quarto d'ora l'esito dell'ambasciata, discesero a loro volta nel salottino. La loro sorpresa al vedere un neonato laddove immaginavano di trovare una signora, fu pari a quella che aveva colpito don Fulgenzio.
Rimasero a bocca aperta, impietriti. L'espressione di quei tre volti da prete e da sagrestano era identica come identiche le apprensioni e le congetture. Il sole (perfino il sole, è tutto dire!) affacciandosi alla finestra sonnolento e stralunato, faceva degli sberleffi non più veduti.
Alla fine, il parroco, che dei quattro personaggi colà adunati era il solo che avesse ancora la testa a segno, prese gravemente la parola:
—Degli avvenimenti inesplicabili si succedono d'ora in ora, di minuto in minuto, sotto i nostri occhi; avvenimenti quasi miracolosi, nei quali io sarei lieto di riconoscere il provvidenziale intervento della mano celeste, se non avessi la ferma convinzione che l'influenza tenebrosa di Satana vi abbia parte. Batacchio: prendetevi fra le braccia quel marmocchio e vedete se vi riesce di calmarlo… Le sue strida mi spezzano il filo delle idee…
—Ciò che più urge, secondo il mio debole avviso, sarebbe di provvedere al collocamento di questo effetto mobile, esportandolo dalla nostra casa colla maggior sollecitudine. I tempi sono tristi, la stampa imperversa sul clero, e questo effetto potrebbe divenir causa di scandalo. A momenti deve giungere il vescovo…. Che direbbe monsignore, se al metter piede in queste soglie, avesse a sorprendere questo frutto di provenienza sospetta che può dar luogo ai più sfavorevoli commenti?
—Un cuore mondo e una coscienza illibata non temono il giudizio degli uomini, nè il giudizio di Dio!
Questa sentenza, proferita con accento solenne, era partita dalla soglia del salottino.
Tutti gli occhi si volsero da quel lato.
Un nuovo personaggio dall'aspetto maestoso, avvolto in una zimarra nera filettata di seta rossiccia, con una croce d'oro pendente sul petto, infine… (affrettiamoci a presentarlo) monsignor De-Guttinga, vescovo di Rosinburgo, era apparso sulla soglia.
Questa nuova sorpresa, dopo le tante che si eran succedute in quella casa da mezzanotte al mattino, non produsse negli astanti lo stupore che il degno prelato si attendeva. Le grandi commozioni si elidono.
—Per snodare le gambe, riprese il vescovo colla sua voce rotonda e pastosa da prelato soddisfatto, son sceso dalla carrozza all'ingresso del paese ed ho proseguito a piedi fino al vostro tetto. Nella mia lunga carriera ecclesiastica mi son preso parecchie volte questa licenza tollerata dai canoni, onde evitare le dimostrazioni chiassose e le cerimonie stucchevoli; ma giammai mi è accaduto di sorprendere un parroco, un coadiutore ed un sagrestano, che in una giornata di grande solennità, al momento in cui la chiesa reclama più urgentemente i loro uffici, stessero raccolti in un salotto a deliberare sui mezzi di sottrarre un neonato alla vista del loro vescovo. Don Calendario!!! attendo una spiegazione!!!
L'onesto parroco, di tal guisa interpellato, senza ostentazione, colla franchezza dell'uomo incolpevole, espose in brevi parole i fatti che noi sappiamo.
—La notte scorsa, mentre imperversava l'uragano, una signora venne a chieder ricetto…
—L'esordio è romanzesco, e mi interessa vivamente.
—Noi l'abbiamo ricoverata, le abbiamo prestato i nostri abiti, le abbiam permesso di passare la notte in questo salottino.
—Fin qui non trovo argomento di censura.
—Questa mattina don Fulgenzio discende per dar la sveglia alla signora, e in luogo della signora, trova su quel divano il bambinello che qui vedete…. Il fatto ci parve così strano, così fuori dell'ordine naturale…
—Il fatto sarebbe più strano, interruppe il vescovo che amava la barzelletta, se la persona che vi ha lasciato in deposito quell'oggetto fragile fosse stato un maschio piuttosto che una femmina… Don Calendario: so che siete un onest'uomo, un sacerdote esemplare, ed io presto piena fede alle vostre leali spiegazioni. Ciò che vi ha di poco naturale nella graziosa istoriella che avete narrata è che voi, ammettendo nella casa una persona sconosciuta, non l'abbiate richiesta del nome.
—È vero! non ci abbiamo pensato, disse il parroco, e frattanto, ella se n'è andata coi nostri abiti indosso…
—Coi vostri abiti indosso!… Ma… dunque… le sue vestì?…
—Son là sopra, nell'anticamera; e vi giuro, monsignore, che mai non mi è accaduto di vedere un più splendido abbigliamento di donna.
—Ma non avete qualche indizio? non avete tentato di scoprire?… Su quelle gonne non vi era una cifra?…
—Ah! sclamò don Fulgenzio battendosi la fronte; vedete lo smemorato! Ma… sicuro! Nelle taschetto della sottana c'era un portafogli… Io l'ho levato prima di mettere i drappi ad asciugare, e l'ho posto sul traversino del portapanni.
—Presto, dunque! andate a prendere quel portafogli!… Che volete, figliuoli? Nella mia lunga carriera ecclesiastica non ho mai sentito vibrare così potentemente gli stimoli della curiosità… Si direbbe un presentimento…. Ma…. ecco don Fulgenzio col portafogli… Bravo! date qua! apriamo… Delle carte… una ricevuta del Monte… due biglietti del lotto… un biglietto di visita… sì, questo è un biglietto di visita… Ora sapremo il nome… Leggiamo, cioè… leggete voi, don Calendario…. Ho dimenticato gli occhiali nella carrozza… Nella mia lunga carriera ecclesiastica ciò non mi è accaduto che due volte.
Don Calendario prese la cartolina, e facendo spiccare le sillabe, declinò il nome della contessa Anna Maria di Karolystria.
—La contessa!… Anna Maria! esclamò il vescovo balzando innanzi due passi.
—La contessa Anna Maria di Karolystria, ripetè il parroco avanzandosi per sorreggere il monsignore che pareva vacillasse sotto il peso di una forte commozione.
—La contessa di Karolystria!… Mia nipote!… Me l'ero figurato!… Non c'è che lei, non c'è che lei per giuocare di queste farse! Sagrestano: tenete ritto quel bambino… badate che non caschi…. che non si sciupi…. Caspita! è un mio pronipote…. Sì! sì! voglio darmi la soddisfazione di battezzarlo io… Frattanto, muovetevi… fate di trovare una balia… in mancanza di balia una capra… una lupa… Romolo fu ben allattato da una lupa… Su, dunque! spicciatevi! Ma dove sarà andata a ficcarsi la contessa? Bisogna cercarla… condurla qui… rivestirla dei suoi panni… Nella mia lunga carriera ecclesiastica non ricordo di aver mai provata una scossa più violenta di questa.
Così parlando, il vescovo si era lasciato cadere su di una poltrona.
Gli astanti, attoniti, confusi, preoccupati da altre urgenze gravissime, in luogo di affrettarsi ad eseguire gli ordini ricevuti, facevano delle pazze evoluzioni intorno alla tavola, tornando sempre sul posto d'onde erano partiti.
A crescere gli imbarazzi, a produrre un più strano scompiglio nelle idee, intervenne un nuovo personaggio.
Era un bell'uomo, di struttura atletica, dall'occhio grifagno, che portava l'allarmante divisa dei commissari di polizia.
Entrato, fece un inchino a sua eminenza, e avanzandosi con militare spigliatezza, disse di avere un dispaccio da consegnare al reverendo parroco del paese.
—Donde viene questo dispaccio? chiese il vescovo ansiosamente.
—Ho mille ragioni per credere che sia piovuto dal cielo, rispose il commissario sorridendo. Mi è caduto sul naso poco fa, mentre stavo in agguato dietro il campanile spiando lo mosse di un nihilista… Sulla soprascritta c'era l'indirizzo del signor parroco, e mi sono affrettato…
—Nessuno si muova! gridò il vescovo lanciando un'occhiata significante sul commissario; probabilmente in quel dispaccio si contengono delle rivelazioni d'importanza, che daranno un gran da fare a noi tutti. Leggete, don Calendario!
Il parroco sciolse il piego, e lesse a voce alta:
«Passeggiando per diporto sulla cima del campanile, e colpito proditoriamente da un sacro bronzo nelle adiacenze dell'osso parimente sacro, mi trovo ridotto all'assoluta impotenza di scendere colle mie forze da questa alta ma altrettanto falsa posizione. Faccio dunque appello alla nota carità di V. S. reverendissima, acciò voglia affrettarsi a mandare quassù il miglior medico del paese, perché esamini la mia ferita, giudichi e provveda a norma del caso.
»In attesa di pronti soccorsi, la ringrazio anticipatamente ed ho l'onore di segnarmi
»Conte BRADAMANO DI KAROLYSTRIA.»
Quella lettera sollevò un mormorio.
—Silenzio tutti! tuonò il vescovo balzando dalla seggiola; dinanzi a una complicazione sì arruffata, convien riflettere al nesso piuttosto che alla singolarità degli accidenti, e procedere alla scoperta del vero rimontando dal noto all'incognito. Ora, agli altri accidenti noti si aggiunge quello di uno stordito che va a passeggiare in cima d'un campanile mentre il suo posto dovrebb'essere al capezzale della moglie o presso la culla del suo primogenito…. Vediamo se ci riesce, col sistema delle induzioni, di trovare la spiegazione logica di una coincidenza così anormale.
—Perdoni l'eminenza vostra colendissima, disse il commissario inchinandosi rispettosamente, se ardisco esporle un precedente dal quale potrà riflettersi qualche luce sull'avvenimento che la preoccupa. A noi consta che sua eccellenza il conte Bradamano di Karolystria va da qualche tempo soggetto a degli accessi di pazzia furiosa. Ieri sera, a Borgoflores, è occorso a me, che ho l'onore di parlarvi, di assistere ad una scena… Basti dire che il signor conte era siffattamente uscito di senno, da non riconoscere la propria moglie, e ha dato in tali escandescenze, da obbligarmi ad invocare lo intervento delle guardie del manicomio.
—Ora comincio a comprendere, disse il vescovo; povera contessa! disgraziata nipote! Maritata ad un pazzo!… Io già ne sapeva qualche cosa… Fortunatamente le leggi provvedono… Dio! chi mi aiuta a raccoglier le fila di questa matassa?…
Ma il buon prelato non ebbe tempo di raccogliere un sol filo, che un elegante zerbinotto, seguito da un domestico, entrò nella sala.
Era un biondo dal profilo delicato, dalla tinta rosea, dagli occhi sfavillanti. Due baffi esagerati, da pompiere libertino, costituivano il solo accessorio canagliesco del suo volto aristocratico e geniale.
Salutò gli astanti con garbo disinvolto, da uomo pressato di andarsene; e facendo avanzare il domestico che recava sulle braccia un involto, gli accennò di posarlo sulla tavola.
Non farò a' miei lettori il torto di dubitare ch'essi non abbiano, sotto l'ombra dei baffi posticci, riconosciuto il visconte Daguilar.
—La illustrissima signora contessa di Karolystria, disse il visconte, mi diè incarico di restituire a codesti egregi sacerdoti i venerandi indumenti che ieri notte si compiacquero di prestarle; la signora contessa desidera parimenti che i suoi degni ospiti, a pegno della sua riconoscenza, serbino le vesti da lei smesse per farne quell'uso che alle loro signorie reverendissime potrà sembrare più utile.
A tali parole, il parroco, in un guizzo di gioia, strizzò l'occhio al sagrestano, e questi, trasmesso a don Fulgenzio il marmocchio, lesto come uno scoiattolo uscì dal salottino.
—Finalmente i gruppi vengono al pettine! esclamò il vescovo fregandosi le mani allegramente, ora potremo anche sapere dove sia andata a nicchiarsi quella pazzarella di nostra nipote, le cui sventatezze ci tengono in tanta apprensione.
—La signora contessa di Karolystria è alloggiata all'albergo del Pappagallo, disse il visconte; è arrivata questa mattina innanzi giorno, e mi duole di dover soggiungere ch'essa è alquanto sofferente.
—Lo credo, io! disse il vescovo lanciando un'occhiatina dolce al bambino; questa sera, dopo i vespri, andrò da lei… Frattanto, vediamo di sbrigare l'altre faccende. Il conte di Karolystria reclama dal campanile la visita di un medico… Malgrado i suoi molti torti, egli è pure un cristiano come noi, ed è giusto che gli prestiamo assistenza… Si tratta anche di constatare se il cervello di quel disgraziato versi, come afferma il signor commissario qui presente, in condizioni anormali; nel qual caso si penserà immediatamente a separarlo dalla moglie con un atto regolare di divorzio… Dunque… all'opera! qualcuno vada in cerca del medico…
—Di questo mi incarico io, disse il visconte….
—Sarebbe altresì a desiderarsi, proseguì il vescovo con accento più mite, che altri si incaricasse di presentare a quel padre disgraziato il primo frutto dei suoi travagli legittimi…
—Anche di questo mi incarico io! replicò il visconte, impossessandosi del neonato.
—Voi!… voi!… sempre voi!… esclamò il vescovo con un movimento di impazienza—ma… noi… noi… anche noi… Non si potrebbe, per grazia, aver l'onore di conoscere il riverito nome di vostra signoria?
—Io mi chiamo Ludovick, e discendo dalla illustre famiglia dei visconti Daguilar di Salispana.
—Daguilar!… non mi è nuovo questo nome…. Credo anzi che un Daguilar abbia sposato in terze nozze una de Guttinga di Birtoldania… Sta a vedere che siamo parenti!
—Tutto mi induce a supporto, disse il visconte baciando rispettosamente l'anello sulla mano che il vescovo gli stendeva.
—Dunque… se non m'inganno… abbiamo pensato a tutto. Voi, commissario, accompagnerete il visconte ed il medico nella loro escursione al campanile. Sarà bene che assistiate al consulto per inviare subito un rapporto alla prefettura… Nella mia lunga carriera ecclesiastica mi è sovente accaduto…
Ma questa volta l'intercalare favorito del vescovo venne troncato a mezzo da un rumore partito dal cortile,
Erano le carrozze che conducevano il caudatario, il crocifero ed altri prelati del seguito di sua Eminenza. La casa parrocchiale brulicava di clero e di popolo.
Di là a pochi minuti, monsignore De Guttinga saliva agli appartamenti superiori conversando col visconte a voce animatissima, e traendo dietro i suoi passi una coda di prelati.
Don Fulgenzio, attraversando l'anticamera, notò con soddisfazione che gli abiti della contessa non erano più là.
Il degno sagrestano aveva compreso la sua strizzata d'occhi; si era impossessato di quegli abiti, li aveva fatti ripulire e stirare dalla moglie, ed ora, nella sagrestia, stava compiendo con quelli la trasfigurazione di santa Dorotea.
CAPITOLO VIII.
Le campane suonavano a distesa e la popolazione si pigiava nel tempio per assistere alla messa pontificale. Finalmente, anche alla cappella di santa Dorotea era stata levata la cortina, e tutti potevano ammirare l'effigie della patrona di Mirlovia, superbamente bella nel suo nuovo abbigliamento da contessa.
Frattanto, un personaggio secco e barbuto, seguito dal commissario di Borgoflores e dal visconte Daguilar, saliva per la scaletta del campanile. Il personaggio secco e barbuto era il medico del paese, uomo di molta coltura e di retto criterio, già premiato da parecchie accademie per una dissertazione sulla spinite, considerata ne' suoi rapporti colla letteratura verista.
Il conte Bradamano era un marito tiranno, un marito bestia, un marito impossibile; pure, a vederlo là, in quell'angolo di campanile, rannicchiato, impotente a sollevarsi, assordato dagli squilli, nessuno, tranne forse sua moglie, avrebbe osato applaudire alla giustizia del fato.
All'apparire del medico, il disgraziato trovò la forza di sorreggersi ed esalò dal petto un sospiro di soddisfazione. Il visconte ed il commissario si trattennero in disparte; il medico si fece innanzi, dichiarò al conte i suoi titoli e lo scopo della sua visita, e procedette alla ispezione delle parti compromesse.
—Nulla di allarmante, disse poi al paziente; una settimana di letto, un cataplasma, e tutto sarà finito. Ciò che seriamente mi preoccupa è la difficoltà della vostra situazione… In ogni modo, è necessario che io vi tolga da questo luogo, dove all'altre sofferenze si aggiunge anche il martirio delle campane… Converrà rassegnarsi, mio caro signore. La scala della torre è troppo angusta perché due uomini possano discendere per quella, sostenendovi tra le braccia. Sarà d'uopo collocarvi in una cesta e calarvi dal campanile a mezzo d'una fune. A questo, se vi piace, verrà provveduto immediatamente.
—Fate! fate pure! rispose il conte colla massima calma; se più rimanessi, quelle campane mi ucciderebbero.
Il medico si scostò dal paziente, e fattosi dappresso ai due che lo avevano seguito: mi pare, disse loro a voce bassa, che le facoltà mentali di quell'uomo sieno in pieno equilibrio. Ad ogni modo, sarà utile sottoporlo a qualche prova. Venite… facciamolo parlare… pulsiamogli i tasti più sensibili… usiamo di tutti i mezzi che la scienza mette a nostra disposizione, perchè una diagnosi non fallisca.
—Mi riconoscete, signore? chiese il commissario presentandosi al conte.
—Perfettamente, rispose questi; godo di rivedervi, signor commissario; non avrei mai pensato di incontrarvi sul campanile della chiesa di Mirlovia.
—Casi che accadono ogni giorno! esclamò il commissario alquanto sconcertato; e cedendo il posto al visconte, mormorò nell'orecchio del medico: eppure io vi dico che è pazzo.
—Mi gode l'animo, cominciò il visconte, di essere stato prescelto all'incarico di comunicarvi una notìzia che deve riempirvi di gioia. Mi affretto dunque ad annunziarvi che la vostra degnissima consorte, la signora contessa di Karolystria, ha nella scorsa notte dato alla luce un figlio maschio perfettamente conformato, al quale monsignor vescovo di Guttinga imporrà oggi stesso il vostro riverito nome!…
—La contessa!… un figlio!… il vescovo di Guttinga!… il mio nome!…
Il conte era ridiventato livido e i suoi occhi gettavano fiamme.
—Calmatevi! disse il medico, osservandolo coll'occhìo penetrante dello scienziato che afferra un sintomo; la paternità non è scevra di disturbi, ma a questi porge largo compenso l'amore dei figli.
—Io non riconosco a quella donna il diritto di regalarmi una prole, gridò il conte serrando i pugni.
Il medico si scostò da lui, e fattosi dappresso agli altri due, disse a voce bassa:
—Questo accesso di furore mi metterebbe in sospetto, pure non abbiamo ancora gli estremi coi quali ci sia dato formulare un giudizio assoluto.
—Pazzo da legare! mormorò il commissario crollando la testa.
Il visconte taceva, e spaziava collo sguardo nella piazza sottostante, coll'aria di un annoiato che cerca divagarsi.
—Un pazzo, ripigliò il medico, non è altra cosa che un pianoforte scordato; convien toccargli tutti i tasti per far vibrare la corda che risponde falso.
—Toccatelo sul tasto della politica, disse il visconte sbadatamente, mentre i suoi occhi dilatati si affissavano a qualche oggetto lontano che lo attraeva.
—Sarebbe una soperchieria, rispose il medico solennemente; toccate sul tasto della politica l'uomo più assennato e più calmo; ne uscirà una dissonanza così mostruosa da farlo ritenere maniaco.
Il medico non aveva finito di parlare, che un coro di voci umane rinforzato dallo squillo delle fanfare salì dalla piazza al campanile.
—La processione esce dalla chiesa, disse il visconte; osservate! ammirate! qual splendida pompa di paramenti e di lumi!
Il commissario si scoperse il capo e piegò il ginocchio…
—Un momento! un momento! gridò il medico; ho bisogno del vostro braccio. Mi è venuto un pensiero…
E fatto un passo verso il conte, che, a giudicarne dai tratti del volto, si era alquanto rabbonito:
—Signore, gli disse battendogli paternamente la spalla; affacciandovi a quel parapetto, voi potrete dare uno sguardo alla processione che sfila in questo momento sul sagrato. Nulla giova tanto a distrarre le tetre immagini dallo spirito umano, quanto la vista dì una pompa religiosa. Venite! noi vi sorreggeremo.
Il conte era divoto. Già il suono delle lontane fanfare (le quali sia detto fra noi, erano atrocemente stonate) aveva predisposto l'animo di lui alle emozioni di un soave misticismo. Egli si lasciò trascinare al parapetto, e appoggiandosi al braccio del medico, si mise in posizione da poter collo sguardo dominare un gran tratto della piazza.
Al veder quella doppia schiera di popolo e di sacerdoti che muoveva pel sagrato salmodiando, all'udire le voci paradisiache dei chierichetti e delle vergini (se ne trova ancora nelle processioni), respirando il profumo degli incensi e dei ceri sollevato dalla brezza, un rapimento quasi divino assorbì l'anima del conte. Se non temessi di commettere un irriverente bisticcio, direi, che dinanzi a quel sublime spettacolo, a lui parve di obliare la sua terribile posizione di conte contuso.
Qual dolce risveglio di sentimenti e di ricordi! Egli tornava col pensiero a quell'epoca beata della fanciullezza, quando le solennità della chiesa, il presepio, la scarpetta esposta sul terrazzo per accogliere le strenne dei Magi, una messa servita al cappellano nell'avito castello, la processione del Corpus Domini e le litanie delle Rogazioni occupavano tanta parte de' suoi pensieri, rappresentavano i suoi tripudii più graditi.
Sventurato mille volte colui (mi si permetta questo breve sfogo dell'anima), sventurato mille volte colui, che nell'ora dei disinganni e delle amarezze…
Ahimè!… Cos'è stato?… Misericordia!… Il conte ha dato in ismanie, e in questo nuovo accesso di furore, più violento del primo, grida a tutta voce:
—Vedetela! Vedetela, quella svergognata!… È dessa… la riconosco al vestito… la riconosco a quella ciarpa trapunta in oro che si è gettata sulle spalle come un mantello… Arrestatela, arrestatela, commissario!
—Calmatevi, signore!
—Io vi dico di arrestare quella pettegola che ha la tolla di farsi portare in volta sopra una barella…
—Via, signore! è la santa patrona del paese… parlatene con rispetto.
—La santa! una santa!… quella là! Mia moglie!… E dopo uno scroscio di risa convulso, svincolatosi dalle braccia che lo reggevano, il misero conte arretrò dal parapetto e andò a ricadere sul posto donde era stato tolto poco prima.
Se Dante non avesse creato, or fanno parecchi secoli, lo stupendo verso:
E cadde come corpo morto cade
scommetto che, a questo punto del mio romanzo, lo avrei creato io. Quale disgrazia esser nati troppo tardi! A noi non è più permesso di crear nulla.
Il medico impensierito da questa seconda crisi, tanto più atta a impensierirlo quanto meno attesa da lui, si raccolse per un istante nella sua dignità di scienziato.
Poi, volgendosi al visconte ed al commissario, i quali, nella duplice ansietà della compassione e del trionfo, attendevano il verdetto:
—Lasciamo, disse loro, che la malattia compia il suo periodo naturale di reazione. Ormai non è più lecito dubitare che questo sventurato sia profondamente leso nelle sue facoltà intellettuali. Egli è affetto da quella specie di mania, oggimai comune alla più parte degli uomini coniugati, e per la quale la scienza non ha rimedii, che si chiama in linguaggio tecnico: uxorofobia. È una morbosità del cervello insidiosa e terribile, tanto più difficile a curarsi, in quanto i sintomi di essa talvolta rimangano latenti pel corso di parecchi anni. Quando il medico riesce ad afferrarli, il più delle volte la malattia è già entrata nella fase cronica. Vi prego, signori, di seguirmi. Voi siete chiamati a convalidare colla vostra testimonianza la relazione del grave caso e il conseguente certificato di demenza che io vado a redigere. Più tardi, noi torneremo presso il malato, e procaccieremo che egli venga calato sulla piazza coi meccanismi più acconci.
Dopo questo, i tre valentuomini discesero dal campanile.
CAPITOLO IX.
I fatti ch'io vado esponendo non sono che il prologo di un grandioso romanzo intitolato: Il Re Barile, che verrà in luce Dio sa quando; romanzo che, in seguito agli ultimi avvenimenti militari, quali l'occupazione della Tunisia, il bombardamento di Alessandria, l'invasione dell'Egitto, ecc., ecc., e in presenza di quel nuovo e formidabile elemento della dinamite oggimai felicemente introdotto nei congegni della politica europea; stante la complicazione sempre più arruffata delle alleanze fra i Gabinetti, ecc., ecc., è destinato ad ottenere un tal successo di stupefazione generale, da schiacciare e seppellire tutto quanto si è fin qui perpetrato in tal genere per allettare e inebetire le masse.
Premesso questo briciolo di fervorino, riprendiamo il filo della nostra narrazione che ormai volge allo scioglimento. Sono trascorse quattro ore dacchè il conte Bradamano è rimasto solo ad attendere in cima del campanile i benefici effetti della reazione.
La popolazione di Mirlovia (ottima gente, ne converrete), dopo aver pranzato come non si pranza che alle feste centenarie, si è di nuovo riversata nella chiesa per assistere ai Vespri.
Frattanto, all'albergo del Pappagallo, la contessa di Karolystria ed il visconte Daguilar hanno finito di consumare il loro pranzerello in un gabinetto riservato.
La contessa è radiante, il visconte le ha recato il documento che attesta la demenza del diletto consorte, e la prospettiva del prossimo divorzio la riempie di giubilo. Fra pochi istanti, ella partirà per Rosinburgo in compagnia del simpatico gentiluomo, che l'ha sì validamente protetta ed assistita. Che più le rimane a desiderare?…
Mentre la bella e avventurosa donna sta assaporando la sua felicità leggermente ingrossata di una polpa di costoletta, il visconte si intrattiene coll'albergatore.
—Possibile che in Mirlovia non vi sia riescito di trovare un cavallo di puro sangue, da appaiare alla bella e vigorosa puledra della signora?
—Tutte le mie ricerche furono vane. Quando si dice: destino! Figuratevi che appunto questa mattina, uno dei più stupendi cavalli di razza che io m'abbia veduti, è proprio andato a fratturarsi le gambe in un burrone a dieci passi dal paese! Io l'ho comprato da un villano pel valore della pelle e della carne.
—Fosse il mio morello! esclamò il visconte vivamente commosso.
—Mantello bruno…
—Una stella bianca sulla fronte…
—Una ciocca parimenti bianca nella coda…
—Era lui! era lui! gridò il visconte battendo il pugno sulla tavola; il mio buon morello!… ma dov'è? che avete fatto di quell'eccellente animale, a me più caro di un fratello?…
—In verità, rispose l'albergatore colla sua falsa tenerezza da brugnone saldato, doveva essere un animale eccellentissimo, se tale altresì vi è sembrato quel frammento delle sue carni che ora avete finito di consumare. Dopo la corpacciata che se n'è data stamane quel grosso ippopotamo di Boom-bom-bom, non ci rimanevano in cucina altre reliquie del vostro disgraziato corridore.
Il visconte lasciò cadere una lacrima sull'osso della costoletta; ma, ripreso bentosto il suo fare da zerbinotto spensierato, balzò in piedi, porse il braccio alla contessa e uscì con quella nel cortile, dove lo attendeva il convoglio che doveva trasportarli a Rosinburgo.
Strano convoglio davvero, per una contessa ed un visconte, nati entrambi e vissuti nell'ambiente più aristocratico della più aristocratica provincia d'Europa! Era uno di quei grandi baracconi mobili, quali ne vediamo sulle piazze ai tempi di fiera, che servono ai cerretani da veicolo, da casa di abitazione e da teatro. Era diviso in tre compartimenti, dei quali il più spazioso, quello del centro, veniva ad essere esclusivamente occupato dal fenomenale Boom-bom-bom, altrimenti denominato: l'uomo più grasso del mondo. L'altro compartimento era formato dalla serpa, larga, comoda, ombreggiata da una gigantesca calotta e adorna di emblemi zingareschi. Su questa era già salito Zaccometto, quello stesso garzone della Maga rossa che la sera innanzi, dietro ordine della contessa, era andato alla foresta di Bathelmatt per riportare gli abiti al visconte. Non avendolo ivi rinvenuto, il bravo garzone era ritornato a Borgoflores, e di là si era rimesso in marcia per Mirlovia, dove finalmente gli veniva fatto di consegnare il fardello. Il visconte, ricuperati sì opportunamente i suoi abiti e il suo denaro, aveva elevato il buon Zaccometto alla carica di suo domestico, assegnandogli lo stipendio annuo di cento lire, più i mozziconi degli zigari. La virtù è tosto o tardi premiata, nei romanzi.
Poichè tutto fa pronto per la partenza, la contessa ed il visconte montarono in una specie di cabina, situata alla estremità posteriore del baraccone. Era il più angusto, ma il più pulito dei tre compartimenti, e due viaggiatori di sesso differente potevano acconciarvisi a meraviglia.
Tutti erano al loro posto; si parte? Zaccometto agitò allegramente la frusta, e il convoglio uscì dall'albergo tra le riverenze dei camerieri, che lo guardavano come si guarda dagli idioti ogni oggetto grosso e misterioso.
Le vie di Mirlovia erano deserte; la gente, uscita dai vespri, si intratteneva sulla piazza a godere lo spettacolo della cuccagna. Il visconte e la contessa, seduti di fronte e irradiati da uno di quegli splendidi tramonti autunnali, così rossi, quando son rossi, parevano assorti in un'estasi di silenzio. Quando si ha molto da dire, tra le idee e le parole succede un ingorgo.
Alla fine, quando il convoglio fu uscito dall'abitato, la contessa prese a parlare di tal guisa:
—Visconte: io vi debbo la vita, più della vita vi debbo la libertà; la mercé vostra io mi sento sciolta da un vincolo pel quale ero costretta di rasentare la terra mentre ero nata pei voli eccelsi. Ignoro se davvero possano sussistere gli amori platonici, ma questo so di certo, che la riconoscenza platonica non è riconoscenza. Ho forse commesso una indelicatezza imponendo un patto al compenso che mi piacque di offrirvi, ma voi avete adempiuto quel patto, è tempo che io vi dica: signore, i cinque milioni di ducati vi appartengono.
—Via! non occupiamoci di tali miserie, disse il visconte sorridendo; cinque milioni di ducati non valgono la soddisfazione che ho provata nel rendervi un lieve servigio.
—Debbo io rammentarvi, o signore, che la somma venne da voi accettata, e che io, contessa di Karolystria, ci tengo un poco a soddisfare i miei debiti?
—Ebbene, sia pure! Ammettiamo che io abbia intascato il denaro…
—Ve ne prego, visconte; smettete quel tono di ironia, e ascoltatemi seriamente, poiché io vi parlo colla maggiore serietà. No, non è più tempo di esitazioni e di reticenze. Dopo le prove di lealtà che mi avete dato, io debbo essere altrettanto leale con voi; dunque, vi dirò tutto. Immagino che a voi sia noto il funesto caso, che ora fanno diciott'anni all'incirca, venne a contristare la nostra casa reale, portando un sì fiero colpo nell'animo già profondamente turbato del nostro buon re Finimondo…
—A quell'epoca io aveva appena compiuti i cinque anni, ma leggevo assiduamente i giornali del mio partito, e ricordo tutti i particolari di quell'infausto avvenimento.
—Un ignoto, probabilmente affigliato alla abbominevole setta dei nihilisti, trafugò col favor delle tenebre l'unico rampollo, l'unico ed ultimo rampollo della stirpe reale, un caro bambinello di due anni, sul quale si appoggiavano tutte le speranze della corona. Colla morte di quell'infante, l'antica dinastia dei Finimondo minacciava di estinguersi.
—Il mondo non sarebbe finito per questo; ma un tale avvenimento, ne convengo, poteva produrre delle conseguenze assai gravi. È noto, che in seguito alla disparizione dell'augusto bimbo, lo sventurato Finimondo prese a dimagrare sifattamente, da meritarsi il soprannome di Re-Scheletro.
—Strane contraddizioni della sorte! esclamò la contessa con aria di mistero; qualche volta si diventa scheletri sul trono, e si esubera di pinguedine dentro una tana da zingaro! Se io vi dicessi, proseguì la contessa dopo breve pausa e abbassando di tre toni la voce; se io vi dicessi che Boom-bom-bom, l'uom più grasso del mondo, È figliuolo dal Re Finimondo?…
—Vi farei osservare, rispose il visconte col suo risolino da scettico, che una rima sonora non può sempre valere come argomento di prova per convalidare l'asserzione di un fatto inverosimile.
—Se aggiungessi che il sicario incaricato di uccidere l'infante, avendo riscontrato in esso dei tratti di somiglianza con una sua bambina morta due anni prima, preso da tenerezza irresistibile, si trattenne dal vibrare il colpo?
—Siffatti episodii di tenerezza estemporanea, prodotta dalla somiglianza dei volti, so che fecero ottima prova in parecchie centinaia di romanzi e di drammi, ma non trovano riscontro nella storia.
—Ciò che noi vediamo coi nostri occhi, ciò che noi raccogliamo colle nostre orecchie, sarebbe dunque, domandò la contessa con dispetto, meno attendibile delle grosse panzane spacciate dai così detti libri storici? Quando io vi abbia rivelato che il sicario stipendiato dai nihilisti era quello stesso Zabakadak che spirava la scorsa notte nelle mie braccia all'albergo del Papagallo.
—Zabakadak! lo zingaro! colui che vi nominò erede di tutte le sue sostanze morte e da morire! esclamò il visconte, passando dalla incredulità assoluta alla sorpresa di chi intravvede il probabile nell'assurdo.
—Sul limitare della tomba, disse la contessa coll'enfasi della convinzione, un uomo non può mentire. Tra gli spasimi di una agonia resa più atroce dai rimorsi, Zabakadak mi ha tutto rivelato. Unica depositarla di un segreto, che senza il mio intervento, poteva scendere nella tomba con quello sciagurato di zingaro, io sono in grado di fornire tali prove sull'identità del regio infante, che il re, la corte, la nazione, l'Europa intera dovranno arrendersi all'evidenza del fatto.
—E queste prove, se è lecito?…
—Un amuleto con impronta dello stemma reale, che il bambino portava al collo il giorno in cui venne rapito.
—Buono, l'amuleto!
—Una crocetta in brillanti, dono della regina madre…
—Buonissima la crocetta.
—Una protuberanza ossea cartilaginosa al garretto destro, somigliante allo sperone di un gallo….
—Stupendo, lo sperone! Vengano ora a negarmi le influenze dell'atavismo! Tutti sanno che l'augusta bisavola dell'infante non smetteva mai gli speroni, né anche nelle sue rare ascensioni sul talamo reale.
—Tanto meglio! Vedo che vi arrendete all'evidenza delle prove, e questo mi rassicura sulla riuscita de' miei disegni. Dovrò io ancora, dopo quanto vi ho esposto, nominarvi il banchiere, al quale dovrete presentarvi per riscuotere la somma che ho messo a vostra disposizione?
—Ah! è vero… è vero!… esclamò il visconte risovvenendosi: sono appunto cinque milioni di ducati il premio stabilito dal re Finimondo per colui che riuscisse a rendergli il figlio. Tutti gli anni la Gazzetta Ufficiale riproduce il bando del generoso monarca… Ma, credete voi, contessa, ch'io possa mai consentire ad appropriarmi una somma… ad usurpare un premio che spetta a voi sola?…
—Fanciullo! interruppe la contessa col più amabile sorriso; ci vuol tanto a comprendere che le mie aspirazioni mirano ben più alto, e che io riserbo a me stessa la più lauta parte del compenso? Prima di stendere la mano ai cinque milioni, non mi userete voi la gentilezza di attendere che sieno compiute tutte le formalità relative al mio matrimonio coll'erede della corona, e ch'io mi sia per tal modo accaparrata la mia parte di scettro?
—Voi… avreste… il coraggio… di sposare Bom-bom-bom!!! esclamò il visconte, sbarrando gli occhi dallo stupore.
—Io sposerò Bom-bom-bom, rispose la contessa arrossendo leggermente.
—Un uomo, che pesa duecentoventi kili!!!
—Ha venti anni ed una fisonomia non spiacente.. Le cure del matrimonio, e più tardi le cure del regno ridurranno quel grosso volume di marito in un formato tascabile.
—O mia regina! esclamò il visconte, coprendo di baci la mano della contessa, mentre questa, con voce languida da sovrana indulgente, gli ripeteva all'orecchio:
—Calmatevi, Gran cancelliere!
Frattanto, il convoglio roteava senza scosse sulla strada umidiccia; Zaccometto cantarellava dalla serpa uno stornello libertino; Bom-bom-bom russava maestosamente nella sua ampia cabina come un principe ignaro: in lontananza, dolcemente cullato dagli zeffiri, penzolava dal campanile il conte Bradamano di Karolystria; il commissario di Borgoflores arrestava un nihilista, e monsignore di Guttinga vescovo di Bosinburgo, presso la cappella di santa Dorotea, battezzava solennemente il bambino, raccolto la notte precedente dal visconte sulla porta della casa parrocchiale…
Un romanziere che si rispetta deve render conto di tutti i suoi personaggi, anche accessorii: e qualche lettore vorrà appunto sapere da qual parte sia scaturito quel bambino, venuto ad introdursi così enigmaticamente nel mio racconto…
In verità… sarei alquanto imbarazzato…. a spiegare…
Ma via!… volete proprio saper tutto?
Ebbene: quel bambino… (sacrifichiamoci alle esigenze dell'arte) quel bambino era… mio figlio.