AVANCINIO AVANCINI
NOVELLE LOMBARDE
Il ratto di Sabina.—La passione di G. C. Storia di Matteo Vento. Una vittima.—Novella invernale.—Giustizia per tutti. Maometto.—L'orologio di papà Gedeone. Don Bonomo è senza cena.—Papà Gedeone ha ceduto. Le redini di Brunello—Le nozze.
MILANO
CASA EDITRICE DELLA CRONACA ROSSA
1889
DEL MEDESIMO AUTORE
Rime. Bortolotti, Milano, 1888.—Edizione esaurita.
IN PREPARAZIONE:
La frottola. Studio critico. La vita. Romanzo. Domiziano. Dramma storico in versi.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Milano—Stabilimento Tipografico Enrico Trevisini.
PREFAZIONE
Non deve parer soverchia presunzione in me il titolo che pongo al mio libro.
Ho vissuto lungamente, da fanciullo, su le Alpi e, più tardi, nella campagna milanese. Il continuo contatto e la paziente benchè spesso incosciente osservazione mi agevolarono il mezzo per istudiare a fondo le costumanze di questi luoghi, onde le mie novelle sono ispirate alla verità più che tessute dalla fantasia. Certamente chi ad esse voglia chiedere emozioni violente si troverà ingannato. Benchè lo Zola in Francia ed un poco il Verga in Italia abbiano dipinto la classe dei contadini a foschi e tetri colori, io invece, umilissimo, non ho saputo ritrovarvi che le passioni più semplici e naturali, non ispoglie talora di una graziosa attrattativa e destinate ad accaparrarsi, anzichè ad alienarsi, la simpatia delle persone le quali passano per côlte ed intelligenti. Non presumo, con questo, lanciare una vana frecciata alla scuola dell'uno o dell'altro dei celebri autori ch'io prima nominai. No, no. Mi basta conchiudere che, fortunatamente, i nostri contadini lombardi non sono ancora corrotti come i francesi, o i siciliani, o i napoletani, secondo le notizie che ne danno quegli scrittori; e, finchè no'l sono, giudico ridicolaggine immaginarli diversi.
Se l'interesse di un'opera d'arte è in relazione col grado di verosimiglianza che l'artista ha saputo donarle, non debbono mancar d'interesse le mie modeste novelle, specchio fedele della realtà. Ed io anzi mi sono meravigliato spesso che altri, prima e più valente di me, non pensasse a descrivere i miei paesi ove pur durano tante consuetudini ignorate alla maggior parte degli italiani, le quali hanno un profumo di verginità caro all'anima, ispiratore di sentimenti affettuosi.
Due avvertimenti mi restano a fare. Uno riguarda in particolar modo la novella che intitolo: Una vittima. Quando essa comparve la prima volta, stampata sopra un giornale, furono persone che mi rimproverarono per avervi trattato un argomento così delicato ed intimo. Quelle persone dimostrarono di non aver inteso niente; cosa facile d'altronde, alla nostra epoca, per chi legge! Non pensai io di pubblicare una solleticante pornografia, ma bensì di commuovere le oneste anime al racconto di quella tragedia campagnuola in cui, fatte le debite restrizioni, fu vittima una donna infelice da me conosciuta. La novella è quasi storica: più storica che, per esempio, la morte di Lucrezia di cui si fa pure esatta spiegazione, secondo i nuovi regolamenti, ai fanciulli delle classi elementari. A chi abbia, in mezzo a tanto sfacelo degli affetti domestici, conservato sentimenti umani, troppo sacra dev'essere questa sublime prova della maternità, perchè egli possa farne cinico stromento alla sua fama letteraria.
La seconda delle osservazioni concerne il mio stile. Ne ho adottato uno (se pur si voglia riconoscermelo!) semplice come il tessuto delle stesse novelle, corrispondente dunque alla indole loro. Nel dialogo riprodussi, talvolta, alcune forme espressive e caratteristiche dei nostri dialetti settentrionali o, meglio, lombardi, specialmente in ciò che riguarda la costruzione del periodo: ma fu solo per dare colorito efficace alla narrazione e non, proprio, per ismania di novità. Le novità, in questo, come in ogni altro genere, di buon grado io le abbandono a coloro che sperano di rendersi notevoli con una originalità conseguita ad ogni prezzo; gloria facile a chi abbia talento, ma breve assai più che la sua vita.
AVANCINIO AVANCINI.
I.
Il ratto di Sabina.
Ai Frani si conosceva già da tutti che Giovan Bello era venuto da Zeno dei Martinetti a domandargli la figlia in isposa. Però non avevano visto niente, perchè Giovan Bello capitò di sera: in montagna gli affari si combinano sempre dopo calato il sole, per risparmio di tempo. Fu Zeno stesso che, alla mattina, entrato da Bortolo, raccontò come era andata la faccenda. Giovan Bello, buon giovane per il resto, si trovava tuttavia in condizioni cattivissime; era stato carbonaio cinque anni e poi, in causa d'una disgrazia (non si sa come: gli rubarono i suoi risparmi!) indispettendosi e abbandonando il mestiere, aveva cominciato a scender fino a Bergamo, lungo le valli, in qualità di spaccalegna. Se i tempi fossero stati migliori, avrebbe potuto guadagnar molto: ma per intanto bisognava contentarsi di affrontar sacrifici immensi con pochissimo frutto, oltre di che nell'inverno gli toccava rimanere a braccia conserte, mangiandosi fin l'ultimo quattrino su l'osteria, o al più lavorando qualche piccolo oggetto in legno, industria che esige un certo talento non comune a chiunque. In conclusione: il partito per Sabina era tutt'altro che splendido, almen per allora; forse col tempo si combinerebbe qualcosa, quando i negozî di Giovan Bello andassero meglio; ma non conveniva però che Sabina si legasse a lui, nel rischio di restar zitella per tutta la vita. È una realtà; la gente di campagna ama poco il celibato: per far camminare la baracca, è necessario alle famiglie sbarazzarsi de' figliuoli ed i figliuoli bisogna che si facciano presto un'altra famiglia: una ruota così, colpa d'essere poveri.
* * *
Ma con istupore di molti Sabina in Lizzola non apparve punto commossa e turbata; col bene che voleva a Giovan Bello e che era a cognizione di tutti, ella avrebbe dovuto mostrarsi meno indifferente alla sua sventura, quantunque già apparecchiata ad essa: non ci si capiva niente e si conveniva, in genere, che la fanciulla non era tale da crucciarsene ed ammalarsene, che le donne sono fatte a questo modo e che bisogna prenderle a questo modo. A merenda Sabina uscì del cortile con le sue capre e, attraversato il paese, venne ai prati come se nulla fosse; aveva però un fazzoletto nuovo, colore azzurro scuro, in testa; e, quando Marchetto Bolco la fermò per discorrere, gli disse qualche parola in furia poi se la svignò ghignando e battendo col bastone il dorso alle sue bestie. Arrivata al pendìo, si sdraiò tranquillamente su l'erba e, presa una calza, lavorò a fronte bassa, gettando nella vallata le note limpide di una graziosa canzonetta. Il sole di settembre, senza calore, piuttosto rosso, moriva alla sua sinistra dietro i picchi: dirimpetto le montagne erano già completamente nell'ombra e il Serio, illuminato proprio per il lungo da quei pallidi raggi, scintillava come argento percotendo i macigni delle rive.
Apparve Giovan Bello col suo cagnaccio peloso e gli stivaloni da viaggio; era in maniche di camicia e, per buona precauzione, portava la scure in ispalla.
—Sicchè dunque?—domandò a Sabina inoltrandosi.
—Sicchè dunque?—disse anch'ella per unica risposta, accompagnando la parola con un moto assai espressivo del capo.
—Cosa faremo noi?—proseguì Giovan Bello.
—Ciò che vi piace. Non tocca a me decidere. Guardate a quello che fanno gli altri, diamine!
—-Sei risoluta?
—Vorrei vedere io!
—Non hai paura?
—Che paura d'Egitto quando non si opera male! Sapete bene che non c'è d'aver paura. Scommetto che il vecchio ha subodorato ogni cosa e s'imagina ciò che stiamo per tentare. Ma vi accerto io che non si intrometterà! gli convien troppo tacere e fingere di non accorgersi. Anche mio zio Zancastro ha agito così con mia cugina Petronilla; è un male di famiglia l'avarizia: per non dar fuori la dote, inventano mille scuse e se la prendono con chi non ha colpa. Ma io me ne infischio di ciò; sfido anche il diavolo: anderò via, porterò via tutto quello che potrò: ne sono in diritto. Nel mio caso farebbero così anche le altre, se non peggio, e poi….
Da questo momento si avvicinarono e parlarono sotto voce. Il sole tramontava ed essi erano ancora nella medesima posizione; a Lizzola suonò l'avemaria: si divisero e Giovan Bello, portandosi alla Roncaglia, camminò verso Bondione mentre Sabina ritornava a casa.
* * *
La sera Zeno, ch'era solito andare da Bortolo, stette in casa anch'egli. Si ritirarono nella stalla e chiacchierarono tutti insieme dopo aver recitato il rosario. Erano molto seri; pareva che ci fosse burrasca per aria: se ne aspettava da un momento all'altro lo scoppio. Ma invece Zeno fu buonissimo: carezzò alquanto sua figlia e la guardò con insistenza, ostentando un poco di emozione. Le donne filavano silenziose e, in certi momenti, non si udiva che il soffio delle capre o il rumor secco dei fusi. Per giunta il cielo di fuori si rannuvolò e caddero alcune goccie di pioggia.
A mezzanotte circa si decisero finalmente a coricarsi. Zeno per il primo salì di sopra, salutando Sabina come non faceva mai: quindi lo seguirono anche le donne, con un grande fracasso di zoccoli, dopo aver disposto le rocche fra un travicello e l'altro del soffitto. Stavano così bene là entro, che si sarebbero fermate sino all'alba: ma poichè il capoccia non voleva, bisognò obbedirlo. Sabina restò l'ultima, dovendo come al solito chiudere gli usci e preparare il mastello per mungere: nel compiere questa operazione pianse, chi sa per quali pensieri, e poi levatasi gli zoccoli passò in mezzo al cortile. Era buio pesto; soffiava un vento freddissimo: dalla finestrola al primo piano scendeva il raggio d'un lumicino e le donne, camminando sul pavimento di assi, lo facevano scricchiolare.
Sabina entrò nel pollaio e vi prese due grossi involti depostivi dopo cena: ripassò per il cortile mentre nella casa vicina sbattevansi alcuni usci e rimbombavano alcune voci, poscia si rinchiuse nella stalla. Suonò mezzanotte a Bondione: il vento portava in su quei rintocchi ad uno ad uno, quali vibràti, quali appena sensibili, come se venissero da campanili a diverse distanze.
* * *
Ben tosto giunse Giovan Bello con Marchetto Bolco ed il somaro di lui. Il somaro aveva i piedi coperti di paglia perchè non facesse rumore contro il selciato; sul dorso portava un sacco e, poichè gli ebbero attaccato gli involti di Sabina, ella vi salì adagiandosi come sur una seggiola. Tutti e tre s'incamminarono senza parlare; Marchetto levò di tasca una piccola lanterna cieca e l'accese, quindi svoltarono a manca, dirigendosi verso Valle di Flesio: l'asino era guidato da Giovan Bello che gli aveva afferrato il morso e se lo conduceva di fianco.
Fuori del paese la fanciulla, strettasi bene in un panno, diede nuovamente in escandescenze contro suo padre. Il vecchio doveva essere senza cuore per cimentarla ad un simile passo; certamente lo aizzavano le cognate: i tempi, sì, erano cattivi, ma però tutti dicevano a Lizzola ch'egli nascondeva la borsa di sotto al pagliericcio e, d'altronde, con una figlia che vuol prendere marito bisogna sacrificar qualche cosa. Si è per questo al mondo; ella al posto di lui sarebbe stata diversa: e se un giorno le nascessero figlioli…
Intanto la pioggia cadeva a catinelle: il somaro sdrucciolava lungo i sentieruzzi umidi ed i due uomini si avvilupparono entro il mantello. Viaggiavano da più ore così e Sabina si faceva a poco a poco malinconica. Era stabilito che ella si ricovrerebbe in una vecchia capanna di carbonaio da Giovan Bello preparata appositamente, entro i boschi di Passevra; ed appena il curato di Passevra avesse terminato le pubblicazioni (cioè tra nove giorni, perchè batteva la Madonna di Settembre in quella settimana), si sposerebbero con l'aiuto di Dio. Giovan Bello aveva a Passevra una camera ed un letto matrimoniale: con un poco di pazienza, lavorando entrambi, si arriverebbe a riempire i vuoti della cassa e, se ella era povera, tanto meglio: non potrebbe mai rinfacciargli nulla. Pervennero alla capanna: era molto umida e vi si respirava un acre odore di abbruciaticcio o di cenere spenta; distesero il sacco per terra, sopra un mucchio di foglie acquistate in antecedenza: accesero il fuoco per asciugarsi, legarono l'asinello ad un palo della soglia e, datogli un pugno d'avena, fecero l'inventario della roba portata. C'erano quattro camicie per donna, una camicia da uomo ricamata, sette paia di calze greggie, un abito quasi nuovo di percallo, tre lenzuola, tre fazzoletti, grembiali, sottane, corsetti di maglia ed altri cenci insignificanti. Dopo di che contarono i denari: Giovan Bello dichiarò che possedeva due marenghi e sei franchi, Sabina disse che aveva mezzo marengo in carta e prese infatti il borsellino per mostrarlo al fidanzato.
Ma fu molta la sua meraviglia quando, sollevata la molla, trovò dentro un altro marengo bello e nuovo in oro il quale, cadendo a terra, brillò come una stella, in vicinanza al fuoco!
Marchetto, promesso che sarebbe stato compare, s'allontanò col somarello esclamando a Sabina:—Dirò a tuo padre che hai fatto buon viaggio.
E mentre di fuori scrosciava la pioggia e il vento fischiava in mezzo alla foresta di pini, Sabina scoppiò in pianto dirotto.
Ma Giovan Bello riuscì a consolarla.
II.
La passione di G. C.
Il buon Lindo alle tre ore, giunto dall'aver combinato un suo negozio, salì di fretta in camera propria. Già su la piazza la musica, in uniforme e col capobanda, suonava allegre marcie e dal campanile vibravano i primi squilli per la benedizione. Don Paolo non si era lasciato smuovere nè da preghiere nè da promesse. Quella bricconata in paese non la voleva. Tirar domineddio per i piedi in tal modo gli pareva un sacrilegio. Laonde, abbandonato da tutti, persin dalle solite e noiose beghine, ogni domenica dopo il meriggio costringeva il sagrestano a scuotere le tre campanelle, nè il concerto finiva prima del tramonto. Cioè quando finiva anche la rappresentazione. E si pensi che il teatro trovavasi proprio sotto la chiesa. Una vera diavoleria. E dicono che i preti hanno religione, pazienza, umiltà! non cedono mai nè anche ad accopparli. Gramigna buona da nulla, ma che non si può sradicare.
Nella camera matrimoniale, per le finestre aperte, il sole di settembre ancora caldo ed allegro entrava a larghe ondate, illuminando i cantucci più lontani. Un raggio d'oro pioveva precisamente sopra il quadro di San Giorgio appeso alla muraglia, presso il capezzale destro, ed andava a incorniciare, presso il capezzale sinistro, l'imagine del conte Belinzaghi vestito da pagliaccio, ritagliata in un giornaletto satirico. Sul canterano, di fronte all'alcova, erano allineati alcuni soldatini di piombo forse rubàti a qualche fanciullo: e, vicino ad essi, vedevasi un mucchietto di libri, vale a dire la filotea del buon cristiano, un piccolo manuale per avvocato, un trattatello di botanica e l'arte di vincere al lotto, d'autori ignoti. Lindo se ne compiaceva e sapeva che sua moglie, spesse volte, introdotte le conoscenti nella camera, mostrava loro i libri accumulati, vero tabernacolo di scienza.
Quel giorno Veronica era malata. Aveva dolori di stomaco e di pancia. Non volle affatto mangiar le poma portatele da suo marito e, mentre egli apparecchiava il fagotto, rimase curva sopra una cassa, con le mani entro il grembiale e la faccia nascosta da un fazzolettone. Quando vide che Lindo stava per scendere dalle scale gli corse dietro dicendogli:
—Hai tutto? non dimentichi qualcuno de' tuoi stracci? prendesti la cintura? e i sandali? non mancheranno mica i bottoni, alle volte?
Ma Lindo non rispose nè pure, perchè aveva fretta. Non si udiva più fracasso in paese e questo era segno che tutti stavano al teatro. Si asciugò il sudore su la faccia rasa e con un paio di salti attraversò il cortile. Alla porta della rimessa trovò il cugino Pietro, attillato come un principe, col sigaro tra i labbri e le mani incrociate dietro il dorso. Egli, vedendolo, fece un piccolo sorriso ironico e voltò con disdegno la faccia dall'altra parte. E fu una fortuna che era in ritardo, altrimenti Lindo sarebbe venuto a dargli due schiaffi; Lindo il quale, invece, dovette contentarsi di brontolargli dietro, continuando la sua corsa verso il palco scenico:
—Se ciò è, è stato caporale e tanto basta.
* * *
Realmente egli non era soddisfatto di Pietro. Pietro e Veronica, dopo la prima rappresentazione, non avevano più voluto intervenire alla recita ed il suo orgoglio se ne sentiva mortalmente offeso. Un oltraggio simile, dalle persone più care ch'egli aveva, non se lo sarebbe mai aspettato. Pareva una congiura. E per qual causa, alla fin de' conti? chi saprebbe dirlo? un capriccio, un equivoco, una asineria. Bel gusto, a lui, affaticarsi e sfiatarsi per essere poscia ricompensato in questa guisa! Ogni lavoro vuole il suo ristoro. Degli altri non gli importava nulla. Ma almeno i parenti avrebbero dovuto congratularsi, mostrarsi diligenti, approvarlo, animarlo a resistere. A cagion della recita si era inimicato don Paolo che non voleva più confessarlo. E, se adesso bisognava spendere quattrini, un giorno se ne metterebbero via. Si lasci tempo al tempo. Ogni cosa va per la sua strada. In autunno si pongono le sementi per raccogliere l'estate venturo. Con la pazienza e con la paglia maturano le nespole.
Lindo era adiratissimo. Volgeva nel suo animo pensieri di vendetta. Quel giorno, finita la passione di G. C., avrebbe cercato una spiegazione a quello stupidaccio d'un caporale, buono ad ammazzar mosche e ad ungere i carri delle salmerie.
Su l'uscio del palco scenico lo attendeva il suggeritore, pronto già col quaderno in mano. Egli aveva studiato a memoria l'intera commedia per poter aiutare ciascuno al momento necessario, senza ricorrere allo stampato.
—Presto, Lindo! sei l'ultimo. La musica ha finito di suonare. E già mio fratello recitò la parte di angelo nel prologo. Ora sta vestendosi per fare da Madonna. Dove sono gli abiti? e le maglie? e la corona di spine? c'è tutto? animo, corri a prepararti.
Lindo in un balzo fu sopra il palco scenico. Dietro le quinte dieci o dodici manigoldi finivano di mettersi chi l'elmo romano, chi le bretelle, chi la spada, chi la barba. C'erano tutti, da Malco a Sant'Andrea, da Giuda Iscariote al diavolo che doveva portarlo sotterra. Longino, con una grande lancia in resta, sedeva sopra il baio magnifico a cui avevano coperti gli occhi con una benda perchè non si adombrasse. Ed il Cireneo, in vesta verde orlata d'oro, cercava tra gli utensili il porta immondizie per accorrere dietro il cavallo ad ogni necessità. Tutte le volte che usciva sul palco, trovandosi in mezzo a persone travestite come briganti, al romor della musica, ai battimani degli spettatori, quella povera bestia non sapeva nascondere gli effetti del suo turbamento ed era una sconcezza, una noia deplorevole. Ma agli animali non si può insegnar l'educazione.
—Siamo all'ordine?—gridò il suggeritore presso il sipario.—Caifasso, hai la corona da porre in capo? e Pilato portò seco la catinella per lavarsi le mani? e Malco ha la mezza orecchia da buttare a terra? Lesti; dò il segnale. Uno, due… Attenti! quel buon ladrone stia tranquillo. Piuttosto vada a prendere il cartelletto con l' Inri e lo unisca alla croce. Dov'è San Pietro? bravo asino: sta là a pulirsi le mutande! Avete il bengala? E tu Lindo? Finalmente! Possiamo cominciare. Tiranno, alza il sipario. Uno, due, tre!
Il sipario levossi e per ogni parte fu uno scappar di gambe coperte da maglie, mentre dalla platea saliva un lungo oh! di soddisfazione.
* * *
La recita proseguì meravigliosamente bene. Fin dal primo atto il pubblico diede visibili segni di contentezza e frequenti applausi accolsero su la scena l'apparir dei personaggi principali. Però Lindo, tra una parlata e l'altra, ebbe tempo di osservare che realmente sua moglie non era in teatro e che non c'era nè anche il cugino Pietro. Al solito. In cuor suo li mandò a farsi benedire e, sforzando la voce perchè le campane mai non cessavano di suonare sopra il teatro, con fermezza e calma rappresentò la propria parte, difficilissima e lunga. La cena degli apostoli ottenne un successo. Lindo, tra San Pietro e Sant'Andrea, sorrideva del suo miglior sorriso avendo cura tratto tratto di levarsi dalla bocca i peli che gliela otturavano. Si era anche dipinto di carmino le guancie e messa in capo una bella parucca bionda fluente; roba tutta presa a nolo dai fornitori della Canobbiana, come asseriva il suggeritore.
Giuda quel giorno fece meglio del solito. Stringeva gli occhi, da furbaccio, e camminava con le mani incrociate sul petto, come un chierico del duomo. Poi nell'orto di Getsémani Lindo recitò divinamente le sue preghiere e San Pietro, quando i manigoldi arrivarono per arrestare il suo maestro, levossi dalla toga un coltellaccio da beccaio, s'avvicinò rabbiosamente a Malco, gli tagliò l'orecchia. Nella platea le donne diedero un gemito. L'effetto era meraviglioso. Chiunque sarebbesi ingannato.
Ma dopo il terzo quadro, al momento di entrar in iscena dinanzi a Pilato e Caifasso per esservi poscia battuto con le verghe e incoronato di spine, G. C. frugando il proprio involto s'accorse di aver dimenticato una cosa importantissima: il pannolino rosso da mettere intorno alle coscie durante la bastonatura, quand'egli si troverebbe in costume adamitico.
La buaggine commessa era grave; necessario ripararvi con la maggiore velocità possibile. Senza dir niente a nessuno, per non perdere un tempo così prezioso e per non farsi beffare o rimproverare, Lindo scappò dal teatro, saltò d'un colpo i gradini, e, con la tunica di G. C. indosso, volò verso la propria casa, traversando il cortile. Nel cortile non c'erano che alcune oche diguazzanti entro l'acqua sudicia vicino al pozzo. Le scavalcò d'un balzo e si trovò alla scala di legno. Di furia fece i gradini, a due per volta, e giunto sul pianerottolo toccò il saliscendi, aperse, entrò nella camera matrimoniale. Tutto era al posto come un'ora prima. Egli frugò il canterano e non iscoprì nulla. Frugò l'armadio, ma indarno. Frugò anche il letto e mise le coltri sossopra, ma il pannolino era irreperibile. Finalmente, per ultimo tentativo, diede un'occhiata dietro la cassa e vide quel benedetto drappo scarlatto, scivolato tra il legno ed il muro, sul nudo pavimento. Lo raccolse, lo scosse per pulirlo dalla polvere, se lo cacciò al posto che doveva e, sostenendo la vesta con la mano, uscì di nuovo per tornarsene al teatro.
Arrivato dabbasso, oltrepassando la porta della bottega munita di vetri e di una cortina azzurra, credette di scorgere in casa due persone che discorrevano. Esse trovavansi proprio nella visuale tra la porta e la finestra: da cui penetrava, come al piano superiore, una vivissima e lietissima luce.
Nell'animo di Lindo sorse improvviso un feroce sospetto. Quelle due persone egli non poteva riconoscerle perchè voltate dall'altra parte; ma al profilo gli parve e non gli parve che… per la quale…
Fremeva. Afferrò la maniglia per ischiudere. Ma quei briganti eransi assicuràti con la chiave. Allora scosse la porticina, diede un pugno nei vetri, li spezzò, allungò la mano per sollevare la tenda. E già poco gli mancava a raggiungere il suo scopo allorchè, in fondo al cortile, una voce sconsolata ed imperiosa lo chiamò furiosamente:
—Lindo! si entra in scena! bestia che sei, vieni o tutto è rovinato.
Il dovere anzi ogni cosa. Lindo obbedì senz'altro ed accorse.
* * *
Alzavano il sipario per il quarto quadro. Gli scenarî figuravano una vasta sala sostenuta da colonne marmorizzate ed illuminate, in alto, con finestre a vetri di più colori. Caifasso, coperto il seno di una maglia a squame di pesce, era seduto davanti alla tavola ampia dalla quale pendeva un tappeto verde macchiato d'inchiostro. Sul proscenio era già pronta una piccola erma di cartone, cinta alla base da un sedile vestito con panno rosso. La musica fece, in platea, una suonatina malinconica. Ed ecco arrivare di tra le quinte il popolo de' giudei e de' farisei, insieme coi soldati romani armàti di lunghissima lancia: un'asta di legno che terminava in un agile rombo difeso da carta d'argento. Tra questi brutti ceffi stava G. C., legàti i polsi un sopra l'altro con una corda enorme da buoi. Egli teneva bassa la fronte in atto umile e doloroso; e quando parlava la sua voce cupa e triste spandevasi nell'aria silenziosa come un suono di campanello fesso. I farisei, brutali e spietati, si fecero largo nella calca e riuscirono a circondare il pontefice. Egli su le prime pareva ben disposto verso il biondo galileo, ma quei maledetti calunniatori a poco a poco lo smossero dalle sue tenerezze e lo eccitarono contro G. C.
Nella platea un affanno, una trepidazione indescrivibili.
Ed il pontefice finalmente, rizzatosi dalla propria seggiola, in fondo al teatro, domandò a Lindo con voce sepolcrale s'egli era proprio il figliuolo di Dio. Lindo stette alquanto in pensieri. Poi sollevò la testa imparruccata, distese le braccia e, lentamente, gravemente, pronunciò le fatidiche parole:
—Sì, e mi vedrete quando verrò a giudicare gli uomini alla destra del mio divin padre.
Uno dei manigoldi finse di percuotere G. C. su la faccia e dopo tre o quattro secondi il suggeritore, tra le quinte, battè le mani per simulare lo schiaffo.
Allora Caifasso rimandò G. C. a Pilato. Il popolo, i giudei ed i veliti romani partirono insieme col pontefice; ma la scena restò libera poco tempo ed al posto di Caifasso ritornò Pilato, alle cui calcagna camminava un servo recante la catinella di stagno con l'acqua per lavarsi.
Lindo, trascinato dagli stessi nemici, accompagnato dalla stessa turba curiosa, ricomparve su la scena.
Breve questa volta fu la discussione: gli accaniti farisei ne dissero di cotte e di crude, onde il povero governatore dovette comandar che G. C. fosse battuto con le verghe. Cresceva lo strazio della platea. Non un soffio, non un colpo di tosse, non un sospiro. Lindo fu spogliato della toga rossa e si mostrò nel costume primitivo, cioè coperto della maglia color carne e del pannolino ai fianchi; lo strinsero alla colonna di cartone e sùbito quattro miserabili cominciarono a picchiarlo con verghe da mandriano. Poscia inoltrossi un tale che portava bella e fatta una corona di spine e la calcò di tutta forza su la testa dell'infelice. Gli altri si credettero in dovere di ribadirgliela con una decina di mazzate. E le vescichette piene di vino, celate fra i peli della parrucca, scoppiarono lasciando uscire su la fronte di Lindo un liquido rosso il quale aveva tutta la somiglianza col sangue.
Tremenda vista! Pilato presentò il nazzareno agli astanti mormorando:
—Ecce homo!
Nella platea i singhiozzi, trattenuti da lungo tempo, proruppero violentemente. Si udì un grido acutissimo di femmina ed il romore d'un corpo umano che precipiti al suolo.
Lindo osò guardare, come gli altri, per conoscere che diamine fosse accaduto. Restò di sasso. Dietro il suonatore di tamburo due o tre contadini sollevavano a fatica una donna caduta in deliquio e quella donna era Veronica!
* * *
—Se ciò è—disse Lindo mentalmente—io mi sarei ingannato per la quale.
Ma, siccome la rappresentazione del quarto quadro continuava, egli si rassegnò alla sua parte, dimenticando le cose profane e la moglie. Le cose prendevano una cattiva piega. Sia Giuda che San Pietro e la Madonna parevano stanchi, nè davano al proprio dialogo il calore, l'animo, lo slancio delle altre volte. Il pubblico se ne accorse; e, per quanto grosso ed indulgente, non seppe nascondere il suo malumore. Indarno G. C. e gli altri principali attori s'affaticavano a promettere o far minaccie; indarno il suggeritore sbraitava dal suo posto per dirigere i discorsi: fu una vera confusione, un entrare ed un uscire senza proposito, un ridere nei momenti più gravi, un ciarlare molesto che copriva le voci dei personaggi. Persin la scena della crocifissione passò, contro ogni attesa, inosservata. Ciò parve assai deplorevole al suggeritore e, finito quel quadro eterno, rimproverò accerbamente i diversi attori assicurando che, se si andava di tal passo, la domenica prossima bisognerebbe chiudere il teatro. O le cose si fanno bene o non si fanno. Chi si è messo all'impegno faccia uso dell'ingegno. Erano bambini? perchè si bisticciavano ad ogni tratto? la concordia è madre delle virtù. Non dessero scandalo: era una vergogna; la gente se ne farebbe meraviglia, se ne adonterebbe e, alla fin delle fini, riderebbe Don Paolo, vincitore della partita. Le sue osservazioni furono ascoltate ed approvate; siccome alcuni cercavano giustificarsi, egli tagliò corto e dichiarò che non voleva udir nulla sotto pena di espellerli dalla compagnia.
Cominciò l'ultimo quadro.
Una grotta fosca, scarabocchiata dall'imbianchino sopra una carta che si gonfiava tutta per l'umidità. Nel mezzo era apparecchiata una tomba a coperchio mobile. Per le esigenze del palco scenico la si era fatta troppo corta, nè G. C. avrebbe potuto distendersi con agio dietro di essa. Ma egli si rannicchierebbe opportunamente, avendo cura di non alzar la testa oltre il coperchio.
Al suono di una marcia funebre entrarono le pie donne, Giovanni l'apostolo e Giuseppe d'Arimatea. Essi portavano il corpo di Lindo con grave stento; lo sollevarono adagio adagio e lo calarono nel sepolcro, dopo averlo avvolto entro un candido sudario. Le pie donne si misero davanti al sasso, per nasconderlo, finchè G. C. si fosse accomodato. Poscia, rompendo in singulti, si allontanarono. Venne invece la scolta dei vigili che iniziarono sùbito una partita ai dadi sopra il tamburo. Tutto questo in bell'ordine, con intelligente prontezza, come non si era mai fatto nè anche le altre volte.
Improvvisamente una grande luce di bengala illuminò il teatro. S'avvicinava il momento della risurrezione.
Ed ecco in fondo alla scena, su dall'impalcato, sollevarsi a poco a poco una linea di nuvolette grigie a pancia rigonfia, seminate da piccole stelle di carta dorata; e G. C., il quale dietro la tomba si era condotto carponi fin là, comparve in mezzo ai veli, pallido, trionfante, tranquillo, reggendo una banderuola di tre colori.
—Trallalà, larallì lerollèro—fece la musica all'improvviso. E nella platea scoppiò un applauso vivace, un urlo di ammirazione, un forte battere di mani.
G. C., prima di scomparir nel soffitto, non seppe resistere alla curiosità: curvossi a destra e spinse un'occhiata verso la platea. Cosa incredibile! presso la porta d'uscita, in piedi sopra una panca, apparve Pietro rosso in faccia, con gli occhi scintillanti; egli agitava il cappello per aria e gridava come un ossesso vinto da imperioso entusiasmo.
—Asino!—mormorò Lindo.—Ed io che mi era messo in mente…
In quella i teloni del soffitto gli tolsero di vedere altro. Il dramma era finito.
III.
Storia di Matteo Vento.
Quando Matteo Vento ebbe terminato, già tramontava il sole. Una striscia sanguigna imporporava le cime sui monti dirimpetto e gli operai guardandola esclamavano: rosso di sera bel tempo si spera.
Matteo Vento diede un'ultima occhiata alla fornace. La vena, gettatavi durante il giorno, s'era liquefatta al calore degli abeti arsi e il fondo appariva coperto da una cenere grigia, mescolata a sassi nodosi, donde saliva un fumo denso e soffocante. L'operaio versò qualche secchio d'acqua nella buca paurosa e si udì uno stridore di tizzoni bagnati. Poi si lavò le mani e la faccia, si asciugò in un ampio grembiale greggio e, collocati sotto la tettoia i due carri da trasporto, accese la pipa, sedette su l'orlo della voragine ed aspettò con le spalle appoggiate al muro.
Si raccontava a Bondione che, in quella voragine, tempo addietro, d'inverno, una giornata nebbiosa e nevosa, fosse caduto un povero diavolo il quale, ubbriaco di grappa, dormiva su la pietra dello sporto. S'era voltato a sinistra e panf! dentro nelle fiamme. Il desiderio di scaldarsi gli era stato fatale. A venti metri di lontananza ne avevano ascoltato le grida strazianti. Poscia due fanciulle accorse per vedere furono spaventate da uno strano puzzo di abbruciaticcio, da un forte profumo di carne allo spiedo. Finis corona topus, come sclamava il curato.
Matteo Vento, pensando per la centesima volta a questa tragedia, ebbe un piccolo sorriso. L'anno prima egli, geloso di Violante, era stato ad un pelo di buttar nella fornace il figlio di Zancastro, conosciutissimo a Fiumenero. Qualche santo l'aveva salvato dal commettere l'imperdonabile sproposito. Una vera fortuna. Violante non meritava questa prova d'amore. Bagascia! per essere giusti, invece di uno solo sarebbe abbisognato ammazzarne sei o sette, perchè ella con sei o sette amoreggiava. E che feccia di gente! vecchi e giovani senza distinzione. Quando si ha il bernoccolo della lussuria non c'è nè anche il papa che ce ne possa guarire. E se egli l'avesse proprio sposata? chi sa quanti dispiaceri, quante disillusioni. Certe donne son messe al mondo per fare il male. E alla fine (continuava seco stesso Matteo Vento), legandosi a quella ruffiana, sacrificandole tutto, avrebbe rovinato Scolastica, la povera fanciulla che gli voleva tanto bene, così onesta da mettere per lei nel fuoco le mani ed i piedi. Oh! per Scolastica non c'era pericolo. Nessun rivale, nessuna gelosia, nessun bisogno di coltello e vendetta. La fornace facesse il suo officio; Matteo Vento non le darebbe mai, per causa di Scolastica, carne umana da arrostire.
Un suono di campanelle a diverse gamme distrasse il giovane dalle sue considerazioni. Per la viottola della torre, lungo il pendìo umido e solcato dalle ruote delle carrette, s'avanzava lentamente uno stuolo di capre, quali bianche e quali color cioccolate, con le corna acuminate e la barba fluente. Trotterellavano le une presso le altre, da buone amiche, assai allegre per il pasto fatto. E dietro di esse, brandendo la verga, apparve anche una fanciulla alta nella persona, vestita di tela greggia, con le uose di lana che le salivano alle polpe ed un cappellaccio da uomo su la testa.
—Sei tu, Scolastica?—disse Matteo Vento.
Ella gli sorrise.
—Hai pascolato lontano, oggi?
—Su la sinistra del Serio.
—Verso Fiumenero?
—Verso Ponte-di-Legno.
—E adesso?
—Vado a mungere.
Matteo Vento sorrise alla sua volta.
—Sai—aggiunse;—ho parlato col principale.
—Sicchè dunque?
—Dice che sono libero.
—Ah! sì?
—Io direi il mese che viene.
—Nel mese che viene c'è la Madonna del Rosario.
—Io direi appunto alla Madonna del Rosario.
—E tuo padre?
—È contentone.
—E mio fratello?
—Gli parlerò.
—Matteo Vento, buona notte.
I due si lasciarono. Matteo saltò dal sedile, scosse la pipa e si allontanò per la china. Le capre entrarono in fila nel cortiletto e Scolastica le seguì togliendosi il cappello da uomo. Poi, dopo cinque minuti, il suo viso roseo e fresco apparve alla finestrina del piano superiore. Ma, siccome quell'altro s'era voltato, ella scappò bruscamente.
* * *
Chi fa i conti senza l'oste li fa due volte, dice il proverbio. E Matteo Vento che sperava di andar sùbito a cena dovette fermarsi dietro la ferriera alla porta del principale. Questi lo chiamò per nome e, introdottolo nella sua piccola camera, lo invitò a sedersi.
—Matteo Vento: ho bisogno di te.
—Eccomi a' suoi ordini—rispose l'operaio guardandolo attentamente. E domandò il permesso di riaccendere la pipa.
Il principale, sbuffando per l'adipe, andò a chiudere l'uscio. Il suo ventre rotondo tremava ad ogni passo come una vescica piena d'aria. Malgrado tale inconveniente l'uomo era bello, secondo l'espressione dei contadini e specialmente delle contadine. Aveva poi una grossa catena al panciotto ed i polsi di guttaperca. I baffi unti di cosmetico gli dividevano la faccia per metà. Nel cappello erano infilate alcune penne di pernice che gli davano un aspetto marziale. Gli stivaloni di cuoio rustico stringevano le corte gambe fino ai ginocchi.
—La notte scorsa—disse il principale sedendo sovra il letto con un romoroso tonfo—la notte scorsa a Gromo fu derubato un ricco proprietario. I ladri erano molti, arditissimi, abilissimi. Fecero tutto senza lasciar la minima traccia di sè. I carabinieri e le guardie forestali andarono per ogni verso, frugarono i boschi e le macchie, ma indarno. Quei birbanti svaligiarono la casa in pochi minuti, portarono via gli argenti della tavola e, cosa incredibile, i vasetti per l'acqua santa appesi al muro. Un'azione che non ha la compagna. Oggi a mezzodì fu trovato un portafoglio su la siepe che difende la riva del Serio, tra Fiumenero e Bondione. Il portafoglio era vuoto: prima conteneva un centinaio di franchi.
Matteo Vento sbarrò gli occhi.
—Per cento franchi mettersi ad un tal rischio!
—Cento a Gromo, duecento a Fiumenero, altri cinquecento a Bondione: è sùbito fatta una bella somma.
—A Fiumenero! a Bondione!
—Sicuro. Nell'ora di merenda un mugnaio di Fiumenero, traversando il ponte, fu assalito da quattro manigoldi che lo spogliarono fino alla camicia. Una donna dovette prestargli il suo abito da festa perchè egli tremava di freddo. Nella giacca gli avevano portato via una borsa con duecento quindici lire e diciotto centesimi.
—Ma perchè dice a Bondione? Hanno rubato anche a Bondione?
—Se non hanno rubato, ruberanno. Alle cinque una bambina che tornava da Lizzola ha visto su la Roncaglia alcuni uomini sinistri che, accovacciàti, si contavano molti biglietti da banca.
—Ed a chi mai ruberanno in Bondione?
Il principale si alzò: parlava lentamente, con voce cupa.
—Matteo Vento; in questo cassetto ho cinquanta scudi nuovi, due banconote da cento e gli spiccioli. Io li ho riscossi domenica, a Clusone, per la vendita del ferro.
—Diavolo!—esclamò l'operaio.
Il principale tacque un momento. Poi gli prese la destra.
—Questa notte, adunque, munisciti di un litro di vino, d'un coltello affilato e della mazza da battere chiodi. Veglierai nella ferriera. Chiuderò la porta che dà verso la torre e ne porterò meco la chiave. Se udrai qualche fracasso, ti appiatterai nell'ombra, aspetterai che entrino e, buttandoti nell'acqua, mi darai l'allarme.
—In quale acqua?—domandò Matteo stupito.
—Oh! bella! nel canale che passa per la fabbrica e che fa muovere il maglio. Essa viene dal monte e traversa il mio cortile. Un uomo che si curvi può benissimo venir dalla ferriera, sotto la vôlta, fino al cortile. E giunto nel cortile…
—Ho inteso—disse Matteo Vento.—I ladri potrebbero con chiavi false…
Il principale sorrise.
—Tu sei un ottimo giovane.
—Ma, signor padrone, non le pare più facile che i ladri vengano direttamente dalla strada in casa sua?
—Sbarrerò la porta con la trave. Sfido a smuoverla. Dovrò ben udire.
—Per la porta no, ma per la finestra.
—Ci sono i vetri.
—Sùbito frantumàti.
—C'è la ferritoia.
—È rôsa dalla ruggine. Guardi. Ecco: va in polvere.
—C'è lo schioppo.
—Ah! bene. Lo schioppo. Ma lo tiene appeso al focolare? come potrà servirsene?
—È vero. Mettilo al capezzale.
—Signor padrone, è carico?
—Sì.
—A polvere?
—A palla.
—Ha ragione. L'estremità della bacchetta riman fuori della canna. Però su lo scudino bisogna cambiar la capsula. Questa è umida.
—Prendi la capsula. Siamo d'accordo?
—Signor padrone, se vengono dalla finestra tenga pronto lo schioppo e, se riesce ad acchiapparne uno, mi chiami a squarciagola; ma se vengono dalla ferriera…
—Lascio al tuo buon senso.
—Non dubiti. Felice sera. Le raccomando però di por la chiave al tiretto.
—L'ho perduta.
—Male, male. E i denari li tiene lì così?
—Sai, non ho paura.
—Ma, a buon conto…
—Eh! diavolo: con uno schioppo!
—È vero. Vado a cena e torno da lei.
* * *
All'osteria Matteo Vento mangiò di buon appetito. Si era fatta la minestra di riso con fagioli secchi e, dopo di essa, gli portarono un bel piatto di formaggio. Mentre il segretario comunale col medico, l'oste ed un signore bergamasco venuto in villeggiatura giocavano a briscola, egli cercò di scovar qualche cosa dall'ostessa che sedeva al banco facendo le calze. Ma non riuscì a cavarne verbo e, meravigliato che i furti recenti non formassero tema ai discorsi di quella sera, lasciò la cucina prudentemente senza compromettere il principale con una confidenza avventata.
Arrivando alla ferriera, si accorse che in disparte aspettavalo un fiasco di quel fino. Il principale rinnovò le sue preghiere, gli consegnò un coltello da accoppar pecore e gli indicò il posto dove trovavasi la mazza. Poi, supplicatolo di non accendere lumi e di non lasciarsi vincere da sonno importuno, lo salutò tranquillamente, uscì per la porta della torre, tirò il catenaccio e chiuse a chiave. I suoi passi di uomo panciuto, brevi e rapidi, si udirono allontanarsi per il vicolo: giunse ancora un colpo di tosse, indi più nulla.
Matteo Vento diede la stura al vino. Lo trovò di suo gradimento ed intabarratosi fino alla nuca si accovacciò dietro una colonna. Un raggio di luna azzurrognola veniva in mezzo al camerone, rischiarando il suolo arso, e le forme di terra preparate per il giorno dopo, e il largo maglio inerte sopra una trave di noce. Le finestrine eran difese da vetri sparsi di ragnatele ed al di là delineavansi, incrociate, le sbarre fortissime confitte nel muro. Da poco tempo le avevano messe nuove, nè i ladri potrebbero distaccarle facilmente. La porta poi, massiccia e foderata di piombo, pareva così robusta da resistere ai colpi di un ariete.
Intorno, perfetto silenzio. Nel raggio di luna danzava un popolo di atomi picciolissimi e le muraglie trasudavano l'umidità notturna. A Bondione scoccarono le otto, poi le nove, poi le dieci, poi le undici. Si avvicinava il momento pericoloso.
Respiravasi nell'aria quell'odore umano che resta sempre ai luoghi ove di giorno si è lavorato molto. E sopra la testa di Matteo Vento, dai travicelli disordinàti e polverosi, pendevano lunghi fili d'argento esili come i capelli di un vecchio ottuagenario. Solo, di tratto in tratto, qualche ignota bestiolina saltando nell'acqua del canale dava un gorgogliare impercettibile.
Matteo Vento cominciò a sentirsi un grande freddo alle gambe. Provò a distendervi meglio il suo mantello, ma pareva che un mantice soffiasse proprio sotto di lui, recandogli continua molestia. Da che parte veniva quella corrente d'aria? dal buco della chiave no certo: dal condotto dell'acqua impossibile, perchè troppo basso: dal soffitto egualmente, perchè troppo alto.
Si guardò in giro con attenzione e vide che lo sportello del forno era aperto.
—Sciocco!—pensò.—Due asinerie in una volta. Prendo l'aria e lascio un adito ai ladri, se mai….
Si levò tosto da sedere e col tabarro che gli cadeva lungo la schiena andò verso il forno.
Già aveva messo la destra sul gancio dello sportello, quando un suono di voci gli ferì l'orecchio ed il suo cuore tremò tutto per l'emozione. Dunque non c'era dubbio. Il principale aveva avuto buon senso: i ladri forse, ignari dell'insidia, stavano per entrare nella ferriera.
E s'inginocchiò, tenendo brandita la mazza, in attesa del nemico.
Ben presto una meraviglia immensa gli fece contrarre ad una boccaccia i muscoli del viso.
Egli udiva distintamente una voce maschile che parlava con grande calore ed alla quale doveva rispondere evidentemente una seconda voce che, per lontananza od altro motivo, non si poteva intendere.
La voce maschile diceva:
—Stai sicura. Egli è giù che non sospetta di niente. È chiuso a chiave; non uscirebbe nè anche se fosse un uccellino.—Non devi? perchè non devi? ci penso io: quanti scrupoli! Alla fine sono un uomo onesto.—Non dir così. Non crederai, ma sono tanto infelice. Non ho famiglia; nè una madre, nè una sorella, nè una sposa che….
Qui un soffio d'aria portò via le parole.
—Se non vuoi che salga io, almeno discendi tu.—Crudelaccia! non hai cuore!—Sai, è freddissimo; non è un gusto prendere il fresco, stanotte.—Ah! se tu stai alla finestra, io sto in istrada; non è peggio?—Ancora; senti: non essere così testarda, Scolastica….
Un secondo soffio impedì a Matteo Vento di udire. Egli fremeva.
—Che! non temere, ti dico. Non saprà nessuno, mai.—Come, vai via? chiudi la finestra? vuoi che mi ponga a gridare? vuoi che mi accoppi?—Niente carità. Che carità d'Egitto! Non ne hai mica per me. Oh! sono stufo: se non mi apri, vado a cercar la scala a pioli e poscia salirò per forza.—Ho detto che voglio così. Romperò i vetri, farò fracasso, non me ne importa, peggio per te….
Matteo Vento aveva riconosciuta la voce del principale. Diede un ruggito e, alzandosi da terra furibondo, proruppe a denti stretti:
—Animale!
* * *
In un salto, sempre con la mazza nella destra, si trovò dentro l'acqua. Curvò la schiena e, passo passo, aiutandosi con le mani, tastando il letto del canale per evitar le buche, traversò il condotto oscurissimo, le cui pareti stillavano goccie fredde ed erano coperte di muffa. In pochi secondi arrivò all'estremità opposta; quella bianca luce lunare gli ferì la vista come una fiamma: credeva scorgere da per tutto macchie di sangue. E, fattosi puntello con la mazza, rapidamente scavalcò il piccolo parapetto per modo che mise piede a terra.
A Bondione dal campanile vibravano le dodici; lente come rintocchi funebri.
Ma il freddo provato nell'acqua, spinte o sponte, aveva calmato assai le prime ire del giovanotto. Egli, prima di risolversi ad entrar nella camerina del principale, fece tra sè un breve ragionamento. Cioè: se passando per quell'uscita avesse potuto sopraggiungere il principale, in mezzo alle tenebre, in luogo nascosto, senza probabilità di un soccorso per lui, che avverrebbe? Una bega era inevitabile. E che razza di bega! Il principale avrebbe assaggiato il sapor della mazza, dei pugni e degli schiaffi. Fortuna poi che il forno era spento. Se no, questa era proprio l'occasione per alimentarne la fiamma con la pancia del gradasso. Fargli semplicemente paura? mettersi a rischio di essere scacciato e di perdere il pane? coi ricchi non teniamo alcun mezzo di vendicarci. Essi hanno sempre ragione. Quando si è costretti a dipendere da qualcheduno, si diventa suoi umilissimi servi. Egli può anche mandarci in galera e non cesserà di essere onorato e riverito come un principe. Inoltre: perchè spaventar Scolastica, la quale, via! si comportava bene in questo negozio? darle un dispiacere, comprometterla forse, arrischiare di dover poscia rinunciare a lei?
Questione grave. Ma l'operaio non istette lungamente in dubbio. Pochi attimi bastarono a risolverlo. Siccome l'uscio della camerina era chiuso, egli con un fortissimo urto lo spalancò. Il lettuccio, naturalmente, non era toccato; al capezzale stava ancora lo schioppo, ritto e lucente, col grilletto alzato per isparare. Matteo Vento al chiaror della luna potè muoversi liberamente, come se fosse in casa propria. Andò alla tavola, tolse il cassetto e vi spinse entro le mani. Trovò sùbito quattro mucchi di scudi, oltre una scodella di legno piena di spiccioli, coi biglietti di banca. Se ne empì le tasche e buttò la tavola per terra. Indi corse alla finestrola e con la mazza fracassò un paio di lastre. Aperse le vetrate: con un altro colpo di mazza spezzò le sbarre e guastò il davanzale. Finalmente, dato di piglio allo schioppo, sollevò la canna verso la ferriera e pum! lasciò partire la carica. Nello stesso tempo, collocatosi fuor nel cortile, cominciò a gridare con quanto fiato aveva in gozzo:
—Aiuto! aiuto! i ladri!
* * *
Il principale al rimbombo dello schioppo accorse bianco per la paura. Rientrò dal cortile, donde era partito poco prima. Quando vide Matteo dinanzi alla porta in frantumi e con la mazza tra le dita, comprese tutta la sua disgrazia.
—Rovinato!—gemeva il povero uomo.
Matteo Vento fingeva di non sapere.
—Come! signor padrone! non era in casa? oh! quale imprudenza! non l'avrei immaginato! ed io che lo credeva morto! udendo il colpo di fucile pensai che me lo avessero accoppato.
Poscia entrarono insieme nella casa.
—È strano! è strano!—continuava il principale perdendo la testa.—I ladri! per la finestra! ed hanno sparato lo schioppo!
Matteo Vento cercò di acchetarlo.
—Signor padrone, ho fatto il mio dovere. Ma ella non ha fatto il suo. Ora è tardi. Inutile muovere lamenti. Erano uomini furbi, col pelo su lo stomaco. Non per nulla riuscirono a derubar quel proprietario di Gromo ed il mugnaio di Fiumenero: stavolta è toccato a lei. Metta un voto a Santa Caterina, che ha salva la pelle!
IV.
Una vittima.
I due fratelli, ciechi di rabbia, dichiararono un'altra volta che non se ne volevano impicciare. Essere già abbastanza compromessi; aver già perduto l'onore in causa di Giulia: credersi fin troppo indulgenti a permettere ch'ella rimanesse in casa e che in casa compiesse l'ultima imfamia cui l'aveva condotta la sua colpa. Non poterle perdonare; far le pratiche opportune per separarsene sùbito: apparecchiarsi anzi a interdirle una porzione del patrimonio ereditato. Giulia su le prime sperò ancora che i fratelli, così crudeli in apparenza, non avrebbero avuto coraggio di abbandonarla nel punto estremo; sperò che si sarebbero mossi a pietà, per essere stata sempre affettuosa con loro ed anche credersi molto innocente nel fallo in cui era precipitata. Quando comprese che la risoluzione minacciata era proprio irremovibile, quando s'accorse che la sfuggivano e che a vederle i fianchi grossi le gittavano parolaccie di sprezzo o di insulto, allora si rivolse completamente al suo Vittorio, al solo Vittorio, pensando che era meglio così, perchè d'ora innanzi forse non sarebbero più divisi; le carezze dell'amante, uniche per lei su la terra, le sembrerebbero più care ed ammorzerebbero anche il rimorso d'una imprudenza inesorabilmente punita.
Con tal fede Giulia, molti giorni prima di mettersi a letto, scrisse una pagina passionata all'amico e gliela fece pervenire per mezzo di Lorenzo, il vecchio servo stato complice principale di quell'amore ma che adesso, lagrimoso, pallido, strappavasi i capelli bianchi, pentito di non aver interrotta a tempo una simile tresca apportatrice di tanti guai alla sua padroncina, alla sua figliola. Passarono due settimane interminabili, mestissime, senza che giungesse nè pure una risposta di Vittorio; il terribile istante s'avvicinava: Giulia ignorava ancora che sarebbe di sè.—Finalmente, un venerdì mattina, Lorenzo entrato nella camera della poveretta la svegliò per consegnarle una lettera che aveva ricevuto dal giovane con grande mistero, con grandi precauzioni. Giulia si fece aprire le griglie; ringraziò il buon servo e, lacerata trepidando la busta, lesse avidamente. Ma non era ancora arrivata alla fine che le si oscurò la vista, il sangue le affluì al cuore e dalle dita tremanti il foglio le cadde al suolo. Vittorio confessava di non poterla aiutare; compiangeva la sua condizione; avrebbe voluto chiederla in moglie;—ma gli mancavano due anni alla laurea;—la scongiurava a non perdersi d'animo, a lasciar passare la burrasca e a confidare nella provvidenza;—giovane, bella e ricca avrebbe poi sempre trovato da collocarsi meglio che con un miserabile avvocatuzzo; conservasse buona memoria di lui che, alla sua volta, non dimenticherebbe le dolci ore godute insieme ed un affetto così gentile.
Allora soltanto Giulia aperse gli occhi. L'animo di quel traditore le apparve in tutta la sua viltà; percossa in poco tempo da tanti colpi, non ebbe nè anche la forza di illudersi maggiormente e di lenire il proprio cordoglio con altre lusinghe: il disinganno era completo. Perciò, dispersa rabbiosamente quella pagina brutale dopo averla ridotta in brani, si distese, bianca, dissanguata, immobile, su le coltri deserte: e, senza dare un gemito, senza versare una lagrima, aspettò la notte intanto che il servo, imaginando l'accaduto, s'affaticava indarno a consolarla, a baciarla, a supplicarla, balbettando, singhiozzando, inginocchiandosi a terra, chiamandola coi nomi più affettuosi. La fanciulla aveva preso una risoluzione anch'ella: tacere, languire e morire in un'agonia degna della sua disgrazia, in un'agonia d'inferno che ricadesse tutta sul capo di chi l'aveva provocata.
Quando, verso sera, l'assalsero improvvisamente le prime doglie! l'affanno, l'ira, il raccapriccio avevano precipitato il parto. Ma, invece di atterrirsene, Giulia, a quel doloroso annuncio della maternità, d'un tratto sentì rinascersi a vita; una promessa nuova per l'avvenire le brillò nella mente: i nuovi doveri che si sarebbero richiesti da lei la persuasero che i suoi giorni potrebbero essere utili ancora nel mondo per qualcheduno. E già, colorandosi le guancie, con la fantasia esaltata per la febbre si vedeva ignota, lontana, in altro paese, tranquilla e felice al fianco d'un pargoletto, che sbocciasse come un fiore sul tradito seno materno, che imparasse dalla sua bocca a pronunciare i primi accenti, che crescesse simile a lei nell'occhio, nel viso, nella pietà. Allora per la sventurata si replicherebbe l'esistenza solitaria e serena trascorsa nel decrepito castello dai saloni vasti e vuoti, dalle umide muraglie, dalle finestre altissime, dove, orfana, era sorta semplice ed ignara del mondo in mezzo ai fratelli ruvidi e interessàti presso i quali, unica donna della casa, aveva fatto le veci d'una madre o d'una schiava, amandoli, obbedendoli, sopportandoli, servendoli. Il suo bambino le rammenterebbe i tempi soavi perduti; ella farebbe ancora da madre: amerebbe, obbedirebbe, servirebbe alle tenere voglie di lui: una seconda vita di pazienza, di lavoro, di abnegazione, di sacrificio sarebbe il guidernone d'ogni antico dolore; i baci del suo fanciullo ben la delizierebbero più che baci di quell'infame, al quale potrebbe for'anco augurare gioie non meritate e l'oblio d'un rimorso inevitabile.
Però sul vespro le doglie diventarono così violente che, malgrado i continui sforzi per celarle, Giulia dovette confessarsi col vecchio servitore. Questi, all'inattesa notizia, si turbò tutto; ma, parendogli che non fosse ancora tempo, le raccomandava riposo e le chiedeva se non s'ingannasse alle volte su la natura del male;—tuttavia, dopo averla assistita per alcune ore, visto insomma che non c'era più dubbio, manifestò la sua intenzione d'avvertirne i fratelli. Giulia, quantunque resa pazza dai tormenti, si rizzò sul letto con gli occhi di fiamma e afferrando i polsi di Lorenzo: "tu" gli disse, "tu andrai a cercare la levatrice; nessun altro, intendi? i miei parenti non devono saper nulla!" Così il vecchio, a testa curva, ingoiando il pianto che lo soffocava, si recò in fretta a casa della levatrice; e non osò destare le donne, avendo Giulia dichiarato che non voleva nessuno in camera affinchè il segreto non si diffondesse, affinchè i fratelli non avessero a rampognarle poi l'ultima vergogna della famiglia. Non bisognava opporsele. Quella giovanetta sensibile, nervosa, esasperata dalla persecuzione, era capace di ogni follia.
Appena arrivata, la levatrice, messa già al corrente da Lorenzo lungo la via, interrogò Giulia sovra i soliti particolari, senza mostrare alcuna meraviglia, trattandola con la massima dolcezza. Ma Giulia cominciò ben tosto a scuotersi; la fronte le si bagnò di sudore; le sue membra tremavano forte; dalla strozza involontariamente le sfuggivano gemiti compressi; morsicavasi le pugna in silenzio, delirando: allontanava le coltri con impeto, come se le bruciassero la carne, come se la schiacciassero. Bisognò adagiarla; si discostò la candela; si apparecchiarono pannolini e vasi d'acqua, la si tenne ferma, la si calmò con mille sommessi rimproveri, con mille carezzevoli minaccie: e, tra gli spasimi, verso mezzanotte, ella diede finalmente alla luce un bambino.
Da principio la puerpera stette alquanto quasi persona stanca per lunga fatica; aveva la bocca serrata, le nari tumide; i suoi muscoli s'agitavano ancora sotto l'impressione del male e si lasciò rivolgere ed accomodare senza resistere, come se non s'accorgesse di nulla. Poi adagio adagio riprese i sensi; ebbe sussulti di vomito; sospirò: si mosse. Lorenzo pendeva su la sua testa; gli sorrise. E, accomodandosi per istinto con la mano diafana i capelli sparsi, risollevò il collo sul guanciale, girò intorno le pupille come in cerca di qualcosa che le mancasse, mentre dalla sue labbra smorte partivano voci interrotte. La levatrice indovinò; si fece vicina: e mormorando frasi inintelligibili, con gesto imbarazzato, le sporse il bambino. A quella vista il corpo della giovane madre parve infiammarsi; un'ultima vampa di sangue le salì alle gote: diede un rauco accento di gioia suprema e, sbarrando gli occhi, stese le braccia per trascinarsi al petto quella piccola creatura delle sue viscere…
La piccola creatura era fredda ghiacciata.
Giulia la lasciò cadere di piombo sul letto ed ella stessa, prorompendo in un acuto grido, si gettò all'indietro, col seno scoperto, con la faccia immersa come un giglio nel volume delle treccie nere.
Lorenzo dovè tornarsene in paese per il medico. Egli camminava a grandi passi tra le siepi, sul sentiero campestre; intorno, il piano immensurato, rugiadoso, coi filari di roveri e di pioppi, con le acque terse e fredde, accoglieva una tenue luce suffondendola di lieve nebbia azzurrognola; non un alito di vento: non una foglia che stormisse e intanto, su dall'erbe, tra le biade, nei tronchi s'udivano le fioche voci diverse di mille insetti, come se fossero i fremiti della terra.
Era nella stessa campagna, in una simile notte, che la fanciulla aveva peccato vinta dal fascino della natura, vinta dalla pace del silenzio, vinta dalla poesia della solitudine. E Lorenzo, riflettendovi, avrebbe voluto lanciarsi in quell'acque sì tranquille che sorridevano al suo dolore, che schernivano il suo pentimento. Perocchè, troppo cieco, troppo semplice, era stato egli ad aprirgli ogni volta il cancello dell'orto: egli che non aveva mai fatto male, che non credeva si potesse far male;—e vedendo Giulia dileguarsi tra gli alberi, leggiera e silenziosa come un'ombra della notte, invece di raggiungerla, di arrestarla, di rinserrarla senza pietà, sentivasi tutto lieto al pensiero delle gioie che la attendevano, refrigerio solenne ai giorni monotoni del castello.
Nulla giovò il medico alla puerpera. Egli, desolato, disse che non c'erano più speranze e, dopo aver tentato invano di richiamarla ai sentimenti, se ne andò avvertendo che avrebbe mandato il prete. Infatti, di lì a qualche ora, il curato, solo, sinistro, con un involto sotto il braccio, arrivò nel momento che Giulia aveva dischiuso un poco gli occhi e domandato da bere. Lorenzo e la levatrice lasciarono la camera: e il prete, volendo approfittare di quel breve intervallo, staccò dalla muraglia un crocifisso di legno impolverato, s'accoccolò sovra la poltrona, cominciò per confessare la moribonda. "Com'è stato, dunque, poverina?" diceva. E Giulia, sgranandogli in faccia gli occhi, lo guardava curiosamente, come se non l'avesse mai visto, come se non l'avesse compreso. Il prete allora, senza scomporsi, proseguiva: "Sicuro: a questo fine si precipita quando non si rispetta Dio… tu non sei venuta mai alla messa, me ne rammento…"—Ma era inutile; Giulia non rispondeva; si rivolse dall'altra banda: fiatò penosamente, entrò in agonia.—Il curato richiamò i due che stavano su la porta; cavò dall'involto le ampolle; rialzò le coltri; le diede gli olî santi; s'inginocchiò sul tappeto e, col libro in mano, sbadigliando tratto tratto, recitò le ultime preghiere:—Lorenzo, tenendo le palme congiunte, era in piedi silenzioso, fermo come una pietra.
Così spuntò l'alba. E quando, lenta, lontana, dal campanile vibrò l'avemaria, la levatrice, svegliatasi di soprassalto col rosario ancora tra le dita, si levò dalla sedia, si chinò sul letto e vi scorse Giulia già cadavere.
Al dopopranzo di quel sabato ricomparve il medico, per constatarne la morte. In casa non trovò alcuno; soltanto Lorenzo aspettava su la panca del cortile e s'incaricò di condurlo attraverso i cameroni scuri e freschi, dai mobili vecchi, dai soffitti a travi scolpite. La scala, co' suoi gradini larghi e bassi di marmo bianco, anch'essa era sepolta nell'ombra; i balaustri a colonnette rigonfie salivano in pendìo, impolverati; all'ingiro, mezzo occulte da strati di calce, figuravano dipinte gigantesche femmine, lanciate in una danza vaporosa e tacita da forse due secoli;—su, in cima, nelle sale a vòlta, si vedevano mille screpolature, sentivasi un tanfo d'antichità: e i passi dei due uomini, risonando sul pavimento, echeggiavano di camera in camera maestosi. D'un tratto Lorenzo, sempre taciturno, tirò un catenaccio, aperse i battenti d'una porta stretta, fregiata di pitture guaste, poi, scopertosi il capo, entrò nella stanza funeraria e ne socchiuse le imposte, avanzandosi diritto, simile ad un uomo sordo che non ode nulla, che non s'occupa di nulla. Un raggio di luce rosea, scivolando tra le aperture, si fermò in un angolo; il lumicino posto al suolo mandò sprazzi fumosi e la fiamma ondulò, scossa ai piccoli colpi dell'aria che perveniva dal corridoio. Pareva dimenticata ad accompagnar quel corpicino, tutto giallo come una statua di cera, che giaceva sul materasso coi piedi riuniti, con la testa enorme, con le coscie larghe, quasichè fosse ancora nel grembo della madre: la quale, nell'angolo rischiarato lungo il muro, sovra quattro seggiole messe vicine col dorso all'infuori, distendevasi inerte, nascosta da un lenzuolo. Il medico sollevò quel drappo della morte; sotto gli apparve la persona sottile di Giulia, avvolta in vesti candide, con le caviglie e coi polsi legàti da corone; il suo volto livido s'incorniciava in un fazzoletto da cui sfuggivano poche ciocche di capelli arruffàti; il collo aveva un colore terreo, una rotondità floscia: gli occhi vitrei, fissi, chiedevano ancora vendetta, maledicevano ancora a qualcuno.
I due uomini si distaccarono; le imposte furono riappressate: cigolò di nuovo il catenaccio e di nuovo echeggiarono i passi, quasi inviando l'ultimo saluto all'estinta, piccina, deserta in quelle tenebre, in quello spazio.
V.
Storiella invernale.
Martino s'era messo a letto la sera del Natale. Fu assalito da una specie di stordimento mentre, curvato al fuoco, discorreva con la sua vecchierella, agitando i tizzoni che si volevano spegnere e sospirando tratto tratto come chi presente una sventura. Fermo era partito alla volta di Corteno, dove faceva il pecoraio, per isposarvi la sua Annita. S'era fissato il giorno di Santo Stefano e non bisognava differire oltre: i preti se ne offenderebbero. Martino veramente credeva inopportuna quell'epoca; ma dinanzi ad una forza maggiore aveva dovuto cedere e rassegnarsi. E inoltre, perchè attendere? la primavera non è stagione conveniente per i matrimonî; di primavera si ricominciano le aziende interrotte: c'è altro in capo che di prendere moglie, fare baldoria, spendere quattrini!
Il Natale quindi era passato tra loro due; era passato tristemente, nella camera nuda, coi vetri appannàti da cui si vedeva la valle bianca e nebbiosa ove scorrevano larghe raffiche di vento a sparpagliar la neve caduta sui pini. Elena si turbò quando il suo uomo, coricatosi presto, cominciò a vaneggiare un poco, parlando in disordine e lamentandosi di essere sudato. Aveva la febbre; voleva sempre ghiaccio su le tempie e tratto tratto si assopiva con gli occhi sbarràti e le guancie così smunte che parevano di cadavere.
—Avesse proprio da venirgli un male?—pensò la vecchia; e, tremante di paura, gli propose di chiamare il medico da Bondione.
—Che farne del medico?—disse Martino in un momento di quiete.—E poi, perchè obbligarlo a salir fin quassù, per la Roncaglia, con questo tempo?
Ma il giorno dopo si sentì gran fracasso di grida e corni su la via; arrivarono tre cavalli in fila, tirando un enorme ariete carico di montanari col tabarro e le scuriade: la neve, fessa da quel mostro lento, dividevasi raccogliendosi ai lati della strada.
—Ecco, la Roncaglia è spazzata—mormorò Elena all'infermo.—Vuoi ch'io vada a Bondione?
—No, no, férmati—rispose egli:—il viaggio per te è troppo lungo e pericoloso. Non arrischiarti, Almeno, non c'è bisogno.
—Se qualcheduno di Lizzola…
—Impossibile: in questi giorni stanno tutti a casa.
La vecchia era persuasa. Di nascosto però seguitava a piangere e pregare. Martino intanto, persa la solita parlantina (questo più che tutto sgomentava sua moglie), sollevandosi un poco sui guanciali ben coperto di lana e di pelli, guardava per la finestra i monti opposti, separàti da lui da un abisso, oltre i quali, prima di giungere dove era Fermo, erano altre valli, altri gioghi, altri abissi; e, al loro piede; le cascine, i ponti, i campanili, i cimiteri coi cipressi sparsi di neve, come persone ammantellate di bianco.
Alla mattina il vecchio si svegliò agitatissimo.
—Ho fatto un cattivo sogno—mormorò. Poi, dopo aver meditato un pezzo, mentre Elena vestivasi:—e quei due? che diamine fanno? dove si cacciarono? perchè Fermo non viene a trovar suo padre ed a presentargli la moglie?
La vecchierella per la centesima volta ripetè la stessa cosa:
—Fermo è a Corteno; si è sposato ieri mattina, alle dieci, nella chiesa parrocchiale. Lo condussero a casa e gli diedero da mangiare e dormire. Oggi sarebbe qui se non fosse nevicato. Aspettiamolo. Non vorrà nevicare eternamente. Ogni stagione ha la sua evoluzione.
Anche quel giorno trascorse malinconicamente. I due vecchietti continuarono a borbottare l'uno con l'altra. Verso l'avemaria capitò una vicina a domandar notizie del malato. Fermo non si nominò neppure: le femmine indovinarono che bisognava distrarre il pensiero di Martino e gli parlarono di tutt'altre cose. Ma nell'accomiatarsi la vicina s'indugiò un momento su la porta: Lizzola, immersa nelle tenebre, emergeva i suoi rustici tetti biancheggianti nel cielo.
—È fioccato troppo quest'anno—disse Elena.
—Sicuro; per quei poveri diavoli che devono viaggiare…
—Specialmente quando si ha donne insieme. Per quanto siano alla buona, si capisce!
—Si capisce!—soggiunse Carolina.
—Non è freddo; ma il solo aspetto della neve pone i brividi addosso.
—Narrasi che caddero molte valanghe…
—Dite proprio, Carolina?—proruppe Elena col cuore angosciato e simulando per il desiderio di saper tutto.
—Non c'è da inquietarsi, ma io non esagero,—soggiunse l'altra.—Pare anzi che avvennero disgrazie. I contrabbandieri ne parlano per ogni stalla. Ad Arigna ed anche qui in valle di Bondione le valanghe hanno sepolto diversi viandanti. Poveri cristiani, che catastrofe!
—Vergine santa, Carolina, tacete per carità! guai se quell'uomo là udisse!
Ma, dalla stanza, Martino aveva già udito.
—Fermo è morto!—esclamò.—Fermo è sepolto sotto le valanghe… soccorso… soccorso!
E slanciavasi dal suo letto, ardendo per la febbre, gridando, singhiozzando.
Elena riuscì lungo le notte a calmarlo alquanto; ella stessa però sentivasi il cuore spezzato e, costretta a fingere, soffriva di più. Circa il meriggio di San Silvestre la vecchia prese la pezzuola, serrò in camera Martino e discese la Roncaglia verso Bondione. La brina candida, gocciolando dagli abeti, le bagnava le spalle ed i suoi zoccoletti s'infangavano su la strada sporca, percossa dal pallido sole d'inverno che faceva scintillare gli atomi innumerevoli della neve.
Quando il medico vide Elena, col suo abito nero a puntini rossi ch'ella non aveva deposto più sin dal Natale, capì sùbito che cos'era.
—È malato il vostro?—borbottò di malumore; poi, fattosi discorrere a lungo intorno all'indisposizione del vecchio:—non è niente—soggiunse;—colpa degli anni: settanta primavere sono settanta quintali. Andate pure, Elena; verrò io domani senza dubbio.
Elena partì consolata. Rientrando nella casuccia dalle muraglie scure di sassi col tettuccio di legno ella trovò il vecchio in piedi, che accendeva il fuoco.
—Ma che ti salta in mente adesso?
—Lascia, lascia—egli rispose.—Quei due avranno freddo. Bisogna che si riscaldino appena arrivati. Sotto la valanga devono stare maluccio, i poveri diavoli. E, in fin de' conti, sono pure nostri figli.
Delirava. Ella, con le buone, lo convinse di tornarsene a letto.
—Ma il fuoco? chi dunque preparerà il fuoco per essi?—mormorava macchinalmente Martino.—Non sai che sono caduti nella neve?
La disgraziata madre non potè più trattenersi, scoppiò in lagrime dirotte e seguitava a ripetere:
—Vergine santa, e se fosse vero?
I comignoli di Lizzola fumavano tutti annunziando che cento famiglie apparecchiavano la modesta cena: e i due vecchi, l'uno coricato e nascosto dalle coperte sino al mento, l'altra al capezzale con le mani sul grembo, piangevano, piangevano, mentre l'ombra calava.
A poco a poco Martino cessò di sospirare e parve addormentarsi.
La vecchia appoggiò la fronte canuta sul lenzuolo e, col seno compresso, aspettava silenziosa, pensando e sperando. Così venne la notte. D'improvviso Martino si scosse e, senza articolar sillaba, gestiva con forza, allontanando le coltri da sè; Elena si rizzò sgomentata, accese precipitosamente il lumicino, gli domandò che cosa avesse, che cosa volesse. Egli, anzichè rispondere, stralunava gli occhi proferendo parole tronche, inintelligibili; allora fu chiamato il cappellano che lo visitò e se ne andò malinconico, senza lasciare alcuna speranza.
Con la rapidità solita su le montagne il sereno era scomparso dietro un velo di nebbia e di nuvole; il vento fischiava nelle gole e la neve scendeva giù a larghi fiocchi nelle tenebre: Elena accanto al letticciolo del suo uomo, su quell'altura deserta, in quell'ora penosa, non aveva più forza nè anche di versar pianto.
Quand'ecco la porta si spalancò e su la soglia presentossi un giovane alto, nerboruto, dai baffetti neri e dalle uose di pelle che gli salivano al ginocchio. Una fanciulla rotonda e sorridente lo accompagnava; le sue scarpe erano coperte di neve ed un lungo scialle avvolgeva il suo busto grazioso, ricco, pieno di vita.
Erano Fermo e la sposa.
—Finalmente ci siamo—egli mormorò pulendosi dal fango ond'era inzaccherato. E nel suo occhio splendeva il desiderio di riabbracciar persone care, di riposar nuovamente in quella casuccia dov'era trascorsa la sua fanciullezza, quando nelle sere lunghe il padre lo faceva sedere su le ginocchia mentre la mamma, filando, raccontava le meste panzane dei monti.
Dalla porta rimasta socchiusa penetrò un rumore di coperchi e di ferramenta percosse; i montanari andavano intorno per Lizzola e salutavano a quel modo il terminare dell'anno.
—Uno viene e l'altro va!—gridavano. E il loro grido, portato dal vento in fondo alla valle, vi era poi ripetuto migliaia di volte.
Martino si destò dal suo assopimento e stese con impeto le braccia verso il figlio che s'accostava mortificato, a fronte bassa, dinanzi a quella dura novità. Si baciarono e confusero insieme Fermo i capelli ricciuti, il vecchio le sue ciocche bianche.
—Bravo, bravo!—gemeva quest'ultimo; e con uno sforzo volle sollevarsi per vedere in viso la giovane sposa. La quale stette là muta, presso la soglia, con le mani penzolanti lungo il dorso e gli occhi umidi. Elena venne ad abbracciarla.
—Bravo, bravo!—continuò il malato senza chiudere gli occhi nè volgere altrove lo sguardo. Quindi, mentre sotto le finestre la gente schiamazzava e fischiava il vento, egli entrò in agonia.
VI.
Giustizia per tutti.
Paolino ritornava trafelato dal suo viaggio. Andò sùbito a sedersi in un canto del focolare e divorò la zuppa che Maddalena gli aveva apparecchiato. Quando la pancia fu sazia, egli si guardò intorno con quegli occhi sporgenti e cerulei, poscia abbassando la voce domandò:
—Chi c'è stato?
—C'è stato Domenico—rispose la moglie.—Vi cercava. Ha bisogno di parlarvi.
—Lo so—disse Paolino. Ed accese la pipa fregando i zolfanelli su la coscia destra.—Va benissimo. Siamo d'accordo. Se torna, lo avvertirai in mio nome che tutto è all'ordine. Non impicciartene, ti raccomando. Io questa notte non dormo a casa. Debbo far tanta strada!…—e trinciò la mano per aria.—Lascio però anche il cavallo. Io solo e Domenico. Se torna, favorisci dunque avvertirlo che per le sei partiamo: tenga una lanternetta, quella tale piccola che è molto comoda. E d'altronde, addio.
Maddalena volle dargli qualche ammonizione.
—Voi state per commettere un'altra ribalderia!—proruppe lagrimevole.—Siete un uomo senza visceri, siete proprio un birichino. Ma no, è inutile crollare il capo; la cattiveria alle persone la si legge negli occhi. È un pezzo che vi conosco. Vergogna! dopo due soli mesi che siete ritornato dal carcere! ingannare e rovinare così una povera donna! ubbriacarsi un giorno sì ed uno no, bestemmiare, giuocare, rubare! manigoldo, ve ne accorgerete presto o tardi; ed è una fortuna che domineddio non mi doni figlioli, altrimenti!…
Paolino fumava tranquillissimo, come se non ascoltasse la voce della moglie. La pipa gli pendeva, nerastra ed umida, in un angolo della bocca socchiusa; e tratto tratto egli, dall'altro angolo, faceva uscire uno sbuffo di nebbia cenerognola che si spargeva nell'aria. Non si curò punto di Maddalena e rovistò entro i canterani scolpiti dai quali tolse un piccolo falcetto affilatissimo ed un pezzo di corda.
—Il soldato non affronta mai la battaglia senz'armi—soggiunse. E, fatto con la destra un cenno amichevole alla moglie, senza ripulirsi gli abiti dalle pillacchere ed il cappello dai ragnateli, scomparve rapidamente per ignoti luoghi.
Maddalena stette un poco in pensieri, sedette al fuoco e poscia scoppiò in dirottissime lagrime. Ella singhiozzava forte e col grembiale asciugavasi le guancie bagnate. Era uno sfogo di cui da gran tempo sentiva bisogno.
—Oh! per amore—gemeva piangendo.—In quali mani sono mai capitata!…
Verso le quattro del pomeriggio ella udì giungere su la viottola un carro pesante, le cui assi cigolavano rotolando nella mota. Quando questo fu presso la porta, sostò all'improvviso ed il cavallo soffiò dalle narici il fiato grave. Poscia echeggiò un grande colpo di scuriata.
—Ciao, Lena—gridò la voce del mugnaio.—Posso prendere il grano giallo? ti fai viva una volta?
Maddalena scosse il saliscendi ed aperse per metà il battente sinistro.
—Bene!—mormorò fregandosi ancora le ciglia.—Ne ho ancora per un sacco circa. Sei o sette staia. Più tardi bisognerà provvedere altrimenti. Se hai la pazienza di scendere, in pochi attimi ti servo.
Andrea accondiscese e saltò a terra.
—Mi farò una fiammatina—disse.—Che tempaccio, cara mia. Sembra che non abbia piovuto da un anno. Stamattina la cadeva a catinelle. E noi ce la siam tolta dalla prima all'ultima goccia. Povero Flos! ne è madido. Mi vuol bene questo animale. Gli manca di parlare per essere un cristiano fatto e finito. Certa gente del mondo è men pieghevole e buona che il mio Flos. Peccato che abbia un male; guarda qua, sotto il collo. Una piaga tanto larga. Deve produrgli uno di quei bruciori! Io tutte le mattine gliela pulisco con l'aceto. Nè anche un calcio. Sta paziente come se non sentisse nulla. Cosa vuol dire la forza di volontà!
Mentre faceva questi discorsi Andrea aveva attaccato Flos, per le redini, ad un anello del muro, poi era entrato nella cucina.
—Sai, Lena—soggiunse;—ho trovato Paolo a Castelletto. Egli si era impancato sul portone dell'osteria. È vero che ha faccende? mi dice che non dorme a casa ma va a… a… to' che non mi ricordo. Non avrà mica la bestia con sè? mi pareva alticcio. Quando si è in certe circostanze è meglio aver da comandare ad una testa sola che a due.
Allora Maddalena si sfogò. Una roba mostruosa. Quella canaglia certamente meditava uno dei tiri soliti. Da alcuni giorni si mostrava in orgasmo. Scappava di casa la mattina per tempo e ritornava a notte buia. Dove mangiava? dove lavorava? chi poteva saperlo? Nel suo cassettone ella avevagli trovato una piccola tromba di quelle che usano i saltimbanchi. Un mistero. Che faceva della tromba? aveva forse esercitato su qualche fiera vicina? a Saronno? a Magenta? e perchè non confidarle mai nulla, trattarla proprio come un'estranea, sospettar di lei come di una nemica? Ah! le era toccato una grossa croce. Ecco dunque cosa significa avere un padre troppo sciocco ed una madre impaziente di sbarazzarsi delle figliole, temendo che invecchino e non trovino più marito. I presentimenti l'avvertivano che non sarebbe felice con un tale uomo; quantunque egli allora sembrasse tutt'altro, aveva però un certo sguardo, una certa faccia, una certa maniera di esprimersi!
—Senza contare—susurrava la disgraziata—senza contare che mi lascia qui senza quattrini, senza roba per vestirmi, senza una difesa. E per la notte, caro il mio Andrea, non c'è da stare allegri. La strada non è battuta; i carabinieri non passano mai fuorchè dopo un disordine: i ladruncoli sono molti. Se mi sforzassero l'uscio? se mi scalassero le finestre? se mi venissero in camera? quando mi corico dò sempre un'occhiata al letto; ho sempre paura che sotto sia nascosto un malandrino. Mi svesto di furia, balzo tra le coltri e mi rannicchio tutta per la tema di sentirmi tirare i piedi. Mancherebbe una storia simile! e se penso che la notte ventura!…
Ella tornò a piangere disperatamente.
—C'è un rimedio—continuò Andrea con grande serietà e nello stesso tempo timidezza.—Noi siamo parenti, nevvero? dunque non si può dubitare. Una volta forse, quando tu eri nubile… ma adesso, ormai, dopo tanti anni… La mia idea è questa; io come al solito di ogni giovedì, stassera debbo recarmi a vendere le farine. D'ordinario parto col mio fratello minore. Ebbene: per una volta, si potrebbe lasciarlo viaggiar da solo… bisogna pur che si eserciti…
—E tu?—chiese Maddalena indovinando.
—Io ti porterei un bottiglione di quel dolce e, se mi apparecchi una frittata…
La donna strabiliava.
—Sei matto, Andrea? non sono proposte da farsi.
Andrea sorrise.
—In fin dei conti una frittata non è un delitto. Sai bene che non ho cattivi grilli per il capo. Se vengo, è per farti un piacere. Trascuro le mie cose, arrischio che mio fratello abbia qualche noia, perdo anche io una notte. Dunque, se non ti garba, sia per non detto. Ma non garantisco di nulla, vedi? c'è intorno certi ceffi! ieri alle otto, capisci? alle otto! fu derubata la vedova del cantoniere. Due tristacci penetrarono nella sua stanza e, dopo averle cavato gli orecchini, me la infagottarono tra le lenzuola, me la imbavagliarono e me la portarono fino al pollaio. Che barbarie! il comandante è su le traccie dei miserabili, ma intanto la povera infelice è a letto con una febbre da mulo.
—Davvero?—disse Maddalena atterrita. E, dopo aver fatto i suoi calcoli:—Ma se passasse qualcheduno per la strada?
Il mugnaio non si scompaginò.
—Passi pure. Chiuderemo le imposte e sbarreremo l'uscio. Sfido io a vederci traverso le muraglie!
—E se Paolino tornasse improvvisamente?
—Ho la gamba da bersagliere. Balzerò nel cortile dietro la casa, mi nasconderò sui fienili e, quando egli sarà coricato, scapperò via come il vento.
—E la frittata? e il vino?
—Oh! senti!—soggiunse l'altro, seccato:—se vuol venire, che venga: potrei anche prenderlo a cazzotti, quell'asino. Sono tuo parente e basta.
Maddalena crollava il capo.
—Poichè vuoi proprio, sia. Mi fido in te. Ma non mi pare una cosa bella, scusami.
Frattanto Paolino aveva fatto baldoria all'osteria di Castelletto. Comandò una piccola, mangiò allegramente accompagnando il pranzo con un litro fino e poscia giocò alle carte col proprietario. Era in vena, quel giorno; vinse e bevette il secondo litro a credenza. Quantunque sopra un muro della cucina si vedesse dipinto un gallo con le parole:
quando questo gallo canterà credenza si farà,
per gli avventori si permettevano sempre eccezioni tanto da non iscontentarli. Bisogna sapere il vivere del mondo.
Scoccarono le sei al piccolo orologio della cappella. Paolino, barcollando leggermente, uscì dalla porta maggiore. Intavolò un discorso con le femmine ritornanti dalla chiesa e si lamentò che il tempo fosse orribile, che le strade non si potessero praticare, che le pozzanghere impedissero il cammino.
Ecco arrivar lentamente, con un malinconico fracasso di sonagliere, il carro del mugnaio. Flos trotterellava filosoficamente, con la testa involta entro un cappuccio di cuoio nero, ed una grossa coperta sul dorso, e le reni gocciolanti di pioggia. Le ruote, passando, schizzavano mota a cinque passi di lontananza.
—Vanno a pigliare i marenghi?—borbottò Paolino con disinvoltura.—Dove ce n'è, ce ne cresce. Basta aver dieci biglietti di banca e sùbito si vedranno diventar cento. Ma quando si portano le tasche vuote come le porto io, si sta sempre miserabili, si sta sempre minchioni. Perchè gli interessi fruttino è necessario che non manchino i capitali.
Andrea che sedeva sotto la tenda lo salutò nella penombra. Egli teneva aperto dinanzi a sè un largo parapioggia per evitar che l'acqua gli battesse in viso. Con la destra reggeva le redini bagnate.
—State a Castelletto, Paolino?—domandò.
Paolino rispose:
—Sto un corno.
—Volete un posto?
—Vo da tutt'altra parte; accetterei se potessi: buon viaggio. Un bicchiere?
Andrea, aiutato dal fratello Carlo che camminavagli di fianco, aveva spinto Flos alla corsa.
—Non abbiamo tempo—gridò.—Sia per un'altra volta.
Ed il carro pesante, pieno di sacchi, difeso dalla tela verde, svoltò l'angolo della contrada, poi si perdette fra gli alberi umidi nella nebbia invernale.
Paolino trasse un fiato. Rientrò nell'osteria e ricominciò una partita col padrone. Questi era di cattivo umore; forse desiderava una rivincita. E fortunatamente la ebbe. Paolino dovette far mettere in conto un terzo litro, buttò le carte in un cantuccio, protestò giurando che non avrebbe più giocato in eterno e quindi partì mezzo ebro. Doveva viaggiare, altro che storie! lo lasciassero in pace. Mica tante noie, mica tante curiosità, altrimenti avrebbe fatto anche un buco nella pancia a qualcheduno. In fin dei conti egli era un uomo giusto e ragionevole; ma, se gli rompevano le tasche, sapeva difendersi e mostrare i denti. Uomo avvisato è mezzo salvato.
Di fianco alla chiesa, nelle tenebre della notte profonda, udì chiamarsi per nome.
—Domenico?—domandò sforzandosi di essere calmo e sicuro su le gambe.
—Io stesso—rispose una voce.
—Perchè non sei venuto all'osteria? proprio bisogno di farti cercare a casa?
—Meglio non lasciarci vedere insieme—rimbeccò l'altro.
—È vero. La lanterna?
—È qui.
—Niente di nuovo.
—Sono andati entrambi.
—Ho visto. Non s'imaginano certo. La chiave dell'usciolo?
—Eccola.
—Il coltello?
—Per ogni buona sorte, l'ho preso.
—Bravo!—continuò Paolino. Possiamo arrischiarci.
E si misero in cammino. Fecero circa tre chilometri in mezzo alla campagna deserta, non curandosi del tempaccio e del fango che copriva la strada. Paolino sentiva l'acqua entrargli per i fori delle scarpe.
—Se ci riesce—disse egli quando furono presso al fiumicello—se ci riesce, compero un paio di stivali. Ne berremo di botti! vero, Domenico?
Ma Domenico tacque. Più serio, costui non si era permesso di ubbriacarsi. Guidò il suo compagno nell'oscurità, evitando i pericoli ed infilando i sentieri come se avesse avuto pupille di gatto. Udirono presto lo scrosciar della pioggia dentro l'acqua del fiume.
—Eccoci—mormorarono arrestandosi.
—E il mercante?—chiese Paolino all'improvviso;—potremo fidarci?
—Stupido!—soggiunse l'altro.—Lascia fare a me.
E scavalcarono una siepe, traversarono un'ortaglia, si trovarono entro il cortile. Di fronte ad essi alcune casupole ergevansi nel cielo bigio. Da una piccola finestra scendeva qualche raggio tremulo e pensoso.
—Le mugnaie fanno la calzetta—pensò Domenico. E trasse il proprio socio presso il porcile.—Hai la corda?—gli domandò.
Paolino tirò fuor dalle tasche la fune di cui si era munito durante il giorno.
—Va bene—continuò Domenico; e con un grimaldello aperse l'usciolo. Penetrarono nella stalluccia fetente ed accesero il lume. Svegliati così bruscamente, i maiali diedero un grugnito e rizzarono le grosse teste con gli occhi stupidi e le orecchie penzolanti. I due notturni visitatori si inquietarono.
—Zitti!—susurrò Paolino brandendo il suo falcetto.—Volete che vi graffi?
Si precipitarono addosso ad un paio di quelle povere bestie, ammorzarono la propria lanterna e con la corda legarono loro le zampe anteriori. Poscia le imbavagliarono con certi cenci portàti all'uopo, come si usava nel medioevo e si usa nei romanzi medioevali verso le donne tradite o rapite. Domenico si caricò in ispalla il suo peso e precedette il socio fuor del porcile.
—Bisogna mettercelo al collo e sostenerlo per il didietro con le mani—suggerì egli.—In questo modo ci stancheremo assai meno e potremo correre più liberamente.
Uscirono adagio adagio, rinchiusero accuratamente la porticina e si dileguarono per le campagne. La pioggia seguitava a cadere monotona, insistente, noiosa. Pareva che il cielo si sfasciasse come cera o come ghiaccio. Un diluvio. I poveri maialetti non dovevano trovarsi molto contenti della gita. E frattanto le gambe affondavano entro il fango, le scarpe si facevano pesanti, gli abiti si appiccicavano alle membra. Certe volte anche a rubare si fa tanta fatica! Domenico sapeva contenersi e frenarsi, ma Paolino fremeva. Andarono, andarono, andarono, Domenico davanti e Paolino alle sue calcagna. Quest'ultimo anzi moriva di sonno.
—Io non posso più—gridò finalmente, arrestandosi.
Ma Domenico teneva duro.
—Ci rovini—osservò crudelmente.—Se non arriviamo per le quattro, addio i denari. E son tredici miglia.
A Paolino si piegavano le ginocchia. Erano arrivati presso il giardino del conte. Un muricciolo alto poco più di un metro lo separava dalla strada.
—Io non voglio scoppiare—disse Paolino.—Riposerò e poscia continuerò la via da solo. Precedimi.
Domenico crollò il capo.
—Sei un asino. Bevi troppo vino—soggiunse.
E via sempre, finchè il rumore de' suoi passi fu sopito dalla pioggia precipitosa.
Paolino si era appoggiato con la schiena al muricciolo. La sua bestia lo soffocava. Fece in modo che questa potesse accoccolarsi comodamente su la pietra dello sporto; allungò le gambe con una vera voluttà e trasse un sospiro di sollievo.
Poscia si addormentò.
Allora il maiale diede un crollo, cadde all'indietro dalla parte opposta del muricciolo, strinse le zampe allaccianti il collo del suo rapitore e lo strozzò come cinque e cinque fanno dieci.
Maddalena ed Andrea mangiavano tranquillamente la frittata e compiangevano Carlo, costretto a viaggiar solo, quando furono scossi da alcuni colpi dati nella porta. Il mugnaio diede un balzo e diventò livido; la donna più non sapeva in che mondo si fosse.
—Presto, presto!—proruppe una voce di fuori.—Lena! tuo marito è morto.
I campagnoli non usano complimenti.
Elena scoppiò in un urlo e corse ad aprire.
—Corri!… è là presso il muro del signor conte. Morto stecchito. Ha la bocca piena di pioggia. Fu il maiale ad accopparlo.
—Il maiale? un maiale? che maiale?—disse Andrea comparendo coraggiosamente dal suo buco.
—Maiale o non maiale—proseguì indispettito quell'uomo,—sta il fatto che Paolino è crepato.
Lena si mise a strillare, Andrea corse a veder come stesse la faccenda. La quale poi io non so come sia terminata.
VII.
Maometto.
Maometto, col suo bell'elmo lucente in capo, si arrampicò traverso i pini folti e scuri, da cui esalava acuto odore di resina. Un leggiero soffio di vento faceva dondolar quelle braccia protese in giro e tratto tratto fischiava in alto con un tono misterioso e beffardo. La Roncaglia era deserta.
—Oh! oh!—mormorò Maometto.—Che il diavolo ci voglia guastare la festa?—E si fermò un momento spiando al di sopra del bosco. Tra i pini scorgevasi qualche lembo di cielo sbiadito, cinereo, uniforme, presago di temporale. Un lampo rapido rosseggiò entro il padiglione dei rami: il vento crebbe.
Allora Maometto raddoppiò la corsa. I tronchi secchi degli abeti minacciavano di afferrargli l'elmo e portarglielo via: egli dovette premerlo su la nuca, si fermò per rendersi più piccolo e sollevò con la sinistra il fodero dello squadrone affinchè non gli impedisse le gambe.
Lizzola buia e seria, in vetta alla Roncaglia, s'accoccolava sul verde, piena di salute e di tranquillità; quei comignoli fumavano tutti insieme e le vecchie muraglie solcate da screpolature grigie parevano guardarsi intorno con aria sonnolenta. Il soldato, a lunghi passi, traversò la prateria e giunse al paese. La siepe di biancospino lo arrestò: un enorme pero carico di frutta acerbe lo accolse tremolando sotto il proprio fogliame.
—Caterina!—susurrò il soldato.—Fai presto. Non c'è tempo da perdere. Sta per venir giù l'acqua a secchie. Se mi bagno, addio festa. E che figura farei?
Infatti da ogni parte l'orizzonte erasi coperto di nuvole color piombo, gravi di pioggia, e soltanto al di sopra della vallata cadeva una luce bianca bianca, forte, che bruciava gli occhi.
Caterina sbucò lentamente fuor della siepe e rivolse uno sguardo timido verso la casa piccola e tacita, al primo piano della quale i tre vetri della finestrina brillavano riflettendo le tinte dell'iride.
—Se papà ci trova siam fritti!—proruppe ella.—Ah! Paolo, anche, stamani ha parlato di te. Ti ha visto ronzare domenica scorsa vicino al cortile e dice che vuol fartela pagare. Bisognerà che cerchiamo un altro mezzo: questo è troppo pericoloso. Abbi pazienza, Paolo. Fammi il piacere. Lasciami pensarci: ho una bella idea, vedrai. Adesso è impossibile; va via, ti dico… tremo dalla paura!
Maometto scosse il capo con un sorriso mesto ma calmo. Egli era sicuro del fatto suo. Parlerebbe e farebbe in modo da togliere le difficoltà. Ma non avrebbe mai rinunciato, no, a volerle bene. Piuttosto morire. Benvenuto era un imbecille. Non sapeva le sue convenienze; rifiutava un partito di quelli che ce ne son pochi. E, non faceva per dire, ma la sua famiglia era in buone condizioni. Dote? che gli importava della dote? i denari non valgono proprio niente, per Dio! Meglio una pitocca, a cui si vuol bene, che una principessa brutta e vecchia la quale abbia una cassa di marenghi. Stesse tranquilla. Ci pensasse, era giusto, ma non dubitasse nè anche un momento che il suo Paolo…
Qui un fragoroso colpo di tuono gli troncò le parole. Poscia larghe goccie di pioggia cominciarono a precipitarsi intorno, spesse e dure, facendo curvar le foglioline sotto la loro percossa e crepitando come carta stropicciata.
—Ahi!—disse Maometto guardandosi la giubba seminata di macchie umide.—Bisogna cavarcela. Basta, Caterina. Quando ti rivedrò? Domenica scendi a Bondione? chi sa mai che potremo discorrere. Addio.
E fece per allontanarsi. In quella un rumor di imposte sbattute si udì alla piccola finestrina; i vetri ne furono aperti e, mentre il tuono rimbombava più forte che mai, fuori del davanzale Benvenuto gridava minaccie inintelligibili trinciando le mani per aria.
Caterina sparve sùbito e Maometto, con l'elmo su gli occhi, si rannicchiò rapidamente e scappò via lungo la siepe che lo nascondeva.
* * *
Don Rocco esultava. Nel pomeriggio il più bel sole italiano aveva messo in fuga le nuvole e l'orizzonte azzurro sorrideva senza una ruga. La campanella suonò a distesa annunziando i vespri: sul piccolo sagrato si raccolsero centinaia di uomini venuti anche di lontano, cioè da Passevra e Fiumenero: le donne, coi grossi scialli in capo, avevano invaso la chiesetta da cui usciva un'acre fragranza d'incensi. Tutti erano felici; quella pioggia aveva rinfrescato la temperatura e allargato le anime. Ma al terzo segno ecco un gridìo confuso e immenso di fanciulli i quali, correndo, portavano la notizia che venivano.
Chi, venivano?
Anzitutto Michel Magro, compassato, con un pennacchio nel cappello di feltro, una fascia gialla traverso il petto e un tamburo alto mezzo metro che gli dondolava su le ginocchia. Egli picchiava sistematicamente quella povera antica pelle d'asino la quale, tarlata in molti luoghi e unta d'olio, dava un suono fievole e monotono appena sensibile dieci passi distante. In ispecie perchè i fanciulli non cessavano di vociare e saltare, percotendo le suole di legno contro il selciato, ed anche le donne si unirono a quel fracasso con le insensate risa, poi vi si unirono persin gli uomini, indotti dallo spettacolo insolito.
Perocchè, dietro a Michel Magro, comparve tosto una squadra di ventitre guardie nazionali col berretto a larga visiera, il camiciotto greggio e i cinturini bianchi. Esse portavano su la spalla sinistra il fucile ad avancarica sormontato dallo stopaccio rosso che serrava la canna: e le canne, di fresco ripulite col pomice dalla ruggine, raggiavano, al sole pomeridiano con una civetteria graziosa di roba vecchia e disusata la quale dopo molti anni, venti anni, ritorna ancora una volta alla luce. Il municipio che da un pezzo custodiva quegli arnesi fuor di moda in una cantina, entro casse di larice, aveva permesso che per l'occasione si tirassero in ballo, tanto da contentar via i buoni montanari smaniosi di fare una innocente smargiassata.
Nè basta. Alla destra del plotone, che procedeva con ordine ed al passo, vedevasi Maometto, creato per quel giorno direttore della festa in luogo del tenente; egli portava in testa l'elmo arcuato, sul pelo nero del quale sfavillava in acciaio la croce sabauda: la giubba militare, diventata un po' stretta, delineava il robusto profilo del suo torace e il fodero picchiava ad ogni movimento contro i calzoni di fustagno, con una cadenza misurata e precisa. Quanto alla spada egli la sollevava ignuda appoggiata alla clavicola, come sogliono gli officiali alle rassegne. Nulla di più seducente: era una cosa da scoppiar dalle risa.
In conclusione tutti quegli uomini si schierarono in fila dinanzi alla chiesetta: aspettarono pazientemente che i vespri finissero e, quando la campanella diede il primo tocco della benedizione, Maometto alzò la spada, la scosse da destra a manca, si ritirò di qualche metro ed una salva di fucileria, pim, pum, pam, partì impetuosamente, sì che le orecchie ne rimasero intronate per un pezzo.
Frattanto Don Rocco ebro di gioia impartiva dall'altare la benedizione e Benvenuto, che la sapeva lunga, preso da canto un fanciulletto dagli occhi vivaci, mormoravagli alcune parole misteriose poi mandavalo giù dalla Roncaglia a perdifiato.
* * *
Magnifica fu la serata. Il sole tramontava dietro le montagne che sorgono di fianco a Lizzola e ancora la via, la piazza, i cortiletti erano pieni di gente che schiamazzava con grande contentezza. Le guardie nazionali sbandate di qua e di là discorrevano molto animatamente, gonfie di buon vino e di vanagloria, perocchè da un pezzo non facevano più quella figura. Quanto a Michel Magro, egli stava mostrando il cuoio, le corde, gli orli del tamburo ai giovani e volentieri si prestava a suonar sù qualche marcia. Ma di lui ridevano: e specialmente le donne se ne prendevano spasso vedendo la serietà che metteva nel suo offizio.
Maometto era il più ricercato. Mezzo in cimberli egli girava per il paese insieme con due amici, strascinando per terra il fodero dello squadrone, lanciando occhiate e facezie da tutte le parti con l'elmo su la nuca e la faccia sudata. Come se la godeva! era stata una bella trovata, per bacco, quella del signor cappellano! Si aveva avuto almeno l'occasione di scherzare un poco e di passare un'ora deliziosa. Ma che miseria d'Egitto! ma che guerra! ma che fame! ma che!… non c'era niente al mondo che pagasse una simile baldoria. Maometto fu quasi portato all'osteria. Là si giuocava a briscola; alcuni lo vollero compagno in una partita; si versò ancora da bere: egli accettò, giocò, cantò. Ma un gioco se è bello deve durar poco e anche questa volta la troppa allegria degenerò in un alterco.
Poichè, all'ombra presso la cappa del camino ove bollivano alcuni intingoli straordinari, Benvenuto beveva il suo boccale da uomo tranquillo e regolato. Mentre la cucina pareva tremare agli scoppî d'ilarità ed al frastuono di tutti quei monelli, il vecchio si alzò con malumore e venne ad osservar la partita.
Maometto perdeva. Ogni volta che i suoi avversari facevano qualche punto egli bestemmiava per abitudine.
—Sei una canaglia, tu—gridò ad uno di essi.—Tu mi rubi il boccale! non si fa così a giocare, ohe! stai attento che ti prendo il tre di picche.
Tutti ridevano. La sua gioia comunicavasi agli altri.
—Maometto è filosofo—diceva uno.
—Sa che si è giovani una volta sola—aggiungeva un secondo.
—Chi perde al giuoco….—susurrava un terzo. E gli amici a finir la frase in coro.
Benvenuto dal suo posto li guardò in faccia, freddo freddo, avendo inteso l'allusione.
—Ebbene, sì—proseguiva Maometto come se si trattasse d'una cosa naturale.—Faccio per un discorrere, che a dispetto di chiunque io condurrò a termine quello che devo. Ciò che mi piace mi piace e son padrone io. Ma che padri, ma che madri, ma che il diavolo se li porti!… ecco un bel mazzo: allegro, compare!… Che il diavolo se li porti via! o i capricci dei vecchi saranno un vangelo per noi e, se uno ha la testa dura, dovrò ungergliela col burro? Sono uscito di tutela da un pezzo. E nè i mustacchi lunghi, nè la barba bianca mi faranno tornare indietro. Ho ragione o no?
Benvenuto gli mise una mano su la schiena.
—A proposito—disse:—vogliam discorrere di qualche cosa. E non farmi il gradasso, vedi, perchè con un calcio io ti mando a Bondione e t'insegno a trattar con la gente…
Maometto si rizzò.
—Questo poi… ci spiegheremo un poco, vecchio barbogio.
—Spieghiamoci pure—aggiunse l'altro.—Io ti ripeto che non ho paura di nessuno.
—Che significa ciò?—mormorò Maometto. E i suoi occhi mandavano fiamme.
Michel Magro, seduto sul tamburo, da parte, bisbigliava:
—Ohe, ohe! che la vada a finir mica bene?
Ma in quella si aperse improvvisamente l'uscio di strada e una delle guardie si lanciò dentro gridando con voce soffocata:
—Maometto, Maometto, scappa! I carabinieri!… hanno saputo… son qui… ti metteranno in prigione! sai, la spada, l'elmo… non si poteva… scappa, ti dico!
Maometto, sbalordito, atterrito, non volle udire altro: diede quattro urtoni a destra e sinistra, corse alla porta del cortile e via, come il vento, come un'anima dannata, in mezzo ai portici, agli orti, alle siepi, alle piante.
* * *
—Anche questa! o che diavolo; anche questa mi doveva capitare!—brontolava. E giù, febbrilmente, sdrucciolando su l'erba umida, incespicando nei sassi, brancolando tra le siepi ed i muri. Sudava dal capo ai piedi e lo squadrone andandogli nelle gambe minacciava di farlo cadere a precipizio. Passò davanti la casa di suo cognato; era chiusa e non potè entrare. Chiamò leggiermente:—Giuseppe!
Ma Giuseppe dormiva il terzo sonno e non avrebbe udito nè anche un colpo di cannone. Come fare adunque? avanti ancora; qualcheduno lo aiuterebbe, per bacco.
E già, sgusciato alla svelta sotto i pini, era arrivato presso il vicolo che metteva alla propria casa, quando gli parve di scorgere due ombre nere, in piedi, a venti passi da sè.
—Son caduto in bocca al lupo?—pensò trattenendo il fiato, ansante, tremante dalla paura. E difatti le due ombre, d'accordo, si mossero all'improvviso contro di lui. Non istette certo ad attenderle, ma spiccò un altro salto e via nuovamente di galoppo, come se avesse il diavolo alle calcagna.
Ed aveva girato a destra la parte posteriore della chiesa picchiando una spallata contro lo spigolo del campanile, quando fu colpito da una luminosa idea e senz'altro scavalcò la siepe. Stavagli in faccia la casetta di Benvenuto, sbarrando quella finestruola a tre vetri da cui veniva fuori uno sbadiglio di luce rossa. Nel medesimo tempo egli si sentì stringere al braccio da qualcuno che lo attirava adagio adagio nel corridoio ed una voce femminile, carezzevole e turbata, gli mormorò all'orecchio:
—Ah! sapeva bene, Paolo, sapeva bene!
La cucina era buia e silenziosa; le porte chiuse e sicure; nell'aria fiutavasi quell'odore allegro di cenere spenta che sale dal focolare i giorni di festa.
—L'ho scappata per miracolo, sai, Caterina?—disse Maometto tranquillandosi a poco a poco e respirando.
Poi sedettero entrambi sopra il secondo gradino della scala di legno e chiacchierarono lungamente a bassa voce.
* * *
Assai tardi, verso mezzanotte, Benvenuto rincasò. Era alticcio e di buon umore. Fece scricchiolar sotto i passi incerti e pesanti il legno della scala, entrò in camera, accese il lume e si svestì per coricarsi. Sperava che Caterina non lo sentirebbe.
Ma ella, benchè mezza addormentata, lo sentì egualmente. Aperse un occhio, sollevò la testa sul guanciale e domandò come in sogno:
—E i carabinieri?
Benvenuto ammorzò il lume in quel momento. Non rispose, ma pensò tutto inquieto mentre la testa gli girava:
—O che ci sarebbero anche i carabinieri, adesso?
VIII.
L'orologio di papà Gedeone.
Dovete sapere che l'orologio di papà Gedeone era un orologio svizzero dell'età di cento venti anni circa, acquistato da lui a Dresda e inchiodato su la muraglia della sua bottega da quasi mezzo secolo.
Meraviglioso per un orologio! esso in tanti anni mai non aveva sofferto il minimo guasto, non aveva mai sbagliato di un attimo e non s'era mai dimenticato di suonar ciascun'ora puntualmente. Il suo quadrante bianco con un poco d'acqua fresca perdeva sùbito le macchie che le mosche vi avessero deposto; ed i suoi uscioli chiudevano così bene il meccanismo da non lasciarvi penetrare nè meno un atomo di polvere. Le sfere giravano tranquillamente da vecchie amiche di casa, pulite dalla spazzola di papà Gedeone ed unte dalla penna d'oca di Martuccia: il pendolo ondulava col suo sdegnoso tic tac, che papà Gedeone a furia d'abitudine sentiva nelle orecchie anche di notte mentre dormiva, e la rubiconda faccia di Guglielmo Tell dipinta sul dinanzi della cassa continuava a muovere, da destra a sinistra e da sinistra a destra, i suoi occhi neri che spaventavano i fanciulli del paese.
In paese, da Lorenzo il ferraio a compar Matteo il sindaco, tutti conoscevano l'orologio di papà Gedeone; ogni giorno anzi ne tessevano il panegirico almeno quattro o cinque volte e, quando non avevano da fare, or uno or l'altro si mettevano davanti ad esso con la faccia per aria, a bocca aperta ed in rispettoso mutismo, a fine di non disturbarne il lavoro.
La gente di campagna è molto appassionata per gli orologi di qualunque genere; quel movimento nascosto e continuo che segna il tempo con una esattezza a tutta prova è sempre oggetto degno di attenzione e riverenza; ci deve essere alcunchè di sovrannaturale che, invisibile, regola ed anima poche rotelle di stagno senza intervento d'opera umana: e sarebbe ingratitudine non riconoscere l'ingegno superiore di colui che ha saputo mettere insieme una macchina così bella ed intelligente.
Lorenzo ferraio era, dopo Gedeone, il più entusiasta per l'orologio magnifico; egli, che aveva l'incarico di custodir quello del campanile, veniva ogni mattina ed ogni sera a consultarlo su l'ora precisa e ben si può asserire che tutte le operazioni, i contratti, le partenze e financo le messe del paese, erano stabilite e quasi dominate dagli occhi di Guglielmo Tell.
Guglielmo Tell insuperbiva della propria onnipotenza; guardava ironicamente quei bietoloni che lo ossequiavano e salutavano in mille maniere, sorrideva sotto la barba rossastra ed il suo maggior divertimento era mostrare che per lui non finivano mai gli anni, i peli non incanutivano mai, non si chiudevano mai le pupille. Egli pareva dire: ecco, io son padrone di tutti quanti. Cenate quando voglio io: andate a letto quando voglio io: vi alzate quando voglio io. So far di meglio che abbattere le poma in capo ai fanciulletti. Prescrivo fior di leggi alle persone autorevoli del paese. Il cappellano fa suonar l'avemaria quando glielo dico io; il sindaco celebra i matrimoni quando glielo consento: il maestro apre la scuola quando lo avverto. Nulla si può fare senza consultarmi. Anche il sensale qui presso vende e compera le sue vacche dopo avermi chiesto consiglio. Poveri diavoli! il cappellano morirà, il sindaco sarà destituito, il maestro diventerà cieco e compare Folco perderà i suoi marsupî. Boba da riderne. Io sono eterno, sfido la sorte, seguiterò a spadroneggiare ad un altro sindaco, ad un altro cappellano, ad un'altra generazione di uomini e di donne.
Al mondo nessuno potrebbe vantarsi d'altrettanto. Ed una persona che non dorme, che non mangia, che non si ammala, che non invecchia e che insomma è immortale ha ben diritto a qualche deferenza per parte de' suoi simili.
* * *
Fu Tata il primo che, una sera, si permise una ingiuria inperdonabile contro l'orologio di suo zio. Papà Gedeone al deschetto batteva il cuoio per un par di suole, diritto sopra lo sgabello imbottito, con gli occhiali sul naso ed i grossi baffi grigi da vecchio militare pioventi verso le labbra. Narrava per la centesima volta la storia della propria giovanezza, collegata naturalmente con la storia dell'orologio. Parlando, la sua voce di mano in mano intenerivasi ognora più e gli occhi brillavano come braci.
Lorenzo ferraio, Toniello, Tata e Martuccia ascoltavano in silenzio alla lucerna: Martuccia soffiava il naso ad ogni tratto, Lorenzo ferraio e Toniello giocherellavano coi piccoli strumenti da lavoro e Tata, molto burbero, picchiava gli scarponi per terra.
Oh! quell'orologio ne aveva pur visto di belle! Da solo aveva girato il mondo più che tutti i presenti insieme. Nella genealogia de' suoi possessori papà Gedeone sapeva essere stato un russo, un danese, un maresciallo di Francia ed un sàssone. Il russo avevalo comperato per quattro rubli dal fabbricatore di Ginevra; poscia, portatolo a Nininovogorod, era stato costretto cederlo al danese. Costui, che si trovava allora nell'esercito di Napoleone, voleva mandarlo in regalo alla propria amante: ma la famosa ritirata gli tolse l'esistenza ed il pendolo passò nelle mani d'un suo compagno, attendente presso il maresciallo. Quel maresciallo, perdutosi con le proprie divisioni in mezzo alla neve, senza un villaggio ove riposarsi, nè un'osteria per rifocillarsi, nè un'almanacco su cui misurare il tempo, appendeva ogni notte l'orologio entro la tenda e fu in questo modo che si potè conoscere la durata del viaggio oltre il numero dei militari morti di freddo o di fame. Tutte le volte che Guglielmo Tell moveva gli occhi era una vittima nuova caduta nel terribile deserto.
Lorenzo ferraio rabbrividiva.
—Oh! non è qui tutto—ripigliò allora papà Gedeone cessando di battere il cuoio.—Una mattina il maresciallo abbandonato da' suoi dragoni fu raggiunto da un'orda intera di cosacchi i quali me lo tagliarono a pezzi. L'orologio, ch'era legato ad un gancio della tenda, nella mischia precipitò sul terreno; i miserabili non lo videro e, quando un altro corpo dell'esercito passò per quelle contrade, trovando il pendolo e guardando che ore segnavano le sfere, si potè indovinar senza fatica il momento preciso dell'assassinio. Poichè il meccanismo, nel percuotere contro il suolo, si era fermato. Così la vedova del maresciallo ogni giorno, finchè visse, e visse a lungo, in quello stesso momento andò a pregare per l'anima dell'infelice.
Gli altri fingevano strabiliare.
—Guardate un po' se par naturale una simile cosa? chi lo imaginerebbe? un orologio così bravo ed istruito? che fa l'officio d'un indicatore? che serve alla pietà d'una vedova, alla religione d'una donna onorata?
Toniello non riusciva a capacitarsene.
—E quando penso—proseguì papà Gedeone—quando penso che mio padre vedendomi arrivare, dopo quasi undici anni di lontananza, con l'orologio sotto le ascelle, mi gridò sùbito: cosa diavolo porti? Bel complimento, corpo di una saetta. Era questa la maniera di riceverci? Ma è inutile; i vecchi non vogliono saperne di novità, nè di cose buone e preziose.
Tata a questo punto non si contenne più. La storia della vedova non gli piaceva.
—Oh! andate là, zio. Una grande trappola che è il vostro orologio!
Papà Gedeone lo guardò furibondo. Gli diede proprio dell'ignorante, disse che i giovani della giornata non se ne intendono di nulla eppure sono presuntuosi all'eccesso, minacciò di mandarlo via e lo chiamò: razza di cane.
Tata divenne pallidissimo.
—Razza di cane a me! a me! perchè avete viaggiato un po' con lo zaino in ispalla! perchè siete stato fantaccino undici anni! ah! giuraddio!
Insomma la voleva finir male. E, se Martuccia spaventatissima non avesse guardato suo cugino con occhi supplichevoli riuscendo a calmarlo, qualcosa di brutto succedeva davvero.
* * *
Ma l'orologio di papà Gedeone, se non ve l'ho detto, era anche munito d'una sveglia; bastava collocar la sfera più corta sopra l'ora che si voleva; tiravasi il peso di piombo fin sotto la cassa e, quando scoccava l'ora segnata, questo, perso l'equilibrio, scendeva in giù quanto era lunga la funicella facendo suonar la batteria. Il piccolo martelletto allora con un tremito convulso ed uniforme percuoteva energicamente il campanello di bronzo, fatto a foggia di fungo e collocato dietro la testa di Guglielmo Tell: era una musica fortissima, che stordiva e lasciava per un pezzo il tintinnìo entro le orecchie. Bisognava scoppiar dalle risa, tanto quella cosa era buffa.
Martuccia stessa aveva l'incarico, ogni sera prima di coricarsi, di mettere la sferetta su le sei ore; all'alba papà Gedeone veniva destato infallibilmente dalla sonora scampanellata e, quand'era in vena, saltando con fretta dalle coltri mentre continuava il fracasso, esclamava:
—Oh! Guglielmo Tell! taci dunque! blaterone! le femminette non hanno certo la parlantina che hai tu. Se ti sente Don Rocco, chi sa che predica, quando vai a confessarti!
E, dacchè la sveglia era stata aggiunta all'orologio, la soneria non aveva mai anticipato nè posticipato di un secondo il proprio avviso mattutino; onde nè il vecchio nè sua figlia si erano mai alzàti un secondo prima o dopo le sei ore, sia d'inverno che d'estate.
Ma adesso vi dirò in che modo quella briccona di Martuccia, con la sua grazia di fanciulletta ed il suo fare di monachella, si vendicò delle brutte parole che papà Gedeone aveva detto a Tata, il cugino allegro ed interessante.
* * *
Un dopopranzo di novembre papà Gedeone era uscito un momento a pigliare il suo tabacco lasciando sola in bottega Martuccia: faceva scuro molto, cadeva una fittissima nebbia e, siccome egli non aveva preso il mantello, ritornò sùbito a casa strascicando le ciabatte.
Aperto l'uscio improvvisamente fece scappar sua figlia che era in piedi sopra una seggiola dinanzi al pendolo. Egli non se ne accorse nè pure, accese la lucernetta e, fumando tranquillamente, si accomodò al desco mentre Martuccia preparavasi a pulir le stoviglie.
Ben tosto arrivarono Tata e Nanno vaccaro, fratello di Lorenzo ferraio, il quale portava un par di scarponi da mettere all'ordine. Venne anche Toniello e la conversazione tra i quattro uomini si fece più viva che mai.
Papà Gedeone rammentò loro i propri viaggi, le manovre che aveva fatto in Germania e la rivista che aveva subìto davanti all'imperatore d'Austria col re di Sassonia. Erano in ottantamila sotto le armi, quella volta, e per la vecchia città di Dresda non si udivano che rulli di tamburi e squilli di tromba.
—Oh! i bei tempi! e che buona birra!—mormorava papà Gedeone.—Per mezza zvanzica se ne aveva due boccali ed inoltre ogni mattina i furieri distribuivano un'oncia di tabacco a ciascun uomo. Nel giorno della rassegna mi diedero due zvanziche. Affrattellàti insieme, ungaresi, boemi, danesi, tirolesi, croati, veneti e lombardi, percorrevamo le vie cantando come pazzi: e ci lasciavano cantare. Fu un giorno fortunato. Vidi allora per la prima volta il mio pendolo in una bottega d'orologiaio e per ben tre anni lo vagheggiai attraverso la vetrina senza poterlo acquistare. Finalmente ottenni il mio congedo: aveva quattro fiorini disponibili; entrai dall'orologiaio: quanto volete?—Zwei gulden.—Hier sind sie. Geben Sie mir die Uhr.—E partii trionfalmente col mio tesoro sotto il braccio, dopo averne udita la storia per filo e per segno dal venditore. Egli me lo aveva garantito fin da quel giorno, il buon tedescaccio, e non mi ingannò, sangue di mia nonna. Gli italiani invece sono impostori e ladri. Bisogna averli conosciuti quei croati per poterli giudicare come si deve. Erano duri; ma non mentivano mai, ma non rubavano mai i denari a nessuno e non credo che in tutta la terra, non faccio per vantarmi, ci sia un orologio compagno del mio.
Papà Gedeone voleva proseguire il suo elogio dell'onestà croata, quando le parole gli furono interrotte in bocca da un subitaneo oscillamento negli ingranaggi del pendolo; tutti alzarono gli occhi e nel silenzio della bottega vibrò, lungo, straziante, interminabile, il segnale della sveglia. Il cilindro di piombo s'abbassava a poco a poco tremando nell'aria come in preda ad un brutto male ed il martelletto picchiava barbaramente il bronzo a foggia di fungo. Le orecchie ne erano intronate e il sangue si gelò sul cuore di papà Gedeone.
Finalmente il peso, avendo percorso tutto lo spazio concesso dalla funicella, s'arrestò presso la parete palpitando ancora per la paura presa; negli ingranaggi accadde come uno scombussolamento generale e il martelletto si fermò interrogando il vuoto: anche il pendolo cessò di ondulare e gli occhi di Guglielmo Tell rimasero immobili di colpo, sbarràti, curiosi, senza saperne il perchè.
Nanno vaccaro corse a chiamar suo fratello ferraio e Toniello accompagnò Gedeone presso l'orologio tenendogli alta la lucerna: non c'era che dire, bisognava che ci fosse qualche guasto, l'orologio era forse rovinato.
Ed intanto, nell'ombra che facevano i due uomini, Tata e Martuccia frementi e raggianti di gioia si baciarono due o tre volte su la bocca.
Poi Tata venne anch'egli presso suo zio e con aria compassionevole disse:
—Vedete, zio, se non è una trappola?
Martuccia sorrideva. Quanto a papà Gedeone era proprio sconsolato.
IX.
Don Bonomo è senza cena.
Dopo sei mesi che Bonomo dei Pollinetti era partito pe 'l seminario, già reduce da Bergamo aveva assunto la propria carica di cappellano ad Anona. Il vescovo, sapendo che in giovanezza Bonomo era stato ad un pelo di farsi prete, appena gli dissero ch'egli aveva perso la moglie lo fece chiamare e s'adoperò tanto che lo persuase a dedicarsi al sacro ministero della religione. Si mancava di preti, in quelle montagne, e il papa permetteva un mezzo straordinario per ottenerne, reclutando alla meglio chiunque avesse o avesse avuto una preparazione elementarissima. Bonomo veramente aspettò un poco prima di risolversi al grande passo: non vi si era così facilmente risolto a diciott'anni, dunque con maggior ragione doveva andar cauto a quarantaquattro. Ma ciò che lo decise proprio all'ultima ora fu l'accorgersi che insomma Petronilla non si voleva maritare e non aveva nessuna simpatia per lui: il povero uomo la scongiurò cento volte, alla sua maniera, cercando persino sedurla con regali e proferte di quattrini; e, visto finalmente ch'ella era inflessibile, una bella notte formò il suo piano di guerra.
All'alba, quando scese in cucina, Petronilla, con un grande fazzoletto rosso annodato su la nuca, faceva bollire un po' d'acqua nella pentola.
—Petronilla—disse Bonomo:—oggi tu sei libera.
Petronilla non mosse palpebra; solo crollò impercettibilmente le spalle.
—Io vado in seminario—soggiunse il padrone.
—Vi fate prete?—mormorò ella alzando gli occhi celesti.
—Prete, sì.
Ella non credeva.
—Oh! vedrai!—proruppe Bonomo con la gola arsa dall'affanno. E stette ad aspettare.
Petronilla tolse la pentola dalla catena, versò l'acqua in una catinella di rame e poi, mettendosi le mani sul fianco, esclamò:
—Spero bene che mi darete quello che mi spetta?—E a mezzogiorno uscì di casa con un grosso involto dopo aver salutato la mucca bianca e baciato le belle capre allevate da lei. Bonomo era triste e si chiuse in camera a piangere davanti agli abiti della sua defunta Pepa.
* * *
Il presbiterio quando vi entrò don Bonomo dei Pollinetti era in isfacelo. Sgretolavansi le muraglie, sfasciavansi gli stipiti ed i soffitti cadevano in rovina. Il predecessore l'aveva lasciato in quel modo fuggendo per la disperazione;—ma esso presentava per don Bonomo, a malgrado di tutto, le comodità d'una curia. Egli se ne impossessò beatamente con la compunzione indispensabile per la circostanza; fece trasportare i suoi rustici mobili e li collocò lungo le pareti: non osò cambiar di posto nè meno ad un travicello e lasciò che presso le finestre i ragni tessessero le proprie tele. Solamente, perchè le pareti erano troppo sudicie, si piegò dopo lunghi battibecchi col sagrestano a dar loro una tinta verde, seminata di fiorellini azzurri. Nei cantucci umidi si respirava lo stesso odore di antichità e di muffa; ed ogni mattina Moschetto, scopando le camere, trovava su la tavola uno strato di pulviscolo rosso.
Ma don Bonomo era felice. Serrò in un armadio gli abiti della povera Pepa, li cosparse di tabacco perchè gli insetti non li guastassero, comperò una piccola Madonna di gesso e, col cuore sanguinante, aiutò in persona Moschetto a portare nella sua stanzuccia uno dei letti che facevano parte del letto matrimoniale. Ahi! gli ultimi ricordi di quel tempo andato e di quelle gioie terminate erano così per sempre sepolti.
Don Bonomo si rassegnò. Una volta per settimana continuò le proprie visite al camposanto su la fossa di Pepa, disse alla povera donna una quantità di messe funebri e, fatta fabbricare da Zancastro una croce di legno, vi pose egli medesimo questa epigrafe:
HIC . IACET . . PEPA . POLLINETTI . IE . . SUS . PER . ANIMAM . SUAM . AMEN.
Intanto alla mattina si alzava alla solita ora per leggere il breviario: andava a trovare le capre verso mezzodì, a merenda faceva una passeggiata e all'avemaria mangiava la cena preparata da Moschetto. Le campane suonavano a distesa entrambe sopra il suo capo: ed egli, seduto a tavola, beveva malinconicamente il freddo vinello di Salò mormorando a voce bassa:
—Oh! Pepa! chi l'avrebbe detto? Eccomi cappellano. Se tu potessi ritornare!
* * *
Fu dopo un anno di questa solitudine che, improvvisamente, Don Bonomo ebbe un incontro poco gradevole. Un pomeriggio, uscendo per la passeggiata, s'imbattè a faccia a faccia con Petronilla.
Sempre bianca e paffuta ella sedeva a piedi scalzi sul margine d'un sentiero, lasciando che le pecore brucassero l'erba tra le pietra del monte.
—Vi saluto, Bonomo—ella disse con un sorriso confidenziale e leggiermente ironico.
Don Bonomo, e ne fu tutto addolorato, sentì tremarsi le ginocchia.
—E che!—soggiunse.—Tu sei ancora ad Anona? Già ti credeva partita. Che fai qui? A quanto sembra stai bene. Come è che non ti vedo mai?
Petronilla con falsa timidezza abbassò gli occhi.
—Oh! caro il mio Bonomo, non mi posso rallegrare della sorte. Ho trovato un posto da papà Merlo e prendo tre franchi al mese, ma nè pure una mancia.
Il discorso languiva. Entrambi erano imbarazzàti. Finalmente Don Bonomo, fissandola in faccia con aria di schietto rimprovero, mormorò:
—E in chiesa non vieni mai? Tu trascuri la tua anima, Petronilla.
Petronilla picchiando per terra il bastone rispose:
—Giust'appunto: questa sera aveva fissato di venire da voi, in casa vostra.
Don Bonomo, senz'aggiungere verbo, si allontanò con la testa sconvolta e il sangue in fiamme.
—Che volete da cena, Don Bonomo?—domandò Moschetto quando lo vide comparire.
Ma Don Bonomo, taciturno, infilò un uscio dopo l'altro e andò a rincantucciarsi nel salotto nuovo.
Che sarebbe venuta a fare Petronilla? in sua casa? di sera? dopo tanti mesi che non si parlavano più? ma perchè mai gli aveva detto ch'era poco lieta della propria condizione, lasciandogli intendere che desiderava cambiarla?
Il povero prete, inquietissimo, fece venti volte il giro della camera a grandi passi. Con le palme dietro il dorso e la testa curva sul petto, egli tradiva, nel guardo, nel portamento, nel gesto, una insolita apprensione. O che Petronilla calcolasse di ritornare al presbiterio? e se ciò accadesse? la miseria, il bisogno l'avevano dunque piegata? ora che non si potrebbe più concludere nulla? Sedette; lesse e rilesse il brevario; tentò distrarsi; uscì nel piccolo orto e lo mise in iscompiglio: poi siccome la sera s'avvicinava passò in chiesa, l'attraversò lentamente, si diresse al coro e vi s'inginocchiò al suolo in atto desolatissimo. Una luce pallida di vespro nuvoloso pioveva dai vetri del finestrone; nella penombra gli stalli ergevano le braccia nere, tarlate e unte d'olio; in fondo, presso il campanile, una donna scopava il pavimento. Don Bonomo aperse un libro di preghiere e pensò.
Quella sciagurata non rifletteva mica ai pericoli in cui lo porrebbe? ed alle ciarle del paese non si doveva proprio avere un riguardo? ed egli conserverebbe sempre, con l'aiuto del Signore, la forza d'animo necessaria a vincere ogni tentazione? In seminario, più che su tutto il resto, avevano insistito sul bisogno di premunirsi contro le seduzioni della terra; ma per quale fanciullesca leggierezza colei verrebbe a disturbarlo, a metterlo su l'orlo dell'abisso, insomma a renderlo infelice? Vedersela davanti ogni giorno! così bella, così giovane, così cara! dopo averla amata! dopo averle proposto un matrimonio!
—Pepa—gemeva Don Bonomo con la fronte tra le palme:—Pepa, se è vero che la mia pace sta per essere distrutta, intercede pro me, libera me a malo!
* * *
Cadde la sera nè Don Bonomo si moveva dalla sua posizione. Ad un tratto comparve il sagrestano e a voce forte, quasi impaziente, lo avverti ch'egli era atteso nel plebisterio. Il prete si alzò scosso a quelle parole che rimbombavano come squilli nel coro e si ritirò a testa bassa, con un acre odore d'incenso nella veste. Dalla cucina invece arrivava un buon profumo di tordi allo spiedo; e Don Bonomo si consolò riflettendo che Moschetto era diventato un bravo figliuolo.
In sala Petronilla aspettava sul canapè comperato a Clusone pochi giorni prima. Ella portava il suo vecchio abito di lana azzurra, non aveva scarpe e teneva intorno alla schiena, cadente con civetteria, uno scialle frusto ereditato dalla povera Pepa. I suoi occhioni celesti luccicavano da quel cantuccio e le sue mani si nascondevano sotto il grembiale.
—Addio Petronilla—disse Don Bonomo quando la scorse;—la giovanetta senza nè meno alzarsi ripetè:
—Addio, Bonomo.
Ella non poteva perdere le antiche abitudini e, nella sua ignoranza, le riusciva impossibile chiamare il cappellano in altra maniera.
Ma Don Bonomo, tremando un poco dall'emozione, ruppe il ghiaccio per il primo.
—E dunque?
Mille domande si racchiudevano in quest'unica domanda. Il povero diavolo sentivasi venir freddo e dovette appoggiarsi alla tavola per non cadere indietro. Il momento era solenne. Un'imprudenza sarebbe pur bastata a rovinarlo: e nel suo cuore di vedovo, nel suo mondano cuore non sufficientemente preparato al sacrifizio, tumultuavano le memorie degli anni trascorsi, della famiglia antica, degli antichi affetti. Levò di tasca la grande pezzuola a scacchi e si asciugò la fronte calva. Ma, siccome la fanciulla guardandolo sfacciatamente sembrava lieta di prolungar la sua penosa agonia, egli si avvicinò al divano, sedette adagio adagio, le prese con calore la mano e ripetè le tre parole:
—E dunque, Petronilla?
Petronilla svincolò sùbito la propria destra. Era calma e seria.
—Dunque—rispose,—-prendo marito.
Don Bonomo non respirava più.
Nello stesso tempo su la porta presentossi Moschetto recando seco dalla cucina un'altra ondata di odore; egli, pallido come un morto, stava alla soglia con un paiuolo nella destra ed una pentola nella sinistra. La fanciulla, senza muovere labbro, lo segnò a dito. La mimica era espressiva.
Don Bonomo abbassò la fronte, permise che parlassero tutti e due insieme, concesse quello che vollero e si sbarazzò di Petronilla dopo aver combinato con lei che le nozze avrebbero luogo tra un mese al più tardi. Egli stesso diede parola che pe'l giorno del matrimonio consegnerebbe a Moschetto sei franchi ed a lei un abito completo della povera Pepa. Era tutto quanto potesse fare.
Petronilla quindi, piena di gioia, partì sbattendo gli usci e saltellando in modo che le sue vesti alzarono nuvole di polvere; Moschetto rimase con la bocca aperta al medesimo posto e Don Bonomo, affievolito, stanco, di pessimo umore, sarebbe scoppiato in lagrime.
Suonò l'avemaria; le campane rimbombavano entro il loro castello e il plesbiterio ne tremava.
—Orvia, spero che mi porterai da cena—mormorò il cappellano a Moschetto.
Ma i tordi, dimenticati in cucina, avevano côlto l'occasione per volar via; qualche gatto affamato li aveva forse messi in salvo e Don Bonomo dovè accontentarsi di mangiar la polenta sola. Egli si accomodò a tavola con gli occhi chiusi, da persona rassegnata, e fattosi il segno della croce esclamò più volte:
—Sia rispettata la volontà del cielo!
X.
Papà Gedeone ha ceduto.
Raccontai già altrove che papà Gedeone, per causa del suo orologio a sveglia, ebbe forti dispiaceri col nipote e che poi questi se ne vendicò.
Ma la mia imprudenza costò cara al povero Tata ed a Martuccia i quali, così, videro svelato il proprio affetto a mezzo mondo e, quel che è peggio, anche a papà Gedeone.
Una sera, mentre io leggeva il giornale su la porta di casa, ecco arrivar Tata furibondo con un randellaccio in mano.
—Abbiamo un conto da accomodare—mi disse. E poichè, essendo alquanto distratto, non mi raccapezzava, egli soggiunse:
—Quell'affare dell'orologio. Sa benissimo. E il bacio e papà Gedeone e io e tutti. Perchè mi ha compromesso inventando un'assurdità simile? Non mi sono mai sognato di baciarla, io. Ma intanto lo zio Gedeone, che non mi crede, ha giurato di farcela pagare. È fuori dei gangheri; e, bisogna dirla, non ha torto. Se io avessi una figlia e leggessi nei giornali certe cose, farei altrettanto. Sì, già. E quella poverina? quanto ha sofferto! è diventata magra e gialla. Un così bel colore, che aveva prima! Pare un'altra donna. Per me non è un gusto. Sono stato in Piemonte a lavorare. Portai a casa ventitre marenghi e mezzo: vado subito dallo zio e mi scaccia. Bella cosa! e ci vogliamo tanto bene con quella benedetta…
Io, a dir la verità, provava un certo rimorso. Cercai di rabbonire il mio avversario.
—Tutto non è perduto—gli dissi.
—Tutto, tutto, signore.
—Una speranza c'è sempre.
—Per me no.
—Eh! via! Scommettiamo? Se ho fatto il male, farò anche l'ammenda. Ci rimedierò io.
—Che rimediarci! nè anche il papa…
—Zitto—mormorai.—Venite in casa. Lasciate stare il papa… si parla di conciliazione e se mai…
Fatto è che lo indussi ad entrare, parlammo a lungo discutendo vari disegni e, dopo un'ora circa, egli si allontanò facendomi tanto di cappello.
—So che le piacciono le cose antiche—mi disse.—Le porterò una moneta che trovai in Piemonte. È tutta verde per la muffa e rôsa dell'umidità. La vuole? dev'essere di Pio nono.
—Volentieri—gridai con riconoscenza sorridendo.
Ed ora eccovi cosa avevamo combinato.
* * *
Papà Gedeone si era fatto assai taciturno. Curva la testa sopra il desco lavorava da mattina a sera pazientemente, con un cencio di berretto su la fronte e gli occhiali infilati a metà del naso. Per evitar di servirsi della sua figlia e di rivolgerle qualche parola, aveva anzi preso, a venti soldi la settimana, un fanciulletto del paese che tirava gli spaghi, picchiava il cuoio, levava le forme, cavava l'acqua e tagliava le legna. La povera Martuccia erane desolatissima. Costretta a rimaner lungamente con le mani sotto il grembiale, provava una malinconia indicibile ed i suoi guardi andavano fuori della piccola finestra, ben turata alle fessure con carta greggia e piombo fuso. Non le era più concesso uscir di casa. Quando sporgeva la testa dall'uscio per qualche necessità, suo padre rabbuiava la faccia e si tirava i baffi grigi. Tutti in paese erano spettatori di questa disarmonia domestica e se ne facevano commenti in ogni discorso. Il solo che venisse a portare un momento di allegrezza era Lorenzo, ferraio che aveva sempre qualche suola da farsi accomodare o qualche ferro da chiedere. Egli inoltre doveva di frequente regolar l'orologio del campanile che, per i freddi eccessivi di quell'invernata, si era guasto e oggi correva disperatamente, domani si fermava all'improvviso con grave disturbo per gli affari. Perocchè la sveglia di papà Gedeone, malgrado gli avvenimenti di cui era stata complice, continuava ad essere un oggetto preziosissimo nel paese e, in tante settimane, non aveva sbagliato più nè anche di un minuto. Basta dire, come papà Gedeone, che essa era di Germania.
I colloquî, anzi, i monologhi di Lorenzo non cambiavano mai.
—Papà Gedeone, son qui a rompervi le scatole per un poco di filo;—oppure: per un dito di cuoio;—oppure: per un chiodino da mettere alle ciabatte. E così? che ora facciamo? oggi siam giusti: la differenza è solo di sette minuti. Però, unsi d'olio le ruote piccole del congegno. In un luogo mancava una laminetta d'ottone; foggiai la maniglia d'un uscio e ve la posi. Niente di nuovo? Ho visto il vostro garzone che andava dal fornaio. Sapete che è un gran bighellonaccio? correva dietro alle oche, dico, in mezzo alla via, e poneva loro le bricciole su la coda. Mi son permesso di dargli uno scappellotto. Già. Ha la pelle dura. Sicchè dunque vi hanno raccontato? al sindaco è morto il bracco. È stato morsicato da una bestia forestiera e si è dovuto attossicarlo. Una morte orribile. Io l'ho visto dalla inferriata; aveva la bava alla bocca e si contorceva come un cane. Non potevano attendere? si è sempre in tempo ad ammazzare. Ma voi siete stato anche in guerra ed avete visto di ben altre cose, non è così?
Papà Gedeone allora cominciava a rianimarsi nelle memorie del passato e le sue disquisizioni concludevano sempre con un rabbuffo al presente.
—L'Italia? la libertà? dove è questa Italia? bella roba che ci han dato. La miseria, e tutti i vizî, e le birbanterie, e le stupidaggini. Non si può più bere un bicchiere di vino; falsificato anche il vino. I croati erano rozzi ma ci davano da bere. E il tabacco? altro che i virginia, i sella, i che so io. L'ho a morte con questi italiani del diavolo. Dico dunque che la va male. Non si lavora più. C'è tanti che si fanno concorrenza. La roba è cara e noi non ci pàgano mica. Guardate: sui registri ho per duecento e più lire di credito. Denari buttàti via. Ho paura che morirò senza rivederli. Basta, finiamola. È meglio farci una croce su la lingua. Qualche giorno la succederà grossa.
E Lorenzo, strizzando l'occhio a Martuccia, guardava in alto un certo quadro bislungo, entro la sua cornice greggia, semi coperto da ragnateli e voltato con la faccia verso il muro. Il ritratto di Garibaldi.
* * *
Martuccia sedeva alla tavola di noce, nella parte posteriore della bottega. Cadeva la sera; sul focolare si udiva un allegro bollir di pentola.
—Papà!—ella disse con voce tremolante. E le sue dita sfogliarono le pagine d'un librone che le stava dinanzi tutto stellato di sgorbi neri e traversato da lunghe striscie d'inchiostro. Gedeone, al deschetto, aveva deposto una scarpaccia e coi gomiti su le ginocchia meditava in silenzio.
—Papà; sono due settimane che non prendiamo un soldo. E dieci giorni fa hai dato trentasette franchi in prestito al pizzicagnolo. Se non tieni denari di sopra, in qualche canterano…
—Non ho niente—rispose asciutto asciutto il vecchio.
—Vedi però: se mi lasciavi andare al filatoio…
—Mai.
—Sarebbero stati pochi, ma nelle nostre condizioni…
—Mai, dico.
—Che anno disgraziato!—soggiunse la povera fanciulla con atto dolente. E levatasi dalla tavola andò a riattizzare il fuoco. Papà Gedeone intanto, avendo preso il posto di lei, cominciò a scartabellar quel registro, togliendone interi fogli, numerando le somme lunghe da cime a fondo. Ma non trovò nulla di buono e, tratto tratto, i suoi sospiri nella penombra del crepuscolo risonavano come soffî di mantice. Non era un bel momento, vero? ed ecco all'improvviso spalancarsi la porta. Entrò Lorenzo ferraio accompagnato da un altro che aveva il mantello su gli occhi: la sorpresa di papà Gedeone apparve grandissima, ma fu più grande ancora quella di Martuccia.
—Papà Gedeone—proruppe Lorenzo:—volete guadagnar trenta franchi? ecco uno che desidera un paio di stivali.
—Per chi, poi?—chiese il vecchio.
—Per chi ha le gambe. Volete o non volete?
—Si fa il nostro mestiere, diamine.
—Sicchè dunque prendetegli la misura.
L'uomo dal mantello si accomodò su la seggiola di papà Gedeone e ne fece crepitare il cuoio imbottito.
—Di che pelle?—disse papà Gedeone andando a prendere una lista di carta ripiegata.—E quante suole? una o due? ed a che uso dovranno servire? bisogna saperlo prima.
Lorenzo diede le risposte che occorrevano.
—Pelle fina. Non guardate a spesa. Due suole, a punta in rilievo. Per un camminatore le scarpe devono essere leggiere. Fatele dunque molto leggiere. E niente aristocrazia, niente economia. Un largo gambale che caschi su le caviglie in pieghe uniformi; un collo del piede alto e comodo, punta piatta e forte sì che all'occasione possa usarsi in certi esercizî.
E papà Gedeone si curvò in ginocchio per terra, tolse al cliente la scarpa destra, appoggiò la gamba di lui sopra una delle sue coscie, indi, calcàti gli occhiali al loro posto, si mise a palpare in tutti i sensi quel povero piede, a misurarlo di sopra, a misurarlo di sotto, a segnar di brevi tagli la carta che aveva tra le dita, a brontolar misteriosi discorsi, assorto completamente nelle funzioni della propria arte.
Quand'ebbe terminato lasciò andare il piede, si rizzò di nuovo e corse a trascrivere l'ordinazione in apposito registro.
—Ecco fatto—mormorò.
—E il costo?—chiese Lorenzo.
—Vedremo dopo.
—Vi raccomando una punta larga—alla sua volta disse l'uomo ammantellato.—Soffro molto in questa parte. E non voglio chiodi alle suole. E nè meno voglio rinforzi al calcagno. Guai se mi viene a dolere il calcagno!
—Lasciate fare, lasciate fare, lasciate fare!—ripeteva papà Gedeone accendendo la piccola lucerna.
E dopo che i due furono usciti, rivoltosi a Martuccia:
—Glieli faccio perchè ho bisogno di soldi, veh! ma poscia lo metto ancora alla porta, quell'asino.
* * *
Passarono quindici giorni. Tata (poichè era egli) ritornò a prendere gli stivali.
—E così? fatti?
—Fatti.
—Si può provarli?
—Eccoli.
—Belli. Bravo. Mi piacciono. Quale è il destro? ah! ho capito. Benissimo. Datemi una sedia. Così. Tentiamo. Uno, due… La scarpa è fuori. Li avete anche lucidàti? a meraviglia. Il gambale è molto comodo. Perfettamente. Uno, due… ancora un poco… è su!
Tata, avendo messo lo stivale destro, diede un colpo a terra per meglio adagiarvi il piede e fece qualche passo nella bottega. Ma ben presto cominciò a far di quelle smorfie, di quei visacci, di quelle bocche!
—Ahi! ahi!—gemeva il povero diavolo zoppicando.—Impossibile! Avete fatto la punta troppo stretta. Ci voleva un centimetro più comoda. Son rovinato.
Papà Gedeone cercò di gridare.
—Ma se ho misurato, ma se ho fatto largo come il campanile! ma se ho tagliato giù un piede buono per san Cristoforo!
—Insomma non si può. Io non voglio guastarmi il piede. Quand'è guastato è guastato.
—Trentacinque franchi alla malora!—gemette papà Gedeone buttando gli stivali sotto la tavola.—Bei guadagni che faccio. Ma non importa. Succeda quel che vuole succedere. Te ne preparerò un altro paio. Torna giovedì prossimo. Fuori, fuori. Chiudo la bottega.
Tata dovette andarsene.
—Contento voi, contento tutti—esclamò mentre usciva in istrada.
E al giovedì seguente fu puntuale. Sul deschetto lo aspettava un secondo paio di stivali, più belli dei primi, a cui il vecchio, aiutato dal garzoncello, dava l'ultima spalmata di grasso.
—Fatti?
—Sono qui.
—Mi rincresce, sapete…
—Colpa mia.
—Proviamo?
—Proviamo pure.
E si posero all'opera. Dopo cinque minuti il giovane rinnovò i suoi esperimenti attraverso la camera. Ma l'esito fu eguale.
—Oh! Dio! oh! che bruciore! l'ho detto io! ho adosso il malocchio. Stavolta sono i chiodi alla suola. E la gamba? che vi è venuto in mente, zio? troppo sottile, troppo esile! è buona per uno struzzo e non per me che devo fare trenta chilometri al giorno!
—Ma se di chiodi non ce ne ho messi!
—Ecco, già. Vedete? sono chiodi. E non si possono togliere. Hanno la testa in giù. Il cuoio è sollevato. Resterà sempre una montagnetta al loro posto. Poi c'è la gamba. Come allargarla? sfido io. Quando si è disgraziati!
Papà Gedeone diede un grande calcio anche a quel secondo paio di stivali e chiuse la bottega.
—Torna lunedì l'altro. Ci porrò tutto l'impegno. E se il diavolo non ci ficca le corna…
—Oh! zio! lasciate lì!
—Silenzio. So il mio dovere.
E serrate le imposte afferrò il garzoncello per un orecchio.
—Tu hai messo quei chiodi, mariolo. Ti manderò via, brutto ceffo.
Poscia, picchiatolo a suon di tamburo, salì per coricarsi.
Martuccia vide il fanciullo che piangeva, gli si avvicinò e gli offerse una scodella di latte caldo.
* * *
È inutile insistere molto: fatto è che Tata, il lunedì indicato, venne alla bottega, calzò gli stivali, fece mezzo giro per la contrada e ricomparve rosso come bragia, bestemmiando senza ritegno. Questa volta era il tallone che tormentavalo: in fondo agli stivali, proprio dove si fanno le pieghe, era cucita una pezza di cuoio dura e nodosa.
Papà Gedeone diventò di tutti i colori. Via; anche un santo avrebbe rinnegato la pazienza. E non era per quel centinaio di franchi sprecàti che più si rammaricava; era per l'onore della sua arte irremissibilmente perduto: era per le ciarle che se ne facevano in paese, per i sardonici sorrisetti che gli pareva di scorgere su la faccia di qualunque mascalzone, per gli scherni di cui lo si rendeva oggetto ad ogni mosca che volasse. Tutte le occasioni si prestavano per burlarlo. Egli era la vittima degli amici, i quali durante una quindicina di giorni lo importunarono per diritto e per traverso con mille allusioni, con mille beffe, con mille ironie. Bisogna essere vissuti un po' di tempo in un villaggio ozioso ed ignorante per intendere fino a qual grado possano arrivare certi pettegolezzi campagnoli.
Il povero uomo alla fine, trovandosi così bersagliato, perdette la testa e un bel giorno confidò a Martuccia che gli pareva di essere uno scemo.
Quanto a Tata, s'era opposto vivamente che suo zio gli facesse un quarto paio di stivali: essere troppa la spesa, ritener che doveva incolparsene qualche spirito maligno, demonio o strega o mago sabino, aver intenzione di parlarne col cappellano e di pregarlo a benedirgli i piedi con l'acqua santa. In realtà papà Gedeone non avrebbe trovato nei canterani due lire per comperare un'altra lista di cuoio.
Ma ogni cosa ha la sua spina e la sua rosa, come sentenziava Lorenzo ferraio. Il quale una sera giunse tutto in chicchera (cioè con le scarpe e senza grembiale) giunse tutto in chicchera, accompagnato dal figlio maggiore del sagrestano. Essi presero papà Gedeone a tu per tu e gli dissero:
—Tata è figlio di vostra sorella Maria. Maria morendo ve lo raccomandava. Egli ha fatto il militare, è sano, è senza fastidî, è un bel maschione: tien via un cumuletto di marenghi guadagnati con le sue onestissime fatiche; non ha vizi, gli piace la pipa ma è meglio la pipa che peggio. Sicchè dunque, per che cosa non gli dareste Martuccia? L'età è a proposito: si vogliono bene, anzi benissimo, o non desiderano che questo. Fateli contenti e sarete contento anche voi.
Papà Gedeone rispose con una sola parola:
—Amen.
E diede una affermativa crollatina di spalle.
* * *
Il giorno delle nozze papà Gedeone era di allegrissimo umore. Tata portava una coppia di quegli stivali famosi nè sembrava esservi a disagio.
—Oh! da un pezzo ho capito che me la volevi fare—mormorò in fine di pranzo papà Gedeone a sua figlia.—E trinciò la mano per aria, sorridendo, in atto di carezzevole minaccia.
Frattanto Lorenzo ferraio, rosso come un peperone, passava dall'uno all'altro dei convitati susurrando loro nell'orecchio:
—Sapete, già: era Martuccia che metteva i chiodi, e tagliava le suole, e cuciva le pezze di cuoio. Ho sempre detto che è maliziosa come… come… come… Facciamo baldoria!
XI.
Le redini di Brunello.
Quando Momolo arrivò, Bortolino dal ferro e Marco suo garzone stavano attaccando i fanali al baroccio.
—Ti aspettava—disse Bortolino al cognato;—anche mia moglie è impaziente di vederti. Abbiamo apparecchiato un vinello coi fiocchi e la mia festa si farà in allegria. Solamente, mi dispiace ma devo lasciarvi qui sino ad ora tardissima. Saverio mi ha portato in principio di sera un biglietto di mio cugino il quale ha una cosa importante da comunicarmi. Bisogna ch'io scenda a Fiumenero. Non so di che si tratti: ma vedrai che prima delle undici sarò di ritorno.
Elena comparve portando un lume; salutò il fratello e lo invitò ad entrare. Il baroccio era pronto.
—Io vado—gridò Bortolino; e saltò in fretta sul veicolo. Poi diede una frustata, brontolò un arrivederci e Brunello si mosse verso il portone. Marco lo teneva per le redini.
—Lascialo stare che lo guido io—gli disse il padrone. E fermandosi di colpo, come preso da un pensiero subitaneo, si rivolse ancora a Momolo.
—Perdonami, sai: non ti ho domandato di tua moglie. Perchè non è qui Petronilla?
—Eh! con questo buio era impossibile. Aveva paura.
—Ha fatto bene—soggiunse Elena.—Ma veramente, anche tu Bortolino dovresti rimettere a un'altra volta il tuo viaggio!
Bortolino dal ferro per tutta risposta sciolse le briglie e dileguò nelle tenebre.
—Bortolino! Bortolino!—gridava Elena a perdifiato.—Bada per amor di Dio! c'è un vento d'inferno e non ci si vede a due passi. Copriti la gola e non far correre Brunello. Sai bene che stupido è Brunello! ti potrebbe anche precipitare nel Serio!
In lontananza udivansi il trotto misurato del puledro e alcune raffiche di vento che passavano di minuto in minuto sopra la boscaglia sibilavano come serpenti.
—Quale imprudenza!—proruppe Elena con suo fratello, trascinandolo in bottega. E lì accovacciatisi alla stufa cominciarono a discorrere di molte cose. Ella gli ripetè sottovoce, con inquietudine mal repressa, che Bortolino si faceva sempre più insopportabile e non le risparmiava umiliazioni di sorta e cercava tutti i modi per contraddirla. Quando trattavasi di comperar Brunello, avendogli ella osservato che non conveniva prendere una bestia così giovane e vivace, quel tristo l'aveva sùbito voluta ed a caro prezzo; già due volte, lungo la strada per Clusone, erano caduti insieme, l'uno su l'altro e con addosso il baroccio carico di ferro. Si erano salvàti per miracolo. Ma naturalmente Bortolino aveva aumentato da allora la sua affezione per il puledro. Anche con una persona talvolta succede così: più la ci fa male e più ce ne innamoriamo. Malgrado le cattiverie di suo marito, non pareva forse ch'ella medesima raddoppiasse di premure per lui?—Quanto alla bottega meglio non parlarne; un disordine indescrivibile. Regalata via, si può dire, la roba di maggior commercio e riempite le casse di cianciafruscole inutili; spese ingenti somme nel dar la vernice agli scaffali e, per soprappiù, fatto venir da Passevra quello scrocco di Marco, un fanciullaccio senza voglia di guadagnarsi il pane, che mangiava alle loro spalle e si divertiva col mettere la zizzania in casa. Elena aveva le lagrime agli occhi: suo fratello ascoltava pazientemente, curvo, pensoso, con un bicchiere di vino caldo a lato.
Il vento crebbe. Quantunque le porte fossero chiuse ermeticamente, esso riusciva ad aprirsi l'adito anche tra le minime fessure e precipitarsi nella bottega con rabbia, così che la fiamma ne tremolava tutta. Dal di fuori poi giungeva un sinistro brontolìo di voci e un fremere di pini secchi, come se le rupi si lamentassero o scrosciassero insieme tre o quattro torrenti. I montanari vi sono abituàti e non ne fanno caso. Marco, posto attraverso al banco, leggeva un brano di giornale vecchio, Momolo finì con l'addormentarsi ed Elena colse il momento per recitare il rosario.
Improvvisamente furono scossi tutti e tre da un colpo dato contro il portone. Marco balzò di soprassalto dal banco.
—Sarà il vento—disse Elena senza meravigliarsi. Un secondo colpo si fece udire; nello stesso tempo Brunello nitrì.
—Pazienza! mio marito è di ritorno—soggiunse ella; e si diresse verso il cortile.
Ma, quando il portone fu aperto, Brunello, stanco, sudato, impolverato e sporco di schiuma, fece il suo ingresso da solo, tirandosi dietro il baroccio vuoto e urtandolo spietatamente contro i muri.
—Dov'è Bortolino?—gridò Elena atterrita.
Marco e Momolo si posero intorno al cavallo tastandolo, palpandolo, guardandolo per di sopra e per di sotto, interrogandolo come se avessero potuto cavarne qualcosa. Brunello, contentissimo di tante carezze, continuava a nitrire e scuotere la criniera, come per liberarsi dai fastidî, e fissava gli occhi annebbiàti dal sonno in faccia alle tre persone.
—Santo Dio, è avvenuta una disgrazia!—esclamò Elena con voce strozzata.
In quel momento Marco e Momolo si consultavano tra loro. La ruota destra aveva perso un raggio e uno dei fanali era andato in frantumi. Quand'ecco il garzone, toccando la bocca della bestia, s'avvide che il morso pendeva slacciato e che le redini non c'erano più.
—Ormai è certissimo—ruggì egli pallido per l'emozione:—il principale fu attirato in un'insidia; me l'hanno sorpreso, me l'hanno derubato, me l'hanno assassinato!
Elena scoppiò in singhiozzi: Momolo da uomo prudente ed energico si fece sùbito portare una corda, la adattò sui finimenti del cavallo, salì in cassetta e raccomandando la calma si mosse fuor del cortile.
—Vengo anch'io, vengo anch'io—mormorava Marco desideroso di poter scarrozzare: ma quell'altro non voleva incomodi e senza tanti complimenti si liberò di lui con una scudisciata.
Poi giù, giù, lungo il Serio a rotta di collo. Passò per Bondione e si arrestò un attimo da Gervasio a chiedergli notizie. Sbucarono su la via in quattro o cinque, ma non seppero dirgli nulla di preciso. Avevano sentito rotare un paio di volte il baroccio: ma, siccome stavano giocando animatamente, non s'erano accorti da che banda venisse e per dove si dirigesse. Altro non si poteva aggiungere. Momolo non diede spiegazioni di sorta e proseguì. Era forte e coraggioso, ma trovandosi in mezzo a quel buio profondo, affatto solo e senz'armi, appena l'impressione del primo istante fu sbollita si pentì di non aver chiesto a Gervasio un fucile, un coltello, una difesa qualunque. Non gli conveniva rifar la strada: scese dal baroccio, strappò un grosso palo da una vigna e, munito di esso, continuò con maggiore confidenza.
Il Serio rumoreggiava rompendosi contro le sponde: nembi di polvere volavano per l'aria e le zampe del puledro battevano il terreno come colpi di martello. Momolo passò davanti alla propria casa.
—Guarda—pensò.—E se domandassi qualcosa a Petronilla?
Egli fermò di nuovo la bestia, si lanciò dal baroccio, girò intorno all'orto, s'accostò alla finestra posteriore del pianterreno e, spingendo la destra oltre l'inferriata, percosse leggiermente i vetri.
—Petronilla!—gridò.
Nessuno rispose.
—Petronilla!—replicò più forte.
Ma il vento portava lontano la sua voce.
Allora si decise ad entrare. Movendosi verso il muricciolo di cinta e la porta d'ingresso, inciampò in qualchecosa di mobile e penzolante; pareva una bacchetta, o una corda, o una coreggia. Si chinò, la raccolse e, seguendone il corso con la palma, venne a toccare l'inferriata stessa. La distaccò, ritornò al baroccio, alzò fin sotto i raggi del fanale quell'arnese trovato e non potè reprimere un'esclamazione di meraviglia.
Erano le redini di Brunello!
Non molte cose dunque si potevano sospettare.
Con ogni probabilità i ladri, assaltato Bortolino, avevano legato il suo cavallo in quel luogo e si erano allontanàti di fretta. Questo per due motivi: o perchè si trovavano in condizioni tali che il carro ed il cavallo non avrebbero potuto condurli seco senza pericolo di compromettersi e tradirsi; o perchè intendevano di far perdere in questo modo le proprie traccie. Comunque si fosse, Bortolino o era già spacciato o stava in un brutto rischio e quanto a Brunello, stancatosi di rimanere al vento ed al freddo, rotte con uno sforzo estremo le redini forse già guaste nell'assalto, da animale intelligente era tornato a casa. Nessun dubbio in proposito: Momolo ebbe un capogiro. Tosto, macchinalmente, risolutamente, a passo fermo penetrò nell'orto con le briglie ripiegate su la mano. L'uscio esterno era spalancato: un filo di luce passava dalla fessura dell'uscio interno: Petronilla non aveva ancor lasciata la cucina. Egli ne provò stupore. Sua moglie nel salutarlo due ore prima gli aveva promesso di coricarsi di lì a poco. Come spiegare questo cambiamento?
Momolo si diresse in fondo all'andito, cercò il saliscendi, lo compresse e s'inoltrò nella cucina.
Egli rimase pietrificato.
Sua moglie e Bortolino sedevano al focolare tenendosi per mano e discorrendo liberamente in un dolce abbandono.
Fu un lampo.
Una folata di vento spense il lume; e Momolo, così all'incerto chiarore della fiamma, si gittò sopra Bortolino mentre sua moglie cadeva in ginocchio per terra gridando:
—Santa Vergine! santa Vergine! aiuto!
Ma Bortolino non ebbe tempo di salvarsi dietro la tavola, nell'altra camera, in una parte qualunque; non tentò nè meno di reagire: una mano di ferro lo avvinghiò per la gola e sentì cinque dita che lo soffocavano. Contemporaneamente Momolo, adoperando le grosse redini a mo' di sferza, gli diede cinque o sei colpi sul viso con tutta violenza, spietatamente, ferocemente, in mezzo alle più nere bestemmie.
—Pensa! pensa!—gemeva lo sciagurato impallidendo per lo spasimo.
E Momolo si arrestò di botto lanciando le redini in grembo a Petronilla. Quindi prese il cognato per le braccia, gli fece varcare la soglia, serrò l'uscio a chiave e risalì sul baroccio insieme con lui.
—Ringrazia Cristo che ho dimenticato il bastone sul carro!—brontolò gettando il puledro al galoppo. E non aggiunse altro per tutto il viaggio, ma si mise a piangere silenziosamente.
Quando Elena udì il passo di Brunello che s'avvicinava di furia, tremò per l'angoscia e congiunse le mani in atto di suprema preghiera. Marco da un pezzo correva per Bondione raccontando l'avvenimento e commentandolo in mille modi. Alla statura, al profilo, al tutt'insieme ella indovinò che l'uomo arrivato con suo fratello era Bortolino. La gioia la rendeva pazza; gli si precipitò nelle braccia, lo baciò sul viso e su le spalle, l'attirò in casa, sospirando, senza parlare. Ma al lume della lucerna si accorse che Bortolino era bagnato di sangue; due solchi profondi gli fendevano le guancie e gli abiti portavano grosse macchie rossastre.
—Tu sei ferito! tu sei ferito! oh! per amor di Dio! quale disgrazia!—susurrò affannosamente. Momolo guardava smorto come un cadavere.
—Non è niente!—disse Bortolino.—Brunello mi ha rovesciato sovra un mucchio di pietre.
Elena proruppe in acerbi rimproveri.
—Bortolino: vedi adesso? non te l'aveva detto io? oh! se tu mi avessi obbedito, Bortolino! se ora sei rovinato, colpa tua, colpa tua: e mi rincresce ma ti sta bene.
Bortolino dal ferro per togliersi alle seccature si coricò. Elena accomiatato il fratello gli portò vino caldo, gli raccomandò che sudasse, lo vegliò come un bambino, preparò le bende per fasciargli le guancie.
In quella giunse Marco.
—Lena!—gridò stando abbasso.—Dove siete? oh! se sapeste! il principale è annegato. Ho visto le sue scarpe su la sponda. Vado a Gromo per i carabinieri.
Elena, chiamandolo imbecille, gli ordinò di salire. Visto Bortolino sotto le coltri egli stralunò tanto d'occhi.
—Oh! quella bestia d'un puledro!—ripeteva la povera donna.—L'ha scaraventato nel letto d'un torrente e le pietre gli han lacerato la faccia. Così dicendo sollevò un poco le coltri e la fasciatura, per mostrare a Marco le piaghe di suo marito.
—Pietre?… pietre?…—mormorò Marco incredulamente.—E pensate che le pietre….
Bortolino seccato gli additò la porta con un gesto eloquente.
Pochi giorni dopo Brunello era venduto ad un mercante girovago e Marco tornava a Passevra sfrattato per sempre.
Elena fu contentissima.
XII.
Le nozze.
Din don dan…
La contrada era piena di gente: uomini donne, vecchi, bambine, quasi ammonticchiàti gli uni su gli altri. E tutte quelle faccie impazienti erano volte verso una sola parte dove aprivasi il portone della chiesa come un gran buco nero, sormontato dagli affreschi allegorici. In fondo, presso l'altare, lucevano alcune fiammelle, cioè lampade e candele, schierate intorno ai dieci vescovi di rame inargentato: presso il campanile una ventina di fanciulletti ondulavano in su ed in giù, vociando e battendo le mani allorchè passavano i chierici in cotta bianca.
Quand'ecco la porta dell'uffizio comunale si aperse; il cursore comparve col berretto di gala in testa e la guardia forestale gli tenne dietro, curva nella sua divisa grigia dagli orli verdi. Poi uscirono tre o quattro contadini vestiti di scuro, poi spuntò lo sposo, poi finalmente la sposa, timida, timida, con l'abito color latte e vino, un gran velo nero buttato sul capo e gli occhi bassi verso terra.
Fu un grande scoppio di grida, saluti e risa: la comitiva s'ingolfò nella chiesa e la folla dentro anch'essa confusamente, allegramente.
Il cappellano, a suon d'organo, celebrò il matrimonio, in piedi sui gradini dell'altare parato con un damasco a fondo verde e striscie d'oro. I balaustri di marmo splendevano spolveràti e ripuliti con cura: dalle muraglie bianche pendevano i piccoli quadri della passione, ornàti da una crocetta di stagno. E la cerimonia fu breve; quattro genuflessioni, quattro parole in latino, una benedizione e gli sposi vennero lasciàti in libertà. Poveri diavoli! avevano le orecchie intronate e il sangue in orgasmo.
Procolo coi due camerati, un paio d'altri amici e suo padre precedeva di venti passi Luigia e le donne: che, affrettando il passo per la strada un po' fangosa e fredda, incespicavano contro le pietre e sudavano dal capo alle piante. Esse non ciarlavano molto: avevano fame ed erano stanche.
Quanta poesia in quel viaggio traverso i campi leggiermente velàti dalla nebbia di febbraio, dove sorgevano i pioppi alti e nudi e si vedevano sbucar su dal verde le casette bigie coi comignoli rudi e le finestre ben chiuse! Anche Procolo ne era commosso, senza capir come e perchè: egli taceva e sorrideva, felice come non era stato mai.
Arrivarono in paese. Là pure una quantità di persone li aspettava, curiose di veder la nuova compagna. E fu un urlo, un chiasso indiavolato intorno a loro, perchè alcuni salutavano Procolo, altri lo perseguitavano a facezie, altri fingevano insultarlo. La sposa per la vergogna non sapeva più in che mondo si fosse: cento occhi la squadravano di sotto in su, encomiando o censurando il suo abbigliamento per il colore, la foggia, il portamento, il velo, gli spadini e la capigliatura. Perocchè avevano osservato che gli spadini erano moltissimi, cinquanta circa, e ricchissimi, cioè ben lavorati e d'argento fino; ma si erano anche accorti che la rendevano troppo grassa con una faccia di luna piena.
A casa li attendeva un'insidia; i parenti e coinquilini avevano internamente barricato il portone: onde, mentre gli uomini con Procolo facevan di tutto per aprirlo con urti, spintoni e colpi di pugno, alla sposa sopraggiunta furono lanciate pallottole di neve, prese chi sa in che luogo. Le sue compagne distribuivano confetti.
Il portone si schiuse cigolando; l'ostacolo era vinto: i puntelli caddero spezzàti con frastuono. Ma un gemito lungo, acutissimo, doloroso si udì improvvisamente nel cortile e ben tosto un cagnaccio grosso e peloso fu visto scostarsi zoppicando e guaendo. Nello sfondare il portone l'avevano percosso e ferito.
—Oh! per amore—gridavano in coro le donne. Procolo arricciò il naso e scosse il capo.
—Povera bestia—mormorò Luigia inoltrandosi verso il cane. Ma Procolo la prese per un braccio.
—Fa piacere—le disse.—Ecco un brutto pronostico. Se fossi superstizioso…
—È vero, è vero—mormorò sua madre.—Non è bello niente! non mi piace, ti dico!
E tra lei e Procolo si diedero a percuotere il cane facendolo scappare.
—È un cane forestiero. Donde è capitato? non l'ho mai visto—brontolavano.
Luigia tacque ma provò nel suo cuore un sentimento di ribellione.
* * *
Una cognata, già cuoca del cappellano, aveva l'incarico di preparare il sontuoso pranzo nuziale. Ella comparve su l'uscio e li accolse tutti con abbracci, baci ed evviva. Era donna assai allegra ed avrebbe fatto bene alla compagnia. La seguirono in cucina dove sotto l'immensa cappa fumavano cinque o sei paiuoli di spropositate dimensioni, accanto a due padelle prese a prestito dalla moglie del medico. Alcune tavole messe in fila e ricoperte con un lenzuolo costituivano la mensa: e su di essa già stavano allineàti i bicchieri di qualità diverse, i piatti di stagno e di maiolica, qualche bottiglia, molte scodelle, a fiori azzurri, per il vino. Poichè, dietro l'uscio che metteva nella camera degli sposi, appoggiata al muro modestamente celavasi una brenta scura, piena di quel fino e mal coperta con un giornale ingiallito. Le sedie e le panche ancora in disordine; un gatto antico accoccolato sul davanzale della finestra: in un canto le vanghe e gli altri arnesi di campagna. Tutt'insieme la stanza era di bell'effetto e pareva una sala mangé, secondo il linguaggio di papà Benigno. Il quale, morsicando l'eterno mozzicone di sigaro e premendolo in modo da farne alzar la punta verso il suo naso, continuava a girare di qua e di là, col laconismo solito ai vecchi, e già mezzo cotto attirava seco or l'uno or l'altro: se osava dir qualche buaggine, i figli o la moglie rispondevano bruscamente ed egli tacito ritiravasi svelto, come se volesse scappare. La sua gloria era, quel giorno, di mostrare a tutti la bella camera degli sposi, l'unica nella casa che fosse a pianterreno, situata ad oriente, imbiancata di fresco e asciutta come una stufa. Là si custodiva entro casse lavorate la biancheria di famiglia; ed in mezzo sorgeva il letto matrimoniale, nuovo, soffice, con la coperta gialla: la dote di Luigia.
Finalmente si avvertì che la tavola era pronta; i convitati rumorosamente entrarono da ogni parte e per buona precauzione si chiuse l'uscio d'ingresso. Alcuni fanciulli discacciàti a quel modo, non volendo perdere la bella scena, si arrampicarono sul fico del cortile e spinsero il faccione rosso traverso le grate della finestra. Essi disturbavano; per accontentarli e farli andar via Procolo e papà Benigno lanciarono loro manate di confetti.
E i confetti caddero, mescolandovisi, in tutte le vivande. Il riso ne era pieno; pieno pure l'arrosto, piene le scodelle e i bicchieri. Uno dei camerati se ne indispettì. Come mandar giù quella roba? non aveva mai visto nulla di simile, stessero un po' quieti, lo lasciassero in pace, le cose lunghe diventano serpi. E tutti a ridere, a gridare, a beffarlo: gliene fecero tante che lo costrinsero ad alzarsi ed allora gli corsero dietro, gli fecero inghiottire a forza molte scodelle di vino, le donne lo carezzarono, gli amici lo rimproverarono. Papà Benigno, deposto il sigaro su la tovaglia, mangiava silenziosamente, guardando in giro: e quando cambiavano il piatto (di rado) riprendeva tra le imberbi labbra quel povero mozzicone spento, come un'inseparabile compagnia. Sua moglie, curva presso di lui, rideva pronta a malignare su tutto e di tutti.
Ma Procolo si accorse che Luigia era assai triste non mangiava. Una, due, tre volte lasciò la camera e sparve nel cortile, furtivamente, credendo non essere osservata.
—Che hai Luigia?—mormoravale all'orecchio E di soppiatto le cingeva il fianco.
—Nulla, ho.
—Non sei contenta?
—Altro!
—Perchè non parli?
—Ma… sai bene…
E Procolo accarezzavala affettuosamente, diventato distratto anch'egli. Perchè dunque così taciturna e pensosa? non le piaceva essere vicino al suo marito? forse trovavasi impacciata tra persone che non conosceva? forse le rincresceva di abbandonar la sua famiglia?
Un'idea terribile gli venne. Si rammentò di Battistino, quegli che la voleva sposare, prima di lui: il bel legnaiuolo che l'aveva innamorata, il birbante che si ubbriacava sempre e che, dopo una sanguinosa rissa co' suoi compagni, era scappato chi sa dove, indarno cercato dalla giustizia.
Senza dubbio il poco di buono minacciava qualche tiro de' suoi.
* * *
Venne la sera e presto. Procolo mandò a chiamare il vecchio Martino, il quale arrivò trascinando il suo organetto mezzo sconquassato e difeso da tela verde. Egli si mise davanti alla porta e cominciò a far girare il manubrio mentre le note scappavano fuori dello stromento come stridi, andando in su ed in giù, a destra e sinistra, scordate, aspre, matte; grattavano le orecchi.
Pure, a quella musica, il più giovane dei camerati sentì agitarsi il sangue, non potè star fermo, afferrò una qualunque fra le donne e via, prese a far salti con lei, battendo i tacchi sul pavimento, strisciando, curvandosi, inchinandosi come sogliono i ballerini di campagna. L'esempio non dispiacque; altre coppie lo imitarono: la festa raggiunse il suo momento di crisi. Quelle gambe pesanti e rudi balzavano per la cucina, intorno alla tavola, picchiando calci contro le sedie e le panche del focolare; le faccie diventarono rosse e, in mezzo al frastuono, alla polvere, ai canti, si videro anche i vecchi a sorridere, il vino bagnò le pietre del suolo, qualche scodella cadde in frantumi: l'ebbrezza invase tutti i cervelli e i poveri diavoli dimenticarono di essere poveri diavoli.
Ma Procolo era sempre triste: una ruga gli traversava la fronte e il suo occhio non brillava come quel degli altri.
Scoccarono le dieci: bisognava separarsi; la famiglia di Luigia si apparecchiò a partire: nuove grida, nuove proteste, nuove promesse da ogni parte. Quelli fuor dell'uscio insistevano perchè quelli di dentro si staccassero una buona volta; quelli di dentro non terminavano mai di salutarsi. Finalmente se n'andarono; i camerati, per prendere un po' d'aria, proposero d'accompagnare a casa le donne: si munirono di bastoni e sigari, bevettero l'ultima bicchierata e poi via.
La cucina restò deserta, nel suo disordine, piena di fumo e d'aria calda. S'avvicinava il momento solenne: il rustico talamo chiamava i due sposi per iniziarli alle sue delizie. Luigia tornò dall'aver condotto i suoi fino al portone di strada: depose il lumicino alla tavola e gettò un sospiro. Ella sentiva un penoso malessere, un'angoscia indefinibile, una paura strana: l'ignoto che stava per affrontare la sgomentava. Attese che Procolo dicesse la prima parola. Papà Benigno e sua moglie stavano in piedi, guardandoli silenziosamente.
Procolo si rivolse ad essi.
—Ho da parlarvi—proruppe. Egli fremeva. Indicò a Luigia l'uscio della camera matrimoniale e la invitò ad entrarvi. Luigia lo guardò arrossendo, stupita, quantunque ciò dovesse recarle piacere. Come! non veniva sùbito con lei? Anche la mamma strabiliava.
—Ho da parlarvi, mi pare—ripetè Procolo con gli occhi luccicanti; la sposa, senza aprir bocca, si scostò, aperse l'uscio, scomparve.
—Che significa questa cosa?—mormorava papà Benigno.
Procolo riflettè un istante poi disse:
—Aveva ragione io di esitare quando mi avete proposto colei… Prendete. Ora è troppo tardi.
—Sei matto?—aggiunse allora sua madre.
—Niente matto! Lo fossi!—E, abbassando la voce, guardandosi intorno, domandò:
—Vi siete accorti che oggi tre o quattro volte Luigia si è allontanata durante la cena, è uscita nel cortile con alcuni pacchi nascosti sotto il grembiale e quando rientrava era confusa ed inquieta?
—Non ci siamo accorti di nulla—dissero i due vecchi.
—Ebbene, ho visto io.—E preso il lume s'avvicinò alla porta d'uscita. Egli era male in gambe.
—Seguitemi—susurrò con voce sepolcrale.
* * *
Era una bella sera. Di quelle sere invernali fredde ma azzurre che non sono frequenti nella campagna lombarda. Il cielo vedevasi punteggiato di stelle e l'aria sembrava più limpida, più buona a respirare.
Procolo, suo padre e sua madre traversarono il cortile deserto. Su per i muri della casa arrampicavansi le sottili ombre delle viti; il suolo duro suonava ad ogni passo. E il lumicino mandando intorno la sua luce tremula rischiarava la scala esterna di legno, con la sbarra contorta, e, più sotto, le finestrine dai vetri appannàti, e, più oltre, i fienili gonfi di biada, le stalle chiuse, i carri solitari. Procolo andò al portone e diligentemente lo serrò, sbarrandolo con la piccola trave e il catenaccio. Indi, afferrata una verga di acciaio che si era staccata da un de' carri, mosse verso la cascina. Giunto a poca distanza dal muro si volse di botto.
—Vedete la rimessa?—mormorò.—Ebbene, là c'è un uomo.
—Oh! per amore!—gridò la vecchia spaventata. Papà Benigno, non più sorridendo, levò le palme di tasca.
—Sì, vi dico. Un uomo, un uomo, un uomo. È lui. Adesso vedrete….
—Non farti male; Procolo, torna indietro!—gemeva la vecchia.
Ma Procolo non udiva più, fingeva di non udire. Si appressò alla porta della rimessa e stette origliando. Padre e madre lo raggiunsero. Un filo di luce partito dal lumicino traversò le fessure e andò forse a turbar ne' suoi pensieri, nel sonno, la persona ch'era là dentro. Si udì un piccolo gemito.
—Vi pare?—disse Procolo.—Aperse e penetrò nella rimessa. Papà Benigno, serio serio e quasi imbronciato, lo seguiva. A destra, verso il fondo, dietro una catasta di legna, scorgevasi a terra un mucchio di paglia; ad un metro di lontananza, in mezzo alla camera, stava una scodella vuota: sopra la paglia un'ombra nera immobile.
Procolo brandì la pala di ferro, tese innanzi il lume e guardò.
Rimase stupefatto.
Su la paglia giaceva quel cagnaccio bruno ferito durante il giorno, quando si era aperto il portone. La povera bestia nel delirio della febbre guardava con gli occhi timidi e lucenti; la sua zampa, fasciata da una mano pietosa, tendevasi rotta ed inanimata.
—L'ho sempre detto io che sei un gaglioffo—proruppe Benigno. E andò via borbottando.
* * *
Procolo ardì entrar nella camera nuziale. Luigia sopra una cassa piangeva dirottamente.
—E ora? che avete fatto?—disse a suo marito con voce soffocata dai singhiozzi.
—Nulla. Scusa. Quel che è stato è stato….
E venutole presso, bruscamente, rozzamente, sur una delle guancie, a caso, le diede il primo bacio.
Così tardi? si potrebbe dire.
FINE.
INDICE
PREFAZIONE Pag. 5
Il ratto di Sabina » 9 La passione di G.C. » 19 Storia di Matteo Vento » 35 Una vittima » 53 Storiella invernale » 65 Giustizia per tutti » 75 Maometto » 91 L'orologio di papà Gedeone » 105 Don Bonomo è senza cena » 117 Papà Gedeone ha ceduto » 129 Le redini di Brunello » 145 Le nozze » 157
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