INDICE
PREFAZIONE ix
NOVELLE
L'alfier nero 3 Iberia 25 Il trapezio 47
RIVISTE DRAMMATICHE
I. 123 II. 144 III. 160
APPENDICE BIBLIOGRAFICA 179
PREFAZIONE
I.
È d'Arrigo la novella Come l'araba Fenice!
Quante volte mi venne spontanea al pensiero questa variante della famosa strofetta metastasiana mentre attraverso biografie, bibliografie, giornali, riviste, libri vecchi e nuovi cercavo e non trovavo le traccie delle novelle che mi constava avesse scritto Arrigo Boito, anzi non solo non trovavo quelle traccie, ma mi pareva che più le ricercavo, più si facessero tenui, fino a sfumare del tutto! Tanto erano dimenticate e ignorate quelle novelle che parecchi ai quali credetti di potermi sicuramente rivolgere per notizie, mi guardarono stupiti, persuasi che io confondessi Arrigo con Camillo, autore, come si sa, di due volumi di novelle, pubblicati dai Treves, Storielle vane e Senso, nuove storielle vane. Che anche Arrigo avesse scritto novelle avevo imparato dal Croce, il quale a sua volta l'aveva imparato da una enciclopedia tedesca, ma non sì che non sospettasse anch'egli, da principio, trattarsi di un equivoco; trovarle non gli era stato possibile, ma che fossero state veramente scritte, mi disse a voce, ne aveva poi avuto conferma da Camillo, dalle parole del quale aveva anche ricevuto l'impressione che Arrigo avesse fatto di tutto perché quelle novelle fossero dimenticate, e non amasse che gliene parlassero. Perché, nessuno potrebbe dire.
Finalmente, grazie alla dottrina e alla cortesia di alcuni amici,—particolarmente mi è grato ricordare i nomi di Giuseppe Biadego, bibliotecario meritissimo della Comunale di Verona, del prof. Enrico Filippini, il cui aiuto mi fu veramente prezioso, del prof. Pietro Nardi, autore di un buono scritto su Arrigo Boito poeta e studioso sagace del gruppo milanese cui il Boito appartenne,—grazie anche al caso e all'ostinazione mia, mi venne fatto di metter le mani su tre delle sei novelle che il Boito avrebbe scritto, e, per giunta, su tre assai interessanti e ignoratissime sue riviste drammatiche: le une e le altre raccolgo in questo volume, certo di far cosa grata al pubblico o, per lo meno, a quanti sono studiosi della potente e complessa natura artistica dell'illustre uomo, che può parer strana solo perché non è ancora conosciuta in tutti i suoi elementi.
II.
Cinque novelle il Boito avrebbe scritto, secondo il Croce, e cioè: L'alfier nero, Iberia, Il pugno chiuso, Honor, Il trapezio; una sesta, La musica in piazza, ricorda il maestro Gallignani, e di essa non riuscii a trovar traccia. L'alfier nero fu pubblicato prima nella rivista milanese Il Politecnico, poi, insieme con Iberia, sotto il titolo complessivo Un paio di novelle, nella Strenna italiana pel 1868 dell'editore milanese Ripamonti-Carpano: è la sola novella che abbia avuto l'onore e la fortuna di due edizioni, dalla prima alla seconda delle quali corrono pochissime differenze, bastanti tuttavia a mostrare con quanta cura il Boito la scrivesse, ché alcune, per quanto minute, rappresentano un miglioramento dell'espressione, una vera finezza artistica, e perciò le più importanti raccolgo più oltre.
Del Pugno chiuso il Pungolo annunciò, il 10 settembre 1867, come prossima la pubblicazione nelle proprie colonne, e l'annuncio rinnovò il 27 dicembre successivo; ma la novella non fu pubblicata né allora né poi dal famoso giornale milanese, diretto e compilato da amici affezionati del Boito che con lui avevano comuni ideali artistici e politici. Era quello il tempo del Mefistofele, e si può credere che prima le cure per la rappresentazione di così grande opera, su cui tante speranze giustamente posavano, poi la delusione amarissima distogliessero il pensiero dello scrittore dalla promessa novella. Di Honor neanche la più piccola traccia mi fu possibile trovare, né saprei dire dove il biografo tedesco ne scovasse l'indicazione. Il trapezio fu pubblicato nella Rivista Minima di Milano, diretta da Antonio Ghislanzoni e Salvatore Farina: nel terzo fascicolo del 1873, il 2 febbraio, comparve la prima puntata, e nel secondo del 1874, il 18 gennaio, fu, scrive il Farina, lasciato in tronco il gustoso romanzetto: "io, aggiunge, ne ebbi dispetto e ne ebbero dispetto i lettori", e possiam credergli. Non ogni numero della Rivista ebbe la sua parte di novella; gli intervalli tra puntata e puntata si fanno maggiori via via che il tempo passa; ma poiché ogni puntata ci presenta un episodio ben definito e si chiude in modo da acuire l'interessamento più che la curiosità dei lettori per quello che deve seguire, e poiché tutte rispondono a un piano che appare ben disegnato nella mente dell'autore, se anche non si riesce a indovinarne la linea conclusiva, bisogna dire che l'autore avesse tutta in mente la novella e ne mettesse in carta le singole parti quando la voglia di scrivere lo prendeva, fino a che un bel giorno questa voglia gli venne meno del tutto. Perché? "Già pensava al Nerone ", scrive il Farina, e quantunque al Nerone, com'è noto, pensasse già da molto tempo e non da allora soltanto, si può credere che quest'opera pesasse gravemente sul destino delle altre sue, vere bagattelle al confronto di ciò ch'essa doveva essere. Il trapezio dunque non è che un frammento, ma pur come tale appare la migliore delle tre novelle che, sole, biografi e bibliografi indicano con precisa sicurezza, sì che non c'è da dubitare che sole esse tre siano state scritte. I titoli delle altre rappresentano promesse non mantenute: dietro i titoli, secondo mi fa credere l'esempio del Trapezio, ci doveva essere nella mente del maestro se non tessuta la tela, ordita la trama; bastava solo, forse, ch'egli le scrivesse e a ciò non seppe o non poté decidersi, per circostanze che è vano investigare.
III.
Il Boito novelliere è, dunque, sconosciuto a tutti: di lui come tale non ho trovato che un solo giudizio, in un vecchio scritto del Molmenti: "Se le follie della immaginazione non turbassero la serenità dell'arte, L'alfier nero e Il trapezio sarebbero due gioielli", giudizio che non mi par rispondente a verità. Le "follie della immaginazione", più che nelle due ricordate dal Molmenti, sono manifeste nella novella ch'egli tace, Iberia, e forse si riducono tutte all'accentuato esotismo, che è carattere comune a tutte tre; dell' Alfier nero e dell' Iberia altro carattere è il prendere che fanno l'ispirazione da fatti e questioni che, quando furono scritte, occupavano e preoccupavano il pubblico di tutto il mondo: la prima è ispirata dalla questione della schiavitù dei negri d'America e si svolge tra un negro e un anglo-americano in un grande albergo della Svizzera; la seconda prende chiaramente occasione dalle vicende politiche della Spagna nel 1867-68 per sintetizzare il carattere e la storia di quel paese nella tragedia di due giovanissimi rampolli di schiatte reali, e si svolge nella cappella di un solitario castello delle montagne d'Estremadura in un'epoca volutamente non precisata. Il Trapezio è, almeno nella parte che fu scritta, fuori di ogni preoccupazione storica, politica, sociale, filosofica, ed è il racconto che un vecchio geometra cinese fa a un suo discepolo per spiegargli le cause profonde, che a un certo momento gli hanno causato la perdita della favella, portandoci dalla Cina, attraverso il Pacifico, a Lima nel Perù tra gente d'ogni paese e d'ogni colore. La situazione del protagonista è, press'a poco, quella del protagonista delle Confessioni di un ottuagenario del Nievo, ed è mirabile come il Boito abbia saputo rappresentare simultaneamente lo stesso uomo giovane e vecchio, questo analizzatore e giudice di quello, dando vita a una figura quale solo un vero artista poteva pensare e plasmare; è la più complessa ch'egli abbia mai immaginato e nella quale sia più profondamente e minutamente discesa la sua analisi, nello stesso tempo ch'è la più compiutamente da lui disegnata, non essendo a petto di essa tutte l'altre sue, del Re Orso, dei libretti e delle novelle, che abbozzi più o meno vigorosi. Il che non vuol dire che tutto ci sia esplicitamente e inesteticamente detto di quell'anima: a un certo punto egli immagina che il protagonista narratore creda di coprire con la ghiottoneria un tutt'altro peccato e si senta invece indovinato dal discepolo devoto: con maggiore semplicità e con maggiore verità non potrebbe farci sentire la delusione di una mente assetata di chiarezza e desiderosa di tutto spiegarsi razionalmente, né con maggiore evidenza porci inanzi quello che di misterioso si cela in ogni anima umana e agisce inavvertito e potente. Questo sentimento di una ineluttabile forza misteriosa che è in noi e anche fuori di noi, è specialmente manifesto e intenso nell' Alfier nero, dove la partita a scacchi che n'è argomento, assorge, direi quasi, a terribilità epica, perché raccoglie e incentra tutta la passione cosciente e incosciente dei giocatori: la passione prima è del negro, preparata e introdotta con un movimento d'insieme che ben rivela l'uomo di teatro ch'era nel Boito, e poi si trasmette al bianco; si concentra nell'alfier nero del giuoco, che, caduto di mano al negro rompendosi, l'uomo bianco aveva accomodato con un po' di ceralacca della quale gli era rimasta una striscia intorno al collo, diventa così, senza sforzo, il simbolo di una razza perseguitata e ribelle, e porta a una catastrofe impensata, ma terribilmente logica. Invece in Iberia, la men felice delle tre novelle, quanto più l'autore accumula e fa grandi le immagini, tanto meno riesce a darci, per esempio, il senso della morte nella descrizione delle ultime ore di don Sancio, in cui è anzi una intima freddezza che ci lascia indifferenti, né anche stupiti del fraseggiare e dell'immaginare. Così nei discorsi e negli atti dei due protagonisti vediamo un giuoco di bambini in contrasto stridente col solenne significato simbolico che l'autore pretende di dar loro; ma quando egli stesso li qualifica di "bimbi assorti in un magico tripudio", quando dice: "i due fanciulli si guardavano, e così vestiti si sembravano più belli", allora egli ha trovato l'intonazione giusta: non più di due bambini che giocano egli ci rappresenta, e possiamo interessarci ad essi e al loro giuoco e alla tragedia nella quale esso si muta. Del resto, che questa novella non estrinsecasse compiutamente il suo concetto, dovette sentire l'autore stesso, tanto è vero che provò, direi, il bisogno di commentarla con l'ultimo capitoletto, il quale poi non commenta e non spiega nulla, anzi intorbida e confonde la visione.
La ragione di ciò va cercata, a mio parere, nell'aver voluto sintetizzare la storia e il carattere della Spagna nell'amore e nella morte di due giovanissimi discendenti di schiatte reali, che quando sono consci, per modo di dire, di questo loro ufficio, non c'interessano, e quando c'interessano non sono che due bimbi qualunque; ma probabilmente è questa la necessaria conseguenza del non aver saputo o potuto rifarsi che dalla più frusta convenzione romantica: questa del Boito è una Spagna victorhughiana, victorhughiani sono i personaggi e victorhughiana, nello spirito, l'azione,—noto di passaggio che secondo il Galletti il Boito avrebbe derivato dal poeta francese solo la materia della Gioconda —, come victorhughiani sono lo sfarzo, meglio diremmo lo sforzo, delle immagini e il fraseggiare breve e rotto, che vuol essere incisivo e non copre il vuoto che gli sta sotto, rendendo la prosa di questa novella singolare tra tutte le altre di lui. Probabilmente il sentimento umanitario e democratico del Boito non trovò dove appoggiarsi nelle torbide vicende politiche della Spagna di quegli anni e, scosso da esse soltanto superficialmente, si accostò a quel paese e a quel popolo con la mente di un letterato e di un ideologo anzi che con l'anima e la fantasia di un artista. Invece non due forze astratte contrastanti e perciò non due simboli, ma due uomini egli seppe cercare e vedere nel negro e nel bianco dell' Alfier nero, e il simbolo mise tra loro, ma fuori di loro, sì che poté far liberissimamente giuocare le loro passioni umane, e dare alla rappresentazione un carattere di immediatezza efficacissima, in cui l'esotismo non ha nulla di ricercato o di forzato. Così nessuno sforzo nell'esotismo del Trapezio, in cui il racconto, lungo e lento ma non prolisso e noioso, che non solo l'interesse è sempre sostenuto, ma quando sembra deva venir meno, proprio allora è avvivato da qualche felicissima battuta, è semplice e di una chiarezza luminosissima: io non so dire donde al Boito sia venuta tanta conoscenza della Cina e dei cinesi, e non di essi solo, né so quanto sia esatta questa conoscenza; ma so che tutto è vivo in questa novella, e se è vivo di una vita che non risponde alla realtà cinese o a qualsivoglia altra realtà, ciò nei rispetti dell'arte non importa niente. Importa nei rispetti della cultura del Boito, e può essere per i suoi biografi argomento interessante di indagine l'origine e l'estensione delle sue conoscenze cinesi. Io, che su questo punto speciale non sono in grado di fermarmi, faccio notare che altra caratteristica comune delle tre novelle, comune anche alle Riviste drammatiche, è lo spaziare che l'autore fa per i vasti campi dell'erudizione storica e letteraria, penetrando anche in quelli delle scienze fisiche e naturali, e che la sua non è dottrina improvvisata e superficiale, ma preparata di lunga mano, larga e soda, meditata, direi, quasi accarezzata, richiamata secondo il bisogno, e solo qualche volta senza che il bisogno veramente lo richieda, sì da dare una lieve impressione d'ostentazione: ciò nell' Alfier nero e, più, nell' Iberia, ma nel Trapezio, per quanto io posso giudicare e ai fini dell'arte, l'assimilazione è mirabilmente perfetta, anzi la scienza è il fondamento se non la sostanza stessa del racconto.
Finalmente un'ultima caratteristica comune alle tre novelle è la pochissima parte che vi è data all'amore: dall' Alfier nero è del tutto assente; nel Trapezio non possiamo dire quale partito ne volesse trarre l'autore, perché il racconto si tronca quando appena si comincia a disegnare il romanzo amoroso; però già ce ne appaiono gli elementi costitutivi nella sensualità ingenua e inconscia, semplice forza elementare della natura, di Ambra e Ramàr, e in quella dissimulata e torbida di Yao: il contrasto sapientemente impostato e rappresentato è tra le più belle testimonianze dei meriti del Boito novelliere. L'amore pare l'elemento preponderante in Iberia, ma oltre ad essere, nei caratteri estrinseci, il solito amore romantico, esso, in verità, non viene dal profondo delle anime e non vi muove nulla; è soltanto una pennellata di colore raccolto nel magazzino dei luoghi comuni e buttato nel quadro per compier la figurazione di quella Spagna di maniera, il che non vuol dire vi manchi del tutto qualche tratto gentile e indovinato.
IV.
Le tre riviste drammatiche che ho potuto raccogliere, furono tutte pubblicate nel Politecnico tra il 1866 e il 67, e studiano parecchie opere del teatro di prosa, quasi tutte francesi, d'italiane non esaminando che la Marianna di Paolo Ferrari e un dramma storico, Il ministro Prina, di Giovanni Biffi, oggi dimenticatissimo insieme col nome del suo autore, nonostante le lodi prodigategli dal nostro critico. Esse, come è facile capire, non erano scritte subito dopo la rappresentazione, ma più tardi, di modo che spesso, se non sempre, correggono e compiono le impressioni di questa con la lettura ponderata dell'opera giudicata; tuttavia sembrano scritte molto in fretta, come appare anche dalle incertezze e incongruenze della grafia e da qualche distrazione curiosa, quale quella per cui il personaggio dumasiano di Suzanne d'Ange si sdoppia in Suzanne e nella baronne d'Ange e quella per cui il Porta prende il posto del Grossi come autore della Prineide; di più, qui e nelle novelle, le citazioni e i richiami non sono sempre esatti, e ben si sente che l'autore attinse dalla sua memoria, non, volta per volta, da libri e manuali, ottima prova, a mio parere, che la sua dottrina non era d'accatto e posticcia.
Questa sua larghissima cultura gli permette di cogliere tutte le discendenze e le parentele letterarie, ed eccolo infatti presentare A. Dumas fils come il padre di tutta una abbondante fioritura di commedie, non sempre bene odorante, e ridurre sotto il suo denominatore le opere teatrali di cui va parlando. D'altra parte la sua estesa e larga conoscenza del teatro francese contemporaneo non gli impedisce di tener d'occhio i grandi modelli del passato, e principalmente lo Shakespeare, e non solo lo Shakespeare dei quattro o cinque capolavori più celebrati e più noti, al quale quasi di continuo si richiama: si può dire che il drammaturgo inglese è il poeta ch'egli ha più di tutti famigliare, quasi quanto ha famigliare Dante, del quale ad ogni momento gli cadono senza sforzo sotto la penna parole, frasi, versi interi, ricordi svariati. Ma, fosse la fretta, fosse naturale deficienza del suo spirito, i suoi criteri generali non appariscono chiari, mentre mostra un sentimento profondo e vivace, sebbene pur esso confuso, del grande e del bello; si direbbe che le grandi questioni fondamentali, ma in verità non sono che pseudo-questioni, ad esempio quella delle relazioni tra storia e arte drammatica, a proposito della quale si noti col richiamo al Nerone di Svetonio l'accenno alla pretesa imparzialità del poeta, egli senta da artista e non riesca a fissare e dominare da filosofo. Del resto al suo fervido temperamento di artista più che alla sua ragione di critico gli avviene qualche volta di abbandonarsi con manifesto compiacimento e senza nessun rispetto all'economia generale della sua rivista, e allora egli scrive quelle bellissime pagine, tutte spirito e brio, in cui ritrae i due Dumas o descrive la prima rappresentazione a Parigi dei Nos bons villageoies, pigliando di fronte i magni pontefici della critica parigina e rivelando i segreti moventi dei loro giudizi. Di queste sue pagine né anche l'eco probabilmente giunse a Parigi, e fosse giunta, quei bravi signori né anche se ne sarebbero dati per intesi; ma a noi giova particolarmente notarle, ché sono preziose per la conoscenza dell'uomo oltre che per quella del critico e dell'artista. Naturalmente l'incertezza e l'imprecisione delle idee generali si riflettono nei giudizi particolari, quantunque la fretta vi abbia la sua parte di colpa e nel complesso egli sappia cogliere acutamente e rilevare meriti e difetti, e di ciò possiam trovare una bella prova dove accusa la Marianna del suo amico Ferrari, alla quale è assai severo ma non quanto sarebbe potuto essere, di svolgere nella tela semplicissima soltanto "gli avvenimenti elementari e naturalmente dettati dal soggetto". Se così fosse, Marianna sarebbe un capolavoro. Che cosa voleva dunque dire?
Nella stessa rivista è notevole il giudizio severissimo, e meglio sarebbe dire asprissimo, sulla Ristori, alla quale, scendendo a minuti particolari, rimprovera tra l'altro di accentuare un certo " ci "; io non posso dire per esperienza diretta se quell'appunto fosse giusto, ma la lettura della scena incriminata mi persuase che giustamente l'attrice doveva accentuare quel " ci ", raccogliendo su esso il tono carezzevole della madre che vuol fare confessare alla figlia un affetto al quale essa dá il suo tenero consenso. Ma la Ristori probabilmente esagerava e lo squisito sentimento artistico del Boito, per il quale forse idee e sentimenti dovevano riuscire chiari allo spettatore dalla semplice parola, se ne sentiva offeso come da grave stonatura.
In ogni modo, quali siano i difetti di esse, queste riviste non possono per nessun modo essere trascurate, perché, oltre a rivelarci, con le novelle, il Boito prosatore, interessante quanto e forse più del poeta, ci dicono quale serio studioso egli fosse, con quale preparazione, quali principii, quali intenti egli si accingesse alle sue grandi opere: chi non studia queste prose non potrà dire d'intendere appieno l'anima e la mente dell'uomo e dell'artista.
=Gioachino Brognoligo=
NOVELLE
L'ALFIER NERO
Chi sa giocare a scacchi prenda una scacchiera, la disponga in bell'ordine davanti a sé ed immagini ciò che sto per descrivere.
Immagini al posto degli scacchi bianchi un uomo dal volto intelligente; due forti gibbosità appaiono sulla sua fronte, un po' al disopra delle ciglia, là dove Gall mette la facoltà del calcolo; porta un collare di barba biondissima ed ha i mustacchi rasi com'è costume di molti americani. È tutto vestito di bianco e, benché sia notte e giuochi al lume della candela, porta un pince-nez affumicato e guarda attraverso quei vetri la scacchiera con intensa concentrazione. Al posto degli scacchi neri c'è un negro, un vero etiopico, dalle labbra rigonfie, senza un pelo di barba sul volto e lanuto il crine come una testa d'ariete; questi ha pronunziatissime le bosses dell'astuzia, della tenacità; non si scorgono i suoi occhi perché tien china la faccia sulla partita che sta giuocando coll'altro. Tanto sono oscuri i suoi panni che pare vestito a lutto. Quei due uomini di colore opposto, muti, immobili, che combattono col loro pensiero, il bianco con gli scacchi bianchi, il negro coi neri, sono strani e quasi solenni e quasi fatali. Per sapere chi sono bisogna saltare indietro sei ore e stare attenti ai discorsi che fanno alcuni forestieri nella sala di lettura del principale albergo d'uno fra i più conosciuti luoghi d'acque minerali in Isvizzera. L'ora è quella che i francesi chiamano entre chien-et-loup. I camerieri dell'albergo non avevano ancora accese le lampade; i mobili della sala e gli individui che conversavano, erano come sommersi nella penombra sempre più folta del crepuscolo; sul tavolo dei giornali bolliva un samovar su d'una gran fiamma di spirito di vino. Quella semi-oscurità facilitava il moto della conversazione; i volti non si vedevano, si udivano soltanto le voci che facevano questi discorsi:
—Sulla lista degli arrivati ho letto quest'oggi il nome barbaro di un nativo di Morant-Bay.
—Oh! un negro! chi potrà essere?
—Io l'ho veduto, milady; pare Satanasso in persona.
—Io l'ho preso per un ourang-outang.
—Io l'ho creduto, quando m'è passato accanto, un assassino che si fosse annerita la faccia.
—Ed io lo conosco, signori, e posso assicurarvi che quel negro è il miglior galantuomo di questa terra. Se la sua biografia non vi è nota, posso raccontarvela in poche parole. Quel negro nativo del Morant-Bay venne portato in Europa fanciullo ancora da uno speculatore, il quale, vedendo che la tratta degli schiavi in America era incomoda e non gli fruttava abbastanza, pensò di tentare una piccola tratta di grooms in Europa; imbarcò segretamente una trentina di piccoli negri, figliuoli dei suoi vecchi schiavi, e li vendé a Londra, a Parigi, a Madrid per duemila dollari l'uno. Il nostro negro è uno di questi trenta grooms. La fortuna volle ch'egli capitasse in mano d'un vecchio lord senza famiglia, il quale dopo averlo tenuto cinque anni dietro la sua carrozza, accortosi che il ragazzo era onesto ed intelligente, lo fece suo domestico, poi suo segretario, poi suo amico e, morendo, lo nominò erede di tutte le sue sostanze. Oggi questo negro (che alla morte del suo lord abbandonò l'Inghilterra e si recò in Isvizzera) è uno dei più ricchi possidenti del cantone di Ginevra, ha delle mirabili coltivazioni di tabacco e per un certo suo segreto nella concia della foglia, fabbrica i migliori zigari del paese; anzi guardate: questi vevay che fumiamo ora, vengono dai suoi magazzeni, li riconosco pel segno triangolare che v'è impresso verso la metà del loro cono. I ginevrini chiamano questo bravo negro Tom o l' Oncle Tom perché è caritatevole, magnanimo; i suoi contadini lo venerano, lo benedicono. Del resto egli vive solo, sfugge amici e conoscenti; gli rimane al Morant-Bay un unico fratello, nessun altro congiunto; è ancora giovine, ma una crudele etisia lo uccide lentamente; viene qui tutti gli anni per far la cura delle acque.
—Povero Oncle Tom! Quel suo fratello a quest'ora potrebbe già essere stato decapitato dalla ghigliottina di Monklands. Le ultime notizie delle colonie narrano d'una tremenda sollevazione di schiavi furiosamente combattuta dal governatore britannico. Ecco intorno a ciò cosa narra l'ultimo numero del Times: "I soldati della regina inseguono un negro di nome Gall-Ruck che si era messo a capo della rivolta con una banda di 600 uomini ecc. ecc."
—Buon Dio!—esclamò uno voce di donna,—e quando finiranno queste lotte mortali fra i bianchi ed i negri?!
—Mai!—rispose qualcuno dal buio.
Tutti si rivolsero verso la parte di chi aveva profferito quella sillaba. Là v'era sdraiato su d'una poltrona, con quella elegante disinvoltura che distingue il vero gentleman dal gentleman di contraffazione, un signore che spiccava dall'ombra per le sue vesti candidissime.
—Mai,—riprese quando si sentì osservato,—mai, perché Dio pose odio fra la razza di Cam e quella di Iafet, perché Dio separò il colore del giorno dal color della notte. Volete udire un esempio di questo antagonismo accanito fra i due colori?
—Tre anni fa ero in America e combattevo anch'io per la "buona causa", volevo anch'io la libertà degli schiavi, l'abolizione della catena e della frusta, benché possedessi nel Sud buon numero di negri. Armai di carabine i miei uomini, dicendo loro: «Siete liberi. Ecco una canna di bronzo, delle palle di piombo; mirate bene, sparate giusto, liberate i vostri fratelli». Per istruirli nel tiro avevo innalzato un bersaglio in mezzo ai miei possedimenti. Il bersaglio era formato da un punto nero, grosso come una testa, in un circolo bianco. Lo schiavo ha l'occhio acutissimo, il braccio forte e fermo, l'istinto dell'agguato come il jaguar, in una parola tutte le qualità del buon tiratore, ma nessuno di quei negri colpiva nel segno, tutte le palle escivano dal bersaglio. Un giorno, il capo degli schiavi, avvicinandosi a me, mi diede nel suo linguaggio figurato e fantastico questo consiglio: "Padrone, mutate colore; quel bersaglio ha una faccia nera, fategli una faccia bianca e colpiremo giusto". Mutai la disposizione del circolo e feci bianco il centro; allora su cinquanta negri che tirarono, quaranta colsero così….,—e dicendo queste ultime parole il raccontatore prese una pistoletta da sala ch'era sul tavolo, mirò, per quanto l'oscurità glielo permise, ad un piccolo bersaglio attaccato al muro opposto e sparò. Le signore si spaventarono, gli uomini corsero alla fiamma del samovar, la presero e andarono a constatare da vicino l'esito del colpo. Il centro era forato come se si fosse tolta la misura col compasso. Tutti guardarono stupefatti quell'uomo, il quale con una squisita cortesia domandò perdono alle dame della repentina esplosione, soggiungendo:—Volli finire con una immagine un po' fragorosa, altrimenti non mi avreste creduto.
Nessuno ardì dubitare della verità del racconto.
Poi continuò:—Ma combattendo per la libertà dei negri, mi sono convinto che i negri non sono degni di libertà. Hanno l'intelletto chiuso e gli istinti feroci. Il berretto frigio non dev'esser posto sull'angolo facciale della scimmia.
—Educateli—rispose una signora—e il loro angolo facciale si allargherà. Ma perché ciò avvenga non opprimeteli, schiavi, con la vostra tirannia, liberi, col vostro disprezzo. Aprite loro le vostre case, ammetteteli alle vostre tavole, ai vostri convegni, alle vostre scuole, stendete loro la mano.
—Consumai la mia vita a ciò, signora. Io sono una specie di Diogene del Nuovo Mondo: cerco l'uomo negro, ma finora non trovai che la bestia.
In questo momento comparve sull'uscio un cameriere con una gran lampada accesa; tutta la sala fu rischiarata in un attimo. Allora si vide in un angolo, seduto, immobile, l' Oncle Tom. Nessuno sapeva ch'egli fosse nella sala, l'oscurità l'aveva nascosto; quando tutti lo scorsero fecesi un lungo silenzio. Gli sguardi degli astanti passavano dal negro all'Americano. L'Americano s'alzò, parlò all'orecchio del cameriere e tornò a sedersi. Il silenzio continuava. Il cameriere rientrò con una bottiglia di Xeres e due bicchieri. L'Americano riempì fino all'orlo i due bicchieri, ne prese uno in mano; il cameriere passò coll'altro dal negro.
—Signore, alla vostra salute!—disse l'Americano al negro, alzando il bicchiere verso di lui come insegna il rito della tavola inglese.
—Grazie, signore; alla vostra!—rispose il negro e bevettero tutti e due. Nell'accento del negro v'era una gentilezza tenera e timida e una grande mestizia. Dopo quelle quattro parole si rituffò nel suo silenzio, s'alzò, prese dal tavolo de' giornali l'ultimo numero del Times e lesse con viva attenzione per dieci minuti.
L'Americano, che cercava un pretesto per ritentare il dialogo, si diresse verso l'angolo dove leggeva Tom, e gli disse con delicata cortesia:—Quel giornale non ha nulla di gaio per voi, signore; potrei proporvi una distrazione qualunque?
Il negro cessò di leggere e s'alzò con dignitoso rispetto davanti al suo interlocutore.
—Intanto permettete ch'io vi stringa la mano,—riprese l'altro;—mi chiamo sir Giorgio Anderssen. Posso offrirvi un'avana?
—Grazie, no; il fumo mi fa male.
Allora l'americano, gettando lo zigaro che teneva fra le labbra, tornò a dimandare:
—Posso proporvi una partita al bigliardo?
—Non conosco quel giuoco; vi ringrazio, signore.
—Posso proporvi una partita agli scacchi?
Il negro titubò, poi rispose:—Sì, questa l'accetto volentieri,—e s'avviarono ad un piccolo tavolo da giuoco che stava all'angolo opposto della sala; presero due sedie, si sedettero l'uno di fronte all'altro. L'Americano gettò i pezzi e le pedine sul panno verde del tavolino per distribuirli ordinatamente sulla scacchiera. La scacchiera era un'arnese qualunque a quadrati di legno grossamente intarsiati, ma gli scacchi erano dei veri oggetti d'arte. I pezzi bianchi erano d'avorio finissimo, i neri d'ebano, il re e la regina bianchi portavano in testa una corona d'oro, il re nero e la regina nera una corona d'argento, le quattro torri erano sostenute da quattro elefanti come nelle primitive scacchiere persiane. Il lavoro sottile di questi scacchi li riduceva fragilissimi. All'urto che presero quando l'Americano li riversò sul tavolo, l'alfiere dei neri si ruppe.
—Peccato!—disse Tom.
—È nulla,—rispose l'altro;—s'aggiusta subito.—E s'alzò, andò allo scrittoio, accese una candela, pigliò un pezzo di ceralacca rossa, la riscaldò, intonacò alla meglio i due frammenti dell'alfiere, li ricongiunse e riportò al compagno lo scacco aggiustato. Poi disse ridendo:—Eccolo! se si potesse riattaccare così la testa agli uomini!
—Oggi a Monklands molti avrebbero bisogno di ciò,—rispose il negro sorridendo tetramente. L'accento di questa frase destò nell'Americano un'impressione di stupore, di compassione, di offesa, di ribrezzo.
Tom continuò:—Con che colore giuocate, signore?
—Coll'uno o coll'altro senza predilezione.
—Se ciò v'è indifferente, pigliamo ciascuno il nostro. A me i neri, se permettete.
—Ed a me i bianchi. Benissimo,—e si misero a disporre i pezzi sulle loro case. S'aiutavano scambievolmente con eguale cavalleria nell'ordinamento de' loro scacchi; il negro, quando gli capitava, metteva a posto una pedina bianca, il bianco ricambiava la cortesia mettendo al loro posto alcuni pezzi neri. Quando furono tutti e due schierati, Anderssen disse:—Vi avverto che sono piuttosto forte; potrei chiedere di darvi il vantaggio di qualche pezzo, d'una torre, per esempio?
—No.
—D'un cavallo?
—Nemmeno. Mi piacciono le armi eguali s'anco è disuguale la forza. Apprezzo la vostra delicatezza, ma preferisco giuocare senza vantaggi di sorta.
—E sia. A voi il primo tratto.
—Alla sorte,—e il negro chiuse in un pugno una pedina nera e nell'altro pugno una pedina bianca; poi diede a indovinare all'Americano.
—Questo.
—Ai bianchi il primo tratto. Incominciamo.
Intanto le persone che stavano nella sala si erano avvicinate una ad una verso il tavolo da giuoco.
Fra quelle persone v'era chi conosceva il nome di Giorgio Anderssen come quello d'uno fra i più celebri giuocatori a scacchi d'America e costoro prendevano un particolare interessamento alla scena che stava per incominciare. Giorgio Anderssen, originario d'una nobile famiglia inglese emigrata a Washington, si era fatto quasi milionario sulla scacchiera. Giovane ancora, aveva già vinto Harwitz, Hampe, Szen e tutti i più sapienti giuocatori dell'epoca. Questo era l'uomo che si misurava col povero Tom.
Prima che Anderssen avesse avuto tempo di muovere la prima pedina, il negro prese dalla sua destra la candela che era rimasta accesa sul tavolo da giuoco e la collocò a sinistra. Anderssen notò quel movimento e pensò meravigliato:—Quest'uomo ha certamente letto la Repeticio de Arte de Axedre di Lucena e segue il precetto che dice: " Se giocate la sera al lume d'una candela, mettetela a sinistra; i vostri occhi saranno meno offesi dalla luce ed avrete già un grande vantaggio a fronte dell'avversario "—; e pensando ciò, prese i suoi occhiali affumicati e se li piantò sul naso; poi staccò la prima mossa. Indi si volse a coloro che s'erano fatti attorno e disse con gaia disinvoltura:—I primi movimenti del giuoco degli scacchi sono come le prime parole d'una conversazione, s'assomigliano sempre; eccoli: pedina bianca, due passi; pedina nera, due passi; poi gambito di re, ecc. ecc. ecc.—E così, ciarlando sbadatamente, fece la seconda mossa e mise avanti due passi la pedina dell'alfiere di re, aspettando che l'avversario gliela prendesse colla sua. Il negro non prese la pedina, ma invece con una mossa meno regolare difese la pedina propria sollevando il suo alfiere di re sulla terza casa della regina. Anderssen rimase un po' sorpreso anche di ciò e pensò:—Quest'uomo risparmia le pedine; segue il sistema di Philidor che le chiamava l'anima del giuoco.
Seguirono ancora cinque o sei mosse d' apertura; i due giuocatori si esploravano l'un l'altro come due eserciti che stanno per attaccarsi, come due boxeurs che si squadrano prima della lotta. L'Americano, abituato alle vittorie, non temeva menomamente il suo antagonista; sapeva inoltre quanto l'intelletto d'un negro, per educato che fosse, poteva fievolmente competere con quello d'un bianco e tanto meno con Giorgio Anderssen, col vincitore dei vincitori. Pure non perdeva di vista il minimo segno del nemico; una certa inquietudine lo costringeva a studiarlo e, senza parere, lo andava spiando più sulla faccia che sulla scacchiera. Egli aveva capito fin dal principio che le mosse del negro erano illogiche, fiacche, confuse; ma aveva anche veduto che il suo sguardo e gli atteggiamenti della sua fronte erano profondi. L'occhio del bianco guardava il volto del negro, l'occhio del negro era immerso nella scacchiera. Non avevano giuocato in tutto che sette od otto mosse e già apparivano evidenti due sistemi diametralmente opposti di strategia.
La marcia dell'Americano era trionfale e simmetrica, rassomigliava alle prime evoluzioni d'una grande armata che entra in una grande battaglia; l'ordine, quel primo elemento della forza, reggeva tutto il giuoco dei bianchi. I cavalli, che dagli antichi erano chiamati i "piedi degli scacchi", occupavano uno l'estrema destra, l'altro l'estrema sinistra; due pedoni erano andati ad ingrossare da una e dall'altra parte l'avamposto segnato dalla pedina del re; la regina minacciava da un lato, l'alfiere di re dall'altro lato, ed il secondo alfiere teneva il centro davanti due passi del re e dietro le pedine. La posizione dei bianchi era più che simmetrica: era geometrica; l'individuo che disponeva così quei pezzi d'avorio, non giuocava ad un giuoco, meditava una scienza; la sua mano piombava sicura, infallibile sullo scacco, percorreva il diagramma, poi s'arrestava al punto voluto colla calma del matematico che stende un problema sulla lavagna. La posizione dei bianchi offendeva tutto e difendeva tutto; era formidabile in ciò che circoscriveva l'inimico ad un ristrettissimo campo d'azione e, per così dire, lo soffocava. Immaginatevi una parete animata che s'avanzi e pensate che i neri erano schiacciati fra la sponda della scacchiera e questa parete, poderosa, incrollabile.
A volte pare che anche le cose inanimate prendano gli atteggiamenti dell'uomo, il più frivolo oggetto può diventare espressivo a seconda di ciò che lo attornia. Ecco perché i pezzi d'ebano de' quali componevasi l'armata dei neri, parevano, davanti allo spaventoso assalto dei bianchi, colti anch'essi da un tragico sgomento. I cavalli, come adombrati, voltavano la schiena all'attacco, le pedine sgominate avevano perduto l'allineamento, il re che s'era affrettato a roccarsi, pareva piangere nel suo cantuccio il disonore della sua fuga. La mano di Tom, fosca come la notte, errava tremando sulla scacchiera.
Questo era l'aspetto della partita veduta dal lato dell'Americano. Mutiamo campo. Veduto dal lato del negro l'aspetto della partita si rovesciava. Al sistema dell'ordine sviluppato dall' apertura dei bianchi, il negro contrapponeva il sistema del più completo disordine; mentre quegli si schierava simmetrico, questi si agglomerava confuso, quegli poneva ogni sua forza nell'equilibrio dell'offesa e della difesa, questi aumentava ad ogni passo il proprio squilibrio, il quale, pel crescente ingrossar della sua massa, diventava esso pure, in faccia allo schieramento dei bianchi, una vera forza, una vera minaccia. Era la minaccia della catapulta contro il muro del forte, della carica contro il carré: mano mano che la parete mobile del bianco s'avanzava, il proiettile del negro si faceva più possente. I due eserciti erano completi uno a fronte dell'altro; non mancava né un solo pezzo né una sola pedina, e codesta riserva d'ambe le parti era feroce. L'Americano non iscorgeva in sul principio nella posizione del negro che una inetta confusione prodotta dal timor panico del povero Tom; ma appunto per la sua inettitudine gli pareva che quella posizione impedisse un regolare e decisivo assalto. Ma il negro vedeva in quella confusione qualcosa di più: tutta la sua natural tattica di schiavo, tutta l'astuzia dell'etiopico era condensata in quelle mosse. Quel disordine era fatto ad arte per nascondere l'agguato, le pedine fingevano la rotta per ingannare il nemico, i cavalli fingevano lo sgomento, il re fingeva la fuga. Quello squilibrio aveva un perno, quella ribellione aveva un capo, quel vaneggiamento un concetto. L'alfiere che Tom aveva collocato fin dal principio alla terza casa della regina, era quel perno, quel capo, quel concetto. Le torri, le pedine, i cavalli, la regina stessa attorniavano, obbedivano, difendevano quell'alfiere. Era appunto l'alfiere ch'era stato rotto ed aggiustato dall'Americano; un filo sanguigno di ceralacca gli rigava la fronte e calando giù per la guancia, gli circondava il collo. Quel pezzo di legno nero era eroico a vedersi; pareva un guerriero ferito che s'ostinasse a combattere fino alla morte; la testa insanguinata gli crollava un po' verso il petto con tragico abbattimento; pareva che guardasse anche lui, come il negro che lo giuocava, la fatale scacchiera; pareva che guatasse di sott'occhi l'avversario e aspettasse stoicamente l'offesa o la meditasse misteriosamente. Nel cervello di Tom quello era il pezzo segnato della partita; egli vedeva colla sua immaginosa ed acuta fantasia diramarsi sotto i piedi dell' alfier nero due fili, i quali, sprofondandosi nel legno del diagramma e passando sotto a tutti gli ostacoli nemici, andavano a finire come due raggi di mina ai due angoli opposti del campo bianco. Egli attendeva con trepidazione una mossa sola, l' arroccamento del re avversario, per dare sviluppo al suo recondito pensiero. Senza quella mossa tutto il suo piano andava fallito; ma era quasi impossibile che Anderssen ommettesse quella mossa. Tom solo vedeva e sapeva la sua occulta cospirazione e nessun giuocatore al mondo avrebbe potuto indovinarla. Al vasto ed armonico concepimento del bianco, il negro opponeva questa idea fissa: l' alfiere segnato; alla ubiquità ordinata delle forze dei bianchi i neri opponevano la loro farraginosa unità, al giuoco aperto e sano il giuoco nascosto e maniaco. Anderssen combatteva colla scienza e col calcolo, Tom colla ispirazione e col caso; uno faceva la battaglia di Waterloo, l'altro la rivoluzione di San Domingo. L' alfier nero era l'Ogè di quella rivoluzione.
La partita durava già da un paio d'ore; erano circa le nove della sera; alcune signore si allontanarono dalla scacchiera, stanche d'osservare, per darsi quale ad un lavoro, quale ad un ricamo, e quale, caricando e ricaricando la pistoletta da sala, si dilettava al piccolo bersaglio.
I due antagonisti erano sempre fissi al loro posto. L'Americano, che non vedeva ancora lo scaccomatto e che non capiva la selvaggia tattica del negro, cominciava ad annoiarsi ed a pentirsi dell'eccessiva cortesia che l'aveva spinto a quella partita. Avrebbe voluto finirla presto ad ogni costo, anche a costo di perdere; ma dall'altra parte il suo orgoglio di razza glielo impediva; un bianco ed un gentiluomo non poteva esser vinto da uno schiavo; inoltre la sua coscienza di gran giuocatore e il lungo studio de' scacchi non gli permetteva di fare un passo che non fosse pensato. Giunto alla quindicesima mossa, s'accorse che il suo re non s'era ancora arroccato, alzò le mani, colla sinistra sollevò il re, con la destra la torre, e stava già per compiere il movimento, quando scorse nell'occhio del negro un ilare lampo di speranza; non indovinò la ragione; stette ancora coi due scacchi per aria studiando la partita, titubò; l'occhio di Tom seguiva affannosamente, fra la gioia e il timore, i più piccoli segni delle due mani, bianche come l'avorio che serravano. Anderssen, turbato, stava per rimettere al loro posto prima i due pezzi, quando il negro esclamò vivamente:
—Pezzo toccato, pezzo giuocato.
—Lo sapevo,—rispose in modo urbano ma secco, mentre cercava ancora un sotterfugio per evitare la mossa, senza darsene precisamente ragione; ma i pezzi toccati erano due, bisognava giuocarli tutti e due: il codice del giuoco parlava chiaro; non era possibile altro passo che l' arroccamento. Anderssen si arroccò alla calabrista, come dice il gergo della scienza, cioè pose il re nella casa del cavallo e la torre nella casa dell'alfiere. Poi piantò gli occhi nel volto del nemico. Il negro, fatta che vide la mossa tanto sperata e tanto attesa, tornò a fissare più intensamente che mai l' alfiere segnato, ed acceso dalla emozione e dalla sua natura tropicale, non si curava né anche di temperare gli slanci della sua fisionomia. Correva su e giù coll'occhio dall'alfier nero al re bianco, facendo e rifacendo venti volte la stessa via quasi volesse tirare un solco sulla scacchiera. Anderssen vide quelle occhiate, le seguì, notò l'alfiere, indovinò tutto; ma sulla sua faccia non apparve un indizio solo di quella scoperta. Del resto Tom non guardava mai l'Americano; era sempre più invaso dall' idea fissa che lo dominava, Tom in quella stanza non vedeva che una scacchiera, in quella scacchiera non vedeva che uno scacco: fuor di quel piccolo quadrato nero e di quella figura d'ebano, nessuno e nulla esisteva per esso. Coi pugni serrati s'aggrappava agli ispidi capelli, sostenendosi così la testa, appoggiato coi gomiti alla sponda del tavolo; la pelle delle sue tempia, stiracchiata dalla pressione che facevangli i polsi delle due braccia, gli rialzava l'epiderme della fronte; le palpebre, in quel modo stranamente allungate all'insù, mostravano scoperto in gran parte il globo opaco e bianchissimo de' suoi occhi. In questo atteggiamento stette maturando il suo colpo per ben quaranta minuti, immoto, avido, trionfante; poscia attaccò; prese una pedina all'avversario e gli offese un cavallo. L'Americano aveva previsto il colpo. Il fuoco era incominciato. A quella prima scarica rispose un'altra dell'Americano, il quale prese la pedina nera ed offese la torre; cinque, sei mosse si seguirono rapidissime, accanite. La vera lotta principiava allora. A destra, a sinistra della scacchiera vedevansi già alcuni pezzi ed alcune pedine messe fuori di combattimento, primi trofei dei combattenti; l'assalto lungamente minacciato irruppe in tutta la sua violenza; da una parte e dall'altra si diradavano i ranghi, un pezzo caduto ne trascinava un altro, i bianchi facevano la vendetta dei bianchi, i neri facevano la vendetta de' neri, un bianco prendeva ed era preso da un nero, un nero offendeva ed era offeso da un bianco; mai la legge del taglione non fu meglio glorificata. Anderssen cominciava anch'esso ad eccitarsi. Egli aveva tutto preveduto, tutto combinato prima; appena scoperta la trama di Tom, durante quei quaranta minuti nei quali Tom immaginava il suo colpo fatale, Anderssen aveva letto nelle sue intenzioni ed aveva risposto al primo urto in modo da condurre il negro di pezzo in pezzo ad una posizione senza dubbio attraentissima e favorevolissima pel negro stesso; ma voleva trarlo a quella posizione a patto di sacrificargli l'alfiere. Anderssen sapeva già che, tolto l'alfiere, Tom non avrebbe più saputo continuare.
V'hanno degli entomati che non sanno due volte tessersi la larva, dei pensatori che non sanno rifar da capo un concetto, dei guerrieri che non sanno ricominciar la pugna: Anderssen pensava ciò intorno al suo antagonista.
Giunto al varco dove l'Americano l'attendeva, Tom non vacillò un momento, rinunciò alla posizione, sacrificò invece dell'alfiere un cavallo, costrinse l'avversario a distruggere le due regine e la partita mutò aspetto completissimamente.
Il pieno della mischia era cessato, i morti ingombravano le due sponde nemiche, la scacchiera s'era fatta quasi vuota, all'epica furia degli eserciti numerosi era succeduta l'ira suprema degli ultimi superstiti, la battaglia si mutava in disfida. Ai bianchi rimanevano due cavalli, una torre e l'alfiere del re; al negro rimanevano due pedine e l' alfiere segnato.
Erano le undici. Evidentemente i neri avrebbero dovuto abbandonare il giuoco. Gli astanti, vedendo la partita condotta a questi termini, salutarono i due giuocatori e congratulandosi con Anderssen, escirono dalla stanza ed andarono a letto.
Rimasero soli, faccia a faccia, i due personaggi nostri.
Anderssen chiese al negro:—Basta?
Il negro rispose quasi urlando:—No!—e fece un movimento; poi, nella sua agitazione, volle mutarlo….
Anderssen lo interruppe, dicendogli con ironica intenzione:—Casa toccata, pezzo lasciato.
Tom obbedì. Ripiombarono nel più sepolcrale silenzio. La sicurezza della vittoria faceva Anderssen nuovamente annoiato, e già la testa cominciava ad infiacchirglisi ed il sonno ad offuscarlo.
Tom era sempre più desto, sempre più acceso e sempre più cupo.
L'alfier nero stava in mezzo alla nuda scacchiera, ritto, deserto, abbandonato dai suoi; una pedina soltanto gli era rimasta per difenderlo dagli attacchi dalla torre; le altre due pedine erano avanzatissime nel campo dei bianchi: una di queste toccava già la penultima casa. Tom pensava. Le lucerne della sala si oscuravano. Non s'udiva altro rumore fuor che quello d'un grande orologio che pareva misurare il silenzio. Scoccava la mezzanotte quando l'ultima lampada si spense; quel vasto locale rimase illuminato dalla sola candela che ardeva sul tavolo dei giuocatori. Anderssen cominciava a sentire il freddo della notte. Tom sudava.
Il selvaggio odore della razza negra offendeva le nari dell'Americano.
Vi fu un momento che in fondo al giardino s'udì cantarellare il bananiero di Gotschalk da un forestiere attardato che ritornava all'albergo: Tom si rammentò quella canzone, una nuvola di lontanissime memorie si affacciò al suo pensiero; vide un banana gigante rischiarato dall'aurora dei tropici e fra quei rami un hamac che dondolava al vento, in questo hamac due bamboli negri addormentati e la madre inginocchiata al suolo che pregava e cantava quella blandissima nenia. Stette così dieci minuti, rapito in queste rimembranze, in questa visione; poi quando tornò il silenzio profondo, riprese la contemplazione dall'alfiere.
Vi è una specie di allucinazione magnetica che la nuova ipnologia classificò col nome di ipnotismo ed è un'estasi catalettica, la quale viene dalla lunga e intensa fissazione d'un oggetto qualunque. Se si potesse affermare evidentemente questo fenomeno, le scienze della psicologia avrebbero un trionfo di più: ci sarebbe il magnetismo che prova la trasmissione del pensiero, il così detto spiritismo che prova la trasmissione della semplice volontà sugli oggetti inanimati, l' ipnotismo che proverebbe l'influenza magnetica delle cose inanimate sull'uomo. Tom pareva colto da questo fenomeno. L' alfier nero lo aveva ipnotizzato. Tom era terribile a vedersi: egli si mordeva convulsivamente le labbra, aveva gli occhi fuori dell'orbita, le goccie di sudore gli cadevano dalla fronte sulla scacchiera. Anderssen non lo guardava più, perché l'oscurità era troppo fitta e perché anch'esso, come attirato dalla stessa elettricità, fissava l' alfier nero.
Per Tom la partita poteva dirsi perduta; non erano le combinazioni del giuoco che lo facevano così commosso, era l'allucinazione. Lo scacco nero, per Tom che lo guardava, non era più uno scacco, era un uomo; non era più nero, era negro. La ceralacca rossa era sangue vivo e la testa ferita una vera testa ferita. Quello scacco egli lo conosceva, egli aveva visto molti anni addietro il suo volto, quello scacco era un vivente….. o forse un morto. No; quello scacco era un moribondo, un essere caro librato fra la vita e la morte. Bisogna salvarlo! salvarlo con tutta la forza possibile del coraggio e della ispirazione. All'orecchio del negro ronzava assiduamente come un orribile bordone quella frase che l'Americano aveva detto ridendo, prima d'incominciare la partita:— Se si potesse riattaccare così la testa ad un uomo! —e quell'incubo aumentava l'allucinazione sua.
La fronte di quella figura di legno diventava sempre più umana, sempre più eroica, toccava quasi all'ideale e, passando da trasfigurazione in transumanazione, da uomo diventava idea, come da scacco era diventata uomo. L' idea fissa era ancora là, nel centro dell'anima del negro, sempre più innalzata, sempre più sublimata. Da mania si era mutata in superstizione, da superstizione in fanatismo. Tom era in quella notte, in quel momento la sintesi di tutta la sua razza.
Passarono così altre quattro ore, mute come la tomba: due morti o due assopiti avrebbero fatto più rumore che non quei due uomini che lottavano così furiosamente. Il pugilato del pensiero non poteva essere più violento: le idee cozzavano l'una contro l'altra; i concetti cadevano strozzati da una parte e dall'altra. I volti non si guardavano più, le due bocche tacevano. A una certa mossa l'alfier nero perdette terreno, la torre bianca colla sua marcia potente e diritta lo offendeva e ad ogni passo minacciava di coglierlo. L'alfiere schivava obliquamente con degli slanci da pantera la sua formidabile persecutrice; Anderssen seguiva perplesso la corsa furibonda dell'alfiere spingendo sempre più avanti il suo pezzo e rinserrando il pezzo nemico verso un angolo della scacchiera. Questa fuga febbrile, ansante, durò una intiera mezz'ora; i due re anch'essi prendevano parte in questa frenetica scherma; e lottando anch'essi l'uno contro l'altro, parevano due di quegli antichi re leggendarii d'Oriente che si vedevano errare dopo la battaglia sul campo abbandonato, cercandosi ed avventandosi fra loro tragicamente.
Dopo mezz'ora la scacchiera aveva di nuovo mutato faccia; la fuga dell'alfiere e lo sconvolgimento dei due re, della torre e delle pedine avevano trascinato cosifattamente i pezzi fuori dai loro centri, che il re bianco era andato a finire nel campo nero, sull'estremo quadrato a sinistra; il re nero gli stava a due passi sulla casa stessa del proprio alfiere. Anderssen, abbagliato dalle evoluzioni fantastiche dell' alfier nero, continuava ancora ad inseguirlo, a rinserrarlo, a soffocarlo.
A un tratto lo colse! lo afferrò, lo sbalzò dalla scacchiera assieme agli altri pezzi guadagnati e guardò in faccia con piglio trionfante la sconfitta nemica.
Erano le cinque del mattino. Spuntava l'alba. La faccia del negro brillava d'uno splendore di giubilo. Anderssen, nella foga della caccia al pezzo fatale, aveva dimenticato la pedina nera che stava sulla penultima casa dei bianchi alla sua destra. Quella pedina era là già da quattro ore ed egli ne aveva sempre differita la condanna. Quando Anderssen vide quella gran gioia sul volto del negro, tremò; abbassò con rapida violenza gli occhi sulla scacchiera.
Tom aveva già fatta la mossa. La pedina era passata regina? No. La pedina era passata alfiere, e già l' alfiere segnato, l' alfiere nero, l'alfiere insanguinato, era risorto ed aveva dato scacco al re bianco. Il negro guardò alla sua volta con orgoglio la scacchiera. Anderssen stette ancora un minuto secondo attonito: il suo re era offeso obliquamente per tutta la diagonale nera del diagramma; da un lato l'altro re gli chiudeva il riparo, dall'altro lato era inceppato da una sua stessa pedina. Il colpo era mirabile! Scaccomatto!
Tom contemplava estatico la sua vittoria.
Giorgio Anderssen spiccò un salto, corse al bersaglio, afferrò la pistola, sparò.
Nello stesso momento Tom cadde per terra. La palla l'aveva colpito alla testa, un filo di sangue gli scorreva sul volto nero, e colando giù per la guancia, gli tingeva di rosso la gola ed il collo. Anderssen rivide in quest'uomo disteso a terra l' alfiere nero che lo aveva vinto.
Tom agonizzando pronunciò queste parole:—Gall-Ruck è salvo… Dio protegge i negri…—e morì.
Due ore dopo il cameriere che entrò nella sala per dar ordine ai mobili, trovò il cadavere del negro per terra e lo scaccomatto sul tavolo.
Giorgio Anderssen era fuggito.
Venti giorni dopo arrivava a New-York, e là incalzato dai rimorsi, si era costituito prigioniero e denunciato come assassino di Tom.
Il Tribunale lo assolse, prima perché l'assassinato non era che un negro e perché non poteva sussistere l'accusa di omicidio premeditato; poi perché il celebre Giorgio Anderssen si era denunciato da sé, infine perché si era scoperto nelle indagini giudiziarie che il negro ucciso era fratello di un certo Gall-Ruck che aveva fomentata l'ultima sollevazione di schiavi nelle colonie inglesi, quel Gall-Ruck che fu sempre inseguito e non si potè mai trovare.
Anderssen rientrò nelle sue terre col rimorso nel cuore non alleggerito dalla più tenue condanna.
Dopo la catastrofe che raccontammo giuocò ancora a scacchi, ma non vinse più. Quando si accingeva a giuocare, l' alfier nero si mutava in fantasma. Tom era sulla scacchiera! Anderssen perdé al giuoco degli scacchi tutte le ricchezze che con quel giuoco aveva guadagnate.
In questi ultimi anni povero, abbandonato da tutti, deriso, pazzo, camminava per le vie di New-York facendo sui marmi del lastricato tutti i movimenti degli scacchi, ora saltando come un cavallo, ora correndo dritto come una torre, ora girando di qua, di là, avanti e indietro come un re e fuggendo ad ogni negro che incontrava.
Non so s'egli viva ancora.
IBERIA
I.
L'epoca di questo fatto ci è ignota; il paese è la Spagna.
Un cavallo corre furiosamente per campi deserti, un cavaliere lo sprona, nero l'uno, nero l'altro; ravvolti nelle pieghe d'un immenso mantello, sembrano una nuvola d'uragano che voli, radendo la terra, col fulmine in grembo. Il cavaliere nasconde la sua faccia in un ampio cappuccio. Sotto quella tenebrosa coperta si possono supporre tutte le schiatte umane di tutti i tempi, lo spagnuolo, il saraceno, l'hidalgo; la corazza di ferro del quattrocento, il giustacuore di cuoio del cinquecento, la giubba di velluto del seicento vi si potrebbero parimenti celare. Quel fosco mantello è una larva che maschera un uomo e un secolo. Alla oscurità delle vesti, la vertigine della corsa s'aggiunge per fare più inafferrabile ancora quel mistero volante.
Veduto da lungi, il cavallo disegna nel vuoto colla curva delle zampe balzanti un arco d'aereo ponte che si ripete sterminatamente per la campagna. Lo scalpito metallico de' ferri scande sul terreno un ritmo stringato e preciso come i trochei di Pindaro. Quel cavallo ha il volo e il metro dell'ode. I pioppi sfilano in processione sotto gli occhi del cavaliero e le loro fronde, smosse dalla brezza del vespro, rendono suono d'applausi lontani.
Chi è quel fuggiasco? In che secolo vibrarono i palpiti di quella corsa? nel grande oceano delle ore quali furono i minuti marcati da quel galoppo furente?
A che giova saper la cifra del tempo!?
Il cuore non muta, la terra non si trasforma per variar di secoli e di storia. Regni in Granata l'Abenceragio o Filippo II, domini sulla Spagna intera il fanatismo del turbante o della croce, vigili sul trono di Madrid il genio di Carlo V o vi dorma l'idiotismo di Carlo II, che importa ciò al trovator di romanze e al monte dell'Estremadura? L'uno canterà sempre le sue albe sotto il terrazzo della dama sua, l'altro coronerà sempre di fiori la cima delle sue antiche palme. Ciò solo che sta fra l'uomo e la natura appar mutabile: leggi, costumi, scienze. Un divino impulso spinge codeste labili forme verso un perenne moto d'ascensione; ma né le sante virtù del cuore ponno farsi più sante, né le belle virtù del creato ponno farsi più belle.
La storia che raccontiamo è l'eterna storia dell'amore nell'eterno paese della poesia; non mettiamo date all'eternità.
Il cavallo non s'arresta, non s'allenta mai. Tutte le fiumane di Leone e di Castiglia passarono già sotto il suo volo; d'un balzo varca l'Esla, d'un altro balzo l'Orbigo, d'un altro balzo la Duera; pure, giunto presso gli orli della Pisurga, esita, ma l'uomo che lo cavalca, implacabile, feroce, gli conficca gli sproni ne' fianchi, alcune goccie di sangue cadono sulla riva, il puledro si dibatte fra le ginocchia del cavaliero, spicca un salto portentoso, e la Pisurga è varcata ed è ripresa la fuga, e passa Valadolid e passa Zamora e si sprofonda nelle più selvaggie regioni dell'Estremadura. La linea del suo viaggio parte da Salamanca e va alla montagna. Ogni suo sbalzo divora dieci cubiti di terreno, la sua unghia ferrata ripete sul suolo quel gesto nervoso che fa la mano di chi sfoglia rapidamente un libro e getta pagina su pagina. Così quel cavallo scaglia dietro di sé trionfalmente le leghe percorse.
Il cavaliere si volge con orgogliosa movenza verso la propria ombra che il sole tramontando profila per terra; la vede disegnarsi lunga lunga e incurvarsi leggiera in un vano del colle, simile alle figure bizantine delle alte cupole orientali. Davanti ogni croce che incontra s'inchina devoto fino a toccar le briglie col capo. E viaggia. Senza questi segni manifesti di adorazione cattolica, ei si direbbe un evaso dai roghi del Sant'Ufficio che provò già i primi lambimenti del fuoco.
La notte sale sulla montagna e il bruno cavallo con essa. Le due Castiglie s'addormentano nel buio senza neanche un auto-da-fé per fiaccola notturna.
Un soffio di vento fa cadere il cappuccio sulle spalle del cavaliero, e il cavaliero schiude il suo volto alla limpidezza del cielo. È un giovanetto bello di bellezza ideale, biondo come un bambino e abbronzito come un guerriero. Gli arcangeli che pellegrinavano sulle sabbie della Palestina ai primi anni di Cristo, dovevano risalire l'azzurro abbronziti così. Ed egli aveva dell'arcangelo anche la vaga età, come la ideava Murillo, errante fra i quindici e i dieciott'anni. Al pudico ceruleo degli occhi si avrebbe detto quindici, al fiero congiungimento delle labbra si avrebbe detto dieciotto. Egli correva ancora, benché il sentiero salisse erto e selvoso.
La notte s'avanzava e il bel cavaliero tornava a nascondere il suo viso nella folta penombra, il suo viso apparso come meteora, un istante, fra i fuggenti riverberi del crepuscolo. Giunto a una più erta salita, scende di cavallo e cammina. Alla foga quasi paurosa è succeduta una più paurosa lentezza. Il giovanetto fa passi radi, brevi e tremebondi; il suo cavallo affranto lo segue.
Giunto a mezzo del monte incomincia a cantare un' alba provenzale che l'eco della valle deserta ripete così:
Erransa Pezansa Me destrenh e m balansa; Res no sai on me lansa,
e continua a salire sempre più lento per vie sempre più selvaggie.
Mancano due ore a mezzanotte quand'egli arriva agli spaldi d'un immenso castello ritto sul ciglione d'una rupe. Il giovanetto lega il suo puledro alla massiccia balaustra del ponte levatoio; poi s'appoggia col gomito sulla sella e rimane immobile in quell'atteggiamento qualche minuto. Indi ripiglia a cantare con voce intensa e tremante:
Nacido en Castilla, Enamorado en Leon,
e un'altra voce più fluida e più bianca risponde:
Nacida en Leon, Enamorada en Castilla,
e il ponte levatoio è abbassato, ed appare una forma bianca come la voce che aveva cantato, e il giovanetto passa, e s'odono, in fondo al porticato oscuro, mormorar questi nomi:
"Estebano".
"Elisenda".
II.
—Principe, mi apparite più veloce del sogno e più pronto della speranza!
—Mi posi in viaggio all'aurora con tre puledri, uno bianco, uno sauro e uno nero; salii sul bianco a Castiglia, gli altri due mi seguivano. A Palenza il bianco morì e salii sul sauro; a Salamanca il sauro morì e salii sul nero, che ora dorme laggiù fuor dello spaldo.
—Cugino Estebano, il sangue dei nostri grand'avi bolle fieramente nelle nostre vene. I re di Castiglia erano chiamati aguilas en sus caballos.
—E le regine di Leone erano dette fadas en sus castillos, principessa Elisenda, graziosa cugina mia.
L'accento di quest'ultime parole sonò grave e oscillante sulle labbra del giovanetto, come la cadenza d'un canto.
—In dieci anni che non ci siamo visti è cresciuta in voi la statura del corpo e la gentilezza della parola. Vi stanno ancora nella memoria le serenate di Valadolid?
—I due versi che ho cantato poc'anzi ve ne fanno fede. Avevo sett'anni quando li composi per voi nel parco della defunta principessa Blanca vostra augustissima madre; e cinque anni avevate voi quando per la prima volta mi rispondeste cantando come questa sera.
—Sì; me ne rammento tanto, tanto. Io vi chiamavo Menestrello e voi mi chiamavate Reina. Voi portavate i miei colori, io ripetevo le vostre canzoni; e mi ricordo d'una volta che vi nascondeste nel bosco dei leandri per piangere un giorno intero quando scopriste che il verso Enamorado en Leon era sbagliato; né prima ve n'eravate accorto, né poi lo sapevate correggere.
—E non l'ho ancora corretto, principessa.
—Spero che non lo correggerete mai.
Dopo queste parole il castello echeggiò alle risate dei due giocondi cugini.
Indi Estebano ricominciò:
—E Don Sancio, il vostro buon nonno, come morì?
—Povero nonno! morì di vecchiaia, la morte del leone. Egli presentiva l'ora della sua fine. Tre dì prima di andarsene in paradiso vergò il suo testamento, quello che leggeste ieri a Castiglia; piegò, suggellò e v'inviò egli stesso lo scritto. Il giorno dopo, che fu ieri, escì dal castello coll'archibugio ed uccise tutti i corvi e tutti gli avvoltoi di queste gole; poi si riposò. Oggi, prima dell'alba, mi prese per mano e mi condusse sulla cornice d'un burrone, da dove quel forte vegliardo soleva ogni dì contemplare il crepuscolo. Lì, sull'orlo dell'abisso, appoggiando la schiena contro la roccia nuda, parlò a me, che lo guardavo dal ponte, così: "Principessa Elisenda de Sang-Real, figlia di colui che nacque dal figlio di tutti i re di Leone, sappiate che oggi, quando il sole comparirà in questa rupe, io sarò morto. Non piangere, ma ascolta. Quest'aurora è il tramonto mio". (Ed egli mormorava ciò mentre voi, cugino, sellavate a Castiglia il cavallo bianco). "Ti ricordi", soggiunse, "a Madrid quel vecchio toro che non sapeva più combattere nel circo e che penava a morire? Tu eri ancora bambina e ridevi guardandolo e lo beffavi: io, per moderare il tuo riso, che non s'addiceva a prole di regnatori, ti dissi:—Donna Elisenda, sul davanti della vostra bocca ognun vede che manca qualche tenero dente di latte—; allora ti facesti seria e chiudesti le labbra. Oggi che hai tutti i tuoi denti e che nessuno ti scorge, puoi sorridere, figliuola mia; il toro decrepito c'è ancora". E intanto che il vecchio parlava s'udì nell'alvo dell'azzurro il gorgheggio della prima lodola. Don Sancio levò la testa come per cercare nell'aria l'augellino canoro e poi sclamò: "Ecco già il grillo del paradiso! Da queste vette al cielo c'è poca distanza… tu non aver paura, figliuola, non turberò le tue notti. Per sola esequie accenderai nell'oratorio, questa sera, l'antica torcia benedetta che fu la face tutelare della nostra stirpe, da Alfonso VIII fino a te. Abbi gran cura di quel sacro cero, bada che per ispegnerlo ci vuole l'alito d'una sposa; ti sarà spiegato poi questo mistero. In quella fiamma è chiuso il fato della nostra razza. Quel cero fu tratto dall'arnie che popolano le valli dove nacque Gesù; lo portò da Terra Santa uno de' nostri avi eccelsi. Il profetico frate che glielo porse gli disse:—Finché questo cero arderà vivranno i troni di Spagna.—D'allora in poi avemmo sempre per costume d'accendere quella preziosa reliquia ad ogni nostro funerale e ad ogni nostro imeneo. Ora non puoi ancora comprendere tutta la sapienza dell'oracolo avvinto alla vetusta reliquia. Sappi soltanto che l'alito d'una vergine, su quella vergine cera, estinguerebbe insieme alla fiamma la grazia divina che veglia sulla nostra progenie, e la progenie sarebbe spenta con essa. Elisenda, le anime dei tuoi figliuoli si accenderanno alle faville di quel cero serafico, ma prima di spegnerlo attendi Estebano tuo. Egli arriverà questa notte, gli ho scritto; arriverà questa notte, ti sposerai ad Estebano; un vecchio moribondo è vicino a Dio più del più santo sacerdote, ed io stendo verso di te la mia mano non ancora tremante e benedico il tuo regio imeneo. Gli angeli veglieranno sul sacro connubio dei due ultimi dilicati rampolli di Sang-Real". Poi pronunciò parole così oscure e così profonde che io non le compresi. "Pensa, Elisenda", soggiunse, "che dal tuo grembo sorgerà la storia dei secoli venturi; dell'alta quercia imperiale, che dilatò le sue ombre fin sull'Asturia e sull'Aragona, due ramoscelli rimangono ancor vivi. Dio unirà questi due ramoscelli che diventeranno una sola ed eterna radice. Da donna Urraca e da Alfonso el Batalador nacque la nostra gloria passata; da donna Elisenda e dal principe Estebano de Sang-Real sorgeranno le nostre glorie future. Bimbi leggiadri ed augusti, siete fiorellini di re, siete semi di re! e come da una sol'ape coronata pullula l'intera popolazione degli alveoli armoniosi, così popola tu, figliuola, gli alti troni del mondo! Estebano, Elisenda: amate, germinate! Offro a Dio in olocausto questi lunghi anni di romitaggio e di umiltà, pei quali piacquegli conculcare temporariamente la mia imperiale famiglia. Ma in premio della mia perduta potestà chiedo a Dio per le creature delle mie creature una imperitura dominazione. Ricordati, Elisenda, delle somme virtù che furono fregio alla tua schiatta possente; riuniscile tutte in te e ciò sia la tua religione:
Alfonso I era chiamato il cattolico; Alfonso II era detto il casto; Alfonso III era denominato il grande: Sancio II il forte; Alfonso VIII il nobile; Alfonso X il savio; e Pietro I il crudele.
Se tu non ispregerai nessuna di queste antiche virtù da monarca, e se ti comporrai con tutta la salda armatura dell'anima, sarai genitrice d'eroi, e Ceuta e Tunisi e Melilla e Cuba e Venezuela e San Domingo e Navarra ritorneranno Spagna. Io vissi umile in faccia ai signori d'Europa, ma pur volli per asilo alla mia umiltà la più elevata cresta dell'Estremadura. Tu da umiltà guardati come da peccato; sappi trarre dal meditato abbassamento mio cagione d'auge ai nepoti. L'umile passa inosservato sotto gli occhi dell'Altissimo che creò le alte montagne; l'incenso che sale da loco basso e nascosto offende le nari dell'Onnipossente. Dio è l'eterno orgoglio che regge la vita dell'Universo. L'umiltà è la virtù delle turbe. Gesù sta ben ritto davanti alla plebe prosternata, e chi vuol favellare a Filippo II, foss'anche un duca di Medina Celi, dee piegare il ginocchio. Nessuno può essere più alto del re…"
—E intanto il sole saliva dietro la montagna che era di fronte a Don Sancio, ed irradiava le vette che gli stavano sul capo. Il nonno misurò collo sguardo e colla mente il corso della luce e sclamò: "Ancora un'ora di vita!"
—Poi si raccolse nei suoi pensieri.
—Dopo mezz'ora si scosse dicendo: "È tempo ch'io mi confessi". Allora si fece il segno della croce, si curvò col capo sull'abisso profondo che si squarciava sotto ai suoi piedi, e, incurvando le mani alla bocca in forma di portavoce, mugghiò verso il precipizio: "Tu sarai il mio confessore". La sua parola si perdeva nel burrone, squillante come la nota d'un corno da caccia. La voragine, co' suoi tortuosi meandri, pareva un immenso orecchio di tenebra su cui piombavano queste voci:
"Ho tre peccati sull'anima. Eccoli:
"Primo peccato: quando avevo vent'anni, a Zamora salvai dal rogo tre infedeli, un moro, un ebreo e un luterano.
"Secondo peccato: quando avevo cinquant'anni, salendo a questi dirupi, allontanai dalla mia solitudine e dalla mia povertà tutti i miei vecchi servi, tutti i miei santi preti e tutte le mie povere ancelle.
"Terzo peccato: ieri, vigilia della mia morte, ho ucciso un'aquila reale sul suo nido".
—E si levò come un albero in nave.
—Io allora feci un passo come per varcare il ponte che ci divideva; Don Sancio me lo vietò, gridando:
"Fermati, non avvicinarti, non toccarmi; mi faresti cader vivo nel precipizio".
—Il sole continuava a salire ed il suo raggio a discendere sui macigni del monte, attraversando una rupe spaccata nel mezzo come una gigantesca merlatura guelfa.
—A un tratto il sole raddoppiò di splendore; c'era la distanza d'un palmo dalla sua luce ai capelli del nonno. Il nonno pareva assorto in contemplazione, ritto sui piedi e appoggiato alla roccia; fu un baleno quando il suo crine canuto al primo tocco della luce diventò d'argento. Il sole sembrava un arciere appostato dietro la rupe spaccata come dietro una feritoia; l'arciere appuntava lentamente il suo arco verso le pupille del nonno; una saettata di luce vibrò sugli occhi di Don Sancio. Il sole e il vegliardo si fissarono per un attimo come due rivali. La freccia era scattata; Don Sancio era morto. Il sole lo aveva fulminato; pure non cadde e stette ritto fino a meriggio. Mentre voi sellavate a Salamanca il vostro caval sauro, il vento urtò il povero nonno, che precipitò nell'abisso.
—Pace all'anima di Don Sancio,—rispose Estebano; domani scenderò nel precipizio, raccoglierò la salma veneranda e la porterò nel chiostro di Sant'Isidoro, dove dormono tutti i monarchi di Leone.
Elisenda soggiunse:— Amen.
III.
I due cugini, così parlando, camminavano lentamente fra gli oscuri colonnati del castello. L'uniforme pestio degli sproni d'Estebano accompagnava lungo i marmi del cortile il fiero racconto d'Elisenda; tutto intorno era silenzio. Intanto la luna alzatasi splendeva già sui monti e sui tetti; una piccola stella le vagava d'accanto e pareva una lagrima di luce.
Estebano mormorò:—La luna piange!—e i due giovanetti s'arrestarono immobili a guardarla, mentr'essa benignamente li inondava di raggi. Allora comparve illuminato e purissimo il viso della fanciulla.
A fermare col pensiero la tenuissima gradazione ideale che esisteva fra le fattezze e le anime di quei due cugini, simigliantisi come due fratelli, non troviamo altra imagine fuor che questa:
Estebano era un fiore vivace con un profumo gentile;
Elisenda era un fiore gentile con un profumo vivace.
Il gherofano e la viola avevano fra essi scambiato l'olezzo, e per ridonarselo entrambi era forza che l'uno penetrasse nell'essenza dell'altra. Ogni armonia ed ogni soavità sembrava assorta in quella coppia adolescente. Appariva fra essi di vario appena quel tanto che è indispensabile al simpatico accordo delle cose create. Del resto erano in tutto l'identica ispirazione di Dio tentata su due sessi diversi, Estebano la forma virile ed Elisenda la forma femminea dello stesso divino concetto. Essi si assomigliavano come tutti gli angeli si assomigliano. Certo nelle loro vene scorreva infuso l'azzurro del cielo tanto essi apparivano eterei. L'orgogliosa frase castigliana, sangre azul, colla quale si fregia tuttora l'antichissima nobiltà spagnuola anteriore alla invasione dei saraceni, realizzavasi idealmente nei due ultimi germogli dei Sang-Real.
Quel re di Leone che, ferito in battaglia, macchiò di azzurro la scimitarra del moro nemico, era un antenato dei nostri giovanetti reali. Le teste d'Elisenda e d'Estebano dovevano esser state create per portar nimbo o corona; un'aura monarchica e serafica si condensava attorno le loro fronti come una gloria, e i cieli d'oro di Zurbaran si abbozzavano vagamente dietro lo spazio in cui respiravano. Immobili, Estebano ed Elisenda, fissavano sempre la luna.
A far vieppiù tenace la loro contemplazione s'aggiungeva lo sgomento che provavano entrambi nel sentirsi vicini e l'indicibile terrore del guardarsi nel viso.
S'amavano già e non s'erano neanche intraveduti, tanto l'oscurità scendeva fitta prima che la luna s'alzasse.
S'amavano per la memoria che avevano del loro amore da bimbi, perché quell'amore era stato il primo sogno dei loro cuori infantili e l'ultimo sogno dell'avo moribondo; s'amavano perché un istinto fatale e un'occasione violenta li trascinava ad amarsi; s'amavano perché la farfalla bianca ama il fiorellino bianco e la farfalla celeste il fiorellino celeste, perché erano biondi e pallidi tutti e due, perché si sentivano soli sulla terra, soli ed uniti su quelle notturne alture di paese selvaggio.
Nello stesso modo che sovra il disco lunare l'astronomo contempla il riverbero diurno d'un altro emisfero, i due giovanetti contemplavano nella luna il raggio riflesso del loro timido amore.
Elisenda ruppe prima il silenzio dicendo:—Principe, volete seguirmi nell'oratorio?—e s'incamminò verso una gradinata fosca; Estebano la seguì.
Salirono nel buio l'uno dietro l'altra senza più dir parola.
Giunti al culmine della torre, Elisenda spinse una porta ferrata e grave che ricadde dietro i passi d'Estebano.
Eccoli nell'oratorio.
Il cero santo arde per la morte del nonno ed illumina solo il religioso recinto.
È l'oratorio situato sulla più elevata parte del castello; le pareti ottangolari tese di velluto viola, fiocamente illuminate, sembrano quasi nere e i loro angoli vi si confondono tanto da produrre all'occhio di chi entra l'aspetto d'una costruzione conica. Di fronte all'ingresso sta l'altare innalzato su tre vasti scaglioni coperti da molle e prezioso tappeto. Sopra l'altare è appeso un lunghissimo quadro. Due faccie magre guardano dall'alto della nerissima tela. A piedi del dipinto si legge in lettere gialle questa scritta:— el matrimonio de doña Uraca de Castiglia et Alfonso de Aragon.—Più sotto la data 1144. Le figure del quadro sono quasi interamente sommerse in una caligine che arriva loro alla bocca, né più s'indovina quale fosse lo sposo e quale fosse la sposa di quell'antico imeneo. Tutti e due hanno negli occhi lo sguardo esterrefatto dei naufraghi e par che presentino l'irrevocabile sollevamento del livello di tenebre che li affoga. Né una mano, né una collana, né l'impugnatura d'un brando traspare attraverso il sudario nero che li va coprendo. Pure in mezzo ad essi si stacca dal buio la linea d'un cero alto ben sette cubiti.
L'ironia del tempo che parla da ogni cosa surta per mano d'uomo, sembra qui voler paragonare quel lungo cero dipinto all'altro rimasuglio di torcia che arde nel mezzo della cappella e che non ha più d'un palmo d'altezza. L'ironia diventa più bieca quando si sappia che uno è l'immagine intiera dell'altro. I secoli consumarono il cero ardente come consumarono i due monarchi effigiati nel quadro; l'ombra salì su questo, la luce calò su quello.
Fra le modanature dell'altare si vedono scolpite le parole mensa regia.
Un messale d'argento massiccio è aperto a sinistra del ciborio. Agli otto angoli della cappella pendono o giacciono stole, turiboli, spade, morioni, flabelli, palii, clamidi, rosarii, farraginosamente accumulati. Su tre ampli cuscini, disposti rasente l'orlo del più alto gradino della mensa regia, riposano due corone e una mitria.
Pochi passi bastano a misurar l'oratorio. Tutto il genio spagnuolo è compendiato in quelle pareti e in quelle spoglie pompose. Penetrando in quel ricinto chiuso e opulento come una tomba, ove tante reliquie reali e papali sono agglomerate, il pensiero porge al pensiero queste parole: Angusto et Augusto.
IV.
Estebano ed Elisenda, a capo chino davanti l'altare, pregavano; sulle loro labbra vagava un alito sottile, un ronzio dolce come di brezza o di zanzara. Elisenda finì le sue preci prima di Estebano, e poiché vide ch'esso continuava devoto, si pose a contemplarlo. Com'era bello il profilo del principe, col mento converso sul petto e sulle mani giunte, in atto d'alta mansuetudine!
L'estasi scendeva già nell'anima della fanciulla.
Quand'ei si scosse, ella, turbata, fece sembianza di rimettersi a pregare.
Allora fu egli che la guardò. Com'era bella, alla luce del cero, Elisenda, in vesti bianche!
I suoi capelli parevano ambra pura, e le sue mani avevano il morbido contorno dell'agata lavorata; poi, strana cosa, eppur leggiadra, le sue labbra non erano porporine né rosee, ma quasi bianche, e, assai divise nel mezzo, parevano composte con quattro foglie di tuberosa.
L'adorazione d'Estebano s'era volta da Dio ad Elisenda.
Il silenzio era così grave che opprimeva l'orecchio. A un tratto Estebano esclamò quasi supplichevolmente:
—Oh! principessa, è lunga la vostra orazione!
Elisenda rispose:—Ho finito.—E si guardarono negli occhi, stupefatti di non ispaventarsi.
Lo sguardo d'Estebano penetrava nelle pupille di Elisenda profondo, lucido, sicuro, come una lama nella sua guaina.
—Chi c'è nel castello?—chies'egli.
Essa rispose:—Non un'anima viva.
Appena finite queste parole s'udì un colpo formidabile dietro l'altare, come d'un gigante che bussasse dietro a una porta, e dopo quel prim'urto un secondo, e un terzo, e un quarto; al dodicesimo s'arrestò.
—Chi è là? Chi è là? Chi è là?—grida Estebano, e si slancia verso Elisenda e l'afferra pel corpo col braccio sinistro, e col destro la copre come per difenderla dall'ignoto nemico.
Poi ripiglia, mugghiando più che sclamando:—Avanti, se sei un prode! se sei un vile, indietro! o il mio pugno levato risponderà sul tuo cranio dodici percosse non meno tremende delle tue, malvagio turbator di preghiere. Avanti! Avanti, ciclope od orso o diavolo, uomo, fantasma…—Ma qui s'interruppe e, tutto stretto ad Elisenda, mormorò:
—Ahimè! pace all'anima di Don Sancio.—E fu come un leopardo che diventasse un agnello.
La fanciulla tremava, ma non di paura, e come Estebano la vide così tremebonda, la raccolse tutta sul petto e la baciò sulla fronte.
Ella allora sclamò:—Grazie, don Sancio!—con accento d'infantile beatitudine; poi continuò sorridente:—Cugino mio, fiero e robusto, pace anche a te! Ciò che hai udito vien dalla cripta che sta sotto all'oratorio ed è l'orologio del vescovo Olivarez. Devi sapere che quando morì quel santo vescovo (il solo prete e il solo uomo che abitò con noi questo castello), il nonno lo seppellì in un bel cofano di rame ricoperto d'ebano, e lo collocò sotto l'orologio della torre, da dove aveva fatto estrar la campana perché il martello, cadendo ad ogn'ora sulla bara del morto, ricordasse perennemente la caducità delle esistenze umane. Quei dodici colpi ci avvertono ch'è mezzanotte.—Poi soggiunse con voce più bassa, come chi profferisce cosa che non comprende:—È tempo che ci sposiamo.—E fissò in volto lo sposo. Estebano la teneva ancora stretta col braccio.
Lo spavento aveva congiunte, più presto che non avrebbe fatto l'amore, quelle due creature innamorate, le quali non sapevano più separarsi, né più cessar dal tremare. Così avvinti, vacillanti, i due giovanetti s'avviarono, mossi da un solo pensiero, verso un angolo dall'oratorio. Là, Elisenda, raccolto da terra un palio di drappo d'oro, lo pose sulle spalle ad Estebano; poscia ambidue si volsero ad un altro angolo ove Estebano staccò dal muro una clamide di porpora e d'argento colla quale rivestì Elisenda sua; poi brancolarono lungamente sulle sparse reliquie degli avi e si adornarono di cinture moresche, di collane gotiche; il giovanetto indossò anche una preziosa stola di bisso e la fanciulla colse un rosario e un anello; poi s'inginocchiarono sul primo gradino dell'altare, Estebano a destra, Elisenda a sinistra; si curvarono religiosamente, sollevarono dai cuscini, ov'erano deposte, le due corone imperiali e se le posero in capo, muti, gravi, compunti, come due bimbi assorti in un magico tripudio. I loro corpi flettevano sotto il peso degli splendidi manti, e le loro chiome si torturavano entro i cerchi massicci delle corone d'oro.
La corona d'Estebano, imperiale e chiusa, colla croce sul colmo, somigliava a quella di Carlo Magno, tranne che in giro apparivano cesellate le tre parole colle quali i romani battezzarono la provincia di Leone: Legio septima gemina.
Sul manto d'Elisenda s'ammirava ricamato in argento il superbo leones rampando, e topazi e rubini e diamanti erano sparsi a centinaia sulle vesti dei giovanetti reali. Ma la polvere aveva appannate quelle gemme e quegli ori, e il tarlo aveva róso quelle porpore.
Un'antitesi tragica sorgeva da quelle due bionde figure adolescenti, schiacciate sotto una così polverosa catasta di ornamenti da trono. La stola d'Estebano gli si acuminava dietro il collo con una piega acuta sotto la nuca, e dura e tondeggiante sugli omeri. Una ragna cinerea gli cadeva da una punta della corona fin lungo l'orecchio e gli si perdea fra i capegli. Quei sacri arredi coprivano di maestà e di scherno, incoronavano e vituperavano ad un tempo chi li portava.
Le membra dei teneri sposi avevano smarrita la loro eleganza natia sotto la goffa pompa di quei drappeggiamenti.
Ma i due fanciulli si guardavano, e così vestiti si sembravano più belli.
Allora incominciarono una bizzarra cerimonia.
Sempre inginocchiati, si presero per mano e recitarono il rosario: Elisenda sospirava Kirie Eleison, Estebano rispondeva Christe Eleison, e le grane delle avemarie scorrevano lievi lievi fra le dita tiepidamente intralciate. Quand'ebbero finito, Estebano intuonò:
Veni de Libano, sponsa mea, veni,
e nel suo canto s'udivano le vibrazioni dei sorrisi e delle lagrime.
Elisenda rispondeva:
Manibus date lilia plenis.
Poi Estebano:
Fulcite me floribus;
poi, chinando la fronte davanti ad Elisenda:
Salve, Regina,
mormorò soavemente, e le baciò il manto come ad una madonna. Indi ambidue si posero a cantare con voce alta e fiera l'inno delle nozze reali
Te Deum laudamus, te, Domine, confitemur.
Le loro voci unisone salivano e scendevano sul liturgico salmo. La grave melodia faceva risonar l'oratorio; i turiboli appesi, allo scoppio delle forti note, oscillavano, come per accompagnarle colle loro danze.
Così, sempre cantando, Elisenda aveva messo in dito ad Estebano un anello d'onice, e, sempre cantando, Estebano s'era levato e avea steso il pugno nell'ombra dietro l'altare e l'avea ritratto armato da una immensa spada. Poi che si tacquero, egli, ritto in piedi, col braccio alzato, colla punta della spada tesa sul messale aperto, pronunciò questo giuramento:
—Io, Don Estebano, principe di Castiglia, duca di Salamanca e di Zamora, giuro sulla sacrata croce vera di Cristo, sull'evangelio e su questa lama d'Alfonso VIII d'Aragona, giuro d'essere sposo in terra ed in cielo alla principessa Donna Elisenda di Leon, marchesa di Valadolid, contessa d'Asturia, mia eccelsa cugina. Giuro di riconquistare per noi e pei nostri figliuoli il trono perduto di Spagna, di riconquistarlo colla virtù o colla forza, col genio o colla spada, colla pace o colla guerra, col bene o col male, colla clemenza o colla ferocia, sorretto pur sempre dalla sacrosanta religione cattolica. Così sia.
L'orologio di legno battè un'ora. La punta della spada agitata dai fremiti del principe aveva squarciato la pagina del messale sovra cui s'appoggiava.
Estebano si toglieva a stento da quell'atto sovrano e dalla solennità di quel gesto; ma, di repente, come disciolto in un ineffabile bisogno d'umiltà, si gettò per terra colla testa sui cuscini dell'altare, sclamando:
— Adhaesit pavimento anima mea.
Allora Elisenda gli si pose d'accosto, chinò la guancia verso le sue labbra: una lunga perla pendeva dall'orecchio della fanciulla; Estebano baciò quella perla, poi disse:
—Sei bella, o mia regina!
Essa rispose:
—Sei bello, mio re!
E l'amore incominciò le sue note.
L'odore della cera liquefatta saliva nelle nari dei giovanetti; quell'odore era dolce e tedioso e caldo. Ma essi non rimuovevano già più gli occhi l'uno dall'altro.
—Mia soave Elisenda,—la chiamava Estebano, mentre il suo cuore batteva convulso come l'ali d'una farfalla trafitta da uno spillo; poi continuava:
—Posa, posa la tua bianca mano sulla mia fronte e penserò dei poemi!—ed Elisenda posava la mano sulla fronte d'Estebano. Dopo un lungo silenzio egli riprendeva a parlare con questo sogno:
—Elisenda, odi; vorrei che tu fossi una caleide ed io un altro vago e tenue insetto, e che avessimo per padiglione il calice d'un giglio, e lì vivere la corta vita nostra, al blando lume d'un'aurora mitigata dalle nivee pareti del nostro talamo, e poi morire tutti e due in quel giglio odoroso e chiuso.
—Ma non vedi, Estebano, com'è tutto chiuso e non senti com'è tutto odoroso anche questo asilo di pace?
Ciò che dicevano quei due fanciulli erano parole e parevano canti.
Elisenda ripigliava:—Ho dei sogni così gonfi e delle chimere così turbolente nel cuore che, per farnele uscire, mi bisognerebbe infrangerlo. Ciò che nasce nel cuore non può escir che dal cuore! feriscimi un poco qui, Estebano mio, al costato sinistro… tanto che con qualche goccia di sangue possa sprigionarsi anche qualche pensiero. Le labbra umane non sanno la via di queste cose profonde.
Allora Estebano soggiungeva:—No; nel linguaggio che mi hanno insegnato non esiste il nome di ciò ch'io sento per te.
Elisenda chiedeva:—M'ami?
Ed Estebano rispondeva con voce bassa e tranquilla:—Sì,—e i volti avvicinavansi ed allungavansi le labbra; poi baciavansi col bacio religioso e casto che si dá agli amuleti. E continuavano:—Amiamoci più delle rondini e più dei cigni e più dei puledri d'Asturia che vanne a due a due per le ville castigliane avvinti alle carrozze dei re.
L'orologio del vescovo Olivarez batté due tocchi. Ogni volta che quell'orologio scoccava, Estebano trasaliva.—Quell'orologio è lugubre,—pensò;—pare il dito d'uno spettro che bussi là fuori per incitarmi a qualche oscuro mistero,—e rimase turbato.
—Estebano mio, permetti ch'io mi tolga un minuto da te? Oggi ho scordato di dare il pane al mio povero cigno. Tu, intanto, va dal tuo cavallo con un pugno d'avena, perché non muoia di fame.
—Questi, cugina mia, non sono uffici da principi,—rispose Estebano;—lascia che il cigno provveda egli stesso al suo pane e il cavallo alla sua avena. Non istaccarti da me: il tempo fugge, l'ora batte alla porta. Guai a chi esce dal cerchio che gli segnò la fortuna! Poni mente al giorno più lieto de' tuoi anni, perché in quel giorno morrai. Mi ricordo sempre queste parole che udii una volta, predicate sul pergamo nella chiesa di Sant'Ignazio a Madrid da un vecchio gesuita. Questo è il giorno più lieto de' miei anni; temo che se noi esciamo di qui, la morte ci colga.—Poi susurrò, posando il capo sul seno d'Elisenda:—È così dolce la vita!
La fanciulla rispose:—Sia fatta la tua volontà,—e si coricarono entrambi sui gradini dell'altare colle teste appoggiate sullo stesso cuscino. I loro profili sfioravansi; si guardavano l'anima attraverso le pupille degli occhi. Quelle d'Elisenda si dilatavano prodigiosamente e si rinserravano convulse ad ogni battito de' polsi. Dopo un mite silenzio essa chiese ad Estebano:—Dimmi, ti par più bello l'amore o la gloria?
Estebano meditò; poi disse:—Sorella, la gloria non e altro che un grande amore diffuso su molti popoli e su molti secoli; ma l'amore è una soave gloria condensata in un cuore solo e in un'ora sola. È più bello l'amore:
Mejor es penar Sufriendo dolores Que estar sin amores.
Le sue parole s'estinsero in questo mormorio cadenzato; poscia egli s'avvinse ad Elisenda e la baciò sulla bocca, e l'abbracciamento fu stretto e il bacio fu lungo; ma la loro posa rimaneva innocente come quella della cuna ed immobile come quella della tomba.
La pupilla d'Elisenda s'alzava lenta, cerulea, simile a un'alba di luna.
Sulla testa dei due giovanetti pendeva, appesa a quattro catenelle d'oro, una lampada di quelle che i primi cristiani chiamavano coronaephorae; era spenta e di bronzo e tempestata di pietre preziose, sulle quali si rifrangeva la luce del cero con tutti i riverberi del prisma.
Estebano ed Elisenda levavano in su gli occhi e il mento; la nascente lanugine delle guancie d'Estebano toccava la guancia d'Elisenda come l'ermellino ducale tocca il velluto principesco. Gli sguardi dei due giovanetti adagiati erano fissi sulle faccette d'un grosso diamante, che folgorava più d'ogni altra gemma. Le loro labbra si confidavano così gl'incanti dell'iride che li affascinava:
—Estebano,—mormorava Elisenda,—vedo un paese azzurro come una notte serena e come il canto della tua voce; poi vedo uno sciame di farfalle volanti in mezzo a un fumo di mirra!
—Elisenda, vedo un paese verde come un liquido prato o come un oceano tranquillo, e poi degli angioli che si baciano e nuotano coll'ali come delfini celesti!
—Estebano, vedo un paese viola come i colli remoti d'Andalusia, e come il manto della Vergine, e come il solco soave che sempre più si sprofonda sotto le tue palpebre.
Poscia, come l'idea sale dall'effetto alla causa, gli sguardi dei due giovanetti passarono dal diamante della lampada alla fiamma del cero.
Il cero non misurava già più di tre pollici di lunghezza, per modo che il suo dileguarsi era rapidissimo in proporzione della sua circonferenza. Certo quella cera doveva essere amalgamata con qualche materia più adusta. Le goccie scorrevano veloci dal vertice alla base della candela e s'arrestavano per un attimo sugli orli del candelabro; poi, scivolando lentamente e mano mano appannandosi, conformavano una agglomerazione di stalattiti glutinose e verdastre che si perdevano nell'ombra. Il candelabro, alto come una gamba, era d'argento massiccio arrugginito, ed aveva per piedistallo la figura d'un serpe avvoltolato che si mordeva la coda.
Quella santa reliquia emanava una segreta aura di veleno. Quel cero, stillante la sua bava d'ossido su quella ruggine malsana e su quel serpe attortigliato, appariva bieco.
Nell'oratorio si diffondeva sempre più un profumo: era la mollezza dell'oppio, l'acredine della canfora, la limpidezza dell'aloe, mista ad un altro inesprimibile olezzo. Tutti gli aromi d'un gineceo d'Oriente e tutte le esalazioni d'un sotterraneo d'alchimia si condensavano in quell'aura letargica e letale.
La fiamma del cero si circondava di quando in quando con quell'alone di nebbia che si vede intorno la luna durante le insalubri notti autunnali. Il suo lucignolo allungato e curvo portava in cima un carboncello che aveva la forma d'una viola stillante una pioggia di faville incandescenti.
Estebano ed Elisenda scoprivano in quella rugiada di foco l'immagine d'un nuovo paradiso. Fissavano ammaliati il cero sorridendo alla luce, muti, pallidi.
Elisenda riandava colla memoria le ultime parole di Don Sancio, e tentava invano afferrarne il recondito senso; e pensando favellava come in sogno:
—Le anime de' tuoi figliuoli si accenderanno alle faville di quel serafico cero…
—Finché quel cero sarà, vivranno i troni di Spagna…
—Per ispegnerlo ci vuole l'alito di una sposa…. e qui s'arrestava conturbata.
—Prima di spegnerlo attendi Estebano tuo…
—Dal tuo grembo sorgerà la storia dei secoli venturi…
—Amate! Germinate!
E piangeva.
Intanto la fiamma calava rapidissima; Estebano la fissava sempre più intensamente; a un tratto s'accorse d'una sigla miniata in carmino sulla estremità del cero. Quella sigla scritta orizzontalmente formava queste tre lettere disposte così:
H I S
antichissimo monogramma delle parole Have. Iesus.
Estebano s'erge in piedi, corre verso il cero, afferra il candelabro pesante, lo innalza vigorosamente, lo capovolge; poi, segnando coll'indice sinistro la sigla rovesciata così:
S I H
grida volto verso Elisenda:— Stephanus Imperator Hispaniae!
Elisenda lo guardava atterrita, eppur beata, tanto era sublime quel fiero garzone in quell'atteggiamento di trionfo. Ma intanto la fiamma sconvolta divorava il cero e mordeva il dito d'Estebano.
Quando il pesante candelabro fu ricollocato sul suo piedistallo, della torcia non rimaneva più che un mezzo pollice appena; le lettere H e I della sigla erano dileguate.
Elisenda sclamò:—Guai a me se si spegne!
Il giovanetto s'accorse allora che tutto intorno all'estremo del cero girava una grossa lista di pergamena. La distaccò per prolungare così d'un minuto la vita alla fiamma.
La pergamena era piena di simboli sacri, di formule cattoliche che s'insertavano bizzarramente a molti caratteri orientali. Nel mezzo della lista apparivano queste parole miniate in rosso:
ANATHEMA SIT
Estebano s'era messo già a decifrar quel mistero, allorché Elisenda dié un grido.
—Elisenda mia!—sclamò, e le fu subito accanto.
—Ho tanta sete,—sospirò la fanciulla, mentr'ei, tutto chino sovr'essa, le toccava i polsi e la fronte.
Essa ripeteva tutta ansimante:—Leggi, leggi ciò che stringi nel pugno. Un anatema pesa su noi in questo minuto. Leggi, ma non partirti da me; leggi qui,… qui.
La fiamma si dibatteva convulsa; pareva quasi un'anima che si ribellasse alla morte.
Quell'estremo avanzo d'antichissima reliquia cattolica e monarchica pareva fatale a vedersi. Era più che un lumignolo che s'estingueva; era un'agonia. Otto secoli accumulati su quella torcia agonizzavano con essa. Una religione possente e una stirpe trionfale esalavano l'anima nel crepitio di quel cero. Quel cero soffriva la rabbiosa angoscia del reprobo; le sue convulsioni affrettavano la sua fine. Una luce fredda, verdastra, inquieta vagava nella cappella e rendeva penosa ad Estebano la lettura dell' anathema mezzo arso, macchiato, irto d'intralciatissime cifre.
—Estebano! Estebano!—ripigliava la fanciulla tremante avviticchiandosi al collo del giovanetto, mentr'ei frugava cogli occhi quelle iscrizioni oscure.—Guardami, guardami! prima che il cero si spenga, prima che la notte infinita ci copra, guardami! Dammi un bacio, e che il tuo bacio mi dia l'alito di una sposa; poi soffierò sul cero prima che si spenga.—
Ei la guardò; un fremito febbrile li avvolgeva. Ricaddero col capo sul cuscino della corona. L'afa dell'oratorio, l'amplesso violento in cui erano assorti, li soffocavano.
—Resta qui,—diceva Elisenda con voce fievole.—Non posso alzarmi; la mia fronte suda piombo bollente e il mio seno stilla rugiada di manna. Vorrei morire adesso, vorrei che la mia vita si sciogliesse fra le tue braccia, dolce, mesta, serena come una cadenza d'arpa, come gli ultimi accordi d'un organo…
—Se io morissi ora,—rispondeva Estebano,—l'angelo sarebbe già accanto a me; e le lagrime inumidivano le loro labbra, che si parlavano unite… La fiamma del cero non guizzava più, ma diveniva più fioca; il pavimento dell'oratorio era già immerso in una fluttuante penombra.
—La luce muore—disse Elisenda.
—Lasciala morire,—rispose Estebano;—quando saremo nel buio, le tue labbra mi parranno più dolci…
Un ribrezzo vago s'agitava ne' loro fianchi, sotto il pesante incubo degli ornamenti reali…
L'oscurità era fitta…
Elisenda gridò:—Ah! questa cintura m'abbrucia!…—e divennero muti.
Il lucignolo della torcia era mezzo affogato nella cera liquida che affluiva intorno ad esso come un lago oleoso; quando quella cera traboccò giù pel candelabro, la fiamma si ravvivò come per incanto e brillò luminosissima e fissa.
Estebano guardò Elisenda che non profferiva parola; poi, con un supremo sforzo, si levò e corse alla fiamma del cero colla pergamena spiegata. Un lampo dell'anima gli rivelò la scrittura. Lesse:— Quand'io morrò, morranno i troni di Spagna.
La fiamma vacillò, Estebano rabbrividì. C'erano ancora due versi che bisognava leggere… gli occhi del giovanetto s'offuscavano… gli pareva vedere Elisenda stesa a piè dell'altare, immobile e bianca, e avvolta in un fumo. Gli ultimi fili del lucignolo caddero nel lago di cera liquefatta, ma non si spensero. Estebano si chinò sulla fanciulla moribonda, concentrò in un impeto solo tutte le forze degli occhi e del pensiero; il fumo del lucignolo lo attossicava, un'acre angoscia gli salia nella gola. La fiammella scemava, scemava, e più che scemava, più diventava serena… A un tratto apparvero chiare queste parole sulla pergamena:
Ho sulla cima il mele E in fondo il veleno dell' Upas.
La fiamma si spense.
L'orologio di legno batté tre colpi spaventosi.
Estebano cadde.
Brillava ancora sul fumido lucignolo un'ultima brage. Era l'occhio sanguigno delle tenebre. Dopo qualche minuto secondo s'udì per terra lo strisciare d'un corpo che si trascinava penosamente… poi due baci… poi uno stridor di mascelle tremanti…
L'ultima brage si spense. Tutto ripiombò nella notte; tutto ripiombò nel silenzio.
Un'ora prima dell'alba il gallo di montagna cantò come per interrogare un mistero.
V.
Molti e molti anni dopo il dramma senza data che or finimmo di raccontare, sorgeranno in Ispagna questi avvenimenti:
Un poeta si ricorderà dell'anno 613, quando il re Egica, prosternato colla faccia a terra davanti i vescovi cattolici, si sentì sulla nuca premere le calcagna di quei santi.
Un altro poeta si ricorderà dell'anno 730, quando l'Oriente calò sull'Iberia con tutte le sue mollezze e con tutte le sue pestilenze.
Un altro poeta si ricorderà dell'anno 1578, quando l' invincibile armada fu distrutta dal mare, cioè da Dio.
Un altro poeta si ricorderà dell'anno 1879; e un altro si ricorderà anche dell'augusto secolo presente, e sorgerà per la Spagna intera un forte ed armonioso ridestamento d'idee.
S'alzerà un filosofo che parlerà così alle turbe raunate nei giardini di Madrid:
—Spagnuoli! Un cieco istinto di sommissione verso i troni e verso la Chiesa fu il peccato mortale della nostra razza. Noi abbiamo sonnecchiato sei secoli nel culto delle fedi antiche. Guardate com'è già lontana da noi la spira luminosa del progresso.
—Fin dalle prime aurore del 1500 cominciò in Europa l'assalto contro gli errori e i pregiudizi degli avi.
—Mentre l'intelletto umano compiva atti prodigiosi, mentre le scoperte s'accumulavano su tutti i punti dell'orizzonte mercé la indomabile energia del progresso, la Spagna continuava a dormire, impassibile, incurante, vanagloriosa, sull'estremo punto d'Europa, incarnazione letargica del Medio Evo…
E allora la turba briaca non aspetterà la conclusione del discorso e si getterà a capo chino, come il toro dell'anfiteatro, in una corsa furibonda e feroce. E il severo filosofo rimarrà solo, mesto, deluso, a fronte dell'Idea.
La turba irruente, colla bava dei torrenti alla bocca, armata di scuri e di pugnali, salirà alla devastazione dei troni.
Allora, un truce, un vecchio assassino si ricorderà alla sua volta che sull'alto d'una certa montagna d'Estremadura s'era rifugiata una razza di re discendenti da Urraca di Castiglia.
La turba correrà alla montagna, assalirà gli spaldi, troverà lo scheletro d'un cavallo legato sulla cui gualdrappa si potrà ancora vedere lo stemma castigliano. La turba colle picche in pugno salirà le scale, demente, furente; cercherà nei penetrali più remoti del castello le tracce dei figliuoli dei re.
Finalmente giungerà all'oratorio, spalancherà la porta, invaderà quel tenebroso asilo di preganti, che sarà ad un tratto rischiarato dalle torve faci della rivolta.
Allora appariranno agli sguardi della turba due figure di re, coronate e coperte di porpora e abbracciate l'una all'altra come nello sgomento e nell'amore.
Un rosso demagogo toglierà loro dal capo le corone e palperà loro la testa; poi dirà alla plebe impaziente:
—Gettate pur le mannaie; costoro sono morti da mezzo secolo.
IL TRAPEZIO
Savio Meng-pen, discepolo mio prediletto, fin da quel giorno in cui la paralisi m'irrigidì la lingua (e fu in sul principio di questa luna), tu mi sei stato sempre vicino, hai soccorso ai bisogni del mutolo ora indagando il mio cenno, or seguendo con l'occhio, e come anche ora fai, la traccia del mio calamo su questo papiro. Operando così tu mostri di possedere la più nobile fra le virtù, quella che Kong-tseu chiamava virtù d'umanità, e perciò ti lodo. E lodo Iddio che largì agli uomini tre possenti mezzi d'eloquenza nel gesto, nella penna e nella lingua, per modo che, grazie alla tua fedeltà, s'anco mi sia tolto il conversar delle labbra, mi sembra, scrivendo ciò che tu leggi, di non esser mutolo, giacché mi valgo d'una manifestazione dell'animo assai più lenta ma molto meno infedele che non sia la parola parlata. Afferrando la penna mi pare di stringere la mia lingua nel mio pugno e di assoggettarla meglio alla volontà e al pensiero.
Tu vedi adunque, savio Meng-pen, come codesto morbo, il quale non è altro che un mio placido silenzio, e non paralizza menomamente la sensazione dell'orecchio né i movimenti della mano, e annoda soltanto il volubile organo della pronunzia, possa essere considerato come un bene piuttosto che come un male, giacché molti danni intravvengono agli uomini dalla parola ed io sono ora salvo da tali danni e perciò più perfetto nella mia persona che tant'altra gente ciarliera.
Rammentati del saggio Wen-Wang di cui è scritto nel Lun-yu, che rimase rinchiuso nell'eremo suo per tre anni senza profferire vocabolo. Pur ch'io m'illuda d'imitare quell'antico re e filosofo, mi troverò una volta di più contento nel mio silenzio.
Tu sai, per quella dimestichezza che avemmo insieme, come io sia stato sempre eccessivamente propenso per mia indole al tacere.
Sai come in tutte le speculazioni del mio ingegno, e in forza della sublime scienza che professo, io abbia prediletta sempre la forma grafica del pensiero e anteposto la linea che io geometra stendo sulla tavola d'avorio, ad ogni altra dimostrazione di verità. Se la linea dunque è superiore alla parola, il carattere figurativo della nostra gloriosa patria chinese è più atto d'ogni altro a rappresentare l'idea. Ciò che non è scritto, non è dimostrato che in parte. Felice me dunque che obbligato per esprimermi a mover la penna anzi che le labbra, sono così miglior interprete del vero.
Già da parecchi giorni volevo tracciare queste righe per farti sapere che la mia calma, ammirata da te fin dalle prime ore del morbo, non è soltanto rassegnazione serena, ma sincero accontentamento dell'animo; e tu che m'ami, acquetati filosoficamente in questa certezza.
Non ti rivolsi mai tante parole di seguito negli anni della mia completa salute ed ecco che, essendo ora mutolo, incomincio a diventare loquace.
Sorridi pure senza temere d'offendermi; coll'orlo della pupilla, vedo l'onesto riso del tuo occhio intento a dicifrare l'orma tranquilla della mia scrittura. Sorridi pure delle contraddizioni umane, le troverai nei più saggi; ma non tralasciare di cercare il punto d'intersecazione in cui i due moti contraddittorii s'uniscono, perché colà troverai la sintesi dell'uomo e la spiegazione d'ogni sua apparente stranezza, e il tuo labbro si farà serio tosto.
Certo, sono diventato loquace per ciò solo che non diffido più della mia lingua. Se quando potevo parlare non osavo intrattenermi teco d'altra materia meno esatta che non fosse la nostra scienza, credi che la ragione di ciò non è da ricercarsi in nessuna titubanza o in nessun disdegno ch'io m'avessi di confidarmi teco, anzi la mia natura mi ha sempre spinto all'espansione fino dagli anni più teneri. Mi astenevo solo perché m'è sempre parso che la parola dovesse molto o poco travisare l'intenzione dell'affetto, e per omaggio all'affetto stesso frenavo lo slancio interno che mi trascinava ad espandermi. La vergogna dell'arrischiare, parlando, di commovermi più che non s'addicesse a filosofo, mi tratteneva anche. Fin da quando compresi d'esser uomo, mi studiai di raggiungere quella forza morale che Confucio chiama l' irremovibilità del cuore, e in parte, a prezzo d'angoscia, la conquistai. Fin da quando lessi in Mencio che Kao-tse non si lasciava scuotere da emozione alcuna, mi studiai di possedere così solenne impassibilità. Io so fin dove posso paragonarmi a Kao-tse.
Molte, anche fortissime azioni so di potere pacificamente compiere; altre poche e in apparenza semplici, no. Pure fin che avrò vita lotterò contro me stesso come un ginnasta e trionferò di codeste ultime fiacchezze per le quali a volte mi giaccio.
Fu una di queste fiacchezze la fatale occasione della vertigine che mi colse il dì della nuova luna, mentre stavo calcolando sulla tavola d'avorio, in presenza tua e d'altri miei colleghi e discepoli e del venerabile Kung-sie, l'altezza dell'obelisco di Wei. Ti rammenti che in quel calcolo vi fu un punto in cui io volli generalizzare le mie dimostrazioni a tutte le forme trapezoidali? Ti rammenterai anche, o Meng-pen, che dopo aver disegnato col carbone tre lati d'un trapezio, mentre stavo tracciandone la base, dicendo queste parole:— il trapezio, come sapete, è una figura piana di quattro lati ineguali, due dei quali sono paralleli… —mi turbai un poco, e quando soggiunsi:— benché lo trapezoide differisca dal trapezio…,—svenni; poi mi ridestasti mutolo.
I medici hanno ricercata la causa della mia malattia nel sangue, e credo che abbiano ragione; e so anche di certo che questa infermità mi sarebbe un dì o l'altro capitata per la gravezza dei miei anni; ma so pure che non la causa, ma l'occasione per la quale mi accadde ciò, fu il trapezio.
Sappi dunque, mio dilettissimo Meng-pen, che in mezzo secolo ch'io ammaestro le generazioni nelle matematiche, non ho mai potuto descrivere un trapezio senza confusione dei miei spiriti vitali.
Se alzo gli occhi dalla carta vedo che Meng-pen mi osserva con meraviglia e quasi con incredulità e alterna lo sguardo or sulla mia scrittura or sul mio volto per tema ch'io vaneggi. Onesto Meng-pen, rassicurati. Se ti fosse noto un segreto della mia giovinezza, ti sarebbe manifesta l'origine di quella ubbia strana del trapezio, ubbia che ora soltanto incomincio a domare appunto perché provocò in me una crisi violenta.
Tranquillizzati, amico; penetro nel desiderio che mi nascondi e lo trovo concorde al mio. Nessuno è degno più di te di fiducia. Ti ho insegnato tutte le scienze che possiedo. Sei giunto alla maturità della ragione, sai osservare, discutere, ascoltare, entrare ed uscire secondo il libro dei riti. Tu sacrifichi la tua giovinezza alla mia vecchiaia, la tua salute alla mia infermità; è troppo giusto che tu sappi una avventura che a questa infermità pare strettamente legata.
Quante ore mancano alla cena?
Sta bene. Chiudi l'uscio a chiave. Riaccendi la lampada del thè. Porgimi la cartella di lacca. Avvicina lo scranno di bambù che sta davanti il terrazzo. Siedi. Io scriverò sulle mie ginocchia; ti permetto di appoggiare la testa sul dorso del mio seggiolone; potrai scorgere così più agevolmente i caratteri.
Leggi attento. Incomincio.
L'anno della grande carestia io era, nella provincia di Tsing, un fanciulletto di sette palmi d'altezza. Mio padre era morto e la mia brava madre s'affaticava, colla coltivazione di tre camperelli, a sostentarmi. Ma la crudeltà della terra infieriva e il governo, più crudele ancora, esigeva dall'affamato agricoltore l'integralità del tributo. Il popolo precipitava ogni giorno in miseria più cupa. I figli adulti non potevano più mantenere i loro vecchi padri, le madri dovevano abbandonare alla fame i loro piccoli bimbi; le famiglie disperse migravano per le quattro parti dell'impero in cerca di vita. Ogni germinazione pareva spenta, isterilivano i semi e le corolle. Nulla più nasceva, tutto moriva. Il mercante di bare, che specula sulla morte, ammassava tesori, ma un sacco d'oncie d'oro valeva meno d'un sacco di riso. E vi fu un giorno che anche i funerali parvero superflue cerimonie. I mesti riti sacri a Confucio ed a Mencio stettero negletti per lunghi mesi. Nella città di Tsing più di mille tra vecchi ed infermi si precipitarono dalle mura per sottrarsi alla fame. L'inverno s'avanzava. Io intanto saltavo attraverso i campi, m'arrampicavo sulle piante ischeletrite senza foglie e senza nidi, m'esercitavo al bersaglio colle pietre, colle freccie, colle frombole. Mangiavo tutte le mattine un ping di riso bollito e tutte le sere un pezzo di pasticcio di miglio. Ma un giorno vidi, attraverso l'uscio socchiuso che metteva nel granaio, vidi mia madre curva su d'un sacco mezzo vuoto. Essa teneva nella mano destra una piccola misura di quelle che chiamiamo chao, la immerse quattro volte nel sacco e tre la estrasse piena di grano, la quarta non raccolse che poca polvere. Quando la buona donna si voltò, vidi che piangeva; fuggii senza ch'essa si fosse avvista della mia presenza. Per tutto quel giorno e il giorno appresso, mia madre, muta, pareva occultasse un orribile dolore. Il terzo dì, dopo essersi assentata per qualche ora da casa, rientrò in compagnia d'un uomo vestito da marinaio europeo. Mi chiamò; poi, mostrandomi allo straniero, disse:—Ecco il mio unico figliuolo; ha nome Yao; gli ho insegnato a leggere e a scrivere; è snello e robusto come un leopardo, ed ha anche l'appetito d'una piccola fiera, ma d'una fiera buona, paziente e saggia.—C'erano nelle parole della mia povera madre certe interruzioni, certi brevi silenzi angosciosi. Poi, rivolta a me, disse:—Yao, questo Koo, questo mercante, ha un bastimento pieno di biscotti e di miele, un grande bastimento che viaggia sul mare. Tu lo seguirai,—soggiunse,—diventerai un valoroso navigatore, mentre io mangerò sola i tuoi ping di riso e i tuoi pasticci di miglio.
Poi, rivolta al mercante, gli disse col più tenero accento della supplicazione:—E perché non mi sarebbe concesso di accompagnare mio figlio? potrei rattoppare le vele della nave, medicare i malati; sarei utile, paziente e coraggiosa.
Il Koo rispose scandendo le sillabe in modo bizzarro ed aspro:—Non voglio donne a bordo.
Mia madre, rassegnata, tolse allora da un armadio, che rivedo ancora nella memoria tal quale, tolse una borsa di pelle e la consegnò al mercante con queste parole:—Ecco la somma pattuita: cinquanta oncie d'oro. Intendo comperare con questo denaro una fibra viva del vostro cuore pel mio piccolo Yao. Ho messo dieci anni ad ammassare le cinquanta monete che state contando.
Poi dallo stesso armadio quasi vuoto (e alcuni mesi prima era pieno di molti cibi buoni e dolci) tolse un libro legato in seta (il libro che in questo momento giace sul mio scrittoio, nel secondo scaffale) e me lo diede e disse:—A te, figlio mio; in questo volume ho raccolti e cuciti colle mie proprie mani il Lun-yu, il Ta-hio e il Tsiung-yung. Ti ho insegnato a dicifrare i nostri antichi caratteri a ciò tu potessi un giorno leggere questo sacro libro, la cui sapienza profonda ambivo spiegarti io stessa verso a verso; ma le calamità della terra mi vietarono una tal gioia. Poiché tu possa continuare a vivere, è necessario che tu ti separi da me. Tutte le volte che leggerai qua entro, fa di rammentarti di tua madre.
Io piangevo, essa piangeva; eravamo avvinti in un bacio.
A un tratto il Koo guardò l'orologio, mi afferrò la mano, mi strappò dalle braccia materne gridando:—È tardi.—Mi trascinò seco. Giunti al limitare dello squallido orto, scendemmo giù per la vallata finché giungemmo alle sponde del Fiume Giallo. Avevamo corso ben mezza lega quando salimmo in un sam-pan a sei remi. Io mi accasciai sotto la prua con minore coscienza di me medesimo che se fossi stato una pietra. I remiganti batterono le onde. Il sonno pesante dell'angoscia piombò sulle mie palpebre. Quando mi destai ero a bordo d'un immenso vascello galleggiante su d'una immensa pianura immensurabile che mi pareva un universo d'acque, e mirai per la prima volta, esterrefatto, il mare.
Il mio stupore fu sì forte che dimenticai mia madre finché il sole s'ascose sotto all'orizzonte.
L'infanzia, savio Meng-pen, è un canto vago, incompreso mentre vibra, che diventa chiaro più tardi nella memoria.
Le soluzioni di molti oscuri problemi della mia fanciullezza non mi si rivelarono evidenti che quando divenni adulto.
Nei primi giorni ch'io navigai sul vascello di quell'uomo crudele che mi strappò dal bacio materno, non pensai di esser vittima d'un gin-mù, d'un mercante di schiavi, d'uno di quelli che la timida ironia del popolo cinese chiama pastori d'uomini.
Vissi fidente fra le mani di colui, perché mia madre mi ci aveva posto. Ma una idea mi preoccupava: non avevo ancora gustato né visto i biscotti ed il miele, di cui, come mi aveva detto la madre, doveva esser carico il bastimento.
Un giorno, mentre la maggior parte dei marinai erano immersi nel sonno delle ore meridiane, fui tentato d'andare a scoprire il sito ove dovevano essere nascoste le dolcissime ghiottonerie che mi erano state promesse. Il denaro che mia madre aveva dato per me al capitano, mi costituiva nella mia coscienza il diritto di una tale esplorazione.
Scesi quatto quatto la ripida scaletta che metteva capo alla stiva della nave. Giunto al fondo, mi trovai in mezzo ad una folta penombra, che più avanzavo e più l'oscurità si faceva cieca. Mi posi carpone per non incespicare fra le gomene che ingombravano il pavimento. Camminavo così, timido e cauto come un gatto che intraprende qualche pericolosa avventura.
La tolda sul mio capo era muta, indizio che nessuno si moveva sul ponte. Mi feci coraggio e spinsi la mia esplorazione in dritta linea fin che m'arrestò una parete. Palpai davanti a me fra le tenebre, e indovinai una porta. Il mio dito mignolo s'incastrò in una fessura, lo estrassi e in sua vece posi l'occhio. Attraverso quello spiraglio non vidi che ombra. Pure sapevo che in quell'ombra doveva celarsi il dolce carico del bastimento.
Sperai che a forza d'aguzzare lo sguardo la pupilla dovesse abituarsi a quell'ombra e diradarla. Infatti, dopo qualche minuto un torbido barlume mi rissensò l'occhio. Con l'avida curiosità di un fanciullo goloso che sta spiando un mondo di ghiottonerie, stetti immobile a contemplare ciò che non discernevo ancora. Tutto il silenzio ch'è possibile in mare regnava in quella stiva.
Più guardavo attraverso lo spiraglio e più il barlume aumentava. Poco a poco mi parve che l'ombra quasi vinta si condensasse tutta da un lato in istrati orizzontali e, condensata, assumesse corpo, ma corpo vero e quasi profilo, anzi vero profilo e forma d'uomo.
Prima vidi una testa negra come la caligine, una testa dai capelli lanosi e dalle grosse labbra, poi un torso che respirava affannosamente, poi due ginocchia tremanti; le braccia non vidi; parevano legate sotto la schiena. Quel corpo era disteso sul suolo.
La curiosità della gola aveva fatto posto nel mio animo ad un'altra curiosità assai violenta, quella della paura.
Spesse volte il vero piglia gli aspetti dell'allucinazione. Mi sembrò repente che quel corpo legato e disteso si riflettesse dieci o dodici volte collo stesso profilo e collo stesso atteggiamento, quasi ripercosso nei cristalli di due specchi neri.
Il mio sguardo fuggì atterrito all'opposto lato della stiva. Lì altrettanti corpi di color giallo giacevano stesi in senso inverso, con le piante contro le piante dei primi. Senza l'anelito dei petti li avrei creduti cadaveri.
Ma una fulminea staffilata che piombò sulle mie spalle, mi strappò subitamente al mio terrore e mi rinfrancò lo spirito inorridito.
Dietro di me stava una irosa figura che teneva una lanterna accesa con una mano e una scuriada con l'altra. Riconobbi il pastore d'uomini.
Quando, come adesso, rievoco nella memoria quell'attimo feroce in cui sentii piombare sulla mia schiena la sferza del gin-mù, penso che quello fu l'attimo decisivo e capitale del mio destino, l'impulso primo che inflisse al mio spirito quel moto particolare del pensiero che vien detto, fra gli uomini, carattere, e che è quasi uno stile dell'anima.
Da quel momento la mia vita s'è divisa in due epoche, dirò più, in due ere morali: prima della staffilata del gin-mù; dopo la staffilata del gin-mù. Ma qui permetti che ricorra ad un'immagine. Sai che per le salme degli Tsing si estrae dal più ardente veleno una goccia di balsamo che, appena infiltrata nel cuore del floscio cadavere imperiale, lo irrigidisce, lo trasforma in macigno incorruttibile. Alla stessa guisa mi parve d'essere stato, io vivente, tramutato dallo staffile del pastore d'uomini.
Pure il minuto che seguì immediatamente il colpo non te lo saprei descrivere; lì c'è una lacuna nella mia memoria.
Dopo il momento ch'io rimasi rattrappito nel più profondo della stiva, sulla soglia tragica che ti scrissi, con due violenti fulgori sul volto, la luce della lanterna e lo sguardo del gin-mù, la mia rimembranza s'estingue. Mi ritrovo poi immobile, placido, imperterrito a cavalcioni della più eccelsa antenna d'artimone, dominante il mare. Come io fossi saltato sulla tolda e arrampicato sull'albero maestro, non lo rammento. Ma so che il piccolo Yao, che prima se ne stava accovacciato fra le tenebre, non era più quello stesso che s'ergeva librato fra le sartie della nave, col sole nelle pupille e colla fronte al vento. La mia mente pareva essersi sollevata col mio corpo fra quelle libere altezze, sentivo trabalzar il mio cuore con rapidi e fierissimi slanci, come se la sferzata di quel manigoldo avesse mosso nel mio petto un meraviglioso palèo. Il senso della dignità offesa è più delicato e più puro nel fanciullo che nell'uomo, perché in quello il risentimento è più ingenuo e lo sdegno prodotto dalle tracotanze umane più nuovo. Aggiungi a ciò che fin dalla tenerissima infanzia ebbi la coscienza di possedere un sentimento di giustizia irresistibile, sentimento che m'accompagnò per tutta la vita.
La giustizia apparve sempre nel mio pensiero esatta, evidente come una verità tutta fisica. Quando nella mia età matura incominciai a studiare le matematiche, un diritto leso ripugnò alla mia coscienza nello stesso modo che un calcolo errato al mio intelletto.
Riabilitare il diritto o correggere il calcolo, era per me tutt'uno e mi trovavo formidabilmente spinto verso le vendette da un chiaro e calmo principio scientifico. Attacco e difesa, azione, reazione, angolo percosso, angolo riflesso, identici assiomi che dimostravano lo stesso vero sotto vari aspetti. Il dubbio, il mistero, tutto ciò che è vago e indefinito, fu sempre contrario all'indole mia; non ho mai potuto sopportare a lungo un aspetto, un problema insoluto, una menzogna; s'agita in me un vasto bisogno di constatazione. Ho sempre odiato le tenebre e le fantasie dei romanzi; ho avuto sempre paura dell'ignoto, del noto mai. Ecco perché spiante nell'ombra allo spiraglio della stiva, intravvedendo la bieca fantasmagoria di martirii che ti accennai, tremavo; quello era l'ignoto. Ecco perché la sferzata precisa ed evidente del pastore d'uomini mi aveva ridonata la calma e colla calma la forza.
Placido sull'antenna, pensavo; pensavo che quella mia discesa nella stiva era stata giusta e saggia, perché ne avevo dedotto la certezza che quel gin-mù ingannava mia madre. Il carico di schiavi l'avevo visto co' miei occhi; nessun'altra mercanzia apparve né sotto né sopra il ponte. Sentivo d'essere caduto in potere di un feroce nemico, e fanciulletto e solo, provavo il bisogno di difendermi, di armarmi, di conquistare le nobili forze del corpo e della mente, tanto più che difendendomi mi pareva di vendicare mia madre. Sotto i miei piedi penzolanti nel vuoto vedevo l'equipaggio della nave muoversi, affaccendarsi; tutta quella folla mi sembrava ostile. Compivo in quel giorno undici anni; mi rammento di aver fatto questo computo.—Undici anni!—pensai con orgoglio, e levando il mio berretto marinaresco dal capo, mormorai gravemente come compiendo un voto sacro:—Sii tu il mio Kuan, il mio berretto di virilità; sono uomo!—E mi ricoprii fieramente la testa. Anticipavo così di nove anni la tradizionale imposizione del Kuan e m'ero consacrato uomo da me stesso.
La luna spuntava sull'orizzonte e l'aura del giorno non era ancora scomparsa. Io rimanevo sulla mia antenna, immerso nelle brezze marine co' miei pensieri. A un tratto, nel torcere gli occhi in giù, vidi un non so che di bruno che s'arrampicava sull'albero maestro con maggior sveltezza e rapidità che una scimmia. Un attimo dopo riconobbi un fanciullo bizzarrissimo nel volto e nelle movenze, il quale cavalcava già l'antenna accanto a me.
Appena ch'egli ebbe inforcata l'antenna di fronte a me, quel fanciullo ed io ci guatammo come due esseri di razza contraria che si vedono per la prima volta; attoniti, serii, faccia a faccia e muti.
Per un istinto tutto bambinesco di vanità e di difesa misurai collo sguardo le nostre due stature. Le punte de' suoi piedi, penzolanti nel vuoto, giungevano al malleolo de' miei ed i suoi occhi non arrivavano al mio mento. Arguii, dunque, con tacita compiacenza, che sul suolo io sarei stato d'un palmo e mezzo più grande del mio aereo compagno. Il suo corpicino snellissimo s'agitava tutto senza posa, come uno di que' vibrioni d'acqua che vivono in una oscillazione perenne, e la mobilità del suo volto era anche più rapida che quella delle sue membra. Le sue chiome apparivano più nere e più lucide di questo inchiostro col quale scrivo, e prolisse e pendenti e attortigliate come le corde che sopravvanzano dalla testa delle nostre citàre. Di quei capelli foltissimi nessuna parte era rasa; il vento li scuoteva dolcemente di qua e di là, come una pianta di zonarie marine dondolante nell'onda. La sua pelle aveva il colore dell'oliva acerba e sotto i pori sembrava gli traspirasse anche l'untume dolce di quel frutto. Quella testina livida e ardente pareva impregnata d'un balsamo oleoso; il mio sguardo scivolava su di essa senza potersi arrestare a nessun punto, tanta era la instabilità del fanciullo. Fra un guizzo e l'altro del suo volto, lo potei mirare negli occhi, neri così che mettevano raggi come due carboni elettrici, raggi intermittenti ed acuti. Tutto quel corpo era un magnete. Si pensava, a vederlo, che una elettricità più che un'anima lo vivificava. Benché io, giovanetto, a quell'epoca non conoscessi ancora le leggi di certi fenomeni fisici, presentivo che se avessi avvicinato un mio dito alla fronte di quel fanciullo, ne sarebbe scaturita una scintilla. Non credevo allora, come non credo oggi, alle cose soprannaturali; pure una strana inquietudine m'agitava accanto a quella bizzarra creatura d'aspetto fantastico. Oltre gli occhi, altri due punti su quella figura brillavano: i denti fulgidissimi e una piccola moneta d'oro che gli penzolava sul petto nudo. Vestiva una zimarra bruna e sdruscita e squarciata in mille modi e ridevolmente amplia che, sbattuta dal vento, gli svolazzava d'intorno, spandendo al cielo un'allegria di brandelli scossi.
A un tratto egli scoppiò in una sonora risata e con intensa curiosità indicò la mia coda, che fin da quegli anni avevo bellissima, e che dalla sommità del cocuzzolo sfuggendo di sotto al berretto, pendeva lunga lunga e solenne.
Io, a quello scroscio di risa, rimasi muto, immobile e un poco offeso.
L'altro allora incominciò a parlarmi un idioma armonico e strano che non avevo inteso mai; il suo accento terminava come interrogandomi. Quella voce mi penetrava nell'udito così soave che il mio sdegno nascente scomparve e fece luogo a un moto primo di simpatia.
Le cose ch'egli mi chiedeva pensai che dovessero essere, senza dubbio, argomenti di affettuosa inchiesta. Mi immaginai ch'egli mi domandasse, non so perché, di mia madre. E fermo in questa supposizione, risposi con tutta semplicità nel mio linguaggio:—Mia madre è una povera Kùa! (vedova).
A quelle parole il fanciullo fu colto da una frenetica ilarità. Strillò sghignazzando:—Ah! Kùa! Kùa! Kùa! Ah! Kùa! Kùa! —capitombolando sull'antenna più svelto d'una girandola. Poi fra le vociferazioni e le risate si lasciò piombare colla testa all'ingiù, si abbrancò ad una fune, e scivolò così capovolto fin sul ponte, più ratto di una pietra e più leggiero d'una piuma; e scomparve.
Io rimasi ancora sull'antenna, sorpreso, meditabondo. L'apparizione di quel fanciullo, là sulle alture dell'albero maestro, fra il cielo ed il mare, mi aveva scosso, né arrivavo a immaginarmi da dove poteva essere sbucata quella pazza creatura che non avevo veduta mai prima d'allora sul vascello.
Intanto il vascello correva gagliardo, la vela sotto di me si gonfiava maestosamente piena d'aria. S'era fatto notte. Lungo il mio corpo vidi repente scorrere un lume che si fermò alla cima dell'albero; era la lanterna del bastimento. Il rintocco d'una campana annunciò la cena della ciurma e discesi sul ponte.
Diletto Meng-pen, l'occhio tuo diligentissimo ha seguito fin qui i preliminari del mio racconto, troppo, forse, lentamente svolti dalla mia penna. Perdona all'involontaria prolissità d'un vecchio che ritorna col pensiero sui più giovani anni della sua vita. Mille particolari del passato si presentano alla mia mente che li coglie come se ti favellassi, e dimentico che scrivo e che tu leggi accanto a me le diffuse parole che vado delineando. Ma di questa prolissità minuziosa esiste (lo temo e lo sento confusamente), esiste anche una causa volontaria in parte.
Questa causa sta nel ribrezzo che provo d'avvicinarmi a quella stessa catastrofe la di cui narrazione è lo scopo di questo racconto. Mentre mi soffermo qua e là nello scrivere, osservando e dissertando allontano dalla mia penna e dal mio pensiero l'incontro dell'ultimo avvenimento verso cui fatalmente s'avvia questa mia storia. E appunto nella esposizione di quella catastrofe, più assai che altrove, mi converrà adoperare tutta l'arte della più minuta e scrupolosa analisi.
Ma il tuo volto atteggiato ad espressione di nobile pazienza mi conforta a ripigliare il mio tema.
Dopo ch'io m'imbattei sull'antenna con quel fanciullo bizzarro che ti descrissi, non passò ora che non fossimo insieme. Egli, nei dì anteriori era stato rinchiuso dal suo padrone in una cabina del bastimento per castigo di non so più quale colpa.
Ecco perché non l'avevo mai scontrato sul ponte nei primi giorni della navigazione. Quel fanciullo esprimeva colle riflessioni della fisionomia, colla vivacità dei gesti e col modular dell'accento tutto ciò che, in sulle prime, il suo barbarico gergo aveva d'incompreso per me. Egli parlava un misto di latino e d'orientale, e la sua nazionalità era ibrida più che il suo idioma. Apparteneva a una schiatta di popoli errabondi, senza patria e senza nome, o, per dir meglio, di più patrie e di più nomi. Sul ponte egli esilarava la ciurma che si componeva di marinai di vari paesi; alcuni lo chiamavano, sorridendo, Tartaro, altri Pharaòhnepek; gli americani lo battezzavano per indiano nero, Hind-Kales; gli olandesi lo qualificavano Heidene (idolatra); parecchi gli dicevano sorridendo gypsi, parecchi altri gitano o zingaro.
A tutti questi appellativi diversi egli rispondeva indifferentemente. Ma quando alcuno lo richiedeva del suo vero nome indicante la sua propria personalità, il piccolo zingaro denudava il suo braccio sinistro e con un gesto grazioso e solenne poneva l'indice della mano destra su d'un tatuaggio che ornava la gagliarda curva del suo bicipite, e pronunciava la parola Ramàr, secca, sonora come due colpi di tamburo. Ramàr ed io diventammo amici prestissimo. Io capivo i suoi gesti, egli arrivò in poco tempo a intendere le mie parole. Gl'insegnavo la lingua chinese con un sistema assai semplice. Mettevo, per esempio, la mano al posto del cuore e articolavo la parola sin (cuore), ch'egli ripeteva ridendo; oppure allungavo le palme e dicevo tsci, oppure additavo l'azzurro e dicevo lì (cielo). Questi ammaestramenti pareva lo dilettassero assai, perché sghignazzava ad ogni urto un poco aspro di consonanti come d'un effetto fonico ridevolissimo. La sua sfrenata gaiezza, ch'ei non sapeva contenere neanche in presenza delle cose più serie, mi era qualche volta uggiosa, forse perché contrastava fin d'allora coll'indole mia. L'instabilità di Ramàr m'indispettiva anche un poco e l'impeto delle sue parole, delle sue azioni e de' suoi sguardi. Ramàr sconcertava la mia individualità nascente, e questa era senza dubbio la causa dell'uggia. Io, là, solo, senza soccorsi, migrante su d'un vascello che viaggiava per un paese a me ignoto; io disamato da tutti, disarmato contro tutti, stavo appunto in quei giorni raccogliendo i miei istinti per cingermi di forza e di difesa. S'operava entro me un lavorio morale simile in tutto a quello del baco da seta che fila il robusto suo bozzolo, ed ecco che quello zingaro spensierato, irriverente, leggiadro, confondeva l'opera mia.
Non mi perdonavo il fascino di curiosità ch'egli m'imponeva e dal quale non potevo sciogliermi.
Ricorrevo spesso alla lettura di Confucio per rassodarmi nelle mie aspirazioni, intuivo più che non capissi letteralmente le profonde massime dell' Invariabilità nel centro; l'anima di quel libro passava nella mia, quasi attratta da un elemento omogeneo. Dopo quelle letture sentivo la coscienza della mia superiorità e contemplavo Ramàr con affettuoso disprezzo. Quel povero fanciullo ignorava perfino il vero senso dei nomi di madre e di padre. Un giorno che io gli chiesi chi era suo padre, Ramàr mi mostrò un signore gigantesco, coi capelli rossi, cogli occhi celesti, un americano del Nord puro sangue, che passeggiava sul ponte. Compresi che Ramàr confondeva il nome di padre con quello padrone. Fin che fui sul vascello non potei raccapezzare nessun altro dato intorno alla condizione sociale del mio piccolo amico.
Quando io gli domandavo:—sai leggere? sai scrivere?—o qualche altra consimile domanda, egli mi rispondeva invariabilmente con uno stranissimo accento di convinzione:—Io so volare.
La stagione, che era piuttosto fredda al principio del viaggio, andava mano mano temperandosi. Mi pareva di essere balzato dall'autunno alla primavera. Ripensavo alle lune che avevano brillato sul mare durante la nostra navigazione e non riuscivo a computarne più di tre. Secondo i miei calcoli, dovevamo esser vicini al solstizio d'inverno, e il caldo aumentava. Questo fenomeno atmosferico m'inspirava meraviglia e turbamento. Tutto era enigmatico intorno a me, il vascello in cui viaggiavo, il gin-mù che lo guidava, il piccolo Ramàr, e l'aria stessa che respiravo e la meta verso cui ero rivolto. Il mio istinto di esattezza s'angosciava in mezzo tutta questa incertezza strana che componeva la mia vita, e mi ribellavo contro il mare, contro l'aria, contro gli uomini, tacitamente, ma con un gran tumulto di pensieri. Nessuno mi parlava tranne Ramàr, il quale pareva abbandonarsi spensierato su tutto ciò che gli sembrava ignoto o misterioso. Io avevo un solenne disdegno d'interrogare gli altri su tutte le cose gravi che non capivo; volevo indagare, indurre, dedurre, scoprire tutto da me. Questo sistema era senza dubbio il più dignitoso per non intender nulla, ma non il più spiccio per arrivare al fondo degli arcani che mi agitavano.
Pure sentivo che quella vita di mare non poteva essere che passeggiera per me, e benché mi rammentassi quelle parole di mia madre:— Diventerai un grande navigatore,—pensavo che l'arte marinaresca non sarebbe stata il mio destino, dacché nessuno s'occupava ad istruirmi in quella, né il gin-mù esigeva da me fatica di sorta sul vascello, e da ciò mi risultava ancora più evidente l'inganno in cui doveva esser caduta la madre. La madre! ed allora mille incertezze assai più crudeli mi assalivano e pensavo:—Quella affettuosa donna mi allontanò dalle sue braccia per causa della carestia che infieriva; mi salvò così dalla fame; diede il suo oro per salvarmi, quel poco d'oro che essa aveva raccolto con tanto sacrificio di lavoro e di astinenze: il pericolo dunque doveva essere estremo, la necessità ineluttabile. Dunque, se mia madre sofferse ch'io mi distaccassi da lei, è segno che vivere in due non si poteva; fuggire in due, neanche; ma essa?—E mi si parava davanti alla memoria, terribile, il granaio deserto e quegli ultimi ping di riso misurati dalla povera donna piangente. Una deduzione orrenda sorgeva sempre alla fine di questi pensieri. Allora, per isfuggire dallo sguardo degli uomini, salivo al mio rifugio, l'albero maestro, e mi sedevo non più sull'antenna, bensì sulla cima stessa dell'immenso pino, come un augello che più sale volando e più si salva. Quando l'angoscia persisteva, quando quella immersione nell'azzurro non bastava a calmarmi, afferravo colle mani la punta dell'albero e mi abbandonavo con tutto il corpo penzolante a seconda del vento e rimanevo così finché le forze me lo permettevano. Quella stiracchiatura di muscoli violenta distraeva l'ansia del pensiero.
Spesso Ramàr, che mi vedeva dal ponte e che credeva ch'io facessi per giocare, mi raggiungeva. Allora s'incominciava una sequela di evoluzioni ginnastiche stranissime, portentose, egli ridente, io piangente quasi ed in preda ad una specie d'esasperazione nervosa. Ciò che mi affascinava in quelle evoluzioni altissime e pazze era l'imminenza del pericolo. I marinai sul ponte ci ammiravano beffandoci. Un giorno m'accadde di compiere una prodezza che mi valse, per così dire, il loro rispetto.
Quel giorno io me stavo accovacciato presso la bussola, studiando le oscillazioni dell'ago magnetico, quando mi scosse un gaio vociar della ciurma. Mi avvicinai ad un crocchio di mozzi; costoro guardavano in alto qualcosa che destava la loro curiosità. Era uno di quegli uccelli gialli di montagna che noi chiamiamo mièn-man, smarrito non so come nei deserti del mare; s'era posato sull'albero di prora, stanco, sfinito, immobile. La ciurma proponeva un premio a chi avrebbe atterrato quell'uccello. Il gin-mù, a cui, in quel dì, sorrideva l'umore, permise la gara. Si caricarono i fucili, la mira appariva difficilissima per la piccolezza del mièn-man e per l'altezza ove posava. Tutti tirarono e sbagliarono il loro colpo. Ad ogni fucilata il mièn-man fuggiva dall'albero con ala incerta, girovagava per l'aria, poi, spossato, si riduceva sul primo appoggio. Dopo l'ultimo colpo io corsi a cercare la mia frombola che avevo portato meco, la armai d'una grossa palla di piombo e mi posi nell'atteggiamento di chi compie un calcolo mentale, fisso coll'occhio al mio bersaglio. I marinai, il gin-mù e il padrone di Ramàr mi contemplavano ironicamente. Convien qui notare che il colpire colla frombola un bersaglio piccolo, alto e lontano è ardua impresa per i più esperti, giacché la parabola del proiettile varia secondo il peso e lo slancio. Pure, dopo due giri di corda, feci scattare la palla ed il mièn-man cadde morto in mare. Un applauso scoppiò dalla ciurma. Io vinsi il premio, che era una moneta d'argento.
Il padrone di Ramàr mi pose la sua poderosa palma sulla spalla in segno di approvazione; poi s'allontanò sollecito col gin-mù a fianco.
Il giorno dopo di quel fatto, all'alba, vidi una linea biancastra all'estremo dell'orizzonte sul mare, lontanissima, immobile. Vidi poi a poco a poco questa linea ingrossare da un lato, diminuire dall'altro. Percepii alcuni vaghi contorni di montagna. Era la terra, e quale terra? Lo ignoravo; pure m'invase una gran gioia. La terra mi rappresentava una meta qualunque e ciò mi bastava per rasserenarmi. In quella meta io costruivo già le mie speranze, i miei progetti.
Il vento ci spingeva verso la costa con una rapidità prodigiosa. Un paese incantevole s'offerse ai miei occhi verdeggiante, luminoso. Una piccola città appariva sulla spiaggia; i marinai la segnavano col dito dicendo la parola Callao. Poco dopo ci trovammo alla foce di un gran fiume che si chiamava Rimàc. Questi nomi risuonavano stranamente al mio orecchio. Ci mettemmo nel fiume a vele sciolte, navigando fra due spalliere di colli meravigliosi. Verso il cader del sole apparve sulla spiaggia immensa del fiume una strana città, rosseggiante come le nubi del tramonto che infocavano l'orizzonte. Le sue case parevano tinte di sangue. Era Lima. Quel paese si chiamava Perù.
Nella confusione dei marinai e dei mozzi che preparavano il vascello per lo sbarco, il gin-mù mi chiamò, mi prese per mano, poi mi condusse davanti al padrone di Ramàr dicendogli:—Sir William Wood, ecco Yao.
Un'ora dopo percorrevo le contrade di Lima col piccolo Ramàr, condotti entrambi per mano del gigantesco sir Wood.
Attraversammo un largo viale costeggiato da salici e da aranci; poi ci mettemmo per una immensa piazza nel cui mezzo appariva una colonna di bronzo; su questa colonna s'ergeva una statua mirabile per la solennità del suo atteggiamento. Non potei trattenermi dal dire a Ramàr, sottovoce, accennando alla colonna:—Ventidue piedi di altezza.—Sir William che m'aveva udito, mi chiese:—Come fai a saperlo?—Io risposi:—Gli occhi sono le due punte del compasso mentale.—Poi drizzando il gesto alla statua, esclamai:—La Gloria.—-Quella statua impugnava una immensa tromba e dalle fiere gote pareva che vi soffiasse dentro uno spiro possente. Dal padiglione della tuba sgorgava una cascata d'acqua perpendicolare, che si raccoglieva in una vasca, a' piedi della colonna. Io, pur camminando, non istaccavo gli occhi da quel bronzo effigiato e lo ammiravo e m'aggiravo già col pensiero nei forti sogni dell'orgoglio. Lo scroscio di quella fontana percoteva l'aria come un grido incessante di trionfo; io pensavo:—Se quella fontana non inaridisce mai, l'artefice che la ideò conobbe realmente il concetto della vera gloria.—Sentivo il bisogno di dare al mio nome il rimbombo continuo di quell'acqua. Interrogavo l'animo mio: la nuova terra che calpestavo, aveva ridestato in me quella personalità che s'era un poco assopita in mezzo alla vaga immensità del mare. Il mio individuo intellettuale e morale ringagliardiva tutto al contatto del suolo, come una fronda. Stringevo sotto l'ascella, gelosamente, Mencio e Confucio. Mi passava per la memoria un capitolo del Lun-yu, dove è scritto:—Convien por mente alla professione che si vuole abbracciare; tutta la nostra esistenza s'informerà da quella. Lo scopo dell'uomo che fa delle freccie, è di ferire gli uomini; lo scopo di quello che fabbrica delle corazze e degli scudi, è d'impedire che gli uomini siano feriti.—Questo versetto, che ricordavo, mi dimostrava come lo scopo di tutte le opere umane sia beneficamente o maleficamente fatale. Sentivo la gravità di questa sentenza piuttosto dal punto di vista filosofico che dal punto di vista umanitario. Ferire gli uomini o impedire che sieno feriti, pensavo che erano due scopi opposti, ma non concedevo a questi due scopi una grave importanza per ciò ch'essi riguardassero gli uomini, ma per ciò ch'essi mi rappresentavano due moti elementari e contrarii delle facoltà umane.
Interpretato a questo modo, il versetto di Confucio mi appariva in tutta la sua chiara maestà, ed io già mi schieravo tra i feritori della parabola. Sì, ferire, cogliere nel centro con una freccia o con un'idea, una cosa o un problema, o un'occasione o un bersaglio, un astro, un cerchio, o il cuore di un mièn-man o il cuore di un uomo, era per me, fin d'allora, un solo fatto fisico, un solo fatto intellettuale. Il Centro ( to tschiung ): in questa parola sentivo spuntare la vocazione della mia esistenza. Ripetevo mentalmente queste parole del libro sacro:—Il giusto mezzo non è colto: il dotto lo oltrepassa, l'ignorante nol giunge. Oltrepassare il segno non è coglierlo.—Ma io lo coglierò,—soggiungevo entro me, e i miei pensieri affluivano tutti a questo ideale di giustizia e di moderazione con accanimento feroce.
Lima si avvolgeva già nella penombra della sera; io, Ramàr e sir William, dopo aver lasciato dietro le spalle la plaza mayor e quattro o cinque contrade, ci trovammo in una grande spianata. In fondo a questa ergevasi un immenso edificio circolare. Sir William Wood dirigeva i nostri passi verso quell'edifizio. Io continuavo il corso delle mie meditazioni. Ignoravo perché la mia piccola mano era congiunta al pugno colossale dello strano personaggio che mi guidava, e dov'egli mi guidasse ignoravo anche, né mi degnavo di chiedergli com'egli fosse subentrato al gin-mù ne' miei destini. Sentivo che il mio passo era schiavo del suo, ma l'ardita indipendenza delle mie aspirazioni mi rassicurava. Il mio piede correva ad una meta ignota, ma nell'anima mia si precisava sempre più la meta dei miei pensieri.
Il progetto della mia esistenza si disegnava esatto, saldo, nel mio cervello, e lo formulavo già in quattro parole:— Sarò un grande geometra. —Ma ci eravamo arrestati davanti al vastissimo ingresso dell'edifizio che stava in fondo della spianata. Parecchi immensi cartelli variopinti stavano appesi alle pareti. William Wood, che parlava un poco il chinese, mi disse allora (proprio mentre stavo pensando:— Sarò un grande geometra ):—Ecco il mio circo e tu, Yao, sarai il mio giocoliere. Entriamo.
E qui, diletto Meng-pen, soffri che interrompa un poco la scrittura. Ho sete, porgimi una tazza di thè; piglia anche tu la tua, e supponi che mentre noi stiamo qui bevendo passino dieci anni sulla mia storia.
Il recinto nel quale io vissi dai dieci anni ai venti dell'età mia, è (dico "è" perché esiste ancora) un circolo perfetto, scoperto sotto la luce del cielo. Il suo diametro consta di 855 tsci; sulla sua circonferenza s'ergono alte mura, lungo le quali ricirculano tre ordini di scaglioni giganteschi, occupanti un punto del diametro, cerchi minori, concentrici, inchiusi nel circolo massimo. Il punto dove l'infimo scaglione degrada, dista dal centro 255 tsci e questo spazio, tutto libero e piano, è coperto da una certa rena, proveniente dalle sponde del Rimàc, fulgida e rossa perché mista alle scorie dell'oro e a molta parte di ferro. Ogni quarto di cerchio del semplice edificio che descrivo, era, a' miei tempi, segnato da una immensa lettera dell'alfabeto latino, la quale serviva a contraddistinguere il sottostante ingresso, e quelle quattro cifre, A B C D, cooperavano non poco a rendere il maestoso circo simigliante a una figura geometrica, tracciata sull'altipiano di Lima come per un prodigioso teorema. Parecchie corde tese dall'uno all'altro emiciclo ne frazionavano l'area in guisa di tangenti, e da queste pendevano tre trapezi e sei parallele.
Quante volte, aggrappato ad uno di quei trapezi, alti 215 piedi dal suolo, stetti a meditare sull'enigma insolubile che ogni circolo rinserra, fin che mi coglieva la vertigine, non già dell'abisso materiale, ma dell'abisso scientifico, assai più profondo.
Tanto andavo compenetrandomi nel cerchio in cui vivevo, e da dove in dieci anni non escii neppur per un attimo, che mi pareva d'essere diventato un punto mobile di quello, agitantevisi entro e delineante coi passi mille angoli e mille curve matematiche. I principali assiomi della geometria mi si rivelarono allo spirito giovanetto solo nel percorrere quel ricinto immenso ch'era il Circo dei tori della città di Lima.
William Wood lo aveva preso ad appalto per un decennio, promettendo al pubblico peruviano una caccia di tori ogni quindici giorni e nei rimanenti dì del mese molte altre rappresentazioni minori. Egli aveva percorso la Spagna, l'Inghilterra, la Boemia, l'Africa, la China allo scopo di raccogliere i tori, i cavalli, gli uomini, le donne, le scimie che gli abbisognavano per la sua intrapresa, ed era riuscito a radunare una popolosa carovana di persone e di animali. Quand'egli, giunto a Lima, si trovò in possesso di tutta la sua baraonda, aperse il circo che prese la denominazione di Circo Wood, e divise i suoi spettacoli in grandi e piccole rappresentazioni. Le grandi rappresentazioni erano diurne, incominciavano prima del cader del sole, sotto la luce dello splendido cielo americano, ed erano caccie di tori, corse di barberi, assalti di fiere, fantasie orientali e incendi pirotecnici quando calava la notte. Le rappresentazioni piccole avevano luogo di sera, al coperto, in un padiglione provvisorio che si poteva erigere ed abbattere in poche ore, nel mezzo del circo ed ivi s'ammirava dal pubblico le pantomime, le prodezze dei volteggiatori, dei ginnasti, i lazzi dei clowns e cento altri minori trastulli.
O paziente Meng-pen, ti sarai già meravigliato indovinando ciò che ora sto per affermarti.
Sì, varie e spesso bizzarre sono le vie del destino. Io Yao-sse o Dottor Yao, come mi chiamano gli scienziati europei, io che ora scrivo e che porto il bottone di corallo sul berretto e sulla toga, presi parte alle piccole ed alle grandi rappresentazioni di William Wood nel circo di Lima.
In molte esatte piacevolezze ero destro. Alcune te ne citerò, se non t'annoio.
Solevo spesso comparire davanti al pubblico con sette campanelli di legno di sandalo fra le mani (di quelli che noi chiamiamo mu-to ), intuonati variamente tra loro secondo le leggi musicali. Incominciavo il mio esercizio facendo balzare uno di questi campanelli in aria, per modo che giunto al sommo della sua parabola, col suo battocchio squillasse e ricadesse lieve nell'altra mano. Poscia ad uno ad uno rapidissimamente li facevo tutti girare, avendo cura di così avvicendarne il turno che insieme componessero il suono d'una vera melodia leggiadra. La cantilena che intercalavo più sovente nel mio artificio era quella nostra:
Kuan-tsin-tsi-Kuan
del Libro de' versi, nobile tanto. Pure al pubblico molto non garbava, e se volevo finire il mio esperimento in mezzo ai più entusiastici applausi, dovevo ritornar sempre ad una volgarissima canzone spagnuola: la jotta aragonese.
Alle volte, invece del mu-to, erano cinque palle di spingarda che scattavano dalle mie mani come uno zampillo di fonte, mentre con una sfera di piombo assai grave, attaccata per mezzo d'un gancio alla mia tenacissima coda, descrivevo nel vuoto, dondolando placidamente la testa, un moto rotatorio orizzontale come un'immensa aureola che tagliava nelle sue intermittenze, il giro delle cinque palle, esattissimamente, senza mai trovare un inciampo. Più ancora che la precisione dei miei movimenti pareva al pubblico, la di cui maggioranza era composta di teste calve, meravigliosa la robustezza della mia chioma che roteava con tanta facilità un peso già forte da sollevarsi colle mani.
Intanto la mia celebrità s'aumentava di giorno in giorno e sui cartelloni del Circo Wood si leggeva scritto in lettere rosse, d'un cubito l'una, il nome di Yao che adescava la folla.
L'uomo s'acconcia presto alla propria gloria da qualunque parte essa gli venga, ed io mi stimavo già lieto d'essere lo scopo di tanta curiosità, il centro di tanti sguardi, la causa di tanta meraviglia e di tanto diletto.
Mi confortavo nella massima di Mencio che dice: " weï-kueï ", massima che un latino plagiò quando scrisse: " populus est prae omnibus mobilis ". Mi confortavo anche ripensando a ciò che Confucio racconta dei savi dell'antichità, "i quali mettevano la loro gioia nella gioia del popolo", e non disperavo di far apprezzare un dì o l'altro ai miei spettatori la cantilena
Kuan-tsin-tsi-Kuan
del Libro dei versi, dignitosa tanto.
Applicavo la matematica alla ginnastica.
Analizzavo la forza di ripercussione d'un'asse inclinata, calcolavo il peso del mio corpo, stabilivo tre punti, come a dire tre angoli d'un triangolo ottuso colla base rovesciata. Spiccavo un salto dal primo angolo, cadevo sul secondo ch'era l'estremità elastica dell'asse, da dove rimbalzavo sul terzo, a 15 o a 20 palmi di distanza, giusta il calcolo fatto. Sotto il mio corpo, per tutto lo spazio del salto, facevo disporre molte lancie acutissime, sulle quali sorridendo trasvolavo. Il salto pareva prodigioso al pubblico, che attribuiva alla mia robustezza ed al mio ardimento ciò che era il risultato infallibile d'una legge d'angoli riflessi e di forze ripercosse.
Io avevo a quel tempo venti anni. Ramàr, snellissimo sempre benché ingrandito nel corpo, era un satellite de' miei trionfi. Egli contava forse allora dieciott'anni. Molti celebri esercizi eseguivamo insieme. Uno fra questi era il giuoco delle freccie. E consiste, come già sai, nel lanciare molti strali lungo il contorno d'una persona addossata ad un tavolato, in modo che sul tavolato restino confitti, senza ferire il corpo offerto a bersaglio.
Ramàr, colle braccia e colle gambe nude, e stretto le anche e il torso in una maglia olivastra come la sua pelle, attendeva i miei colpi a 15 passi di distanza. Durante tutto l'esperimento quelle sue membra, sempre oscillanti, s'intirizzivano come davanti ad un gelo de' miei occhi. Ci leggevamo nelle pupille: egli prevedeva sempre il luogo dove io stavo per ferire, e la stessa fermezza appariva nel suo atteggiamento come nella mia mira. Io disegnavo a punta di stile sull'assito ov'egli stava le linee del suo corpo elegante collo stesso paziente affetto col quale un dipintore ritrae l'immagine d'una persona amata.
Quando ogni contorno era marcato e Ramàr era ingombro di freccia sulla testa, ai piedi, al collo, sotto le ascelle, fra le dita, lungo ogni parte del suo corpo, egli si staccava gaiamente dal tavolato e partivamo insieme in mezzo ad un fragore d'applausi. Io dividevo con Ramàr volentieri le acclamazioni del pubblico, le quali del resto venivano a me più che a lui. Ma se su d'esso si riverberava la mia gloria, io sentivo nella vicinanza della sua persona un non so quale contatto di grazia e di formosità che nobilitava me a me stesso. Avevo sentito parlare di un re degli zingari che doveva essere eletto in quell'epoca, e pensavo che Ramàr avrebbe saputo essere quel re, giacché nessuno più di lui poteva mostrarsi in pari tempo più zingaresco e più regale.
Ma un dì giunse persona nel nostro circo (fu il giorno del solstizio d'estate, quarantatrè anni or sono) che staccò a poco a poco il bel Ramàr dalla mia gloria ed alla sua lo attirò. Questa persona fu una donna, una giovanetta andalusa, danzatrice, già attesa in mezzo a noi da molto tempo.
Questa giovinetta aveva una vaga età: sedici anni; e un bel nome: Ambra, ed essa era più bella de' suoi anni e più vaga del suo nome. Appena apparve danzando, trionfò. Savio Meng-pen, chi non vide la donna europea, non conobbe la vera bellezza, e tu sei fra questi. Tu che ammiri pudicamente delle nostre dame i minutissimi piedi, tenui triangoli sui quali esse appena si reggono, sappi che l'andalusa aveva le piante minute così essa pure, ma per gentilezza della natura, non per arte crudele d'una nutrice. Ed erano liscie e soavi, un levigato avorio dall'amore stesso miniato, le dita che succedevansi con ordine armonioso di gerarchia dal robusto pollice al mignolo tenerello, morendo in curva d'ala; e come la lodola sui vanni picciolissimi altissima vola, così sui picciolissimi piedi Ambra volava. Era suo capriccio il tenerli nudi quando volteggiava sul dorso, pur nudo, del suo nero puledro. Un lungo pezzo di raso or cinereo, or ceruleo, or fosco le avviluppava le spalle, i lombi, le ginocchia fino ad una spanna dal malleolo; lì, perché la strettissima gonna non isvolazzasse, una fascia annodata la raccoglieva. Tutto quel raso scintillante aderiva alle forme d'Ambra come una di quelle foglie di lucido talco colle quali sono avvolte le nostre confetture di miele e d'aromati. Uno spiraglio di nudità scendeva dalla gola a mezzo il seno. Il suo volto pareva una fusione di pallido argento e la chioma d'oro fulvo sparsa in una miriade di trecce sottili, massiccie e sferzanti l'aria; gli occhi essa aveva di crisopazio, te lo affermo, o Meng-pen, di ametista viola, proprio viola (non sorridere a ciò che scrivo), ed erano dolci e cupi. Occhi come come quelli non vedrò mai più sulla terra. La bocca, perennemente chiusa, pareva non doversi aprire che al bacio e custodiva perle. L'uomo che su quella bocca divina posò una volta le labbra, dovette poi, se più non l'ebbe, per tutta la vita esser casto.
La stupenda fanciulla, forse per amor del suo nome, non s'adornava che di vezzi d'ambra. Come al raggio del sole si schiudono le conchiglie sulla spiaggia del mare, quando Ambra passava nel circo, le labbra degli uomini si schiudevano ammirando.
Fu questa la donna che mi rapì la dolce fratellanza di Ramàr.
Un giorno vidi sui programmi del circo il mio nome scritto, come sempre, in grandissimi caratteri; ma senza il nome di Ramàr, che da tanti anni teneva il suo posto immediatamente sotto il mio con lettere meno appariscenti, e lessi invece, più discosto, tre parole di lucid'oro collegate in una sola linea così:
AMBRA E RAMAR
Non t'accadde mai d'udir favellare i caratteri? Per me quei due nomi risplendevano non solo, risuonavano anche. Il mio orecchio percepiva fonicamente ciò che il mio occhio abbagliato leggeva. E andavo ripetendo: Ambra e Ramàr! Quell'"e" situato in mezzo ai due nomi sonava maligno e pareva più che una congiunzione grammaticale. Per una stranezza tipografica quell'"e" splendeva singolarmente, quasi fosse fra le cinque lettere d' Ambra e le cinque di Ramàr un centro luminoso, un punto focale di convergenze e di raggi.
Quanta affinità fra i due nomi! cinque cifre nell'uno, cinque nell'altro, bisillabi ambidue, e nell'uno e nell'altro una sola vocale, la più pura, la più umana, dominante e due volte ripercossa. Oh! come dolcemente preludiava quella vocale e cadenzava il nome d' Ambra! Con arte parimenti perfetta la più romoreggiante fra le consonanti vibrava al principio ed alla fine del nome di Ramàr. Una indistinta femminea soavità emanava dal primo, tutta la baldezza virile irrompea nel secondo; eppur l'uno parea composto coll'armonia dell'altro. Già i due nomi s'amavano nei loro bei caratteri d'oro. E il nome di Yao, tutto solo, se ne stava quasi reietto nella sua gloria.
Yao e Ramàr simboleggiavano parecchie profonde antitesi: il calcolo e l'intuizione, l'esattezza e l'audacia, la pazienza e l'impeto, la scienza e l'arte. Ambra e Ramàr una più profonda sintesi più sublimemente stavano per simboleggiare: la Bellezza e la Forza nell'armonia dell'Amore.
E due vere figure da simbolo parevano quando sui loro bruni corsieri entravano nell'arena avvinti in un plastico allacciamento. I cavalli, alteri del loro carco, incedevano con lenta violenza incurvando il collo e le zampe anteriori come archi tesi fino all'estremo. Il pugno possente di Ramàr tendeva colle briglie quegli archi pronti a scattare. A un tratto le briglie cadevano e i cavalli volavano scagliati nella rotazione della corsa, colle membra leggiere, distese, eleganti, furibonde, sfrenate, e incominciava il poema d'Ambra e Ramàr, poema più chimerico d'un sogno, pieno di emozioni terribili e vaghe. Io lo miravo dal di fuori dello steccato, confuso nella folla dei palafrenieri e dei clowns.
Quel poema principiava come una fuga e finiva come un trionfo.
Nei primi aggruppamenti lo zingaro e l'andalusa spiravano tanta ansietà d'orrore che parevano evasi dall'antro d'un drago. I nodi dello spavento avviticchiavano quei corpi e quelle anime. Lo zingaro guidava la fuga inginocchiato col ginocchio sinistro sul dorso del suo cavallo, premeva col piede la groppa dell'altro. L'andalusa si aggrappava al collo dell'ansimante Ramàr. I due puledri, lanciati a briglia sciolta, alternavano i loro valchi come due onde d'uragano; le loro brune criniere sferzavano il volto d'Ambra, più pallido di un'agonia, spume tenebrose; ed il plastico gruppo era ad un tempo equestre ed equoreo.
Io m'immaginavo, tanto il terrore tragico m'invadeva, di seguire coll'occhio non già una finzione mimica ricirculante intorno allo stesso cerchio, ma una vera fuga attraverso una distesa di terreni spaventosi. Ed erano deserti immensurabili percorsi in un baleno dai due fuggiaschi, o precipizi varcati miracolosamente, o boschi fantasmati dal raggio della luna, irti di mandragore e di serpi. Ma a poco a poco Ambra si ridestava alla vita, al sorriso, e già nei due vaghi erranti l'abbracciamento della paura mutavasi, per la sola trasfigurazione dei volti, in abbracciamento d'amore. Ed allora anche il fondo immaginario del quadro si trasformava, e vedevo una plenitudine di paesaggi aerei disciolti in un'iride immensa. Il rapido gruppo spiccava in nero or sulla zona d'oro, or sulla verde, or sulla rosea dell'iride, come un'ombra chinese del cielo, sfilante di plaga in plaga. E l'iride apriva lentamente il suo arco, simile ad un colossale ventaglio. Questa immagine dell'iride pigliava certamente le sue cause dalla forma circolare dell'anfiteatro e dalle sue conseguenze prospettiche e dalle magiche irradiazioni del tramonto, e dallo scintillare della sabbia scossa sotto le zampe dei corsieri, e dalla vertiginosa rapidità della corsa e dal fluttuar della folla che or allargava or ristringeva lo spazio davanti ai miei sguardi, ma più ancora dalla stessa equestre visione che nel suo volo e nel suo aspetto portava un non so che di meteorico.
Quando, verso il fine, la fuga diventava apoteosi, Ambra e Ramàr ad ogni giro mutavano aggruppamento. Le pose che essi, inebbriati, trovavano, non sono paragonabili a scultura terrena, e in verità mi pareva che un nuovo Zodiaco si svolgesse davanti ai miei occhi con istrana e sublime novità di segni. Ambra e Ramàr erano invasi da una vera ispirazione delle membra. Spesse volte Ambra gettava al collo del suo puledro un velo bianco ed alle sue estremità s'aggrappava, e tale in quel momento era il furor della corsa, che il leggerissimo corpo dell'andalusa rimaneva sospeso d'attimo in attimo, come uno di quei cervi volanti che i nostri avi trascinavano in battaglia per incantare i nemici. Le pose dell'andalusa e dello zingaro per effetto della rotazione incessante pendevano fuori di piombo e da ciò ne veniva un'impressione di slancio meravigliosa. Le zampe del corsiero di Ambra non battevano più la sabbia, ma attratte da una violentissima forza centrifuga, scalpitavano sul parapetto stesso dell'arena con un fragor di tempesta, mentre il corpo della fanciulla, tutto convergente verso il centro, disegnava una linea obliqua, inclinata sull'orizzonte, vaga ipotenusa.
Ad ogni giro, quando Ambra e Ramàr, avvinti nelle loro pose, passavano vicino a me, mi sentivo combattuto da due moti contrari, da un fascino e da un terrore; volevo torcere gli sguardi per non veder quei corpi e li figgevo con maggior forza in essi; e in quell'estrema vicinanza mi pareva che gli otto ferri dei cavalli scalpitanti battessero tutti sul petto mio; poi, quando s'allontanavano, respiravo più liberamente. Spesso m'univo ai clamori entusiasti del pubblico o anche li biasimavo, perché non ti nascondo che gli atteggiamenti dell'andalusa, pur idealissimi, facevano salire al mio volto di quando in quando il sangue del pudore ferito.
A giorni, cotanta interna confusione mi turbava che desideravo gettarmi sotto i corsieri accorrenti. Inorridivo con orror di fratello all'idea che le due belle creature cadessero; e altre volte (vedi contraddizione), come si coglie un malfattore all'agguato, coglievo il mio pensiero spiante l'attimo della caduta.
Un giorno caddero. L'urlo della folla fu tragico e tragico il silenzio che lo seguì. Io avevo presentito la catastrofe e l'aspettavo. Vedevo chiaramente che quei due si perdevano. L'abbraccio era troppo intenso e l'animo dell'uno e dell'altra troppo errante sulle pupille. Il circo, i cavalli, il pubblico, il mondo, la vita, la morte, tutto essi parevano obbliare pei loro voli. Uno dei cavalli, indovinando l'obblio, rallentò d'un attimo la ferocità della corsa e si staccò dall'altro. Sotto Ambra e Ramàr s'aperse una voragine: precipitarono annodati alle briglie in mezzo al furiar degli scalpitii. Quando poteronsi arrestare i cavalli, Ramàr tentò sollevarsi da terra, ma ricadde tosto tramortito; Ambra stette immobile e distesa come una morta.
La rappresentazione fu interrotta; si trasportarono i due svenuti all'ambulanza del circo. Parecchi medici accorsero dalle loggie del pubblico per soccorrere Ambra e Ramàr. Molti giovani ammiratori della bella andalusa affollavano l'ambulanza e chiedevano con elegante zelo il verdetto dei medici.
Dentro e fuor della sala era un favellio sommesso, un timido agitarsi di pedate: William Wood, pallido, s'affaccendava colle più cortesi supplicazioni a diradar la calca.
Mezz'ora dopo, accanto ai due letti rimanevo io con William Wood e con tre medici, compreso il medico di guardia.
Né Ambra, né Ramàr non avevano ricuperato i sensi. Il fiero urto cerebrale si manifestava in Ramàr colle forme del delirio, in Ambra, assai più gravemente, colle apparenze della catalessi. Ramàr sanguinava, Ambra no. Un rigagnolo rosseggiante scorreva dalla fronte dello zingaro, si stagnava un poco sulle sue labbra, poi discendeva sul petto, e quel corpo immobile d'un color di bronzo, stillante sangue, rendeva immagine di statua ferita. Col pugno destro lo zingaro serrava tenacemente l'amuleto d'oro che gli pendea dal collo fin dagli anni più teneri. La ferita salvava Ramàr alleggerendo col sangue scorrente la congestione del cerebro.
Sul corpo d'Ambra né contusione, né scalfitura: immacolato ma spento. La bella donna nel suo sereno aspetto pareva aver preferito entrar nella morte conservando intatta la bellezza sua, anziché sopportare la vita collo sfregio d'una cicatrice.
Mentre i medici deliberavano intorno al letto d'Ambra, io me ne stavo accanto all'amico, tutto chino a rassodare le bende, a tergere il sangue della sua fronte piagata, e appena il ghiaccio si liquefaceva sul bollente capo, m'affrettavo a ricollocarne dell'altro con quella attenta pazienza per cui vanno decantati i popoli della nostra razza.
Quando gli ripigliava il delirio, io mi mettevo in disparte; non volevo arrischiare di sorprendere qualche sua segreta idea nei vaneggiamenti suoi e volgevo gli occhi dalla parte d'Ambra.
Quasi nuda giaceva la tramortita fanciulla sotto le mani dei medici. La catalepsi aveva resistito ad una forte applicazione di corrente elettrica; gli strofinamenti coi lini caldi avevano valso a rianimare la circolazione del sangue, non a sgombrare la stupefazione cerebrale. Era urgente un più efficace soccorso. Vidi il medico di guardia avvicinarsi al braccio d'Ambra con una lama piccola e lucidissima. Quello stesso ribrezzo fisico che ci coglie alla vista di un'unghia che striscia su d'un pezzo di raso, mi fece torcere gli occhi per non vedere più avanti.
Ritornai pian piano alla destra del capezzale di Ramàr, lungo il muro. I medici dall'altro lato s'agitavano nella stretta che divideva i due letti e occultavano colle loro spalle, a me seduto, la fanciulla. La luce del giorno s'era tutta spenta. William Wood sollevava una lampada accesa sul letto d'Ambra. Io quietavo le mie pupille su Ramàr dormente. Nessuno più si curava dello zingaro. Il suo braccio sinistro, là dove era tatuato, trascolorava a seconda dell'allentare o dell'incrudelir della febbre come il marchio dei cavalli arabi di purissimo sangue. Se rinnovavo spesso le bende ghiacciate sulla fronte dell'amico mio, il suo sopore diventava più calmo, il tremito febbrile cessava e la cicatrice del braccio, in cui si leggeva il suo nome, illividiva. Se permettevo invece che la compressa si riscaldasse sul suo capo, il tatuaggio assumeva poco a poco una tinta pavonazza e il delirio ripigliava il suo corso. Io potevo dunque a mio capriccio temperare o sconvolgere quella organizzazione così squisitamente impressionabile. I miei pensieri si rivolgevano a Ramàr spinti da tenerezza verace.
—O buon Ramàr,—pensavo—, sarebbe stato assai meglio che quella fanciulla, non ti fosse apparsa mai, perché ora tu non saresti qui, tremebondo, col cranio spaccato. Yao solo sapeva stornare i pericoli dalla tua testa, il suo occhio vigilava su te, cauto ed acuto, la vertigine non ti coglieva guardandolo, e quando insieme al tuo vecchio amico ti dondolavi nell'aria, sospeso ai cordami del circo, eri più sicuro che in una culla.
I miei pensieri erano accompagnati da un picchio uniforme come d'una grossa goccia cadente, ad ogni minuto secondo, in una vasca metallica colla regolarità d'un oriolo ad acqua.
Già la mia mente incominciava ad essere distratta dalle cose esterne, quando udii queste frasi staccate proferite da diverse labbra:
—Tentativi inutili!
—Sostengo che il deliquio era vinto…
—Ora si tratta stagnare il dissanguamento.
—Avrei bisogno d'una mano paziente e ferma.
—La mia!—esclamai, sorgendo dallo scanno su cui stavo ed avvicinandomi al letto d'Ambra.
—Pigliatelo in parola,—disse William Wood ai medici, accennando alla mia persona.
Fu collocata una sedia fra il letto d'Ambra e quello di Ramàr; poscia uno di que' medici osservò attentamente l'epiderme delle mie palme, prese la mia mano sinistra e la collocò in modo che il grosso del metacarpo aderisse fortemente alla vena aperta del braccio d'Ambra, e m'invitò a sedere. Indi rivolto a' suoi colleghi, disse:
—Vedete? Portiamo spesso i migliori rimedii con noi. L'epiderme umana stagna assai meglio il sangue che qualunque altro più ricercato farmaco.
Poi pose un piccolo guanciale sotto il braccio d'Ambra acciò stesse sollevato. Mi raccomandò di star fermo colla mano e di non sollevarla dalla vena ferita prima di mezzanotte; soggiunse che la salvezza della fanciulla dipendeva dalla mia pazienza. Se all'indomani mattina Ambra avrebbe parlato, ogni pericolo cessava. Dovevo guardarmi dal sonno e dai movimenti repentini.
Pochi minuti dopo nella sala dell'ambulanza restavamo io, il medico di guardia e William Wood. Mezz'ora dopo William Wood si ritirò nelle sue stanze raccomandando l'andalusa al medico di guardia. Un'ora dopo anche quest'ultimo, sopraffatto dalla noia, escì dall'ambulanza dopo aver rinnovato il ghiaccio sulla fronte di Ramàr e dopo aver raccomandato a sua volta, sbadigliando, l'andalusa.
Suonavano le dieci ore dal campanile della cattedrale di Lima, quando in quella sala, dove due ore prima si accalcavano forse duecento persone, non restavo che io solo, fra Ambra e Ramàr.
Immobile al mio posto, subivo quel tedio delle membra che prova la sentinella notturna nella prim'ora di guardia. Incominciai a volgere gli occhi e la testa lentamente qua e là. Mi vidi circondato da una luce verde, direi quasi umida, da una luce come di fondo di mare che scoloriva l'aspetto delle cose e mutava i contorni secchi della realtà in torbide sfumature d' aquarium.
William Wood, prima d'escire, aveva collocato, per amor dei dormienti, l'unica lampada sull'unico tavolo della sala, dietro ad un largo recipiente di cristallo, colmo fino al collo d'una tintura d'assenzio. I raggi del lume filtrati da quell'ampio smeraldo producevano, divergendo, la misteriosa luce che mi circondava. Quel tavolo, distante molte braccia dai letti fra i quali io stavo, offriva al mio sguardo, falsato dall'anormalità della luce, fra i molti oggetti che lo ingombravano, un oggetto che era un persistente enigma da sciogliere. Lo vedevo come un'apparizione confusa, irta, violacea che terminava in una sfumatura tricuspidale; quella vista tormentava il mio pensiero e la mia pupilla; non arriva a scoprire che cosa fosse; il solo concetto che me ne formavo, era questo: lo spettro d'una fiamma. Accanto vi luccicavano parecchie fiale di medicinali. Io, che non potei mai sopportare senza angoscia il più frivolo dubbio, mi smaniavo di verificare la natura dell'oggetto incomprensibile che tanto aizzava i miei occhi pur acutissimi.
L'impossibilità dell'avvicinarmi al tavolo inaspriva la curiosità mia; la mia mano non doveva staccarsi dalla ferita d'Ambra neppure per un attimo, ma ad ogni minuto mi assaliva la tentazione di avvicinarmi a quell'oggetto. Pensavo che tre soli passi avanti mi avrebbero rivelata la natura di quella forma inesplicabile. La solitudine, il silenzio, l'immobilità, la noia alla quale era condannato, imbizzarrivano sempre più questa mia già inasprita curiosità. Mi provai di condurre lo sguardo sovra altri obbiettivi. Contro la sponda del tavolo stava appoggiata una frusta. Entro una vetrina appariva disposta in bell'ordine tutta una batteria di strumenti chirurgici. Sparse per terra giacevano le vesti d'Ambra e di Ramàr luccicanti d'oro e d'argento. Quel miscuglio d'attrezzi da teatro e da ospedale meravigliava lo sguardo e più ancora il pensiero. Un odore di farmacia graveolente, aromatico, giungeva fino alle mie nari; da una catasta di ghiaccio accumulata in un angolo veniva alle mie membra una frescura quasi montanina. Più che sospingevo lo sguardo e più vedevo annebbiarsi la glauca luce d'assenzio. Respiravo un'aria torbida, amara, che dai miei polmoni passava nella circolazione del mio sangue e invadeva il cervello. Pensavo anche idee torbide ed amare. L'oggetto inesplicabile, lo spettro della fiamma, attirava sempre la mia attenzione. Per sottrarmi da quell'incubo decisi di torcere coraggiosamente lo sguardo a sinistra, sul corpo della svenuta. Ramàr dormiva. L'animo mio si scagliò repentinamente in un nuovo corso di pensieri. La prima impressione che provai nel guardare Ambra, fu di ribrezzo. Credetti quasi di trovarmi accanto al cadavere d'un'annegata, nel fondo d'una laguna, io pure sommerso. Sentivo sotto la mia palma il braccio della ideale fanciulla freddo più dello ambiente che ci avvolgeva.
Ci sono dei pensieri che gridano, altri che mormorano. Io udii dentro di me, non so dove, mormorare queste parole: è proprio morta.
Il lenzuolo col quale l'avevano coperta, segnava su quel meraviglioso corpo delle pieghe funerarie, come quei drappeggiamenti marmorei che avvolgono le effigi delle imperatrici, distese sull'alto dei mausolei. La piega dei piedi pareva in ispecial modo lugúbre; poi, come il mio occhio saliva verso il bel grembo e verso il bel seno, i bianchi panneggiamenti ammorbidivano le loro curve e pareva rasserenarsi il sudario. La parte destra del petto rimaneva scoperta per causa del braccio nudo affidato alla mia pazienza.
—Ma se è morta—pensai—a che giova ch'io mi rimanga?—Pur non rimuovevo d'un atomo la mano dalla ferita.—Se è morta il pensiero continuava così—Yao e Ramàr torneranno fratelli. Se è viva sono io che l'avrò salvata.
Allora tutta la mia mente si destò per risolvere questo nuovo dubbio. Mi alzai oncia ad oncia dalla scranna avendo sempre riguardo di non distrarre la mia mano dall'ufficio impostole, e colla destra scopersi il seno sinistro della fanciulla; poi, lento come una sfera di quadrante, mi chinai fino a collocare un orecchio sul cuore di lei. Un olezzo d'olio di rosa lambì le mie narici. Le candide carni erano fredde e mute, sotto l'eburneo costato non vibrava la più languida pulsazione; pur continuai ad origliare adagiando le mie ginocchia per terra, ché la bassezza del letto me lo permetteva. Acuivo l'udito su quella soave epiderme coll'avidità d'una spia, invaso da non so quale devozione feroce.
Stetti così attento, prostrato, immobile per lungo spazio; ad un tratto sentii come uno scoppio di palpiti irruenti, convulsi; mi alzai in piedi precipitosamente, atterrito dall'idea d'Ambra viva e desta. Le pulsazioni continuavano a rimbombare nel mio cervello: non era il cuore della fanciulla che batteva, erano le mie arterie, le mie tempie agitate da tumulto febbrile. Udivo dietro a me Ramàr respirare tranquillo come uno che dorme. Allora l'idea d'ascoltare il respiro d'Ambra mi colse violenta. Tornai a inginocchiarmi e feci per avvicinare il mio volto al suo, ma fui tosto impedito da un inesprimibile sgomento. Mi arrestai lontano due palmi. La fredda fanciulla teneva gravosamente calate le palpebre, ma la sua bocca brillava socchiusa e tutta la pallidissima faccia splendeva. Non dubitai più che fosse morta e questa idea mi dié coraggio ad appressarmi al suo volto. Volli vedere un'ultima volta le divine pupille e sollevai col pollice e coll'indice le pesanti palpebre, ma non vidi che due occhi bianchi, da statua. Ritrassi la mano; le palpebre ricaddero. Allora mi invase una pietà profonda e fu tutta scossa l'irremovibilità del mio cuore.
Non volli più che quella bella creatura fosse morta, e come fanno i fanciulli sui leggiadri insetti agonizzanti, avvicinai la mia bocca alla faccia d'Ambra per ravvivarla col caldo alito mio. Le mie labbra caddero sulle sue, sentii l'avorio freddo de' suoi denti che mi fece tremare. Un gemito di Ramàr mi scosse; tornai a ricompormi sulla scranna.
Egli dormiva ancora. Scoccarono due ore da un campanile lontanissimo. Stetti lungo tempo immerso in una strana novità di pensieri. Verso le tre sentii sotto la mia palma sinistra una sensazione di leggiero tiepore: Ambra non era dunque morta! Le toccai il polso: viveva; il suo seno, benché quasi impercettibilmente, ondulava sollevato e abbassato da un principio di respiro. La catalepsi era vinta. Io avevo salvato Ambra, io avevo impedito che tutto il suo sangue uscisse dalle sue vene; mi pareva d'averle infuso parte della mia vita, del mio calore, e riconoscevo ciò dispettosamente, irato contro la mia stessa virtù. Non so perché, mi pareva d'averla salvata troppo presto.
La commovente passività del cadavere era svanita. Il volto solo portava ancora il peso del letargo, ma le stupende forme dell'andalusa assumevano già, sempre più vivificate, una fatale potenza che m'annichiliva. Pure, se il sangue ch'io frenavo non era ancora stagnato, quella vita stava sempre sotto la mia mano e poteva giuocarla e illanguidirla a mio talento e rianimarla poi. Questa idea mi fece battere vertiginosamente il cuore, per immenso orgoglio, per acre curiosità, per desiderio violento. Del resto la lunga immobilità de' muscoli aveva affrante le forze del mio braccio e della mano; provavo un estremo bisogno di mutar posizione. Se la vena era rimarginata, potevo liberarmi a mia voglia da quella catena. Sollevai un attimo la palma. Tosto una goccia di sangue rigò il braccio d'Ambra. Ricollocai immediatamente la mano sulla ferita, tutto sgomento. Bisognava tergere il braccio dalla macchia sanguigna prima che arrivassero i medici. Quel sangue era soavemente tiepido e più dolce del miele. Una goccia me n'era caduta sulla mano e l'avevo succhiata. Portai le mie arse labbra su tutta la striscia che maculava l'incantevole braccio dell'andalusa, e poco a poco giunto colla bocca presso alla viva fonte di quel voluttuoso sangue di donna, allontanai la mano, e mi posi a suggerlo a larghi fiotti come si sugge l'umore d'un preziosissimo frutto. A un tratto mi sentii ghermito spaventosamente pel collo e udii la voce di Ramàr ululare:—Vampiro!
Non feci un gesto per difendermi, benché sentissi la mia vena iugulare contorcersi sotto le dita di Ramàr; a un tratto la mano che mi strozzava si allentò e lo zingaro stramazzò per terra, fra i due letti, ai miei piedi. Io avevo già ricollocata la mia palma sulla ferita d'Ambra. Quell'assalto fulmineo mi ridonò la smarrita impassibilità del corpo e del pensiero. Così un meccanismo turbato è spesse volte rimesso a posto subitaneamente da un urto. Le violenze degli uomini produssero sempre questo effetto su di me: aumentarono la mia calma. Ramàr, disteso sul suolo, si dibatteva affannosamente sotto l'incubo del delirio. Egli subiva una grave reazione febbrile dacché l'ultimo pezzo di ghiaccio gli si era liquefatto sulla fronte. Ne' suoi vaneggiamenti ritornava sempre più angoscioso il nome d'Ambra. Io aiutarlo non potevo; nel tempo che mi sarebbe occorso per rifasciare la testa di Ramàr colle bende gelate e riadagiarlo sul letto, Ambra avrebbe potuto morire. La coscienza della mia missione tutta ridestata costringeva tenacemente la mia mano al braccio della bella andalusa, tiepido ancora; il rimorso del fallo che avevo commesso poco prima, dava di sproni al mio dovere ch'era di non muovermi, per necessità che fosse, dalla posizione in cui stavo. Se Ramàr abbandonato moriva, la colpa non era mia. Avvertivo sugli angoli della mia bocca ancora il dolce sapore del sangue d'Ambra, purissimo. L'idea ch'io tenevo un poco di quel sangue nelle mie viscere, m'inteneriva stranamente. Sentivo anche una fitta dolorosa nella parte destra del collo, dove le ugne dello zingaro avevano serrato; ed ero contento di portare i segni dell'ira di Ramàr; questo pensiero mi alleggeriva il cuore da un grave peso indistinto. Mi rammento d'aver mormorato allora cinque o sei volte, guardando l'amante d'Ambra disteso a terra, queste parole in chinese: " eulh weï eulh, ngo weï ngo "¹.
¹ Traduzione letterale: te per te, me per me.
Quando i primi bagliori dell'alba illuminarono l'ambulanza, giunse il medico di guardia ancora scarmigliato e cogli occhi imbambolati dal sonno. Vide Ramàr svenuto, così come l'ho descritto, e tornò ad escire in cerca di soccorso. Alcuni minuti dopo entrarono nella sala cinque attori della compagnia, il medico, un clown e William Wood. Poi che lo zingaro fu rimesso a giacere sul suo letto, tutti accorsero ad Ambra. Essa respirava dolcemente. Il medico mi ordinò di staccare pian piano la palma dal braccio dell'ammalata.
Il sangue non colava più. Allora il medico disse a William Wood:—Se parla è salva.
Io che non mi ero mosso ancora dal mio scanno, avvicinavo di tanto in tanto una boccetta di sali ammoniaci alle narici d'Ambra.
Tutti aspettavano ansiosamente una parola dalla bocca dell'andalusa, tutti pendevano da quelle labbra mute. Poco a poco Ambra aperse gli occhi, ma soltanto poi parve realmente destarsi; guardò intorno stupita; quando s'accorse di me che tenevo pazientemente il sale sotto l'alito suo, mi guardò fiso in volto e mi disse con accento languido e gentile:—Grazie, buona donna.
Uno scroscio di risa plebeo assordò la mia testa; un fiume di sangue affluì al mio cuore. Mi guardai in uno specchio che mi stava di fronte, e ringraziai col pensiero la divinità che mi fece nascere nel paese degli uomini pallidi.
Qui una spiegazione mi pare necessaria; poi ripiglierò il mio racconto sommariamente fino a tanto che un altro fatto grave m'obbligherà d'arrestarmi. Ambra non mi aveva mai parlato, né, forse, visto prima di quella mattina in cui disse quelle malaugurate parole. Essa trionfava in una gloria così diversa dalla mia, che mai non s'avvide di me, né de' miei campanelli di legno di sandalo. Che il suo sguardo di donna europea non avesse ravvisato sul mio volto l'aspetto di virilità, non me ne meravigliai io stesso, e ciò aumentava l'onta mia, giacché sul mio mento neppur l'ombra della lanuggine rivelava l'uomo, e le mie vesti chinesi e la mia treccia, che in quel giorno portavo attortigliata sul capo, potevano essere scambiate, da un occhio non avvezzo ai nostri costumi, per acconciamenti muliebri.
Quindici giorni dopo il dì della catastrofe, ch'ebbe per me conseguenze così bizzarre, lo zingaro e l'andalusa volteggiavano nel circo già gagliardi e lieti, fra le acclamazioni del pubblico.
Intanto tramavasi una beffarda congiura da' miei colleghi contro di me; l'equivoco d'Ambra, tosto noto a tutta la compagnia, dava diritto all'infimo staffiere di sogghignarmi in faccia. Tutti si dettero parola di non palesare l'inganno all'andalusa, a fine di prolungare più che fosse possibile la celia e le risate. Nessuno mi chiamava più Mister Yao o Señor Yao come per lo innanzi, ma invece Miss Yao o Señorita Yao, e Ramàr si rallegrava di questa burla più d'ogni altro e cercava assiduamente l'occasione di rinnovarla. Quando Ambra mi rivolgeva il discorso, tutti trattenevano il fiato per poter squittire più fragorosamente dopo la parlata. Io intanto rimuginavo nella memoria il capitolo VII del Lun-yu, là dove Tseng-sse, l'amico di Kon-fu-tseu, dice queste savie parole:—Lasciati offendere senza mostrare risentimento,—e stavo ligio alla antica sentenza: non mostravo risentimento, ma nel profondo del pensiero contavo le offese, una ad una, e tenevo interna, indelebile nota.
La mia imperturbalità eccitava i derisori fino all'accanimento; quando lo scherno si mutava in rabbia, io trionfavo entro me; m'accontentavo intanto di questa pigra vendetta. Io, rettificare l'abbaglio ad Ambra, sdegnavo; il mio decoro non mi permetteva una così bizzarra rettificazione. La dignità mia non trovava altro modo d'atteggiarsi fuorché questo: dare a pensare cioè, ch'io credessi l'andalusa conscia e partecipe dello scherzo e che non me ne curassi. Brutto destino, amico mio, è quello di vivere in mezzo a gente di razza diversa dalla propria; l'amarezza di questo destino m'era stata un tempo raddolcita dalla fratellanza di Ramàr; ora egli stesso m'abbandonava.
La nostra amicizia aveva subíto come una specie d'attossicamento; evitavamo di incontrarci colle pupille.
Io lo studiavo di soppiatto. Volevo arrivare a scoprire se gli era rimasta nella memoria qualche reminiscenza di quella notte ch'egli m'aveva chiamato vampiro. Quella parola era stata pronunciata da esso in un attimo così violento, fra un assalto di delirio e una crisi di febbre; se anche egli se la rammentava, doveva, pensavo, confonderla cogli altri vaneggiamenti. In queste induzioni mi tranquillavo un poco, ma in una pace breve e non soddisfatta. Un punto nero stava fra me e lo zingaro tutte le volte che ci trovavamo di fronte: un punto nero, fatale, incancellabile, come quello che turba la vista d'una retina malata. Ed anche Ramàr vedeva quel punto; me ne accorsi poi tutte le volte che eseguimmo insieme nel circo il giuoco delle freccie, di cui ti narrai nelle pagine già scritte.
William Wood volle un giorno che quell'esercizio, da molti mesi trascurato, ritornasse nel repertorio degli spettacoli. Ubbidimmo. Ambra fu atterrita un poco a quest'annunzio; essa non si capacitava che una donna sapesse trar d'arco. Un clown la rassicurò con tal celia ch'essa ne rise e la paura scomparve. Il pubblico rivedeva con emozione intensa il nostro giuoco. Io ridiscendevo nell'arena a fianco di Ramàr come nei sereni giorni della nostra gloria comune.
Ramàr si piantava fermo, diritto, davanti alla mia mira, con aspetto più temerario, forse, di una volta; io però vedevo, sotto la finissima seta che lo copriva, battere il suo cuore. Il punto nero stava allora in mezzo a noi.
Pur le nostre pupille dovevano incontrarsi per forza. L'antica intuizione dei nostri sguardi era smarrita. Un'altra intuizione, tutta morale, le era subentrata. Quando le freccie dovevano correre lungo il costato, io mi trattenevo dolorosamente dal mirare il cuore palpitante di Ramàr; l'abitudine del polso e dell'occhio vinceva il traviamento della volontà, e la freccia, malgrado mio, si conficcava esatta rasente il contorno. Per tutto il tempo che durava il giuoco io e Ramàr ci leggevamo biecamente nell'anima; a giuoco finito il cupo incanto svaniva e riappariva il dubbio. Il pubblico applaudiva, ma lo zingaro aveva da me solo l'ammirazione che meritava, giacché io solo potevo essere allora il vero giudice del suo coraggio.
Fu appunto in quell'epoca che io, sempre deriso, per distrarmi dall'astio e per rifugiarmi in un affetto qualunque che mi fosse accessibile, mi diedi all'ammaestramento dei cani.
In quel nuovo stato della vita mia avventurosa imparai a conoscere cinque buoni amici, i più umani, i più nobili di quanti ne avevo sperimentato fin allora. Li trovai nelle stalle del circo dove miseramente vivevano, e li portai nella mia cameretta e attesi alla loro educazione.
Questi miei ottimi amici erano due cani barboni, un bassetto, un bracco e un stupendo bull—dog d'un anno, mio prediletto fra tutti. Quando nel tempo della mia senilità mi dedicai all'ammaestramento degli uomini, non riscontrai fra i miei simili tanto intelletto d'amore e di ragione quanto ne avevo ammirato in quelle umili bestie. Io insegnavo a ciascuno di quei cani certe meravigliose facezie da far ridere il volgo e ciascuno d'essi insegnava mutuamente e in vario stile a me le virtù d'umanità, che gli uomini m'avevano nascosto. Imposi ad essi dei nomi cinesi.
Uno dei due barboni, il più ilare, il più bianco, lo chiamavo Ani-kaine (buon augurio). Scing-tscie (perfetto) era il nome dell'altro. Chiamava il can bassetto Buddha, perché realmente quando stava in riposo assomigliava all'idolo del nume per la pingue serenità del suo volto. Ta-fu (mandarino) era il can bracco. Al giovane bull-dog avevo imposto il nome uomo ( Gin ). E così vivevo nel consorzio de' miei amici amandoli e conversando con essi nella mia lingua materna, e da essi riamato. Gin, forse perché più giovane degli altri e più violento negli istinti suoi, per la fierezza della razza, mi si affezionò appassionatamente e in breve tempo. Egli aggiungeva pregio all'affetto perseguitando i miei colleghi coll'odio suo. Io esercitavo questo generoso animale nelle doti mirabili del corpo più che nella memoria: Gin saltava una barriera di sei metri d'altezza. Il mio affetto per questo cane era così coscienzioso che non volli mai umiliare l'indole sua caratteristica coll'applicarlo alle buffonesche celie che si impongono agli altri cani così detti sapienti; e di questo delicato rispetto Gin pareva riconoscente. Io stesso scopersi che fra il mio ed il suo volto correva una rassomiglianza bizzarra, proveniente dal naso schiacciato e dalla esiguità del labbro superiore, che lasciava due denti scoperti sul davanti delle nostre bocche. La prominenza dell'osso frontale dava al cranio di Gin ed al mio la stessa espressione grave e meditabonda.
Una affinità singolarissima, della quale m'onoravo, mi legava al giovane molosso. Gin odiava i miei nemici forse più che io stesso non li odiassi, e da essi era egli pure ferocemente odiato; pur non osavano offenderlo né offender me in presenza sua, perché un giorno ad un clown, che in pieno circo mi gettò per brutta celia una corda al collo, s'avventò il bull-dog alla gola, e la mia autorità bastò appena a salvare il beffardo.
A questi cinque cani dimenticai di aggiungere un sesto e dimenticai perché poco o nulla lo amavo, tanto mi pareva inintelligente e pigro. Era un catellino chinese di lungo pelo, obeso nelle sue movenze e tutto tenerello nelle sue membra, uno di quei piccoli cagnuoli che nei nostri paesi si mangiano dagli uomini e son tenuti per giottornia perfetta quando sieno bene scuoiati e molto accuratamente purgate le loro interiora e cotti in quattro cucchiaiate d'olio d'oliva e in due di miele, insieme a pistacchi e cipolle. Di questo minuscolo cane ch'era venuto cogli altri, io non ne facevo nulla; pur me lo tenevo perché sapevo che ad Ambra piaceva ed aspettavo l'opportunità d'offrirglielo e farmene così un vanto.
Un giorno William Wood venne al mio canile e mi disse:
—Yao, ho destinato per te (quel " te " patronale plebeo, basso quanto il nostro " ju ", squarciava le mie orecchie), per te e le tue bestie una camera assai più vasta di questa.
Lo stesso dì Yao, Gin, Buddha, Ani-kaine, Ta-fu e Scing-tscie e il cagnetto chinese mutarono quartiere. Quel nostro nuovo ricovero era un ampio locale attiguo alla camera d'Ambra (non ti dissi che tutti noi dimoravamo nel circo?); la porta dell'andalusa e la mia riescivano sullo stesso andito, il quale non dava uscita a nessun'altra stanza. Quando fui lì co' miei cani, William Wood, che ci aveva seguiti, disse, additando a destra:
—Qui dimora la bella andalusa; so che molti calabroni vorrebbero ronzarle d'attorno; scopersi alcuni biglietti ne' mazzi di fiori che le vennero presentati iersera dai damerini delle loggie. Che ciò sia, è naturale, e fin che i tentatori ronzano e non pungono, fanno assai bene e li lodo; aumentano così il rumor della fama intorno ad Ambra; ma se uno solo d'essi arrivasse a pungere, il mio danno sarebbe irreparabile. Una danzatrice che pel pubblico è casta, frutta l'ottanta per certo, e assai meno se non lo è. So che Ambra ama Ramàr e ciò mi piace e mi rassicura un poco. Pure sarò più tranquillo ora che tu, saggio ed accorto, dimorerai qui co' tuoi cani. Bada di far buona guardia. Ambra non indovinerà lo scopo pel quale ti ho collocato così vicino ad essa.
—Farò buona guardia,—risposi. Wood escì confortato. Allora io chiamai:—Gin!—e tosto il bull-dog si slanciò contro le mie ginocchia.—A noi due,—gli dissi, e Gin dimenava la coda così gaiamente come quando leggeva ne' miei occhi qualche lieto pensiero.
Ramàr, allorché seppe la mia nuova dimora (Wood stesso gliela indicò e gliene confidò lo scopo ed io ero presente), s'oscurò in fronte; poi disse assai turbato:—Non può essere!—Ma Wood riprese tosto:—E perché non può essere? guardiano migliore del nostro chinese non troveresti in tutta Lima. Ambra sarà rallegrata dalla vicinanza di miss Yao. Sai che essa ride sempre guardandolo in viso. Aggiungi ch'egli è devoto ad Ambra e che le salvò la vita con un miracolo di pazienza.
—È vero, è vero,—rispose lo zingaro, e rise come ad una sua ubbia segreta e stolta e mi stese la mano.
Wood continuò:—e anche i suoi cani sono utili. Le macchinazioni dei nostri signori di Lima potrebbero esserci fatali. Quando sarete sposi (Ramàr stringeva sempre la mia mano) il custode d'Ambra sarai tu (e Wood sorrideva) e saprai custodirla meglio che una intiera muta di segugi e cento chinesi; ma la moralità del nostro circo impedisce che tu ora viva troppo d'accanto alla fidanzata.
Scorsero due placide settimane, senza avvenimenti nuovi. Ambra mi credeva sempre una donna, ed a me conveniva il lasciarglielo credere per non isgomentarla d'un tratto e per non perdere nulla della sua lieta famigliarità. La assistevo spesso quando s'acconciava per comparire nel circo; stavo allora in mezzo alle sue serventi, né queste si meravigliavano della mia presenza e, ben lungi dallo scandolezzarsi, sorridevano come d'un fatto di nessun conto. Io divoravo silenziosamente la mia vergogna e colla vergogna un'acre gioia segreta.
Spesso quando Ambra esciva dal bagno, io, chiamato da essa, accorrevo. La trovavo seduta sulla sponda della vasca, avviluppata in una tunica scarlatta di finissima lana. Nella camera vaporavano ancora i caldi fumi dell'acqua. Il sole del meriggio filtrava attraverso le tende di seta gialla e illuminava un pezzo di sapone opalino che appena estratto dal lavacro scivolava da sé, lentamente, sui gradini di marmo del bagno, come una cosa viva. Io, senza dir parola, poiché già sapevo a quale ufficio ero chiamato, cercavo sotto allo specchio una lima d'argento e una piccola cesoia e un pezzo di pomice e una fiala d'olio odorifero; poi m'inginocchiavo davanti la bella andalusa e pigliavo nelle mie mani i suoi piedini nudi e in un soffice lino li asciugavo ben bene, con quella cura con la quale un intagliatore d'avorio terge i suoi ninnoli preziosi. Indi collocavo sul mio naso un paio d'occhiali da presbite che serbavo esclusivamente per l'opera a cui stavo per accingermi, acciocché la mia vista, meravigliosamente acuta per discernere da lungi, ma sulle minute vicinanze un po' fiacca, non avesse a tradirmi. Essa allora rideva d'un ridere represso da bimba e mi sporgeva il suo piede più asciutto, sul quale io incominciavo il mio lavoro di cesello e d'intaglio, che nessun testimonio profano turbava. Ho ancora impresse nella memoria una ad una le unghiette di quei piedi incantevoli. Nell'ovale di ciascuna d'esse io ravvisavo una certa vaga espressione di volto; la più leggiadra era quella del quarto dito del piede sinistro; i pollici robusti brillavano come un fulgido quarzo; su' due mignoli apparivano due unghiettine, vaghe cornee dilicate così che era un intenerimento a vederle, benché avessero un poco la curva di due artiglieri nascenti. Io limavo, levigavo, tornivo, arrotondavo quelle opale, quelle madreperle con tocco leggiero e devoto. Ambra di nessun altro si fidava fuorché di me in quella operazione paziente, e ciò venne da un giorno che mi vide, per mio sollazzo, scolpire sull'avorio alla maniera dei nostri diligenti artefici. Io di questa fiducia sua me ne stavo orgoglioso. Il mio fido Gin m'accompagnava quasi sempre. Mentre io lavoravo essa accarezzava il cagnetto chinese che io le avevo donato e che teneva assai caro, accoccolato nei tiepidi lini del bel grembo. Sotto la sua tunica scarlatta Ambra non aveva altre vesti, e a volte, mentre le mie mani erravano da un all'altro dei sottili ordegni coi quali abbellivo i piedi dell'andalusa, il mio sguardo si smarriva un po' più alto degli alabastrini malleoli, nella rosea penombra delle carni colorate dalla intonazione calda delle pieghe vagamente succinte.
Il mio cuore batteva allora violento, gaio come un applauso interno, e lo era, perché io trionfavo segretamente di coloro che credevano beffarmi.
Quando, compiuto il lavoro, mi sollevavo da terra e mi rimettevo sui calcagni (io che pur sapevo resistere per molti minuti penzolante col capo in giù dall'alto d'un trapezio, senza temer vertigini), sentivo in quel momento alla tempia ed al petto un subbuglio di sangue così impetuoso che mi faceva traballare.
Un giorno che m'ero appena quetato da questo turbinio delle arterie e m'avviavo alla porta della camera per escire (Gin mi seguiva passo passo), incontrai Ramàr sulla soglia, che entrava. Io evitai, non so perché, di fissarlo nel volto. Ad un tratto il mio bull-dog ruggendo gli si avventò al petto come una fiera; un mio comando bastò a salvare Ramàr, che con un bel sorriso sulle labbra corse a tranquillare Ambra sgomenta. Io percossi il cane, che mi guardò con uno sguardo di disapprovazione sommessa, e li lasciammo soli. Mentre m'allontanavo udii Ramàr mormorare ad Ambra quel proverbio spagnuolo che dice: tal padrone tal cane, e ciò mi dispiacque e biasimai nel mio interno l'amico d'aver mormorato alla sua bella una malignità a mio riguardo che sentivo di non meritare. Gin mugolava ai miei piedi dimenando la testa come un muto che cerca ansiosamente la parola. Il bull-dog prima d'allora non s'era mai mostrato ostile allo zingaro e tanta repentina ira non poteva spiegarsi senza una causa. L'istinto meraviglioso del cane aveva visto qualche indubbio segno di malevolenza verso di me nello sguardo dello zingaro. Promisi a me stesso di studiare l'occhio di Ramàr e di trar vantaggio dall'avvertimento della povera bestia, poiché il filosofo dice:—Se ascoltate attentamente le parole d'un uomo e se scrutate le pupille de' suoi occhi, come mai potrebb'egli celarsi a voi?
Da quel giorno Ramàr non poté più penetrar nella camera d'Ambra senza rischio per via della guardia del cane e de' suoi latrati che attiravano gente con grande ira dello zingaro e soddisfazione di William Wood.
Avvenne poco tempo dopo ch'io, nell'escir dalla mia camera più tardi del consueto e nell'avviarmi col bull-dog ai trapezi per le esercitazioni del mattino, m'imbattei in un gruppo di dieci o dodici compagni, fra i quali scorsi Ramàr. Ridevano tutti sguaiatamente; ma quando mi videro da lungi, si ricomposero e parvero proseguire una animatissima conversazione in cui ripetevasi spesso la parola "scommessa". Come fui loro d'accosto, Ramàr con piglio allegrissimo mi disse:
— Señora Yao, capiti appuntino. C'è qui Flibbertigibbet (e accennò il clown inglese) che non istima abbastanza il tuo cane.
—Salta lungo, ma non salta alto,—aggiunse strillando il clown.
—Flibbertigibbet scommette che a tre metri d'altezza Gin non coglierebbe un pezzo di lardo,—soggiunse Ramàr.
—Distinguo. Non ho detto un pezzo di lardo,—replicò il clown;—ho detto un pezzo di pane.
Questo "distinguo" sottile fece ridere la comitiva, e lo zingaro ripigliò:
—Vada pel pezzo di pane! Io scommetto un dollaro che Gin a tre metri d'altezza lo coglie, se è Yao stesso che glielo porge.
—Non ne dubito,—dissi io.
— All right! Dollaro per dollaro, acconsento alla scommessa. Dov'è il pane?—gridò il clown.
—L'ho qui io,—-rispose Ramàr, estraendo una mollica informe dalla sua tasca. Io presi il pane, salii su d'un tavolato. Flibbertigibbet in quattro salti corse a provvedersi d'un metro, misurò lo spazio stabilito dalla terra alla mia mano. Tutti mi stavano d'attorno con certe faccie stranamente immobilizzate in un bizzarro sorriso. Io gridai:—Gin, hop!—e il buon dog spiccò un salto e colse il pane mirabilmente bene e lo ingoiò tutto lieto come per ricompensa a se stesso della fatica fatta.
All'indomani mattina, quand'io mi destai, trovai il mio povero Gin morto; una gomma verdastra gli esciva dalle nari. Allora mi sovvenne di non aver visto Flibbertigibbet pagare il prezzo della scommessa a Ramàr, e mi ricordai dello sghignazzo infernale che scoppiò nella comitiva quando Gin inghiottò il pezzo di pane. Infamia! m'avevano avvelenato il mio dog, e Ramàr aveva posto nelle mie stesse mani il veleno. Quando riconobbi ciò, lo sdegno mio fu così violento che in sulle prime soffocò il dolore. Poi piansi amaramente. L'alba spuntava appena; tutti dormivano. Raccolsi il cadavere del mio povero Gin e scesi nell'arena. Là, sotto al mio trapezio, scavai una fossa e seppellii la povera bestia; poscia rassettai diligentemente la sabbia dorata sulla sepoltura e ripensai le parole di Confucio: "Se un uomo ti offende gravemente una volta, non mostrare risentimento; ricordati l'offesa, ma non correre ancora alla vendetta". Mi prostrai sulla fossa del cane e presi in mano la mia lunga treccia e feci un groppo alla sua estremità; poi dissi a me stesso:—Ramàr mi ha offeso una volta.—E rientrai nella mia cella.
E mi diedi ad assaporare irosamente l'amarezza dei miei pensieri. Dissi a me stesso che in terra non mi restava più nessun affetto. Senza madre (un presentimento incessante mi susurrava nel cuore che dovevo esser orfano), senza amici, senza amore, straniero, deriso, avevo collocato in quel povero bull-dog tutta la tenerezza di cui mi sentivo capace. Egli divideva le mie fatiche e i miei rancori; non ero uno straniero per quella povera bestia; quando quell'onesto cane mi guardava dilatando le labbra del suo grugno sagace e mostrando gli acutissimi denti come una persona che ride, non mi guardava coll'occhio sospettoso di Ramàr, non rideva col riso beffardo dei clowns. Povero Gin, era morto! me l'avevano ucciso! Mentre il mio dolore muto m'abbruciava l'interno petto come un fuoco rinchiuso, udii graffiare sul basso dell'uscio; lo apersi e mi trovai fra i piedi il cagnoletto chinese prediletto dell'andalusa. Lo sollevai da terra pigliandolo per la pelle del collo, afferrai un coltello e lo scannai. Lo scuoiai poscia, e purgate ch'ebbi le sue interiora, accesi un fornello e posi a cuocere l'animaluccio pingue in una certa mia pentola, con un po' di mele e di cipolle, commestibili questi che tenevo sempre ne' miei ripostigli.
In un paio d'ore il manicaretto fu all'ordine; lo trinciai accuratamente e mi accinsi a mangiarlo. Intanto udivo dal di fuori Ambra che correva di qua e di là e chiamava ad alta voce:— Niño! Niño! —ch'era il nome da essa imposto alla bestiuola. Io rosicchiavo gli ossicini di Niño coi miei denti robusti, quando si aperse l'uscio ed entrarono Ambra, Ramàr e Flibbertigibbet.
Ramàr mi chiese:—Ov'è Niño?
Io, compiendo tranquillamente il gesto voluto dalle mie parole, risposi:—È qui, e se posso offrirvene una costola…
Ambra svenne. Ramàr la soccorse indirizzandomi parole di furore. Io replicai, continuando a rosicchiare i garetti di Niño, che il cagnuolo era mio e che potevo farne il mio pro' quando volevo. Non feci la minima allusione all'avvelenamento di Gin. Ramàr trasportò Ambra nella camera attigua.
Flibbertigibbet, che si smascellava dalle risa, corse a raccontare a tutta la compagnia il caso di Niño che gli pareva stranissimo. M'avvidi troppo tardi che avevo commesso un errore. La vita di scherno nella quale m'illividivo da tanto tempo s'aggravò dopo quel fatto. I miei colleghi mi chiamarono d'allora in poi il mangia-cani, soprannome che in China non sarebbe parso per nulla vergognoso, ma che pareva ridicolosissimo a quella gente plebea.
La storiella varcò le mura del circo, passò nelle gazzette e macchiò la mia rinomanza.
Quando entravo nel circo, ai dì delle rappresentazioni, le damine galanti, nascondevano per celia i loro catellini avanesi, fingendo di temere che li dovessi divorare belli e crudi, e ridevano.
Ho avuto sempre cura d'analizzare i moventi delle risoluzioni repentine della mia vita, le quali furono per buona sorte poche. Così, perché tu mi assolva un poco dal mio errore, voglio aiutarti a scoprire le cause che mi spinsero all'uccisione del cagnuolo dilettissimo ad Ambra. Le cause minori furono l'istinto di rabbia contro l'amante dell'andalusa che m'aveva attossicato il povero bull-dog; l'antipatia invincibile che nutrivo contro quell'obeso Niño; un brutale bisogno di distruggere una creatura viva per vendicare il mio Gin e me stesso. Ma il movente maggiore di quel fatto di sangue, di miele e di cipolle, mi venne da un lungamente maturato bisogno di ghiottoneria, di cui era forse inconscio io stesso nel momento della catastrofe. Il Niño d'Ambra era l'ideale delle mie merende e delle mie cene. La vendetta fu il pretesto della gola. E quella fu la terza e, fino ad oggi, ultima volta che la mia innata ghiottoneria m'aveva tratto ai cattivi passi.
Un'altra volta questo malo istinto mi valse quella tale staffilata che mi diede il gin-mù quando nella stiva del vascello andai alla cerca delle cose dolci promessemi dalla madre. E quando dieci anni dopo succhiai il dolcissimo sangue della voluttuosa vena dell'andalusa, fu la seconda volta. Ma tu sorridi, savio Meng-pen, col sorriso di chi nota un errore nella dimostrazione di un teorema, e i tuoi occhi mesti non concordano coll'espressione della tua bocca. Ma lasciami proseguire il racconto.
Una sera, dopo gli spettacoli, stanco di servire da bersaglio alle beffe dei clowns e alle risate del pubblico (Flibbertigibbet aveva attaccato quella sera un pezzo di lardo all'estremità della mia coda, senza che me ne fossi avvisto, per modo che tutti i cani e tutti i gatti del circo mi stavano alle calcagna con grande tripudio della plebe), irritato, eppur con passo paziente, mi diressi verso la camera del direttore. Trovai William Wood intento a numerare dollari e banconote.
—Che c'è di nuovo?—mi disse come appena mi vide.
Io risposi con voce umile, ma franca:—Domando la mia licenza, voglio partirmene dal circo.
Uno scroscio di risa riempì così fattamente le fauci di William Wood che queste parole smozzicate s'udirono appena:
—E perché, miss Yao?
—Parto perché sono un ginnasta e non un buffone, sclamai risolutamente.
—Sta bene, sta bene, sta bene—ripeté cantarellando l'americano; m'accorgo che hai bisogno di leggere certa scrittura.
E mi porse una vecchia carta, un contratto. Discesi cogli occhi alla firma e lessi un nome a me ignoto: Tom Tompson. Poi nel mezzo di una linea scorsi il mio nome, "Yao", e nella stessa linea queste due parole: "tremila dollari", e più sotto, alla distanza di tre righe: "venduto, colle vesti che indossa e con una preziosa edizione di Confucio, a William Wood direttore del Circo di Lima". Altro non lessi. Mi appoggiai ad una parete e rividi in un baleno della memoria l'orrendo stivaggio del vascello del pastore d'uomini. Tom Tompson, il gin-mù, aveva ingannato mia madre. William Wood sorrideva. Ero uno schiavo!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
RIVISTE DRAMMATICHE
I.
Marianna, dramma in tre atti di __Paolo Ferrari__. La famille Benoîton, commedia in cinque atti di __Victorien Sardou__. Piccolino, commedia in tre atti di __Victorien Sardou__. Le lion amoureux, commedia in cinque atti di __Ponsard__.
Volendo comparare le condizioni del teatro francese alle condizioni del teatro italiano, il parium comparatio di Cicerone non sarebbe veramente da citarsi, giacché le disparità del paragone non potrebbero essere maggiori, essendovi da un lato tutte le fortune, dall'altro lato tutte le sciagure.
Parigi, centro di civiltà, punto focale di tutti gli avvenimenti dell'epoca, vertice del progresso, pare quasi da se stesso un immenso palco scenico, sovra il quale s'aggiri continuamente un portentoso dramma. Ivi la società con tutte le sue corruzioni, con tutti i suoi splendori, colle virtù eroiche, coi vizi brutali, colle manie ridicole, colle passioni tremende. In ogni parte di Parigi, ove il drammaturgo s'imbatta, egli trova argomento d'arte.
Nel faubourg Saint-Antoine, Dumas père trova il dramma romantico; nel faubourg Saint-Germain, Augier trova la gran commedia di carattere; nel quartier Breda, Dumas fils trova il dramma realista; nel quartier Latin, Labiche trova il vaudeville; alla Bourse Ponsard trova la commedia sociale.
Questa immensa città è pei drammaturghi ciò che certi meravigliosi paesi sono per i pittori; il vero v'è così estetico e compiuto che par quasi arte. Infatti, ammesso che il vero dei pittori sia la natura, ne viene che il vero dei commediografi è la società; in questo senso Parigi è la Fiandra degli autori drammatici.
Tutti i greci nascono commedianti, diceva Giovenale; si può soggiungere: "tutti i fiamminghi nascono pittori, e tutti i parigini nascono commediografi".
Basta gettare uno sguardo sulla tumultuosa città per trovar ciò naturale. A Parigi ciò che noi chiamiamo il "caso", l'"avvenimento", appare tutti i giorni davanti agli occhi d'ognuno. L'Oceano produce ogni giorno il Maëlstrom, Parigi produce ogni giorno la "catastrofe".
Se si dovesse dar casa al caso, o reggia, o tempio, egli sarebbe certo Parigi.
Ivi l'oscura presenza di questo ente sbuca fuori ad ogni ora, ad ogni svolto di cantonata, ad ogni crocicchio di vie, urta nel gomito di chi va per le contrade, sorride in viso di chi passeggia ne' parchi, bussa alla porta di chi si è rinchiuso in camera, ferma le ruote di chi corre in carrozza.
Questa quotidiana dimesticità col caso educa il parigino alla vita molto più fortemente che ogni altro; la sua fibra s'affina a forza di toccare all'impreveduto; egli passa franco ed ammaestrato attraverso il gran turbine sociale.
Da ciò deriva la maggiore abbondanza e originalità di caratteri a Parigi che altrove, da ciò deriva la continua presenza in quella città di ciò che in commedia si chiama l' intrigo.
Lo scrittor da teatro vive per conseguenza a Parigi sempre circondato dagli elementi dell'arte sua.
Finalmente Parigi offre alla commedia tutto il suo discorso completo, naturale, facile, brillante: il suo idioma da cinque secoli unificato. Prima ancora che si tingesse d'inchiostro la penna di Rabelais, il poeta francese aveva un mirabile vocabolario davanti che gli si sfogliava per via ad ogni parola di semplice passeggiatore. Prima che in Italia si avesse la coscienza e la conoscenza d'una possibile lingua nazionale, prima che l'Alighieri trovasse la sua grande utopia del volgare cortigiano o cardinale, un grand'uomo, il Diderot de' suoi tempi, Brunetto Latini scriveva sapienti cose in francese e diceva di questa lingua: la parliure française est plus délitable et plus commune à toutes gens; egli trovò fin da quel tempo che la ondulante parlatura francese, così blanda e indefinita, era più vicina all'idea impalpabile che la inesorata precisione latina e la troppo sonora loquela dei popoli d'Italia.
Da ciò ne viene che il commediografo francese ha davanti a sé tutte le manifestazioni del suo vero, cioè soggetto, intrigo e dialogo.
In Italia nulla di tutto ciò: il vero dei commediografi nostrali non esiste che in minime proporzioni. La società, poca e sparpagliata e confusa, non porge loro soggetti, la vita abitudinaria e tranquilla non insegna l' intrigo, l'assenza totale d'un idioma comune annichilisce il dialogo.
Gli autori drammatici d'Italia possono paragonarsi alla malaugurata classe dei pittori di maniera: lavorano sull'arte degli altri; da ciò la convenzione, l'affettazione, la mediocrità inevitabile.
Ma l'ideale è provvido ed astuto: quando trova impedimento da un lato, vola dall'altro.
Se all'autore drammatico italiano è interdetto il gran teatro moderno, gli rimangono però ancora tre altre ramificazioni dell'arte: la commedia psicologica, la commedia storica, la commedia in dialetto. La tesi che egli non trova nella sua società, gliela darà l'anima sua; l'intrigo che non gli è suggerito dai fatti che lo attorniano, lo troverà nella storia; il dialogo che gli è negato dalla lingua convenzionale, lo troverà nel dialetto materno.
Allora questo scrittore potrà chiamarsi Goldoni.
Paolo Ferrari sentì fin dai suoi primi esperimenti nell'arte i fatti che abbiamo tentato di esporre e mostrò di capirli profondamente.
Sentì la possibilità d'una commedia storica italiana e scrisse il Goldoni, il Parini, il Dante; sentì la possibilità d'una commedia psicologica e scrisse la Prosa e scrisse La donna e lo scettico; riconobbe la superiorità drammatica del dialetto sulla lingua e scrisse le sue Scene popolari in dialetto modenese, e quando fu costretto ad abbandonare il dialetto parlato per la lingua non parlata, palliò quasi sempre l'infermità del dialogo italiano colla maschera brillante del verso.
Bastano questi soli dati, anche transigendo dai meriti eminenti dei citati lavori, per riconoscere nel Ferrari un vasto intelletto di pensatore, di scrittore e d'artista.
L'ultimo lavoro di Paolo Ferrari deroga molto da questi dritti principii.
Nella Marianna, che udimmo al teatro di Santa Radegonda colla compagnia di Adelaide Ristori, l'autore abbandona quella maniera tutta italiana che rese belli e fortunati quasi tutti gli altri suoi lavori, per avvicinarsi alla maniera francese; e se questa diserzione trovò pur sempre fedele l'applauso nel pubblico, non lo può trovar certo nella critica.
Consideriamo dunque l'ingegno dell'autore in questo dramma sotto l'aspetto d'una malaugurata eccezione.
Paolo Ferrari nella Marianna volle dire anch'esso la sua parola realista, volle bazzicare anch'esso nel quartier Breda dell'arte drammatica, volle dire anch'esso la sua parola sull'amore illegittimo, sulla colpa.
Un giornalista celebre, privo di tutte le attitudini per diventar commediografo, inesperiente della scena e del pubblico, volle scrivere un anno fa a Parigi un dramma che divenne famoso per lo scandalo letterario che suscitò; questo dramma è l'idea generante della Marianna.
Come l'origine ci sembra fiacca, falsa, inetta, così ci sembra tale la derivazione. Alcuni critici paragonando insieme i due drammi esaltarono quello di Girardin e condannarono quello di Ferrari; noi, tranne qualche rara eccezione di particolari sì nell'uno che nell'altro, li condanniamo tutti e due.
Nella Marianna pare quasi che l'autore si sia sforzato di rendere antiestetico il suo tema.
I due campioni dell'amore illegittimo sono una donna sulla quarantina e un deputato, singolare coppia d'innamorati! l'autore credette forse con ciò di salvare alquanto quella moralità del suo dramma che gli è pur così ostinatamente da tutti contestata.
L'autore s'accorse che don Paez e Juana sono immorali, che la Bovary e Léon sono immorali, che Portia e Dalti sono immorali, che Paolo e Francesca sono immorali, che tutte queste coppie giovani, deliranti, soavi, poetiche peccano terribilmente d'immoralità. Allora egli segnò qualche ruga sul volto della sua eroina e mise la medaglia di deputato sul petto del suo eroe, gettò gli anni e la prosa sulla sua coppia e la credette salva. Noi la crediamo invece assai più compromessa.
Ma non perdiamoci qui a discutere sui casi di coscienza di un'azione drammatica; la moralità non si discute, si sente.
Discutiamo piuttosto le qualità artistiche del lavoro.
Il critico fa al dramma o alla commedia che esamina tre domande principali: se ad una almeno di queste tre domande principali il lavoro esaminato non risponde affermativamente, il dramma o la commedia sono perduti davanti agli occhi del critico.
La prima di queste domande è: ci son caratteri?
Il dramma di Ferrari risponde: No. Il dramma di Ferrari possiede delle caricature e dei personaggi, ma non ha caratteri. Marianna è un personaggio, Enrico è un personaggio, il giovane serio è una caricatura, il vecchio freddurista è una caricatura; nessuno di questi può essere innalzato alla qualità di tipo.
Ma a questa mancanza il teatro moderno ci ha pur troppo abituati. La colpa la gettiamo dunque mezza sull'autore e mezza sull'andazzo dei tempi.
Non abbiamo quasi più caratteri sul vero: andiamo ogni dì smarrendo i tipi nella nostra società; per conseguenza li smarriamo sulla scena.
Il progresso che tende a tutto livellare, è il grande operatore di questa distruzione; la libertà in questo senso è nemica dell'arte. Le stesse commedie francesi soffrono un po' di questa mancanza: i tipi si scontrano già raramente in Dumas fils, raramente in Augier, più raramente in Sardou, e se vogliamo rinvenirne qualcuno, bisogna che ricorriamo alla commedia che vien dalla storia, al racconto dei tempi passati, al Lion amoureux di Ponsard, su cui parleremo più tardi con sommo refrigerio della nostra critica.
Il definire cosa costituisca il tipo è pressocché così arduo come il definire cosa costituisca una fisionomia. La fisionomia si compone di certe linee particolari e di certi colori; il tipo si compone di certe parole e di certi fatti individuali. Alle volte una parola basta per creare un tipo, come una curva basta per creare una fisionomia. L'angolo acuto è la dominante della fisionomia dantesca; il: Gain, be my lord è la dominante del tipo di Fauconbridge; questi sono i misteri della natura e i segreti dell'arte. Nessuna di queste dominanti nei personaggi della Marianna. Là dove l'autore ha creduto di segnare un carattere, ha segnata una caricatura. Non già che le caricature debbano essere sempre bandite dalla scena. Il Filocleone d'Aristofane e il giudice Shallow di Shakespeare sono due caricature, ma quanta arte in queste creazioni grottesche!
Il sublime tragico inglese si compiaceva in ispecial modo in queste allegrie della scena, e i suoi fredduristi (ci si perdoni sempre la parola) erano più fredduristi ancora del personaggio di Paolo Ferrari.
Quando Shakespeare giuoca colle parole, lo fa così potentemente come quando sgomenta colle idee. Launce dei Due gentiluomini di Verona è il gran maestro di questo mistake the word; Costard delle Pene d'amor perdute è un altro maestro.
Siamo profondamente convinti della difficoltà somma del trovar tipi da scena a' giorni nostri; ciò non toglie però che ci crediamo in dovere di tener nota di questa mancanza.
Il teatro d'oggi muta troppo i nomi e troppo poco i personaggi; se facesse l'opposto farebbe meglio; o almeno dovrebbe imitare la modesta parsimonia dei nostri avi, i quali, quando non trovavano altro, s'accontentavano nelle loro mirabili commedie del solito Arlecchino, del solito Clown, del solito Xanthias, e tiravano innanzi così.
Noi ad ogni commedia nuova mutiamo il nome alla prima donna o al primo attore; la donna ora si chiama Maria, ora Elisa, ora Amalia, l'uomo ora si chiama Ernesto, ora Michele, ora Giulio; potremmo addirittura una volta per sempre, finché dura questa carestia d'invenzione, chiamar la donna Rosaura e l'uomo Florindo, ché la monotonia non sarebbe maggiore per questo.
Seconda domanda: ci sono posizioni?
Il dramma di Ferrari risponde: No.
Cioè, ci sono delle velleità di posizioni, come ci sono delle velleità di caratteri.
Le grandi scoperte artistiche dei grandi uomini hanno ciò di uggioso: prolificano, fanno figliuoli e ne fanno tanti e così somiglianti fra loro che ispirano a chi li vede il tedio della fisionomia paterna.
La scena della rappresentazione nell' Amleto è una di queste scoperte. A voler numerare i figliuoli di quella scena, crediamo che passerebbero certo il numero di quelli di Priamo. Due di questi figliuoli sono la scena del racconto nell'atto secondo della Donna e lo scettico e la scena delle visite nel second'atto della Marianna.
Nella Marianna non c'è che la convenzione della posizione.
E infatti, come potrebbero esservi grandi posizioni in un dramma dove c'è assenza di caratteri e d'intrigo? Ciò che nel gergo teatrale e critico si usa chiamar "posizione", non può esser prodotto che o dall'attrito di tipi, o dall'intreccio di avvenimenti con altri avvenimenti.
Nulla di ciò nella Marianna; la tela semplicissima non isvolge che gli avvenimenti elementari e naturalmente dettati dal soggetto.
Terza domanda: c'è dialogo?
Il dramma di Paolo Ferrari ci risponde: No.
Ci son delle colonne d'appendice trasformate in dialogo, ci sono delle immagini allambiccate, delle freddure inverosimili, c'è un dialogo tutto artificiale come, per dare un saggio, questo dell'atto secondo:
=Baronessa= ( piano a Marianna ): Nobile cuore, quanto vi amo.
=Marianna= ( piano alla Baronessa ): Spirito perverso, quanto vi detesto, ( Ad alta voce stringendo la mano alla Baronessa con affettata amabilità ) Buon giorno, Baronessa.
=Baronessa= ( idem ): Buongiorno, Contessa.
Questo a noi non pare dialogo vero, né bello, né serio. Ma la Ristori trovò in questo punto un certo modo di mutar fisionomia e voce, un passaggio così rapido dalla rabbia all'ossequio simulato, che il pubblico applaudì.
Il Ferrari non dovrebbe a danno dell'arte commettere di codesti effetti, né la signora Ristori incoraggiarli.
La commedia fu eseguita pessimamente.
La Ristori ogni anno ne riappare più decaduta; se una volta essa si meritò tutte le ammirazioni della critica, oggi si merita tutte le disapprovazioni. Udendola recitare, ci venne pensato continuamente a quella ironia di Le Sage: toujours hors de la nature, elle fait même des éclats sur des conjonctions, e infatti ci ricordiamo come essa marcasse violentemente la innocente particella " ci " in una frase di questo genere, appunto nella Marianna, atto secondo, scena prima: Adesso che abbiam parlato delle persone che non ci piacciono, parliamo delle persone che ci piacciono.
Neanche una particella può essere garantita contro la furibonda mania dell'effetto.
La signora Ristori avrebbe dovuto assistere a una certa lezione di declamazione fatta dall'illustre Samson nel Conservatorio di Parigi, alla quale ebbimo la fortuna di assistere noi. Il grande artista davanti al suo devoto uditorio, ragionando intorno alla semplicità degli accenti e dei gesti che si deve usar sulla scena, terminava col dire questa bella verità: la vraie déclamation est de ne pas déclamer.
Siamo aizzati dalla affollata materia della nostra rivista a progredir nell'analisi delle altre commedie, e ne spiace di abbandonare così seccamente l'argomento della Marianna.
Il laconismo, mirabile virtù spartana, trascina spesso ad involontaria ruvidità. Abbiamo detto intorno a questo dramma apertissimo l'animo nostro come se fossimo stati nemici dell'egregio autore. Se ne avessimo avuto l'agio, ci saremmo dati pensiero di palliare la forma della nostra critica, avremmo potuto accennare ad alcune eccezioni, ad alcune bellezze sparse qua e là nelle scene, avremmo notate certe verità psicologiche che pur nel dramma ci sono ci saremmo ricordati che alla lettura (forse perché leggendo l'effetto letterario offusca il drammatico) questa maltrattata Marianna non ci parve così imperfetta; ma la fretta ci fece essere più sinceri forse del bisogno e più veri del vero. Ne piace fare questa dichiarazione, soggiungendo però che per quanto particolareggiata, sminuzzata ed ampliata, mutando un po' d'apparenza, la nostra critica non avrebbe mutato di fondo.
Tutti gli anni, fra l'inverno cittadino e l'estate campagnuolo, ne giunge d'oltremonte un'eco di vita parigina.
Il primo che sta volta ci portò quest'eco fu, due settimane fa, Victorien Sardou.
Victorien Sardou possiede la potenza di farsi famigliare il pubblico suo; sono già sei anni che i parigini e Sardou vivono in dimestica amicizia. L'autore piglia in giuoco le debolezze del pubblico, il pubblico celia a sua volta sul nome dell'autore e lo chiama Victorieux Sardou.
Vittorioso infatti lo è. Avvicinarsi alla belva capricciosa e feroce, fissarla in faccia, domarla, affascinarla, schiaffeggiarla ed accarezzarla, trastullarsi colle sue zampe e cacciar la testa nelle sue fauci senza esser morso, tutti questi atti possono esser chiamati vittorie.
Sardou ha fatto ciò col pubblico parigino, e se la belva lo graffiò in qualche circostanza, non lo morse ancora.
Le commedie di Sardou diventano quasi sempre popolari a Parigi, si diffondono sulla folla, penetrano nella vita e nei discorsi, negli usi degli abitanti.
La Famille Benoîton ha creato i cappelli Benoîton e le chaînes Benoîton che si poterono ammirare esposte in vetrina da Gagelin e da Andrieux all'indomani della rappresentazione.
I cappelli Benoîton sono certi mingherlini cappelli da signora, vezzosissimi, tagliati alla "Maria Stuarda", a foggia di romboide con due lunghi nastri agli angoli che cascano dritti sulle spalle.
Le chaînes Benoîton sono collane di perle che intrecciate ai capelli scendono fino al collo e circondano d'un vago ovale il volto di chi le porta.
La Famille Benoîton è una commedia.
Una specie di appendice alla Bourse di Ponsard.
La mania del guadagno, la preoccupazione dell'arricchire, la speculazione interposta ad ogni dovere umano, ad ogni sentimento, ad ogni virtù, alla famiglia, all'amicizia, all'amore, ecco il vizio che Sardou intende combattere nella sua commedia.
La famiglia Benoîton è la negazione della famiglia.
È l'opposto della degradazione della miseria: la degradazione della ricchezza; l'opposto dell'abbrutimento della fame: l'abbrutimento dell'oro.
Questo male esiste a Parigi e basta aver traversato un giorno dalla una alle due quell'orribile recinto della Bourse, basta aver udito una volta quegli urli, quegli schiamazzi, basta aver veduto quei ceffi infuocati, febbrili, quelle braccia agitate furiosamente, quel vertiginoso scambio di biglietti, di parole, di segni, per convincersi dell'esistenza di questo male.
Nello stesso modo che alcuni disgraziati portano in mezzo alle famiglie loro il delirio del vino bevuto alle taverne, quegli uomini portano fra i loro figli il delirio dell'oro speculato alla Borsa. In Francia vi sono delle famiglie intiere di boursicotiers; questi gruppi di parenti sono bizzarri a vedersi; Sardou ce li mostra.
Ecco il vecchio Benoîton, il pater familias, un arricchito; la sua fortuna lo ha reso maniaco per gli affari.
L'affare! ecco la sua esistenza, il suo eroismo, il suo lare, il suo tutto.
E intanto ch'egli attende a ciò, cosa fa sua moglie? cosa fanno le figlie? Cosa fa il figlio? La moglie è perennemente fuori di casa, elle est sortie, come dice trenta volte la commedia; le figlie, non sorvegliate dal padre né dalla madre, si danno al lusso sfrenato e sfrontato, alle futilità immodeste e ridicole, parlano un argot di banca e di trivio; il figlio, il piccolo Fanfan che non ha otto anni, iniziato già alla religione paterna, giuoca alla petite Bourse, alla Borsa dei francobolli; compera i "sud", perde e finisce per rubare nello scrigno del padre. Ecco la casa Benoîton.
In questo gruppo di famiglia abilmente fotografato dal signor Sardou c'è un avvenimento, l'unico della commedia: una gelosia suscitata da un equivoco.
Questa commedia ha un peccato radicale di fattura: il nodo estraneo al soggetto. La famiglia Benoîton non entra per nulla in questo avvenimento, unico della tela, avvenimento piuttosto apparente che reale, perché lascia incompiuta la missione della commedia.
La satira perde il suo carattere quando l'azione incomincia, e i pochi inconcludenti episodi che riempiono a stento i vuoti della tela, sono tutti slegati fra loro e non cospirano a verun fatto generale.
Il concetto del signor Sardou era forte, drammatico, ed eminentemente sociale; la pochezza della tessera lo infiacchì. C'è in questo lavoro, più fortunato che severo, l'artifizio e non l'arte, la conoscenza degli effetti, non la scienza del bello.
Il signor Sardou studiò molto il pubblico ma poco la verità; esplorò sempre i piccoli capricci della platea, quasi mai le grandi esigenze della scena; adulò la folla anche quando la punse; quasi tutte le sue commedie sono compilate dalla preoccupazione dell'applauso, per la speculazione dei battimani.
Senz'avvedersi il Sardou è anch'esso della famiglia Benoîton.
La centiême représentation, ecco il vero scopo delle sue commedie sociali, e per giungerlo adopera tutti i mezzi sperimentati già favorevolmente sul pubblico.
Questo sistema è volgare ma spesso fortunato, fortunato ma sempre pericoloso; la sconfitta di quel trionfo è facile; in quell'adulazione c'è un principio di paura, in quell'astuzia c'è un po' di fiacchezza.
E fiacca da senno è quell'altra commedia nuova del Sardou intitolata Piccolino.
Il laido aspetto della speculazione teatrale appare in quella commedia in tutta la sua antipatica evidenza.
Piccolino appartiene a quella bastarda razza di commedie popolari-sentimentali che tien residenza perenne nel teatro della Gaîté, genere falso ed uggioso, misto di pianto triviale e di riso plebeo, abborracciamento senza forma, senza scopo, senz'arte. Un ceto particolare di pubblico incoraggia con assiduità questo genere di lavori.
Sardou non ricusò di seguire nelle sue sciocche voglie questo pubblico, e facendo ciò commise opera, artisticamente parlando, disonesta.
La prima idea ch'entra nel cervello, gettata in un vecchio stampo e rifusa in un dialogo scipito, ecco questo Piccolino.
Mutiamo argomento.
Le Lion amoureux di Ponsard c'innalza d'un tratto fra le più pure regioni dell'arte.
Ne avevamo bisogno.
Vi sono a' giorni nostri alcune grandi anime invase esclusivamente dalla contemplazione della rivoluzione francese.
Lamartine, Quinet, Ponsard sono fra queste anime.
Tale contemplazione ispirò al primo un'epopea, al secondo una storia, al terzo due tragedie.
Non si contemplano senza frutto i prodigi. La fissazione dei grandi fatti conduce inevitabilmente alla scoperta delle grandi idee; in questo senso si può dire che la storia è arte. Les Girondins, l' Histoire de la Révolution française, Charlotte Corday, Le lion amoureux sono in parte opere di Danton, di Hoche, di Saint-Just, di Robespierre. Nessuna storia più epica di questa, nessun'era più leggendaria, nessuna cronaca più esatta; che universo pel teatro!
Il miracolo umano colla data del mese, del giorno, dell'ora in cui fu compiuto, confermato da mille documenti, constatato dalla memoria ancora commossa della tradizione viva. L'incredibile, l'inverosimile, il fantastico proclamato vero dalla palpabilità delle cose: ecco questa epoca.
Ponsard principiando la Charlotte Corday poté scrivere questa indicazione scenica colla meridiana della storia davanti: 22 septembre 1792 huit heures du soir. Salon de madame Roland.
Così pure Svetonio poteva scrivere anch'esso alla fine del suo Nerone: 17.° giorno prima delle calende di luglio.
Le date storiche fanno pensare, aiutano il confronto dell'attimo passato coll'attimo presente. Nessuna storia vince in profusione di date la decadenza romana e la rivoluzione francese. Un'epopea teatrale che possa vestirsi di date famose e di nomi famosi, è un indicibile affascinamento.
Ponsard se lo seppe fin da quando ideò la sua Charlotte Corday, da quando disse:
Des hommes bien connus paraitront devant vous, Girondins, Montagnards, je les évoque tous.
Che personaggi! Robespierre, Marat, Danton, Barbaroux, Louvet, Sieyés, Buzot, Pethion, Charlotte Corday, madame Roland! Che trepidazione solenne pel poeta che deve far parlare queste bocche, che deve fare agir queste braccia.
Ponsard è un poeta educato alla vigorosa scuola shakespeariana, agli esempi del Riccardo III, dell' Arrigo IV, dell' Arrigo VIII, del Riccardo II; Shakespeare osò far parlare Giovanna d'Arco, Ponsard osò far parlare Carlotta Corday.
Le scene popolari del IV atto della Corday e del V atto del Lion amoureux procedono direttamente da Shakespeare.
La Carlotta di Ponsard, quando dice col pugnale in mano:
La résolution qui paraissait si fière S'arrête devant l'act et retourne en arrière,
parla come il Bruto del Giulio Cesare; e quando, vedendo la moglie di Marat, Carlotta esclama:
Grand Dieu, sa femme—on l'aime!
s'innalza per un momento alla grandezza di Shakespeare e alla sublimità del vero.
Ponsard è, in fondo, più romantico che classico, benché un'opinione opposta corra nei giudizi del pubblico.
Ponsard non ha di classico che l'alessandrino misurato soverchiamente, colla cesura troppo sentita, artifiziale benché splendido; ma l'istinto dell'ingegno suo è liberissimo.
Nessuna convenzione di scuola in questo poeta, nessun legame, nessun pregiudizio; le unità di tempo, le unità di luogo sono bandite dalla sua scena.
Pure il pubblico che lo sa de l'Académie, vuole che sieno academiche tutte le cose ch'ei scrive.
Se Ponsard è classico, lo è come è classica la rivoluzione francese che racconta: nel senso più profondo della parola.
Il Lion amoureux è un'opera d'arte perfetta. Caratteri stupendi, azione potente, dialogo meraviglioso, e di più, color locale fortissimo; ecco i pregi di questo lavoro che è commedia, dramma, tragedia nello stesso tempo senza che sia lesa l'unità severa e quasi epica del componimento. È commedia se si pensa all'azione, dramma se si pensa ai caratteri, tragedia se si pensa al tempo. Ponsard la chiamò commedia, e fece bene, essendo il nodo principale dell'intreccio sciolto felicemente all'ultimo atto.
Il Lion amoureux è Humbert, un membro della Convenzione, una specie di Saint-Just dei Girondins, una specie di Enjoleras dei Misérables, un idolatra della patria e della libertà che si crede inaccessibile a qualunque altra passione, un gladiatore del cuore. Egli passò in mezzo alle sirene senza smarrirsi, guardò inviso le Armide e le Circi senza sentirsi infiacchito. Egli, incatenatore dei re, non crede alle catene della donna. Così pensa la superba anima sua. Ma la donna apparisce e Humbert è vinto.
La donna è una marchesa, una aristocratica, una realista, e il popolano, il democratico, il convenzionalista se ne innamora. Il primo atto è tutto uno studio psicologico sui primissimi sintomi di questa passione terribile che forma poscia l'azione di tutta la commedia.
Un carattere squisitamente delineato è questa marchesa di Maupas, seducentissima, vezzosamente astuta, fredda un po' nell'apparenza, ma d'animo appassionato, educata alle severe compostezze della sua casta, eppur sensibilissima e generosa, forte e soave, immagine che sfugge alla penna ed al pennello perché velata da indicibili sfumature, e che Ponsard tratteggiò con mirabilissima finezza, creando così un contrasto gentile alla tumultuosa figura di Humbert.
Un altro carattere è il visconte de Vaugris. Giovane realista, bello, elegante, altiero, teneramente invaghito esso pure della marchesa di Maupas: amore aristocratico che s'oppone all'amore repubblicano di Humbert, parola profumata ed armoniosa contro eloquenza selvaggia, bacio di paggio contro bacio di fiera. Questo visconte, travolto dal vortice rivoluzionario, finisce per essere fucilato nell'ultima scena dai soldati di Hoche. Il visconte va alla morte celiando atticamente come i cavalieri del secolo XVI avi suoi e come i voluttuosi compagni di Petronio; le ultime sue parole sono un consiglio di toilette alla bella marchesa; poscia s'avvia tranquillamente al supplizio.
Il generale Hoche poteva essere forse con più grandezza tratteggiato. Hoche era uno di quei sommi intelletti che facevano presentire misteriosamente al mondo la venuta di Buonaparte; Hoche rappresentava già nel '95 il concetto imperialista.
La Charlotte Corday, seguita dal Lion amoureux, è una rappresentazione intiera dell'epoca rivoluzionaria.
L'idealismo entusiasta in cui nasce il primo dramma, la catastrofe terribile che lo finisce, sono la sintesi della prima fase dalla rivoluzione: utopia al primo atto, anarchia all'ultimo.
La tirannia repubblicana che appare nel principio del secondo dramma, e i presagi imperialisti della fine compendiano la seconda fase. Tre grandi società sfilano sulla scena di quei due drammi-istorie: la società realista moribonda nella Charlotte Corday, morta nel Lion amoureux la società repubblicana nascente nella Charlotte Corday, trionfante nel Lion amoureux; la società imperialista che si fa presentire.
Il vieux gentilhomme, il conte d'Ars, ed il visconte di Vaugris, rappresentano la prima.
Danton, Barbaroux, Humbert rappresentano la seconda.
Hoche e Buonaparte rappresentano la terza.
Fra queste tre società, una morente, l'altra trionfante, l'altra nascente, scorre diffusa ed imparziale l'idea drammatica di Ponsard. Egli onora tutti tre questi gruppi di caratteri eroici, di tipi simpatici, d'azioni gloriose. L'eroe realista è Vaugris, l'eroe repubblicano è Charlotte Corday, l'eroe imperialista è Hoche:
… qu'en les écoutant la passion se taise, Je bannis de mes vers l'allusion mauvaise; Je suis l'impartiale Histoire.
Così dichiara egli stesso nel suo prologo al primo dramma.
Questa imparzialità, della quale lo scrittore par che si vanti, è l'unico peccato del suo poema drammatico e storico. La pigra imparzialità è un errore davanti all'arte, un errore davanti alla storia, un errore davanti alla filosofia; questa imparzialità, ch'è scetticismo o fiacchezza, riverbera sulle catastrofi pur violentissime delle quali il poeta si serve, una non so quale freddezza pagana.
Tutti coloro che lessero e videro i due drammi di Ponsard notarono codesta freddezza. Noi crediamo spiegarla così e non altrimenti.
Ma forse i tempi del gran dramma storico-sociale non sono ancora venuti. La rivoluzione è ancora troppo vicina a noi e non abbiamo ancora tanto camminato negli anni da aver potuto raggiungere quel centro visuale in cui ne sarà dato con tranquilla coscienza e con occhio riposato osservarla.
Da qui ad un secolo, quando la fine di tre generazioni sarà passata sui tumulti oggi ancor vivi, quando la calma sarà piena, quando la verità sarà diffusa, i poemi sorgeranno più grandi perché più lontani, le tragedie sorgeranno più coraggiose perché più libere.
L'imparzialità non si perdonerà allora al poeta, il teatro non riprodurrà solamente la storia, ma la giudicherà, e l'arte che sarà nata dalla breve era repubblicana, potrà compararsi all'arte dell'era greca.
II.
La Contagion, commedia di __E. Augier__. Héloïse Paranquet, commedia di __A. Durantin__. Henriette Marechal, dramma di __J.__ ed __E. Goncourt__.
Narrano le antiche cronache che le pere guaste fanno marcire le buone; e ciò è scritto anche in una moralissima e leggiadra novelletta di Gaspare Gozzi, la quale abbiamo tutti imparato a scuola. Dumas fils fece di questa novella una commedia, il Demi-monde; Augier rifece questa commedia in un'altra commedia, la Contagion. È troppo nota la famosa parabola delle pesche nella scena IX, atto II, del Demi-monde per ricordarla qui tutta intera: codesta parabola, che non è altro che una moderna parafrasi del vecchio apologo, è la sintesi della commedia; l'autore francese non fa che mutare la qualità del frutto: le pere diventano pesche; la variante sta lì.
Per Adamo il castigo fu una mela, per Gozzi fu una pera, per Dumas fu una pesca: lettori, guardatevi dalle frutta. Vous êtes ici dans le panier de pêches de quinze sous, dice Olivier a Raymond, e queste pesche da quindici soldi hanno tutte una macchia nerastra da un lato; quel segno è il contagio, quel segno è il morbo, quel segno è las bubas, quel segno è l' infirmitas nefanda: guardatevi da quel segno. Il suo contagio è tale, che come appena l'autore del Demi-monde l'ebbe divulgato dal palco scenico, invase tutte le schiere degli scrittori di commedia; dalle pesche passò ai letterati dopo aver attraversato il lavoro di Dumas fils, e quello fu il primo e il secondo avataro di tale segno malefico; non rimase a Parigi un solo autore drammatico immune dal morbo; il sangue di Dumas fils s'infiltrò nelle vene di tutti i suoi colleghi; tutti composero un Demi-monde alla loro maniera, s'affollarono tutti intorno alle pesche da quindici soldi, e ne mangiò Sardou, e ne mangiò Barière, e ne mangiò Plouvier, e ne mangiò Decourcelle, e ne mangiò perfino Siraudin, l'"auteur-confiseur", il proprietario della ghiottissima pasticceria in Rue de la Paix.
L'ultimo caso di questo contagio si vede appunto nella nuova commedia di E. Augier intitolata la Contagion.
La Contagion non è altro che il Demi-monde, più qualche elemento della Question d'argent, più qualche particolare della Dame aux camélias.
Non arrischieremmo un asserto così duro e così riciso contro un illustre scrittore come Augier senza tenerci obbligati a dimostrarlo. Per dimostrarlo incominceremo dai personaggi. Navarette, vedi Suzanne; d'Estrigaud, vedi Vernouillet; André Lagarde, vedi Raymond de Nanjac; la marquise Galeotti, vedi madame de Lornan; Aline, Valentine, Aurélie, vedi le donne della Dame aux camélias. Il filo principale degli avvenimenti del Demi-monde è la lotta d'astuzia che ha luogo fra la maligna Suzanne e l'avveduto Olivier; il filo principale della Contagion sta appunto nella stessa lotta d'astuzia che accade fra la maliziosa Navarette e il furbo d'Estrigaud. Tous plus malins les uns que les autres, dice lo stesso Dumas fils nell' Ami des femmes, e in questa frase è svelata una delle forme drammatiche predilette di questo autore.
Due personaggi i quali sostengono dal principio alla fine dell'azione teatrale un duello aperto o nascosto di sottigliezze di spirito, di raffinamenti d'intrigo, di strategie, di finte, di controfinte, di mosse, di contromosse, l'uno in nome della verità e della virtù, l'altro in nome della menzogna e del vizio, oppure tutti e due per ispeciale egoismo o capriccio, ecco una delle pietre di cantone dell'edificio drammatico innalzato da quel nuovissimo ingegno di Dumas fils.
Augier imitò spesso questo sistema che sorregge tutta la matassa della Contagion come tutto l'intreccio del Demi-monde. Così nell'una come nell'altra commedia i due antagonisti di questa specie di duello appartengono a diverso sesso, ma nel Demi-monde è l'uomo che è più astuto della donna, nella Contagion è la donna che è più maligna dell'uomo. Olivier vince Suzanne e Navarette vince d'Estrigaud; Navarette e Suzanne sono lo stesso personaggio; rappresentano tanto nella commedia di Dumas come in quella d'Augier la pesca fradicia, il male, la contagion.
Esiste in Lituania una spaventosa leggenda, che descrive la peste sotto la forma d'una donna spettrale, tutta cinta di bianco, con una corona di fuoco sulla fronte, agitante nell'aria un velo sanguigno, che esala la morte dovunque s'avvicina: con apparenze meno fantastiche e meravigliose Suzanne e Navarette rappresentano la stessa allegoria; salvo che invece d'essere spettri sono belle donne, squisitamente vestite, seducentissime, come se ne danno spesso nell'allegro paese della commedia; hanno una vivace maniera di spirito, una parola piena di grazia e d'onestà; hanno movenze modestissime e tranquille, tanto che a vederle si direbbero donne ammodo e virtuose; ma sotto questa apparenza si cela il contagio.
Victorien Sardou dice: à quoi reconnaît-on les honnêtes femmes? à la peine qu'elle se donnent pour ne pas le paraître; Augier ripete l'osservazione soggiungendo: tandis que les femmes comm'il faut s'evertuent à avoir l'air de biches, les biches s'evertuent à avoir l'air de femmes comm'il faut; e Dumas rinforza le ricerche osservando che il paniere di pesche da quindici soldi rassomiglia perfettamente, salvo la macchia nerastra, al paniere da venti soldi. La più elementare manovra del vizio è di vestirsi colle forme della virtù; l'ipocrisia è il principale lineamento della fisionomia morale di Suzanne e di Navarette. Attorno a Suzanne stanno madame de Vernières e madame de Santis, attorno a Navarette stanno Aurélie e Valentine, altre secondarie apostolesse del male.
Navarette rappresenta come Suzanne il male, l'incarnazione femminile del vizio e della malvagità, l'ultimo limite della menzogna e dell'audacia.
Quando il peccato s'incarna in Eva è più maligno che quando s'incarna in Adamo: lady Macbeth è peggiore di Macbeth. D'Estrigaud, il maestro di Navarette, rappresenta il "male-uomo", se così ci è permesso d'esprimerci, e benché sia stato egli ad iniziare Navarette alla scuola del vizio, pure non regge davanti alla sua avversaria e rimane vinto da lei.
Continuiamo la nostra inquisizione sulle somiglianze strane delle due commedie. Come nei lazzaretti, il grado di contagio è diverso fra i vari personaggi del Demi-monde e della Contagion. A seconda del sangue più o meno sano, il morbo s'appiglia più o meno violento, più o meno medicabile.
Non ogni contagio è mortale; a volte si danno anche delle guarigioni, dei salvamenti quasi miracolosi. Esempio la scena IX dell'atto IV nel Demi-monde. Accenniamo il concetto di questa scena che è una fra le potenti inspirazioni di Dumas fils. Siamo in casa di Suzanne, entro la cesta delle pesche fracide; tutte le muffe, tutte le gromme, tutte le magagne morali sono raccolte sul palco e intente tutte alla loro parte. Queste pesche da quindici soldi attendono con ansia l'arrivo d'una pesca da venti soldi, madame de Lornan, donna pura e gentile, la quale doveva capitare in mezzo a Suzanne, alla Vernières, alla Baronne d'Ange e compagnia.
Non v'è anelito più cupo che quello del vizio il quale attende la virtù per bruttarla. A un tratto il domestico entra e annuncia madame de Lornan; a quel nome, Olivier che è presente alla scena, si slancia fuori dell'uscio e dopo un minuto ritorna:
=Raymond=: D'où venez-vous, monsieur?
=Olivier=: Je viens de dire à madame de Lornan que je ne voulais pas qu'elle entrât ici.
Madame de Lornan è salvata.
La Galeotti della Contagion è onesta, pura, gentile, come madame de Lornan, è vedova com'essa; fra queste due figure non c'è che una sola differenza. Madame de Lornan non entra in iscena, non pone nemmeno la punta del suo stivaletto nella casa del contagio, la marquise Galeotti v'entra; il nome della prima non appare neanche sulla lista dei personaggi, il nome della seconda vi campeggia come quello d'una protagonista. Questo è un altro importantissimo segno d'affinità fra le due commedie.
Augier, dopo aver udito il Demi-monde, immaginò madame de Lornan varcante il limitare del boudoir di Suzanne e stette a indovinare le conseguenze; così probabilmente si formò nell'idea dell'autore della Contagion il personaggio della Galeotti. Dumas salvò la sua vedova colla provvidenza del caso, Augier colla coscienza; il contagio entra in casa della Galeotti con la persona della Navarette, la Galeotti va nel tempio stesso del contagio quando entra in casa di d'Estrigaud; ma appena tocca dal male, guarisce.
Altre due serene immagini d'innocenza rimaste pure, inter scabiam tantam, sono Marcella nel Demi-monde ed Alina nella Contagion; Marcella ed Alina non sentono che il santo e l'ingenuo contagio dell'amore: Marcella ama Olivier come Alina ama Lucien. Tanto Olivier quanto Lucien si sono per un istante imbrattati nel vizio. Uno ha bazzicato in casa di Suzanne, l'altro in casa di Navarette, ma il loro cuore è giovane ed onesto ed atto al ravvedimento; Olivier finisce per isposare Marcella e Lucien finisce per isposare Alina.
Raymond de Nanjac, il colonnello che viene dall'Africa e piomba in mezzo al Demi-monde di Dumas fils come un selvaggio e si lascia ammaliare dalle moine di Suzanne, è fratello gemello di André Lagarde, l'ingegnere di Gibraltar, il povero provinciale candido e credenzone, che si lascia infinocchiare da Valentine, capitato in mezzo alla Contagion di E. Augier. Così pure d'Estrigaud è fratello di Vernouillet, personaggio della Question d'argent: è l'uomo senza cuore e senza coscienza, il cinico avido e depravato, colla sola differenza che d'Estrigaud è più elegante, più sibarita, più cortigiano, e Vernouillet più volgare. Torniamo al Demi-monde.
Il punto di contatto più evidente, più imprudente, più impudente fra questa commedia e la Contagion è la finta catastrofe dello scioglimento.
D'Estrigaud finge di morire in duello precisamente come Nanjac, e da questa astuzia scoperta vien risolto il nodo della commedia. Il caso è grave; sommiamo a quest'ultima rassomiglianza tutte le rassomiglianze che abbiamo enumerato fra la commedia d'Augier e quella di Dumas, ed avremo un risultato di plagio evidente nel concetto, nei tipi, nell'intreccio; se frughiamo ancora, troveremo non poche analogie anche nel dialogo. La prima scena dell'atto quarto pare dialogizzata da Dumas fils, e rammenta moltissimo il primo atto della Dame aux camélias. È inconcepibile che un intelletto così nobile, così originale come quello di Augier si sia lasciato volgarmente trascinare alla imitazione. Non sappiamo rinvenire più in questa Contagion quel gran maestro degli Effrontés, del Fils de Giboyer, del Gendre de M. Poirier. Sono umilianti per l'ingegno umano questi repentini traviamenti delle grandi intelligenze.
Eppure è così. Un intelletto altissimo, potente, dopo avere per anni ed anni spaziato fra le più sublimi sfere dell'arte, creando prodigi d'ispirazione, può smarrire ad un tratto la sua potenza, può crollare dalla sua altezza come un giuocatore che smarrisce la sorte del giuoco. Questo fenomeno è tetro e mette capo alle induzioni del materialismo più crudo.
E perché mai Shakespeare, dopo avere ideate e scritte le mirabili scene dell' Arrigo IV e dell' Arrigo V, diventa triviale e mediocre nella prima parte dell' Arrigo VI, per poi rialzarsi stupendamente nella seconda e terza parte? Il senso umano si ribella davanti a questi fatti, la critica generosa e idealizzatrice protesta e proclama che la prima parte dell' Arrigo VI non è di Shakespeare; sarà di Marlowe, sarà di Greene, sarà di Nashe, ma di Shakespeare non è. Nei placidi regni dell'arte l'uomo non vuole né momentanee detronizzazioni, né subitanee glorificazioni; l'alto e il basso delle instabilità terrene non si riflette sulle serene uguaglianze del cielo. L'uomo ha decretata l'infinita impeccabilità del genio; perciò i peccati di Shakespeare cascano sulle spalle di Greene, salvo a collocare le virtù di Greene sulla fronte di Shakespeare. Così è, e se così anche non fosse, così giova che sia. Chi è grande, sarà grande in eterno; chi è mediocre, sarà in eterno mediocre. Esempio: M. A. Durantin. M. A. Durantin è un omiciattolo, non sappiam bene se grosso o smilzo, se biondo o bruno, se grigio o calvo, se lungo o piccino, ma fin d'ora lo qualifichiamo per omiciattolo e ce lo dipingiamo piuttosto piccino che lungo, piuttosto calvo che biondo, piuttosto grassotto che magro. Vedete slealtà della critica! E ciò perché. Perché il signor A. Durantin visse ignorato per più di quarant'anni a Parigi, perché scrisse romanzi che non furono letti, perché scrisse drammi che non furono rappresentati, perché scrisse commedie che furono fischiate, perché da mezzo secolo in qua ch'egli tiene la penna fra le dita, non seppe fino ad ieri imbattersi in una pagina di scrittura che facesse chiaro il suo nome; perché infine il raziocinio umano ha dei pregiudizii che sono profonde verità, ha delle idee preconcette che sono sapienze, ha delle apparenti ingiustizie che sono giustizie altissime.
Non si possono dare né genii sconosciuti, né veri genii incompresi; v'è una legge naturale che s'oppone a ciò, ed è che la folla dei mortali ha essa maggior bisogno delle grandi anime, che non le grandi anime della folla. I passeri volano alla quercia, e non la quercia ai passeri, e nel bosco non v'hanno alti alberi ignorati dai piccioli augelli. Innoltre, l'organizzazione intellettuale dell'uomo di genio è per se stessa così smisuratamente superiore alla proporzione delle intelligenze comuni, che apparisce grande semplicemente per la sola sovranità della natura sua.
Non solo Goldoni, Molière, Calderon, ma Scribe, ma Ponsard, ma Augier, appaiono all'occhio dell'osservatore come innalzamenti eccezionali del livello intellettuale comune; quale più, quale meno, essi sono i promontorii ideali di questa valle terrena; e le cime, dovunque e comunque elle sieno, non possono stare ignorate.
Dunque il signor A. Durantin (per dirla qui colla locuzione familiare) non è una cima.
E ciò sia detto prima anche d'aver udito la sua commedia Héloïse Paranquet, e ciò sia detto pel solo fatto ch'egli stesso ci narra nella prefazione alla commedia, pel fatto, cioè, d'avere egli scritto a Parigi per mezzo secolo continuamente senza aver mai potuto razzolare abbastanza da mettere insieme quattro battimani. Dunque, il signor Durantin non è una cima; ciò non toglie che l' Héloïse Paranquet abbia de' pregi non pochi. Eccoci in flagrante contraddizione, dalla quale però, calmatevi, esciremo subitissimo, quando diremo che l'autore dell'Héloïse Paranquet è Durantin in tutto e per tutto, fuorché nel buono e nel bello della sua commedia, perché qui l'autore diventa ancora A. Dumas fils.
V'è a Parigi chi sostiene e chi stampò fin sui giornali che la Héloïse Paranquet sia materialmente scritta da Dumas fils, e che M. Durantin non c'entri che pel nome; noi non crediamo ciò. Non è Dumas che diede a Durantin, è piuttosto Durantin che prese a Dumas.
La Contagion è una imitazione del Demi-monde, come Héloïse Paranquet è una imitazione del Fils naturel.
La fille naturelle sarebbe il titolo naturale di questa commedia poco legittima. Durantin non fece altro che mutare i sessi dei personaggi di Dumas, e poi stette a vedere quello che ne risultava. Il figlio cinse la sottana e divenne una figlia, la madre buona e amorosa indossò il panciotto e divenne il padre buono e amoroso, e per l'opposto il padre malvagio divenne la madre malvagia in cappellino e gonnella. Se non fosse che tanto nell'una quanto nell'altra commedia c'è un avvocato, il quale non muta sesso né panni, la sarebbe, questa Héloïse Paranquet, una mascherata completissima del Fils naturel.
Ma questo è il caso di dire che la maschera muta un po' la persona e che l'abito cangia il monaco. Gli elementi drammatici e morali delle due commedie sono perfettamente uguali, solo che essendovi questo chassé-croisé di sessi, mutansi i relativi valori dei tre principali caratteri che rappresentano questi elementi. Ciò che nell'uomo non è che peccato, nella donna può essere delitto, e infatti il padre orgoglioso e freddo della commedia di Dumas diventa, nella commedia di Durantin, la madre infame. Héloïse Paranquet è tal madre.
Il padre della commedia originaria vuol trar vantaggio per la sua vanagloria dall'ingegno e dai trionfi del figlio. Héloïse Paranquet vuol far di peggio. Il carattere e le azioni di Héloïse Paranquet sono così sozze che escono dai temperati limiti della commedia. Perché il lettore arrivi a comprendere questa Héloïse, per nulla somigliante a quella di Abelardo, siamo costretti a rimandarlo fino al diciottesimo canto dell' Inferno, là dove Venedico Caccianemico è frustato dalla scuriada dei demonii di Dante. Héloïse Paranquet vuol far della figlia sua ciò che il dannato di Malebolge fece della sua sorella, della bella Ghisola. Giuda che vende il suo Dio, Leclerc che vende la sua patria, non fanno mercato più obbrobrioso e più inumano di quello che ha in animo di fare l'eroina di questa lugubre commedia.
Noi danniamo certi orrori morali, che non devono essere toccati dall'arte, non già perché sono orrori, ma perché sono orrori antiestetici.
Quando la crudeltà o la viltà del carattere non è, per così dire, idealizzata da qualche lato artistico o pittoresco, quello non è carattere degno della scena. Il poeta, che per fatalità s'imbatte in uno di questi tipi, non può fermarvisi davanti più d'un istante. L'Alighieri non ispende più di nove versi intorno a Taida, ché già il decimo dice:
E quinci sien le nostre viste sazie.
Tutta una commedia sostenuta da un'eroina così disonesta conduce naturalmente al ribrezzo, e questo ribrezzo del pubblico non ha in se stesso nulla di estetico.
Se il valore artistico di questa commedia si potesse discutere, se non fosse un valore usurpato, se prima del tribunale del critico non ci fosse una specie di tribunale di giustizia, il quale mette in dubbio, non il valore letterario di tale commedia, ma la proprietà, potremmo asserire che il più grave errore, sul quale questo lavoro si fonda, è appunto l'odioso carattere della sua protagonista. Ma qui non istà la questione; la questione, ripetiamo, è correzionale, non è artistica.
Come Dumas, Durantin fece il prologo dei quindici anni prima, il prologo così detto della colpa, il romanzo fatale che precede l'azione drammatica: Dumas mostra al pubblico il figlio in culla, e Durantin fa vedere la figlia in fasce.
Come Dumas, Durantin pone la lotta legale, il codice, per nodo, per centro, per cardine dell'azione. Il figlio di Dumas va dalla madre al padre come una palla gettata dalle racchette del codice civile; la figlia di Durantin è nell'identico caso. L'avvocato di Dumas fa l'avvocato di tutte e due le cause, colle leggi alla mano da una parte, col cuore dall'altra, e l'avvocato di Durantin è lo stesso avvocato; la buona causa vince tanto nell'una quanto nell'altra commedia. Il danno dello scioglimento cade di qua sul padre malvagio, di là sulla malvagia madre. Ora si potrà facilmente comprendere come il signor Durantin, dopo cinquant'anni d'obblio, abbia potuto arrivare ad un giorno di trionfo. Nella Héloïse Paranquet ci sono pressoché tutte le buone posizioni drammatiche del Fils naturel.
Il signor Durantin fu un abile raffazzanatore di cose non sue; fortunato lui se il pubblico non s'avvisò del plagio. Il mezzo secolo di disdetta letteraria, del quale oggi il signor Durantin par quasi che si vanti baldanzosamente, ci è così disvelato per il suo giorno di gloriola. Non ne facciamo nessuna meraviglia; così pure non ci meraviglieremmo punto se un qualunque messere ci dicesse:
"Ho vissuto povero fino al giorno che ho riempiuta la mia borsa col denaro altrui". Ciò non toglie che profetizziamo al signor A. Durantin un altro mezzo secolo di vita sana e riposata e di tranquillissimo obblio.
Non sappiamo se l' Henriette Maréchal, dramma in tre atti dei fratelli Goncourt, valga molto più dell' Héloïse Paranquet. Il soggetto di questo dramma è la tragica storia d'un amore fatale. Un giovinetto di diciasette anni (dico diciasette) ama perdutamente una donna già madre d'una fanciulla, e n'è riamato; la fanciulla ama alla sua volta con affetto innocente ma intenso il giovinetto. La catastrofe finale è orrenda. Una notte il marito s'avvede della tresca, e furibondo, fra le tenebre, si arma d'una pistola e va per uccidere la moglie; la figliuola, che seguiva la terribile scena, mette il suo petto sotto l'arma del padre e si sacrifica e muore. Questo scioglimento orribile fa la vece di quella moralità che evidentemente manca in tutto il resto del lavoro; l'atterrimento di questo finale è così forte che finisce per parlare alla coscienza ed all'animo. Quella povera innocente che si immola per la colpa materna è tale spaventosa punizione della madre e copre di così cupo terrore le seduzioni del peccato, che arriva a produrre in chi osserva una specie di bieca edificazione. La moralità è di due sorta: può essere premio di virtù o castigo di vizio; l'inferno è morale come il paradiso, anzi per certe coscienze fosche e volgari è più morale l'inferno. Se lo sanno gli astuti predicatori delle campagne quando nei loro predicozzi si danno a descrivere con soprannaturali colori di spavento l'abitazione di Satana.
La morale dell' Henriette Maréchal è la morale della Diane de Lys, delle Deux Soeurs, del Mariage d'Olympe, una morale che inventò Dumas fils alcuni anni or sono.
Ed ecco che troviamo ancora una volta questo nome sotto la nostra penna; potevamo a dirittura inscriverlo a capo del nostro sommario e farne l'unico argomento della presente rivista. Il cader così spesso di questo nome sotto l'osservazione del critico non è caso, né capriccio, ma necessità. Questo nome è lo stemma della commedia moderna; essa nacque sedici anni fa con tale nome in fronte per volontà del secolo e per gloria dell'arte.
Chi volesse sapere come andasse questa nascita meravigliosa, stia qui ad udire.
Viveva nell'anno di grazia 1844 un uomo bizzarro; esso aveva un profilo di razza diverso dalla nostra, portava nell'animo il pensiero d'un secolo diverso. La sua testa era da mulatto e la mente da medio evo. Pareva quasi un rampollo degli antichi romanzatori un discendente di Roberto di Jersey, di Arnaldo Daniello, di Bernardo Ventadour. Egli era uno di quegli esseri fantastici e visionari perennemente assorti in una chimera, dimentichi della realtà della vita, pieni soltanto dei tumulti delle storie lontane e delle invenzioni del loro cervello.
Questo Re di Navarra dei boulevards, questo troviero moderno, questo vivo nepote dei sepolti ludiones aveva un figlio ch'egli gittò, non appena ebbe varcati i vent'anni, nella fragorosa vertigine della vita parigina. Mentre il padre volava col pensiero fra la nebbia dell'ideale, il figlio camminava sul macadam di Parigi attratto e sedotto da tutte le forme della realtà. Mentre il padre dormiva e sognava, il figliuolo vegliava e viveva. Vivere è la prima scuola e la prima sapienza d'uno scrittor di commedie.
Questo figliuolo in balia di se stesso e delle sue tentazioni visse tanto che diventò Dumas fils.
Suo padre dice sovente: Mon meillieur ouvrage c'est M. Dumas fils, e la frase è più profonda di quello che non appaia. In un certo senso Alessandro Dumas fils è un elaborato artistico di Alexandre Dumas père; basta penetrare un poco nei rapporti intimi e famigliari di questi due originalissimi ingegni per convincersi di ciò. Parecchi fisiologi sostengono, colla dimostrazione degli esempi alla mano, che nelle famiglie le generazioni si alternano reagendo l'una sull'altra con passioni o virtù opposte fra loro, per modo che a padre prodigo succede figlio avaro, a padre avaro figlio prodigo, e così in tutto. Dumas padre, convinto della verità di questo fatto naturale, aiutò la reazione educando il figlio ad una vita opposta all'indole paterna. Egli idealista volle un figlio realista, egli improvvisatore volle un figlio pensatore, egli poeta volle un figlio filosofo, e lo ebbe. Così il romanzo generò la commedia. E per produrre un'arte così vera, così efficace com'è quella di Dumas fils, ci voleva una siffatta educazione. La commedia di Dumas fils divenne, per questi fatti specialmente, la commedia sociale dei tempi odierni.
III.
__Teatro Re__.— Nos bons villageois. commedia in cinque atti per __Victorien Sardou__.
La sera del 3 ottobre passato, fra le sette e mezzo e le otto, una folla frettolosa di parigini attraversava il boulevard e s'accalcava alla porta del Théâtre du Gymnase, sfilava nell'atrio, invadeva la platea, gli scanni, le loggie; poi con cupida impazienza aspettava l'alzarsi della tela. Tutte quelle teste stipate tramandavano nell'aria calda della sala una vasta pulsazione diffusa; il palpito della curiosità, che non è fra i meno violenti, animava tutti quei polsi e tutte quelle tempie. L'aperto angolo facciale del popolo parigino dominava fieramente in quella folla; c'erano qua e là dei profili arguti, e delle fronti poderose, brillava in tutte le pupille la gaia fiamma dell'intelligenza; quei signori e quelle signore formavano la parte più eletta del pubblico più eletto di Parigi. Fisionomie ben note di persone illustri spiccavano in mezzo alle altre, specialmente fra le primissime file degli scanni così detti fauteuils d'orchestre. Lì grandeggiava l'olimpica testa canuta di Jules Janin, dal solenne sorriso pagano, e vicino stavagli il magro Legouvé, sempre serio e accigliato, e non lontano l'inerte volto di Prévost-Paradol, opaco e muto come una maschera; molti altri ancora. Il pubblico osservava que' suoi archimandriti con sommessa avidità, e gli archimandriti si lasciavano agevolmente osservare.
La tela non s'alzava. L'aspettazione diventava inquieta; un mormorio incominciò a un angolo della sala; un bastone picchiò per terra il tradizionale ritmo della canzone: oh les lampions! un altro bastone lo seguì, tutti i bastoni della platea s'unirono in massa. La tela non s'alzava. Chi non aveva bastone picchiava co' piedi; il ritmo si faceva sempre più sonoro, più fragoroso; nessuno smarriva la battuta per quanto l'impazienza fosse al colmo, ed era stranissima quella turbolenza che irrompeva a tempo in crome e biscrome, come se un direttore d'orchestra la dirigesse.
Finalmente la tela s'alzò. Una esclamazione di diletto esci da tutte le bocche. La scena che s'apriva agli occhi del pubblico era deliziosa e deliziosamente dipinta:
Le matin.—À gauche, un lavoir de village, couvert d'un petit toit; baquet, battoirs, etc. L'eau du lavoir, qui est censée venir de la coulisse de gauche, se déverse du lavoir dans un ruisseau qui décrit le tour de la scène, au milieu des joncs, des roseaux et des hautes herbes, en longeant, au fond, la terrasse d'un parc plus élevée que le sol de la scène. Au dessus du ruisseau, à droite, un petit pont de planches. La scène est entièrement ombragée par les grandes arbres du parc qui font de ce lieu un endroit très retiré et très-frais.
Questa è più che una scena; è un paesaggio, è uno stupendo motivo di quadretto fiammingo. Ruisdael non avrebbe certo letta questa graziosa descrizioncella di Sardou senza tradurla in colori; c'è il pennello di Hachenbach in quelle linee; in quel " endroit très-retiré et très-frais " c'è tutta l'arte del paese. E le macchiette? ci sono anche quelle e si chiamano Maguelon, Yveline, Perrette. Elles sont agenouillées au lavoir et savonnent leur linge tout en jasant. Le attrici non hanno ancora aperto bocca e il pubblico applaude già; cosa sarà poi quando quelle tre vispe macchiette si metteranno a discorrere nel loro jargon villageois, con tutte le squisite grazie del dialogo paesano che Sardou raccolse e sparse in tutto il primo e secondo atto della sua commedia? Cosa sarà quando entreranno in scena Chouchou e la Mariotte, la Mariotte rappresentata dalla seducentissima mademoiselle Pierson, e quando questa Mariotte dirà, tutta curvata al suo lavatoio e tutta ciarliera e birichina:— Les Grinchu, père et fille, tenez! v'là ce qu'on devrait leur faire (elle tord son linge!) Couic! Senza dubbio a quel " couic ", detto vezzosamente dalla Pierson e accompagnato dal moto vivace di due bei braccetti, nudi fin più su del gomito, senza dubbio tutta la sala scoppia in risate e battimani. E poi, agli innumerevoli idiotismi di quelle birbe, l'allegria si fa sempre più pazza:
«Tiens cette petite cane en rétard».
=Chouchou=: «Ah ben! le jour de la fête, il ya pas presse à l'ouvrage».
E poi:
«ça avait l'air quasiment d'une bannière».
E il pubblico piglia già diletto a queste parole; e ci pigliamo gusto noi pure, s'anco non francesi, e ci vengono in pensiero paragoni e affinità coi dialetti nostri, e troviamo che quel cane è parente del nostro canaglia, e quel presse e quel quasiment sono né più né meno che i vocaboli paesani pressa e quasimente, e che l' ousque è l' usque latino e che nella frase: "Vous sentez, comme qui dirait, la bourbe ", c'è tutto il sapore toscano del modo come a dire, e ci piace il guigner per il tener d'occhio (collimare) e ci piace il siroter les petits verres per esprimere il bere a centellini, idiotismo che data fino da Regnard, il quale scrisse: "je sirote mon vin", e ci piace l'esclamazione: "que nenni!" e l'altra celebre: " v'là les pompiers!".
Così, dopo averci dilettati la scena, ci dilettano le parole; dopo averci dilettate le parole bizzarre e piacevoli, ci diletterà il dialogo ch'è de' più dilicati, e poi ci diletteranno le posizioni drammatiche e forti, e infine ci avrà dilettato la commedia intiera. E tutto il pubblico la pensa come noi e si sbraccia ad applaudire e si smascella a ridere e poi s'arresta atterrito alla catastrofe dell'atto quarto e torna a sorridere al quinto e torna ad applaudire dopo finita la commedia e calato il sipario; e quando il régisseur esce sul proscenio ed annuncia il nome glorioso e fortunato di Victorien Sardou, gli applausi raddoppiano e non vogliono cessare. Ed ecco là M. Ulbach in piena loggia che vuole sconficcarsi l'avambraccio ad applaudire e Neftzer che gli fa eco daccanto. Ma perché Janin, perché Prévost-Paradol, perché Legouvé non applaudono? Perché questi tre si guardano in faccia sogghignando e pare disapprovino severamente la condotta del pubblico e quella di Mr. Ulbach? perché quando Mr. Ulbach li ha scorti e indovinati, cessa di applaudire esso pure e si nasconde?
Il lunedì dopo appaiono i feuilletons. Tutta la critica parigina si scatena furibonda contro Victorien Sardou e i Nos bons villageois. Jules Janin ha l'ira classica, l'ira oraziana, adornata di forma armoniosa e leggiadra, l'ira dal periodo sonante, dal numero eletto; inveisce con grazia, urla con eleganza; si avrebbe velleità di dirgli, come Demetrio al Leone del Sogno di una notte d'estate: "Well roared, lion! " Prévost-Paradol rugge con minore maestria: ha l'ira romantica, fremebonda, scapigliata, feroce; viene alla memoria, leggendo il suo articolo della Revue des deux-mondes, l'Achille di Offenbach: Je suis le bouillant Achille ecc. ecc. E M. Ulbach anch'esso, dopo avere dato a Sardou il suo coup de main come il pubblico, gli dá il suo coup de pied (" le coup de pied de M. Ulbach ", come dice Edmondo About), il suo coup de pied come gli altri critici. Il fatto, come ognun vede, è singolare. Il pubblico applaude, la critica fischia: ecco due opinioni opposte ed egualmente autorevoli; da un lato c'è la moltitudine che è da se stessa una intelligenza, dall'altro lato vi sono alcune intelligenze eccezionali che valgono la moltitudine; da un lato c'è il senso comune, dall'altro lato l'ingegno, da un lato la coscienza, dall'altro lato la scienza, e per dirla con una immagine da tribunali, da un lato ci sono i giurati che glorificano Sardou, dall'altro lato gli uomini di legge che lo condannano. A chi ci domandasse il giudizio nostro intorno a questa combattuta commedia, risponderemmo senza titubare che poniamo il nostro voto fra quello del pubblico e quello dei critici, ma molto discosto da quello dei critici e molto vicino a quello del pubblico. M. Ulbach, che tutti videro la sera della prima rappresentazione strepitare nella sua loggia, confessa egli stesso d'essersi colto in flagrante delitto d'entusiasmo; indi si dá al passatempo, non sappiamo se più savio o più pazzo, di analizzare uno per uno i suoi battimani, di passare attraverso un esame fisico il bollore delle sue palme applaudenti; e dopo aver purgata la sua coscienza con questa confessione, si slancia a corpo perduto nella critica fredda e sleale della commedia. In tale maniera di agire c'è molta leggerezza, molta vanità e molta ingratitudine. Non ci piacque punto quel tronfio e puerile atteggiamento del critico del Temps.
Noi vogliamo tenere invece l'atteggiamento contrario: vogliamo piuttosto che annichilire il nostro applauso colla nostra critica, annichilire la nostra critica col nostro applauso. Una verissima frase di La Bruyère ci incoraggia a ciò: le plaisir de critiquer nous empêche d'être touchés des belles choses. La Bruyère, il maestro di coloro che osservano, il critico de' critici, il grande scrutatore degli uomini, notò questo pensiero, questo avvertimento.
Infatti quale utilità trarremo noi per l'arte, pel pubblico, per noi stessi, quando ci saremo tanto raffinati nella nostra critica da smarrirne il criterio? Quando avremo tanto sofisticato sulle cose dell'arte che non le capiremo, che non le sentiremo più? Quando avremo a forza di sapere perduta la fede del bello come gli scettici la fede del buono? "Criticismo" presso i tedeschi, che se ne intendono, è sinonimo di scetticismo; Dio ci scampi da questo sinonimo. La critica deve darci la prova scientifica, ideale ed estetica delle nostre impressioni, e per quanto ciò sia in potere della scienza, deve dimostrarcene le cause, deve meditarle e non combatterle, deve giustificarle e non contraddirle, deve renderci ragione dell'applauso, deve dare all'entusiasmo ciò che appartiene all'entusiasmo, al cuore ciò che appartiene al cuore. M. Ulbach, quando rinnega la mattina con la penna in mano, dopo una notte saporitamente dormita, le emozioni artistiche della sera, commette un atto colpevole, tradisce l'arte per mania della critica. M. Ulbach crede senza dubbio d'essere grande e bello e coraggioso quando grida al pubblico: "Guardate! ho applaudito anch'io ed ora fischio!" M. Ulbach pose. Ci paiono, da senno, assai bambineschi e assai deboli questi esprits forts della critica. Dov'è la logica, dove il raziocinio, dove il rispetto alla penna e al pensiero in quest'uomo, il quale, quand'è seduto in platea, subisce le passioni del pubblico, e quand'è seduto al tavolo, segue le ubbie dei critici? Meglio che mutare due volte d'opinione è ponderare seriamente e lungamente la prima ed arrestarsi a quella; oppure, se si muta giudizio, e' convien passare dal cattivo al buono e dal buono al migliore; ma ci pare che M. Ulbach abbia camminato a rovescio.
Secondo noi l'opinione più giusta intorno ai Nos bons villageois è quella del pubblico e la adottiamo noi pure, benché con una certa qual temperanza. Adottarla è andar contro a quasi tutti i critici francesi, né per ciò rimarremo dal farlo. Ci diletteremo anzi molto nel contraddire passo per passo gli appunti più gravi scagliati dagli scrittori più gravi nei giornali più gravi.
"C'est au public qu'il faut s'en prendre lorsque la critique est obligée par le succès de s'arrêter à des oeuvres indignes d'elle. Mais pour être inévitable, cette tâche de la critique n'en devient ni plus attrayante, ni plus facile, et l'on ne peut guère se résoudre à discuter sérieusement ce qui ne supporte pas l'examen". E perché tanto baccano? Wozu der Lärm? (come esclama Mefistofele dopo i farneticamenti dell'evocazione di Faust.) Wozu der Lärm? qual'è il sacrilegio che s'è commesso, qual'è la profanazione, qual'è il delitto? Certo nei placidi regni dell'arte accadde qualche scandalo grave per muovere un così portentoso dispetto; chi è quell'indignato che sulla guancia porta il rossor del pudore e sulla fronte il rossor della collera? E chi grida? dove grida? ed a chi grida? Il gridatore è Prévost-Paradol, il luogo dove si grida è la Revue des deux-mondes e il gridato è Victorien Sardou. Chi lo avrebbe mai detto? L'ingegno abbaia contro l'ingegno come un cane aizzato, la critica eletta mugghia contro l'arte eletta, il giornale ch'è la tribuna insulta il teatro ch'è il pulpito, la Revue des deux-mondes offende il Gymnase. Se i buoni s'accapigliano in tal modo, che faranno i cattivi? se il grave senatore togato va così arrabbattandosi colle pugna serrate e co' denti stretti per l'ira, cosa farà il plebeo, il tunicatus, lo schiavo? Prévost-Paradol, quel nobilissimo scrittore, quel delicato artista, quel severo filosofo, ha dimenticato per un'ora la sua serietà e il suo corretto stile. Vediamo un po' se ha dimenticato anche il suo antico amore, il suo studio grande: la scienza del criticare.
«Que l'ombre de Ducis nous pardonne si son nom nous revient à l'esprit dans cette circonstance; mais presque toutes les comédies de M. Sardou nous rappellent un mot charmant de M.e d'Houdetot sur une tragédie de Ducis, Oedipe chez Admète …—Que pensez-vous de la pièce nouvelle?—lui demandait-il.—De laquelle parlez vous?—répondit M.e d'Houdetot,—car j'en ai vu deux hier-au-soir. C'est ce qui arrive à tous les auditeurs de M. Sardou; il voient toujours deux pièces en une seule, et deux pièces qui les plus souvent n'ont rien à démêler l'une avec l'autre».
Perché tanta pompa di sdegno, perché tanta mostra di muscoli, di bicipiti e di torace, di vene enfiate e di narici dilatate contro l'innocente Sardou? Il "gladiatore" d'Agasias esiste già in una sala del Louvre ed ogni buon parigino può andare ad ammirarlo tutti i dì dalle dieci alle tre, né c'è bisogno alcuno che M. Prévost-Paradol offra al pubblico in se medesimo una copia della celebre statua eginetica. Perché evocare l'ombra del dimenticato Ducis e domandarle perdono di trascinarla nell'argomento dei Nos bons villageois? noi domanderemmo piuttosto perdono al Sardou se venissimo a ciarlargli di Ducis, di quel mediocrissimo uomo, traditore de' classici, traditore de' romantici e insieme plagiario di Corneille e di Shakespeare, profanatore miserabile ad un tempo di Amleto e di Edipo, uomo a buon dritto morto, sepolto, ammuffito e obbliato. Si offende la sacra memoria dei grandi morti immortali citando con tanta unzione e con tanta pietà il nome di Ducis. Dopo essersi inginocchiato davanti a quest'ombra, Prévost-Paradol trova che Ducis ha lo stesso peccato di Victorien Sardou: Oedipe chez Admète son due commedie in una, come Nos bons villageois. Ma forse anche ciò è falso, e doppiamente falso: in questo asserto noi troviamo due errori.
Errore primo: nei Bons villageois non ci sono punto due commedie. Il Prévost-Paradol ha preso per un'intera commedia le scenette di genere del primo e del secondo atto, e qui sta l'inganno; egli non ha capito che quelle scenette erano il semplice fondo su cui s'aggiravano le linee dell'unica e vera commedia che s'intravvede al primo atto, che si rivede al secondo, che scoppia con tutta la sua forza al terzo, che freme ancora nel quarto e che nel quinto si scioglie in un dolce sorriso. L'azione dei Bons villageois è una, unicissima, e dove mai Prévost-Paradol mi sa trovare in questa commedia materia per una seconda azione? Il cicalio delle lavandaie, ben lungi dal presentare gli elementi d'una superfetazione, per così dire, di soggetto, non ci pare quasi neanche un episodio, neanche un dialogo, neanche un seguito di scene, bensì un chiacchierio di gaie comari, un gorgheggio di passeri, una facezia; si dica lo stesso delle celie paesanesche dell'atto secondo nella bottega del barbiere. Queste scene sono il paesaggio del quadro le di cui figure reali sono il Barone, i due Morisson e le due donne del castello. La maniera del Sardou ci rammenta un po' il pennello di Salvator Rosa, paesaggista e figurista in uno. In tutta la commedia del Sardou appare questa doppia manifestazione del suo ingegno, per modo che non sappiamo se egli sia più Calame o più Meissonier.
L'originalità principale del nostro commediografo sta appunto nell'accordo ch'egli sa trarre da questo suo dualismo; e ci pare di avere scoperto le traccie della sua teoria e d'aver seguito le orme del suo sistema. Sardou cerca prima di tutto una tesi sociale, un intrigo. La tesi sociale corrisponde a ciò che noi chiamiamo "il fondo", il "paesaggio" della sua commedia, il quale fondo o paesaggio viene rappresentato da personaggi esclusivamente incaricati di ciò; l'intrigo è l'altra parte, la quale corrisponde alle "figure". Ma non diremo mai d'una commedia di Sardou: sono due commedie; come non diremo mai d'un quadro del Rosa: sono due quadri.
Errore secondo: la duplice azione non è un difetto. Per convincerci che lo sia, si dovrebbe incominciare a distruggerci davanti agli occhi tutto Shakespeare dalla sua prima commedia all'ultima tragedia. In quasi tutte le più mirabili e possenti opere dello Shakespeare appare la duplice azione. La duplice azione è uno dei segni di quel gigante. Tutte le sue tragedie sono biforcute e poderosamente ramificate come le corna d'un antilope immenso. Nell' Arrigo IV dramma c'è la commedia che si chiama Falstaff; nell' Antonio e Cleopatra c'è una tragedia a Roma e l'altra in Egitto; nel Re Lear c'è un'altro dramma che si chiama Glocester, nell' Amleto c'è un altro Amleto che si chiama Laerte.
Dunque M. Prévost-Paradol erra due volte: la prima perché osserva con intenzione di biasimo l'esistenza d'una duplice azione nei Nos bons villageois, la seconda perché questa doppia azione non c'è. Se ci fosse, essa sarebbe, secondo noi, un indizio di più dell'eccezionale ingegno di Victorien Sardou. M. Prévost-Paradol chiama Nos bons villageois: "tissu d'invraiesemblances, suite d'incidents et d'actions qui sont autant de défis portés au sens commun". La tela di quest'ultima commedia di Sardou ha un carattere speciale che la distingue dalle tele di quasi tutte le altre commedie dello stesso autore, e questo carattere è la semplicità. Una posizione drammatica sola, portata fino alle ultime sue conseguenze, ecco con quale innocente artifizio è composto l'intrigo di questa commedia. Questa posizione sulla cui base poggia tutta la favola del dramma, può narrarsi in una riga e già tutti lo sanno: un innamorato che per salvare la donna si finge un ladro, e costui è Henri Morisson. Ora, data questa posizione unica, dal contatto di Henri col padre suo, poi di Henri col marito, poi di Henri col padre e col marito assieme, poi di Henri col padre, col marito e colla donna, il Sardou fa scaturire la commedia intera, e la fa scaturire limpida, naturale, spontanea, senza nessun tessuto d'inverosimiglianze né seguito d'incidenti estranei e superflui. Sardou si è proposto in questi bons villageois una grande economia di avvenimenti: volle gli avvenimenti appena necessarii allo sviluppo de' suoi cinque atti. E infatti è così facile a tenersi a mente il soggetto, è così parco d'accessorii, è così semplice, che il Prévost-Paradol benché voglia evidentemente raccontarlo in modo da farlo sembrare una matassa informe di inverosimiglianze, lo fa stare tutto in una pagina della Revue, compresi i più minuti particolari. Se non che l'illustre critico francese raccontando questo soggetto di commedia incorre in una grave distrazione, e su questa distrazione fonda in piena coscienza una ferocissima accusa contro il povero Sardou. Lo strano si è che questa accusa, la quale tende a distruggere da capo a fondo la commedia, è falsa, falsissima; e benché tale, fu ripetuta da tutti i giornali francesi.
Citiamo l'accusa:
"Le voilà donc révenu dans ce parc (tutti i lettori capiscono che qui si parla di Henri Morisson), où le surveille la méchanceté des paysans; sa présence est denoncée au maître de la maison; on le corne, on le pursuit, on l'atteint enfin dans le salon, où il faut éxpliquer sa présence. Il n'a qu'un mot à dire, et puisqu'il vient cette fois pour cette jeune fille qu'il aurait pu si aisément et si honnêtement demander en mariage, sa conduite est absurde sans être criminelle. Il va sans doute dire la vérité, ou du moins cette partie de la vérité qui ne compromet personne et le fera seulement paraître aussi sot qu'il le mérite; mais cette vérité est encore trop commode à dire: il n'y a pas de danger qu'il la dise. Il aime mieux étendre la main, saisir une poignée de diamants et se faire passer pour voleur".
Qui appunto sta il culmine della commedia. Qui sta l'arte, qui sta l'ispirazione di Victorien Sardou. Henri non può fare altro che fingere di rubare i diamanti, e basta notare una circostanza dimenticata da Prevost-Paradol per isgominare dalle fondamenta la sua critica. Henri non entra nel parco per Geneviève, ma per Pauline, non è là per la demoiselle, ma per la dame. Basti citare queste parole stampate a pagina 98 della terza edizione dei Nos bons villageois per convincersi di ciò:
(Henri è già nella sala del castello, solo, quasi spaventato dall'audacia sua) "Tous le gens du château sont à la fête… le baron est au bal, je m'en suis assuré… Et sans doute elle est seule… C'est audacieux ce que je fais la. (Ma ecco, che entra in scena Geneviève invece di Paolina) Geneviève! quel contre-temps!"
Dunque se Geneviève est un contre-temps, Henri non è certamente entrato nel parco e nel castello per Geneviève, e la miglior prova è che appena egli l'ha scorta, s'è mosso per andarsene. Ma Geneviève lo vede e lo chiama. Henri bisogna che s'arresti. Di lì poi nasce la catastrofe logicissima. Come può dire Henri al Barone: "sono venuto qui per Geneviève", se realmente è venuto lì per la moglie del Barone? La presenza di Henri nel castello in quella notte è colpevole e, diciamolo pure, è pazza, è sconsigliata: bisogna espiarla. Il mezzo termine di Geneviève sarebbe alla coscienza di Henri una infamia maggiore, un rimorso maggiore, e poi là in quel parco, inseguito, circondato, scacciato da tutti, fuggente, tremante, disperato, non si ricorda già più di Geneviève. Vede Paolina, è colto con Paolina, bisogna salvare la moglie del Barone anzi tutto; non c'è altro mezzo che passare per ladro e farsi prendere co' diamanti in mano. Il mezzo è terribile, eccessivo ma necessario, e in questa necessità sta appunto il trionfo di Sardou. Pauline è innocente, è monda d'ogni macchia, Pauline non ama più Henri, non lo ha forse amato che un giorno solo e poi l'amore gli è tornato in uggia, in nausea, in paura, in tormento di spirito. Ed è appunto questa resistenza implacabile, questa virtù di Pauline che desta in Henri tutte le più violente ostinazioni dell'amore deluso: "Une femme qui s'enfuit… quel âpre désir de courir aprés elle". In quell' âpre désir c'è una infocata mistura di tutti i più veementi veleni dell'amore e della collera.
Henri Morisson, che in fine de' conti è il personaggio che condensa in sé tutto il dramma, dev'essere meditato scrupolosamente dalla critica. Meditiamolo.
Henri Morisson è l'antagonista del soggetto di Sardou, è il parigino, è l'uomo della capitale, è il personaggio che rappresenta l'antica legge dei contrarii e dei contrasti, legge che nacque col dramma primitivo e che vivrà fin che vivrà il dramma sulla terra. Ecco dunque da un lato Grinchu, Floupin, Fetillard, villageois, dall'altro lato Henri Morisson, parigino. E fin dal primo atto appaiono sulla scena i difetti degli uni e dell'altro.
Gli abitanti della villa sono ignoranti, caparbi, egoisti, maligni, invidiosi, ingrati, burbanzosi, vigliacchi, e l'abitante della città è frivolo, leggero, volubile, pronto al male, ma pronto anche anche al bene, suscettibile al peccato, ma anche all'espiazione, effeminato ed eroe, coraggioso in tutto, tanto nel vizio come nella virtù, vero figliuolo del secolo. Tutti i giovani che hanno oggi vent'anni, sono fatti a simiglianza di Henri Morisson. Appena ch'essi sentono l'imperiosa necessità dell'amore, eccoli già posti in un bivio inevitabile e fatale: l'amor puro o l'amore colpevole? Non sanno se dare l'anima loro alla vergine o alla donna, a Geneviève o a Pauline. Quasi tutti, dopo aver molto sofferto, molto desiderato e molto titubato, scelgono… Pauline.
Questa è la storia quotidiana di tutti i primi amori, che oggi non sono certo i più puri, e la colpa non è di Sardou. Ma dopo i primi amori vengono i secondi, e allora si sceglie Geneviève, che si sposa al quinto atto. Che questo Henri sia un tipo vero, nessuno certo potrà contestarcelo; ma tutti ci contesteranno che sia un tipo estetico. E veramente fino al terzo atto nulla d'estetico, nulla d'ideale appare in codesto Henri Morisson. Ma al terzo atto il nostro personaggio s'ingrandisce meravigliosamente. La sua menzogna è stupenda; quel girella dell'amore, quel don Giovanni da dozzina, quel bardassa da boudoir, diventa un ideale eroico e tragico e mirabile, e allora l'arte incomincia:
"Ce rôle sans issue une fois adopté, il faut qu'il le soutienne, et nous soubissons lentement tous les détails que cette situation peut produire, depuis les mensonges variés de ce jeune imbécile jusqu'à la niaiserie de son père qui aime mieux se conformer à son dire et le déclarer un voleur que l'exposer à la colère de ce mari outragé ou plutôt croyant l'être. Certes la plume tombe des mains en résumant de pareilles aventures, e vingt fois devant cette succession d'absurdités la patience est sur le point de s'échapper à tout spectateur raisonnable".
Ecco ancora Prévost-Paradol che vocifera, e chiama l'azione di Henri un rôle sans issue, ma appunto perché è un rôle sans issue, fuorché l' issue della finestra e della fuga, o l' issue dell'infamia, l'azione è grande e drammatica. Prévost-Paradol avrebbe preferito il duello fin dal terzo atto, e che vantaggio avrebbe avuto la commedia dal duello? Henri si sarebbe lasciato uccidere dal Barone, o s'anche si fosse difeso, il Barone, vecchio militare, e vecchio geloso, e vecchio gentiluomo, avrebbe ucciso senza dubbio Henri. La colpa immaginaria della Baronessa si sarebbe confermata e aggravata col duello e tutte le apparenze avrebbero gridato la sua accusa. Il padre Morisson avrebbe, sconfessando la menzogna del figlio, immolata la vita di Henri a una apparente infamia di alcune ore, avrebbe da vigliacco, da plebeo, compromessa terribilmente la Baronessa. Tutto è combinato nell'atto terzo dei Bons villageois con profonda sapienza, e la critica non può assalirlo che combattendo in cattiva guerra e con cattive armi.
Eppure tutti i critici l'assalirono. Ci dev'essere una cagione nascosta a codesto sdegno universale: non possiamo supporre che gli scrittori francesi abbiano così fattamente smarrito il senso dell'arte e la gentilezza loro abituale. La ragione ci pare d'intravvederla in un periodo dello stesso Prévost-Paradol verso la fine del suo articolo. Alcuni calunniatori del fortunato commediografo hanno sparso la voce a Parigi che ne' Bons villageois ci erano delle allusioni politiche. Da qui la lapidazione di tutti i giornali oppositori al calunniato Victorien Sardou. Questa discolpa ci pare puerile e vana quanto la colpa. Sta bene l'opposizione, sta bene l'opinione politica, e non è difficile il manifestarla ogni mattina ed ogni sera su tutti gli articoli di fondo dei grandi giornali parigini. Rispettiamo ed onoriamo profondamente quel nobile circolo di persone che fanno od ispirano gli scritti della Revue des deux-mondes: hanno molto pensato, molto lottato, molto sofferto, molto osato per la Francia; ma rispettiamo ed onoriamo anche l'arte. Che i Nos bons villageois siano una commedia politica, lo neghiamo ricisamente in nome del buon senso, del buon senso del pubblico, del buon senso di Victorien Sardou. Chi crede al significato misterioso del "sindaco-barone", è un visionario, è un don Chisciotte, piglia mulini per mostri e lucciole per lanterne. I Nos bons villageois sono una semplice commedia e vanno giudicati come tale. Apprezziamo troppo l'importanza della politica per acconsentire quando la vediamo con paura spavalda nascondersi e mostrarsi in un articolo d'arte. Lo scritto di Prévost-Paradol è una cattiva azione giudicata dal punto di vista della critica, senz'essere una buona azione politicamente parlando. La stampa francese in questo affare dei Bons villageois ci ha mossi a sorpresa e a compianto. Abbiamo veduto con un certo ribrezzo tante altissime intelligenze dar fede a una fola da bimbi e su quella congiurare una dimostrazione politica. Il popolo della Rivoluzione, del Ohè Lambert, il popolo di Vergniaud e di Thérèse è sintetizzato in questo atteggiamento dei critici davanti a Sardou.
E qui è il caso di guardarci un po' noi con orgoglio lieto e sereno, noi liberissimi. Tutte le audacie ci sono permesse, tanto quello della penna come quelle della parola. Per dire altamente l'animo nostro non abbiamo bisogno di mascherarci dietro una rivista teatrale o di fischiare una bella commedia, o di applaudire una brutta. L'arte non deve nulla temere da noi; possiamo meditarla tranquilli, sciolti, senza manette ai polsi e senza vischio alle labbra. E perché possiamo ciò fare, ci piacque in queste pagine di riabilitare, per quanto le nostre forze lo permisero, la commedia di Victorien Sardou.
Un nobile esempio di questa nostra libertà l'ebbimo, or son poche sere, al Teatro Re nel dramma del signor Giovanni Biffi Il Ministro Prina. Bisognava essere ben saldi e bene affratellati e bene indipendenti per poter sostenere lo spettacolo d'un simile soggetto. Il signor Biffi osò presentarcelo coraggiosamente, noi osammo fissarlo pacati. La bieca data del 20 aprile 1814 poté oggi soltanto essere dissepolta senza pericolo. Se l'ombra del ministro Prina sorgesse dalla sua fossa del Gentilino e chiedesse a qualcuno
Cossa n'è staa di milanês dal dì Vint d'april del quattordes fina adess?
udirebbe narrare ben altre storie di quella che narrò Tommaso Grossi ai suoi tempi. Quante altre date gloriose dopo quella data funerea! Foscolo la descrive mirabilmente, colla sua solita pompa d'amarezza nello stile, e col suo solito splendore, e sembra che la lettera di Foscolo alla contessa d'Albany, scritta il lunedì 16 maggio 1814, sia stata quasi il programma scenico del signor Biffi. V'è nel lavoro del signor Biffi un bel colore storico, un bel colore locale, primissimi doveri di chi vuol trar dalle cronache la materia dell'arte. V'è generosa moderazione nel concetto generale, v'è arguta semplicità nei particolari; la scienza del vero e la coscienza del buono lo guidarono. Tutti i caratteri sono diligentemente segnati, colla storia alla mano. A volte il lavoro del signor Biffi appare tanto culto e tanto austero da dirsi piuttosto uno studio che un dramma; utile esempio a' giorni nostri ed a' paesi nostri ove s'usa porre assai troppo sotto ai piedi le severe fatiche dell'arte, e sta bene che in un tempo in cui l'attualità sola trova facile il plauso, ci siano de' giovani i quali studino, malgrado ciò, le cose passate. La serietà del loro intento li fa degni della riconoscenza e dell'ossequio dei critici.
APPENDICE BIBLIOGRAFICA
Novelle e riviste ho fedelmente trascritto dai periodici dove furon dapprima pubblicate, indicati nella speciale Bibliografia che faccio seguire, correggendo la spesso capricciosa punteggiatura e riducendo ad uniformità la incongruente grafia. Ho corretto anche alcuni evidenti errori di stampa, ma di così poco momento che non credo opportuno riferirli; naturalmente ho restituita al Grossi la paternità della Prineide, ma non ho potuto ridare la sua unità alla baronne d'Ange, perché avrei dovuto mutare tutto un periodo. Un "1879", nell'ultimo capitolo d' Iberia, è evidente errore di stampa; ma a quella data altra non ho saputo, né altri, credo, saprebbe sostituire e quindi la lascio com'è, confidando nella sagacia del lettore. Nel Trapezio, a pag. 93, si leggerà una frase un po' strana: «la ferocità della corsa»: può darsi che «ferocità» sia errore di stampa per «velocità»; ma date le bizzarrie linguistiche e immaginative del Boito,—non sono tuttavia in queste prose le preziosità e le stranezze dei versi e di certi libretti se non in scarsissima misura, meno in Iberia —, non ho osato mutare.
Sul testo del Raynouard, solo il quale il Boito poteva conoscere, ho, finalmente, corretto i versi provenzali che si leggono a pag. 28: sono essi del trovatore Guglielmo de Béziers e si leggono a pag. 33 del 3° tomo della Choix des poésies originales des trobadours. Mi sia lecito notar, di passata, che nella stessa opera (vol. 2°, pag. 213 e vol. 4° passim ) il Boito trovò il nome di Papiol, giullare di Bertrand de Born, da lui introdotto nel Re Orso, nonché i versi provenzali riportati in questo poemetto.
Dell' Alfier nero avevo la scelta tra due testi, quello del Politecnico e quello della Strenna Italiana; preferii questo perché riveduto dall'autore. Ecco ora le principali varianti tra i due:
Politecnico
Strenna
pag.4 l. 26 quel negro venne portato in Europa
quel negro, nativo del Morant-Bay, venne portato in Europa
» 6 » 6 e 7 distingue il vero gentiluomo dal gentiluomo di contraffazione
distingue il vero gentleman dal gentleman di contraffazione
» 7 » 16 Hanno l'intelletto ottuso Hanno l'intelletto chiuso
» 7 » 26 né me sono pentito, solo un po' scoraggiato. Voi vedete in me una specie di Diogene
Io sono una specie di Diogene
» 8 » 3 Gli sguardi di ognuno
Gli sguardi degli astanti
» « » 22-23 potrei proporvi un passatempo
potrei proporvi una distrazione
» 9 » 16-17 il lavoro di questi scacchi era così sottile che li riducea
il lavoro sottile di questi scacchi li riduceva
» 10 » 11 potrei darvi
potrei chiedere di darvi
» » » 27 il più celebre
uno dei più celebri
» » » 28 giuocatori a scacchi di Washington
giuocatori a scacchi d'America
» » » 31 emigrata in America
emigrata a Washington
» 10-11 » 31-1 si era fatto milionario
si era fatto quasi milionario
» 13 » 19-20 fosca e convulsa
fosca come la notte
» » » 27 quegli poneva ogni studio ed ogni sua forza
quegli poneva ogni sua forza
» 15 » 26 per darsi quale ad un libro
per darsi quale ad un lavoro
» 19 » 24 fuor che il battito d'un grande orologio
fuor che quello d'un grande orologio
» » » 30-31 aggiunte queste due righe:
Il selvaggio odore della razza negra offendeva le nari dell'Americano.
» 21 » 2 non era più uno scacco, ma un uomo
non era più uno scacco, era un uomo
» » » 3 non era più un nero, ma un negro
non era più nero, era negro.
» » » 5-6 aveva visto molti anni addietro quel volto
aveva visto molti anni addietro il suo volto
» » » 6 era un vivente….. o un morto.
era un vivente….. o forse un morto.
» » » 24 Passarono così quattro ore,
Passarono così altre quattro ore,
» 22 » 12 avventandosi l'un contro l'altro tragicamente
avventandosi fra loro tragicamente
» » » 15 della torre e dell'alfiere avevano trascinato
della torre e delle pedine avevano trascinato
» 23 » 29 ove incalzato dai rimorsi,
e là incalzato dai rimorsi,
» 24 » 1-2 l'assassinato era un negro
l'assassinato non era che un negro
» » » 10 tornò a casa sua
rientrò nelle sue terre
» » » 18 camminava per le piazze di New-York
camminava per le vie di New-York
BIBLIOGRAFIA
A) delle Novelle
1.—L'Alfier nero: a) Il Politecnico, Repertorio di studi letterarii, scientifici e tecnici. Parte letterario-scientifica. Milano 1867, Serie 4, vol. 3, pag. 269-282 (fascicolo del marzo).
b) Strenna italiana pel 1868. Milano, R. Stabilimento Nazionale di Ant. Ripamonti-Carpano; Venezia, Carlo Bianchi. Pag. 9-64: ARRIGO BOITO Un paio di novelle, pag. 11-31: L'Alfier nero.
2.— Iberia: Strenna citata, pag. 33-64.
3.— Il trapezio: Rivista Minima diretta da Antonio Ghislanzoni. Anno III, 1873. R. Stabilimento Ricordi, Milano. N. 3, 4, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 13, 14, 16, 17, 18, 19, 23. Rivista Minima diretta da A. Ghislanzoni-S. Farina. Anno IV, 1874. R. Stabilimento Ricordi, Milano. N. 2, 18 gennaio 1874, pag. 27. Con questa puntata resta troncato il racconto. Nel N. 13, nella rubrica Minime, si legge: «Nel prossimo numero sarà ripigliato e continuato senza interruzione il bel racconto di Tobia Gorrio: Il Trapezio », ma la promessa non ebbe né anche un principio di adempimento. La firma in calce alle singole puntate è sempre Tobia Gorrio, qualche volta in carattere tondo, qualche volta in corsivo, a forma di autografo. Anche nell'indice è sempre questo nome. Invece nel N. 10 del 1874, pag. 148, è pubblicata la nota poesia Lezione anatomica firmata con le sole iniziali A. B. In queste due annate della Rivista Minima altro non c'è del Boito.
B) Delle Riviste drammatiche
I. Il Politecnico citato. Serie 4. vol. I. Milano, 1866, pag. 635-646.
II. Ivi, pag. 915-23.
III. Ivi. Serie 4, vol. 3. Milano, 1867, pag. 86-96. La firma è, per I e II e per L'Alfier nero, =Arrigo Boito= (nell'indice, anche per la novella, =Boito prof. Arrigo=); per III A. B. (nell'indice B. A.)¹
¹ Non dispiaccia che, per la storia della fortuna del Boito e più specialmente del Mefistofele, ricordi come nel 1868 le riviste drammatiche del Politecnico nel 1868 furono continuate da un anonimo, il quale (vol. V, pag. 197-198) scrisse un severo giudizio del libretto appunto del Mefistofele, che dice, più che un errore, un assurdo, consigliando il poeta a mutar strada, poiché egli aveva provocato il pubblico a giudicare come opera letteraria un melodramma destinato a incarnare uno spartito musicale. Ricorderò anche che nella Strenna del Gazzettino Rosa (Milano, Gattinoni, 1868, ma stampata e pubblicata nei primi mesi del '69, e infatti la prefazione porta la data 16 gennaio 1869) L'economista per ridere scrive in una Rivista comica dell'anno 1868 (pag. 14): «Mefistofele, genio malefico, mosse aspra battaglia al genio dell'Armonia, e venne, lacerator di ben costrutti orecchi, evocato da non so quale medium sul palcoscenico della Scala». Dopo questa prima botta al Boito, che apparteneva alla consorteria del Pungolo inviso, al quale la Strenna continuamente e ferocemente allude, introduce (pag. 19-22) un dialogo, burlesco ma non spiritoso, tra il Boito e il ministro dell'Istruzione Emilio Broglio, che pare intendesse far risorgere la musica italiana, dimenticando, dice l'articolista, ch'era viva, mentre quello aveva col Mefistofele inteso allo stesso scopo e non si vedeva apprezzato dal ministro; finisce riproducendo una supposta lettera, stupidamente insolente, che pare prenda le mosse da una vera, del maestro al ministro. Nel dialogo il Boito si vanta di aver fatto molti sforzi per la risurrezione della musica italiana e di esserci riuscito: «chiedetelo dice, al Dottor Verità, poi a Leone Fortis, poi al Pungolo, e vedrete». Come la consorteria accogliesse questi assalti mostra il brindisi-melodramma La consorteria delle Effe di Paolo Ferrari, che è appunto del 1868, pubblicato da Vittorio Ferrari nel suo libro sul padre: il brindisi è notevole anche perché prova che il severo giudizio sulla Marianna non aveva per nulla offeso l'affettuosa amicizia ch'era tra i due scrittori. Vero è che il Ferrari, nella prefazione della Marianna, anteriore alla rivista del Boito, ribatte le accuse di immoralità rivolte alla sua commedia, e quanto ai giudizi estetici dichiara di rispettare il gusto di tutti.
C) Intorno alle Novelle
1.—=Albinati G.= Bibliografia letteraria e musicale di Arrigo Boito in I libri del giorno, Rassegna mensile internazionale, Milano, Treves, 1918, anno I, n. 4, pag. 165. Embrione di bibliografia più che vera bibliografia: le novelle sono ricordate così: "Moltissimi articoli di critica musicale, letteraria, tre novelle pubblicate in diverse "Riviste", tra le quali La Gazzetta Musicale ". Esaminata questa Gazzetta, nulla vi ho trovato.
2.—=Barbiera Raffaello=. La veglia d'arme d'Arrigo Boito in Rivista d'Italia, anno XI, fasc. IX, 30 settembre 1918, Milano, p. 86.
Sono ricordi interessanti; delle novelle nomina L'Alfier nero e Il trapezio: di questa non dice nulla, di quella scrive che fu pubblicata nel Politecnico senza precisare il volume.
3.—=Croce Benedetto=. Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX. « VIII: Boito—Tarchetti—Zanella in La Critica, anno II (1904), pag. 379: «Trovo ricordata nel Conversations-Lexicon del Meyer una serie di novelle (del Boito): L'alfiere nero, Il pugno chiuso, Honor, Il trapezio, Iberia; ma non so se non si tratti di un equivoco».
Nella Letteratura della Nuova Italia, Bari, Laterza, 1914, vol. 1°, pag. 259 e 419, il C. soppresse l'accenno alle novelle.
4. =Farina Salvatore=. La mia giornata (Dall'alba al meriggio). S. T. E. N. Torino 1910. p. 178-179.
5. =Gallignani G.= Arrigo Boito rievocato da un amico in La Lettura, anno XIX, n. 3, marzo 1919, pag. 153. È la migliore commemorazione del B. che io abbia letto; ricorda l'attività svariata di lui come giornalista, e dice che in quanto scriveva di critica, sebbene scrivesse senza ambizione d'arte, solo per guadagnarsi da vivere, imprimeva «tale marca personale di osservazione e di forma, da persuadere che quei suoi rilievi sarebbero accolti oggi ancora con grande piacere e profitto». A pag. 158 scrive: «butta giù (il B.) due novelle «Alfiere nero» ed «Iberia»: che proprio le buttasse giù, almeno per quanto riguarda L'Alfiere, smentiscono le correzioni fatte per la seconda edizione. Poco più oltre: «butta giù altre due novelle: «La musica in piazza» e «Il trapezio», rimasta incompiuta»: né anche al Trapezio è bene applicato il butta giù. Non dá nessuna indicazione bibliografica.
7. =Molmenti P. G.=, Impressioni letterarie. Milano, Battezzati, 1875. Arrigo Boito, pag. 188.
8. Pungolo (il), di Milano, 10 settembre e 27 dicembre 1867.