PREFAZIONE
Ai miei Vecchi Compagni d'Armi! Ai giovani d'oggi!
Mai, come in questo momento che scrivo, e che ho davanti a me sul tavolo, raccolte le bozze dei miei "Ricordi", ho sentita tutta la religione delle memorie, e il conforto dell'opera prestata per la redenzione della patria.
In queste pagine povere e modeste, si seguono, in folla, uomini ed episodi, confusi nella nebbia del tempo e delle vicende, vivi, però, nel cuore di quanti parteciparono alle epiche lotte della italica rivendicazione.
Come da un prisma, vividi e smaglianti si sprigionano i colori, così dalle memorie, netti e purissimi vivono gli uomini che furono—le battaglie combattute—le lotte fierissime sostenute gli ideali mai piegati e mai domi—le turbinose vicende che tempo ed uomini non poterono infrangere o tramutare.
E malgrado io sappia che un pensiero scettico domina e vince gli uomini dell'oggi—pure non reputo inutile il pubblicare questi "Ricordi"—documento autentico d'una epoca fortunosa e grande—fiore modesto che io depongo sulle fosse dimenticate e su' marmi onorati—lauro votivo a quanti alla patria dettero la giovinezza, il sangue, gli entusiasmi, la vita.
E voi, scettici beffardi, che irridete le gloriose memorie delle nostre battaglie—Voi che dovete l'attuale libertà alla fede da noi sentita e alle lotte da noi sostenute—Voi che educate la odierna gioventù alla negazione di quel sentimento patriottico che fu il culto dell'epoca nostra—Voi che tentate distruggere col freddo sofisma o col gelido e immeritato disprezzo, le pagine più belle e più gentili della storia del popolo nostro—Voi, scettici per opportunismo, leggete questi modesti "Ricordi" ove palpita, freme e grida dolente l'anima mia—un'anima di soldato che ebbe ed ha un solo ideale: la patria! e che vorrebbe che, come una volta, s'effuse sangue generoso, si prodigasse oggi intelletto, operosità e cuore per completarla e mantenerla grande, prospera e temuta.
Leggete e se non troverete la bellezza della forma e della frase letteraria studiatamente convenzionale, voi vedrete, invece mano a mano riapparire e palpitare uomini che furono e sono gloria e vanto dell'Italia nostra, e dopo questi, altri ed altri ancora, che il facile oblio trascinò troppo presto fra la folla dei dimenticati.
Ed allora son certo—se il vostro cuore, non sarà precocemente pervertito dall'opportunismo moderno—che anche Voi, resi men scettici dalla lettura di questi "Ricordi", vi riconcilierete col passato glorioso che è eredità di popolo generoso—e comprenderete che il patriottismo non è una forma arcadica morta, mentre esso vive e vivrà nel pensiero e nel cuore dei popoli liberi, fino a che sarà culto gentile la riconoscenza per i fattori della nostra indipendenza.
Ed è ai giovani che insieme a Voi miei vecchi commilitoni—che io dedico questo libro mio:—è ai giovani che, anche in nome vostro, ricordo tutta quell'epoca che parrà leggenda, quando il tempo renderà la tarda ma dovuta giustizia agli uomini ed agli eventi storici.
Ed è ai giovani che hanno l'anima piena di speranze e d'amore, e sentono che la vita sarebbe sterile senza la luce d'un ideale, che io mando il mio saluto augurale.
Su, su, giovani d'Italia!—Come voi, rosei e frementi nei loro vent'anni, eran coloro che dal 48 al 70 combatterono per redimere l'Italia—eran come voi animosi e gagliardi gli studenti che a Curtatone e Montanara, come a Roma, tennero alto agli albori del nostro risorgimento, il genio e il valore italiano;—come voi erano entusiasti e nobilmente ribelli i Mille compagni di Garibaldi, che salpando da Quarto compirono il più grande fatto storico dell'epoca moderna;—e giovani come voi erano i caduti sui campi di battaglia per la causa santissima da Custoza a Milazzo—da S. Martino a Calatafimi—da Pastrengo a Bezzecca—da Volturno a Castelfidardo e Mentana; e le zolle d'Italia, ricoprono ovunque pietose le ossa generose di quella balda e fiera gioventù, che tutto abbandonando affrontava la morte al grido di "Viva Italia!..."
Su, su, giovani! sulle mura d'ogni vostro paese, nei marmi votivi, sono scolpiti i nomi dei vostri cari—e quei nomi sono solcati dal sangue dei morti e dalle lagrime dei superstiti—sangue e lagrime che valsero a darvi una patria libera e indipendente!
Innanzi a tali ricordi l'irrisione diventa bestemmia!...—Giovani d'Italia venite con me a salutare i soldati del patrio risorgimento!
A. Elia.
CAPITOLO I.
Garibaldi in America.
Nato in Ancona il 4 settembre del 1829 e figlio d'un marinaro, Elia volle fin dalla tenera età di nove anni intraprendere esso pure la carriera del mare incominciando ad esercitarla da mozzo e percorrendola tutta, fino a diventare Capitano di lungo corso.
Nei suoi viaggi più volte gli era occorso di entrare in relazione con patrioti italiani; nei loro discorsi aleggiava già la fulgida figura di Giuseppe Garibaldi. Si sentivano entusiasmati dal racconto delle eroiche azioni da lui compiute nell'America del Sud, ne apprendevano i particolari con avidità e ne facevano prezioso tesoro. Era tutta un'epopea che vedevano svolgersi intorno all'eroe, e loro sembravano omeriche gesta quelle compiute in difesa della piccola repubblica dell'Uraguay invasa dalle truppe del terribile Rosas, e fra le altre, la campagna del Paranà combattuta da Garibaldi con tre piccoli legni, male armati, contro tutta la flotta Argentina comandata dall'Ammiraglio Brown; e particolarmente il combattimento di Nuova Cava decantato quale uno dei più brillanti fatti navali. La gloriosa giornata di Sant'Antonio al Salto fu poi quella che illustrò il nome italiano e rese celebre quello di Garibaldi; combattimento di leoni che il Generale stesso descrisse così:
"Nella mattina del 18 febbraio 1846 dalle ore 8 alle 9 sortii dell'accampamento del Salto alla testa di centonovanta legionari italiani divisi in quattro piccole compagnie e circa duecento cavalieri comandati dal Colonnello Baez che da pochi giorni si era a noi riunito.
"Costeggiando la sinistra dell'Uraguay un pò prima delle 12 si arrivò alle alture del Tapevi, fiancheggiato sempre dal nemico che fu tenuto in soggezione dalle nostre catene di Cacciatori.
"La fanteria prese posizione sotto tettoie di paglia, che altro vantaggio non ci offrivano fuorchè di ripararci dai cocenti raggi del sole; la cavalleria si spinse fino al Tapevi in esplorazione. Una mezz'ora passò senza nessuna dimostrazione ostile per parte del nemico; ma questo da tempo covava un inganno e ci aveva tratti nell'agguato, occultando accuratamente le sue forze nei boschi del Tapevi, per trarci in aperta campagna, cosa che non gli riuscì, causa l'azione della nostra batteria. La nostra cavalleria, attaccata da forze molto superiori, fu travolta e messa in fuga, meno pochi che ci raggiunsero. Io arringai con brevi parole i miei:—"I nemici sono molti, ma per noi sono ancora pochi—non è vero? Italiani! questo sarà un giorno di gloria pel nostro paese; non fate fuoco se non a bruciapelo.
"Grandi masse di cavalleria si avanzano su di noi, e per poco ci lusingammo di avere a fare con la sola cavalleria; ma fummo ben presto disingannati nel vedere scendere dalla groppa dei cavalli i fanti, ed ordinarsi in numero di oltre trecento: mille e più erano i cavalieri, tutti sotto il comando del generale Servando Gomez. Le nostre piccole compagnie furono ordinate in battaglia sotto le tettoie per trarre profitto di una scarica generale e caricar quindi alla baionetta; la cavalleria, ridotta in pochi, si tenne pronta ad agire ove più occorreva. La fanteria nemica ci assaliva di fronte; la cavalleria ci prendeva ai fianchi ed alle spalle: ma quando la fanteria fu a trenta passi da noi, l'accogliemmo con una scarica così concorde ed aggiustata, che s'arrestò di botto: e poichè anche il suo comandante era caduto da cavallo lo scompiglio del nemico crebbe a tal segno che noi pensammo di trarne profitto immediatamente. E ben n'era tempo, perchè anche la cavalleria ci era sopra e pochi istanti di titubanza ci potevano riuscir fatali. Con l'esempio e con la voce, ci scagliammo all'attacco della fanteria impegnando una lotta corpo a corpo che terminò colla quasi distruzione del nemico. Anche la nostra cavalleria ci giovò in quel frangente, divergendo da noi parte delle truppe nemiche e caricando forze dieci volte superiori, quando già stavano per piombare su di noi.
"Distrutta la fanteria restammo padroni del campo; il nemico si ritirò a rispettosa distanza atterrito dalla nostra difesa. Non abbandonò però il pensiero di considerarci come cosa sua, e dispose tutta la sua cavalleria—metà della quale era armata di carabine—all'intorno del nostro campo, sicuro che la fame e la mancanza di munizioni ci avrebbero costretti alla resa.
"La nostra posizione era ben critica: scemati di numero, feriti la maggior parte dei superstiti, circondati da un nemico imponente e minaccioso, la nostra energia era pressochè esaurita; guai a noi se il nemico ci avesse attaccati un'altra volta in quel momento.
"In attesa della notte si diede opera a sollevare e curare i feriti.
"Era tanto il terrore del nemico per l'eroismo dei legionari, che i suoi capi non riuscirono a condurlo ad un secondo attacco.
"Infine venne la desiderata oscurità.
"Ad un miglio circa dal luogo del combattimento eravi il bosco che costeggia l'Uraguay, porto di salvezza, che l'ignoranza del nemico aveva lasciato aperto.
"In gran silenzio si formò una piccola colonna—così dice Garibaldi—i feriti atti a camminare, furono posti nel mezzo, caricati sulle spalle!... Ad un dato segnale si partì compatti, a passo accelerato, decisi a tutto; si prese la direzione del bosco passando silenziosi avanti al nemico, che stupefatto, del nostro ardire ci lasciò libero il varco, e prima che si fosse riavuto o fosse stato in grado di seguirci noi avevamo raggiunto il bosco—porto tanto necessario e desiderato.
"Nessuno si sbandò—ubbidienti all'ordine, tutti si gettarono a terra, distesi in una lunga catena, in attesa del nemico che non si fece attendere molto. Il suono delle sue trombe ci avvisò del suo avvicinarsi, e poco stante comparvero i suoi squadroni, che noi, silenziosi e nascosti, attendemmo fino alla distanza di venti passi per salutarli con una salva che li colpì nel più fitto, e riuscì micidiale, tanto da metterli in scompiglio e deciderli a dar volta a briglia sciolta!
"Soddisfatto il bisogno il più sentito, quello della sete, riprendemmo la ritirata verso il Salto. A poca distanza dal paese incontrammo il bravo Anzani, tenente colonnello Comandante la legione italiana, che ci era venuto incontro per abbracciarci.
"Gli abitanti del paese presero amorevole cura dei nostri feriti. La nostra perdita ammontò a quarantatre morti—gli altri quasi tutti feriti; ma le perdite del nemico furono assai gravi, più di cinquecento fra morti e feriti, e fra i morti diversi ufficiali superiori. Appena si seppe che la Campagna era libera dal nemico, sortimmo per raccogliere i corpi dei nostri fratelli per dar loro onorata sepoltura sul terreno ove caddero valorosamente, pugnando per tenere alto ed onorato il nome italiano. Una alta Croce colla modesta iscrizione:— trentasette italiani morti combattendo l'8 febbraio 1846 —indica il luogo ove quei valorosi riposano per sempre"!
A questa narrazione fatta da Garibaldi non manca di aggiungere che l'ordine del giorno col quale egli ringraziò i suoi legionari della vittoria riportata, e il decreto, con cui la Repubblica Orientale deliberava ai vincitori di Sant'Antonio imperitura onoranza.
Ecco i due documenti:
Salto 10 febbraio 1846. Fratelli,
"Avanti ieri ebbe luogo nei Campi di Santo Antonio, a una lega e mezzo da questa città, il più terribile ed il più glorioso combattimento. Le quattro compagnie della nostra Legione, e circa cinquanta uomini di cavalleria rifugiatisi sotto la nostra protezione, non solo si sono sostenuti contro mille e duecento uomini di Servando Gomez, ma hanno sbaragliato interamente la fanteria nemica che li assaltò in numero assai superiore. Il fuoco cominciò a mezzogiorno e durò fino a mezzanotte; non valsero al nemico le ripetute cariche delle sue masse di cavalleria, nè gli attacchi dei suoi fucilieri a piedi; senz'altro riparo che una casupola in rovina coperta di paglia, i legionari hanno respinto i ripetuti assalti del più accanito dei nemici; io e tutti gli ufficiali abbiamo fatto da soldati in quel giorno. Anzani che era rimasto al Salto, ed a cui il nemico aveva intimato la resa della piazza, rispose colla miccia alle mani e il piè sulla Santa Barbara della batteria, quantunque lo avessero assicurato che noi tutti eravamo caduti morti o prigionieri.
"Abbiamo avuto trentasette morti e cinquantatre feriti; tutti gli ufficiali sono feriti. Io non darei il mio nome di legionario italiano per tutto il globo in oro ". Il vostro
G. Garibaldi.
Ed ecco il
DECRETO
"Desiderando il Governo dimostrare la gratitudine della patria ai prodi che combatterono con tanto eroismo nei campi di Sant'Antonio il giorno 8 del corrente; consultato il Consiglio di Stato, decreta:
Art. 1. Il Generale Garibaldi, e tutti coloro che lo accompagnarono in quella gloriosa giornata, sono benemeriti della Repubblica.
Art. 2. Nella bandiera della Legione Italiana saranno iscritte a lettere d'oro, sulla parte superiore del Vesuvio, queste parole. "Gesta dell'8 febbraio del 1846, operate dalla Legione Italiana agli ordini di Garibaldi".
Art. 3. I nomi di quelli che combatterono in quel giorno, dopo la separazione della cavalleria, saranno iscritti in un quadro, il quale si collocherà nella sala del Governo, rimpetto allo Stemma Nazionale, incominciando la lista col nome di quelli che morirono.
Art. 4. Le famiglie di questi, che abbiano diritto a una pensione, la goderanno doppia.
Art. 5. Si decreta a coloro che si trovarono in quel fatto, dopo di esserne stata separata la Cavalleria, uno scudo che porteranno nel braccio sinistro con questa iscrizione circondata di alloro: "Invincibili combatterono l'8 febbraio 1846".
Art. 6. Fino a tanto che un altro corpo dell'Esercito non s'illustri con un fatto d'arme simile a questo, la Legione Italiana sarà in ogni parata alla diritta della nostra fanteria.
Art. 7. Il presente decreto si consegnerà in copia autentica alla Legione Italiana, e si ripeterà nell'ordine generale tutti gli anniversari di questo combattimento.
Art. 8. Il Ministro della Guerra resta incaricato della esecuzione e della parte regolamentare di questo decreto che sarà presentato alla Assemblea de' Notabili: si pubblicherà e inserirà nel R. U.
"Suarez—Jose de Beia—Santiago—Vasquez Francisco-J. Mugnoz".
Garibaldi restò ancora alcuni mesi al Salto di Sant'Antonio, continuando a battagliare colla flottiglia e colla Legione, fino a che il Governo stesso lo chiamò a Montevideo. Sul cominciare di settembre il Generale Pacheco che aveva immensa affezione e stima di Garibaldi gli offrì il comando della Piazza.
Per ubbidienza Garibaldi accettò l'arduo incarico—ma ben presto grandi e piccole gelosie, pregiudizi locali, permalosità spagnole, scoppiarono contro di lui e lo fecero accorto che era meglio deporre l'ufficio.
Saputosi a Montevideo la notizia dell'assunzione al trono pontificale di Pio IX e delle sue idee riformatrici, nonchè delle apparenti sue intenzioni di promuovere guerra contro l'Austria, a Garibaldi ed ai suoi legionari sembrò giunta l'ora di combattere per la redenzione della loro terra natale, e senza indugio, in nome suo e dei suoi compagni d'arme, scrisse al Nunzio papale a Montevideo, offrendo i suoi servigi nella guerra contro lo straniero.
Contemporaneamente scriveva al suo amico Paolo Antonini di Genova, concludendo così:
"Io pure, con gli amici penso venire in Italia ad offrire i deboli servigi nostri, o al Pontefice o al Granduca di Toscana. Indi avrò il bene di abbracciarvi. Qui si aspettano notizie d'Europa. Amate il vostro"
G. Garibaldi
Montevideo 27 dicembre 1847.
CAPITOLO II
1847-48 Insurrezione della Sicilia Messina-Palermo-Catania-Calabrie.
Come la più oppressa tra le regioni italiane, la Sicilia fu la prima a tentare di scuotere il giogo che le gravava sul collo appena si ebbe sentore delle idee liberali di Pio IX. Primissima Messina, il 1 o settembre del 1847. Molti parteciparono alla congiura, pochi, per fatali equivoci, presero parte all'azione; gli ufficiali borbonici che dovevano essere tutti colti all'improvviso all'Hôtel Vittoria, dove erano uniti per festeggiare una promozione, non si sa come, vennero prevenuti; corrono alle caserme ed alla Cittadella e ne escono alla testa di forti battaglioni. Gli insorti non s'intimidiscono; affrontano le truppe vendendo cara la loro vita; ma alla fine il numero la vince sul valore e l'insurrezione è domata. Il generale Landi pubblica un bando contro i principali cospiratori promettendo lauti premi a chi li consegni.
Tutta la città conosceva i capi dell'insurrezione, ma non vi fu uno che li denunziasse; e, più meraviglioso ancora, che taluni dei perseguitati trovarono rifugio in case di gente poverissima per la quale il premio promesso dal Lanza sarebbe stata una vera ricchezza. Tutti i compromessi trovarono modo d'imbarcarsi; ma nei messinesi restò accresciuto l'odio contro le truppe borboniche, e doveva presto venir il giorno che la patriottica città avrebbe presa la sua rivincita.
A dare la nuova iniziativa spettava alla capitale della Sicilia, all'eroica Palermo e questa non tardò ad affermarlo in modo veramente straordinario.
Maggiore eroismo di un popolo non si sarebbe potuto dare. Certo fu esempio unico nella storia.
Questo fu la sfida poderosa, quasi pazza, in cartello a giorno determinato che i palermitani stanchi di domandare lenimento alle profonde piaghe comuni, lanciavano alle autorità costituite del tirannico governo borbonico. Il 22 gennaio 1848, giorno natalizio di Ferdinando II Re delle due Sicilie, era fissato per la rivoluzione.
L'ansia dei giorni che di poco precedettero quello stabilito fu grande.
Spuntava l'alba del 12. Forti pattuglie di cavalleria in attitudine di guerra percorrevano le vie della città e i sobborghi. Buon nerbo di fanteria e di birri stavano schierati in piazza Vigliena. Le truppe erano consegnate ne' quartieri, al palazzo Reale, al Castello. Era appena giorno e le vie brulicavano di gente inerme di ogni classe come nei giorni di festa. Le finestre, i balconi di tutte le case zeppe d'uomini, di donne, di fanciulli, tutti aspettanti qualche cosa che ignoravano ma che presentivano dovesse accadere. Finalmente alla Madonna del Cassero si presenta un uomo armato di fucile, visto di essere il solo armato, grida al tradimento e fa fuoco in aria. Al colpo si risponde con applausi rumorosi dalle finestre, dalle vie; ed ecco altri due cittadini armati salutati al loro arrivo da frenetici applausi. Alla piazza della Fieravecchia una ventina di persone, quali armati di fucile e quali d'arma bianca con nastro tricolore sul petto, stanno aspettando che altri vengano a far massa; fu un'ora tremenda di aspettativa e di dubbio, ma altri valorosi sopraggiungono, si forma una colonna, questa si muove per altre strade e fa nuove reclute. Passa per l'Albergaria e la colonna s'ingrossa d'armati, pronti a dare la vita combattendo. La truppa ed i birri di piazza Vigliena, non molestati e non molestanti, si ritirano verso il palazzo Reale ed il popolo li acclama.
Un corpo di circa cinquanta soldati a cavallo con alla testa il figlio del generale Vial entrava nella strada nuova per sciogliere l'attruppamento; il popolo gridava Viva la truppa! ma i soldati all'ordine dell'ufficiale che li comandava misero mano alle sciabole; dal popolo allora partirono alcuni colpi di fucile e questi bastarono per mettere in fuga ufficiali e cavalieri. Il dado ormai era tratto e la rivoluzione prese animo e si fè gigante per l'inasprimento della popolazione svegliata dal rombo delle artiglierie. Si festeggiava il natalizio del re con la strage che palle e mitraglia facevano del popolo; e da parte del popolo coi rintocchi delle campane suonanti a stormo.
Il giorno 13 le squadre cittadine cresciute di numero e di coraggio assalivano da più parti il palazzo delle Finanze difeso da forte presidio di soldati; il combattimento fu ostinato e non cessò che la sera; il popolo mancava di artiglieria e non poteva tentare un assalto con fucili od armi corte perchè per forzare i cancelli bisognava esporsi alla mitraglia dell'artiglieria di Porta Nuova che infilava il "Cassero"; durante il lungo combattimento contro le Finanze non si cessò mai dal Castello di lanciare bombe che danneggiavano le case, i conventi, le chiese; si sperava che il terrore avrebbe consigliata la sottomissione, ma l'effetto fu totalmente contrario. Pacifici cittadini, anche i più timidi, vistisi minacciati negli averi e nella vita scelsero di morire con le armi in pugno in difesa del patrio focolare e si unirono al popolo; si chiedeva armi da ogni parte.
Per provvedere ai più urgenti bisogni si riunivano molti dei più notabili cittadini nel palazzo Municipale e si formarono comitati diversi in appoggio del Comitato della Fieravecchia centro delle disposizioni di guerra, e siccome le imprese generose svegliano la simpatia dei cuori umani, un inglese, che per modestia volle non fosse pubblicato il suo nome, mise a disposizione del Comitato armi e munizioni da guerra a quanti dei cittadini ne avessero fatta richiesta.
I combattimenti continuavano da parte dei cittadini; la distruzione col bombardamento da parte delle truppe che fra l'altro incendiavano il Monte di S. Rosalia e nell'incendio venivano consumati i miseri cenci della parte più povera del popolo e il popolo inferocito, nonostante la difesa delle truppe, s'impossessava del quartiere militare di Santa Cita; altra vittoria sanguinosa riportava sulle truppe che occupavano il podere del principe di Villafranca di fronte a porta Macqueda.
Nel giorno 24 i cittadini assalivano furiosamente il Noviziato guardato da molta forza e se ne rendevano padroni. Le truppe erano scosse già; alcuni militi eransi affratellati al popolo accolti con amorevolezza; il palazzo Reale nel giorno 26 cadeva in mano dei cittadini e nelle ore pomeridiane questi prendevano possesso anche del palazzo delle Finanze.
I regi cacciati da tutte le loro posizioni si riunirono al Molo; i generali De Maio e Vial s'imbarcano per Napoli; al comando delle truppe rimase il Desauget.
I cittadini si aspettavano un sanguinoso combattimento al Molo, ma il Desauget sceglie di ritirarsi, costeggiando la catena dei Monti che cingono da Levante a Settentrione Palermo.
Non restava ai cittadini che di espugnare il forte di Castellamare; e a questa impresa si accinsero animosi.
Furono piantate, mascherandole, le più grosse artiglierie e mortai caduti in mano del popolo nel fabbricato della Carità che guarda il Castello dal lato della Cala. Il forte sotto il fanale del molo fu destinato a tenere occupato il Gross comandante del Castello dal lato opposto; altri pezzi dovevano ribattere il fuoco della batteria principale e questi furono piazzati fra le case che circondano la Cala di porta Felice a Piedigrotta; doveva essere un feroce bombardamento e della battaglia dovevano essere spettatori un Vascello di linea inglese ed altro Vapore, nonchè molte navi mercantili di diverse bandiere che abbandonato il molo eransi schierate in linea nella rada. E il fuoco incominciò da ambo le parti; per quasi tre ore tremarono le case della città al rimbombo delle grosse artiglierie e di mortai. Ad un tratto il fuoco cessava su tutti i punti. Per mediazione del Comandante del Vascello inglese si trattò della resa ad onorevoli condizioni. Nella notte il Comandante Gross con tutta la guarnigione di circa mille soldati con armi e bagaglio s'imbarcava per Napoli.
Il giorno 5 febbraio Palermo libera, dalle armi borboniche, solennizzava alla Chiesa Madre, con l'inno ambrosiano, la sua vittoria.
Fu questa la fine dei 24 giorni di rivoluzione palermitana, meravigliosa per l'audacia di chi la indisse, pel valore sommo del popolo che la sostenne, per la generosità di soccorsi avuti e pel favore unanime dell'Isola tutta; deplorevole per le truppe regie, vittime delle insolenze e delle viltà dei capi, nonchè del giusto risentimento di un popolo da assai tempo calpestato ed oppresso.
Il Comitato Generale ottenuta la meravigliosa vittoria col concorso e il sagrifizio di tutta la cittadinanza, sentì la necessità, sino alla convocazione del Parlamento, di costituire un governo provvisorio e con un proclama divideva le incombenze governative e nominava i cittadini che doveano esercitarle come appresso:
Presidente del Comitato generale sig. Ruggero Settimo, Segretario generale sig. Mariano Stabile.
1 o Comitato—Guerra e Marina—presidente il principe di Pantellaria, Vice presidente il barone Pietro Riso, Segretario sig. Francesco Crispi.
2 o Comitato—Finanze—presidente il Marchese di Torrearsa, vice presidente il conte Sommatino, Segretario sig. Francesco Anca.
3 o Comitato—giustizia, culto, sicurezza pubblica interna—Presidente sig. Pasquale Calvi, vice presidente il sac. Gregorio Ugdulena, Segretario sig. Vincenzo Errante.
4 o Comitato, Amministrazione civile, istruzione pubblica e commercio, presidente il principe di Scordia, vice presidente il barone Casimiro Pisani, segretario il cav. Vito Beltrami.
Componenti dei quattro Comitati. Guerra e Marina, i signori barone Andrea Bivona, Rosario Bagnasco, Pasquale Bruno, Ignazio Calona, Salvatore Castiglia, Giambattista Cianciolo, Emanuele Caruso, Damiano Lo Cascio, Giacinto Carini, Sebastiano Corteggiani, Ascanio Enea, Enrico Fardella, principe Grammonte, cav. Antonio Jacono, Giuseppe La Masa, Giacomo Longo, Domenico Minelli, Pasquale Miloro, Filippo Napoli, Faija Giovanni, Naselli Flores, Giuseppe Oddo, Andrea Ondes Reggio, Agatino Ondes Reggio, Vincenzo Orsini Giordano, Salvatore Porcelli, Rosolino Pilo Giaemi, Mario Palizzolo, principe Ottavio Ramacca, Tommaso Santoro, Francesco Vergara, Guglielmo Velasco.
Finanze—i signori conte Aceto, duca Monteleone, duca Serradifalco, Francesco Stabile, Giovanni Villa Riso, Benedetto Venturelli, Francesco Trigona, Paternostro Francesco.
Giustizia, culto e sicurezza interna—i signori Vincenzo Caccioppo, Giovanni del Castillo Sant'Onofrio, Angelo Marocco, march. Ignazio Pilo, Paolo Paternò, Francesco Ugdolena.
Amministrazione civile, istruzione pubblica e commercio—i signori Salesio Balsano, Francesco Burgio, Villafiorita, duca Gualtieri, conte Manzone, Paternò di Sessa, Federico Napoli, march. Spedalotto, Luigi Scalia, duca della Verdura.
La Città di Catania non degenera figlia della Sicilia, appena ebbe novella della gloriosa rivoluzione della magnanima Palermo corse alle armi al grido di Viva Palermo—Viva la Sicilia. Il popolo espugnò valorosamente tutti i posti occupati dalle truppe compreso il forte S. Agata. L'entusiasmo, il coraggio e la magnanimità dei cittadini risparmiò la vita ai miserabili mercenari che ardirono tirare sulla città e con le grida della vittoria e del perdono confuse quelle genti col rimorso di essersi battuti per la causa nefasta della tirannide.
Alla voce di Palermo e di Catania tutti i paesi della Sicilia risposero secondando il movimento rivoluzionario armando numerose bande pronte a combattere per la difesa della patria.
Ed ora toccava a Messina.
Ecco quel che scrivevano i delegati del Comitato di Messina a Ruggero Settimo presidente del Comitato Generale di Palermo.
"Sia gloria ai prodi che combattono per la Sicilia.
"Messina attende lo avviso da Palermo. Se deve perire morrà; ma con le armi alla mano e con il voto dell'indipendenza nel cuore.
"Sappiate intanto che la guarnigione è forte di 4000 soldati—300 cannoni sono pronti a vomitare l'esterminio sulla città. Ma Messina sprezza il pericolo—ne facciano fede la brillante pugna del 1 o settembre e la imponente dimostrazione del 6 gennaio. Messina quantunque si mostri disarmata è col fatto in rivoluzione—il suo aspetto è minaccioso, imponente; però Messina come al tempo dei Vespri desidera di gareggiare con Palermo solo nella virtù. Se per la causa comune vuolsi il sacrificio di lei essa è pronta a patirlo e ardimentosa si getterà nella voragine. Quantunque i prodi del settembre siano profughi, altri figli ella ha pronti al cimento; quantunque fu disarmata pugnerà con le mani. Se l'attuale stato minaccioso della città, i fatti già consumati, e la diversione dei 4,000 soldati bastano per aiuto alla causa comune, essa starà pronta e minacciosa; se altro vuolsi da lei, si dica. Messina è città "Siciliana" e solamente "Siciliana". Viva Palermo è il grido del popolo. Dite e sarà fatto il voler vostro. Indipendenza e libertà è il solo voto di Messina".
Ma il contegno ardimentoso, provocante del popolo messinese non piaceva ai regi. Comandava in Messina il generale Nunziante, che un giorno, credendo d'intimorire la popolazione, volle far mostra di tutte le truppe che aveva al suo comando stendendole lungo la via Ferdinando. Un abatino si staccò dal popolo che s'era addensato tanto da impedire i movimenti dei soldati, s'avvicinò al generale e gli disse: "Sono queste tutte le vostre truppe? Non ci toccherà neppure un boccone a testa". Al generale che aveva voluto scendere in piazza non restava che caricare la folla e rompere l'assembramento per tenere alto il prestigio militare, invece ordinava di rientrare nei quartieri, il che si fece fra gli urli e i fischi della popolazione. L'abatino era Felice Perciabosco che fu patriota e dei dimenticati.
Da quel momento non ebbero più tregua le provocazioni, le risse fra popolo e truppe borboniche e la sommossa divenne generale. Il bombardamento della città non faceva che inasprire gli animi dei cittadini, i quali, armatisi con armi fornite dai bastimenti, che erano nel porto e con altre mandate da Palermo, si divisero in tre schiere sotto il comando di Antonio Pracomi, di Paolo Restuccia, e di Domenico Landi, decisi di vincere o di morire e senz'altro si diè mano ai più arditi assalti.
Il 22 febbraio il forte Real Basso, Porta Saracena, Santa Chiara, i bastioni di Don Blasco, le barricate di Porto Franco, e l'Arsenale cadevano in mano delle forze cittadine. Aiutati dall'ardire eroico dei bravi cannonieri palermitani il valoroso popolo messinese si avventava furioso all'attacco. Non valse ad arrestarlo il fuoco micidiale del forte S. Salvatore e della Cittadella, traenti bombe e mitraglia contro gli assalitori; tutti questi luoghi difesi dalle truppe borboniche dovettero cedere all'imponenza del furore cittadino, mentre i nemici della patria, atterriti e sbaragliati, correvano a gambe levate a cercare rifugio nella Cittadella, unico punto ormai di loro salvezza. Da per tutto il popolo vittorioso inalberava la bandiera a tre colori. In questi eroici fatti si distinsero assai Longo, Porcella e Scalia.
Diedero esempio di patriottismo altri bravi messinesi e fra altri l'infaticabile Salvatore Bensaia; espugnato il forte Real Basso, si slanciava in altre parti dove ardeva la pugna acclamato dal popolo, quando il figlio suo Giuseppe, salito sull'espugnato baluardo per piantarvi il tricolore vessillo, veniva colpito a morte.—Portata la notizia al padre, al primo annunzio ne rimase tramortito—ma riavutosi gagliardamente gridò al popolo: "Cittadini mio figlio è morto gloriosamente per la salute della patria, io non debbo piangere la sua morte": al cittadino Valadi portarono la notizia che i suoi figli erano feriti all'attacco del forte di porta reale: l'infausto annunzio non sgomentò il patriota: preso il fucile disse: "vado io a rimpiazzare i miei figli". Giulio Colondre, ginevrino, che si unì nel combattere al popolo messinese, riportava grave ferita ad un braccio che ferro chirurgo dovette amputare—ai cittadini accorsi a confortarlo, con tutta serenità diceva: "Signori di questo mio braccio io fo dono alla Città di Messina". Moriva Tommaso Arena e rimaneva ferito anche Nicola Bensaia.
Ai soldati borbonici ridotti nella cittadella non restava altro sfogo che di lanciare ogni giorno delle bombe sulla città, ma i cittadini ne avevano fatta ormai l'abitudine, tanto che accudivano ai loro affari senza punto badarvi.
Il 24 aprile una fregata a vapore napoletana portava a Messina, incaricati di trattare l'armistizio, i commissari Plutino e Lo Presti, calabresi; il Comitato Messinese incaricava per suoi rappresentanti i cittadini Piraino, Ribotti e Natoli, ai quali, prima di altre trattative, era dato il mandato dello sgombro della Cittadella.
Così la Sicilia, che aveva dichiarato decaduto il Re delle due Sicilie, era liberata da tutte le truppe borboniche.
A Palermo veniva istituita la Guardia Nazionale affidandone l'incarico al Comandante generale Barone Riso.
Collaboratori
Duca di Monteleone, Marchese Casimiro Drago, Leopoldo Pizzuto, Conte Lucio Tasca, Cav. Luigi Gravina, Andrea Mangeruva—Tommaso Abbate Segr.
La rivoluzione della Sicilia del 1848 sarà ricordata come uno dei più meravigliosi fatti storici. Il prodigio operato da Palermo gli ha guadagnato il rispetto e l'ammirazione generale.
Le notizie delle Calabrie erano da per tutto favorevoli al movimento insurrezionale.
A Cosenza, centro delle operazioni, nido di uomini generosi, il cui suolo, santificato più volte dal sangue di tanti martiri ed ove rosseggia tuttora di quello dei fratelli Bandiera e compagni, tutte le cure erano rivolte ad un unico scopo, distruzione della tirannia. A Nicastro come in altri punti della Calabria si riunivano uomini armati per dare la caccia ai borbonici, correre serrati a Reggio al grido di viva la libertà.
Nelle provincie di Catanzaro, di Abruzzo, di Salerno, di Lecce, di Campobasso e di Avellino, si apprestavano armi ed armati. Che più? Napoli insorgeva massacrando Svizzeri e spie borboniche.
L'ora della libertà pareva suonata da un punto all'altro d'Italia! Sventuratamente non fu di lunga durata; mancò un'unica direzione e la concordia.
Dal Ministero di Guerra e Marina veniva emanato il seguente ordine del giorno:
Gloria e lode ai nostri fratelli di Calabria. Un avviso telegrafico giunto ieri da Messina alle ore 23-1/2 così avvisa:
Dal piano della Corona ci viene con espresso avvisata la disfatta delle truppe borboniche per parte dei naturali di Catanzaro e la morte del Nunziante; l'azione ebbe luogo presso il fiume Angitola nel giorno di ieri.
Ci consola, o Cittadini, vedere eseguita con tanta giustizia l'ira del Cielo.
Attendiamoci di sentire altre vittorie, acciò si giungesse al santo scopo di liberare gli afflitti fratelli del Continente dal duro giogo d'un barbaro.
Palermo, 30 giugno 1848.
Il Maresciallo di Campo, Ministro della Guerra
Giuseppe Paternò
CAPITOLO III.
Garibaldi s'imbarca coi suoi legionari per l'Italia.
Si era alla fine del 1847 e ogni bastimento che approdava alla Plata, portava dal vecchio continente l'annunzio di avvenimenti importanti.
Un nuovo Pontefice benediva l'Italia, perdonava ai ribelli, accoglieva i proscritti, e poneva sotto la tutela della Croce la causa dei popoli. Queste notizie entusiasmavano i legionari e la partenza per l'Italia era nella mente di Garibaldi ormai risoluta. L'annunzio della sollevazione di Palermo e di Messina venne a precipitarla; la lotta era già incominciata; in Italia si combatteva e si moriva per la libertà; il posto suo e della legione era indicato.
Una pubblica sottoscrizione venne aperta fra gli italiani in favore della spedizione comandata da Garibaldi. Un brigantino era stato noleggiato e si stava apprestando per la partenza. Invano il Governo di Montevideo, conscio della perdita che stava per fare, tentava trattenere con preghiere, con lusinghe Garibaldi ormai impaziente; invano gli stranieri stessi che vedevano nel generale una delle più sicure garanzie dello Stato e dei loro interessi, si associavano al Governo nel sforzarlo a ritardarne quanto più poteva la partenza; ma Garibaldi non si sentiva più padrone della sua volontà, e le insistenze e gli indugi lo inasprivano e lo si sentiva pieno di amarezza dire "duolmi che arriveremo gli ultimi e quando tutto sarà finito".
Però egli stesso capiva che per ottenere la riuscita della impresa era necessario precisarne la meta, avvertire gli amici e prepararle in Italia il terreno.
Poco dopo la giornata del Salto era sbarcato a Montevideo e si era arruolato nella legione Giacomo Medici. Era un giovane bello di forme, intrepido di cuore, affabile di modi; e Garibaldi, intuendo nel Medici un valoroso che avrebbe immortalato il suo nome, l'ebbe subito assai caro e ripose in lui tutta la sua fiducia. Garibaldi pensò subito di mandarlo in Italia quale foriero e preparatore della divisata spedizione e lo muniva delle seguenti
ISTRUZIONI
"Terrai presente che scopo nostro è di recarci in patria non per contrariare l'andamento attuale delle cose, e i Governi che v'acconsentano; ma per accomunarci ai buoni, e d'accordo con essi andare innanzi pel meglio del paese; ma che noi preferiremmo lanciarci ove una via ci fosse aperta ad agire contro il tedesco, contro cui devono essere rivolte senza tregua le ire di tutti; e tanto più lo vorremmo, perchè la gente che ci accompagna è mossa da questo ardentissimo desiderio: perchè questo avvenga ti recherai:
"1. A consultare Mazzini intorno ai passi da farsi onde preparare le cose nel senso suindicato; quindi t'affretterai per alla volta di Genova, Firenze e Bologna, a meno che con Mazzini non risolviate altrimenti.
"2. Dagli amici ti procurerai commendatizie per tutti quei punti che crederai utile di visitare, affine di dar moto a preparare gli uomini, e combinare elementi di cooperazione.
"3. Scorsi quei paesi, ti ridurrai a Livorno come luogo più acconcio a sapere di noi.
"4. Una delle cose che dovrai tenere in vista, si è quella di indurre gli amici a tener pronti quei mezzi indispensabili a provvedere il bisognevole almeno pei primi giorni, affine di non correre il rischio di perdere il frutto di tante fatiche e dei sagrifici fatti con tanta generosità dai nostri compatriotti di Montevideo.
"5. I venti, ed altre cause, potrebbero obbligarci a toccare Gibilterra. Se Mazzini ha ivi persona fidata le diriga lettere per me, informandomi della marcia delle cose e sul da farsi—e potrà, appena tu arrivi, cominciare a scrivere. La persona che incaricasse dovrebbe stare sempre all'erta, affine di farmi pervenire ogni cosa a bordo e subito. Dal nome del bastimento chè quello di "Speranza" con bandiera orientale, sarebbe al momento avvertito del nostro arrivo—e perchè ne fosse più sicuro e potesse riconoscerlo facilmente, alzeressimo all'albero di prora una bandiera bianca attraversata orizzontalmente per quanto è lunga e nel bel mezzo, da una striscia nera.
"Di quanto scrivesse a noi potrebbe darti avviso se ciò potesse farci mutare di direzione".
Montevideo, 20 febbraio 1848.
G. Garibaldi
"Le lettere che io ti scriverò a Livorno saranno dirette al nome di M. James Gross—nella soprascritta—sig. Giacomo Medici".
Il Medici infatti dopo tre giorni s'imbarcava per la sua missione; e il 15 aprile 1848 Garibaldi medesimo, accompagnato da ottantacinque de' suoi legionari, fra cui l'Anzani, ammalato, il Sacchi, ferito, Ramorino, Montaldi, Marocchetti, Grafigna, Peralta, Rodi, Cucelli e il suo moro Aghiar, soccorso dallo stesso Governo Orientale di armi, munizioni, col brigantino "La Speranza" salpò da Montevideo per la terra Italiana.
CAPITOLO IV.
Venezia si erige a repubblica. Milano e le cinque giornate.
L'annunzio d'una sollevazione degli studenti viennesi propagatosi alla metà di marzo, spinse il popolo veneziano alla presa delle armi per la cacciata dello straniero. Si combattè nella città della laguna per cinque giorni e il popolo veneziano, rimasto vittorioso, liberava Manin e Tommaseo e si erigeva in repubblica.
Il 18 marzo Milano iniziava colle barricate le memorande cinque giornate. Mentre gli Austriaci avevano fatto del Broletto la loro cittadella e luogo di macello; mentre dal Castello si prendeva di mira l'italiano che giungeva a tiro—al suono delle campane a stormo il popolo impegnava la lotta sotto la direzione di un Comitato di salute, del quale facevano parte Carlo Cattaneo e Enrico Cernuschi.
Non sgomentavano i Milanesi il rombo assordante del cannone, al quale rispondevano coi rintocchi delle campane; e la strage che facevano le truppe imperiali, spronava alla lotta, alla vendetta gli eroici insorti per la patria libertà.
E la lotta fu aspra, violenta, combattuta corpo a corpo. I cittadini si scontravano con le pattuglie, che numerose stavano appostate in ogni via della città, le affrontavano con ardimento; uccidevano od erano uccisi, mentre dalle finestre delle case, dai tetti pioveva pioggia micidiale di tegole e di sassi—e di quartiere in quartiere si scacciavano le truppe con valore senza pari.
Il 23 marzo fu giorno di vittoria e di giubilo per la città di Milano. Assaliti da ogni parte, gli Austriaci cacciati dal popolo che non dava loro tregua, al Radetzky non restò che di ordinare la ritirata.
L'eco delle cinque giornate risuonò per tutta Italia commuovendo le popolazioni ed incitandole alla riscossa.
CAPITOLO V.
Carlo Alberto bandisce la guerra all'Austria.
Il 23 di marzo 1848 il Re Carlo Alberto bandiva la guerra all'Austria, ed il 27 dello stesso mese si metteva alla testa delle sue truppe con a Capo di Stato Maggiore il generale Salasco. L'esercito piemontese, forte di circa 60 mila uomini, era diviso in due corpi d'armata, il primo era comandato dal generale Eusebio Bava; il secondo dal generale Ettore De Sonnaz; a capo dell'artiglieria era il Duca di Genova, e d'una terza Colonna era comandante il principe ereditario Vittorio Emanuele.
Le altre forze che concorsero alla guerra in Lombardia erano 5000 Toscani, 3000 Parmensi e Modenesi, 15000 dello Stato Pontificio, 4000 volontari Lombardi. Le truppe Napolitane comandate dal generale Pepe erano entrate in Venezia. Le forze Austriache erano di 80 mila uomini suscettibili di rinforzi.
Il giorno 6 di aprile le truppe Sarde ebbero cogli Austriaci un forte scontro al ponte di Goito ed a Monzambano ove i bersaglieri comandati dal Colonnello Lamarmora, il battaglione Real Navi e i cannonieri si copersero di gloria.
Il giorno 13 s'investiva Peschiera con vivissimo cannoneggiamento.
Il 24 le truppe Toscane prendevano posizione a Montanara ed a Curtatone alla destra dell'armata Piemontese.
Nello stesso giorno la colonna mobile dei Modenesi comandata dal Maggiore Fontana fu attaccata da un Corpo Austriaco sulla strada di Mantova ad un miglio da Governolo. Il combattimento sostenuto dai nostri con valore durò circa tre ore e terminò con la ritirata degli Austriaci. In appresso quasi ogni giorno si ebbero scaramuccie nelle prossimità di Mantova dagli avamposti Piemontesi, e da quelli Toscani e Modenesi, fin che si arrivò al 13 maggio, nel qual giorno verso le due pomeridiane 5000 Austriaci attaccarono le posizioni di Curtatone e Montanara tenute dai Toscani; l'attacco fu sostenuto con vigore per oltre tre ore e i Tedeschi furono respinti con forti perdite sotto le mura di Mantova.
I reduci dall'America non conoscevano gli avvenimenti del febbraio, la sollevazione di Vienna, la riscossa di Venezia, le barricate di Milano, l'entrata di Carlo Alberto in Lombardia e le prime vittorie delle armi italiane sul Mincio; tutto questo era loro interamente ignoto; quindi Garibaldi era incerto del luogo e della meta del suo sbarco—e l'animo suo ondeggiava tra i consigli avuti dal Mazzini, che con uno scritto lo spingeva a sbarcare in Sicilia e gli accordi presi col Medici per i quali erasi impegnato ad approdare in Toscana, mentre il suo vivo desiderio era di scendere ove fosse più pronta l'occasione di menar le mani. Obbligato ad approdare a Palos presso Cartagena per fare provvista di viveri, Garibaldi riceveva dal vice Console Francese la lieta notizia della guerra dichiarata all'Austria. Non più esitazioni—la via era tracciata, la meta era designata. A Garibaldi urgeva senza perdere un istante dirigere la prora verso la costa della Liguria per essere più vicino al teatro della lotta, ed offrire senza esitare il braccio suo e dei suoi a Carlo Alberto.
I venti lo obbligarono ad approdare a Nizza, ed alle 11 antimeridiane del 21 giugno 1848, inalberante la bandiera di Montevideo, gettava l'ancora nel porto della sua Città natale.
Nello scendere a terra un urlo d'entusiasmo lo saluta, facendogli suonare all'orecchio nel dolce idioma natio quel grido d'ammirazione che da tanti e tanti anni non aveva più udito se non in lingua straniera, in terra straniera.
Non perdette tempo Garibaldi.
Riordinata la legione, alla quale i Nizzardi avevano recato un primo rinforzo, il 28 giugno di mattina salpa con circa duecento volontari ben armati ed equipaggiati, ed arriva a Genova nel pomeriggio del 29, accolto dai Genovesi coll'entusiasmo di popolo con cui era stato acclamato a Nizza, e ricevuto dalle autorità con ogni dimostrazione d'onore.
Per debito di cortesia prima di partire da Genova dovette accettare l'invito fattogli d'intervenire ad un'adunanza del Circolo Nazionale; fu obbligato dopo avere uditi diversi discorsi a pronunziarne uno egli stesso per esprimere il suo giudizio sulle cose della guerra e sulle condizioni dell'esercito. Procurò di schermirsi, ma dovette cedere alle vive insistenze e con parola misurata e con molta franchezza si espresse così:
"Voi sapete che io non fui mai partigiano dei Re. Ma poichè Carlo Alberto si è fatto il difensore della causa popolare e muove guerra allo straniero per l'indipendenza nazionale, io ho creduto dovergli recare il mio concorso e quello dei miei camerati.
"Il maggiore pericolo che ci sovrasta è quello che la guerra si prolunghi e non sia terminata quest'anno. Noi dobbiamo fare ogni sforzo perchè gli Austriaci sieno presto cacciati dal suolo italiano e non si abbia a sostenere una guerra di due o tre anni. Ora noi non possiamo ottenere questo intento se non siamo fortemente uniti. Si bandisca da noi la politica, non si aprano discussioni sulla forma di governo, non si ridestino i vecchi partiti. La grande, l'unica questione del momento è la cacciata dello straniero, è la guerra dell'indipendenza.
"Io fui repubblicano, ma quando seppi che Carlo Alberto si era fatto campione dell'Italia, io ho giurato di ubbidirlo e di seguire fedelmente la sua bandiera. In lui vedo riposta la speranza della nostra redenzione; Carlo Alberto sia dunque il nostro capo, il nostro simbolo; gli sforzi di tutti gl'italiani si concentrino in lui. Fuori di lui non vi può essere salute.
"Uniamoci dunque tutti nel solo pensiero della guerra allo straniero; facciamo per la guerra ogni sorta di sacrifici. Pensiamo che essi saranno sempre minori di quelli che c'imporrebbero i nemici se fossimo vinti".
Queste parole vennero accolte da grandi applausi, e Garibaldi fu nominato socio onorario del circolo Nazionale.
Garibaldi senz'altro partì per Torino.—Passata in fretta Novara, e toccata Pavia per salutare il suo grande amico Sacchi, il quale andava raccogliendo volontari, al 4 di luglio arrivò al Quartiere Generale in Roverbella, e si presentò immediatamente al Re.
Questi lo accolse con grande cortesia, si mostrò edotto delle sue gesta di America, se ne compiacque altamente congratulandosi con lui. Ma all'offerta che Garibaldi gli fece di sè e dei suoi compagni, quale Re costituzionale si credette obbligato di mandare il Generale ai suoi Ministri.
Garibaldi non perdette tempo—si presentò al Ministro della Guerra Generale Ricci, bravo uomo, colto militare, ma pieno di pregiudizî; questi credette di non potere accettare i servigi che Garibaldi offriva alla causa italiana combattendo con l'esercito, per ragioni di regolamenti ecc.—e finì per consigliarlo di recarsi a Venezia "campo degno di lui, dove poteva prendere il comando di qualche flottiglia tanto utile a quell'assediata Città". A Garibaldi "uccello di bosco e non di gabbia" non piacque quel suggerimento—deliberò invece di recarsi a Milano, dove giunse la sera del 15 luglio e dove l'aspettava miglior fortuna.
Milano era pur sempre la città delle Cinque Giornate e quindi il concetto della guerra popolare rivoluzionaria era sorta dalle barricate.
CAPITOLO VI.
Garibaldi a Milano prende il comando dei Volontari.
Il governo provvisorio s'affaccendava a reclutare quante più milizie poteva, ed accoglieva volontieri quanti venivano ad offrirgli il loro braccio; e però il giorno stesso del suo arrivo esso offerse a Garibaldi il comando di tutti i volontari raccolti fra Milano e Bergamo, i quali sommavano a circa tremila.
Non era forza atta a salvare il paese, ma più di quanta in quel momento Garibaldi potesse desiderare. Si occupò quindi senz'altro dell'armamento dei suoi volontari; li ordinò in battaglioni, dando al più scelto il nome del suo amico Anzani morto, suo compagno di Montevideo, ponendolo sotto il comando di Medici che si era unito a lui a Torino.
Nel pomeriggio del 25 luglio, obbedendo a un ordine del Governo Provvisorio, lasciò i quartieri di Milano e s'incamminò verso Bergamo.
Prima di lasciare Milano Garibaldi indirizzava alla gioventù italiana il seguente:
PROCLAMA
Alla Gioventù!
La guerra ingrossa, i pericoli aumentano. La patria ha bisogno di voi.
Chi v'indirizza queste parole ha combattuto per l'onore italiano in lidi stranieri, è accorso con un pugno di valenti compagni da Montevideo per aiutare anche egli la vittoriosa patria, o morire su terra italiana.
Egli ha fede in voi: volete, o giovani, averla in lui?
Accorrete, concentratevi intorno a me, l'Italia ha bisogno di dieci, di ventimila volontari, raccoglietevi da tutte le parti, in quanti più siete: e alle Alpi! Mostriamo all'Italia, all'Europa che vogliamo vincere, e vinceremo.
Milano, 25 luglio 1848.
G. Garibaldi
CAPITOLO VII.
Venezia, Treviso, Vicenza, Curtatone e Montanara, Goito, Peschiera, Rivoli—Sfortunata giornata di Custoza—Armistizio di Salasco.
Il 21 marzo Venezia quasi senza spargimento di sangue si liberava dal giogo straniero.
Il governo civile e militare austriaco era dichiarato decaduto ed una convenzione era firmata per la quale il reggimento Kinski e tutte le altre truppe, Croati, Artiglieria, Marina ecc. ecc. si ritiravano, imbarcandosi per Trieste. Manin e Tommaseo, liberati dal carcere politico, venivano portati alla sede del governo in trionfo.
Il popolo veneziano proclamava la repubblica e il governo prendeva provvedimenti per una pronta ed efficace difesa contro il ritorno dello straniero.
Padova, Treviso, Vicenza e tutte le città del Veneto proclamavano il governo provvisorio, e così facevano le città del Friuli.
La mattina del 24 marzo 1848 ebbe luogo a Roma un'imponente dimostrazione popolare che chiedeva armi e la guerra all'Austria.
Questa ottenne effetto immediato, perchè nel giorno stesso fu affidata al generale Ferrari la organizzazione del Corpo dei Volontari e Ferrari non perdette tempo; difatti alle cinque del mattino del 26 marzo partiva da Roma la prima legione Romana di circa mille uomini; e solo due giorni dopo partiva anche, e bene organizzato, il primo reggimento volontari forte di altri milleduecento uomini. Queste truppe per la via di Ancona giungevano a Bologna il 16 e 18 aprile; e non più in numero di 2200 combattenti, ma di circa 8000 uomini, pieni di ardimentoso entusiasmo per la libertà della patria.
Il mattino del 27 di marzo Carlo Alberto assumeva in Alessandria il comando supremo dell'esercito e il 29 entrava in Pavia, ove era accolto con grande gioia dai cittadini. Agl'inviati di Milano si esprimeva in sensi di vera devozione alla causa dell'unità italiana e manifestava il deliberato proposito di volere liberata l'Italia dallo straniero.
Procedeva quindi innanzi coi suoi figli fino a Lodi e vi piantava il suo quartier generale, da dove emanava i seguenti proclami:
"Italiani della Lombardia, della Venezia, di Piacenza e Reggio!
"Chiamato da quei vostri concittadini nelle cui mani una ben meritata fiducia ha riposto la temporanea direzione della cosa pubblica, e sopratutto spinto visibilmente dalla mano di Dio, il quale, condonando alle tante sciagure sofferte da questa nostra Italia, le colpe antiche di lei, ha voluto ora suscitarla a nuova gloriosissima vita, io vengo tra voi alla testa del mio esercito, secondando così i più intimi impulsi del mio cuore; io vengo tra voi non curando di prestabilire alcun patto: vengo solo per compiere la grand'opera, dal vostro stupendo valore così felicemente incominciata.
"Italiani! In breve la nostra patria sarà sgombra dallo straniero. E benedetta le mille volte la Provvidenza Divina, la quale volle serbarmi a così bel giorno, la quale volle che la mia spada potesse adoperarsi a procacciare il trionfo della più santa di tutte le cause.
"Italiani! La nostra vittoria è certa: le mie armi, abbreviando la lotta, ricondurranno tra voi quella sicurezza che vi permetterà di attendere con animo sereno e tranquillo a riordinare il vostro interno reggimento; il voto della nazione potrà esprimersi veracemente e liberamente; in quest'ora solenne vi muovano sopratutto la carità della patria e l'abborrimento delle antiche divisioni, delle antiche discordie, le quali apersero le porte d'Italia allo straniero; invocate dall'Alto le celesti ispirazioni; e che l'Angelico Spirito di Pio IX scorra sopra di voi; Italia sarà!
"Dal nostro Quartier Generale in Lodi, 31 marzo 1848.
Carlo Alberto
Il Ministro della Guerra, Franzini.
"Soldati!
"Passammo il Ticino e finalmente i nostri piedi premono la sacra terra Lombarda! Ben è ragione che io lodi la somma alacrità, colla quale, non curando le fatiche di una marcia forzata, percorreste nello spazio di 72 ore più di cento miglia.
"Molti di voi, accorsi dagli estremi confini dello Stato, appena poteste raggiungere le vostre bandiere in Pavia; ma or non è tempo di pensare al riposo: di questo godremo dopo la vittoria.
"Soldati! Grande e sublime è la missione a cui la Divina Provvidenza ha voluto ne' suoi alti decreti chiamarci. Noi dobbiamo liberare questa nostra comune patria, questa sacra terra italiana dalla presenza dello straniero, che da più secoli la conculca e l'opprime: ogni età avvenire invidierà alla nostra i nobilissimi allori che Iddio ci promette; tra pochi giorni, anzi tra poche ore, noi ci troveremo a fronte del nemico; per vincere basterà che ripensiate alle glorie vostre di otto secoli, e gl'immortali fatti del popolo Milanese; basterà vi ricordiate che siete soldati italiani.
Viva l'Italia!
Dal nostro Quartier Generale in Lodi, 31 marzo 1848.
Carlo Alberto
Il Ministro della Guerra, Franzini"
E quasi a dimostrare il sentimento concorde di popolo e di Re nel volere liberata l'Italia dallo straniero, in Ancona veniva pubblicato il seguente bando:
"Cittadini!
"Al suono delle campane a stormo, che eccitò l'insurrezione nelle Lombarde città contro l'odiato straniero e ne fa ora trionfalmente inseguire la fuga e disperdere gli avanzi, si mesce già il vivo fuoco degli accorsi drappelli italiani e il tuono possente del cannone di Carlo Alberto. Da ogni città, da ogni borgo, da ogni siepe esce un animoso combattente della santa guerra d'Italia. La croce corona la tricolore bandiera, e Cristo ne ha fatto l'indivisibile segno della nostra vittoria. I lunghi secoli del dolore e del lutto si riscattano con brevi e invidiabili perigli; le macchie, già abolite, d'inerzia e d'indifferenza si redimono con un'eternità d'impareggiabile gloria.
"Chi, alla voce d'Italia, di questa patria sublime, ode più gli affetti di padre, di marito, di figlio? Chi getta ancora uno sguardo sugli averi e sulla ricchezza se non per farne un sagrificio alla patria?
"Via il lusso, via gli ornamenti; il ferro! il ferro! nessuna gioia fuorchè nelle ferite largamente aperte nei petti nemici; nessun desiderio fuorchè del sangue copiosamente sparso per l'Italia; nessuna gloria fuorchè nella sua redenzione. La nostra avanguardia è partita. I nostri prodi ci aprono la via. Quale ragione, qual pretesto ai forti, ai valenti per rimanere? Che dolcezza in queste mura, che beltà nella vita, quando nei campi di Lombardia si muore per l'indipendenza italiana?
"Chi non invidia a sè stesso questa nobile fortuna di morire per l'Italia? Chi ricusa la celeste voluttà di vendicare la sua vendetta? Chi non s'infiamma all'alto pensiero di concorrere ad eseguire il decreto di Dio, il decreto della rigenerazione italiana? In questo punto si fonda la nostra nazionalità, si conquista la libertà nostra, si edifica una gloria immortale! Deh! ciò non sia senza noi! Deh! si accorra alla guerra della redenzione! Felice chi lascerà la vita per lei! Felice chi tornerà vittorioso, e udrà dirsi ammirando e piangendo di tenerezza: questi fu soldato dell'indipendenza d'Italia!
Ancona, 30 marzo 1848".
Da Lodi il Re mosse per Cremona, ove tenne Consiglio di guerra per deliberare sulle operazioni militari.
L'esercito procedeva verso il fiume Oglio e arrivatovi il generale Bava faceva restaurare il ponte di Marcaria.
Il Re si trasferiva a Bozzolo.
Il giorno 6 aprile il generale Bava si avanzava verso il fiume e giunto verso le 9 in prossimità di Goito ordinava ad un battaglione di bersaglieri di assalire i cacciatori austriaci che occupavano i colli; i nostri mossero impetuosi all'assalto e gli austriaci, abbandonate le posizioni, si ripararono entro Goito. Ordinata in schiera d'assalto la brigata Regina, e sopraggiunti i reggimenti della brigata Aosta, il generale Bava mosse contro Goito preceduto dai bersaglieri comandati dal generale Alessandro Lamarmora; questi appoggiati dall'artiglieria che battevano le case per cacciarne gli austriaci spalleggiati da due compagnie delle Real Navi, superati arditamente gli asserragliamenti costruiti dai nemici, penetravano nel paese; gli austriaci, parte rimasero prigionieri, parte corsero al ponte per difenderlo; i nostri bersaglieri e i Real Navi inseguono, passano a tutta corsa il ponte e, scesi sulla sinistra del fiume, s'impadroniscono di un cannone che il nemico nella precipitosa fuga non riesce a salvare.
Il combattimento durò tre ore, le nostre truppe che vi presero parte, sopratutto bersaglieri e Real Navi, mostrarono gran valore; ebbero due ufficiali e sei soldati morti, cinque ufficiali feriti fra i quali il Colonnello Lamarmora e il Maggiore Maccarani comandante le truppe Real Navi e trentacinque soldati. Si distinsero il Generale D'Arvillars, il Capitano Griffini e Domenico Resta.
Il giorno appresso il generale De Sonnaz con un ardito colpo di mano sloggiava gli austriaci da Monzambano ed alle 5 pomeridiane i Piemontesi erano padroni di quelle posizioni. Contemporaneamente il Colonnello comandante il reggimento Savoia entrava in Borghetto alla destra di Monzambano in faccia a Valeggio, ove i nostri entravano il giorno appresso.
A questi combattimenti seguirono quelli di Pastrengo e di Santa Lucia.
I nostri guidati dal Generale De Sonnaz, cacciati gli austriaci dai colli di Costiera, Cassetta e Fratelli furono, in breve ai piedi di Pastrengo. Ma il Duca di Savoia, che colle brigate Cuneo e Regina si era avanzato alla testa di tutti, si trovò arrestato dal melmoso letto di quei piccoli torrenti che si scaricano più in basso nel fiume Tione. Fu dovuta rallentare la marcia, finalmente, superato l'ostacolo ed animati della presenza del Re e del Duca, s'avventano alla lotta, che fu aspra perchè gli austriaci difesero palmo a palmo il terreno; alle 3 e mezzo i nostri erano padroni di Pastrengo. Il Re in quel giorno superò tutti in valore e corse gravissimo pericolo; intollerante d'indugi aveva precorso la fanteria con la sola scorta di un drappello di carabinieri. Un corpo di Tirolesi, in agguato per ritardare la marcia dei Piemontesi, fece una scarica a bruciapelo contro il piccolo drappello e se il Colonnello Sanfront non fosse arrivato in tempo coi suoi squadroni di carabinieri, il Re, che aveva tratto la spada in atto di slanciarsi contro il numeroso nemico, si sarebbe trovato a mal partito.
Il 6 maggio i Piemontesi con tre divisioni mossero in ricognizione su Verona; la brigata Regina sotto gli ordini del generale D'Arvillars si avanzava sulla strada di Sona, incontrava il nemico e impegnava un assai vivo combattimento, che ebbe esito fortunato per i nostri perchè il nemico si ritirava sotto le mura di Verona; però durante il combattimento la brigata Aosta, per seguire il Re, sempre primo ai rischi, avendo accelerato il passo si trovò sola di fronte alla nemica e formidabile posizione di S. Lucia, seguita a grandissima distanza dalla brigata Guardie.
Gli Austriaci occupavano il Campanile e le case, e, del Cimitero cinto di mura munite di feritoie, ne avevano formato una vera fortezza, e un fuoco micidiale colpiva i nostri; il valoroso generale Sommariva secondando l'ardore del Re e dei suoi soldati assale energicamente il villaggio; il generale Bava fa piazzare in buona posizione l'artiglieria, la quale apre vivo fuoco contro il campanile, le case e il Cimitero; sotto le mura del villaggio si accende un aspro conflitto nel quale trova morte il prode colonnello Caccia del 5 o reggimento; a fianco del generale Sommariva cadeva mortalmente ferito il tenente Beston Balbis suo aiutante, il colonnello Manassero del 6 o reggimento era gravemente ferito ed a lui vicino moriva il tenente Gandolfo di lui aiutante e tanti e tanti altri; ma i valorosi Valdostani non si arrestano; chè anzi il desiderio di vendicare i caduti li spingeva a più fiera lotta. Giungeva finalmente la brigata Guardie, che al fragore del cannone aveva accelerato la sua corsa; e allora il Generale Bava valendosi del sopraggiunto rinforzo si pone alla testa di questo, slancia le sue brave truppe sul merlato muro, e queste sprezzando il pericolo, animate dalla presenza dei condottieri, superano tutte le difficoltà, s'impadroniscono del baluardo seminando morti e facendo prigionieri.
Dopo il combattimento di S. Lucia, tanto glorioso per le armi Piemontesi, essendo giunto il parco da Alessandria, il Re ordinava che si cingesse d'assedio Peschiera. La direzione dell'assedio fu affidata al Duca di Genova, il quale aveva sotto i suoi ordini il generale Chiodo del Genio e il generale Rossi dell'artiglieria; ai lavori d'assedio e a cingere la piazza furono destinate le brigate Piemonte e Pinerolo con Federici generale di divisione, Bes e Manno brigadieri.
Il giorno 19 aprile le truppe Romane di linea e volontari, alle quali eransi uniti il battaglione volontari di Ancona ed altri delle Marche, la Legione Romagnola di Ferrara, passavano il Po, e si mettevano in marcia verso Montebelluno. Il generale Durando Comandante in capo di queste truppe colla prima divisione trovavasi già ad Ostiglia.
Il 25 d'aprile nei dintorni di Schio ebbe luogo un combattimento fra le nostre truppe e un corpo di Austriaci che durò per quattro ore; l'attacco fu vivo, ma i bravi nostri giovani volontari seppero così bene resistere alle prime prove del fuoco da costringere il nemico a ritirarsi con perdite non lievi.
Anche nei giorni seguenti ebbero luogo vari scontri sempre favorevoli alle nostre armi.
Il giorno 8 maggio il generale Ferrari, che aveva concentrato le sue forze di volontari e regolari a Montebelluno, ebbe avviso dai suoi posti avanzati dell'avvicinarsi del nemico.
Il generale, lasciata una parte delle truppe a guardare il paese, mosse col resto delle sue forze per la via di Cornuda, ove giunto alle ore 5 pom. fece prendere ai suoi posizione sulle colline circostanti, mentre mandava grosse pattuglie a perlustrare sulla strada dalla quale si attendeva il nemico. Poco prima del tramonto la compagnia dei bersaglieri del Po, che stava appostata sulla collina di destra, incominciava il fuoco contro l'avanguardia nemica che di poco precedeva il grosso delle truppe, per cui ben presto il fuoco fu acceso su tutta la linea; questo durava da un'ora circa e cessava da parte del nemico che suonò a raccolta. Era certo che questo aveva voluto limitare la sua azione ad una ricognizione, e sicuro che l'indomani sarebbe stato attaccato da forze superiori il generale Ferrari dispose di ritirarsi dalle posizioni avanzate che occupava colle sue giovani truppe e di disporre una nuova linea di avamposti al di là di Cornuda. Mandava subito avviso al Durando, che si trovava colla sua divisione nella vicina Bassano, della presenza del nemico, affinchè come generale in capo avesse prese le sue disposizioni.
Alle 5 di mattino del 9 maggio il nemico si mosse all'assalto delle posizioni occupate dai nostri i quali sostennero l'urto senza cedere un palmo di terreno, mantenendo un fuoco assai ben nutrito fino alle 4 pomeridiane in attesa dell'arrivo del Durando.
Intanto il nemico ingrossava sempre più tanto che a sera la truppa del Ferrari si trovava ad avere di fronte l'intera divisione del Nugent che occupava con nuovi battaglioni tutte le posizioni di fronte con spiegamento di altri battaglioni a destra e a sinistra tendenti all'avviluppamento dei nostri; intendimento che non sfuggì al Ferrari, il quale ordinava alle sue truppe un movimento di ritirata e di concentramento più indietro di Cornuda per proseguire poi per Montebelluno onde congiungersi colle truppe che vi aveva lasciato di presidio. Giunto a Montebelluno ordinava la partenza per Treviso dandone avviso al generale Durando.
Nel combattimento del 9 si distinsero il marchese Patrizi comandante la 2 a Sezione composta di perugini e di marchigiani che si comportarono da eroi; combatterono da prodi veterani i bersaglieri romani comandati dal Tittoni ed il 1 o battaglione della 3 a sezione composta di romagnoli; ebbe il cavallo ucciso e riportò ferita il maggiore Diamilla-Muller aiutante di campo del generale Ferrari mentre conduceva al fuoco due compagnie.
Il mancato appoggio del Durando fu inesplicabile.
Alle pressanti premure del generale Ferrari egli rispondeva così:
Crespano, 9 maggio 48.
Generale,
"Vengo correndo".
"Durando"
Ma non si vide!
Il generale Ferrari presa posizione a Treviso ordinava una ricognizione—volle dirigerlo di persona il generale Guidotti il quale spintosi avanti alla testa dei suoi, ebbe trapassato il cuore da una palla tedesca.
Verso mezzogiorno si ebbe notizia che il nemico in forti masse si avvicinava a gran passi da tre parti su Treviso. Il bravo generale Ferrari si spinse con una forte ricognizione verso il Piave. Venuto a contatto col nemico ingaggiava il combattimento di tiragliori, facendo piazzare intanto la debole sua artiglieria. Al contrattacco del nemico, che aveva spiegato forze imponenti, e al fuoco delle sue artiglierie che fulminavano, la colonna avanzata composta di truppe di linea non resse, balenò prima, poi, presa da panico, si sbandava abbandonando al nemico un cannone e non arrestandosi che a Treviso. Non giovò l'intrepido e valoroso esempio del generale di fronte al fuoco: fu vana la voce degli ufficiali che tentarono di richiamarli al dovere e di fare argine alla fuga; nulla valse e la rotta, di quella truppa fu completa. I volontari marchigiani, romagnoli, umbri, romani rimasero al loro posto ma non poterono riparare al disastro: questi si misero sotto gli ordini del colonnello Galletti e del Sante per riannodarsi alle truppe del generale in capo Durando, avendo il generale Ferrari abbandonato il comando, offeso della condotta del Durando che gli aveva fatto mancare il promessogli soccorso.
Nei combattimenti di Cornuda e di Treviso, sostenuti con valore dalle forze di linea e di volontari comandate dal generale Ferrari si distinsero:
Patrizi Filippo, Galletti Bartolomeo, Diamilla-Muller Demetrio, Stefanoni Carlo, Ruspoli Bartolomeo, Tittoni Angelo, Pianciani Luigi, Del Grande Natale, Montecchi Mattia, Gariboldi Alessandro, Ceccarini Luigi, De Angelis Pietro, Federici Romolo, Savini Francesco, Gazzani Adriano, Silli Giuseppe, Chiavarelli Antonio.
Il generale Durando col grosso dei suoi si trovava a Padova con posti avanzati a Vicenza.
Il 20 maggio gli Austriaci, forti di 6000 uomini oltre l'artiglieria, assalivano i posti avanzati di Vicenza sviluppando la loro azione di artiglieria e di ben nutrito fuoco di fucileria contro le barricate di Porta S. Lucia, di Porta Padova e di Porta S. Bartolo, ma dopo 4 ore di combattimento il nemico fu da ogni parte brillantemente respinto.
In questo combattimento, sostenuto con molto valore, i nostri ebbero a soffrire non poche perdite e lo stesso generale Antonini vi rimase gravemente ferito.
Il giorno 23 gli Austriaci con maggiori forze ritornarono ad assalire Vicenza; il combattimento durò accanito tutto il giorno e fu ripreso la mattina del 24, mentre nella notte del 23 al 24 gli Austriaci bombardarono la città che non diè segni di allarme. I nostri fecero prodigi di valore; colla punta della baionetta fugarono il nemico che perdeva due cannoni e lasciava in nostre mani 154 prigionieri; gli Austriaci ebbero più di mille feriti.
Fu una giornata gloriosa per le armi italiane.
Contemporaneamente gli Austriaci attaccavano i nostri nelle posizioni del Caffaro-Lodrone-Bagolino, ma anche da quella parte furono bravamente respinti.
Il giorno 8 giugno da informatori il generale Durando fu avvisato del nuovo avanzarsi del nemico, ma mal si seppe del numero e della direzione. Si diceva che non raggiungeva i 20,000 uomini ed erano diretti al Piave per congiungersi ad altro corpo ivi concentrato. Ma il giorno 9 si ebbe notizia che aveva tagliata la strada ferrata e gittati tre ponti sul Bacchiglione; ormai il sospetto di essere attaccati diveniva certezza e quindi con ogni maggiore alacrità si diede opera ai lavori di difesa, si distribuirono le forze di 11,000 uomini nelle posizioni le più importanti. Verso sera si ebbero precise informazioni che tutto l'esercito Austriaco con Radetzky alla testa e con 80 cannoni stava per rovesciarsi su Vicenza.
Alle 4 di mattina del giorno 10 incominciò l'attacco al Monte Berico posizione importantissima che domina Vicenza. Per disposizione del generale Durando, le posizioni di Castel Rambaldo e di Bellaguarda presidiate dagli Svizzeri dovevano essere abbandonate se attaccate da forze preponderanti per concentrarsi con una forte difesa al Colle su cui sta la Villa Ambelicopoli; e così fu fatto. Abbandonato dai nostri il colle di Bellaguarda gli Austriaci pensarono subito di piantarvi una batteria, ma colpiti con grande precisione dalla batteria del Colle Ambelicopoli batterono in ritirata. Fino alle 10 del mattino l'attacco fu debole perchè gli Austriaci lavoravano per fortificarsi nelle posizioni conquistate nel piantarvi batterie che avrebbero ben presto vomitato quel turbine di fuoco che doveva avviluppare la città e piombare sui colli. Ad un dato momento il nemico spiegava tutte le sue forze attaccando contemporaneamente il Monte Berico, i Colli e le porte di Padova, di S. Lucia, e di S. Bartolo.
Alla difesa della posizione Ambelicopoli stava la batteria Lentulus, rafforzata da un battaglione di corpi pontificii, di un battaglione di svizzeri e dalle compagnie di Mosti di Ferrara e Fusinato di Schio e del Tirolo italiano. Fu un accanito scambiarsi di palle, di granate, di razzi e di fucilate con esito micidialissimo. Alle 2 pomeridiane il Marchese d'Azeglio comandava un attacco alla baionetta contro i nemici occupanti la collina opposta; il combattimento a corpo a corpo fu accanito, micidiale sopratutto per i nostri che avevano di fronte forze quattro volte superiori; vi rimasero feriti lo stesso d'Azeglio e il colonnello Cialdini, e l'esito infelice fu la causa della perdita della nostra posizione al Monte Berico: i nostri costretti a ritirarsi furono inseguiti da cinquemila cacciatori ed Ungheresi senza che la nostra batteria potesse arrestarli con fuoco a mitraglia per non colpire i fratelli inseguiti d'appresso; giunti gli Austriaci a passo di corsa fino ai nostri, come una valanga li rovesciarono giù dal Monte; tentarono ancora i bravi italiani di fare resistenza sul Monte della Madonna e per i portici, ma tutto inutile, che dovettero ripararsi in città.
Perduto il Monte Berico la sorte di Vicenza era decisa, ma è pur vero che la resistenza poteva prolungarsi.
Erano le 8 di sera e ad onta del fulminare delle artiglierie e degli stutzen nessuna delle barricate aveva ceduto, tutte difese fino all'eroismo dal battaglione volontari e dalla legione Romana, dalla legione Romagnola, dal battaglione Anconitano e dalle truppe delle Marche; di questo parere di ulteriore resistenza erano i Vicentini che quando videro sulla torre inalberata la bandiera bianca, la presero a fucilate.
Fu firmata una capitolazione che salvava la città e i cittadini da ogni rappresaglia; ai parlamentari nostri, l'Austriaco disse: "che non si poteva negare una onorifica capitolazione a chi si era difeso tanto eroicamente".
Certo è che le truppe regolari e volontari fecero tutti il loro dovere e si batterono con accanimento e valore, e la stessa capitolazione lo dimostrava perchè le truppe poterono ritirarsi con armi e bagaglio ed onori di guerra, senza alcuna scorta, colla semplice promessa che non avrebbero preso le armi per tre mesi.
Si distinsero il Pasi, il Ceccarini, il Calandrelli, il Casanova, il Marchese Ruspoli, l'Albani, i capitani Ornani, Gigli, Andreucci, ed i tenenti Schellini e Andreani.
Vi lasciarono la vita il Maggiore Conte Gentiloni, il colonnello Del Grande, Francesco Maria Canestri; rimasero feriti Massimo d'Azeglio, il Colonnello Enrico Cialdini, il Comandante l'Artiglieria Lentulus, il Maggiore Morelli, il Morigliani, il Minghetti, il Corandeni, capitani, il Beaufort, e il Bandini tenenti.
Vinti separatamente, le truppe Romane e i volontari, delle Marche, del Ferrarese, delle Romagne e delle Venete provincie e del Friuli, comandate dal Durando, dal Ferrari, dal Zambianchi, dal Mosti, dal Fusinato, il Maresciallo Radetzky era ormai libero di portare tutte le sue forze rafforzate e ringagliardite contro l'esercito Piemontese di cui aveva provato il valore e che solo gli rimaneva di fronte.
Disgraziatamente queste truppe, il cui ammontare non superavano i 60 mila uomini, erano ordinate in una estensione di terreno larghissimo, da occupare una linea di circa cento chilometri attraversati da un fiume—Rivoli, le rive del Mincio da Peschiera a Goito, i pressi di Mantova, Governolo, Villafranca ne erano le estremità, Roverbella il centro.
Il Maresciallo Austriaco volle tentare un colpo decisivo, salvare Peschiera dall'imminente caduta e piombare addosso all'esercito Piemontese sperando di trovarlo debole a motivo della estensione della lunga linea di posizioni che teneva occupate. Formava quindi il piano di forzare la destra del Mincio per Rivalta, le Grazie e Curtatone contando di trovarvi debole resistenza, sorprendere alle spalle le truppe Piemontesi e sospingerle sotto le fortezze del quadrilatero.
Formato questo piano il 27 di maggio usciva da Verona con 30 mila uomini che diresse per Mantova, la notte del 28 si attendò sotto quella fortezza da dove trasse con se altri 15 mila uomini del Nugent; aveva con se 45 mila combattenti con corrispondente artiglieria e li divise in tre corpi di 15 mila ognuno.
Alle 10 del mattino del 29 maggio attaccava contemporaneamente l'ala sinistra dell'esercito Piemontese girandolo per Rivoli, Affi, Lozise ed il Campo Toscano di guardia alla destra; fra Mozzacane e Povegliano eravi un altro corpo di 15 mila uomini minacciante il centro, qualora i Piemontesi avessero incautamente appoggiato a destra e a sinistra per rafforzare i deboli estremi.
L'attacco di Lozise riuscì sfavorevole agli Austriaci; essi furono ricacciati al di là dell'Adige dal generale De Sonnaz e vi lasciarono sul terreno oltre 500 feriti e numerosi prigionieri.
A Curtatone e a Montanara erano 5 mila Toscani con pochi Napolitani a guardia del Mincio comandati dal valentissimo generale Laugier, di questo pugno d'uomini il Maresciallo Austriaco coi suoi 15 mila che loro mandava contro credeva di averne ben presto ragione.
Lanciava quindi contro questa estrema punta un numero di truppe, con ordine di disfarli senz'altro, varcare il Mincio, prendere alle spalle i Piemontesi, sgominarli e fare punta su Peschiera.
Senonchè i Toscani ricevettero il formidabile urto come tanti eroi della vecchia guardia, entusiasmati dall'esempio del loro generale che moltiplicandosi si trovava ove più fiera era la mischia.
Gli artiglieri rispondono coi loro otto cannoni alle furiose scariche nemiche, molti muoiono da eroi sui loro pezzi, ma vengono tosto rimpiazzati da altri animosi, dal molino e dalla casa del Lago, della quale i Toscani avevano fatto una fortezza aprendovi feritoie e fulminavano gli assalitori; il battaglione degli studenti si slancia con impetuosa carica sulla sinistra del nemico, lo rompe e lo mette in fuga.
Il combattimento durò fino alla sera; un pugno d'uomini che il Radetzky credeva di sterminare in brev'ora, seppe con impareggiabile valore tenergli testa sebbene decimato. Alla sera, sfiniti, dovettero ritirarsi su Goito e Castelluccio.
In quel fiero combattimento nel quale i bravi Toscani combatterono contro forze tre volte superiori, maggiormente si distinse l'artiglieria comandata dal bravo tenente Nicolini, che vi rimase ferito; gli artiglieri morirono tutti sui loro pezzi, meno uno l'Elbano Gaspari che, aiutato dal bravo Capitano Camminati riusciva a salvare i pezzi che avevano fatto strage di nemici tutto il giorno; anche il Capitano Malenchini cooperò potentemente colla sua compagnia a trarli in salvo; tutti si comportarono con eroico contegno e sopratutto il battaglione universitario comandato dal valoroso Maggiore Mossotti.
Al combattimento prese parte il Montanelli; questi temendo che il forte numero degli Austriaci potesse avere ragione del piccolo corpo dei Toscani disse al Malenchini, Capitano dei bersaglieri:
—"Moriamo qui tutti piuttosto che arrenderci" mentre così diceva venivano colpiti a morte Pietro Parra e Paolo Crespi; Malenchini si trovava vicino a quest'ultimo, volle soccorrerlo, accorse e lo prese nelle sue braccia "dammi un bacio amico" gli disse il moribondo Crespi "e torna a fare il tuo dovere".
Fra i tanti feriti vi era il Colonnello Campia e il tenente Colonnello dello Stato Maggiore Chigi che dovette soffrire l'amputazione della mano sinistra.
Nel mattino del 30, accortosi Carlo Alberto che la Colonna nemica del centro erasi ritirata durante la notte a Mantova, trovò necessario di dare appoggio alla destra del Mincio a garantire le ritirate delle truppe Toscane su Volta, e tener fermo sull'alto Mincio lungo le forti ed elevate posizioni che da Valleggio distendonsi fino a Castiglione; e fu una provvida misura.
Il nemico fatte passare le sue truppe alla destra del Mincio, le distese da Rivalta a Gazzaldo e già si trovava a Goito quando giunsero le truppe Piemontesi.
Ben notevole era la differenza delle due forze; i Piemontesi non superavano i 19 mila uomini e 45 pezzi di artiglieria, l'Austriaco era di 28 mila uomini e 60 cannoni; ma questa sproporzione fu tosto vinta dall'ardimento e sommo valore dei Piemontesi.
In sei ore di eroico combattimento dalle 2 pomeridiane alle 8, l'inimico fu sconfitto; lo sbaragliarono nelle sue colonne, e lo misero in piena fuga, inseguito fin sotto Mantova.
Fu una vittoria veramente gloriosa. Il Re fu sempre esposto in mezzo alle palle, ed ebbe sfiorato un orecchio; il duca di Savoia fu ferito ad una coscia. Il numero dei morti e feriti austriaci fu grande e molti furono i prigionieri; fra questi è morto il principe Bentheim, ed è rimasto prigioniero il generale principe Hohenloche.
I nostri erano comandati dal Re col Duca di Savoia; generale di Divisione era il Bava; le brigate che vi presero parte furono quelle delle Guardie di Aosta, Cuneo, Acqui e Sardegna.
A rendere più memorabile la giornata, Peschiera si era resa alle 2 pomeridiane; e alle 4 il Re lo annunziava all'esercito durante il combattimento.
Per facilitare le comunicazioni con la Carniola e con la Carinzia il Re Carlo Alberto credette utile di conquistare la posizione di Rivoli, punto importantissimo per gli austriaci; ne diede ordine al generale De Sonnaz.
Stava a difesa dell'importante posizione il colonnello Zobel con 4 mila uomini. Il generale De Sonnaz il 9 di giugno si metteva in marcia e l'avanguardia piemontese, formata dal battaglione degli studenti, entrata a Cavaion, che trovò sgombra di nemici, proseguiva fino a Costerman ove pernottava ad un'ora di distanza dagli avamposti.
All'indomani il De Sonnaz divideva il corpo in due colonne; l'una comandata dal Duca di Genova composta dalle due brigate Piemonte e Pinerolo, dalle compagnie degli studenti, dei volontari pavesi e piacentini e di due batterie, giunse per Costerman, Boi e Caprino, sopra S. Martino, accennando a circuire la posizione di Rivoli per la sinistra e tagliare la ritirata al nemico, l'altra colonna partita da Pastrengo composta di tutta la Divisione Broglia per la strada del Ronchi ed Affi giunse sopra Rivoli che fu trovato sgombro, perchè il Zobel, quando si accorse che due forti colonne erano in marcia per attaccarlo da due parti, s'era ripiegato su Incanale; giunto a Preabono occupava fortemente la Corona, punto molto importante sul suo destro fianco e le Croare, e mandava sul Trentino alcune compagnie sulla sinistra dell'Adige e quivi sperava di mantenersi. Ma allo spuntare del giorno 11 fatto assalire dal Duca di Genova, dopo qualche resistenza, batteva in ritirata verso Madonna della Neve luogo al di là del confine italiano.
Il 18 luglio le truppe Piemontesi ordinate a serrar più d'appresso Mantova, con brillante attacco ordinato e diretto dal Generale Bava s'impadronivano di Governolo ricacciando nelle paludi gli Austriaci e facendone molti prigionieri.
Il giorno 22 luglio il Maresciallo Radeztky deciso di dare una decisiva battaglia ai Piemontesi usciva di Verona con 45 mila uomini; divideva queste forze in tre corpi l'uno capitanato dal d'Aspre doveva portarsi sulle alture e il borgo di Sona; l'altro comandato da Wratislaw doveva assalire Sommacampagna; il terzo lo teneva sotto mano il Wimpfen per soccorrere al bisogno d'Aspre o Wratislaw.
Le posizioni che stavano per essere investite dal nemico erano difese dal Generale Broglia che con la brigata Savoia, un battaglione del 13 o, alcune compagnie di Toscani, di bersaglieri e di volontari, sei squadroni di Cavalleria Novara, una batteria da posizione Piemontese, due pezzi Toscani e quattro pezzi Modenesi e Parmensi, occupava Palazzolo, S. Giustino e mandava avamposti alle Cascine di Colombarone a destra ed a sinistra fra Sondrio e Boscolengo.
Pochi alberi abbattuti e qualche barricata erano tutte le difese dei Piemontesi sulla sinistra.
Non così al centro ove il generale De Sonnaz aveva fatto innalzare un lungo bastionato che legando le colline di Palazzolo con quelle di Sona, chiudeva la gran strada che da Peschiera porta a Verona; quest'opera era difesa dal Duca di Genova e dai Parmensi.
Sulla destra a Sommacampagna eransi pure erette alcune trincee, difese da un battaglione del 13 o e dai Toscani con tre cannoni.
Stava in riserva Novara Cavalleria. Erano in tutti appena ottomila uomini.
In Villafranca stavano gli altri due battaglioni del 13 o, un secondo battaglione Toscano e mezza batteria di artiglieria; in tutto duemila cinquecento uomini che non presero parte al combattimento.
L'attacco incominciò a Sona alle 6 del mattino del 23 luglio; i Piemontesi assaliti da tre lati con forze tre volte superiori, respingevano con grandissimo valore i ripetuti attacchi.
E sebbene il Wimpfen vedendo l'ostinata resistenza dei Savoiardi e dei Parmensi avesse mandato in aiuto la riserva, pure poco frutto ne riportava contro il bastione difeso dalla brava artiglieria e dalle valorose truppe di fanteria; nè sarebbero riusciti ad impadronirsene se Sommacampagna avesse potuto resistere. Ma come era possibile resistere mentre tre battaglioni combattevano arditamente per più ore contro tre brigate? E non sarebbero entrati in Sommacampagna neppure; ma gli Austriaci per venirne a capo, collocata una batteria di obici sull'altura del Santuario della Salute, fecero piovere nel paese tale una grandine di proiettili che i Piemontesi dovettero sloggiare e ripiegare assai ordinati sopra San Giorgio in Salice, nel qual luogo erasi già ridotto il generale Broglia ritiratosi egli pure in ordine perfetto portando con se la sua artiglieria; dietro ordine ricevuto dal generale De Sonnaz ricondusse le valorose truppe per Sandrà e Colà sopra Pacengo.
Il maresciallo Radetzky dopo questa battaglia che gli era costata numerose perdite si preparava a valicare il Mincio per impedire a De Sonnaz di ricongiungersi col resto dell'Esercito; intanto Carlo Alberto ordinava i suoi per assalire il nemico e cacciarlo dalle posizioni di Custoza, Sommacampagna e Staffalo, ributtarlo contro il Mincio e togliergli la ritirata su Verona.
Il generale De Sonnaz prima del far del giorno del 24 luglio uscito da Peschiera colle sue genti saputo dell'avvicinarsi degli Austriaci al Mincio, presidiata la terra di Ponti con cinque battaglioni e collocati due cannoni e una compagnia di bersaglieri a Salionze per contrastare al nemico il passaggio del fiume, con la brigata Savoia recavasi a Monzambano; senonchè assalito il presidio di Ponti da forze assai preponderanti, dopo accanita resistenza furono costretti cedere, abbandonando i cannoni per ridursi a Peschiera; anche De Sonnaz vedendo che non avrebbe potuto tenersi a Monzambano con le poche sue forze, cinque volte inferiori a quelle nemiche, dovette abbandonarla per raccogliersi a Volta.
Ma nel frattempo Carlo Alberto trionfava in Val di Staffalo; il re si era mosso da Villafranca alle 2 e mezza pomeridiane colle brigate Guardie Piemonte e Cuneo, aveva lasciato la brigata Aosta ad Acqueroli a breve distanza da Villafranca sulla strada verso Valleggio, dando ordine a Sommariva d'invigilarla, a Manno di custodire Villafranca, ad Olivieri di lasciare la brigata Robillant di riserva al Centro e portarsi a perlustrare sulla destra in direzione di Alpo.
Giunta a Pozzomoretto la brigata Guardie veniva salutata dal cannone nemico, ma l'impareggiabile brigata schierava a battaglia i suoi battaglioni, piazzava la sua artiglieria e controbatteva vittoriosamente quella nemica; la brigata Cuneo continuando ad avanzare al centro progrediva sino a Fredda ed all'imboccatura della Valle di Staffalo che separa i Monti Gai e Mondatore dalle colline della Berettara e di Somma.
La brigata Piemonte convergendo fino a destra fiancheggiata dalla cavalleria assaliva la posizione di Berettara.
Gli austriaci avevano collocato due pezzi su quel Monte in un'ottima posizione da dove mitragliava i nostri; il generale Bava faceva prontamente raccogliere in un forte drappello i volteggiatori dei due reggimenti Piemonte e postili sotto gli ordini di due Capitani Marcello del 3 o e Chiabrera del 4 o ordinava loro di sloggiare il nemico e rivoltosi ad essi diceva:
"Vedono quei due pezzi?—me li facciano tacere".
In breve spazio di tempo—in meno di mezz'ora gli artiglieri che li servivano erano fulminati: l'ufficiale austriaco pensò a tirarsi indietro ma non fu in tempo, i nostri erano sul monte.
Da per tutto si combatteva dai nostri con impareggiabile valore guidati dal Duca di Savoia e dal duca di Genova, a baionetta spianata cacciavano gli Austriaci dalle favorevoli posizioni di Sommacampagna e di Custoza e vi si mantenevano; i morti da parte degli Austriaci furono in numero stragrande circa quattromila. Furono diciotto ufficiali, milleottocento soldati colla loro bandiera quelli che dovettero deporre le armi.
Fu un giorno di gloria! ma era destino fosse foriero di ben dolorose sventure!
Il 25 luglio Carlo Alberto ordinava alle sue truppe d'impadronirsi di Monzambano e di Borghetto alfine di ricongiungersi al De Sonnaz. Usciva col Bava e col Sommariva da Villafranca e presso Valleggio attaccò gli Austriaci. Ma l'astuto Radetzky indovinando la mossa aveva moltiplicato le sue forze traendole tutte con se da Mantova e da Verona, e mentre si combatteva accanitamente nei pressi di Villafranca, il Duca di Savoia e il Duca di Genova venivano furiosamente attaccati a Sommacampagna ed a Custoza. Dopo fierissima lotta, dopo essere stati per bene otto volte respinti da Custoza e da Berettara nei quali combattimenti i principi di casa Savoia dettero prova d'indomito coraggio, finalmente gli austriaci del generale d'Aspre che ritornavano all'attacco con sempre nuovi rinforzi poterono nel cadere del giorno occupare Sommacampagna e stabilirsi nella posizione di Custoza.
Questo risultato ebbe le più fatali conseguenze. Nello scoraggiamento e nel pericolo di quelle ore, fu decisa l'immediata ritirata su Goito.
Per la via di Roverbello marciava in ritirata l'esercito piemontese; chiudeva la marcia il duca di Savoia. Con cozzo furioso l'armata regia la sera del 26 s'avventava all'assalto di Volta, superando sotto il fuoco micidiale nemico l'ertissima altura lottando disperatamente nelle tenebre, replicando l'assalto più e più volte in sette ore di combattimento; ma ogni sforzo fu inutile, il nemico ne faceva un vero macello—e la ritirata si rese imperiosamente necessaria.
A Custoza si era iniziata, a Volta si compiva la catastrofe!
L'ora del risveglio era suonata, e qual triste risveglio!
L'esercito piemontese dopo tante vittorie in tre giorni di lotta eroica disfatto; le linee del Mincio e dell'Oglio perdute; quella dell'Adda insostenibile; tutta la Lombardia riaperta agli eserciti di Radetzky; Milano stessa minacciata; ecco le notizie che dal 25 al 30 luglio giungevano terribilmente gravi nella Capitale Lombarda.
Fin dall'annunzio dei primi disastri un Comitato di difesa erasi costituito, il quale, mentre Re Carlo Alberto andava radunando le membra sparse del suo esercito, assumevasi di porre in istato di difesa la città, procedeva alla fortificazione ed all'asserragliamento delle mura e delle vie, cercava armi ed armati, ordinava le milizie popolari raccolte nella città, mandava in Svizzera ad assoldare nuovi volontari, provvedeva ai viveri per l'esercito e per la popolazione, richiamava infine a Milano quanti corpi franchi non erano stati tagliati fuori dall'invasione nemica, fra i quali necessariamente anche Garibaldi.
Se chiedere armi, rizzar barricate, bruciar case, offrire vita e sostanze, gridar "guerra o morte" erano segni della deliberata volontà d'un popolo di seppellirsi sotto le rovine della sua città, Milano li diede tutti!
A Garibaldi l'ordine di recarsi a Milano minacciata dagli eserciti austriaci giunse a Bergamo alla sera del 3 agosto; e poichè egli era già consapevole dello stato delle cose, e che le avanguardie austriache bivaccavano già a Cassano d'Adda, non esitò un momento e mandava ai suoi legionari il seguente ordine del giorno:
Legione italiana!
Legionari! Il cannone tuona—il punto in cui siamo è in pericolo, come in posizione di essere tagliato fuori, e poi il giorno di domani ci promette un campo di battaglia degno di voi.
Adunque vi chiedo ancora una notte di sacrificio, progrediamo la marcia.
Viva l'indipendenza italiana.
Merate, 4 agosto 1848.
G. Garibaldi
Fatti quindi nella notte stessa gli apparecchi della partenza per la via più corta e sicura di Pontida —Brivio—Merate, dopo trent'ore di marcia forzata, verso le due pomeridiane del giorno 5 giunse a Monza.
Conduceva con sè cinquemila uomini circa, e fra essi, confuso co' gregari del battaglione Anzani, venuto a chiedere in quella suprema angoscia della patria il suo posto di combattimento, Giuseppe Mazzini armato di carabina inglese, pronto a dare come semplice legionario italiano la vita per la patria.
Monza, finchè Milano resisteva era una buona posizione di fianco sulla destra dell'esercito austriaco, e quand'anche fosse stato impedito di penetrare nell'assediata città, l'audace condottiero avrebbe potuto molestare il nemico e recare agli assediati anche dal di fuori un non spregevole soccorso, ma troppo tardi! Sfasciato l'esercito; discordi i generali; riescite sfortunate le prime fazioni sotto le mura; smarrita ogni speranza, disordinate, inesperte le milizie cittadine; diviso il popolo; impossibile persino l'eroismo della disperazione, certo l'eccidio della città e con esso inevitabile la ruina del Piemonte e della sua libertà; in tale frangente Carlo Alberto ebbe il triste coraggio di fare col proprio sacrificio sua l'onta amara di una resa, che la giustizia della storia attribuisce a molti altri più che a lui, e la sera del 4 agosto mandò una proposta di armistizio al nemico, che la accettò.
L'annunzio dell'armistizio Salasco colpì tutta la Lombardia, e fu inteso con un sentimento d'incredulità, e Garibaldi, anzichè pensare alla ritirata, deliberò di marciare prontamente in soccorso di Milano.
Invano! tutto era finito! L'esercito piemontese in ritirata verso il Ticino, l'esodo dei patriotti e dei proscritti era già incominciato; Radetzky superbo come un conquistatore, passeggiava per le vie di Milano.
Nel frattempo un altro fatto degno di essere ricordato era avvenuto in Bologna.
CAPITOLO VIII.
Sollevazione di Bologna.
Il giorno 8 agosto fin dal mattino, v'erano state provocazioni fra le truppe austriache ed i cittadini. Tra il pro-legato Bianchetti e il generale Velden, era stato convenuto che le truppe austriache non sarebbero stanziate colle armi in città, riservandosi la sola guardia delle Porte di San Felice, Galliera e Maggiore.
Alla Guardia Civica era affidato il servizio della città, e l'onorevole posto della Gran Guardia al Pubblico Palazzo.
Tali patti non vennero mantenuti, e soldati armati erano entrati in città, sfidando e provocando i cittadini; ne seguirono delle risse con ferimento di un ufficiale e di alcuni croati, quindi scorrerie in città di truppe a piede ed a cavallo, entrate da Porta San Felice, ed un corpo di cavalleria alle 9 del mattino, entrato da Porta Maggiore, recavasi ad occupare la piazza.
Fu un fremito generale per la città e gli atti minacciosi degli austriaci non si vollero tollerare. Datone il segno, tutte le campane della città suonarono a stormo, i tamburi della guardia civica batterono a raccolta; gli armati volarono alla difesa; gli inermi, non atterriti dalle minaccie nemiche, si diedero ad erigere barricate.
Gli austriaci senz'altro cominciarono l'attacco lungo la linea che da Porta San Felice stendesi a quella Galliera, punto formidabilmente battuto.
Da porta Galliera la mitraglia contro la strada diretta recava danni gravissimi; cannoni, dalla Montagnola e da piazza d'armi, fulminano contro le case e gli sbocchi delle vie.
Le racchette, i razzi, le bombe piovendo nella città, recavano gravi guasti agli edifizi, ed appiccavano incendi, che i bravi pompieri a stento riuscivano con ammirevole coraggio a domare.
Ma il popolo non si atterrisce, anzi cresce il suo sdegno di fronte a tali barbarie e armatosi di fucili o con qualsiasi altro mezzo offensivo che può trovare incomincia una disperata difesa. Si combatteva da due ore virilmente da parte dei cittadini; quando la guardia civica con due cannoni si piantò alla Montagnola menando strage dei nemici, che sfiduciati e vinti si danno alla fuga, lasciando prigionieri ufficiali e soldati. Per fortuna loro il popolo, senza alcuna direzione, non pensò di approfittare della fuga, nè d'impadronirsi dei cannoni che poterono portar seco.
Fu universale il grido di gioia da parte dei cittadini quando, usciti i nemici, si videro padroni di Porta Galliera.
Ma la gioia della vittoria non fece dimenticare i pericoli ai quali la città era esposta. Fu ordinato un servizio di sorveglianza e di difesa lungo tutte le mura, e fu salutare consiglio.
Un corpo di cavalleria muovendo da S. Felice si dirigeva lungo gli spalti esterni verso Porta S. Mamolo, minacciando d'impadronirsi degli sbocchi e dei Colli che da quel lato sovrastano e dominano la città; una mano di bravi giovani, appostata in un interno riparo, lasciarono venirsi sotto i cavalieri nemici e con una scarica generale ne ferirono diversi e misero in fuga gli altri.
I bolognesi non si addormentarono sulla vittoria; essi si prepararono alla difesa per potere accogliere come si conveniva il nemico.
Si creò un comitato di pubblica salute, il quale subito si mise all'opera pubblicando il seguente manifesto:
Fratelli delle Romagne e d'Italia!
"Dopo di avere occupato tre porte principali della città ed i suburbi, l'insolente austriaco credeva di potere gettare il fango a piene mani su un popolo italiano; il castigo fu pronto. L'amor della patria e l'onore d'Italia fa gagliardamente palpitare il cuore del nostro popolo quanto ogni altro generoso; in breve, dopo ostinata pugna, gli austriaci furono cacciati dai posti che avevano proditoriamente occupati e dalla Montagnola, ove avevano fatto il loro inespugnabile baluardo, che credevano di tener saldo coi cannoni bombardando la città. Un popolo quasi inerme fece mordere la polvere a molti di quei tristi, e ne incatenò molti altri.
"Dopo la prima vittoria la causa non è vinta; accorrete in armi tutti, generosi fratelli a dividere la gloria come divideste per tanto tempo i dolori.
Bologna, 9 agosto 1848. Bianchetti, Pro-delegato—Pepoli Gioacchino-Napoleone—Biancoli Oreste—Berti Lodovico—Gherardi Silvestre—Dottore Frezzolini—Rusconi Federico".
Ma il destino era segnato, l'Italia doveva ancora soffrire il servaggio dello straniero, causa non ultima le nostre discordie.
CAPITOLO IX.
Garibaldi continua la lotta contro l'Austria.
La Lombardia dopo l'Armistizio avea piegato il capo al duro destino; era forza che Garibaldi piegasse il suo; ma la sua doveva essere la ritirata d'un leone! Decide pertanto di piegare su Como, sperando che il paese, scosso dal primo sbalordimento, si leverebbe in armi per riprendere la lotta. Infiammato da questa fede arrivava coi suoi a Camerlata; ivi prendeva posizione e si trincerava: di là spediva messi al Griffini, al D'Apice, al Manara, all'Arcioni perchè si riunissero a lui per continuare la guerra Santa; apriva nuovi arruolamenti invitando alle armi il paese. Tutto inutile! Il Griffini per la Valcamonica, il d'Apice per la Valtellina, erano già in via sul confine Svizzero; il Manara, il Dandolo, il Durando subendo l'Armistizio, s'erano incamminati verso il Ticino; la sua Colonna, anzichè ingrossare perdeva più della metà dei suoi uomini; una cosa era sicura: che gli Austriaci s'avanzavano, e in poche giornate potevano avvilupparlo.
Tuttavia non volle darsi vinto. Levò bensì il campo dirigendosi verso San Fermo; ivi giunto, fece formare sulla piazza il quadrato e arringò i rimasti; disse che sarebbe stata vile cosa deporre le armi; che bisognava continuare la guerra di banda e con altre parole incisive che egli sapeva così ben trovare, tentava comunicare il suo sacro fuoco agli altri—ma il silenzio eloquente fu la prima risposta; nuove e numerose diserzioni, furono il commento di quel silenzio.
Calato il cappello sugli occhi come era solito fare nei momenti più torbidi, l'eroe iniziò la marcia senz'altro col resto de' suoi su Varese; passatavi la notte del 9, ripartiva il mattino seguente per il Lago Maggiore, e tragittato il Ticino a Sesto Calende approdò la sera del 10 agosto a Castelleto presso Arona. La mattina dell'11 s'impadronì nel porto d'Arona dei due piroscafi "S. Carlo" e "Verbano" v'imbarcò in essi e in alcuni navicelli a rimorchio, i millecinquecento uomini rimastigli; risalì il Lago Maggiore e sbarcò a Luino ove pose il suo campo.
Era la prima delle sorprese con cui Garibaldi doveva far meravigliare popoli e governi.
Già aveva deciso di non lasciare la terra Lombarda senza misurarsi con lo straniero. Egli mantenne il suo voto, nè l'occasione si fece attendere.
Fin dalla mattina del 15 una colonna di Austriaci forte di duemila uomini era partita da Varese coll'intenzione di attaccare i legionari italiani. Garibaldi era ammalato nell'albergo della Reccaccia posto a piccola distanza da Luino sulla strada di Varese. Medici vegliava per lui. Barricata la strada al di là dell'albergo, collocati gli avamposti, spediti esploratori a scandagliare i dintorni, stava in guardia pronto alle armi. Non era scoccato il mezzogiorno che gli esploratori vennero ad annunciargli l'avanzarsi del nemico.
Medici corse ad avvertire Garibaldi il quale, dimentico del male che lo tormentava, balzava dal letto, montava a cavallo, spiegava una parte della sua colonna sulla strada nei campi circostanti, appostava sulla sinistra il Medici col rimanente del corpo, lasciava, secondo il suo costume di guerra, avvicinare il nemico e, scambiati pochi colpi, lo caricava alla baionetta, prima di fronte, poi colla colonna del Medici di fianco. In poche ore di fiera lotta lo metteva allo sbaraglio, inseguendolo per lungo tratto di via e costringendolo a lasciare sul terreno, tra morti feriti e prigionieri, circa duecento uomini.
Una nuova campagna era incominciata in Lombardia! Il giorno 16 stette ad aspettare un nuovo assalto del nemico, che non si fece vedere; il dì seguente per la Valgana, s'avvicinò a piccole tappe a Varese, dove entrò il 18 alle cinque del pomeriggio.
La patriottica città lo accolse trionfalmente. Vi passò in riposo la giornata del 19, e la mattina del 20 avvertito dell'avvicinarsi di un grosso corpo di Austriaci ordinò la ritirata sulle colline d'Induno, spingendo Medici ad Arcisate. Il giorno appresso alcune compagnie presentavansi in ricognizione e, raccolte le notizie sulle posizioni occupate da Garibaldi, ripartivano. Il 23 tutta la divisione D'Aspre, comandata dal generale in persona, forte di dodicimila uomini, entrava in Varese, mentre due altre colonne Austriache, l'una da Luino e l'altra da Como, erano in moto per occupare tutti i passi della Valcuvia e del Mandrisiotto con l'intendimento di impedire a Garibaldi ogni ritirata e farlo prigioniero.
Garibaldi comprese che se lasciava tempo a tutte quelle colonne nemiche di compiere le loro manovre, chiusa ogni via di scampo, ne sarebbe rimasto schiacciato. Non esitò un istante; lasciò Medici ad Arcisate con duecento uomini, con l'ordine di tenere a bada e molestare il nemico, di resistere più che avesse potuto, ed all'estremo di rifugiarsi in Svizzera; egli risalì per un tratto la Valgana, per confermare gli avversari nella credenza che volesse difendersi su quegli altipiani, poi ad un tratto mutò direzione, girò per Valcuvia, scese rapidamente su Gavirate, costeggiò il Lago e per Capolago e Gazzada, dopo due giorni di marcia forzata riuscì a Morazzone, alle spalle del nemico che credeva averlo sempre di fronte.
Il generale D'Aspre non durò a lungo nell'inganno, perchè uno spione lo avvertì dell'ardita mossa di Garibaldi, deliberò quindi di assalirlo immediatamente nella sua nuova posizione; l'indomani una colonna di cinquemila Austriaci comandata dallo stesso generale D'Aspre, compariva improvvisamente a Morazzone.
Garibaldi non si aspettava sì rapida mossa; i suoi, spossati dalle marcie forzate dei giorni precedenti, trascurarono il comandato servizio di vigilanza e di perlustrazioni, sicchè il nemico potè facilmente sorprenderli, e il cannone fu la loro sveglia. Egli ebbe appena il tempo di montare a cavallo e di accorrere alle prime difese; in brevi istanti l'attacco sviluppò in tutta la linea, e i garibaldini, dominata la prima sorpresa, animati dalla voce e dall'esempio del loro capitano, sostennero intrepidamente l'urto nemico e lo arrestarono. Il nemico però non poteva tardare ad avere ragione sul valore: tuttavia a Garibaldi riuscì di protrarre la difesa fino a notte inoltrata; poi, apertasi con la baionetta una via tra i petti nemici, si buttò coi suoi, serrati e minacciosi, nell'aperta campagna, e quivi sciolse la colonna, consigliando i compagni di guadagnare alla spicciolata il confine svizzero.
Egli dal canto suo li imitò, e travestito da contadino, nascosto ed ospitato dagli amici, protetto dalla sua stella, giunse a sconfinare, presso ponte Fresa, in Svizzera, dove ad Agno in casa Vicari ricevette calda ed affettuosa ospitalità.
Anche a Medici era toccata la stessa sorte. Assalito il 24 agosto da circa cinquemila austriaci che in più colonne s'erano mosse ad avvilupparlo, con soli duecento dei suoi, tenne fronte per oltre quattr'ore ai replicati assalti; finchè divenuta pericolosa ogni ulteriore resistenza, si ritirò in buon'ordine nella limitrofe Svizzera, lasciando le truppe del D'Aspre nell'illusione di avere combattuta l'intera Legione di Garibaldi, e di avere riportato una grande vittoria. Così finì la prima impresa di Garibaldi in Italia. Essa riuscì quale doveva essere! Fu la protesta di un uomo avvezzo a non deporre le armi che dopo la vittoria e non contro l'armistizio Salasco; fu l'audace disfida di un eroe, e una disperata rivolta, della quale nessun'altri all'infuori di lui e dei suoi avrebbe affrontate le conseguenze.
Militarmente considerata, la mossa di Morazzone fu una delle più ardite che la mente di uno stratega possa immaginare. Lo stesso generale D'Aspre scoprì nella azione del suo avversario, i lampi di un gran genio militare, che gli italiani non avevano ancora appreso a conoscere e lo confessava così a persona elevata: "L'uomo che avrebbe potuto essere utile nella vostra guerra del 1848, l'avete disconosciuto; esso era Garibaldi".
Garibaldi fu costretto da quei febbroni che mai l'avevano abbandonato durante tutta la campagna a prolungare la sua dimora in Svizzera più di quanto avrebbe voluto; alla metà di settembre potè partirne, e si ricondusse a Nizza per rivedervi la moglie, il figlio, la madre. Ma vi rimase per poco perchè la febbre della lotta gli bruciava le vene.
Si recò a Genova, sperando di trovarvi aiuto di denaro, di armi, e di armati; ma la sua fu una disillusione; non vi trovò nulla di quanto sperava! Però appunto in quei giorni, una deputazione di siciliani si presentava in Genova a Garibaldi, invitandolo a formare una spedizione di soccorso alla Sicilia.
Ferdinando II di Napoli aveva tradita e assassinata la promessa libertà e mandato un poderoso esercito a sottomettere la Sicilia, la quale priva di armi, di milizie e di capitani, nonostante la gagliarda difesa di Messina stava per soccombere.
Garibaldi, senza prendere impegno assoluto, promise, se gli fosse stato possibile di portare ai siciliani l'aiuto richiesto. Infatti, raccolti circa cinquecento della sua vecchia Legione di Lombardia lanciava agli italiani il seguente proclama:
Italiani!
Il nido della tirannide, al quale mettevano capo tutte le vili iniquità cortigiane, è rovesciato. Vienna combatte per la loro libertà. Non combattiamo noi per la nostra? Non udite venire, o italiani, un fremito dalla Lombardia e dalla Venezia? Il popolo che surse di marzo, sebbene coperto di ferite, non è morto, ma vive; carica il fucile e aspetta il cenno.
All'armi, dunque o italiani; noi siamo alla vigilia dell'ultima guerra, non lenta, non fiacca, ma rapida, implacata. Levatevi forti dei vostri diritti calpestati, del vostro nome schernito, del sangue che avete sparso: levatevi in nome dei martiri invendicati, della libertà conculcata e della patria saccheggiata, vituperata dallo straniero; forti come uomini parati a morire! Non chiedete vittoria che a Dio e al vostro ferro; non confidate che in voi. Chi vuol vincere vince.
Su dunque, raccogliete fucili e spade, o italiani. Non sonore promesse, ma opere; non vanti passati, ma gloria avvenire.
Genova, 18 ottobre 1848.
G. Garibaldi.
Da Genova s'imbarcò col proposito di recarsi in Sicilia.
Ma il 25 di ottobre a Livorno ove Garibaldi aveva approdato, i democratici di quella città gli si misero attorno, persuadendolo a restare in Toscana ed a prendere il comando di quel simulacro d'esercito senza capo. Fu costretto ad acconsentire e, sbarcati i suoi, si recava a Firenze; ma quivi giunto si sentì sedotto dall'immagine di Venezia, sola combattente invitta per mare e per terra contro l'Austriaco. Dominato da questo sentimento, lasciava con la sua colonna Firenze, e s'avviava per Bologna col disegno di scendere a Ravenna e di là passare a dare il suo aiuto all'eroica regina dell'Adriatico.
Ma era appena arrivato in Bologna, intento sempre a reclutare nuovi seguaci, ed a spiare l'occasione che gli schiudesse l'agognata via di Venezia, quando si sparse per tutta Italia l'eco dei tragici fatti di Roma; il 15 novembre Pellegrino Rossi veniva assassinato; il Papa, assediato nel Quirinale, rassegnato a subire un Ministero Mamiani; ma risoluto a non concedere di più; infine il 21 novembre Pio Nono fuggito a Gaeta; il governo affidato alle mani di una Giunta Suprema eletta dal Parlamento; la Costituente convocata.
Un sì inatteso e violento mutamento nelle cose d'Italia, mutò anche tutti i piani di Garibaldi. Ora gli era aperta la via di Roma, ed il fascino di Roma era per lui irresistibile.
Non mise quindi indugio ad offrire al nuovo governo l'opera sua e dei suoi compagni; e l'offerta essendo stata accettata così scriveva al Ministro della Guerra.
Eccellenza,
Domani raggiungerò colla mia colonna Foligno, donde mi dirigerò a Rieti, punto che mi sembra molto conveniente per organizzare il battaglione, e ricevere da Roma l'armamento e quanto altro necessario. Mi permetto di raccomandare a V. E. il pronto invio del vestiario, trovandosi la mia gente in uno stato deplorevole.
Mi onori dei suoi ordini.
Terni, 22 dicembre 1848.
G. Garibaldi
"P.S. Ho ricevuto il dispaccio di V. E. dopo di aver scritta la presente; dirigerò la colonna a Fermo siccome mi viene ordinato. Ringrazio V. E. dell'accettazione del Corpo al servizio dello Stato e solamente reitero la sollecitudine dell'abbigliamento e dei suoi ordini. Vale."
Garibaldi partì da Foligno il 28 dicembre, avendo dovuto aspettare il vestiario e l'armamento; arrivò a Macerata il 1 o del 1849 dove lo raggiunse un novello ordine di non proseguire più per Fermo e di restare dove era.
A Macerata Garibaldi badava ad ordinare, agguerrire ed a rinforzare la sua gente; e tanto entrò nella stima e nell'affetto dei maceratesi, che più tardi, quando furono convocati a nominare il deputato alla Costituente, elessero lui.
Mentre la Giunta Suprema di governo lavorava ad apparecchiare il terreno alla Costituente, dall'altro i clericali si studiavano a seminare d'ostacoli il cammino di quella rivoluzione, il cui andare era necessario e ormai fatale; giusta la loro vecchia teoria ogni mezzo era buono; e in attesa che le potenze cattoliche muovessero all'invito di Pio IX, coprivano di trame e d'intrighi tutto lo stato romano; e in alcuni luoghi, specie nell'appennino ascolano, e nel confinante Abruzzo, spalleggiate dal Borbone, avevano coronate le creste di quei monti, antico teatro del sanfedismo, di numerose bande brigantesche.
Importava alla Giunta Suprema di parare a quell'urgente pericolo; laonde deliberava di mandare il Colonnello Roselli a combattere il brigantaggio ascolano; nello stesso tempo chiamava Garibaldi a Rieti, con l'incarico di guardare quel confine verso Napoli, e di concertarsi con Roselli per soffocare la nascente reazione; Garibaldi ubbidiva; e per Tolentino, Foligno, Spoleto, arrivato verso la fine di gennaio a Rieti, si accinse senz'altro all'opera; e, quantunque il mandato fosse arduo e richiedesse severe punizioni, tuttavia il temuto condottiero non lasciò in quei luoghi alcun ricordo di ferocia, alcuna traccia di sangue innocente.
Rese invece segnalati servizi al Governo Romano, perseguendo nel più rigido inverno l'ostinato malandrinaggio, tenendovi atterrita e rimpiattata la reazione, custodendo fino all'ultimo tratto quel territorio, aperto per tante vie alle insidie nemiche....
CAPITOLO X.
Roma—Proclamazione di Repubblica.
Il 5 febbraio 1849 i deputati del popolo adunati in Campidoglio trassero con solenne maestà al palazzo della Cancelleria, luogo stabilito per le loro adunanze. Fu posta subito la questione che si dichiarasse il decadimento del potere temporale dei papi e si proclamasse la repubblica. Sorse allora Terenzio Mamiani con le memorande parole: A Roma, o i Papi o Cola di Rienzo,—"i Papi, investiti del potere temporale essere stati sempre il flagello d'Italia e della religione; la repubblica la più bella parola, che dir potesse labbra d'uomo. Gravi per altro i pericoli che potea con sè portare la repubblica, non avendo gli Stati romani per tutelarla le immortali falangi che la Francia ebbe nel 1793. Toscana poteva aiutare ma debolmente; gran danno invece la proclamata repubblica potea recare in Liguria e in Piemonte, nerbo e centro delle forze italiane; l'Europa tutta conservatrice; la Francia meno repubblica che impero Napoleonico. Concluse che la questione della forma di governo conveniva rimettere alla Costituente italiana".
Masi, Filopanti, Agostini, Carlo Rusconi, Garibaldi parlarono in favore della repubblica. Vinciguerra esclamava essere tempo di finirla coi Papi, assentivano Gabussi e Savini. Bonaparte principe di Canino, dichiarava impossibile la conciliazione del papato con la libertà italiana; fu una discussione serrata, efficace, eloquente. Infine respinta ogni altra proposta fu messo ai voti il memorando decreto.
Art. 1. Il papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato romano.
Art. 2. Il Pontefice romano avrà tutte le guarentigie necessarie per la indipendenza nell'esercizio della sua potestà spirituale.
Art. 3. La forma di governo dello Stato romano sarà la democrazia pura, e prenderà il glorioso nome di Repubblica romana.
Art. 4. La repubblica romana avrà col resto d'Italia le relazioni, che esige la nazionalità comune.
I votanti furono Centoquarantatre; centoventi risposero Sì; nove risposero No; quattordici approvarono commentando un articolo.
La folla immensa di popolo alla notizia proruppe in un urlo immane di gioia e di plauso.
Roma in quel momento aveva affermato il diritto del popolo italiano.
Essa parve, e fu più grande della Roma dei Cesari!
E il manifesto, che la Costituente romana diresse a tutti i popoli lo prova.
Ecco alcune parti più importanti di quel documento d'imperitura memoria:
Italiani,
"Novello vi si presenta quel popolo, che era già il più grande della terra. Ma fra l'antica grandezza e questa resurrezione stette per mille anni il papato.
....................
"Il popolo ha voluto, e la sua volontà non ha bisogno di chiedere giustificazioni dal passato. La sua ragione è antecedente ad ogni fatto umano.
..................
"Era piena di lacrime la storia d'Italia, e al papato ne veniva ascritta gran copia. E non dimeno, allorchè si fece innanzi il papato, e mise la croce sulla cima del vessillo nazionale, vide il mondo che gl'italiani erano presti ad obbliar le sue colpe; e a nome di un papa iniziavano la loro rivoluzione. Ma quella fu appunto la prova di quanto potesse il papato e di quanto non potesse. I predecessori dell'ultimo regnante erano stati troppo cauti per non impegnarsi a tal prova, e la loro potenza non fu misurata, che dalle sciagure accumulate sui popoli. L'ultimo regnante si avventurava primo nell'opra e volle ritrarsene, quando si fu accorto, ch'egli aveva rivelata una terribile verità, cioè l'impotenza del principato papale a far libera, indipendente e gloriosa la nazione italiana; volle ritrarsene, ma fu tardi. Il papato aveva giudicato se stesso............
"Speravamo tuttavia; ma un sistema di reazione fu la risposta che venne dal papato. Cadde la reazione. Il papato dapprima dissimulò; vide la pace del popolo e fuggì. E nel fuggire portò seco la certezza di destare la guerra civile; violò la costituzione politica; ci lasciò senza governo; respinse i messaggi del popolo; fomentò le discordie; stette in braccio del più feroce nemico d'Italia e scomunicò il popolo.
"Questi fatti mostrarono abbastanza che il principato papale nè voleva, nè poteva modificare se stesso, e non restava, che subirlo o distruggerlo. Venne distrutto.
"La liberalità di regnanti o tolleranza di popoli avevano posto il papato nella città degli Scipioni e dei Cesari, invece che nel mezzo della Francia, o sulle rive del Danubio e del Tamigi; doveva esser per questo, che gl'Italiani perdessero i diritti comuni a tutti i popoli, la libertà e la patria? E se fosse pur vero, che alla potestà spirituale del pontificato sia necessario il possesso d'una sovranità temporale, quantunque non a questa condizione fosse promessa da Gesù Cristo l'immortalità della sua Chiesa, era dunque serbato a Roma il divenire il patrimonio del papato e divenirlo per sempre? Roma, patrimonio di una sovranità, che per sussistere aveva bisogno di opprimere, e per essere gloriosa aveva necessità di perire? e come patrimonio del papato farsi cagione permanente della ruina d'Italia? Roma, di cui le tradizioni, il nome e fin le ruine parlano sì forte di libertà e di patria?...."
..................
E il popolo rispose e risponde: No!—Roma è mia! Roma è della libertà!
Pagato a Roma il debito politico Garibaldi ritornò a Rieti a riprendere il suo posto militare.
Nel frattempo gli avvenimenti avevano fatto il loro corso.
Il 22 marzo la catastrofe di Novara; il 27 la risposta dell'Assemblea Veneta all'Haynau: "Venezia resisterà ad ogni costo"; il 28 l'insensata rivolta di Genova; il 1 o aprile l'ultimo giorno della decade Bresciana.
CAPITOLO XI.
Le dieci giornate di Brescia disastrosa giornata di Novara.
Il 20 marzo in Brescia una adunata di popolo in piazza Vecchia, sotto la loggia municipale, preceduta da bandiera tricolore chiedeva le dimissioni del Podestà Zambelli, e la formazione della guardia civica. Nello stesso giorno sul Colle di S. Florian era comparsa una squadra d'armati condotta dal prete Boifava. Questo piccolo corpo volante di 300 uomini al quale si erano aggiunti alcuni terrazzani, aveva avuto incarico dal Comitato per l'insurrezione di impedire le comunicazioni sulla strada per Peschiera, Verona e Mantova, intercettare dispacci del nemico e molestarlo con avvisaglie.
La sera del 21 marzo, fermata una staffetta latrice di dispacci, tradotti questi dal tedesco si rilevò che recavano l'annuncio, essere partito da Verona un grosso convoglio di munizioni per fornirne Brescia e Milano.
Una trentina di giovani animosi, fra i quali Giuseppe Zanardelli, postisi sotto gli ordini di tale Longhena, perchè egli era stato militare, uscirono dalla città alle 11 di sera col determinato proposito d'impadronirsi del convoglio di munizioni tanto utile ai cittadini insorti.
L'ardita, ma non numerosa falange, giunse a Rezzato prima di giorno.
Avvertiti i baldi giovani che il convoglio delle truppe imperiali era prossimo a giungere, si diedero subito a costruire una barricata allo sbocco della via verso Ponte S. Marco, e dopo di avere collocata della gente anche inerme sui balconi e nelle vie per dimostrare che erano in molti a chiudere il passo, presero posto nella barricata, risoluti a tutto.
Non tardò a comparire sulla strada la pesante colonna dei carri custoditi dalle baionette croate.
Il corpo austriaco di scorta agli otto carriaggi carichi di munizioni era di 173 soldati e sei ufficiali; questi accortisi della barricata e degli armati che impedivano il passo si fermarono. Il comandante della piccola squadra bresciana divisò di mandare un parlamentario ad invitare il comandante delle forze nemiche a recarsi a Rezzato per trattare col duce delle forze cittadine insorte. Questi assentì, e quando fu all'ingresso del paese gli fu imposto d'arrendersi, informandolo che ogni resistenza sarebbe stata inutile, perchè Brescia e Milano erano in mano del popolo e le truppe avevano capitolato, l'intero paese insorto, come era insorta la stessa Vienna.
Intanto, durante le trattative erano sopraggiunti altri insorti guidati dal curato Boifava, e il capitano acconsentì di arrendersi; ufficiali e soldati consegnarono le armi e i bravi bresciani preso possesso del convoglio delle munizioni, per vie montane, onde evitare l'incontro di qualche squadrone di cavalleria, si diressero verso Brescia ove giunsero sul fare di sera del giorno seguente accolti dalla cittadinanza con luminarie e grande entusiasmo.
La sera del 21 era stato acclamato Podestà il Soleri che si annunziava alla cittadinanza con un patriottico manifesto.
Il 22 venivano aperti i ruoli per la formazione della Guardia civica.
La mattina del 23 nella contrada degli Orefici, nei pressi di Piazza Vecchia, un pugno di popolani si avventava contro i soldati austriaci di scorta ai carri di legna destinata al riscaldamento delle caserme e del Forte, li disarmava, inseguendoli fino all'accesso del Castello; e disarmava pure alcuni gendarmi incontrati per via. La sommossa si fece allora generale, si abbatterono gli stemmi e le insegne imperiali, e si disarmarono i soldati di picchetto negli ospedali ed in altre località dando ad essi dovunque la caccia.
Il comandante del Forte, Leshke, senza indugio volle ricorrere alle armi dello spavento; e nelle ore pomeridiane fece piombare sulla città un gran numero di bombe, che, se cagionarono qualche rovina alle case, ebbero per effetto di accendere maggiormente l'entusiasmo belligero della cittadinanza; dopo tale preludio mandava un messaggio al Podestà, intimando che se la città non fosse ritornata alla soggezione imperiale, l'avrebbe bombardata ed incendiata. Il Soleri a sua volta domandava tempo per provvedere; ma allo scoccare della mezzanotte, in esecuzione della fatta minaccia, il Leshke apriva dal castello un furioso bombardamento.
Questo procedere barbaro, che veniva principalmente a colpire donne e bambini giacenti
Re Carlo Alberto
nel sonno, inasprì i cittadini, che armati si fecero sotto al Castello e rispondevano al bombardamento prendendo a bersaglio i cannonieri nemici al grido "di viva l'Italia, viva il Piemonte."
Quelli del giorno 23 e della notte del 24 marzo furono i primi bombardamenti subiti da Brescia nel 1848.
Intanto sul mezzoggiorno del 20 marzo le ostilità da parte dell'esercito piemontese contro gli austriaci furono riprese, ma le sorti della guerra furono addirittura disastrose per le armi italiane.
Il piano del generale in capo Chzamowsky, non era tale che potesse convenire ad un piccolo esercito, qual era quello potuto mettere assieme dall'eroico Piemonte. Invece di tenere unite quanto più si potesse le nostre forze, esse erano schierate sopra una fronte eccessivamente estesa.
Il generale Lamarmora con una Divisione era stato inviato nella Lunigiana per attraversare l'Appennino con l'obbiettivo di assalire gli austriaci alle spalle sulla sinistra del Po.
Ma qualunque fosse il piano strategico, è certo che il generale Ramorino, che con la Divisione Lombarda fronteggiava il Ticino nella posizione della Cava, ed a cui era stato dato ordine preciso di arrestare la marcia del nemico ove questo avesse passato il Ticino a Pavia, e, come segnale al Comando Generale del passaggio, tirare moltiplicati colpi di cannone; questo generale, contrariamente a tali ordini precisi, non sparò neppure un colpo, non fece atto di resistenza, nè si ritrasse, sopra Sannazzaro e Mortara ove corpi piemontesi avrebbero potuto trovarsi concentrati il mattino del 21 per dargli man forte, appoggiati ad ottime posizioni.
Invece la Divisione senza sparare una cartuccia, si ritirò sulla destra del Po, standosene là spettatrice inerte, anzi accennando a ritirarsi per la volta di Genova.
Dopo un'avvisaglia di avamposti al Gravellone, gli eserciti avversari si trovarono di fronte il 21 presso Mortara. Radetzky con rapide mosse aveva spinto i suoi all'attacco; le truppe piemontesi comandate al centro da Vittorio Emanuele, Duca di Savoia, fecero prodigi di valore, ma gli austriaci soverchianti di uomini riuscirono ad impossessarsi di notte della città; e fu notte di strage in Mortara, perchè si combattè accanitamente per le vie, nelle piazze e nelle case, opponendo i nostri un'indomita e disperata resistenza....
Intanto si combatteva con valore ed onore dalle nostre truppe anche alla Sforzesca; ma i risultati ottenuti furono completamente neutralizzati dalla rotta di Mortara.
Il grosso dell'esercito, con Re Carlo Alberto, nella supposizione che gli Austriaci muovessero da Magenta per transitare il Ticino, stava accampato per attendere il nemico presso Trecate; ma, trovate sgombre le posizioni circostanti, mosse al di qua del fiume, per la via di Milano.
Pur troppo non potè continuare al lungo la sua marcia su terra lombarda, perchè, giunta fra quelle schiere la notizia che l'austriaco già vittorioso proseguiva alle sue spalle minacciando Torino, fu immediatamente ordinata la retromarcia.
Il 23 marzo, l'esercito nostro, forte di cinquantamila uomini e 110 pezzi d'artiglieria, si trovava alle nove di mattino sotto Novara. Alle ore undici il cannone nemico diede il segnale della battaglia. Re Carlo Alberto era al suo posto in prima fila tra i combattenti. Il Crocevia della Bicocca era la chiave della posizione, e gli austriaci in dense colonne diressero tutti i loro sforzi contro di essa. I piemontesi la difesero col coraggio della disperazione; Re Carlo Alberto, ritto sul suo cavallo, nella sua marziale impassibilità, sembrava desiderasse di essere colpito a morte; ma se il Re era risparmiato dalle palle nemiche, quanti gli stavano vicini venivano mietuti e fra altri il generale Perrone, colpito da palla alla testa, e il generale Passalacqua restavano fulminati sul terreno, proprio al fianco di Carlo Alberto.
Tutte le riserve erano state impegnate.
Il Duca di Savoia, dopo avere avuto feriti a morte tre cavalli, appiedato, mantenevasi alla testa degli avanzi dei suoi battaglioni con singolare intrepidezza. Ma l'eroismo non poteva più rimettere le sorti della giornata.
Re Carlo Alberto, testimonio e parte di tutte le fasi della battaglia, cavalcava taciturno e mesto verso la città, incurante dei pericoli che lo circondavano, e giuntovi, di là, muto, contemplava con indicibile dolore la disfatta del suo esercito. Lo si voleva allontanare dal luogo tanto esposto, ma Egli nello schianto del dolore gridava: "lasciatemi morire; questo è l'ultimo giorno della mia vita!" Aveva tanto invocato dal Dio degli eserciti di perdere in quel giorno la vita! ma non fu ascoltato.
La bandiera bianca annunziava la sospensione delle ostilità, cui seguì l'armistizio, e quindi l'abdicazione di Carlo Alberto e l'assunzione al trono del figlio Vittorio Emanuele II.
Tutto era finito! I destini d'Italia non erano ancora maturi! Alle undici della notte, Carlo Alberto, muoveva alla volta di Oporto, per morirvi di lì a pochi mesi, martire di una idea sublime, vittima del dolore!
Il 25 marzo a Brescia, ove nulla si sapeva del disastro toccato alle truppe piemontesi, si procedeva alla nomina del Comitato di difesa nelle persone dei cittadini Cassola e Contratti i quali pubblicarono il seguente proclama
Brescia, 26 marzo 1849.
Cittadini!
La patria è in pericolo!
Ora è il momento, o bresciani, d'agire e di fare conoscere che le vostre promesse non furono millanterie.
Gli armati accorrano davanti al teatro per ricevere la loro destinazione. Chi non ha armi, le donne, i vecchi, i ragazzi si adoperino a costruire barricate alle porte della città.
Uniamo le nostre forze e difendiamoci. Non si tratta che di duemila uomini, con due pezzi d'artiglieria, quasi tutti italiani.
All'armi! All'armi!
Unione, costanza, ordine!
Cassola, Contratti.
Ragione di questo Manifesto al popolo di Brescia era che il Comitato della difesa aveva avuto avviso che la notte del 25 un corpo d'imperiali sotto il comando del generale Nugent, sortito da Mantova, con marcie forzate si dirigeva su Brescia.
Nella città erasi formato un corpo dei più ardimentosi guidati da Tito Speri, capi squadra erano Giuseppe Nullo, Antonio Frigerio, Luigi Castelli, Camillo Biseo, Eligio e Filippo Battaggia. Tutti mossero incontro al nemico prendendo posizione nel borgo di Sant'Eufemia ove già trovavasi il curato Boifava con la sua compagnia, si asserragliarono pure in altre posizioni, atte ad impedire al nemico l'ingresso nella città.
Poco prima del mezzodì gli austriaci aprirono il fuoco, ma gli assalitori vennero coraggiosamente respinti.
Il Comitato ed il Municipio, convinti che la resistenza non poteva durare a lungo, decisero di spedire al generale Nugent una Commissione di cittadini, che si presentò agli avamposti nemici con bandiera bianca.
La Commissione fu ricevuta dal generale; il quale poneva senz'altro per condizione che i bresciani cessassero dalla difesa, deponessero le armi, e distruggessero le barricate perchè egli, per amore o per forza, sarebbe entrato nella città.
Quando si seppe dell'arrogante risposta del generale austriaco, la popolazione proruppe unanime in un sol grido. "Guerra! Guerra!"
Gli austriaci mossero allora all'assalto della città, inoltrandosi fino a San Francesco di Paola; ma i Bresciani usciti da porta di Torre Lunga, giunsero a San Francesco, alle spalle degli austriaci, alle prese con le bande dei nostri, e impegnarono una mischia micidiale.
Il combattimento durò fino alla sera con la peggio degli Austriaci, che, abbandonate le conquistate posizioni, si ritirarono nei loro attendamenti di S. Eufemia.
Così ebbe fine la memorabile giornata del 26 marzo.
Il 27 gli imperiali a mezzodì ripresero le ostilità, si spinsero fino a Rebuffone a poca distanza da Torre Lunga, dove i Bresciani erano appostati alla difesa. Gli Austriaci, piantata una batteria sopra l'erta della Villa Maffei, si diedero a fulminare i bravi difensori, mentre nello stesso tempo il Castello iniziava il bombardamento prendendo i Bresciani fra due fuochi. Ma le cannonate, il bombardamento, gli incendi non sgomentavamo i valorosi Bresciani, che anzi, inaspriti dalla ferocia del nemico, moltiplicarono gli atti di eroismo; tanto che quando videro verso sera rallentare e cessare il fuoco da parte degli imperiali che rientravano nel loro accampamento, gli eroici difensori, comandati dallo Speri, con rapida sortita, si slanciarono sull'inimico ed in breve furono addosso alla retroguardia austriaca facendone strage.
La sera la città era in festa per la felice resistenza opposta al nemico; e il Comitato della difesa pubblicava il seguente manifesto.
Cittadini!
Il vostro nome alla posterità è assicurato. Il nemico trovasi nell'avvilimento, perchè gli imponenti mezzi di guerra coi quali credeva atterrirvi, non hanno fatto che accrescere il vostro entusiasmo.
Ormai ha consumato tutti i suoi mezzi guerreschi, e quindi non dovete fare altro che dar compimento alla vittoria nello stesso modo che l'avete cominciata.
Italia tutta farà plauso a tanta prodezza.
Ordine, Costanza, Unione!
Brescia il 27 marzo ore 6-1/2 pomeridiane.
Cassola, Contratti.
Per dire degli episodi, degli atti di eroismo compiuti dai Bresciani nei giorni successivi 28, 29, 30, 31, non basterebbe un intero volume. Basti affermare che tutti gli sforzi fatti dal Nugent con ben 3500, uomini per impossessarsi di Brescia o per costringerla alla resa furono inutili. Vista la sua impotenza, fu obbligato a chiedere rinforzi, e questi non tardarono a giungere condotti da un ben formidabile avversario, tristamente conosciuto dai Bresciani.
Il 31 marzo giungeva infatti, per espugnare l'eroica Brescia, il tenente maresciallo Haynau con una intera divisione—e ben presto diede sue nuove col seguente dispaccio: n. 152—Dal 2 o I. R. Comando del Corpo d'Armata.
Alla Congregazione Municipale della Città di Brescia.
"Notifico alla Congregazione Municipale che io alla testa delle mie truppe mi trovo qui, per intimare alla città di arrendersi tosto e senza condizioni.
"Se ciò non succederà fino a mezzogiorno, se tutte le barricate non saranno interamente levate, la città sarà presa d'assalto, e saccheggiata e lasciata in balia a tutti gli orrori della devastazione.
"Tutte le uscite dalla città verranno occupate dalle mie truppe ed una resistenza prolungata trarrà seco la certa rovina della città.
"Bresciani! Voi mi conoscete, io mantengo la mia parola!
"Il Comandante delle truppe stanziate all'intorno della città di Brescia.
Il Tenente Maresciallo
Haynau.
Non è a dire quanto la lettura di questo dispaccio rinfuocasse gli animi.
Il Municipio mandò subito per il Comitato che pronto accorse all'adunanza.
Richiesto del suo parere il Comitato dichiarava doversi risolutamente resistere.
La maggioranza degli adunati, pur non dissentendo dalla resistenza, deliberava però di mandare deputati all'Haynau per ottenere una proroga di tempo onde si potessero prendere ponderate risoluzioni.
Come ambasciatori si offersero i cittadini Lodovico Borghetti, Pietro Pallavicini, Paolo Barucchelli e il Nobile Girolamo Rossa, alla patria devotissimi. Così composta, e fiancheggiata da due gendarmi e preceduta da bandiera bianca l'ambasceria verso le 10 si avviava per il Castello.
I messaggeri trovarono l'Haynau inflessibile. Ho detto a mezzogiorno.
Ed alle vive rimostranze degli inviati, per grazia dichiarava che avrebbe aspettato fino alle due pomeridiane.
Dell'ultimatum del Maresciallo austriaco fu data partecipazione al popolo dal balcone del Palazzo Comunale. E la risposta del popolo Bresciano fu quale doveva essere: Guerra! Vogliamo la guerra!
Quella del Podestà fu dunque—All'armi Bresciani! all'armi!
Allo scoccar delle due, tutte le campane della città, come se fossero mosse da un sol uomo e tocche da uno stesso martello, si diedero a suonare a stormo gloriosamente. Questa era la risposta che i bresciani mandavano all'Haynau.
Il nemico aveva intanto circondato con forze numerose la città e piantate sulle alture batterie di cannoni e di mortari coll'ordine che quando le artiglierie dal Castello avessero dato il segnale, tutte le batterie facessero fuoco.
E alle tre, tanto dal Castello che dalle batterie circostanti, s'incominciò senza interruzione a vomitare bombe e palle incendiarie; tutte le campane della città suonavano a stormo, chiamando il popolo alla resistenza.
L'Haynau aveva stabilito di dare alla città un assalto generale; ordinava quindi le sue genti in modo che tutta la circuissero, per dividere così le forze dei difensori e rendere più debole la resistenza.
A questo scopo sul ripiano del poggio Maffei dove stava la brigata Nugent, aveva fatto piazzare una batteria, che batteva direttamente la barriera di Torre Lunga, ove dovevano essere diretti i maggiori sforzi. Infatti essa fu presa a fulminare con fuoco mai interrotto e con colpi così ben diretti, che presto l'intera trincea ne fu squarciata, costringendo i difensori ad abbandonarla, ed a ritirarsi al ridosso della barricata che formava la seconda linea di difesa. Tennero loro dietro i nemici, che tentarono di entrare con essi in città, ma furono valorosamente respinti lasciando molti di essi sul terreno.
Non cessava intanto il tuonare dei cannoni e dei mortari dal di fuori, mentre le bombe ed i razzi piovevano dal Castello; ma non per questo ritiravansi i difensori, che sempre capitanati dallo Speri, combattevano con tanta valentia e costanza, da tornare ad onore anche dei più esperimentati e disciplinati veterani.
L'Haynau aveva ordinato che un battaglione di croati, di notte appostato, scendesse giù per la china del colle ed a forza occupasse le vie che conducevano al centro della città. Furono però accolti, mentre discendevano con una tempesta di fucilate, sì da essere obbligati a sostare e a dare indietro; ma poi riordinati, assalirono i nostri con fuoco ben nutrito e così ben diretto che i difensori furono obbligati ad abbandonare la trincea più avanzata, posta alla svolta della china del Castello, non solo, ma poi dopo altra eroica difesa, furono costretti a ritirarsi anche dalla barricata che custodiva la svolta di S. Urbano; ed infine anche dall'ultima di via della Consolazione. Gli imperiali alla carica, sorpassando le barricate, sgombrando impedimenti si precipitarono nella piazza dell'Albero. Là i Bresciani li attendevano alla posta, dalle finestre, dai tetti, dagli sbarramenti che chiudevano il passo all'interno della città, vennero accolti con una salva di fucilate, tanto che ben pochi ebbero salva la vita; ma una fiumana di altri croati serrati in colonne giù per quella stretta impediva ai primi di dare indietro; tanto che alla disperata mancando loro ogni scampo, fecero testa, e s'avventurarono risoluti contro le trincee per forzare il passo; ma ancora un fuoco micidiale a bruciapelo li accolse, e più che decimati, dovettero arrestarsi e dare indietro.
L'Haynau che dal Castello vedeva lo scempio che i difensori facevano dei suoi ordinava al Colonnello Milez di accorrere in aiuto con buon nerbo di forza; ma appena sboccato sulla piazza il Milez stesso, che stava alla testa dei suoi, colpito da palla al cuore cadeva morto; i suoi soldati allora sostarono indecisi; prendendo il momento i bravi bresciani saltarono dai ripari, e slanciandosi sul nemico l'assalirono a colpi di baionetta, di daghe, di stocchi, di coltelli. Non ressero gli austriaci, ma si diedero alla fuga, abbandonando armi e feriti.
La piazza dell'Albero a ricordo di tanto valore fu poi nominata Piazza del 1849. In quel giorno 31 marzo correva a rivi il sangue e i cadaveri vi giacevano ammonticchiati.
Però in altri punti alcuni quartieri della città furono invasi dal nemico come Torre Lunga, S. Urbano, S. Alessandro, e l'incendio, il saccheggio, gli orrori di città presa d'assalto, incominciarono nelle tenebre con tutti i suoi atti brutali.
Il primo aprile dalla parte del Castello, appoggiati dalle artiglierie, gli Austriaci discesero in città, investendo e rompendo tutti gli ostacoli che trovavano sui loro passi, giungendo alle spalle dei difensori della barricata della Piazza dell'Albero, teatro del micidiale combattimento del giorno innanzi, occupando il palazzo del governo, del Broletto, massacrando ed abbruciando quanti si paravano a loro dinanzi, gettando dalle finestre, e dai tetti quante persone si trovavano nelle case. Lo stesso avveniva nel quartiere di San Nazzaro e a porta S. Giovanni.
Era tempo di pensare seriamente ai casi della patriottica città, ridotta agli estremi, e minacciata di distruzione.
Alle 10 antimeridiane il Municipio riceveva le dimissioni del Comitato di difesa. Bisognava senza perdita di tempo mandare all'Haynau una deputazione per trattare la resa. Fu incaricato il padre Maurizio da Brescia, che fu accompagnato dal padre Ilario da Milano e dal cittadino Pietro Marchesini.
I patti della resa furono con molto stento convenuti.
La mattina del 2 aprile entrate le soldatesche austriache in città, il Maresciallo Haynau emanava due bandi. Col primo imponeva alla città una taglia di 300,000 lire, destinate a compenso e a premio degli ufficiali—più imponeva alla città e provincia una multa di sei milioni di lire.
Così ebbe fine la lotta gloriosa di Brescia sostenuta per 10 giorni con subblime eroismo.
I tempi intanto incalzavano e la reazione divampava.
Il 6 aprile Catania dopo eroica difesa cadeva nelle mani sanguinarie del borbonico Filangeri; il 12 la reazione lorenese restaurava in Toscana il granduca; il 20 Filangeri era minaccioso alle porte di Palermo; finalmente il 21 aprile salpava da Tolone la spedizione francese per Roma.
L'ultima di queste notizie sorprese Garibaldi ad Anagni dove era arrivato il giorno precedente.
Il 24 aprile l'avanguardia, il dì appresso tutto il corpo di spedizione comandato dal generale Oudinot, portato da dieci navi, forte di ben dodicimila uomini, di sedici pezzi da campagna e di sei di assedio, gettava l'ancora nelle acque di Civitavecchia.
CAPITOLO XII.
Eroica difesa di Roma.
Sullo scopo dell'intervento francese nelle cose di Roma è stata già giudice severa la storia, e non è tema che invogli un italiano a ritornarci sopra. Solo affermeremo che per quanto si sia voluto dire, certo non fu scusabile che una grande nazione come la Francia, col pretesto d'instaurare l'ordine, fra un popolo già confidente e calmo nel suo patriottismo, siasi mossa a sostenere una abborrita teocrazia, ed a strozzare, tra le braccia d'una repubblica sorella, la libertà nascente.
E fu con sembianze oneste ed amiche che l'esercito francese potè sorprendere la buona fede del governatore, del presidio e della popolazione di Civitavecchia, e mettere impunemente il piede sul suolo della repubblica. Se Civitavecchia avesse respinto con la forza dal suo forte il disbarco o lo avesse soltanto ritardato il governo della Repubblica Romana avrebbe avuto maggior tempo e si sarebbe trovato in migliori condizioni per preparare la difesa.
Il Colonnello Leblanc, inviato dal Generale francese, ebbe il merito di parlar chiaro al Mazzini e confessare che scopo della spedizione era la restaurazione papale. Egli rese grande servigio a Roma, quando uscì nella ridicola guasconata " Les Italien ne se battent pas " la quale fece affluire al cuore il sangue caldo del popolo di Roma, e mise gl'italiani in obbligo di provare che colui aveva mentito per la gola.
Alla Repubblica Romana non restava adunque più che difendere ad oltranza, se non la vita che era preda designata alla forza del numero, l'onore che non poteva essere da alcuno calpestato impunemente, e che sarebbe salito tanto più alto quanto più fosse stato inaffiato di sangue.
E la difesa di Roma fu degna dei suoi giorni migliori, al tempo dei consoli e dei Cesari.
L'Assemblea decretò senz'altro di dare incarico al Triunvirato di respingere la forza con la forza; il popolo applaudì al magnanimo decreto, corse alle armi, e i Triumviri, mirabili di concordia e di energia, assunsero l'impegno della difesa. Giuseppe Avezzana nominato ministro della guerra, posto al Comando supremo dell'esercito; la guardia civica venne armata e mobilizzata; la linea di difesa tracciata; i punti principali muniti; i Corpi stanziati fuori di Roma richiamati; e tutta la massa di truppe regolari ed irregolari, di finanzieri, di studenti, di emigrati, di reduci, di quanti infine si trovavano in Roma atti alle armi, fu ordinata e così ripartita e comandata:
La Legione Garibaldi; il battaglione dei Reduci, i quattrocento giovani universitari, i trecento finanzieri, i trecento emigrati, un totale di duemilacinquecento uomini, composero la prima brigata comandata dal Generale Garibaldi.
Alla seconda brigata, formata di mille uomini di Guardia Civica e del primo Reggimento di fanteria leggiera fu posto comandante il Colonnello Masi.
La Legione Romana e il primo di linea con due pezzi di campagna, posti agli ordini del Colonnello Bartolomeo Galletti; una colonna di riserva, di ottocento carabinieri ubbidivano al generale Giuseppe Galletti; cinquecento dragoni al Colonnello Savini; le artiglierie al Lopez e ai fratelli Calandrelli.
I bersaglieri Lombardi comandati dal Manara avendo ottenuto dal generale Oudinot di sbarcare a Porto d'Anzio a condizione che non avrebbero preso parte a combattimenti prima del 4 maggio, erano vincolati dall'impegno preso per essi dal Preside di Civitavecchia.
Sicuri ormai che il generale Oudinot voleva entrare in Roma per ristaurarvi il governo papale il 28 aprile l'assemblea approvava il seguente decreto, dove il senno romano ben distingueva fra nazione e governo di Francia, non incolpando la prima delle inique aggressioni del secondo, e ponendo sotto la protezione delle leggi i Francesi nell'atto che si apprestava alla guerra contro l'armata di Francia.
REPUBBLICA ROMANA
In nome di Dio e del Popolo
"Credendo nelle generose virtù dei Romani come nel loro valore:
"Conscio che sebbene deciso a difendere fino agli estremi, contro ogni invasore l'indipendenza della sua terra, il popolo di Roma non rende mallevadore il popolo di Francia degli errori e delle colpe del suo governo":
"Fidando nel popolo e nella santità del principio repubblicano:
IL TRIUNVIRATO DECRETA
"Gli stranieri e segnatamente i Francesi dimoranti pacificamente in Roma sono posti sotto la salvaguardia della Nazione":
"Sarà considerato come reo di leso onore romano qualunque proponesse far loro oltraggio o molestie":
"Il governo invigilerà che nessuno d'essi trasgredisca i doveri dell'ospitalità".
Così Roma vicina a scendere sul campo di battaglia per amor della libertà ed indipendenza, dava prova di quella generosità che è tradizionale nel suo popolo.
La mattina del 28 aprile, la legione insieme agli altri corpi militari riuniti in Roma, fu passata in rivista sulla piazza di S. Pietro dal Ministro della guerra.
Il piano di guerra fu presto formato; la topografia della Città, le condizioni dell'esercito difensore, le forze degli assalitori, chiaramente lo suggerivano.
Scartato il concetto di una offensiva in aperta campagna, e deliberata una concentrata difensiva della Capitale, la difesa non poteva essere stabilita che sulla destra del Tevere e precisamente lungo le mura d'Urbano VIII, che da porta Portese, per quelle di San Pancrazio e Cavallegeri va a porta Angelica; comprendente come posizione avanzate, al centro la collina di Villa Pamfili, come baluardo a settentrione il forte Vaticano, e come seconda linea d'appoggio le alture del Gianicolo.
Garibaldi avuto partecipazione del Comando affidatogli, spedì il seguente ordine del giorno:
Al comando della Sezione degli Emigrati.
"Il Ministro della Guerra, col dispaccio del 27 corrente affidò a me il comando della prima brigata nella cui forza è pure compresa la vostra Sezione.
"Le urgenze del momento esigono che c'intendiamo subito e quindi oggi vorrete immancabilmente trovarvi con la vostra truppa sulla piazza di S. Maria in Trastevere per tutte le comunicazioni".
"Salute e fratellanza".
Dalla piazza del Vaticano 29 aprile
G. Garibaldi.
La brigata Garibaldi fu ordinata a coprire la posizione tra porta Portese e porta San Pancrazio; quella di Masi distribuita tra porta Cavalleggieri e porta Angelica; la riserva composta dalla brigata Galletti, dai dragoni Savini, dai bersaglieri Manara, schierata tra Piazza Navona, la Lungara e Borgo; i bastioni furono coronati di nuovi pezzi, le batterie del Vaticano rinforzate; tutto ciò disposto in buon ordine; di modo che Roma si tenne pronta a ributtare gli assalitori.
Il 30 aprile le vedette di San Pietro annunziarono lo spuntare di una colonna francese sulla via di Civitavecchia. Erano circa dodicimila uomini, divisi in due brigate sotto il comando dei generali Molière e Lavaillant, con due batterie da campagna; credevano davvero che gli italiani non si sarebbero battuti; dovevano presto accorgersi del loro folle giudizio e chiamare poderosi rinforzi.
Alcuni colpi aggiustati dal Calandrelli fecero capire che si pensava a respingere sul serio gli assalitori, ma erano pur sempre francesi, gli agguerriti soldati dei combattimenti africani. Essi quindi avanzarono da prodi secondo l'ordine ricevuto per l'attacco; non restavano i nostri dal fulminarli colla mitraglia e coi fucili. Ai difensori, specialmente agli artiglieri, nuocevano le carabine dei cacciatori di Vincennes; ma le nostre artiglierie egregiamente servite e dirette, facevano vuoti sanguinosi nelle file avversarie.
Un notevole vantaggio avevano ottenuto i francesi, fin dal principio; il generale Oudinot aveva ordinato alla brigata Molière di occupare la Villa Panfili, il battaglione universitario sostenne valorosamente i primi assalti, ma scarso di numero, in confronto degli assalitori, dopo di avere contrastata la preziosa posizione dovette abbandonarla, ritraendosi al riparo dietro il Casino de' Quattro-Venti.
Ma da quella parte, attento a tutte le fasi del combattimento, stava vigile Garibaldi e il trionfo dei francesi non doveva essere di lunga durata. Infatti il generale, scorto il pericolo, chiamò a sè la legione italiana e la lanciò a baionetta contro il nemico. Questi non temette l'attacco, e da quell'istante intorno a Villa Corsini, per le aiuole e i prati del parco Pamfili, dietro ogni muro e ogni siepe, s'impegnò una lotta corpo a corpo, petto a petto, palmo a palmo, a vita ed a morte.
A favore dei francesi erano il vantaggio delle armi, la bontà della posizione che li proteggeva, l'abitudine alla disciplina, l'esperienza del combattere; per gl'italiani era presidio la coscienza della giusta causa, la religione della patria, la fede nella baionetta e il comando di Garibaldi.
Ormai troppo già durava il contrasto: e Garibaldi sentì venuta l'ora del colpo decisivo.
Con l'aiuto di mezza brigata Galletti, riunite tutte le forze che aveva sotto mano si rovescia per la Valle sul fianco destro francese, lo rompe, lo sfonda ed incalza con la baionetta alle reni e costringe in brev'ora tutto l'esercito assalitore, già ributtato dal fronte su tutta la linea, a battere in precipitosa ritirata.
La giornata del 30 aprile sarà ricordata dalla storia come una delle più belle pagine militari dell'indipendenza italiana.
Più di trecento morti, cinquecentotrenta feriti, duecentosessanta prigionieri dovuti all'eroismo di Nino Bixio, fecero pagar cara alla Francia l'insana aggressione e dimostrarono al mondo che gl'italiani si battono.
In confronto le perdite degli italiani furono lievi; sessantadue morti, un centinaio di feriti; un solo prigioniero—Ugo Bassi.
Onore ai prodi rapiti troppo presto ai futuri cimenti della patria.
Il battaglione universitario comandato dal Maggiore Andreucci si distinse assai nella gloriosa giornata. "Avanti ragazzi" tuonava Garibaldi—"avanti alla baionetta" e i ragazzi, da veterani si lanciavano impavidi contro gli agguerriti soldati della Francia combattendo da eroi.
Fra tutti primeggiò Nino Bixio che con audacia da leone, come già fu detto, fece prigioniero con pochi uomini un battaglione del 20 o reggimento di linea col Maggiore che lo comandava.
Il primo merito della gloriosa giornata spetta al generale Garibaldi. Fu unanime il sentimento di tutta Roma nella sera stessa del combattimento; e la storia lo conferma col suo ponderato giudizio. Egli rimase ferito nel più caldo della mischia e non ne fece mostra; solo alla sera il dottore Ripari, il carissimo amico suo, volle a forza curarlo.
Fatto caratteristico del combattimento fu questo, che, nelle lievi perdite subite dai nostri, chi più ne sofferse furono gli ufficiali, sempre i primi ad esporsi al fuoco nemico; così, oltre a Garibaldi, furono feriti il maggiore Marochetti, il tenente Ghiglione, il tenente Teglio, i sottotenenti dall'Ovo e Rota, e feriti a morte il maggiore Montaldi, il maggiore Scianda, i tenenti Grassi e Righi e il sottotenente Tresoldi.
Garibaldi combattè tutto il giorno, affrontando il nemico in aperta campagna, ne scoperse il lato debole, lo assalì quando ravvisò il tempo opportuno, e decise della giornata.
Avrebbe fatto di più se in quel giorno avesse egli avuto il comando supremo, o se fosse stato ascoltato il suo consiglio.
Garibaldi aveva infatti intenzione di completare, quella sera stessa, la vittoria, tagliando ai francesi la ritirata su Civitavecchia; e il progetto sarebbe stato senza dubbio attuato; dopo lo scacco sofferto, il morale del nemico era depresso ad incominciare dall'Oudinot, sfinito, inoltre i francesi mancavano di cavalleria per coprire la ritirata, mentre Garibaldi coi lancieri del Masina e coi dragoni di linea, tutta gente fresca che nulla aveva sofferto dal combattimento, poteva giungere a Civitavecchia prima dei francesi e suscitare quelle popolazioni contro lo straniero. Che se non si fosse voluto precorrere i francesi in quel posto, si poteva prenderli di fianco nella loro ritirata: giacchè Garibaldi avrebbe potuto ingrossare le sue truppe coi due reggimenti di linea che non avevano ancora combattuto, e così trarre il miglior frutto della vittoria.
Ma indarno Garibaldi insistette appoggiato da Galletti: Mazzini non voleva esporre la Francia ad una completa disfatta, e provocarne i risentimenti. Egli era il capo del triumvirato, e se i nostri si arrestavano nel momento il più propizio, era lui che doveva risponderne alla storia.
Utilizzata o no la vittoria del 30 aprile si doveva capire che i francesi avrebbero voluto prendere la rivincita; meglio era dunque trarre partito della giornata, annientare il primo corpo di spedizione, circondando di una aureola gloriosa i difensori di Roma, ammirati da tutta Europa, poi prepararsi a far degna accoglienza al secondo corpo di spedizione, che la Francia ostinata nel volere ristaurato il potere dei papi ed ormai impegnata, avrebbe senza ritardo ordinato.
Unica impresa che venne concessa dal Triunvirato a Garibaldi il 1 o maggio, fu una ricognizione sul nemico che si ritirava per la via di Civitavecchia, verso Castel di Guido, dove i Francesi avevano passata la notte in armi nella certezza di essere assaliti. Egli uscì colla sua legione da porta S. Pancrazio, mentre il Masina coi lancieri e coi dragoni usciva da porta Cavalleggeri; entrambi si unirono all'osteria di Malagrotta, dove i Francesi si erano preparati alla resistenza.
Ma per volere di Mazzini non si venne alle mani, come Garibaldi avrebbe desiderato. E ciò anche perchè l'Oudinot mandò a Garibaldi un parlamentario, per avvertirlo che trattava col governo Romano un armistizio; quasi contemporaneamente Garibaldi stesso riceveva un ordine di ritornarsene a Roma; e l'ordine fu eseguito nel giorno stesso.
Così i Francesi ebbero modo di guadagnar tempo, e ritornare con forte nerbo di forze e grosso materiale di guerra a riprendere l'attacco dell'eterna città con certezza di successo.
Ma se la giornata del 30 aprile non ebbe quelle conseguenze che erano da aspettarsi dopo una vittoria così bella, essa però provò al mondo che Garibaldi era qualche cosa di più di un semplice guerrigliero Americano, e che non gli mancavano le doti tutte del generale delle grandi fazioni; come provava al mondo che gl'Italiani, se ben condotti, sapevano battersi.
Intanto che Oudinot riposava a Civitavecchia, e mandava a Parigi messaggi bugiardi mal dissimulanti la sconfitta toccata, e l'Assemblea Romana lo rimeritava delle sue slealtà col mandargli liberi i prigionieri; un esercito austriaco minacciava dal Po le Legazioni; un'armata Spagnola veleggiava per la medesima crociata nel Mediterraneo; e finalmente re Ferdinando di Napoli faceva occupare da una divisione Velletri, mentre due altre, una di milizie regolari comandate dal generale Winspeare, l'altra composta di briganti comandata dallo Zucchi, s'inoltravano per la provincia di Frosinone sui colli Latini.
Il governo Romano commise a Garibaldi, che, evitando i decisivi conflitti, tenesse a bada e molestasse il nemico, sperando il Mazzini che le trattative colla Francia si risolvessero con soddisfazione, per poi, tranquilli da quella parte, potere intraprendere una guerra a fondo contro il re di Napoli, e rivendicare a libertà il suo reame.
Garibaldi riunì la sua piccola brigata il 4 maggio, dalle 6 alle 8 di sera, in piazza del Popolo; era composta in tutto di duemila duecento uomini, la passò in rivista, ed uscito tacitamente da Porta del Popolo, s'incamminò per Ponte Molle, facendo le viste di marciare a Palo; poi voltò a un tratto per la Prenestina, e dopo una marcia notturna pei Monti Tiburtini faticosissima, ma silenziosa ed ordinata, arrivò all'indomani a Tivoli dove si accampò sulle sponde dell'Aniene, occupando cogli avamposti il ponte Lucano a circa sei chilometri sotto Tivoli.
Il 6 maggio fece riposare nelle ore più calde la truppa presso gli avanzi grandiosi degli acquedotti romani.
L'esercito borbonico appena avuta notizia della sortita da Roma di Garibaldi, s'era concentrato fra Albano e Valmontone, e forte di seimila uomini sotto il comando del generale Lanza si preparava ad affrontare Garibaldi e disfarlo.
La mattina del 7 Garibaldi fece levare il campo e verso la mezzanotte del giorno stesso, sotto un acquazzone torrenziale, occupò Palestrina a poche miglia dalle linee nemiche, minacciando così da vicino il suo fianco destro. Fin dal giorno 8, Garibaldi ordinava alcune scorrerie dei suoi, una delle quali, comandata dal prode Bronzetti Narciso, gli aveva riportata la speranza che il nemico non sarebbe stato così formidabile come si vantava di essere. Era però troppo forte di numero per attentarsi con soli duemila uomini ad assalirlo nelle sue forti posizioni; e risolvette di starsene sulla difensiva e attenderlo di piè fermo.
Il primo incontro serio fra le parti avversarie avvenne verso la sera dell'8 maggio sulla strada che da Montecompatri porta a Frascati.
Il giorno 9 Garibaldi circondato dal suo stato Maggiore salì a Castel San Pietro, piccolo paese sopra Palestrina, per osservare dal campanile le mosse del nemico. Questo, in numerosa schiera di 6000 uomini, verso le 2 pom. si avanzava da Valmontone su Palestrina, con intenzione di chiudere a Garibaldi la ritirata su Roma.
Garibaldi prese tosto le sue misure e affidata a Manara la difesa della città, collocò parte dei Legionari al suo fianco sinistro fuori porta del Sole, egli in persona stava al centro, mentre Nino Bixio guardava la destra.
Come suo costume, Garibaldi fece avvicinare ben bene i napoletani e a un dato momento ordinò un attacco generale alla baionetta che mise in rotta il nemico, il quale lasciava nella fuga feriti e prigionieri e in potere dei nostri tre cannoni da montagna e non pochi fucili. Le perdite delle truppe romane furono lievi; degli ufficiali solo il sottotenente Rotta rimase ucciso e il tenente Martino Franchi ferito.
Ormai una più lunga stanza a Palestrina poteva divenire pericolosa perchè a Roma era giunta la notizia di un prossimo attacco combinato di napoletani e francesi, per cui il Triumvirato ordinava a Garibaldi di rientrare in Roma. Era anche lui deciso di finirla e non s'attardò sotto le tende; la sera dell'11 per sentieri impraticabili sfilando in perfetto ordine e silenziosamente nelle vicinanze del campo nemico, marciò per Zagarolo, sostò un poco nella osteria della Colonna sulla via Casilina, e con un lungo giro come se venisse da Tivoli ricondusse la propria gente a Roma, lieta se non di riportata vittoria, di onorato successo.
Nel frattempo importanti avvenimenti militari e politici eransi maturati. Bologna, dopo quattro giorni di disperata resistenza, aveva dovuto capitolare nelle mani del bombardatore Gorkowsky. Ancona, dove teneva il comando militare quel Livio Zambeccari, compagno di Garibaldi a Rio Grande, minacciata, si preparava ad imitarne e sorpassarne l'eroismo; a Fiumicino s'ancorava la flotta, avanguardia della spedizione spagnola; da Gaeta l'Antonelli s'affannava a mettere d'accordo i quattro alleati senza riuscirvi; la Francia finalmente continuava la politica a due faccie: quella delle parole favorevoli a Roma, quella dei fatti favorevoli al Papa.
Di guisachè, mentre l'Assemblea nazionale a Parigi decretava che la spedizione francese fosse " ramenée à son premier but ", Luigi Napoleone e l'Odillon Barrot inviavano lettere e messaggi all'Oudinot, ripetendogli l'ordine di entrare a Roma a qualunque costo per restaurarvi il governo papale.
Infine, perfidia maggiore di tutte (se si eccettua il nero tradimento che doveva fra breve compiere il Generale Oudinot), la missione a Roma del Lesseps affidatagli da Drouyn De Lhuys. L'inviato francese doveva col governo di Roma trovare il modo di conciliare la libertà del popolo Romano, i diritti della sovranità pontificia, e la dignità del governo francese; in realtà doveva condurre i Romani ad aprire ai francesi le porte di Roma, per restaurarvi il potere temporale del Papa.
Il primo effetto dell'arrivo del Lesseps fu la tregua di trenta giorni: tregua che slealmente venne anticipatamente rotta dal Generale francese; ma che ad ogni modo giovò al governo della Repubblica romana, per finirla almeno coll'esercito borbonico.
CAPITOLO XIII.
Spedizione contro l'Esercito Borbonico—Velletri.
L'esercito romano tra il 1 o e il 16 di maggio s'era venuto via via ingrossando. Il battaglione Melara, prepotentemente catturato dall'Oudinot a Civitavecchia, veniva lasciato libero; i corpi distaccati nell'Ascolano erano rientrati; una Legione straniera si veniva organizzando; la Legione trentina ed una compagnia del 22 o Reggimento, scappata dagli accantonamenti forzati della Spezia, erano riuscite a penetrare in Roma tra il 9 e il 10, e fuse insieme andavano a formare un altro battaglione di bersaglieri lombardi, che aggiunto al primo, sotto il comando del Manara promosso colonnello, prendeva corpo e nome di Reggimento. Finalmente venuta da Bologna, dopo 15 giorni di marcia, entrava dalla Porta del Popolo la Divisione Mezzacapo, forte di circa duemila uomini, preceduta da quella compagnia di studenti lombardi e toscani che formarono il nerbo dei futuri difensori del Vascello.
Sommate queste forze nuove a quelle già esistenti al 30 aprile, si ha che Roma poteva disporre di circa diciottomila combattenti, non bastevoli certo a fare la guerra alla Santa Alleanza, accanitasi contro di lei, e neppure a vincere la Francia, ma, finchè durava l'armistizio, più che sufficiente a cacciare dal territorio della Repubblica le truppe del Re di Napoli, e proteggere nel tempo stesso Roma da qualsiasi insidia.
Restava la scelta del Generale in capo. Chi meglio di Garibaldi meritava tale carica? Nessun altro poteva contrastargliela. Il Triumvirato, per timore esagerato della sua indisciplinatezza, e forse anche per gelosia della sua popolarità sempre crescente, non volle nominarlo. Siccome però la sua superiorità era innegabile, il Triumvirato fece questa pensata; promosse Garibaldi Generale di Divisione, ed elesse Generale in Capo il colonnello Roselli entrato da poco a Roma, reduce dall'Ascolano, ove era stato a combattere il brigantaggio.
Il Roselli generalissimo s'accinse senza ritardo, come voleva il governo, alla spedizione contro il Borbone. Pensò di attaccare i Napoletani, accampati fra Porto d'Anzio e Valmontone, sulla loro destra, spuntarli da questo lato e tagliar loro la ritirata: capitanava diecimila fanti, mille cavalli e dodici pezzi d'artiglieria.
La prima brigata, sotto gli ordini del colonnello Marocchetti e la direzione del colonnello di Stato Maggiore Haug, composta della Legione Italiana, del terzo reggimento di linea, dello squadrone dei lancieri Masina, d'una compagnia di zappatori del genio e due pezzi d'artiglieria, in tutto duemila cinquecento uomini circa, formava l'avanguardia.
Il corpo di battaglia componevasi di due brigate composte del reggimento dei Bersaglieri Lombardi, di un battaglione del primo fanteria, del secondo e quinto reggimento, della Legione romana, di due squadroni di dragoni e sei pezzi d'artiglieria; circa seimila uomini; e lo capitanava il generale Garibaldi in persona, colonnello Milbitz capo dello Stato Maggiore.
La riserva e retroguardia era la brigata del generale Giuseppe Galletti, che marciava alla testa del sesto reggimento di fanteria, d'un battaglione di carabinieri a piedi, del battaglione zappatori del genio, di due squadroni di carabinieri a cavallo, e di quattro pezzi di artiglieria; in tutto duemila e cento uomini.
Comandante l'artiglieria il colonnello Lodovico Calandrelli; quello della cavalleria il generale Bartolucci; capo dello Stato Maggiore generale il colonnello Pisacane. Generale in capo Pietro Roselli.
Formato così il piano e l'ordine di marcia, uscirono la sera del 16 da porta S. Giovanni; marciarono per via Labicana; arrivarono alla mattina del 17 a Zagarolo, dove soggiornarono; ripartirono il giorno appresso per Valmontone, dove il grosso e la riserva si accampò, mentre l'avanguardia si spinse fino a Montefortino, forte posizione a cavaliere delle due vie che da Valmontone conducono l'una a Velletri, l'altra a Terracina; che è quanto dire, sulla fronte e sul fianco dell'esercito Napoletano.
Questo però non era rimasto immobile come il Roselli nel silenzio del suo studio aveva calcolato; ma appena avuto sentore dell'avanzarsi dei Romani, aveva frettolosamente abbandonato la linea dei Colli Latini, e s'era da tutte le parti ripiegato su Velletri. Era una notizia importantissima: il piano di campagna del generale Roselli poteva dirsi fallito prima che tentato: occorreva farne un altro, ma suprema necessità era prontezza d'occhio e celerità di esecuzione; il Roselli non affrettò d'un passo la sua marcia, non diede le occorrenti disposizioni; solo ordinava all'avanguardia di spingere il 19 di mattina ricognizioni fin sotto le mura di Velletri, mentre l'armata in ordine compatto, fiancheggiata da perlustratori, avrebbe secondato il movimento.
All'alba del 19 l'avanguardia si era già messa in moto; ma, fatti pochi chilometri di strada, il Marocchetti mandava ad avvertire Garibaldi che scorgeva verso Velletri un confuso movimento di truppe nemiche, onde temeva di essere da un istante all'altro assalito da forze superiori. A tale annunzio Garibaldi montò a cavallo, e mandò avviso al generale in capo, dell'allarme dato delle mosse nemiche, come della sua partenza per trovarsi coll'avanguardia sul luogo dell'attacco, se attacco ci fosse stato, affinchè avesse provveduto mandando pronti rinforzi. A spron battuto raggiunse l'avanguardia, e raccolti dal Marocchetti gli ultimi rapporti, cavalcò ancora innanzi per cercare, come fu sempre suo costume, un posto elevato d'onde scoprire le posizioni e le mosse del nemico.
Giunto alle Colonnelle sull'altura della vigna Rinaldi, smontò da cavallo; coperto dai canneti e dalle macchie della Vigna, s'inoltrò fino ad una sporgenza d'onde l'occhio poteva correre fin sotto le mura di Velletri; e vide abbastanza chiaro che i borbonici si preparavano ad un'azione imminente.
Garibaldi senza perdita di tempo spiegò a destra e a sinistra della strada, che correva tutta incassata fra poggi e vigneti, la legione italiana e alcune compagnie del terzo di linea; e montato sul tetto d'una casa nella vigna Spalletti si rimise a spiare le mosse nemiche.
I borbonici avanzavano su tre colonne; un battaglione di cacciatori pei vigneti a destra e a sinistra; uno squadrone di cavalleria appoggiato da un corpo di fanteria e da artiglieria, al centro della strada. Garibaldi sceso dal suo osservatorio non fece un passo per muovere loro contro; ma li aspettò di piè fermo. Trascorsi pochi minuti lo scoppiettio presso la salita di Villafredda avvertiva che i nostri erano stati scoperti e che il primo scontro era avvenuto.
Potevano essere le 11 di mattina. Gli avamposti s'erano ripiegati sulle Colonnelle dove erano appostate le fanterie romane; l'attacco si svolgeva su tutta la linea; la fucilata era vivissima da ambe le parti; quando Garibaldi, vista spuntare sulla strada la testa della cavalleria nemica, spiccò il Masina coi suoi cinquanta lancieri ad arrestarla; e il Masina si slanciava seguito dai suoi compagni: ma o perchè sopraffatti dal torrente della cavalleria nemica sei volte più numerosa, o perchè i loro cavalli fossero nuovi a quel vertiginoso giuoco delle cariche, il fatto è che al primo cozzo furono travolti, e voltarono briglia tutti quanti, abbandonando il loro comandante alle prese col colonnello nemico che ne riportò la testa spaccata.
Ma lo spettacolo accadeva troppo vicino a Garibaldi perchè potesse starsene inerte spettatore. Visto il voltafaccia dei lancieri e il Masina circondato dai nemici, saltò a cavallo e scortato dal solo moro Aghiar, si mise a traverso la via per tentare col gesto imperioso, colla voce tonante e colla stessa persona, d'arrestare la rotta sfrenata. Tutto invano; chè egli stesso rovesciato di sella, venne travolto dall'onda commista degli amici e nemici, e impigliato il corpo sotto il proprio cavallo e pesto dalle unghie di cento altri, stava per cadere ormai morto o vivo nelle mani borboniche, se in buon punto la brava compagnia di ragazzi, detta della Speranza, appostata lì vicino, con una scarica ben aggiustata, non avesse fatto largo nella siepe dei cavalieri nemici, che già si serravano intorno al caduto, e investendoli poscia alla baionetta, non avesse salvata la vita al suo generale. Come se nulla fosse stato, quantunque ferito e ammaccato in più parti del corpo, e coll'impronta di un ferro da cavallo sulla mano destra, Garibaldi balzava come lampo in sella e riprendeva sereno e imperturbabile come sempre la direzione del combattimento.
Nel frattempo però gli Ussari borbonici, trasportati dalla foga dei loro cavalli, erano andati a cascare nel fitto delle linee repubblicane e fulminati di fronte e dai fianchi da un fuoco micidiale vennero forzati a dar volta, lasciando sul terreno numerosi feriti e prigionieri, e trascinando nella fuga rovinosa la fanteria che li spalleggiava. I garibaldini non mancarono di approfittare della rotta, e slanciatisi tutti assieme alla carica accompagnarono i fuggenti colle baionette alle spalle fin sotto le mura della città. Là era forza arrestarsi.
Garibaldi vide che il momento era critico. Un assalto a Velletri era impossibile; una ritirata, con gente già scompigliata dalla pugna, e più atta a caricare con furore che ritirarsi con ordine, sarebbe stata una follia; altro non restava che sollecitare il comandante supremo di correre in suo soccorso; e tenere frattanto in iscacco il nemico con manovre e scaramuccie. Mandò a gran carriera Ugo Bassi a dare notizia dell'accaduto al Roselli e pregarlo, se aveva cara, nonchè la vittoria, la salute dei suoi, a correre senza indugio in suo aiuto; intanto pensava a coprire alla meglio le sue truppe dietro tutti i frastagli e gli scoscendimenti del terreno, in attesa degli invocati aiuti.
Il Bassi trovò il Roselli a Valmontone—gli fece l'ambasciata di cui era incaricato, usò di tutta la sua fervida eloquenza nel dipingere la situazione perigliosa dell'avanguardia; ma s'ebbe in risposta "dover prima aspettare che la truppa avesse consumato il rancio, poi si sarebbe mossa". Fortuna volle che alcuni corpi della seconda brigata, tra cui i bersaglieri Lombardi, accorressero da sè stessi al tuonar del cannone, onde Garibaldi man mano che arrivavano poteva condurli a riparare le file stremate dell'avanguardia.
Così entrarono in linea i Bersaglieri Lombardi, la Legione romana, un battaglione del secondo reggimento, e parte dell'artiglieria del Calandrelli, che, controbattendo gagliardamente le batterie del nemico, gli levarono la tentazione di ripigliare l'offensiva.
Ma tutto ciò a nulla approdava; i nostri non retrocedevano; i borbonici non avanzavano, ma restavano sempre forti e minacciosi, ed ogni istante che fuggiva andava a loro profitto; solo uno sforzo concorde di tutto l'esercito poteva assicurare e compiere la vittoria. Convinto di questo, Garibaldi mandò il capitano David, un animoso Bergamasco, tanto aitante della persona come caldo di parola, a sollecitare ancora una volta il soccorso dal Roselli.
E il David, divorata la via, trovò il generale in capo, che seguito da tutto il suo stato maggiore, alla testa di circa cinquemila uomini marciava alla volta di Velletri.
Il messaggio portato dal capitano David fece accelerare la marcia delle truppe. L'arrivo dei rinforzi diede modo a Garibaldi di tentare qualche mossa, che dalla tenuità delle forze gli era prima vietata. Veduto infatti sulla via di Terracina un insolito movimento e sospettando un preparativo di ritirata, mandò il colonnello Marchetti con un centinaio di fanti e mezzo squadrone di dragoni a imboscarsi nella selva che fiancheggiava quella via affinchè piombasse sui fianchi e alle spalle del nemico appena gli fosse giunto a portata; e dispose un vigoroso assalto contro il Convento dei Cappuccini, che formava la chiave delle posizioni borboniche alla loro sinistra.
Intanto che Garibaldi era intento a riprendere l'offensiva, ecco il fuoco dei Napoletani rallentarsi, le loro linee concentrarsi, la strada di Terracina nereggiare, e tutto accennare a precipitosa ritirata.
In quel punto arrivava Roselli sul luogo dell'azione. Garibaldi lo ragguagliò di quanto era avvenuto e condusse il generale in capo al luogo che gli era servito da osservatorio in casa Blasi, e gli mostrò i preparativi dei Napoletani per una precipitosa ritirata, concludendo col fargli questo piano: "Egli, Garibaldi, si getterebbe ai fianchi del nemico fuggente; il Roselli coll'artiglieria del Calandrelli, la linea e i carabinieri della riserva resterebbe a difendere la posizione espugnata e appoggerebbe l'attacco".
Ma il generale in capo non prestò fede nè ai suoi occhi, nè a quanto gli esponeva Garibaldi; secondo il suo giudizio, quei nemici che sfilavano sulla strada di Terracina erano brigate che si disponevano ad un nuovo attacco per l'indomani; la ritirata dell'esercito borbonico era una manovra!
—Ma che manovra! ribatteva Garibaldi, non vedete che quello è un esercito che fugge? e lasciò il generale in capo a passare tranquillamente la notte in casa Blasi, e lui pure se ne andò a dormire coi suoi all'aperto.
Al nuovo mattino non c'era più a Velletri un solo Napoletano!
Si è voluto fare un'accusa a Garibaldi di avere attaccato battaglia col borbonici contro l'ordine del generale in capo.
Garibaldi fu attaccato—non attaccò, e giudicando pericolosa la ritirata e per di più disonorevole, prese posizione difensiva, in attesa dell'arrivo del grosso delle nostre forze. Si tenga in mente che Garibaldi era all'avanguardia, e si trovò senza provocarlo alle prese col nemico; in quanto all'ordine di non attaccare, Garibaldi ha sempre dichiarato sul suo onore di non averlo ricevuto che tardi, quando già era impegnato—e la parola di Garibaldi non può essere da nessuno messa in dubbio.
La mattina del 20 il generale in capo mandò sulla strada di Terracina qualche squadra volante di fanti e di cavalli a perseguitare il nemico; ma Garibaldi aveva già idea di buttarsi nel Regno ed accendervi la rivoluzione.
Ne scrisse perciò lo stesso giorno al Roselli con la seguente lettera:
"Generale.
"Io profitto della vostra compiacenza ad ascoltarmi, e vi espongo il mio parere. Voi avete mandato ad inseguire l'esercito Napoletano da una forza nostra; ed è molto bene.
"Domani mattina dobbiamo col Corpo d'esercito tutto prendere la strada di Frosinone, e non fermarci fino a giungere sul territorio Napoletano, le popolazioni del quale bisogna insurrezionare.
"La divisione che seguita la strada di Terracina non deve impegnarsi con forze superiori, e deve ripiegarsi sopra noi in caso di urgenza; ciò che potrò, farò anche traverso le montagne, non impedito dal peso dell'artiglieria.
Velletri, 20 maggio 1849.
G. Garibaldi."
Il generale Roselli, come era debito suo, trasmise la proposta di Garibaldi al Ministro della Guerra, esponendo le difficoltà dell'impresa e declinandone la responsabilità.
Il governo Romano richiamò a Roma il Roselli col grosso delle forze; e lasciò Garibaldi con una brigata coll'incarico apparente di liberare i confini dalle masnade dello Zucchi, ma con quello reale di tentare l'impresa dell'insurrezione del Regno di Napoli.
Il 23 di sera Garibaldi era coll'avanguardia a Frosinone, da dove il Zucchi era già partito; il 25 a Ripi; il 26 sconfinava a Ceprano, e saputo che Rocca D'Arce, posizione fortissima, era occupata dai Napoletani, inviava tosto i suoi bersaglieri ad assalirla. E i bersaglieri si slanciarono arditi su per l'erta scoscesa, aspettandosi da un momento all'altro d'essere salutati dalla mitraglia, ma arrivarono senza dare e ricevere un colpo, fino nel paese, ove non trovarono anima viva.
All'annunzio dell'approssimarsi di Garibaldi, soldati ed abitanti colti da timore avevano sloggiato.
Non fu toccata in quel paese la più piccola cosa. Le truppe si coricarono sulla piazza, tranquille, senza tentare di rompere un'imposta e vi passarono la notte.
Garibaldi, saputo che un corpo di Svizzeri l'aspettava a San Germano ordinò al mattino di riprendere la marcia. Egli aveva in mente che se avesse potuto vincere una battaglia, la vittoria gli avrebbe aperta le porte del Regno.
Altri però erano i pensieri del governo di Roma. L'invasione austriaca s'avanzava minacciosa; mentre Wimpfen s'inoltrava verso Ancona, un corpo sotto gli ordini del Lichtenstein marciava su Perugia; Roma poteva essere in pochi giorni stretta da braccia di ferro; fare argine a tanto pericolo era un'assoluta necessità.
CAPITOLO XIV.
Ripresa delle ostilità dei Francesi contro Roma.
Il Triunvirato illuso che le trattative con Lesseps sarebbero approdate ad una felice conclusione, ordinò che si allestisse in Roma una spedizione per le Marche. Garibaldi fu richiamato, ed egli, saputo il motivo del richiamo ubbidì con gioia, e il 28 di maggio ripassato il confine, con marcie forzate, la mattina del 1 o giugno rientrò in Roma.
Sventuratamente, ma come del resto era da prevedersi, il giorno stesso della rientrata in Roma di Garibaldi le trattative con Lesseps erano fallite e rotte.
Il 1 o di giugno l'Oudinot alla lettera ingenua del generale Roselli, con la quale chiedevagli una proroga dell'armistizio per dare modo allo esercito della Repubblica romana di battere l'esercito austriaco, rispondeva "che gli ordini del suo governo gli prescrivevano di entrare in Roma al più presto; di avere già denunziato l'armistizio alle autorità Romane; solo per riguardo ai sudditi francesi residenti in Roma consentiva a differire l'attacco fino a lunedì mattina ". In tutte le lingue del mondo ciò voleva dire che egli non avrebbe attaccato che il mattino del giorno 4.
Con una slealtà senza nome, con una perfidia inaudita negli annali militari, della quale la coscienza della Storia ha gridato vendetta, all'alba del 3 giugno i francesi, col silenzio del tradimento, sorpreso quasi nel sonno il sottile battaglione Melara, s'impadronivano di Villa Panfili, e in men che si dica, avviluppati da ogni parte i pochi bravi che la occupavano, si rendevano padroni del Convento di San Pancrazio, di Villa Corsini, detto Casino de' Quattro-Venti, formanti con Villa Panfili quell'altipiano che era la chiave della difesa di Roma.
Era da prevedersi che i francesi cui necessitava assicurarsi le retrovie per Civitavecchia, avrebbero fatto tutti gli sforzi per impossessarsi del punto più elevato della linea di difesa—e vi misero tanta e tale importanza che per venirne al possesso adoperarono perfino il tradimento. Come il generale in capo non se ne sia preoccupato non si spiega. Era principalissimo suo dovere di provvedere durante l'armistizio alla fortificazione in modo efficace delle alture, nonchè delle ville e dei casini fuori porta San Pancrazio per servirsene come posti avanzati—invece non pensò a nulla, e le conseguenze furono gravissime. E la imprevidenza non si arrestò a questo; il 1 o di giugno il generale Oudinot, come abbiamo visto, dichiarava la cessazione dell'armistizio dando l'annunzio che avrebbe aperte le ostilità il giorno 4; le necessità del momento obbligavano se non altro il generale in capo a guarnire di forze sufficienti a respingere il nemico e non permettergli d'impossessarsi di posizioni tanto importanti, quali erano quelle avanzate di porta S. Pancrazio e ciò senza attendere l'ultima ora! Neppure a questo fu provveduto—e fu errore fatale.
Avvenuta l'occupazione, per sorpresa e per tradimento, la villa Corsini (detta dei Quattro Venti) fu oggetto di aspra contesa. Ritolta dai bersaglieri di Pietramellara ai francesi, fu nuovamente perduta, ripresa dal reggimento Pasi fu difesa coraggiosamente per più ore ma riperduta; con combattimento accanitissimo sostenuto dalle truppe del generale Bartolomeo Galletti fu anche da queste perduta.
Il furioso accanimento per conservarne il possesso dimostra quanto grande importanza si dava dalle due parti a quella dominante posizione; e tanto più non si arriva a capire perchè nè il Triumvirato, nè il generale in capo dell'esercito l'abbiano trascurata! Ed ora Roma ne pagava il fio.
Garibaldi sempre così vigile, mai pensando che da parte dei Francesi si potesse temere un tradimento, dormiva nel suo modesto letto in Via delle Carrozze n. 59 quando il fragore del cannone che, aveva scossa tutta la città, lo destò. In un baleno fu in sella; si trasse dietro la Legione Italiana, acquartierata nel vicino convento di S. Silvestro; lasciò l'ordine che le rimanenti truppe lo seguissero; partì al galoppo. Arrivato alla Porta di San Pancrazio, misurò con un'occhiata tutta l'estensione del pericolo; distribuì le truppe man mano che arrivavano tra i bastioni, la Porta e il Vascello, e lanciò i Legionari alla conquista di Villa Corsini.
La Legione, comandata dal Sacchi, preceduta dal Masina accompagnata dal Bixio, non indugiò, traversò sotto una grandinata di palle, il terreno scoperto, seminandolo dei suoi migliori, e arrivò fin sotto la Villa; ma colà, fulminati di fronte e dai lati, dalle finestre, dalle siepi, dalle muraglie da migliaia di nemici appostati al coperto, furono costretti a desistere e ordinatamente a ritirarsi al Vascello, che da quel momento divenne l'antemurale estremo e più tenace dei difensori di Roma.
L'attacco replicato del Casino dei Quattro Venti, fu micidiale per i nostri; feriti a morte il bravo Masina, Pier Antonio Zamboni portabandiera dei lancieri e Pietro Scalcerle aiutante dei lancieri stessi. Esposti a grave pericolo e feriti il generale Bartolomeo Galletti; Nino Bixio, che, uccisogli sotto il cavallo, si spinse fino a salire su un balcone del primo piano rimanendo gravemente ferito.
Ebbero pure ferite mortali Francesco Daverio, Capo dello Stato Maggiore della Legione, il Colonnello Pulini primo aiutante di Campo di Garibaldi e tanti e tanti altri.
E al Vascello le parti erano cambiate. Gli assalitori di prima diventarono gli assaliti; i francesi sboccavano da ogni parte; ma i legionari protetti dal massiccio edificio, convertito in fortezza, folgoravano da cento feritoie la morte. Il Vascello, avvolto da una bufera di fuoco resisteva impavidamente. Di questo baluardo della repubblica romana ne aveva preso il comando Giacomo Medici; si era certi che sarebbe stato difeso fino agli estremi.
Nelle ore pomeridiane i tentativi di riprendere le posizioni perdute, furono dai garibaldini rinnovati con grande energia ed insuperabile eroismo; nonostante le perdite gravissime, i Legionari, i bersaglieri del Pietromellara e quelli del Manara si slanciarono ad un nuovo attacco anche contro il Casino dei Quattro Venti: i due aiutanti di Garibaldi, Goffredo Mameli e Augusto Vecchi erano alla testa dell'ardita falange, il primo, Goffredo Mameli, caro sopra tutti a Garibaldi, ne riportò una ferita mortale.
La grande superiorità delle forze francesi, che coi rinforzi ricevuti superavano i quarantamila uomini sì da permettere loro di subito rioccupare con truppe nuove le posizioni perdute, resero vani tutti gli sforzi, anche quello tentato verso sera dai bersaglieri, sostenuto dal reggimento Unione (9 o di linea).
Così finì la giornata del 3 giugno, nefasta alla fama francese, giornata veramente memorabile nei fasti del valore italiano se si pensi che cinque grandi assalti furono dati dai soldati della repubblica Romana per sloggiare il nemico dalle posizioni occupate per tradimento; più di dieci furono le cariche alla bajonetta con cui precipitarono contro il nemico, e per quattro volte seppero riprendere alle migliori truppe del mondo le posizioni perdute.
Chi può dire, degli eroici episodi di questa immortale giornata? Come ricordare alla patria i nomi dei caduti per essa?
Il Masina, ferito al primo assalto, fasciata in fretta la piaga si slanciava a cavallo su pei gradini di Villa Corsini, e avvolto dai nemici roteando il ferro terribile, squarciato il petto da una palla cadeva fulminato.
Il Mangiagalli, a Villa Valentini menò strage di Francesi; spezzata la spada, combattè sempre, benchè ferito e tenne la villa con pochissimi rimastigli fino a sera.
Lo Scarcele colpito a morte legò tutto il suo alla patria. Il Manfrin sergente dei bersaglieri, quantunque gravemente ferito, volle riprendere il suo posto nelle file; e al Manara che gli diceva "vattene, qui non servi a nulla;" rispondeva "lasciatemi stare colonnello, almeno faccio numero" e alla prima scarica il valoroso era colpito mortalmente.
Il Rozà, ferito due volte, ritornava alla pugna, e alla terza soccombeva.
Angelo Bassini, s'avventava con un pugno de' suoi, contro Villa Corsini e ne tornava pesto e insanguinato. Dalla Longa, milanese, raccolto sulle spalle il caporale Fiorani mortogli al fianco mentre ritraevasi col caro peso, una palla lo trapassò e cadde in un fascio col suo carico. Emilio Dandolo, errava per tutto il campo in cerca delle spoglie dell'amato fratello e fu ferito mortalmente. Narciso Bronzetti pure ferito andava in ore notturne tra le scolte francesi per togliere ai nemici il corpo del suo servo fedele.
I legionari del Medici, affrontarono la grandine dei Vincennes per sottrarre da una casa incendiata dal fuoco nemico i cadaveri dei loro compagni ivi caduti quando essi la difendevano, d'onde il nome di Casa Bruciata. Eroismi immortali!
In tutti i corpi Romani che presero parte ai combattimenti del 3 giugno grande fu il numero degli ufficiali che morirono o rimasero feriti, perchè negli attacchi alla bajonetta primi col loro esempio incitavano i giovani soldati della Repubblica al sacrifizio della propria persona. Ma nessun corpo, in proporzione del numero, ebbe perdite così rilevanti di Ufficiali come la Legione Italiana e lo Stato Maggiore di Garibaldi; Garibaldi stesso calcolava a ventitrè ufficiali della sola legione messi fuori combattimento; otto gli ufficiali dello stato maggiore di Garibaldi; cinquecento e più dei nostri soldati tra feriti e morti; circa sessanta ufficiali tra morti e feriti.
È doloroso che ancora non si conoscano tutti i nomi dei caduti in difesa di Roma nel 1849; quelli che si conoscono e sono raccomandati alla storia eccoli: Oltre ai già nominati: morirono il Colonnello Pulini, d'Ancona, dello stato Maggiore di Garibaldi, l'aiutante Maggiore Feralta, il Capitano Ramorino, Emanuele Cavallaro, Canepa, Sivori, Pedevilla, Anceo, Caroni, Minuto, Gnecco, Pegorini, Gruppi, Costa, Rodi, Coglioli, de Maestri, Cavalleri, Bonnet, Grossi, Savoia, Bonduri, Meloni, Conti, Loreta, Gazzaniga, Bucci, Marzari, Cavizzi, Battelloni, Rambaldi.
Feriti gravemente: Nino Bixio, Goffredo Mameli morto in seguito alla ferita, Strambio, Duzelisiana, Binda, Ricci, Marocchetti, Bassini, Frattini, Grattigna, Sartorio, Boldrini, Bignami, Mambrini, Zanetti, Magni, Zanucchi, Tassoni, Gnoli, Zuccalà, Vigoni, Sampieri, Righi, Tresoldi, Silva, Colombo, Mancini, Signoroni, Scorani, Vinaselti, Luzzi, Mazza, Costaldini, de Pasqualis, del Pozzo, Lucci, Giorgieri; e fra questi i due valorosissimi giovanetti Domenico Cariolato delle provincie Venete, e Raffale Tosi di Rimini che il generale Garibaldi ebbe carissimi per tutta la vita.
Fu pure ferito combattendo valorosamente Baccigaluppi Paolo che fu poi fucilato sul Po assieme a Ciceruacchio e ad altri patriotti.
Padroni di Villa Panfili e delle alture, i francesi, quasi fosse una piazza forte, intrapresero l'assedio di Roma; tracciarono parallele, piantarono batterie sotto la direzione del generale Vaillant, s'avanzarono senza posa verso la piazza.
I nostri, condotti da un genio militare arditamente infaticabile, privo di cannoni e di ogni sorta di materiale, contrapposero intrepidi offesa ad offesa, trincera a trincera, scavarono vie coperte, alzarono cortine, restaurarono senza sosta le cannoniere smontate, e tentarono anche delle sortite; alla debolezza dei mezzi supplirono con la forza dei petti, per prolungare quanto potevano l'agonia della Repubblica.
Ma ogni giorno che passava la cinta d'assedio veniva sempre più serrandosi.
Dopo ripetuti attacchi di forze sempre in aumento e soverchianti, malgrado l'eroica resistenza sostenuta dalla Legione Romana reduce dal Veneto della quale faceva parte il tenente Giacinto Bruzzesi che pel suo valore si meritava la medaglia d'oro al valore, malgrado il valore spiegato dal battaglione universitario e da altri valorosi. Anche ai Monti Parioli i nostri venivano sopraffatti.
Tra questi fu ferito il colonnello Romano Silvestri mentre combatteva eroicamente con al fianco tre figli, uno dei quali rimase pure ferito. Questo patriota che Roma ricorda con onore, fu uno dei più perseguitati dal governo pontificio; esiliato nel 1821 e nel 31, doveva subire la stessa sorte nel 1849.
Nel 1848 comandò il 1 o reggimento volontari romani che tanto si fece onore combattendo a Cornuda ed a Mestre; ebbe poi il comando dell'Estuario e quindi passò capo di Stato Maggiore col generale Pepe.
Combattendo sotto Velletri le truppe borboniche, ebbe ucciso il cavallo; dopo la ritirata delle truppe Napolitane venne nominato comandante di quella zona. Nel 1860 egli stesso accompagnava i sui tre figli al campo a combattere per l'unità della patria. Onore alla sua memoria.
I francesi eransi fortemente stabiliti con l'intera Divisione Guepiller anche nella Via Flaminia da dove per 28 giorni fulminavano il Pincio, bombardavano la città, senza essere mai riusciti a sloggiare i nostri dai Monti Parioli; fra i difensori vi era anche un battaglione degli studenti che teneva con grande valore la Villa Paniotowschi, sebbene bersagliato senza tregua dal nemico che della Villa Polverosi al di là del ponte Milvio aveva fatto una formidabile posizione offensiva e difensiva.
L'11 di giugno nelle ore pomeridiane il battaglione comandato dal valoroso capitano Golinelli sostenuto dalla Legione romana volle con supremo ardimento tentare di sloggiare il nemico dalla Villa: con slancio da veterani i bravi studenti si precipitarono impavidi all'attacco, sostenendo un accanito combattimento per più ore, ma la grandine delle palle nemiche alfine ne arresta lo slancio, balenano i bravi giovani, cadono numerosi e sono obbligati a ritirarsi; ultimi a farlo furono i fratelli Francesco ed Alessandro Archibugi di Ancona, che combattendo da veri eroi caddero entrambi mortalmente feriti; rimasti sul campo, vennero fatti prigionieri e condotti a Civitavecchia ove vi lasciarono la vita.
Il combattimento di quel giorno sostenuto con slancio ammirevole, costò al piccolo battaglione oltre quaranta feriti gravemente, primi fra i quali il capitano Gollinelli, il tenente Ronchini, il Cattaneo, il Pietrasanta, il Silvagni, il Finzi.
Il fatto d'armi meritò di essere messo all'ordine del giorno nel quale venne segnalato in modo speciale il battaglione degli studenti meritevole di grandi encomi.
La mattina del 13 i francesi smascherarono tutte le loro batterie e con trenta bocche da fuoco batterono per sette giorni e sette notti i bastioni sesto e settimo, e la sera del 21 vi aprirono in tre punti la breccia; non restava più agli assedianti che di salirla; e difatti la notte del 21 al 22, taciturni, tentarono l'assalto; il battaglione del reggimento "Unione" che vi stava di guardia, si lasciò sorprendere e volse in fuga, e gli assalitori solleciti a trarre profitto dal panico, furono padroni, senza combattimento, delle mura di Roma.
Presa la breccia, Mazzini propone che ne sia tentata la ripresa la notte stessa. Si mandò a chiamare Garibaldi, ma questi dichiarò ineseguibile l'impresa.
Mazzini scrisse a Manara perchè persuadesse Garibaldi, ma questi non mutò divisamento.
Disse essere suo convincimento che l'assalto notturno alla breccia, con truppe stanche, orbate dei loro migliori ufficiali, sarebbe inevitabilmente fallito—e che ormai la sola provvida e urgente risoluzione da prendersi era quella di riparare dietro una nuova linea, che egli aveva già ideato e proposto.
Perduta la breccia, e la fiducia di conquistarla, ai Romani non restava fuori di Roma che il Vascello. Solo ma formidabile sempre; e dentro Roma restava il tratto dei bastioni da Porta S. Pancrazio a Porta Angelica, e come seconda difesa, la linea tracciata dagli avanzi della Mura Aureliana, sostenuta al centro dalle batterie del Pino, ad occidente dal bastione ottavo e dalla Villa Spada, ad oriente dai Conventi di San Calisto e di San Cosimato, sulle falde dell'Aventino.
Ed era appunto intorno a queste posizioni che stava per rinnovarsi la lotta.
I francesi, dopo di essersi gagliardamente trincerati nella breccia conquistata, avevano costruito una terza parallela dalla quale bersagliavano le posizioni nemiche facendo piovere nella città una tempesta di bombe che spesso andava a cadere, danneggiandoli, sui monumenti più famosi dell'antica romana grandezza.
Garibaldi affidava al valore dei Legionari del Medici la ripresa di Villa Barberini; in questa impresa ebbe fracassato un braccio il Capitano Gorini, il corpo forato da diciotto ferite l'Induno Girolamo, la spalla forata da una baionettata il giovinetto valorosissimo Cadolini, e non lasciarono al nemico che un monte di rovine; armarono di nuovi pezzi le batterie del Pino, afforzarono Villa Spada, tempestarono di colpi bene aggiustati le batterie nemiche, e sopportarono con costanza invitta i disagi dei lavori notturni, i guasti del bombardamento, i vuoti della morte.
Tutti fecero eroismi sorretti dalla coscienza d'un alto dovere.
Il Medici, fatta del Vascello una fortezza, con un manipolo di prodi la difese con sovrumana energia di piano in piano, di pietra in pietra. Bersagliato notte e giorno da Villa Corsini, tormentato senza posa dalle carabine dei famosi Cacciatori d'Africa, ridotto in frantumi in gran parte l'edificio che gli serviva di asilo e di rocca, nulla valeva a scrollare la sua impassibile fermezza. Squarciato il secondo piano scese al primo; crollato anche il primo, passò al piano terreno; diroccato questo pure, s'accampò all'aperto; ma non cedette un sasso della sua ruina e la rese immortale.
E i difensori delle batterie fecero pure miracoli—e innanzi tutti i cannonieri—inferiori per l'armi, mal coperti da terrapieni improvvisati, costretti a combattere con pezzi da campagna contro pezzi d'assedio più di una volta fecero tacere le batterie nemiche; ne sconquassarono o ne demolirono le opere, strapparono per la giustezza dei tiri e l'intrepidezza della difesa grida d'ammirazione anche agli stessi nemici.
Un uomo compendiava in se tutti gli eroismi e pareva abbellire colla calma la morte dei suoi bravi e rendere fede al miracolo dell'invulnerabilità sua; Garibaldi!
Lasciata Villa Spada si era fatta costruire una capanna di stuoie presso la batteria del Pino, la sua prediletta; e là, fra il rombo assordante delle bombe francesi, passava i giorni e le notti nell'osservare tutte le mosse del nemico, dirigendo il fuoco della batteria, spacciando i suoi ordini ad ogni parte del campo, e trovando modo di dormire tranquillamente come in casa sua.
Ma l'ultima ora fatalmente s'appressava; dal 27 al 29 sette batterie francesi, avevano fulminato tutte le posizioni romane, e malgrado la virtù e l'eroismo dei difensori avevano fatto di esse mucchi di rottami.
Al mattino del 29, il Casino Savorelli era distrutto, la Porta S. Pancrazio sfiancata, il bastione nono e la Villa Spada gravemente danneggiati, la batteria del Pino sconquassata, e infine il bastione ottavo, punto principale di mira dell'assediante, ridotto in macerie, e la quarta breccia aperta nei suoi fianchi. Bisognava impedire che il nemico ne approfittasse e vi si organizzò una fiera resistenza.
La mattina del 30 due grosse colonne francesi, sostenute da forti riserve mossero di fronte e dai fianchi all'assalto della breccia; i Romani li respinsero con vigorosa pugna; assaliti e assalitori si trovarono corpo a corpo ed un accanito combattimento a ferro freddo s'impegnò sul terrapieno; molti s'immortalarono in quella difesa disperata. Emilio Morosini eroe diciottenne fece eccidio di nemici, e sebbene ferito due volte non ristà dalla pugna, ma sfinito di forze mentre era trasportato all'ambulanza dai suoi, fu sopraggiunto dai nemici e abbandonato; ma non si arrese ancora e menò di sciabola finchè gli bastò la lena; quando una terza palla nel ventre gli trapassò il bel corpo e ne involò l'anima eroica.
La breccia era salita, ma non presa ancora; le batterie della Montagnola facevano strage degli assalitori; i francesi pagarono ogni palmo di terreno col sangue loro e dei loro capitani; gli artiglieri si facevano tagliare a pezzi sui loro cannoni, ma non si arrendevano; esaurite le polveri restavano ancora le baionette e i calci dei fucili; restavano sopratutto ancora a far barriera i petti dei superstiti ed i cumuli dei morti; ma la gloriosa ecatombe non poteva trattenere il nemico ed il numero doveva avere ragione una volta ancora; i francesi irruppero da ogni lato minacciando l'unica via di ritirata; non restava ai superstiti altro riparo che Villa Spada.
Garibaldi richiamata al Casino Savorelli la Legione Medici, poichè la perdita della seconda linea rendeva inutile la difesa del Vascello, asserragliata Villa Spada, appoggiate le spalle a San Pietro in Montorio, la Sinistra a San Calisto, l'estrema destra al bastione nono ancora in piedi, tentò improvvisare una terza linea di difesa.
Preceduti e spalleggiati dal fuoco incrociato di tutte le batterie, i francesi montavano da ogni parte all'assalto; ma il loro obiettivo era sempre Villa Spada; colà ormai si decideva l'estrema sorte di Roma; colà Garibaldi, il Manara, Sacchi, i Legionari, i Bersaglieri, quanti erano uomini vivi e atti ancora a impugnare un'arma si prepararono all'estremo cimento. Il tetto, le mura della casa bombardata, crollavano da ogni lato sui difensori, ma nessuno parlava di resa. Il Manara infiammato da eroico ardore, desiderando la morte piuttosto che assistere alla resa correva dove più era grande il pericolo, incorraggiava i combattenti, dirigeva la lotta, ma mentre s'affacciava per osservare le mosse del nemico una palla lo stramazzò agonizzante fra le braccia di Emilio Dandolo, a cui poco prima aveva detto, come Ney a Vaterloo: "Non ci sarà dunque una palla per me?"
Un altro come lui aveva cercato in quell'antro infuocato di Villa Spada la morte; ma questa lo risparmiò suo malgrado volendolo serbato a ben più grande destino. Se in quel giorno Manara fu grande, Garibaldi fu terribile; ruotava come fulmine la sua spada e guai ai nemici che incontrava dinanzi. I suoi fidi tremavano di vederlo cadere da un momento all'altro, ma pareva che le palle avessero paura di toccarlo.
A mezzo giorno del 30 giugno tutto era finito; Villa Spada era perduta; Garibaldi si ritirava coi laceri avanzi dei suoi, per la Lungara, sperando ancora di arrestare il nemico a Ponte Sant'Angelo, quando, un rappresentante del popolo venne ad annunziargli che l'Assemblea aveva bisogno d'interrogarlo sullo stato delle cose, e l'attendeva in Campidoglio.
Chiese al Vecchi Augusto che lo scortava "credete che in un'ora potremo essere di ritorno?" Lo credo rispose il Vecchi—"allora partiamo" e al galoppo, coperto di polvere, fiammeggiante in volto per l'ardore della pugna, salì al Campidoglio. Al suo apparire l'Assemblea ruppe in una salva interminabile di applausi. Informato che Mazzini aveva già proclamato che tre sole vie rimanevano aperte ai romani: o capitolare; o difendere la città fino all'estremo ovvero uscire da Roma, Governo, Assemblea, Esercito, e portare la guerra altrove; invitato Garibaldi a salire sulla Tribuna ed esporre il parere suo, dichiarò senz'altro.
"La difesa oltre Tevere impossibile; possibile ancora al di qua del fiume la guerra di barricate; ma a patto che tutta la popolazione s'internasse nella città, e che tutto ciò si effettuasse entro due ore. Dover suo di aggiungere che anche siffatta difesa non avrebbe potuto durare che pochi giorni. Quanto a lui null'altro restavagli che uscir di Roma col resto dei suoi prodi e tenere alta la bandiera della patria fino all'estremo; consigliava perciò l'Assemblea di accettare la terza proposta del Mazzini: uscire da Roma coll'esercito, col Governo e coi rappresentanti del popolo; concludendo: "dovunque saremo, colà sarà Roma".
Ciò detto tornò al suo campo, e l'Assemblea, respinta ogni idea di resistenza votò il Decreto omai celebre:
"In nome di Dio e del popolo.
"L'Assemblea costituente romana cessa una difesa divenuta impossibile, e sta al suo posto".
Per effetto di questo Decreto, il Triumvirato rassegnava l'ufficio al Municipio Romano unica autorità legittima cui spettasse di negoziare col vincitore i patti della resa. Senonchè avendo il generale francese per colmo, rifiutate le più oneste condizioni, e tra le altre quella del rispetto delle persone e delle cose, Roma sdegnosamente ruppe ogni negoziato, preferendo lo estremo arbitrio del vincitore al disonore di sottoscrivere con lui una resa che avrebbe soffocato in lei il grido di estrema protesta al mondo, contro quella bugiarda sorella latina, che dopo averla assalita colla perfidia di un tradimento, vinta colla sola virtù del numero, veniva a negarle il supremo diritto dell'incolumità della vita e degli averi dei cittadini.
Il Municipio annunziava ai romani la prossima entrata dei francesi.
"Romani!
"Il coraggio da voi dimostrato nella difesa di Roma, i sacrifici che incontraste, vi hanno assicurata la gloria e la stima degli stessi stranieri—Una difesa ulteriore, come fu annunziato dal Decreto dell'Assemblea, sarebbe stato impossibile, senza volere la distruzione d'una città che conserva memorie le quali non debbono perire. La vostra rappresentanza municipale non ha accettato patti per non compromettere menomamente la dignità di un popolo così generoso, ed ha dichiarato di cedere alla forza.
"Le leggi di umanità e di incivilimento, la disciplina di un'armata regolare, le assicurazioni dei comandanti ci ripromettono il rispetto delle persone e delle cose.
"La vostra rappresentanza municipale vi promette che non mancherà di fare quanto è in suo potere onde non si rechi ingiuria ad alcuno. Abbisogna però del vostro concorso ed è certa di ottenerlo. Fida nel vostro contegno dignitoso e nell'esperienza costante che ha dimostrato al mondo come i romani in circostanze prospere o avverse, hanno saputo egualmente mantenere l'ordine, e costringere anche i nemici e salutare con riverenza la città dei monumenti, e rispettarne gli abitanti che con le loro virtù rendono impossibile l'oblio della Romana Grandezza.
"Dal Campidoglio il 2 luglio 1849.
"Francesco Sturbinetti, Senatore.
Lunati Giuseppe, Gallieno Giuseppe, Galeotti Federico, Deandreis Antonio, Piacentini Giuseppe, Corboli Curzio, Feliciani Alceo, Tittoni Angelo, Conservatori.
Giuseppe Rossi, Segretario.
La sera del 2 luglio i francesi s'impadronirono di Porta Portese, di Porta S. Pancrazio, e il dì seguente occupavano Porta del Popolo. Nella giornata entrava in Roma il generale Oudinot circondato dal suo Stato Maggiore ed alla testa della 2 a Divisione e di numerosa cavalleria, accolto con ogni sorta di dimostrazioni ostili ed al grido "Viva la Repubblica Romana, morte agli stranieri, morte al cardinale Oudinot, morte al traditore".
La sera del 4 soldati francesi entrano a viva forza con le armi in pugno alla sede della Costituente ed intimavano alla sezione che vi stava in permanenza di sciogliersi. Carlo Bonaparte che la presiedeva protestò.
"In nome di Dio; in nome del popolo degli Stati Romani che liberamente, con suffragio universale, ha eletto i suoi rappresentanti; in nome dell'art. 5 o della Costituzione francese, l'Assemblea Costituente Romana protesta in faccia all'Italia, in faccia alla Francia, in faccia al mondo incivilito contro la violenta invasione, della sua sede operata dalle forze francesi il giorno 4 luglio, alle ore 6 pomeridiane.
Roma, nel Campidoglio 4 luglio 1849.
Per l'intera Assemblea
Il Presidente di Sezione: C. Bonaparte,
Il Segretario: Quirico prof. Filopanti.
CAPITOLO XV.
Garibaldi esce da Roma coi suoi legionari San Marino—Morte di Anita—Cesenatico
A mezzo giorno del 2 luglio, Garibaldi radunava sulla Piazza del Vaticano i resti della sua divisione, e fatto formare il quadrato li arringò così:
"Soldati, io esco da Roma. Chi vuole continuare la guerra contro lo straniero venga con me. Ciò che io offro a quanti vogliono seguirmi eccolo: non paga, nè onori, nè stipendi. Gli offro fame e sete, marcie forzate, battaglie e morte. Chi ama la patria mi segua".
Lo seguirono circa tremila uomini, i resti cioè della Legione Italiana, buona parte della polacca, e del battaglione Medici, grossi manipoli di finanzieri, di studenti e di emigrati, i superstiti Lancieri di Masina, circa quattrocento Dragoni; i pochi bersaglieri Lombardi.
La sera del giorno stesso usciva furtivamente da Porta San Giovanni, e lasciando tutti incerti sulla sua meta s'incamminò per la via Tiburtina.
Gli cavalcava al fianco, in vesti virili, la sua Anita; gli faceva da guida Ciceruacchio coi suoi figli, l'accompagnava Ugo Bassi; ne seguivano le sorti Sacchi, Marocchetti, Montanari, Hoffstetter, Cenni, Livraghi, Isnardi, Sisco, Ceccaldi, Chiassi, Stagnetti, Bueno, Müller, l'eletta dei suoi ufficiali superstiti. Giunto in sull'alba del 3 a Tivoli, fece spargere la voce che si dirigeva al Napoletano. Al tramonto infatti, levato il campo, marciò per un buon tratto verso il Mezzogiorno; indi volse improvvisamente a Settentrione, pernottò a Monticelli, e la mattina del 4 s'accampò a Monterotondo.
Qual era il suo disegno? dove voleva andare? a che mirava? nessuno seppe indovinarlo. Egli aveva in animo di portare il suo aiuto a Venezia, e certo una cosa voleva: tener viva la fiamma finchè avesse soffio di vita, morire, tra i laceri brani della sua bandiera!
Come era facile prevedersi l'Oudinot gli sguinzagliò contro due grosse colonne, l'una comandata dal generale Molière, l'altra dal generale Morris; il borbonico Statella gli muoveva alle spalle dal Tronto; gli Spagnoli di Don Consalvo appostati a Rieti gli sbarravano la destra; e gli austriaci del D'Aspre, accampati nell'Umbria, l'aspettavano di fronte a Foligno, e gli chiudevano le due vie di Perugia e di Ancona. Così Garibaldi era accerchiato in una maglia di ferro; sbagliata una mossa, l'eroe, l'amato del popolo, era irremisibilmente perduto. Ma l'inseguito era Garibaldi, ed il leone non si sarebbe lasciato cogliere! Nel pomeriggio del 5 staccava la marcia da Monterotondo; il sei era a Confine; il 7 a Poggio Mirteto; l'8 a Terni dove s'incontrò col colonnello Forbes, che veniva a portargli una colonna di ottocento uomini, resti di corpi sbandati nella campagna, e due pezzi di cannone.
Terni era il centro di cinque vie; si poteva salire a Foligno, quanto discendere a Rieti; voltare per Narni e Viterbo, come salire a Todi e Perugia. Garibaldi lasciò in ogni passo delle squadriglie per ingannare gl'inseguenti, spinse una avanguardia di cavalli a Todi, e il dì appresso, 9 luglio, vi si condusse egli stesso col grosso del corpo. Qui le cose cominciavano a volgere male, e l'orizzonte ad intorbidirsi. Il programma di Garibaldi—fame, sete, marcie forzate—se ebbe applausi quando fu proclamato, accennava man mano a divenire impossibile; anche ai tanti di buona volontà veniva meno le forze, e sintomi di scoramento cominciarono a manifestarsi; seguirono quindi le diserzioni, prima a frotte, poi in massa.
Intanto concordi notizie recavano, che i francesi del Morris gli muovevano contro da Viterbo, e che gli austriaci da Foligno si mettevano in marcia per Todi. Garibaldi mandò un nerbo de' suoi a scorazzare sulla strada di Foligno per far credere che mirava là; spedì Müller con i suoi cavalli ed una compagnia della legione per la strada di Orvieto con ordine di spingersi fino a Montefiascone-Viterbo; seppellì i due cannoni del Forbes, e quando ebbe l'assicurazione dai suoi scorridori che i due nemici erano ancora lontani tanto da potervi scivolare in mezzo, lasciò Todi la sera del 12, passò il Tevere a Ponte Acuto e s'incamminò per la via mulattiera, montuosa ed obbliqua di Brodo per Orvieto, sua meta la Toscana.
La sera del 13 avendo avuto informazioni che il generale Morris era ancora lontano, staccò la marcia per Orvieto ove giunse sul mattino del 14.
Non entrò in Orvieto ma s'accampò su di una buona posizione a cavaliere della strada di Ficulle. Gli Orvietani mandarono a Garibaldi invito di entrare in città, e lo fornirono del pane mandato ad ordinare dai Francesi. Ma Egli non s'indugiò; nel pomeriggio del 15 levò il campo e mosse verso Ficulle, vi arrivò a sera quando già i Francesi gli erano alle calcagne; gli Austriaci gli muovevano incontro da Perugia.
Partì la mattina del 16; abbandonò dopo poche miglia di cammino la strada maestra, e si buttò a Sole dove riposò per poche ore; e la notte, per sentieri impervii e monti disabitati, sotto una pioggia dirottissima, in mezzo a tenebre fitte, guadagnò il confine Toscano e giunse alla mattina a Cetona accolto festosamente dalla popolazione. Fu quella la prima volta che la brigata, dacchè era uscito da Roma, dormì acquartierata.
Liberatosi dai Francesi gli restavano sempre di fronte gli Austriaci, che scendevano da Perugia, ed i Toscani, che tenevano presidii tra Santeano e Chiusi, i quali potevano impacciare se non arrestare i suoi movimenti e molestarlo.
Ma l'eroe non se ne sgomentava. Fortificatosi a Cetona, circondati i suoi fianchi d'imboscate, coperte le spalle da forze sufficienti, mandò celeremente una grossa squadriglia a battere la strada Sarteano e Chiusi, e quando gli riportarono di avere snidati e messi in fuga i presidii Toscani, ripigliò la marcia; dormì il 17 a Sarteano; entrò il 18 a Montepulciano, dove tutta la popolazione fece a gara nell'usargli gentilezze e nel colmarlo di cortesie e d'offerte. Rinata la speranza in Garibaldi, pubblicò un ardente manifesto ai Toscani col quale li invitava ad insorgere contro la tirannide domestica e straniera. Ma fu l'illusione di un momento, e presago ormai che nulla più poteva sperare, proseguì il suo fatale cammino.
Giunto sull'albeggiare del 20 a Torrita prese una grande risoluzione, quello di abbandonare il granducato Toscano e di prendere per nuova meta l'Adriatico e Venezia! Là sulla laguna ardeva sempre quel gran focolare, in cui ormai si concentravano tutti gli sforzi d'Italia.
Il piano di Garibaldi fu presto formato; salire fin presso Arezzo; passare dal subappennino al grande appennino; scendere tra Pesaro e Ravenna all'Adriatico; imbarcarsi nel punto più opportuno per Venezia.
Vani sforzi! inseguito come belva feroce passo passo dagli Austriaci che con forze superiori da ogni parte lo circondavano, seppe rompere il cerchio di ferro, e per vie dirupate e nascoste, guadagnò dopo enormi fatiche le alture di Carpegna al mezzodì del 30; ne ripartì nel Vespro, traversò la Valle del Conca, prese un po' di riposo poche ore in un bosco, e al tocco dopo mezzanotte ripigliò la marcia alla volta di S. Marino.
Non gli restava altro rifugio!
A San Marino scioglieva la sua colonna e lasciava libero ognuno di tornare alla vita privata col seguente ordine del giorno:
San Marino 31 luglio 1849.
Soldati!
Noi siamo giunti sulla terra di rifugio, e dobbiamo il miglior contegno ai nostri ospiti. In tal modo noi avremo meritata la considerazione che merita la disgrazia perseguitata.
Da questo punto io svincolo da qualunque obbligo i miei compagni, lasciandoli liberi di ritornare alla vita privata, ma rammento loro che l'Italia non deve rimanere nell'obbrobrio, e che è meglio morire che vivere schiavi dello straniero.
G. Garibaldi.
Verso le undici di sera chiamò intorno a sè i migliori suoi ufficiali e i pochi suoi fidi, e svelò loro l'incrollabile suo proposito di sottrarsi ai patti che il governo della repubblica Sammarinese stava trattando collo straniero.
"A chi vuole seguirmi, egli dice, io offro nuove battaglie, patimenti, esiglio; patti collo straniero mai".
Le parole di Garibaldi caddero come stille roventi nell'animo degli accorsi al suo invito, ma a pochi bastò il cuore e la forza di ascoltare il suo appello. Non furono più di duecento quelli disposti a seguirlo. Allo scoccar della mezzanotte, preceduto da tre guide paesane, per un unico sentiero di montagna, scendeva il Titano; guizzando tra le scolte nemiche, traversava la Marecchia, passava Montebello; e camminando tutta la giornata verso le 10 di sera del 1 o agosto penetrava in Cesenatico. Non perdette tempo; fatti prigionieri i Carabinieri e i pochi soldati austriaci colà sorpresi, s'impadronì di tredici "bragozzi" Chiozzetti, v'imbarcò tutta la gente, uscì dal porto e veleggiò per Venezia.
In sulle prime al fuggitivo arrise la fortuna; ma verso sera apparì all'orizzonte la flottiglia Austriaca che s'avanzava a tutto vapore.
Ritornato ardito uomo di mare, concepì con rapidità fulminea il suo piano; comandò ai bragozzi di sparpagliarsi e di dirigersi verso punta della Maestra, dove le acque basse li avrebbe protetti dall'inseguimento. Ma egli comandava a timidi pescatori; questi alle prima minaccie delle scialuppe nemiche che venivano loro incontro, si scompigliarono senza saper più manovrare: sicchè otto bragozzi caddero prigionieri degli austriaci ed a Garibaldi non restò che gettarsi sulla costa di Magnavacca, che per miracolo potè afferrare.
Ma la terra non era più sicura del mare; squadre di gendarmi lo cercavano per ogni verso.
Prima necessità fu quella di separarsi per potersi meglio nascondere ai nemici. Ugo Bassi e il Capitano Livraghi presero per una via, Ciceruacchio e i suoi figli per un'altra; e Garibaldi restò solo con Anita e il Capitano Leggiero. Ma la povera Anita era in fin di vita, di lei non viveva più lo che lo spirito, il corpo era consunto dagli stenti sofferti. Unico mezzo di salute era quello di lasciare all'istante quella spiaggia; Garibaldi, senza pensare ad altro, prese sulle braccia la sua Anita e scortato da Leggiero, e guidato da un contadino che la fortuna gli aveva condotto dinanzi, col caro peso traversò la macchia e arrivò ad una deserta capanna, dove trovò un nascondiglio, e fu per Anita un po' di riposo un giaciglio di frasche.
Era là da qualche tempo quando Garibaldi si vide davanti all'uscio della capanna un giovanotto in veste signorili che lo salutava rispettosamente. Era Gioacchino Bonnet di Comacchio, di famiglia di patrioti il cui nome va ricordato dagli Italiani. Fu lui che salvò Garibaldi, facendogli traversare le valli di Comacchio, travestito de' suoi abiti, in una sua barca, nella quale aveva preparato anche un giaciglio per l'Anita; fu per mezzo suo, e dei suoi fidi guardiani, che potè arrivare nella fattoria Guiccioli presso Sant'Alberto. Colà appena adagiata sul letto, l'eroica Anita esalava l'ultimo suo respiro nelle braccia del marito.
Così il 4 agosto 1840 alle 4 di sera spirava l'anima forte di Anita Ribeira Garibaldi; essa fu martire dell'amore, sublime, intrepida donna degna compagna dell'Eroe che tanto la pianse. Le sue ossa furono coperte, da poca sabbia, in vicinanza della fattoria Guiccioli alla Mandriola, a circa undici miglia da Comacchio!
Povera martire!!!
Lasciato per necessità il triste luogo Garibaldi, con l'aiuto di patriotti montanari, potè raggiungere la pinetta di Ravenna e di là subito dopo, si condusse alla valle Guiccioli, detto Manubria. Colà venne a prenderlo in consegna il bravo popolano Giuseppe Savini di Ravenna, che, tenutolo nascosto per alcuni giorni in un casolare delle Paludi di Ravenna della Valle di Canna, lo passò ad Antonio Fuzzi, Ravennate esso pure, che a sua volta lo affidò a Don Giovanni Verità onesto e patriottico sacerdote di Modigliana, mercè il quale, attraversato il Passo della Futa potè sconfinare in Toscana. Da allora passando sempre da mano amica a mano amica, sgusciando in mezzo alle ronde mandate alla sua caccia, protetto dalla sua stella, valicò i due versanti dell'appennino. Il 26 agosto fu a Poggibonsi, di là a Pomarance dove fu ospite di Antonio Martini. In appresso, Camillo Serafini lo tragittò a San Dalmazio dove lo raccomandò al Guelfi che a sua volta, condottolo prima a Massa Marittima poi a Follonica, lo consegnò finalmente alle mani di Paolo Azzarini, marinaio di Rio, che si offrì di portare Garibaldi a Porto Venere, in terra di salute.
Colà sbarcato assieme all'amico Leggiero rilasciò all'Azzarini un prezioso documento così concepito:
"Il padrone Paolo Azzarini, che la fortuna mi fece incontrare in terra italiana, dominata dagli austriaci, mi ha trasportato su questo luogo di asilo e di salvamento, trattandomi egregiamente e senza interesse".
G. Garibaldi.
In questo frattempo un forte corpo di armata austriaco invadeva gli Stati di Romagna; occupava il 7 maggio Ferrara e marciava difilato su Bologna. Quel popolo patriottico si dispose alla resistenza, e quando gli austriaci investirono la porta di Galliera buon numero di popolani spalleggiati da uno squadrone di carabinieri comandati dal Colonnello Boldrini con una carica arditissima ed a colpi di baionetta mettono in fuga il nemico; ma i bravi bolognesi sono ad un tratto arrestati dalle scariche di mitraglia di tre pezzi di cannoni che gli austriaci avevano piazzati in buona posizione e fulminati dalle Carabine dei Tirolesi che seminavano morte, sono costretti di cedere e ritirarsi dopo avere veduto cadere ferito a morte il colonnello Boldrini, l'aiutante Marziani, il maresciallo Pavoni e numerosi altri. Occupata Bologna gli austriaci proseguirono per restaurare il governo papale nelle Marche.
CAPITOLO XVI.
Assedio di Ancona e sua eroica difesa.
Ancona era investita dagli austriaci, il 24 maggio, bloccata e chiusa per terra e per mare.
Erano 12,000 gli assedianti, muniti di armi potenti.
Il generale Wimpfen aveva mandato agli anconitani l'intimazione di arrendersi, e di assoggettarsi al Sovrano Pontefice; il Preside Mattioli rispose con fiere parole; Livio Zamboccari, comandante delle milizie a difesa, ricordava: "gloria a piccolo Stato il vincere; gloria per la santità del diritto soccombere".
I difensori erano 4850 compresovi i fratelli accorsi da Iesi, da Loreto, da Sinigaglia, da Fano, da Pesaro, dalla Romagna, dalla Lombardia ed anche dal Piemonte, nell'insieme, i più maldestri alle armi, vissuti fino allora nelle industrie e nei commerci; ma tutti animati di amor patrio, e dal proposito di fare il proprio dovere.
Elia e suo padre erano giunti pochi giorni prima del blocco in Ancona e furono destinati sul vapore da guerra "Roma" sotto gli ordini del tenente di vascello Castagnoli e poscia comandati ai forti in difesa della città.
Il 25 maggio avvenne il primo scambio di fucilate fra le Torrette e Montagnolo, e il primo cannoneggiamento fra il forte della Lanterna e il piroscafo austriaco "il Vulcano".
Il 27 "la Bellona" la più potente nave armata della squadra nemica, attacca il forte della Lanterna con le sue bordate e nonostante fiera difesa, smontati alcuni pezzi, il forte fu costretto al silenzio: diresse allora la nave le sue bordate alla Darsena, ma i cannonieri del forte Marano risposero con spessi colpi e con tiri così bene aggiustati da aprire numerose falle nei fianchi della "Bellona" che fu salvata dal "Vulcano" accorso in aiuto per trarre la Nave Ammiraglia a rimorchio fuori del tiro del forte; essa ebbe il comandante mortalmente ferito, due morti e quaranta messi fuori di combattimento.
Così con ugual valore, con indomita fierezza, nessuno mancò al dovere suo nei memorabili venticinque giorni d'assedio.
Tutti i giorni un combattimento; sui forti, sui baluardi, sulle baricate, all'aperto. Agli austriaci occupanti le alture; alla squadra che batteva il forte cannoneggiando con potenti artiglierie, rispondevano con efficacia i nostri bravi dal Cardetto, dalla Cittadella, dai Cappuccini, da Marano, dalla Lanterna, da ogni luogo fortificato; i marinai e popolani senza conoscere la balistica eransi tramutati in un lampo puntatori meravigliosi.
Nel profondo della notte dal 29 al 30 maggio gli austriaci lanciarono in città una spaventosa grandinata di bombe.
Gli Anconitani, a giorno fecero una sortita; tre volte attaccarono nelle sue posizioni avanzate il nemico alla baionetta; i giovani parevano veterani, i veterani erano tramutati in eroi! sembrava ricostituita la compagnia della morte, rinnovante le tradizioni del libero comune, intrepida nelle audaci sorprese, negli scontri temerari, nello sprezzo della morte; i vecchi gli inabili alle armi, le donne fornivano le munizioni; i capitani di mare in corse pericolose rompevano il blocco, rifornivano i viveri.
L'8 di giugno Wimpfen, mandava un messaggio al comune, che è documento del valore Anconitano, tanto più alto in quanto veniva dal nemico stesso. "Le truppe imperiali, esso dice, passarono per le romagne, per le marche senza incontrare ostacoli; ne trovarono solo avanti Ancona; si arrenda la città se non vuol essere distrutta".
Ancona non si arrese; ma continuò la difesa colla forza rinnovata dalla disperazione.
Il 15 giugno, trecento uomini comandati dai capitani, Gervasoni, Gigli ed Ornani, cuori ardimentosi, assaltarono Monte Marino alla baionetta; i nemici furono messi in rotta e l'altura rapidamente occupata. Ma le forze nemiche ritornarono soverchianti di numero all'assalto; la lotta durò accanita i nostri piuttosto che cedere morivano nel santo nome della patria, finchè più che decimati furono obbligati alla ritirata. Gervasoni fu colpito a morte, e Francesco Gigli sopraffatto da' nemici sarebbe rimasto sul terreno, se Enrico Schellini con coraggio leonino non fosse accorso in suo aiuto.
La minaccia di Wimpfen aveva infiammati gli animi alla lotta suprema.
Dal 14 al 18 giugno le bombe, i razzi, scoppiavano per le vie, nelle case, sugli ospedali, rombavano di notte e di giorno con orrendo fracasso; pareva d'essere circondati da una catena di vulcani che eruttassero fiamme, fuoco e ferro sulla patriottica città.
I pompieri, onorato corpo che vanta nobilissime tradizioni, senza badare a fatiche e pericoli, si moltiplicarono, spengevano incendi, sgombravano via le macerie, demolivano muri, salvavano quanti più potevano dalle case incendiate, trasportavano feriti, lottavano ogni giorno, ogni ora con la furia degli incendi, guidati dal sentimento del dovere e da profonda pietà umana.
Tanto sacrificio, tanta nobiltà d'animo, tanti eroismi non bastarono a salvare la città degli oppressori.
I viveri erano esauriti e il blocco sempre più stretto come in cerchio di ferro non permetteva d'introdurne in città; ottanta incendi divamparono, gli ospedali riboccavano di feriti che non si aveva mezzo di alimentare; oltre trecento morti affermarono col sangue l'affetto alla patria.
Ancona, diroccata, affamata, straziata, dopo 35 giorni di resistenza veniva forzata alla resa.
La marina mercantile Anconitana della quale era a capo Antonio Elia fece nella difesa del patrio suolo bravamente il suo dovere.
Era necessario pensare alla salvezza dei compromessi politici affinchè non cadessero nelle mani dei sbirri papalini e dei Croati.
Un bastimento anconitano, di cui era proprietario e comandante Mariano Scoponi, ottenne per solerte intromissione del patriotta Nicola Novelli, di poter inalberare bandiera inglese e su di esso dovevano prendere imbarco per essere trasportati a Corfù, quanti credevano di non essere sicuri in patria.
E difatti vi si imbarcarono tutti quelli, che si trovavano compromessi e che avevano a temere la vendetta del governo ristaurato e dello straniero. Antonio Elia aveva avuto un diverbio col priore del convento di S. Francesco di Paola.
Temendo la vendetta del prete che mai perdona, il figlio e gli amici lo pregarono caldamente, di prendere esso pure imbarco per l'estero. Ma egli rispondeva di avere la coscienza tranquilla, di nulla avere a temere, non volere quindi volontariamente abbandonare la patria e la famiglia, e restò.
La notte del 24 luglio 1849 la casa abitata dall'Elia, appartenente ai frati di S. Francesco di Paola ed attigua al loro convento, fu circondata da gendarmi papali, da soldati austriaci e da poliziotti. Si picchiò all'uscio di casa ed alla intimazione della forza fu aperto; venne eseguita una minuziosa perquisizione e nulla si rinvenne. Non era questo che volevasi dal barbaro austriaco e dai preti; era necessario dare un terribile esempio alla popolazione, applicando la legge stataria su uno dei capi del popolo. Non essendosi rinvenuto nulla in casa, gli assetati di sangue del patriota, requisiti alcuni muratori, si diedero a rompere un condotto di scolo avente comunicazione con tutti i cinque piani superiori, abitati da numerosi inquilini.
In fondo al condotto disfatto, fu trovata un'arma che aveva appartenuto chi sa a chi, o che poteva anche essere stata appositamente gettata da coloro, che avevano premeditato il delitto. Antonio Elia venne legato sotto gli occhi della moglie incinta, in mezzo al pianto di quattro creature, e condotto alle Carceri di S. Palazia. Appena giorno la povera moglie con le sue quattro piccole figlie andava a gettarsi alle ginocchia del generale austriaco Faltzenter domandando grazia per l'innocente, ed il permesso di poterlo visitare nelle carceri. Le fu accordato il permesso di visitare il marito, ma quando la santa donna si presentava alle carceri una detonazione le gelava il sangue e le faceva istintivamente comprendere, che la vita di Antonio Elia veniva barbaramente ed ingiustamente troncata. Alla domanda di vedere il marito, come ne aveva il permesso, le fu risposto che era troppo tardi. Sarà stata una raffinatezza di barbarie del generale quella di far trovare presente alla esecuzione la moglie del martire? Il sospetto almeno è ammissibile.
Ecco una lettera che Garibaldi scriveva al figlio del martire Anconitano:
Caprera, 22 dicembre 1868.
Mio caro Elia,
"Figlio del popolo, il padre vostro merita di essere annoverato tra i grandi Italiani.
"Oggi, che si avvicina la caduta della tirannide papale noi dobbiamo ricordare agli italiani le vittime della sua ferocia e fra quelle una delle più illustri, certamente, Antonio Elia.
"Ancona ricordi quel prodissimo suo cittadino che tanto l'onora".
Vostro
G. Garibaldi
Per la morte del padre, Augusto Elia all'età di venti anni rimaneva unico sostegno della povera madre e delle quattro sorelle, tutte di tenera età.
Un fatto avvenuto in Ancona nell'inverno del 1849 lo obbligò di lasciare la patria e la famiglia e di darsi a volontario esilio.
In tarda ora di una notte oscura e piovosa una povera donna scendeva la via del porto con un orcio pieno d'acqua attinta alla pubblica fonte di piazza grande. Quando fu in vicinanza del vicolo della Cisterna, la poveretta veniva brutalmente assalita da quattro croati, i quali, toltole l'orcio, volevano trascinarla nel vicolo oscuro per violentarla. Mentre la povera donna resisteva e gridava sopraggiunse un giovane, il quale, sguainata in men che si dica dal fodero di uno dei croati la sciabola-baionetta, assalì i quattro intenti a dare prova di loro prodezza su di una povera donna; i quattro furono assai malconci e posti fuori combattimento dal giovinotto e la donna liberata.
Alla mattina l'Elia se ne stava in casa sua in prossimità del luogo ove avvenne il fatto, quando gli si fa annunziare l'amico del padre e suo, Agostino Scipioni, il quale, tutto trepidante, lo veniva ad avvisare, che una donna, la signora Piermattei, gli aveva confidato di averlo riconosciuto quale assalitore dei quattro croati; gli disse di aver supplicata la signora Piermattei di non ripetere parola se non voleva farlo fucilare; la signora promise di non parlare, ma l'amico Scipioni pensava, che non vi era da fidarsene e volle che l'Elia lasciasse subito Ancona. Così fece, prese subito imbarco e si recò a Malta: l'opportuna fuga salvò la vita, ma all'Elia figlio, apriva la via dolorosa dello esilio.
Scorsero dieci anni. Ma ormai i destini della patria venivano maturandosi e l'ora della resurrezione stava per suonare.
CAPITOLO XVII.
Dal 24 marzo 1849 al 1859—Il Piemonte.
Nella notte del 24 marzo 1849 Vittorio il nuovo Re, uscente dalla tenda di Radetzky a cui aveva detto "I Savoia sanno la via dell'esilio non quella del disonore"!—galoppava tra i campi seminati dai caduti per la libertà della patria, seguito da piccolo drappello de' suoi. A qual destino andava incontro? Quale meta attendeva la giovinezza del suo regno saturo già d'ineffabili angoscie? Qual fiamma lo agitava? Certo il suo cuore era angosciato dai ricordi del breve idillio del "48" e della dolorosa epopea del "49"; ma la grand'anima sua si sollevava al pensiero che il nome d'Italia era stato per la prima volta il grido del popolo combattente, e sentiva già che le speranze della patria erano in lui riposte. E stretto al cuore il patto della libertà, e il simbolo della redenzione, proseguiva incontro al suo destino verso il suo vecchio e fido Piemonte, deciso entro di sè di volere raggiungere la santa meta—l'unità della patria!
Garibaldi dopo il "49" si era recato a New-York con la speranza di trovare imbarco come comandante od anche come secondo di nave mercantile; dopo lunga aspettativa una Società Italo-Americana gli diede il comando di un bastimento col quale doveva battere gli scali dell'America Centrale. Nel 1853 Garibaldi prendeva il comando del "Commonwealth"—un tre alberi destinato ai carichi di carbone dall'Inghilterra per l'Italia; arrivato a Genova, lasciava il comando e si recava a Nizza per portare un saluto almeno, sulla tomba della sua santa madre e per restare qualche tempo presso i suoi figli, Menotti, Teresita e Ricciotti.
Vi rimase immolestato l'anno 1854: quindi con altro piccolo bastimento detto "L'Esploratore" si mise a fare la navigazione del piccolo cabotaggio.
In uno di questi viaggi, colto da grosso fortunale nelle bocche di Bonifacio dovette cercare rifugio nel porto della Maddalena, e dimorandovi alcuni giorni, per la prima volta gli balenò l'idea di comprare una parte dell'Isola di Caprera.
Aveva riscossi alcuni residui dei suoi stipendi di Montevideo; nei suoi viaggi marittimi aveva messo da parte qualche cosa; dall'eredità del fratello Felice aveva raccolto una sommetta; onde gli parve venuto il momento d'impiegare i suoi modesti capitali e decise di comprare dal Demanio Sardo i lotti dell'Isola che erano vendibili e di fissarvi la sua dimora.
Lungo, lento, doloroso decennio quello dal "49 al 59!" Ma pur meraviglioso di contrasti e di conciliazioni; di forze latenti che si preparavano; di aperte riscosse che si tentavano; di passioni ardenti che spingevano a sagrifizi; di martiri che inaffiarono di sangue l'Idea:
Vittorio Emanuele, Mazzini, Cavour, Garibaldi, Pallavicini ed altri grandi patriotti non dimenticavano che l'Italia viveva in catene, e si preparavano.
L'Austria, accampava in Italia con diritto di feudo su Modena, Parma e Toscana; con eserciti dominatori nel Lombardo, nel Veneto, nelle Romagne, nelle Marche; suo sistema di governo, forche, fucilazioni e bastone.
Eppure tutto il decennio fu sfida e duello fra l'Austria forte e l'Idea Italiana.
Luminoso e generoso si diffondeva il pensiero dell'agitatore genovese nella Giovine Italia che aveva per bandiera il tricolore; per programma l'indipendenza ed unità di Nazione, forma di governo repubblicano; che predicava guerra di popolo, s'insinuava nelle congiure, scoppiava in parziali insurrezioni, provocava vendicatori del nuovo sangue versato, cementava l'idea santa del martirio.
Ma le rivolte fallivano; la gioventù si spegneva fra gli ergastoli ed ai patiboli; i tentativi infelici di Orsini, di Bentivegna, di Pisacane; il moto di Calvi in Cadore; la congiura di Milano, che dava, sugli spalti di Belfiore, alle forche, ed al carcere duro tanto fiore di nobili vite, dimostravano che il pensiero mazziniano, grande perchè manteneva vivo il fuoco patrio, era impotente nell'azione.
Chi avrebbe potuto armare l'idea? Il Piemonte e la Casa Sabauda! Quel principato italiano doveva trasformarsi in principato Nazionale; la monarchia dovea farsi rivoluzionaria; i repubblicani unitari dovean persuadersi che la monarchia di Savoia aveva fede, forza e valore; e la monarchia si pose allo esperimento dei fatti. Pallavicini e Manin si fecero apostoli dell'unione della democrazia col Piemonte.
Cavour—vigile e possente intelletto—uomo di Stato degno del Re Vittorio Emanuele—concepisce la felice idea di mandare nelle terre d'Oriente, sui campi di Crimea, combattenti, tra i soldati d'Inghilterra e di Francia, i nostri bravi soldati che riaffermino alla Cernaia, la virtù degli animi e la potenza delle armi italiane.
Al Congresso di Parigi si fa eco dei dolori, delle miserie, delle speranze d'Italia—e l'Italia sente nel Piemonte se stessa—intuisce in Vittorio Emanuele il suo Re prode generoso e fedele.
Finalmente a Plombiers si segna l'alleanza con la Francia, e l' ultimatum lanciato dall'Austria, tanto desiderato, dà la spinta al compimento dei destini della patria.
Nel 1856 il generale Garibaldi trovandosi a Genova veniva ogni giorno, ogni minuto sollecitato, e messo alle strette da numerosi patrioti, i quali chiedevano che si mettesse alla loro testa per iniziare un ardito movimento Nazionale.
Da tempo erano sorti due partiti in Italia: unica però la meta—la cacciata dello straniero: i mezzi per raggiungerlo, però, si palesavano assolutamente diversi. Gli uni rimanendo fedeli intransigenti al principio repubblicano volevano arrivarci colla rivoluzione. Gli altri, senza alcuna abiura ai principii, aderivano al patto con la Casa di Savoia che s'impegnava di mettersi alla testa del movimento Nazionale e di combattere per l'unità ed indipendenza d'Italia. Garibaldi sentiva che per raggiungere questo fine patriottico
Re Vittorio Emanuele II
era necessario di far tesoro delle forze piemontesi e che la spinta, magari indiretta, doveva venire da quel principe leale e da quel governo. Egli quindi abbracciò questo secondo partito; per lui si doveva compiere l'unità italiana; ed è dovere riconoscere che la Casa Savoia era chiamata per virtù propria, per valore e per tradizione storica, a compiere i destini della patria.
L'impotenza sempre più manifesta dei partiti puramente rivoluzionari; la sfacciata complicità degli altri principati italiani collo straniero; la politica schiettamente nazionale del Piemonte e del suo Parlamento; il sangue già versato sui piani Lombardi; l'esilio del suo Re; la proverbiale lealtà di Vittorio Emanuele ai patti giurati; furono queste le vere ragioni che chiamarono provvidenzialmente la monarchia piemontese a capo della lotta nazionale.
CAPITOLO XVIII.
1859—La guerra d'indipendenza.
Il 1 o dell'anno 1859 l'Europa veniva risvegliata dall'eco rumorosa dei pochi detti, pronunziati dall'Imperatore Napoleone III al conte Hübuer ambasciatore d'Austria:
"Mi duole che le relazioni col vostro governo non sieno così amichevoli come per lo passato; dite però all'Imperatore che i miei sentimenti personali verso di lui non sono punto cambiati".
Era il preavviso della dichiarazione di guerra, e furono pochi quelli che non lo capirono. In Italia sopra tutto queste parole risvegliarono tutte le speranze alle forze sopite dal 49 in poi. I frutti delle alleanze di Crimea venivano a maturanza.
Si attendeva con ansia febbrile l'apertura della Camera Sarda per trovare nella parola del Re Sabaudo un detto che confermasse le concepite speranze, e la parola si fece sentire così:
Signori Senatori, signori Deputati,
"L'orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo anno non è pienamente sereno. Ciò nondimeno vi accingerete colla consueta alacrità ai vostri lavori parlamentari. Confortati dalla esperienza del passato, andiamo incontro risoluti all'eventualità dell'avvenire. Quest'avvenire sarà felice riposando la nostra politica sulla giustizia, sull'amore della libertà e della patria.
"Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei consigli di Europa, perchè grande per le idee che esso ispira.
"Questa condizione non è scevra di pericoli, giacchè mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi.
"Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della Provvidenza".
10 gennaio.
La Corona non potea dire di più: i gridi di dolore uditi dal Re Vittorio Emanuele, si cambiarono nelle genti italiane in grido di giubilo e di esultanza.
Il primo dardo era gettato e l'Austria non aveva tardato a raccoglierlo ordinando la marcia del 3 o Corpo d'Armata di stazione a Vienna verso la Lombardia.
Questo provvedimento unito ad altri di concentrazioni di truppe ordinati dal Maresciallo Giulay sul Ticino e sul Lago Maggiore diede motivo alla stampa liberale, diretta dal Conte di Cavour, di dichiararsi provocati e di fare appello a tutto ciò che l'Italia aveva di valido e di nazionale—ed ai preparativi per la prossima campagna.
Mentre tutto nell'Alta Italia si apprestava alla guerra, in Toscana la dinastia di Lorena al 27 di aprile cessava di regnare. Una rivoluzione si compiva pacificamente, si formava un governo provvisorio, e il generale Ulloa prendeva il comando delle forze militari.
Il 20 di dicembre del 1858 il Conte di Cavour aveva chiamato in segreto convegno Garibaldi e gli comunicava in confidenza questo disegno: un'insurrezione era preparata nei ducati: verso il 1 o di aprile Massa e Carrara inizierebbero il movimento; due bande di volontari irromperebbero contemporaneamente da Lerici e da Sarzana: Garibaldi doveva spalleggiare la rivolta e capitanarla. Nello stesso tempo un battaglione di bersaglieri, dei migliori elementi della guardia Nazionale di Genova, si doveva organizzare in quella città, e sarebbe il primo nucleo delle forze popolari destinate a fiancheggiare colla rivoluzione l'esercito regolare.
Garibaldi applaudì alla proposta e diede senza restrizione la sua adesione; e lieto che ormai la guerra dell'indipendenza era davvero imminente, si ridusse di nuovo nella sua isola di Caprera.
Ma l'accalcarsi crescente dei volontari in Piemonte, consigliò il Conte di Cavour di pensare ad altro mezzo per potere più efficacemente trar profitto di Garibaldi. Infatti il 2 marzo 1859 il generale fu chiamato a Torino dal Re. Le parole di quel dialogo tra il Re Galantuomo e l'eroe popolare andarono perdute; ma il senso ne fu presto palese. Gli si volle dare una parte più diretta ed importante sul teatro della guerra.
Tornato Garibaldi a Genova, convocò i suoi più intimi, Medici, Sacchi, Bixio e diede loro quest'annunzio: "Ho veduto Vittorio Emanuele; credo che il giorno di ripigliare le armi non sia lontano; state pronti; io spero di poter fare ancora qualche cosa con voi"!
Fu deciso di ordinare tutta quella valorosa gioventù—che da ogni regione della penisola conveniva in Piemonte—in corpi speciali, che stessero a fianco dell'esercito, come rappresentanti dell'elemento popolare e rivoluzionario di Italia, disciplinati in ordinata milizia, ubbidienti al suo capo, e soggetta al Comando supremo.
Da questo concetto nacquero i Cacciatori delle Alpi. Garibaldi fu richiamato da Caprera per capitanarli; ed egli rispose subito all'appello, traendosi seco i suoi più fidi commilitoni.
La sera pel 23 aprile due inviati austriaci presentavano al Conte di Cavour l' ultimatum del loro governo: "disarmo immediato, o guerra" e la risposta non poteva essere dubbia.
Finalmente quel cartello di sfida, tanto provocato, tanto desiderato, il grande statista lo teneva in mano; finalmente la guerra era certa, la Francia vi era impegnata; l'Austria l'intimava essa stessa, e non poteva sfuggirla.
Infatti, prima ancora che il Conte di Cavour consegnasse ai messaggeri austriaci la sua risposta, Garibaldi, risposta ancor più espressiva, riceveva l'ordine di portare la sua brigata a Brusasco, sulla destra del Po, cioè a dire, in prima linea. Suo mandato era, guardare il Po da Brusasco a Gabbiano, difendere la strada militare Casale-Torino, e chiudere gli intervalli esistenti tra la divisione Cialdini che guardava la Dora Baltea, e le batterie di Casale che proteggevano più a mezzogiorno i passi del Po.
Garibaldi ad effettuare questo disegno, mandò una compagnia a presidiare Verua, e, spedito avviso al generale Cialdini suo capo immediato, nel giorno stesso occupava Brozzolo e vi piantava il suo quartier generale.
Il 25 aprile le truppe francesi varcavano il confine della Savoia, ed altre prendevano imbarco nei porti di Tolone e di Marsiglia per Genova.
Il dado era tratto, la guerra dichiarata, e il 29 aprile un corpo di austriaci comandato dal generale Giulay invadeva il territorio sardo.
L'esercito Piemontese si concentrava sulla destra del Po, tra Casale e San Salvatore, fiancheggiandosi con Alessandria, aspettando che il nemico avanzasse se lo avesse osato.
Nella giornata del 30 giungevano a Torino ed Alessandria le avanguardie francesi.
In data del 29 aprile 1859 il re Vittorio Emanuele diresse alle truppe un nobilissimo proclama, il quale fra le altre belle cose diceva:
"..... L'annunzio che vi dò è annunzio di guerra; all'armi dunque o soldati... Io sarò il vostro duce. Altre volte ci siamo conosciuti con gran parte di voi nel fervore delle pugne; ed io, combattendo a fianco del magnanimo mio genitore, ammirai con orgoglio il vostro valore. Movete fidenti alla vittoria, e di novelli allori fregiate la vostra bandiera, quella bandiera che coi tre suoi colori e colla eletta gioventù, qui da ogni parte d'Italia convenuta e sotto a lei raccolta, vi addita che avete a compito vostro l'indipendenza d'Italia; questa giusta e santa impresa che sarà il vostro grido di guerra" quali parole del re guerriero e patriota empirono d'entusiasmo e di ardimento gli animi delle milizie regolari e dei volontari Garibaldini.
Nel pomeriggio del 22 maggio Garibaldi con marcia ordinata e celere aveva preso la via di Arona, e mentre per le disposizioni date, tutto doveva far credere che vi avrebbe pernottato, a notte calata le sue truppe facevano un rapido mezzo giro a destra e infilavano, serrate e silenziose, la strada di Castelletto, penetravano nel parco Visconti e trovati alla riva i barconi preparati già dal bravo Viganotti in ordine mirabile s'imbarcarono, e passarono sull'opposta riva occupandola militarmente; e subito dopo la 3 a compagnia De Cristoforis, scelta per avanguardia si spingeva a notte profonda dentro Sesto Calende a cogliere nel sonno le autorità austriache, doganieri, gendarmi e croati colà residenti, facendoli prigionieri.
La mattina del 23 maggio la situazione degli eserciti belligeranti era questa: gli alleati ancora al di là della Sesia e del Po, tra Vercelli e Voghera; gli austriaci in faccia a loro, padroni delle due rive della Sesia e del Ticino, e di tutto il Lago Maggiore.
In questo stato di cose Garibaldi si trovava isolato, come campato in aria, ed i suoi cacciatori potevano considerarsi come un nucleo di truppa perduta nel cuore del campo nemico: per cui al nostro eroe non restava che, o vincere subito ad ogni costo, o disperdersi coi suoi per i monti, onde potere all'evenienza rifugiarsi in Isvizzera. A ragion militare veduta, dei due eventi certo il meno probabile non era il secondo. Ed invero l'Austria era signora della Lombardia, la scorrazzava con dodicimila uomini, riceveva rinforzi, o ne poteva ricevere ancora; occupava Milano con imponente presidio, allacciava i suoi distaccamenti con forti colonne mobili pronte a correre nei punti più minacciati; sicchè poteva opporre al condottiero italiano una forza sempre di molto maggiore della sua. Ma a Garibaldi in mancanza di grandi forze erano potenti ausiliari, la perizia e l'indomita audacia. Si fissava quindi nell'antico suo scacchiere del 1848 tra il Verbano e il Lario, e formava in un baleno il suo piano deliberando la marcia su Varese nel giorno stesso.
Un fiero proclama scritto di sua mano, inciso colla sua spada, aveva annunziato il suo arrivo alle popolazioni della regione, e non vi era umile terra dei dintorni che vi restasse insensibile. Da Laveno, Gallarate, Besozzo, Ispra, Varese, accorsero festanti ad offrire al famoso Capitano l'opera loro, ad invocare una sua parola d'ordine per la lotta; ed a tutti l'eroe distribuiva parole d'incitamento e di coraggio.
All'inviato di Varese, che, a nome del suo generoso Podestà Carlo Carcano gli domandava istruzioni, rispondeva di suo pugno; "qualunque cosa facciate contro il nemico in pro' della santa causa italiana, sarà da me approvata, ed io vi sosterrò validamente".
La marcia da Sesto Calende a Varese non poteva essere fatta di fronte, perchè esposta ad essere pericolosamente molestata di fianco; oltre di che, prima d'inoltrarsi nel paese, importava assicurarsi sul Lago Maggiore un punto di sostegno, e impadronirsi di uno almeno dei piroscafi che il nemico vi teneva. Guidato da questi concetti ordinò il suo movimento così:
Bixio con un battaglione del suo reggimento doveva marciare per la strada lacuale di Sesto Calende; toccato Angera doveva staccare una compagnia per tentare di predare il piroscafo "Ticino" ivi ancorato: giunto ad Ispra sostare ed informarsi esattamente del presidio di Laveno, e di tutte le altre forze austriache sul Lago, dopo ciò convergere su Brebbia e spingersi fino a S. Andrea, borgo che cavalca la via Laveno-Varese ed ivi accamparsi gagliardamente.
Il capitano De Cristoforis doveva rimanere a Sesto con la sua compagnia, sorvegliare il passo del Ticino, e se gli capitava il destro impossessarsi di qualcuno dei vapori nemici, e sopratutto doveva guardare la strada Sesto-Gallarate attirandovi il nemico, trattenerlo quanto avesse potuto, e battere in ritirata su Varese se assalito da forze superiori.
Tutto ciò stabilito, spinta un'altra pattuglia a Gallarate, per mascherare una volta di più la sua mossa, verso le 5 di sera Garibaldi staccava la marcia, e per le vie traverse di Corpegno, Varano, Bodio, Capolago, tra fitte tenebre, attento a tutti i bivii, e sollecito a tutti i rumori, con la truppa stanca, ma elettrizzata al contatto di quella terra tanto agognata, s'accostava a Varese, dove circa le 11 di sera incontrato da musiche e da fiaccole, accolto da una calca di popolo in delirio, vi entrò in trionfo, s'avviò difilato al Municipio ed incontrato il Podestà lo abbracciava infiammando con l'ardente sua parola che affascinava quanti l'ascoltavano; e prima di ritirarsi pronunziava queste testuali parole, che la storia non può dimenticare: "Qualunque bene diciate di Vittorio Emanuele non sarà mai troppo. Io non sono realista: ma dopo che avvicinai Vittorio Emanuele, dovetti riconoscerlo per un gran galantuomo. Egli non solo ha per l'Italia un amore immenso, ma un culto, un'idolatria".
Quello che importava era provvedere alla difesa. L'Austriaco, scossa la prima sorpresa, accorreva e serrava da ogni banda. Giulay conosciuta l'invasione garibaldina, in risposta a quello di Garibaldi, bandiva un suo proclama feroce, nel quale dopo avere annunziato il suo arrivo concludeva. "Do la mia parola che i luoghi, i quali facessero causa comune con la rivoluzione, verrebbero puniti col fuoco e con la spada". E non dovevano essere parole soltanto.
Il giorno stesso spiccava dal grande esercito una colonna che a marcia forzata, accorreva sul nuovo teatro di guerra; anche da Milano il generale Melezes di Kellermes, spediva su Gallarate e Somma un corpo di quattrocento fanti, due pezzi e uno squadrone. Fu questo corpo che il 25 di mattino andò ad attaccare in Sesto-Calende il capitano De Cristoforis, e che questi, con strattagemmi degni di una pagina di storia indimenticabile, seppe illudere e deludere così bene, da tenerlo in mano per quasi due ore con forze quattro volte inferiori, e sgusciargli di sotto gli occhi, a mezzo tiro di moschetto, lasciandolo solo a cannoneggiare le povere case di Sesto, dove fin dalla mattina non v'era più l'ombra di un garibaldino.
Intanto la colonna austriaca partita da Oleggio, il cui antiguardo fu visto spuntare ad Olgiate la sera del 23, era in marcia su Varese, forte di quattromila uomini con due batterie e due squadroni, comandata dal tenente maresciallo Urban.
Varese giace in una conca di colline alcuna delle quali vestite di macchie e di boscaglie che formano il suo baluardo. E tramezzo a siffatte colline nella direzione dei quattro punti cardinali corrono altrettante strade principali: ad oriente, quella che dalle falde di Biumo conduce per Malnate, a Olgiate e a Como; a mezzodì, quella che lambendo le pendici di San Pedrino e di Gubiano, va per Gallarate a Tradate a Milano; ad occidente, quella che, traversati i poggi di Masnago e Comerio, mena per Gavirate a Laveno, a settentrione, infine le due strade d'Induno e di Sant'Ambrogio che spaccando le prealpi di Valcuvia e di Valgana, portano al Lago Maggiore ed alla Svizzera. Ora a chi avesse considerata questa topografia, due cose risultavano notabili: la prima, che la strada di Induno e di Valgana si allacciava presso Biumo inferiore, alla strada di Como in guisa da formare con essa un angolo retto; la seconda, che per il poggio di Biumo Superiore s'incamminava nel quadrivio testè descritto, Varese-Sant'Ambrogio-Induno-Como, e con la forte postura ne teneva la chiave e la dominava.
Ciò posto, e per quanto fosse manifesto che l'attacco principale sarebbe venuto dalla via di Como, non era però da trascurarsi, il supposto, assai probabile, che l'Urban avrebbe compiuto un movimento aggirante per la via Induno; nè molto meno era a rigettarsi come improbabile il caso che i corpi incontrati a Gallarate dal De Cristoforis e il presidio di Laveno si muovessero a rincalzare di fianco e alle spalle l'assalto principale, tentando di mettere i garibaldini tra tre fuochi.
Importava dunque guardarsi da tutti i lati, e guardarsi in modo da potere all'evenienza far fronte da ogni parte, senza assottigliare di troppo la propria linea e disseminare le forze; e Garibaldi non titubò. Fissate due linee di difesa, l'una esterna, lungo l'arco Biumo-Giubiano-San Pedrino e l'altra interna rasente gli sbocchi delle principali vie di Varese, occupò coi carabinieri genovesi e un battaglione del terzo Reggimento la Villa Ponti, centro di Biumo Superiore, e vi piantò il suo Quartier Generale; mise a guardia di Biumo Inferiore un battaglione del secondo Reggimento, ed erigendo due barricate, una appoggiata alla Villa Litta Modignani, a custodia della strada d'Induno, l'altra tra la chiesetta di San Cristoforo e la casa Merini, a sbarrare le vie di Como, assicurò su queste posizioni la sua sinistra. Appostò indi un battaglione del primo Reggimento in faccia a Giubiano, e intorno alle alture circostanti di Boscaccio e vi appoggiò il suo centro; collocato tra Villa Pero e la Villa De Cristoforis a San Pedrino, il rimanente del primo Reggimento sotto il comando di Cosenz, e fatta asserragliare anche quella strada, afforzò la sua destra dal lato di Milano; richiamò Bixio da Sant'Andrea, senza tralasciare di far battere da frequenti pattuglie a grande distanza la strada di Laveno, munì di barricate tutti gli sbocchi di Varese e provvedere così alla sua seconda linea; infine prescritte come eventuali linee di ritirata le strade di Induno e Sant'Ambrogio, tutto ispezionato co' suoi occhi, a tutti comunicando la sua intrepidezza e la sua fede, attese di piè fermo il nemico.
E questo non si fece aspettare lungamente, fin dalla sera del 25 gli esploratori l'avevano segnalato a Olgiate. Un breve ma eloquente manifesto del Regio Commissario Emilio Visconti-Venosta che diceva: "Varesini, Voi foste i primi a salutare la bandiera tricolore in Lombardia, Voi sarete i primi a difenderla" vi aveva preparato gli animi ad accoglierlo degnamente e al mattino seguente infatti sullo scoccare delle otto il nemico appariva innanzi a Belforte e il combattimento incominciò.
Dei quattromila uomini che il generale Urban traeva seco, una parte, l'aveva lasciata in riserva a San Salvatore forte posizione tra Binago e Malnate; un altro battaglione di granatieri lo aveva inviato per Casanuova e Cozzone ad eseguire quel movimento aggirante sulla strada d'Induno che Garibaldi aveva preveduto; e cogli altri duemilacinquecento fanti circa, la cavalleria, e quattro pezzi veniva ad assalire direttamente Varese. Impadronitosi del poggetto di Belforte annunziò con alcuni razzi il suo attacco, muovendo simultaneamente contro la sinistra e il centro garibaldino; ma questi non si mossero ed attesero, come Garibaldi aveva ordinato, a mezzo tiro il nemico e con pochi colpi ben assestati l'arrestarono di botto. Ad un secondo e più gagliardo attacco, i garibaldini usarono la medesima tattica. Infatti appena il nemico fu presso la barricata della gran strada di Como, e spuntò al centro sulle alture di Boscaccio, Medici con una brillante carica alla baionetta di fronte, e Cosenz con un abile contrattacco di fianco, con poche forze, ma con grande valore ributtarono l'assalitore fin sotto alle falde di Belforte e lo forzarono a battere in ritirata su tutta la linea.
Garibaldi da Villa Ponti, donde aveva osservato le vicende della pugna, visto che il nemico si ritirava, ordinò che s'inseguisse e scendendo di galoppo sulla strada, si pose egli stesso a capo dell'inseguimento.
Il generale Urban era intanto arrivato a San Salvatore, dove aveva lasciato la sua riserva, e, saputo del rovescio toccato ai suoi, si apparecchiava a sua volta a sostenere l'assalto.
Garibaldi non aveva con sè che un terzo delle sue forze, e quantunque la posizione di San Salvatore fosse fortissima e serrasse la strada come un contrafforte, non esitò ad ordinare l'attacco; occupato il poggetto Raera fronteggiante San Salvatore, e fatto ripiegare Bixio che si era troppo inoltrato, tenne a bada il nemico con vivissimo fuoco di moschetteria, finchè sceso da Cozzone il Medici, spinse ad una carica alla baionetta tutta la sua linea, costringendo gli Austriaci a lasciare a precipizio anche quella seconda posizione e a non arrestarsi più che ad Olgiate.
All'annunzio della vittoria di Varese, l'agitazione patriottica divampò, estendendosi rapidamente. I patrioti di Como fecero sapere a Garibaldi che lo aspettavano frementi nella loro città; che molte pievi del Savio s'erano sollevate, e che alcuni giovani armati si erano impadroniti dei vapori del Lago ed erano passati alla causa Nazionale. Garibaldi promise che avrebbe marciato alla volta di Como, non però col proposito di entrarvi, ma di occupare una buona posizione che gli avesse permesso di dar la mano agli insorti del Lago, e di riassaltare di conserva con loro l'austriaco.
Date le opportune disposizioni per la sicurezza di Varese, all'alba del 27 col primo reggimento in testa s'incaminava con tutta la brigata per la via che per Olgiate e Cavallasca mette a Como.
Il generale Urban a sua volta, rinforzato da due nuove brigate (Augustin e Scoffgotsche) che facevan montare le sue truppe a ben diecimila uomini, aveva preso posizione difensiva fra la strada medesima e l'altra più settentrionale che da Cavallasca per San Fermo piomba su Como; e colla sinistra dietro il Lura tra Brebbio e Breccia, il centro a San Fermo, la destra al Prato di Porè sul lago, si preparava a sostenere l'assalto. Se non che, male esperto delle abitudini tattiche di Garibaldi, egli se l'aspettava nel piano, alla sua sinistra e quindi per rinforzare questo punto aveva malaccortamente indeboliti gli altri. Garibaldi invece aveva l'occhio fisso ai monti; sicchè giunto ad Olgiate arrestava la colonna, metteva in posizione tutto il primo reggimento sì da far credere si preparasse allo assalto, tenne a bada il nemico per più ore, e allo scoccar del mezzogiorno, coperto dal reggimento Cosenz, voltava repentinamente a sinistra per gli erti viottoli che salivano a Geranico al Piano ed a Porè; e giungeva a Cavallasca in faccia a San Fermo. Quivi, spiate dal campanile di Cavallasca le posizioni nemiche, Garibaldi stabiliva prontamente il suo piano di battaglia e ne ordinava con pari celerità l'esecuzione. Al colonnello Medici ed al suo reggimento l'onore del primo assalto; De Cristoforis con due compagnie doveva attaccare di fronte la chiesa di San Fermo; Susini-Millelire con una compagnia doveva attaccarla da sinistra, quella del Vacchieri da destra; altre compagnie, condotte dal Gorini, e tutte comandate dal Medici in persona, dovevano calare sulla strada San Fermo-Rondinello e minacciare il nemico.
Il primo cozzo fu tremendo; i cacciatori austriaci armati delle loro eccellenti carabine, appiattati attorno al parapetto del piazzale della Chiesa, che s'innalzava sopra un poggio a guisa di bastione, e dietro le finestre delle case circostanti battevano con un fuoco micidiale di fronte e di fianco, i primi assalitori e cioè la compagnia De Cristoforis, che rigò del sangue dei suoi migliori la via infuocata; cadde colpito gravemente il tenente Pedotti; cadde, lacerate le visceri, il capitano De Cristoforis; cadde, fracassata una spalla, il tenente Guerzoni ed altri, ed altri; la compagnia decimata balena s'arresta un istante, ma non indietreggia. Nel frattempo l'assalto ai due fianchi si spiegava ed incalzava; un battaglione austriaco si lanciava alla corsa da Rondinello, ma incontra sui suoi passi il Medici che lo arresta, e con una carica furiosa riesce a rovesciarlo; altre compagnie dei nostri subentrano a rinforzare l'assalto, sicchè il nemico ormai circuito, sgominato, rotto, volta in fuga precipitosa verso Camerlata e Como.
Garibaldi non indugiò un istante ad occupare le posizioni espugnate, e mentre Medici s'afforzava tra Rondinello e Breccia, e Bixio chiudeva gl'intervalli tra S. Fermo e Rondinello, il maggiore Quintini si piantava col battaglione ed alcune compagnie del secondo reggimento a San Fermo; ed altre compagnie si stendevano a sinistra verso Cima la Costa. Ma ancora il nemico non si dava per vinto, il generale Augustin, raccolte tutte le sue forze, le spinse parte a destra, su Cima la Costa, per spuntarvi la nostra sinistra; parte a manca, per riafforzare l'altura di sopra la Costa, e di là controbattere San Fermo. E la mossa fu condotta con rapidità; ma vegliava Garibaldi, e vegliavano i suoi luogotenenti; onde appena l'assalitore giunse a mezzo tiro della nostra linea, il Cosenz a sinistra di Cima la Costa, il Medici a destra da sopra la Costa, lo respingono, di svolta in svolta, di poggio in poggio, giù per la strada d'onde era venuto, fino a che Garibaldi adocchiata da Cima la Costa quella seconda più rovinosa ritirata, vide possibile quello di cui prima dubitava, cioè la presa di Como; e vi si preparò senz'altro.
Ordinò che si raccogliessero e riordinassero le forze; spedì Simonetta con alcune guide ad esplorare i dintorni della città, e lasciata una buona retroguardia a San Fermo, marciò a notte fatta giù per la tortuosa via di Borgo Vico, e ormai accertato dagli esploratori che l'austriaco aveva abbandonato Como vi entrò risolutamente.
Non può descriversi la festosa sorpresa della città; una piena di popolo trasognato accorse ebbro, frenetico; Garibaldi baciato, benedetto, toccato come un santo, è portato in trionfo fino al palazzo del Comune. Ma nella gioia di una intera città egli non smarrì un solo istante la mente; e tosto diede opera a custodire le sue spalle, mandando Medici, infaticabile quanto lui, a vegliare sulla strada di Camerlata, dove ancora s'accalcava minaccioso il nemico.
L'alba dell'indomani però chiariva che l'ultimo austriaco era scomparso da Camerlata e che ormai tutta la colonna dell'Urban s'era riconcentrata tra Barlesina e Monza sulla via di Milano.
L'Elia, che dopo il 1849 aveva dovuto emigrare, si trovava a New York quando i giornali diedero la notizia che Vittorio Emanuele aveva sguainata la spada per l'indipendenza italiana.
Non perdette tempo—col primo Pacchetto in partenza il "Devonshire" s'imbarcava per Londra e presa la via di Calais per la Svizzera raggiungeva Garibaldi a Como il 28 maggio e subito si presentava al generale sotto gli auspici del padre, già amico suo fin da quando era in America. All'udire che colui che gli stava davanti era il figlio del fucilato Antonio Elia, volle baciarlo e tenendogli stretta la mano, con accento commosso gli disse parole di affetto paterno e volle che stesse al quartier generale. Da quell'ora l'Elia seguì sempre Garibaldi con venerazione filiale.
Garibaldi non era uomo da stare ozioso; affidò a Camozzi, Commissario Regio per Bergamo, l'organizzazione militare; lasciò la compagnia del Fanti a proteggere Como, a reclutar volontari, a raccogliere armi, inviò con lo stesso ufficio la compagnia del Ferrari a Lecco; lodati come meritavano i suoi bravi cacciatori delle Alpi, e concessa loro per riposarsi tutta la giornata del 28, la mattina del 29, senza svelare ad alcuno il suo disegno, fece battere l'assemblea, e si pose in marcia, col resto della brigata, di molto assottigliata dai morti, dai feriti, dagli infermi e dai distaccati, per Olgiate e Varese.
Dove si andava? a che mirava il generale? a qualcuno dello stato maggiore che lo interrogò "Andiamo, risponde, a incontrare i nostri cannoni a Varese". Infatti il ministro della guerra aveva deciso d'inviare ai cacciatori delle Alpi quattro obici di montagna: ma i cannoni erano un pretesto, o tutto al più uno scopo secondario, altro era l'intendimento di Garibaldi.
Egli non aveva mai deposto il pensiero di assicurarsi una base sul Lago Maggiore; voleva quindi impadronirsi di Laveno che ne era uno dei punti dominanti. Marciava per ciò a quello scopo, fidando nella rapidità e segretezza delle sue mosse.
Passata la notte del 30 a Varese, mosse all'alba dell'indomani per la gran strada di Laveno; giunto a Germonio, sostò per studiare il piano e raccogliere notizie dopo di che decise di tentare di notte la sorpresa del forte: e si inoltrò con la brigata fino a Citiglio, lasciò dietro di sè a Brenta il secondo Reggimento, ed a Germonio sulla strada di Varese il terzo, mandò segretamente Bixio e il Simonetta nell'altra sponda del Lago, perchè vi raccogliessero barche ed armati, con cui tentare un abbordaggio contro qualcuno dei vapori Austriaci ancorati a Laveno; e ciò disposto voltò a sinistra per Mombello e andò a collocarsi a due chilometri dal forte di Laveno, diramando tosto i suoi ordini per attaccarlo.
Gli ordini erano buoni; i soli possibili; e se a frustrarli non avesse cospirato quel nemico fatale in tutte le imprese notturne, il buio, causa di confusione, d'equivoci, di terrori, il colpo sarebbe riuscito. Il capitano Bronzetti che doveva con la sua compagnia cogliere di sorpresa il Castello dal lato settentrionale, venne abbandonato dalle guide, perdette la via e non arrivò al posto. Il capitano Landi, che doveva con un'altra compagnia sorprendere il Castello dal lato meridionale, incontrò una strada coperta, gremita di nemici, dove credeva trovare un orto indifeso; scoperto, prima del tempo dalle vedette, combattè per più di un'ora valorosamente, lasciando sul terreno non pochi de' suoi, sino a che feriti i suoi luogotenenti Gastaldi e Sprovieri e ferito egli stesso fu costretto a ripiegare ed a ritirarsi, conducendo seco i feriti. Il forte desto dall'allarme, diede fuoco a tutte le sue batterie, tempestò di palle il terreno circostante, comunicò l'allarme ai Vapori, che, accortisi delle barche condotte dal Bixio e dal Simonetta, le presero a bordate mettendo ben presto lo spavento nella ciurma inesperta, che si sgominava, e nonostante le preghiere, le minacce degli intrepidi condottieri voltavano precipitosamente le prue.
Potevano essere le due dopo mezzanotte, e Garibaldi visto fallito il tentativo, ordinava la ritirata su Cittiglio, colà si ricongiungeva in buon ordine ai corpi che aveva lasciato a Brenta ed a Gemonio, con intendimento di ritornare a Varese.
Però la mattina del 31 maggio si ebbero non liete novelle. Il generale Urban marciava minaccioso e ringagliardito su Varese; sicchè Garibaldi dovette prudentemente mutar pensiero, e risalire la via di Valcuvia, dove poteva, protetto dai monti, attendere gli eventi.
Ma era difatti la giornata del 31 al tramonto, che Urban compariva con due colonne da Tradate e da Gallarate sulle alture di Giubiano e di San Pedrino dominanti Varese, e vi si accampava militarmente. Conduceva dodicimila uomini e diciotto pezzi d'artiglieria; sbuffava fuoco e fiamme, annunziava alla città ribelle strage e rovina, la multava dell'enorme tributo di tre milioni, oltre grande quantità di provvisioni, prendeva ostaggi numerosi, li minacciava ad ogni istante di morte, e non vedendo subito soddisfatte le sue insensate pretese, apriva contro di essa un furibondo bombardamento abbandonandola poi per più ore al saccheggio.
Intanto che Varese subiva l'infernale flagello, Garibaldi scendeva da Valcuvia fino in faccia di Santa Maria del Monte; e di là nella mattina del 1 o giugno, giù fino a Sant'Ambrogio e Robarello, discosti un'ora da Varese, sfidando il nemico.
Più bella occasione pel generale austriaco di vendicarsi di quel brigante di Garibaldi non gli si poteva dare. Aveva giurato che lo avrebbe impiccato con tutti i suoi: ed ora che lo teneva quasi nelle unghie, appena ad un tiro di cannone, in una posizione quasi disperata, e presso a schiacciarlo di un sol colpo con forze quadruplicate, perchè non lo assaliva? Perchè se ne stette immobile dietro Varese, occupato soltanto a bombardare una città inerme, non rispondendo alla sfida temeraria dell'eroe?
Il perchè è un mistero! Il fatto si è che l'Urban lasciò passare tutta quella giornata senza fare un passo, senza tentare nemmeno una ricognizione a fondo, e, soltanto, la sera si decise ad occupare la posizione di Biumo superiore temendo di essere attaccato. Intanto più grossi avvenimenti erano accaduti sul maggior teatro della guerra.
Fra il 27 e 28 maggio l'esercito alleato iniziava quel gran movimento di fianco dal Po al Ticino, che fu la più abile manovra strategica della campagna.
Il 29 maggio l'esercito Sardo, meno la quinta divisione rimasta a difesa della riva destra del Po, si concentrava sopra Vercelli per passare la Sesia sui ponti che vi erano stati gettati. Il 30 la divisione Cialdini passò per la prima. Il nemico occupava tutti i villaggi sparsi in faccia alla Sesia e dominava il paese; a Palestro poi aveva concentrati i più grandi mezzi di resistenza. Vi aveva piantato batterie per dominare il fiume e per battere d'infilata la strada. Aveva inoltre coronate le cime delle alture di forti parapetti per tenere al coperto la fanteria, e scavati dei fossi nei lati, pure protetti di parapetti, dietro ai quali stavano numerose truppe, mentre molti cacciatori tirolesi erano appostati dietro gli alberi e nelle case da dove fulminavano gli assalitori.
Vittorio Emanuele dirigeva in persona le operazioni militari. Il 6 o e 7 o bersaglieri formavano l'avanguardia con una sezione d'artiglieria ed uno squadrone di cavalleggeri d'Alessandria; il generale Cialdini marciava alla testa.
Al terzo ponte che taglia la strada, gli esploratori incontrarono gli avamposti austriaci; accolti da fitte scariche di fucile e di mitraglia i nostri non si arrestarono, si cacciarono risolutamente di corsa, invadendo il ponte e vi si stabilirono, mentre il 17 o bersaglieri guidato dal suo comandante Chiabrera si precipitò con slancio irresistibile sulla difesa di destra, snidò i cacciatori nemici imboscati nei declivi, e la quarta divisione con rapidità fulminea, con foga irresistibile metteva in fuga il nemico e s'impadroniva di Palestro. La terza divisione rafforzata dai reggimenti 5 o cavalleria e Piemonte Reale, traversata la Sesia marciava sopra Vinzaglio, fortemente occupato dal nemico. La divisione piombò in colonne serrate sul villaggio; non vi furono ostacoli validi ad arrestarla; i battaglioni divoravano lo spazio e fatta una scarica si avventavano sul nemico colla punta della baionetta—questo non resistè all'urto terribile e, come a Palestro, abbandonò il villaggio e si ritirò su Confienza.
L'imperatore dei francesi, prevedendo che l'esercito italiano avrebbe dovuto sostenere aspre battaglie, staccava dal 5 o corpo il 3 o reggimento Zuavi, ed ordinava al colonnello Chabron di mettersi a disposizione di Vittorio Emanuele. Il Re, sicuro che gli austriaci avrebbero fatto tutti gli sforzi per riprendere l'importante posizione di Palestro, ordinava al colonnello dei Zuavi di dirigersi su quella posizione.
Verso le dieci del 31 maggio gli austriaci sboccando per le strade di Robbio e di Rozano diedero di cozzo negli avamposti piemontesi che li accolse con fuoco ben nutrito. Ma erano tre le colonne d'attacco che si avanzavano in grandi masse compatte, ed obbligavano i nostri a ripiegare sul villaggio.
Il 20 o reggimento che trovavasi a sinistra della strada di Robbio fu pure obbligato a ritirarsi sull'alture ma non rallentò il fuoco; il nemico però ingrossando sempre, minacciava di schiacciare le poche e intrepide nostre truppe; accorse in quel frangente il prode colonnello Brignone conducendo con se alcuni battaglioni, ed i Piemontesi prendendo l'offensiva, si lanciarono contro il nemico e lo respinsero al di là delle linee degli avamposti.
Il generale Cialdini accorso, si avvide che le manovre del nemico tendevano ad aggirare la sinistra della sua posizione; vi mandò tosto alcuni battaglioni che raccolse con una sezione d'artiglieria comandata dal bravo capitano Ponzio-Vaglia, mentre il 7 o bersaglieri si slanciò addosso al nemico, minacciante il ponte gettato sulla Sesia e fa occupare vigorosamente gli approcci di Palestro affine d'impedire al nemico la marcia sul villaggio; la lotta si fa accanita, le grosse colonne austriache comandate dal feld Maresciallo Zobel, sorrette da numerose compagnie di tirolesi e dall'artiglieria, si avanzarono risolutamente contro le truppe piemontesi che tennero fermo, incuorate dalla presenza di Vittorio Emanuele; coprendosi di gloria. Proprio nel più caldo del combattimento il colonnello Chabron lanciò i suoi Zuavi all'attacco: questi, come un uragano, sotto gli occhi del Re di Piemonte si gettarono sopra agli austriaci; nessun ostacolo, nessuna resistenza li arresta; invadono le difese nemiche si gettano sopra ai cannoni: gli artiglieri austriaci non hanno tempo di caricare i pezzi perchè le terribili baionette ne fanno strage; riescono vani i tentativi della fanteria che accorse per salvarli e i cinque cannoni furono preda dei vincitori; non si arresta il reggimento, si slancia sulla strada e, seguendo Vittorio Emanuele che con la spada li invita all'attacco, si avventa contro le masse austriache impegnate in furiosa lotta coi piemontesi, e così i soldati delle due nazioni si frammischiarono nel combattimento e nella gloria, investendo il nemico alla baionetta. Questo fortemente trincerato sul ponte della Brida, fortificatosi in una grande masseria, munita di cannoni e di feritoie, preclude il passaggio del ponte; ma zuavi e piemontesi non si sgomentano, nè si arrestano; animati dalla presenza del re e dall'esempio degli ufficiali, s'avventano sul ponte, sui cannoni, che sono presi dai piemontesi; nella masseria è una lotta terribile, corpo a corpo, e gran numero di nemici trovano la morte nel fiume che li travolge nei gorghi delle sue acque.
La vittoria dei nostri fu completa, oltre ventimila erano gli austriaci combattenti, numerosissimi furono quelli rimasti sul campo, circa cinquecento trovarono la morte nel fiume, gli austriaci perderono fra morti feriti e prigionieri oltre seimila uomini; i nostri circa duemila uomini fra morti e feriti. Trofeo della vittoria furono, oltre mille prigionieri, cinque cannoni presi dai zuavi e tre dai piemontesi. La campagna s'iniziava splendidamente!
I Zuavi per rendere omaggio al valore del Re, vollero portare al suo quartier generale la sera stessa del 31 i cannoni tolti al nemico.
Il Re grato del delicato pensiero di quei valorosi, scrisse al colonnello Chabron la seguente lettera:
Torrione, 1 giugno 1859
Sig. Colonnello,
"L'Imperatore nel porre sotto ai miei ordini il 3 o reggimento degli Zuavi mi ha dato un prezioso attestato di amicizia. Io ho creduto di non poter meglio accogliere questa truppa scelta, che fornendole immediatamente l'occasione di aggiungere un nuovo glorioso fatto a quelli che sui campi di battaglia d'Africa e di Crimea hanno reso così terribile al nemico il nome degli Zuavi. Lo slancio irresistibile con cui il vostro reggimento, sig. Colonnello, ha mosso ieri all'assalto, ha meritato tutta la mia ammirazione. Avventarsi contro il nemico alla baionetta, impadronirsi di una batteria, sfidando la mitraglia, è stato l'affare di pochi istanti. Voi dovete essere altero di comandare a siffatti soldati, ed essi debbono essere felici di obbedire ad un capo quale voi siete. Io apprezzo altamente il pensiero che hanno avuto i vostri Zuavi di condurre al mio quartier generale i pezzi d'artiglieria presi agli austriaci, e vi prego di ringraziarli in mio nome. Io mi affretterò d'inviare questo bel trofeo a S. M. l'Imperatore, al quale ho già fatto conoscere la bravura impareggiabile con cui il vostro reggimento si è battuto ieri a Palestro ed ha sostenuto la mia estrema destra.
"Vogliate, sig. Colonnello, far noti questi miei sentimenti ai vostri Zuavi".
L'Imperatore Napoleone, desideroso di mostrare la sua ammirazione pel cavalleresco alleato e di soddisfare il voto dei Zuavi, decise che il Re di Sardegna sarebbe pregato di volere accettare i cannoni. E così fu infatti.
Ma un altro regalo di non minor gradimento pel Re doveva venirgli dai bravi Zuavi.
L'indomani mattina, quando Vittorio Emanuele si recava a visitare i suoi valorosi camerati della vigilia, ed a consegnare al Colonnello Chabron il decreto col quale decorava colla medaglia d'oro la bandiera del suo reggimento, il più anziano dei Zuavi gli partecipava che il reggimento lo aveva acclamato suo Caporale e lo pregava di accettare. "Ben volentieri amici miei" rispose il Re commosso di quel segno di simpatia "d'ora innanzi io appartengo a voi".
Così Vittorio Emanuele fu nominato Caporale dei Zuavi, come altra volta Napoleone Bonaparte era inalzato allo stesso grado a Montenotte.
In seguito a questi avvenimenti il generalissimo austriaco, sicuro che ormai l'aspettava una grossa battaglia sul Ticino, aveva pensato a rafforzarsi, e s'era affrettato a richiamare la divisione Urban da Varese, dandole per obiettivo Turbigo.
Mentre avvenivano questi fatti, gli austriaci in grandi masse, comandati dall'Arciduca Carlo, dalle alture di Montebello dimostravano, coi loro movimenti del 19 maggio proseguiti il 20, essere loro intenzione di stringere in un cerchio di ferro e di fuoco la 1 a divisione dell'esercito francese, comandata dal generale Forey, prima che fosse riunita ed in ordine di battaglia; bisognava ad ogni costo arrestare il movimento girante delle grandi masse nemiche.
Il generale Forey vi si preparò arditamente, ordinando al colonnello Cambriels di riunire quanti più uomini può della sua divisione in marcia, e con questo piccolo numero di valorosi, elettrizzati dall'ardente coraggio del generale e del loro colonnello, con audacia senza pari si slanciò contro il nemico tre volte superiore di numero, lo arrestò e gli tenne testa. Ma la lotta ineguale non può durare a lungo, molti dei bravi cadono colpiti a morte fra i quali il maggiore Lecretelle che combatteva da eroe alla testa del suo battaglione; bisognava difendere passo-passo il terreno per impedire al nemico di avanzare e dare tempo al resto della divisione di arrivare sulla linea del combattimento; ma il nemico con forze preponderanti pressa, si avanza, e la resistenza ulteriore diviene ormai impossibile; quando per grande fortuna in quel critico momento un reggimento di cavalleria piemontese (Monferrato) comandato dal valoroso generale De Sonnaz si slanciò vigorosamente all'attacco in soccorso dei fratelli d'armi di Francia e con ripetute cariche irresistibili, si gettò contro le masse austriache che ne furono sgominate e costrette a sbandarsi e a cedere terreno.
Intanto giunsero al generale Forey i desiderati rinforzi del resto della sua divisione.
Il combattimento si fece sempre più accanito da ogni parte; il generale Forey ordinò al brigadiere Beuret un supremo attacco alla baionetta; gli austriaci non resistendo all'urto sono obbligati a cedere terreno; si arrestano, però, al Cimitero di Montebello del quale fanno la loro estrema base di difesa. Bisognava sloggiare il nemico da quell'ultimo formidabile riparo; ancora uno sforzo: e, gridando ai suoi bravi soldati:
"—Allens, mes enfants, arrachons a l'ennemi son dernier abrì! Suivez votre generale".—Il valoroso Forey si slanciò alla testa dei suoi contro la posizione nemica. Il Cimitero fu investito con slancio furioso ed il terreno venne seminato di morti e feriti—primo a cadere mortalmente colpito fu il generale di brigata Beuret; ma niente arrestò la foga degli assalitori che, scavalcato il muro del Cimitero investirono il nemico colla punta della baionetta menandone strage.
Alle ore sei e mezzo il nemico era in rotta precipitosa verso Casteggio, inseguito alle reni per buon tratto di via. La vittoria di Montebello, nella quale la 1 a divisione comandata dal prode generale Forey si copriva di gloria, inaugurava brillantemente la campagna che doveva procedere di vittoria in vittoria.
In questo combattimento anche le brave truppe piemontesi comandate dal valoroso De Sonnaz ebbero la loro parte di gloria.
Il 4 di giugno a Magenta e a Ponte Vecchio si decideva delle sorti di quella memoranda giornata.
Avanti e dentro Magenta il combattimento fu accanito oltre ogni credere. Gli austriaci vi avevano concentrate tutte le truppe del loro centro lasciando la sola brigata Rammindz in riserva. Le truppe degli alleati fecero sforzi i più eroici per sloggiarli; i loro soldati caddero sotto il fuoco violento dei ripetuti contrattacchi. Nel momento il più caldo e decisivo il generale d'artiglieria Auger ebbe un'ispirazione felice; seguendo il movimento dell'estrema destra riuscì a piantare, un dopo l'altro, 42 pezzi d'artiglieria sull'argine della ferrovia ed il loro fuoco a mitraglia fece orribili vuoti nelle file nemiche, e portò lo sgomento nelle brigate del 1 o 2 o 7 o e 3 o corpo che combattevano unite: i francesi e due battaglioni di bersaglieri italiani si slanciarono con impeto irresistibile contro il nemico che non resse all'urto tremendo, si ruppe e si dette alla fuga. Alle 8 di sera le truppe francesi entrarono a Magenta. Gli austriaci vi perdettero due bandiere, quattro cannoni e circa quindicimila uomini fra morti, feriti e prigionieri.
La vittoria di Magenta ebbe per immediata conseguenza non solo la sollevazione di Milano e di tutta la Lombardia, ma pur quella dei Ducati e delle legazioni pontificie.
Il giorno 8 di giugno, dopo un accanito combattimento di tre ore i francesi sloggiarono gli austriaci, comandati dal Principe di Sassonia ed occuparono Melegnano.
Il giorno 10 gli austriaci sgombrando Lodi batterono in piena ritirata sulla sinistra dell'Oglio.
Il giorno 16 occupate forti posizioni dietro il Chiese attesero di piè fermo gli alleati. Lonato e Castiglione furono i due punti salienti sui quali la linea spiegò la sua azione.
L'imperatore Napoleone e Vittorio Emanuele conosciuta la ritirata dei nemici nell'interno del quadrilatero ordinavano il passaggio del Chiese e l'occupazione delle ultime colline che tra questo fiume e il Mincio rannodano la grande catena delle Alpi alla pianura Lombarda.
Il giorno 23 al Maresciallo Mac-Mahon venne ordinato di fare ricognizioni generali tra il fronte dell'esercito e il Mincio.
Intanto all'imperatore Francesco Giuseppe giunsero grandi rinforzi: cambia, perciò, tattica e risolve di prendere l'offensiva. Divise le sue forze in due grossi corpi di armata, il 23 passava il Mincio sopra 11 ponti gettati fra Peschiera e Goito, spingendo avanti forti ricognizioni, onde conoscere al giusto le posizioni degli alleati.
Dalla situazione dei belligeranti è provato che gli austriaci portavano in campo nell'imminente battaglia 150 mila fanti, 13 mila cavalli e 688 pezzi di cannone, mentre gli alleati mettevano in linea 140 mila fanti, 15 mila cavalli e 522 pezzi d'artiglieria.
Il giorno 24 i due eserciti si pongono in marcia l'uno verso l'altro, senza sapere che andavano rispettivamente ad urtare il grosso del nemico.
Il Maresciallo Baraguay partito alle tre del mattino per la strada di montagna che va da Esenta su Solferino, trovava i posti di Fontana e le Grotte occupati dagli austriaci e impegnava un accanito combattimento.
Il Maresciallo Mac-Mahon, che si era messo in marcia alle due e mezzo antimeridiane per la gran strada che da Castiglione va a Mantova, a cinque chilometri dal primo villaggio, vedeva il 7 o cacciatori a cavallo incontrare gli avamposti del nono corpo austriaco, che aveva occupato casa Merini.
Il Maresciallo fece prendere dai suoi immediatamente casa Merini e se ne servì di base per lo spiegamento delle sue forze.
Così avvenne di tutti gli altri corpi in marcia, i quali si urtarono contro il nemico pure in marcia.
L'imperatore Napoleone ai primi colpi di cannone era montato a cavallo e senza indugio diede gli ordini per la battaglia.
Per descrivere le vicende di quel sanguinoso e memorabile combattimento, il più glorioso che ebbe a sostenere la Francia dopo la battaglia di Marengo ci vorrebbe un volume.
A Solferino l'esercito francese si coprì di gloria.
L'armata Sarda secondo gli ordini ricevuti da Vittorio Emanuele doveva portarsi il 24 a Pozzolengo. Il quartiere generale ordinava alla 1 a 3 a e 5 a divisione di esplorare il terreno con cura, mediante numerose ricognizioni. In conseguenza la brigata granatieri della 1 a divisione, postasi in moto alle 4 del mattino, era preceduta da un battaglione di bersaglieri, uno di fanteria, uno squadrone di cavalleggeri d'Alessandria ed una sezione d'artiglieria; la 3 a divisione aveva spinto quattro ricognizioni sulla strada che costeggia il Lago e la ferrovia; la 5 a inviò il suo capo di Stato Maggiore Colonnello Cadorna con l'8 o bersaglieri, un battaglione dell'11 o, una sezione d'artiglieria ed uno squadrone cavalleggeri di Saluzzo per la strada Sugana nella direzione di Pozzolengo.
La ricognizione della 1 a divisione che costituiva la destra dell'esercito Sardo, incontrati gli avamposti austriaci in Val di Quadri, attaccò il nemico, ma essendo questi in forze assai superiori dovette retrocedere fino verso Fenile Vecchio per ricongiungersi al grosso della divisione. Questa si slanciò sulla posizione austriaca e se ne impossessò; ma gli austriaci rinforzati gagliardamente tornarono alla carica e vi fu un momento in cui i granatieri Sardi furono per essere sopraffatti, ma l'arrivo della brigata Savoia li salvò. Sulle alture di Monte Polperi l'arrivo di nuovi rinforzi rende il combattimento ostinato, micidiale; nè Piemontesi nè austriaci, guadagnano terreno, ma infine gli austriaci sono obbligati alla ritirata, e La Marmora fa avanzare i suoi che occuparono Madonna della Scoperta; là vi ricevè il rinforzo della brigata Piemonte e si mette in marcia per Pozzolengo.
Il Colonnello Cadorna della 5 a divisione avanzandosi per la strada Sugana incontra alle cascine di Ponticello gli avamposti del corpo di Benedeck; per rendersi conto della loro forza spiegò immediatamente le sue poche truppe, mandando ad avvisare il generale Mollard onde accelerasse la marcia. Gli austriaci, che erano in forze preponderanti, accettarono la sfida e, malgrado la resistenza eroica delle poche truppe che loro stanno di fronte, riescirono ad impadronirsi delle alture della Casetta e S. Martino occupandole solidamente. Alle 10 del mattino il generale Mollard vedendo sboccare la brigata Cuneo la spiegò in due linee fra la strada Sugana e Casa Nuova e procedè all'assalto. Il 7 o e l'8 o reggimento si slanciarono alla baionetta sostenuti dal fuoco di una batteria e da alcune cariche dei cavalleggeri di Monferrato, giungono due volte sul culmine dell'altura, ma non riescono a scacciarvi il nemico che la tiene solidamente e sono costretti alla fine di ritirarsi, protetti dalle batterie della sopraggiunta divisione Cucchiari; la brigata Acqui si portò anche essa in linea e tutte queste truppe si precipitarono sotto una pioggia di fuoco all'assalto di S. Martino e se ne rendono padroni; ma Benedeck lanciò le sue riserve intatte sul fronte e sul fianco dei Piemontesi; ed è allora che la 5 a divisione mitragliata a pochi passi, contrattaccata vivamente, balena e non trovandosi sostenuta fu costretta a ripiegare e a retrocedere in buon ordine fino a mezza strada di Rivoltella. Il generale Mollard ridotto alle sole sue forze prende posizione alla Cascina di Retinella colla brigata Pinerolo in prima linea e vi si tiene.
Intanto il generale Fanti—riserva generale dell'armata Sarda—era stata inoltrata secondo gli ordini imperiali verso Solferino, ma alle 12 le altre tre divisioni strette seriamente da Benedeck con grandi forze, domandando rinforzi, il Re Vittorio Emanuele dava l'ordine di spedire la brigata Piemonte a Madonna dello Scoperto, ove La Marmora avrebbe preso il comando superiore, mentre la brigata Aosta, col quartier generale, si sarebbe rivolto a S. Martino.
All'arrivo della brigata Aosta, il generale Mollard, che era l'anima di tutti i movimenti offensivi, la formò su due linee colla sinistra alla ferrovia; la brigata Pinerolo si collocò alla sua diritta identicamente disposta, aggregandosi il 7 o reggimento, mentre l'8 o stava in riserva. Il punto di direzione di queste truppe è la Contracania, mentre sei compagnie con due pezzi di cannone si volgono sulla sinistra austriaca dietro le alture di S. Girolamo. Appena fosse giunta in linea la 5 a divisione era dato ordine di cominciare l'attacco generale. Ma in quel punto scoppiò un forte uragano che obbligò la sospensione di qualunque operazione.
Fin dalle prime ore del mattino si combatteva con gran valore e con straordinario accanimento—erano le sette di sera e per quanti sforzi eroici si fossero fatti dai nostri non si era potuto sloggiare il nemico dalle alture di S. Martino, da dove opponeva indomita resistenza.—Molte erano state le perdite. Vi era rimasto ucciso il colonnello Rovetta e il Maggior Bosio del 6 o reggimento: feriti il generale Cerale, il generale Arnaldi, il colonnello Vialardi del 5 o, il Colonnello del 6 o, i maggiori Polastri, Botteri e molti altri ufficiali.
Cessato l'uragano fu deciso di fare uno sforzo supremo con un assalto generale per strappare al nemico il possesso di posizioni con tanto accanimento disputate; il piano concepito stava per essere posto in esecuzione con quella simultaneità da cui solo potevasi sperare vittoria.
Il 14 o era all'estrema destra, poi verso sinistra veniva il 7 o, indi Aosta, poscia Casale, e un battaglione dell'8 o, in ultima Acqui. L'8 o battaglione bersaglieri col 14 o, il 1 o con Aosta, il 5 o col 17 o.
Cerale, che quantunque ferito non si ritirava dall'azione, domandava al generale Mollard aiuto di artiglieria e tosto venti pezzi erano condotti dal valente maggiore Revel e posti in buona posizione.
Appena le truppe si posero in movimento, un fracasso assordante delle artiglierie che battevano di fronte e di fianco, avvertiva il nemico che i nostri stavano per piombargli addosso. Centinaia di tamburi battevano la carica, le trombe dei bersaglieri la suonavano ai punti estremi ed al centro; un urrah generale scoppiava da un punto all'altro delle colonne convergenti che, a baionetta spianata, si slanciavano sulla posizione e ne toccavano la cima. I generali, gli ufficiali, tutti alla testa dei loro soldati, incuoravanli col grido "Avanti, avanti". Il nemico ne fu scosso, non sostenne l'urto tremendo, cominciò ad oscillare ed infine voltate le spalle si diede alla fuga; e allora l'Avogadro, comandante il 2 o squadrone di cavalleria, collo assenso del colonnello Ricotti lo assalì con carica brillantissima, lo sbaragliò e lo pose in rotta disordinata verso Pozzolengo, lasciando nelle nostre mani numerosi prigionieri.
Il combattimento aveva durato dalle sette del mattino fino alle nove di sera: quattordici ore! fu uno dei più lunghi ed ostinati combattimenti che gli annali delle battaglie ricordino.
Trofei della vittoria furono cinque cannoni, non pochi prigionieri, fra cui parecchi ufficiali.
Così la sera del 24 giugno prendeva posto, tra le glorie dell'esercito, la battaglia di S. Martino.
La memorabile giornata del 24 fu chiamata di Solferino e S. Martino dal nome dei luoghi sui quali ne venne deciso l'esito.
Le truppe alleate hanno dovunque combattuto con grandissimo valore. I Piemontesi si diportarono in modo degno di grande lode, dacchè è certo che le loro 3 divisioni 1 a 3 a 5 a hanno avuto a fronte 7 brigate austriache, quasi un terzo di forze superiori; e, quel che è peggio, situate in ottime posizioni difensive.
Bella la vittoria di S. Martino—tale da rendere immortali quanti vi presero parte.—Molti furono gli atti di supremo valore che meriterebbero di essere qui ricordati. Ma per farlo non basterebbe un intero volume. Merita di essere segnalato quello di un valoroso giovane tenente Besozzi Giuseppe, ufficiale d'ordinanza del colonnello comandante il 17 o reggimento: questo bravo, quantunque ferito due volte gravemente, con ferrea volontà, con sforzo sovrumano volle continuare il suo servizio—e resistette per tutto il tempo che durò il combattimento; solo acconsentì a farsi medicare quando cambiata la linea del suo reggimento non trovossi più esposto al fuoco nemico.
Questo valoroso veniva decorato colla croce dell'ordine militare di Savoia e portato all'ordine del giorno dell'esercito.
Dopo le vittorie di Solferino e di S. Martino, Napoleone III emetteva il seguente ordine del giorno:
Soldati!
"Noi abbiamo preso tre bandiere, trenta cannoni e seimila prigionieri. L'esercito Sardo ha lottato con grande valore contro forze superiori. Esso è degno di marciare al vostro fianco. Soldati! tanto sangue versato non sarà inutile per la gloria della Francia e dell'Italia e per la felicità dei popoli".
Napoleone.
Mentre l'Urban, lasciata una forte retroguardia a Varese, contromarciava col grosso della sua divisione su Gallarate diretto al Ticino, Garibaldi ignaro di questa improvvisa ritirata, levato nel tempo stesso il suo campo da Induno, per Arcisate, Rodero, Casanova arrivava a Como fra il tripudio di quella cittadinanza che da quattro giorni paventava di rivedere ad ogni istante gli austriaci.
La vittoria delle armi alleate spalancava loro le porte di Milano, mentre gli austriaci erano obbligati a ritirarsi precipitosamente.
Quest'avvenimento fortunato ebbe per immediata conseguenza non solo la liberazione della Lombardia ma la sollevazione dei ducati, delle Legazioni e dell'Umbria.
Nel giorno 20 di giugno una forte colonna di soldati svizzeri al soldo del Papa, partiti da Roma assaliva Perugia che si era ribellata al governo papale. La patriottica città, quantunque la gran parte della gioventù fosse in Lombardia a combattere con Vittorio Emanuele e con Garibaldi, oppose una valorosissima resistenza, dapprima dall'alto delle mura, poi nelle contrade, combattendo corpo a corpo, cedendo il terreno alle forze soverchianti palmo a palmo, finchè, i bravi Perugini sopraffatti dovettero cedere. I vincitori, satelliti della tirannide vaticana, inferociti per la resistenza incontrata, si vendicarono mettendo a saccheggio la città, seminando strage, non rispettando neppure gli inermi e le donne; la strage di Perugia perpetrata da armati al soldo del Papa andrà alla storia come fatto esecrando.
Ventiquattro ore dopo la battaglia di Magenta l'intero esercito austriaco era in ritirata sull'Adda; le avanguardie degli alleati entravano in Milano, ed anche il piccolo corpo dei cacciatori delle Alpi poteva proseguire la sua marcia fortunosa.
Il 4 e 5 giugno Garibaldi li impiegò a riordinare le sue forze, a chiamare nuovi volontari, perlustrare in tutti i sensi le strade circostanti, e lanciare scorridori che si spinsero fin presso le porte di Milano.
Dal 5 al 6 s'imbarcava con tutta la sua brigata, meno alcune compagnie lasciate a Como, alla volta di Lecco e nel giorno in cui l'esercito alleato varcava il Ticino, egli toccava la destra sponda dell'Adda. Non vi si fermò a lungo; chè il dì appresso tenendo sempre ai monti ripigliò la marcia per Caprino e Almeno.
Mentre Garibaldi era in via per Caprino e Almeno, accompagnati da una lettera di Cavour si presentarono al generale Garibaldi, Turr e Teleki, ambedue colonnelli nell'esercito della libera Ungheria, che nel 1849 combattè strenuamente contro l'Austria.
Il generale accolse i due valorosi magiari come fratelli e da quel giorno quei bravi seguirono Garibaldi con vera devozione.
Alle ore tre di mattino del 7 la brigata dei cacciatori delle Alpi con alla testa il suo generale passava il Brembo sul ponte S. Salvatore e per la strada occidentale del monte Luvrida riusciva a Voltezza, ed a passo di carica scendeva in Bergamo.
Vi arrivava però troppo tardi, chè il nemico, erasi precipitosamente ritirato. Garibaldi pensò immediatamente d'inseguire i fuggenti sulla strada di Crema, ma appena incominciata la marcia venne informato che un corpo d'austriaci stava per arrivare in ferrovia per portare rinforzo al presidio. Richiamò in fretta la brigata dalla strada di Crema, distribuì e rimpiattò i suoi cacciatori alla stazione e nei dintorni, in modo che il nemico non potesse scappargli; senonchè a pochi passi da Seriate uno spione avvisò la colonna viaggiante che i Garibaldini erano a Bergamo; il comandante austriaco fatto fermare il treno, fece smontare le truppe, e protetto da fiancheggiatori e da esploratori s'inoltrò con tutta cautela verso la città, ove sarebbe stato ben accolto; ma il Bronzetti inviato con due compagnie per la strada di Seriate lo incontrò, e, senza contare i nemici, li assalì con impetuoso ardimento, lo arrestò, lo sbaragliò costringendolo a riprendere in fretta la vaporiera.
In quel giorno i sovrani entravano nella capitale Lombarda; e Garibaldi era chiamato in Milano da Vittorio Emanuele. Le accoglienze fatte al comandante dei cacciatori delle Alpi furono degne del grande animo del Re, e caldi gli elogi a lui ed ai suoi compagni.
Intanto il generale Urban fin dal giorno 7 si era accampato sull'Adda, nei dintorni di Vaprio e vi si era trincerato. Era questa una posizione forte; ma, dopo l'entrata di Garibaldi a Bergamo, la sua importanza era di molto diminuita perchè poteva essere minacciata di fronte e di fianco. Sarebbe bastato che il generale Cialdini, il quale formava l'avanguardia del nostro esercito, si fosse affrettato verso l'Adda, e il generale Garibaldi fosse calato, con mossa combinata, da Bergamo, perchè quella divisione nemica fosse inevitabilmente disfatta. Quali frutti non si sarebbero colti da questa semplicissima manovra!
La rotta di Vaprio avrebbe precipitato la ritirata dell'esercito austriaco più della rotta di Magenta; gli alleati avrebbero potuto marciare senza intoppi e con celerità, e, arrivando molto prima nella destra del Mincio, avrebbero troncato a mezzo il concentramento nemico.
Per questo mancato accordo del generale Cialdini con Garibaldi, l'Urban potè restare impunemente tre giorni sull'Adda, e per altrettanti Garibaldi indugiarsi a Bergamo.
La mattina dell'11 giugno l'Urban lasciava Vaprio ritirandosi per la via di Crema, e la sera del giorno stesso Garibaldi, abbandonato Bergamo, si mise in marcia per Martinengo alla volta di Brescia; il 12 riprendeva il cammino per Palazzolo, da dove passava a Polasco, mentre l'Urban con la sua divisione si trovava a Pontoglio.
Chi nel giorno 13 giugno avesse potuto guardare a volo d'uccello sulla terra Lombarda vi avrebbe scorto: l'imperatore Napoleone colla sua guardia imperiale a Gorgonzola, il re Vittorio Emanuele a Vimercate in mossa per Palazzolo, la più avanzata sinistra degli scaglioni francesi a Treviglio sulla sinistra dell'Adda, il più avanzato scaglione piemontese a Romano sulla sinistra del Serio, lo scaglione austriaco più vicino, divisione Urban, a Pontoglio e Garibaldi marciare coi suoi cacciatori da Palazzolo a Brescia; marcia pericolosa perchè fatta su strada parallela a quella del nemico, quattro volte più forte, e minacciante sul fianco. Ma il generale destreggiandosi con grande avvedutezza, facendo uso delle poche guide, comparendo or quà or là su tutti i punti della linea nemica, spingendo a marcia forzata i cacciatori delle Alpi, affranti ma non domi, all'alba del 14 si trovava già alle porte di Brescia, la quale, incitata da infuocate parole dell'illustre patriota Giuseppe Zanardelli, non aveva atteso neghittosa l'arrivo del corpo liberatore, ma era già tutto pronto per dare a colui che li emancipava potente aiuto. Dopo l'entrata in Brescia accolto dalla popolazione delirante, Garibaldi cessava di godere di quella indipendenza che era il principale fattore dei suoi successi.
Mentre i cacciatori dello Alpi eransi fermati nella sera del 14 di giugno per pernottare a S. Eufemia a due chilometri circa da Brescia, il generale Garibaldi riceveva nella notte stessa un ordine dal quartier generale espresso in questi termini: "S. M. il Re desidera, che domattina ella porti la sua divisione su Lonato, dove sarà raggiunto dalla divisione di cavalleria comandata dal generale Sambuy composta di quattro reggimenti di cavalleria di linea, con due batterie a cavallo".
Generale Della Rocca.
Ebbe anche l'ordine il generale di ristabilire il ponte del Bettoletto sul Chiese a monte del ponte di S. Marco.
Sul fare dell'alba del 15 Garibaldi lasciata una compagnia a S. Eufemia, e fatto perlustrare tutto intorno il paese si pose in marcia. Giunto a Rezzatto e non avendo notizia della divisione di cavalleria che doveva seguire, fermò la colonna e mandò al Re, a mezzo del tenente Trecchi, un rapporto scritto col quale informava che, quantunque avesse sul fianco destro la divisione Urban pure egli procedeva avanti per eseguire gli ordini ricevuti. Infatti pattuglie delle guide a cavallo avevano rapportato che avamposti nemici stavano sulla strada tra Rezzato-Castenedolo e Villa-Boffalora. Per non lasciarsi dietro al suo fianco destro truppe nemiche sì prossime, scaglionò i suoi sei battaglioni nel modo seguente. Due del 1 o reggimento agli ordini di Cosenz, dietro le case Carbone in Tre Ponti; un battaglione del 2 o con una squadra di carabinieri genovesi sotto il comando di Medici, in Bettola di Ciliverghe, dove la strada da Brescia a Lonato si biforca, l'una sul ponte di S. Marco, l'altra a sinistra sul ponte del Bettoletto; l'altro battaglione del 2 o reggimento, e i due del 3 o coll'artiglieria e con i rimanenti carabinieri genovesi Garibaldi stesso li condusse in persona al ponte del Bettoletto; al colonnello Turr addetto al suo Stato Maggiore il generale ordinava di occupare con due compagnie del 1 o reggimento lo sbocco di Tre Ponti verso Castenedolo e nel tempo stesso riconoscere bene il nemico; a tutti Garibaldi raccomandava di difendere ad ogni costo la strada da Rezzato a Tre Ponti e Bettola di Ciliverghe aspettando l'arrivo della divisione di cavalleria piemontese; mandò il capitano Corte del suo Stato Maggiore ad avvisare Cialdini che era sul Mella, della sua mossa e si mise senz'altro per la via di Molinetto. Intanto il generale Rupprecht, che colla sua brigata formava l'avanguardia della divisione Urban dal Mella al Chiese, mandava ricognizioni sulla strada tra Rezzato, Tre Ponti e Bettola-Ciliverghe, mentre si portava col grosso a Castenedolo.
Per far fronte al nemico e rigettarlo come aveva ordinato il generale Garibaldi, Medici fece costrurre una barricata al biforcamento della strada Brescia-Bettola-Ciliverghe appoggiata alla Cascina Lana che occupò militarmente; pose tre compagnie nel Cimitero di Ciliverghe munendo i muri di feritoie. Cosenz dal suo canto fece occupare Osteria di Rezzato, casa Bassalini che sta a destra della strada bresciana a capo del sentiero di Tre Ponti, munendo i muri di feritoie, lasciando in riserva il primo battaglione. Così la difesa era ordinata col fronte a Castenedolo, la destra a Osteria di Rezzato, il Centro a Tre Ponti, la sinistra a Bettola-Ciliverghe.
Una ricognizione nemica si spinse stendendo la sua catena di cacciatori fin sotto il giardino di casa Bassalini; e fu presto respinta. Alle otto di mattina il nemico molto rinforzato si avanzò a destra e a sinistra del canale Lupo, con forti riserve nelle cascine Chizzola e Chidone fra Tre Ponti e la strada ferrata. Il colonnello Cosenz deliberò di opporre attacco ad attacco; il colonnello Turr si recava di persona a Rezzato e dava ordine al comandante della compagnia posta all'Osteria di mandare una parte dei suoi uomini per un sentiero traversale in forma di testa di colonna che accennasse a girare la sinistra della catena nemica.
Ciò fatto Turr raggiunse Cosenz il quale, spinte due compagnie da casa Bassalini a risoluto attacco di fronte, costringeva il nemico a ripiegare; e tanto fu l'ardore dei nostri da riuscire a sloggiare il nemico anche dalle due cascine Chizzola e Chidone, ed occupare l'argine della strada ferrata e il ponticello sul Lupo.
I nostri, rinforzati da una compagnia del Bronzetti e da altra del Lipari, non si arrestarono, assalirono il cascinone chiamato Fenile-Ospitale e, sebbene fortemente difeso, riuscirono a cacciarne il nemico e l'occuparono.
In questo frattempo il capitano Croce, che calla sua compagnia formava l'ala spinta più avanti della estrema nostra sinistra scoprì molte forze nemiche ammassarsi sulle alture di Castenedolo; avvisatone Cosenz, questi riconoscendo di non essere in numero da potere assalire la intera brigata Rupprecht, fece suonare l'alto e l'assemblea a sinistra per prepararsi a ricevere l'urto nemico. Ma il colonnello Turr riunite quel che potè di forze, e chiamando a sè la restante debole riserva, deliberò di assalire il nemico sul roccolo che prende nome da S. Giacomo e fece suonare la carica; udito questo segnale il Cosenz, per non produrre un movimento slegato nella sua linea fece esso pure suonare la carica. I nostri si avanzarono arditamente fin presso alla falda del poggio di Castenedolo; ma il nemico suonata a sua volta la carica su tutta la linea si rovesciò imponente di forze su quelle scarse dei cacciatori delle Alpi che, minacciati di aggiramento, dovettero ripiegare. Nel tempo stesso il colonnello Turr spinse arditamente alla carica i suoi, ma il fuoco micidiale dei nemici che coronavano il roccolo boscoso li arrestò sul ponte S. Giacomo; qui il Turr avanti a tutti comandava a voce sonora... "Passo di carica, avanti..." allorchè una palla gli trapassava il braccio sinistro poco sotto la scapola; non si arrestò per questo il bravo soldato ma seguitò a comandare e incoraggiare i militi allo assalto. Ma il nemico, numeroso assai, dalla forte posizione seminava la morte; a fianco di Turr, colpito da una palla alla gola cadeva il tenente Gradenigo; nel medesimo istante era colpito mortalmente il Bronzetti e, al sergente Gnocchi che lo sorreggeva, una palla gli traversava l'omero. Non era possibile più sostenersi e i nostri dovettero ripiegare.
Ma il Cosenz non si sconfortava; formata dalla prima compagnia e dai resti di altre che potè raccogliere una piccola colonna comandata dal tenente Martini, la spinse avanti per la via di mezzo, e sostenuta da un distaccamento guidato dal tenente Mancini per un sentiero di destra, e da altro simile affidato al tenente Logarbo che lo condusse a sinistra celato fra le boscaglie, riprendeva l'offensiva.
Giungeva in quel punto il generale Garibaldi coi bravi carabinieri genovesi e con altri valorosi; arrivavano pure in quel mentre tre compagnie del Medici, e dirette da Garibaldi stesso si spinsero ad un furioso attacco in aiuto del Cosenz; la lotta per alcun tempo fu accanita e micidiale, già il nemico balenava e cedeva terreno quando comparvero le prime avanguardie del Cialdini mandato in soccorso del Re; si poteva ben sperare di prendere fra due fuochi il nemico e distruggerlo, ma questo si affrettò a battere in ritirata lasciando i nostri padroni del campo di battaglia seminato di morti. Fu quella dei Tre Ponti una giornata ben calda; anche i garibaldini ebbero perdite gravi: centoventi feriti, fra i quali molti ufficiali e sott'ufficiali alla testa delle loro squadre; fra questi l'Elia del seguito del generale Garibaldi ed il Carbone dei carabinieri genovesi; più del quinto degli ufficiali che presero parte all'azione vi rimasero feriti. Grandi lodi meritarono prima d'altri il Cosenz, e il Turr, il capitano Bronzetti e il tenente Gradenigo, il maggiore Lipari i capitani Pesce e Rosaguti, i tenenti Mancini, Logarbo, Martini, Specchi, Pea, Ribolla, Spettini, ed i furieri Pedotti, Torre e Torchi, portati all'ordine del giorno e proposti per la medaglia al valore militare.
Il giorno 16 il generale Lamarmora si recava a trovar Garibaldi a Nuvolento—i due generali si stimavano a vicenda, e certo devono avere parlato sulle mosse ulteriori della guerra.
Il 17 Garibaldi mandava a Turr che era a Brescia a curarsi la ferita la seguente lettera:
Carissimo amico,
"Il sangue Magiaro si è versato per l'Italia, e la fratellanza che deve rannodare i due popoli nell'avvenire, è aumentata: quel sangue doveva essere il vostro, quello di un prode! Io sarò privo di un valoroso compagno d'armi per qualche tempo e d'un amico, ma spero rivedervi presto sano al mio lato, per ricondurre i nostri giovani soldati alla vittoria. Sarei fortunato in qualunque circostanza di potervi valere, e non avete che a comandarmi".
Vostro
G. Garibaldi
Alla sera di quel giorno la brigata con Garibaldi entrava in Gavardo fra le acclamazioni della popolazione. La mattina del 18 all'alba Bixio, come all'ordine avuto, occupava Salò.
La mattina del 20 la brigata col generale a capo si metteva in marcia. Un ordine del Comando generale portava che i cacciatori delle Alpi senza indugio si recassero ad occupare la Valtellina.
Il 26 la brigata bivaccava a Pontida e a sera arrivava a Lecco; così il generale si approssimava alla meta designatagli, la Valtellina, preceduto buon tratto avanti dal colonnello Medici. Lecco, costeggiando il lago, mena a Colico e, continuando nella Valtellina, va per lo Stelvio al Tirolo austriaco.
La Valtellina incomincia dalla foce dell'Adda nel lago di Como e si prolunga, incassata fra altissimi monti, le cui inaccessibili punte piramidali vanno a congiungersi colle altre pure altissime dello Stelvio.
Il basso fondo della valle è così stretto da non lasciare altro spazio che al corso rapidissimo dell'Adda e ad un'unica strada carreggiabile che la costeggia fino a piccola distanza da Bormio, ove volge a sinistra per salire allo Stelvio.
Bormio, ora poco popolato, fu un punto importante cinto di fortificazioni, avanzo delle quali sono le sue antichissime torri.
Da Bormio incomincia una strada tortuosa tagliata lungo il fianco del monte Cristallo; verso la sommità si trova la fortissima posizione della Cima di Sponda Lunga che gli austriaci tenevano chiusa con doppie palizzate e con parapetti, oltre a due fortini all'estremità, armati di più pezzi per battere di fianco e di fronte il sottoposto stradale, nei cui ponti e gallerie vi avevano praticato delle mine. Trincerati in tale inespugnabile posizione gli austriaci vi possedevano la chiave dell'unica comunicazione della Valtellina all'Alto Tirolo.
Il generale Cialdini avendo assunto l'incarico della difesa delle Valli limitrofe al Tirolo aveva concentrato il nerbo delle sue forze in Valcamonica e come principale punto lo stretto di Breno che mise tosto in stato di difesa.
A Garibaldi era dato l'incarico d'impedire la discesa in Lombardia di masse nemiche dal Tirolo. Importava prima di tutto impadronirsi delle gallerie soprastanti alla strada dello Stelvio, per frapporre un ostacolo inespugnabile alla minacciata invasione. Necessitava quindi conquistare la sommità dello Stelvio onde far nostro lo sbocco alla valle dell'Adige.
Questo compito era affidato al colonnello Medici, che precedeva la brigata comandata da Garibaldi, il quale aveva formato una colonna di ottocento combattenti con volontari che il maggiore Fanti, il capitano Bassini ed il tenente Bottini avevano arruolati ed armati alla meglio.
Il giorno 25 giugno Medici diede ordine al tenente Zambelli, comandante una compagnia di volontari Valtellinesi, di occupare il ponte del Diavolo come estremo avamposto, e la seconda linea di Prese-Mondadizza e Balladore, mentre faceva avanzare le altre truppe su Mazzo, Grosetto e Grosio, e si assicurava i fianchi con un distaccamento in Val Grosina, ed un altro alla sommità del Monte Mortirolo che comunica colla Val Camonica.
Il giorno 26 mentre Medici erasi recato ad ispezionare l'estremo avamposto, questo venne di sorpresa attaccato. I pochi ma valorosi Valtellinesi si ritiravano calmi e combattendo, ma arrestati dal Medici in una forte posizione a cavallo della strada, quel pugno d'uomini per oltre un'ora oppose valida resistenza, finchè raggiunto da altra compagnia di Valtellinesi comandati dal capitano Strambio gli austriaci furano costretti a ritirarsi.
Il colonnello Medici visto che la scelta del ponte del Diavolo per estrema linea di difesa era stata poco abile, si spinse ad occupare l'indomani S. Antonio di Morigone e fattevi erigere alcune opere di fortificazione si mise in grado di potersi vantaggiosamente sostenere fino allo arrivo di Garibaldi col grosso delle forze.
Frattanto il generale Garibaldi colla brigata sbarcava a Colico il 27 giugno e proseguiva fino a Tirano, dove seppe che il generale Cialdini dovendo ripiegare su Brescia, incaricava lui della difesa degli sbocchi dello Stelvio, Tonale e Caffaro con Rocca d'Anfo, in conseguenza di che il generale affidava al Medici, col secondo reggimento, con un battaglione del terzo comandato da Bixio, colla compagnia carabinieri genovesi comandata dal tenente Chiassi, con una sezione d'artiglieria ed un distaccamento del Genio, la difesa dell'Alta Valtellina, mentre Garibaldi scaglionava in dietro il resto dei cacciatori delle Alpi.
Il 1 o luglio una deputazione di Bormio avvertiva Medici che quel municipio aveva ricevuto l'intimazione di provvedere una forte somma di denaro, viveri e bestiame agli austriaci.
Il 3 luglio il Medici si spingeva avanti per lo stradale e per le alture laterali. Giunto a Ceppina fece occupare a sinistra il monte Oga, ed a destra le alture di Piazza e Ratta che si stendono verso Bormio. Dopo di che fece avanzare due compagnie ad occupare il ponte di S. Lucia.
Il distaccamento austriaco che si trovava in Bormio per l'intimata requisizione, strepitava contro il Municipio che ritardava la consegna; ma intanto due compagnie agli ordini del maggiore Fanti si avanzavano su Bormio il che fece decidere gli austriaci a darsi a precipitosa fuga. A mezzogiorno Bormio era salva.
La mattina seguente Medici disponeva un attacco simultaneo da Bormio e da Ceppina; tosto che vide le due colonne in marcia, il nemico si ritirava dai Bagni Nuovi sui Bagni Vecchi, dando fuoco alle mine, per cui in un istante si vide cadere il magnifico ponte della galleria.
Il Medici diè ordine di occupare i Bagni Nuovi; s'impegnò una viva fucilata fra i due stabilimenti. Garibaldi giunto in quel momento, 3 luglio, si portò sul luogo del combattimento; la resistenza degli austriaci durava ostinatissima; ma sul fare della sera, presi di fianco da un distaccamento, asceso a sinistra fino a metà del monte delle Scale, e minacciati alle spalle da altro distaccamento disceso dalle Torri di Fraele, il nemico battè in ritirata dando fuoco alle mine delle altre gallerie, ma senza molto successo.
Al Medici importava scacciare il nemico al di là dello Stelvio. Con questo intendimento dava le seguenti disposizioni. Il maggiore Bixio colle forze di cui disponeva, più la compagnia del genio, doveva dalle alture di Piatta-Martina avanzarsi fin oltre a Val Vitelli per minacciare l'estrema sinistra nemica fortificata a Cima di Sponda Lunga, e così con un finto attacco distrarre l'attenzione del nemico dalla sua destra.
Il capitano Bosisio, doveva la mattina dell'8 impadronirsi delle vette del monte Pedenello con trecento uomini scelti del secondo reggimento; il tenente Croft con circa cento carabinieri doveva mostrarsi a tempo opportuno sull'altura che domina la quarta Cantoniera bersagliando il nemico alle spalle; il Bosisio doveva assalire con vigore dalla nostra sinistra il nemico, minacciargli la ritirata e rendere possibile un assalto di fronte; sulla strada dello Stelvio nelle gallerie, tra la prima e la seconda Cantoniera, era disposto un battaglione in colonna d'attacco agli ordini del maggiore Sacchi rinforzato da pochi pezzi d'artiglieria che a gran stento eransi potuti trascinar fin lassù.
Come alle istruzioni avute la mattina dell'8 Bixio riusciva ad occupare la posizione che minacciava la sinistra nemica; gli austriaci aprivano un fuoco vivissimo colle eccellenti loro carabine, alle quali solo i carabinieri potevano rispondere. Nonostante Bixio si mantenne nella posizione finchè non ebbe ordine di ritirarsi.
Il nemico prevedendo un attacco aveva chiesto ed ottenuto rinforzi, tanto che in quelle formidabili posizioni vi aveva concentrato settemila uomini delle migliori truppe oltre un numero di volontari tirolesi con eccellenti carabine; per questo fatto la sorpresa di sinistra non potè riuscire perchè il Bosisio trovava già solidamente occupate le alture di Pedenollo. Del resto quello dell'8 fu un combattimento inutile, perchè in quel giorno era stato segnato l'armistizio.
Difatti dopo le vittorie di Solferino e di S. Martino l'imperatore Napoleone mandava all'imperatore d'Austria una proposta di armistizio. Il giorno 8 di luglio in seguito ad una conferenza dei commissari incaricati venivano regolate le condizioni dell'armistizio stesso.
Secondo questa convenzione la ripresa delle ostilità era fissata per il 16 di agosto.
Ma l'armistizio nel pensiero di Napoleone segnava il preludio della pace; e a tal fine mandava a chiedere un convegno all'imperatore d'Austria che lo accordava.
Il giorno 11 i due imperatori ebbero una conferenza a Villafranca, nella quale furono fissate le basi del trattato di pace, a concludere il quale fu incaricato il principe Girolamo Bonaparte.
Il 12 di luglio l'imperatore Napoleone mandava all'armata, dal suo quartier generale di Valeggio, il seguente proclama:
Soldats!
"Les bases de la paix sont arrétêes avec l'empereur d'Autriche, le but principal de la guerre est ateint, l'Italie va devenir pour la primière fois una nation.
"Une confederation de tous les Etats de l'Italie, sous la presidence honoraire du Saint-Pere, reunira en un faisceau les membres d'une même famille; la Venétia reste, il est vrai, sour le sceptre de l'Autriche: elle sera neanmois une province italienne faisant partie da la confederation.
"La réunion de la Lombardie au Piémont nous crée de ce cotè des Alpes un allié puissant qui nous devra son indipendance; les gouvernements restés en dehors du mouvement, on rappelés dans leur possessions, comprendront la necessité de réforms salutaires.
"Un amnistie générale fera disparaître les traces des discords civiles. L'Italie, desormais maitresse de ses destinées, n'aura plus qu'à s'en prendre á elle-même, si elle ne progresse pas réguliërment dans l'ordre e la libertè.
"Vous allez bientôt retourner en France, la patrie reconnaissant accuillera avec transport ses soldats qui ont porté si haut la gloire de nos armes á Montebello, á Palestro, á Turbigo, á Magenta, á Marignano, et Solferino, qui en deux mois, ont affranchi le Piémont e le Lombardie, et ne se sont arretés, que parce que la lutte allait prendre des proportions qui n'etaient plus en rapport avec les intéréts que la France avait dans cette guerre formidable.
"Soyez donc fiers de vos succés, fiers des résultats obtenus, fiers sourtout d'etre les enfents bien-aimés de cette France qui sera toujours la grande nation, tant q'elle aura un coeur pour comprendre les nobles causes et des hommes comme vous pour les défendre.
Napoleon "
Così mentre le vittorie di Solferino e di S. Martino ci dovevano schiudere i varchi all'Adige ed all'agognata conquista del Veneto, inattesa e dolorosa come una catastrofe giungeva la notizia della pace di Villafranca, che tale ormai poteva chiamarsi.
L'Italia, prima i garibaldini, accolse con vivo dolore la fatale notizia che troncava d'un colpo le più belle speranze. Ma pensandoci poi a sangue freddo, si dovette trovare che la pace fu una provvidenza. Se l'aiuto della Francia ci costò per la liberazione della Lombardia, Nizza e Savoia, che cosa altro ci avrebbe costato l'aiuto per la liberazione del Veneto? Di più avremmo veduto ingrandirsi il predominio della Francia imperiale, e forse effettuata l'idea Napoleonica della Confederazione Italica presieduta dal Papa!
Invece restava agli italiani soltanto il compito doveroso di completare l'unità della Patria, e questo dovere essi lo compirono con prudenza e con fermezza.
Un articolo del trattato di pace—quello nel quale veniva stabilito il non intervento—giovò all'unità della Patria, perchè permise alle diverse provincie sorte a libertà di proclamare coi loro plebisciti l'unione nazionale.
Verso la metà di agosto, la Toscana, la Romagna, Modena e Parma concludevano una lega, costituendo un governo dell'Italia centrale e prescegliendo come comandante supremo il generale Manfredo Fanti, e comandante in seconda il generale Giuseppe Garibaldi.
Nell'ottobre sparsasi la voce che le truppe al soldo del Papa si adunavano a Pesaro per marciare di qua della Cattolica, e che le Marche si preparavano ad una generale sollevazione, il Fanti disponeva che Garibaldi si recasse alla frontiera, per far fronte ad ogni attacco del nemico, batterlo ed inseguirlo oltre il confine, occupando le Marche.
Giunto il generale a Rimini vi stabiliva la sede del comando, volle fosse data esecuzione ad un suo disegno che avrebbe giovato all'occupazione delle Marche; quello cioè di armare alcune delle navi mercantili che si trovavano in quel porto-canale.
Furono scelte pel momento le due migliori, lo Scooner "Arimino" e "la Fenice" di proprietà del patriota Agostino Pericoli; del primo il generale diede il comando ad Andrea Rossi di Oneglia, del secondo ne fu nominato comandante Augusto Elia entrambi col grado di sotto-tenenti di Vascello dell'Italia centrale. Essi si misero all'opera senza ritardo per armare ed equipaggiare il naviglio facendo tesoro dei consigli che ad essi dava il loro amico colonnello Bixio. L'Elia intanto per ordine del generale e con l'intesa dei patrioti di Pergola, G. B. Jonni, Ginevri, Bertiboni e Bertuccioli per la via di S. Marino aveva fatto pervenire nell'Urbinate buon numero di fucili affine di promuovere un movimento insurrezionale che provocasse l'intervento di Garibaldi.
Tutto era pronto e non si attendeva che l'ordine di marciare.
Ma sorto dissidio fra i reggitori provvisori dei quattro nuovi Stati di Toscana, Romagna, Modena e Parma l'ordine ritardava. Il Ricasoli ed il Cipriani, temendo di complicare le cose nostre, decidevano di sconfessare le istruzioni date dal generale Fanti a Garibaldi; ma questi alla loro intimazione, sorretto dal patriottico ardire del Farini, rispondeva fieramente col noto telegramma—"Non ricevo ordini che dai governi riuniti".
Al dissidio fra il Ricasoli e il Fanti essendo seguito anche quello fra il Fanti e Garibaldi; il Re Vittorio Emanuele chiamava presso di sè Garibaldi.
All'invito del Re, Garibaldi si recò subito a Torino e con lui si trattenne a lungo colloquio.—Che cosa il Re abbia raccomandato a Garibaldi non si seppe, ma si potè ben immaginare che erasi elaborato questo piano:
Se attaccato dai mercenari del Papa Garibaldi avrebbe dovuto sgominarli, inseguirli ed occupare le Marche; se le Marche fossero insorte, correre in loro soccorso. Tolto di mezzo il Fanti generale dell'esercito regio, cessava la compromessa del Piemonte; Garibaldi rappresentava la rivoluzione, e nulla si comprometteva da parte del governo, se lui fosse accorso in aiuto degli insorti. Infatti Garibaldi lavorava allo scopo di incitare le Marche alla sommossa, ma queste sventuratamente non davano segno di prepararsi ad un serio movimento insurrezionale—e non potevano neppur tentarlo; basti considerare che le Marche erano occupate da imponenti forze mercenarie al soldo del Papa, e che i migliori patrioti erano stati obbligati ad esiliare; come dovette fare il conte Michele Fazioli, gonfaloniere di Ancona, che si salvò miracolosamente colla fuga da condanna di morte per avere eccitato un tentativo di sommossa.
Il Farini era d'accordo col Fanti, e, come Garibaldi, credeva alla rivoluzione nelle Marche ma voleva la mossa rivoluzionaria. Il Cipriani, reputato fautore di un movimento politico nell'Italia Centrale inteso a favorire il Principe Napoleone, chiamato davanti all'assemblea delle Romagne a dare ragione dei fatti che gli si addebitavano, si dimise; così che L. C. Farini fu chiamato al governo anche di Bologna, Ravenna e Forlì, formando lo Stato unico delle provincie dell'Emilia; la lega dell'Italia Centrale veniva così ricomposta in due Stati: Emilia e Toscana.
Garibaldi intanto persuaso da agenti e da amici che la rivoluzione era imminente, aveva fatto i preparativi per l'occupazione; e mentre al governo della Lega risultava che l'insurrezione era assolutamente priva di base, e solo fissa nella mente di pochissimi esaltati, Garibaldi mandava un telegramma al governo annunziante che la rivoluzione era scoppiata, e che egli stimava suo dovere di accorrere senza altro, come aveva preso impegno, in favore di quei patrioti.
L'animo del Farini, amante delle audaci risoluzioni e devoto a Garibaldi, avrebbe desiderato che l'asserzione della scoppiata rivoluzione fosse vera; ma le informazioni che aveva autentiche la smentivano assolutamente; ed obbligato a ricordarsi che egli era il dittatore dell'Emilia, e che era suo dovere di agire d'accordo col Ricasoli dittatore in Toscana, che ben sapeva che le Marche non erano nella possibilità d'insorgere, dava ordine al generale Fanti di richiamare Garibaldi al dovere, invitandolo a recarsi a Bologna.
Garibaldi ubbidì alla chiamata; gli si fece presente quali pericoli sarebbero derivati alla patria se egli si fosse spinto nelle Marche che non davano segno di sommossa e si cercò di strappargli la promessa che sul momento avrebbe rinunziato all'impresa.
Garibaldi nulla volle promettere, perchè aveva la certezza che le popolazioni marchigiane qualche cosa avrebbero fatto per giustificare il suo intervento.
Allora si fece di nuovo ricorso al Re Vittorio Emanuele, ed il 14 novembre Garibaldi era di nuovo chiamato a Torino.
Il 17 mattino il generale si abboccava col Re, e la sera stessa i giornali davano la notizia che Garibaldi aveva rassegnato le sue dimissioni. Infatti due giorni dopo egli ne dava l'annunzio agli italiani col suo celebre manifesto da Genova, portante la data del 19 novembre 1859.
Eccolo:
"Agli Italiani:
"Trovando, con arti subdole e continue, vincolata quella libertà d'azione che è inerente al mio grado nell'Armata dell'Italia Centrale, onde io usai sempre a conseguire lo scopo, cui mira ogni buon italiano, mi allontano per ora dal militare servizio. Il giorno in cui Vittorio Emanuele chiami un'altra volta i suoi guerrieri alla pugna per la redenzione della Patria, io ritroverò un'arma qualunque ed un posto avanti ai miei prodi commilitoni.
"La miserabile volpina politica, che turba il maestoso andamento delle cose italiane, deve persuaderci più che mai, che noi dobbiamo serrarci intorno al prode e leale soldato dell'Indipendenza Nazionale, incapace di retrocedere dal sublime e generoso suo proposito; e più che mai preparare oro e ferro per accogliere chiunque tenti tuffarci nelle antiche sciagure.
G. Garibaldi "
Dopo ciò il generale volle annunciare al Re la sua determinazione con questo affettuoso e riverente biglietto:
23 novembre 1859.
Sire,
"Secondo il desiderio della Maestà Vostra, io partirò il 23 da Genova per Caprera, e sarò fortunato quando voglia valersi del mio debole servizio.
"La dimissione mia, chiesta al Governo della Toscana ed al generale Fanti, non è ottenuta ancora. Prego Vostra Maestà si degni ordinare venga ammessa.
"Con affettuoso rispetto di Vostra Maestà
"Devmo
" G. Garibaldi "
Ed il prode, insieme ai suoi vecchi amici che vollero dimettersi con lui, Schiaffino, Basso, Froscianti, Elia, Gusmaroli, Stagnetti, Rossi ed il figlio del generale Menotti si ritirarono a Caprera e colà vissero in famiglia, amandosi come fratelli e passando le giornate a fare lavori di muratura per condurre a termine la casa di Garibaldi, a dissodare quella parte di terra dell'isola che si prestava alla coltivazione, a cacciare e pescare per provvedere al loro nutrimento.
Garibaldi era da poco a Caprera quando ricevette una lettera dal colonnello Turr con la quale gli proponeva in nome del Ministro Rattazzi di organizzare la mobilizzazione della guardia nazionale, includendovi i volontari.
Garibaldi rispondeva al Turr dando la sua piena adesione, e il Turr si recava da S. M. il Re con la lettera ricevuta, e dopo di avere conferito col Ministro Rattazzi scriveva al generale di recarsi a Torino.
Garibaldi non indugiò e arrivato a Torino prendeva alloggio all'Hôtel Trombetta.
Il 1 o di gennaio i patrioti di Torino Sineo, Bottero, Brofferio, Leardi, Turr ed altri, vollero dare un banchetto al generale e mentre questi siedeva a mensa cogli amici, una immensa folla lo acclama dalla piazza.
Garibaldi dovette affacciarsi e parlare al popolo: disse essere pieno di speranze nell'avvenire della patria; avere fiducia intera nel Re galantuomo e molto confidare nel forte carattere del popolo subalpino; concludendo che egli non avrebbe deposta la spada finchè l'Italia non fosse interamente unita e libera.
Ma la dimostrazione del 2 gennaio organizzata dagli studenti universitari fu anche più imponente. Garibaldi fu costretto a parlare dal balcone dell'Albergo: disse di andare superbo di quella dimostrazione che lo assicurava dello amore della gioventù per l'Italia, pronta a liberarla dal fango nel quale le potenze straniere volevano cacciarla; concludendo così: "Ho chiesto un milione di fucili—ed oggi vi dico che bisogna formare la Nazione armata per essere padroni dei destini della patria nostra".
Questo discorso elettrizzò la gioventù ma ebbe un grave contraccolpo; poichè il giorno appresso tutto il corpo diplomatico protestava presso S. M. il Re contro le parole pronunziate da Garibaldi; e il Ministro fu obbligato a dare le dimissioni, e il generale Garibaldi fece pubblicare dalla Gazzetta del Popolo la seguente sua lettera:
Agli Italiani,
"Chiamato da alcuni miei amici ad assumere la parte di conciliatore fra le frazioni del partito liberale italiano, fui invitato ad accettare la presidenza d'una società che si sarebbe chiamata "La Nazione Armata".
"Credetti potere essere utile; mi piacque la grandezza del concetto ed accettai.
"Ma siccome la Nazione Italiana armata è tal fatto che spaventa quanto c'è di sleale e prepotente tanto dentro che fuori d'Italia, la folla dei moderni gesuiti si è spaventata ed ha gridato; Anatema!
"Il governo del Re galantuomo fu importunato dagli allarmisti, e per non comprometterlo mi sono deciso di desistere dall'onorevole e grande proposito.
"Di unanime accordo con tutti i soci—dichiaro dunque sciolta la società della Nazione armata—ed invito ogni italiano che ami la patria a concorrere alla sottoscrizione per l'acquisto di un milione di fucili.
"Se con un milione di fucili l'Italia in cospetto dello straniero non fosse capace di armare un milione di soldati, bisognerebbe disperare dell'umanità!
"L'Italia si armi e sarà libera"!
Torino 4 gennaio 1860.
G. Garibaldi
Il Conte Benso di Cavour veniva incaricato di formare il nuovo Ministero.
Il 17 gennaio 1860 il colonnello Turr riceveva dal generale Garibaldi la lettera seguente:
Fino 17 del 1860.
Mio caro colonnello Turr
"Vogliate avere la compiacenza di chiedere a S. M. se è deciso di cedere Nizza alla Francia. Questa domanda mi viene fatta molto caldamente dai miei concittadini.
Rispondetemi subito per telegrafo. Sì! o no!
G. Garibaldi "
Il colonnello Turr ossequiente al desiderio del generale si recava da S. M. e gli consegnava la stessa sua lettera: ed Egli dopo averla letta disse al Turr:—umh, hum, sì o no —è un po' spiccio, umh! Ebbene sì—ma non telegrafategli—Andate a trovare Garibaldi e ditegli:—"Pare il destino domandi da noi due il più grande sacrificio che uomo possa fare. E se a lui rode il cuore per la sua Nizza deve immaginare il dolore mio per la Savoia, culla della mia famiglia! Ma per fare l'Italia noi due dobbiamo fare questo grande sacrificio.
"Andate a fare questa mia commissione a Garibaldi e ditegli che conto su di lui, come egli può contare su di me per il bene d'Italia".
Il colonnello Turr portò la parola del Re a Garibaldi che si trovava a Fino e che subito si ritirava a Caprera.
Ma non doveva trattenervi a lungo e venne il momento in cui Garibaldi dovette decidersi di passare sul Continente, e s'imbarcò coi suoi fidi compagni.
Arrivato a Genova dopo breve sosta in casa del suo amico Coltelletti, il generale si recava ad alloggiare a Quarto nella Villa Spinola presso il suo vecchio amico e compagno del 1849, Augusto Vecchi.
Gli altri prendevano stanza nella locanda di Raschiani al porto.
Fine del Primo Volume
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INDICE
Prefazione Pag. V
Capitolo I. — Garibaldi in America " 1
" II. — 1847-48 Insurrezione della Sicilia Messina-Palermo-Catania-Calabrie " 12
" III. — Garibaldi s'imbarca coi suoi legionari per l'Italia " 29
" IV. — Venezia si erige a repubblica. Milano e le cinque giornate " 34
" V. — Carlo Alberto bandisce la guerra all'Austria " 36
" VI. — Garibaldi a Milano prende il comando dei Volontari " 42
" VII. — Venezia, Treviso, Vicenza, Curtatone e Montanara, Goito, Peschiera, Rivoli—Sfortunata giornata di Custoza—Armistizio Salasco " 44
" VIII. — Sollevazione di Bologna " 84
" IX. — Garibaldi continua la lotta contro l'Austria " 88
" X. — Proclamazione della Repubblica " 101
" XI. — Le dieci giornate di Brescia—disastrosa giornata di Novara. " 107
" XII. — Eroica difesa di Roma " 128
" XIII. — Spedizione contro l'Esercito Borbonico—Velletri " 147
" XIV. — Ripresa delle ostilità dei Francesi contro Roma " 162
" XV. — Garibaldi esce da Roma coi suoi legionari San Marino— Morte di Anita—Cesenatico " 187
" XVI. — Assedio di Ancona e sua eroica difesa " 199
" XVII. — Dal 24 marzo 1849 al 1859—Il Piemonte " 209
" XVIII. — 1859—La guerra d'indipendenza " 216
Errata—corrige " 303