BRUNO SPERANI TRE DONNE

MILANO LIBRERIA EDITRICE GALLI DI C. CHIESA e F. GUINDANI

1891

Bergamo—Stab. Tipo-Litografico Bolis.

INDICE.

  • — In Val Mis'cia Pag. 1
  • — L'asino dei Rampoldi » 19
  • — Primavera » 29
  • — In confessione » 45
  • — Zappando » 65
  • — Vinto » 71
  • — Alla Cascina Grande » 85
  • — Nuove lotte » 95
  • — La Cristina » 107
  • — Il destino » 123
  • — Il medico » 133
  • — Il germe dell'odio » 149
  • — Decomposizione » 161
  • — Vendetta » 169
  • — Sola » 189

CAPITOLO I. In Val Mis'cia.

Il sole era scomparso; una leggera nebbia si stendeva sulla terra fredda e umida.

Oppressi da insolita tristezza, i contadini ritornavano dai campi in silenzio.

Le donne, provenienti dallo stabilimento dove si lavorava la canapa, formavano un gruppo nel quale era tutto un discorrere fitto e sommesso. E spesso le parole erano rotte da singhiozzi, da gemiti.

Maria Scaramelli—moglie di Sandro Rampoldi il cavallante—giovine donna di ventidue anni, diceva tra le lagrime:

—Pare che l'avesse in cuore, povera Giulia! Non ci voleva andare al lavoro stamattina!... Le doleva il capo; aveva bisogno di stare in casa a riposare qualche ora di più. Ma la sua cognata le rammentò ch'era di turno alla macchina, che il padrone l'avrebbe mandata a chiamare, e in tutte le maniere le sarebbe toccato di andarci; altrimenti sarebbe cascata in multa, o avrebbe dovuto pagare una donna, che è poi lo stesso. La si vestì di mala voglia e venne giù brontolando. Io l'aspettavo come tutte le mattine per fare la strada insieme. Per tutta la strada non fece che lamentarsi. Povera Giulia!... l'aveva in cuore, povera figliuola!... Ringrazio il Signore che almeno non l'ho vista quand'è cascata...

—Avete ragione di ringraziare il Signore—entrò a dire una anziana dal viso scarno—Io invece l'ho proprio vista, e non me ne scorderò finchè vivo. È successo tutto in un lampo, veh! Ecco: io stavo a lavorare al mio solito posto, poco discosta dalla Giulia, ma con le spalle voltate. La macchina faceva un rumore di casa del diavolo. Mi pareva che non l'avesse mai fatto un fracasso così. Stavo per alzarmi e andare a vedere. In quella, sento un urlo, che mi ha rimescolata...

—S'è sentito tutti!... esclamò un'altra vecchia facendosi il segno della croce.

—Sì, ma io ch'ero là, l'ho sentito nelle viscere. E son saltata su gridando: Giulia! O Giulia!... Ho subito pensato al grembiale pieno di pane. Certo la macchina l'aveva pigliata per una cocca del grembiale!... Mi son buttata avanti, con la speranza di fare qualche cosa, chiamando aiuto con quanto fiato avevo... Gesù, mio!... Non sono arrivata che a vederla un momento in faccia—che faccia!... Poi ho sentito un altr'urlo, soffocato... Era già dentro!... E i due piedi in aria facevano così così... Oh! chi non ha visto que' due piedi, non può figurarsi l'orrore!...

Le donne ascoltavano agghiacciate.

Vi fu un silenzio.

Lo interruppe una ragazzetta che pareva indignata.

—Eh! se gli uomini fossero stati pronti a fermare la macchina, la si salvava.

Le altre protestarono risolutamente.

—Ma che!... Ma che!...

Erano corsi subito, povera gente!

—Subito—confermò la vecchia.

Erano lì altre donne, le quali accennarono tristamente ch'era tutto vero, che gli uomini avevan fatto di tutto per salvare la Giulia. Ma la Cristina Scaramelli—sorella minore di Maria moglie di Sandro—si rivoltò come un serpente, gridando che lei gli uomini non li aveva visti; che d'altronde era ora di finirla con quella storia; che ne avevano parlato tutto il santo giorno, e che lei non ne poteva più. Qualche cosa aveva visto, pur troppo, ma appunto per questo non voleva sentirne parlare. Voleva scordarsene! Loro ci trovavano gusto; ma lei no. Lei non poteva vivere con quell'orrore davanti agli occhi.

E nel suo disgusto uscì in queste frasi:

—Voglio andarmene da questo posto! Non la voglio più fare questa vitaccia, com'è vero che Dio mi sente!...

Le donne la guardarono stupefatte.

Alcune ghignarono perchè questa ribelle Cristina era un bel pezzo di ragazza e i padroni le facevano l'occhio di triglia, e anche don Giorgio Castellani, il giovine curato di Gel, la vedeva volontieri.

Ma la sorella di lei, la sposa Rampoldi, dolente e quasi offesa, esclamò:

—Sei pazza?! Che vita vuoi fare, altro che lavorare?... I poveretti son nati per questo. Anche il mio Sandro, ch'è stato via coi tedeschi e poi coi piemontesi, dice che dappertutto è lo stesso.

—O lavorare, o... via! Non sta neppure bene di dirle certe parole. Raccomandiamoci piuttosto al Signore, che ci tenga la sua santa mano sul capo.

Le anziane approvarono gravemente e tutte s'affrettarono verso casa senz'altro dire.

La pianura lombarda ha pochi luoghi più miseri, più desolati di questo mucchio di casette su una specie d'isolotto fra due corsi di acqua: la Vergonza e la Mis'cia. I contadini danno a tutto questo lembo di terra il nome di Val Mis'cia. Due ponticelli servono a chi ci va a piedi; ma gli animali e i rotabili d'ogni genere devono passare a guado dove l'acqua è più bassa. Quando la piena gonfia i fossi, non si passa più. Val Mis'cia rimane come bloccato.

Per questo lo chiamano pure l'isola.

In fondo non è altro che un cascinale.

Niente chiesa, niente botteghe, neppure un forno per cuocere il pane.

I contadini e le loro donne, occupati da mattina a sera, hanno appena il tempo di far la polenta, la minestra e qualche focaccia da cuocere sotto la brace.

Un garzone di fornaio vi porta il pane regolarmente un paio di volte la settimana, da Casorate o da Gel.

Fino a pochi anni sono, avevano il pregiudizio che i pomidori maturi fossero cattivi; però s'affrettavano a mangiarli verdi, e appena rossi li buttavano via, mentre avrebbero fatto tanto bene alle loro minestre così malcondite.

Quella sera, rincasando, i contadini dell'isola ebbero una sorpresa poco gradita: il garzone del fornaio s'era scordato di portare il pane.

Ciò accadeva qualche volta, se l'uomo era troppo stanco e aveva la fortuna di esaurire il suo carico prima di giungere fino a quell'eremo.

La notizia circolò in un momento da una casupola all'altra.

—Siamo senza pane!

E i bambini tanto più strillavano:—Pane!... Pane!...

Ma gli animi erano così depressi che la cosa passò senza far rumore.

Qualche sorda imprecazione, qualche bestemmia smozzicata, bastarono a sfogare la collera dei più malcontenti e affamati.

Si affrettarono a fare la polenta, maledicendo quella giornataccia da cani.

* * *

In casa Rampoldi era pronta la minestra. L'aveva preparata la Virginia, la moglie di Pietro, il fratello maggiore, che era contadino a podere e aveva sempre una discreta scorta di riso, di fagiuoli e di lardo.

Appena accompagnate le bestie nella stalla e deposti gli arnesi del lavoro, i due uomini si fecero intorno alla Virginia, una pallidona delicata che non andava mai a lavorare in campagna, nè alla canapa. Essi discorrevano con lei, come i contadini usano di rado con le donne; mostrandosi gentili il più che potevano.

La minestra scodellata mandava un eccellente odore, e i due uomini facevano alla brava massaia i soliti elogi di tutti i giorni, per cui lei sorrideva di compiacenza.

Tutti sapevano che la minestra dei Rampoldi era la più buona: perchè la Virginia, essendo stata a servire in casa di ricchi fittabili, se ne intendeva di cucina. Ma si sapeva pure che i Rampoldi non pativano miseria come gli altri. Erano due uomini forti che lavoravano per sei e il podere lo facevano andare quasi senz'altro aiuto: specialmente dacchè Sandro aveva sposata la Maria Scaramelli una sgobbona che se non lavorava la terra, andava alla canapa; e quando ritornava a casa, a giornata finita, si addossava le faccende più gravose, per risparmiare la pallida cognatina incapace di faticare, lei, così gracile.

I maligni ghignavano di quella gracilità. Si sapeva bene che Sandro l'aveva presa di malavoglia la figliuola di Marco Scaramelli, per obbedienza al fratello maggiore che vedeva la necessità di avere in casa una lavoratrice; e per non dargli sospetto. Del resto, come moglie non la guardava neppure; anche questo si sapeva. Lei non era che l'asino di casa Rampoldi: moglie era la Virginia, tanto dell'un fratello che dell'altro, di Sandro come di Pietro. Se ne raccontavano d'ogni colore sugli amori dei due cognati; e Maria, sposa legittima di Sandro, era chiamata impunemente l'asino dei Rampoldi.

La sorella di lei, l'ardita Cristina, che di tali discorsi ne aveva sentiti anche troppi, fremeva dentro di sè; ma non le bastava il cuore di dire tutto quello che pensava alla sua sorella.

Tanto non sarebbe giovato; Maria non era donna da vendicarsi.

Seduti nella cucina semibuia, intorno alla vecchia tavola, i due Rampoldi e la bella Virginia mangiavano la minestra e del buon pane che Sandro aveva portato da Casorate, dov'era stato quel giorno nella sua qualità di cavallante. E insieme al pane giallo egli aveva portato anche un panino bianco, che la Virginia mangiucchiava a guisa di companatico insieme a quello giallo. E mangiando parlottavano allegramente con la bocca piena.

Secondo il solito, non s'erano dati pensiero di aspettare Maria che non aveva ancora finito di portar l'acqua nella stalla ed in casa.

Quand'ella arrivò finalmente, dalla porta di dietro che menava all'orto e alle stalle, gli altri s'erano già alzati, e di pane bianco non ce ne era più sulla tavola; anzi neppure di quell'altro.

Ella non si mostrò nè stupita, nè offesa che non l'avessero aspettata.

Succedeva così tutti i giorni: c'era avvezza.

Prese la sua scodella e andò a mangiare sull'uscio di strada, come sempre, perchè le piaceva di mangiare all'aria aperta e scambiare qualche parola con quelli che passavano.

Mangiava adagio, senza appetito, il cuore oppresso come da un incubo. Pensava all'orribile morte di quella povera Giulia; ma insieme alla sanguinosa immagine, che non riesciva ad allontanare, le ritornavano le amare parole della Cristina.

Sull'uscio dalla casupola da canto, apparve una vecchia mangiando un pezzo di polenta. Era l'Annunziata Meroni.

Le due donne si salutarono; e Maria si staccò dalla sua abitazione per avvicinarsi alla anziana.

—È per stasera il funerale?

—Si. Per farle un po' d'accompagnamento; nella giornata di domani sarebbe impossibile.

—Verrà il curato?

—Non credo. Mi pare che ha mandato a dire che non poteva. Ci aspetterà in chiesa. Ho visto il Tonio della Mora e l'altro becchino che andavano a inchiodare la cassa... Vostro padre porterà la croce.

—Lo so. E la Cristina, mia sorella, l'avete vista?

—Era qui ora. È andata a farsi un po' di polenta.

Maria sospirò, ma non disse nulla. Pensava che avrebbe potuto prenderla con sè la sua sorella, nella casa del marito, se la non fosse stata tanto scontrosa e difficile.

—Se mia sorella fosse come me—disse dopo un momento di silenzio—non avrebbe bisogno di stare sola.

—Oh! è meglio così. Vostra sorella somiglia a vostro padre; mentre voi siete come la vostra povera mamma.

—Cosa volete dire?

—Voglio dire che siete troppo buona. E poi, avete sentito? vostra sorella Cristina è stufa di questa vitaccia di contadina.

—Oh!... Cosa volete che faccia?

—Manca cose! Può andare anche a Gel a servire il curato.

Maria arrossì fino alla radice dei capelli.

—Al curato gli basta nostro padre per servirlo.

—Potrebbe mandarlo via per fare posto alla figliuola.

—Oh! Nunziata, non dite questo!... Mia sorella è una ragazza per bene. Siamo figliuole della stessa madre, sapete!

—So bene; ma lei dice sempre che voi siete una sgobbona; una... scusate veh?... dice che siete una stupida, che fate la serva a quella smorfiosa di vostra cognata.

—La serva no. Sono in casa mia come lei. Lavoro di più perchè son forte e sana, grazie a Dio; mentre lei ch'è pochina pochina, s'ammala per nulla...

—Un bel comodo ammalarsi quando si vuole!

Ferita da questa ironia la moglie di Sandro tacque un istante e trangugiò alcune cucchiaiate di minestra, ciò che le permise di stare un poco voltata nascondendo la faccia.

La sua figura si disegnava mollemente nella luce grigia del crepuscolo. Era una bella contadina, alta, dalle spalle larghe, dalle braccia solide quanto quelle di un uomo, ma belle, tonde e grassoccie. Il viso regolare, freschissimo, sebbene già un po' abbronzato dal sole e dalle intemperie, aveva una espressione dolce, in cui la bontà appariva serenamente mista alla forza.

La vecchia, che sempre la guardava, riprese:

—È tutto dire che Sandro con quella testa d'avvocato, e la religione che ha, non sappia far rispettare la sua donna...

Maria si voltò di scatto.

—Cosa volete che faccia? S'ha a litigare?... S'ha da spartirsi? Uhm! Un bell'affare! Stando tutti uniti si va là: ma se noi si volesse spartirsi, il podere resterebbe a Pietro... la roba di casa sarebbe pochina, a farne due parti... Si andrebbe a star peggio dimolto. E poi, la discordia in famiglia... Come si fa? Sicuro che io lavoro tanto; ma dal momento che il lavoro c'è, bisogna farlo. Lavoravo anche a casa mia del resto. E Sandro non lavora forse?...

—Oh! per questo nessuno dice nulla. Dico soltanto che vostra cognata fa la signora, mentre voi portate il basto...

A questa insinuazione maligna, Maria impallidì. Più di una volta le era capitato di sorprendere certi sorrisi, certe mezze frasi, il cui senso al primo udire le era rimasto oscuro. L'asino dei Rampoldi! L'aveva sentito dire una sera al figliuolo della Menica, e lei aveva creduto che parlasse veramente del loro asino... Ma il ragazzo aveva riso in un certo modo!... E ora la vecchia Nunziata le diceva che lei portava il basto. Era un insulto dunque? Volevano forse significare che lei non contava per niente in casa di suo marito, che era la sgobbona e nulla altro? Strinse forte i denti e scrollò la testa bruna e poderosa.

—Sentite Nunziata, perchè dite che io porto il basto? Cosa vuol dir questo?

—O Dio! Non andate in furia! È così per dire che voi lavorate troppo, che siete troppo buona...

—Troppo buona, troppo buona... Non so perchè non dovrei esser buona. Quando la mia mamma si è sentita morire, la mi ha raccomandato d'essere sempre buona e di fare il mio dovere in tutte le maniere: io faccio quello che mi ha detto lei. Ero appena sposa quando l'è morta, vi ricordate?

—Eh! altro che ricordarmi. È stata lei che ve l'ha fatto prendere il vostro Sandro. Voi non ci pensavate neppure...

—È vero. È stata lei. Mi ha detto che era un galantuomo, un lavoratore, un uomo che andava piuttosto in chiesa che all'osteria.... Cosa potevo sperare di meglio, poveretta come ero?... Tuttavia avrei detto di no... perchè mi dava troppa soggezione con quell'aria... Ma quando la mia mamma ha insistito, non ho più saputo cosa dire; ho lasciato che facesse lei. E ora che l'ho sposato, vedo che è proprio un galantuomo, che all'osteria non ci va mai, e lavora sempre. In giornata non se ne trovano tanti degli uomini come i Rampoldi. Per questo se mi lamentassi sarei una cattiva donna. Quanto a farmi dei complimenti... lui non c'è tagliato, quantunque sia stato fuori e abbia visto il mondo. D'altronde, lui ha i suoi trentasei anni, e certi fumi gli son passati... Per me poi, mi vergognerei di pensarci. Son contenta così; e contenta io, contenti tutti.

—Siete una brava donna—sentenziò la Meroni.—A proposito, potreste prestarmi un mezzo pane? Ve lo restituirei domani mattina...

—Pane?! Se siamo rimasti tutti senza!... Io non ne ho mangiato... non ne ho neppur visto...

—Come!... Vostro marito è stato a Casorate col padrone; non ne ha portato?... Mi pareva d'avergli visto una micca di pane bianco...

—Ma che! Via, diciamo l' Angelus piuttosto; suona l' Ave Maria a Gel.

S'inginocchiarono sullo scalino dell'uscio.

—Il padre della Giulia!...—mormorò la Annunziata dando nel gomito alla sua vicina.

E tutt'e due fissarono gli occhi sbigottiti nel vecchio Melica lungo e pallido come un fantasma, che passava di là col cappello in mano, pregando e piangendo, tutto assorto nel proprio dolore.

Finita la breve preghiera, Maria salutò la vecchia e s'allontanò perchè voleva far presto a sbrigare le poche faccende e andare anche lei a Gel con la morta.

La Nunziata restò un momento sull'uscio a guardarle dietro; e fra sè pensava:

—La ci deve avere il suo interesse per fingere di non capire. Basta! Chi si contenta gode.

CAPITOLO II. L'asino dei Rampoldi.

La grande cucina dei Rampoldi era quasi tutta immersa nell'oscurità.

Sul camino basso e ampio, alla fratesca, circondato di panche, un focherello di legna verde mandava molto fumo e pochi bagliori di fiamma.

Appena entrata, Maria andò istintivamente con lo sguardo a quel po' di luce della fiamma e restò come impietrita.

Sulla panca davanti, voltando le spalle a chi entrava, Sandro e la Virginia sedevano vicinissimi, tanto vicini che parevano stretti in un amplesso.

Egli le aveva passato un braccio attorno la vita; e lei gli posava la testa sulla spalla. Forse si erano baciati in quel momento.

Maria ebbe una sensazione di stroncamento in tutte le ossa, e un gelo di morte la fece rabbrividire.

Non gridò, non si mosse, paralizzata dal raccapriccio.

Come aveva fatto comprendere alla Nunziata, ella non aveva mai amato Sandro di un grande amore; certo non sapeva neppure cosa volesse dire amare appassionatamente; epperò non il dolore disperato, non l'angoscia gelosa la annichilivano in quella guisa; bensì un vero terrore; il terrore di un'anima che si sente divellere dalla sua fede e precipitare nel nulla. Avrebbe voluto fuggire: e con la vita stessa avrebbe pagata la grazia di non vedere; per quel medesimo sentimento che, qualche ora innanzi, parlando della Giulia, l'aveva fatta prorompere in quelle parole: ringrazio il Signore che almeno non l'ho vista!

Ma non poteva staccare i piedi dal suolo.

Tremava tutta. E la scodella col cucchiaio che teneva in mano, producevano, sbatacchiandosi, un rumore secco, per cui gli altri due si voltarono.

—Oh! finalmente siete qui!—esclamò la Virginia balzando in piedi con un fare semplice e naturale:—Dove siete stata? Avete visto Pietro?...

Maria non rispose. La commozione era troppo grande in lei perchè potesse nasconderla così subito.

D'altra parte una nuova lotta sorgeva ora nell'animo suo, fra l'indignazione esasperata da quella sfacciata ipocrisia, e un desiderio violento fino allo spasimo, di negar fede ai suoi propri occhi.

—Non l'avete visto?

—No—balbettò con voce sorda la moglie di Sandro.

—Ho capito. Sarà andato a dormire nel fenile. Era tanto stanco! Anche noi ci siamo appisolati qua al tepido; e si cascava uno addosso all'altro, come sacchi vuoti. E sì che, grazie al Signore, abbiamo mangiato.

Fece una risatina che morì fredda fredda.

Sandro s'alzò e accese un lume. Era impacciato e non poteva parlare.

Maria si mise a lavare le stoviglie e quando il marito le si accostò, facendo uno sforzo per domandarle se andava col funerale, ella credette di scorgere in lui una certa ansietà e le parve che la guardasse fisso per capire se aveva visto.

Allora lei si sentì arrossire e chinò la fronte. Provava un senso acuto di vergogna, come se la colpa fosse stata sua.

Era fatta così.

Sandro uscì mormorando un «ci vedremo laggiù» e le due donne restarono sole.

Sempre in silenzio, Maria continuava le sue faccende affrettandosi perchè la compagnia della cognata le pesava in quel momento come una macina sul cuore.

Ma la Virginia s'irritò di quel silenzio. Lei avrebbe preferito un bisticcio, pur di sapere ciò che l'altra pensava. Epperò cercava di farla parlare, provocandola con la sua solita petulanza.

Quand'ebbe finito di dar ordine, Maria si asciugò le mani e, rimessosi il fazzoletto in capo, s'apprestò ad uscire.

—Dove andate?—gridò la Virginia esasperata.—Perchè non parlate?... Che vi si è fatto?... Sorniona!...

A quest'attacco la moglie di Sandro si voltò e mostrò una faccia così corrucciata, che la provocatrice rimase interdetta.

Ma ora l'offesa non poteva più contenersi. Si gettò con impeto sulla nemica; le afferrò i polsi con le sue dita di lavoratrice, vere morse di ferro; e spingendola contro il muro, la inchiodò lì, gridandole con lo strozzamento della collera:

—Vergognati!... Vergognati!...

Poi, tutto a un tratto, ripresa dall'intimo orrore che quella donna le ispirava, la lasciò stare e uscì senza voltarsi.

* * *

La notte era cupa e diaccia.

Il mucchio di casupole pareva addormentato. Ma al di là si sentiva un bisbiglio di voci confuse che s'allontanavano. Qualche lumicino vagolava per le viottole.

Maria fece alcuni passi a caso senza veder nulla, brancolando nelle tenebre. Non sentiva il freddo acuto. L'aria diaccia recava appena un poco di refrigerio alla sua testa in fiamme. Non pensava.

Ingenua e rozza non poteva fare riflessioni nè analisi su quello che le accadeva. Ma nell'animo istintivamente gentile e fiducioso, ella sentiva, così in confuso, che tutto crollava in lei; che tutto stava per cadere, nella sua vita, e si disfaceva. Provava la sensazione indefinita di precipitare nell'abisso. Nel medesimo tempo quel senso acuto di vergogna e ribrezzo che l'aveva oppressa fin dal primo istante continuava a farla fremere e rabbrividire.

Ora capiva tutto il significato delle amare parole: l'asino dei Rampoldi!... Già, lei era l'asino. Doveva essere un amore vecchio quello di Sandro e Virginia. Che sudiciona, un cognato!... E lei non s'era accorta di nulla in dieci mesi; che bestia!... Ed ora si ricordava improvvisamente di tante e tante circostanze che avrebbero dovuto spiegarle ogni cosa. Ma lei credeva che suo marito fosse un galantuomo, un uomo religioso... che non avesse grilli per il capo!...

Qualcuno la chiamò.

Mandò un urlo.

—Eh! Sei pazza di gridare così, o Maria!... Non m'avevi riconosciuta?

—... No!...

—Ti senti male?... Hai una voce!... Oh! caschi, perdio!...

Maria vacillava: ma cercò di irrigidirsi.

—Non è nulla... Ho pianto troppo.

—Cosa t'hanno fatto?...

Cristina, a giorno della tresca e sempre in sospetto di qualche scoppio, intuiva tutta la verità.

Maria lo comprese e sentì che doveva mentire: però disse con voce abbastanza ferma:

—A me? nulla. Per la povera Giulia, eh!

—La Giulia non soffre più... Ma se vuoi che andiamo al funerale bisogna far presto.

—Son già partiti?...

—Sì, guarda laggiù. Andiamo per di qua: li raggiungeremo in un momento.

Presero per una scorciatoia traverso i campi.

Una blanda luce si diffondeva nell'aria caliginosa. Si sentiva lo stropiccìo dei piedi nella polvere e il salmodiar delle preci mortuarie. Una voce grave aveva intonate le litanie dei Santi, e tutti gli uomini e le donne rispondevano in coro:

Ora pro ea!

Ora pro ea!

Le voci forti e le voci esili si sposavano in una semplice armonia, che l'aria della notte portava lontano nel silenzio lugubre della campagna autunnale.

Le due sorelle arrivarono in pochi minuti su la strada percorsa dal funerale.

Un misero funerale! Davanti camminava un ragazzo con una lanterna; poi veniva il vecchio Scaramelli con la croce; indi la bara portata a spalla da quattro giovinotti e a mala pena coperta da un cencio nero, senza fiori, nè altro ornamento.

Le donne e gli uomini che la seguivano andavano un po' alla rinfusa, e di tratto in tratto qualcuno rischiarava la strada con una candeletta, una lanterna o un fanale.

La prima persona su cui si fermò lo sguardo di Maria fu appunto Sandro che se n'andava a testa alta, pregando con una sorta di slancio.

Era un bell'uomo il cavallante Rampoldi; un bel soldato; e l'aria soldatesca, il portamento svelto, lo distinguevano tra tutti i suoi compagni.

Per la prima volta dacchè lo conosceva, Maria fu colpita da quella relativa distinzione, da quella maschia bellezza; e per la prima volta sentì che sarebbe stata molto felice se, invece di essere così freddo, egli le avesse dimostrato un po' di quella tenerezza che germogliava adesso, nel povero cuore di lei, al posto della collera e del disgusto.

Sotto il dominio del nuovo sentimento che la faceva più intensamente soffrire, rimaneva immobile, sul ciglio della strada, gli occhi fissi in quell'uomo, che era suo marito, e non le apparteneva più di un estraneo.

—Che fai? le gridò la Cristina vedendo che non si moveva. Vieni qui con noi!...

Come un automa ella si lasciò trascinare e entrò nella fila singhiozzando.

CAPITOLO III. Primavera.

I contadini lavoravano accanitamente dall'alba al tramonto. Si erano messi in testa di terminare i lavori per la seminagione del grano turco, prima delle feste. Anche il fieno, quel prezioso fieno d'aprile, doveva esser falciato e raccolto. La settimana santa avrebbe portati via i suoi tre giorni buoni alle donne, tra le funzioni, le divozioni e la pulizia delle case. E gli uomini pure ambivano di essere liberi per dedicare qualche ora al piccolo orto domestico e per altre faccende minori. Bisognava affrettarsi dunque, tanto più che quell'anno tutto era andato bene e il bel tempo durava da un pezzo. Le pioggie sarebbero arrivate nel momento più propizio, se il grano era seminato e il fieno messo sotto coperto. Ma certi nuvoli, certi buffi di vento le annunciavano vicine. Presto dunque, presto! E i falciatori affilavano le loro grandi falci lucenti come specchi, e le donne allargavano il fieno coi rastrelli di legno cantando allegramente, nell'eccitante profumo della menta, del timo, delle primavere, delle campanelline rosate, di tutta la infinita famiglia delle erbe odoranti.

Nei campi destinati al melgone, gli aratri andavano su e giù lungo i solchi, squarciando il seno alla terra nera, calda, bramosa di fecondazione.

I bifolchi e i cavallanti camminavano al passo presso alle loro bestie, esortandole di tratto in tratto con le voci famigliari a cui esse obbediscono.

Tutta Val Mis'cia era in moto. I fratelli Rampoldi dirigevano i lavori. Pietro che aveva sempre fatto il bifolco ed era il contadino del più grosso podere, guidava talvolta i bovi mentre Sandro conduceva i cavalli.

Ma Pietro era dappertutto. Appena un campo era finito di arare, egli si legava alla cintola la grande tasca ricolma e gettava a manate piene i bei chicchi d'oro nella terra squarciata.

Anche Sandro faceva un po' di tutto: mentre un altro contadino guidava per altri campi l'aratro tirato dai bovi, egli attaccava i suoi cavalli all'erpice e li faceva passare sulla terra seminata. E dopo l'erpice attaccava sotto il poderoso cilindro che spiana la superfice e rende il campo tutto pari e liscio come un letto da sposa.

Che vertigine di lavoro, che attività, che animazione su tutta la pianura!

La speranza, che l'autunno avrebbe facilmente delusa, aleggiava intorno alle fronti curve dei lavoratori.

L'annata si era messa così bene!...

E sotto ai raggi dorati del sole di aprile, sott'al cielo bianco lattiginoso che ha un carattere così umano in confronto ai cieli metallici dei paesi meridionali, la misteriosa giocondità della Pasqua s'insinuava blandamente negli animi semplici dei poveri contadini.

* * *

I grandi lavori si trovarono compiti la sera del martedì santo, come i fratelli Rampoldi avevano preveduto.

La giornata del mercoledì fu occupata dagli uomini a dare un'ultima voltata al fieno per metterlo sotto coperto, la stessa sera. Le nuvole minacciose si addensavano all'orizzonte: la notte non sarebbe passata senza un acquazzone; forse un temporale. Le donne intanto percorrevano i campi testè seminati, affinchè neppure un grano di semente andasse perduto. Armate di un lungo bastone ferrato, esse facevano un buco in terra appena scorgevano un granello sfuggito all'azione dell'erpice e del cilindro, e prestamente lo cacciavano sotto.

Maria Scaramelli, la brava moglie di Sandro Rampoldi, valeva tant'oro per quest'operazione. Il suo occhio esperto distingueva subito il piccolo chicco giallo, e la sua mano sicura lo faceva sparire nello stesso momento.

Ma ella non era così attenta quel giorno. Già più di una volta aveva dovuto tornare indietro per ricuperare dei grani dimenticati: e di tratto in tratto parea che s'abbandonasse come spossata sul bastone confitto in terra.

I suoi occhi non vedevano le cose esteriori, assorti in una dolorosa contemplazione interna.

Cristina Scaramelli e Nunziata Meroni, la vecchia dal viso giallo e scarno, guardavano quella afflitta, dal campo vicino, traverso al filare ancora senza foglie.

—Non pare più lei!—mormorò la Cristina soffocando un sospiro.

—Dopo la disgrazia della povera Giulia, la non s'è più rimessa!

—La povera Giulia?... Eh, si! le voleva un gran bene; ma se non fosse il resto... non sarebbe in quello stato!

La vecchia strizzò gli occhi; poi, mentre puntava il bastone per cacciar sotto due grani, mormorò:

—Al resto... lei non ci crede.

—Altro che crederci!...

—Allora non si fida di me. Una sera, la sera del trasporto della Giulia, entrai a parlarle della sua cognata e di quello che lei doveva patire in casa. Non parlavo per curiosità, chè non son mai stata curiosa io, lo sapete. Nè per malizia. Che m'importa mai a me della Virginia e de' suoi pasticci?... Parlavo così, per amicizia verso Maria e perchè la si potesse sfogare con qualcheduno; chè, chi non si sfoga scoppia. Ebbene! La mi si rivoltò tutta d'un pezzo, come una furia!... Se l'aveste vista. Per poco la non mi diede della bugiarda.

Cristina stette un momento sopra pensiero, poi disse:

—Allora la non sapeva ancor nulla. Ma quella stessa sera ci fu una scena che deve averle aperti gli occhi. Poi si chetò, non so come, si rassegnò, e chiuse ogni cosa in sè. È una santa vi dico, fossi io al suo posto vedrebbero!...

—E avreste ragione. Chi si fa pecora il lupo lo mangia.

—Eh, sì. Ma chi è nato pecora, però, non può far da lupo. Lei è così. È una malattia come un'altra. Vuole un bene dell'anima al suo Sandro e non osa dirgli una parola. Tace per paura di disgustarlo; e sopporta le angherie di quell'altra.

La Nunziata alzò la spalle e ripensò senza esporsi: «Ci avrà il suo interesse!»

Dopo una pausa Cristina riprese:

—State attenta al mezzogiorno: quando la Virginia porta il mangiare agli uomini. Vedrete che faccia farà la mia povera sorella, e capirete da voi quanto soffre quell'anima.

Poco prima di mezzogiorno, la moglie di Sandro avendo continuato a lavorare con quell'aria di stanchezza e di smarrimento, come una sonnambula, si trovò giunta in proda al campo presso al ciglione che sovrastava al fossatello coronato da un filare di salci e pioppi. Invece di risalire il campo e continuare il lavoro, ella salì sull'arginello e si mise a camminare nella viottolina lungo il filare, finchè si trovò davanti a un appezzamento tenuto a prato. Qui si fermò, e facendosi solecchio con le mani, guardò attentamente in fondo alla grande marcita dove gli uomini rimovevano il fieno stendendolo bene perchè pigliasse tutto quel bel sole di mezzogiorno.

Saliva fino a lei nell'aria calda il profumo delle erbe giovani recentemente falciate; e lei aspirava quelle voluttuose esalazioni, mentre il suo cuore si struggeva in uno spasimo d'amore e di gelosia.

Cercava con l'occhio ansioso il suo Sandro. Dov'era?... perchè non riesciva a discernerlo? Nessun lavoratore era come lui alto; nessuno aveva il personale svelto e maestoso per cui egli faceva così bella figura quando andava in città guidando la pariglia del legno padronale.

Mezzogiorno suonava alla chiesa di Gel!... Ah! egli era andato incontro alla Virginia che portava il mangiare agli uomini!...

Non si stancava mai di vederla, di starle appresso; non ne aveva mai abbastanza di quell'amore!...

Maria si sentì gelare improvvisamente. Li aveva scorti.

Camminavano adagio uno accanto all'altro sulla viottola larga che formava il margine di un altro campo al di là del fosso in fondo al prato. Sandro aveva presa la marmitta di mano alla cognata per risparmiarle fatica, e questa sorrideva beatamente.

Oh! anima dannata! anima dannata!...

Ora varcavano il ponticello, si fermavano sull'argine al rezzo.

Gli uomini deponevano i rastrelli e le forche ridendo in pelle. E quel minchione di Pietro non s'addava di nulla. O marito ciuco!

Vinta dall'ira Maria picchiò un colpo col bastone ferrato sulla terra indurita della viottola. Questo rumore la fece trasalire.

Ebbe paura di essersi fatta scorgere dalle compagne. Si voltò timidamente e vide infatti che sedevano sul margine fra due campi mangiando il boccone del mezzogiorno. Tutte guardavano a lei.

—Vieni qui—le gridò la Cristina—vieni a mangiare con noi!

Maria si raccolse un momento; si passò una mano su gli occhi; crollò la testa. Finalmente si mosse e adagio adagio si avvicinò al gruppo delle donne, sedette presso alla sorella e non fiatò.

Pensava confusamente, con una sorta di superstizioso terrore, a quello che aveva veduto, e che si ripeteva tutti i giorni: pensava alla sua misera sorte.

Sarebbe stato sempre così?... Sempre... finchè lei sarebbe morta di crepacuore?... La Virginia s'era fatta più superba che mai dacchè la disgraziata Maria aveva scoperta la tresca; e la rimproverava per ogni cosa e giungeva fino a minacciarla. Pietro la guardava di traverso; e Sandro non le parlava neppure. Quando gli altri le erano addosso con gl'improperii, come se non avesse fatto il suo dovere, mentre non si riposava mai, Sandro taceva o andava fuori di casa. E la Virginia sempre seduta al camino, o sulla porta della cucina, non faceva che comandare: e vestiva quasi come una signora, col grembiale sempre nuovo e il fazzoletto di fulard; mentre la povera sgobbona tremava quando aveva consumato un paio di zoccoli e doveva chiederne un paio nuovo!...

Sarebbe stato sempre così, sempre... Ci doveva essere di mezzo qualche stregoneria... qualche vecchiaccia le aveva dato il cattivo occhio...

Forse la Meroni... forse...

* * *

Con questi pensieri, cercando nel buio della memoria un fatto, una data che le sfuggiva, Maria rimaneva intontita, ripetendo mentalmente le stesse parole. Le donne intanto parlottavano della vicina Pasqua, delle funzioni, della confessione, della pulizia delle case...

—Ne sentirà delle belle don Giorgio!— esclamò una giovane contadina dal viso rotondo ammiccando furbescamente. È il prim'anno che si trova a questi ferri.

Ma la vecchia Meroni ribattè subito con la sua solita malignità:

—Peuh! non pare uno da scandalizzarsi! Che ne dite voi Cristina?

La Cristina fece una grande risata canzonatoria:

—O che credete che le venga a dire a me queste cose?

—Quando comincerà a confessare?—domandò la Menica, povera donna, consumata dalle febbri, che non aveva punto memoria per le cose di chiesa.

—Stasera dopo gli uffizi, come tutti gli anni—riprese Cristina con la sua aria di donna franca.—Domattina dalle cinque alle nove aspetterà gli uomini in sagrestia. Poi dirà messa e comunicherà. Vengono due preti da Casorate, don Bortolo e un altro; epperò il mio vecchio brontolava perchè gli è toccato preparare le camere.

—Avrà molto da fare vostro padre questi giorni.

—Sì, ma lui non si scalmana.

—E non confesserà più don Giorgio dopo questa sera e domattina?—domandò una ragazzetta dalla faccia rigonfia.

—Confesserà venerdì e sabato tutti quelli che vogliono comunicarsi il giorno di Pasqua.

Maria ascoltava questi discorsi, prima distrattamente, poi con più attenzione; e un lavorìo nuovo occupava il suo cervello.

Sandro viveva in peccato mortale... Come avrebbe fatto con la Pasqua? Si sarebbe confessato, pentito?... Oh! volesse Iddio!... E se taceva invece?... Se commetteva un sacrilegio... se si dannava per l'eternità?!...

Rabbrividiva a questo pensiero; e un freddo sudore le inumidiva i capelli.

La speranza tornava a rianimarla con un suggerimento.

Forse don Giorgio poteva fare qualche cosa per lei, e salvare un'anima... due... chè lei pure si dannava a quella vita!... Ma se Sandro taceva il suo peccato, cosa poteva fare don Giorgio? Nulla... nulla...

Sbigottita come davanti a un abisso pronto a inghiottirla, ella chinava il capo, schiacciata... Ma la tenace speranza non s'arrendeva. Forse don Giorgio sapeva di quella tresca... ne parlavano talmente tutti!... E, sapendo, avrebbe interrogato il suo penitente, l'avrebbe messo al muro. E Sandro, così interrogato, non avrebbe osato negare... E se don Giorgio voleva gli avrebbe toccato il cuore... Sandro era buono, religioso... E sarebbe tornato a lei, e sarebbero andati a lavorare lontano lontano, in un altro paese... magari in America!... Lei era pronta a tutto...

Sì, ma se don Giorgio non sapeva, o se non se ne ricordava in quel momento, e Sandro commetteva il sacrilegio?!...

Tornò a impallidire, a tremare.

Bisognava prevenire don Giorgio. Questo era il solo mezzo. Lei non avrebbe osato; ma la Cristina poteva farlo: la Cristina sapeva parlare e don Giorgio l'avrebbe ascoltata.

Improvvisamente balzò in piedi:

—È ora di rimetterci a lavorare! Bisogna far presto... se vogliamo finire a tempo per andare in chiesa!

Tutte si alzarono e la vecchia Meroni osservò seriamente che era sempre meglio prendere la Pasqua il giovedì santo, chè gli ultimi giorni non si poteva avere la testa al Signore perchè c'era la casa da ripulire e mille cose da pensare.

Maria riprese il bastone che aveva lasciato cadere, e andò al lavoro con nuovo slancio, come nei bei giorni della sua massima attività.

Stupefatte di quella improvvisa trasformazione, le compagne se l'additavano in silenzio.

CAPITOLO IV. In Confessione.

Era il giovedì santo.

I drappi neri e la cotonina nera, sbiadita dal lungo uso, gettavano ombre livide nella chiesuola, di solito così piena di luce, di aria e di campestre gaiezza.

Fuori, la campagna risplendeva: gl'insetti ronzavano; i passeri annidati sotto il cornicione della chiesa cinguettavano allegramente; e le rondini appena arrivate dai lidi lontani, parea che avessero mille cose da raccontarsi; mille osservazioni curiose da comunicare l'una all'altra.

Anche nella chiesa era un bisbiglio sommesso, un biascicamento di orazioni miste a sospiri. Le donne che si erano confessate la sera innanzi aspettavano l'ora della comunione.

Alcuni chierici finivano di adornare il sepolcro nella cappella laterale. In sagrestia, altri chierici si vestivano, preparavano gli oggetti per la prossima funzione, insieme a due pretonzoli venuti da un paese vicino per aiutare don Giorgio e buscarsi qualche soldo.

Nell'angolo più appartato, don Giorgio in cotta bianca e stola ricamata sopra la lunga veste nera, finiva di confessare gli uomini. Da due ore egli stava lì seduto, quasi immobile, nella luce tediosa di quella stanzuccia, nell'aria grave per tanti fiati misti al puzzo di moccolaia.

Una invincibile uggia abbatteva i suoi nervi; e il viso giovine, ancora fresco, dai lineamenti regolarissimi, appariva stirato, affranto: con dei lividori sotto ai piccoli occhi grigi, affondati, e intorno alla bocca tumida, sensuale. Alcune rughe precoci gli solcavano la fronte bianca; e la mano affilata, s'agitava per un moto nervoso nella schiacciante inoperosità. Nei movimenti del capo, il marchio sacerdotale luccicava come un disco d'avorio tra i folti capelli neri, nella luce filata che scendeva dalle alte finestre.

Di tratto in tratto, dopo di avere lungamente ascoltato, pronunciando appena le parole indispensabili, don Giorgio pareva preso da un grande interesse e si metteva a parlare con benevola effusione, curvandosi un poco sul penitente inginocchiato ai suoi piedi. Era la sua una eloquenza semplice e calda, alla portata di chi l'ascoltava: ispirata a una grande pietà. Dal pergamo o in confessione, le sue parole esprimevano quasi sempre un conforto, raramente un rimprovero. Ma egli sentiva l'inutilità del suo ardore; e una stanchezza mortale, uno sfiduciamento scettico s'impadronivano di tutto il suo essere, malgrado gli sforzi della volontà.

Nato in campagna, dotato di un corpo robusto, ricco di una esuberante giovinezza, don Giorgio soffriva specialmente della inoperosità materiale. Felice quando poteva maneggiare la zappa e la vanga nell'orto del presbitero; quando i doveri del suo stato lo portavano nel crudo inverno, o nella cocente estate, da una cascina all'altra, di paesello in paesello; per la campagna gelata o sotto al sole ardente. L'aria tepida della chiesa, impregnata d'incenso e di esalazioni umane, lo sfibrava. Aveva languori strani; subitanei incitamenti. Volta a volta, gli pareva che il sangue gli s'arrestasse nelle vene spegnendogli ogni forza, ogni vita; mentre l'istante appresso era un torrente precipitoso che minacciava di straripare.

Nessuno più adatto di questo prete per comprendere i difetti e i bisogni dei contadini; ma nessuno più convinto di lui, che a mettersi in testa di correggerli e di migliorarli, avrebbe perso tempo e fatica.

—Troppa miseria!—soleva dire scrollando le larghe spalle—e troppo densa, inveterata ignoranza!

Egli faceva tuttavia quanto poteva fare, chè la pietà rimaneva ardente in fondo al suo cuore.

I contadini, senza comprenderlo, gli volevano bene; e se scoprivano in lui qualche debolezza, la coprivano con la stessa indulgenza di cui egli era così largo verso di loro.

Da parecchi mesi, forse fin dalle prime settimane che l'avevano mandato a quella cura, nel maggio dell'anno avanti, la grande debolezza di don Giorgio Castellani era la Cristina Scaramelli, quella bella ragazza ardita e franca, capace di sentimenti e d'intuizioni superiori al suo stato. Per amore di lei, egli s'era preso al servizio il vecchio Marco, gran fannullone, capace di votargli la cantina piuttosto che badare alla casa e all'orto. Ma la Cristina andava di tratto in tratto a dare una mano al vecchio ubbriacone, e il giovane curato aveva il piacere di vederla. Non una parola, però, aveva rivelato l'ardore segreto; neppure un cenno. Le sue labbra avevano i sette mistici suggelli. Soltanto gli occhi parlavano audacemente, accesi dal fuoco dell'amore.

E Cristina intendeva il linguaggio di quegli occhi, perchè lei pure era trascinata da una forza ineluttabile. Nonostante, se qualcuno si permetteva uno scherzo troppo... campestre, una allusione un po' salace, ella si rivoltava tutta di un pezzo.

Don Giorgio?... Ma che!... Un santo era!...

E se la parola non bastava, il braccio robusto della lavoratrice si levava per sostenere nel modo più energico la santità dell'ideale amante.

* * *

Le otto sonavano all'orologio del vecchio campanile, e ancora don Giorgio confessava gli uomini.

Tre ore!

E ce ne voleva prima che la fosse finita!

Don Giorgio contava meccanicamente quelli che aspettavano. Ogni volta che ne aveva assolto uno, e un altro andava ad inginocchiarsi ai suoi piedi per narrargli, nel solito modo grossolano, i vecchi peccati triviali, le vecchie miserie, don Giorgio sentiva che le sue forze diminuivano e l'uggia cresceva. Le distrazioni lo assalivano accanitamente. Alzava gli occhi, spingeva lo sguardo fuori della sagrestia, nella chiesa, tra le donne inginocchiate, cercando la Cristina; ripensando tristamente alle cose ch'ella gli aveva dette in confessione la sera innanzi.

Oh! a quale cimento l'aveva messo!

—Voglio bene a uno—aveva detto tremando la giovane voce impregnata di lagrime, di cui egli sentiva il soffio caldo traverso la graticcia,—voglio bene a uno che non mi può sposare... E gli voglio tanto bene che non me ne importerebbe niente di essere sposata... Questo è un grave peccato, lo so... e lui non vorrà mai... è un santo lui... Per questo... perchè sono stanca di patire... ho fissato di andare via... in America...

Ella soffocava; le mancava la voce per la gran vergogna e il dolore, ma diceva, perchè voleva dire.

Dio di Dio! Che passione di non poterla stringere fra le braccia e baciarla sulla bocca mentre parlava!...

Eppure egli aveva avuto il feroce coraggio di dirle che avrebbe fatto benissimo a partire, che era il suo dovere, che Dio l'avrebbe ricompensata ridonandole la pace dell'anima!...

E intanto si sentiva ardere e gelare. Non aveva patito così dacchè era al mondo.

Tutta la notte poi senza chiudere occhio; tormentato da spasimi incredibili... E ora si sentiva le ossa come frantumate; la bocca amara di tossico; il cervello torpido.

Era umano, soffrire a quel modo?... Perchè Dio gli aveva dato quel temperamento?... Ah! il male era di avere vestito quell'abito! Non ci era Dio, nè santi. Si trattava di una povera figliuola che egli avrebbe disonorata...

Un altro pensiero sorgeva improvviso nel suo animo turbato: forse l'aveva già disonorata guardandola, tirandosela in casa... I contadini, che l'avevano indovinato—di questo era certo—non potevano supporre... ma che!...

Lo stimavano lo stesso, però, lo compativano, perchè era giovane e con quel temperamento!... Loro già accomodavano ogni cosa: la terra e il cielo.

E continuava a cercare la Cristina e ad assolvere i peccatori. Assolveva tutti; ora per un sentimento di pietà fraternevole, ora sbadatamente.

Ma dov'era la Cristina? Non si sarebbe presentata alla Comunione?... Egli le aveva detto che se pensava ancora al suo amore, se ne sognava nella notte, non avrebbe potuto accostarsi alla mensa del Signore... Perchè dirle di quelle cose, lui che pensava sempre al suo amore, che ne sognava a occhi aperti?... Ah, perchè?... Per la speranza non confessata, ma conscia, ch'ella ritornasse a confessarsi la mattina, a dirgli che aveva pianto, sognato, delirato... come lui stesso!...

Mea culpa... mea culpa... diceva con voce rotta un nuovo penitente inginocchiato ai suoi piedi.

Era un mingherlino, traballante sulle gambe, il viso bruciato, l'occhio spento: Marco Scaramelli, il padre di Maria e di Cristina.

Il prete gli conosceva i peccati dal primo all'ultimo.

—Anche ieri sera, sì, padre, signor curato... anche ieri sera!... Non posso trattenermi... non posso...

—Hai bevuto l'acquavite?...

—... Sì... Sono entrato dal tabaccaio... me l'hanno offerta...

—Dovresti almeno accontentarti del vino della mia cantina che bevi, di nascosto, oltre quello che ti do...

—Oh!... signor curato, creda...

—Ricordati che stai confessandoti... non commettere sacrilegio almeno.

E il confessore si mise ad ammonire quello sciagurato, un po' con le brusche, un po' con le buone, convinto di non ottenere nulla; chè quello avrebbe continuato a bruciarsi coi veleni alcoolici che i liquoristi vendono ai poveri diavoli.

E non faceva lo stesso lui?... Non si bruciava tutti i giorni con la sua passione?... Non si era bruciato fin dall'adolescenza fissando gli occhi concupiscenti su tutte le donne?... E ora che ne desiderava una sola, era peggio che mai!... sarebbe disceso irreparabilmente, sempre più giù... fino alla dannazione dell'anima... alla rovina di tutta la sua esistenza.

Un brivido gli corse per le vene; i suoi pensieri si concentrarono sopra un solo soggetto; dimenticò l'ubbriacone e le tristi considerazioni che gli aveva ispirato.

Aveva scorto la Cristina.

Era inginocchiata in terra presso al Sepolcro; il viso nelle mani, la testa curva, pareva annichilita.

Piangeva forse.

Don Giorgio sbrigò alla lesta il vecchio Scaramelli, assolvendolo con una indulgenza forse eccessiva—forse colpevole.

Presso alla Cristina, la moglie di Sandro pregava con intenso fervore.

—Ah!—pensò il curato—devo occuparmi anche di quella lì!... Cristina me l'ha raccomandata.

E cercò con gli occhi Sandro Rampoldi rimasto fra gli ultimi penitenti.

Un'altra colpa d'amore: un adulterio incestuoso! Caso purtroppo non raro tra campagnuoli.

Osservando i due amanti, mentre un mezzo cretino, che aveva preso il posto di Marco, si perdeva in un lungo racconto, don Giorgio li giudicava con sicurezza. Sandro gli era sempre parso un buon uomo.

Non poteva che essere acciecato dalla passione, dalla sensualità... Ma la Virginia gli pareva una furba da non affrontarsi direttamente. Nessun mezzo morale poteva avere presa su quell'indole molle, astuta, scivolante. Non sedotta, seduttrice, lei doveva aver trascinato Sandro al tradimento del fratello; appena sposa forse; e senza passione, senza acciecamento; per comandare a due uomini invece che a uno solo; perchè i guadagni di tutti e due mettessero capo nelle sue mani, e lei potesse contentare i suoi vizi capitali di contadina: l'avarizia e la gola. Certo era di quelle egoiste meschine che pensano a farsi la parte più comoda nella vita, a spese di chi le circonda; ma senza violenza, adoperando i vezzi, le moine, le astuzie.

Non vi poteva essere che un mezzo per farla retrocedere nel suo cammino: la forza. Bisognava schiacciarla.

Ma come?... Avvertire Pietro? Quel toro in furore l'avrebbe stritolata!... A meno che lei non trovasse il modo di calmarlo, protestandosi innocente, accusando magari il suo complice per salvare se stessa. Allora il solo Sandro sarebbe andato di mezzo; e Maria avrebbe pianto tutte le sue lagrime. Bisognava scegliere un'altra via. Commuovere Sandro sullo stato della sua povera moglie: toccargli il cuore. Non era un'indole recalcitrante, tutt'altro. Ma vicino alla Virginia sarebbe ricaduto e come! Bisognava allontanarlo dunque.

Contento in fondo di questa nuova preoccupazione, che lo sottraeva per qualche istante almeno all'incubo tormentoso della propria passione, don Giorgio tornò a volgere lo sguardo sui contadini che ancora aspettavano. Erano due: un giovinetto che faceva il galante con tutte le ragazze del circondario, e Sandro Rampoldi.

Sandro si era tenuto per ultimo. Segno di ripugnanza. E la sua bella faccia abbronzata, dai lineamenti severi e composti, rivelava una vaga inquietudine: segno che la battaglia interna era fiera.

Queste sommarie osservazioni bastarono al confessore per giudicare che, senza la suggestione dell'abitudine, senza il timore dello scandalo, quell'uomo—che era sempre stato religioso—sarebbe fuggito di chiesa, o non vi sarebbe neppure entrato.

Ben presto, anche il bel conquistatore se ne andò assolto.

Serio e imponente nel suo portamento d'antico soldato, pur non riuscendo a vincere un leggero tremito di tutte le membra, il cavallante di Val Mis'cia andò a inginocchiarsi ai piedi del confessore.

Aveva giurato alla Virginia di non dir nulla. All'altro curato l'aveva detto; ma quello, un vecchio buontempone, si era accontentato di strapazzarlo un poco. Con don Giorgio era un altro paio di maniche. Chi sa che cosa gli avrebbe imposto, lui che proteggeva le Scaramelli!

—Quanto a me—concludeva la Virginia—non l'ho mai confessata questa cosa e non la confesserò... Mancherebbe!...

Ma al momento di commettere quell'atto così inaudito per lui, nel convincimento del sacrilegio, tutti gli scrupoli della sua anima religiosa e superstiziosa assalivano il povero cavallante.

E quando don Giorgio lo accusò severamente di essere un cattivo marito; di avere ridotta la sua povera sposa, magra e pallida, da quel pezzo di donna che era; quando gli fece intendere che se Maria moriva, egli sarebbe stato la causa di quella morte, e avrebbe gravata l'anima sua di un assassinio oltre che di tutto il resto, Sandro non potè reggere. Dimenticò la promessa fatta alla Virginia, e, commosso, tremante, sopraffatto da una suprema angoscia, confessò tutto, quasi felice di togliersi quel peso dalla coscienza, colto da un desiderio nuovo, impensato, che il prete lo aiutasse ad uscire da quella situazione dolorosa, tra la moglie che si struggeva nella gelosia, l'amante che lo dominava con la sua felina voluttà e il fratello che poteva scoprirlo da un giorno all'altro.

Dal fondo della chiesa intanto, Maria e Cristina volgevano gli occhi ansiosi dalla parte della sagrestia. Non vedevano altro che lo schienale del seggiolone occupato dal curato, e di quando in quando, in grazia di qualche movimento, una metà del suo viso. Pure, dacchè tutti gli uomini erano venuti fuori, e il solo Sandro non appariva, esse indovinavano che l'ultimo penitente era lui. E il cuore di Maria picchiava e picchiava come se avesse voluto uscirle dal petto.

Nel banco vicino, la Virginia pareva assorta in fervente preghiera. Il viso candido, i lineamenti dolci, l'espressione calma, lo sguardo sereno, manifestavano a primo aspetto una coscienza tranquilla, un'anima senza peccato.

Le due sorelle la guardavano di tratto in tratto con una specie di terrore, spaventate da quella ipocrisia. E lei pure le guardava di sottecchi, e nell'armoniosa dolcezza del viso bianco di Madonna, guizzava un lampo d'odio, e l'occhio sereno si appannava nel segreto timore.

Ma la confessione di Sandro non finiva mai.

Già i chierici intenti alle ultime decorazioni del Sepolcro, avevano compiuta l'opera loro; già tutto era pronto per la deposizione allegorica del sacro corpo: i lumini, accesi; i fiori, disposti in bell'ordine. Già le donne ammiravano.

Sonava il terzo segno della messa grande. I preti erano pronti; i turiboli, pieni d'incenso; l'altare maggiore, parato. E ancora don Giorgio non aveva finito di confessare il cavallante.

Che ansia nel cuore delle due rivali, che spasimo di speranza, di paura, di odio.

Maria pregava con uno slancio di anima liberata che si sente salire. La speranza era tutta per lei; la speranza la portava in alto.

Virginia, sempre più pallida, fissava la cognata con gli occhi ardenti. Gliela volevano fare dunque, gliela volevano fare? Codeste vipere di codeste Scaramelli si erano messe d'accordo col prete per rubarle l'amante, per calpestarla?... E quel vigliacco di Sandro aveva confessato?...

Finalmente don Giorgio alzò la mano per benedire e mandare in pace anche quell'ultimo penitente. La vittoria era stata completa: Sandro aveva promesso tutto. Ma don Giorgio sapeva troppo bene che se non lo faceva spartire dal fratello, il più presto possibile, quelle buone promesse sarebbero volate via come il vento; perciò non si rallegrava che a metà. Egli si levò finalmente da quella sedia; si tolse la cotta e la stola, e indossò il camice bianco e i paramenti sfarzosi della messa solenne.

L'organista, stanco di aspettare, intonò il solito pezzo della Gazza ladra, con grande rinforzo di pedali, e la voce fessa del vecchio istrumento empì la navata.

La messa uscì. Uscirono i turiferari squassando i turiboli accesi.

Cristina vide la bella figura di don Giorgio salire all'altare, in mezzo a una nuvola odorante, e il suo cuore balzò, e i suoi occhi non si staccarono più dalla superba apparizione. Erano quelli i momenti luminosi, inebrianti dell'amor suo. Per una serie di sensazioni acute, e non analizzate nè analizzabili, ella confondeva in una gioia suprema, la commozione di femmina innamorata e l'estasi di un'anima istintivamente mistica: la tenerezza e il profondo rispetto: il desiderio e l'ammirazione: l'uomo agognato e l'uomo-dio.

Pallido, ma sempre calmo e diritto, anche Sandro Rampoldi uscì finalmente dalla sagrestia, e le due donne che l'aspettavano con tanta passione, lo fissarono, ansiose.

Egli non guardò che la moglie, e le sorrise.

La Virginia vide e comprese e serrò i denti per non scattare. Poi, domata la prima vertigine, si voltò verso la cognata e i suoi occhi sfavillanti dissero chiaramente:

—Non ti rallegrare! Mi vendicherò.

CAPITOLO V. Zappando.

Giugno, il mese più laborioso per la gente di campagna, recava un caldo precoce, eccessivo, in Val Mis'cia, quell'anno. Il sole investiva tutta la pianura da mattina a sera, senza il refrigerio di un acquazzone.

Le donne zappavano il grano turco: o erano a mondare il riso con l'acqua fino al ginocchio, curve, le mani nell'acqua per strappare le erbacce che crescevano insieme alle pianticelle del riso: o voltavano il fieno: o rincalzavano il grano turco nei campi finiti di zappare.

Con l'intervento di don Giorgio, Sandro Rampoldi aveva trovato da collocarsi alla Cascina Grande. Così i due fratelli si erano spartiti, in mezzo ai lamenti e alle recriminazioni di Pietro e della Virginia. Ed ora, siccome Pietro non poteva fare tutto il lavoro da sè, e voleva spendere in salari il meno possibile, la bella delicatina non poteva più stare in casa e fare la signora, ma doveva zappare come le altre.

Tutti parlavano di queste vicende della bella invidiata. E chi cercava di consolarla, chi la aizzava; i più—indifferenti e maligni—la tiravano sul discorso della cognata per il gusto di sentirla menar la lingua.

Un sabato, stanca già dal lavoro di una settimana, essendo nelle ore più calde della giornata, che l'aria pareva fuoco, ella gettò la zappa, e asciugandosi il sudore esclamò quasi con le lagrime:

—È una vita da bestie!... Io non posso, non posso...

Sette o otto donne, pure incendiate da quelle vampe, che zappavano nel campo vicino, alzarono il capo, e talune sorrisero ironicamente.

—È meglio stare sedute all'ombra che zappare al sole!—mormorò la vecchia Meroni, sempre più secca e gialla, mentre posava avidamente—ciò che del resto facevano tutte, cercando l'unico refrigerio possibile—i piedi nudi, brucenti, sulla parte umida e fresca di una zolla appena rivoltata.

Fu una risataccia, poichè tutte compresero il sarcasmo. Soltanto Lucia, la giovinetta pallida dal viso rigonfio, che era più vicina al campo della Virginia, le domandò in aria di compassione:

—Siete molto stanca?...

—Non ne posso più!... Mi pare di morire!—sospirò la disgraziata che non c'era avvezza. E si buttò a terra fra le pianticelle ancora basse del melgone, cercando un filo d'ombra.

Le zappatrici, indurite al lavoro, scrollarono le spalle, sprezzanti; e le sette o otto zappe rialzate con nuova lena, ricaddero sulla crosta arida della terra, spezzandola vigorosamente.

—O Cristina!—gridò la Meroni che ce l'aveva sempre un po' su con le Scaramelli.—Se ci date dentro a quel modo, addio melgone, taglierete tutte le piante! Guardate, avete intaccata una radice!...

—Poco male! Vorrei gli si sciupasse tutto a quel cane...

Ella s'interruppe. Le sue compagne, che pocanzi ridevano, si erano voltate dall'altra parte, e le zappe brandite tornavano a fendere il suolo con lo stesso vigore, ma con maggiore precauzione. E ancora i piedi nudi, neri, tormentati, cercavano istintivamente la parte più umida e fresca delle zolle rimosse.

Il padrone, entrato nel campo dalla parte di dietro vide la pianticella rovinata dalla Cristina, udì le sue parole. Con voce irata tuonò:

—Scaramelli, giù quella zappa! E vammi fuori dei piedi... tanto, tu hai voglia... d'altro che di lavorare!...

La Cristina si drizzò di scatto. Il suo corpo di antica driade si disegnò superbamente sul fondo luminoso. Un istante, ella fissò gli occhi azzurri, scintillanti, nel viso adusto, non vecchio, non brutto, del padrone che pure la assava. E le braccia robuste, poderose e eleganti insieme, fecero l'atto di scaraventare la zappa alla testa di quell'uomo.

—Madonna Santissima! Lo ammazza!... Lo ammazza!...

La Virginia, balzata in piedi, guardava la scena terribile coi grandi occhi raggianti di perfida gioia.

Ma nessuno tentò d'intromettersi.

Nè il padrone si mosse, rimanendo quasi impassibile sotto la minaccia e continuando a sfidare la giovine con lo sguardo pieno di collera e di lascivia.

Per fortuna un miglior consiglio prevalse nell'animo di Cristina. Una risata che parve un singhiozzo le uscì dalla gola convulsamente: allentò le braccia e lasciò cadere la zappa. Poi si voltò e si allontanò a piccoli passi misurati, con la massima calma.

Allorchè il padrone pure si fu allontanato, la Virginia si mise a gridare dal suo campo:

—Sudiciona! sudiciona!... Ora la va dal curato. Ci penserà lui a mantenerla. Sudiciona!... Ah! so soltanto io che roba sono queste Scaramelli della malora!...

Ma poichè le compagne ancora troppo atterrite, non la incoraggiavano nelle sue imprecazioni, e quella che le era più vicina si rimetteva a zappare voltandole le spalle, la Virginia comprese, una volta di più, che non spirava buon vento per lei nel paese e che le contadine, ben lontane dal compiangerla, si godevano di vederla sgobbare e la canzonavano.

Senza altro dire, avvolgendole tutte nella stessa muta imprecazione, ella raccolse la zappa dimenticata in un solco, e si rimise alla sua fatica cercando di sbrigare alla peggio l'odiato lavoro.

—Il campo dei Rampoldi non renderà più come gli altri anni, ora che l'asino ha rotto la cavezza e se l'è svignata!—mormorava intanto la Meroni facendo sghignazzare le sue vicine.

CAPITOLO VI. Vinto!

Furente da prima e il cuore esulcerato per l'offesa patita, ma poi sempre meno triste e più padrona di sè, man mano che andava allontanandosi, la Cristina camminava traverso i campi e i prati, alla volta di Gel. Passò al guado la Vergonza quasi asciutta e quando fu sulla strada maestra incontrò il dottore che veniva da Casorate col suo legnetto per visitare la moglie del fittabile di Val Mis'cia. Egli fermò il cavallo.

—Ehi, Scaramelli, è bassa l'acqua?

—Sì, signor dottore...

—Sei malata?

Ella arrossì lievemente.

—No... sto bene...

—Allora è l'amore!...

E lanciò una facezia grossolana, tentando di pizzicare le belle braccia sode della contadina. Ma ella fece a tempo a ritrarsi.

—Scusa sai, non mi ricordavo che con te non si scherza. Ho visto la tua sorella alla Cascina Grande; non pare più lei. È un pezzo che non la vedi?

—Sarà un mese e mezzo...

—Va a trovarla, vedrai come ingrassa; e a dicembre ti fa zia!...

Mentre parlava, egli aveva gettato il mozzicone del sigaro e ne accendeva uno nuovo, mostrando i denti bianchi, la mano lunga, affilata, da signore. Era un bel giovinotto, ai primi esordi della carriera, e si annoiava mortalmente di quella condotta.

—Comanda altro?—domandò la Cristina seccata.

—No... ti dispiace eh, di star qui un momento... Maledetto paese! Tutte brutte, e le poche belle, scontrose!... Vai a Gel?—Ella impallidì. Andava a Gel, sì; ma non ci aveva pensato, e a sentirselo dire tremava tutta.

—Andrai alla cura... Canaglie di preti, tutte per loro!—brontolò il dottore masticando il virginia; poi ad alta voce:—Fammi il piacere, Cristina, passa da don Giorgio e digli che quei tali libri glieli porterò quest'altra settimana.

—Si signore! Sarà servito.

E s'allontanò in fretta, seguita dallo sguardo ironico del giovine medico, il quale attribuiva a don Giorgio le conquiste che a lui non riescivano.

Quando le ruote del calessino si rimisero in moto, la Cristina si arrestò per riflettere. Andava dal curato?... Certo; non poteva avere altra meta. Ma s'ei la scacciava? Dalla Pasqua in poi le stava più sostenuto; e sebbene a volte si fermasse a contemplarla, evitava di parlarle. Che non l'amasse più?... Non le pareva possibile. In ogni modo voleva averne il cuore netto e se la respingeva, se proprio non voleva saperne di lei... ebbene, l'agente d'emigrazione aspettava ancora la sua risposta!... Sarebbe partita... partita per quel paese tanto lontano che ci si metteva dei mesi ad arrivare; e sarebbe morta di crepacuore, o rimasta laggiù per sempre.

Con questa risoluzione si rimise a camminare, affrettando il passo, quasi senza accorgersi, come sospinta dall'ansia indomita.

Arrivò alla cura trafelata, gli occhi sfavillanti per l'interna concitazione, il volto vivamente colorito.

Tirò la cordicella che pendeva dal buco della serratura ed entrò come il solito chiedendo:

—È permesso?...

Nessuno le rispose. La casa era vuota; don Giorgio zappava l'orto e aveva mandato il vecchio a Casorate a vendere quei pochi bozzoli.

Cristina andò dritta in cucina e si guardò intorno. La pentola bollicchiava sul fornelletto, ma la cucina era in un disordine spaventevole. Piatti sporchi qua e là, avanzi di spazzatura lungo le pareti e perfin nel mezzo; ragni, attaccati a lunghi fili pendenti dal soffitto, danzanti nel vuoto.

Crollò tristamente il capo. Il vecchio non pensava più che a ubbriacarsi!... E don Giorgio non aveva voluto chiamarla; e lei non aveva osato presentarsi... per tutti quei giorni!... Povera casa!...

Ma adesso...

Ella ebbe uno scoppio interno di passione e un brivido nella schiena che la fece sussultare.

Un pensiero nitido, luminoso le era passato nella mente come un baleno: da ora in poi la casa era sua; ci avrebbe pensato lei a tenerla come si deve; e se il vecchio non le obbediva, peggio per lui!...

Stava per uscire dalla cucina e andare in cerca del curato, su, al primo piano, allorchè le parve di averlo visto dalla porta socchiusa che dalla cucina stessa metteva nell'orto. Fece un passo indietro e guardò meglio.

Era lui veramente. La lunga veste nera sacerdotale, gettata negligentemente traverso a un ramo di salice, metteva una nota lugubre nella festività luminosa dell'orticello tutto verde e fiorito. In compenso, nulla di lugubre aveva la maschia figura di quel giovine. La camicia bianchissima, di tela fine, aperta sul petto, con le maniche rimboccate, e i lunghi calzoni neri serrati alla cintola, come egli usava nelle ore di lavoro, gli davano un aria ardita e procace, che nulla aveva del prete. In quel momento egli aveva deposto la zappa e si riposava mondando alcune piante. Voltava le spalle alla casa. La sua testa bruna si ergeva superbamente sulle ampie spalle, e tutto l'atteggiamento della persona spirava la soddisfazione di una forza esuberante cui è finalmente concesso un momento di espansione.

Sempre quando lavorava, all'aperto, dimenticando il suo stato di prete, don Giorgio si sentiva rinascere. Il cervello, dolcemente riposato nell'operosità muscolare, cessava di tormentarlo; ed egli apriva il cuore alle benefiche sensazioni, libero, calmo: la vita gli appariva facile e bella: l'amore, un bene supremo, non contrastato da rimorsi, nè da paure, e il terribile problema, che la sua carne poneva ferocemente al suo spirito, preventivamente sciolto dalla eterna Natura.

La Cristina lo vedeva di profilo quand'ei voltava la testa nei movimenti del braccio. Non poteva saziarsi dal contemplarlo. Com'era diverso da quando lo vedeva in chiesa!... Là, nei paramenti solenni, nel nimbo dell'incenso, le pareva un essere superiore, fantastico, un semidio; lo adorava; si prosternava dinanzi a lui: ma non avrebbe mai osato dirgli apertamente quanto l'amava. Un momento le pareva di salire con lui, nella gloria del cielo; il momento appresso si sentiva respinta da una forza ineluttabile, e ricadeva nella polvere, misera creatura che aveva osato alzare gli occhi a un amore sacrilego.

Ma allorchè, di tratto in tratto, lo vedeva così, senza la veste nera, in tutto lo splendore della sua maschia bellezza, i timori svanivano. Non più semidio, ma uomo, vero uomo, egli non aveva nulla di straordinario, non la opprimeva con una superiorità troppo alta. Era un bel giovane, forte come lei: e come lei lavorava la terra. Pure diverso dagli altri anche in quel momento! Ella sentiva che nulla poteva abbassarlo, e il profondo rispetto ch'egli sempre le ispirava, si fondeva in una ineffabile tenerezza.

Intanto che ella rimaneva lì a fantasticare, i minuti passavano. Si riscosse a questo pensiero.

Il vecchio ubbriacone—suo padre—poteva ritornar presto, e quell'istante perduto non si sarebbe forse ripresentato mai più... Mai più ella avrebbe riavuto tanto coraggio... Rapidamente ella prese una risoluzione e adagio adagio uscì fuori nell'orto. A piccoli passi leggieri s'insinuò nella viottola, passò dietro le spalle del giovane; raccattò la zappa abbandonata da lui e si mise a zappare.

Don Giorgio avvertì subito il rumore del ferro che fendeva le zolle, e pensò:

—Quell'imbecille di Marco crede d'ingannarmi; quando lo rimprovererò di essere tornato tardi, mi dirà: eh! signor curato è un'ora che son qui a zappare! lei era assorto come il solito e non mi ha sentito!

E sorrise tra sè dell'astuzia grossolana di quell'incorreggibile perdigiornate.

Ma con che vigore zappava!... O dove era andato a pescare tanta forza, quel lumacone?!

Si voltò; vide la Cristina e restò lì interdetto.

—Cristina!...—mormorò, dopo alcuni istanti con la voce rotta dalla intensa commozione.

—Cristina!...

Ella udì e si drizzò, interrompendo il lavoro, e guardò il suo signore con ineffabile e ansiosa tenerezza.

Il Castellani comprese che il momento fatale lungamente temuto e pazzamente desiderato, era giunto, e che non stava più in potere suo di sfuggirlo, nè di allontanarlo.

Con questa convinzione dell'inevitabile, che agisce, a volte, come una potenza ipnotica dell'io su se stesso e trascina e conquide le creature impressionabili, quasi quanto la più fiera passione, egli rinunziò fino da quel momento a qualunque idea di resistenza.

—Sarà quello che sarà—pensò con intima gioia—Io non l'ho chiamata; è il destino che me la manda!...

E nel frattempo se la divorava con gli occhi, che non gli era parsa mai tanto bella.

—Come siete qui, Cristina? Non eravate a lavorare laggiù nei campi del fittabile di Val Mis'cia? Mi parve di avervi vista questa mattina con la zappa sulla spalla, avviarvi insieme alle altre...

Ella pensò che s'ei l'avea vista, voleva dire che cercava di vederla, senza farsi scorgere, mentre apparentemente la fuggiva; e n'ebbe un senso di gaudio che le fece coraggio.

—Ci sono andata, è vero; ma quel ladro mi ha cacciata!...

—Cacciata?!

—Sì. Perchè gli ho sciupata una pianta di melgone, zappando troppo forte!...

—Per questo soltanto?... Egli vi voleva bene, hanno detto...

La Cristina arrossì come di una offesa.

—Bene?!... Oh!... Voleva fare di me come di tante altre... e perchè io non ho voluto s'è messo a perseguitarmi... Vigliacco!...

Don Giorgio sussultò. Dopo un momento riprese in tono di scherzo:

—Se era innamorato, povero diavolo!... Non ti piaceva?... Eppure è un bell'uomo... ricco...—E dicendo ciò la fissava con intenzione.

—Oh! Don Giorgio!... mi crede così, lei!... Crede...

Non potè continuare. La commozione lungamente frenata, la fece scoppiare in singhiozzi.

Provava un'amarezza che la soffocava; un doloroso pentimento. Le pareva che don Giorgio non l'amasse più e non volesse più saperne di lei... E lei s'era quasi offerta!... Che vergogna!...

Egli invece la guardava piangere, con intima gioia. Quelle lagrime che vedeva correre sulle guancie di lei scendevano fino in fondo al suo proprio cuore, calmando soavemente l'atroce febbre da cui era arso.

Finita la lotta! Aveva tentato l'impossibile. Ora era vinto... vinto e felice.

Le si accostò: la prese per le braccia, l'attirò a sè.

—Non piangere, Cristina!... Non ho voluto offenderti, sai?... Ti amo! Sì—è male... ma ti amo... È tanto tempo che mi bruci il sangue... che ti sogno... che ti voglio... E tu pure mi ami... lo so, lo so, sai...

Parlava concitato, con la voce soffocata: il petto anelante si alzava e si abbassava con un movimento rapido, poderoso.

—Oh! Cristina! non so quale destino, se buono o perfido, t'abbia mandata qui a questa ora; ma dacchè sei venuta, dacchè Dio l'ha permesso, non te ne andrai più. Sarai mia, mia per tutta la vita, qualunque cosa accada!...

L'aveva trascinata dentro, nella casa, e la serrava tra le sue braccia, sull'ampio petto, dove ella cercava un rifugio, nascondendo la faccia, confusa, timida, dopo tanto ardimento.

—Andiamo di sopra—le mormorò.—Vieni a vedere le mie stanzette... il nostro appartamento... Ci si sta meglio che qui, sai...

Ma ella non poteva neppure fare un passo; le forze le mancavano, si sentiva cadere...

—Allora ti porto!... Sì, ti voglio portare, in trionfo... mia... mia!...

E l'afferrò risolutamente e l'alzò sulle braccia poderose, portandola come un oggetto prezioso con una delicatezza di mamma, su per la breve scala nelle piccole camere silenziose, dove egli l'aveva tanto desiderata, invocata, posseduta... nel delirio delle allucinazioni.

Il sole declinava dietro alle persiane socchiuse; il mistero e la penombra rendevano più sicuro il nido ai due amanti.

Giù nell'orto ancora smagliante di luce, la veste sacerdotale dimenticata sul ramo del salice, allungava sempre più la sua ombra funeraria, simbolo pauroso di schiavitù, di menzogna, di morte.

E dalla viottola, al di là del muro di cinta, il fittabile che aveva scacciata la Cristina, guardava ghignando quel cencio nero e accennava alle finestre socchiuse della casetta con un gesto osceno di scherno e d'imprecazione.

CAPITOLO VII. Alla Cascina Grande.

Erano i giorni lieti della raccolta autunnale; tanto più lieti chè il formentone abbondava.

La sera, dopo cena, uomini e donne si mettevano intorno all'aia e sotto la loggia della casa padronale, formando un largo circolo; e ognuno aveva il suo mucchio di formentone davanti a sè, e l'uncino di ferro in mano per scartocciare le pannocchie.

Maria Scaramelli, seduta sotto il portico presso alla lanternina attaccata a un chiodo—unico lume per tutti—faceva andare l'uncino con tanta rapidità e destrezza che le pannocchie mondate si ammucchiavano alla sua sinistra come per incanto; e ad ogni poco ella doveva spingere in là, con le braccia e le gambe, i cartocci vuoti che le si ammassavano intorno.

Le altre donne le dicevano sorridendo senza invidia:

—Nessuna vi può superare voi, Maria; siete la più svelta e non vi stancate mai; neppure a essere in quello stato!

Ella scrollava il capo con un fare dolce di contentezza; ma non rispondeva. Non le piaceva discorrere di quella grande speranza concessa finalmente al suo intimo desiderio. La sua povera anima abituata alle asprezze del destino non era forse più suscettibile della confidente baldanza che sostiene i fortunati anche in mezzo ai pericoli, e spesso li manda illesi.

Lei temeva sempre. Dopo tanti tormenti, dopo tante angoscie, la pace di cui godeva e l'orizzonte sereno che le si apriva dinanzi, la rendevano timida, superstiziosa. Le pareva impossibile che dovesse durare: era tanto avvezza a piangere!

Epperò chiudeva ogni cosa in sè, come nel passato; gelosa della gioia come del dolore.

E non si lagnava mai delle piccole contrarietà; le dissimulava piuttosto, perfino con se stessa.

Se il cavallante stava fuori più del bisogno, se arrivava un tantino brillo—lui che negli anni addietro non andava mai all'osteria—ella faceva le viste di non accorgersene e non gli chiedeva mai dov'era stato nè cosa aveva fatto. Temeva troppo di vedere quella fronte oscurarsi, quegli occhi, ora buoni e ridenti, ridiventare freddi, arcigni come nel passato. Del resto, dacchè aspettava il bambino, non si accorgeva quasi neppure se il marito tardava; era tanto occupata, aveva tante piccole cose da preparare.

Anche quella sera Sandro era fuori. Attaccato il cavallo se n'era andato via: per ordine del padrone—diceva.

Ma sarebbe ritornato, e presto. Lei intanto lavorava. Lavorava e cantava. La delicata poesia che ella portava inconsciamente nell'anima, e il bisogno indistinto di una effusione e di una tenerezza, di cui veramente non conosceva neppure il linguaggio, si esalavano in un rozzo canto contadinesco.

Cominciava da sola.

La sua voce morbida, impregnata di tristezza si elevava dolcemente nell'aria molle della serata autunnale.

I contadini l'ascoltavano un istante in silenzio, con una sorta di raccoglimento; poi, alla prima cadenza, le donne, trascinate, la seguivano; e dopo poche battute, tutto a un tratto, quasi selvaggiamente, prorompevano le voci forti e ben timbrate dei maschi.

Il coro si formava. Un coro assai primitivo, senza alcuna sapienza, senza varietà di toni; ma poderoso nella sua malinconica monotonia, e non privo certo di una cotale semplice e solenne bellezza. Di tratto in tratto sembrava come se da quei petti rozzi, da quei cervelli incapaci di un pensiero sintetico, si fosse sprigionato il più profondo sentimento della insopportabile miseria—il conscio orrore della troppo lunga ingiustizia. Erano schianti di angoscia, gridi di rivolta, appelli disperati. E quelli che nel mezzo dell'aia, battevano col coreggiato le pannocchie mondate per distaccarne il grano, seguivano il ritmo con impeto crescente, formando uno strano, formidabile accompagnamento. Pareva il bosco, allorchè urla e scoppia, e si torce imprecando, sotto la sferza odiata del vento.

Ma pochi istanti appresso, le braccia stanche dei battitori si allentavano, e il coro rientrava, a poco a poco, nella solita nenia semplicemente malinconica.

Le faccie tranquille, le mani operose non tradivano alcuna commozione insolita.

Che cosa era stato?

Nulla. Uno sfavillamento imponderabile del sotterraneo braciere.

Uno scatto istintivo del sentimento umano conculcato.

Ma la materia infiammabile non era pronta. Ma i poveri contadini, depressi dall'ignoranza e dalla miseria, non potevano comprendere così subito il misterioso appello.

* * *

Il cielo, ognora più chiaro e limpido annunziava il sorgere della luna. Levati di mezzo i torsoli delle pannocchie—alcuni dei quali serbando ancora una parte dei chicchi venivano sottoposti al ferro da sgranare—i contadini procedevano a ben distendere il grano sull'aia servendosi de' rastrelli: altri distendevano pure i cartocci che ben ripuliti e completamente secchi avrebbero servito pei sacconi de' letti o per uso di strame alle bestie.

Maria ascoltava ansiosamente il rumore di una carrettella che si avvicinava. Certo era il suo Sandro.

Ma prima che la carrettella arrivasse al cancello, un uomo vecchio, sbilenco, in abiti metà da paesano, metà da scaccino, entrò nella corte e si accostò alla giovine donna gesticolando e borbottando forte. Era suo padre: Marco Scaramelli.

Ella sentì come una ferita al cuore. Oh! qualche cosa di brutto era avvenuto a Gel, alla Cura. Quella Cristina!... Non ebbe il tempo di interrogare.

—Mi hanno cacciato!—gridava Marco.—Mi hanno cacciato, que' due sudicioni, quei due... levando il sacro di lui, que' due maiali!...

I contadini curiosi, pronti a malignare, facevano crocchio intorno all'ubbriacone che gridava come un energumeno. Tutti sapevano di chi parlava; chè gli amori del giovine prete con la bella Cristina erano soggetto di ciarle per molte miglia all'ingiro.

Maria si sentiva morire.

—Sta' zitto; ti prego, sta' zitto!—badava a dire al padre.

Ma questi non le dava retta.

—Cacciato! Messo in strada co' miei cenci!—E accennava a un fagotto, che gli pendeva dal braccio mancino, e a cui Maria non aveva badato alla prima.

—Vi ha cacciato perchè non avete voluto smettere di ubbriacarvi—disse un certo Bernardo, uomo serio cui non piacevano i pettegolezzi.—Ha ragione il signor Curato; non avete a rifarvela che con voi stesso.

Come accade in casi simili, tutti si schierarono dalla parte di Bernardo, e Marco si sentì deriso.

Ma non si diede per vinto.

—Bugie! Bugie!... Non è vero niente. Se fosse stato per il vino, tanto, dovrebbe avermi cacciato da un bel pochino, dovrebbe!... Ne facevo del bere l'anno passato! Dio! se ne facevo del bere! Miracolo se non gli ho asciugata la cantina. Ma allora non mi cacciava, perchè in grazia che c'ero io alla Cura, la ci capitava di tratto in tratto anche la Cristina!... Potevo ubbriacarmi allora!...

Le donne presenti scoppiarono in una risata. Egli prese coraggio e continuò.

Già! lo cacciava adesso il signor Curato; adesso si accorgeva che era un ubbriacone; adesso, perchè la ganza ce l'aveva in casa e non voleva testimoni! E lei peggio di lui, quella...! Metteva suo padre in sulla strada, invece di assicurargli il pane, già che la si era data a quel bel mestiere, quella...!—E giù parolaccie e bestemmie, snocciolate come avemarie.

Chi rideva ancora e chi brontolava; tutti però l'ascoltavano come affascinati da una curiosità malsana.

Egli era spaventevole e grottesco. Secco come una mummia, traballante sulle gambe, con quegli abiti che gli cascavano da tutte le parti: col viso bruciato dall'alcool, gli occhi di triglia morta. Metteva schifo e paura.

Maria non tentava più di farlo tacere. Capiva che era impossibile. Ma quando vide Sandro si sentì riavere. Corse a lui e gli raccontò tutto in poche parole.

Sandro, sempre bell'uomo, sempre svelto e imponente, si avanzò verso il vecchio e guardandolo bene in faccia, con fare asciutto, ma senza collera disse:

—Noi andiamo a letto; abbiamo lavorato, siamo stanchi; e io devo chiudere il cancello; scusate, veh!... Ritornerete un altro giorno, a un'ora più comoda...—E mentre parlava cercava di spingere il vecchio fuori del cortile.

—Ah! ah! ah! ah! ah!—sghignazzò Marco Scaramelli affrontando il genero e facendolo rinculare verso il centro del cortile, con una forza che nessuno si sarebbe aspettata dalla parte di un vecchio così male in gamba.—Qui voglio restare!—esclamò.—Qui. Tu mi devi mantenere. Io non ho altri.

Uscito dal primo stupore di quella inaspettata reazione, Sandro si drizzò tutto di un pezzo, e con un semplice spintone ricacciò quel petulante fino all'uscita.

La zuffa impari divenne feroce.

Gli astanti cercavano di mettersi di mezzo per distaccare i due furibondi; e Maria li supplicava piangendo, che la finissero.

Le altre donne strillavano, al solito, di paura.

Già il vecchio soccombeva. Ma all'ultimo istante, quando si sentì costretto a volgere in fuga, si mise a gridare con quanto fiato aveva in corpo:

—Va bene! tu mi scacci. Ma io andrò da tuo fratello e gli dirò che ti ho visto con la sua donna, e gli dirò dove e quando!...

Il cavallante esasperato assestò al suo suocero un calcio tale che lo fece ruzzolare in mezzo alla ghiaia, al di là del cancello.

CAPITOLO VIII. Nuove lotte.

Pallido, la fronte corrugata, gli occhi stanchi, don Giorgio Castellani errava per la campagna, come un'anima in pena.

Non parlava con nessuno, o pronunciava soltanto le parole necessarie.

In casa, solo con Cristina, si forzava a parere calmo; le insegnava a leggere e a scrivere per ingannare il tempo e se stesso. Poi si chiudeva nella sua camera col pretesto di un urgente lavoro. Una terribile battaglia si combatteva nell'animo suo.

Dopo quel primo giorno di delirio, in cui l'umanità aveva trionfato completamente dei propositi e dei pensieri del prete, egli era ritornato su' suoi passi, tormentato da mille dubbi, da mille angoscie.

Così, mentre i contadini l'accusavano d'avere cacciato Marco per starsene più libero con la sua amante, egli avrebbe potuto spalancare usci e finestre e mettere tutta la propria esistenza, sotto agli occhi indagatori del pubblico.

Non era uomo da crogiolarsi nelle comode transazioni dei costumi e della religione. Ardente, entusiasta, forte e semplice, non poteva trarsi d'impiccio con le solite scappatoie dei frolli, degli ipocriti. Per lui erano le grandi e fatali uscite: le follìe, mai le viltà. Non faceva teoriche; sentiva così, forse senza ben rendersene conto. Natura energica, esaltata dal misticismo della prima educazione.

Insieme a ciò gentiluomo fino allo scrupolo, gentiluomo nell'intimo senso della parola; e recalcitrante a tutte le sottigliezze dello spirito gesuitico fin dalla prima età. I suoi superiori che lo conoscevano, avevano di lui una grande stima; ma in generale opinavano che non avrebbe mai fatto carriera, e che fosse meglio tenerlo in campagna.

Un suo vecchio amico, impiegato alla Curia vescovile di Pavia, diceva: Castellani non sa il valore della parola: distinguo: non può fare strada.

Era tutto di un pezzo.

Se fosse scoppiata una guerra patriottica, avrebbe preso il fucile; e lo diceva; poichè nessuno l'avrebbe potuto convincere che i suoi doveri di prete escludessero i suoi doveri di cittadino.

Col medesimo criterio giudicava i suoi doveri verso Cristina. Pure amandola appassionatamente, se ella non fosse stata quella che era—una creatura, cioè, tutta devota a lui e purissima—egli avrebbe forse troncato il dolce vincolo, sacrificando l'amore al dovere del proprio stato. Poichè—non poteva nasconderlo—passato il primo acciecamento della passione, terribile in lui, il rimorso lo schiacciava. E non tanto per il peccato commesso: egli sapeva che Dio perdona; ma ben più per il bivio crudele, in cui si era messo, di dover abbandonare la donna amata, o mancare all'impegno preso davanti a Dio e davanti agli uomini. Sapeva che molti preti, messi nelle identiche circostanze, se la cavavano con la massima disinvoltura.

C'era una vittima di più nel mondo: una donna gettata nell'infamia, o nella miseria, o nella disperazione; ma il prete si salvava.

Dio perdona.

Quale spirito maligno gli suggeriva che il perdono divino non basta a riparare il male reale fatto ad un nostro simile? Era la sua squisita delicatezza di gentiluomo? Il suo attaccamento all'onore mondano?... La passione, forse, che si mascherava così?... O un intendimento più alto, più nobile della religione e del dovere stesso?...

Nei primi giorni di sbalordimento, dopo la disfatta, il suo cervello preso da vertigine, aveva immaginata una via di salvezza, irta di triboli, ma splendida di poesia e di bellezza.

La giovine che gli si era abbandonata, non aveva più che lui al mondo; egli era responsabile di quell'anima, di quella vita; nè la coscienza gli permetteva di scemare con sofismi tale responsabilità: dunque, come egli stesso aveva detto quel giorno, essa doveva rimanere con lui, nella sua casa, unico asilo per lei. Su questo, nulla era da mutare. Ma... non poteva quella convivenza essere senza peccato, santa, ideale?... Non potevano, libato il calice inebbriante, colto il fiore divino dell'amore, vivere vicini in casta amicizia, amanti sublimi, martiri dell'idea?!...

Oh! il bel sogno!...

Ei l'accarezzò quel sogno: volle farne una realtà.

E la ragazza dei campi, la contadina ignorante, ineducata, intese questa bellezza ideale; e abbracciò con entusiasmo la mistica poesia del sacrifizio.

Ma dopo quattro mesi, quantunque non avesse mancato in alcun modo alle sue promesse, don Giorgio non credeva più di poterle mantenere in eterno. Una grande tristezza era in lui. Capiva d'essere stato eccessivamente presuntuoso, forse ipocrita, forse gesuita.

Il terribile dilemma si delineava sempre più chiaramente sotto ai suoi occhi; tanto più dopo che la Cristina aveva cacciato il vecchio incorreggibile, che si ubbriacava, rubava e li insultava nelle sue orgie. Nessuna via di accomodamento possibile ormai, nè di fronte alla coscienza, nè con le circostanze esteriori.

Abbandonare Cristina vigliaccamente, dopo di averla disonorata; gettarla in balìa ai suoi nemici, nella miseria, nella disperazione; o svestire quell'abito, spezzare il giuramento: spretarsi, insomma, e sposare Cristina. Non vedeva altra uscita da quel ginepraio.

Che schianto! che angoscia! che tormenti!

Egli avrebbe dovuto decidere prontamente. Si irritava con se stesso di quelle titubanze. Ma le sue forze vacillavano.

Ne conosceva parecchi dei preti ritornati laici. Quasi tutti uomini di ingegno: coscienze rette; ma quasi generalmente infelici. D'altra parte quelli ch'egli conosceva erano tutti scienziati positivisti, nei quali la fede era caduta a poco a poco sotto allo scalpello della investigazione. Avevano deposto l'abito come una maschera menzognera.

In tal caso, ciò doveva essere molto più facile. Per lui, credente, mistico in fondo, filosofo della vita per l'abitudine di osservare e di pensare, ma poco addentro nella scienza; per lui povero prete campagnuolo, ciò era terribilmente difficile.

A lui sarebbe bastato che i vescovi, riuniti in concilio, guidati da una mira ambiziosa, non avessero decretata la legge contro natura che vieta l'amore a tanti uomini. Ma la legge esisteva e tutti i colpiti si sottomettevano o fingevano di sottomettersi.

Prostrato ai piedi dell'altare, egli supplicava nelle lagrime il suo Iddio generoso a concedergli una ispirazione, un raggio di luce che gl'indicasse la vera strada.

Che cosa domandava infine? Di poter vivere da uomo onesto, senza ipocrisie, senza vergogna; e di non avere per questo la coscienza scissa, l'anima travagliata dagli angosciosi dubbi.

Ma Dio non l'ascoltava; irato, voltava la faccia dal supplicante.

A poco a poco, egli sentiva un gran freddo nel cuore, la coscienza si paralizzava: la preghiera stessa gli pareva senza senso; vuota la chiesa, lontano il nume. La sua fede illanguidita non era più che un miraggio, un fantasma. Poteva rinnegarla quando voleva. Ma neppure questo stato d'animo gli recava la pace desiderata, la serenità di giudizio, lo slancio del convincimento. Soffriva di sentirsi così: rimaneva prostrato, inerte. E poi, una vaga paura sorgeva dal fondo oscuro del cuore tormentato. Paura materiale, paura delle cose, paura, secondo lui, bassa, ma gelida, opprimente paura.

Rompere col passato: disdirsi dopo tanti anni; spezzare il giuramento; farsi vituperare dagli amici più cari; ed entrare solo, senza appoggi in una società nuova per lui, diffidente, cinica, nemica!

Che cosa avrebbe fatto?... A quale lavoro avrebbe consacrato la sua forza?... Dove avrebbe cercato un pane per sè e per Cristina?

Nella campagna?... In città?... Prete spretato! Vale a dire, un uomo che ha il coraggio di confessare: «È stato uno sbaglio: i principî che avevo abbracciati, non mi soddisfano più;» Oppure: «La superiorità che mi attribuivo era falsa: sono un debole uomo.» E ciò in mezzo ad uomini che si forzano a portare la maschera del leone, anche se la natura li ha forniti di un'anima da coniglio: in un mondo dove tutto si perdona, fuorchè il dire: «Ho sbagliato: cambio opinione.»

Certo qualcuno lo avrebbe compreso, compatito almeno: qualcuno gli avrebbe steso benevolmente la mano. Vere anime superiori esistevano nel mondo; aveva letto tanti libri dettati da un alto pensiero; scritti da uomini veramente liberi. Ma come presentarsi a quegli uomini?... Come cercarli nell'ingranaggio della vita quotidiana?... E se sbagliava?... Se l'uomo apparentemente liberale e superiore, a cui egli si sarebbe rivolto, avesse nudrito dei pregiudizi, o una di quelle ripugnanze ereditarie, invincibili, che fanno dire anche ad un uomo di buon senso: l'unto non si leva mai: il prete resta prete in eterno, e quello spretato lo è due volte?...

O se, pur trovando l'uomo ideale, fosse mancata in lui stesso la capacità di farsi comprendere? Se avesse destato delle diffidenze? Era tanto facile: un prete!... Che umiliazione! Che spasimi in tutto l'essere!...

Oh! maledetti coloro che l'avevano gettato fanciullo in un seminario, facendogli pagare a sì caro prezzo un'illusorio beneficio! Maledetti coloro che, svisando i suoi giovanili entusiasmi e le tenerezze vereconde della sua anima appassionata, lo avevano ingannato con la menzogna; e macchiato col nome bugiardo di vocazione, la eterna verità, il dischiudersi del fiore umano che istintivamente innalza verso il cielo i suoi primi effluvi!... Maledetti! Maledetti!

Solo, nella piccola chiesa piena d'ombre, gettato sui gradini dell'altare la faccia contro terra, egli imprecava e piangeva.

Una mattina un uomo fidato gli portò una lettera della Curia.

Ei l'aspettava in realtà quella lettera: eppure, toccandola, ebbe come una scossa elettrica. Riconobbe la calligrafia del vecchio prete suo amico, impiegato alla Cancelleria vescovile di Pavia.

—Ci siamo!—pensò con una specie di gioia amara. E subito dopo, come per una ispirazione segreta:

—Qui è la soluzione!

La lettera conteneva prima di tutto una chiamata del Vescovo: Ad audiendum verbum.

Poi una missiva confidenziale dell'amico impiegato.

Il buon uomo, esperto della vita, pratico di queste faccende, avvertiva il giovine che qualcosa di troppo azzardato era giunto agli orecchi dei superiori. La parola «scandalo» doveva essere stata pronunciata. Non glie ne facevano una colpa enorme, no, Dio santo! si sa, un prete giovine, e nella noia di quei paesi!... Comprendevano benissimo, compativano...

Ma lo scandalo dispiaceva a Monsignore. In questi tempi di incredulità, con tanti nemici della Chiesa, tutto diveniva pericolo, e le apparenze avevano una straordinaria importanza. Egli però poteva cavarsela con onore, anzi, a dirgliela in amicizia, quella vecchia amicizia ch'ei ben conosceva, destreggiandosi un poco, poteva trarre occasione per migliorare il suo stato, chiedendo un trasloco in paese più ricco; ciò che non gli sarebbe stato negato; purchè accorresse subito, mostrandosi pentito e dolente; e purchè si liberasse della pecorella. Levata di mezzo la pietra dello scandalo egli poteva giustificarsi con grande facilità. Molte cose si potevano mettere a carico della maldicenza della gente e della irreligione che infettava città e campagne.

Naturalmente l'amico non aveva neppure il sospetto che don Giorgio pensasse a resistere. Epperò nessun'altra esortazione; ma sempre quella, ripetuta, di far sparire la bella peccatrice, fosse pure con qualche sacrificio. E qui a guisa di suggello, un distico latino, molto elegante, il quale indicava che il reverendo era un intelligente cultore delle belle lettere, e, a tempo avanzato, un'amico indulgente delle belle peccatrici.

A mano a mano che andava leggendo questa curiosa lettera, una gran luce si faceva nell'anima di don Giorgio. L'ultimo velo cadeva; l'ultimo dubbio era vinto.

Uno strano sorriso gli errava sulle labbra, e nel petto virile rifioriva il coraggio.

Vinto! Ma questa volta era lui che vinceva. Gli occhi sfavillanti, la fronte eretta, andava incontro all'avvenire, conscio del proprio dovere, sicuro in se stesso.

CAPITOLO IX. La Cristina.

La ciarla correva di bocca in bocca, Marco Scaramelli era scomparso.

Morto. Morto certo.

Ma come? Quando?—Nessuno poteva rispondere con precisione.

Dopo la scenata alla Cascina Grande, doveva essere andato vagando qua e là per le campagne, cercando l'elemosina.

La mattina del terzo giorno fu visto in Val Mis'cia presso la casa di Pietro Rampoldi.

Andava a mantenere la minacciosa promessa fatta al marito di sua figlia. Tutti lo sapevano. Ma Pietro non era in casa; e la Virginia doveva avere fatta una buona accoglienza al nemico; taluni pretendevano anzi che, leggendogli in faccia il cattivo proposito, ella gli facesse pagar caro lo scotto, anche per le figliuole: e soggiungevano di avere incontrato il beone mogio mogio, e quasi incapace di moversi.

Ma dov'era andato poi?... Uhm!... Chi ne sapeva qualcosa?... Un ragazzo di Gel affermava di averlo visto sulla strada di Casorate, con una cestella di rame sott'al braccio. Ma le donne osservavano:

—A Casorate, venerdì, ci fu il nuovo cavallante di Val Mis'cia e il garzone che porta il pane: l'avrebbero visto anche loro!...

Passarono così nove giorni. Alla Cascina Grande, la moglie di Sandro mise al mondo, due mesi prima del tempo, una bambina morta; e per poco non morì lei pure.

—Tutto colpa di quella sgualdrina di sua sorella!—esclamava il fittabile di Val Mis'cia facendosi sentire dai suoi contadini. Così egli cercava di eccitare gli animi contro la ragazza, pensando che nel timore dello scandalo, il parroco l'avrebbe mandata via; e allora, che dolce vendetta!

La Nunziata Meroni, a cui premeva di mettersi nelle buone grazie del padrone andava ripetendo con la sua voce falsa:

—Ha fatto male la Cristina, molto male! Tutto si perdona: ma cacciare il padre, metterlo sulla strada, no. È vergogna! Senza contare che la presenza del vecchio in casa era una salvaguardia per lei nell'opinione della gente. Ma quando una è donnaccia a quel punto non vuole saperne di riguardi!...

Le anziane approvavano gravemente questa sentenza e le giovani, meno belle di Cristina, sorridevano.

Perfino certi giovinotti, i quali poco tempo prima si sarebbero fatti ammazzare per la Cristina, la lasciavano malmenare adesso. Soltanto il vecchio Melica, sempre affezionato alle due migliori amiche della sua povera Giulia, rimbrottava la vecchia per la sua maldicenza. Ma il Melica era un eresiarca inasprito dalle disgrazie; glielo diceva sempre il fittabile, malcontento per certe osservazioni. E il medico condotto di Casorate, il dottor Carlo Chiari, quel mangiapreti, ci dava dentro anche lui, per il bruciore patito in causa della Cristina. Ma poi, da quello scettico che era, canzonava gli uni e gli altri.

La Cristina non osava quasi mettere un piede fuori della casa parrocchiale. Soltanto se usciva un momento nell'orto, i ragazzi che giuocavano sulla strada vicina le tiravano delle sassate.

E che parolaccie le gridavano!

Lei si rivoltava dentro di sè. Vigliacchi! tutti contro una donna! Come se fosse stata la prima a cadere. Perchè non badavano alle loro mamme e alle loro sorelle, che ne facevano di più sporche assai? Si, vigliacchi!...

Per lei tanto, sarebbe corsa in sulla strada e li avrebbe presi a ceffate que' prepotentacci! Ma intendeva troppo bene che gli scandali ricadevano sul capo del parroco; che lui ci perdeva in dignità, in riputazione, in tutto: e cercava di frenarsi.

La mattina del nono giorno dopo la scomparsa di Marco, una donna venuta dalla Cascina Grande chiese di parlare alla Scaramelli.

—Mi manda vostra sorella... oh! non vi spaventate! È malata si, molto malata ancora, ma pare che il dottore l'abbia cavata di pericolo. Non si tratta di lei adesso, si tratta di voi. Non sapete?... Hanno trovato il cadavere di vostro padre, laggiù, in uno di quei fossi. Andava in cerca di rane, e pare sia caduto dentro, che Dio ci guardi, sicuro; forse era ubbriaco; ma laggiù dicono che si è buttato nell'acqua per disperazione, e danno la colpa a voi. E pare, dicono, che vogliano venire qui tutti a darvi una lezione. Bisogna vedere come sono: hanno il diavolo addosso. Per questo vostra sorella mi ha mandata e vi raccomanda di stare in casa... di non farvi vedere.

Cristina, sbalordita come se avesse ricevuta una mazzata sul capo, non ebbe che una percezione ben chiara, una percezione che l'aiutò a sopportare il colpo. In mezzo a tante disgrazie Maria aveva pensato a lei: le voleva dunque sempre bene!

Facendosi forza, disse alla donna:

—Grazie; grazie tante. Direte a mia sorella che la ringrazio. Starò in casa; farò tutto quello che vuole; non abbia paura per me; pensi alla sua salute. Volevo giusto andarla a trovare; ma... Ecco qui, portatele queste ova fresche, questo po' di burro e il pan bianco... Povera Maria! Che si custodisca bene!... E questo per voi...

Andava di qua e di là per la cucina, prendendo fuori la roba che disponeva con garbo in un panierino. Era nervosa, agitata e tutta rossa in viso.

La contadina intanto pensava: Quanto pane, quante ova!... Può mangiare finchè vuole: che fortuna!

—Quanto al vecchio—entrò a dire la Cristina con un tremito nella voce—l'ho fatto mandare via, anzi l'ho mandato via io, perchè a poco a poco, vuotava la cantina al curato e gli diceva dietro tutti gli improperi, e avrebbe voluto che gli tenessi mano io!... Via lui o via me, ho detto al curato: e se fosse vivo ancora oggi, rifarei quello che ho fatto!

—Per carità non lo dite!—supplicò la contadina.—Guai se vi sentissero laggiù. Ora sono tutti per lui. Pare che sia morto un santo. E tutti contro di voi sono!

—S'affoghino! mormorò Cristina con una alzata di spalle.

* * *

Un'ora prima del tramonto, avendo smesso di lavorare, una frotta di uomini e di donne si avviò con molta animazione alla volta di Gel, per vedere la Scaramelli e dirle il fatto suo. Si erano montati ciarlando e gridando, messi su specialmente da quelli di Val Mis'cia.

Intanto le autorità e il medico, giunti sul luogo in ritardo, con tutto loro comodo, esaminavano il cadavere, constatavano la morte senza violenza, quindi volontaria o casuale, ed eseguivano le altre formalità.

Dopo l'avrebbero fatto portare a Gel per la sepoltura che doveva avere luogo subito, visto lo stato di avanzata putrefazione in cui si trovava il misero corpo.

I contadini più pacifici aspettavano di accompagnare il morto; ma gli scalmanati non potevano aspettare.

E poi insieme al convoglio avrebbero fatto la strada alcune di quelle guardie di questura, venute in giù col delegato; e agli scalmanati non premeva di averle in compagnia.

Strada facendo la turba ingrossò, e allorchè toccò il sagrato pareva quasi imponente.

Si annunziò subito con grida e fischi, fermandosi davanti alla casetta bianca della parrocchia tutta chiusa, porte e finestre.

Don Giorgio e Cristina erano nella saletta che teneva il centro della casa fra le quattro camerette, due a destra e due a sinistra, e in fondo metteva alle scale. Lui calmo, sereno; lei vibrante di collera.

—Fuori la Scaramelli!—gridavano i villani imbizziti.—Fuori quella che ha ammazzato suo padre!

—Fuori!—incalzavano le donne.—Mostri la sua bella faccia di sporcacciona...

Volevano sculacciarla. E se lei non scendeva, sarebbero saliti loro e l'avrebbero tirata abbasso per darle una bella lezione.

—Tanto sfacciata, e non ha il coraggio!—gridava un ragazzone sciancato.

—Fuori! Fuori! Fuori!

Le donne erano in prima fila, le più accanite. E la Virginia Rampoldi trovava i peggiori insulti.

Cristina, ritta in piedi presso alla finestra, dietro le imposte chiuse, i pugni stretti, i denti serrati, schizzava fiamme dagli occhi.

Ogni tanto i suoi nervi scattavano.

Una imprecazione smozzicata le usciva dalle labbra rosse come il sangue.

Un sasso volò.

Poi un altro.

Allora ella non ebbe più pace. Voleva affrontare i suoi nemici, faccia a faccia.

—Don Giorgio, mi lasci andare! Butteranno giù la porta, verranno su; non è giusto che lei patisca per me!... Vogliono me!... Mi lasci andare!... Mi lasci!...

E si dibatteva con tutto il vigore delle sue braccia robuste.

Ma egli la teneva lì incatenata, con poco sforzo. E il suo volto s'illuminava di tratto in tratto per un vago sorriso di pietà e d'indulgenza. Sembrava perfino che dimenticasse il dispiacere di quel critico momento; come se la sua anima piena di amore e di luce non potesse accogliere nessun pensiero fosco.

Con accento commosso, con quella voce profonda che sembrava venire direttamente dal cuore, egli andava ripetendo:

—Coraggio! Sii forte. Non lasciarti abbattere dalla collera che è una debolezza. Sono poveri abbrutiti, poveri illusi; credono di difendere la giustizia; credono di far bene.

—La Virginia, no. La Meroni, no. E quelle altre neppure. Son birbone!...

—Lasciale gridare; che cosa t'importa?... Hanno un pochino d'invidia femminile. Non vuoi compatirle tu che sei tanto bella e adorata?

Erano le prime parole d'amore che le diceva da quattro mesi che stavano insieme—le prime dopo quel giorno.

Le fecero una grande impressione.

Tutta vibrante e intenerita sotto la carezza di quella voce che le penetrava il cuore, ella non trovò una risposta. Ammutolì, si concentrò. Le memorie l'assalirono. Per la prima volta in tutto il giorno pensò al cadavere di suo padre, trovato in fondo a un fosso, gonfiato dall'acqua, mezzo putrefatto. La collera cadde; cadde il fiero sentimento di sfida che l'aveva tenuta su per tutte quell'ore, mantenendola in uno stato di eccitamento. Si sentì sopraffatta da una immensa prostrazione. E dal fondo della sua anima si fece strada uno spasimo sordo, inesplicabile, che andò acuendosi di momento in momento.

Quel suicida, quell'ubbriacone, quell'uomo orribile, scacciato da lei perchè rubava e avviliva la casa del parroco con la propria bassezza: quello sciagurato uomo era suo padre!...

Giustamente lo aveva scacciato; e giustamente Sandro Rampoldi non aveva voluto accoglierlo. Ma questo nulla mutava alla terribile verità: era il padre suo quell'uomo; e lo avevano trovato morto in un fosso, mezzo putrefatto, come una carogna... Chi sa quanto aveva patito!... E era suo padre!

Questo pensiero, che per lei aveva l'acutezza dolorosa di una sensazione fisica, diveniva intollerabile, le mordeva le carni.

Un sasso lanciato con maggior violenza venne a battere appunto contro quella imposta là vicino a lei. Un grido le sfuggì; un singhiozzo terribile eruppe dal suo petto.

Altre immagini spaventose l'assalirono. La sua povera sorella, già tanto infelice, la povera Maria, che perdeva l'unica consolazione, la sua creatura, morta prima di nascere!...

E don Giorgio!... don Giorgio, precipitato, per causa di lei, nella rovina, nella vergogna! Forse gli sarebbe toccato andar via; e lei non l'avrebbe mai più riveduto; mai più, mai più, come se fosse morto.

Da tutte le parti il dolore l'assaliva e cresceva, cresceva; l'atterrava, le negava ogni scampo. Si sentiva soffocare, le pareva di andare sotto, sotto, come suo padre, nell'acqua gelida e limacciosa.

Ma quegli ossessi gridavano continuamente, e i sassi volavano.

Ella ebbe un altro scoppio. Non era meglio sfidarli, rischiar la vita... finirla?... Spalancare la finestra? Farsi lapidare?... Finirla, finirla!

Non poteva reggere a tanta angoscia!

Con impeto disperato tentò di aprire la finestra. Ma il Castellani che la sentiva spasimare e gemere e piegarsi e contorcersi come un sarmento alla fiamma, la trascinò lontano dalla finestra, in fondo alla saletta, e la fece sedere, e sedette accanto a lei. Poi, cominciò a parlarle sommessamente di quell'immenso dolore ch'ella non sapeva esprimere.

Fuori la folla continuava a strepitare. Ma il parroco non vi badava: erano per la maggior parte donne e ragazzi; non potevano durar molto. Difatti, una imposta rotta a un finestrino del primo piano spaventava i più timidi, e Bernardo, il contadino della Cascina Grande, sopraggiunto in quel momento, faceva sentire la sua parola assennata. Qualcuno resisteva tuttavia; qualche sasso volava ancora, ma piccolo e mal lanciato.

Cristina non ascoltava che la voce dolce del suo signore, e, a poco a poco, la sua oppressione si scioglieva, le lagrime scorrevano da' suoi occhi brucenti, e abbandonava la testa sul petto fedele del giovine. Piangevano insieme.

Era quasi notte. I rumori cessavano. Bernardo aveva finito di convincere i più scalmanati, annunciando il prossimo arrivo dei carabinieri, e soggiungendo con un sottinteso: «Non è già per una sciocchezza simile che vorrete farvi legare!...»

Don Giorgio si riscosse nel salottino pieno d'ombra; andò alla finestra, l'aprì. Il sagrato era quasi vuoto; pochi curiosi guardavano in silenzio. Due carabinieri camminavano in su e in giù.

Più lontano, sulla strada maestra appariva una specie di convoglio funebre con due torcie di resina, diverse guardie di questura delle quali si vedevano luccicare i bottoni al lume delle torcie, e, sopra una barella, portata da quattro contadini, una massa nera, informe.

Don Giorgio pensò che doveva scendere, andare in chiesa. Passò nella sua camera, indossò la veste talare, prese il berretto e ritornò nella saletta.

Il convoglio funebre era ancora in cammino, egli aveva un istante di tempo.

Si accostò alla Cristina che piangeva sempre, e con quella voce tenera e profonda, che a lei faceva tanto bene, le disse:

—Non piangere più. Tuo padre è tranquillo adesso. Dio gli ha perdonato.

Tacque un istante, poi riprese:

—Anche a noi ha perdonato Iddio! Non piangere, ti dico. Guardami. È l'ultima volta che mi vedi con questo abito; questo che vado a compiere—la benedizione alla salma di tuo padre—è l'ultimo atto del mio ministero di sacerdote.

La giovane, che aveva alzata la fronte e rasciugate le lagrime, ebbe un sobbalzo e gridò:

—Che dice?!...

—Dico una cosa bella e seria. Domani cesserò di essere prete—e domani a sera partiremo insieme...

—Oh! Don Giorgio?!... È possibile?...

E lo guardava fiso, quasi per convincersi che non era impazzito.

—Parlo di tutto il mio senno. Questa risoluzione avrei potuto prenderla da un pezzo; ma non si rompe così facilmente con tutto un passato. E poi avevo bisogno di essere convinto che facevo bene. Da due giorni Dio mi ha fatto la grazia.

—La grazia?!

—Sì; concedendomi la lucidezza di mente e la sicurezza di spirito di cui avevo bisogno. I miei superiori pretenderebbero che io ti abbandonassi. A questo prezzo mi perdonerebbero lo scandalo e sarebbero anzi disposti a favorirmi nella carriera... Non tremare, anima mia! Io non posso ammettere questa morale. Ciò che sarebbe una cattiva azione per un uomo qualunque non può diventare un'azione meritoria per un prete. E se così è, tanto peggio per il prete: io ritorno uomo. Tutto è disposto, pronto; domani avrò il diritto di non indossare questo cilizio. E fra qualche settimana sarai la mia sposa, davanti agli uomini... ed anche davanti a Dio... non temere!

Senza proferir parola, istintivamente Cristina levò al cielo le mani congiunte e gli occhi pieni di lagrime, in atto di muta, fervente preghiera.

CAPITOLO X. Il destino.

Dopo alcune annate discrete, i contadini sanno per esperienza che arriva una annata sterile; sembra che la terra senta il bisogno di riposarsi. Non vi sono malattie, non flagelli straordinari; senza causa apparente, il raccolto si annunzia scarso, e i contadini cominciano a impensierirsi. Ma troppo spesso altre sciagure sopraggiungono: i bachi da seta vanno male per una delle mille cause impreviste che possono danneggiarli: un freddo fuori di tempo rovina i teneri germogli, malattie misteriose, crittogama o filossera, si attaccano alle povere piante; e i contadini, che non intendono nulla dei discorsi scientifici degli intelligenti, profetizzano però con rara perspicacia le conseguenze immediate di quelle oscure parole. E tali conseguenze sono: miseria e fame!

Quell'anno la carestia batteva in vari punti della bassa pianura lombarda. E i bachi erano andati male; parte, perchè il freddo aveva bruciata la foglia in primavera: parte, perchè il caldo eccessivo e precoce li aveva paralizzati nel momento difficile in cui si preparavano a filare.

—Dopo tante fatiche!...—Dopo tanta spesa!...—gemevano le povere donne.

—È l'annata cattiva—dicevano i fittabili—passerà. Ci vuol pazienza. Ma i contadini scrollavano il capo.

Era il flagello! Dio li puniva. Da dieci mesi—dalla scomparsa di don Giorgio Castellani con la Cristina—il nuovo curato, un uomo austero, dalla mente ristretta, pieno di terrori, preconizzava dal pergamo il castigo di Dio.

Non osando attaccare il suo antecessore, il cui romanzo amoroso lo empiva di ribrezzo, egli si scagliava contro i cattivi costumi generali: la irreligiosità dei padroni, vale a dire, dei fittabili, chè di veri padroni ve n'ha ben pochi che abitino in quelle campagne; i vizi dei contadini. E la sua voce tonante, la sua rettorica rozza, ma non priva di una certa efficacia, finiva di intontire quei poveri ignoranti abituati alle mitezze del Castellani.

In tali emergenze, col formentone che stentava a crescere e il riso che pareva malato, sentendosi addosso il terrore della miseria, nella prospettiva di uno squallido inverno senza scorta di denaro nè di derrate, i più increduli erano scossi, e la chiesa si empiva.

Pietro Rampoldi, minacciato più di tutti, dava il buon esempio tra quelli di Val Mis'cia. Il grosso podere che aveva dato quasi l'agiatezza alla famiglia, fino che i due fratelli rimanevano uniti, diveniva ora per lui solo un peso esorbitante. Ma egli si ostinava a tenerlo, e nulla angosciava tanto il suo cuore di contadino, quanto il pensiero che il padrone lo mandasse via. Per ciò si sforzava a lavorare senza posa; spendeva i piccoli frutti del lungo risparmio in tante giornate di opere; lasciava che la Virginia finisse di rovinarsi in un lavoro superiore alle sue forze, e finalmente si attaccava al fratello, cercava di sfruttarlo con promesse, con blandizie.

Sandro, che si era lasciato riprendere dalla cognata, si faceva in quattro—come dicevano i paesani—per accontentare il fratello e la cognata insieme. In fondo, nella sua coscienza non totalmente atrofizzata, egli si sentiva sollevato dal proprio rimorso, tanto più, quanto più riesciva a rendersi utile a quel fratello che tradiva. La sua rozza onestà gli diceva che tutto quel lavoro, fatto senza interesse, era in certo modo un compenso al tradimento.

Forse egli non giungeva fino a pensare che Pietro, tutto intento a sfruttarlo e a tirarlo via di casa, parlandogli male della povera Maria, non meritava poi tanti riguardi; ma se non vi pensava liberamente, certo ne intuiva qualche cosa.

Intanto il calore eccessivo peggiorava le condizioni sanitarie. La minestra mal condita con poco olio di linosa, era spesso composta di riso bacato; e il grano fermentato forniva qualche volta la farina per la polenta. Le febbri infierivano fra le mondaiuole. Si parlava di tifo e d'altri malanni. Alla Cascina Grande, Maria Rampoldi non poteva rimettersi dopo quella catastrofe che aveva chiusa in una piccola bara la sua grande speranza di maternità.

—È l'aria cattiva di quest'anno!—dicevano le comari.

—È un po' perchè non t'importa di guarire!—diceva il medico rampognandola.

Era forse vero.

A ventiquattro anni Maria si sentiva fuori della vita. Sapeva che Sandro andava sempre in Val Mis'cia per aiutare il fratello facendosi strapazzare dal padrone, perdendo molte giornate di lavoro, inventando scuse che non sempre venivano accettate.

Ella fingeva di non sapere. Invano le altre donne le andavano dicendo che Sandro faceva tutto per la Virginia, che erano sempre insieme, che parevano due sposi. Oppure, che il padrone della Cascina Grande era stufo, e che aspettava soltanto di cogliere il suo uomo sul fatto per cacciarlo e metterlo in istrada. Oppure, che se lo teneva ancora, era per lei, soltanto per lei; perchè tutti avevano compassione di lei, poverina, così sfortunata; e perchè il signor dottore la raccomandava.

Ella rimaneva a capo basso, le braccia conserte, mormorando appena:

—Che cosa devo fare?... Sandro non mi dà retta.

E non pareva inquietarsi di più. Il suo amore, nato di gelosia in un momento di spasimo, si illanguidiva a poco a poco come una pianta delicata che il gelo consuma.

Aveva sofferto tanto per quell'uomo: non poteva soffrire di più.

D'altra parte, quella bimba nata morta le aveva rapito forse per sempre la speranza di una nuova maternità. Dunque.... tutto era finito.

—Ha voluto che pensassi sempre a lei!—diceva la povera contadina con quel senso arcano d'intima poesia che la distingueva.

Avrebbe voluto morire, perchè si rodeva di non poter lavorare come prima, nè rendersi utile in alcun modo.

Si sentiva vecchia, e non era mai stata così bella. La malattia che le vietava i lavori troppo faticosi, non la danneggiava ancora esteticamente, anzi, le giovava. La sua carnagione, imbrunita dal sole, ritornava bianca; e i lineamenti regolari, ma un po' guastati dall'impronta di volgarità che la troppa salute dà qualche volta alle giovani campagnuole, si affinavano, acquistavano, nel languore della malattia, una espressione nuova, penetrante. Nè ancora il dimagrimento nuoceva alla perfetta armonia delle forme scultorie che apparivano più eleganti sotto al vestito liscio e aderente.

Sandro, tutto assorto nella sua cieca passione per la cognata, non s'accorgeva neppure, come non s'era mai accorto, di avere al fianco una così bella donna. Egli avrebbe voluto vederla forte e attiva come un tempo, ora che ne avrebbe avuto più bisogno che mai. E s'irritava col medico, che, secondo lui, menava la cura troppo per le lunghe. E diveniva aspro, inquieto. Per ciò le sere in cui, finito il lavoro, invece di vederlo entrare in casa a cenare, essa lo vedeva avviarsi verso Val Mis'cia, per lavorare al chiaro di luna nei campi del fratello, non provava alcun rincrescimento, bensì piuttosto un vago senso di sollievo.

Cuciva, filava, custodiva i bimbi malati delle povere donne che non potevano restare a casa; e il suo dolce sorriso, la sua bontà e quel bisogno di sacrificarsi al bene degli altri, la rendevano carissima a tutti. Era la consolazione di quelli che soffrivano.

Una sera capitò nella corte una vecchia che girava di tratto in tratto per quelle campagne vendendo le noci dorate col destino dentro. Costei si fermò davanti a Maria e le mormorò freddamente:

—Voi, sposa, andate incontro a una disgrazia e a una fortuna. La disgrazia metterà sottosopra il paese. La fortuna, se voi non saprete agguantarla, vi sfuggirà.

—Oh! per questo—esclamò una ragazza che ascoltava—ci vuol poca bravura a predirglielo: lei non saprà mai agguantare la fortuna!

—E la disgrazia?—domandò Maria sorridendo.

—La disgrazia—riprese la dispensatrice dei destini —potrebbe essere anche una fortuna per voi!... Si potrebbe affrettarla avvertendo Pietro di quello che succede... Per un po' di denaro c'è chi lo farebbe...

Maria soffocò un grido e scappò via indignatissima e afflitta.

La vecchia s'allontanò tutta imbronciata. Aveva sbagliato.

CAPITOLO XI. Il Medico.

Il dottor Carlo Chiari che prestava a Maria le cure più intelligenti, non era cieco, nè ingiusto, nè reso insensibile da una passione sfrenata, come Sandro il cavallante.

La vita del giovine colto e ambizioso, condannato dalla povertà a cominciar la carriera con quella misera condotta, aveva poche gioie, molti fastidi. La fatica e il tedio l'opprimevano spesso. E se la sua ambizione sempre desta, non gli lasciava perdere di vista l'avvenire, non perciò erano meno pressanti le esigenze del presente. La giovinezza lo sferzava; e i piaceri grossolani che trovava alla sua portata non potevano soddisfarlo. La società pavese dove faceva qualche rapida apparizione, lo annoiava; troppi vincoli di idee provinciali; troppi pregiudizi. E poi, egli non voleva legarsi con una di quelle relazioni che possono avere troppo peso nella vita di un giovine. Neppure ammogliarsi voleva, come certi suoi colleghi che gli predicavano la rassegnazione. Le ragazze da marito che i soliti smaniosi di fare la felicità altrui gli vantavano ed anche gli offrivano segretamente, non parlavano al suo cuore, non gli destavano la indispensabile simpatia; e le famose doti erano miserie: ventimila lire al massimo! Egli sorrideva con disprezzo. Ci sarebbe voluto una vera ricchezza per deciderlo al sacrificio; tanto ei sentiva alto di sè, tanta fede aveva nella fortuna. Aspirava ai massimi gradi sociali, con la freddezza tranquilla di chi non vede che il proprio valore, e non teme rivali. Ma intanto, qualche cosa gli ci voleva per passare alla meno peggio quei maledetti anni!

Da principio aveva sperato nelle avventure. Ne aveva sentite raccontar tante, quand'era studente, di giovani medici accarezzati da nobili e capricciose signore, specialmente in campagna, nell'ozio delle villeggiature.

Ma dopo un anno, dopo due, quelle speranze erano morte e sepolte. Di signore belle, eleganti e capricciose come s'intendeva lui, non ne capitavano da quelle parti. Qualche moglie di fittabile lo aveva guardato di buon occhio, ed egli non si era fatto pregare; ma non valeva la pena; bisognava pagare troppo di persona, fare la corte al marito, alla suocera, alle cognate, ai vecchi zii; col rischio di essere scoperti e fare uno scandalo. Veri gineprai dell'amore.

Da qualche tempo era ridotto a sognare una piccola relazione, non sprovvista di una tal quale poesia, e che lo lasciasse, nel medesimo tempo, completamente libero.

Se non fosse stato così scarso a denari, qualche cosa avrebbe combinato. Mah!

—Una vita da diventare idrofobi!—diceva certe volte agli amici ammogliati, accompagnando la frase con una di quelle sue mezze risate che squillavano e davano rilievo anche alle banalità, facendo scintillare i suoi bei denti bianchi sotto ai baffi neri graziosamente arricciati.

—Di tratto in tratto bisogna fuggire per salvarsi dalla pazzia—soggiungeva con un'aria fredda di giovane cinico.

E scappava a Milano a immergersi in una orgia. Ma sempre quella tirannia del denaro, che tarpava l'ali alla fantasia; e poi, appena partito doveva ritornare per qualche malato. Crepavano di miseria que' disgraziati!

Dopo tutto non era soltanto codesto. Le orgie gli lasciavano una certa nausea; e i nervi, irritati piuttosto che appagati, rimanevano renitenti allo studio. Non era quello che gli ci voleva, a lui.

In tali frangenti, un giorno la Cristina gli era parsa una salvezza. Un bel frutto da mordere allegramente, senza paura, senza rancori. E finito il capriccio, essa non l'avrebbe seccato, era troppo altera.

Ma don Giorgio gli aveva guastato il giuoco: maledette sottane nere!...

Quante glie ne aveva dette dietro alle spalle.

In seguito però, i due amanti essendo scomparsi, e specialmente dacchè si buccinava che fossero marito e moglie, la bizza del medico si era quietata. Sposarla?...

Oh! no, davvero! Se quello era il patto, meglio niente. Ci voleva un curato di campagna, un novizio, per fare di quelle pazzie. Spretarsi per prender moglie? Rinunziare al principale vantaggio della professione!... E quando il dottore si trovava al caffè di Gel, o in qualche osteria col fittabile di Val Mis'cia, si sfogavano a ridere di quell'amore e di quel matrimonio; consolandosi così, a vicenda, dello smacco patito.

Da alcuni mesi tuttavia le cose erano cambiate. Il dottore non pensava più a Cristina, e se qualcuno gliene parlava, mostrava di giudicarla benevolmente. Finito il bruciore, la naturale bonarietà dell'uomo spregiudicato ripigliava il sopravvento.

Gli è che a poco a poco frequentando Maria, imparando a conoscerla, e, per il genere della cura, avendo occasione di vederla nella maggiore intimità, egli si era penetrato, quasi senza avvedersene, di quella bellezza positiva e ideale nel medesimo tempo.

Nessuno meglio del medico poteva intenderla quella bellezza: forse neppure un artista. Da principio, guardandola appunto con l'occhio del medico che notomizza, egli cominciò semplicemente dall'ammirare quella perfetta corrispondenza di parti, formate dalla natura con tanta sapienza per il suo scopo fatale.

Molte volte, mentre la povera giovane si sentiva morire di vergogna, ei le ripeteva ridendo:

—Hai torto di vergognarti... sei bella! Davvero. Non avrei creduto che tu fossi così perfetta. Sei bellissima. Te lo dico io che me ne intendo.

Una mattina, essendo appunto ritornato da una di quelle sue scappate a Milano, egli entrò a dirle secco secco:

—Vuoi venire a Milano con me la prossima volta?... Ti condurrò dallo scultore Grandi che cerca una modella. Meglio di te non può certo trovare... Oh!... Che faccia fai?... Ti darebbe dei bei denari, credi!

Ella ebbe un impeto istintivo di collera; egli, una risata. In fondo però, non era lontano da una certa commozione. E per tutto quel giorno, la figura della sua giovine ammalata gli restò nella memoria suscitandogli un senso di vago malcontento, quasi di rimorso.

Da quella volta il dottore non si sentì più di scherzare così brutalmente con Maria. Cominciava a imporgli rispetto. Non avrebbe voluto veramente rispettarla; ciò gli pareva noioso e sciocco. Ma non poteva a meno. Per quanto mal preparato, doveva pur riconoscere che quella non era soltanto una «stupenda materia» come aveva detto tante volte discorrendone con qualche collega. Una scintilla animava quel bronzo pallido, di sì mirabile forma.

E quasi ei diceva: Peccato!

Il desiderio gli si destò all'improvviso. Allora non ebbe pace. Divenne riguardoso, quasi timido. Aveva paura di essere indovinato, e che ella non volesse più farsi curare da lui. Innanzi tutto egli voleva guarirla; e si mise a studiare la malattia con instancabile ardore.

Una volta guarita, poi, con l'aiuto della riconoscenza, non gli pareva difficile di poterla commovere.

E sempre guidato da quel suo epicureismo cinico, che era una parte caratteristica della sua natura, egli faceva dei piani molto pratici ed egoisti.

Meno appariscente di Cristina, meno seducente, Maria gli appariva più dolce, più sottomessa, quindi preferibile. Certo non gli avrebbe dato alcun fastidio; ma non per orgoglio, bensì per quella mitezza che era l'essenza dell'anima sua. Proprio la donna di cui aveva bisogno per quei tre, quattro—tutt'al più sei anni di vita oscura a cui poteva essere condannato, se un colpo di fortuna, inatteso, non cambiava le cose. Passato quel tempo, egli se ne sarebbe andato; e lei sarebbe rimasta; le contadine non si allontanano dal marito. Ma intanto, quegli alcuni anni potevano passarli bene. Perchè non doveva accettare lei, con quel marito che la trattava come un cencio di casa? Sarebbe stata troppo stupida. E stupida non era.

Se non che, i mesi passavano, e questi bei progetti non trovavano la loro attuazione. Sfinge incomprensibile, la malattia si accaniva, deridendo gli sforzi del medico. E giorno per giorno parlando con Maria, facendola abilmente discorrere, egli acquistava la convinzione che la virtù della donna non sarebbe stata meno crudele, nè meno ostinata della malattia, nella sua resistenza.

Ma anche lui si accaniva, mostrando in fondo poca saggezza.

Di tratto in tratto però perdeva la pazienza e scappava via brontolando:—Peggio per te, sciocchina!

Nel cuore dell'estate, mentre il sole e i miasmi facevano stragi fra i più poveri contadini, il dottore, essendo appunto un po' spazientito, trovò ancora un pretesto per assentarsi alcuni giorni. Quando ritornò trovò tanto da fare a Gel e in Val Mis'cia che non ebbe il tempo di recarsi alla Cascina dove il male attaccava meno.

Tra i malati c'era anche la Virginia, che soccombeva alla tisi lungamente covata.

Il medico, per quanto giovine e forte e non pigro, non bastava quasi all'immane fatica di curare tanta gente; e in certi cascinali lontani, alcuni poveri contadini morivano prima ch'egli arrivasse a soccorrerli.

Un giorno fu chiamato anche alla Cascina Grande per un caso di tifoide. Vi si recò subito, desideroso di vedere Maria.

Appena entrato nella corte, saltò dalla sua carrozzella e si lasciò condurre presso l'ammalato da una vecchia contadina che era lì ad aspettare.

La vasta corte della Cascina Grande conteneva sei edifici. Due belli: la casa del fittabile, grande e comoda e provvista di un largo portico, per mettervi il formentone quando la raccolta si faceva con la pioggia: e la stalla per le bestie.

Quattro bruttissimi, neri, maltenuti: casupole da contadini. L'ammalato di tifoide abitava nell'ultima casupola quasi nascosta dietro la stalla, nelle esalazioni del letame. Poco discosta, ma assai migliore era l'abitazione di Sandro e Maria. Si componeva di due stanze, vicino al fenile.

Finita la visita con tutte le regole, il dottore andò direttamente alla casa di Maria, sperando di trovarla. Ma non vi era.

Una giovine macilente che tesseva sola sola in una specie di cantina, facendo un rumore assordante col suo vecchio telaio a mano, vide il medico e smettendo un momento il lavoro, gli gridò dal finestrino:

—La cavallante è laggiù a filare, vicino ai gelsi.

Ei la scorse subito. Sedeva su una carriuola arrovesciata e filava all'ombra di un gelso.

Senza addarsene egli affrettò il passo. Ella si levò e gli mosse incontro.

—Oh! Maria! Come va eh?

—Bene, signor dottore.

—Bene?... Non mi par tanto! Sei pallida; hai le occhiaie violacee. Andiamo in casa che ti medicherò: ho appena il tempo.

—Oh! no...

—Perchè, no?

E corrugò la fronte, vicino ad adirarsi.

—Non vada in collera!...

—Andiamo, dunque.

—No... non c'è più bisogno.

—Che ne sai tu?

—So... È inutile.

Egli divenne pallido a sua volta.

—Non ti fidi più di me?

—Oh! signor dottore!

—Vorresti un altro medico?

—Mai più! Morirei piuttosto.

E la protesta fu così impetuosa, che il medico ne ebbe una scossa. Fissò la giovine con intensa attenzione.

Ella teneva gli occhi fermi sul filo che le sue abili dita andavano assottigliando; ma un leggero tremito rendeva stentato il lavoro.

Essi erano quasi soli nella vasta corte. La vecchia, che aveva aspettato il medico poco prima, era in casa presso il suo figliuolo ammalato; la giovine tessitrice non poteva vederli dal finestrino del suo bugigatolo. Del resto, uomini, donne, ragazzi, tutti fuori al lavoro. Soltanto due piccini—due testine color della canape—si rincorrevano di porta in porta senza dir motto, come due muti.

Vicino alla stalla, sotto a una tettoia, dove stavano alla rinfusa carri e carrette, e aratri, e arnesi d'ogni genere, un vecchio, consumato dalla pellagra, preparava lo strame per le bestie: e la cavalla del dottore, buona e pacifica bestia, brucava tranquillamente l'erba ingiallita della corte.

Un calore plumbeo, insoffribile, si sprigionava dalle nuvole biancastre, abbaglianti la vista, che velavano il sole ancora abbastanza alto. Il dottore trasse di tasca una pezzuola di batista, impregnata di una essenza acutissima che gli serviva a combattere i cattivi odori delle camere dei contadini e l'odore d'acido fenico a cui la professione lo condannava: e si asciugò la fronte madida di sudore.

Provava in sè una inquietezza, uno struggimento, qualche cosa di strano, d'inesplicabile. Il desiderio banale che l'aveva tormentato negli ultimi tempi era quasi sopito. Ben altro carattere aveva l'angoscia che gli serrava il cuore adesso; ben altra cosa era la sottile tristezza che gli penetrava l'anima, disperdendo i piccoli progetti egoistici di gaudente povero, già tanto accarezzati; e mettendo un senso di amarezza fin nella visione del piacere inconsciamente evocata.

—Senti—disse, dopo un lungo e penoso silenzio—devo dirti una cosa che ti farà, forse, cambiare idea. Tua cognata muore...

Ella smise un istante di filare, e alzò gli occhi stupefatti sul medico.

—Eh! figliuola mia—fece lui, ritrovando ancora una volta il suo bel sorriso di cinico.—Non c'è da stupire. Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino. Lei ci lascierà il corpo e l'anima al suo peccato. È il contrario di te, vedi. Ma è giusto che muoia: ti ha fatto troppo male.

—Oh! per me—mormorò la moglie di Sandro, tirando adagio adagio una ciocchetta di lino—per me, quello che è stato è stato: non auguro la morte a nessuno io.

—Capisco. Ma Sandro è ancora abbastanza giovine, e non è cattivo. Morta quella lì, ritornerà a te, e sarete felici; potrai avere figliuoli ancora... se sarai guarita. Dunque, bisogna che tu ti lasci curare.

Ella scrollò il capo tre o quattro volte rapidamente.

—No, no, no! Non guarirei lo stesso. E poi non me ne importa. Quando una cosa è finita... D'altra parte c'è quella povera anima che dev'essere al limbo—dice il curato—e se avessi altri figliuoli patirebbe di gelosia. Meglio non darglielo questo dispiacere.

E sorrise in pelle, indovinando vagamente che il dottore doveva ridere della sua superstizione.

Difatti egli voleva gridarle:

—Maledetti preti! Come v'infinocchiano!

Ma non potè: era troppo commosso.

Volle dire dell'altro: Che le voleva bene, tanto tanto: che l'avrebbe fatta felice.

Ma la coscienza schiacciante dell'inutilità gli troncò la parola. Anche se l'avesse commossa e vinta—ciò che gli pareva quasi impossibile—non sarebbe stato inutile?... Anche se lo avesse amato... Inutile! Inutile!... Questa parola crudele risuonava dentro di lui; e gli pareva che tutta la sua vita ne fosse attossicata.

Malinconie di un istante, certo. Ma intanto, in quell'istante, egli le subiva.

Scrollò il capo e le spalle, come per cacciarsi di dosso quell'ossessione.

—A rivederci! Spero di trovarti più ragionevole la prossima volta.

Maria lo salutò dolcemente chiedendogli scusa. Si era fatta rossa e aveva delle lagrime nella voce.

Egli provò una pazza voglia di stringersela fra le braccia; ma si contenne.

E partì.

Immobile, la rocca sotto il braccio, il filo tra le dita, il fuso appoggiato allo stomaco, Maria seguiva con lo sguardo intento il calessino che si allontanava sulla strada bianca, deserta, sollevando nugoli di polvere.

CAPITOLO XII. Il germe dell'odio.

Il dottor Chiari non aveva parlato a vanvera: la Virginia moriva. Una cosa preveduta del resto.

Da vario tempo, vedendola lavorare con tanta fatica e diventare sempre più sottile e pallida, le contadine dicevano sommessamente:

—Non ci resiste; ci rimette la pelle.

E le più maligne soggiungevano: L'asino sarà vendicato.

Tuttavia, fino che rimaneva in piedi, pareva che la catastrofe, lenta a venire, fosse lontana ancora.

Ma in quella primavera le prese una tosse che non la lasciò più. Aveva certi assalti da buttarla giù come morta.

Pure si sforzava a lavorare, perchè non voleva stare in casa sola: aveva paura; le veniva addosso una insoffribile malinconia. E poi, non voleva si dicesse che andava tisica. Temeva anzi sopra ogni cosa questo giudizio della gente, condanna feroce, contro cui non v'ha appello. Perciò diveniva sospettosa, e appena due persone discorrevano, la si metteva accanto a loro per sentire se parlavano di lei, del suo male.

E se qualcuno le domandava:

—Come state Virginia?—guardandola con un certo interesse o curiosità, ella rispondeva subitamente:

—Benissimo!

Ma il dottore le diceva senza pietà:

—Non ti forzare: fai peggio.

Perciò, intendendo bene che agli occhi del dottore il male non si poteva celare, ella rimbeccava stizzosa:

—Che devo fare? Il lavoro c'è, e non ho nessuno che mi aiuti, dacchè mia cognata mi ha piantata qui per i suoi capricci!

Il medico, indifferente, s'accontentava di sorridere del suo spietato sorriso, e le voltava le spalle.

Invano Sandro e Pietro sempre amorosi, sempre attaccati a quel bel corpo, che si disfaceva, la supplicavano di aversi riguardo.

Ella rispondeva invariabilmente.

—Il podere non si zappa da sè; la colpa è di chi ci ha piantati qui soli!

Così, a poco a poco, nel cuore semplice e rozzo di Pietro si esasperava il rancore contro la cognata che egli accusava di avergli portata la discordia in casa e cagionata la spartizione tra lui e il fratello. Gli pareva pure che Sandro fosse stato troppo debole, troppo ingrato. Badare alle chiacchiere delle donne! Rovinare una famiglia per quel bel costrutto! Non poteva perdonargli; non poteva, no.

Eppure quando Sandro capitava lì, e si mostrava così servizievole, così affezionato, il fratello maggiore tornava in pace con lui, e il suo risentimento si concentrava sulle Scaramelli e su don Giorgio Castellani, per il quale aveva in serbo un sacco d'improperi, che avrebbe voluto rovesciargli sul capo, levando il sacro, levando... Anzi senza fare questa fatica, poichè don Giorgio ci aveva pensato da sè, spretandosi per fare la gran pazzia di sposare la Cristina.

Ma dopo queste sfuriate Pietro si faceva il segno della croce, perchè il pensiero di quel prete che si dannava l'anima per una donna, gli metteva un grande sgomento addosso.

Tutto considerato, il più infelice dei tre, era Sandro. In casa propria una malinconia da morire, e il rimorso di vedere la sua povera moglie così rovinata per colpa di lui. In casa del fratello, rimorso, e paura continua di essere scoperto. E nessuna consolazione da quell'amore maledetto che gli aveva straziato l'anima e avvelenata l'esistenza!

La Virginia non lo amava più. A grado a grado, come la malattia la consumava e il desiderio ardente di voluttà andava spegnendosi nelle sue carni disfatte, ella cessava di amare. Perfino la simpatia fisica, già così viva e tenace, degenerava in una specie di manìa persecutrice.

Lo voleva là, accanto a sè; ma soltanto per tormentarlo. Lo guardava lungamente e lo trovava brutto, invecchiato, cencioso. Lo paragonava, con un senso di disprezzo, a un giovine signore che era stato il suo primo damo. Che differenza! Poi, ripensando che non le aveva sacrificata neppure interamente la moglie, il suo amore diventava odio.

Lo voleva là al suo fianco; e guai se non arrivava alle ore stabilite! Avrebbe voluto trascinarselo dietro, legato a una fune, come un grosso cagnaccio per deriderlo e punzecchiarlo, mostrando però a tutti che egli era cosa sua e non poteva staccarsi da lei. Ah! se Maria non le fosse sfuggita! Se avesse potuto averla tra le unghie, che medicina sarebbe stata quella per la sua malattia!

La febbre di dominio e di persecuzione che stagna in fondo al cuore di tante donne—reazione perversa della troppo lunga e dura sottomissione di tutto il sesso—giungeva all'estrema acutezza nella tisica moribonda.

Sandro sentiva l'odio che si accaniva contro di lui; lo sentiva nelle carezze feline, nei lunghi sguardi indagatori, nei motti scomposti.

Senonchè, incapace di penetrare nelle vertiginose profondità di quella natura tortuosa e incomposta, egli attribuiva tutto al male, alla gelosia, al dispiacere di morire; e compativa e amava.

Ma invano tentava di placare quella sua terribile nemica. Le portava il pane bianco di semola, il burro fresco per la pappa, il latte della capra, che il fittabile della Cascina Grande teneva nella stalla per salute dei cavalli. Spendeva fino all'ultimo soldo in medicine costose ordinate dalla magnetizzata, privandosi fin di quel poco vino, e riducendo sè e la moglie a non mangiare che polenta asciutta sera e mattina, e un poco di minestra mal condita con una goccia d'olio di linosa, nei giorni di festa. Invano.

Invano faceva tutto quanto un povero contadino suo pari poteva fare. Nulla giovava.

Virginia accettava i doni, esigeva i sacrifici; ma non aveva mai una parola veramente affettuosa. Che se qualche scintilla dell'antica fiamma si riaccendeva nelle sue viscere, non erano che ardori fuggitivi subito spenti da uno scoppio di collera, da un ritorno del malumore. E se mai la collera taceva e il cattivo umore non si ridestava da sè; erano gli assalti di tosse, i lunghi deliqui, che toglievano al povero Sandro l'ultima speranza di gioia.

Ad ogni occasione, ella ricominciava le sue eterne querimonie. Per lui era ridotta in quello stato! Perchè l'aveva tradita, abbandonata! Per lui, che essendo stanco di lei e incapricciato della sua giovine moglie, voleva finirla così! Ah! era un bel vigliacco!

Perchè non l'aveva detto subito? Ella avrebbe capito; si sarebbe rassegnata; non avrebbe preteso nulla. Di che aveva avuto paura? Che lo volesse per forza forse...

Sandro, che non poteva stare a sentire questi discorsi, la pregava di smettere, di tacere. Non le aveva domandato perdono? E quante volte!... E quante volte lei aveva promesso di perdonargli e di non parlarne più! Si, lui era stato debole, ne conveniva; non però, come lei fingeva di credere, perchè fosse incapricciato della moglie—la povera Maria, quantunque bella e giovine non gli era mai piaciuta, a lui—ma per la compassione di vederla deperire a quel modo; e poi anche perchè si era confessato e don Giorgio gli aveva toccato il cuore. Una debolezza, certo. Ma non meritava di essere disprezzato per questo.

Non era ritornato a lei quasi subito?...

Non si era messo a rischi incredibili?

Non aveva calpestato i giuramenti fatti a Dio, le promesse fatte alla moglie e al confessore?...

Non era stato abbastanza traditore, abbastanza vigliacco?

Che cosa voleva di più da lui? Lo dicesse, egli era pronto a tutto. Ma finisse di tormentarlo e di crucciarsi lei stessa!

E piangeva il povero contadino, l'antico soldato, i cui bei capelli neri cominciavano ad essere brizzolati; piangeva come un fanciullo.

Disperando, a sua volta, di farlo tacere, ella rimaneva con le spalle voltate, turandosi le orecchie con le mani, per non ascoltarlo.

Ma tutto a un tratto scattava.

Già! lui, era un gran brav'uomo! Lui, andava in chiesa, voleva salvare l'anima, e raccontava i suoi affari e quelli degli altri, e comprometteva una maritata—la vera sua moglie, come diceva nei momenti di trasporto quando le voleva bene davvero—la comprometteva con un prete pettegolo che poi raccontava ogni cosa alla ganza! Oh! si, lui, era un bravo uomo!... Aveva compassione della moglie e si pentiva di averla tradita!... Ma andasse, andasse via, una buona volta, andasse dalla sua Scaramelli!...

Si vantava di essere ritornato?... Ah! Ah! Ah! La faceva ridere davvero! Non si ricordava com'era ritornato?... Chiamato, invitato, da quel buon diavolo di Pietro, che non poteva vivere senza vederlo e aveva bisogno di un aiuto per vangare il campo grande!

Poi una volta in casa, si sa; si erano trovati soli, seduti vicini, e il capriccio di riaverla gli aveva messo il diavolo in corpo: tutti a una maniera gli uomini!... E lei, lei che gli voleva bene per davvero, si era tutta commossa, e non aveva trovata la forza di gridare, di chiamare al soccorso; e si era lasciata prendere... piangendo però! Se ne ricordava, lui?... Oh! non l'avesse mai fatto! Non l'avesse mai fatto!...

Uno scoppio di tosse, spaventevole, le troncava la parola; poi le veniva un singhiozzo tormentosissimo, una specie di convulsione che la faceva diventar tutta livida. Pareva in punto di morte; ma non si arrendeva. Appena passato l'assalto, ancora tutta smorta e tremante, gli occhi umidi, il viso chiazzato, le labbra imbrattate di schiuma, ella ricominciava con la voce strozzata, le sue eterne e volgari accuse.

A che punto l'avevano ridotta!... Potevano vantarsi di averla ammazzata.

Si! lui e le Scaramelli l'avevano ammazzata!... Si, abbandonandola così, epperò condannandola a quel lavoro insoffribile, a zappare, a mondare il riso, con l'acqua fino al ginocchio, lei che non c'era avvezza! con quel sole in quei campi scoperti che parevano di fuoco. E poi, le malignità della gente, i sarcasmi, le canzonature! Quanto aveva patito e che smangiature di rabbia! Lei sola poteva dirlo. E tutto perchè l'aveva resa la favola del paese. Oh! quelle canaglie di donne, quante gliene avevano dette, credendo che non sentisse!...

Così si era buscata il male, così le era venuta l'infiammazione—quel fuoco che le bruciava il petto—le arrabbiature l'avevano consumata di dentro, e a forza di sudore era diventata debole debole e aveva preso quella maledetta tosse! Tutto per lui e per la sua cara moglie sacrificata. Altro che dire che lei ci aveva la tendenza alla tisi. Ma si, eh! Non avevano altro da inventare?... Bianca, rossa e grassa come lei era! Volerla far passare per tisica, lei?... Carogne!... Delicata era; sicuro; delicata; non nasceva da villani come loro, per questo. Lei era nata un pochino meglio; e aveva sempre vissuto in casa dei padroni, che l'adoravano... Per sua disgrazia... era capitata in quel paese da cani... Per finire marcia... Dio, Dio! morire!... Finire!... Le toccava morire... così... E nessuno voleva salvarla... Nessuno!...

Un altro scoppio disperato, e nuovi lunghi assalti di tosse la riducevano finalmente al silenzio, esausta, annientata. Ma il suo corpo abbandonato sulla rozza panca presso al focolare, si disegnava ancora armoniosamente, con delle linee morbide, eleganti. E i bei capelli di un biondo scuro che le si arrovesciavano sulla nuca in una massa pesante, molle, ondulata, mettevano uno strano fascino voluttuoso intorno a quella faccia pallida, segnata dalla morte.

Cessata la convulsione dei singhiozzi, piangeva sommessamente, come una bimba oppressa dalle ingiustizie degli uomini.

Sandro non si stancava dal contemplarla, e dimenticava le ingiurie, e avrebbe dato la metà del suo sangue per rianimare la fiamma della vita in quel corpo adorabile.

Intanto le ore fuggivano; si faceva tardi; egli doveva andarsene, col cuore stretto, la testa arroventata, implorando un bacio che non sempre gli era concesso.

CAPITOLO XIII. Decomposizione.

L'estate torrida di quell'anno, l'afa che prostra le forze, i copiosi sudori, il nutrimento manchevole e il progredire della malattia, ridussero la Virginia tanto debole da non potersi muovere di camera. E poco andò che non le fu possibile neppure di levarsi.

I suoi rancori e le recriminazioni acquistarono nel medesimo tempo un carattere più acre ed insopportabile. Una vera ripugnanza si manifestò in lei per l'uomo che era stato il suo amante; e con la ripugnanza, non più interrotta da ritorni di passione, ingigantì l'odio sordamente covato. La decomposizione morale e fisica non si arrestò più.

E Pietro Rampoldi, l'ignaro testimone del tradimento e del lungo supplizio del traditore; l'uomo semplice, onesto, sano, incapace di sospettare il fratello e capace di resistere al veleno della tubercolosi; Pietro Rampoldi soggiacque rapidamente al contagio della decomposizione morale. In lui pure il cupo risentimento divenne odio; e quest'odio ebbe improvvisi aneliti di ferocia: bramiti di fiera che fiuta il sangue.

Le circostanze esteriori recarono la loro cieca contribuzione allo svolgimento funesto del terribile germe.

Se le Scaramelli fossero state lì sotto a' suoi occhi, offrendo uno sfogo all'amara passione, forse Pietro non avrebbe odiato il fratello. La memoria dell'antica affezione, e la riconoscenza pei recenti quotidiani servigi, lo avrebbero forse fatto resistere all'attacco oscuro dell'assorbito veleno.

Ma nessun altro nemico si presentava; nessun capro espiatorio era là. E la sua esasperazione saliva, saliva fino a quel punto, ove non è possibile che un uomo rozzo, passionato, impotente contro le sventure che lo colpiscono, non sia trascinato a sfogarla su qualcheduno.

Anche nell'aspetto esteriore egli si mutava in modo rapido e doloroso. L'alta statura, le spalle grosse, le gambe solidamente piantate, la faccia larga dalla folta barba, dalla fronte diritta, che una foresta di capelli ancora neri incorniciava severamente, tutti questi segni di salute e di forza deperivano giorno per giorno; e la robustezza generale degenerava in una incipiente obesità flaccida, stracca.

Una sera di luglio, dopo una giornata tra le più accascianti, nella camera bassa, sotto le tegole, calda come un forno, la Virginia aspettava ansiosamente una mano pietosa che la sollevasse su quel largo letto di piuma—grande ambizione dei contadini lombardi—dove il suo corpo in sudore, affondava penosamente come in una buca vischiosa.

Sandro, occupato per conto del padrone, non s'era fatto vedere in tutto il giorno.

Pietro rincalzava il formentone appena finito di zappare.

Le vicine, poco curanti della Virginia, si dicevano occupate in mille faccende.

Ella li avvolgeva tutti nel medesimo corruccio angoscioso; e a tutti imprecava.

—Maledetti! Perchè non crepano tutti?...

Perchè il sole non si decide a incendiare ogni cosa?...

Ma al parossismo seguiva l'abbattimento che la faceva rimanere immobile, senza pensiero, senza volontà, in un prolungato torpore.

Era distrutta adesso: un vero scheletro. Il viso, un tempo delicatamente ovale, appariva lungo e stretto con la bocca e gli occhi enormi. Pure, quegli occhi profondi di tisica, quei pomelli accesi, quella massa di capelli, quei denti bianchi, le davano ancora una singolare parvenza di bellezza.

Il sole cominciò finalmente, a nascondersi dietro alla solita fumana serale. Una brezzolina sottile volò via pei campi. Anche nella camera della malata penetrò il frescolino. Ma lei non ne ebbe sollievo; chè il sudore le si diacciò subito sulla pelle e un lungo brivido la scosse tutta.

Un passo greve fece scricchiolare la scaletta che dalla cucina metteva in camera per mezzo di una bòtola. La testa grossa e le spalle curve di Pietro apparvero quasi subito sopra il livello del pavimento.

Quando egli fu presso al letto, la Virginia che voleva rampognarlo, ammutolì vedendogli la faccia sconvolta, gli occhi gonfi di lagrime. La sua indifferenza di egoista e di malata, fu scossa da quella inesprimibile disperazione.

—Che hai?—mormorò.

Egli volle rispondere, ma non potè subito; e solo un gorgoglio confuso gli uscì dalla strozza. Si lasciò cadere su uno sgabellotto che era là accanto al letto, e stentamente, con voce sorda pronunciò queste poche parole:

—Il padrone mi ha fatto chiamare. Si ripiglia il podere!... Ha già fatto il contratto con Giovanni Cappella di Gu che ha due figliuoli grandi e quattro ragazze!...

E tacque, incapace di commentare un fatto così eloquente.

La Virginia restò un momento sbalordita; ma poi, con tetro cinismo, la sua voce quasi fischiante uscì in questa esclamazione:

—A san Martino io non ci sarò più!...

—L'ha detto anche a te?—si lasciò sfuggire Pietro.

—Chi?! Il dottore?! Dunque è vero?... Non ci sarò più?!...

E la sua testa, che pure aveva trovato l'energia di rialzarsi, quasi per isfuggire a quella mazzata brutale: la sua povera testa deformata dalla magrezza, ricadde sul guanciale pesantemente, come cosa morta.

Pietro, non intendendo che a metà, sentendo però l'orrore di quella situazione, rimaneva a bocca aperta, spaventato, intontito; le spalle curve, il mento sul petto, le mani penzoloni. Non poteva parlare, pensava a stento.

Annottava.

Nella piccola camera, che il largo letto matrimoniale, il canterano e una vecchia guardaroba occupavano quasi interamente, le ombre si addensavano.

Nella stanza accanto, abitata in addietro da Sandro e Maria, una giovine sposa, venuta da poco in Val Mis'cia, addormentava il suo primonato con una monotona canzone.

A poco a poco Pietro vedeva chiaro dentro di sè. Dallo sbigottimento opprimente, in cui l'avevano gettato quei due colpi improvvisi, si andava svolgendo distinta e terribile la coscienza della immane sventura che lo minacciava. Due separazioni, del pari strazianti per lui, lo attendevano: due perdite irreparabili: il grande podere, largamente fruttuoso, coltivato con tanto amore, e la bella donna, la brava massaia: ciò che egli aveva di più caro al mondo. Tra pochi mesi egli se ne sarebbe andato da quella casa che a lui sembrava bella perchè vi era entrato fanciullo coi suoi—una famiglia numerosa e gagliarda che sapeva difendersi dalla miseria—se ne sarebbe andato, chi sa dove; senza un soldo, indebitato e solo, senza quella donna, senza la sua Virginia!...

Pur non volendo, correva col pensiero al fratello, che l'aveva abbandonato, ed era quindi la colpa di tutto, secondo lui.

Un'altra volta la scaletta della bòtola scricchiolò. Un altro uomo saliva.

—Lui!—mormorò la Virginia scuotendosi. Lui! Il demonio della tua casa, povero Pietro!... Tutto rimescolato dal senso di quelle parole, e più dall'accento con cui la Virginia le aveva pronunciate, Pietro ebbe un sobbalzo, ma non disse parola.

Sandro entrò, come il solito, premuroso, e scusandosi dell'involontario ritardo.

Allora il fratello maggiore, scambiate appena le poche frasi indispensabili, si allontanò: doveva cambiar lo strame alle bestie e metter dell'altro fieno nelle mangiatoie, e approfittava di quel momento che la Virginia aveva compagnia.

Appena sola con l'amante, costei gridò singhiozzando:

—Vammi via!... Muoio... e tu sarai capace di vivere... Vammi via!... ti odio...

CAPITOLO XIV. Vendetta.

L'alba si annunziava appena nel cielo caliginoso. Sulla campagna rovinata dalla grandine soffiava un vento freddo che pareva di novembre.

Tutto il poco raccolto della cattiva annata, distrutto, portato via!

Così finiva quella terribile estate.

Le donne uscivano dalle case ai primi lucori, dopo avere passata gran parte della notte ai piedi delle sante immagini, bruciando l'olivo portato a casa nella domenica delle palme; facendo ardere delle candele benedette. Molte piangevano; altre parevano istupidite; poche avevano la forza di parlare, di sfogarsi.

Gli uomini giravano i campi al fioco lume; incalzati dalle ultime speranze che andavano man mano morendo.

—Tutto! tutto!... Proprio tutto!—mormoravano disperati.

Il formentone, già alto, pareva battuto con le verghe; la canape, fatta a brandelli e portata via dallo straripare dei fossi; poichè, dopo la grandine, era venuta giù un'acqua diluviale. Il riso, già pronto per la raccolta, distrutto pur esso, perduto!

Tutta la campagna desolata; un anno di fame e di patimenti. Unica speranza per non morire, le anticipazioni del padrone: vale a dire la miseria fissa in casa e l'impossibilità di rifarsi, chi sa per quanti anni di fila!

Un uomo alto, adusto, già grigio—un lavoratore famoso—che aveva una grossa famiglia, si strappava i capelli, con un gesto quasi inconsapevole, da demente!

Il figliuolo della Meroni e quello della Menica parlavano di emigrare. Altri giovani li ascoltavano con torva attenzione. Ma le donne inorridivano a quei discorsi.

—Chi resta qui dovrà mangiare l'erba come le vacche!—diceva il vecchio Melica, il padre della povera Giulia, con quella sua faccia di fauno.

Altri concedevano uno sfogo ai nervi irritati picchiando i ragazzi che sgambettavano mezzo ignudi nel fango, raccattando le panocchie lattiginose sui gambi spezzati, per farle cuocere sulla brage.

Qua e là si trovavano certi chicchi di grandine, che a tener calcolo della parte già disciolta, dovevano essere come noci quando venivano giù.

Allo spuntar del giorno arrivò il fittabile stralunato, ringhioso; e tentò di gettare una parte di colpa sui contadini che non si erano affrettati a raccogliere il riso melone, già maturo; come se non fosse toccato a lui a dare gli ordini!

Ma il Melica, vecchio e sparuto com'era, minacciò di strozzare quel prepotente, se non la finiva. E lo scacciasse pure! Tanto, morir di fame qua o là era lo stesso!

Il sole, appena comparso, veniva coperto dalle nuvole nel cielo cupo e tempestoso.

—Dopo il campo la casa—dicevano alcuni contadini alludendo alla piena dell'acque che poteva portarsi via quelle loro casupole.

Venivano intanto notizie dei dintorni. Il danno era vasto. Il temporale aveva battuto una larga zona; risparmiando, tuttavia, certi posti, appena sfiorando certi altri; mentre sull'«isola» s'era proprio accanito.

Il grosso podere dei Rampoldi era specialmente rovinato; neppure un pezzetto sano; niente! Un bel saluto per l'ultima annata.

—Appena liberato da quella carcassa, Pietro farà bene a emigrare—diceva il figliuolo della Menica che si scaldava con l'emigrazione.

—Per me andate dove volete (magari all'inferno)—borbottava il fittabile ghignando nell'ira.

—Ma dov'è Pietro?—domandò un contadino che aveva un campo vicino al podere.

—Non s'è ancora visto—rispondeva un altro.

Come mai?... Non aveva sentito tutto quel buscherio?...

La finestra è spalancata—disse una ragazza che veniva da quella parte.—Ma lui non si vede.

La Nunziata Meroni arrivò di corsa sulla testata del vasto appezzato di granoturco, dove pareva che un battaglione di cavalleria avesse galoppato in lungo ed in largo tutta la notte.

—È morta la Virginia!—gridò quasi allegramente. E poi, a mezzavoce:

—Sarà contento l'asino!...

—E tu, quando crepi, stregaccia?—scrosciò una voce che tutti riconobbero per quella del Melica.

Improvvisamente, come sbucato di sotto terra, Pietro Rampoldi si trovò lì.

Si fece silenzio. Neppure la Meroni osò ribattere l'insolenza del vecchio Melica.

Pietro era irriconoscibile. Pareva più alto del vero, perchè le grosse spalle gli si erano come assottigliate, ed egli camminava diritto, un poco intirizzito, coi ginocchi rientrati. Nel volto aveva un pallore terreo; le labbra quasi nere; gli occhi torvi, socchiusi; e in quella selva di capelli scuri, arruffati, spiccavano certi ciuffi grigi, che nessuno si ricordava di avergli visto. In mano teneva il forcone col quale aveva portato fuori il letame di sotto alle bestie. Guardava la campagna rovinata, senza proferir parola; gli altri, però, guatavano in viso a lui.

Ei se ne addiede, essendo in sospetto.

A un tratto afferrò il Melica per un braccio, e con una voce che fece correre un brivido nelle vene degli astanti, gli chiese:

—Perchè mi guardate così!

Preso alla sprovvista, il vecchio s'impapinò. Che ne sapeva lui, dedina! Che ne sapeva?... Oh bella! non era lecito guardare in faccia un cristiano?

—Ora si strozzano—mormorò la Meroni con febbrile interesse.

Pietro, tornato in silenzio, guardava il suo interlocutore con gli occhi stralunati. Dopo alcuni momenti ripigliò:

—Sapete che mi è morta la moglie?... Stanotte durante la tempesta, nello spavento di quelle saette!... È una gran disgrazia per me!

E mentre diceva così, volgeva gli occhi in giro, scrutando le faccie chiuse, atteggiate a una indefinibile espressione di scherno.

Qualcuno sospirò; qualche femmina mormorò a mezza bocca:—Poveretto!... sicuro!... Ma gli altri chinarono le fronti, per non mostrare il lampo maligno degli occhi.

Melica, incapace di frenarsi, disse:

—Guardate il podere piuttosto! Di femmine non v'ha penuria, ma di formentone, ne patiremo tanta, quest'anno!

—È vero—mormorò Pietro con la voce cavernosa:—è vero! Ma anche la mia povera moglie non l'avrò più...

—Non v'inquietate! Ne troverete un'altra.

—Non come quella però!

—Ve l'auguro!... Ve l'auguro!...

Il senso palesemente satirico di queste parole sembrò sfuggire al bifolco. Ma il fittabile che passava di là non si trattenne dal ridergli sulla faccia.

Pietro restò imperturbato; e voltate le spalle s'allontanò senza dire una parola.

Andò verso casa. Entrò un momento nella stalla: guardò le sue bestie a una a una, come se avesse voluto portarne con sè l'immagine. Mise del fieno fresco nella mangiatoia della vacca nera che aveva finita la sua razione e le accarezzò la schiena con un gesto automatico. Tornò a guardare i bovi, aggiunse un po' di fieno anche a loro, tanto che ne avessero abbastanza per tutta la giornata. Depose il forcone; uscì; accostò l'uscio. Attraversò l'orto e entrò per la piccola porta posteriore, nella cucina, quasi buia e tutta in disordine, per il gran tempo dacchè nessuna donna se ne occupava. Egli non vi badò; ci era avvezzo.

Staccò dal muro un vecchio fucile a una canna che suo fratello gli aveva regalato anni addietro; lo esaminò; lo ripulì. E senza affrettarsi, calmo, freddissimo, cercò la munizione in un cassetto della credenza. Ve n'era abbastanza per una carica. Un lampo di soddisfazione gli balenò negli occhi. Si mise a caricare l'arma con molta cura.

Quand'ebbe finito salì nella camera della morta. Quella grande calma sembrò abbandonarlo, allorchè, appena uscito dalla bòtola, i suoi sguardi si fermarono istintivamente sul letto, dove la Virginia giaceva come se dormisse. Tremò e inciampò.

—Sacr...! Se mi scatta il grilletto!... balbettò trasalendo. Fece qualche passo per la camera, sempre con gli occhi rivolti alla morta.

Andò alla finestra e restò un momento a respirare l'aria, perchè si sentiva un peso sul petto, e stentava molto a tirare il fiato.

Il tempo pareva nuovamente sul cambiare. Un vento forte spazzava le nubi e il sole mattutino tingeva il cielo di rosa.

Alcuni contadini ritornavano alle loro case, la testa bassa, le braccia penzoloni. Altri continuavano a girare pei campi, all'impazzata.

Pietro si ritrasse dalla finestra e fece ancora qualche passo a caso, tentennando. Il suo viso color della cenere aveva dei solchi profondi sotto agli occhi, intorno al naso.

Sentiva la febbre martellargli i polsi e una arsura insopportabile in gola. Cercò la secchia dell'acqua che aveva portato su nella notte. Era quasi piena. Se l'accostò alle labbra e bevve, bevve. Provò qualche sollievo, ma i ginocchi, pesanti, gli si piegavano per la stanchezza.

Volle sedere un poco e andò a mettersi accanto al letto, dalla parte dove dormiva lui, su una seggiola di paglia. Appoggiò la spalla sinistra al letto; tenendo sempre lo schioppo con la mano destra. La morta, che nel delirio della notte si era buttata adosso a lui, pendeva tutta da quella parte, tanto vicina, che gli pareva di sentirla ancora sopra di sè, come in quelle ore angosciose. Rabbrividiva.

Crescendo l'oppressione, celò il viso contro il guanciale e pianse lungamente. Le lagrime scorrevano sulle guancie flosce e inzuppavano la biancheria del letto formando una larga macchia.

—Virginia!... Virginia mia!—balbettava quasi senza sapere.

A un tratto si scosse; guardò la morta da vicino e continuò a guardarla sempre più intensamente, negli occhi vitrei rimasti aperti, velati appena dalle lunghe palpebre.

Senza rendersene conto, sentì ch'era sempre bella; si chinò su lei; la baciò. Ah! Com'era fredda! Nuove lagrime gli offuscarono la vista. Tornò a fissarla negli occhi. Quegli occhi morti serbavano nella eterna immobilità una espressione terribile.

Dicevano quegli occhi:

—Ammazzalo! Ammazzalo!—come avevano detto le labbra nel delirio dell'agonia. Ammazzalo! È stato il demonio della tua casa!... Ti ha tradito, te, suo fratello!... Io?... Io?... Si; perdonami!... Mi ha voluta... è stata una debolezza... Perdonami! Ho sempre voluto bene a te, sempre!... Ammazzalo, quel cane!... Ammazzalo, ci ha traditi tutti due.

Pietro ripeteva dentro di sè le spaventose parole. Gli pareva di risentirle nel silenzio pauroso di quella camera. E pensava ch'ella era morta in peccato, con quel pensiero di vendetta, soffiandogli sul viso con la voce spenta quella parola: ammazzalo. Dannata, certo. La povera anima doveva essere già nelle fiamme eterne. E lui pure andava incontro alla dannazione. Si sarebbero incontrati, laggiù...

Ma anche l'altro doveva esserci!... Epperò voleva ammazzarlo subito, perchè non gli restasse il tempo di pentirsi. Oh! il fucile era buono, ed egli mirava bene!

Si trovava seduto di fronte alla bòtola. Un balzo; un colpo. Uno solo. Guai se falliva! Ma il braccio era saldo: il colpo avrebbe colto nel segno.

Sandro doveva arrivar presto perchè era domenica, e perchè sapeva la Virginia tanto aggravata; più presto ancora per vedere i danni della grandine. Poi, forse qualcuno l'avrebbe avvertito della morte di Virginia; ed egli sarebbe accorso per vederla e baciarla un'ultima volta.

—Cane!... Assassino!... Baciarmi la mia donna! Portarmi via la dolcezza di quella carne! Godermi quel corpo, mio, mio! E dopo, come niente fosse, piantarmi qua col grosso podere sulle braccia, vedendo che non potevo bastare ai lavori! E spogliarmi di quella poca roba con la scusa della spartizione!... Cane!... No. Caino!... Tu possa morire senza dire «Gesù» e bruciare per l'eternità.

Batteva i denti, gli occhi gli si iniettavano di sangue, il petto gli si gonfiava. Sentì il bisogno di scattare in piedi sotto l'impulso formidabile dell'uragano che si scatenava dentro di lui.

—Vieni! Vieni presto, perdio!

Nessuno ancora. Ricadde sulla sedia. Cercava di ricomporsi; di aspettare pazientemente.

La lunga attesa non doveva stancarlo; la vendetta sarebbe stata più saporita. Nella mattinata sarebbe venuto certo quel Giuda... sarebbe venuto. Nessuno sospettava che lui volesse fargli male: nessuno poteva avvertirlo. Sarebbe arrivato come sempre, con quell'aria di soldato, con quella faccia d'ipocrita.

Erano fratelli loro?... Fratelli!... Da molto tempo si era abituato a non vedere che il nemico in quell'uomo. L'odiava tanto!

Voleva ucciderlo come una bestia malvagia. Non gli avrebbe detto neppure una parola: avrebbe tirato il colpo e amen.

E tornava a guardare la morta, quasi per chiederle la sua approvazione. La guardava con indicibile amore e rimpianto. Non gli passava neppure per la mente ch'ella potesse essere la principale colpevole.

La facoltà di ricostruire plasticamente nel pensiero un fatto noto, ma non veduto—questa facoltà tanto sviluppata in alcuni—mancava od era debolissima nel povero bifolco. L'immagine di quella donna, sana, fiorente, stretta al petto dell'amante in un trasporto di passione—immagine che avrebbe fatto impazzire un altro in quelle circostanze—non si allacciava peranco alla sua mente confusa e lenta.

Nè la memoria lo serviva meglio: non ricordava le moine, i sorrisetti, le pose procaci della bella donna davanti al cognato. Forse non aveva neppure osservato codesti fatti; certo, non capiti.

D'altra parte, impressionato dagli ultimi avvenimenti e da quell'astio accanito della moribonda per il suo complice, Pietro non poteva supporre ch'ella avesse amato un giorno quell'uomo, come non poteva discernere, sotto le cause palesi, le occulte cause psicologiche e fisiologiche di quell'astio implacabile.

Per lui la colpa di sua moglie non poteva essere che una debolezza; egli non poteva che figurarsela riluttante, vittima quasi di una vera violenza. E da questo intimo convincimento all'assoluzione completa della seducente creatura, le cui dolci carezze non l'avrebbero mai più rallegrato nella misera vita, il passo era breve assai. In ogni modo questi non erano che movimenti inavvertiti dell'animo, chiarori crepuscolari della coscienza; i quali contribuivano, forse, ad acuire l'odio per il traditore e ad affermare la volontà nel pensiero della vendetta.

Difatti, non una incertezza su questo punto: non un dubbio.

Il suo animo era preparato di lunga mano. Soltanto la istintiva ripugnanza all'omicidio e un resto di tenerezza fraterna avevano resistito fino a quel punto alla terribile spinta. Ma dopo la confessione della Virginia, allorchè il fratricidio gli balenò distintamente, in quella cocente febbre di vendetta: allorchè il piano feroce andò svolgendosi con rapidità spaventosa, nel suo pensiero di solito così tardo, egli non provò nè stupore, nè ribrezzo, tanto la coscienza si era già abituata a considerare quel delitto siccome inevitabile e quindi giusto. Con tuttociò, prima di mettersi all'opera, egli aveva cercato una specie di controprova, che i visi beffardi e i discorsi equivoci dei suoi compaesani gli avevano fornito. Ora sapeva che la gente lo aveva anche deriso per la sua buona fede; che Sandro lo aveva esposto in tutte le guise alle beffe, allo scherno: sapeva, e l'odio saliva, saliva.

Il suo grosso orologio segnava le otto e dieci minuti, allorchè, dal posto dove sedeva, guardando intensamente fuori dalla finestra, egli vide Sandro uscire dal fitto dei gelsi e prendere per la viottola che metteva direttamente al piccolo orto della casa.

Sandro camminava adagio, a testa alta, come il solito. Era serio, ma non troppo abbattuto. Sull'orlo del fosso aveva incontrato la Meroni.

Guardandolo con insistenza, costei gli aveva detto:

—Vostra cognata è morta stanotte!

Si era fatto pallido il povero Sandro, e non aveva potuto altro che balbettare:

—Morta?!... Morta?!... soffocando i singhiozzi per non farsi scorgere dalla vecchia che lo esaminava con gli occhi pieni di malizia.

Ma a poco a poco quel primo sgomento aveva fatto luogo a un vago senso di sollievo e quindi alla coscienza della riconquistata libertà; coscienza prima oscura ed incerta; poi limpida. Ora egli pensava:

—Povera Virginia! Morire così, a soli ventott'anni! Povera Virginia, ti ho voluto tanto bene, non ti dimenticherò mai... mai!...

Era sincero.

Ma insieme a questi rimpianti, espressi liberamente, con soddisfazione della coscienza, una voce interna andava mormorando sommessamente questa insinuazione consolatrice:—Non disperarti tanto! Bisognava bene che morisse, malata così!... Chi sa quanto avrebbe sofferto quest'inverno con la miseria che si prepara. È un bene che sia morta, un bene per lei... e per gli altri...

Egli rimaneva come impaurito, e cercava di allontanare la voce importuna. Ma il sollievo interno, quel senso di liberazione, diveniva ognora più distinto e vivo: s'imponeva.

La passione che tanto lo aveva torturato moriva con la bella donna: il fascino che emanava da quel corpo sarebbe scomparso con esso; dileguato nel regno delle ombre.

... Oh! si, era un bene che fosse morta!...

La povera Maria avrebbe rifiatato finalmente.

Egli sarebbe ritornato con Pietro... e Maria sarebbe stata contenta...

Avrebbero lavorato d'amore e d'accordo... come un tempo...

E risparmiato un po' di denaro per le annate cattive...

E Maria sarebbe guarita...

Che fortuna che Pietro non avesse sospettato mai di nulla!...

Potevano ricominciare come una vita nuova...

Potevano dimenticare...

Questi brani di pensieri staccati—emanazioni di un lento lavorìo della mente—si allargavano, si maturavano con una rapidità straordinaria.

Ma allorchè entrò nell'orto, le mille immagini del suo lungo amore lo assalirono tumultuando, i savi consigli della ragione e dell'egoismo tacquero sgominati.

Là, vicino al pozzo, si erano visti la prima volta, otto anni addietro. Lui aveva appena lasciato il reggimento; lei era sposa da dieci mesi. Che bella sposa! Aveva le carni morbide e bianche come certi fiori dai petali grassi che egli aveva ammirati nei giardini di Firenze e di Palermo.

Mettendo il piede nella grande cucina si sentì sopraffatto da un senso insormontabile di angoscia e di orrore.

La commozione gli serrava la gola come in una morsa. Volle fuggire. Tutto parlava dei loro amori, dei dolci peccati... tutto; il camino specialmente.

Ed ora... doveva rivederla... stecchita... su quel letto!...

Gli avrebbe fatto troppo senso; avrebbe pianto troppo disperatamente... e Pietro che già forse sospettava, avrebbe capito...

Meglio fuggire; andare via, lontano; non ritornare mai più.

Fece alcuni passi verso l'uscita. Ma sentì il passo pesante del fratello che andava su e giù per la stanza, impaziente.

Pensò ch'ei forse l'aveva veduto entrare e provò un senso di vergogna.

Doveva essere in uno stato orribile, povero Pietro, dopo quella notte; con la morta al fianco e il raccolto distrutto! Sarebbe stata una vigliaccheria lasciarlo, così: farsi vedere a fuggire...

Prese il suo coraggio a due mani e cominciò a salire la scaletta gridando:

—Pietro! son io...

Un sordo ruggito gli rispose.

E quasi subito uno scoppio formidabile scosse tutta la casa.

Sandro, fulminato, mandò un urlo che morì in un rantolo. Il suo corpo sanguinolento, con la faccia orridamente deformata, precipitò, come una massa inerte fin sul lastrico fangoso della cucina.

CAPITOLO XV. Sola.

Dopo tre anni di sacrifizio il dottor Carlo Chiari aveva finalmente la prospettiva di un posto più degno di lui.

Sfidando il freddo, il vento, la pioggia di un brutto giorno di novembre, la cavallina attaccata al vecchio calesse, andava andava per la campagna malinconica, sommersa nella fiumana. Le ultime visite!

Già il nuovo medico condotto aveva preso il suo posto; e da buon collega, egli lo aveva accompagnato da un luogo all'altro, presentandolo ai diversi clienti.

Adesso faceva una corsa per conto proprio, volendo salutare alcuni vecchi amici.

—Un buon diavolaccio—pensava egli riandando su i discorsi fatti col suo successore.—Starà qui meglio di me; ha famiglia e nessuna ambizione. Io vado, finalmente, vado!... Il mio destino si allarga; la fortuna comincia a sorridermi... Sono io contento?...

Aveva tutte le ragioni per esserlo. Un bel paese lo aspettava; un discreto stipendio, e molte probabilità di guadagni accessori.

Con tutto questo, egli non sapeva rispondere alla domanda che si era fatta.

Guardava in fondo alla strada, un po' a sinistra, le case della Cascina Grande: una larga macchia nerastra.

—Che tempaccio!—mormorò gettando il mozzicotto di un cattivo sella, e pensando a tutt'altro.

La malinconia della partenza penetrava anche la sua anima di gaudente ambizioso; quella piccola parte di se medesimo, quei tre anni di vita con le annesse abitudini e i tenui affetti, gli mettevano addosso, al momento di spogliarsene, un senso fastidioso di rimpianto. E accostandosi alla Cascina Grande, questo malessere cresceva, diveniva acuto, pungente.

—Maria!

Gli pareva che avrebbe quasi fatto meglio a non rivederla.

Il sole tramontava nel cielo grigio dietro alle nuvole. A un tratto una buffata di vento fece uno strappo in quella massa di bambagia sudicia; il disco d'oro sfolgorò su un fondo verdastro. Alcune nuvole nere si tinsero di porpora agli orli. Le vecchie case della Cascina si illuminarono; una vite selvatica, ancora coperta di pampini gialli e sanguigni, che adornava l'orto del fittabile, brillò nel sole. I vetri di alcune finestre scintillarono come bracieri accesi.

Oh! la campagna! La campagna aveva essa pure le sue civetterie... Gli pareva quasi bello quel brutto paese al momento di lasciarlo!

Sorrise, probabilmente di sè.

Trasse dall'astuccio di pelle un altro sigaro e l'accese... Poi, arrovesciando il capo sui guanciali della calessina, restò un momento assorto, spingendo in alto il fumo, in bianche spire sottili.

La nuova «condotta» lo avrebbe messo a contatto di veri signori, di gente colta, di qualche bella donnina... Certo. Il suo spirito, l'ingegno arguto, avrebbero trovato finalmente le occasioni di farsi valere...

Sbadigliò. Si drizzò con un movimento brusco. Scosse la cenere agglomerata in cima al «virginia» con un movimento istintivamente elegante della sua mano aristocratica, una vera mano di operatore, mano felice, specialmente per certe operazioni; come gli aveva detto il suo successore la sera innanzi, complimentandolo: una mano degna di una clientela signorile.

Mah!... Tutto arrivava fuori di tempo nella sua vita!... Quei tre anni lo avevano invecchiato, o, almeno, reso precocemente maturo. Come avrebbe goduto, tre anni addietro, di quella fortuna, che ora gli appariva scialba, insufficiente...

Davanti al cancello del vasto recinto la cavalla rallentò il passo spontaneamente. Egli non ebbe che a muovere un momento le redini per farle intendere che doveva entrare.

Il breve sfolgorìo del tramonto era scomparso. Le nuvolaccie si riaddensavano, coprivano tutta la volta del cielo. Le vecchie casupole riapparivano nel loro colore naturale, con i muri sudici, affumicati, rosi da vecchia lebbra.

Ricominciava a piovere.

Il dottore saltò dalla calessina e raccomandò al garzone di stalla, venutogli in contro, di metterla al riparo dell'acqua. Poi si avviò quasi correndo verso la stanzuccia, o meglio la cucina, a terreno, dove abitava la vedova del povero Sandro.

L'uscio era socchiuso, secondo il solito. Lo spinse e entrò dicendo allegramente:

—Permetti a un vecchio amico di salutarti prima di partire?...

La giovine donna, curva davanti al focolare dove stava preparando quella poca cena, si drizzò e si voltò di botto.

—Oh! signor dottore!...

Avrebbe voluto dire qualche altra cosa ma non trovò le parole e rimase lì confusa e tutta rossa in viso.

Egli la esaminò un istante in silenzio. Poi le stese la mano.

—E un pezzo che non ci vediamo!... Come stai?... Meglio mi pare.

—Sì, sì... Ho ricominciato a lavorare. Vado alla canapa.

—Alla canapa? Fai malissimo. Non è lavoro per te ancora.

—Oh!... Mi sento tanta forza!—E sorrise.

—Stai meglio, sì, vedo. Ma non devi strapazzarti.

Ella tornò a sorridere, e si chinò per ravviare i sarmenti che si sparpagliavano. Poi andò in fondo alla cucina a prenderne degli altri e li gettò sul mucchio per ravvivare la fiamma.

—Si accomodi un pochino qui, signor dottore; si scaldi; deve far freddo fuori.

—Un tempo da cani!—esclamò il giovine, mettendosi a sedere, visibilmente contento di quell'invito.

—Dunque, lei se ne va?...

—Domani, Maria cara! domani! e mi dispiace!

—Come?... Non è dunque vero, come mi hanno detto, che va in un posto tanto bello?...

—È vero. Ma, sai, quando ci si allontana da un paese, dopo tanto tempo, si ha sempre il cuore grosso... E a te, non importa proprio niente che io vada via?...

—È una disgrazia per tutti noi altri, poveri contadini—rispose Maria chinando la fronte.—Un dottore come lei non l'avremo mai più!...

Egli protestò. Il dottore Fortini che lo rimpiazzava era un ottimo uomo.

—Lo credo... ma lei...

Non disse altro.

—Siediti un pochino qui!—fece il dottore, coi nervi irritati dal vederla sempre in piedi. Così!... Si sta bene, soli, vicini, seduti accanto al fuoco... Se tu avessi voluto!...

S'interruppe riflettendo quanto Maria avrebbe sofferto nel separarsi da lui, se avesse dato retta a quel capriccio.

Ma era veramente un capriccio?

Non poteva esser altro.

E tuttavia, provava una tenerezza... uno struggimento...

—Perchè non hai voluto?...—le domandò bruscamente.

Maria lo guardò coi grandi occhi pieni di stupore e d'angoscia.

—Non parliamo di queste cose—mormorò tristamente facendo l'atto di alzarsi.

—No, no!... Sta qui. Parleremo d'altro Sii buona: è l'ultima volta!... Senti, devo farti tanti saluti da parte di una persona, anzi di due.

—A me!

—Si, a te. Sai che sono stato a Milano, la settimana passata?

Ella scrollò il capo. Si scusò. Viveva sempre così rintanata: non sapeva mai niente.

—Se avessi saputo, l'avrei pregato di andare un momento a casa di don Giorgio... Son già tre mesi che la Cristina mi ha mandato i denari perchè andassi a trovarla, e non ho mai potuto.

—Hai fatto male.

—Santo Dio! come si fa!... Prima, il padrone non mi ha dato mai il permesso: poi s'è malato il bambino della mia vicina, il povero Gigino, e mi voleva sempre alla culla, povero angelo!... Volevo appunto mandarle a dire alla Cristina, che oramai andrò per le feste...

—Sarà troppo tardi, figliuola mia!...

—Troppo tardi?... Oh Dio!... Non mi metta questa paura addosso! È forse malata?... Dio! Dio...

—No no, sta tranquilla. Non è malata, anzi...

—Dunque l'ha vista?

—Sicuro. Non t'ho detto che avevo dei saluti a farti?...

—Ah! me n'ero scordata. E dove l'ha vista? Si sono incontrati?...

—Si, ci siamo incontrati...! Ma se tu mi fai quella faccia non ti dico niente.

—Oh! signor dottore!...

—Calmati. Ho visto tua sorella...

—E il Castellani, non l'ha visto!... L'ha abbandonata?!...

—Non vuoi finirla di tormentarti?... Il Castellani è sempre con lei. Non sai che si sono sposati?... Non te l'hanno scritto?...

—Si si... è vero. Ma non mi posso convincere che sia un matrimonio per davvero. Mi pare un sogno.

—Invece è la verità; e si vogliono molto bene e sono felici... Ma...

—Ma?...

—Senti, ascoltami con tutta la calma. Scendevo alla stazione di Pavia e siccome sapevo che nel treno avviato per Genova erano circa dugento emigranti—che non avevo potuto vedere alla stazione di Milano—mi fermai un momento per salutare quelli che conoscevo. A un tratto vedo un uomo, una specie d'operaio, robusto e giovane, che si sporge da un finestrino, agitando le braccia verso di me, e sento una voce sonora che mi chiama... Guardo meglio, mi accosto... Figurati! Riconosco il Castellani... e dietro le sue spalle la bella testa di tua sorella...

—Oh!—gridò Maria scoppiando in un pianto dirotto.—Vanno in America!... Povera sorella mia!... In America!... Non la vedrò mai più!...

Il dottore che aveva preveduto questo scoppio, lo lasciò passare. Poi a poco a poco, cercò di consolare la povera Maria. Non doveva disperarsi così. La Cristina aveva buonissimo aspetto... Erano tutti e due assai ben vestiti, e poi felici, innamorati—avevano l'amore negli occhi, facevano invidia...

—La più disgraziata sei tu, non capisci?... Tu che resti qui sola, in questa miseria, dopo tutto quello che ti è toccato!...

Ella non era disposta a intenerirsi sopra se stessa. Alzò le spalle. Che le importava mai di sè?... Ma sua sorella... oh! era tutt'altra cosa!...

E raccontava che appunto la settimana passata, avendo assistito alla partenza di sette poveri uomini, che lasciavano il paese per recarsi a Milano e di là a Genova, e da Genova lontano lontano, tanto che loro non potevano neppure farsi un'idea di quella lontananza, si era sentita così sgomenta che aveva pianto, per degli estranei. Ed ora le toccava di sentire che sua sorella pure, e quel povero don Giorgio... andavano laggiù... oh!... una cosa da morire... E si rimetteva a singhiozzare.

Ma il medico non voleva che si disperasse così. Doveva consolarsi invece. A Milano stavano poco bene. Il Castellani non poteva adattarsi a fare l'impiegato; Cristina era come un pesce fuori dell'acqua. In America avrebbero vissuto in campagna. Il Castellani non aveva preso quella risoluzione alla cieca: andava a dirigere i fondi di un ricco possidente dell'Argentina, un italiano che aveva dato l'incombenza a una casa milanese di trovargli un uomo così e così. Una vera fortuna.

Non poteva capitargli meglio.

—Ma così all'improvviso!—gemeva Maria.—Se avessi saputo sarei andata a Pavia avrei abbracciato mia sorella.

—Hai ragione. Ma è stata una cosa improvvisa davvero. Il vapore partiva, da Genova la sera appresso, il posto era pagato. Due giorni soli per prepararsi! La Cristina piangeva, perdeva la testa. Avrebbero forse potuto scriverti di trovarti alla stazione di Pavia, ma il Castellani ebbe paura che fosse peggio, tanto per te che per la Cristina. Vedersi un momento solo è orribile. Ti scriveranno da Genova e da Marsiglia. E quando la gli andrà bene, si ricorderanno anche di te, sta sicura.

A poco a poco, Maria si lasciò distrarre; rasciugò le sue lagrime.

—Hai sentito che tuo cognato è fuori?—domandò il dottore per cambiar discorso.

—No. Come!... Ha già finito la condanna?...

—Sicuro; è un anno...

—È vero. Ma io non ho mai capito perchè gli hanno dato così poco. Non è un grande delitto ammazzare un fratello?...

—Si; ma lui ha avuto le circostanze attenuanti; si è riconosciuto che doveva averlo ammazzato per una forza quasi irresistibile... Sai bene, perchè Sandro lo tradiva...

—E chi andò a dirlo a quei signori?...

—Tutti i testimoni. Tu non ti ricordi perchè eri tanto ammalata e non sei potuta andare ai dibattimenti.

Ella fece un gesto d'orrore. Non poteva comprendere che la giustizia si facesse così; nessuno aveva secondo lei, il diritto di accusare Sandro, un morto, uno che non poteva difendersi!

Il dottore la lasciava dire; non cercava di spiegarle il complicato organamento della legge; un po' perchè pensava ch'ella non avrebbe compreso; molto più perchè quel sentimento ingenuo, quella maniera di giudicare le cose, da un punto di vista così inaspettato, lo interessava profondamente, e lo inteneriva.

Povera Maria!... Come erano forti i suoi sentimenti, e che strano istinto di elevatezza era nell'animo suo!

La guardava sempre più commosso: l'ammirava.

—Maria!—mormorò accostando il suo viso al viso di lei.—Maria vuoi venire con me?

Ella alzò la testa con impeto. Lo guardò di sfuggita, impallidì e chinò gli occhi.

Non so fare a servire —disse finalmente con un filo di voce.—Sono troppo contadina.

—Oh! Maria! Chi ti parla di servire?...

S'interruppe, e non potè ripigliarsi. I grandi occhi ingenui lo fissavano ed ei si sentiva sconcertato.

Avrebbe voluto dirle una parola capace di commoverla e di convincerla; ma non trovava quella parola; e sotto l'indagine di quegli occhi, non poteva dire una cosa non vera, non profondamente sentita.

Avrebbe voluto dirle:

—Sarai la compagna della mia vita. Ti amerò sempre.

Ma non era vero. Quegli occhi gli dicevano che non era vero.

Che cosa provava veramente per lei?

Una grande attrazione, un desiderio ardente, intenerito dall'affetto e dalla pietà. Avrebbe voluto stringerla fra le sue braccia, prendersela...

E poi?...

Portarsela via.

E poi?...

—E poi, io non so—pensava, irritandosi con se stesso:—la vita è la vita: l'oggi non risponde del domani. Non l'abbandonerei mai però; le farei uno stato...

—Maria—mormorò incoraggiato da questo proponimento che gli pareva onesto.

—Maria! ti voglio bene. Vieni con me!

Ella crollò il capo tristamente.

Non so fare a servire —ripetè con quella pertinacia contadinesca che formava un lato del suo carattere.

—Ma chi ti parla di servire?—ribattè lui.

Ella ebbe un momento di sospensione. Lo fissò ancora; sembrò riflettere. Poi si riscosse, e con la voce rotta da una profonda commozione, disse:

—Capisco... Ma io, stando con lei... in qualunque maniera, sarei sempre la sua serva. Anche se, per un poco, fossi altro... tornerei presto la serva. E non so fare a servire: sono troppo contadina!

Egli chinò la fronte. Quanta verità nelle rozze parole, e che profondo sentimento! Ella aveva tutto compreso, e tutto sintetizzava, senza studio nè esperienza, nella sua sublime ignoranza, guidata dal solo divino intuito dell'anima femminile.

Era una creatura superiore quella povera donna; ed egli, qualunque cosa facesse, non poteva che abbassarla. Fatalità della vita.

Restarono qualche tempo in silenzio.

Il fuoco si spense.

Maria si turbò. Chinata sul focolare cercò di ravvivare la fiamma con le poche bacchette più che a metà consumate.

Ma vedendo che non le riusciva, uscì dalla cucina e ritornò con un fascetto di legna meno sottile, ma assai più umida, che empì la stanza di fumo.

Il dottore le andava dicendo di non darsi pena. Ma lei si disperava di non poter essere ospitale come voleva. Per fortuna trovò un poco di paglia secca, e con quest'aiuto il fumo fu vinto e la legna cominciò ad ardere.

Il giovine si levò per andarsene. Non c'era altro da fare.

—Ti ricorderai di me qualche volta?

—Oh! signor dottore! Ho tanti obblighi verso di lei; non me ne scorderò finchè vivo.

Egli rimase ancora. La interrogò minutamente sulla sua malattia, senza farla arrossire. Le raccomandò certe cure; non lavorasse troppo; e continuasse a prendere le medicine che le avrebbe mandate, come prima.

Ella diceva sempre di si, ringraziandolo ripetutamente.

Erano in piedi presso alla porta. Ora egli doveva andarsene: esauriti i pretesti.

Ma gli pareva di non potersi staccare dal pavimento.

Il cuore gli diceva:

—È l'unica vera felicità questa che tu abbandoni. La vita non ti offrirà mai più qualche cosa di simile.

Quasi senza sapere, trascinato dalla commozione interna, disse ancora:

—Risolviti... vieni con me!

E ancora ella crollò il capo tristamente senza rispondere.

Ma dopo alcuni istanti di silenzio, temendo di averlo mortificato, balbettò con la voce velata:

—Non si affanni per me. Non resto sola. Ho la bimba laggiù... e la Giulia e Sandro... tutti morti male... Devo pregare per loro...

—Povera Maria! taci... taci!...—esclamò il medico rabbrividendo.

Una mano di ferro gli serrava la gola.

—Addio! Addio!...

Si chinò un momento su lei, la baciò in fronte e fuggì nell'oscurità.

La calessina aspettava. Ancora un saluto, e via.

Pioveva. Il freddo umido gli calmò la febbre.

Sferzò la cavallina, pensando di omettere le alcune visite che gli rimanevano ancora e che gli seccavano in quel momento. S'avviò verso Gel.

Lagrime amare scorrevano in fondo al suo cuore, ma gli occhi rimanevano asciutti, brucenti. L'oscurità quasi completa della campagna s'addiceva alle disposizioni de' suoi nervi: l'aria fredda penetrandogli sotto le palpebre gli recava un senso di refrigerio.

Si sentiva diverso. Gli pareva che l'anima sua piccolina si fosse ingrandita smisuratamente; come quella pianura monotona e fastidiosa a cui la notte dava il carattere solenne e tragico di una landa sterminata.

Maria!... Povera Maria!...

Era sdegnato con se medesimo. Eppure non poteva negarsi una certa stima. Si trovava forte e vigliacco.

Forte, per averla rispettata; vigliacco, per non aver saputo convincerla dell'amor suo.

Povera Maria! Che destino perverso la incalzava nella vita! Creatura sacra, destinata dalla natura ad un altissimo fine; perfetta di corpo, senza quella bellezza procace che turba i sensi e offusca lo spirito; perfetta nell'anima, e ignara del proprio valore: la vera madre: la vera compagna dell'uomo semplice e saggio. Ed egli che l'aveva compresa, ammirata, amata da scienziato che sa e pesa il valore di un essere; da poeta che aspira all'ideale felicità; da uomo, anelante alla gloria di dare quella madre ai suoi figli, egli pure l'abbandonava!

Perchè?

Perchè non possedeva un cuore semplice; perchè non era un uomo saggio. Perchè intendere non serve a nulla!—concretava sorridendo del suo vecchio sorriso pieno di amari sottintesi.

—Beati quelli che non ragionano: beati quelli che si lasciano condurre da un istinto affettuoso, da un concetto semplice della vita!...

... Beato don Giorgio emigrante in America con la sua Cristina al fianco!...

Cristina!

Meno perfetta di Maria, tanto nell'anima che nel corpo; ma più seducente, più femmina, più voluttuosa. Come l'aveva desiderata!...

Era egli certo di non desiderarla ancora?...

Ah! Ah!... Ah!...

Sferzò la cavalla, che già correva fiutando da lontano la domestica stalla.

Ah! il male era nel cuore, reso impotente dal cervello analizzatore e dalla sensualità dominante.

Compiangeva Maria, ma avrebbe speso meglio il tempo a compiangere se stesso. Maria, sola, attaccata alla tomba della sua bimba, alla memoria del marito infedele, Maria, col cuore lacerato per la sorella che emigrava, per lui stesso, forse: Maria, mezzo malata, e povera tanto da essere costretta a faticare come una bestia per isfamarsi: Maria era ricca in confronto di lui.

Che cos'era lui in fine?...

Un gaudente povero, pieno di voglie inacerbite; un goloso dallo stomaco guasto, tormentato da inappetenze intermittenti. Capace di mutar gusti ed affetti per un cambiamento di luce, o di prospettiva. Capace, se avesse preso Maria con sè, di non amarla più affatto, di trovarla volgare, fuori della sua bella cornice di infelicità e di miseria! Capace di preferirle, al pari di Sandro—campagnuolo sciupato dalla caserma—una prostituta nata, come la Virginia.

Oh! se si conosceva!

Era destinato a impazzire—vecchio impenitente—per qualche femminuccia abituata a trastullarsi con le debolezze dei maschi: destinato a far morire di crepacuore la donna amante che gli avesse fatto realmente un grande sacrificio. Natura di belva e di gaudente raffinato.

Rise, sbadigliò, e si stirò tutto.

Niente da cambiare, del resto!

Eredità. Effetti dolorosi di vecchie cause, non sempre facili a rintracciare.

Una volta dicevano: fatalità.

Mutano i nomi...

Arrivato a Gel, il dottore scese davanti alla farmacia dov'erano riuniti ad attenderlo i suoi pochi amici. E la viva luce, l'aria calda e le chiacchiere clamorose fugarono ben presto i fantasmi della notte—le chiaroveggenze dell'anima.

Soltanto nel coricarsi, tra la veglia e il sonno, per un ritorno quasi meccanico della memoria, egli ripensò:

—Beati i cuori semplici! Se v'ha felicità al mondo, non è che per loro.

E più tardi, nell'ultimo crepuscolo della coscienza:

—Povera Maria... Povero me!... Tutti e due senza amore!... Soli!...

La mattina, si risvegliò come un uomo nuovo.

Il sentimento della realtà, l'ambizione e il desiderio indistruttibile di vivere e di godere lo avevano ripreso con nuova forza.

Finito il vecchio libro!

Inutile pensarci su.

Una pagina bianca stava dinanzi a lui e chi sa che belle cose, e se non belle curiose certo, ci avrebbe scritte il destino!

Vi è un genere di miseria che si dissimula o si dimentica, tanto più facilmente, quanto più è squallida.

Quella stessa mattina Maria si alzò con l'aurora per andare al lavoro della canape.

Lavorando il suo pensiero viaggiava, viaggiava coi lontani, coi morti...

Rievocava la imagine della povera Giulia già da tre anni sepolta. E rivedeva il suo Sandro e la Cristina... e la perversa Virginia...

Ma un'altra immagine s'imponeva al suo pensiero... quella del giovine medico... partito anche lui! E si sentiva così sola, così sola, che le si stringeva il cuore. Come avrebbe fatto a vivere così sola?...

Intorno a lei bisbigliavano sommessamente di fatti inauditi. Il vecchio Melica, acceso in volto, narrava che i contadini erano stanchi di soffrire, che si ribellavano, scioperavano, uccidevano!...

—Dove?... Quando?—chiedevasi da voci strozzate.

—Poco lontano...

—Più lontano...

—Nel Mantovano...

—Più in qua...

—Sul Comasco...

—... a Gallarate...

—... da per tutto...

Tutti parlavano:—il lavoro languiva.

Un guardiano passò: poi il padrone stesso, pallido, arcigno.

Nessuno fiatava: la macchina sola si era messa a strepitare come un uragano.

—Cantiamo!—mormorò la Meroni, impaurita.

—Cantiamo le lodi della Beata Vergine.

—Cominciate voi, Maria, cominciate!... supplicò la Menica, povera donna, con quella faccia di febbre.

—Non posso—rispondeva Maria.—Non posso.

Aveva un peso sul cuore, un peso che le mozzava il respiro.

Nessuno aprì bocca, neppure il padrone, che si allontanò ben presto con un ronzìo negli orecchi.

La macchina continuava il suo verso.

Maria pensava: I contadini si ribellano!... Sono stanchi di soffrire!... Ma che speranze possono avere?... Cosa vogliono fare?... Cosa, in nome di Dio?!... Saranno schiacciati, puniti... Siamo nati per lavorare e soffrire, noi poveretti: è così da per tutto... lo diceva anche il povero Sandro!...

Ma nel medesimo tempo, ella provava per la prima volta in vita sua un bisogno strano di gridare, di strepitare, di picchiare i suoi pugni pesanti su qualcheduno, di sfogarsi in qualche maniera.

Quasi senza sapere, per una ispirazione improvvisa le vennero sul labbro alcune strofe del Canto dei lavoratori, che certi giovinotti avevano sentito a Pavia e subito imparato, e insegnato agli altri. Il canto le sgorgò dal petto pieno di schianti e di lagrime.

«Su fratelli, su compagne,
su, venite in fitta schiera;
sulla libera bandiera
splende il sol dell'avvenir.»

«Nelle pene, nell'insulto
ci stringemmo a mutuo patto;
la gran causa del riscatto
niun di noi vorrà tradir.»

Tutti ascoltavano sbigottiti, non osando seguire quella voce profonda e appassionata, che li rimescolava.

Ma quando Maria cominciò il ritornello

«Il riscatto del lavoro
de' suoi figli opra sarà;
o vivremo del lavoro
o pugnando si morrà!»

le donne, trascinate da una forza arcana, si slanciarono. Alla seconda ripresa gli uomini le seguirono, tutti d'accordo.

Le pareti tremarono; il rumore della macchina fu soverchiato.

E il padrone che già s'allontanava, sostò in mezzo alla strada, ascoltando a denti stretti.

ALCUNI GIUDIZI DELLA STAMPA ITALIANA su i Romanzi di BRUNO SPERANI

Nell'Ingranaggio, 1885.

Bruno Sperani ha dettato un romanzo che rimarrà, malgrado qualche imperfezione di forma, gradito e ricercato, specialmente pel finissimo e completo studio della Gilda Mauri e che rivela come solo uno spirito superiore di donna poteva plasmare il concetto e tradurlo in persona, vivificandolo perfino nelle sue minime particolarità.

(Dal Convegno). Il conte Arundello.

Ho tracciato l'intreccio perchè svela gli intendimenti della scrittrice. La favola modesta, lo sviluppo dato in balìa al cuore che cede ed al fato che trascina. Una scrittrice quasi sempre accurata, simpatica sempre. Delle pagine robuste, senza ricercatezze e senza l'indomita ambizione, che hanno altre scrittrici, oggi sul piedestallo, di farsi credere, forti come un uomo.

Tutta una condotta che può parer povera ed è semplice. Tutta una storia la quale al di là dei suoi capitoli d'amore, di ansie e di morte, svela la morale che libera gli umani da colpe, pur troppo segnate nel loro destino. Nell'Ingranaggio non vi sono tesi. Questo diciamolo pure un bene, per i tempi che corrono, propizi alla cattedra. La morale viene ineluttabile dai fatti. In quel sciupìo dei liberi slanci, delle onestà fiere, degli affetti primi e dei doveri sacrosanti, voi vedete la gran lotta che si sfascia dinanzi alle fila del caso. Tutto va nell'ingranaggio e per gridi che innalzi la vittima, o per odio che ammassi il colpevole, ogni cosa esce da quei denti di ferro, come vogliono le forze e i misteri del destino nostro.

(Dalla Lombardia ). Ugo Capetti.

Quest'imperfetta e sommaria analisi del romanzo basta però ad indicare che esso è un romanzo intimo dove il dramma scaturisce dalla passione ardente. Pochi personaggi principali, disegnati, nelle loro linee generali, con arditezza di tocco; molte macchiette, fra le quali alcune felicissime, massime le piccole fotografie dal vero degli artisti del Teatro Milanese. Qua e là, come del resto in tutti i romanzi della Sperani, si riscontrano ineguaglianze e slegature, ma l'interesse non langue mai. È soltanto a rimpiangere che l'egregia scrittrice, o per soverchia fretta o per noncuranza, non abbia dato l'ultimo ritocco al suo lavoro, non ne abbia meglio curata la forma; non abbia meglio approfondito i caratteri dei suoi personaggi sorvolando su più di un punto psicologico di capitale importanza, come ad esempio, la caduta di Gilda; si sia limitata, in una parola, a darci un buon romanzo, non una vera opera d'arte. Eppure poco ci sarebbe voluto!

Ad ogni modo, Nell'Ingranaggio, a malgrado del titolo non troppo felice, meritava una tutt'altra edizione. Io non esito ad annoverarlo fra i più interessanti romanzi italiani di questi ultimi tempi.

( Gazzetta Letteraria ). Depanis.

Bruno Sperani ha scritto un libro di dolore e di verità. Verità, non intendo soltanto nel senso di quella esatta e più o meno fotografica—o notarile—riproduzione di ambienti, di caratteri, di particolari, che è tanta e così sostanziale parte del romanzo moderno positivista. Dico che il libro—ciò che sfuggì a tutti i critici, toltone l'acuto Cameroni che lo ha intraveduto—è una battaglia pugnata per la verità e l'interezza della vita e delle sue forme, per la coerenza di queste con quella, per lo spastoiarsi da quello aggrovigliamento malsano di tradizioni, di convenzioni, di convenienze, di artifici, d'imposture, di vigliaccherie che avvolgono come in una rete di ferro, e comprimono e pervertono e fanno più frivola e corrotta e crudele, la già tanto frivola e crudele e corrotta vita della borghesia moderna.

E la battaglia è tanto più efficace perchè non è fatta in forma di predica, nè l'argomento è torto alle esigenze, incompatibili con l'arte, di una tesi propriamente detta.

Ogni libro d'arte, che ha un valore, prova qualche cosa; proverà o la vita o la morte, o il bene o il male, o un particolare aspetto di queste cose, o il dubbio, lo scetticismo, l'impossibilità di provare alcuna legge costante nella versatile complessità della vita.

Ma un libro, e sia pure un romanzo, onde non emerge un'impressione netta e coerente—ossia una conclusione—sarà un centone di descrizioni più o meno abili e di fattarelli di cronaca più o meno piccanti—non sarà nè romanzo nè libro.

E a me, leggendo « Nell'Ingranaggio »—questa storia piana e penosa del povero amore dell'Istitutrice, amore sano ed intero e legittimo innanzi alla natura ed ai fatti, che si scioglie logicamente nell'abbandono e nel suicidio, spintovi dalle energie congiurate della legalità e dell'ipocrisia, che piglia nome decoro —a me s'imponeva un ravvicinamento che parrà per lo meno curioso ai lettori superficiali: il ravvicinamento di questo romanzo senza tesi e tutto concreto, con quel volume tutto tesi e disquisizioni astratte, meraviglioso per impeto di logica distruggitrice malgrado la leggerezza con cui maltratta taluni argomenti, che il Dumolard pubblicò non ha guari: le Menzogne convenzionali del Max Nordan.

(Dall' Italia ). Filippo Turati.

Bruno Sperani, col suo Nell'Ingranaggio, viene a mettersi in prima fila nel plotone, anche troppo sottile, de' romanzieri italiani.

Ugo Sogliani.

Numeri e Sogni, 1887.

Fin da quando leggevo certe sue corrispondenze ai giornali, sentivo in Bruno Sperani un'intelligenza superiore, una fibra robusta, come una eco di lotte sostenute. Nell'Incubo, e specialmente Nell'Ingranaggio, buon libro di poco inferiore al Numeri e Sogni, questa caratteristica dell'artista si manifesta chiaramente; tutte le sue qualità si affermano nella originalità della sua personalità propria, si espandono rigogliose, suo malgrado, nella serenità della sapiente esperienza e della robusta forza intellettuale bene equilibrata.

(Dalla Scena Illustrata ).

Bruno Sperani fa classe da sè, perchè nei molti pregi e nei pochi difetti non rassomiglia a nessuno. Il fondo del suo temperamento artistico mi pare sia appassionato e delicato, tutto slancio e sincerità, temprato nell'energia virile e nella esatta comprensività della vita—cui deve, se lo scetticismo da cui ora mostra d'essere penetrata, non sopraffatta, non le inasprisce cuore e mente e il dubbioso sconforto si mantiene pietoso e indulgente, per le miserie umane.

Se dovessi qualificare Bruno Sperani con poche parole, la direi: sentimento, verità, vita.

Fu scritto come dogma che la donna giudica l'uomo o troppo bene, se con amore, o male, se con odio; quasi mai con giustezza. In quanto alla Sperani Nell'Ingranaggio come nel Numeri e Sogni ha trovato la nota giusta, anzi umana; gli uomini che descrive sono veramente, umanamente uomini.

Uno dei pregi che più ammiro nell'autrice è il senso di intima, assoluta realtà—sangue e muscoli del suo ingegno—al punto che i fatti, i personaggi non li leggiamo, li vediamo, li sentiamo, viventi e veri, immedesimati nella nostra vita come esistenti insieme a noi; e li conosciamo tanto a fondo come se li avessimo frequentati per anni ed anni.

Silvio Cigerza.

Leggendo un romanzo di Zola, potete chiedervi quanto l'autore, per iscrivere quel libro, ha veduto, ha notato, ha coordinato, ha riassunto. Nel romanzo della Sperani vi chiedete quanto, per farlo, le è bisognato della sua propria vita, quante lagrime, quanti sconforti, quante amare voluttà le è costato.

( La Cronaca Rossa ). Filippo Turati.

La signora Speraz che si nasconde sotto lo pseudonimo, bene ormai noto, di Bruno Sperani, ha contrapposto in questo suo nuovo romanzo la idealità della vita alla realtà; come indica il titolo.

Che tutto il romanzo sia condotto con pari felicità, non oserei affermare; certo è che vi si leggono pagine molto buone, che l'intendimento ne è sano ed alto, che vi sono figure ben tratteggiate, come quella della moglie del pittore, Filomena, che vive modello di virtù e di rassegnazione tutta dedita alle cure della famiglia. Anche merita lode la egregia autrice per avere osato condurre il romanzo in uno svolgimento ampio e pur logico di casi onde l'animo del Superti, dall'amore per la Mariuccia a quello non meno infelice per l'Eugenia, si mostra intero al lettore: e per la fine non volgare con cui ha chiuso tale svolgimento.

(Dalla Nuova Antologia ).

Io vorrei che questo lavoro della gentile autrice si leggesse assai; troppo frequente è nella vita la lotta dei Numeri coi Sogni perchè non riesca utile lo studiare a quali risultati essa può condurre. Se è vero che la letteratura deve pur servire a qualcosa nell'educazione morale e intellettuale d'un popolo, io credo che quando questi romanzi avranno più lettori delle appendici quotidiane dei nostri giornali, si potrà dire con un arguto scrittore contemporaneo che «il termometro della coltura generale avrà lasciato le temperature invernali per salire ai gradi più alti della primavera e poi di quella di estate che matura i frutti.»

(Dalla Letteratura di Torino). Valabrega.

Bruno Sperani è un'osservatrice e una pensatrice—qualità e pregio raro quest'ultimo, in mezzo a tante scrittrici e scrittori, che sono mere macchine fotografiche, più o meno esatte, più o meno perfette, ma senza coscienza cerebrale. Nei lavori della Speraz vi è sempre, non una tesi, ma un concetto, ch'è rilevato dal punto di veduta in cui si pone la scrittrice, dalle cose che scorge, da quelle che sottrae, dalle ombre e dai lumi; insomma, non da quello che essa dice—intromettendosi non richiesta nell'azione—ma da quello che mostra, e sa vedere, dell'azione stessa. Così l'obbiettività non è mai violata, ma la produzione artistica non è più un lavoro fotografico, è un quadro: non ci dà una parte fortuita e inanimata, slegata, del vero—ma la riproduzione del vero in un disegno organico che lo riattiva e lo anima; così, e non altrimenti, intendiamo noi l'opera d'arte; così, e non altrimenti, noi abbiamo sempre inteso il realismo.

(Da Cuore e Critica ). A. Ghisleri.

Queste 619 pagine, che io dichiaro d'aver lette senza interruzione, portano l'impronta di una lunga, paziente ricerca nella vita dell'arte, e d'un delicato gentile amoroso sentimento della vita comune. Qua e là, quando questo romanzo si alza fino alla speculazione filosofica della vita, e vi tace l'idilio, e la passione vi è temperata dal ragionamento, e l'ala del destino vi batte robusta, nessun sospetto vi prende che l'opera della donna vi sia abilmente celata: ma in molte parti essa si rivela, in più di un contrasto si afferma; in qualche figura rimane e risplende. Qui sta la doppia vittoria che la signora Bice Speraz riporta con questo frutto dell'esperienza sua di donna e di artista.

(Dal Diritto ). O. Grandi.

Cercai già di mettere in evidenza l'eccezionale importanza di Numeri e Sogni di Bruno Sperani, come fisiologia della vita dei nostri giorni fra i pittori Lombardi e come studio sociale contro le menzogne ed i pregiudizi, tuttora dominanti nelle famiglie borghesi. La lettura degli ultimi suoi capitoli mi ha rivelato un profondo sentimento di tolleranza, anzi di pietà, verso le debolezze, le contraddizioni, le colpe umane. Bisognerebbe esser miopi d'intelligenza, o senza cuore per non comprendere la confortante conclusione di Numeri e Sogni. Con essa si eleva la Sperani ai vasti e generosi ideali altruistici del Tolstoï. Aiutare i sofferenti e perdonare gli errori di quelli, che inconsciamente fanno soffrire.

(Dal Sole ). Cameroni.

Numeri e Sogni —un romanzo senza alcun dubbio vigoroso ed audace; e, nella terza parte specialmente, virilmente efficace.

(Dalla Gazzetta Letteraria di Torino). Depanis.

Se esaminiamo la produzione letteraria italiana di quest'anno, dovremo ad ogni costo riconoscere che i due migliori romanzi sono di due donne, sono cioè: Teresa di Neera e Numeri e Sogni della Sperani.

(Dal Piccolo di Napoli ). Vittorio Pica.

Invece d'inforcare le lenti dell'anatomico e stancare la nostra pazienza a furia di verbali l'autrice stimò meglio cogliere il lato caratteristico dei fatti umani, lasciando che questi parlassero da soli. In luogo di seguire le orme de' pseudo-naturalisti francesi, preferì attenersi al metodo de' grands maîtres del romanzo russo e inglese, che consiste appunto nel cercare e ottenere grandi effetti con la massima sobrietà di mezzi.

Questa tendenza che io aveva già notata in Nell'Ingranaggio, spicca ancor più chiara nell'ultimo romanzo della scrittrice dalmata.

Tutto sommato un libro vigoroso, attraente, e, fra le odierne produzioni del genere, senza dubbio un libro hors ligne.

(Dall' Indipendente di Trieste). Marco Zar.

L'Avvocato Malpieri, 1888.

In tutto il romanzo di questo spostato Malpieri, il tipo è sviscerato con molto acume e vigore. Una tinta bigia di amarezza predomina in tutto il libro e da essa, a stento, si salva qualche tipo gaio, come quel povero bambino di Amilcare. L'impressione generale è profonda e ci fa sempre più convincere che la Sperani à una forza ed un'audacia nella concezione artistica e nello svolgimento del suo concetto che pochi scrittori posseggono. Io per parte mia, auguro alla nostra letteratura molti romanzi così fortemente pensati e trattati come questo Avvocato Malpieri della valorosa signora Sperani.

Onorato Fava.

Nell' Avvocato Malpieri non è un politicante che critica, è un psicologico, un filosofo che giudica, che non condanna od applaude alle azioni per sè stesse, ma ne ricerca l'intime cause e colla analisi morale giunge perfino a spiegare la vigliaccheria e a farla compatire, mentre fa biasimare quel coraggio che desta l'ammirazione del volgo.

(Dalla Cronaca Rossa ).

In tutto e per tutto, anche quest'ultimo romanzo di Bruno Sperani è tolto dalla vita contemporanea. L'azione s'agita intorno ad un giornalista di parte radicale, transfuga fra i conservatori, per sete di vivere largamente, per ambizione, per disgusto della democrazia retorica. Si illude che la felicità consista nei godimenti della vita materiale e nel vendicarsi dell'amore respinto e del rivale fortunato. Sfida cinicamente gli ex correligionari politici, che coprono di fango il suo disonore. Diviene passo a passo un mercenario della penna e finisce col vergognarsi della propria infamia, confrontando la prostituzione dell'opera sua alla fierezza della donna amata, che col lavoro libero aveva redenta la propria coscienza. La psicologia di questi due esseri e le tempeste nel loro cranio fanno dell' Avvocato Malpieri un'opera di valore eccezionale.

(Dal Sole ). F. Cameroni.

«La mancanza di generosità e di ideale distrugge la vita di certi esseri come la mancanza di cibo, o la rende intollerabile, come la mancanza d'amore...»

È questo il concetto del romanzo di Bruno Sperani. Malgrado l'apparente scetticismo, l'autrice ha un alto ideale di nobiltà, di libertà, di giustizia, che nelle ultime pagine del libro ottiene la sua rivincita e consola delle miserie, delle doppiezze, delle vergogne rappresentate nelle parti precedenti.

Come metodo d'arte, la scrittrice si serve di preferenza dell'analisi e della narrazione; se questa riesce necessariamente poco animata, l'altra è molto penetrante; quantunque, in qualche punto, non vada esente da artificiosità.

Le figure che spiccano al primo piano, in piena luce, sono quelle dell'avvocato Malpieri e della Giuseppina; le altre sono tutte episodiche, ma non per questo meno efficacemente ritratte. L'ambiente giornalistico, i maneggi politici, la vita pubblica d'un grande centro sono riprodotte dal vero con grande maestria.

Tutto sommato, tenendo nel dovuto conto certe ineguaglianze di stile e di condotta, e il convenzionalismo di qualche passaggio, il romanzo di Bruno Sperani ha un valore notevole, si legge con piacere e fa pensare. Scritto in francese, a quest'ora conterebbe una mezza dozzina di edizioni e sarebbe riprodotto nelle appendici di tre o quattro giornali[1].

Federico de Roberto.

[1] Ora il romanzo è stato tradotto in francese, e fu pubblicato nel Progrès du Nord di Lille, presto uscirà in volume; il traduttore è M.r J. B. Cotteaux.

Comincia con un comizio nel teatro Castelli di Milano, sul suffragio universale, scena riprodotta stupendamente.

In tutto il lavoro le quistioni sociali e politiche, trattate con una sicurezza ed un'esperienza che pare impossibile possa avere acquistato una donna—poichè già voi sapete, che sotto il robusto nome di Bruno Sperani, si nasconde una figura muliebre—sono in tutto il racconto così bene incatenate e collegate con la vita giornaliera dei personaggi, che l'aridità dell'argomento sparisce e la lettura del libro è sempre piacevole e interessante.

Nel leggerlo mi è accaduto spesso una cosa curiosa. Alternativamente con questo leggevo— Il mistero del poeta —di Antonio Fogazzaro, già pubblicato nella Nuova Antologia, e di sovente mi veniva fatto di confondere gli autori per modo di credere— Il mistero del poeta —racconto idealista, tutto sfumature di sentimenti, lavoro di una delicatissima intelligenza femminile; e—l' Avvocato Malpieri —frutto di lungo e serio studio di costumi, di un forte ingegno maschile.

Come in tutti i romanzi moderni, anche in questo manca o quasi sfugge il fatto, l' intreccio, come si diceva una volta: nessuna scena a sensazione, nessuna ficelle, tutto si svolge naturalmente e logicamente.

(Dal Caffaro ).

Quadro o bozzetto semplicemente, ogni lavoro dell'autore di Numeri e Sogni —conserviamo il genere mascolino in omaggio della firma—reca l'impronta d'una mano sicura, sprezzatrice d'ogni convenzione nella sua arte inesorabile come la verità. Essa forma il soggetto che la impressiona, com'è, nè più nè meno, senza caricarne le tinte, nè alterare le proporzioni. L'effetto ne sia più o meno vivo, non se ne preoccupa, non va alla ricerca di esso, nel suo scrivere.

Agli adoratori del colore e delle minuziosità, questa mano d'artista può parer arida. Ma nelle linee ferme, fossero anche dure, de' suoi lavori, c'è quella intelligenza, quel sentimento, quella profondità, per cui soltanto l'opera d'un artista, d'uno scrittore, ha suggello proprio, e rivela l'ingegno innato, e non formato, su modello più o meno felice, da una semplice attitudine ad imitare.

Elda Gianelli.

È un'opera che s'impone fin dalle prime pagine; chi non si contenta di leggere superficialmente ma leggendo studia, vi scorge profusi tesori d'ingegno. Come fu notato da altri, la Sperani, slava di origine, deriva in parte dai romanzieri russi; ricordai questo nel leggere lo splendido studio su Dostoevsky che il Depanis pubblicò nella Gazzetta Letteraria, là dove dice che: «Per i romanzieri russi in genere... il romanzo non è uno scopo, ma un mezzo; il loro intento è sociale, non estetico.» Un'asserzione così recisa stonerebbe riguardo alla Sperani; pure un fondo di verità l'ha anche per lei. Difatti l' Avvocato Malpieri non ha solo il valore di un'opera d'arte, chè, come in tutti i libri della valorosa autrice, anche in questo sono studiate con grande amore e grande acume talune delle più importanti questioni sociali.

V. Olper Monis.

La storia invero è quella di un individuo, ma essa compendia in sè la vita di chi sa quanti spostati. Presi separatamente spariscono, ma messi in un determinato ambiente si trasformano, se in meglio o in peggio poco monta: il fatto sta che allora vivono e sentono di vivere, quando vinti quando vincitori, sempre però tali che nella lotta ci lasciano un brano della loro carne, una traccia del loro sangue.

E l'ambiente allora diventa non più la cornice del quadro, ma parte integrante del quadro stesso: personaggio ed ambiente si immedesimano, si completano. E questa doppia rappresentazione che deve correre parallela, staccata così che l'una non soprafaccia l'altra, non è facile riesca a chi non abbia intelletto d'artista. O io m'inganno o Bruno Sperani in questo suo lavoro è riescita maestrevolmente; il personaggio e l'ambiente non potevano avere una riproduzione meglio riuscita nè meglio e all'uno e all'altro poteva riuscire ad imprimere la propria fisonomia.

L. Benevenia.

Nella Nebbia, 1889.

Sono semplici intermezzi, abbozzi buttati giù alla lesta, con molta bravura, che si leggono tutti con interesse e che commuovono spesso. Un desinare, ad esempio, è uno schizzo che nella sua succosa brevità vale molte e molte novelle di centinaia e centinaia di pagine. La Sperani al vigore mascolino della dipintura unisce l'acutezza dell'osservazione femminile: donde il fascino singolare, quasi pauroso, che emana da certe sue pagine trasudanti la realtà e pure vibranti di intima emozione. Giova quindi sperare che questa raccolta di scritti disseminati nei vari periodici letterari della penisola sia come la prefazione di un lavoro di maggior lena.

(Dalla Gazzetta Letteraria ). Depanis.

Si capisce che non sono inventate, ma prese dal vero. Un caso lugubre avvenuto al rimpianto Ponchielli (caso successogli realmente a Bergamo) farebbe credere alle predestinazioni... La storia di una miserabile popolana milanese, il cui marito, pessimo soggetto, le toglie tutti i figli, gettandoli all'ospizio, è una figura degna di Domenico Induno. L'ambiente milanese, in cui quella disgraziata patisce, la malignità e la pietà falsa e tarda delle donnicciuole sue coinquiline, sono ritratte con verità.

Vedo che i romanzi di Bruno Sperani ottengono l'onore di essere attentamente studiati da qualche pregiato critico francese. Ne godo, perchè, se ne persuadano alcuni, in Francia se ne intendono... ancora.

(Dal Corriere della Sera ). Raffaello Barbiera.

Due Case, l'ultima delle undici novelle, ecco l'ambiente vivo come solo la mente di fortissimo artista sa dipingerlo!

Quell'angolo remoto, solitario, sulle coste della Dalmazia, sorge dinanzi agli occhi di chi legge, appassionando. E dietro, il paesello con la vita della casa, caduta nella più trista miseria: quella che non vuole svelarsi per orgoglio patrizio, che si nasconde, rinserrandosi fra le mura del vecchio palazzone nobilesco, altezzosamente vergognosa, è una meraviglia.

E lì, che dipintura, a grandi tratti efficaci, dei dolori d'una povera madre, tutta concentrata nella desolazione delle memorie d'un suo povero figliuolo di vent'anni morto lontano, in America; ove l'autocrazia paterna l'aveva mandato. E quegli eterni rimproveri muti al vecchio, che mena la vita disperata dei rimorsi, sentendosi la cagione quasi diretta della morte del figlio!...

Infine lei, lei l'A... con quanta schiettezza di impressioni narra dei suoi primi anni e la potente emozione che la fece, di balzo, uscire dalla puerizia: la scoverta—sotto la tettoia, riposta tra vecchi arredi di casa—della cassa contenente tutto che servì ai funebri del povero morto, riposta lì per esser dimenticata!...

Assolutamente in quest'ultima novella c'è tutto Bruno Sperani, ed io suo ammiratore, non ho altro ad aggiungere.

( Rivista Contemporanea ). A. Lauria.

Il Romanzo della Morte, 1890.

Titolo grave, tetre pagine, dense di una semioscurità, faticosa alla mente del lettore. Favola pressochè nulla, immaginazione forte, razionale del sentimento, serena noncuranza di tutto ciò che non è pura anatomia del cuore. Opera di donna, ma non letterariamente femminile, vigorosa anzi e sentita, evidentemente dovuta ad un forte ingegno e ad una salda coscienza letteraria. Bruno Sperani (nessuno ignora più il nome reale dell'autrice) ci ha da qualche anno abituati a quel genere speciale d'arte spregiudicata, della quale la donna che l'ha adottata si fa banditrice, più presto talvolta e con più vibrato accento dell'uomo. Nel brusco, scabroso argomento del suo romanzo, l'autrice è entrata di piè fermo, senza esitanze, senza falsi pudori, l'ha vigorosamente afferrato, lo ha reso, denudandolo. È facile avvertire ch'essa non teme quello strano fatto determinante ch'è ad un tempo l'intreccio dell'opera e il nodo della questione. Sin dalle prime pagine, lo accampa, determinata, mette di fronte ad una vittima che non si osa chiamare colpevole, un'altra vittima innocente, e questa deve esser partecipe dell'ingiusta punizione. È tutta una cieca congiura di circostanze; le volontà, fatte inerti dalla ferrea brutalità di quelle, obbediscono alla prepotenza di una falsa ma invincibile logica, alle esigenze dispotiche di un pregiudizio, contro il quale la ragione si ribella, ma che il sentimento subisce. Lo studio è convinto, sincero, s'addentra e scende nella malfida regione dei substrati del cuore, facendosi strada faticosamente, in mezzo alla tristezza quasi ripugnante dell'argomento.

Una vaga incertezza erra per tutte le pagine di quel libro sincero ed oppressivo, ove si intuisce un'originalità che si spende coscienziosamente, una forza più latente che espressa. Non si può mandarlo confuso colla farragine dei volgari romanzi; è d'uopo leggerlo attentamente, anche provando un bisogno impulsivo di combatterlo, di muovergli contro obbiezioni e critiche. Si possono non amare i libri di Bruno Sperani, e il Romanzo della Morte non è certo il più amabile fra questi, ma torna impossibile lo sconoscere il robusto e virile ingegno dell'autrice, la sua rara e forte intesa delle cose umane, la sua poderosa energia di pensatrice.

Il Fanfulla della Domenica.

Il Romanzo della Morte in mezzo alle sue arditezze, è un libro di carità, il quale dice semplicemente: «Fratelli, si muore; fate senno; buttate via i pregiudizi che vi impediscono di gustare questo po' di sole! Siate felici e cercate di rendere felici gli altri, come meglio potete!» È così confortante l'idea conclusionale del Romanzo della Morte, che dovrebbe convincere persino quei timidi lettori, i quali rimasero perplessi avanti lo spirito ribelle d'altri volumi della stessa Sperani. Non si spaventino, questa volta! Se le ipocrisie, le menzogne e le ingiustizie sociali del tutto non hanno in loro inaridito il sentimento della pietà, dovranno persuadersi che il Romanzo della Morte è un'opera di pace.

(Dal Sole ). F. Cameroni.

Il Romanzo della Morte, così concepito è la storia della lotta dei sensi alleati all'intelletto forte e alla vigorosa saldezza dell'animo, contro le massime tradizionali, succhiate col latte, sui pregiudizii necessariamente assorbiti, sull'istinto autocratico del maschio. È il romanzo della rivincita.—Lotta titanica invero, cui soltanto un'organizzazione eccezionale è dato combattere.

( Scintille di Zara).

Bruno Sperani è veramente italiana; e nel suo lavoro lo spirito sereno e bene equilibrato della nostra nazione si afferma contro le esagerazioni, pur geniali, dei nostri fratelli d'oltr'alpi.

Ella si riconnette, così, alla sana tradizione manzoniana, alla quale, largamente intesa e accettando tutte quante le modificazioni e i perfezionamenti che dai tempi mutati sono richieste, tornerà, probabilmente, a poco a poco, la vera arte italiana.

(Dalla Vita Nuova ). Angelo Orvieto.

Come pare evidente da questi rapidi cenni che ne ho fatto, il libro della Bruno Sperani è interessante, pieno di forza, ricco di sentimento drammatico.

Resterebbe a risolvere se in una fanciulla onesta ed eletta come Argia, sia naturale e verosimile la vertiginosa caduta, per il fascino di un estraneo, visto la prima volta, il quale tuttavia è riuscito a dominarla e vincolarla così tenacemente al proprio volere.

Anche ammettendo la suggestione ipnotica, a cui l'autrice sembra alludere più volte, io non comprendo a sufficenza la brutalità del misfatto e per parte dello straniero e per parte della fanciulla; giudico inoltre che esso è troppo impreparato dagli avvenimenti che precedono ed affermo che non se ne potrebbe così facilmente riscontrare un esempio nella realtà. Ad ogni modo l'argomento in generale ci è svolto con brillante forma e trattato con vigore, con ampiezza, con sicurezza di scrittrice abituata a tentar di frequente sì difficili prove. L'analisi poi mi sembra più sottile e convincente nelle pagine che dipingono l'amarezza di Fausto quando si conosce rovinato da una colpa altrui; veramente bella e perfetta, nel capitolo ove scorgiamo Argia che, sul principio animata da uno spavento, da avversione, da un odio amaro, da una ripugnanza invincibile per l'ignoto essere che nelle viscere le vive, a poco a poco si calma, si fa giusta, si lascia preda a quell'indefinita beatitudine di cui la natura empie il cuore delle madri.

(Dal Resto del Carlino ). Avancinio Avancini.

L'autore volle così e rispettiamo la sua volontà, ed io lo faccio volontieri, tanto più che il libro possiede le migliori qualità tecniche. È d'un interesse che non si abbassa mai, è d'una lettura facile ed attraente. Pagine da valoroso artista non mancano, anzi abbondano: quelle in cui è descritta l'escursione di Fausto Lamberti alla ricerca del luogo più adatto al suicidio sono davvero forti, potenti: l'agonia del Lamberti, la cerimonia nuziale letteralmente commuovono. Gentile e passionato è l'ultimo capitolo, in cui è narrato il viaggio di nozze: e sarebbe perfetto se il lettore non si domandasse a che punto sia la gestazione di Argia Pisani: gestazione troppo lunga, ch'è l'incubo di questo romanzo e che non è necessaria nè per la ragione artistica nè per la ragione morale dell'opera.

È inutile ch'io auguri molti lettori al Romanzo della Morte: il nome dell'autore è una guarentigia e il libro è degno di lui.

(Dal Corriere della Sera ). Domenico Oliva.

Per un pezzo Fausto resta così sospeso tra la vita e la morte; un giorno che stava peggio e quasi ogni speranza svaniva, come il padre di Argia viene a scoprire d'un tratto ch'ella è madre, Fausto dichiara di essere lui il seduttore, e di volere offrire a lei, avanti di morire, la riparazione del matrimonio.

Così si celebrano queste nozze che hanno la tetra solennità d'una esequie, e che forse non saranno consumate mai.

Ma non avviene così. Lamberti guarisce, forse per via di quella dolcissima emozione che dànno il perdono e la coscienza di fare del bene, che ha provocato una crisi salutare, e allora egli senza più ribellarsi, senza lottare contro un passato che non si può mutare, e che del resto non gli ha mutato l'amore della sua Argia, si abbandona con lei all'amore e alla felicità.

L'ultimo capitolo del romanzo li sorprende in un coupé riservato del treno che va a Bordighèra, rapiti insieme alla vista del mare, coi cuori trabboccanti di amore e di tenerezza, rinati a una esistenza nuova.

A me piace questa soluzione, i due vi arrivano dopo avere attraversato il calvario, dopo avere vissuto tutto il triste romanzo della morte, ed è vero, ed è umano questo istinto, superiore ad essi stessi, di attaccarsi alla vita e alla felicità, dacchè il mare nel quale essi avevano voluto finire—la morte—li ha deposti, loro malgrado sulla riva.

(Dal Giornale di Sicilia ). De-Giorgi.

È questa la situazione, potentemente drammatica, sulla quale e per la quale, Bruno Sperani ha scritto un romanzo audace, pieno di verità e di passione; uno di quei romanzi che oggi si usa definire «forti!»

Certo, chi ha preso le mosse di un'azione romantica, d'un intreccio interessante da una situazione così spietatamente insolubile, ha dato prova d'una forza di pensiero e di sentimento, e, d'una coscienza di queste forze così profonda e serena che basta a dare tutta la misura d'un ingegno.

E quando l'opera risulta pari all'audace concepimento, forte e sereno, lo scrittore (e in questo caso è una scrittrice!...) può appagarsi nella legittima soddisfazione di aver fatto cosa insolita e ammirevole.

Il romanzo di Bruno Sperani, di cui non voglio raccontare la conclusione superiore alle premesse per sentimento profondo e vero, per nobile audacia, per singolare semplicità di forma; (piccolo artifizio innocente per costringere alla lettura anche le lettrici più indolenti) il nuovo libro di Bruno Sperani è un vero romanzo, come se ne vedono apparire pochissimi, nella presente miseria, e nel bizantinismo letterario che c'impone una ostentata e falsa erudizione accoppiata alle gonfiature, alle goffagini d'un chiacchierio vano e scorretto che vuol parere stile, d'una vacuità di pensiero e esiguità di fantasia che vuol parere acutezza d'analisi.

È un romanzo che fa palpitare e fremere, che interessa il lettore alle situazioni, e lo lega ai personaggi con un vincolo di simpatia e d'affetto.

(Dal Don Chisciotte ). Olga Ossani.

V'ha in Il Romanzo della Morte degli episodi e delle scene potenti, tutte le pagine in cui or Fausto ed ora Argia si tormentano nel pensiero de la morte cercata, formano un quadro magistralmente dipinto di questa condizione psicologica, e, nel suo genere, un vero capolavoro, e che solo trova un paragone nel romanzo russo. L'analisi è profonda, sicura, spietata—par fatta dal coltello anatomico d'un valente chirurgo: nessuna traccia de la personalità de l'autrice, d'imitazione straniera o di riflessi altrui. L'analisi scaturisce dagli stessi personaggi, da le loro azioni, da' loro dialoghi. Leggete le pagine dove comincia a rivelarsi la sventura di Argia, e i tormenti di Fausto—tutta quella storia di lacrime. Assistete a la passeggiata de' due amanti di notte; al dialogo tra il professor Pisani e la figlia; al matrimonio così triste, e pure, a tratti d'un comicismo finissimo; al dialogo in cui Fausto chiede ad Argia il racconto de la sventura—d'una efficacia sorprendente—e poi ditemi se questo romanzo senza tirades, senza lirismo, senza descrizioni smaglianti, non è una de le più forti ed efficaci pitture de la vita contemporanea; non è un vero e gran dramma de l'amore, come può essere inteso nel nostro secolo agonizzante; non è una evidente e potente opera d'arte, d'una lucidità meravigliosa e d'una semplicità insuperabile, e per la forma e per la regolarità de la composizione.

E dicendo forma, intendo parlar de la lingua, de lo stile, in somma di tutto il complesso di mezzi artistici e di facoltà creatrice che serve a infondere in un libro il soffio divino de l'arte.

È ne la caratteristica speciale de la forma che si rivela la personalità, l'originalità, direi quasi la nota d'uno scrittore. Non forse la forma di Bruno Sperani, così suggestiva, vibrante, sprezzante a volte, espressiva sempre, vigorosa, a trasparenze, a spezzature, a scatti, è la manifestazione de l'organismo, de' sentimenti d'uno tra i più originali romanzatori italiani? Così in letteratura non abbiamo un tipo unico di stile, ma differenti stili, i quali sono un tutto co 'l contenuto d'un'opera d'arte: tal contenuto, tal forma—anche 'l De Sanctis lo dice.

La Sperani non è stilista: scrive netto, reciso, sincero, con una forza d'espressione rara tra noi italiani, e non ha altra preoccupazione che di render chiaro il suo pensiero profondo, fermo, preciso. E questa preoccupazione sua mi ricorda Stendhal, Duranty ed i romanzieri russi, a' quali amo riavvicinare la scrittrice nostra.

Il suo metodo potrà piacere o dispiacere, potrà dar luogo a mille discussioni—ma deve esser preso qual'è—ed accettato. E così noi—che non possiamo emulare questa potente romanzatrice—possiamo almeno essere in grado di comprenderla ed amarla.

Il Romanzo della Morte ha una personalità definita, un carattere di forma particolare, una onestà efficace—che ci fan presto desiderare 'l novo libro di Bruno Sperani: La Fabbrica.

B. Emilio Ravenda.

Ecco un romanzo diversamente bello dagli altri due che ho letto, finora, della Sperani: Numeri e Sogni e l'Avvocato Malpieri.

Se in quelli v'ha la virile robustezza di scrittrice—che tutti riconoscono nell'A...—la niuna preoccupazione di fare un'opera d'arte dilettevole pel gran pubblico—come la vecchia scuola comandava dovesse farsi—se in quelli v'ha la studiosa propugnatrice di nuove e generose idee sociali, e l'osservatrice di caratteri moderni, in questo Romanzo della Morte —cosa che non avrei mai supposto—v'è una muliebre freschezza di passione, v'è, nel contesto, l'idea, il proposito di fare un delicatissimo romanzo, ed in gran parte, v'è riuscita.

Il romanzo entra nella sua più bella fase al 5 o ed al 6 o capitolo. Lì c'è tutta l'arte completa della Sperani: lì le scene vere della vita, come può presentarle un'osservatrice della sua potenza; e se fin là non si sente Argia ad amare con islancio muliebre—nè idealmente, nè sensualmente, invece, è in quei due capitoli ch'ella principia a rivelarsi, con tutta la desolante prostrazione in cui l'ha gettata l'infamia d'altri, accanto a Fausto, posseduto dalla disperazione dell'amore, col cuore arrovellato dalle spine di dolore acutissimo.

(Dalla Rassegna Critica ). A. Lauria.

All'opera d'arte giova quello speciale procedimento dell'A... per cui dall'evoluzione ascendentale del concetto pessimista si conchiude a un corollario tanto più rilevante quanto più inaspettato, sicchè, con grande vantaggio dell'interesse tenuto sempre desto, e dei moderni criterî positivi, invece della glorificazione della Morte, si ha la vittoria definitiva della Vita, la quale ci si afferma con tanto maggiore intensità quanto maggiore poteva sembrare nello svolgimento del racconto la tendenza a negarla. È bene che nel romanzo moderno il concetto scientifico si faccia strada, e, abbandonatesi le vecchie rotaie del romanticismo, si concilî l'uomo alla terra prosaica, all'umile esistenza quotidiana; la vita, in fondo, non è, ad onta de' mille e mille declamatori, così insopportabile peso; essa ha uno scopo che bisogna asseguire, e, concepita con serenità d'animo, potrebbe perfino darci de' godimenti non mediocri. Ma sopratutto guardiamoci dal renderci schiavi del pregiudizio; e nel conflitto fra il pregiudizio e la Natura procuriamo di astenerci dal deplorevole orrore di comprimere quest'ultima. Essa non tarderebbe a prorompere impetuosa ripigliando i suoi diritti. Questo ha capito la signora Beatrice Speraz, anzi l'abate Don Paolo e Fausto vorrebbero esprimere, a mio modo di vedere, come per simbolo le idee dell'egregia pensatrice. L'artista, valorosissima, parmi che abbia caricate perciò un pochino le tinte de' due personaggi, destinati a simboleggiare tali idee, pel resto non ho nulla da osservare: si sente nel Romanzo della Morte, e nei ritratti e nelle descrizioni, l'artista provetta che ha saputo infondere crescente interesse nello svolgimento di un caso cui i meno abili avrebbero ristretto ne' limiti brevi della novella.

Tra gli episodî che mi hanno fatto maggiore impressione noto il drammaticissimo dialogo nel giardino tra Fausto e Argia, l'affannosa corsa del Lamberti alla ricerca di un luogo meglio adatto al suicidio, la scena del matrimonio in extremis così commovente nella greca semplicità.

G. Pipitone-Federico.

Eterno Inganno, 1891.

Mentre sta attendendo ad un nuovo romanzo sociale la Sperani si ricorda ai lettori con un volume di novelle, Eterno Inganno.

Avrò occasione di ritornare di proposito su di lei meglio che non possa ora, tanto più che tre delle sette novelle del volume videro già la luce in queste stesse colonne. Eterno Inganno si raccomanda per le stesse qualità dei precedenti volumi: un vivo alito di modernità vi spira per entro, insieme con una tendenza spiccata verso le questioni sociali ed umanitarie. Forse una certa trascuratezza di forma appare più sensibile nel breve àmbito della novella in cui la fattura tecnica assume una maggiore importanza. Delle sette novelle, mi sembrano meno felici: Un uomo d'ordine ed Eterno Inganno. Una bella donna e Alla Jonction procedono serrate alla meta e si leggono con molto interesse per la drammaticità incalzante degli avvenimenti. Risveglio è uno studio di carattere che si svolge in un ospedale dei pazzi. Ma le due novelle migliori sono incontestabilmente: Il primo ritratto che ha una chiusa efficace ed originale e l' Angelina che è un gioiello di osservazione e di sentimento.

(Dalla Gazzetta Letteraria ). Giuseppe Depanis.

Fra i sette bozzetti dell' Eterno Inganno, il primo: Un uomo d'ordine, è il più drammatico nella sua stranezza. Quell'uomo il quale, per un concetto sbagliato della vita, un concetto ascetico alla Tolstoï, distrugge la propria felicità e quella della moglie, è un esempio veramente tragico della morbosità di sensazioni e di pensieri che predomina oggi.— Una bella donna è lo studio ben riuscito d'una femmina sprovvista di cuore, tutta vanità e calcolo.—L' Angelina la triste fotografia d'una di quelle creature semplici nate per soffrire.—Ma io riserbo le mie simpatie pel bozzetto: Alla Jonction in cui la pittura perfetta dell'ambiente dà risalto ad una scena intima, appassionata insieme e gentile, ad un quadro di felicità, direi quasi melanconica, che è di sommo effetto ed ispirata non a pessimismo, ma a fede nella possibilità di amori puri e costanti, torna dolce e grata all'anima.

L' Eterno Inganno può star a pari dei suoi fratelli maggiori, e suscita il desiderio che tra poco Bruno Sperani ci dia qualche nuova opera di lunga lena, in cui siano illustrati altri tipi ed ambienti moderni.

(Dalla Cronaca d'Arte ). G. Palma.

La potenza rappresentativa della Sperani è veramente grande; con la parola semplice, nuda, colla frase rapida, vigorosa, asciutta, quasi scarna e bella di una certa severità indefinibile, ella vi rende netta, viva e parlante la figura, l'immagine, l'idea vagheggiata nel suo pensiero. Nessuno studio in lei per la ricerca di epiteti preziosi; nessun giro involuto di frase; nessuna descrizione oziosa. Con due tocchi da maestro ella vi fa vivere una persona, un carattere, vi suscita un paesaggio. Io ricordavo d'aver letto altra volta con vivo interesse il bozzetto che s'intitola alla «Jonction.» Ebbene, non vi so dire con quanto piacere l'ho riveduto in questo volume. Com'è bella quella descrizione del punto ove l'Arve ed il Rodano, lui azzurro e altezzoso, lei bionda e rigida, là presso Ginevra confondono le loro acque! La vorrei trascrivere se non fosse lunghetta e se non bisognasse leggerla col resto del racconto per comprenderne tutto il valore. In essa i lettori vedrebbero con quanta parsimonia di colorito l'A... sappia ottenere effetti stupendi. E quanto sentimento di natura in quelle due paginette! A me pare, nel leggere, di sentire la frescura delle acque e delle selve. Difficilmente la parola potrebbe con maggior efficacia rievocare un paesaggio e sostituirsi ai colori ed ai suoni vivi.

(Dalla Posta di Caprino di A. Ghislanzoni).

G. B. B.