LA CASA E LA FAMIGLIA DI MASANIELLO

Ritratto

BARTOLOMMEO CAPASSO

LA CASA E LA FAMIGLIA DI MASANIELLO

RICORDI DELLA STORIA E DELLA VITA NAPOLITANA NEL SECOLO XVII

Editore — Dr. GENNARO GIANNINI — Napoli

Proprietà letteraria

NAPOLI — R. STAB. TIPOGRAFICO FRANCESCO GIANNINI & FIGLI Via Cisterna dell'Olio — 1919

INDICE

Prefazione

Nel ripresentare agli studiosi delle cose patrie questo insigne scritto di Bartolommeo Capasso, io non ho certo la pretesa di scoprire l'autore ai lettori. Il Capasso, pura gloria nostra, è ben conosciuto nel mondo dei dotti italiani e stranieri; e se la maggioranza dei Napoletani, e sopra tutto della così detta stampa, non lo ha onorato come meritava, ciò non vuol dire che Egli sia appartenuto alla categoria degli aridi pedanti, degli insensibili spulciatori e profanatori ciechi e melensi delle vecchie carte e delle pergamene polverose. Molti furono, infatti, che si dedicarono a frugar negli Archivii le collezioni delle pergamene e dei manoscritti cartacei e dei codici diplomatici dei tempi andati; quasi nessuno vi s'ingolfò con quell'amore e con quell'ardore che furono le due grandi benemerenze del nostro venerando concittadino, mosso dal desiderio di elevare un monumento di gloria al proprio paese.

Egli portò nei suoi difficili studii, nelle ricerche minuziose e faticose, nella raccolta di preziose notizie inedite, un intelletto lucido e geniale: fu il ricercatore-artista, l'animatore miracoloso, che non fantasticò sui codici o male interpretò gl'incunaboli; ma disse, su ogni argomento che prese a trattare, la parola definitiva. Tutto devono a lui gli studii storici del Napoletano, nelle sue opere più importanti, dalla Napoli greco-romana al Ducato, da Pier della Vigna al Tasso. fino a questo Masaniello. Bartolommeo Capasso vide, previde, rettificò, corresse, scoprì, lumeggiò, glorificò, rivendicò tante cose; e mentre molti spiriti piatti intorno a lui si affannavano negli stessi studii, pochissimi, fino al de Blasiis e allo Schipa, gli tenner dietro con decoro e con acume. Si è costretti a ritornare ancora su molte pubblicazioni di altri sedicenti storici di Napoli, che credettero di scoprire la polvere e non capirono niente, e tralasciarono notizie importanti che pur capitavan loro sott'occhio, per indugiarsi a quisquilie quasi inutili o di scarsa importanza; e tuttora si van correggendo interpretazioni sgangherate. Ma nell'Opera del grande Nostro, più grande dalla sua morte in poi, non un dubbio, non una lacuna, non un punto oscuro, non una trascuratezza, mai! Tutto egli esaminò e scrutò, con la forza mirabile del suo ingegno potente, col fuoco dell'amore santo pel “loco natio„. Le sue ricerche, i suoi giudizi, le narrazioni di fatti poco noti, i profili dei più singolari personaggi della nostra Storia, se pur in pochi tocchi, non vogliono aggiunzioni o notizie nuove. Le interpretazioni da lui date sui più intricati periodi, dalle origini di Napoli finoggi, non ammettono altri ritorni o novelle chiarificazioni. Il monumento che il Gran Vegliardo volle elevare a Napoli è fatto di puro granito: è una piramide incrollabile che sfida l'eternità. E Napoli, la Circe ingrata, che pur glorifica tante bestie, lo vide morire molto vecchio e quasi cieco pel troppo attento indugio degli stremati occhi su le carte: e quasi non s'accorse delta dipartita di Lui!

Ecco perchè Bartolommeo Capasso non ha un degno monumento, in qualche pubblica piazza di Napoli, come pur parecchi mediocri e mestatori l'ebbero, salutati, fra tamburi e trombe, da pappardelle oratorie, intessute nella solita volgarità incoercibile del luogo comune! Il nome a una strada, o un busterello al Grande Archivio e alla Società di Storia Patria, non bastano, pel Capasso; e rappresentano soltanto il pensiero ed il ricordo di pochi amici e seguaci, che lo amarono, lo venerarono, gli furono e gli saranno fedeli.

È così! I più grandi uomini, le figure nostre più luminose, non trovarono mai chi si agitasse in loro favore: Francesco de Sanctis e Luigi Settembrini hanno appena due povere teste marmoree in quel giardino pubblico che chiamiamo la Villa; Salvator Rosa, Luca Giordano, Pietro Giannone, Carlo III, nulla; e i monumenti di Napoli, sorti da cinquant'anni a questa parte, — salvo qualche rarissima eccezione — rappresentano, nella sciagurata decadenza della Scultura, la Partigianeria, la Politica e l'Intrigo...

Nemmeno le Accademie, delle quali pure il Capasso fu tanta parte, si mossero, per degnamente onorarlo. Ma si muovono, forse, le Accademie? O non sono, forse, ora più che mai, acque stagnanti, necropoli anticipate, in cui si adagiano e nicchiano, nel severo raccoglimento che è torpore letale, le Mummie dell'Arte, della Letteratura e della Scienza?

Conto fra gli Accademici amici illustri e carissimi, viva minoranza d'intelletti fervidi in quelle Case dei Morti; e mi domando da anni perchè non si riuniscono, in una iniziativa che qualcuno già tentò di sviluppare! Or vedremo invece altri marmi, non meno brutti di quelli già esistenti, ingombrare le piazze. Per conto mio, tento qui, con la pubblicazione di quest'opera, un commosso contributo in onore del Grande Scomparso. Ultimissimo, fra gli ultimi appassionati delle discipline storiche nostre, mi sia di scusa allo ardire l'amore che porto, inestinguibile, alle vere glorie del mio Paese oblivioso...

FERDINANDO RUSSO

LA CASA E LA FAMIGLIA DI MASANIELLO

NOTIZIE DI ALCUNE OPERE INEDITE ADOPERATE IN QUESTI RICORDI

La rivoluzione di Napoli del 1647-48, per la singolarità delle persone che la iniziarono o vi presero parte, e per la varietà e l'attrattiva de' drammatici episodi di cui fu ricca, produsse tale profonda impressione nell'animo di chi assistette allo straordinario avvenimento e di tutti i contemporanei, che moltissimi vi furono, napoletani e forestieri, nobili e popolani, dotti ed indotti, di ogni classe e di ogni condizione, i quali vollero, scrivendo di quello, lasciarne duratura memoria ai posteri. Lungo quindi è il catalogo delle opere su questo argomento, sì in prosa che in versi, sì in varie lingue che nel napoletano dialetto, le quali furono divulgate per le stampe; maggiore forse è il numero di quelle che giacciono tuttora polverose e neglette negli archivi e nelle pubbliche e private biblioteche. Or senza pretendere di voler fare una bibliografia di tali opere, io credo util cosa dar qui qualche cenno di talune di esse, che sono tutt'ora inedite e poco conosciute, e che sono state da me principalmente adoperate nelle narrazioni che seguono. Così il lettore potrà di per sè apprezzare il valore storico di ciascuna ed io non sarò obbligato a descrivere particolarmente qualunque manoscritto tutte le volte che mi occorrerà allegarne la testimonianza.

Esse dunque, disposte per ordine alfabetico, sono le seguenti:

I. Anonimo. “Racconto della sollevazione di Napoli accaduta nel 1647, distribuito a Giornali, sino al tempo che furono introdotti gli spagnuoli, incominciando dal 7 luglio 1647 e finisce al 6 aprile 1648. Dippiù si aggiungono altri successi derivati dalla stessa sollevazione, che durano fino all'anno 1655, 3 giugno.„

Con questo titolo o altro simile nelle pubbliche e private biblioteche si trovano molte copie manoscritte di un Diario della rivoluzione del 1647 e delle sue conseguenze. Esse cominciano con le parole: Dovendo far racconto di alcuni particolari accaduti: e sono più o meno estese o complete, quali con addizioni, quali senza. Per la maggior parte non hanno alcun nome di autore, ma soltanto qualcuna con manifesto arbitrio del copista erroneamente nel frontespizio è stata attribuita a Giuseppe Donzelli, l'autore dell'opera sullo stesso argomento, stampata col titolo: Partenope liberata. Questo Racconto o diario, secondochè ho potuto rilevare da un manoscritto originale che m'è capitato fra le mani, procede da tre compilazioni diverse. La prima è opera di un tal Marino Verde, prete di S. Antimo[1] che, a quanto rilevo dal detto manoscritto, non dovette protrarre il suo lavoro oltre il 27 febbraio 1648. Venuto poscia questo nelle mani del nostro benemerito d. Camillo Tutini, fu da lui corretto, interpolato ed accresciuto con moltissime giunte, e prolungato forse fino a' 6 aprile del 1648. Dico forse, perchè il manoscritto da me posseduto è monco della fine e s'arresta al racconto de' fatti di quel giorno. Da una postilla di carattere dello stesso Verde ho rilevato il nome dell'autore e l'epoca in cui egli scrisse, che fu tra il 1651 ed il 1652. Dopo del 1655 un ignoto amatore di patrie memorie rescrisse l'opera del Verde; ma, o perchè il manoscritto che ebbe era mancante, o perchè gli parve troppo diffuso per i tempi posteriori al 4 ottobre 1647, o per altre particolari ragioni, forse anche di parte, che io non saprei ora affermare, da quel giorno in poi lasciò il racconto del Verde, e proseguì la storia con trascrivere il manoscritto di Aniello della Porta, di cui più innanzi parlerò, riducendone la narrazione a giornali e modificandone spesso i giudizi. Così parecchie copie del Racconto giungono fino al 1655. Il Ms. originate, corretto e continuato dal Tutini, che io posseggo, è in fol. non cartolato.

Tanto il Verde quanto il Tutini sono nella loro compilazione apertamente avversi agli Spagnuoli, ma non a' nobili, ed in molte circostanze si dimostrano non amici del duca di Guisa. Contuttociò, se il giudizio è alquanto passionato, i fatti però sono sempre esposti con verità ed esattezza. “Devesi render sicuro il lettore„ afferma il Verde, “che quanto si narra in questo racconto, con sincerità e fede viene da me riferito, poichè a gran parte di quello occorse fui presente, e con grande esattezza da me osservato, in altre raccolsi da persone di autorità veritiere relazioni, e, per narrare ogni minuzia, notai giorno per giorno tutti li successi, dando campo con questi Diurnali a pellegrini ingegni di tessere una formata storia e veritiera„. Oltre a ciò, nel margine del manoscritto originale il Tutini rettifica o cangia le cose che da lui, per maggior diligenza, erano state trovate false o poco esatte. In somma questo Diario è un bellissimo riscontro di quello del Capecelatro, pubblicato dal principe di Belmonte nel 1850, poichè comunque l'uno fosse di un partito diverso dall'altro, pure nessuno altera i fatti, ed ambedue si spiegano e si completano a vicenda. Esso è specialmente singolare per le minute e particolarizzate narrazioni delle fazioni di guerra combattute tra gli Spagnuoli e i popolani nel mese di ottobre 1647, che il Capecelatro nel suo Diario con dispiacere protesta di omettere, non avendo per la sua lontananza da Napoli potuto averne diretta notizia (V: Diario t. II. p. 15). Una copia quasi sincrona di questo Ms. secondo la redazione del Verde, ma che finisce ai 4 ottobre 1647, conservavasi dall'egregio abate d. Vincenzo Cuomo, ed ora trovasi nella Biblioteca Municipale di Napoli, segnata nel Catalogo dei Ms. 20-3-2.

II. Anonimo. Racconto della sollevazione di Napoli del 1647. Ms. senza titolo del 1760, di c. 206 in 4.º presso di me. Comincia: 1631 Dal governo del signor Co. di Monterey, ecc. e finisce nel 1649 colle parole: l'avesse il vicerè fatto morire. Seguono indi due Note, una dei Napoletani venuti in Napoli con l'armata francese nel 1648, e l'altra dei Capipopolo che furono in Napoli durante la rivoluzione. Si aggiungono in ultimo fatti del 1648 e 1649. Questo Diario, di cui non si conosce l'autore, certamente contemporaneo, ci dà parecchie notizie o circostanze che non si trovano in altri scrittori dello stesso avvenimento. È scritto però senz'ordine e confusamente, secondochè i fatti all'autore venivano in mente, e vi sono aggiunte in margine, o interpolate nel testo, parecchie note ricavate dalla Partenope liberata del Donzelli. Puranche ne esistono parecchi esemplari.

III. Campanile Giuseppe. Diario di Giuseppe Campanile circa la sollevazione della plebe di Napoli degli anni 1647-1648, con addizioni d'Innocenzo Fuidoro. Ms. in fol. di carte scritte n. 82 presso di me. Dopo un breve discorso del Fuidoro, Alla Posterità, comincia: Successo al governo di questo regno.... e finisce; pietra fondamentale della sua santa fede, S. Pietro apostolo. Sotto il nome del Fuidoro si nasconde Vincenzo d'Onofrio, che avendo trovato il manoscritto del Campanile, noto genealogista del secolo XVII, con molte lacune o carte lasciate in bianco, — manoscritto già dallo stesso Campanile dato al Marchese di Montesilvano, — si prese cura di trascriverlo fedelmente ed aggiungere quelle notizie, che, come testimone anch'egli di veduta, conosceva circa gli avvenimenti dal medesimo Campanile narrati. L'opera è piena di aneddoti e scritta con sufficiente giudizio ed imparzialità.

IV. Della Monica Tizio. Historia della rivoluzione di Napoli dell'anno 1647 del dottor Tizio della Monica. Ms. autografo in fol. di c. scritte 663 presso di me. Comincia, dopo la dedica all'arciduca Leopoldo d'Austria ed un discorso ai lettori: Stando a diporto in una mia collinosa vignetta... e finisce nel maggio 1650 con le parole: Vicerè havemo in Napoli de la giustizia è per tutti, nemico della nobiltà. L'autore, come rilevasi da molti luoghi del libro, intervenne spesso alle cose che giorno per giorno notava in uno stile assai rozzo e sconnesso, ed è minuto ed imparziale nel racconto. Abitava nel borgo dei Vergini.

V. Della Porta Aniello. Causa di stravaganze ovvero Compendio historico delli rumori e sollevazioni e dei successi nella città e regno di Napoli dai 7 gennaio 1647 sino a giugno 1655 opera del dottor Aniello della Porta divisa in 4 parti. Il Ms. da me posseduto è legato in tre vol. in 4.º — Molte copie esistono di questa opera che già fu ampiamente descritta dal ch. Minieri-Riccio nel Catalogo dei Mss. della sua biblioteca P. I, n. 4, p. 9-2d. L'autore di essa, del quale il Minieri non si occupa, era un forense ed aveva un fratello che serviva, come capitano riformato, il cattolico padrone del quale egli, lo storico, si dichiara coll' animo devoto vassallo. Abitava dietro la porta piccola di S. Domenico Soriano, e soffrì parecchi danni dalla parte del popolo. Difende quindi spesso gli Spagnuoli ed il Duca d'Arcos dalle accuse de' popolari.

Il Ms. è specialmente curioso per le composizioni poetiche dettate in quel tempo e dal Della Porta trascritte nella sua opera.

VI. Fuidoro Innocenzo ( d'Onofrio Vincenzo ). Successi raccolti della sollevazione di Napoli dalli 7 Luglio 1647 fino alli 6 Aprile 1648 per Innocenzo Fuidoro. Il manoscritto in fol. di carte 270 con figure rappresentanti vari personaggi dell'epoca inserite nel libro, trovasi nella Biblioteca del Grande Archivio di Napoli. Comincia: “ Dal Governo del Conte di Monterey, ecc. e finisce: della quale (cattolica e santa Fede), l'augusta e religiosissima Casa d'Austria vive e viverà sempre fino alla fine del mondo, gloriosissima difenditrice„.

Scrisse pure un secondo volume, nel quale continuò il racconto fino al 1653 e lo intitolò: Successi storici raccolti del Governo del Conte d'Ognatte, vicerè di Napoli, dal mese di aprile 1648 per tutto il 20 novembre 1653, che successe al governo di questo regno il Conte di Castrillo. Un esemplare di questo secondo volume dello stesso carattere del primo conservato nell'Archivio di Stato, ed anche con figure, trovasi nella Biblioteca del Principe di Fondi in Napoli, ed un altro dello stesso secolo XVII senza figure di c. 464 in fol. conservasi nella Biblioteca Nazionale ed è segnato X-B-45.

VII. Pollio d. Giuseppe. Historia del Regno di Napoli, Revolutione dell'anno 1647 insino al 1648, scritta dal R. d. Giuseppe Pollio, napolitano. Ms. probabilmente autografo, certo originale, di carte scritte n. 329, che conservasi nella Biblioteca Nazionale di Napoli, (X-B-7). Comincia: Son leggi infallibili, e del testo evangelico.... Finisce: 21 Giovedì (Giugno 1648); s'intende che fosse differenza a S. Severino; e poi nell'altra carta: FINE DELL'ULTIMA IMPRESSIONE?

Devesi però avvertire che l'opera realmente nel f. 327 arriva al 19 novembre 1648, e che se finisce col 21 giugno ciò provenne da un errore di chi legò il libro; il quale, essendo le carte in origine non numerate, introdusse molta confusione nei quaderni di esso, e malamente pose in ultimo un foglio che andava collocato prima. Si noti pure che il racconto in molte parti è duplicato, ripetendosi di nuovo con poche varianti quel che si era già scritto altrove; il che spiega la dicitura dell'ultima carta, che accenna ad una seconda recensione dell'opera.

Alcune notizie intorno alla vita ed all'opera del Pollio, oltre quelle assai scarse che si ricavano dalla stessa narrazione di lui, per fortuna ci sono state tramandate da Giuseppe Campanile, nel Diario di cui sopra ho parlato. Secondo questo scrittore, il Pollio abitava nella strada degli Armieri, e nel gennaio del 1648 servì per cappellano al Duca di Tursi, che, preso prigioniero dal popolo, fu per qualche tempo trattenuto nella casa del dottor Marco Maresca, posta in quella via. Dopo la quiete del regno, il Pollio, con la protezione del detto Duca di Tursi, ottenne un canonicato nella cattedrale di Lucera; ma, avendo avuto contesa con quel vescovo, volle andare in Ispagna per rinunciare il beneficio nelle mani del Re. N'ebbe in cambio una pensione in Sicilia di annui scudi 200, e fu nominato cappellano del conte d'Ayala, vicerè di quel Regno. Poscia tornato da colà, essendo stabilite ed assentate le cedule della sua nomina, se ne morì in Sicilia, verso il 1660[2]. Il Campanile ci attesta avere il Pollio scritto in un grosso volume i Successi del Regno nel 1647-48, i quali venduti dopo la sua morte dal fratello ad un libraio chiamato Donadio Pellegrino, furono da costui donati al reggente D. Felice Ulloa che se li portò in Ispagna. Lo stesso Campanile afferma pure aver avuto in sorte di tenere in poter suo parte dell'originale borro di questi Diarii, a lui data dal medesimo libraio, e questo probabilmente è lo stesso esemplare che ora trovasi nella Biblioteca Nazionale.

Il libro del Pollio, comunque scritto assai goffamente, è importante per gli aneddoti e per talune circostanze che non si ricordano da altri scrittori contemporanei, e che egli, come sacerdote, come compare dell'Eletto del popolo, e come abitante di quella parte della Città ov'era il focolare della sollevazione, poteva facilmente e meglio degli altri conoscere. Egli protesta narrare le cose con verità o per aver visto coi propri occhi, o per averle intese da persone degne di fede. E difatti l'ingenuità e la schiettezza del racconto ne dimostrano la sincerità, ed il Campanile stesso, suo contemporaneo, ci assicura aver trovato assai confronto di verità in moltissime cose.

VIII. Oltre le storie del Tarsia, del Buragna e dell'Eguia, già pubblicate per le stampe, esistono parecchie altre relazioni di questi avvenimenti scritte da spagnuoli, o in lingua spagnuola, che sono tuttora inedite. Una raccolta di esse fatta in un volume intitolato: Relaciones de los tumultos dela ciudad de Napoles desde el año 1647 hasta el 1648, di carattere del tempo e di c. scritte n. 185, conservasi presso di me. Sono alcune lettere di un gentiluomo della viceregina e di un d. Michele de Miranda, provveditore dell'armata e dei castelli di Napoli, indirizzate a Spagna, con altre scritture sull'argomento. — Ricordo pure un altro Ms. intitolato: Napoles confuso brebe relacion de todos los marahilosos accidentes que an sucedido en la Ciudad de Napoles en todo el Reijno desde el primer dia que fue a los 7 de Julio 1647 hasta los 6 de Abril 1648. — Dia por dia ij ora por ora sin apartarse jamas él hautor dela berdad ciégo dela Passion. Ms. in 12º di c. scritte n. 243 ed altre poche non numerate o bianche. È rilegato in pelle con tagli e fregi dorati. — L'autore presentò il libro al Duca d'Arcos per aver la grazia della stampa. Il vicerè lo passò al Visitatore generale, al Segretario Lusia ed al giudice Navarrete; i quali, esaminatolo, diedero la loro approvazione, ma ne rimisero la stampa alla fine della Rivoluzione. Il Ms. conservasi nella Biblioteca Nazionale ed è segnato XV-F.-92.

Simili relazioni si trovano pure in un vol. Ms. già posseduto dal lodato d. Vincenzo Cuomo, ed ora conservato nella Biblioteca Municipale, intitolato: Miscellanea diversa, Tomo primo di c. 412, oltre le non numerate. In esso si contengono parecchie scritture di diverso carattere ma tutte del secolo XVII, che appartengono alla storia del reame di Napoli nel 1647-48. Quattro sono scritte in spagnuolo. La prima, che e la più lunga (f. 266-321) e tratta degli avvenimenti dal 7 luglio 1647 fino al febbraio 1648, è quel Diario o Relazione, di cui si servì, come dal confronto ho rilevato, d. Francesco de Eguia Beaumont nei suoi Varios discursos sobre la revolucion de Napoles. Le altre tre scritture (f. 322-346) riguardano l'entrata degli spagnuoli nel 6 aprile 1648.

IX. Simonetti Tarquinio. Storia della rivoluzione di Napoli dell'anno 1647 scritta dal dottor Tarquinio Simonetti napolitano. Ms. di c. 515 in 8º nella Biblioteca Nazionale (XV, E, 49). Comincia: A tempo che Roboam... Finisce:... in suo luogo ha pigliato possesso per interim il regente Zufia, Giovedi 22 di detto mese di settembre 1650. L'autore contemporaneo è presente ai fatti fino ai 17 ottobre 1647, quando, come egli stesso nota, con sua moglie Vittoria Califano se ne andò al feudo in casa sua e la sera a Benevento. La moglie aveva una casa alla Selleria nel fondaco della Zecca dei panni.

Tralascio qualche altro Ms. di breve mole, di cui, occorrendo, farò menzione nelle note.

* * *

Alle opere sopra indicate, per la connessione che i due fatti hanno tra loro, bisogna aggiungere quelle che trattano dei tumulti accaduti nella partenza del Duca di Ossuna da Napoli e notano la parte che in essi ebbe il Genoino, poscia ispiratore e consultore principale di Masaniello. Questi fatti sono specificatamente ed accuratamente narrati dallo Zazzera scrittore contemporaneo, nei Giornali del governo del duca d'Ossuna, 1616-1620; libro di cui esistono moltissime copie Mss. e che fu pubblicato dal Palermo nel vol. IX dell' Archivio storico italiano del Vieusseux, ma monco delle notizie che gli parvero frivolissime e personali, o contro il buon costume. Altre opere speciali sullo stesso argomento sono: l' Ossuniana conjuratio, qua Petrus Giron Ossunae dux regnum neapolitanum sibi desponderat, cum relatione stratagematis, quo card. Borgia designatus Duci successor in eam provinciam sibi aditum et successionem fecit, di un tal Tortoletti, stampata in Venezia nel 1623 e nel 1625 in 4º, ed i Conatus irriti Ossunae ducis, ne a regimine regni neap. amoveretur, liber unus, auctore Horatio Feltrio, viro patritio, operetta scritta nel 1625, e non mai pubblicata. Oltre a questo, ed all'opuscolo intitolato: Neapolis liberata, Discursus juridicus politicus adversus Julium Genuinum, populi pro-electum, ejus asseclas complices et fautores super seditionibus et tumultibus ab eis Neapoli commotis 1620, che è un'allegazione giuridica di poco o nessun valore storico. Possono anche utilmente consultarsi, i Diurnali di Scipione Guerra, recentemente per la prima volta dati alle stampe dalla Società Napolitana di Storia Patria per cura dell'egregio Marchese de Montemayor; il Parrino nel suo noto Teatro eroico politico de' Governi de' Vicerè di Napoli (dal quale copia il Giannone nella sua Storia Civile ), ed il Leti nella Vita di d. Pietro Giron duca di Ossuna, Amsterdam 1699, t. 3 n. 12.

Ma principalmente importante sul proposito è una Raccolta di relazioni, lettere e documenti diversi, intorno ai fatti di quel tempo, che, meno qualche scrittura stampata con lo Zazzera, si conserva tuttora inedita. Essa è opera di not. Giovan Berardino Giuliani, o de Juliani, che fu poscia Segretario della Piazza del Popolo, ed autore della Descrizione dell'apparato fatto nella festa di San Giovanni del 1631, e di un Trattato del Monte Vesuvio e de' suoi incendii del 1632. Egli inoltre vi appose molte postille ed annotazioni illustrative. La Raccolta è variamente intitolata. Un esemplare, che a me sembra l'originale del Giuliani, e che si conserva nella Biblioteca Nazionale (X-C-10) porta il seguente titolo: Historia veridica delle cose notabili successe nel regno di Napoli e nella Corte di Spagna sotto i governi del duca di Ossuna e dei Cardinali Borgia e Zapata e del Vicerè duca d'Alba etc. dall'anno 1617 all'anno 1624, coi documenti autentici dei fatti occorsi; registrati da me Giovan Bernardino de Juliani, segretario del fidelissimo Popolo di Napoli. Il Ms. è di carte 479 e finisce con una fede stampata di notar Romano del 9 giugno 1624 sulle cariche avute e lodevolmente esercitate dal Giuliani. Un altro esemplare pur anco originale e che inoltre ha le postille autografe dell'autore, ma mancante della fine, si conserva da me, ed è intitolato: Cose varie e curiose raccolte da notar Giovan Bernardino de Giuliani de Napoli, nelle quali particolarmente si ha notizia di quanto con verità passò in Napoli al tempo del Duca di Ossuna et alla fine di esso nell'anno 1620, et di quello, che succedè all'uscir di detto duca di Napoli, et alla Corte et altre cose curiose.

Inoltre, qualche mezzo secolo dopo del Giuliani, un benemerito cultore delle patrie memorie riunì in una sola opera tatto quello che potette raccogliere intorno al governo del Duca di Ossuna e di alcuni Vicerè suoi successori, sino al 1624, ed intitolò questa raccolta: Successi del duca di Ossuna. Egli distribuì la materia in 5 volumi, nel primo dei quali rescrisse lo Zazzera, e nel 2º, 3º e 4º riunì la compilazione del Giuliani e vi aggiunse altre cose che sull'argomento a lui riuscì di trovare. Il raccoglitore ebbe l'opportunità di avere tra le mani alcune scritture autografe del Genoino che erano restate presso i suoi nipoti, e ne trascrisse nel suo libro le più notevoli.

Giova a tal proposito notare, come nel Diario di Giuseppe Campanile, del quale sopra feci parola, si accenna a queste scritture del Genoino, e si dice che “tra di esse vi erano varie composizioni manoscritte dell' Historia di Napoli, opera assai faticata da esso in più anni et altre materie notabili a favore del popolo: tutti i biglietti inviatigli dal duca di Arcos in questo tempo (1647) et altri scritti legali„. Campanile Diario f. 25 v.

Il Genoino stesso in una sua Apologia all'abbate Torrese per haverli contradetto l'ingresso e luogo acquistato con una lunga età nell'Almo Collegio de' Dottori, scrittura che si trova al f. 432 mihi del vol. III della cennata Raccolta, compendiando i fatti della sua vita, conchiude così: “se si trova che alcuno falso historiatore o altro avesse scritto per historia l'opera del Duca et mia il fatto in altro modo di quanto ho detto, tutti hanno mentito et mentono, come falsi, et così farò constatare per pubbliche scritture in un'Apologia quale darò in luce (f. 437).„ Ma quest' Apologia o non fu scritta o andò perduta.

Molte copie di questa Raccolta dei Successi del duca di Ossuna fatta verso il 1670, le quali appartengono ad epoche ed a mani diverse, esistono nelle pubbliche e private biblioteche, e sono state da me consultate. Nella Biblioteca Nazionale se ne ritrovano del secondo (X.-B,-4), del terzo (X-B,-5) e del quarto volume (X-B,-32). Io ne conservo una del solo terzo, scritta verso la fine del secolo XVII.

Allorchè mi occorrerà indicare le scritture di cui mi sono servito nella narrazione che segue, io le citerò, secondo i Mss. da me posseduti, col titolo di: Giuliani, Cose varie, e di Successi varii t. III.

PARTE PRIMA LA PIAZZA DEL MERCATO DI NAPOLI E LA CASA DI MASANIELLO

I.

La piazza del Mercato di Napoli, tanto memorabile nella nostra storia, fu rinchiusa nel perimetro della città coll'ampliazione Angioina circa il 1270[3]. Prima di una tal epoca tutta la contrada era un campo vasto ed inabitato, che dalle mura e dai fossati posti ad occidente ed a settentrione, dove ora trovasi S. Eligio ed il Monastero dell'Egiziaca a Forcella, distendevasi verso mezzogiorno ed oriente fino al lido del mare, ed alla chiesa ora parrocchiale di S. Angelo all'Arena, che dal suo sito prendeva una tal denominazione[4].

Questa pianura, come già prima tutto il littorale fino al Molo piccolo, chiamavasi in quel tempo Moricino[5], ed il tratto più occidentale di essa campo del Moricino[6]. Qui, e propriamente lungo le mura, dove poscia fu edificato S. Eligio, ed accanto la porta, che dicevasi Porta nuova, anche allora si teneva il mercato della città[7]. Un fiumicello formato dalle acque esuberanti del fonte Formello, o sia dell'acqua della Bolla, che quivi accoglievasi, attraversava e chiudeva questo campo nel sito che si diceva e si dice il Lavinaio, ed indi andava a scaricarsi nel mare[8]. Al di là del fiumicello verso oriente sorgeva una piccola chiesetta con un contiguo romitorio, ove alcuni Frati Carmelitani da poco tempo avevano esposta alla venerazione dei fedeli una devota imagine della Vergine[9], ed innanzi la chiesetta una colonna con una croce, ed alquanto più oltre il sepolcreto degli Ebrei[10].

Tal era il campo del Moricino, allorchè nel 1268 fu il teatro di una sanguinosa e memorabile tragedia. Ai 29 ottobre di quell'anno Corradino di Svevia, per ordine di Re Carlo I d'Angiò, ivi subiva con alcuni suoi compagni di sventura l'estremo supplizio. L'infelice principe, che pel tradimento di Astura cadeva nelle mani del suo nemico, era stato, secondo che afferma uno scrittore contemporaneo, condannato[11] nel capo da un'assemblea di Sindaci, o buoni uomini deputati delle provincie di Terra di Lavoro e de' Principati, la quale riunita a tal effetto, e ligia del nuovo dominatore, aveva trovato, come suole avvenire, il diritto nella forza, e la colpa dove stava l'infortunio[12]. E in quel campo, l'ultimo rampollo della casa di Hohenstauffen, come Manfredi lungo il fiume Verde, trovava un'ignominiosa sepoltura

“Sotto la guardia della grave mora.„

Ma poco stante l'aspetto del campo fu mutato in massima parte. Re Carlo, che avea fissato la sua dimora in Napoli, e l'avea dichiarata capitale del suo reame, volse tosto le sue cure all'ampliazione ed all'abbellimento della medesima. Volle quindi che le murazioni e la porta, che dicevasi Porta nuova o del Moricino, si protraessero più verso oriente nel sito innanzi l'attuale chiesa del Carmine, lungo il descritto fiumicello, e nell'angolo della strada del Lavinaio[13]. Concedeva pure un buon tratto di suolo pubblico a tre pii francesi, i quali vi fondavano la chiesa di S. Eligio, e lo spedale pe' poveri ciechi e pe' mutilati in servigio del Re[14]. Collocava inoltre in questo sito accanto alle mura taluni pubblici edifizii, come il macello ( buczaria ) la panatica ( panecteria ) e la casa dello scaldatoio ( domus scaldatorii ), che era accanto al macello verso oriente, e che non saprei dire a qual uso propriamente servisse[15]. Poco tempo dopo, Re Carlo II, proseguendo l'opera del genitore, trasportava dalla contrada di Pistasi in questo sito i conciapelli, dando loro uno spazio accanto le mura verso il mare di canne 17 di lunghezza e 9 di larghezza, spazio, che aveva da un lato il nuovo Oratorio di S. Maria del Carmine ed il Lavinaio, dall'altro la via che conduceva alla spiaggia e la spiaggia stessa[16]. Contemporaneamente concedeva ampio privilegio ai Napoletani di continuare a tenere nel medesimo campo del Moricino il pubblico mercato due volte la settimana; e volendo che si fosse quel sito sempre nella stessa ampiezza e capacità conservato, prometteva che giammai nell'avvenire quel luogo o parte di esso ad alcun privato potesse esser donato o conceduto, o in qualunque altra maniera alienato e distratto[17].

Dopo quest'epoca la piazza perdette l'antica denominazione, e prese quella di Mercato di S. Eligio, e per lo più semplicemente di Mercato, con la quale nello stesso secolo e nel seguente comparisce più volte nella storia della nostra città. Qui infatti nell'agosto del 1346, Roberto Cabano, gran Siniscalco del Regno, Raimondo Cabano ed il Conte di Terlizzi conducevansi per essere bruciati vivi in pena della morte da essi procurata ad Andrea d'Ungheria marito della Regina Giovanna I. Il supplizio era accompagnato da atti della più nefanda ed inaudita barbarie. I rei dopo essere stati tormentati con tenaglie infuocate e frustati per le principali vie della città, giunti nella piazza, chi semivivo e chi morto, venivano gittati nel fuoco. Allora il popolo accorso in gran numero all'atroce spettacolo, slanciandosi quasi tra le fiamme istesse, ne estraeva i corpi degl'infelici, e con le accette li spaccava come legna, ed indi ritornava a gittarli nel fuoco. Nè contenti di ciò alcuni artigiani dalle ossa formarono poscia dadi e manichi di coltello, secondo che ci attestano alcuni scrittori contemporanei[18]. La vecchia Filippa Catanese, che i Napoletani volgarmente chiamavano la mastressa (mastrissa, magistressa) non perchè, come dice il Villani (L. XII, c. 52), fosse la maestra della Regina, ma perchè intrigando dominava in Corte, pure condannata allo stesso supplizio era preventivamente morta nelle carceri[19]. Qui pure nel 1348 Landulfo e messer Giacomo della Polla presi da Ludovico re d'Ungheria, che era venuto a vendicare la morte di suo fratello Andrea, erano impiccati per la gola, come rei d'aver consentito allo stesso delitto[20]. E pare che in quel tempo le mura della città nel medesimo sito fossero cadute o abbattute, perchè gli Ungari, qualche anno dopo, ritornati in Napoli, combattendo cogli uomini d'arme del secondo marito di Giovanna, entrarono senz'alcun intoppo nel Mercato, e saccheggiarono le botteghe della bucceria, che stavano appresso delo dicto mercato[21].

Nel secolo seguente qui, e propriamente nell'orto di Agostino Bonsani o Bongiani, ricco mercante fiorentino, la Regina Giovanna II, invitata alle nozze della figliuola di lui, veniva un giorno a convito. Era allora il 13 settembre 1416. Moltissima gente del popolo e parecchi nobili, che si erano già prima indettati sul da farsi, ingombravano il Mercato e le vie circostanti. Dopo pranzo la Regina si affacciò alla moltitudine, che gridava: Viva Madamma la Regina, e dicendo: Signori per Dio non me abbandonate, nè fatime trattar così da mio marito, non mi abbandonate, eccitò tutti a por mano alle armi. Allora messer Ottino Caracciolo ed i fratelli, che erano i capi della congiura, presero Giovanna in mezzo, e non facendola ritornare al Castel nuovo, dove era suo marito, per la via de lo Pendino de S. Augustino la condussero al palazzo arcivescovile, e di là nel giorno seguente al castello di Capuana. Così essa ripigliò l'autorità ed il comando, che Giacomo della Marca dopo il matrimonio si aveva appropriato[22].

La piazza aveva allora poche abitazioni. A settentrione, oltre l'orto del Bongiani, di cui abbiamo parlato, vi erano parecchi altri giardini, e tra essi quello principalmente di Diomede Carafa, conte di Maddaloni[23], di cui resta tuttora memoria nel nome di Orto del Conte, in alcuni vicoli ivi posti. Nelle fazioni, che indi seguirono in Napoli per le contese tra la stessa Regina Giovanna ed Alfonso d'Aragona, costui dopo che ebbe inutilmente tentato d'impadronirsi di Castel Capuano, ove la regina dimorava, qui come in luogo ampio e spazioso[24] ridusse le sue schiere Catalane, evitando le anguste e tortuose vie della città, nelle quali avrebbe potuto essere facilmente oppresso dai Durazzeschi, che in Napoli erano molti e prendevano le parti della regina.

Ma verso la fine del secolo, per l'incremento continuo e progressivo della popolazione, il recinto angioino si allargava anche dippiù, ed il muro della città fu inoltrato più in là, dove fino a tempi nostri abbiam potuto e possiamo ancora osservarne le vestigia. A 15 giugno 1484 re Ferrante I d'Aragona con gran solennità iniziava questa nuova murazione, gettando alcune monete d'oro per memoria nelle fondamenta di essa, e ponendo un palo per segno della nuova ampliazione dietro la chiesa del Carmine[25]. Così sparivano a poco a poco gli orti e i giardini, che nella contrada esistevano, e si mutavano in numerose case ed abitazioni, le quali, dopo che i nobili ed i ricchi preferirono di portare la loro dimora nella parte occidentale della città, quando ivi sursero la novella via di Toledo ed il regio palazzo, furono ordinariamente lasciate agli artigiani ed alla infima plebe.

La piazza verso la meta del secolo XVII, allorché fu il teatro di uno dei più memorabili e singolari avvenimenti che ci ricordi la storia, presentava, specialmente per gli usi e pei costumi del popolo di quel tempo, un aspetto assai diverso dal presente. Essa, senza comprendervi lo spazio innanzi al Carmine, aveva la estensione di più di 12 moggia e quarte due dell'antica misura napoletana[26]. Lungo la linea dei fabbricati girava intorno una via, che dalle selci vesuviane, ond'era costruita, veniva volgarmente chiamata l' inseliciato[27]. Il resto della piazza era semplicemente in terreno battuto, ed era in molte parti sozzo, dove da piccoli pantanetti di acqua, dove da pozzanghere e da mucchi di lordure, in cui a loro posta s'avvoltolavano i porci in gran numero, che allora potevano impunemente vagare per la città. Le case per lo più irregolari avevano le finestre con le gelosie e senza invetriate o con le impannate spezzate in croce e chiuse, invece di vetri che era piuttosto un lusso, con tele incerate[28]. Pochi erano i veroni, e tutti con parapetti di fabbrica, o con ringhiere di legname. Una tettoia fissa, ordinariamente di tavole impegolate, talvolta anche in fabbrica, sporgeva per lo più sulle botteghe, e col permesso del Portolano, magistrato municipale, dove più dove meno, si allungava fino a palmi nove e mezzo. Anche le cacciate o le mostre al di sotto potevano avere uno sporto simile, dove i bottegai usavano esporre le loro robe e le cose commestibili, di cui facevan commercio, e gli artigiani lavorare riparati dal sole e dalla pioggia[29]. Ai venditori di grascia e di pane, che chiamavansi volgarmente suggici[30] perchè soggetti alla giurisdizione del Giustiziere e del Tribunale di S. Lorenzo, era prescritto dagli ordinamenti municipali che dovessero tenere attaccata ad un'asta o sospesa alla porta, una tabella coll' assisa o tariffa dei viveri, secondo che era stata da quelli già determinata[31]. Una sudicia bandiera o una grossa frasca era poi l'insegna delle osterie, e tra queste sappiamo essere allora la più famosa la taverna de' galli[32]. È ricordato dalla storia come alcune di queste insegne fossero le prime bandiere usate dai lazzari, e come uno de' primi atti di Masaniello fosse stato l'aver tolto via dalle botteghe le assise che vi erano, allora per i molti dazii gravissime, e l'avervi indi sostituite le altre rifatte con prezzi più miti dal principe della Rocca, nuovo Grassiere, e da Francescantonio Arpaia, nuovo Eletto del popolo. Sopra taluna di queste botteghe di grascia[33] vedevansi inoltre dipinte le armi di qualche nobile e potente famiglia, o di qualche regio ministro, il quale occupava uffizii superiori ed importanti. Era questa una salvaguardia, onde potere a propria voglia rubare ed angariare il popolo minuto, e con essa senza timore alcuno bravare i ministri di giustizia ed i grascini, che avessero voluto fare il proprio dovere. Ben le leggi di quando in quando provvedevano a vietare un tale abuso, ma esse eran per lo più impotenti a reprimerlo. Imperocché nè i bandi municipali, nè un severissimo ordine del vicerè Duca d'Ossuna, col quale minacciavasi la galera a chi vi contravvenisse, ebbero per moltissimi anni effetto alcuno[34]. L'interesse de' venditori, l'orgoglio dei nobili e la stessa legge che accordava espressamente il privilegio del monopolio e della esenzione a coloro che fornivano di viveri la casa viceregnale e le milizie, contribuivano a far sempre più attecchire questa costumanza invece di estirparla.

Noi uomini del secolo XIX, avvezzi dopo le conquiste della rivoluzione francese all'uguaglianza di tutt'i cittadini in faccia alla legge ed ai procedimenti regolari ed uniformi nei giudizii civili e criminali, non possiamo comprendere gli ostacoli, che allora incontrava l'amministrazione della giustizia, e com'essa, anche quando eseguivasi, divenisse spesso arbitraria ed ingiusta. Privilegi locali e personali, immunità ecclesiastiche, feudali o municipali, ed altre cause di violenza o di corruzione, garantivano da una parte la impunità dei delitti; dall'altra le leggi stesse, non determinando la pena dovuta ai reati, e rimettendola ordinariamente all'arbitrio del vicerè o del magistrato, erano non rare volte ingiuste ed oppressive, ed in taluni casi anche un mezzo di basse e prepotenti vendette. Chi infatti allora si affacciava in sulla piazza del Mercato vedeva tosto sorgere quasi in mezzo di essa una trave con la corda per la pena dei minori reati, non che un talamo fisso ed una forca stabilmente eretta pel supplizio dei nobili e degl'ignobili colpevoli di più gravi delitti[35].

Ma nello stesso tempo dal vestibolo della chiesa del Carmine, il bandito Domenico Perrone ed i suoi compagni nel giugno del 1647 potevano guardar sorridendo quegli strumenti di tortura e di morte, ed in quel sacro recinto sfidare orgogliosamente tutt'i birri della G. Corte della Vicaria, che per colà dinanzi passavano. Così, il dritto di asilo, rimedio opportunamente introdotto dai Canoni nelle società barbare per aiuto del debole contro il potente, era allora per la malvagità degli uomini divenuto mezzo ai colpevoli per eludere le leggi e fonte non certo lodevole di ricchezza per i monasteri e le chiese[36].

La piazza, e forse più verso il lato occidentale, si vedeva allora in buona parte ingombra da molte baracche di legno, ove pure esercitavansi le piccole arti ed il minuto commercio delle civaie e di altre robe comestibili, ed ove, sia per custodia delle loro merci, sia per non avere più comodo abituro, dimoravano puranche moltissimi del popolo, che a quei mestieri intendevano. Quarantacinque anni dopo in una Situazione fatta dal Portolano della città se ne numeravano fino a 156 disposte in otto file, cominciando dalla croce di pietra che esisteva dietro S. Eligio. Alcune fosse profonde che, fatte in origine per conservarvi granaglie, nel 1656 servirono per sepoltura ai morti di contagio in quella terribile epidemia, stavano allora quasi nel mezzo e sotto della piazza medesima. Il luogo dopo quell'epoca luttuosa fu detto i Morticelli[37]. Qui ed in alcune fogne circostanti, allorché nel 10 luglio 1647 lo stesso bandito Perrone tentò di ammazzare Masaniello, per testimonianza d'alcuni scrittori furono riposti parecchi barili di polvere affinché dandovisi fuoco nel momento in cui la piazza era maggiormente piena di popolo, i sollevati fossero massacrati e le loro abitazioni ruinate e distrutte. Fallito il colpo si ebbero il Perrone ed Antimo Grasso suo compagno coi loro seguaci condegno e terribile castigo. Nè finalmente in tutto l'ambito della Piazza mancavano posti o banchi fissi per altri venditori che non avevano botteghe o baracche; tavolilli[38], o tavolini, ove si esponevano le frutta in quadretti[39], o sia disposti ordinatamente in quadri; salmatari o ortolani che vendevano erbe ed ortaglie; e spesso anche palchi per i cerretani ed i saltimbanchi, ove si facevano balli, salti, forze d'Ercole, mattacini e commedie, le quali colla loro rozzezza e coi modi satirici ed osceni ricordavano le antiche favole Atellane.

Era questo l'aspetto generale della Piazza verso la metà del secolo XVII.

Ma a compimento del quadro, che io ho tentato di abbozzare, giova riferire le parole di uno scrittore contemporaneo, che descrivendo alle signore Milanesi il movimento che in essa facevasi, quando vi si teneva mercato nei giorni di lunedì e venerdì di ciascuna settimana, in questo tenore ne discorre:

Dirò de la gran piazza del mercato

Dove tutti vi vanno

La settimana ogn'anno

Due volte sempre, chi per lo suo affare

E chi per tempo à vendere, ò comprare.

Ivi tiensi apparato

Il grano, e l'orgio e tutto il miglio insieme

Nè molto indi distante

I ceciri, i fasoli, e fave frante.

Così gran quantità d'ogni altro seme

Ch'à seminar convien prato, e lupini

Con quanto è di bisogno à quei giardini;

Cento carri di vini

L'un dopo l'altro in ordinanza posti

Carrichi di suoi fosti

Colà vedrete, e quà cento facchini

Con i barrili in spalla, ad aspettare

S'alcun vuol comperare

A posta sempre, sol per guadagnare.

Più innanzi havete i lini,

Bianchi, forti e maturi

Mà più, che il ferro duri,

Come gli vuole il mio napoletano

Maturati ad Agnano;

Tale un lago chiamato

Ch'imbianca il lino e non lo fa salato.

Qui porci, asini, capre, agnelli, e bovi

In infinita quantità vedreste

Qui cento e mille ceste

Donna mia tu ritrovi

Cento sporte e panari

Di frutti e tutti rari

E mela, e pere, e là mille sportoni

D'uva, persiche, fichi e di melloni,

All'altra parte poi cento montoni

Di noci e di nocelle

Castagne verdi, secche e mondarelle;

Quà giumenti e cavalli

E là galline, et oche, anatre e galli.

Cento tende parate

Donne mie ritrovate

Havreste voi per vestir la famiglia

e qui l'olive e la buona caniglia

Molte tele vedreste

Se comprar le vorreste

Bianche, brunette e forti

Di cinquecento sorti

Come certe altre, ch'han le villanelle

chiamate cetranelle

che fanno invidia a quelle in fede mia,

De la Cava, ò di santa Patricia

Di più sarian da lor begli occhi visti

Trecento semplicisti

Voglio dir non dui soli

di quei nostri herbaioli

da cui prendon sovente i spetiali

l'herbe atte à i servitiali

E semplici con fior più d'una sorte

Con cui fan spesso resistenza à morte[40]

Ecco ora alcuni particolari degli edifizii e del vicoli, che per tutt'i lati circoscrivevano la descritta piazza. E primieramente nel sito poco più oltre, dove ora vedesi la seconda fontana verso il Carmine, esisteva allora una piccola cappella isolata e con volta arcuata col titolo di S. Croce. Essa era di palmi 20 quadrati ed aveva due porte, una dalla parte di mezzogiorno, l'altra dalla parte d'oriente. All'altare nel lato settentrionale della cappella era soprapposta una colonna di porfido alta circa palmi 10, e di palmi 4 di circonferenza, su cui sorgeva una croce di marmo, e nel muro posteriore vedevansi dipinte le imagini della B. Vergine, di S. Giovanni Evangelista, della Maddalena e di S. Orsola. Nella parete occidentale erano inoltre dipinti i fatti di Corradino di Svevia, il suo passaggio in Italia, la disfatta di Tagliacozzo, la presa dell'infelice giovine in Astura, e la morte nel campo del Moricino[41]. Per antica tradizione credevasi che questo fosse stato il luogo, ove fu decollato il misero giovanetto, di tal che un pietoso napoletano per nome Domenico Punzo conciatore di pelli, nella metà del secolo XIV vi erigeva l'accennata cappella. Ora la colonna di porfido ed un ceppo colla impresa dell'arte del Coriarii veggonsi nella sagrestia della nuova chiesa del Purgatorio al Mercato[42]. Nei tempi, di cui discorriamo, accanto alla cappella era il posto dei venditori di lino[43].

Le case nel lato meridionale della piazza tiravano verso il Carmine più in là di quello che al presente s'inoltrano. Per allargare lo spazio innanzi al castello, parecchi fabbricati vennero in quel sito abbattuti sotto il governo del vicerè Conte di Pignoranda nel 1662. E qui nell'angolo incontro la chiesa ed il convento da una parte, e la sopradescritta cappella della Croce dall'altra[44], trovavasi allora collocata la statua di una donna incoronata e sedente con una borsa tra le mani[45]. Tenevasi allora comunemente che fosse quella l'imagine della madre di Corradino, chiamata erroneamente Margherita, la quale, venuta in Napoli per salvare il figliuolo caduto nelle mani di Carlo d'Angiò e trovatolo morto offriva i tesori portati a quest'oggetto ai frati del Carmine per l'ampliazione della loro chiesa e del convento. La statua che, non di Elisabetta madre di Corradino, ma piuttosto, come non ha guari ha dimostrato il principe Filangieri[46], era di Margherita, seconda moglie di Carlo I d'Angiò, ne' tempi successivi fu trasferita nel secondo chiostro del medesimo convento, e poi sotto la porta su cui s'erge il famoso campanile di fra Nuvolo, e di là finalmente nel Museo di S. Martino, ove ora ritrovasi.

I vicoli, che da questo lato sboccano nella piazza, appartengono al quartiere della Conceria, che estendevasi verso mezzogiorno fino alla muraglia fatta costruire per timore dei Turchi nel 1537 dal Vicerè D. Pietro di Toledo. Da qui si usciva poi sul mare per una porta col prospetto a levante, che dicevasi della Conceria, ed era posta innanzi la chiesa di S. Caterina in foro magno; e più in là per un'altra porta che dicevasi di S. Maria a parete da una cappella di Nostra Donna ivi esistente, e della quale ora, posciaché le mura furono cangiate in abitazioni, vi rimane un semplice arco[47]. Era questo il quartiere del conciapelli[48], i quali allora formavano due corporazioni, distinte in arte grossa e piccola. Gente ardita e robusta, essi s'adoperavano ad estinguere gl'incendii, allorché non era ancora istituita presso noi alcuna compagnia di vigili, o di altre persone a tale oggetto ordinata. Da questo stesso lato verso S. Eligio fino ai tempi del Celano si notava il sito sopra alcuni archi, ove un tempo fu fondato lo spedale di Niccolò o Nicola di Fiore, detto volgarmente di Cavolofiore. L'aneddoto, che diè causa alla sua abolizione, è noto nel popolo, e ci viene così raccontato nel suo rozzo ed ingenuo stile da un nostro antico scrittore. “Detto Cola, dice egli, andando un giorno nela preta del pesce per comprar del pesce, ritrovando un cefaro solo, ch'altro pesce non vi era, facendo il patto con lo pescatore, et non furno d'accordo, nel medesimo istante arrivò lla un ferraro mal vestito, e subito s'accordo con lo pescatore, e si pigliò il cefaro, dove detto Cola, qual stava a vedere, ne rimase molto ammirato, et li dimandò che arte faceva, li rispose, ch'era ferraro, e replicando detto Cola quanto tempo havea posto a guadagnare detti danari ch'havea dispeso al cefaro, li rispose che ci era stato dui o tre giorni; li ricordò detto Cola, come ti governerai si ti accaderà alcuna infermità; detto ferraro li concluse che nel presente voleva godere, et si alcuna infirmità li fosse venuta da poi, non li saria mancato l'ospidale di Cola di Fiore, non conoscendo detto Cola; quale intendendo questo disse, adunque io faccio l'hospidale per li poltroni, e così mancò di seguire dett'hospidale, et il Diavolo vinse che non si seguisse detta buon'opra[49] „.

Nel lato occidentale della piazza non vedevasi nel tempo di cui discorriamo, la facciata regolare e di soda architettura, che ora ha lo Stabilimento di S. Eligio. Ivi allora scorgevasi la parte postica della chiesa coi suoi finestroni gotici, ed indi le fabbriche non molto elevate dello spedale e del conservatorio, ed innanzi, sopra il terrazzo di alcune botteghe, una cappella intitolata a S. Maria della Neve. Era questa antichissima ed aperta da ogni lato verso la piazza affinché la messa, che ivi, per inveterata consuetudine, nei giorni di mercato celebravasi, potesse, da tutti coloro che colà convenivano, vedersi. Una campana avvertiva allorché dal sacerdote consacravasi, ed era, dice lo Stefano, mirabil cosa a vedersi come in un attimo tutta la innumerevole gente, che nel Mercato allora trovavasi, intermettesse subito i suoi negozii prostrandosi devotamente al santo sacrificio, e come al chiasso ed al tumulto succedesse immediatamente un profondo ed istantaneo silenzio. Sull'altare della cappella era dipinta nel muro la B. Vergine con S. Agnello, S. Gennaro ed altri Santi[50].

Volgendoci dall'altro lato, tutta la contrada posta a settentrione della piazza che come già accennai, dicevasi una volta l'Orto del Conte, denominazione ora rimasta soltanto a due vie parallele alla stessa piazza, allora era ed è tuttavia intersecata da più vicoli che presero successivamente varie e diverse denominazioni. Così il primo, che incontrasi dopo l'angolo di S. Eligio, fu detto, e dicesi ora de' Cangiani[51]. L'altro che segue è il vico dei Spicoli, che così pure chiamavasi nel secolo XV[52]. Più oltre sbocca il vico delle Barre, che trovo così denominate fin dal 1449, e dove nel 1529 ebbe cominciamento la peste in Napoli[53]. Ad esso dalla parte superiore corrispondeva il Fondaco dei Cenatiempo, così detto da questa famiglia, che ivi aveva un ampio palagio[54].

Il vico che segue de' Barrettari, fu chiamato una volta de' Scannasorici[55] per qualche possedimento di questa nobile famiglia, già estinta nel sedile di Portanova e poi dei Scafari[56]. Esso, come ben dice il Celano (III, 263), dovrebbe dirsi piuttosto dei Parrettari, perchè qui si facevano quelle pallottole, che si scagliavano dalle baliste, allorché non era tanto in uso lo schioppo, e che da noi si dicevano parrette[57]. Sotto l'arco, che dalla piazza immette in questo vicolo esisteva nel secolo XVII una cappella di S. Maria delle Grazie dei carrettieri[58].

Procedendo più oltre verso oriente, il vico che segue ebbe in prima il nome di Lioni o fontana delli lioni, forse da qualche fonte che quivi vedevasi, o l'altro, generico a tutta la contrada, di Orto del Conte[59]. Poscia fu detto del Carminello dalla chiesa della Vergine sotto questo titolo, che fondata verso la metà del secolo XVI, fu nel 1611 data ai Gesuiti, ed ampliata con denaro del Monte della Misericordia e di alcuni pii gentiluomini Napoletani, i quali per altro intendevano ad una diversa opera di beneficenza.

La via, che è l'ultima da questo lato, fin sopra, dove sta ora la Chiesa di S. Maria delle Grazie all' Orto del Conte, fu chiamata allora dei lanaiuoli[60], forse perchè in tutto il contorno di essa non vi era vicolo, come dice il Celano, che non fosse pieno di donne che filavano lana[61]. Ora per quel tratto dov'essa è più larga e spaziosa dicesi Piazza larga, per l'altro, che è più angusto e tira su alla trasversale di S. Maria della Scala, prende il nome di via Salaiolo.

In sul cominciare della strada Piazza larga, ed, a quanto pare, a dritta di essa, stava in quel tempo la casa e la dogana della farina, dentro la quale vedevasi pure un'altra chiesetta sotto lo stesso titolo di S. Maria delle Grazie fondata nel 1597 dai vastasi o facchini, e specialmente da quelli che intendevano a trasportar la farina dalla dogana e a distribuirla per i panettieri della città[62]. Per regolamento municipale erano costoro obbligati a matricolarsi in S. Lorenzo, e dovevano dare plegeria de fideliter exercendo il loro mestiere[63]. Dopo che verso la fine del secolo XVI il vicerè Conte di Olivares fece fabbricare un nuovo edificio per la conservazione dei grani al Mandracchio, questa casa colla dogana fu adoperata soltanto per le provvenienze di terra, e nel breve imperio di Masaniello servì di carcere a molti della nobiltà e dell'ordine civile che, caduti in sospetto del popolo e quivi trattenuti per essere giustiziati, vennero poscia per le pratiche del cardinale Filomarino liberati.

Chiudeva la piazza dal lato d'oriente un'isola di case dal vico rotto o del pero fin dove termina la strada del Lavinaio dinanzi la chiesa del Carmine. E qui, poco dopo il vicolo, stavano gli ufficii dell'arrendamento di piazza majure o piazza maggiore;[64] e dell'arrendamento del grano a rotolo, dazii di consumo sugli animali e sulle carni fresche e salate, non che sulle provole o sia provature ed ogni altra specie di formaggio[65]. Il sito prendeva allora da quell'ufficio la denominazione di Piazza majura, ed ora, conservando tuttavia le tracce dell'antico balzello, che ivi riscotevasi, dicesi comunemente la gabella delle provole. Alquanto più oltre vedevasi una gran fontana circolare di piperno, con una piramide nel mezzo, che da più fistole buttava acqua[66], ed in sulla estremità dei fabbricati allo sbocco della strada del Lavinajo rimanevano ancora i ruderi della vecchia porta Angioina, rovinata in parte nel 1637 per l'incendio di talune case contigue; mentre pochi anni prima eransi diroccate altre case, le quali, prolungandosi più in là verso mezzogiorno, impedivano la vista della facciata della chiesa del Carmine[67]. Il sito dicevasi il Ponticello[68], ed era destinato alla vendita delle robe commestibili di cattiva qualità[69].

II.

Del resto tutto l'isolato, con cui abbiam compiuta la descrizione della piazza del Mercato nel secolo XVII, non presentava allora altro di notevole; nè ora meriterebbe l'attenzione dei posteri, se non ricordasse un uomo ed un avvenimento, memorabili certo per ogni napoletano non incurioso della patria storia. Qui infatti e propriamente nelle prime case dopo il vico Rotto al primo piano, stava nel 1647 la povera abitazione di Masaniello o Tommaso Aniello d'Amalfi. Gli storici della rivoluzione napoletana di quell'anno, toccando di un tal particolare, tutti concordemente asseriscono che il capo e l'iniziatore di quella dimorasse in una casa che affacciava sulla piazza del Mercato[70]. Taluni inoltre riportano qualche più precisa indicazione. Il Giraffi, ed il suo pseudonimo il Liponari, nella Relazione data in quel tempo stesso alle stampe, asserisce che Masaniello abitava nel Mercato verso la parte sinistra della fontana ivi vicina, ed altrove ricorda l' isola della casa di Masaniello[71]. Il Campanile nel suo Diario tuttora inedito, ove si contengono preziose notizie riguardanti la storia di quel fatto, chiaramente afferma che Masaniello aveva la sua stanza a dirimpetto lo spedale di S. Eligio, che è situata sopra la gabbella dello bestiame al Mercato[72]. Maggiori particolarità troviamo negli altri scrittori contemporanei. Nel Racconto o Diario Ms. del Verde, con le correzioni e giunte del Tutini, leggesi che in quel tempo: “era venuta in Napoli una compagnia di ballerini, li quali facevano cento giochi con camminar sopra la corda, ed avevano preso luogo vicino la strada detta de' Lanajuoli al Mercato, non lungi la fontana, e posto avevano un palco di tavole, sopra del quale salivano a rappresentare„[73]: Leggesi pure: “che in questo tavolato saliva Masaniello scalzo e vestito di tela grossa con un berrettino rosso in testa, e dava ordini e leggi„[74]. Inoltre dal Tontoli sappiamo che Masaniello reggeva il popolo sopra il trono assiso di un tavolo mercenario a caso eretto da salterini giocatori sulla corda avanti sua casa; e dal Nicolai, che dava i suoi comandi alla plebe “sopra un palco fatto da alcuni cerretani poco discosto da casa sua„[75]. Le medesime cose son pure ripetute dal Donzelli, che aggiunge aver avuto questa casa corrispondenza[76] colla strada di dietro ( del Lavinajo ), dal Capriata[77], dal Tarsia[78] e specialmente dal dott. Aniello della Porta, il quale riportando qualche altra particolarità, afferma che Masaniello abitava su la strada del Lavinajo, e propriamente a la sbarra di Piazza Majura, e che dava udienza nei giorni del suo potere sopra alcune tavole nell'affacciata del Mercato sotto le finestre di sua casa a piazza Majura, che per prima vi stavano certi saltatori ciarlatani[79].

Ma niun altro scrittore, tra i moltissimi editi e inediti che ho potuto riscontrare, descrive con maggior precisione il sito di questa casa quanto un tal d. Giuseppe Pollio, scrittore di non molta levatura ma assai ben informato dei fatti che narra, perchè sacerdote ed abitante dello stesso quartiere. Questo Masaniello, egli dice, teneva la sua casarella nel Mercato sopra la gabella del grano a rotolo al muro della dogana della farina, vicino la piazzetta de li lanaiuoli allo lavinaro al primo appartamento dove sono le portelle congionte; la prima a mano destra era la sua; sopra le sue finestre vi era un aquila di pittura imperiale[80] fatta da molti anni prima per abbellimento credo di quella casa da 5 palmi alta, quale vi durò per cinque anni da poi delli tumulti. et credo che fosse stata levata da nuovi padroni di quella casa. Altrove aggiunge, che sotto la finestra di Tommaso Aniello vi era un lungo intavolato, che certe persone forestiere ci facevano giochi come salti, balli, et forze dercole, et continuarono detti giochi per molti giorni prima del narrato tumulto[81].

Qualche altro particolare che riguarda pure l'interno di essa casa, ci vien somministrato da una storia Ms. di questo avvenimento, di cui io conservo una copia recente avuta già dall'amico Minieri Riccio. In essa al fol. 7 leggesi: abitava (Masaniello) a man sinistra, quando si entra al Carmine; la sua casa consisteva in una sola camera, ove si ascendeva per una portella. E più appresso al fol. 36 v.: “ facendosi il signor Tomasaniello assistere da gente di confidenza attorno, diede ordine che tutta la riviera dei palagi attaccati con la sua casa, così di sopra fino al primo vicolo, come di sotto fino alla chiesa del Carmine, che si sgombrasse dalli abitatori „. Ed anche a fol. 36 aggiungesi: “ concorrevano tante gente alla sua udienza per ogni affare della città et regno et teneva tanti segretarii, parenti, amici et compatri attorno che nella sua piccola camera non si potevano movere, laonde comandò che si sfabricasse un muro divisorio con la camera del fratello, et essendo ciò fatto hebbe più comodità di dar udienza per le finestre, senza partirsi di casa et hora per una finestra della camera del fratello che haveva l'uscita alla strada del Lavinaro et hora per la sua propria ascoltando tutti faceva gratie et giustitie infinite[82].

Nè da ultimo mancano testimonianze di altra natura, che confermano quanto leggesi negli accennati scrittori su questo proposito. Chi si fa infatti a considerare il famoso quadro di Micco Spadaro, o, se pur non è suo, certamente d'altro pittore contemporaneo, quadro che ancora vedesi nel Museo Nazionale, scorge in fondo di esso dopo la cappella della Croce l'isola di case che chiude la piazza del Mercato dal lato d'oriente, ed innanzi ad essa la fontana che ho di sopra accennata; più a sinistra di chi guarda il palco, di cui discorrono gli scrittori della rivoluzione, è Masaniello in piedi sul medesimo che parla a molto popolo ivi radunato; e finalmente dietro al palco le due portelle congiunte, ed accanto un breve tratto di fabbricato, che costeggiando la piazza presenta un portoncino ed una bottega, e va a terminare al vico rotto.

Ora, comunque il lungo volger dei secoli, ed i mutamenti che la progredita civiltà, l'interesse o il genio dei proprietari ed il comodo o le necessità degl'inquilini han dovuto arrecare all'aspetto esterno ed alla distribuzione interna del descritto caseggiato, abbian potuto per avventura rendere questo in alcune sue modalità più o meno diverse da quello che era nel secolo XVII;[83] pur nondimeno non può mettersi in dubbio, che qui e propriamente o nel portoncino segnato col numero civico 177, o piuttosto nella portella che ha il numero 179,[84] ambedue a brevissima distanza dal vico rotto, dovette dimorare Tommaso Aniello d'Amalfi. La concorde autorità delle testimonianze contemporanee che ho di sopra allegate, ed oltre a queste l'attestato espresso dalle fedi parrocchiali, che notando la dimora della famiglia di Amalfi la designano sempre con l'indicazione al vico rotto, dimostrano con evidenza ed assai chiaramente la verità di quanto su tal fatto ho affermato[85].

Qui dunque, sebbene ora in qualche parte mutata, era senz'alcun dubbio la casa di Masaniello, e dalle finestre di essa, che erano assai basse[86], o dal palco vicino, egli nel suo breve imperio resse e governò Napoli con potere assoluto e quasi sovrano. Non vi era in quei giorni altro Magistrato o Tribunale nella città, non altro comando politico o militare. Gli stessi ordini del Vicerè non avevano per l'ordinario esecuzione alcuna, se Masaniello non ne avesse prescritta la osservanza colla formola che ci vien riferita dagli scrittori contemporanei[87], e che è la seguente: “Visto il presente bando d'ordine di S. E. si ordina da parte dell'Illustrissimo sig. Tommaso Aniello d'Amalfi Capitano Generale di questo fedelissimo popolo, che al sudetto bando le sia dato la debita esecuzione.„

La casa del vile pescivendolo era quindi più che il regio palazzo allora frequentata. Nobili e plebei, religiosi e cavalieri, cittadini e regnicoli, chi per necessità chi per curiosità, tutti accorrevano numerosi sotto le finestre di questa casa per loro negozii, o per vedere cogli occhi proprii il fatto stranissimo e singolare. E qui nel 10 luglio del 1647 il generale delle galee del Regno, Giannettino Doria, appena giunto nel golfo spediva un suo gentiluomo da Masaniello, perchè “Sua Sig.ª Illustrissima divisasse il modo, col quale esso Doria si dovesse governare;„ e qui l'arcivescovo di S.ª Severina volendo partire da Napoli mandava parimente, come molti altri signori per lo stesso oggetto, a ricercare prima il di lui beneplacito. Anche il cardinale Trivulzio[88], che andava vicerè a Palermo, ed allora trovavasi di passaggio in Napoli, insinuato dal Duca d'Arcos si portò qui un giorno a visitar Masaniello, il quale è fama che lo ricevesse dicendo: la visita di Vostra Eminenza benchè tarda pure ci è cara[89].

Qui seduto sul davanzale della finestra con le gambe penzoloni al di fuori, senza scarpe e senza calze il capitan generale del popolo, arbitro della vita e della morte, con una daga o un moschetto tra le mani, dava ordini, spediva provvigioni, e disbrigava gl'innumerevoli memoriali, che sulla punta delle canne o delle picche dalla strada gli si presentavano[90]. Nè deliberava soltanto sulla polizia, o sull'annona della città, sulle armi e sulle milizie, sulla giustizia civile e criminale e su quanto i 37 tribunali e magistrati, che allora erano in Napoli, la loro giurisdizione estendevano. Egli intendeva puranche riformare i costumi, regolare gli Ecclesiastici con strettissima disciplina, maritar tutte le donne di partito, e castigar di morte gli adulteri[91]. E negli ordini suoi, nelle disposizioni che dava, se non vuolsi ricusare la testimonianza di un uomo competente e che molto da vicino ebbe a trattarlo, voglio dire il Cardinale Filomarino, testimonianza che è pure confermata dagli scrittori contemporanei tanto napoletani che stranieri, è indubitato che il povero pescivendolo si comportò sul principio con grandissima prudenza, giudizio e moderazione, e che anco senza consulto d'alcuno nei primi giorni dette perfettissimi ordini di buon governo, e dimostrò grandissimo animo, spirito e sapere[92]. Ed era pure meravigliosa cosa notare con quanta prontezza e con che cieca obbedienza i suoi ordini, anzi i suoi cenni, erano eseguiti. Una leggiera fregatina di collo fatta coll'indice della mano era sentenza del tagliamento del capo; il pollice uncinato e premente il disotto della mascella era più sentenza che indizio di forca. In somma quel misero plebeo, era divenuto, come il cardinal Filomarino, che ebbe a trattarlo continuamente, scrive al Papa: un Re in questa Città, ed il più glorioso e trionfante che abbia avuto il mondo[93].

Fu in questa casa che nella notte del 10 luglio si deliberava delle sorti della città e del regno tutto, e si gettavano le basi delle capitolazioni, poi lette pubblicamente sul tavolato della piazza e nella chiesa del Carmine, ed indi giurate dal Vicerè nel Duomo. Principal consultore di questi trattati era d. Giulio Genoino, vecchio ottuagenario, allora prete, e che in sul principio fu l'anima e la mente della rivoluzione. Altri dottori mascherati si trovarono pure in casa di Masaniello in queste deliberazioni, e credesi che fossero Onofrio di Palma, Salvatore di Gennaro, e specialmente Vincenzo d'Andrea, che poscia ebbe tanta parte nel seguito della rivoluzione, ed indi anche nel ristabilimento degli Spagnuoli[94].

Qui pure a 13 luglio la gente del Mercato vide strano e curioso spettacolo. Il Vicerè dopo aver giurato i Capitoli nel Duomo, verso la sera di quel giorno per le vie del quartieri popolari di Napoli se ne tornava al regio palazzo. La cavalcata procedeva collo stesso ordine che aveva tenuto nell'andata. Si apriva con molti reali trombetti e con una compagnia di cento cavalli comandata dal suo capitano e dai rispettivi aiutanti. Succedevano indi parecchi Capitani delle 29 Ottine, in cui Napoli era allora divisa, dopo i quali Masaniello montato sopra un cavallo bianco, dono del vicerè, vestito di lama d'argento bianca, con un cappello in testa ornato parimente di piume bianche, augurio e simbolo di pace, e colla spada nuda tra le mani si dimostrava, a tutti riguardevole; e per la testimonianza di uno scrittore contemporaneo, e Spagnuolo di nazione, manifestava eccessi di varie virtù bastanti ad indurre il popolo all'applauso, l'Italia all'ammirazione, ed il mondo tutto ad uno stupore infinito ed incredibile[95]. A fianco a lui cavalcava Giovanni d'Amalfi, suo fratello puranche vestito di lama d'argento, ma di color cilestro, ed immediatamente dopo Francesco Antonio Arpaia, il nuovo Eletto del popolo, con due segretarii; d. Giulio Genoino che veniva appresso per la sua grave età condotto in una sedia di cuojo nero. Seguiva indi il capitano delle guardie di palazzo d. Diego Carriglio con quattro alabardieri, i quali precedevano la carrozza del vicerè tirata da sei cavalli, e circondata da paggi e palafrenieri e dai medesimi soldati Alamanni, che in quei tempi formavano la guardia d'onore del Vicerè. Molte carrozze chiudevano il corteggio, in cui erano i reggenti del Collaterale, i Consiglieri di Stato ed i Gentiluomini della Corte del Duca.

La cavalcata uscita dal Duomo aveva girato per la via Tribunali, per la Nunziata, e pel Lavinaro. Tutte le strade, per le quali passava, erano addobbate di tappezzerie, e, dove non si aveva di meglio, da bianche lenzuola, e le case avevano sulle porte le armi di Spagna da un lato e quelle del Popolo dall'altro[96]. Di quando in quando lungo il cammino s'incontravano sotto baldacchini di seta o di damasco i ritratti di Carlo V e di Filippo IV[97] che erano fatti segno alla pubblica venerazione[98]. I popolani armati sotto le rispettive insegne facevano ala al passaggio. Era un tripudio, una gioia universale. Tutte le campane delle chiese suonavano a festa, ed i gridi di viva il Re di Spagna ed il Duca d'Arcos, ai quali dava il cenno Masaniello istesso, si avvicendavano col suono dei tamburi, con i clangori delle trombe, e collo sparo festivo dei moschetti, che secondo gli usi della milizia salutavano il Vicerè nel suo passaggio.

Giunti innanzi alla chiesa del Carmine, fosse arte dello astuto spagnuolo, il quale intendeva con ogni modo a gratificarsi la plebe, fosse caso o ordine di Masaniello stesso, la cavalcata volgendo a dritta prese a girare intorno la piazza del Mercato. Così passava per sotto la casa di Masaniello, ove alle finestre stava la moglie di lui Bernardina Pisa, giovine, bella ed avvenente, la quale vestita di damasco turchino guarnito di una sola guarnizione e con una collana d'oro al collo[99], secondo l'antico costume del nostro popolo nelle grandi occasioni di festa e di allegrezza, gettava con un bacile di argento ai lazzari ed ai monelli colà raccolti grano, confetti, e danaro[100].

Il Duca d'Arcos, addatosi della persona di lei, o forse dimandatone a chi n'era informato, nel passare la salutò, cavandosi il cappello, come se fosse una delle più grandi dame della città[101]. Così egli, come dice il buon prete Pollio, che non poteva con più enfatica parola compendiare la grandezza e la singolarità del fatto, volle vedere Masaniello trionfante nella sua propria casa, ed indi fra gli applausi e le festive dimostrazioni del popolo, essendosi la città tutta per l'avvicinarsi della sera straordinariamente illuminata, verso le ore due della notte si ridusse al regio palazzo.

Ma la povera casa venne tosto in uggia al Capitan generale del popolo. Allorchè la gran mole dei pensieri, la lunga inedia, l'abuso del vino e le veglie protratte, e forse, più che tutto ciò, il veleno dell'adulazione, di cui era stato così largamente abbeverato dal Vicerè, perturbarono il suo cervello, egli ordinò — e guai a chi non avesse subito ubbidito — che fra lo spazio di 24 ore tutti quelli che dimoravano allato o di contro la sua casa, avessero le proprie abitazioni sgomberate[102]. Ivi egli disegnava ergere un maestoso palazzo che fosse degna dimora di uno, il quale aveva tanta potenza ed autorità sul popolo. La fine immatura di lui, chè non andò guari e vituperosamente cadde ucciso, troncò a mezzo il superbo disegno.

L'ultima volta che egli si mostrò alle finestre di quella casa fu nella vigilia della sua morte. Era alta la notte; il silenzio e la quiete succedevano ormai ai tumulti ed agli schiamazzi della giornata, ed i lazzari sdraiati nel torno ai fuochi, che sparsi per la piazza o posti nel capo d'alcuni vicoli della Conceria e dell' Orto del Conte cominciavano ad impallidire e ad estinguersi, chiudevano gli occhi al sonno. Poche scolte appoggiate al moschetto o alla picca guardavano mezzo assonnate la brace, che di quando in quando, gettando una fiamma più viva, illuminava fantasticamente i volti, e le bizzarre posture di quei plebei. Era uno spettacolo degno del pennello di Gherardo Hontorst o delle stile di Hoffman. Le guardie si vedevano più numerose intorno la casa di Masaniello, ove vegliavano sei compagnie comandate da Pione o Scipione Giannattasio del Lavinaro e da altri capitani più fedeli. Componevansi di giovanetti da 16 a 22 anni, antichi compagni del pescivendolo, per lo più cenciaiuoli o saponari, che portavano ordinariamente come special distintivo il graffio e la sporta. Lungo le mura delle case qualche rara ombra cercava di strisciare inosservata. Era Vanni o Giovanni Panarella della Conceria, o taluno di quelli che col Vicerè avevano concertato la morte di Masaniello, e cercavano l'opportunità di mandare ad effetto il loro disegno.

Balzato improvvisamente dal letto così com'era, in camicia, Masaniello si fece alla finestra, ributtando la povera madre e la moglie che cercavano di ritrarnelo, e dato il suo solito grido di comando, così cominciò a parlare[103]: “Popolo mio, (in questo modo egli soleva apostrofare i suoi seguaci e la gente che intorno a lui radunavasi) lascia che io ti dica due parole per mia soddisfazione. Tu ti ricordi, popolo mio, in che stato eri ridotto per le tante gabelle ed estorsioni, e per le tante tirannie, con le quali gl'infami traditori e nemici della patria ti opprimevano. Ti ricordi che non potevi saziarti di quelle frutta, di cui tanta copia ti dà questa terra benedetta, perchè dovevi pagare quelli arrendatori e gabelloti che ti dissanguavano. Ed ora la mercè di Dio e della SS. Vergine del Carmine (ed in così dire si toccava l' abitino che dal petto gli pendeva) tu guazzi e vivi nell'abbondanza e nella grassa, senza gabella e senza gabelloti. Ma per mezzo di chi, popolo mio, hai tu ottenuto tutto ciò? Chi ti ha levato da tante oppressioni e tirannie se non io che non ho risparmiato travaglio e pericolo alcuno per liberarti? E pure qual mercede ne ricevo da te, popolo ingrato! Dopo tutti questi servigii che io così fedelmente ti ho prestati, dopo tanti benefizii che ti ho fatti, ecco in che modo ne son riconosciuto da te. Oggi coll'abbandono e col disprezzo, dimani colla morte, perchè io so che sarò ucciso fra poco. Popolo mio, io son morto, ho visto che fino la montagna di Somma (il Vesuvio) mi è contraria, ed ha vomitato sopra di me un diluvio di fuoco. Ecco, vedete, io non ho più carne (e mostrava il petto ignudo) e questa pelle è solamente informata dalle ossa. Credetemi, io so chi è stato che mi ha ridotto in questa misera condizione, chi congiura per finirmi, e potrei anco annichilarlo. Pure io lo perdono, e voglio che questo Cristo anco lo perdoni„. Così dicendo, levò il crocifisso che avea tra le mani per benedire il popolo e soggiungeva: “Ecco che io ti voglio fare cinque benedizioni per le cinque piaghe di questo Cristo, anzi sette per le sette allegrezze, nò, voglio essere più liberale, sieno nove per li nove misteri„. E così fece, ed indi lasciando il Crocifisso, volle che portassero alla finestra tra due torce accese le teste del Duca di Maddaloni e del padre di lui che erano staccate dai loro ritratti, opere del cav. Massimo Stanzioni o di altro famoso pennello, e gridò: “Orsù, popolo mio, ecco i traditori della patria; io so che domani debbo essere ucciso, ma non me ne curo; voi però dovete trascinare quest'infame di Maddaloni, e tutt'i suoi compagni per Napoli, e poi, popolo mio, se vuoi star sicuro, e farti sentire da sua Maestà, devi seguire il mio consiglio, e fare un porto di questa piazza ed un ponte da Napoli a Spagna. In quanto a me io so e son certo di essere ucciso domani„. Tutte queste parole avrebbero certo grandemente commosso il popolo circostante, se vacillando di nuovo l'intelletto non avesse dato un'altra volta segni evidenti di aberrazione e di pazzia. Per mostrare col fatto lo stato, in cui per la inedia e per la fatica erasi ridotto, egli si scoprì il petto e il ventre e le parti anche che il pudore cela. L'atto strano eccitò il riso degli astanti, e la perorazione del discorso fu accolta con beffe e fischi all'uso napoletano. Il prestigio era perduto, o piuttosto si era ecclissato con la ragione del misero pescivendolo. Allora i parenti potettero ritrarlo dalla finestra stanco ed abbattuto com'era dalla commozione e dal travaglio.

* * *

La piazza del Mercato, che Masaniello voleva fosse sgombrata delle baracche di legno che la deturpavano, e che prendesse il nome di piazza del popolo, dopo la sua morte non ebbe alcun notevole mutamento sino al 1781. Allora per un incendio appiccatosi a quelle dopo i fuochi artificiali, che solevano farsi nella sera della festività della B. Vergine del Carmine, il suo aspetto fu cangiato nel modo come presentemente si vede. Poco dopo, nell'ultimo anno del secolo, la sua storia, che comincia col supplizio d'un Principe, fu chiusa con la memorabile e tirannica ecatombe di quei tanti illustri personaggi, che allora sagrificarono ivi la loro vita all'amore e alla libertà della patria.

PARTE SECONDA LA FAMIGLIA DI MASANIELLO

I.

Correva l'anno di grazia 1620, anno notevole nella storia napoletana ai tempi del viceregnato, sì per le novità allora tentate dalla piazza del fedelissimo popolo di Napoli nell'amministrazione del Comune, e sì per le turbolenze ed i rumori che ne seguirono; primi preludii della più famosa rivoluzione del 1647. Occasione e favore a queste manifestazioni ed ai tumulti davasi dallo stesso D. Pietro Giron duca d'Ossuna, che in quel tempo era vicerè, luogotenente e capitan generale del Regno per Filippo III, re di Spagna, Napoli e Sicilia. Egli da circa quattro anni governava il reame con varia opinione del popoli soggetti, allorché nel principio di questo anno 1620, contro ogni sua aspettazione, era dalla Corte richiamato in Madrid, e gli era dato per successore il cardinal Borgia, ambasciatore spagnuolo a Roma. Non è a dire quanto rammarico e dispetto l'ambizioso Duca risentisse da un tale ordine. Il governo di Napoli, secondo il detto d'un altro vicerè, non era da desiderarsi, appunto per non soffrire il dispiacere di doverlo un giorno lasciare[104]. All'Ossuna dunque, come a moltissimi altri vicerè che lo precedettero e lo seguirono in questo disgraziato paese[105], riusciva più che mai importuna la nomina del successore, epperò cercava ogni mezzo onde attraversare la venuta del medesimo e prolungare così per sè il governo di Napoli; se pure, come fu fama, non mirasse ancora ad usurpare dignità più alta ed indipendente.

Dovevasi in quel tempo per l'assenza dell'eletto Carlo Grimaldi, andato a Madrid[106] come ambasciatore della sua piazza, e per la morte di Ottavio Spina, che fino ai 21 marzo lo avea sostituito[107], nominare un proeletto del popolo, che durante quell'assenza amministrasse. Or tra i sei nomi presentati, com'era costume, al vicerè per la nomina, eravi quello del dottor Giulio Genoino, nato di onorata famiglia napoletana ed uomo di acutissimo ingegno e di sufficiente dottrina[108], ma di animo torbido ed avversissimo alla nobiltà. Costui dunque parve al Duca, e lo era infatti, uno strumento atto a menare ad effetto i suoi ambiziosi disegni, epperò fu in preferenza scelto tra gli altri a quell'importante ufficio[109].

Il governo municipale della città di Napoli risedeva in quel tempo nelle cinque piazze nobili, che dicevansi di Capuana, di Nido, di Montagna, di Porto, e di Portanova, ed in quella del Popolo. Tutte queste piazze, che chiamavansi anche seggi, non erano mai riunite in una generale assemblea, ma ciascuna deliberava separatamente, in guisa che il voto di quattro di esse, che fossero d'accordo sopra un dato negozio, costituiva la maggioranza nelle decisioni di qualunque bisogna del Comune. Ogni piazza nobile per l'ordine interno e per la propria amministrazione avea un governo di sei gentiluomini o cavalieri, come generalmente chiamavansi, meno quella di Nido che ne aveva cinque, d'onde si dissero i Cinque e Sei. Sei eletti nobili nominati da questi gentiluomini, uno per seggio, eccetto per Montagna, ove, perchè rappresentava anche l'abolito seggio di Forcella, se ne creavano due con un sol voto e l'eletto del popolo, avevano il potere, che potremmo dire esecutivo, nel governo della città, e formavano il Tribunale di S. Lorenzo, preseduto da un magistrato eletto dal vicerè, che chiamavasi Prefetto dell'Annona o Grassiere.

Sembra che in origine il popolo avesse nel Comune ingerenza maggiore. Ed infatti da alcuni documenti rileviamo che sotto gli Angioini esso contribuiva per la terza parte nell'amministrazione municipale, rappresentando le altre due terze parti i sedili di Capuana e di Nido da un lato, e quei di Montagna, Porto e Portanova dall'altro. Ma a poco a poco, nè, per mancanza di documenti può dirsi il come ed il quando, questo ordine di cose cangiò. Ai tempi di cui discorriamo, il Comune erasi costituito nel modo come sopra dicemmo, e la piazza popolare, che aveva anche perdute molte delle sue prerogative, stava in faccia alle nobili come uno a cinque. Così, per discorrere della maggiore e principal libertà, l'Eletto del popolo, che prima nominavasi a suffragio universale di tutti i popolani, dopo i tempi di d. Pietro di Toledo sceglievasi dal vicerè tra sei nomi presentati dalla medesima piazza e imbussolati tra 58 deputati eletti dal popolo, due per ciascuna delle ventinove ottine, in cui dividevasi allora la Città. Così pure i capitani delle ventinove ottine sceglievansi dal vicerè fra sei persone nominate da quelle; come tra i 58 deputati sceglievansi 20 a maggioranza di voti, e tra questi si tiravano a sorte 10, che assistevano l'Eletto nel suo uffizio col titolo di Consultori.

La perdita di queste libertà e prerogative municipali era l'oggetto di spessi reclami da parte del popolo,[110] ed era lamentata moltissimo dagli scrittori popolari di quell'epoca, come dal Summonte, dal Capaccio e dal Tutini[111]. E comunque i reclami per la sempre invaditrice prepotenza della nobiltà, non partorissero alcun effetto nella corte di Spagna e presso i vicerè, nè si curassero punto i lamenti di coloro, che cercavano di conservare le patrie memorie, pure e gli uni e gli altri facevano diffondere negli animi di quella classe, per altro assai ristretta del paese, che ora si direbbe borghesia, ed anche, sebbene più scarsamente, tra i popolani e la plebe, odii e desiderii, i quali maturavano i semi di una futura rivoluzione.

Erano in questo stato le cose, allorchè Genoino venne creato Eletto pro interim del popolo. Egli, preso che ebbe il possesso della carica ai 9 aprile 1620[112], comunque non ne fosse ancora il tempo, fece prima di tutto mutare nel reggimento popolare i consultori ed i capitani delle ottine. A questi uffici fece pure presciegliere dal vicerè persone da lui dipendenti e che erano tra i più famosi compagnoni[113], che allora fussero in Napoli, specie di vagabondi e faziosi legati in compagnia a comune difesa e vantaggio. Tra gli altri fu allora nominato[114] capitano del Mercato Francesco Antonio Arpaia, uomo di legge e valente schermitore[115], che dopo ventisette anni si vide novellamente ricomparire col Genoino, e dirigere per alcun tempo la rivoluzione che ebbe il nome da Masaniello. Con questi mezzi il Genoino pensava di favorire i disegni dell'Ossuna, e nello stesso tempo ottenere, se fosse stato possibile, il soddisfacimento delle aspirazioni del popolo. Egli contava specialmente sul favore che il Duca si aveva procacciato fra la gente minuta e nei quartieri popolari del Pendino e del Mercato, talvolta con qualche pronta giustizia[116], e cosa non comune in quel tempo, spesso colle feste e coi bagordi, e più di tutto coll'abolizione della gabella sui frutti imposta nel 1605 sotto il governo del Conte di Benavente, ed affittata allora per 84,000 ducati[117] l'anno. Un giorno che il vicerè passeggiava secondo il suo solito per la città, ed accompagnato e seguìto dalla plebe, alla quale gittava di quando in quando monete di argento, girava per la piazza del Mercato, passando per la baracca, ove risiedevano gli esattori di questa gabella, si accostò alla medesima, e smontato dalla carrozza, cacciò la spada che avea al fianco, e con quella tagliò le corde della bilancia con cui si pesavano le frutta. L'atto subitaneo e liberale, che fu poi seguìto da un bando regolare, destò il più indicibile entusiasmo nella povera gente ivi affollata, che più delle altre malamente soffriva questa gravezza. Tutti proruppero in istraordinarie grida di applauso e di gioia. I fruttaiuoli specialmente, che ivi più che in altra piazza della città erano numerosi, ne dimostrarono allegrezze grandissime, facendo per tre sere fuochi e luminarie, e portandosi nel terzo giorno in ischiera a Palazzo, per rendere al vicerè le grazie più solenni[118].

Or il Genoino, pensando che la plebe memore di questo beneficio avesse energicamente appoggiato le sue dimostrazioni in favore del Duca, nè dubitando della gente civile, alla quale credeva servire colle riforme municipali, la mattina del lunedì 18 maggio radunò i consultori della piazza popolare ed i capitani delle ottine nella sua casa vicino S. Giorgio Maggiore a Forcella, ed ai medesimi espose con calde parole il poco o nessun riguardo che i nobili avevano del popolo e del suo magistrato[119]. Indi seguìto da tre capitani di strada, e da molta turba armata, si presentò improvvisamente nel luogo della residenza municipale in S. Lorenzo, ove, come egli aveva preinteso, eransi riuniti i sei eletti nobili ed alcuni deputati delle piazze.

Oggetto di questa riunione era la notificazione da farsi alle piazze per la nomina degli ambasciatori e del sindaco[120]. I primi, secondo il costume, dovevano andare a far riverenza, l'altro indi ricevere il giuramento, e dare il possesso del governo al Cardinal Borgia nuovo vicerè, che in quella stessa mattina era giunto nascostamente in Procida. Il Genoino, lagnandosi di non essere stato avvisato di una tal riunione, dimandò arrogantemente agli eletti nobili: se sapevano quanto era potente il popolo di Napoli, e, sapendolo, perchè avevano attrevito (ardito) di unirsi e deliberare l'ambasciata al Cardinale senza il suo intervento[121].

Forse era questa la prima volta, che nel reggimento municipale della nostra Città si parlasse così arditamente dei diritti e del potere del popolo; magica parola, che e stata sempre la bandiera, per la quale i generosi sagrificano sè stessi al bene pubblico, ed i furbi cuoprono le ambiziose mire del proprio utile e dei privati interessi. Alle arroganti minacce i nobili risposero modestamente. Dissero aver essi invitato regolarmente il pro-eletto alla riunione, esser colpa del portiere se l'invito non era giunto a tempo; in ogni modo quell'atto non esser punto pregiudizievole alla piazza del popolo. Il Genoino però non mostrandosi soddisfatto di queste spiegazioni, e protestando essere necessaria una divisione fra le due classi, fece leggere al notajo Francesco Romano, secretario della piazza del popolo, una protesta sul proposito; e, scritto di propria mano il suo voto difforme nel registro del Comune[122], volle che la riunione fosse sciolta.

I nobili d'altra parte, i quali vedevano i tempi correre loro sfavorevoli, e sapevano che non avrebbero potuto trovare alcun appoggio nel vicerè, per consiglio di Pietro Macedonio eletto di Porto, che disse: Lasciateli protestare, perchè protestare e mendicare idem est, non fecero alcuna opposizione[123]. Deliberarono quindi ritirarsi, e rapportando il tutto ai reggenti del Collaterale ed al Cardinal Borgia per mezzo degli ambasciatori nominati dalle piazze a complimentarlo, spedirono Giovan Francesco Spinello a Madrid[124] affine di esporre al Re le loro lagnanze e ventitre capi di accusa contro il Duca d'Ossuna[125]. Frattanto si appartarono dalle cure del pubblico governo, e coi più compromessi della loro classe restarono chiusi nelle proprie case o nascosti nelle chiese e nei monasteri della città. Così il governo municipale di Napoli era lasciato a disposizione del solo Genoino, che provvedeva le cose e l'annona a suo modo e talento[126]. Nè con la venuta di Carlo Grimaldi[127] che era, come già dissi, l'Eletto titolare, da Spagna, le cose mutarono; perciocchè, obbligato costui dal Duca a dimettersi, lo stesso Genoino, sebbene non ne fosse ancora il tempo, fu creato Eletto dal vicerè, ed ai 29 maggio dopo aver cavalcato per la Città, preceduto e seguito dai portieri, e con la toga di giudice criminale, che pochi dì innanzi gli era stata pure accordata, portossi in S. Lorenzo, ove non essendo presente che un sol eletto nobile, prese possesso dell'ufficio ricevuto[128].

Bentosto un manifesto del fedelissimo popolo di Napoli scritto dal nuovo Eletto, e stipulato ai 30 del mese da notar Francesco Romano, dichiarò le intenzioni del Genoino. Con esso s'invitavano le piazze nobili ad intervenire fra otto giorni nella chiesa di Santa Chiara, ove si dovessero trattare tra quelle ed il popolo le riforme del reggimento municipale da lui proposte. Si dichiarava inoltre che mancando le dette piazze o persone da esse deputande all'intimato parlamento, s'intendeva proclamata la separazione tra la nobiltà ed il popolo, e lodandosi l'ottimo governo del Duca, si protestava contro la partenza del medesimo e si riteneva necessaria la sua presenza in Napoli pel servizio della Corona, finchè queste differenze non fossero concordate, e finchè non fosse fatta giustizia alle pretensioni della piazza popolare[129]. Intanto preventivamente ad istanza del medesimo Genoino, si chiamavano dal Duca in palazzo le stesse piazze nobili ed il Collaterale, perchè avessero conoscenza dei capi delle proposte riforme[130], e con quelle anche i capitani ed i consultori popolari, tanto della vecchia quanto della nuova sessione, perchè li firmassero.

All'ora stabilita nè la nobiltà nè il Collaterale comparvero. Gli stessi capitani delle ottine popolari non tutti assentirono, ed alcuni anzi ricusarono apertamente di firmare. Altri, tra i quali fu Marco Antonio Ardizzone, credenziere e conservatore dei grani della città, sotto il pretesto di non voler mostrare di cedere alle pressioni del vicerè (era presente il Duca d'Ossuna) proposero che l'assemblea si portasse in qualche luogo pubblico ed indipendente, come in una chiesa, ed ivi evesse più liberamente deliberato. E così fu fatto. Si andò nella chiesa di S. Luigi di Palazzo ivi vicina, ora S. Francesco di Paola; ove credendo il Genoino che si firmassero i capi proposti, nessuno volle farlo, ed ognuno andò via alla sua propria casa[131].

In questo frattempo la città per gl'insoliti avvenimenti, era piena di agitazione e di tumulto. Il grido sedizioso di serra serra, che in Napoli per lunga pezza fu il grido precursore della rivoluzione[132], spesso risonava per le vie più popolose. Allora le case e le botteghe si chiudevano, le officine intermettevano i loro lavori, il chiasso dei venditori ambulanti in un attimo spariva, ed un silenzio di tomba, che incuteva terrore negli animi, succedeva dappertutto. Erano queste dimostrazioni provocate, come credevasi, dallo stesso Genoino, affinchè, insorgendo il popolo, egli avesse potuto ottenere il suo scopo. Ma il momento non era ancora maturo. Pochi erano quelli che comprendevano la ragione e la utilità di quelle riforme che lo stesso reggente Costanzo, patrizio insieme e magistrato, trovava giuste ma inopportune[133]; pochissimi quelli che avevano la forza o la volontà di adoperarsi ad ottenerle. Nè il disquilibrio ed il danno negl'interessi materiali erano giunti a tale che potessero spingere la plebe a qualunque più ardita e pericolosa novità. Epperò nessuno allora si mosse, ed appena nel mattino del 4 giugno le salve di uso annunziarono che il cardinal Borgia aveva preso possesso della carica di vicerè, e si seppe che era stato nella notte segretamente introdotto nel Castel Nuovo, ed aveva ricevuto obbedienza dalle autorità civili e militari, che tosto la scena cangiò interamente. Il Genoino ed i suoi partigiani fuggirono o si nascosero, il Duca ai 14 giugno partì per le Spagne; non parlandosi più delle pretensioni del popolo, gli ordinamenti municipali seguitarono a reggersi nel modo che prima costumavasi, e tra gli spari degli archibugi ed il suono delle campane che dimostravano la gioia della maggior parte dei cittadini, i fanciulli andavano per le vie di Napoli in ischiere ed a coro, cantando:

Statte alliero citatino

Ca è trasuto 'o cardinale

Nce ha sarvate d'ogne male

E cacciato Genovino[134].

Or nel 29 giugno di questo stesso anno 1620, in cui accadde l'accennato movimento, che potrebbe acconciamente tenersi come il prologo del dramma svolto poscia nel 1647, alcuni popolani, uomini e donne, erano convenuti in una casa al primo piano al vico Rotto nella piazza del Mercato per festeggiare un lieto avvenimento. Si procedeva al battesimo di un fanciullo nato nel mattino, e che era il primogenito della famiglia che ivi abitava. Tutti portavano i loro abiti di gala. Gli uomini, alcuni, i più ricchi e smargiassi, coll' albernuzzo (specie di cappa) di teletta, col sajo di rascia a finte e liste di tarantola gialla, col giubbone di tela della Cava squartato e foderato di taffettà rancio, con cosciali e calze di stamma e stracci di seta legate con cioffe e sciscioli, e col collaro di tela fina, e cappello ornato di pennacchio e passacavallo[135]; altri — i più modesti — con casacche a campane con bottoni grandi di camoscio, calzoni ( cauze a brache ) di tarantola bianca, e calze alla martingala di negro[136]; altri finalmente, marinari o pescatori, in più semplici arnesi, con calzoni di dobletto o di tela bianca, e camiciuola di lana, e col tipico berretto rosso in testa. Nè mancava chi portasse le maniche a la spagnola larghe ed increspate, come era la moda in quel tempo, e chi, come i vecchi più tenaci delle antiche usanze, i calzoni colla giarnera (scarsella) ed i berretti piatti a tagliero[137]. Le donne vestivano con corpetto di scerghiglia, da cui compariva la camicia di tela di Bretagna, con gonnella di saia frappata, e con grembiule di filondente ornato di pizzilli a frangette, e di truglio (ciondolo tondo) di vetro[138] o con sottana di dobretto corta e tonda. Portavano, se giovani, le scarpe di sommacco piccato, o di cordovana, se attempate, chianielle, pantofanetti, o zoccoli[139]. V'era qualcuna del Molo piccolo col vestito e col manto proprio di quella contrada, di cui qualche raro esempio ora può trovarsi nelle donne di Procida[140]. Nelle fanciulle potevano notarsi le acconciature del capo o alla scozzese, coi capelli cioè a canestrette intrecciati da nastri o fettucce ( zagarelle ) incarnatine o verdi, tra cui taluna aveva posto una ciocca di ruta[141], o alla spagnola col tuppo, che con voce propria[142] di quella nazione dicevasi muño ( chignon ). Le maritate usavano il toccato, che era proprio del Mercato e Lavinaro[143] le foresi la magnosa.

La stanza, in cui quella gente era radunata, aveva un'assai modesta ma non povera apparenza. Una cassapanca a borchie di ottone, un canterale, una tavola di noce, ed in fondo un letto alto, senza trabacca, ma con biancheria di tela fina di bucato, e con coltre di seta, ove stava la puerpera, erano i principali mobili che l'ornavano. Allorchè fu chiaro che nessuno dei parenti e degli amici convitati mancava a quella domestica festa, la destra comare, che, senza intermettere la sua ordinaria loquacità, aveva finito di avvolgere tra le fasce il neonato, gli appendeva alle spalle alcuni amuleti, come denti di lupo, coralli, porcellini, e mezze lune di osso[144]; ed indi lo prendeva tra le braccia e portatolo in mezzo alla stanza, lo metteva in terra sul tappeto, che a tal oggetto da un ragazzo era stato in quel momento colà disteso. Poscia, volgendosi al padre del bambino, gli diceva: Ora su, compare, àuzate 'o paciunciello tuio, e benedicetillo e basatillo mmocca. (Orsù via, compare, alza da terra questo tuo bambino, e benedicilo e bacialo in bocca). Così faceva tutto allegro colui, ed indi lo dava tra le braccia del parente che era gli vicino, il quale baciatolo anche a sua volta, lo passava a un altro, e questi ad un terzo, in guisa che il neonato non era riposto sul letto della puerpera se prima non avesse fatto il giro di tutti gli astanti. E nel compire questa cerimonia, ciascuno aggiungeva il solito augurio, che in tale occasione costumavasi, cioè: Comme l'avimmo visto nato, vedimmolo nzurato[145].

Fatto ciò, la comare prese in braccio il bambino, e seguìta da alcuni dei parenti e da colui che dovea levarlo dal sacro fonte, non senza l'accompagnamento di moltissimi ragazzi e monelli che l'aspettavano in sulla strada, si collocò nella rituale seggetta o bussola, e s'avviò alla chiesa parrocchiale per compire il rito religioso.

La chiesa di S.ª Caterina in foro-magno era la parrocchia, da cui dipendeva la casa abitata dalla famiglia del neonato. Questa chiesa era stata fondata dalla Confraternita dei coriari o pellettieri (conciatori di pelle), e propriamente da quelli che dicevansi dell'arte grossa. In prima era una grancia di S. Arcangelo degli armieri, istituita dopo l'ampliazione della città nel 1536[146]. Poscia nel 1599 dall'arcivescovo Alfonso Gesualdo fu dichiarata parrocchia. Oltre alla congregazione suddetta radunavasi pure ivi la Confraternita del Santissimo Sacramento istituita nel 1568, la Confraternita di S. Maria di Costantinopoli fondata nel 1535, e la Compagnia dei pescatori da bolentino cannuccie e filaccione, della quale si conoscono le capitolazioni del 1585.

La chiesa, come ancora vedesi, era posta tra il convento del Carmine e le mura della città, verso il lido, ove a quei tempi era la porta del torrione della marina. La piazza, che vi era innanzi, dicevasi allora di S. Caterina, ed anche de li scamusciatari[147]. Fino a pochi anni fa esisteva la porta antica di essa, di piperno ed a sesto acuto, che nel 1850, rifacendosi, con cattivo consiglio fu ammodernata. Nei tempi, di cui discorriamo, l'edificio, di una forma alquanto più regolare di quella che è al presente, aveva due piccole navate laterali, di cui una a destra di chi entra esiste tuttora, e l'altra già fu adattata ad uso di sacristia. Aveva pure cinque altari, oltre il maggiore, con cone o di alto rilievo in legno indorato, o di tavole e dipinture dell'antica scuola napolitana, che tutte, meno l'affresco che vedesi ancora sulla cappella dal lato dell'epistola, furono sostituite da quadri moderni di mediocre pennello. Innanzi al presbitero, come era costume in quei tempi, una trave posta in alto a traverso sosteneva un crocefisso in legno. A sinistra di chi entra eravi il fonte battesimale, ed a destra quel braccio in fondo della chiesa, che si prolunga verso la marina e forma un lato ineguale ed abnorme dell'edificio, era una cappella che serviva allora per sacristia[148].

Era allora parroco di S. Caterina l'abbate D. Giovan Matteo Peta. Costui, adempito il rito prescritto dalla nostra religione, ed accomiatato il popolano che aveva tenuto il bambino al sacro fonte e la comare, entrò nella sagrestia, ove, toltisi i sacri paramenti, e preso da uno scaffale un grosso libro, su cui leggevasi: Libro XII dei battezzati, al foglio 44 verso, scrisse: A 29 Giugno 1620. Thomaso Aniello figlio di Cicco d'Amalfi et Antonia Gargano è stato battezzato da me D. Giovanni Matteo Peta, et levato dal sacro fonte da Agostino Monaco et Giovanna de Lieto al vico Rotto[149].

Francesco d'Amalfi, che nel dialetto napolitano dicesi anche Cicco, e che per burla comunemente era chiamato Ceccone, poco prima, come ci attestano i documenti della stessa parrocchia, si era congiunto in matrimonio coll'Antonia Gargano. Ai 18 febbraio dello stesso anno essi erano stati solennemente ingaudiati, ed il medesimo abbate D. Giovan Matteo Peta aveva col sacro rito legittimato e benedetto il loro amore, del quale l'Antonia portava già un pegno nel proprio seno in Masaniello. La cerimonia, per questa circostanza, fu celebrata in casa della sposa al Carmine, previa l'autorizzazione della curia arcivescovile di Napoli[150].

Ventun anno di poi nella stessa parrocchia compivasi un altro atto solenne della vita privata di Masaniello. Bernardina Pisa, vaga ed onesta fanciulla a sedici anni[151] aveva ferito il cuore del giovine pescatore. Egli la cercò in moglie, e la dimanda fu accettata e gradita.

Un giorno verso la fine del 1640 il giovine vestito dei suoi più belli abiti da marinaro fece la prima visita ufficiale, la sagliuta, come propriamente dicevasi dal nostro volgo, in casa della sposa, e portò alla medesima il dono di uso, conveniente alla scarsezza dei tempi ed alla propria condizione. Consisteva questo in due pendenti, una cannacca (collana), una grandiglia (specie di gorgiera all'uso spagnuolo), ed un ventaglio, alcune calze, delle legacce, e degli spilli, ed altre cose di tal genere[152]. Una stretta di mano ed un bacio alla sposa compirono il rito, e solennemente suggellarono la reciproca promessa di matrimonio[153].

Da quel dì alle finestre della casa di Bernardina, che era posta dirimpetto alla Chiesa del Carmine, e da quelle dei suoi parenti, come alle finestre della casa sulla piazza del Mercato accanto al vico Rotto, ove dimorava Masaniello, ed a quelle dei parenti di lui per alcuni giorni si videro pendere coverte di seta e tappeti. Così, secondo il costume, davasi conoscenza al pubblico del parentado contratto dalle due famiglie[154].

Il matrimonio in seguito fu solennemente celebrato nella chiesa di Santa Caterina, ove i due sposi tenendosi per mano, e seguiti dai proprii parenti[155], si recarono ai 20 Aprile dell'anno seguente e non mancò di alcuna di quelle cose che solevano allora costumarsi in simili circostanze[156]. Tutti i parenti e gli amici più stretti furono invitati e convennero alla festa. Tra i primi erano Antonia Gargano e Andreana de Satis, madre di Bernardina; poichè Cicco d'Amalfi e Pietro Pisa, genitori degli sposi, erano già morti. Vi era pure Grazia d'Amalfi sorella dello sposo e Cesare di Roma di Gragnano, che l'aveva recentemente impalmata[157]; Giovanni altro figlio di Cicco d'Amalfi, che allora aveva 17 anni[158], e che poscia nel 1647 ebbe parte al potere e alla fortuna del fratello; Girolamo Donnarumma altro cognato di Masaniello salsumaio e bottegaio di frutta al Pendino, che dopo la morte di lui nel settembre 1647 fu nominato capitano del popolo per qualche tempo[159]; Domenico de Satis e Giovan Battista Pisa zii della sposa ed altri molti. I due banchetti di rito, uno nella mattina in casa di Bernardina e l'altro nella sera in casa dello sposo, furono abbondanti e pieni dell'allegria franca e spensierata dei napoletani[160]. Nè vi mancò mastro Ruggiero col suo liuto, che canto le villanelle, e le canzoni più in voga in quel tempo[161]. La festa fu chiusa con balli e cascarde, e colla spallata che chiamavasi madamma la zita[162], danza propria dell'occasione.

Intanto lo stato del Regno procedeva ogni dì al peggio ed i popoli erano stremati dalle disgrazie naturali, dalle carestie, dalle scorrerie dei turchi, dal timore delle flotte francesi, e più che tutto ciò dall'insaziabile ingordigia del dominatori spagnuoli. Il Duca di Medina, D. Ramiro Filippo de Gusman, che allora governava il regno per Filippo IV, e che nella nostra città ha lasciato memoria di sè in una porta, fatta a spese di privati cittadini, ed in una fontana opera dei suoi antecessori, per sopperire alle incessanti richieste di denaro e di gente, che gli venivan fatte dalla Corte di Spagna, aggiungeva dazii a dazii, gabelle a gabelle, ed aumentava le già esistenti senza misura o criterio. Le antiche gravezze sulla seta, sul sale, sull'olio, sull'orzo sulla carne, sui salumi e sul grano si aumentavano ad una proporzione maggiore, e nuovi dazii s'imponevano sulla calce, sulle carte da gioco, su l'oro e l'argento filato, e sopra tutti i contratti di prestiti che facevansi nella città e nel regno. Si tentò pure la carta bollata, una tassa sulle pigioni, ed il testatico, imposte che per essere insolite, e più che le altre gravose, dovettero lasciarsi, e compensarle invece coll'aumento di altre gravezze già esistenti e specialmente accrescendo quella della farina[163]. Così il Medina nel suo governo di poco più di sei anni potette ricavare dalla città e dal regno, oltre le entrate ordinarie, meglio che 30 milioni[164] di ducati (127,500,000). Non mancavano, è vero, in questo frattempo nella nostra città anzi erano frequenti, le feste e gli spettacoli, ove il lusso della casa viceregnale, degli spagnuoli, e della nobiltà, che consumava senza produrre, pareva che desse aspetto di ricchezza e di prosperità al paese. Ma questa non era che un'apparente prosperità, e ben sel sapeva il Duca di Medina che partendo da Napoli, ebbe a dire con cinica improntitudine: lasciar egli il regno in tal termine che quattro buone famiglie non avrebbero potuto fare un buon pignato maritato, cioè una buona minestra[165].

Le gabelle sui generi annonarii e specialmente sulla farina e sul pane, comechè gravi dovunque, erano nella nostra Città gravissime, e più che per altri per la povera gente. Costumavasi allora di panizzare fra noi due specie di pane, cioè il pane a rotolo e la così detta palata; il pane a rotolo per chi poteva spendere, la palata per la plebe o per i poveri. Il costo del primo, che vendevasi a peso, variava in proporzione del prezzo della farina, l'altra che si pagava sempre quattro grana (17 centesimi), variava in tali circostanze soltanto di peso e di qualità. Così quando il grano costava caro, il pane della palata era piccolo e cattivo, e talvolta, specialmente nei forni e nelle botteghe non soggette alla giurisdizione municipale, anche pregiudizievole alla pubblica salute. Gli scrittori ed i documenti del tempo ci attestano ciò apertamente. Nello stesso anno 1641, come afferma un agente del Duca di Toscana in Napoli, essendo stato scarso il ricolto, l'eletto del popolo Giovan Battista Nauclerio “non solo aveva dato facoltà ai panettieri di poter mancare due oncie per ogni palata di pane, ma che potessero mettere in detto pane ogni altra mestura, che a loro fosse piaciuta, cocendolo malamente, purchè ritenesse il peso„ della qual cosa gli altri eletti si lagnarono col vicerè[166]. Quindi, come afferma un contemporaneo[167], due carlini (85 centesimi) di pane al giorno non bastavano in tali congiunture ad un pover'uomo; pur fortunato, se le cose frammiste alla farina onde farla pesante, non gli erano causa, come a 27 soldati di Castel S. Elmo, nel 1629, d'infermità e di morte[168].

Queste pubbliche miserie, che facevano dura e difficile la vita alla povera gente, non risparmiavano certamente la famiglia di Masaniello. Essa campava stentatamente alla meglio, e spesso i sottili guadagni del proprio mestiere non bastavano al pescivendolo. Spesso pure Masaniello sciupava lo scarso lucro della giornata (bisogna pur dirlo) con i compagnoni del suo quartiere, o nelle taverne del Mercato e del Pendino o al giuoco, sia nella camorra[169] innanzi Palazzo, sia sotto le tende e le baracche del Largo del Castello.

Allora il bisogno e la fame erano nella casa di Bernardina, e la povera donna si avventurava a qualche piccolo contrabbando per procurarsi un poco di pane a più buon mercato. Un giorno, avendosi comprato poca quantità di farina in uno dei casali di Napoli, ove non essendoci le gabelle della Città, si poteva trovare a prezzo più discreto, tentava di portarla nascostamente a casa sua dentro una calzetta, sotto colore che fosse un suo piccolo bambino avvolto tra le fasce, che pel freddo cercava ricoprire con un panno. Lo stratagemma però non ingannava gl'inumani e rigorosi gabellieri, che come dice uno scrittore di quel tempo, cercavano addosso a tutti nei passi ordinarii e nelle strade stesse di Napoli, non rispettando neanche le donne nelle parti del corpo soggette alla vergogna[170]. La povera Bernardina, scoperto il contrabbando, fu presa e condotta nelle carceri dell' arrendamento, ove fu sostenuta per circa otto giorni. Il marito, saputolo, corse al posto della gabella a Porta Nolana, indi dall'affittatore della medesima Girolamo Letizia, onde ottenerne la libertà. Tutto fu inutile. Le preghiere, i pianti, le sottomissioni non ottennero alcun effetto. Bernardina non uscì di prigione se non quando fu pagata[171] la multa (cento scudi, affermano alcuni scrittori), che il povero Masaniello potette a stento raggruzzolare, vendendo tutte le masserizie di casa e procurandosi qualche somma in prestito dai suoi parenti. Allorchè il misero, consegnato il danaro al gabelliere e presa per mano la moglie, per la via dell' Arenaccia si avviò a casa sua, si volse prima un momento verso l'officina della gabella, e pieno d'ira e di dispetto: Pe la Madonna del Carmine, disse, o ch'io non sia più Masaniello, o che un giorno mi vendicherò alla per fine di questa canaglia[172].

II.

E il giorno della vendetta arrivò, tristo, terribile, inaspettato. Allorchè ai 7 Luglio 1647, nella piazza del Mercato, la plebe, istigatore e duce Masaniello, al grido di: Viva il Re e muoja il mal governo, fieramente insorse, dimandando l'abolizione della gabella de' frutti e delle altre gravezze che l'opprimevano, uno de' primi atti di autorità del nuovo Capopopolo fu l'incendio del posto dell'arrendamento della farina a Porta Nolana, e della casa abitata da Girolamo Letizia a Portanova[173]. Un drappello di circa 50 garzoni e fanciulli, capitanati da Giovanni d'Amalfi a cavallo, eseguiva fedelmente gli ordini di Masaniello. Scalzi, in sola camicia e mutande di tela, e col berretto rosso in testa, essi, facendosi ministri di una nuova giustizia, andavano processionalmente per le vie, preceduti da uno stendardo ( pennone ), nel quale si vedevano dipinte le armi reali di Spagna[174], e portavano chi torce di pece, chi graffii o forcine, chi solfanelli, fascine impeciate ed altre cose bisognevoli ad accendere, e chi finalmente picconi e sciamarri. Erano cenciaiuoli o bazzareoti[175] gente della più vile e povera condizione, che viveva stretta ed ammucchiata in alcuni di quei luridi covili del Mercato e del Lavinaro, che si dicevano e si dicono tuttora fondachi, e che la progredita civiltà ha ora diminuiti, o in buona parte migliorati, ma non ancora interamente distrutti. Laceri e seminudi furon i primi, che allora si chiamassero lazzari, e questo nome, che i superbi dominatori spagnuoli diedero loro come una ingiuria, i plebei sollevati della città e del regno, imitando i Bruzii dell'antica Italia, ed i gueux delle Fiandre, lo adottarono volentieri, come un titolo onorifico, e come un distintivo di animo libero ed indipendente[176].

Era Girolamo Letizia o di Letizia uno degli affittatori dell'arrendamento della farina, che, uscito dalla plebe, coi guadagni di quello si aveva procacciato non poche ricchezze. Uomo senza misericordia, non perdonava in alcun modo, come dicono le memorie contemporanee, a chi, entrando nella città con un poco di farina o con due pagnotte di pane, non ne avesse pagato prima il dazio corrispondente[177]. Oltre al fatto della moglie di Masaniello, narravasi di lui, che una volta, per un contrabbando di pochissimo momento, avesse fatto condannare alla frusta due povere contadine de' casali di Napoli. Era quindi oltre ogni dire odiato dalla povera gente.

Ora i lazzari, bruciato che ebbero l'ufficio della gabella a Porta Nolana, secondo gli ordini ricevuti, si portarono al Largo di Portanova, ove nel palazzo della famiglia Mormile de' Duchi di Campochiaro, ora segnato col numero civico 11, abitava allora il Letizia. Ivi giunti, occuparono tutti gli sbocchi delle vie circostanti, e circondarono il palazzo, gridando sempre: Viva il Re e muoja il mal governo! Poscia, rotta ed aperta la porta con mazze ferrate o colle fiamme, alcuni di loro salirono sulla casa del Letizia, e, preso tutto ciò che vi era, dalle finestre lo gittavano nella piazza; altri dal basso riunivano il tutto in catasta e vi ponevano il fuoco. Magnifici arazzi, ricche cortine di seta e di oro, scrittorii di ebano intarsiati di argento o di avorio, quadri di nobilissima pittura, vasellame di argento ed ogni altra preziosa suppellettile era preda dalle fiamme. Nè si risparmiavano le gioie o il denaro contante, non le cose commestibili, non gli stessi animali, che in quella casa per avventura si trovassero. Così il tutto riducevasi in cenere[178], senza che alcuno di quei miserabili pensasse a sottrarre o a serbare per sè un oggetto qualunque, fosse pure di nessun valore. E mentre il fuoco distruggeva quelle robe, frutto de' guadagni procacciati colle odiose gabelle, Giovanni d'Amalfi alla gente circostante gridava: Vedi, popolo mio, queste robe sono delli officiali, che se l'hanno fatto col sangue di noi altri poveri; si buttano in questo fuoco e si bruciano, per ordine di Masaniello, mio fratello[179]. Il popolo in parte compiaciuto, in parte atterrito, guardava meravigliato ed attonito l'orrido spettacolo.

Ma ormai la plebe sollevata aveva la coscienza delle proprie forze, e, non contenta dell'abolizione delle gabelle e dell'amnistia pe' fatti de' 7 ed 8 luglio, accordate facilmente dal vicerè, dimandava istantemente altre più larghe concessioni, e la isopolizia o la eguaglianza de' diritti coi nobili del governo municipale della città. Vogliamo il privilegio di Carlo V, aveva arditamente detto Masaniello al Duca di Maddaloni ed agli altri nobili spediti al Mercato dal vicerè; vogliamo il privilegio di Carlo V, ripetevano in coro i lazzari, che, come gente bassa, al dire di un contemporaneo[180], non sapevano parlare. Un vecchio, in abito da prete e con lunga barba, era l'autore e l'anima di queste risoluzioni. Egli istruiva il pescivendolo, già pubblicamente acclamato Capitan generale del popolo; egli gl'insinuava le grazie ed i privilegi da dimandarsi al vicerè, egli gli spiegava come l'aquila e le colonne di Ercole, che si vedevano sulla porta della Vicaria (il palazzo di giustizia), fossero le insigne del benefico imperatore, e che perciò dovessero essere rispettate. Questo prete e questo consigliere era D. Giulio Genoino.

La vita del vecchio agitatore, ne' 27 anni decorsi dal 1626 al 1647, era passata tra le angustie e gli stenti del carcere, e tra le liti e le molestie procacciategli dalla sua indole turbolenta, e dalle persecuzioni de' nobili, suoi antichi nemici. Carcerato in Ispagna, ove, dopo la caduta dell'Ossuna erasi condotto, e, con sentenza de' 28 Settembre 1620, condannato in Napoli alla forgiudica[181], egli nel 1621 aveva ottenuto da re Filippo IV, con dispaccio de' 18 novembre, che il suo giudizio fosse in Napoli stesso riveduto[182]. Ed infatti una Giunta speciale composta del licenziato Francesco Antonio d'Alarcon, cavaliere dell'abito di S. Giacomo, commissario delegato del re, e da quattro giudici scelti ne' tribunali del regno, intese novellamente il Genoino trasportato prima a Baia e poscia a Capua[183]. Ma il secondo giudizio non fu molto diverso dal primo, ed egli fu condannato a carcere perpetuo in qualche castello appartenente alla Corona di Spagna, che non fosse nel regno; e, per ordine del re, in data de' 22 ottobre 1622, gli fu assegnata la fortezza del Pignone in Africa. Così visse ivi più o meno strettamente per 12 anni, sinchè, avendo mandato alla Corte il modello in legno della fortezza[184] ove stava rinchiuso, ottenne dal re la grazia della libertà: mediante il pagamento di 4000 ducati, e coll'obbligo di restare in qualche luogo dell'Andalusia o di Castiglia o confine. La carta con cui gli fu partecipata la grazia sovrana, è del 12 febbraio 1634[185]. Se non che, dopo alcuni anni, il Genoino ritornò in Napoli, ove, rinfocolati gli odii antichi, e suscitati nuovi sospetti, a' 2 Ottobre del 1639, ad istanza degli Eletti della città, fu per estranee cagioni sostenuto per qualche tempo nel Castel Nuovo[186]. Allora vedendo, come egli stesso dice, “la sua persecuzione dello stato secolare, e che dove meritava premio, gli si era data pena, risolse, nel residuo della sua vecchiezza, servire Dio in istato di sacerdote, e con Breve apostolico, prese gli ordini sacri, servando tutte le sacre costituzioni e le prescrizioni del Concilio di Trento, per mano di D. Basilio Cacace, arcivescovo di Efeso[187] „.

In queste nuove condizioni di vita ritrovavasi, allorchè la imposizione della gabella sui frutti, che egli più che altra riconosceva odiosa al popolo, venne a rinnovellare le sue antiche speranze. Ne' primi mesi del 1647 fu veduto spesse volte, verso l'imbrunire, stringersi a secreto colloquio con Masaniello nella Chiesa del Carminello al Mercato[188]. L'astuto vecchio aveva scorto l'influenza che il giovane pescivendolo esercitava sulla plebe del Mercato e del Lavinaro, l'avversione che nutriva contro i nobili ed i prepotenti, l'animo pronto ed ardito, ed il buon senso, che nascondeva sotto le apparenze della spensieratezza e della buffoneria. Lo indettava quindi, e lo preparava a' futuri casi ed a' moti facilmente prevedibili.

Nè le sue speranze fallirono. Ciò che egli aveva già inutilmente tentato nel 1620, ora, scoppiata la sollevazione, assai più largamente dal popolo ottenevasi. Le chieste immunità e prerogative, poichè quel privilegio di Carlo V, che invocavasi, non era mai esistito, ad honore conservatione e gloria della Maestà Cattolica..... del Re, dell'eminentissimo.... cardinal Filomarino.... arcivescovo.... dell'eccellentissimo signor Duca d'Arcos, vicerè.... e del signor Tommaso Aniello d'Amalfi, capo del... fedelissimo popolo, erano ai 13 luglio, dallo stesso Vicerè, in nome di Sua Maestà Cattolica, ad esso fedelissimo popolo restituite, ampliate e confermate, ed anche solennemente giurate. Gli eventi inoltre superavano la aspettazione del Genoino, ed oltrepassavano i privilegi conceduti. Dai 7 luglio fino al 3 Giugno dell'anno seguente, il Tribunale di S. Lorenzo non fu più riunito. I nobili cessarono affatto dal governo della città, e l'Eletto del Popolo restò solo a disporre di tutti gli affari municipali. Francesco Antonio Arpaia, il compagno del Genoino ne' tumulti del 1620 e nelle pene indi sofferte, chiamato da Teverola, ove era governatore di quella terra, fu allora da Masaniello nominato ad un tale importante ufficio[189].

In questo frattempo la famiglia del pescivendolo divise con lui il rispetto ed i riguardi, che egli così inaspettatamente si ebbe. Tutti coloro, che in qualunque modo gli appartenevano, in quei pochi giorni di potere, si gloriavano e cercavano anche di profittare della loro, fosse pur lontana, parentela. Nè mancò chi, tuttochè affatto estraneo, si volle dare a proprio vantaggio per congiunto di lui. Così fece un marinaio di Chiaja, che nella domenica 14 luglio spacciatosi per nipote di Masaniello, andava per quella contrada facendo ricatti e minacciando l'incendio e la morte a chi si negava alle dimande. Il capitan generale appena n'ebbe notizia, ordinò che restituito a ciascuno il danaro con quella invenzione sottratto, il marinaio venisse condotto al Mercato a subire colla morte rigoroso castigo dei suoi ladronecci[190].

Ma tra tutti i parenti ed i cognati di Masaniello, coloro che principalmente ebbero parte al potere ed agli onori, furono in ispezialità il fratello e la moglie. Giovanni di Amalfi fu quasi come un luogotenente di lui. Egli negli otto luglio metteva le nuove assise ai commestibili nelle botteghe e nei posti della città. Egli nel giovedì, allorché dovettero fissarsi le capitolazioni col vicerè, precedette ed annunziò l'arrivo del fratello a Palazzo. Egli nel sabato 13, vestito di lama d'argento turchino, lo accompagnò nella trionfante gita al Duomo pel giuramento delle dette capitolazioni. Egli era col fratello a spasso nella gondola del vicerè a Posillipo, ed al banchetto in Poggioreale nella domenica e nel lunedì 14 e 15 luglio. Egli finalmente nella sera dello stesso dì 15 luglio, vigilia della morte di Masaniello, fu da costui spedito con una mano di circa 500 plebei ad inseguire e catturare il Duca di Maddaloni nelle vicinanze di Benevento ove credevasi essersi rifugiato[191].

Bernardina d'altra parte godette del pari; e forse anche più di lui, della mutata fortuna del marito. Il vicerè, che conosceva la influenza di lei sull'animo di costui, cercò con ogni mezzo blandirla e rendersela benevola per suoi fini con ricchi regali, ed anche invitandola a recarsi a Palazzo[192].

Nella domenica 14 luglio verso sera una carrozza di corte tirata da sei cavalli[193] ed accompagnata da quattro alabardieri tedeschi, si fermò innanzi alla povera casa posta a fianco al vico Rotto. Poco stante la madre, la moglie e la sorella con due cognate ed un'altra parente di Masaniello, tra l'ammirazione dei lazzari e l'invidia delle comari del Mercato e del Lavinaio, si collocarono in quella. Le loro vesti convenivano alla presente non alla passata fortuna. Bernardina portava una roba all' imperiale, colle maniche gonfie ( a presutto ) una gonnella ed una sopravvesta o giubbone di lama d'oro e di seta, guarnita di fasce piccate e di trine e repunti pure di seta o di oro[194], ed usava il guardinfante, la cui moda da poco tempo era stata introdotta dalla viceregina duchessa di Monterey[195]. Aveva al collo una ricca e pesante collana d'oro, regalo della duchessa d'Arcos. Le altre donne pure si erano ornate di vesti ricche e sfarzose scelte tra le robe, che già si erano saccheggiate al duca di Maddaloni, e Grazia d'Amalfi aveva in braccio un fanciulletto di pochi mesi anche riccamente addobbato.

Allorchè la carrozza si avviò verso Palazzo, e mentre passava per le vie della città popolate di gente curiosa di vedere lo strano spettacolo, la famiglia di Masaniello riceveva dovunque i plausi ed i saluti rispettosi della plebe che gridava: Viva la Spagna, viva il popolo, viva Masaniello! Alla porta del parco, che era dove ora, nella strada di S. Carlo, si vede il cancello del giardino reale coi cavalli di bronzo, le donne smontarono, e la Bernardina si pose nella sedia della stessa viceregina, la cognata in quella di D.ª Catarina d'Ayala, moglie del visitatore generale del regno D. Giovanni Chacon y Pons de Leon, e le compagne in altre sedie di dame, che allora trovavansi in corte. Così attraversarono il parco fino ai piedi della scala del palazzo, ove furono ricevute dal capitano della guardia e dal cavallerizzo maggiore del vicerè col capo scoverto, e servite dagli alabardieri e dai paggi sino alla camera, dove si trovava la viceregina con suo fratello, D. Vincenzo d'Aragona, con lo stesso visitator generale, col cardinale Filomarino, e con alcune principalissime signore del Regno.

Le accoglienze furono non solo cortesi ma anche amorevoli. Due dame di compagnia si fecero sulla porta della camera incontro alle sei donnicciuole, e la viceregina alzatasi si accostò alla moglie di Masaniello, dicendole in ispagnuolo: Sea V. S. Illustrisima muy bien venida. (Vostra Signoria Illustrissima sia la molto benvenuta). Al che la moglie di Masaniello, non sconcertata dal luogo insolito per essa e dalla presenza di persone tanto superiori alla sua condizione, abbracciandola, ed all'uso popolaresco, come da uguale ad uguale, appiccandole due sonori baci sulle guance, rispose prestamente: E Vostra Eccellenza la molto ben ritrovata. Poscia, finiti gli abbracciamenti ed i baci, che furono nello stesso modo ripetuti colle altre signore presenti, ed anche dalle compagne della generalissima, e sedutesi la viceregina e la comitiva, Bernardina soggiunse: Vostra Eccellenza è la viceregina delle signore, ed io sono la viceregina delle popolane.

In questo le visitatrici furono abbondantemente regalate di dolciumi e di rinfreschi, ed il Chacon, volendo cattivarsi la benevolenza della famiglia del Capitan Generale, prese tra le braccia quel bamboccio suo nipote, al quale non disdegnava di fare singolarissime carezze, come se fosse stato un figliuolo della stessa viceregina. Egli, che era stato autore principale a mantenere la gabella sui frutti, corrotto, come fu fama, dai regali che gli arrendatori di quella aveano perciò fatti alla moglie di lui[196], aveva ragione di temere l'ira del popolo. Pochi momenti innanzi Masaniello, il quale prima di portarsi a Posillipo l'aveva incontrato nelle anticamere di palazzo reale, si era accostato a lui, e presolo pel petto, con termini risoluti, gli avea detto: Signor visitatore, mi è stato riferito che voi siete un gran mariuolo, e che in ispecie avete rubato ad uno che so io seimila ducati. Se io non vi ho castigato ancora conforme meritate, abbiatene obbligo al Signor Cardinale mio signore, ma per l'avvenire state bene in cervello, perchè vi bisogna. D. Giovanni Chacon se l'ebbe per detto, e quindi cercava con questi bassi mezzi rendersi amico il Capitan generale del popolo.

D'altra parte la viceregina, presentando un ricco monile ed un gioiello in diamante alla Bernardina, con bei modi si adoperava a persuaderla perchè avesse indotto il marito a depositare il comando, or che le capitolazioni erano state giurate, ed il popolo aveva ottenuto quanto dimandava; e la sollecitava perchè quegli si rimanesse contento ormai delle mercedi promessegli: Senora comadre, conchiudeva la viceregina, haga de manera, que su marido dexe el mando, porque se quieten las cosas. Oh questo poi no, signora commara, rispondeva a tali insinuazioni l'accorta donna. Se mio marito abbandonasse il comando, nè la sua nè la mia persona sarebbe più rispettata. Però sarà meglio che ambedue stiano uniti, il Vicerè e Masaniello, cosicchè l'uno governi gli spagnuoli e l'altro il popolo[197].

L'ardita risposta non piacque per fermo alla viceregina, che dissimulando non aggiunse altro, ma accomiatò gentilmente la Bernardina e le sue compagne fino alla porta. Così allegra e contenta la comitiva si partì, e colla stessa carrozza tornò a casa, seguìta dal dono ricevuto, che era portato da un facchino in un canestro ( spasa ), coverto da una tovaglia di taffettà turchino, ed accompagnato dagli alabardieri e dai servitori, i quali quando furono nel Mercato, suonarono di nuovo le trombe e le donne smontarono e si riceverono il detto regalo[198].

Ma non passarono due soli giorni e la scena cangiò interamente. Nel mattino di martedì mentre maddamma Antonia[199], la vecchia madre di Masaniello, Bernardina e Grazia incerte, ma pur presaghe del loro danno, sole ed abbandonate da tutti in un angolo della loro casa piangevano e si comunicavano a vicenda i propri timori, un mormorio continuato e lontano pervenne al loro orecchio. Erano gridi di trionfo o di morte? Masaniello aveva, come nel mercoledì precedente, trionfato dei suoi nemici, o tutto era finito per esse, potere, agi ed onori? L'incertezza non tardò guari a dileguarsi. Il rumore si faceva più chiaro e distinto; era una turba di popolo che gridava: Viva Dio e il re di Spagna, Masaniello è morto, Masaniello è morto! sotto pena di ribellione nessuno nomini più Masaniello! A quelle parole, la povera Bernardina diè un alto grido e cadde tramortita al suolo.

In questo momento quella ciurma di popolani era giunta nella piazza del Mercato, e sparando alcune archibugiate in aria, ripeteva gli stessi gridi ed applausi. Un suono di tromba fu ripetuto tre volte, e, fattosi silenzio, un banditore ad alta voce lesse:

Bando e comandamento per ordine di Sua Eccellenza. PHILIPPUS DEI GRATIA REX

In esecutione dell'ordine oretenus dato a noi da S. E. si fa il presente Bando, per il quale si ordina et comanda a tutte et qualsivogliano persone di qualsivoglia grado, stato et conditione si sia, che fra il termine di 24 hore debbiano restituire et dar nota in poter nostro di tutte et qualsivogliano robe, cioè oro, dinari, argento quadri et ogni altro mobile di qualsivoglia sorte che sia, che si ritrovano in potere di qualsivoglia persona, pigliate dal q. Tommaso Aniello d'Amalfi o d'altri in suo nome da qualsivoglia persona e casa, et anche in potere di chi fossero andate dette robe, sotto pena di confiscazione de' loro beni, di morte naturale e diroccatione delle loro case; acciò havuta detta notizia se ne faccia avvisata S. E. per eseguire quanto comanderà. Ed acciò tutto venga a notitia di ciascuno, e nessuno possa allegare causa d'ignoranza, si ordina che si pubblichi il presente Banno, non solo nel Mercato di Napoli, dove solea vivere detto q. Tommaso Aniello, ma anche in ogni altro luogo dove sogliono pubblicarsi detti Banni. — Napoli 16 luglio 1647.

D. Giulio Genoino

Letto il bando[200] e replicato tre volte il suono di tromba, il banditore procedette altrove, ma quella ciurma di popolo si volse verso la casa di Masaniello; altri, come dice un testimone di veduta, per guardare quante robe in essa vi erano, altri per rubarle, giacchè era sedia vacante, altri finalmente per impadronirsi della moglie e della sorella e condurle prigioni innanzi al vicerè[201]. Capo di questi ultimi era Carlo Catania di Bracigliano, fornaio al Carminello, uno degli uccisori dello stesso Masaniello, compare ed amico di lui, e che era stato dal capitan generale, nel tempo del suo potere, nominato provveditore delle milizie popolari. Pure i beneficii non erano stati da tanto a vincere l'astio invidioso di lui, e il dispetto per le minacce fattegli da Masaniello, allorchè credendo di poter profittare del suo posto e della sua influenza, non temette di fare nel suo forno il pane cattivo e mancante. Forse anche la moglie di Masaniello entrava per qualche cosa in quest'odio e dispetto del Catania.

Egli dunque alla testa dei suoi seguaci, irruppe nella casa del compare; andò difilato a Bernardina, la prese pel corsetto, e, servendomi delle stesse parole del Pollio, “maltrattandola di poco onore et boffettoni, et strascinata la condusse in istrada, con la sua guancia (mano) dentro il petto di quella meschina„, che col seno scoperto e scarmigliata empiva l'aria di strida[202] e disperatamente piangeva. Nello stesso modo Grazia di Amalfi maltrattata e vituperata, era presa da altri compagni del Catania. Nè d'altra parte la grave età era di schermo all'Antonia. Anch'essa insieme colla madre di Marco Vitale, il segretario di Masaniello[203], veniva da quei popolani imprigionata. Così le povere donne tra le beffe e gli scherni erano condotte a Palazzo, facendo le stesse vie, che avevano fatte nella domenica antecedente in un modo tanto diverso. Non vi furono vituperii ed ingiurie, che quella gente villana ed inferocita non facesse a quelle infelici. Non era persona, dice pure un grave scrittore di quegli avvenimenti, che non si accostasse a darle un calcio o a strapparle i capelli[204]. Alcuni plebei precedendo la ciurmaglia, gridavano; largo largo alla signora Duchessa delle sarde; e qualcuno, che non aveva mancato d'inchinarle e reverirle nei tempi della loro fortuna, ora vilmente non risparmiava i motteggi e gli strapazzi[205].

Nè d'altra parte il vicerè e la viceregina più generosi si mostrarono nel giorno del loro trionfo. Allorchè le donne, giunte finalmente a Palazzo e portate innanzi al vicerè, si gettarono ai suoi piedi chiedendo misericordia ed aiuto, il Duca d'Arcos non ebbe pietà alcuna di quelle infelici. La stessa viceregina, che volle vederle, quasi per prendersi la sua rivincita, sfogò (come accennano alcuni, sebbene altri lo neghino) il dispetto della domenica antecedente, dileggiando la povera vedova, veneranda allora per l'improvvisa sventura, col titolo d'illustrissima, di generalissima e di viceregina delle popolane.

Soli il cardinale Filomarino e l'Eletto del popolo Francesco Antonio Arpaia fecero sentire una parola di compassione tra gli strapazzi e gl'insulti di tutti. Essi pregarono il vicerè a risparmiare quelle povere donne, e così furono mandate nel Castel Nuovo, ove per alcuni giorni ebbero vitto ed abitazione, ed ove furono pure trattenuti in seguito il fratello, il cognato e gli altri parenti di Masaniello, che al primo conoscere della morte di lui, si erano fuggiti o nascosti[206].

III.

Ucciso Masaniello, il Duca d'Arcos credette che la rivoluzione con lui fosse omai spenta. Egli, ordinata una gran cavalcata, a cui intervennero i cavalieri e gli uffiziali o ministri principali dei regii tribunali, col cardinale arcivescovo e con buona guardia di fanteria e cavalleria ben armata, andò al Duomo per render grazie a Dio ed al Glorioso S. Gennaro, patrono principale della nostra città, per la quiete omai ottenuta, e girò lieto e contento pel Mercato e per le altre vie della città. Nello stesso tempo ordinò che si facesse l'inventario delle robe conservate tanto nella casa di Masaniello quanto nei magazzini del Mercato, del che fu dato incarico all'Eletto del popolo. Secondochè asserisce il buon prete Pollio, il quale accompagnava il compare in questa occasione, lo Arpaia chiamò per suo segretario Vito Antonio Cesarano, onde scrivere minutamente tutto ciò che ivi si fosse rinvenuto; e nel far l'inventario, molti dissero che gli uccisori di Masaniello, in quella notte che seguì la morte di lui, si avessero pigliato gran quantità di oro ed argento ed un baule di monete, trasportando il tutto per gli astrici della casa[207].

Poco dopo due bandi, uno dei 17 e l'altro de' 21 luglio, alle preghiere dello stesso Eletto e per far cosa grata al fedelissimo popolo, estendevano l'amnistia accordata pei fatti del 7 luglio in poi anche al fratello ed al cognato di Masaniello, che ne erano stati prima col bando dei 16 di quel mese eccettuati[208]. Se non chè Giovanni fu dato, come suol dirsi, in consegna a Marco di Lorenzo macellaio, che cogli onesti guadagni del suo mestiere, si aveva procurato grandi e straordinarie ricchezze, tuttora tradizionali nella memoria del popolo perchè lo guardasse in sua casa, trattandolo nel miglior modo che fosse possibile[209].

D'altra parte la moglie, la madre e la sorella di Masaniello cacciate dal Castel Nuovo[210], furono consegnate al Genoino, che era stato creato presidente della Regia Camera della Sommaria, e furono condotte alla casa di costui a S. Agnello dei Grassi ove per alcune settimane furono con conveniente assegnamento mantenute.

Ma il fuoco era coverto di cenere e non tardò guari a divampar nuovamente, ed in modo anche più terribile e funesto di prima. I tumulti dei mercanti e dei tessitori di seta, degli studenti forestieri, dei pezzenti, e perfin delle donne contro il governo del Banco della Pietà o Monte dei Pegni, ciascuno per la revindica dei proprii diritti perduti, o per l'abolizione di qualche abuso introdotto, manifestavano gli animi sempre torbidi ed inquieti del popolo, e facevano agevolmente prognosticare altre più gravi ed aperte ribellioni[211].

Il vicerè dal canto suo non negava cosa alcuna. Dissimulando, accordava e prometteva tutto, ben risoluto, quando che fosse, a non attender nulla.

In questo stato di cose non mancava che un'occasione qualunque, la quale soffiasse nella brace ad eccitar l'incendio, e desse ai tumultuanti un novello capo. Questa occasione presto si offerse. Per la imprudenza ed ambizione del presidente Cennamo ai 21 agosto una seconda generale sollevazione del popolo scoppiò nella piazza della Sellaria, e, sebbene per poco, fece nuovamente comparire nella storia della rivoluzione del 1647 la famiglia di Masaniello.

Le più antiche memorie, che io trovo della piazza della Sellaria rimontano al secolo XII. In quel tempo esso chiamavasi strada di Capo di piazza ( platea capitis plateae ). In due istrumenti uno dei 5 febbraio 1194, e l'altro del 6 dicembre 1198, accennati nella Platea del monastero di S. Severino della nostra città, si ricorda una casa con orto sita in Napoli in capo della strada detta Capo di Piazza, pertinenze di Portanova, non lontana dalla porta delli Monaci, e vicino alla chiesa dei SS. Cosmo e Damiano, grancia di detto monastero. Con un altro istrumento dell'anno 1263 la detta casa è descritta come sita accanto alla strada, che andava a S. Arcangelo ( degli armieri ), chiesa appartenente al monastero Cavense, giusta il muro pubblico, e la torre vecchia della città[212]. Documenti posteriori determinano con maggior precisione il sito di quella chiesa e della contrada circostante. Da essi rilevasi che quella era posta propriamente nella piazzetta, ora vico Molinello alla Sellaria, tra il vico Giudechella al Pendino, che allora e in tempi anche più remoti dicevasi Deposulum, ed indi fondaco di S. Martino, e la strettola degli armieri, già vico armentario armentariorum[213]. Nel 1743 questa chiesa fu profanata, e, come rilievo della citata Platea, la cona dei SS. Cosmo e Damiano, che era sull'altare maggiore di essa, fu trasferita nella cappella degli Spinola dentro la chiesa vecchia di S. Severino[214].

Qui in processo di tempo, e propriamente nel 1585, esisteva la bottega e l'abitazione di Giov. Leonardo Pisani speziale che fu uno dei principali istigatori e capi della sedizione della plebe napoletana e della infelice morte dell'eletto del popolo Giov. Vincenzo Storace[215], avvenuta nel maggio di quell'anno. Allorchè sedato il tumulto e rimesso l'ordine nella città, il vicerè dopo qualche mese procedette al giudizio ed al castigo di quelli che vi avevano preso parte, il Pisani, essendosi a tempo posto in salvo, fu condannato a morte in contumacia, la sua casa fu diroccata, e sul suolo di essa, ove si era seminato il sale, fu eretto un monumento, nel quale in apposite nicchie si collocarono le teste e le mani di 24 principali giustiziati con grate di ferro sopra perchè non potessero indi togliersi. Una iscrizione in mezzo ricordava il nome del Pisani, il delitto commesso, ed il castigo[216]. Per parecchi mesi quel miserando ed orribile spettacolo contristò lo sguardo dei napoletani, che passavano per quella via, una delle più frequentate della città; ma finalmente il vicerè successore, alle preghiere del nuovo Eletto del popolo Giov. Battista Crispo, permise che quella memoria di lutto e d'infamia venisse cancellata. Allora i teschi e le mani degl'infelici furono condotti al ponte Guizzardo ora della Maddalena, luogo di sepoltura dei giustiziati. Più di 2000 persone, molto clero, e diverse religioni di frati accompagnarono colle torce accese le postume esequie, solenne dimostrazione e pubblica protesta del popolo contro il governo spagnuolo[217].

Dall'altro lato della via Capo di Piazza, dopo l'angolo della strada di S. Biagio dei taffettanari ed il vicolo che dicevasi di Pistaso ed ora dei Ferri vecchi al Pendino, sorgeva nel secolo XII il palagio di Pietro delle Vigne, di colui cioè: che tenne ambo le chiavi del cor di Federico II, edificato sul suolo già appartenente al monastero Cavense. Ivi nel 1254 dimorò per alcun tempo papa Innocenzo IV, ed ai 7 Dicembre dello stesso anno vi morì. Ivi dopo tre giorni fu eletto il nuovo pontefice Alessandro IV, che vi si trattenne fino al maggio dell'anno seguente. Il palagio, che, tenuto anche conto della modesta maniera di abitare in quel tempo, dovette essere un edificio nobile e vasto, potette albergarvi il pontefice, la curia romana ed i cardinali del Sacro Collegio, ed avere oltracciò sufficiente località, ove tenersi il pubblico studio di teologia, decreti, decretali e leggi canoniche che lo stesso papa Innocenzo IV nella sua venuta in Napoli vi aveva istituito, fu coll'orto adiacente e cogli altri beni di Pier delle Vigne dal medesimo Papa Innocenzo IV conceduto alla famiglia dei Fieschi, cui egli apparteneva, ed alla quale in virtù delle convenzioni stipulate con Clemente IV nella investitura del reame, fu anche da Carlo I d'Angiò confermato. Ivi verso il 1285 dallo stesso re Carlo I furono collocate l'officina o zecca delle monete, e la corte dei conti che da essa dipendeva; ed ivi l'una e l'altra si tennero fino al 1333, allorchè furono trasportate dirimpetto la chiesa di S. Agostino nel sito, dove fino a poco fa era l'officina delle monete. In processo di tempo la casa pervenne alla famiglia Barbati, nobile del sedile di Montagna, ed indi nel secolo XVI alla corporazione dell'arte della lana. Così in essa si stabilirono le opere di bagnare, tingere, e frisare i panni, e tutto il fabbricato, al quale si accedeva dalla Sellaria e dal vicoletto di S. Palma, ebbe nei tempi di cui discorriamo, la denominazione di Fondaco della zecca dei panni[218].

La strada Capo di piazza, che, a quanto può rilevarsi dalle vecchie carte, distendevasi dal sito ove ora è la chiesa di S. Biagio fino al vicoletto Fate, o alla piccola chiesa di S. Giacomo dei Mormili da un lato, ed a poco più oltre la strada degli Armieri dall'altro, formava, sotto gli Svevi e gli Angioini, una delle ottine o piazze popolari della nostra città. Essa allora, come ordinariamente le altre piazze sì nobili come popolari, aveva il suo proprio sedile o teatro, che non sappiamo precisamente dove fosse collocato, e che, probabilmente dopo la riforma o la nuova costituzione data ai sedili di Napoli, nella seconda metà del secolo XIV, o cangiò nome o fu abolito, non trovandosene più memoria dopo il 1392[220]. Dopo quel tempo anche la strada perdette a poco a poco la sua primitiva denominazione, e prese quella di piazza della Sellaria ( Ruga o Platea Sellariorum ) dalla via che la continuava ad oriente e che comincia a comparire in alcuni documenti della fine del secolo XIII[222]. In un istrumento del 1334 ricordasi pure la via della Sellaria vecchia, che andava ad un'altra strada detta della Pullaria[223]. Sembra inoltre che anche in quel torno di tempo, l'antico sedile o qualche altro, pure appartenente all'ordine popolare, che nella medesima contrada a quello era forse succeduto, raccogliesse i diritti e le prerogative di tutti quei sedili popolari, che erano nell'ambito intero della vecchia città. Questo sedile, che aveva allato una casa ed una cappella intitolata a S. Chirico o S. Ciriaco, onde ingombravasi la via, secondo alcuni nostri scrittori, era posto nella piazzetta, ov'è la seconda fontana, e dove ora comincia la strada del Pendino. Per alcune dipinture, da cui era adornato, dicevasi volgarmente lo sieggio pittato[224]

Nel 1466 re Alfonso I d'Aragona ordinò che il sedile insieme colle fabbriche che vi erano attaccate, fosse diroccato, affinchè in tal modo si regolarizzasse quella strada che allora era la più bella ed ampia della città, e vi si potessero fare giostre e tornei, come nelle vie extramurane di Carbonara e delle Corregge. Il fatto produsse grande commozione e dispetto nel popolo grasso, come allora dicevasi la borghesia, e nel popolo minuto, la plebe. Si credeva che fosse stato quello un pretesto per favorire Lucrezia d'Alagno, che aveva la casa in quel sito, e che prevalendosi dell'amore ardentissimo a lei portato dal re, lo aveva indotto a far abbattere quell'edificio, onde rendersi spedito e libero l'aspetto della strada. Altri e forse non a torto, credettero che Alfonso avesse voluto ingraziarsi la nobiltà che vedeva mal volentieri come i popolani avessero un luogo proprio di riunione al pari dei nobili. Che che ne sia, certo è che ai 31 marzo dell'anno seguente 1456 il popolo radunato nella piazza della Sellaria tumultuò, la città tutta prese le armi, ed il re fu obbligato a cavalcare per le vie della medesima, onde placare gli animi esacerbati.

Fermandosi in mezzo alla piazza e parlando ai capi dei tumultuanti, Alfonso cercò di dimostrare il miglioramento che da quel fatto la contrada avrebbe avuto, annunziò le giostre che a divertimento del popolo aveva intenzione di farvi, promise d'intervenire ivi alla processione di S. Gennaro detta dei preti inghirlandati, solita farsi il primo sabato di maggio in ciascun anno, la quale, tolti gli impedimenti del Sedile e della casa che stavano in mezzo alla strada, sarebbe comparsa più sontuosa e più bella. La presenza del re, se non le ragioni da lui addotte, acquetò gli animi dei più; il bando che egli poi fece nel giorno seguente, con cui dispose di aggregarsi al sedile di Portanova i principali cittadini del popolo grasso, togliendone i capi e quei che formavano la forza principale dei malcontenti, estinse affatto il tumulto. In quello stesso giorno si cominciò, come dice un cronista, “a levare la silicata della piazza e spianare lo terreno, come si ci volesse fare la giostra, e la strada restò longa, diritta ed uguale dal capo de lo Pendino fino lo piede della via di Pistaso[225].„

E le giostre invero furono fatte, la processione fu con maggior pompa solennizzata, ma il popolo per parecchi anni restò senza rappresentanza e senza sede propria nel governo municipale, e quando dopo il breve dominio di Carlo VIII in parte nuovamente l'ottenne[226], non ebbe più un edificio speciale come i nobili, ma gli fu assegnato un locale nel convento di S. Agostino, ove nelle sue occorrenze potesse radunarsi. Senonchè la strada della Sellaria restò sempre come sede propria della giurisdizione popolare. Ivi nella processione di S. Gennaro, di cui innanzi ho parlato, si ergeva in ogni sei anni un catafalco, che raffigurava il distrutto sedile del popolo, e serviva temporaneamente a quelle stesse pompe, cui i sedili nobili, quando loro toccava, erano destinati. Ivi pure nella festa di S. Giov. Battista l'Eletto del popolo riceveva e faceva omaggio, come in propria dimora, al vicerè con istraordinari e magnifici apparati[227].

Ai tempi di D. Pietro di Toledo questa via ebbe pure altri miglioramenti. La chiesa di S. Felice in pincis, una delle antiche parrocchie della città, che era posta più su verso l'angolo della via di S. Agostino alla Zecca, e che usciva alquanto più in fuori della linea delle case da quel lato, fu per ordine del vicerè abbattuta, e la cura, che vi era, venne aggregata alla parrocchia di San Giorgio Maggiore[228]. Allora fu pure eretta una fontana nel sito, dove già credevasi posto il sedile del popolo coll'immagine di Atlante che sostiene il mondo, il tutto opra del famoso nostro scultore Giovanni Merliano da Nola col disegno dell'architetto Luigi Impò.

Da qui la strada prende ora il nome di Pendino, onde si denomina tutto il quartiere. Un tempo tale denominazione si restringeva solo a quel tratto, ove sbocca la via di S. Agostino alla Zecca, che scendendo in pendio da Forcella, si disse in prima Pendino di S. Agostino. Tenevasi ivi allora, come adesso per tutta la via, uno dei più affollati ed abbondanti mercati di commestibili in Napoli. Un arco antico finalmente, che non ha guari fu demolito, e la via che segue dei Zappari, chiamata nel secolo XIV piazza dei Vindi o dell' Inferno, chiudeva la storica contrada ad oriente, e ricordava il vecchio recinto della città, e la nascita di Bartolommeo Prignano, che poi divenne papa col nome di Urbano VI[229].

Or le strade della Sellaria e del Pendino nella mattina del 21 agosto di quel memorabile anno 1647, brulicavano più che mai di gente innumerevole, che alla voce sparsasi di tradimento contro il popolo, vi era precipitosamente accorsa da tutte le parti della città. Uomini di ogni età e condizione, lazzari e cappe nere[230], donne del popolo e fanciulli, e perfino frati non pochi ingombravano quelle vie già per l'ordinario così popolose. Uno era il pensiero di quanti ivi si raggruppavano in crocchio o a capannelli, uno il discorso di tutti dall'arco del Pendino alla cantonata dei Taffettanari.

Narravasi ai curiosi ignari della causa di sì nuova e subita indignazione, che Orazio di Rosa, volgarmente detto Razzullo, tintore e frisatore di panni abitante nel fondaco della zecca e capitano del popolo, nella sera antecedente insieme col mercante di seta Agostino Campolo, abitante a S. Biagio, aveva sorpreso tra le mani di Marco d'Aprea mercatante di drappi d'oro, e di Giuseppe Vulturale, una specie di petizione o fede che andavasi firmando, e con la quale si attestava come Fabrizio Cennamo, presidente idiota della regia camera della Sommaria, ed il consigliere Antonio d'Angelo, non di ordine del popolo ma per opra di alcuni privati loro nemici, fossero stati ai tempi di Masaniello incendiati; e quindi si domandava che s'istruisse d'un tal fatto regolare processo, e che i colpevoli ne ricevessero condegno castigo. Aggiungevasi essere questa una prima scappatoia, con la quale il vicerè cercava di violare le capitolazioni solennemente giurate nel Duomo ai 12 del passato luglio, e l'amnistia accordata con quelle e confermata nel 16 dello stesso mese. Con tal pretesto voler egli togliersi d'innanzi tutti coloro, che si erano adoprati al disgravamento ed al bene del popolo. Così a poco a poco si sarebbero rimesse le antiche gabelle e le innumerevoli estorsioni, che prima del 7 luglio opprimevano Napoli, i nobili avrebbero ripreso i loro vecchi abusi, ed il governo della città sarebbe tornato ad essere il monopolio di quelli. Ricordavansi pure con affetto le opere di Masaniello in beneficio del popolo che ora, senza un capo, non poteva sostenere i diritti ed i privilegi che si aveva rivendicati. Imprecavasi finalmente ai traditori della patria che ossequenti al vicerè davano mano al Cennamo ed al consigliere d'Angelo, e principalmente a D. Giulio Genoino, che tra musiche e banchetti, ora godevasi il posto di Presidente della regia Camera, prezzo ed arra di tradimenti passati e futuri[231].

Gli animi del volgo si esasperavano oltremodo a queste novelle, e più alle insinuazioni di alcuni, che avevano interesse a portar la rivoluzione oltre i limiti segnati da Masaniello. Tra costoro erano specialmente Giovan Luigi del Ferro da Arpino, il dottor Antonio Basso nativo di Napoli, e poeta non ignobile fi quei tempi, D. Carlo Pedata ebdomadario del Duomo, Don Pietro Iavarone, sacerdote della terra di Giugliano, il dottor Aniello de Falco e qualche altro di parte francese[232], i quali predicavano non potersi aver fede alcuna negli spagnuoli, e rammentavano le loro promesse spesso fallite, i privilegi della città, ottenuti col danaro e col sangue, tante volte spergiurati ed infranti, i reclami del popolo sempre vilipesi e scherniti. Qualche rara e timida voce di moderazione e di fiducia era accolta da beffe e da minacce, e con grida unanimi di abbasso gl'interessati, abbasso i giannizzeri[233], morte ai traditori. Omai al tumulto non mancava più che un indirizzo ed un capo qualunque, e bentosto l'uno e l'altro si ebbero.

All'angolo del Pendino in sulla svoltata della via dei Calderai, una vecchia vestita a bruno e salita sopra un poggiuolo accanto alla bottega di un salsumaio, apostrofava violentemente, tra i pianti e le strida, il popolo circostante. Era la madre di Masaniello, che il dolore e la disperazione rendevano veneranda ed eloquente. L'infelice rimproverava ai napoletani l'ingrata dimenticanza, con cui rimeritavano i beneficii ricevuti dai suoi figliuoli, mentre avevano lasciato trucidare barbaramente il primo e facevano ora perire nelle segrete di Castel Nuovo l'altro che pure tanto si era adoperato ed avrebbe ancora voluto adoperarsi in pro del popolo. Le parole e l'aspetto della misera genitrice, e più la memoria di Masaniello, determinavano i propositi fin allora incerti e contraddittorii della turba irritata: A palazzo, morte a D. Giulio Genoino, ed ai traditori della patria. Viva Giovanni d'Amalfi! gridò Ciommo Donnarumma, che era quel salsumaio parente di Masaniello, di cui facemmo cenno più sopra. Il grido fu ripetuto dall'un canto all'altro della via del Pendino e della Sellaria, e più migliaia di uomini e di donne si avviarono tumultuosamente verso il palazzo reale.

Il vicerè trovavasi allora in consiglio coi reggenti del Collaterale. Uso omai da qualche mese a queste continue dimostrazioni del popolo, egli alle dimande dei tumultanti di voler libero Giovanni d'Amalfi e consegnato nelle loro mani D. Giulio Genoino, traditore della patria, per mezzo di Bernardino Ferrero usciere della sua camera, rispose: Non poterneli soddisfare, aver mandato il primo a Gaeta per metterlo in sicuro dalle vendette dei suoi privati nemici, non trovarsi punto l'altro nel castello, come essi dicevano; ritornassero dunque tranquilli alle loro case, ai quotidiani lavori, e non disturbassero la quiete della città. La risposta del vicerè accrebbe l'ira dei rivoltosi. Alcuni di essi, volendo entrare nel palazzo, si avanzarono per far forza alle porte, altri con sassi cominciarono a molestare gli alemanni e gli spagnuoli, che vi erano di guardia. Ma costoro memori di quanto era avvenuto nella mattina del 7 luglio, erano preparati, giusta gli ordini del vicerè, a respingere la forza con la forza. Trassero quindi una scarica di archibugiate sugli assalitori, alla quale parecchi ne caddero morti o feriti, tutti gli altri, oltremodo impauriti, si gettarono a terra o fuggirono[234].

Le memorie del tempo narrano di una vecchia che scarmigliata, come una delle furie, inanimiva i lazzari ed i popolani all'assalto ed alla vendetta; ne tacciono però il nome[235]. A me pare assai verosimile che questa fosse la stessa Antonia, che l'amor materno rendeva furibonda e non curante della propria vita.

Io qui non dirò l'irritazione del popolo alla novella sparsa per la città di questo avvenimento, l'accorrere delle schiere di S. Lucia a Mare sotto il comando di Onofrio Cafiero, e del Mercato e del Lavinaio guidate da Gennaro Annese al Regio Palazzo, l'assalto e la presa dei monasteri della Croce, di S. Luigi e di S. Spirito, allora posti di rincontro al medesimo, e della collina di Pizzofalcone che domina tutta la contrada, la morte del presidente Cennamo eseguita in mezzo della piazza della Sellaria, e finalmente le fazioni indi per cinque giorni combattute tra i popolani e gli spagnuoli. Omai si veniva a guerra aperta. Al grido di: viva il re e muoia il mal governo, succedeva l'altro di: viva il popolo, morte agli spagnuoli. Le barricate s'alzavano a Visitapoveri nella strada di Porto, a S. Lucia, in istrada Toledo. I cannoni di Castello dell'Uovo traevano incessantemente su tutte le vie. La città era dovunque piena di strage e di lutto. Se non che il Cardinal Filomarino, richiestone da ambo le parti, anche questa volta s'interpose tra i contendenti. Dopo varie pratiche inutili, il buon prelato ottenne la sospensione delle armi, e poscia ai 26 di agosto la pace. Nuove capitolazioni, nelle quali principalmente stabilivasi la ripristinazione del sedile del Popolo nella stessa Piazza della Sellaria, furono conchiuse e firmate, ed indi ai 7 settembre solennemente giurate dal vicerè.

Fatti son questi estranei al mio racconto[236]. La seconda sollevazione, che erasi iniziata col nome di Giovanni di Amalfi, non si ricordò più di lui nella lotta, non ne fece motto alcuno nelle capitolazioni.

In una notte — era il 4 settembre — un portiere di camera del vicerè si presentò nelle stanze del Castel Nuovo, ove dimorava D. Giulio Genoino con Fra Luca dell'ordine di Malta, poco fa pei meriti dello zio fatto capitano di cavalli, e Giuseppe San Vincenzo, altro suo nipote, testè nominato giudice di Vicaria, e per ordine del vicerè l'invitò a seguirlo. D. Giulio raccolse le sue carte, i nipoti il loro bisognevole, e tutti insieme partirono. Un profondo silenzio regnava nel castello. Dopo di aver attraversato parecchi corridoi, scesero alcune scale e per la porta del soccorso uscirono nell'arsenale. Il soldato che era di guardia, ad alcune parole dettegli dal portiere del vicerè li lasciò passare. Nell'arsenale era pronta a salpare una galea. D. Giulio ed i suoi nipoti vi entrarono, e poco dopo la nave partì[237].

Nella stessa notte un'altra barca conduceva a Gaeta la madre, la zia e la sorella di Masaniello, che insieme al cognato di lui, non so per qual tradimento o caso erano ricadute nelle mani del vicerè[238].

D'altra parte due uomini gettavano in una sepoltura della chiesa di S. Barbara una bara. Era il cadavere di Giovanni d'Amalfi, poco prima strozzato segretamente nella fossa del Miglio per ordine del Duca d'Arcos[239]. La sola moglie di Masaniello, perchè gravida, era risparmiata in questa comune tragedia della sua famiglia, ed era riserbata dal destino a nuovi dolori[240].

Scorsero alcuni mesi. La rivoluzione era entrata nella terza ed ultima fase, in cui al grido di: viva Dio ed il popolo, si era proclamata la serenissima real repubblica di Napoli, ed Errico di Lorena, Duca di Guisa, era stato chiamato a governarla, come doge di essa. Un giorno verso la fine di novembre, o il principio di dicembre — le memorie non lo precisano — questi, nello entrare che faceva, come era solito in ogni mattina, a sentir messa nella chiesa del Carmine, fu fermato da una donna vestita a bruno e velata, che inginocchiatasegli innanzi, gli presentava piangendo un memoriale. Il Duca con la gentilezza e con la galanteria propria della sua nazione, e che egli possedeva al sommo grado, invitò la donna ad alzarsi, e volto ad Agostino di Lieto, capitano della sua guardia, che gli era vicino, gli domandò chi fosse quell'infelice. È la vedova di Masaniello, rispose colui, che chiede aiuto e soccorso da vostra Altezza Serenissima. E non le mancherà nè l'uno, nè l'altro, disse commosso il Duca; la vedova di colui, che iniziò il movimento popolare di Napoli, e che moriva per liberare il popolo dall'oppressione spagnuola, ha dritto alla gratitudine della repubblica. Indi prendendosi il memoriale da mano della Bernardina e consegnandolo al padre Capece, suo confessore, che pur lo seguiva, decretava che fossero assegnati alla medesima 50 scudi al mese[241].

Ma questa fortuna della moglie di Masaniello non fu meno efimera delle altre. Non andò guari che nel 6 aprile dell'anno seguente gli spagnuoli, spenta la rivoluzione e caduto prigione il Guisa, occuparono quella parte della città che si teneva del popolo. Allora il conte d'Ognatte, nuovo vicerè del regno, mentre che promulgava una completa amnistia, cominciava una lenta ma terribile reazione contro il passato. Ora sotto un pretesto ed ora sotto un altro, tutti coloro, che avevano preso parte alle passate rivoluzioni, erano condannati a morte, o condotti in galera. I più accorti non si fidarono delle promesse spagnuole ed in numero di circa undicimila, come ricordano le memorie del tempo si fuggirono a Roma.

E la Bernardina? Col ritorno degli spagnuoli tornò nella sua casa il bisogno e la miseria, tristi e spesso poco onesti consiglieri. Le passate guerre e lo scarso ricolto avevano prodotto una mancanza tale di grano e delle altre civaie, che nella nostra città potevasi scorgere quasi la carestia. L'infelice donna senza parenti, senza amici, senza aiuto alcuno, non aveva altra alternativa che la fame o il disonore. Bella e giovine ancora cedette alle seduzioni del vizio. In uno di quei vichi del Borgo di S. Antonio Abbate, ove miserabili donne facevan mercato del loro corpo, la vedova di Masaniello fu costretta a menare una vita di vergogna e di strapazzi[242]. Spesso i soldati spagnuoli, che, per la curiosità o per lo sfogo di brutali voglie, colà si conducevano, dopo averla goduta, aggiungevano all'onta il danno e l'insulto, e beffandola e motteggiandola col titolo altra volta così per breve tempo ottenuto, negavano alla meschina il prezzo del proprio disonore. Quei pochi giorni di fortuna, che sparirono tosto come una brillante meteora, erano allora per lei argomento maggiore di dolori e di oltraggi. Eppure in quel tempo, come a questo proposito il Pollio ricorda, Masaniello spesso usava della sua autorità per salvare gli spagnuoli dal furore del popolo. Egli li mandava via, dicendo esser soldati del vicerè suo compare, a cui spettava dar loro castigo, e così li faceva mettere in salvo[243].

La peste finalmente, che dopo pochi anni desolò la città ed il regno, e colpì indistintamente gli oppressori e gli oppressi, pose nel 1656 termine[244] alle miserie della sciagurata, che era stata moglie di Masaniello.

PARTE TERZA MASANIELLO ED ALCUNI DI SUA FAMIGLIA EFFIGIATI NEI QUADRI NELLE FIGURE E NELLE STAMPE DEL TEMPO

Mira, che del morir nulla paventa

Chi le carriere alle rapine ha ferme,

E ch'un'Idra di mali ha doma, e spenta.

Mira l'alto ardimento ancor ch'inerme,

Quante ingiustizie in un sol giorno opprime

Un vile, un scalzo, un Pescatore, un verme.

Mira in basso natale alma sublime,

Che per serbar della sua Patria i fregi

Le più superbe teste adegua a l'ime.

Ecco ripullular gl'antichi pregi

De' Codri, e degl'Ancuri e de' Trasiboli

S'oggi un vil pescator dà Norma ai Regi.

Salvator Rosa — Satire, la Guerra

Tra i moltissimi scrittori sincroni o quasi, che narrarono le vicende della rivoluzione napoletana del 1647-48, non mancarono coloro, che vollero dar ai lontani e tramandare ai posteri, notizia delle fattezze, delle abitudini, della vestitura e del carattere del famoso pescivendolo, che fu l'iniziatore di quel moto meraviglioso. Essi furono il dottor Aniello della Porta[245]; il dottor Tizio della Moneca[246]; ed il noto letterato e genealogista Giuseppe Campanile[247], nei loro Diarii tuttora inediti; ed il Giraffi o Liponari[248], il Della Torre[249], il Birago[250], ed il Buragna[251], autori di opere sull'argomento già divulgate per le stampe, e finalmente il Sauli, non ha guari edito[252]; tutti per lo più testimoni oculari dei fatti che narrano.

Ora, secondo costoro, che io qui confronto e riassumo concordando ed interpretando al meglio le loro parole, che sia per ignoranza, sia per modo diverso di vedere, o di apprezzamenti, sia per poca proprietà di linguaggio, sono talvolta oscure o diverse, Masaniello era un giovine di mezzana e quasi bassa statura[253], di corpo più tosto magro e svelto[254], di bruna carnagione[255] e di bello e piacevole aspetto[256]. Aveva i capelli castagni che erano tagliati ed attondati sulla fronte larga e formavano una corta zazzerina da dietro[257], gli occhi erano neri o cervoni ma vivacissimi[258], il viso più lungo che tondo[259], il naso lungo[260]; era senza barba[261] e con piccoli baffi biondi sul labbro[262].

Il suo ordinario abbigliamento, secondo che concordemente attestano gli stessi scrittori del tempo, consisteva in una camicia ed in mutande di tela grossa e ruvida, ed in una coppola o berretto rosso da marinajo in testa. Andava scalzo e portava le gambe ignude. Un abitino della Madonna del Carmine gli pendeva sul petto, ed anche, secondo alcuni, una piccola corona dal fianco. Qualche volta portava “nel collo involta una tovaglia per asciugare col soverchio caldo ed affanno i continui sudori della fronte„[263]. Nei giorni del suo impero ordinariamente il detto abito era di dobletto bianco, e aveva spesso una coltella sfoderata in mano[264]. Se non che quando agli 11 luglio andò a Palazzo, ed ai 13 al Duomo per volontà del cardinale arcivescovo Filomarino, usò un vestito di lama bianco di argento, ed un cappello con piume bianche[265], come si vede nel quadro di Micco Spadaro.

Così i diaristi e gli storici contemporanei descrissero il celebre pescivendolo. Nè, d'altra parte, mancarono artisti che col pennello, col bulino, con la cera, o in qualche altro modo cercassero di rappresentare con più evidenza ed al naturale l'immagine sua. Che anzi, se dovesse credersi al de Dominici, parecchi e dei più famosi pittori della scuola napoletana, gareggiarono a farne il ritratto.

Narra egli, che scoppiata la rivoluzione, Aniello Falcone per vendicarsi degli spagnuoli, che avevano ucciso un suo parente, formò “una compagnia di scolari che erano molti, di amici e di parenti, i quali uniti caminando, ove gli portava il capriccio, sacrificavano al loro furore quanti soldati spagnuoli venivano loro davanti; e, fattone inteso Masaniello per ottenerne licenza e protezione[266], fu dal medesimo dichiarato il Falcone (Aniello) capo della compagnia, alla quale fu dato nome: la Compagnia della Morte„. Erano tra questi Salvator Rosa, Carlo Coppola, Andrea ed Onofrio di Lione, Paolo Porpora, Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro, Marzio Masturzo, Pietro del Pò, Giuseppe Marullo, Giuseppe Garzillo, Cesare e Francesco Fracanzani, Andrea Vaccaro col figliuolo Nicola, ed il famoso Viviano Codagora. Tutti costoro, armati di spade e pugnali, come era l'uso di quei tempi, andavan di giorno passeggiando per le strade, facendo da gradassi, ed uccidendo quanti disgraziati spagnuoli si paravano innanzi ad essi.

“Non deve far maraviglia dunque, soggiunge il de Dominici, se molti ritratti si trovino di Masaniello di mano del Rosa. Uno ne possedeva Francesco di Maria pittore napoletano, e suo grande amico, al quale aveva egli stesso raccontato averne ricevuta buona ricompensa, e che Masaniello avendo saputo, che la maggior parte di quei della Compagnia della Morte erano bravi pittori, volle che i migliori facessero il suo ritratto, proponendo non volgar premio a chi meglio lo avesse dipinto al naturale; lo chè benissimo potè accadere, avendo egli regnato 13 giorni e non già 8[267] come erroneamente credono alcuni. Quindi è, che dei ritratti fatti dal Falcone, da Salvatore, da Fracanzani, dal Marullo, dal Vaccaro, da Micco Spadaro, e Andrea di Lione, se ne vede adornato più d'un museo; e Salvatore se ne condusse uno in Roma, ove lo mostrò egli stesso al celebre Avvocato Giuseppe Valletta[268], e fu anche veduto dal nostro Luca Giordano, allorchè in Roma faceva i suoi studii: il quale aggiungeva la particolarità, che quel ritratto era meno della grandezza del naturale, e che quelli fatti da Micco Spadaro erano sempre in picciolo, avendo solamente Andrea Vaccaro, il Marullo, e il Fracanzani dipinto Masaniello al naturale„[269].

Disgraziatamente però l'autorità del de Dominici, che empiva di favole le carte delle sue vite degli artisti napoletani, è ormai sfatata, e quello ch'egli dice della Compagnia della Morte, del concorso fatto fare da Masaniello ai pittori per il suo ritratto è tutto parto della sua fervida e feconda immaginazione[270]. Ed è anche assai inverosimile, sì perchè il Capitan Generale del popolo nei pochi giorni del suo impero, ebbe altro a che pensare, e non aveva certamente il tempo di posare avanti ai sette o otto pittori che, secondo il de Dominici, doveano ritrarlo, e sì perchè nella natura di lui, schiettamente popolare e napoletana, si comprende agevolmente la soddisfazione di una passeggiata e di una tavoliata a Posilipo (14 luglio), ma non la vanità di un ritratto eseguito dai migliori pennelli, che allora in Napoli esistevano. Nè finalmente, per quanto io so, nelle gallerie di Napoli e di altre parti, in Italia e fuori, si mostrano ora tele di Salvator Rosa o dei suoi compagni raffiguranti Masaniello[271], che pure, se fosse vero quel che narra de Dominici, ne avrebbero dovuto esser ricche.

Solo due quadri conosco, che riguardano l'argomento, di cui ragiono, e che per altro non sono propriamente ritratti di Masaniello, sibbene rappresentazioni della sommossa, cui egli iniziò, e nella quale naturalmente è, come principale personaggio, raffigurato. Ed il primo, ben noto, è la tela di Micco Spadaro (m. 1,23 x 1,79) rappresentante il mercato di Napoli durante il primo periodo della rivoluzione (7-16 luglio 1647) che “non solamente è maraviglioso, come il de Dominici ben nota, ma è opera di stupore„. In esso il bravo artista volle riunire i varii episodii di quel memorabile avvenimento, e vi raffigurò Masaniello due volte; la prima nel secondo piano in fondo al quadro, sul tavolato innanzi la casa da lui abitata, vestito degli abiti ordinarii di pescatore, che con un crocefisso in mano, arringa il popolo circostante; e la seconda nel piano più innanzi, a cavallo, vestito di lama d'argento, e con un cappello di velluto cremisino in testa ornato da svolacchiante pennacchio[272]. Noi per lo scopo di questa scrittura riproduciamo qui il gruppo di Masaniello a cavallo[273].

L'altro, poco conosciuto, o almeno poco ricordato tra noi, si conserva nella Galleria del Principe Spada in Roma, (1ª Sala, n. 18), ed è opera di Michelangelo Cerquozzi, discepolo del Cav. d'Arpino e di Pietro Laar fiammingo, e famoso pittore di bambocciate e di battaglie, donde prese il nomignolo, con cui fu più generalmente conosciuto[274].

Il quadro è lungo circa m. 1 e mezzo; alto poco meno di un metro. Rappresenta parimenti la piazza del mercato di Napoli, ma nel primo momento della sollevazione. Sul davanti, in primo piano, verso il mezzo del quadro, si vede Masaniello a cavallo in camicia e mutande, con berretto rosso in testa, che grida e minaccia col braccio destro disteso, mentre con la sinistra regge il freno. Il cavallo bianco sembra una rozza staccata da uno dei carri poco lontani. Dietro Masaniello, sulla destra di chi guarda, si veggono molti ragazzi messi in varie file, armati di lunghe canne[275] i quali anch'essi stanno con le bocche aperte in atto di gridare. Intorno a Masaniello sono molti lazzari o marinai con berretti rossi e molti contadini che tirano frutta in viso agli affittatori della gabella. Costoro portano l'abito nero, con cappelli neri a larghe falde e colletti bianchi, e scappano da tutte le parti. Un frate Domenicano, con le mani tese, sembra inframettersi per impedire quelle violenze. Il terreno è sparso di mucchi di frutta, cesti, sacchi, ed altri oggetti.

Nel secondo piano poi è rappresentata la piazza con la chiesa e il campanile del Carmine in fondo, piena di gente che attende a vendere ed a comprare in calma, ed in modo che non pare essersi ancora accorta del tafferuglio che accade nel punto ove trovasi Masaniello.

In tutto il quadro, riprodotto anche qui per intero, bellissimo per vivacità di composizione, per correttezza di disegno e per forza di colorito, è specialmente da notarsi, per quel che mi riguarda, la verità storica di alcuni dettagli; come p. e. la fisonomia tipica napolitana dei guaglioni seguaci di Masaniello, che sembrano vivi e parlanti, il toccalo in testa di alcune donne secondo il costume del Mercato e del Lavinajo in quei tempi[276], e principalmente l'aquila imperiale dipinta sotto le finestre della casa di Masaniello, alla quale non badò Micco Spadaro[277].

Non debbo però tacere della tela che mostrasi nella nostra quadreria nazionale, rappresentante a mezza figura un paffuto popolano che si crede volgarmente il ritratto di Masaniello[278]. Egli ha un cappello piumato in testa ed una pipa in bocca che fuma; ma la tela, comunque forse appartenente alla fine del secolo XVII, pure non rappresenta che un popolano qualunque, e non dei paesi nostri. Basta por mente al cappello, insolito alla plebe napoletana, ed alla qualità della pipa, non usata tra noi, per convincersi di questa verità.

Non parlo poi di varie tele, che per rappresentare un giovine marinaio o pescatore, si son credute e si credono ritratti di Masaniello. Esse non hanno alcuna autenticità. Tale a me parve un quadro che si possedeva dal fu mio amico avv. sig. Francesco Cangiano, grande amatore o collettore di libri ed oggetti antichi, e che ora non so, dopo la morte di lui, in mano di chi sia capitato.

Notizie invece più sicure sul proposito, tramandate a noi da alcuni scrittori contemporanei, ci possono condurre a più sicure congetture. Narra il Campanile che, ucciso Masaniello ai 16 luglio, la sua testa, dopo essere stata portata sopra una picca in trionfo per la città, fu riposta nella conservazione dei grani, che stava alla salita degli Studii, dove abitava Michelangelo Ardizzone, capo degli uccisori, e che lavata con vino e con mirra, ivi egli vide che se ne faceva più di un ritratto da un pittore. Così pure il de Santis racconta che il popolo dolente e pentito della morte del suo Capitan-generale, prese il suo cadavere dai fossi di Porta Nolana, ove era stato gettato, e lavatolo nel Sebeto lo condusse alle fosse del grano, ove l'unì alla testa, e così ravvolto in un lenzuolo lo portò nella chiesa del Carmine. Ivi, mentre si preparavano le solenni esequie, acconciatolo all'uopo, molti pittori fecero il suo ritratto, e ne furono formati ancora alcuni in cera molto al naturale e ognuno ne cercava, ognuno ne voleva senza guardare a prezzo[279].

Da tutto ciò, dunque, si può con maggiore fondamento e senza le fantasticherie del de Dominici determinare come e quando principalmente furono dipinti i ritratti di Masaniello, di cui si può avere notizie, e che hanno esistito o che esistono tuttora.

Di questi ritratti, per quanto io so e per quanto dalle ricerche da me fatte per circa un mezzo secolo mi è riuscito ricavare, un solo conosco, che forse presenta i caratteri di autenticità che si possono desiderare, ed è il quadro che si conserva dal Principe Rospigliosi in un suo castello di Toscana.

Il Duca Proto di Maddaloni, da pochi anni mancato ai vivi, uomo di molto e vivace ingegno, di svariata cultura, ma scrittore di non sicura erudizione, soleva dire spesso che in casa di quella nobilissima famiglia conservavasi il vero ritratto di Masaniello. Egli con maggiori particolari, ma con parecchie inesattezze, in un giornale del 1887 scriveva lo stesso[280].

Ora ciò ricordandomi e desiderando di avere maggiori chiarimenti sul proposito, affinchè ne avessi potuto parlare con sicurezza in questa mia scrittura, io, in nome della Società Napoletana di Storia Patria, alla quale ho l'onore di presedere, agli 8 ottobre dello scorso anno, scrissi all'egregio Principe a Roma, perchè ci avesse favorito qualche notizia intorno ad un tal quadro, dimandandogli se, nel caso fosse esistito veramente, permetteva che se ne cavasse una fotografia per pubblicarla a corredo della mia illustrazione. Il nobil Uomo, con squisita cortesia, mi fece rispondere dal figlio ai 12 dello stesso mese, nei seguenti termini: “Molti anni fa il compianto nostro amico Duca di Maddaloni, ci asseriva, noi dover possedere un ritratto autentico di Masaniello, riportato da Napoli e regalato al Pontefice Clemente IX, prima Cardinale Giulio Rospigliosi, dal Nunzio Altieri[281]. Quest'ultimo succedette nel pontificato a Clemente IX, prendendo il nome di Clemente X. Dove il nostro lamentato amico avesse attinto la notizia del quadro, non ho potuto mai sapere; fatto si è, che rovistando a casa tra vecchi quadri esistenti in una camera della nostra villa di Lamporecchio io stesso, rinvenni due ritratti con un'iscrizione in basso di tutte lettere confuse, al disopra delle quali, a guisa di chiave, era un numero. Ordinando le lettere a seconda di questo, componevano, l'una il nome di Masaniello e l'altra quello di Cecco d'Ascoli. Presi cura di far restaurare e rintelare il ritratto che lo interessa, ed ora non è che a dirle, che di buon grado mio Padre lo mette a sua disposizione per farlo riprendere in fotografia, trasportandolo all'uopo ancora in Firenze, se ciò in qualche maniera agevolasse la cosa„.

Profittando così di tanta gentilezza, noi facemmo rilevare in fotografia dall'Alinari il quadro, che qui riproduciamo in fototipia.

Il Capo-popolo è, come si vede, raffigurato in piedi fin oltre il ginocchio; ha il capo scoverto, i capelli attondati sulla fronte con la zazzerina al didietro, ha gli occhi grandi e vivaci, piccoli mustacchi e non ha pelo sul mento. Sta in un atteggiamento di comando con la mano sinistra sul fianco e con la destra distesa che stringe una spada rivolta in giù. Porta al collo l'abitino del Carmine che si scorge sul petto abbrunato ed il noto vestito da marinaro, camicia e mutande di tela. Tra lo sparato della camicia si vede una carta piegata a modo di supplica, ove si legge: “All'Ill. mo Sig. Tommaso Aniello d'Amalfi Capitan generale del fedelissimo popolo napoletano„. A piedi del quadro è un cartello con varie lettere maiuscole che non fanno senso, ma che si ordinano con i numeri sovrapposti, probabilmente in tempi posteriori, e dicono Masaniello; ma il mistero, come ognun vede, è affatto inutile, perchè più sopra, nella supplica, il nome del personaggio dipinto si legge assai chiaramente.

Il ritratto, a quanto pare, e secondo che mi assicurano il Palizzi ed il Morelli, solenni maestri nell'arte, non è preso dal vero o almeno da un personaggio vivo. Il pittore, mediocre artista, lavorò forse più di memoria che sull'originale, e cercò evidentemente abbellire il soggetto che doveva ritrarre.

Dei ritratti in cera, oltre quelli ricordati dal de Santis, sappiamo che se ne fecero anche altri, quand'era ancor vivo. Vincenzo dei Medici, residente toscano in Napoli, ai 20 agosto del 1647 scriveva al Gran Duca nei seguenti termini: “Mi è capitato alle mani due ritratti di cera di Maso Aniello, che erano fatti per il Vicerè, per mandarli in Spagna; e per la memoria di quest'uomo, che perturba assai la memoria di S. E., è svanito il trattato. Mi è riuscito, con gran difficoltà di averli; e li mando a S. E. assicurandolo, che nessuno arriverà mai ad avere un tal naturale, per essere fatto quando era vivo, e nemmeno l'artefice ne ha copia. E questo è quello plebeo, il più vile di 600000 persone, che più volte ha toccato la barba del signor Vicerè, con dirli “che non temesse stravaganze del mondo„[282].

Anche il residente di Modena in Napoli Francesco Ottonelli con dispaccio dei 23 luglio 1647 mandava al Duca in disegno il ritratto di Masaniello ed una relatione degli accidenti nati doppo la morte di lui, ma disgraziatamente ora l'uno e l'altra mancano in quell'Archivio di Stato[283].

Uno dei ritratti in cera ricordati dal de Santis sembra quello che ora si conserva qui in Napoli nel ricco ed importante Museo del Duca di Martina. Guardandolo attentamente si arguisce ben tosto che dovette essere fatto dopo la morte di Masaniello. È una teca rotonda, con capsula di rame dorata con cristallo avanti. Nel fondo, attaccato su tavoletta circolare, si vede la testa di Masaniello fatta in cera, dipinta a colori naturali e verniciata. La tinta della carnagione è molto bruna. Ha i capelli arruffati, gli occhi spalancati e la lingua molto sporgente dalla bocca. Pare la testa di un impiccato.

Il fondo della teca è dipinto di color grigio, e in giro ha l'iscrizione a caratteri rosso-cupi che dice: “Ritratto di Masaniello fatto dal vero poco dopo morto G. B. Bianco fecit„. Di costui non ho trovato notizia finora.

Parecchie poi sono le figure incise nella seconda metà del secolo XVII in rame o ad acquaforte, che rappresentano il famoso pescivendolo e che sono state fino ai tempi nostri divulgate. E prima tra esse è quella che trovasi in fronte del libro dell'Amatore, Napoli sollevata, stampato in Bologna nel 1650. Masaniello ivi è raffigurato alla testa dei figlioli armati di cannucce, è vestito di una camiciuola e di mutande all'uso marinaresco, porta il berretto solito in testa ed una bandiera sulle spalle, e si volge a coloro che lo seguono, e col dito sulle labbra intima il silenzio. Se non che la figura è più tosto la rappresentazione di un fatto che della persona. Sopra la medesima è scritto in spagnolo “El major monstruo del mundo y prodixio dela Italie Tomas Annielo d'Amalfi„.

Altre invece, dello stesso tempo o di poco posteriori, sono o almeno hanno la pretensione di essere propriamente ritratti. Tal è quello che si vede in fronte alla traduzione inglese dell'opera del Giraffi, stampata in Londra nel 1650. Il Capo-popolo è ritto in piedi, ha mustacchi neri, folti e volti all'insù, la zazzerina, e l'apparenza di un uomo tra i 30 o 40 anni. Sta nello stesso atteggiamento del ritratto di casa Rospigliosi, cioè, tiene la sinistra appoggiata al fianco e la destra distesa in atto di mostrare qualche cosa. Porta il costume marinaresco, solchè contro ogni verità la camiciuola è di color turchino. Sotto si legge: Effigie et vero ritratto di Masaniello comandante in Napoli[284]. Tal è l'altro, che si trova nell'edizioni dello stesso libro tradotto in fiammingo, fatte nel 1652 e nel 1664 in Olanda[285]. In ambedue Masaniello è ritratto di fantasia a mezza figura, piuttosto giovane, con grandi occhi, e con grossi mustacchi neri, come nel precedente, con berretto in testa.

Della stessa natura e del pari immaginarii sono quelli, che Giovanni Palazzo nel libro intitolato: Aquila austriaca[286], e Adolfo Brachelio nell' Historia sui temporis[287] riprodussero. Queste due opere furono edite intorno alla metà del secolo XVII.

Alquanto diversa, ed anche più arbitraria delle precedenti, è la figura che si vede di fronte a un'altra edizione della traduzione inglese del libro del Giraffi, fatta pure in Londra nel 1664, con l'aggiunta di una 2ª parte, che contiene la continuazione del medesimo stampata, non saprei dirne la ragione, nel 1663. Nella 1.ª parte Masaniello, il pescatore di Napoli, così sotto si legge, è rappresentato a personaggio intero. Ha, contro il solito, la destra col bastone del comando appoggiata al fianco, e la sinistra coll'indice disteso. Il mustacchio, non così folto come negli altri, è svolazzante. Ha l'apparenza di un giovane ed il solito costume marinaresco. Nel basso della figura, a dritta, è la veduta di un palazzo, ed a sinistra la scena di un gran tumulto, con cadaveri stesi per terra, a piedi di una colonna che ha sopra una statua, forse della libertà. Nella 2ª parte poi sono i ritratti a mezza figura, sopra di Genovino e Masaniello, e sotto di Gennaro Annese. E qui il ritratto di Masaniello è secondo il tipo di quello dell'edizione olandese[288].

Ma di tutti questi ritratti sinora ricordati certamente più autentico e vero deve ritenersi quello che da me si possiede e che qui si riproduce. Esso fu fatto vivente Masaniello, come può, se non m'inganno, argomentarsi dalla dedica che si legge al disotto, e probabilmente fu il prototipo di tutti gli altri che di questo genere in Italia e fuori si divulgarono.

Il Capo-popolo è rappresentato ritto in piedi, vestito della camiciuola da marinaio chiusa nel petto, che fa intravedere la camicia sotto, e di mutande di grossa tela. Ha in testa il berretto da marinaio. È scarno di faccia, senza barba e con un piccolo mustacchio sul labro; dietro la testa si scorge la zazzerina ricordata dagli storici. Ha la sinistra sul fianco, e la destra alquanto distesa in atto d'indicare qualche cosa, le gambe ed i piedi nudi. Al di dietro nel basso della figura si vede la prospettiva di Napoli col castel Sant'Elmo che ha la bandiera inalberata. Sotto si legge: Tomaso Aniello da Malfi als. (alias) Mas'Aniello Pesci Vendolo d'età d'Anni 23, acclamato Capo del Popolo di Napoli. Adì 7 di lulio dell'anno 1647. Pietro Bacchi dona e dedica e sculpsit superiorum permissu.

Il ritratto, dunque, fu fatto da un tal Pietro Bacchi e dedicato a un innominato, che potrebbe forse da taluno credersi anche lo stesso Masaniello. Dal complesso della dicitura della leggenda a me pare che questi dovesse imperare tuttora.

In ogni modo del Bacchi, artista poco noto e che non è ricordato nei principali dizionari degl'incisori, che ho potuto consultare, parla il Zani nella sua Enciclopedia metodica delle belle arti ove sotto la lettera B, si legge: Bacchi Pietro o pure Bacchius Petrus si segna nelle sue opere: Petrus Bacchius inv. fecit et sculpsit. Scultore, Pittore ed incisore Fiammingo. Morto nel 1650[289].

La figura proviene dalla biblioteca del Cav. Michele Arditi, già Soprintendente del Museo Borbonico e degli scavi del Regno, che dopo la costui morte fu venduta nel 1839 all'asta pubblica. Il Ms. però nel quale quella trovavasi, insieme ai bandi ed editti del 1647 e 1648 non si mise in vendita. Invece l'erede, dopo qualche tempo, lo vendette al libraio Detkhen e questi al Minieri Riccio, dal quale intorno al 1860 io l'acquistai.

Da questa stampa, a quanto sembrami, precede il ritratto qui riprodotto, che si conserva nella collezione iconografica della biblioteca del Gerolomini di Napoli.

Esso fu fatto in Francia, sopra un originale, come nello stesso rame si dice, mandato da Napoli. Masaniello è raffigurato con i soliti abiti e col berretto in testa. Ha il piccolo mustacchio, la sinistra sul fianco e la destra alquanto distesa in atto di comando. Ai piedi, indietro, è la veduta di Napoli con l'epigrafe in carattere majuscolo “ La Ville de Naples „. Sull'alto del rame, scritto in caratteri minuscoli corsivi, si legge: envoye de Naples le Pourtrait au naturel de Thomaso-Mas-aniello pescheur de la ville de Naples et chef des soulevez, e sotto: rue S. Jacques chez van merlen devant le coeur bon.

Di altre stampe sullo stesso argomento si è avuto notizia recentemente. Nel 1884 il cav. Felice Nicolini, direttore del Museo di S. Martino, rinvenne una testa di legno conservata nei magazzini del Museo, volgarmente creduta di Masaniello, di cui dirò in appresso. E in quell'occasione, intrapresi degli studii sul proposito, e avendo inteso che nella Biblioteca Universitaria di Bologna si conserva un Ms. della rivoluzione in Napoli del 1647 illustrato da molte figure del tempo[290], ne fece fare, previa l'autorizzazione del Ministro della Pubblica Istruzione, una copia per la biblioteca di S. Martino, facendo pure ritrarre in fotografia le figure che vi erano inserite. Da questo Ms. vennero in luce altri ritratti non solo di Masaniello ma anche di alcuni della sua famiglia e di parecchi personaggi, che in quella rivoluzione ebbero parte.

Così questo libro, che era affatto sconosciuto ai nostri scrittori, venne ad arricchire la collezione dei libri e di altri monumenti patrii in quel museo conservati, ed io ebbi l'opportunità di consultarlo e di vedere le fotografie in esso contenute. Senonchè queste non mi davano piena ragione del carattere delle figure originali, non avendo avuto il copista la cura di descriverle esattamente; come sarebbe stato regolare ed opportuno per la piena intelligenza delle medesime. È stato quindi necessario osservare il codice di Bologna che, grazie al provvido regolamento attuale delle biblioteche che agevola così largamente i nostri studii, è stato trasmesso alla Nazionale di Napoli ed io ho avuto la grande soddisfazione di studiarlo.

Non è qui il luogo di descrivere minutamente questo curioso Ms. Debbo però dare a ogni modo una notizia sommaria del medesimo affinchè i lettori possano giudicare del valore dei ritratti che da esso ricaviamo.

Un tal Fra Sebastiano Molini da Bologna, monaco converso (egli, non so perchè, dice commesso) dell'ordine dei Canonici regolari Lateranesi, che prese l'abito nel monastero di S. Salvatore di quella città, fu l'autore dell'opera. Nel 1646 dai suoi superiori mandato in Napoli, stette prima nel monastero di S. Maria a Cappella e poi in quello di S. Agnello a Capo Napoli, ambidue appartenenti al detto ordine. In quest'ultimo trovavasi allorchè scoppiò la rivoluzione del 1647. Uomo poco culto, ma naturalmente curioso all'eccesso, dovendo giornalmente andare, come spenditore del monastero, a fare le necessarie provviste per il vitto dei frati, cercava con quelle occasioni di osservare le cose che per la città succedevano, o d'informarsene dai suoi conoscenti ed in ispecie dai bottegai dai quali fornivasi. Così, secondochè dal suo scritto rilevasi, egli assiste personalmente, quasi ad ogni più notevole accidente di quella sollevazione e ne fa tesoro; di talchè chi legge non può non maravigliarsi di questa sua ubiquità, e non riesce sempre a liberarsi dal sospetto che talvolta il frate non sia un vanitoso millantatore.

Volendo poi il Molini conservare memoria delle cose da lui vedute o udite, cercò di compilare il suo diario, o piuttosto la minuta e la prima compilazione di esso, che, se ben comprendo il senso oscuro delle sue confuse e sgrammaticate parole, prima perduta ed indi recuperata, dopo 33 anni fu distesa a messa in bel carattere da un tal d. Francesco... nel modo come al presente si vede nel Ms. bolognese. “Con gran timore, dic'egli, abbozzai la presente Sollevatione di giorno in giorno, come accadeva e mai alcuno l'ha fatto di veduta come la fo io, anzi la fo per prattica? e per destino, poichè, essendo io fuori, sono capitati in più mani i miei scartafazii quali ultimamente ritornato se non gli avessi rubbati, perivano infallibilmente, come successe il caso...[291] „.

Altrove, in una postilla autografa attaccata all'ultimo foglio bianco del codice, egli soggiunge: che aveva aspettato molto tempo, sperando che di tante migliaia di virtuosi che si trovavano presenti in Napoli 1647-48 almeno uno di loro avesse dato pieno ragguaglio di tutta la sollevazione. Ma non aveva potuto vedere altro che le 10 giornate descritte dal sig. Alessandro Giraffi, le quali egli dice di non lodare nè di disprezzare: ma che pure avrebbe fatto meglio assai ( il Giraffi ) se fosse stato presente come lui agli avvenimenti. Che se egli, il Molini, avesse avuto la fortuna di avere un pari suo in compagnia, non arrivando egli a tale talento, credeva che avrebbero fatto un'opera che dopo l'edificazione del mondo non si sarebbe veduta l'eguale. E però ciò considerando si era servito di D. Francesco.... che aveva scritto, lui dettando dai suoi scartafacci.[292]

Ad ogni modo quello che, in confronto degli altri diaristi di quel tempo, rende il suo Diario più prezioso ed interessante è la subiettività di esso; perchè il Molini dal quale poco o nulla di nuovo si ricava intorno agli avvenimenti della rivoluzione del 1647, ci fa conoscere principalmente l'impressione che questi allora facevano nel popolo, e la sua narrazione ci fa vivere quasi in mezzo a quelli.

Oltre a ciò il Molini per accrescere più interesse al suo scritto lo arricchì di parecchie figure allusive che rappresentano i personaggi e gli avvenimenti di cui fa parola. E dapprima, vedute quelle fotografie, io credetti che esse fossero della stessa natura di quelle stampe dozzinali in legno, con cui allora e nel secolo successivo si ornavano i frontespizii delle storie in ottava rima dei banditi, lungamente favorita lettura della nostra plebe, contenute in piccoli libriccini ora divenuti rarissimi. La natura dei disegni e delle persone raffigurate non mi facevano rassomigliarle a quelle illustrazioni, di cui è adorno anche qualche altro Diario di quei tempi, come del Fuidoro[293],... del Conforto[294] e di altri, i quali si servivano di figure non fatte propriamente pel popolo e spesso tratte da libri di diverso argomento nei quali quelle erano inserite. D'altra parte le stesse immagini di Masaniello erano allora sì poco comuni tra noi che spesso gli amatori di cose patrie dovevano nelle loro memorie ritrarle a penna da qualche rarissimo esemplare che loro capitava nelle mani.[295]

Senonchè avendo potuto in seguito osservare il Ms. originale ho dovuto necessariamente convincermi di due cose, cioè: che non tutte le figure erano state dal Molini raccolte e conservate nei suoi scartafacci a tempo della rivoluzione, ma che alcune ne avea aggiunte al suo libro intorno al 1680, allorchè fece trascrivere quei suoi appunti; e che parecchie di esse furono allora da lui appropriate agli avvenimenti ed ai personaggi di cui parlava; e quindi non rappresentassero realmente ciò che l'epigrafe appostovi dal copista pretendeva indicare. Ove si rifletta attentamente su queste date figure le ragioni di quanto asserisco appariranno chiarissime.

Difatti esaminando le tavole di dubbia autenticità, alle quali accenno, la prima che s'incontra a c. 4 v. del Ms. è un paesaggio qualunque, con caseggiati e fiume, sulle sponde del quale, a dritta di chi guarda, vedesi una persona che pesca; ma rappresenta tutt'altro che Napoli e la spiaggia della Marinella o di Mergellina. Ora fra Sebastiano doveva per la prima volta discorrere di Masaniello, ed ecco che prende la detta tavola, la incolla sul libro e fa scrivere al suo d. Francesco... T. A. Pers. F. S. A. Pescha, parole che non so pienamente spiegare, poi nel testo dice: “quì rincontro vedrai Masaniello pescare„.

Più avanti a c. 9 v. si vede un uomo a mezza figura, dall'aspetto florido e rubicondo, vestito alla spagnola, con la goliglia ed una rosa tra le mani. Ai due lati della testa si legge: Il Perrone Capo bandito. Il Molini narrando come Masaniello fece suo tenente generale Domenico Perrone, bandito, soggiunge, “quale è questo che tu vedi„. Ora io non posso mai credere che quello sia il ritratto dell'abate, o capitan Micaro Perrone, un noto malvivente, perchè l'abito, che indossa non è quello di un bandito[296], o di una tabanella[297] come allora chiamavansi coloro, che portavano l'abito ecclesiastico per svergognarlo e godere immunità per i loro delitti; e perchè il Perrone era, come dice il Pollio, un cane di vista et tale di opere[298].

Nè mi pare che abbiano aspetto di verità, o almeno di giusta appropriazione le figure delle due galere (39 x 28 cm.): una caratterizzata come spagnuola (c. 136 v. 137) e l'altra come francese (c. 137 v. 138). Nè finalmente le ultime tre incisioni (39 x 28 cm.) hanno alcun che di comune con Napoli e con la rivoluzione del 1647. La prima infatti (a cc. 139 v. 140), lavoro di un tal Filippo Suchiello da Siena, rappresenta un arsenale, forse quello di Venezia, con alcune navi in partenza e molta gente che sta ad osservarle. La seconda (cc. 140 v. 141), firmata da Orazio Scarabelli fiorentino, rappresenta un torneo assai probabilmente celebrato in Firenze. La terza (a c. 142 v. 143), incisa da Stefano della Bella pure fiorentino, è dedicata al signor Bacco del Bianco ingegnere di S. M. Cattolica in Madrid, rappresenta una nave veneziana carica di merci.

Quello però che dimostra evidentemente l'opera del Molini in adattare una figura qualunque che gli capita tra le mani alle cose che deve narrare, purchè gli dia elementi da poter comporre un'illustrazione apposita, è l'incisione (a c. 24 v.) appropriata da lui a raffigurare il cadavere di Masaniello sui gradini dell'altare maggiore della chiesa del Carmine, ove fu posto mentre si preparavano le sue esequie. La figura (41 x 28 cm.) è abbastanza maltrattata e lacera in guisa che manca la parte inferiore del lato dritto di chi guarda. Essa, nella parte destra, rappresenta un edificio monumentale con colonnato avanti e con la nicchia di una statua. Dinanzi l'edificio si veggono alberi e piante. In linea degli ultimi scalini dell'edificio, dove l'incisione è lacera, si scorgono parecchie figure in parte distrutte. Dal lato sinistro poi si veggono in fondo due galere e alcune case. Più innanzi è una figura a cavallo seguita da altri anche a cavallo. Ed ancora più innanzi sopra un masso, un cadavere senza testa tra due gruppi di figure. Sotto è scritto: Corpo di Masaniello. Il primo gruppo rappresenta uomini con le braccia distese, nudi sino alla cintura e avvolti nel resto del corpo in un manto e fra essi due bimbi nudi. L'altro gruppo a sinistra è formato da un uomo, che sostiene per i capelli un capo reciso, sotto al quale è scritto: Testa, ed è circondato da uomini con la barba avvolti in mantelli, ed alcuni altri indietro che hanno in capo una specie di elmo. Oltre a ciò, a basso dall'uno e dall'altro lato, sono due persone prese o ritagliate chi sa da qual altra figura ed attaccate su questa. Sotto l'incisione, dal lato sinistro, si legge: Ant. Sal. exc.

Ma tralasciando altre osservazioni[299] e restringendo il mio dire a quello che più si attiene all'argomento che ho per le mani, occorre notare quì le figure rappresentanti Masaniello e quattro persone di sua famiglia, che il Molino inserì nel suo Ms. Esse sono sette, tutte di una stessa dimensione (21 x 29 cm.), e colorite a mano. Ridotte dalla fotografia ad un terzo degli originali noi pensando di far cosa grata ai nostri lettori le riproduciamo in fototipia, e con qualche raffronto storico le illustriamo.

Or nella prima vedesi il ritratto di Masaniello (fig. 15) in piedi, fatto ad acquerello. È un uomo apparentemente di più che 27 anni di età, con la mano sinistra appoggiata al fianco, e la destra distesa in atto che con l'indice pare mostri qualche cosa. Accanto alla testa è scritto in caratteri majuscoli della stessa mano, di chi copiava il libro da un lato: Mass' e dall'altro: Anjello e sotto: cioè: Tomasso Agnello[300]. Il Capopopolo ha i mustacchi neri, piuttosto e volti all'insù e la zazzarina; e veste l'abito marinaresco col berrettino rosso sul capo, e con l'aggiunta di una grossa tovaglia che porta sulle spalle e gli scende innanzi sino alla cintura, come lo descrive il contemporaneo Carusi che sopra ho riferito.

Nella seconda figura si osserva Masaniello di Notte (fig. 16) secondochè essa è indicata dall'epigrafe apposta ai due lati della testa, come nella precedente. Sta a cavallo, con la sinistra tiene il freno e con la dritta un corto bastone di comando. Veste di bianco con cintura. Ha gli stivali con sproni, e in testa un cappello alla spagnuola con penne. La faccia indica un uomo anche di più età del precedente[301].

Masaniello fuori di se (fig. 17) è rappresentato nella terza figura. Sta pure a cavallo. Nella dritta impugna un lungo spadone. Veste un abito signorile di drappo, a quanto pare, con maniche larghe e cappello alla spagnola in testa anche con piume. Sembra all'aria, all'aspetto, un uomo tutt'altro che volgare. Nè si può scorgere linea alcuna tra questi e i due altri pretesi ritratti. Ha la faccia di vecchio, piena di rughe, lunghi i capelli che gli scendono dalle tempie, e sul labbro non vi apparisce segno di baffi[302].

Segue Matteo d'Amalfi fratello di Masaniello[303]. L'epigrafe vedesi al solito posto. Sta a cavallo e veste da borghese con casacca color d'oro giallo[304]. Ha il cappello in testa con la piuma; e dalla cintura sporge il manico di un pugnale. La figura, messa quì dopo il testo (fig. 18) ha l'apparenza di un uomo di età, con grossi baffi volti in su.

Vedesi indi la Moglie di Masaniello (fig. 19) e l'epigrafe si legge al solito posto. È a mezza figura. Ha l'aspetto piacente, occhi grandi e naso aquilino[305]. Sostiene con le mani un cesto pieno di fiori, che pare attaccato sulla figura. Indossa una veste signorile con corpetto giallo e maniche turchine. Ha un cappello pure di color giallo a falde larghe in testa con piume e fiori che le ornano le tempie, sulle quali si ravvolgono folti capelli. Alla gola porta una collana con croce pendente, la famosa collana donatale dalla Viceregina.

La Sorella di Masaniello (fig. 20), che segue è pure ritratta a mezza figura. È giovane non brutta, anch'essa con grandi occhi, ed ha la mano dritta quasi accostata alla spalla sinistra. Veste un abito signorile scollato, che sembra fatto a fiorami, ed è orlato di merletto rosso; non ha cappello, ma una ricca capigliatura ornata di fiori alle tempie. Porta pure una collana che sembra fatta di pietre.

Da ultimo vedesi (fig. 21) il Cugnato di Masaniello[306], secondo dice la solita epigrafe. Anch'esso è a mezza figura, e sembra uomo dai 30 ai 40 anni. Ha ricca capellatura, grossi baffi rivolti in su e pennello sul mento. Veste civilmente con casacca rossa, maniche grigie con i rivolti bianchi e collare rovesciato pure bianco. Ha in testa un berretto grigio a larghe falde ornato di penne rosse, e colla sinistra sostiene una carta scritta a mano che dice: Memoriale al signor Capitano Generale del Fidelissimo popolo di Napoli. Li Signori di Salerno. Il carattere della scritta è diverso da quello del cod. Ms. e sull'alto, a sinistra della testa, si legge: Qui rincontro rappresenta quando fu portato fuori del Carmine la testa di Massaniello..

Questo è il soggetto delle figure del Ms. Bolognese che riguardano il mio argomento, e questo è il modo, con cui sono state condotte. Ma quale è l'autenticità, quale la veracità delle medesime? A me pare che bene e spassionatamente considerate esse non possono ad una sola ed istessa stregua giudicarsi. Alcune, cioè Masaniello di notte e Masaniello fuor di se debbono, a mio giudizio, ritenersi come fantastiche ed arbitrarie illustrazioni che, al pari di quelle di cui sopra ho parlato, il Molini appropriò al suo racconto ed inserì nel libro che compilava. Difatti, a prescindere dalla pochissima o niuna rassomiglianza che hanno tra loro, e con gli altri ritratti di Masaniello, ed anche con lo stesso acquarello del Ms. Bolognese, v'è un altro argomento a smentirli. Certamente è assai inverosimile che simile che siasi voluto ritrarre o ricordare il Capopopolo in una azione ordinaria di nessuna importanza quale è quella di andare a cavallo di notte per la città, mentre si avrebbe potuto raffigurarlo in atto che andava a Palazzo o che alla testa del lazzari combatteva e prendeva prigionieri i 500 alemanni che venivano contro il popolo in S. Giovanni a Teduccio. Nè d'altronde il fatto che intendevasi rappresentare dall'atteggiamento e dall'insieme del personaggio si sarebbe compreso se il Molini non l'avesse fatto scrivere sulla figura stessa. Così pure niente dimostra la pazzia di Masaniello nell'altra figura se non l'epigrafe appostovi. D'altra parte per lo meno mi sembra dubbia la figura di Matteo o Giovanni di Amalfi, che è dello stesso tipo di quelle che rappresentano l'Eletto Arpaja e di qualche altra tavola simile prodotta dal Molini. Non così per le altre. Imperochè l'acquarello di Masaniello se per i baffi neri, folti e volti in su, onde è fornito, può ritenersi come il tipo di tutte le figure immaginarie di lui fatte in Olanda ed in Inghilterra, pure la nota caratteristica della tovaglia con cui è dipinto si dimostra opera di uno che aveva visto l'originale, e lo dipingeva pur non avendolo innanzi.

Nè diversamente è da dirsi intorno alla moglie, la sorella e al cognato di Masaniello, perchè quantunque non si abbia alcun confronto che possa servire come pietra di paragone per stabilirne l'autenticità, pure la napolitanità delle fisonomie delle due donne e il Memoriale che tiene in mano il cognato me li fanno ritenere per autentici e genuini.

Per quanto poi riguarda la parte artistica tutte queste figure sono, come chiaramente si vede, lavori dozzinali incisi in legno da artisti di poco valore, forse non napolitani, ma che lavoravano pel popolo desideroso di conoscere o di tener ricordo del suo Capitan Generale. Esse per la poca abilità degli esecutori, non danno che un'approssimativa idea del personaggio che intendevano rappresentare. Sembra inoltre che miseramente finita la rivoluzione, sparissero dal commercio, o perchè distrutte per timore degli Spagnuoli, o perchè poco curate dalle persone intelligenti e da coloro, che per altro non avevano mancato di raccogliere notizie e di narrare i fatti di cui erano stati testimoni. E poichè niuna di esse, si trova inserita nei tanti Mss. e nelle non poche raccolte di fogli volanti e di stampe riguardanti quell'avvenimenti ed appartenenti a quell'epoca, dobbiamo essere grati al buon frate rocchettino, che forastiere e curioso non disdegnò di raccogliere e conservare questi singolari ricordi che altrimenti sarebbero andati al certo perduti.

Altri ritratti di Masaniello eseguiti intorno a quel tempo io non conosco. Non debbo però tacere di una testa di legno volgarmente attribuita a lui, e che per la misteriosa epigrafe, con cui era indicata, probabilmente appartenente all'epoca del viceregnato spagnuolo. Ne ricavo la notizia da un opuscolo recentemente pubblicato dal chiaro Barone Guiscardi[307], nel quale, notando un lavoro in legno di mano maestra che raffigurava un teschio e che si conservava in una cassettina nel Museo di S. Caterina a Formiello di questa città, nel 1799 andato male, egli pensa che “dovesse essere il simulacro della testa di Masaniello„. E per verità fondatamente rileva una tale congettura dall'indovinello stampato, che era posto sulla detta cassettina e che è riportato nella p. 13 dell'“Istruzione al forestiere ecc. intorno al Museo dei Domenicani del Convento di S. Caterina a Formiello„ stampata nel 1791; ove leggevasi così:

Ebbi in Napoli, ignobil cuna e vile

Fui pien d'ardir, pieno di vizi, in loco

Di tumulti mi trassi. A me simile

Volgo insano commossi; e a poco a poco

Sdegnai me stesso ed il mio stato umile,

Empio eccitando e temerario foco

Ma volendo smagliar le mie ritorte,

Anzichè libertà trovai la morte.

Le quali parole sotto un velo abbastanza trasparente indicano il Capopopolo.

Senonchè la vanità di questa volgare credenza è di per se stessa ad ognuno manifesta. Io per me credo che probabilmente la testa d'un pastore (personaggio da presepe) diè ad un qualche conservatore del Museo di S. Caterina, che aveva il ticchio di far poesie, la materia e l'occasione di comporre quel concetto letterario e morale[308]. Ma può anche supporsi che il popolo minuto di Napoli battezzasse un teschio qualunque, che ivi non saprei dire per quale ragione notavasi, per la testa di Masaniello; proprio al modo istesso come, secondochè leggo altrove nella citata Istruzione, ebbe ferma opinione che un lungo spadone pur anche conservato in quel museo fosse stato maneggiato dal famoso Rinaldo, le cui prodezze allora si cantavano nelle piazze con gran concorso di uditori. I quali, dopo udito il cantastorie stupefatti andavano al museo della Speziaria di S. Caterina a Formello a rimirar come incantati la spada del favoloso eroe[309]. E bisogna dire inoltre che il P. d'Onofrii, autore di quella Istruzione, avvedutosi a tempo della falsa ed erronea attribuzione data a quella testa, nello stesso anno 1791, la ristampò, togliendone soltanto l'articolo della cassettina con la relativa ottava, il che osservò pure nell'altra edizione del 1796. Ma ciò, a quanto pare, non valse a togliere l'inveterato errore; poichè nei magazzini del Museo Nazionale in S. Martino si trova tutt'ora una testa di legno voluta (come si dice nell'Inventario, ma da nessuna creduta) di Masaniello.

Mi resta ora, a far parola di una medaglia, nella quale, si vede il nome e l'effige di Masaniello, fatta di fantasia. Essa fu coniata a quanto pare, nella seconda metà del secolo XVII in Olanda, dove allora era viva e grandissima la fama del Capopopolo di Napoli e delle sue straordinarie vicende, e si traducevano e si pubblicavano, come di sopra accennai, ripetutamente opere sull'argomento. Ed in pruova di ciò, basta soltanto ricordare quel che si narra del celebre Benedetto Spinoza, che, giovanissimo, volle disegnare a penna il ritratto del pescatore napoletano, come allora era rappresentato nelle istorie e nelle incisioni che in quelle contrade si divulgavano[310].

Or la medaglia della grandezza di 70 millimetri ha, da un lato, impressa l'immagine di Masaniello a mezza figura, con baffi e capelli a zazzera e col capo scoverto. È fiancheggiata da due popolani che sorreggono con una mano una corona antica sulla testa di Masaniello, e con l'altra mano si appoggiano agli scudi che hanno a lato.

Sotto il busto, contornato da fregi a cartoccio si legge:

Masaniello vissche[r] En coninck v. Naples 1647

cioè: Masaniello pescatore e Re di Napoli. 1647[311].

Dall'altro lato si vede il busto di Oliviero Cromwel, fiancheggiato da due guerrieri, in costume antico romano, che con una mano reggono una corona di alloro sulla testa del medesimo, e con l'altra si appoggiano parimente agli scudi che hanno a lato. Sotto il busto, contornato dai medesimi fregi che si veggono nell'altra faccia, si legge:

Olivar Cromwel Protector V. Engel Schot en Irlan.

cioè: Oliviero Cromwel protettore dell'Inghilterra, Scozia ed Irlanda.

Sul taglio poi della medaglia sta inciso;

Violenta imperia nemo continuit diu

Il motto è di Seneca, tratto dalla tragedia Troades verso 258.

La medaglia, come mi assicura l'egregio Dr Arturo Sambon, che si occupa con tanta intelligenza ed amore della storia numismatica della nostra regione, e che è stato da me interrogato sul proposito, non è riportata nell'opera di G. Van Loon, che descrive una grandissima quantità di queste medaglie popolari o gettoni olandesi assai interessanti, perchè rispecchiano al vivo i sentimenti del popolo sugli avvenimenti contemporanei. Da chi e per quale occasione essa fosse stata coniata, io non saprei dire. Solo, dalla leggenda incisa sul taglio, mi pare che si possa con molto fondamento, affermare che sia stata impressa durante la dominazione di Oliviero Cromwel nella Gran Brettagna, e da chi era di un partito avverso ai moti rivoluzionarii di quell'isola. Essa, a mio credere, è quasi un monito, che si fa all'usurpatore del trono degli Stuardi, mettendolo a confronto di Masaniello, il cui imperio era così poco durato.

Se non che il confronto; in quanto riguarda il concetto politico dell'uno e dell'altro personaggio non è internamente esatto, poichè gli autori della medaglia giudicavano l'agitatore Napolitano con le idee che di lui allora si avevano in Olanda, ed in altre contrade straniere. Masaniello per il mutamento che la sollevazione da lui iniziata ebbe nel terzo periodo (novembre 1647-6 aprile 1648), fu malamente colà creduto un fanatico repubblicano. E tale pure alcuni oggi volgarmente vorrebbero caratterizzarlo. Ma così opinando costoro falsarono e falsano la mente di Masaniello. Il concetto del povero pescivendolo era affatto diverso. Esso evidentemente compendiavasi nel motto, che da lui fu indettato ai guaglioni ed ai lazzari suoi compagni e seguaci e che fu il grido di guerra dei sollevati, cioè:

— Viva Dio, viva il Re e muoja il mal governo.

PARTE QUARTA DOCUMENTI

I.

Lettera di Giulio Genoino agli Accademici Oziosi intorno alle pretensioni del popolo di Napoli

Alli Signori Accademici Otiosi — Mi è stato riferito ch'io sia stato ripreso da alcuni della Vostra Accademia de certo mio parlamento fatto pubblicamente a Sua Eccellenza in Palazzo nella sala dell'Ecc. della Signora Viceregina, lunedì li 6 del presente mese di Maggio 1620. Provate con dire che in quello sia stato da me usata arte oratoria e mordace. Quel mio ragionamento fu a fatto all'improvviso, a richiesta di alcuni miei Cittadini, et se in qualche cosa impensatamente non dicevole fussi trascorso, mi faranno piacere le Signorie Vostre (scrivendoli io a quest'effetto) corregermi, et perchè non me si attribuisca dal volgo quello che io non ho detto, vengo hora a punto a scriverli quanto io all'hora dissi, che altro non fu che questo:

Sono venuto, Signore Eccellentissimo, da parte di questo mio Popolo qui presente ad esporre querele, sperar giustizia, et impetrar gratie. Querele, Signor Ecc.mo. Si è inteso che molti nobili di piazza (salvo però la pace di coloro che non intervengono a tal consiglio) facciano conventicoli, conspirazioni, et monopolii in diversi privati luochi, case, chiese et ridotti; cose detestabili et da ogni legge prohibite; et sì questa nobiltà ha da fare alcun parlamento, ha le sue pubbliche Piazze, dova gionta potrà deliberare et concludere ogni suo parlamento, sì come fa questo mio Popolo. Quello che questo mio Popolo sospetta contro detta nobiltà, è che quanto dichi et operi sia cospirazione contro di esso et contro di chi l'Eccellenza Sua può immaginarsi, e per quanto vedo, fa la mira al piede per colpire in testa: l'uno et l'altro capo prenderà peso di provare questo mio Popolo. Intenderà forsi questa nobiltà in questo modo privarci di quel bene ove è fundata ogni nostra speranza; non sarà giammai et s'inganna di lungo. Pretenderà forsi suppeditare questo mio Popolo? Non conviene, essendo suo affezionatissimo. Intende forse esser nostra tiranna? Nè questo, mentre stiamo sotto regia protezione. Finalmente pretenderà farci suoi schiavi? Il che non sarà giammai, poichè se al proprio nostro Re non havemo altro obbligo se non di fidelissimo vassallaggio, come si presumerà che dobbiamo esser schiavi a questa privata nobiltà? Erra certamente alla lunga: dovrebbe al fine porre mente a tante cose, nè fastidirse più l'orecchia del nostro Re di tante querele et messi, et lasciar quieta la Cattolica Maestà attendere ad altro, et a cose più gravi che in queste nostre gare, pretensioni et liti, et quelle fra noi con amorevolezza terminare et finire; al che con vivo affetto di cuore preghiamo la detta nobiltà et quelle debbiamo con amorevolezza vicendevole componere; nel che l'Eccellenza Sua non sia più giudice nostro, ma amichevole compromissore.

A questo con ardente affetto di cuore anzi con vive lagrime da parte di questo mio Popolo prego voi tutti Signori qua presenti che vogliate adoprare ogni vostro valore, potere et forza, che questa nobiltà resti quieta di vivere unita col suo carissimo Popolo, e che gli ceda quella parte di autorità che nelle cose comuni di giustitia li conviene, non l'aggravi più, ma lo sollevi a ciò non habbia occasione alla fine darsi in preda di disperatione, et quello che detta nobiltà con occulti conventicoli contro di esso consulta l'habbia a dirlo in pubblica piazza. Viviamo dunque in tranquilla pace. Anzi si è risoluto questo mio Popolo chiamare con citatorio pubblico editto detta nobiltà a giusto et onorevole partito di quiete et questo acciò sia manifesto appresso Iddio et il mondo tutto quanto questo mio Popolo desideri la tranquilla pace.

Et voi, Signor Ecc.mo, non volendo questa nobiltà inchinare l'orecchia a preghiere di questo Popolo, et volendo più oltre procedere in dette sue ostinate cospirationi, allora la pregamo voglia usare il debito rigore della sua giustizia contro li trasgressori, come disturbatori della universale quiete et pace. Et quando che no, avemo, signore Eccellentissimo, un volgare nostro napoletano proverbio che “il mal guadagno sparte compagnia„. Si è visto, signor Ecc.mo, che da questa nostra comunità (ma per opera non so de chi) s'è causato un mal guadagno; si sa quanti milioni di oro deve questa nostra Città: si dovrebbe per ragione, per sollevamento di quella, dividere questo peso, et la mità pagarne il nostro Popolo et l'altra mità la detta nobiltà. Ma ecco, signore Ecc.mo, come quello mi risponde: Questo non è giusto nè conviene, che, essendo il Popolo tanto numeroso et la nobiltà tanto pochi, paghi la maggior parte il Popolo et una minima parte paghi la Nobiltà; al che li dico come li pesi sono tutti del Popolo et gli onori tutti della Nobiltà? Queste, signore Eccellentissimo, sono male spartenze: leonina divisio.

È stabilito per autorità di legge che nessuno a forza sia tenuto stare in compagnia; per ciò quando la nobiltà si vorrà attribuire più di quello, che le tocca di questa nostra Comunità et unione, allhora è resoluto questo mio Popolo di vivere dissunito da quella. et da mo le dice: Addio, restate in pace.

Questo basti all'esponere di querele et aspettar giustitia. Resta, signore Eccellentissimo, de impetrar gratia.

Et primo sa l'Eccellenza Sua quanto è povero questo mio unito Popolo che non ha altro eccetto il solo legato della felice memoria del Serenissimo Re Cattolico, che appena basta a distribuire li legati pii, et pie dispositioni; perciò è resoluto fra sè stesso fare una tassa et per volontarie contributioni fare almeno la somma di ducati 30000, et quelli poi convertire in compra de annue intrate, anzi quelli de anno in anno cumulare, acciocchè si possa di dette entrate soggiovare in ogni urgente bisogno, mantenimento di lite, et tutte altre cose in comune et in privato, che sarà espediente di detto popolo, conforme li bisogni che di giorno in giorno potranno occorrere a questa volontaria attione. Si supplica il beneplacito et consenso di Vostra Eccellenza.

2. Mira l'Eccellenza Sua questa nobiltà, che sta nel suo cospetto, come sta pregiata, pomposa et ornata. Mira all'incontro questo mio Popolo che sta humile et con quelle sue positive vesti, che per decentia del loro stato così conviene stiano vestiti. Perciocchè si supplica Vostra Eccellenza che, per ornamento e decoro di questo Popolo, voglia permettere l'Eccellenza Sua che a questi populari Capitani et Consultori se li permetta vestire di una veste lunga talare a modo di senatoria veste, et di quella servirse assolutamente in tutte le pubbliche functioni che lui farà, et quando compare all'aspetto dell'Eccellenza Sua per cose pubbliche. Questo domando per onore et decoro di questo mio Popolo et a ciò reveriscano tanto più l'Eccellenza Soa et a sua gloria.

3. Ha stabilito questo mio Popolo deputare sei di ciascuno di detti Capitanii e Consultori ogni dì, acciocchè comparino ogni mattina avanti l'Eccellenza Sua, et quella umilmente salutino et se li offeriscano per servi et le ricordino che li sono fidelissimi.

4. Instantemente pregano l'Eccellenza Sua almeno si lasci personalmente vedere una volta la settimana nella Piazza di questo suo Popolo, acciocchè vedendo il suo aspetto viva lieto et sicuro.

5. et ultimo. Signore Ecc.mo, le propongo questo che è successo a me medesimo, che andando l'altro hieri a pigliare possesso di questo mio ufficio ebbe loco appena di unirsi questo popolo ad esercitare detto atto; attesochè quelle Reverendi Padri di Santo Agostino, per erigere il Campanile, hanno sfabbricato quello antichissimo edifizio dove se univa detto Popolo. Perciò non ha luogo dove unitamente congregarsi.

Si è resoluto edificare un particular luogo dove si possa per lo advenire quello unirsi, quale s'intitolerà: Seggio della Piazza Popolare, e là possa unito parlare di tutte pubbliche cose occorrenti. Tutte queste sono gratie, che si supplica l'Eccellenza Sua potrà a quello facilmente concedere, mentrechè sono cose volontarie et non pregiuditiali al terzo et per maggior onore et quiete di detto popolo, del che humilmente supplica l'Eccellenza Sua e gli fa reverenza. Ho detto, Ecc.mo Signore.

Questo è quanto io esposi nel mio ragionamento et non altro, et si pure il volgo o altra persona dicesse aver detto altro di questo, erra. Vedete dunque se in detto ragionamento ho commesso alcun eccesso, riceverò volentieri l'emenda et correzione, del che instantemente li prego. E gli fo humilissima riverenza. Delle Signorie Vostre.

Servitore Affezionatissimo Giulio Genoino Eletto del Popolo Napolet.

II.

Lettera dell'Eletto e della Piazza popolare a D. Baldassarre Zunica presidente del Consiglio d'Italia, con cui si espongono le querele di essa contro le Piazze nobili.

“Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore — Sono tanti et tali gli aggravii et vilipendii che questa nostra Piazza del fidelissimo Popolo napoletano (tanto devoto della Maestà Sua et dei suoi reali Ministri, et in particolare di Vostra Eccellenza) riceve giornalmente dalle piazze de' Nobili un disservizio di Dio, del Re N. S. et del ben publico, che obbligheriano noi, che la governiamo, a venire o mandare cento et mille volte l'hora in codesta Real Corte ai piedi della Maestà sua e suoi Consigli per gli opportuni rimedii. Ma, poichè questo non ci è permesso, mercè che questa povera Piazza non ha modo dello spendere, come l'hanno quelle de' Nobili, che (per le prerogative che ora godono di poter quattro di esse sole far conclusione di Città, benchè la nostra Piazza pretenda non senza raggione o la parità de' voti, o che non possa farsi cosa senza la nostra saputa, giacchè così conviene al servizio del pubblico e del Re), spendono e spandono del peculio universale come lor pare et piace, ancorchè ci habbiano così poca parte; poichè l'entrate della Cittâ si cavano mille volte più da questo Popolo numerosissimo che da' Nobili che sono così pochi; habbiamo stimato ben degno, se non in tutto almeno in parte, ragguagliarne V. E. Capo del Consiglio d'Italia, et sopra modo zelante del servizio di Sua Maestà et beneficio de' suoi sudditi, et supplicarla con questa (se pure la nostra buona fortuna vuole che ella capiti nelle sue mani, poichè possiamo assicurarcene per la potenza e stratagemmi degli avversarii), a degnarsi far queste nostre giuste querele pervenire alle reali orecchie della Maestà sua, acciocchè possa essa nostra fidelissima Piazza, riportarne quelle gratie et provvigioni che la giustizia de' suoi miserabili casi ricerca; assicurando V. E. che non meno sarà opera degna di vera pietà christiana l'adoperarsi essa con la Maestà del Nostro Re a pro di questo fidelissimo Popolo, di quello che sarebbe se l'Eccellenza Sua cavasse dalla schiavitudine molte migliaia di persone.

Saprà dunque V. E. che tra le molte cose, nelle quali è venuta e viene la nostra fidelissima Piazza aggravata et vilipesa da' Nobili (tacendo l'altre peggiori per hora per non tanto fastidirla con la lunghezza di questa lettera) ve ne sono tre che a nostra istanza si discutono in questo regio Collaterale.

L'una è che quattro delle cinque Piazze nobili conclusero ad Agosto passato, ciascuno da per sè separatamente, contro la forma del dovere e del solito, che dovesse tenersi aggente perpetuo in cotesta Corte, et in effetto, senza chiamare la nostra Piazza, elessero il Dottor Giovan Camillo Barnaba, che quivi resiede, con provvisione di 600 ducati l'anno, a tempo che questa Città va debitrice sinhora (e Dio perdoni a coloro, per colpa de' quali ciò è avvenuto) in più di 11 milioni, senza le tante centinaia di migliaia di ducati che deve di terze vecchie, non ad essi Nobili, Signore Eccellentissimo, perchè ha ben saputo e potuto pagarsi: ma a tante povere vedove, pupilli et altri miserabili del popolo.

L'altra, che a' 9 di Settembre anche passato, deputarono et mandarono per ambasciatore in codesta medesima Real Corte il Padre Taruggi dei Gerolomini, senza il nostro intervento e saputa, e non obstante che dal Collaterale Consiglio fosse stato tre giorni prima, mediante provvisione agli stessi nobili notificata a' 6 del medesimo mese, ordinato che non si mandasse.

E la terza, che havendo la stessa piazza de' Nobili firmata una capitolazione, sotto il titolo di Riforma de' Tribunali della nostra Città, per la quale si levano e tolgono affatto non pure alla nostra fidelissima Piazza et ai suoi Eletti le loro antiche raggioni et autorità, ma anche a' regii Ministri che in essi Tribunali assistono a petition nostra, hanno rechiesto essa nostra Piazza a concorrere alla detta riforma, et noi abbiamo ricusato di farlo per essere cosa di tanto nostro preiudizio e della Reale giuridittione.

Intorno alle due prime V. E. resterà servita veder dalle qui incluse copie come già per decreto del Signor Regente Valenzuela, commissario in questo particolare delegato dall'Illustriss. Signor Cardinale Vicerè, sta sospesa l'elettione di Aggente, et per decreto parimente di tutto il Collaterale, annullata l'ambasceria del Padre Taruggi, come fatte illegittimamente et contro la forma del dovere.

Et in quanto alla terza, già si sta da noi facendo istanza appresso questi signori Reggenti che sieno intese le nostre raggioni. Non lasciando di dire a V. E. che i sudetti Nobili oltre l'haver privato alcuni dei nostri di qualche carica o officio conferitogli dalle lor Piazze, senz'altra caggione che di non haver voluto aderire a' loro disegni, si sono lasciati trasportar dall'odio conceputo contro di noi, solo perchè habbiamo voluto difendere le ragioni della nostra Piazza con termini della giustizia contro le loro irragionevoli pretensioni et conclusioni, che e privata et pubblicamente in absenza et in presenza nostra non si sono astenuti dal maltrattarne di mille ingiurie et minacce, come ne abbiamo dato parte all'Ill. signor Cardinal Vicerè et suo Collaterale Consiglio, forse per provocarci a farne qualche resentimento da per noi, per lo quale poi avessero potuto tacciarne di persone rivoltose et inquiete. Ma noi habbiamo il tutto sopportato con animo piucchè forte per non cagionare qualche giusta alterazione al nostro fedelissimo Popolo, il quale, come chè non è mai stato solito di ricevere simili affronti della Nobiltà nelle persone de' suoi Eletto, Capitani et Consultori, da che è stata fondata questa Città, facilmente havrebbe potuto far qualche movimento di vendetta, se noi havessimo cercato di rissentirci dell'aggravio fattone, e non havessimo procurato diminuire al possibile la gravità delle cose appresso quelli de' nostri quartieri. Anzi, hierimattina, 27 del corrente, vigilia dell'odierna festa de' gloriosissimi Apostoli Simeone e Giuda, tutte le Cinque piazze Nobili ad una stess'hora, unite, ciascuna però nella sua, con manifesto monopolio (con riverenza) conclusero che si facessero deputati, i quali potessero, per mezzo del sudetto Padre Taruggi asserto ambasciadore o d'altri, non pur resentirsi dalle istanze fatte (com'essi dicono) tanto licenziosamente dalla nostra Piazza in disservizio del Publico, ma dar parte a S. M. degli aggravii, che dicono haver patiti nel particolare delle istanze fatte anche da noi intorno all'haver voluto impedire il detto Padre, dove medesimamente si dolgono e del signor Vicerè (di niuno de' quali non mai si contentarono) che del Collaterale, per ordine del quale, con somma giustizia, si prende informationi contro i deputati c'hanno spedito il medesimo Padre, cosa che mai si ricorda c'abbiano fatto contro questa fedelissima Piazza, della quale sempre hanno fatto qualche stima, fuorché da alcuni mesi in qua, sebben crediamo (se pur ad altro non hanno l'occhio) che tutto ciò habbiamo fatto et facciano per atterrirci et farci desistere dalle oppositioni, che tanto giustamente facciamo alle loro ingiuste conclusioni et pretensioni, et ottenere per questa strada quanto bramano, poiché veggono che questa nostra fidelissima Piazza è hoggidì, per gratia d'Iddio, retta e governata da persone da bene (se pure è lecito lodarci con la propria bocca) timorose di Dio e della giustizia, et sopratutto amiche della pace e zelose del servitio della M. S. et in particolare del suo Eletto, di conosciutissima bontà e qualità. Però noi staremo sempre fermi e saldi et attenderemo coi termini del dovere e della giustizia la difesa delle nostre raggioni, sintanto che da chi può comandarci non ci verrà altrimente commesso et ordinato, ancorchè ci fosse con notabile preiudizio dell'havere dell'honore et della vita di tutti noi.

Abbiamo dunque, signore Eccellentissimo, voluto narrare queste cose a Vostra Eccellenza, sia perchè Ella ne stia com'è di dovere informata, sì anche, come detto abbiamo, perchè ci faccia la gratia col suo christianissimo zelo di farlo a saper a S. M. acciocchè et Ella et V. E. col suo Consiglio non pure intendano che suddetti Aggente et Ambasciadore sono stati dichiarati nulli, come eletti contro la forma della raggione e che come tali non devono esser ammessi et ascoltati, ma anche la M. S. provvegga con la sua giusta e potente mano in maniera che non siamo a questo modo maltrattati e dispreggiati da questi Nobili che ad altro non aspirano che a farsi soli et assoluti padroni del maneggio delle cose, di questa Città, senza la nostra fidelissima Piazza del Popolo ci abbia una menoma parte. E per fine baciando a Vostra Ecc. humilissima et riverentemente le mani le preghiamo da Sua Divina Maestà il colmo di ogni felicità e compita grandezza — Di Napoli a 28 Ottobre 1622 — Humilissimi e Devotissimi Servi — L'eletto, Capitani et Consultori della piazza del fed. Popolo Nap. — Paolo Vespolo, eletto — Anello Auricola, cons. — Orlando Prencipe, capitano — Giacomo Pinto, cons. — Giuseppe Palmisano, capitano — Giov. Ang. della Monica, cons. — Giov. Batt. Pelliccia, capit. — Pietr'Antonio Ferrante, cons, et capit. — Andrea Pulce, capit. — Loise Rispolo, Cons, et Cap. — Agost. de Juliis, cap. — Agost. Miranda, Cons, e capit. — Francesco d'Anna, capit. — Francesco Schettino, capit. — Horatio Pisano, capit. — Giov. Loise Saggio, capit. — Giuseppe Maffeo, capitano — Giov. Tommaso Giovine, capit. — Pietr'Antonio Sorrentino, cap. — Genn. Fasano cap. — Santolo Manso, cap. — Ottavio Cassano, cap. — Marcello Manna, cap. — Bened. Mancino, cap. — Ottavio di Mayo, cap. — Lutio di Maria, cap. — Giov. Andrea Sances, capitano — Giov. Andrea Canale, cap. — N. Giov. Vinc. Petito, cap. — Cesare Campanile, cap. — Paolino d'Amato, cap. — N. Giov. Bernardino de Juliano, Cap. et Secr.„

III.

Bando, con cui si ripete l'ordine di doversi rivalere le robe mobili, che erano state prese da diverse case per ordine di Masaniello.

Philipphus dei Gratia Rex. etc.

Per un altro nostro Banno fu ordinato che chi tenea robbe mobili di qualsivoglia conditione prese da diverse case, borghi e casali di questa fedelissima Città, consistentino in gioie, in oro, argento di qualsivoglia maniera, drappi d'oro, seta et altro prese per ordine del q. Masaniello d'Amalfi o per altro ordine le debbiano rivelare sotto pena della confiscazione et altre a nostro arbitrio. E perchè molti pochi hanno rivelato appresso di chi fossero dette robbe, per questo acciò si possa provvedere di giustitia vogliamo che in termine di ventiquattro ore doppo la pubblicatione di questo lo debbiano rivelare all'Eletto o al Presidente Genoino delegato per S. E. E se in questo termine di ventiquattr'ore doppo l'affissione del presente Banno non le riveleranno si dà indulto a tutti quelli, quali etiam saranno stati complici et oltrechè se reveleranno in potere di chi si ritroveranno dette robbe, se le darà la terza parte della pena, nella quale saranno incorsi li trasgressori, quale se le darà sicuramente. Dat. Neap. die 19 Julii 1647 — Il Presidente, D. Giulio Genoino. D. Marzio Scalesio, segretario.

INDICE

Prefazione pag. v

Notizie di alcune opere inedite adoperate in questi ricordi 3

Parte prima — La Piazza del Mercato di Napoli e la casa di Masaniello 19

Parte seconda — La famiglia di Masaniello 61

Parte terza — Masaniello ed alcuni di sua famiglia effigiati nei quadri, nelle figure e nelle stampe del tempo 137

Parte quarta — Documenti 181

APPENDICE FIGURATIVA

Fig. 1. — Micco Spadaro: Il Mercato di Napoli durante la rivoluzione. ( Museo Nazionale di Napoli ) Fig. 2. — Dettaglio del quadro di Micco Spadaro: ( Masaniello parla al popolo ) (Vedi testo,pag. 145 ) Fig. 3. — Parte centrale del quadro di Micco Spadaro: ( Masaniello a cavallo ) Fig. 4. — La piazza del mercato: ( da una stampa dell'antica Guida di Napoli del Parrino ) Fig. 5. — Il Duca d'Arcos: ( Stampa antica ) Fig. 6. — Don Giulio Genoino: ( Stampa antica ) Fig. 7. — Il Cardinale Ascanio Filomarino: ( Stampa antica ) Fig. 8. — Il Duca di Guisa: ( Stampa antica ) Fig. 9. — La Sellaria: ( dall'antica guida di Napoli del Parrino. ) Fig. 10. — Michelangelo Cerquozzi: Masaniello a Cavallo. ( Galleria Spada — Roma. ) Fig. 11. — Ritratto di Masaniello: ( Galleria Rospigliosi — Roma. ) (Vedi testo,pag. 151 ) Fig. 12. — Masaniello: ( dal frontespizio del libro “Napoli sollevata„ di Amatore. ) (Vedi testo,pag. 153 ) Fig. 13. — Masaniello: ( Collezione di Bartolommeo Capasso. ) (Vedi testo,pag. 157 ) Fig. 14. — Masaniello: ( Biblioteca dei P. P. Gerolomini in Napoli ) (Vedi testo,pag. 158 ) Fig. 15. — Masaniello: ( dal Ms. del Molino. ) (Vedi testo,pag. 167 ) Fig. 16. — Masaniello di notte: ( dal Ms. del Molino. ) (Vedi testo,pag. 167 ) Fig. 17. — Masaniello fuori di sè: ( dal Ms. del Molino. ) (Vedi testo,pag. 168 ) Fig. 18. — Matteo d'Amalfi: ( dal Ms. del Molino. ) (Vedi testo,pag. 169 ) Fig. 19. — La moglie di Masaniello: ( dal Ms. del Molino. ) (Vedi testo,pag. 170 ) Fig. 20. — La sorella di Masaniello: ( dal Ms. del Molino. ) (Vedi testo,pag. 171 ) Fig. 21. — Cognato di Masaniello: ( dal Ms. del Molino. ) (Vedi testo,pag. 171 ) Fig. 22. — Plastica della testa di Masaniello Teca del Duca di Martina (Vedi testo,pag. 153 ) Fig. 23. — Masaniello e Cromwell ( da una medaglia del Museo di Napoli. ) (Vedi testo,pag. 177 )

IMPRESSO NELLA REALE TIPOGRAFIA FRANCESCO GIANNINI & FIGLI L'ANNO MCMXIX IN NAPOLI

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