SOCRATE

ANTONIO LABRIOLA

SOCRATE

NUOVA EDIZIONE A CURA DI B. CROCE

Omnia meliora tunc fuere, cum minor copia

Plin., Hist. Nat., XXXV, 50.

BARI GIUS. LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI 1909

PROPRIETÀ LETTERARIA

MARZO MCMIX — 21246.

INDICE

AVVERTENZA DELL'EDITORE

Questa monografia su Socrate è (come l'autore stesso dice nell'avvertenza da lui premessa alla stampa) una memoria, presentata al concorso bandito nel 1869 dalla R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli e premiata nel 1870. Fu inserita, l'anno dopo, nel volume VI degli Atti di quell'Accademia, col titolo: La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele.

Nel ristamparla, io adempio un desiderio, che più volte il Labriola ebbe a manifestarmi negli ultimi anni di sua vita.

D'altra parte, la monografia del Labriola è il solo ampio lavoro d'insieme, che la letteratura italiana possegga intorno a Socrate. Gli altri lavori sull'argomento sono piccoli saggi o discussioni di punti speciali, alcuno dei quali senza dubbio assai pregevole. Eccone un catalogo, che credo quasi completo: G. M. Bertini, Considerazioni sulla dottrina di S. ( Memorie della R, Acc. d. Scienze di Torino, s. II, vol. XVI, 1856, e in Opere varie, Biella, 1903); B. Spaventa, La dottrina di S. (critica del lavoro precedente, in Rivista contemporanea, a. IV, vol. VIII, 1856, e nel vol. Da Socrate a Hegel, Bari, Laterza, 1905); F. Acri, La filosofia di S. (in Rivista sicula, 1870, vol. III); R. Bonghi, S. nella difesa scrittane da Platone ( Nuova Antologia, del 1880; cfr. anche le traduzioni dei dialoghi platonici, e, in ispecie, per la biografia, il volume contenente il Fedone; A. Chiappelli, Il dubbio di S. sull'immortalità (in Filosofia delle scuole ital., XXV, 1882); E. Morselli, Il demone di S. ( Rivista di filosofia scientifica, II, 1883-3); T. Mamiani, La morale di S. (in Filos. d. scuole ital., 1884): A. Chiappelli, Il naturalismo di S., e le prime Nubi di Aristofane (in Rendic. dei Lincei, 1885-6): M. Lessona, La morale e il diritto in S. (Roma, 1886); R. Pasquinelli, La dottrina di S. nella sua relazione alla morale e alla politica (in Rivista ital. di filos., 1887); G. Melli, S., conferenza (nell' Atene e Roma, a. VI, 1903); e una serie di saggi di G. Zuccante, Intorno al principio informatore e al metodo della filosofia di S. (in Riv. di filos. e sc. affini, 1902, febbr.); Il bello e l'arte della dottrina di S. ( Rendiconti d. R. Ist. Lomb., s. II, v. XXXV, 1902); La donna nella dottrina di S. ( Riv. filos., 1903); Sul concetto del bene in S. a proposito del suo asserito utilitarismo (ivi, 1904); Dei veri motivi del processo e della condanna di S. ( Rend. Ist. Lomb., vol. XXXVIII, 1905); S. (in Dizion. di pedagogia di Credaro-Martinazzoli, Milano, Vallardi, 1907); si veda anche, del medesimo autore, il vol.: Fra il pensiero antico e il moderno (Milano, Hoepli, 1905).

La ristampa della monografia del Labriola, dunque, non potrà non riuscire gradita agli studiosi e ai lettori colti; ai primi dei quali offrirà una compiuta informazione degli studi su Socrate anteriori al 1870; e ai secondi, un'immagine del carattere di Socrate e un'esposizione della dottrina di lui, che rimane assai notevole per l'acume e l'equilibrio del giudizio e per l'acuto senso storico[1].

Napoli, gennaio 1909.

B. C.

AVVERTENZA DELL'AUTORE

Nel gennaio del 1869, la Sezione di scienze morali e politiche della Società reale di Napoli stabilì per tema di concorso: «La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele», assegnando il mese di giugno 1870 come termine per la presentazione dei manoscritti. Questa monografia, che ora vede la luce negli Atti dell'Accademia stessa, ha avuto in sorte di ottenere la più gran parte del premio, e di essere anteposta ai lavori di sei altri concorrenti[2]; della quale determinazione noi rendiamo qui pubblica testimonianza di gratitudine alla Sessione, che ci ha onorati col suo favorevole giudizio.

Questo lavoro intanto, quantunque premiato e giudicato degno della stampa, non risponde pienamente a quello che avevamo in animo di fare; che in molti luoghi è difettoso e degno di correzione, e, quanto alla forma, dovea essere rimaneggiato da capo a fondo. La spontanea confessione, che facciamo, ci autorizza a produrre le nostre scuse. Del tempo assegnato dall'Accademia buona parte andò per noi perduta: gli ultimi mesi appunto, nei quali era nostro proposito di rivedere a parte a parte la bozza già condotta a termine nell'autunno del 1869, per introdurre nello scritto maggiore

uniformità di colorito e più gran copia di erudizione, e per portarlo cui una forma letteraria più accettabile. Nella stampa, poi, non ci siamo permessa modificazione alcuna, perchè, avendo l'Accademia, col premiarlo, fatto suo il nostro lavoro, non ci era lecito pubblicarlo negli Atti in una nuova forma. Nel dare, dunque, alla luce un lavoro, che, a nostro parere, dovea essere corretto, colorito e migliorato, nel darlo in somma quasi come l'avevamo abbozzato circa due anni fa, speriamo che i lettori non vogliano usare con noi una critica troppo scrupolosa, e che guardino con indulgenza i difetti parziali del nostro libro.

La più gran parte dei lavori letterari, storici e filosofici, che più o meno direttamente si riferiscono a Socrate, sono stati da noi o letti o consultati[3]; e ci è parso conveniente di segnare con l'asterisco le note di seconda mano.

I. LA PERSONALITÀ STORICA DI SOCRATE

Nota. — La caratteristica più completa e più perfetta della personalità di Socrate si trova nella History of Greece di Grote, vol. VIII, pp. 551-684. Lo Zeller: Die Philosophie der Griechen, 2ª ed., vol. II, pp. 38-52 e 130-165, ha esposto con brevità, e con molto gusto critico, i tratti più notevoli della vita, e del processo di Socrate. Il libro di Lasaulx: Des Sokrates Leben, Lehre und Tod, München, 1858, non è che una congerie di particolari falsi e di giudizi stravaganti; vedi specialmente pp. 5-26, 54-122. Il libro dell'Alberti: Sokrates, Göttingen, 1869, per la pretensione di voler ristabilire l'autorità storica del dialogo platonico, e per la forma imprecisa ed incolore dell'esposizione, è un lavoro sfornito d'ogni pregio critico e letterario; v. pp. 41-55, 115-149, 156 e seg. Il Curtius: Griechische Geschichte, vol. III, p. 89 e seg., ha caratterizzato molto bene dal punto di vista storico la posizione di Socrate. Le monografie di Ueberweg: Die Bedeutung des Sokrates in der Bildungsgeschichte der Menschheit, nei Protest. Monatsblätter, vol. XVI, fasc. 1º, p. 39 e seg.; e dello Steffensen: Ueber Sokrates, ibid., vol. XVII, fasc. 2º, p. 76 e seg., contengono un ritratto vivace ed animato. Il breve scritto di Schmidt: Sokrates, Halle, 1860, non ha importanza di sorta.

1. Socrate e gli Ateniesi[4]

L'anno 1º dell'Olimpiade 95ª nel mese Targelione (maggio 399 a. C.) moriva nel desmoterio ateniese Socrate figlio di Sofronisco, condannato a bere la cicuta, qual reo di violata religione e corruttore della gioventù[5]. Gl'intimi di lui, che rimaneano privi dell'uomo più prudente e più giusto fra quanti fossero a quel tempo[6], avevano invano tentato di sottrarlo a così trista fine, offrendosi dapprima mallevadori di una multa di trenta mine[7], e cercando, poi che la sentenza era stata pronunziata, procacciargli con la fuga albergo e riposo in più sicura stanza[8]. Socrate, che a mala pena s'era indotto ad offrire la multa, rigettò recisamente il consiglio della fuga; e rimase tranquillo in carcere fino al giorno della morte, che egli incontrò con religiosa rassegnazione[9]. La divinità gli vietava di fare altrimenti! Egli era convinto che fuggire le conseguenze del processo era come violare la legge, la cui santità dee rimanere inalterata, anche quando gl'interpreti di essa siano ingiusti e parziali. La sua coscienza non ammetteva incertezza o titubanza fra una moltitudine di beni possibili, riposando su la infallibilità del giudizio morale, il cui fondamento costante è la retta cognizione[10]. Socrate era al servigio della divinità, e la coscienza della missione affidatagli era in lui tanto viva e potente, che, ove l'avesse lasciata inadempita, egli avrebbe stimato di commettere un'azione riprovevole ed irreligiosa[11].

Era quello un tempo di restaurazione politica, e gli Ateniesi, che dal fastigio della gloria e della potenza, per una serie d'errori e d'ingiustizie, erano caduti nel più basso fondo d'ogni umiliazione, scacciati i trenta tiranni, e ristabilita la forma popolare, intendevano a tutt'uomo a purgare la città di tutti quelli elementi, che per un verso o per un altro avessero corrotto o snervato, o reso inoperoso e svogliato il popolo[12]. E quest'opera fu intrapresa con moderazione, generosità e costanza. La vendetta, lo spirito di parte, le ambizioni e gl'interessi personali offesi non vennero punto a regolare la condotta dei restitutori della libertà, che, intesi a ristabilire la costituzione fondamentale dello Stato, dettero pruova di quanto fossero valse le recenti sventure a mitigare lo spirito violento della democrazia ateniese. L'arcontato di Euclide coronò gli sforzi della restaurazione, e fece per poco sperare che i tempi di Cimone e di Pericle non fossero del tutto finiti. Ma quest'opera di civile rinnovamento, per quanto fosse stata compiuta con intenzioni umane e disinteressate, non riuscì a ricomporre in perfetta armonia gli spiriti già travagliati da profonde collisioni, perchè l'apparente conciliazione non avea di che nudrire gli animi già stanchi e dimentichi delle antiche virtù. La religione tradizionale era stata violentemente scossa nei tempi della sfrenata libertà democratica, e tutto avea cospirato a smuoverla dalle sue fondamenta. Le gravi sventure sofferte aveano favorito due opposte tendenze: dispregio della religione tradizionale in alcuni, superstizione eccessiva negli altri, stimando quelli che l'insuccesso nelle imprese guerresche avesse sbugiardato gli dei, mentre questi, al triste spettacolo della patria in decadenza, ed alla perdita del sereno possesso delle tradizionali e virili virtù dei padri, non sapeano cercare altrove un riparo, che in un abbandono angoscioso nelle braccia delle divinità[13]. La mania dei processi politici, frenata per poco dal bisogno di calma e tranquillità che la restaurazione avea indotto negli animi, si fece nuovamente imperiosa; e quattro anni appena erano trascorsi dal ristabilimento della libertà, quando la democrazia fece di Socrate la vittima innocente di un esagerato principio di conservazione politica.

Questo doloroso spettacolo di una rinnovata democrazia, che si macchia del delitto di una ingiusta condanna col toglier la vita ad un uomo di virtù eccezionali, che avea consacrato sè medesimo al miglioramento dei suoi concittadini, è stato argomento di somma maraviglia sì negli antichi tempi come nei moderni[14]; e questa maraviglia ha fatto sì, che le circostanze tutte che prepararono ed accompagnarono quella tragica catastrofe fossero studiate con indagini severe e minuziose[15]. Il risultato di queste ricerche è stato, non certo la giustificazione, ma bene la spiegazione della condotta degli Ateniesi verso Socrate; e quel processo e quella condanna non possono ora più considerarsi come opera del fanatismo religioso, o del furore partigiano, o degli artifizî di certi uomini invidiosi[16], perchè il loro fondamento era riposto nell'inevitabile contrasto fra i principî conservativi della democrazia ateniese, e la ricerca poggiata sul criterio del convincimento personale, della quale Socrate s'era fatto l'apostolo[17]. Questa maniera di considerare la posizione di Socrate in Atene non importa punto, che deva sacrificarsi la testimonianza dei discepoli di Socrate, su la purezza delle intenzioni, e sullo spirito profondamente retto e religioso del loro maestro, all'esigenza di una giustificazione assoluta del popolo ateniese[18]; ma vale certamente a farci valutare più intimamente il valore storico della persona di Socrate, ed agevola la intelligenza netta della sua dottrina[19]. L'esame di questa quistione non può entrare nei limiti del nostro lavoro; ed a noi basterà di notare i tratti più notevoli della personalità di Socrate, solo perchè apparisca necessario il contrasto con la democrazia[20]

Socrate non avea niente di comune coi partiti che agitavano Atene, e le sue personali relazioni non aveano niente a fare con le varie tendenze politiche dei contemporanei. Sebbene Carmide e Crizia fossero stati suoi uditori, e Teramane e Carìcle suoi amici, egli non era stato per ciò fautore del loro dispotismo, anzi Crizia, ad onta dell'antica amicizia, gli avea proibito di tener discorsi[21]. Cherefonte suo amico, e s'è lecita la parola, suo apostolo, tornava appunto dall'esilio coi fautori del governo popolare, poco prima che Socrate fosse condannato[22]; e, con lui, Lisia, che, se non discepolo o amico, secondo una probabile tradizione, era nel numero degli ammiratori di Socrate[23]. Alcibiade infine, ch'era continua minaccia e spauracchio dei trenta, e che allora i reduci democratici cercavano ricondurre in Atene quando l'oro di Sparta il fece spegnere, era stato il più intimo dei suoi uditori; quello che, per la sua naturale leggerezza e mutabilità, avea più d'ogni altro sentito la potenza educatrice del carattere di Socrate[24]. Tutto quello che formava la vita, il benessere e la felicità dell'Ateniese, il continuo agitarsi per le pubbliche faccende, e la brama di divenire influenti nelle adunanze con l'arte della parola, non occupava l'animo di Socrate, che uso ad appagarsi dell'intimo compiacimento della propria coscienza, non volle mai scendere su l'arena delle dispute politiche.

Ai contemporanei egli appariva un uomo strano e singolare[25], ed a ragione uno storico ha detto, ch'egli non apparteneva a nessuna classe di cittadini[26]. Abbandonata in fatti ben per tempo l'arte paterna della scoltura, non intese mai più ad apprenderne un'altra, che lo fornisse dei mezzi necessarî per la sussistenza. Come cittadino, non manca di adempire i doveri di pritane, anzi sfida il furore popolare, e sa volere e far volere il giusto[27]; ma egli non cerca per ciò di acquistare influenza col suo ingegno, anzi pare che distorni i cittadini dalla vita pubblica, col richiamarli alla meditazione, e si attira così la taccia di fuorviare i giovani. A Potidea, a Delio, ad Amfipoli combatte da valoroso soldato[28], e fa nascere in tutti una straordinaria ammirazione per la costanza con la quale soffre ogni sorta di privazioni e d'intemperie; ma in tutto ciò non fa che adempiere il dovere d'onesto cittadino, e, ricusando la corona che il suo coraggio gli avea fatta meritare, la cede ad Alcibiade, cui avea salvata la vita. Un bel giorno, quest'uomo singolare muoverà dei dubbî sul concetto che gli altri si fanno comunemente del coraggio, e metterà in imbarazzo anche coloro, che, fatte avendo delle campagne, e riportate delle vittorie, non sanno dire che cosa sia il coraggio[29]. La sua estrema povertà lo costringe a vivere dei doni spontanei degli amici; ma, mentr'egli forse rigetta con superbia l'invito di principi stranieri che lo invitano alla loro corte, sdegna il nome di maestro stipendiato, anzi non vuole essere tenuto per maestro[30]. E come poteva essere maestro, — e di che? Egli sapeva solo di non saper niente; e per questa ragione appunto l'oracolo di Delfo lo avea dichiarato il più sapiente fra gli uomini. Il suo sapere appariva nella forma di un giudizio sospensivo, di una bella domanda — τὶ ἐστι; che smascherava il ciarlatano, imbarazzava il presuntuoso, ed irritava il sofista di mestiere, e che spesso, col suscitare il bisogno dell'esame, non menava ad un risultato positivo.

I settant'anni della vita di Socrate passarono fra l'epoca più fortunata e gloriosa della repubblica ateniese, ed il periodo infausto della irreparabile decadenza. Nato dieci anni dopo la battaglia di Platea, nella prima sua età Temistocle moriva in esilio, e Cimone, reduce dall'esilio, raccoglieva gloria con le imprese della guerra e con le proficue arti della pace. Nella età virile di Socrate, Pericle fu a capo della Stato, moderatore e sovrano dell'opinione, con quella grandezza e nobiltà di propositi, che gli facea vedere nello splendore della patria la soddisfazione della propria ambizione, ch'era intesa ad armonizzare le cure dello Stato ed il godimento dell'arte. La guerra del Peloponneso, la spedizione di Sicilia, la caduta della libertà, l'oligarchia, i trenta, il ritorno del partito popolare, — tutta questa svariata e rapida vicenda passò sotto gli occhi di Socrate, che, stando da mane a sera nell'agorà e in su le pubbliche vie, e frequentando la bottega dell'armiere e dello scultore, del pari che la casa della meretrice e degli ottimati, con le sue aride domande, col suo perpetuo γνῶθι σαυτόν e τὶ ἐστι; parea ignorasse le glorie e le sventure della patria.

E pur nondimeno Socrate era un prodotto naturale della coltura e della vita ateniese; e se il suo carattere, e le sue convinzioni etiche e religiose ci fanno apparire la sua persona come molto staccata e distinta dal fondo comune della vita dei suoi contemporanei, deve pur dirsi, che la facilità con la quale egli seppe formarsi una cerchia d'amici devoti ch'erangli stretti da religiosa pietà, e da arrendevolezza senza pari, non può avere la sua ragione soltanto nel prestigio straordinario ch'egli esercitava, ma eziandio, e forse principalmente, nella natura dei tempi. Una società nuova, più angusta e al tempo stesso più intima e compatta, si andava allora formando nel seno della grande società; e spezzato il filo tradizionale della patria educazione, e varcati i limiti dell'ethos popolare, si preparava al raccoglimento, mentre gli elementi dell'antica vita entravano in lotta fra loro, per poi alterarsi, e dissolversi. Socrate non è il cosciente iniziatore di questo movimento, nè il solo; anzi, come è sempre avvenuto in tutte le epoche di rinnovamento o di riforma morale e religiosa, egli, che con le sue esigenze ricercative si allontanava tanto dall'etica puramente tradizionale ed abituale dei suoi concittadini, fu così poco inclinato a credersi un riformatore, che considerò come preordinato dalla divinità, ed inteso dalla sapienza dei legislatori, quello che era risultato della sua personale investigazione. Egli rimase quindi greco, anzi ateniese tutta la vita, e con la stessa morte confermò la costanza ed armonia della sua coscienza. Il Socrate umanitario dei filosofi del decimottavo secolo è un prodotto di fantasia, che non ha fondamento nella storia; e le opinioni di certi eruditi del nostro secolo, che hanno fatto di Socrate un rivoluzionario, non meritano altro nome, che quello di dottrinali aberrazioni.

Intendere come Socrate, che fu vittima di una accusa che facea di lui un innovatore della religione e della pubblica morale, non fosse stato nè un rivoluzionario nè un ozioso ricercatore, ed evitare al tempo stesso l'errore di coloro che ne fanno il rinnovatore di non so che antica morale, senza pensare che una morale non potea esservi prima della ricerca sofistica e socratica, è forse tanto difficile per la critica moderna, per quanto era ardua cosa pei contemporanei di dischiudere la deforme statua del Sileno, per trovarvi dentro quella vera e viva immagine, che rendeva perplesso l'incostante e volubile Alcibiade[31].

2. Educazione e sviluppo della coscienza di Socrate.

Imparare a leggere, e recitare poi a memoria le sentenze degli antichi poeti; assuefarsi alla modulazione ed al canto, ch'era destinato a formare nell'animo il senso dell'armonia; esercitare il corpo con la ginnastica, per sviluppare con la regolarità dei movimenti l'accordo dell'esterno con l'interno, ed il senso dell'euritmo; in questi tre capi consisteva l'educazione dell'Ateniese[32], Solone, istitutore di questo sistema di educazione, ne aveva affidata la vigilanza al venerando consesso dell'Areopago, assicurando in tal guisa alla coscienza ateniese l'inviolato possesso di una preziosa eredità morale. Gli Ateniesi, tuttochè rimutassero più volte le forme politiche della loro costituzione, riguardarono sempre con pietosa venerazione gli ordini di Solone; e gli stessi restauratori della libertà, dopo la cacciata dei trenta, li tennero qual sicuro fondamento della vita civile. La riforma di Efialte, col porre dei limiti all'autorità dell'Areopago, lo aveva privato della vigilanza su la educazione, entrando in quella vece i Sofronisti[33] a funzionare da moderatori di quegli antichi istituti. La pochezza dei mezzi per la diffusione letteraria, e la vita ristretta in più angusti confini, rendeano allora necessaria la concentrazione degli elementi educativi che la coltura e la tradizione poteano offrire: sicchè lo sviluppo dell'individuo, favorito dalla limitata istruzione, era di una grande svariatezza e libertà[34], e tanto più intenso, per quanto meno sussidiato da una larga preparazione di scuola.

I primi anni della vita di Socrate precedettero la riforma di Efialte, e non è a dubitarsi ch'egli s'ebbe l'istruzione legalmente stabilita sin dal tempo di Solone. Senofonte, e qualche reminiscenza socratica presso Platone fanno fede della educazione affatto ateniese di Socrate; e fra gl'indizi non è di poco valore quello che può desumersi dalle frequenti citazioni di Omero, di Esiodo, di Teognide e di Simonide[35], che, secondo la tendenza invalsa a quell'epoca, servivano di occasione a delle analisi morali dei precetti che potessero esser contenuti in questo o in quel luogo. Da questa prima istruzione (che se non è esplicitamente attestata in persona del giovanetto Socrate[36], non c'è dubbio che abbia avuto luogo per lui come per ogni altro Ateniese), fino al momento che, informato già a solide convinzioni, egli appare su la scena pubblica, come autore di una dottrina determinata e precisa nel suo carattere e nel suo valore, come siasi sviluppato, e quali siano state le diverse fasi del suo pensiero, e le sue lotte coi contemporanei e con sè stesso, la critica storica non è più in grado di saperlo[37]. La leggenda in vero ha conservato finanche ì nomi dei maestri di Socrate, e gl'indizi della loro influenza; ma alla luce della critica tutte queste varie tradizioni sono apparse vuote di certezza, avendo esse per fondamento, o certi presupposti dottrinali, o delle combinazioni equivoche di dati storici[38]. E del pari non si ha ragioni sufficienti, per riconoscere in certe altre tradizioni la lontana ricordanza delle lotte sostenute da Socrate, per raggiungere quello stato di perfetta costanza, continenza ed equanimità, che tanto ammiravano in lui i testimoni contemporanei: perchè quelle tradizioni, o sono del tutto inventate, o furono escogitate con l'intento di supplire con la congettura il difetto della storia[39].

Ed in fatti, la vita d'un Ateniese di mediocre stato, che privo d'ogni arte e d'ogni pubblico ufficio visse nelle più grandi strettezze e quasi povero, non potea svilupparsi dapprima che nella oscurità: e quando egli ebbe raggiunta con la maturità degli anni una convinzione chiara ed intensa della sua missione, l'antitesi dichiarata in cui si pose contro tutte le tendenze pratiche e teoretiche dei contemporanei valse tanto ad attirargli amici ed inimici, che l'importanza dell'uomo adulto dovette far perdere di vista la storia del suo sviluppo. Quello ch'egli ha potuto pensare prima di fermare definitivamente l'orizzonte della sua coscienza, e quali impulsi naturali dovessero esser riposti nel suo temperamento e nel suo carattere per determinarlo ad abbandonare ogni pratica occupazione, e darsi interamente ad esaminare l'animo e le morali intenzioni di quanti gli venissero innanzi, e come poi continuasse con religiosa convinzione l'opera intrapresa, certo di non poterla intermettere senza venir meno alla voce della divinità che l'avea scelto e chiamato; tutte queste domande non possono altrimenti toccare una soddisfacente risposta, che per via di una congettura, forse psicologicamente verosimile, ma non per questo equivalente ad una notizia storica. Cercheremo innanzi tutto di mettere in piena luce alcuni dati molto importanti.

Poco tempo dopo l'impresa contro Delio, quando Socrate toccava il 45º anno dell'età sua[40] (424 a. C.), Aristofane fece di lui su la scena il rappresentante tipico di tutta la classe dei Sofisti e dei filosofi naturali; e col suo squisito umore rilevò vivamente il contrasto fra l'antica virtù, e il nuovo principio della ricerca individuale. Non è qui il luogo di esporre i motivi estetici e politici dell'opera singolare di Aristofane, nè di tratteggiarne i caratteri, i contrasti, le peripezie e la catastrofe. A noi importa solo di notare, che a quel tempo Socrate era di già un nome tanto popolare in Atene, che la satira di lui potea offrir materia alla commedia, innanzi ad un pubblico uso a vedere sulla scena le persone più eminenti della repubblica[41]. Le Nuvole di Aristofane, se non sono un documento storico su la cui autorità devasi accettare o rigettare come genuino questo o quel principio della dottrina socratica, perchè in esse è troppo evidente l'erroneo concetto che Aristofane s'era fatto di Socrate il μεριμνοφροντιστής attribuendogli tutte le opinioni dei filosofi naturali, e tutte le più strane conseguenze che la satira avesse potuto desumere dalla riflessione sofistica, sono bene una testimonianza storica dell'influenza che Socrate esercitava già in quel tempo, e del valore reale della sua persona nella società ateniese. Il suo convivere coi giovani, il suo perpetuo ragionare, la sua preoccupazione logica, e fino la relazione con Cherefonte, vi appariscono come cose già note a tutti; e tali, che, senza essere caratterizzate con fedeltà storica, si prestavano a rappresentare vivamente su la scena una personalità già stata argomento di molti discorsi nel pubblico[42]. Quanto lavoro e quante lotte non ha dovuto sostenere Socrate, per raggiungere una forma di coscienza così pronunziata; e quanti motivi non han dovuto esercitare la loro azione sul suo animo, dal momento che abbandonata la bottega del padre cominciò egli a vivere nella sua beata e laboriosa ἀπραγμοσύνῃ?

I testimoni autentici ed immediati della dottrina socratica non ci forniscono di notizie sufficienti, per poter noi con l'aiuto delle stesse, se non rifare minutamente, almeno adombrare in parte le successive fasi che ha dovuto percorrere la coscienza di Socrate, prima di presentare alla considerazione degli Ateniesi dei caratteri così notevolmente spiccati, che l'occuparsi di lui fosse come toccare un argomento che tenea desta l'opinione generale. Senofonte e Platone erano appena nei primi anni della loro vita, quando le Nuvole di Aristofane furono rappresentate[43]; e questa sola circostanza dovrebb'essere ragione sufficiente, perchè noi, senza più interrogarli su lo sviluppo della coscienza del loro maestro, ci appagassimo di quanto hanno raccolto dei detti e degli atti di Socrate già maturo e dimentico delle lotte della sua prima gioventù; oltre di che la natura stessa dei loro scritti, e l'epoca in cui furono redatti, doveano di necessità indurli a mettere sotto gli occhi dei lettori l'immagine completa e perfetta del loro eroe, la cui incontestabile vittoria su le viete opinioni professate dal comune degli uomini e su i riluttanti elementi della coltura ateniese, non che essere invalidata, era stata rifermata e consacrata da una morte, per quanto ingiusta, altrettanto gloriosa.

La data della rappresentazione delle Nuvole d'Aristofane, e la maniera come Senofonte e Platone ci rappresentano il loro maestro già nel pieno possesso d'intime convinzioni, che avevano acquistato la forza e la potenza d'istinti naturali, sono due fatti dalla cui combinazione critica dee risultare evidente l'opinione di coloro i quali affermano, che Socrate avea nei primi anni della guerra del Peloponneso già in parte fissato l'orizzonte della sua coscienza[44]. E a volere esprimere nella forma più semplice la natura ed i limiti di quell'attività scientifica, basterà dire su la testimonianza di Aristotele[45], che egli fu il primo che si rivolgesse a ricercare la natura delle relazioni etiche, seguendo il filo logico della epagoge e della definizione. Tale era la sua occupazione, quando in mezzo ad una schiera di giovani d'ogni classe sociale, e conversando con quante persone gli venissero innanzi, metteva in mostra nell'età sua provetta i pensieri maturati nell'intimo dell'animo suo; e mosso da un invincibile bisogno di richiamare i suoi interlocutori ai motivi intrinseci della convinzione e della certezza, rigettava i pregiudizi, mediante il concetto rettificava l'opinione, e, con l'invogliare alla continenza ed all'esercizio cosciente di ogni virtù, affermava di adempiere una missione affidatagli dalla divinità, la cui voce gli si era fatta palese nella coscienza fin dai suoi primi anni, finchè l'oracolo di Delfo non venne a confermarlo nel suo proposito. Tutta questa ricchezza di pratiche attitudini, e di capacità teoretica, che non è certamente espressa dalla caratteristica troppo astratta di Aristotele, è esposta con plastica evidenza nel ritratto senofonteo, e in tutti quei luoghi di Platone, che portano l'evidente impronta di una storica reminiscenza.

Ma, avendo escluse come infondate tutte le tradizioni conservate dagli scrittori di un'epoca assai posteriore, e sforniti come siamo dei ragguagli dei testimoni autentici, dovremo forse deciderci a negare ogni connessione fra l'attività scientifica di Socrate, e tutti i tentativi fatti prima di lui e durante la sua vita, per escogitare dei principi atti a spiegare la natura delle cose, e l'ordine intrinseco dell'universo? Che influenza insomma hanno esercitato sul suo spirito le opinioni delle varie scuole filosofiche dei due punti estremi del mondo greco, le colonie dell'Asia e dell'Italia? E non si è forse ripetutamente insistito su la derivazione di alcune convinzioni di Socrate dal principio della filosofia di Anassagora; e la più o meno grande somiglianza, che s'è voluta scorgere fra lui ed i Sofisti, non s'è cercato più volte spiegarla con la diretta influenza della costoro propaganda? La esposizione critica di tante svariate opinioni non può punto riguardarci in questo momento: e se ci siamo fermati alquanto su questa quistione, è stato solo nell'intento di chiarire nettamente la posizione di Socrate in Atene, e nello sviluppo della coltura greca; ed eziandio per giustificare il divario che passa fra la nostra esposizione della dottrina socratica ed alcuni dei lavori che hanno preso a trattare dello stesso argomento. Esporremo dunque brevemente l'opinione che ci siamo formata con lo studio delle fonti.

La prima elementare istruzione, tenuta per legalmente obbligatoria nella repubblica ateniese, non è sufficiente a spiegare l'attitudine filosofica e la efficacia pratica del carattere di Socrate; perchè, sebbene rimanga dubbio fino a che punto egli abbia potuto valersi della tradizione letteraria come mezzo di coltura, il carattere delle sue vedute, e l'influenza che esercitarono, mostrano chiaramente quanto quelle fossero radicate nei bisogni e nella coltura del tempo. Sotto questo riguardo, tutte le molteplici tendenze ricercative delle varie scuole filosofiche hanno potuto esercitare una influenza più o meno diretta su lo sviluppo della sua coscienza, e disporlo a quel bisogno incessante di esaminare con certezza scientifica i fenomeni interni della vita etica, che la profondità del suo carattere, e la perfezione del suo sentimento morale gli venivano offrendo alla riflessione con insolita evidenza. E si è anche in grado di arguire dai Memorabili di Senofonte, e dall'Apologia di Platone, di che natura fosse quella influenza, se si prende per poco ad esaminare con quanta cura nei primi abbia l'autore cercato di tratteggiare l'antitesi che correa fra Socrate e le opinioni di diverse classi di cittadini e di addottrinati, e come, nell'altra, Platone, nell'intento di appressarsi quanto più poteva alla verità storica, abbia solo leggermente idealizzato lo svolgimento della coscienza socratica in rapporto coi vari elementi politici ed educativi del tempo.

All'epoca di Pericle, e molto più dopo la sua morte, Atene era divenuta il centro di tutta la coltura ellenica, e quanto s'era prodotto di poesia, di storia, di filosofia, e d'invenzioni artistiche e tecniche in tutti i punti del mondo greco avea trovata facile accoglienza in quella città, cui la prosperità materiale del popolo e i larghi possessi aveano sotto tutti i riguardi disposta a essere il pritaneo della civiltà. Filosofi e ciarlatani, oratori ed arruffapopoli, poeti e guastamestieri, maestri e novatori della musica, della mimica, del ballo, della educazione, dell'architettura, della tattica e della strategica veniano a trattenersi ed a far propaganda e scuola in Atene, ove la mobilità del carattere congiunta ad un nobile patriottismo, e ravvivata dalla ricordanza delle recenti glorie, avea così slargati e resi incerti i confini dell'opinione, che l'individuo potea a sua posta allontanarsi dalle credenze e dalle convinzioni comuni e tradizionali. Il contrasto fra le nuove tendenze, e la vita antica dette ben presto luogo ad una profonda collisione nel seno della società ateniese; e questa tanto più apparve grave e pericolosa, perchè andò per molti lati congiunta al disfacimento della democrazia e della pubblica morale. L'immagine completa di questo contrasto può desumersi dal confronto della satira di Aristofane, con l'addolorato e sdegnoso racconto di Tucidide.

Ora è in quest'epoca agitata da tanti interessi, e ricca di tanto bisogno di ricerca, che Socrate acquistò la coscienza della sua missione educativa. Che egli abbia potuto raccogliere qua e là qualche nozione dei principii delle varie scuole filosofiche, apparisce chiaro da Senofonte, che, sebbene voglia mostrarcelo in opposizione assoluta coi ricercatori delle cose naturali, pure lo fa apparire informato delle loro vedute[46]. Ma, dall'ammettere questo come vero, all'accettare come storiche tutte le discettazioni che Platone immagina avvenute fra Socrate e i diversi rappresentanti delle scuole filosofiche ci corre molto; e a noi pare, che la persistenza con la quale certi critici tornano continuamente a mettere in una diretta relazione Socrate coi filosofi Ionici ed Eleatici, ed a dedurne le convinzioni dal principio di Anassagora, non merita di essere nuovamente criticata. Il ritratto ideale di Socrate presso Platone può fino ad un certo punto ravvivare e rendere evidente il contrasto dell'epoca sofistica con l'antica coltura[47], per quanto il misticismo platonico il consente; ma non è per ciò storicamente fedele.

Le condizioni della coltura ateniese, ed il risultato esclusivo cui pervenne Socrate con le sue ricerche costituiscono un'antitesi così pronunziata, che rimane sempre vero quello che si è detto ripetutamente di lui, esser egli stato maestro a sè medesimo[48]. E che questa opinione non deva condurci a farne un uomo dotato di qualità mistiche e profetiche, parrà chiaro dall'osservazione che aggiungiamo. L'oggetto e la natura della ricerca socratica sono affatto nuovi, ed ignoti ai filosofi della Ionia e d'Italia, checchè possa andarsi a rintracciare di elementi etici e logici nei loro principî[49]. Questo nuovo interesse e questa nuova maniera di filosofare non apparisce in Socrate come qualcosa di teoreticamente intenzionale, ma deriva intimamente dai suoi bisogni etici e religiosi, ed è il risultato di un esame che egli ha esercitato su sè medesimo, fino al punto di obbiettivare in una intuizione etica dell'universo le esigenze dell'animo suo. Questo lavoro egli ha dovuto compierlo reagendo continuatamente contro tutte le tendenze opposte e divergenti dei contemporanei; e quanto fossero esatte le sue conoscenze intorno ai principi filosofici di quelle scuole, che direttamente o indirettamente aveano influito a modificare l'etica della società ateniese, noi non siamo più in grado di saperlo. Volerne quindi dedurre i principî dai predecessori, con non so quale idea schematica di una necessaria derivazione dei sistemi filosofici, è sconoscere in lui l'elemento più originale ch'egli s'avesse, la sua originale personalità, e dimenticare al tempo stesso, che in un uomo straordinario come Socrate gli elementi che han potuto servire a svilupparlo doveano trovarsi in una grande incongruenza col risultato stesso dello sviluppo. Con ciò noi non neghiamo, che Socrate sia appunto l'uomo in cui convergono per la prima volta le varie fila della coltura greca, per raggrupparsi insieme e formare una più complicata e più mirabile tela; ma come abbiamo posto in chiaro, che le fonti non ci autorizzano a metterlo in relazione coi suoi predecessori per la via di una tradizione dottrinale, così vogliamo non si perda mai di vista, che la sua filosofia, o meglio quello che noi troviamo di filosofico in lui, è stato, non il risultato di una indagine più o meno teoretica e dottrinale, ma un bisogno personale, che si è fatto dottrina.

3. Il carattere di Socrate.

Le pagine tutte di Senofonte e Platone sono una perpetua testimonianza dei sentimenti di riverenza e di ammirazione, che Socrate era capace di suscitare nell'animo di quanti l'avessero avvicinato; e l'interna vitalità, ond'era animato ogni suo atto ed ogni sua parola, è improntata in esse come in indelebile monumento.

Un organismo di perfetta costituzione, assuefatto ad ogni sorta di sofferenze e d'intemperie, gli aveva reso agevole l'esercizio della più rigorosa temperanza e sobrietà. La sua maniera di vivere era così, a lungo andare, divenuta la espressione costante di una volontà, che coscientemente governava e indirizzava gl'istinti naturali al fine della conservazione e del benessere. Il lungo abito, mercè il quale egli era divenuto attento e minuzioso osservatore di quanto avvenisse nell'animo suo, col rendere sempre più perfetto il giudizio morale, con avergli assuefatto l'intelletto all'esercizio dell'arte ricercativa, lo avea al tempo stesso condotto ad una certa astrazione dal mondo esterno, che per un Greco, e molto più per un Ateniese, era cosa tutt'altro che comune. Ma questa non può dirsi ascesi, perchè non tenea ad un ordine speciale di convinzioni o di pratiche religiose nè menava alla formazione di una setta o di una associazione mistica; rimanendo sempre in Socrate vivissima la conoscenza di tutti i doveri della vita pubblica e privata, quali erano generalmente accettati e riconosciuti dal comune degli Ateniesi. Rassegnandosi alla voce della coscienza, e scovrendo così il valore vero dell'uomo nell'intimità dell'animo, egli non cercava di compiere un atto di astrazione teoretica, nè andava all'esigenza di una perfezione assoluta. Il suo bisogno di consapevolezza non lo menò mai alla negazione delle forme concrete della vita etica; e la quiete interna dell'animo, che in lui risultava dalle abitudini temperate e dal continuo esame di sè medesimo, fu ricca degl'impulsi pratici più vivi e più efficaci. Socrate quindi, tuttochè fosse estraneo ad ogni pratica occupazione, e scevro di ambizione, visse continuamente occupato nell'esaminare l'animo e le intenzioni dei suoi amici e conoscenti; esercitando l'arte difficile, e fino allora ignorata, del cosciente educatore. Tutti questi tratti caratteristici dell'animo suo si conciliavano in una perfetta armonia, e facevano di lui un conoscitore perfetto degli uomini e della vita. Non estraneo al godimento di nessuno fra i piaceri, eccitava stupore per la moderazione, e per la presenza d'animo che non l'abbandonavano mai; scontento della falsa scienza e della presunzione dei suoi interlocutori, non prendeva mai il tono dell'esortatore, ma condiva di attica urbanità fino il discorso che fosse diretto a smascherare l'altrui ignoranza; animato infine dal religioso sentimento di una divina vocazione, non perdette mai di vista le reali condizioni della vita esterna, e lavorò incessantemente a suscitare in quanti l'udivano il bisogno di una scrupolosa consapevolezza dei propri doveri e delle proprie capacità. In lui insomma ha ad ammirarsi uno dei più perfetti esemplari di quella plastica armonia, che costituisce l'ideale dell'arte antica; e per questo i suoi seguaci lo lodavano, come l'uomo più tranquillo e beato fra quanti mai fossero stati al mondo[50].

OSSERVAZIONE LE FONTI DELLA DOTTRINA DI SOCRATE Senofonte — Platone — Aristotele

Senza entrare in indagini speciali[51], intendiamo di esporre qui brevissimamente i criteri che abbiamo seguiti, nell'usare della testimonianza di Senofonte, Platone, ed Aristotele.

1. Non attribuiamo a Socrate nessun principio, massima, o opinione che non sia, o esplicitamente riferita, o indirettamente accennata da Senofonte.

I critici, che hanno rigettata la testimonianza di Senofonte, sono incorsi nel grave errore di non avvedersi, che, in tal guisa, non solo la interpretazione della dottrina socratica diviene impossibile, ma che, tolta di mezzo la posizione pratica del Socrate senofonteo, tutta la storia della filosofia greca non può più intendersi. Non bisogna quindi ammettere, nè che Senofonte fosse stato incapace d'intendere Socrate (Schleiermacher), nè che avesse voluto restringere nelle angustie del suo personale criterio le vedute più larghe del maestro (Brandis). Le accuse mosse contro Senofonte, per quel che concerne la lealtà del carattere, e la sincerità dello scrittore (Niebuhr, Forchhammer) sono infondate. I Memorabili sono scritti senza riserve, e senza restrizioni; e sono un documento insigne della pietà e riverenza dello scrittore verso il maestro. E in essi solamente deve cercarsi la dottrina di Socrate (Hegel, Rötscher, Hermann, Zeller, Kühner, Breitenbach, Hurndall ecc.).

2. Escludiamo la testimonianza di Platone, tutte le volte che importi negazione o alterazione dei principi e del carattere del Socrate senofonteo, o presenti un colorito, che rivela la intrusione della teoria delle idee e dello schema della psicologia platonica. Ammettiamo contro gl'ipercritici (Ast, Schaarschmidt) l'autenticità dell'Apologia platonica, e del Critone; ed in gran parte ne riconosciamo il valore storico (Zeller, Steinhart ecc.). In generale, consideriamo come equivalenti la testimonianza di Senofonte e quella di Platone, quando si tratti solo di determinare la movenza dialettica del dialogo socratico (Hermann, Strümpell), e i motivi di reazione contro le opinioni sofistiche (Strümpell); ma non ammettiamo, che il dialogo platonico rappresenti davvero l'orizzonte storico nel quale Socrate s'aggirava (Alberti), perchè questa opinione ci forzerebbe a ritenere, che Socrate fosse stato fornito di una coltura filosofica, che Senofonte non gli attribuisce.

3. Ci valghiamo della testimonianza di Aristotele solo in quanto è limitativa, ma non sappiamo ammetterla come fonte originaria (Brandis), perchè essa non è che una derivazione di Senofonte e Platone.

4. Essendo lo scopo dei Memorabili apologetico (Cobet) e non dottrinale, la testimonianza di Senofonte dev'essere rimisurata ad una stregua più larga: e questa ci vien fornita dalla storia generale della coltura greca (Strümpell, Nägelsbach, Hermann, Grote ecc.).

II. ORIZZONTE DELLA COSCIENZA SOCRATICA

La nostra indagine, intorno allo sviluppo della coscienza scientifica di Socrate, ci ha menati ad un risultato quasi affatto negativo; e noi ci siamo trovati nella impossibilità di determinare storicamente quali fossero gli elementi della coltura tradizionale, che esercitarono influenza sul suo animo, e di assegnare con precisione le diverse fasi, che egli dovette percorrere, prima di chiudersi nel fermo proposito di rinunziare ad ogni pratica ambizione, e di consacrarsi del tutto al miglioramento dei suoi concittadini. Il carattere perfetto ond'egli era dotato, e ch'era l'elemento più chiaro ed evidente della sua personalità, gli avea ben per tempo fatto sentire, quanto le reali condizioni della vita politica fossero lontane dal poter recare soddisfazione a chi, non inteso ad acquistar gloria ed onori, guardasse sovra tutto al valore intrinseco delle convinzioni, ed a mettere in pieno accordo l'attività pratica con gl'interni dettami della coscienza. Ma come questo proposito potea bene non andar congiunto a quella ricchezza di pratiche attitudini, che egli addimostrò nella sua attività pedagogica e dialettica, anzi dovea indirettamente attenuarla ed indebolirla, se altri motivi non l'avessero alimentato, non è in questa posizione negativa che si possa cercare la spiegazione dell'importanza storica del nostro filosofo. E, infatti, motivi molto svariati ed esigenze molto diverse s'erano combinate in lui, ed aveano preparato il suo animo ad essere un ricchissimo argomento d'indagini etiche, al tempo stesso che l'intrinseca evidenza delle sue convinzioni religiose avea già stabilito in lui un limite fisso, oltre il quale la ricerca logica non potea arbitrariamente vagare. Cerchiamo ora di metterci sott'occhi l'orizzonte della coscienza socratica, prima di fare il tentativo di esporre e dedurre, nella forma sistematica di una dottrina, quei pronunziati filosofici, che la tradizione ci ha trasmessi come genuini.

1. Posizione di Socrate nella storia della religione greca.

Uno dei lati meno intesi, e meno approfonditi della storia della coscienza ellenica è quello che concerne lo sviluppo del sentimento religioso, ed il processo del concetto della divinità, dalle forme più semplici del mito, fino agli ideali etici e metafisici, nei quali lo spirito, con maggiore consapevolezza, riuscì ad obbiettivare le esigenze di una spiegazione dell'universo, poichè s'era liberato dalle arbitrarie ed accidentali associazioni psichiche, che sono il primo ed unico fondamento della mitologia popolare[52]. Per intendere insomma, come, sotto l'influenza di una nuova motivazione, la coscienza di Eschilo di Pindaro di Sofocle e via dicendo, senza punto elevarsi all'orizzonte filosofico, e conservando tutto lo schema della tradizione mitica, sia divenuta produttrice d'un nuovo concetto della divinità, le indagini sono poco progredite; per non dire che, salvo rare eccezioni, la più parte dei critici, o non ha ancora avvertita la natura speciale del problema, o ha cercato trattarlo con vedute estranee ed incongruenti al soggetto. Ora noi abbiamo una storia della filosofia e della coltura greca, ed una mitologia, ma ignoriamo ancora il preciso sviluppo della religione greca; e quando riuscirà di determinarlo, molti fatti, fin ora classificati in un'altra categoria, verranno naturalmente a prendere il loro posto nella storia del sentimento religioso, ove solamente possono toccare una soddisfacente spiegazione. La storia stessa della filosofia deve slargare l'orizzonte delle sue indagini, e non partire dal presupposto assoluto, che la riflessione scientifica sia riuscita in dato momento ad isolarsi dalla religione popolare, contrapponendosele nella coscienza dei suoi motivi, perchè solo così può veramente intendere e valutare i pochi elementi scientifici della filosofia antesocratica. La religione popolare è invece da considerare in tutta la larghezza del suo sviluppo, come quella che, approfondendosi sempre di più, ed acquistando maggiore intimità e valore etico, venne a costituirsi e fermarsi in una ricca immagine del mondo morale, che sollecitò la ricerca scientifica all'indagine su la natura dell'uomo, ed a fare una metafisica che fosse spiegazione etica dell'universo[53]. Platone stesso, benchè sia innegabile che poggi con sicurezza su l'elemento logico del sapere, non è fuori di questa storia religiosa, anzi ne segna l'estremo confine: e tutto quello che in lui s'è chiamato misticismo, ed entusiasmo poetico, sebbene deva essere studiato con cautela, perchè non faccia perdere di vista il valore schiettamente filosofico della sua ricerca, non può neppure mettersi da banda, quasi fosse un fuor d'opera, o un adornamento artistico, come non raramente hanno pensato gli espositori moderni.

La più grave difficoltà di questo studio è riposta appunto in uno dei tratti più caratteristici di quel processo religioso, che è l'apparente uniformità delle sue manifestazioni; perchè le rappresentazioni comuni delle divinità popolari rimasero lungamente come vaga espressione delle nuove esigenze, senza che si avvertisse la incongruenza delle nuove idee alle antiche forme, sicchè il movimento intrinseco non dovette riflettersi in un pratico tentativo di riforma.

Socrate occupa un posto importantissimo nella storia della religione greca[54]. La immediatezza religiosa è un fatto innegabile nella sua coscienza, e costituisce il personale presupposto di tutte le sue indagini; quello mercè il quale la sua capacità e virtù ricercativa si trovò naturalmente determinata alla cognizione etica ed alla pratica pedagogica. E appunto perchè i limiti della sua ricerca sono precisati dal concetto di quello ch'egli riteneva come termine d'ogni umana conoscenza, la chiara ed evidente consapevolezza della propria destinazione, non si può ammettere, che tutti gli altri postulati e tutte le altre esigenze che troviamo espresse nelle sue affermazioni, non siano altro che un fuor d'opera rispetto all'elemento dottrinale; e fa d'uopo ridare loro l'originale significazione immediata e religiosa.

Tutto quello, che trascende in Socrate la sfera limitata del sapere etico, corrisponde al largo campo che per noi forma l'oggetto delle indagini metafisiche. Raccogliendo da Senofonte i pronunziati autentici di Socrate sul concetto della divinità, su la sua efficacia creativa, sul valore etico dell'uomo in relazione con l'ordine della natura, noi ci avvediamo che quell'immagine concreta del cosmo, per quanto possa rivelare le tracce di una intenzionale subordinazione alle esigenze logiche, non è il risultato di un cosciente lavoro di deduzione scientifica, ma l'espressione di una esigenza religiosa più profonda di quella che s'appagava della mitologia tradizionale; e che essa quindi occupa un posto intermedio fra gl'ideali etici e religiosi, che la coscienza artistica aveva già espressi nel dramma e nella lirica, e i primi tentativi di una comprensione metafisica del mondo morale.

La sfera dell'attività umana è nettamente definita dalla consapevolezza, della quale siamo forniti, per la scelta dei mezzi che ci conducono al conseguimento del benessere[55]. In questa perfetta congruenza del sapere col fine dell'attività umana, che esclude da un canto ogni intervento miracoloso e straordinario e preclude dall'altro la via ad ogni indagine su tutto quello che è fuori dei limiti della nostra pratica destinazione[56], è segnato il limite normale del valore della vita, e il termine assoluto ed impreteribile della perfezione e della felicità. Socrate, in questa guisa, mentre era inteso ad escludere come empia ed irreligiosa ogni ricerca su l'origine delle cose naturali, riusciva a fermare recisamente la natura e i limiti della vita etica, ed a determinare approssimativamente il mondo della libertà umana; perchè la chiara coscienza ch'egli s'avea della perfezionabilità dell'uomo era riposta nella certezza, che il nostro sapere è perfettamente congruente a tutti i fini, che siamo destinati ad attuare. Il termine comune di tutti questi svariati fini è l'εὐδαιμονία, al cui conseguimento ci ha disposti l'ordine intero della natura, che nella sua bellezza ed armonia ha come ultimo scopo l'umana felicità: ma questo fine non si raggiunge per caso o per fortuite circostanze, nè la sua misura sta in arbitrio dell'uomo, perchè il conseguimento n'è coordinato alla esatta cognizione della propria capacità in relazione con l'ingenito bisogno del benessere, ed il limite n'è predeterminato dalle reali condizioni della vita.

Tutte queste vedute raggiungono il loro punto culminante nel concetto della divinità, come intelligenza autrice e reggitrice del mondo, la cui presenza nell'ordine naturale è rivelata dalla perfezione con la quale tutte le cose sono disposte, in una serie di perfetta finalità. E qui di nuovo il sapere e l'attività sono congruenti; perchè la natura, che è inaccessibile alla scienza umana, è conosciuta solo da Dio, che ha potenza di produrla.

Questa nuova intuizione della divinità, che è determinata dal concetto del valore etico della sua attività nel mondo, non può intendersi come semplice prodotto di una volontaria reazione contro le tendenze speculative e affatto meccaniche dei filosofi precedenti; perchè l'elemento precisamente individuale della esigenza religiosa, che v'è così evidente, non troverebbe più alcuna spiegazione, e quei pronunziati perderebbero ogni valore storico. Socrate ebbe tanto poca consapevolezza del valore filosofico di queste sue vedute, e le tenne per così opposte ad ogni indagine su l'origine e la natura del mondo, che, mentre poneva l'intelligenza come principio dell'universo, e fissava un nuovo punto di partenza ad ogni ulteriore progresso nelle indagini speculative, rigettò come empia la filosofia naturale; e, nel modesto concetto che aveva di sè medesimo, e della natura umana in generale, fece atto di rassegnazione alle intime esigenze di un convincimento che a lui non appariva qual risultato di una pruova teoretica, ma qual termine assoluto di una religione perfetta. E di questa esigenza stessa egli non fece qualche cosa di distinto dalla religione tradizionale, anzi tutto il nuovo fu da lui appercepito nella forma antica; e di qui procede, che, mentre il concetto monoteistico, in virtù di tutto il progresso della coltura ellenica, tendeva a chiarirsi[57], ed a riassumere in sè le forme politeistiche, Socrate credette di stare pienamente d'accordo con la tradizione, e stimò non allontanarsi da nessuna delle credenze accettate. Le riserve infatti, o per dir meglio le distinzioni che egli introduceva nella pratica religiosa, se all'occhio volgare poteano sembrare lesive del valore letterale del culto e del rito, non aveano in se stesse niente che accennasse a tendenze eretiche, o ad innovazione pratica delle forme tradizionali. E quando Socrate diceva, che non bisogna vivere nell'illusione che la divinità ignori quello che teniamo celato nell'intimo dell'animo[58], e che il sagrificio non ha valore se la coscienza non è pura[59], e pronunziava altre somiglianti opinioni, che avevano l'intento di rilevare l'intrinseco valore della coscienza, egli non dicea cosa affatto nuova, e che ogni colto Ateniese non avesse, più o meno direttamente, potuto apprendere dalle sentenze di Eschilo, di Sofocle, o di qualunque altro poeta, su la cui pietà religiosa non s'era mai sollevato dubbio alcuno. La grossolana rappresentazione delle divinità, come di persone finite e limitate, potea forse trovarsi in contradizione con questa nuova veduta, e stimarla empia e profana: ma ciò non vale a persuaderci, che Socrate non sia stato davvero quale Senofonte ce lo presenta, persuaso cioè, che le sue convinzioni non fossero affatto divergenti da quello che legalmente era riconosciuto come religione dello Stato[60]. Confutare l'opinione di coloro, che in tutto questo non vogliono veder altro che lo sforzo apologetico di Senofonte, o la sua incapacità filosofica, non crediamo sia nè conveniente nè necessario[61].

Sotto questa nuova luce l'attività socratica ci apparisce più chiara, e l'efficacia pratica di che fu capace acquista una maggiore evidenza. La sua importanza nella storia generale della coltura greca è appunto riposta in questa ricchezza di motivi istintivi ed immediati, che avevano tanta relazione con tutto lo sviluppo della coltura artistica contemporanea, e riflettevano i bisogni e la sociale agitazione di quell'epoca profondamente creativa. Se noi prescindiamo, non solo da tutte le moderne investigazioni sul valore metafisico della causa, del fine ecc., ma anche dalla mediazione logica, in cui questi ed altri analoghi concetti appariscono nella filosofia greca da Platone in poi, misurando l'intuizione socratica alle condizioni della coltura dell'epoca periclea, l'indole sua affatto immediata e religiosa diviene assolutamente innegabile. Quei concetti infatti, che abbiamo di sopra accennati, non appariscono ancora come gli estremi termini d'un procedimento metafisico, e molto meno come le conclusioni induttive di un'analisi psicologica; ma sono lì tutti ad un tratto, nella loro armonia e perfetta trasparenza; e, mentre sono il risultato di un lavoro interno di purificazione dell'animo, la loro obbiettivazione è istantanea, e plastica, non discorsiva e dimostrativa. E quando le esigenze logiche del dialogo vengono a collocarli nel termine estremo di una pruova, allora si vede chiaro, quanto il nuovo motivo della dimostrazione sia inferiore all'esigenza pratica del convincimento religioso[62]. Fare di Socrate un astratto concettualista è un'opinione tanto erronea, quanto quella che lo riteneva per un moralista popolare[63]; ed una simile supposizione menerebbe di certo a trovare incongruente ed inconseguente del tutto la caratteristica di Senofonte.

Socrate avea il fermo convincimento di adempiere il dovere di una missione divina; e la finezza del suo giudizio, congiunta all'abito costante dell'osservazione morale, gli avea fatto avvertire la prossimità del divino, nella forma speciale di una personale relazione[64]. Correggere, rettificare, ed esaminare le opinioni altrui eragli imposto dalle religiose esigenze dell'animo, che non ammettevano esercitasse l'arte della parola come espressione di un dilettantismo dottrinale. Il divieto della divinità, che lo tenea lungi dalle faccende dello Stato, gl'imponea una completa rassegnazione alle inevitabili conseguenze della sua missione. Ma erano queste opinioni il risultato di una fantastica considerazione del mondo, ed assumevano esse forse il carattere di un'arbitraria pretensione di riformare ad ogni costo l'ordine stabilito della società, per modellarlo secondo i dettami di una speciale rivelazione? Nulla di tutto questo. Socrate visse sempre in pieno accordo con tutti, e non mancò mai di adempiere nè i doveri del culto, nè le pratiche della legale εὐσέβεια; le sue massime non l'indussero mai, durante la lunga vita di 70 anni, ad entrare in una guerra dichiarata con le forme tradizionali, come avevano fatto Diagora ed Anassagora, Gorgia e Protagora, suoi contemporanei. Il suo Dio era qualche cosa di affatto etico; ma già altri prima di lui, senza destare sospetti, e nella massima buona fede, avevano introdotto tacitamente nelle forme religiose mitico-tradizionali una nuova motivazione; ed Eschilo, Pindaro, Sofocle, ecc. aveano incarnato nei nomi di Zeus, Apollo, le Eumenidi ecc. un nuovo concetto del divino, della pena, dell'espiazione, della legge e della coscienza morale[65]. Socrate insomma non fece che obbiettivare, nei limiti molto oscillanti, e nelle forme riconosciute della patria religione, un processo psicologico ed etico affatto individuale; la quale libertà in tanto era possibile, perchè, mancando ai Greci un ordine speciale di uomini destinati a conservare i veri religiosi, ed essendo già la tradizione mitica passata attraverso alle molteplici alterazioni, che furono conseguenza della varietà delle stirpi e dello sviluppo della coltura, il difetto di una chiesa e di una dommatica rendea difficile il criterio dell'ortodossia e della eresia[66]. E se vuol dirsi, come altri ha fatto, che il figlio di Sofronisco fu un eretico[67], bisogna allargar tanto questo concetto, da far sparire ogni misura di religione tradizionale presso i Greci; la qual cosa quanto sia infondata può vedere ognuno, che abbia una conoscenza esatta dei loro monumenti letterari. Anzi, noi siamo tanto lungi da una simile opinione, da credere, che Socrate con le sue vedute si avvicini di molto a quella profonda reazione religiosa, che, cominciata in sul mezzo della guerra del Peloponneso, finì per guardare come pericolosa tutta la scienza che avea divagato in ricerche arbitrarie ed individuali, e che non è improbabile abbia trovata una espressione artistica nelle ultime produzioni di quell'Euripide[68], il quale già prima avea tanto lavorato ad accrescere l'influenza della irreligiosità sofistica. E che questa nostra opinione non possa essere invalidata con l'argomento dell'accusa di Meleto, può intendersi di leggieri da chiunque rammenti, di quanti equivoci dello stesso genere offra esempi la storia.

2. Elementi della coscienza di Socrate.

Cerchiamo ora di riassumere in breve i motivi ed i risultati di quel processo, che poc'anzi abbiamo indicato.

1. Socrate visse tutta la vita in un'epoca d'illuminati[69], e quando già si tentava per la prima volta di costituire delle scienze speciali, e di subordinare a delle regole costanti la pratica dalla vita e l'esercizio tecnico delle arti. Il principio del sapere, quantunque non fosse ancora espresso in una determinazione logica esplicitamente formulata, esercitava già negli animi la sua influenza, ed era una forza che spingeva lo spirito in una direzione determinata. A prescindere dalle ricerche nel campo della natura, che cominciavano ad avere la consistenza di una metodica osservazione, la lingua offriva già materia a delle indagini grammaticali, e l'oratoria assumeva la forma di un'arte costituita mediante precetti. La nuova esigenza del sapere non si era invero isolata dalla pratica della vita, ed era ancora tutt'una cosa con l'esercizio effettivo delle arti, cui si riferiva. La vita pubblica stessa risentiva gli effetti della nuova tendenza, e fino il teatro comico ne traeva argomento per mettere a raffronto, nella vivacità di un personale contrasto, i nuovi elementi di coltura, e l'antica semplicità. Socrate è uno dei rappresentanti di questo movimento; ma le speciali condizioni dell'animo suo lo tennero lungi dal fare della ricerca, nel suo puro valore teoretico, lo scopo esclusivo della vita: sicchè, mentre il sapere, la conoscenza, la consapevolezza sono elementi necessari della sua intuizione religiosa e filosofica, appariscono sempre come coordinati al fine pratico e da esso governati.

2. Le immagini della vita etica, che erano espresse nel mito e nella leggenda, e poste in una relazione tipica con certi nomi e certe tradizioni, non erano più capaci di soddisfare la coscienza, e s'era costretti ad introdurvi una nuova motivazione (per es. Euripide[70] ). Il contrasto era palese, ma non assumeva il carattere di una riforma, perchè mancava la chiesa ed il domma. A questa tendenza partecipava anche Socrate, che, secondo il costume d'allora, sotto il simbolo di una leggenda religiosa, o di un racconto poetico esponeva una sua convinzione, che esprimesse, per via di una situazione o di un paragone, un principio etico. Di qui procedeva ancora, che l'interpetrazione degli antichi poeti era fatta nell'intento di scovrirvi le nuove idee, e questa alterazione del senso preciso delle antiche opinioni avea luogo in tutta la buona fede dell'interpetre[71].

3. Nella pratica della vita le tendenze degl'individui, delle classi e dei partiti aveano preso a seguire direzioni divergenti, e di tale una intrinseca differenza ed opposizione, da presentare il triste spettacolo di una morale pubblica, che precipita pel declivio di una sicura rovina[72]. Tutto piglia una piega arbitraria, ed in una sfera più alta assume il carattere di una ricerca, che non mira ad altro che alla piena soddisfazione del criterio personale, è soggettiva, diremmo noi nel nostro linguaggio (i Sofisti)[73]. Socrate, che era pure penetrato dal bisogno di valutare alla misura della convinzione il merito od il demerito degli uomini, reagì contro le tendenze arbitrarie con la sicurezza del metodo ricercativo, e con l'aver fissata la misura costante delle azioni in una stregua più alta, e di un carattere incondizionato, quello della obbiettività della legge nell'ordine delle cose naturali, e delle relazioni sociali. Egli va d'accordo con lo spirito del tempo, e non se ne avvede; perchè la maggiore intimità delle sue convinzioni lo avea fornito dei mezzi per reagire.

4. Il sentimento religioso degl'individui, senza entrare in un contrasto vivo e dichiarato con la tradizione, perchè troppo nudrito dell'ammirazione pei poeti e per le arti, e perchè favorito dall'indeterminatezza del mito, andava assumendo un carattere più preciso d'intimità e di riflessione[74]. Un'umanità più larga si formava a lato, ed in latente opposizione con l'umanità greca; ed un orizzonte più ampio di aspirazioni e di desiderî compensava in pochi la perdita irreparabile dell'antica schiettezza. Socrate, col suo concetto della divinità come intelligente autrice del mondo, rinforzò il valore etico dell'intimità religiosa; ed insistendo continuamente sul criterio della consapevolezza, nel giudizio che deve portarsi su le azioni della vita privata e pubblica, influì ad accelerare l'esclusivismo teoretico, ed a preparare lontanamente l'indifferentismo politico, e le tendenze cosmopolitiche delle epoche posteriori[75].

L'intima compenetrazione di tutti questi svariati e molteplici motivi, nella persona di un uomo in cui la pietà, la moderazione, e la temperanza erano siffattamente immedesimate con le abitudini della vita, da sembrare tutt'insieme un'opera artistica di plastica evidenza, offriva ai contemporanei argomento alle più svariate opinioni, ed è stata in gran parte cagione dei giudizî spesso divergenti, che i critici moderni hanno pronunciato intorno a Socrate. Noi avremo a quando a quando occasione di tornare su questi elementi generali della sua coscienza, per correggere il troppo o il poco che può dirsi, o si è detto sul valore e la positiva importanza dei suoi principî scientifici; e per ora aggiungiamo una osservazione. Socrate come semplice filosofo è un parto d'immaginazione, non solo perchè in generale non s'ha ragione di prescindere dalle reali condizioni in cui una dottrina s'è svolta, quando i motivi ne siano noti e palesi, ma perchè, in questo caso speciale, la natura ed il carattere delle testimonianze autentiche non consentono, che si proceda con sicurezza all'esposizione della dottrina, come se fosse per sè stessa isolata ed evidente. La determinazione del valore filosofico di Socrate si avvicina più alla natura d'un problema, che all'analisi d'un fatto.

III. DEL VALORE FILOSOFICO DI SOCRATE

Una coscienza informata alle più intime convinzioni religiose, che riposano sul concetto dell'intelligenza come autrice e provvidente reggitrice del mondo, ed animata dal vivo bisogno di correggere e migliorare le opinioni altrui, non è ancora precisamente quello, che noi siamo usi di chiamare coscienza filosofica. La energia personale del carattere, congiunta alla rettitudine del giudizio morale, e ravvivata da una incessante lotta con tutti gli elementi più pronunziati della vita sociale ed artistica dei contemporanei, sarebbe bastata per fare di Socrate quello che ci è apparso finora; e per improntare nella sua persona quel carattere di dignità e di costante abnegazione, che la sua vita e la sua morte rivelano egualmente. Egli potea bene divenire un moralista popolare, un riformatore dello Stato, o qualcosa di simile, e pure non rivelare nelle sue convinzioni quel lavoro di esame e di ricerca, che costituisce la natura della scienza: egli potea, insomma, rimanere un eroe di moderazione e di costanza, senza essere un filosofo.

Ma la concorde testimonianza dell'antichità fa di lui l'autore di un nuovo indirizzo nelle ricerche filosofiche; e per quanto la divergenza dei ragguagli possa far nascere dei dubbi sul carattere preciso delle sue opinioni, egli è innegabile, che tolto di mezzo Socrate dalla tradizione filosofica dei Greci, non solo tutto lo svolgimento della filosofia da Platone in poi, ma lo stesso dialogo platonico come monumento letterario diviene inesplicabile.

Fare del valore filosofico di Socrate una quistione può invero sembrare ozioso ed inopportuno; e basta forse guardare un poco le storie della filosofia, e le molte monografie concernenti questo soggetto, per persuadersi, che nessuno più mette in dubbio il valore scientifico e l'importanza filosofica di lui. Tuttavia, se si pon mente alla circostanza non punto lieve, che appena in sul cominciamento di questo secolo si è detto sul conto di Socrate qualcosa che mostri, come la ricca immagine storica e leggendaria della sua persona si presti ancora a venir ristretta negli angusti limiti di una valutazione meramente scientifica[76], e che nulladimeno gli errori ed i malintesi continuano ancora, la nostra questione non parrà nè affatto superflua, nè del tutto tardiva. Molti parlano infatti della filosofia di Socrate come d'un insieme di verità belle ed assodate[77], e poi disposte nell'ordine metodico di un sistema; e sconoscono in tal guisa la originalità della sua coscienza, e come in lui l'attività scientifica, essendo più un risultato che un proposito, rimanesse sempre nei limiti di un impulso personale. Da un'altra parte, s'è voluto procedere in questa indagine dalla supposizione, che tutte le inconseguenze dovessero rimuoversi, e che certi concetti appena appena accennati dovessero completarsi mediante la congettura; sicchè, misurando il valore di questo o quel pronunziato alla stregua speculativa della filosofia moderna, si è giunti a formare un Socrate immaginario, il quale corrisponde, o molto poco, o affatto nulla a quello della storia. E, in ultimo, come l'ammirazione che s'ha per Socrate si riferisce in gran parte alla morale perfezione del suo carattere, molti hanno stimato cosa naturale, rigettare come apocrifi quei pronunziati che sono inconciliabili con le nostre convinzioni morali; e, confondendo due criteri disparatissimi, son riusciti a falsare la storia per adattarla alle proprie vedute. Sovra tutte l'opinione, che il bene e l'utile siano identici, ha talmente imbarazzato alcuni critici, che, per paura di non degradare Socrate, hanno finito per rigettare la testimonianza di Senofonte[78].

Noi ci siamo facilitata la soluzione del problema, col modo come abbiamo tratteggiata la coscienza di Socrate, ed esposti i vari motivi che lo determinavano alla sua attività correttiva e pedagogica; ed abbiamo così evitato l'inconveniente di prender le mosse dalle qualità formali o speculative del suo ingegno, per dedurne poi tutte le conseguenze dottrinali che i testimoni autentici ci hanno trasmesso[79]; perchè qui non si tratta di un lavoro coscientemente compiuto, per raggiungere la certezza teoretica mediante l'analisi e la critica delle altrui opinioni. Il motivo unico ed intrinseco di quella attività era il bisogno etico della certezza, e la convinzione, che questa non si acquisti se non mediante la conoscenza chiara ed evidente. Cerchiamo ora di caratterizzare sotto questo aspetto il valore filosofico di Socrate.

1. Formalismo logico.

Senofonte e Platone[80] mettono in bocca agl'interlocutori di Socrate questa notevole accusa, ch'egli solesse ripeter sempre le medesime cose, e sempre nel medesimo modo, interrompendo il libero corso all'esposizione dell'avversario, Socrate in fatti non sapea esprimere il suo pensiero in un discorso concepito in forma oratoria, alla maniera di Gorgia e di Protagora suoi interlocutori, nè potea vagare in tutto il campo dello scibile come Ippia il polistore, o adattarsi alla maniera sdegnosa e virulenta di Callide e Trasimaco: una certa innata sobrietà di spirito, ed una moderazione a tutta pruova, che era divenuta natura, lo conteneano in certi limiti costanti, ai quali egli cercava ridurre i suoi uditori[81]. Questo fare era monotono, ed avea l'aria di pedanteria: tanto più, perchè rinunziare al mezzo tanto potente della persuasione oratoria non potea non sembrar cosa strana in una democrazia, dove tutte le pubbliche faccende dipendeano dall'arte della parola. Ma tornava forse Socrate di continuo all'affermazione di questa o quella massima morale, per ripeterla ogni istante, ed improntarla nell'animo degli uditori?[82] Era egli forse un moralista bello e compiuto, che catechizza e predica; o tenea forse in serbo uno schema logico, che andava applicando ad ogni sorta di quistioni? Nulla di tutto ciò. Il suo discorso cadea sopra oggetti disparatissimi, e quali l'occasione prossima li venisse offrendo: nessuno studio nella scelta degli argomenti potea disporre il suo animo alla ripetizione monotona delle medesime cose, nè dalla sua occupazione dialogica risultò mai un complesso di pronunziati, che prendessero forma di massime e di precetti. Le condizioni stesse della coltura etica ed artistica non consentiano, che a quel tempo si potesse apprendere, come avvenne più tardi, le relazioni morali nell'astratta universalità della massima, o formulare nettamente una esigenza logica; tanto è vero, che i discepoli o seguaci che voglia dirsi di Socrate ebbero più a sviluppare, ciascuno per proprio conto, i germi che avean raccolto dalle accidentali conversazioni del maestro, che a discutere sul valore positivo di questo o quel principio[83].

Quella monotonia notata dagli avversari non concerneva che l'esigenza della formale evidenza e certezza del discorso; ed era quindi l'intenzionale ritorno ai medesimi presupposti, nel lato formale d'ogni quistione. Ma questo formalismo non apparisce ancora in Socrate come già isolato, e distinto dall'oggetto della ricerca, e come presente alla coscienza del filosofo per sè ed obbiettivamente; perchè agisce solo come reale esigenza di colui, che ragionando avverte per la prima volta, che il ragionamento dev'essere conseguente, fondato ed evidente.

La maniera corretta e cosciente del ragionare è nella nostra coltura filosofica cosa troppo ovvia, e la nostra educazione ci fornisce ben presto dello schema logico della definizione, della pruova ecc., in guisa, che possiamo al tempo stesso indurre, dedurre, ed argomentare perfettamente, ed aver coscienza della forma logica per sè stessa, e studiarla nei suoi caratteri e nel suo valore: ma tutto ciò era allora impossibile. In Socrate l'esigenza del sapere esatto e formalmente corretto è ancora un semplice atto di personale energia, un bisogno intrinseco di certezza e di acquiescenza alla normalità di una opinione chiaramente concepita, un lavoro che si compie per la necessaria coefficienza dei vari elementi etici della coltura e della tradizione, e non può ancora presentarsi allo spirito come un dato di estrinseca evidenza.

Se noi ci sforziamo per poco di rappresentarci il mondo, secondo l'immagine, che la coscienza anche più colta dei contemporanei di Socrate ne avea espressa nella storia, nella poesia, nelle leggende, nelle massime e nei detti dei sapienti; e se guardiamo poi quanta differenza corra da quella pienezza ed inconsapevolezza d'intuizione, alle aporie della ricerca, solo allora intendiamo quanta profondità filosofica fosse nelle ricerche di Socrate, e la parsimonia stessa dei mezzi da lui adoperati diverrà più degna di ammirazione, perchè è pruova evidente della energia, con la quale egli seppe avvertire la necessità di correggere ad una stregua costante tutte le incertezze della conoscenza ordinaria, e fermarsi poi ed insistere tutta la vita nel criterio acquistato.

I presupposti logici, ai quali tutte le quistioni del dialogo socratico sono riducibili, consistono nella epagoge e nella definizione; e noi cercheremo in séguito di esporre il modo, come queste due funzioni si sono spiegate in quell'orizzonte scientifico che Socrate s'era tracciato. Per ora basterà aver notato, come questa è la prima volta che nello spirito umano si sia fatto palese il bisogno, che prima di determinare la natura, il fine, ed il valore degli oggetti, bisogna acquistare una coscienza precisa ed inalterabile delle condizioni in cui deve trovarsi la conoscenza, perchè possa dirsi certa ed evidente. Tutto quello che la speculazione posteriore ha strettamente designato come elemento logico del sapere, e che ha cercato successivamente di sceverare dalla natura immediata e dalle condizioni incerte e fluttuanti del soggetto pensante, apparisce nella sfera della ricerca socratica come qualcosa di affatto connaturato con le esigenze pratiche di colui che ricercava; e senza isolarsi dai motivi che l'aveano praticamente prodotto, acquistò un grado di sufficiente evidenza nella coscienza, tanto da rimanere, non solo principio efficace in Socrate, ma costante centro ed impulso di ogni posteriore attività scientifica[84].

2. Determinazione del valore del formalismo logico

La caratteristica, che noi abbiamo data dell'attività filosofica di Socrate in generale, pare risponda a quello che già s'è detto da altri; e che non serva se non a rifermare un'opinione corrente, secondo la quale Socrate sarebbe stato il primo che avesse avuta una chiara coscienza del valore del sapere[85]. Si è, infatti, detto più volte, che l'idea del sapere sia la scoverta di Socrate, e che cessando per opera sua la esclusiva ricerca del mondo naturale, la filosofia fosse divenuta la scienza dell'idea, del soggetto, dello spirito e così via[86]. Senza la pretensione della novità, noi riteniamo per erronee una gran parte di quelle caratteristiche; e perchè attribuiscono a Socrate una consapevolezza maggiore di quella ch'egli s'avesse, e perchè devono poi fare molte congetture per spiegare ed intendere la natura dell'etica socratica. Basterà notare solo questo, che partendosi dalla supposizione, che Socrate avesse avuto coscienza del sapere preso per sè stesso, come forma o attività in generale, non solo si cade nell'inconveniente di non poter trovare un solo luogo di Senofonte che confermi questa opinione, ma si è poi obbligati a fare una quistione oziosa su la natura empirica o a priori del sapere socratico, che non c'è motivo al mondo per proporsela; e, in ultimo, si è poi costretti a ritenere, che Socrate abbia in virtù di una scelta, e per certe ragioni teoretiche, limitato le sue ricerche all'etica[87]; mentre la repugnanza contro le indagini naturali deve in lui ammettersi, non come un risultato dei criteri logici che applicava, ma invece come una prima e semplice esigenza delle sue convinzioni religiose.

Abbiamo invero detto, che il valore filosofico di Socrate consiste nella esigenza di un sapere normale e certo; ma la forma limitativa, con la quale abbiamo espressa questa opinione, esclude di fatto tutte le caratteristiche alle quali può in apparenza sembrare che ci avviciniamo. Che il sapere figuri allora per la prima volta come una potenza determinata, e serva a correggere l'opinione e la tradizione, ed a condurre come norma sicura la ricerca del filosofo in tutte le complicazioni e le incertezze del dialogo, ciò non vuol dire, che il concetto del sapere abbia raggiunta una tale importanza ed obbiettività, da segnare esso stesso il termine e lo scopo della ricerca. E quando in fine, dal confronto di Socrate coi precedenti tentativi filosofici si vuole arguire la consapevolezza che egli ha potuto raggiungere della sua posizione storica[88], si viene a confondere due ordini di criteri del tutto diversi; perchè dal giudizio che noi riportiamo su la importanza di una personalità storica, non può indursi qual grado di consapevolezza quella persona stessa abbia raggiunto.

Il valore filosofico di Socrate sta in relazione diretta con l'orizzonte della sua coscienza; nel quale noi abbiamo rinvenuti motivi di natura più immediata, più complessa, e più personale di quelli che conducono esclusivamente alla conoscenza speculativa. Questa determinazione intrinseca della sua attività ci fornisce ora di mezzi sufficienti, per rifare indirettamente, e mediante la congettura, il processo genetico della sua coscienza filosofica, che è stato impossibile d'intendere su la semplice testimonianza delle fonti storiche.

Socrate non occupa immediatamente un posto nella storia della filosofia, mercè l'accettazione o la critica di una tradizione teoretica; e per questa ragione stessa non arrivò all'affermazione astratta del principio logico della certezza, come regolativo della ricerca e correttivo del conoscere comune ed inconsapevole. Le condizioni speciali del suo carattere lo aveano predisposto a sentire profondamente il bisogno di una religione intima e depurata dalle esteriorità della tradizione; e di una certezza etica che lo tenesse libero dalle fluttuazioni dei momentanei interessi e delle opinioni correnti: e quella naturale predisposizione toccò il suo soddisfacimento in un concetto della divinità, che riconosceva insiememente la bellezza ed armonia del mondo, e la libertà umana come predeterminata al bene. La costanza, la fermezza d'animo, il naturale sentimento del giusto, la morale certezza della inalterabilità della legge, la perpetua acquiescenza al corso delle cose perchè riconosciuto provvidenziale, — tutte queste tendenze sollecitarono la sua intelligenza, predisposta alla riflessione, a cercare una norma costante dei giudizi, e trovatala egli persistette ad applicarla come stregua alla condotta morale sua propria, e dei suoi concittadini. E scorgendo egli, che il materiale delle opinioni e dei giudizi etici, qual era raccolto nella lingua e nella tradizione ed espresso nella coscienza politica dei contemporanei, se a prima vista potea avere il suo fondamento nelle costanti condizioni della natura umana, non corrispondeva sempre a quel grado di consapevolezza, che le sue abitudini riflessive gli aveano reso connaturale, il bisogno di fare entrare nell'animo altrui l'intimità e lo spirito di conseguenza lo fece divenire maestro di morale, ed educatore della gioventù.

In questa nostra maniera d'intendere l'attività filosofica di Socrate trovano un posto naturale alcune opinioni, che incontestabilmente gli appartengono, e che altrimenti non sarebbero spiegabili; ed, oltre a ciò, molte questioni, che si non sollevate su la dottrina socratica, rimangono escluse di fatto. Toccheremo alcuni di questi punti.

OSSERVAZIONI

1) Limitazione del sapere umano

Molti espositori della dottrina di Socrate non hanno sufficientemente intesa l'importanza di quella opinione riferita da Platone, e indirettamente confermata da Senofonte[89], la quale concerne la limitazione del sapere umano, e la sua assoluta inferiorità al sapere divino. Anzi, si è giunti fino a negare, che questo principio sia stato pronunziato con seria convinzione; ed alcuni hanno voluto spiegarlo con certe ragioni di convenienza, le quali, se pure riuscissero a chiarire qualche cosa, non si sa quanto lascerebbero di genuino nella dottrina socratica.

Quel principio invece, non solo è schiettamente pensato, ma sta tanto in cima di tutta la filosofia socratica, che per sè solo basta a caratterizzarla. Il sapere socratico è essenzialmente identico al fare; e questo convincimento non è il risultato di una equazione, stabilita per via di una serie di deduzioni più o meno fondate sopra un'anticipata conoscenza logica e psicologica, ma è qualcosa d'immediato nella coscienza di Socrate, il quale era arrivato all'esigenza del sapere, spinto appunto dal bisogno di rendersi evidente e certo il giudizio morale. L'esigenza etica ed il bisogno religioso, combinandosi insieme e coadiuvandosi vicendevolmente, lo menarono a riconoscere la limitazione del sapere umano, perchè il sapere del quale egli avea notizia era quello appunto che determina a fare; e, nello stesso tempo, gli fecero ammettere la superiorità del sapere divino, come quello che era impulso ad una più larga sfera di azioni, e ad una produzione più ampia e più perfetta. Non può negarsi, che tutti questi concetti sono espressi da Senofonte con tale una semplicità, e diremmo quasi infantile ingenuità, da non potere per sè soli formare una teologia razionale, sicchè rimangono inferiori di gran lunga, non solo alla teologia cristiana, ma benanche a quella di Platone e degli Stoici; ma questa stessa forma immediata e semplice e una pruova ancora più convincente della loro autenticità. E, misurando alla stregua della coltura greca d'allora il principio socratico della superiorità dell'intelligenza divina su l'umana, si scorge bene, che esso segna un gran progresso nella storia della religione e della filosofia; ed a persuadersene basterà confrontarlo col concetto affatto meccanico dell'intelligenza presso Anassagora[90].

2) Socrate e i Sofisti

Abbiamo già visto, che ammettendo in Socrate il principio del sapere, come concepito in abstracto e nella sua generalità, non potrebbe più spiegarsi perchè mai avess'egli dovuto limitarsi all'etica, e rigettare come empia ed infruttuosa la ricerca naturale. Ma il concetto, che s'era formato della limitazione del sapere umano, vale anche ad intendere, sotto che riguardo egli differisse dai Sofisti essenzialmente, e pei motivi e pel fine della sua attività scientifica; per tacere ora di altri punti più determinati, che toccheremo in séguito.

La coscienza sofistica esprimeva l'incontro di due tendenze, che aveano seguito lungamente il proprio cammino, ciascuna per sè stessa, senza incontrarsi e combinarsi nei medesimi individui. Le ricerche su la natura e l'origine del mondo naturale aveano condotto ad una serie d'ipotesi, e queste a porre certi principî, come fondamento e spiegazione del cosmo: e la successione non interrotta dei tentativi avea quasi esaurita ogni possibilità di nuovi principî. Tutta quella tradizione era al tempo di Pericle, e poco appresso, rappresentata da vari seguaci delle diverse scuole, che tentavano di trovare un'ultima soluzione nella conciliazione di vari principî fin allora tenuti per repugnanti tra loro. Sotto questo riguardo i Sofisti, sebbene nessuno di essi fosse stato capace di elevarsi ad una concezione organica dell'universo, rappresentavano ancora la filosofia naturale, perchè giovandosi tutti di questa o quella supposizione filosofica, la metteano a profitto come generale elemento di coltura. L'altra tendenza poi, che era in essi pia efficace, era quella che risultava dalla dissoluzione dell'antica morale tradizionale, e che cercava una espressione adequata dei nuovi bisogni nella ricerca individuale, poggiata sul criterio della convinzione personale. L'incontro di queste due tendenze non è stato qualcosa di arbitrario e di elettivo nella posizione dei Sofisti; e su ciascuno di essi un motivo diverso ha potuto esercitare maggiormente la sua influenza, mentre gli effetti che produssero furono quasi identici. E questa sola circostanza può spiegare, come quegli uomini di tempra affatto diversa, di tendenze divergenti e qualche volta opposte, essendo nati nei punti più diversi nel mondo greco, e trovandosi solo accidentalmente qualche volta insieme, sapessero esercitare una svariata e grande influenza come esortatori dei principi e consiglieri delle radunanze popolari; e, senza un proposito prestabilito e senza unità di dottrina, potessero concorrere tutti a produrre le medesime conseguenze; ed in nome d'un sapere universale e con certe massime riformatrici fossero stati capaci di gettare sfiducia ed irrequietezza negli animi, e di eccitare il gusto per tante svariate discipline. Il nome comune di Sofisti che fu loro dato, e che dapprima non importava una nota di riprovazione, è un indizio sicuro dell'effetto che erano in grado di produrre. Il loro significato nella storia generale della coltura greca è di gran lunga superiore al loro valore filosofico; e appunto perchè non furono dei filosofi, nello stretto senso della parola, divennero istrumenti di propaganda scientifica e creatori di molte discipline positive. Le ricerche grammaticali e retoriche furono da essi intraprese nel fine pratico del corretto parlare e della persuasione oratoria; e le loro indagini influirono in gran parte a fare avvertire le condizioni formali del ragionamento e favorirono la formazione della logica. La loro attività pratica, e gl'interessi politici che ne regolavano la condotta, li determinarono a ricercare la natura delle relazioni etiche ed il valore delle virtù nella famiglia e nello stato.

L'esame delle dottrine sofistiche non ha che fare col nostro argomento; tanto più, che, se volessimo toccarlo solo di passaggio, tutto l'andamento del nostro lavoro dovrebb'essere cangiato. Qui vogliamo solo notare, che Socrate per molti riguardi può dirsi si aggirasse nel medesimo orizzonte dei Sofisti; tanto che all'occhio volgare egli apparve tutt'uno con quelli. Questa identità consiste principalmente nell'interesse pratico, che era impulso alle indagini scientifiche dell'uno e degli altri, e che aveali egualmente condotti alla ricerca ed alla determinazione dei concetti etici. Sotto un risguardo più generale, Socrate ed i Sofisti coincidevano nell'interesse comune di una consapevole maniera di ragionare. Ma tutta questa apparente identità sparisce, quando si prendono ad esaminare i motivi della ricerca socratica, che risultavano appunto da un bisogno affatto etico e religioso; e poi si confrontano con la posizione del tutto arbitraria dei Sofisti, che, usando l'arte della parola come mezzo estrinseco di persuasione ed accettando in gran parte come legittima la morale ordinaria del popolo, non si elevarono mai ad una perfetta e schietta intelligenza della natura umana. Ma la differenza e la opposizione apparisce maggiormente in quel principio di Socrate, che poc'anzi abbiamo esaminato. Socrate, con l'ammettere la limitazione del sapere umano, non pronunziava solo una massima di morale rassegnazione, o di religiosa riverenza verso la divinità, ma esprimeva eziandio con maggiore evidenza il bisogno di un criterio di assoluta certezza. Il sapere diveniva così non solo formalmente certo, ma intrinsecamente predeterminato ad uno scopo, nel quale dovea attuare, e necessariamente esaurire, la propria attività e potenza. E sebbene sembri, che la relazione, che Socrate stabiliva fra il sapere umano ed il sapere divino, importi una degradazione del primo, e che da essa possa desumersi la relatività e la contingenza della scienza umana; pure, se si guarda più addentro, si vede, che la superiorità di Socrate su i Sofisti consiste appunto nella chiara coscienza che egli s'ebbe della intrinseca misura del sapere, e del modo come essa era predeterminata da tutto l'ordine della natura. Il sapere umano da un canto, ed il divino dall'altro, appariscono come due sfere affatto diverse; ma, in fondo, come la loro differenza non consiste nella diversa natura dei soggetti intelligenti, ma sì bene nel grado di attività e nella diversa sfera d'azione, così s'intende perchè Socrate sia stato non solo capace di dare un largo impulso alle ricerche logiche ed etiche, ma eziandio alla metafisica.

Tutti ora ammettono la differenza fra Socrate e i Sofisti; ma la più parte dei critici nell'assegnarla s'è principalmente fermata alla differenza dei risultati dottrinali, guardandola sotto l'aspetto della certezza logica. Noi veramente non sappiamo intendere, come Socrate avrebbe potuto sfuggire l'eristica e l'antilogistica dei Sofisti, e sentire vivamente il bisogno di un sapere normale ed obbiettivo, se prima le esigenze religiose della sua coscienza non lo avessero disposto ad ammettere nell'intelligenza, come principio dell'universo, una misura assoluta ed intrinseca della intelligenza umana, come relativa e predeterminata all'attuazione del fine individuale e sociale del benessere. E, come non può ritenersi, che Socrate adoperasse nella critica dei Sofisti un istrumento di cui non avea notizia, intendiamo dire la logica come scienza formalmente costituita; ed essendo del rimanente innegabile, che dall'attività filosofica di Socrate procedette la critica della Sofistica, che occupa tanta parte del dialogo platonico; per non cadere nell'inconveniente, o d'identificare Socrate con Platone, o di riavvicinare talmente Socrate ai Sofisti, da farli coincidere assolutamente nell'esigenza affatto formale della ricerca senza termine obbiettivo, bisogna ammettere che Socrate fosse premunito contro le divagazioni di una ricerca arbitraria, mercè una chiara ed evidente convinzione intorno al valore etico dell'uomo e della divinità. E questa posizione è quella appunto che apparisce chiara in Senofonte; sebbene i Memorabili, per la loro natura affatto apologetica, e per la poca intenzione filosofica dell'autore, non facciano sempre rilevare l'antitesi tra il principio socratico e la coscienza sofistica.

E qui cade in acconcio di osservare, che il concetto, che noi ci siamo formati del valore filosofico di Socrate è indirettamente confermato dalla grande varietà dei risultati scientifici delle varie scuole, fondate dai suoi seguaci; perchè, sebbene un insegnamento affatto orale, e quasi occasionale, qual era quello di Socrate, dovesse di necessità lasciare un largo campo all'influenza della persona, e limitare quella precisa ed esatta trasmissione della dottrina, che può emergere solo dalla comunicazione scritta, pure la natura stessa delle convinzioni del maestro avea dovuto lasciare nell'animo degli ammiratori e seguaci tracce tanto diverse, per quanto era varia in essi la capacità, o di fermarsi alla riverenza per la persona, o di valutare la importanza delle convinzioni etiche, o di sapersi avvantaggiare della tendenza logica per costituire la scienza.

3) Pretesa soggettività del principio socratico

Alcuni hanno considerato Socrate come quello che per la prima volta ha determinato il principio della soggettività; perchè egli, si dice, riducendo tutto il sapere al valore logico della definizione, e valendosi per determinar questa dell'esperienza interna del soggetto, ossia dell'induzione, ha riconosciuto nell'esame della conoscenza il principio d'ogni sapere concreto, ed affermato, che il pensiero umano nelle sue normali condizioni è la misura di tutte le cose[91]. Questa soggettività socratica è stata celebrata con una certa pompa di espressioni, che aggiunge niente, se non toglie molto, alla semplicità e spontaneità del filosofo ateniese[92].

Altri poi, insistendo sul termine reale della ricerca socratica, e partendo dalla supposizione, che la costanza, con la quale Socrate prese a determinare i criterî della certezza, non potea essere scompagnata dalla convinzione, che quella fosse la via per intendere e comprendere la realtà delle cose, hanno affermato che la sua filosofia fosse affatto oggettiva[93].

Questo contrasto di opinioni ha ora perduto ogni importanza, e nessuna crederà più, che con termini d'un valore tanto generico, e di un significato, che varia troppo spesso secondo le opinioni di coloro che li adoperano, possa esprimersi completamente una caratteristica storica[94]. Quello che importa è di sapere, fino a che punto Socrate abbia avuto coscienza del suo principio ricercativo, e in che rapporto stesse questa sua consapevolezza con la natura dei problemi ch'egli s'era proposti; e noi abbiamo su questo argomento già discorso a lungo, e tanto da escludere indirettamente l'opinione di coloro, che fanno di Socrate il creatore del principio della soggettività. Aggiungiamo ora alcune osservazioni.

Socrate non differisce dagli altri filosofi che lo precedettero solamente per l'oggetto della ricerca, ma eziandio e principalmente per la maniera seguita nel ricercare, e per lo scopo della ricerca. I motivi individuali prevalsero in lui siffattamente, o la tendenza arbitraria ch'era invalsa in quell'epoca, di subordinare tutto al, criterio personale, lo preoccupò tanto, ch'egli fu al tempo stesso rappresentante di un nuovo principio, ed iniziatore di una reazione assoluta contro le opinioni relative e soggettive dei Sofisti. Ma il principio del sapere non può dirsi gli fosse presente alla coscienza, in un valore incondizionato, e nella sua assoluta indifferenza rispetto al contenuto ed al fine dell'attività umana. In conseguenza può dirsi, che Socrate abbia influito ad approfondire la natura del soggetto[95], ed a preparare tutta la filosofia idealistica che venne dappoi; ma questo non importa che il suo principio fosse quello della soggettività. Anzi, non è inopportuno ricordare, che in tutta la filosofia antica il progresso che ci è, dalle rudimentali spiegazioni del mondo fisico fino all'idea platonica ed all'entelechia aristotelica, concerne sempre lo studio, l'analisi, e la deduzione della realtà, qual'essa è stata percepita ed appresa dal soggetto, senza che il filosofo si elevi a contrapporre il soggetto preso per sè stesso all'oggetto in quanto estrinseco; perchè la stessa scepsi filosofica intende la contradizione solo come uno stato erroneo della rappresentazione, non mai come fondata in una reale ed essenziale opposizione di soggetto ed oggetto. La scepsi socratica, che in séguito esporremo, non ha niente a fare con la generale quistione su la conoscibilità delle cose; e rimane sempre predeterminata dal fine pratico, che ha il suo fondamento nella relazione dell'uomo con la divinità.

Che se per questa ragione vuol dirsi che la filosofia di Socrate è oggettiva, una simile opinione ci par giusta solo fino al punto, che non si attribuisca a lui più consapevolezza di quella che s'avea; ed a condizione si ammetta, che tutta la filosofia greca è oggettiva: perchè non è che una successiva e lenta esplicazione della ricerca, sul dato della tradizione e su l'immagine concreta del mondo, che non supponeva un ideale metafisico-religioso, come quello che il cristianesimo ha lasciato in eredità alla filosofia moderna, con tutta la evidenza di una profonda opposizione fra Dio e mondo, spirito e natura.

4) Preteso misticismo di Socrate

La fisonomia della ricerca socratica è tanto originale, ed esprime così al vivo la spontaneità e le personali esigenze di colui che ricercava, che a molti è sembrato naturale di scorgere in Socrate una certa natura di spirito mistico e profetico, che non consente venga egli considerato come uomo d'ingegno e di tendenze speculative. L'immediatezza mistica e religiosa, che non va ristretta nei limiti della schietta filosofia, si sarebbe appalesata in lui come in un apostolo ed in un profeta; sicchè molte delle sue massime, più che il risultato di un'attività scientifica, sarebbero l'espressione di uno spirito affatto religioso, e dotato del misterioso dono dell'ispirazione. Questa opinione[96], che non ha certo la sua conferma nelle testimonianze autentiche, per quanto possa apparire, e sia invero, strana e paradossale, ha un certo fondamento nella difficoltà che si prova a concepire ed intendere tutto quello che c'è di nuovo nella coscienza filosofica di Socrate, se si prende solo a considerare la semplice tradizione teoretica, e si prescinde dalle speciali condizioni della sua persona e della sua coscienza religiosa. E, da un'altra parte, la poca o niuna conoscenza dello sviluppo della coscienza religiosa dei Greci può indurre in molti la falsa opinione, che tutto quello che contradice al grossolano concetto della mitologia sia qualcosa di straordinario, mentre invece non è che una delle fasi del normale sviluppo della coscienza ellenica.

I tratti storici, che possono desumersi da Senofonte e Platone, valgono tanto ad intendere il sano sentimento religioso di Socrate, il quale non ha niente di non ellenico, che non c'è punto bisogno di supplire con avventate congetture un elemento, del quale la storia ci fornisce con tanta evidenza, e di svisare Socrate, ch'era Greco anzi Ateniese, per farne qualcosa di simile ai profeti dell'Antico Testamento, o ai mistici cristiani.

IV. DEL METODO DI SOCRATE

La esplicita testimonianza di Aristotele[97], che Socrate fosse stato il primo ad introdurre l'induzione e la definizione, è di un valore storico incontrastabile; e nel suo carattere limitativo esprime nettamente la posizione, e l'importanza di Socrate nello sviluppo delle ricerche logiche. Ma bisogna pure osservare, che per Aristotele il concetto della logica è di una natura affatto determinata; sì perchè egli ha escogitato ed esposto un complesso di forme e di principi così ricco ed esteso, da esaurire quasi del tutto l'argomento; come perchè ha avuto una coscienza netta della funzione logica in tutte le branche del sapere concreto: in conseguenza di che la sua testimonianza, assottigliando troppo in una forma schematica ed astratta il risultato dell'attività scientifica di Socrate, non vale a riprodurne i motivi, la genesi e lo sviluppo. Se il dialogo senofonteo e platonico non fossero lì sotto i nostri occhi, per attestare l'impressione genuina che la conversazione socratica lasciava nell'animo degl'interlocutori, e per rappresentare al vivo, e con drammatica evidenza i contrasti ed i pratici motivi, che determinavano Socrate a ricercare la definizione mediante il discorso, l'affermazione di Aristotele non sarebbe valsa ad altro, che a tenerci, in generale, informati della norma, che quello avea seguita nelle sue indagini. Oltre di che, era Aristotele tanto inteso a mettere le ricerche logiche in armonia coi suoi postulati sistematici, e con le formali esigenze della sua metafisica, ed avea raggiunta una così piena e perfetta notizia della funzione dimostrativa, che non potea farsi più un concetto delle esigenze psicologiche ed etiche, che aveano preparata e determinata la definizione socratica.

A molti degli espositori moderni è sembrato cosa naturale di asserire in genere, che Socrate sia stato il primo fra i filosofi, che abbiano avuta una coscienza netta del valore del metodo, senza che si dessero alcuna briga di esporre, nella sua forma originale ed autentica, il carattere genuino del metodo socratico[98]. Il concetto ovvio della induzione, come di quel procedimento logico secondo il quale si risale dal particolare all'universale, dal noto all'ignoto e così via, è stato spesse volte applicato al metodo socratico, con tanto poco gusto e poco lodevole facilità, che ci è parso davvero strano come non si sia generalmente notato quanto fosse inverosimile che Socrate avesse acquistata una coscienza netta e chiara di un procedimento, che tuttora non è dei meglio determinati[99]. E, inoltre, questo procedere dal particolare all'universale, che è facile ed ovvio nella nostra coltura scientifica, perchè ben per tempo siamo assuefatti a pensare i concetti nelle loro generali determinazioni, non si può capire come potesse immediatamente acquistare nella coscienza di un uomo il valore di una regola costante, ed appresa in astratto, mentre le condizioni reali in cui si è svolto non erano punto favorevoli alla generalizzazione logica. E se noi ci limitassimo a pronunziare un giudizio sul metodo di Socrate, che fosse espresso nella breve e succinta affermazione, che egli si sforzava di determinare analiticamente il valore di un concetto, per fermarne inalterabilmente la natura mediante la definizione[100], dovremmo ben presto avvederci, che questa determinazione dice molto poco, ed è al tempo stesso difettosa, perchè assume come mezzo di spiegazione quello che dee appunto cercarsi di spiegare.

Prescindere da ogni anticipata teoria psicologica e metafisica, e seguire attentamente la genesi del dialogo, questa è la sola via che possa tenersi, con la speranza di riprodurre fedelmente le condizioni reali nelle quali si produsse la definizione socratica.

1. Presupposti storici e psicologici

L'immagine della vita, che mercè la percezione e la incosciente riflessione si forma e sviluppa nella coscienza comune ed incolta, consiste in una mutabile e perpetua vicenda di rappresentazioni e sentimenti, su la quale le leggi del meccanismo psichico esercitano il loro assoluto ed esclusivo dominio. Solo l'interesse individuale della propria conservazione e la ripetizione di certi atti abituali possono imprimere nell'insieme delle rappresentazioni, che sono successivamente presenti alla coscienza, degli impulsi per certe direzioni costanti; mercè i quali si stabilisce il predominio di alcuni elementi della vita psichica su tutti gli altri, ed in conseguenza di questo predominio, essa si costituisce in tutte le sue specificazioni, come carattere, costume ed abito. Nella sfera della valutazione, questa costanza assume la forma di opinione, e viene espressa come giudizio tradizionale di una classe, di una casta o di un popolo. Questa opinione tanto più è parziale, ostinata ed esclusiva, in quanto che, poggiandosi sul meccanismo naturale della vita psichica, non ammette la libera scelta dell'individuo, e non lascia a tutti gli elementi dell'anima il campo libero per coadiuvarsi e fortificarsi. La coscienza dell'individuo, in questo primo e più semplice stato della vita psichica, obbiettivando imperfettamente, riesce a considerare come qualcosa di esterno e di assolutamente immodificabile il limite intrinseco della propria attività, e confondendo le proprie condizioni con quelle della natura, naturalizza sè stessa nel mito, nella parola tradizionale e nel costume.

Questo stato primitivo della coscienza umana, sebbene corrisponda all'epoca della prima formazione della società, si continua e perpetua anche nei periodi posteriori della storia, perchè acquista un carattere sostanziale nei costumi e ferma la sua espressione nei miti e nella poesia primitiva. Il sorgere successivo ed il lento sviluppo della riflessione, che sono determinati da cause molto complesse e varie secondo gl'individui, non riescono ad escludere tutto ad un tratto le diverse manifestazioni di quella coscienza primitiva ed irriflessa; e la trasformazione degli antichi elementi in concetti, coscientemente appresi e pensati, non avviene che per la via d'un lungo processo, e di una lotta assidua, incessante e secolare. Questo processo di trasformazione non ha luogo solo per l'azione di quei motivi intrinseci di esame e di critica, che possono dirsi teoretici; ma emerge necessariamente dalle collisioni pratiche fra la volontà dell'individuo e l'opinione tradizionale espressa nel costume; e, più tardi, assume il carattere d'una lotta sociale fra classe e classe, individuo e individuo. Nella storia, di questa lotta, quello fra gli elementi della vita primitiva, che offra più materia al contrasto e che persista con maggiore tenacità, è la lingua, che nell'epoca delle tradizioni primitive e della poesia popolare esprime, per tutti egualmente, dei criteri costanti di valutazione, e che conserva nelle epoche posteriori l'apparenza di una norma, alla quale tutti gl'individui debbano necessariamente ed inevitabilmente adattarsi. Ma, quando gli uomini hanno cessato di trovarsi istintivamente d'accordo in quello che deve chiamarsi giusto, virtuoso, onesto, lecito, santo, empio, ecc., e hanno perduta la fede in quei tipi astratti del mito e della leggenda, nei quali la fantasia primitiva avea espresso ed ipostatato i comuni criteri della valutazione morale, allora sorge necessariamente nell'individuo il bisogno di rifarsi da sè quella certezza, che prima avea nell'acquiescenza in un criterio comune e naturale, e dice τὶ ἐστι?[101]

La storia delle trasformazioni della coscienza etica è espressa nella letteratura greca in una forma monumentale: ed ora riesce ancora possibile al critico ed al filosofo di seguirla in tutte le sue fasi e di notarne minutamente le gradazioni e lo sviluppo[102]. Le relazioni etiche, gli affetti dell'animo, le passioni, i giudizi morali passano successivamente per una serie di determinazioni sempre più profonde e più ricche, finchè la divergenza dei criteri individuali non arriva a suscitare il bisogno dell'indagine, dell'esame e della critica, e ad esigere che la ricerca ristabilisca coscientemente, nella forma riflessa del sapere scientifico, il criterio della certezza. I Sofisti rappresentano, come filosofi e come organi della coltura generale, questo stato di morale inquietezza, che esercitava tanta influenza nella vita pubblica, e fino nelle produzioni dell'arte drammatica; ma nessuno di essi fu dotato dell'energia morale, che era necessaria per rifare con la scienza quello stato di certezza intrinseca, che la coscienza etica esige come condizione essenziale[103].

2. Motivo e sviluppo del metodo socratico[104]

Quali motivi di pratica certezza spingessero Socrate alla ricerca etica, e quali elementi d'intima convinzione morale avess'egli riposti nella eccellenza e bontà del suo carattere, non abbiamo più bisogno di ripetere. E, se noi diciamo che il metodo era per lui un bisogno individuale; o meglio, che l'esigenza pratica della determinazione esatta dei giudizi morali dovea assumere in lui la forma di una costante e normale ripetizione di un certo processo intellettuale, non crediamo, per le cose dette innanzi, di pronunziare un giudizio infondato, e che deva essere inteso come restrittivo della importanza filosofica del dialogo socratico. La pratica e la teoria, l'arte e la scienza non apparivano ancora in quel tempo come attività perfettamente distinte; e l'esercizio di una naturale inclinazione potea raggiungere un grado anche molto elevato di perfezione, senza che l'individuo fosse consapevole delle formali condizioni nelle quali l'arte si svolgeva: sicchè può dirsi, senza difficoltà, che la logica stessa, come naturale attitudine e pratica esigenza, s'è per la prima volta costituita e fermata come qualche cosa d'istintivo e di naturale[105]. Seguiamo ora, per quanto è possibile, lo svolgimento del metodo nei limiti del dialogo socratico, a conferma della nostra opinione.

Tutto quello che gli uomini ordinariamente pensano intorno al carattere delle virtù e intorno ai beni, come mezzi al conseguimento della felicità, deriva solo dall'abito, dalle sociali convenienze, dalla incosciente ripetizione dei medesimi atti e dalla falsa opinione, che s'ha delle proprie forze e della propria missione. E quando i criteri cominciano a divergere e il bisogno di riflettere è divenuto imperioso, perduta la fede in quella misura costante, ch'era riposta nella tradizione e nei costumi, e mancando l'attitudine a riprodurre la certezza mediante la scienza, l'uomo non sa più cosa voglia e non voglia, e che deva lodare o biasimare. E chi è interrogato e deve assegnare la natura di quello che suole chiamare bene, male, piacevole, utile e così via, non ha un punto certo al quale s'appoggi, e non resiste alla tentazione di perdere ogni fede nella esistenza di una costante misura dei valori etici. L'unità estrinseca della parola, che nel costante valore fonetico serba una certa apparenza di uniformità, non vale che ad accrescere la confusione e l'incertezza; perchè, mentre dapprima siamo vinti dall'illusione che le stesse parole esprimano le medesime rappresentazioni, a lungo andare la convinzione, che acquistiamo della profonda differenza che passa fra i nostri e gli altrui concetti, diviene più evidente di quella illusione, e finisce per bandirla del tutto[106]. Nella pratica della vita queste difficoltà teoretiche della coscienza morale menano alla divergenza delle opinioni e all'incertezza assoluta sul valore etico di tutti i predicati che possono concernere la lode o il biasimo; e di qui procedono le inimicizie e l'attrito, che alterano e corrompono le sostanziali relazioni della famiglia e dello stato[107].

Lo spirito ha bisogno di una certa energia per liberarsi da quella illusione di apparente uniformità; e d'una anco maggiore, per determinarsi, mediante una interrogazione sospensiva, alla ricerca del valore costante, che è espresso nel predicato etico. Questo è il primo e più elementare stadio della ricerca di Socrate; il quale, nel bel mezzo d'un discorso che può concernere l'elogio di un'azione, o il giudizio pronunziato sopra una relazione, o sopra una forma costante della vita etica, con una recisa e sospensiva domanda dice: τὶ ἐστι?

Le parole non possono chiarirsi se non col mezzo delle parole; e la possibilità di determinare il valore di una di esse, mediante quello di un'altra, riposa su la supposizione di una costante ed identica associazione di idee, nell'animo di colui che parla e di colui che ascolta. Finchè questa supposizione non diviene convinzione, non si sa fino a che punto qualcosa di realmente pensato risponda all'espressione estrinseca, che ha luogo mediante la parola. Questo stato dell'animo, in cui si cerca di pensare realmente quello che deve essere costantemente inteso e contenuto in una rappresentazione, costituisce l'aporia; l'incertezza, cioè, che occupa l'individuo, nell'atto che s'avvede della propria insufficienza ad afferrare e comprendere il valore intrinseco della propria opinione: e questa aporia è, appunto, lo scopo dell'interrogazione socratica.

I suoi interlocutori sono costretti ad affermare il loro imbarazzo ed a confessarsi ignoranti; perchè in essi, insieme con l'aporia, è sorto il bisogno del vero sapere ed una certa anticipata notizia della possibilità della certezza. Ma l'abito contratto già prima di cadere nell'aporia, l'abito di aggiustar fede al valore delle proprie convinzioni, tuttochè non fossero state mai nè esaminate nè riformate dalla interna esperienza, riprende il disopra, e li fa ricadere nell'illusione. Essi credono di sapere cosa sia il giusto, il santo, l'utile, il bello, perchè l'immagine concreta dei tribunali o delle religiose tradizioni, dei propri bisogni soddisfatti o dei sensi appagati fa loro ritornare nell'animo l'antica opinione; ed essi credono di conoscere davvero il valore etico che si cerca, perchè, nei casi speciali e nelle particolari contingenze della vita, ne hanno avuta una notizia apparentemente completa.

E qui bisogna che l'interrogazione si moltiplichi, e divenga tante domande, per quante sono le rappresentazioni addotte a chiarire e ad esemplificare il concetto che si cerca. Questa nuova esigenza porta con sè un allargamento dell'indagine e un apparente allontanarsi dalla quistione primieramente proposta. Il dialogo s'impiglia in molte e svariate difficoltà; una corta inquietezza s'impadronisce degl'interlocutori; il risultato diviene incerto, e si è quasi ad un passo dall'eristica ed antilogistica dei Sofisti[108].

E, quasi ad accrescere le difficoltà ed a renderle invincibili, Socrate confessa la propria ignoranza; e nella piena coscienza dell'altrui presunzione ed insufficienza manifesta uno dei tratti più notevoli della sua natura: l'ironia. Il filosofo, infatti, non può, in quella condizione in cui s'è messo, non confessare la propria ignoranza, perchè il suo sapere è pura esigenza, o meglio consiste solamente nella coscienza dell'attuale incertezza. Quello, che egli cerca, deve ancora trovarlo; nè basta che l'abbia ottenuto una volta, perchè lo formuli in una maniera generale e lo tenga in serbo per mostrarlo a quando a quando. Il motivo dialogico, che è il solo movente della quistione, varia secondo le occasioni, e porta l'indagine sopra oggetti ed argomenti sempre diversi; sicchè si tratta sempre di eccitare nuovamente il bisogno dell'aporia, perchè questa invogli alla ricerca e fissi implicitamente la natura del processo. E di qui procede ancora, che Socrate, non avendo una notizia anticipata di quello che cerca e mettendo in opera la sua attività formale sempre nei limiti precisi e determinati di un dialogo, comincia dall'ammettere negli altri una piena scienza di quello che si cerca; e dalla loro confessione che nulla sappiano, o dall'incertezza con la quale pronunziano le loro opinioni, è indotto all'ironia, che in lui assumeva la forma costante di un abito filosofico[109].

Pur tuttavia, il semplice interrogare, che menava all'aporia ed alla sospensione d'ogni giudizio definitivo, era già un momento della scienza; e sebbene la confessione della propria ignoranza potesse sembrare una esclusione anticipata d'ogni certezza da parte di colui che interrogava, in fondo non era che un atto di rassegnazione alla intrinseca necessità dello sviluppo del dialogo. La domanda τὶ ἐστι; circoscrive tutta la ricerca sul valore di un concetto alla evidente determinabilità di quello, che in esso si pensa. Il contenuto, che a prima vista sembra espresso nella semplice denominazione, bisogna che sia davvero posto e determinato nella sua inerenza ed identità; e questo processo non può compiersi da sopra in sotto, o, come diremmo noi, deduttivamente, perchè manca ancora la coscienza di un valore logico incondizionato ed assoluto. La determinazione del contenuto costante di una rappresentazione, in altri termini, la elevazione della rappresentazione a concetto, avviene nel dialogo socratico mediante il movimento ascensivo o epagogico della incertezza delle opinioni comuni a quella costanza ed evidenza di affermazioni, che risulta dall'esaurire tutte le comuni accettazioni della parola in questione. Nella nostra coltura logica apparisce cosa facilissima determinare la inerenza e la vicendevole comprensione delle note d'un concetto, perchè l'attività intellettiva è anticipatamente fornita d'una moltitudine di elementi astratti ed universali, dei quali si serve come di organi; ma, dal punto di vista storico, quel procedimento socratico era di una somma difficoltà, perchè la coscienza non avea ancora alcuna notizia della universalità del concetto, e non avea innanzi a sè che una molteplicità di rappresentazioni, tutte apprese nella loro pratica incertezza e fluttuazione.

Questo processo formativo dei concetti costituisce l'induzione socratica, che abbiamo visto prender le mosse dall'interrogazione. Mediante questa, la rappresentazione, di cui è parola in questo o in quel dialogo, passa successivamente per tutte le sue più ovvie significazioni; ed in questo passaggio riesce agevole, a coloro che ricercano, di notarne i caratteri più costanti e di raccoglierli e comprenderli insieme nell'identità di una forma comune. La rappresentazione, così determinata nel suo valore costante, deve esser tale che possa funzionare da predicato in questo o in quel giudizio, senza che apparisca contradizione o incongruenza. Ma in virtù di questo postulato, che è implicito nella ricerca, apparisce nuovamente l'aporia; perchè il concetto (il nome), già determinato, non esprime tutto il valore della cosa che deve designare, e riesce spesso inadeguato alle reali relazioni, in cui l'obbietto, preso a definire, si trova con altri obbietti analoghi o diversi. Quella determinazione bisogna sia allora corretta. Tutti i casi speciali, nei quali la rappresentazione si presenta nel discorso, costituiscono il largo campo dell'esperienza del filosofo, che cercando qua e là i punti costanti ed evidenti, nei quali l'oggetto che si cerca è presente alla coscienza, se ne vale come di addentellati per progredire con movimento ascensivo verso la sintesi dei vari tratti caratteristici della significazione. Il discorso equivale così ad un reale processo di separazione e di riassunto[110], e mette termine nell'adeguata comprensione del concetto cercato. Il punto di partenza, ossia il nome, che nella sua semplice unità fonetica era dapprima il centro della ricerca, diviene, in ultimo, l'estremo termine del pensiero: quello cui si va a metter capo col farne consapevolmente l'espressione di un contenuto evidentemente pensato; e le immagini concrete, che dapprima s'aggruppavano incertamente intorno alla vaga denominazione, non reggendo più alla nuova sintesi, devono scomporsi e prendere un nuovo posto; e solo il nuovo elemento, che s'è ottenuto mediante la ricerca, il contenuto costante della rappresentazione, raccolto via via mediante l'induzione, può determinare la coordinazione e subordinazione nella quale le immagini devono coesistere, mentre il concetto si costituisce nella certezza ed inalterabilità dei suoi limiti.

Questo lavoro non è una scoverta ma una creazione; perchè non determina la natura di un fatto più o meno remoto dalla immediata percezione interna, ma esprime la produzione lenta e metodica di un nuovo stato nella natura delle rappresentazioni. Il risultato dell'indagine socratica, il concetto definito, acquista, poi che è stato determinato e costituito, il carattere dell'assoluta identità[111]; e serve così a correggere la rappresentazione e la parola. Ma, come l'attività socratica non riuscì mai ad isolare il formalismo logico dalle condizioni reali in cui s'era sviluppato, così l'interesse dialogico dell'induzione e della definizione non si manifestò che in una forma concreta ed occasionale, come bisogno etico e pedagogico: e non potette, per questa ragione appunto, obbiettivarsi in un'ipostasi metafisica[112]. Nulladimeno, per quanto il concetto socratico sia lontano da ogni idea metafisica, non può sconoscersi che esso sia stato il primo motivo e la prossima occasione delle idee platoniche.

OSSERVAZIONI

Questa nostra esposizione del metodo socratico è attinta genuinamente dallo schema generico del dialogo senofonteo e platonico; ed è stata ravvivata da una indagine genetica su i motivi dell'aporia e dell'interrogazione sospensiva, Senofonte e Platone hanno per noi lo stesso valore, quando si tratta di assegnare il carattere formale solamente, e non le conclusioni positive del dialogo socratico[113]; perchè solo nella diversità di queste è riposta la novità del platonismo, che cercava ricavare dall'induzione l'assolutezza ed il carattere incondizionale delle idee. Ed abbiamo così evitata la posizione erronea di coloro che, prendendo le mosse dal concetto astratto del metodo, hanno poi cercato di applicarlo alla investigazione del dialogo socratico. Cercheremo ora di completare con alcune osservazioni quella immagine complessiva, che abbiamo delineata.

1) Imprecisione formale del metodo socratico

Nello svolgimento dialogico, che abbiamo esposto, non può sconoscersi la costanza di un formalismo, che si ripete in condizioni fisse ed impreteribili. Quello che noi abbiamo espresso in uno schema generico è stato desunto e raccolto da una molteplicità di casi speciali, che se non tutti rivelano una formale compitezza, pure, nell'insieme, s'integrano in una immagine complessiva. La ripetizione dei medesimi motivi e la incertezza dei criterî nei giudizi morali producevano sempre la medesima esigenza di una verificazione coscienziosa del contenuto normale dei concetti. Ora può domandarsi fino a che punto Socrate avesse acquistata l'astratta consapevolezza delle condizioni costanti della ricerca, o a dirla più esplicitamente: sapea egli di seguire un processo teoretico ed universale, e ne avea nell'animo uno schema generale? Su questa quistione non possiamo più stare a sentire con pari credenza Platone e Senofonte, perchè il primo avea già raggiunto una più perfetta notizia del problema logico, e s'era formato un concetto astratto del sapere, che il secondo è molto lontano dal volere attribuire al comune maestro. Nè può dirsi che Senofonte non avesse avuto sufficiente coltura filosofica, per intendere ed approfondire i pronunziati di Socrate[114]; perchè in questo caso, non solo bisognerebbe rigettarne assolutamente la testimonianza, ma rinunziare per sempre a qualunque indagine su i limiti che corrono tra la filosofia socratica e la platonica.

E pure, senza insistere di soverchio su la incapacità filosofica di Senofonte, la sua testimonianza a noi pare sufficiente per determinare negativamente il grado di consapevolezza logica che Socrate avea raggiunto; il quale consistea nella normale, ma sempre pratica convinzione, che solo colui che possiede la notizia esatta delle generali condizioni di una pratica attività potesse convenientemente e saggiamente condursi nell'esercizio delle proprie funzioni[115]. Questa logica consapevolezza è ancora tutt'una cosa con la pratica esigenza del retto operare; ed il filosofo, che avea abbandonata ogni indagine su gli oggetti che non concernono immediatamente il benessere umano, per la stessa posizione che s'era fatta, non potea astrarre il concetto del sapere dalla concretezza del saputo.

In conseguenza di ciò, tutte le differenze, che la speculazione posteriore ha scorte nel processo dimostrativo, appariscono nella persona di Socrate come governate ancora da una psicologica motivazione; e si sviluppano nella pienezza della loro formale natura solo nel caso concreto del dialogo speciale. E a questa determinazione, come già altri ha notato[116], non fa eccezione quello che Senofonte riferisce: aver Socrate tenuta per norma sicura del ragionamento il prender le mosse dalle opinioni generalmente accettate[117]; perchè questa, più che una regola logica, è una semplice riflessione sul fatto stesso del dialogo. Nè deve far meraviglia che Aristotele ora dica che il merito di Socrate consista nell'avere fermato il concetto della definizione e dell'induzione, e poi, un'altra volta, si limiti ad accennare la definizione solamente[118]; perchè questi due processi erano l'uno ii risultato dell'altro, o meglio l'uno c'era solamente in ragione dell'altro.

Rimane ora a sapere, se, anche con l'esclusione di una dichiarata coscienza logica, il dialogo senofonteo non mostri indizi sicuri di una attività logica più larga di quella che può riassumersi nelle due forme dell'induzione e della definizione. E in fatti non può negarsi, che l'esigenza della divisione, che fu poi tanto approfondita da Platone, vi è evidente, sì nella determinazione del valore intrinseco del concetto, come nell'applicazione di esso qual predicato nel discorso. Lo stesso concetto della pruova comincia a chiarirsi, nei suoi rapporti col valore normativo del concetto; e spesso la varietà empirica delle note del concetto, che erano state raccolte via via nel dialogo, è messa a profitto per determinare un giudizio speciale mediante un sillogismo di analogia[119].

La ricchezza e lo sviluppo del dialogo socratico contiene in germe tutti i momenti logici del processo induttivo; ed è in virtù di quell'impulso che in un'epoca posteriore si costituì la teoria astratta della scienza.

2) Della differenza fra rappresentazione e concetto, e del principio d'identità

La esplicita distinzione fra il sapere e l'opinione, e fra il concetto e la rappresentazione, h stata frutto della speculazione platonica. Ora ad alcuni è sembrato conveniente farla risalire fino a Socrate, perchè la forzata interpetrazione di questo o quel luogo di Senofonte[120] pareva potesse confermare l'autorità di quei dialoghi platonici, che comunemente son tenuti per socratici[121]. Ma, se si va a vedere un po' meglio, quella interpretrazione non regge affatto, e l'autorità di Platone non prova niente. Ad altri è sembrato naturale fare di questa quistione un postulato[122], affermando che nello spirito del Socratismo era inevitabile la chiara coscienza di questa distinzione, perchè essa ne determina la certezza intrinseca ed il valore scientifico. Noi invero non sappiamo negare che l'esigenza della distinzione è data in tutto il dialogo socratico; ma, nel difetto di uria precisa testimonianza, non sapremmo dare il carattere storico di un fatto ad una semplice supposizione, per quanto essa possa essere verosimile.

E lo stesso diciamo del principio d'identità, del quale non sapremmo riferire a Socrate la determinazione esplicita, sebbene sia innegabile che costituisca il valore positivo della sua coscienza logica, e si manifesti molte volte nel dialogo senofonteo. E come Platone è stato il primo che l'abbia formulato chiaramente, non possiamo negare, che in quella formula egli non ha fatto altro che esprimere un criterio pratico e costante del dialogo socratico.

Qui cade ancora in acconcio di osservare che, quando si è detto la definizione socratica esser tale da esprimere la realtà dell'oggetto e non la veduta soggettiva del pensatore, in questa opinione non si è detto niente che caratterizzi il valore filosofico di quel processo dialogico. La ricerca scientifica era tanto lontana, a quel tempo, da una generale questione sul valore soggettivo o oggettivo della conoscenza, che qualunque caratteristica espressa con questi termini non definisce nè il valore storico, nè il grado di perfezione sistematica di una dottrina filosofica.

V. DELL'ETICA SOCRATICA IN GENERALE, E DEL CONCETTO DEL BENE

Fra tutti gli oggetti conoscibili nessuno offre tante difficoltà alla determinazione teoretica, quanto quel complesso di relazioni che riposano su i nostri giudizi di approvazione o di riprovazione, mediante predicati che esprimono la repugnanza o il compiacimento, e che costituiscono la sfera etica della nostra interna attività. Per isolare quei predicati nella forma di una definizione non basta seguire un procedimento ricercativo, che concerna la distinzione e l'analisi di un dato costante, chiaro alla nostra coscienza nella forma di una rappresentazione estrinsecamente evidente; ma bisogna che essi siano, innanzi tutto, praticamente da noi prodotti ed appresi nella loro efficacia positiva, perchè divengano termini costanti della ricerca. Quello che sia buono, e quindi riducibile alla forma astratta del concetto del bene, bisogna che sia precedentemente appreso e voluto come tale nelle reali e costanti condizioni della vita, e che serva già di norma ai giudizi di valutazione, che noi naturalmente esprimiamo. L'etica, in somma, suppone la coscienza morale, non solo come oggetto, ma come criterio e norma costante del giudizio teoretico. Ma, d'altra parte, la ricerca scientifica non può anticipatamente ammettere, che i limiti dell'investigazione le siano belli ed assegnati dalle naturali condizioni della vita; perchè, siccome è proprio della ricerca, che essa non deve ammettere se non quello che il corso spontaneo dell'esame porta con sè come legittima conseguenza, una qualunque anticipazione dei risultati apparisce lesiva dell'indipendenza e libertà dell'indagine.

Questa doppia esigenza ha esercitata una così decisiva influenza nel campo delle ricerche etiche, che essa appunto è stata precipua cagione di tutti quei falsi scrupoli, che hanno spesse volte menato i filosofi, o a sagrificare la spontaneità del giudizio morale ai postulati del dottrinarismo logico e metafisico, o a degradare la scienza per farne un organo secondario rispetto a quella che s'è chiamata naturale coscienza del bene. E la difficoltà è divenuta ancora più grave, quando s'è voluto rimuoverla con tutto quell'apparato di ipotesi psicologiche, che ha dato luogo alle speciose teorie di un'anima divisa in attiva e passiva, o moltiplicata all'infinito in una strana varietà di riluttanti potenze e facoltà; le quali tuttora, volere o non volere, danno fastidio a molti che si sforzano di ricondurre l'armonia nel concetto dello spirito.

Nella prima epoca della scienza etica, quando essa non avea ancora sorpassato i limiti di una ricerca rudimentale, si era molto lontani da tutte queste complicate e difficili quistioni che abbiamo accennate; ed allora si era tanto sforniti di uno schema psicologico e metafisico, che i concetti generici del volere e dell'intelletto e i termini astratti di causalità, finalità ecc. non poteano esercitare un'influenza anticipata su la natura delle indagini, e molto meno determinarne i formali presupposti. Improntare ai concetti tradizionali un valore assoluto ed incondizionato, o sostituire a quelli degli altri che fossero più coscientemente appresi, ma non meno evidenti ed immediati nella loro pratica applicazione, e coordinare poi tutti questi varî concetti nell'insieme di una veduta razionale; — questo era allora il problema dell'etica. I Sofisti e Socrate s'aggiravano nel medesimo orizzonte sociale e letterario; e sì gli uni come l'altro erano intesi ad esaminare la natura ed il valore dei giudizi etici, che veniano loro trasmessi dalla tradizione, o imposti dalle reali condizioni della vita. Ma le personali condizioni della coscienza di Socrate erano state tanto potenti da rivolgerne tutta l'attività alla ricerca di una norma costante dei giudizi etici; e l'avevano tanto allontanato da quei bisogni di pratica sodisfazione, i quali governano la condotta dei Sofisti, che, sebbene questi fossero vissuti nelle medesime condizioni e fossero stati sollecitati da motivi identici, solo a Socrate può attribuirsi il merito di aver fondata la scienza; mentre dei Sofisti non può dirsi, se non che essi, nella versatilità della loro natura, avvertirono molto vivamente il bisogno della ricerca etica, senza aver prodotto niente che possa dirsi d'un valore intrinseco e durativo.

Non il bene ma i beni formano oggetto della prima ricerca etica[123]. Perchè possa ridursi ad un solo concetto generale, e si riesca a sostanzializzare una relazione ed un predicato che dapprima si presenta in una molteplicità di situazioni concrete, bisogna non solo che l'attività logica abbia raggiunto un alto grado di perfezione ed una più intrinseca virtù, ma che l'individuo sia eziandio riuscito ad isolarsi maggiormente dalla tradizione e dalla società, in guisa che rifletta nei risultati delle sue indagini l'ideale isolamento della propria coscienza[124]. L'identità del concetto del bene si presenta per la prima volta alla coscienza solo nella denominazione comune dei molteplici oggetti, che sono termine o mezzo all'attività; e quello che impronta all'apparente identità un certo carattere di definizione etica consiste soltanto in quella simiglianza di sentimenti di riprovazione o di lode, che costituisce la naturale coscienza morale. Da questa semplice identità, che esprime la costanza di un giudizio abituale, alla determinazione obbiettiva ed incondizionata di un valore etico ci corre molto; e noi non sappiamo intendere come siansi potute applicare tante vedute, che risultano dall'ulteriore progresso della scienza etica, all'esame di quei pochi pronunziati che formano la dottrina di Socrate, senza che apparisse chiara la incongruenza del criterio. Per Socrate, era tanto impossibile che egli intendesse la natura del bene, preso per sè ed isolatamente come un concetto di valore assoluto, per quanto abbiamo visto essere inverosimile che egli si proponesse la quistione del sapere in abstracto ed oggettivamente. La sua ricerca etica è qualcosa d'intermedio fra la comune riflessione morale, e la indagine sistematica poggiata su la norma costante di un sapere logico; sicchè segna appunto il termine fra le due sfere ed il primo passaggio dall'una nell'altra. Questo cercheremo di chiarire.

Nella storia della coltura ellenica non si rinviene indizi evidenti di una ricerca etica, prima dei tempi sofistici e socratici[125]. È vero che da Omero ai Tragici, da Talete ad Anassagora, dalle leggende popolari alla severa storia di Tucidide si scorge un continuo progresso nell'imagine della vita etica; e che, essendo le tradizioni mitiche ogni giorno più assorbite dalle esigenze religiose e allargandosi incessantemente l'influenza dei motivi pratici ed individuali, i Greci pervennero ad esprimere e rappresentare l'insieme delle relazioni morali in una serie di concetti determinati e di poetiche invenzioni[126]. I concetti della colpa, dell'espiazione, della coscienza morale, della provvidenza presentano un ampio sviluppo, che può tuttora seguirsi nella più gran parte dei suoi momenti, e che può offrire materia ed argomento a lunghe ed interessanti indagini. Ma tutto questo processo lento e spontaneo, che rivela l'influenza di una più larga coscienza pratica, sorta dall'attrito delle stirpi e delle classi, e mostra al tempo stesso indizi chiarissimi di un progresso avvenuto nella riflessione individuale mercè l'azione di nuovi motivi pratici ed artistici, non può dirsi ancora nè ricerca nè scienza[127]. Il mondo delle relazioni morali era ancora intuito come qualcosa di plastico: era un ordine dato immediatamente nei suoi caratteri essenziali, e che presentava la medesima ferrea ed ineluttabile necessità del mondo naturale.

Il primo apparire della ricerca etica non può certo assegnarsi con precisione cronologica, perchè fu determinato lentamente da cause successive, che non manifestarono la loro azione in un prodotto istantaneo; e, sotto questo riguardo, può ammettersi che la riflessione etica sia più antica dei tempi sofistici. Ma per via di esclusione può e deve dirsi, che i Sofisti e Socrate furono i primi che si proponessero l'esame dei giudizi etici, e che da quel tempo in poi la ricerca etica cominciò a divenire il motivo determinante non solo della filosofia, ma anche di tutta la coltura scientifica ed artistica.

La ricerca etica di Socrate non si è incarnata in una teoria sistematicamente esposta e trasmessa alla posteriorità in un lavoro letterario. Questa circostanza, che non è accidentale e che ha tanta intima relazione con l'altro fatto molto notevole, che la letteratura dei Socratici fu affatto dialogica, avrebbe dovuto mettere in guardia molti critici ed espositori contro la falsa esigenza di voler trovare in Socrate più di quella che egli potea offrire. L'orizzonte delle sue ricerche rimase sempre qualche cosa di affatto personale, essendo la proiezione di un lungo ed intimo lavoro, diretto allo scopo di compensare con la certezza intrinseca del convincimento l'esquilibrio morale ch'era proceduto dalle tendenze arbitrarie dei contemporanei. E, per far questo, egli dovette produrre una nuova imagine del mondo, contrapponendo, in un antitesi insolubile, il campo dell'attività umana alla sfera dell'azione divina nella natura, e distinguendo due ordini di realtà, che corrispondessero ai due gradi di conoscenza che gli erano evidenti: quello che concerne il fine pratico del benessere, e quello che riguarda la produttività divina. Questa differenza, appresa in una forma ingenua ed elementare, determinò per la prima volta il valore intrinseco del bene, e valse a predisporre gli spiriti ad un maggiore raccoglimento nella ricerca del valore incondizionato del giudizio etico; ma non per questo dobbiamo noi giudicare Socrate alla stregua delle indagini posteriori. E, da un altro canto, le convinzioni religiose trascendevano in lui gli angusti confini dell'etica tradizionale, perchè gli offrivano una stregua più larga alla quale potesse misurare i risultati della sua indagine logica. Nondimeno queste convinzioni non possono chiamarsi nè i presupposti nè le conclusioni metafisiche dell'etica, perchè non segnano le estreme diramazioni di svariate ricerche, ma si presentano come prodotto simultaneo ed immediato di una coscienza ricca di attività morale, che impronta nelle diverse direzioni dello spirito un carattere di uniformità e di analogia. Sotto questo riguardo non può dirsi che Socrate abbia coscientemente fatto un'etica, come disciplina speciale e distinta dalla metafisica e dalla religione, ma che essendo arrivato a proporsi la quistione di una determinazione esatta dei concetti etici, riuscì ad isolare la sfera morale dalla naturale, ed a precisarne i caratteri più essenziali e le forme più comuni.

Non è senza ragione che siamo tornati su l'argomento della coscienza socratica in generale, perchè, ad ogni passo che facciamo nell'esposizione, troviamo qualcosa che non è dottrina; e siamo costretti a confessarci, che nella persona di Socrate la filosofia non ha ancora acquistata la potenza di fare dall'un capo all'altro il processo scientifico, e che deve poggiarsi sopra presupposti di una natura affatto immediata. L'etica di Socrate ha radice nell'esigenza naturale della εὐδαιμονία, e mette capo nella rappresentazione della provvidenza come preordinatrice della natura al fine del benessere umano; e dubita tanto poco di questi presupposti, che non ne fa mai oggetto della investigazione scientifica. E di qui procede ancora, che il Socrate platonico presenta una maggiore intimità, perchè in quella imagine è espresso il risultato di una consapevolezza logica più approfondita.

Ma fino a che punto può ammettersi che con Socrate cominci la scienza etica, se abbiamo tanto insistito su i presupposti non scientifici delle sue convinzioni? La risposta a questa domanda l'abbiamo già data nei due capitoli precedenti, ne' quali abbiamo espresso nettamente il significato del metodo socratico, non perchè fossimo convinti che quello schema logico stesse così isolato e per sè stesso, ma perchè volevamo assegnare l'elemento speculativo dell'etica socratica. Anzi quella forma non è che forma del contenuto etico; ed il dialogo, che non cadeva mai su la definizione dell'animale o della pianta, del sole o della luna ecc., seguiva lo sviluppo che abbiamo esposto solo nell'intento di determinare i mezzi che conferiscono al conseguimento dell'εὐδαιμονία (definizione dei beni), o le attività morali generatrici delle azioni (natura delle virtù), o gli abiti che ne sono conseguenza (stati della vita). Fino a che punto poi Socrate venisse a modificare molti dei concetti tradizionali, in conseguenza dello sviluppo dell'induzione, e giusta le esigenze della definizione, potrebbe solo vedersi in una storia generale della coltura greca; e a noi basterà notare, che egli non si proponeva altro, se non determinare coscientemente il valore dei predicati e dei giudizi etici.

Il risultato della definizione contiene in sè tutto il valore scientifico dell'etica socratica. L'incertezza dei criteri nella valutazione di un bene, nella determinazione del concetto di una virtù ecc. soggiace a tutto quel processo di rettificazione che abbiamo esposto. Nella definizione è data una nuova condizione, un nuovo stato nella vita dello spirito; una certezza superiore alle fluttuazioni dell'opinione è espressa nella cosciente enumerazione delle note costanti d'un concetto. Questa certezza ha il carattere di morale acquiescenza; perchè la sodisfazione, invano cercata nella rappresentazione ordinaria di un bene, si ottiene per la prima volta nella evidenza e perspicuità del significato costante del concetto. Il dialogo socratico si esaurisce nella isolata definizione, mercè la quale l'impulso razionale si appaga di un sapere che risponde alla pratica esigenza del momento; senza che lo spirito cerchi ancora di coordinare insieme diverse definizioni, per distinguere in un complesso di risultati speculativi le conseguenze dottrinali dai motivi pratici. La definizione, guardata nel suo lato concreto, presenta diversi caratteri: l'identità e l'esclusione di ogni altro elemento che possa alterarne e svisarne la natura: la possibilità che venga applicata come sicura norma nell'esame delle umane azioni, con la certezza che quanto vi può essere d'inadeguato alla stessa sia erroneo e falso: la sua immancabile attività, come forza che agisce in un dato senso e per una direzione costante. Sotto quest'ultimo riguardo la definizione è il punto di partenza di tutte le conclusioni dell'etica socratica.

L'esame psicologico degli elementi appetitivi e conoscitivi della natura umana ha da gran tempo cambiata la fisonomia dell'etica, ed ha messo i filosofi nella condizione di cercare in una sfera più larga l'elemento etico del bene. Questa è invece la proprietà essenziale dell'etica socratica, che, prendendo essa le mosse dalla rettificazione delle rappresentazioni mediante il dialogo, nella conclusione logica del dialogo stesso trova la natura del bene; ed essendo la ricerca coordinata all'intuizione immediata della natura umana come tendente all'εὐδαιμονία, la conclusione logica è appresa come tutt'una cosa con la potenzialità del bene, ossia con l'energia morale e con l'efficacia pratica, che producono la vita perfetta. E da questo presupposto procede quella opinione paradossastica di Socrate, che chi conosce il bene non può non volerlo, e deve necessariamente rigettare il male[128]. Noi scorgiamo in questa affermazione tutta l'erroneità di un concetto parziale della natura umana; ma pure essa era una naturalissima conseguenza del supposto, che, cercando l'uomo il suo benessere, non possa rigettarlo quando l'abbia ritrovato.

OSSERVAZIONI

Prima di entrare nella specializzata esposizione dell'etica socratica, vogliamo qui aggiungere alcune osservazioni di un valore generale.

1) Socrate è stato forse il primo che abbia chiaramente inteso, come il bene non consista in qualcosa di estrinseco, stato condizione o possesso che sia, ma nella coscienza del bene, come mezzo certo per appagare l'esigenza della felicità. Egli ha in tal guisa formolato ed espresso il bisogno dell'intimità, che costituisce il valore personale dell'uomo. Le abitudini, le tradizioni, le doti personali, gli stati e le forme della vita sociale non devono ricevere i predicati etici dall'opinione; ma bisogna che se li facciano improntare, secondo la norma costante del concetto, da una ricerca approfondita e formalmente certa. Questa nuova esigenza è non solo di un gran valore nella storia della filosofia, ma segna eziandio un gran progresso nella coscienza etica in generale, perchè ha determinato approssimativamente il valore intellettivo della coscienza morale, riponendo nella consapevolezza l'impulso principale al ben fare.

2) Questo bisogno di elevare il concetto del bene ad una più alta potenza, coll'isolarlo dalle forme concrete e storiche, importava solamente una maggiore consapevolezza e normalità nella valutazione dei beni in particolare, non una esclusione o modificazione dell'ethos popolare, dal punto di vista di un ideale di pratica riforma. La sfera dell'etica scientifica non è ancora distinta da quella dell'etica pratica; e tutte le relazioni concrete della vita sociale ricadono nella definizione del bene, conservando le loro proprietà storiche ed elleniche, senza che Socrate tenti d'innovare positivamente l'ordine costituito.

3) Ma l'esigenza della consapevolezza avea acquistato in lui tale predominio, e governava sì fattamente le sue pratiche abitudini, che egli facea dipendere il riconoscimento delle forme reali della vita, e di tutte le concrete determinazioni etiche della famiglia e dello Stato, da una cosciente adesione, risultato dell'esame, mercè la quale l'intrinseca energia dell'animo dev'essere disposta ad una serie di atti conformati tutti inevitabilmente al conseguimento dell'εὐδαιμονία.

4) Come la ricerca socratica non raggiunse mai la universalità ed astrattezza del concetto, per questa ragione appunto rimase molto lontana dalla ipostasi metafisica del bene, che Platone determinò in séguito. La natura etica del Dio di Socrate è un prodotto spontaneo dell'esigenza religiosa, ed un risultato in gran parte naturale ed incosciente della coltura ellenica, che non porta con sè, come legittima conseguenza, la equazione fra il concetto di Dio e quello del bene, o la determinazione dell'uno mediante l'altro. Il concetto del bene rimane così limitato, come l'esperienza cotidiana ce lo fa apprendere e concepire in tutte le svariate condizioni della vita; ed il nuovo elemento della consapevolezza vale solo ad approfondire l'intenzionalità dell'individuo nella ricerca del suo meglio, non a cambiare intrinsecamente la relazione fra il soggetto e la obbiettiva natura del bene.

5) Essendo la ricerca motivata in tutto e per tutto da una pratica esigenza, e sussidiata da una coscienza logica ancora elementare ed imperfetta, non potè compiere tutto il giro sistematico di un'etica scientifica, e cadde spesso in inconseguenze o scese ad affermazioni di una natura affatto popolare. Quest'ultimo lato è quello che la tradizione precettistica dei secoli posteriori, per la deficienza di coltura storica e filosofica rilevò con maggiore interesse, finchè si finì per attribuire a Socrate tutte quelle massime che sembravano coerenti all'imagine di un uomo moralmente perfetto[129].

VI. CONOSCERE E VOLERE

L'elemento costitutivo dell'etica socratica abbiamo visto esser riposto nella certezza logica, ottenuta mediante la definizione. La forma più elementare della ricerca, l'interrogazione sospensiva τὶ ἐστι, va a conchiudersi nella determinazione intrinseca del concetto cercato; e la definizione, come adeguata espressione della consapevolezza, contiene in sè la norma sicura d'ogni pratica attività.

Che quel processo ricercativo non uscisse mai dai limiti della vita etica, e s'aggirasse sempre in quella sfera di rappresentazioni tradizionali, nelle quali è espresso un giudizio favorevole o sfavorevole intorno alla volontà ed alle azioni, è cosa che la concorde testimonianza dell'antichità non permette di revocare in dubbio[130]. L'avversione di Socrate contro la ricerca naturale è uno dei dati storici che più d'ogni altro determina il valore intrinseco della sua coscienza e l'importanza limitativa della sua filosofia. Ma questa esclusione della natura dal campo delle investigazioni venne implicitamente a limitare la ricerca etica, perchè la restrinse agli angusti confini di una certezza immediata, la cui pratica applicazione fosse incontrastabile; e fu causa precipua di tante false conseguenze già notate da Aristotele, e che noi possiamo giustificare solo come nccessarie fasi storiche del pensiero filosofico.

Socrate, in fatti, non avea coscienza della vera e prima origine d'ogni elemento etico, che è riposta nella naturale costituzione dell'anima; ed avendo limitato le sue indagini a rettificare quei giudizi ed a determinare quei concetti, che erano già evidenti nella coscienza riflessa per la loro morale e pratica importanza, ignorò del tutto quel lato della vita dello spirito che non va immediatamente soggetto ad un giudizio morale, e che costituisce l'oggetto della psicologia. Quando mercè il dialogo egli arrivava alla definizione, avea coscienza della sua vittoria su le riluttanti opinioni degli interlocutori, solo in quanto le sue vedute poteano essere espresse in un giudizio, che servisse di norma alla vita e di termine a tutte le aporie della ricerca. Egli si lasciava dietro, come indegno d'ogni esame, tutto quell'errare che facea il dialogo in una serie di svariate ed erronee affermazioni, poggiate o sopra arbitrarie associazioni d'idee, o su l'autorità della tradizione; e non si preoccupava punto di tutto quel lato oscuro dell'anima, che vien costituito dallo stato incerto e fluttuante delle rappresentazioni e delle volizioni, prima che offrano materia ed argomento all'analisi scientifica. Il risultato quindi, sebbene ottenuto per via d'un'indagine che avea a superare tante difficoltà e tante incertezze, si presentava in fine come qualcosa di spontaneo, d'immediato, e direi quasi di naturale; perchè, inteso come era il filosofo a chiarire dialetticamente il convincimento ch'egli s'era già formato ed a suscitarlo negli altri, non s'avvedea d'avere innanzi a sè le diverse forme della vita dello spirito, e come in quella varietà fosse appunto riposta la cagione dell'errore. E così avveniva che la logica precorreva la psicologia, anzi l'ignorava del tutto.

Tutti quei molteplici stati della vita dell'anima, che precedono la certezza che s'ottiene mediante la definizione, erano da Socrate subordinati all'incerta rappresentazione dell'ignoranza[131]; il cui campo era tanto vasto per quanto è svariata ed immensa la moltiplicità dei giudizi e delle azioni umane, che non dipendono dalla consapevolezza del valore e del fine dei concetti ottenuti mediante l'esame. Questa rappresentazione dell'ignoranza non esprime in fondo che l'antitesi generica del sapere; non è un concetto positivo, i cui caratteri siano studiati nella loro natura psicologica e storica, e che valga a precisare scientificamente il valore di quella forma dello spirito che costituisce il sapere. Da questa posizione procedono tutte le conseguenze dell'etica socratica che toccheremo in séguito, e le affermazioni, che la virtù consista nel sapere, che la consapevolezza costituisca per sè stessa un valore etico[132], e così via; nelle quali non sappiamo scorgere, come altri ha fatto, la influenza del dottrinarismo logico, perchè abbiamo già esclusa la opinione di coloro che ammettono in Socrate una coscienza esplicita del principio logico; ma siamo costretti a ravvisarvi le estreme conclusioni di una tendenza pratica di natura affatto esclusiva. Nè bisogna che torniamo nuovamente a discorrere dei motivi dell'attività socratica, dei quali abbiamo parlato tanto a lungo, che il nostro modo di vedere non ha più bisogno di chiarimenti.

1. Equazione fra volere e sapere (γνῶθι σαυτόν).

L'elaborazione dialogica dei concetti costituisce l'elemento del sapere, il principio della verità. Ma che intendeva Socrate per sapere e per verità; e che valore attribuiva egli a queste due nozioni? Questo punto bisogna sia chiarito.

Con la esclusione delle ricerche naturali, Socrate venne ad affermare due caratteri essenziali del concetto ch'egli s'era formato del sapere. Conoscere quello che non si può produrre non è conoscere davvero, perchè la conoscenza porta con sè l'attitudine al fare; e il sapere umano è quindi sempre coordinato al fine dell'εὐδαιμονία, perchè l'uomo sa solo quello che egli ha fatto, fa, o può fare. La natura del sapere non dipende dunque dalla ricerca, e non ne è un risultato; non sta lì sotto gli occhi del filosofo, come un dato che egli prende ad esaminare, per farne un'analisi e ricavarne una teoria. Questo sapere adunque, perchè ha un limite costante nella rappresentazione della felicità come fine della vita, non può vagare fra molti oggetti conoscibili, per attuarsi e concretarsi; e non divenendo pratico per elezione del filosofo, ma essendo di sua natura pratico, ha una sfera nè più larga nè più angusta di quella dell'attività umana, nella quale trova la sua manifestazione ed il suo contenuto. Di qui procede che Socrate, identificando assolutamente il sapere col fare, ripose nel primo la norma del secondo, ed affermò che tanto l'uomo fa quanto egli sa, e spingendo la cosa più innanzi, disse che l'uomo è tanto e tale, quanto e quale è il suo sapere[133]. E, guardando solamente alla natura intrinseca di quelle conoscenze, che si esprimono in giudizi praticamente applicabili, confuse in una sola denominazione generica tutto quello che l'uomo pensa e fa inconsapevolmente, contrapponendo alla sfera del sapere quella dell'ignoranza.

Questa identificazione del sapere e del fare, ove si prescinda per poco dalla testimonianza autentica di Senofonte, e si chiuda gli occhi su le condizioni storiche della coltura ai tempi di Socrate, può dare facilmente luogo ad una opinione erronea, come se egli avesse inteso di conciliare coscientemente l'intelletto e la volontà, e rimettere in armonia la scienza con la pratica. Il valore di queste espressioni era allora troppo generico, e non avea ancora raggiunta quella sostanzialità, che rese più tardi così chiari i termini psicologici, da farli apparire nella filosofia aristotelica come gradi, forme o potenze della vita dell'anima. La mancanza di ogni scienza psicologica, e la maniera affatto popolare come questi concetti sono espressi nel dialogo senofonteo, non consentono si ammetta, che Socrate avesse avuto coscienza della opposizione di due sfere dello spirito, e poi tentato ricondurle alla sintesi mediante il ragionamento. Col porre immediatamente il sapere come principio dell'azione, egli non facea, per dirla in linguaggio moderno, che stabilire una relazione analitica fra i due termini, e non mirava ad una identificazione sintetica. Poco dopo, Platone cominciò a fissare normalmente le diverse forme del sapere, e come analoghe a queste le diverse parti dell'anima; e pose termine alla indeterminatezza del linguaggio comune, che Socrate non avea superata.

Esclusa la cosciente identificazione dei due elementi del sapere e del volere, non solo s'intende bene il valore affatto pratico di questa sintesi che non è riposta in una teoria psicologica e molto meno dipende da una costruzione metafisica; ma viene eziandio messa in chiaro la natura della verità socratica, che non ha nè oggetto nè motivo teoretico.

Le azioni umane sono tali quali le conoscenze, perchè il fine comune dell'εὐδαιμονία, cui tutti aspiriamo, è variamente inteso, secondo che son varie le nostre tendenze, e diverse le relazioni della vita in cui ci mettiamo[134]. Quel fine non ha bisogno di esserci insegnato o proposto, perchè la natura stessa ci dispone a raggiungerlo. Il vario appagamento del naturale bisogno del benessere dipende dalla opinione che abbiamo delle cose da noi credute degne o indegne della nostra approvazione, e dal vario indirizzo che diamo alla nostra attività. Nella opinione, che abbiamo di noi medesimi e delle cose che possono appagarci, è riposto il punto di partenza di quel che facciamo e vogliamo; e, se l'opinione è falsa, erronea, imperfetta, la nostra attività non può essere degna di approvazione, e merita quindi d'essere corretta. E, per uscire da quella incertezza, nella quale ha potuto gettarci una falsa opinione di noi medesimi, bisogna che ci valutiamo più giustamente, e che sappiamo meglio conoscerci. L'antica massima dell'oracolo di Delfo: γνῶθι σαυτόν, che la tradizione avea interpretata con tante variazioni e commenti[135], acquistava così, per opera di Socrate, un significato più profondo e più intimo; e da semplice precetto di religiosa rassegnazione diveniva espressione adeguata di tutta una pratica tendenza, informata all'intrinseco valore della consapevolezza e del convincimento.

Questa massima, che spesso occorre nei dialoghi socratici[136], ha dato luogo a svariate interpretazioni, ed è in gran parte stata argomento di quella opinione, che fa di Socrate il creatore del principio della soggettività. Nel γνῶθι σαυτόν s'è voluto rinvenire l'affermazione più o meno esplicita della universalità del sapere scientifico, in opposizione col particolarismo empirico e col criterio individuale; e si è in conseguenza detto, che Socrate s'era elevato al concetto dell'umanità e dell'assoluta libertà del soggetto, contrapponendosi alla storia, alla tradizione ed all'oggetto naturale[137]. Senza punto entrare a discutere il merito di una simile posizione, che per alcuni è il cardine della speculazione moderna e la legittima conseguenza del Cristianesimo, a noi pare sufficientemente assodato, che essa ripugni del tutto al carattere storico della dottrina socratica e non sia confermata dalla interpretazione schietta dei testi. Ed accettando in tutto e per tutto l'opinione di uno dei più felici espositori dell'etica greca[138]. non vediamo in quella massima altro se non l'esigenza, che l'uomo sottoponga la sua capacità e le sue doti naturali al più rigoroso esame, per acquistare una piena consapevolezza dell'indirizzo che deve seguire nella vita.

Il valore intrinseco di quella esortazione non cessa d'avere una grande importanza, perchè noi escludiamo quella interpretazione, che ha falsamente creduto improntarle un carattere più universale e più filosofico. Richiamando l'individuo all'esame di sè stesso ed a vincere i pregiudizi di stato o di occupazione, Socrate riusciva a sostituire la potenza del convincimento alla educazione tradizionale ed a suscitare il bisogno dell'intimità, perchè invogliava ad un'attività che fosse sempre accompagnata dalla consapevolezza. L'oggetto di quel sapere, ch'egli insinuava, il σαυτόν, non era la forma generale e teoretica dell'io, ma la natura reale dell'individuo; e, come questa è sempre coordinata al fine dell'εὐδαιμονία, egli stabiliva per la prima volta il concetto positivo della libertà ed i limiti della responsabilità.

La conoscenza di sè stesso non ha luogo mediante un'apprensione immediata, ma è un risultato dell'esame. Bisogna dapprima cadere nell'aporia, e mettere in discussione il concetto esatto di quello che si prende a seguire, come termine e oggetto della propria attività. La discussione percorre tutti gli stadi che abbiamo esposti parlando del metodo in generale; ed una volta che il concetto è stato fermato mediante la definizione e determinato chiaramente in tutte le sue attinenze, si tratta in fine di vedere se l'individuo adegui o pur no, con le sue personali attitudini, le reali condizioni del fine propostosi[139]. La conoscenza di sè medesimo diviene così per l'individuo il reale convincimento della propria attitudine; e mette termine nella consapevolezza del fine cui deve tendere e dei mezzi per conseguirlo. L'apparente universalità logica del precetto sparisce innanzi alle reali condizioni nelle quali si svolge, e diviene in fine una esigenza pedagogica; mercè la quale il filosofo, suscitato dapprima il bisogno dell'esame, conduce il suo interlocutore a sottostare all'intrinseca virtù della convinzione.

2. Fondamento della pedagogia socratica.

Nel convincimento dell'assoluta identità del sapere col volere è riposta l'attività educativa di Socrate, che senza contrapporsi dichiaratamente, e mercè un pratico tentativo, alla morale ed alla politica tradizionale, riuscì a portare nel seno della società una tendenza riformatrice, che più tardi s'andò concretando in molte e diverse scuole filosofiche. Socrate avea, già prima di comparire su la scena pubblica, esercitato sopra sè medesimo quel lavoro di esame, che posteriormente consigliava agli altri; ed era arrivato a convincersi della sua incapacità nelle faccende dello Stato. Il bisogno di accertare e chiarire il fine della propria opera, e di acquistare una notizia sicura ed infallibile dei mezzi da applicarvi, era divenuto a lungo andare un impulso all'indagine, su i mezzi di che gli altri faceano uso nell'esercizio delle proprie facoltà. E, facendo la propria educazione, Socrate era divenuto educatore. Ma, come l'esigenza della ricerca non ammette dei risultati improvvisati o imposti semplicemente dall'autorità, egli era continuamente inteso a riprendere la quistione nei suoi primi elementi, tutte le volte che l'occasione gli offrisse materia a discutere di questa o quella capacità e virtù.

L'Apologia platonica[140] è un documento storico di somma importanza, per ravvisare questo curioso fenomeno di Socrate che educa educandosi, e nell'atto che è incerto di tutto, mediante l'analisi della propria incertezza, produce per sè e per gli altri il criterio della convinzione. Questa attività pedagogica, che era avvalorata dalla personale influenza di un carattere moralmente perfetto, non avea niente di simile con l'arte dell'insegnare, e non era nè parenesi nè insinuazione retorica. L'esempio, la citazione storica, l'autorità dei poeti e della tradizione, la rappresentazione simbolica e mitica poteano più o meno arricchire e corroborare il dialogo; ma la sua principale efficacia era di natura tanto diversa da quella che comunemente chiamavasi persuasione, che Platone non ha saputo altrimenti caratterizzarla, che dandole il nome di arte ostetricia[141]. Quella maieutica, che Socrate avea ereditata dalla madre Fanarete, non era che un'arte sussidiaria della natura; atta sì a sostenere e coadiuvare lo sforzo ingenito della produzione, ma non destinata ad essere produttiva per sè stessa, o a migliorare i naturali difetti.

La consapevolezza della propria capacità o incapacità era la meta cui Socrate volea condurre i suoi interlocutori; e, se poniamo mente alla notevole circostanza, che la più parte dei suoi discorsi cadeano o sopra la scelta di una via a seguire, o sul giudizio da portarsi sopra un'azione compiuta, sopra cose insomma che riguardavano immediatamente il benessere dei suoi interlocutori, s'intende bene come la certezza logica che ne emergeva, per la sua novità e per la sua pratica occasione, dovesse produrre un'impressione molto superiore a quella che altri ha voluto scorgere nel dialogo senofonteo[142]. E quest'attività pedagogica era a quel tempo qualcosa di affatto nuovo, e la sua influenza, presa intensivamente, era di gran lunga superiore a tutto quello che noi generalmente intendiamo per riforma educativa.

L'educazione greca s'era trovata fino a quel tempo in piena armonia con la tradizione politica e religiosa, e tutte le modificazioni che avea subite erano state tacitamente introdotte, senza che mai l'individuo si fosse proposto di far predominare le sue personali convinzioni a discapito delle sostanziali relazioni della vita sociale. Tutte le innovazioni artistiche e politiche furono fino al tempo di Pericle così spontanee e naturali, da non far risentire l'influenza individuale, come qualcosa di opposto alle opinioni comuni. La stessa filosofia naturale non era mai uscita dalla sfera di certi uomini privilegiati, e sebbene fosse indizio di un decadimento non lontano della mitologia e della religione, pure non venne mai ad assumere il carattere di un tentativo di riforma pratica. Primi furono i Sofisti, che si servirono delle ricerche filosofiche come d'istrumento educativo; e senza fare dei sistemi scientifici perfetti e conseguenti, perchè nessuno fra loro si elevò ad una intuizione originale dell'universo, riuscirono a suscitare il bisogno di una correzione o di una conferma delle opinioni tradizionali mediante la riflessione. Ricercare, criticare, analizzare, correggere diviene per opera loro oggetto della vita, e materia di un'arte speciale: e, perchè mancavano di uno scopo determinato ed evidente, riuscirono maggiormente a far nascere il desiderio delle formali esigenze della ricerca. E da quel tempo l'occupazione filosofica divenne un mestiere; e la società cominciò a scindersi in due campi, stando nell'uno i sostenitori della tradizione, e nell'altro i novatori. Socrate non sopravvisse a questo periodo storico; e, sebbene partecipasse al movimento degli innovatori, reagì in gran parte contro di essi con la solidità delle sue vedute. Non fu filosofo di mestiere, ma certamente pedagogo, anzi, come Aristofane lo chiamava a quel tempo, ψυχαγωγός[143]; e, facendo della sua vita un problema educativo, con l'educare sè medesimo e gli altri al tempo stesso, mentre poneva termine al dilettantismo sofistico, impedì che la filosofia tornasse ad essere mera ricerca dei fenomeni naturali. La formale esigenza della certezza, divenendo massima pedagogica nel γνῶθι σαυτόν, fermava un punto solido nel quale la ricerca toccava una norma superiore ad ogni divagazione dottrinale.

VII. LE FORME CONCRETE DELLA VITA ETICA

Socrate non fu nè il capo di una setta, nè il fondatore d'una scuola. Vissuto in un secolo di larga produttività artistica e pratica, ed in mezzo ai più svariati elementi di coltura, conservò sempre la fisonomia individuale e precisa di un perfetto ateniese; senza allontanarsi punto da quella maniera di vivere, che, secondo l'opinione dei suoi concittadini, costituiva il pregio ed il buon nome d'una persona lodevole in tutte le private e pubbliche relazioni. Egli non fu dunque quello che comunemente suole intendersi per un riformatore: un uomo, che in virtù d'un individuale convincimento, o in nome d'una divina vocazione, tenda a sconvolgere l'ordine costituito della società, per riformare a sua posta le istituzioni, le leggi e i costumi. Le sue solide convinzioni lo aveano troppo predisposto a riconoscere nell'ordinamento sociale la prudenza e saggezza, che aveano informato l'animo dei legislatori, ed a guardare con animo tranquillo e rassegnato le conseguenze dell'umana corruzione, o, come avrebbe egli detto nel suo linguaggio, dell'umana ignoranza, perchè potesse venirgli in mente di farsi riformatore e rinnovatore dei costumi. Oltre di che, la natura e l'indole stessa della coltura greca non ammetteva che l'individuale genialità si manifestasse in un immoderato tentativo di pratica riforma; perchè mancava di quell'elemento arbitrario di trascendenza, che nelle religioni orientali, ed in gran parte nel Cristianesimo stesso, ha tanto favorito l'esquilibrio fra la coscienza dell'individuo e la norma costante dell'etica sociale, esaltando troppo la sublimità del precetto o l'intensità del sentimento, a discapito della sostanzialità e costanza delle forme naturali della vita. La coltura greca era ancora animata dal giovanile abbandono al naturale impeto delle passioni, e dal misurato criterio della prudenza e del benessere; e, sebbene in Atene la coscienza riflessa avesse già cominciato a prevalere e ad assumere un carattere universale, astratto, e ricercativo, pure non avea mai perduto il colorito indigeno, spontaneo, e popolare. Il pensiero s'era svolto in tanta buona armonia con tutto il progresso della coltura, che Socrate, come abbiamo già visto, malgrado le profonde collisioni cui dette motivo, non s'avvide di quanto si discostasse dalle tradizionali convinzioni, e non volle mai essere riconosciuto nè come maestro nè come filosofo.

Da tutto quello che abbiamo detto innanzi apparisce chiaro come fosse impossibile che Socrate riuscisse a determinare obbiettivamente un complesso di verità scientifiche; e che i pochi pronunziati etici di lui, che la tradizione ci ha trasmessi, non costituiscono per sè stessi nè un sistema, nè uno schema di scienza morale. E questa posizione affatto relativa delle sue indagini mette più in evidenza come egli non si proponesse e non avesse coscienza di essere un riformatore; perchè la natura delle sue convinzioni non scendeva deduttivamente da un presupposto teoretico ed esclusivo, ma stava in una pratica ed incessante relazione con tutti gli elementi svariati e concreti della vita morale. E, se noi cerchiamo di raccogliere e mettere insieme i diversi concetti, che Socrate avea delle varie forme o attività della vita, l'imagine complessiva, che si ottiene in fine, ha più l'aspetto plastico di un quadro che la natura di uno schema formale. Ma vorremo noi forse con questo giudizio rigettare come interamente falsa l'opinione che fa di Socrate un riformatore? E sarebbe forse questo il modo, come spiegare ed intendere il gran movimento ed il gran progresso che egli produsse in tutte le pratiche discipline? La nostra maniera di vedere non è così esclusiva, e noi abbiamo inteso solamente limitare il valore di una affermazione troppo incondizionata, e che non risponde alla natura ed al genuino carattere della coltura ellenica; e metteremo ora più in chiaro il nostro concetto.

Le diverse forme della vita privata e pubblica e le diverse sfere dell'attività umana non erano ancora a quel tempo divenute argomento d'indagini scientifiche, che ne fermassero l'origine, la natura ed il normale concetto in definizioni d'un valore intrinseco ed attinte alle costanti condizioni dei fatti. È a Socrate che tocca la lode di un primo tentativo per acquistare una coscienza precisa e determinata di tutte quelle svariate attività e di quei molteplici fini che costituiscono nel loro insieme la vita pratica. Non v'ha forma della vita, o relazione etica, che egli non abbia toccata nei suoi discorsi; nei quali sforzavasi, in virtù del suo istinto etico e logico, di chiarire e definire la famiglia ed i suoi elementi, la relazione dell'individuo verso lo Stato e verso la legge, le diverse funzioni della vita pubblica, l'esercizio delle arti e dei mestieri. In un tempo quando non s'avea pur sentore di quello che potess'essere l'economia privata e pubblica, la scienza del dritto, dello Stato, o dell'amministrazione e la tecnica delle arti, era naturale che l'esigenza di determinare i concetti pratici s'avvertisse solo dal punto di vista dell'utilità, e che si spiegasse unicamente nella sua immediata ed occasionale natura. Ed è così appunto che Socrate comincia a tentare una cosciente rettificazione dei concetti di quelle relazioni, che sono termini o forme dell'attività umana; e, prendendo egli le mosse dal bisogno di disporre l'individuo al cosciente riconoscimento della propria attitudine, finì per fissare e caratterizzare alcune differenze obbiettive. Ma, perchè il criterio del giudizio non era obbiettivato scientificamente, la determinazione rimase sempre nei limiti già fissati dal linguaggio comune; e la stessa valutazione dell'importanza relativa delle diverse sfere della vita fu da lui in gran parte accettata dalla tradizione.

Ed è qui appunto che maggiormente apparisce lo stato rudimentale del Socratismo. Da un canto, l'impulso scientifico è evidente, e comincia tanto a precisarsi, che assume quasi la forma di uno schema logico; il quale, sebbene non sia presente alla coscienza obbiettivamente, pure è un presupposto in conformità del quale il filosofo si sente costretto a procedere: e, da un altro canto, tutta la ricchezza dell'immediato contenuto della coscienza etica, sul quale la ricerca si aggira, sta lì disgregata in tutto il suo particolarismo empirico innanzi all'animo del ricercatore, che riesce solo a subordinarlo all'angusto criterio di una formale definizione.

Delle due sfere che indicammo innanzi, quella del sapere e quella dell'ignoranza, la prima era troppo angusta e non ancora approfondita e studiata in tutti i suoi elementi, e l'altra troppo larga ed indeterminata, perchè segnava solamente un termine generico di opposizione, il cui contenuto era ignoto. Ora, in questa sfera appunto che Socrate chiamava in genere ignoranza, e che noi diremmo della coscienza non ancora riflessa e scientifica, sono riposti i primi elementi ed i naturali presupposti di tutte le relazioni e di tutte le attività etiche, prima che divengano argomento delle indagini scientifiche; e ciò è vero, non solo per quel che riguarda l'individuo, ma ancora, e forse più per quel che concerne la stirpe ed il popolo. L'opposizione fra i due termini non s'è palesata a Socrate che in virtù del carattere pratico delle sue esigenze; in guisa che, inteso a cogliere la natura delle forme etiche col semplice criterio di una definizione praticamente e formalmente chiara, egli sconobbe tutto quello che era inadeguato al criterio precedentemente stabilito, perchè non cercava altro che la norma costante delle azioni. Come egli fosse poi costretto ad ammettere in parte gli elementi extrarazionali delle virtù, vedremo in séguito. Questo lato oscuro della ricerca, che in Socrate era un campo vastissimo, s'è andato poi a poco a poco restringendo; fino a ridursi a qualcosa di puramente puntuale, ch'è espresso nella filosofia moderna dal concetto preciso e determinato della naturalità dell'anima incosciente.

Ritornando ora su l'argomento della riforma socratica, ci par chiaro, che essa sia doppiamente limitata: e perchè le tendenze pratico-religiose del nostro filosofo non consentivano ch'egli sconoscesse la sostanzialità della morale privata e pubblica; e perchè la poca perfezione della sua attitudine logica non gli permetteva di determinare intrinsecamente il valore obbiettivo delle forme etiche. Risvegliare la riflessione volontaria ed acuire l'intenzionalità, — ecco lo scopo genuino di quella riforma: e, quando da altri s'è detto che Socrate avesse il chiaro presentimento di una teoria sociale, mercè la quale facesse d'uopo di riformare e regolare col criterio della consapevolezza tutte le diverse attività della vita[144], s'è avuta la fretta d'identificare un risultato più o meno possibile con un semplice impulso individuale e generico. Platone fu invero il filosofo della riforma, ed è in gran parte su la sua autorità che è stata foggiata quella opinione[145]. A noi basterà dire, che non sconosciamo l'influenza socratica nella tendenza riformatrice del Platonismo; la quale, se pure può accennare all'avvenire o aver l'aria di voler ripristinare il passato, in fondo non è che la naturale esplicazione di quella esigenza socratica, che facea necessariamente dipendere l'attività dal sapere.

Abbiamo visto che il precetto delfico γνῶθι σαυτόν non ha un valore esplicitamente filosofico, ma bensì pratico e pedagogico. Nei dialoghi socratici occorre spesso di trovare, che le varie direzioni seguite dalla volontà degl'individui sono fatte oggetto di un esame scrupoloso, e che dal riconoscimento della consapevolezza si fa dipendere il criterio fondamentale di ogni giudizio portato su le relazioni etiche[146]. Il lento esame delle contradizioni, che emergono dal falso concetto della propria attività, si esaurisce nella definizione dei caratteri costanti che formano quella determinata sfera in cui s'aggira il capitano, il corazziere, il pittore e così via; ed a questo processo è analogo un altro, mercè il quale si determina l'attitudine dell'individuo, in rapporto con l'opera ch'è termine della sua attività. Queste due ricerche fanno insomma una sola ricerca; in quanto che la rettificazione del volere è implicita in quella del concetto del voluto, perchè l'uomo vuole appunto ciò che conosce[147].

Da questa posizione procede:

1. Che nel Socratismo non v'ha un valore morale, appreso indipendentemente dalla determinazione concreta delle funzioni pratiche. Quello che noi siamo soliti di chiamare moralità dell'azione è implicita nel giudizio logico ed ha ancora il carattere di una equazione formale fra il volere ed il sapere. L'esigenza di determinare il grado dell'intimità morale è manifesta solo nel suo elemento intellettuale.

2. E che Socrate non sentì il bisogno di determinare in abstracto il concetto dell'εὐδαιμονία; perchè la sua significazione gli era evidente solo nel relativismo delle varie sfere dell'attività umana. E per questa ragione appunto egli non riuscì a stabilire una gradazione nelle forme della vita, col preferirne una all'altra: e, mentre suscitava il bisogno della consapevolezza, non fece della scienza il solo elemento della felicità; potendo essa, come ogni altra forma di attività, portare con sè il malessere e l'infelicità. Nelle scuole socratiche cominciò a determinarsi più nettamente il concetto dell'intima relazione fra l'εὐδαιμονία e la scienza; finchè Platone ed Aristotele non posero la contemplazione come meta d'ogni umano sforzo, esagerando dottrinariamente una relazione sola della vita a discapito delle altre.

1. L'individuo e le sue relazloni domestiche.

Il concetto etico del Socratismo non può misurarsi alla stregua dell'intimità moderna; nè deve mettersi nel novero di quei tentativi di natura affatto esclusiva, che anche nel seno della civiltà antica hanno avuto di mira la sostituzione di una morale trascendente ai bisogni concreti della vita. Da questa semplice premessa, che abbiamo già cercato di approfondire in tutto il suo valore, procede il carattere indigeno e relativo dell'etica speciale di Socrate. L'opinione quindi ch'egli s'era formata dell'individuo perfetto era in gran parte attinta dalle reali condizioni della vita; e non tendeva a contrapporre alle tradizioni ed alle pratiche del costume una posizione arbitraria. Socrate in vero insisteva sul bisogno della continenza, come sicuro fondamento d'ogni virtù[148]; e consigliava l'astinenza dai piaceri, perchè essi ci rendono scontenti della vita ed incapaci di affrontare i pericoli per conseguire gloria ed onori. La vera libertà consistea per lui nel fare astrazione dai piaceri del corpo e nell'esercitare tutte le funzioni della vita in vista dell'interno benessere, che consiste nell'equazione fra gli atti esterni e le interne convinzioni. E, rassomigliando egli lo stato dell'uomo che seconda l'appetito naturale dei piaceri a quello dello schiavo[149] e riponendo poi la libertà nella consapevolezza e nell'amore del sapere[150], rilevava tanto chiaramente l'importanza intrinseca della coscienza individuale, da stabilirla come criterio costante e come punto di partenza d'ogni morale valutazione. Ma, se da un'altra parte consideriamo che questo rialzare l'individuo al riconoscimento interno della propria destinazione non escludeva il principio affatto ellenico della subordinazione allo Stato e non importava l'esercizio di virtù speciali distinte dal pratico scopo dell'attuazione concreta dei vari bisogni della vita, apparisce chiaro come il criterio etico di Socrate non fosse che quello della moderazione, intesa quale pratica efficienza. La misura, la chiara coscienza dei limiti dell'individuale capacità e responsabilità, — ecco tutta la morale che può ricavarsi dai detti socratici, che concernono la vita dell'individuo. E Socrate stesso, che senza farsi trascinare dall'attrattiva de' piaceri, e vivendo nel bel mezzo d'ogni sorta d'uomini, godea della mensa e del simposio, della conversazione dell'etera e della συνουσία di giovani lussureggianti per dovizie e bellezza, era il più perfetto modello di quella morale moderazione e misuratezza, che cercava poi la sua teoretica manifestazione nel sano criterio di una felice riuscita o di un imperturbato benessere individuale. Questa morale, che ignora ancora ogni ascetica e mistica tendenza, al tempo stesso che condanna come servile pericolosa ed ignava la ricerca degli onori e delle ricchezze, perchè ne può derivare scontento e individuale malessere, è un naturale prodotto della vita ellenica, l'espressione ultima e più riflessa di quel sentimento limitativo e prudente della natura umana, che avea fatto riconoscere nell'ὅβρις la radice ed il principio d'ogni infelicità, e d'ogni morale degradazione[151]. Sotto questo riguardo, noi non sappiamo con che ragione alcuni insistano su la poca purezza morale di questa idea fondamentale del Socratismo[152].

Dal punto di vista che abbiamo assegnato non era da aspettarsi che Socrate portasse una notevole riforma nel concetto delle relazioni domestiche, mettendosi in opposizione con le vedute tradizionali. L'eguaglianza di capacità che egli accordava alla donna[153] non lo indusse a modificare il concetto ovvio fra i Greci, che lo scopo del matrimonio fosse riposto nella generazione[154]; la quale opinione a noi non pare sia tanto caratteristica, da doverci invogliare a discutere quello che secondo il dialogo senofonteo Socrate pensava delle donne. A quei tempi s'era molto lontani dalla questione astratta sul valore giuridico della donna, ed ancora più dal sentimentalismo moderno, che a furia di esaltare la nobiltà ed eccellenza del sesso muliebre ne ha resa più difficile la morale emancipazione e dignità; e, se ad alcuno fosse venuto in mente d'emancipare le donne, si sarebbe attirata la pubblica riprovazione, come avvenne dei fantastici innovatori messi in satira nelle Ecclesiazuse di Aristofane. È sotto un altro riguardo che Socrate influì ad approfondire il concetto della famiglia, perchè a lui indubitatamente compete la lode d'avere pel primo occasionato quelle indagini su la domestica economia, che, con tanta evidenza di socratica dialettica e tanto studio di pratiche utilità, si trovano poi raccolte in uno dei più originali lavori di Senofonte, l'Economico[155].

Il concetto della vita dipendeva per Socrate, in tutto e per tutto, dal principio della consapevolezza; e la costante applicazione di questo criterio non poteva in qualche punto non contradire al naturale sentimento della domestica pietà. Egli in fatti non rifuggì dalla pericolosa opinione di far dipendere la filiale riverenza dal grado di capacità o d'intelligenza, che il figlio può presumere nel padre, autorizzandolo a non sacrificare la propria intellettuale capacità al principio istintivo del rispetto e dell'ubbidienza[156]. Da questa ambigua posizione seppe trarre partito Aristofane nella interessante catastrofe delle Nuvole[157], per improntare nel suo dramma quel carattere di morale severità, che lo eleva dalla sfera ordinaria di un contrasto comico alla estetica dignità di una profonda antitesi etica e pedagogica. Ma, se noi consideriamo che il sapere socratico non era quello a difesa del quale Feidippide si ribellava alla paterna autorità di Strepsiade, e che Socrate non volea, come l'aerobato di Aristofane, mettere in su i giovani con le vanità di metriche e retoriche disquisizioni e con le vuotaggini di una metereologia da chiappanuvole; se, in somma, poniamo mente alla natura affatto pratica del sapere socratico ed alla naturale modestia dalla quale era sostenuto ed animato, intenderemo un po' meglio quella massima pericolosa, e non la misureremo alla stregua di un effetto patetico e drammatico[158]. Il dritto paterno presso gli Ateniesi era altrettanto lontano dal rigorismo romano della patria potestas, per quanto si discostava dal sentimentalismo moderno: il concetto della tutela ne costituiva l'elemento essenziale, e a quella potea essere in molti casi sostituita la più ampia e più generale tutela dello Stato. Le leggi positive limitavano così strettamente l'autorità del padre, che non senza ragione un profondo conoscitore del dritto greco ha saputo ridurla al semplice concetto di una funzione educativa[159]. L'opinione adunque di Socrate non era estremamente contraria al concetto comune, e non facea che amplificare, nella forma speciale delle nuove esigenze filosofiche, la limitazione tradizionale dell'autorità paterna. E con ciò non abbiamo inteso giustificare, ma solo spiegare l'origine di quella massima pericolosa; ed a persuadersi del suo valore relativo basterà osservare, come Socrate in altra circostanza ritenesse per obbligatoria in tutti i casi la riverenza verso la madre[160].

L'attività pedagogica di Socrate portava necessariamente con sè l'abito del convivere (la συνουσία) coi giovani, ed offriva argomento ad una ricerca su la natura dell'amore. La relazione affettiva fra persone del medesimo sesso, che è tanto estranea alla coscienza moderna, era presso i Greci ammessa e riconosciuta dall'opinione generale, e non solo celebrata nel suo lato patologico ed estetico dai poeti e dalle poetesse, ma in alcuni luoghi determinata dalle leggi positive dello Stato[161]. Quell'affetto era considerato nella sua pratica efficacia come uno degli elementi del vasto concetto dell'eteria, che formava uno stato intermedio tra la famiglia e lo Stato: e, non essendo assolutamente escluso dalla lode e dall'etica approvazione, come avviene nel mondo moderno, si prestava a tutta quella gradazione di perfezionamento estetico, che in molte altre passioni dell'animo ora non si trova difficoltà di ammettere, Socrate non ha saputo rigettare, ma solo correggere questa comune opinione; e, sebbene il Simposio di Platone sia lì a glorificazione della morale temperanza di lui, pure noi non possiamo negare che l'elemento patologico dell'amore ed il compiacimento estetico nella συνουσία coi giovani costituisse un elemento integrale della conversazione socratica. Egli in vero, applicando i suoi concetti etici, volea esclusa dalla relazione erotica ogni intemperanza[162], e stabiliva come criterio del vero amore la ricerca dell'altrui bene, l'abnegazione e la rinunzia al fine interessato del proprio compiacimento; ma con tutto questo non escludeva a nostro parere il carattere affettivo della relazione[163], e non condannava in principio una tendenza, che poi nella letteratura socratica venne a spiegarsi in tanto lusso d'estetica perfezione. È sotto un altro riguardo che Socrate approfondiva il concetto della relazione fra persone del medesimo sesso; determinando cioè la natura dell'amicizia e facendola consistere nell'incondizionata ricerca dell'altrui bene, e dipendere dalla inevitabile condizione di una virtù appensata ed abituale[164]. L'ἔρως da un canto e l'amicizia dall'altro pare che tendano ad unificarsi nel criterio comune della benevolenza; ed a noi che possiamo, in tanta scarsezza di notizie, cogliere solo il lato logico della definizione, rimane oscuro il carattere preciso della prima relazione, perchè nella nostra morale coltura siamo generalmente sforniti del criterio ellenico d'assoluto compiacimento estetico[165].

2. L'individuo e lo stato.

Nel concetto che Socrate s'era fatto dello Stato apparisce, più vivamente che in qualunque altra delle sue definizioni, il contrasto che correa fra la novità delle sue filosofiche esigenze e la naturale tendenza alla conservazione delle sostanziali relazioni della vita etica, che in lui era sussidiata dal convincimento religioso e da una profonda abnegazione. Il principio normativo della consapevolezza non gli consentiva di ammettere che la potenza, o il dritto ereditario, o la scelta del popolo mediante i voti potessero costituire la capacità dell'individuo a trattare le faccende dello Stato[166]. Solo la piena coscienza della propria capacità e la speciale conoscenza delle faccende da trattare possono e devono invogliare l'individuo ad una legittima ambizione politica[167]; e questa diviene per sè stessa un dovere, quando è sorretta dal fermo convincimento, che l'attitudine e la specifica intelligenza dell'individuo rispondono alle normali esigenze della vita politica. All'attuazione pratica di questa massima solea Socrate disporre i suoi uditori, sviluppando nel loro animo il bisogno di acquistare una chiara e perfetta notizia degli obblighi speciali che spettano a questo o a quello fra gli amministratori dello Stato, e riassumeva tutta la sua politica nel principio che solo chi sa deve e può fare, ossia che il potere sta nel sapere. L'importanza di questa massima innovatrice ci fa apparire l'attività socratica in una manifesta opposizione con tutti i concetti tradizionali della politica greca, perchè, in virtù di essa, il dritto ereditario della monarchia e dell'aristocrazia, ed il concetto democratico della maggioranza erano recisi nella loro radice e subordinati alla necessità di una generate rettificazione di tutte le forme sociali dal punto di vista della consapevolezza. Ma pur nondimeno la cosa non andava tant'oltre, e noi non sappiamo scorgere in tutto questo l'esigenza o il presentimento di una radicale riforma dello Stato, o, come altri ha detto, di una teoria sociale fondata sul principio della conoscenza esatta. Il sapere, di cui parlava Socrate, non era qualcosa di distinto dalla conoscenza empirica dei vari rami della pubblica amministrazione, e non era costituito in un insieme di teorie universali e scientifiche. Egli non potea quindi, come più tardi fece Platone, ideare la costituzione di uno Stato, in cui la coordinazione e subordinazione delle sfere sociali fossero determinate dal concetto psicologico della gradazione della conoscenza. Il suo concetto non ha colorito e carattere esclusivo di una tendenza filosofica, che voglia imporsi alle pratiche esigenze della vita per regolarle a sua posta; ma rimane subordinato alla varietà estrinseca delle sfere sociali, e non ne sconosce la originalità per farla rientrare nei confini di uno schema astratto. Di qui procede, che, malgrado l'apparenza di una dichiarata riforma, Socrate riconobbe l'ubbidienza alle leggi come impreteribile[168]; e, fedele all'antico principio ellenico della sostanzialità dello Stato, fece dipendere il bene dell'individuo da quello della comunità[169]; e considerando la sua attività filosofica come parte integrale dei suoi doveri di cittadino morì nel rispetto alle leggi, e nel convincimento, che la condanna pronunziata contro di lui non fosse che una legittima manifestazione dell'attività dello Stato[170].

L'opposizione fra il vecchio e il nuovo, fra il concetto sostanziale e l'esigenza di una personale sodisfazione nello Stato, si chiarì maggiormente nelle scuole socratiche; e specialmente in Platone, il cui ideale politico non deve essere inteso, nè come ripristinazione dello Stato dorico[171], nè come un segno precursore del Cristianesimo[172], ma conviene sia spiegato come un progresso teoretico del principio enunciato da Socrate, che il potere deve consistere nel sapere.

Che i concetti da noi più sopra esposti non avessero una tendenza dichiaratamente riformatrice, apparisce ancora di più dal modo del tutto pratico come Senofonte introduce il suo eroe a discutere con questo o quello dell'esercizio speciale delle diverse arti, che conferiscono al pubblico bene o al mantenimento delle sociali relazioni. Una sola è l'idea fondamentale di tutti quei dialoghi: rettificare mediante la definizione il concetto del fine cui l'attività è rivolta, per far convergere tutti gli sforzi dell'individuo all'acquisto di una norma costante, che ne regoli la pratica senza incertezza e divagazioni. Sotto questo riguardo il calzolaio o lo scultore, il pastore e l'arconte, il marinaio ed il generale ecc., per quanto varie le loro occupazioni e diversi i fini cui sono rivolti, devono tutti convenire nella norma dell'esercizio metodico delle loro funzioni, e sostituire alla pratica istintiva, tradizionale ed incosciente la norma del sapere. Senza entrare nella specializzata esposizione di questo o quel dialogo, perchè in tutti gli svariati casi non rileveremmo che una sola conclusione, basterà qui dire che Socrate è stato il primo, che abbia nettamente formulata l'esigenza di una tecnica speciale delle arti e ravvisata la necessità, che a capo di ogni pratica occupazione deve esser collocata la riflessione normativa: e, per le cose già esposte, non fa mestieri che chiariamo meglio questo pensiero, perchè altri non creda, che egli intendesse conciliare la pratica e la teoria, l'arte e la scienza.

E qui cade in acconcio di osservare che la meraviglia, con la quale molti hanno riguardato il dialogo che Senofonte riferisce con la meretrice Teodota[173], non ha fondamento che nella natura delle nostre morali convinzioni. Quel dialogo, che non deve essere addotto a provare che la principale preoccupazione di Socrate fosse la ricerca dei concetti[174], nè può essere inteso come interamente derisorio[175], perchè l'ironia è un momento generale della conversazione socratica, mostra, a nostro parere, che il mestiere della meretrice potesse anch'esso nei suoi elementi affettivi venir subordinato al criterio socratico di un esercizio normale e riflesso. Quell'arte non destava allora gli scrupoli esagerati, che noi moderni siamo soliti di provare contro ogni divagazione della natura dalla norma assoluta di una morale precettistica[176]; anzi, per le speciali condizioni della famiglia greca, sviluppava soventi nelle donne libere un grado di cultura superiore di gran lunga a quello della donna legalmente ritenuta nelle angustie del gineceo[177].

E a terminare questo schizzo della coscienza politica e sociale di Socrate osserveremo, che egli, col rilevare l'importanza dell'attività cosciente, nobilitò il concetto del lavoro, facendone uno degli elementi costitutivi dello Stato e della famiglia. Questa veduta era allora qualcosa di nuovo, perchè diretta a reagire contro un pregiudizio, fondato nella costituzione sociale dell'antica Grecia e già da gran tempo invalso, che facea considerare come indegna dell'uomo libero la produzione ottenuta col lavoro manuale. Se Socrate abbia o no superato il particolarismo ellenico, e se ritenesse per giusta come vuole Senofonte[178], o per ingiusta come vuole Platone[179], l'offesa arrecata al nemico, nella grande incertezza dei criterî seguiti dai vari espositori noi non sappiamo affermare[180]. Ad ogni modo, l'autorità di Senofonte ci parrebbe da preferire, e la maniera arbitraria come si è voluto da alcuni interpetrarla ci pare infondata e priva di ogni verosimiglianza[181].

VIII. DELLE VIRTÙ

Le svariate relazioni etiche, in cui s'impronta la volontà e che costituiscono le diverse forme della vita privata e pubblica, si trovano già distinte e fino ad un certo punto precisate e valutate dal linguaggio comune, prima che la riflessione filosofica imprenda a spiegarle e definirle. Ed in quello stato puramente tradizionale ed immediato Socrate le avea còlte, per astrarre dall'imagine concreta alcuni tratti notevoli, e fermarli poi in un concetto che esprimesse il risultato del processo dialogico. Questo risultato non può dirsi ancora scienza positiva dello Stato, del dritto, dell'economia ecc. perchè sfornito di quelle obbiettive relazioni che emergono dal valore ideale dei concetti, il quale s'ottiene solo quando non s'ha tutte le volte a ricominciare il lungo ed intricato cammino dell'induzione. Socrate in somma riuscì solo ad avvertire il bisogno della determinazione; ma non fece nè poteva fare l'etica nelle sue concrete determinazioni, a quella stessa guisa che non avea potuto elevarsi al concetto astratto del sapere.

Ma, oltre a queste forme concrete della vita etica, che s'impongono alla considerazione con certi limiti determinati, perchè in esse effettivamente s'aggira tutta l'umana attività, v'ha altre rappresentazioni elementari che esprimono un valore etico, e son quelle che costituiscono le diverse virtù. Già prima che apparisse in Grecia la ricerca scientifica, quelle rappresentazioni aveano occupato l'animo dei poeti, degli oratori e degli storici; ed aveano assunto nelle loro sentenze il carattere preciso di una costante valutazione, che esprimeva, o nella forma entusiastica della fantasia poetica, o nella gravità d'un giudizio morale, in che conto fossero tenuti gli abiti virtuosi come predeterminanti l'esito buono o cattivo delle imprese.

Non è questo il luogo di esporre, nemmeno sommariamente, il ricco sviluppo del concetto delle virtù nella letteratura greca innanzi Socrate; ma bisogna pur nondimeno escludere un falso concetto, che s'ha comunemente della coscienza ellenica da tutti coloro che partono dalla supposizione, che le nostre idee morali debbano servire di assoluta norma nella interpretazione degli antichi. La parola ἀρετή vuol dire in generale virtù, come forza, capacità, attitudine, disposizione, senza che implichi originariamente una valutazione favorevole. Questo significato primitivo è evidente in Omero[182]; e sebbene si fosse posteriormente modificato fino ad esprimere un valore strettamente morale, la parola conservò sempre il senso largo ed indeterminato che avea dapprima[183]. Ora, in questa storia estrinseca della parola è espresso l'approfondirsi successivo della coscienza, che, creando un nuovo valore, l'appercepisce nella forma antica e con l'antico istrumento. Lo sviluppo della significazione ha un doppio aspetto: da un lato, la virtù, come naturale attitudine, viene distinta in una doppia serie di predicati esprimenti approvazione o riprovazione; e dall'altro, il sentimento inerente alla rappresentazione di questa o quella virtù acquista una sempre maggiore intensità, a misura che la coscienza del valore intrinseco dell'uomo diviene più intima. Cogliere il primo lato di questa progressione nei diversi scrittori è facile dal punto di vista puramente critico e filologico; ma determinare il secondo è cosa molto ardua, perchè importa una ideale riproduzione del tenore e del colorito proprio e specifico di una data intuizione della vita, che non può ottenersi sempre senza l'intrusione di elementi estranei. Studiare sotto questo riguardo lo svolgimento dell'etica greca è cosa che supera di troppo le forze separate dei filologi e dei filosofi; mentre è questo un problema di somma importanza non solo per la storia della morale, ma per la psicologia in generale.

Il significato incluso nei diversi nomi delle virtù era già divenuto al tempo di Socrate qualcosa di preciso, e la coscienza era già assuefatta a vedere in esse dei caratteri costanti, ed a stabilire diverse relazioni fra le varie virtù, per esprimere in una veduta generale il valore della vita nella sua perfezione[184]. Ma, oltre a questa coscienza volgare, un'altra tendenza più riflessa cominciava a governare gli spiriti, e ridestava il bisogno di escludere l'intervento soprannaturale, per spiegare le azioni umane come prodotto necessario delle umane passioni. Nella letteratura extrafilosofica basta por mente a Tucidide, per persuadersi di quanto poco valore s'accordasse ormai al destino[185]; per non dire di Euripide, che la più gran parte dei critici considera piuttosto come un organo volontario della Sofistica, anzichè come espressione spontanea di un nuovo progresso nella riflessione morale. La quistione esplicitamente dottrinale su le virtù comincia coi Sofisti[186]. Il movente della quistione era in essi il bisogno pratico dell'insegnamento e della propaganda[187]. Piegare l'uomo all'esercizio di certe arti o discipline mediante la persuasione, la quale riposava in gran parte nell'abilità oratoria del maestro a saper mettere sotto gli occhi i vantaggi di questa o quella scelta, era uno dei capi principali dell'attività sofistica[188]. In questa tendenza, che assumea i caratteri tanto diversi della insinuazione, della passione politica, della esercitazione retorica e della parenesi morale, si specchiano luminosamente tutte le gradazioni di quella classe d'uomini speciosi, i quali, se pure non hanno fatto fare un sol passo alla coscienza morale, hanno indubitatamente il merito di avere ventilate delle quistioni affatto nuove e di averle trattate con pratica efficacia.

L'incarnazione tipica delle virtù nelle forme del mito e della leggenda avea perduto molto del suo valore; e la democrazia ateniese avea distrutta la cieca fede nei pregiudizi di casta, che consideravano come ereditarie le virtù. Il bisogno del tempo era di ritrovare nei generali elementi della natura umana i caratteri costanti dell'animo, che costituiscono la natura e l'esercizio delle virtù; e come già s'era tentato più volte di stabilire fra le diverse attitudini dell'uomo un legame di dipendenza e di derivazione, bisognava ancora fare il tentativo di coordinarle in uno schema formale.

Vediamo come Socrate abbia corrisposto a queste esigenze.

1. Il concetto della virtù nell'orizzonte socratico

La determinazione del concetto della virtù dipende, nell'orizzonte socratico, in tutto e per tutto dalle condizioni logiche della ricerca, ed ha un termine fisso nella rappresentazione dell'εὐδαιμονία. Il processo dialogico, tutte le volte che il discorso cade su le virtù, prende le mosse dalle concrete relazioni della vita nelle quali esse si manifestano, e cerca di coglierne i caratteri costanti, escludendo successivamente le false determinazioni che provengono dall'intrusione di elementi accidentali o dall'intervento di una falsa valutazone. Le virtù divengono quindi tanti oggetti di ricerca, ai quali viene applicato il metodo di rettificazione che più sopra abbiamo descritto. La volontà, come termine esprimente una potenza dello spirito o una determinata funzione dello stesso, è estranea alla ricerca socratica; la quale considera le svariate attitudini, che costituiscono le virtù solo nella loro concreta attualità, la giustizia nelle forme giuridiche dello Stato, il coraggio nella guerra ecc. L'attività umana segue sempre in tutte le sue svariate manifestazioni certe vie più o meno determinate, che hanno per fine questa o quella sfera della realtà, e tutte insieme hanno per termine l'aspirazione al benessere[189]. Questa molteplicità non è ancora ridotta da Socrate al concetto della potenza unica (il volere), ed egli non fa astrazione dal termine reale in cui questa o quell'attività va a compiersi; perchè il suo intento non era quello di spiegare ma di definire solamente la virtù, in quanto abito determinato e direzione costante. L'esigenza, avvertita già dai Sofisti, che dovesse tentarsi la definizione delle virtù, era in Socrate modificata non solo dalla costanza e normalità del metodo ricercativo, ma eziandio dal carattere più intimo della mia coscienza, avendo egli nell'intensità dei suoi religiosi convincimenti rialzato di molto il valore intrinseco della moralità. Ora questo accento di maggiore intimità, che ha la sua ragione in un concetto più profondo dell'importanza dell'uomo e della religiosità della vita, non ha bisogno di essere messo in chiaro con l'autorità di questo o di quel passaggio, perchè è troppo evidente nel Socratismo. Questa personale intensità del proposito e questa più chiara convinzione della importanza della normalità nelle azioni non fecero di Socrate un precettista, perchè la sua coscienza era estranea ad ogni predominio della soggettività.

2. Identificazione delle virtù e del sapere[190]

Abbiamo già mostrato come Socrate sconoscesse tutto il lato irriflesso della vita dello spirito, per dar valore solo a quello che trova la sua espressione nel sapere. Il concetto quindi della virtù non gli è apparso in tutta la sua larga sfera psicologica, ma solo negli angusti limiti della formale determinazione. Questa è la cagione del principio tante volte ripetuto nei dialoghi socratici, che la virtù consista nel sapere, e che possa apprendersi[191]: il cui correlativo è, che il vizio sta nell'ignoranza[192]. Così il complicato concetto della virtù non rivela nella dottrina socratica che un suo lato parziale, quello appunto che colpiva maggiormente l'attenzione da quel punto di vista della ricerca.

Correggere la falsa opinione che gl'interlocutori potessero avere di sè medesimi, e richiamarli al riconoscimento di una stregua costante nella valutazione della propria opera e del fine della propria attività, questo costituiva il significato morale del dialogo. Una volta raggiunta, mediante la definizione, la evidente conoscenza dell'attività o del fine in quistione, questo conoscere chiaro diviene di necessità una nuova condizione per tutto il processo pratico incluso nella norma formale. Esclusi quindi i motivi accidentali, che possono determinare all'azione nella sfera dell'ignoranza, non v'ha che delle condizioni necessarie ed impreteribili, giusta le quali l'attività dell'uomo determinata ad un certo fine deve esplicarsi. Tutte queste condizioni coincidono in un carattere comune, che è quello del sapere, come sicura vittoria su l'incertezza dei criteri pratici, ch'è inseparabile dall'ignoranza; sicchè tutte le virtù fanno uno nel concetto del sapere. Ma questa riduzione, che c'è lì come esigenza di colui che ricerca, non si obbiettiva in uno schema di rotazioni, che esprimano la reale connessione e coordinazione delle attività etiche nell'animo, o nel mondo dell'attività umana: perchè quel sapere non è per sè stesso attivo come forma o funzione. E, quindi, quando Socrate dice che la giustizia è la conoscenza di tutto quello che in ordine allo Stato costituisce l'utile, il benessere e la concordia[193], e che la pietà è la conoscenza di tutto quello che costituisce la vera relazione fra l'uomo e la divinità[194], il termine che deve chiarire la cosa è per sè stesso evidente ma attinge la sua concreta determinazione dalla cosa stessa.

La pretesa identità di tutte le virtù pare così che si sciolga in una molteplicità di virtù, che sono tante quante le definizioni che risultano dal dialogo, tutte le volte che esso è rivolto ad analizzare e determinare un dato gruppo di azioni. Ogni virtù diviene un complesso di conoscenze chiare ed evidenti, relative alla specializzata attività del capitano, del giudice, dell'economo ecc. Ma questa oscillazione fra l'unità e la molteplicità è superata con una concreta determinazione secondo la quale, non essendo la σοφία o la σωφροσύνη una virtù speciale, ma l'armonica compenetrazione di tutte le virtù nell'individuo perfetto, rimane aperto e libero il campo a ciascuno per l'esercizio speciale di questa o quella virtù[195].

Questa posizione e difficoltà pratica del problema non ci consente di tentare sul serio, come s'è fatto da altri[196], una classificazione delle virtù cardinali; e, tutto al più, si può ammettere, che, essendo già stata precedentemente espressa nei monumenti letterari e nei detti della sapienza volgare una certa enumerazione e coordinazione della virtù[197], quelle forme approssimativamente schematiche avessero implicitamente determinato come termini costanti il dialogo socratico[198]. E quindi avviene, che non senza ragione noi scorgiamo ancora la coincidenza delle definizioni socratiche con certe classificazioni delle virtù che allora erano comuni, e che possiamo ridurre le definizioni delle virtù nella dottrina di Socrate a tre fondamentali: la continenza (ἐγκράτεια[199] ), il coraggio (ἀνδρία[200] ) e la giustizia (δικαιοσύνη[201] ). Ma questa classificazione, che non è per niente sistematica, non abbraccia la totalità delle virtù di cui è parola nei dialoghi socratici, come è quella, p. e., dell'εὐσεβής, che consiste nella conoscenza esatta di tutto quanto si deve agli Dei.

Il concetto della virtù socratica ha una doppia misura. Avendo Socrate riposta l'essenza della virtù nella consapevolezza, ed ammettendo che la conoscenza è divinamente predeterminata al bene, egli riusciva a stabilire una più larga valutazione dell'elemento morale del volere; perchè quello che apparisce buono nella sfera comune della vita, in tanto può essere corretto alla stregua della conoscenza, in quanto che questa, nella sua intima natura, corrisponde ad un fine superiore ad ogni umano arbitrio. Socrate quindi, mentre conservava in gran parte quell'imagine plastica ed immediata della vita, che la comune maniera di vedere gli avea trasmessa, accennava al bisogno di una maggiore intimità; e, sebbene portasse nelle sue convinzioni teleologiche tutte le vedute relative dell'utilitarismo, non può negarsi, che, con l'avere allargato il problema dell'etica ad una generale intuizione della divinità e del mondo, ha in parte predeterminata una più profonda cognizione del bene. Il compiacimento incondizionato nella bontà della virtù è stato formulato per la prima volta da Platone[202], il quale fu guidato da un senso più estetico alla soluzione del problema etico.

3. Ignoranza degli elementi naturali.

La perspicuità formale del concetto della virtù esaurisce tutto l'interesse scientifico di Socrate, e segna il limite della sua ricerca. In questa posizione si scorge evidentemente un difetto cardinale, che consiste nella insufficienza del concetto del sapere per spiegare ed intendere che cosa sia la virtù, e come si formi e si sviluppi; e da questo difetto deriva una necessaria inconseguenza in certe determinazioni speciali. Il difetto è stato già notato da Aristotele[203]; e l'inconseguenza apparisce chiara a chiunque legga i Memorabili di Senofonte.

L'esigenza regolativa della definizione apparisce a Socrate come la sola via sicura, per raggiungere la cognizione certa e costante del concetto delle virtù. Questo punto di vista era storicamente e psicologicamente determinato dal bisogno di correggere normalmente le ambiguità della coscienza comune. Ma, per un equivoco non infrequente nella storia della filosofia, Socrate si trovò indotto a confondere l'istrumento di cui si serviva con l'oggetto al quale l'applicava; ed obbliando la concreta varietà delle naturali attitudini e delle favorevoli o sfavorevoli circostanze, come la virtù gli era palese nella sfera del sapere evidente, disse che la virtù consiste nel sapere. L'escluvisismo di questa veduta non può dirsi dottrinario, perchè Socrate non avea coscienza del sapere obbiettivamente; ma è certo la forma più spontanea ed immediata di quel dottrinarismo, che fu limite insuperabile della coscienza filosofica degli antichi. Solo quando si voglia prender le mosse da una larga esperienza dei fenomeni psichici si può riuscire a determinare la normale formazione ed il graduale sviluppo dei concetti etici; la cui energia come impulsi all'azione è innegabile, senza che perciò possa dirsi, che l'attività non è che l'estrinsecazione della conoscenza. L'incongruenza logica fra le due sfere dell'azione e del sapere è tanto patente, che Socrate stesso, e forse senza avvedersene, fu costretto ad ammettere degli elementi extrarazionali, affermando che ogni virtù derivi dall'esercizio[204] ed ammettendo che le naturali disposizioni conferiscano molto alla virtù del coraggio[205]. Ma, come mancavagli ogni notizia del problema psicologico, e l'uso affatto occasionale dell'induzione non l'avea fornito di un instrumento logico completo e perfetto, così avvenne, che l'osservazione positiva di queste circostanze reali non divenne argomento per correggere la falsa ed astratta opinione che la virtù sia identica al sapere, Aristotele, che col suo consueto accorgimento ha notato il difetto della dottrina socratica, fu inteso a spiegare psicologicamente l'origine di quella coscienza difettosa etica, che Socrate avea appercepita col termine generico d'ignoranza; e, come fu il primo ad avvertire la necessità di uno studio scientifico della vita e dell'anima, portò nel campo etico tutto lo schematismo della psicologia. E, pur nondimeno, la distinzione fra l'intelletto attivo e passivo, e tutto l'apparato della facoltà dell'anima, non valsero a salvarlo dal falso dottrinarismo logico, di che abbonda la sua etica[206].

IX. DI NUOVO DEL BENE, DELLA FELICITÀ E DEL SAPERE

Dopo aver riguardato il lato logico della dottrina di Socrate, ed aver mostrato come egli procedesse alla rettificazione formale dei concetti etici, per costituirli in una indipendenza assoluta dalle anormali fluttuazioni del vedere comune e raccogliere il significato nella trasparenza di una nozione riflessa, dobbiamo ora toccare un altro punto non ancora trattato. Tutta questa disamina ci fa essere ancora incerti sul valore positivo dei concetti fondamentali dell'etica socratica, e ci fa sentire il bisogno di domandare quale fosse il preciso significato di certi termini concreti, che quella ricerca considerava come punti fermi d'ogni umana attività. E, in fatti, se noi vogliamo sapere cosa sia il bene nel suo valore positivo, e quale il contenuto dell'εὐδαιμονία, non basterà dire, che quello sia il risultato dell'abito virtuoso, e che questa dipenda dal cosciente esercizio delle naturali attitudini, nell'intento di conseguire la propria sodisfazione in una determinata sfera della vita, queste determinazioni importano nè più nè meno che una semplice tautologia. Lo stesso concetto del sapere non vale a chiarire per niente i concetti, che vorremmo veder determinati; perchè abbiamo già mostrato, che la sua natura dipende nel Socratismo dal fine pratico della ricerca, e non può quindi col suo proprio contenuto chiarire la sfera del concetto del bene, perchè l'adegua perfettamente, I tre termini adunque, che così spesso abbiamo adoperati in questa esposizione, il bene, l'εὐδαιμονία ed il sapere, devono essere meglio chiariti, perchè valgono di finale dilucidazione al nostro lavoro.

1. Del bene

Se vogliamo cogliere il significato genuino del concetto del bene secondo l'opinione di Socrate, bisogna che procediamo per via d'esclusione; perchè altrimenti saremmo fuorviati da quei criteri, che nella nostra coltura più sviluppata e più moralmente approfondita segnano la norma dei nostri giudizi pratici. Altri critici ed espositori, incapaci di arrendersi alle esigenze di una giusta valutazione storica, o hanno condannato Socrate per avere confuso, come essi dicono, il bene, e l'utile[207], o, temendo di profanare la veneranda figura del filosofo che tutto il mondo onora quale modello di morale perfezione, hanno rigettata la testimonianza di Senofonte, come quella che più chiaramente conduce alla presunta confusione[208]. A nostro parere, quella definizione socratica del bene che Senofonte riferisce, non avrebbe dovuto eccitare tanto stupore nei filosofi moderni, perchè in fondo, essendo essa la prima definizione se non completa almeno parzialmente vera che siasi data del bene, bisogna più tosto considerarla come una scoverta che rigettarla come prodotto di una coscienza imperfetta. Socrate, in fatti, non potea, con un atto istantaneo di astrazione teoretica, produrre un valore etico, la cui determinazione dipende da un lungo processo storico e psicologico; o, se è riuscito a definirne uno degli elementi, o a rilevarne almeno la pratica importanza, questo solo atto di energia intellettiva vale molto più che un certo falso misticismo, il quale, a furia di metter su concetti sublimi e trascendenti, non sempre riesce a correggere le formali condizioni del pensiero.

La morale socratica era in tutti i principi e in tutte le conseguenze eudemonistica[209], e riconosceva nella ricerca del bene l'ingenito appetito del benessere in ogni sfera della vita. Ma bisogna notare che quella posizione il filosofo non se l'era fatta arbitrariamente, escludendo quei criteri di morale valutazione che sono agli occhi nostri di una natura più intima e più vera; perchè, non avendo egli mai perduto di vista il termine concreto della vita pratica, ch'era scopo delle sue indagini, non potette elevarsi alla considerazione della norma etica nel suo valore incondizionato, e l'apprese quindi dal fatto stesso della vita. Nè vale ricorrere all'argomento della morale perfezione del carattere di lui, per rigettare il concetto eudemonistico dei Memorabili[210], e perchè non si può misurare alla stregua della coscienza personale il grado di attività scientifica dell'intelletto, ed eziandio perchè Socrate non ha mai detto e fatto cosa, che accennasse ad una indifferenza positiva pei motivi della felicità.

1) L'etica socratica non è fondata su l'imperativo del dovere. L'impulso naturale ad agire nell'interesse della propria conservazione e nello scopo del proprio miglioramento v'è riconosciuto come qualcosa d'ingenito, che ha solo bisogno di essere rettificato nel suo esercizio; sicchè essa non va soggetto a quelle collisioni, all'apparire delle quali la volontà dell'individuo si trova inadeguata alla generalità ed universalità del precetto. La coscienza greca procedette in un modo assai diverso dalla coscienza ebraica, la quale, per avere spinta troppo in alto la sublimità e la trascendenza del precetto, finì per trovare incongruenti fra loro il volere umano ed il divino, e riuscì all'esigenza della redenzione. Quello che noi chiamiamo dovere apparisce a Socrate nella forma relativa del miglior partito[211], perchè era in lui così vivo il convincimento che l'uomo non possa volere il proprio male, che, posta la natura determinata del bene come termine dell'azione, l'equazione fra l'intelletto e la scelta del proprio meglio gli sembrava inevitabile. Anche noi esigiamo una perfetta equazione fra la volontà e la scelta, nel concetto etico del dovere; ma al tempo stesso non ignoriamo, che il dovere, come fenomeno psicologico, si aggira in una vasta sfera di contrasti, che ne rendono difficile l'attuazione. Nel concetto socratico l'acquiescenza immediata nel criterio del bene come utile, e del miglior partito come scelta obbligatoria, ha un carattere affatto immediato e plastico; e come la vita stessa di Socrate è la più perfetta applicazione di questa veduta, così avviene che il ritratto, lasciatoci dai testimoni autentici, delle sue lotte e del suo martirio, eccita la meraviglia, senza scuotere il nostro animo.

2) Il bene adunque è l'utile[212], cioè quello che favorisce la nostra natura e fortifica in noi il sentimento della felicità. Le due sfere di questi concetti non sono precedentemente determinate nella loro opposizione e poi ridotte all'identità logica del giudizio, per degradare il valore del bene a vantaggio dell'utile. Quella relazione sorge spontanea nella coscienza; e noi dobbiamo por mente più all'importanza dell'identità stabilita, perchè determina logicamente il valore d'un concetto che prima era incerto ed impreciso, anzichè insistere su quello che, secondo le nostre vedute, costituisce la differenza fra l'utile e il bene. Per noi, a voler parlare il linguaggio di Socrate, è bene tutto quello che influisce a farci conseguire l'εὐδαιμονία; ma, come nella sfera dell'ignoranza non siamo capaci di costanza e di certezza nei propositi, perchè sconosciamo noi stessi e la natura di quelle cose che devono servirci di termini o mezzi all'attività, così avviene, che solo nella consapevolezza di noi medesimi e delle sfere della nostra attività acquistiamo la notizia esatta del vero bene. Questo bene è l'utile, perchè è quello che realmente conferisce al miglioramento della nostra natura.

L'etica non s'è arrestata, e non poteva arrestarsi, a questa elementare determinazione; ma non è questa una ragione perchè noi dovessimo sconoscere il gran merito del creatore della scienza, valutandolo agli ulteriori progressi del sapere filosofico. Da questa prima ed elementare determinazione del concetto del bene, fino all'esigenza kantiana ed herbartiana dell'incondizionata valutazione, il progresso è stato immenso: ma bisogna pur confessare, che le divagazioni non sono state poche, e che spesso la superiorità delle indagini posteriori è stata efimera, quando si è voluto ricorrere alle infondate supposizioni di una volontà sconfinata (libero arbitrio), o di una coscienza morale organo inappellabile, ed a tante sottigliezze di un'analisi minuziosa delle intenzioni umane studiate nell'interesse settario e sofistico della chiesa e della scuola.

3) Questo bene, che è l'utile, non si confonde col piacevole[213]; perchè la determinazione del suo concetto importa una necessaria e successiva esclusione di tutti i criteri accidentali di una valutazione meramente individuale, finchè divenga una norma costante alla quale come a stregua sicura possano misurarsi le particolari azioni e gli arbitrari giudizi. Quell'utile adunque non equivale alla soddisfazione immediata dell'individuo in tutta la naturalità dei suoi istinti e dei suoi bisogni, ma segna invece un termine all'attività dell'uomo, a raggiungere il quale egli deve prima educarsi per intendere in che cosa consista la vera utilità, la quale è tante volte così lontana dal piacere, che può arrecare i massimi dolori e fino la morte. In questa guisa l'equazione logica, stabilita fra l'utile e il bene, viene rivalutata alla stregua di una maggiore intimità, che afferma implicitamente l'universalità del bene, sebbene non la formuli e determini in una maniera precisa ed astratta.

4) La natura affatto pratica della sfera scientifica del Socratismo non consentiva che la determinazione del concetto del bene fosse intesa nella sua assolutezza, perchè, nella deficienza dei mezzi logici che concorrono a formare e costituire il valore tipico di un concetto, il filosofo era spesso costretto a seguire l'incerta guida del linguaggio comune, ch'è poggiato su le opinioni correnti. E questa circostanza facea sì che il concetto del bene apparisse spesse volte nella sua forma più contingente e relativa, e che potesse ad un bene venir contrapposto un altro, o che quello che sembra bene in un caso fosse detto male o inutile in un altro[214]. La inconsistenza logica della nozione non era però lesiva di quella universalità che abbiamo più sopra accennata, perchè è innegabile che Socrate abbia intesa la inferiorità dell'arbitrio individuale alla invincibile natura del criterio della convinzione, al tempo stesso che non ha saputo e potuto evitare il particolarismo nella definizione di questo o quel bene. Coloro che vanno a cercare nel Socratismo l'idea assoluta del bene, come superiore ad ogni incertezza opinativa, riescono a falsarne la schietta ed originale fisonomia storica, ed a farne una forzata anticipazione del Platonismo[215].

2. Della felicità

Abbiamo già visto che il concetto dell'εὐδαιμονία non ha un contenuto suo proprio, e che la sua generica significazione non esprime un valore concreto, o un termine qualunque dell'attività etica dell'uomo. Non v'ha insomma per Socrate un qualcosa, una sfera della vita, una maniera di vivere che determini e precisi la felicità, perchè essa, come termine generale cui approda ogni nostro desiderio, sta in uno svariato rapporto con le diverse tendenze degli individui[216]. Così avviene che, nel dialogo senofonteo, tutte le volte che si tratta di provare la necessità d'una certa maniera di vivere e di definirne l'indole e la natura dal punto di vista eudemonistico, quello che sia l'εὐδαιμονία per sè stessa non è punto accennato. Noi possiamo dire solo approssimativamente che, non avendo Socrate avuto in mente di subordinare le diverse sfere della vita pratica al criterio di una gradazione schematica, era impossibile che si preoccupasse della definizione dell'εὐδαιμονία, perchè quel termine non esprimeva altro, che il generale sentimento di sodisfazione interna, che l'uomo prova nell'adempimento dei doveri insiti alla sua natura e determinati dalle sue speciali occupazioni[217]. Ma questa imprecisione stessa del concetto dell'εὐδαιμονία era un progresso molto notevole rispetto a quelle rappresentazioni più o meno fatalistiche che erano ancora dominanti in quel tempo; e, mentre Socrate si preoccupava tanto di ravviare gli uomini al sentimento della responsabilità, escludeva una volta per sempre la fantasia poetica dall'interpretazione del destino umano, ed alle collisioni fra la volontà dell'individuo ed il decreto del fatto, che l'arte drammatica avea tratteggiate con sublime evidenza, sostituiva il placido e tranquillo lavoro della riflessione, che nel regolare gli atti della vita non ha altra meta che il naturale appagamento d'un bisogno anch'esso naturale.

Qui cade in acconcio di osservare, che la indeterminatezza del valore etico dell'εὐδαιμονία era in parte precisata dal concetto che Socrate s'era formato dell'ἐγκράτεια, come virtù cardinale, e della σωφροσύνη come abito costante di pratica saggezza; perchè queste due concrete determinazioni esprimevano già l'esigenza di una costante norma psicologica, alla quale fosse possibile di misurare la varietà e molteplicità di quegli atti, che possono andar soggetti ad un giudizio di valutazione favorevole. E da quella esigenza procedettero tutte le ulteriori definizioni della felicità, come di quello stato dell'animo che risulta dall'abito costante della vita contemplativa[218].

3. Del sapere

Noi ci siamo sforzati di far vedere, che Socrate non avea coscienza del sapere, come di un elemento psicologico astrattamente considerato e studiato nelle sue normali condizioni; e che quel concetto invece, più che essergli chiaro ed evidente nella sua universale natura, non era che la generale espressione di quelle pratiche doti, le quali costituiscono e determinano l'esatto e normale esercizio di una data capacità o funzione etica. Posto ciò, non ci pare opportuno di sollevare la quistione già fatta da altri, se mai quel sapere fosse empirico o a priori, perchè ogni indagine di tal natura deve ora apparire supervacanea per tutte le cose dette innanzi, e mancherebbe di ogni fondamento. L'autorità male intesa di un luogo di Aristotele[219] è stata per alcuni sufficiente pruova per asserire, che il sapere socratico fosse di natura affatto empirica: mentre è sembrato ad altri, che la normalità del processo dialogico, che spesso tornava a rifermare certe generali esigenze metodiche, non potesse attingere la sua qualità di procedimento esatto, se non dalla consapevolezza del valore affatto ideale della conoscenza[220]. Noi non vogliamo punto entrare nei particolari di una quistione, che abbiamo recisa dal bel principio; ma stimiamo, ad ogni modo, importante di notare, che, prescindendo da ogni altra testimonianza posteriore[221], la natura del dialogo socratico è tanto intimamente legata alle condizioni immediate della ricerca, da non lasciare in alcun modo supporre, che Socrate potesse aver mai pensato a rendersi conto della natura psicologica e del valore teoretico del sapere. Che se poi dovessimo caratterizzare dal punto di vista moderno la natura di quel sapere socratico, bisognerebbe dire, che in esso l'attività empirica della ricerca etica, con tutti gli elementi che andava raccogliendo dalla cotidiana esperienza della vita, o dall'autorità della storia e dei poeti, era immediatamente elevata alla dignità generica di una norma costante; sicchè il criterio della certezza diversiva tutt'una cosa col principio a priori della definizione normativa. Ora, questa indeterminatezza teoretica del sapere getta una gran luce sopra una massima paradossale che Senofonte attribuisce a Socrate; secondo la quale, chiunque fa il male coscientemente si trova in un assai migliore condizione di colui che fa il bene inconsciamente[222]. Se il sapere socratico fosse quello che noi ora intendiamo per coscienza teoretica e scientifica, e se nella sfera etica del dialogo senofonteo fosse minimamente accennato il concetto del volere, come d'una potenza a sè più o meno subordinabile alle regole astratte del convincimento razionale, quel paradosso sarebbe non solo moralmente falso, ma anche logicamente inesplicabile. Invece, posti i concetti del bene e del sapere come abbiamo cercato di determinarli, e posto il convincimento che la relazione fra volere ed agire è espressa in una equazione assoluta, quella massima socratica vuol dire, nè più nè meno, che colui che fa il bene incoscientemente non produce alcun valore etico, perchè il bene sta nella coscienza del fine che vuole prodursi, mentre chi fa il male coscientemente si trova in una migliore condizione, perchè sa di violare la norma che deve seguire in questo o in quell'indirizzo della vita.

Ci rimane in ultimo a notare, che il principio della consapevolezza importava una chiara distinzione del concetto della riuscita, secondo che questa non fosse altro se non l'esito fortunato (εὐτυχία), ottenuto mediante le favorevoli ma fortuite coincidenze del caso, ovvero il ben meritato successo (εὐπραξία), che è sempre conseguito da colui che agisce nella piena coscienza dei mezzi che adopera, e del fine che prende a seguire[223]. Questa distinzione molto semplice, e al tempo stesso congruente ai principi fondamentali espressi innanzi, non sappiamo intendere come abbia potuto dare argomento a tanti scrupoli e dottrinali disquisizioni, quanti occorre trovarne in parecchie esposizioni della dottrina socratica[224].

X. IL CONCETTO DELLA DIVINITÀ E DELL'ANIMA UMANA NELL'ORIZZONTE SOCRATICO

Noi torniamo ora al punto donde abbiamo in prima preso le mosse.

Il mondo era agli occhi di Socrate un sistema di fini, e rivelava in ogni sua parte l'impronta di una intelligenza autrice, e provvidente. In questa convinzione abbiamo visto esser riposta la differenza che passava fra Socrate e tutti gli altri filosofi precedenti, come anche il principio normativo dell'attività socratica, la quale, benchè fosse ricercativa come quella dei Sofisti, non cadde mai nell'eristica e nell'antilogistica, perchè limitata, frenata e corretta da un costante criterio di obbiettività incondizionata. In quella intuizione generale dell'universo, che conteneva in sè i germi di una nuova filosofia della natura e di una possibile teologia razionale, l'elemento d'opposizione contro le forme riconosciute della religione patria non era così spiccato e preciso, che dovesse trasmodare in riforma positiva, o assumere il carattere di una manifesta rivoluzione. Anzi, se Socrate si fosse arrestato a queste generali affermazioni, non avrebbe fatto che segnare un nuovo passo nella storia generale della coltura greca, per avere maggiormente approfondito e depurato quel concetto monoteistico, al quale tendeva da più tempo tutto lo sviluppo della coscienza ellenica anche per opera di quegl'individui che erano i più lontani da ogni speciale occupazione filosofica; e noi non potremmo tener conto delle sue vedute in un'indagine scientifica.

Quello, che ora importa, non è più di stabilire in una maniera generica l'orizzonte della coscienza socratica, e di assegnare la caratteristica di quella intuizione teleologica, che ne fissava bene i confini sì rispetto alle convinzioni comuni, come in rapporto alle spiegazioni meccaniche dei filosofi naturali, ma di vedere fino a che punto i concetti di Dio, del mondo e dell'anima umana, gli oggetti in somma della metafisica, potessero già allora venir subordinati all'esigenza della dimostrazione dialettica. E conviene ancora osservare, che siamo stati lungamente in dubbio, se dovessimo far entrare questa quistione nello svolgimento del nostro tema; perchè, non ammettendo noi che quelle vedute teleologiche fossero in Socrate un risultato delle convinzioni etiche, ed avendo invece cercato di mostrare che la filosofia e l'intuizione religiosa faceano in lui una sola e medesima cosa, abbiamo dapprima creduto fosse inutile ripresentare in una nuova forma quello che c'è servito a determinare dal bel principio il tenore ed il contenuto della coscienza socratica. Noi intendiamo quindi di mostrare, solo limitativamente, come l'impulso logico si fosse cominciato a chiarire anche in quella sfera, che Socrate non ammetteva fosse accessibile al sapere umano.

1. Il concetto della divinità

Nei Memorabili di Senofonte v'è un luogo nel quale Socrate è introdotto a dimostrare, mediante l'analogia, l'esistenza della divinità e la sua natura intelligente e provvidente[225]. Socrate stabilisce dapprima un paragone fra la intelligenza, ch'è capace di produrre esseri viventi, e quella che conduce a termine delle imagini pittoriche e scultorie; per arguire dalla sproporzione dei prodotti il maggiore e più alto grado di perfezione che v'ha da essere, nel produttore degli oggetti naturali. E, come il suo interlocutore non può rigettare il paragone e le conseguenze che ne derivano; e, d'altra parte, non sa persuadersi del concetto dell'intelligenza autrice delle cose naturali, perchè gli rimane nell'animo il dubbio che esse possano essere nient'altro che un prodotto del caso[226], Socrate è costretto a provare che l'intelligenza, ossia il proposito, e non il caso, possa e debba produrre le cose. E qui il concetto della finalità, come di quella norma secondo la quale tutto è conformato allo scopo dell'utilità, è il principio determinante della pruova; non potendosi in vista dello stesso revocare in dubbio la esistenza di un proposito nell'ordine della natura, perchè solo l'intelligenza, in quanto mira ad uno scopo, può produrre in ragione dell'utilità[227].

In questo luogo apparisce chiaramente, come la tendenza logica cominciasse già a farsi la via, per subordinare alle sue esigenze ed al suo formalismo anche quell'ordine di oggetti, che Socrate volea sottratto alle umane indagini per le convinzioni affatto religiose che nudriva. In questa, che può dirsi la forma più elementare della pruova cosmologica e fisico-teleologica della esistenza di Dio, è espresso il primo e più spontaneo sforzo della teoria, per dedurre e dimostrare scientificamente quel concetto dell'incondizionato, dell'originario, del divino, che la coscienza adulta dell'umanità suppone di possedere per un atto immediato ed istantaneo d'intuizione, ma che in fondo ha raggiunto in conseguenza di un lungo lavoro psicologico, di cui ha perduto le tracce e la reminiscenza. Ma è in questo caso la pruova, che produce il concetto; o è la rappresentazione già matura e completa, che spinge la coscienza all'esigenza dimostrativa? Se noi volessimo arrestarci al carattere formale della dimostrazione, dovremmo ammettere che il concetto della divinità fosse per Socrate di natura affatto scientifica; ma pure è tanto vero, che la natura teoretica di quella pruova è intimamente legata ai presupposti immediati di una coscienza religiosa, che la sua logica certezza è sproporzionata alla ricchezza intuitiva del contenuto psichico ed etico, obbiettivato nella rappresentazione della divinità[228]. E, primieramente, il punto di vista del filosofo nel determinare il concetto della divinità rimane qualche cosa d'incerto e di oscillante. L'indeterminatezza politeistica ricomparisce ad ogni piè sospinto[229]; e che questa sia appunto quella della religione tradizionale non v'ha dubbio di sorta, quando si considera la costanza di Socrate nell'adempiere le pratiche del culto stabilito[230]. Ma la molteplicità politeistica trova già di fronte a sè la chiara coscienza dell'unità di Dio[231]; ed in questa duplicità di vedute ha la sua spiegazione la differenza posta fra il reggitore del mondo, visibile nella sua incessante attività ed invisibile nella sua potenza direttrice, e gli altri dei[232]. Il valore quindi che psicologicamente rispondeva all'indeterminata espressione, ora politeistica ed ora monoteistica, rimane qualcosa ch'è solo approssimativamente certo, e che può essere fermato solamente in rapporto a quello che l'intimità individuale di Socrate concepiva e pensava come costituente la natura del divino. La divinità è per lui invisibile, onnisciente; onnipresente, onnipotente; e, pur nondimeno, tutti questi attributi non lo forzano ancora ad abbandonare le pratiche del culto, la fede negli oracoli e negli altri esterni presagi.

Or questa che abbiamo chiamata ricchezza intuitiva è stata da altri intesa come forma popolare del concetto del divino[233]; e, misurata poscia alla stregua dell'ulteriore progresso filosofico, è stata considerata come qualcosa d'imperfetto e di superficiale. A nostro parere, come Socrate non intese mai di fare nè la teologia nè la filosofia della natura, e fu spinto solamente dalle sue personali esigenze a tracciarsi un nuovo orizzonte religioso ed etico, tutti questi concetti sono di una grande portata nella storia generale della coltura antica; e la loro forma popolare ed immediata non deve essere misurata al criterio della certezza filosofica, ma al precedente sviluppo della coscienza religiosa. Sotto questo aspetto, essi fanno apparire in una luce più chiara quell'opposizione, che da molto tempo s'era preparata nel seno del politeismo greco, fra il particolarismo delle molte e svariate divinità e l'esigenza di una assoluta obbiettivazione del concetto dell'unità del divino; e, se la cosa non ci portasse fuori dei limiti di questo lavoro, saremmo in grado di mostrare, senza punto entrare nella storia della filosofia, che per sè sola la poesia lirica e drammatica basta per scorgere ed intendere il processo monoteistico. Il concetto adunque che Socrate avea del divino, se era popolare, non era tale per volontaria restrizione dell'esigenza filosofica, ma perchè originato e prodotto dal lento sviluppo della coscienza spontanea ed irriflessa del popolo; e a noi pare strano di vedere, che lo stesso autore, il quale ha tanto rilevato il carattere popolare di quelle vedute, si contradica poi col dire, che derivavano da un individuale bisogno religioso[234]; perchè è sotto questo riguardo appunto che la loro superiorità su tutti i precedenti tentativi filosofici è incontrastabile.

Senza quindi tornare su la quistione del concetto del bene, che da Socrate era appreso nella forma relativa dell'utile, a noi pare, che, malgrado la ristrettezza di questo criterio, che ai nostri occhi è di un valore subordinato, tutte quelle considerazioni in virtù delle quali Socrate ammetteva la presenza del divino nel mondo, solo perchè segnano il primo apparire della riflessione teleologica, nella stessa loro forma superficiale e volgare esprimono un profondo progresso della coscienza scientifica. La divisione del giorno e della notte, l'acqua, il fuoco e l'aere di che la natura abbonda, e gli animali domestici che tanto sono proficui all'uomo, il naturale appetito della riproduzione, l'amore dei figli, il timore della morte, le intellettuali attitudini, la lingua, la memoria e così via — tutti questi fatti e relazioni naturali erano per Socrate indizi ed argomenti della divina potenza e provvidenza[235]. Ora, per quanto imperfetta, superficiale ed utilitaria fosse la sua veduta, solo perchè animata dal bisogno di chiarire alla riflessione il dato immediato della fede nel divino, esprimea il bisogno filosofico di una nuova e profonda cognizione della divinità; al tempo stesso che, obbiettivando un imperfetto schema ideologico, fondava il concetto metafisico della natura. E così viene rifermato quanto dicemmo innanzi, che Socrate, tuttochè reagisse contro la ricerca naturale, dischiuse involontariamente la via ad una conoscenza più profonda della natura.

L'indeterminatezza fra le forme politeistiche e l'esigenza monoteistica era di tale una potenza nell'uso della lingua greca, e tanto inerente alle condizioni della coltura, da dover noi rimanere affatto incerti sul valore che Socrate attribuiva al concetto della divinità, se per valore vogliamo intendere il grado d'intimità col quale la coscienza apprendeva e sentiva l'importanza e la gravità del nuovo concetto. La tradizione stessa non è un criterio sufficiente per determinare questo o quel valore in un dato periodo, perchè essa non era dommatica e sacerdotale, ma frammentata in una gran molteplicità di tendenze artistiche e dottrinali. Solo per via di esclusione noi possiamo asserire che, prima di Socrate, nessuno avea sentito con pari intimità e chiarezza il bisogno di riconoscere la divinità nella sua attività produttrice e nella sua natura intelligente. Ma, siccome la vittoria del concetto monoteistico non è avvenuta mai nell'antichità greca in una forma definitiva ed esplicita, perchè non fu contrassegnata dal carattere di una riforma pratica simile a quella ch'ebbe luogo nel levitismo e nel nabismo ebraico; così avvenne che Socrate, favorito dall'indeterminatezza della posizione religiosa, in virtù di un processo psicologico, che non cade qui in acconcio d'illustrare, lasciò apparire più evidente su l'estremo limitare della coscienza il concetto dell'unità divina, senza fargli guadagnare il predominio assoluto di un principio regolativo[236].

E per questa ragione stessa sarebbe supervacaneo domandarsi che concetto Socrate si facesse della inerenza dei vari attributi nel concetto della divinità, perchè quei predicati segnano solamente gli estremi termini di una ricca intuizione etica, non i presupposti di una costruzione metafisica[237]. In quella posizione il filosofo non sentiva punto bisogno di chiarirsi scientificamente un concetto per sè stesso evidente ed intuitivo, e solo il criterio dell'analogia poteva in parte spiegare la sua efficacia. Così vediamo che Socrate appercepisce la relazione fra Dio ed il mondo come identica a quella che passa fra l'anima e il corpo[238]: ed afferma che, come in questo si scorgono i visibili effetti della invisibile potenza di quella, così il cosmo rivela la invisibile potenza della divinità; ed estendendo poi il criterio dell'analogia, rassomiglia l'assoluto potere della divinità nel mondo e la sua onnipresenza al predominio dell'anima sul corpo ed alla sua relativa vastità nella comprensione ed apprensione delle cose più remote. Ma tutto questo sforzo di penetrare la natura della divinità dal punto di vista dell'analogia non fa sì che noi potessimo ammettere, che quel concetto abbia acquistata una metafisica consistenza; e questa incertezza ed elasticità della nozione favoriva appunto in Socrate l'illusione, che egli non si fosse discostato dalle opinioni comuni. La relazione quindi fra l'uomo e la divinità, che rimaneva imprecisa, era ristabilita con le forme tradizionali dell'oracolo, della preghiera e del sagrifizio[239]; nell'uso delle quali pratiche Socrate non introduceva alcuna modificazione, fuori quella di rinforzare il principio della consapevolezza correggendo il formalismo letterale.

Il concetto adunque della divinità rimaneva qualcosa d'impreciso, e nel valore intrinseco della sua determinazione e nella natura dei suoi rapporti con l'ordine della natura. Nondimeno, questa che può dirsi imprecisione rispetto al problema filosofico, era una idea più che precisa in confronto col precedente sviluppo della coscienza greca; ed era un gran progresso in rapporto alle intuizioni religiose, che erano state espresse nei monumenti letterari fino all'epoca periclea. Racchiudere in una veduta complessiva tutto il mondo dell'attività umana, e determinarlo in antitesi col mondo della natura, e fermare poi da un'altra parte il concetto dell'intelligenza provvidente, come supremo termine d'ogni umana indagine, fu tale un atto d'energia spirituale, che, sebbene espresso ed appreso in una forma immediata, e diremmo quasi volgare, riuscì fecondo di una più intima considerazione, di una più larga soluzione del problema su l'origine delle cose. L'influenza del Socratismo su la dottrina platonica non è stata, sotto questo rispetto, sufficientemente avvertita.

2. Il concetto dell'anima

Allo stesso modo che Socrate non seppe elevarsi al concetto della teologia razionale, non ebbe del pari notizia del problema psicologico. Questo difetto è stato da noi già avvertito nel giro di questa esposizione; e ce ne siamo valsi come di ragione sufficiente per spiegare la inadeguatezza ed imperfezione di quel criterio logico, che, subordinando tutti i fenomeni della vita etica alla formale esigenza di una valutazione immediatamente cosciente, non riuscì a spiegarne l'origine, e le naturali condizioni.

Le varie rappresentazioni, che istintivamente sorgono nella coscienza, e che devono esprimere la causa dei diversi fenomeni della vita interna, aveano già al tempo di Socrate occupato un posto importante nelle ricerche dei filosofi naturali; i quali intesi a trovare un principio generico che spiegasse l'origine delle cose, aveano riposto o nell'aria, o nel fuoco o nel numero o nel sangue la causa dei fenomeni psichici. Ma al tempo stesso la tradizione religiosa, rappresentata dagli innovatori della lirica e dai creatori del dramma, nell'approfondire il concetto dell'uomo e della sua relazione con la divinità, e coll'avere più intimamente rilevato il valore morale della coscienza, produsse una nuova esigenza: quella di ricercare in una causa soprasensibile l'origine dei fenomeni psichici[240]. Questa esigenza, non ancora formulata in un problema filosofico, divenne più tardi un postulato di pratica sapienza; e determinò il concetto dell'anima come immateriale, partecipe della natura divina ed immortale.

Ora a noi non riesce di accertare per quali influenze tradizionali Socrate fosse arrivato a farsi un concetto dell'anima, ch'egli teneva per immateriale e partecipe della natura divina[241]. Bisogna ad ogni modo osservare, che, avendo egli rinunziato ad ogni indagine su la natura e l'origine del mondo fisico, e non permettendosi di indagare quelle cose che solo la divinità può sapere, perchè le ha prodotte e le governa, il concetto che s'era formato dell'anima non può tenersi per un risultato di una investigazione dottrinale, e deve essere riavvicinato nella sua origine storica alla interpretazione di quei poeti, che nell'intimità delle loro tendenze religiose aveano rialzato il valore della coscienza. Quell'affermazione, infatti, pare non sia altro che il risultato di una esigenza etica, perchè non risulta dal precedente di una dimostrazione.

E rimane del pari dubbio, se la natura divina dell'anima dovesse necessariamente importare la sua immortalità. A risolvere questa quistione le fonti non ci forniscono di argomenti sufficienti. Attribuire a Socrate la dimostrazione del Fedone sarebbe quanto dire che egli sapesse la teoria platonica delle idee, e che avesse studiato il Pitagorismo. Nell'apologia, invece, Platone mette in bocca a Socrate un'argomentazione dilemmatica, nella quale è detto, che la morte è sempre un bene, sia che ci privi in tutto, della coscienza, o che porti dopo di sè un'altra vita[242]; il quale dilemma è molto sorprendente di ritrovare in bocca al moriente Ciro in fine di quella Ciropedia, che Senofonte ha modellata più sull'ideale della socratica perfezione che su la genuina tradizione storica[243]. Da questo incontro delle due fonti può arguirsi con molta verosimiglianza, che forse Socrate non abbia mai superato scientificamente quel pratico dilemma, sebbene gli argomenti prodotti nella Ciropedia stessa in favore dell'immortalità non manchino di un certo colorito filosofico. Rimane nondimeno sempre accettabile l'opinione di coloro che attribuiscono a Socrate la fede nell'immortalità dell'anima[244], se si considera che quella maniera dubitativa, come è espressa la quistione nei due luoghi dell'Apologia e della Ciropedia, tiene molto intimamente al carattere oratorio dell'uno e dell'altro discorso; e, se poi si pon mente all'altra circostanza, che in alcuni dialoghi platonici, che sono generalmente ritenuti per più prossimi alla maniera socratica[245], il concetto dell'immortalità è presentato in una forma più popolare di quella che assume nel Fedone, non è improbabile che Socrate non avesse saputo improntare un carattere scientifico al suo personale convincimento, come più tardi fece Platone, ma che, nondimeno, lo avesse nudato.

XI. RIEPILOGO E CONCLUSIONE

Il lavoro, che ora ci disponiamo a compiere, è stato condotto con un certo criterio che ne ha esteso i limiti e lo sviluppo oltre i termini assegnati dall'Accademia. Questa maggiore estensione, che abbiamo data allo svolgimento dell'esposizione, non ci par tale che debba apparire un fuor d'opera; perchè essa è stata una naturale conseguenza del modo come abbiamo intesa e concepita la dottrina socratica. Se ci fossimo invece limitati a raccogliere i pronunziati autentici di Socrate, per poi disporli secondo lo schema di questa o quella filosofia, non avremmo certo fatto cosa che rispondesse alla natura del compito, che ci eravamo assunto. Se siamo o no riusciti a mostrare, che la dottrina di Socrate scaturisca naturalmente dalle condizioni personali dell'autore, e rimanga a quelle così strettamente congiunta da coincidere interamente con le pratiche esigenze che l'aveano prodotta; questo non è in noi di affermare: e basterà dire, che avevamo in mente di esporre e mettere in chiaro questo nostro concetto.

Misurando alla stregua delle attuali condizioni del sapere filosofico i pochi risultati scientifici della ricerca socratica, non è senza un certo sentimento di compiacimento che si fa la pruova di ricomporre nel loro valore genuino e nel loro vero significato quei primi rudimenti della scienza. La teoria della conoscenza, che nelle sue svariate attinenze con la psicologia, la logica e la metafisica ha occupato ed occupa un posto tanto importante nella filosofia moderna da Cartesio in poi, è nella persona di Socrate ancora un semplice conato pedagogico, e non giunge ad isolare in uno schema formale l'elemento del sapere logico dalla sfera della conoscenza concreta. L'etica, che da Platone e da Aristotele in poi è divenuta un sistema complicatissimo di giudizi e di deduzioni su l'elemento empirico dell'attività volitiva, sollevando tanta varietà di quistioni sul criterio morale delle azioni, sul principio intrinseco della valutazione e via dicendo, ci apparisce in Socrate in uno stato affatto rudimentale, quando la riflessione ha appena appena cominciato a scomporre e penetrare l'imagine tradizionale della vita, per cogliere una determinazione razionale nelle forme e nelle relazioni della vita etica. E questa prima ricerca ha già innanzi a sè una larga sfera di problemi, ed avverte molte di quelle difficoltà da cui la filosofia pratica non si è ancora liberata. Tutta questa attività infine, che fu ricca di tanta influenza scientifica, non ha ancora l'aria di essere scienza, e non si chiude in uno stretto organismo di formali deduzioni; anzi rimane qualche cosa di privato e d'individuale, ed ha tale un'aria schietta, disadorna e modesta, che non è lecito celebrarla con encomi e parole pompose.

Rifacciamo qui in breve, ed in forma di riassunto, la nostra esposizione; per compendiarne in pochi tratti lo sviluppo e le conclusioni.

Nella personalità di Socrate due sono gli elementi più pronunziati: la rettitudine della coscienza morale, che riposava sopra convincimenti di natura affatto religiosa, e la dichiarata tendenza pedagogica. Noi abbiamo scorta l'impossibilità di rifare la genesi storica delle sue convinzioni, ed abbiamo mostrato come gli elementi, che costituiscono la sua coscienza, sono così strettamente collegati fra loro, nell'atto che egli acquista un'importanza pubblica, che non si può in alcun modo assegnarne lo sviluppo. E solo dal punto di vista della congettura abbiamo cercato di affermare, come l'attività ricercativa fosse in lui un risultato dell'esigenza pratica di una certezza morale, che la intrinseca bontà dell'animo gli facea desiderare e non trovare nelle ordinarie condizioni della vita. E di qui abbiamo visto procedere, che le virtù private e pubbliche, delle quali egli era dotato, divennero un'invincibile abitudine, ravvivata dal sereno convincimento di una perfetta conformità al precetto divino. La convinzione intima della presenza della divinità nel mondo e nella coscienza, e la persuasione che l'attività umana, corretta e guidata dalla conoscenza, deve naturalmente e necessariamente tendere al bene, esprimevano in una forma più teoretica ed universale i risultati di una scrupolosa osservazione del proprio animo, divenuta in fine una pratica costante di accorgimento e di prudenza.

Da questa larga e solida base di personali convinzioni emerge l'attività per la quale Socrate ha un valore filosofico, e che consiste nel principio e nella certezza della dimostrazione dialogica, mediante la vittoria sulla contradizione. Il metodo socratico è la vita che diviene ricerca, l'esigenza etica della costanza nelle azioni e della certezza nella condotta della vita che si manifesta come rettificazione dialettica dei concetti, siano falsi siano incoscientemente, e quindi imperfettamente pensati; e mentre ha il suo cardine in una coscienza intimamente morale e religiosa, tocca il suo termine e la sua conclusione nel reale convincimento, che la conformità delle azioni ai concetti, e della pratica alla coscienza, costituisca lo stato dell'umana perfezione. In questa logica determinazione di equivalenza è data la intrinseca natura del bene, come mezzo e termine delle azioni; e il suo effettivo valore è riposto nella equazione fra il grado di assoluta consapevolezza dell'individuo e la reale natura degli oggetti o degli atti che servono d'istrumenti al conseguimento della felicità. Il bene è quindi l'utile: la quale determinazione non è sintetica, come se il filosofo pronunziasse un giudizio, che deva stabilire un'eguaglianza fra due concetti già distinti dalla coscienza e precedentemente appresi nella loro opposizione; ma è invece analitica, perchè esprime nella forma logica di un giudizio la più semplice ed elementare distinzione di quel processo psichico che costituisce la coscienza del bene; e la genesi di quei due termini, che infine si covrono e spiegano vicendevolmente, è affatto determinato dalle condizioni pratiche e personali del problema. Questo concetto del bene non è ancora isolato dall'imagine concreta della vita, nè è obbiettivato in un termine assoluto ed irrelativo, che serva di stregua ai particolari giudizi etici: anzi i beni sono tanti quante le concrete relazioni che offrono materia e danno occasione alla ricerca. Questa stessa relatività ed imprecisione è inerente al concetto dell'ευδαιμονία; e, sebbene la identica denominazione presenti le apparenze di una determinazione logicamente certa, pure in fondo non è che un termine comune, la cui intelligenza dipende dalle reali condizioni nelle quali si svolge il dialogo. Così l'etica di Socrate non è che un primo e rudimentale tentativo per delineare all'occhio della mente le varie relazioni della vita sociale col raccogliere nella evidenza di una definizione i tratti più notevoli delle singole forme. Questa circostanza impronta in tutta la ricerca un carattere esclusivamente logico, e la fa apparire in tutto e per tutto dottrinaria e teoretica. Di qui procedono le accuse mosse da Aristotele contro il Socratismo, le quali se noi abbiamo tenute per giuste e fondate, non è stato nell'intento di valercene come di norma per apprezzare i motivi della dottrina socratica, ma per assegnarne i limiti scientifici.

La sfera della coscienza socratica ci è, al tempo stesso, apparsa più larga di quel lavoro scientifico, che ne fu il risultato. Il concetto della divinità, e della relazione di questa col mondo, come tutte le altre convinzioni che noi siamo usi di far derivare dalla conoscenza metafisica, entrano solo indirettamente sotto l'influenza della dialettica. Il contenuto di quei concetti non risulta dal lavoro induttivo della definizione, ma è posto immediatamente dalla coscienza: sicchè, in questo caso, l'attività teoretica esprime l'estremo sforzo dell'immediatezza religiosa per assumere una forma consapevole ed evidente, e non rassomiglia per niente ai tentativi fatti in altri tempi, e specialmente nella filosofia moderna, per rifare mediante il ragionamento quella obiettività dell'ideale religioso, che è venuta meno nella fede e nel sentimento. Tutto questo elemento extradialettico, con tutte le pratiche conseguenze che ne derivarono, costituisce il largo campo della personale influenza di Socrate, la cui efficacia era riposta nella pienezza di una intuizione etica dell'universo, che a quando a quando seguiva una direzione meramente ricercativa. In Platone i due elementi, l'immediatezza religiosa e la riflessione logica, cominciarono a divergere maggiormente ed a contrapporsi in un'antitesi manifesta, finchè la spontanea produzione artistica e religiosa da un canto, e la coscienza logica dall'altro, non divennero due campi distinti. In quest'atto di precisa ed evidente distinzione è riposto il fondamento del primo tentativo fatto da Platone, per subordinare tutto il contenuto della coscienza al principio della dimostrazione. Come in Aristotele si fosse poi compiuto questo lavoro, e la forma logica fosse riuscita ad isolarsi completamente dal contenuto concreto della conoscenza, non è qui il luogo di ragionare.

L'intuizione socratica fa parte della storia generale della coltura greca; e l'imagine del mondo, che ne risulta, è in un'intima relazione con tutto quello sviluppo delle convinzioni etiche e religiose, le cui tracce sono tanto evidenti nei monumenti dell'arte, della poesia e della storiografia. Ma, nondimeno, sebbene essa risulti per una lunga mediazione storica da tanti svariati precedenti, nella coscienza di Socrate ha un carattere affatto immediato, il cui valore non è interamente espresso in quello che può chiamarsi dottrina, o scientifica elaborazione. E questa immediatezza e spontaneità apparisce ancora più palese, se per poco si pon mente a considerare gli svariati germi di ricerche scientifiche, che i pronunziati di lui fruttarono nell'animo degli uditori.

Sotto questo riguardo, deve dirsi che l'esposizione della dottrina di Socrate ha sempre l'apparenza di rassomigliare ad un'analisi artificiale, e diremmo quasi arbitraria; perchè si riesce a mettere in evidenza un solo lato della sua coscienza, isolandolo dall'altro cui va strettamente congiunto: e di qui procede eziandio che questo soggetto, tante volte trattato, ha conservato e conserva tuttora l'attrattiva di una ricerca non mai esaurita.

FINE.

INDICE

Avvertenza dell'editore V

Avvertenza dell'autore VII

I. — La personalità storica di Socrate 1-42

I. Socrate e gli Ateniesi pag. 3-18 . — II. Educazione e sviluppo della coscienza di Socrate pag. 18-36 . — III. Carattere di Socrate pag. 37-39 . — Osservazioni su le fonti pag. 40-42 .

II. — Orizzonte della coscienza socratica 43-68

I. Posizione di Socrate nella storia della religione greca pag. 47-62 . — II. Elementi della oscienza di Socrate pag. 62-68 .

III. — Del valore filosofico di Socrate 69-104

I. Formalismo logico pag. 77-82 . — II. Determinazione del valore del formalismo logico pag. 83-88 . — Osservazioni — 1) Limitazione del sapere umano pag. 88-90 . — 2) Socrate e i Sofisti pag. 91-98 . — 3) Pretesa soggettività di Socrate pag. 98-102 . — 4) Preteso misticismo di Socrate pag. 103-104 .

IV. — Del metodo di Socrate 105-135

I. Presupposti storici e psicologici pag. 111-115 . — II. Motivo e sviluppo del metodo socratico pag. 115-127 . — Osservazioni. — 1) Imprecisione formale del metodo socratico pag. 127-133 . — 2) Della differenza fra rappresentazione e concetto, e del principio d'identità pag. 133-135 .

V. — Dell'etica socratica in generale, e del concetto del bene 137-156

Osservazioni pag. 153-156 .

VI. — Conoscere e volere 157-176

I. Equazione fra volere e sapere (γνῶθι σαυτόν) pag. 163-171 . — II. Fondamento della pedagogia socratica pag. 171-176 .

VII. — Le forme concrete della vita etica 177-206

È Socrate un riformatore? pag. 179-189 . — I. L'individuo e le sue relazioni domestiche pag. 189-198 . — II. L'individuo e lo Stato pag. 198-206 .

VIII. — Delle virtù 207-226

Generalità pag. 209-215 . — I. Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico p. 215-217 . — II. Identificazione della virtù e del sapere pag. 217-223 . — III. Ignoranza degli elementi naturali pag. 223-226 .

IX. — Di nuovo del bene, della felicità e del sapere 227-246

I. Del bene pag. 230-239 . — II. Della felicità pag. 239-242 . — III. Del sapere pag. 242-246 .

X. — Della Divinità e dell'anima umana nell'orizzonte socratico. 247-267

I. Il Concetto della Divinità pag. 251-263 . — II. Il concetto dell'anima pag. 263-267 .

XI. — Riepilogo e conclusione 269-279