RACCONTI POLITICI
RACCONTI POLITICI
DI
ANTONIO GHISLANZONI
Volume unico
MILANO EDOARDO SONZOGNO, EDITORE 14. Via Pasquirolo. 14 — 1876.
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Tip. dello Stabilimento di E. SONZOGNO.
INDICE
RACCONTI POLITICI
I Volontarii Italiani
INTRODUZIONE
Questo racconto fu scritto durante il preludio di quella epopea che prometteva all'Italia la completa attuazione del programma politico-nazionale.
Fu scritto nelle prime settimane del giugno 1866, allorquando la fiducia era piena e l'entusiasmo senza limite.
Le sorti della guerra si svolsero meno propizie alle armi italiane per una fatalità misteriosa che non osiamo interrogare. Tesori immensi di entusiasmo, di sacrifizio, di fede e di valore andarono sprecati — Ma forse perchè l'esercito italiano non potè vantare le grandi vittorie, perchè Garibaldi e i suoi quarantamila non ottennero di far stupire l'Europa come i Mille di Marsala, dovremo noi disconoscere l'eroismo dei soldati e dei volontari che ebbero a combattere le disastrose battaglie del 1866?
La missione assegnata ai volontari non poteva esser più ardua. Conquistare palmo per palmo le roccie inaccessibili del Tirolo, sfidare i nemici nei loro covi più formidabili, e per giunta logorarsi nei digiuni e nelle veglie assiderate — tali furono le battaglie dei volontari Garibaldini nel 1866.
Ma io non intendo numerare gli episodi gloriosi di quella difficile campagna. La mia trilogia non è che una storia di passioni generose, il preludio fisiologico di tutte le rivoluzioni, di tutte le guerre italiane.
Ho meditato i diversi sentimenti che spinsero l'Italiano a combattere volontariamente le battaglie contro l'Austria. Fra questi, emergono principalissimi il sentimento dell' odio, comune a quanti patirono oltraggi e ingiustizie dal dispotismo straniero — il sentimento elevato del dovere nazionale, che investì le classi più intelligenti e più colte — e da ultimo, nei giovani spiriti, la poesia dell'entusiasmo ispirata da un nobile ardore di gloria, da un indefinibile trasporto verso la vita agitata e avventurosa, dalla emulazione, dal culto di un eroe. — Questi sentimenti io mi sono proposto di tradurre in tre brevi episodii, dei quali ciascuno può fare da sè, mentre formano, riuniti, una specie di trilogia, la quale può a buon diritto intitolarsi: Trilogia dei militi volontari...
È ben vero che ad ingrossare le file dei volontari, concorsero, nel 1866, anche elementi più atti a dissolvere che non a corroborare quel nobile esercito.
Ma di questi non spetta a noi tener conto.
Noi cantiamo al nobili cuori i nobili affetti. — Abbracciando gli eroi ed i martiri, noi dimentichiamo nel loro fango gli insetti ed i rettili che si incontrano dappertutto.
PARTE PRIMA L'odio.
I.
C'è un paesetto in Val di Intelvi che si compone di cinque o sei case rustiche. Gli abitanti son tutti contadini, ad eccezione di un prete, il quale non è parroco, non è cappellano, non porta verun titolo che definisca il suo grado nella gerarchia ecclesiastica — è il prete del paese. S'egli non sapesse leggere il breviario e masticare gli oremus della messa, lo si direbbe un bifolco mascherato cogli abiti del sacrista. I suoi grossi scarponi perdono le legaccie, le sue brache non hanno colore. Da otto anni il suo collare consiste in una grossa cinghia di pelle assicurata dietro l'occipite da una fibbia. Egli ereditò quel distintivo pretesco dal suo ultimo cane bracco; un cane che fu ucciso da una palla tedesca nell'autunno del 1848, quando gli austriaci piombarono nella povera valle a esercitarvi le loro feroci rappresaglie. — Quel prete, per la santa memoria del suo bracco, non ha mai cessato di esecrare gli austriaci. Un uomo eccellente — e a mio giudizio — uno dei preti meglio accetti al Signore. Il suo nome è Don Remondo, ma i più lo chiamavano il papa di Val d'Intelvi.
Nel paesetto c'è una piccola osteria — vale a dire una casa rustica, dove si vende del vino, abitata da una famiglia di tre individui: un vecchio di settant'anni, sua moglie, e un ragazzetto di sedici anni circa, biondo di capelli e gracile come una fanciulla. Il vecchio si chiama Gregorio, la moglie Veronica, il ragazzo Ernani. Questo ultimo nome rappresenta il romanticismo dei tempi moderni infiltrato nella prosa patriarcale di quella antica famiglia.
In sul finire dell'aprile 1866, don Remondo entrò nel cortile dell'osteria colla Gazzetta nelle mani — ordinò un quintino Valtellina, e sedette presso un vecchio tavolo a leggere avidamente.
Quando Ernani dopo alcuni minuti venne a servirgli da bere — il prete alzò gli occhi dal foglio, e volgendosi al ragazzo — ci siamo! gli disse — questa volta si fa davvero... La campagna va ad aprirsi, hanno chiamato i contingenti, e dicono che già a quest'ora si vanno ad iscrivere parecchi volontari nell'esercito...
Gli occhi del ragazzo sfavillarono.
— Ah! nell'esercito...! sclamò il vecchio Gregorio, che era entrato nel cortile con un carico enorme di legna sulla testa — nell'esercito!... Ma là dentro non c'è da far bene per noi... Non sanno che farne dei soldati che hanno passati i sessanta... e meno ancora dei ragazzi che non hanno toccato i sedici anni!
— Aspetta un poco, Gregorio!... lasciami finire — disse il prete, riprendendo la lettura — lasciami finire ti dico... Vediamo le ultime notizie... i dispacci... le corrispondenze... particolari... Ci scrivono da Berlino... Ci scrivono da Parigi... Ci scrivono da Bruxelles... Ci scrivono da Caprera...
Il prete abbassò la voce, ma cogli occhi divorava le cifre.
— Oh! corpo del sacratissimo... del sacratissimo!... Sta a vedere che vuol mangiarsele tutte lui le notizie da Caprera... questo bagolone della dottrina!... Ma non sa, don Remondo, che quando si tratta di papà Garibaldi... di lui... corpo del sacratissimo... sacratissimo...
— Quante bestemmie per nulla! — interruppe il prete senza affettazione. To' vuoi sentire che cosa scrivono da Caprera....? Siamo qui per servirla...! Metti a terra quella legna... che deve pesarti sulla testa... La notizia è buona... anzi eccellente!... e bisogna che tu ti assesti un poco a tuo comodo per meglio assaporarla... Bravo! così va fatto! Vieni qua: mettiti a sedere... e lascia in pace i santi e la madonna... se vuoi che tutto vada per bene.
Gregorio aveva scaricato a terra il suo enorme fascio di legna — e fattosi dappresso al tavolo, si era posto a cavalcioni di una panca, giungendo le mani sotto il mento, e sporgendo la bocca semiaperta verso il prete.
Don Remondo colla sua voce più solenne lesse quanto segue:
«Ci scrivono da Caprera che il generale Garibaldi gode ottima salute... Egli ha ricevuto una lettera di un alto personaggio che lo ha messo di buon umore. Ad alcuni suoi amici, che sono andati a visitarlo, dichiarò di esser pronto ad assumere il comando dei volontarii al primo scoppiare della guerra. Noi crediamo sapere da ottima fonte che nel Consiglio dei Ministri si è già deciso di chiamare i volontarii e il loro invincibile condottiero non appena le operazioni della leva saranno terminate».
Il prete, finita la lettura, guardò in faccia a Gregorio aspettandosi una eruzione di entusiasmo violento. Ma il vecchio Gregorio pareva impietrito.
Dopo alcuni minuti, il vecchio levò lo sguardo verso sua moglie che era venuta ad ascoltare la lettura dietro le spalle del prete — quell'occhiata pareva una interrogazione.
Poi, con accento misterioso e carezzevole disse ad Ernani:
— Figliuolo, scendi in cantina!... Cavane un buon litro di quello che piace a don Remondo,... Ora comincio a crederci anch'io alla guerra... se si muove lui!... E bisogna pensarci... bisogna pensarci seriamente: non è vero don Remondo?
E quando il ragazzo fu tanto lontano che non potesse udire:
— Bisogna consigliarci... bisogna deciderci — o io, o tutti e due...
La vecchia Veronica facendosi colla mano ventaglio alla fronte — sentitelo! — esclamò — lo sentite, don Remondo? — Non vi pare che egli abbia perduto la testa?... A settant'anni voler seguire Garibaldi!... E quell'altro! Un ragazzo di sedici anni... sempre malato.... e timido come un passerino...
— Va a letto, Veronica!... Va a dormire... Già, tu sai bene... Non siamo mai andati d'accordo su questi interessi... Anche l'altra volta...
— Ma dunque... tu vuoi farlo morire, quel povero figliolo!... disse la vecchia con voce alterata dai singhiozzi.
— Va a letto, ti dico!... silenzio!...
Ernani tornava col vino.
Il vecchio Gregorio guardò con tenerezza le mani scarne e profilate del fanciullo alle quali pareva enorme peso il litro ricolmo. Poi accennò alla moglie di ritirarsi, ma questa volta con espressione più mite.
La vecchia obbedì — Ernani usci dal cortile chiamato da alcuni ragazzi che giuocavano nella strada. Gregorio e don Remondo rimasero soli.
II.
— Ho da farvi una confidenza, prese a dire Gregorio nell'atto di versare da bere.
— Di' su.
— Una confidenza che non ho mai fatta a nessuno... nè anche alla mia Veronica... Una sola volta... ma non qui in paese — lontano... lontano assai — ne ho detto qualche cosa a lui... a papà Garibaldi, che Dio lo benedica sempre!... E lui... Garibaldi — lo vedo ancora — Garibaldi ha fatta una smorfia come se gli venissero le lacrime su per la gola... E mi ha battuto la mano sulla spalla... come volesse dire: va là... che hai proprio ragione di odiarli... quei cani di tedeschi!
Il vecchio vuotò un bicchiere e riprese:
— Dunque... come vi dicevo... la cosa per intero... non l'ho mai detta a nessuno... Ed ora, metterò di essere al confessionale... Promettetemi, don Remondo, che non si saprà mai da anima viva ciò che sto per narrarvi...
— Gregorio... tu mi conosci!
— Sì... Ed è per questo che mi sono deciso ad aprirvi tutta l'anima mia per chiedervi consiglio. Vi ricordate della mia povera Martina...? L'unica nostra figlia... la nostra gioia. Ora avrebbe trentasette anni... A trentasette anni una donna è giovane ancora!... Eppure, quand'essa è morta, non aveva compiuti i venti!...
Il vecchio si interruppe — si versò da bere, portò il bicchiere alle labbra, ma tosto lo ripose in sulla tavola. Il vino, in quel momento, gli ripugnava.
— Come or diceva — riprese il vecchio — prima del quarantotto, io ne sapeva di politica quanto l'asino del mulinaro. Mi avevano mai detto cosa fosse la politica? Noi altri si viene su come gli alberi di frassino — grossi di fusto e buoni da far legna. A quarant'anni, io non ero mai uscito da Val d'Intelvi — una volta ero andato fino a Bellano, e quando fui arrivato laggiù, ho pianto dalla paura... Mi pareva di essere andato così lontano, così lontano, che per me non vi fosse più speranza di poter tornare al paese! Ma veniamo a lei... a quella povera figliuola!... Nel quarantotto aveva diecianove anni... La mia Martina — lo dicevano tutti — era la più bella figliuola della valle. Buona, poi! — altrettanto buona quanto io ero bestia!... Non sapeva niente di niente... Avevamo due conigli nella stalla... Una mattina, vedendoli uscire nel cortile con un seguito di piccoli coniglietti, la Martina mi chiese: chi li ha portati tutti quei piccoli? Ed io, bestia: «ma sono i figli di quei grandi.» «Eh! lo so bene anch'io, disse la Martina; ma domandava appunto chi è che li ha portati nella stalla... da qual parte sono venuti...» Vedete s'ella ne sapeva qualche cosa di ciò che succede a questo mondo!... Com'io della politica!... Basta!... È venuta fuori la guerra... Pio IX... il governo provvisorio... i piemontesi... e tutto il resto... Un bel giorno hanno arrestato i due gendarmi — hanno disarmato le guardie di finanza — sul campanile di Argegno s'è veduta svolazzare una bandiera di tre colori che pareva l'arcobaleno... e i ragazzi cantavano certe canzoni... Dio sa dove le avessero imparate! — certe canzoni che allora mi parevano del latino come i salmi che si cantano in chiesa. Cominciarono a passare dei giovanotti che non erano nè uomini ne soldati... Sulle prime io non ci capiva nulla — vi ho già detto che ero un bestione in quanto alla politica — ma quel passaggio di gente mi portava dei guadagni — si vendeva del vino — l'osteria era sempre piena — facevo denari. A forza di osservare, di ascoltare, di domandare..., a poco a poco io venni a capirci qualche cosa... alla meglio... tra chiaro e oscuro. Fra quei ragazzi che passavano dalla mia osteria per andare allo Stelvio, ce n'erano parecchi fra i dieci e i quindici anni. Quei biricchini sapevano già tutto... Un giorno entrò nell'osteria una grossa comitiva di quei caporioni trascinando legato e ammanettato un venditore di pipe. Gridavano: «morte alla spia!... fuciliamolo!...» Quel povero diavolo era smorto come un cadavere — tremava come un cane uscito dall'acqua — e implorava misericordia a nome di tutti i santi e della Madonna. — Mi sentii stracciare le viscere.... «Alto là!... alto là!... Nella mia osteria non si fanno di queste ribalderie... non si uccide un cristiano!» gridai a quei soldati senza uniforme. — E sentite mo questa! Un ragazzo, che forse non toccava i quindici anni... un coso da far ballare sulla punta del mio dito piccolo... si voltò indietro come una vipera, e guardandomi dal basso in alto con certi suoi occhi da gatto arrabbiato, incominciò a strillare: «chi è che difende i tedeschi?... Dunque... voi siete un tedesco!...» «Morte ai tedeschi! morte alle spie!» gridarono tutti, volgendosi dalla mia parte. «Tedesco io?... Ma io sono un taliano di val d'Intelvi... e dice che non si deve ammazzare un galantuomo...» — «Ah, siete anche voi della lega!... Abbasso le spie!... Morte ai traditori della... repubblica!...» Vi assicuro, don Remondo, che ebbi un bel da fare perchè quella gente non mettesse il fuoco alla casa per arrostirmi vivo in compagnia di quel povero venditore di pipe e di tutta la mia famiglia! In quel giorno io dovetti la vita a Veronica. — Ella tornava dalla campagna; vedutomi alle prese con quei furibondi, si fece nel mezzo a gridare: «ma non capite che egli è una bestia... un asino... uno zuccone, che non sa mai quello che si dice?... Animo, via, Gregorio! (e mi diede un gran pugno per spingermi in cucina) lascia fare a chi tocca.... e viva Pio IX! viva l'Italia!» — Quella Veronica aveva una gran testa... allora!... — La scena mutò di aspetto. — Cose da far piangere... Qualcuno sorse a gridare: viva le donne italiane!... La presero in mezzo... le saltarono al collo... le attaccarono una coccarda sulle spalle... tutti volevano baciarla... mentre io, sulla porta della cucina, vedeva tutto... e lasciava fare... perchè mi pareva che, in quel momento, fosse ben fatto... E quando uno la baciava, io diceva: «se lo merita! che tu sia benedetta! Io sono un asino, e tu sei sempre stata una gran donna!» Ma quella giornata segnò per la mia famiglia il principio di molte disgrazie. Veronica ammalò. Ella mi aveva salvato, ma non per questo ebbe a subire meno gravi le conseguenze dello spavento che ella aveva provato entrando nel cortile. Ella non potè mai dimenticare quella scena. La malattia fu lunga — per oltre due anni Veronica rimase inchiodata nel suo letto — ed oggi — voi lo sapete, don Remondo — la povera donna non ha più la sua testa — ha paura della sua ombra, e ricade malata ad ogni mutamento d'aria, ad ogni nuvolo che sorga. Ma ora viene il peggio della storia — bevete, don Remondo!... Beviamo!... Il vino non mi vuole andar giù... ma pure bisogna bere!...
III.
Dopo breve silenzio il vecchio riprese il suo racconto:
«A quell'epoca, poco prima che tornassero i tedeschi, voi, don Remondo, veniste ad abitare in paese. Mia moglie era seriamente ammalata, e il medico non dava speranze. Qualche cosa di quella maledetta politica io cominciava a capire. Io sapeva che i tedeschi non erano nati in Italia, che erano venuti qui a comandare, come sarebbe, a mo' di esempio, se quei di Argegno andassero a dire a quei di Lezzeno: ecco, noi siamo i vostri padroni! Ma pure... ve lo confesso... dopo la scena del venditore di pipe... dopo la disgrazia accaduta a mia moglie, io non poteva capacitarmi che quegli altri... i taliani... fossero gente buona a qualche cosa. Sotto i tedeschi, la gendarmeria era rispettosa... era gente... pulita, pensava io — i finanzieri venivano qua a bere... pagavano... se ne andavano senza far male a nessuno... Non c'erano schiamazzi... non c'era confusione... Che volete, don Remondo? Io ragionava da bestia... io non sapeva che per via... della via... Corpo di quel cane!... so io di chi intendo parlare... Ma se vi è un Dio che fa giustizia alla povera gente... saremo ancora noi che gli faremo la pelle a quel boia che mi ha assassinato la mia Martina!...
«In settembre... è successo... quel che è successo. Quegli altri, che erano scappati in Isvizzera, volevano tornare... Val d'Intelvi andò tutta in repubblica... e il povero oste di Argegno fu il primo a pagarla.... Un uomo della legge — compar Brenta!... Mi voleva bene come ad un fratello... Ah! io doveva capirla finalmente che s'aveva da fare con dei cani senza legge e senza timor di Dio...! Ma no... testa d'asino!... Quando vennero a contarmi la fine del povero Brenta, ho detto: non è vero! non può essere... la gendarmeria non commette di questi orrori!... Un accidente a me, e a quanti pensavano in quella maniera! Ma io fui servito come meritava... altro che accidente!... Sentite, don Remondo... Io sono vecchio... ho settant'anni compiuti... ma se Dio non mi concede la grazia di ammazzare due tedeschi... io sento che morirò dannato! Aspettate... Il litro è vuoto... datemi il tempo di andare e di venire... e poi vi dirò cose che non ho mai detto a nessuno... cose da far piangere un badile!»
IV.
Il vecchio Gregorio discese nella cantina, e tornò poco dopo col litro ricolmo. Egli riprese la sua storia a voce bassa:
«Tutta la valle era piena di tedeschi... ma di quelli... voi sapete... si diceva che mangiassero le candele e i ragazzi appena nati! — Io cominciava ad aver paura... Mi era venuto in mente di mandar via la Martina, come avevo fatto alcuni mesi prima, quando passavano i crociati dello Stelvio. Veronica era malata — come si fa?... E poi, c'era pericolo — le strade erano piene di soldati — e quegli altri... i nostri battevano le montagne per ritornare in Svizzera — Ero là: sotto quel fico, a pensare, colla testa nelle mani. Vedo comparire il Console sulla porta del cortile — (allora chiamavano Console quello che oggi... presso a poco... si chiama sindaco) — Buon dì, Gregorio! — Signor Console, il mio rispetto! — Hai tu una camera per dar alloggio ad un uffiziale? — Camere! alloggio!... ma quando mai ho avuto delle camere io? — Eppure bisogna avere una camera! — Bisogna...! è presto detto... ma come si fa?... — Si fa... si fa...! insomma... bisogna che tu metta in ordine la camera... Fra mezz'ora io verrò qui coll'uffiziale... Hai capito? — Ho capito... ma quanto poi all'intendere...»
Il Console aveva messo un'aria, quella mattina!... Mi rideva in muso!... Basta!... Nel cinquantanove ho liquidato i miei conti con quella mummia... gli ho fatto sputare i due denti dinanzi... e d'allora in poi nessuno lo ha più veduto ridere. — Figuratevi il mio imbarazzo... e la mia paura! Pensa... rifletti: — che serve? se io non preparo l'alloggio, quelle bestie mi infilzano sulla baionetta e dànno il fuoco alla casa per arrostirmi! Non c'era verso... La povera Martina consentì a cedere la sua stanza che era imbiancata di fresco — fra noi due, in meno di un quarto d'ora, vi collocammo i mobili migliori pian pianino... come se si portasse attorno del vetro — ma pure l'ammalata si accorse di quell'insolito vai e vieni. «Mio Dio! che novità son queste! esclamava Veronica dal suo letto... con voce affannata...» Io corsi a lei per calmarla... In quel momento si intese nel cortile un rumore come quando il pescivendolo mette a terra la sua stadera — Il Console gridava: Gregorio! dove è andata quella bestia?... Presto! non si faccia aspettare il signor tenente!!! E l'altro colla sua stadera a battere le muraglie... che pareva satanasso colle sue mille catene. Io non poteva staccarmi da Veronica... La povera donna era presa dal convulso...e spasimava fra i singhiozzi. — In quel momento, Dio aveva la testa rivolta d'altra parte...od era occupato a far cadere le foglie!...Quando io scesi nel cortile, la Martina aveva già parlato all'uffiziale — questi le rispondeva a bassa voce coll'aria più mansueta. — Era biondo come una pecora...quel boia — ed io, che mi aspettava di veder un orso colla bava alla bocca e cogli occhi pieni di sangue... io... bestione... Ma quella faccia di latte e ciliegia avrebbe ingannato il diavolo!....
«La Martina era smorta come la cera — l'altro tutto leccato le diceva: non affer paura!... tettesco star bona!... E quel muso da forca del Console... anch'egli si era messo a far il bocchino... e non cessava di ridere... Ve l'ho già detto, don Remondo — quella vecchia birba ora non ride più!...» «Se il signor tenente vuol vedere la sua camera... gli dissi io, entrando di mezzo — Oh! pasta! pasta! rispose il tedesco — mi piacer tutto in tua casa, pono uomo! — Egli sedette presso la tavola, mandò via il console con un segno della mano — e ordinò da colazione. Mi è mai passato un sospetto — un mezzo sospetto per la testa? Quindici giorni lo abbiamo tenuto in casa — timido... rispettoso...! Parlava poco, e sempre a voce bassa, per paura — diceva — ti tisturpare la mamma. — Egli andava, veniva, tornava ad uscire... mangiava molto e beveva pochissimo...non si lagnava di nulla!... Io mi fidava interamente di lui... Quanto alla Martina poi... Ve l'ho già detto... una ragazza che non distingueva la capra dal montone, e credeva che i figli nascessero fasciati. Non è bene che le figliuole sieno proprio all'oscuro di tutto... A una certa età, bisogna metterle in guardia... bisogna ammaestrarle, perchè senza avvedersene non abbiano a giuocare colla vipera... Voi mi capite, don Remondo. Io non vi dico altro... Cosa hanno fatto... cosa non hanno fatto...? Il tenente è partito... chi si è visto si è visto... e lei è restata... come Dio ha voluto!...»
V.
Il vecchio si interruppe — in quell'anima semplice da contadino c'era il pudore di una vergine. Egli arrossiva per sua figlia. Dopo breve silenzio riprese:
«La mia Martina m'avrà perdonato... Io sono stato un po' duro con lei... e non doveva... Sua madre, come vi ho detto, era malata — le madri hanno la mano più dolce nel medicare certe piaghe... Ma io non l'ho mica strapazzata quella povera creatura... Sulle prime sono andato un po' in furia... che volete, don Remondo?... bisognava sgridarla un poco... tanto da farle capire che aveva fatto male... perchè lei... quel povero angelo... non capiva... non sapeva proprio nulla... È morta che pareva una madonnina di cera!... Ma ora, ci vuol altro che piangere... sentirete, don Remondo, quello che intendo fare... Dunque... come dicevo... ho alzato un po' la voce sul principio... e poi ho detto subito: non è con lei che io devo prendermela... io devo rimediare alla meglio... perchè Veronica non sappia... perchè nel paese non succedano degli scandali... La condussi a Osteno in casa di una mia sorella vedova — una santa! E poi, dopo alcuni giorni, andai a Milano — aveva un pensiero — quell'uffiziale si chiamava Francesco Nëipper — il suo reggimento era di guarnigione a Milano... Mi era messo in testa io che ci potesse essere dei galantuomini anche fra loro... oppure... che parlando a qualche superiore... a qualche coronello... Sentite mo questa, don Remondo!... Arrivo a Milano... In quei giorni c'era lo stato d'assedio... Soldati di qua, gendarmi di là... commessi... pollini ad ogni angolo di contrada... Milano pareva una caserma. Prima di fare dei passi coi superiori... voleva vederlo lui... voleva un poco sentire come la pensasse... Vederlo! non era facile... Eppure... una mattina... girando nei dintorni del castello... vedo un uffiziale che ha la sua statura... Era in compagnia di un altro... e parlavano a voce alta in tedesco. — Mi avvicino... gli prendo la volta... è lui... proprio lui... quella faccia falsa da san Sebastiano!... Con tutto il rispetto... levandomi il cappello... me gli accosto di fianco, e gli dico: buon dì, signoria! — Quei due campioni balzano lontano tre passi, e subito fanno l'atto di cavar fuori le sciabole... « Farcflutter... staiffer! crazzer!...» sa Dio cosa bestemmiavano quei due mostri!... — e mi vengono addosso che sembrano due jene! «Ma il signore sa chi sono... l'oste di Val d'Intelvi... Gregorio... il padre della Martina...» — « Tartaifel... ludro... flucter! porco talliano... andar tua strada... o far fucilare sul momento! » — E poi tutti e due a bestemmiare in tedesco e battere lo squadrone che volevano subissarmi! — Ah! sono stato un gran vile... una carogna! Ma chi poteva aspettarsi...? so io cosa è avvenuto di me in quel momento?... Non ero più io... Quella piazza... quel castello... tutti quei soldati... non si vedeva un solo cristiano nè dappresso nè in distanza... Mi sono lasciato avvilire... E poi... cosa sarebbe avvenuto di quelle due povere donne...? Mia moglie ammalata... e l'altra!... Iddio mi ha tenuto la mano... e ve lo giuro, don Remondo, quei due moscardini di gesso avrei potuto mangiarmeli come due paste sfogliate... e li avrei digeriti in un attimo!... Invece... mi è rimasto un gruppo qui dentro... qualche cosa che non ha mai voluto andar giù... Ma prima di morire, voglio farmela passare, perdio!
VI.
Gregorio vuotò un bicchiere. — Don Remondo mormorò delle parole che non erano una giaculatoria da prete.
— Avete mai provato colla vostra bacchetta a scacciare un grosso ragno dal suo telaio? — Se il ragno cade a terra, subito si raggruppa, diventa piccino, si perde fra i sassi e rimane immobile fino a quando non lo abbiate perduto di vista. — Così ho dovuto far io, così ho fatto in quell'occasione, — come non avessero parlato con me... come se nulla ci fosse stato... Restai là parecchi minuti... cogli occhi a terra... fino a che, dopo essersi sfogati con delle parole da far raccapricciare le anime del purgatorio, quei due cani si furono allontanati... Appena mi parve che il pericolo fosse cessato, levai timidamente lo sguardo... e vidi quei due che se ne andavano con aria di trionfo picchiando la terra colle sciabole... Avevano cessato di bestemmiare in tedesco, ma ridevano in italiano... Ed uno si volse indietro a guardarmi, — lui, proprio lui — quell'infame rideva con una bocca da vipera! — Don Remondo: credete voi che qualche volta... in certe occasioni... quello che sta lassù... possa udire certe parole che si pronunziano a voce bassa col veleno nell'anima? Io per me ci credo. Ho sentito dire che il basilisco, quando guarda fissamente una persona, la uccide. Orbene: ponete che in quel momento io avessi nel cuore e negli occhi tutto il veleno del basilisco — ma io non lo fissava per ucciderlo, quell'assassino del mio sangue — io lo fissava per piantargli nelle viscere la maledizione. Sentite le parole che io scagliava dietro lui, senza muovermi d'un passo, appiattato nel mio fango come un rospo su cui è passata la vanga: «Che tu possa vivere finchè venga un altro quarantotto!...» Questa sentenza l'ho scagliata dietro lui non meno di trenta volte. Egli non ha avuto più il coraggio di volgere indietro la testa — io credo che egli debba aver sentito nel cuore qualche cosa come un chiodo gelato. Ed ora, non saprei dirvi, don Remondo, come io partii da Milano, come tornai al paese — Sono uscito da una porta... ho camminato due giorni e una notte... sono entrato in casa una mattina, mi sono inginocchiato presso al letto della mia Veronica che dormiva — e ho pianto per due buone ore. Dopo, ho potuto dormire anch'io — e quando mi sono svegliato, il primo pensiero che mi venne in mente fu questo: Gregorio: ora bisogna vivere, e aspettare l'altro quarantotto! — Intanto si è dovuto tirare avanti dieci anni... La Veronica stette ammalata ventidue mesi... e sempre domandava di sua figlia... Ho dovuto inventargliene per risparmiarle il dolore...! Io andava tutte le settimane ad Osteno a vedere quella poveretta che dimagrava a vista d'occhi... — La sua prima parola era sempre questa: come va la mamma? — e poi subito, a bassa voce, facendosi tutta rossa: per l'amor di Dio... ch'ella non sappia mai nulla! — Ed io ho tenuto parola — quella brutta istoria è rimasta qui dentro... Voi solo, ne sapeste qualche cosa... Era ben necessario che qualcuno mi consigliasse in quei brutti momenti...! Ma pure io non vi ho mai detto il capo o la fine come ho fatto questa sera... Vi ricordate? Il bambino è venuto al mondo la mattina del sedici giugno... Voi mi avete insegnato la via della via per mandarlo al sicuro... E nessuno, meno la mia sorella di Osteno, nessuno ha saputo della disgrazia. Due mesi dopo, quando io aveva stabilito di ricondurla al paese... chè ciò avrebbe fatto tanto bene a sua madre... la povera Martina morì come una santa. Sono arrivato in tempo a vederla... Mi ha domandato perdono... Di che? Cosa aveva fatto di male quella povera creatura?... Le sue ultime parole furono quelle che mi ripeteva sempre ogni volta che andavo a trovarla: «mai!... nè anche quando sarò morta... non dite mai nulla a mia madre... glielo dirò io... quando ci incontreremo in paradiso...!» — Così è morta... Dopo ventiquattro ore l'abbiamo collocata nella cassa... io e mia sorella — e poi sono rimasto là fin quando l'hanno portata via... A Osteno non aveva amiche... nessuno la conosceva... Non c'eran più di dieci donne ad accompagnarla al campo santo... Io mi sono inginocchiato presso una finestra... l'ho seguita cogli occhi fin oltre il muricciuolo del sagrato — e quando non si vide più nulla... allora... Ah! voi credete, don Remondo, che durante quella cerimonia io abbia risposto alle litanìe dei morti... che io abbia pregato il Signore? Nè anche un deprofundis! Quando non si vide più nulla di quel povero cofano coperto di stracci, mi è sembrato di trovarmi ancora laggiù... a Milano... in quella grande pianura... Ma il castello non c'era più... tutto era deserto... non eravamo là che noi due... io e quell'assassino — egli inginocchiato a domandarmi la vita, io sopra di lui a piantargli una baionetta nelle viscere. — Questa orribile visione è stata il mio deprofundis, la preghiera che io ho recitato in quella stanza donde era uscita la mia povera Martina per andare al campo santo.
VII.
La voce di Gregorio si era fatta roca — i muscoli neri delle sue braccia si erano gonfiati. Don Remondo con accento di compassione e di benevolenza si studiava di moderare quegli impeti appassionati.
— Sentite, don Remondo — riprese il vecchio col suo energico accento — io credo che la mia anima andrebbe dannata se prima di morire non facessi qualche cosa anch'io per aiutare la giustizia di Dio. Se si è fatta la guerra ai tedeschi, vuol dire che i tedeschi ne devono aver fatte tante e poi tante a noi poveri italiani, che finalmente anche quel lassù si è stancato. Le ho sapute tutte... A me la figlia... a quest'altro la moglie... dei poveri innocenti mandati alla forca... bastonate a dritta e a sinistra... centinaia di individui morti nelle prigioni... E senza andare lontano... da noi... nella nostra piccola valle... quali orrori... quanti assassinii!... Basta! Il secondo quarantotto è venuto... Hanno dovuto andarsene un'altra volta... dai nostri paesi... ed io — vedete maledizione! — io... nel cinquantanove, non sono arrivato in tempo... E voi ci avete avuto un po' di colpa, don Remondo... Mi dicevate: «aspetta, Gregorio!... non è tempo di partire... non è tanto facile passare il confine... Garibaldi verrà su da Varese... quanto prima egli dovrà passare per Como, e allora noi andremo ad arruolarci con lui!» Sicuro ch'egli ci è passato per Como, Garibaldi!... e poi si è portato a Lecco... e noi... bel da fare!... siamo corsi laggiù per farci iscrivere... e abbiamo avuto il nostro fucile quando non c'era più modo di adoperarlo! E loro le avevano già amministrate le loro pillole di piombo... si erano battuti a Laveno, a Varese, a San Fermo... mentre noi, gira di qua, gira di là, daghela avanti un passo... caricate le armi — un bel giorno vengono a dirci: fermo, signori!... alto!... non c'è più guerra... hanno capitolato... hanno accomodato l'armistizio... la diplomazia... l'accidente che li fulmini tutti...! E dopo alcuni giorni — vi ricordate, don Remondo?... noi eravamo a Lecco a fare il diavolo sulla piazza — e quel signore di Tirano colla barba rossa ci ha rimandati al paese con queste belle parole: basta! quel che ho fatto, ho fatto, e quel che voi non avete fatto, lo faremo noi! — (Col tempo e colla paglia!...) Dio! le belle parole! Ma intanto...! Intanto daghela avanti un passo come i gamberi... ed io sono tornato al paese con quel gusto!... Oh! non sarà così questa volta... ve lo prometto io... Questa volta non si perderà il tempo a piantar delle carote... e dovranno lasciarci fare... perdio! La vuol esser l'ultima, don Remondo! Ci venite voi? Ebbene: non bisogna perder tempo... Preparare i nostri arnesi, e via tutti quanti!...
VIII.
In quel momento Ernani rientrava nel cortile tutto affannato. Quel gracile fanciullo di sedici anni, giuocando cogli altri contadinelli, si era fatto tutto rosso — le sue guancie diafane stillavano come il muro di una cantina.
— Diamine!... Mi vai tutto in sudore, figliuolo mio! Ci vuol altro... ci vuol altro! Con Garibaldi bisogna marciare! Venti... qualche volta trenta miglia al giorno... e a gamba levata!
— Oh! non dubitare, papà Gregorio! — rispose il fanciullo — io non ho paura delle marcie.
— E degli schioppi... avrai tu paura? chiese don Remondo accarezzando il fanciullo collo sguardo.
— Degli schioppi...! Ma ne avremo anche noi degli schioppi, non è vero, papà Gregorio?...
— Per noi due il governo non avrà da far spese... c'è tutto... Gli schioppi, le baionette, il sacco, le cartuccie... Questa volta ci siamo provveduti in tempo...
— Ma dunque? andremo proprio con Garibaldi? domandò il fanciullo saltando al collo del vecchio.
— Sicuro che ci andremo...
— Quando?
— Quando... quando!... Bisogna domandarlo a lui... a don Remondo... Ci capisco io qualche cosa di queste gazzette?... Là! fatemi il favore, don Remondo... tornate un po' a leggere il proclama di Garibaldi!
— Ma finora non ci sono proclami — rispose il prete — non sono che notizie da Caprera... dei si dice...
— Ma... dei si dice...! come nel cinquantanove! E mentre quegli altri si battevano, noi stavamo qui a masticare dei si dice!... Ernani: va a dormire!
— A dormire!... Così presto?... Ma io non ho sonno...
— Va a dormire, ti dico: domattina verrò a svegliarti di buon'ora... e andremo tutti e due... dove s'ha da andare...
— Da Garibaldi!... esclamò il fanciullo battendo le palme.
E di nuovo saltò al collo del vecchio; poi, senza dire parola, Ernani s'avviò alla cucina, salì per una scaletta di legno e disparve.
— Che vuol dire questa novità? — domandò il prete — se n'è andato senza salutarmi!
— Quel ragazzo aveva voglia di piangere... Io l'ho capito... Oh! non dormirà questa notte... il povero figliuolo!
— Ma dunque... anche lui... ha una gran voglia di andare alla guerra! A quell'età! E si può dire che egli non sa nemmeno cosa siano quei maledetti che a noi hanno fatto tanto male!
— Ditemi un po', don Remondo — prese a dire Gregorio col tono misterioso di chi sta per rivelare un grande segreto. Ditemi un poco: perchè ci siete andato... perchè ci tornerete anche voi alla guerra? cosa vi hanno fatto di male, a voi, quegli scomunicati di tedeschi?
— Io vado a battermi — rispose don Remondo con qualche imbarazzo — io vado a battermi per un principio... perchè ho veduto le atrocità che i tedeschi hanno commesso nella nostra povera valle... uccidendo tanti poveri innocenti...
— Dite la verità, don Remondo — fra questi poveri innocenti non c'era qualcheduno che vi apparteneva.... al quale eravate specialmente affezionato... qualche amico?...
— Ebbene... sì!... capisco... dove mira il tuo discorso... Tutti abbiamo le nostre debolezze... Noi preti si vive nell'isolamento... non abbiamo famiglia... Io amava il mio bracco come un amico... Alla fine non è un delitto portar un po' di affezione alle bestie che sono anch'esse creature di Dio! Cosa aveva fatto di male quel povero Fido?... Vedendo quelle monture bianche e quelle sciabole, s'era messo ad abbaiare... Ed essi — bel coraggio! bella forza!... pinf! panf! me l'hanno freddato con due palle nella testa!
— E voi non l'avete più perdonata a quei mostri! — proseguì Gregorio — si capisce! Ma a quel ragazzo... vedete!... a quel ragazzo i tedeschi hanno ucciso ben altro che un cane...! Hanno ucciso la persona che tutti al mondo si tengono più cara — la persona che egli ama, che egli adora senza averla conosciuta... una santa che prega per lui in paradiso... sua madre.
— Ma dunque... — esclamò il prete — questo ragazzo che da cinque o sei anni ti sei tirato in casa... che tutti credono tuo nipote...?
— Sotto voce... che nessuno ci senta! — sì!... è lui — badate che io vi parlo come se foste il mio confessore — è il figlio della mia povera Martina!
PARTE SECONDA Il Dovere.
I.
Fra le molte famiglie che in Lombardia arricchirono considerevolmente dopo le disastrose peripezie del 1848, una ve n'ha in Milano, la quale oggigiorno può competere, in fatto di dovizie, col patriziato più illustre di censi. La voce del popolo, che è voce di Dio, attribuisce a questa famiglia un patrimonio di cinque o sei milioni. — Al fortunato capitalista noi daremo un nome di nostra invenzione — lo chiameremo il signor Lorenzo De Mauro, senza defraudarlo di quel de pretensioso, che egli stesso volle assumere in una giornata di riabilitazione e di buon umore. — Cosa era il signor De Mauro prima del 1848? — Bisogna discendere molto basso per rintracciarne l'origine — noi non ci daremo la pena di calcare tutto il fango pel quale ha dovuto trascinarsi questo oro che oggi rifulge sulle alte cime della società. — E d'altra parte, a che gioverebbe? — Si tratta di un uomo ricco, di un uomo divenuto potente, che dà pane a tanti artisti, che presta danaro a tanti signori poveri, che ha regalato un pallio alla chiesa parrocchiale, che fuori di Milano, nel paesetto ove possiede, ha promesso di rifabbricare a sue spese il campanile. — Non si domanda il passato ad un presente così luminoso — e quand'uno osa farlo, tutti in coro rispondono: «che importa?... sì... forse.... ma pure... la invidia... la calunnia...» Noi dunque ci limiteremo a dire di questo passato solo quel tanto che importa all'intelligenza del nostro racconto.
II.
La fortuna del De Mauro cominciò — per quanto dicono — con delle speculazioni sulla carta bollata. Questa istoria ha dello inverosimile. Più tardi vennero gli approvvigionamenti militari — poi gli appalti per la costruzione di alcuni fortini, quindi, in occasione della battaglia di Novara, il noleggio dei mezzi di trasporto, e di nuovo la fornitura delle vettovaglie all'esercito austriaco. — Dotato di molta avvedutezza e di poca coscienza, il De Mauro cominciò per bene la sua carriera. I tedeschi furono contenti di lui, ed egli naturalmente di loro — così, di appalto in appalto, il nostro uomo raggiunse la meta invidiata — divenne milionario. — Non spetta a noi rivedere le partite arretrate per verificare l'esattezza dei bilanci — poichè il governo austriaco fu pienamente soddisfatto!.... E d'altra parte, non è forse vero ciò che dicono molti, che i fornitori d'armata hanno mille occasioni di rubare onestamente? — La maggiore o minore onestà risulta dall'esito. Fatevi fucilare sul campo, e siete fior di canaglia; uscite salvi ed illesi coi vostri milioni, e avrete fama di industriale avveduto. L'onestà degli speculatori si misura a questa bilancia.
III.
È ben vero che in sulle prime — all'improvviso bagliore delle nuove fortune — il popolo mormora e qualche volta calunnia. — Ma il signor De Mauro, co' suoi milioni, oppose una barriera alle dicerie di quell'infima classe donde era uscito. Un'altra società, un altro mondo si apriva per lui. — Egli sapeva che questa società doppiamente maligna, ma frivola altrettanto, che questo mondo avverso ai nuovi arricchiti, ma altrettanto facile alle transazioni, si poteva agevolmente conquistare e dominare colla servilità e coi favori. Stese la mano timidamente ai più prossimi — strisciò nelle anticamere, fu prodigo di inchini ai potenti. Qualche persona di rango cominciò a restituirgli le visite entrando nel suo palazzo per la porticina — più tardi il portone si aperse per tutti. — Ecco un uomo riabilitato, un uomo influente, un uomo di considerazione — Era egli felice? — Una stolta domanda — e voi che la proponete, osereste asserire di esser felici? — Quella porzione di male che si aggrava su ciascun individuo della specie umana, pel signor De Mauro era la coscienza del suo passato, era il non esser capace di dimenticare egli stesso ciò che la società, per lo meno in apparenza, aveva potuto dimenticare. Da ciò una inquietudine vaga, una perpetua diffidenza. Non osava persuadersi che qualcuno gli fosse amico. Un'occhiata meno franca lo metteva in sospetto — un freddo saluto lo irritava come un insulto. Odiava senza ragione. Delle voci sinistre giungevano qualche volta al suo orecchio, lo assalivano di fianco come pugnali. — Dopo la riscossa del 1859 passò dei giorni affannosi — il suo contegno divenne più umile, tentò sulle prime di eclissarsi. Nel fondo del cuore egli deplorò come propria sventura la cacciata degli austriaci — e nondimeno fu tra i primi a inalberare la bandiera nazionale sul terrazzo della sua casa, e a versare delle somme cospicue a pro della patria. — Erano le elargizioni della paura — ma il contante produceva un benefizio reale — il nuovo governo e il buon popolo accettarono quei tributi generosi come prove di patriottismo. — Nullameno — ci duole il dirlo — il signor De Mauro non cessò mai di rimpiangere segretamente i tedeschi. Le trepidazioni della sua coscienza erano meno sensibili prima del 1859 — ed ora, la libertà della stampa, ciò che egli chiamava la sfrenatezza del popolo, costituivano per lui una minaccia perenne. Senza questa minaccia, egli poco o nulla si sarebbe preoccupato delle nuove condizioni politiche del paese, fors'anche avrebbe diviso sinceramente le gioie della patria redenta nel solo senso che per lui era possibile: «governo nuovo, risorse nuove!»
IV.
Per completare questo personaggio che avrà pochissima parte nel nostro racconto, ma che pure ne è in certo qual modo la causa efficiente, non ci resta che aggiungere alcuni particolari intorno ai suoi rapporti di famiglia.
Nell'anno 1847, quando era povero e incerto tuttavia del proprio avvenire, il signor De Mauro condusse in moglie una vedova di circa venticinque anni, la quale gli portava in dote una rara bellezza, un cuore di angelo e circa seimila lire fra danaro e masserizie. A quell'epoca, pel De Mauro, era un matrimonio di speculazione; quelle seimila lire dovevano costituire la prima base della sua fortuna.
Sarebbe malignità soverchia attribuire all'influenza di quel piccolo capitale l'affezione che il signor De Mauro portò sempre alla moglie. Egli non cessò mai di amarla anche in mezzo al tumulto degli affari ed al tripudio affannoso delle ricchezze. Si chiamava Serafina. Una donna di spirito mediocre, docile e mansueta come un agnello. Dopo aver condivise le angustie e le agitazioni del marito negli anni più disagiati, quella rapida e abbagliante prosperità che dal 1848 in appresso si era veduta sviluppare intorno a lei, le pareva miracolosa. Ne era quasi sgomentata — e quegli ingenui sgomenti formavano la gioia del marito. Il signor De Mauro, nelle sorprese di sua moglie, in quelle enfasi di maraviglia che toccavano i confini della paura, gustava doppiamente i propri trionfi. Egli era il giuocatore di prestigio che dopo aver gettata nel bossolo una moneta di rame, ne fa uscire gli scudi a centinaia fra lo stupore e l'applauso del pubblico. Per il signor De Mauro il pubblico era la moglie — la buona Serafina vedeva l'oro moltiplicarsi, crescere la agiatezza, e sempre, all'annunzio di nuove fortune, rideva e tremava per impeto convulso. Qualche volta, fissando nel marito i suoi grandi occhi pieni di spavento, ella non poteva trattenersi dallo esclamare: saresti tu mai il diavolo!... A tali parole il marito si sentiva rapire dalla gioia. —
V.
Abbiamo schizzato due ritratti e due biografie. Ma il signore e la signora De Mauro, come già avvertimmo, non prenderanno molta parte nella breve storia che siamo per riferire. — Vi è un giovane di ventidue anni in questo palazzo costrutto coll'oro degli appalti e delle forniture militari, un giovane che è passato per tutte le fasi delle fortune paterne senza quasi avvedersene, che sarà un giorno l'erede di uno dei più cospicui patrimonii di Milano, ed è, cionnullameno, infelice, noiato della vita e cupamente misantropo. Un bel giovane dai capelli bruni, dallo sguardo profondo, dal labbro ardente, adorato dai genitori, stimato dagli amici, desiderato nei circoli della società più eletta. Eppure il figlio del signor De Mauro non brilla fra gli eleganti di Milano, rifugge dai convegni brillanti, vive quasi isolato. In famiglia, rare volte si abbandona a quelle espansioni confidenziali che una madre affettuosa, una tenera madre qual è la signora Serafina, avrebbe diritto di attendersi dall'unico figlio. — Qual è il segreto di questa tristezza che ogni giorno progredisce in un cuore di ventidue anni? — Noi lo sapremo fra breve. È tempo oramai che i nostri personaggi si mettano in azione, che prendano a rivelarsi da sè medesimi.
VI.
Una sera, in sul finire del maggio 1866, si trovava adunata nel medesimo gabinetto — ciò che avveniva rare volte — tutta la piccola famiglia — La signora Serafina era intenta a ripassare delle lingerie — Ella non aveva mai potuto rinunziare alle abitudini casalinghe de' suoi anni meno fortunati — Il signor De Mauro leggeva la Gazzetta di Milano — e tratto tratto levava la testa dal giornale per lanciare una occhiata fuggitiva a suo figlio che, in quella sera, pareva di umore assai tetro.
— Ebbene? non ci dici nulla, Edoardo! Come hai passata la giornata? — domandò la signora Serafina al figliuolo.
— Come al solito! — rispose il giovane a voce bassa; stamattina ho lavorato un poco nel mio studio da pittore... poi verso le due sono uscito..,
— A cavallo?...
— No... sono andato a piedi fino alla stazione della ferrovia... Quest'oggi partivano per Como più di duemila volontari...
— Ah!... tu pure ti trovavi alla stazione, Edoardo! — disse il signor De Mauro, interrompendo la lettura. — Non ti ho veduto... Ti avrei ricondotto colla mia carrozza...
— C'era tanta folla!... rispose il giovane sbadatamente senza volgere gli occhi a suo padre.
— È vero! c'era mezzo Milano... per vedere quei bei... mobili! Che faccie quegli alessandrini... quei greci...! gente da far paura! tutti armati di coltello... e di revolver... Parevano assassini!
— Eppure... a quanto dicono... sono tutte persone...
— Persone...? sentiamo un poco... Edoardo!...
— Persone rispettabili e degne di ammirazione! esclamò il giovane con accento vibrato — essi hanno attraversato il mare e sono venuti ad offrire il loro braccio all'Italia, a far arrossire quei pochi italiani che, giovani com'essi e vigorosi, rimangono qui a poltrire nell'ozio e ad almanaccare sui dispacci dell'Agenzia Stefani!
Il signor De Mauro fissò nel giovane due occhi quasi atterriti. L'enfasi di quelle parole gli avevano rivelato ciò che egli da parecchie settimane tremava sempre di dover intendere. La buona Serafina intervenne fra padre e figlio.
— Oh! sicuro... Edoardo ha ragione... Li ho veduti anch'io quei bravi giovani... l'altro ieri... quando sono arrivati... Non è poco sacrifizio... venire da paesi così lontani e dicono... a loro spesa... per combattere contro i tedeschi... e sarebbe proprio vergogna se i nostri...
— Non c'è questo pericolo, mamma — riprese Edoardo con accento più mite — quest'oggi, anche dei nostri ne partivano più di due mila... e altrettanti ne partirebbero domani, se il Governo non avesse creduto bene di sospendere gli arruolamenti per la esuberanza degli accorsi... Ma quanto prima... dicono il cinque giugno... si ricomincerà da capo...
— E tutti quelli — riprese la signora Serafina — tutti quelli che amano la patria, e che sono abbastanza robusti da poter resistere alle dure fatiche del campo... faranno senza dubbio il loro dovere!...
— E lo faremo tutti, il nostro dovere! — esclamò il signor De Mauro con una voce che indicava il proposito di conciliarsi la benevolenza e l'ammirazione di suo figlio. — Noi abbiamo già dato cinquecento lire per le famiglie povere dei contingenti — d'altre cento lire ho disposto per quelli fra i nostri giovani di studio che sono partiti per il campo e saranno per ritornarne colla medaglia del valore militare — Se tu credi, Edoardo — sentiamo un poco il tuo parere — sai... del denaro non ce ne manca... è roba tua... e puoi farne liberamente quell'uso che credi migliore... Dobbiamo stabilire una piccola rendita vitalizia a tutte le vedove e le madri dei nostri coloni, le quali avessero a perdere il marito od il figlio in queste ultime battaglie della patria?
— Tu sai bene che quando si tratta della patria...
— Ebbene... sì! faremo anche questo sacrifizio... cioè... tu, Edoardo... Alla fine... come dicevo... è roba tua... E faremo stampare sui giornali... che il signor Edoardo De Mauro...
— Questa ci mancherebbe! — esclamò il giovane con accento di sentita ironia — Stampare nei giornali che il signor Edoardo De Mauro, un giovinotto di venti anni, sano, robusto, addestrato al maneggio delle armi, ha voluto esimersi dal suo obbligo di prestare il braccio alla patria... costituendo una pensione vitalizia in favore di quei poveri contadini che sono andati a farsi ammazzare in sua vece, perchè hanno sentito — essi, idioti e quasi ignari di avere una patria! — hanno sentito che in questo sublime momento della nazione non vi è altro posto d'onore per un giovine italiano che il campo di battaglia!
La fronte del signor De Mauro si coperse di una nube. I suoi occhi bigi coperti da folte palpebre cercavano ansiosamente quelli di Serafina — ma dessa, la buona madre di Edoardo, teneva lo sguardo intento alle lingerie, e non osava respirare.
Il signor De Mauro, dopo breve meditazione, riprese a parlare con quel tuono moderato e insinuante che pretende persuadere colla duplice influenza della logica e del sentimento.
— Si lavora per tutta la vita e si diventa vecchi... Si adunano delle fortune... non per sè stessi... ma per quelli che vivranno dopo noi... pei nostri figli.... Quando se ne ha molti dei figli... si capisce... questi vanno e quelli restano a casa.... Fossero due!... meno male! — io non mi farei pregare... io direi: qual è di voi che vuole arruolarsi?.... Tirerebbero a sorte... non è vero, Serafina? — anche tu saresti contenta. — Ma quando non si ha che un solo figlio... e quando si può giovare alla patria... quando si può fare dell'immenso bene al paese senza sacrificare il nostro sangue — allora, dico io, allora bisogna essere senza cuore, o peggio, ubbriachi di fanatismo e di orgoglio — sì... anche di orgoglio! — per resistere alla voce della natura, agli istinti dell'affetto... Oh! ne abbiamo veduti dei padri fare ostentazione di un tale cinismo! Dei vecchi usurai, i quali non si vergognarono di negare alla patria una miserabile oblazione di poche lire, poichè, dicevano essi, avevano già dato... il loro figlio! — Ah! si farebbero le belle guerre... senza i milioni!... Sono forse le braccia che mancano? Dove ci sono milioni, ci sono soldati.... Mi parlate dei contadini!... Essi vanno perchè devono andare.... Ebbene: quando noi proprietarii si fa piovere qualche spicciolo nelle giberne, quando noi si provvede al mantenimento delle famiglie povere e si istituiscono premii e pensioni vitalizie... ecco questi poveri ragazzi partono di buona voglia... gridano: viva l'Italia! e marciano incontro al fuoco con coraggio! Uno diventa due — le forze si raddoppiano... e con uomini di tal fatta non c'è più da temere! — Convengo... se vi fosse penuria d'uomini.... Ma tu lo vedi — Edoardo — si è obbligati a sospendere gli arruolamenti... Uno più, uno meno conta per qualche cosa in un esercito che trabocca? — Nulla! proprio nulla! — Ma questo uno conta per tutto... è tutto nella vecchia famiglia di suo padre e di sua madre... e quanto all'esercito, quest'uno può contare per cento senza allontanarsi dalla propria casa. Io te lo ripeto, Edoardo: domanda ciò che vuoi — io sono pronto a qualunque sacrifizio. Non ami che i nostri sacrifizi sieno fatti palesi per mezzo dei giornali? Sia pure. — Registrerò le offerte a nome mio... Ma tu... nella tua coscienza potrai dire: sono io che ho indotto mio padre a far questo — sono io che soccorro tante famiglie povere di soldati... Leggo nelle Gazzette che il governo ha bisogno di cavalli... Ne offriremo due... sei contento?... Pensaci — o far le cose per bene o non farle... Ho messo gli occhi sul tuo Morello... Hai capito, Edoardo?... Sei tu disposto a privartene?
— Morello!?... Non è possibile! — rispose il giovane alzandosi in piedi e levando un lume dalla tavola in atto di ritirarsi.
— Ah... vedi!... ti dispiace privarti del tuo più bel cavallo... Anche questi sono sacrifizi!...
— Gli è che Morello mi è divenuto indispensabile — disse Edoardo avviandosi verso la porta — perchè domani io intendo presentare la mia petizione alla commissione degli arruolamenti volontari per entrare nel corpo delle guide!
Ciò detto, il giovane uscì dal salotto senza volgere la testa.
VII.
Il signor De Mauro rimase come un uomo percosso dal fulmine. — Era la prima volta che suo figlio osava parlargli un simile linguaggio, la prima volta che quel figlio taciturno e sottomesso accennava di volersi ribellare alla autorità paterna in modo sì franco e risoluto. — La signora Serafina tremava. Ella si attendeva una di quelle esplosioni violente che andavano a scaricarsi sovr'essa, ogniqualvolta al tenace dispotismo di suo marito si opponevano delle contrarietà inesorabili.
Ma questa volta l'esplosione non avvenne. Il signor De Mauro aveva bisogno di un alleato per lottare vantaggiosamente contro la ribellione del suo unico figlio; e il migliore, il più potente alleato — egli lo comprendeva — era la madre di Edoardo. Serafina era più forte di lui, poichè la tenerezza di una madre ha maggiore impero sul cuore di un figlio che non l'affetto paterno. Il signor De Mauro non aveva mai permesso a sua moglie di intromettere una mezza parola nelle vertenze più scabrose dei suoi affari, delle sue speculazioni commerciali; ma ora egli sentiva il bisogno di prendere consiglio da quel cuore di donna, da quel senno di madre.
— Hai tu sentito, Serafina? — cominciò egli con voce fioca e con accento desolato — ah! ne avevo il presentimento! ma pure non avrei creduto ch'egli avesse a mostrare tanta durezza!... Un bel vantaggio davvero... questa libertà!... Cosa abbiamo guadagnato?... Non si può contare su nulla... nè anche sui figli...! Ingrati! E quando vi hanno detto: la patria... l'Italia... credono di avere il diritto di calpestare il padre, la madre, tutti gli affetti o i doveri della famiglia! Noi altri non si conta più nulla... noi! La patria, l'Italia, e crepino nella solitudine e nella amarezza coloro che ci hanno messo al mondo, e che vivono solo per noi! — Che cosa ne dici, Serafina?...
— Io dico che quel ragazzo...
— Non è più un ragazzo... Serafina! — Oh se lo fosse, faremmo presto a metterlo al dovere!... Ma ti pare? Quando io mi era messo a fargli un po' di morale, a mostrargli come due e due fanno quattro, che noi signori si può fare molto bene alla sua patria senza metterci là ad aumentare di venti o trenta chili la carne da cannone — cosa ha risposto... vediamo!... «Domani anderò a presentare le mie petizioni al Comitato degli arruolamenti»! — Domani!... Hai capìto, Serafina?... Ma io credo che la petizione abbia già fatto la sua strada a quest'ora... credo che da questo lato non ci sia più mezzo di attraversargli la via... Quel ragazzo è già bello ed arruolato!
— Non ancora! — rispose Serafina timidamente — sai bene che Edoardo dice sempre la verità...
— Non ancora?... Capisco... tu ne sapevi qualche cosa... Hai fatto male a non avvertirmene subito... Ma pure... se le cose stanno come tu dici... Vediamo: — ma tu non ti sei provata a fargli intendere ragione? non hai tentato?...
— Io?... Sicuro che gli ho parlato... La prima volta che Edoardo si lasciò sfuggire una mezza parola su tale argomento, gli ho detto: bada, figliolo mio; tu non hai salute da buttar via, tu non potrai reggere alle fatiche del soldato... lascia andare quelli che sono già abituati alle durezze e ai disagi della vita...
— Ed egli ti avrà risposto: anche il tale e il tal altro appartengono alle prime famiglie di Milano, sono nati e cresciuti nella bambagia... il figlio del conte G... il figlio del marchese C..., e via con una filza di piccoli conti e di piccoli marchesi!... Bisognava prender la cosa da un altro verso!... Serafina... tutti quanti si credono Ercoli... si credono Sansoni... in questi momenti!... anche quelli, che l'anno passato giravano per la città con una veletta azzurra abbassata sulla faccia come le modistine che vanno a bottega!
— Gli ho anche proposto — come tu mi avevi indicato una sera — gli ho proposto di fare quel tal viaggio a Parigi ed a Londra...
— Sicuro... una buona idea! egli mi tormenta da due anni per ottenere il permesso... ed il danaro... Ebbene: che cosa ha risposto?
— Ha risposto che per andar a Parigi egli vuole aspettare la grande esposizione dell'anno venturo... e che del resto... sarebbe una vergogna per un giovane come lui... il farsi vedere sui boulevards di Parigi...
— Imbecille! come se a Parigi avessero a riconoscerlo e a fischiargli dietro le spalle, perchè, essendo figlio unico, ed unico erede del signor De Mauro, che possiede oltre sette milioni di patrimonio, non è andato a farsi massacrare dalla mitraglia, onde gli altri abbiano a godersi il fatto suo. C'è proprio da sbattezzarsi a vedere come ragionano queste teste! E dire che le abbiamo fatte noi...
— Insomma...
— Insomma... ho capito... Non sei riuscita a mettere assieme quattro ragioni da persuaderlo ch'egli si è fitto in capo una idea da matto... Bisognava assalirlo dal lato della sensibilità... parlargli dell'immenso dolore che mi avrebbe cagionato... del tuo amore... dirgli che saresti morta... Tu sei la persona ch'egli ama di più a questo mondo... Oh vedete un po' se si può dare di peggio?... Fosse almeno innamorato...! avesse almeno preso moglie!... Quand'uno ha moglie, non pensa a certe follie... Sono fatti così questi ingrati di figli... Il padre, la madre piangano pure... si disperino... muoiano... che importa? ma per una fanciulla che faccia gli occhi morti... per una moglie che finga di svenire, essi cedono le armi, diventano docili e sommessi come agnelletti...!
— Lorenzo... mi viene un pensiero! — esclamò la signora De Mauro abbandonando le sue lingerie e guardando fissamente il marito — forse un mezzo ci sarebbe...
— Sentiamo, mia buona Serafina... Sentiamo!
— Tu non mi sgriderai se ho taciuto finora...
— Via, poichè mi dici che vi è un mezzo...
— Sarebbe... Tu dicevi che una donna... una fanciulla... che insomma... quando un giovane è innamorato...
— Dunque... lui... Edoardo... sarebbe?... Ma perchè aspettar tanto... a parlarmene?
— Mio Dio!... Avrei parlato prima d'ora... ed anzi... da circa tre mesi non si è fatto che esplorare l'occasione favorevole... Ma tu... in questi tre mesi ne hai combinati tanti dei matrimonii pel nostro Edoardo! Non saranno venti giorni... volevi che egli sposasse la figlia del banchiere Zanna...
— Che possiede una bella e buona dote di ottocento mila franchi alla mano e tre zii milionarii... Ma non era la dote che mi stava a cuore... Io prevedeva il temporale... io capiva di avere a fare con un matto... e volevo, ad ogni buon conto, incatenarlo ad un pezzo di moglie!... Ma tu dici che il ragazzo ha già le sue idee... Sentiamo... Purchè ci stiano le nostre convenienze...
— Si tratterebbe... Tu conosci la figlia del Contareno... quella cara fanciulla...
— Il marchese Contareno!... uno spiantato... tutto boria... tutto fumo...
— Ma la ragazza ha ereditato la dote di sua madre... poca cosa... circa centomila franchi... Il nostro Edoardo è d'altra parte abbastanza ricco... e poi... gli è tanto innamorato di quella figliola...
Il signor De Mauro stette alcuni momenti sopra pensiero, colla testa appoggiata alle mani... Le sue dita si agitavano convulse sulla fronte, come quelle di un suonatore sulla tastiera d'un pianoforte.
Scorsi alcuni istanti, riprese a parlare; ma questa volta a bassa voce, senza badare alla moglie, senza attendere risposta.
— Famiglia di spiantati... ma pure... una nobile famiglia... Questo sarebbe forse un espediente per vincere l'orgoglio e la ritrosia di cert'uni... Tutto sta che quella mummia di marchese non abbia l'aria di farmi una grazia!... Egli n'è ben capace!... Non hanno un baiocco... ma del fumo... del fumo ce n'è da acciecare un battaglione di ussari!... Non vogliono persuadersi che il loro tempo è finito... che oggigiorno... la nobiltà... la vera nobiltà siamo noi, o piuttosto i nostri sacchi di marenghi. — Sentimi, Serafina...
E a questo punto il signor De Mauro rinforzò la voce, dirigendo la parola a sua moglie:
— Credi tu che anche lei... la ragazza... la figlia di questo marchese... sarebbe disposta?...
— Innamorata pazza del nostro Edoardo! — rispose la signora De Mauro coll'accento dell'orgoglio e della gioia.
— Se la è così — disse il De Mauro levandosi in piedi — affare concluso!... Domani si va dal marchese — gli si fanno le proposte — si stabilisce che il matrimonio abbia a concludersi entro quindici o venti giorni... si induce la ragazza... Oh! lasciamo fare a lei... Se Edoardo è innamorato, come tu mi dicevi, si lascerà facilmente persuadere... e addio Garibaldi, addio volontari, addio patria... e chi è minchione vada a farsi ammazzare!...
— Ma zitto, Lorenzo!... Non posso sentire queste parole! — disse la signora, facendosi bianca nel volto.
— Che? che?... Sta a vedere che anche tu mi diventi repubblicana come il tuo Edoardo! La patria!... Sicuro: nessuno potrà dire che io non abbia sempre amato e non ami la patria... Ma questa non è una ragione perchè mandi mio figlio a farsi ammazzare dai croati! — Nostro figlio deve goderla la patria — a chi servirebbe questa Italia una e indipendente, se non fosse ai nostri figli, a quelli che la erediteranno da noi?
Così parlando, il signor De Mauro uscì dal salotto col volto radiante. Egli non era mai tanto felice come quando poteva sgomentare un poco la sua docile e ingenua compagna con ciò che egli chiamava le sue spiritosità politiche.
VIII.
All'indomani, verso le undici del mattino, il signor De Mauro salì nella sua carrozza di gala, e si fece condurre in via dei B... alla porta dell'antico palazzo dei Contareno.
Il marchese era un uomo sui sessant'anni — un patrizio dell'antico stampo, alquanto modificato dai due rivolgimenti politici del 1848 e del 1859, ma pure, in fondo all'anima, devoto ai principi assoluti di un'altra epoca. Non parteggiava per l'Austria, ma era avverso alla costituzione del nuovo regno. Egli vagheggiava un'Italia una, salvo il rispetto alle provincie appartenenti per diritto al Sommo pontefice; una Italia indipendente, ma governata col più severo despotismo. Ordine e religione: queste due parole formulavano tutto il suo programma politico.
A quarant'anni era rimasto vedovo con una figlia, e i maligni pretendono ch'egli sciupasse le sue sostanze nel patrocinare una allieva del maestro Blasis, che forse avrebbe consentito di rinunziare alle danze e di prenderselo per marito, s'egli, fortunatamente, non si fosse lasciato spiumare in anticipazione fino all'ultima penna.
Questa circostanza lo salvò da' peggiori disastri — da una moglie ballerina, la quale non aveva le migliori disposizioni per rassegnarsi alla vita inerte al fianco di un vecchio rovinato.
Il marchese Contareno, — convien rendergli giustizia — dopo quell'ultimo disinganno di amore concentrò tutte le sue affezioni nel cuore di sua figlia. Dal 1859 in appresso, la sua vita fu una passeggiata al mattino, una tazza di semata al Caffè Cova, ed il resto del giorno in casa, a dir male del governo e della licenza pubblica col suo vecchio domestico e colla sua Enrichetta.
Diremo noi che la figlia del marchese Contareno, è una delle più avvenenti fanciulle, una stella nascente del patriziato milanese? — In un romanzo, ciò sarebbe obbligatorio — ma noi, sventuratamente, dobbiamo attenerci alla realtà. Enrichetta è una buona figliola, dalla statura alta, dalla fronte spaziosa e severa, dallo sguardo profondo — è una bellezza simmetrica, dai contorni incensurabili, dai lineamenti perfetti — ma pure non è di quei tipi di fanciulla che hanno il fascino della seduzione. Le sue labbra, squisitamente delineate, non si schiudono che a brevi sorrisi — i suoi occhi non brillano di quella luce carezzante che rivela le anime espansive, esuberanti di giovinezza e di passione.
I baci di una madre non ammorbidirono quei lineamenti; le carezze di una mano di donna mancarono a quella infanzia vissuta nelle solitudini di un palazzo in rovina. Enrichetta si era educata da sè — un vecchio maestro di danza le aveva insegnato gli atteggiamenti e le pose della gran società — uno zio prete i rudimenti della grammatica italiana e un po' di francese — ma ella, profittando liberamente di una vecchia biblioteca, dove suo padre lasciava ammuffire migliaia di volumi, aveva assorbita una erudizione superiore alla sua età ed al suo sesso. A sedici anni ella aveva letto Plutarco e la Nuova Eloisa, i saggi di Montaigne e il Don Giovanni di Byron, la Storia di Tito Livio e il Cavaliere di Faublas. E nondimeno quell'anima non si era corrotta. Ella aveva respirato nei libri la filosofia e la lascivia, l'eroismo della storia e le enfatiche passioni del romanzo, ma il suo nobile carattere si era sempre elevato. A vent'anni ella non aveva ancora amato — il suo cuore patrizio esigeva un eroe, il suo spirito colto e fantastico aveva bisogno di un'alta intelligenza a cui affratellarsi. — Nelle sale del Prefetto e del Sindaco, ella aveva danzato con dei giovani ufficiali sfolgoreggianti di decorazioni, ma nessuno era riuscito a commuoverla. Il di lei sembiante altero, sdegnoso, pareva respingere gli adoratori. Una sera, alla veglia del casino, nessuno le mosse incontro per invitarla alla danza. Era una piccola congiura, una vendetta degli eleganti. Ma in quella sera un giovane le si era fatto dappresso, e si era intrattenuto con lei alcun tempo. Le sue guancie si erano animate di una tinta più rosea, — i suoi occhi mandarono un lampo inusitato — quella statua di fanciulla si rianimò come per effetto di incanto. — Enrichetta aveva trovato il suo ideale — e questo ideale, ch'ella prese ad amare con tutto l'ardore della sua anima vergine, era Edoardo De Mauro.
IX.
— Signor marchese, una visita! — disse il vecchio domestico entrando nel salotto. —
— Una visita!... infatti... avevo sentito fermarsi una carrozza...
— Il signor Lorenzo De... Mauro...
— Il signor Mauro... vorrai dire. Ma cosa può condurre il signor Mauro nel mio palazzo?... Ebbene? Che fai là ritto?... Avanti! fallo entrare... questo signor De Mauro!...
Il servitore uscì per pochi istanti, quindi ricomparve per introdurre il ricco industriale.
Il marchese Contareno si levò in piedi, fece un leggiero inchino, e accennando una sedia — La prego di accomodarsi, disse — a che debbo l'onore della sua visita?
— Io sono uomo d'affari, signor marchese... ella deve conoscermi. Altra volta ebbi la fortuna e l'onore di parlare con lei quando si trattò di stabilire fra noi un accordo sulle rispettive ingerenze nella amministrazione del comune di E... In quella circostanza ci siamo intesi senza molte parole, ma oggi si tratta di un altro genere di affari. La proposta che io vengo a farvi non riguarda voi solamente, ma anche la persona che vi è più cara al mondo... quella che è rimasta la sola compagna dei vostri vecchi giorni — voi comprenderete che intendo parlare di madamigella Enrichetta vostra figlia...
— La mia Enrichetta! — esclamò il marchese — ella è uscita, poco fa, colla contessa De Canzio per recarsi dalla duchessa Visconti...
— Non serve, non serve! — possiamo trattare fra noi, interruppe il signor De Mauro con un leggiero sorriso — a suo tempo consulteremo l'aristocrazia femminile — vediamo dapprima se è possibile stabilire fra noi i preliminari del contratto.
— Ah! si tratterebbe dunque di un contratto...?
— Sicuro! un contratto... di matrimonio, signor marchese. Brevemente: io ho l'onore, signor marchese, di chiedervi la mano di madamigella Enrichetta a nome di mio figlio Edoardo.
— Ah!... vostro figlio Edoardo! — esclamò il marchese impacciato dalla sorpresa — vostro figlio... quel giovane biondo... cioè... m'inganno... mia figlia me ne ha parlato... credo anche di averlo veduto una sera alla veglia di Sua Eccellenza il signor Prefetto... Voi ci andate, non è vero, allo veglie di Sua Eccellenza, il signor Prefetto?
— Poichè il Prefetto viene da noi, sarebbe sconvenienza resistere a' suoi inviti — rispose il De Mauro con affettata indifferenza. — Quanto a mio figlio Edoardo, se non lo conoscete, io vi darò sul di lui conto le informazioni più precise — è un giovane di ventidue anni, perfettamente educato, di indole eccellente; alla mia morte sarà padrone di tutto il fatto mio, circa sei milioni di capitale, e all'atto del matrimonio io sono disposto a costituirgli una rendita annua di lire trentamila — che ve ne pare, signor marchese?...
— In verità... la marchesina nostra figlia non potrebbe desiderare una posizione più splendida dal lato delle ricchezze... e quando ella non avesse difficoltà... Voi sapete, signor De Mauro, che a tali proposte non si risponde definitivamente se non dopo mature riflessioni... Bisogna in ogni modo che io mi consulti con qualcheduno... coi nostri nobili parenti... che io interroghi il cuore di mia figlia...
— Ma via, signor marchese! — Parliamoci apertamente... Credete voi che un par mio, un uomo d'affari, sarebbe venuto a formularvi così francamente la sua proposta, se prima non fosse stato sicuro del consenso di vostra figlia? Che serve?... Le cose sono arrivate a tal punto che ai signori papà non resta che rappresentare la parte dei padri nobili della commedia — far venire i due ragazzi e impartire ad essi la loro benedizione. — Mio figlio Edoardo è innamorato pazzo della vostra Enrichetta... e madamigella Enrichetta è innamorata morta di mio figlio Edoardo... Da cinque mesi si scrivono lettere di fuoco...
— Da cinque mesi!... la mia Enrichetta... scrive delle lettere...!... A che tempi siamo giunti!... Ma siete voi ben sicuro, signor De Mauro..? Ed io non mi era accorto di nulla...
— Oh! sta a vedere che tocca a noi altri l'accorgersi di queste frascherie! Noi altri si fa di tutto per indovinarli i nostri figli, ma essi, gli ingrati! adoperano tutte le arti per sottrarsi alla nostra amorevolezza! Essi non vogliono permettere a noi il piacere di renderli felici! — Non importa!... se ad essi pesa la riconoscenza, ciò non toglie che il renderli felici sia per noi un dovere, una gioia!
Il signor De Mauro proferì queste parole con voce commossa. — Il marchese portò la mano agli occhi per asciugarsi una lacrima. Egli era uno di quei vecchi che piangono facilmente d'ogni nonnulla per rilassatezza dei vasi linfatici.
In quel punto Enrichetta Contareno entrò nella sala — Ella entrò senza punto badare a suo padre, ma alla vista del signor De Mauro, trasalì leggermente. Il marchese adempì come un automa alle formalità della presentazione; ma il signor De Mauro, ch'era uomo di mondo nel senso più positivo della parola, alla presenza di quella fanciulla, ripigliò il suo fare più disinvolto. Egli sentiva di avere in lei una alleata che poteva con una sola parola decidere della situazione.
— Non potevate giungere più a proposito, madamigella! — prese a dire il signor De Mauro indirizzandosi alla giovane — Io era venuto dal signor marchese vostro padre per proporgli un affare... che in... qualche parte... o signorina, riguarda anche voi... Il signor marchese non è ancora ben determinato nelle sue idee... mi ha chiesto del tempo a riflettere... e desidera innanzi tutto consultarsi con voi... Troppo giusto! Io amo la sollecitudine nel disbrigo degli affari... ma sono abbastanza ragionevole per comprendere le esitazioni del signor marchese, e d'altra parte la sua adesione non gioverebbe gran fatto quando essa non fosse avvalorata, o signorina, dal vostro consenso. Orbene; io vi lascio soli... non voglio influire colla mia presenza sulle deliberazioni che sarete per prendere. — Solamente io vi domando una grazia: se avviene che dalle vostre private conferenze esca un voto favorevole alle mie proposte, vi prego di inviarmi entro la giornata due righe così concepite: «domani, alle ore cinque e mezzo pomeridiane, il signor marchese Contareno e la sua gentilissima figlia saranno a pranzo da voi.»
— Oh.... ma vi pare!... signor De Mauro?.... Ciò è fuori d'ogni regola! Un pranzo... con mia figlia...
— Signor marchese, disse il De Mauro levandosi in piedi, e voi pure, amabilissima signorina, ascoltatemi bene: io ammetto che abbiate a riflettere, che abbiate a discutere liberamente e ponderatamente prima di decidere — ma una volta che questa decisione sia presa, io intendo che si proceda a passo di carica, a marcia forzata... senza perdere un istante. Fra quindici giorni tutto dev'essere compiuto.
Ciò detto, il signor De Mauro fece un profondo inchino al marchese, e con insolita galanteria baciò la mano della fanciulla che arrossì leggermente.
Appena il De Mauro fu uscito, il marchese ricadde sulla sua seggiola, e volgendosi alla figlia:
— Tu avrai già capito di che si tratta, le disse con voce sommessa. — Il figlio del signor De Mauro aspira all'onore della tua mano... e il di lui padre vorrebbe farmi credere che fra voi altri due vi siate già scambiate delle promesse... le quali poco o nulla conterebbero...
— Voi sapete che una mia promessa conta sempre per una promessa — rispose Enrichetta col piglio severo e quasi sprezzante ond'ella era usa a trattare con suo padre. — La mia fede è impegnata col signor Edoardo De Mauro; è l'unico giovine che io riconosca degno dei miei affetti e della mia stima. Solamente mi reca maraviglia ch'egli abbia scelto questo momento per realizzare i nostri desiderii!
— Dunque a me non resta da far altro che... obbedire e apporre la mia firma! Come i tempi sono cambiati...! Una volta, il figlio di un mercante non avrebbe nemmeno osato levare lo sguardo sulla figlia di un nostro pari... quand'anche... Ma adesso!... Viva la costituzione!... Viva la libertà!... Viva la democrazia!... Ah! ci vorrebbe, per farla compiuta, anche un poco di repubblica...
Enrichetta, senza badare alle querimonie di suo padre, che erano il ritornello quotidiano, si avviava per uscire dal salotto — quando il marchese, ingrossando la voce in segno di collera — Ebbene — domandò — cosa si ha da rispondere a quei signori? È ella disposta, la signora marchesina Contareno, a mettersi a tavola domani colla ditta Mauro e compagni?... Sentiamo!
— Io sono fidanzata al signor Edoardo da oltre cinque mesi — rispose la fanciulla — ecco la sola risposta che io possa darvi. Del resto fate voi!
Il marchese, appena uscita la fanciulla, si accostò allo scrittoio, e sopra un biglietto di visita segnò le seguenti parole:
«Tanto io che mia figlia Enrichetta aderiamo al vostro cortese invito, e domani, all'ora indicata, saremo da voi.»
— Ad ogni modo, non è un cattivo affare — borbottò il marchese deponendo la penna — mia figlia è una testa positiva.... essa tende alla aristocrazia dei milioni!
X.
Non diremo ciò che avvenisse nelle due famiglie De Mauro e Contareno nel seguito di quella giornata fino alle ore cinque pomeridiane del giorno appresso. Oggimai i nostri lettori conoscono abbastanza i singoli personaggi di questa istoria per indovinare dal loro carattere certi episodii di nessun conto che sarebbe superfluo riferire. — Alle ore cinque pomeridiane la carrozza del marchese Contareno entrò nel palazzo del signor De Mauro. Il ricco industriale discese nel cortile, porse il braccio al marchese per aiutarlo a discendere dalla carrozza, mentre Edoardo, dall'altro lato, stendeva la mano ad Enrichetta colla timidità di un collegiale. — I due amanti si erano già ricambiati da lungi un saluto pieno di tenerezza, ma pure nei loro sguardi non brillava quella gioja serena, quella felicità espansiva, che ordinariamente trabocca dal volto di due giovani innamorati al momento in cui deve decidersi della loro unione indissolubile. — La fronte di Edoardo era ombrata da una ruga quasi impercettibile — gli occhi della fanciulla parevano approfondirsi sotto le palpebre folte. Quando la signora Serafina mosse incontro alla giovane per introdurla nella sala, Edoardo trasse dal petto un lungo sospiro, come se l'intervento di sua madre lo avesse liberato da un grave imbarazzo. Il pranzo non fu molto gaio. Il signor De Mauro sostenne quasi da solo l'incarico della conversazione, non risparmiando di lanciare tratto tratto degli epigrammi all'indirizzo del marchese, il quale divorava a due ganascie colla voracità plebea di un patrizio in bolletta. La mensa fu servita lautamente; la cucina del milionario, con quello sfoggio insolente di prodigalità, perorava cinicamente in favore del positivismo moderno.
Il marchese, verso la fine del pranzo, avea le guancie rifiorite di due rose color pavonazzo — i suoi occhi bigi ridevano e piangevano ad un tempo. — La signora Serafina contemplava la fanciulla con uno sguardo di materna amorevolezza.
— Orsù! disse il signor De Mauro levandosi in piedi per sturare di sua mano una bottiglia di sciampagna — beviamo il bicchiere della alleanza! facciamo un brindisi alla salute... dei nostri figli... e dei figli dei nostri figli, signor marchese!
Erano le prime parole proferite a quella tavola, che suonassero così apertamente allusive al matrimonio di Edoardo e di Enrichetta. I due giovani trasalirono. Edoardo levò il bicchiere spumante, e toccando leggermente a quello della sua fidanzata, con voce commossa si fece ad esclamare: «Io bevo innanzi tutto alla salute della patria, alla fortuna ed alla gloria delle armi italiane!»
La fanciulla si levò in piedi — le sue pupille parvero dilatarsi — la sua bellezza marmorea e severa rifulse di insolita luce — ella accostò il suo calice a quello del giovane, e coll'accento dell'entusiasmo: Bene! gli disse — viva l'Italia e i generosi che vanno a combattere per essa!
Il signor De Mauro potè a stento dissimulare la dolorosa sorpresa che veniva a colpirlo.
Per alcuni minuti regnò nella sala un silenzio solenne.
Appena servito il caffè, il signor De Mauro, sforzandosi a riprendere la disinvoltura dell'uomo d'affari, si volse a suo figlio:
— Ebbene, Edoardo?... Con buona licenza del signor marchese, non condurresti la signorina a respirare un po' d'aria in giardino? Al punto in cui stanno le cose, signor marchese... E poi non è bene che quelle teste là... prendano parte alle nostre conferenze... Direbbero che noi non sappiamo far altro che spoetizzare il sentimento colla prosa numerica delle cifre!.... Andate, figliuoli!... Edoardo!... offri il braccio alla tua bella fidanzata.... andate a svolazzare tra i fiori.... ad esalare la vostra poesia tra il profumo delle rose e dei giranii... Io spero che al vostro ritorno, fra me ed il signor marchese saranno conclusi i trattati!
Enrichetta ed Edoardo si levarono in piedi — la fanciulla appoggiò confidenzialmente il braccio a quello del giovane — la signora Serafina li accompagnò fino all'anticamera, e di là passò nel suo piccolo appartamento.
— Fatti l'una per l'altro! disse il signor De Mauro al marchese — due teste calde — basta! a noi altri, teste grigie, il provvedere alla loro felicità positiva!
XI.
I due giovani attraversarono il gran viale del giardino senza proferire parola.
Giunti all'estremo, laddove sotto un bosco di rubinie erano disposti dei sedili rusticamente foggiati, Edoardo accennò alla fanciulla di sedere. Le finestre del salotto erano aperte, e la voce del signor De Mauro giungeva all'orecchio dei due giovani innamorati.
— Sentite, Enrichetta? — cominciò Edoardo con qualche esitazione — essi trattano del nostro matrimonio!
— In verità, rispose la fanciulla, ciò che è accaduto ieri... ciò che accade in questo momento mi sembra un sogno.
— Un sogno felice, non è vero, Enrichetta?...
— Ma non è dunque vero ciò che mio padre mi diceva?... Fra quindici giorni?...
— Fra quindici giorni noi dovremmo essere uniti per sempre... Vostro padre non oppone nessuna difficoltà al nostro matrimonio, non è vero, Enrichetta?...
— Voi sapete, Edoardo, che da quella parte non potrebbero sorgere degli ostacoli molto gravi...
— Orbene, Enrichetta, ciò che vi ha di reale, ciò che vi ha di rassicurante per noi in tutto che accadde da ieri fino a questo momento, è che la nostra felicità dipende da noi soli, che il nostro avvenire è assicurato, e quand'anche...
Edoardo esitava a proseguire.
La fanciulla, fissando nel volto del giovane uno sguardo che esprimeva un sentimento indefinibile, ripetè macchinalmente le ultime parole proferite da lui.
— Enrichetta! — proruppe l'innamorato coll'accento della risoluzione — se queste nozze dovessero ritardarsi, se questo ritardo fosse desiderato... richiesto da colui che ti ama... da colui che ti ha consacrato il suo cuore... che darebbe il suo sangue per risparmiarti una lacrima... cosa diresti, Enrichetta? rispondimi: che diresti?...
Le guancie della fanciulla si animarono di un roseo vivace che era la irradiazione di una gioia mal repressa. Pure ella ebbe forza di dominarsi. L'egoismo dell'amore domandava di assaporare a lente stille la voluttà di una rivelazione desiderata. Enrichetta, simulando lo stupore, proferì a voce secca queste sole parole:
— Io non vi comprendo, Edoardo!
— Voi non mi comprendete?... Eppure avrei sperato... Quest'oggi... nel vostro contegno... nelle vostre parole mi pareva di leggere... Non importa... Poichè dite di non comprendere, converrà che io mi spieghi davvantaggio. Il nostro matrimonio non può effettuarsi entro quindici giorni, come mio padre avrebbe stabilito... Prima di unirmi a voi, Enrichetta, conviene che io parta da Milano, è necessario che io vada laddove in questo momento sono chiamati tutti gli italiani che sentono la voce del dovere... Questa mattina, mentre mio padre stava trattando col vostro della nostra prossima unione, io ho presentato la mia domanda per essere ammesso nelle guide dei volontari.
Edoardo non aveva finito di proferire queste parole, che la fanciulla obliando ogni riserbo, cadde ai piedi del giovane, e coprendo la sua mano di baci, esclamava coll'accento del più sublime entusiasmo:
— Io ti chieggo perdono, Edoardo, se per un momento ho potuto dubitare del tuo nobile cuore!
I due giovani stettero alcun tempo abbracciati, assaporando quell'estasi voluttuosa che inonda due anime sorelle allorquando per la prima volta si riconoscono completamente. Estasi rare nella vita, fremiti passeggieri della intemerata giovinezza, misteriosi tripudii di quella essenza divina che è nell'uomo, e a cui i sensi non prendono parte. — Una lunga carriera di piaceri ci consuma la vita, e all'età di sessant'anni ciascuno può formare un grosso volume delle sue amorose peripezie; ma in questo volume non spiccheranno che due o tre pagine bianche — e saranno le pagine che ricordano una stretta di mano e il ricambio di un bacio santificato da quei giovanili entusiasmi che riassumono i più elevati sentimenti dell'anima.
— No! Io non dubitava del tuo patriotismo — riprese la giovane sciogliendosi dall'amplesso e ricomponendosi in sulla seggiola — io temeva che l'insistenza di tuo padre, le preghiere e le lagrime della tua ottima madre, e quest'ultimo stratagemma del matrimonio avessero sorpreso la tua buona fede... Io temeva che l'esuberanza dell'amore potesse, per un momento, paralizzare in te la coscienza dei più sacri doveri...
— Il pericolo era grande, ma tutt'altri, meno il tuo Edoardo, avrebbe potuto cedere al fascino di questa seduzione!... Tu non sai, Enrichetta... Io non ti ho mai detto le orribili angoscie del mio passato... Combattere per l'indipendenza della patria... è dovere di tutti, e la gioventù italiana ha mostrato di comprenderlo... Ma io!... Non è solamente all'Italia che devo il mio braccio — per me vi è ancora un altro dovere... quello di riabilitare la mia famiglia... Sì, Enrichetta!... Mio padre mi accusa di poca tenerezza per lui... mi chiama ingrato!... Egli non capisce che io non potrei dargli maggior prova di affetto che questa di ribellarmi alla sua volontà... Il giorno in cui mio padre potrà dire: io aveva un unico figlio, e questi è andato ad esporre la vita sul campo di battaglia — allora cesseranno i sospetti... Io tornerò dal campo colla fronte rialzata, io prenderò per mano questo vecchio quale egli sia, e la gente, vedendolo passare, non dirà più certe brutte parole... La gente dovrà dire: è il padre di uno che ha esposto la sua vita nella campagna 1866... a fianco di Garibaldi!
Con questo sfogo, Edoardo aveva rivelato alla sua fidanzata il segreto di quei dolori che davano al di lui carattere una impronta severa e qualche volta cupa all'età di ventun'anni.
In quel punto, la voce del signor De Mauro uscì più spiccata dal vano della finestra:
— Si sono dunque perduti quei ragazzi? Eppure, voi vedete, marchese, che il labirinto non è vasto!
— Siamo chiamati! disse Enrichetta.
— Prima di tornare lassù, io vorrei domandarti...
— Indovino il tuo pensiero, Edoardo. Tu non hai coraggio di dire a tuo padre...
— Non è che il coraggio mi manchi, rispose il giovane. Ma se l'opposizione partisse da te, se tu dicessi apertamente che non acconsentiresti a sposarmi se non a patto che io abbia prima adempiuto ai miei doveri di buon cittadino — allora non vi sarebbero più repliche... e mio padre sarebbe costretto a transigere...
— Vieni, Edoardo! — interruppe la Enrichetta — andiamo!... accetto con orgoglio la missione che mi hai affidata... Vedrai che io saprò parlare come si deve.
I due giovani si strinsero la mano e si baciarono — quindi, annodati delle braccia, uscirono dal boschetto, e a passo spedito si diressero verso il palazzo. — Nei loro volti si rifletteva la gioia e l'entusiasmo dei loro cuori.
XII.
Il signor De Mauro, vedendoli rientrare nel salotto, prese buon augurio da quella gioia. — E volgendosi alla figlia del marchese:
— Mi pare, le disse, che le cose si mettano bene. Eravate usciti col portamento impacciato di due collegiali, ed ora tornate a noi colla spigliatezza di due amanti. A maraviglia! Dal canto nostro non si è perduto il tempo — col signor marchese è molto facile l'intendersi... e oramai si può dire: affare finito!
Il marchese Contareno, rilevandosi della persona, e assumendo il fare grandioso dei suoi illustri bisavoli, diresse la parola ad Edoardo:
— L'onorevole signor De Mauro qui presente... vostro padre e mio eccellentissimo amico...
— Lasciamo da parte le grandi formule — interruppe il signor De Mauro — non vedete, marchese, non capite dai loro volti ch'essi sanno già tutto?... Non è vero, adorabile signorina, che il cerimoniale è divenuto superfluo?... Ad ogni modo, tanto che anch'io possa udire uno di quei sì deliziosi che, poco fa, avrete proferiti in giardino più di una volta, permettete che io vi domandi se è proprio vero che siate contenta di sposare questo scapato... questa testa balzana di mio figlio... Un cuore eccellente... vedete — ma un cervello... Basta! La signora Enrichetta penserà lei a fargli mettere giudizio.
Il signor De Mauro parlava scherzosamente alla giovane Contareno; ma questa aveva già ripresa quella calma solenne che era l'espressione più naturale del di lei volto.
— Il signor Edoardo — disse ella coll'accento più fermo — conosce i miei sentimenti a di lui riguardo, come anche le mie intenzioni. I nostri cuori sono già fidanzati da parecchi mesi: noi siamo vincolati da promesse reciproche, alle quali nè egli nè io potremmo venir meno. Ma il nostro matrimonio non può effettuarsi in questo momento... Il signor Edoardo lo sa... ed io ne vado orgogliosa... Quanto a me, non potrei stimare un uomo che si rifugiasse nelle dolcezze dell'amore al momento in cui tutti i giovani italiani vanno a sfidare la morte per l'indipendenza e la libertà del loro paese. Un tal uomo non potrebbe mai divenire lo sposo di Enrichetta Contareno.
Il signor De Mauro rimase fulminato. Egli comprendeva che in quel fiero carattere di fanciulla i propositi dovevano essere tenaci come le convinzioni. Si volse al marchese, sperando che questi lo togliesse di imbarazzo: ma il vecchio Contareno guardava sua figlia cogli occhi ebeti e lacrimosi, e a stento poteva respirare. Aveva mangiato per quattro, e la lunga conversazione tenuta poco prima col signor De Mauro gli aveva prostrate le fibre.
Impossibile descrivere le attitudini diverse di quei quattro personaggi. A sciogliere di qualche modo gli imbarazzi della situazione, sopravvenne la signora Serafina.
— Ebbene? tutto è conchiuso... non è vero? — domandò bonariamente quella ottima donna entrando nella sala.
— Sì, tutto è conchiuso — rispose il signor De Mauro dissimulando per quanto gli era possibile il suo cattivo umore — ma la signorina, a quanto pare, non ha molta fretta — a noi dunque non rimane che attendere i di lei ordini... o quelli dell'eccellentissimo signor marchese...
— Sicuro!... A domani!... Per oggi basta!... — disse il Contareno levandosi in piedi come uomo che si svegli dal letargo... L'ora è già tarda... non sarebbe tempo di andarcene, Enrichetta?
La fanciulla stese la mano al signor De Mauro che la strinse di mala voglia.
— Spero che non mi serberete rancore — in ogni modo, dopo la guerra, noi ripiglieremo le nostre buone relazioni!
Ciò detto, la fanciulla pose il suo braccio in quello di Edoardo — e i due giovani uscirono insieme dalla sala, seguiti dal marchese che non cessava di ripetere macchinalmente: affare concluso! affare finito!
XIII.
Due giorni sono trascorsi. Una immensa folla di popolo sta adunata dinanzi alla stazione della ferrovia.
Un giovane abbigliato di rosso si ferma presso gli sportelli di una antica carrozza — i cristalli si abbassano — una mano lunga e sottile viene ad incontrare quella del giovane — il tumulto della piazza affollata copre il susurro di quell'addio misterioso e sublime.
Chi bada agli episodii laddove c'è un popolo intero che si abbraccia nei santi fremiti dell'amore e della patria? Volgete intorno lo sguardo — e dappertutto vedrete delle eroiche madri, delle spose gagliarde, che si separano senza piangere dai figli e dai mariti! — Dove fiammeggia una camicia rossa, quivi si aggruppano dei cuori di amanti e di sorelle, quivi la canizie dei padri rifulge di nobile orgoglio e le rughe dei volti materni sembrano irradiarsi di giovinezza.
Il segnale che richiama i viaggiatori al convoglio è suonato. Edoardo si stacca dalla carrozza stemmata, e slanciandosi nelle braccia di una donna che sta in un lato a rimirarlo con occhio di invidia — mia buona madre! — esclama — l'ultimo bacio è per te... perdonami ciò che mio padre ti fa soffrire per cagion mia!
— Oh, nulla!... Che la mia benedizione ti accompagni!
E poichè gli occhi di quella madre aveano lasciato scorrere una lacrima — Edoardo la asciugò con un bacio — e s'immerse nella folla per entrare nella stazione.
Dopo alcuni minuti, al fischio della locomotiva rispose dalla piazza e dai portici un urlo di acclamazioni. Le donne agitavano i fazzoletti... i fanciulli battevano le mani — i vecchi si drizzavano sulla persona coll'impeto dei loro venti anni.
Frattanto il convoglio si involava, lasciando indietro un'onda di canti.
Il torrente della folla si riversava nella città. — Tutte le parole suonavano ammirazione ed entusiasmo.
Due uomini in sulla età si incontrarono a poca distanza dal sottopassaggio.
L'un d'essi era là da alcuni minuti, quasi rannicchiato dietro uno stipite, e pareva assistere a quella scena da spettatore indifferente o sdegnoso.
— To'!... chi vedo! anche voi, signor De Mauro!... — esclamò l'altro che veniva dalla stazione. — Si è mai dato uno spettacolo più sublime di questo?... Scene da far piangere i sassi... e nessuno piangeva!... Che giovani!... che faccie!... che slancio!... Voi li avrete veduti quando montarono nei vagoni... Pareva che prendessero d'assalto una fortezza!...
— Se li ho veduti! — rispose il De Mauro a voce alta — come volete che io non li abbia veduti, mentre c'era anche lui... quel bel mobile di Edoardo!
— Come! vostro figlio?...
— Sicuramente! mio figlio... Non avevo che quello... e non potevo dare di più... io!
Alcuni, che si erano fermati ad udire, si partivano esclamando:
— Anche lui! un figlio unico!... un milionario!
E il signor De Mauro, per la prima volta in sua vita, si illuse a tal segno da credersi un grande patriota, un martire della indipendenza italiana.
PARTE TERZA Entusiasmo.
I.
La piccola città di... non aveva dato che cinque volontarii, avanzi anche questi dell'illustre drappello di Palermo e di Milazzo. — Era apatia? era diffidenza? Fatto è che una volta partiti quei cinque valorosi soprannominati i cinque abbonati delle vittorie garibaldine, non si ebbe più sentore in città che altri intendesse seguirli. A spegnere l'ardore della gioventù erano giunte — dicevasi — due lettere: l'una da Como, l'altra da Gallarate, nelle quali veniva dipinta coi più sinistri colori la situazione dei volontari già accorsi ai depositi. I preti e i così detti cittadini di senno esageravano le dicerie, fors'anche le sopracaricavano di calunnie, a quale scopo si intende.
La popolazione di... nelle prime settimane di giugno presentava ancora il suo aspetto normale. Alla stazione della ferrovia, malgrado il quotidiano passaggio delle truppe che traevano al Mincio, il concorso dei curiosi non era di molto accresciuto.
Volete di più? — Una compagnia comica era venuta ad installarsi nell'unico teatro della città, e mentre nelle capitali più popolose d'Italia si chiudevano tutti i luoghi di pubblico divertimento per mancanza di spettatori — quella piccola compagnia coglieva applausi e danaro.
Come vedete, la città di... rappresentava un anacronismo di storia contemporanea.
Nullameno, le produzioni drammatiche del piccolo teatro non mancavano di riflettere l'attualità co' suoi colori appassionati e vivaci — e gli avvisi quotidiani, da oltre una settimana, non avevano mai cessato di promettere un dramma bellicoso, scritto appositamente da penna concittadina per la benefiziata della prima attrice. Questo nuovo dramma si annunziava col titolo: La partenza dei Volontari.
In una città più infervorata di patriottismo poteva bastare un tal titolo a chiamare in teatro un insolito concorso. Ma qui la maggiore attrattiva dello spettacolo era riposta nella circostanza dell'autore concittadino. Un istinto maligno di curiosità e di invidia si era manifestato all'annunzio del nuovo dramma. La rappresentazione era attesa con ostile impazienza.
Non vi è città così meschina, starei per dire non vi è in Italia borgata o paese, che non abbiano il loro poeta disconosciuto e tribolato, qualche volta detestato dalla intera popolazione. — Gli è già molto che nei grandi e popolosi centri, il poeta e l'uomo di lettere vengano tollerati per la compassione che ispirano. Nelle piccole città predominate dalla crassa possidenza, nei borghi ove è sindaco il droghiere, dove i consiglieri della Giunta sono anche membri della fabbriceria, il poeta e il letterato rappresentano l'abbominio.
Povero Lanfranchi! — L'autore del nuovo dramma La partenza dei Volontari si chiamava Eugenio Lanfranchi — E all'età di venticinque anni egli aveva lasciato la sua piccola città per recarsi a Milano, dove sperava co' suoi talenti e col suo sviscerato amore per le lettere di raccogliere simpatia e protezione. — Era partito con due romanzi nella valigia e circa duecento franchi nel portamonete. Tornando, dopo un mese, alla terra natale, egli possedeva ancora i due romanzi, ma i suoi duecento franchi erano rimasti a Milano. Quand'egli scese alla stazione, taluni ebbero a notare con infinita compiacenza ch'egli era alquanto dimagrato, che indossava il medesimo abito col quale era partito, e che una delle sue scarpe mostrava la lingua. — La città prima di sera fu tutta piena di tale avvenimento — e la gioia fu universale. Due mesi dopo, egli fu costretto ad accettare un posto da scrivano nel consiglio del Comune. Nel deliberargli quell'impiego, al quale andava annesso lo stipendio di lire quaranta al mese, il Sindaco fece inserire nel resoconto della seduta che ciò si faceva onde togliere dall'inopia un giovane di condizione civile, il cui padre si era reso benemerito della città dirigendo per oltre venticinque anni le apparature per la funzione del Corpus Domini.
II.
La rappresentazione del nuovo dramma era imminente. I comici, nel corso delle prove, si erano mostrati oltremodo soddisfatti dell'autore, preconizzandogli il più felice successo. Nullameno, all'avvicinarsi di quell'ora solenne e terribile nella quale il pubblico è chiamato a proferire il suo verdetto, Eugenio Lanfranchi sentì il bisogno di sottoporre il suo lavoro drammatico al giudizio di un amico. — Ma dove trovare un amico? — In città non vi era che uno solo, cui il Lanfranchi osasse dare questo nome — un altro poeta più giovine di lui e meglio favorito dalla fortuna, in quanto non avesse bisogno di esercitare la letteratura per vivere, o di subordinarsi, per necessità dell'impiego, alla dispotica albagia dei suoi concittadini.
Questo giovane poeta si chiamava Carlo De Santi. Toccava appena i venti anni, e faceva il suo corso di studi all'università di Pavia; ma da qualche tempo era tornato alla città natale per rimettersi da una grave malattia che l'aveva condotto a filo di vita.
La famiglia De Santi non aveva mai veduto di buon occhio l'intrinsichezza dei due giovani. Come abbiamo veduto, il Lanfranchi passava per un cervello matto, per un discolo. Ma forse la sua povertà più che la sua cattiva fama lo facevano reputare un soggetto pericoloso. Carlo ed Eugenio, all'epoca delle vacanze autunnali, si vedevano rare volte, di nascosto, attratti da quella omogeneità di caratteri e di studii che esercita un potere irresistibile negli anni della giovinezza.
Il Lanfranchi non aveva mai osato presentarsi alla casa dell'amico, dacchè questi era venuto da Pavia per rassodare la sua convalescenza. Il prepotente bisogno di interrogare il di lui giudizio sulla nuova produzione drammatica, prima di affrontare quello del pubblico, gli ispirò il coraggio di dirigersi a quelle soglie, malgrado il pericolo di vedersi respinto.
Entrò col cuore trepidante — salì le scale a celere passo — e ottenne di presentarsi all'amico, il quale non aveva ancora abbandonata la sua camera da letto.
Poichè i due giovani furono lasciati soli, essi presero a parlare con quell'enfasi esuberante, che fa sorridere gli scettici incalliti nella apatia, ma che è pure la espressione più naturale della giovinezza che sente e che crede.
III.
— Ti sei fatto aspettare — cominciò Carlo con accento di mite rimprovero. — Son qui da dieci giorni, e il buon Giuseppe ti avrà portato i miei saluti e ti avrà detto come io desiderassi... una tua visita...
— Non ebbi coraggio... Mi avevano detto che la tua famiglia... il medico... che so io... non permettevano ai tuoi amici di venirti a trovare.... Come stai?... Molto debole, a quanto pare...
— Sì... debole ancora... molto debole!... Ma tu ricordi la visita di Bruto a Ligario... Se tu vieni a invitarmi perchè io ti accompagni laddove in questi giorni debbono accorrere tutti gli Italiani che sentono amore di patria, fammi vedere una camicia rossa ed un fucile — A quella vista... io riacquisterò in un momento le forze perdute... sarò guarito completamente... e marceremo, perdio!... e ci batteremo anche noi come si battono i leoni!
Le guancie di Carlo si erano animate di quel fuoco febbrile che è proprio dei convalescenti allorquando vengano assaliti da una emozione troppo viva. Eugenio arrossì a sua volta, ma il rossore di lui accusava l'imbarazzo e la vergogna di chi per la prima volta sente rinfacciarsi dalla propria coscienza un fallo inavvertito.
— Ah! tu vorresti partire per il campo? farti garibaldino? — prese a dire il Lanfranchi con qualche esitazione... Ebbene: io ti ho portata la camicia rossa... ho pensato a te...
— Davvero?!
— Un momento... Non bisogna... per ora... prendere il discorso alla lettera... Prima che la guerra incominci noi avremo tempo di indossare la santa divisa del garibaldino e di recarci sul luogo dell'azione... Frattanto io ho creduto di far bene adoperandomi a suscitare negli altri quell'ardore che pur troppo nella città nostra è condiviso da pochissimi. A tale scopo ho scritto un dramma che domani dev'essere rappresentato all'anfiteatro...
— E questo dramma porta per titolo?...
— La partenza dei Volontari!...
— Me ne avevano parlato, ma ero lontano dall'immaginare che tu ne fossi autore... Bravo! Ottimamente! A maraviglia!... Io comprendo il tuo pensiero!... Tu vuoi scuotere l'apatia dei nostri concittadini... vuoi eccitare la gioventù... trascinarla a seguirti... o piuttosto a seguirci... perchè io... ve'! io l'ho già bello e fissato il mio piano... Fra tre o quattro giorni, sano o malato, con o senza permesso del medico e della famiglia, io troverò ben modo di portarmi al quartiere di Garibaldi e di prendere il mio fucile!
Lanfranchi era umiliato da quell'enfasi, e seco medesimo si maravigliava di non aver concepita l'idea di arruolarsi fra le schiere dei volontarii prima che l'amico gli ricordasse, col suo vigoroso e nobile linguaggio, un tale dovere.
Ma il giovane convalescente aveva accolta colla massima buona fede la giustificazione dell'amico. Si era lasciato convincere che il pensiero di scrivere un dramma per suscitare l'entusiasmo bellicoso dei concittadini era degno di un'anima grande e fieramente patriotica.
Dopo qualche esitazione, il Lanfranchi si levò di tasca il manoscritto, e diede principio alla lettura.
IV.
Il nuovo dramma non era un capolavoro d'arte; l'intreccio non brillava di originalità, i dialoghi riboccavano di quelle iperboli comuni che si fanno applaudire egualmente in teatro e alla Camera dei deputati. Il giovane autore mirava all'effetto. I suoi personaggi ritraevano con brutale naturalezza i tre partiti politici dell'Italia contemporanea, i quali, sulla scena, soglionsi ordinariamente raffigurare in un prete reazionario, in un sindaco moderato e servilmente ligio al potere, e in un gruppo di popolani, di poeti e di artisti infervorati di principii democratici e sempre disposti ad agire. Ma il carattere più spiccato, e diciamolo pure, il più falso, era quello di una eccentrica madre, la quale, avendo un unico figlio di età giovanissima e per giunta infermiccio, era pronta ad immolarlo sui campi di battaglia, dividendo con lui i disagi ed i pericoli. Questa madre spartana era la protagonista del nuovo dramma, e l'attrice benefiziata contava a buon dritto di suscitare immenso entusiasmo presentandosi colla divisa garibaldina ad insegnare a suo figlio la manovra del fucile.
Sublimi trasporti della giovinezza! Slanci maravigliosi dei vergini cuori, ai quali è dato sorvolare a quella pesante atmosfera di positivismo che è la caratteristica dell'epoca attuale! — Se la dolorosa esperienza della realtà ci obbliga qualche volta a sorridere di questi illusi sublimi, è anche vero che noi siamo costretti molto spesso ad ammirarli e ad invidiarli! — Noi dubitiamo, essi credono — ecco la differenza. Ciò che è falso per noi, considerato nei rapporti di un ignobile realismo — per essi, che vedono il creato attraverso al prisma abbagliante della giovane fede, è un ideale che somiglia al possibile. Leggendo Plutarco, noi disperiamo che il secolo parolaio produca dei nuovi giganti e dei magnanimi fatti — essi, come il Carlo Moor del poeta alemanno, si illudono di veder rivivere l'età degli spiriti gagliardi e dell'eroismo disinteressato.
Chi ha ragione? chi ha torto? — Qual è di noi che vede più giusto? — Curviamo la testa dinanzi a questi martiri predestinati che profondono il loro sangue. A ben considerare, essi non hanno che un solo torto, quello di esser pochi. Non per questo abbiamo noi diritto di ammonirli che essi spendono il loro entusiasmo e la loro vita a profitto di una turpe ed ignobile maggioranza che, pure disconoscendoli, farà traffico dei loro sacrifizii per amplificare la propria potenza. La società è orribilmente viziata e incadaverita. Essi rappresentano l'avvenire.
V.
Alla lettura di quelle scene concitate e frementi, sul volto di Carlo si alternavano i pallori e le fiamme vivaci dell'entusiasmo.
Il dramma toccava la fine. Eravamo al punto in cui l'eroina dell'azione, strappato il figlio dalle branche di uno zio paolotto che si era attentato di impedirgli la partenza pel campo, fa sventolare una bandiera tricolore, e si volge alle madri italiane per animarle a seguire il di lei esempio.
Il Lanfranchi declamava quel brano drammatico coll'enfasi di un autore che si attende l'applauso: «Tu sei come me, Edoardo!... La voce di tua madre ha trionfato sulle arti dei rettili immondi che ti stringevano al piede... Essi non sono riusciti a contaminare la tua giovinezza... La voce di una madre ha parlato al tuo cuore più fortemente che non quella di un falso Dio! — Volevano farti credere di non essere abbastanza vigoroso per sopportare i disagi e le fatiche del campo! Ma io... tua madre... io che ti ho data la vita... saprò ben io infonderti la forza che ti abbisogna!...»
— Sublime! interruppe Carlo, balzando dalla seggiola, e percorrendo la camera a passo agitato.
— «Noi andremo insieme dove ci chiama la voce del cannone... la vera voce di Dio!... Tua madre ti starà a lato... per sorreggerti, per infonderti coraggio... e se una palla nemica colpisce il tuo petto... io raccoglierò il tuo cadavere con orgoglio... e lo porterò di città in città, di villa in villa, di contrada in contrada, e griderò alle madri italiane: vedete! era il mio unico figlio!... egli è morto per la patria... egli è morto combattendo... Vendicatelo, o madri italiane! e che tutti i vostri figli seguano il di lui esempio!»
A tali parole, il giovane convalescente che non avea cessato di passeggiare per la camera a grandi passi — si avvicinò all'amico, gli strinse la mano con trasporto, e gli disse:
«Fissami un luogo... dove possiamo trovarci assieme... domani a sera... dopo la rappresentazione.»
— Che? tu vorresti uscire di casa?... Nello stato in cui ti trovi?
— Non badare, Eugenio... Il tuo dramma mi ha ridonato la salute e il vigore... Io sono guarito, capisci? io sono guarito perfettamente — e dopodomani, all'alba, colla prima corsa intendo partire... Voglio ben credere che tu non avrai difficoltà ad accompagnarmi!...
Il Lanfranchi non poteva esitare. Egli era rapito di orgoglio in vedere la concitazione dell'amico; gli pareva che quell'entusiasmo fosse un effetto del suo dramma, fosse opera sua.
I due giovani si concertarono sul da farsi. A Carlo erano necessarie delle precauzioni per deludere la sorveglianza dei parenti. Fu convenuto, che dopo la rappresentazione, egli si sarebbe recato alla casa di Eugenio, e quivi sarebbero montati insieme in una vettura per trasferirsi alla più prossima stazione di ferrovia ad attendervi il convoglio del mattino. Questi concerti furono presi a bassa voce, senza spreco di parole. Infiammati dal medesimo ardore, quei due giovani cuori si indovinavano, si comprendevano a maraviglia.
— Un'ultima parola, disse Carlo all'amico nel momento in cui stavano per separarsi — ai mezzi penso io... la mia borsa è a tua disposizione. Solamente vorrei pregarti... ma temo che ciò non sia possibile... Mi dicono che ai depositi vi sia mancanza di camicie rosse... ed io muoio d'impazienza di indossare quella nobile divisa...
— Ci avevo già pensato! rispose Eugenio trionfalmente. — Io credo che domani a sera noi saremo tutti e due provveduti della nostra camicia. Per la rappresentazione del mio dramma ne furono ordinate sei... Gli è l'ultima recita della compagnia... e i comici... tu mi intendi... non avranno difficoltà a cederci per poco danaro questa parte del loro equipaggio!
Carlo, per tutta risposta si gettò nelle braccia dell'amico, e indi a poco i due giovani si separarono coll'animo tripudiante di sublimi emozioni.
Quel giorno il Lanfranchi doveva pranzare cogli artisti della compagnia drammatica.
Verso le ore quattro, egli si recò dunque ad un modesto alberghetto a poca distanza dal teatro, dove era atteso dalla scapigliata comitiva.
Quando Eugenio pose il piede nella sala da pranzo, uno degli attori stava leggendo ad alta voce in un foglio teatrale, giunto quella mattina da Milano la seguente notizia:
«Le compagnie drammatiche hanno fornito all'armata dei volontari italiani un numeroso contingente. Fra i molti che disertarono dall'arte per militare sotto le insegne gloriose si citano gli attori: Francesco Benincasa ed Enrico Brissoni, Pagani, Belli-Blanes, Schmit, Lavaggi, De-Martini, Bozzo, Pesaco, Mazzoni, Bajesi e Bisi. A questi voglionsi aggiungere Tito Taddei e Napoleone Straccia, G. Mozzidolfo, Carlo Zannini, Luigi Mazzoli ed Antonio Bellotti. Anche dal Circolo Ciniselli di Milano è disertato il fratello di Achille Majeroni. Quest'ultimo ha già dato un figlio al contingente dell'esercito. I grandi esempi di Gustavo Modena non andarono perduti. Questa eletta generazione di artisti che crebbe alla scuola dell'attore insuperabile, doveva necessariamente ispirarsi alle tradizioni patriotiche lasciate da lui.»
— Viva Gustavo Modena!
— Viva gli artisti italiani!
— Viva la guerra!
— Viva l'Italia!...
Tali furono i gridi che proruppero dalla comitiva, appena terminata la lettura di quel breve articolo.
— Eh! sicuro... il giornale ha ragione! — disse la madre nobile con sussiego — tutto quel poco di buono che ci resta nell'arte... e nella politica... è tutto opera di lui... Povero Gustavo!... E dire che l'Italia non ha pensato ancora ad erigergli un monumento!... Ma gli era troppo grande quell'uomo... e certa gente che so io... ha perfino paura della sua ombra!
— Ma pure — sorse a dire il caratterista — anni sono si era aperta una soscrizione all'ufficio di non so qual giornale di Milano... ed io so di aver versato cinque lire...
— Cinque lire...! c'era ben altro che cinque lire nella cassa...! — entrò a dire un altro comico — la sommetta era abbastanza tonda... ma poi... chi ne ha saputo qualche cosa? Dove è andato a finire quel denaro? — Indovinalo grillo!... Si sono fatti dei monumenti per certi zucconi... Basta! Lasciamo là queste storie! Povera Italia! Povera arte! Ma lui, non era cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro, il povero Modena!
— Ci vuol altro che innalzare dei monumenti! — esclamò il secondo brillante della compagnia — bisogna imitare gli esempi che i grandi ci hanno trasmessi!... Quel giornale, ove sono registrati i nomi dei nostri colleghi d'arte già partiti per il campo, quel giornale ci insegna la via che noi tutti dovremmo seguire!
A questo punto due giovani attori che sedevano vicini in un angolo della tavola, si scambiarono una occhiata di intelligenza.
— Basta! farà ciascuno ciò che gli piace meglio! disse il capocomico. — Domani sera finiscono le recite... e per ora io non ho stipulato verun contratto, nè saprei dove recarmi a dare delle rappresentazioni. Frattanto parliamo d'altro... Se non mi inganno, sarebbe ora che ci servissero da pranzo... Ci siamo tutti?...
— Non manca che il primo amoroso...
— È strano!... Cherubini non si fa mai aspettare all'ora del pranzo — disse il capocomico... Ma eccolo! Mettiti al tuo posto, Cherubini! La compagnia è completa... Signor oste, voi potete servire la minestra!
Il Cherubini, appena entrato nella sala, erasi avvicinato al poeta per domandargli non so quale avviso sul modo di abbigliarsi, nella nuova produzione. Finito quel breve colloquio, egli andò a sedere presso la prima donna, e mentre il direttore della compagnia dispensava la minestra:
— Signori e signore — prese a dire — scommetto che questa volta io sono il primo a darvi la grande notizia!
— Una notizia! sentiamo! — esclamarono tutti ad una voce.
— E quale!... Si vuole nientemeno... Ah! il signor poeta dovrà essere ben soddisfatto di quanto io sono per dire... Si vuole nientemeno che Garibaldi abbia lasciato Caprera...
— La bella novità!... Il Pungolo l'ha già data non meno di dieci volte... Io non crederò che Garibaldi sia realmente partito da Caprera se non quando l'avrò veduto coi miei proprii occhi!
— Ebbene: se altro non vi abbisogna per rimanere convinti, non avrete che a recarvi domani alle due pomeridiane presso la stazione della ferrovia, e di là vedrete passare il generale che si reca col suo stato maggiore a visitare i depositi di Como e di Varese.
— Egli!...
— Garibaldi!...
— Domani!
— Egli... Garibaldi... domani... Alle due pomeridiane e cinque minuti sarà visibile alla stazione, dove probabilmente si arresterà un quarto d'ora.
Tutti i volti si animarono come se una favilla elettrica avesse percorso la comitiva. Quelle mascelle da comici atrocemente fameliche sostarono improvvisamente in segno di stupore e di venerazione. Le guancie degli attori più giovani impallidirono. Il brillante mormorò delle parole incomprensibili — i due, che poco dianzi si erano scambiati delle occhiate di intelligenza, questa volta si parlarono all'orecchio e parvero accordarsi in una mutua promessa.
— A costo di passare attraverso le inferriate, questa volta nessuno mi torrà di vederlo — esclamò la madre nobile che era una grassona di sessant'anni.
— Darei l'intiero prodotto della mia benefiziata di domani pur di accostarmi al suo vagone e baciargli la mano! — soggiunse la prima donna.
Ciascuno esprimeva il proprio entusiasmo con quel frasario iperbolico che è proprio degli artisti da teatro. Durante il pranzo uno solo fu il tema della conversazione. Il nuovo dramma fu obliato completamente — il poeta, gli attori, il padrone dell'albergo, i camerieri, i guatteri, il mozzo di stalla non ripetevano che un nome. Nelle sale, nella cucina, nel cortile, tutti i cuori e tutti i labbri inneggiavano ad un uomo.
VI.
Vi è qualche cosa di magnetico nel nome di Garibaldi, come nella sua figura e nel suono della sua voce. La sua biografia si smarrisce nell'ideale come quella di tutti i profeti, di tutti i martiri della umanità. Delle sue gesta di Montevideo il popolo ignora i particolari, ma appunto da questo mistero che le involge quelle gesta assumono un carattere sovrumano. È accreditata la voce che Garibaldi in quelle remote regioni venisse orribilmente torturato dai nemici della libertà. Nelle tradizioni misteriose del popolo, Garibaldi apparisce vincolato all'albero di una nave come il Cristo alla colonna. Quando l'uomo delle Americhe apparve per la prima volta a Milano nel 1848, colla sua chioma raffaellesca, col suo sguardo fiammeggiante e soave, colla sua barba rossigna e flessibile, col prestigio di una virilità fiorente, colla sua tunica rossa e il fazzoletto a tracolla, egli parve il Nazareno risorto, il Cristo delle battaglie. L'apparizione fu breve, ma i tratti di quell'uomo si stamparono in tutti i cuori. Dopo i disastri d'Italia, Garibaldi dovette eclissarsi — pure le sue nobili sembianze rimasero scolpite nella mente del popolo come un simbolo di riscossa e di libero avvenire.
Che avvenne di Garibaldi dopo la sua ritirata da Roma? Dove si è recato? Quali furono le sue gesta?
Per circa dieci anni, l'eroe leggendario fu ancora travolto dal mistero. Un episodio lugubre, la morte di Anita, fu ripetuto sommessamente nei crocchi del popolo, il quale, tutto in massa, condivise i dolori del suo idolo. Milioni di cuori portarono il lutto per una donna, milioni di cuori giurarono vendicare una morte. — Di Garibaldi si disse: egli va errando sull'oceano, egli spazia fra le libere onde, aspettando il gran giorno della rivincita. Per dieci anni alla fantasia degli italiani umiliati ed oppressi l'intrepido difensore di Roma si dipinse errabondo e pensoso sovra una piccola prora agitata dai flutti. — La prima bandiera tricolore che ebbe a sventolare sulle alture lombarde nel 1859 fu piantata da Garibaldi. Pei Lombardi egli fu il Cristo risorto che viene a portare la buona novella! Le vittorie di San Fermo e di Palermo fecero stupire l'Europa — la disfatta di Aspromonte rattristò tutti i cuori liberali — l'eroe ferito al tallone ricordò l'Achille fatato, e il sangue che grondò dalla piaga rese venerabile l'ignorato promontorio siccome un nuovo Calvario. Tutti i partiti politici guardano riverenti a quella sublime figura. I despoti lo rispettano ed ammirano — i potenti gli invidiano la popolarità — i deboli e gli oppressi sentono che, lui vivo, la loro causa non è perduta. Dovremo noi aggiungere che le donne adorano in lui l'ideale della energia e della dolcezza, che le madri gli affidano la vita dei loro più cari con uno slancio di fiducia che tocca la passione? — Divinizzare una creatura umana è peccato di fanatismo, un peccato che molto spesso viene a scontarsi con amare delusioni. Ma quando il fanatismo si estende all'universo, quando un uomo diviene il simbolo di una idea, e come tale può rendersi adorato da tutti i suoi contemporanei, convien credere che questo uomo riunisca in sè medesimo tali doti da apparire colossale e quasi sovraumano. Se Garibaldi non è un colosso, è d'uopo confessare che a di lui confronto la società attuale è pigmea.
VII.
La notizia era vera. Garibaldi, partito il giorno innanzi da Caprera, si recava nelle provincie lombarde ad ispezionare i suoi volontari e ad assumerne il comando.
All'indomani, verso le ore due, una folla considerevole traeva alla stazione della ferrovia. Quella popolazione scettica e letargica si era improvvisamente scossa. Nelle fisonomie brillava la luce. I fanciulli e le donne — questa eletta porzione della società che è la più ingenua e la più impressionabile — rivelavano nell'incesso, nel movimento concitato della persona, un immenso tripudio. Il popolo scamiciato, il popolo vestito di velluto si arrampicava sulle muraglie, invadeva i capitelli delle colonne. C'erano dei nani che parevano giganti, dei giganti che parevano pigmei. Quella moltitudine che si era precipitata nella sala di aspetto, che si era distesa per oltre mezzo miglio lungo il margine della ferrovia, all'approssimarsi dell'ora desiderata divenne immobile e muta. Quegli ultimi minuti di aspettazione parvero secoli.
Non mai il fischio di una locomotiva parlò più eloquente alla folla. Tutti i volti impallidirono. I fanciulli giunsero le mani — qualcuno cadde in ginocchio e fece il segno della croce.
Al silenzio, all'immobilità successe un uragano di grida, una agitazione indescrivibile. Il convoglio aveva rallentata la corsa, e tutti gli sguardi si erano pasciuti di una sublime visione. Garibaldi avea reso il saluto alla folla e ciascuno si era vivificato.
Prima ancora che il convoglio si arrestasse, i più enfatici erano saliti sui gradini e sui tetti delle carrozze. Il vagone occupato da Garibaldi e da' suoi intimi fu preso d'assalto con impeto formidabile.
— Silenzio! gridavano mille voci; lasciatelo parlar lui!... Sentiamo cosa dice lui... Ma altre migliaia di voci non cessavano di urlare a tutta possa: «viva Garibaldi! viva l'Italia! viva la guerra!»
A un tratto la fisonomia di Garibaldi da ilare e benigna divenne radiante. I suoi occhi parevano salutare al di là della folla qualche persona amica e desiderata.
In un lampo tutte le teste si volsero.
— Fate largo! fate largo! tuonò il generale levandosi in piedi — ecco qualcuno che non perde il suo tempo in vane dimostrazioni... No: non è tempo di parole codesto!... l'Italia domanda soldati e carabine!
Tre giovani in camicia rossa si apersero il varco attraverso a quella immensa barricata di popolo, e animati dal sorriso e dalla voce del generale che loro stendeva le braccia come a fratelli, si lanciarono nella sua carrozza.
Quasi al medesimo punto la campanella diede il segnale della partenza e il convoglio fra un uragano di viva uscì trionfalmente dalla stazione ed indi a poco disparve.
Quei tre giovani, apparsi inaspettatamente a completare la solennità e l'entusiasmo di un istante, divennero il soggetto di tutti i discorsi.
Chi erano? Nessuno li aveva riconosciuti. La camicia rossa aveva abbagliato gli sguardi. I meglio informati sostenevano che erano tre faccie forestiere; altri invece, affidandosi alle ipotesi, profferivano dei nomi e inventavano delle favole assurde; ma l'episodio dei tre garibaldini non cessava per questo di rappresentare un enigma.
VIII.
Com'era da prevedersi, quella straordinaria effervescenza di popolo tornò propizia alla attrice che in quella sera dava in teatro la sua serata di benefizio. Il nuovo dramma La partenza dei volontarii, ritraeva dagli avvenimenti del giorno un'interesse di attualità quale l'autore ed i comici erano lungi dall'aspettarsi.
Allo schiudersi delle porte il teatro fu invaso dalla folla. La platea, le gallerie, il loggione traboccarono di spettatori. L'intera città si era travasata in quell'angusto recinto.
Eugenio Lanfranchi, l'autore della commedia, passeggiava fra le quinte collo sgomento nell'anima. S'egli avesse preveduto quel formidabile concorso di spettatori e di giudici, non avrebbe osato sfidarlo.
Gli pareva che in paragone degli avvenimenti reali il suo dramma fosse una frivola e sbiadita parodia. Le forti commozioni da lui provate al cospetto di Garibaldi, alla vista dei tre sconosciuti che si erano slanciati nella carrozza dell'eroe per seguirlo sui campi di battaglia, gli rinfacciavano la pochezza delle sue espansioni drammatiche. Due giorni innanzi egli temeva di aver esagerato le tinte; ed ora vedeva impallidire i colori e smarrirsi i contorni de' suoi personaggi. — Quale orribile fiasco! pensava egli misurando la scena a passo concitato — darei due anni del mio stipendio, perchè la rappresentazione non avesse luogo!
Frattanto gli attori attraversavano il palco scenico per recarsi ai loro camerini. Al di là del sipario la platea muggiva sordamente siccome un oceano in tempesta.
Lo spettacolo doveva incominciare alle otto, e nondimeno alle ore sette e mezzo il pubblico imperversava di schiamazzi. Ciò accade quasi sempre nei teatri eccessivamente affollati. La insolita agitazione degli animi questa volta irritava le impazienze, produceva un parossismo.
Si accendono i lumi — i professori di orchestra seggono ai loro posti innanzi tempo, e tentano, accordando gli istrumenti, di ammansare la belva-pubblico. — L'ispettore della questura va sul palco scenico per ottenere si anticipi la rappresentazione. Il buttafuori fa osservare che mancano dieci minuti all'ora convenuta — nondimeno egli dà il segnale ai suonatori, e frattanto percorre i camerini per avvertire gli artisti che si tengano pronti.
Ai primi suoni dell'orchestra, — parecchie voci gridano: silenzio! — la platea si rimette in calma, non pochi sembrano disposti a prestare attenzione alla musica.... — La sinfonia è troppo lunga... Basta! Avanti! Fuori! urlano ad un tratto diverse voci. — L'uffiziale di questura abbandona per la seconda volta la sua sedia e ritorna sul palco scenico per sollecitare gli attori.
L'orchestra, o bene o male, ha finito il suo pezzo, e i professori deponendo gli istrumenti, lanciano sotto voce mille imprecazioni sul rispettabile pubblico. Questi, che al cessare della musica non vede alzarsi il sipario, riprende con maggior veemenza le proteste. I piedi, le mani, i bastoni, gli ombrelli, tutto serve a far chiasso. Gli uomini d'ordine si provano a reprimere lo schiamazzo con dei sibili impotenti. Ma ogni pretesto di ritardo compatibile, viene a cessare.... L'orologio ha segnato le otto ore... la sfera non si arresta... Uno... due... tre minuti... l'edifizio sta per crollare... Il sipario si agita... Che vorrà dire?... Qualche accidente impreveduto? Qualche malattia?... La curiosità, l'impazienza toccano il colmo... La benemerita arma dei carabinieri si prepara a sedare un tumulto...
Ecco finalmente qualcuno che potrà appagare la curiosità pubblica se non placare l'agitazione. — Un uomo di circa sessant'anni si è presentato al proscenio come una vittima che viene spontanea ad immolarsi. È il direttore della compagnia. I suoi capelli sono scomposti come la sua cravatta, gli occhi stralunati, le guancie coperte di pallore. Egli serra nella mano una lettera... si inchina a destra e a sinistra e accenna di voler parlare. «Abbasso!... dentro!... silenzio!» Prima che cessi il baccanale trascorrono parecchi minuti.
Ma alla fine il partito dell'ordine riesce a dominare la situazione. L'intrepido capocomico ottiene di far intendere la propria voce e comincia a parlare in tal guisa:
«Inclito pubblico... rispettabile guarnigione... cioè... mi inganno... io voleva dire il contrario... ma presso a poco è la medesima cosa... È avvenuto uno di quei fatti... uno di quei casi che fanno epoca nella storia del teatro e della civilizzazione europea... Nella mia lunga, e starei per dire, eterna carriera di capocomico non ricordo un avvenimento più deplorabile, e al tempo istesso più glorioso per l'arte... Io mi appello, o incliti abitatori di questa illustre... e commerciale città, mi appello al vostro specchiato buon senso come al vostro inalterabile patriotismo. Voi sapete che nel corso di queste brevi ma fortunate rappresentazioni per parte nostra, non vennero risparmiate spese e fatiche... onde appagare le legittime esigenze di un pubblico intelligente e benevolo. Noi toccavamo felicemente la riva... noi sbarcavamo gloriosamente in quel porto, donde un capocomico, simile al naufrago dell'immortale Alighieri,
Si volge all'acqua perigliosa e guata...
«Per chiudere le nostre rappresentazioni luminosamente, avevamo allestito un grandioso dramma di circostanza, scritto, come più volte fu ripetuto nei pubblici avvisi, da un attore troppo modesto per rivelare il proprio nome, ma troppo famoso in questa ed in altre città d'Italia per rimanere ignorato. — Voi siete accorsi al triplice appello dell'autore concittadino, dell'umile attrice benefiziata, e diremo anche del vostro illuminato patriotismo. Voi avete con urbane ma abbastanza sensibili dimostrazioni palesata la vostra impazienza. — Ed ora... che direte voi... nell'udire ciò che purtroppo io sono costretto ad annunziarvi? Quale sarà la vostra sorpresa... e fors'anche il vostro giusto risentimento allorquando mi udirete annunziare che la rappresentazione non può aver luogo, per questa semplice e durissima circostanza che i tre principali attori giovani della compagnia erano quegli stessi che oggi, vestiti della gloriosa camicia garibaldina, si sono slanciati nella carrozza del leone di Caprera per combattere con lui le supreme battaglie della indipendenza italiana...?...»
Il pubblico, che ascoltando diffidente ed iroso la lunga tirata del capocomico, più volte si era permesso di interromperla con grida poco benevoli, rimase profondamente colpito dalla inaspettata conclusione. Un silenzio solenne successe improvvisamente alla sorda agitazione. Le parole del capocomico non solo scioglievano l'enigma della giornata, ma proponevano un nobile esempio. I generosi istinti della moltitudine furono scossi da quell'annunzio. Tutti obliarono lo scopo pel quale erano venuti in teatro; tutte le aspirazioni si portarono sovra un altro campo.
I tre attori che avevano seguito Garibaldi erano un avvenimento reale, un avvenimento che sorpassava l'interesse di una rappresentazione drammatica, che trascinava le menti ed i cuori in un realismo più elevato e più poetico di qualsiasi finzione ideale.
Il capocomico indovinò immediatamente il pensiero del pubblico — e profittando di quel silenzio solenne, riprese a parlare con maggiore naturalezza di linguaggio.
«Per mostrarvi che non vi fu da parte nostra verun inganno o soperchieria, io vi leggerò, o signori, la lettera che ci venne recata pochi minuti sono — la lettera di quei disgraziati... e diciamolo pure... generosi figli dell'arte!»
Il capocomico spiegò il foglio e proseguì leggendo:
«Cari colleghi:
«Al momento in cui riceverete questo foglio, noi saremo a Como, sdraiati probabilmente sulla paglia della caserma. La persona a cui affidiamo la presente è incaricata di consegnarla alle ore otto precise, al punto in cui sarà per aver principio la rappresentazione. Abbiamo promesso La partenza dei volontari, e nessuno vorrà accusarci di aver mancato di parola. — Noi siamo partiti! — L'autore del nuovo dramma si era proposto di spronare i suoi concittadini ad accorrere sotto le bandiere di Garibaldi — orbene: noi crediamo che il nostro esempio gioverà meglio allo scopo. Noi abbiamo profittato delle camicie rosse che dovevano servire alla rappresentazione. Badate che c'è penuria di camicie rosse: quelle che ancora vi rimangono io vi consiglio di donarle ai giovani di buona volontà. Noi vi permettiamo di leggere in pubblico la nostra lettera. Dessa servirà a discolparvi. Noi conosciamo i cittadini di... Vedrete che gli spettatori, in luogo di esigere la restituzione del biglietto, proclameranno ad una voce di destinare l'introito della serata a benefizio della Commissione per le camicie rosse. Salute a voi, diletti colleghi, salute ai patriottici abitanti di.... Viva l'Italia! Viva Garibaldi! Viva la camicia rossa!
«Vostri affezionatissimi fratelli
« Simonelli — Viscardini — Rizzi. »
All'ultime parole della lettera rispose un uragano di grida che fece impallidire il capocomico. — Gli spettatori della platea salirono sulle panche agitando i cappelli e i bastoni — tutti i fazzoletti sventolarono dai palchi e dalle gallerie — i professori dell'orchestra per impulso istintivo ripresero i loro stromenti, e si diedero a suonare con lena da invasati l'inno di Garibaldi.
Vi sono delle commozioni popolari che nessuna penna può descrivere — e noi, per parte nostra, rinunziamo ad esprimere quell'entusiasmo collettivo, del quale ogni singolo episodio fornirebbe un poema.
Il capocomico non trovava la via per andarsene dal proscenio. Egli si inchinava, piangeva, rideva, e da ultimo era rimasto impietrito colle mani in saccoccia.
IX.
— Presto! una camicia rossa! — gridava un giovane pallido e scarno aggirandosi fra le quinte.
— Carlo!... tu qui!... esclamò Eugenio Lanfranchi, muovendo incontro all'amico.
— Non si perda un istante... Io ho contato sulla tua parola, e vengo a reclamare la mia camicia rossa prima che il palco scenico sia invaso.
La prima donna che era presente a quel breve dialogo, corse nel camerino e ne uscì poco dopo con due camicie rosse, che offerse ai due giovani.
— Andate! — disse l'attrice ad Eugenio Lanfranchi — è forse il primo caso in cui un autore drammatico debba supplire la prima donna... Io vi presto di cuore il mio vestiario — voi me lo renderete dopo la recita.
— Non oso promettervi di riportarvelo intatto, rispose Eugenio sorridendo.
E i due giovani si presero ciascuno una camicia rossa, e stretta la mano dell'attrice, uscirono dal teatro per la scala riservata agli artisti.
X.
Qual mutamento di scena dopo quella giornata!
La città di... in proporzione de' suoi abitanti è forse quella che ha fornito a Garibaldi il maggiore contingente di volontari.
Un giorno, un'ora di entusiasmo basta talvolta a trasformare un'intera popolazione, a convertire un popolo scettico e sonnolento in una falange di eroi!
EPILOGO
I.
Le vallate del Tirolo erano rigide e buie in quella notte. Delle nuvole opache pesavano sulle creste dei monti, immenso e cupo velario fra il cielo e la terra, fra i tripudii del firmamento e gli atroci conflitti degli uomini.
È una orribile cosa la guerra — ma pure, ove si consideri che la lotta è il principio che governa tutti gli atomi della creazione, bisogna credere che anche le battaglie e le carnificine della specie umana rappresentino una necessità dell'ordine universale. Chiniamo il capo alle leggi immutabili di chi ha creato questo immenso mistero che ci avvolge e ci trascina. È scritto nella Bibbia che Iddio si pentì una volta di aver creato l'uomo. Per quanto ripugni ammettere il pentimento in un Essere non soggetto a fallire, pure, al cospetto di un campo di battaglia, in faccia a questo sanguinoso risultato delle passioni e dei pregiudizii umani, non sembra del tutto inverosimile che Iddio debba inorridire di noi se non pentirsi di averci creati. Tutto ciò sia detto senza la menoma presunzione di indagare i segreti o di accusare gli intendimenti della Provvidenza.
Nulla uguaglia l'orrore di un campo, dove le belve umane si sono urtate a migliaia coi loro istromenti di eccidio. Lo splendore delle immagini e l'armoniosa cadenza del verso rendono accette le sublimi epopee di Omero, di Virgilio e del Tasso. Lo spirito umano sembra elevarsi nel percorrere le file dei combattenti colla scorta di un enfatico ed ispirato poeta. Quelle falangi, che si gettano l'una contro l'altra per sterminarsi, ci riempiono di ammirazione. Nel poema, nel libro, noi non vediamo che dei giganti e degli eroi. — Portatevi sul campo, nella notte che succede alla battaglia di San Martino o di Custoza — e urtando nei cadaveri, respirando il singulto dei morenti, palpando le viscere de' fratelli nuotanti nel sangue, la vostra esaltazione verrà meno. I vostri nervi si incresperanno, i capelli vi si drizzeranno sulla fronte. Inorridirete di appartenere alla razza umana; maledirete il giorno in cui, poeti, dettaste delle energiche rime per spingere alla morte tanta giovinezza di fratelli, il giorno in cui il vostro inno clamoroso e vivace fece accorrere tante nobili vite verso la tomba.
Patria — indipendenza — libertà! Sacri nomi e sacri doveri. Nomi che domandano delle vittime, doveri che impongono sacrifizii di sangue. Non è dato a noi di eliminare questa terribile necessità della lotta brutale, nè speriamo che in un avvenire prossimo o lontano i principii della ragione e del diritto abbiano a predominare nel mondo senza violenza e senza massacri. L'umanità segue le sue fasi di trasformazione, ma gli istinti dell'uomo non mutano. Pure, mentre riconosciamo necessario e provvidenziale questo istinto che ci obbliga alla vicendevole distruzione, permetteteci almeno di deplorarlo e di esecrarlo al cospetto di mille cadaveri squarciati che nuotano nel sangue.
II.
Quella notte — la notte del 19 luglio — un lugubre drappello scendeva per la vallata. Erano tedeschi usciti dal forte di Ampola. La fortezza aveva ceduto alla prepotenza delle nostre artiglierie, e mentre i garibaldini vincitori bivaccavano sul baluardo espugnato, i prigionieri e i feriti, scortati da poche Guide, erano condotti al villaggio di Storo. La valle era tetra. — Quei soldati, scendendo pel sentiero tortuoso, parevano una processione di spettri. La voce dei garibaldini, che cantavano sulle ripide alture per ingannare l'appetito, giungeva sinistramente fioca all'orecchio di quei poveri prigionieri stanchi ed attoniti. La monotona cadenza dei passi e qualche favilla di zigaro accennava che quei lugubri viaggiatori erano individui della specie umana. La retroguardia si formava di cinque carrette, sulle quali, affratellati dalla sorte comune, parevano abbracciarsi i feriti dell'uno e dell'altro campo.
— Come va, capitano? chiese una delle Guide, accostandosi col suo cavallo ad una delle carrette di ambulanza.
Un lamentevole singulto fu l'unica risposta.
— A momenti giungeremo a Storo, soggiunse la Guida.
E il ferito, riprendendo coraggio da quella promessa — Vi prego, disse, di ricoverarmi nella prima casa che troverete, foss'anche un tugurio... una stalla... Io sento che poche ore mi restano da vivere...
— Coraggio, capitano!... la vostra volontà sarà fatta... Vedo dei lumi a poca distanza... Io corro a prepararvi l'alloggio.
Ciò detto la Guida spronò il suo cavallo e in pochi minuti raggiunse il villaggio.
III.
Al fermarsi della cavalcatura, sulla porta di una rustica casuccia apparve un uomo di atletiche forme e vestito d'una singolare divisa. Portava un cappello di grosso panno nero, quale usano i contadini dell'alta Lombardia; fra i suoi calzoni allacciati sotto il ginocchio da due rami di salice e le sue ghette da militare si espandevano due polpe adipose coperte da una maglia nera. Un soprabito lungo, sbottonato, che forse in altri tempi era una veste talare, lasciava scoperta sul davanti una camicia di color scarlatto trapunta di stelle d'oro. — Don Remondo, il papa di Val d'Intelvi, venuto al campo per combattere e per porgere ai morenti i conforti della religione, si era fornito a proprie spese un abbigliamento che simboleggiava di qualche modo il suo duplice ministero. Egli s'era fatto una camicia garibaldina coi residui di una pianeta rossa che gli era stata donata da una zia in occasione della sua prima messa.
— Buona sera, capellano! — disse la Guida riconoscendo don Remondo al riverbero di una lanterna che quegli teneva in mano. — C'è una stanza in questa casa... un letto... un pagliericcio su cui adagiare un ferito?
— Questa casa è un piccolo ospedale, rispose il prete — vi sono già ricoverati cinque dei nostri, dei quali uno è morto e due in grave pericolo... Pure c'è ancora posto per uno... Il letto non è molto pulito... ma in questi momenti non si bada...
— Sta bene... A momenti giungeranno i carri delle ambulanze... Vi è un capitano tedesco che soffre orribilmente e domanda di riposarsi il più presto possibile. C'è qualche medico qui dentro?
— Il chirurgo se n'è andato poco fa... Il paese è pieno di feriti... Quei maledetti artiglieri di Ampola hanno tirato sui nostri tutti i fulmini e le saette dei loro arsenali... Non importa... Lei sa bene, signor sergente, che abbiamo fatto un po' di pratica anche noi... In caso di urgenza scommetto che ci riuscirei a tagliare una gamba come il più abile chirurgo dell'armata.
Mentre il cappellano parlava di tal guisa, la Guida era scesa dal cavallo. Il corteo de' prigionieri e dei feriti cominciava a sfilare. La lanterna del cappellano mandava un sinistro riverbero sulle faccie abbronzite dei cacciatori tirolesi e degli artiglieri che proseguivano il loro triste viaggio.
Da ultimo, giunsero i carri delle ambulanze. La Guida accennò al cappellano di accostarsi col lume, e fatto arrestare il veicolo ove il capitano tedesco giaceva ferito quasi privo di sensi, coll'aiuto di un infermiere lo trasportò nella casuccia.
Entrati nella stanza terrena, il cappellano indicò l'unico letticciuolo che ivi era disponibile. Vi adagiarono il moribondo, e tutti insieme, il cappellano, la Guida e l'infermiere, si diedero con pietosa sollecitudine a medicargli le ferite.
Quella stanza umida e tetra pareva l'albergo della morte.
Vi erano quattro letti, o piuttosto quattro pagliericci malamente dissimulati da certi drappi senza colore che non erano lenzuoli, non erano coperte, e somigliavano a grossi sacchi di tela.
Su ciascuno di quei letti era distesa una forma umana.
Un lumicino ad olio affisso alla parete e la lanterna del cappellano erano la sola luce di quelle tenebre.
All'entrare dei nuovi ospiti, uno dei feriti, levando la testa dal cappotto che gli serviva da guanciale, domandò con voce fioca: «ebbene? com'è finita la festa?»
— Ampola ha ceduto — rispose la Guida senza volgere il capo.
— E il caporale De Santi?...
— Vivo!
— Meno male!... Domani gli darò mie notizie.
Un altro, che pareva più estenuato, senza muoversi dalla sua posizione, fece questa domanda: è dei nostri il ferito?
— No! gli è un capitano tedesco!...
— Un tedesco! — esclamò il ferito — badate che l'oste non sappia nulla... Avete capito? — fate attenzione a Gregorio!...
E la voce si tacque.
Il cappellano e la Guida, intenti a fasciare le ferite del capitano, non compresero quelle parole.
IV.
— Convien scendere a Storo in cerca di un chirurgo, disse il giovine sergente delle Guide. Sarà bene che vada io stesso... Il ferito è in buone mani... è inutile che io vi raccomandi di trattarlo come fosse uno dei nostri.
— Tutti gli uomini sono fratelli — rispose il prete — e non potè astenersi dal soggiungere: per scannarsi l'un l'altro, salvo poi a prestarsi vicendevole aiuto quando si sono scannati!
Il sergente delle Guide uscì dalla stanza.
Il tedesco pareva assopito. — Don Remondo era rimasto a piedi del letto e recitava, da buon cristiano, le sue preci della sera, colla testa curvata dal sonno. L'infermiere, dietro ordine del cappellano, era uscito anch'egli per andar in cerca di ghiaccio.
Un grido lamentevole, partito dalla stanza superiore, scosse il cappellano dalla sua ascetica sonnolenza. — In quella stanza del secondo piano c'erano altri due letti; altri due garibaldini feriti...
Don Remondo non poteva esitare. — Tolse da terra la lucerna, e battendo sulla spalla di un vecchio che se ne stava rattrappito ed immobile presso il letticciuolo vicino: Gregorio! gli disse con voce amorevole: che serve ora mai?... riprendi i tuoi uffizi di carità... gli è il miglior modo di rendersi accetti a Dio, e di far del bene ai poveri morti! Io sono chiamato là sopra!... Quì non resta più alcuno... fa attenzione se questo povero diavolo che ha poche ore da vivere... reclama qualche servizio... Mi hai capito, Gregorio?...
E il cappellano, vedendo che il vecchio aveva rialzata la testa e lo aveva ascoltato con faccia compunta, salì frettoloso la scaletta per accorrere alla voce che non cessava di chiedere ajuto.
Il vecchio volse una occhiata al letticciuolo che il prete gli aveva indicato.
Poi crollò la testa, e ripiegandosi tosto sul guanciale che gli era più prossimo, si diede a singhiozzare e a parlare seco stesso.
Su quel guanciale spiccavano i contorni di una testa coperta da un sottile fazzoletto di tela bianca. Il vecchio sollevò un lembo di quel fazzoletto, e accarezzò con uno sguardo pieno di amore e di angoscia le pure sembianze di un fanciullo irrigidito dalla morte. — Un volto che pareva quello di una vergine, — un morto che sorrideva come l'angelo che dorme.
— «Morto!... proprio morto!... Ma dov'è la giustizia di Dio? Anch'essa ha dovuto morire... la povera Martina! E sua madre quasi impazzita...! I preti dicono dal pulpito che i prepotenti, o presto o tardi, la scontano!
«Io l'ho ancora presente... quel mostro...
«Sì... l'ho presente... poichè nelle fattezze di questo povero ragazzo che era un angelo, c'è pure qualche cosa di quel demonio! Forse ho fatto male a condurre un ragazzo in mezzo a questi orrori. Ho voluto vendicarmi da me.... e il Signore ha detto: vediamo un poco cosa sai fare?... Ci hanno cacciati fra queste montagne dove si combatte senza vederci in faccia... Ho avuto un bel cercarlo io... Quel mostro era forse là... dietro un macigno... a tirare i suoi colpi al sicuro... e me l'ha ucciso...! Cosa dirò a Veronica tornando al paese?... Oh! ma io non tornerò!... Te lo prometto, Ernani... Io mi arrampicherò su questi massi... come da ragazzo quando andavo alla domenica a snidare i falchetti... Andrò bene a trovarli io, quei brutti ceffi che non si fanno vedere... E quando ne avrò trovato uno...
In quel punto dal letto vicino si partì una voce lamentosa.
— Datemi un sorso d'acqua!... per pietà, un sorso d'acqua... che io mi sento morire...!
Gregorio abbassò il pannolino sul viso del morto, e si volse dall'altro lato con sembianze mutate. In quella voce di moribondo gli era parso di udire un suono conosciuto.
Si levò in piedi — corse alla brocca per attingere acqua, e tornando al letto del ferito, gli accostò al labbro il bicchiere guardandolo fissamente.
— Ma voi... non siete dei nostri? — domandò il vecchio con terribile voce, dopo avere colla intensa avidità dello sguardo ricostruite quelle sembianze oramai scomposte dalla agonia.
Il morente non poteva indovinare il terribile segreto di quella domanda, non poteva sospettare che quelle ultime goccie d'acqua stillanti sull'arsura delle sue labbra, gli erano versate da un uomo che, riconoscendolo, lo avrebbe avvelenato collo sguardo.
— Fratello italiano: — prese a dire il tedesco con voce interrotta dai singulti — vi rendo grazie delle vostre cure... Non c'è tempo da perdere... io vi prego... chiunque voi siate... di inviare alla mia famiglia che vive a Pesth... la carta rinchiusa nel mio portafoglio... Fate sapere ai miei figli che ho combattuto fino all'ultimo... per la patria e per l'imperatore...
— Ma il tuo nome! il tuo nome, o dannato d'un tedesco! — urlò Gregorio come una iena...
L'altro si scosse... I suoi occhi nuotanti nella morte si spalancarono per terrore...
— Buono italiano! in guerra bisogna che tutti facciano il proprio dovere... io sono il capitano Francesco Neïper!... e non ho fatto male a nessuno...
— Non hai fatto male a nessuno?... Ma guarda un poco se hai fatto male a nessuno! gridò il vecchio strappando il pannolino dalla testa del giovine morto. — Io sono Gregorio... l'oste di Val d'Intelvi... il padre della poveretta che è morta di vergogna... di crepacuore... e questo che tu vedi... è il figliolo che tu hai abbandonato... e che i tuoi hanno ucciso!
Gregorio si avventò sul capitano con un gesto orribile, ma uno dei feriti garibaldini, riscosso alle grida del vecchio, era balzato dal letto per impedire una scena atroce.
In quel punto, il cappellano accorrendo dalle stanze superiori, si precipitava fra il vecchio ed il moribondo, mentre il sergente delle Guide entrava dalla porta di strada in compagnia di un chirurgo.
Per un istante un silenzio lugubre regnò nella stanza.
Don Remondo colla sua mano nerboruta serrava i polsi del vecchio — il sergente delle Guide sosteneva nelle sue braccia il garibaldino per ricondurlo al suo letto — il chirurgo, prostrato al giaciglio del capitano tedesco, ne esaminava le ferite, lavandole con una spugna.
— Che volevi fare... che hai tu fatto... o mio vecchio Gregorio! — esclamò il prete con voce sommessa. — Hai tu perduto la ragione? Vergogna!... Infierire contro un uomo vicino a morire!...
— Era lui!... proprio lui! — rispose il vecchio con voce strozzata — quegli che mi aveva fatto tanto male... Che il Signore mi perdoni... ma... poco fa... nel sentire la sua voce... nel riconoscerlo... mi ha preso un tal impeto... Ho creduto che il giusto Dio me lo avesse fatto trovare in questo luogo... presso al cadavere del mio povero Ernani... per darmi la consolazione... di finirlo colle mie mani!
— Non c'era bisogno — disse il chirurgo, levandosi in piedi e allontanandosi dal giaciglio coll'aria indifferente dello scienziato. Penetrando fra la clavicola e la costa superiore, la palla si è sprofondata nel polmone sinistro e la morte divenne inevitabile.
— Hai sentito? — disse il cappellano a Gregorio, poichè il dottore e la Guida si furono alquanto allontanati per visitare gli altri feriti. — Ora, se tu sei un bravo cristiano, inginocchiati e prega anche per lui, pensa che il povero Ernani gli ha già perdonato in paradiso — e che ora, padre e figlio ci guardano di lassù abbracciati.
Ciò detto, don Remondo si levò dalla testa il suo ampio cappello, e mentre Gregorio cadeva in ginocchio a mani giunte, si fece a recitare una semplice preghiera che diceva:
«Anche oggi la morte ha mietuto sui due campi centinaia di vittime umane. Perdonate, o Signore, ai fratelli che uccidono i fratelli, e inviate le vostre consolazioni alle madri che aspettano invano.»
V.
Trascorse alcune ore, gli ospiti del piccolo albergo parevano assopiti. Il vecchio Gregorio, rattrappito fra due letti, colla testa ricurva, avea cessato di pregare e di piangere. Nessuna espressione di dolore per parte dei feriti. Il tormento e l'angoscia reprimevano il singulto, nulla turbava i silenzi della notte misteriosi e profondi.
Nella stanza terrena, seduto presso una vecchia tavola, il sergente delle Guide scriveva. La sua penna scorreva rapidamente sul foglio, agitata da un leggiero tremolio; avresti detto che quel giovine fosse intento a commettere un delitto; che rivelando ad una persona amica i segreti del proprio cuore, temesse di dire cose riprovevoli e codarde. Sul campo di battaglia, dopo le innebrianti e spietate emozioni, il sentimento dell'amore quasi apparisce puerile e ridicolo. L'eroe del mattino aspetta le tenebre e la solitudine per scrivere alla sua donna. Se i suoi compagni lo sorprendessero, il rossore gli monterebbe alle guancie. — Vedete se la guerra non inverte gli istinti del cuore umano! — i più puri, i più nobili affetti dell'uomo somigliano ad una debolezza e quasi diventano obbrobriosi, laddove non si vive che per uccidere o per essere uccisi.
Il sergente delle Guide non è pei nostri lettori un personaggio sconosciuto. Basti dire che egli si chiama Edoardo De Mauro, il figlio del ricco industriale di Milano, il fidanzato di Enrichetta Cantareno. — È forse mestieri di aggiungere che la lettera è diretta a lei, alla fiera e orgogliosa fanciulla, nel cui amore Edoardo aveva attinta la forza per compiere, a malgrado della resistenza paterna, i doveri di cittadino italiano?
Ed ora che abbiamo riconosciuto il nostro giovane eroe, poniamoci dietro le sue spalle, e coll'occhio seguiamo lo scritto che il di lui cuore va dettando:
«Mia Enrichetta!
«Io ti scrivo da una povera stanzuccia piena di tenebre e di dolore. Poco fa ho dovuto assistere ad una orribile scena che ha portato al colmo la mia tristezza. Non ho cuore di descrivertela; e d'altronde il tuo animo gentile di donna non reggerebbe al racconto. Debbo ora dirti che questa fu una giornata di gloria per l'esercito garibaldino. Ci siamo impadroniti del forte di Ampola; ma ciò ha costato gravi perdite. Quando si pensa che soli duecento uomini difendevano quella fortezza, e ch'essi potevano fulminarci senza pericolo...! Ma a che servono i tristi commenti? Ampola ha dovuto arrendersi; qualche centinaio di prigionieri sono in nostro potere, e la bandiera austriaca che sventolava sul forte è caduta in nostra mano. — Contuttociò il mio animo non è punto rassicurato, ed io domando invano a me stesso il mio entusiasmo e la mia fede.
«Vi è qualche cosa di inesplicabile, di fatale in questa guerra — tanto ciò è vero che anche le vittorie ci prostrano come sconfitte. Io non mi pento di essere venuto a combattere — ho obbedito alla voce del dovere — se non lo avessi fatto ne avrei eterna vergogna. Ma ben altro era lo spettacolo, altre le emozioni che io mi riprometteva dalla battaglia — io posso dire di aver perduta una illusione ad ogni tappa.
«Vuoi che io ti parli sincero? Io desidero che la guerra abbia fine, io sospiro il momento di svestire questa uniforme per quanto gloriosa ella sia, e tornare semplice cittadino. Se io dovessi riassumere il mio giudizio su questo esercito in camicia rossa, al quale mi sono aggregato, non potrei farlo che con queste parole: «eravamo troppi o troppo pochi.» Non chiedermi in proposito altre spiegazioni.
«E frattanto, i migliori patiscono, combattono e muoiono! — In questa cameruccia, dove io sto scrivendo, c'è un poeta, un giovine poeta ferito, certo Eugenio Lanfranchi. Egli era venuto coll'entusiasmo della sua anima esuberante, egli era dappertutto ove tuonavano i cannoni e le carabine. — In quell'angolo c'è un morto, un fanciullo di tredici anni, che era venuto da Val d'Intelvi per vendicare sua madre... Il povero ragazzo ha fatto prodigi di valore... e nessuno saprà di lui... Quanti vennero per odio all'Austria, o per un elevato sentimento di dovere, o per entusiasmo di gloria... tutti meriterebbero una fronda di alloro... od un monumento... Ma queste anime candide e generose compiono i loro prodigi nel silenzio e nelle abnegazioni — gregarii degli infimi ranghi soffrono senza alzare un lamento, muoiono senza lasciare un ricordo. Pure io credo che anche in queste anime elette, l'entusiasmo e la fede a quest'ora sieno molto sbolliti.
«Udremo più tardi, a guerra finita, le recriminazioni e le invettive. Tutte le accuse andranno a cadere sul governo... e fors'anche — ma io credo che non l'oseranno — sullo stesso Garibaldi. — Dei colpevoli ve ne sono molti, e in ogni parte, su tutta la linea; ma da questo intrigo inesplicabile di colpe, di errori e di fatalità, il nome di Garibaldi uscirà più puro e più glorioso che mai. Quell'uomo è il riassunto, la personificazione delle idee più elevate. Per farti comprendere questo carattere grandioso e solitario, ti dirò ch'egli è meno garibaldino e più italiano di noi tutti...
«Mi è forza interrompere la lettera... Sento le balde voci de' miei compagni che sposano al suono dei tamburi i loro inni di guerra... Oggi ci avanzeremo verso Lardaro... Addio Enrichetta; il cuore mi dice che presto ci rivedremo, e lo desidero. Le più elette intelligenze, i più nobili cuori si consumano in queste lotte — e la feccia sopravvive! È un orribile pensiero codesto! — Non ti sembra che l'Italia abbia invece bisogno di economizzare le sue forze intellettuali e morali già ridotte all'estremo? Oh! voi altre donne vi siete molto adoperate in questi anni per infiammare di eroici sentimenti la gioventù italiana! — Ma un'altra missione vi resta ora da compiere, e non meno patriotica — creare degli uomini sapienti e costumati.
«Io vorrei che nel paese nostro ci fosse meno entusiasmo e qualche maggior lume di onestà e di sapere.
«Ti abbraccio con tutto il mio cuore.
«Il tuo Edoardo.»
VI.
Di là a qualche settimana, dal quartiere generale dell'armata si partiva un dispaccio diretto al generale Giuseppe Garibaldi, nel quale a nome del re gli si ingiungeva di abbandonare le posizioni già guadagnate nel Tirolo e di retrocedere co' suoi volontari fino oltre la linea del Mincio... Tale misura, diceva il dispaccio, era divenuta indispensabile in seguito ad una convenzione d'armistizio accettato e stabilito dalle due parti belligeranti.
Garibaldi, nel leggere il foglio, divenne pallido e tetro. Egli sentì in quel momento tutto il corruccio e l'indignazione dei suoi... nonchè il dolore e la vergogna d'Italia. — Ma il patriotismo fu più forte dell'orgoglio — l'eroe delle inverosimili battaglie superò sè medesimo nell'eroismo della sommissione.
Una parola eternamente memorabile uscì dalle labbra di quel patriota gigante — una parola, che sola basterebbe a rendere immortale la fama di lui.
— Obbedisco!
L'uomo del comando, l'uomo nato a dominare, a trascinare le masse — sotto la impressione di una calamità inesplicabile, che fu per l'Italia una grande umiliazione e un immenso pericolo — piega la fronte, come il più umile dei mortali, ed obbedisce.
Vi è qualche cosa di commovente in questa abdicazione di potere per parte di un uomo sì grande. Quale lezione per gli inetti e pei vanitosi, che hanno fatto e non cessano di fare sì deplorabile prova nella tenacità del comando!
FINE.
Un capriccio della Rivoluzione.
CAPITOLO PRIMO Teodoro Dolci e l'arcivescovo Romilli.
Correva l'autunno dell'anno 1847, e sulle provincie Lombardo-venete pesava più grave che mai il giogo della dominazione straniera.
Il molto reverendo don Dionigi Quaglia cappellano di Capizzone, una sera chiamò a sè il nipote Teodoro e, fiutata una enorme presa di tabacco, gli tenne il seguente discorso:
— Questa mattina per mezzo dell'imperiale regio commissario di Almenno ho ricevuto il dispaccio ufficiale che ti nomina a maestro elementare del paese. Prima di entrare in carica, sarà bene che tu dia l'ultima mano alla tua educazione morale e scientifica, onde corrispondere alle speranze che ho in te riposte ed alla fiducia che l'imperiale regio governo si è degnato accordarti. Da gran tempo io aveva stabilito di farti viaggiare; perocchè i viaggi sviluppano le facoltà mentali, e confermano le teorie col battesimo della pratica. Ora, la buona occasione è venuta. Domani entra in Milano monsignore Bartolomeo Romilli, il quale va a prender possesso in quella città della cattedra arcivescovile. Monsignor Romilli fu mio collega di seminario, una gemma d'uomo... un talento, un vero mostro di sapere...! Aggiungi ch'egli è anche bergamasco, quindi orgoglio e vanto della nostra nazione. Io desidero che tu assista alla solennità.... Se io non fossi tanto inoltrato negli anni, volontieri verrei ad accompagnarti.... Ma questi benedetti reumi nelle gambe non mi dànno più requie.... Basta! Sia fatta la volontà di Dio! Prendi questo taccuino, Teodoro. In esso noterai tutte le chiacchiere che udrai fare a Milano sul conto del nuovo arcivescovo; poi, tornando a Capizzone, mi descriverai punto per punto le cerimonie dell'ingresso. È inutile che io ti raccomandi di esser savio e prudente durante il viaggio; tu fosti sempre un buon figliuolo. Guardati dai pericoli; tira via per la tua dritta; cedi sempre il passo alle persone di riguardo; rispetta le autorità e i funzionari pubblici. Partirai colla vettura del Brunetto, il quale ti condurrà all'albergo dell'Agnello, e poi alla sera ti accompagnerà a vedere l'illuminazione. Il padrone dell'Agnello mi conosce. Annunziati nipote di don Dionigi Quaglia, e sarai accolto come un principe. Mercoledì il Brunetto verrà a riprenderti colla vettura, e tornerai nelle braccia di tuo zio. —
Alla fine della parlata, il dabben prete si levò di tasca un marengo con poche monete spicciole, e lo porse a Teodoro. Questi baciò la mano allo zio, e andò tosto a coricarsi.
Caterina, la serva di don Dionigi, verso le quattro del mattino seguente entrò nella camera di Teodoro per isvegliarlo. Il giovinetto si pose indosso gli abiti di festa, e scese sulla piazza ove la vettura del Brunetto lo attendeva.
Nell'attraversare il sagrato, gli occhi di Teodoro levaronsi furtivamente verso una finestra. «Mi duole di partire senza vedere Dorotea,» pensò egli sospirando. Ma i cavalli scalpitavano, e la frusta del vetturino dava il segnale della partenza. Il giovane salì in serpa, fece tre volte il segno di croce, e la carrozza prese la via per Milano.
Prima di procedere nel racconto, schizziamo brevemente il ritratto del nostro eroe.
Teodoro Dolci da pochi giorni avea compiuti i vent'anni. Egli non era uscito mai da Capizzone, modesto paesello della provincia bergamasca. Orfano dalla infanzia, era stato allevato dallo zio materno, il molto reverendo cappellano don Dionigi Quaglia, uomo di ottimo cuore, che aveva trasfusa nel nipote tutta la sua scienza, insegnandogli a leggere, a scrivere di buona calligrafia, a servir messa, a far conti e a coniugare i verbi regolari.
Se Teodoro quanto a coltura dello spirito potea chiamarsi il più distinto giovine di Capizzone, don Dionigi nell'educarlo avea scordato ch'egli apparteneva al sesso mascolino. Il molto reverendo avea stillato nel cuore del nipote una morale debilitante, quella morale di sommissione e di abnegazione, che a questo mondo non giova gran fatto, ma nell'altro ci fa degni del paradiso.
All'età di quindici anni, Teodoro usciva di casa condotto a mano dallo zio o dalla vecchia servente, i quali ad ogni tratto lo ammonivano: Bada a quel sasso! — guardati da quel mulo! — non toccare quell'arbusto! — quelle bacche son velenose!
La timidità di Teodoro era divenuta proverbiale a Capizzone, e avea singolarmente reagito anche sulla di lui costituzione fisica. Il nipote di don Dionigi avea le guancie olivastre, l'occhio fisso e intorpidito, le labbra languide e semiaperte, la testa mollemente ricurva sul petto, le spalle rattratte, e due braccia interminabili che quasi toccavano il tallone.
All'età di vent'anni, Teodoro sembrava incapace di concepire un'idea, di fare un atto qualunque che non fosse dipendente dall'altrui volontà. Nondimeno l'educazione non può soffocare gli istinti, e il giovine montanaro da qualche tempo nutriva nell'anima un segreto, un tormento... una passione. Senza consultare lo zio, Teodoro avea osato amare una persona di sesso diverso, Dorotea Melazza, la figlia del sagrestano. Più volte i due amanti si erano incontrati la sera in sul sagrato all'ora dell' Angelus, per iscambiarsi un colpo di gomito. Quel gesto, più che ad una dichiarazione, equivaleva ad un contratto nuziale. La mattina in cui Teodoro dovette partire per Milano, soffrì uno spasimo al cuore, che gli fece comprendere per la prima volta tutta la forza e la misura dei prôpri sentimenti.
Dopo ciò, mettiamoci noi pure in cammino, e seguiamo il nostro eroe nel suo primo viaggio.
Il nipote di don Dionigi dondolava nel vano della serpa senza dir motto.
«Quale strano capriccio è venuto in capo a mio zio! — pensava egli; — io stavo tanto bene a Capizzone! Davvero non so comprendere il matto gusto che provano taluni a viaggiare!... Oimè, le mie ossa!... Mi pare che la vettura penda a sinistra.... La cavalla grigia è mal ferma sulle gambe!... E dàlle con quella frusta! Il Brunetto vuol condurmi al precipizio!... Chiudiamo gli occhi... Povera Dorotea! Che dirà ella quando saprà ch'io sono partito? Non veggo l'ora di tornare a Capizzone!»
Il viaggio fu lungo e noioso. Verso le cinque pomeridiane, la vettura del Brunetto giunse alle porte di Milano, nell'ora appunto in cui il nuovo arcivescovo entrava trionfalmente pel corso Orientale.
— Misericordia! quante carrozze! che confusione! — esclamò Teodoro. — Per carità... Brunetto... torniamo indietro... od almeno restiamo qui, finchè non sia passata tutta quella gente! —
Il Brunetto per tutta risposta diede una frustata ai cavalli e penetrò nella fila delle carrozze, che facevano corteggio alla nuova Eminenza.
L'ingresso dell'arcivescovo Romilli in Milano dava il primo impulso alle dimostrazioni patriottiche di un popolo fremente che anelava alla indipendenza ed alla libertà. Le acclamazioni, i viva della moltitudine, anzichè al prelato bergamasco, eran volti a Pio IX, al pontefice iniziatore di civili riforme, a lui, che dal Vaticano avea benedetto il vessillo tricolore, e bandita la crociata contro i dominatori stranieri. Il nuovo arcivescovo, attraversando il corso di porta Orientale, si sforzava di sorridere alla folla plaudente: ma le grida, gli urli del popolo avean suono di minaccia, e il nome di Pio IX, troppo spesso ripetuto, feriva l'orecchio del timido prelato come tuono foriero di tempesta. Teodoro Dolci, l'ingenuo campagnuolo, era ben lungi dal comprendere lo scopo misterioso e solenne di quella festa, ignorava che quelle grida popolari erano il preludio di una rivoluzione. Egli si tolse il taccuino di tasca e vi segnò colla matita: Entusiasmo di popolo; grida Viva Romilli! viva Pio IX! viva l'Italia! Il poveretto, compiacendo di tal guisa ai desiderii dello zio don Dionigi, non poteva prevedere quali funeste conseguenze erano per derivargli da quelle riottose annotazioni.
La vettura del Brunetto impiegò due buone ore per condursi da porta Renza all'albergo dell'Agnello. Teodoro, stordito dal baccano e dall'insolito spettacolo della moltitudine, non udiva, non vedeva più nulla. Appena la vettura fermossi alla porta dell'albergo, il nipote di don Dionigi rotolò dalla serpa, e cascò sulla pancia dell'albergatore.
— Non ci sono più alloggi! — gridò l'oste incrollabile, — tutte le camere sono occupate da parecchi giorni.
Teodoro levossi il cappello e, ricordando i consigli dello zio, affrettossi a rispondere:
— Io sono il nipote del molto reverendo sacerdote don Dionigi Quaglia di Capizzone....
— O quaglia o pernice, qui non vi sono più camere da alloggiare forastieri, — replicò bruscamente l'albergatore. — I circostanti proruppero in una risata, e il povero campagnuolo si inchinò fino a terra.
Ma il Brunetto, cui premeva liberarsi del suo raccomandato, tirò in disparte un cameriere e gli disse all'orecchio: — Mettimi questo gaglioffo sul granaio o nella cantina, tanto ch'egli passi la notte. Ho bisogno che tu me lo levi dai piedi: perocchè io non saprei che farmi di lui in una serata come questa! —
Il cameriere fece d'occhio al padrone; questi sorrise malignamente, e volgendosi a Teodoro: — Entrate, — gli disse; poichè siete nipote di... vostro zio, cercherò di alloggiarvi alla meglio nella mia locanda. — E gli astanti a ridere di bel nuovo.
Il Brunetto levò dalla vettura un involto, lo porse al garzone, poi risalì in serpa.
— Che! tu parti, Brunetto? mi lasci qui solo... fra tanti pericoli?...
— Non temete, signor Teodoro; quando avrò collocate le mie bestie, verrò a tenervi compagnia. —
La vettura scomparve dietro la cantonata, e il timido campagnuolo portò la mano agli occhi per asciugare una lagrima. Colla vettura del Brunetto scompariva per lui ogni ricordo di Capizzone. Teodoro sentiva per la prima volta il dolore dell'isolamento morale.
CAPITOLO II. Prime armi di Teodoro Dolci.
Sospinto dai camerieri, dai piccoli e dai pressati avventori, il timido campagnuolo trovossi nel mezzo della sala terrena.
— Il signore desidera pranzare?
— Io pranzare! — risponde Teodoro al cameriere; — da noi a Capizzone non si pranza.... Io non sono un signore.... Però avrei caro di mangiare un boccone così alla buona... perchè nel corso della giornata non ho preso verun cibo... tranne il caffè della Caterina....
— La si accomodi a quel tavolo....
— Signor cameriere.... cameriere!...
— Le dico di prender posto a quel tavolo, e di sbrigarsi nell'ordinare, perchè in oggi, come ella vede, non abbiam tempo da perdere.
Teodoro si inoltra timidamente nella sala terrena, ma non osa avvicinarsi alla tavola che gli viene indicata, per tema di dar noia agli altri commensali.
— Se questi signori mi permettessero... — balbetta il giovane campagnuolo, dopo breve esitazione, — io mi accomoderei alla meglio in quel cantuccio...
I commensali si stringono l'un presso l'altro; Teodoro si leva il cappello e si pone a sedere, avendo cura di occupare il minore spazio possibile. Alla vista di tante persone ben vestite, di tante facce sconosciute, l'allievo di don Dionigi Quaglia non osa levar gli occhi, non che muovere una mano. Al rumore dei bicchieri e delle forchette si uniscono le stridule voci dei camerieri e dei piccoli, le ciarle animate dei mangiatori. Questi ultimi, per buona ventura di Teodoro, colle eccentriche aspirazioni del dialetto e colla manifesta predilezione per certi commestibili, rivelano la loro origine bergamasca. Teodoro, vedendosi circondato da tanti compaesani, trae dal petto un largo sospiro, e si dispone a pranzare di miglior appetito.
— I baggiani non san fare la polenta! — grida l'uno in tono dispregiativo.
— Nè tampoco arrostire gli uccelli, risponde un altro.
— Anche in coteste inezie, — soggiunge un terzo a voce bassa, — si scorge l'influenza fatale di un governo che pose ogni opera nel tener divisi gli Italiani.... Ma... Viva l'arcivescovo Romilli...!
— Viva Pio IX! — rispondono sommessamente altre voci.
Frattanto il cameriere mette dinanzi a Teodoro mezza dozzina di piatti e un boccale di vino, poi si allontana rapidamente per servire gli altri commensali.
— È tutta per me questa roba! — grida il campagnuolo, rimirando con occhi atterriti la ricca imbandigione... — Io preferirei un tozzo di polenta... e un bicchier d'acqua....
— Scelga ciò che meglio le aggrada, e ringrazii la Provvidenza che l'hanno servito sì tosto, — brontola il vicino di Teodoro sorridendo maliziosamente. — E beva un sorso di vino... perocchè non sono più tempi da rinfreschi codesti.... Fuoco! fuoco ci vuole e non acqua... acciò la bomba scoppii più presto!
Teodoro non osa profferire veruna obiezione; egli intinge la forchetta in un piatto di fritelle, ma recandosi al labbro il ghiotto boccone, non può a meno di sclamare: «Che direbbe mio zio don Dionigi se mi vedesse mangiare tali ghiottonerie!.... Egli che mi ha tanto raccomandato la sobrietà e l'economia!»
Il rumore della conversazione va sempre crescendo; ma gli epigrammi, le arguzie, le fatidiche arringhe dei circostanti, tuttochè espresse nel più puro idioma bergamasco, non sono comprese dall'ingenuo montanaro. «O questi signori sono pazzi, — conchiude egli dopo aver ascoltato lunga pezza gli strani discorsi, — o ch'io ho lasciato il cervello a Capizzone.»
— Io propongo un brindisi al grande prelato italiano! all'aspettato dalle genti! al successore di Giulio II!... — grida il vicino di Teodoro, levandosi in piedi e portando il bicchiere alle labbra. Tutti i commensali si levano in piedi e bevono senza dir motto, ma stralunando gli occhi e agitando la testa come invasati.
— E lei... giovanotto... lei non risponde all'invito?
— Io... non son uso a ber vino... — risponde Teodoro.
— Ah!.. lei non è uso a ber vino! Lei non è buon Bergamasco!
— Nè buon Italiano! — soggiunge il vicino di Teodoro.
E tutti i circostanti ammutiscono, lanciando occhiate di sospetto e di minaccia sull'allievo di don Dionigi, il quale sopraffatto dalla paura, divien rosso come brago e suda dai piedi alla testa.
— Io la consiglio di bere, e prontamente! — ripete un barbuto signore all'orecchio di Teodoro, con una voce che somiglia al ruggito d'una belva. L'atterrito campagnuolo, come automa commosso da meccanico impulso, si leva in piedi, gira intorno lo sguardo smarrito, poi stende la mano alla bottiglia, l'accosta alle labbra, e la vuota d'un fiato con grande stupore degli astanti che prorompono in acclamazioni di entusiasmo:
«Viva Pio IX! Viva Romilli! Viva i Bergamaschi! Viva l'Unione!»
— Voi siete dei nostri, — grida il vicino di Teodoro battendogli la mano sulla spalla. Ma il povero montanaro, dopo quell'atto di violento eroismo, è ripiombato sulla seggiola, immobile e floscio come un sacco di bambagia. La paura e i vapori del vino estinsero in lui il fuoco della vitalità, gli cristalizzarono lo spirito ed il corpo.
Giunge la notte. La sala dell'albergo vien rischiarata dal gaz, e frattanto sui balconi e sulle finestre della Corsia compariscono mille globi illuminati, e torcie, e lampade e lumi d'ogni foggia e colore. Lo spontaneo e splendido apparato di festa elettrizza i cittadini già commossi da generoso entusiasmo; il popolo percorre le vie cantando, e il torrente della folla ingrossa più che altrove presso la contrada dei Pattari per introdursi nel largo di piazza Fontana, ove ha dimora l'arcivescovo, e dove la illuminazione è più splendida.
I commensali dell'Agnello si sono sbandati. Teodoro s'è riscosso dal breve letargo, ma l'insolita bevanda gli ribolle tuttavia nel petto e gli annebbia il cervello de' suoi vapori.
«Brunetto! ove diavolo si è ficcato colui! egli avea promesso di tenermi compagnia!... Oimè! qual vampa alla testa! se mio zio, se Dorotea mi vedessero!... Perchè mai quei signori hanno voluto che io bevessi tanto vino!? In questa città mi pare che tutti sieno matti! S'io posso tornarmene salvo a Capizzone, giuro di non lasciare più mai quel caro paese!»
Di tal guisa farneticava Teodoro. Il padrone dell'albergo entrò per caso nella sala, e vedendo il giovinotto seduto a mensa col capo fra le mani: — Che diavolo fa ella costì? — gli chiese con quel piglio dolce-brusco che è proprio degli osti milanesi. — Perchè non va anche lei a vedere l'illuminazione di piazza Fontana?
Teodoro levossi in piedi, e inchinandosi rispettosamente: — Sarei ben lieto, — rispose, — di poterla obbedire, ma attendo un compagno... cioè... voleva dire... il signor vetturale Brunetto di Capizzone, che ha promesso onorarmi della sua compagnia.
— S'ella conta sulla parola del Brunetto di Capizzone, dovrà aspettarlo un bel pezzo! A quest'ora il Brunetto dormirà briaco fradicio in qualche bettolaccia di Ponte Vetero. D'altronde, s'ella vuol godere lo spettacolo della illuminazione, non ha che a fare due passi fuor dell'albergo e abbandonarsi alla corrente della folla, che in pochi minuti la trasporterà nel centro della piazza.
Teodoro per quell'istinto di sommissione all'altrui volere, che don Dionigi avea sì coscienziosamente coltivato nel suo giovane allievo, seguì l'albergatore fino alla porta che dà sulla Corsia, sdrucciolò dai gradini, e travolto nella mischia, ora sospinto, ora sollevato dall'onda della moltitudine, in meno di dieci minuti trovossi nel centro della piazza Fontana, rimpetto al balcone del palazzo arcivescovile.
Gli avvenimenti di quella memorabile serata erano il prologo della grande rivoluzione italiana del 1848. Gli Austriaci da lunga pezza diffidenti e presaghi della terribile catastrofe, in quella festa, in quelle acclamazioni chiassose fatte al nuovo arcivescovo, intravidero i sintomi della prossima insurrezione. Fatto è che, mentre il popolo stipato nella piazza invitava con urli feroci il ritroso prelato perchè si presentasse al balcone, parecchie pattuglie di soldati e poliziotti irruppero nella folla colle armi sguainate, suscitando uno scompiglio da non potersi descrivere. Alla vista delle sciabole e delle baionette, i cittadini che non s'attendevano quell'assalto violento, s'urtano l'un l'altro per uscire dalla mischia. Donne e fanciulli, rovesciati al suolo dall'urto dei fuggenti, son pesti e malconci; un dabben uomo, certo Ezechiele Abate, muore di crudele ferita; altri barbaramente percossi son tratti prigioni: in pochi minuti il popolo scomparisce, e i soldati assalitori rimangono padroni del campo. È debito della storia il convenire che in quella serata il valore austriaco trionfò su tutta la linea; nè mai esercito agguerrito ottenne più completa e più facile vittoria sovra un popolo inerme.
Che avvenne del nostro Teodoro durante la battaglia? Mi duole annunziarvi la trista novella.... Teodoro ha riportato una grave ferita. Trascinato dalla corrente, il nipote di don Dionigi era giunto allo sbocco che mette in contrada Larga, quando uno scellerato di poliziotto gli piantò nella coscia la punta della baionetta.
«Aiuto! misericordia!» urlò il poveretto stramazzando a terra.
I circostanti, preoccupati ciascuno della propria salvezza, fuggono atterriti, abbandonando la vittima alla mercè del carnefice. Una sciabola acuta e lucente pende sul capo di Teodoro; il terribile poliziotto misura il colpo.... Se la Provvidenza indugia un istante a soccorrerlo, il nipote di don Dionigi è bello e spacciato.
Ma la Provvidenza riserba a Teodoro una fine più gloriosa. Cinque o sei popolani, che ultimi rimasero nella piazza, veggono in passando l'orribile quadro: d'un calcio poderoso l'un d'essi lancia lo sbirro contro la parete; gli altri sollevano di terra il ferito, se lo recano in braccio, e spariscono dietro l'angolo della contrada di Sant'Antonio. Quando il poliziotto si volse per cercare la vittima, vide il luogo deserto, e udì in lontananza il fischio dei fuggenti, quel fischio schernitore, che i barabba di Milano lanciavano come protesta e minaccia contro gli esosi sicarii di una polizia abborrita.
CAPITOLO III. La fama.
All'indomani, verso le undici del mattino, nella sala terrena dell'albergo dell'Agnello, la conversazione dei commensali è più animata che mai. Gli avvenimenti della sera precedente vengono narrati e commentati in mille guise; il numero dei morti e dei feriti ingrossa ad ogni tratto, ma nessuno sa ridire i nomi delle vittime.
— Presso l'osteria del Biscione fu trovato un orecchio di donna....
— Nel vicolo delle Ore fu raccolto stamattina un naso di fanciullo.
— Sa Dio quali atrocità furon commesse?..
— Le muraglie del palazzo arcivescovile sono tinte di sangue!...
Il proprietario dell'albergo si avvicina ad un gruppo, e dice con aria misteriosa:
— Si ricordano, loro signori, di quel giovanotto magro e sparuto che ieri sedeva a questa tavola?
— Ebbene?
— Io temo che ieri sera gli sia accaduta qualche disgrazia.... Questa notte egli non è tornato all'albergo....
— Quel giovanotto, — osserva uno dei commensali, — aveva un certo viso....
— E una cert'aria da bulo!..
— Avete notato, — soggiunge un terzo, — con quale entusiasmo egli rispose al brindisi da me proposto in onore di Pio IX? I suoi occhi scintillavano come carboni ardenti, le sue guance eran pallide, le membra convulse....
— Egli vuotò la bottiglia d'un sorso, poi strinse le labbra e digrignò i denti con espressione feroce, come se avesse bevuto del sangue!...
— E dire che entrando nella sala egli aveva l'aria d'un timido seminarista! A prima giunta io lo credetti uno scemo!...
— Taluni fanno lo scemo per non pagar dazio! — esclama l'oste sorridendo. — Ma ecco il vetturino di Capizzone che forse ci darà novelle di colui....
— Ebbene? — dice il Brunetto entrando nella sala; — dov'è il forestiero che ieri a sera ho scaricato alla porta del vostro albergo?
— Gli è ciò appunto che io stava per chiederti, — risponde l'oste coll'usato sorriso.
— Che?... il nipote di don Dionigi Quaglia sarebbe sparito?...
— Io temo piuttosto che la quaglia sia caduta nel laccio... ovvero nelle unghie di quei gatti che il conte Bolza ha scatenati ieri a sera in piazza Fontana.
Il Brunetto spalanca la bocca, e dà indietro due passi. I circostanti, vedendo la sorpresa e il terrore del vetturino, si abbandonano alle più strane congetture. — Qui gatta ci cova, — dice l'uomo dal brindisi; — quel forestiero è senza dubbio un affigliato di qualche società segreta, un emissario del Comitato di Lugano!
— Presto!... un boccaletto di malvasia a quel bravo galantuomo! — grida un altro della comitiva, accennando al vetturale di appressarsi alla tavola.
Tutti si fanno intorno al Brunetto e lo assalgono di obblique dimande.
La curiosità degli sconosciuti allarma l'ombroso vetturino, il quale per tema di compromettersi, improvvisa una odissea di menzogne. Il contegno impaurito del dabben uomo, le frasi equivoche, le risposte contraddittorie destano negli uditori più vivi sospetti.
Frattanto un nuovo personaggio è entrato nella sala, un giovinotto di circa venticinque anni, dalla fisonomia vivace, dal piglio disinvolto ed ardito. L'albergatore scambia poche parole col nuovo venuto, indi, additandogli il vetturino: — Ecco l'uomo che vai cercando, — gli dice; — tu puoi parlargli liberamente; quei signori son tutti... della lega!
Il giovinotto si introduce nel crocchio, e presentandosi al vetturino: — Siete voi, — gli chiede, — il signor Brunetto da Capizzone?
— Io, per servirla!
— Quando riparte la vostra vettura?
— Domani alle quattro del mattino.
— Ebbene: io vi prego di recare questa lettera al sacerdote don Dionigi Quaglia.... Badate che gli è uno scritto di somma importanza!... Il signor Teodoro Dolci mi ha parimenti incaricato di avvertirvi ch'egli non può partire domani... trovandosi alquanto indisposto....
— Che! la signoria vostra ha veduto il signor Teodoro Dolci?... Ove diavolo s'è egli ficcato? Gli è tutto il giorno ch'io lo cerco!...
— Il signor Teodoro... trovasi in luogo sicuro, in casa di persone fidate... di persone, che possono guarentirlo da ogni pericolo.
Pronunziando queste parole, il giovane gira intorno una occhiata diffidente.
La curiosità trabocca dagli occhi degli astanti.
Il vetturale non osa stendere la mano alla lettera, temendo ch'essa racchiuda qualche grave mistero politico da comprometterlo. L'oste, avido anch'egli di notizie e al tempo istesso desideroso di farsi un merito presso i suoi avventori, battendo leggermente sulla spalla del giovane: — Carletto, — gli dice, — io t'ho già avvertito che qui puoi parlare liberamente.... Qui non vi è persona che patisca eccezione... Io conosco i miei avventori... e quando una tromba penetra qua dentro, sai bene ch'io mi affretto a prevenirne gli amici.
— Siamo tutti fratelli! — rispondono ad una voce i commensali. — Viva Pio IX! Viva Carlo Alberto!...
— Sì: viva Pio IX! viva l'Italia! — risponde il giovanotto animandosi di entusiasmo; — e si faccia presto una volta a purgare il paese da questi mostri!...
— Sottovoce per carità!... Siamo vicini alla Corsia, — interrompe l'oste. — Io sono garante delle persone che stanno qui dentro, ma di fuori vi hanno delle orecchie acute....
— Ebbene? che importa? — riprende il giovane, moderandosi alquanto. — La bomba deve pure scoppiare o tosto o tardi; e vi giuro che le mani mi prudono ferocemente.... Se vedeste come l'hanno concio, quel bravo montanaro?...
— Qual montanaro?...
— Ma... lui! Teodoro Dolci! l'eroe di Capizzone!
— Teodoro! — esclama il vetturale più sorpreso degli altri, — l'eroe di Capizz....
— Un fegato sano!... un vero amico del popolo! un uomo d'azione!... Ah! quando penso che i birboni hanno versato il sangue di quel valoroso, mi vien voglia di andar là fuori, afferrare pel collo il primo croato che mi vien incontro, e condannarlo alla morte del gatto! Basta!... speriamo che il momento non sia lontano.... Frattanto noi penseremo a guarire il povero ferito, perchè egli pure prenda parte alla lotta.... E vi giuro ch'egli è uomo da far bene il dover suo!...
— La ferita non è dunque mortale?...
— No, grazie a Dio. Il signor Maestri spera che fra due o tre mesi Teodoro potrà uscire di casa. Vi giuro ch'egli si è battuto ieri a sera come un leone. Persone degne di fede giurano d'averlo veduto sull'angolo dei Pattari cacciarsi fra un drappello di poliziotti, e rovesciarne quattro d'una pedata!... Questa notte nel delirio della febbre il poveretto balzava di tratto in tratto sui guanciali esclamando: «Viva l'arcivescovo! viva Pio IX! tutti dobbiamo morire!» Poi soggiungeva con voce più calma e coll'accento della ispirazione: «Suonerà la campana dell' Angelus.... e allora ci rivedremo... Io sarò maestro dei poverelli e dei deboli.... Io li condurrò sul cammino della salute!» Quel giovane non è soltanto un eroe, ma anche uno scienziato, un filosofo.
— Infatti, — balbetta il vetturino, — il signor Teodoro viene considerato la prima testa di Capizzone.
— Lassù, nelle vostre montagne, egli dev'essere conosciuto pel suo coraggio....
— Quanto a coraggio, — risponde il vetturino, — per dire la verità....
— Sciutt! — esclama il piccolo entrando nella sala. Tutti quanti ammutiscono, e volgendo gli occhi alla porta, veggono una figura sinistra che si è fermata per udire la conversazione....
Il giovane patriota esce dalla sala senza aggiunger parola. Il Brunetto ripone la lettera nel portafoglio, e riempie il bicchiere, mentre uno dei commensali chiede al vicino con voce distinta:
— E come va quest'anno colle dordine? Alla bressana del conte Modroni ho veduto prenderne l'altro dì circa seicento!
E da quel punto non si parlò che di dordine, quaglie e codirossi.
Ma il nome e le gesta di Teodoro Dolci nel corso della giornata passarono di bocca in bocca, e furono argomento di tutte le conversazioni milanesi. I fanatici portavoce di notizie rivoluzionarie a mezzanotte asserivano che Teodoro, nella famosa serata di piazza Fontana, aveva scannati dodici poliziotti, e messo in fuga un drappello di dragoni.
CAPITOLO IV. Lo zio di un rivoluzionario.
Il sole volge al tramonto. Sulla piazzetta di Capizzone parecchi individui attendono la vettura del Brunetto che deve tornare da Milano. Il molto reverendo sacerdote don Dionigi Quaglia dirige ad ogni tratto la punta del naso e del cappello triangolare verso la strada maestra; la Caterina siede sovra una pietra a poca distanza dal padrone: la figliuola del sagrestano si aggira d'intorno, e attende il crudele fidanzato per fulminarlo d'una occhiata terribile appena sia disceso dalla vettura.
Gli abitanti di Capizzone ignorano i tragici fatti avvenuti a Milano. Don Dionigi ed il sindaco, i soli che nel paese leggano la Gazzetta uffiziale, ricevono i fogli arretrati di sei giorni, che prima di giungere a Capizzone, hanno percorse dieci o dodici case di Almenno.
Odesi in lontananza lo scoppiettio di una frusta, poi rumore di ruote... e la vettura del Brunetto compare all'estremo della contrada corteggiata da una nube di polvere. Don Dionigi e la Caterina aguzzano gli occhi... — Perchè mai Teodoro non ha ripreso il posto di serpa?... — Il buon prete, commosso, inquieto, interroga coi cenni il vetturino, ma questi fa l'astratto. Le angoscie, i terrori di don Dionigi aumentano... La carrozza è già prossima... la carrozza ha traversato la piazza... la carrozza si arresta... e Teodoro non mette il capo agli sportelli, Teodoro non istende una mano per salutare lo zio...
— Ebbene? ove è desso? che è avvenuto di nostro nipote? — gridano ad un tempo don Dionigi e la Caterina, correndo presso il Brunetto che già ha posto piede a terra.
Il vetturino, muto. Egli cava dal portafoglio una lettera, e crollando il capo in segno di mestizia, la presenta a don Dionigi.
«I caratteri non sono di Teodoro, il foglio è segnato di nome di sconosciuto, non vi è più dubbio: Teodoro dev'essere morto o gravemente ammalato.» Il terribile dilemma si affaccia alla mente del buon sacerdote, e gli occhi di lui, già pieni di lacrime, a mala pena distinguono le cifre. Ma le novelle contenute in quella lettera sono di tal natura, che nell'animo di don Dionigi il dolore è paralizzato dalla sorpresa. «Ciò non è possibile! — esclama egli — Chi scrive di tal guisa dev'essere un matto, ovvero qualche sciagurato che vuol prendersi spasso nel tormentarmi!»
Dal contesto della lettera, che noi riproduciamo fedelmente, a ciascuno sarà facile argomentare quali strane sensazioni agitassero il dabben sacerdote.
« Molto reverendo,
«Il primo sangue fu versato... Il nome dei protomartiri sarà scolpito a note indelebili nelle pagine della storia... Viva l'Italia! Viva Pio IX! Teodoro Dolci è nel novero dei pochi eletti, egli ha mietute le prime palme nella battaglia del popolo!... Teodoro Dolci è benemerito della patria. Perchè un popolo risorga di schiavitù, voglionsi grandi sacrificii di sangue... Teodoro Dolci ha già versato il suo sull'altare della patria. Assalito proditoriamente da sicari scellerati, dopo aver combattuto da prode, riportò una gloriosa ferita... Questa notizia, noi ne siamo sicuri, riempirà il di lei cuore di consolazione... perchè ci son noti gli alti sensi patriottici che la distinguono, e che Ella seppe ispirare fino dalla più tenera età nel nipote ed allievo. La ferita non è mortale... Teodoro Dolci potrà sopravvivere e sfidare nuovi combattimenti. Noi lo abbiamo trasportato in luogo sicuro. Io mi tengo onorato di dargli asilo in mia casa, e di prestargli que' soccorsi che il di lui stato richiede. La viva tranquillo, signor don Dionigi: il di lei nipote verrà medicato ed assistito come si deve. Siamo povera gente, ma abbiamo cuore; venderemo anche la pentola per far danaro da soccorrere un fratello. Se ella crede venire a Milano per accertarsi cogli occhi proprj del nostro buon volere, il signor Teodoro sarà oltremodo consolato della sua visita. Nei deliri della febbre il bravo giovanotto invoca ad ogni tratto il di lei nome... Egli mi ha pregato di scriverle, e mi ha detto di consegnare la lettera al vetturino acciò le pervenga più sicura. Noi dunque la attendiamo. In casa nostra v'è un letto ed una zuppa anche per lei. Aggradisca i sentimenti della mia stima... Viva Pio IX! Viva Carlo Alberto! Viva l'Italia!
«Milano, contrada Sant'Antonio, N. 1241.
«Di Lei devotissimo servo « Carlo Obrizzi «operajo tipografo.»
Don Dionigi ha letto dieci volte lo scritto senza comprenderne il senso. La Caterina ed altri, che per avventura si trovavano sulla piazza, vedendo lo stupore e la costernazione del prete, si fanno intorno al Brunetto e lo assalgono di interrogazioni; ma il vetturale, in luogo di rispondere, straluna gli occhi, agita le braccia, si stringe la testa fra le mani, poi, appressandosi a don Dionigi che è rimasto in disparte pietrificato, gli disse sottovoce: — Le raccomando di aver prudenza, e di badare come ella parla... e con chi... Una parola men cauta può farci appiccare tutti e due!... Fra pochi minuti io sarò da lei per informarla di quanto ho potuto raccogliere a Milano circa l'affare del signor Teodoro. —
La Caterina, sgomentata dalle parole del Brunetto, tira don Dionigi per la falda della zimarra; e il povero prete si lascia condurre alla propria abitazione come un tapino che d'un tratto abbia smarrita la ragione.
Verso le nove della sera, per istrade oblique ed oscure, il Brunetto recossi alla casa del prete. Don Dionigi era seduto sovra una vecchia poltrona.
Non appena il vetturino mise piede nella sala, Caterina corse a sprangare la porta e le finestre, lanciò un'occhiata sospettosa dietro l'armadio e sotto la tavola, poi sedette sul gradino del focolare. Il vecchio prete era afflitto profondamente, ma più rassegnato e più calmo. Alla crisi violenta della sorpresa e del terrore succedeva nell'anima sensibile dell'ottimo religioso quella tristezza affettuosa che medita la sciagura per trovare il più pronto, il più efficace rimedio.
— Dì pure, Brunetto; non nascondermi nulla di quanto è accaduto a quel povero figliuolo!... Io ho riletto venti volte questo foglio, nè altro ho potuto comprendere se non ch'egli dev'essere ferito... e in pericolo della vita.
— Dunque... poichè qui si può parlare liberamente... le dirò come è andata la faccenda. Noi siamo giunti a Milano nel punto in cui il signor arcivescovo entrava pel corso di porta Renza... Ho scaricato il signor Teodoro all'albergo dell'Agnello, poi ho condotto le bestie al Ponte Vetero al solito stallazzo. Sul far della sera io doveva tornare all'Agnello per accompagnare il signor Teodoro a vedere l'illuminazione. Giunto sulla piazza della Scala, tiro innanzi verso la contrada del Marino, ma la folla è tanto spessa, che mi riesce impossibile di proseguire pel mio cammino. A forza di spintoni e gomitate mi provo a rompere quel muro di gente... Ed ecco, presso allo sbocco di Santa Radegonda vien via una ondata di popolo, che mi sospinge contro le invetriate d'una osteria.. Al rumore dei vetri che cadono in pezzi, sbucan fuori il padrone ed i guatteri, i quali, senza chieder permesso, chiudono la porta all'improvviso, gridando a tutta voce: «o fuori o dentro!» Io fui tanto sfortunato da rimanere dentro! Parola d'onore, don Dionigi: il vino non mi dispiace, ma avrei data la mia cavalla grigia per rimaner di fuori, e per poter servire il signor Teodoro della mia compagnia! Vedendomi forzato a rimanere nella bettola, che si fa? per non sfigurare, ordino un boccale da dodici... Ed ecco, mentre sto per sedere ad una tavola, mi trovo in faccia il Ciccino, il cavallante di Sarnico. «Tò! chi veggo! il Brunetto!» E subito il sozio mi offre il bicchiere, e le ciarle cominciano. «Le persone di giudizio s'incontrano all'osteria — dice l'amico; — tu non sei di que' matti che vanno a farsi schiacciare per veder quattro lumi. E tanto più in una serata come questa; una serata pericolosa che non potrà finire senza sangue...» «Sangue!» esclamo io, e (parola d'onore, don Dionigi...) mi venne subito in mente il signor Teodoro. «Sicuramente! questa sera i Milanesi fanno dimostrazione.» E qui il Ciccino, che è una testa fina... un politico, mi racconta certe storie imbrogliate, da far rizzare i capelli!... Infine io vengo a sapere che i Milanesi sono stufi di stare sotto i Tedeschi, e vorrebbero passare sotto i Piemontesi; che Pio IX ha promesso liberare tutti gli Italiani e ammazzare tutti i Tedeschi... insomma che fra pochi mesi la sarà una baldoria per tutti. Il mio collega parlava sì bene, che io mi sarei stato tutta la notte ad udirlo; e frattanto i bicchieri si vuotavano, e il vino colava per la gola come un balsamo... Signor don Dionigi: ella sa che nel bere io non uso oltrepassare i limiti dell'onesto; pure... quella sera... che vuole?... il vino misto alla politica mi diede al cervello... Fatto è ch'io mi addormentai sul pancaccio dell'osteria, nè mi svegliai che alle otto del mattino, quando il guattero scese per riaprire la bottega. Il mio primo pensiero nello svegliarmi fu pel signor Teodoro... Corro all'albergo dell'Agnello per chieder notizie di lui, e là vengo a sapere l'orribile caso... là trovo lo sconosciuto che mi porge la lettera...
— Povero Teodoro!... povero nipote mio! — esclama don Dionigi. — Senza dubbio egli si sarà trovato in piazza Fontana nell'ora della dimostrazione.
— Sicuramente!... Egli si è trovato in piazza nel punto in cui i Tedeschi si gettavano sulla folla colle sciabole sguainate.
— E non potendo fuggire...
— Sicuramente!... Non potendo fuggire, egli si ribellò ai gendarmi...
— Che! mio nipote ha osato ribellarsi ai gendarmi! — grida don Dionigi balzando dalla seggiola...
— A quanto pare, egli deve essersi ribellato, — prosegue ingenuamente il Brunetto, — poichè, se è vero quanto ho inteso dire all'osteria dell'Agnello, il signor Teodoro ne ha ammazzati quattordici e feriti altrettanti.
— Jesus Maria! — prorompe la Caterina; — il nostro Dorino ha ammazzati quattordici gendarmi!.. —
Ma le ultime parole del Brunetto, che produssero sì viva impressiono nella vecchia servente, anzichè aggravare, hanno alquanto mitigato il cordoglio di don Dionigi. L'inverosimiglianza del racconto è troppo evidente... L'animo del dabben sacerdote si riapre alla speranza... Teodoro avrà corso qualche pericolo; forse nella pressa della folla avrà riportata qualche leggera contusione; ma il fatto non può essere tanto grave qual venne esposto nella lettera dello sconosciuto e nella confusa narrazione del Brunetto.
Per chiarire prontamente ogni dubbio, don Dionigi risolvette di partire all'indomani alla volta di Milano, e, dopo aver vegliato la notte in preda alla più viva agitazione, alle quattro del mattino prese commiato dalla servente, e uscì tutto solo di casa per raggiungere la vettura del Brunetto.
L'assenza prolungata di Teodoro, la lettera misteriosa pervenuta a don Dionigi, alcune frasi sfuggite al Brunetto la sera precedente, voci vaghe e confuse di disordini avvenuti in Milano, le inevitabili indiscrezioni della Caterina, suscitarono fra gli abitanti di Capizzone i più strani sospetti, le più assurde dicerie. Sul far della sera, il barbiere del villaggio, tornando da Almenno ove era stato a raccogliere notizie, narrava a' suoi compaesani che a Milano era scoppiata la rivolta, e che il nipote di don Dionigi avea messo in fuga un esercito di ussari a cavallo, uccidendone parecchi a colpi di bastone.
Quest'ultimo incidente trovò degl'increduli. Troppo era nota agli abitanti di Capizzone la fiacchezza e la timidità del nipote di don Dionigi, perchè l'eroico bullettino venisse accolto senza discussione. Ma il barbiere con giornalistica audacia impose silenzio alle obbiezioni:
— Vergogna! — sclamò egli, levandosi con autorità nel mezzo del crocchio. — Mentre tutta Italia rende giustizia ad un nostro concittadino, voi soli osereste muover dubbio sul suo valore?... Convengo che il nipote di don Dionigi non è il forte dei forti; convengo che prima d'ora egli non ha dato prove di grande coraggio... Ma il più gramo dei figli di Capizzone non val forse trenta gagliardi d'altro paese?
— Vero! verissimo! bravo! — gridarono cento voci.
Da quel momento nessuno osò opporsi al barbiere oratore.
CAPITOLO V. Un processo verbale.
Il molto reverendo don Dionigi Quaglia giunge a Milano sul far della sera. Mentre i soliti commensali stanno pranzando all'albergo dell'Agnello, l'ingenuo sacerdote precipita nella sala.
— Mi abbisogna una camera per questa notte, — dice egli al padrone; — ma prima di coricarmi vorrei trovare una persona fidata che mi accompagnasse in contrada Sant'Antonio, alla casa N. 1241. Io sono don Dionigi Quaglia di Capizzone. —
Non appena don Dionigi ha proferito il proprio nome, l'albergatore afferra il prete pel braccio, lo trascina nel cortiletto, e spingendolo fin presso ai gradini della cantina: — Imprudente! — gli dice; — ella si è tradito da sè medesimo! Dopo il fatto di piazza Fontana, dopo la famosa istoria di Teodoro Dolci, il mio albergo è continuamente assediato dalle spie. In questo momento ce n'erano due là dentro... e famose! Se la polizia giungesse a scoprire il nascondiglio del signor Dolci, io son certo che lo farebbe appiccare senza chiedere il permesso a Vienna. —
Don Dionigi, ritto ed immobile presso la muraglia, rassomiglia ad uno sparviero inchiodato. Il naso e la punta del cappello rivolti al firmamento esprimono la desolazione del poveretto. «Oimè! — sclama egli, — Iddio mi ha dunque tolto il bene dell'intelletto! Io non so più in che mondo mi sia...»
Frattanto gli zelanti patriotti, che stavano pranzando nella sala terrena, vengono anch'essi nel cortile per istringere la mano allo zio di Teodoro e offrirgli servigio.
— Bisogna far presto! Le due soffie sono già in cammino per recare l'ambasciata al conte Bolza. Sarà bene prevenire il signor Teodoro e farlo trasportare in altra casa... Presto! non c'è un minuto da perdere. —
Così parlando, due giovanotti si impadroniscono del prete e lo traggono fuori dell'osteria, dirigendosi verso la contrada di Sant'Antonio. Don Dionigi si lascia condurre come un automa; e mentre i due sconosciuti gli intronano l'orecchio di complimenti e di esortazioni patriotiche, il buon prete invoca il soccorso della Provvidenza recitando il Veni creator spiritus.
Eccoci nella contrada di Sant'Antonio. Giunti alla casa N. 1241, la piccola comitiva si arresta, e i due sconosciuti si accommiatano da don Dionigi. — Addio, incorrotto ministro dell'Evangelo! Addio, lume e decoro del sacerdozio! A suo tempo la patria saprà distinguere i veri dai falsi apostoli, e come si mostrerà inesorabile nell'esterminio dei Giuda, così saprà esaltare i veri missionari della libertà evangelica!
Don Dionigi penetra nel vestibolo della casa, cerca a tastoni la scala, e con passo vacillante comincia a salire. Dopo aver bussato a tutte le porte dei piani inferiori, e subìte le invettive di dieci o dodici inquilini, finalmente al quarto piano egli trova l'abitazione di Carlo Obrizzi, l'abitazione ove Teodoro fu ricoverato.
Lode al buono, all'onesto popolano milanese! Carlo Obrizzi appartiene alla classe degli operai tipografi. Nelle officine del pensiero, fino dalla prima fanciullezza, egli respirò i sentimenti di indipendenza e di libertà, che esalano dalle lettere e dalla scienza in onta delle compressioni tiranne. La classe degli operaj tipografi, a Milano come a Parigi, come in tutte le città dell'universo, si distingue pel fervore delle aspirazioni liberali. Nelle tregue del popolo, essa medita e si agita in segreto, spargendo nelle masse meno istruite il germe fecondo della parola; nel giorno della lotta essa fornisce gli uomini più coraggiosi e intraprendenti; corre alle barricate, combatte, muore per difesa e gloria della patria. Fra i martiri del 1848, fra i volontarj che nel 1859 corsero ad ingrossare le file dell'esercito italiano, figurano primi gli operaj tipografi. Nelle rivoluzioni e nelle battaglie della patria essi rappresentano l'intelligenza e la forza del popolo.
Appena don Dionigi affacciossi alla porta della modesta abitazione, Carlo Obrizzi lo accolse con trasporto di affetto. Chiamò la moglie, i fratelli, i figliuoli; e tutti quanti furono dattorno al buon prete, e, baciandogli la mano e le vesti, lo introdussero nella camera da letto ove Teodoro giaceva sopito.
In vedere le guance pallide e sformate del povero malato, don Dionigi sentì per la prima volta la certezza di una sciagura, di cui infino a quel punto avea sempre dubitato. Il buon vecchio giunse le mani al petto, levò al cielo lo sguardo, indi proruppe in lagrime.
Teodoro aprì gli occhi, riconobbe lo zio, e fece uno sforzo per levarsi a baciargli la mano. — Chi mi avrebbe detto, quando partisti da Capizzone, che io doveva rivederti in tale stato! ma la colpa è tutta mia!... Oh perchè non ti ho accompagnato io stesso a Milano!...
— Signor zio, — mormora Teodoro con fioca voce, io spero che voi rimarrete presso di me, ovvero mi farete ricondurre a Capizzone... Desidero morire nel mio paese!...
— Povero giovane! — esclama l'Obrizzi. — Io non credo ch'egli possa partire sì presto da Milano. —
Don Dionigi prende una seggiola, si avvicina al letto di Teodoro, e lo esorta ad essere paziente, a soffrire i tormenti per l'amor di Dio. Poi, vedendo che la voce del malato si fa sempre più fioca, si volge agli astanti per sapere da essi tutte le circostanze del fatto doloroso.
Il buon operaio dà principio al racconto... e coll'enfasi dell'entusiasmo esalta il coraggio, la fede, l'eroismo di Teodoro. Don Dionigi, udendo ripetere le gesta sanguinose del nipote, comincia a dubitare che egli abbia veramente provocata la reazione dei gendarmi.
— Che razza di rumore è questo?... Chi ha picchiato alla porta con tanta violenza? La moglie dell'Obrizzi si affretta ad aprire... Un uomo di statura mezzana, dal volto ingrugnito, dall'occhio sinistro, entra nella camera, seguíto da due poliziotti armati, i quali si piantano in sentinella a' piedi del letto.
Don Dionigi balza dalla seggiola atterrito... L'Obrizzi e gli altri, che stanno d'intorno al letto, sembrano pietrificati dalla subita apparizione del sinistro personaggio, in cui riconoscono il conte Bolza, il feroce inquisitore della polizia austriaca.
— Ebbene?... siamo noi sordi? ovvero si vuol provocarci a qualche atto di violenza?... Chi è di loro... il signor Teodoro Dolci? In nome della legge io vi intimo di rispondere!
— Signor commissario, — risponde l'operaio reprimendo il dispetto e la collera. — Il signor Teodoro Dolci, come ella vede, è in quel letto malato...
— Egli non è in grado di poter rispondere — osserva timidamente don Dionigi...
— Zitto lei! signor rompi-torta!
— Nella mia qualità di zio credeva aver diritto...
— Ah! lei è lo zio di questo bel mobile!... lei resti pure... E loro signori prendano subito la porta. —
Carlo Obrizzi, seguíto dalla moglie e dai fratelli, si ritira nella anticamera. Il conte Bolza cava di tasca uno scartafaccio, si avvicina al letto del ferito, e dà principio alla inquisizione:
— Dunque lei è quel carne di collo che si chiama Teodoro Dolci? —
Alla vista dei poliziotti armati e del feroce commissario che gli stava addosso col grugno, quasi volesse divorarlo, Teodoro si leva sui guanciali, e risponde con cenno affermativo del capo.
— Ha ella, nella sera di lunedì scorso, assalito proditoriamente un picchetto di gendarmi?...
— Signor commissario, — interrompe don Dionigi. Io le giuro che mio nipote non è capace di commettere... sì orribili eccessi...
— Zitto! le ripeto, signor menadubbi!... I rapporti che noi abbiamo ricevuti da zelanti impiegati ci assicurano che il signor Teodoro ha ammazzato in piazza Fontana non meno di ventiquattro gendarmi, e feriti cinquanta dragoni dell'imperiale esercito... È ben vero che, dietro altri rapporti pervenutici in appresso, abbiamo constatato che nessun gendarme e nessun soldato delle nostre imperiali regie truppe rimase morto o ferito; ma ciò non toglie che il signor Teodoro siasi recato in sulla piazza con micidiali disegni. Risponda adunque, signor pendolo da forca: quante vittime s'era ella proposto di fare la sera dello scorso lunedì?...
— Stimatissimo signor commissario, — risponde di nuovo il prete, — ella vede che il mio povero nipote è tanto aggravato dal male, che per ora non è in grado di discolparsi; ma io, che conosco l'indole di questo povero figliuolo, io, che l'ho allevato coi santi principii della obbedienza e della religione, posso attestare che loro signori si ingannano.
— La imperiale regia polizia non può ingannarsi! Crederebbe ella di abbindolarmi colle sue ciarle? Non sa ella che nelle provincie dell'augustissimo nostro impero nessuno proferisce una parola, nessuno muove un sospiro che noi non ne siamo informati? Noi conosciamo anche lei, signor don Dionigi Quaglia! Ella è nel novero di quei preti briganti che in nome di Pio IX, con promesse di costituzioni e di franchigie, cercano sollevare il cervello dei pacifici cittadini. Ma l'Austria non ha paura nè di preti, nè di vescovi, nè di papi, nè di tutta l'altra canaglia che pretende muoverle guerra. E se, loro signori reverendissimi, non metteranno giudizio, noi pianteremo delle buone forche nelle sagrestie... anche per loro comodo. —
Don Dionigi esterrefatto ricade sulla seggiola, e passa la mano entro il collare che gli stringe la gola come un capestro. Frattanto, per cenno del conte Bolza, i due poliziotti depongono l'armi, e s'aggirano per la camera, mettendo sossopra i mobili e frugandone gli anditi più riposti.
Il conte commissario si getta sugli abiti di Teodoro, che stanno ripiegati sovra un tavolo e, cercando nella saccoccia, ne trae il portafoglio fatale, dove l'ingenuo campagnuolo ha abbozzate le memorie del suo viaggio.
— Ma bene! ma bravo!... E questi sono i bei principi di moralità e di religione, che il reverendo don Dionigi Quaglia ha instillati nel nipote! — ripiglia il commissario, ridendo d'un ghigno infernale. — Si compiaccia di leggere, signor collarone da galera! —
Alla vista dello scritto, il prete si smarrisce; le fiamme della vergogna gli salgono al viso, quasicchè la coscienza gli rinfacciasse un delitto.
Infatti nel portafoglio di Teodoro si leggono parole criminose, parole da rivoluzionario consumato: Viva Pio IX! Viva l'Italia! morte ai Tedeschi!
Don Dionigi non sapendo di qual modo discolpare il nipote, lo guarda con occhio di mite rimprovero quasi volesse dirgli: Possibile che il mio buon Teodoro mi abbia ingannato?
Il conte Bolza, dopo aver visitate tutte le carte, che per avventura si trovavano nella stanza, si pose in tasca il portafoglio di Teodoro; indi, volgendosi al prete con aria di trionfo: — Molto reverendo, — gli dice, — credo avervi provato che la nostra polizia non s'inganna mai. Ora, per dimostrarvi che noi siamo clementi nel condannare non meno che vigili nello scoprire i delitti, sospendiamo per ora il processo contro il prevenuto signor Teodoro Dolci in causa della malattia che gli toglie il libero uso delle sue facoltà; a voi, maestro e complice responsabile del temerario attentato di piazza Fontana, ordiniamo di lasciare Milano entro il termine di otto ore; e per guarentigia delle autorità e del pubblico, terremo notte e giorno sorvegliata questa casa da due sentinelle, che verranno mantenute a tutte spese del proprietario signor Carlo Obrizzi. Signor don Dionigi, la riverisco! e soprattutto le raccomando di badare attentamente ai fatti suoi, perchè i nostri hanno l'occhio acuto e gli orecchi lunghi! —
Dopo tali parole, il conte Bolza uscì dalla camera, e la sua fronte, poco dianzi aggrottata, divenne radiante. Il famigerato ministro della polizia non era mai così lieto come quando si accorgeva di aver ispirato terrore. Nella casa dell'Obrizzi egli lasciava un giovanetto semispento, un prete pietrificato, un operaio furibondo di sdegno, una donna piangente e due bimbi che strillavano. Quantunque avezzo a siffatti trionfi, quella sera il conte commissario fu oltremodo contento di sè medesimo, e cenò del migliore appetito.
Don Dionigi passò la notte in orazione presso il letto di Teodoro, poi, verso l'alba, lo benedisse d'un paio di marenghi e, dopo averlo raccomandato alle cure degli onesti operai, raggiunse la vettura del Brunetto per tornare a Capizzone. Il cuore del dabben sacerdote era strozzato. Più che la malattia del nipote, all'anima candida di don Dionigi era crudele il sospetto ch'egli fosse colpevole.
Tutta Milano il giorno seguente seppe della perquisizione avvenuta in casa dell'Obrizzi. Persone autorevoli pretendevano sapere da buona fonte che, nel portafogli di Teodoro Dolci, il Bolza aveva rinvenuti due proclami incendiari, e lettere di famosi cospiratori e istigatori della rivoluzione.
CAPITOLO VI. La dimostrazione degli zigari.
Dopo la perquisizione, la casa dell'Obrizzi non fu più visitata dagli agenti di polizia. Tornando a Capizzone, lo zio di Teodoro protestò contro ai rigori del Bolza; e la mediazione autorevole del commissario di Almenno ottenne grazia al terribile rivoluzionario di piazza Fontana.
Ma il Dolci era predestinato alla gloria; la rivoluzione voleva farne un eroe, trascinandolo capricciosamente dietro il suo carro.
Sul finire dell'anno, Teodoro cominciò a levarsi dal letto e a riprender vigore. Il povero campagnuolo vagheggiava con inquieto desiderio l'ora del ritorno alla patria. Rivedere il campanile di Capizzone, scambiare un tenero sguardo colla figlia del sagrestano, ricoverarsi nel nido tranquillo dell'antica cameretta, riprendere gli studi interrotti, erano i sogni dorati del pacifico montanaro.
Il 2 gennaio, don Dionigi deve recarsi a Milano per ricondurre il nipote al villaggio nativo. Con quanta impazienza Teodoro attende quel giorno!... I minuti gli sembrano secoli. Carlo Obrizzi, il fanatico patriota, interpretando a suo modo tutti gli atti e le parole di Teodoro, ha per fermo che il villaggio di Capizzone sia un covo di rivoluzionari, e che l'eroe di piazza Fontana sia aspettato lassù per dirigere le operazioni di qualche comitato segreto.
È il primo dell'anno, dell'anno 1848, memorabile nei fasti della storia italiana. I Milanesi, per ostile dimostrazione contro il governo straniero, hanno concordemente stabilito di astenersi dallo zigaro. Infatti nelle vie, oltre all'usato frequenti, non veggonsi fumatori. Se qualcuno passeggia collo zigaro alla bocca, questi viene additato quale un birro provocatore, un poliziotto travestito, una spia. Gli ufficialetti austriaci e i pochi fautori del maleviso governo si mescono alla folla, lanciando a destra e a sinistra densi globi di fumo. Il dispetto, la collera, il desiderio di reagire contro l'audace manifestazione popolare, prorompe dall'occhio briaco dei poliziotti e dei commissari perlustratori. Una sanguinosa collisione fra popolo e soldati sembra imminente.
Teodoro Dolci, più per istigazione dei suoi ospiti che pel desiderio di vedere una città, dove era entrato con auspici tanto sinistri, alla vigilia della partenza uscì di casa in compagnia dei fratelli Obrizzi, e prese con essi la via del Corso.
— No! no! torniamo indietro! — esclamava il pacifico allievo di don Dionigi atterrito dalla folla. — E poi... vedo attorno certi abiti... che mi ricordano....
— Fingete di non vedere! — rispondeva l'Obrizzi. — Questi abiti già da gran tempo fanno montare il sangue agli occhi a tutti i buoni Milanesi. Ma per ora ci vuol pazienza. Il momento non è lontano...! E allora spero che tornerete da Capizzone. Frattanto vedete quanta concordia nel nostro popolo! Si è detto di non fumare, e non si fuma. Si è detto di star calmi e dignitosi, e tutti vanno via queti queti come agnellini. Ma a suo tempo gli agnelli si muteranno in lupi, e non dubito che allora c'incontreremo di bel nuovo, signor Teodoro.... Ella vedrà che anche a Milano vi sono dei fegati sani! —
I due fratelli Obrizzi, traendo l'allievo di don Dionigi verso porta Renza, si effondono in parole di ammirazione per l'eccellente contegno del popolo, lanciando sorde imprecazioni dietro le spalle dei fumatori. Il Dolci si lascia condurre come una vittima; di tratto in tratto egli si arresta per riprender fiato; i subiti mutamenti di colore che si alternano sul di lui volto vengono dagli illusi operai interpretati quali sintomi di ire segrete, di impetuosi desiderii di vendetta.
Presso lo svolto della contrada di San Pietro all'Orto, vedendo che la folla sempre più divien grossa, Teodoro colla eloquenza della paura insiste presso i compagni perchè lo riconducano a casa.
— Ebbene! poichè vi piace retrocedere, volgetevi per di là, e tirate innanzi pian piano fino al terzo lampione. Fra due minuti vi raggiungeremo. —
I due operai abbandonano il bravo Teodoro, e prendono la via di San Pietro all'Orto per recarsi alla stamperia.
Destino! destino! chi può sottrarsi alla tua potenza misteriosa? I molti che ti adorano e ti temono come una divinità, non sono forse meno stolti di coloro che ti negano. Un povero montanaro viene a Milano colla santa intenzione di festeggiare l'ingresso di un vescovo e, in premio del devoto pensiero, riceve nella coscia un colpo di baionetta, che lo obbliga a letto per quattro mesi, e gli procura una gloria che può innalzarlo a cariche elevatissime, e più probabilmente alla forca. Questo istesso montanaro, dopo lunga malattia, sta per tornare al paese nativo, col pacifico desiderio di chiudere il resto della vita in solitudine ignorata; ed ecco il destino gli si para dinanzi un'altra volta, lo afferra pel collo, e lo trascina in una prigione!
Fra i mille che passeggiano il Corso, Teodoro è forse il più innocente in fatto di politica: tutta Milano è in fermento di rivoluzione: il popolo, che si agita nelle vie, freme di sdegni mal repressi, non respira che odio e desiderio di vendetta. L'allievo di don Dionigi è tutto assorto nella immagine polposa di Dorotea Melazza, la figliuola del sagrestano di Capizzone, che spera fra poco rivedere. Egli procede cautamente nella via, cedendo il passo a quanti gli vengono incontro....
Donde sbuccarono quelle due figuracce dal muso cagnesco? Teodoro dà indietro due passi per lo spavento. Ma i due gli si mettono alle coste e lo inchiodano alla muraglia.
— Signor prigante! — grida l'un d'essi presentando uno zigaro al Dolci — La prego assaggiare quanto star pono tabacco di nostro ponissimo imperatore!
— Tante grazie... signore! — balbetta Teodoro levandosi il cappello; — non sono avezzo a fumare! don Dionigi me l'ha proibito.
— Canaglia di Italiano! — rispondono i due aggressori, che nella fisonomia e nel linguaggio rivelano la loro origine tedesca; — ti aver proibito fumare perchè nostro pono imperatore chiuder bottega! —
E qui i due tedeschi briachi levano il bastone sul capo di Teodoro, mentre dalla folla indignata prorompe un ruggito di imprecazioni.
— Ladri! assassini! carnefici! — grida il popolo furente!
— Morte alle spie!
— Morte ai sicari dell'Austria!
— Abbasso i pollini!
— Viva l'Italia! —
I due fratelli Obrizzi, rompendo col gomito nerboruto quella muraglia di gente, cercano avvicinarsi a Teodoro per salvarlo dal nuovo pericolo. Urta, pesta, sospingi... Carlo è nel mezzo della folla...
Il pugno nodoso dell'operaio già pende sulla testa degli assalitori; quel pugno potrebbe spezzare un incudine e forse anco un cranio tedesco! Tardo soccorso! L'ala sinistra dell'esercito popolare non tenne fermo contro le baionette, e il commissario Siccardi potè avventarsi a Teodoro, afferrarlo per la cravatta, e darlo in balìa dei suoi birri.
I sicari della esosa polizia trascinavano la preda per le corsia dei Servi, incalzati dagli anatemi del popolo. Erano fischi da serpenti, urli da iene, ruggiti da diavoli.
Le vittime di Falaride abbrustolite nel toro di bronzo, non mandarono più spaventevole ruggito. Prima che il Dolci toccasse la porta di Santa Margherita, la scorta dei birri si era tanto ingrossata, che da ultimo essa costituiva un esercito di circa dugento guerrieri... Dugento guerrieri per condurre prigione l'allievo di don Dionigi! Tanto apparato di forze può sembrare superfluo.... Eppure quei guerrieri tremavano di paura e avevano il viso giallo!
Ma il pericolo dei forti è cessato. Teodoro ha varcata la orribile soglia di Santa Margherita: le porte si chiudono, e il popolo respinto dalle baionette si disperde.
— Che diavolo è accaduto? — domanda il conte Bolza, scendendo nel cortile della sua reggia. — Qual delitto ha commesso codesto furfante? Fate un po' ch'io lo vegga in grugno costui!... se non mi inganno l'ho veduto altra volta il manigoldo! Presto! frugategli indosso... mentre io mi sbrigo colle formalità del processo verbale. Questa non la è la giornata da perdersi in lunghi rapporti... Ehi! bel muso da forca! come vi chiamate? —
Il campagnuolo, istupidito dal nuovo disastro, tien l'occhio fisso nell'inquisitore senza rispondere parola, mentre il commissario Forconi, sbuffante di dispetto e di paura, enumera i delitti del catturato.
— Egli è uno de' pochi riottosi che rifiutano di fumare. Egli ha strappato lo zigaro di bocca a due uffiziali vestiti alla borghese. Egli ha tentato resistere alla forza pubblica. Egli ha esposto il nostro imperiale regio esercito di poliziotti ai pericoli d'una tumultuosa reazione popolare...
— Ebbene, signor faccia tosta? — riprende il Bolza volgendosi a Teodoro; — mi direte una volta il vostro nome?... Dovrò io farvi appiccare senza le debite formalità?
— Signore! io sono innocente! — prorompe Teodoro colle lacrime agli occhi. — Io sono un povero diavolo venuto dalle montagne di Capizzone per vedere l'ingresso del signor arcivescovo Romilli, e fui ferito non so da chi nè per quali ragioni in piazza Fontana...
— Che! sarebbe ella mai?... Mi consolo di cuore... Ma bravo! ma bene! E il commissario di Almenno voleva persuaderci... Gran talentone quel commissario!... E il nostro imperatore tiene al suo servizio codesti mangiapane!... Basta! a tempo debito lo serviremo anche lui, quel caro collega! —
Di tal guisa borbottando, il Bolza esamina gli oggetti rinvenuti nelle saccocce di Teodoro. Fra questi è un temperino rinchiuso in un astuccio e avvolto in parecchi fogli, un temperino che l'Obrizzi ha regalato al suo ospite qual pegno di amicizia.
— Ditemi un po', signor galeotto; vorreste spiegarmi per quali ragioni vi siete provveduto di questo istrumento di morte?...
— Se non m'inganno... per temperare le penne...
— E quali penne speravate di temperare...?
— Le penne che s'usano da noi a Capizzone, le penne d'oca...
— Scellerato! brigante!... io so bene di qual'oca intendete parlare! conosco il gergo impudente della canaglia riottosa... Frattanto andate in prigione, e ricordatevi che l'oca ha due becchi, e guai a chi ardisce toccarla! —
Oltremodo soddisfatto del proprio epigramma, il conte chiuse il processo, accennando ai birri di condurre il prigioniero al numero 24.
Rinchiuso nella orribile cameraccia, il povero Dolci si gettò boccone sovra il pagliericcio.
Nel carcere e perfino sui gradini del patibolo ai martiri volontari è conforto il pensiero della pubblica riconoscenza, la speranza di una fama gloriosa. Ma il nipote di don Dionigi può egli forse immaginare che tutta Milano parli di lui coll'entusiasmo dell'ammirazione; che il nome di Teodoro Dolci si ripeta da mille labbra con quello dei Ferruccio e dei Balilla; che cento leggiadre fanciulle sospirino per l'eroe di Capizzone, e cento madri lo additino ai figliuoli quale esempio di fede e di virtù cittadine?
Il 2 gennaio, colla vettura del Brunetto, don Dionigi Quaglia giunse a Milano per ricondurre il nipote.
Immagina, lettore, qual rimanesse il buon prete all'annunzio della nuova sciagura.
— Ma dunque me l'hanno stregato, quel povero ragazzo! Che il diavolo gli fosse entrato nel corpo per trascinarlo alla eterna perdizione!...
— Non vi è dubbio, — rispose Carlo Obrizzi coll'enfasi consueta. — Il signor Teodoro è un vero diavolo. La si figuri, signor don Dionigi, che, per condurlo prigione, a mala pena bastarono dugento poliziotti armati dai piedi alla testa!!!
CAPITOLO VII. Il trionfo del martire.
Come sono lente le giornate del prigioniero! Da oltre due mesi Teodoro languisce nel carcere di Santa Margherita; da oltre due mesi egli si trova segregato dal mondo, ignaro del proprio avvenire, privo di consolazioni e di speranze. La monotona visita del secondino che, senza proferire parola, gli getta la pagnotta come a cane famelico, è l'unica distrazione del prigioniero nelle notti interminabili, angosciose. Ignorando l'origine della propria sciagura, Teodoro attese lunga pezza un angelo liberatore in veste da prete, lo zio don Dionigi; e a lui piangendo volse preghiere e rimproveri, a lui stese le braccia desolate, nelle veglie e nei sonni. Ma l'angelo non apparve; e i lamenti del tapino si spensero sotto le gelide pareti. A poco a poco la rassegnazione passiva subentrò nell'animo di Teodoro; dopo due mesi di prigionia la vita mutossi per lui in letargo affannoso.
Il sul finire di marzo, una notte il prigioniero fu scosso da insoliti rumori... Lontano lontano gli parve udire un tuono come di temporale... poi squilli di campane... grida nelle vie, nel cortile; un correre, un agitarsi di persone ne' corridoi, ed altri strepiti non mai intesi. Una pioggia dirotta spinta dal vento assaliva la inferriata dell'angusta finestra, e, convertita in rigagnoli, a poco a poco allagava la stanza. Il sentimento della paura ridestossi nell'anima instupidita di Teodoro. Egli correva per la camera barcollando, e, raccomandandosi colle mani alla parete, pareva cercasse una breccia per isfuggire a nuovi e più crudeli disastri. «Oimè! — gridava il poveretto ravvivato dal terrore: — Iddio rinnova dunque il miracolo del diluvio! Questa città maladetta, ripiena di ingiustizia e di iniquità, sarà preda dell'acqua! Fra poco tutti saremo sommersi!... Zio! mio buon zio! Caterina! Dorotea! santi e sante del Paradiso! venite in mio soccorso! abbiate misericordia di uno sfortunato che non ha fatto alcun male!»
Gl'insoliti rumori durarono tre giorni. Nel quarto era cessata la pioggia, ma i tuoni imperversavano tuttavia, e nel cortile s'udivano grida più distinte e più feroci, grida di vendetta e di morte.
Quel giorno il povero Teodoro non ricevette dal secondino la consueta pagnotta.
Pensate qual fosse il prigioniero all'indomani!... Verso lo spuntare dell'alba, il miserello, che non aveva gustato cibo nè sonno, giaceva assiderato sul pavimento... le braccia appoggiate alla porta...! Non è mestieri ch'io spieghi, quali fossero gli strani rumori uditi da Teodoro negli ultimi giorni della sua prigionia. Erano la rivoluzione delle cinque giornate, erano la battaglia di un popolo fatto onnipotente dalla coscienza dei proprj diritti; erano il primo atto di quel dramma glorioso, che noi abbiamo veduto chiudersi dopo tanta complicazione di eventi ora prosperi ora avversi, col trionfo della indipendenza e della libertà italiana.
Il terribile palazzo di Santa Margherita è invaso dal popolo vincitore. I lupi della esosa polizia sono dispersi o stretti in catene. I cortili, le scale, i corritoi suonano di liete grida... le prigioni si disserrano... Le vittime della antica tirannide, uscendo dalle oscure caverne, respirano la libertà, e dinanzi ai vividi colori della bandiera italiana dimenticano le pene sofferte, risorgono a vita novella.
Carlo Obrizzi non ha dimenticato l'antico ospite, il martire di piazza Fontana. Il valoroso operaio, che fra i primi ha combattuto alle barricate, profitta della vittoria per correre a liberare l'amico.
Le porte dell'orribile cameraccia, ov'è sepolto Teodoro, si spalancano d'improvviso... L'Obrizzi, seguìto dai fratelli e dagli amici vestiti di velluto e armati di pistole e di pugnali, si gettano sul prigioniero, lo sollevano dal pavimento, e cercano rianimarlo coi gridi: — Viva l'Italia! Viva la libertà!
— Presto! la tua boccetta dell'acquavite! — dice l'Obrizzi all'un dei colleghi. — Dio sa quanto ha patito il povero ragazzo in questi ultimi giorni! Egli non ha più forza da reggersi in piedi. —
Il collega dell'Obrizzi si affretta a versare il liquore nelle fauci del prigioniero estenuato. Questi apre gli occhi, e vedendosi dattorno tante persone armate dalla testa ai piedi, giunge le mani tremando, e implora misericordia.
— Ma che? voi dunque non mi riconoscete? — esclama l'Obrizzi, — non ravvisate il vostro amico, il vostro ospite della contrada di Sant'Antonio! Noi siamo venuti a liberarvi! noi siam venuti a premiarvi del vostro coraggio, dei vostri generosi sacrifici a pro della patria! I Tedeschi non sono più a Milano... Ora i padroni siam noi!... Coraggio adunque! Dimenticate il passato! e venite con noi a raccogliere quella palma di gloria che si addice ai martiri... ai valorosi... vostri pari!
— Bravo! bene! ben parlato! — gridano ad un punto i circostanti. — Venite, signor Teodoro! Tutta Milano vi attende per farvi festa! —
Così detto, i colleghi dell'Obrizzi prendono in sulle spalle Teodoro, e al grido reiterato di: Viva il riformatore di Capizzone! viva il martire di piazza Fontana! viva l'eroe del due gennaio! escono dalla camera, scendono le scale, e fuori all'aria aperta.
Al passare di Teodoro, quanti sono nella via si levano il cappello, agitano i fazzoletti; le guardie civiche presentano l'armi, le donne gettan fiori dalle finestre... E il corteo trionfale, preceduto dall'Obrizzi con bandiera spiegata, va sempre ingrossando fino agli Archi di porta Nuova. L'allievo di don Dionigi cogli occhi spalancati sembra interrogare tutto il creato per ottenere la spiegazione di quanto gli accade; uno strano sorriso gli increspa le labbra, il sorriso dell'uomo che è vicino ad impazzare, e vorrebbe afferrare un concetto che ad ogni istante gli sfugge. «Perchè mi hanno ferito in piazza Fontana? Perchè imprigionato nel mese di gennaio? Dove mi portano costoro? Che voglion dire quelle grida di evviva? Perchè tanta gente vestita di rosso, bianco e verde? E que' cavalieri in abito di velluto col cappello ornato di piume? Fosse questo il famoso carnevalone di Milano!... Quanti mobili accatastati nella via!... Forse per abbruciarmi vivo!... C'era bisogno di dar fuoco agli armadi e ai pianoforti per arrostire un povero diavolo qual io mi sono? Oh questa senza dubbio è la fine del mondo!
Presso porta Nuova il corteo trionfale si arresta, e fra le acclamazioni e gli urli della folla, il nipote di don Dionigi vien trascinato sul poggio che domina gli Archi, ove, sotto un magnifico padiglione, siede un uomo di circa quarant'anni, l'avvocato Antonio Negri, capitano e comandante del quartiere.
— Signor capitano! — dice l'Obrizzi, ponendosi la mano al berretto in attitudine militare, — ho l'onore di presentarvi un eroe, un martire della libertà italiana, il celebre Teodoro Dolci da Capizzone, di cui per avventura avrete inteso parlare. Il poveretto languiva prigioniero a Santa Margherita fino dal 2 gennaio. Noi lo abbiamo disseppellito poco dianzi, ed ora lo conduciamo dinanzi a voi, non dubitando che avrete caro di stringergli la mano.
— Venga...! venga pure l'eroe di Capizzone! Egli farà parte del nostro esercito di volontari che deve partire domani per Rocca d'Anfo. Ho bisogno di uomini senza paura, e, per quanto ho inteso dire, costui dev'essere un'anima dannata! —
Dietro un cenno dell'Obrizzi, Teodoro Dolci, che infino a quel punto è rimasto fuori della tenda, viene introdotto e presentato al capitano, il quale movendogli incontro e stendendogli la destra:
— Cittadino Dolci! — gli dice, — nel libro della patria il vostro nome sta scritto a indelebili cifre. Voi molto avete sofferto... e grande sarà la vostra ricompensa. Parlate! chiedete! I migliori impieghi civili e militari si offrono a voi. —
Teodoro, che a stento si regge in piedi, nè osa levare lo sguardo sul personaggio che gli dirige la parola, con voce tremante e rotta dai singhiozzi:
— Eccellenza, — risponde, — poichè ella vuol degnarsi di accordarmi la sua protezione, io la prego di farmi ricondurre al mio paese nativo presso don Dionigi e Caterina che probabilmente mi attendono da un pezzo. Le giuro che io non ho commesso verun delitto. Quando la mia innocenza verrà riconosciuta, io spero ottenere l'impiego che l'augusto...
— Voi mi sembrate alquanto abbattuto nello spirito, — interrompe l'avvocato.
— Eccellenza... da due giorni non mi fu dato alcun cibo, e sento che le gambe mi tremano sotto... Ma non importa... Io son pronto a digiunare tutta la giornata purchè mi si riconduca a Capizzone.
— Presto! presto! — ordina il Negri ad uno dei suoi commiliti; — portate la colezione a questo bravo ragazzo! Gli eroi non vivono d'aria, e a stomaco digiuno talvolta vien meno anche il coraggio. —
Immantinente sotto il padiglione viene imbandita una mensa, e il Dolci dopo molti complimenti ed inchini, cedendo agli impulsi della fame, si getta sul pasto.
Il nipote di don Dionigi, sebbene non sia in grado di spiegare il mistero degli ultimi avvenimenti, nondimeno si accorge che la sua posizione è alquanto migliorata. I cibi saporiti e il vino generoso gli infondono un po' di energia; la presenza dell'Obrizzi, la vista dei giocondi colori che adornano il padiglione, l'allegria dipinta nel volto de' soldati cittadini, i suoni festosi delle bande musicali che passano nella via, tutto parla alla fantasia del timido montanaro un linguaggio pieno di conforto e di speranza.
Frattanto il Negri apre un enorme librone, e intingendo la penna nel calamajo, rivolge a Teodoro le seguenti domande:
— Voi dunque vi chiamate?...
— Teodoro Dolci, per obbedirla.
— Età?
— Venti anni... sette mesi e... cinque giorni.
— Nubile o ammogliato?
— Finora non ho moglie... per obbedirla. —
In profferire tali parole il pudico allievo di don Dionigi divenne rosso fin nel bianco dell'occhio.
— Non avete mai servito prima d'ora?...
— Ho servita la messa a mio zio don Dionigi.
— Farceur!... Le vostre gesta di piazza Fontana e l'eroismo che avete dimostrato il 2 gennajo vi fanno benemerito della patria più che dieci anni di servizio regolare... Qual è l'arme da voi favorita? Io posso offrirvi carabine, pistole, lance, tromboni...
— Io non chieggo d'esser armato, — rispose Teodoro, — ma se vostra eccellenza vuol farmi rendere il temperino che mi fu tolto il 2 gennaio prima che io andassi in prigione, le saprò grado di avermi risparmiata una spesa...
— La guerra dei coltelli e dei temperini è finita... Ora, grazie al cielo, abbiamo dei buoni fucili anche noi, e quanto prima avremo dei buoni cannoni. —
Ciò detto, il Negri, levandosi in piedi, ordina al tamburino di battere a richiamo. Tutti i militi della guardia nazionale accorrono sulla breccia, e si schierano in rango. Le cortine del padiglione sono levate, e il capitano conducendo l'allievo di don Dionigi innanzi alle schiere:
— Militi cittadini! — dice a voce alta, — ho l'onore di presentarvi nel signor Teodoro Dolci, uno de' più valorosi e benemeriti patriotti che l'Italia possa vantare. In compenso degli innumerevoli servigi che il signor Teodoro ha già resi alla patria, io lo nomino sergente maggiore nel corpo dei volontari, che fra poco partiranno con me per la spedizione di Rocca d'Anfo. Presentate le armi al nuove graduato!
— Viva l'Italia! viva il capitano Negri! — prorompono le schiere, — viva il sergente maggiore! e presto al campo! Sterminio e morte ai Tedeschi! —
I tamburi rispondono alle grida dei soldati; la folla del popolo, che tuttavia sta adunata sotto gli Archi, manda un ruggito di acclamazioni, mentre il Negri, levatosi la ciarpa tricolore, la cinge a Teodoro, quale insegna del grado.
— No... no!... Eccellenza! — grida il nipote di don Dionigi, tremante di paura e di sospetto. — Io non ho fatto nulla, proprio nulla perchè io meriti esser trattato di tal guisa... Altro io non domando se non di morire oscuro ed ignorato nel mio paese...
— Che? rifiutereste il grado? preferireste servire nelle file dei semplici soldati?... Signor Teodoro Dolci, voi siete un eroe dell'antica Sparta!... Ma nè io nè la patria possiamo permettervi tanto sacrificio... Io però vi faccio solenne giuramento che sul campo di battaglia sarete tra i più esposti alle palle nemiche, e che a voi sarà concesso l'onore del primo attacco! —
Ciò detto, il capitano Negri strinse la mano di Teodoro, e scese dalla breccia seguìto da un picchetto di soldai, fra i viva reiterati della folla.
Sul finire di quella memorabile giornata, l'allievo di don Dionigi, con immensa carabina in sulle spalle, quattro pistole alla cintura ed una baionetta pendente sul fianco a guisa di sciabola, in compagnia dei fratelli Obrizzi, armati anch'essi di tutto punto, si recava al palazzo della Ville per prender possesso del nuovo alloggio, che il capitano Negri gli aveva destinato.
Teodoro Dolci venne introdotto in una magnifica stanza dipinta e fregiata con splendidezza regale. Un letto, con padiglione di seta e coltrici di damasco trapunte in oro, doveva accogliere quella notte il nipote di don Dionigi. La rivoluzione avea spinto il suo fantoccio nelle sale inaccessibili, ove i fantocci del dispotismo pochi mesi innanzi si credevano onnipotenti.
— In questo letto dormiva l'ex-augusto vicerè di Lombardia, — disse il custode del regale palazzo all'ospite novello.
Teodoro rimasto solo nella stanza, indugiò qualche minuto a coricarsi... Ma la stanchezza, la prostrazione dello spirito e del corpo poterono più che il rispetto dei ricchi arredi. Deposte con terrore le armi in un angolo della stanza, Teodoro gettossi vestito sul letto, spense d'un soffio le candela, e ravvolgendosi tra le coltri di seta, sia fatta, esclamò, la volontà di Dio! E il vicerè mi perdoni!
CAPITOLO VIII. La risurrezione di un eroe.
Nei fogli milanesi del 14 maggio, sotto la rubrica Notizie del campo, leggevasi il seguente bollettino:
«La colonna guidata dal capitano Negri, forte di duecento volontari, ebbe ieri uno scontro formidabile a poca distanza dal lago di Garda con un corpo di soldati austriaci. I nemici patirono gravi perdite; circa trecento Croati perirono sul campo, altri cinquecento rimasero prigionieri, lasciando in potere dei nostri armi e munizioni. Ma le vittorie costano sangue; e noi pure abbiamo perduto buon numero di valorosi, fra i quali (ci duole annunziarlo) il sergente Teodoro Dolci da Capizzone, l'eroe di piazza Fontana, il terribile rivoluzionario del 2 gennaio, che, al primo assalto dell'inimico, cadde colpito da una palla. Il nome di questo, tanto valoroso quanto modesto soldato della indipendenza, rimarrà scritto nelle eterne pagine della istoria italiana. Noi proponiamo che a spese della nazione si celebrino in Milano esequie solenni all'anima del prode, aspettando epoca più tranquilla per onorarne la memoria con pubblico monumento.»
Sebbene i bullettini del 1848 non si distinguessero per iscrupolosa esattezza nel riferire gli avvenimenti del campo, la battaglia data dal Negri era vera, vera la strage dei Croati, vera la vittoria, tutto vero... tranne la morte del Dolci. Il nipote di don Dionigi, trascinato suo malgrado alla battaglia, non s'era tampoco data la pena di apprendere la carica del fucile. Egli temeva delle proprie non meno che delle armi nemiche.... Metter mano alla giberna per cavarne la cartuccia parevagli impresa arrischiata e piena di pericolo.... Che fare? i nemici si avanzano, lo scontro è inevitabile, il capitano minaccia dietro le spalle i codardi che osassero ritirarsi. Teodoro a mala pena si tien ritto in sulle gambe. I compagni appostano il fucile alla spalla per fare la prima scarica. — Fuoco! — grida il capitano, — e al tuono dell'armi... l'allievo di don Dionigi cade al suolo tramortito dalla paura, prima che il nemico abbia risposto alla fucilata.
Una lotta sanguinosa, micidiale si impegnò da quel momento presso il corpo del caduto. I volontari animati dall'intrepido condottiero fanno strage di Croati per vendicare l'amico; il combattimento si protrae fino a notte avanzata.
Poichè i nemici furono sbandati, il capitano Negri ed i suoi, con torce e fanali percorsero il campo in traccia del sergente caduto. Ove sono le illustri spoglie del rivoluzionario di Capizzone? Qual mano nemica ha trafugata la salma preziosa del martire, cui la pietà, la venerazione dei superstiti fratelli vuol rendere con pompa gli onori supremi? Il terreno è coperto di vittime; da ogni parte s'ode il lamento, il singulto dei feriti. Il capitano Negri ha già raccolti sette cadaveri dei suoi prodi; uno solo manca... il cadavere di Teodoro Dolci.... Dopo due ore di ricerche infruttuose, gli esploratori pietosi lasciarono il campo per aquartierarsi nel vicino villaggio. Ma allo spuntare dell'alba, alcuni contadini, passando per caso in quei dintorni, videro una forma umana sorgere da un fosso, e lentamente rizzarsi in piedi... allungarsi, distendere le braccia intonacate di fango... con passo mal fermo salire la collina e perdersi fra le piante. I superstiziosi villani torsero lo sguardo dall'orribile fantasima, e fuggirono via brontolando il De profundis.
Se la morte di Teodoro fu compianta da quanti lo conoscevano per fama, immaginate il profondo cordoglio di don Dionigi! La tristissima novella giunse a Capizzone verso gli ultimi di maggio. Nel leggere l'infausto bullettino, gli occhi inariditi del sacerdote versarono ancora una lagrima grossa come un nocciolo.
Dopo gli infausti avvenimenti del 2 gennaio, malgrado le premure del commissario di Almenno e di altri personaggi autorevoli, i quali di nuovo si erano interposti per ottenere la liberazione di Teodoro, don Dionigi non aveva più riveduto il nipote. La rivoluzione di Milano ravvivò per pochi giorni le speranze dell'ottimo prete. I giornali riferirono il combattimento di Santa Margherita, annunziarono la vittoria del popolo, il trionfo dei carcerati; ma Teodoro non comparve. L'ingrato nipote, in luogo di tornare a Capizzone, scrisse allo zio una lettera asciutta, dalla quale appariva com'egli fosse partito pel campo col grado di sergente!
Una serie sì continuata di sorprese, di terrori, di sciagure, aveva lentamente predisposta l'anima di don Dionigi al terribile colpo: nondimeno egli rimase profondamente ferito dalla morte di Teodoro. L'ingenuo religioso che, per tanti anni predicò dal pulpito il rispetto alle autorità legittime e l'obbedienza passiva, il vecchio amico dell'ordine, cui la paura era legge d'istinto e codice la rassegnazione, nel leggere il bullettino funebre, proruppe in accenti disperati:
«Oh! i nostri hanno ben ragione di ribellarsi... di prender le armi e di esterminare que' briganti senza fede e senza misericordia! Che aveva fatto di male quel povero figliuolo, perchè lo perseguitassero e lo chiudessero in prigione?... Quei mostri hanno ucciso una creatura innocente... hanno tolto ad un misero vecchio l'ultimo conforto! Ed io... sciagurato! io ho potuto dubitare di Pio IX! ho prestato orecchio a quei vili susurroni, che mormoravano contro il capo supremo della Chiesa perchè s'era fatto a bandire la santa crociata! Il Signore mi ha severamente punito della mia poca fede! Andate, figliuoli! prendete uno schioppo, una sciabola, una ronca, un badile... Unitevi a Carlo Alberto... che Iddio lo benedica! e combattete contro i nemici della giustizia e della religione!»
Il giorno 28 maggio, nella chiesa di Capizzone si celebrarono le esequie solenni all'anima di Teodoro. Sulla porta della chiesa, addobbata di neri panneggiamenti, leggevasi una iscrizione redatta da don Dionigi, nella quale si riepilogavano le gesta del martire glorioso.
Dopo la cerimonia, il capitano della guardia nazionale passò in rassegna i quattordici militi del Comune che, armati di forche e rastrelli, eseguirono prodigiose manovre. In mancanza di schioppi e di artiglieria, il sindaco diede fuoco a dodici girasoli, che l'un dopo l'altro scoppiarono in sul sagrato fra gli hurrà bellicosi della popolazione.
Sono le nove della sera. Don Dionigi, oppresso dalle fatiche e dal grave cordoglio, si chiude nella propria abitazione per isfogare la piena degli affetti nell'animo della fedele Caterina.... La modesta lucernetta effonde nella camera un pallido chiarore; dal focolare semispento sorge una nebbia leggera leggera, che si perde con insensibili gradazioni fra le tinte della bruna soffitta.
— È morto! — esclama don Dionigi, inginocchiandosi sul gradino del focolare....
— È proprio morto! — risponde Caterina.
— Morto sul campo di battaglia.... senza i conforti della fede, senza l'assoluzione di un prete!...
— Che Iddio gli usi misericordia!
— Crede ella, don Dionigi, che il nostro Dorino avrà avuto tempo di far l'atto di contrizione?
— Purchè una palla di cannone non gli abbia portato via la testa d'un solo colpo, nel quale caso io dubito assai che un uomo possa pensare alla salute eterna.
— Don Dionigi!... don Dionigi!...
— Caterina!...
— Mi era sembrato di sentir scricchiolare l'armadio!
— Via! non venirmi fuori colle tue solite paure, Caterina!...
— L'altra notte ho proprio veduta l'anima del signor Teodoro aggirarsi intorno al mio letto.
— Non dire sciocchezze... Caterina!... pensiamo piuttosto a fare un po' di bene per quel povero figliuolo, nel caso che egli si trovasse ancora in purgatorio.
Don Dionigi e la Caterina, che al cominciar del dialogo stavano inginocchiati alle due estremità del focolare, a poco a poco si sono avvicinati, ed ora si trovano nel centro, l'uno stretto all'altro come fossero cuciti.
Ai dubbi, ai lamenti succedono le preghiere. I Requiem, i De profundis, i Miserere si alternano a voce spiegata dapprima, poi con monotono brontolío; da ultimo con accompagnamento obbligatorio di sbadigli. La fiamma della lucerna crepita nella agonia... Mentre il prete col rantolo in gola si appella a tutti i santi del calendario, Caterina ed il gatto rispondono russando l' Ora pro eo.
— Caterina!
— Don... Dionigi!
— Non hai udito...?
— Che... cosa?
— Qualcuno ha bussato alla porta...?
— Han bussato... a quest'ora?
— Spero d'essermi ingannato.... De profundis clamavi ad... te Domine....
Don Dionigi e la Caterina mandano un grido. Tre colpi violenti hanno scossa di bel nuovo la porta. E il gatto impaurito balzò dal fornello rovesciando una pentola con orribile fracasso....
Il prete e la servente rimasero immobili parecchi minuti, guardandosi in faccia senza trarre un sospiro nonchè proferire parola. Cessata la paralisi del terrore, don Dionigi fece una smorfia col labbro accennando di sorridere e, levandosi in piedi, mosse tre passi verso la porta.
— Via, fammi lume, Caterina! Vieni qui... non temere di nulla.... Senza dubbio gli è il figlio di Bortolo che viene a chiamarmi per suo padre malato.... Non è la prima volta che si batte alla mia porta ad ora avanzata. Chi è?
— Son io, — risponde di fuori una voce fioca e lugubre simile al rantolo d'un moribondo. — Aprite, ch'io muojo di fame e di stanchezza. —
Don Dionigi e la Caterina si consultano di bel nuovo con una occhiata ripiena di terrore; poi svolta la chiave nella toppa, e levate le spranghe, il prete apre la porta... e tosto una larva d'uomo si precipita nella camera, e due braccia interminabili si appendono al collo di don Dionigi.
Un grido spaventevole salì in quel punto alle stelle.
Tutto il villaggio di Capizzone ne fu desto; i cani, i gatti, le oche, tutti gli animali bipedi e quadrupedi, piumati od implumi, risposero in cento favelle. Caterina, lasciando il padrone ad arrabattarsi nelle tenebre coll'anima uscita dal purgatorio, corse alla casa del sagrestano e le campane suonarono a stormo. I militi della guardia nazionale, in mutande e berretto da notte, uscirono in sulla piazza armati di verghe, e, dietro ordine del capitano, circondarono la casa di don Dionigi... Dàlli! bastona! ammazza! È un ladro! È un tedesco! È un morto! È una spia! È un diavolo uscito dall'inferno! Per eccesso di zelo i villici rotano le verghe nel buio, e l'un l'altro si pestano il dorso maledicendo al capitano, che non ha pensato ad accendere una torcia. Per circa un quarto d'ora nel villaggio di Capizzone regna la più deplorabile anarchia.
Quando piacque alla provvidenza, il sindaco del villaggio intervenne nella mischia con un lampione inchiodato ad una pertica. Le schiere si ricompongono; l'ordine si ristabilisce. Il sindaco e il capitano entrano nella casa assediata, e inciampano nelle gambe di don Dionigi, che giace come corpo morto sul pavimento.
CAPITOLO IX. La dimostrazione repubblicana.
Teodoro Dolci era avvezzo alle sorprese della fortuna; nondimeno l'accoglienza ricevuta nel villaggio nativo era tale da lasciargli profonda impressione nello spirito non meno che sulle spalle. Nei pochi giorni passati al campo, Teodoro di qualche modo aveva compresi gli enigmi della rivoluzione; le idee dell'ingenuo montanaro si erano alquanto schiarite col succedersi dei nuovi avvenimenti. Ma la scena di Capizzone, il grido terribile dello zio, il suono delle campane a stormo, l'allarme della guardia nazionale, il tumulto, le bastonate ripiombarono il nipote di don Dionigi in un caos di dubbi e di terrori.
Come cervo inseguito, Teodoro camminò tutta notte per la campagna. Allo spuntare dell'alba, il poveretto sedette sopra un muricciuolo, e volgendo lo sguardo alle montagne native, proruppe in lagrime e singhiozzi.
Per comprendere tutto il dolore di quell'anima, è mestieri conoscerne tutti i segreti. Prima di recarsi alla casa dello zio, il povero Teodoro, giungendo a Capizzone, aveva ricevuto una terribile novella. La ferita, l'arresto, la lunga prigionia, i terrori della guerra non furono sì crudeli all'anima del giovine montanaro quanto l'ingratitudine e la perfidia di una donna! Una piaga insanabile, profonda, lasciano i primi disinganni nei giovani cuori! Mentre l'eroe di piazza Fontana gemeva nel carcere di Santa Margherita fra gli spasimi del freddo, della fame e dell'amore, lo credereste? Dorotea Melazza, la figliuola del sagrestano, obliando le gomitate affettuose e i teneri sbadigli del nipote di don Dionigi, aveva ceduto alle lusinghe di un nuovo adoratore! Dorotea Melazza da oltre due mesi era sposa a Giacomo Maneggia, personaggio autorevole, recentemente elevato alla carica di maestro comunale e beccamorto.
«Ma si può dare più nera perfidia! — esclamava Teodoro negli sfoghi dell'anima addolorata. — Sposare un Maneggia! sposare colui che usurpava il mio impiego!... E con qual'aria mi ha guardato la spergiura, quando le passai dappresso per salutarla!... Come se mai non ci fossimo veduti! Oh! mai più, mai più a Capizzone! No, Dorotea, no femmina atroce! tu non riderai alle spalle di un povero diavolo che ti amava di cuore. Ho già troppo sofferto nel rivederti. E dire che io l'ho trovata più grassa del doppio!... Si vede proprio che la notizia delle mie disgrazie l'ha commossa! Avvenga ciò che vuole, io non tornerò più mai al mio paese. Andrò a Milano... Laggiù troverò degli amici, dei protettori... Tutti dicono che ho resi dei grandi servigi alla patria; tutti dicono che io sono un grand'uomo e, invero, comincio a crederlo anch'io... Il mio capitano e l'Obrizzi mi hanno assicurato che il tempo delle ingiustizie e delle soperchierie è passato, che ora le leggi stanno in mano del popolo, che in fin dei conti noi che abbiamo sofferto per la causa nazionale, noi che ci siamo battuti, abbiamo il diritto di gridar forte più degli altri e farci render ragione. Ebbene! dirò io a quelli che governano: se è vero che io più d'ogni altro ho contribuito a cacciare i Tedeschi da Milano, se è vero che io sono un martire della indipendenza e della libertà italiana; in nome di questa indipendenza e di questa libertà, io vi chieggo di sciogliere il matrimonio illegittimo di Dorotea Melazza e di Giacomo Maneggia. Altro premio io non domando, altro compenso dei tanti sacrificii che io resi alla patria!... Oh vedremo se il governo sarà sordo alle mie parole!... Vedremo se i voti di un cittadino, che è già morto tre volte per la causa italiana, non verranno esauditi!»
Animato dalla passione, il giovane montanaro levossi in piedi, e riprese il cammino. L'ingratitudine di Dorotea gli fece obliare lo strano accoglimento ricevuto dallo zio e perfino le bastonate. Il dio della vendetta spingeva Teodoro attraverso le campagne.... Nell'impulso quadruplicato delle gambe e delle braccia interminabili, il nipote di don Dionigi sorvolava alle siepi ed ai promontori come ruota di mulino in balìa del vento.
I giornali di quell'epoca, che tanto onorarono l'eroe di Capizzone, non dicono s'egli compiesse il viaggio a piedi, o profittasse di qualche vettura a caso trovata. Fatto è che il giorno 29 maggio, verso le due del pomeriggio, Teodoro Dolci e Carlo Obrizzi comparvero in sulla piazza di San Fedele in Milano per prender parte ad una manifestazione popolare contro il governo provvisorio.
Troppo son note e troppo funeste all'Italia le sconsigliate discordie di quell'epoca, perchè io mi compiaccia di descriverne gli episodi.
Se i folli tentativi dell'Urbino e d'altri o fanatici, o ambiziosi agitatori, non furono principale cagione dei disastri avvenuti, contribuirono senza dubbio a screditare la nostra rivoluzione ed il paese nostro nell'opinione dell'Europa. Le dissensioni dei partiti giovarono ai nemici d'Italia, non solo per riconquistarla, ma anche per disonorarla, e vilipenderla dappoi.
Perchè quelle grida feroci? che vuole questo popolo minaccioso e fremente? Egli stesso lo ignora. Ha seguito una bandiera; si è lasciato trascinare da una voce eloquente; ha gridato, ha urlato per mille bocche una parola incompresa.
Teodoro Dolci e l'Obrizzi si cacciano nella folla urlando anch'essi.
— Venite qui, figliuoli! — grida l'Obrizzi conducendo Teodoro sui gradini della chiesa. — Sentite mo lui...! Il bravo dei bravi! il protomartire della rivoluzione! il campione dei volontarj... morto, cioè ferito.... alla battaglia di Robbiatello....! Sentite di qual modo viene premiato il valore e l'eroismo del popolo che ha combattuto! A voi! signor Teodoro! parlate!... Da bravo! Raccontate la bella accoglienza che quei signori vi hanno preparata a Capizzone!
— Sì... è vero — balbetta il nipote di don Dionigi; — il Governo... dovrebbe... mettere al dovere... certe persone... che io conosco benissimo... e non permettere certi abusi: so ben io... di chi intendo parlare...
— Di chi intende ella parlare, di grazia? — chiese una voce ruvida e maschia all'orecchio di Teodoro, il quale, volgendosi, si trovò circondato da sei ufficiali di pubblica sicurezza.
Teodoro levossi il cappello, e fece un inchino.
— Vergogna! — seguitò l'ufficiale dominando colla voce taurina lo schiamazzo della moltitudine. — Venir qui in sulla piazza a suscitare tumulti, mentre il nemico ci minaccia alle porte...! I Tedeschi ridono delle nostre discordie, e cercano fomentarle con arti scellerate. Pur troppo si aggirano fra noi individui corrotti dall'oro austriaco, i quali, fingendosi amici del popolo, cercano trascinarlo ad eccessi fatali. Guardati, o popolo, da questi falsi amici, da questi Giuda traditori! Che i buoni cittadini tornino alle loro case, e i prezzolati emissari dell'Austria si mordano le labbra per dispetto!
La verità è per sè stessa eloquente. Il popolo ravveduto risponde all'oratore con plauso concorde.
— Noi non siamo emissari dell'Austria, — risponde l'Obrizzi con calore. — Questo giovane (e additava Teodoro) ha dato sufficienti prove di patriotismo perchè nessuno osi sospettare di lui.
— Ebbene, — risponde l'uffiziale, — se il signore ha qualche ragione di malcontento, purchè reclami colla debita moderazione e con mezzi legali, il Governo gli renderà giustizia.
— Io... credeva, — balbetta Teodoro; — io credeva che in questi tempi di repubblica....
— Bravo! bene! eccoci qui adesso colla repubblica! — interrompe l'uffiziale a voce alta. — Abbiamo in casa i Tedeschi, e loro signori vanno attorno parlando di repubblica, e cospirando contro il magnanimo re che sul campo di battaglia espone la propria vita per renderci indipendenti!
— Viva Carlo Alberto! viva il re! viva la costituzione, morte ai repubblicani! — risponde il popolo con cento gole.
Teodoro vorrebbe scendere dai gradini e nascondersi tra la folla; l'Obrizzi, pallido di sdegno, digrigna i denti, e sta per slanciarsi contro il moderatore dell'ordine pubblico; quando all'improvviso alcuni soldati della guardia nazionale circondano i due ribelli, e li arrestano in nome della legge.
Vane le querimonie e le proteste. Condannati dall'anatema popolare, incalzati da grida minacciose, il Dolci e l'Obrizzi vengono condotti alle prigioni di Santa Margherita.
Il conte Bolza, il Garimberti, il Siccardi e gli altri cagnotti della austriaca polizia erano spariti; i vividi colori nazionali rallegravano gli ampi cortili e i portoni del temuto palazzo: nondimeno all'Obrizzi ed al Dolci, nel varcare le soglie, corse per le ossa un brivido di terrore.
Perchè piangi, perchè ti percuoti le tempia, o illustre cittadino di Capizzone?
Credi tu che la patria possa in un giorno obbliare i suoi grandi? Se la rivoluzione ti impose durissime prove, essa prepara al tuo coraggio, alla tua costanza un premio inaspettato. Tutti i giornali compiangono alla sventura dell'eroe di Capizzone; l'Italia protesta contro l'illegale cattura del migliore de' suoi figli. Molti cittadini, che volontarj accorsero al Mincio per combattere il Tedesco, giurano di deporre le armi, ove a te, martire glorioso, non sia resa giustizia. La rivoluzione del 1848, inesperta fanciulla, sacrificava i propri interessi al trionfo de' suoi adoratori più ciarlieri, rischiava la perdita di una nazione per compiacere al capriccio di un individuo.
CAPITOLO X. Una fortuna in prigione.
Da due giorni Teodoro era chiuso nella prigione di Santa Margherita. Una sera, proprio nel punto in cui egli stava per coricarsi, il custode gli reca una lettera, e al tempo istesso gli annunzia la prossima visita del presidente del Comitato di sicurezza pubblica.
Giustizia di Dio! Se Dorotea Melazza fosse presente alla lettura di quello scritto, rimarrebbe pietrificata!
Teodoro non volle credere ai propri occhi!... Teodoro sorride... piange... digrigna i denti.... Quel foglio che esala profumi di rosa e di vaniglia, versa nell'anima del prigioniero la voluttà dell'amore e della vendetta! Dal tenore della lettera, immaginate quali strane sensazioni agitassero lo spirito del nostro eroe:
« Uomo ideale!
«Una donna, che, da oltre sette mesi, prende parte in segreto alle tue aspirazioni, a' tuoi dolori, a' tuoi trionfi; una donna che al pari di te ama la patria, e darebbe il suo sangue pel trionfo della causa nazionale, commossa di speranza e di terrore, osa dirigerti queste poche righe. Io non farò pompa di quelle frasi sentimentali che a te, uomo risoluto ed energico, potrebbero sembrare affettate, fors'anco ridicole. Io ti amo: ecco tutto. Io ti amo senza averti veduto mai; amo il tuo coraggio, la tua costanza, il tuo patriotismo, le tue avventure. Per me tu rappresenti l'indipendenza e la libertà dell'Italia; tu sei l'ideale degli eroi e dei martiri, il solo uomo che sia degno d'amore! Mi hanno detto che tu sei povero assai, povero come tutti i grandi che si immolarono alla causa della umanità. Ebbene, ho detto a me stessa: ciò che la patria non ha fatto a pro del suo campione valoroso, io lo posso e lo debbo fare. Io ti offro adunque le ricchezze che la fortuna mi ha prodigate; a me inutili, in tua mano diverranno istrumento dell'italiana indipendenza. Non oso offerirti la mia mano. Esser tua sposa sarebbe l'ideale della felicità.. ed io non spero che Iddio me la accordi... Nondimeno io saprei amarti, adorarti come una divinità! Io ti seguirei sul campo di battaglia; con te dividerei i pericoli, saprei morire al tuo fianco.... No... io non sono donna da porre ostacolo all'impeto battagliero di un eroe. Se mai un giorno lo sconforto ti sorprendesse, la mia voce, i miei consigli ti spronerebbero a nuovi cimenti!.. Oimè!... Dove mi traggono le mie illusioni fallaci? Teodoro, mio eroe, mio ideale, perdonami e compiangimi!
«Piazza Fontana N. 1229.
« Ortensia Rancati. »
Teodoro finiva di leggere per la terza volta lo scritto inebbriante, quando il presidente del Comitato di pubblica sicurezza entrò nella camera.
— Toglietemi da questa prigione! — gridò Teodoro gettandosi ai piedi dell'autorevole personaggio.
— Io venni appunto per liberarvi; a patto che cessiate una volta dall'adoperare la vostra influenza per suscitare disordini, e sopratutto vi guardiate dal parlare di repubblica.
— Vi giuro... che se riesco a vendicarmi...
— Vendicarvi! e di chi?
— Di quegli infami che mi hanno tradito! di Dorotea Melazza e di Giacomo Maneggia! —
Il presidente balzò indietro quattro passi, uscì dalla camera, e raccomandò al secondino di vigilare attentamente sul prigioniero.
«Quest'uomo è incorreggibile! — pensava il magistrato novizzo, scendendo dalle scale. — Che mai ha voluto intendere coi nomi di Dorotea Melazza e di Giacomo Maneggia? Ch'egli alludesse alla costituzione ed al Governo provvisorio!... Bisogna che io chiarisca questo nuovo imbroglio! La patria è in pericolo!»
Mentre il presidente del Comitato di pubblica sicurezza faceva i gradini a quattro a quattro, agitato da mille terrori, una donna di circa trentacinque anni entrava nel palazzo di Santa Margherita accompagnata da quattro membri del governo provvisorio: questa donna era Ortensia Rancati.
Portava un cappello alla calabrese ombreggiato da tre piume interminabili coi colori italiani. Vestiva un corsetto di velluto raccomandato ai fianchi da un cinto di pelle, dalla quale usciva il manico di un pugnale ornato di brillanti. La gonna di broccato rosso a grandi fiorami gialli scendeva fino alla caviglia, lasciando apparire uno stivaletto ungherese con due enormi speroni. Lo strano e capriccioso abbigliamento dava alle maschie abbrunite sembianze, alla colossale persona, l'aria virile delle antiche amazzoni. Ortensia Rancati era la personificazione di quel fanatismo, che pur troppo andò a sprecarsi in superfluità buffonesche o ridicole farse, e abbagliando il popolo colle fantasmagorie, lo fece immemore de' propri doveri, lo trascinò nell'abisso per un cammino di fiori. Ortensia Rancati aveva implorata ed ottenuta la liberazione dell'illustre prigioniero; ed ora veniva ella stessa per ridonargli la libertà, e per compiere una scena tragico-sentimentale, la cui conclusione doveva essere un matrimonio.
Il presidente del Comitato di pubblica sicurezza, scambiate poche parole cogli onorevoli membri del Governo provvisorio, accompagnò egli stesso l'amazzone fino alla prigione di Teodoro. Ordinò al secondino di aprire la porta, e già stava per entrare, quando Ortensia, con un gesto solenne, gli impose di arrestarsi... — Signore, — disse la donna levando il frustino e atteggiandosi come una pitonessa, — io sola debbo metter piede in quella stanza. Fra me e quell'uomo non può esservi altro testimonio che Iddio!
Ortensia entrò nella camera mentre Teodoro stava rileggendo la lettera misteriosa. Ella arrestossi presso la soglia, portò la mano allo stiletto, lo trasse dal fodero, e proruppe con voce maschia: — Sorgi, figliuolo della rivoluzione! vieni! io ti reco ciò che tu desideri, ciò che gli infami ti hanno tolto: un pugnale.... e la vendetta! —
Teodoro Dolci levò gli occhi... Il volto fiammeggiante della amazzone, lo strano abbigliamento, la voce rauca, le parole terribili, il pugnale sguainato, tutto gli fece credere che quel singolare personaggio fosse l'esecutore della giustizia incaricato di trucidarlo...!
— Pietà di uno sventurato! — gridò il nipote di don Dionigi coll'accento della disperazione, gettandosi ai piedi della donna e abbracciandone le gonnelle con tremito convulso.
Ortensia Rancati, in quel grido, in quell'impetuoso movimento, in quel tremito credette riconoscere un trasporto di passione. Teodoro Dolci, l'eroe del due gennaio, il martire di Robbiatello, avrebbe compreso la sublime devozione della donna che gli offre il proprio cuore e una rendita di venti mila franchi all'anno? Questo slancio eloquente di riconoscenza ed affetto non è forse la miglior risposta alla lettera di Ortensia?...
Trascorsero dieci minuti di sublime silenzio. Teodoro, più morto che vivo, la testa sprofondata nei ricchi drappi, recitava sotto voce l'atto di contrizione, invocando in suo soccorso tutti i santi del paradiso.
Ortensia, ritta, immobile, collo sguardo converso alla soffitta, d'una mano rimetteva il pugnale nella guaina, mentre coll'altra carezzava lievemente i capelli del genuflesso. Non mai la paura e l'amore si trovarono più strettamente abbracciati.
Ortensia fu la prima a rompere il silenzio.
— Sorgi, o figliuolo della rivoluzione! il tuo posto dovrebb'essere sugli altari, e a me spetterebbe il prostrarmi in adorazione a te dinanzi.
— Per pietà! non mi fate soffrire, — ripeteva Teodoro con voce soffocata. — Non prolungatemi l'agonia... Uccidetemi d'un solo colpo...
— Povero giovane! Quanta sensibilità! quanta tenerezza! Oh! io doveva aspettarmelo...! Tutti così, questi eroi! Sul campo di battaglia feroci come leoni; innanzi ad una donna titubanti e paurosi come scolaretti. Via! perchè tremi, o giovanotto? Solleva la testa, guardami in volto... Io non appartengo alla sfera di quelle donne volgari, il cui amore corrompe ed infiacchisce. L'amore che io ti porto raddoppierà le tue forze, la tua energia. Io soffierò potentemente sul braciere della tua anima ardente. Nell'ora del cimento io affilerò la tua spada; nell'ora del pericolo ti sarò a lato, per combattere e per morire. Sarò il tuo angelo e il tuo demonio: angelo sterminatore dei tiranni; demonio della rivoluzione. Vieni! Da ora in poi noi non formiamo che una sola persona. Uno solo è il cammino che ci si apre dinanzi... Questo cammino probabilmente deve condurci al patibolo... Ebbene! Dal palco di morte, sotto la mannaia del carnefice, noi canteremo osanna alla libertà, noi rideremo in faccia ai nostri carnefici. Il nostro ultimo accento sarà un cantico di gioia. —
Quando la donna ebbe finito, chinossi per sollevare da terra il nipote di don Dionigi; ma questi soggiacendo alla violenza della paura, dopo la crisi delle convulsioni, avea perduto i sensi e giaceva sul terreno come corpo morto.
I cronisti dell'epoca altro non riferiscono di quella scena interessante. Come Ortensia rianimasse la salma abbattuta, quali mezzi ella adoperasse a dissipare i terrori e i sospetti del giovane, tutto ciò è un segreto che la storia ha creduto bene di rispettare, e che noi pure rispetteremo.
Mille volte avventurati coloro che nelle crisi tempestose della vita hanno pronti gli svenimenti! Lo svenimento, benefico talvolta al pari del sonno, è una tregua, una calma riparatrice, da cui lo spirito attinge nuove forze. Il nipote di don Dionigi, che poco dianzi ha chiusi gli occhi al bagliore di un pugnale minaccioso, nel riaprirli è colpito da uno spettacolo curioso e giocondo: due spalle candide come l'alabastro, un seno ricolmo e tornito, che gli rammenta i tesori della perfida Dorotea, altre volte vagheggiati furtivamente. Nelle sembianze della donna che lo abbraccia e lo colma di baci incessanti, il nipote di don Dionigi trova una reminiscenza dolorosa... Il naso adunco, le folte sopracciglia e i baffi di Ortensia Rancati gli ricordano una visione tremenda, un sogno spaventoso: il boja, la mannaia, il pugnale... Ma lo spirito riposato a poco a poco riconosce il proprio inganno, e si ravvede. I baci, le carezze di una donna esercitano sulle fibre del giovanetto una influenza magnetica e salutare... Signori: non chiedete di più al romanziere; a quest'ora egli ha già oltrepassato i limiti della riservatezza.
Quando il presidente del Comitato di pubblica sicurezza ripose il piede nella stanza del prigioniero, Ortensia Rancati prese per mano il nipote di don Dionigi, e facendo un inchino all'onorevole magistrato: — Signore, — gli disse, — ho l'onore di presentarvi il mio fidanzato.. il mio sposo. In nome di quell'amore, di quel nodo indissolubile che già ci unisce innanzi a Dio, io vi chiedo la libertà di questo eroe, di questo martire della patria.
— Sono ben lieto di potervela accordare, — disse il magistrato inchinandosi alla sua volta. Il Governo provvisorio ha segnata l'amnistia per tutti i delitti di ribellione alla forza pubblica avvenuti il giorno 29. Signor Teodoro Dolci, voi potete, quando vi piaccia, uscire da questo luogo. — Il nipote di don Dionigi si avanzò verso il presidente per baciargli la mano. Fortunatamente la Rancati non si accorse di quell'atto, e prendendo con disinvoltura il braccio dell'eroe, lo trasse fuori della camera senza lasciargli tempo di proferire una sillaba.
Quella sera Teodoro scrisse una lettera a don Dionigi, pregandolo di recarsi a Milano per assistere alle nozze. Verso mezzanotte, mentre il giovane stava per coricarsi, una folla di popolo preceduta dalla banda musicale venne a felicitarlo, obbligandolo più volte a presentarsi al balcone fra le grida ripetute di — Viva l'eroe di piazza Fontana! Viva il morto di Robbiatello! Viva i repubblicani! Abbasso il Governo provvisorio!
Le stesse ovazioni, le stesse grida furono ripetute sotto le finestre della Rancati, la quale profittò della occasione per arringare il popolo, eccitandolo a scuotere il giogo dei nuovi tiranni, i tiranni del palazzo Marino.
CAPITOLO XI. Pane pei gonzi.
Le campane suonano a festa. Le contrade di Capizzone son pavesate di coperte e di lenzuoli; all'ingresso del villaggio, sotto un arco trionfale ornato di mirti, di edera e di fiori di papavero leggiadramente intrecciati, la banda musicale di Almenno strepita una marcia accanita. Il sindaco, il sagrestano, il beccamorto, spalleggiati dalla guardia cittadina, attendono l'arrivo di Teodoro Dolci, il quale in compagnia della sposa verrà a visitare la terra de' suoi padri! Il nipote di don Dionigi ha colto il frutto della sua celebrità, sposando quattrocento mila franchi, e una vedova grossa e nasuta come un elefante. Ortensia Rancati ha compiuto il capriccio della rivoluzione.
Presto! arme al braccio, signori militi della guardia nazionale! Presto! piva in becco e fiato alle trombe, signori musicanti di Almenno! Il corteggio nuziale si avanza. La vettura del Brunetto coronata di pampini e foglie di zucche procede maestosa verso l'arco trionfale.
Sul sagrato già tuonano i mortaletti... Due colpi di gran cassa preludiano all'inno guerriero; i suonatori ruggiscono dalle trombe; il popolo prorompe in urli di viva.
La vettura si avanza. Don Dionigi seduto in serpa, colle ali immense del cappello triangolare contende agli sguardi impazienti la vista degli sposi. — Abbasso il cappello! — gridano alcune voci. La guardia nazionale contiene a stento le ondate della folla... Il Brunetto, per avanzarsi presso l'arco trionfale, modera il pubblico entusiasmo, menando giù frustate a destra e a sinistra sul muso dei plaudenti.
— Silenzio! fine alla musica! — grida il sindaco, levando anch'egli il bastone sulle teste dei suonatori. — Ora tocca a noi... Or si deve leggere il discorso.
— Bravo! bene! il discorso!... — rispondono cento voci. Ma prima che l'oratore riesca a dominare quel baccano, gli conviene attendere una buona mezz'ora.
Frattanto il convoglio si arresta presso l'arco trionfale; e i contadini l'uno all'altro addossati fanno mille commenti intorno agli sposi.
— Qual è l'uomo, e quale la donna?
— L'uomo dev'essere il più grasso; non vedi che egli ha un paio di mustacchi da far invidia a un dragone?
— Teodoro non era tanto grasso quando partì dal paese.
— Io l'ho veduto ch'egli era lungo e giallo come una carota...
— La vita del campo sviluppa le forze, e fa bene alla salute.
— Qual è dunque la sposa?
— Non vedi? ella sta seduta a sinistra ravvolta nello scialle...
— Come? una donna col cappello a cilindro?
— A Milano ho veduto delle donne in calzoni, e perfino in abito da militare.
— Ma io ti dico che quello dello scialle è il signor Teodoro.
— E ti pare che l'altro col naso di peperone e quella barba da capretto possa esser la sposa?... Vedi... il sindaco si avvicina a lui per leggergli il discorso.
— Zitto una volta! sentiamo il discorso del sindaco... poi decideremo chi abbia torto o ragione.
«Illustre campione della patria! — comincia il sindaco, volgendosi alla signora Ortensia, la quale in abito da amazzone, con cappello a piume tricolori e due pistole alla cintola, copre col naso e colla persona lo sposo mingherlino.
«Illustre campione della patria! Al piedestallo della tua gloria tu vedi in oggi prostrati i tuoi concittadini, figli tutti di un paese, o dirò meglio borgo, che forse fra pochi anni potrà chiamarsi città...»
Don Dionigi, accorgendosi che il sindaco ha preso un equivoco, si crede in dovere di interromperne il discorso, e di invitarlo a passare dall'altra parte della carrozza ove siede Teodoro.
— Chi!... come! che! — esclama l'oratore dando indietro due passi; — non è dunque al signor Teodoro Dolci che io ebbi l'onore di indirizzare l'esordio del mio discorso?...
— Sì, buon uomo! — risponde l'amazzone dal cocchio; — parlando a me, voi parlate a Teodoro Dolci, a colui che può dirsi la realizzazione del mio ideale, quindi parte integrante di me. Io sono per così dire il complemento di Teodoro... Egli ed io formiamo una sola persona, della quale in avvenire io sarò il capo ed egli il braccio. Possa il connubio di due anime ugualmente infervorate di entusiasmo esser fecondo alla patria di gloriosi avvenimenti! —
«Qual è dunque il vero Teodoro? quale la sposa?» — chiede a sè stesso il sindaco di Capizzone, che mai non si è trovato in peggiore imbarazzo. Gli astanti dividono la perplessità e lo stupore del sindaco. Don Dionigi con occhiate e con gesti cerca di animare il nipote perchè si riveli a' suoi concittadini, e ponga termine ad una crisi che minaccia di compromettere la gravità della cerimonia.
Ma Ortensia Rancati non è donna da lasciarsi dominare dagli avvenimenti. Mentre Teodoro si leva per arringare la folla, la terribile amazzone, sviluppando tutta l'ampiezza del torace adiposo, e rotando la proboscide sul capo del timido marito, volge al sindaco ed ai circostanti il seguente discorso:
« Abitanti di Capizzone!
«Noi siamo vivamente commossi del nobile slancio, della fervida gara onde vi piacque onorarci in questo faustissimo giorno. Il vostro entusiasmo è proporzionato all'altezza dell'avvenimento; e noi attingiamo in esso nuovo coraggio a compiere la difficile missione che ci siamo imposti. Se molto abbiamo operato a vantaggio della causa comune, molto ancora ci rimane a fare. I nemici furono dispersi, non debellati... Mantova e Verona sono tuttora in potere dei Tedeschi. Noi promettiamo snidarli da quei covi e ricacciarli nelle nordiche selve. Quando la quistione dell'indipendenza sarà completamente risolta, allora con animo riposato e tranquillo attenderemo all'opera della riorganizzazione interna e delle riforme sociali. Promettiamo fin d'ora che il paese di Capizzone, questa nobile appendice delle Alpi, che diè vita ad una parte di noi, sarà oggetto di speciali sollecitudini per parte del governo. Perocchè non sempre al ministero ed al Parlamento sederanno uomini di corte vedute e di timida coscienza. A guerra finita, il popolo vorrà affidare a noi il timone della cosa pubblica, a noi, che col popolo abbiamo combattuto, a noi, che vogliamo il popolo libero e grande. L'accoglienza festosa che voi ci preparaste, o illustri figli di Capizzone, conferma le nostre speranze, la nostra fede nell'avvenire. Per ora sia nostra parola: Morte ai Tedeschi! Più tardi grideremo: Morte al ministero!... E se Iddio e la nazione elevassero noi alle supreme cariche dello stato, allora grideremo più forte: L'Italia è fatta!»
Un tuono di acclamazione prorompe dalla folla. Il sindaco, atterrito da tanta eloquenza, in luogo di ripigliare la sua arringa, ordina ai musicanti di dar fiato agli stromenti. Fra il ringhiar delle trombe, lo strepito dei plausi e gli spari dei mortaletti, il convoglio trionfale fece il giro del villaggio.
Quando Teodoro ed Ortensia discesero dalla vettura ed entrarono nella casa di don Dionigi, fu nella piazza gran tumulto di contese. Ad eccezione di Dorotea e d'altri pochi, gli abitanti di Capizzone non aveano riconosciuto qual dei due coniugi fosse il marito e quale la moglie.
— Che volete ch'io mi sappia? — rispondeva il sindaco alle incalzanti domande dei suoi paesani. — Quel grasso che ha parlato... quello dai baffi grigi... ha detto di esser lo sposo... del signor Teodoro. Don Dionigi pretende invece che il vero sposo sia l'altro... quel mingherlino che stava seduto.... Figliuoli, trattandosi di personaggi tanto alti, bisogna avere un po' di discrezione...! Domani sapremo tutto...! Frattanto se mi fosse lecito esternare una opinione, io direi che il grosso... quello dai mustacchi... mi va a genio più che l'altro.... Basta! o l'uno o l'altro fra pochi mesi sarà ministro, l'ha detto il grosso — e se mai il signor ministro dimenticasse le promesse che ci ha fatte dalla vettura, lasciate fare al vostro sindaco. Andrò a Torino quando meno mi aspettano, dirò all'uno dei due quel che va detto. E se mai volessero fare il bell'umore.... allora plunf! abbasso il ministero di Torino! Viva l'Italia unita!... e Capizzone capitale! —
Tre giorni dopo giunse a Capizzone la notizia che i Tedeschi erano entrati in Milano.
CONCLUSIONE MORALE.
La rivoluzione del 1848 fu feconda di eroi e di martiri generosi. Altri alle barricate di Milano, altri a Goito e Curtatone, altri allo Stelvio spesero santamente la vita per l'indipendenza d'Italia. Rientrati a Milano gli Austriaci, i superstiti valorosi seguirono l'armata di Carlo Alberto per agguerrirsi a nuovi cimenti, o spinti da impeto giovanile tentarono imprese più arrischiate che opportune. Quanti prodi caduti sul campo! Quanti generosi consunti dal dolore e dagli stenti sul cammino dell'esiglio! Ma le provincie italiane ad una ad una ricaddero nel servaggio, e vestirono il lutto per oltre dieci anni, l'occhio ed il cuore rivolti al Piemonte, unico asilo di libertà, unico faro di speranza.
Che avvenne del nostro eroe durante il tristo decennio? Teodoro Dolci, come abbiamo veduto, non era più padrone di sè medesimo.
Madonna Ortensia si impadronì del fantoccio rivoluzionario per spingerlo colla prepotenza della sua volontà nelle sfere più elevate della diplomazia; tentò valersi di un falso eroe per soddisfare alla propria ambizione. Ma i sogni di Ortensia non si realizzarono. Venti volte nel corso di dieci anni i coniugi Dolci mutarono programma politico per compiacere a questo o a quel partito, per conciliarsi le simpatie degli uomini più influenti sui destini d'Italia. Da una in altra città emigrando, oggi a Firenze, domani a Roma, più tardi a Parigi, di là a Torino, madonna Ortensia non trovò mai nè giustizia nè equità in nessun paese, presso nessun governo. All'eroe di piazza Fontana, all'agitatore del due gennaio, al morto di Robbiatello, al mazziniano di piazza San Fedele la patria sconoscente non volle accordare nè il grado di maresciallo, nè un portafoglio di ministro!
Dopo la battaglia di Magenta, i coniugi Dolci rientrarono nelle libere provincie di Lombardia. Madonna Ortensia si fece precedere da un proclama, ove con parole di colore scarlatto rammentava ai Lombardi in genere, ed ai Capizzonesi in ispecie, le gesta gloriose del marito e la nera ingratitudine del Governo piemontese. «Abitanti di Capizzone! (tali eran l'ultime parole del proclama), noi confidiamo nella vostra lealtà, nel vostro senno politico, nel caldo patriotismo che altre volte manifestaste a nostro riguardo... Noi non abbiamo dimenticate le nostre promesse; spetta a voi ricordare le vostre. Quanto prima si aduneranno i collegi elettorali... quanto prima sarete chiamati a scegliere colui che deve rappresentarvi al Parlamento, che deve tutelare i vostri interessi. Guardatevi dai raggiri di partigiani codardi... Non lasciatevi imporre dalle ignobili mene di chi vuol creare un Parlamento servile, ligio al dispotismo del ministero! Uomini generosi e indipendenti non mancano all'Italia... e voi li conoscete, o magnanimi figli di Capizzone! perchè nacquero tra voi... vissero tra voi... e resero già illustre il vostro paese. Chi vi parla di tal guisa, chi vi apre gli occhi sui pericoli e sulle insidie che vi circondano, è il martire del 1848, è l'eroe delle barricate che dopo dieci anni di crudo esiglio... ritorna in mezzo a voi senz'altra ambizione fuor quella di esservi utile e di rilevare dall'abiezione la patria vilipesa. Se il vostro voto mi chiama al Parlamento... io spero fra poco di poter realizzare i grandi disegni che già vi manifestai or fanno dieci anni, quando entrai solennemente in Capizzone.
« Teodoro Dolci. »
Credereste, lettori? Teodoro Dolci, malgrado l'irresistibile eloquenza del suo programma, non fu eletto deputato. Ortensia, attribuendo la mala riuscita di quest'ultimo attentato alle mene del partito ministeriale, si lanciò furiosamente nel campo dell'opposizione, combattendo tutti i ministri da Cavour a Ricasoli. Nel circolo degli Idrofobi, da lei recentemente istituito, ove convengono il martedì ed il sabato tutti gli indebitati a discutere di politica, la moglie di Teodoro Dolci predica contro i ministri, e giura che l'Italia non potrà mai esser libera completamente fino a quando le redini del governo non vengano affidate all'energico nipote di don Dionigi Quaglia.
Non ridete, o signori, delle strane pretese di madonna Ortensia. Quanti che oggi inveiscono contro la patria ingrata, e come cani rabbiosi mordono le calcagna agli uomini più benemeriti della nazione, furono, come il nostro Teodoro, eroi per caso e martiri della propria nullità!
FINE.
Il Diplomatico di Gorgonzola.
CAPITOLO I. Il ritorno del volontario.
«È il 15 settembre del 1859... Eccomi di bel nuovo a Milano! quale cangiamento! qual vita novella! quale agitazione! Tutti i volti son lieti, le fisonomie animate... Nelle strade si cammina più speditamente; si ciarla a voce alta, si grida, si canta, è una vera baldoria. Le speranze dei Milanesi furono esaudite; il voto di tanti anni è compiuto: i Tedeschi hanno fatto un bel passo innanzi verso il loro paese nativo. Un altro passo ancora, e buona notte per sempre!
«Le piazze e i caffè riboccano di soldati, le sciabole battono ancora il selciato e le muraglie; ma sono soldati amici, e il tintinnio delle armi che pochi mesi sono metteva il brivido addosso, ora è per tutti una musica gradita. Gli zuavi danno amicamente di braccio ai nostri barabba; i dragoni francesi cavalcano di pari passo co' nostri gentiluomini; le benefiche sartorelle non isdegnano di volgere un sorriso di buon augurio ai seguaci di Marte: esse che cinque mesi or sono torcevano lo sguardo dalle uniformi mormorando; brutt mòster! E le dame?... pazze per gli zuavi... pazze pei cacciatori di Vincennes, pazze pei corazzieri, pazze per le uniformi in genere! Oh davvero le dame si mostrano calde più che giammai... di amor patrio! Benedetto l'entusiasmo... della donna! non so se i mariti e i papà divideranno la mia opinione; se ciò non fosse, mi guarderei però dallo scagliare sovr'essi l'anatéma. Il signor Paolo d'Ivoy, corrispondente del Figaro parigino, scriveva che «a Milano le donne si mostrano riconoscentissime verso la Francia de' benefizj ricevuti, mentre gli uomini serbano un contegno fra l'indifferente e il sospettoso.» Questi uomini con cui il signor Paolo d'Ivoy ebbe a fare, probabilmente erano mariti.
«Inoltriamoci pel corso di porta Renza. Oh! veh l'amico Eugenio...»
— A prima giunta io non t'aveva riconosciuto!... Ma bene! ma bravo!... l'uniforme ti sta a meraviglia! A dir vero sei un po' dimagrato... ma pure la tua fisonomia è ringiovanita; la tua persona è più agile... più disinvolta. —
Eugenio mi abbraccia con trasporto, ma il suo contegno mi sembra alquanto imbarazzato; nelle sue parole non trovo l'entusiasmo del soldato, che, dopo aver combattuto pel suo paese, ritorna fra i suoi cari a dividere le gioie della libertà.
— Fui ferito a Solferino, — mi dice egli con un misto di orgoglio e di tristezza; solo da quattro giorni ho lasciato lo spedale...
— Ma, a quanto veggo, ora ti sei pienamente ristabilito... Tanto meglio! Sai tu che molti invidierebbero la tua sorte! Una ferita a Solferino, ecco un diploma onorevole che tu potrai mostrare con orgoglio per tutta la vita! —
Eugenio china il volto mestamente, e mormora a voce bassa: — Era meglio morire!
— Che razza di idee son queste? Morire!... So anch'io che sul campo di battaglia la morte è gloriosa; ma una ferita, credilo a me, è del pari onorevole.
Io tento colla celia di diradare la tristezza dell'amico; ma questi, insensibile ad ogni parola di conforto, mi risponde a monosillabi.
Mi conviene cangiar tono. — Eugenio, — gli dico, dandogli di braccio e traendolo meco verso la via del Durino; — tu hai nell'anima qualche grave cordoglio; perchè non ti confidi al tuo vecchio amico? Chi sa! forse io ti potrei giovare o d'opera o di consiglio! —
Eugenio si ostina a tacere; io prego, insisto, minaccio d'andare in collera; infine, vinto dalle mie preghiere, egli si risolve a confidarmi le sue pene.
— Ho paura che tu rida... di me! tu ridi di tutto....
— Ma non di tutti, — gli rispondo. — Però vorrei che le tue sciagure fossero tali da farmi ridere...
— Sono innamorato!
— Ottimamente!
— Tu cominci a ridere....
— Perchè l'amore è un male a cui facilmente si rimedia. Ma presto, veniamo al fatto: Gli amori di un volontario! ecco un tema da romanzo che i generosi editori milanesi, stante il prestigio dell' attualità, mi pagherebbero due soldi per pagina!
— Tu devi sapere che nell'ottobre passato io mi recai a villeggiare in un paesello a poche miglia da Gorgonzola....
— Gorgonzola! mio caro amico, io prevedo che le tue saranno disgrazie da ridere. Ti par egli che in un paese chiamato Gorgonzola possano accadere degli avvenimenti serii? Tanto meglio: faremo un romanzo umoristico.
— Eppure a Gorgonzola io ho veduto un angelo di bellezza, a Gorgonzola io mi sono innamorato, a Gorgonzola mi sarei ammogliato, se, durante la guerra, alcuni genii perversi, profittando della mia lontananza, non avessero distrutto il bell'avvenire di felicità ch'io mi aveva sognato. —
Il povero Eugenio proferisce queste parole d'un tono sì lamentevole, la sua bella fisonomia siffattamente si decompone, che io non ho più il coraggio di sorridere; io mi metto ad ascoltarlo colla serietà d'un medico consulente.
— La località ove accaddero le mie sciagure, e la professione d'uno de' principali personaggi da cui queste derivano, non sono, a dir vero, le cose più poetiche del dramma. Il padre della mia fanciulla è un tal Egidio Lanfranconi, ricco proprietario dì cascine e commerciante in formaggi. Egli possiede in Gorgonzola una casa magnifica, e mena comoda vita in compagnia di una sua sorella nubile, mediocremente brutta, e d'una figlia... d'anni diciotto, la più bella, la più poetica, la più cara creatura che io mi abbia veduta.
— Tu fosti ammesso nella casa del signor Lanfranconi, hai chiusi gli occhi sulle bellezze della figlia di diciott'anni, e ti sei innamorato della sorella nubile. Davvero sarebbe una grande disgrazia!
— La disgrazia fu maggiore: ho amata la figlia....
— Ed hai destate le gelosie della sorella...'?
— Ma no. La figlia mi ha corrisposto coll'amore il più ardente, il più appassionato. Io la chiesi in isposa al signor Lanfranconi, ed egli, colla piena adesione di sua sorella, me l'accordò. Le nozze dovevano effettuarsi lo scorso carnovale. Mio padre, tutti i miei erano contentissimi d'una tale unione; perchè Ifigenia (tale è il nome della fanciulla), oltre alla bellezza ed alla onestà, possiede una dote di lire dugentomila. A quest'ultimo accessorio, te lo giuro, io non dava importanza veruna; l'avrei sposata anche povera affatto, tanto io l'amava. Passai il mese di novembre e dicembre a Milano. Io attendeva con impazienza il dì delle nozze, quando, in sul principio del carnovale, corsero i primi rumori di guerra. Le parole dette da Napoleone all'ambasciatore austriaco la prima sera dell'anno, eccitarono improvviso fermento nella gioventù milanese: in que' giorni non si parlava che di rivoluzione e di prossima guerra. Puoi immaginarti qual fosse il mio animo allora...! Pensare alle nozze nel momento in cui tutta la gioventù italiana era commossa dall'entusiasmo di patria, parevami ridicolo... Temetti che i miei conoscenti, i miei amici potessero burlarsi di me, del mio amore, della mia risoluzione inopportuna. Differire le nozze e attendere gli avvenimenti mi parve ottimo consiglio. Mi recai difatto presso il signor Lanfranconi, gli palesai i miei dubbi, ed egli approvò la mia condotta. Ifigenia parve dapprima alquanto malcontenta del dovere attendere, ma io, che primo le aveva parlato d'amore, fui anche primo a parlarle di patria... e vidi con infinita compiacenza com'ella assai bene mi comprendesse. Crederesti? quando verso la metà del febbraio la gioventù lombarda cominciò ad emigrare per correre tra le file dell'esercito piemontese, la brava figliuola mi animò ella stessa a seguire l'esempio dei generosi. Oh come un tal atto la rese più cara al mio cuore! come sublime è l'amore, quando ad esso è congiunto l'eroismo del sacrifizio! Quando io mi recai per dirle addio, ella non versò una lacrima. Mi donò una coccarda e una piccola treccia de' suoi capelli; mi pregò li portassi sempre sul petto. «Le nostre nozze, — diss'ella, — saranno più gioconde allorchè il paese sarà libero; ed io sarò doppiamente orgogliosa di passeggiare al tuo braccio, quando vestirai la divisa del soldato italiano.» Ciò ella diceva con entusiasmo incredibile in fanciulla di diciotto anni. Il padre, in udire quelle calde parole, si asciugò due grosse lacrime di tenerezza, e stringendomi la mano: «a rivederci presto! — mi disse, — spero tornerete colle spalline.» «Poco m'importa delle spalline, — soggiunse Ifigenia, — il semplice soldato non è da meno del capitano, quando entrambi combattono pel santo scopo di liberare la patria.» Partii coll'animo commosso; e all'indomani con altri miei compagni mi trovai al di là del Ticino a salutare ancora una volta il vessillo tricolore. La fortuna mi fu seconda; io fui ammesso nel corpo dei cavalleggeri, corpo che, come sai, prese parte alle principali battaglie. Ifigenia mi scriveva ogni due giorni, e le sue lettere erano piene di amore, di generose esortazioni. Puoi immaginarti con qual animo io corressi al combattimento; quanto entusiasmo nella prima vittoria; quanta gioia in vedere che il nemico perdeva ogni giorno terreno, incalzato dal valore dei nostri! Ai fatti di Montebello e di Palestro successe la battaglia di Magenta. Gli Austriaci non rinvennero altro scampo fuorchè abbandonare la Lombardia e concentrarsi nel quadrilatero... Milano era libera... noi marciavamo trionfanti di villaggio in villaggio... salutati, acclamati dalle popolazioni redente. Io sperava di metter piede in Milano; io pregustava la gioia di riabbracciare Ifigenia... di mostrarmi a lei colla onorata divisa, di narrarle i piccoli episodi delle mie imprese guerresche, di vederla arrossire, tremare di amore e d'entusiasmo. Sventuratamente le mie speranze andarono fallite: il mio reggimento prese altra direzione. Le scrissi da Brescia una lunga lettera: ella mi rispose col suo stile consueto; ma appena trascorse poche settimane, notai che le sue lettere giungevano meno frequenti, e bene spesso non contenevano che poche linee più gentili che affettuose. Non più l'abbondanza espansiva d'un'anima innamorata; non le frasi sconnesse ma eloquenti di chi scrive per impulso d'affetto. Dopo la battaglia di Solferino, quand'io mi giaceva all'ospedale ferito... quando, circondato dalla desolazione e dalla morte, più che giammai io sentiva il bisogno d'una persona amica, Ifigenia cessò di scrivermi! —
Eugenio interrompe la sua narrazione, si strappa il berretto, e stende il braccio verso il cielo, accompagnando il gesto d'una imprecazione.
L'ingenuo dolore dell'amico mi commove le fibbre. Povero Eugenio! Qual terribile disinganno per un giovane innamorato: tornare al proprio paese dopo sei mesi impiegati al servizio della patria, sei mesi di combattimenti, di pericoli, di dolori, e raccogliere per mercede l'indifferenza e l'abbandono. «Oh la donna! — grido io nell'eccesso della commozione: — essere volubile e capriccioso! creatura disleale ed ingrata!»
Ma l'amico tronca a mezzo le mie furibonde invettive. Io mi accorgo ch'egli è troppo innamorato per sopportare un oltraggio contro il sesso femminino.
— No!... essa non è colpevole, la povera figliuola. Ella è vittima d'un padre imbecille che si lasciò abbindolare dalle cabale di due furfanti.
— Ella ti ama tuttavia? Perchè dunque ti disperi? perchè imprechi al destino? Un padre imbecille, raggirato da due furfanti, è il solo ostacolo che si oppone alla tua felicità? Amico, quando la donna sta con noi e per noi, la è causa guadagnata.
— Ascolta il seguito della istoria. Puoi immaginare se, appena uscito dallo spedale, io corsi tosto a Gorgonzola per rivedere Ifigenia, per rimproverarle la sua ingratitudine, per chiederle ragione della troncata corrispondenza. Entrai, verso le nove del mattino, in casa del signor Lanfranconi... Io tremava, sudava... il mio cuore pareva sul punto di scoppiare. Precipito nell'anticamera; nessuno. Sono dunque tutti morti? mi faccio a gridare con voce tonante: Chi è di là? Giorgione! Anastasia! — Silenzio. Scorsi parecchi minuti, ecco apparire due figure da servitore: un uomo ed una donna, veri ceffi da galera. È in casa il signor Lanfranconi? domando io. I due domestici mi guardano dall'alto in basso. — Io domando parlare al signor Lanfranconi, ripeto. Allora la donna: «il signor presidente è occupato a redigere il discorso per l'inaugurazione della società democratica-italo-latina, e non credo vorrà incomodarsi per parlare ad un soldato.» «Presidente! rifletto io... Che il signor Lanfranconi abbia mutato di casa...! Infatti questi non sono i suoi vecchi domestici: sul tavolo dell'anticamera veggo un cumulo di giornali e di opuscoli politici... Un fabbricatore di stracchini non può essere il fondatore, di un circolo politico!» Mentre io mi abbandono a siffatte considerazioni, la porta della sala si apre, ed ecco apparire un uomo abbigliato di nero, in cravatta bianca e guanti bianchi. All'occhiello del suo soprabito fiorisce una immensa coccarda tricolore. Sotto il braccio egli stringe un fascio di carte; tiene in pugno quattro o cinque giornali. A prima giunta io credo esser dinanzi ad un ministro di stato o ad un consigliere in caricatura. I due domestici si inchinano profondamente. Io esito alquanto... lo guardo... lo esamino attentamente. È ben desso! Il fabbricatore di stracchini! In vedermi, il signor Lanfranconi sembrò alquanto imbarazzato, ma ricomponendosi tosto ad una serietà dottorale che lo rendeva grottesco, «signor Eugenio, — mi disse, — godo vedervi in buono stato di salute. Pare che il mestiere del soldato vi convenga! Bravo giovinotto! In che posso servirvi?» «In che potete servirmi? — risposi tosto dando libero sfogo alla indignazione, — in che potete servirmi? Che razza di linguaggio è codesto? Io sono venuto per rivedere Ifigenia, per rammentare a lei ed a voi una sacra promessa, per raccogliere la sola mercede a cui credevo aver diritto, dopo i tanti dolori sofferti, dopo tanti sacrifizi.» «Mercede! — risponde il signor Lanfranconi, — mio bravo giovinotto, non ista bene parlar di mercede a chi ha combattuto per la causa comune. Voi prendeste le armi per redimere la patria; la patria è redenta, ecco la vostra mercede.» «Ma Ifigenia! ma le promesse...?» «Figliuolo! I tempi (non è duopo ch'io vel dica) sono cangiati. Sei mesi di guerra, di lotte politiche, hanno rinnovata la faccia dell'Europa. Gli avvenimenti corrono e si succedono con tale rapidità che oggi non è possibile prevedere il dimani. Figliuolo, io vi consiglio di rinunziare ad Ifigenia. Mia figlia... non può più appartenervi. Ella è promessa ad un altro.» A tali parole la mia ira non ebbe più freno; proruppi in minaccie, in imprecazioni sì violente, che l'antico fabbricatore di stracchini ne rimase sgomentato. Ifigenia udì la mia voce; ella accorse nell'anticamera; appena mi vide, si fe' pallida in volto, tremò, tentò invano di proferir parola. «Ifigenia, — le dissi, mitigando il tono della voce, — è dunque vero quanto ho inteso dalla bocca di tuo padre? E tu consentiresti all'amore di un altro, mentre pochi mesi fa avevi giurato d'essermi sposa?» Io m'accorsi che una lotta tremenda si agitava nel cuore della fanciulla; nei suoi sguardi era dipinta l'angoscia. «Eugenio, — mi disse, — io non sono libera della mia volontà... io posso disporre del mio cuore, non della mia mano.» E la voce le si ruppe in un singhiozzo. A tal vista il signor Lanfranconi aggrottò le sopracciglia, e con un gesto da presidente intimò ad Ifigenia di allontanarsi. Quella scena più che afflitto mi aveva istupidito. Quand'io mi riscossi, m'accorsi che tutti erano usciti, e m'avean lasciato là come un cane, come un mendicante!
— E tu te ne sei andato! e in luogo di ricorrere alla strategia amorosa, con cui d'ordinario si vince ogni battaglia di tal genere, partisti da Gorgonzola declamando la tua passione agli astri della notte! Tu sei timido come un soldato! Tutti dell'ugual pasta, voi seguaci di Marte! Sul campo di battaglia arditi come leoni; in faccia ad una donna, o ad un imbecille borghese, mansueti e tremanti come agnelletti!
— Che vuoi? l'eccesso del dolore qualche volta istupidisce. Io uscii infatti dalla casa del signor Lanfranconi svolgendo nell'anima disperati progetti. E nondimeno io non sapevo risolvermi a lasciare quel paese, e mi aggiravo come un matto per le strade più solitarie, usciva fuori all'aperta campagna, poi mi riavvicinava all'abitazione della mia fidanzata, sperando vederla, o incontrarla, o ricevere da lei qualche messaggio segreto. Passeggiando incontrai l'antica cameriera di Ifigenia; ella mi salutò con affettuose parole, poi mi narrò d'essere stata licenziata dal signor Lanfranconi dopo vent'anni di servizio. «Oh! io vi giuro che quel povero uomo non ci ha colpa, — mi diceva la buona vecchia colle lagrime agli occhi, — non è lui che commette di tali ingiustizie... sono i due birbaccioni matricolati ch'ei si tiene d'attorno... due furbi che finiranno col rovinarlo. Figuratevi che gli hanno messo in capo un cumulo tale di sciocchezze, l'hanno sì bene abbindolato colle loro parolone, ch'egli non è più libero di mettere una busca al fuoco senza averli prima consultati. Se sapeste quanto ha pianto la povera padroncina! Ella non può vederli que' due ceffi da pianta-carote, ed il padre pretende ad ogni costo ch'ella scelga l'un d'essi per marito.» Queste ed altre notizie io raccolsi dalla buona vecchia. La certezza che Ifigenia non aveva cessato di pensare a me durante la mia assenza, mi riuscì di non leggiero conforto. Ma come rivederla? in qual modo scongiurare l'ostinazione del padre? Con qual animo presentarmi di bel nuovo nella casa dove era stato accolto in sì mala guisa, dove io aveva subito la più grande delle umiliazioni? Eccoti il pensiero che mi tormenta da più giorni! Eccoti l'idea terribile che mi logora il cervello, il male a cui non trovo rimedio!
— Il rimedio è trovato, mio buon Eugenio.
— Tu dici...?
— Dico che non più tardi di domani tu entrerai nella casa del signor Lanfranconi: dico che fra tre giorni Ifigenia sarà di bel nuovo la tua fidanzata, e fra un mese tua sposa!
Gli occhi di Eugenio sfavillano. Io gli ho parlato coll'accento della convinzione, e l'anima sua giovanile si riapre alla speranza.
— Ma come? in qual guisa credi tu riuscire...?
— Non occorre tu il sappia; mentre tu narravi la tua odissèa, io studiavo le forze nemiche, e meditavo il piano di battaglia. Credilo, amico, la vittoria è per noi. Abbiamo a combattere un imbecille, il signor Lanfranconi; due furbi, e già immagino a qual specie essi appartengano. La vecchia Anastasia a maraviglia li ha designati col titolo di pianta-carote. Pianta-carote! ecco una parola che per me equivale ad un poema! Oh! io li conosco per bene codesti messeri! La rivoluzione del 1848 ne produsse a migliaia; non è a far le meraviglie che la guerra del 1859 ne generi altrettanti. Esseri parassiti che nell'ora del pericolo fuggono o rimangono celati, nel giorno della vittoria svolazzano sul campo seminato di cadaveri per dividersi le spoglie dei vinti e la gloria dei vincitori. E sai tu come costoro riescano all'intento? L'uno assume la maschera del martire, del cospiratore, dell'antico emigrato, del prigioniero politico; un altro si fa banditore di sonori proclami, propugnatore di un liberalismo condiscendente, e adesca di tal guisa le sciocche moltitudini. Credilo, Eugenio, i due furbi che noi abbiamo a combattere sono, per certo, animali di tal specie. Oh! noi sapremo smascherarli, te lo giuro. Sarebbe delitto il permettere che la tua Ifigenia cadesse nell'unghie di codesti ciurmatori! Ella sarebbe perduta! —
Eugenio mi stringe la mano con entusiasmo; io godo d'aver trasfuso in lui la speranza e la gioia; e per non dargli tempo di ricadere nella tristezza, mi propongo di accompagnarlo immediatamente a Gorgonzola, e di ricondurlo fra le braccia della sua fidanzata. A un innamorato di venticinque anni, a un innamorato che poco dianzi stava per lanciarsi nel navilio, poteva io fare una migliore proposta? Un'ora dopo noi partivamo per Gorgonzola.
CAPITOLO II. La vittima.
Il viaggio da Milano a Gorgonzola tanto a me che all'amico Eugenio parve brevissimo. Io meditavo il mio piano di attacco; l'amico si beava nei sogni d'amore: entrambi in apparenza muti, sebbene un dialogo animatissimo succedesse ne' nostri cervelli fra i varii personaggi o immaginati o evocati dalla nostra fantasia.
Entrammo in Gorgonzola ad un'ora di notte. Raccomandate all'oste le magre rozze che colà ci avevano trascinato, noi ci avviammo verso la casa del signor Lanfranconi.
A un tratto due colpi di gran cassa, e l'accordo straziante di un bombardone e di quattro clarini ci ferisce l'orecchio. — Che diavolo vuol dire questa musica? — È la banda del paese, — risponde un dabben uomo che camminava a piè pari; — questa sera ha luogo una grande serenata sotto le finestre del signor Lanfranconi, il quale fu eletto capitano della guardia nazionale. Vedete? la casa è illuminata, la folla si aduna; senza dubbio vi saranno dei discorsi. —
«Tanto meglio! — esclamo io, — una tale circostanza è favorevolissima ai nostri disegni.»
Ecco infatti la casa del signor Lanfranconi: la folla è tanto compatta che io e l'amico Eugenio stimiamo prudenza l'arrestarci a trenta passi di distanza. I piedi e, meglio che i piedi, le scarpe ferrate dei villici mi incutono rispetto più che non le manovre di un uffiziale della guardia civica, il quale, per mantenere l'ordine, rincalza a spintoni i curiosi insubordinati. Eugenio si apposta dietro un albero, e par che col guardo pretenda magnetizzare le finestre. Frattanto la gran cassa e i bombardoni destano tutti gli echi delle montagne di Bergamo; le case oscillano come per terremoto; io porto le mani alle tempia per difenderle da quell'assalto violento di note: e nondimeno, al cessare dello strepito, batto le mani con trasporto onde conciliarmi le simpatie degli astanti. — Eh! non ci sono tutti, — mi dice un vicino, — se la banda fosse completa.... «A quest'ora sarei sordo, rispondo mentalmente.»
Ma il chiasso non è finito. Al fragore degli strumenti succede il baccano delle voci umane.
— Viva il signor presidente!
— Viva!
— Viva il signor Lanfranconi!
— Viva!
— Viva il capitano della guardia nazionale!
— Viva!
— Viva il protettore della società democratica-italo-latina!
— Viva!
— Fuori! Al balcone! Viva!!! —
Le grida raddoppiano, l'impazienza della folla assume un carattere minaccioso. È tempo di cedere al pubblico entusiasmo.
Le imposte del balcone si aprono, ed il signor Lanfranconi preceduto da due figuri con la torcia alla mano, presenta finalmente il suo rispettabile individuo.
— È desso! — mormora Eugenio. — E quell'altra che ora comparisce è la sorella nubile... Là in fondo, non ti par di vedere un'altra donna...?
— È uno zuavo...! — rispondo io.
— E chi saranno quei due figuri che portano la torcia?
Senza dubbio i tuoi rivali; l'incarico che stasera si sono assunti, mi è di buon augurio.
Queste parole io scambio coll'amico, mentre la folla muggisce. Frattanto il signor Lanfranconi, vestito della completa uniforme da capitano, risponde agitando il fazzoletto bianco alle dimostrazioni popolari, e straluna gli occhi come un buffo comico.
Uno de' miei vicini mormora a mezza voce: — oggi soltanto l'hanno nominato, ed eccolo completamente vestito colla uniforme del grado! Comincio a credere ch'egli l'avesse già in pronto.
— Eh! conosciamo ben altri che s'erano preparati l'uniforme, — risponde dalla folla una voce.
— Silenzio! — gridano ad un punto cento gole. Il primo che aveva mormorato si allontana quatto quatto, e va a celarsi nell'ombre.
Il signor Lanfranconi accenna colla mano alla moltitudine di moderare i suoi trasporti di entusiasmo; i due, che portano il cero, ripetono lo stesso gesto; al baccano succede un silenzio solenne.
Il presidente della società democratica-italo-latina, rassicurato da quella calma, apre la bocca per proferire un discorso; ma non appena egli ha lanciate le prime parole: valorosi concittadini... nuove grida di entusiasmo lo interrompono. — Viva! bravo! — Silenzio! — urlano di bel nuovo gli astanti. Il signor Lanfranconi sorride, straluna gli occhi, improvvisa varie smorfie, si inchina. La gioia di quel primo trionfo gli irradia la faccia.
— Valorosi concittadini, — ripetè egli dopo un lungo intervallo di attesa. — Valorosi concittadini... — Ma a queste parole eloquentissime la folla prorompe a nuove acclamazioni.
Tre volte l'oratore riprende l'esordio, tre volte viene interrotto dagli applausi. «Sì pronti e sì efficaci trionfi, — pensavo io, — ottiene la parola, quando i cuori bollono di entusiasmo, quando il popolo, commosso da generosi affetti, non attende che un breve impulso per correre a grandi imprese, per sacrificarsi ad una santa aspirazione. Guai a chi non profitta di tali entusiasmi!»
Sventuratamente il signor Lanfranconi non aveva che l'eloquenza delle intenzioni. Il discorso ch'ei doveva recitare era stato redatto da' suoi segretari; era un impasto di frasi comuni, vuote di senso, sterili di affetto; insomma, uno di que' discorsi che paiono sublimi ai.... citrulli.
« Valorosi concittadini!
«Austria è sconfitta, ma non domata; Lombardia ride, Venezia piange, Toscana si redime, Bologna ci stende la mano, Roma freme, Napoli attende. Su dunque, o valorosi! Armiamoci dall'unghie ai capelli; la lotta non è finita; al primo grido d'allarme fate che il nemico ci trovi tutti al nostro posto! Dio è con noi... Inghilterra è per noi, Francia lascia fare... Spagna è minacciata dal Marocco, China dà a pensare alle potenze, Russia attende al Caucaso, Turchia vacilla, Prussia ha dolori intestini, Ungheria si prepara, Russia aspetta. Valorosi cittadini: profittiamo della occasione. Quanto a me, chiamato dall'onorevole incarico di capitanare le file dell'armata cittadina, morrò con voi e per voi nell'ora del cimento. Sia un solo il nostro grido: Viva la razza italo-latina!»
Quest'ultime parole non sono troppo ben comprese dalla folla. Nondimeno, poichè ha cessato di parlare, l'oratore è di nuovo acclamato dalla moltitudine.
— So con qual uomo abbiamo a fare — dico io ad Eugenio. — Ora mi pare che l'uno de' suoi segretari voglia prendere la parola. Ascoltiamo anche costui; a me basteranno poche frasi per conoscere la forza del nemico. —
Il nuovo oratore senza scomporsi della persona scioglie la voce di tal guisa:
«Il grave e lento sviluppo della letteratura germanica, la civiltà del nord meditata e guardinga, con sintesi procedente, non clamorosa ma schietta, non balda ma fidente, matura in segreto i provvidenziali destini dell'Europa tutta; non accelera ma conferma, non spinge ma assoda il progresso delle generazioni avvenire. Meditando la dotta Alemagna, svolgendo le pagine di quegli operosi ma prudenti elaboratori del pensiero, io sento vie più assicurate le sorti del bel paese, che Apennin parte e il mar circonda e l'Alpe; e grido: Viva tutta la famiglia dell'Europa civilizzata! Viva la sapienza civile che informa la nuova êra dei popoli!»
La folla ripete il Viva, ma con voci già languide e fiacche. La monotona cantilena dell'oratore ha agghiacciato l'entusiasmo del pubblico.
— Anche quest'altro s'è dato a conoscere, — mormorai di bel nuovo all'orecchio dell'amico. — Ora ascoltiamo l'ultimo.
«Cittadini! Dallo Spilbergo, dalle carceri di Josephstadt, dall'eculeo, sui gradini del patibolo, sulle vie tribolate dell'esiglio, torturato, battuto, straziato, lacero nelle vesti, affranto dalle catene, io non ebbi, non ho e non avrò che un solo grido: Morte ai tiranni! morte ai nemici della libertà! Morte ai ladri! Morte agli assassini! Morte! Morte!... e dannazione!»
— Morte! Morte! — rispondono alcune voci. Ma un colpo di gran cassa e lo squillo dei bombardoni ridestano ne' cuori l'ilarità perduta; gli oratori si ritirano dal balcone, le faci si spengono, si chiudono l'invetriate: la guardia civica e i suonatori si allontanano seguíti dalla folla, che seconda la musica con cantici lieti.
— Ora a noi, signor Lanfranconi!
— Povera Ifigenia! — esclama Eugenio. — Ella non s'è lasciata vedere.... Ella non prese veruna parte alla cerimonia. Senza dubbio la poveretta è rimasta in qualche angolo solitario della casa a piangere in segreto la dabbenaggine del padre.
— Ciò che ella pensi saprò fra pochi minuti. Tu, mio buon amico, vattene all'albergo e mettiti a letto; domattina verrò a svegliarti, e ti condurrò fra le braccia della tua fidanzata.
— Che? tu non vieni con me all'albergo?
— Io dormirò questa notte in casa del signor Lanfranconi. Io amo andar per le spiccie nelle faccende mie.
— Ma come?... in qual modo?...
— Lasciane a me la cura.
Eugenio si allontana di alcuni passi, poi si volge per vedere se io mandi ad effetto il mio disegno. Vedendomi entrare a passo di carica nella casa della sua fidanzata, che a lui pareva una fortezza inaccessibile, il mio povero amico rimane pietrificato dallo stupore.
Io salgo le scale, penetro nella anticamera, e scuoto a gran forza il cordone del campanello.
Un servo viene ad aprirmi.
— Il presidente della società democratica-italo-latina, capitano della guardia nazionale, eccetera, eccetera, signor Egidio Lanfranconi, è egli visibile?
— Signore, — risponde il domestico, — il mio onorevole padrone si è recato in giardino, ove stassera ha luogo una cena.
— Tanto meglio! richiamalo tosto, e digli che una persona giunta testè da Pietroburgo deve parlargli di un importantissimo affare. — Così parlando, io entro nella sala, e mi getto sovra un divano.
— E non potrebbe la signoria vostra tornare domattina?...
— E tu credi, o imbecille, che un uomo il quale giunge dalla Russia, incaricato di una segreta missione, possa aspettare i comodi altrui? Questa sera istessa io debbo spedire un dispaccio telegrafico al signor Gorciacoff primo ministro, il quale, mentre io sto qui parlandoti, passeggia forse nel suo gabinetto, attendendo la risposta del signor Lanfranconi. E questa risposta dev'essere comunicata prima di mezzanotte all'imperatore; e prima che l'alba sorga, il mio dispaccio avrà fatto il giro dei principali gabinetti d'Europa!... Imbecille! —
Il servo si inchina profondamente e si affretta a portare l'ambasciata. Pochi minuti dopo, il signor Lanfranconi entra nella sala borbottando: «Qui certo v'è un malinteso. Che diavolo mi parli tu, imbecille, di Russia e di gabinetti?»
— Signor presidente della società democratica-italo-latina, — dico io con aria di mistero, — vorrei parlarvi da solo a solo. Favorite di licenziare il vostro domestico. —
A un cenno del signor Lanfranconi, il servo si ritira.
— Perdonate, o signore, se il desiderio vivissimo di conoscere davvicino un uomo pel quale nutro la più grande ammirazione, mi fece ricorrere ad uno stratagemma forse un po' bizzarro. Io non sono venuto per recarvi i dispacci del gabinetto russo, come poco dianzi ho annunziato al vostro domestico; sibbene per stringervi la mano e per manifestarvi quei sentimenti di stima...
— Che?... Voi dunque assumeste un carattere diplomatico al solo scopo di entrare nella mia casa e di....
— E di ossequiare il grande politico, da cui dipendono i destini dell'Italia tutta, fors'anco i destini d'Europa. —
La fisonomia del signor Lanfranconi comincia a rasserenarsi. Egli era entrato nella sala con un cipiglio da dannato; ma le nubi della sua fronte si diradano, il suo labbro si atteggia ad un gentile sorriso.
— A dir vero... io non meritava tanto onore.,.. Se in cosa veruna ho contribuito al bene del paese, ciò deve ascriversi piuttosto alla mia posizione che mi dà i mezzi... di fare qualche sacrificio, anzichè...
— Signore: vi hanno persone che potrebbero fare assai più di voi quanto ai mezzi di fortuna, eppure non fanno. Voi avete istituita una società democratica-italo-latina, a cui un giorno tutta l'Italia andrà debitrice della sua redenzione. Non aveva torto il signor Gorciacoff, allorchè parlandomi di voi a Pietroburgo...,
— Che? voi parlaste col signor Gorciacoff?... Voi davvero venite da Pietroburgo? favorite di sedere...
— No... no... signor presidente; per voi i minuti sono preziosi; io non voglio intrattenervi più a lungo... Ringrazio la sorte d'avermi accordato il favore della vostra vista. Ora, se mai tornerò a Pietroburgo, potrò dire al signor Gorciacoff e a quanti già fecero le meraviglie perchè io non conoscessi il più dotto politico d'Italia, che non solo ho veduto, ma ho udito parlare il signor Lanfranconi, sono entrato nella sua casa, e ho stretta la mano, che potrebbe con un tratto di penna mutare le sorti dell'Europa.
Ciò detto, io m'inchino profondamente e muovo per andarmene; ma il signor Lanfranconi mi afferra per un braccio e mi obbliga a rimanere.
— Signore... io non permetto che voi partiate in tal guisa... Un bicchiere di vino... una tazza di caffè... un punch! Vi prego di sedere un momento....
— Poichè voi... desiderate...
— Non solo desidero, ma pretendo.... Dalla mia casa non è mai uscito verun galantuomo senza prima aver gustato il mio barbéra...
— Signore! qual degnazione da parte vostra!... Ma non è a far le maraviglie... Il conte Valeschi a Parigi nelle sale della marchesa Orleanoff ha detto che l'Italia non possiede che un solo vero democratico... e quello siete voi. —
Il signor Lanfranconi ha gli occhi scintillanti. Mentre io stempero la mia eloquenza in complimenti di tal genere, il servo reca due bottiglie, e subito si allontana per cenno del padrone.
— È strano che in Russia, in Inghilterra e in Francia sia noto il mio nome, — dice il dabben uomo riempiendomi il bicchiere. — Che ho fatto io per procacciarmi tanta fama? Non sono uscito mai da Gorgonzola... Le mie idee politiche sono subordinate alla volontà di pochi buoni amici che onorano la mia casa della loro presenza... Nel circolo da me istituito non parlai che due volte... e non credo aver proferite più di venti parole....
— Venti parole del signor Lanfranconi valgono assai più che non venti volumi di codesti politicanti accozzatori, gonfi di ciarle e vuoti di idee. Non v'ho forse udito poco fa predicare dal vostro balcone? Qual fuoco, quale eloquenza in sì breve arringa! Qual concisione e al tempo istesso quale esattezza nel dipingere lo condizioni presenti dell'Europa, le passioni politiche de' vari stati, le nuove idee dei popoli! Il signor Albacioff, parlando di voi al conte Adrianoff, uscì fuori con questa sentenza: «L'Italia possiede due geni politici, che nella presente situazione potrebbero condurla a buon fine: l'uno è il conte Cavour, il quale fatalmente si è ritirato dalla cosa pubblica; l'altro è il signor Lanfranconi presidente del circolo di Gorgonzola, troppo modesto o troppo altero per accettare la prima carica dello stato.»
— Oh sì! troppo altero! — grida il mio interlocutore dopo aver vuotato il bicchiere sino all'ultima stilla.... Ma se mai gli attuali ministri intendessero abusare più oltre del loro potere... uscirei forse del mio coviglio... e volerei a Torino... per salvare la patria!
Povero Lanfranconi! L'ingenuità delle sue parole mi commuove, mi intenerisce. Io comprendo fino a qual punto le adulazioni di due raggiratori gli hanno guasto il cervello.
— Voi dicevate, — prosegue egli coll'entusiasmo del credenzone, — voi dicevate che lord Russel, lord Gorciacoff e Valeschi si sono degnati di pronunziare il mio nome. Potreste ora dirmi in qual modo que' grandi diplomatici hanno potuto aver nuova de' fatti miei... e in quale occasione si compiacquero rammentarmi...?
— Signore: la sarebbe una istoria troppo lunga e, per dir vero, io sono aspettato da un mio compagno di viaggio all'albergo del Sole, nè posso per ora intrattenermi più a lungo.
Il signor Lanfranconi scuote il campanello per richiamare il domestico, il quale subitamente comparisce.
— Va all'albergo del Sole, e dì all'amico di questo signore... che noi lo attendiamo qui...
— No... no, — interrompo io. — Asdrubale non consentirebbe di metter piede in questa casa, mentre per certe ragioni politiche egli viaggia l'Italia nel più stretto incognito. —
Poi volgendomi al domestico: — poichè il signore desidera ch'io mi trattenga qualche tempo con lui, dirai alla padrona dell'albergo che in caso il mio amico rientrasse prima di me, vada pure a coricarsi, che io sto bene ove mi trovo...
— E aggiungi, — proseguì il signor Lanfranconi, — aggiungi che il signore passerà la notte in casa mia, perchè deve parlarmi di gravi affari di stato... Ah! ah! —
Il servo si inchina e parte. Il colpo è fatto... eccomi padrone della fortezza. A suo tempo aprirò la breccia per introdurre l'amico; gran scena di passione, gran quadro finale, e buona notte... Il signor Lanfranconi brucia d'impazienza: conviene alimentare la fiamma perchè non si spenga sul più bello.
— Io era a Pietroburgo due mesi sono e, come vi dissi, fui presentato in casa del signor Gorciacoff, il quale ebbe la cortesia d'introdurmi presso la marchesa Albanoff, amica del principe Adrianoff, il cui segretario, signor Anstracoff...
— Che bei nomi! che nomi diplomatici! È duopo confessarlo, noi in Italia di tali nomi non ne abbiamo...
— Il signor Gorciacoff, leggeva una sera il Somarroff, giornale russo. A un tratto egli sospende la lettura, e volgendosi a me con aria sorridente: «Di grazia, mi chiese, quanti anni credete voi possa avere il signor Egidio Lanfranconi?»
— Sessantaquattro anni, cinque mesi e sei giorni...
— Sventuratamente io non conosceva questi particolari e, lo dico a mia vergogna, ignorava perfino... che in Italia esistesse un personaggio così chiamato...
— Ah! Ah!... lo credo. Da cinque mesi soltanto io ho cominciato ad agire nel campo della politica. Ebbene? qual fu la vostra risposta al signor Anstracoff?...
— Risposi schiettamente ch'io per nulla conosceva il signor Lanfranconi. Peccato che voi non foste presente a quella scena! Il signor Gorciacoff fece un atto di meraviglia: tutti gli astanti si guardarono in viso, e la marchesa Albanoff mormorò a mezza voce: «Ecco l'Italia! io non spero che quel paese possa redimersi infino a che mostrerà tanta indifferenza verso i suoi grandi.» Rimasi confuso, annichilito: balbettai qualche parola di scusa, e il signor Anstracoff, vedendo il mio turbamento, mi si accostò, mi battè leggermente sulla spalla, dicendomi all'orecchio: «Temo che un tal peccato d'ignoranza vi abbia a chiudere d'ora innanzi le sale della marchesa.»
— Povero giovane! mi spiace che il mio nome vi sia stato occasione di dispiaceri....
— Non importa: pochi giorni dopo esso mi procurò molti vantaggi. Io mi recai a Londra: il mio compagno di viaggio aveva una lettera commendatizia per lord Russel.
— Lord Russel! lord Russel si sarebbe degnato parlare di me? Oh!... davvero io non credo d'essermi meritato un tanto onore... e quantunque, come dice il signor Nebbia, gli occhi dell'Inghilterra sieno rivolti con benevolenza all'Italia... non so comprendere come il celebre ministro siasi occupato del povero presidente del circolo di Gorgonzola....
— L'Inghilterra ha in Italia molti emissari, incaricati di studiare i progressi del paese, di conoscere il voto delle popolazioni. Lord Russel, parlandomi di voi, che stavolta finsi di conoscere, mi diceva in presenza di lord Palmerston: «Quel signor Lanfranconi la sa più lunga di tutti; l'Italia ha trovato il suo Pitt.»
— Pitt!... Che diavolo di nome? però.. bel nome... Un nome spiccio...! E dite un po': lord Palmerston non ha presa la parola...? non ha detto anch'egli qualche cosa a proposito del signor... Pitt...?
— A proposito di Pitt, lord Palmerston ha esclamato: «Voglia il cielo che il signor Lanfranconi sia il Pitt e non il Robespierre dello sventurato paese!»
— No... no! caro collega Palmerston... io non sarò il Robespierre dell'Italia: se mai venisse giorno in cui gli avvenimenti, come dice il signor Trigambi, esigessero una ghigliottina... io darei la mia formale dimissione. —
In proferire queste parole, il signor Lanfranconi si asciuga due grosse lacrime che gli gocciolano sulle guance. L'ingenuo trasporto del dabben uomo mi toglie il coraggio di continuare la finzione. Vorrei stringergli la mano, vorrei senza indugio aprirgli candidamente il mio cuore, dirgli le vere ragioni perchè io sono venuto in casa sua; ma forse di tal modo guasterei il mio piano di battaglia. Per buona sorte un terzo personaggio entra nelle sala... una giovanetta di circa diciott'anni, bella e mestissima nel volto: Ifigenia.
«Oh! la gentile creatura! — penso io, — dessa è ben tale da destare l'entusiasmo dell'amore in un cuore di ventisei anni, bollente, poetico qual è il cuore dell'amico mio.»
Ella si arresta... non osa aprir labbro. Si direbbe ch'ella tremi della severità paterna: forse l'aspetto d'uno sconosciuto la rende più esitante.
— Che vuoi tu, figliuola mia? — chiede il signor Lanfranconi con piglio alquanto brusco.
— Io veniva per ricordarti... che i convitati... ti aspettano in giardino... e si maravigliano della tua assenza.
— Oh! sì!... vero!... — esclama il signor Lanfranconi, levandosi in piedi. — Vedete s'io sono smemorato...! La politica mi faceva dimenticare la cena! Figliuola mia, ti prego di dar di braccio al signore, di condurlo in giardino e di presentarlo ai nostri amici, mentre io corro a vedere se quella lumaca di Stefania ha preparate le camere... Il signore è amico di Palmerston, di lord Russel, di Gorciacoff... e d'altri pesci grossi... di tal fatta. Basta!... fra poco verrò io. Voglio un po' vedere lo stupore di mia sorella quando udrà che lord Palmerston... e quegli altri signori parlano di me in Inghilterra ed in Russia... come si trattasse d'un loro fratello.
Ifigenia manda dal petto un sospiro, e mi volge una occhiata di rimprovero, quasi intendesse dirmi: «Anche voi abusate della credulità d'un vecchio dabbene, del povero padre mio!»
Ma appena il signor Lanfranconi è uscito, io prendo con dolce violenza il braccio della fanciulla e le mormoro all'orecchio: — Eccellente fanciulla: io sono venuto qui per darvi una buona notizia. Eugenio è giunto stassera a Gorgonzola, e scommetto che in questo momento egli è ancor là abbasso inchiodato sotto il balcone... nella speranza di vedere la sua Ifigenia. —
Gli occhi della fanciulla sono rasserenati. Il suo braccio trema nel mio... Ella si affretta ad accompagnarmi in giardino, e nello scendere le scale mi fa cento domande sul conto del suo innamorato. Io le dipingo co' più vivi colori la passione di Eugenio e il suo dolore nel vedersi tolta la donna che era per lui oggetto di adorazione; le dichiaro che non per altro scopo io mi sono introdotto in casa del padre di lei, se non per favorire i disegni di Eugenio, per ricongiungerlo alla sua innamorata. Ad ogni mia parola Ifigenia cerca rianimarsi: in breve io riesco ad ispirarle tanta confidenza, quanta dapprima le avea ispirato avversione.
Eccoci in giardino; sotto il pergolato è disposta una mensa obblunga, in capo alla quale è un posto vacante.
— Vedete! — mi dice Ifigenia sotto voce, — mio padre vorrebbe ch'io sposassi uno di que' lumaconi là in fondo, che seggono ai lati del posto riservato a mio padre.
— Voi sposerete Eugenio, a dispetto di tutti i lumaconi politici e scientifici d'Europa! —
Prima che noi ci avanziamo verso la mensa, il signor Lanfranconi ci raggiunge. Egli sembra molto soddisfatto di potermi presentare a' suoi commensali. Mi prende per mano, mi conduce sotto il pergolato, e con voce solenne: — signori, — dice, — ho l'onore di presentarvi il signor Palmerston... cioè.., voleva dire... l'amico di lord Palmerston... di lord Russel... di Gorciacoff... di Adrianoff... della marchesa... Andreoff... il quale si è degnato di recarmi alcuni importanti messaggi di que' bravi signori di laggiù.,. Signor Nebbia... signor Trigambi... e voi tutti, onorevoli fratelli e correligionari politici, perdonate se stassera io cedo il mio posto d'onore al nuovo ospite, all'amico di lord Palmerston, del conte Valeschi, del ministro Gorciacoff... —
Io mi assido senz'altra cerimonia al posto che mi viene indicato. Il signor Nebbia e il signor Trigambi impallidiscono, e si scambiano una occhiata obliqua e dispettosa. Il Lanfranconi va a sedere all'altro capo della tavola, intercettando colla protuberanza del suo addome una comunicazione di gesti e di parole piuttosto interessanti fra sua sorella nubile ed uno zuavo. Frattanto Ifigenia si è allontanata sotto pretesto di volersi recare a contemplare la luna. Ch'ella invece sia corsa al balcone per iscambiare con Eugenio qualche segno telegrafico? Davvero ne sarei contentissimo: l'amico vedrà ch'io ho ben impiegato il mio tempo.
Le bottiglie si sturano: i commensali paiono tutti d'ottimo umore, ad eccezione dei miei due vicini, che sono d'una taciturnità desolante. Il signor Lanfranconi propone vari brindisi in onore della guardia nazionale e della società democratica-italo-latina; da ultimo leva il bicchiere, e volgendosi a me con aria solenne si fa ad esclamare: — Viva i miei onorevoli colleghi lord Palmerston e lord Russel, viva il conte Orlanoff, la marchesa Adrianoff e tutti gli Off amici dell'Italia! —
Il signor Lanfranconi morrebbe di congestione cerebrale se io non mi affrettassi a ripetere innanzi alla numerosa assemblea che tutte le sommità ministeriali e politiche di Europa si occupano di lui. Il momento decisivo è venuto. Io mi levo in piedi; i commensali sospendono le loro funzioni gastronomiche, e mi salutano di applausi prolungati. Alla fine io prendo la parola:
— L'onorevole signor Palmerston, col quale poche settimane sono io mi trattenni in lunga conferenza, m'incaricò di significare al dotto accademico signor Lanfranconi, di cui onora gli alti intendimenti politici e lo sviscerato patriottismo, essere oggimai le sorti dell'Italia assicurate, purchè si rimuovano i pochi ostacoli interni, che tuttora si oppongono od almeno ritardano il nostro progresso civile. E quali sono codesti ostacoli? lord Palmerston osava rispondere. Lord Russel prese animosamente la parola: «Voi avete in Italia due sêtte nemiche del vostro bene, diss'egli laconicamente, la setta dei dottrinari, e la setta degli esaltati. Dite al signor Lanfranconi che si tenga bene in guardia contro le mene di costoro; in caso diverso il paese sarebbe rovinato!»
Il mio discorso è accolto con applausi frenetici; ma il signor Nebbia ed il Trigambi, cui forse non garba troppo la conclusione, si levano dalla mensa, e si allontanano pei viali del giardino, parlando fra loro sommessamente. Il Lanfranconi, inebriato di vanità, non s'accorge della improvvisa disparizione de' suoi due segretari. Egli si leva dal suo posto, con piena soddisfazione della sorella nubile, la quale tosto si riavvicina allo zuavo, e viene a collocarsi presso di me in uno dei posti vacanti.
— Io mi accorgo, — dic'egli sottovoce, — che voi non siete quel dabben uomo che vorreste sembrare. Scommetto che lord Palmerston vi ha incaricato di qualche missione segreta.... Giurerei che non a caso vi siete introdotto nella mia famiglia.... Basta! domani non vi lascierò partire.... Io voglio che mi onoriate d'una seconda conferenza da solo a solo....
— Sta bene, — rispondo io, — rimarrò domani presso di voi, a patto che ora mi permettiate di andarmi tosto a coricare.
— Ehi! Tebaldo! Stefania! — grida il Lanfranconi; — accompagnate il signore al suo appartamento. Ma dove sono andati il signor Nebbia e il signor Trigambi?....
— Probabilmente a meditare sulle parole di lord Palmerston.
Io prendo commiato dalla società, e, condotto da Tebaldo, salgo ai miei appartamenti. Attraversando la sala mi accorgo che il balcone è aperto... e che Ifigenia, immobile come una statua, sta tuttora in contemplazione della.... luna. — Buona notte, signorina, — le dico passando, — domani contemplerete la luna senza aprire le imposte del balcone.
CAPITOLO III. Buffoni e uomini seri.
Io non chiusi gli occhi durante la notte. Il Nebbia e il Trigambi probabilmente ignoravano che la camera a me destinata fosse attigua alla loro. Verso undici ore io li udii conversare di tal guisa:
— Qui bisogna prendere una seria determinazione.
— Senza dubbio....
— O l'uno o l'altro di noi deve sposare Ifigenia....
— E buscarsi la dote....
— Dugento mila franchi! davvero è un bel colpo! saremmo imbecilli se ci lasciassimo sfuggire una tanta fortuna....!
— Eppure l'uno o l'altro di noi dovrà sacrificarsi.... Ifigenia non può sposarci tutti e due... Finora ella ci ha date prove non dubbie di... avversione. Se noi non affrettiamo le nozze, un terzo potrebbe entrare di mezzo e rapirci il frutto delle nostre fatiche.... Ora abbiamo dalla nostra il papà imbecille....
— E il papà imbecille, se più s'indugia, potrebbe lasciarsi raggirare da qualcuno più scaltro di noi....
— Quel ciarlatano che stassera s'è introdotto in casa nostra mi dà molto a temere....
— Non v'è più un momento da perdere...,
— Dunque?
— Dunque!
I due colleghi stettero per pochi minuti silenziosi. Il Nebbia con voce melliflua e insinuante riprese la parola:
— Amico dolcissimo: per quanto scarsa sia in me la conoscenza di quell'inesplicabile labirinto che si appella il cuore umano, ho dovuto non di meno accorgermi che alla gentile Ifigenia meglio che le tue risolute e talvolta un po' brusche maniere, le mie più moderate e più leni si confanno. Però sono d'avviso che all'intento desiderato, più agevole a me si apra la via che non a te, soavissimo fra' miei più cari. Ove ciò non fosse, di leggieri avrei rinunziato a qualsivoglia pretesa sulla giovinetta pudica, del cui amore entrambi siam presi: felice in vederla unita di indissolubile nodo a te, amatissimo ed amantissimo. Spero dunque che tu, mosso più che da generosa condiscendenza, da assennato e prudente consiglio, a me vorrai lasciar libero il campo per una impresa a te forse malagevole, per me piana e feconda.
— Onorevole collega! — risponde il Trigambi. — Queste tue ciarle nè punto nè poco mi persuadono. Io non credo che Ifigenia t'abbia mostrato mai della preferenza. I miei modi bruschi, il mio carattere disinvolto le vanno più a genio che non le tue moine. Le donne giovani preferiscono gli uomini d'azione agli uomini di scienza. Se Ifigenia verrà posta nel bivio di dover scegliere fra noi due, io non dubito ch'ella mi accordi la preferenza.
— Presupponiamo....
— Amico: non tante parole.... Io voglio che Ifigenia mi appartenga.... Già più volte abbiamo parlato su tale proposito senza mai riuscire a metterci d'accordo. Dunque.... da galeotto a marinaro.... Il più scaltro avrà la vittoria.... Piuttosto che cederla a te.... vorrei che la andasse in mano.... del primo venuto!
Il Trigambi esce dalla stanza brontolando. Il Nebbia, appena il collega è partito, mormora colla sua pacatezza abituale: «Vorrei vederla morta, anzichè nelle mani di quel furfante!»
All'indomani, tutti gli abitatori di casa Lanfranconi sono in piedi di buon mattino; io prima degli altri. Risoluto di condurre a termine la mia impresa in quella giornata, corro dapprima all'albergo in traccia di Eugenio.
— Ebbene! — esclama egli, — ho veduto Ifigenia al balcone! ebbi da lei un biglietto....! Oh amico! tu davvero sei il mio angelo tutelare! lascia che io ti baci. —
Eugenio mi getta le braccia al collo, e piange di consolazione. — Tempo non è di lacrime, — rispondo io cantarellando; — convien affrettare lo scioglimento del dramma. Ascoltami bene: l'ultimo colpo di scena, il colpo decisivo che ricondurrà Romeo nelle braccia di Giulietta, che farà morire di rabbia il rivale abborrito, che placherà la ferocia del padre tiranno, è serbato a stassera verso le ore otto. Ma, perchè il dramma riesca di maggiore effetto, ci vuol della polvere, ci vogliono schioppettate, grida di popolo e fuochi di bengála. Ecco dunque quanto devi fare per concorrere efficacemente a tale scopo. Fa di procurarti dei razzi o girasoli a polvere, e vieni alle otto della sera sotto le finestre del signor Lanfranconi, accompagnato da cinque o sei contadini. Appena vedi aprirsi le imposte del balcone, tu metti fuoco alla batteria, e fa che i tuoi contadini mandino un grido d'allarmi... Mi hai tu ben inteso...?
— Sì... ma in qual modo...?
— A me la cura del resto... Addio... il tempo è prezioso; io vado a disporre gli altri personaggi del dramma, onde la catastrofe riesca secondo i miei voti. —
Io mi stacco da Eugenio, e mi affretto a rientrare nella casa del signor Lanfranconi. Il grottesco presidente della Società democratica-italo-latina è in istretto colloquio col Trigambi e col Nebbia. Ifigenia sta in un canto della sala, pallida in volto e abbattuta più dell'usato. La poveretta, in vedermi entrare, riprende coraggio. Si direbbe ch'ella attendesse con impazienza il mio ritorno.
— Signore, — mi dice il Lanfranconi. — voi giungete a proposito onde suggerirci qualche espediente per sciogliere una questione intricatissima. —
Il Nebbia e il Trigambi vorrebbero troncare il discorso, ma l'altro non bada all'evidente malumore dei due colleghi, e tira innanzi di tal guisa:
— Voi dovete sapere, in primo luogo, che io sono un gran imbecille... cioè... un uomo... che fuori della politica... mi trovo propriamente... come si suol dire... un pesce fuori dell'acqua. Io accolsi in mia casa questi due bravi signori, sapendoli due caldi patrioti, due uomini di polso... che potevano, non dirò consigliarmi... ma aiutarmi ne' miei studi politici, economici e democratici... Ma siccome, quando si tratta dei miei interessi particolari, io sono... o fingo d'essere un imbecille, così, senza riflettere alle difficoltà che potevano insorgere, ho promesso a tutti e due la mano di mia figlia. Ora: come si scioglie questa faccenda? Il progresso della democrazia non giunse finora a tanto da permettere alle fanciulle la comunione dei mariti... Io vorrei favorire sì l'uno che l'altro... perocchè nell'avvocato Nebbia, collaboratore del giornale il Chiaro-oscuro, ammiro la profonda dottrina; nel dottor Trigambi rispetto le impronte venerande del martirio e la devozione illimitata al bene del paese... L'uno non vuol cedere all'altro... i suoi diritti. Io non ho ragioni per dar la preferenza a questo piuttosto che a quello. Come sì fa? Sfido lo stesso Palmerston a trovare in tal caso una transazione soddisfacente.
— Mio caro signor Lanfranconi, — rispondo io, volgendo uno sguardo alla povera Ifigenia, che non osa levar gli occhi per eccesso di timidezza, — l'espediente è presto trovato. Si consulti il voto di Ifigenia. Scelga essa fra i due pretendenti..... ed ecco troncata ogni lite.
Il Lanfranconi aggrotta le sopracciglia, poi dice a bassa voce: — essa ha scelto... la cattivella...
— Ebbene?
— Essa pretenderebbe rifiutare sì l'uno che l'altro dei suoi due pretendenti. Ifigenia è giovane troppo per comprendere il bene ed il male: io, uomo di esperienza, debbo imporle la mia volontà. Un giorno ella si chiamerà contenta di avermi obbedito. —
Ifigenia, in udire tali parole, non può trattenere le lacrime, e si allontana. Dopo breve silenzio io prendo di bel nuovo la parola:
— Lanfranconi! mi accorgo che la questione è assai più difficile a sbrogliarsi di quanto in sulle prime mi appariva. Nondimeno, se mi concedete pochi minuti per parlarvi da solo a solo, spero venire a capo d'uno scioglimento felice. In presenza di questi signori non oserei esporvi apertamente il mio pensiero. —
Il Nebbia ed il Trigambi si ritirano, e nell'uscire dalla sala sospingono la porta con un urto sì violento da far crollare le muraglie. Io piglio pel braccio il mio ospite, e scendo con lui nel giardino.
Il giardino del signor Lanfranconi, veduto alla luce del giorno, presenta allo sguardo un quadro di devastazione. Si direbbe che un violento uragano abbia abbattuto gli alberi, sfrondate le siepi, scomposte le zolle. Io non posso a meno di esprimere la mia meraviglia all'ospite che mi dà di braccio: ma questi non curandosi tampoco di volgere intorno una occhiata, mi risponde asciutto: — chi può occuparsi di giardino e di fiori, mentre le questioni politiche assorbono tutta la nostra attenzione? I miei servitori da mane a sera hanno i giornali nelle mani. Ciò reca qualche inciampo al disimpegno de' loro affari: l'ordine della casa non cammina colla usata regolarità; ma io preferisco aspettare alla mattina il mio caffè e panna e mettermi a tavola una o due ore più tardi, anzichè porre ostacolo alla educazione politica del popolo. —
Così parlando, noi ci inoltriamo in un viale. Volgendo gli occhi per caso verso la serra dei limoni, mi vien veduto lo zuavo della sera precedente, il quale con energica famigliarità abbraccia la sorella del mio rispettabile amico.
— Allontaniamoci, — mi dice il Lanfranconi all'orecchio....
— Come? voi permettete che in vostra casa....?
— Bazzecole, mio buon amico. Le razze latine si fondono...
— Il nostro nobile collega signor John Russel è d'avviso che assai meglio ci troveremmo se incominciassimo a fonderci un po' meglio fra noi della razza italiana.
— Il signor Russel... avrà forse ragione. Ma lasciamo pure che il progresso precipiti al suo ultimo scopo, e parliamo di ciò che per ora più davvicino ci interessa. Voi dicevate di avere un utile suggerimento a comunicarmi riguardo al matrimonio di mia figlia....
— Certamente; un ripiego basato sulla giustizia, o che voi senza dubbio approverete. Voi dite voler maritare vostra figliuola ad un uomo il quale abbia ben meritato della patria, ad un uomo, che per la sua devozione alla causa della libertà sia degno della pubblica stima. Un tale proposito assai vi onora, signor Lanfranconi, ed io non posso a meno di incoraggiarvi a persistere in esso. Il signor Nebbia ed il signor Trigambi, come voi dite, sono due martiri della patria. Ebbene facciano entrambi l'enumerazione dei loro meriti dinanzi ad un giudice imparziale, e quegli che avrà più titoli alla riconoscenza della patria, s'abbia in moglie la bella Ifigenia.
— Signore! la vostra idea mi va a sangue...! Accettereste voi il posto di giudice?
— Ove ciò vi aggradi... sono pronto a favorirvi.
— Ebbene... stassera, dopo il pranzo, metteremo sul tappeto la questione, udremo gli oratori, e voi proferirete la sentenza. —
Ciò convenuto, io trovo un pretesto per allontanarmi dal signor Lanfranconi, e corro in traccia d'Ifigenia per prevenirla di quanto sta per accadere. La buona figliuola promette assecondare i miei disegni, e attende con impazienza lo scioglimento della catastrofe.
L'ora del pranzo è suonata. Il signor Lanfranconi per dare maggior apparato alla conferenza, si è messo la toga di presidente e un enorme berretto da cui pendono due larghe stole a pelo di coniglio. Il Nebbia e il Trigambi non aprono labbro. Ifigenia non ha voglia di mangiare; io cerco intrattenere il Lanfranconi con una lunga sequela di aneddoti politici, fino all'ora del dessert.
La pendola della sala segna le sette ore. Il momento è solenne e decisivo. Il signor Lanfranconi, dietro mio cenno, espone al Nebbia ed al Trigambi il suo disegno.
I due colleghi sembrano esitare. Sì l'uno come l'altro mostrano poca fiducia nel giudice innanzi a cui debbono perorare la loro causa. Io mi faccio ad incoraggiarli con buone parole e con un sorriso misto di ingenuità e di cortesia. Alla fine l'avvocato Nebbia incoraggiato da una furtiva occhiata di Ifigenia, che si giova d'un tale artificio per accelerare la catastrofe, prende a parlare di tal guisa:
— Se all'onorevole signor Lanfranconi od alla amabile di lei figliuola spettasse il giudicarmi, crederei inutile e forse inopportuno io accennare quanto io m'abbia fatto a pro della patria comune, di questa carissima e santissima Italia, cui da più anni ho consacrate tutte le forze dello ingegno. Pure, trattandosi di dovermi subordinare al giudizio di chi non mi conosce, in vista del sommo guiderdone a cui aspiro, non per vanità o per boria, dirò brievemente la ragione mia. Mentre Italia gemeva sotto l'oppressione dei suoi tiranni, mentre il sospiro, la parola, perfino l'aspirazione segreta ad un miglior avvenire erano delitti, io dettai sul Chiaro-oscuro venticinque articoli, cui senza dubbio l'Italia va debitrice dell'attuale suo risorgimento. Questo è il maggiore de' miei vanti, nè io lo rammenterei, se una tale contribuzione forzata alla mia naturale modestia non fosse imposta da un affetto gentile.
— Sta bene, — rispondo io. — E dopo avere scritti i venticinque articoli, al momento in cui l'Italia agitata dalla vostra efficace eloquenza si armava per combattere i duecentomila stranieri, che non eran fuggiti dinanzi alle vostre ciarle... come vi comportaste voi?
— Io spinsi tutti i miei conoscenti ed amici a prendere le armi.
— E voi li seguiste... senza dubbio sul campo di battaglia...
— Spingere gli altri al combattimento è molto più utile alla patria...
— Ed anche più comodo. Signor Trigambi: ora la parola è a voi.
— Sarò breve, sarò energico qual si conviene al figliuolo della rivoluzione. Io non scrissi articoli, non feci vana pompa di utopie, non imbrattai i giornali di ciancia e fanfalucche, ma corsi di terra in terra, di nazione in nazione, a risvegliare i popoli addormentati. Dal 1831 infino ad oggi, io cospirai contro i tiranni, ed ebbi l'onore d'essere per ben quattro volte appiccato in effigie!
— Senza dubbio nel 1848 voi prendeste parte ai combattimenti delle cinque giornate...
— Durante la rivoluzione io mi trovava a Parigi. Corsi a Milano, ma non ebbi la fortuna di giungere in tempo.
— Più tardi vi sarete arruolato nelle schiere di Garibaldi che movevano al campo...
— A quell'epoca io era già partito per sollevare la Toscana.
— Foste a Roma nel 1849... a difendere l'ultimo asilo della libertà italiana?
— Nel 1849 io mi recai a... Parigi... per soffocare i primi moti della reazione.
— E negli ultimi mesi decorsi... senza dubbio avrete preso parte alle battaglie di Magenta e di Solferino...
— Il mio posto non era a Solferino... ma sibbene a Londra, ove ho contribuito potentemente alla caduta del ministero Derby. Ma che razza di esame è codesto? Perchè tante domande suggestive ad un uomo che vi ha detto sul bel principio d'essere stato quattro volte appiccato in effigie?
— La vostra effigie deve aver molto sofferto a pro della patria... ed io deciderei la questione in favore di essa... Ma quanto a voi, signori...
— Quanto a me, — ripiglia il Nebbia, — oramai vedo d'aver compiuta la mia missione morale. Al primo grido d'allarmi, io correrò sotto il vessillo della patria, beato di morire per essa.
— E tale è anche il mio proposito, — soggiunge il Trigambi. — Al primo colpo di cannone io sarò tra le file dei combattenti...
— Io non desidero che la morte sul campo di battaglia, — prosegue il Nebbia, levandosi in piedi.
— Il mio petto anela ad una palla, come l'assetato alle fresche sorgenti.
— Morte ai tiranni!
— Morte ai nemici d'Italia! —
I due colleghi brandiscono le forchette, e paiono sul punto di scagliarsi contro le orde create dalla loro immaginazione. La pendola suona otto ore.... Io mi levo, fingendomi commosso di entusiasmo, vado a dischiudere le imposte del balcone, e immediatamente uno... due... tre... spari s'odono al piè della casa.
— Corpo di mille diavoli! — esclama il Lanfranconi — Questo è un combattimento a fuoco vivo...! —
Io mi ritraggo dal balcone. Il Nebbia ed il Trigambi han deposte le forchette... e sono ripiombati sulle loro scranne, col pallore nel volto.
— Presto! qualcuno scenda abbasso! — grida il Lanfranconi. — Che diavolo sarà accaduto...? —
Nessuno si muove.
Ifigenia finge cadere svenuta, il padre si affretta a soccorrerla, e intanto ripete con voce alterata:
— Signor Nebbia... signor Trigambi... a voi!... Correte là abbasso... Non vorrei che qualche male intenzionato... Ohimè! la mia povera Ifigenia si muore dalla paura! —
Io afferro per le falde dell'abito il domestico del Lanfranconi, il quale tenta invano di schermirsi, e lo obbligo ad accompagnarmi col lume in fondo alla scala. Il Nebbia ed il Trigambi sembrano impiombati sulla seggiola.
Il domestico, giunto a piè della scala, si arresta riparandosi dietro l'uscio; io corro fuori, scambio con Eugenio poche parole, indi torno con aria affannata presso il signor Lanfranconi.
— Ebbene? quali notizie? che c'è di nuovo laggiù?
— Presto! — rispondo io... — Avete degli schioppi?... Una banda di reazionari capitanati da un ex-poliziotto austriaco sono entrati in Gorgonzola, e minacciano di saccheggiare le case dei liberali.
— Misericordia! — grida il Lanfranconi. — Io non tengo che quattro fucili... Signor Nebbia... signor Trigambi... profittatene voi...! Oh! la mia povera Ifigenia! Su... dunque!... Che fate voi lì inchiodati sulla scranna...? I fucili sono nella stanza vicina. —
Io prendo un lume, e corro in cerca dell'armi. I due amici non che di muoversi han perduto la lena di parlare. Frattanto sotto le finestre tuonano i razzi... e cinque o sei contadini, adunati da Eugenio, gridano: All'armi!
— Signor Nebbia... signor Trigambi... eccovi il fucile — dico io rientrando nella sala. — Corriamo tosto... a disperdere quella ciurma di scellerati. —
Il Nebbia si leva in piedi, e stringe l'arma nella mano tremante.
— Chi combatterà meglio, — dice il Lanfranconi, — chi farà prove di maggior coraggio, avrà la mia figliuola per moglie! Animo dunque! Che più s'indugia?...
— Avete inteso? Ifigenia sarà del più prode... Andiamo. —
Il Nebbia muove alcuni passi, ma giunto presso la scala, depone l'arma, esclamando eroicamente: — no... no... io non posso risolvermi a combattere contro i miei concittadini... a lordarmi di sangue italiano! Io rifuggo dalla guerra civile!
— Ebbene... Ifigenia apparterrà al signor Trigambi, — grida il Lanfranconi. — Ma dov'è il signor Trigambi?
— Egli è sceso per di là... — dice il domestico, additando la scala che mette alla cantina. —
— Ah! scellerato! — grida il Lanfranconi levandosi in piedi. — Toccherà dunque a me, vecchio... malaticcio... impotente... a dare agli altri esempi di coraggio...?
— Arrestatevi, signor Lanfranconi; voi non dovete scostarvi da Ifigenia... che troppo ha bisogno de' vostri soccorsi. Gli schioppi destinati al signor Nebbia ed al signor Trigambi serviranno ad altre braccia. —
Ciò detto, m'affaccio al balcone, e indirizzo la parola ai congiurati.
— Figliuoli! il signor Lanfranconi può disporre di alcuni fucili. Chi di voi ha intenzione di combattere contro i nemici della patria, salga le scale e venga ad armarsi. —
Poco dopo s'ode uno strepito sulle scale. Il Lanfranconi muove incontro ai generosi che accorrono all'appello... e, nell'eccesso del suo entusiasmo, stringe fra le braccia Eugenio che primo si è precipitato nella sala.
Ifigenia si è riavuta dallo svenimento. La voce di un amante è il miglior farmaco per le fanciulle svenute. Eugenio si arresta.. trepidante... confuso. Egli si vergogna di dover rappresentare nella commedia un falso personaggio. Il generoso soldato di Montebello, di Palestro e di Solferino arrossisce di simulare coraggio in un pericolo immaginario.
Per togliere l'amico da una situazione imbarazzante, io dirigo al signor Lanfranconi le seguenti parole: — Voi l'avete abbracciato il bravo, il degno cittadino, il valoroso soldato che mai non mancò all'appello della patria. La reazione, la congiura dell'ex-poliziotto, gli spari che poco dianzi avete uditi, non furono che stratagemmi da me immaginati per riuscire ad un utile scopo. Dove sono in questo momento i Nebbia ed i Trigambi, cui volevate affidare la vostra unica figliuola? Lo sparo d'un girasole bastò a metterli in fuga. Eugenio e i giovani della sua tempra, ecco a cui dovete, o signore, e l'affetto e la stima. Ifigenia non avrà a temere di nulla, quand'ella sia la moglie d'un generoso, pronto a difenderla nell'ora del pericolo col sacrifizio della propria vita. Eugenio s'è battuto nel 48, Eugenio riprese le armi nel 59, Eugenio questa sera istessa, ove la vostra casa fosse davvero minacciata, affronterebbe nuovi pericoli. Ciò che poco dianzi prometteste al signor Nebbia ed al Trigambi in premio del loro coraggio, non lo merita forse l'eroe di Solferino, che può mostrarvi la cicatrice d'una ferita onorevole? —
Il signor Lanfranconi rimane alquanto perplesso. — Voi mi avete giocato un brutto tiro, — esclama egli, — pure non sono malcontento d'aver aperto gli occhi... su certe verità... Basta! scommetto che lord Palmerston e lord Russel... non sono del tutto estranei a questa vostra congiura...
— Lord Palmerston e lord Russel, Gorciacoff e Valeschi, attendono in questo momento un mio dispaccio che loro annunzii: «Il signor Lanfranconi si è liberato dai dottrinari e dagli esaltati, ed ha stretto alleanza coi veri patrioti.»
— Mandate tosto il dispaccio. E se mia figlia è tuttora disposta a sposare... l'eroe di Solferino...
— Ma non vedete che Ifigenia gli ha già stretta la mano, e mostra di intendersela con lui a meraviglia...?
— Figliuoli, — dice con solennità il Lanfranconi, avvicinandosi ad Eugenio ed alla figliuola. — Cedendo alle istanze delle potenze straniere, e mosso altresì da gravi ragioni politiche note a me solamente, benedico al vostro imeneo.
— Eugenio! — esclama Ifigenia, — mio diletto Eugenio! io ti ho sempre amato... ma il giorno in cui ti seppi ferito per la difesa della patria, cominciai ad adorarti...
— Amici, io vi lascio all'ebrezza de' vostri piaceri. Signor Lanfranconi, corro a spedire il dispaccio... a lord Russel, che s'incaricherà di comunicarlo a tutte le corti d'Europa...
— E voi credete che le corti d'Europa ammireranno la mia condotta?
— Sì... purchè a quanto avete fatto stassera aggiungiate un ultimo sacrifizio...
— Dite.... parlate.... Io mi rimetto interamente al consiglio de' miei onorevoli colleghi...
— Ebbene. Quando avrete affidata la vostra Ifigenia alla tutela dell'ottimo Eugenio, ed ella avrà uno sposo pronto a difenderla in ogni cimento, voi provvedete a riordinare di bel nuovo la vostra cascina, ripigliate il commercio degli stracchini, che vi dà un prodotto di lire ventimila ogni anno. Ad Ifigenia ed all'amico Eugenio non nuocerà d'essere ricchi...
— Ma la patria... o signore...!
— La patria ha bisogno di soldati..... e di danari. Credetelo: anche il commercio degli stracchini le gioverà. Così imprendessero a fabbricare stracchini tanti politici ch'io conosco! —
FINE.
Il Dottor Ceralacca.
I.
«L'epoca delle elezioni si approssima — diceva Clementina al marito — e sarebbe omai tempo di risolvere!... Vuoi, o non vuoi essere deputato?»
— Volere! è presto detto!... Sicuro... che... se la nazione... se la patria...
— La nazione, la patria non c'entrano per nulla in queste faccende. Bisogna fare da sè! Bisogna darsi d'attorno... preparare il terreno....
— Hai detto?...
— Preparare il terreno... agitarsi... parlare... scrivere... farsi conoscere....
— Farmi conoscere! Chi non conosce Onofrio Bartolami fabbricatore di ceralacca in Borgo Spesso, e proprietario di tre case in Milano?
— La ceralacca... le tre case.... Sappiamo!... lo sanno tutti!... Ma ora si tratta ben d'altro... Ora bisogna che tu ti dia a conoscere... per quello che non sei....
— Hai detto?...
— Sicuramente!... Come fanno tutti. Non c'è altro modo per ottenere dei voti, per farsi eleggere...
— Darmi a conoscere per quello che non sono?.... Ciò non mi sembra facile... Quando un uomo ha già acquistato tanto credito, tanta riputazione nel fabbricare la ceralacca...
— Nulla di più naturale che questo uomo possegga dei talenti... dei talenti di un ordine più elevato.. Vediamo un po'!... Tu sei uno dei primi negozianti...
— Il primo!
— Col tuo commercio ti sei considerevolmente arricchito!
— Fra mobili ed immobili, un capitale di ottocentomila franchi....
— Ci vuole della intelligenza, ci vogliono delle cognizioni per primeggiare in un ramo qualsiasi di industria. Gli sciocchi non sanno condurre gli affari; e quand'uno arricchisce nel commercio, vuol dire ch'egli possiede molto criterio amministrativo.
— Hai detto?...
— Ho detto una cosa, della quale non sono pienamente convinta. Ma ora non si tratta della mia opinione individuale; io ti giudico come dovranno giudicarti le persone che non ti conoscono, per esempio, i nostri elettori... Dunque... come ti dicevo, tu sei un industriale illuminato; tu possiedi in grado superlativo il talento dell'amministrazione. Non si domanda di meglio. Ho inteso dire che, alle nuove elezioni, si mandaranno al Parlamento degli uomini pratici, degli uomini di cifre. Di avvocati, di poeti, nessuno vuol più saperne...
— Clementina: che vuol dire?... Da qualche tempo tu parli toscano...
— Qualche frase... qualche parola... Come fare? Al negozio ne vengono di tutte le nazioni... e bisogna farsi intendere... D'altronde, se tu riesci ad essere deputato, noi dovremo traslocarci a Firenze....
— A Firenze!
— Questa idea, se non mi inganno, ti preocupa seriamente...
— Hai detto?...
— Mi sembra che l'idea di lasciare Milano e di trasferirti alla nuova capitale del regno, non ti sorrida gran fatto...
— A dirti il vero, Clementina, questa è l'unica causa delle mie inquietudini... Ah! se in Parlamento si potesse dirle giù alla buona, come si parla da noi, in meneghino, io ti giuro Clementina.... ti giuro.... Hanno avuto un gran torto di portare la capitale a Firenze.... Poichè ad ogni costo si voleva andar via da Torino, bisognava fare un gran colpo di Stato, e piantarsi a Milano per sempre.... come è desiderio di tutti!....
— Ma tu, anima mia, ti scaldi senza ragione.... A Milano, a Torino, dovechessia, un deputato del Parlamento deve necessariamente parlare l'italiano.
— Tò! io credeva che alla camera di Torino si parlasse piemontese!
— Via! parliamo sul serio, Onofrio! e sopratutto decidiamoci! Se vogliamo preparare il terreno, se vogliamo assicurarci l'elezione, non ci resta tempo da perdere.
— Sentiamo!
— Bisogna incominciare come tutti cominciano.... Collocarci in una posizione elevata, dove tutti ci veggano, ci riconoscano e possano giudicarci!
— Hai detto?...
— Cosa hanno fatto Venosta, Allievi, Tenca, Jacini, per diventare deputati o ministri? Hanno istituito un giornale. Un giornale è il veicolo più sicuro e più spedito per arrivare alla camera.
— Clementina: questa sera tu hai delle ispirazioni luminose!... Vuoi che io te lo dica? il pensiero di istituire un giornale mi è già passato per la testa più di una volta!... Solamente io non ho mai avuto il coraggio di comunicarlo ad alcuno, neanche a te, Clementinuccia!... Mi pareva... so io? che tu dovessi ridere. Eppure io sentiva in me qualche cosa, qualche cosa che mi diceva: animo, Bartolami! fa vedere ciò che sai fare! Ti giuro. Clementina, che se io sapessi scrivere tutto quello che penso... Ma questo è il punto difficile... Nel mio cervello c'è tanto materiale da empire otto Perseveranze ogni mattina; ma poi, quando piglio la penna per mettere in carta le mie idee, allora, sia timor panico, sia il diavolo che mi porti, non sono capace di trovare la prima parola; e così, dopo molte ore di lambicco, quasi sempre finisco coll'addormentarmi!
— (Imbecille!)
— Hai detto?...
— Nulla!... Ma mi pare...
— Che cosa?
— Mi pare, amico mio, che per istituire un giornale non ci sia bisogno di saper scrivere... come tu dici... Tu possiedi un capitale di circa ottocento mila franchi — per un foglio quotidiano, sul fare del Pungolo, basterebbero ventimila lire! Quanto al resto, è questione di carta e di collaborazione.
— Tu sei molto istruita, Clementina! Vediamo un poco... Tu hai pronunziata una parola molto lunga, che io non credo di avere abbastanza capita... Che cosa si intende per collaborazione?
— Mi spiego in due parole. Collaborazione è un nome collettivo, nel quale si comprendono quei pochi o molti individui che suppliscono al proprietario od al direttore del giornale nelle funzioni che questi non vuole o non sa disimpegnare. Riportiamoci al caso nostro. Tu istituisci un giornale; apri un uffizio, paghi le spese e l'impianto, la carta, la stampa, che so io... Naturalmente, avendo fornito i capitali, tu diventi proprietario assoluto del foglio, direttore, redattore in capo, gerente responsabile, ciò che meglio ti piace. Non volendo, o non potendo occuparti dei piccoli dettagli, prendi al tuo stipendio uno o più collaboratori che sappiano scrivere...
— Sotto mia dettatura, ben inteso...
— O meglio, di loro talento...
— No! preferisco dettare... Te l'ho già detto, Clementina!... Ho in testa dei materiali! e credo che, dettando, mi sarà più facile di esprimere le mie idee...
— Una volta che tu sii proprietario e redattore in capo, potrai fare ciò che meglio ti accomoda. Senza dettare, c'è un altro modo anche più facile per riempire le colonne di un giornale — si scrive colla forbice.
— Hai detto?...
— Eh! non saresti il primo... Ve ne sono a centinaia dei giornalisti, che sentendo una decisa avversione alla penna, hanno adottato il sistema di scrivere colla forbice!
— Clementina!!!... Io non capisco troppo cosa tu voglia dire con queste parole: scrivere colla forbice... Se si trattasse di tagliare i panni addosso al municipio.... Tu devi aver ragione, Clementina!... Io sono nato fatto per maneggiare la forbice.
— Dunque?...
— Hai detto?...
— Ci decidiamo?
— Clementina!...
— Che c'è?...
— Tu non hai pensato....
— A che cosa?
— Alla cosa più importante... al titolo del nostro giornale...
— Del nostro giornale!... tu dunque saresti disposto?...
— C'è dubbio?... tu non mi avevi mai compreso, Clementina! Un giornale! È il mio desiderio, il mio sogno da due anni... Solamente io non credeva che si potesse... Ah! tu mi hai data la vita, Clementina. La forbice, la collaborazione... Quali idee!... Ma ora — parlami sinceramente, Clementina — come, dove, quando mai sei venuta in cognizione?... E perchè non mi hai detto prima d'ora?...
— Dieci, dodici giorni fa, io non sapeva nulla di queste istorie del giornalismo... Per caso... in bottega... ho sentito parlare fra loro alcuni letterati... Tu sai, in un negozio di ceralacca, vengono necessariamente molti uomini di lettere; e udendoli ragionare di alcuni nuovi giornali che recentemente si istituirono a Milano, sono venuta a cognizione di tutto.
— Clementina! Io sono deciso... sono pronto a sacrificare diecimila franchi per la carta e la stampa — la ceralacca l'abbiamo in casa... Tò! Una idea luminosa!... una vera ispirazione!... Dire che io ci aveva pensato due anni, senza venirne a capo!... Che ti pare, Clementina? Se il nostro giornale si intitolasse la Ceralacca! Questo titolo servirebbe a predisporre la Camera perchè adotti certe mie riforme postali che intendo proporre quando sarò ministro delle finanze. Ah! tu credevi che dormissi sui miei capitali! Dei piani grandiosi ce ne sono qua dentro!... Figurati che io mi sono prefisso di far passare una legge, per la quale non verrà più accettata nessuna lettera negli uffizi postali del Regno, se non porti quattro suggelli di ceralacca. — Che ti pare? — Che ti pare?
— Stupendo!
— Se il mio progetto venisse votato, noi diverremmo milionari!
— Se riesci ad essere ministro, la maggioranza è per te indubiamente.
— All'opera, Clementina! Ma no!... adagio un poco!... E quella che tu chiamavi...
— La collaborazione?...
— Sicuro! come è lunga questa parola! — come faremo noi per avere prontamente la collaborazione?...
— Oggi, domani, quando vuoi — ci sono tanti scrittori a Milano!
— È vero! che bestia!... Il nostro notaio ne tiene quattordici nel suo uffizio... Potremmo... pregarlo.
— Ma no!... Per fare un giornale, ci vogliono dei letterati!... Permetti che io ti dia un suggerimento.... o meglio ancora, mettiamoci subito all'opera. Prendi un foglietto di carta, Onofrio, e scrivi ciò che io ti detto.
— Sentiamo!...
— Sei pronto?... Si tratta di un avviso che faremo inserire domani nella quarta pagina del Pungolo. — Da bravo! « Si ricerca un giovane... »
— Un giovane?... E tu credi, Clementina, che un uomo di età matura non potrebbe servire?...
— I giovani costano meno, e fanno meglio il servizio. « Si ricerca un giovane bene istruito nelle lettere... »
— E di sana morale...
— Mettiamo pure: e di sana morale, per un impiego civile...
— Ed onorifero...
— Ed onorifero... stipendio da convenirsi... Per le trattative presentarsi allo studio del signor Onofrio Bartolami negoziante di ceralacca....
— E giornalista...
— E giornalista... in Borgo Spesso al numero 2844... Basta!
— Hai detto?
— Ho detto che questo avviso inserito nella quarta pagina del Pungolo chiamerà intorno a noi non più tardi di dopo domani, parecchie centinaia di letterati aspiranti alla collaborazione...
— Cento collaboratori! Clementina: non ti pare che una metà basterebbe?
— Anche dieci, anche cinque, anche uno, purchè fosse di quelli... come intendo io!
— Hai detto?...
— Presto! Mandiamo Silvestro all'uffizio degli annunzii! — Lanciamo il gran colpo!... Sono già le dieci, è tempo che io scenda in negozio... A rivederla, signor giornalista, signor deputato!...
— Clementina!... puoi ben chiamarmi ministro.
II.
Dopo il dialogo che abbiamo riferito, i nostri lettori non avranno bisogno di ragguagli molto estesi per conoscere i due protagonisti del nostro racconto.
Clementina è una bella e nerboruta donna di circa trent'anni — il marito ha oltrapassato la cinquantina — un uomo grasso, che porta occhiali e parrucca. — Due coniugi bene assortiti, come ve ne hanno molti. — Da una parte la vitalità esuberante, il fuoco, il sensualismo e l'astuzia. — dall'altra, molto adipe e molta linfa, l'ambizione grottesca di un mezzo idiota, che vorrebbe elevarsi a cariche illustri pel merito de' suoi capitali.
Onofrio Bartolami non è privo di un certo criterio commerciale. Nella sua qualità di fabbricatore e negoziante di ceralacca rappresenterebbe un individuo rispettabile. Senza la rivoluzione del 1859, senza il fermento delle idee politiche e delle ambizioni dissennate, per le quali da sette anni si va travolgendo il criterio pratico delle masse e quello degli individui, il signor Onofrio si sarebbe acquietato nelle agiatezze, nella modesta compiacenza di una prosperità creata da lui. Appena andati i tedeschi, incominciò a politicare come tutti; inesorabile dapprima cogli uomini del governo, si chiamassero Cavour o Rattazzi, più tardi si lasciò vincere dal partito più mite — vide salire degli uomini, che a suo credere valevano meno di lui — indovinò che l'opposizione non è il mezzo più pronto per ottenere delle onorificenze — e leggendo nei giornali che il tipografo Civelli ed il Maglia, due individui della sua condizione, eran stati elevati al rango di cavalieri, in luogo di irritarsi per invidia, non sentì che lo stimolo della emulazione. — Se essi, dunque io — riflettè il Bartolami — e il concetto era logico. — Da quel giorno il negoziante di ceralacca ebbe il cervello in perpetua combustione onde scoprire la via per sorpassare i suoi colleghi di industria divenuti cavalieri; e il dabben uomo a forza di fantasticare, era giunto come vedemmo, a sognare un portafogli di ministro. Per maggiore schiarimento delle scene che ora vanno a succedersi, aggiungeremo due parole sulla erudizione politica e letteraria del dabben uomo. Egli non aveva mai letto alcun libro, e prima del 1859, non aveva mai gettato gli occhi sopra alcun giornale. Cominciò a comperare regolarmente il suo numero del Pungolo ogni sera, quando il più popolare, e diciamolo, il più stuzzicante dei giornaletti milanesi, ebbe iniziata la rubrica del Gazzettino di Città. Due famosi processi, quello del Boggia e l'altro delle sorelle Galavresi, insensibilmente lo avevano condotto a divagare nelle corrispondenze politiche e nei dispacci dell'Agenzia Stefani. La crisi burrascosa della Convenzione, e il fermento delle aspirazioni ministeriali lo indussero, in questi ultimi anni, a leggere da capo a fondo tutto il giornale, compresa la quarta pagina, ch'egli trovava monotona. Ma un altro genere di erudizione si era fatta il signor Onofrio, e ci teneva — l'erudizione storica, acquistata da lui insensibilmente, senza fatica di letture, per mezzo dell'abbonamento al teatro.
Il nostro negoziante di ceralacca aveva la passione dell'opera in musica e della coreografia; da circa vent'anni egli era assiduo ai teatri — Abbonato perpetuo alla Scala, immancabile alle prime rappresentazioni del Carcano e del Santa Radegonda, egli credeva nei libretti d'opera e nei programmi da ballo, come in altrettanti testi di istoria.
Una sera, udendo un suo vicino di sedia fissa accusare di inverosimiglianza i gamberi del Flik e Flok, ebbe a dirgli con molto sussiego: «eppure, chi conosce la storia non trova nulla di sorprendente in codeste apparizioni: anche alla Canobbiana, in un ballo storico del Rota, furono veduti ballare dei grossi pipistrelli!»
Dopo tali premesse, procediamo nel nostro racconto.
III.
Clementina, dopo la scena che abbiamo riferita, discese nella bottega, e quivi, con molte cautele, si fece a scrivere la lettera seguente:
«Adorato Rodolfo!
«L'affare del giornale è combinato. Onofrio metterà a nostra disposizione i capitali necessari. Tu volevi partire da Milano, ingrato! Volevi lasciarmi... dopo tante promesse... dopo tante dichiarazioni di amore!... E tutto ciò, perchè qui non trovavi modo di far brillare il tuo ingegno... Egoista! Tu posponevi l'amore all'interesse... all'ambizione... Basta!... Ho pensato io. Nella quarta pagina del Pungolo vedrai domani sera un avviso col quale si fa ricerca di un giovane istruito, per un impiego. Questo impiego è la redazione del giornale di mio marito. Il numero dei concorrenti sarà grande; ti prego dunque di prevenirli — sii sollecito. Dopo domani, presentati allo studio verso le otto del mattino; credo non ti sarà difficile metterti d'accordo con Onofrio — d'altronde, ci sarò anch'io! Prudenza nelle parole, negli sguardi! Tu sei giovane, Rodolfo — e mio marito patisce l'ombrìa. Procura di solleticarlo nell'amor proprio.... Ci vuole un po' di pazienza anche da parte tua — io ne ho avuta tanta! Non badare se egli vien fuori con delle sciocchezze... Sulle prime non bisogna contrariarlo — poi, gradatamente, col tempo, riusciremo a tutto. Pensa al tuo avvenire, al mio... alla felicità che ci aspetta. Vederci ogni giorno! trovarci assieme!... Rodolfo!... Noi stabiliremo l'ufficio del giornale in un grande magazzeno attiguo al negozio della ceralacca... Mio Dio!.. È questo un sogno? È questa una realtà?... Tutto dipende da te... Rodolfo... Io dubito ancora che quanto mi andavi dicendo sulle difficoltà di istituire un giornale in Milano non fosse che un pretesto per andartene... Se un tal dubbio si cangiasse in certezza, io morirei di dolore — Rodolfo! io ti amo sempre... Dopo domani... a otto ore del mattino... siamo intesi! Io ti aspetto colla morte nel cuore...
La tua C...»
La lettera fu suggellata con ceralacca color di rosa, e quindi spedita immediatamente al domicilio di Rodolfo Barcheggia, per mezzo di Silvestro, garzone di bottega e segretario intimo della signora.
IV.
Rodolfo Barcheggia è un letterato come ce ne hanno mille in Italia, ma si distingue dalla maggioranza per una certa floridezza di volto, per una certa energia muscolare, che è privilegio rarissimo negli individui della sua specie. — I letterati, in Italia, e segnatamente a Milano, sono magri e brutti.
Ha venticinque anni — capigliatura folta e assai bene acconciata — naso pronunziatissimo e un bel paio di mustacchi. Venne a Milano in sul finire del 1863 — come tanti altri — per vendere letteratura e far debiti. — Fu ammesso alla collaborazione di parecchi giornali politici. Sventuratamente, erano giornali mal predestinati; quello che ebbe più lunga vita durò una settimana. Dopo tali esperienze, era ben naturale che il nostro Rodolfo prendesse in avversione una città sì poco favorevole ai suoi prodotti letterari. Nelle intermittenze frequentissime della sua carriera giornalistica, il Barcheggia si atteggiava a martire, fremeva, inveiva nei caffè e nelle trattorie contro la stampa corrotta; ma ogni sera, prima di coricarsi, batteva il pugno sulla tavola esclamando: Perdio! che non si trovi alcuno, il quale sia disposto a corrompermi! — E c'era della ingiustizia ne' suoi sdegni, ne' suoi rancori contro Milano! Egli aveva trovato nella città nostra degli ospiti cortesi — un oste republicano, che gli forniva il pranzo ogni giorno, a conto della futura repubblica — e un sarto dabbene, che supponendo di aver a fare con un futuro ministro, lo vestiva in anticipazione.
Ma la repubblica e il portafogli si facevano aspettare. Il nostro amico Barcheggia cominciava a sentire gli imbarazzi della aspettativa — ed era deciso a cercare un campo più vergine dove seminare il suo genio disconosciuto. Di questa deliberazione — come è facile indovinare — non avea fatto parola ad alcuno, eccetto a lei sola, alla donna che tuttavia lo teneva invischiato a Milano colla... ceralacca.
La lettera di Clementina fa consegnata a Rodolfo mentre questi usciva dal caffè Lavezzari, dopo una furiosa declamazione contro i giornalisti venduti. In quella sua arringa estemporanea, declamata nell'applauso di tutta la sala, il Barcheggia aveva protestato di esser pronto a morire di fame piuttosto che sacrificare la propria indipendenza di libero scrittore.
E noi, in luogo di riferire le impressioni che la lettera di Clementina produsse nel giovane letterato, sorvoleremo allo spazio di quarantotto ore, per vederne immediatamente l'effetto.
V.
Quella mattina il signor Onofrio Bartolami si levò di buon'ora, e la moglie con lui.
— Io credo che i concorrenti non si faranno aspettare — disse il negoziante di ceralacca — bisogna prepararsi a riceverli... Tu sarai presente, Clementina... Diffido di me stesso... È la prima volta che abbiamo da fare con della gente letterata, e non vorrei sfigurare... Cognizioni ne abbiamo molte... ma tu sai, Clementina.... si tratta di parlare toscano.... ed io.... sventuratamente.... non ho mai voluto esercitarmi a questa lingua....
— Non aver paura... Saremo in due... Che serve il prendersi soggezione? Se provi qualche difficoltà a parlare il toscano, ricorri prontamente al tuo meneghino... e ciò farà dell'effetto.
— Attenzione, Clementina!... Mi pare che abbiano suonato.... Mancano venti minuti a otto ore.... Cominciamo per tempo!
Silvestro bussò leggermente all'uscio della camera.
— Signor Onofrio, c'è là fuori un giovinotto che desidera parlarvi...
— Il suo nome? — domandò Clementina ansiosamente.
— Telesforo Riga.... ed è venuto per quel tale avviso del Pungolo.
— Fallo entrare nel gabinetto — rispose il Bartolami — fra due minuti saremo a' suoi ordini.
— Telesforo Riga! — mormorò Clementina — in guardia, marito mio!.. Troppo di buon'ora... I primi a concorrere sono quasi sempre i peggiori...
— Giudicheremo! disse il Bartolami sbuffando.
Il fabbricatore di ceralacca era in preda ad un affanno convulso.
Poco dopo, i due coniugi Bartolami entrarono nella sala, dove un giovine di bell'aspetto, ma alquanto scucito negli abiti, stava attendendo.
Il Bartolami si era messo l'abito di gala e la cravatta bianca. Clementina portava un elegante peignoir di mattino, che disegnava perfettamente i contorni pronunziati della sua bella persona.
Il giovine fece un inchino alla signora: poi, volgendosi al Bartolami che a sua volta si profondeva in inchini per darsi il tempo di meditare un complimento in lingua italiana, gli porse una lettera.
Il Bartolami sedette gravemente, si pose gli occhiali, e dopo aver letto:
— Ella dunque, disse al giovane, ella dunque aspirerebbe all'impiego di collaudatore?....
— Si tratterebbe — entrò a dire Clementina — di collaborare ad un giornaletto sul far del Pungolo, che uscirebbe ai primi del prossimo gennaio sotto la direzione di mio marito... qui presente!... Crede ella di poter assumere la responsabilità.... della pubblicazione?....
— In verità.... io non sapeva.... io non credeva.... Il signor Civelli mi aveva fatto sperare che presentandomi alla signoria vostra con una sua lettera commendatizia, avrei potuto, nella mia qualità di colorista, impiegarmi alla fabbricazione della ceralacca....
— Ah! ah!.... la ceralacca!.... Sicuramente... Ma vi è ceralacca e ceralacca!.... Bisogna distinguere.... Ora si tratterebbe della ceralacca politica, che è quanto dire un giornale della sera... il giornale che devo far io... previa la mano d'opera di qualche collaudatore... o meglio collaboratore... come direbbe nostra moglie.
— Se si tratta di un giornale... mi spiace, signore... di averla incomodata inutilmente... Il cavaliere Civelli mi aveva incoraggiato a presentarmi... essendo anch'egli molto lontano dai supporre....
— Ebbene, giovanotto — andate a dire al cavaliere Civelli.... andategli a dire che Onofrio Bartolami.... Ma no.... no, giovanotto! Non gli state a dir nulla.... Già, fa lo stesso!... Fra pochi giorni le cantonate di Milano parleranno a chi non vuol intendere.... e vedremo!... ci sarà da ridere per tutti.
Il giovane fece un inchino, ed usci dalla sala come trasognato.
— Ho preso coraggio! disse Onofrio alla moglie — finchè si ha da fare con gente che parla come noi il meneghino....
— Ti raccomando di far bene attenzione nel pronunziare la parola: collaboratore!...
— Una parola che ho trovato un po' lunga fino dal primo giorno che l'ho intesa proferire... Attenzione! Hanno suonato!
Clementina gettò uno sguardo alla pendola. La sfera segnava le otto — doveva esser lui...
Mentre il signor Onofrio prendeva un atteggiamento da redattore in capo, Silvestro si affacciò alla porta della sala, annunziando il signor Rodolfo Barcheggia, uomo di lettere.
Il volto di Clementina si animò di un roseo più vivace. Un'occhiata rapida e significante espresse al giovane tutta la gioia, tutta la riconoscenza della donna innamorata.
Rodolfo, come avesse da fare con persone affatto nuove per lui, si inchinò all'uno ed all'altra — e volgendosi al fabbricatore di ceralacca: — signore, gli disse, io ardisco presentarmi a lei dietro un invito che lessi casualmente ier sera nella quarta pagina del Pungolo. — Io mi terrò fortunatissimo di impiegare i miei scarsi talenti al servizio di una persona intelligente, operosa ed onesta, quale è universalmente riputato il signor Onofrio Bartolami... Perdoni se ho ardito disturbarla ad ora così mattutina — ma il dubbio che altri mi prevenisse... la brama ardentissima di occuparmi presso di lei, mi ha fatto sorpassare alle convenienze; sono venuto, come direbbe un poeta, sull'ali del desio, sulle penne dei venti!
Rodolfo parlava l'italiano con affettazione, facendo spiccare le consonanti come un comico del teatro Fossati. Il povero Bartolami, a udire quelle doppie erre mordenti come lime, quelle doppie esse che parevano il fischio di una locomotiva, non ebbe più coraggio di parlare. Si volse a Clementina con un'occhiata supplichevole, la quale pareva dire: Aiutami! parla tu in vece mia! — Ma quella aveva le sue buone ragioni per affettare la più scrupolosa riserva.
Alla fine, dopo lunga esitazione, come uomo che riveli un misfatto, il signor Onofrio, coll'accento italiano che per lui era possibile, riuscì a proferire alcune parole.
— Si tratterebbe di impiantare un giornale!...
— Quotidiano? ebdomadario?.... Io propenderei all'ebdomadario — interruppe Rodolfo col suo fare da giornalista consumato.
— Avete detto?...
— Io vi chiedeva se sia nella intenzione vostra di istituire un giornale ebdomadario... o non piuttosto...
— No!... non... piuttosto... Ecco!... Al titolo ci ho già pensato io... Quello che voi proponete è troppo lungo... e da noi, a Milano, le parole lunghe non piacciono... Io avrei stabilito di intitolarlo La Ceralacca.
— Un titolo abbastanza originale... e... se vogliamo, per chi sa intendere... abbastanza espressivo... Non è facile, come si crede, trovar un buon titolo, un titolo che interessi, che stuzzichi la curiosità del pubblico e riepiloghi tutto un programma. Ah! noi siamo pratici del mestiere! Io credo aver indovinato gli alti intendimenti politici che si celano sotto la bizzarria del vostro titolo! Voi siete un repubblicano... come lo sono io... come tutti coloro...
— No! io non sono... repubblicano.... al contrario.... io l'ho a morte con tutti quelli che parlano di repubblica. Conosciamo la storia!... Vittore Pisani... i due Foscari... Marino Falliero... che so io?...
Rodolfo Barcheggia fece un sorrisetto tutto miele — e avvicinandosi al Bartolami per stringergli la mano — via! non mettiamoci in allarme per una facezia! gli disse. Noi siamo perfettamente d'accordo nelle massime — soltanto mi è piaciuto prevenire la signoria vostra che la ceralacca potrebbe suscitare degli equivoci, e far intravedere del rosso, del fiammante, là dove si vuol mettere il candore e il frigido della neve.
— Voi dunque... sareste di parere... che avessimo a scegliere un altro titolo?
— Io non oso dar consigli ad una persona tanto illuminata e tanto colta...
— Avete detto?!...
— Signore: prima che esca il giornale, avremo tempo di riflettere al titolo... Ora, innanzi tutto, mi converrebbe sapere quali sarebbero, nel caso vi degniate prevalervi dell'opera mia, le mie attribuzioni nella collaborazione del vostro giornale. Nella vostra qualità di proprietario e redattore in capo, voi vi incaricherete dell'articolo di fondo.
— Già!... ben inteso!... L'articolo di fondo... Che ti pare, Clementina?...
— Amico mio, risponde la donna con un sorriso pieno di affabilità e di malizia — badiamo di non aggravarci troppo! L'articolo di fondo, se non mi inganno...
— È quello che si stampa nella prima colonna — soggiunge il Barcheggia inchinandosi alla signora.
— Ah!... nella prima colonna! osserva il Bartolami crollando il capo. E si chiama articolo di fondo!.... Voi altri... o per dir meglio... noi altri giornalisti abbiamo certi modi di esprimerci... Basta!... Articolo di fondo, articolo di mezzo, per me fa lo stesso... Mia moglie ha detto bene... non vorrei aggravarmi troppo...
— In tal caso — riprende il giornalista — è meglio che il signore rinunzii per sempre all'articolo di fondo, e invece, come usano in Francia e in Inghilterra i redattori in capo dei grandi giornali, si occupi esclusivamente della polemica. Non c'è scampo... L'articolo di fondo esige un travaglio quotidiano...
— Dev'essere un lavoro difficile... e noioso... — interrompe la moglie del Bartolami strizzando a Rodolfo un'occhiatina significante...
— Al contrario... deliziosissimo — risponde il giornalista a voce sommessa.
— Avete detto?...
— Ho detto... che trattandosi di esonerare la signoria vostra di un incarico piuttosto grave, io sarei pronto a fare le vostre veci... tutti i giorni — Mi permetta, signor Bartolami, di parlarle sinceramente, col cuore in mano. La redazione di un giornale è un peso grave, fastidioso, opprimente... Io parlo contro il mio interesse... Ma poichè ella è posta in una condizione tanto fortunata da poter sostenere le spese di una buona e valorosa collaborazione, faccia a modo mio... Lasci a noi... a noi poveri operai del pensiero, a noi martiri della intelligenza, a noi aratori della penna, tutte le torture del nobile e travagliatissimo ministero.... A lei le compiacenze della gloria, gli onori, i titoli, i lauri, le cariche supreme dello Stato, tutte infine quelle fortune che o tosto o tardi sorridono agli uomini di genio, agli illustratori della patria. Il genio, che per sè stesso è nulla, col denaro diviene una leva onnipotente. I tempi sono oltremodo propizii agli uomini di mente e di borsa. — Noi sotto... ella sopra! Noi qui... a sudare sulla carta... ella al Parlamento... al Senato... al Ministero... fors'anche... Ah!... noi benediremo le nostre vigilie, e il sovvenire degli spasimi lunghi, delle immani fatiche, ci aleggierà come tepida olezzante auretta intorno al capo il giorno in cui potremo dire: il Bartolami, quell'uomo degno, quell'uomo grande, ha ottenuto la gloriosa corona che gli spettava — e ciò — perdonate un leggiero fremito di orgoglio che è della umana natura! — e ciò — se non in tutto... almeno in parte.. fu opera nostra!
Rodolfo Barcheggia aveva parlato con tal enfasi, che i suoi denti sodi e compatti avevano più volte oscillato sotto la vibrazione delle consonanti.
L'effetto ch'egli produsse fu immediato, e, affrettiamoci a dirlo, superiore ad ogni aspettativa.
Il Bartolami sudava e piangeva.
Si provò a parlare — ma la voce gli venne meno.
Si levò in piedi, strinse la mano al giovine; e appena fa in grado di articolare qualche parola:
— Noi... non saremo ingrati... — gli disse — se arriveremo... dove dobbiamo arrivare... Frattanto vi prendo al mio servizio... Voi sarete il primo... e forse l'unico collaboratore della Ceralacca... Siate moderato nelle pretese... Fatemi il preventivo... Io debbo uscire per affari d'interesse.... e tornerò fra un paio d'ore.... Intendetevi con Clementina — quello che farete sarà per ben fatto!
Il Bartolami strinse nuovamente la mano del giovine, e poi, dopo aver salutata la moglie con un'occhiata significante, uscì dalla sala più tronfio che mai.
Il buon uomo si sentiva ministro.
VI.
— Ebbene!
Questa parola fu esclamata da Clementina con eloquentissimo accento.
— Egli ha detto di fare un preventivo! rispose Rodolfo sorridendo.
Il giovine stese la mano, e Clementina si slanciò nelle sue braccia.
Noi non amiamo intrattenerci su tali episodii amorosi — sono troppo comuni, e i nostri lettori di venti o trent'anni potrebbero darci lezione nel crearli non meno che nel descriverli.
Questo solo diremo, che il preventivo fu steso ed approvato da ambe le parti con pieno consenso e con reciproca soddisfazione.
Frattanto, mentre Rodolfo e Clementina stipulavano a tutto loro agio i patti della collaborazione, l'anticamera si era popolata di gente. Erano letterati e giornalisti della specie nomade, di quelli che ad ogni annunzio di nuovo giornale accorrono agli uffizii di Redazione per offrire un tributo spontaneo dei loro talenti.
Telesforo Riga, uscendo dal Bartolami, aveva commesso la indiscrezione di narrare ad alcuni suoi amici del caffè dell' Europa la scena occorsagli quella mattina col fabbricatore di ceralacca.
Quel racconto comico e burlesco aveva fatto ridere la piccola comitiva, ma alcuni letterati che sedevano a poca distanza intorno ad un tavolino, n'erano rimasti impressionati più seriamente.
In meno di un quarto d'ora, tutti quei letterati erano usciti dal caffè, e senza che l'uno sapesse dell'altro, si erano avviati alla contrada di Borgo Spesso, all'indirizzo del negoziante di ceralacca.
A dieci ore tutta la Boemia letteraria di Milano sapeva del nuovo giornale, e gli aspiranti alla collaborazione muovevano isolati e taciturni verso la casa del Bartolami, portando ciascuno un lauto corredo di manoscritti o di opuscoli stampati.
Trattenuti nella anticamera dall'accorto Silvestro — il quale era uso ad assecondare i desideri ed i capricci della signora meglio che non obbedisse agli ordini del padrone — quegli irritabili e gelosi confratelli d'arte avevano dovuto necessariamente rivelarsi l'uno all'altro.
Capi ameni, del resto, giovialoni, pieni di spirito come gente in bolletta, avevano ingannato quelle lunghe ore di attesa con uno scambio di facezie edite ed inedite, con degli epigrammi più insolenti che arguti, diretti, la massima parte, contro l'istitutore del nuovo giornale.
Non vi era alcuno il quale non convenisse il Bartolami essere un grande imbecille; ma tutti, nel fondo del cuore, vagheggiavano la gloria di vedersi ammessi nel di lui uffizio di redazione.
Verso mezzogiorno, il signor Bartolami ritornò alla propria abitazione.
Nell'anticamera egli ebbe quasi paura. C'erano fra quei giornalisti delle figure, se non sinistre, poco rassicuranti: delle faccie lunghe e sparute; dei vestiarii molto equivoci, delle scarpe rosse e fameliche che mostravano i denti.
Il Bartolami interrogò il servitore con una occhiata piena di stupore e di sospetto.
— Sono tutti giornalisti... letterati, rispose Silvestro — tutta gente venuta per quell'avviso del Pungolo!
— Ah!... sta bene!... mi congratulo!... Signori: abbiano la pazienza di aspettare qualche minuto.
Così parlando, il Bartolami attraversò l'anticamera ed entrò nella sala.
Rodolfo Barcheggia era intento a scrivere. Clementina, seduta a qualche distanza da lui, trapuntava un canevaccio, e pareva tutta assorta nel lavoro.
— Ebbene? ci siamo messi d'accordo? Abbiamo concluso?
Clementina, col suo fare più indifferente, affermò colla testa. — Il giornalista, levando la faccia dal foglio, rispose che il contratto era steso, non mancare che l'approvazione e la firma del redattore in capo.
Bartolami lesse rapidamente la scrittura, e parve soddisfatto. Nondimeno pose in campo qualche obiezione sul titolo del giornale. In luogo di chiamarlo La Ceralacca come egli avrebbe desiderato, lo si voleva intitolare l' Unione Patriottica.
— Questo titolo l'ho scelto io, rispose prontamente Clementina. — La Ceralacca e l'Unione presso a poco hanno il medesimo significato. Ho creduto che, trattandosi di un giornale serio, di un giornale ministeriale, il secondo titolo valesse meglio del primo. — Onofrio: pensiamo all'avvenire! Noi ci mettiamo per una via dove avremo a combattere la malignità e l'invidia. Se ti avvenisse di farti eleggere deputato, mi par già di sentirli! — ti chiamerebbe il deputato della Ceralacca.... Mio Dio!... Si fa tanto presto a diventare ridicoli per una parola!...
Il Bartolami si lasciò persuadere — e tosto, senz'altre parole, le convenzioni furono segnate dall'una parte e dall'altra — Il nostro fabbricatore di ceralacca si obbligava a fornire immediatamente la somma di cinquemila lire per le prime spese di impianto, istituendo l'Ufficio del nuovo periodico in un locale al piano terreno della propria abitazione, in prossimità del negozio. E poichè in un articolo del contratto era pattuito che si avesse a rinforzare la collaborazione con uno o più scrittori liberamente eletti dal redattore in capo, il Bartolami ordinò a Silvestro di spalancare le porte: — onde tutti quei tipi svariatissimi del genio giornalistico si precipitarono nella sala per esporsi alla rassegna.
VII.
Attenzione: signori e signore!
La rassegna è interessante — Essa vi dirà come si fabbricano certe riputazioni letterarie, come si scrivano certi articoli, di qual pasta si formi il ripieno di certi giornali altrettanto stupidi che bricconi, i quali riescono qualche volta a farsi ammirare dalle masse idiote, od a farsi temere da quegli istessi che più il disprezzano.
Avanti, signor... Ragno-topo!... Sappiamo! Non è il vostro nome di casato, e meno ancora il vostro nome di battesimo.... Vi chiamate?... Voi potete chiamarvi ciò che volete, ma gli altri vi chiamano Ragno-topo. — Letterato — Troppo giusto! Sapete leggere e scrivere — scrivere come il mio fattore, che finisce tutte le sue lettere con tanti rispeti a tuti della cassa.... Ma no! la vostra ortografia è più esatta: in compenso siete più debole nella grammatica — Come lo sapete? — Ho veduto degli originali di vostra testa. — Gli opuscoli stampati, che vanno in giro col vostro nome, non hanno a che fare colle emanazioni occulte della vostra sapienza. Cosa domandate? — l'onore di scrivere nella Unione Patriottica. — Qual genere? — Tutti i generi son buoni: politica, letteratura, belle arti, mode... — Ecco!... Avrei già pronto il primo capitolo di una novella per l'appendice del vostro prima numero... L'ho scritto l'altra notte... dopo aver assistito ad una festa da ballo di famiglia... — Voi lo sentite!... Ebbene quel primo capitolo di novella, da oltre otto anni gira come un mendicante da uno in altro uffizio da giornale, domandando alloggio per una sera negli umili appartamenti del pian terreno. Un mendicante dal muso duro... che cacciato ripicchia alla vostra porta con insistenza perchè lo cacciate di nuovo — un mendicante, che si presenta coi guanti e colla cravattina di raso terso e pulito come un topo, livido come un ragno — i due animaletti che gli prestarono il nome. Chi non ha veduto, chi non ha fiutato quell'esordio di novella? — È però certo che, da otto anni a questa parte, nessun proprietario o redattore di giornale ha osato produrre al pubblico l'insigne capolavoro dal nostro Ragno-topo... E sapete come abbia risposto il Ragno-topo a codesta manifestazione, in verità non troppo lusinghiera, del despotismo giornalistico? — Come risponderà domani ai due redattori della Unione Patriottica i quali probabilmente respingeranno il manoscritto. Il topo correrà dall'uno all'altro estremo di Milano, ficcandosi in tutti i caffè, in tutti i luoghi di convegno, in tatti i gabinetti dov'egli abbia libero accesso — il ragno schizzerà da tutti i pori la sua bava schifosa e venefica, per uccidere, se gli è possibile, il redattore temerario che non volle saperne di lui. I ragno-topi sono terribili — guardatevi dai ragno-topi della letteratura! Essi hanno il genio della loro nullità — non potendo elevarsi, tutta la loro esistenza è impiegata a rimpicciolire chi li sovrasta di due palmi. Se in qualche giornaluzzo inavvertito vi occorre di leggere un' interlinea vigliaccamente mordace contro uno scrittore, contro un giornalista di qualche fama, dite pure: il topo ci ha messo il suo zampino, il ragno ci ha messo la sua bava — E dopo tutto... che giova? Il regno dei topi è nel tombino, e i ragni, esaurita la bava, diseccano sul loro fragile tessuto.
Vediamo quest'altro, il signor... Grattignoni.... Si annunzia poeta, ma in realtà non è che un letterato il quale non sa scrivere in prosa — Metterebbe in versi l'Orario delle strade ferrate, se un tale assunto non richiedesse troppa originalità di concetti.
L'idea della originalità è uno sgomento per lui — tanto ciò è vero, che egli preferisce di togliere a prestito le sue liriche dai vecchi giornali che hanno fatto il loro tempo anche nelle botteghe dei pizzicagnoli. Egli ha un talento particolare per ridurre a nuovo la roba antica, per improntarla di attualità.
Cappello nuovo e scarpe nuove — questo è il suo segreto per riprodurre nel mondo letterario le cantiche obliate. Due strofe di sua creazione, una alla testa e l'altra ai piedi — eccovi la creatura risorta. Taluni hanno osservato che i suoi cappelli molto spesso mancano di piedi — non importa: basta illudere la maggioranza. — Il Grattignoni è di buona fede — quand'egli è riuscito a copiare un sonetto in buona calligrafia, si persuade molto facilmente di averlo composto. Da qualche tempo il Grattignoni nella retroscena del giornalismo fa della pratica per iscrivere in prosa. Il suo genio rattoppatore, o trasformatore che si voglia, venne usufruttato da due o tre redattori in capo, che di loro capo nulla o ben poco producono. Grattignoni riduce i bons mots parigini in frizzi milanesi, in facezie contemporanee, in spiritelli, in cicalate. Dategli una Cronaca parigina, ed egli pescherà dal naviglio tutti gli annegati della Senna. I suoi versi, come i suoi aneddoti, pubblicati in un giornale di qualche credito, possono sembrare originali agli abbonati di Introbbio o della Valle di Gandino.
Quest'altro ha delle pretese di critico musicale. Offre gratis la sua collaborazione, per ciò solo che, essendo un enfatico dilettante di teatri, ottiene con questo mezzo il favore delle libere entrate.
Non è mai riuscito a pubblicare la sua prima rassegna teatrale — tutti i giornali, che avevano accettato la collaborazione dell'insigne critico, morirono dopo il terzo numero. Contuttociò egli gode l'accesso gratuito alla Scala, al Carcano, al teatro Re, al Fossati, perfino al circolo dei cavalli e al serraglio delle belve feroci, quando a Milano agiscono i cavalli e le belve. Sui registri dei diversi camerini teatrali egli è iscritto quale appendicista del Momento, della Gente latina, dell' Era nuova, del Me ne impippo, dell' Elettore, del Telegrafo, della Gazzetta popolare e d'altri periodici.
Il nostro insigne appendicista tiene sempre nel portafoglio l'esordio della sua prima appendice, che egli legge agli amici, ai conoscenti, e più spesso agli impresarii ed ai capo-comici, ogni qualvolta egli veda minacciati i suoi diritti all'ingresso libero. Quell'esordio è scritto in stile umoristico, e comincia con questo tratto spiritoso ch'è di ultimo gusto: « Io scrivo, tu scrivi, quegli scrive... noi scriviamo, voi scrivete, coloro scrivono! » È voce che il guardaportone della Scala abbia trovato del sublime in questa facezia!
* * *
Chi è quel figuro abbottonato, che vorrebbe darsi l'aria di un gran personaggio, e lascia intravedere da' suoi sguardi furbeschi e inquieti il cavaliere di industria? Il sotto-mezzano, il vice-corriere della cronaca criminale, che supplisce ai corrieri ordinarii ogni qualvolta si tratti di processi insignificanti. In tali casi, egli si incarica di riepilogare i fatti e i dibattimenti per passarli sottomano ai redattori del gazzettino. — Gli incriminati, o gli aventi causa si raccomandano a lui per impedire la pubblicità dei processi, per ottenere delle reticenze o delle modificazioni. Il nostro vice corriere ha stabilito una tariffa pe' suoi piccoli servigi. Per venti franchi, egli sostituisce al nome degli incriminati le sole iniziali, per franchi quaranta sopprime anche queste. Mesi sono, al tribunale correzionale si agitava il processo di un tal Bislemacchi.... La madre dell'accusato, una povera donna, temendo che il nome del figlio comparisse disonorato nei Gazzettini di città, si raccomandava piangendo al vice-corriere della stampa. Questi con voce melata le espose i suoi prezzi di tariffa.
— Ebbene! disse la povera madre; domani vi manderò venti franchi perchè mettiate le sole iniziali. — Benissimo! rispose l'altro; aspetteremo a pubblicare il resoconto... ma badate che domani per le dieci io abbia in casa la somma. — Il mattino seguente la povera donna spediva al vice-corriere tutto il danaro che aveva potuto raccogliere, il quale non ammontava che a dieci franchi meno venti centesimi. Come si fa? La giustizia dev'essere eguale per tutti, pensò il vice-corriere calcolando — per dieci franchi meno venti centesimi non si può sopprimere tutto il nome... Vediamo ciò che si può fare per non uscire dalla legalità. — Quella sera, i diversi Gazzettini riferivano il processo giudiziario nel modo seguente: «Oggi sedeva sul banco degli accusati un tal Bislem.... gravemente indiziato, ecc.» — Il vice-corriere aveva soppresso la seconda metà del nome per dieci franchi ricevuti, e aveva lasciato correre la prima parte con una lettera di giunta la quale rappresentava i venti centesimi mancati.
Gingillino — bel nome! — un giovanotto di buona famiglia, il quale non volle saperne di fare il suo corso regolare al Ginnasio ed al Liceo — ed è venuto a Milano dalla provincia per iniziarsi alla carriera delle lettere — Le lettere sono un pretesto per lui; un pretesto per carpire danaro al papà, un pretesto per introdursi nelle famiglie a far strage di... fanciulle — egli adora le fanciulle! — Cosa ha scritto? nulla — ma tutti gli elenchi di collaboratori portano il di lui nome. Una volta che il suo nome sia stampato nell'elenco, egli va in giro preconizzando le meraviglie del periodico che sta per uscire, lo raccomanda, gli procaccia degli abbonati. Spedisce al papà cento, duecento copie del programma; questi lo propaga fra i suoi conoscenti, e va tutto in solluchero nel vedere suo figlio nobilmente assiso fra i più celebri campioni del giornalismo.
Ma gli articoli di Gingillino?... Chi li ha veduti? Il giornale fa il suo corso — nasce — vegeta e muore... Non mai un articolo segnato Gingillino. — eppure tutti dicono che egli lavori... che egli scriva... giorno e notte — Si odono dello ragazze esclamare: quel racconto di Gingillino mi ha fatto piangere — Volete la chiave dell'enigma? — Gingillino si appropria la paternità di tutti gli articoli, di tutti i racconti, di tutte le poesie che vengono in luce senza nome. — È carità, non è vero? — Poichè Gingillino figura nell'elenco dei collaboratori, qual meraviglia che sieno di sua fattura tutte le composizioni anonime che si leggono nel giornale?
Quand'uno loda una poesia, una novella uscita senza nome di autore, Gingillino sorride, abbassa gli occhi, prende un'aria modesta, un fare imbarazzato, come temesse... Che cosa? È troppo trasparente quella modestia...
— Ah! siete voi, signor Gingillino, siete proprio voi l'autore di quella gemma letteraria?... L'avrei indovinato dallo stile, — Inezie! ma... io... — Che serve?... palesatevi francamente. — Ma vi dico.... e d'altronde non c'è poi tanto merito... — Ed ecco di qual modo Gingillino, senza sdruscirsi il cervello, senza consumo di inchiostro e di carta, è riuscito a farsi credere un letterato. Il papà gli scrive molto spesso dalla provincia: «ho veduto il tuo nome anche nel nuovo programma... Bada, figliol mio, di non affaticarti troppo... Va bene la gloria, ma la salute innanzi tutto.»
Largo al factotum dei giornali illustrati! Un mostro di attività — una enciclopedia ambulante — scrive otto articoli il giorno ad argomento fisso!... — Presto! Lo Streppa è arrivato... Mettiamogli dinanzi un disegno, un paesaggio, un ritratto, una figura qualunque. Un giorno lo Streppa aveva in prospettiva sul suo tavolo un Serpente boa, una Lola Montes, le Cataratte del Niagara e la Presa di S. Giovanni d'Acri. Quei disegni reclamavano ciascuno il loro articolo — quegli articoli dovevano essere compiuti e mandati all'Uffizio di Redazione in capo ad un'ora. — Credete voi che il nostro atleta si sgomentasse? Voi non conoscete il suo metodo. Lo Streppa è vecchio del mestiere e può disporre di un ricco e svariato repertorio di articoli proprii ed altrui.
Cinque anni, dieci anni sono, lo Streppa ha scritto un articolo sul Serpente a sonagli; orbene: con poche varianti, con poche modificazioni, quell'articolo può applicarsi al Serpente boa. A Lola Montes si adatta come un guanto la biografia di Miss Ella — per le Cataratte del Niagara può servire una descrizione del Fiume Latte che altre volte ha descritto le Conche di Paderno; quanto alla Presa di S. Giovanni d'Acri, nulla più facile che il sostituire ad essa l' Assalto di Ancona o di Gaeta, un combattimento, una battaglia qualunque, tolta a prestito dai bullettini delle armate. — Eh! non sono queste le grandi prodezze letterarie, le grandi strategie del nostro collega giornalista. Il direttore del foglio illustrato un bel giorno rileva per poco prezzo tutto un emporio di vecchie incisioni in legno od in rame che sia, per usufruttarle come novità nelle pagine del suo giornale. Di queste incisioni, parecchie non hanno senso; forse l'ebbero un tempo, ma le tradizioni si perdettero collo sbiadirsi delle linee. — Una volta allo Streppa fu mandata una incisione che rappresentava una vasta campagna predominata da un monumento in rovina. Si trattava di dare un nome a quei ruderi antichi e di scrivere in proposito un articolo serio. — Nessuno, meno lo Streppa, avrebbe raccapezzato un concetto da quelle sbiaditure di colonne e di stipiti insignificanti. Ebbene: mezz'ora dopo, il direttore del foglio illustrato riceveva di rimando la incisione e l'articolo; e questo articolo si intitolava: Il cane di Alcibiade.
L'acuto giornalista, nell'esaminare i più intimi particolari del disegno, aveva scoperto un cagnolino quasi impercettibile accovacciato fra due alberi. — Un cane!... Perchè no?... Potrebb'essere il cane di Alcibiade... Io tengo un articolo bello e fatto su questo argomento... Dunque!... — E il direttore del giornale illustrato fu beatissimo di poter usufruttare la sua incisione.
E qui noi finiamo la rassegna, che troppo ci vorrebbe a riprodurre uno per uno i tipi di codesti vanitosi impudenti faccendieri del giornalismo che riflettono la loro vergogna sui coscienziosi, sugli onesti, su tutti quelli che coltivano le lettere con ingegno e con amore, e da quelle decorosamente cavano profitto. Questi zingari dalla stampa fanno dire alla gente che i letterati, e i giornalisti sono una massa di... buffoni.
VIII.
Noi saremmo tentati di chiudere la nostra istoria con questa rassegna, perchè con essa è compiuto lo scopo morale del racconto.
Ma il signor Bartolami è entrato nel novero dei giornalisti — e i nostri lettori vorranno vederlo nell'esercizio delle sue funzioni.
Il nuovo giornale, l' Unione patriottica, vide la luce in Milano verso la fine dell'anno. Il giorno in cui apparve il primo numero, Onofrio Bartolami si credette in dovere di uscire di casa coll'occhialino.
Rodolfo Barcheggia non volle imbarazzarsi di molti collaboratori — un ragioniere per dirigere la parte amministrativa, e un ex-sarto per lo stralcio delle notizie politiche, potevano sopperire a tutta la bisogna. A questi impiegati subalterni fu destinato un camerotto al piano terreno, squallido, disadorno, privo di luce. Al redattore un gabinetto appartato, che la moglie del Bartolami fece tapezzare di carta verdognola, e fornire di tutti i mobili indispensabili al conforto della vita. A nessuno era permesso di entrare là dentro, quando il Barcheggia vi si chiudeva per scrivere gli articoli di fondo. Lo stesso Bartolami non lo avrebbe osato.
Erano già usciti quattro numeri del giornale. Una mattina il Bartolami si levò più presto dell'usato. Egli doveva partire per Seregno colla corsa della ferrovia. Nel prender commiato dalla moglie: bada, le disse, di non aspettarmi pel pranzo; vado a Seregno per effettuare un pagamento, nè potrò tornare che a notte avanzata.
Clementina dissimulò la propria gioia con un lungo sbadiglio.
Il Bartolami non usciva mai di casa senza lasciare un promemoria nell'uffizio di redazione. Nella sua qualità di proprietario e gerente responsabile dell' Unione patriottica, egli divideva con Rodolfo il diritto di entrare, quando gli piacesse, nel gabinetto riservato. Quella mattina egli vi si intrattenne pochi minuti. Uscito, serrò l'uscio a chiave, e consegnolla a Silvestro perchè la trasmettesse al Barcheggia.
Il giovine letterato entrò nell'uffizio a otto ore — probabilmente egli avea le sue buone ragioni per prevenire tutte le mattine i suoi colleghi di redazione.
Clementina gli corse incontro con volto radiante.
— Onofrio è partito per Seregno.... non tornerà che stassera....
Questa notizia fu accolta dal giornalista con piena soddisfazione.
Silvestro gli consegnò la chiave del gabinetto, e i due amanti avventurosi vi si ricoverarono insieme
Quali colombe dal desio chiamate.
Provvidenza dei mariti!... Non erano trascorsi dieci minuti dacchè Rodolfo e Clementina si eran chiusi nel gabinetto, quando il Bartolami, con grande sorpresa e terrore di Silvestro, rientrò tutto affannato nella propria abitazione.
— Presto!... la chiave del piccolo studio! gridò il Bartolami al domestico, precipitando nell'uffizio del giornale — Sono là!... Sono là certamente!... Presto dunque, Silvestro! L'abbiamo o non l'abbiamo questa chiave?...
— Ma io... ma lui!...
— Ebbene!... Che cosa vogliono dire questi ma?... Sta a vedere che questo briccone!... Se non li trovo là dentro, giuro, o brigante, che dovrai rendermi conto tu stesso... Io so che erano là... Colle buone, Silvestro! Fuori la chiave.... o ti trascino io stesso pel collare fino al palazzo di Questura.
— Ella sa bene, signor padrone, che anche l'altro ha diritto di avere la chiave.... Io non poteva rifiutarmi... Io devo obbedire puntualmente e ciecamente...
— Dunque... ci voleva tanto?... Il signor Rodolfo è chiuso nel gabinetto... Ehi di là? — grida il Bartolami bussando alla porta — Sono io! aprite!...
Nessuna risposta.
Il servitore, indovinando la terribile posizione dei due che stanno rinchiusi, vorrebbe tentare qualche espediente per torli di imbarazzo.
— Il signor Rodolfo mi aveva detto di non lasciar entrare nessuno... perchè oggi aveva molto da fare per l'articolo di fondo.
— Eh! mi importa bene a me dell'articolo di fondo?... Là dentro ho lasciato il mio portafoglio contenente il valore di cinquemila franchi... Fra mezz'ora parte il secondo convoglio per Seregno... Aprite, signor Rodolfo! Aprite, vi dico, o ch'io sfondo la porta!....
Così gridando, il Bartolami diede una spinta all'uscio, che essendo male impiantato sui cardini, cedette a quell'urto violento.
Il fabbricatore di ceralacca e il domestico precipitarono insieme nel gabinetto, dove, con infinita meraviglia di ambedue, non trovarono che una donna, Clementina, la quale, senza dar segno di commozione, coll'aria più ingenua del mondo chiese al marito:
— Che vuol dire tutto questo fracasso?
— Vuol dire... Ma tu?... Ma il signore? Sia l'articolo di fondo?...
Il Bartolami guardava la moglie e il servitore, come un uomo cascato dalla luna.
— Che novità son queste? — riprese la imperterrita donna — mi avete tutti e due un certo fare da imbecilli!... Ho voluto un po' vedere come si tenevano lo carte di uffizio... Tu sei troppo di buona fede, Onofrio, e ti lasci condurre alla cieca da questo signor Rodolfo, che in fin dei conti potrebb'essere un briccone, un mangiapane come tanti altri... Avevo detto a Silvestro di non lasciar entrare nessuno.... Ed egli, questa bestia....
— Sicuro! — prosegue il Bartolami — questa bestia non ha capito che si trattava di lui, del signor Rodolfo, e per poco voleva impedirmi...
— Vero scimunito!
— Asino, dico io... Figurati! Mi contava che il signor Rodolfo era entrato qui dentro per scrivere l'articolo di fondo, mentre invece....
— Mentre invece, prosegue Silvestro, il signor Rodolfo giunge in questo momento all'uffizio, ed ha l'onore di inchinarsi ai miei padroni riveritissimi.
Il Barcheggia si presentò diffatti alla porta del gabinetto, e col suo fare più disinvolto salutò il Bartolami e sua moglie, come se nulla fosse accaduto.
Silvestro che era a parte della tresca, già indovinava il cammino pel quale il giovine era riuscito ad evadersi dal gabinetto; ma il Bartolami avrebbe ignorato eternamente le sue sventure domestiche, se un accidentalità singolare non gli avesse fornito dei gravissimi indizii.
Rodolfo Barcheggia, per sottrarre sè medesimo e la moglie del Bartolami ad una posizione che minacciava di farsi gravissima per entrambi, era sparito pel vano di una finestra che metteva in un angolo buio, dove ordinariamente era esposta la ceralacca a rassodarsi. Piombando in quelle tenebre, il nostro giornalista aveva immerse le estremità posteriori del suo paletot in una caldaja ricolma appunto del rosso bitume, riportando, senza avvedersene, un timbro grandioso e molto appariscente verso i confini più estremi della schiena... Pressato di rientrare nell'uffizio di redazione per dissipare colla sua presenza ogni ombra di sospetto, dopo aver scambiati col Bartolami i più cordiali saluti, Rodolfo commise la fatale imprudenza di volgergli le Spalle per sedersi allo scrittoio...
— Oh vista! Oh stupore! Oh tremenda rivelazione!... Chi vorrà negare la tua provvidenza, o gran Dio dei mariti?... Il Bartolami, appena ebbe scorta quella immensa frittata di ceralacca aderente alle appendici più ignobili del giornalista, per un moto subitaneo di istinto conjugale, alzò gli occhi al finestrino... Fu un lampo di ispirazione, ma un lampo tremendo, fatale. Il volto del Bartolami divenne rosso come il paletot del letterato traditore!
E qui porremo fine alla nostra istoria, perchè non amiamo far piangere i nostri lettori, e d'altra parte riteniamo imprudenza far ridere il pubblico alle spalle di un marito burlato.
L' Unione patriottica sospese immediatamente le sue pubblicazioni. Un breve avviso esposto sulle cantonate delle città invitava i numerosi abbonati a recarsi all'uffizio di Redazione per ritirare il denaro da essi anticipato. Dei numerosi abbonati, che in tutti erano sette, uno soltanto aveva sborsato il prezzo dell'associazione — e questi era un dabben uomo del Borgo degli Ortolani, il quale avendo veduto un numero dell' Unione che serviva di involto ad un salame, se n'era invaghito pei suoi grossi caratteri.
— Mi spiace che il giornale sia morto, diceva il dabben uomo al Bartolami, mentre questi gli rendeva il prezzo dell'abbonamento. — Era il miglior giornale che si stampasse a Milano — il solo giornale che si potesse leggere senza occhiali!
IX.
Così nascono, così vivono, così muoiono tutti gli anni una dozzina di giornali.
Quasi tutti derivano dalla medesima origine, come tendono al medesimo scopo:
Un Bartolami, l'idiota ambizioso che fornisce il denaro.
Un Barcheggia, il semiletterato in bolletta, il politicante venale, che solletica l'amor proprio di un ricco imbecille per mungergli i quattrini; e qualche volta una Clementina più o meno avvenente, che si prefigge di dimostrare al marito i vantaggi di una buona ed operosa collaborazione.
FINE.
Due Spie.
CAPITOLO I. In qual modo un uomo dotto e brutto può essere scambiato per una spia.
In sul finire del luglio 1860, pranzavano tranquillamente all'albergo del Leon d'Oro in Lecco il signor Domenico Zannadio geologo e il naturalista professor di botanica signor Candido Frigerio.
— Io parto quest'oggi per Bellano, diceva il primo.
— Benone! rispondeva l'altro. Viaggeremo in compagnia fino a Varenna, dove io scenderò dall' omnibus per tragittare a Menaggio. Intendo percorrere la valle di Porlezza e i gioghi che la fiancheggiano. La natura di quel suolo mi sembra propizia alle mie ricerche. Voi sapete ch'io vado in traccia dell' Elleboro giallo macolato, per provare al chiarissimo professore signor Gian Giacomo Mazzoldi da Imola, che quell'arbusto cresce appunto nei paesi montuosi della Lombardia, ciò che l'onorevole scienziato pretenderebbe contestare coll'ultima sua dissertazione: De Helleboro et aliis vegetalibus veneficis provinciæ Comensis.
Queste parole furono pronunziate a voce bassa, ma il nome del Mazzoldi[1] ferì l'orecchio d'un individuo che pranzava tutto solo a poca distanza dai due professori. Lo sconosciuto levò il muso dal piatto, e girando uno sguardo sospettoso sui due che parlavano: — che razza di animali esotici sono codesti? brontolò fra denti; mi hanno l'aria di preti travestiti...
Il signor Domenico Zannadio e il signor Frigerio hanno infatti un esteriore poco simpatico. Il primo è un uomo alla antica; capelli corti, barba rasa, soprabito nero e lungo, cravatta bianca e scomposta. L'altro, più giovane di età, più elegante nel vestito, sortì dalla natura certi occhi grossi, sporgenti, injettati di sangue, che mettono ribrezzo a vederli. Le accurate indagini scientifiche, la faticosa esplorazione dei petali e dei pistilli, obbligano il signor Frigerio a portar gli occhiali, due grandi occhialoni inforcati sul naso, che danno alla fisonomia dello scienziato una espressione feroce.
— Godo che vi tratteniate sulle rive del lago, riprende lo Zannadio; così qualche volta potremo trovarci assieme a ragionare di scienza.... Anch'io sono venuto su questi monti per ragioni scientifiche.... per iscoprire nuovi dati a conferma delle mie teorie sulla formazione del globo. Avete letta l'ultima mia Memoria sugli Strati antidiluviani?
— L'ho letta ed ammirata...
— Se le ricerche ch'io sto per fare mi riescono a bene, fra pochi anni il sistema di Humboldt verrà riputato un delirio di una grande intelligenza.
A questo punto della conversazione, l'individuo che siede a poca distanza dai due scienziati, esce dal cortile, e poco dopo ricomparisce dietro la finestra che domina la tavola in compagnia d'un nuovo personaggio.
— Humboldt era mio amico strettissimo, ripiglia il signor Zannadio; ho intrapreso espressamente il viaggio di Praga per andarlo a visitare or son dieci anni... E in quella occasione ebbi l'onore di stringere amicizia coi signori Elitpazter, Zambadenzer e Cropztastroffer di Vienna ed altri colleghi tedeschi coi quali sono tuttavia in carteggio.
— I tedeschi la sanno più lunga di noi in fatto di scienze naturali...
— Più logici e più profondi... Essi finiranno per abbattere i vecchi sistemi, a dispetto dei nostri dottrinarii, che si ostinano nelle loro pazze teorie...
— Convengo pienamente con voi... Anch'io nutro una vera adorazione pei tedeschi e pel loro genio profondo...
I due esploratori che, dal vano della finestra, raccolgono le sparse sillabe dello strano colloquio, schizzano fuoco dagli occhi e versano bava dalla bocca come due cani idrofobi. In udir le parole proferite dal signor Frigerio: i tedeschi valgon meglio di noi, uno degli esploratori dà di piglio ad una marmitta per lanciarla nel mezzo della tavola..
— Prudenza! gli dice il compagno... Bisogna procedere con legalità... Cercare di coglierli sul fatto, poi farli imprigionare o meglio appiccare!
— Io ti dico che costoro debbono esser due gesuiti mandati dal Lamoricière[2] per arruolare volontari!...
— Li credo piuttosto due tedeschi venuti ad esplorare le montagne...
— L'un d'essi ha nominato il Mazzoldi... Scommetto che il più giovane, quel dagli occhiali, è il famigerato Perego, redattore del Giornale di Verona[3].
— Io direi che sarebbe bene avvertire le Autorità...
— Ovvero chiamare la Guardia Nazionale, e far circondare l'albergo.
— S'io non dovessi partire a momenti coll' omnibus per recarmi a Menaggio, ti giuro ch'io li servirei daddovero, quei due capi da forca!...
Mentre dietro la finestra ha luogo il furioso dialogo, il conduttore dell' omnibus si avvicina ai due scienziati per avvertirli che è tempo di partire... Il signor Zanadio e il signor Frigerio, saldato il conto coll'oste, si avviano conversando verso il secondo cortile per prender posto nella carrozza.
CAPITOLO II. Nell'Omnibus.
I due interlocutori della finestra si stringono la mano e si separano. Quel d'essi che deve recarsi a Menaggio, tien dietro agli scienziati come un segugio che fiuti la preda, come un gatto che lasci liberi i topolini per ghermirli e straziarli. L'altro, prima che l' omnibus sia partito, corre al caffè delle Colonne, e tutto affannato riporta a quanti lo vogliono ascoltare gli strani discorsi uditi all'albergo del Leon d'Oro. La istoria delle due spie in meno di due minuti si propaga nella borgata. Nel punto in cui l' omnibus sta per partire, il cortile dell'albergo si riempie di curiosi.
Beati gli uomini di scienza! Distratti dalle meditazioni e dai calcoli, sedotti dalle ipotesi vaghe e indeterminate onde si edificano i loro sistemi, essi attraversano il mondo sulle ali della immaginazione, ignari dei pericoli che li circondano! I signori Zannadio e Frigerio montano sull' omnibus, si abbandonano beatamente colla persona sui cuscini elastici — l'uno meditando la ipotesi degli strati antidiluviani, l'altro fiutando ellebori colla fantasia, mentre una popolazione irata e fremente li fulmina di anatemi, e cento occhi da basilisco lanciano contro essi il veleno dell'odio e del disprezzo!
Guai se l' omnibus tardasse d'un minuto a partire! Il fremito dell'ira popolare è giunto all'ultima crisi... Quattro popolani stanno per avventarsi agli sportelli e afferrar per la coda del soprabito il signor Zannadio... Presto, conduttore! Una sferzata ai cavalli! Salvate due luminari della scienza, la cui morte prematura cagionerebbe infiniti disastri! Guai per l'umanità, se l'elleboro giallo crescesse ignorato sulle montagne della Valtellina! Guai per le generazioni future, se il signor Zannadio non giungesse a scoprire da quanti secoli venne in capo a Domeneddio di formare questa immensa palla che si chiama l'universo!
La Provvidenza ispirò il postiglione; mentre i quattro energumeni stavano per compiere il sanguinario disegno, i cavalli presero la corsa, e l' omnibus uscì rapidamente dal cortile.
I nostri lettori non ignorano come fra i viaggiatori partiti alla volta di Varenna si trovasse il giovanotto, che primo aveva posto orecchio al colloquio reazionario dei due scienziati. Era questi un tal Galliano Gallina, sartore di Menaggio, notissimo nel suo paese nativo pel suo entusiasmo patriotico. Ragazzo d'ottimo cuore, ma di ingegno cortissimo e di nessuna dottrina, non sognava che perfidie e macchinazioni infernali tramate dai nemici d'Italia a danno del proprio paese. Egli credeva in buona fede che all'Austria, più di ogni altra sciagura, dolesse la perdita di Menaggio; ch'ella avrebbe ceduta la Venezia a patto di riavere quell'angolo di paradiso. Il povero figliuolo, in tutti gli stranieri che recavansi a visitare le rive del Lario, non vedeva che tedeschi o spie dei tedeschi. Imaginate come gli bruciassero le costole sedendo nell' omnibus in mezzo a due sconosciuti ch'egli avea in conto di gesuiti od emissarii dell'Austria.
Dio sa quale orribile tragedia sarebbe avvenuta nell'interno della vettura, ove, a temprare la furia impaziente del Gallina, non fossero intervenute tre persone, che noi chiameremo del bel sesso, quantunque bruttissime.
Il lato posteriore dell' omnibus, per beneficio della provvidenza, era dunque occupato da tre donne, la signora Caterina Menafuoco di Bellano e le sue figliuole maggiorenni Rosalba e Cornelia. Mamma Caterina è una donna di sessant'anni, già grassa più del bisogno, la quale spera ingrassare del doppio quando avrà maritate le due lunghe zitellone, ch'ella conduce tutti i sabati al mercato di Lecco per solleticare la concupiscenza di qualche mercante di granaglie. Rosalba e Cornelia hanno ciascuna una dote di franchi trentamila; ma questo accessorio, che forse potrebbe eccitare la sensualità di qualche spiantato, non colma le tante lacune dei due lunghi carcami. Non è a dire con qual'arte, con quali strattagemmi ingegnosi mamma Caterina si adoperi a smerciare le sue creature; ugual destrezza per parte dei giovani scapoli a scansare il pericolo. La cacciata degli Austriaci, la liberazione d'Italia ha rianimate le speranze della signora Menafuoco. Rosalba e Cornelia acquistarono nuove attrattive da una immensa coccarda a fiorami bianchi, rossi e verdi, che portano sul petto e che dissimula in parte le naturali lacune. Rosalba e Cornelia hanno abbracciate in politica le opinioni dell'unico giornale che leggono. Mamma Caterina e le sue figliuole, si informano alla politica del Pungolo; perciò si svegliano ogni mattina con opinioni perfettamente opposte a quelle del giorno precedente.
Basti questo sbozzo di fisonomie e di caratteri — procediamo nel racconto.
Il cacciatore non vede che lepri e beccaccia, l'astronomo non vede che pianeti, il mineralogista non vede che sassi. — Mamma Caterina non vede che mariti per le sue figliuole.
Rosalba e Cornelia, appena entrate nella vettura, cominciarono a dardeggiare coll'occhio i due scienziati. — La signora Menafuoco, per trovare un pretesto di conversazione, si pose gli occhiali, e volgendosi a Rosalba: — Ebbene? incominciò: cosa dice il nostro Pungolo quest'oggi? L'hai tu indosso il Pungolo?...
— Il Pungolo! risponde Rosalba portando una mano sul petto e torcendo le luci verso il signor Frigerio; il Pungolo... mi pare d'averlo... qui...
— Fuori dunque cotesto Pungolo! e leggimi qualche cosa... di nuovo...
— Lo sai... mamma, che io non amo di leggere a voce alta cose di argomento patrio... e sopra tutto quando si tratti delle nostre vittorie della Sicilia...
— Poverina! Sicuramente! la è proprio così! Queste mie ragazze sono tanto sensibili, che ogni qual volta prendono in mano quel benedetto Pungolo, perdono la testa, cadono in svenimento e non se ne fa più nulla! Sono ragazze! E il nome di Garibaldi ha per esse un un certo fascino!... Basta! Cornelia... mi saprà forse dare così in succinto le notizie della giornata... Rosalba... cedi il Pungolo a tua sorella... e vediamo se anche lei cade in svenimento!
Cornelia stende la mano per prendere il Pungolo, e preme leggermente col braccio il ginocchio del signor Frigerio, il quale, tutto assorto nelle sue meditazioni sugli ellebori, non s'accorge della amorosa pressione. Frattanto il Gallina, facendo due occhi da ossesso, vorrebbe prevenire le donne del pericolo cui sono esposte parlando di politica in presenza di due emissarii dell'Austria[4].
— Noi abbiamo vinto, dice Cornelia dopo aver percorso rapidamente il giornale. — Decisamente abbiamo vinto a Milazzo... Noi ci siamo battuti da leoni; il nemico, atterrito dal nostro impeto, si rintanò nella fortezza... Signor Gallina... la prego di stendere francamente le sue gambe a sinistra.... Ella ci ha dato un calcio nel piede, che schiettamente parlando, non ci ha recato il maggior piacere...
— Le chieggo perdono, signora Cornelia, risponde il sartore di Menaggio accennando colla coda dell'occhio ai due scienziati; ma prevedendo certe... eventualità... che potrebbero nascere, io credo bene... che... in questo momento... si debba parlar d'altro che di politica...
La signora Menafuoco, senza far caso dello strano avvertimento, ripiglia la conversazione:
— Io... per me poi... non sono tanto sensibile al Pungolo come le mie figliuole!... Lo leggo, lo studio alla sera in letto... poi mi addormento... e buona notte! Ma esse... queste benedette creature... non la finiscono più... quando l'hanno in mano! Se Giulay potesse tornare in questi paesi, io credo che la nostra casa sarebbe la prima ad essere bruciata... tante ne hanno dette queste figliuole contro... Ahi! signor Gallina! Ma lei non vuol tenerle al fermo quelle sue gambe! Mi ha posto il calcagno sul dito mignolo... e le giuro che non mi ha fatto piacere.
Il Gallina straluna di nuovo gli occhi, ed accennando ai due scienziati che fino a quel punto non hanno aperto bocca, risponde alla signora Menafuoco: «Se bramate sapere di qual modo tratterebbe Giulay le vostre figliuole... qui vi hanno persone, che potrebbero.., forse...
Le occhiate, i calci, le allusioni del Gallina sono troppo significanti perchè le signore Menafuoco non si mettano in sospetto. Cornelia, che stava per tentare una seconda dimostrazione di simpatia sulle gambe del signor Frigerio, ritira prudentemente la punta dello stivaletto. Rosalba, torcendo gli occhi maligni verso l'altro scienziato, si fa ardita a dirigergli la parola per conoscere com'egli la pensi in fatto di politica:
— Se il signore brama leggere il Pungolo...
— Io? leggere il Pungolo!... risponde il geologo riscuotendosi dalle sue meditazioni... Le sono di cuore obbligato... Sventuratamente non ho mai potuto abituarmi a leggere in vettura... E poi... le confesso che la politica del Pungolo non mi va troppo a sangue.
— Lo credo! mormora il Gallina.
— Forse ella preferirà i giornali dell'opposizione....
— Amo i giornali che ragionano, che seguono un principio determinato, che mirano ad uno scopo fisso...
— Come ad esempio l' Armonia, la Sferza, il Campanile, soggiunge il Gallina digrignando i denti...
— A quanto pare, prosegue la signora Menafuoco, ella non è troppo partigiano del Ministero... Francamente parlando, ella non ha tutti i torti... Noi ammiriamo il conte Cavour, ma le nostre simpatie sono per Garibaldi. Ambedue sono onesti... come noi; ambedue vogliono l'Italia... come noi. Noi saremo con essi finchè essi sono colla nazione... e con noi... Finchè essi procederanno francamente, lealmente, onestamente, coll'Italia: noi francamente, lealmente, onestamente, procederemo con essi..... In caso diverso — lo diciamo apertamente — noi onestamente li combatteremo.
Per sottrarsi al tormento d'una politica troppa sonora, il signor Zannadio cava di tasca un portafogli e vi scrive alcune cifre. Mentre il Gallina, levando il capo sopra le spalle dello scienziato, sembra cogli occhi assorbire lo scritto, Cornelia crede bene di tentare un colloquio col signor Frigerio:
— È la prima volta che il signore si reca in questi paesi?
— Sì... signora.
— Va forse a Bellano?
— No... signora.
— A Chiavenna?
— No... signora.
— A Menaggio?
— Sì... sì, signora.
— Per villeggiare?
— No, signora.
— Cornelietta, interrompe la signora Menafuoco madre, appoggiando le mani sovra i ginocchi come una regina del teatro Fossati; io ti proibisco assolutamente di parlare con persone, le quali, oltre ad essere di sesso diverso, non sono da noi conosciute, e quindi possono avere in politica delle opinioni contrarie alle nostre.
— Io non credo... balbetta il geologo imbarazzato;... io non credo aver offeso questa signorina...
— Basta!... non facciamo polemiche... Noi non dubitiamo ch'ella appartenga come noi alla classe degli onesti... Tutti i partiti sono onesti, quando onestamente, lealmente, francamente abbracciati... Vi hanno però circostanze, nelle quali da parte nostra sarebbe debolezza il transigere... Francamente lo diciamo: noi rispettiamo la di lei onestà, ma saremo sempre colla nazione!
Il signor Frigerio, non comprendendo parola di questa eloquente conclusione, chinò il capo rassegnato, e riprese tranquillamente il corso delle sue meditazioni. La madre Menafuoco spiegò il Pungolo capovolto e finse di leggere. Il Gallina si incaricò di ripetere mentalmente le parole latine scritte dallo Zannadio nel portafoglio, per farle tradurre a Menaggio da un antico professore di lingua tedesca. Le due sorelle dignitosamente si tacquero.
A Varenna l' omnibus fece sosta.... I due scienziati scesero dalla vettura, l'uno per tragittare a Menaggio, l'altro per proseguire a piedi la via fino a Bellano. Lì Gallina, prima di uscire dall' omnibus, ebbe colle signore Menafuoco un breve dialogo:
— Avete capito...?
— Eh! non siamo oche!
— Sapete cosa ha scritto nel portafogli quel gesuitone dalla cravatta bianca?...
— Ebbene...?
— Tre parole in tedesco... Quousque tandem abutere!... Io me lo farò tradurre a Menaggio...
— Avete visto come il più giovane divenne rosso quando si è parlato di Cavour!
— E l'altro... non ha tremato al solo nome di Garibaldi?
— E tutti e due non si sono guardati, quando io ho parlato delle transazioni?
— Basta! io vi prometto, o signorine, che a Menaggio l'uno sarà servito a dovere!
— Dell'altro, che viene a Bellano, ci incarichiamo noi!
— Bisogna farlo morire a fuoco lento!
— Contate sulla nostra lealtà, sulla nostra franchezza...
— Sono due tedeschi!
— Due gesuiti!
— Due esploratori!
— Due spie!!!
CAPITOLO III. Una serva rivoluzionaria.
All'indomani, sullo spuntare del giorno, il Gallina col maniscalco ed il sergente furiere della Guardia Nazionale, uscirono da Menaggio per recarsi ad una casicciuola poco discosta dal paese, ove la sera precedente avea preso alloggio il professore di scienze naturali signor Candido Frigerio, il supposto emissario dell'Austria.
— Compagni! diceva il Gallina; qui bisogna dar prova di abilità politica — bisogna condurre la faccenda in tal guisa che dal male nasca il bene. Noi ci serviremo di questo istromento del dispotismo per giovare alla causa italiana, per rassicurare le sorti del nostro paese.
— Bravo! benone! ben parlato! soggiungeva il maniscalco. Colui è venuto per spiare ciò che si fa da noi a Menaggio — noi profitteremo di lui per sapere ciò che fanno a Vienna i nostri nemici. Che te ne pare, sergente?
— Per ora fate voi! Quando ci sia bisogno di metter sull'armi la Guardia Nazionale, non avrete che a parlare.
— Prima di tutto troviamo un pretesto per entrar nella casa...
— Io conosco la Checchina, la fattora... Una italianona! una liberalona, che nel quarantotto, quando i tedeschi sono tornati, ha mangiato il naso ad un caporale tirolese che voleva baciarla per forza...
— Credi tu che sia bene metterla al fatto:...?
— Forse sì, e forse no... Vedremo qual vento tiri.... Ma eccoci alla tana del lupo...
— La Checchina è sulla porta!...
— Prudenza e circospezione!
— Io direi che il Gallina si facesse avanti, e che noi rimanessimo a rispettosa distanza per non eccitare sospetti...
— No! è meglio procedere assieme, e prender l'aria di gente che va al passeggio.
— Buon giorno, Checchina! sì di buon'ora levata? Che si fa di bello?...
— La nostra Checcotta! sempre più bella! sempre più fresca!... Dacchè i tedeschi hanno sgombrato il paese, sei ringiovanita di dieci anni!
— Voi sapete bene quale amore io portassi ai tedeschi! risponde la buona donna tutta lieta de' complimenti ricevuti. Ho fatto anch'io la mia parte da buona italiana! Vi giuro che se mi capitasse ancora nelle unghie un di quei cani, io lo acconcerei per lo feste! Basta! ora non c'è più questo pericolo...
— Almeno.... così si crede...
— Come? che volete dire con quel vostro si crede?
— Checchina mia, risponde il sartore con aria di mistero; io certamente non temo che si abbiano a rinnovare per noi le disgrazie del quarantotto..... ma in quanto a tedeschi... o, voglio dire... tedescanti..... c'è sempre pericolo di incontrarne anche nei nostri paesi. L'aria non è ancor del tutto purgata!
— Sicuramente! soggiungono ad una voce il maniscalco ed il furiere; il nostro Gallina dice benissimo... L'aria non è ancora purgata!...
— Ma noi la purgheremo!...
— Dice benissimo il nostro Gallina.... Noi la purgheremo!
— E presto!
— E subito!
— E senza chieder permesso a' superiori!
In profferire tali parole, i tre sozii si ricambiano occhiate misteriose e terribili...
— Ma voi mi fate paura! esclama la Checchina... C'è forse qualche nube per l'aria? Avete forse letto nelle gazzette qualche brutta notizia?... Per l'amor di Dio... ditemi qualche cosa... anche a me... Che la Beata Vergine ci salvi da nuove disgrazie!
— Pur troppo c'è una nube per l'aria! ripiglia il Gallina, dopo aver consultato i suoi compagni con un'occhiata significante. E la nube non è lontana... anzi è vicinissima... anzi sta sopra questa casa... Senti, Checchina.... (E a questo punto il sartore chiese di nuovo ai compagni uno sguardo di approvazione). Noi dobbiamo comunicarti un grande segreto... un segreto di Stato... ma innanzi tutto devi giurare che di quanto siamo per dirti, non ripeterai parola ad anima vivente.
— Io? parlare io?... ma vi pare?... nè anche se mi strappassero la lingua colle tenaglie...
— Ebbene, sappi adunque... Ma prima di tutto, siamo noi soli...? Non v'è alcuno in tua casa che possa udire i nostri discorsi?
— Voi sapete che questa casa è rimasta disabitata, dacchè il signor conte si è traslocato a Torino. Jeri sera è giunto qui da Milano un forastiero, pel quale pochi giorni sono il ragioniere del conte mi avea scritto di metter all'ordine l'appartamento del secondo piano...
— E tu lo conosci quel forastiero?
— Non so altro di lui se non ch'egli si chiama il signor Frigerio...
— E ignori cosa è venuto a fare in questi paesi...?
— Io non so nulla... io...
— Lo sappiamo noi...! Dorme egli ancora...?
— No! è uscito di casa prima dell'alba.
— Diamine! egli non perde il suo tempo! E cosa ti ha detto nell'uscire?
— Ha detto — aspettate — ha detto che non tornerebbe prima delle nove stassera... che io non mi dessi la pena di rifargli il letto e di ripulirgli la camera.... Egli desidera che nessuno metta piede nella sua stanza...
— Il malandrino ha prese tutte le precauzioni! Ebbene: senti Checchina — bisogna che tu ci conduca in quella camera...
— Oh! questo poi... non è possibile...!
— Ma sai tu cosa è venuto a fare a Menaggio il signor Frigerio?... Sai tu che razza di serpente s'è introdotto nella tua abitazione? Nientemeno che una spia... dei tedeschi, un famigerato emissario dei gesuiti!
— Misericordia! esclama la Checchina portando le mani alla cuffia... Una spia nella mia casa! un tedesco! un gesuita!... Vi giuro per tutti i miei poveri morti, che jeri a sera quando l'ho veduto entrare, ho sentita una scossa, come se alcuno mi avesse dato un gran pugno nello stomaco... Adesso capisco perchè la gatta non gli è corsa incontro a carezzargli le gambe come suol fare a quanti vengono in casa!... Già... anche il nostro ragioniere gli è un altro bel mobile.... un tedescone marcio, che quando vien fuori a rivedere i conti, ne ha sempre di nuove per tormentare noi povera gente!... Ed è lui che ci ha regalato quel bell'inquilino!... Venite pure, figliuoli; le chiavi dell'appartamento sono a vostra disposizione... E se non basta, apriremo anche le valigie di questo bel forastiero... e apriremo le lettere! Quando si tratta di dare addosso a tedeschi od a spie... eccomi qui in carne ed ossa... col cuore, colle unghie... e coi denti! Cani! Assassini! Mostri!... Ed hanno proprio a capitare nella mia casa!... Su! da bravi, figliuoli!... Venite con me, e agite come se foste padroni!
Preceduti e animati da Checchina, i tre sozii salgono rapidamente le scale, precipitano nella camera dello scienziato, e in un minuto aprono gli armadii, capovolgono i mobili, rovesciano le casse, mettono ogni cosa in iscompiglio. Cerca di qua, fruga di là... le camicie, le mutande, i fazzoletti volano alla soffitta... Il sergente foriere, il solo dei saccheggiatori che sappia leggere lo scritto, si impadronisce del portafoglio e divora coll'occhio le cifre.
— Gallina!
— Che è?
Tutti circondano il sergente.
— Non v'è più dubbio!... ecco il corpo del delitto!...
— Leggi.. foriere!...
— Le sono annotazioni laconiche...
— Ah! mostro! interrompe la Checchina mettendosi le mani sui fianchi. — Laconiche!... Che razza di parole hanno questi tedeschi!
Il sergente non senza difficoltà riesce a leggere una quindicina di vocaboli incomprensibili per lui e per quanti gli stanno d'attorno, vocaboli tecnici della scienza, di cui basta il suono per far rabbrividire gli ascoltatori.
— Basta! basta! non voglio sentirne altro! grida la Checchina turandosi lo orecchie... e correndo per la camera come una ossessa.
— Qui sotto c'è qualche trama infernale! soggiunge il maniscalco.
— La patria è in pericolo!
— Facciamo appello alla Guardia Nazionale!
— Figliuoli, dice il Gallina con solennità. — Figliuoli! qui bisogna metterci una mano al cuore e un'altra al cervello...! Dinanzi alle nuove scoperte che abbiamo fatte, dinanzi a questi documenti scellerati che Iddio ha messo in nostra mano onde sventare le trame del despotismo, esitare sarebbe stoltezza, debolezza il retrocedere... il silenzio sarebbe delitto... l'indulgenza complicità... Però non conviene dimenticare che noi viviamo in paese libero e governato da leggi civili..... Forza e prudenza! Energia e legalità! Rigore e giustizia.... sieno le nostre divise.
— Bravo!!!
— Raccogliamo adunque tutte le prove materiali del delitto, e armati dei preziosi documenti, convochiamo le autorità del paese, e formuliamo legalmente l'accusa!
— Bravo!!!
— A me pare che questo portafoglio contenga tanto che basti per far appiccare lo scellerato...
— E se non basta il portafoglio, aggiunge la Checchina, prendetevi anche questo fazzoletto giallo segnato di cifre nere... Il mostro lo teneva nascosto nelle tasche del paletot.
— E questi fiori disseccati, parimenti di color giallo e nero... che l'infame ha creduto sottrarre alle nostre investigazioni cucendoli sotto la fodera del cappello....
— Buoni anche questi per il processo!...
— Ed ora, figliuoli miei, riprende il Gallina con autorità: mettiamoci d'accordo fra noi, e pensiamo a stabilire il nostro programma. Punto primo: tu, sergente, anderai tosto alla casa del sindaco, e gli chiederai a che ora può darci udienza domani... Tu, maresciallo, ti recherai con quattro o cinque uomini di fiducia a perlustrare lo stradale di Porlezza, e vedrai di informarti d'onde sia passato, con chi abbia parlato, dove abbia pranzato, con quali individui abbia praticato colui! Stenderai, o farai stendere un esatto rapporto, aggiungendo tutti quei documenti che per caso potrai raccogliere... Tu poi Checchina...
— Quello che ho da far io l'ho già stabilito, risponde la serva stralunando gli occhi... Io vi giuro che quel tedescaccio si ricorderà finchè vive della notte che avrà passata in casa mia... Oh! in casa mia poi... comando io!... Ne ho pensato di belle!... Non veggo l'ora che quell'animale ritorni, per cucinarmelo un poco a modo mio!...
— Ebbene! ciascuno al proprio uffizio! Da bravi, figliuoli! Tu, Checchina, bada a non comprometterci con qualche imprudenza... Fa in modo ch'egli non entri in sospetto... Se per caso egli domanda del suo portafogli...
— Gli dirò che il gatto se l'è portato via.
— Viva la nostra Checchina, e morte ai tedeschi!
— Morte alle spie!
— Viva l'Italia libera!
— Viva Menaggio!
I tre sozii escono dalla stanza alternando i viva alle imprecazioni. La Checchina, dopo averli accompagnati fino all'estremità della scala, rientra immediatamente nella camera del forastiero e si atteggia dinanzi al letto come un generale di armata che mediti un piano di battaglia.
La Checchina studiò d'un colpo d'occhio le posizioni, calcolò i mezzi di attacco, concepì il disegno strategico. Un quarto d'ora dopo, tutte le comari del vicinato furono in moto;... tutti gli istrumenti belligeri che può fornire la cucina, tutte le armi dell'arsenale femminino concorsero al grande apparecchio...
Vedremo nel seguente capitolo quanto ingegnosa sia la donna nel tormentare una creatura umana.
CAPITOLO IV. La notte della spia.
Sono le nove della sera. Piove a dirotta. — La strada è buia ed allagata. — Il signor Frigerio ritorna dalla sua lunga escursione portando un fastello di erbaggi raccolti nelle montagne... Oh, se il mondo sapesse quanti sacrifizii costi ai martiri della scienza lo scoprire un arbusto, un minerale, un insetto!... Il signor Frigerio, dopo sedici ore di cammino e di pazienti ricerche, non ha trovato ancora l'elleboro giallo. Credete voi ch'egli disperi? Domani egli intende levarsi di buon'ora e inerpicarsi sui gioghi più elevati dell'Alpi per fare nuove ricerche.
Frattanto un po' di riposo e un po' di sonno gli faranno bene. La scienza non guarentisce l'uomo dalla stanchezza e dal freddo — e il signor Frigerio, oltre all'essere spossato, è tutto fradicio e intirizzito.
Finalmente ecco la casa — la porta è chiusa — picchiamo!
Nessuno risponde.
Picchia di nuovo — muti!
— Son dunque tutti morti in questa casa?... Ohe! la fattora! Checchina! venite ad aprire, ch'io muoio annegato dall'acquazzone!
Scorsi dieci minuti, un lumicino apparisce alla finestra...
— È lei, signor forastiero?
— Son io, Checchina! venite abbasso... e presto, per carità...
La finestra si apre, e la Checchina mette fuori il capo avvolto nella cuffia da notte.
— Io credevo che con questo tempo da inferno ella non tornasse a casa stanotte... Ora vengo subito ad aprire...! Ohimè! il lume s'è smorzato... Dove sono gli zolfanelli? Mi sono scordata di portarli nella camera... Attenda un poco... Bisogna che io scenda in cucina a tastoni!
E la finestra si chiude.
— Anche questa mi doveva capitare! pensa lo scienziato... Ma la povera donna non ci ha colpa... Basta! ne ho già presa tanta d'acqua, che quattro goccie di più non mi faranno male..
Rincantucciato sotto la tettoia, il professore attende con animo rassegnato. Egli pon mente ad ogni rumore che si parta dall'interno della casa. La Checchina è scesa dalle scale — è già entrata nella cucina — ha urtato in un tavolo — una casseruola è caduta dal muro — Due buone bestemmie — Ma dunque il diavolo ci mette la coda! Se il signor Frigerio avesse il dono della doppia vista e potesse scorgere ciò che si passa nella cucina, egli vedrebbe quattro donne sedute sul focolare, che ghignano con gusto diabolico, e ad ogni interiezione d'impazienza ch'egli si lascia sfuggire dal labbro, rispondono; crepa, maledetta spia!
Assaporata questa prima vendetta, la Checchina trovò gli zolfanelli, accese la lampada e corse ad aprire.
— Oh! la perdoni tanto... signor Frigerio...!
— Niente, buona donna! conducetemi presto nella mia camera, e fate, se è possibile, di accendere un po' di fuoco...
— Madonna benedetta! ma dove si va a trovare la legna a quest'ora...? Quel cane di fattore chiude ogni sera il granaio per paura che io consumi qualche fascina...
— Non vi inquietate, Checchina; poichè legna non c'è, legna non mi abbisogna. Mi caccierò fra le coltri... ove, non ne dubito, il sonno mi verrà presto a trovare.
Di tal guisa parlando, il signor Frigerio salì le scale, ed entrò in camera seguito dalla Checchina, la quale, dopo avergli chiesto se d'altro non abbisognasse, augurandogli colla voce la buona notte e col cuore un accidente, fuggì via come avesse l'ali.
Avete mai provata la dolce sensazione che è quella di rientrare nella propria stanza, una stanza tiepida, tranquilla, silenziosa, dopo aver camminato tutto il giorno al sole od alla pioggia? Qual voluttà nell'abbandonarvi sovra i cuscini di un morbido canapè, nello stendere le gambe e le braccia senza soggezione di sorta, a tutto vostro beneplacito! In quel primo sprofondarsi nelle piume della persona stanca, voi sentite un dolce fremito correre per le membra e salire dalle estremità inferiori fino al cervello... Oh! i filosofi hanno ragione di definire il piacere la cessazione della pena...
Il signor Frigerio ha deposti gli erbaggi sulla tavola... e allettato da un'ampia poltrona che gli stende le braccia, vi si abbandona con quell'impeto confidenziale che è tutto proprio delle parti più pesanti e meno pensanti della macchina umana... Ma appena i due corpi elastici vengono a contatto, il professore balza in piedi mettendo uno strillo come se una vipera l'avesse addentato. Sebbene le appendici della schiena sieno dai fisiologi considerate le parti meno sensibili dell'uomo, non è mestieri chiedere al signor Frigerio qual solletico egli provasse nel sentirsi penetrato in quelle regioni elastiche da quattro enormi spilloni.
O decoro della scienza! o gravità professorale! quanto poco ci vuole per compromettervi — Se i membri dell'Istituto, se gli invidi colleghi, se gli scolari dell'Università vedessero il signor Frigerio, le mani aderenti alla parte ferita, agitarsi, saltare e strillare tutto solo nella camera!.... Lo sfortunato professore perderebbe in un punto l'autorità e la fama guadagnata con centoventiquattro opuscoli scientifici. Fortunatamente, il signor Frigerio non può nemmeno imaginare che una mezza dozzina di donne si contendano il diletto di contemplarlo in quella posa grottesca, inviandogli dal buco della serratura una salva di ingiurie e di imprecazioni.
Basta! il dolore fu passeggiero..... La contrazione è cessata — il signor Frigerio distende le membra ed assume più serio contegno... ma in lui non rinasce la fiducia. Tutti i mobili della camera possono nascondere qualche perfido ordigno. Tentando i cuscinetti dell'altre sedie, la mano del signor Frigerio ha sentito altri pungoli.... Queste non le son piante da vegetare naturalmente nella stoppa — pensa lo scienziato — qualcheduno le ha trapiantate qua dentro con perfido disegno. — Domani chiariremo questa faccenda... Ma dov'è il mio portafogli?... dove sono le mie carte? Qualcuno senza dubbio è venuto a manomettere le cose mie! Oh! io non voglio coricarmi se prima..... Misericordia!.... Un sorcio nella mia beretta da notte! Ma no... non è un sorcio... gli è un gatto... Che vedo?... la coda di un gatto cucita alla mia berretta! Ma ciò non è naturale... Checchina! Checchina...! Ehi di là...! Checchina, dico!...
— Un cancro! un accidente! una fistola! rispondono a bassa voce le femmine.
— Checchina! Checchina! grida di nuovo il professore, battendo co' piedi la porta; che egli si accorge esser stata chiusa per di fuori.
Dopo avere inutilmente picchiato un bel pezzo, disperando d'ogni soccorso, il pover'uomo si avvicina al letto, e tremante dalla commozione, dalla stanchezza e dal freddo, prende il partito di coricarsi e di attendere il domani per conoscere l'origine di tanti infortunii...
Già il professore è riuscito a levarsi di dosso gli abiti inzuppati di pioggia — già egli stende una gamba per salire sul letto... quando... nel rimovere le coltri, uno spettacolo strano e terribile gli si presenta allo sguardo, e gli fa rizzare i capelli sulla fronte. Questa volta il professore sentì mancarsi la voce... Egli rimase immobile a bocca aperta, pietrificato dalla sorpresa e dal terrore.
Una ventina di gamberi vivi girovaganti fra le lenzuola, agitavano gli uncini minacciosi, quasi attendessero una vittima da scarnificare; ed altrettante rane, balzando audacemente dal covo, correvano saltellanti su tutti i mobili della camera.
Quando l'uomo è commosso da gravi e straordinarie impressioni, a che gli giova la scienza? L'illustre naturalista, il dotto professore, che per tanti anni ha consumati gli occhi ed il cervello nello studiare tutte le varietà del regno animale, sotto l'influenza della sorpresa e del terrore, scambia i gamberi per scorpioni, i ranocchi per pipistrelli.
Questo errore scientifico non illuse però lunga pezza il signor Frigerio. Allorquando, cessata la violenta commozione, egli fa in grado di riconoscere il proprio errore, con flemma da scienziato raccolse accuratamente gli animaletti raminghi, e ad uno ad uno li pose a sguazzare nel secchio.
Povere bestiuole innocenti! pensava il Frigerio; sarebbe una vera ingiustizia ch'io disfogassi la mia collera con voi... Voi non siete che lo stromento di qualche maligno o di qualche stolto. Ma donde sarà egli uscito questo incognito nemico, questo genio perverso, che si è proposto di farmi passare una sì cattiva notte? A Menaggio non v'è persona che mi conosca... Io non ho mai fatto male ad alcuno... Basta!... spero aver superati i maggiori guai... Domani... la Checchina mi spiegherà questa istoria...
Il professore, vinto dalla stanchezza e dal sonno, si gettò audacemente sul letto; ma appena ebbe spento il lume, sulla opposta parete egli vide comparire una testa da morto fosforescente, e sotto a quella una scritta parimenti di fuoco: Morte al Tedesco!
CAPITOLO V. Una lettera compromettente.
All'indomani, verso le dieci del mattino, il professore Frigerio non era ancora uscito dalla camera.
Frattanto il sartore, il sergente, il maniscalco e il sindaco di Menaggio si adunavano a concistoro in una sala terrena per decidere le sorti dello scellerato emissario dell'Austria.
— Figliuoli! diceva il sindaco; le carte e gli altri documenti che mi avete presentati non sono prove che bastino per farlo arrestare legalmente... Meglio sarebbe sorvegliarlo, seguirlo dappertutto, vedere con chi egli parli, quali relazioni egli abbia... infine aspettare che egli si comprometta e caschi da sè medesimo nel laccio della giustizia...
— Voi altri moderati siete tutti di una pasta! grida il Gallina. Coi vostri riguardi, colle legalità, lascierete allignare la gramigna nel paese, e più tardi non vi sarà modo di estirparla...! Badate che un giorno o l'altro il popolo sovrano perderà la pazienza, e finiremo per farci giustizia da noi!
— Bravo! ben parlato! viva il Gallina! viva il popolo!
— E la faremo finita una volta, prosegue il sarto oratore, coi tepidi, cogli striscianti, e coi perseveranti!...
— Bravo! ben parlato! viva il Pungolo! morte alla Perseveranza!
— Signori! signori! grida la Checchina entrando in sala col viso radiante... Abbiamo nelle mani un'altra prova... Un barcaiuolo ha portata una lettera per il signor Frigerio.... una lettera che viene da.... Bellano...
— Qua! presto! leggiamo!... dice il Gallina, impadronendosi della lettera.
— Badate, figliuoli miei, che nessuno ha il diritto di aprire le lettere altrui, osserva il sindaco. Gallina! tu non aprirai quella lettera! io te lo impongo in nome della legge!
— Che legge d'Egitto! risponde vivamente il Gallina. — Quando la patria è in pericolo, bisogna ricorrere ai mezzi estremi... Io vi ripeto, signor sindaco, che voi altri, colla vostra prudenza, colla vostra moderazione, coi vostri scrupoli... rovinerete l'Italia.
Il Gallina disuggella la lettera, e sebbene egli si trovi molto impacciato nel leggere il manoscritto, con incredibile sforzo riesce a combinare le sillabe:
« Carissimo collega! » Cominciamo bene! avete sentito!... collega!
— Mostri infami! esclama la Checchina schizzando fuoco dagli occhi.
— Questi che scrive dev'essere quella carogna che osò pubblicamente chiamarsi l'amico dei tedeschi... Ma leggiamo — no sentiremo di belle...! « Io mi trovo inchiodato nel letto per una contusione...»
— Ah! vedete un po', interrompe la Checchina, vedete un po' che quei di Bellano hanno avuto più giudizio di noi! l'hanno inchiodato nel letto senza tanti riguardi!
Il Gallina, prosegue stentatamente la lettura, facendo le pause a modo suo, e alterando di tal modo il senso dello scritto:
— « Per una contusione prodotta da una pietra, bene! lanciatami ieri da mano ignota mentre io ritornava dalle mie escursioni sulle montagne. Io non mi faccio a narrarvi quante e quali tribolazioni ho dovuto soffrire dacchè giunsi in questo inospitale paese. Vi basti per ora il sapere che la prima notte non ho potuto chiuder occhio, sendo venuti sotto le finestre della mia camera una dozzina di individui a far un rumore d'inferno con trombe, campane ed altri stromenti metallici da cucina. All'indomani uscii di buon'ora per dar principio alle mie ricerche... Carogna!... Ho visitate le montagne, ho studiate le prominenze e gli sbocchi! Già... gli sbocchi per dove han da venire i tedeschi!... Infamone! Vi assicuro che la prima campagna era stata abbastanza fortunata... Mostro!... I dati raccolti furono tali da confermarmi pienamente ne' miei principii (e perdonate s'io dico miei i principi che furono già proclamati da tutti i nostri amici tedeschi...) Ah! Oh! finalmente sarete persuaso, signor sindaco! Non vi pare abbastanza sincera questa confessione?... Vi rimangono ancora dei dubbii? Ora sentiamo il resto...! Io sperava di potere all'indomani intraprendere altre ricerche, quando, tornando a Bellano per una stradicciuola, all'improvviso mi assalì una grandine di sassi, benone! scagliati con tanta furia da persone nascoste dietro un promontorio, che gli è proprio un miracolo se ebbi salva la vita. Va pur là, che non camperai molto!... Non vi parlerò d'altri brutti scherzi che mi vennero fatti da persone che io non conosco... Ma che assai bene conoscono te, o galeotto!... Io temo che qualcuno abbia suscitati contro di me dei sospetti compromettenti, ovvero che male siano state interpretate alcune mie opinioni riguardo alla politica del conte Cavour, ch'io ebbi la imprudenza di esternare colle nostre compagne di viaggio... Ad ogni modo ho deciso di abbandonare questo paese — d'aria cattiva! — e recarmi domenica prossima a Tartavalle, dove potrò fare delle escursioni sui monti della Valsassina. Se non vi spiacesse di recarvi a Bellano domenica, e fare in mia compagnia questo breve viaggetto, ve ne sarei grato oltremodo. Io credo che a Tartavalle vi sarà da far bene anche per voi... Lo credo io! con tanta gente che è fuori... alle acque!! — Chi sa!... quattro occhi veggon meglio di due... Io vi prometto che ogni qual volta vedrò del giallo... L'avete capita, signor sindaco?... del giallo!!!... Ogni qual volta vedrò del giallo, non mancherò di esaminarlo colla speranza di scoprire il vostro elleboro. Rispondetemi subito... Addio collega! buona fortuna! e che Iddio vi guardi dall'esser preso in mala vista dai vostri ospiti!
« Zannadio. »
— Signor sindaco! dice il Gallina con tuono autorevole; ella ha udito! ella ha veduto, ella ha toccato con mano!... Ora... l'una delle due: o lei prende la iniziativa — ovvero agirà il popolo...!
Il sindaco si fa cedere la lettera del Gallina, e dopo averla riletta e meditata seriamente: Figliuoli, dice; io voglio che giustizia sia fatta... Non meno di voi io sento odio e ribrezzo per gli scellerati emissarii del despotismo straniero, che si aggirano nel nostro libero paese con criminosi disegni. Questa lettera mi fa supporre che tanto il signor Frigerio come il signor Zannadio sieno due complici scellerati... Bisogna adunque pigliarli tutti e due nella medesima rete, e far in modo che la punizione abbia una certa solennità, onde tutti i nemici d'Italia ne prendano spavento. — Siete voi pronti a secondarmi, figliuoli?...
— Parli, signor sindaco!
— In primo luogo suggellate di nuovo questa lettera; e tu, Checchina, portala al signor Frigerio. Se egli rimane a Menaggio, oggi procederemo immediatamente al di lui arresto; se invece egli acconsente a seguire il compagno, allora, io, tu, Gallina, voi altri tutti, seguiti da un picchetto di Guardia Nazionale, ed anche, per miglior guarentigia, da quattro carabinieri, li andremo ad aspettare a Tartavalle, e così sorprenderemo ad un tempo i due complici infami. — Non vi par egli che questo sia il partito più salutare alla patria?
Il sartore, il maniscalco e il sergente della Guardia Nazionale di Menaggio, sebbene in paese rappresentino il partito dell'opposizione, non hanno però completamente rinunziato al senso comune. La proposta del sindaco viene approvata senza discussione... Stabilito il piano strategico, distribuite le parti, calcolate tutte le eventualità — spetta ora alla Checchina di muovere il primo passo.
Oserà ella presentarsi al signor Frigerio? sfidare i rimbrotti di un inquilino, che ha passata una notte tanto disastrosa? Di qual modo potrà ella scusarsi? Come spiegare e giustificare l'intervento dei gamberi e dei ranocchi? Come dissipare i sospetti ed ammansare i furori di una spia?...
Difficile impresa, dopo quanto è avvenuto il giorno precedente.
Ma che non può amor di patria nel petto... di una serva?... Checchina si fa rendere dal sindaco il portafoglio e le carte del perfido inquilino — Checchina risuggella la lettera con un pezzo di pane biasciato — Checchina si liscia i capelli, si compone le vesti sul petto in guisa da porre in evidenza le naturali dovizie — Checchina vola a compire l'ardito disegno...
Dopo pochi minuti, la scaltra fattora, uscendo dalla camera del signor Frigerio, annunziò ufficialmente al sindaco che il gesuita travestito, l'infame spione dell'Austria, sarebbe partito quel giorno istesso per Bellano, onde recarsi il dì seguente a Tartavalle in compagnia del signor Zannadio.
— Se sapeste a quali sacrifizii ho dovuto sottomettermi, aggiunse la Checchina gravemente, per ispirare un po' di fiducia in quel galeotto e carpirgli il segreto...!
— Sappiamo di che sei capace, rispose il sindaco — la patria terrà conto del tuo eroismo.
CAPITOLO VI. Tartavalle.
Tartavalle è un paesetto, o per meglio dire un gruppo di case, situato in una valle, che può sembrare amena e pittoresca a coloro i quali vanno colà a tentare la cura delle acque per guarire il mal d'occhi.
Nella prima quindicina di agosto lo stabilimento è abbastanza popolato di forestieri, per la più parte infermicci, o sedicenti infermi, fra cui parecchie mogli infelici, parecchie fanciulle avide di marito, parecchi celibatarii nemicissimi del matrimonio, ma altrettanto ghiotti di galanti avventure. Quest'anno si aggiungono parecchi giovani lions, cui la vergogna di non aver partecipato ai disagi ed ai pericoli della guerra di Sicilia, spinse a cercare un rifugio presso lo fonti termali col salvacondotto di un certificato medico.
È giorno di domenica.
Verso lo spuntare del giorno, sulla stradicciuola che dal paesello di Taceno conduce alla fonte, è un andare e venire di gente, un parlare, un chiedersi novelle con con insolita loquacità. Il caffè si apre più presto dell'usato, ed oltre agli avventori ordinari vi si notano figure nuove, figure dal volto rubicondo, dal portamento marziale, giovanotti sul fiore dell'età, che non mostrerebbero tanta predilezione al punch ed al cognac se fossero venuti ad intraprendere la cura delle acque ferruginose. Fra questi è il Gallina, sartore di Menaggio, il quale siede ad un tavolino in compagnia del maniscalco e del sindaco, alternando esclamazioni patriotiche alle frequenti libazioni.
Poco discosti, seduti ad un altro tavolino, due signori di età avanzata, vestiti con somma proprietà, accompagnano di uno sguardo carezzevole tutte le persone che passano dinanzi al caffè, e sorridono in segno di adesione ogni qualvolta il sartore di Menaggio manda un viva all'Italia. I due fratelli Federico e Gian Carlo Albizzotti godono in Tartavalle di molta popolarità. Intervengono in ogni crocchio, sono a parte di cento piccoli segreti di famiglia. Ad essi le mammine confidano il braccio delle figliuole nelle difficili passeggiate notturne; ad essi l'incarico verecondo di ricomporre le gonnelle delle signore quando montano sugli asini. Mezzani e consiglieri d'amore nelle gioconde brigate dei giovanotti scapoli; faceti e discoli talvolta, più spesso gravi e severi, amabili con tutti e prodighi di cortesie, i due fratelli passano per due tipi di onestà e di saggezza. Se gli Albizzotti partissero oggi da Tartavalle, domani lo stabilimento delle acque si chiuderebbe per mancanza di concorrenti.
Presso i due fratelli, seduto ad un altro tavolino, sta un giovanotto di circa venticinque anni, malato degli occhi, che ad ogni tratto batte il pugno sul tavolo in atto di impazienza. È questi il signor Edmondo Franchetti, da poco laureato in medicina, amato e stimato da quanti lo conoscono per la sua onestà e i suoi sentimenti liberali. La grave malattia, che quasi gli tolse l'uso della vista, doppiamente lo addolora come quella che gli impedisce di seguire Garibaldi nella spedizione di Sicilia. Le gesta gloriose dei suoi antichi commilitoni di Varese e di S. Fermo lo tengono in continua esaltazione. Dover reprimere gl'istinti bellicosi, gl'impetuosi aneliti della propria natura è per lui il maggiore de' tormenti. Uno studente di circa sedici anni, che fu anch'egli fra i combattenti di Varese, ed ora in causa di grave malattia intestinale è condannato all'inazione, sta sempre a lato del giovane medico, servendogli di guida e da moderatore.
Dallo stradale di Bellano scende una processione di gente. Si direbbe che tutti gli abitatori delle borgate e dei villaggi circonvicini si sien dato appuntamento a Tartavalle.
— Oh! la festa sarà completa! grida il Gallina levando il bicchierino. — Quei due signori galeotti faranno la figura che si meritano!
— Oh certo! risponde uno degli Albizzotti sorridendo; questa sarà per essi la valle di Giosafatte...
— Ed io mi incarico della parte di Satanasso! soggiunge il Gallina.
— A che ora credete voi debban giungere quei signori...? domanda uno degli Albizzotti coll'usata morbidezza.
— A mezzogiorno saranno alla cima del pendio... Oh! ma ecco... le signore Menafuoco di Bellano! Esse ci porteranno delle novelle.
Tutti gli occhi si dirigono verso la sommità del promontorio — ed ecco infatti le signore Menafuoco a cavalcioni di tre ciuchi... discendere solennemente nella valle. Cornelia e Rosalba portano ambedue un gran cappello alla calabrese sormontato da grandi pennacchi tricolori, sul petto a guisa di corazza una coccarda a rabeschi col ritratto di Garibaldi nel mezzo; e per giunta una ciarpa parimenti tricolore cucita alla sommità dell'ombrello. Mamma Caterina, dall'alto della sua cavalcatura, saluta i circostanti agitando il Pungolo a guisa di ventaglio.
Sebbene la signora Caterina Menafuoco conduca ogni anno a Tartavalle le sue figliuole nella speranza di poterle maritare a qualcheduno ch'abbia le cateratte, cionnullameno la singolare acconciatura delle tre donne produce la più viva sensazione. I fratelli Albizzotti, dopo essersi ricambiato uno sguardo di maligna ironia, si levano per compiere il loro cerimoniale consueto. Appena le cavalcature si fermano dinanzi al caffè, i due fratelli offrono il braccio alle zitellone per aiutarle a scendere dal ciuco, mentre la Menafuoco madre, rifiutando ogni soccorso, scivola dalla sella gridando: Lasciate pure! — per me non c'è bisogno...! alla mia età non si dà scandalo a nessuno!
Non appena le Menafuoco han posto piede a terra, le persone che dapprima passeggiavano nei viali od erano sparse pei pratelli circostanti, convennero tutte sulla piazzetta del caffè. Le milizie eran pronte — il momento della battaglia già prossimo — non mancava che di scegliere i capitani e distribuire le schiere.
— «Signori e signore! prese a parlare il Gallina dall'alto d'un tavolino — è inutile che io vi rammenti a quale scopo noi ci siamo oggi radunati in questa valle. Trattasi di sorprendere e di punire due iniqui emissarii dell'Austria, due spie patentate, che con audacia incredibile osano aggirarsi fra queste montagne per studiarne gli sbocchi e le vie di più facile accesso, onde ricondurre in Italia l'abborrito straniero!
— Morte alle spie!
— «I due scellerati, con una impudenza..... degna di miglior causa.... abusando della buona fede e della tolleranza del partito moderato, si introdussero nelle due illustri e patriottiche borgate di Bellano e di Menaggio, sperando stabilire colà due centri di reazione. Ma essi trovarono pane pei loro denti... Le trame furono scoverte, sventati gli iniqui disegni. Il sindaco dell'uno e dell'altro comune, la Guardia Nazionale, la nominata Checchina Bernadotti, il furiere e il maniscalco di Menaggio, fecero in tale occasione il loro dovere.... Io dichiaro che i sovrannominati cittadini si resero tutti benemeriti dell'Italia.
— Approvato!
— «Sgomentati dal minaccioso atteggiamento delle nostre popolazioni, i due nemici di Italia, in luogo di rinunziare ai loro perversi propositi, credettero sottrarsi alla vostra vigilanza mutando paese, e stabilirono recarsi a Tartavalle, luogo oltremodo propizio alle loro obbrobriose macchinazioni.... Oggi.... fra quattro ore... gli scellerati... giungeranno fra noi, per la via di Bellano...!»
— Riceverli a sassate!
— Fucilarli senza misericordia!!!
— Gettarli nella Pioverna!!!
— Arrostirli! squartarli! impiccarli!
— Tale sarebbe il mio parere! grida il Gallina — un esempio di giustizia popolare è più che mai necessario! Morte alle spie!
Un uragano di acclamazioni e di invettive proruppe dalla folla agitata come oceano in tempesta.
In pochi minuti il furore delle masse è infrenabile. Tutti i tavolini del caffè son convertiti in tribune — dieci, dodici oratori parlano ad una volta. — L'uno predica moderazione, un altro inasprisce le ire — questi grida contro i Borboni — quell'altro se la prende col papa e col cardinale Antonelli — chi inveisce contro Lamoricière e i soldati Irlandesi — chi vuol morti gli Svizzeri. Le sorelle Menafuoco, salgono anch'esse sovra una tavola, e improvvisano una allocuzione sullo stile del Pungolo, nella quale, dopo aver enumerati i vari titoli che esse hanno alla benemerenza dell'Italia, si lagnano di non trovare marito.
Fra tanta discordanza di opinioni e di voci, fra tanto strepito di applausi e di fischiate, come si fa ad accontentare le masse? — I momenti sono preziosi. — Le campane di Taceno suonano il mezzogiorno — giusta i calcoli preventivi, le due spie debbon esser discoste da Tartavalle mezz'ora di cammino.
Il sindaco di Menaggio, che appartiene al partito della moderazione, trova finalmente la maniera di stabilire l'accordo. La proposta di eleggere una commissione la quale si incarichi di dirigere il movimento popolare, viene accolta per acclamazione.
Io non oserei guarentire che le elezioni procedessero in tale circostanza cogli scrupoli della legalità. Abbiam veduto parecchi idioti aprirsi le porte del Parlamento a forza di sfacciataggine e di soperchierie — qual meraviglia se i deputati di Tartavalle riescono a farsi eleggere cogli spintoni e gli scappellotti? — Beati i primi che seppero farsi innanzi! Quando la sala dell'Assemblea fu colma, le porte si chiusero, e il popolo sovrano rimase fuori colla piena convinzione di aver eletto i suoi rappresentanti.
La quistione è urgente... I nemici alle porte... Il popolo stipato sotto le finestre attende con impazienza i decreti dell'Assemblea... Nella sala dei deputati, quaranta si sono già iscritti per parlare sulla grande quistione...
— Sapete che abbiamo a fare? dice il signor Franchetti a tre o quattro amici che gli stanno d'intorno. — Mentre quei signori deliberano, io sarei di parere che noi cominciassimo ad agire. Poichè questo sciagurato mal d'occhi mi ha impedito di andare in Sicilia a tirare quattro fucilate contro i Borbonici, voglio almeno prendermi il gusto di menar le unghie sul grugno di una spia...! Partiamo adunque! Meglio essere i primi che gli ultimi! Quando avremo rotto il naso a que' due furfanti... penserà l'Assemblea a decretare i cerotti...
E senz'altro parole, il signor Franchetti, in compagnia di pochi amici, prese la via di Bellano.
CAPITOLO VII. L'imboscata.
Come l'uomo cammina fidente e sereno, quando abbia l'anima illibata e la coscienza tranquilla! I signori Frigerio e Zannadio han già dimenticate le occorse disavventure. Senz'odio e senza sospetto, essi lasciano i paesi inospitali, dove rischiarono soccombere ad una persecuzione inesplicabile. L'amore della scienza li guida pel nuovo cammino. Essi procedono a passo lento, cogli occhi fissi a terra — l'uno si inchina a raccogliere arbusti, l'altro si riempie le tasche di ciottoli — quando si arrestano, gli è per considerare i vegetali o i minerali raccolti, e ricambiarsi qualche utile osservazione.
— Oh! vedete quel giallume! esclamò lo Zannadio, additando al compagno un pratello al di là della siepe... Io scommetto che que' fiori sono gli ellebori gialli che voi andate cercando!...
Il Frigerio spicca salti dalla contentezza... Il pratello non è molto discosto...
I due scienziati si adoperano colle mani e co' piedi per aprire una breccia fra gli arbusti e le spine della siepe. — Dalli! abbatti! taglia! rimuovi! alla fine ogni ostacolo è distrutto... I dotti occipiti sono già sprofondati tra le foglie — le spalle si spingono innanzi — le trippe contendono felicemente coi rami... quando — oh! sorpresa! — una mano prepotente afferra per la coda i due professori, e li trae dalla tana come due sorci sorpresi.
— Cane maledetto! tu non mi sfuggirai, grida il medico Franchetti, tenendo saldo lo Zannadio per le falde del vestito e rotando nell'altra mano un nodoso bastone.
— E tu pure... o birbone! grida il giovane studente, investendo la schiena del dotto naturalista.
I due professori, col capo intricato fra i rami, si contorcono, si dimenano, si difendono alla meglio colle pedate, urlando: al ladro! all'assassino! e invocando soccorso in tutti i toni della paura.
— Volgiti costà, e mostrami il tuo grugno da patibolo! grida il Franchetti allo Zannadio, facendolo girare come un paleo.
Il povero geologo cade a terra ginocchioni, leva le mani in atto di preghiera, poi, riversando le saccoccie del soprabito da cui si rovesciano parecchie dozzine di ciottoli: Signor ladro! dice piangendo; pigliatevi pure tutta quanta la roba... ma lasciatemi la vita... per l'amor di Dio!
Perchè mai il Franchetti si arresta immobile, pietrificato dallo stupore?
Perchè mai il giovanetto, che poco dianzi investiva il signor Frigerio con tanta violenza, non appena questi gli ha rivolta la faccia, dà indietro due passi, e si tira il cappello sugli occhi per la vergogna?
I tre studenti, che furono della partita, abbassano le armi, si levano il cappello, e rimangono nella attitudine di colpevoli colti in fallo.
— Oh perdono! mille volte perdono! prorompe il Franchetti, deponendo il randello, e stendendo la mano al geologo, che giace tuttavia inginocchiato sull'erba... Voi; voi!... mio professore!... Voi... l'amico degli studenti! l'onore dell'Università!... Voi, che io venero e stimo fra tutti gli scienziati d'Italia!... Oh! lo imbecille! lo sciagurato ch'io fui!... Sorgete, non temete di nulla!... A me... a me si aspetta piegare il ginocchio dinanzi a voi... e implorare una parola di indulgenza!...
Lo Zannadio ed il Frigerio si levano in piedi e si guardano l'un l'altro come smemorati, mentre i circostanti colle più entusiastiche dimostrazioni di riverenza e di affetto cercano rassicurarli...
— Ma dunque, perchè ci avete aggredito con tanta furia? perchè quei randelli levati sulle nostre spalle? domanda l'ingenuo Zannadio.
— Per chi mi avevate preso? chiede il Frigerio alla sua volta.
— Signor professore!...
— Signor maestro!...
— Signor ripetitore!...
— Ebbene?... parlate dunque!... A voi, dottor Franchetti... Pronunziatela alfine questa parola, che dev'essere per noi la soluzione dell'enigma!... Noi comprendiamo che qui avvenne un equivoco...
— Oh! sì! un equivoco fatale! risponde il Franchetti. Ed ora che bene ci rifletto, ringrazio la provvidenza di avermi fatta nascere l'ispirazione di venirvi incontro con questi miei colleghi. Se per caso foste caduti nelle mani del popolo... a quest'ora non rimarrebbe di voi neppure una scheggia d'osso... Quei sciagurati vi avrebbero fatti in brani. Volete ch'io ve la dica tonda e schietta, l'orribile parola?... Mentre noi stiamo qui ragionando, laggiù a Tartavalle havvi un'assemblea, un tribunale popolare, che sta deliberando qual genere di martirio vi si debba applicare. Nell'opinione di quei popolani voi siete due spie dell'Austria.
I due professori spalancarono la bocca come due pesci cani feriti.
CAPITOLO VIII. Le vere spie non sono quelle che ne hanno le apparenze.
Battono le tre pomeridiane — e gli onorevoli membri della Commissione popolare, che devono decidere le sorti dei due emissarii dell'Austria, stanno ancora deliberando nel caffè di Tartavalle. Le discussioni delle Assemblee e dei Parlamenti sono in generale molto utili e benefiche, quando vi sia tempo da perdere. Se nelle questioni di urgenza gli oratori riflettessero che i fatti valgon meglio delle ciance, darebbero prova di grande eloquenza tacendo. Io conosco degli oratori, che se mai per avventura il fuoco si apprendesse alla Camera, volontieri morrebbero arrostiti in compagnia degli onorevoli colleghi, piuttostochè sacrificare un periodo.
Ma gli onorevoli di Tartavalle si mostrarono più discreti. Alle tre e mezzo pomeridiane, cioè tre ore dopo l'ingresso dei signori Frigerio e Zannadio, il Gallina aperse le invetriate, e presentossi al balcone per annunziare al popolo le deliberazioni del consiglio.
Ma dove è andato il popolo sovrano? dove sono i militi della Guardia Nazionale? chi ha dispersi gli uomini d'azione, il cui concorso è tanto necessario all'impresa?
Tutti i consiglieri si accavalcano sul balcone, e girano intorno lo sguardo, meravigliati di tanta solitudine.
Quand'ecco, lontano, sulla via di Taceno spunta una processione di popolo preceduta da un drappello di Guardia Nazionale col vessillo spiegato.
Il corteggio discende — la gran cassa della banda musicale desta gli echi delle montagne — voci alte e liete si mescono al suono delle trombe; gli uomini agitano i cappelli, le donne i fazzoletti...
— Che vuol dire tal novità? domanda il Gallina. — Fosse questo un tentativo dei reazionarii...
Ma la folla si appressa... I militi si schierano sotto il balcone; l'esercito si dispone in ordine di battaglia e presenta le armi...
A chi?
— Obbrobrio della nazione! grida il Gallina stendendo i pugni dal parapetto...
I signori Frigerio e Zannadio a cavallo attraversano la piazzetta, e rispondono con inchini ai viva entusiastici della moltitudine...
Un tale avvenimento, che riempie di meraviglia il Gallina e gli altri onorevoli membri della Commissione popolare, non parrà strano ai nostri lettori. Il medico Franchetti e i di lui colleghi, mentre l'assemblea stava deliberando, hanno spiegato al popolo l'equivoco delle spie; e il popolo, persuaso dalla autorevole testimonianza di parecchi milanesi i quali assai bene conoscono il signor Frigerio e il signor Zannadio, si affretta con una dimostrazione di simpatia e di rispetto a compensare i due professori del danno patito.
— In nome della patria, in nome del pubblico decoro, in nome di tutti i miei compaesani di Menaggio, io protesto contro l'illegale manifestazione di una plebe sedotta, fors'anche comprata dall'oro austriaco! grida il Gallina, volgendosi ai membri dell'assemblea.
— E noi tutti protestiamo! rispondono in coro i deputati.
— Siete voi disposti a morire? chiede con enfasi il Gallina agli onorevoli membri. — Siete voi disposti a morire per la salute della patria?...
Gli onorevoli esitano a rispondere. — La interpellanza è troppo compromettente...
— Signori! — io ve lo chiedo per la terza ed ultima volta: siete voi disposti a morire per la salute della patria?
— Io conosco troppo bene i miei doveri di deputato del popolo, risponde uno degli astanti. — Chi rappresenterebbe, chi illuminerebbe, chi governerebbe la nazione, se i deputati morissero?... Vivere è un diritto pel resto degli uomini — per un rappresentante del popolo è dovere!
— Bene! bravo! viva il maestro Gandolla di Bellano! — gridano gli altri deputati, che in questa ispirata risposta riconoscono la propria salvezza.
— E noi permetteremo, risponde il Gallina, che due spie, due emissarii dell'Austria sian portati in trionfo ed acclamati da questa plebaglia vigliacca che ci elesse all'onorevole incarico di rappresentarla?
— No! no! morte alle spie! morte alle spie! urlano in coro i deputati.
— Sì! morte alle spie! ripete il Franchetti precipitando nella sala in compagnia de' suoi colleghi di Università. — Morte alle vere spie, ai veri nemici d'Italia; morte ai don Basilii, che con maschera da liberale vanno pel mondo a far l'ufficio di Satana, a suscitare discordie e a seminare la gramigna nel buon grano. Oggi la provvidenza ci ha fatto discoprire due di cotesti scellerati... e ha posto in nostra mano tali documenti, ch'essi non potranno in verun modo schermirsi dai rigori della legge! — Signor sindaco di Taceno: io rimetto in vostra mano questi fogli, che gli illustri professori Frigerio e Zannadio hanno rinvenuti sulla via di Bellano, e che appartengono ai fratelli Albizzotti, sedicenti sensali di seta.
Così parlando, il Franchetti cavò di tasca un portafogli contenente parecchie carte, e ne fece pubblicamente consegna al sindaco della Comune.
— Come! i fratelli Albizzotti! — quei due signori che stamattina erano al caffè... e facevano tanti brindisi all'Italia... a Vittorio Emanuele... a Garibaldi!
— Erano due infami emissarii del partito austriaco — arruolavano volontarii per l'esercito del papa — raccoglievano denaro per la cassa di San Pietro — tenevano carteggio coi preti dell' Armonia e della Civiltà Cattolica — Infine, come potrete rilevare dalle note preziose che io vi ho presentate, erano venuti a Tartavalle per seminare la reazione...
— Ma gli altri due... que' birbaccioni, che poco dianzi abbiam veduto passare a cavallo fra i viva e le acclamazioni della moltitudine?...
— Sono due illustri Italiani, due professori di scienze naturali, uomini d'ingegno elevato, di nobilissimi sensi, che spesero la vita negli studi e nelle meditazioni — Essi venivano fra queste montagne per investigare i misteri della natura, per risolvere le astruse questioni della formazione del mondo... Ed è appunto di questi innocenti cultori delle scienze che Iddio si è servito per isventare le trame di due birbanti che certo non isfuggiranno al meritato castigo. I fratelli Albizzotti, temendo che i signori Frigerio e Zannadio fossero davvero emissari dell'Austria, e che il loro arresto potesse compromettere qualche segreto di bottega, se la svignarono da Tartavalle poco prima che vi arrivassero i due scienziati — e questi trovarono in sulla via il portafoglio ch'io ebbi l'onore di presentarvi.
Prima che gli onorevoli deputati potessero riaversi dalla sorpresa e convincersi dell'inganno, molto tempo ci volle. Le ciarle, le discussioni, i commenti durarono parecchie ore, con grande rammarico del Franchetti, cui premeva di prender parte al magnifico pranzo ordinato in onore dei due scienziati. Ultimo a persuadersi fu il Gallina; ma quando il dabben figliuolo ebbe esauriti tutti gli argomenti d'opposizione, e trovossi isolato o piuttosto soffocato dal voto concorde delle masse; il Franchetti lo prese per mano, e con dolce violenza lo trasse fuor della sala per condurlo a complimentare i due scienziati.
— Figliuolo mio, diceva il giovine medico all'ingenuo patriota di Menaggio — il mondo molto spesso si inganna ne' suoi giudizii. — Un uomo un po' eccentrico, un po' bizzarro nel vestito — un uomo timido, circospetto, che poco parli, nulla si interessi de' fatti altrui, facilmente vien preso in uggia e guardato di mal occhio. Credilo, Gallina; i veri furfanti non sono coloro che più lo sembrano... Le vere spie, i veri nemici d'Italia difficilmente si danno a conoscere.... Tu li vedrai manierosi, vivaci, brillanti... Li udrai declamare ne' circoli... gridare a voce alta: viva la patria! Viva l'Italia! viva il Re! — Io ho già imparato a diffidare di codesti ciarloni arroganti, impudenti, sfrontati... che la cieca moltitudine adora!... L'esempio degli Albizzotti ti serva di norma per l'avvenire... E se mai ti nasce sospetto che qualche sconosciuto possa essere una spia, guardati dal mettere in allarme le masse, come hai fatto sta volta... Pensa che se io non avessi prevenuti i decreti dell'assemblea, il popolo sovrano avrebbe lapidati a morte due luminari della scienza, due modelli di virtù.
Così parlava con amorevolezza il Franchetti, conducendo il sartore di Menaggio verso l'albergo.
Entrato nella sala, ove i due professori stavano pranzando, il Gallina si presentò per fare le sue scuse. Ma prima ch'egli avesse il tempo di proferire parola, la signora Menafuoco, seguita dalle due figliuole Rosalba e Cornelia, si fece innanzi, e fatto un inchino a destra, un altro a sinistra, parlò in tal guisa ai due scienziati:
« Francamente ci siamo ingannate! noi ritrattiamo esplicitamente quanto abbiamo potuto pensare o dire sul conto di due uomini onesti quali voi siete. Accettate colle mie anche le rettifiche di Rosalba e di Cornelia. Voi siete onesto; le nostre figlie sono oneste..... Noi siamo contente di voi. — La nazione vi offre un banchetto in segno di stima e di riconoscenza. — Noi lo approviamo! — Voi non rifiutate l'offerta della nazione — sta bene! — Signori e signore: proseguite pure nelle libere esercitazioni dei vostri diritti popolari — mangiate di buon appetito — noi lo permettiamo. — Anzi per riparare ad una involontaria omissione di questo onorevole comitato, noi ci assidiamo con voi al liberale banchetto. Lo abbiamo detto, lo diciamo, e non cesseremo di ripeterlo: In occasioni tanto solenni, noi saremo sempre colla nazione!»
FINE.
Un Apostolo in missione.
I. Sulla ferrovia.
— ..... Abbiamo avuto torto di trascurare la campagna — dicea Teobaldo all'amico — I campagnuoli hanno mente svegliata e istinti liberali; sono facili alle impressioni, pronti ad agire — energici, robusti. Oh! abbiamo avuto un gran torto, te lo ripeto! Volgemmo le spalle al buon terreno, per gettare le sementi alle ghiaje infeconde — però non abbiamo raccolto che triboli e spine.
— Dunque hai proprio risoluto?
— Si — ho deciso di andar in volta pei contadi a fare un po' di propaganda a viva voce. La parola è più efficace degli scritti. Oltrechè i buoni giornali (e quali sono i buoni giornali?) non vanno per le mani del popolo, questo non sempre è in grado di leggerli e di comprenderli... Bisogna dunque parlare, perorare, esercitare il santo apostolato della parola! — Ormai sono fisso in questa idea che, se non riusciamo a conquistare le masse dei campagnuoli, la nostra causa è perduta...!
— Io ti auguro buona fortuna. Ma bada che di questi giorni le campagne sono infestate di malva....
— Eh, pur troppo!.... I reazionarii, e i moderati, più vili, più schifosi dei reazionarii, avranno guasto il terreno.
— Non importa. Io non dispero di riuscire nel mio intento. Fors'anche mi sarà concesso di aggiustare un po' il cervello a qualcuno di codesti signorotti, che a Milano non vogliono intender ragione. In campagna la tolleranza è di buon genere, e molti de' nostri codinoni, che in città si rendono inaccessibili, fuori delle mura diventano più umani, più trattabili, più arrendevoli... Basta! Fa quello che devi, avvenga che può — dice il proverbio — io non lascierò intentato alcun mezzo... Mi introdurrò nelle case del ricco e del povero, per parlare a tutti il linguaggio della verità... Oh! la verità ha un fascino irresistibile! Tutto sta che alcuno abbia il coraggio di predicarla, ed altri la pazienza di udirla!... Ma... non vorrei perdere il convoglio... Sono le quattro e venti... non ho che pochi minuti per prendere il biglietto... Addio, mio buon amico! Presto ti darò mie notizie... Frattanto, voi altri di Milano persistete a combattere... Adunatevi di frequente... e mandatemi il sunto delle vostre discussioni. Badate ch'io debbo essere informato di tutto ciò che si passa nel regno della democrazia. — Al primo fermento, alla prima agitazione di popolo, io sarò tra voi colle nuove reclute... Voi dentro! io fuori!... Pinf! panf! punf!... abbasso i cilindri! fuoco alle malve! e viva!... Viva chi?...
— Viva la repubblica rossa, umanitaria, sociale!
— Viva chi?
— Viva Mazzini!
— Viva Teobaldo Brentoni, presidente della Società della morte!
— Viva il popolo! grido io — viva il popolo tradito, oppresso, conculcato, straziato! e morte!... Morte a chi?
— Morte ai codini! — ai moderati — ai tiranni!....
— Morte infine.... a quanti non la pensano come noi!
I due amici si abbracciano — L'uno sale in omnibus per rientrare in città, l'altro in quattro salti si slancia sotto il porticato della stazione.
— Presto! i signori che partono per Monza! grida una voce... Le inferriate si chiudono...
Teobaldo, che fortunatamente giunge in tempo per entrare, si appressa al finestrino onde provvedersi del biglietto...
— Primi o secondi? chiede il dispensatore mettendo il naso al finestrino.
— Che primi! che secondi! grida Teobaldo — Col popolo!... io vado col popolo!... sempre col popolo!... Ai terzi! ai quarti... se ce ne sono...!
— I terzi posti sono là abbasso... all'altro finestrino....
— Là abbasso! Ah! comprendo! Là abbasso!... E sempre basso, sempre umiliato, sempre avvilito lo si vuol tenere questo povero popolo!... Categorie! sempre categorie!... Oh sorgi, una volta! — rompi i ceppi! — ripiglia il tuo vigore, leone prostrato — infrangi le inique barriere!..... Ehi, di là! Un biglietto dei terzi per Monza!
E in proferire queste parole, Teobaldo ingrossa la voce e fa spiccare le sillabe, perchè i circostanti abbiano a notare ch'egli si è degnato di prendere un biglietto di terza classe....
— Ecco un signore, che incomincia di buon'ora ad economizzare il denaro, dice un padre di famiglia a due suoi figliuoletti. Io però non approvo tali economie... Ciascuno nel mondo deve tenere il proprio rango.
— Sarà qualche spiantato, cui mancano dicianove soldi a fare una lira, dice un lion, che ha preso un biglietto di prima classe...
— Veh! quell'imbecille di Brentoni, che va ai terzi posti per darsi l'aria di democratico!... E dire che l'altra sera agli Angioli ha lanciato una bottiglia contro il piccolo, perchè tardò tre minuti a portargli un sigaro!
Ma il nostro demagogo non si accorge de' poco benevoli commenti che i circostanti fanno sul di lui conto. Tutto radiante nel viso, egli attraversa il porticato per entrare nella sala d'aspetto...
— Dall'altra parte, signore!... Laggiù! più abbasso! dice l'uffiziale che sta alla porta... — Qui non entrano che i primi ed i secondi.
— Al diavolo i secondi ed i primi! Al diavolo tutte queste distinzioni, avanzo di feudalismo!... Privilegi! sempre privilegi! E che sono essi più di noi, questi signori, che si riservano il diritto di entrare per questa porta?... Non sono forse uomini come noi, figli del popolo? Non mangiano anch'essi? non dormono? non vanno soggetti alle malattie... ai bisogni più immondi?..... Quali sono i loro meriti speciali.....? vorrei un po' saperlo!!...
— Essi han pagato il biglietto qualche soldo di più, risponde l'uffiziale con ironia — Se il signorino avesse desiderato...
— Eh! ch'io non desidero nulla, io! Sono figlio del popolo, io! — sono cresciuto col popolo — ho diviso col popolo le più sante aspirazioni, i più sublimi dolori... Io voglio stare... e starò sempre col popolo.
— Dunque, la prenda quell'altra porta, e liberi il passaggio; che io non ho tempo di ascoltare delle prediche in questo momento! dice bruscamente il guardiano.
— Oh! vedi un po' che baldanza vanno prendendo questi impiegati regi! esclama Teobaldo.
Ma il campanello ha dato l'ultimo segnale..... Non v'è più tempo da perdere...
Teobaldo, dopo aver fulminato con una terribile occhiata l'ispettore dei biglietti... si precipita nell'andito destinato ai passeggieri di terza classe, lo attraversa rapidamente, e corre verso il convoglio... Sventuratamente un villano di Seregno gli attraversa il cammino..... Il villano ha due immensi panieri sotto braccio.... Teobaldo, nella foga del correre, ha urtato un paniere... Il villano perde l'equilibrio.... inciampa in una rotaia, e viene a cadere a poca distanza dai vagoni...
— Soccorrete quel figlio del popolo! grida Teobaldo dall'alto del vagone...
Due inservienti della ferrovia accorrono per sollevare il caduto.
— Presto, buon uomo!.... Il convoglio parte.... A quanto pare non ti sei fatto male — la testa non è rotta — per questa volta non sei morto!
— Credo di no, signor generale, risponde il villano inchinandosi ad uno degli inservienti — ma temo che qualche cosa di rotto vi sia nel canestro... Se mi concedessero qualche minuto..
— In vagone! in vagone! gridano ad una voce i i due uffiziali.
Essi aiutano il villano a salire, — gli chiudono gli sportelli dietro le spalle, — e il convoglio parte, mentre il villano, perduto l'equilibrio, va barcollando nell'interiore della carrozza e gridando a tutta voce:
— Adagio! Un momento! fermate i cavalli.... assassini!...
Gli altri viaggiatori, per la maggior parte contadini, si divertono a rimbalzare il mal capitato collega.
Questi lo tira per la coda del soprabito — un altro lo spinge — un terzo mena colpi sul paniere — tutti a ridere, a schernire, a battere le mani.
Teobaldo, adagiato in un angolo della carrozza, è scandolezzato di quella scena. Egli aggrotta le ciglia — si dimena — si contorce.
Questo è dunque il popolo dai nobili istinti, dalle aspirazioni generose! Questa è la carità, l'umanità tanto vantata delle classi povere? Oh scandalo!.... oh vergogna!
— Ma il povero popolo non ne ha colpa — pensa Teobaldo. — Corrotto da lunghi anni di schiavitù, conculcato dai tiranni, abbrutito nell'idiotismo, esso ha perduto la coscienza della propria dignità... Il terso cristallo fu appannato dall'alito impuro del dispotismo — la limpid'acqua fu avvelenata alla sorgente... Povero popolo! Educhiamolo colla parola e coll'esempio!...
— Buon popolano — dice Teobaldo, volgendosi al contadino, che non è ancora riuscito a mettersi in equilibrio — date a me quel canestro — appoggiatevi pure alle mie ginocchia — poi vedremo di serrarci un poco l'un presso l'altro in modo di farvi un posto da sedere... Ci hanno stipati qua dentro come bestie da macello!... Oh! ma verrà il tempo della giustizia.... assassini del popolo!... E questo tempo non è lontano!
Teobaldo prende il canestro del villano, e se lo mette sulle ginocchia. Frattanto i viaggiatori si stringono a malincuore l'un presso l'altro, tanto che si scopre una lacuna, ove finalmente il villano di Seregno può introdurre le appendici della schiena.
— Si viaggia pur male nelle strade ferrate! brontola il villano.... In vettura si andava più adagio, ma non v'era tanta confusione, tanto disordine!... Ma dove è andato il mio canestro?... Ah!.... quel signore là in fondo si è degnato!... Illustrissimo... tante grazie! troppa degnazione! troppa bontà!
— Finiscila con queste frasi servili ed abbiette! esclama Teobaldo con accento dispettoso. Tutti siamo eguali dinanzi a Dio e dinanzi al diritto... Riprenditi il tuo canestro... e grida con me: viva l'uguaglianza!
Mentre Teobaldo si leva in piedi per trasmettere il canestro al contadino: — Madonna! Madonna! esclamano parecchie voci. — La si guardi i calzoni! Oh! veda un poco, signorino! veda un poco l'orribile macchia!...
Tutti gli occhi si volgono a Teobaldo... I calzoni e il gilet dell'apostolo sono ingialliti di una vernice di nuovo genere — un misto d'olio e di rosso d'uova, la cui vista fa ricorrere istintivamente la mano alle nari...
— To! to! dice una balia, dove si è buscato il signorino tutta quella abbondanza? Anche a noi... maneggiando bambini... accadono spesso tali inconvenienti... Finora Nandino ha avuto giudizio... ma il viaggio è lungo... e mi aspetto la mia frittata...
— Che il Signor Gesù Cristo benedetto e la Madonna santissima mi abbiano in grazia, grida il villano giungendo le mani — Oh! lo so ben io donde è venuta fuori tutta quella broda!... che san Sebastiano e sant'Antonio del fuoco, e tutti i poveri morti mi perdonino!... La frittata l'ho fatta io... Cioè... io... ci ho messo l'olio e le uova... ch'erano qui dentro... pel vicecurato di Seregno.... Il fiasco e le uova sono andati in pezzi in conseguenza della mia caduta...!
Mentre il villano, invocando tutti i santi del paradiso, implora perdono da Teobaldo — questi contempla i propri calzoni come istupidito. — Il fiero repubblicano, che nulla teme al mondo quanto il ridicolo, perde d'un tratto il coraggio; l'apostolo smarrisce la favella; l'ispirato dall' idea si trasmuta in un fantoccio, e cade sulle panchette della carrozza facendo delle mani conserte una visiera alla pancia inverniciata...
Povero Teobaldo! E questo popolo, al quale tu hai giurato consacrare la vita; questo popolo, che tu, nuovo Mosè, vuoi redimere, rigenerare, sollevare al livello di Dio... questo popolo gode di vederti avvilito... si burla di te... Oh! ma non fu irriso anche Cristo dagli Scribi e dai Farisei?
— Perchè son venuto ai terzi posti? mormora Teobaldo rannicchiandosi nell'angolo della carrozza... A dir vero... il popolo è meglio vederlo da lontano che da vicino... Ma i contadini non sono popolo — essi appartengono alla specie dei bruti — Oh! il popolo! il vero popolo non è questo! Ma dove è dunque il vero popolo?... In città non abbiamo che volgo... In campagna non trovo che bestie... Via! un po' di pazienza! un po' di perseveranza!... Il viaggio dev'essere lungo! Non bisogna disperare sì presto!!
II. Augusto Regola, regio impiegato, padre di numerosa famiglia.
Lasciamo che il nostro Teobaldo prosegua il viaggio e digerisca il malumore cagionatogli da una sciagura che compromette in lui la dignità dell'apostolo, senza concigliargli la simpatia del martire.
Precediamolo di poche ore all'albergo di Canonica, ov'egli deve recarsi. — Stringiamo conoscenza coi nuovi personaggi, che la provvidenza ha posti sul di lui cammino perchè ricevano il seme dell' idea.
Sono le otto della sera.
Dinanzi all'antico albergo di Canonica si arresta una vettura sopraccarica di persone d'ambo i sessi...
— Ma di grazia! direte voi, dove si trova questo albergo di Canonica?
— Lo ignorate? Canonica è un paesello, un gruppo di quindici o venti case, che sorge in riva del Lambro, sullo stradale che da Monza conduce a Besana..
Fra queste case domina il palazzo dei conti Taverna, e l' Antico albergo, ove la sera del 28 settembre 1861 venne a fermarsi, come abbiam detto, una vettura carica di persone d'ambo i sessi.
Al rumore della carrozza l'oste, seguito dalla moglie e dalle figlie, accorre in sulla porta...
— Oh! ecco la nostra amabile ostessa! — grida una voce dall'interno della carrozza. Sempre bella! sempre fresca!
— Misericordia! il signor Augusto Regola! mormora l'ostessa forzandosi di sorridere.
— Forestieri fini! brontola l'oste rientrando nella cucina.
La figlia, il guattero ed altri, che sono accorsi in sulla porta dell'albergo, si fanno dei cenni cogli occhi e coi gomiti in segno di scherno e di impazienza.
Mentre il vetturale aiuta a discendere dalla serpa una mezza dozzina di ragazze, dall'interno della carrozza sbuca fuori un personaggio di circa sessant'anni, con immenso cilindro sulla testa e un soprabito lungo color verdone, abbottonato dalla gola all'ombelico.
Augusto Regola, ora impiegato regio, altre volte imperiale regio, da oltre venti anni, al tempo delle vacanze suol fare un giro nella Brianza col numeroso seguito di tutta la sua famiglia.
Questo giro, che ordinariamente si compie in meno d'una settimana, costa al signor Augusto Regola la somma prefissa di franchi venti, sebbene gli avvenga talvolta di esportare a Milano qualche residuo della somma, in grazia di avvenimenti impreveduti, ovvero di stratagemmi economici improvvisati e compiuti con rara abilità.
In tutti i paeselli della Brianza il signor Augusto Regola ha scoperto e coltivato degli amici e dei parenti, i quali gli servono di punto di appoggio nelle sue escursioni autunnali.
Ciascun amico, ciascun parente, ha obblighi speciali verso la famiglia Regola.
Questi deve fornir gratis l'alloggio — quest'altro deve imbandire ogni anno una refezione di salati e formaggi — ad un terzo è imposta una contribuzione di latte e di panetti gialli — tuttociò a beneplacito del signor Augusto e del suo terribile squadrone.
La famiglia Regola, in tali ricorrenze annue, somiglia ad un drappello di soldati, cui il generale abbia tolto il freno d'ogni disciplina.
La parola d'ordine è: divorate!
Inutile aggiungere che i figli del regio impiegato, interpretando quest'ordine nel senso più lato, divorano colle mascelle, e più ancora colle saccoccie, e perfino colle borse da viaggio.
Oltre ai parenti ed agli amici comuni a tutta la famiglia, ciascun figlio del signor Augusto ha in Brianza una balia od un baliotto da aggredire...
Nel saccheggiare la cascina ed il granaio di un baliotto, i Regola diventano feroci...
Quegli sciagurati ragazzi divorano ciò che veggono... Il loro appetito somiglia all'esplosione di un bisogno a lungo condensato, di una fame economizzata lentamente nei dodici mesi dell'anno, una fame che vuol disfogarsi in una settimana, colmare in un minuto il vacuo di eterni digiuni!
Il signor Augusto Regola attribuisce l'indomabile appetito dei suoi figliuoli all'influenza dell'aria campestre e delle insolite passeggiate...
Ma queste spiegazioni fisico-igieniche, che il regio impiegato ripete ogni anno ai suoi ospiti, non scemano in essi la meraviglia del fatto.
Il passaggio della famiglia Regola per molti pacifici abitatori della Brianza è considerato quale una calamità periodica. — I più l'attendono rassegnati — taluni, men generosi, o già troppo infastiditi dalle precedenti esperienze, si sottraggono al pericolo esigliandosi per breve tempo dalle proprie abitazioni...
Gli osti di Canonica, sebbene non facciano le più festose accoglienze al signor Regola, che ad ogni costo vuol chiamarsi loro cugino, non hanno mai negato di dare alloggio gratuitamente a lui ed alla sua numerosa famiglia. Quanto alla cena, da oltre venti anni, sembra tacitamente convenuto che il signor Regola debba pagarla, salvo il diritto ai ragazzi di andar in volta per l'osteria a spigolare su tutte le mense qualche frutto, ciambella, o crosta di formaggio, risparmiati dall'altrui appetito.
Il signor Augusto Regola è sceso dalla carrozza come uomo sicuro del fatto suo... Egli abbraccia l'ostessa, saluta con molto bel garbo i circostanti, sorride a tutti, esclamando a voce alta:
— Eccoci qui anche quest'anno, mia buona cugina... Noi siamo fedeli ed esatti... noi. L'anno scorso siamo arrivati il ventisette settembre alle ore cinque e quattordici minuti, più qualche secondo... Quest'anno abbiamo posticipato di venticinque ore circa... Il mio infallibile segna le otto e dodici minuti... Ho detto circa per la differenza dei secondi... Ebbene! abbiamo noi un paio di camere per questa notte?...
— Oh! vedremo di collocarla, signor commissario... Mi spiace che le camere dai letti doppii sieno già occupate... Non posso disporre per lei che di due gabinetti e due sofà...
— Due gabinetti sono anche di troppo per noi, mia ottima cugina. Uno pei maschi, l'altro per le femmine... La mia famiglia quest'anno si è diminuita... Ho perduto due figli, il Gaetanino e l'Albina..... Il primo è morto di una gastrica, l'altra di indigestione... Vediamo dunque quanti siamo... Uno.... due.... tre quattro..... cinque... Ma il conto è presto fatto... Dodici figli, io e mie moglie... somma totale: quattordici... Se siamo riusciti a collocarci tutti in quella vettura, troveremo il modo di accomodarci anche nei due sofà... Ebbene, figliuoli miei?.. siamo noi pronti?...
— Sì, papà!...
— Fianco destro! conversione a sinistra! entrate là dentro in compagnia della nostra buona cugina.... Io pago il vetturino, poi vengo a raggiungervi per ordinare la cena... Eh! la nostra brava cugina tiene sempre le casseruole ben fornite! Io sento già un odore di stufato, che risusciterebbe i morti!.... Da bravi, figliuoli!... Avanti... e con ordine.
La prole del signor Regola si precipita in massa nella cucina. I fanciulli si fermano dinanzi ad una tavola ove sta cenando un signore magro e brutto in compagnia d'un giovanetto più magro e più brutto di lui, ma vestito con somma eleganza.
Le due figlie più adulte del regio impiegato, quasi coetanee, l'una all'altra somigliantissime nelle fattezze del volto e nella struttura del corpo, perchè losche ambedue e rattratte in una spalla, coll'occhio destro cercano magnetizzare un signore che fuma presso il camino, col sinistro un cappone che fuma sul fornello.
Il signor Regola è riuscito a sbarazzarsi del vetturino, ma prima di metter piede nell'albergo, egli si consulta colla propria moglie sul genere della cena che quella sera vuol essere adottato.
Trattandosi di dover pagare, bisogna conciliare gli interessi dello stomaco cogli interessi della borsa — bisogna trovare un palliativo al tremendo appetito della vorace famiglia.
Dopo breve discussione, i due coniugi finiscono a mettersi d'accordo, decidendosi in favore del torbolino!
Fermi in questa risoluzione, essi entrano nella cucina, affrontando coraggiosamente i reclami dell'esercito affamato...
— Ebbene! dice il signor Regola all'ostessa — che c'è di buono in quelle casseruole? Abbiamo noi qualche cosa... qualche piatto casalingo... e sostanzioso...
— Abbiamo ciò ch'ella può desiderare, risponde l'ostessa — Vuole un buon pezzo di stufato... numero uno, prima cottura?
All'idea dello stufato tutti gli occhi della famiglia Regola, tutte le bocche si spalancano e si convergono nel volto di papà...
— Che ne dici, Teresa?... sentiamo il tue voto sullo stufato...
— Alla sera gli è un po' pesante tanto più che qui in campagna bisogna andar a letto di buon'ora....
— Ebbene! vediamo se vi è qualche cibo più leggiero.
— Avrei dei funghi cotti alla spazzacamina..... dice l'ostessa.
I fanciulli riaprono gli occhi e le bocche...
— Eh!... funghi... che ne dici, Teresa?... Eccellenti i funghi... alla spazzacamina! Peccato che due ore fa abbiamo mangiato del latte a Biassonno!
— Sicuramente! ripetè la moglie del regio impiegato — abbiamo bevuto del latte a Biassonno...
I figli del signor Regola cominciano ad impazientarsi... L'un d'essi ha la sfrontatezza di borbottare a voce abbastanza intelligibile: sono già sette ore che l'ho digerito io... il latte di Biassonno!... Oh! vedo... che si finirà coll'andare a letto senza cena!
L'ostessa, non meno impaziente, fa di mala voglia nuove proposte al signor Regola.
I pesci fritti vengono rifiutati in grazia delle scaglie.
Le uova perchè indigeste alla sera.
I formaggini di capra perchè troppo eccitanti.
L'insalata perchè troppo deprimente...
— Oh! mi viene un'idea! esclama il signor Regola battendosi la fronte, come uomo galvanizzato da subita ispirazione. — Una cena poetica! una cena di occasione!... Se bevessimo... del torbolino!... Del torbolino dolce! che ne dite, figliuoli?... Quattro fette di pane nel torbolino: non è questa la migliore delle cene?... Da bravi! attorno alla tavola!... sedete... La nostra brava cugina ci fornirà quattordici bicchieri puliti e due boccali.... no!.... basteranno sette bicchieri... Il torbolino riscalda.... Dunque sette bicchieri.... del più fino! due pagnotte di mistura!... Ed ecco improvvisata una cena di nuovo genere... una cena gustosa... nè troppo grave allo stomaco, nè troppo leggiera... Che ne dite, figliuoli?
I ragazzi minori di dodici anni gridano viva! battendo le palme. Non così i più adulti, nella cui immaginazione insiste l'idea dello stufato coi funghi e d'altri commestibili più sodi, del cui profumo è voluttuosamente impregnata l'atmosfera. Le due zitellone losche tengono continuamente gli occhi rivolti al cappone ed al signore che fuma.
Mentre le figlie dell'oste distendono le tovaglie e dispongono i bicchieri, madama Regola trae in disparte l'ostessa per chiederle informazioni sui vari personaggi che si trovano in cucina.
Madama Regola, come tutte le madri che hanno figliuole da maritare, in campagna come in città, va in cerca di un partito... Sotto la denominazione di partito, madama Regola intende tutti gli uomini più o meno giovani, più o meno civili, che avrebbero i requisiti necessari per sposare una delle sue ragazze.
— Chi è quel brutto signore... che siede là in fondo... in compagnia di quell'altro signorino ancora più brutto? chiede madama Regola all'ostessa.
— L'uno è il professore Adanulfo Schiena, un talentone che parla poco e in modo che nessuno lo capisce... L'altro è il contino Bisciolla, che quest'anno ha ottenuto il permesso di fare il suo primo viaggio di istruzione... e percorre la Brianza sotto la tutela del professore...
— Il contino è molto giovane, pensa madama Regola — non può avere più di dieciasette o dieciotto anni — sarebbe un partito da coltivarsi per la Geltrude o per la Tilde... Quanto al professore... se fosse celibe... si potrebbe combinare un affaretto colla Melpomene o coll'Agatina... Ma chi è quell'altro che sta ritto in piedi dinanzi al camino?...
— È un signore, di cui non conosciamo il nome, ma è certo un gran signore... Egli ha la passione della pesca; i nostri contadini lo chiamano il terrore del Lambro.
— Credete voi che egli sia ammogliato?
— Non ne so nulla! risponde l'ostessa, che avendo essa pure due figlie a maritare, ha fatto qualche calcolo sul signore dal pesce.
Ma la tavola è imbandita. — I bicchieri sono disposti in giro — il regio impiegato distribuisce solennemente le fette di pane...
Finalmente il torbolino comparisce sulla tavola fra le acclamazioni entusiastiche dei fanciulli...
— Adagio!... uno alla volta! grida il signor Augusto versando il liquore... Bevete con riguardo!... È un vino che dà alla testa!... A voi altri piccini basterà mezzo bicchiere!... Viva il torbolino!
— Viva il torbolino! strillano in coro i ragazzi.
In quel punto tre nuovi personaggi entrano nella cucina. L'un d'essi, sollevando con una mano un largo cappello alla calabrese, urla con una voce da stentore;
— Viva l'Italia! viva Garibaldi! viva la democrazia!...
— Viva l'Italia! viva Garibaldi! rispondono con un sol grido i commensali, ad eccezione del contino Bisciolla, che diviene rosso rosso, e interroga collo sguardo il professore...
Madama Regola e le sue ragazze divengono radianti... Tre giovani di condizione più o meno civile passeranno la notte nell'osteria... Tre giovani! probabilmente tre partiti! È la Provvidenza che li manda!
La padrona dell'albergo, sebbene abbia detto poco prima al signor Augusto di non aver altre camere libere, non trova difficoltà ad alloggiare i tre giovani, tanto più che l'un d'essi ha prevenuto molto favorevolmente l'albergatrice ordinando ad un tratto una pinta di vino.
— Se vogliono passare nella sala... dice l'oste ai nuovi arrivati.
— Nella sala!... noi nella sala!... esclama l'uno dei giovani... Ove trovare miglior sala di questa?... Siamo democratici noi!... Col popolo! col popolo! sempre col popolo!
A tale linguaggio chi non ravvisa Teobaldo Brentoni, il fanatico repubblicano, che abbiamo lasciato nel convoglio della ferrovia?...
A Monza egli s'è cambiato i pantaloni e il gilet... Col rinnovarsi della toelette, egli ha riacquistato il suo buon umore, il suo coraggio, il suo fuoco democratico... Ed ora egli è più che mai risoluto di continuare nella sua missione, a costo anche di incontrare il martirio.
I due giovani, che con lui sono entrati nell'osteria, appartengono alla classe di quegli ingenui, che quando escono da Milano, si credono padroni del mondo, e vanno attorno per le borgate e i villaggi di provincia spacciando frottole, o dandosi l'aria di gran signori e d'uomini d'importanza. Teobaldo Brentoni li ha trovati sul proprio cammino, e si è unito ad essi per convertirli alla fede repubblicana.
— Cittadino Quinetti! cittadino Zammarini! accomodatevi là su quella panca... Dice il Brentoni ai due giovani. Con permissione di questi altri cittadini... io passo dall'altra parte...
Ciò detto, il fiero democratico mette un piede sulla tavola ove cena il contino Bisciolla col suo professore, e d'un salto arditissimo va a sedere sull'altra panca.
Teobaldo Brentoni ha studiata la posizione. — Dal punto ov'egli si è messo può dominare la sala.
Avvezzo alla presidenza delle assemblee popolari, Teobaldo Brentoni vuol essere veduto, ascoltato, ammirato...
Più di trenta persone sono nella cucina, oltre i cani, i gatti ed i polli.
Che bel colpo per il presidente della Società della morte, — convertire in una sera al vangelo della democrazia più di trenta persone e una dozzina circa di quadrupedi!
III. Durante la cena.
L'invasione della famiglia Regola ha messo di cattivo umore il pedagogo Adanulfo Schiena e il pescatore dilettante, personaggi di indole oltremodo pacifica.
Il professore, che poco dianzi aveva dato saggio di inesauribile facondia spiegando al suo nobile allievo ed alla famiglia dell'oste l'etimologia di vari paesi della Brianza, stordito dalle grida dei fanciulli e più ancora dalla marziale disinvoltura di Teobaldo e de' suoi due colleghi, corruga la fronte, e brontolando sottovoce un distico greco, accenna al contino di sbrigarsi nella refezione, per ritirarsi il più presto possibile negli appartamenti superiori.
Mentre i figli del signor Augusto si contendono le ultime stille del torbolino rimasto nella bottiglia, Teobaldo onde predisporre i circostanti ad una allocuzione democratica, si alza impetuosamente, e levando il bicchiere ricolmo sul capo del contino Bisciolla, propone un brindisi all'unità d'Italia!
— Viva l'Italia! rispondono in coro gli astanti.
— Viva Vittorio Emanuele, il re galantuomo! soggiunge l'impiegato regio levandosi il cappello.
— Viva l'eroe di Varese, di S. Fermo, di Marsala, di Palermo, l'invitto generale Garibaldi! prosegue Teobaldo con maggiore vivacità!
— Viva Garibaldi!
— Papà! papà! non ho più vino per fare il brindisi, grida un fanciullo di circa dieci anni, stendendo il bicchiere al signor Regola, che questa volta non ha risposto al viva di Teobaldo.
— Vieni qui, bel fanciullo; il vino te lo darò io, dice Teobaldo. — Chi non beve alla salute di Garibaldi non può essere buon italiano.
— Se il papà mi permette...
— Poichè il signore è tanto buono da... E trattandosi anche di onorare un illustre personaggio, che ha fatto adesione al nostro re amatissimo, io non ho difficoltà per questa volta...
— Viva Garibaldi! grida il fanciullo dopo aver vuotato un bicchiere di vino eccellente...
E tosto le guancie del fanciullo si fanno di porpora, e gli occhi vibrano lampi di luce.
— Resta ancora un brindisi a farsi, mio bel figliuolo, riprende Teobaldo... Non bisogna dimenticare nessuno degli uomini insigni, che cooperarono alla redenzione dell'Italia... Sarebbe ingratitudine, sarebbe viltà!... Pur troppo vi hanno taluni, che disconoscono i servigi resi alla patria da quell'indomabile cospiratore, che parlò quando tutti tacevano, che gettò un guanto di sfida a tutti i tiranni di Europa, che creò colla potenza della sua parola tanti eroi e tanti martiri... Sai tu, figliuolo mio, di chi intendo parlare?...
Il fanciullo fissa in volto a Teobaldo due occhi stralunati... Egli vorrebbe indovinare il pensiero del suo interlocutore, onde procacciarsi la di lui benevolenza e ottenere qualche ghiotto boccone, in ricambio della sua perspicacia...
Dopo breve silenzio, il fanciullo batte le palme, monta sovra una sedia, e attirando l'attenzione dell'adunanza, strilla a tutta voce: Oh! lo so ben io... Ora mi rammento...
— Qua il bicchiere, figliuolo mio! e beviamo un altro sorsetto alla salute del grande uomo. Dunque... viva chi?
— Viva Gyulai! grida il figlio del signor Regola alzando il bicchiere.
Questo brindisi inaspettato eccita un mormorio di riprovazione in tutti i circostanti. Teobaldo lascia cadere il bicchiere sul piatto del conte Bisciolla, e la moglie del regio impiegato levasi furiosa dal proprio scanno, dirigendosi alla volta del fanciullo:
— Sei tu già ubbriaco? gli grida — e ti pare che queste sieno cose da dirsi nemmeno per burla?... Gridare: viva Gyulai!... Ma come mai ha potuto venirgli in mente!... Giù da quella sedia, briccone! a letto, a letto subito!... S'è mai dato uno scandalo di tal genere?...
Il fanciullo, confuso e pieno di vergogna, rimane immobile in sulla seggiola — la riprovazione dei circostanti, le invettive della madre, gli sguardi minacciosi delle sorelle, lo commovono siffattamente, ch'egli prorompe in lacrime dirotte, e coprendosi gli occhi, esclama con voce mezzo dolente, e mezzo stizzosa:
— Che volete che mi sappia io?... Due anni fa il papà mi insegnava a dire: viva Gyulai!... Ed anche la mamma... e quanti venivano in casa nostra dicevano tutti che Gyulai era un grand'uomo... che bisognava onorarlo...
— Zitto là, impertinente! grida la signora Regola, pigliando il figliuolo per un braccio e tirandolo dalla seggiola, mentre tutta la sala si leva di nuovo a rumore.
Ma questa volta non è più un mormorio di sorpresa e di indignazione — sono parole di scherno, e risa, e motteggi, che vanno a ferire il cuore del signor Augusto Regola e di tutta la sua rispettabile famiglia.
Teobaldo Brentoni stende la mano al fanciullo lacrimoso, e, offrendogli quattro marroni, gli susurra all'orecchio alcune parole.
Il fanciullo terge le lagrime, e dopo avere ingozzati i marroni, sale di nuovo sulla seggiola come un oratore sicuro del fatto suo, che ha trovato un argomento per riabilitarsi nell'opinione del pubblico.
— Mio bel giovanetto, grida Teobaldo levandosi in piedi; le parole che ti sono sfuggite dal labbro sono il frutto della corruzione e della servilità, che uomini traviati e prostituiti allo straniero hanno seminato nel tuo animo innocente. Ma tu appartieni alla nuova generazione, alle nuove idee; tu sei in tempo a rigenerarti nel battesimo delle dottrine liberali. Su dunque gentil giovanetto! Le tue labbra sieno le prime a proferire stassera il nome di colui, che i più sembrano avere dimenticato, e a cui l'Italia va debitrice delle franchigie ottenute. Viva dunque?... Viva chi?...
— Viva Giuseppe Mazzini! esclama il fanciullo con tutta la sua voce.
— Viva Giuseppe Mazzini! rispondono il Quinetti, lo Zammarini ed altri pochi.
Augusto Regola, che poco dianzi non avea trovato parole per riprendere il figlio dell'imprudenza commessa, al nome di Giuseppe Mazzini balza in piedi... si percuote la fronte, si tura colle mani gli orecchi... muove alcuni passi verso il fanciullo, poi vacilla, e cade, gridando con voce convulsa:
— A letto! a letto subito!... Mettetemi a letto... quel figliuolo! Cospettone!... La repubblica! Anche questa mi toccava udire! Oh, ma, signori miei... io non c'entro per nulla in questa faccenda! In casa mia... vi giuro... che mai... da nessuno fu proferito un tal nome!...
E la voce del regio impiegato muore strozzata da un impeto di terrore e di sdegno, che nessuno degli astanti avrebbero preveduto.
Oh! gli impiegati!... — Amico lettore: permetti ch'io sospenda il mio racconto, per invitarti a versare una lagrima sugli impiegati in genere, e sul signor Augusto Regola in ispecie!
Piangi! oh piangi, amico lettore, sugli impiegati prolifici! Quando tu avrai un impiego governativo, e per giunta una dozzina di figliuoli, griderai anche tu come il signor Augusto Regola: viva chi paga!
Teobaldo Brentoni dinanzi al vecchio illividito dallo spavento, ha perduto il coraggio delle proteste. Il fanciullo ha subito la sua condanna... Augusto Regola è fuggito dalla cucina traendo seco metà della famiglia...
Il regio impiegato non comparirà più mai in un luogo dove fu pronunziato il nome di Giuseppe Mazzini.
La partenza del signor Augusto Regola e della sua prole mascolina ha prodotto qualche sensazione nella adunanza. Il professore Adanulfo Schiena si fa recare il conto, e già muove per ritirarsi in compagnia del suo nobile allievo, quando il Brentoni volgendosi al contino Bisciolla, che fino a quel punto era rimasto silenzioso cogli occhi bassi: — Che ne dite, cittadino, di questa scena? gli chiede. — Sareste anche voi per avventura impiegato regio? Io non v'udii rispondere all'ultimo nostro brindisi in onore del nostro grande agitatore dell'Italia, dell'apostolo dell'Idea!...
Il contino diventa rosso come bragia, e interroga cogli occhi il professore perchè gli suggerisca una risposta...
Il pedagogo si inchina gravemente — rialza gli occhiali sulla fronte — e risponde col naso:
— Perdoni la signoria vostra, ma tanto io che il mio nobile allievo, signor Conte Bisciolla, eravamo preoccupati da una discussione sulla etimologia della parola Lambro, che io farei derivare dal latino Lambere, come Seregno da Serenum....
— Come Albiate da Album, prosegue il contino sul tono d'un fanciullo che reciti la lezione. — Come Besana da Bacinum, Sovigo da Subjectum, Desio da Decius proconsole romano mandato da Tiberio a incivilire la Brianza...
Il professore e l'allievo, ricambiandosi un'occhiata di reciproca ammirazione, uscirono dalla sala.
— Oh! vedete di che vanno ad occuparsi quest'imbecilli! sclama il Brentoni seguendo collo sguardo i due che se ne vanno... Ecco di qual modo si pensa a fare l'Italia da questi birboni di moderati... E lei?... che ne dice di que' gaglioffi?... Non starebbero bene appiccati ad un lampione come due contrappesi?...
Il nuovo interpellato è il signor Mollasca, il dilettante di pescagione, che sta fumando presso il caminetto...
— Se non erro... il signore mi ha rivolta la parola...
— Ho chiesto il suo parere intorno a quegli animali malvacei... che grazie a Dio si sono allontanati...
— Io non ho prestato attenzione a quanto è accaduto... Mentre que' signori parlavano, io consultava l'oste per sapere se nelle roggie del terzo mulino sulla strada di Albiate si peschino ancora delle anguille e delle trote!...
— Oh! benedetti! benedetti voi, colle vostre etimologie e le vostre anguille! E dire che abbiamo i Tedeschi a Verona! i Francesi a Roma! gli Spagnuoli a Napoli! e i moderati a Torino... Sì! i moderati, più fatali all'Italia che non i Tedeschi, gli Spagnuoli e i Francesi!...
Il dilettante di pesca durante le invettive del fiero demagogo piglia un candeliere, fa un inchino alle donne, ed esce per andarsi a coricare.
— Oh! sta bene che se ne vadano costoro!... Vera peste della società! Obbrobrio della patria!... A voi! a voi, italiche fanciulle! a voi figliuole predilette della creazione! a voi cherubini della terra!... Scuotete voi questa razza codarda! Parlo a voi, creature fantastiche e belle, che avete il fascino nello sguardo, e nella mano una potenza vivificante!
Le figlie del regio impiegato allungano il collo... la signora Regola sorride al fanatico oratore, ed approva col moto della testa.
— Egli vi ha chiamate cherubini! avete sentito?... dice la madre alle figliuole... Ha detto che avete il fascino nello sguardo... Posso ingannarmi, ma qui si combina un matrimonio.
La più anziana e la più losca delle ragazze, supponendo che il giovine abbia indirizzato a lei questa ultima frase, gli rimanda un sospiro di ricambio.
— Ohi sì... io so bene ciò che voi desiderate... o creature fantastiche, prosegue il Brentoni sempre più animandosi. — La società infino ad ora vi ha tenute schiave, avvilite, conculcate... La religione vi ha incatenate buono o malgrado ad un solo individuo, che divenne il vostro tiranno... Le sante e pure aspirazioni delle anime ardenti furono soffocate, annientate da quell'incubo fatale che si chiama il matrimonio! — Ebbene! noi le distruggeremo queste leggi abborrite! Voi sarete libere! emancipate.... Non più la prostituzione delle nozze! Non più la servitù del matrimonio! Abbasso il matrimonio! Non è forse questo, o fanciulle, il grido dell'anima vostra contristata.... Voi tacete?.... Voi comprimete i singulti? Voi dissimulate i vostri più ardenti affetti dinanzi ad una società codarda, pronta sempre a condannarvi!...
Madama Regola è visibilmente sconcertata da sì inattese conclusioni. A un tratto ella balza in piedi, e con un gesto da Lucrezia romana: figliuole, dice, è ora d'andarcene a letto!... Questo signore ha certe idee...
— Peccato! mormora la Geltrude... Un bel giovinotto!...
— Voi partite, signorine belle? chiede il Brentoni, vedendo che il suo discorso ha prodotto un effetto contrario alle sue speranze. — Vi ho forse offeso con qualche parola?... Vi spiacerebbero forse le mie teorie?
— Poichè volete saperlo, dice madama Regola... io credo che queste mie figliuole, in fatto di matrimonio, abbiano delle idee affatto diverse da quelle che voi avete espresse...
— Possibile! esclama il Brentoni con quella ingenua sorpresa, che è propria di tutti gli esaltati, quando il caso li richiami sul terreno della realtà... Possibile che queste signorine... non dividano con me l'orrore di questa schiavitù legalizzata... che si chiama il matrimonio?
— Pur troppo... non possiamo dividerla!
E tutte le ragazze se ne andarono come uno stormo di oche, modulando in diversi toni: pur troppo!
La cucina era quasi deserta... Lo Zammarini e il Quinetti, che dapprima parean prendere il più vivo interesse alla animata eloquenza di Teobaldo, s'erano addormentati ai lati dell'apostolo. L'albergatore e l'ostessa coi loro sbadigli accennavano il desiderio di ritirarsi.
— No! io non dormirò in questo albergo! disse il Brentoni! C'è troppa malva! Non vorrei che le esalazioni mi avvelenassero... Ehi di là! c'è qualche buon figlio del popolo che voglia rendermi il servigio di accompagnarmi a Ponte d'Albiate?
Un contadino, che in tutta la serata era rimasto silenzioso in un angolo della cucina, facendosi innanzi al Brentoni, e levandosi il cappello: signore, gli disse: s'ella non sdegna la compiacenza d'un povero contadino, ma onesto... e italiano di cuore... io la condurrò a Ponte d'Albiate.... come ella desidera!... Viva l'Italia! Viva Garibaldi!...
— Ecco un uomo che mi va a genio! sclama il Brentoni. — Fratello!... trinchiamo insieme un bicchiere! Si paghi il conto... e si parta!
— Amen! risponde il contadino portando la mano al cappello come un vecchio militare.
Il Brentoni saldò il conto senza far repliche. — Il contadino si prese sotto braccio la borsa del forastiero; e tutti e due uscirono fuori in sulla piazza.
— Oh, vedi che bella notte stellata!... Che azzurro sereno!... E dire che sotto questa vôlta sì pura, sotto questo padiglione gemmato, nascono e crescono tanti cretini, tanti animali da capestro!... Oh! ma io non posso... non debbo maledire all'Italia.... E non è forse questa la terra di Dante, di Machiavelli e di Galileo?...
— Signor no! rispose il contadino, che a bocca aperta avea ascoltate le inspirate parole del fiero patriota. — Signor no! Queste terre... sono in parte del conte Taverna, in parte del signor Tinelli...
— Al diavolo i cretini! grida il Brentoni, strappando la borsa dalle mani del contadino. Lasciami andare... che troverò da me solo la via! Possibile che in questi paesi non incontri un essere che mi comprenda!
IV. La domenica a Ponte d'Albiate.
Se mai vi prende la buona ispirazione di recarvi nei mesi di estate a villeggiare in qualche paesello della Brianza, io vi consiglio di arrestarvi a Ponte d'Albiate.
Giunti colà, cercate prendere alloggio all'albergo del fornaio Giuseppe Galbiati. Avrete una buona camera, biancheria pulita, servizio pronto, tuttochè può formare il confortabile della vita — e per giunta vino squisito e certi intingoletti solleticanti, di cui la signora Felicita moglie dell'albergatore possiede il segreto.
Teobaldo Brentoni, procedendo nel suo viaggio, pervenne all'albergo del signor Galbiati verso mezzanotte.
Tutti erano coricati, e dormivano del sonno più profondo.
Teobaldo, a forza di gridare, e gettar sassi alle finestre, riusci a destare Sciaballino il cane guardiano; questo svegliò i tacchini, i tacchini svegliarono le oche, e quello chiarivari di voci animalesche riscosse in breve tutti gli abitanti del paese, l'oste compreso.
L'arrivo del terribile rivoluzionario produsse la più viva sensazione.
All'indomani — era giorno di domenica — nel cortile dell'albergo tutti parlavano del giovane sconosciuto, che nel cuore della notte avea con tanta insistenza disturbata la pubblica quiete.
— Chi sarà? Donde venne? Fin quando si trattiene?
— Io non gli ho chiesto nulla, risponde l'oste. L'ho condotto nella sua camera, gli ho dato la buona notte, e finora non è ricomparso...
Frattanto il cortile sempre più va riempiendosi di curiosi. I villeggianti, uomini e donne, vengono a chieder novelle dell'insolito chiasso avvenuto la notte.
Ma un suono di tromba ha richiamato l'attenzione di tutti. Un contadino di circa trent'anni, con due grossi tacchini in sulle spalle, si fa in mezzo alla brigata, e saluta rispettosamente gli astanti.
I fanciulli battono le mani — Viva il Malo Amen! si grida da ogni parte — Presto! in giro le cartelle!... Vediamo chi sarà il fortunato!
Il contadino depone le due vittime nel mezzo della tavola, e si prepara a far l'estrazione di una tombola, gridando a tutta voce:
— Avanti, signori!... non vi sono che dieci cartelle disponibili!... Chi non risica non rosica!... Da bravi!... Ma ecco un signore, che senza dubbio vorrà favorirmi... Se non erro, è quello istesso, che ieri a sera cenava all'albergo di Canonica, e a cui ebbi l'onore di indicare il cammino per Albiate...
Infatto Teobaldo Brentoni, svegliato dal suono della tromba, era balzato dal letto, e veduta tanta gente nel cortile, era disceso colla speranza di poter sfoggiare qualche arringa rivoluzionaria.
Alla vista delle cartelle e dei tacchini, la fronte dell'apostolo divenne crespa...
— Ecco di qual modo si educa il popolo, mormorò Teobaldo... Coi giuochi d'azzardo!... colle lotterie!... E dire, che non si è ancora pensato dal governo a togliere di mezzo questa immoralità legalizzata che si chiama il giuoco del lotto!... Povera Italia!
Malo Amen, non potendo immaginare quale profonda indignazione fremesse nell'anima del giovane repubblicano, lo salutò del più amabile sorriso, offrendogli due delle cartelle rimaste vacanti.
— Eh! non hai capito ch'io non so che farne delle tue cartelle! disse il Brentoni volgendo le spalle. — Abbiamo ben altro per la mente, noi uomini d'azione, che questi inutili spassi inventati dalla malvacea fantasia di chi vuole l'Italia eternamente schiava ed oppressa!
— Ma che s'ha dunque a fare qui in campagna per passare il tempo? chiede una giovanetta, la quale divenne rossa come brage in udire le parole del Brentoni. — Le giornate sono tanto lunghe.... e il divertimento della tombola sì breve...
Malo Amen colle sue cartelle nella mano è rimasto immobile come don Bartolo.
— E siete voi, bella giovanetta dalle guancie di rosa, siete voi che mi chiedete come dobbiate impiegare utilmente i vostri giorni! Aprite i sacri volumi della istoria greca e romana, e vedrete di qual modo utilizzassero il tempo quelle fiere indomabili eroine dei tempi vetusti, allorquando la patria era in pericolo!... Parlate colle figlie dei Focioni e degli Epaminonda! Interrogate le spose dei Gracchi e dei Scipioni. Le nipoti dei Leonida, dei Milziadi, dei Cocliti, dei Bruti, dei Ligarii!...
— Tutti questi signori villeggiano forse nelle vicinanze? chiede ingenuamente la padrona dell'albergo.
— Eh! non v'è pericolo! Sono gente di cui oggimai si è perduta la stampa! Io vi assicuro che quelli non erano uomini che perdessero il loro tempo a far delle tombole.
La madre della giovinetta, cui il Teobaldo ha rivolto più direttamente la parola, vedendo che la figlia non osa rispondere, balza in piedi come una vipera schiacciata nella coda, e lanciando all'oratore uno sguardo iniettato di veleno:
— Signore! esclama; quanto alle nostre figlie, noi possiamo vantarci ch'esse non mancarono mai nelle grandi occasioni ai loro doveri di cittadine e di buone italiane... Nel 1848 la Gigietta lavorava a preparare le bandiere tricolori e a sfilare i tovagliuoli per medicare i feriti... La Teresina sa fare tutti gli esercizi militari come un veterano... La Bersabea, due anni fa, quando vennero i Francesi e i Piemontesi, passò le intere notti presso il letto dei feriti... Ella ha guarito dieci zuavi, sette bersaglieri, ed un turcos — questo ultimo fu tanto contento dell'assistenza ricevuta, che non ha mai cessato di scriverle... Lettere che fan piangere i sassi!... Ella vede, mio bel signore, che a tempo debito non siamo state colle mani alla cintola. Se oggi siamo qui a rischiare una cartella alla tombola, domani, ove il caso si presentasse, tanto io che le mie figliuole sapremmo maneggiare altri strumenti!
— Brava!
— Bene!
— Viva la signora Carlotta! gridano i circostanti. Il Malo Amen, che più degli altri si tiene offeso dalle marziali declamazioni di Teobaldo, sendo egli l'iniziatore e il promotore della lotteria, prende coraggio dall'esempio, e prosegue con calore:
— La signora Carlotta ha detto benissimo.... Oggi la tombola, domani le palle di piombo!... Anche io non ho mancato al mio dovere quando si trattava di combattere per la patria, e di cacciar via quei maledetti tedeschi! Ho ancora in tasca la ricevuta del denaro, che portai al Comitato di Milano per un milione di fucili richiesti dal conte Giuseppe Garibaldi!... Due franchi, capisce, mio bel signore! Io, povero contadino di Albiate, ho dato due franchi! E conosco tanti conti, marchesi, baroni e cavalieri, i quali hanno avuto paura a cavar di tasca un quattrino...
— Ed io mi sono battuto a fianco di Garibaldi, a Varese e a San Fermo! salta su un giovinetto — e se il papà non mi avesse trattenuto, avrei preso parte alla spedizione di Sicilia! Ma ecco qui altri due, i quali si sono battuti!... Il Peppino ha avuto anche la fortuna di essere fra i mille che sbarcarono a Marsala.... Il Giovacchino partì colla seconda brigata, ed ebbe parte al combattimento di Milazzo!... Se il signore ha fatto parte di quella spedizione, certo deve averli conosciuti... Il Peppino fu creato sergente sul campo di battaglia... L'altro era tamburino nella brigata Medici, ed ha riportato il tamburo crivellato di palle!... Non si ricorda ella, di averli veduti, questi due biricchini?
Teobaldo Brentoni — avrei dovuto prevenirne il lettore — avea molta energia di carattere, era un'anima ardente di patriotismo e di liberali aspirazioni, ma fatalmente aveva sortito dalla natura una istintiva ripugnanza per le armi da fuoco e da taglio. Adoratore fino all'esagerazione dell'altrui eroismo, invano egli avea lottato contro la propria natura per diventare un eroe. La vista di un fucile gli paralizzava la favella — il suono di un tamburo gli metteva il capogiro — il bagliore di una baionetta lo arrestava istupidito come occhiata di basilisco. Questo orrore istintivo per gli istrumenti di distruzione più volte lo avea compromesso nell'opinione de' suoi correligionarii politici. Nel 1859, quando il fiore della gioventù lombarda varcava furtivamente il Ticino per ripassarlo coll'esercito trionfatore, Teobaldo si adoperò ne' circoli segreti ad infiammare l'ardore dei giovani, a favorirne l'emigrazione. Ma giunse l'ora fatale del combattimento... Teobaldo avrebbe dovuto emigrare.... seguire la sorte degli amici... arruolarsi... prender le armi. A quell'epoca il giovane rivoluzionario scomparve... Lo si cercò a Torino, lo si cercò a Milano... Nessuno ebbe nuova di lui fino dopo la battaglia di Magenta. A quell'epoca ricomparve sul corso di porta Renza con cappello alla calabrese e camicia rossa... e pochi giorni dopo instituì in Milano la Società della morte eleggendosi egli stesso a presidente. In breve tempo, a forza di predicare, gridare, inveire contro il ministro Cavour; a forza di redarguire la politica piemontese e le iniquità del governo, a forza di compiangere il povero popolo, promettendo agli operai un beato avvenire d'ozio, di vagabondaggio e di ricchezza, Teobaldo era riuscito a guadagnarsi la simpatia di tutti i malcontenti. La spedizione di Sicilia venne in mal punto a creargli nuovi imbarazzi. La gioventù animosa, i veri uomini di azione di nuovo correvano alle armi... Garibaldi era già partito e sbarcato a Marsala coi Mille... Medici lo avea raggiunto a Milazzo.... La parte più eletta della Società della morte aveva disertato dal club per correre sul teatro della guerra. Il presidente nell'enfasi delle sue arringhe più volte avea dichiarato vili e traditori della patria tutti coloro, che essendo in grado di maneggiare un fucile, non correvano ad ingrossare le file dell'esercito rivoluzionario. Ma anche sta volta l'orrore delle armi da fuoco e da taglio esercitò sull'anima di Teobaldo un influsso fatale. Il presidente della Società della morte un bel giorno disparve da Milano, e mentre buona parte de' suoi conoscenti ed amici spendevano generosi la vita per redimere dalla tirannia borbonica le più belle provincie d'Italia, egli rifugiossi a Tartavalle per far la cura delle acque ferruginose. — Queste istorie eran note a Milano — molti le ripetevano sommessamente — i più arditi si erano anche permessi di fare dinanzi a lui delle allusioni poco favorevoli... Fatto è che Teobaldo, sebbene avesse riconquistato dopo la guerra il suo posto di presidente, sebbene fosse riuscito a giustificare la sua condotta mostrando le migliori disposizioni di prender parte a tutte le guerre avvenire, ogni qualvolta gli accadeva di trovarsi in mezzo ai veri soldati dell'indipendenza e della libertà, smarriva il coraggio, si turbava, perdeva la parola, e stava nell'attitudine di un reo convinto.
Tal rimase appunto il nostro apostolo rivoluzionario quando si accorse che buona parte dei giuocatori di tombola avevano contribuito assai meglio di lui alla indipendenza ed alla libertà d'Italia.
E poichè il Malo Amen esitava a cominciare l'estrazione dei numeri, come chi attenda; e dall'altra parte il Brentoni, da quel sincero cittadino che egli era, non osava mentire innanzi alla numerosa brigata; questi prese il partito di chiedere il conto all'oste e di uscire dall'albergo gesticolando come un invasato. Egli marciava a gran passi imprecando contro la natura matrigna, che donandogli tante belle disposizioni per divenire un eccellente patriota, gli avea messo nel sangue quel maledetto istinto di ripugnanza per le armi da fuoco e da taglio.
V. Una festa popolare a Besana.
Quella domenica c'era gran festa a Besana.
Sul magnifico piazzale, donde l'occhio si stende ai più ridenti paesi della Brianza, una folla immensa di popolo attende l'arrivo delle Guardie Nazionali di Desio e di Camnago.
I villeggianti delle terre vicine sono accorsi a godere dello spettacolo. Nelle vie si arrestano superbi equipaggi — dai poggi e dai giardini sovrastanti alla piazza le belle milanesi sfoggiano pittoreschi abbigliamenti. Tutti i volti spirano allegrezza. Queste fratellevoli dimostrazioni, queste solennità marziali, mentre giovano a stringere gli animi in salda concordia, esaltano la fantasia nel popolo, gli ispirano il gusto della libertà.
I militi di Besana sono andati incontro ai loro ospiti... Da lontano eccheggiano le trombe.... Le donne sporgono il braccio, agitando i fazzoletti — gli uomini battono le mani — dalla folla escono frequenti viva al Re, a Garibaldi, all'Italia...! Ed ecco le schiere, precedute dalle bande musicali, entrano trionfalmente nella piazza...
Non temete, o lettori... Io non descriverò le evoluzioni marziali e le gloriose manovre del popolo armato.... Voi forse ci prendereste molto interesse.... ma pazienza per questa volta!... Io non debbo perder di vista l'eroe della mia storia, tanto più che egli è giunto in Besana da due ore, ed ha già suscitato qualche lieve disordine...
Non precipitiamo la narrazione... Teobaldo, venendo da Ponte di Albiate a Besana, avea trovato i suoi due colleghi, lo Zammarini e il Quinetti, i quali, sapendo della festa, muovevano per lo stesso cammino. Sì l'uno che l'altro avean passata la notte a Canonica, una notte poetica, dicevan essi... La famiglia Regola era stata in combustione per causa del torbolino... Le figlie del regio impiegato erano uscite più volte dalla loro stanza per... prender aria... I due giovani, attraversando l'anticamera, non avean potuto evitare degli scontri pericolosi... Infine, sui gradini della scala, all'oscuro, c'era stato uno scambio poco diplomatico di trattative, sicchè le parti contraenti avean giurato riavvicinarsi in Besana il giorno successivo.
Il Quinetti e lo Zammarini, narrando cotali istorie coll'enfasi che è propria dei millantatori, credevano interessare l'attenzione di Teobaldo e conciliarsi la di lui simpatia; ma appena giunti all'ingresso di Besana, il feroce repubblicano proruppe in una catilinaria di nuovo genere, e dopo aver esaltato le virtù delle donne, e inveito contro gli infami che osano profanarla con indegni attentati, abbandonò i suoi due compagni di viaggio, i quali confusi e storditi si diressero verso la piazza.
Nel punto in cui le bande musicali davan principio al concerto, il Quinetti e lo Zammarini riuscirono ad introdursi nel giardino del preposto, dove la famiglia Regola li aveva preceduti. È inutile aggiungere che i figli dell'impiegato regio avean ridotte le aiuole e le piante fruttifere come se vi fosse passata la gragnuola.
Che è? che non è?... Un attruppamento in sulla piazza... Voci che gridano: morte! Pugni levati... gesti minacciosi.... gente che accorre da ogni parte. — Questi interroga — quell'altro narra — poi tutti a parlare in una volta... E di tratto in tratto urli spaventosi dalle masse...
1 concerti della banda sono cessati... i militi si disperdono in varii gruppi. — Tutti voglion conoscere la causa dell'improvviso disordine...
Il Quinetti e lo Zammarini, malgrado l'opposizione delle sorelle Regola, scendono dal poggio nella piazza, e a forza di spintoni si aprono il passaggio fino al centro della folla, ove cinque o sei villani parlano con voce animatissima.
— Sapete voi che cosa ebbe il coraggio di dire quel mostro! Ha detto che i nostri della Civica sono tanti buffoni! grida l'un dei villani.
— Che!... noi buffoni?... noi della Guardia Civica! Ma dov'è quel birbone...?
— Ha detto che noi di Besana siamo tutti pagliacci, perchè perdiamo il tempo a far delle parate militari, invece di... prendere le zappe e le forche, e andare con quelle ad assaltare Verona...!
— Noi... pagliacci! noi di... Besana!... Ma perdio!... Datemelo nelle mani quella... carogna!...
— Chi è? dov'è?... Bisogna farlo in pezzi!...
— Egli era laggiù che predicava poco fa all'osteria della Sposa bella.
— No!... dall'osteria è venuto fuori... e si è fermato sull'angolo dell'oratorio, dove io l'ho udito dire ad alta voce che la nostra civica gli fa orrore.
— Morte! morte! si urla dal centro... E questo grido si ripete dall'una all'altra estremità della piazza.
Lo Zammarini e il Quinetti non hanno bisogno di udire altri discorsi per comprendere che l'uomo in quistione dev'essere il loro compagno di viaggio.
— Che si fa? — bisogna salvarlo, dice il Quinetti. — Infin dei conti egli è nostro patriota...
I due giovani, manovrando di destrezza, escono dalla folla... Ma allo svolto della contrada, una mano robusta li ghermisce improvvisamente pel collare e li solleva da terra... L'autore di questo colpo di sorpresa è un contadino di Besana, il quale due ore innanzi aveva veduto il Quinetti e lo Zammarini in compagnia dell'apostolo rivoluzionario.
— Aiuto! misericordia! gridano i due sospesi, dibattendo le gambe e le braccia come gatti.
— Voi ci insegnerete dove si è rifugiato colui, signori moscardini!... Voi dovete conoscerlo molto bene... In ogni caso sapremo da voi nome, cognome e patria di quel bel mobile...
— Diremo tutto!.... metteteci a terra!.... gridano i due martiri con voce strozzata...
I fischi e gli urli della folla ingrossano minacciosi. Le due sorelle Regola, vedendo dall'alto del poggio due partiti di matrimonio sì gravemente compromessi, svengono fra le braccia della madre...
I contadini di Besana e di Desio, offesi nella loro Guardia Civica, inseguirono e cercarono Teobaldo Brentoni per tutto quel giorno. — Ogni strada, ogni sentiero furon perlustrati da grosse pattuglie... Come avviene in tali confusioni, i militi, non potendo agguantare il vero colpevole, per dar prova d'attività e di zelo, arrestarono il contino Bisciolla e il suo degno professore. Sì l'uno che l'altro furono sorpresi da una pattuglia mentre stavano discutendo se le iniziali S. C. scolpite in una lapide moderna, significassero Strada Comunale, o non piuttosto Senatus Consulto. Vennero legalmente arrestati come figure sospette.
E frattanto dov'era Teobaldo? — Teobaldo, dopo aver predicato due buone ore all'osteria della Sposa bella contro i Piemontesi, contro le Guardie Nazionali, contro i preti, contro i sindaci, contro i carabinieri, contro la Costituzione, contro il Parlamento, contro tutti; ai primi sintomi di procella erasi ricoverato in una botte.
All'indomani, un contadino tenero di cuore, il Malo Amen di Albiate, trasportava a Monza col suo carretto la botte misteriosa.
Ci viene assicurato che il Brentoni dietro l'esito di quella prima spedizione, abbia rinunziato alla dignità di presidente della Società della morte, dichiarando in pari tempo a' suoi colleghi che il popolo delle campagne non è maturo.
FINE.
Storia di Milano dal 1836 al 1848.
Sotto l'oppressura di una indigestione solennemente cattolica, io mi accingo ad un lavoro altrettanto grave che proficuo: a scrivere la Storia di Milano dall'anno 1836 al 1848. Voi tosto comprenderete che io scrivo dietro incarico di un editore, al quale preme, se non mi inganno, di aggiungere due nuovi volumi alle opere del Verri e del De-Magri, omai screditate completamente. Conviene adunque che io raccolga i pensieri a capitolo — l'impresa è molto arrischiata, ma io solo conosco l'alta mercede che mi attende.
Raduniamo i materiali. Io detesto gli sgobboni che fabbricano la Storia sui libri altrui, sulle testimonianze poco attendibili dei giornali, e sulle codarde adulazioni delle medaglie e dei marmi sepolcrali. — D'altronde, non l'ho io veduta coi miei propri occhi la Storia di Milano dal 1836 al 1848? — Questa riflessione mi fa incanutire venti peli della barba, ma in ogni modo mi conforta, e mi infonde lena al lavoro.
Aduniamo le nostre reminiscenze — senza ordine — senza legge — come vengono. — Cosa era Milano dal 1836 al 1848? — piuttosto: qual era Milano? — A tale interpellanza, mi si affaccia il caos... Dodici anni mi si affollano intorno, urtandosi, sospingendosi, assordandomi l'orecchio di grida diverse. L'immortale questurino di Siviglia non si trovò a peggior condizione della mia, allorquando salì in casa di don Bartolo per rimettervi l'ordine. A suo tempo verificheremo le date, riordineremo i fatti, se ci sarà bisogno.
Se non m'inganno, fu nell'anno 1838 che S. M. Apostolica l'imperatore Ferdinando d'Austria venne a Milano per farsi incoronare Re d'Italia. A quell'epoca, per ricordare l'augusto, si diceva generalmente: il nostro imperatore, taluni, più ingenui: il nostro buon imperatore — Molti nobili lombardi si recavano ad onore di vestire la divisa di uffiziali tedeschi.... C'erano, all'entrata di S. M., delle guardie italiane sfolgoranti d'oro e di perle... una meraviglia di splendore, di pompa, di beatitudine generale. Non ricordo se il cholera ci abbia fatto la sua prima visita, innanzi, o dopo l'incoronazione di Ferdinando. Il perfido morbo si diè a conoscere verso quell'epoca, ed anche allora si rinnovarono scene atroci e balorde, non molto dissimili da quelle che il Manzoni descrisse nel suo sublime romanzo. Il popolaccio è sempre uguale in ogni tempo — è sempre la gran bestia.
Di politica nessuno fiatava. — Le contrade erano illuminate da lampade ad olio, e i riverberi delle fiamme acciecavano affatto il passeggiero. — I Milanesi menavano gran vanto della loro pulitezza; e i marciapiedi, frattanto, erano attraversati da rigagnoli che non sentivano di muschio. La cattedrale, ammirata dagli stranieri, serviva da pisciatoio ai più civilizzati, i quali, per maggior vilipendio dell'edificio, erano in buon numero. — La città si svegliava verso le undici del mattino; i veri lions non apparivano in pubblico che alla una dopo mezzodì. — Si incontravano al Corso dei giovanotti di sedici ed anco di diciotto anni, vestiti colla giacchettina corta, profilata alle natiche, accompagnati dal tutore o dal pedagogo, il quale ordinariamente era prete. Il cappello a cilindro torreggiava sulla testa degli eleganti a porta Renza ed ai pubblici giardini; ma c'era pericolo ad affrontare, con quel simbolo in testa, i terraggi di porta Ticinese e i rioni di porta Comasina. — Quando al Corso passavano in cocchio l'arcivescovo o il vicerè, non c'era alcuno che non levasse il cappello. L'arcivescovo era tedesco e si chiamava Carlo Gaetano conte di Gaisruk; il vicerè si firmava Rainieri. Nel 1840, i figli di quest'ultimo, due figuri lunghi e rasi sotto la nuca, venivano salutati al corso con qualche affettazione di rispetto e berteggiati dietro le spalle a voce bassa. — Gli uffiziali austriaci portavano l'abito borghese. — Il governatore, il conte Pachta, il Torresani, il Bolza, godevano di una autorità illimitata. — C'era un casino di Nobili e un casino di Negozianti, rivaleggianti di supremazia.
L'aristocrazia e il commercio si guardavano biecamente. I giovanotti di buon genere si ubbriacavano di Porto e di Madera, e da ultimo si suicidavano coll'absinzio. Questa atroce bevanda si introdusse a Milano verso il 1840. — La moda dei mustacchi e della barba completa incontrava degli oppositori pertinaci e accaniti. Molti padri di famiglia tenevano il broncio ai figliuoli od ai nipoti per una leggiera insubordinazione di peli. Due fratelli Clerici rappresentavano le più belle e più complete barbe di Milano. I vecchi, gl'impiegati, e in generale, tutti i così detti uomini seri, si radevano scrupolosamente dal naso al gozzo. Gli studenti che portassero barba o mustacchi rischiavano compromettere il loro avvenire; ordinariamente venivano rinviati dall'esame, od anche eliminati dalla scuola.
Tre quarti della popolazione non conosceva altro mondo, fuori di quello rinchiuso entro il circuito dei bastioni. La attivazione della ferrovia fra Monza e Milano fu un avvenimento colossale, che parve prodigio. Si udivano dei vecchi esclamare: Ora che ho veduto questa meraviglia, sono contento di morire! e parecchi morirono infatti. L'apertura del caffè Gnocchi in Galleria De Cristoforis inspirava due lunghi articoli alla Gazzetta di Milano; quasi altrettanto rumore levò l'apertura del caffè dei Servi, e più tardi l'inaugurazione della bottiglieria di San Carlo.
I Café-restaurants non esistevano prima del 1840 — nel 1847 si contavano sulle dita. La colazione di lusso consisteva in un caffè e panera con due chiffer o pannini alla francese. — Questa lauta colazione costava otto soldi di Milano. Non era permesso fumare in alcun luogo pubblico, e, innanzi al 1844, erano guardati di mal occhio e tacciati di malcreanza i pochi scioperati che osavano inoltrarsi, collo zigaro in bocca, sui bastioni di porta Renza, o dentro i pubblici giardini durante il trattenimento della banda. Le signore, all'appressarsi di uno zigaro, fingevano il deliquio: alla vista di una pipa inorridivano del pari il gracile e il forte sesso.
In materia culinaria, l'istinto pubblico tendeva al grasso e al pesante.
Gli Ambrosiani non avevano ancora degenerato al punto da proscrivere il cervelaa dal risotto. Il buon vino, il vino corroborante e stomatico doveva innanzi tutto essere un liquido opaco. Si mangiava eccessivamente ad ogni ricorrenza di solennità ecclesiastica: nel resto dell'anno una parte del popolo digiunava per compenso. Questo popolo non aveva giornali, nè libri — la sua letteratura erano le bosinate — la sua politica si riassumeva nel motto: Viva nun e porchi i sciori! — Porta Comasina e porta Ticinese si detestavano: esistevano, dentro i bastioni, antagonismi feroci, come fuori, tra villaggio e villaggio. A porta Ticinese, verso l'imbrunire, una persona civilmente vestita rischiava la fine di santo Stefano.
La Gazzetta di Milano, il solo foglio che trattasse estesamente la politica, usciva in formato modestissimo, e il suo primo articolo verteva ordinariamente sulle questioni della China. Al compleanno ed al giorno onomastico di S. M. l'imperatore d'Austria, il foglio usciva stampato a caratteri d'oro e tutto ornato di rabeschi. In quelle ricorrenze, la boemia dei poetastri gracidava dalla Gazzetta i suoi inni pindarici. I poeti e i letterati, meno qualche eccezione, passavano per spie.
La calunnia non rispettava le grandi intelligenze, e imperversava sulla turba degli scribacchiatori. Qualunque letterato non avesse una posizione determinata, qualunque non fosse in grado di esporre al pubblico il bilancio attivo e passivo delle proprie finanze, cadeva in sospetto di agente dell'Austria. A Milano, come si vede, gli uomini di lettere furono in ogni tempo assai corteggiati dall'opinione pubblica.
Il Pirata, foglio teatrale del dottor Francesco Regli, era letto avidamente. Luigi Romani istituiva il Figaro; Pietro Cominazzi la Fama che esiste tuttora; il signor Pezzi dettava critiche letterarie e teatrali nel Glissons; c'era un Bazar diretto dal Boniotti. Da Torino giungeva fin qui il Messaggere torinese diretto dal Brofferio; Firenze, più tardi, ci mandava una Rivista redatta dal Montazio. In fatto di letteratura periodica non si andava più in là. — Erano, per la massima parte, fogli teatrali, ma in allora il teatro costituiva la massima preoccupazione della società colta; epperò il Pirata, il Figaro e la Fama erano aspettati avidamente e letti da quanti sapevano leggere.
Il caffè del Duomo, emporio di letteratura e di letterati, offriva anche il Politecnico e la Rivista europea, il Débats, la Rivista piemontese, l' Allgemeine ed altri pochi periodici provenienti dall'estero. Nei principali caffè di Milano, all'infuori della Gazzetta e del Pirata, nessun foglio stampato. I pedanti muovevano guerra al Manzoni, e stampavano libelli da fare raccapriccio. Tommaso Grossi, aggredito accanitamente dalla critica pe' suoi Lombardi, abbandonava iracondo il campo delle lettere per rifugiarsi nel notariato.
La satira inferociva coi grandi. Tutte le ire, le contumelie, le calunnie che oggidì si disfogano nella lotta politica, si addensavano allora sulle teste dei poeti e degli artisti, e su quelle andavano a rovesciarsi furiose e mortifere. E la storia del passato, sarà la storia dell'avvenire. Esisterà sempre una lega di inetti, di mediocri e di impotenti per combattere le intelligenze superiori, per contristare la esistenza di chi opera ed emerge.
Si mangiava a buon patto, e un vino detestabile si smaltiva dai brugnoni per otto, per sei soldi al boccale. All'osteria della Foppa, si pranzava al prezzo di una lira austriaca. Quel pranzo si componeva di tre piatti, minestra, vino, giardinetto. Nell'osteria ed anco negli alberghi di lusso, la mensa era rischiarata da candele di sego. Ad ogni mutamento di piatto, il piccolo andava in giro collo smoccolatoio — la fuliggine pioveva nelle zuppe.
I secchi dei lattivendoli giravano scoperti nelle vie, o solo coperti da uno strato di mosche. In ogni via aprivasi un macello; i suini e i vitelli, trascinati brutalmente sui carri, intronavano dei loro gemiti le vie. — I monsignori del Duomo si distinguevano per la rotondità dell'addome; gli altri ministri del culto, meno qualche professore damerino, facevano gara di collaretti bisunti. Della decenza pubblica si teneva poco conto. Mentre i fianchi del Duomo venivano liberamente usufruttati per sfogo di una secrezione meno pura; presso gli scalini, in sul far della notte, si davano convegno barattieri e ruffiani d'ogni specie, i quali, senza scrupolo di sorta, offrivano ai passanti la merce proibita. Nel centro della città, a poca distanza dalla cattedrale, esistevano case di vizio. A tutte le ore del giorno, le più sozze femminaccie scendevano in sulla porta, o affacciavansi alle finestre, e colla voce e con gesti laidissimi invitavano a salire. Ai veglioni della Canobbiana del Carcano, ebbrezza e dissolutezza inenarrabili. In una notte di sabbato grasso, al teatro Fiando, si dovette sospendere il veglione, e i poliziotti fecero sgombrare la sala, perchè i cavalieri danzanti s'erano spogliati infino alla camicia.
Risaliamo alle regioni elevate. Marchesi godeva fama di scultore eminentissimo; Havez dominava nella pittura storica: Canella e Bisi nel paesaggio; Sabbatelli era insuperabile negli affreschi, Molteni era chiamato l'imperatore dei ritrattisti, Sanquirico, scenografo della Scala e cavaliere di più ordini, riceveva, con alterezza principesca principi visitatori. Rossini, Bellini e Donizetti fornivano il repertorio musicale ai grandi e piccoli teatri. Piacevano due o tre opere di Mercadante. Pacini, già quasi obliato, nel 1842 riviveva glorioso colla Saffo. Alla Scala si rappresentavano con successo i Falsi Monetari del Rossi, lo Scaramuccia e la Chiara del Ricci, il Furioso di Donizetti, il Buontempone del Mandanici, tutte opere in oggi obliate o dannate al ludibrio dei piccoli teatri. La Malibran era morta, la Pasta abbandonava la scena; Rubini, Lablache, Tamburini, Galli e gli altri creatori illustri delle opere di Rossini e di Bellini, emigravano all'estero per cogliere paghe favolose nei teatri di Londra e di Parigi. Salvi, Moriani, Ronconi, la Tadolini, la Strepponi, la Schoberlechner, Poggi, la Frezzolini, Guasco, Debassini, Ferri, aprivano, con altri pochi valenti, l'epoca nuova. Fervide, accanite polemiche suscitavano la Cerrito e la Taglioni; una pantofola della Cerrito era pagata duecento franchi. La Elssler, apparsa più tardi, faceva obliare le due antagoniste avventurate; il pitale della Elssler fu comperato da un fanatico al prezzo di lire seicento. — Nella quaresima del 1842, coll'opera il Nabucco, si palesava un nuovo atleta dell'arte musicale, il maestro Giuseppe Verdi. Tutti i dotti si scatenarono atrocemente contro lui, ma il pubblico non tardava un istante a rendergli omaggio. Gustavo Modena recitava al Lentasio la Zaira, il Luigi XI, l' Oreste, il Filippo, e di là passava al Carcano ed al Re, dove la sua forte e poetica declamazione produceva insoliti effetti.
Al teatro Re, nella stagione di quaresima, recitava periodicamente la Compagnia Sarda, che contò, fino all'ultimo, attori distintissimi. La Ristori, al fianco della Marchionni, rappresentava le parti ingenue ed amorose, tipo ideale di bellezza. Nell'arte drammatica emergevano il Vostri, attore unico nel suo genere, il Bon, il Taddei, il Gattinelli, il Ventura, la Robotti, la Romagnoli, il Dondini — Ernesto Rossi, Tommaso Salvini, la Sadowski, il Majeroni, e quasi tutti gli attori più illustri dei tempi nostri, aggregati alla compagnia di Gustavo Modena, si ispiravano alle lezioni ed agli esempi di quel grande. La Compagnia Lombarda istituita da Giacinto Battaglia e diretta dal Morelli, arruolava sotto le bandiere tutto il fiore delle giovani reclute, iniziando, pel teatro drammatico, un'era novella. Scrivevano per la scena italiana il Bon, il Nota, il Brofferio, il Giacometti ed altri pochi. Giacinto Battaglia e Giuseppe Revere fornivano qualche dramma storico non sì tosto applaudito che obliato. Goldoni era sempre gustato. Il repertorio di Scribe e d'altri autori francesi godeva pieno favore. Si tentarono per la prima volta le tragedie di Shakespeare e di Schiller; l' Otello recitato dal Modena, fu al teatro Re male accolto; assai bene il Wallenstein. Una tragedia di Manzoni, recitata parimenti dal Modena, ottenne fredda accoglienza. Si leggevano avidamente i versi milanesi del Raiberti. Il primo dramma di Revere, Lorenzino de' Medici, levò qualche rumore. Rovani, a dicianove anni, pubblicava un romanzo storico, il Lamberto Malatesta. Uberti esordiva alle lettere con un frammento di poema in versi sciolti, Le quattro stagioni. Tutti i romanzi storici e le novelle storiche apparse dopo i Promessi Sposi e il Marco Visconti, arieggiavano lo stile di Manzoni e di Grossi. La povera tosa metteva il capo dappertutto. Correva manoscritta una mesta poesia in morte di Silvio Pellico, nè vi era alcuno che non sapesse recitarla a memoria. Quella poesia cominciava coi versi: Luna, romito aereo, Tranquillo astro d'argento...
I romanzi del Guerrazzi, superato il confine, passavano da mano a mano, divorati ansiosamente dai giovani. Giusti e Leopardi erano poco noti; del Giusti erano lette furtivamente le prime poesie che giravano manoscritte. Le donne leggevano Prati, e si intenerivano alle amorose peripezie di Ermenegarda. I professori di rettorica ed i giovani poetanti inveivano acerbamente contro il gentile e melodioso poeta, ma tutti poi io imitavano, e, come al solito, lo superavano nei... difetti. Le opere dell'ingegno fruttavano poco ai mediocri, ma i distinti ne coglievano i frutti, comparativamente lautissimi. Tommaso Grossi dai Lombardi alla prima Crociata ritrasse da quindici a ventimila lire; Cesare Cantù colla Storia Universale e con altre opere istoriche pubblicate dippoi, arricchì. Ma anche allora c'erano poeti e letterati che facevano pietà a vederli, quando non ispiravano terrore. Faccie smunte, soprabiti scuciti, e colli da struzzo. La letteratura più affamata pranzava alla trattoria del Popolo, dove non pochi cantanti e ballerini gareggiavano coi poeti di appetito. Le appendici letterarie e teatrali della Gazzetta di Milano portavano alternativamente i nomi di Lambertini, Piazza, Biorci, Cremonesi. Scrivevano libretti d'opera Felice Romani, Rossi, Bidera, Cammarano, Sacchero e Giorgio Giachetti. Nei palchetti della Scala, durante la rappresentazione dell'opera, si giuocava a tarocco e qualche volta si cenava. Nel massimo teatro le panche della platea erano coperte di una grossa tela giallastra; le scale nude di tappeti, la scena illuminata tetramente. Alessandro Guerra, famoso equitatore, godeva una fama napoleonica. — Era gustata la birra Tarelli, e qualche signora suggeva deliziosamente la gazosa di fambros. Il caffè Mazza era rinomato per la confezione dei sorbetti, il caffè di Brera per gli squisiti tortelli, la chiesa di San Marco per i suoi predicatori. — Il vicerè Rainieri, la sera del giovedì santo, si prestava gratuitamente a lavare i piedi di dodici vecchioni dello stabilimento Triulzi: tutte le dame e i gentiluomini di buon gusto facevano a gara per assistere a quello spettacolo. La contessa Somayloff si rendeva celebre per una mascherata di gatti, e faceva celebrare con pompa inaudita i funerali di una cagnolina.
Uno zigaro di virginia costava due soldi di Milano. — Il conte Giulio Litta scriveva delle opere musicali applaudite, su libretti del poeta Rotondi suo pensionato. Alla Scala piaceva l' Ildegonda, musica e poesia di Temistocle Solera. — I matrimoni dell'aristocrazia coll'arte erano rari come quelli della nobiltà col commercio. Levò immenso rumore il matrimonio della contessa Somayloff col Pery, un oscuro baritono che rappresentava a teatro di Como la parte di Carlo V nell' Ernani. — Al Corso, nella prima domenica di quaresima, non apparivano che carrozze ed equipaggi di lusso. Non esistevano ancora gli ignobili broughams. Una dozzina di carrozzoni sepolcrali facevano il servizio della intera città. — La processione del Corpus Domini costituiva uno degli spettacoli più grandiosi e più popolari dell'epoca; rampolli di illustri famiglie figuravano da angioli nel corteggio. Uomini di censo e di una serietà indiscutibile, si contendevano l'onore di sostenere il baldacchino. — Nelle grandi arsure dell'estate c'era un espediente sicurissimo e poco complicato per ottenere la pioggia; si esponevano alla pubblica venerazione due angioletti di legno. Le fanciulle da marito filavano l'amore sentimentale nei boschetti di porta Renza, ai Servi ed al Carmine, durante la messa, e al teatro Filodrammatico. Le chiese erano affollatissime in ogni ricorrenza di triduo serale; giovinetti da venticinque a trent'anni assistevano alle cerimonie religiose col ginocchio piegato, col libro delle preghiere nella mano destra. Questi devoti solevano impiegare abbastanza vantaggiosamente anche la mano sinistra. — Alla Corona, all' Agnello, al Falcone, al Cappello e in tutti gli alberghi di tal rango, si alloggiava al prezzo di una lira al giorno. I cittadini erano gai: nelle famiglie si giuocava all'oca ed alla tombola e qualche volta si faceva un po' di musica e si ballava all'oscuro. Lotterio e Battezzati, un baritono ed un basso dilettanti, erano contesi dalla borghesia. Il principe Emilio Belgioioso era un tenore stupendo; il conte Pompeo, basso profondo di primo ordine, cantava a Bologna lo Stabat Mater di Rossini. — Una libbra di manzo si pagava diciasette soldi, e metà della popolazione non assaggiava carne che alla domenica o alle grandi solennità della chiesa. Si parlava meneghino su tutta la linea. Al Corso di Porta Renza tutti portavano i guanti; sulla porta dell'Hagy stazionavano ancora parecchi milionarii. Saper nulla era lusso, moda l'inerzia e la ciocca.
La contessa Somayloff era la lionne di Milano. Una sera, al teatro Re, ella recitò con molto garbo una parte principalissima nel dramma francese Le prime armi di Richelieu. La rappresentazione aveva scopo benefico, e il canonico Ambrosoli sedeva nell'atrio del teatro per sorvegliare il bacile. Le dame, per invidia, detestavano la contessa; i poveri ne dicevano il maggior bene. — La moglie del vicerè Rainieri, dal suo palchetto alla Scala, dardeggiava col binoccolo i giovinetti più alla moda. Uno dei lions più avidamente occhieggiati dalla arciduchessa, si compiaceva di imbarazzarla colle sue pose stranissime e non affatto decenti. — Produsse gran sensazione un incendio avvenuto a Corsico, che divorò buona parte del paese. — Un fallimento dava materia a discorrere per anni parecchi, e la famiglia di un fallito vestiva a lutto o spariva dal consorzio cittadino. — In fatto di equipaggi, non era permesso il tiro a sei che a S. A. I. R. il vicerè, ed a Sua Eminenza monsignor l'Arcivescovo. — Il vicolo delle Ore e il sottopassaggio che dall'interno del Duomo mette all'Arcivescovado erano i punti prescelti pei convegni amorosi. Verso le estremità del boschetto pubblico prospicienti la strada Isara, si presentavano, sul far della notte, dei gruppi piuttosto equivoci. L'osteria dei tre Scranni si rese celebre per una avventura degna di figurare nel Decamerone, e lo sgraziato protagonista, che fini imprigionato, per disdoro della curia, era un prete. — In estate, le bande tedesche chiamavano al caffè Cova una folla mista di buontemponi e di fanciulle da marito. L'ingresso al caffè costava mezza lira austriaca, e questa dava diritto alla consumazione di un gelato. I Baconi, i Paumgarten ed i Kaiser fornivano le migliori bande musicali. — La varietà delle monete era notevolissima e qualche volta imbarazzante; contuttociò il popolo ambrosiano non potè mai divezzarsi dal contare in lire milanesi. Esistevano spezzati di ogni valore; il centesimo, il sesino, il tre centesimi, il soldo, il carantano, la parpagliuola, il tre e mezzo, il quartino, il nove meno un quattrino, il diciasette e mezzo, il 19 soldi (tre lire di Parma), il venti soldi. Il valore della svanzica andò gradatamente aumentando dai ventitrè ai venticinque soldi di Milano. Fino al 1848, ebbero gran voga i crocioni e i quarti di crocione. Il Trentanove ebbe gli onori di una brillante poesia dettata da Ercole Durini, gentiluomo amabilissimo e ricco di ingegno.
Fra le monete d'oro figuravano ancora le pezzette, gli zecchini, le colombie, le sovrane, le papaline, le messicane, le genove, i luigi, le parme. — Il duca Litta, recandosi a Lainate con legno da posta, a ciascun postiglione gettava per mancia un marengo. — I ballerini ed i mimi, notevoli per la loro chioma raffaellesca, stazionavano sulla porta del caffè della Cecchina, detto dei virtuosi. Effisio Catte faceva colazione nella retro bottega del salsamentario Morandi; Gumirato, un tenore in perpetua disponibilità, pranzava tutti i giorni dell'anno col caffettiere del teatro Re, pagandolo di facezie e di epigrammi. — Non esistevano giornali umoristici; il Cosmorama Pittorico, istituito dallo Zini, contava settemila abbonati. — In piazza Castello si giuocava al pallone. In una bottega sulla Corsia del Duomo, si offerse per circa sei mesi uno spettacolo di pulci ammaestrate, le quali eseguivano diversi esercizii ginnastici; tutta Milano corse ad ammirarle. — Il Meneghino Moncalvo, recitando alla Stadera o alla Commenda, si faceva imprigionare regolarmente due volte alla settimana per l'arditezza delle sue allusioni antiaustriache. Il teatro Santa Radegonda, a cui si ascendeva per una scala di legno, era più angusto, più sudicio e più tetro che non sia al presente. — Merelli, impresario del teatro alla Scala, possedeva una superba villa a Lentate, e dava commissioni ai più celebri pittori e scultori. — Rovaglia, vestiarista degli imperiali regi teatri, sfoggiava sul corso un magnifico equipaggio. — L'agente Burcardi veniva giustamente considerato il più magro cittadino di Milano. L'abate Gianni, un colossale gigante, regalava pubblicamente due schiaffi al figlio di Radetzky che lo aveva insultato, e n'aveva dal generale felicitazioni ed encomii. — Di duelli non si udiva parlare; le quistioni più complicate si scioglievano col metodo estemporaneo dei pugni e delle reciproche bastonature. — Le teste dei poliziotti, nei quartieri di porta Ticinese e di porta Comasina, furono più volte sprofondate nel vano del loro kepy torreggiante. I barabba portavano gli orecchini e si radevano la nuca; i garzoni da macello si distinguevano per due enormi ricci poco simmetrici, striscianti sull'orecchio. — Prima del 1840, il tabarro costituiva l'indumento invernale più usitato. Vi erano tabarri da quattro, e persino da otto a dieci pellegrine. Il paletot veniva generalmente adottato verso il 1841. — Il giorno di Pasqua, fosse pioggia o bel tempo, metà della popolazione indossava arditamente gli abiti estivi. Il pantalone di nankin godeva in estate il massimo favore. Sul Corso si incontravano ad ogni passo delle dame seguite da un domestico in livrea. I cani favoriti delle signore appartenevano alla razza dei carlini o dei maltesi. — Balzac soggiornava per alcun tempo a Milano, e durante quella breve dimora, notava che le figlie delle nostre portinaie avevano l'aspetto di altrettante regine. Il celebre romanziere veniva anche derubato di una preziosa tabacchiera che ben tosto gli era restituita per cura dell'imperiale regio direttore di polizia. — Il baritono Varesi cantava alla Scala nel Corrado d'Altamura e nella Saffo di Pacini. — Dal Conservatorio uscivano famosi istromentisti, il Piatti, il Bottesini, l'Arditi, il Fumagalli.
Gli allievi del Conservatorio portavano una uniforme non poco dissimile da quella dei commissari di polizia, vale a dire una marsina verde scura con bottoni dorati e cappello a barchetta. Il giovedì e la domenica, quei giovani musicisti dell'avvenire passeggiavano a schiera sui bastioni e sul Corso. L'alunno Antonio Cagnoni scriveva la sua prima opera Don Bucefalo, mentre a Giuseppe Verdi era negata l'ammissione nel Conservatorio, dietro verdetto di un professore di pianoforte onnipotente. — Il maestro Triulzi, orribile a vedersi, dava lezioni di canto alla bella Finoli ed alla Iotti. Rolla, e più tardi Cavallini, dirigevano l'orchestra della Scala, che contava fra i suoi migliori istromentisti l'Ernesto Cavallini solista di clarinetto, il Daelli oboista, Rabboni professore di flauto e Merighi professore di violoncello. Ferrara creava eccellenti allievi nel violino. Angelo Mariani, bellissimo giovane, dirigeva il concerto e l'orchestra del teatro Carcano nell'autunno dell'anno 1846 e nella primavera del 1847. — Alberto Mazzucato scriveva pel teatro delle opere più meno accette, e dettava articoli di arte nella Gazzetta Musicale, edita dal Ricordi. Anche il Lucca, editore di musica, istituiva un giornale artistico letterario, l' Italia Musicale, dove il Cattaneo, il Raiberti, il Rovani, il Ceroni, il d'Azeglio, il Vitali ed il Piazza scrivevano articoli svariatissimi. Il cavaliere Andrea Maffei donava all'Italia le sue splendide traduzioni di Schiller e di Moore, e il prevosto Riccardi, con un libro nel quale si prediceva vicinissima la fine del mondo, destava il più vivo all'arme nel pubblico. Correvano trascritte brillanti poesie di Ottavio Tasca in onore della Cerrito e della Taglioni. Tutte le Strenne che uscivano in Milano portavano una ode od una novella di Pier Ambrogio Curti. Il maestro Bonino giungeva desiderato nelle sale della più eletta società pel brio delle sue narrazioni, per lo spirito inventivo delle sue celie. Nelle case della borghesia furoreggiava il Rabitti contraffacendo il ronzio della vespa, lo stridore della sega, la tosse ed il rantolo dei morenti. Nelle osterie si giuocava alla mora fragorosamente. Sulla porta del caffè Martini brillava il vecchio Catena, protettore di cantanti e ballerine, che viveva da signore colla rendita di un capitale non più ingente di lire diecimila. Alla Scala si rappresentava un Don Carlo del Bona, e a Genova un Ernani del maestro Mazzucato. L'attore Giovanni Ventura destava fanatismo nel Torquato Tasso e nel Vagabondo, e pubblicava una raccolta di poesie in dialetto milanese scritte col miglior garbo.
Sulla piazzetta di S. Paolo, le botteghe del parrucchiere Migliavacca e del calzolaio Brivio rivaleggiavano di lusso e di celebrità. Il Brivio, nell'atto di prender la misura ad un piedino elegante di donna, si compiaceva di esplorare a mezzo di uno specchio accollato nel fondo del suo cappello e deposto ai piedi della cliente, i contorni d'altre polpe più intime, che certo non reclamavano la scarpa. — Lo stabilimento di educazione diretto dal signor Racheli era nel massimo fiore, e quivi si educavano liberalmente i giovanetti delle famiglie più cospicue. Il professore abate Pozzoni pubblicava delle liriche manzoniane, splendide nel concetto e nella forma. Giuseppe Barbieri teneva il primo posto fra gli oratori ecclesiastici, e un altro Barbieri, credo Gaetano, traduceva, oltre i romanzi di Walter Scott, non saprei quante centinaia di altri romanzi.
L'omeopatia suscitava polemiche tremende, e il Raiberti vi prendeva parte colle sue satire piene di attico sale. Un Lafontaine venuto di Francia dava i primi saggi di magnetismo al ridotto della Scala. La fotografia sulla carta non era peranco inventata od almeno si ignorava: i ritratti al dagherrotipo su lamina di zinco preparato, costavano da dieci a venti franchi cadauno, ed offrivano una immagine sbiadita e molto spesso enigmatica.
La grande invenzione degli zolfanelli fulminanti data dal 1834. Un mazzetto di quegli zolfini greggi, che in oggi si vendono a un soldo la dozzina, in sulle prime costava dodici soldi. Per mesi parecchi si vendettero al prezzo di soldi sei, quindi scesero gradatamente fino al carantano. Molti vecchi inorridivano di quel trovato; per un momento si ebbe a temere, che in seguito ai tanti reclami, alle tante proteste della popolazione antiquata, lo zolfanello venisse proscritto dalle leggi. Gli istinti del pipistrello e del gufo son propri della maggioranza, e questa fece sempre una brutta smorfia ad ogni sprazzo di luce. L'inventore dello zolfino fulminante non lasciò traccie del suo nome, e così al Prometeo del secolo nostro mancò l'apoteosi dei carmi e dei quadri coreografici.
L'arcivescovo Gaisruck e il conte Mellerio si detestavano, fautore quest'ultimo delle fraterie, l'altro nemico e oppositore pertinace. I liceisti e i forastieri delle provincie assistevano, in piazza del Duomo, al concerto quotidiano della banda che suonava sotto il palazzo del vicerè. Vaccai, l'autore della Giulietta e Romeo e d'altre opere teatrali, presiedeva alla direzione del Conservatorio. Donizetti era maestro di Corte a Vienna, e scriveva, per quel teatro italiano, la Linda e la Maria di Rohan. Ogni anno egli tornava alla Bergamo nativa per abbracciare il suo vecchio maestro Simone Mayr, il quale, cieco d'occhi e abbattuto dagli anni, si era esclusivamente dedicato alle composizioni di chiesa. — Ignazio Marini, il celebre basso, veniva per sempre rinviato dal teatro dell'opera italiana di Vienna, per avere, ad una rappresentazione di gala a cui assisteva l'imperatore, emessa una nota troppo profonda che nessuno potè illudersi fosse uscita dal petto. — A quell'epoca, gli artisti si prendevano delle strane licenze, e il governo, purchè non si trattasse di licenze politiche, si mostrava tollerantissimo.
Temistocle Solera, viaggiando col basso Marini da Milano a Stradella in legno di posta, involto nella zimarra teatrale di Faliero, trinciava benedizioni a quanti villani si trovavano sul di lui passaggio, e questi a inginocchiarsi e fare il segno della croce.
L'autore di questo frammento storico, partito da Codogno, dopo una rappresentazione dell' Attila, con indosso l'armatura e le maglie di Ezio romano, in tale abbigliamento scendeva all'albergo dell'Ancora, e quivi prendeva alloggio. — Un giovane scapato e di mano pronta applicava due schiaffi sonori alla moglie d'un celebre impresario nell'atrio del più vasto teatro. Un tale avvenimento fece parlare il mondo milanese per dieci anni di seguito. — Per quanto mi dolga recar sfregio alla tanto vantata moralità di quei tempi, non debbo tacere di una festa da ballo privata, ove convennero in buon numero persone di ambo i sessi, abbigliate nel semplicissimo costume di Eva e di Adamo. La polizia austriaca non si commosse dello scandalo — quei danzatori così succinti nelle vesti, non erano persone da cospirare contro la sicurezza dello Stato. Un Congresso di scienziati chiamò gran folla a Milano nel 1846. Il popolo profittò dell'occasione per testimoniare il suo rispetto alla scienza. Nelle trattorie si gridava al cameriere: un piatto di scienziati! — e quegli a recar tosto un piatto di zucche o di patate. Anche i somarelli vennero in quell'epoca salutati col medesimo titolo — Nobili istinti delle masse!
Uomini che pensassero all'Italia, che fremessero del servaggio straniero, che davvero abborrissero l'Austria, erano in numero assai scarso. I più ignoravano che un'Italia esistesse. Eppure, qualcheduno agiva in secreto, qualcheduno scriveva, qualcheduno si assumeva l'incarico pericoloso di propagare i fogli di Mazzini. Allora c'erano rischi tremendi a parlare di politica, foss'anche col più intimo degli amici. Taluni che troppo osavano, cadevano in sospetto di spie. Le Prigioni di Silvio Pellico, erano ritenute un libro ultrarivoluzionario. Qualcheduno, tremando, osava declamare le liriche concitate del Berchet, in circolo ristretto di conoscenti. Tali ardimenti cominciavano verso l'anno 1842.
Si impiegavano sei ore per trasferirsi in vettura da Milano a Pavia; non era permesso di varcare senza passaporto i confini della Venezia.
Le maschere carnevalesche erano insulse e indecenti. Ai veglioni della Scala non era permesso lo accedere senza l'abito nero e un piccolo domino alla spagnuola, che ordinariamente si prendeva a nolo per dieci o venti lire. La guerra dei coriandoli, al giovedì e al sabbato grasso assumeva proporzioni intollerabili. — Recandosi in autunno alle ville, le famiglie patrizie trasportavano enormi bagagli. — Gli stradali da Milano a Varese, e quelli della provincia di Lodi e Cremona erano infestati di ladri. Il brigantaggio scomparve lentamente, coll'estendersi delle comunicazioni e colla coltivazione dei terreni boschivi. — La Valtellina, la Brianza, i colli del Varesotto producevano dei vinetti esilaranti. Il Monterobbio e l' Inferno rivaleggiavano coi più famosi vini dell'estero. Ogni anno, gli eleganti di Milano facevano regolarmente la loro comparsa alla sagra di Imbevera ed ai mercati autunnali di Lecco. I signori, boriosi e stolidissimi, dopo aver vissuto famigliarmente in campagna con persone del ceto medio, negavano a queste il saluto, scontrandole pochi dì dopo sul lastrico di Milano. — I Bergamaschi alloggiavano all' Agnello, i Lecchesi alla Corona, i Pavesi a Sant'Ambrogio alla Palla ed al Pozzo, i Lodigiani al Cappello ed al Falcone. Fra quei di Bergamo e quei di Milano duravano livori e rappresaglie. — La Pasta e la Taglioni comperavano ville sul lago di Como. Il poeta Ottavio Tasca sposava la Taccani cantante. Il poeta avvocato Bazzoni si annegava nelle acque del Lario; tutti gli anni qualche povero innamorato si gettava dal Duomo.
Alla morte dell'arcivescovo Gaisruck, e poco dopo, alla entrata trionfale del suo successore Romilli, si manifestavano nelle vie i primi segnali della insurrezione latente. In piazza Fontana, in una serata di luminaria fatta ad onore del nuovo arcivescovo, eccheggiarono le prime grida di Viva Pio IX! I dragoni, prorompendo a cavallo nel mezzo della folla, misero in fuga i dimostranti, e un povero fabbricatore di mobili, certo Ezechiele Abate, rimase morto sul terreno...
E qui, lettori miei, pongo fine al mio riassunto, giacchè mi pare d'aver già adunata materia sufficiente per riempire i due volumi commessimi dall'editore. Certo è che, descrivendo gli avvenimenti in ordine di date, e riproducendo le circostanze di luogo e di persone con tratti più larghi, ben altro mi sovverrà alla mente, che qui venne omesso per oblio. Ma questo breve ed informe sommario non potrà a meno di suggerire dei confronti e di provocare vivaci discussioni fra gli insanabili adoratori del passato e i fanatici dell'era presente. In poche parole esprimerò l'avviso mio. All'epoca testè descritta, la città di Milano contava i milionarii in maggior numero, ma l'agiatezza era minore assai nelle classi borghesi e nelle masse che vivono d'arte o d'industria. Il patriziato e l'alto commercio sfoggiavano un lusso abbagliante, ma il cilindro obbligatorio del calzolaio, del salumiere, del pittore, del letterato e dell'impiegato, brillava di un luccicore miserevole che ricordava allo sguardo le traccie bavose della lumaca. Il vestito di seta non era sceso alla donna del popolo; e la sartorella sollevando la gonna per trapassare i frequenti rigagnoli, metteva in mostra delle calze e delle sottane più atte a deprimere che a suscitare i salaci istinti di un ammiratore. In letteratura, emergevano delle individualità più distinte, ma la massa del popolo era quattro volte più idiota. C'erano persone serie, che si occupavano di seri studi, che pubblicavano seriissimi lavori, ma le crasse maggioranze nè pensavano, nè studiavano, nè leggevano. La musica era in fiore, ma assai meno compresa che oggigiorno: si applaudivano con fanatismo degli insigni capolavori, ma altresì venivano festeggiati degli aborti oggidì intollerabili. Il ceto lavorante spendeva meno per vivere, ma era meno retribuito. Notevolissima, in ogni modo, esemplarissima e degna della massima ammirazione, era a quei tempi la rassegnazione a pagare il testatico, a sopportare i balzelli, a subire i prestiti forzosi, ad accettare le leggi quali si fossero, a sopportare i rabuffi e le frustate dogli imperiali regi commissarii di polizia, ed anche la bastonatura dei sergenti croati. In ciò, confessiamolo a grande vergogna nostra, i nostri predecessori, furono sublimi di longanimità e di tolleranza. Gente di buona fede, che odiava la discussione e la polemica irritante. Uomini di sano criterio, uomini positivi e logici in sommo grado, i quali dovevano riconoscere e confessare a sè medesimi che l'Austria era moderatissima, dacchè, potendo, quando buono le paresse, spogliarli di tutto, si teneva paga di prendersi la metà soltanto del loro avere. Come i popoli appariscono ragionevoli e, diremo anche, felici, quando agli occhi della loro intelligenza insiste, lontana o vicina, la prospettiva della.... forca!
FINE.
Due Preti.
I.
Nell'anno 1839 io compieva, per volere dei parenti, il mio corso di umanità nel Seminario della Diocesi Ambrosiana.
Una sera, nell'ultima ora destinata alla ricreazione, io passeggiava sotto i portici in compagnia di un amico dilettissimo.
Sì all'uno che all'altro la disciplina di san Carlo era grave. Ci legava simpatia di carattere e comunanza di dolori. Perseguitati dai superiori, reietti dai colleghi, l'amicizia era per noi una necessità, più che un bisogno del cuore.
I nostri colloqui, mestissimi sempre, di giorno in giorno erano divenuti più famigliari ed espansivi; in breve, l'uno per l'altro non avemmo più segreti. Le angoscie del presente e le aspirazioni dell'avvenire si traducevano negli intimi sfoghi delle anime, con quel linguaggio che negli anni della prima giovinezza dà all'amicizia i caratteri dell'amore.
Quella sera entrambi eravamo più mesti che mai.
Due volte compimmo il giro de' portici senza dir motto; poi l'amico aprì la conversazione con parole che mi trafissero l'anima.
— Oh! io sono stanco della vita.
— Stanco della vita? — risposi tosto, guardando in viso il collega, nella cui voce era l'accento della disperazione. — A quindici anni stanco della vita! Tu vuoi parlare senza dubbio della vita seminaristica; ma fuori di queste mura avvi un mondo per noi sconosciuto, avvi una esistenza piena di seduzioni, feconda di affetti; noi incomincieremo a vivere davvero, appena Iddio ci avrà concesso di uscire da questa tomba.
— Te fortunato! — riprese l'amico; e la sua voce divenne più fioca; — te fortunato che puoi dire con certezza: io gusterò un giorno quest'altra vita di libertà e di piaceri! io, al contrario, non ho neppure la speranza....!
Per qualche minuto rimanemmo silenziosi; poi con voce sommessa e ad arte interrotta, l'amico mi parlò di tal guisa: — Mia madre è povera assai... Io fui posto in seminario a spese d'uno zio sacerdote, che mi ama di cuore, ma non crede vi sia altro mezzo per assicurare il mio benessere in questo mondo e nell'altro, fuor di quello di farmi percorrere la carriera ecclesiastica. Privo di padre e di fratelli, io non ho sulla terra chi pensi a me, tranne una madre, ingenua e pia donna, e il vecchio zio che dalle tenui rendite della parrocchia sottrae ogni anno la pensione per mantenermi in seminario. Io non ignoro quanto sia grave al buon parente un tal sacrifizio; sento quali obblighi di riconoscenza mi stringano a lui, e il beneficio m'ha imposto una catena ch'io non potrei infrangere senza spezzare al tempo stesso il cuore del benefattore, senza portare un terribile colpo all'anima della mia povera madre. Ogni qual volta, all'epoca delle vacanze, io torno nel grembo della piccola famiglia, il buon prete e mia madre mi parlano del mio avvenire con tanta fiducia, ch'io crederei delitto il turbare del menomo dubbio le loro felici illusioni. «Fra sei anni celebrerai la prima messa — mi ripete sovente l'ottimo zio. — Oh! se Iddio mi concede di vivere fino a quel giorno, voglio la sia una solennità non mai veduta! E mia madre, in udirlo, piange di tenerezza e mi bacia, implorando sul mio capo la benedizione di Dio. Fino a quando potei dividere quegli ingenui trasporti, fino a quando i miei desideri e i miei voti non ebbero altra meta che il sacerdozio e l'altare, io vissi felice; le parole dell'ottimo zio, le carezze di mia madre erano il conforto, il balsamo della mia giovinezza. Lo scorso anno...
Qui l'amico interruppe il racconto, e fu d'uopo ch'io lo esortassi ripetutamente a proseguire.
— L'anno scorso, uno strano cangiamento si operò di improvviso nel mio spirito; il santo edificio che i miei parenti con tanta sollecitudine avevano costruito, fu distrutto da un soffio, da uno sguardo, da una parola... La chiesa, l'altare, il paradiso che mia madre mi additava, che io vagheggiava fino dall'infanzia, perdettero ogni attrattiva per me. Poichè tutto vuoi sapere, ti dirò tutto; e giudicherai se la mia posizione non sia terribilmente dolorosa, se io non m'abbia ragione d'essere stanco della vita!
Io non dirò di qual lunga circonlocuzione si giovasse l'amico onde rivelarmi il penoso segreto, e come le parole gli uscissero tronche dal labbro, e quale il rossore delle guance e il tremito convulso della persona. Egli di poco oltrepassava i quindici anni; pallido nel volto, gracile delle membra, ma pieno di vitalità e di fuoco, il giovinetto aveva sortito dalla natura quel temperamento misto di bilioso e di sanguigno che suol essere il più irritabile, il più appassionato: con tali disposizioni era più facile far di lui un eccellente poeta, anzichè un buono e modesto sacerdote....
.... Una ragazza!... esclamai con vivacità, appena fra il buio delle frasi sconnesse potei distinguere il vero. La iniqua parola mi uscì dal labbro, e subito volsi d'intorno lo sguardo, come se in quel punto avessi consumato un delitto.
— Dunque hai esperimentato che cosa sia questo amore di cui cantano i poeti con tanta dolcezza...! Oh narrami... spiegami le nuove sensazioni che tu hai provate!
Ed io insisteva nelle inchieste, coll'avidità di chi anela la prima volta al frutto proibito.
— Ignoro se ciò che ho provato e provo tuttavia possa davvero chiamarsi amore.... ma è bensì certo che le parole di una fanciulla hanno prodotto nel mio cuore una rivoluzione, hanno alterato il corso tranquillo dei miei pensieri, confuso nella mia fantasia il bene ed il male, la virtù e la colpa.
«Erano gli ultimi di ottobre, le vacanze prossime a finire.... Venne a R... e prese alloggio nella casa di mio zio un nostro parente di Milano, ed una figliuola di quattordici anni in circa... un ideale di cherubino. Non saprei ridirti la commozione che io provai nel vederla, e che ora mi assale nuovamente al sovvenirmi di lei. Chinai gli occhi arrossendo, sentii mancarmi la voce.... Per due giorni non osai guardarla in volto nè dirigerle parole, sebbene alla mensa ella sempre mi sedesse rimpetto, e ad ogni tratto la incontrassi nel giardino e in sulle scale e in ogni angolo della casa. Pareva ch'ella mi perseguitasse come l'angelo tentatore... Mio zio e mia madre attribuivano la mia riserbatezza ad eccesso di timidità, a scrupolo religioso. Nulladimeno di tratto in tratto mi ammonivano: «non istà bene essere così selvatico! i preti devono pur vivere in mezzo alla società! via! non è peccato scambiar qualche parola con parenti di altro sesso!» E ciò dicevano in presenza di lei... Io tentava balbettare qualche frase... ma sempre invano. Convien credere che le ragazze sieno per natura più audaci di noi... Fatto è che in pochi giorni la cugina seppe di tal guisa assediarmi colle sue apparizioni inaspettate, co' suoi sorrisi, col suo franco e cordiale linguaggio, che a poco a poco io mi abituai a fissarle gli occhi in volto e ad intrattenermi con lei in famigliari colloqui. Mio zio e mia madre, vedendomi folleggiare nel giardino in compagnia della vivace fanciulla, non si avvedevano del pericolo. Noi coglievamo dei fiori, noi intrecciavamo delle corone per ornarne l'altare della Madonna... E mio zio ingenuamente esclamava: «quel dabben figliuolo, col suo esempio, ha già temperata la vivacità della Emilia... e l'ha indotta al bene... Eccoli là... sempre in giardino ad intrecciar corone per far omaggio a Maria! E parleranno senza dubbio di religione.... e di pratiche di pietà... Mio nipote non saprebbe parlar d'altro.» Infatti, i miei colloqui colla fanciulla erano innocentissimi; ella mi narrava del suo collegio, delle sue maestre, dei suoi studi, dei suoi ricami; io le parlavo del seminario e delle nostre discipline.... Mi pareva che d'altro non si potesse ragionare fra noi... sebbene di tratto in tratto in quegli ingenui colloqui io sentissi una vampa di fuoco salirmi al volto... Io non mi accorsi della strana rivoluzione che già si era operata in me stesso, se non quando fui costretto a rientrare nel seminario. Ricevetti da mia madre la benedizione di congedo, e mi volsi per dire addio alla fanciulla... Le sue guance vermiglie e scintillanti di perenne sorriso erano coperte di un leggiero pallore... Ella mi accompagnò fino all'estremità del villaggio, e cogliendo il punto in cui mia madre e mio zio s'erano alquanto discostati da noi «Chi sa se ci rivedremo più mai! — disse amaramente; — gli è proprio un peccato che voi dobbiate andar prete!» Io non seppi rispondere; salii in carrozza con mio zio, indi mi volsi per salutare le due donne... ma questa volta gli sguardi più affettuosi non furono per mia madre...
La campanella che ci invitava allo studio pose fine quella sera al colloquio. Ma il giovine amico mi riparlò più volte della fanciulla, spiegandomi i dolorosi segreti della sua anima ardente e chiedendomi consiglio.
— Tu non puoi, tu non devi proseguire nella carriera ecclesiastica — io gli diceva. — Ed egli, con accento disperato: — E mio zio! e mia madre! essi moriranno di dolore... Posso io farmi carnefice di chi tanto mi ha amato e beneficato?... Oh! credilo, amico, io desidero morire!
II.
Un altro, e amico non era, ma compagno talvolta al passeggio de' portici, non eletto ma subìto, dicevasi chiamato al sacerdozio, e mi provava la propria vocazione con una logica che in altri men ingenuo di lui avrei riputata satanica.
— Per me, volontieri mi faccio prete, diceva il buon gaglioffo; nè credo vi abbia al mondo mestiere più agiato di questo. Noi abbiamo un benefizio di famiglia, e grosso benefizio, con obbligo di messa quotidiana, e libera di poi l'intera giornata. Io amo la vita campestre, amo la caccia, amo le allegre brigate; se riesco a compiere il corso degli studi, dopo, come dice mio padre, comincierà la cuccagna. Tutto sta a passare gli esami: ho ancora sette anni da combattere, ancora sette anni da sgobbare sui libri; poi addio latino! addio greco! addio arte oratoria e prosodia! per dir la messa non c'è bisogno di tanta scienza... basta saper leggere il messale. Io non so perchè questi nostri professori pretendano infonderci tanta dottrina!
«Si dovrebbe distinguere tra chierico e chierico: non tutti aspirano a diventare predicatori o teologi, od arcivescovi.
«La scienza, per noi che dobbiamo vivere in campagna, è un ornamento superfluo. L'anno scorso, quando il professore mi regalò una seconda in litteris, mio padre gliela ha cantata chiara, e gli ha detto senza preamboli quel che gli andava detto: cioè, che per essere buon prete, non è mestieri saper distinguere gli esametri dai pentametri, le vocali lunghe delle brevi. Oh che? dovrà egli, mio figlio, scandere i versi ai paesani? o battezzare i bambini con degli endecasillabi? Non basta, per intendersela con Domeneddio, saper leggere il latino del breviario? Dai pulpiti si fanno dei commenti alla Divina Commedia, o non piuttosto si spiega ai fedeli il Catechismo? Il professore tentò resistere alla eloquenza di mio padre; ma il padre confessore si interpose, e disse che io m'era un bravo figliuolo, e che avendo ottenuto la eminenza in moribus, non era giusto ch'io fossi condannato a ripeter l'anno per qualche fallo di latino. Fatto è che, entrando quest'anno in seminario, fui avanzato alla classe di rettorica maggiore, e spero tirar via dritto anche in questi sette anni di purgatorio... e poi... poi il paradiso promesso da mio padre.»
— Vorrei un po' sapere di codesto paradiso, — gli chiesi una volta; io credeva che la vita del prete dovesse essere un continuo sacrifizio, una lotta terribile contro le tentazioni del mondo, del demonio e della carne.
— La lotta finisce quando tu sia riuscito a farti prete, — rispose l'ingenuo seminarista; — mio padre dal dì che mi condusse al seminario, non cessò mai dal ripetermi: «Procura di essere paziente in questi anni di prova; non lasciarti atterrire dagli ostacoli, fa di cavartela alla meglio co' tuoi superiori e co' tuoi colleghi: quando una volta tu sia riuscito a dir la messa, eccoti sicuro del fatto tuo! Con sei lire al giorno in campagna si vive comodamente; nei due mesi di settembre e ottobre, qualche volta anche nel maggio, i conti D... vengono fuori nel paesello, e allora pranzerai tutti i giorni alla lor tavola...» Ed anche adesso, al tempo delle vacanze, la bazza è incominciata, e ti so dire che in que' due mesi io pregusto tutte le delizie che mi attendono nell'avvenire. Mio padre mi ha presentato al conte ed alla contessa, i quali mi accolsero con molta affabilità... La contessa, appena io le comparvi dinanzi, mi squadrò dal capo ai piedi coll'occhialino, poi volgendosi a mio padre: «Il nostro giovanotto, — esclamò ridendo, — promette assai... — Ai servigi di vostra eccellenza! — soggiunse mio padre.»
— È ella giovane, la signora contessa? — domandai io senza malizia.
— Avrà trent'anni circa.
— E tu ti sei trattenuto più volte con lei nelle scorse vacanze?
— Dacchè mio padre me la fece conoscere, ho cercato di vederla ogni giorno.
— Scommetto che hai giuocato con lei a tarocco.
— A tarocco non mai, perchè il quartetto era sempre completo; ma un giorno che io mi trovava solo con lei, le prese il capriccio di insegnarmi il giuoco degli scacchi... Oh, quella sera poco mancò ch'io commettessi un grande sproposito e, come diceva mio padre, compromettessi il mio avvenire!.... Per giuocare agli scacchi, io e la signora contessa stavano seduti ad un tavolino magro, leggiero, che pareva lì lì per volarsene via. La contessa colle dita sullo scacchiere mi iniziava ai segreti del giuoco, mi apprendeva le teorie del combattimento. Ella fece avanzare un pedone... Io non so che diavolo di paura mi avessi addosso;... fatto è che io sudava per tutte le membra, e le mie mani erano divenute paralitiche. «A voi, bell'abatino, disse la contessa». Io, con moto convulso levai la mano, e nello spingere il cavallo ad un salto non permesso dalle regole, colle maniche del ruvido soprabito lanciai il tavolo e la scacchiera nel mezzo della sala. «Misericordia! — gridò la contessa — Io doveva prevederlo, che con quelle vostre manaccie mi avreste rovinato ogni cosa!... Tutti ad uno stampo questi preti!.... Vengono fuori dal seminario che paiono tanti bifolchi!....» Io mi sentii ferito nell'amor proprio; il sangue mi salì al cervello, fui sul punto di proferire un'insolenza; ma vedendo mio padre entrare nella sala, fuggii come un colpevole.
— Oh! davvero l'ingiuria della signora contessa fu grave, e credo che da quel giorno non sarai più tornato da lei.
— Tale era appunto la mia risoluzione; ma mio padre mi fece persuaso ch'io era ben sciocco a prender sul serio le facezie di una signora. «I preti devono sempre andar d'accordo co' signori, e sopratutto colle signore, — mi ripeteva mio padre — e quando questi invitano a pranzo, bisogna lasciarli dire... non irritarli... far di tutto perchè la tua compagnia riesca loro gradita; e se qualche volta si compiacciono di ridere alle tue spalle, lasciarli ridere, e fingere di non vedere... di non udire... Di tal modo sarai sempre ben accetto dai ricchi, ed otterrai da loro tutto che desideri».
— E rientrasti in casa della contessa?
— Oh! sì... certo..! mio padre lo volle.
— E giuocasti ancora agli scacchi?
— Non più, perchè non mi avvenne mai di trovarmi da solo a sola colla contessa; ma quand'io mi recai da lei per la visita di congedo: «Signor cappellano in erba, — mi disse ridendo, — vi raccomandiamo di studiar bene il vostro latinorum; poi, se avremo buone informazioni sul vostro conto, se infine saremo contenti di voi, penseremo nelle prossime vacanze a compir la vostra educazione civile, come abbiam già fatto col vostro antecessore il fu D. Casimiro e con questi altri collaroni sudici che circondano tutti i lunedì e giovedì la nostra mensa».
La logica dell'egoismo paterno avea singolarmente viziato il carattere di quel mio collega di seminario. In sì giovane età egli toccava dappresso l'ateismo senza tampoco avvedersene. E perchè io lo vedeva zelantissimo nelle pratiche di pietà, protetto dal rettore, fedele ai sacramenti, un giorno lo richiesi se della sua vocazione avesse parlato mai al confessore e chiestigli consigli.
Colla usata ingenuità mi rispose:
— Ti paion storie codeste da narrarsi al confessore? S'io non mi tenessi sicuro della vocazione, ti giuro che io non rimarrei nel seminario ad usurpare l'altrui posto.
Di tal guisa ragionava il buon figliuolo, e nella sua testa, grossa anzichè no ed altrettanto dura ed inaccessibile ad ogni scienza, tutti i voti del presente, tutte le aspirazioni dell'avvenire si riepilogavano nell'idea: bisogna cercar di cavarsela alla meglio nel seminario, per aver nelle mani un buon mestiere. Nella scuola egli sedeva costantemente all'ultimo posto, ma con rassegnazione dignitosa, la testa raccolta nelle mani e gli occhi fissi al libro, con quella tensione violenta che è propria dei grandi pensatori e dei grandi cretini. I maestri protestavano ogni anno non potersi nè doversi permettere a un tal gaglioffo di proseguire nella via ecclesiastica; ma il confessore a proteggerlo, il padre a perorare in favore delle sue viscere, il conte e la contessa a intercedere. E all'età di ventiquattro anni circa, dopo varie peripezie scientifiche, il levita accostossi all'altare, e provò a' suoi persecutori maestri, a' suoi condiscepoli derisori, non meno che ai benevoli suoi mecenati, saper egli cantare la messa ed intonar l' alleluja al pari e forse meglio de' più sapienti teologi. La contessa, in vederlo funzionare la prima volta nell'oratorio, disse all'orecchio del marito: — ecco un cappellano che ci farà onore; io te l'ho sempre detto ch'egli aveva dell'ingegno, e che sarebbe riuscito come gli altri!...
III.
Or volgono sei anni, passando nelle vicinanze di X.... mi sovvenni dei due colleghi seminaristi; del primo, che io sapevo abitare in que' dintorni, chiesi novella alla padrona della piccola osteria ov'io mi era soffermato. — Il nostro curato! — sclamò la donna — oh! quello sì che è proprio un santo! peccato ch'egli sia così malaticcio! Egli andrà ritto ritto al paradiso, ma pel nostro paese sarà una grande sciagura. L'albergatrice proferì quelle parole con tal accento di compunzione che io ne fui tocco nel cuore. L'immagine dell'amico mi si ravvivò nel pensiero; rammentai i colloqui furtivi, le ingenue confidenze che fanciulli ci avevano collegati di tenera simpatia; nè potei risolvermi a lasciare il paesello senza prima rivedere colui ch'io aveva sconsigliato dal proseguire nella carriera ecclesiastica, e che ora la buona ostessa mi dipingeva quale un santo.
Coll'animo commosso mi avviai alla casa parrocchiale. «Di qual modo verrà accolta la mia visita? — pensavo io; — sarà egli turbato o contento nel rivedermi?» E ristetti esitante.
Superata la soglia, una fanticella mi introdusse nel giardino, e mi additò due preti seduti all'ombra del pergolato. Ambedue si levarono in piedi, e il loro saluto più cortese che amico, mi disse che nè l'uno nè l'altro si ricordavano d'avermi prima d'allora veduto. Ma, appena ebbi proferito il mio nome, il curato arrossì leggermente, mi stese la mano e mostrossi tutto lieto della mia visita; l'altro parve cercare affannosamente nel proprio cervello una rimembranza quasi smarrita.
— Non ti sovvieni ch'egli era con noi in seminario? — disse il curato al collega.
Lo smemorato spalancò gli occhi e la bocca; e, dopo un oh di sorpresa, mi fece tal festa da non potersi descrivere.
Perchè mai nel cappellano della contessa tanta esplosione di affetto? Non tardai a comprenderlo. La mia visita gli procurava la buona ventura di poter vuotare un paio di bottiglie di vino eccellente. Infatti il rubicondo cappellano, prevenendo la cortesia dell'ospite amico, propose un brindisi in onor mio, e avviossi alla cantina per procacciarsi le munizioni.
— Sempre lo stesso! — esclamò il curato sorridendo; non ti par di vederlo, quand'era in seminario?
— Oh sì certo!... se non che a quell'epoca il grosso testone era sempre curvato, mentre ora sta ritto in grazia dell'addome solidissimo!
Levai gli occhi nel volto del curato; la mia facezia non lo aveva commosso; il sorriso era già dileguato. Povero amico! Io non poteva staccare lo sguardo da quella pallida e nobile fisionomia. Nelle rughe precoci, nei lividi solchi, nella mestizia del labbro, lessi le lotte crudeli, gli angosciosi sacrifizi di un'anima che per farsi santa aveva dovuto logorare la carne, uccidere la materia. Il giardino era vivificato dai tepori primaverili; le piante rigogliose, le aiuole olezzanti di fiori; gli angeli, gli insetti agitavansi inquieti fra le pompe della nuova vegetazione. Il creato che ogni anno ringiovanisce sembra ripetere all'uomo: oh! la tua giovinezza non trascorra senza amore, perocchè dall'infimo insetto al leone, dal granello di silice sino all'astro più luminoso del firmamento, le creature tutte animate ed inanimate si alimentano di amore.
Io non sapevo di qual modo riaprire la conversazione. Il buon curato si accorse del mio imbarazzo e più ancora della pietà ch'io sentiva nel vederlo sì gramo di salute.
— Son ben malato! — diss'egli — e spero... che quest'anno al cader delle foglie andrò a raggiungere mia madre e mio zio... nel campo santo!
— Poi, dopo breve pausa: — non puoi credere quanta consolazione mi rechi il vederti; nulla ho dimenticato dei nostri colloqui fanciulleschi; in quell'epoca io mi era un ragazzaccio senza testa, io dubitava della religione, disperava della grazia. Credilo, amico (e queste parole scemino il danno che per avventura io ho potuto recare alla tua fede) col soccorso della Provvidenza, l'uomo può vincere ogni istinto perverso.
— Lo credo, — risposi; e il buon prete parve lietissimo della risposta, e mi ringraziò col sorriso. Ma nel fondo del cuore io diceva a me stesso; «Qual miracolo che costui abbia domati gli istinti? Non si è egli suicidato? Io mi veggo dinanzi la larva di un uomo.
Il cappellano mi distrasse dalle serie considerazioni. Egli depose in su la tavola tre bottiglie ed affrettossi a sturarle. In quel punto il sagrestano annunziò al curato che una povera vecchia era prossima a spirare, e conveniva recarle gli estremi conforti della religione.
— Vengo subito, — disse il curato, e prese commiato da me, raccomandandomi rimanessi, che dopo la cerimonia sarebbe tornato.
Poco dopo, la campana della chiesa squillò d'agonia, e dall'interno del coro si partirono le voci dei campagnuoli accorsi al mestissimo ufficio.
— Beviamo! — disse il cappellano stendendomi il bicchiere; — lo troverete eccellente! Don C... se altro non ha di buono, di ciò va lodato ch'ei tiene la cantina ben guarnita, ed ha anche la delicatezza di non bevere il proprio vino, e di serbarlo per gli amici.... Dunque... beviamo.
Bevvi di mala voglia, perocchè l'epigramma del cappellano mi suonasse come nota disarmonica nel cuore compreso da religiosa mestizia. Si avvide egli del mio turbamento, e mi uscì fuori col detto: a medici e a preti è spettacolo quotidiano la morte; la nostra sensibilità, laddio grazia, incallisce!
La pallida larva dell'amico mi stava fissa nella mente. — Gli è dunque ben malato il povero don C...? — Oh, malato assai! — disse il cappellano vuotando il bicchiere; — egli si è lasciato prendere dagli scrupoli; la è malattia incurabile; io ne veduti ben altri consumarsi lentamente per tali eccessi di pietà... Ma costui ha proprio fatto di tutto per abbreviarsi la vita!
Il cappellano già si faceva a spiegarmi l'origine e lo sviluppo della malattia, quando un lacchè gallonato entrò nel giardino e pose fine al colloquio.
— La carrozza della signora contessa è là fuori, — dirigo il servitore; — la signora contessa lo invita a fare una trottata sino a M...
Il cappellano balzò in piedi, vuotò d'un sorso un altro bicchiere, mi disse addio, e corse fuori in sulla piazzetta.
Io, per impulso di curiosità, gli tenni dietro, e stetti a poca distanza dalla carrozza.
La signora contessa, sdraiata sui cuscini come una sultana, lasciava penzolare la mano nella mano di un elegante giovinotto che in quel punto le si era avvicinato. — Ignoro qual fosse il nuovo personaggio, nè compresi il senso del sommesso cicalio; ma nel mentre il cappellano giungeva tutto ansante presso la carrozza, il giovane aperse lo sportello, balzò sui cuscini e sdraiossi beatamente a lato della contessa.
— Voi giungete un po' tardi, don Calimero, — disse la signora al cappellano; — ad ogni modo vogliam essere indulgenti! se non temete compromettere la vostra dignità sacerdotale, montate in serpa con Giuseppe.
— Oh troppo onore, signora contessa!
Il cappellano montò sul seggio indicatogli, e i cavalli partirono di galoppo.
Frattanto il buon curato aveva compiuti i suoi uffizii. Lo pregai mi accompagnasse fino alla estremità del paese: durante la breve passeggiata egli depose in me con ingenuità fanciullesca i segreti dell'anima ardente.
— Tu sei un santo! — esclamai nell'entusiasmo dell'affetto e del dolore.
— Santo! non ancora; ma spero di esserlo fra breve; a ragione quel luogo (e additava il non lontano cimitero) a ragione quel luogo è chiamato il campo-santo: là dentro si estinguono del tutto le umane passioni — fuor di là nessuno è santo.
Mi strinse la mano e allontanossi. Volgendo gli occhi lo vidi prender la via del cimitero, e dileguarsi fra le croci.
Mentre io saldavo il conto coll'albergatrice, sentii dietro le spalle ruggire il cappellano: — Al diavolo la etichetta e la aristocrazia! Vedete, amabile Caterina, se io rendo giustizia ai vostri meriti! per amore di voi e del vostro buon vino son balzato da una nobile carrozza a rischio di rompermi l'osso del collo: presto, un boccaletto del migliore!
— Che!... voi bevete ancora, cappellano?
— Poco dianzi in casa del curato ho bevuto per ammorzare la sete, ora mi convien bere per diluire la polvere!
Il curato di R.., è morto da cinque anni. Il cappellano vegeta e ingagliardisce ogni giorno; anzi, in questi ultimi tempi, nel paesello di R.., egli predicò nelle osterie la guerra allo straniero, ed ora vien citato come modello dei sacerdoti liberali.
Si vuol anche (ma questa potrebb'essere una calunnia dei nemici della chiesa) che l'intervento di don Calimero abbia prodotto un sensibile aumento nella popolazione di R... e si citano i nomi di quattro o cinque marmocchi, sulla cui testa, appena nati, si vide disegnata una chierica.
Ed io ho narrata la istoria di questi due preti, per fornire un tema di meditazione a quei dotti che si occupano di studiare le gravi questioni della vocazione religiosa e del celibato ecclesiastico.
FINE.
INDICE
I volontari Italiani Pag. 5
Un capriccio della Rivoluzione 87
Il diplomatico di Gorgonzola 150
Il dottor Ceralacca 187
Due Spie 218
Un Apostolo in missione 255
Storia di Milano, dal 1836 al 1848 286
Due Preti 305
NOTE:
1 . A quell'epoca era universalmente noto un Mazzoldi letterato e giornalista, fautore della tiranide austriaca e confidente della polizia. 2 . Comandante in capo delle armate pontificie, che ebbe parte infelicissima alla battaglia di Castelfidardo. Morì verso l'anno 1864. 3 . Pietro Perego, altro letterato e giornalista austriacante di infame memoria. Morì in Verona nel 1861 avvelenato dai preti ed esecrato da tutti. 4 . L'autore fa parlare le signore Menafuoco collo stile enfatico e col frasario caratteristico del giornale ch'esse prediligono.