Milano Tip. Editrice Lombarda

1879

PREFAZIONE

_Stamane il mio Editore è venuto da me.

—Ebbene! gli Ho chiesto, come è andato lo smercio dei nostri volumetti?

—A meraviglia! in meno di tre mesi, Duemila esemplari del __Libro proibito__.

—Ciò si capisce.

Mille e cinquecento del __Libro allegro__.

—Anche questo si capisce._

—Stampiamo dunque il __Libro serio__?

—Fate pure; ma vi prometto che al termine dell'anno non ne avrete vendute __Cento Copie__.

—Ella crede?

—Son pronto a scommettere.

—Scommettiamo!

—Perdereste.

—Ma, perchè?

—Perchè il mondo è tutto pieno di gente onesta, che va in cerca di libri proibiti e di gente seria, che va in cerca di libri allegri; ma un libro serio non è cercato nè dalle persone oneste, nè dalle persone serie, nè dalle persone allegre.

L'Editore volle fare a modo suo, e tanto peggio per lui._

__BIOGRAFIE__

ANGELO MARIANI

Nel giugno dell'anno 1873, una nobile, simpaticissima figura di artista scomparve dal mondo colla morte di Angelo Mariani. Oltrechè distintissimo suonatore di violino e compositore elettissimo di pezzi da camera, Angelo Mariani fu a' suoi tempi il più eccellente direttore d'orchestra, il più sapiente e vigoroso interprete delle opere italiane e straniere.

Se è lecito dire con gallica frase che un cantante ed un attore diventano in certa guisa creatori delle parti che sulla scena rappresentano, a nessuno meglio che ai valenti concertatori e direttori di spartiti musicali compete il titolo insigne. Non sono essi che colla loro potenza divinatrice riescono talvolta a completare, a rinvigorire, a vestire di nuova luce i concetti del genio? Non sono essi i traduttori e commentatori ispirati, che dalla pagina morta rilevano i più intimi segreti, i più astrusi intendimenti di un maestro, per trasmetterli alle ignare moltitudini?

Sotto questo aspetto, Angelo Mariani meritò, primissimo in Italia, il titolo di creatore. E tale volle essere chiamato per quella sua maravigliosa potenza di intuizione onde a lui rivelavansi i caratteri speciali di ciascuna musica, per quella pellegrina facoltà di assimilarsi lo stile dei singoli compositori e di tradurne le bellezze, senza distinzioni o predilezioni, col gusto elevato dell'artista di genio, colla coscienza dell'uomo leale, coll'entusiasmo dell'italiano.

Angelo Mariani nacque a Ravenna il giorno 11 ottobre 1824. Affidato all'età di 11 anni all'esimio Pietro Casalini che in quel tempo era professore di violino all'Accademia filarmonica, perfezionato dippoi nei segreti del difficile istrumento dal professore Giovanni Nostini, a quindici anni il Mariani dava concerti in Ravenna sua patria e in altre città delle Romagne, destando da per tutto la maraviglia co' suoi precoci talenti.

L'ottimo signor conte don Gerolamo Roberti di Ancona, che allora dimorava a Ravenna presso l'amico suo cardinale Falconieri, prese a proteggere il giovane concertista, iniziandolo ai segreti dell'armonia, nella quale era versatissimo. Il Mariani ricordava spesso con riconoscenza ed affetto le pazienti cure prodigategli da quel dotto contrappuntista, dal quale egli aveva appreso l'amore ai buoni studi ed alle severe discipline dell'arte. E con pari benevolenza e rispetto il Mariani parlava sovente del padre Levrini da Rimini, allievo del famoso padre Mattei di Bologna, dalle cui lezioni egli trasse il maggior profitto.

A diciannove anni, il Mariani fu chiamato a dirigere una banda musicale a Sant'Agata Feltria, e quivi si diede a far degli allievi in ogni genere di istrumenti. A quell'epoca, il giovane maestro non conosceva che il violino ed il pianoforte; ma pure, nel breve giro di pochi mesi, egli riuscì a trattare perfettamente la più parte degli istrumenti da fiato, e fra questi la tromba, il trombone, il bombardino, il flauto ed il clarino, ch'egli qualche volta si prendeva il diletto di suonare, con grande meraviglia di chi lo udiva. Quegli studii e quegli esempi preparavano il grande artista, l'insuperabile direttore di orchestra predestinato a brillare fra le più elette illustrazioni del teatro italiano. A dimostrare come l'arte fosse incoraggiata a quei tempi e per quali strettezze anche il Mariani abbia dovuto passare ne' suoi anni giovanissimi, basterà avvertire che lo stipendio percepito da lui per la direzione della banda di Sant'Agata era di lire 50 mensili.

Recatosi a Macerata nel 1843 per suonare la prima viola al teatro dell'opera, quivi, nel corso della stagione, fece eseguire due sinfonie ed un grande concerto a tutta orchestra obbligato a sei istrumenti; delle quali composizioni, che ottennero il massimo effetto, si parla con molta lode in un articolo pubblicato allora dal Messaggere Bolognese, dove sono ricordate altre composizioni dello stesso Mariani, già eseguite precedentemente a Ravenna.

Nessun paese è più reazionario dell'Italia, sotto l'aspetto dell'opposizione che qui incontrano i giovani talenti—Non si ha fede nei giovani—non si ammette l'intelligenza, se questa non abbia acquistato autorità dai capelli canuti e dalle rughe del volto. Non si vuol tener conto di questa verità fisiologica, che il giovine di vent'anni entra nel mondo colle idee nuove della sua epoca, informato di tutti quei progressi che gli adulti non sono più in grado di assimilarsi, dacchè il loro spirito si è in certo modo ossidato nei pregiudizi di altri tempi. Non è qui il luogo dove ci sia permesso di sviluppare ampiamente questo tema, e di mostrare i danni che derivano all'Italia da questa sua eccessiva venerazione per gli uomini del passato, da questa diffidenza gelosa dei giovani ingegni.

Anche il Mariani ebbe a lottare per alcun tempo contro tale pregiudizio; senza di che, all'età di 17 anni, egli avrebbe preso il posto di direttore in una delle principali orchestre dell'Italia, e tosto il di lui nome sarebbe stato inscritto fra quelli dei più valenti.

Pel Mariani la lotta non fu però così lunga e crudele come per la più parte dei giovani. Il di lui talento imponeva simpatia e rispetto anche ai più anziani maestri; le gelosie e le cabale dei mediocri non ebbero forza di contrastargli lungamente il posto meritato.

Il celebre baritono Tamburini avea istituito in Faenza, sua patria, una Società Filarmonica, dove tosto si era adunata una eletta schiera di giovani intelligenti e volonterosi per addestrarsi agli esercizi della musica istrumentale. Il posto di maestro e direttore di quella giovane orchestra venne affidato al Mariani, il quale diede allora tali saggi di intelligenza e di coltura musicale, da ottenere le testimonianze più lusinghiere di stima dai suoi giovani alunni. Fu in Faenza, in mezzo alle cure della nuova Società Filarmonica, che il giovane maestro diè vita a non poche composizioni, per le quali fu sommamente lodato anche dai più illustri cultori dell'arte.

Ecco una lettera molto lusinghiera, che il Rossini dirigeva in quell'epoca al Mariani:

«Pregiatissimo sig. Mariani,

«Ho fatto far copia della di lei Sinfonia in sol minore per eseguirla nei prossimi esercizi od accademie di questo liceo.

«Il suo lavoro è rimarchevole considerandolo specialmente come lavoro di un esordiente. Bello è il piano, logica la condotta e felicissimi i pensieri. Di questa sua bella composizione voglia aggradire i rallegramenti di chi si pregia di dirsi

«Suo devotissimo servo «GIOVACCHINO ROSSINI»

« Bologna, il 16 agosto 1844

Incoraggiato dalla ammirazione pubblica e dalle felicitazioni dei più insigni maestri dell'arte, il Mariani lasciò presto il suo impiego di direttore d'orchestra della Società Filarmonica di Faenza, e trasferitosi a Bologna, quivi d'altro non volle occuparsi per alcun tempo che dello studio dei classici. Rossini lo colmava di gentilezze, lo incoraggiava coi più lieti pronostici—il vecchio maestro Marchesi gli dava lezioni di perfezionamento nella difficile scienza delle armonie.

Nell'autunno e carnevale del 1844-45, chiamato a Messina per concertare le opere e dirigere l'orchestra di quel teatro, Mariani dovette cedere alla forza del pregiudizio, in quanto i così detti professori di quell'orchestra protestassero accanitamente di non voler suonare sotto la direzione di un ragazzo forestiero.—A quell'epoca, un artista nato a Ravenna, nel cuor dell'Italia, era un forestiero pei signori professori del teatro di Messina!

Ma l' Accademia filarmonica non permise che il Mariani si partisse da quella città col rammarico di uno sfregio immeritato. Per riparare al gravissimo torto di pochi professori mestieranti, quella Società di eletti musicisti invitò il giovane maestro a dirigere parecchi concerti, dove non poche composizioni di lui vennero eseguite con grande successo. Il principe De-Liguori, intendente generale di quella provincia, commise al Mariani di scrivere diverse marcie e pezzi da concerto per la banda del reale Orfanotrofio, e i nuovi lavori ottennero tal voga, che più tardi i medesimi avversarii del giovane artista dovettero rendergli giustizia e riconoscere i propri torti.

Nell'anno 1845, il Mariani si recò due volte a Napoli, dove strinse relazione coll'illustre Mercadante, dal quale ebbe conforti e consigli. In quella occasione scrisse parecchi componimenti vocali, che vennero appunto eseguiti nella sala del celebre maestro, con molto aggradimento dei pochi ma eletti uditori. In questo genere di composizioni da camera, il Mariani doveva più tardi elevarsi a tale altezza da rivaleggiare coi più famosi, e vincerli spesso.

Nel maggio del 1846 venne a Milano, e qui cominciò pel Mariani la vera, la grande carriera del maestro concertatore: qui il di lui nome acquistò quella voga di popolarità che decide le sorti di un artista. A quell'epoca il pubblico delirava per Verdi. Quella che oggi vien chiamata, quasi con dispregio, la prima maniera del più drammatico, del più popolare, del più affascinante dei moderni compositori, fanatizzava in allora le masse del pubblico italiano per la insolita gagliardia dei concetti e dei modi. Nel 1846, la musica di Verdi presagiva la rivoluzione del 1848—era musica febbrile, convulsa, esuberante; in essa era tutta l'agitazione di un popolo, era tutta una Italia impaziente di giogo straniero e anelante alla pugna. I critici slombati e pedanti, i quali nelle opere dell'artista non veggono che la forma, ed altra perfezione. non riconoscono se non quella che è il prodotto del calcolo, della pazienza, della imitazione, sono nel loro pieno diritto di inneggiare enfaticamente alle ultime produzioni del Verdi al solo scopo di riprovare le prime e di gettarle tutte in fascio alle fiamme[1]. No! noi non saremo così ingrati verso l'illustre maestro, da obliare le grandi e nobili scosse che egli ha prodotto in noi colle sue prime musiche; non ci accuseremo di cretinismo per avere nella nostra giovinezza, preso parte a questo delirio di tutta Italia, pel quale, alle prime rappresentazioni del Nabuco, dei Lombardi, dell' Ernani, gli spettatori balzavano dalle seggiole ed acclamavano al maestro come le turbe acclamano ai profeti. Non è esagerazione ciò che scriviamo. La prima musica del Verdi ha suscitato entusiasmi quali la storia del teatro non ricorda più solenni e più universali. Il pubblico, non diremo d'Italia, ma del mondo, non aspettò il Macbeth, nè il Ballo in Maschera, nè il Don Carlo, per riconoscere il genio di Verdi. Il genio di Verdi era tutto là, nel Nabuco, nell' Ernani, in quelle prime musiche esuberanti, dove prorompeva tutta intiera, nella sua giovanile schiettezza, l'indole appassionata e gagliarda del grande maestro.

Mariani si presentò come direttore di orchestra al teatro Re, dova si eseguivano i Due Foscari dalla signora Angiolina Bosio[2], dal baritono Corsi e dal tenore Volpini, tre artisti allora esordienti che poi divennero famosi. L'appaltatore teatrale Angelo Boracchi, che allora teneva al suo stipendio quell'esercito di giovani cantanti, da cui uscirono la Bosio, la De-la-Grange, il Fraschini, il Ferri, il De Bassini, il Corsi ed altri celebri, riconobbe il talento del Mariani e tosto lo scritturò per l'autunno al teatro Carcano, ove dovevano prodursi grandiosi spettacoli. E fu in quella stagione che il giovane direttore di orchestra si fece anche ammirare come violinista, suonando con nuova squisitezza l' a solo dei Lombardi, di cui ogni sera il pubblico entusiasta chiedeva la replica. Quei saggi promettevano un grande suonatore da concerto; se non che, l'amore delle grandi esecuzioni complesse fece trascurare al Mariani l'esercizio dello istrumento di Tartini, e per tal modo il direttore di orchestra ed il compositore assorbirono più tardi il violinista.

Nella primavera del 1847, il nome di Mariani era celebre. Le sue prime composizioni per canto, fra le quali vuolsi ricordare il Giovane accatone, pubblicata dal Ricordi, si ripetevano ammirate da tutti i dilettanti di Milano.

In quell'anno, per cura dell'intelligente ed audacissimo Boracchi[3] il Carcano venne riaperto con spettacolo d'opera, e il Mariani richiamato a dirigere l'orchestra. Fu una stagione memorabile, pel numero e la valentia degli artisti scritturati, per la varietà delle opere, per lo splendore inusato della messa in scena, per la singolarità degli aneddoti che in quella ricorrenza si produssero, pei tumultuosi entusiasmi del pubblico, forieri di rivoluzione. Si era aperta la stagione coll'opera Giovanna d'Arco, eseguita da una Ranzi, dal tenore Volpini e dall'autore della presente biografia, che, in allora ignaro affatto di ogni disciplina musicale, cantava da baritono[4]. Nè in appresso, nè mai, al teatro Carcano suonarono più clamorose ovazioni. Il celebre tenore Moriani[5], attore e cantante insuperabile, si produceva nel Rolla del Ricci e veniva acclamato il Modena del canto. Uranio Fontana, che divenne più tardi, a Parigi, maestro di canto all'Accademia Imperiale ed al Conservatorio, faceva eseguire la sua nuova opera i Baccanti, scritta sullo stile di Verdi, su quello stile tanto criticato in allora dalla massa dei maestri impotenti, nondimeno imitato da tutti. La messa in scena di quell'opera del Fontana diede luogo ad un curioso episodio, del quale l'autore di questo scritto può dire con Cicerone: pars magna fui. Non dispiaccia ai nostri lettori di veder qui riferito un frammento di storia teatrale, che riflette vivamente le condizioni dell'epoca.

Le prove dei Baccanti procedevano affrettate e scompigliatissime. I cantanti principali non erano ben sicuri delle loro parti; la prima donna, per certe sue antipatie verso l'autore dell'opera, poneva la miglior volontà del mondo acciò tutto camminasse alla peggio; i cori e l'orchestra non aveano fatto prove sufficienti. In ogni modo, stringendo il tempo e volgendo al termine la stagione, lo spartito doveva andar in scena. Quando il maestro e gli artisti meno se lo aspettavano, furono invitati alla così detta prova generale. Proteste da parte del Fontana, resistenza assoluta da parte dell'impresario, minaccie inesorabili da parte dell'Autorità politica, che da ogni nonnulla vedeva insorgere il temuto spettro della rivoluzione.

Si dà principio alle prove. I suonatori, svogliati e insolitamente ribelli all'arco del loro conduttore—i coristi male imbeccati e peggio diretti—la prima donna raffreddata e smorfiosa—tutto sembra cospirare contro il povero maestro perchè la sua opera abbia a riuscire una parodia. Tanto fa, che a metà dell'atto primo, l'ottimo Fontana, uomo di temperamento nervoso e di carattere oltre ogni dire irritabile, comincia a dare in ismanie, e da ultimo, fatto fascio delle partiture e recatesele in braccio, a fuggire protestando.

Non era che il prologo della commedia. In teatro un tumulto da non dire. Gli artisti e il direttore di orchestra domandavano la sospensione delle prove; ma l'impresario, pressato e minacciato dalle Autorità politiche, ad esigere che si tirasse innanzi alla meglio, dovendosi all'indomani produrre la nuova opera ad ogni costo.

Simile ad un generale di armata che prevede la mala riuscita di un attacco, ma nullameno sente l'obbligo di sobordinarsi ad una volontà più potente della sua, il Mariani si leva in piedi, e si prova, con una arringa commoventissima, ad infiammare l'ardore dei suoi incruenti soldati.

Le prove vengono riprese; fra il male ed il bene si giunge alla fine, si spengono i lumi, e ciascuno se ne va pe' fatti suoi, pronosticando per l'indomani uno di quei fiaschi colossali che al teatro Carcano, segnatamente a quell'epoca, prendevano le proporzioni di un tumulto popolare[6].

All'indomani, il maestro Fontana, l'autore della nuova opera, venne di buon mattino a visitarmi. Egli era profondamente addolorato. Egli mi domandava affannosamente se non vi era modo di impedire per quella sera la minacciata esecuzione del suo primo spartito musicale. Vi era qualche cosa di straziante nella sua parola, vi era la disperazione di un giovane ingegno che protesta come può meglio, che reagisce colle ultime forze della sua volontà contro la prepotenza della speculazione; vi era la angoscia di un padre che, a costo di perdere sè medesimo, vuol salvare ad ogni modo la sua creatura minacciata.

Le smanie del povero maestro mi commossero siffattamente, ch'io deliberai di venire in suo aiuto, rendendo impossibile per quella sera la rappresentazione del nuovo spartito.

Scrissi all'impresario una lettera, nella quale, protestando contro l'indegnità che egli stava per commettere, lo invitava a ritirare gli annunzi dei Baccanti, avvertendolo che io, per quella sera ed altre successive, mi sarei reso irreperibile, fino a quando la esecuzione della nuova opera non fosse migliorata da ulteriori concerti.

Inviata quella lettera all'impresario, io mi rifugiai nella casa di un amico, e quivi stetti ad attendere i fati.

Trattandosi di spartito affatto nuovo, non era possibile trovare un baritono che mi supplisse per quella sera. Nullameno, la cocciutaggine degli agenti di polizia tenne fermo nell'imporre all'impresario che lo spettacolo non venisse mutato. Il conte Bolza[7] era onnipotente a quell'epoca. Ma questa volta egli aveva a lottare contro un cervello balzano, che non riconosceva nè avea mai riconosciuto il potere di alcuna autorità costituita. Furono spedite delle spie in ogni caffè, in ogni trattoria della città; furono, perfino, nella supposizione che io mi fossi recato a Pavia, inviati dei gendarmi a cavallo su quello stradale, per arrestare il fuggiasco baritono. La polizia consumò la giornata in codeste strategie, e contando pur sempre di raggiungere il suo intento, lasciò che la folla, avida del nuovo spettacolo, invadesse il teatro.

E quella folla era davvero imponente. Alcuni amici, avvertiti in segreto che la rappresentazione non avrebbe potuto effettuarsi per l'assenza ostinata del baritono, erano accorsi in teatro onde favorire il tumulto.

Frattanto, sul palco scenico gli artisti si abbigliavano da Baccanti; e il conte Bolza, vero rappresentante della cocciutaggine tedesca, attendeva nel camerino del teatro che i suoi emissarii gli conducessero innanzi il baritono ammanettato.

Ma venne il momento in cui non erano più lecite le illusioni. Il teatro echeggiava di grida, di fischi e d'altri rumori più riottosi. Il buttafuori, apparso finalmente al proscenio, più pallido e più balbuziente che mai, dopo aver letto al pubblico la lettera che quella mattina io aveva scritta all'impresario, annunziò che la promessa rappresentazione dei Baccanti non poteva altrimenti aver luogo. Il turbine non si descrive. E fu un turbine da far crollare le pareti.

Per la prima volta, in Milano, fu gridato: abbasso la polizia! abbasso Bolza! morte all'Austria!—Il vulcano latente della rivoluzione cominciava a sprigionarsi.

Si adunarono di fretta altri artisti per sostituire il Nabucco al nuovo spartito del Fontana. Mariani, sovreccitato da quella straordinaria effervescenza di pubblico, si levò in piedi per dare il segnale dell'attacco.—Quella grande e vigorosa sinfonia, che era stata alla Scala, pochi anni addietro, la rivelazione di un nuovo genio musicale, rispondeva siffattamente alle febbrili agitazioni del momento, da somigliare ad un grido d'allarmi lanciato nella folla.—Gli spettatori salirono sulle panche sventolando i fazzoletti; tutti i pezzi più concitati dell'opera, quali le due arie del profeta, i due finali concertati e il corale dell'ultimo atto, si dovettero ripetere fra i clamori entusiastici del pubblico.—Alla fine della serata, il conte Bolza fece chiamare il Mariani nel camerino del teatro, e apostrofandolo vivamente, lo minacciò dell'arresto personale per aver dato alla musica del Verdi una espressione troppo evidentemente rivoltosa ed ostile all'imperiale governo.—Il Mariani mi ha più volte ricordato questo aneddoto, accompagnandolo di un sorriso di compiacenza. Il conte Bolza, nella sua poliziottesca ingenuità, era stato uno dei primi a riconoscere il lato più saliente e più caratteristico di quell'ingegno predestinato.—E i Baccanti? domanderà qualche lettore curioso.—Io me la cavai con poche ore d'arresto nelle prigioni di Santa Margherita, e il Mariani frattanto ebbe agio di concertare la nuova opera fino a piena soddisfazione dell'autore, e ad ottenere una esecuzione che valse un trionfo al Fontana ed a tutti[8].

Angelo Mariani fu per avventura il primo in Italia che, accoppiando l'ufficio di maestro concertatore a quello di direttore d'orchestra, insegnasse coll'esempio il miglior mezzo per ottenere nelle grandi esecuzioni musicali una vera unità di concetto. Chiamato a Vicenza nel 1847 per dirigere le opere a quel teatro Eritennio, egli ebbe quivi occasione di rivelarsi completamente. A festeggiare il nono Congresso degli scienziati italiani si pensò di riprodurre sulle scene dell'antico teatro Olimpico l' Edipo di Sofocle. A concertare e dirigere i cori espressamente musicati dall'illustre Pacini fu prescelto il Mariani, il quale finalmente potè capitanare un esercito di oltre cinquecento musicisti e spiegare tutta la possa del suo talento dinanzi a un pubblico numerosissimo e composto delle più elette intelligenze italiane e straniere. Gustavo Modena, il grande attore, prendeva parte a quella rappresentazione. Fu un successo inaudito, e le ovazioni toccate all'energico direttore della musica non furono da meno di quelle che largamente vennero raccolte dal tragico illustre e dal celebre autore della Saffo.—Dopo quella rappresentazione, il Mariani uscì dal teatro Olimpico colla aureola della celebrità sulla fronte, e nessuno, fino all'ultimo della sua carriera, ebbe mai a contendergli il primato.

In sul principiare del novembre 1847, il nostro ammirabile artista fu chiamato a Copenaghen per dirigere gli spettacoli al teatro di corte. Quivi egli scrisse non poche composizioni da camera, ed una Messa da Requiem in suffragio di re Cristiano VIII, che venne eseguita nella chiesa cattolica di Copenaghen il 5 gennaio 1848, e ripetuta, il venerdì santo dello stesso anno, in occasione di un concerto sacro dato a benefizio dei feriti nella guerra pei Ducati dello Schleswig-Holstein. Le onorificenze ottenute e le laute profferte della Corte non valsero a trattenere il Mariani a Copenaghen dacchè l'eco della rivoluzione italiana ebbe scosso le sue fibre di patriota e di artista. Egli corse a Milano per arruolarsi nelle file dei volontari, e dopo aver preso parte infino all'ultimo alla lotta nazionale, sconfortato dalla dolorosa catastrofe, accettò un contratto per Costantinopoli, e partì alla volta di quella città.

Un Inno di omaggio al sultano Abdull-Medijd ed altri pezzi vocali e istrumentali, tra cui una notevolissima Cantata, La fidanzata del guerriero, compose il Mariani a Costantinopoli. Di questi pezzi, editi dal Ricordi, ed accolti assai favorevolmente dal pubblico, si fa menzione analitica nella Gazzetta Musicale dell'anno 1850.

Dopo altre peregrinazioni artistiche, mai sempre accompagnate dei più felici successi, il Mariani, nel 1852, venne dal municipio di Genova definitivamente nominato al posto di maestro concertatore e direttore di orchestra al teatro Carlo Felice; posto che l'egregio artista occupò fino all'ultimo, con quanto lustro di quel teatro tutti sanno. Dopo tale avvenimento, l'orchestra del Carlo Felice, se non per numero e valentia individuale di professori, potè chiamarsi la prima d'Italia per quella fusione di elementi, per quella sintesi perfetta, da cui si creano le grandi esecuzioni e gli irresistibili successi. Affezionato alla città dei Dogi per le cordiali simpatie ivi conquistate, pel consorzio di una popolazione vivace ed intelligente, per le dolcezze del clima, per gli incantevoli spettacoli del mare, egli abitava negli ultimi anni il piano superiore del grandioso palazzo eletto dal Verdi a sua dimora. Quivi, nella stagione invernale, il grande Maestro compositore rivelava al possente suo interprete i più riposti intendimenti delle sue musiche; di là partivano le faville che, trasmesse agli artisti, alle orchestre ed alle masse corali, elettrizzavano i pubblici di Genova, di Bologna, di Vicenza, di Sinigaglia e di Reggio nelle solenni esecuzioni del Don Carlo, del Ballo in Maschera e dei Vespri Siciliani.

Perocchè, nelle vacanze del teatro Carlo Felice, Mariani non istette mai inoperoso. Le città più cospicue d'Italia facevano a gara nel valersi de' suoi talenti, e il di lui intervento nella direzione di uno spettacolo voleva dire solennità artistica, avvenimento di interesse mondiale.

Nelle tappe gloriose dell'illustre concertatore e direttore d'orchestra, furono ammirabili le prime rappresentazioni del Ballo in Maschera, dell' Africana, del Don Carlo, del Profeta e del Lohengrin.

Nessuna di queste opere ebbe mai in altro teatro d'Italia una sì completa e splendida interpretazione, come al Comunale di Bologna per opera principalissima del Mariani. I Bolognesi amavano questo artista fino al delirio. Le prime donne, le celebri danzatrici del teatro Comunale erano gelose de' suoi successi. Gli enfatici telegrammi, che da Bologna si diramavano alle cento città d'Italia, non parlavano che di lui.—In quelle grandi vittorie dell'arte il nome del generale in capo ecclissava la fama e il valore dei combattenti. E frattanto alle ovazioni del pubblico si aggiungevano le congratulazioni e i ringraziamenti degli insigni maestri. Meyeerber, dopo una audizione del Profeta, gli scrive per affermargli che la esecuzione italiana ha posto in rilievo delle bellezze non prima avvertite; Wagner sembra smettere per un istante i suoi corrucci contro l'Italia, per stringere la mano al suo interprete affascinante; Verdi non scrive lettere, non spedisce telegrammi; ma apprezzando quant'altri il talento dell'amico, gli prepara una festosa e cordiale accoglienza e una franca parola di encomio pel primo incontro.

Nel 1861, al Carlo Felice di Genova si produsse per la prima volta la famosa opera di Herold, lo Zampa, nuovamente tradotta in lingua italiana, e il Mariani, con talento e sapere, completò lo spartito di non pochi recitativi e dialoghi a grande orchestra. L'esito dello Zampa fu tanto solenne, che la medesima opera si dovette riprodurre alla primavera successiva, e più tardi, a Madrid, sollevò il più grande entusiasmo.

Fra le composizioni notevoli del Mariani voglionsi ricordare: la Trascrizione del Ballo in Maschera, la Cantata pel matrimonio della principessa Pia di Savoia col re di Portogallo, eseguitasi, la sera del 28 settembre 1862, al Carlo Felice, alla presenza degli augusti sposi e di tutta la famiglia reale. È voce che quella composizione venisse dal Mariani improvvisata in meno di due giorni.

Nel 1864, la città di Pesaro inaugurava con pompa un monumento a Rossini. Saverio Mercadante aveva, per quella solenne circostanza, composto un inno grandioso dove opportunamente si intrecciavano i più stupendi pensieri melodici del Pesarese. Il concerto e la direzione di quella festa musicale vennero affidati al Mariani, e il successo fu così splendido e solenne, che Rossini, Mercadante ed altri illustri gliene resero grazie con ogni maniera di onorevoli testimonianze. Rossini gli inviava un ritratto colla dedica umoristica in dialetto romagnolo: Offert a qù lù dei bei neez e d'la plezza culour dei cutaroni, a Anglet Mariani ex canonich d'la piazza e vece Rossini.

La lettera che il Mercadante diresse al Mariani in quella occasione merita di essere riferita:

«Maestro carissimo,

«Per le relazioni di tutti gli artisti amici miei, convenuti a Pesaro dalle diverse città d'Italia onde assistere alle feste ad onore dell'immortale Rossini, seppi come foste con intelligenza e giustizia unanimamente proclamato il Gran Direttore di orchestre vocali e istrumentali, e ciò per le profonde cognizioni dell'arte stessa, come per lo distinto ingegno educato alle discipline del buon gusto e del vero. In quanto a me, tale giudizio non mi giungea nuovo, poichè fino dai primi momenti che mi ebbi il bene della vostra interessante conoscenza, fui convinto che avreste fatto voli nel nostro difficile arringo, e previdi che sareste presto giunto al distintissimo grado in cui il mondo colto meritamente vi ha collocato. Per sì fatto convincimento e per le morali qualità che tanto vi distinguono, mi ritenni dal farvi particolari raccomandazioni per la migliore esecuzione del mio Inno, certo del vostro zelo e tutto fiducia nella sentita amicizia che da sì lungo tempo ci lega. In ogni caso, avrei attribuito alla debolezza della composizione il mancamento di effetto. Mi è quindi impossibile potervi esprimere i sentimenti di mia riconoscenza, poichè avete così immensamente contribuito al felice successo di quella composizione, complicata non poco nelle sue diverse parti! Non dubito però che nel vostro squisito sentire comprenderete da quanta gioia e commozione il mio cuore sia stato preso nel ricevere la lieta nuova, ed in ispecial modo dal contenuto della vostra cortesissima ed affettuosa lettera sul proposito direttami. Vogliate pertanto estendere questi miei sensi ai componenti le numerose e scelte intelligenze musicali che sì religiosamente s'inspirarono in voi. Ciò posto, fareste cosa gratissima all'animo mio se, per mezzo di accreditato giornale, fossero a ciascuno fatti gradire i miei debiti ringraziamenti; preghiera questa che pure ho fatto al nostro comune amico Liverani.

«Se avete gridato il mio nome, permettete che alla mia volta io a piena voce gridi «Viva Mariani!!» e ciò con accompagnamento di coro composto della mia commossa famiglia, degli amici e dell'intero musicale Collegio, al quale fu letta la vostra lettera, accolta con generale entusiasmo; e quei cari giovanetti erano visibilmente commossi, non solo dalle parole a mio riguardo adoperate, ma bene anche per la tanta vostra gentilezza verso i loro amati ed estimati maestri ed alunni compagni di studio, che li hanno rappresentati in sì memoranda circostanza.

«Conservatemi sempre la vostra preziosa amicizia ricordatevi qualche volta di me, che tanto vi stimo, e credetemi per la vita.

«Vostro affezionatissimo «S. MERCADANTE.»

Dopo quel memorabile festival, Mariani ricevette il diploma di Cittadino Pesarese.

Tutti i particolari fino a qui riferiti dimostrano con quanta rapidità un artista dotato di eccezionale talento e animato dal vero amore dell'arte possa toccare a meta elevatissima. Mariani all'età di quarant'anni era giunto a quello stadio della carriera dove ogni lotta viene a cessare, dove all'ingegno riconosciuto, alla fama solidamente stabilita non si presentano che nuovi allori da cogliere. Bologna e Venezia furono l'ultimo campo de' suoi trionfi.—Wagner deve al Mariani gran parte della buona accoglienza che i Bolognesi fecero al Lohengrin ed al Tannhauser. Cultore e amante passionatissimo dell'arte sua, Mariani non faceva differenza tra maestro e maestro, non ostentava predilezioni, e in presenza del dovere, dissimulava le individuali antipatie. Rossini e Meyerbeer, Bellini e Verdi, Donizetti e Wagner, i grandi come i mediocri, i famosi come gli oscuri, gli antichi come i nuovi imponevano del pari alla sua nobile coscienza di artista. Dalle sue manifestazioni confidenziali era facile arguire a che tendessero le sue predilezioni. Italiano nella formosissima regolarità del volto, nel fuoco degli sguardi, nella vivacità del carattere, nel fervore del sangue, negli istinti dell'amore e del gusto, si comprende che egli doveva adorare Bellini e Donizetti, esaltarsi alle immaginose e fervide concezioni del Verdi.—Musicista profondo, uomo di scienza nel pretto senso della parola, soleva riporre uno speciale fervore nello studio e nella interpretazioue degli spartiti venuti d'oltr'alpe. Al suo orgoglio di artista italiano piaceva trionfare di ciò che in musica si chiama difficile ed astruso. La musica di Wagner fornì a lui una solenne occasione di far valere tutta la potenza intuitiva del proprio genio, tutta la estensione del proprio sapere.

Allo scopo di studiare gli autori stranieri e di affermarsi alle difficili prove, egli intraprese non pochi viaggi. Le di lui escursioni a Parigi ed a Londra si rinnovavano periodicamente ogni anno, e in compagnia del Verdi andò espressamente a Parigi nel 1867, per assistere a parecchie rappresentazioni del Don Carlos, che egli pel primo doveva presentare all'Italia.

Angelo Mariani, sotto l'aspetto di compositore, appartiene alla scuola più schiettamente italiana. I suoi canti da camera ritraggono l'indole di Bellini e la foggia del Gordigiani; le sue partiture istrumentali, tuttochè elaborate con molto sapere, rivelano l'amore istintivo di quella aurea semplicità che era proprio dei grandi maestri antichi. Tutto ciò che vi ha in esse di complicato e di astruso non è che una stentata concessione alle esigenze di quei pochi innovatori di cattivo gusto che a forza di vociare sono quasi riusciti a parere moltissimi[9].

Angelo Mariani, come abbiamo accennato, fu bellissimo d'aspetto—nella prima giovinezza, la squisita regolarità de' suoi lineamenti, il fulgore dell'occhio, le soavi gradazioni delle tinte davano al suo volto un'aria di gentilezza quasi donnesca. Più tardi, i tratti si pronunziarono più virilmente, gli sguardi si svolsero con espressione più severa ma pure simpatica e affascinante. Il di lui aspetto negli ultimi anni era davvero imponente, e il flusso magnetico che ne usciva giovava non poco ad accrescergli autorità.

In teatro, dall'alto del suo sgabello, egli dominava ad un tempo l'orchestra, il palco scenico e la folla ammirata degli spettatori. Era il nume delle armonie, il Prometeo che sprigiona la luce.

Severissimo e qualche volta irritabile nell'esercizio del suo dominio musicale, egli era, nel consorzio privato, un buono e solazzevole camerata. Parlava con entusiasmo di arte e di artisti, e nel narrare i molteplici episodii della sua fortunosa carriera riusciva piacevolissimo e attraente. Giovò a moltissimi, ebbe amici in buon numero, pochi nemici, pochissimi detrattori.

Salito al primo rango nell'arte sua, egli non potè mai (e ciò gli fu grande cordoglio) raggiungere il posto da lui vagheggiato nella prima giovinezza, il posto di direttore al teatro della Scala. Vi fu un'epoca (credo nel 1865) in cui il suo voto accennò di compiersi, e già l'eminente musicista muovea per trasferirsi a Milano[10], onde mettervi in scena l' Africana, allorquando la subitanea convalescenza di un altro maestro poco innanzi gravemente ammalato, gli intercluse per l'ultima volta la nobile meta.

Le biografie degli artisti da teatro offrono mai sempre degli episodii piacevoli e bizzarri, i quali, tuttochè interessanti, disdirebbero in una narrazione che insorge da una tomba[11]. Ogni gaia ricordanza si offusca dinanzi a questo pensiero: «Mariani non è più.»

La città di Genova diede splendida testimonianza di stima e di affetto all'illustre trapassato. Ravenna volle possedere la salma dell'amato cittadino; l'arte italiana prese il lutto. Quale sia per essere l'arte dell'avvenire è assai difficile pronosticarlo[12]; ma questo rimarrà sempre con grandi nomi e grandi opere dimostrate, che la prima metà del corrente secolo segnò per la musica italiana una fase luminosissima. E gli astri di quell'epoca pur troppo si vanno spegnendo con una rapidità che sgomenta!

( Lecco —1875).

GIOVANNI PACINI

Un fecondo e immaginoso operista, che fu, nei primordî della sua carriera, il competitore di Rossini, poi, l'emulo di Bellini, di Donizetti, di Mercadante e di Verdi; che seppe investirsi delle progressive trasformazioni dell'arte, conservando pur sempre nelle sue musiche una limpida impronta di originalità, moriva in Pescia il giorno 6 dicembre dell'anno 1867, in età di anni settantaquattro.

Questo ispirato, inesauribile maestro, si chiamava Giovanni Pacini. Predestinato a lottare colla prevalente superiorità dei genî più luminosi che illustrarono la prima metà del corrente secolo, e a guadagnarsi il suo posto d'onore a traverso le prove dei più difficili confronti; i grandi, i solenni trionfi non mancarono a lui, ma delle cento sue opere, dove a sprazzi rivelasi una gran luce di fantasia, sol'una, la Saffo, andò famosa pel mondo e fu degna di assidersi fra i più insigni capolavori dell'arte italiana.

La biografia di questo infaticabile maestro può fornire degli utili insegnamenti. Noi la riassumeremo in poche pagine, studiandoci innanzi tutto di essere esatti e sinceri.

Pacini nacque a Catania, e non già a Siracusa, come scrisse il Fetis in quel suo emporio di inesattezze e di assurdi che s'intitola Dizionario biografico dei musicisti.

Il padre di Pacini era artista di canto, e più volte ebbe a prodursi nelle opere del figlio, dapprima in qualità di tenore, quindi di buffo. Giovanni era attratto allo studio della musica da una vocazione irresistibile. Iniziato in età giovanissima all'arte del canto sotto la direzione del maestro Marchesi di Bologna, in breve, per impulso proprio, apprese anche a suonare il cembalo ed a comporre qualche pezzo sacro.

Il maestro Marchesi si affrettò a coltivare nel giovanetto i pronunziatissimi istinti, ponendolo a studiare l'accompagnamento pratico, e affidandolo poscia al celebre padre Mattei, che fu, si può dire, il maestro dei più insigni maestri dell'epoca nostra. Dalla scuola del Mattei, Pacini passò più tardi, in Venezia, a quella di Bonavventura Furlanetto, e quivi fu compiuta la sua educazione musicale.

In età di sedici anni, Pacini produsse il suo primo spartito al teatro di Santa Radegonda in Milano. Non era che una farsa e portava per titolo Annetta e Lucindo; quindi pel medesimo teatro compose l' Escavazione del tesoro, che l' erudito signor Fetis nel suo voluminoso Dizionario intitola: Evacuazione. Questi due primi componimenti del maestro giovinetto ebbero il più favorevole incoraggiamento.

Scrisse poi alla Pergola di Firenze una prima opera in due atti, intitolata l' Ambizione delusa; quindi, tornato a Milano, fece rappresentare al teatro Re tre operette, la prima col titolo: Dalla beffa al disinganno, la seconda: Il Matrimonio per procura e la terza: Il Carnovale di Milano. La poesia delle tre farse era scritta dall'abate Anelli, poeta di argutissimo ingegno.

Ma le prime opere che davvero posero in luce il nome di Pacini, furono l' Adelaide e Comingio, l' Atala e la Sacerdotessa d'Irminsul, le quali vennero riprodotte in quasi tutti i teatri d'Italia, esclusi la Scala di Milano, il San Carlo di Napoli, il Regio di Torino e la Fenice di Venezia, che a quell'epoca erano considerati i soli teatri di cartello. Per ottenere al giovine maestro che una sua opera fosse prodotta in uno di questi insigni teatri, si volle il soccorso di una di quelle circostanze che decidono qualche volta le sorti di un individuo.

Nell'autunno del 1819 si era ammalato il basso De-Grecis che doveva sostenere alla Scala una parte di somma importanza nel Finto Stanislao di Gyrowets. Per supplire a questo celebre artista, l'impresario dovette ricorrere al buffo Pacini, il quale, assumendo di prodursi entro tre giorni colla parte destinata al De-Grecis, mise a patto che il proprio figlio venisse scritturato per scrivere un'opera alla Scala in quella stagione.—Così furono aperte al giovane maestro le porte del grande teatro, dove con lieto successo venne rappresentata la sua opera: Il barone di Dolshein. La seconda opera che il Pacini compose pel teatro alla Scala fu il Falegname di Livonia. Nel libro pubblicato dall'illustre maestro che s'intitola: Le mie memorie artistiche, si legge una curiosa statistica delle paghe che a quell'epoca venivano retribuite ai compositori di musica. Pel Barone di Dolshein il maestro intascò cento zecchini; per la Sposa fedele trecento bavare, pel Falegname di Livonia dugento zecchini. Rossini, alla medesima epoca, della sua Bianca e Faliero ebbe cinquecento zecchini. È da notarsi che la più parte di queste opere, apparse in quella che noi chiameremo la prima epoca dell'illustre maestro, vennero composte in uno spazio brevissimo di tempo. Pacini, a' suoi primi anni, scriveva delle farse in tre o quattro giorni, e l'opera grandiosa, la Sacerdotessa d'Irminsul, composta su libretto del Romani, fu condotta a fine in ventotto giorni.

In musica Pacini era improvvisatore. Da ciò forse la breve vitalità di molti suoi spartiti, quasi tutti ingemmati di felicissime melodie, quasi tutti improntati di un marchio originalissimo, ma nondimeno incompleti e in alcune parti meno che mediocri.

Gli ingegni come quelli del Pacini sono destinati a produrre l'oro greggio. Sono dessi che forniscono la ricca miniera, dove tutta una generazione di musicisti può attingere dei tesori inestimabili. Questo spontaneo ed esuberante improvvisatore ha aperto un ricchissimo emporio ai ladri dell'avvenire. Chi saprà derubarlo per bene, otterrà forse maggior fama e più duratura.

Rossini diceva: «Guai se quest'uomo sapesse la musica! nessuno potrebbe stargli a paro.» S'egli avesse meditate le proprie composizioni, e imposto un freno alla sua foga estemporanea, Pacini avrebbe dunque sorpassati i suoi emuli? Noi ci permettiamo di dubitarne. Vi hanno degli ingegni frettolosi, ai quali la ponderazione e la lima nulla giovano. Basti ricordare che i più illustri poeti estemporanei riuscirono il più delle volte meno potenti di impeto e di ispirazione nei loro poemi meditati.

Le Memorie artistiche del Pacini che noi abbiamo sott'occhio ed alle quali informiamo la nostra breve biografia, non contengono episodi di molto rilievo. Più che altro esse rivelano, nello stile, nella sovrabbondanza dei superlativi, e nella cortigianeria delle lodi, il carattere dell'uomo? Ma quando mai il Pacini ebbe tempo di esser uomo? Dai sedici fino ai settantaquattro anni, in ogni luogo ov'ebbe a trasferirsi, sotto ogni condizione di tempi, egli fu sempre e poi sempre maestro.

Vediamo di seguirlo rapidamente nelle tappe più interessanti e più gloriose della sua carriera artistica.

Le opere che più illustrarono il Pacini in quella che suolsi chiamare la sua prima epoca, furono L'ultimo giorno di Pompei, Gli Arabi nelle Gallie e la Niobe.

Il celebre tenore Rubini va debitore del suo più luminoso successo ad una cabaletta di quest'ultima opera; cabaletta che anche oggigiorno si ripete nei concerti da qualche artista privilegiato e che ebbe l'onore di parecchie trascrizioni felicissime.

Pacini possedeva in grado eminente il genio della trovata. Nessuno ha potuto sorpassarlo, pochissimi stargli a paro nella spontaneità, nella eleganza, nella arditezza di quegli slanci lirici della melodia che si chiamarono le cabalette.

Oggi la cabaletta non è più, come la era pochi anni addietro, una inevitabile perorazione delle arie e dei duetti. Dovremo noi dedurne che il gusto del pubblico sia mutato; che quanto ieri aveva potenza di elettrizzare le masse e di rapirle a immediati entusiasmi, verrebbe oggi riprovato quale una risorsa volgare dei talenti stazionari?—Non è più verosimile che la cabaletta sia caduta in disgrazia a causa dello spietato abuso che taluni ne hanno fatto, e della impotenza dei moderni compositori a creare quelle facili e originali melodie, dalle quali soltanto le cabalette traggono effetto? I palliativi qui non giovano; non è il caso di abbagliare il pubblico coi fuochi di artifizio. La cabaletta è il madrigale, l'anacreontica, l'epigramma dell'opera in musica—concetti qui si vogliono e non suoni—si esigono cuore e fantasia, non contrappunto; convien proprio, per fare qualche cosa di eletto e di affascinante, esser artisti di ispirazione, non vacui professori di armonia o di acrobatismo orchestrale.

Dateci qualche cosa che rassomigli nella vivace freschezza del pensiero, nell'impeto della spontaneità, nella schiettezza della eleganza, alle famose cabalette del Pacini, del Donizetti, del Bellini e di tanti altri ispirati, e le masse più intelligenti vi risponderanno coll'ammirazione entusiastica. Non sono trascorsi dieci anni dacchè il pubblico domandava con grida frenetiche la replica della cabaletta Di quella pira, che non va posta fra le più elette del Verdi; e della Norma, della Favorita, del Ballo in maschera non vediamo anche oggigiorno accolte con preferenza, e applaudite, e bissate queste simpatiche concitazioni della melodia, che si vorrebbero da taluni critici eliminate dall'opera moderna.

Rovani direbbe: gli è che una buona cabaletta vuol esser fatta con vino d'uva —e pur troppo la più parte dei giovani maestri non chiudono nelle loro botti che vino Grimelli[1].

L'ultimo giorno di Pompei e Gli Arabi nelle Gallie vennero più volte riprodotte nei principali teatri d'Italia e dell'estero. Con queste due opere, Pacini sostenne decorosamente il suo posto a fianco dei tanti illustri competitori coi quali aveva a lottare. È però da notarsi che nella sua prima giovinezza, carattere vero da artista, lo spigliato e versatile maestro non pose mai, nel condurre a fine le sue opere, quell'impegno che la fortuna seconda e le esigenze di una fama prestamente conquistata parevano imporgli.

Nelle Memorie artistiche vediamo leggermente accennato a questo difetto, laddove il fecondo compositore ricorda un episodio avvenutogli a Milano. Doveva il Pacini scrivere per le massime scene della Scala un'opera nuova, la Giovanna d'Arco. «Non nasconderò (sono parole del maestro) che una avventura galante che mi aveva fatto perdere il cervello, mi distolse dal lavoro. La stagione teatrale volgeva al termine e a me mancava ancora un intiero atto. L'impresario, vedendo che io poco pensava a dar compimento all'impegno assunto, dopo avermi più volte ammonito, espose alla Direzione degli spettacoli quanto accadeva; la quale, non perdendo tempo, inviò rapporto al direttore di polizia signor conte Torresani, che, fattomi chiamare con tutta gentilezza, mi fece intendere che se entro il termine di otto giorni non avessi ultimato lo spartito, Santa Margherita mi aspettava![2]. Capii benissimo qual vento spirava, per cui pensai di non dare occasione di porre in pratica la garbatissima offerta»[3].

Il pubblico milanese, edotto di questi dettagli risguardanti la vita intima dell'autore, divenne implacabile più dello stesso Torresani. La rappresentazione della Giovanna d'Arco fu per il già acclamato autore degli Arabi, dell' Ultimo giorno di Pompei e del Barone di Dolshein, una vera disfatta.

Un giornale milanese, il Corriere delle Dame, già fino dall'anno 1820, ragionando del Vallace, altra delle tante opere del Pacini favorevolmente accolte al teatro della Scala, rimproverava al giovane maestro la sua condotta alquanto dissipata e la sua negligenza al lavoro. Dopo molte allusioni a tale scopo dirette, l'articolista (che pure ha tutta l'aria di un galantuomo e di un amico sincero del maestro) conchiude colla seguente citazione, il cui significato non può essere equivoco:

Signor; non sotto l'ombra in piaggia molle, Tra fonti e fior, tra ninfe e tra sirene, Ma in cima all'erto e faticoso colle Della virtù, riposto è il vero bene, Chi non gela, non suda e non s'estolle Dalle vie del piacer, là non perviene.

Durante questa prima epoca, il Pacini si trovò sempre di fronte quell'inarrivabile colosso, la cui altezza nessun maestro dell'epoca ha potuto raggiungere—Gioachino Rossini. L'autore degli Arabi nelle Gallie e della Niobe, malgrado una originalissima tempra di ingegno, doveva necessariamente, per secondare il gusto predominante e in qualche modo farsi perdonare la propria audacia, seguire le orme più accette dello stile rossiniano. Nelle Memorie Artistiche vediamo ingenuamente espressa dal Pacini cotesta confessione. «Mi sia permesso far osservare, scrive egli, che quanti in allora erano maestri miei coetanei, tutti seguirono la stessa scuola, le stesse maniere, e per conseguenza furono imitatori, al par di me, dell' Astro maggiore.»—Io però non convengo pienamente nell'avviso dell'illustre Pacini laddove dice che «nelle belle arti e nelle lettere ogni epoca segna un carattere proprio, di cui un solo uomo crea lo stampo.» A me pare che il concetto della parola epoca non sia stato mai determinato con precisione. L'epoca non rappresenta nello spazio del tempo che una cifra senza significato; ciò che dà una espressione particolare, uno speciale colorito a quel diametro convenzionale che chiamasi epoca, è il predominio di uno o più geni. Il gravissimo errore a cui soccombono non pochi artisti di altissimo ingegno è questo appunto di subordinarsi volontariamente all'imitazione di quell'uno, che, a loro avviso, ha creato lo stampo più conforme al carattere dei tempi. Questa fatale sommissione ha cagionato la perdita di molti ingegni, i quali, altrimenti operando, vale a dire, emancipandosi dalla imitazione e seguendo liberamente i propri istinti, avrebbero raggiunto una meta elevata. Una prova di quanto asserisco mi si presenta nelle biografie artistiche del Bellini e del Donizetti, i quali non riuscirono a produrre dei veri capolavori, ad impressionare vivamente colle loro musiche, se non quando ebbero il coraggio di ripudiare affatto gli abiti del Pesarese per presentare al pubblico nuda e schietta la loro individualità. Il nome di Bellini non vivrebbe tuttora glorioso senza la Norma e la Sonnambula che marcano del patetico genio di lui la espressione più caratteristica e più vera. Così del Donizetti, la Borgia sopravvisse alla Bolena, sebbene l'una e l'altra ricche al pari di squisite melodie. Gli è che nell' Anna Bolena si ravvisa ancora l'imitatore di Rossini, mentre nella Borgia incomincia il precursore di Verdi. Io non cesserò mai, ogniqualvolta mi si offra l'occasione, di gridare agli ingegni: abbiate il coraggio della vostra individualità; non immaginate mai, perchè un maestro ha conquistato il pubblico con una data maniera d'arte, che questa sia da adottarsi esclusivamente, che fuori di là non esista via di salvezza. In arte bisogna procedere, come tutto procede nell'ordine della natura. Può darsi che questo moto non sia che una rotazione perenne, per la quale la intelligenza umana ritorna, di secolo in secolo, al punto donde è partita. E che perciò?—L'artista dev'essere una molla di questa rotazione. Chi non procede non approda.

Sotto questo aspetto, il Pacini fu veramente disgraziato. Egli sentiva, come ogni vero artista la sente, questa necessità di crearsi una propria maniera. Ma al momento istesso in cui la sua nobile e appassionata intelligenza prendeva a slanciarsi verso un mondo novello, ecco degli altri innovatori, dei giovani privilegiati, insorgere all'improvviso da questa terra fertile di ingegni che è l'Italia, e prevenire i concetti di lui, e sorpassarne gli ardimenti. Dopo aver lottato con Rossini, dopo essersi aperta una nuova via per sottrarsi alla schiacciante supremazia di questo atleta invincibile, Pacini si trovò di fronte due competitori non meno formidabili, Bellini e Donizetti.

Questi erano entrati nella carriera spandendo dei lampi di luce. Al momento in cui l'autore dell' Ultimo giorno di Pompei, «mirava a dare un carattere di tinta locale ed un far proprio alle sue composizioni» il maestro innovatore si accorse che due innovatori più audaci lo avevano precorso.

Vi sono due righe nelle Memorie Artistiche, le quali, nella loro ingenua schiettezza, commuovono grandemente. Quelle due righe rivelano una immensa angoscia di artista.

«L'amore per l'arte che ho debolmente professata e professo—scrive il Pacini, entrando a parlare del suo proposito di ritirarsi momentaneamente dall'arringo teatrale—non mi ha lasciato mai un po' di tregua. Invidiava nobilmente i miei rivali, e gli ammirava. Diceva a me stesso: essi ora levano grido, ed io mi occuperò come so e posso d'istruire la gioventù in modo chiaro ed acconcio.»

Queste poche linee sono una grossa lacrima spremuta da un cuore disingannato. È un nobile e generoso ingegno che, in un momento di sconforto e di prostrazione, si ritira dalla battaglia. Tutti gli artisti ed i poeti, tutti i martiri della intelligenza sono passati per queste crisi.

Fu dunque verso l'anno 1833, che il Pacini, nella pienezza della virilità, tuttochè accarezzato da promesse lusinghiere e adescato da lucrose profferte, si ritirò a Viareggio, sua patria di elezione, per istituirvi un Liceo musicale. L'intrapresa gli riuscì completamente, e quell'Istituto in brevissimo tempo accolse buon numero di allievi e prosperò sotto il valido impulso dell'illustre maestro. Nel teatrino dello Stabilimento gli allievi erano già in grado di eseguire, nell'anno 1835, un'opera dello stesso Pacini. Il quale, non potendo resistere al prepotente bisogno di produrre, scrisse in quell'epoca non poche composizioni sacre, fra cui tre Messe ed un Vespro di ottimo stile. Infinito è il numero dei componimenti sacri, de' pezzi da camera, delle sinfonie, prodigate dal Pacini durante gli intermezzi della sua teatrale carriera. Il lavoro era un bisogno per lui—quella fantasia bollente, agitata, sussultante, domandava incessantemente di espandersi. Era necessario che una delle sue valvole rimanesse aperta in ogni tempo.

Da Viareggio il Pacini passò a Lucca nel 1838 e quivi parimenti fondò un Istituto musicale sotto la protezione del Duca. E fu verso quell'epoca, che l'illustre maestro, riposato dalle lunghe lotte, e incoraggiato da circostanze più favorevoli, sentì nascere il desiderio di ritentare le sorti del teatro. Rossini aveva cessato di scrivere, Bellini era morto, Verdi non era per anco apparso sull'orizzonte teatrale. Non restavano, a militare nel nobile campo, che Donizetti, Mercadante ed altri pochi meno operosi e meno acclamati.

La seconda apparizione del Pacini s'inaugurò splendidamente; si inaugurò con un capolavoro completo, con una di quelle opere che conquistano l'universo, con una di quelle musiche che sublimano lo spirito e rapiscono di entusiasmo tutti i cuori. Se Pacini non avesse creato altra opera che la Saffo, questa sola basterebbe per meritargli di essere iscritto nel libro d'oro fra i più insigni maestri dell'epoca nostra. La Saffo è tutta una ispirazione. Come Bellini nella Norma, Pacini ha soffiato tutta la potenza del suo spirito animatore nella plastica affascinante della sua protagonista. Molte cantanti contemporanee si sublimarono in quest'opera del Pacini e per questa salirono a invidiabile rinomanza. Se la Pasta, la Malibran, la Grisi, la Montenegro, e più recentemente la Galletti, la Lafon e la Fricci toccarono l'apogeo del successo teatrale investendosi delle enfatiche gelosie della profetessa druidica, quante non furono le prime donne che i loro più solenni trionfi e la loro fama collegarono al nome della lesbia poetessa! E basti citare l'Abbadia, la Marini, la Gabussi, la Penco, la Tedesco, e quella ideale artista che era la Sannazzaro, per non dire di molte altre[4]. Fa meraviglia che quest'opera, così esuberante di melodia e di affetto, non seduca il talento di molte prime donne d'oggigiorno, cui la voce di mezzo soprano impone un limitato repertorio. Lasciamo passare l' invasione —a suo tempo questi irresistibili capolavori rifaranno la loro marcia trionfale sui teatri della penisola.

È strano. Il libretto di quest'opera destinata a rinverdire gli allori di un maestro già quasi obliato e ad assicurargli un posto eminente nella storia dell'arte italiana, era stato, in sulle prime, respinto dal Pacini come impossibile a musicarsi. Non ci volle che l'insistenza entusiastica del poeta per indurre il maestro ad accettarlo. Come il tenore Rubini erasi ribellato ad eseguire la famosa cabaletta della Niobe, ritenendola di nessun effetto, così il maestro che doveva illustrarsi come autore della Saffo, si mostrava ritroso a musicare il miglior libretto uscito dalla mente del Cammarano[5]. Nella storia degli artisti celebri si trovano ad ogni passo consimili aberrazioni di criterî.

Il successo della Saffo vulcanizzò, com'era da attendersi, l'estro riposato del Pacini. Alla breve tregua successe l'eruzione violenta. Dal 1840, fino all'ultimo anno della sua vita, l'inesauribile maestro si prodigò con una alacrità prodigiosa.

Donizzetti si approssimava alla fine della sua carriera; Mercadante taceva o ben di rado dava segni di vita—ben il Pacini poteva illudersi che nel campo dell'arte, ormai sgombro de' suoi antichi e recenti competitori, gli fosse dato dominare da sovrano. Ma un nuovo astro sorgeva allora appunto sull'orizzonte musicale; un giovane artista, dotato di una eccezionale energia di temperamento; un giovane maestro che già nella terza sua opera annunziava i caratteri di un innovatore predestinato. Questo ultimo formidabile competitore del Pacini, che veniva improvvisamente ad afferrare lo scettro della musica italiana, si chiamava Giuseppe Verdi. Nelle Memorie artistiche, il nome di questo insigne maestro viene accennato alla sfuggita con un freddo epiteto di omaggio. In quel libro, dove quasi ad ogni pagina l'autore e prodigo di encomi verso i suoi emuli dell'età prima, notiamo, a proposito del Verdi, delle significanti reticenze.—Noi comprendiamo quel silenzio, e lo rispettiamo come si rispettano i dolori di una nobile ambizione mai sempre contrastata dalla fortuna. Verdi fu l'ultimo rivale del Pacini. Un rivale bene agguerrito, che, nel pieno fervore della sua giovinezza, recava sul campo un emporio ancora intatto di armi e di munizioni. Mentre Pacini, rientrando nell'arringo, si compiaceva di vedere apprezzata la evidente trasformazione del suo stile e di sentirsi battezzato dalla opinione pubblica non più come compositore di facili cabalette, ma bensì di elaborati lavori e di meditate produzioni —ecco affacciarglisi un ingegno prepotente che di un tratto lo sopravanza nella innovazione e che, affascinando le moltitudini cogli impeti di una originalità irresistibile, diviene in pochi mesi l'assoluto signore del pubblico italiano.—E nondimeno, il Pacini questa volta non recesse dalla battaglia—forse anche si illuse di uscirne vincitore. Noi siamo ben lontani dal fargliene aggravio. Ammiriamo il veterano che muore sulla breccia, rispettiamolo nelle sue illusioni, nelle sue temerità, nelle sue convulse maníe. Lottare ostinatamente, lottare nella fede o nella disperazione, è il carattere dei veri artisti.

Dopo la Saffo, che segna il principio della così detta seconda epoca del Pacini, le migliori opere di lui furono: La fidanzata Corsa, acclamatissima al San Carlo di Napoli, il Lorenzino de' Medici, la Medea, Maria Regina d'Inghilterra, il Buondelmonte e la Regina di Cipro. A mio giudizio il Lorenzino de' Medici, la Medea e il Buondelmonte primeggiano sull'altre. Nell'opere che il Pacini scrisse dippoi, notasi una deplorevole decadenza di fantasia e di stile. Il Saltimbanco, l' Allan Cameron e gli ultimi spartiti apparsi alla Fenice di Venezia ed al San Carlo di Napoli, portano una impronta febbrile, e sembrano accusare il convulso anelito di un ingegno già esausto. Queste musiche fanno pensare ai sussulti erotici di un vecchio libertino, il quale si strugge ancora per un sesso ingrato che gli volge le spalle.

Tale fu la carriera del Pacini—carriera di luce e di tenebre, di immensi trionfi e di immense sconfitte.—La sua biografia artistica è quella di tutti coloro che hanno fatto assai, che vollero far troppo. Ma chi può fissare i confini dell'ingegno umano? chi può imporre agli istinti di un individuo? Come abbiamo detto da principio, questo torrente impetuoso di artista ha deposto degli strati d'oro per ogni dove è passato. La più informe delle sue opere racchiude delle gemme, le quali, raccolte e levigate da mano paziente, brilleranno per avventura nelle musiche dei maestri avvenire.

Pacini ebbe statura mediocre, occhio vivace, fisonomia non bella ma espressiva, persona snella ed elegante. Tuttochè amabilissimo e qualche volta cortigiano, non conosceva l'arte di cattivarsi le simpatie. Si creò non pochi nemici; fu ingiustamente perseguitato e fatto oggetto di basse calunnie—sorte comune a tutti gli artisti operosi. Da sovrani e da principi ottenne onorificenze non poche. Fu cavaliere di più ordini. Da tre mogli ebbe prole numerosa. La terza a lui sopravvisse, e con essa cinque figli, uno del primo, l'altro del secondo letto, i tre ultimi del terzo.

Alla famiglia superstite furono non lieve conforto gli onori che in alcune città d'Italia si resero alla memoria di lui. Arezzo decretò all'autore della Saffo uno splendido monumento. A Napoli, per iniziativa dei signori Torelli e Colucci, vide la luce una Strenna funebre dedicata alla vedova dell'illustre maestro—esequie solenni si celebrarono a Pescia ed a Lucca—e in altre insigni capitali del Regno[6].

Gli Italiani non sono ingrati coi…. morti.

GUSTAVO MODENA

Due sole volte, nella mia prima giovinezza, mi avvenne di trovarmi a contatto di questo insuperato attore, di questo indomabile patriota, di questo fiero repubblicano, che col fascino della declamazione, co' suoi scritti spigliati e sarcastici, colla parola vibrata e potente tradusse sul palcoscenico e in ogni atto della sua vita i grandi concetti del Mazzini.

La biografia di Gustavo Modena figurerebbe degnamente fra quelle degli uomini illustri narrate da Plutarco.

Nell'anno 1842, quando il Modena venne a Pavia per dare a noi studenti il primo saggio delle sue enfatiche e vigorose declamazioni, il tragico insigne da pochi anni avea fatto ritorno in Italia dopo le prove crudeli dell'esilio. Egli veniva a noi preceduto da una fama che somigliava ad una promessa di gagliarde emozioni e di eventi grandiosi. Nessuno l'aveva veduto, nessuno l'aveva udito mai, pure il suo nome destava in tutti i cuori un fremito di entusiasmo. Questo uomo singolare, questo attore ispirato e potente, che a Londra aveva ruggito i fieri sdegni di Dante, recava a noi la favilla agitatrice del Mazzini, il concetto e le aspirazioni della Giovine Italia.

Io mi recai in teatro per assistere alla sua prima rappresentazione con un'ansia febbrile nel cuore. Gustavo Modena esordì a Pavia colla Zaira di Voltaire. Egli era un sublime Orosmane. Bello di volto, alto di statura; la sua voce nasale, che dava suoni terribili negli impeti dello sdegno, era, nella espressione dell'amore, soavissima, penetrante, suscettibile di inflessioni svariatissime. Nessun attore italiano ha esercitato mai un fascino sì grande sulle masse. Quanto a me, confesso che la sola Rachel mi parve, in qualche dramma dell'Hugo, negli Orazii di Corneille e nella Fedra, degna di misurarsi con quel superbo atleta del teatro italiano.

Il Modena, nella scelta delle produzioni, mirava sempre ad un intento politico. Il suo repertorio sulle prime rimase circoscritto a poche tragedie. La censura, severissima a' quei tempi di austriaca dominazione, eccedeva di rigore con lui. Gli era vietato di rappresentare molti drammi consentiti senza scrupolo agli altri capocomici. Si mutilavano inesorabilmente dalle poche produzioni a lui permesse tutti quei brani che potevano suscitare, per effetto della sua potente declamazione, degli entusiasmi pericolosi. Era vano. Recandosi ad udirlo in teatro, quei rigidi ministri della polizia austriaca stupivano o piuttosto inorridivano di esser stati troppo indulgenti; una pausa, uno sguardo, un gesto dell'attore riempiva le lacune del testo mutilato, e talvolta una reticenza più significante della parola provocava il fremito e le entusiastiche ovazioni degli spettatori.

In quell'anno, il Modena non diede a Pavia che sei o sette rappresentazioni. La polizia, inetta a contenere gli entusiasmi, tremò che avessero a svilupparsi in atti di ribellione. Noi udimmo, dopo la Zaira, il Saulle, il Luigi XI, i Due Sergenti, la Clotilde, il Polinice, il Giocatore e la Calunnia. Bello nella Zaira, come più tardi lo fu il Salvini suo discepolo e imitatore, commoventissimo nei Due Sergenti, nobile ed arguto nella Calunnia, straziante nel Giocatore, atrocemente vero nel Luigi XI, è però d'uopo convenire che in nessun dramma o tragedia ebbe il Modena più largo campo a rivelarsi come nel Saulle di Alfieri. Gli spettatori, seguendo sulla scena le movenze di quel biblico Re, udendo la feroce parola di quell'ipocrita tiranno, comprendevano che l'artista, riproducendo con tanta enfasi di verità il personaggio, voleva infliggere un'onta a tutti i despoti della terra e votarli all'esecrazione pubblica. L'attore repubblicano, trascinando sulle scene il paludamento regale imporporato di sangue, ruggiva l'anatema alle monarchie e mirava a scuotere i troni. Rimarranno eternamente memorabili in chi ha udito il Saulle dal Modena, le pause terribili onde egli interrompeva il verso alfieriano:

Traggasi a morte…. a cruda morte… e lunga.

Era il tigre che vuol gioire dell'agonia e abbeverarsi di sangue vivo.

Ricorderemo più innanzi altri punti drammatici, ove con una parola, con un grido, con un gesto, questo attore di genio creò effetti nuovi e potenti. In più occasioni noi abbiamo visto gli spettatori balzare in piedi, salire sulle seggiole sventolando i fazzoletti e i cappelli, e confondere il loro entusiasmo in un grido che voleva dire: «Ti abbiamo compreso e a suo tempo agiremo!»

I giovani che oggi respirano un'atmosfera così diversa da quella in che noi abbiamo vissuto ai nostri primi anni, qualche volta sorridono all'udirci ricordare con tanta commozione codesti preludi incruenti del nostro risorgimento politico. Sventuratamente la storia di quel periodo di preparazione non è ancor scritta come la si dovrebbe, e pochi si danno la pena di informarsene nei libri ove se ne fa qualche cenno. Se altrimenti fosse, i sorrisi e i sarcasmi cesserebbero. Si vedrebbe che in quell'epoca di preparazione accaddero fatti e si consumarono sacrifizî degni di memoria; e più rettamente apprezzati sarebbero taluni uomini, i cui nomi si ripetono spesso da chi meno conosce ciò che operarono.

Terminate le rappresentazioni di Pavia, il Modena doveva recarsi a Milano colla sua compagnia, per dare alcune recite a quel Teatro Re, ch'egli chiamava il suo pozzo d'oro. Parrà strano ciò che io narro. Il grande attore, per trasferirsi da Pavia a Milano, volle servirsi di quella ignobile barcaccia che ad ore fisse solcava il naviglio trascinata da due squallide cavalle. Caso volle che in quel medesimo giorno anch'io partissi collo stesso veicolo e avessi occasione, durante il viaggio, di intrattenermi a colloquio col grande attore. Il Modena era accompagnato da sua moglie, la signora Giulia, bellissima e coltissima donna ch'egli aveva conosciuta e quindi sposata a Berna negli anni di esiglio. I due coniugi occupavano nel barchetto la cabina riservata; un bugigattolo a poppa, capace appena di ricettare quattro persone. Pare che mirassero a tenersi segregati dagli altri viaggiatori, onde evitare le noie che la curiosità pubblica suol infliggere alle persone celebri, segnatamente ai celebri artisti di teatro. La simpatia pel Modena era in me sì viva, che appena mi accorsi di averlo a compagno di viaggio, non seppi contenere il desiderio di farmegli appresso e di esprimergli come meglio sapessi a parole il mio ardente entusiasmo. Con quella inconsideratezza che è propria dei giovani, d'un salto varcai la barriera che divideva i due compartimenti; e forse con imperdonabile avventatezza avrei anche violato la cabina dove il grande attore avea voluto trincierarsi, se abordando la poppa non mi fossi trovato inaspettatamente in presenza di lui. Egli se ne stava ritto, sulla porta del bugigattolo, in mesto atteggiamento. Al vedermi, diede un accenno di sorpresa, aggrottando le ciglia. La sua nobile e buona fisonomia esprimeva una protesta scevra di corruccio. Ma il turbamento ch'egli lesse nel mio volto dissipò le nubecole della sua fronte; e vedendo ch'io voleva parlargli, nè sapeva per la violenta commozione sciogliere il labbro, egli primo mi volse a fior di labbro la parola, dicendomi «qui siamo alle strette; i miei grossi bauli non sono abbastanza educati da farsi in là per dar posto a nuovi viaggiatori.»

—Le domando mille scuse, mi feci a dirgli timidamente—io non sapeva…. io non credeva….

Ma poi, riprendendo di un tratto la mia baldanza giovanile «vale a dire, proseguii con intonazione più naturale, io sapeva benissimo ch'Ella era qui; ma non ho potuto resistere alla voglia di contemplare da vicino le sembianze di un artista, il quale in teatro mi ha fatto palpitare tante volte, e fremere, e piangere.

—Eccomi! sclamò l'artista sorridendo—mi contempli a suo bell'agio. Qui, a vedermi, ad udirmi, non si paga un quattrino; onde io spero ch'ella vorrà giudicarmi con indulgenza.

Vi era, nell'accento di quelle parole, un non so che di sarcastico e di melanconico.

Pareva che in luogo di rispondere a me direttamente, quell'uomo aprisse uno spiraglio al suo cuore per dar sfogo ad un sentimento di profonda tristezza che lo opprimeva.

Io non riferirò (nè oggi lo potrei con precisione) tutto che mi fu dato raccogliere da quel nobile cuore di artista, durante quel tragitto da Pavia a Milano pel quale si impiegavano cinque ore all'incirca. Dappoi mi fu detto che il Modena, per indole e forse anche per un'abitudine di diffidenza appresa alle amare lezioni della vita, fosse ordinariamente, al cospetto di persone sconosciute, molto sobrio di parole e più spesso fieramente taciturno. Ma io lo aveva colto in buon punto. Per tutti, anche per i caratteri più alteri e sdegnosi, ci hanno delle ore, degli istanti, nei quali l'anima deve cedere al bisogno di rivelarsi. Gustavo Modena usciva da una città, dove la sua anima contristata dall'esiglio avea dovuto ritemperarsi. Egli avea respirato in un ambiente di giovanili entusiasmi; la fiducia nell'avvenire della patria era risorta nel suo fervido cuore.

Mi parlò d'arte e di letteratura; deplorò l'abiezione dei comici, avviliti dall'indifferenza del pubblico e dagli incessanti dissesti economici. Lamentò la prevalenza soverchiante dell'opera musicale, più atta a ramollire gli animi che non ad invigorirli. Degli scrittori drammatici, scarsi a quell'epoca e indegnamente rimunerati, deplorò le miserevoli condizioni. Quei lamenti rivelavano una tacita protesta contro l'Austria e un nobile ma sfiduciato intento di reagire, per quanto da lui si potesse, contro la prepotenza corrompitrice della straniera signoria. Io pendeva estatico dal suo labbro. Io sentiva che quella melanconica diceria sull'arte e sulle condizioni del teatro drammatico non era che una parafrasi delle sue aspirazioni politiche. Sotto la larva dell'artista insoddisfatto si indovinava l'apostolo di Mazzini.

Avrei bramato che quel viaggio non avesse mai fine. Gustavo Modena, esponendomi le deplorevoli condizioni dell'arte drammatica italiana, mi aveva rivelato tutto il programma delle sue aspirazioni.

Approdando a Milano io dovetti separarmi da lui. Mi strinse cordialmente la mano, e mi parve che una favilla della sua grande anima si comunicasse alla mia. Il suo mesto saluto pareva dire: «confidiamo che sorgano presto, per l'arte e…. per l'Italia, dei giorni migliori!

Dall'anno 1842 fino al 1848, il pensiero e l'azione del grande artista furon volti incessantemente alla redenzione del teatro drammatico. Egli iniziò il risorgimento; egli creò col soffio del suo genio una legione di giovani attori; riformò il gusto del pubblico ponendogli innanzi i più insigni capolavori della letteratura antica e moderna, e tentò, per quanto gliel consentissero i tempi avversi, di allettare a scrivere pel teatro i più colti ingegni d'Italia. Educò i comici e gli spettatori coll'esempio, coll'autorità del nome, col sacrifizio.

In quell'epoca di profonda apatia, disperante di ogni sussidio, inviso al governo e segretamente osteggiato, il Modena dovette procedere a gradi. In sulle prime, la compagnia stipendiata da lui si costituiva di pochi attori, per la più parte mediocri. Il vecchio Salvini, padre a quel Tommaso che oggi tiene lo scettro fra gli attori italiani; Augusto Lancetti, caratterista non privo di ingegno ma viziato dal cattivo metodo allora prevalente; Angela Botteghini, Elisa Mayer, la Adelia Arrivabene, un Massini, un Bellotti primo attore giovane, formavano il meglio del drappello. L'Angela Botteghini era buona attrice nella tragedia; l'Adelia Arrivabene, uscita da patrizia famiglia Mantovana e tratta da irresistibile vocazione alle scene, rivelava le più elette disposizioni, e già nel Bicchier d'acqua, nella Calunnia, nella Cabala ( Camaraderie ), in tutte le commedie di alta società, riusciva attraente, simpatica, vera. Gradatamente, la compagnia si venne completando. Ernesto Rossi prese il posto del Bellotti, e presto conquistò le generali simpatie interpretando con sentimento e calore la parte di Gionata nel Saulle, e quella di Nemours nel Luigi XI. I due giovani Salvini, Tommaso ed Alessandro, non ebbero in sulle prime, nella compagnia diretta dal Modena, accoglienze molto lusinghiere. Quel Tommaso che oggi ruggisce con tanta efficacia le gelosie di Orosmane e di Otello, che provoca tante lacrime nella Morte civile, che in Francia, in Inghilterra, nel Belgio vien proclamato sublime; l'attore che fa trasalire Victor Hugo e commove di entusiasmo il più gran maestro vivente; quel Salvini che in sè riassume tutte le facoltà più prestanti dell'attore, nelle sue prime apparizioni al vecchio teatro Re di Milano si mostrava sifattamente impacciato e melenso, da provocare, ad ogni sua apparizione, le risa e le proteste degli spettatori. Gustavo Modena, egli solo intuiva nel suo giovane allievo le grandi disposizioni che più tardi doveano condurlo a splendida altezza. Il pubblico, come dissi, rideva e fischiava. L'Adelia Arrivabene, sempre in via di progresso, sempre affascinante e nobilmente vera nel rappresentare le duchesse e le contesse dell'alta commedia sociale, si vide ben presto sorger da lato una degna rivale nella Fanny Sadowschy. Questa giovane attrice, bruna gli occhi e le chiome come una bella andalusa, prestante della persona, riccamente dotata di tutti i vezzi della donna, di tutti i fascini dell'artista, grandeggiò in brevissimo tempo al contatto del Modena e prese nella compagnia il posto di prima attrice. La Sadowschy emergeva del pari nella tragedia e nel dramma; era, nel Filippo, una melanconica e fiera Isabella, nel Sampiero una Vannina ispirata.

Dall'anno 1845 al 1848, alla compagnia diretta da Gustavo Modena si aggregarono, oltre gli attori già nominati, il Woller, il Bonazzi, i due giovani fratelli Vestri, quel Majeroni che dippoi raccolse larga messe di plausi nei primari teatri, un Tommaso Pompei, un conte Billi di Fano, un Janetti romano, valentissimo nella tragedia. Il repertorio, circoscritto dapprima a poche tragedie dell'Alfieri e a qualche dramma dello Scribe, si andò di mano in mano allargando; aliti valentia ed al numero degli attori corrispose la proprietà caratteristica dei vestiari e il decoro dell'apparato scenico. Gli applausi incoraggiavano l'artista riformatore a tentare le più ardite innovazioni; ma quando il Modena, illuso dai primi successi, invocò dei sussidi onde affermare sovra solide basi il grande edifizio iniziato da lui, gli Italiani non risposero all'appello. Non solamente il suo bel programma non trovò sottoscrittori, ma venne accolto con diffidenza e disprezzo. Ci volle la forte tempra del suo carattere per resistere a quel disinganno che rivelava l'anemia morale del paese. Gustavo Modena ne fu profondamente accorato; quella defezione era un'onta per l'Italia; ed egli, il caldo patriota, dubitò forse per un istante che ogni generoso sentimento fosse morto nel cuore della nazione.

Non per questo egli si ritrasse dalla lotta.

Educare il pubblico all'apprezzamento dei capolavori di ogni tempo, di ogni nazione e di ogni scuola, non era il cómpito meno arduo che il Modena si fosse prefisso. In questa lotta da lui intrapresa contro i pregiudizi, e, diciamolo pure, contro l'ignoranza del pubblico, la vittoria gli arrise sovente, non sempre. Dopo aver ravvivato sulle scene italiane l' Edipo di Sofocle, e rese accette al pubblico del teatro Re La morte di Wallenstein dello Schiller e la Lucrezia del Ponsard, due tragedie che rappresentavano l'ultimo duello fra il romanticismo conquistatore e il classicismo spodestato, parrà strano che al Modena non riuscisse di far trionfare l' Otello e di introdurre in Italia la tragedia Shakesperiana oggidì ben accolta ed ammirata. Potete voi supporre che all'incomparabile Orosmane della Zaira mancassero i requisiti per riprodurre stupendamente le angosciate gelosie e i selvaggi furori del terribile africano? Fatto è che l' Otello, recitato dal Modena al teatro Re, non piacque; insorsero dalla platea, durante l'unica rappresentazione che ne fu data, segni di noia nei primi atti, negli ultimi aperte dimostrazioni di biasimo; si udirono perfino, nei tratti più sublimi della tragedia, delle risa sguaiate. Chi scrivesse la storia delle enormità perpetrate da quella bestia da mille teste che chiamasi il pubblico, farebbe un libro curioso e istruttivo[1]. Si vedrebbe quanto poco attendibili e meno rispettabili sieno spesso i verdetti collettivi, e come a torto si dia ad essi tanto peso. Uno dei punti della tragedia ove il genio di Shakespeare lampeggia più splendido e potente, non è forse il soliloquio di Otello che precede la uccisione di Desdemona? Il terribile Moro entra in scena coll'atroce proposito di immolare la bella e amata donna. Prima di accostarsi a lei, gli viene in pensiero di spegnere la lampada che rischiara l'alcova; ma riflettendo all'orribile eccidio che sta per compiere, egli esita un istante—«Se io ti spengo, o debole fiamma che mi rischiari, potrò raccenderti, ove le tenebre mi increscano; ma una volta che tu sii estinta, tu meravigliosa opera della benefica natura, di dove potrò io trarre la celeste scintilla che ti rianimi?» Così pensa, così parla Otello in quella scena stupenda, angosciato, combattuto dall'amore, dalla gelosia, dalla sete di vendetta. Orbene, fu a questo punto del dramma, quando il Modena colla lampada alla mano profferì le parole da noi citate, che il pubblico proruppe in una risata compassionevole. Dico compassionevole, perchè quel pubblico non avrebbe potuto ridere più chiassosamente, se avesse riso della propria imbecillità. Da quel momento, la rappresentazione dell' Otello si volse in parodia. Gustavo Modena, offeso dalla riluttanza degli spettatori, non seppe contenersi dal dimostrare il proprio sdegno. Egli cessò di esser Otello; gettò di mal garbo la lampada, e dandosi a passeggiare ed a gesticolare come un semplice borghese, dopo avere con affrettata recitazione esaurita la scena seguente, ordinò che il sipario venisse calato sulla uccisione di Desdemona.

Quella sera, finita la rappresentazione, vidi il Modena entrare nel caffè del teatro. Il di lui volto era meno accigliato che mai. Taluni comici gli si fecero intorno; qualcuno osò dirgli che l' Otello non era tragedia rappresentabile. Egli taceva; ma tratto, tratto, girando gli occhi dintorno con una espressione di sarcastica bonomia, zuffolava sommessamente. Oggi, Tommaso Salvini ed Ernesto Rossi, i due allievi di quell'insuperabile maestro, i due continuatori di lui, debbono i loro più gloriosi successi all' Otello ed all' Amleto. La tragedia Shakesperiana ha ottenuto favore in Italia; e il Coriolano, il Re Lear, la Giulietta e Romeo, il Machbet, non si chiamano più mostruosità drammatiche, incompatibili col nostro gusto.

Come avviene a tutti quelli che a passo celere si slanciano sulla via delle riforme, Gustavo Modena ebbe molto da lottare contro le abitudini o i pregiudizi del pubblico allorquando cominciò ad introdurre nella sua compagnia la proprietà e la verità storica dei vestiari, del mobilio, degli attrezzi, di tutti gli accessori scenici. Sotto questo aspetto c'era tutto da innovare nelle compagnie italiane. Gli attori erano a que' tempi troppo scarsamente rimunerati perchè potessero permettersi quel lusso di abbigliamenti che oggi si ammira negli stipendiati del Bellotti-Bon, del Morelli, del Pietriboni e di altri capo-comici cavalieri. Indulgente per abitudine alla povertà dei vestiari e degli addobbi, il pubblico, per ignoranza, tollerava l'anacronismo. Ora, non vi ha in fatto d'arte tolleranza, che a lungo andare non guasti i criterî e non pervertisca il gusto della masse. Quando il Modena impose a' suoi attori la più scrupolosa osservanza del costume, al vedere nel Cittadino di Gand e in altre produzioni storiche apparire sulla scena dei personaggi perfettamente ritratti dal figurino dell'epoca, la maggioranza degli spettatori si impennò; quelle nuove foggie di vestiti e di acconciature parvero grottesche e inverosimili. Mi sovvengo che ad una rappresentazione dello Jacquart, in quella commoventissima scena dell'atto primo, quando la figlia dell'operaio protagonista dà in uno scoppio di lacrime, si partì dalla platea un tal fragoroso scroscio di risate, che gli attori si guardarono l'un l'altro per alcun tempo, attoniti, confusi, come ad interrogarsi di ciò che fosse avvenuto. Era avvenuto che la bella Elisa Mayer, nell'atteggiarsi a disperato dolore, avea voltate le spalle al pubblico, e quella voltata di spalle avea posta in evidenza la cortezza di un corsetto così rigorosamente foggiato al figurino dei tempi da sembrare alla più parte degli spettatori una mostruosa indecenza. Quell'incidente diede luogo a calorose polemiche su pei giornali. Fu posta in campo una questione di verismo rappresentativo. Critici di ingegno e coscienziosi scrissero pro, contra ed in merito; e il bravo Riccardo Ceroni, amico e grande estimatore del Modena, svolgendo ampiamente le sue idee su tale argomento, non si peritò di proferire un verdetto di riprovazione contro il verismo scenico, concludendo che « il pubblico viene, o dee venire in teatro, a far tesoro di idee, di sentimenti e di consigli, e non già ad assistere, come una crestaia, a un corso dimostrativo di costumi, in cui lo scrupolo della esattezza sia spinto fino all'estremo de' suoi minimi particolari. » Il Ceroni era uomo di coscienza e scriveva con ischiettezza; ma il Modena non diede ascolto a lui, nè a quanti altri la pensavano come lui; e tirò innanzi nelle sue riforme, e ottenne che a poco a poco le altre compagnie drammatiche italiane lo seguissero nella buona via.

Si è già veduto qual fosse il repertorio da lui preferito. Fatta eccezione dalle poche tragedie dell'Alfieri, tutto il resto si componeva di produzioni straniere. Al Modena fu dato rimprovero di aver imposti al pubblico italiano non pochi drammi di volgarissimo effetto, quali Il Campanaro di Londra, Il Cenciajuolo di Parigi, La Signora di Saint-Tropez, ed altri d'ugual conio. Egli mirava ad impressionare vivamente gli spettatori, ad infuocare le passioni, a produrre negli animi delle agitazioni tempestose. Questi orribili drammi, riprovati dalla logica e dal buon gusto, gli prestavano il destro di ruggire qualche tremendo anatema contro i despoti della terra, di denunziare all'esecrazione pubblica qualche grande ingiustizia sociale. Per una invettiva, per un grido di rivolta, per un impeto d'ira sviluppato dalla sua declamazione potente, gli spettatori tolleravano la inverosimiglianza e applaudivano all'assurdo.

Non dimentichiamo, nel giudicare questo eccentrico artista, ch'egli mirava innanzi tutto a fare una propaganda di patriotismo e di democrazia a mezzo delle rappresentazioni sceniche. Allorquando, nel Giocatore di Ifland, egli gridava le parole: impreco a voi, pareti, che udiste i miei primi vagiti, ecc., pareva che quella maledizione, lanciata dal proscenio con tanto impeto di voce, dovesse echeggiare oltre le mura del teatro quale una minaccia di esterminio a tutti i despoti della terra.

Non recherà meraviglia se, ispirandosi ai suoi generosi intenti politici, nel fare appello agli scrittori italiani perchè gli fornissero delle nuove produzioni, il Modena ponesse per patto che queste avessero a svolgere dei temi istorici e nazionali. E quali erano i letterati italiani che a quei tempi scrivessero pel teatro? La censura austriaca aveva sgomentati anche quei pochi volonterosi che malgrado la ritrosía dei capocomici ad ammettere le produzioni indigene, malgrado l'indifferenza ostile del pubblico, malgrado la squallida prospettiva del nessun compenso, tratto tratto osavano ancora affrontare lo scabroso cimento.—Coll'Alberto Nota e coll'Augusto Bon agonizzava la commedia nazionale.—A Paolo Giacometti i primi successi avean dato più amarezze che impulsi a procedere. Il giovane poeta era già inviso alla polizia, non tanto per ciò che aveva scritto, come per quello che prometteva di scrivere.—Giacinto Battaglia si era fatto un bel nome co' suoi drammi storici che arieggiavano le epopee sceniche dell' Odeon parigino. Ad imitazione di lui, il Rovani, il Carcano, il Revere ed altri, svolgevano in forma drammatica degli argomenti patrii, ma quegli ottimi lavori, pregevolissimi sotto l'aspetto letterario, parevano inadatti alla scena. E tale parve anche il Lorenzino de' Medici, che rivelando la vigoria e lo splendore di un ingegno non ancora famoso, chiamò l'attenzione pubblica su Giuseppe Revere, e fece dire anche ai critici più diffidenti: ecco un giovane che farà risorgere il teatro nazionale! Il Lorenzino de' Medici, apparso in volume, ebbe un successo inaudito; ma nessun capocomico osò rappresentarlo, e forse l'autore istesso ne fece divieto. Per trionfare in teatro non rimaneva a Giuseppe Revere che una lieve fatica, quella di scrivere un secondo dramma con intendimenti più scenici, temperando le esuberanze della fantasia con quegli artifizî alquanto convenzionali che gli attori ed il pubblico esigono inesorabilmente da chi aspira a dilettarlo.

Giuseppe Revere, dietro invito del Modena, scrisse dunque il Sampiero di Ornano, una epopea drammatica dalle tinte forti, piena di impeti patriotici. Il tema era storico, luogo dell'azione la Corsica; Sampiero, il protagonista, un agitatore del popolo, un forte ribelle che mirava a redimere la patria vessata dal dominio genovese. Gustavo Modena, sotto le spoglie marinaresche del fiero isolano, fu bello, fu grande; la Sadowschy, recitando la parte appassionata di Vannina, si elevò all'altezza di lui; gli altri attori, abbigliati scrupolosamente alla foggia dei tempi e del luogo, recitarono con perfetto accordo. Le quattro o cinque rappresentazioni che si diedero del Sampiero al vecchio teatro Re nell'autunno del 1846, furono altrettanti successi. Il pubblico accorse in massa e applaudì con entusiasmo.

Incoraggiato dalla buona riuscita di quel dramma, il celebre attore non esitò a commettere dei nuovi lavori scenici allo stesso Revere e ad altri scrittori non ancora famosi ma promettenti, quali il Dall'Ongaro ed il Ceroni. Il primo assunse il non difficile compito di drammatizzare la pietosa istoria del Fornaretto; l'altro, credendo aver trovato un tema interessante nelle ammorbate cronache del Ripamonti e in un libro del Manzoni poco felice ma molto in voga a quei tempi, portò sulla scena la peste di Milano, i monatti, gli untori e il supplizio di un buon popolano assassinato dalla superstizione.

Il Fornaretto fu replicato più sere al teatro Carcano, dove la compagnia del Modena aveva trapiantate le sue tende d'inverno. La parte del vecchio padre, piena di mestizia e di piagnistei, non era di quelle che più convenissero al genio tragico del Modena; ma anche qui l'attore proteiforme ebbe lampi sublimi, e in qualche punto fece piangere gli spettatori. Il Giacomo Mora del Ceroni non destò il medesimo interesse. Il pubblico lo ascoltò con diffidenza, quasi con isgomento. Il lugubre ambiente della peste, gli squallori, gli orrori di quell'epoca maledetta dai morbi, dalla brutale ignoranza dei volghi e dalla atrocità delle leggi, tutto concorreva a provocare l'avversione. Tratto tratto, alla prima rappresentazione del Mora, insorsero dalla platea degli applausi che parevano espressioni di condoglianza. Gli attori, il Modena compreso, investiti dal ribrezzo e dal tedio, smarrirono di atto in atto la lena; il dramma cadde, nè valsero a redimerlo gli sforzi dei molti amici, che il Ceroni, coltissimo ingegno e gagliardo carattere, contava a Milano. Nè anche le vivaci polemiche della stampa ottennero di prolungare la vita delle scene ad un lavoro, nel quale un solo pregio poteva essere ammirato, la corretta robustezza dello stile.

Esito non pari a quello del Sampiero ebbe in appresso il Marchese di Bedmar, nuovo dramma del Revere. E nullameno, questi primi saggi teatrali dati a brevi intervalli da tre elettissimi ingegni, allietarono l'Italia e infuocarono le illusioni facilmente infiammabili degli altri capocomici. Allato della giovine truppa capitanata dal Modena già si andava creando, sotto gli auspici di Giacinto Battaglia e di Alamanno Morelli [2], quella Compagnia Lombarda, alla quale dovevano poi aggregarsi la Sadowschy, la Botteghini, l'Adelia Arrivabene, il Lancetti, il Majeroni, il Rossi, i fratelli Vestri, tutto il fiore dei giovani artisti cresciuti alla scuola del tragico insigne. Fu quella, pel vecchio teatro Re di Milano, l'epoca luminosa. Noi abbiamo assistito a quella prima fase del risorgimento drammatico italiano; abbiamo veduto svilupparsi il germe di quell'albero, che oggi, malgrado le avverse vicissitudini incorse, cresce sì prospero e vigoroso. È d'uopo convenirne; mentre la musica accenna a decadere; mentre si va quasi perdendo fra noi anche quell'arte squisita della esecuzione vocale per cui l'Italia fu chiamata dagli stranieri la terra del canto; il teatro drammatico fiorisce, e la famiglia dei buoni attori va crescendo di anno in anno. I nostri celebri tragici Salvini ed Ernesto Rossi, ad esempio dell'Adelaide Ristori che li precorse ammirata e festeggiata come una Diva, dopo essersi fatti applaudire a Parigi, a Londra, a Vienna, a Bruxelles, si apprestano a più lontane peregrinazioni. Gli stranieri, che non hanno più ragione di estasiarsi pei nostri obesi tenori, prodigano i loro entusiasmi a questi ammirabili interpreti di Shakespeare, che coll'accento e col fuoco italiano fanno rivivere Otello ed Amleto sotto aspetti quasi nuovi.

Ma se è vero che l'Italia può oggi gloriarsi di aver raggiunto nell'arte della rappresentazione drammatica un altissimo grado, è d'uopo convenire che a quell'avventuroso risveglio prodotto dall'efficace impulso dato dal Modena a' suoi tempi, tenne dietro, nell'infausto decennio che precedette la grande e seria riscossa del 1859, una fase di sosta, o piuttosto di decadimento.

Al primo grido di rivoluzione insorta dalle terre italiane nel 1848, Gustavo Modena prese commiato dal pubblico, congedò il suo brillante esercito di attori, volò ad arruolarsi nelle file dei combattenti; suo teatro divenne il campo di battaglia, sua unica ambizione fu quella di combattere e dare il sangue per la patria. Nelle schiere capitanate dal generale Antonini noi lo vedemmo colla divisa dell'umile gregario bivaccare allegramente sotto le mura di Treviso. La bellissima Giulia, sua moglie, lo aveva seguito al campo, e una ricca bandiera da lei trapunta sventolava all'avanguardia di quella colonna di audaci, ai quali non mancò la gloria di qualche impresa ben riuscita. Pur troppo, quegli eroici episodî si smarrirono infruttuosamente nel generale disastro; la miseranda catastrofe di Custoza, che doveva ricondurre gli Austriaci alle porte di Milano, sfrondò gli allori dei generosi e coprì di oblío le loro gesta.

Il Modena, dopo la restaurazione dell'Austria, riparò a Lugano. L'amnistia di Radetzky fu muta per lui. Fra i pochi esclusi figurava il temuto attore, il cui nome era un programma rivoluzionario, la cui potenza drammatica era un pericolo ed una minaccia. Nel settembre di quell'anno infausto, approdando una sera a Lugano, io rividi il Modena mestamente atteggiato sulla spiaggia, cogli occhi vaganti sulle acque, come chi attende qualche misterioso messaggio. Erano con me quattro o cinque amici; taluni incappottati alla militaresca, altri acconciati con quello strano abbigliamento da profughi, che riproduceva con risibile anacronismo i tipi teatrali del medio evo.

—Che di nuovo laggiù?—domandò l'attore appena fummo usciti dalla barca.

—Nulla! rispose uno degli amici.

Il Modena fece un atto di stupore, crollò la testa e si allontanò a lenti passi.

Seppi all'indomani che il dì innanzi erano partiti da Lugano alla volta dei confini lombardi, da quindici a venti giovinotti, per tentare uno di quei moti insurrezionali che il fantastico patriotismo del Mazzini sognava tanto più facili e sicuri quanto meno verosimili. Tutte le spedizioni organizzate a quell'epoca nel Canton Ticino abortirono miseramente. Ma il Modena, cuore d'artista, mente poetica, educata all'idealismo del dramma e infervorata dalle splendide utopie mazziniane; il Modena credeva, sperava attendeva l'istante a lui segnato per lanciarsi nuovamente nel campo della azione; e frattanto, declamando al teatro di Lugano la Divina Commedia di Dante, le liriche del Berchet ed altri frammenti di poesia repubblicana, sovveniva di denaro le reclute che già si cimentavano alle inconcludenti guerriglie.

A quell'epoca dal Cantone Ticino pullulavano gli opuscoli e i libelli politici. L'emigrazione italiana esalava i suoi fremiti e i suoi anatemi impotenti sotto ogni forma di scritto. La poesia e il verbiloquio ampolloso abbondarono sempre in Italia, anche nei più gravi momenti, quando la serietà del pensiero e dell'azione avrebbero tanto giovato. La politica che può tradursi in strofe rimate è ordinariamente una futile e nefasta politica. A quell'epoca, anche il nostro attore pubblicò delle brevi satire in prosa. Mi sovvengo che un suo opuscoletto indirizzato al marchese d'Azeglio levò qualche rumore. Naturalmente, i repubblicani insediati nel Cantone Ticino scaricavano sul Piemonte, sul Re Carlo Alberto e i suoi ministri, la reponsabilità di tutti i disastri accaduti. Dall'altra parte, i monarchici rimbalzavano le accuse e le invettive. È quello che accade nelle disfatte.

Dell'opuscolo qui sopra accennato e di altri scritti del Modena troppo magnificati dagli uomini di partito, dirò solo che piacevano soprattutto per una certa spigliatezza di forma, assai rara a' quei tempi fra i polemisti. Il Modena scriveva alla buona, con un gergo tutto suo proprio, da lui forse appreso tra i così detti figli dell'arte, coi quali avea tanto vissuto. Lo stile balzano dava rilievo alle arguzie sarcastiche, temperava l'acredine delle invettive. In sostanza, quegli scritti non erano che una parafrasi brillante delle utopie e delle ire di un partito.

Si era detto anni sono che le opere letterarie e politiche del celebre attore sarebbero uscite stampate in volumi per cura de' suoi amici. Converrebbe averle sott'occhio, e studiarle oggi a mente riposata, per giudicarle imparzialmente. Ma pare che la promessa edizione sia rimasta in sospeso per mancanza di fondi, come avvenne del monumento pel quale era aperta nel 1860 una soscrizione in un giornale repubblicano di gran nome.

La miseranda spedizione di Val d'Intelvi, che ebbe per risultato l'incendio di un grosso villaggio e il martirio di un povero oste, diede l'ultimo crollo alle illusioni dei profughi battaglieri aggruppati intorno al Mazzini.

Al cominciar dell'inverno i comitati si sciolsero. L'emigrazione, guardata di mal occhio e osteggiata dagli orecchioni del Cantone Italiano, si andò assottigliando. I caporioni del partito repubblicano si dispersero, riparando, quali in Piemonte, quali in Toscana, dove si preparavano nuove agitazioni.

Di là a pochi mesi, nella primavera del 1849, Gustavo Modena questuava alla sera nei teatri di Firenze l'obolo per Venezia, e il giorno con vibrata e mordace eloquenza predicava alla Camera dei deputati l'insurrezione e la leva in massa. Strani tempi; quando il Guerrazzi, dittatore, rappresentava nell'assemblea toscana il partito della moderazione, e doveva, come più tardi il Cavour, portare la taccia di codino.

Mi sovvengo che avendo il Modena un giorno, con certe sue proposte audacissime di generale armamento, sollevato la Camera a rumore, il Guerrazzi con un gesto di ironica compassione proferì le parole: «LASCIAMOLO RECITARE!» Sarcasmo irriverente e crudele, che non giovò certo a rinforzare l'autorità dell'illustre letterato livornese, già poco beneviso ai fiorentini e guardato con diffidenza dagli uomini d'ogni partito.

Ma la dittatura Guerrazzi non durò molto. Il Granduca rientrò a Firenze di là a pochi mesi; gli alberi di libertà vennero atterrati, il popolo festeggiò con luminarie e con tridui il ritorno del babbo; ed ai democratici italiani fu mestieri rifugiarsi a Roma, dove il Mazzini, inalberata la bandiera repubblicana, prometteva ricostruire l'Italia sulle basi dei principî più liberali. Gustavo Modena partì dunque per Roma, e quivi pure il suffragio del popolo gli assegnò uno scranno all' Assemblea Costituente.

Quell'ultimo, non inglorioso periodo della rivoluzione italiana si chiuse, come è noto, col trionfo delle armi francesi e colla restaurazione del governo pontificio. I soldati del generale Oudinot occuparono Roma, e un'altra volta i più strenui campioni della democrazia dovettero disperdersi. Gustavo Modena, dopo aver preso parte ai combattimenti di Porta San Pancrazio e di Villa Panfili; dopo aver appoggiate colla sua enfatica eloquenza e sancite del suo voto le leggi più liberali decretate dalla Assemblea repubblicana, ebbe per grazia, dopo la infausta catastrofe, di poter riparare in Piemonte. Un melanconico decennio, pieno di disinganni e di amarezze, cominciò per lui. Per campare la vita gli convenne far ritorno al teatro. Le sue finanze erano dissestate; le poche sue terre in provincia di Treviso, saccheggiate dapprima e poi confiscate dagli Austriaci; gli scarsi capitali, frutto de' suoi risparmi, esauriti durante la rivoluzione. Minacciato dalla squallida miseria, egli riprese dunque sotto auspici avversi e con animo ripugnante, la antica veste di Roscio.

A Torino, dove gli uomini di parte repubblicana erano poco benevisi e fors'anche osteggiati dalla aristocrazia predominante, mancarono alle sue rappresentazioni gli entusiasmi della folla e i cospicui guadagni. Abbandonato da' suoi valorosi allievi, circondato dal peggio dei rifiuti altrui, la sua apparizione sulla scena produceva una mostruosa antitesi di sublime e di grottesco. Quel gigante circondato di pigmei lottava colle sua grandi forze per ottenere l'effetto, ma spesso gli avveniva di dover soccombere.

Da Torino e da Genova, trascinandosi nelle piccole città, nelle più umili borgate del Piemonte, gli accadde talvolta di non esser compreso o di dover recitare alle panche. Lo si sapeva repubblicano, e la fermezza delle sue convinzioni gli alienava le simpatie dei moltissimi che professavano altri principî. In qualche teatro di provincia il pubblico gli si mostrò apertamente ribelle. Erano applauditi con puerile ostentazione i mediocrissimi attori che recitavano con lui; si fingeva la più glaciale indifferenza pel suo superbo talento. Così i volghi di allora punivano nell'artista la fede incrollabile del cittadino e l'orgoglio di un grande carattere.

Non vi è tempra che resista all'urto incessante delle delusioni. Gustavo Modena si lasciò vincere da una cupa misantropia. Associato alle trame segrete dei mazziniani, compromesso in ogni cospirazione, egli disperò forse in cuor suo di veder mai realizzarsi le splendide utopie del partito. Visse lunghi mesi in ozio sdegnoso, prostrato da un malessere morale che allarmava la moglie e gli amici. Quando gli avveniva di ricalcare la scena, le entusiastiche ovazioni e gli astiosi insuccessi non valevano a scuoterlo dalla profonda apatia. Qualche cosa dell'artista era morto in lui; più volte, a metà di una rappresentazione, egli smarriva la voce e la lena, nè gli era dato, adunando tutte le forze della volontà, riprendere il dominio di sè stesso. Così passarono pel Modena, relegato nei confini delle provincie piemontesi, quasi esule in terra italiana, i dieci anni che precorsero il grande rivolgimento nazionale del 1859.

La trionfale riscossa che allietò l'Italia dopo dieci anni di avvilimento e di aspettazione angosciosa, non era tale da appagare i voti di un uomo che vedeva nei successi della nazione la sconfitta del proprio partito. Era ancora il Piemonte monarchico che prendeva l'iniziativa, la croce bianca di Savoja era ancora il segnacolo della unione italiana. Le vittorie di Magenta e di Solferino non potevano cagionare ai repubblicani una gioia completa; essi assistevano alle feste delle provincie redente col volto accigliato e colla amarezza nel cuore. Noi che abbiamo gustato nella sua pienezza il tripudio di quei giorni, quasi ci affliggiamo come di nostra sciagura al pensiero che molti egregi patrioti pei quali la vita era stata fino allora un martirio, non raccogliessero da quella nostra e dalla generale soddisfazione che argomenti di rammarico.

Gustavo Modena tornò a Milano in sullo scorcio del 1859. Immutabile ne' suoi principi, la mente piena di ubbie, diffidente, iroso, più che mai taciturno, d'altro non parve preoccuparsi che di speculare sul proprio talento, riprendendo con lena le rappresentazioni teatrali. Ricomparve infatti nell'autunno sulle scene del teatro Re, e i Milanesi lo rividero, dopo un'assenza di undici anni, sotto le sembianze di Cittadino di Gand, in quel dramma politico, dalle tinte cupe, che'gli aveva offerto il destro, ai tempi della dominazione austriaca, di imprecare con tanto successo contro i tiranni. Strano a dirsi: il teatro Re non era affollato a quella prima rappresentazione; la platea non era stipata, i palchi a metà vuoti. Cionullameno, al presentarsi sulla scena, l'illustre artista fu salutato da una commovente ovazione. Gli applausi durarono dieci minuti; e da quegli occhi bruni, fosforescenti, pieni di fascino, si videro sgorgare due lacrime. Una impressione ben viva deve aver provato il Modena per quella manifestazione di simpatia; furono per avventura le ultime lacrime di gioia da lui versate. Fatto è che durante il primo atto del dramma, l'attore non potè mai sottentrare all'uomo completamente, nè l'artifizio della finzione vincere in lui il predominio di una commozione vera e profonda. A certi punti degli atti successivi lampeggiarono i raggi dell'antico Nume, e gli spettatori ne rimasero abbagliati. Ma chi ricordava il Modena d'altri tempi, non poteva a meno di rammaricarsi nello scorgere il grave deperimento de' suoi mezzi fisici. Qualche cosa di floscio si notava nel suo portamento scenico; la sua voce, così potente altre volte nel fulminare anatemi, non sempre rispondente all'impeto delle intenzioni, si andava insensibilmente spegnendo di atto in atto, di scena in scena.

Questo accadde alla rappresentazione del Cittadino di Gand ed alle altre che succedettero, quando il Modena ricomparve al teatro Re sotto le spoglie di Luigi XI, di Giacomo I e di Saulle. I giovani che lo vedevano per la prima volta, ammirando i lampi intermittenti del suo genio, non gli perdonavano le esagerazioni e le debolezze. I suoi vecchi ammiratori si accorgevano del deperimento, e disertavano dal teatro profondamente costernati. Non vi è cosa che tanto affligga come il decadimento di un artista di genio.

Naturalmente, la diserzione del pubblico venne dagli amici politici del Modena attribuita ad una cospirazione di partito. Si disse che l'aristocrazia Milanese, astenendosi dal teatro, intendesse protestare contro i principi repubblicani professati dall'illustre attore. E forse, il Modena stesso prestò fede alla diceria; tanto, che dopo aver tentato con sorte non migliore le democratiche scene del Carcano, da ultimo, con dispettosa modestia, scese a rappresentare il Saulle in un oscuro teatruzzo in contrada di San Simone.

L'ultima rappresentazione del più grande attore tragico che l'Italia ricordi, fu data a Milano in un teatro da marionette. Ora quel teatro non esiste più, ed è morto l'insuperabile Saulle che tuonò l'imprecazione agli ipocriti sacerdoti laddove per tanti anni Arlecchino e Gerolamo avevano divertito le balie e i bambini coi loro lazzi.

Al grande, eccentrico artista vivente serbava l'Italia quest'ultima apoteosi. Di là a pochi mesi, giunse da Torino la notizia che il Modena era morto; che la città gli avea celebrate splendide esequie, che alcuni teatri eran rimasti chiusi in segno di lutto, che tutte le illustrazioni della politica, della letteratura, dell'arte, ecc., ecc., erano rappresentate al corteo funebre… Solita istoria! Ignoriamo se qualche monumento di lui degno sia stato eretto a Gustavo Modena. Abbiamo già detto, che all'annunzio della sua morte, una soscrizione venne aperta a tal scopo da un giornale repubblicano. Si ignora quale impiego abbia avuto il denaro raccolto. A' suoi allievi, oggi ricchi e famosi; a coloro che tanto gli debbono, che tanto riflettono della sua grande arte ogni volta che riproducono le parti create da lui, spetterebbe il nobile cómpito di elevargli una statua.

Per molti anni, nel caffè dell'antico teatro Re, abbiamo veduto, presso il banco dove sedeva il buon Aniceto, appeso alla muraglia un quadretto portante l'effige dell'italiano insigne. I vecchi attori si fermavano talvolta a contemplare colle lacrime agli occhi quelle simpatiche sembianze; e il buon Aniceto, agli ignari che gli chiedevano qual fosse quell'uomo, ne tesseva con enfasi di ammirazione l'elogio funebre.

Il vecchio teatro, il vecchio caffè non esistono più. Esiste però in Italia un'arte drammatica, che è il riflesso immortale del genio di Gustavo Modena.

Lecco, 1878.

GIUSEPPE ROTA

Tutti conobbero il Rota coreografo, ma fu dato a pochissimi apprezzare la prodigiosa versatilità del suo ingegno e la sublime ingenuità del suo carattere. Era un'individualità potentemente organizzata—era il figlio delle lagune, il birrichino del Lido, che a sette anni scherzava colle onde, saltava sui burchielli, sfidava i barcaiuoli nella destrezza del remo e nella vivacità delle arguzie.

Quel fanciullo era una favilla di fuoco sprigionata dall'Oceano. A otto, a dieci anni, dopo avere nel corso della giornata tormentati e rallegrati colle sue celie i pesciaiuoli della piazza, dopo aver sdrucciolato come uno scoiattolo dagli alberi dei bastimenti, dopo aver sprezzato da gran signore le vetrine delle Procurative, dopo le estasi vespertine del lido: all'insaputa dei parenti egli compariva sulle scene di un piccolo teatro a rappresentarvi la parte di paggio, a sostenere lo strascico di un doge, a spargere di fiori il cammino di una sultana. In quel paggio inavvertito batteva fino d'allora un cuore di artista, un cuore che partecipava alle forti emozioni del palco scenico, che presagiva in quelli degli altri i suoi futuri trionfi.

Vi è molta analogia fra il carattere del Rota e quello dell'illustre cesellatore Benvenuto Cellini; due spiriti bollenti, impetuosi, predestinati ad una carriera avventurosa di immensi tripudî e di immensi dolori.

Rota era nato poeta come Benvenuto Cellini.—L'uno per caso divenne coreografo, come l'altro cesellatore; ma le opere di entrambi non cessano di essere poesia. Rota era anche un ingegno matematico—s'egli si fosse applicato seriamente alla scienza dei calcoli, alla geometria, alla meccanica, avrebbe fatto miracoli. Quali erano stati i suoi studi? Alle scuole elementari aveva imparato, come gli altri, a leggere, a scrivere, a far conti; poi, addio maestri! le assi del palco scenico divennero la sua palestra. È ben vero che dopo i primi successi delle sue composizioni coreografiche, vedendosi di un tratto elevato in una sfera sociale, ove la coscienza della sua scarsa coltura gli imponeva delle esitanze tormentose, avidamente egli si diede allo studio, percorrendo quanti libri di letteratura o di scienza gli venissero nelle mani. Sfiorando i volumi—egli indovinava gli autori. Assorbiva la scienza prima di averla meditata; applicando le teorie conquistate, egli rettificava i propri dubbi, consolidava il proprio sapere.

Nel 1859, ci recammo insieme a Parigi. Egli era scritturato al teatro dell' Opera per produrvi la sua Contessa di Egmont, ed io lo aveva seguito per collaborare a quello e ad altri programmi da ballo, come anche per servirgli da interprete. A quell'epoca il Rota non conosceva parola di francese.

Eravamo a Parigi da oltre una settimana, quando sì l'uno che l'altro fummo chiamati dal conte di Morny per discutere di una controversia insorta colla Direzione del teatro, a proposito del nuovo ballo. L'amico, affatto ignaro, come dissi, di lingua francese, mi lasciò parlare alcun tempo in sua vece, ma quando il conte di Morny, arbitro della questione, ebbe proferito il suo giudizio, Rota, senza darmi tempo di riprendere la parola, preso egli stesso a difendere le proprie ragioni con tal impeto di facondia, che il Conte ed altri personaggi presenti ne rimasero stupiti. Rota parlava una lingua di sua invenzione, un'idioma inaudito, che non era italiano, non era francese, ma tale da rendersi egualmente comprensibile a quanti lo udivano. Tutt'altri che lui avrebbe suscitato l'ilarità con quella strana forma di linguaggio—eppure non vi fu alcuno che si permettesse di sorridere, e forse nessuno avvertì che quell'uomo prodigioso improvvisava un nuovo vocabolario ed una nuova grammatica. Da quel giorno, da quel momento, Rota non ebbe più bisogno di interpreti; egli possedeva la lingua cosmopolita. È probabile che gli Apostoli, dopo il miracolo delle lingue di fuoco, parlassero di quella guisa.

E fu allo stesso Conte, che poi divenne Duca di Morny, che il Rota ebbe a presentare il piano di un suo telegrafo da guerra, ideato con ingegno ammirabile e più tardi usufruttato e applicato da altri. Napoleone III era partito per la guerra d'Italia—il Rota, per le inattese difficoltà insorte al teatro dell' Opera, non poteva mettere in scena il suo ballo.—Lo crederesti? mi diceva—io sono oltremodo contento che il mio contratto col teatro dell' Opera si sciolga. Mentre tutta Italia è in fermento di rivoluzione, mentre laggiù si combatte per l'indipendenza del nostro paese, mentre i nostri amici, i nostri fratelli danno il loro sangue—non ti pare che sarebbe vergogna se io mi trovassi là, sul palco scenico, a dirigere un esercito di ballerine?

L'amico sentiva di possedere un ingegno superiore alla propria arte, un cuore creato per dell'espansioni più nobili che non fossero quelle della coreografia.

Una mattina, egli entrò nella mia camera cogli occhi radianti.—Amico, mi disse: ho trovato il modo di prender parte alla guerra, di concorrere alla riuscita delle armi alleate! Ho inventato il telegrafo mobile per i campi di battaglia! Ho sentito più volte alcuni intimi del Rota, troppo ottusi per comprenderlo, o troppo invidiosi per rendergli giustizia, dargli taccia di visionario. Nessuna mente più positiva della sua.—Io aveva piena fede nei suoi calcoli—quand'egli diceva: ho trovato, per me non c'era più dubbio—in fatto di scienza matematica, il suo ingegno era infallibile. Mi spiegò il suo telegrafo mobile. Innanzi tutto si trattava di trasformare il filo conduttore in una catenella maneggevole, coperta d'una fodera od anche da una vernice isolante. Un battaglione di soldati a cavallo, di ciò specialmente incaricati, doveva improvvisare le sue linee telegrafiche sui vasti campi di battaglia, in guisa da tenere in comunicazione i diversi corpi d'armata seguendo i loro movimenti. La catenella telegrafica, sostenuta dalle picche dei soldati od anche abbandonata al terreno, poteva da un momento all'altro mutar direzione e diramarsi, secondo le eventualità, a tutti i punti del campo. Il povero Rota indovinava tutte le obiezioni che altri avrebbe potuto opporgli, aveva prevedute tutte le difficoltà pratiche, aveva concretata la sua invenzione su basi indiscutibili. L'idea era stata un lampo; i ritocchi, le modificazioni, i perfezionamenti non gli presero ventiquattr'ore di tempo. In due giorni tutto il lavoro era compíto. Egli aveva disegnate le sue batterie, aveva vestiti i suoi dragoni, segnate sulla carta tutte le evoluzioni strategiche. Era un grandioso ballabile militare, pel quale, colla celerità del lampo, si potevano diffondere in un vasto campo d'armata le parole o i pensieri del condottiero supremo. Ci recammo dal Conte di Morny per presentargli quel nuovo trovato. Il Conte, esaminando il disegno e i modelli, ascoltava pacato e quasi indifferente le spiegazioni dell'enfatico artista. Rota insisteva perchè il suo progetto fosse comunicato all'Imperatore, che in allora trovavasi a Milano—egli avrebbe desiderato che quella sua invenzione venisse tosto applicata a benifizio delle armate italiane e francesi. Di tal modo egli si compiaceva di pagare il suo tributo alla grande opera nazionale che si andava compiendo. Ma il Conte, senza impugnare il talento della invenzione, lasciò intravedere qualche dubbio sul risultato pratico di essa, e ritenne i quaderni per istudiarli, diceva, con miglior agio. Da quel giorno il Rota non seppe più nulla di quel suo trovato. Se non che, conchiusa la pace di Villafranca e tornato Napoleone a Parigi, dopo alcune settimane l'esperimento del telegrafo mobile ebbe luogo solennemente al campo di Marte, e con pieno successo. I procedimenti erano quei medesimi che il Rota aveva indicati al Conte di Morny ed esattamente sviluppati ne' suoi disegni; ma i fogli parigini attribuirono l'invenzione del telegrafo mobile ad un ignoto meccanico francese; e il povero Rota non ebbe altra rivendicazione fuor quella di una sterile protesta ch'egli fece inserire in qualche giornale italiano.

Fu a Parigi, in quei cinque mesi di vita condivisa, in mezzo alle agitazioni dell'arte e della politica, che io ebbi campo di ammirare i molteplici talenti del Rota, come anche i suoi nobili slanci patriottici. Era un italiano come pochi ve ne hanno. Con quel suo temperamento vulcanico egli era moderato. Amava l'Italia come un giovane di diciotto anni; ma era questa la sola passione colla quale egli era in grado di ragionare e di discutere. I suoi giudizi sugli uomini e sugli avvenimenti politici dell'epoca erano improntati da un buon senso che faceva stupire. Dopo le controversie al teatro dell' Opera, egli aveva perduto la protezione del ministro Fould e di altri personaggi influentissimi che in sulle prime gli si erano mostrati benevoli. Non restavagli che un solo amico, un solo difensore, e questi era uno sfegatato legittimista, il Conte di Monguyon, gran dilettante di teatri e amico intimo del Conte di Morny. Noi ci recavamo ogni mattina a visitare quel benevolo personaggio nel suo vecchio palazzo al sobborgo San Germano, e là si blatterava lungamente di coreografia, di musica, di ballerine, ed anche, com'era naturale, di politica e di guerra.

Il Conte, ispirandosi al Monde e ad altri giornali ultramontani, non cessava mai dal vaticinare disastri all'Italia ed a Napoleone. Questi, a suo credere, non sarebbe più rientrato sul suolo francese. Il Conte attendeva la prima sconfitta delle armi francesi e italiane sulle pianure di Lombardia per poter esclamare: il secondo Impero è finito!

Tutte le mattine, al nostro entrare nel salotto, il Conte aveva una brutta notizia a comunicarci—i suoi bollettini rappresentavano sempre l'antitesi di ciò che avevamo letto la sera innanzi nella Patrie o nel Siècle. Ci voleva, da parte nostra, una longanimità prodigiosa per subire tutte quelle sconfitte toccate all'Italia per opera della fantasia ultramontana. Ma il Conte era pel momento l'unico nostro mecenate, e metteva nel difendere la nostra causa artistica altrettanto accanimento quanto nell'avversare la nostra causa politica. Noi tacevamo, lasciavamo cadere i discorsi; procuravamo dissimulare la mala impressione di quelle sue istorie crudeli, le quali erano poi sempre smentite dai dispacci ufficiali.

Una mattina (e noi eravamo andati a fargli visita per sollecitare un favore della massima importanza), il vecchio legittimista ci accolse con volto radiante, e senza darci tempo di aprir bocca, ci sbuffò in viso, con una boccata di fumo, una fiaba più che mai inverosimile ed ingrata:—Il vostro Garibaldi è caduto prigioniero degli Austriaci a poca distanza da Varese.

A tale annunzio, il Rota fa preso da uno di quegli impeti gagliardi che caratterizzavano il di lui temperamento.

—Al diavolo la prudenza, e rompiamola una volta con questo imbecille!

Questo pensiero traluceva da' suoi occhi fiammanti. Al lampo dello sguardo successe immediata la parola, e questa parola era una assoluta e sdegnosa smentita.

—Non può avvenire che Garibaldi cada prigioniero! esclamò il Rota—i dispacci hanno mentito; se qualcuno venisse ad attestarmi di essersi trovato presente alla cattura di quel valoroso, io direi tosto a questo qualcuno: voi siete un impostore!

Il vecchio legittimista si dondolava sulla seggiola. Egli non si attendeva quel fulmine di insubordinazione.

—Mio Dio!… quanto calore!—esclamò dopo alcuni minuti—un generale può cadere prigioniero sul campo al pari dell'infimo soldato…

—Perdonate, signor Conte—riprese il Rota più calmo ma con nobile accento—Garibaldi può cadere ferito, Garibaldi può cader morto come l'ultimo de' suoi fantaccini, ma è impossibile, ve lo ripeto, che si lasci prendere prigioniero.

L'enfasi di quella risposta rivelava per la prima volta al vecchio legittimista il fiero carattere del suo protetto. Il Conte comprese di aver a fare con uno di quegli spiriti liberali che hanno tempra indomabile, e forse per la prima volta in sua vita egli ebbe a provare un sentimento di ammirazione per un vero patriota.

Qualche volta i suoi impeti avevano del selvaggio, ma sempre erano mossi da istinti generosi. Per creare sulla scena i suoi quadri plastici, egli soffiava nella materia il suo spirito prepotente; come il Dio della Genesi, egli urlava il suo fiat alla terra ed alle onde, agitava gli elementi, suscitava l'uomo dalla creta. Paolo Giorza è una creatura del Rota. Il giovane maestro si infiammava alla parola inebbriante del giovane coreografo. Vegliavano insieme le notti. Questi declamava i suoi concetti, evocando nella camera deserta i fantasmi del suo genio.—E intorno al pianoforte danzavano delle silfidi ideali, ispirando al giovane compositore di armonia una musica piena di moto e di lampi. Queste febbri dell'artista producevano il miracolo. Le danzatrici della Scala, cui le apostrofi vivaci, e spesso violente del Rota, mettevano terrore, alle prime rappresentazioni dei suoi balli parevano a loro volta invasate dal fuoco sacro. Nella festa del trionfo condiviso, esse acclamavano a lui, lo chiamavano il loro buon genio, il loro Dio.

Ma gli impeti del Rota, i suoi eccessi quasi selvaggi non erano soltanto occasionati dall'amore esuberante dell'arte. Più spesso, erano un fiero disprezzo della viltà, una reazione contro la prepotenza, una guerra alla ipocrisia; erano risentimenti infrenabili e tremendi contro la perversità umana. Vi sono degli uomini che paiono incaricati di rappresentare, nei confini della loro efficienza, il braccio della legge naturale—e tale era il Rota. Un debole oppresso dal forte, un impotente martoriato dalla brutalità, erano spettacoli intollerabili a quella ingenua e irritabile natura. Giungendo a Livorno per la ferrovia da Firenze, gli accadde una volta, in prossimità della stazione, di vedere un facchino percuotere un cavallo in modo sì spietato da suscitare la indignazione e il ribrezzo di quanti erano là presenti. La povera bestia scalpitava sotto le inumane battiture, ma, estenuata dalla fatica e impotente a trascinare più oltre il carico enorme, non si avanzava di un passo. Quella scena faceva orrore; ma nessuno dei passeggieri discesi dal convoglio osava intromettersi fra l'aguzzino e la bestia. Il Rota non potè contenersi, e volgendosi al facchino: come hai tu cuore, gli disse, di tormentare in siffatta guisa una povera bestia che non ha più fiato da reggersi? A quella ammonizione, il facchino imbestialisce e risponde con un ghigno sinistro. Per brutale rappresaglia, egli levò furiosamente la frusta, e col grosso del manico menò un tal colpo alla testa del povero animale da lasciarlo quasi tramortito.

—Mostro! cane! assassino!—urlò il Rota a quella vista—se tu osi toccare anche una volta quella povera bestia, io ti mando all'inferno con due palle di piombo nel cervello!—Così parlando, il Rota aveva tratto un revolver e lo aveva appuntato contro l'aguzzino, pronto a vibrare il suo colpo se quegli avesse osato reagire.

Erano presenti alla scena parecchie centinaia di persone. Tutti i cuori battevano per il Rota. In quel momento, in quella posa egli era formidabile. Il facchino, colla bava alla bocca, pallido, minaccioso, il suo enorme scudiscio sospeso sulla testa del cavallo, non poteva distogliere lo sguardo da quella nobile e potente figura che lo dominava, che imponeva ai suoi impeti brutali. Investito dalla indignazione popolare, quello zotico imbestialito subiva la più tremenda delle umiliazioni. Da' suoi occhi iniettati di sangue spirava l'anelito feroce della reazione—egli avrebbe voluto, col suo sguardo da basilisco, annientare il potente che gli stava dinanzi, od almeno, immolare in presenza di lui, il povero animale, oggetto di tanta commiserazione e di tanto interesse. Ma quell'uomo sanguinario non ebbe il coraggio della propria malvagità—egli indovinava che il menono atto di rappresaglia poteva essergli fatale. Comprendeva che quel revolver non era un lusso della minaccia—l'uomo che lo teneva appuntato non era di quelli che promettono invano. Se la palla fosse partita…. se quel vile aguzzino fosse rimasto sul terreno…. quale orrore! non è vero?… Uccidere un uomo per difesa di un animale…. irragionevole!… E su questa intonazione, il mondo avrebbe indubbiamente composto una litania di accuse e di contumelie all'indirizzo dell'artista—tutti avrebbero esclamato la riprovazione al pessimo soggetto, all'accattabrighe, al forsennato. E al Rota non mancarono accuse siffatte. La morale dei prudenti, dei circospetti, dei timidi, dei codardi—diciamolo pure—la morale della maggioranza, non ha che fare cogli impeti generosi di questi caratteri interi e robusti che obbediscono ciecamente agli istinti del bene. La mezza virtù è l'antitesi più estrema della virtù intera. Rota era violento, era terribile allorquando si trattava di schiacciare l'ingiustizia e la prepotenza; Rota era mite come un fanciullo, pietoso come una donna, allorquando la voce del dolore e dell'affetto parlavano al suo cuore.

Nella prima giovinezza, egli ebbe a lottare duramente colla miseria. A Milano, dove Giuseppe Verdi, prima di divenir celebre col Nabucco, stette chiuso parecchi giorni nella propria camera per non possedere un soprabito decente; in quella stessa Milano, Giuseppe Rota, il Verdi della coreografia, per dare una tinta invernale a certi suoi calzoni di tela russa, dovette immergerli in un bagno di inchiostro, e attendere due giorni perchè si asciugassero, onde con quelli presentarsi alle prove di un suo primo ballo. Egli si compiaceva assaissimo nel ricordare codesto ed altri episodi della sua giovinezza travagliata. Pochi artisti ebbero a lottare più crudelmente colla fortuna, e pochissimi uscirono dalla lotta, com'egli n'è uscito, coll'anima vergine di bassezze o di transazioni meno onorevoli. Col mutarsi della fortuna egli rimase quale era stato ai tempi più tribolati. Guadagnava da venti a cinquantamila lire all'anno, ed era sempre il gioviale compagnone, l'artista spensierato, laborioso, entusiasta. In teatro, non rari si incontrano gli individui che, usciti dalle infime classi sociali, nati e vissuti per anni in povero stato, o per mezzi straordinari di voce o per altro talento, finiscono coll'arricchire considerevolmente. Una goffa albagia, una boria insensata che si tradisce nello sfarzo delle vesti, nella grottesca affettazione del linguaggio, del portamento, dei modi, caratterizza ordinariamente questi parvenus della scena. Rota divenne un signore alla buona, senza vernice, senza pretese. Vestiva decentemente e nulla più; era sempre, ne' suoi estri di buon umore, il birrichino di Venezia, lo zingaro dei calli, il visionario della gondola.

A quell'ingegno originale e fecondo, a quell'energico e leale carattere non potevano mancare i fanatici ammiratori e gli amici devoti. Più tardi, ebbe anch'egli detrattori e persecutori accaniti, ma in compenso vide crescere il numero degli amici. Questi lo difesero con foga da partigiani. I critici più illuminati, più indipendenti dalle brighe teatrali, lo compresero ed ammirarono sempre—molti gli furono devoti constantemente, e fra questi il Rovani, Paolo Ferrari, Emilio Treves, Colucci, Francesco Zappert, Filippo Filippi, ed altri distinti. La giovane letteratura italiana era tutta per lui. I pensatori, i romanzieri, gli amici dell'arte, in lui riconoscevano un collega. Per essi il Rota non rappresentava soltanto un coreografo, un creatore di danze e di fantasmogorie seducenti; per gli uomini di gusto, per gli uomini illuminati, il Rota era un poeta, un sublime maestro di tutte le arti belle.

Come tutti gli uomini di genio, Rota non sapeva speculare, non si curava dei successi materiali. Egli era un vulcano in perpetua eruzione: la sua lava era un torrente d'oro che spesso andava a disperdersi nelle aride sabbie. Qual'era il pensiero agitatore, quale era l'irresistibile movente della sua anima irrequieta?—Rota, il principe della coreografia, il riformatore del dramma plastico, l'autore del Fallo, del Montecristo, della Cleopatra, dei Bianchi e Neri, della Contessa di Egmont, non aveva che un solo desiderio, una aspirazione imperiosa, irresistibile, quella di abbandonare il teatro, di rinunziare a quell'arte che gli aveva dato una gloria, che lo aveva posto sul cammino delle ricchezze. Rota voleva uscire dalla coreografia. Egli sentiva altamente la propria missione, nè poteva rassegnarsi all'esercizio di un'arte, la quale, a suo vedere, non presentava alcuna applicazione di utile sociale.

Visitando l'Inghilterra, la Germania, la Francia, penetrando col suo occhio divinatore tutti i segreti dell'industria contemporanea, Rota si sentiva umiliato di non poter espandere sovra un campo più serio che non fosse il teatro, le molteplici facoltà del suo ingegno. La sua mente creatrice si ribellava a costruire dei giuocatoli pel sollazzo di un pubblico spensierato. Rota voleva prender parte al movimento intellettuale del suo secolo con qualche cosa di serio, di positivo; egli ambiva di stabilire la propria gloria sopra una solida base; era stanco di dilettare, voleva beneficare. Però lo chiamavano visionario, pazzo; tutti i mediocri lo derisero, si ribellarono a lui. La sublime follia del sacrificio non è compresa che dagli spiriti elevati. Questa aspirazione era prossima ad effettuarsi. Nell'anno 1865, Rota era intento a costruire in Torino un grandioso stabilimento di fotoscultura, di questa nuova arte importata da lui in Italia, e dalla quale egli pareva attendersi dei risultati meravigliosi.

Negli ultimi mesi, la vita del Rota era una febbre di azione. Egli si affrettava al compimento de' suoi disegni artistici come fosse incalzato da necessità ineluttabili. Questa forza segreta che lo spingeva, che lo affannava, che non gli dava più requie, era il presentimento della morte. Una tremenda malattia, di quelle che la natura tiene in serbo per abbattere i forti, assalì il poeta della coreografia e il visionario della fotoscultura nel massimo fervore della sua attività intelligente. L'agonia del Rota fu lunga e terribile; il martirio morale fu per lui più crudele, più atroce del martirio fisico. Avendo conservato, negli aneliti supremi, la più serena lucidità della mente, egli violentava tutte sue facoltà nell'indagine di uno stratagemma che gli serbasse la vita. La forza del male era pur troppo ineluttabile.—Due ore prima di morire, il malato chiese di levarsi, e sorretto dai pietosi che lo assistevano, si adagiò sovra una scranna e apparve più calmo, più rassegnato. La fine della lotta era imminente. Ricoricato sul letto, egli rifiutò ogni bevanda, ogni soccorso di scienza medica—fece un gesto che voleva dire: silenzio!—e spirò coll'indice al labbro, col sorriso nello sguardo.

Una nobile intelligenza, un forte carattere, un cuore generoso si è spento col Rota. Il di lui nome sarà ben tosto obliato, in quanto la coreografia non offra a' suoi cultori una gloria durevole; ma chi lo conobbe serberà sempre una cara ricordanza di lui.

LA CASA DI VERDI A S. AGATA

Le case degli uomini illustri dovrebbero rimanere chiuse inesorabilmente a quegli ospiti indiscreti che si chiamano giornalisti; ma dacchè il maestro Verdi, obliando questo savio consiglio si piacque ospitarmi e trattenermi parecchi giorni nella sua villa a Sant'Agata presso Busseto, io non gli farò il torto di supporre che, accordandomi tanto onore, egli contasse sulla mia discretezza.

A tale riguardo non mi vanto migliore degli altri. E qual giornalista avrebbe il coraggio civile di seppellire nel profondo dell'animo le impressioni gradevoli, i piccoli ma interessanti segreti che a me fu dato raccogliere durante il mio breve soggiorno alla villa?

D'altronde, non c'è scampo; i grandi artisti, come i re, come gli imperatori, come i famosi capitani o ministri di Stato, non possono sottrarsi alle investigazioni del pubblico; e poichè l'autore della Traviata e del Don Carlo ha già preso il suo posto caratteristico nella storia della musica italiana, egli deve pure sottomettersi, buono o malgrado, alle violenze dei biografi, dei commentatori e dei ritrattisti. Dopo tutto, non è poi gran male che il biografo abbia conosciuta da vicino la sua…. vittima.

Da circa vent'anni io non aveva più veduto il maestro Verdi. Nel 1846, o nel 1847, mi era trovato con lui, in Milano, ad un desinare di amici, e i tratti di quel volto pensoso e severo si erano impressi a caratteri indelebili nella mia giovine fantasia. A quella mensa, fra molti giornalisti, letterati, artisti e buontemponi di ogni specie, sedeva anche il cav. Andrea Maffei, l'elegante traduttore di Schiller, di Moore e di Goëthe, il virgiliano poeta i cui versi sono una musica. In mezzo alla gaiezza chiassosa di noi tutti, il poeta ed il maestro serbavano una taciturnità desolante. Sì l'uno che l'altro parevano assorti in gravi pensieri; credo che a quell'epoca fosse in gestazione lo spartito dei Masnadieri, che poi venne rappresentato al teatro italiano di Londra.

Da quel giorno, come dissi, non ebbi più la fortuna di rivedere il maestro, e questi pure, dopo pochi mesi di soggiorno a Milano, abbandonò la città de' suoi primi trionfi, per non ritornarvi che circa vent'anni dopo, vale a dire ai primi giorni del luglio 1868.

Nè la casa ove nacque, nè la villa deliziosa che il Verdi abita di preferenza nelle sue vacanze di estate, fanno parte della grossa borgata che si chiama Busseto. Ma se Busseto non ha l'onore di aver dato i natali al più energico ed affascinante maestro dell'Italia contemporanea, a maggior dritto può gloriarsi di aver fornita a lui la prima educazione musicale, di aver compreso ed ammirato il di lui genio nascente. La casa dove il Verdi nacque è discosta da Busseto circa tre miglia. Io l'ho visitata con profonda commozione. Figuratevi una specie di tugurio di pietre e di calce, quasi isolato in mezzo ad una fertile pianura seminata di melica e di canapa. Si comprende come un artista nato in quel luogo debba conservare per tutta la vita l'amore dell'isolamento. A pochi passi dall'umile casicciuola, dove oggi una buona massaia alla domenica vende il vino ai contadini delle vicinanze, si estolle una chiesa di bella e maestosa architettura. In quella chiesa, all'età di quindici anni, il giovane allievo della scuola di Busseto suonava l'organo alla distesa, inebbriando la sua fervida fantasia di mistiche ispirazioni. E dall'organo della chiesa egli passava alla spinetta della casa paterna, e tutto un mondo di speranze, di illusioni, di sublimi delirî corteggiava il pallido adolescente in quell'oasi angusta di abitazioni, perduta in un deserto di campagne interminabili.

Mi fu mostrata la stanzetta dove abitava il fanciullo predestinato. Più tardi, alla villa di Sant'Agata, vidi anche il primo strumento sul quale si erano esercitate le sue dita infantili. Quella emerita spinetta non ha più corde, ha smarrito il coperchio. La sua tastiera somiglia alla mascella d'un cranio dai denti lunghi e corrosi. Eppure, qual prezioso monumento! E quanti ricordi per l'artista che ha versato sovr'essa le lagrime feconde di un'adolescenza tormentata! Quante emozioni sublimi per chi la vede e la interroga!

Ed io l'ho interrogata. Ho levato dalla tastiera uno dei martelletti che lasciava intravedere delle cifre, ed ho potuto leggere delle parole altrettanto ingenue che sublimi; delle parole che, mentre rivelano un atto generoso di artefice, somigliano anche ad un coscenzioso vaticinio. I miei lettori mi sapranno grado di vedere qui riprodotta quella inscrizione nella sua testuale semplicità. Mi parrebbe commettere una profanazione ritoccando pur una delle leggiere inesattezze ortografiche che la rendono adorabile:

« Da me Stefano Cavaletti fu fato di nuovo questi Saltarelli, e impenati a Corame, e vi adatai la pedagliera che io ci ho regalato; Come anche gratuitamente ci ho fato di nuovo li detti Saltarelli, vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi di imparare a suonare questo istrumento, che questo mi basta per esserne del tutto sodisfatto.—Anno domini 1821. »

Così questo buono ed arguto operaio che si chiamava Stefano Cavaletti, indovinava gli istinti musicali del giovine, mostrandosi meglio ispirato che nol fosse pochi anni dopo un egregio professore del Conservatorio di Milano[1], il quale ebbe a rimandare il Verdi a Busseto cou una patente di incapacità, che farà ridere i posteri.

È d'uopo sapere che a Busseto esiste una specie di Istituto, facente parte del Monte di Pietà, nel quale vengono educati gratuitamente alla musica cinque o sei giovani del paese o d'altrove. Gli è in grazia di codesto Istituto, che il Verdi, figlio di povero ma onestissimo campagnuolo, potè iniziarsi agli studi dell'arte; e quali fossero le sue disposizioni e come rapidi i progressi, lo attestano i componimenti scritti da lui in età giovanissima. La banda musicale di Busseto eseguisce ancora una brillante sinfonia scritta dal Verdi all'età di dodici anni; prezioso frammento di musica, che aggiunto a molti altri, costituisce il più bel patrimonio artistico di quell'Istituto musicale.

Ma veniamo alla villa di Sant'Agata.—Anche questa è lontana da Busseto circa due miglia; anche questa si trova pressochè isolata in mezzo ad una vasta pianura. La chiesa che porta il nome della Santa, e due o tre case da contadini formano il corteggio della ricca ed elegante dimora del maestro.

La natura non ha donato a questi luoghi alcuna attrattiva. Il piano è monotono e solo coperto da quella prosa di messi che rallegra la cupidigia del colono, ma nulla dice alla fantasia del poeta. In mezzo a quei lunghi filari di pioppi, che costeggiano una fossa povera d'acque, a un tratto il vostro occhio rimane sorpreso e quasi rattristato dalla vista di due salici piangenti che si addossano ad una porta. Quei due alberi immani che forse altrove non produrrebbero una impressione così viva, qui vi colpiscono lo spirito come una esotica apparizione. La persona che ha fatto piantare quegli alberi nulla o ben poco deve aver di comune, nel carattere e nelle abitudini della vita, colle popolazioni della vasta pianura che avete percorsa. L'abitatore della casa, che voi intravedete a poca distanza, dev'essere un eccentrico personaggio—un artista, un poeta, un pensatore, fors'anche un misantropo. Per accostarvi a quella porta vi è d'uopo oltrepassare un ponte, il solo tratto di unione che congiunga la dimora dell'artista a quella degli altri esseri viventi.—Chi conosce di nome l'abitatore di quella casa, passandole d'appresso in sul far della sera, si illude di udire, fra i rami di quegli alberi mesti, sospirare la nenia funebre del Trovatore o l'ultimo anelito di una Violetta moribonda. Voi comprendete, appressandovi ai cancelli, che quella dev'essere la dimora di un genio melanconico ed altero. Uno spesso filare di alberi difende la casa dagli sguardi profani dal lato che prospetta la strada maestra, mentre dal lato opposto il giardino si apre più luminoso a ridente fino alla riva di un laghetto artificiale.

È lecito presagire che allorquando le recenti piantagioni avran preso cogli anni più ampio sviluppo, le ombre e la tristezza domineranno completamente quell'abitazione.

Al di là del giardino, attraversati da un lungo viale in cui l'occhio si smarrisce, si estendono i vasti possedimenti del maestro, sparsi di casuccie paesane, di cascinotti assai bene architettati. La coltivazione rivela quell'arte perfetta che si apprende sui campi stranieri, meno favoriti dalla natura. Lo spirito osservatore del Verdi ha raccolto, per versarli su questo campo, tutti i progressi della scienza agricola inglese e francese. Mentre i salici del giardino, e i folti alberi, e i chioschi opachi, e il laghetto tortuoso e melanconico ritraggono l'indole appassionata dell'artista, la coltura di queste ampie campagne sembra invece riflettere la mente ordinata dell'uomo, quel criterio pratico e positivo che nel Verdi, caso piuttosto unico che raro, si trova accoppiato ad una fantasia esuberante, ad un temperamento vivace ed irritabile.

Questo criterio pratico e positivo si manifesta più che mai nell'architettura della casa, nella scelta dei mobili, in tutto ciò che costituisce il confortabile e l'ordine interno della famiglia. Non vi è che una sola parola, una parola musicale, a cui sia dato esprimere quest'ordine meraviglioso, questo connubio fortunatissimo dell'arte colle necessità materiali della vita—la parola armonia. Il gusto più squisito e il calcolo più sapiente hanno presieduto alla costruzione. Qui tutto è bello, tutto elegante e semplicissimo, tutto risponde alle esigenze della salubrità e del buon gusto. I miei lettori non esigeranno una minuta descrizione degli appartamenti, degli addobbi, delle pitture. Credo dir tutto affermando che l'abitazione è degna di un artista, il quale si è fatto gran signore coi prodotti del suo ingegno.

Il maestro compone ordinariamente nella sua camera da letto—una camera al piano terreno, spaziosa, piena d'aria e di luce, ammobigliata con artistica profusione. Le finestre e le porte vetrate danno sul giardino. Quivi un magnifico pianoforte, una libreria e uno scrittoio massiccio di eccentrica forma che, dividendo la camera in due compartimenti, esibisce allo sguardo una deliziosa varietà di bozzetti, di statuette, di gingilli artistici. Al disopra del pianoforte sta affisso il ritratto a olio del vecchio Barezzi, il vero amico e mecenate del Verdi, al cui nome, alla cui effigie veneranda il maestro professa una specie di culto[2].

La prima moglie sposata dal Verdi in età giovanissima era figlia di quell'ottimo patriarca di Busseto; e non è qui il luogo di ricordare quante memorie di affetti e di dolori, di lotte e di sacrifizî si riuniscano a rendere sacro pel maestro il nome di un così amato e benefico parente.

Nei silenzi della notte si partono da quella camera le armonie sussultanti che erompono dal genio creatore. Là fu scritto il Don Carlo; e questa opera colossale, che rivaleggia coi più insigni capolavori del teatro francese, fu compiuta nel giro di sei mesi.

In altre delle stanze superiori mi fu additato il primo pianoforte che sottentrò alla squallida spinetta da me più sopra descritta, e alla cui apparizione poco mancò che l'entusiasta cultore dell'arte non cadesse in svenimento per esuberanza di tripudio. E presso quel pianoforte ho inteso narrare intorno alle prime composizioni teatrali dell'illustre maestro, degli aneddoti piccanti, i quali contraddicono alle comuni dicerie. Vi è ben poco di vero in ciò che si ripete generalmente sulle circostanze che precedettero e accompagnarono le rappresentazioni del Nabucco; ma io mi riserbo a narrare quella istoria nei suoi più minuti particolari, allorquando pubblicherò del Verdi una estesa biografia, accompagnata da un documento critico di tutte le sue opere[3].

Per finirla collo schizzo della villa, dirò che in tutto quanto vi corre all'occhio di animato e di inanimato, di mobile e di immobile, tutto qui è bello, semplice, attraente. Come più sopra ho affermato, nella villa di Sant'Agata c'è il lusso del gran signore e il gusto eletto dell'artista di genio.

I biografi malvolenti, e innanzi tutti quell'ignorantissimo erudito che era il Fetis, non paghi di aver tentato coi più infelici sofismi della critica di demolire il talento e la gloria dell'illustre maestro italiano, si piacquero altresì di dipingerlo nel fisico e nel morale sotto l'aspetto di un selvaggio, starei per dire d'un orso[4]. Nulla di più sciocco della caricatura che pretende falsare un'effigie.

Il maestro Verdi contava allora[5] cinquantasei anni. Alto della persona, snello, vigoroso, dotato di una ferrea salute, come d'una ferrea energia di carattere, egli prometteva un'eterna virilità. Venti anni prima, quando mi ero trovato con lui a Milano, tutto l'assieme della sua persona presentava dei sintomi allarmanti. Se a quei tempi la gracile struttura delle sue membra, il viso pallido, le guancie scarne e l'occhio incavato potevano suggerire dei pronostici sinistri, oggi nell'aspetto di lui voi non trovate che la floridezza e la solidità dei predestinati a lunga carriera.

E come la persona, così anche lo spirito ed il carattere del Verdi hanno subìto una trasformazione favorevole. Non si può essere più elastici alle impressioni, più cordiali, più espansivi. Qual differenza fra il mio commensale taciturno dell'anno 1846 e il mio ospite vivace e qualche volta giovialissimo dell'anno 1868! Ho conosciuto degli artisti, i quali, dopo essere stati nella loro giovinezza spensieratamente prodighi di gaiezza e di affabilità, più tardi, sotto la vernice della gloria e delle onorificenze, si resero opachi e quasi intrattabili. Si direbbe che il Verdi, passando per una carriera di trionfi, abbia invece deposta ad ogni tappa una parte di quella scabra corteccia che gli era propria nei giovani anni.

La villa di Sant'Agata forma ancora pel maestro Verdi il soggiorno di predilezione. Quivi la sua attività prodigiosa di corpo e di spirito può svolgersi più liberamente che altrove. Alle cinque del mattino egli percorre i viali del parco, visita i campi e le masserie, si divaga navigando il laghetto in un piccolo battello che egli conduce e dirige da abile pilota[6]. Non un momento di sosta. Per riposarsi dalla musica, il Verdi ricorre alla poesia; per temperare le forti emozioni di questa e di quella, egli si rifugia nella storia e nella filosofia. Non vi è ramo dello scibile umano a cui la sua mente inquieta e avida di coltura, non si getti con trasporto.

Una moglie dotata delle più squisite doti di cuore e di mente, colta del pari che amabile, la signora Giuseppina Strepponi[7] divide con quest'uomo di tempera antica, con questo artista privilegiato, i sereni travagli della villa. L'armonia regna nei due cuori, e questa armonia produce nella casa l'ordine e il benessere.

Frattanto da ogni parte del mondo civilizzato giungono lettere e telegrammi alla villa che domandano spartiti, che proferiscono compensi incredibili, che promettono onori e trionfi.—Potrà egli, il maestro Verdi, resistere lungo tempo a tante seduzioni di denaro e di gloria?[8]—Ciò che io ritengo impossibile è che l'autore del Don Carlo possa imporre alle effervescenze del proprio genio, a quel bisogno prepotente di espansione che tuttora lo agita e lo spinge. Il vulcano ha le sue intermittenze, le sue tregue, ma il fuoco latente o tosto o tardi deve erompere.

Molte altre cose potrei aggiungere intorno al carattere, alle abitudini, al modo di vivere dell'illustre compositore. Ma io mi arresto qui, persuaso e convinto di avere già troppo ecceduto nelle indiscrezioni. Se il maestro Verdi non vorrà perdonami di aver con tanta indiscretezza violati i segreti del suo domicilio, io farò pubblicamente le mie vendette pubblicando quanto in oggi sopprimo. Or bene; invitateli a pranzo questi ciarlieri di giornalisti!—e all'indomani vedrete riprodotta in una appendice biografica la lista dei piatti e dei vini che apparvero sulla vostra mensa, e l'Europa sarà informata qualmente voi preferiate il gigot di montone all'arrosto di vitello, il barolo vecchio al bordeaux, le fragole al latte piuttosto che al sugo di limone—e i critici illustri, dopo due o tre secoli, si renderanno autorevoli disotterrando questa preziosa notizia, che voi prendevate il caffè senza zucchero, e facevate, dopo il pasto, un enorme consumo di stuzzicadenti.

NOTE ALLA BIOGRAFIA DI A. MARIANI

[1] Il maestro Verdi ebbe molti denigratori accaniti. È la sorte di tutti gli artisti di genio ai quali arride il successo. Un editore milanese, che andava debitore de' suoi primi lucri al Nabucco, all' Attila ed ai Masnadieri, si vendicò della sua poca accortezza nell'aver lacerato un contratto di dieci spartiti che gli promettevano un milione, stipendiando quattro o cinque letterati non tutti famelici od abbietti, per muovere al trionfante maestro una guerra altrettanto ridicola che impotente. Taluni di questi critici fecero ammenda dei loro spropositi; altri, i più gaglioffi, si mantennero impenitenti. Per coonestare la transazione, i ravveduti asserirono che il Verdi, dopo il Macbhet e la Luisa Miller, si era trasformato. Altri credettero avvertire una seconda ed un terza trasformazione all'apparire dei Vespri Siciliani. Si fece gran consumo di parole su tale argomento, Ora, per nostro avviso, una trasformazione non può essere che progresso o regresso. Osereste voi asserire che il Verdi del Nabucco e del Rigoletto non pareggi il Verdi del Don Carlos e dell' Aida? Tanto varrebbe dire che nel Barbiere e nella Semiramide il genio di Rossini si palesi meno completamente che nel Guglielmo Tel. Prestare un colorito speciale a ciascuna opera, a seconda dei luoghi, delle situazioni e delle passioni che si svolgono nel dramma, questo non vuol dire trasformarsi, ma obbedire alle leggi più ovvie dell'arte.

Percorrendo le vie infinite dell'arte, un genio può produrre i Promessi Sposi e l' Adelchi, la Lucrezia Borgia e la Linda; ma sempre e in ciascuna delle sue molteplici manifestazioni, egli verrà rivelando necessariamente quella potenza di individualità che è la vera e l'unica luce delle sue creazioni. Ogni artista che miri a rivelarsi ne' suoi aspetti multiformi, può soggiacere a qualche istante di debolezza o a qualche momentaneo perturbamento, può esporre quandochessia taluno de' suoi profili caratteristici meno attraenti e riescire in tali casi meno accetto alle moltitudini od agli uomini di gusto: ma ognun vede, mettendo a riscontro il Nabucco e l' Aida, la Traviata e il Don Carlos, che tra questi spartiti non corre veruna differenza essenziale fuor quella voluta dal diverso carattere dei temi e degli svolgimenti drammatici. Dire che il Verdi, dall'una all'altra opera, apparisca trasformato, è un giuoco rettorico della critica imbarazzata o rintuzzata dai successi. Non si può chiamare trasformazione ciò che in realtà non è pel genio che la rivelazione progressiva dei suoi molteplici aspetti.

[2] Angelina Bosio, allieva dell'egregio maestro Venceslao Cattaneo di Milano, primeggiò fra le cantanti che illustrarono le scene italiane nei due decenni che corsero dal 1848 al 1868. Cantò a Parigi, a Londra, a Pietroburgo, con grande successo. Ella nutrì sempre pel suo primo maestro, che tutt'ora insegna a Milano l'arte squisita dei buoni tempi, i sensi della più affettuosa riconoscenza.

[3] Angelo Boracchi fu davvero un intelligente ed audacissimo impresario. Non ebbe fortuna e morì povero. Negli ultimi suoi giorni, si piaceva di scrivere epigrammi, relativi all'arte, alla letteratura ed alla politica. Ne ebbe di argutissimi e abbastanza corretti nella forma. Peccato che nessuno li abbia raccolti e pubblicati!

[4] A rettificare le inesatte dicerie che si sparsero sul mio conto, e ad agevolare il cómpito de' miei futuri biografi, narrerò qui sfacciatamente e colla maggior schiettezza, quale è stata la mia carriera di cantante. Prima di produrmi sulle scene, io aveva studiato o finto di studiare a Pavia, sotto la direzione di un maestro Valentini, i primi rudimenti della musica; quindi, nell'Istituto Tadini di Lovere, avevo appreso a raschiare di mal garbo il contrabasso, e a vociare nelle chiese della provincia Bergamasca i motetti del Mayr e del Bonari. I miei esperimenti musicali si chiusero a Lovere con una farsa abbastanza comica, vale a dire con un grottesco concerto da me organizzato nella gran sala dello Stabilimento Tadini nel luglio del 1845. A tale concerto fa allusione il Donizetti in una sua lettera alla signora Basoni, inserita nell'epistolario stampato in appendice a quell'interessante volume di Notizie e Documenti che fu edito a Bergamo nel settembre del 1875, Gli abitanti di Lovere non hanno ancora obliato quella esecuzione, alla quale presero parte tre cantori girovaghi da piazza, da me reclutati a Brescia e presentati al mio buon pubblico quali artisti di cartello. Quella notte corsero delle sassate per le vie. Da Lovere passai a Milano, dove attesi a darmi buon tempo in compagnia delle più matte brigate; ma al cominciare del verno, presi risolutamente il partito di sfidare i cimenti della scena e segnai un contratto di cinque anni coll'impresario Boracchi in qualità dì primo baritono assoluto. La mia prima campagna teatrale si compì a Lodi trionfalmente nella stagione carnevalesca. Il bravo maestro Sanelli impiegò una pazienza da martire a farmi apprendere la bella parte di Lorenzino de' Medici della sua Luisa Strozzi. La sera del mio debut, accorsero da Pavia e da Milano molti de' miei ex-colleghi di studio e di baldorie. Il teatro era zeppo, e al mio apparire sulla scena, il baccano degli applausi e dei viva fu tale da provocare un insolito intervento di poliziotti. La mia voce era bella, intonata, sicura. Io cantava di lena, abbandonandomi al mio buon istinto musicale, senza risparmio di polmoni. A Lodi contava molti amici, oltre quelli venuti espressamente da fuori per sorreggere i miei primi passi nell' ardua carriera. Circolavano sul conto mio le più strane novelle. Nei palchi e nella platea si narravano ridendo i bizzarri episodi della mia avventurosa giovinezza, e il pubblico godeva nell'applaudirmi. Vi ebbero altresì, durante la stagione, risse e duelli per cagion mia, sciabolate e colpi di bastone. Nello stesso anno cantai al Carcano di Milano, e un episodio che si riferisce a quella stagione teatrale lo si può leggere nel presente volume, laddove è narrata la biografia di Angelo Mariani. Uscito dopo lunga malattia dalla Casa di Salute, l'impresario Boracchi mi mandò a Piacenza e quindi a Codogno per cantare nell' Attila la parte di Ezio. Nell'una e nell'altra città rimase viva per molti anni la memoria delle eccentriche mie gesta. È ben vero che amici troppo zelanti si incaricarono di attribuirmi delle stravaganze inventate di loro fantasia; pure, fra molti altri, precisamente storico il è fatto ch'io partii da Codogno e scesi all'albergo dell'Àncora a Milano nel teatrale costume di Ezio, colla daga alla cintura e il grand'elmo a cresta rossa sulla testa. Nel carnovale seguente (anno 1848) la rivoluzione mi colse a Piacenza malato. Nel libro che si intitola Memorie politiche di un baritono, ho narrato le strane peripezie che mi travolsero fino al carnovale dell'anno seguente: allorquando, trabalzato a Firenze dai fati politici, dovetti nuovamente ritornare al teatro per campare la vita. Cantai ad Arezzo nel Nabucco con esito entusiastico. La fama delle mie avventure mi aveva preceduto in quella città: i miei amici mi avevano accompagnato con lettere commendatizie, dove io era dipinto quale uno dei più gloriosi eroi della rivoluzione lombarda. Imaginate quale accoglienza mi venne fatta dal buon popolo Aretino, in un'epoca come quella! Nelle anzidette Memorie politiche di un baritono ho narrato i singolari e talvolta burleschi casi del mio soggiorno in Arezzo, e le non meno bizzarre avventure del viaggio che io intrapresi più tardi alla volta di Chieti; viaggio che mi condusse, dopo lunghe e forzose divagazioni, sotto le mura di Roma, dove caddi in potere delle truppe francesi che mi trassero prigioniero all'isola di Santa Margherita e quindi a Bastia. Dopo quattro mesi di durissima prigionia, in quest'ultima città io potei riprendere la carriera teatrale, aggregandomi alla nomade compagnia di un certo Bellagrandi che dall'Africa aveva trapiantato le sue tende sulle spiaggia côrse. Rimasi dunque e cantai durante una lunga stagione di sei mesi al teatro di Bastia. Quivi, da ogni ceto di cittadini raccolsi testimonianze di simpatia e di affetto che io non potrò mai obbliare. Uno de' miei protettori più generosi, il signor Antonio Limmarola, mi fornì più tardi, a stagione compiuta, il denaro perchè mi recassi a Parigi, e potei di tal guisa abbandonare nel marzo dell'anno 1850 quell'isola ospitale per trasferirmi decorosamente alla capitale della Francia. Là trovai parecchi amici e compagni di università; artisti e buontemponi italiani, i quali, sotto vesta di emigrati politici, si davano bel tempo declamando con enfasi intermittente contro la tirannide austriaca. Dopo un mese di soggiorno a Parigi, mi aggregai ad una compagnia lirica formata dalla prima donna signora Antonietta Montenegro, e dopo aver percorso parecchie città della Francia cantando disperatamente ogni sera, le opere più accette di Donizetti e di Verdi, mi ridussi di nuovo a Parigi, dove rimasi inoperoso un paio di mesi a dilapidare i miei pochi risparmi.

Un agente teatrale milanese, che più tardi divenne un celebre impresario, mi volle seco a Rouen dove si era formata sotto la sua direzione una compagnia elettissima di cantanti, destinata a percorrere i principali teatri di Francia e di altre provincie estere. Quel drappello di artisti si componeva dei due celebri tenori Napoleone Moriani e Antonio Giulini, delle prime donne Sofia Vera, Antonietta Viola, Rossetti Sikorsca, Sofia Didiee-Nantier e d'altri cantori quasi esordienti che in seguito divennero famosi. Mi vennero affidate le parti comiche. Ripensando a quei tempi, oggi mi avviene spesso di meravigliarmi della spensierata gaiezza che io metteva nel rappresentare al cospetto del pubblico i personaggi di Marchese di Bois-Fleury, di dottor Malatesta, di Dulcamara, di Figaro e di don Basilio. Fatto è, che una volta slanciato sul palco scenico, io mi investiva sifattamente dell'umorismo musicale di Donizetti e di Rossini, da riuscire un attore comico esilerante e inappuntabile. E questo dico senz'ombra di orgoglio; perocchè ai miei successi da istrione io ci tengo pochissimo, e quasi mi vergogno di ricordarli. Travestirsi da buffo o da buffone, svisarsi col nero di fumo e col carminio, far delle grinze, gesticolare e contorcersi per far ridere il pubblico, mi è sempre apparso qualche cosa che tocca da vicino la prostituzione. Da Rouen passai colla truppa condotta dal Lorini a Lion, a Chalons e in altre città della Francia fino a quando, scioltasi la compagnia al cadere dell'anno, feci ritorno a Parigi, e a quel teatro italiano mi produssi la sera del Due Dicembre, cantando la parte di Carlo V nell' Ernani, al fianco della Cruvelli, del tenore Calzolari e del basso Belletti. Quel mio debut non inglorioso ebbe luogo, come ognuno vede, alla data del colpo di Stato. Il giorno seguente, Parigi fece un vano tentativo di rivoluzione, al quale tennero dietro dei gravi perturbamenti. Il teatro italiano rimase chiuso per alcune settimane ed io mi sciolsi dal contratto. Nel marzo del 1852, adunai a mie spese e a tutto mio rischio, un drappello di artisti, per exploiter i teatri della provincia. Le rappresentazioni della mia truppa, costituita di circa 30 artisti di canto e di suono, cominciarono a Poitiors e si chiusero a Limoges. Fu una campagna che durò quattro o cinque mesi—e quante peripezie! quanti disgusti! quante lotte!—Ne uscii netto con un guadagno di circa duecento lire, le quali mi bastarono appena per trasferirmi a Nizza, dove mi chiamava un contratto di sei mesi coll'impresario di quel teatro. In quella città cominciai ad avvedermi che la mia voce accennava a deperire. Nullameno, dal pubblico ebbi cortese accoglienza e l'impresario mi rinnovò il contratto per l'anno successivo. Nella stagione estiva, un violinista non oscuro, il quale aveva già percorsa l'intera Europa lasciando dietro i suoi passi una striscia luminosa di debiti, mi volle seco in un giro artistico nel mezzogiorno della Francia. Quel suonatore dalla fisonomia mefistofelica mi trascinò in un pelago di guai. A Nimes caddi malato, e di là a pochi mesi, tornando a Nizza per riprendere a quel teatro il mio impiego di primo baritono, dovetti per impotenza di voce, supplicare l'impresario a volermi surrogare con altro artista più valido. Io rimasi a Nizza fino al termine della stagione, sciupando gli ultimi aneliti della mia povera voce avariata nella esecuzione di qualche parte comica o secondaria. Nelle varie riprese della mia carriera intermittente, non mi era mai accaduto di sentirmi trapassare l'orecchio dal sinistro stridore dei fischi. Questa soddisfazione, che solo mancava a completare la mia biografia teatrale, l'ebbi a Milano di là a cinque mesi, clamorosa, spietata, degna di me. Il teatro Carcano, che era stato nel 1847 il mio campo di Marengo, si tramutava otto anni dopo nel mio Waterloo. I fischi, le grida, le contumelie che mi investirono mentro io adunava invano gli ultimi residui delle mie note agonizzanti per cantare nel Templario la parte eroica di Briano, mi intimarono di cedere le armi. All'indomani della sconfitta, io presi risolutamente il partito di abdicare, e confesso che deponendo i titoli di baritono assoluto e di cantante disponibile, mi parve di rifarmi uomo, di ricostituirmi cittadino. L'ottimo Rovani, ch'io non conosceva di persona, narrando nella Appendice della Gazzetta di Milano quel mio primo ed ultimo fiasco, con quella squisitezza che era la luce simpatica di ogni suo scritto, si rallegrava che io abbandonassi la scena promettendomi degli allori più invidiabili nel campo delle lettere. Da quel giorno divenni scrittore—e ho scritto molto, ho scritto troppo, e molto ancora dovrò scrivere prima di toccare la meta ospitale che l'Italia promette a chi lavora onestamente colle forze dell'intelletto.

[5] Era chiamato il Re dei tenori; e davvero Napoleone Moriani fu artista di canto sotto ogni aspetto eminentissimo. Nacque nel 1806, morì nel 1878 in Firenze sua patria. Prima di darsi al teatro, aveva compiuti gli studi legali all'Università di Pisa. E fu in quella città che il Moriani strinse amicizia col giovane e allora latente poeta Giuseppe Giusti, il quale più tardi gli dedicò uno de' suoi stupendi carmi satirici, dove sono rammentati i dolci tempi di Pisa,

Quando di notte per la via maestra I duo teco vociando e la romanza Prendea diletto di chiamar la ganza Alla finestra, ecc., ecc.

Napoleone Moriani emerse specialmente nelle opere del Donizetti. Fu nella Lucia un Edgardo idealmente patetico e sublime, nella Borgia un Gennaro così appassionato, che in udire dal suo labbro le parole del terzetto O madre mia, ecc., ecc., erano ben pochi gli spettatori che non si commovessero al pianto. In molti romanzi inglesi o francesi vien ricordato il Moriani; Balzac e Giorgio Sand accennano a lui ed al fascino ch'egli esercitava colla soavità della voce e colla espressione del canto. Dopo aver percorso trionfalmente i principali teatri di Europa, idolatrato dalle masse, onorato da insigni maestri e letterati non che da principi e sovrani, quando la voce gli venne meno e vide per colpa non sua dissipati in sterili acquisti i suoi guadagni, non isdegnò applicare la propria attività alle speculazioni commerciali ed alle industrie. In questa seconda fase, in verità poco luminosa e talvolta angosciata della sua esistenza, l'onesto e intelligente cittadino si elevò all'altezza dell'artista. Io posseggo parecchie lettere a me dirette ne' suoi ultimi anni. Le ultime parole ch'egli mi rivolse da Firenze furono un atto di protezione in favore di un giovane poeta ch'egli riteneva predestinato a nobile carriera. Moriani amava i poeti—e non era egli, ai tempi suoi gloriosi il poeta del canto e dell'amore?

[6] Il teatro Carcano fu per anni parecchi, segnatamente all'epoca degli impresari Boracchi, Rovaglia e Crivelli, un campo di tumultuose manifestazioni, alle quali non era estranea la politica. Avveniva talvolta che le proteste contro uno spettacolo mal riuscito od uggioso, per qualche latente istigazione dei partiti agitatori, si chiudessero coll'invasione del palco scenico, con pioggie di patate, di torsi di cavoli, di bicchieri e d'altri più rovinosi proiettili. Ad una infelicissima esecuzione dello Stabat Mater di Rossini il pubblico infranse tutti i vetri delle lampade, mandò in frantumi gli specchi che ornavano l'atrio, e spinse la violenza riottosa fino a strappare gli stipiti aderenti alla porta d'ingresso.

[7] Il famigerato poliziotto Bolza amava la musica. Egli fece educare al canto una sua figlia, la quale riuscì eccellente prima donna, e percorse lunga e trionfale carriera sotto il nome di Ponti Dall'Armi. Un'altra figlia del Bolza andò sposa al maestro Alberto Mazzucato, musicista profondo, eccellente critico, e agli ultimi della sua vita Direttore del R. Conservatorio di Milano.

[8] I Baccanti vennero acquistati dalla Casa editrice Ricordi, e uscirono stampati nell'anno 1847. Il maestro, in segno di riconoscenza, dedicò lo spartito al baritono che si era fatto imprigionare per amor suo. I martiri…. hanno sempre un compenso.

[9] Una mezza dozzina di maestri impotenti, relegati nei Conservatorî a digerire la loro ambizione rientrata; un'altra mezza dozzina di critici pretenziosi e venali, oltrecchè ottusi ad ogni estetica che parli alla fantasia ed al cuore, si son fatti banditori in Italia di una maniera d'arte che è dell'arte vera la negazione. Una casa editrice di Milano, vagheggiando il patriotico disegno di sconfiggere il gran maestro contemporaneo, le cui opere fecero trionfalmente il giro del mondo, comperò e fece rappresentare in Italia le opere del Wagner, spendendo somme ingenti per farle applaudire e portar a cielo da un certo pubblico. Si inventarono le assurde parole: arte dell'avvenire, arte aristocratica, ecc., ecc. Si credette che l'assurdo, il mostruoso; l'incomprensibile potesse quandochessia surrogare il semplice e il bello. L'autore del Tanäusher ottenne a Bologna una apoteosi, e onoranze quasi identiche, se non maggiori, vennero rese nella istessa città ad un giovane maestro indisciplinato e scorretto, la cui prima opera I Goti appena meritava l'indulgenza delle tre rappresentazioni pragmatiche. Giornalisti compiacenti o stipendiati profittarono delle replicate mistificazioni per confondere i criterî del pubblico. Ma il pubblico, questo sublime ignorante che ne sa più dei critici; questo ente impressionabile e fiero della propria indipendenza; questo arbitro dell'arte, che comprese Rossini, che si estasiò ai patetici canti del Catanese, che da trenta e più anni palpita e freme pel fascino della musica di Verdi, il pubblico d'Italia infine, non si lasciò imporre dalle ciurmerie. L' arte dell'avvenire è già ripudiata; se tratto tratto essa manda ancora qualche sprazzo di fatua luce nei teatri o nelle sale dei Conservatorî, sono sprazzi che somigliano agli ultimi boati di un cratere prossimo a spegnersi. È però doloroso che taluni giovani musicisti, allucinati dagli effimeri successi del Wagner, sbalorditi pel trionfo dei Goti, siensi lasciati buono o malgrado trascinare sulle barbare orme. Più doloroso, che questo perturbamento di criterî estetici abbia interrotto in Italia quella catena di capolavori pei quali pareva dovesse eternamente verdeggiare la fronda del nostro primato musicale.

[10] Il maestro convalescente era Alberto Mazzucato. Appena si seppe che il Mariani avrebbe aderito ad assumere alla Scala la direzione dell'opera l' Africana, parve destarsi un serio allarme fra i professori dell'orchestra. Si temette che il valente e famoso maestro venisse ad impadronirsi per sempre del seggio ambito da molti. Per scongiurare il pericolo, i più intriganti si fecero dattorno al Mazzucato e colle belle, colle buone, lo indussero ad abbandonare il letto ed a riprendere la sua bacchetta da direttore. La storia del teatro è una trama di bassi intrighi. E vi è chi chiama il teatro il tempio dell'arte.

[11] Vanitoso, come tutti i favoriti dalla natura e i corteggiati dal mondo, il Mariani più che alla sua fama di musicista, teneva a quella di grande patriota e di politico chiaroveggente. Narrava piacevolmente certe sue storielle non sempre verosimili, dov'egli figurava da eroe o da martire, secondo l'occasione. Si diceva amico intimo di Imperatori, di Re, di alti personaggi diplomatici; a questi aveva dato consigli di moderazione e di saggezza, ad un altro aveva suggerito dei piani di battaglia. Allorquando, nel 1859, si seppe che Napoleone III, alla testa di duecentomila francesi, scendeva in Italia per muover guerra agli austriaci, il Mariani andava ripetendo agli amici che di quell'avvenimento poco o punto si meravigliava, comecchè egli ne fosse già prevenuto segretamente da un alto personaggio.—E chi era l'alto personaggio?—Diamine! ci vuol tanto a indovinarlo? Egli stesso…. il mio amico Luigi.»—E qui, si faceva a narrare che trovandosi egli nella precedente primavera a Parigi, avea nel gran viale dei Champs-Elisées, incontrato una mattina un elegantissimo tilbury guidato dall'Imperatore. Questi, al vedere il suo vecchio amico di Rimini, aveva repentinamente trattenuti i cavalli, e accennatogli di accostarsi. Naturalmente, il Mariani obbedisce, si accosta alla carrozza, col cappello in mano.—Via! bando ai complimenti, copriti il capo! gli dice l'imperatore con accento cordialissimo—so che sei a Parigi da due giorni e non ebbi ancora l'onore di una tua visita—Sire… Maestà….—Via! perchè oggi non mi tratti da amico?… È vero, oggi io mi chiamo imperatore dei francesi, ma tu sei l'imperatore delle orchestre…. Alle corte!… Se l'imperatore dei francesi può esserti utile in qualche cosa, non hai che a profferire una parola.—Sire, risponde allora il Mariani con voce supplichevole, per me non chiedo nulla, ma voi potreste far molto per la mia povera Italia….—Per esempio? domanda l'imperatore.—Per esempio…. dar la mano al Piemonte, intimar guerra all'Austria, e liberarci dall'orrendo giogo che ci pesa sul capo.—Non chiedi altro? esclama l'imperatore.—Null'altro, Sire.—Ebbene, ti prometto che alla primavera del 1859 la tua Italia sarà liberata dall'Alpi all'Adriatico; ma bada, veh! silenzio per ora! su queste parole, il principe diè una sferzata ai cavalli—e il Mariani…. tornò in Italia di lì a pochi giorni per riprendere il suo seggio al Carlo Felice.—Questo aneddoto, tuttochè ripetuto spesso dal Mariani, con stranissime varianti, incontrava degli increduli, ma egli lo narrava con tanto garbo, che nessuno osava fargli delle obbiezioni, e taluni gli rendevano anzi vivissime grazie di avere colle sue franche parole esercitata sulla politica di Napoleone una influenza sì favorevole alle sorti italiane.

[12] Quella che da venti anni suol chiamarsi in Italia arte dell'avvenire, non è che un vano attentato contro il buon gusto e contro il senso comune. Ora, non è a credersi che simili attentati possano mai riuscire. Converrebbe che la fibra umana si mutasse, converrebbe che le tendenze più nobili dello spirito e le aspirazioni verso il bello si spegnessero affatto. Dal caos momentaneo, prodotto da un fenomenale straripamento di ciurmeria e di grulleria altolocata uscirà quando meno lo si attende, il Nume novello, che separerà le acque dall' humo e la luce dalle tenebre. I ranocchi torneranno al pantano, e gli uccelli riprenderanno nell'etere sereno i loro canti melodiosi.

NOTE

ALLA BIOGRAFIA DI G. PACINI

[1] Dei giornalisti non è a far meraviglia; a certe epoche costoro si rimbalzano l'uno all'altro delle frasi, senza darsi la pena di riflettere un istante per vedere quanto vi sia in esse di vero o di assurdo. È piuttosto a stupire che i giovani maestri, e fra questi anche i più colti ed esperti dell'effetto teatrale, mostrino tanto abborrimento per la cabaletta; la quale non è, in ultima analisi, che un ritmo musicale molto atto ad esprimere le concitazioni ed i sussulti della passione. Si pretende da certi barbassori della critica che la cabaletta ripugni al gusto odierno del pubblico. Nulla di più falso. Nelle due opere più fortunate del Gomes, Guarany e Salvator Rosa, i punti più culminanti del successo furono segnati dalle cabalette dei duetti a soprano e tenore. Alla prima rappresentazione della Fosca, il pubblico della Scala cominciò a riscuotersi e ad applaudire con entusiasmo ai primi accenni della cabaletta: Cara città natia. Qualche cosa che arieggia la cabaletta è il canto. O dolce voluttà, del Marchetti; ed è là che gli spettatori paiono elettrizzarsi, e in ogni teatro dove si rappresenta il Ruy Blas, quel frammento lirico lo si vuol ripetuto. Dove fu dato il Papà Martin del Cagnoni, la cabaletta a tenore e soprano ottenne sempre gli onori della replica, E quanti esempi potremmo accumulare! Non è egli vero che alla riproduzione di molte opere antiche e troppo spesso riprodotte in ogni città, avviene spesso che il pubblico dia una solenne smentita ai sistematici denigratori della cabaletta? Sovveniamoci dei Puritani e dell' Anna Bolena, ricomparsi alla Scala recentemente. Nell'antica e troppo obliata opera del Donizetti, il tenore Gayarre trovò il suo punto di successo nel brillante ritmo dell'aria: Ah! così nei dì ridenti, tanto da doverlo ripetere ogni sera fra le ovazioni più clamorose. Malgrado questi fatti, i giornalisti non cesseranno di ripetere la loro frase, e i maestri sapienti, per rispetto all'assurda diceria, si guarderanno bene dal solleticare l'orecchio del volgo idiota con un ritmo che indubbiamente suol colorire di tanta luce il melodramma. Così avverrà che molte opere non prive di pregi sprofonderanno per omnia sæcula nella dissolvente ammirazione dei dotti.

[2] Qui si allude alle antiche carceri attigue al Palazzo di Polizia in contrada di Santa Margherita.

[3] Si vuole che una nordica principessa, la quale a Milano si rese celebre per la sua avvenenza, pel suo spirito, per le sue profusioni, per molte belle doti di mente e di cuore, nel copioso elenco de' suoi amanti fortunati inscrivesse anche il Pacini. Sarebbe vano indagare quanto vi sia stato di vero in tale diceria; pure da essa ebbe origine quella specie di animosità che il pubblico milanese dimostrò al Pacini in più occasioni, fischiando con irriverenza spietata parecchie sue opere ben riuscite altrove e non vuote di pregi. Non è raro il caso che un pettegolezzo da salotto od una indiscrezione da alcova influiscano sovra un successo teatrale. Giovò a taluni artisti, ad altri nocque la fama di stalloni valenti; la bestia pubblico ha degli strani, inesplicabili capricci.

[4] La Saffo non ottenne mai a Parigi un successo completo. La egregia Sannazzaro volle farsene interprete al teatro degli Italiani verso l'anno 1853, ma anche quest'ultima prova noa valse a rendere accetto lo spartito al pubblico francese. Vuolsi avvertire che la bella e appassionata interprete del capolavoro di Pacini accusava fino d'allora un sensibile deperimento de' suoi mezzi vocali. Le prime opere del Pacini ebbero all'estero miglior fortuna. Gli Arabi nelle Gallie e Gli ultimi giorni di Pompei ottennero al loro apparire una voga mondiale. Pure, Gli Arabi nelle Gallie, riprodotti a Parigi verso l'anno 1868 per ordine di Napoleone III, parvero una cosa sbiadita, e la famosa aria Di quelle trombe al suono, che al giovane Bonaparte esulante era apparsa anni addietro piena di fuoco marziale, alla vigilia di Sédan produsse l'effetto di una nenia funebre.

[5] Salvatore Cammarano fu, dopo il Romani, il più abile poeta librettista dell'epoca che trascorse dal Rossini al Verdi. Era napolitano; la sua fervida fantasia, l'ottimo cuore esuberante di affetti, la varia coltura, l'innato buon gusto, erano doti più che sufficienti per fare di lui uno splendido poeta lirico, da mettersi a paro coi più illustri d'Italia. Dovette darsi al libretto per musica, tanto da campare la vita; ciò che vuol dire abdicazione completa della propria individualità, sacrifizio, suicidio. Ne' suoi melodrammi rifulgono a tratti i raggi della sua bella intelligenza. Fu superiore al Romani nella potenza creatrice, e lo vinse altresì nella varietà degli intrecci drammatici e nella concitazione degli effetti scenici; qualche volta gli si accostò nella fluidezza del verso e nella espressiva chiarezza dello stile. La Saffo, la Lucia, la Maria di Rohan, la Luisa Miller, la Vestale, gli Orazi e Curiazî, la Battaglia di Legnano, vanno annoverate fra i suoi migliori libretti. Soggiacque anch'egli alla sorte comune a tutti i poeti del melodramma; si bisticciò coi maestri, vide i suoi versi deturpati e sconciati da mani sacrileghe. Visse povero, melanconico, infelice; non raccogliendo dal suo ingegno subordinato e manomesso, che la critica acerba degli invidiosi e le ingiuste recriminazioni dei musicisti fischiati. (Veggasi il Libro azzurro, di prossima pubblicazione).

[6] Nella solenne commemorazione funebre celebratasi a Lucca in onore del defunto maestro, si eseguirono i seguenti pezzi:

1.° Gran marcia a banda ed orchestra, sopra motivi tratti dalle composizioni di Pacini.

2.° Messa da Requiem a quattro voci e grande orchestra scritta dall'illustre defunto.

3.° Altra marcia a banda ed orchestra.

4.° Elogio funebre letto dall'illustre signor Vincenzo Sartini, professore di filosofia al R. Liceo di Lucca.

5.° Assoluzione a quattro voci ed orchestra, composta dallo stesso Pacini.

Il servizio musicale era affidato alla Cappella del Municipio e diretta dal maestro Fortunato Maggi. Varî altri professori e dilettanti del paese e delle vicine città di Pisa e di Pescia si prestarono gratuitamente alla solenne cerimonia musicale.

NOTE

ALLA BIOGRAFIA DI GUSTAVO MODENA

[1] In teatro ho veduto degli orrori. Qualche volta il pubblico, anche quello dei teatri meglio frequentati, diventa canaglia. Tengo nota di molti scandali avvenuti sotto i miei occhi a Milano ed altrove. Mi limiterò a citarne uno solo, che dopo quello delle fischiate e delle invettive toccate a quell'insigne letterato italiano che portava il nome di Ugo Foscolo, vuol essere annoverato fra i più mostruosi. Era promessa al vecchio teatro Re la rappresentazione di un nuovo dramma intitolato: L'indomani dell'ebbro, e n'era autore quel bravo e modesto Giacometti, il quale, per molti anni, sotto i rigori della dominazione austriaca, non aveva mai cessato di tener fermo a scrivere pel teatro. Il dramma doveva avere sette atti, o sette quadri, che si voglia. La gente era accorsa numerosa. Si alza il sipario—la scena rappresenta una bettola, qualche cosa di somigliante ad un assommoir, dove operai e popolani d'ogni risma stanno bivaccando. Il protagonista non tarda a comparire. Si comprende. È un marito della classe lavoratrice, forse un buon marito, un buon padre famiglia, che viene a spendere nell'orgia dei bevitori il salario della settimana. Lo spettacolo della bettola non è molto attraente. Gli attori, mezzo ebbri, si presentano scamiciati e parlano un linguaggio che si accosta molto a quello usato dallo Zola nel suo celebre romanzo cui la Francia ha fatto l'onore di oltre settanta edizioni. Non si tratta che di un prologo; all'autore necessita di far ubbriacare il suo protagonista; il vero dramma dovrà svolgerai nell'atto seguente, dove comincieranno a rivelarsi le inevitabili conseguenze del vizio. Ma quel milliajo di spettatori azzimati e guantati, che vorrebbero darsi l'aria di pubblico intelligente, alle prime scene del prologo si danno a bisbigliare e a battere i piedi; ed ecco, in meno che io nol dica, sollevarsi il rumorìo con un crescendo sì assordante, che gli attori debbono ritirarsi, e il sipario vien calato a precipizio come si trattasse di coprire un abbominio. La rappresentazione dell'ignoto dramma non venne ripresa nè quella sera, nè più mai. Il pubblico gustò per un istante quella che suol essere la sua maggiore felicità, infliggendo un oltraggio ed un dolore ad un uomo d'ingegno; unica rappresaglia, unica soddisfazione che il teatro consenta alla canaglia degli idioti. Povero Giacometti! E forse, il suo concetto sociale precedeva di trent'anni quello dello Zola, e il suo Assommoir era per avventura colorito di un verismo del pari efficace e indubbiamente meno vacchesco. Mi si perdoni la triviale espressione; l'ho imparata in quel volume, altrettanto famoso che ributtante.

[2] Il teatro drammatico italiano deve molto ad Alamanno Morelli. Non pago di insegnare coll'esempio, questo egregio attore, che in molte parti rivaleggiò coi più illustri tanto nel dramma serio come nella commedia goldoniana, si adoperò mai sempre alla creazione di una compagnia-modello, riunendo i migliori artisti dispersi nelle innumerevoli compagnie italiane. I suoi sforzi furono coronati, ed egli potè ottenere ciò che al Modena fu ostinatamente conteso dalla persecuzione governativa e dall'odio dei partiti politici.

NOTE ALLA BIOGRAFIA

LA CASA DI VERDI A SANT'AGATA

[1] Il professore che diede il voto sfavorevole pel quale il Verdi fu respinto dal Conservatorio, era quel bravo Angeleri, che pel corso di parecchi anni insegnò agli alunni dell'Istituto musicale di Milano l'arte di suonar il pianoforte. Il Verdi, sempre equo e modesto ne' suoi apprezzamenti, ricorda questo fatto senza rancore, e parlandone meco, parve intendesse a giustificare in certa guisa lo strano verdetto. L'Angeleri aveva un suo metodo speciale di educare gli allievi, metodo eccellentissimo, a giudicarne dai risultati. Egli amava dunque di dar lezione a quei soli che non avessero ancora attinto alla scuola di altri maestri. Il Verdi, presentandosi a lui per dargli un saggio della sua abilità sul pianoforte, appariva per avventura troppo viziato dagli insegnamenti avuti a Busseto, perchè l'altro volesse darsi la briga di ricominciare ad istruirlo. Era questione di meccanismo; e forse il brav'uomo, vedendo il giovinetto leggere di primo tratto la musica ed eseguirla sul pianoforte a dispetto delle regole, disperava ottenere da lui quella subordinazione e quella pazienza che si volevano per mutar metodo. Così stando le cose, viene alquanto a temperarsi la meraviglia che oggi si desta al pensare che il futuro autore del Nabucco, della Traviata, del Don Carlos e d'altri venti spartiti improntati delle orme del genio, si vide chiusa in faccia la porta del Conservatorio. E facciam voti che l'egual caso avvenga, oggi specialmente, a tutti i giovani predestinati da Dio alle grandi creazioni dell'arte.

[2] Vi è molto di erroneo nelle dicerie che corrono relative all'appoggio che il Verdi ebbe da un ingegnere anni sono notissimo a Milano, quando si trattò di far rappresentare per la prima volta il Nabucco alla Scala. Anche in quella occasione, i maggiori sacrifizii vennero compiuti dal Barezzi. All'anzidetto ingegnere (brav'uomo, del resto) il Verdi si mostrò nullameno devotissimo, dedicando a lui il suo splendido spartito.

[3] Veggasi il Libro azzurro.

[4] Il Fetis, inebetito dalla costante sua mania di denigrare il celebre maestro italiano, che schiacciava le sue critiche assurde e biliose cogli incessanti trionfi dello sue opere, fece del Verdi, nel Dizionario biografico dei musicisti, un ritratto compassionevole, inventando col suo maltalento una fisonomia che è la negazione più sguaiata del vero. «Il est evident (scrive il Fétis) que jamais phisionomie de compositeur ne fut moins révélatrice de talent. Cet exterieur glacé; cette impassibilité de traits et de l'attitude, ces levres minces, cet ensemble d'acier, peuvent bien indiquer l'intelligence; un diplomate pourrait bien être caché là-dessous; mais personne n'y pourrait découvrir les mouvements passionés de l'âme, qui seuls président à la création des belles oeuvres du plus emouvant des arts.» Abbiamo trascritto questo breve tratto, per mostrare quanto il (partito preso) e la fatua ostilità poterono allucinare un biografo che ottenne, mentre visse, fama di egregio scrittore di cose musicali. La profondità e la intensità dello sguardo, le linee della fronte altera e pensosa, i subitanei moti delle sopracciglia, delle nari e del labbro, ad ognuno che getti una occhiata anche fuggitiva sulle sembianze del Verdi rivelano tutta la potenza del suo grande intelletto, e quella energia di sentimenti che fanno di lui lo Shakespeare dell'opera musicale.

[5] La mia prima visita a Sant'Agata data dal 1867. Io era andato dal Verdi per eseguire dei rappezzi al libretto La forza del destino, che l'illustre maestro pose in scena l'anno dopo al teatro della Scala. Più tardi tornai replicatamente alla Villa mentre era in gestazione l' Aida.

[6] In quel laghetto poco mancò che il Verdi e la sua ottima signora perdessero la vita di là a pochi mesi. Mentr'essi, in sul far della sera, scorrevano a diporto sulle acque, il battello, urtato da un tronco d'albero sporgente dalla riva, si capovolse, e i due navigatori caddero e si sommersero. Il pericolo fu grave; se immediatamente non fossero accorse sul luogo alcune persone che per caso si trovavano a poca distanza, qual sciagura irreparabile!

[7] La signora Giuseppina Strepponi fu egregia cantante, ed emerse fra le più celebri prime donne che calcarono le scene della Scala dal 1839 in appresso. Era una Lucia insuperabile e una adorabile Elvira nei Puritani; riusciva ugualmente nelle parti di sentimento come nelle parti comiche, e noi ricordiamo con qual brio ella cantasse a lato del Ronconi, insuperabile Dulcamara, la briosa parte di Adina nell' Elisir d'amore. La Strepponi fu la prima interprete della parte di Abigaille nel Nabucco, e il Verdi la conobbe a quell'epoca, vale a dire nell'anno 1842, quando per la prima volta fu dato alla Scala il biblico spartito che gli aperse il cammino della gloria. Alle doti esimie della cantante, quella che oggi è la moglie del grande maestro, accoppia una coltura di spirito, quale difficilmente si riscontra nelle donne di condizione più elevata. Ella parla e scrive perfettamente tutte le lingue d'Europa, e versata in ogni ramo di letteratura e di scienza, giudica d'ogni cosa con rettissimo criterio ed ottimo gusto.

[8] Colla Aida e colla Messa di requiem, il Verdi ha chiuso splendidamente la sua carriera di musicista. È indubitabile che un nuovo spartito di lui equivarrebbe ad un nuovo trionfo dell'arte musicale italiana; ma quando si pensa al grande consumo di vitalità che si richiede ad un uomo di genio per ogni creazione, ci vien meno il coraggio di unire la nostra alle incessanti insistenze di chi vorrebbe spingere il Verdi a nuove fatiche. All'autore dell' Aida nulla più rimane da conquistare. Egli ha raggiunto quanto un artista può desiderare sulla terra; gloria, ricchezza, affetti leali e devozioni sincere. Un solo augurio noi dunque dobbiamo indirizzargli dal cuore: sano e lungo riposo sugli allori mietuti.

FINE DELLE NOTE.

INDICE

Prefazione Pag. 5

BIOGRAFIE

Angelo Mariani, Pag. 9

Giovanni Pacini, » 49

Gustavo Modena, » 77

Giuseppe Rota, » 125

La Casa di Verdi a Sant'Agata, » 151