SCRITTA DA CARLO BOTTA

Tomo I

CAPOLAGO presso Mendrisio Tipografia Elvetica

MDCCCXXXIII

INDICE

STORIA D'ITALIA

LIBRO PRIMO

SOMMARIO

Proposito dell'opera. Stato d'Italia nel 1789. Come siano nati gli ordini feudali; poi come moderati. Opinioni ed inclinazioni del secolo in questa materia. Stato della religione; perchè fu soppressa la società dei gesuiti, e quali effetti siano nati da questa soppressione. Lodi di Giuseppe II imperatore d'Alemagna, e riforme fatte da lui. Viaggio di papa Pio VI a Vienna. Buon governo del ducato di Milano sotto il conte di Firmian. Lodi di Leopoldo gran duca di Toscana; sue numerose ed utili riforme; felice condizione del popolo sotto questo principe. Dottrine di Scipione de' Ricci vescovo di Pistoia, e del suo sinodo. Quali effetti partoriscano queste dottrine sulla corte di Roma. Stato del regno di Napoli; amministrazione del marchese Tanucci; opinioni che vi regnavano; riforme eseguite, o sperate. Stato, e parlamento di Sicilia. Stato del ducato di Parma sotto i duchi don Filippo e don Ferdinando: buona amministrazione di Dutillot. Condizioni di Roma e delle romane cose: disegni che vi si facevano: qualità di Pio VI; sua magnificenza; suoi sforzi pel prosciugamento delle paludi Pontine. Stato del Piemonte; qualità di Vittorio Amedeo III re di Sardegna; suoi ordinamenti sui soldati, sull'amministrazione, sulle finanze. Stato della repubblica di Venezia; natura del suo governo, e de' suoi popoli. Condizioni della repubblica di Genova, poi di quelle di Lucca, e di San Marino. Stato del ducato di Modena, e qualità del suo principe, Ercole Rinaldo d'Este. Sunto generale delle opinioni, ch'erano prevalse in Italia nel 1789.

Proponendomi io di scrivere la storia delle cose succedute in Italia ai tempi nostri, non so quello che gli uomini della presente età saran per dire di me. Conciossiachè mancati col finire del decimo sesto secolo gli eccellenti storici fiorentini, i quali soli forse fra gli storici di tutti i tempi e di tutte le nazioni scrissero senza studio di parti la verità, i tempi andarono sì fattamente peggiorandosi, e l'adulazione in guisa tale distendendosi, che il volere scrivere la storia con sincerità pare opera piuttosto incredibile, che maravigliosa. E non so perch'io m'oda dire tuttavia, che la storia è il lume del tempo, e che insegna bene il fatto loro ai popoli, ed ai principi: imperciocchè, scritta secondo il costume che prevalse, io non so quale altra cosa ella possa insegnare altrui, fuori che a dir le bugie; e qual buona guida nel malagevole cammino della nostra vita siano queste, ognun sel vede, stantechè i negozi umani con la realtà si governano, non con le chimere. E già i più tra coloro ai quali io appalesai questo mio pensiero, mi dissero apertamente o ch'io non oserei, o ch'io non potrei, od all'ultimo ch'io non dovrei mandarlo ad esecuzione. Pure, pare a me, che se l'adulazione si cerca da una parte, che certamente si cerca, molto ancora più si offra dall'altra, e che più ancora siano da accagionarsi di viltà gli scrittori, che di rigore, o di ambizione i principi. Per la qual cosa io, che di maggior libertà nello scrivere non pretendo di godermi di quella, cui Benedetto Varchi, o Francesco Guicciardini ottennero dal duca Cosimo, e Niccolò Machiavelli dal pontefice romano, il quale concesse anco un amplissimo privilegio per la stampa delle sue opere, mi confido che comportare mi si possa: salvochè si voglia credere, od almeno dire, ciò che credeva e diceva colui, che ai nostri dì avrebbe voluto spegnere anco il nome della libertà, cioè che tutto il male (così chiamava egli il desiderio mostrato prima dai principi, poscia dai popoli, di un governo più benigno) procedette dal secolo di Leone X. Che se ad alcuni sembrasse essere le cose più tenere oggidì, che ai tempi passati, dirò che anche allora furono, come negli anni vicini a noi, massime nella misera Italia, inondazioni di eserciti forestieri, arsioni di città, rapine di popoli, devastazioni di provincie, sovvertimenti di stati, e fazioni, e sette, e congiure, ed ambizioni crudeli, ed avarizie ladre, e debolezze di governi effeminati, e fraudi di reggimenti iniqui, e sfrenatezze di popoli scatenati. Per me, sonmi del tutto risoluto, se a tanto si estenderanno le forze del mio ingegno, a mandare ai posteri con verità la compassionevol trama di tanti accidenti atroci, di cui la memoria sola ancora ci sgomenta. Seguane poi ciò che vuole: che la vita è breve, ed il contento di avere adempiute le parti che a buono e fedele storico si appartengono, è grande, e quasi infinito. Oltrechè di conforto non poco sarammi il raccontare, come farò, con uguale sincerità le cose liete, utili, e grandi, che fra tanti lagrimevoli casi si operarono per un benigno risguardo della divina providenza che mai non abbandona del tutto i miseri mortali.

L'Europa conquistata dai re barbari fu data in preda ai capitani loro; uomini e terre caddero in potestà di questi. Così se ai tempi romani le generazioni erano partite in uomini liberi, e schiavi, ai tempi barbari furono divise in conquistatori, e servi. Tale è l'origine degli ordini feudali. Teodorico re de' Goti moderò una tal condizione coll'avere istituito i municipii. Poi gli ecclesiastici diventati ricchi fecero ordine, e mitigarono, dividendola, o contrastandola, l'autorità feudale. Così sorsero gli ordini, o stati, o bracci, che si voglian nominare, della nobiltà, del clero, e dei comuni. Carlo V gli spense nella Spagna, ma non potè nell'isole d'Italia; i Borboni gli conservarono in Francia, servendosene più o meno, secondo i tempi. Nell'Italia divisa in tanti stati, e sì spesso preda di principi forestieri, che a fine di tenerla accarezzavano pochi potenti per assicurarsi dei più, l'autorità municipale, se si eccettuano alcune antiche repubbliche, si mantenne più ristretta, la feudale più larga. Ciò quanto allo stato. Rispetto ai particolari restavano ancora non pochi vestigi dell'antico servaggio, tanto circa le cose, quanto circa le persone. Di questi, alcuni andarono in disuso per opinione de' popoli, o per benignità dei feudatarii; altri furono aboliti dai principi: dei superstiti, il secolo, di cui abbiamo veduto il fine, voleva l'annullazione.

Nè in questo si contenevano i desiderii dei popoli. Volevasi una equalità quanto alla giustizia, e quanto ai carichi dello stato; nella quale inclinazione concorrevano non solamente coloro ai quali questa equalità era profittevole, ma eziandio la maggior parte di quelli, che si godevano i privilegi. Dire poi, come alcuni hanno scritto, e probabilmente non creduto, che si volesse una equalità di tutto, ed anche di beni, fu improntitudine d'uomini addetti a sette, soliti sempre a non guardare quel che dicono, purchè dicano cose che possano infiammare i popoli, e farli correre alle armi civili. Queste erano le quistioni dei diritti; e sarà da quinc'innanzi cosa luttuosissima al pensarci, e degna di eterne lagrime, che col progresso di tempo siansi alle quistioni medesime mescolate certe altre astrattezze, e sofisterie, che insegnarono alla moltitudine il voler fare da se, quantunque si sapesse che la moltitudine commette il male volentieri, e si ficca anco spesso il coltello nel petto da se: tanto i moti suoi sono incomposti, i voleri discordi, le fantasie accendibili, e tanto ancora sopra di lei possono sempre più gli ambiziosi, che i modesti cittadini.

La religione medesima era già trascorsa, non già nel dogma, che sempre rimase inconcusso, ma bensì nella disciplina. Dolevansi i popoli che gli utili operai della vigna del Signore fossero poveri, mentre gli oziosi se ne vivevano in grandi ricchezze, delle quali non solo usavano, ma spesso ancora abusavano: dolevansi essere i primi insufficienti per numero, o per mala distribuzione delle cariche, i secondi eccessivi; dolevansi di certe pratiche religiose, più utili a chi le metteva su che decorose pel divin culto, mentre per queste era nel medesimo tempo scemato maestà e frequenza alle più gravi e necessarie solennità della chiesa: scandalizzarsene le anime pie, darsi cagion di calunnia agli empi, ed agli acattolici.

Ma ben altri discorsi si facevano, massimamente in Italia, i quali tutti nascevano da quella inclinazione del secolo favorevole ai più. Era stata soppressa la società di Gesù, perchè era divenuta formidabile ai principi, e perchè faceva coll'autorità sua, e co' suoi maneggi formidabile di soverchio ai medesimi la corte di Roma. Imperciocchè, mescolate le profane cose con le divine, temevano i principi cattolici, che siccome era una monarchia universale spirituale di cui era capo il sommo pontefice, così venisse a nascere per mezzo dei gesuiti, tanto attivi, e tanto sagaci operatori per la santa sede, una forma di monarchia universale temporale, in cui avesse il capo della fede cattolica più autorità, che gli si convenisse. Vedevasi il sommo pontefice Clemente XIV, che lo spegnere i gesuiti era un privarsi della più efficace milizia che s'avesse: con tutto ciò non potè resistere alle esortazioni ed alle minacce di tanti principi potenti di forze, celebrati per pietà, formidabili per concordia. Pure stette lungo tempo in forse; finalmente consentì, poi fra breve si pentì. Ma seguitonne a timore del papa, ed a contentezza dei principi maggior effetto, che quello e questi non avevano creduto; poichè ne sorse più viva nel corpo della chiesa la parte popolare. Parlossi di doversi ridurre alla semplicità antica la chiesa di Cristo; allargare la autorità de' vescovi e dei parrochi; scemar quella del pontefice sommo, nè doversi più tollerare il romano fasto. Le querele, che risuonarono già fin dai tempi antichissimi contro la corruzione di Roma, rinnovellavansi, ed andavano al colmo. Le dottrine di Porto-Reale si diffondevano; coloro che le mantenevano erano in molta autorità presso il popolo, perchè risplendevano non per oro, nè per corredi, ma per dottrina, per austerità di costumi, e per una certa semplicità di vita, che molto ritraeva degli antichi tempi evangelici.

Inclinazioni di tal sorte arridevano ai principi, memori tuttavia della superiorità dei gesuiti, e della potenza di Roma. Nè non pensavano, che maggiore autorità acquisterebbero nell'ecclesiastiche discipline, se i vescovi, che sempre sono da loro dipendenti, meno da Roma dipendessero. Stimavano che la diminuzione delle prerogative papali fosse per essere la libertà dei principi.

Queste massime più strette per chi dominava, più larghe per chi obbediva, trovavano disposizioni favorevoli nell'opinione de' popoli, e però più profonde radici mettevano. Così uno spirito stesso e circa le cose civili, e circa le ecclesiastiche andava insinuandosi a poco a poco in tutte le parti del corpo sociale. Ciò non ostante, se molti pensavano a riforme, nissuno pensava a sovvertimenti; nè alcuno ambiva di far da se, ma ognuno aspettava dal tempo e dalla sapienza dei principi temperamento alle cose, e compimento a' desiderii.

Piacemi ora, venendo ai particolari, che in proposito di riforme il mio discorso abbia principio da un nome imperiale. Giuseppe II, imperatore d'Alemagna, principe per vigor di mente, e per amore verso l'umana generazione facilmente il primo, se si paragona ai principi de' suoi tempi estranei alla sua casa; il primo forse ancora, od il secondo, se si paragona a Leopoldo suo fratello, molto pensò e molto operò in benefizio dell'austriache popolazioni. Nè voglio, che le accuse dategli, perchè era re, dagli sfrenati commettitori di tante enormità in Francia a' tempi della rivoluzione, nè quelle dategli dopo, perchè ei volle operare, ed operò molte novità, da coloro, che vorrebbono in chi regge una potestà non solo assoluta, ma anche dura e terribile, tanto gli nocciano, ch'io non lo predichi, come uno dei primi, e più principali benefattori, che abbia avuto il mondo. Molto viaggiò, non per pompa, ma per conoscere le instituzioni utili, ed i bisogni dei popoli; i casolari dei poveri più aveva in cale, che gli edifizj dei ricchi; nè mai visitava il bisognoso, che nol consolasse di parole, ed ancor più di fatti. Protesse con provvide leggi i contadini dalle molestie dei feudatari, opera già incominciata dalla sua madre augusta Maria Teresa: gli ordini feudali stessi voleva estirpare, e fecelo. Volle che si ministrasse giustizia indifferente a tutti; là creava spedali, ospizi, conservatorii, ed altre opere pie; quà fondava università di studi; i giovani ricchi d'ingegno, e poveri di fortuna, in singolar modo aiutava. Ai tempi suoi, e per opera sua lo studio di Pavia sorse in tanto grido, che forse alcun altro non fu mai sì famoso in Europa. Lo studio medesimo empiè di professori eccellenti in ogni genere di dottrina, cui favoriva con premii, e non avviliva con la necessità dell'adulazione. Nè contento a questo, fondò premii per gli agricoltori diligenti ed aprì novelle vie al commercio per nuove strade, per nuovi porti, per abolizione delle dogane interne; nè mai in alcun altro paese o tempo, furono in così grande onore tenuti, come in Italia sotto Giuseppe, gli scienziati che sollevano, ed i letterati che abbelliscono la vita incresciosa e trista. Mandovvi altresì, qual degno esecutore de' suoi consigli, il conte di Firmian, sotto la tutela del quale la Lombardia austriaca venne in tanto fiore, che sto per dire, che in lei verificossi la favolosa età dell'oro.

Quanto alle instituzioni ecclesiastiche, dichiarò Giuseppe la religione cattolica dominante, ma volle che si tollerassero tutte; comandò ai vescovi, che niuna bolla pontificia avessero per valida, che non fosse loro dal governo trasmessa, regola già praticata da altri principi, ma non sempre osservata; statuì, che gli ordini dei religiosi regolari, non dai loro generali residenti in Roma, ma bensì dal superiore ordinario, cioè dal vescovo, dipendessero; parendogli nè sicura, nè decorosa allo stato quella dipendenza, nè alla ecclesiastica disciplina profittevole; abolì i conventi che gli parvero inutili, lasciando sussistere fra le monache solamente quelle, che facevano professione d'ammaestrar le fanciulle; eresse nuovi vescovati, accoppionne altri; distribuì meglio l'entrate di tutti; fondò poi un numero assai considerabile di parrocchie, sollecito piuttosto dell'instruzione, e della salute di tutti i fedeli, che del fasto di pochi prelati.

A queste innovazioni risentissi gravemente il sommo pontefice Pio VI, uomo di natura assai subita, e delle prerogative della santa sede zelantissimo. Perciò confidatosi nell'autorità del grado, nella maestà dell'aspetto, e nell'eloquenza, che era in lui grandissima, nè pensando alla diminuzion di riputazione, che gli verrebbe, se la sua gita riuscisse senza frutto, se n'andò a Vienna. Quivi fu ricevuto forse tanto più onoratamente, quanto più gli si volevano denegare le proposte. Passate le prime caldezze, e ristrettosi con l'imperatore, entrò il pontefice a negoziare con lui delle cose che occorrevano; e con incredibile maestà favellando lo ammonì: «Badasse molto bene a quel che si faceva; magnifiche parole essere la semplicità delle cose antiche, ma non convenirsi ad un secolo che non le cura; esser trascorsi i costumi, debilitate le credenze, gli animi pieni d'ambizione, però l'apparato esteriore dover aiutare la fede vacillante, frenare dall'un canto, saziare dall'altro gli appetiti; altra dover esser la condizione della chiesa ristretta, povera, e perseguitata, altra quella della chiesa estesa quanto il mondo, ricca, e trionfante; se possono convenire i governi larghi ai piccoli stati, convenirsi certamente le monarchie ai grandi, nè in tanta immensità di dominio spirituale potersi senza pericolo debilitare la potestà suprema della santa sede; senza di lei sorgerebbero tosto le ambizioni locali, e nascerebbe lo scisma; osservasse quante discordie, e quante sette fossero nate dal solo errore di Lutero, non per altro, che per aver gettato via il salutare freno del successore di San Pietro: lacererebbesi del pari la restante chiesa cattolica da tali principii; e tolti al governo consueto del pastore universale, gli agnelli diventerebbero preda dei lupi; in materia di riforme, quando si vuol far da se, cominciarsi forse con animo innocente, e volto al bene, finirsi per la pervicacia, e per l'ambizione connaturale all'uomo, nel male; non desse ascolto alle parole melliflue, e suonanti umiltà di certuni; sotto umili spoglie, entro discorsi mansueti velar essi pensieri superbissimi; non voler obbedire altrui per poter col tempo dominare altrui; deboli, esser supplicanti, forti, intolleranti; riflettesse, quanto importasse alla conservazione delle monarchie temporali la monarchia spirituale; le male usanze appiccarsi facilmente; sciolta questa, esser pericolo, che per contagio si sciolgano anche le altre, e già gittarsene motti per le dottrine dei moderni filosofi; dal torre la venerazione ad un potente, al torla a tutti esser facile la strada; in un secolo scapestrato nissun maggior fondamento aver i monarchi, che l'autorità monarchica del pontefice romano; ch'esso ne voglia abusare, come ne fu accusato ai tempi antichi contro i monarchi stessi, apparire nissun indicio, nè comportarlo il secolo; quanto a lui particolarmente, avvertisse diligentemente alla potenza del re di Prussia, emulo della potenza sua, e capo della parte protestante in Germana; se alienasse da se i cattolici, i quali seguiteranno sempre o per persuasione, o per consuetudine i dettami della chiesa di Roma, quale speranza, quale appoggio, quale forza gli resterebbe? Ricordassesi di Carlo V, suo glorioso antenato, costretto a fuggirsene in fretta da Inspruck, cacciato da quei protestanti medesimi, a cui pur troppo grandi favori aveva compartito; seguitasse le vestigia dell'augusta sua madre, e di tanti altri antecessori del suo stesso sangue famosi al mondo per le cose grandi fatte sì in pace che in guerra, ma più famosi ancora per la pietà loro e per la divozione verso la santa sede; lasciasse dall'un de' lati queste subdole opinioni, questi pericolosi fatti, tornasse al grembo suo, ch'ei l'avrebbe accolto ed abbracciato, quale amorosissimo padre accoglie ed abbraccia un amatissimo figliuolo; sapersi lui, le cose umane trascorrere di secolo in secolo, ed aver bisogno di esser ritirate di tempo in tempo verso i principii loro; esser parato a farlo, come padre comune di tutti i fedeli in tutto quanto e la religione richiedesse, e la dignità, ed i diritti della santa sede tollerassero; ma da lui solo dover venire, come da fonte comune, ed in virtù della pienezza della potestà apostolica, le riforme; venir da altri, non poter essere senza scandalo, nè senza offesa della dignità, e delle prerogative del vicario di Cristo; in età già grave aver lasciato la sede apostolica sua, corso un tratto immenso di strada, valicati aspri monti, venuto in paese tanto strano a lui, a ciò spinto da quel divino spirito, che non inganna, per rimuovere ogni intermedia persona, per ammonirlo a bocca lui medesimo dei pericoli che sovrastavano, e per farlo avvertito, che una è la chiesa di Cristo, uno il governo di lei, ed uno il suo pastore, dal quale solo gli altri derivano l'autorità loro; non sopportasse, che tanta fatica, che sì solenne viaggio, che esortazioni tanto paterne, che sì grande aspettazione dei buoni, in affare di tanto momento, fossero indarno».

Tutte queste cose gravi in se stesse, e porte altresì con grandissima gravità dal pontefice, non poterono svolgere Cesare dalle prese deliberazioni. Tornossene Pio a Roma tanto più dolente, quanto più vicino alla sua sede stessa vedeva sorgere la tempesta, cui voleva stornare. Era stato assunto nel 1765 al trono di Toscana il gran duca Leopoldo. Questo principe, il quale non si potrà mai tanto lodare, che non meriti molto più, mostrò quanto possa per la felicità dei popoli una mente sana congiunta con un animo buono, e tutto volto a gratificare all'umanità. Solone fece un governo popolare, e torbido, Licurgo un governo popolare, e ruvido, Romolo un governo soldatesco, e conquistatore; fece Leopoldo un governo quieto, dolce, e pacifico, tanto più da lodarsi dell'aver concesso molto, quanto più poteva serbar tutto. E se anche si vorrà accagionare il gran duca di aver dato occasione co' suoi nuovi ordinamenti alla rivoluzione Francese, come odo che si dice, io non so se sia più da deplorarsi la cecità di certuni, o l'infelicità dei principi, più soggetti sempre ad esser adulati quando fan male, che lodati quando fan bene.

Erano prima di Leopoldo le leggi di Toscana parziali, intricate, incommode, improvvide, siccome quelle che parte erano state fatte ai tempi della repubblica di Firenze, tumultuaria sempre e piena di umori di parti, e parte fatte dopo, ma non consonanti con le antiche, le quali tuttavia sussistevano. Altre ancora erano per Firenze, altre pel contado, queste per Pisa, quelle per Siena, poche, o nissune generali. Sorgevano incertezze di foro, contese di giurisdizione, lunghezze d'affari, un tacersi per istracchezza dei poveri, un procrastinare a posta dei ricchi, ingiustizie facili, ruine di famiglie, rancori inevitabili. Erano altresì leggi criminali crudeli, o insufficienti, un commercio male favorito, un'agricoltura non curata, un suolo pestilenziale, possessioni mal sicure, coloni poveri, debito pubblico grave, dazii onerosissimi.

A tutto pose rimedio il buon Leopoldo. Annullò i magistrati o superflui, o poco proficui, o privilegiati, e tra questi quello delle regalìe, togliendo in tal modo qualunque prerogativa, che sottraesse ai tribunali ordinarii quelle cause, che percuotevano l'interesse della corona. Esentò i comuni dai fori privilegiati; gli rendè liberi nel governo dei loro beni, diè loro facoltà non solamente di esaminare, ma ancora di giudicare dell'opportunità delle pubbliche gravezze, per modo che il corpo loro venne a formare nel gran-ducato a certi determinati effetti una rappresentanza nazionale. Condonati, oltre a ciò, dei debiti verso l'erario, e soddisfatti dei crediti, sorsero a grande prosperità; crebbela ancor più il miglioramento del catasto.

Soppressi adunque i privilegii individui, ed i fori privilegiati, corpi e persone acquistarono equalità di diritti quanto alla giustizia. Tali furono gli ordini civili introdotti da Leopoldo. Circa i criminali, annullò altresì ogni immunità e parzialità di foro; abolì la pena di morte, abolì la tortura, il crimen-lese, la confisca dei beni, il giuramento de' rei; statuì, le querele doversi dare per formale instanza, e dovere stare il querelante per la verità dell'accusa; restituissersi i contumaci all'integrità delle difese; del ritratto delle multe e pene pecuniarie, cosa degna di grandissima lode, si formasse un deposito separato a beneficio e sollievo di quegli innocenti, che il necessario e libero corso della giustizia sottopone talvolta alle molestie di un processo, ed anche del carcere, non meno che per soccorrere i danneggiati per delitti altrui; il che fondò, cosa maravigliosa, un fisco, che dava in vece di torre; le pene stabilì proporzionate al delitto. Nè contento a questo, diè carico di scrivere un novello codice toscano all'auditor di Ruota Vernaccini, ed al consiglier Ciani, uomini, l'uno e l'altro i quali non solo volevano e sapevano, ma ancora credevano potersi far bene e utilmente in queste faccende delle leggi, il che non si dice senza ragione a questi nostri dì, in cui da alcuni vorrebbesi insegnare, che la miglior legislazione che sia, è quella dei tempi barbari.

Fu l'effetto conforme alle pie intenzioni; poichè fu in Toscana una vita felicissima dopo le novità di Leopoldo; i costumi non solo buoni, ma gentili, i delitti rarissimi, nè sì tosto commessi che puniti; le prigioni vuote, ogni cosa in fiore. Così questa provincia, che già aveva dato al mondo tanti buoni esempii, venuta in potestà di un principe umanissimo, diè ancor quello di un corpo di leggi temperato di modo, che nè il governo maggior sicurezza, nè i popoli potevano maggior felicità desiderare.

A questo medesimo fine contribuirono non poco i nuovi ordini di Leopoldo rispetto all'agricoltura, ed al commercio. Rendè i coloni liberi dalle vessazioni, le terre dalle servitù; moderò la facoltà d'instituir fide-commissi, riunì la facoltà del pascolo al dominio, onde fu distrutta l'antica legge del pascolo pubblico, per cui veniva impedito ai possessori ed ai coloni il cingere di stabili difese i terreni, e costretti erano a lasciargli in preda al bestiame inselvatichito, con grandissimo guasto delle ricolte. Nacquero da questa provvisione effetti notabilissimi, che e le ricolte si migliorarono, ed i bestiami s'addomesticarono.

Considerato poi quanto gli appalti generali dei dazii fossero molesti ai popoli, e gravi ai governi buoni, Leopoldo gli abolì. Molte privative ancora furono tolte, quella della vendita dei tabacchi, dell'acquavite, e del ferro: a tutti si diè facoltà di cavar miniere; le gabelle sui contratti, e la regalìa della carta bollata si moderarono. Sapevasi Leopoldo, che tutte queste riforme avrebbero diminuito l'entrate dell'erario. Pure non se ne rimase, movendolo il ben pubblico più che il vantaggio del fisco. Ciò non ostante assai meno diminuirono, che si era creduto: perchè la prosperità del paese, e la più attiva circolazione dei generi, che ne risultarono, supplirono in gran parte a quello che si perdeva. Mirabile argomento, che la prosperità dei popoli prodotta dalla libertà, non la gravezza delle imposte, è la miglior fonte che sia della ricchezza dell'erario.

S'aggiunsero le dogane interne soppresse, nuove strade aperte, canali scavati, porti, e lazzaretti o nuovi, o ristorati, fatto sicuro a Livorno agli esteri l'esercizio della religione, aboliti i corpi delle arti e le matricole, surrogati agl'impedimenti premii, facilità, ed esenzioni, massime in beneficio delle arti della seteria e del lanificio, parti essenzialissime del commercio di Toscana. La libertà delle tratte, mediante un modico dazio rispetto alle sete, tanto operò, che se il provento loro in Toscana montò nel 1780 solamente a libbre 163,178, montò nel 1789 a ben 300,000.

Ma per parlar di nuovo del governo delle terre, non solo Leopoldo lo migliorò d'assai, migliorando la condizione dei coloni, ma rendè ancora coltivabili quelle che per infelicità di suolo si trovavano incolte. Così la val di Chiana, così quella di Nievole, ricche ed ubertose terre; così la gran parte il capitanato di Pietrasanta, e le frontiere del littorale livornese e pisano, usando secondo i luoghi appositamente tagli, colmate, argini, canali, furono per opera sua liberate dall'acque, ridotte a sanità, e restituite alla coltivazione. Ma opera di molto maggior momento, e di quasi insuperabile difficoltà, fu il prosciugamento delle maremme sanesi a tal termine condotto, che si aveva speranza di totale perfezione. Sono le maremme sanesi un vastissimo padule, che dai confini della provincia di Pisa fino a quelli dello stato ecclesiastico si distende, lungo il mare, lo spazio di circa settanta miglia, e per larghezza dentro le terre da cinque o sei, fino a quindici o diciotto. La pianura di Grosseto è la parte più considerabile di queste maremme. Sono in questi luoghi i terreni non sommersi tanto fecondi, quanto l'aria vi è infame, e pestilenziale.

Sotto Ferdinando primo de' Medici erasi già in parte conseguito l'intento, e parecchi paduli a stato coltivabile ridotti. Trascurate poi le opere da' suoi successori, ritornarono le terre e l'aria a peggior condizione di prima. Ma non così tosto fu assunto Leopoldo, che pensò alle maremme. Mandovvi il padre Ximenes, mandovvi Ferroni e Fantoni, matematici di chiaro nome, e dell'idraulica intendentissimi. Già la pianura di Grosseto, già il lago, o per meglio dire, la palude di Castiglione, ambedue parti principalissime delle maremme, eransi ridotte a stato tollerabile. Speravasi meglio, anzi il finale intento: usavansi le colmate per le acque dell'Ombrone, e della Bruna, introdotte ai tempi delle torbe; usavansi canali, e cateratte in più opportuni siti trasportate.

Oltre a ciò Leopoldo, mosso dal pensiero che le popolazioni scarse fanno l'aria insalubre, le abbondanti sana, allettò con premii ed esenzioni tanto i paesani, quanto i forestieri, principalmente gli abitatori dell'agro romano, a fermar la sede loro nella maremma. Pagassesi dall'erario il quarto del prezzo delle nuove case ai fondatori; dessersi terre o gratuitamente, od a basso prezzo, od a carico di livelli, od in enfiteusi; dessesi anco denaro a presto, e sicuro asilo a chi vi si venisse a ricoverare. Per questo e crebbe la popolazione, ed i terreni si coltivarono, e l'aria risanò. Peggiorarono poi le opere per le difficoltà dei tempi. Pure rimangono, e forse ancora lungo tempo rimarranno nelle maremme sanesi i vestigi della generosità di Leopoldo.

Nè minor lode meritano gli ordinamenti di questo giusto e magnanimo principe circa il debito dello stato. Più di tre mila luoghi di monte furono cancellati, restituiti i capitali ai creditori col ritratto dei beni venduti spettanti a regie e pubbliche aziende, impiegando a questo uso anche i capitali provenienti dalla dote e contraddote della regina sua moglie, ed altri constituenti parte del patrimonio suo privato. In tal modo si spense in gran parte il debito, che tanto gravava l'erario: così mentre in altri luoghi d'Italia il debito dello stato montava continuamente, non per altro fine che per crear soldatesche, in Toscana per opera di Leopoldo il debito medesimo si estingueva per fondarvi un governo dolce, quieto per se, sicuro pei vicini.

Nè per questo tralasciavansi provvedimenti di utilità o di ornamento; perciocchè nel tempo medesimo sorgevano scuole per ogni ceto, conservatorii, case di rifugio e di ricovero, ospizi ed ospedali: gli studi di Pisa e di Siena meglio s'ordinavano: nuovi palazzi fondavansi, gli antichi s'abbellivano, nuovi passeggi si aprivano, lo librerìe s'arricchivano, il gabinetto di fisica s'accresceva, ed un orto botanico si piantava.

Tra mezzo a tutto questo il principe, siccome quello che giusto era e sincero, non volle starsene oscuro. E però fe' pubblicare la dimostrazione per entrata e per uscita delle rendite dello stato dal 1765 fino al 1789. In questo quasi specchio dell'economia di Toscana vedonsi ed i risparmi fatti, e le imposizioni moderate, ed il denaro convertito in cause pietose di sollievo, o d'ornamento pubblico.

Sonmi io fermato lungo spazio nel parlare della sapienza civile di Leopoldo, perchè a ciò fare m'invitava il grandissimo diletto ch'io ne prendeva, e perchè pur troppo il filo della mia storia guiderammi a favellare di casi di gran lunga da questi dissomiglianti; nè credo, che chi mi leggerà, se fia d'animo benigno, m'accagionerà di essermene andato per le lunghezze, o di essermi dimorato alquanto in questa dolcezza; poichè dolcezze tali son rare per gli storici, in tanta infelicità dell'umana condizione.

Ma è tempo oramai ch'io venga a discorrere delle riforme fatte in Toscana da Leopoldo nell'ecclesiastiche discipline, materia di tanta gravità, e che destò tanto grido e tanta aspettazione d'uomini sì in Italia, che fuori di essa. Gli antichi Toscani più propensi a dar ricchezze ai conventi che alle parrocchie, lasciarono quelli ricchi, queste povere. Le massime larghe dei gesuiti, e la constituzione UNIGENITUS erano state accettate senza opposizione alcuna in Toscana. Ma quando fu assunto al vescovato di Pistoia l'Ippoliti, i libri degli scrittori di Porto-Reale incominciarono ad andar per le mani degli ecclesiastici. Arnauld, Nicole, Dughet, Gourlin, Quesnel, diventarono i libri favoriti dei preti. Questa inclinazione verso la scuola di Porto-Reale molto s'accrebbe, quando Scipion Ricci successe all'Ippoliti nella sede vescovile di Pistoia. Se ne compiacque Leopoldo, e convocò nel 1787 un'assemblea dei vescovi di Toscana, proponendo loro cinquanta sette punti, tutti relativi alla riforma dell'ecclesiastica disciplina. Molti s'accordarono, altri si modificarono, alcuni si serbarono a tempi migliori.

Il principe, avuto il parere di prelati venerabili per dottrina e per integrità di costumi, procedè più francamente alle riforme. Stabilì, le parrocchie dessersi a concorso, s'aumentassero i redditi loro, veruna tassa più non pagassero ai vescovi forestieri, annullassersi le pensioni di qualunque sorte sopra i benefizi curati, permutassesi la destinazione dei fondi vincolati ad usi religiosi, e indifferenti, o poco utili, ed il provento di tali capitali in aumento delle scarse congrue dei parochi più bisognosi s'impiegasse; con questo, ed in compenso di tali concessioni, i rettori delle cure dall'esazione delle decime, e da altri emolumenti di stola desistessero; i parochi alla residenza obbligati fossero; niuno più di un benefizio goder potesse, ancorchè semplice, massimamente se residenziale fosse; tutti i sacerdoti che benefizio residenziale avessero, fossero alla chiesa, ov'era fondato, incardinati, e tutti i sacerdoti semplici, alla chiesa parrocchiale, dove abitassero, e ciò con dipendenza dal paroco, ed obbligo di aiutarlo nel pio suo uffizio; i benefizi tanto di collazione ecclesiastica, quanto di nomina regia, a chi servito avesse od attualmente servisse la chiesa, solo ed unicamente si conferissero; i regolari ed i canonici dal paroco dipendessero, e ad aiutarlo in tutto che abbisognasse obbligati fossero; alla sussistenza degli ecclesiastici o poveri, od infirmi provvedessesi; i romiti, salvo quelli che utili fossero, abolissersi; tutte le compagnie, congregazioni, e confraternite sopprimessersi; a tutte sostituissersi le sole compagnie di carità; le chiese, oratorii, refettorii, e stanze delle compagnie soppresse ai parochi gratuitamente si consegnassero; i religiosi regolari dal vescovo dipendessero; l'abito non vestissero prima dei dieciott'anni, non professassero prima dei ventiquattro; le religiose non prima dei venti vestissero, non prima dei trenta professassero; il tribunal del sant'officio s'annullasse; le censure di Roma, per quanto si risolvono in pene temporali, ed i monitorii di scomunica, senza il regio consenso non s'eseguissero, nè pubblicarsi, nè intimarsi, nè attendersi nel foro esterno potessero; s'intendesse abolito il privilegio degli ecclesiastici di tirar i laici al foro loro, e nelle cause criminali in tutto e per tutto ai laici parificati fossero; le curie ecclesiastiche e delle cause meramente spirituali conoscessero, e pene puramente spirituali definissero; gli ordinarii ogni due anni il sinodo diocesano, per conservare la purità della dottrina e la santità della disciplina, convocassero.

Queste deliberazioni del principe toscano, ancorchè molestissime alla corte di Roma, non toccavano però la sostanza stessa di quell'autorità pontificia, che già da più secoli o tacitamente consentita, o espressamente riconosciuta dalla chiesa pretendono i papi aver piena ed intiera. Tengono i curialisti romani quest'opinione, che il papa sia solo vicario, e rappresentante di Cristo, e suo plenipotenziario; e che tutti gli altri vescovi del mondo siano vicari, non di Cristo, ma del pontefice romano, cosicchè nella chiesa non vi sia veramente che un vescovo solo universale, che riceva da Cristo tutto il deposito dell'autorità ecclesiastica da comunicarsi da lui con misura a' suoi subalterni. Ma a quelle deliberazioni non si rimase Scipion Ricci, vescovo di Pistoia, che intento sempre a voler ritirare il governo della chiesa verso i suoi principii, aveva già opinato nell'assemblea dei vescovi di Toscana, acciò si ampliassero le facoltà, non che dei vescovi, dei parochi, volendo, a foggia dell'antica comunanza dei Cristiani, che gli uni e gli altri avessero voce deliberativa nei sinodi diocesani. Statuì poi nel suo sinodo, avere il vescovo ricevuto da Cristo immediatamente tutte le facoltà necessarie al buon governo della sua diocesi, nè potersi le facoltà medesime od alterare, od impedire, e poter sempre, e dovere un vescovo nei suoi dritti originari ritornare, quando l'esercizio loro fu per qualsivoglia cagione interrotto, se il maggior bene della sua chiesa il richiegga. Le quali proposizioni fecero assai mal suono alle orecchie romane, per guisa, che Pio VI come erronee, ed anche come scismatiche, alcuni anni dopo, le condannò. Aggiunse il Ricci alcune altre dottrine, che parvero e temerarie ed alla santa sede ingiuriose; essere una favola pelagiana il limbo dei fanciulli, un solo altare dover essere in chiesa secondo il costume antico; la liturgia ed esporsi in lingua volgare, e ad alta voce recitarsi; il tesoro dell'indulgenze esser trovato scolastico, chimerica invenzione l'averlo voluto applicar ai defunti; la convocazione del concilio nazionale esser una delle vie canoniche per terminar le controversie circa la fede ed i costumi. In fine sommamente dispiacque a Roma quella proposizione del sinodo pistoiese, per la quale i quattro articoli statuiti dal clero gallicano nell'assemblea del 1682 si approvarono, e questa particolarmente Pio Sesto con una sua bolla tassò, e dannò come temeraria, scandalosa, ed alla santa sede ingiuriosa.

Le dottrine del sinodo pistoiese levarono un gran rumore in Italia, massimamente quando furono condannate da Roma. Scritti senza numero vi si pubblicarono da persone dottissime nella storia ecclesiastica, alcuni in favor di Roma, molti in favor di Pistoia, e fra Pistoia e Roma pendeva sospesa la lite. Allegavasi dai papisti, incominciare a por piede in Italia l'eresie di Lutero; dai difensori del Ricci, un salutar freno incominciarsi a porre alla prepotenza di Roma. Gli ultimi, tra perchè pretendevano ai discorsi loro parole santissime di semplicità e di parsimonia, e perchè inclinavano a favore dei più, e perchè finalmente era divenuta intollerabile a tutti la potenza eccessiva di Roma, molto s'avvantaggiavano sugli avversari loro, ed andavano ogni dì maggior favore acquistando.

Queste ferite tanto più addentro andavano a penetrare nel cuore del pontefice, quanto più nel regno stesso di Napoli le medesime, o poco dissomiglianti dottrine si professavano. Pareva a tutti, ed ai principi massimamente, che le dottrine, che in Toscana prevalevano, non solo la disciplina trascorsa ristorassero, ma ancora la potenza temporale alla libertà, ed alla debita indipendenza dai romani pontefici restituissero. Perlochè con piacere si abbracciavano, con celerità si propagavano, con calore si difendevano. Ma nel regno delle due Sicilie erano alcuni particolari motivi, per cui le medesime dottrine, che suonavano parole tanto gradite di libertà e d'indipendenza, fossero dal governo medesimo più volonterosamente ed accettate e difese. Prima però di favellare di queste controversie, fia d'uopo raccontare qual fosse lo stato del regno, e quali le opinioni e le affezioni che vi predominavano, rincrescendoci già fin d'ora, che principii che spiravano umanità e beneficenza, siano stati poi seguitati, per la malvagità dei tempi, dalle più orribili, e lagrimevoli tragedie, di cui ci abbiano gli storici tramandato la memoria. Tanto, o l'ardor del cielo, o l'atrocità delle ingiurie, o il desiderio immoderato della vendetta, o tutte queste cagioni unite insieme fanno trascorrere sempre fino agli estremi le cose in quella parte d'Italia.

Essendo il re Carlo di Borbone salito sul trono di Spagna nel 1750, cedè il regno delle due Sicilie a Ferdinando Quarto, suo figliuolo secondogenito, constituito allora nella tenera età di nove anni. Creata prima di partire la reggenza, pose per moderatore della giovinezza del nuovo re il principe di S. Nicandro. Questi privo di ogni sorte di lettere, non potendo insegnare altrui quello che non sapeva egli medesimo, insegnò al regio alunno la pesca, la caccia, ed altri cotali esercizi di corpo. Di questi s'invaghì il giovane Ferdinando, che ne prese poscia in tutti i tempi di sua vita grandissimo diletto. Ma crebbe poco instrutto di ciò che importa alla vita civile, ed al governo degli stati. Pure amava chi sapeva, e di consigliarsi con loro. Piacque alla fortuna, qualche volta pure favorevole ai buoni, che a quei tempi avesse grandissima introduzione e principal parte nei consigli napolitani il marchese Tanucci, uomo dotto, di libera sentenza, mantenitor zelante delle prerogative reali, ed avverso alle immunità ecclesiastiche, massime in materie criminali. Dava il re facile orecchio alle parole sue; però il governo del regno procedeva con prudenza e con dolcezza. Speravasi qualche moderazione alla tirannide feudale, che in nissuna parte d'Italia erasi conservata più gravosa, che in quel regno, principalmente nelle Calabrie. I baroni, possessori dei feudi, nemici egualmente dell'autorità regia e del popolo, quella disprezzavano, questo tiranneggiavano. Oltre i soliti bandi della caccia, della pesca, dei forni, dei mulini, essi nominavano i giudici delle terre, essi i governatori delle città; per loro erano le prime messi, per loro le prime vendemmie, per loro le prime ricolte degli oli, delle sete, e delle lane; per loro ancora i dazi d'entrata nelle terre, i pedaggi, le gabelle, le decime, ed i servigi feudatarii. Insomma erano i popoli vessati, l'erario povero, l'autorità regia manca. Sì fatte enormità, tanto discordanti dal secolo, non potevano nè sfuggire a Tanucci, nè piacere ad un re di facile e buona natura. Però con apposite leggi furono moderate. Inoltre Tanucci chiamò i baroni alla corte; il che fu cagione che, raddolciti i costumi loro, diventarono più benigni verso i popoli.

Quanto agli stati esteri, questo ministro, amico a tutti, pendeva per la Francia: ciò spiacque a Carolina d'Austria, fresca sposa di Ferdinando, donna d'animo imperioso ed aspro. Fu dimesso Tanucci, e surrogati in suo luogo, prima il marchese della Sambuca, poi Acton, uomini di natura consenziente a quella della regina; prevalsero allora le parti d'Austria.

Pure le salutari riforme si continuarono; parecchi privilegi baronali furono aboliti, i pedaggi soppressi, migliori speranze nascevano dell'avvenire. Gli animi si mostravano disposti. Aveva Filangeri filosofo pubblicato i suoi scritti, nei quali non saprei dire, se sia maggiore la forza dell'ingegno, o l'amore dell'umanità. Erano con incredibile avidità letti, e con grandissime lodi celebrati da tutti. Sorse allora universalmente un più acceso desiderio di veder lo stato ridotto a miglior forma. Volevasi una libertà civile più sicura, una libertà politica maggiore, una tolleranza religiosa più fondata. Nè a questa inclinazione dei popoli contrastava il governo, non ancora insospettito dalla rivoluzione di Francia.

Nel regno di Napoli specialmente più si desideravano le riforme, perchè più erano necessarie, e maggiori radici avevano messe le generose dottrine, massime fra i legisti. Gran confusione ancora era nelle leggi: vivevano tuttavia quelle degli antichi Normanni, viveano quelle dei Lombardi, nè le leggi dei due Federici, nè le aragonesi, nè le angioine, nè le spagnuole, nè le austriache erano del tutto dismesse. Quindi niun diritto in palese, nè niuna lite terminabile. La gravità del male faceva più desiderare il rimedio, principalmente negli ordini giudiziali, per le dette ragioni imperfettissimi.

Ma queste cose meglio si conoscevano per dottrina che per esperienza; desideravasi qualche saggio pratico dell'utilità loro. Aveva il re, mentre viaggiava in Lombardia, visitato le cascine, per cui tanto sono celebrate le pianure del Parmigiano, e del Lodigiano. Piacquergli opere tali, ne fondò una a San Leucio, luogo poco distante da Caserta. La colonia cresceva. Gli amatori delle riforme tentarono Ferdinando dicendo, che, poichè era stato il fondatore di S. Leucio, fossene anche il legislatore; l'ottennero facilmente. Statuì il re delle leggi della colonia, per cui venne a crearsi nel regno uno stato indipendente, di cui solo capo era il re. Dichiarossi la colonia indipendente dalla giurisdizione ordinaria, e solo soggetta ai capi di famiglia, ed agli anziani di età; gli atti appartenenti alla vita civile, massime al matrimonio, reggevansi con forme, e regole speciali, ogni cosa in conformità delle dottrine di Filangieri. Con queste leggi particolari prosperava dall'un canto continuamente la colonia, dall'altro il re vieppiù se n'invaghiva, e vedutone il frutto in pratica, diventava ogni dì meno alieno da quei pensieri, che gli si volevano insinuare. Appoco appoco si distendevano nel popolo, ed il desiderio di nuovi ordini andava crescendo, parendo ad ognuno, che quello che per l'angustia del luogo era fino allora utile a pochi, sarebbe a tutti, se con la debita moderazione a tutti si estendesse.

Questi consigli tanto più volentieri udiva Ferdinando, quanto più coloro che gliene porgevano, erano appunto i più zelanti difensori della autorità e dignità sua contro la corte di Roma. Già s'era Tanucci dimostrato molto operativo in questo negozio delle controversie romane. Già per consiglio suo erasi soppresso il tribunale della nunziatura in Napoli, a cui erano chiamate in appello avanti il nunzio del papa tutte le cause, nelle quali qualche ecclesiastico avesse interesse; fu anche troncato ogni appello a Roma. Pareva in fatti abuso enorme, che un principe forestiero esercitasse giurisdizione, e rendesse giustizia negli stati di un altro principe. Era Tanucci stato anche autore, che la corona di Napoli, e non la santa sede nelle vacanze dei benefizi nominasse i vescovi, gli abbati, e gli altri beneficiati, che la presentazione della chinea il giorno di S. Pietro in una offerta di elemosina si cangiasse, che il nuovo re non s'incoronasse per evitar certe formalità, che si usavano fin dai tempi dei re Normanni, e che la sovranità romana sul regno indicavano. Per consiglio suo medesimamente si era diminuito il numero dei religiosi mendicanti, e soppressa la società di Gesù. Parlossi inoltre di rendere i frati indipendenti dai generali loro residenti a Roma, e d'impiegar una parte dei beni della chiesa per allestir un navilio sufficiente di vascelli da guerra.

Tutte queste novità non si potevano mandar ad esecuzione senza grandissime querele dalla parte di Roma; infatti elle furono molte. Ma sorsero nel regno molti scrittori a difesa della libertà, e della indipendenza della corona. I fratelli Cestari risplendevano fra i primi; si accostò a loro l'arcivescovo di Taranto. Ma vivi soprattutto si dimostrarono coloro, che desideravano un governo più largo, proponendosi in tal modo, e ad un tempo medesimo di difendere la dignità della corona, e di combattere le prerogative feudali. Ciò andava a' versi a Ferdinando grandemente sdegnato contro Roma; però ogni giorno più si addomesticava con loro, e gli vedeva, e gli udiva più volentieri. S'aggiunse, che Carlo di Marco, uno dei ministri del re, uomo di non poca dottrina, dava lor favore, per quanto spetta alle controversie con Roma.

Tale era lo stato del regno di Napoli, in cui si vede che i medesimi tentativi si facevano, che nella Lombardia austriaca ed in Toscana circa la disciplina ecclesiastica, ma con maggior ardore a cagione delle controversie politiche con Roma. Rispetto poi alle riforme nelle leggi civili, vi si era anche incominciato a por mano, ma con minor efficacia, perchè Acton non se n'intendeva e ripugnava; la regina, che se n'intendeva, ripugnava ancor essa; ed il re occupato ne' suoi geniali diporti, amava meglio che altri facesse, che far da se. Da ciò nasceva, che gli umori non si sfogavano, ed il negato si appetiva più avidamente.

La Sicilia, parte tanto essenziale del regno di Napoli, si reggeva con leggi particolari. Da tempi antichissimi ebbe un parlamento di tre camere dette Bracci, ch'erano gli ordini dello stato. Una chiamavasi Braccio militare, o baronale; in questo sedevano i signori, che avevano in proprietà loro popolazioni, almeno di trecento fuochi. L'altra intitolavasi Braccio ecclesiastico; entravano in questo tre arcivescovi, sei vescovi e tutti gli abati, ai quali il re conceduto avesse abbazie. La terza aveva nome Camera demaniale; era composta dai rappresentanti di quelle città che non appartenevano ai baroni, e che demaniali si chiamavano; cioè del dominio del re. Perciocchè due sorte di città avea la Sicilia, baronali, e libere. Le prime erano quelle che stavano soggette ad un barone, le seconde quelle che dipendevano immediatamente dal re, e si reggevano con le proprie leggi municipali. Accadeva spesso, che un solo barone avesse più voti in parlamento, per essere feudatario di più terre. Lo stesso accadeva, e per la medesima ragione, degli ecclesiastici; lo stesso ancora dei deputati delle città, dando più città il mandato ad una persona medesima. Capo del Braccio baronale tenevasi il barone più antico di titolo, dell'ecclesiastico l'arcivescovo di Palermo, del demaniale il pretore della medesima città: adunavasi anticamente il parlamento ogni anno; poi fu fatto quadriennale. Prima di Carlo V faceva le leggi; dopo venne ridotto a concedere i donativi.

Da questo si vede, che il nervo principale del parlamento siciliano consisteva nei baroni, perchè più ricchi erano, e più numerosi. Ma ben maggior era la potenza loro nelle terre, a cagione dei privilegi feudali. Rimediovvi in parte Caraccioli, vicerè; pure i vestigi feudatarii vi erano ancora gravi. Del resto le opinioni del secolo poco avevano penetrato in quell'isola; ma quello che non dava l'opinione, il potevano dare facilmente gli ordini dello stato.

Questa che abbiamo raccontata, era la condizione del regno delle due Sicilie verso l'ottantanove; ma poco diversa appariva quella del ducato di Parma e Piacenza, dove come a Napoli, regnava la famiglia dei Borboni di Spagna. Anche in questi luoghi vedevasi sorta una maggior perfezione del vivere civile, e le contese con la sedia apostolica pel medesimo fine delle investiture avevano aperto il campo ad investigazioni a diminuzione dell'autorità romana. Quando l'infante D. Filippo governava il ducato, era in lui grande l'autorità del francese Dutillot, il quale nato di poveri parenti in Baiona, era salito per la virtù sua al grado di primo ministro. Era stato appunto mandalo Dutillot dalla corte di Francia al duca Filippo, acciocchè lo consigliasse intorno agli affari che correvano con la corte di Roma, temendosi che in quella nuova possessione del ducato, ella volesse dare qualche sturbo in virtù dei diritti di superiorità sovrana, che pretendeva in quello stato. Per verità se grande fu la fede che la Francia ed il duca Filippo ebbero in Dutillot, non furono minori la sua destrezza, e la prudenza. Chiamò a se i più famosi ingegni d'Italia, tra i quali non è da tacersi il teologo Contini, uomo dottissimo nelle scienze canoniche, ed il Turchi, cappuccino di molte lettere, di notabile eloquenza, ed amatore delle libertà ecclesiastiche, benchè, fatto vescovo, abbia poi mutato, non dirò opinione, ma discorso; ma tanto per opera di Dutillot si dirozzarono i costumi in quella bella parte d'Italia, e tanto vi prosperarono le buone arti, che il regno di D. Filippo ebbe fama del secol d'oro di Parma. Certo, città nè più colta, nè più dotta di Parma non era a quei tempi, nè in Italia, nè forse anche altrove. Crearonsi, per consiglio del Paciaudi, a questo fine chiamato da Roma, più perfetti ordini nell'università degli studi, un'accademia di belle arti, una magnifica libreria; e perchè con gli ordini buoni concorressero i buoni insegnamenti, ed i buoni esempi, vennervi, chiamati da diversi paesi, oltre Paciaudi, e Contini, anche Venini, Derossi, Bodoni, Condillac, Millot, Pageol. Fra i buoni esempi Dutillot medesimo non era degli ultimi, scoprendosi in lui decoro, facondia, cortesia, e tutte quelle parti che a perfetto gentiluomo si appartengono: arricchivasi al tempo stesso, ed abbellivasi il ducato per manifatture o fondate o ristorate, per edifizi, per strade, per pubblici passeggi. Così passò il regno di D. Filippo assai felicemente sotto la moderazione di Dutillot.

Morto poi nel 1765 il duca Filippo, e devoluto il ducato nel duca Ferdinando, ancor minore d'età, Dutillot continuò a governar lo stato con la medesima sapienza. A questo tempo sorse una grave controversia tra il governo del duca e la corte di Roma; imperciocchè avendo il duca mandato fuori una sua prammatica intorno alle mani morte, ed un editto, che le obbligava al pagamento delle gravezze pubbliche, il papa Clemente XIII pubblicò in Roma un breve monitorio, con cui dichiarò nulle quelle ordinazioni sovrane di Parma, come provenienti da autorità non idonea a farle, e lesive dell'immunità ecclesiastica, ammonendo eziandio, che tutti coloro, che cooperato vi avevano, erano incorsi nelle censure ecclesiastiche, da cui non potessero essere assolti in nissun caso, eccettuato l'articolo di morte, se non da lui stesso, o dal pontefice, che dopo di lui sulla cattedra di San Pietro sedesse. Dutillot difese con non ordinaria franchezza e prudenza il diritto sovrano del duca, alla quale difesa diedero non poco favore molti scritti pubblicati da uomini dotti in tale proposito.

Questi accidenti concitarono contro Dutillot l'odio, e l'arti dei papisti già entrati molto addentro nella buona grazia del giovinetto principe. Ciò non ostante in tutto il tempo, in cui questi fu minore d'età, non perdè il ministro dell'autorità sua. Quando poi, giunto all'età di diciott'anni, assunse il governo, s'indrizzarono i suoi pensieri ad altro fine. Perchè congedato Dutillot, il principe si governò intieramente a seconda dei papisti. Il tribunale dell'inquisizione fu instituito in Parma, ma mostrò mansuetudine; nè aspro fu il reggimento del duca; le tasse assai moderate. Era molesto a molti il rigore eccessivo, che si usava per far osservare certe pratiche di esterior disciplina. In questo i popoli non potevano dir del principe, che altro suono avessero le sue parole, ed altro i fatti; poichè ei dava le udienze in sagrestia, ei cantava coi frati in coro, egli addobbava gli altari, ei suonava le campane, egli ordinava i santi nel calendario dell'anno. Ma mentre il duca pregava, i popoli si erudivano, nè Parma perdette il nome, che si era acquistato, di città dotta e gentile.

Sedeva a questi tempi, come abbiam già detto, sulla cattedra di san Pietro il sommo pontefice Pio VI, destinato dai cieli a sostenere il colmo della prospera, e dell'avversa fortuna. Il suo antecessore Clemente XIV da povero fraticello salito, per le virtù sue, alla grandezza del papato, aveva in tanta sublimità conservato quella semplicità di costumi, e quella modestia di vita, alle quali nella solitudine dei chiostri s'era avvezzato. Ciò parve a molti, in una Roma, nel primo seggio della Cristianità, ed in tanta non solo curiosità d'indagine, ma ancora inclinazione alla miscredenza, che nei popoli di quell'età molte evidentemente apparivano, cosa altrettanto intempestiva, e pericolosa, quanto era in se lodevole, e virtuosa; perchè ove gli argomenti non persuadono, le virtù non muovono, e per ultimo rimedio si deve por mano alla pompa, imperciocchè gli uomini facilmente credono esser la ragione dove vedono la grandezza: ed il rispettare è principio del persuadersi.

Questi pensieri tanto operarono nella mente dei cardinali, che, morto Clemente, chiamarono papa il cardinal Braschi, che già fin quando era tesoriero della camera apostolica aveva mostrato in tutte le azioni non ordinario splendore. Veramente erano in lui, forse più che in altr'uomo de' suoi tempi, molto notabili l'eccellenza delle forme, la facondia del discorso, la finezza del gusto, la grandezza delle maniere, procedendo in ogni affare con tanta grazia giunta a tanta maestà, che e la venerazione verso la persona sua, ed il rispetto verso la sede ne venivano facilmente conciliati. Vero è, che tale generosa natura dava spesso, come suol avvenire, nell'eccesso contrario; perchè s'era bello d'aspetto, voleva anche comparir tale, forse più che al suo grado s'appartenesse; l'eloquenza sua sentiva talvolta di eccessiva squisitezza, e la grandezza peccava non di rado di vanità; del resto arbitrario e sdegnoso, sopportava malvolentieri che altri ai voleri suoi si opponesse. Queste erano le qualità di papa Pio. Circa i costumi, e' furono non che non meritevoli di riprensione, degni di lode; e certe voci corse in questo proposito, piuttosto alla malvagità dei tempi che seguirono, che a verità debbonsi attribuire.

Ognuno crederà facilmente, che un pontefice di tal natura, sentendo altamente di se, doveva anche altamente sentire dell'autorità sua, e delle prerogative della sedia apostolica. Nè mancavano incentivi a queste inclinazioni. Covava allora fra quei cardinali, che non erano o dall'ignoranza offesi, o dall'ozio, o dalle morbidezze ammolliti, un disegno d'una suprema importanza per l'Italia, e quest'era di ridurla unita sotto un governo confederato, di cui fossero parte tutti i principi italiani, e capo il sommo pontefice. Principal autore di questo consiglio era il cardinal Orsini, uomo di natura piuttosto strana che no, ma dottissimo in materia canonica, ed assai caldo zelatore delle prerogative romane; se ai più pareva, che Gregorio VII avesse troppo detto e troppo fatto, pareva all'Orsini, ch'ei non avesse nè detto, nè fatto abbastanza. ( Gorani, Mémoires secrets des Cours d'Italie, t. II ) Pure, siccome da cosa nasce cosa, se il pensiere dell'Orsini circa la lega italica fosse stato ridotto in atto, avrebbe partorito effetti importanti, e dai papi potuto nascere la salute d'Italia, come pur troppo spesso n'è nata la rovina; perchè non sempre ebbero i papi il dovuto rispetto all'autorità temporale dei principi italiani; ed i principi italiani hanno sempre amato invidiarsi fra di loro, e chiamare, per ultimo rimedio, i forestieri in Italia piuttosto che pensare alla preservazione della comune madre. Quali effetti ne siano risultati e per loro, e per tutti, il mondo se gli ha veduti, e gl'Italiani non piangeran mai tanto, che non resti loro a piangere molto più.

Tornando ora al proposito nostro, non potendo Pio allargare, come avrebbe voluto, nè il dominio, nè l'autorità, perchè l'opinione era contraria, cercò di acquistar fama di splendido sovrano. Debbesi per prima e principal opera mentovare il prosciugamento delle paludi Pontine, se non a final termine condotto, certamente per la maggior parte eseguito con ispesa tanto enorme rispetto a stato sì angusto, con costanza tanto mirabile, che pochi esempi si leggono nelle storie degni di ugual commendazione.

Chiamano paludi Pontine una pianura di centottanta miglia quadrate, che si distende in lunghezza fino a ventisette, ed in larghezza fino a otto, più o meno, secondo i luoghi. Ella è terminata a greco dalle montagne della Spina, a piè delle quali sorgono le città di Terracina, Piperno, e Sezze; a maestro dalle colline di Velletri, e dai boschi della Cisterna, a libeccio; a scirocco, ed ad ostro dal mare.

Erano anticamente questi luoghi, e prima che diventassero tanto infami per aere pestilenziale, colti e salubri. Solo un piccolo padule vi si osservava vicino a Terracina. Fecevi nel quinto secolo di Roma il censore Appio la magnifica via, che ancora si chiama col suo nome. Ma spopolate le provincie per l'atrocità delle guerre, e fatti i terreni incolti, le acque stagnanti soprabbondarono, e sopraffecero ogni cosa. Poi Cetego consolo di nuovo prosciugando, le risanò. Ma le guerre civili le tornarono a peggior condizione; tanto che ai tempi d'Augusto la via Appia appariva sola in mezzo di quel vasto marese. Tentò Augusto, tentarono gl'imperadori suoi successori di ridurlo a sanità, e fecerlo; ma i Barbari, che sopravvennero, spensero, con tutti gli altri, anche questo segno dell'uman culto, e dell'opere d'ingegno. Così quelle pingui e vaste terre impaludate si rimasero fino ai tempi più moderni, in cui i pontefici romani Leone Primo, e Sisto Secondo applicarono l'animo a volerle prosciugare. Aprì il primo il gran portatore della torre di Badino, aprì il secondo il fiume Sisto, ch'è un canale artefatto, che attraversa le paludi per la lunghezza loro, ed è destinato a raccorre tutte le acque superiori per condurle al mare. Ma nè l'uno, nè l'altro di questi pontefici regnarono tempo, che bastasse a compir l'impresa. Sgomentaronsene i successori, o fecero tentativi inutili. Clemente XIII volle dare sfogo all'acque pel rio Martino, ma non potè, ritraendolo l'enormità della spesa. Finalmente non così tosto fu assunto al pontificato Pio VI, che pensò al prosciugamento delle Pontine. Quattro fiumi, l'Amazeno, l'Uffente, la Ninfa, e la Teppia, non trovando sfogo al mare verso Terracina, sono principalmente cagione dell'impaludamento. Rapini, ingegnere di grido, proposto da Pio alle opere, cavata la linea Pia, condusse le acque al mare pel portatore di Badino, cavò l'antico fiume Sisto, alveò l'Uffente, e l'Amazeno. S'abbassarono le acque, si scoversero i terreni, i colti si mostrarono dov'erano le paludi, la via Appia restituita ai viandanti. Tale fu l'opera egregia di Pio VI.

Non dimostrossi minore l'animo del pontefice negli ornamenti aggiunti all'antica Roma. Edificò la famosa sagrestia a lato alla chiesa di S. Pietro; opera certamente di molta magnificenza, ma forse di troppo minuta e troppo vaga architettura, se si paragona al grandioso stile della basilica di Michelagnolo. Dolsersi anche non pochi, che per fondare questo suo edifizio, abbia il papa ordinato, che si atterrasse l'antico tempio di Venere, al quale Michelagnolo aveva avuto tanto rispetto, che solo il toccarlo gli era paruto sacrilegio. Bellissimo pensiero di Pio altresì fu quello di persuadere, come aveva fatto già fin quando esercitava l'ufficio di auditore del Camerlingo, a papa Clemente, di ornar il Vaticano con un sontuoso Museo, il quale poi condotto a maggior grandezza da lui dopo la sua esaltazione, fu chiamato Pio-Clementino. Lo arricchì con gran numero di statue, busti, bassirilievi, ed altre anticaglie di gran pregio, alle quali non mancava mai il motto: dato dalla munificenza di Pio Sesto; vanità per certo molto innocente. Come nobile fu l'intento suo nel fondar il Museo, così nobile del pari fu il suo consiglio di volerne tramandare con eccellente rappresentazione di scritture, e di figure la memoria ai posteri. Nè fu meno commendabile l'esecuzione; imperciocchè, affidatane la cura, quanto alle figure, a Ludovico Mirri, e quanto ai comenti, ad Ennio Quirino Visconti, ne sorse quella bella descrizione del Museo Pio-Clementino, una delle opere più perfette, che in questo genere siano.

Così cresceva Roma sotto Pio in bellezza ed in isplendore ogni giorno: così visitata dai più potenti principi d'Europa lasciava in loro riverenza, e maraviglia, così la magnificenza che cresceva, suppliva alla fede che mancava; così i popoli mossi da sì sontuosi apparati non rimettevano di quella venerazione, che avevano sempre avuto verso la sedia apostolica. Quanto alle nuove dottrine filosofiche, che parlavano tanta umanità, poche radici avevano messo in Roma: non che i gentili pensieri non vi fossero graditi, ma perchè gli autori loro mescolando, come facevano, tempi dissomigliantissimi, ed attribuendo a certi effetti cagioni non vere, troppo in se stessi si compiacquero di condannar le romane cose. Tal era Roma, tanto sempre a se medesima conforme, che mancate l'armi, comandò con la fede, mancata la fede, comandò con le pompe, ritraendo sempre in ogni fortuna di quella grandezza, che per ispecial privilegio del cielo pare in lei congenita e naturale.

Mentre così in varie parti d'Italia più o meno si cancellavano per benefizio dei principi, o per ammaestramento dei buoni scrittori, le vestigia che i tempi barbari avevano lasciato nelle instituzioni dei popoli, e che evidentemente vi si procedeva verso un vivere sociale più generoso e più mite, poco o nissun cambiamento si osservava in altre parti della medesima provincia. La monarchia piemontese era la più ferma di tutte le monarchie, poichè in lei non si videro mai, come in tutte le altre, o rovine nella casa regnante, o rivoluzioni di popoli. Del quale privilegio, se si vorrà ben dentro considerare, apparirà, prima e principal cagione essere la potestà assoluta del principe, giunta con un uso moderato della medesima. Poi mancavano le occasioni dell'ambizione dei potenti; perciocchè trovandosi il Piemonte posto tra la Francia e l'Austria, altro non avrebbe partorito l'ambizione di un potente, anche fortunata, che render se ed il paese suddito o dell'una o dell'altra; nè mai chi avesse voluto imitare un duca di Braganza, avrebbe potuto venir a capo della sua impresa. S'aggiunse, che i principi di Savoia governarono sempre gli eserciti loro da loro medesimi, nè potevano sorgere capitani di gran nome, che potessero, non che distruggere, emulare la potenza dei principi.

Da questo, e dagli eserciti molto grossi, nacque la maravigliosa stabilità della monarchia piemontese. Ne procedette, oltre a ciò, in quello stato una opinione generale stabile, che da generazione in generazione propagandosi, rendè questa monarchia somigliante alle repubbliche, nelle quali, se cangiano gli uomini, non cangiano le massime, nè le opinioni. Adunque gli ordini antichi si erano conservati intieri; le opinioni nuove poco vi allignavano.

Ciò non ostante alcuni segni, sebben deboli, di cambiamento, si ravvisavano negli stati del re di Sardegna, massime circa la ecclesiastica disciplina. Imperciocchè tolte con providissimo consiglio dal re Vittorio Amedeo II le pubbliche scuole ai gesuiti, e fornita l'università degli studi di ottimi professori, incominciarono le dottrine dell'antichità cristiana a diffondersi. I tre bibliotecari dell'università, Pasini, Berta, e Pavesio, uomini di molto sapere e pietà, promossero lo studio delle opere scritte dai difensori di quelle dottrine: Vaselli ne arricchì la libreria del re.

Regnava Vittorio Amedeo, terzo di questo nome, principe di animo generoso, di vivo ingegno, e di non ordinaria perizia nelle faccende di stato. Contaminava la sua buona natura un amore eccessivo della gloria militare: quindi ordinò e mantenne in piè un esercito grosso fuor di misura: il che rovinò le finanze, che tanto fiorivano ai tempi di Carlo Emanuele suo padre; sparse largamente nella nazione la voglia delle battaglie, e diè favor eccessivo e potenza ai nobili, soli ammessi a capitanar le soldatesche. Ognuno voleva essere, ognuno imitar Federigo re di Prussia. Certamente se immortali lodi si debbono a Federigo per aver difeso il suo reame contra tutta l'Europa, gran danno ancora le fece per avervi introdotto coll'esemplo suo un eccessivo umor soldatesco, ed aver messo su eserciti smisurati. Gli altri potentati o per fantastica imitazione, o per dura necessità furono costretti a far lo stesso; poi venne la rivoluzione di Francia, che dilatò questa peste ancor di vantaggio, poi sorse Buonaparte, che la portò agli estremi, ed altro non mancherebbe alla misera Europa per aver la compita barbarie, se non che ella facesse marciare, a guisa degli antichi Galli e Goti, coi combattenti anche i vecchi, le donne, ed i fanciulli. Certo nè libertà alcuna, nè ordine buono di finanza, nè civiltà durevole potrà mai essere in Europa, se i principi non si risolvono a por giù questi loro eserciti sterminati. Questi sono gli obblighi, che le generazioni hanno a Federigo.

Ma tornando a Vittorio, tanto era in questa bisogna infatuato, che soleva dire, ch'ei faceva più stima di un tamburino, che d'un letterato, benchè poi riuscisse miglior che di parole; perciocchè i letterati accarezzava e premiava, ed usava anche con loro molto famigliarmente. Ma le armi prevalevano; quindi non solamente fu dissipato il tesoro lasciato da Carlo, ma i debiti dello stato, non ostante che le imposizioni s'aggravassero, tanto s'ammontarono, che sommavano nel 1789 a meglio di cento milioni di lire piemontesi, che sono più di cento venti milioni di franchi. Le cariche civili ed ecclesiastiche conferivansi solo ai nobili, ed agli abbati di corte. Ad una generazione di magistrati integerrimi e capaci, e di vescovi santi e dotti, successero qualche volta magistrati e vescovi poco atti per dottrina, e fors'anche meno per costume a reggere gli uffizi loro.

Pure fiorivano le scienze; fiorivano anche, ma non tanto, le lettere. Quanto alle contese circa l'ecclesiastica disciplina fra il romano pontefice, ed i principi di casa austriaca, il re Vittorio, contuttochè pensasse da illuminato cristiano in materia religiosa, aveva, per amor di quiete, ordinato, che mai non si parlasse o scrivesse nè pro nè contro la bolla Unigenitus, nè mai si trattasse dei quattro capitoli della chiesa gallicana; che anzi, siccome questi capitoli erano apertamente insegnati, e costantemente difesi nell'università di Pavia dopo le riforme fattevi da Giuseppe Secondo, aveva, a petizione del cardinale Gerdil, uomo dotto, ma romano in eccesso, proibito, che i sudditi andassero a studiare in quella università. Ma tali opinioni più pullulavano, quanto più si volevano frenare.

Da quanto abbiam finora discorso si può raccogliere, che il paese d'Italia, il quale ne sta ai passi, e doveva il primo esser percosso dalla tempesta, trovavasi, sotto sembianza forte, in non poca debolezza; poichè, se aveva esercito grosso e pieno di buoni soldati, che aveva certamente, governavasi questo esercito da ufficiali più notabili per nobiltà, che per esperienza di guerra; l'erario penuriava per debiti e per dispendio esorbitante; la superiorità dei nobili odiosa a tutti. Perciò vi covava qualche mal umore, crescendo dall'una parte la superbia per sospetto, dall'altra l'ambizione per dispetto.

Se la monarchìa Piemontese era la più ferma delle monarchìe, la repubblica di Venezia era la più ferma delle repubbliche. Coloro i quali credono, essere le repubbliche varie e turbolente, nè poter la quiete sussistere che nelle monarchìe, potran vedere nella Veneta una repubblica più quieta di quante monarchìe siano state al mondo, eccetto solo quella del Piemonte. Passò gran corso di secoli senza turbazioni; fu percossa da potentissime nazioni, da Turchi, da Germani, da Francesi; trovossi fra guerre atroci, fra conquiste di popoli barbari, fra rivoluzioni orribili di genti; Roma stessa fulminava contro di lei. Pure conservossi, non solo salva in mezzo a tante tempeste, ma nemmeno ebbe bisogno di alterar gli ordini antichi. Tanto perfetti erano i medesimi, e tanto s'erano radicati per antichità! Pare a me, che più sapiente governo di quel di Venezia non sia stato mai, o che si risguardi la conservazione propria, o che si miri alla felicità di chi obbediva. Per questo non vi sorsero mai parti pericolose; per questo certe nuove opinioni non vi si temevano, perchè non vi si amavano, e forse ancora non vi si amavano, perchè non vi si temevano. Solo da biasimarsi grandemente era quel tribunale degl'inquisitori di stato per la segretezza, l'arbitrio, e la crudeltà dei giudizi: pure era volto piuttosto a frenare l'ambizione dei patrizi, che a tiranneggiare i popoli. Nè sola Venezia ebbe inquisitori di tal sorte, perchè i governi che non gli hanno per legge stabile, se gli procurano per abuso; e non so se muovano più il riso o lo sdegno certuni, che tanto romore hanno levato contro il tribunale suddetto, e che anche presero pretesto da lui di distruggere quell'antica e santa repubblica. Del resto, la providenza di lei era tale, che e l'umanità vi trovava luogo, e le gentili discipline vi si proteggevano. Ma la lunga pace vi aveva ammollito gli animi, e se vi rimanevano ordini buoni, mancavano uomini forti per sostenergli. Diminuita la potenza Turchesca, e composte a quiete le cose d'Italia, perchè accordate, rispetto al ducato di Milano, ed al regno di Napoli, tra Francia, Austria e Spagna, posò intieramente le armi la repubblica, e credette colla sola sapienza civile potersi preservar salva nei pericoli, che radi ancora si rappresentavano. Ma vennero certi tempi strani, in cui la sapienza civile non poteva più bastare senza la forza, troppo rotti e troppo enormi dovevano essere i moti: la sapienza civile stessa era venuta in derisione. Così Venezia verso l'ottantanove stimata da tutti, temuta da nissuno, se era capace di risoluzioni prudenti, non era di risoluzioni gagliarde; l'edifizio politico vi stava senza puntello: una prima scossa il doveva far rovinare.

Assai diversa da questa mostravasi, quanto al vigore degli animi, la condizione della repubblica di Genova. Nissun popolo si è veduto meno da' suoi maggiori degenerato del Genovese. Fortezza d'animo, prontezza di mente, amore di libertà, attività mirabile, civiltà ancor mista con qualche rozzezza, ma esente da mollezza; un osare con prudenza, un perseverare senza ostinazione, ogni cosa insomma ritragge ancora in lui di quel popolo, che resistè ai Romani, battè i Saracini, pose agli estremi Venezia, distrusse Pisa, conquistò Sardegna, produsse Colombo e Doria, cacciò dalla sua città capitale i soldati d'Austria; e se i destini in questi ultimi tempi non fossero stati tanto contrarj alla misera Italia, forse i Liguri avrebbero lasciato al mondo qualche bel saggio di valore e di virtù. Ma parlossi d'indipendenza con la oppressione, e di libertà con la servitù, e gli animi distratti fra dolci parole e tristi fatti, non poterono nè accendersi al bene, nè vendicarsi del male. Era in Venezia un acquetarsi abituale alla sovranità dei patrizj, perchè era non solamente non tirannica, ma dolce, e perchè era da principio presa, e non data. Era in Genova un vegliare continuo, una gelosìa senza posa nell'universale verso la sovranità dei nobili, non perchè tirannica fosse, ma perchè era stata non presa da chi comandava, ma data da chi obbediva. La lunga quiete aveva fatto posar gli animi in Venezia: le sette, le fazioni, le parti ora rompendo in manifesta guerra civile, ora sottomettendo la patria ai forestieri, avevano mantenuto in Genova gli animi forti, e le menti attente. Era nel paese veneto gran ricchezza con ampio territorio e fertile; era nel Genovesato gran ricchezza con angusto territorio e sterile; perciò là si poteva conservar l'acquistato posando, qua bisognava conservarlo operando. Era in Venezia chiuso a' plebei il libro d'oro; era in Genova aperto, possente stimolo a chi aveva avuto più amica la natura che la fortuna. Sicchè non dee far maraviglia, se risplendeva Venezia più per delicatezza di costumi, che per forza, e se pel contrario era più conspicua in Genova la forza che la delicatezza. Quanto alle opinioni, quelle relative allo stato poco sapevano di cambiamento, quelle relative all'ecclesiastiche discipline, assai. Quindi Porto-Reale era in favore, e molto largamente si pensava sull'autorità del papa. Tal era Genova non cambiata dai secoli, e le antiche querele sulla natura de' suoi abitatori al molto amor patrio suo sempre molesto ai forestieri, piuttosto che a verità, debbonsi attribuire.

Se Venezia dimostrava quanto possa per la felicità dei popoli e per la stabilità degli stati l'aristocrazia temperata dal costume, se Genova c'insegnava quanto possa pel medesimo fine la maniera stessa di governo temperata dal costume e dalla gelosia del popolo, dimostravalo Lucca con l'uno e con l'altro, e di più col freno di una sottile investigazione sul procedere tanto dei nobili, quanto dei popolari. Era in Lucca quest'ordine, che chiamavano discolato, e rappresentava l'antico ostracismo d'Atene, e la censura di Roma, che quando alcuno, o nobile o popolano si fosse, trascorreva i limiti della modestia civile, o dei costumi buoni, tosto tenevasi Discolato, scrivendo ciascun senatore il suo nome in sur una polizza; e se venticinque polizze il dannavano in tre Discolati successivi, ei s'intendeva mandato a confine, od in esilio. Tenevasi il Discolato ogni due mesi; il che era gran freno agli uomini ambiziosi e scorretti. Pure siccome sempre il male è vicino al bene, quella continua e minuta inquisizione, col timore che ne nasceva, rendevano di soverchio gli uomini sospettosi e guardinghi; perfino l'onesta piacevolezza era sbandita dal conversare Lucchese, ed una terra, oltre ogni credere dolce e gioconda, era abitata da gente grave e contegnosa.

Nè minor gelosia era verso i giudici; quindi si chiamavano dall'estero: poi, deposto il magistrato, si sottomettevano a sindacato, o vogliam dire ad esame: seduti in luogo pubblico, poteva ognuno accusargli di gravame; commessarj espressi tenevano registro, e facevano rapporto al senato, che giudicando assolveva o condannava. Così erano in Lucca giudizj integerrimi, primo e principal fondamento alla contentezza dei popoli.

Ma se vi si dava ad ognuno il suo, vi si largiva il necessario al bisognoso; perchè a chi voleva aprir traffichi, o era stato danneggiato dalle stagioni, si fornivano, o danari dall'erario, o generi dai magazzini del comune. Così mite, provvido, e libero era il reggimento di Lucca. Così ancora facilmente si vede, che nei paesi d'Italia, che non erano stati dati in preda dagl'imperadori a principi assoluti, od a signori arbitrarj, erano state ordinate la giustizia e la libertà, non impronte e superbe favellatrici, come in altri paesi, ma fondate su buoni statuti, sull'assenza d'eserciti esorbitanti, sulla modestia di chi reggeva, sulla natura sottile ad un tempo, ed assennata degl'Italiani. Che poi questi ordini fossero perfetti per fondare una compita libertà, nè io, nè altri, credo, che s'ardirà dire. Ma dove sia questo genere di perfezione, per me nol so; poichè neanco credo che sia dove le soldatesche sterminate possono conquistare, e recare a servaggio non che la patria, una, ed anche più parti del mondo. Che se poi solo ed unicamente si volesse giudicare della bontà dei governi argomentando dall'infrequenza dei delitti, certamente si affermerebbe i governi di Venezia, di Genova, di Lucca, e di Toscana essere i migliori. Va con questi, se però non è superiore per bontà, quello della repubblica di San Marino. Vive da dodici secoli la repubblica di questo nome, appena nota al mondo per fama. Quivi virtù senza fasto, quiete senza tirannide, felicità senz'invidia: quivi nobiltà solo per chiarezza di natali, non per dritti oltraggiosi, nè per privilegj, nè per desiderio di dominazione: quivi popolo occupato ed industrioso, e come fra nobili temperati, così nè irrequieto, nè tirannico. Fortunate sorti, per cui, tolta l'ambizione dalle due parti, solo rimasero gli affetti conservatori della società. Rovinavano per lunghi anni intorno a San Marino i regni, rovinavano le repubbliche, si straziavano gli uomini per civili e per esterne guerre: sul Titano monte perseverarono i Sammariniani in tranquillo stato, ed amici a tutti: dall'alto, e dal sereno miravano le tempeste. Volle l'ambizione moderna introdursi in quei placidi recessi, ma fu l'opera indarno, come fia da noi a suo luogo raccontato: l'inveterato e dolce aere resistette al pestilenziale soffio. Un consiglio di sessanta nominato primitivamente dai capi di tutte le famiglie adunati in generale congresso, o vogliam dire a parlamento, e che chiamavano aringo, poi rinnovellato da se stesso a misura delle vacanze, e due consoli semestrali col titolo di capitani del comune reggono lo stato. Hanno i capitani la facoltà esecutiva: avevano anche anticamente, a norma degli antichi consoli di Roma, parte della giudiziale, ma questa poi cesse a uomini chiamati dall'estero dal consiglio sotto nome di podestà: rimase ai capitani l'ufficio di paciali. Sono i capitani, e così ancora i podestà, per gli atti del loro ufficio soggetti al sindacato, che è il modo della legge delle obbligazioni, o come dicono i Francesi, della risponsabilità, trovato dagl'Italiani per la guarentigia dei dritti. L'equalità civile consola San Marino, i costumi il conservano, la povertà sicuro scudo contro i forestieri. Nulla ci desidera negli altri, nulla gli altri desiderano in lui, perchè i buoni hanno a schifo i vizj, la quiete non piace ai turbolenti, nè la libertà ai corrotti.

Regnava in Modena il duca Ercole Rinaldo di Este, ultimo rampollo di una casa, da cui l'Italia riconosce tanti benefizj di gentilezza, di dottrina e di lettere, come se fosse ordinato dai cieli, che non solo ogni reggimento Italiano, ma ancora ogni sangue sovrano, eccetto quel di Piemonte, dovessero andare spenti nei calamitosi tempi che vedemmo. Era il duca Ercole principe degno dei suoi maggiori, se non che forse la sua strettezza nello spendere era tale, che sapeva di miseria. Pure dubitar si potrebbe, se tale qualità in lui si debba a vizio, od a virtù attribuire; perchè se dagli eventi giudicar si dovesse, e dalla natura sua, ch'era previdentissima, sarebbe degno anzi di lode, che di biasimo. Certo, era in lui maravigliosa la previdenza, e non so se i posteri mi crederanno, perchè ciò solo a rinomati filosofi fu attribuito, quando dirò, che il duca Ercole con chiaro ed evidente discorso predisse, parecchi anni prima dell'ottantanove, il sovvertimento di Francia, e la rovina d'Europa. Aggiunse con voce ugualmente profetica, che la Francia perderebbe la sua preponderanza, che tutte le potenze si sarebbero collegate contro di lei, e che nissuna l'avrebbe aiutata. Principe buono, ed avverso agli ordini feudali, affermava ch'essi erano più funesto flagello all'umana generazione, che la guerra e la peste, nè mai comportò ai nobili le insolenze. Principe religioso, seppe tener in freno il clero e Roma, perchè e voleva intiero il dominio de' suoi, e si ricordava del tratto di Ferrara. Fiorirono maravigliosamente a tempo suo le lettere in quella parte d'Italia: finì la casa d'Este simile a lei, nell'antico costume perseverando.

Ora per raccogliere in poco discorso quello che siamo andati finora largamente divisando, si vede che se apparivano in Italia desiderj di riforme, non apparivano semi di rivoluzione; che questi desiderj risguardavano parte lo stato politico, parte la disciplina ed il governo della chiesa; principalmente una evidente impazienza vi era sorta di quanto rimaneva degli ordini feudali. I principi, i primi mostrarono di volere, e mandarono ad effetto non poche riforme; il che fece nascere generalmente desiderio e speranza di veder condotta a compimento la macchina delle instituzioni sociali. Tutte queste cose assecondava la filosofia tanto squisita di quei tempi, non quella, dico, turbolenta e sfrenata, che non s'intende come alcuni chiamino filosofia, ma quella che desiderava maggior moderazione nei potenti, e maggior felicità nei deboli. Imperciocchè la religione divenuta ricca e potente, per opera dei gesuiti, lusinghiera e comportatrice di ogni cosa ai potenti, in troppo minor cura aveva, di quanto si convenisse, coloro i quali, secondo i precetti del suo divino Autore, suoi figliuoli prediletti esser dovrebbono, ch'è quanto a dire i deboli. In ciò volle supplir la filosofia, e fecelo, fintantochè uomini senza freno di lei troppo enormemente abusando, empierono il mondo di sterminj e di sangue, come altre volte uomini senza freno troppo enormemente ancora della religione abusando, avevano i secoli spaventato con stragi e con ruine. A questo, erano in alcuni luoghi della penisola uomini rozzi, ma forti, in altri uomini gentili, ma deboli; di nuovo in alcuni armi deboli, ma opinioni tenaci; in altri armi forti, ma eccessive, e per questo medesimo che eccessive erano, non sufficienti. Del resto, se erano in Italia desiderj buoni, non erano ambizioni cattive; non solo non vi si aveva speranza, ma neanco sospetto di rivoluzione, e gli Italiani hanno natura tale, che se van con impeto, maturano con giudizio.

Tale era Italia, quando giunto il secolo verso l'anno della nostra salute 1789, si manifestarono in Francia, provincia solita a muovere co' suoi moti tutta l'Europa, inclinazioni e cambiamenti di grandissimo momento. Destarono queste novità diverse speranze e diversi timori in Italia, secondo la diversità degl'ingegni e delle passioni. In questi crebbero le speranze, in quelli i timori; in alcuni cominciarono a sorgere le ambizioni: i principi si ristettero dalle riforme per sospetto, i popoli più le desiderarono per l'esempio: tutti credettero che per la vicinanza dei luoghi, per la frequenza del commercio, per la comunanza delle opinioni, novità di una suprema importanza avverrebbero di là, come già erano avvenute di qua da' monti.

LIBRO SECONDO

SOMMARIO

Rivoluzioni in Francia, e loro cagioni, ed effetti. Loro effetti negli altri paesi d'Europa, massime in Italia. Proposizione di una lega Italica. Vera natura del trattato di Pilnitz. Morte di Leopoldo, imperatore d'Alemagna; assunzione di Francesco, suo figliuolo. Stimoli della Russia alla guerra contro la Francia. L'Austria e la Prussia in guerra con questa potenza. Risoluzione della Sardegna, di Venezia, di Napoli, di Genova, del papa e della Toscana. Umori dei popoli in Italia: opinioni delle due parti contrarie. Arti del governo di Francia rispetto ai governi Italiani nel 1792. Egli dichiara la guerra al re di Sardegna nel mese di settembre. Fatti d'armi nella Savoia, e nella contea di Nizza tra i Francesi, e i Piemontesi. Dispersione di questi ultimi nelle due provincie. Esse vengono in potestà dei primi. Fuga lagrimevole dei fuorusciti francesi dalla Savoia. Risoluzioni del re Vittorio Amedeo in un caso tanto improvviso, e tanto pericoloso.

Le mutazioni fatte in Italia da principi eccellenti non partorirono che bene; quelle fatte da un principe giusto e buono in Francia non solo non fruttificarono quel giovamento ch'ei s'era proposto, ma originarono ancora orribili disgrazie. Della qual differenza chi volesse investigar le cagioni, avrà a considerar in primo luogo le opinioni ed i costumi, che prevalevano a quei tempi in quel regno, poi le leggi che il governavano, e finalmente lo stato dell'erario.

Quello spirito di benevolenza verso l'umana generazione, il quale era prevalso in Europa a questi tempi, aveva messo più profonde, e più larghe radici in Francia, che in qualsivoglia altra provincia, sì perchè dalla Francia medesima quasi da fonte principale derivava, sì perchè la civiltà degli uomini in questo paese era molt'oltre proceduta, e sì finalmente perchè, essendo essi d'indole volubile, fan nascere spesso le mode ed i tempi, ed i tempi poscia gli governano. Così era allora tempo d'umanità; e siccome questa è una nazione, che per la prontezza della mente, e per la grandezza dei concetti, dà facilmente negli estremi così nel bene, come nel male, e sempre si governa coi superlativi, così questa universale benevolenza era diventata eccessiva, estendendosi anche a certi fini, che toccano la radice del governo, e ciò non senza pericolo dello stato; poichè se è necessario allettar gli uomini con l'amore, è anche necessario frenargli col timore, più potendo in loro l'ambizione e l'altre male pesti, che la gratitudine.

In tale disposizione di animi non solo erano divenuti, più che non fossero mai stati, odiosi i residui degli ordini feudali, ma ogni leggier freno, che dal governo venisse, era riputato duro e tirannico. Da questo procedeva, che con riforme utili si desideravano anche riforme disutili, o pericolose.

Queste opinioni recavano possente incentivo da quelle, che s'erano formate e sparse ai tempi dell'ultima guerra d'America, sì opportunamente intrapresa, e sì generosamente condotta dalla Francia: esser doni volontarj le contribuzioni dei popoli, dover essi e della necessità loro, e della quantità giudicare, esser la nobiltà non necessaria, anzi pericolosa allo stato, il re capo, non sovrano, il clero consiglio, non ordine, e richiamavanlo alla semplicità antica; la religione dover esser libera. A questo aggiungevasi una tale tenerezza per gli oppressi, che se mancavano i veri, si cercavano i supposti per isfogar la piena di tanto amore; poichè ogni punito ed ogni imposto riputavansi oppressi, ed un gran di sale, che si pagasse, faceva sì che si gridava tirannide. Le ambizioni si mescolavano alle dolci affezioni, ed alcuni fra i popolani, vedendosi favoriti dall'opinione, volevano diventar potenti con salire alle dignità, ed alle cariche dello stato.

Quest'erano le improntitudini popolari; ma la ferita era anche più grave, e più dentro penetrava nelle viscere dello stato; conciossiachè coloro fra i nobili, che avevano militato in America, eransi lasciati ridurre sì per l'esempio, e sì ancora sospinti da una illusione benevola, credendo che un'Americana pianta potesse portar buoni frutti in un terreno europeo non adatto ad opinioni più favorevoli ai popoli, che alla corona; ed oltre alla equalità dei dritti, desideravano l'introduzione di qualche ordine popolare nell'antica constituzione del regno. Piacevano loro le forme della constituzione d'Inghilterra. Ciò mise discordia fra la nobiltà, poichè alcuni fra i nobili opinavano per le novità, alcuni per le antiche cose, e così s'indeboliva questo propugnacolo della corona in un tempo in cui ella ne aveva più bisogno.

Ma i più fra coloro dei nobili, che o per coscienza, o per interesse perseveravano nelle massime antiche, e rimanevano fedeli alla corona tale quale era durata da tanti secoli, davano novella forza, certo per orgoglio mal misurato, alla potenza popolare che sorgeva; imperciocchè e più insolenti si mostravano nelle ville e castelli loro, e più duramente esigevano gli abborriti dritti feudali, credendo con maggior forza doversi tener quello, che si temeva di perdere. Ciò tanto maggiormente si osservava, e tanto maggior odio creava, che quella parte dei nobili che inclinavano a novità, avevano i medesimi ordini o intieramente dismessi, o grandemente moderati, ed i restanti con molta mansuetudine riscuotevano. L'odio saliva alla corona, perchè questi nobili arroganti erano appunto quelli, che facevano maggior dimostrazione in favore delle prerogative, e della potenza regia.

Nè queste erano le sole cagioni di novità. Certo è, che i vizi maggiormente allignano fra i grandi che fra il popolo, tale essendo la natura umana, che tanto più si corrompe, quanto ha più modi di corrompere e di corrompersi; nè bastano le gentili dottrine a raffrenar quest'impeto, poichè esse meglio servono di scusa che di freno. Quindi era sorta fra i ricchi una tale dissolutezza di costumi, che ne fu tolto alle persone loro quel rispetto, che già aveva tolto ai loro dritti l'opinione. L'ozio, il lusso, i piaceri lascivi, i piaceri infami erano giunti al colmo; nè alcuno era contento alla condizione sua, che, nata l'ambizione, niuno voleva stare, ognuno voleva salire, ed ogni modo era riputato buono, o di pecunia accattata che si fosse, e di meretrice compra, o di bugia, o di calunnia. Tanta era stata la mala efficacia dei tempi della reggenza! Il vizio s'era introdotto nella corte stessa, nè bastava, non dirò a sanar gli animi, ma a contenerli, l'esempio del re, per verità di costumi integerrimi. Ma siccome i popoli credono che le corti s'informino sul modello dei re, così i Francesi vedendo una corte scostumata, rimettevano ogni giorno più di quell'amore, che in tutti i secoli hanno portato ai re loro.

Il perverso influsso era tale, che ne furono contaminati anche coloro, che dovrebbero avere in se più di sacro e di venerando. L'alto clero, posto da Dio per esempio e per modello ai fedeli, era diventato scandaloso per ogni sorte di corruttela. Non pochi fra i prelati, abbandonate le sedi e gli ovili loro, se ne givano a Parigi per ivi far opera a diventar ministri, o mostra di ozio, di lusso e di lussuria; nè era raro il vedere ecclesiastici di primo grado fare o i dottori politici, o i corteggiatori di dame nelle conversazioni sì pubbliche che private; e tra di loro alcuni, poste le mani violentemente nel proprio sangue terminarono una vita infame con modo ancor più infame. In mezzo a tutto questo scemava fra i popoli il rispetto verso la religione, ed è una fra le tante maraviglie di questi tempi strani, che i vizj dei prelati tanto e forse più abbiano contribuito all'incredulità del secolo, che gli accagionati filosofi con gli scritti loro; poichè, se questi davano gli argomenti, quelli davano la materia. In tal modo la potenza separatasi prima dalla virtù, separossi anco dal rispetto, suo principal fondamento; la virtù medesima sbandita dalla città e dalle curie, ricoverossi fra i modesti presbiterj dei parochi, e fra gli umili casolari dei contadini. Dal che ne nacque più forza alla potenza popolare; perciocchè credessi là esser la buona causa, dov'era la virtù, e la cattiva, dov'era il vizio.

A questo si aggiungeva, che a gran pezza l'entrata non pareggiava l'uscita dello stato, deplorabil frutto dei concetti smisurati di Luigi decimoquarto, del voluttuoso vivere di Luigi decimoquinto, e del profuso spendere della corte di Luigi decimosesto, ancorchè questo principe se ne vivesse per se molto parcamente. Questo difetto nell'entrata era giunto a tale sul finire del 1786, ch'era per nascere una gran rovina, se presto non vi si rimediava.

In cotal modo scomposte le cose, passata la forza dell'opinione dai nobili ai popolani, dai ricchi ai poveri, dai prelati ai curati, e mancato il denaro, principal nervo dello stato, si vedeva, che ove nascesse un primo incitamento, un grande sovvertimento sarebbe accaduto. Nè la natura del re dolce e buona era tale, che potesse dare speranza di potere o allontanare o indirizzare con norma certa, ed a posta sua gli accidenti che si temevano.

Qui nacque un caso degno veramente di eterne lagrime, e pur non raro nelle memorie tramandate dagli storici. Tanto è la natura umana sempre più consentanea a se stessa nel male, che nel bene, e tanto sono cupe le ambizioni degli uomini. Volevasi da tutti, come opinione portata dai tempi, e come cosa utile e giusta, una equalità civile, una equilità d'imposte, una sicurezza delle persone, una riforma negli ordini giudiziali, una maggior larghezza nello scrivere. Era il re inclinato ad accomodar le cose ai tempi, per quanto la prudenza, e le prerogative della corona tanto salutari in un reame vasto, ed in una nazione vivace e mobile, il comportassero. Ma la setta aristocratica, composta principalmente dai parlamenti, dai pari del regno, dai prelati più ragguardevoli, dai nobili più principali, e secondata da un principe del sangue, del quale se fu biasimevole la vita, fu ancor più lagrimevole il fine, preoccuparono il passo, e vollero farsi capi e guidatori dell'impresa. In questo il pensier loro era di cattivarsi con allettative parole la benevolenza del popolo, e diminuire, con l'aumento della propria, l'autorità della corona. Forse i primi e i principali autori di questo disegno miravano più oltre, velando con parole denotanti amore di popolo pensieri colpevoli di mutazioni nella famiglia regnante.

Quale di questo sia la verità, i capi di questa setta si prevalsero molto opportunamente per arrivar ai fini loro di un'errore commesso dal governo, il quale diede occasione alla resistenza loro, e fu primo principio di quel fatale incendio, che arse prima il nobile reame di Francia, poi propagatosi per tutta Europa, vi trasse tutto a scompiglio ed a rovina. Il re, in vece di cominciar l'opera dalle riforme tanto desiderate dal popolo, poi ordinar le tasse, volle principiare a por le tasse, poi far le riforme. Quindi l'amore cominciò a convertirsi in odio; la setta nemica alla corona se ne prevalse. Adunque avendo egli pubblicato due editti, uno perchè si ponesse una imposta sopra le terre, l'altro perchè si ponesse una tassa sulla carta bollata, il parlamento di Parigi, non solo fortemente protestò, ma ancora più oltre procedendo ordinò, che chiunque recasse ad effetto i due editti, fosse riputato reo di tradimento, e nemico della patria. Quest'era il momento d'insorgere da parte del governo, e di dar forza alla legge, e di aggiungere al tempo stesso qualche editto contenente riforme e giuste per se, e desiderate dal popolo: ciò avrebbe preoccupato il passo. Ma egli, rimettendo dall'opera sua, lasciò andar non eseguiti i suoi editti. Quindi crebbe l'ardire del parlamento, che volendo usar la occasione di guadagnarsi la grazia del popolo a diminuzione dell'autorità regia, passò ben a ragione ad abbominare con pubbliche scritture, e con parole infiammative le incarcerazioni arbitrarie; poi statuì, annuendo ad una convocazione degli stati generali, non essere in facoltà sua, nè della corona, nè di tutti due uniti insieme trar denaro dal popolo per via di tasse; la sola volontà del re non bastare a far la legge, nè la semplice espressione di questa volontà poter constituire l'atto formale della nazione; essere necessario, a volere che la volontà del re debba trarsi ad effetto, ch'essa sia pubblicata secondo le forme prestabilite dalla legge; tali essere i principj, tali i fondamenti della constituzione francese; sapere il parlamento, che si volevano sovvertire i diritti pubblici per stabilire il dispotismo; la libertà comune essere in pericolo; ma non volere, nè potere a tali rei disegni dar la mano, anzi volere opporsi, nè mai permettere che gli essenziali dritti dei sudditi fossero conculcati e messi al fondo: poi rivoltosi al re, gli intimò, non isperasse di poter annullare la constituzione, concentrando il parlamento nella sola sua persona.

Rispose risentitamente il re, che quello che s'era fatto, s'era fatto secondo gli ordini fondamentali dello stato; non s'intromettessero in affari di governo, perchè di ciò non avevano autorità di sorte alcuna; ch'erano i parlamenti del regno di Francia corti di giustizia abili solo a giudicare in materie civili e criminali, ma non avere autorità nè legislativa, nè amministrativa; la volontà del re non potersi senza pericolo, nè senza un nuovo e funesto cambiamento nella constituzione del regno soggettare a quella dei magistrati; se ciò fosse, cambierebbesi la monarchìa in aristocrazìa di magistrati, badassero a far il debito loro come giudici, e lasciassero il governo delle cose pubbliche a chi per antica consuetudine e per costituzione l'aveva in mano; considerassero quante leggi erano state fatte in ogni tempo dai re di Francia, non solo senza il consenso, ma ancora contro la volontà dei parlamenti; la registrazione non essere approvazione, ma solo autenticazione, nè altro in questo fare i parlamenti, che le veci di notari del regno; che quest'erano le forme, questi i precetti ai quali e' si dovevano conformare, e se nol facessero, sì gli costringerebbe.

Tal era la contesa nata in Francia fra il re ed i parlamenti circa le prerogative e l'autorità della corona. Intanto ogni pubblico affare era soprattenuto, perchè i parlamenti di provincia, come quello di Parigi o avevano cessato di per se stessi l'ufficio, o erano dall'autorità regia sospesi. Volle il re rimediare con la creazione della corte plenaria, ma proruppe il parlamento in un'asprissima protesta: protestarono i pari del regno, il clero stesso titubava.

Intanto uomini faziosi di ogni genere o stimolati espressamente dai capi della parte dei parlamenti, o valendosi acconciamente della occasione offerta dalla resistenza loro per macchinar novità, andavano spargendo in ogni luogo semi di discordia e di anarchìa. Tumultuavasi a Grenoble, a Rennes, a Tolosa, ed in altre sedi di parlamenti; orribili scritture uscite in Parigi chiamavano tiranno il re, distruttore dei diritti del popolo, oppressore crudelissimo; esortavansi le genti a levarsi, a disvelare, e punir gli oppressori.

Avendo il re trovato in vece d'appoggio, opposizione e resistenza nei parlamenti, nella nobiltà, ed in una parte del clero, dovette necessariamente voltarsi verso il popolo, e fondar l'autorità sua sulla potenza dei più, giacchè i pochi l'abbandonavano. Così era fatale, che le prime occasioni delle enormità che seguirono, siano state date da coloro ai quali più importava di evitarle, e che ne furono alla fine le miserabili vittime. Adunque fu chiamato ministro il Ginevrino Necker, e con lui altri personaggi consentanei al tempo. Si sperava bene, il popolo esultava. Convocaronsi i notabili del regno, convocaronsi gli stati generali. Prevalse in sul bel principio la parte popolare, siccome quella, in favor della quale operavano i tempi. Decretossi dapprima, del qual consiglio fu autore Necker, fosse doppio il numero dei deputati del terzo stato; poi sedessero i tre ordini, non separatamente, ma in comune; poi si deliberasse, non per ordini, ma per capi, il che diede del tutto la causa vinta ai popolari. Gli ordini uniti presero il titolo di assemblea nazionale. Erano portati al cielo: non si parlò più dei parlamenti, quantunque eglino con opportune scritture si fossero sforzati di riguadagnarsi quel favore, che per un nuovo empito popolare si era voltato all'assemblea.

L'assemblea nazionale, ottenuta la superiorità del terzo stato, abolì l'inequalità delle imposte, poi i privilegi della nobiltà, poi quelli del clero, poi la nobiltà ed il clero; ed aboliti la nobiltà ed il clero, s'incamminava ad indebolire talmente l'autorità regia, ch'ella non fosse più che un'ombra vana. Il benefizio dell'equalità era solamente apprezzato dai buoni; i tristi usavano la occasione dell'indebolimento del governo. I faziosi dominavano: l'autorità regia non gli poteva frenare, perchè scema di potenza e d'opinione; l'autorità popolare non ardiva, perchè parlavano in nome, ed in favor del popolo. In ogni luogo sedizioni, incendj, e rapine; morti funeste, e modi di morte più funesti ancora: uomini mansueti divenuti crudeli; uomini innocenti cacciati dai colpevoli; uomini benefici uccisi dai beneficati. Virtù in parole, malvagità in fatti. Novelle strane si spargevano ogni giorno; e quanto più strane, tanto più credute, e tosto si poneva mano nel sangue, o ad ardere i palazzi; nè il sesso, nè l'età si risparmiavano; ad ogni voce che si spargesse, il popolo traeva, massime in Parigi. In mezzo a tutto questo atti sublimi di virtù patria, e di virtù privata, ma insufficienti pel torrente insuperabile, e contrario. Nè si vedeva fine agli scandali, perchè l'argine era rotto, e fin dove avesse a trascorrere questo fiume senza freno, nissuno prevedeva.

In fine dopo molti e varj eventi, l'assemblea con una cotal constituzione, che teneva poco del regio, meno ancora dell'aristocratico, molto del democratico, rendè il re un nome senza forza; poi venne l'assemblea legislativa, che il depose; poi il consesso nazionale, che l'uccise. Intanto uccisi o intimoriti i buoni, impadronitisi della somma delle cose i tristi, la nazione francese, non trovando più riposo in se stessa, minacciava, qual mare ingrossato dalla tempesta, di uscir dai propri confini, e di allagare con rovina universale l'Europa.

A tali accidenti di Francia cadevano nelle menti degli uomini negli altri paesi di Europa varj pensieri. Da principio quando solo si trattava dell'opposizione nata fra il re ed i parlamenti, era sorta un'aspettazione tuttavia scevra da timore. Ma quando vi si aggiunsero le insolenze popolari, le rapine e le uccisioni continue, quando si distrussero, e più ancora quando si schernirono i dritti, sopra i quali erano fondati gli ordini delle monarchìe d'Europa, quando s'insultò il re, quando mani scellerate cercarono la regina per ucciderla, cominciò alla meraviglia a mescolarsi il timore. Finalmente quando alle incredibili enormità si arrosero quelle compagnie raunate in Parigi, ed affratellate in tutta la Francia, le quali apertamente dichiaravano volere, con portar la libertà, come dicevano, fra gli altri popoli, distruggere i tiranni (chè con tal nome chiamavano tutti i re) il timore diventò spavento. Veramente uomini a posta scorrevano la Germania, massime i Paesi Bassi, e pretendendo magnifiche parole a rei disegni, insidiavano ai governi, ed incitavano i popoli a cose nuove: si temeva che per le sfrenate dottrine tutte le province s'empissero di ribellione. Si aveva anche in Italia avuto odore di tali mandatarj, i sospetti crescevano ogni giorno. Dava ancora maggior fondamento di temere il sapersi, che si trovavano in tutti i paesi non solo uomini perversi, i quali pei malvagi fini loro desideravano far novità nello stato, ma ancora uomini eccellenti, che levati a grandi speranze dalle riforme già fatte in quei tempi dai principi, e credendo potersi dare una maggior perfezione al vivere civile, non erano alieni dal prestar orecchie alle lusinghevoli parole. Il pericolo si mostrava maggiore in Germania ed in Italia per la vicinanza dei territorj, per la facilità e la frequenza del commercio con la Francia, e per la comunanza delle opinioni.

Tale era la condizione dei tempi; e per dar principio a favellare dell'Italia, il re di Sardegna, trovandosi il primo esposto, per la prossimità dei luoghi, a tanta tempesta, aveva più che ogni altro principe, cagione di pensare a provveder al suo stato. Del che tanto maggior necessità il premeva, che non gli era nascosto, che nella parte de' suoi dominj posta oltre l'Alpi, le nuove opinioni s'erano largamente sparse, e ch'ella poco attamente si poteva difendere dagli assalti Francesi, quando si venisse a rottura di guerra con la Francia. Sapeva di più, che i suoi stati erano principalmente presi di mira da quella compagnia di propagatori di scandali, che s'era unita in Parigi, secondochè sfacciatamente uno di loro favellando in pubblico aveva predicato.

Per la qual cosa, veduto il pericolo imminente, coloro, i quali reggevano i consigli della corte di Torino, ristrettisi con gli ambasciadori e ministri degli altri principi d'Italia, rappresentarono loro, che i casi avvenuti nel desolato reame di Francia davano giusta cagione di timore per la quiete d'Italia; che l'assemblea nazionale, acciocchè i principi europei non potessero voltare i pensieri loro agli affari di Francia, pensava, per mezzo di seminatori di scandali e di ribellione, a turbar la quiete altrui; che già i mali semi incominciavano a sorgere, stantechè sebbene fosse stato continuo il vigilare del governo, e continue le provvidenze date, non s'erano potute evitare le compagnie segrete, ed anche alcuni, quantunque leggieri, moti nel popolo; che tali ingratissimi effetti si dimostravano più o meno nelle altre parti d'Italia; che per verità attentamente s'affaticavano in ogni luogo i principi per estirpare queste occulte radici, per chiudere i passi ai malvagi mandatarj, per iscoprir le congreghe segrete, per allontanar le turbazioni; ma non ravvisarsi quale dei due alfine avesse a restar superiore o la vigilanza dei governi, o la pertinacia dei novatori, se non si prendevano nuove e più accomodate risoluzioni; che la necessità dei tempi richiedeva che i principi d'Italia si stringessero in una lega comune a quiete e difesa comune; poichè quello, che spartitamente non avrebbero potuto conseguire, l'avrebbero ottenuto per l'efficacia e pei soccorsi comuni. Aggiunsero, che per verità questo disegno era già loro venuto in mente da gran tempo, di tanta opportunità egli era; ma che gli aveva ritirati dal proporlo il sapere che Giuseppe, imperatore d'Allemagna, pareva volersi condurre ad assaltar con l'armi nel proprio loro covile quei nemici dell'umanità e della religione; che ora, cambiate le circostanze per la morte di Giuseppe, e volti i pensieri di Leopoldo suo successore piuttosto a preservare, e conservare il proprio, che ad assalir l'alieno, avvisavano esser tempo opportuno di ordinare, e di stringere i vincoli di una comune difesa; che già il fuoco era vicino a consumare la Savoia; che il Piemonte era in procinto di ardere; e chi avrebbe potuto prevedere le calamità d'Italia, se non si spegnevano queste prime faville? che però, visti i pericoli sì gravi e sì imminenti, il re giudicava doversi, più presto il meglio, stringersi una lega fra tutti i potentati d'Italia, non già diretta a danno altrui, ma solo a preservazione propria, a tenersi guardati l'un l'altro dalle insidie dei mandatarj francesi, a mantener la quiete negli stati, a parteciparsi vicendevolmente le notizie sulle faccende presenti, e ad ajutarsi con l'armi e coi denari ove nascesse in questo luogo, od in quello qualche turbazione. Nè pretermisero i ministri Sardi di spiegar meglio quali dovessero essere i membri della lega, nominando particolarmente il re loro signore, l'imperatore d'Allemagna, la repubblica di Venezia, il papa, il re di Napoli ed il re di Spagna per la parte di Parma. Il re di Sardegna s'era già chiarito per alcune pratiche segrete della mente dei re di Napoli e di Spagna, che acconsentivano ad entrar nella lega; il papa vi si accostava ancor esso, siccome quello che ardeva di sdegno a cagione delle innovazioni effettuate in Francia circa gl'interessi spirituali e temporali della religione. Solo la repubblica di Venezia se ne stava sospesa, considerando quanto questa lega, ancorchè apparisse pacifica e meramente difensiva, avrebbe fatto ingrossar le armi in Italia, e chiamato forti eserciti di Allemagna, se le cose venute all'estremo avessero necessitato l'esecuzione; cosa sempre, e non senza cagione detestata da quella repubblica. S'aggiungeva, che non avendo essa pur testè voluto collegarsi con Giuseppe contro il Turco, naturale ed eterno nemico dello stato suo, del qual rifiuto ne aveva anche avuto le male parole da quell'imperatore in Trieste, pareva enorme al senato lo stringersi ora in alleanza con Leopoldo suo successore in una impresa evidentemente dirizzata, quantunque sotto parole velate, contro la Francia, amica vera e necessaria della repubblica. Nè grande era il timore, che aveva il senato delle nuove massime francesi; poichè la natura Italiana molto eminente negli stati Veneti efficacemente si opponeva alla loro propagazione: poi le consuetudini da tempi antichissimi radicate nell'animo dei popoli, e l'amore che portavano al loro governo, non consentivano; ma erano continue, e forti le istanze del re di Sardegna, e degli altri alleati, acciocchè il senato si risolvesse, perchè, se non avevano molta fede nelle armi Venete, avevano gran bisogno del nome e dei denari della repubblica.

Miravano tutte queste pratiche ad introdurre in Italia le medesime deliberazioni, ch'erano state prese in Germania dall'Austria e dalla Prussia dopo la morte di Giuseppe, e l'assunzione di Leopoldo. Erasi Leopoldo collegato con Federico Guglielmo di Prussia a sicurezza comune contro gli appetiti immoderati di Caterina di Russia, e contro le vertigini della Francia. Ma questa congiunzione tendeva a difendersi, non ad offendere; i trattati di Pavia e di Pilnitz, in cui si suppose essere stata stipulata la guerra, e lo smembramento della Francia, furono trovati e menzogne politiche per apporre a Leopoldo risoluzioni guerriere ed ostili, che non fece, e per stimolare a maggior empito i Francesi, che già con tanto empito correvano.

Ma morto Leopoldo, ed assunto al trono il suo figliuolo Francesco, principe giovane, ed ancora inesperto delle faccende, i negozj pubblici si piegarono a diverso, anzi a contrario fine. Caterina di Russia, la quale, visto il procedere temperato di Leopoldo e di Federigo Guglielmo, si era constituita pubblicamente, volendo pur muovere qualche cosa in Europa, la protettrice dell'antico governo di Francia, dimostrava con molte protestazioni volerlo rinstaurare. Non doversi, spargeva, un re virtuoso lasciar in preda a gente barbara; diminuita la potestà regia in Francia, diminuirsi ancora per riverbero in tutti gli altri regni; avere gli antichi per rispetto di un solo proscritto, preso le armi contro stati potenti: perchè si resterebbero i principi d'Europa dal correre in ajuto di un re, e di tutta una famiglia regia prigione, di tanti principi esuli, di tutto il fior d'un regno perseguitato e ramingo? l'anarchìa esser il pessimo dei mali, e più quando veste le sembianze della libertà, perpetuo inganno dei popoli; tornare l'Europa nella barbarie, se presto non si rimediasse; quanto a lei, essere parata ad opporsi con tutte le forze sue alla moderna barbarie, come Pietro il Grande, glorioso suo antecessore, aveva combattuto e superato un nemico ostinato, e sempre pronto ad infestar con l'armi i popoli vicini. Ora esser tempo d'insorgere, ora di unirsi, ora di pigliar l'armi per frenar quegli scapestrati di Francia: ciò richiedere la pietà, ciò domandar la religione, ciò volere l'umanità, ed ogni più santo, ogni più utile interesse d'Europa.

Queste, ed altre simili cose diceva continuamente Caterina, ed insinuava destramente nell'animo dei principi, massimamente di Francesco e di Federigo Guglielmo. Nè mancarono a se medesimi in tale auguroso frangente i fuorusciti francesi, e più i più famosi ed i più eloquenti, i quali erano indefessi nell'andar di corte in corte, di ministro in ministro per raccomandar la causa del re, la causa stessa, come affermavano, dell'umanità e della religione. A queste instigazioni l'imperatore Francesco, che giovane d'età aveva già assaggiato la guerra all'assedio di Belgrado, deposti del tutto i pensieri pacifici di Leopoldo, e non dando ascolto ai ministri, nei quali suo padre aveva avuto più fede, accostossi ai consigli di coloro, che dipendendo dalla Russia, lo esortavano ad assumere l'impresa, ed a cominciar la guerra. Dal canto suo Federigo Guglielmo, principe di poca mente, ma d'indole generosa, impietositosi alle disgrazie della casa reale di Francia, e ricordandosi della gloria acquistata da Federigo secondo, si lasciò svolgere, e postosi in arbitrio della fortuna corse anch'egli all'armi contro la Francia.

Noi non descriveremo nè la lega, che seguì tra la Russia, l'Austria, e la Prussia, nè il congresso di Magonza, nè la guerra felicemente cominciata, e più felicemente terminata nelle pianure della Sciampagna. Quest'incidenza troppo ci allontanerebbe dalle cose d'Italia. Incredibile era l'aspettazione degli uomini in questa provincia, e ciascuno formava in se varj pensieri secondo la varietà dei desiderj e delle opinioni. Il re di Sardegna, spinto sempre dalla brama di far chiaro il suo nome per le imprese d'armi, stimolato continuamente dai fuorusciti francesi, che in grandissimo numero s'erano ricoverati ne' suoi stati, e lasciandosi tirare alle loro speranze, certo molto più che a uomo prudente si appartenesse, aveva meglio bisogno di freno che di sprone. Intanto non cessava di avviar soldati, armi e munizioni verso la Savoja, e nella contea di Nizza, parti del suo reame solite a sentir le prime percosse dell'armi francesi, e donde, se la guerra dal canto suo fosse amministrata con prospero successo, poteva penetrar facilmente nelle viscere delle province più popolose, e più opime della Francia. Nè contento alle dimostrazioni, ardeva di desiderio di venirne prestamente alle mani, persuadendosi che le soldatesche francesi, come nuove ed indisciplinate, non avrebbero osato, non che altro, mostrar il viso a' suoi prediletti soldati. Ma o che l'Austria e la Prussia abbiano creduto di terminar da se la bisogna, marciando sollecitamente contro Parigi, o che credessero pericoloso pel re di Sardegna lo scoprirsi troppo presto, lo avevano persuaso a temporeggiare fino a tanto che si fosse veduto a che termine inclinasse la guerra sulle sponde della Matrona, e della Senna. Così mutate le cose per la morte di Leopoldo, e pei nuovi consigli di Francesco, il re di Sardegna, prima talmente rispettivo, che altro non pretendeva che una lega fra i principi Italici a difesa comune, ora datosi in preda allo spirito guerriero, gli pareva mill'anni, che non cominciasse a mescolar le mani con la Francia.

La subitezza di Vittorio Amedeo, e la lega dei re contro la Francia, diedero non poco a pensare al senato Veneziano, e lo confermarono vieppiù nella risoluzione presa di non pendere da nissun lato, quantunque la corte di Napoli gli facesse frequenti e vivissime instanze, affinchè aderisse alla lega Italica. Ma prevedendo le ostilità vicine anche dalla parte d'Italia, il che gli dava sospetto che navi armate di potenze belligeranti potessero entrar nel golfo, e turbar i mari, e forse ancora che altri potentati d'Italia non forti sull'armi navali, gli domandassero ajuti per preservar i lidi dagl'insulti nemici, ordinò che le sue armate, che ritornate dalla spedizione contro Tunisi stanziavano nelle acque di Malta e nell'isole del mare Ionio, se ne venissero nell'Adriatico. Veramente essendo stato richiesto poco dopo dai ministri Cesareo, e di Toscana, che mandasse navi per proteggere Livorno ed il littorale pontificio, rispose, aver deliberato di osservar la neutralità molto scrupolosamente; la qual deliberazione convenirsegli e per massima di stato, e per interesse dei popoli.

Il re di Napoli stimolato continuamente dalla regina, e dal debito del sangue verso i reali di Francia, andava affortificandosi con l'armi navali e terrestri; ma non si confidava di scoprirsi apertamente, perchè sapeva che una forte armata francese era pronta a salpare dal porto di Tolone; nè era bastante da se a difendersi dagli assalti di lei, nè appariva alcun vicino soccorso d'Inghilterra, non essendosi ancora il re Giorgio chiarito del tutto, se dovesse continuar nella neutralità. o congiunger le sue armi con quelle del confederati. Perciò se ne giva temporeggiando con gli accidenti. Solo si apparecchiava a poter prorompere con frutto in aperta guerra, quando fosse venuto il tempo, e teneva più che poteva le sue pratiche segrete.

Il gran duca di Toscana, principe savio, stava in non poca apprensione pei traffichi di Livorno; però schivava con molta gelosia di dar occasione di tirare a se la tempesta, che già desolava i paesi lontani, e minacciava i vicini.

Il papa non poteva tollerare pazientemente le novità di Francia in materia religiosa. Ma l'assemblea constituente astutamente procedendo ed andando a versi alla natura di lui alta e generosa, protestava volersene star sempre unita col sommo pontefice, come capo della chiesa cattolica, in quanto spetta alle materie spirituali. Chiamavanlo padre comune, lo salutavano vicario visibile di Dio in terra. Queste lusinghe venute da un'assemblea di cui parlava, e per cui temeva tutto il mondo, avevano molta efficacia sulla mente del pontefice, e già si lasciava mitigare. Ma succedute all'assemblea constituente, la quale benchè proceduta più oltre che non si conveniva, aveva non di meno mostrato qualche temperanza, l'assemblea legislativa, ed il consesso nazionale, queste disordinatamente usando la potestà loro, diedero senza freno in ogni sorte di enormità. Pio VI risentitosi di nuovo gravissimamente fulminò interdetti contro gli autori delle innovazioni, e condannò sdegnosamente le dottrine dei novatori circa le materie religiose. Allora fu opportunamente tentato dall'imperatore d'Allemagna, e dai principi d'Italia, che seguitavano le sue parti. Nè fu vana l'opera loro; perchè il pontefice parendogli, che alla verità impugnata della religione, alla necessità contraddetta delle discipline, ed alla dignità offesa della sedia apostolica fosse congiunta la sicurezza dei principi, e la protezione degli afflitti, ministerio vero e prediletto del successore di Cristo, prestò orecchie alle nuove insinuazioni, ed entrò volentieri nella lega offensiva contro la Francia.

Ma siccome questa era una guerra, non solamente di armi, ma ancora d'opinioni, così si pensò a Roma ad un rimedio singolare per fermar in suo favore quelle, che si erano tanto dilatate, e che minacciavano sì grave ruina ai principi; conciossiachè temendosi di qualche sbocco di Francesi in Italia, fu creduto utile il preoccupare il passo, con fare che la religione santificasse certi principj politici, acciocchè non facessero più forza contro di lei; e al tempo stesso, il che era più importante, si pruovasse, che ella era il mezzo più efficace, anzi il solo che fosse abile a prevenir gli abusi, che sogliono spingere i popoli a trascorrere contro i principi. Così, ammessa e conciliata la radice politica con la religione, si toglieva, speravano, agli avversari quell'arma tanto potente delle opinioni, che allora più che nei tempi passati erano prevalse, e si confermava vieppiù l'imperio della religione. Adunque, ed a questo fine si diede opera, che uno Spedalieri, uomo molto dotto e di non mediocre ingegno, stampasse nel 1791 in Assisi un libro intitolato, I diritti dell'uomo. Questo libro fu dedicato al cardinale Fabbrizio Ruffo, allora tesoriere generale della camera apostolica, e Pio sesto ne nominò l'autore beneficiato di s. Pietro. Afferma in questa sua opera lo Spedalieri, che la società umana, ossia il patto che unisce gli uomini nello stato civile, è formato direttamente, e immediatamente dagli uomini stessi, che è tutto loro, che Dio non vi ha parte con volontà particolare diretta ed immediata, ma soltanto come primo ente e primo movente, cioè a dire che il patto sociale viene da Dio come vengono da lui tutti gli effetti naturali delle cause seconde. Afferma ancora, che il governo dispotico non è governo legittimo, ma abuso di governo, e che la nazione, che ha formato il patto sociale, è in diritto di dichiarare decaduto il sovrano, se questi, invece di eseguire le condizioni sotto le quali gli è stata affidata la sovranità, le viola tirannicamente. Quindi l'autore spiega i caratteri, per cui si viene a conoscere la tirannide, e che adducono il caso della decadenza. Queste sue proposizioni corrobora con l'autorità di San Tommaso, il quale nel suo opuscolo latino intitolato: De regimine principum ad regem Cypri, ne dimostra la verità. Finalmente lo Spedalieri pruova che la religione cristiana è la più sicura custode del patto sociale, e dei diritti dell'uomo in società, e che anzi ella è l'unica capace di produrre un tanto effetto. Rimedio non senza prudenza era questo, ma non fu usato universalmente; imperciocchè dalla dimostrazione in fuori, che se ne fece in Roma, nissun altro segno sorse in Italia, che i principi il volessero accettare: appresso a loro un principio politico contrario prevalse, la religione restò sola, e le cose rovinarono.

La repubblica di Genova fu poco tentata dagli alleati o per disegni che si facevano sopra di lei, o perchè la credevano troppo dipendente, o troppo vicina della Francia. Dimostrossi neutrale con un gran benefizio dei sudditi, che tutt'intenti al commercio di mare con la Francia navigavano sicuramente nelle acque della riviera di ponente.

Così erano in Italia nel corso del millesettecentonovantadue timori universali; armi potenti ed aperte con un'accesa voglia di combattere in Piemonte; preparamenti occulti in Napoli; desiderio di neutralità in Toscana; armi poche, ed animo guerriero in Roma; neutralità dichiarata nelle due repubbliche. Quest'erano le disposizioni dei governi; ma varj si dimostravano gli umori dei popoli. In Piemonte per la vicinanza le nuove dottrine si erano introdotte, e quantunque non pochi per le enormezze di Francia si fossero ritirati, alcuni ancora vi perseveravano. In Milano le novità avevano posto radice, ma molto rimessamente siccome in terreno molle e dilettoso. In Venezia per l'indole molto ingentilita dei popoli gli atroci fatti avevano destato uno sdegno grandissimo, e poco vi si temevano gli effetti dell'esempio, massime con quel tribunale degl'inquisitori di stato, quantunque fosse divenuto più terribile di nome che di fatto. Gli Schiavoni ancora servivano di scudo, siccome gente aliena dalle nuovi opinioni, e fedelissima alla repubblica. In Napoli covava gran fuoco sotto poca cenere, perchè le opinioni nuove vi si erano molto distese, ed il cielo vi fa gli uomini eccessivi. In Roma fra preti, che intendevano alle faccende ecclesiastiche, ed un numero esorbitante di servitori, che a tutt'altro pensavano, che a quello che gli altri temevano, si poteva vivere a sicurtà. In Toscana, provincia dove sono i cervelli sottili, e gli animi ingentiliti, poco si stimavano i nuovi aforismi, e la felicità del vivere vi faceva odiar le mutazioni. In Genova poi erano molti e fortemente risentiti gli umori; ma siccome vi si lasciavano sfogare, poco erano da temersi, ed i rivolgimenti non fanno per chi vive sul commercio.

La Francia intanto venuta in preda a uomini senza freno e senza consiglio, vedendo la piena che le veniva addosso, volle accoppiare alle armi le lusinghevoli promesse, e le disordinate opinioni. Però i suoi agenti sì pubblici che segreti riempivano l'Italia della fedeltà del governo loro, e delle beatitudini della libertà. Affermavano, non voler la Francia ingerirsi nei governi altrui; voler esser fedele coi fedeli, rispettar chi rispettava. Quest'erano parole; ma i fatti avevano altro suono; imperciocchè e cercavano di stillare le nuove massime nell'animo dei sudditi con rigiri segreti, mostravano loro il modo di unirsi, loro promettevano ajuti di consiglio, di denaro, e di potenza, e tentando ogni modo ed ogni via, si sforzavano di scemar la forza dei governi con torre loro il fondamento della fedeltà dei sudditi.

Per meglio dichiarare il secolo, sarà mestiero raccontare ciò che allegavano le due contrarie parti; parrà certamente ch'io dica cose enormi, ma se ne fecero delle più enormi ancora. Dicevano adunque i novatori smoderati apertamente, ed a tutti che lo volevano udire, che i re son tutti tiranni, e bisognare uccidergli; i nobili satelliti dei tiranni; i nobili appoggiare i tiranni con l'armi, i preti con le opinioni; il popolo esser sovrano; da lui derivar ogni potere; il popolo esser pupillo, nè poter mai perdere i suoi diritti nè per tempo nè per usurpazione; il ribellarsi esser dovere, quando son lesi da chi governa i diritti del popolo; abbominevole, assurda e ridicola cosa esser la realtà; solo governo legittimo esser la repubblica; nè tutte le repubbliche esser legittime, ma solo le democratiche; l'aristocrazìa mera peggiore della realtà; l'oligarchìa un male orrendo; sola, e vera fedeltà esser quella verso il popolo; la fedeltà verso i re e verso gli aristocrati esser tradimento; perciò tradire i re, tradire gli aristocrati essere non solo lecito, ma debito; quest'esser le massime eterne dettate dalle natura e da Dio; il Vangelo esser democratico; e qui aggiungevano cose, che quantunque siamo disposti a favellar alla libera, non osiamo per riverenza alla santità replicare; nascere una era novella per l'umana generazione, e compiersi le predizioni delle scritture; sorgere coi diritti la giustizia, con la giustizia la pace, con la pace la felicità; abbastanza, e pur troppo essersi fatto pruova delle usurpazioni, ora doversi pruovare la libertà; abbastanza, e pur troppo essersi pruovati i privilegi, ora doversi pruovare l'equalità; la libertà elevar gli animi, l'equalità consolargli; essere finalmente giunto il tempo, in cui il povero avrà soccorso senza scherno, l'oppresso riparo senza prezzo, ed in cui la società più farà per chi meno puote; poichè negli antichi governi il potere era tutto volto a favor di chi può contro chi non può, vero ed unico fine di ogni buon governo; avere il potere e la legge, esser troppo, aver nemmen la legge esser troppo poco; aver tutti una legge uguale esser giusto; bastar bene, ed esser anche di soverchio, che i ricchi ed i grandi abbiano il potere che danno le ricchezze e le dipendenze, senza che abbiano quello che danno i privilegj; così nelle nuove forme torsene a chi ha troppo, e darsene a chi ne manca, santo e dolce compenso. Sorgessero adunque, sclamavano, giacchè sorgevano i tiranni, sorgessero i popoli a far quello che più piace a Dio, quello che stat'era da Dio eternamente prescritto: sorgessero, abbattessero, conculcassero i tiranni, fondassero i governi popolari, fondassero le repubbliche, e stabilissero un fortunato e dolce vivere. A così alta impresa spirar l'aure favorevoli; la tirannide essere stata spenta in Francia, parte tanto principale d'Europa; una grande, valorosa e potente nazione esser tutta sorta in piè per ajutare chiunque voglia gettar dal collo il grave giogo; abbastanza essersi sofferto, abbastanza tollerato, ora splendere più benigne stelle; pruovassero, che i più numerosi sono i più forti, che gli oppressi non son vili; trasportassero il governo del mondo dal vizio potente alla virtù infelice.

Dall'altro canto nè maggior moderazione d'animi si osservava, nè maggior modestia di parole. Dove sono, dicevano, questi giacobini (che così gli chiamavano da una setta furibonda nata in Parigi), che ora si fanno a voler riformare il mondo? Bel principio al governo loro il metter la mano nella roba e nella vita altrui, e portar le teste lacere in processione! Imprigionar gli onesti, e scannar gl'imprigionati! parlar di aristocrazìa! ma se l'aristocrazìa fa male, fallo a pochi, la democrazìa a tutti; chi fa scudo ai re, unico, e salutar temperamento in una nazione grande, se non l'aristocrazìa, massime quando i re son diventati bersaglio a popoli indemoniati? che virtù! I ladri in onore, le meretrici in trionfo! Se sono i popolari virtuosi per ignoranza, sono i magnati per educazione, e la virtù rozza diventa ferocia, se non la tempera la gentilezza. Se i magnati son freno alle voglie assolute del principe, ed alle voglie disordinate della plebe, sono ancora esempio ad infondere nei popoli costumi miti, e gentili; non essere nidi di tiranni i castelli, bensì specchi di civiltà; ciò che fu, non esser quello che è, e nemmanco i popoli essere stati angeli; doversi in questo, e quanto al passato dare e chiedere perdonanza. E che valse ai nobili l'aver dato alla patria i privilegi loro, non conquistati per forza ma conceduti per ricompensa, se, spenti i privilegi, loro si tolsero le proprietà, poi la libertà, poi la vita? E quando finiranno gli esilj, le persecuzioni, e le carneficine? Della realtà che dirassi? se non se questa esser modo di governo connaturale all'uomo, poichè là dove sono uniti uomini in società, là sempre nasce come di necessità la realtà, se non di nome, almen di fatto, ma le più volte e di nome e di fatto; non vedersi forse dove i più governano, reggere un solo? e non valer forse meglio la realtà vera, che la realtà velata? non esser quella sempre più temperata o dalle leggi, o dalle consuetudini, o dalla necessità di comparire, se non buono, almeno giusto? all'incontro esser questa più sospettosa, perchè senza appoggio, più crudele perchè più sospettosa, più arbitraria perchè senza freno. Nascere la realtà dal desiderio innato in tutti di dominare; poichè questo inducendo l'anarchìa, morte della società, fa che si trasporta il dominio da tutti prima in pochi, poi per la medesima ragione da pochi in un solo; e beate le nazioni che trovano la realtà bell'e fatta, senza dover passare per l'anarchìa per farsela! Il popolo sovrano! Certo sì per ammazzar prima i migliori uomini, poi se stesso! Error scelerato essere il voler ridurre un teorema speculativo in pratica; che anche i matti furiosi son padroni di muoversi, e pure si metton loro le catene addosso: con le astrattezze non governarsi gli uomini, ma con i rimedj contro le passioni, e mal rimedio essere lo sbrigliarle. Doversi perciò questi regoli plebei spegnere del tutto ad eterno esempio di una gran malvagità punita; e siccome ne furono scrollate le fondamenta stesse della società, così doversi questa ritirare non solo là dond'era partita, ma più verso un governo forte e stretto. A questo opportuni stromenti essere i nobili ed i religiosi, i primi perchè dan la forza, i secondi perchè danno la persuasione, ed a tutti questi preporre un re forte e risoluto. Nè ciò bastare; spenti gli uomini infami, doversi anche spegnere le dottrine sfrenate; perchè, se bisogna castigar la generazione presente, e' bisogna sanar le future; una moderata ignoranza esser migliore d'un insolente sapere: insomma punir i traditori, premiar i fedeli, riordinar in tutto e per sempre il vivere sociale. Per questo muoversi l'Europa, per questo aguzzar l'armi; nè tanto moto essere per palliar solamente un male immenso, ma per estirparlo; rimanere ancora in Europa sufficienti residui di realtà e di aristocrazìa per risarcir l'edifizio della società rovinata, se prudentemente e gagliardamente si rimettessero insieme; questo voler fare i re confederati, a questo mirare le speranze di tutti i buoni, a questo offerirsi i nobili, a questo persuadere i religiosi; che se tanta aspettazione, se così gran consenso, se una sant'ira mossa da crudeli misfatti fossero indarno, dover cader l'Europa in una inudita barbarie.

Da tutto questo si vede, quanto siano intemperanti gli uomini, quando sono mossi da passioni politiche; imperciocchè i primi erravano per aver portato tropp'oltre le riforme, i secondi per averle fatte degenerare in eccessi enormi pel contrasto da loro fatto anche alle più utili e giuste; gli uni per aver posto mano nel sangue, gli altri per volerlavi porre; quelli per aver deposto ed ucciso un re santo, questi per aver chiamato i re stranieri a' danni della patria loro; e se la libertà, quantunque di un valore inestimabile, male si compra con la crudeltà, male ancora si riacquistano i dritti feudali, e le seggiole in corte, con dar il proprio paese in preda ai forestieri. Certo quel che più mancò all'età nostra, è l'amor della patria, poichè i primi la resero serva con le mannaje, i secondi la volevano render serva coi cannoni Tedeschi, rei gli uni e gli altri per non aver voluto accettare quella libertà, che il re e gli uomini savj volevano dar loro, unica e sola libertà, che ad un tanto stato, quanto la Francia è, potesse convenirsi; nuovo, ma non unico argomento, che non può esser libertà, dove sono i mali costumi, massime la cupidità sfrenata di comandare, e di comparire.

Le parole dei novatori avevano più forza sull'animo dei popoli, che quelle dei loro avversarj, perchè i popoli sono sempre cupidi di novità; poi coloro, che si coprono col velame del ben comune, hanno più efficacia di quelli, che pretendono i privilegi. Laonde l'Europa era piena di spaventi, e si temevano funesti incendi per ogni parte.

Intanto essendo accesa la guerra fra l'Austria e la Francia, l'una e l'altra di queste potenze applicarono l'animo alle cose d'Italia; la prima per conservar quello che vi possedeva, la seconda per acquistarvi quello che non possedeva, od almeno per potervi sicuramente aver il passo col fine di andar a ferire sul fianco il suo nemico.

Dall'altro lato il governo di Francia aveva spedito agenti segreti e palesi per domandare, parte con minacce, parte con preghiere, ai governi d'Italia, o lega o passo o neutralità. Fra gli altri Semonville fu destinato ad andare a specular le cose in Piemonte, ed a tentar l'animo del re, affinchè negli accidenti gravi che si preparavano, si dimostrasse favorevole alla Francia. Aveva carico di proporre a Vittorio Amedeo di collegarsi con la Francia, e di dar il passo agli eserciti Francesi, perchè andassero ad assaltare la Lombardia Austriaca; con ciò la Francia gli guarentirebbe i suoi stati, raffrenerebbe gli spiriti turbolenti in Piemonte ed in Savoja, cederebbe in potestà di lui quanto si sarebbe conquistato con l'armi comuni in Italia contro l'imperatore. Il re si era risoluto a non udire le proposte, sì perchè temeva, nè senza ragione, d'insidie, sì perchè procedeva in queste faccende con troppa passione, e sì perchè la sua congiunzione con l'Austria già era tropp'oltre trascorsa. Infatti già calavano Tedeschi dal Tirolo, e s'incamminavano a gran passo verso il Piemonte. Perlochè, giunto essendo Semonville in Alessandria, fu spedito ordine al conte Solaro governatore, che nol lasciasse procedere più oltre, anzi gl'intimasse di tornarsene fuori degli stati del re, usando però col ministro Francese tutti quei termini di complimento, che meglio sapesse immaginare. Solaro, uomo assai cortese, ed atto a tutte le cose onorate, eseguì prudentemente gli ordini avuti. Tornossene Semonville a Genova.

Il fatto fu gravissimamente sentito in Parigi. Il giorno quindici settembre del millesettecentonovantadue, Dumourier, ministro degli affari esteri, favellando molto risentitamente al consesso nazionale del governo di Piemonte, e lamentandosi con apposito discorso dell'affronto fatto alla Francia nella persona del suo ambasciadore in Alessandria, conchiuse doversi dichiarar la guerra al re di Sardegna. Quivi levossi un romore grandissimo; chè le parole di despoto, di tiranno, di nemico del genere umano andarono al colmo. Insomma fu chiarita solennemente la guerra tra la Francia e la Sardegna.

Di già il giorno dieci dello stesso mese il consiglio esecutivo provvisorio aveva spedito ordine al generale Montesquiou, capo dell'esercito che raccolto nell'alto Delfinato minacciava la Savoia, di assaltar questa provincia, e cacciate l'armi Piemontesi oltremonti, di usare tutte quelle maggiori occasioni che gli si offrirebbero. Questo fu il primo principio di tutti quei mali che patì Italia per tanti anni, e che empierono tutto il corpo suo di ferite, che non si potranno così facilmente sanare.

Il re di Sardegna, come prima fu incominciata la guerra tra la Francia e le potenze confederate di Germania, aveva con grandi speranze fatto notabili apparecchi in Savoia, e nella contea di Nizza. Ma le vittorie dei Francesi nella Sciampagna cambiarono le condizioni della guerra, ed il re, invece di conquistare i paesi d'altri, dovette pensare a difendere i proprj. Erano le sue condizioni assai peggiori di quelle dei Francesi; poichè nei due paesi contigui, in cui si doveva far la guerra, la Savoia parteggiava pei Francesi, il Delfinato non solo non parteggiava pei Piemontesi, ma loro era anche nimicissimo; che anzi questa provincia si era mostrata molto propensa alle mutazioni che si erano fatte e si facevano: sicchè i Francesi avevano favore andando avanti, sicurezza andando indietro; il contrario accadeva ai Piemontesi.

Non ostante tutto questo, i capi, che governavano le cose del re in Savoia, se ne vivevano con molta sicurezza. Soli coi fuorusciti francesi, che loro stavano continuamente intorno, non vedevano ciò, che era chiaro a tutto il mondo: improvvidi, che non conobbero, che male con le ire e con la imprudenza si reggono i casi umani.

Il cavaliere di Colegno, comandante di Ciamberì, oltre la sua credulità verso i fuorusciti, e verso un generale di Francia, che, per ispiare, il veniva a trovare in abito e sotto nome di prete Irlandese, con duro governo asperava i popoli, soffiò imprudente sur un fuoco che già si accendeva. Assai miglior animo aveva il conte Perrone, governator generale della Savoia, ma in mezzo a tanti sfrenati non aveva quell'autorità e quel credito, che in sì pericoloso accidente si richiedevano; ed anch'egli dava fede alle novelle del prete Irlandese. Il cavaliere di Lazari governava l'esercito; capitano certamente poco atto a sostenere le guerre vive dei Francesi.

Adunque tali essendo le condizioni della Savoia nel mese di settembre, si aperse la via alle future calamità. I capi dell'esercito, vivendo sempre nella solita sicurtà, nè potendo credere sì vicino un assalto, in vece di allogar le truppe in pochi luoghi, ma forti, ed ai passi, le avevano sparse quà e là senza alcun utile disegno, talmente che ed erano inabili al resistere al nemico ovunque si appresentasse, ed incapaci a rannodarsi subitamente dove egli assaltasse. Tanta era questa loro semplicità, che anche quando i Francesi, prima divisi in diversi campi, si erano raccolti tutti vicino al forte Barraux, il che denotava l'intenzione di un assalto vicino, non fecero dimostrazione alcuna.

Il prete Irlandese stava loro a' fianchi, e raccontava loro le più gran novelle del mondo, ed ei se le credevano. I fuorusciti Francesi, che pure incominciavano a temere, dimandarono se vi fosse pericolo; risposero del no. Aggiunsero, ch'era la gente di roba, che aveva paura, e che spargeva spaventi. In questo mordevano il conte Bottone di Castellamonte, il quale essendo intendente generale della Savoia, da quell'uomo fine e perspicace ch'egli era, avendo bene penetrate le cose, aveva domandato soldati al governatore per iscorta al tesoro, che voleva far partire alla volta del Piemonte. Certo, impossibil cosa era il difendere la Savoia, massime dopo le disgrazie dei confederati: non stanziavano in questa provincia più di nove in diecimila soldati; ma siccome erano buoni, così se fossero stati retti da capitani pratichi, e posti ai passi opportuni, avrebbero almeno fatto una difesa onorata, e ritardato l'impeto del nemico. Ma agli sparsi mancò l'ordine, il riunirgli fu impossibile in accidente tanto improvviso.

Intanto il generale Montesquiou, avuto comandamento d'incominciar la guerra, dal campo di Cessieux, dove alloggiava con l'esercito raccolto, in cui si noveravano circa quindici mila combattenti, gente, se non molto disciplinata, certo molto ardente, andò a porsi agli Abresti, donde spedì ordine al generale Anselmo, che, passato il Varo, assaltasse nel tempo medesimo la contea di Nizza. Presidiavano la contea genti poco numerose, che obbedivano al conte Pinto. Queste mosse doveva anche ajutare dalla parte del mare il contr'ammiraglio Truguet, il quale partito da Tolone con un'armata di undeci legni dei più grossi, ed alcuni più sottili, e due mila soldati di sopraccollo, se ne giva correndo le acque di Villafranca sino al golfo di Juan, pronto a sbarcar le genti ovunque l'opportunità si fosse scoperta. Sua principal intenzione era di sbarcar sotto Monaco per prender alle spalle l'esercito che difendeva Nizza. Così i Francesi dall'Isero fino al Varo si apparecchiavano ad assaltare gli stati di un re, che con ostili dimostrazioni gli aveva provocati prima che gli ajuti, che aspettava d'Alemagna, fossero giunti. Tale fu l'effetto delle rotte di Sciampagna.

Montesquiou, lasciati prestamente gli Abresti, se ne venne con tutto l'esercito a posarsi al forte di Barraux vicino a due miglia dalle frontiere della Savoia, donde disegnava di dar principio alla guerra. Era suo pensiero di assaltare col grosso dell'esercito Sanparelliano, ed il castello delle Marcie, per poscia camminar velocemente alla volta di Ciamberì. Nel medesimo tempo per tagliar il ritorno al nemico, spediva due grosse bande, delle quali una radendo la riva sinistra del fiume Isero, doveva chiudere il passo di Monmeliano, e l'altra dal Borgo d'Oisano, valicando gli aspri monti che dividono la valle della Romanza da quella dell'Arco, serrare al tutto la strada della Morienna; nel qual caso tutto l'esercito Piemontese sarebbe stato o preso ai passi, o poca parte se ne sarebbe potuta salvare per le strade aspre e difficili della Tarantasia. Aveva egli con certo pensiero avvisato, che la via principale di ritirata ai Piemontesi era la Morienna, ed il monte Cenisio. Ma queste due ultime fazioni non ebbero effetto, la prima per una piena improvvisa dell'Isero, che rotti i ponti non permise il passo, la seconda per la quantità delle nevi cadute molto per tempo sugli altissimi monti del Galibiero.

I Piemontesi, svegliati finalmente dal suono dell'armi francesi, tentarono di affortificarsi con artiglierìe presso Sanparelliano agli abissi di Mians, donde pensavano di tempestar di traverso con palle sul passo per mezzo d'artiglierìe poste sul castello delle Marcie. Ma a questo non ebbero tempo; le artiglierìe non erano ancora ai luoghi loro, quando la notte dei ventuno settembre, tirando venti orribili, e cadendo una grossissima pioggia, il generale Laroque, a ciò destinato dal generale Rossi, partito con grandissimo silenzio dal campo di Barraux, se ne marciò contro Sanparelliano con una forte schiera. E come disegnava, così gli riuscì di fare; s'impadronì in mezzo a quell'oscurità improvvisamente della terra, e se non fosse stato il tempo sinistro, avrebbe anco presa quella mano di Piemontesi che la difendevano. Ma avuto a tempo sentore dell'approssimarsi del nemico, si ritirarono a salvamento.

Perduto Sanparelliano con gli abissi di Mians, i capi Piemontesi privi di consiglio, abbandonarono frettolosamente i castelli delle Marcie, di Bellosguardo, di Aspromonte, e la Madonna di Mians. Così le fauci della Savoia vennero da quel lato in poter dei Francesi. Ma Montesquiou, usando celeremente la vittoria, e prevalendosi della rotta del nemico, si spinse avanti dal castello delle Marcie con due brigate di fanterìa, una di dragoni, e venti bocche da fuoco, alle quali fe' tener dietro come retroguardo da due altre brigate di fanterìa, una di cavallerìa, parimente con molti cannoni. Così tagliò e divise in due l'esercito Piemontese; una parte fu costretta a ritirarsi verso Annecì, l'altra verso Monmeliano. Gli rimase aperta la strada per Ciamberì, capitale della provincia. Ma già il terrore ne aveva cacciato i regj, mostrando i capi in sì importante fatto tanta pochezza d'animo, quanta vanità avevano mostrato innanzi. Sì grande fu la subitezza dello spavento loro, che i Francesi, temendo d'insidie, non s'ardirono di entrar incontanente nella città, che se ne stette posta in propria balìa alcuni giorni. Quì è debito nostro il raccontare come in sì pericoloso passo non vi fu tumulto, non insulto, non saccheggio di sorte alcuna; tanta è la bontà, e la civiltà di quel popolo Ciamberiniano. Vi arrivarono i Francesi; furonvi accolti con tutte quelle dimostrazioni d'allegrezza, che portavano le opinioni, e la ricordanza delle precedenti vessazioni.

Montesquiou andava molto cauto nello spignersi avanti, perchè non avendo ancora avuto notizia dell'assalto, che doveva dare Anselmo a Nizza, e vedendo la celerità incredibile delle genti Sarde nel ritirarsi, dubitava ch'elleno marciassero velocemente a quella banda per opprimere l'esercito che militava sotto quel generale. Si spargeva ancor voce, che i Piemontesi forti di sito, e provveduti di munizioni da guerra e da bocca, si erano fermati alle montagne delle Boge, che separano Ciamberì dall'Isero, per ivi fare una testa grossa, e passarvi l'inverno. Però deliberossi di sostare alquanto per ispiar meglio le cose, e per aspettare, che portassero i tempi dal canto dell'Alpi Marittime. Solo fece occupare il passo di Monmeliano abbandonato dai soldati reali con quella medesima celerità, con la quale avevano abbandonato la città capitale. La rotta loro fece cadere, come premio della vittoria, in mano dei Francesi dieci cannoni, quantità grande di polvere, di palle, di casse e d'altri arnesi da guerra, con magazzini pienissimi di foraggi e di vettovaglia.

Ma egli è tempo oramai di raccontare la guerra di Nizza. Non dimostrarono in queste parti i capi Piemontesi miglior consiglio, nè miglior animo che in Savoia. Conciossiachè non così tosto ebbero avviso che Anselmo aveva passato il Varo, fiume che divide i due stati, la notte dei ventitre settembre, dandosi precipitosamente alla fuga, abbandonarono la città di Nizza, e già davano mano a votare con grandissima celerità quanto si trovava nel porto di Villafranca. I Francesi usando prestamente il favore della fortuna, corsero a Villafranca; e minacciato di dare la scalata, il comandante si diede a discrezione con ducento granatieri, ottimi soldati, ed alcune bande di milizie, lasciando in preda al nemico cento pezzi d'artiglierìa grossa, una fregata, una corvetta, e tutti i magazzini reali. Così la parte bassa della contea di Nizza venne in poter dei Francesi con incredibile celerità, e facilità. Solo si teneva ancora pel re il forte di Montalbano, ma poco stante si arrese ancor esso a patti. A queste vittorie contribuì non poco l'ammiraglio Truguet con la sua armata, che dando diversi riguardi ai Piemontesi, gli teneva in sospetto d'assalti da ogni banda, e loro fece precipitar il consiglio di ritirarsi dal littorale.

Anselmo, avuto Nizza, Villafranca, e Montalbano, si spinse avanti per la valle di Roia, e non fece fine al perseguitare, se non quando arrivò a fronte di Saorgio, fortissimo castello che chiude il passo da quelle parti, ed è come un antemurale del colle di Tenda. Ma alcuni giorni dopo, le genti Piemontesi, avuto un rinforzo di un grosso corpo d'Austriaci, ed assaltato con molto impeto il posto di Sospello, se ne impadronirono. Nè molto tempo vi dimorarono, perchè ritornato Anselmo col grosso di tutto l'esercito, se lo riprese, e di nuovo Saorgio divenne l'estremo confine dei combattenti.

Queste spedizioni dei Francesi nella provincia di Nizza costarono poco sangue; perchè la ritirata dell'esercito Sardo fu tanto presta, che non successero se non poche, e leggieri avvisaglie; nè i conquistatori si scostarono dai termini dell'umanità e della moderazione. Assai diverso da questo fu il destino dell'infelice Oneglia; poichè accostatasi l'armata del Truguet a quel lido, e mandato avanti un palischermo per negoziare, gli furon tratte le schiopettate, per le quali furono uccisi, o feriti parecchi, caso veramente deplorabile, e non mai abbastanza da biasimarsi. Però l'armata francese accostatasi vieppiù, e schieratasi più opportunamente, che potè, cominciò a trarre furiosamente contro la città. Quando poi per il fracasso, per la rovina, per le ferite e per le morti, l'ammiraglio credè, che lo spavento avesse fatto fuggire i difensori, sbarcò le genti che aveva a bordo, le quali unite ai marinari s'impadronirono della città, e la posero miserabilmente a sangue, a sacco ed a fuoco; compassionevole punizione dei violati messaggeri di pace. Questa fu mera vendetta. Oneglia, cinta da ogni parte dalle terre del Genovesato, era luogo di poco profitto; perciò i Francesi l'abbandonarono, e l'armata loro, toccato Savona, e posatasi alquanto nel porto di Genova, se ne tornò poco tempo dopo a Tolone. Essendosi ora mai tanto avanzata la stagione, che non si potea guerreggiare, se non con molto disagio, si posarono dalle due parti le armi tutto l'inverno, attendendo solo a far apparecchi più che potevano gagliardi, per tornar sulla guerra con frutto, tosto che il tempo s'intiepidisse. In mezzo a questo silenzio dell'armi nulla occorse, che sia degno di memoria, se non se la differenza del procedere dei Savoiardi e dei Nizzardi verso i Francesi, avendo i primi mostrato molta inclinazione per loro, e desiderio di accomodarsi alle fogge del nuovo governo: al contrario i secondi fecero pruova di molta avversione, e di volersene rimanere nel termini del governo antico. Non è però da passarsi sotto silenzio, che sebbene l'inclinazione verso le nuove cose fosse molto maggiore in Savoja che a Nizza, non pochi ciò non pertanto fra coloro, i quali in quel paese viveano nei primi gradi della società, o nobili o ecclesiastici che si fossero, o per fede verso l'antico sovrano, o per paura del nuovo si resero fuggitivi, oppure rimasti essendo nelle loro antiche sedi, soggiacquero alle carcerazioni, ed alcuni eziandio agli estremi supplizj. Degno altresì di commemorazione si è, che i soldati del reggimento di Savoja dispersi per la subita invasione dei Francesi, di propria volontà, per istrade e sentieri insoliti trapassando, tornarono alle loro bandiere, e sotto i consueti capi si rannodarono, esempio di fede dato dai più umili figli di quell'alpestre nazione: il quale effetto fu poi rinnovato circa venti anni più tardi dai generosi Spagnuoli invasi dalle armi Napoleoniche.

Pervenuta a notizia di Montesquiou la conquista di Nizza, si mise in sul voler cacciar del tutto le genti Sarde dalla Savoja. A queste fine ordinò a Rossi, che cacciandosi avanti le truppe del re, le spignesse fino al Cenisio per la Morienna, ed a Casabianca fino al piccolo S. Bernardo per la Tarantasia; il che eseguirono con grandissima celerità, e quasi senza contrasto da parte del nemico. Anzi è da credere, che se Montesquiou, invece di soprastarsi, come fece, per aspettar le nuove di Nizza, fosse, dopo la conquista di Ciamberì, camminato con la medesima celerità, si sarebbe facilmente impadronito di queste due sommità dell'Alpi con grande suo vantaggio, e con maggiore speranza di andar a ferire, alla stagione prossima, il cuore stesso del Piemonte, tanta era la confusione delle genti regie. Aix, Annecì, Rumilli, Carouge, Bonneville, Tonone, e l'altre terre della Savoia settentrionale, abbandonate dai vinti, riconobbero l'imperio dei vincitori. Così questa provincia venne tutta, non senza grande contentezza pubblica e privata, in potestà dei Francesi. La quale possessione per quell'inverno venne loro assicurata dalle nevi strabocchevolmente cadute sui monti, le quali indussero da queste bande la medesima cessazione dall'armi ed anche più compiuta, che era prevalsa nell'Alpi Marittime.

In cotal modo un paese pieno di siti forti, di passi difficili, di torrenti precipitosi, fu perduto pel re di Sardegna, senza che nella difesa del medesimo si sia mostrato consiglio o valore. Del qual doloroso caso si debbe imputar in parte il re medesimo per aversi voluto scoprire, a cagione de' suoi pensieri tanto accesi alla guerra, molto innanzi, che gli ajuti austriaci arrivassero in forza sufficiente, e per aver dato il più delle volte i gradi militari a coloro, che più miravano a comparire, che ad informarsi nell'arte difficile della guerra. Certamente error grande fu quel di Vittorio di metter l'abito militare ad ogni giovane cadetto che si appresentasse, e di mandargli sulle prime alla guerra, come se l'arte della guerra ed il romor dei cannoni non fossero cose da far sudare, e tremare anche i soldati vecchi. I nobili poi ci ebbero più colpa del re, pel disprezzo, non so se mi dica ridicolo, od assurdo, in cui tenevano i Francesi. Pure fra di loro non pochi erano che modesti e valorosi uomini essendo, detestavano i male avvisati consigli, e sentivano sdegno grandissimo della vergogna presente.

La rotta di Savoja, già sì grave in se stessa, fu anche accompagnata da accidenti parte terribili, parte lagrimevoli. Piogge smisurate, strade sprofondate, carri rotti, soldati alla sfilata parte armati, parte no, gente fuggiasca di ogni grado, di ogni sesso, e di ogni età, terribili apparenze e di cielo, e di uomini, e di terra. Ma fra tutti muovevano compassione grandissima i fuorusciti Francesi, i quali confidandosi nelle parole dei capitani regj eransi soprastati a Ciamberì fino agli estremi, ed ora cacciati dalla veloce furia che loro veniva dietro, non potevano nè stare senza pericolo, nè fuggire con frutto. Imperciocchè a chi mancava il denaro per povertà, a chi la forza per infermità, a chi le bestie, od i carri per trasferirsi; perchè non se ne trovavano per prestatura nè amichevole, nè mercenaria, ed in tanto scompiglio era venuto meno il consiglio di prevedere e di provvedere. Spettacolo miserando era quello, che si vedeva per le strade che portano a Ginevra ed a Torino, tutte ingombre di gente caduta da alti gradi in un abisso di miseria. Erano misti i padri coi figliuoli, le madri con le figliuole, i vecchi con i giovani, e fanciulle tenerissime ridotte fra i sassi e il fango a seguitar i parenti loro caduti in sì bassa fortuna. Vi erano vecchi infermi, donne gravide, madri lattanti e portanti al petto le creature loro certamente non nate a tal destino. Nè si desiderò la virtù o la carità umana in sì estremo caso, perchè furono viste spose, figliuoli, fratelli, servidori non proscritti voler seguitare nelle terre strane, anche a mal grado dei parenti e padroni loro, gli sposi, i padri, i fratelli, ed i padroni, posponendo così la dolcezza dell'aere natìo alla dolcezza del ben amare e del ben servire; secolo veramente singolare, che mostrò quanto possano fra l'umana generazione la virtù ed il vizio, l'una e l'altro estremi. Ma se era il viaggiar crudele, non era miglior lo starsi; alberghi pieni, o niuni su quelle rocche, e bisognava pernottar al cielo, e il cielo era sdegnato, e mandava diluvj di pioggia. A questo, soldati commisti che fuggivano sbandati, armi sparse quà e là, un tramestìo d'uomini sconsigliati, un calpestìo di bestie, un romor di carrette, un furore, un dolore, una confusione, un fremito, aggiungevano grandissimo terrore a grandissima miseria. Quanti si sono visti cresciuti ed allevati in tutte le dolcezze di Parigi, ora non trovar manco quel ristoro, che a gente nata in umil luogo abbonda nel corso ordinario della vita! Quanti gravi magistrati, dopo aver ministrato la giustizia nei primi tribunali del nobilissimo reame di Francia, e vissuto una vita integerrima, ora travagliosamente incamminarsi ad un esiglio, di cui non potevano prevedere nè il modo, nè il fine! Quante nobili donne, che pochi mesi prima speravano di dar eredi a ricchissimi casati nei palazzi dei maggiori loro, ora vicine a partorire, fra lo squallore di tetti abjetti ed alieni, a padri venuti in povertà figli più poveri ancora! Quante fanciulle richieste prima da principi, non sapere ora nè a qual rifiuto andassero, nè a qual consenso! Quanti capitani valorosi, ed invecchiati nella milizia, ora che per la fralezza dei corpi loro avevano più bisogno del riposo e dello stato, mancati il riposo e lo stato, correre raminghi sotto cielo straniero, cacciati da quei soldati medesimi, ai quali avevano e l'onore ed il valore insegnato! Erano le strade, per donde passavano, piene di gente instupidita a sì miserabile caso, od intenerita a tanta disgrazia. E spesso trovarono sotto gli umili tugurj più ristoro e più consolazione che non s'aspettavano. Così per molti dì e molte notti, su per le vie di Ginevra e di Torino, la tristissima comitiva mostrò quanto possa questa cieca fortuna nel precipitare in fondo chi più se ne stava in cima. Eppure in mezzo a tanto lutto la natura Francese era tuttavia consentanea a se medesima. Imperciocchè uscivano dagli esuli non di rado e canti, e risi, e piacevolezze tali, che pareva piuttosto, che a festa andassero, che a più lontano esiglio. Vedevansi altresì uomini gravissimi o galoppanti sulla fangosa terra, o dentro, o dietro le carrozze stanti, recarsi con le capellature acconce, e con croci, e con nastri, e con altri segni dell'andata fortuna. Tanto è tenace ciò che la natura dà, che la sciagura non lo toglie! Ma giunti i miseri fuorusciti in Ginevra ed in Torino, non si può spiegare quanto fosse il dire, il guardare, ed il pensare degli uomini. Gran cose aveva rapportato la fama di Francia; ma ora ai più pareva, che il fatto fosse maggior del detto; chi andava considerando quel che potesse fare una nazione furibonda, che usciva dai proprj confini; chi il valore de' suoi soldati, e chi la contagione delle sue dottrine sostenute da tanta forza. Chi pensava alla vanità di coloro che l'avevano predicata vinta, e chi all'imprudenza di coloro che l'avevano provocata potente. Meglio, sclamavano, fora stato il lasciarla lacerare da se stessa, che il riunirla con le minacce; meglio ammansarla, che irritarla: tutti poi affermavano esser venuti tempi pericolosissimi, essere minacciata Elvezia, essere minacciata Italia; già già titubare la società umana in Europa.

A Torino tutti questi discorsi si facevano, ed altri ancor più gravi. Quest'essi, dicevano (poichè nelle disgrazie gridar contro il governo è sfogo e consolazione), quest'essi sono i frutti di tante spese, di tante leve, di tanti vanti? Essersi per questo esausto l'erario, le contribuzioni fatte insopportabili? Per questo chiedersi al pontefice la vendita dei beni del clero? Per questo aumentarsi il debito dei monti? Essersi congiunta la vergogna al danno! A questo estremo essersi ridotti soldati valorosi per colpa di comandanti inesperti! Trattarsi la salute di tutti, ma principalmente dei nobili: ai nobili spettarsi maggior valore, non insolentire nella sicurtà, non perdersi d'animo nel pericolo. Ottimo essere il re Vittorio, amarlo tutti, desiderar tutti la salute sua; ma perchè separar la nazione in due con metter dall'una parte i pochi coi privilegj, dall'altra i più coi gravami? Parlasse, si mostrasse padre comune, e vedrebbe correre volonterosi i popoli per istornare dal felice Piemonte il fatale pericolo.

Intanto gli esuli facevano pietà, e con la pietà nasceva il terrore. Tutta la città era contristata, e piena di pensieri funesti. Ma tanta era la fermezza della fede dei Piemontesi nel re loro, che pochi pensavano a novità, alcuni desideravano qualche riforma nel reggimento civile e politico dello stato; tutti volevano la conservazione della monarchìa, ed i peggiori tratti che si udivano contro il governo, più miravano ad ammenda, che a satira.

Il governo mosso da accidente tanto improvviso e tanto pericoloso, poichè cominciaronsi a sgombrare i primi timori, andava maturamente pensando a quello che fosse a farsi. Il cantone di Berna fu richiesto d'ajuto, ma senza frutto; l'Austria fu richiesta ancor essa, e con frutto, perchè il fatto toccava anche a lei. Laonde reggimenti Tedeschi arrivavano a gran giornate dalla Lombardìa in Piemonte, e s'inviavano prestamente alle frontiere, massime verso il colle di Tenda. Addomandossi denaro in presto a Venezia, che ricusò, fondandosi sulla neutralità. Si spedirono corrieri per rappresentare il caso in Inghilterra, in Prussia ed in Russia. Allegavasi, essere il re solo guardiano d'Italia: se si rompesse quell'argine, non sapersi dove avesse a distendersi quella enorme piena; starsi di buon animo il re, ma ove mancano le forze proprie, abbisognar gli ajuti altrui. Cercavasi anche di scusare le rotte di Nizza e di Savoia con dire, che quei paesi non erano difendevoli, se non con grossi eserciti; le forze che là s'erano inviate, essere state sufficienti non solo per difendere, ma ancora per offendere, senza le disgrazie di Sciampagna: dopo queste non poter più bastare neanco a difendere; per verità essere stata troppo presta, ed anche disordinata la ritirata; ma doversi attribuire alla imprudenza di chi comandava; essere i soldati buoni e fedeli, parato Vittorio a non mancare a se medesimo, nè alla lega; solo richiedere, che come egli era l'antiguardo, così non fosse lasciato senza retroguardo; e siccome egli era esposto il primo alle percosse del nemico comune, così lo potesse fronteggiare con gli aiuti comuni.

Tutte queste cose rappresentate con parole appropriate, avevano gran peso. Ma la Prussia, quantunque perseverasse nell'alleanza, cominciava a pensare a' casi suoi, siccome quella che essendo lontana dalla voragine, aveva minori cagioni di temere. Bensì l'Austria, che già ardeva ne' suoi proprj stati, per preservare il resto, procedeva con sincerità, e si risolveva a mandar soccorsi gagliardi in Piemonte. L'Inghilterra, che aveva serbato certa sembianza di neutralità sino alla morte di Luigi decimosesto, dopo questa orrenda catastrofe s'era scoperta del tutto, e licenziato da Londra Chauvelin, ministro plenipotenziario di Francia, si preparava alla guerra. Però diè buone speranze al re, promettendo denari, ed efficace cooperazione con le sue armate sulle coste del Mediterraneo. Intanto in Piemonte si compivano i numeri delle compagnìe, si ordinava la milizia, si creavano nuovi luoghi di monti, si gittavano nuovi biglietti di credito, si coniavano monete che scapitavano più della metà del valor loro edittale, pessimo, ma non evitabile rimedio dei mali presenti, e segno troppo evidente dell'improvidenza dei reggitori ai tempi lieti. Nel punto medesimo si provvedevano le fortezze poste ai passi dell'Alpi con ogni genere di munizioni, e si affortificavano le cime del Cenisio e del piccolo san Bernardo. Con questo, usando l'opportunità della stagione, che andò freddissima, e fatti tutti i preparamenti necessarj, si aspettava con incredibile ansietà da tutti qual fosse per essere al tempo nuovo l'esito delle battaglie, dalle quali dipendeva il destino d'Italia e del mondo.

LIBRO TERZO

SOMMARIO

Nuove deliberazioni dei confederati nel 1793. Istanze dell'imperatore d'Alemagna presso al senato Veneziano. Discorso del procurator di San Marco Francesco Pesaro in favore della neutralità armata. Discorso di Zaccaria Vallaresso, uno dei savj del consiglio, in favore della neutralità disarmata. Risoluzione del senato. Deliberazioni di Genova. Pratiche dei confederati con Lione e Marsiglia. Disposizioni militari e politiche dei Francesi. Umori diversi in Italia. Assalto dato a Cagliari di Sardegna dall'ammiraglio Truguet. Paoli muove la Corsica, e la toglie all'imperio di Francia. Guerra sull'Alpi: fatto di Raus favorevole ai regj. Minacce superbe degl'Inglesi a Toscana ed a Genova. Insinuazioni dei medesimi a Venezia. Deliberazione del gran mastro dell'ordine di Malta contro la Francia. Moti considerabili contro il consesso nazionale in varie provincie: Lione e Marsiglia si sollevano. Fatti d'armi. I regj sono respinti dalla Savoia, e da Nizza; Marsiglia è presa, Lione si arrende. Tolone si dà ai confederati. I repubblicani l'oppugnano, e lo prendono di assalto. Spoglio fatto dai confederati nell'andarsene.

La ritirata così subita delle genti regie dalla Savoia e dal contado di Nizza, e la cacciata a forza degli eserciti Tedeschi delle terre Francesi verso il Reno, diedero molto a pensare agli alleati. Tra per questo, e per l'andar sempre più crescendo a cagione delle vittorie, e di più feroci instigamenti l'appetito delle cose nuove, la furia delle menti in Francia, eglino s'accorsero, che assai più dura impresa si avevano per le mani di quanto avevano a se medesimi persuaso; nè mai tanto discapito dalle credenze al fatto aveva la fortuna recato, che pur sì grandi ne suol mostrare, quanto a questi tempi. Bande tumultuarie ed indisciplinate, come le chiamavano, avevano vinto eserciti floridissimi; capitani di poco o nissun nome avevano superato per arte militare generali, che erano in voce dei primi per tutte le contrade d'Europa. Coloro ancora, i quali si erano concetto nell'animo di piantar facilmente le insegne della lega sulle mura di Parigi e di Lione, a mala pena potevano difendere i dominj proprj dagli assalti di un nemico poco prima disprezzato, ed ora vittorioso ed insultante.

Ciò nondimeno i confederati non vollero ristarsi, sperando che coll'andar più cauto, poichè si era conosciuto di quanto fosse capace quella furia Francese, e coll'accrescer le forze proprie, e con l'unione di aliene, si potesse mutar la fortuna, e compensar le perdite passate coi guadagni a venire. Tal è la costanza delle menti Tedesche, che più e meglio ancora che l'impeto, le fa riuscire ad onorate imprese. L'Austria ed il Piemonte, siccome più vicini al pericolo, procedevano con animo più sincero della Prussia, la cui congiunzione con la lega già forse incominciava a vacillare. L'Austria massimamente applicava i pensieri alla preservazione de' suoi stati in Italia, ai quali già si era avvicinata la tempesta, e che sono parte tanto principale della sua potenza. Perlochè si preparavano con molta diligenza tutte le provvisioni necessarie alla guerra, tanto negli stati Austriaci, quanto nel Piemonte, e si tentava ogni rimedio per impedire la passata dei Francesi. Perchè poi i popoli provocati da quelle lusinghevoli parole di libertà e d'uguaglianza, non solamente non si congiungessero con coloro che procuravano la turbazione d'Italia, e non facessero novità, ma ancora sopportassero di buona voglia tutto quell'apparato guerriero, e non si ristessero a tanto romor d'armi, usavansi i mezzi di persuasione. Il più potente era la religione: spargevansi sinistre voci: essere i Francesi nemici di Dio e degli uomini, conculcare la religione, profanare i tempj, perseguitare i sacerdoti, schernire i santi riti, contaminare i sacri arredi, e facendo d'ogni erba fascio, proteggere gl'increduli ed uccidere i credenti. I vescovi, i preti, i frati intendevano accesamente a queste persuasioni; se ne accendevano mirabilmente gli animi del volgo.

Parte essenziale dei disegni della lega erano le deliberazioni del senato Veneziano. L'imperatore conghietturando, che il terrore cagionato dall'invasione di Savoja e di Nizza, e quell'insistere così vicino sulle frontiere del Piemonte di un nemico audace, e che mostrava tanta inclinazione alle cose d'Italia, avessero mosso e disposto il senato a piegarsi alla sua volontà, aveva con efficacissime parole dimostrato, che era oramai tempo di non più procedere con consigli separati, e di pensare di comune accordo alla salute comune. Rappresentavagli, non isperasse preservare lo stato, se quel diluvio di gente sfrenata, valicati i monti, inondasse Italia; voler fare e per se, e per gli sforzi contemporanei del suo generoso alleato il re di Sardegna, quanto fosse in potestà sua per allontanare da quel felice paese tanta calamità; ma esser feroci i Francesi, e gli eventi di guerra incerti, vano pensiero essere il credere, che chi fa spregio dell'umanità e conculca ogni legge divina ed umana, rispetti le neutralità, disprezzare i Francesi la neutralità ed amar meglio un nemico aperto, che un amico dubbioso; avere egualmente in odio le aristocrazìe, che le monarchìe, ed il prestar fede alle protestazioni amichevoli loro essere un volersi ingannare da per se stesso; poter concludere il senato della sincerità loro dai tentativi fatti da loro a Costantinopoli per concitare contro di lui la rabbia Ottomana; poter giudicare della moderazione dalle insolenze già fin d'ora usate in sul mare verso le navi della repubblica, esser sempre disordinata la natura Francese, ma ora per la rivoluzione esser disordinatissima; nè esser di soverchio tutte le forze d'Europa per ostare ad una nazione potente, e presa di pazzia; certamente imprudentissimo consiglio essere il darsi a credere, che ove un popolo sfrenato abbia superato monti difficilissimi, prostrato le forze di un re e di un imperatore, e penetrato nel cuore stesso d'Italia, superbo per indole, superbissimo per vittoria, voglia arrestar l'impeto suo alle frontiere Veneziane, solo per vedere sulli estremi confini scritte le parole di neutralità; non sapere il senato, che tanto sa, quanto sia avida la natura dei Francesi della roba altrui? Queste terre da sì lungo tempo immuni di guerra, questo cielo sì dolce, questi campi tanto fertili, queste colline così feconde, questi palagi così sontuosi, e questi arredi così ricchi non allettar forse con forza irrepugnabile chi già non ha freno in se che lo tenga? e forse non sono in Italia i vizj e le male pesti, che gli ajuteranno? Non sono forse qui gli ambiziosi per dominare, i ladri per rubare, gli scapestrati d'ogni sorte per istraviziare? Nè perturbatrici parole, e piene di atroce influenza non sono forse le parole di libertà e d'uguaglianza, che costoro van gridando per ispogliare chi ha, e per ingannare chi non ha? Forse i popoli non corrono dietro alle novità molto volentieri? e non può più sempre in loro la fortuna che la fede? Chi dà sicurtà al senato, che una prima insegna Francese, la quale si mostri in cima all'Alpi, non mandi improvvisamente sottosopra il Piemonte, il Milanese tutto, e con essi questo felice stato Veneziano? Non empierassi allora ogni cosa di tumulti e di ribellione? Non si portan già quì di soppiatto da uomini audacissimi le scelerate insegne Francesi? e già costoro non si accordano, già non si affratellano, già non corrompono, già non rapportano per ajutare un nemico crudele, per far isgabello alla potenza loro dell'estremo sterminio d'Italia? ad occasione insolita insoliti consigli. Che montano in tanto pericolo le cautele usate un dì, e le gelosìe antiche? Non voler Germania opprimere Italia, esser queste cose dannate dal secolo; bensì voler Germania preservare Italia, e con Italia il mondo, da un sovvertimento totale, da un dominio insopportabile; fugace sempre esser la occasione, ma ora fugacissima; che superare solo il colmo dell'Alpi è pei Francesi vittoria certa, poichè il resto darallo un fiume insuperabile. Questo è, aggiunse l'imperatore, l'estremo dei tempi; il sorger di tutti solo poter esser la salute di tutti, il mancar di un solo la rovina di tutti. Pensasse adunque il senato, e maturamente considerasse la necessità dei tempi, l'infedeltà della Francia, la fede della Germania, la lega proposta, gli ajuti offerti, e l'avvenire, che già già incalzava, e premeva o felice, o funestissimo per sempre.

Il senato Veneziano che per la sua prudenza sempre seppe bene conoscere i tempi, ora male misurandogli, e volendo applicare ad un male nuovo rimedj antichi, rispose, che la repubblica sempre moderata e temperante, voleva esser amica a tutti, nemica a nissuno; che tale mansueto procedere era sempre stato a grado di tutti i principi, e sperava dover essere per l'avvenire, massime nella presente controversia tanto piena di difficoltà e d'incertezza; che quanto ai sudditi, non aveva timore alcuno di novità, stante che conosceva e la fede loro, e la vigilanza dei magistrati; che ammirava bene la costanza dell'imperatore e de' suoi alleati in un affare di tanto pericolo, ma che finalmente si persuadeva, che Sua Maestà Imperiale, considerando bene secondo la prudenza sua la natura del governo Veneziano, avrebbe conosciuto, non dovere lui allontanarsi da quella moderazione, che l'aveva preservato salvo per tanti secoli; ricever somma molestia di non poter deliberare altrimenti; esser parata la repubblica a dar il passo alle genti Tedesche, a sovvenir i confederati di quanto potesse consistere con la neutralità; ma procedere più oltre, e soprattutto implicarsi in guerre con altri, non comportar la fede, la costanza, e la consuetudine della repubblica.

Ma moltiplicando sempre più gli avvisi dei progressi fatti dai Francesi nel ducato di Savoja e nel contado di Nizza, fu ben necessario il pensare a provveder quello, che la stagione richiedeva; e se non si voleva impugnar l'armi per fare una guerra estrema, bisognava bene considerare quanto fosse a farsi per preservar la repubblica dagli assalti forestieri, e dai tumulti cittadini.

Per la qual cosa, convocato straordinariamente il senato, vi si pose in consulta, quali fossero i provvedimenti da farsi per conservar salva la repubblica nell'imminente pericolo dell'invasione dei Francesi in Italia. Francesco Pesaro, procurator di San Marco, uomo il quale e per se, e pel seguito della sua famiglia, era in grandissima fede appresso ai Veneziani, e di cui sarà spesso fatto menzione in queste storie, dal suo seggio levatosi, e stando ognuno attentissimo a udirlo, parlò con gravissimo discorso in questa sentenza: «Se la giustizia più potesse negli uomini, che la forza, voi non sareste quì a deliberare, eccelsi senatori, e della patria amantissimi, se l'innocenza vostra si possa o di per se stessa difendere, o si debba tutelare con l'armi. Imperciocchè tutto il mondo sa, che contenti allo stato vostro, nissun appetito vi costringe a desiderare quello d'altrui, e dappoichè è sorta in mezzo a queste acque la nostra generosa repubblica, piuttosto per la felicità sua, che invitava i forestieri a sottoporsi volontariamente al suo soave giogo, o per fuggire col patrocinio nostro la tirannide altrui, che per forza, o per cupidità di ampliare l'imperio, crebbimo in questa potenza, ed a questo splendore arrivammo, che, se non di terrore, certo è d'invidia agli uomini maravigliati cagione; e se pure qualche volta non provocati impugnammo le armi, ciò fu piuttosto per la salute comune d'Italia, che per acquistar nuovo e non usitato dominio. Ma poichè i disegni degli uomini sono cupi, l'invidia grande, gli appetiti sfrenati, e l'innocenza inerme è sempre stata preda dei potenti, resta per noi a deliberarsi, se in mezzo a tanto romor d'armi, se in mezzo a tante ire ed a sì crudele discordia, se allor quando nazioni potentissime corrono con infinito sdegno l'una contro l'altra, e che tolto ogni rispetto, calpestato ogni diritto, non della scorza, ma del fondo stesso, non di una parte, ma del tutto, non di un danno, ma di un totale sterminio gareggiano fra di loro, noi dobbiamo starcene disarmati alla discrezion loro, ovvero usando quella potenza che Dio ci diede, armarci di modo, che il rispettarci sia pei forestieri necessità, e l'assaltarci pericolo. Nella quale disquisizione tanto mi pare il discorso facile, e la via che dobbiam seguire spedita, che il sentire diversamente da me fia piuttosto semplicità da secol d'oro, che prudenza in un secolo scapestrato. Per verità di che ora si tratta? Forse di provocare, forse di assaltare, forse di trarre ad inopportuna e pericolosa guerra questo felicissimo dominio? Non già: ma solo d'impedire che provocati, che assaltati non siamo, solo appunto di allontanare dalle terre nostre la guerra, e con lei le ingiurie, le ruberìe, e le uccisioni che l'accompagnano; conciossiachè come l'acqua allaga i luoghi bassi, così la guerra allaga i luoghi inermi, ed il migliore stromento di pace in mezzo all'armi mosse, sono appunto le armi. Ciò mostrano e la natura umana più pronta sempre ad ingiuriare che a rispettare, ciò la esperienza dei secoli, ciò nazioni distrutte, perchè trascurata la forza, sulla fede unicamente si appoggiarono. E senza riandare i secoli antichi, vi muovano i freschi esempi. Non vi ricorda ancora, ed ancora non udite i pianti e le querele dei sudditi straziati dai barbari nella fatal guerra, che arse l'Europa sul principiar di questo secolo per la successione di Spagna fra queste medesime nazioni, che ora combattono sì ferocemente fra di loro? Allora la repubblica fu lacerata, perchè inerme; allora i sudditi ricevettero molestie infinite, perchè la repubblica con imprudentissimo consiglio aveva mancato loro della necessaria tutela dell'armi. Ammaestrato da sì crudele esempio il senato armossi nella guerra che venne dopo, e lo stato fu preservato salvo. Ora credete voi che la rabbia fra chi combatte, sia minore adesso che cento anni sono, e che l'efficacia dell'armi impugnate meno possa presentemente di quanto ella potesse, or son quaranta? Certamente nol credete voi; che anzi, se dai brevi saggi che pur testè vedemmo, si dee giudicare, la rabbia è infinita, ed il timore di provocar l'armi della repubblica grande, perchè il pericolo per ambe le parti è, oltre ogni credere, grave, e mira ad un totale esterminio. E non dubitate, poichè ci va troppo posta, che alcune bocche d'artiglierìe veneziane poste ai luoghi forti, ed alcune insegne di San Marco sventolanti sulle frontiere non siano per far istar in dovere coloro, che già romoreggiano, o sarebbero per romoreggiarci intorno. Dio allontani l'augurio, ma io vedo che se Venezia non s'arma, Venezia è perduta, e vedo altresì che s'ella s'arma, ella può essere non solo la salute sua, ma ancora la salute d'Italia, poichè questi forestieri, che per appetito smoderato han sempre fatto campo dei furori loro la misera Italia, non la correranno così a grado loro, quando sapranno essere svegliato e pronto a sorgere il lione Veneziano. Ma poi che sarà? Credete voi d'evitar la guerra, se state senz'armi? Il Francese ed il Tedesco ugualmente recheransi ad ingiuria il non essere stati ajutati, e voi sapete che i pretesti d'offendere non mancano mai a chi nutre pensieri sinistri. E posto eziandio, che per inudito esempio la fede dei governi sia pura, chi vi assicura che se la guerra si conduce sui vostri confini, bande armate degli uni e degli altri non corrano le vostre terre, o per pigliar vantaggi sul nemico, o per far sacco a vantaggio proprio? Le sopporterete voi queste ingiurie senza risentimento? Dove sarà allora l'onor di Venezia fin quì illibato? ed anco ingiuria non vendicata moltiplica le ingiurie. O ne farete voi risentimento? Ma risentimento non armato è nullo per chi fa ingiuria, e dannoso per chi la riceve, perchè essendo di necessità senza effetto, ti scema la riputazione. Io ho vergogna, o senatori, dello andarmi aggirando fra queste supposizioni inonorate, quando penso al valor vostro, alla potenza, ed al nome di questa gloriosa repubblica. Ma pogniamo finalmente che i governi siano fedeli, ed i soldati santi, che certo non è pur poco: come siete voi sicuri, che non si turbi con grandissimo movimento tutto lo stato nostro, se i Francesi arrivano sui confini? Non abbiamo noi quì novatori, non uomini ambiziosi, non avari, non vendicativi, non contaminati sin dentro al cuor loro di perturbatrici dottrine? E se costoro fan novità, e certo la faranno, quando sarà lor porta la occasione, poichè già fin d'ora, che ancora son lontani i sussidi sperati, a mala pena rattengono il veleno loro, che farete voi, se non siete armati? I tumulti eccitati da questa gente pestifera serviran di pretesto ai Francesi per ajutargli, ai Tedeschi per frenargli, e gli uni e gli altri correranno i nostri campi impunemente, se noi per noi non siam capaci di far argine a queste acque furibonde. Farete allor voi guerra? Con che? Farete allor voi pace? Con chi? La sedizione vi condurrà alla guerra, la guerra alla rovina. Odo dire a certe timide persone, che l'armarsi è dar sospetto e pretesto di guerra ad altrui. Ma chi ha mai dannato alcuno, se pon argine alla casa quando il fiume minaccia, o se taglia i tetti quando l'incendio s'avvicina? Superba troppo, ed intollerabile pretensione sarebbe certamente quella di un forestiero, che volesse comandarci come e quando noi dobbiamo assicurare lo stato nostro, e che altra alternativa non ci lasciasse o di starcene disarmati alla discrezion sua, o d'incontrar la sua nimicizia. Per me costui come nemico, e non come amico terrei, ed amerei meglio avere con lui una guerra pericolosa, che può aver buon fine, e sempre avrà onore, che una pace pericolosa, che non può aver se non cattivo fine, e sempre porterà con se una vergogna infinita. Poi la fede di questa inclita repubblica è nota al mondo, ed il mondo sa, se noi siamo vicini inquieti, ambiziosi, ed offensivi, oppur quieti, temperanti, ed amatori del giusto e dell'onesto. In somma per restringere in poche parole quello che sono andato sinora allargando, a me pare, che lo starcene disarmati in mezzo a così rabbioso moto, non sia nè sicuro nè onorato; che l'armarci sia senza sospetto, e necessariamente richiesto all'onore ed alla salute nostra, poichè i consigli onorati sono sempre i più sicuri, e la riputazione è gran parte della forza. Per la qual cosa io opino, che si fornisca l'erario, che si allestisca il navilio, che si levino le cerne, e che alcun polso di Schiavoni sia chiamato a tutelare le cose di Terra Ferma. A questo io penso, che si debba dichiarare alle potenze belligeranti, che il senato costante sempre nel suo procedere pacifico, vuol conservarsi fedele ed amico a tutti, e che i moderati apparecchi d'armi mirano piuttosto e solamente a conservazione di pace, che a dimostrazione di guerra».

Grande impressione fecero nella mente del senato queste parole gravemente dette dal Pesaro, nelle quali concorrevano amplissimamente tutti i fondamenti, che nel deliberare le imprese principalmente considerare si debbono. Al contrario parlò con singolare eloquenza il savio del consiglio Zaccaria Vallaresso, a un di presso in questi termini: «Non è stato mai costume di coloro, che s'intendono dello stato, il giudicare dalle apparenze esteriori delle cose, nè da certi bollori d'opinioni, che presto sfumando se ne vanno in dileguo, lasciando in fondo la realtà. Queste apparenze, e questi fumi sono a guisa d'un nugolo, il quale vela con false forme il vero, ma in breve ora sparendo, lascia nel loro aspetto naturale i monti e le campagne. Grande certo, anzi infinito è l'amore del mio avversario verso questa nostra felicissima patria, grande l'ingegno, e grande altresì la sperienza del mondo; ma mi pare, anzi certo sono, che nel presente caso egli adombri, e si lasci svolgere da un fantasma, da un nugolo, da un'apparenza fallace. Il quale nugolo io voglio dagli occhi vostri, ed anche da' suoi, se possibil fia, sgombrare con mostrarvi la verità. Ed in primo luogo io vi dirò, che il timore è sempre stato mal consigliere; e che il timore sia quello che offusca l'intelletto del procurator Pesaro, quantunque di animo costante e sano, dimostranlo gli spaventi nati per la recente invasione di Nizza e della Savoia. Adunque un Pesaro si lascia ire alla corrente, adunque opina col volgo pazzo, adunque fa caso degli sgomenti delle donnicciuole? e che grave caso è ella mai la mentovata invasione? l'essersi perduto un paese che sempre si perde, quando nasce guerra tra il re Sardo e Francia, e che esso re nè può, nè vuole difendere! Mi maraviglierei ben io, se quelle terre si fossero conservate, non tanto che mi spaventi, perchè si sono perdute. Credete voi che le frontiere militari d'Italia siano, come le politiche, il Varo, e l'umile fiumicello che bagna Sanparigliano? mai no: le frontiere militari sue sono i monti smisurati, che la natura pose fra lei e la Francia, sono quei ghiacci eterni, quelle nevi altissime, quelle rupi senza via, quei passi stretti e difficili. Ora, se così è, qual timore può far tanto che si creda, che i Francesi, quantunque audaci, possano, ora che s'avvicina l'inverno, superar quello che sarebbe difficilissimo a superarsi anche ai tempi più caldi? Grossi sono e valorosi gli eserciti Sardi; grossi e forti quelli che loro giungono in ajuto dall'Alemagna, e le fortezze del Piemonte poste ai luoghi più opportuni nel cuore stesso, ed a tutte le sboccature dell'Alpi, danno ancor maggior sicurezza. Da tutto questo si può inferire, che il superar l'Alpi pei Francesi sarà in ogni tempo impresa difficilissima, ed in questi sei mesi impossibile. Dico poi, che nel presente caso chi vince per sei mesi, vince per sempre; perciocchè non è da dubitare che lo stato popolare introdotto presentemente in Francia, non sia in breve tempo per dissolversi; perchè la storia dimostra, che quella foggia di governo, breve persino nei paesi piccoli, non può a nissun modo sussistere ne' vasti territorj. Al che se si aggiunge l'abitudine del lungo vivere dei Francesi sotto la monarchìa, la loro natura pronta e volubile, la feroce tirannide che ora gli opprime, le confiscazioni, gli esilj, le decapitazioni de' migliori e de' più assennati cittadini, ogni cosa in incerto, ogni cosa piena di terrore, facilmente verrassi a conoscere, che quello stato avrà corta vita; poichè le sette armate vi sorgeranno, la guerra civile ajuterà l'esterna, e la Francia assalita dentro da partigiani arrabbiati, fuori da eserciti potenti, non solo non sarà in grado di opprimere Italia, ma gran fatto sarà, se non fia oppressa ella stessa. Sperate nei luoghi forti, sperate negli eserciti gagliardi, sperate nella tirannide altrui, che sarà mantenitrice della libertà d'Italia, e del benigno vivere nostro. Poterono i nostri maggiori facilmente, e senza pericolo metter su eserciti a fine di mantener la neutralità, e certo il fecero con provvido consiglio; ma allora l'erario era ricco, e poteva di per se sopperire alla voragine militare; mentre ora trovandosi esausto per le anteriori neutralità armate, pei racconci dei fiumi, pei contagi di Dalmazia, per la spedizione di Barbaria, a mala pena potrebbe bastare, e fia forza prestanziare i popoli, che gravati per modo insolito potrebbero risentirsi e pensare a novità. Questo toccar dei cofani riuscirebbe al certo più pregiudiziale, che le pazze dicerìe, che ci vengono di Francia. Oltre a ciò i mari aperti e sicuri, intrattengono ora per la frequenza del commercio i sudditi, arricchiscono le famiglie, conferiscono splendore, vigore, e potenza allo stato; ma se i Francesi dan volta a motivo delle minacce vostre, e certo la daranno, perchè e' sono superbi ed amatori di preda, diventeranno chiusi i mari, interrotti i traffichi, l'ozio darà luogo ai discorsi, la povertà alle male voglie, e tra pel danno emergente delle imposte, e il lucro cessante dei traffichi, si spargeranno dissidj e semi pestiferi in queste medesime popolazioni, che finora non si sono mai partite da quell'affezione, che sempre hanno avuta verso la repubblica. Così per volere il meglio avrete il peggio, ed avrete introdotto le turbazioni nei più intimi penetrali dello stato con quei medesimi mezzi, coi quali proposto avevate di allontanarle. Nè non senza efficacia nella presente trattazione è il pensare, che se la repubblica è armata, si accresceranno i desiderj ed i tentativi delle parti contendenti, per congiungersela con esso loro, e per questo ogni modo di richiesta, di offerta, d'insidie ed anche di offese, sarà posto in opera per farla pendere dall'un de' lati. I quali tentativi se l'armi fan nascere, l'armi ancora non lasciano tollerare, perciocchè l'uomo armato è più pronto al risentimento, e peggior estimatore dei casi avvenire, che quello il quale armato non è; perchè l'armi accrescono la superbia, e fan che l'uomo creda di potere più di quello che può. Sono l'armi pericolose sempre al maneggiarsi, e chi le maneggia non sa dove sia per riuscire; perchè con esse la prudenza è muta, e se tu cominci, il futuro non è più in potestà tua. Certo io non mi fido più del mio avversano nelle lusingherìe, nella fede, e nelle promesse altrui; ma per questo medesimo io non voglio sollecitar le ire dove già la fede è incerta, ed al postutto meglio è fidarsi di governi ordinati, che di governi disordinati, ed il fine della lega è spegnere un governo disordinato. La lega farallo, perchè lo può fare, e certamente non avrà per male che noi lontani dal campo dove si combatte, noi pacifici da sì lungo tempo, noi temperanti per natura e per consuetudine, noi amici di tutti e nemici di nessuno, conserviamo studiosamente quella quiete, che stata è sempre il principal fine dei desiderj nostri; che troppo infelice sarebbe la condizione dell'umana generazione, se, ove nasca guerra in un lato, tosto abbiano a sorgere armi ed armati da tutte le terre del mondo. E' deesi dare qualche cosa alla umanità, qualche cosa all'innocenza, qualche cosa alla giustizia, nè penso che esse siano ancora del tutto sbandite dalle scene umane; che se così fosse, invano staremo noi quì a deliberare, e non credo che alcuni pochi cannoni Veneziani ci potessero salvare. Adunque fatte tutte queste considerazioni, ed avuto ad ogni cosa riguardo, io porto opinione, che continuando nel pacifico stato nostro, ed abborrendo dal tirare con preparazioni imprudenti nel dominio Veneziano una guerra di tanto pericolo, nissuna dimostrazione militare si faccia, e si protesti, volere la repubblica vivere in buono ed amichevole stato con ognuno».

Questa orazione del Vallaresso fu udita con grande inclinazione dalla più parte dei senatori soliti a godersi da lungo tempo le dolcezze della pace. Lo stesso Pesaro, quantunque fosse uomo di molta virtù e di svegliati pensieri, si lasciò svolgere dall'eloquenza dell'avversario, e venne nella opinione della neutralità disarmata. Però ne fu presa con unanime consenso la deliberazione, solo contraddicendo, come dicesi il Savio di Terra Ferma Francesco Calbo. Da questa prima cagione sorse la rovina della repubblica, e se per l'oscurità e l'incertezza degli eventi umani non si potrebbe affermare, che il consiglio contrario l'avrebbe condotta a salvamento, e se veramente era destinato dai cieli ch'ella perisse, certo è almeno che sarebbe perita onoratamente, e con fine degno del suo principio.

Le medesime deliberazioni fece la repubblica di Genova per la vicinanza di Francia, per l'integrità dei traffichi, e pel timore del re di Sardegna. Avevano gli alleati qualche più fondata speranza in Corsica. Erasi ridotto in questa sua antica patria il generale Paoli, richiamatovi dall'assemblea constituente: godevasi quietamente il restituito seggio, quando uomini feroci misero, sotto nome di libertà, ogni cosa a soqquadro in Corsica, come l'avevano messa in Francia. Sdegnossene Paoli: sepperlo i confederati. Con lettere e con parole esortatorie lo stimolarono, non permettesse, che la sua patria fosse preda di uomini sfrenati; si ricordasse del nome suo, avvertisse, essere i Francesi quelli stessi nemici contro i quali aveva già sì generosamente combattuto; considerasse, avere allora i medesimi voluto opprimere la libertà del suo paese con introdurre uno stato civile, ora volervi introdurre uno stato disordinato e barbaro; pensasse, quanto fosse pietoso il liberare da gente crudele popoli che adoravano il glorioso suo nome; desse mano di nuovo a quelle armi generose, esortasse, levassesi, combattesse; essere in pronto nuova gloria, nuova libertà, nuove benedizioni di popoli.

Queste insinuazioni già da lungo tempo tentavano l'animo di Paoli, il quale veramente non poteva sopportare lo stato nuovo, ma l'importanza del fatto, prima di muoversi, era che l'Inghilterra si chiarisse delle sue intenzioni; perchè senza la presenza delle sue armate nel Mediterraneo, stante la potenza marittima della Francia, non era da sperarsi che il moto avesse felice fine. Perlochè di comune consentimento fu deliberato, che si aspettasse la guerra d'Inghilterra: solo intanto si tenessero gli animi disposti. Così la lega era confidente di trovare, ove fosse venuto il tempo, appoggio in Corsica, caso di non poco momento per l'Inghilterra, e per la sicurezza della Sardegna, e della stessa Italia.

Il re di Sardegna più speciale conforto riceveva oltre il denaro che gli veniva dalla Gran Brettagna, dall'accessione della Spagna: era evidente, che quante forze la Francia avesse mandato alla volta de' monti Pirenei, di tante avrebbe scemato quelle che mandava ver l'Alpi, sicchè Spagna e Piemonte, quantunque lontani, concorrevano, combattendo, ad un medesimo fine. Nè le forze navali della Spagna erano da disprezzarsi; il che poteva dare grandissime comodità sì per difendere i territorj proprj, sì per invadere quei di Francia, se la fortuna si mostrasse favorevole.

A tutte queste speranze se ne aggiungeva un'altra assai viva, e quest'era, che presentandosi grossi gli alleati sulle province meridionali della Francia, vi sarebbero nati a favor loro, e contro l'autorità del governo Parigino, movimenti d'importanza. Ciò massimamente stimolava il re di Sardegna, per quella sua cupidità di trasferire in se il Delfinato, e la Provenza. L'aspettare che sorgessero novità favorevoli alla lega nelle province più vicine alla Spagna ed all'Italia, non era certamente senza fondamento. La soppressione dei traffichi nata a cagion della guerra vi aveva dato occasione a non poca mala contentezza, e le enormità commesse in Parigi, operando nelle menti più sane, vi avevano un grandissimo odio concitato contro i commettitori di tanti scandali. Ai più feroci poi pareva oggimai troppo lungo, che non si desse mano a far sacco e sangue. Questi nuovi pensieri buoni e cattivi, massimamente pullulavano in Marsiglia ed in Lione, città grosse, emule a Parigi, ricche per commercio in pace, ed ora povere in guerra; e se il nome del re di Sardegna era molto esoso nella prima, era udito con più benigne orecchie nella seconda.

Tutte queste disposizioni non s'ignoravano dagli alleati, massime per mezzo della corte di Torino, che usava un'arte grandissima nell'ispiare, e nell'accordarsi secretamente in Savoia ed in Nizza, sì coi magistrati che coi capi dell'esercito. Queste trame parte si sapevano, parte si presumevano dai giacobini. Quindi le mutazioni dei capi dell'esercito erano frequenti, e siccome era rotta ed improvvida la natura loro, così spesso punivano gl'innocenti ed esaltavano i rei. I supplizj poscia e le confische producendo abbominazione nei popoli, operavano, che sempre più quell'aversione che hanno naturalmente i Francesi contro i forestieri, che vogliono metter mano e piede nelle cose e nelle case loro, si diminuisse, e con lei gli ostacoli alla disegnata invasione; poichè tal era il terror delle mannaje, che i più preponevano la servitù forestiera alla tirannide cittadina. Ordinavano l'imperatore e il re di Sardegna in tal modo i pensieri della guerra; nuovi reggimenti Tedeschi arrivavano in Piemonte; quelli che appartenevano all'armatura leggiera, come Croati, Panduri, e simili, atti piuttosto a rubare che a combattere, s'avviavano alle montagne. Gli squadroni più gravi, e la cavallerìa stanziavano nelle pianure più vicine. Erano poi sì fattamente ordinati, che le truppe Piemontesi, come più pratiche dei luoghi, e più snelle di natura, guernivano le Alpi; alle quali, come abbiam detto, s'accostavano le genti leggieri dell'imperatore, mentre le genti grosse Austriache, stanziando nei luoghi bassi, contenevano i popoli, e si tenevano pronte a marciare ovunque il nemico avesse riuscito a sboccare. Mandò l'imperatore a reggere l'esercito confederato in Piemonte il generale Devins.

Era Devins uomo di buona mente e salito pel valor suo dagl'infimi gradi della milizia fino ai supremi, aveva in ogni occasione mostrato la sua eccellenza nell'arte della guerra.

Intanto alcune pratiche segrete si erano appiccate fra la corte di Torino, e gli aderenti al nome regio in Lione ed in Provenza, il cui fine era di accordare i modi che si dovevano usare, perchè i disegni che si macchinavano a beneficio comune avessero la loro esecuzione. E siccome si faceva maggior fondamento sui Lionesi, più centrali di sito, più vicini alla Germania, fonte e nervo principale della guerra, e più tenaci di proposito che i Provenzali, così coi primi massimamente si tenevano questi trattati. A questo fine uomini confidati andavano segretamente da Lione a Torino, e da Torino a Lione. Finalmente quando i negozj si avvicinavano alla conclusione, il signor di Precy, mandato dai Lionesi, andò nascostamente egli medesimo a Torino per quivi accordarsi su quanto si trattava: l'imperatore ed il re si offerivano parati a secondare i suoi disegni con le forze loro. Intervenne Precy a molte consulte; e stantechè egli e Devins misuravano le cose non a stregua delle passioni, ma della verità, così l'uno e l'altro non tardarono ad entrare nella medesima opinione. Era il parer loro, che lasciata una parte dell'esercito sull'Alpi Marittime per tener a bada il nemico da quelle parti, il principale sforzo sì di Tedeschi che di Piemontesi si dirizzasse contro la Savoia, per quindi marciare a Lione. Nè dubitavano che ove fossero giunti in quella città, i popoli vicini per la vicinanza, ed i Provenzali per la natura loro pronta e vivace, si sarebbero levati tumultuando alla fama di tanta venuta. Certamente disegno nè più conforme agli accidenti, nè di più probabile esecuzione non s'era mai concetto di questo; se ne promettevano gli autori effetti certissimi. Ma il re Vittorio, mosso da un desiderio più generoso che considerato, non vi volle acconsentire. Era egli gravissimamente sdegnato contro i Savoiardi, siccome quelli che avevano accettato con amore i Francesi, e che tuttavia gli ajutavano, quanto era in poter loro, di consiglio e di forza. A questo sdegno aggiungeva possente stimolo il vedere, che le persone più chiare in Savoia per virtù, per sapere e per valore, parteggiavano caldamente per la Francia, levavano soldati, facevano ogni sforzo perchè la nuova signorìa si stabilisse. Amaro fastidio poi gli dava quella legione degli Allobrogi ordinata dal medico Doppet, uomo strano assai, ma di molto ingegno, e nelle opinioni di quei tempi ardentissimo: questa legione asperava coi fatti il re, ma vieppiù ancora lo asperava con gli scherni, e per l'eccessive cose che diceva contro di lui; il che alterava a dismisura l'animo di Vittorio.

Assai diverso da questo era il procedere dei Nizzardi, i quali più alieni di natura, e forse anco meno propensi a lasciarsi volgere, non so se per indole meno buona o per giudizio più prudente, dalle utopìe dottrinali che giravano a quei dì, di mala voglia sopportavano il nuovo imperio, tenevano con rapporti informato l'antico signore loro, e con bande sparse, ed appostate nei luoghi più opportuni di quei monti aspri, e difficili, infestavano continuamente i Francesi, e facevan loro tutto quel maggior male che potevano.

Queste inclinazioni considerate dal re Vittorio, solito a misurare le cose più col desiderio che con la prudenza, operarono di modo, che grandissima affezione portando a' suoi Nizzardi, e concitato a gravissimo sdegno contro i Savoiardi, non volle mai udire con pacato animo, che si desse mano a liberare dalla tirannide Francese prima i secondi, che i primi. Ogni ora gli pareva mill'anni, che i suoi fedeli di Nizza non tornassero al grembo suo, mentre per castigo sopportava più volentieri, che i popoli di Savoia continuassero a gustare di quanto sapessero i Francesi, non considerando, ch'ei gli castigava di quanto essi più desideravano. Devins e Precy interposero grandissima diligenza per persuadere il loro desiderio al re, ma non avendo potuto vincere la sua ostinazione, si fermarono in questo pensiero, che, munite le frontiere della Savoia con truppe sufficienti per frenar il nemico, ed anche per ispignersi più oltre secondo le occasioni, si assaltasse la contea di Nizza col grosso dell'esercito, come prima il tempo avesse condotto la opportunità di tentar la impresa.

Questa fu la prima origine, questo il seme delle calamità innumerabili, e della variazione di quasi tutte le cose, che poco dopo seguirono. Devins continuamente si lamentava, che il re di Sardegna gli avesse tolto la occasione di far chiaro il suo nome con una onorata e grande vittoria.

Mentre tutte queste cose si sollecitavano per gli alleati, i Francesi pensavano ai modi di resistere alla piena che veniva loro addosso: le deliberazioni loro parte miravano la guerra, parte i negoziati, parte le corruttele. Quanto alla guerra, si consigliarono di preporre ai due eserciti dell'Alpi superiori e delle inferiori, dei quali il primo chiamavano dell'Alpi, il secondo d'Italia, un solo generale, acciocchè per l'unità dei pensieri potesse più efficacemente conseguire il medesimo fine. Siccome poi, parte per sospetti vani, parte per argomenti veri si erano persuasi, che alcuni fra i generali loro, come non contenti dello stato, o freddamente si adoperavano, o nascostamente s'intendevano coi Sardi, così pensarono di dar il governo dei due eserciti ad un uomo non solo di provato valore, ma ancora di provata fede. Questi fu il generale Kellerman, che aveva testè combattuto i Prussiani con molta gloria sulle sponde della Matrona. A questo tutte le genti, che per loro si potevano risparmiare per la grossa guerra che si guerreggiava verso il Reno, mandavano all'Alpi, per modo che all'aprirsi della stagione componevano un esercito di cinquanta mila soldati, buoni per la disciplina, ottimi pel valore, terribili per la rabbia. Kellerman, avendosene recato in mano il governo, andò considerando, come la frontiera fosse di troppo più grande larghezza, perchè in ogni luogo si potesse difendere convenevolmente; e siccome il nemico principalmente minacciava di prorompere sulle ali estreme, cioè sulla Savoia e su Nizza, così determinossi a porre il campo grosso in un sito mezzano, acciocchè fosse in grado di soccorrere con uguale celerità od al ducato, od alla contea, se l'uno o l'altra corressero pericolo. Questa opportunità offeriva il sito di Tornus posto nella valle di Queiras, per essere a un di presso ugualmente discosto da Nizza e da Ciamberì, non che avesse sfogo d'importanza in cospetto, che anzi non ne aveva a cagione dei luoghi chiusi o precipitosi, ma per quella rispondenza coi due estremi. Per la qual cosa Kellerman vi pose il campo, e vi mandava le genti, le armi, e le vettovaglie; ma la difesa era difficile, perchè gli alleati occupavano tuttavia la sommità dell'Alpi su tutta la frontiera, e potevano con facilità e vantaggio calare nelle parti più basse, e cacciarne i Francesi, combattendogli dall'alto. Per ovviare a questo pericolo il generale Francese dispose con lodevol arte le sue genti nelle valli della Savoia superiore, che accennano per istrade più facili nell'Italia. Così munì Termignone, e San Giovanni nella Morienna; Moutiers nella Tarantasia, e per maggior sicurezza alloggiò un grosso corpo a Conflans, dove le due valli dell'Isero e dell'Arco si congiungono. Nell'Alpi marittime, ove i Piemontesi e gli Austriaci insistevano con grandissimo vantaggio, a dritta sul monte di Raus, a stanca sulle creste delle Sorgenti, e nel mezzo sulla fortezza di Saorgio, Kellerman, distendendo l'esercito dalla Roia sino ai fonti della Nembia, aveva munito tutte le cime accessibili delle montagne, e posto il campo di mezzo sul monte Fogasso. Quanto all'ala sua sinistra, dove il pericolo era maggiore per la facilità dei varchi, e per la vicinanza della città di Nizza, alla quale principalmente miravano gli alleati, oltre le stanze solite, aveva collocato un grosso squadrone, come squadra di riscossa, sul monte Boletto.

Questi erano i preparamenti guerrieri di Francia; le arti politiche furono le seguenti. Tentarono la Porta Ottomana affinchè si aderisse alla repubblica contro l'Austria e contro Venezia, ma fu senza frutto. Tentarono Venezia, promettendole grossi e pronti ajuti, ed ingrandimento di stato a pregiudizio dell'imperatore. Ma i tentativi di Costantinopoli mettevano sospetto, lo stato disordinato della Francia non dava confidenza, l'Austria sì vicina, sì potente, e già penetrata pel passo concesso quasi dentro alle viscere della repubblica recava timore, e quel perpetuo pagar lo scotto dei minori, quando si mescolano nelle differenze fra i maggiori, teneva gli animi sospesi, e lontani dall'entrar in un mare di tanto pericolo. Perseverò adunque il senato nella neutralità, offerendo ai Francesi quelle medesime agevolezze negli stati Veneti, che erano state concedute alle potenze confederate.

Parte principalissima della lega, tra per la forza de' suoi eserciti, e per la situazione del suo dominio, era certamente il re di Sardegna. Adunque i capi del governo Francese assai volentieri piegarono l'animo a pruovare, se potessero con promesse guadagnarsi la sua amicizia. A questo fine furono introdotti alcuni negoziati segreti tra un agente di Robespierre per parte della Francia, ed il conte Viretti per parte del re. Aveva il conte Viretti grande introduzione in tutte le faccende importanti, benchè di governare le cose di stato avesse piccolo intendimento. Ricercava Robespierre il re, che si alienasse dall'amicizia dell'imperatore, cedesse Savoia e Nizza, desse il transito libero all'esercito di Francia, unisse le sue armi a quelle della repubblica, od almeno se ne stesse neutrale, purchè solo desse il passo. Prometteva poi che gli sarebbero assicurati gli stati, e quanto si conquistasse in Italia a danni dell'imperatore. A questo aggiungeva, che se il re consentisse a cedere la Sardegna alla Francia, gli sarebbe dato in compenso lo stato di Genova, e che ogni giorno più apparirebbero dimostrazioni evidenti dell'amicizia della repubblica verso di lui. Il re, che era animoso, e sapeva anche del cavalleresco, non volle mai udire pazientemente le proposte di fare collegazione con Francia, nè accettare le speranze che gli si proponevano, aggiungendo parole, certo molto prudenti, che non si voleva fidar dei giacobini. Così rifiutati del tutto i consigli quieti, sorse più ardente l'inclinazione alla guerra.

Mentre così andavano i repubblicani di Francia lusingando i potentati d'Italia per conciliarsi l'amicizia loro, non cessavano per uomini a posta e per mezzo dei loro giornali, che pure malgrado della vigilanza dei governi ad interrompergli, s'insinuavano nascostamente in ogni luogo, a spargere mali semi nei popoli, con invasargli dell'amore della libertà, e con incitargli a levarsi dal collo il giogo degli antichi signori. Queste instigazioni non restavano senza effetto, perchè di quella libertà nella lontana Italia si vedevano soltanto le parole, e non bene se ne conoscevano i fatti. Le parti nascevano, le sette macchinavano accordi, le fazioni tumulti. Ma non fia senza utilità il particolarizzare gli umori che correvano a quei tempi in Italia, acciocchè i posteri possano distinguere i buoni dai tristi, conoscere i grandi inganni, e deplorare le debolezze fatali. Adunque in primo luogo gli uomini si erano generalmente divisi in due parti, quelli che parteggiavano pei governi vecchi, detestando le novità, e quelli che parteggiando pei Francesi desideravano mutazioni nello stato. Fra i primi alcuni così opinavano per fedeltà, alcuni per superbia, alcuni per interesse. Erano i fedeli i più numerosi, fra i quali chi per tenerezza verso le famiglie regnanti, e questi erano pochi, chi per bontà di giudizio o per esperienza delle azioni umane, il numero dei quali era più largo, e chi finalmente per consuetudine, e questi erano i più. Fra i superbi osservavansi principalmente i nobili, che temevano di perdere in uno stato popolare l'autorità ed il credito loro. Tra questi, oltre i nobili, mescolavansi anche non pochi popolani che volevano diventar nobili, od almeno tenere i magistrati. Per interesse poi abborrivano lo stato nuovo tutti coloro che vivevano del vecchio, e questi erano numerosissimi: a costoro poco importava la equalità o la non equalità, la libertà o la tirannide, solo che si godessero, o sperassero gli stipendj. Si aggiungevano i prelati ricchi ed oziosi, per interesse, i preti popolari e buoni, per amor della religione. In tutti poi operava una avversione antica contro i Francesi, nata per opera dei governi Italiani sempre sospettosi della potenza di quella nazione, e del suo appetito di aver signorìa in Italia.

Di tutti quelli che fino a qui siamo andati descrivendo, alcuni erano utili ai governi, alcuni disutili, alcuni dannosi. Gli utili erano gli uomini intelligenti di stato, e pratichi del mondo, i quali ajutavano i principi coi buoni consigli. Utilissimi erano poi i preti popolari, ed i popoli da loro ammaestrati. Solo si sarebbe desiderato che avessero usato maggior temperanza nel dire, perchè magnificando di soverchio le cose di Francia, scemavano appresso a molti fede alle parole loro, ed operavano che non credessero loro neanco la verità.

I disutili apparivano gli amatori teneri delle persone principesche, soliti ad adulare nella fortuna prospera, ed a piangere nell'avversa.

I dannosi erano i nobili ed i prelati ambiziosi, i quali credevano di render più sicuro lo stato loro coll'esagerarlo, e si proponevano di far argomento di gran fiducia con mostrar maggiore insolenza. Il frenargli non pareva buono ai governi, perchè temevano e di alienar coloro, di cui avevano bisogno, e di mostrar debolezza ai popoli.

L'odio di costoro principalmente mirava contro gli uomini della condizione mezzana, nei quali supponevano dottrine per lettura, orgoglio per dottrine, autorità col popolo per contatto. Gli uni chiamavano gli altri ignoranti, insolenti, tiranni; gli altri chiamavano gli uni ambiziosi, novatori, giacobini, e tra mezzo ad ire sì sfrenate, non trovando gli animi moderazione, ed introdotta la discordia nello stato, si preparava l'adito ai forestieri.

Ora per raccontar di coloro che inclinavano ai Francesi, od almeno desideravano, che per opera loro si facessero mutazioni nello stato, diremo, che per la lettura dei libri dei filosofi di Francia era sorta una setta di utopisti, i quali siccome benevolenti, ed inesperti di queste passioni umane, credevano esser nata una era novella, e prepararsi un secol d'oro. Costoro misurando gli antichi governi solamente dal male che avevano in se, e non dal bene, desideravano le riforme. Questa esca aveva colto i migliori, i più generosi uomini, e siccome le speculazioni filosofiche, che son vere in astratto, allettavano gli animi, così portavano opinione, che a procurar l'utopìa fra gli uomini non si richiedesse altro che recare ad atto quelle speculazioni, persuadendosi, certo con molta semplicità, che la felicità umana potesse solo, e dovesse consistere nella verità applicata. Atteso poi che il governo della repubblica pareva loro assai più conforme a quelle dottrine filosofiche, che quello della monarchìa, parteggiavasi generalmente per la repubblica; ognuno voleva essere, ognuno si vantava di esser repubblicano, cioè amatore del governo della repubblica. I Francesi avevano a questi tempi statuito questa maniera di governo; il che diè maggior fomento alle nuove opinioni, trovando esse appoggio in un fatto, che veduto di lontano, e consuonando coi tempi, pareva molto allettativo. Queste radici tanto più facilmente e più profondamente allignavano, quanto più trovavano un terreno bene preparato a riceverle ed a farle prosperare, massime in Italia, a cagione della memoria delle cose antiche; le storie della Grecia e di Roma si riandavano con diligenza, e maravigliosamente infiammavano gli animi. Chi voleva esser Pericle, chi Aristide, chi Scipione, e di Bruti non v'era penuria; siccome poi un famoso filosofo Francese aveva scritto, che la virtù era la base delle repubbliche, così era anche nata la moda della virtù. Certamente non si può negare, ed i posteri deonlo sapere (poichè non vogliamo, per quanto sta in noi, che le opinioni contaminino coll'andar dei secoli le virtù), che gli utopisti di quei tempi per amicizia, per sincerità, per fede, per costanza d'animo, e per tutte quelle virtù, che alla vita privata si appartengono, non siano stati piuttosto singolari, che rari. Solo errarono, perchè credettero, che le utopìe potessero essere di questi tempi, perchè si fidarono di uomini infedeli, e perchè supposero virtù in uomini che erano la sentina de' vizj.

Costoro, così affascinati come erano, offerivano fondamento ai disegni dei repubblicani di Francia, perchè avevano molto seguito in Italia; ma fra di loro non tutti pensavano allo stesso modo. I più temperati, ed erano il maggior numero, avvisavano, non doversi movere cosa alcuna, ed aspettavano quietamente quello che portassero i tempi. Altri più audaci opinavano, doversi ajutar l'impresa coi fatti; e però s'allegavano, tenevano congreghe segrete, ed avevano intelligenze in Francia, procedendo a fine di un bene immaginario con modi degni di biasimo.

A tutti questi, come suol avvenire, s'accostavano uomini perversi, i quali celavano rei disegni sotto magnifiche parole di virtù, di repubblica, di libertà, d'uguaglianza. Di questi alcuni volevano signoreggiare, altri arricchire; gli avidi, gli ambiziosi eran diventati amici della libertà, e nissun creda che altri mai abbia maggiori dimostrazioni fatto d'amor di patria, che costoro facevano. Essi soli erano i zelatori, essi i virtuosi, essi i patriotti, ed i poveri utopisti eran chiamati aristocrati; accidenti tutti pieni di un orribil avvenire; imperciocchè non solamente pronosticavano mutazioni nello stato vecchio, ma ancora molto disordine nel nuovo.

I buoni utopisti intanto non si svegliavano dal forte sonno, e continuavano nelle loro beatitudini, non che scusassero le enormità di Francia, che anzi le detestavano, ma stimavano fra breve dover cessare per far luogo alla felicissima repubblica. Fra loro i migliori, e quelli che non andavano presi alle grida, sapevano che non si poteva mutar lo stato senza molte calamità, nè ignoravano che la presenza in Italia di una gente inquieta, non poteva portar con se se non un diluvio di mali; ma si consolavano col pensare che i Francesi, come incostanti, avrebbero finalmente lasciato Italia in balìa propria, e con quel reggimento politico che più si desiderava. A tutto questo si aggiungevano altri stimoli: credevano, i governi Italiani aver certamente bisogno di riforme, ma molto più ancora credevano, qualunque fosse il modo di governo che si avesse ad ordinare, che l'Italia abbisognasse di sottrarsi a quell'impotente giogo, a cui era posta da tanti secoli, e di risorgere a nuova vita, ed a nuova grandezza, nel qual pensiero erano infiammatissimi. Spargevano, esser venuto il tempo, che Italia pareggiasse Germania e Francia per potenza, come le pareggiava per civiltà, e per dottrina; dovere l'Italia moderna assomigliarsi all'antica; quei governi vieti ed umilianti non esser pari a tanto disegno, quelli spartimenti di stati essere pregiudiziali alla independenza; assai e pur troppo aver corso i forestieri a posta loro l'Italia; doversi finalmente alzar l'animo a più larghi pensieri; ora dovere questa nobile provincia aver tali condizioni, che la speranza della debolezza sua non dia più ai forestieri ardire di assaltarla; e poichè la libertà comune non si poteva conseguire se non con un rivolgimento totale, così questo doversi meglio desiderare che fuggire. A che montare mali passeggieri in soggetto di perpetua felicità? Benediranno, aggiungevano, benediranno i posteri con infinite laudi coloro, ai quali non rifuggì l'animo d'incontrar mille pericoli, di soggettarsi a calamità senza fine per creare un beato vivere all'Italia.

Era fra i zelatori di novità una rara spezie; quest'era di ecclesiastici di buoni costumi, e di profonda dottrina, i quali nemici alla potenza immoderata dei papi, che chiamavano usurpata, s'immaginavano, che come in Francia essa era stata distrutta, così sarebbe in Italia, se i Francesi vi ponessero piede. A questi pareva, che il governo popolare politico molto si confacesse con quel governo popolare religioso, che era in uso fra i Cristiani nei tempi primitivi della chiesa. Gridavano, essersi accordati i papi coi re per introdurre la tirannide nello stato e nella chiesa; doversi i popoli accordare per introdurvi la libertà con ritirare l'uno e l'altra verso i suoi principj. I giovani allievi delle scuole di Pavia e Pistoia avevano, e propagavano queste dottrine. Fra i vecchi poi ve n'erano anche de' più pertinaci nelle opinioni loro, e questi per l'autorità che avevano grandissima, mettevano divisione fra la gente di chiesa.

A tutte queste sette si aggiungeva quella degli ottimati, o vogliam dire, per parlar secondo i tempi, la setta aristocratica, la quale avida anch'essa del dominare e nemica ugualmente alla autorità reale ed all'autorità popolare, sperava, che in mezzo alle turbazioni potesse sorgere la sua potenza. Questi settarj avvisavano, che lo stato popolare si volge sempre all'aristocrazìa, per l'autorità che danno necessariamente le ricchezze, le dottrine, la esperienza e la celebrità del nome; e non dubitavano che debilitata, o spenta l'autorità reale, e male ordinata quella del popolo, avesse a nascere l'anarchìa, per fuggir la quale il popolo suol sempre ricorrere all'autorità dei pochi. Fra questi erano quei nobili massimamente, che, ragguardevoli per ricchezze, e per virtù, non tenevano i magistrati, e se ne vivevano lontani dalle corti. Desideravano le novità, ma siccome quelli, che erano astuti e pratichi del mondo, ed anche pretendevano dignità ad ogni proceder loro, non macchinavano, anzi se ne stavano in disparte ad aspettar quietamente quello, che la fortuna si cacciasse avanti; imperciocchè non ignoravano, che a chi comincia, sempre mal n'incoglie, e che la necessità senza nissuna cooperazione loro avrebbe indotto il loro dominio. Così costoro nè ajutavano, nè disajutavano la potenza reale che pericolava, e aspettavano la loro esaltazione dalla potenza popolare che loro era nemica.

Tal'era la condizione d'Italia: i buoni esperti volevano la conservazione per previdenza di male, i buoni inesperti volevano le novità per isperanza di bene; i malvagi desideravano rivoluzioni per dominare e per succiarsi lo stato; il clero stesso parteggiava; dei nobili alcuni erano fedeli e temperati, altri fedeli ed insolenti, e per l'insolenze loro operatori che nascessero male inclinazioni nel popolo; altri finalmente poco fedeli, ma prudenti, aspettavano quietamente le occasioni: in mezzo a tutte queste inclinazioni s'indebolivano continuamente i fondamenti dello stato; pure la massa dei popoli perseverava sana, ed avrebbe potuto essere di grande appoggio a chi avesse saputo usarla prudentemente, e fortemente.

Narrati i preparamenti, le trame, e le speranze d'ambe le parti, ora descriveremo gli accidenti che portò seco la fortuna dell'armi: nella quale trattazione si dovrà sempre por mente, che in quest'anno intenzione dei Francesi non era di farsi strada in Italia per forza, se non nel caso in cui la fortuna avesse loro scoperto occasioni molto favorevoli; perciò disegnavano di starsene sulla guerra difensiva, mentre dall'altro canto gli alleati volevano ad ogni modo, usando la offensiva, penetrare nell'interno della Francia.

I Francesi, prevedendo una guerra vicina coll'Inghilterra e la Spagna, potenze forti sull'armi navali, e volendo usare la breve signorìa che restava loro nel Mediterraneo, avevano ordinato una spedizione contro l'isola di Sardegna. Speravano che qualche moto interiore avrebbe ajutato l'impresa, che era per loro di grand'importanza, perchè l'avere un rifugio nei porti di Sardegna nel caso di guerra marittima e di burrasche, era stimato utilissimo; poi i fromenti che l'isola produce in abbondanza, offerivano un opportuno ristoro alle coste della Provenza sterili per se stesse, e non sicure per la presenza dei nemici sul mare. A questo dava anche fomento il considerare, che per l'autorità di Paoli, la Corsica si commoveva contro il governo testè ordinato in Francia. Si argomentava essere necessaria la possessione della Sardegna per conservar quella della Corsica, che già pericolava. Stimolato da questi motivi il governo di Francia avea messo in ordine un'armata nel porto di Tolone, composta di ventidue navi da guerra, fra le quali se ne noveravano diecinove grosse di fila; e per combattere su terra, ed usar le occasioni che si appresentassero, vi aveva imbarcato seimila soldati atti a combattere nelle battaglie stabili di terra. Questa mole guerriera dovevano seguitare molte navi da carico per imbarcarvi i fromenti, e trasportargli in Francia. Il governo di sì fiorita spedizione fu dato all'ammiraglio Truguet: laonde, trovandosi ogni cosa in pronto, ed appena giunto l'anno 1793, l'armata Francese salpando da Tolone, se ne veleggiava con vento prospero verso la Sardegna; vi giunse prima del finir di gennajo, ed il dì ventiquattro del medesimo mese pose l'ancora, mostrando un terribile apparato, nel porto di Cagliari; nè ponendo tempo in mezzo, l'ammiraglio mandò un uffiziale con venti soldati a far la chiamata alla città. Quì, secondo che narrano gli scrittori Francesi più degni di fede, nacque il medesimo caso che già abbiamo deplorato di Oneglia, cioè che i Sardi, veduto avvicinarsi il palischermo sul quale era inalberata la nuova insegna dei tre colori, trassero sì che l'uffiziale, e quattordici soldati restarono morti, e la più parte degli altri feriti. L'ammiraglio pose mano a fulminare, ed a bombardare la piazza con tutto il pondo delle sue artiglierìe. Nè i difensori se ne stettero oziosi; spesseggiando coi colpi, e traendo con palle di fuoco contro le navi Francesi, sostenevano una ferocissima battaglia. Questo assalto durò tre giorni con poco danno dei Sardi, ma con gravissimo dell'armata Francese, della quale una nave grossa arse, e due andarono di traverso. Le altre o rotte sconciamente nel corpo, o lacerate negli arredi, a stento potevano mareggiare. In questo mentre, oltre il presidio che combattè egregiamente, massime i cannonieri, arrivarono i montanari, che già si erano mossi quando dall'alto avevano veduto avvicinarsi l'armata nemica; ed ora essendo stati distribuiti ai luoghi più opportuni, minacciavano di rincacciare e di uccidere chiunque si attentasse di sbarcare; memorabile esempio di fedeltà civile, e di virtù militare. Nè fu inutile l'opera loro, poichè i Francesi, mentre più ardeva la battaglia, avevano posto piede a terra nei luoghi circonvicini, sperando di far muovere i popoli a favor loro, od almeno, dando diversi riguardi e spartendo le forze nemiche, di far rallentare la difesa della città, nella quale consisteva tutta l'importanza del fatto. Ma coloro che sbarcarono o restarono uccisi, o costretti dai montanari si ricoverarono precipitosamente alle navi. Così restò vana la fatica ed il desiderio dell'ammiraglio di Francia. Perderono i Francesi in questo conflitto circa seicento buoni soldati. Dal canto dei Sardi, cinque solamente furono uccisi, pochi feriti. Nè Cagliari ricevè danno proporzionato a tanto bersaglio; solo i sobborghi situati di sotto e più vicini al mare patirono. L'ammiraglio, veduto che gl'isolani, nei quali aveva posto la principale speranza, non solamente non avevano fatto movimento in suo favore, ma ancora avevano validamente combattuto contro di lui, disperato dell'evento, si allargò nel mare lontano dalla portata delle batterìe, quantunque tuttavia stanziasse ancora con le sue navi, così lacere come erano, per qualche tempo nelle acque del golfo di Cagliari. Ma poco stante, non essendo senza sospetto di ammottinamento ne' suoi soldati, come suole avvenire nelle disgrazie, e levatasi una furiosa tempesta, se ne andò di nuovo a porre nel porto di Tolone, dove l'attendevano casi ancor più tremendi.

Mentre in tal modo una guerra viva si era accesa e presto spenta sulle coste di Sardegna, le cose della Corsica non passavano quietamente: la perdita medesima dell'impresa di Cagliari diè fomento a coloro, che scontenti del governo di Francia macchinavano di rivolgere lo stato. Mosso dall'odio antico e dall'ingiurie recenti, andava Paoli sollevando ed armando le popolazioni, massimamente nei luoghi montuosi ed inaccessi. Al qual disegno gli preparavano la strada la chiarezza del suo nome, la venerazione in cui lo avevano i Corsi, le esorbitanze dei repubblicani. Pubblicava, essere oramai venuto il tempo di levarsi dal collo la superiorità Francese stata sempre intollerabile, ed ora per l'insolita ferocia diventata intollerabilissima; lo sdegno di tutta l'Europa, e la rabbia interna, che consumava la Francia, aprir l'adito a compire quello che una volta impedirono i fati inesorabili; afferrassero la fortuna propizia, si liberassero dai tiranni, acquistassero la independenza, fondassero la libertà; bastare quelle anime forti, bastare quei corpi robusti all'onorata impresa, ma per soprappiù già muoversi in ajuto loro la potente Inghilterra; avere l'Inghilterra forza sufficiente per ajutare la libertà d'altri, non sufficiente per opprimerla; cacciassero quei crudeli stromenti mandati da una crudelissima assemblea a taglieggiare, a decimare la generosa ed innocente Corsica; cacciassero, o tuffassero nel mare i Casabianca, i Saliceti, gli Arena con tutti gl'infami satelliti loro; già titubare i loro eserciti, già cercar rifugio ai luoghi forti del lido, pronti a salpare, già fuggire dalle terre di Sardegna la vinta armata loro, già a pena trovar ricovero lacera e conquassata nel porto di Tolone. Sorgessero adunque, e mostrassero al mondo, non essere spenti in loro quei generosi spiriti, che detestarono una vendita infame, e combatterono con tanta gloria il compratore.

Queste esortazioni fatte da un uomo di tanta autorità, e tanto eminente sopra il grado privato, producevano effetti incredibili. Le secondavano col credito e con le persuasioni coloro, che erano o amatori della libertà, o fastiditi della signorìa di Francia, o dipendenti dall'Inghilterra. I montanari mossi alla voce del mantenitore della libertà Corsa, calavano in folla, pronti a combattere sotto le sue insegne contro gl'intemperanti repubblicani. Le stesse città principali di Corte, e di Ajaccio, mutato l'ordine pubblico, accettavano il nuovo governo, rivocavano dal consesso nazionale di Francia i loro deputati, chiamavano Paoli generalissimo delle genti, ribandivano i fuorusciti, restituivano il clero nella pristina condizione, e fatto un grosso di miladugento soldati bene armati s'impadronivano delle riposte pubbliche, ed assaltavano le genti della repubblica. I soldati repubblicani sorpresi da tanto tumulto, e ad impeto sì improvviso, fatto prima un poco di testa ai luoghi più forti, si ritirarono nelle fortezze di Bastìa, e di San Fiorenzo. Era sorta intanto la guerra tra la Gran Brettagna, e la Francia, accidente di sì supremo momento per ambe le parti. Ne pigliavano nuovi spiriti quei Corsi, che aderivano a Paoli, e detestavano il nome di Francia.

Intanto per dar forma al governo nuovo, e ricompor quello che il disordine dei popoli tumultuanti aveva scomposto, Paoli aveva adunato una consulta, che procedendo secondo i tempi, gli conferiva potestà di fare quanto credesse necessario alla conservazione della libertà, ed alla salute del popolo. Nel tempo medesimo bandiva sotto pena di morte i commissarj di Francia Casabianca, Saliceti ed Arena.

Il consesso nazionale, udite queste novità, risentitamente deliberando decretava, essere cassa la consulta di Corsica, si arrestasse Paoli, si conducesse alla sbarra dell'assemblea, fossero Casabianca, Saliceti ed Arena investiti di qualunque suprema facoltà per rinstaurar lo stato e castigar i ribelli. Mandarono al general Lacombe Saint-Michel, anch'esso rappresentante, come dicevano, del popolo, adunasse prestamente quanti soldati stanziali, quante guardie nazionali, quante genti d'armi, e quanti marinari abili all'armi potesse, e marciasse contro i ribelli. Obbediva agli ordini Lacombe; nel medesimo tempo i commissarj del consesso fulminavano con gli scritti e con le parole contro Paoli, e contro coloro che a lui si aderivano, gli chiamavano uomini vili, traditori della patria, prezzolati dall'avara Inghilterra; invitavano le popolazioni a conservarsi in fede, ad accorrere con le armi per assicurare a se non quella contaminata libertà antica, ma la nuova, la sola, la vera, quella che fondata era sui diritti dell'uomo; questa non poter dare, anzi a lei esser nemica l'Inghilterra; sola la Francia difenditrice dei dritti eterni, poterla dare; si ricordassero del dolce dominio col quale la Francia le aveva sempre rette, della fratellanza nata, degl'interessi fatti comuni; conoscere loro la Francia, e sapere con quali termini si potesse vivere con lei; non conoscere l'Inghilterra, anzi conoscerla troppo bene, e sapere esser sempre venditrice così del bene, come del male; quei mercanti superbi, vantatori essere di una libertà dubbia in casa loro, mantenitori aperti di una tirannide certa in casa altrui; non sopportassero di diventar fautori della tirannide universale, alla quale mirava l'Inghilterra; fossero Francesi, fossero Corsi, non fossero Inglesi; si ricordassero, che una nuova via e non mai più udita era aperta al mondo per arrivare alla felicità, e questa tenere la generosa Francia. Aggiungevano a queste esortazioni parole terribili e gonfie, secondo il solito, minacciando castigo inevitabile, e prigioni, e confische, e morti a chi contrastasse. Alcuni mossi dall'amore nè del bene nè del male, ma solo dall'amor delle parti, che e per antica consuetudine, e per natura tenace dei popoli sono sempre e vive e perpetue nelle isole, seguitavano le insegne Francesi. Altri si conducevano alla medesima deliberazione per desiderio di libertà, credendo, che là fosse dove non era, ed altri finalmente per cupidità di commetter male in mezzo alle turbazioni.

Raggranellati questi Corsi, ed adunati, come meglio potè, i suoi soldati, Lacombe era uscito dai forti; dall'altra parte insisteva Paoli con le sue genti collettizie. Ne sorgeva tra quelle rupi una guerra minuta e feroce, nella quale morivano molti, accusandosi, come suol avvenire nelle guerre civili, le due parti di crudeltà orribili, parte vere, parte esagerate. Prevalevano ne' giusti incontri le genti disciplinate di Lacombe, ma nella guerra sparsa avevano il vantaggio le genti di Paoli, le quali avendo le popolazioni amiche, e conoscendo i tragetti, tendevano insidie e facevano sorprese. Non ostante, il generale Francese s'avanzava; già Nusa e Dolmetta erano venute in poter suo, e già il forte di Farinuolo era stato preso d'assalto; già parecchi cantoni più vicini a Calvi, ed agli altri luoghi che si tenevano per Paoli, o vinti per forza o spaventati dall'apparenza arresisi, imploravano la generosità del vincitore; e se non pareva che fosse possibile, che i Francesi sforzassero i Corsi nei luoghi alpestri, non si vedeva dall'altro canto come i Corsi potessero sforzare i Francesi forti per disciplina e per artiglierìe, nelle pianure e nelle terre che occupavano sul lido.

Mentre in cotal modo le sorti della Corsica pendevano incerte, si scopersero improvvisamente sulle sue coste più di venti navi Inglesi da guerra le quali facevano opera per intraprendere quelle che si avviavano all'isola. Poscia appoco appoco accostatesi al lido, infestavano con bombe e con palle i luoghi, che Paoli assaltava dalla parte di terra; poste anche sul lido alcune genti, ed unite con le schiere di Paoli, rendevano molto difficile la difesa ai Francesi. Per la qual cosa Lacombe, abbandonata l'isola, si ritirava a Genova sul principiar di maggio. Rimanevano in mano dei Francesi Bastìa, Calvi e San Fiorenzo; ma non soprastettero ad entrar sotto la divozione del vincitore. Così tutta la Corsica dopo di aver obbedito al freno di Francia lo spazio di venticinque anni, venne, non so se mi debba dire in potestà propria, od in potestà dell'Inghilterra.

Cacciati i Francesi dall'isola, vi fu creato un governo per modo di provvisione, che intieramente dipendeva da Paoli, e dalla parte contraria alla Francia; l'autorità dei municipj fu ordinata secondo le forme antiche. Paoli s'accorgeva che questa condizione, siccome transitoria, poteva terminarsi in molte maniere; però desiderava di stringere, sì per fare un destino certo alla sua patria, e sì ancora per metterla in grado di resistere ai tentativi della Francia sì vicina e sì potente. Da un altro lato era pensiero dell'Inghilterra, per le medesime ragioni, e per avere un piè fermo nell'isola tanto opportuna a' suoi traffichi, a' suoi arsenali, ed alla sua potenza, che si venisse ad un partito determinativo. A questo fine Paoli applicò l'animo a sollecitare il re della Gran Brettagna, acciocchè ordinato un governo libero in Corsica, ne pigliasse protezione, e il difendesse dagli assalti della Francia; gratissimo suono all'Inghilterra. Da questo seguitarono gli accidenti, che racconteremo nel seguente libro. Luttuosa condizione de' tempi, che un Paoli non abbia saputo o potuto trovare altro rimedio di sottrarre la sua patria dal giogo della Francia, se non col darla in preda all'Inghilterra; il che dimostra o che Paoli vecchio non aveva più i medesimi spiriti di Paoli giovane, o che la lunga famigliarità cogl'Inglesi non gli aveva lasciato l'animo intero, o finalmente che la sua parte in Corsica non era tale, che potesse di per se stessa resistere a quella che seguitava il nome di Francia.

La guerra sorta coll'Inghilterra e con la Spagna, e le loro armate, che o già erano giunte, o frappoco si attendevano nel Mediterraneo, erano occasione di molesti pensieri ai Francesi, che occupavano la contea di Nizza; poichè essendo i Piemontesi signori dei sommi gioghi dell'Alpi, potevano con evidente vantaggio calare, e sboccare a danno loro nei luoghi più bassi, ed unitisi improvvisamente con qualche forza di gente Spagnuola od Inglese scesa a terra, cagionar loro qualche notabile pregiudizio. Perchè Brunet che governava a quei tempi l'esercito di Nizza, si risolvette a tentar qualche impresa di momento prima che i confederati si fossero fatti forti nel mari vicini. Il fine di questo moto era di cacciare i Piemontesi dalle sommità, e prender per se quel vantaggio, che allora si trovava in mano del nemico. Partitosi adunque sul principiar di maggio dalla Scarena, si dirizzava verso i monti. E siccome l'esercito Piemontese era padrone di tutte le creste, così gli fu d'uopo dividere le sue genti in moltiplici assalti. Dava il governo della dritta al generale Dumorbion per assaltare il campo posto sul monte Peruzzo, e quel della stanca al generale Serrurier per impadronirsi del colle di Raus, fazione più importante, e più difficile delle altre; ma per battere nel medesimo tempo i campi intermezzi di Liniere, del Molinetto, e del monte Fogasso, comandava al generale Mioskoski che si sforzasse di guadagnar quei gioghi aspri e montuosi. Erano i Piemontesi sotto la condotta dei generali Colli, e Dellera; siccome avevano avuto intesa della mossa del nemico, così se ne stavano apparecchiati per ributtarlo. Adunque preparati gli uomini e le armi dall'una parte e dall'altra, andavano il dì otto giugno i Francesi all'assalto con un valore, e con una furia incredibile; nè la difficoltà dei luoghi, nè il calore della stagione, che era smisurato, nè la tempesta di palle, che fioccavano loro addosso, non gli poterono rattenere, che non giungessero fin sotto le trincee, con le quali sul sommo dei gioghi si erano i Piemontesi fortificati. Tanto fu l'impeto loro, che tutti i posti furono sforzati, salvo quello di Raus, sotto il quale si combatteva ostinatissimamente. Arrivarono i repubblicani con un'audacia inestimabile fin sotto le bocche dell'artiglierìe Italiane; ma quanti arrivavano, tanti erano uccisi. Continuò la battaglia con molto valore da ambe le parti con poco danno dei Piemontesi, e con gravissimo danno dei Francesi, i quali rinfrescando continuamente con nuovi rinforzi i combattenti, sostenevano quel duro scontro. Ma in questo punto i capi regj, veduta l'ostinazione del nemico, mandarono al capitano Zin, piantasse le artiglierìe in un giogo vicino, e di là lo fulminasse sul fianco. Il qual consiglio opportuno per se, fu con tanta arte, e con sì gran valore eseguito da Zin, che, percossi i repubblicani di costa, e raffrenata la temerità loro, abbandonarono precipitosamente l'impresa, ritirandosi, e lasciando i fianchi di quelle montagne miseramente cospersi dei cadaveri dei compagni loro. In questo fatto mostrarono i Francesi il solito valore impetuoso, e sconsiderato; i Piemontesi, massimamente gli artiglieri, ed il reggimento provinciale d'Acqui, che difendeva le trincee di Raus, arte, e costanza. Perdettero i primi in questo fatto meglio di quattrocento buoni soldati tra morti, feriti e prigionieri; negli altri assalti dati in questo medesimo giorno, circa trecento. Ne perdettero i secondi in tutta la giornata circa trecento con due cannoni, e molti arnesi da guerra. Ma tale era l'importanza del colle di Raus, che i repubblicani, non isbigottitisi all'infelice successo della battaglia degli otto, lo assaltarono di nuovo il dì dodeci dello stesso mese con ben dodeci mila soldati risolutissimi a voler vincere. Ma nè il numero, nè il valor loro poterono operar tanto, che non fossero una seconda volta con gravissima perdita risospinti. Così fu conservato in poter dei Piemontesi il forte posto di Raus, dal quale intieramente pendevano gli accidenti della guerra in quelle parti. Imperciocchè quel colle soprastava alla estremità del corno sinistro del nemico, per mezzo della quale si congiungeva con l'estrema destra dell'esercito dell'Alpi, e pei passi del Viletto accennava alla Bolena; la qual cosa agevolava agl'Italiani l'adito di calarsi verso il Varo, e di mettersi in mezzo tra l'esercito dell'Alpi Marittime, e quello dell'Alpi superiori.

La fazione tanto sanguinosa di Raus aveva singolarmente raffrenato l'audacia dei repubblicani e dato occasione agli alleati di sollevar l'animo a più alte imprese. Se ne fecero allegrezze in Piemonte, e si argomentava che la fuga di Savoia e di Nizza dalla mala condotta dei capi, non da mancanza di valore nei soldati si doveva riconoscere.

Da un altro lato i repubblicani accusarono i capi loro di tradimento. Kellerman, avute le novelle dei fatti avversi accaduti nell'Alpi Marittime, si era condotto a Nizza per sopravveder le cose, e per mettere in opera quei rimedj, che i tempi richiedessero. Il pericolo maggiore era quello, che l'esercito alleato facendo punta verso il Varo, si ficcasse in mezzo, nel qual caso sarebbe stato forza evacuare prestamente tutta la contea. Considerato bene il tutto fe' munire accuratamente i posti, che accennavano sulla estremità dell'ala sinistra dell'esercito dell'Alpi Marittime, con porvi nove battaglioni grossi, tra i quali uno di granatieri, ed alcune compagnie di soldati armati alla leggiera. Guernivano i primi Lantosca, Bolena, e Belvedere lungo la Vesubia, le seconde San Dalmazzo e Duplano, su quei monti che separano la valle della Tinea da quella della Vesubia. Il fine che il generale Francese si proponeva con munire questi luoghi, era di tener aperte le strade a poter comunicare con le genti che tenevano il campo di Tornus, per mezzo delle alture della Tinea, e nel tempo medesimo di stare all'erta ed in buona guardia di quanto potesse sopraggiungere dalla valle di Stura per qualche passo dei gioghi sommi, che coronano le Alpi da quelle parti, e soprattutto dal colle delle Finestre, pel quale il varco è molto più agevole. Gli dava molto sospetto un corpo grosso di truppe Sarde ed Austriache, che si era adunato nei contorni di Saluzzo, e poteva in due alloggiamenti condursi sulle alture, che dividono le acque della Stura da quelle della Tinea, ed in tal modo tentare con forze preponderanti qualche fatto grave in pregiudizio delle armi Francesi.

A rincontro Colli e Dellera avevano fortificato di vantaggio, e munito di genti fresche il colle di Raus, sul quale insisteva l'ala dritta dell'esercito loro, e distendendosi su per quelle cime sino al forte di Saorgio avevano speranza non solamente di resistere, ma ancora di conseguire qualche onorata vittoria: non che volessero cimentare le sorti non ancora mature, ma intendevano con difendere i luoghi commessi alla fede loro, dar tempo a quei disegni importanti, che si maturavano nelle consulte dei confederati.

L'arrivo delle armate Inglesi nel Mediterraneo, dando maggior animo agli stati d'Italia, che già si erano dichiarati, diede anche occasione di manifestarsi a coloro, che più per timore, che per desiderio di neutralità, se n'erano stati fino allora inoperosi ad osservare. Per la qual cosa il re di Napoli scoprendosi intieramente, chiudeva i porti ai Francesi, e si obbligava a fornire alla lega sei mila soldati, con grosse navi da guerra, e molte minori. Il papa medesimamente che aveva causa particolare di temere dei Francesi a motivo delle faccende religiose, armava, e prometteva di dar gente; ma Venezia, Genova e Toscana persistevano nella neutralità. Però gl'Inglesi per farle venire ad una deliberazione terminativa, aggiunsero alla presenza delle navi i negoziati politici: mostrarono in questi trattati massimamente con Genova e Toscana, tanta arroganza, che già fin d'allora ebbe l'Italia un saggio, e potè prendere augurio di quello, che le preparavano Inglesi, Tedeschi, e Francesi, cupidissimi tutti di mescolarsi in lei, e di averne il dominio, come se per altri fosse creata, e non per se medesima.

Un Harvey, ministro d'Inghilterra a Firenze, scriveva a Serristori, ministro del gran duca, sapere tutta l'Europa le querele ch'egli aveva fatte per la parzialità mostrata dal gran duca a favore della Francia; avere fatto quanto era in poter suo per isvelare a Sua Altezza i pericoli, che le sovrastavano per aver tuttavia comunicazione con una nazione di regicidj, nemica di ogni legge e governo, con una nazione che distruggeva la religione, che si bruttava le mani nel sangue del suo re, del clero, dei nobili, e di tutti coloro che erano fedeli al re; non ostante avere prevalso presso il gran duca i cattivi consiglj, e le pericolose massime dei malvagi; volere pertanto lui venirne a determinazioni vigorose; sapesse adunque il gran duca, che l'ammiraglio Hood aveva comandato, che un'armata Inglese con una parte dell'armata Spagnuola sarebbero venute a Livorno per vedere quello, che Sua Altezza volesse farsi; sapesse inoltre Sua Altezza, e ciò l'Harvey dichiarare per bocca dell'ammiraglio Hood, e in nome del re suo signore, che se nel termine di dodici ore ella non aveva cacciato da' suoi stati de La-Flotte, ministro di Francia, e gli altri suoi aderenti, l'armata avrebbe assaltato Livorno. Badasse bene Sua Altezza a quello che si facesse, poichè il solo mezzo di prevenire l'inimicizia d'Inghilterra era di eseguire puntualmente, e subito quanto ora le si domandava, cioè cacciasse La-Flotte, rompesse col consesso nazionale, e con quel governo di Francia, facesse causa comune con gli alleati.

Tali furono le minacce del ministro Inglese al gran duca di Toscana: nel qual favellare si vedono due grandissime insolenze; la prima si è quel superbo favellare medesimo ad un sovrano indipendente, ad un principe di casa Austriaca; la seconda quel rimproverare, che fa ad altrui un Inglese di aver ucciso un re.

Rispose assai rimessamente Serristori, che il gran duca aveva dato ordine, che La-Flotte, ed i suoi aderenti, che erano, fra gli altri, due marchesi molto inclinati alle novità dei tempi, Chauvelin, e Fougere, se ne partissero di Toscana il più presto che fosse possibile; ma non si scoprì quanto all'accostarsi alla lega, ed al romper guerra alla Francia. E come disse, così fece; poichè La-Flotte, e Chauvelin, cacciati di Firenze, se ne andarono nello stato Veneto per la via di Ferrara; La Fougere si ritrasse a Genova.

Le stesse minacce furono fatte, e nel medesimo tempo dal ministro Inglese Drake ai Genovesi: assai e pur troppo aver tollerato, che un Tilly ministro di Francia spargesse semi di discordia e di anarchìa tanto nel Genovesato, quanto nei paesi circonvicini; doversi finalmente por fine a tanto scandalo; però ei ricercava espressamente la repubblica o accettasse l'amicizia dell'Inghilterra, cacciasse Tilly ed i suoi aderenti, desse ricovero alle armate del re nel porto di Genova, ed in tutto si risolvesse ad ajutare la lega, o altrimenti l'Inghilterra avrebbe trattato, come nemica, la repubblica.

A queste minacciose ed inconvenienti parole s'aggiunsero fatti più minacciosi, e più inconvenienti ancora; imperciocchè trovandosi la fregata Francese la Modesta a stanziare nel porto di Genova, fu improvvisamente assalita da due navi Inglesi, che le si erano a questo fine poste a lato, e presa con uccisione di non pochi marinari, che vi si trovarono a bordo.

Parve a tutti questo fatto, com'era veramente, di pessimo esempio; e se prima si temevano le insolenze Francesi in uno stato così vicino, ora vieppiù si temevano per la violata neutralità. In fatti non così tosto si ebbe a Nizza notizia di questo attentato, che i rappresentanti del popolo Robespierre giovane e Ricard, pubblicarono sdegnosamente uno scritto, dicendo, che il patto sociale di tutte le nazioni era stato in modo troppo indecente violato, che l'atroce fatto commesso nel porto di Genova verso i membri della repubblica Francese da uomini, che si qualificavano sudditi del monarca d'Inghilterra, aveva ed i diritti delle nazioni oltraggiato, e messo in pericolo l'essere dell'umana generazione; che tali fatti detestabili importavano a tutti i popoli, principalmente a quel di Genova, che aveva veduto sotto agli occhi suoi questo crimenlese contro la società; che il castigo ne doveva essere tanto pronto, quanto terribile; e però Genova si risolvesse incontanente a voler essere o amica degli amici, o nemica dei nemici della società oltraggiata nelle persone dei repubblicani Francesi; protestavano poscia al popolo Genovese, che se il senato tardasse a risolversi, ed a punire con giusto ed esemplare castigo gli autori di un delitto commesso nel suo porto, e sotto le bocche delle sue artiglierìe, sarebbe stimato ostilità, e la repubblica avrebbe di per se fatto quanto crederebbe necessario per vendicarsi di una sì orribile violenza.

Le medesime acerbe parole fece poco tempo dopo Robespierre maggiore contro Genova favellando alla tribuna del consesso nazionale.

Il governo di Genova trovandosi stretto da due necessità, non sapeva a qual partito appigliarsi. Pure siccome il non risolversi era peggio che risolversi, e considerando dall'un dei lati, che i Francesi difficilmente sarebbero venuti dalle minacce ai fatti finchè l'Inghilterra avrebbe avuto la signorìa de' mari, a cagione che le coste della Provenza non potevano trarre le vettovaglie da altri luoghi che dal Genovesato, e finchè ancora gli Austro-Sardi starebbero forti ai fianchi; dall'altro e quanto all'Inghilterra, che l'assaltar le riviere era per lei di poco momento, e l'assaltar Genova difficile, e che di più rompere la neutralità di Genova era un gettarla in grembo ai Francesi, ed un aprir loro l'adito nel cuor del Piemonte, il senato deliberò di starsene neutrale, aggiungendo in risposta, che molto gl'incresceva di non poter deliberare altrimenti, ma che la necessità dei tempi non ammetteva altra risoluzione. Quanto poi al fatto della Modesta, se ne stette sui generali. Così Genova posta in pericoloso frangente non satisfece dell'effetto nè agli uni, nè agli altri, e persistette in quello stato, che certo era di maggiore utilità alla Francia che alla lega; perciò Drake riempiva di querele tutta Italia contro i Genovesi, chiamando la prudenza loro timidità Italiana, ed infezione Francese. Ma alla deliberazione del senato diede anche favore il pensare, che forse il popolo non avrebbe tollerato senza risentirsi la rottura della pace a cagione dei profitti grandissimi, che per lui nascevano dalla neutralità.

Il senato Veneziano fu nuovamente tentato a questi tempi. Era residente in Venezia per parte dell'Inghilterra il cavaliere Worsley, personaggio non tanto rotto quanto Harvey e Drake, ma pure intentissimo a procurare gl'interessi dei confederati. Questi, o fosse la natura sua più temperata, o comando del re, che portasse maggior rispetto a Venezia più potente, che a Toscana ed a Genova più deboli, rappresentò modestamente al senato, favellando piuttosto per modo di consiglio che di richiesta, considerasse molto bene la repubblica di quanto danno fosse l'avere i Francesi un'ambascerìa a Venezia, fonte e mezzo di trame pericolose ad ogni buon governo; che per lei passavano i corrieri e le lettere dirette a turbare l'Oriente; sapersi, che un d'Enin, già stato inviato a Venezia, ed ora condottosi a Costantinopoli, vi usava ogni sforzo con persuasioni lusinghevoli e con offerte di denaro, per concitare la Porta Ottomana contro l'Austria e la Russia, acciocchè non potessero correre con tanto apparato di forze contro la Francia; che d'Enin medesimo si proponeva, ove non riuscisse a guadagnarsi il Divano, di concitar tumulti ed ingiurie sui confini, massime per mezzo dei Ragusei corrotti per danaro, affinchè la Porta risentendosi movesse le armi contro la repubblica; che in ciò sperava d'Enin, che assaltata la repubblica da nemico sì poderoso, chiamasse, in virtù del trattati, in ajuto l'imperator di Germania, e che per questo si diminuirebbero le forze della lega contro la Francia; che quella medesima ambascerìa in Venezia intratteneva male pratiche coi Grigioni, esacerbandoli continuamente per dar loro occasione di muoversi, con ricordare l'esclusione data loro dai Veneziani, e la dissoluzione della lega nel 1766; che là passavano i corrieri portatori dei semi pestiferi, là covavano i seminatori degli scandali, là concorrevano gli scapestrati di Francia, ed ogni bandito dalla patria per opere ree, o per malvage opinioni politiche; che l'ambascerìa era un fomite continuo d'incendio per gli stati Veneti stessi: perchè là venivano a rinvergare come a centro comune le lettere, i giornali, e gli uomini perversi tanto di Francia, quanto d'Italia. Pregava pertanto, ed esortava caldamente il senato, che fosse contento di allontanare da Venezia quella occasione di scandali, quella sentina di mali, quella radice di corruttele. Concludeva, che se il senato consentisse a licenziare l'ambascerìa, e se vietasse ai Francesi le tratte d'armi e di vettovaglie dagli stati della repubblica, sarebbero gli alleati contenti, che nel resto conservasse la sua neutralità, e che in caso di guerra dalla parte di Francia, se gli assicurerebbero gli stati con tutte le forze della lega; che già fin d'allora gli si offerivano le armate d'Inghilterra e di Spagna, ordinato di modo che ne fossero preservati da ogni insulto. Queste parole, terminò dicendo, porgere lui alla repubblica da parte del re suo signore, che gliene comandò di bocca propria; porgerle per mandato del ministro Pitt; porgerle ancora per mandato espresso dell'imperatrice di tutte le Russie, dell'imperator d'Austria, e del re di Prussia. Si riscuotesse adunque, e prendesse quelle deliberazioni, che a tempi tanto pericolosi, a richieste tanto efficaci, ad offerte tanto generose, ed alla salute stessa della repubblica si convenivano.

Il senato Veneziano, non mai solito ad appigliarsi a partiti precipitosi, e credendo che la forza della Francia, quantunque disordinata per la discordia, fosse formidabile per la rabbia, e capace di fare qualche grande sbocco in Italia, volendo altresì conservar salvi i traffichi di mare, rispose gravemente, voler serbar intera la neutralità, non poter risolversi a licenziare l'incaricato d'affari di Francia Jacob, ma che solamente il chiamerebbe incaricato della nazione Francese, non della repubblica.

Worsley non fece altra dimostrazione, e continuò a starsene in Venezia; dove continuamente biasimava i discorsi superbi di Harvey e di Drake al gran duca, ed a Genova.

La cupidità del gran mastro dell'ordine di Malta alla guerra non essendo più raffrenata dal timore dei Francesi a cagione dell'intervento degl'Inglesi nel Mediterraneo, prese animo di manifestare più apertamente quello, che già da lungo tempo sentiva rispetto agli affari di Francia; imperciocchè, recandosi in ciò esortatore il re di Napoli, aveva comandato, che tutti gli agenti Francesi se ne uscissero dall'isola, e che i porti fossero chiusi a qualunque nave Francese sì pubblica che privata, finchè durasse la presente guerra. Avendo poi udito, che un d'Eymar mandato dal governo di Francia a risedere quale incaricato d'affari a Malta in iscambio del cavaliere Caumont, che continuava a starvi in nome del re Luigi, pubblicò, che non sarebbe mai per accettare nè d'Eymar, nè altra persona che a lui si mandasse da quella repubblica, ch'ei non doveva, nè poteva, nè voleva conoscere.

In cotal modo, essendo sorta la guerra tra la Francia, e l'Inghilterra, e comparse le armate Inglesi nel Mediterraneo, si ravvivavano le speranze dell'Austria e della Sardegna in Italia, furono serrati ai Francesi tutti i porti del Mediterraneo e dell'Adriatico, salvo i Veneziani, ed i Genovesi; s'aggiunsero alle forze della lega quelle della chiesa e di Napoli, e l'aspettazione degli uomini divenne tanto maggiore, quanto più vedevano, che se dall'un de' lati si era cresciuta nuova forza ai confederati, dall'altro cresceva a proporzione la concitazione ed il furore in Francia.

Oggimai si aprivano le occasioni agli accidenti importanti, ai quali da lungo tempo tendevano i consigli dei confederati rispetto alle provincie meridionali della Francia. La cacciata fatta dal consesso nazionale, e la proscrizione della setta girondina, come la chiamavano, diè cagione a coloro che la seguitavano, ed a coloro che od amavano la libertà, conculcata dagli sfrenati giacobini, o s'intendevano con gli alleati per rinstaurare il governo regio, di collegarsi, di correre all'armi, e di far tumulti e sollevazioni. Già le città di Bordeaux, di Monpellieri e di Nimes tumultuando mostravano con quanto sdegno avessero ricevuto le novelle del cacciamento dei deputati loro: ma l'importanza del fatto consisteva nella grossa città di Lione, che era stata la mira di tutte le pratiche segrete tenute già da qualche tempo tra i capi della lega a Torino, ed i capi degli scontenti. Congiuntisi nelle sue mura Biroteau, ed alcuni altri capi dei girondini di minor nome, con Precy, commossero all'armi tutta la città, e pubblicarono manifesti contro la tirannide del consesso nazionale. Nè valsero le esortazioni e le minacce dei rappresentanti del popolo e dei generali repubblicani a fare che i Lionesi, oramai disposti a volerne venire agli estremi, si ritraessero dalla determinazione loro. Che anzi moltiplicando ogni giorno più negli sdegni, ed armandosi di tutta possa, più s'infierivano, quanto più erano o lusingati, o minacciati. Nella quale deliberazione vieppiù si confermavano, perchè avevano speranza che prima che i soldati del consesso si fossero raccolti per combattergli, gli Austriaci ed i Piemontesi sarebbero arrivati in ajuto loro. Confidavano poi eziandìo che i Marsigliesi, che sapevano essersi mossi nel medesimo tempo, sarebbero accorsi, siccome ne avrebbero dato intenzione. Nè dubitavano che per viaggio eglino avrebbero tirate a se tutte le popolazioni, per guisa che e Lionesi, e Provenzali, e Piemontesi, raccolta insieme tutta la gioventù loro, avrebbero fatto un grande sforzo, a rovina ed a conculcazione degli uomini scelerati, che allora reggevano la Francia. E siccome anche nella Linguadoca e nella Guienna covavano umori contrarj al consesso, così pareva certa la caduta della repubblica. Quest'erano le speranze dei nemici del consesso da lungo tempo fomentate dagli alleati, ed ora giunte al colmo per l'esorbitanze dei giacobini, per l'accostamento dell'Inghilterra e della Spagna alla lega, e massimamente per l'arrivo dell'armate Inglese e Spagnuola sulle coste della Provenza. Acciocchè poi non si urtasse troppo con le opinioni, che correvano anche fra coloro che secondavano tutto questo moto, tanto era forte l'invasazione degli spiriti operata dalle nuove dottrine, si pubblicava dagli scontenti, voler loro solamente resistere alla tirannide di Parigi, dagli alleati, volere solamente ridurre le cose alle riforme dell'ottantanove. Così mettendo avanti un proposito men odioso, e velando con protestazioni moderate il vero fine loro con tutto quel fondo di male, che porterebbe necessariamente con se una tanta mutazione di stato in una nazione stimata ribelle, speravano di trovar minor resistenza, e maggior favore nei popoli.

Non è proposito nostro il narrare particolarmente l'oppugnazione di Lione, che poco tempo dopo seguì, e che fu uno dei fatti più memorabili di quest'anno, sì pel valore e la ostinazione d'ambe le parti, e sì per la immanità dei vincitori. Ma come prima i Lionesi erano insorti contro l'autorità di chi reggeva, i Marsigliesi si erano levati ancor essi a romore. Impazienti di starsene chiusi fra le mura, e raccolti sotto le insegne in numero assai notabile, si dirizzarono al soccorso di Lione. Non avevano i Lionesi trovato nei popoli circonvicini quell'aderenza, che avevano sperato. La Savoja parteggiava pel governo nuovo; il Delfinato, massime Grenoble, città capitale, non solo parteggiava pel governo medesimo molto caldamente, ma era anche avversa per gelosìe antiche a Lione. Intanto i Marsigliesi si vantavano di esser capaci da se soli di vincer l'impresa e di salvar Lione. In fatti già avevano varcato il fiume Duranza, e con ischiamazzo infinito erano entrati in Avignone. Quivi commesso ogni male, già si avviavano verso le regioni superiori del Rodano. A tanto moto si commossero ancora le popolazioni della bassa Linguadoca; già gl'insorti dei due dipartimenti dell'Arauro e del Gardo si erano fatti padroni della cittadella di Santo Spirito, luogo molto importante a cagione del passo del Rodano.

Nel tempo medesimo s'incominciavano a colorire i disegni degli alleati. I Piemontesi congiunti con qualche nervo di Austriaci erano calati grossi dal monte Cenisio, e dal piccolo San Bernardo a fine d'invadere la Morienna e la Tarantasia; anzi una parte di quelli che scendevano dall'ultimo dei detti monti, avuto il passo per le terre del Vallese, si dirizzavano ad occupare il Faussigny col pensiero di fare spalla all'impresa di Tarantasia, e di rannodarsi verso la terra di Conflans per quindi marciare, se la fortuna si mostrasse a tale segno favorevole, sino a Lione. Tutte queste genti militavano sotto il governo del duca di Monferrato, figliuolo del re, principe ottimo per mente e per costume, e molto amato dai popoli per la natura sua facile e mansueta.

Dall'altra parte il re di Sardegna si era condotto col grosso dell'esercito nella contea di Nizza, molto confidente di avere a conseguir presto, con ricuperar un paese amato sopra tutti, e che gli era stato occupato da un nemico odiatissimo, una piena e gloriosa vittoria. Era suo intendimento di calarsi per le sponde del Varo a fine di obbligare i Francesi ad evacuar la contea, o di tagliargli fuori dalla Provenza, se non l'evacuassero. Aveva il re compagno a questa impresa il duca d'Aosta, suo figliuolo secondogenito, principe molto ardente in queste bisogne contro chi allora signoreggiava la Francia, e che sempre aveva dimostrato pensieri alieni dalla pace. Questo era il principale sforzo che i confederati volevano fare, sì perchè il re, come già abbiamo narrato, non volle mai udire che si voltassero le forze più grosse contro la Savoja per la impresa di Lione, sì perchè speravano trovare, siccome il re medesimo si era persuaso, maggior aderenza nei popoli, e sì finalmente perchè le armate confederate che correvano i mari vicini, potevano dar polso alle cose che si tentavano. Così quel nembo, che poco innanzi pareva dovesse tutto scagliarsi contro l'Italia dalla Francia, ora si rivoltava contro la Francia dall'Italia.

Udite tutte queste cose, Kellerman accorreva prestamente in Savoja, dove venuto al campo dei suoi, posto all'Ospedale presso Conflans, alloggio principalissimo in quelle circostanze, ebbe con la sua presenza e con le sue esortazioni tanto inanimato i soldati, che si mostrarono prontissimi a mettersi a qualunque pericolo anzichè abbandonare il luogo commesso alla fede loro. Nel tempo medesimo fe' venire dal campo di Tornus una grossa schiera, tra la quale si osservavano principalmente un battaglione intero di granatieri, e tre di volontarj, buona ed audace gente; e stantechè il pericolo era oltre ogni dire grave, perchè se l'esercito Italiano si congiungeva coi Lionesi, la signorìa del consesso nazionale sarebbe giunta al suo fine in quelle parti, aveva, costretto dall'estrema necessità, chiamato dal campo di Lione un'altra squadra, e mandata nel Faussigny, che si trovava del tutto privo di difensori. A questo si aggiunse, ch'ei fece la chiamata alle guardie nazionali della Savoja, e del dipartimento vicino dell'Isero, acciocchè facendo un po' di retroguardo agli stanziali, dessero loro coraggio, e potessero in caso d'infortunio ristorar la fortuna della guerra. Per maggior sicurezza ordinava, che si facessero trincee al passo di Barreaux, molto importante alla sicurtà del Delfinato, e che si munissero d'artiglierìe, avvisando, che con quel sospetto da fianco, gl'Italiani non si sarebbero arditi di correre fino a Lione. Egli poi a motivo di poter sopravvedere bene le cose, si venne a porre al castello delle Marcie, luogo centrale, a cui accennavano le tre divisioni delle sue genti.

Nè in tale fortunoso accidente mancarono a se medesimi coloro, che in Savoja più si erano chiariti in favore dello stato nuovo; imperciocchè con le parole e con gli scritti animando i compatrioti loro a difendersi, facevano grandissimi frutti. In cotal modo arrestarono i capi Francesi il corso della fortuna contraria in Savoja, e diedero speranza di poter conservare alla Francia quella provincia tanto affetta al suo nome per lingua, per costume, e per sito: non ostante si aspettavano ancora le battaglie, che avrebbero definito, se i preparamenti fatti erano per rispondere al fine che le due parti si erano proposto.

Dall'altro lato e più sotto, Kellerman aveva spedito con tutta celerità il generale Carteau con un buon nervo di gente, ordinandogli, riacquistasse il passo di Santo Spirito, cacciasse i Marsigliesi da Avignone, gli rincacciasse sulla riva sinistra della Duranza, non passasse il fiume, solo attendesse a proibire al nemico lo scorazzare sulla destra. Ma Carteau spinto da un Albitte, rappresentante del popolo, giovane pur troppo risentito nelle faccende dei tempi, varcava, e si sarebbe trovato in gravissimo pericolo, se i Marsigliesi fossero stati tanto pronti coi fatti, quanto erano con le parole. Ma nacque appunto la salute donde si aspettava la ruina; imperciocchè i Marsigliesi, udito che Carteau aveva varcato, in vece di assaltarlo e buttarlo nel fiume, il che sarebbe riuscito loro agevolmente, si diedero disordinatamente alla fuga, e con quella medesima celerità si disperdettero, con la quale si erano adunati. Carteau, usando la occasione, voltossi con tutte le sue forze contro di Aix, di cui s'impadronì; poi senza frappor tempo in mezzo, marciò contro Marsiglia, capo e fomite principale di quella guerra. E tanto fu il terrore concetto dai Marsigliesi, che fatta niuna difesa della città loro, la diedero in mano del vincitore. L'infelice Marsiglia, pagando troppo fiero scotto della sua imprudenza, fu posta miserabilmente a sacco, e vi furono commesse opere al tutto degne di quei tempi ferocissimi.

La presa di Marsiglia nocque ai Lionesi, che per questa cagione si trovarono soli esposti a tutto lo sforzo dei repubblicani; ma le immanità commessevi giovarono ai disegni della lega in Provenza. Molti Marsigliesi, fuggendo il furore dei repubblicani, si erano ritirati a Tolone, dove coi racconti e con le grida miserabili riempirono ognuno di spavento. A così orribile caso commossi i Tolonesi, e risolutisi a volere ogni altro termine di disgrazia incontrare piuttosto che accettar nelle loro mura soldati bruttati di tanto sangue cittadino, udirono con maggiore inclinazione le proposte che venivano loro fatte dagli alleati. Diedero la città ed il porto in mano dell'ammiraglio d'Inghilterra Hood, desiderando, che l'autorità del re Luigi si restituisse, e la constituzione dell'ottantanove si accettasse.

I repubblicani già tanto feroci vieppiù s'inferocirono all'accidente di Tolone. Esortazioni ardenti, minacce precipitose posero in opera per far correre i popoli al riscatto. Nè fu l'effetto minore dell'intento; perchè, tra soldati bene ordinati e gente tumultuaria, s'adunò tosto intorno alle mura di Tolone un esercito giusto di circa quaranta mila soldati. Dalla parte loro gli alleati vollero confermar con la forza quello, che la fortuna aveva loro conceduto. Spagnuoli, Napolitani e Piemontesi furono portati a presidiare i forti di Tolone; gli altri potentati d'Italia gli fornivano di vettovaglie; il papa stesso somministrava armi e munizioni. Così con grandissimo ardore si combatteva sotto le mura di Lione e di Tolone, nelle montagne della Savoja e di Nizza.

Non indugiò molto spazio la fortuna a mostrare a qual parte volesse inclinare. I Piemontesi calati dal Cenisio e dal San Bernardo, si erano fatti padroni delle valli superiori della Morienna, della Tarantasia, e del Faussigny: San Giovanni, Moutiers e Bonneville già obbedivano all'imperio loro. I Francesi cacciati dai luoghi più alti si erano ridotti a pigliar campo alla sboccatura delle valli, a Aigue-Belle, ed a Conflans, incerti se vi si potessero mantenere, perchè l'inimico ingrossava ogni giorno. Già Ciamberì pericolava: già poco spazio separava Lione dall'esercito Italiano, e se i Piemontesi si fossero spinti avanti con quella celerità che i tempi richiedevano, avrebbero acquistato, come pare, una compiuta vittoria. Ma non so per qual ragione, se ne stettero a soprastare: l'indugio diè comodità agli avversarj di rannodarsi, ed ai popoli di ajutargli. Giunto Kellerman a Ciamberì si deliberò di assaltar l'inimico, e stantechè era molto forte in Morienna, pensò di assalirlo con principale sforzo in Faussigny ed in Tarantasia, munendo però Aigue-Belle con una squadra numerosa di soldati eletti. I repubblicani secondati con ardore incredibile dalle guardie nazionali del Montebianco, appoco appoco cacciarono, non senza però grave contrasto, dai luoghi bassi del Faussigny e della Tarantasia i Piemontesi; fuvvi una feroce battaglia a San Germano, perchè i regj vollero dar tempo agli sviati ed alle artiglierìe di condursi a salvamento: infine si ritirarono al San Bernardo, donde un mese prima erano discesi con tanta speranza di vittoria.

Rimaneva pei repubblicani, che i regj si cacciassero dalla Morienna. Comandò Kellerman, che un corpo delle genti vittoriose della Tarantasia, passato il monte d'Encombe, marciasse contro Termignone, luogo situato alle radici del Cenisio; che il generale le Doyen si spignesse avanti di fronte per la Morienna, e che l'ajutante generale Pressy, che aveva testè acquistato Valmenie, si dirizzasse contro il fianco sinistro, ed alle spalle dei Piemontesi. Tutte queste mosse riuscirono a quel fine che il generale si era proposto; perchè l'esercito del re pressato da ogni banda, si ritirò ordinatamente al Cenisio: i repubblicani occuparono nuovamente Termignone.

Tale fu l'esito dell'assalto dato alla Savoja dalle genti del re di Sardegna nell'autunno del 1793, e per tale modo fu esclusa la lega dalle sue speranze in queste parti: nel che si può considerare, che se l'esercito Piemontese fosse stato così grosso come voleva Devins, o condotto con quella celerità che sogliono usare i Francesi in tulle le fazioni loro, è da credersi che la fortuna avrebbe favorito il disegno dei confederati, e che Lione sarebbe stato liberato, con totale mutazione delle cose d'Europa.

I miseri Lionesi, udita la ritirata dell'esercito, e privi di quest'ultima speranza, furono costretti a rimettersi in potere dei repubblicani. Il mondo sa con quale immanità sia stata trattata quella città sì nobile, e sì generosa.

Dall'altra parte, e nel medesimo tempo in cui i Piemontesi assaltavano la Savoja, si erano mossi con forte apparato contro Nizza. Da principio la fortuna si dimostrava loro favorevole; poichè, cacciati i nemici da tutti i luoghi superiori, già avevano speranza di calarsi per le sponde del Varo sino al mare, avvenimento, che ed avrebbe dato loro Nizza, ed aperto la strada a far risolvere l'oppugnazione di Tolone. Ma arrivati a Giletta, ed assaltato il dì diciotto ottobre con grandissimo impeto il ponte, furono duramente risospinti, e con perdita sì grave, che questo fatto, giunto alle sinistre novelle che si ebbero in quel punto di Savoja e di Lione, terminò la guerra di quest'anno in quelle parti. In cotal modo con un ignobile fatto di un piccolo ponte fu posto fine ad uno sforzo, che preparato con tanta cura e cominciato con tanta speranza, pareva che dovesse fra breve ricuperare al nome della casa di Savoja tutta la provincia di Nizza.

Intanto sempre più si stringeva l'oppugnazione di Tolone, alla quale era concorso l'esercito vincitore di Lione, e la guernigione di Valenziana, piazza forte in Fiandra, che gli alleati avevano espugnato. Già al monte Farone, sull'eminenza Reinier, al capo Bron, e sulle alture del Baleguier parecchie onorate fazioni si erano combattute con varia fortuna, nelle quali mostrarono ambe le parti, quanto potesse il valore congiunto con l'odio, e quanto a ciascuna premesse il conservare, o l'acquistare una piazza di tanto rilievo. Eransi posti gl'Inglesi a presidiare i forti rizzati sulla stanca, massime quello, che chiamano il Malbousquet, i Piemontesi stavano a guardia sulla dritta, e munivano principalmente il forte, e la montagna Farone.

Gli oppugnatori si erano accampati per modo, che Dugommier, generalissimo, avesse carico di far forza verso occidente dal forte Malbousquet sino al promontorio, che chiude l'estremità di quel piccolo seno di mare, Lapoype assaltasse verso levante tutte le difese che si distendono dalla montagna Farone, che sta a sopraccapo alla città verso tramontana sino al capo Bron, ed al forte Lamalgue, che sta a difesa del seno grande. Parte di queste genti stanziando principalmente alla Valletta, andavano a congiungersi con trincee, e batterìe non interrotte alla costa meridionale del seno grande, ed ai forti Lamalgue, e Margherita. Così una corona di schiere armate e di cannoni cingeva Tolone tutto all'intorno. L'importanza della difesa dal canto degli alleati consisteva nel forte Malbousquet fidato alla guardia degl'Inglesi. Per maggior sicurezza avevano fatto, e munito di grosse artiglierìe un gran ridotto vicino al forte. Ma i Francesi con memorabile valore combattendo già si erano impadroniti delle eminenze opposte al forte medesimo, ed al ridotto Inglese; e condottivi numerose artiglierìe continuamente infestavano gl'Inglesi. Avevano anche preso per assalto il forte dei Pommets, che signoreggia tutte le alture a tramontana. La qual vittoria diè loro facoltà di porre un campo sulla montagna delle Arene, e chiuse il passo del rivo Laz dall'una parte all'altra della città.

Ohara, generalissimo d'Inghilterra, veduto che il nemico dal suo posto sopraeminente al Malbousquet non solo infestava il forte, ma poste le artiglierìe in luogo molto opportuno, per opera massimamente del luogotenente colonnello d'artiglierìe Buonaparte, giovane di virile spirito, arrivava coi tiri insino all'arsenale; e prevedendo che se non si cacciavano da quel nido i Francesi, bisognava pensar ad altro che a stare a Tolone, si deliberò di dar loro l'assalto. Per la qual cosa seimila soldati della lega, la più parte Inglesi, uscirono il tre novembre, e, passato il Laz, si spartirono in due colonne; l'una si scagliò contro il monte delle Arene, l'altra sulle batterìe, che bersagliavano il forte Malbousquet. La fortuna fu loro sul primo incominciare seconda. Sorpresi i Francesi da quell'impeto improvviso, cedettero il luogo; gl'Inglesi giunti al monte delle Arene vi presero, e chiodarono le artiglierìe. L'altra colonna s'era insignorìta dei posti, e delle batterìe, che munivano le strette d'Olioulles, e già, credendo essere in possessione della vittoria, faceva le viste d'impadronirsi del grosso di tutte le artiglierìe, che ivi era posto.

All'avviso di tanto sinistro Dugommier accorso, inanimiva i suoi con la voce e con l'esempio, e chiamando gente dagli altri posti fe' un grosso di soldati agguerritissimi, e gli condusse con ordine, e con ardire mirabile contro il nemico, che già trionfava; nè fu l'esito non conforme a tanto valore. Gl'Inglesi assaliti, pressati, urtati da ogni banda cederono prima ordinati, poscia con fuga manifesta, lasciando in poter degli assalitori tutti i luoghi conquistati, massime quello sì importante del monte delle Arene. Tanta fu la foga dei vincitori, che non si arrestarono, se non se alle palizzate del forte Malbousquet, e stette per poco, che non vi entrassero alla mescolata coi vinti. Fu in questo incontro gravemente ferito, e fatto prigioniero Ohara, che era accorso per rannodare i suoi.

Questa fazione tanto sanguinosa diè molto a pensare agli alleati, non gli lasciando senza timore sull'esito della guerra accesa sotto le mura di Tolone. Tanta variazione avevano fatto le cose da quei primi apparati, che nel possesso di quella sola città già vicina a cadere, eransi ridotte le speranze di conquistare con Lione mezza la Francia.

I repubblicani, preso nuovo animo, si mostravano pronti a mettersi ad ogni più grave pericolo per riconquistar Tolone: si risolveva Dugommier a dar l'assalto da tutte le bande. L'importanza del fatto consisteva in un grosso ridotto, che gl'Inglesi avevano construtto sul promontorio, dal quale scoprivano dall'un lato e dall'altro i due seni, dove stanziavano le armate confederate. Se il ridotto ed il promontorio fossero venuti in potestà dei francesi, le armate sarebbero state condotte all'ultimo sterminio, se presto non fossero fuggite. Il generale di Francia pose principalmente l'animo ad assaltar il ridotto, e per procedere con arte militare in un'opera di tanta difficoltà, divise le veci degli assaltatori per modo che una schiera facesse le viste di assaltarlo di fronte, mentre le due altre girando, e salendo per sentieri scoscesi ed aspri, gli riuscivano a' fianchi, ed alle spalle.

Nel tempo medesimo per tentar la fortuna anche in altre parti, e perchè i confederati, avendo a risguardarsi da ogni lato, non potessero mandar soccorsi al ridotto, il generale repubblicano ordinava un assalto su tutta la frontiera dei posti tenuti dal nemico. Così a destra Dugommier medesimo guidava i più valenti soldati contro il gran ridotto Inglese, Mouret assaltava quello del forte Malbousquet, Garnier quelli dei forti, che dominano il rivo Laz. A sinistra Lapoype faceva uno sforzo contro il monte Farone, e Laharpe contro le batterìe, che dal capo Bron fulminavano l'entrata del seno.

Adunque essendo in tal modo ogni cosa in pronto, il dì quattordici decembre i Francesi si avviavano all'assalto. Gli alleati, che sapevano che da quel fatto doveva risultare non solo la conservazione, o la perdita di Tolone, ma ancora la riputazione dell'armi e l'acquisto d'Italia, con grandissimo ardire gli aspettavano. Feroce fu l'assalto, feroce anche la difesa; la fortuna si mescolò spesso col valore; ora prevaleva la furia al coraggio, ora il coraggio alla furia; ora la sicurtà dei luoghi faceva inclinare le sorti a favor degli assaltati, ora l'audacia per verità non credibile, se non fosse vera, le voltava a favor degli assaltatori: stette un pezzo dubbia la battaglia; già le difese erano lacere dall'un canto, già dall'altro i gioghi dei monti, ed i parapetti delle batterìe Inglesi apparivano cospersi di cadaveri Francesi, e non ostante non cessava l'ostinazione delle parti; che anzi i sangui, che ribollivano, rendevano gli uomini più accaniti, e continuamente si dava mano al tuonare, al ributtare, al ferire da presso e da lontano. Prevalse la fortuna di Francia. Mouret e Garnier si facevano a viva forza strada nei due forti di Sant'Antonio, e di Malbousquet, cacciatine gli alleati, che si ritirarono frettolosamente. Lapoype impadronissi del monte e del forte Farone; il che fu cagione, che il nemico, vuotò incontanente i forti inferiori di Lartigue, e di Santa Caterina, esposti alla furia delle cannonate del forte Farone. Finalmente Laharpe, dopo un durissimo incontro di cinque ore, cacciò di forza gli avversarj dal capo Bron, e gli costrinse a fuggire nel forte Lamalgue.

Al ridotto del promontorio, dal cui conquisto dipendeva tutto l'esito del fatto, si combatteva tuttavìa asprissimamente. Nè la difficoltà de' luoghi, nè la spessezza dei tiri del nemico non poterono tanto impedire i Francesi, che non salissero sino al sito erto, in cui era posto. Tre volte entrarono per le cannoniere fulminanti, tre volte ne furono, pel bersaglio di un piccolo ridotto interno munito d'artiglierìe, con grandissima strage loro risospinti. Finalmente alla quarta entrati per le cannoniere medesime, e superato anche col medesimo impeto il piccolo ridotto, riuscirono vincitori di quel fondamento principalissimo di tutti i disegni. I difensori, la più parte uccisi; i superstiti si ritirarono a mala pena laceri e sanguinosi chi alla città, e chi alle navi.

La espugnazione dei forti, massimamente quella del ridotto, rendeva impossibile agli alleati il tenere più lungamente Tolone; conciossiachè i repubblicani potevano fulminarvi dentro, e spazzando i due seni sperperare all'estremo le flotte confederate. Deliberaronsi a vuotare; ma prima vollero fare tutto quel maggior male che poterono. Posto mano adunque alle faci appiccarono il fuoco alle navi che non potevano trasportar con loro, ed a tutte le opere preziose di marinerìa, di cui Tolone abbondava. In questo Sidney Smith, uomo più atto alle imprese rischievoli, che alle grandi, con molta industria ed attività si adoperava. Ardevano le navi, ardevano le armerìe, ardevano gli arsenali; nella città medesima le case ardevano. Breve ora distruggeva opere, cui l'industria umana aveva penato lungo tempo a compire. In tanta confusione traevano continuamente le artiglierìe repubblicane sì da palla che da bomba con orribile fracasso, ed accrescevano terrore ad una catastrofe già per se stessa tanto terribile.

Ma compassionevole spettacolo era quello dei Tolonesi, i quali costretti ad abbandonare la patria loro per non cader nelle mani di gente sdegnata, accorrevano in tutta fretta alle navi, conducendo con esso loro le donne, i fanciulli, e le suppellettili più preziose, che in tanto precipizio avevano potuto raccorre. Tra questi alcuni annegavano per la fretta, altri erano straziati dalle artiglierìe dei loro compatriotti, o da quelle degli Inglesi. Così tra il fuoco, il fumo, il tuonare, lo scompiglio delle navi, che andavano e venivano, le minacce dei soldati da terra che fuggivano, lo strepito dei soldati da mare, che volevano metter ordine e regola dov'era disordine e confusione, le grida disperate di coloro che si spatriavano, era un dolore, un terrore, una miseria, che si possono meglio con la mente immaginare, che con le parole descrivere. Dieci mila Tolonesi disperando della pietà del vincitore, accettato l'esiglio, si ricoveravano alle navi, non sapendo nè dove, nè quando avessero a terminarsi le miserie loro. Tre giorni e tre notti durò la lagrimevole tragedia. Finalmente le flotte confederate, sotto la tutela del forte Lamalgue, nel quale avevano lasciato presidio per proteggere la ritirata, tirandosi dietro le navi rapite di Francia i giorni diciotto e diecinove decembre, si ricoverarono nelle vicine isole Iere, che sono le antiche Stecadi. Il giorno venti poi, e poichè tutti si erano ridotti a salvamento, vuotato anche il forte Lamalgue, lasciarono la misera terra intieramente a discrezione dei repubblicani: entraronvi fieri, e minacciosi.

Arsero nell'incendio Tolonese acceso dagl'Inglesi quindeci navi grosse di fila, il Tuonante, il Fortunato, il Centauro, il Commercio di Bordeaux, il Destino, il Giglio, l'Eroe, il Temistocle, il Duguai-Trouvin, il Trionfante, il Sufficiente, il Mercurio, la Corona, il Conquistatore, il Dittatore. Arsero sei fregate, la Seria, la Coraggiosa, l'Ifigenìa, l'Alerta, l'Iride, il Montereale, con molti altri legni minori. Rapirono, e s'appropriarono gl'Inglesi la grossissima nave di centoventi cannoni chiamata il Commercio di Marsiglia, col Pompeo, ed il Potente, l'uno e l'altro di settantaquattro, e con le fregate la Perla, l'Aretusa, l'Aurora, il Topazzo, e non pochi altri legni minori.

I Sardi se ne portarono la fregata l'Alceste, i Napolitani il brigantino l'Imbroglio, gli Spagnuoli la piccola Aurora, esile preda a comparazione di quella d'Inghilterra.

Queste furono le spoglie di Tolone rapite dagli alleati. E non era poco per l'Inghilterra l'aver distrutto il navilio di una nazione emola, che ai tempi floridi aveva combattuto con lei dell'imperio del mari, e che tuttavìa avrebbe potuto tener in pendente la fortuna del Mediterraneo. Così perì Tolone, città nobile, e ricca, e sede principale della marinerìa Francese. A tali strette conducono le discordie civili, e gli ajuti forestieri. Ma in queste cose l'esperienza non è fruttuosa, perchè elle si giudicano con lo spirito di parte, che sempre inganna, non con l'amore della verità, che solo conduce alle opere vantaggiose.

Rimasero nel porto o perchè non fossero capaci al mareggiare, o perchè la paura in quel tramestìo di fuga abbia superato nei vinti il desiderio della rapina, e della distruzione, le navi il Delfino reale di centoventi cannoni, la Linguadoca di ottanta, il Generoso, il Censore, il Guerriero, il Sovrano, tutte di settantaquattro.

I rappresentanti del popolo Barras, Freron, Robespierre giovane, e Saliceti scrissero il dì ventuno decembre al consesso nazionale, essere Tolone in potestà della repubblica.

LIBRO QUARTO

SOMMARIO

Partiti presi dagli alleati pei fatti di Lione e di Tolone. Trattato concluso a Valenziana il dì ventitre maggio 1794 fra l'imperatore d'Alemagna, e il re di Sardegna. Assalti dati dai Francesi a tutte le cime delle Alpi, ed invasione per essi della riviera di Ponente. Prosperi successi delle loro armi. Tutti i passi, ed il forte di Saorgio vengono in lor potere. Congiure in Piemonte; lodi dei magistrati di questo paese. Deliberazioni del re per ovviare ai pericoli presenti. Preparamenti guerrieri, e congiure di Napoli. Anche il pontefice si mette sull'armi. Deliberazioni di Venezia per l'invasione del Genovesato. Il conte Rocco San Fermo mandato dai Veneziani a Basilea, e con qual fine. Il conte di Provenza, sotto nome di conte di Lilla, arriva a Verona. Sua condotta, e procedere dei Veneziani verso di lui. Lallemand ministro di Francia a Venezia. Genova bloccata dagl'Inglesi. Costituzione politica data dagl'Inglesi alla Corsica. I Corsi coi loro corsari fanno un danno inestimabile ai Genovesi. Querele dei danneggiati, e deliberazioni dell'Inghilterra in questo proposito. Battaglia del Dego combattuta il dì ventuno settembre 1794.

L'infelice riuscita delle due imprese di Lione, e di Tolone, la cattiva prova fatta dai Marsigliesi e la poca dipendenza che trovavano nelle regioni del Rodano superiore i seguaci del re, dimostrarono ai confederati quanto fosse fallace l'opinione loro di avere nei movimenti delle popolazioni, e nell'efficacia del nome reale un principale appoggio ai disegni, che si avevano posto in mente di voler mandare ad esecuzione. Però si persuasero facilmente, che non nelle parole, ma nei fatti, non nelle armi altrui, ma nelle proprie dovevano fondare le loro speranze. Tal era diventato l'ardore degli animi in Francia, e tanto vi erano le menti stravolte, che il parlar loro in nome del re, il che era cagione una volta che obbedissero volonterosamente, ora a maggior rabbia, ed a maggiore disubbidienza gli concitasse. E siccome era divenuto necessario, che si cambiassero i mezzi di far loro guerra, così ancora si vedeva, che si dovevano cambiar i fini della medesima: poichè se gridare il nome del re, in vece di giovare, nuoceva, era vano il conquistar le terre in nome di lui. Ciò diè maggior incentivo all'appetito di conquistar per se, e di farsi proprio quello d'altrui. Pareva necessario torre per la risecazione di territorj forza ad una nazione potente per se stessa, potentissima per concitazione. Questi pensieri si rivolgevano per la mente i confederati, i quali finalmente vennero in questa risoluzione, che quello che in Francia si conquistasse, con certe condizioni si serbasse. Così la guerra, che prima era solamente politica, cambiava di natura, diventando guerra politica e territoriale. Non appartiene alla materia di queste storie il raccontare ciò, che i principi si deliberassero rispetto alle provincie orientali, e settentrionali della Francia; bensì diremo quanto l'imperatore d'Austria, ed il re di Sardegna accordassero fra di loro per fare, che non per un nome, che era oggimai vano, ma per una sostanza in utile loro combattessero. Eransi, già fin da quando si era combattuto così infelicemente in Provenza e nel Lionese per le armi regie ed imperiali, introdotte alcune pratiche molto segrete, il cui fine era di trattare un accordo, per cui si venisse a definire, quali parti dovessero cadere in potestà dell'uno o dell'altro, delle province conquistate in Francia. Perciò dopo molti e lunghi negoziati fu concluso in Valenziana il dì ventitrè di maggio del presente anno tra il barone di Thugut per parte dell'Austria, ed il marchese di Albarey per parte della Sardegna un trattato, in virtù del quale si convenne, come principio irrevocabile, che tutte le conquiste, che dalla parte dell'Italia si facessero dalle armi imperiali e regie sulla Francia, e che alla pace si conservassero, in due parti uguali si dividessero, e che la valuta di quella che toccasse all'imperatore, si compensasse per la restituzione, che a lui farebbe il re di una parte proporzionata dei distretti successivamente smembrati dal Milanese; ovvero, se una tale condizione non piacesse, che ogni conquista qualsivoglia, senza eccettuarne veruna, che dalla parte medesima d'Italia si facesse a' danni della Francia, alla pace le si restituisse, ed in tal caso ella si obbligasse a pagare una somma proporzionata di denaro in compenso delle spese della guerra fatta dalla parte d'Italia, e che tal somma per ugual porzione fra le due corti si spartisse; che al finire d'agosto, al più tardi, le due corti si risolvessero per l'uno, o per l'altro membro dell'alternativa sopraddetta, dichiarando amendue volere aver più ferma e rata la parte che fosse scelta, e che inoltre nel tempo medesimo un modo giusto, ed un temperamento buono e leale si trovasse, per valutare le conquiste da farsi e da serbarsi, a fine di proporzionar loro le restituzioni da eseguirsi dal re dal lato del Milanese: prometteva il re di fare ogni maggiore sforzo, e dal canto suo prometteva l'imperatore di mandare in Italia il più gran numero di genti che potesse, oltre le ausiliarie, che fin dal principio della guerra aveva mandato a congiungersi con l'esercito reale in Piemonte; che i due eserciti unitamente, e coi medesimi consigli combattessero; che quello del re intendesse specialmente alla difesa dei monti e dei passi, tanto verso la Savoja quanto verso il contado di Nizza; che le genti imperiali non si spartissero in piccole schiere, ma stessero congiunte in un grosso corpo, sempre pronto ad operare fortemente, e ad assaltare, congiuntosi con l'esercito regio, il nemico ove questi arrivasse ad aprirsi il varco in Piemonte; e che finalmente il medesimo esercito imperiale mettesse mano, per prima cosa, e innanzi che si conducesse in Piemonte, ad arrestar il nemico sulla riviera di Genova, a fine di guarentire ed assicurare il Milanese; fosse il barone Devins generalissimo tanto di questo corpo di truppe imperiali, quanto di quello che già militava in Piemonte; avesse l'arciduca, governator generale della Lombardìa Austriaca, facoltà di trattare, ed accordare immediatamente tutto quanto all'esecuzione del presente trattato si appartenesse, e di spiegare ogni cosa, e di rimuovere gli ostacoli che fossero per difficoltare l'impresa.

I Francesi, i quali per la propagazione delle opinioni loro avevano entrature segrete nelle pratiche più recondite dei principi, avevano subodorato quello di che si trattava, e però si deliberarono di prevenire con la solita celerità ed impeto le risoluzioni degli alleati. Sapevano, che era grande il timore messo nei nemici loro dalle tanto gagliarde espugnazioni di Lione e di Tolone, e si risolvettero ad approfittarsene, mentre n'era fresca la impressione. Potevano inoltre prevalersi dell'esercito vittorioso di Tolone, che su quelle prime caldezze si credeva capace di conquistare il mondo, non che il Piemonte e l'Italia. Non ignoravano altresì che gli alleati, non s'aspettando quel terribile rincalzo di Tolone, anzi promettendo a se medesimi da quell'impresa frutti maravigliosi, non avevano ragunato forze sufficienti a poter resistere all'impeto ajutato dalla fama. Nè era loro nascosto, che il re di Sardegna, con memorabile semplicità consigliandosi, e credendo che i Francesi portassero più rispetto alla neutralità di Genova di quanto glien'avessero portato gl'Inglesi, andava compiacendosi nel pensiero, che essi non avrebbono preso passo nel Genovesato per assaltar i suoi stati. Per questo, se formidabili erano e gli apparati, e le munizioni militari dalla parte della Savoja, e verso le strade che accennano da Nizza al colle di Tenda, si trovavano, se non aperti del tutto, certamente non sufficientemente muniti i passi, che dal Genovesato tendono al cuore del Piemonte. Per la qual cosa la fazione dell'occupare le terre della riviera di Ponente si appresentava alla mente dei Francesi tanto facile quanto utile, sì per pascere l'esercito nel paese altrui, sì per far muovere i popoli Italiani con più vicine suggestioni, e sì finalmente per aprirsi l'adito negli stati del re. Era parimente noto ai capi Francesi, che finchè durava la stagione aspra, che allora correva, e che rendeva più precipitosi e più difficili i passi dei monti a cagione delle nevi e dei ghiaccj che gl'ingombravano, se ne vivevano i confederati a molta sicurtà in Piemonte, non potendo recarsi nell'animo, che un nemico audacissimo tanto fosse audace, che volesse affrontare in un cogli ostacoli posti dagli uomini anche quelli della natura. Laonde i Francesi facilmente si persuasero di poter acquistare una subita vittoria, passando per luoghi, cui la neutralità pareva render sicuri, e prevenendo un nemico, che a tempo sì inusitato non gli aspettava. Fine poi principalissimo dei generali della repubblica era quello di occupare con questo subito impeto le cime dei monti, e torre in tal modo al nemico quel vantaggio ch'egli aveva, del poter combattere da luoghi alti e sicuri contro chi veniva da luoghi più bassi.

Adunque prima che la stagione diventasse più benigna, e che il nemico si fosse svegliato alle difese, i generali repubblicani, tanto quelli che reggevano le genti adunate nella Savoja e nel Delfinato, quanto quelli che custodivano la contea di Nizza, si deliberarono di fare uno sforzo contemporaneo contro i luoghi occupati dai regj su tutta la fronte, principiando dal piccolo San Bernardo insino alla costiera del Mediterraneo. Ma siccome era d'uopo dall'un dei lati assalire i posti occupati dal nemico, dall'altro entrare nel territorio di una potenza neutrale, così là usarono le armi, e quà le persuasioni; le une e le altre mezzi ugualmente efficaci per arrivare ai fini loro. Abbiamo già raccontato con quanto sdegno fossero state ricevute dal governo Francese le novelle dell'attentato commesso dagl'Inglesi contro i Francesi nel porto di Genova, e le minacce con le quali ei proruppe, non solamente contro gl'Inglesi per aver fatto, ma ancora contro il governo Genovese per aver lasciato fare. La repubblica di Genova si era composta per questo fatto in quattro milioni di tornesi, pagabili per metà nell'erario nazionale a Parigi, e per l'altra metà nella cassa dell'esercito d'Italia. Così sedate le ire, e restituita la buona amicizia fra le due repubbliche, volendo i Francesi usare la opportunità del territorio Genovese per assaltare gli stati del re, cercarono di coonestare il disegno loro con un adeguato manifesto. Scrivevano da Nizza i rappresentanti del popolo Robespierre giovane, Ricard e Saliceti il dì trenta marzo, sapere il popolo Francese, che i tiranni suoi nemici avevano deliberato d'impossessarsi degli stati di Genova per mettergli sotto il dominio del despoto del Piemonte, perché avesse passo ad assaltare il territorio della repubblica; essere pertanto obbligato per rispetto alla propria salute, e per prevenire i disegni del nemico, di passare con l'esercito sulle terre del Genovesato; nonostante non voler i Francesi imitare i vili Inglesi, uccisori di gente inerme nel porto di Genova; voler anzi portar rispetto ad ogni cosa, e serbare in tutto le obbligazioni della neutralità; vivessero pur sicuri i Genovesi dai repubblicani soldati; la continenza loro farebbe fede, che il passare era per essi necessità, non abuso di forza.

A queste benigne parole succedevano bentosto apparati terribili. Erano i Francesi ragunati in numero di ben sedici mila, sotto la condotta del generale Dumorbion, verso il principio d'aprile, nel territorio di Mentone, città del principato di Monaco, vicina all'estremo confine del Genovesato; e non volendo più porre tempo in mezzo a colorire i disegni loro, mandarono la notte del sei dello stesso mese il generale Arena a Ventimiglia, dicendo al governatore, che la Francia chiedeva, che le si consentisse il passo, che l'esercito della repubblica già si avvicinava, che presto comparirebbe sotto le mura di Ventimiglia. A queste intimazioni rispondeva il governatore Spinola, protestando della violata neutralità, ma vano era il protestare contro una risoluzione irrevocabile presa da chi più poteva. Compariva per la prima volta il dì sei aprile sul territorio Italiano l'esercito repubblicano di Francia in aspetto squallido e misero, ma con sembiante magnanimo, e quale si conviene ai vincitori. Precedeva Arena con la vanguardia, a cui teneva dietro col retroguardo il generale Massena, destinato dai cieli a sollevarsi dai più bassi gradi della milizia ai più sublimi, ed a divenir uno dei più periti e famosi capitani, che abbiano acquistato nome nelle storie. Occupata la città di Ventimiglia, i repubblicani per viemmeglio assicurarsi, posero un presidio nel castello; al quale atto, essendo piuttosto da nemico che da amico, ed oltrepassando i limiti del passo, caldamente, ma invano s'era opposto il governatore Genovese: ma avendone poscia fatto forti querele coi rappresentanti Robespierre e Saliceti, ritirossene il presidio Francese, lasciando di nuovo il castello in potestà dei Genovesi.

Intanto proseguendo i Francesi la impresa loro, una parte voltatasi a sinistra, s'impossessava del marchesato di Dolceacqua, cacciatone un piccolo presidio Piemontese che vi stava a guardia, l'altra marciando sul littorale s'incamminava alla volta di San Remo col pensiero di andar ad occupare Oneglia; il che era il principal fine di questa fazione. Al tempo medesimo un'altra grossa schiera, salendo per quei monti alti e dirupati, aveva cacciato i Piemontesi dal colle delle Forche, ed anche occupato le vicine alture di Dolceacqua, per le quali si apre una strada, quantunque molto stretta ed alpestre, verso Saorgio. Nè contenti a questo i Francesi, muovendosi sulla stanca di Nizza, si erano fatti padroni di tutti i posti fin oltre Breglio, i quali erano come i primi propugnacoli a guarentire l'importante fortezza di Saorgio. Lo stesso colle di Raus, dove le genti regie avevano, non era ancora scorso un anno, combattendo con molto valore acquistato una gloriosa vittoria, veniva in poter dei vincitori, per modo che Saorgio, perdute tutte le difese esteriori, si trovava esposto ad essere assalito da vicino. Non ostante, essendo forte per natura e per arte, assai ardua fatica sarebbe riuscita ai repubblicani quella d'impadronirsene per oppugnazione con assaltarlo da fronte.

Mentre in tale guisa stava Saorgio in grave pericolo, marciavano i repubblicani sul lido verso Oneglia. Era Oneglia un posto di non poca importanza; annidavano in quel porto corsari arditissimi, che interrompevano i traffichi di mare con grave danno dei Francesi alloggiati in Nizza, che niun altro mezzo avevano di vettovagliarsi se non per le navi Genovesi, che loro portavano i fromenti. Oltre a questo la strada non era nè lunga, nè difficile per andar ad assaltare Ormea e Garessio, terre grosse, per le quali si apre l'adito alle pianure del Piemonte. Finalmente era Oneglia il solo spiraglio che fosse rimasto al re di Sardegna, a poter comunicare prontamente e sicuramente coll'Inghilterra, massimamente con le flotte Inglesi, che già erano, o fra breve si aspettavano nelle acque del Mediterraneo. Sapevano queste cose coloro che reggevano le armi regie, e perciò avevano risoluto di fare una testa grossa sulle alture di Sant'Agata. Radunato tutto quel maggior numero di genti che per loro si poteva in tanta pressa, e poste le artiglierìe nei luoghi più opportuni, aspettavano con animo costante l'affronto. Ma nè il numero dei soldati, nè i provvedimenti militari erano tali, che potessero arrestare il corso ad un nemico che sopravvanzava per la moltitudine, ed era fatto più audace per le vittorie. La battaglia fu aspra. I Francesi partiti da San Remo, ed occupato Porto Maurizio, salivano all'erta di Sant'Agata con ardore inestimabile; non meno forte fu la resistenza dei Piemontesi, massime delle artiglierìe, le quali traendo a punto fermo facevano una strage incredibile nelle file dei Francesi. Questi, veduto il danno, e stimando che nissun altro modo avevano di espugnare quel forte posto, che la celerità, spintisi avanti prontissimamente, e condotti alcuni pezzi d'artiglierìe minute in luoghi prima creduti inaccessibili, e traendo a scheggie contro i Piemontesi, che ancor essi fulminavano nella stessa forma, tanto fecero, che questi, soppressati dal numero, e sorpresi all'ardire del nemico, si ritirarono non senza qualche disordine da quel sito eminente, che con molto valore avevano difeso. Poscia squadronatisi di nuovo si ridussero al ponte di Nava, lasciando Oneglia, che più non si poteva difendere, aperta all'impeto del vincitore. Gli abitatori mossi dal romore delle armi, e nei quali la ricordanza delle uccisioni e dei saccheggi fatti ai tempi di Truguet, aveva messo un grandissimo spavento, lasciata la città abbandonata e deserta, si erano ritirati ai luoghi alpestri e chiusi. Vi entrarono i repubblicani, e quì per fare testimonianza al vero, è debito nostro il raccontare come, modestamente governandosi, e' si astennero dal por mano nelle sostanze altrui, portarono rispetto alle cose sacre, e nissun segno dando nè della petulanza repubblicana, nè dell'insolenza militare, acquistarono nome d'uomini moderati e civili. La qual cosa tanto è più da notarsi, quanto a quei tempi in Francia correvano esempj degni di ogni più truculenta barbarie, ed essi medesimi si trovavano allo stremo di ogni fornimento al vivere umano necessario. Trovarono in Oneglia dodici bocche da fuoco, magazzini pieni di vettovaglia, bestie da soma a poter servire ai bisogni loro in quelle guerre alpestri. Pubblicarono che i fuggitivi si ripatriassero sotto pena di confisca, promettendo a tutti, che tornassero, intiera sicurezza nelle persone e nelle proprietà. Nè contenti alla possessione di Oneglia, spedivano una quadriglia di soldati ad impossessarsi di Loano, terra anch'essa con piccolo porto situata in su quella marina, ed appartenente al re di Sardegna.

Quantunque questa fazione fosse d'importanza per le bisogne loro verso il mare, non bastava però a compire l'altro disegno d'impadronirsi dei sommi gioghi dei monti, ed a seminar terrore con più vicina presenza nelle pianure del Piemonte. S'accorgevano, siccome quelli che esperti erano ed avveduti, che insino a tanto che quelle altissime cime fossero in mano dei regj, e massime il ponte di Nava, passo forte, al quale si erano attestati con munirlo di trincee e di artiglierìe, la vittoria conseguita non avrebbe avuto il suo compimento. Erano oltreacciò accorsi a difendere quel passo quindeci centinaja di Austriaci pronti a mostrare, poichè il male già si avvicinava, che l'ajuto loro verso un alleato generoso, i cui stati oggimai ardevano, era più che di parole. Massena, già vincitore di Sant'Agata e di Oneglia, fu destinato a questa fazione. Andò all'assalto del ponte di Nava con ottomila soldati scelti, e tanto, e così subito fu l'impeto loro, che nè i luoghi, oltre ogni dire difficili, nè le trincee fatte dai regj, nè le artiglierìe loro governate con molta maestrìa, poterono operare che i repubblicani non riuscissero vincitori. Questo fatto dimostrò, che nè i Piemontesi, nè gli Austriaci, quantunque forti e valorosi soldati fossero, non erano ancor usi a quegli assalti così subiti, ed a quelle battaglie da disperati. Ne nacque in loro uno sbigottimento di cattivo augurio, e tanto terrore nelle popolazioni, che pensarono meglio a salvar le persone, che le masserizie; le terre restarono quasi deserte. Massena, per non dar respitto, e per far parere la cosa più grave ancora che non era, mandò fuori un bando coi soliti blandimenti e minacce: Piemontesi, dicendo, ecco che son vicini a voi gl'invincibili repubblicani di Francia; non conoscono essi altri nemici, che quelli della libertà; levatevi dal collo il giogo del vostro tiranno: così vi avremo in luogo di fratelli; quando no, vi tratteremo da schiavi: rispondetemi, e tosto al campo. Questi incentivi di Massena, sebbene ei fosse uomo da fare più che non diceva, non partorirono effetti di sorte alcuna, perchè i soldati regj non gl'intendevano, e le popolazioni non gli sapevano, gli uni e le altre erano fedeli.

Superato il ponte di Nava, corsero i repubblicani contro il borgo di Ormea, che abbandonato dai difensori, venne in potere degli assalitori; trovaronvi dodici pezzi d'artiglierìa grossa piemontese, dieci di bronzo gittati ai tempi di Luigi decimoquarto, tre mila archibusi, munizioni, e fornimenti da guerra in proporzione, con sei mila mine di fromenti, molto riso e farine destinate all'uso dell'esercito. Di singolare utilità pel vestire dei soldati, riuscì ai repubblicani la quantità di panni lavorati trovati in Ormea: undeci centinaja di prigionieri resero più cospicua questa vittoria. Più di cento fuggitivi dell'esercito repubblicano, ritornando alle insegne proprie, se ne andarono a Nizza. Seguitarono Garessio e Bagnasco la fortuna del vincitore, sicchè altro impedimento non restava a superarsi dai repubblicani, oramai penetrati nella valle del Tanaro, perchè non si spandessero in Piemonte, che la fortezza di Ceva, alla quale fecero la intimazione. Il generale Argenteau, che la governava, rispose, volerla difendere sino all'estremo.

I Francesi conquistata Oneglia ed i luoghi importanti, pei quali potevano andar a ferire il cuore del Piemonte, pensarono ad assicurarsi di altri posti di uguale momento, sì per dar timore da diverse parti al nemico, e sì per assicurarsi la possessione di quello che già avevano conquistato. Nel che mostrarono tanta perizia nelle cose militari, e tanto ardimento, che l'Europa ne restò piena di maraviglia e di terrore. Imperciocchè non solo fu loro d'uopo combattere con soldati valorosi, ma ancora con le nevi, coi ghiacci, con le rupi, coi precipizj, in tempi asprissimi per la stagione. Opera non solo ardua, ma impossibile si credeva quella di superare il piccolo San Bernardo, non che ai tempi invernali, nella stagione propizia. Ma non si ristarono gli audaci repubblicani: prima del terminar d'aprile, il generale Bagdelone, dopo di aver serenato due giorni sulle nevi delle più alte cime dei monti, con soldati disposti a morire di disagio, non che di ferite, piuttosto che non arrivare ai fini loro, assaltò improvvisamente tre forti ridotti, che i Piemontesi avevano construtto sul monte Valesano a difesa del sommo giogo del San Bernardo, e dopo breve contrasto se ne impadroniva; i regj a tutt'altro pensando fuori che a questo, se n'erano stati a poco buona guardia. I repubblicani intanto insignoritisi delle artiglierìe che munivano i tre ridotti, le voltarono contro la cappella del San Bernardo, dove i regj avevano il campo più grosso, e facevano le viste di fulminarla. Fu forza allora ai Piemontesi di ritirarsi, lasciando in mano dei nemici un sito, che fu prima perduto, che si pensasse che si potesse perdere. Nè i Francesi arrestarono il corso loro; anzi spingendosi avanti, cacciarono a furia i Piemontesi all'ingiù di quelle rupi sin più là della Tuile, della quale s'impadronirono. Per questo moto fu messa in sentore tutta la valle d'Aosta, e già si temeva della capitale della provincia. In quel mentre accorse prontamente il duca di Monferrato, che dopo di aver raccolte con se tutte le milizie, e tutte le genti regolari che in sì grave tumulto potè, e spintosi avanti, frenò il corso alle cose che precipitavano. Certamente nissuna fazione fra tante, e tutte audacissime, che le guerre dei nostri tempi offerirono, nissuna più audace, nissuna più pericolosa di questa tentossi o compissi; e sebbene sia stata fatta con pochi, e contro pochi soldati, ed in luoghi ristrettissimi, non debbono negarsi a chi la condusse, le prime e le più principali lodi di guerra.

Tentarono nel medesimo tempo, e pei medesimi motivi i repubblicani parecchie altre fazioni nelle Alpi. Varcarono, non arrestati nè dai turbini, nè dalle nevi altissime, il monte della Croce, e riuscendo all'improvviso sopra il forte di Mirabocco difeso da pochi invalidi, se ne impadronirono facilmente. Poscia scendendo per la valle di Lucerna, occuparono Bobbio, ed altre terra superiori della medesima valle, minacciando Pinerolo di prossimo assalto. Ma anche quì si fecero dal governo le convenevoli provvisioni, per modo che assaliti valorosamente i Francesi dai regj nella terra del Villars, furono costretti a ritirarsi ai sommi gioghi. Passato altresì il monte Ginevra, si calarono sino a Cesana, e s'insignorirono della grossa terra d'Oulx, dove posero una taglia enorme; ma dopo di aver presentito la fortezza d'Icilia, che si trovava munitissima, si ritirarono di nuovo ai luoghi alti e scoscesi, contenti allo aver romoreggiato con l'armi loro per quelle valli alpestri, ed allo aver fatto diversione efficace alla guerra di Oneglia. Con la medesima fortuna sforzarono il colle dell'Argentiera ed il passo delle Barricate, pel quale si apre l'adito nella valle della Stura. Fu questa fazione di non poca utilità alle genti di Francia, perchè per lei si spianò la strada all'esercito d'Italia a poter comunicare con quello dell'Alpi.

Il fatto d'armi di maggior rilievo e per la sua grandezza, e pel valore mostrato da ambe le parti, successe sulle altissime cime del monte Cenisio. Appunto, e principalmente per facilitarne la vittoria, avevano i Francesi dato con forza a sinistra nel piccolo San Bernardo, a destra nei monti Ginevra, della Croce, e dell'Argentiera. Trovasi il sommo vertice del Moncenisio, là dove si spartono le acque tra il Rodano ed il Po, situato a quella estremità della sua pianura, che guarda la Savoja. Ivi una eminenza, quale sbarra, si distende dall'un lato e dall'altro, a sinistra, dalla Savoja guardando, insino ad un greppo di monti asprissimi ed altissimi, a destra insino ad un borro profondo ingombro di pini e di altri alberi alpestri, e poscia precipitando con somma ripidezza sino a Laneburgo, fa quella via molto erta e precipitosa a chi sale da quella prima terra della Savoja verso il sommo giogo. Così il piano del Cenisio, che va con comoda salita, a chi viene dall Italia, sollevandosi sino a quell'estrema eminenza, giunto alla medesima si dirupa ad un tratto verso la Savoja; il che è contrario al solito costume delle Alpi, sempre più precipitose verso Italia, che verso Francia. Avevano i Piemontesi munito quell'eminenza con molte e grosse artiglierìe, e con trincee, e con ridotti. Tre principalissimi massimamente parevano rendere sicuro quel passo, dei quali uno chiamato dei Rivetti guardava il borro; il secondo detto della Ramassa, e che stava in mezzo, s'affacciava alla salita della Ramassa, che è la strada solita a farsi dai viaggiatori; finalmente il terzo posto alla destra de' regj, il quale, avuto il nome di un valente generale Italiano, che militava ai soldi dell'Austria, chiamavasi ridotto di Strasoldo, aveva le bocche delle sue artiglierìe volte verso una selva di spessi e folti virgulti, che poteva da quella parte facilitare la salita agli assalitori. Erano tutti questi posti presidiati da soldati agguerriti, e da cannonieri abilissimi. Tutti avevano gran fede nel barone Quinto, soldato di molto valore e di pruovata sperienza, che gli governava: così il luogo, l'arte ed il valore promettevano la vittoria. Ma i Francesi soliti a quei tempi a tentare piuttosto l'impossibile che il difficile, erano confidenti di riuscirne con vantaggio. Il generale Dumas, capitano eccellente, ed assai pratico delle guerre dei monti, fatto convenire a Laneburgo una schiera di soldati pronti a mettersi a qualunque più pericoloso cimento, gli aveva provveduti di quanto era richiesto a far riuscire vittoriosa la repubblica da quel terribile incontro. Era corsa la stagione sin verso la metà di maggio: in sul finir del giorno, perciocchè splendeva la luna, givano i repubblicani all'assalto divisi in tre parti. Condotta l'una da Dumas medesimo saliva per la strada maestra per affrontar il ridotto della Ramassa, la seconda guidata dal capitano Cherbin si andava volteggiando per la selva dei pini coll'intento di riuscire addosso al ridotto dei Rivetti, e finalmente la terza governata da Bagdelone, tanto chiaro per la fresca vittoria del San Bernardo, passando per gli sterpi e pei virgulti, si avvicinava al ridotto Strasoldo. Non così tosto i regj si accorsero dello approssimarsi del nemico, che diedero mano a trarre con l'artiglierìe, e con l'archibuserìa. Ne nacque in mezzo a quei dirupi una battaglia orribile, resa ancor più spaventosa per l'ombre della notte che oscuravano le forre più basse, pel lume sinistro che spandevano ad ora ad ora le artiglierìe, e per l'eco, che in quelle cave montagne rispondeva orribilmente da vicino e da lontano al rimbombar loro così spesso, e così strepitoso. I quali spavento e fracasso sempre più crescevano, quanto più si avvicinavano i Francesi ai ridotti regj; poichè, non isbigottiti punto dalla feroce difesa, nè dal numero dei loro morti e feriti, sempre più s'accostavano, posponendo il non vincere al morire. Già si combatteva da vicino ai due ridotti dei Rivetti, e della Ramassa, e pendeva dubbia la vittoria; perchè il conte di Clermont, che vi stava alla difesa, disposti bene ed incoraggiti i suoi soldati, rendendo furia per furia, nè poteva vincere gli assalitori, nè esser vinto da loro. Con pari evento e valore si combatteva al ridotto di Strasoldo, nè si sapeva ancora a chi dovesse rimanere il dominio dell'Alpi, quando Bagdelone con la sua squadra, uscito felicemente fuori da tutti gl'impedimenti, massime da alcuni luoghi precipitosi, che gli si pararono davanti strada facendo, si scoperse alle spalle del ridotto medesimo, e diè con questa ardentissima mossa principio alla vittoria dei suoi; imperciocchè i soldati del re, veduto eseguito ciò che credevano impossibile, ed essere venuto il pericolo donde non l'aspettavano e dove non avevano difesa, pensarono al ritirarsi; il quale consiglio non fu effettuato senza qualche inviluppata nelle schiere, mescolandosi, e crescendo secondo il solito il terrore là dov'è deliberazione necessitata dalla forza. Superato il ridotto Strasoldo, non vi era più speranza di poter conservare i Rivetti e la Ramassa. Furono pertanto abbandonati con molta fretta dai difensori, pressati impetuosamente da Cherbin e da Dumas, che già prima della rotta dei regj a stanca, erano in procinto di entrare, superato ogni ostacolo, in quei forti. In cotal modo le difese rizzate sull'estremo confine d'Italia vennero in poter dei Francesi, non senza però che il valore Italiano non avesse fatto mostra di se, e dato a vedere alle menti sane, che valore contro valore avrebbe tenuta la bilancia in fermo, ma che valor solo non può prevalere contro valore congiunto ad entusiasmo.

Questa vittoria riuscì ai repubblicani tanto utile e preziosa, quanto era stata difficile e pericolosa. Per la subita ritirata dei regj acquistarono i Francesi tutte le artiglierìe dei ridotti che erano fioritissime, con alcune altre, che vicine stanziavano per gli scambj, molta moschetterìa, e munizioni sì da guerra che da bocca in quantità considerabile. Morirono pochi, rispetto alla gravità del fatto, dall'una parte e dall'altra; circa ottocento prigionieri ornarono la vittoria dei repubblicani. Nacquero in questa subita e confusa ritirata alcuni fatti miserabili; perchè trovandosi fra i regj alcuni fuorusciti di Savoja, e non potendo, o non credendo poter fuggire quella furia che loro teneva dietro, poichè velocemente i vincitori perseguitavano i vinti, precipitarono se stessi dalle alte rupi nei più bassi fondi, anteponendo una morte compassionevole, ma volontaria, agli strazj che nella patria loro sapevano contro di loro essere apparecchiati. Non fecero i Francesi fine al perseguitare, se non quando il nemico si fu ridotto a Susa. In tal modo la Ferriera e la Novalesa, terre poste l'una sul dorso, l'altra alle falde del Cenisio dalla parte d'Italia, vennero a divozione dei repubblicani; vi posarono le loro prime scolte. Perduto il Cenisio, tutta la difesa del Piemonte per quella strada era ridotta nel forte della Brunetta, che fondato sul vivo macigno, e provveduto d'armi e di munizioni, era impossibile ad esser superato. Nè i Francesi si attentarono di combatterlo; poichè contenti all'essere divenuti signori del passo alpestre del Cenisio, ed allo aver messo spavento coll'armi loro sulle rive della Dora Riparia, nè essendo in numero sufficiente a poter tentare cosa d'importanza più oltre la Novalesa, se ne stettero quieti aspettando quel che la fortuna si recasse avanti nelle altre parti, dove ardeva la guerra.

Dalla parte della Liguria non era compiuta la vittoria dei Francesi, nè potevano impadronirsi della sommità delle Alpi, finchè restava sotto l'imperio del re la fortezza importante di Saorgio. Ma tal era il sito di lei, e così sicuro per arte e per natura il luogo dov'era fondata, che non potevano avere speranza di conquistarla per oppugnazione. Voltarono adunque il pensiero ad insignorirsene per assedio; il che credettero di poter conseguire facilmente, traversando i monti asprissimi, che dividono il Genovesato dalla valle della Roja, e scendendo ad occuparla nella parte superiore a Saorgio; perchè in tale modo essendo chiuso l'adito alla fortezza e sotto e sopra, e mancata ai difensori ogni speranza di soccorso, avrebbero dovuto fra breve cedere alla necessità. I capitani del re, e fra i primi Colli, conosciuto il pericolo, si erano ingegnati di ovviarvi con aver fortificato diligentemente le cime di quei monti, massime il passo principale del colle Ardente. Ivi si aspettava una sanguinosa battaglia. Infatti i Francesi, audaci secondo il solito, e baldanzosi per le vittorie, dopo di essere stati respinti con molto valore in un primo incontro, si appresentarono alla batterìa il dì venzette aprile, ed incominciarono un furiosissimo combattimento. Durò molte ore il conflitto; finalmente i Francesi, spintisi avanti grossi ed impetuosi contro il ridotto di Felta, che era parte delle difese rizzate sulle rive del Tanarello e della Saccarda, se ne impadronirono; la qual cosa fu occasione che tutti quei passi, e principalmente quello del colle Ardente, fossero ridotti in potestà loro. Morirono in questo fatto parecchj soldati di nome, e di valore dall'una parte e dall'altra. Nè voglio che la solita continenza degl'Italiani, che sa qualche volta di freddezza, nel far onore agli uomini virtuosi loro, quando le testimonianze non vengono loro dai forestieri, tanto mi trattenga, che io non soddisfaccia ad un mio giusto desiderio raccontando come in questo fatto fu ferito mortalmente il capitano Maulandi, capitano che era nell'esercito regio, nel quale io non saprei dire se fosse maggiore o il valor militare, o la modestia civile, o l'amore dell'umanità, o l'ingegno, o la letteratura. Amico de' miei, amico di tutti i buoni, e buono egli stesso, meritò certamente che altro più degno storico ch'io non sono, tramandasse le sue lodi ai posteri; ma siccome pure questa soma mi è stata accollata da chi in me stesso può più di me, godomi bene che l'occasione mi sia porta di fare una tal quale testimonianza al nome del buon Maulandi, confortandomi in tal modo colla immagine di un uomo giusto e dabbene, del fastidio dello aver a raccontare tante corruttele, e tanti vizj dell'età nostra: avvengadiochè io mi creda, che miglior fede ch'io far non posso delle sue virtù, faranno ai posteri gli scritti suoi pieni di spirito poetico, di dolce amenità, di grazia tutta Oraziana. Delle opinioni correnti pensava moderatamente. Amatore di corretta libertà, desiderava moderazione nelle potestà supreme, ma diede volentieri e sangue e vita alla patria, ed al re, per loro fedelmente e valorosamente combattendo.

La vittoria del colle Ardente diè campo ai Francesi di calarsi per la via della Briga alle spalle di Saorgio sulla strada maestra che porta al colle di Tenda, ed in tal modo quel forte, abbandonato alla larga da' suoi difensori, e circondato da ogni parte dai nemici, fu ridotto a difendersi con le proprie forze. Certamente, essendo munitissimo, avrebbe potuto agevolmente difendersi insino a che la fame non costringesse il presidio a far quello a che la forza non l'avrebbe necessitato. Aveva Colli, ritirandosi più frettolosamente che poteva verso il colle di Tenda, ordinato al cavaliere di Sant'Amore, comandante della fortezza, resistesse più lungamente che potesse e non cedesse la piazza, se non quando ne avesse avuto il comandamento da lui, perchè l'intento suo era di ritornare con maggior nervo di forze a soccorrerla. Ma il cavaliere, o che credesse nella occorrenza presente, e per l'effetto dello essere i Francesi calati sulla strada maestra tra Saorgio ed il colle di Tenda, fosse impossibile al Colli di mandargli avviso, o per altra meno nota cagione, la dette, con patto che fossero salve le sostanze e la vita, e sotto fede di restar prigioniero di guerra con tutti i suoi soldati. Condotto a Torino, e quivi processato in un con Mesmer, comandante di Mirabocco, furono entrambi condannati a morte da un consiglio militare, e passati per le armi sulla spianata della cittadella; col quale giudizio, se giusto, certamente anche rigoroso, volle il governo dar terrore ai novatori, e credenza ai popoli, che il tradimento avea procurato la vittoria al nemico.

Rimaneva ai Francesi per compir l'opera che s'impadronissero del colle di Tenda, sommo apice dell'Alpi Marittime; nè s'indugiarono a quest'impresa, volendo prevalersi dello scompiglio dei regj, e del favore della vittoria. Per la qual cosa, seguitando con celerità, assaltarono i Piemontesi, che facevano le viste di voler difendere il colle. Prima di arrivare alle falde di questo monte, la strettura, nel cui fondo serpeggiano la strada di Nizza e il torrente della Roja, s'apre improvvisamente, e si allarga in una grande ampiezza. Quest'ampiezza è chiusa dal colle di Tenda, tanto largo quanto è l'ampiezza medesima il quale appresentandosi a guisa di tenda a chi venendo da Nizza se ne va verso il Piemonte, ha dato il nome al monte. Ma questo monte, quantunque assai ripido, essendo molto largo, e pieno quà e là, massime verso i fianchi, di facili eminenze, dà comodità al nemico che vuol salire, di pigliar posto in numerosi luoghi successivamente; il che, dando diversi riguardi a chi sta sulla sommità a difenderlo, rende più difficile la difesa, massime se l'assalitore, trovandosi in numero grosso, può occupare l'uno dopo l'altro i posti eminenti sulla faccia del colle. Ciò fecero con molta audacia e perizia i Francesi: per questo ancora, dopo debole difesa, i Piemontesi, abbandonata quella cresta in balìa del nemico, si ritirarono a Limone, terra posta alle radici del colle dalla parte del Piemonte.

La conquista di Saorgio e del colle di Tenda diede in mano dei repubblicani tutti i mezzi della guerra Alpigiana, ed altri fondamenti non restarono alla sicurezza degli stati del re posti verso Italia, che le fortezze situate alle sboccature delle valli. Per questo cambiossi del tutto la condizione della guerra; perchè i repubblicani stavano superiormente in atto d'assalitori, i regj pel contrario in atto di difensori, ed i vantaggi che questi avevano acquistato sul principiar della guerra di quest'anno, caddero in mano di quelli. Tanto fu l'effetto dell'impeto dei Francesi, e dello aver preso il passo pei territorj della repubblica Genovese.

Tutte queste fazioni molto perniziose allo stato del re, tanto maggior terrore creavano, quanto incominciavano a pullularvi in qualche parte le male erbe nate dai semi di Francia. Fecersi congiure contro lo stato da uomini condotti da illusioni funeste ma che niun mezzo avevano di arrivare ai fini loro. Presesi dei capi l'ultimo supplizio; degli altri si giudicò più rimessamente; moderazione degna di grandissima lode in mezzo a tanti sdegni, ed a tanti terrori. Tanto erano commendabili per la consuetudine, sebbene imperfetti per le forme, gli ordini giudiziali di quel regno, e tanto integri i magistrati, dappoichè Vittorio Amedeo secondo, moderata la potenza della nobiltà, aveva ridotto le cose ad uno stato più tollerabile di giustizia, e di equalità civile.

Vittorio, perduta la metà degli stati, e le principali difese dell'Alpi, faceva continui provvedimenti per preservarsi dall'estrema rovina. Avendo fede nei sudditi, ordinò che tutti, di qualunque grado o condizione si fossero, purchè abili all'armi, avessero a procurarsi armi e munizioni sì da guerra che da bocca per giorni quattro, e si tenessero pronti a marciare al primo tocco di campana a martello; fossero retti, e divisi in isquadroni da ufficiali di sperimentata capacità; se la spedizione più di quattro giorni durasse, somministrassersi munizioni dalle armerìe, e viveri dai magazzini del regno; i nobili ed i facoltosi ne fornissero a chi ne mancasse; sostentasse il pubblico le famiglie degli accorsi, ove ne abbisognassero; gli ufficiali civili stessi, se il caso della mossa arrivasse, si unissero allo stormo; premierebbersi coloro, che meglio avessero combattuto pel re, e per la patria.

Questo stormo, a guisa di tutte le masse di simil natura, non poteva esser di molto momento alla vittoria; che anzi avrebbe piuttosto potuto nuocere che giovare, se non fosse stato secondato da forti squadre di gente stanziale usa alle guerre, ed ai pericoli. Per la qual cosa si provvedevano di nuove reclute i reggimenti sì stabili che provinciali; ma questi rimedj non bastavano alla salute del regno, perchè i limiti dello stato essendo oramai molto ristretti, e le precedenti leve avendo diradato la gioventù atta all'armi, non si sperava molto frutto. Laonde instantemente si ricercarono i generali Austriaci, che fatti uscire dalle stanze invernali i soldati loro, prontamente verso il Piemonte, che pericolava, gl'indirizzassero. Il conte Oliviero Wallis, tenente maresciallo, preposto dall'imperatore a tutte le genti che avevano le stanze nel ducato di Milano, conformandosi alle richieste, mandò in Piemonte sollecitamente nel mese d'aprile tutte quelle, che avevano svernato in Pavia, Lodi, Codogno, Cremona, Bozzolo, Casalmaggiore, Mantova, Como, e Milano, e che unite componevano un esercito di ventimila soldati. Si sperava di poter rintuzzare con queste l'audacia dei repubblicani, e di frenar l'impeto loro insino a tanto che un esercito ancor più forte accorresse di Germania in Piemonte a norma del trattato di Valenziana. Inoltre muniva il re di genti e di provvisioni fresche la Brunetta, Fenestrelle, Demonte, Ceva, Cuneo, ed Alessandria. Perchè poi in tanto e sì straordinario bisogno non mancassero le armi e le munizioni, nè potendo i mezzi ordinarj supplire, ordinava, che si raccogliesse il salnitro in tutte le case di Torino, e si portassero alla zecca ed all'arsenale le campane non necessarie al culto. Pure il terrore era grande. I ricchi, massime i nobili, non quelli che militando seguitavano le insegne reali, ma gli oziosi ed i cortigiani, si apparecchiavano, certo con poco generoso consiglio verso la patria loro, ad andarsene in paesi stranieri, con se le cose più preziose trasportando. Per andar all'incontro delle ignominiose fughe, mandava fuori il re una legge, che sotto pena di confiscazione di beni le proibiva, con questo altresì, che i beni confiscati s'incorporassero alla corona.

Fu anche giudicato, che per prevenir le congiure, fosse necessario il soffocarne i semi, e sbarbarne le radici. Perlochè si ordinava, che fossero proibite tutte le adunanze segrete, anche le letterarie, ed anche i casini; la qual ultima condizione, posta o da vero, o solo per non dar cagione alle classi inferiori di lamentarsi, accennava ad una congrega particolare, che faceva la nobiltà di Torino. Così in quell'estremo frangente si preparavano le armi, si spartivano i cittadini perchè non giurassero, si univano perchè combattessero.

Le fazioni tanto favorevoli ai Francesi diedero molto a pensare ai governi Italiani, che prevedevano, che se i repubblicani vincendo compiutamente, occupassero l'Italia, sarebbe nato un sovvertimento totale per tutti; e se l'Austria ed il Piemonte vincevano, sarebbero stati, se non preda del tutto, certamente in balìa ed in soggezione loro. Laonde il re di Napoli si risolveva a fare maggiori sforzi in favore dei confederati, sì per por argine contro quella piena che minacciava l'Italia, e sì ancora per aver parte, se la fortuna si mostrasse favorevole, nei premj della vittoria. Indirizzava alla volta della Lombardìa, parte per terra parte per mare, diciottomila soldati tra fanti e cavalli, acciocchè fossero presti ai bisogni della lega. Per bastar poi al dispendio che sì considerabili apparecchiamenti richiedevano, aveva comandato, pagassero i baroni, i nobili, ed i ricchi centoventimila ducati al mese; il restante, per non aggravar i popoli dell'inferior condizione, fornirebbe l'erario: pagassero i beni ecclesiastici una tassa del sette per centinajo; portassersi alla zecca gli ori e gli argenti delle chiese, che non fossero necessarj al culto, obbligandosi il re a corrispondere un merito del tre e mezzo per centinajo del valore; alcuni ordini di frati si sopprimessero; il patrimonio loro si assegnasse all'ospedale degl'incurabili.

Erano pronte le genti a marciare verso l'Italia superiore, quando si scoperse la congiurazione di Napoli, che tendeva, siccome portò la fama, a cambiare il governo regio, ed a fare una rivoluzione nel regno. Questo fatto grave in se stesso, e reso ancor più grave dalle menti accendibili, e tanto magnificatrici dei Napolitani, trattenne le truppe, preponendo il governo la salute propria a quella d'altrui. Si aggiunse che i corsari sì Francesi che Algerini infestavano i littorali del regno, con rapire i bastimenti mercantili sul mare; gli ultimi a volta a volta sbarcavano anche sulle coste delle Calabrie per rubare, e per far peggio eziandìo che rubare.

Anche il pontefice, che fra tutti i principi era forse quello che procedeva con più sincerità, faceva guerrieri provvedimenti. Presidiò con navi armate i porti del Mediterraneo, armò le fortezze, pose sui luoghi più sospetti del littorale sufficienti guardie, ordinò magazzini, ospedali, e nuove regole per la milizia. Essendosi poscia condotto, siccome usava ogni anno, non interrotto il consueto pensiero dalle cure moleste della guerra, e dai terrori che correvano, a visitare le paludi Pontine, andò rivedendo i posti militari sulle coste per inspirare con la gravità dell'aspetto fedeltà, e con le esortazioni coraggio ai soldati. In questi suoi pensieri dello armare tanto più volentieri s'infiammava, quanto più sapeva essere i repubblicani molto sdegnati contro di lui per un fatto enorme accaduto in Roma sull'entrar dell'anno precedente; imperciocchè un Basseville, segretario della legazione di Francia, o per imprudenza propria, come alcuni stimano, nel voler promuovere troppo vivamente le opinioni del tempo, di cui era infatuato, o per un sorgere spontaneo dei Romani a cagione dell'odio che portavano ai repubblicani, come altri credono, fu crudelmente ammazzato a furia di popolo, con alcuni altri individui della medesima nazione. Fu incesa anche nel medesimo fatto parte dei palazzi dell'Accademia di Francia, e del console Francese. Quantunque il governo pontificio non vi avesse colpa, e che anzi avesse fatto in quel subito accidente quanto per lui si era potuto per frenare la rabbia di chi voleva contaminar Roma con un sì grave misfatto, importava ai repubblicani che glielo imputassero, e da lui alla ferocia del Romano governo argomentando, protestavano di volerne fare condegna vendetta.

Non così tosto pervennero in Venezia le novelle delle prime vittorie dei repubblicani sull'Alpi, e del loro ingresso nel territorio Genovese, i capi del governo, veduto avvicinarsi il pericolo, tennero fra di loro molte consulte per deliberare quello che fosse a farsi in una occorrenza di tanta importanza, contendendo aspramente tra di loro le due parti contrarie, e quella che insisteva perchè la repubblica si armasse, e quella che credeva più pericoloso l'armarsi, che il fidarsi. Sorse di nuovo in senato il procurator Pesaro, al quale s'aggiunse il suo fratello Pietro, uomo anch'egli di molta autorità, con efficacissime parole dimostrando, essere semplicità non comportevole il prestar fede al soave parlare di Francia, il governo della quale, se chiamando la repubblica di Venezia sua primogenita sorella, operava gl'incantamenti delle sirene, coi fatti poi ne avrebbe imitato il costume; che già le Alpi erano superate, che già Italia udiva il rimbombo delle artiglierìe barbare, che già le armi vacillavano in mano ai Piemontesi ed ai Tedeschi; ch'era oggimai tempo di svegliarsi dall'imbelle sonno, e di non restar più disarmati a discrezione altrui.

Sorse in senato un'aspra contesa, discrepando con parole veementi dalla volontà del Pesaro la parte contraria, nella quale mostravano maggior ardore Girolamo Giuliani, Antonio Ruzzini, Antonio Zeno, Zaccarìa Valaresso, Francesco Battaglia, Alessandro Marcello primo, sclamando tutti, che l'armarsi non era possibile, perchè l'erario era esausto, non a tempo, perchè prima le genti forestiere sarebbero sui territorj della repubblica, che i soldati, e l'armi pronte; inutile, perchè la massa sarebbe di gente fresca ed inesperta, più atta a crescere disordine, che ad allontanarlo; non aversi per la lunga pace capi di sperimentato valore, nè potersi sperare di ottenerne dagli esteri, perchè tutti in guerra; aversi la repubblica a ridurre in non piccole angustie, se consentisse a discostarsi dalle prese deliberazioni. Dopo molte contese fu vinto il partito posto dal Pesaro con centodiecinove voti favorevoli, e sessantasette contrarj. Decretossi, chiamassersi le truppe, sì a piede che a cavallo, dalla Dalmazia, perchè venissero ad assicurare la Terraferma; le reclute degli Schiavoni si ordinassero, le cerne in Istria si levassero, le leve in Terraferma per riempire i reggimenti Italiani si facessero, le compagnìe dalle quarantotto alle cento teste, quelle degli Schiavoni alle ottanta si accrescessero; finalmente l'erario con le tasse si riempisse. Volle inoltre il senato, che si rendessero sicure con le navi della repubblica le navigazioni sul golfo infestato da corsari Africani e Francesi. A questo modo aveva il senato prudentemente, e fortemente deliberato. Ma i savj del consiglio, ai quali apparteneva la esecuzione del partito vinto dal Pesaro, essendo la maggior parte di contraria sentenza, tanto fecero, scusandosi con la penuria delle finanze, che, eccettuata una massa di settemila soldati, nissun effetto ebbe la deliberazione del senato, sclamando sempre in contrario il procurator Pesaro, e continuamente accusando tanto in pubblico quanto in privato l'improvvidenza degli uomini, ed il destino che perseguitava, senza che vi fosse speranza di salute, la sua diletta ed infelice patria.

Intanto, come se le spie senza le armi valessero, aveva la repubblica mandato a Basilea il conte Rocco San Fermo, acciò spiasse, e mandasse quello che gli venisse fatto di scoprire in quella città finittima di Francia, ed in cui concorrevano, siccome in terra neutrale, amici e nemici di ogni sorte. San Fermo, o che fosse spaventato egli, o che volesse spaventare gli altri, scriveva continui terrori a Venezia; che un certo Gorani (questi è quel Gorani che scrisse i monitorj in forma di lettere a tutti i re d'Europa) era destinato dal governo di Francia ad essere stromento a far rivoluzione in Italia; che aveva con se sei satelliti, pronti a fare quello, e peggio ch'ei volesse; che già questo Gorani aveva sollevato la Polonia, e solleverebbe anche l'Italia; ch'egli era stato cagione della congiura di Napoli; che parimente insidiava a tutti i governi d'Italia; badassero bene a questo Gorani, ch'era uomo da far gran cose. Aggiungeva San Fermo non so che ciance di un Bacher, segretario della legazione Francese in Basilea; poi, che un certo Guistendoerffer gli riferiva da Parigi, essendo stato con Robespierre, Couthon, e quegli altri della salute pubblica, che la Francia faceva grandissimi disegni sull'Italia; che volevano andarvi per trovarvi grani e ricchezze; che dal Reno marcerebbero soldati all'Alpi; che per mezzo dei loro fidati, e dell'oro sparso avevano intelligenze da per tutto; che già aveva costato, nel novanta tre, l'Italia undici milioni di franchi, Venezia sola trecento cinquanta mila; che costerebbe due volte tanto nel novanta quattro, per modo che già erano a loro obbligati personaggi di eminente condizione, e fra di loro alcuni dei destinati dal governo a sopravvedere, ed a scoprire le trame di Francia; che Venezia non si assalirebbe, ma s'insidierebbe, perchè stimata nemica a cagione del non aver voluto accettare l'ambasciadore Noel, e dell'aver accomodato i confederati di armi, munizioni, vettovaglie e passo; che di più si accusava la repubblica di aver fatto carcerare il conte Apostoli, partigiano dei Francesi, ed addetto alla legazione loro in Venezia; che si accagionava oltre a tutto questo Venezia di sofferire, che i fuorusciti di Francia facessero sul suo territorio insulti, e superchierìe ai repubblicani. Queste novelle, che avrebbero incoraggito per un generoso risentimento animi valorosi, intimorirono i molli, e furono cagione che le deliberazioni della repubblica in quei tempi difficili sentissero meglio di debolezza, che di prudenza.

Accrebbe la difficoltà una causa generosa. Erasi il conte di Provenza, fratello di Luigi decimosesto re di Francia, fuggendo il furore dei nemici della sua casa, condotto a Torino, dove accolto cordialmente, e con tutti i termini dovuti al suo grado ed alla sua disgrazia dal re Vittorio Amedeo suo suocero, se ne viveva quietamente, aspettando che la fortuna più favorevole aprisse qualche adito alla salute della Francia, e di tutti i suoi. Ma essendo i repubblicani tanto avidi del suo sangue, comparsi, prima sulle cime dell'Alpi, poscia sull'aprirsi delle valli, e già insistendo sulle pianure del Piemonte in atto minaccevole, stimò bene di allontanarsi da quella tempesta, e di andarsene, fidandosi nell'integrità del senato Veneziano, a cercar asilo sulle terre di una repubblica, giacchè alcuni fra i più potenti principi d'Europa non lo volevano raccorre nelle proprie. Seguitavano il conte di Provenza, che sotto nome incognito si chiamava il conte di Lilla, parecchi fuorusciti di Francia, tra i quali principalmente si notavano il duca di Avaray, ed il conte d'Entraigues. Il senato Veneziano pietosamente risguardando ad un tanto infortunio, sebbene presentisse le molestie che gliene sarebbero venute da chi aveva la somma delle cose in Francia, accolse umanamente ne' suoi stati il conte, solo desiderando ch'ei se ne vivesse privatamente, nè desse luogo di sospettare al governo di Francia con pratiche, ch'ei poteva tentare se fosse stato in propria balìa posto, ma non doveva, trovandosi in grado di ospite in casa altrui. Ai desiderj del senato Veneziano si conformarono le intenzioni del conte di Provenza, il quale in tanta depressione di fortuna, non solo serbò la costanza di uomo generoso, ma ancora si propose di non commettere atti, dai quali potessero seguir danno, o pericolo agl'interessi altrui. Volle egli far la sua dimora in Verona; dal quale desiderio essendo fatto consapevole il senato, mandava al suo rappresentante, trattasse il conte a quella guisa che ricercavano le sue virtù, e la sventura da cui era combattuto; riconoscesse anche in lui nei colloqui privati l'altezza del grado, ma pubblicamente si astenesse di usare verso di lui di quegli atti, coi quali si sogliono riconoscere i principi. Nella quale emergenza il rappresentante con tanta destrezza si maneggiò, che ed il conte ne restò soddisfatto, e non diede fondati motivi al governo di Francia di querelarsi; il che però, siccome suole avvenire, che i forti usano la vessazione, come i deboli il sospetto, non impedì punto le querele nè in Francia, nè in Basilea, nè in Venezia da parte del Robespierriano governo e de' suoi agenti; che se mai i Veneziani ebbero bisogno di destreggiarsi, che certo n'ebbero bisogno in ogni tempo, e sepperlo anche fare, certamente si fu nell'occorrenza presente. Insomma usarono un atto molto pietoso, del quale con tanto maggior lode debbongli riconoscere i posteri, quanto esso era anche pericoloso. Qual frutto ne abbiano conseguito, conosceranno coloro, che leggeranno il progresso di queste storie.

La Veneziana repubblica non era ancor giunta agli affanni estremi. Era stato destinato dalla congregazione della salute pubblica con titolo d'inviato a Venezia Lallemand, per lo innanzi console di Francia a Napoli. Scrivendo Giovanni Jacob, incaricato d'affari, uomo buono e molto dissimile dai tempi, al serenissimo principe il dì tredici novembre, manifestava che per l'elezione del Lallemand cessava il suo mandato. Furono in questo proposito molti e varj i dispareri nelle consulte Veneziane, opinando alcuni che il nuovo ministro si accettasse, mantenendo altri la contraria sentenza. Instavano i ministri d'Austria e d'Inghilterra, acciocchè non si accettasse, allegando l'esempio del Noel, che poco tempo innanzi era stato rifiutato dalla repubblica. Prevalse l'opinione favorevole all'accettazione.

Adunque introdotto Lallemand al cospetto dei padri orava con lungo discorso, e pieno di graziose offerte, e promesse, sincere, credo, quanto a lui che buona e leale persona era, ma quanto a coloro che lo mandavano, più fallaci che vere.

A questo introito del Lallemand rispose gravemente il senato, piacergli la persona sua già accetta pei graziosi uffizj fatti in altri luoghi verso i Veneziani; piacergli l'amicizia della nazione Francese, conserverebbela, per quanto stesse in lui, sincera e perpetua; userebbersi verso l'inviato tutti i riguardi che la qualità d'autorità sua richiedevano; serberebbonsi protetti ed immuni da offesa i Francesi, si veramente che anch'essi le leggi del paese, come si conveniva, osservassero: assicurasse pure il suo governo, che alle parole sarebbero conformi i fatti, e che Venezia tanto più fedele quanto più rispettata, sarebbe amica a tutti, nemica a nissuno, piena ed intiera la sua neutralità conservando.

Di tutti i governi d'Italia, nissuno, eccetto il Piemontese, riceveva maggiori molestie del Genovese, e nissuno ancora in mezzo a così estrema difficoltà dimostrò maggiore o dignità, o costanza. Già abbiamo narrato il fatto della Modesta. Non omise la signoria di fare gravi risentimenti al governo Inglese. Fu risposto per i generali. Intanto non essendo ancora racconcia la ferita data alla repubblica dal fatto della Modesta, ne successe un altro, il quale, sebbene non mescolato col sangue, offese nondimeno anche più direttamente la dignità, e l'independenza dello stato. Appresentavansi in cospetto della signoria Francesco Drake, ministro d'Inghilterra, e Don Giovacchino Moreno, almirante del re cattolico, che con parte della sua flotta stanziava nel porto di Genova. Richiedeva l'Inglese, rompesse la repubblica ogni comunicazione con Francia; scacciasse da' suoi dominj gli agenti di lei, promettesse di non accettarne, finchè la guerra durasse. Aggiungeva parole superbe: non poter più i confederati tollerare una neutralità fomentatrice di una guerra più violenta, e più pregiudiziale agli interessi loro, che la guerra aperta non sarebbe. Lo Spagnuolo eccedeva anche di vantaggio, dando in termini più esorbitanti: consegnassegli la repubblica tutti i bastimenti carichi di vettovaglie che nel porto si trovavano, e che o fossero destinati per Marsiglia, od appartenessero ai Marsigliesi. Intimavano poi entrambi, che se la repubblica non consentisse, l'avrebbero per nemica, chiuderebbero i suoi porti, impedirebbero ogni suo commercio con Francia, e coi paesi occupati da Francia.

Questa prepotenza Inglese, dico Inglese, perchè lo Spagnuolo, udite le rimostranze dei Genovesi, se n'era ritirato, dimostrò come la libertà di dentro non impedisce la tirannide di fuori. Nè si vide che fra gli atti scorretti, di cui i tempi posteriori abbondarono pur troppo, alcuno sia che più di questo si possa riputare insolente: perciocchè non s'era mai veduto un governo comandare forzatamente ad un altro, che niuna nave di lui in nissun tempo, in nissun posto di un paese vastissimo, e qualunque fosse il suo carico, potesse approdare. Che se i Genovesi, popolo independente, e non servo dell'Inghilterra, nè in guerra con Francia, portavano ai Francesi vettovaglie, con qual ragione potevano gl'Inglesi proibirlo? e se altro modo non avevano essi di nuocere a Francia, che un attentato degno di biasimo, che stavano facendo che non se n'andassero dal Mediterraneo, lasciando Piemontesi, Austriaci, Francesi, Genovesi a far tra di loro guerra, o pace, o neutralità, come la intendevano, e come portavano i diritti delle genti? che venivano a fare le navi d'Inghilterra nel Mediterraneo? forse a fare guerra con loro? forse ad opprimere i deboli? che val la forza senza la giustizia?

Ma tornando là, donde un giustissimo sdegno ci ha allontanati, la prepotenza tanto era più odiosa, quanto Drake non aveva mandato di farla, ed obbediva meglio ad un furioso talento, che ai comandamenti del suo governo. Bensì il governo errò di non aver castigato un suo agente dello aver fatto da se una deliberazione tanto importante e disonorevole al nome d'Inghilterra. Queste cose succedevano prima che i Francesi avessero posto piede sul territorio Genovese. Perciò servirono meglio d'incentivo che di freno dall'uno de' lati, dall'altro furono violenza, e non rappresaglia.

La signorìa di Genova, serbata la dignità, e non omesse le rimostranze, fece opera di mostrare al ministro del re Giorgio, quanto lontane dal diritto fossero le sue deliberazioni, replicatamente e della libertà dell'onesto traffico, e dell'independenza della nazione richiedendolo. Ma Drake, che meglio mirava o all'utile, o allo sdegno, che al giusto, o alla temperanza, non volle punto piegarsi alle domande della repubblica, ed abbandonando Genova, si ritrasse a Livorno, con aver prima dichiarato, essere i porti Genovesi, massimamente quel di Genova, chiusi per entrata e per uscita, e che le navi che vi entrassero, o ne uscissero, sarebbero predate dagl'Inglesi, e poste al fisco.

Il fatto della Modesta, l'insolenza dell'assedio, il perseguitare le navi Genovesi che entravano nel porto fin sotto il tiro delle artiglierìe del molo, avevano concitato a gravissimo sdegno quel popolo vivace ed animoso, per modo che il nome Inglese vi era divenuto odiosissimo, e quando gli uffiziali delle navi venivano in Genova per le bisogne loro, erano a furia di popolo insultati con parole, e minacciati con fatti peggiori delle parole. Anzi usando i Genovesi di quei tempi di portare sui cappelli, più per vezzo che per disegno, la nappa nera, che è pure la insegna degl'Inglesi, uomini di ogni età e di ogni condizione sdegnosamente a chi la portava la laceravano, con ogni maniera di disprezzo e di furore calpestandola e vilipendendola. Le donne stesse, per l'ordinario lontane da queste improntitudini politiche, mosse dall'empito comune, stracciavano le nappe, e le schernivano con ogni strazio.

Queste cose accadevano in Genova. Quando poi i Francesi passati i confini, erano venuti con l'esercito sulle terre della repubblica, crebbero a dismisura le molestie; perchè e Tilly, ministro di Francia, vieppiù imperversava, ed i zelatori dello stato nuovo s'accendevano. I consigli pensarono ai rimedj. Mandarono dicendo ai potentati d'Europa, essere seguita la invasione non solo senza alcuna partecipazione loro, ma ancora contro la volontà espressa; e non mettessero punto in dubitazione, stessero pur confidenti, che la repubblica, sempre consentanea a se medesima, ed al retto ed all'onesto, non sarebbe mai per dipartirsi da quanto la sincera neutralità, e l'animo non inclinato nè a questa parte nè a quella richiedevano. Circa lo stato interno e la sicurezza della città, ordinavano le milizie cittadine, e chiamavano più grossi corpi di gente assoldata a stanziare nella capitale: munivano più acconciamente la fortezza di Savona, serravano la bottega di Morando speziale ch'era ritrovo consueto dei novatori più ardenti e più arditi.

Tali erano le tribolazioni di Genova. S'aggiunsero altre non minori. Era, siccome abbiam narrato, venuta la Corsica in potestà degl'Inglesi. Hood ammiraglio, Elliot ministro plenipotenziario d'Inghilterra, Paoli generale di Corsica, vollero temperare il dominio forestiero con qualche moderazione di leggi; modellarono una constituzione, mancava il consenso dei popoli; adunossi una dieta, o congresso generale nella città di Corte; appruovò la constituzione.

Essere, statuirono, la constituzione della Corsica monarcale: la potestà legislativa investita nel re, e nei rappresentanti del popolo; il corpo legislativo, composto del re e di rappresentanti, chiamarsi parlamento:

Non potere gli atti del parlamento avere forza di legge, se non fossero ratificati dal re:

Nissuna imposta, o tassa, o contribuzione, e dazio si potesse porre, se non col consenso del parlamento:

Avere il parlamento autorità di accusare in nome della nazione innanzi al tribunale straordinario ogni e qualunque agente del governo nei casi di prevaricazione, ed i casi dovessero essere definiti dalla legge:

Potere il re dissolvere il parlamento, ma doverne convocare un altro fra quaranta giorni:

Fosse in Corsica un vicerè rappresentante il re:

Avesse la nazione il diritto delle addomande:

I magistrati collegialmente, i particolari privatamente potessero fare le addomande:

Il governo delle cose militari tutto al re si appartenesse, e potesse intimar guerra, e fare pace:

Il re nominasse tutti i magistrati, ma il popolo i municipali:

Niuno della sua libertà, niuno della proprietà potesse essere privato, se non per sentenza giudiziale, se l'arresto fosse dichiarato non conforme alle leggi, l'arrestato avesse facoltà del richiamarsi dei danni ed interessi innanzi ai tribunali competenti:

I delitti che importassero pene corporali, o infamanti, si giudicassero dai giurati:

Fossevi libertà di stampa, ma la licenza frenata dalle leggi:

Fosse la bandiera di Corsica una testa di Moro con le armi del re:

Giorgio III, re della Gran Brettagna, fosse re sovrano di Corsica; i successori succedessero secondo l'ordine della successione statuito pel trono della Gran Brettagna.

Orava molto acconciamente Elliot, affermando, sperare che la congiunzione della Corsica e dell'Inghilterra sarebbe durevole e fortunata: a ciò concorrere la fede vicendevole, la somiglianza delle nature, la comunanza degl'interessi; tentativi di oppressione non temessero da un re, che chiaro per virtù, chiaro per temperanza d'animo, sempre aveva retto i suoi dominj secondo le leggi, e fatto fondamento al suo regal seggio della libertà, e della prosperità del suo popolo; ora essere i Corsi liberi, ora felici; serbassero le loro antiche virtù, il coraggio, il santo amore della patria: sì facendo, manterrebbero viva fra di loro, e perpetua la libertà, quella libertà, che ha per fine i civili diritti e la felicità delle genti, che non serve nè all'ambizione nè al vizio: che si congiunge con la religione, con le leggi, e con un sacro rispetto verso le proprietà di ciascuno; che abborrisce da ogni dispotismo e da ogni violenza.

L'ordinamento della Corsica disordinava Genova. Non così tosto Hood e Drake si rendettero sicuri della possessione dell'isola, che Paoli mandava fuori un manifesto di guerra in nome del governo e della nazione corsa contro la repubblica di Genova. Pubblicava, rammentate prima le ingiurie fatte al Corsi dai Genovesi, la tirannide loro, quand'erano signori dell'isola, gli ajuti d'armi e di munizioni porti ai Francesi assediati in Bastìa ed in San Fiorenzo, l'incredibile parzialità loro verso la Francia disordinata e feroce, che la Corsica intimava la guerra a Genova. Esortava quindi i Corsi, armassero navi in guerra, corressero contro i bastimenti Genovesi; avessero gli armatori facoltà di appropriarsi, non solo le navi Genovesi, ma ancora, cosa certamente enorme le merci Genovesi che si trovassero a bordo di bastimenti neutrali; i Genovesi presi fossero condotti nell'isola come schiavi, e si condannassero a lavorar la terra; finalmente si pagassero cento scudi di premio per ogni capo di tali schiavi, che fosse condotto a Bastìa. Non è certo da maravigliare che Paoli nemicissimo per natura ai Genovesi, e mosso dai risentimenti antichi, abbia dato in questi eccessi; ma che gl'Inglesi, signori allora di Corsica, che potevano in Paoli quel che volevano, e che erano, o si vantavano di essere civili ed umani uomini, gli abbiano tollerati e forse instillati, con lasciar anche scrivere in fronte di un manifesto europeo le parole di schiavo e di schiavitù, nissuno non sarà per condannare. Adunque Algeri per mano dell'Inghilterra si trasportava in Corsica? Intanto arditissimi corsari Corsi correvano il mare, e portando per insegna la testa di Moro coi quarti d'Inghilterra, e con patenti spedite da Elliot, facevano danni incredibili al commercio Genovese, e peggio ancora che il manifesto non portava.

Finalmente udì l'Inghilterra le querele dell'innocente repubblica: ma insidiosa, e non piena fu la moderazione. Ordinava che l'assedio di Genova si levasse; ma nel tempo stesso statuiva che i corsari Corsi, autorizzati dai ministri Inglesi, avessero facoltà di predare i bastimenti Genovesi, o di qualunque nazione, che andassero o venissero dai porti di Francia, e le merci loro ponessero al fisco, e gli uomini, non più come schiavi, ma come prigionieri di guerra, si arrestassero, secondo l'uso delle nazioni civili. Tornò Drake a Genova, forse credendo che una temperanza subdola equivalesse ad una giustizia sincera.

Pareva che la condizione di Genova con la Gran Brettagna fosse divenuta più tollerabile; al tempo stesso i termini, in cui viveva con la Francia, si miglioravano; perchè, morto Robespierre e venuta in Parigi la somma delle cose in balìa d'uomini più temperati, era stato richiamato Tilly. Mandavasi iscambio un Villard, che moderatamente procedendo diede speranza, che e la repubblica se ne potrebbe vivere più riposatamente, ed i vicini più securamente.

Ma la guerra non lasciava quietare la mal arrivata Genova. L'accidente seguito della occupazione di una parte della riviera di Ponente, ed i progressi dei Francesi insino a Finale, davano timore, che potessero per la via del Dego, e del Cairo, che era la più spedita di quante dalla Liguria portavano pei gioghi dell'Apennino in Piemonte, sboccare in questa provincia. Le genti Tedesche stipulate nel trattato di Valenziana non ancora erano giunte, nè era da sperarsi che quelle che già vi stanziavano, quantunque congiunte con gli eserciti Sardi, potessero cacciare un nemico ardente e poderoso dal territorio Ligure. Bensì si confidava di poter con loro preservare il Piemonte insino a tanto che il trattato di Valenziana avesse la sua esecuzione. A questo fine tutte le truppe Austriache, che già si erano chiamate dall'Italia inferiore verso la superiore, si adunavano nei contorni di Alessandria e di Acqui. Poscia, veduto che i Francesi s'ingrossavano verso Loano e Finale, si riducevano più vicino, occupando le terre delle Carcare, delle Mallare, d'Altare, di Millesimo, di Cosserìa, del Cairo. Sommavano a dodicimila combattenti, tra fanti e cavalli. Quest'erano le squadre della vanguardia, e del grosso dell'esercito; il retroguardo stanziava al Dego, terra posta sulla strada maestra tra Cairo, e Acqui. Ivi avevano le artiglierìe grosse, i magazzini, ed i forni ad uso di spianar pane per tutto l'esercito. In questi posti attendevano ad affortificarsi con trincee e ridotti, massimamente al monte di Santa Lucìa; ed a levante di Vermezzano sopra la strada del Cairo, e finalmente su certe eminenze che dominavano la Bormida sopra la pescaja del Mulino. Queste trincee e ridotti di Santa Lucia e del mulino rappresentavano il più forte sito, e la principale speranza della vittoria degli Austriaci in loro era posta. Così forti di sito e di artiglierìe, e stando a cavallo sulla strada per al Dego, speravano di fronteggiar con vantaggio il nemico. Oltre di ciò alcuni reggimenti Piemontesi, che alloggiavano in un campo a Morozzo, marciavano verso Millesimo col fine di congiungersi con gli Austriaci, che difendevano il paese del Cairo.

Dall'altra parte i Francesi, udito di questo moto, ed avendo anche presentito per alcune dimostrazioni fatte dall'esercito imperiale, ch'ei si volesse impadronire improvvisamente di Savona, deliberarono di prevenire l'uno e l'altro con assaltare gli Austriaci nel loro campo di Dego. Perlocchè l'esercito loro grosso di quindeci mila combattenti, fatto uno sforzo, aveva cacciato la vanguardia Austriaca dalle Mallare, dalle Carcare, da Millesimo, dal colle di San Giacomo delle Mallare, e dalle eminenze di San Giovanni di Murialdo, seguitandola fino sulle alture che stanno a sopraccapo al Cairo, le quali occuparono la notte dei venti settembre, principalmente quelle che signoreggiano il castello. La quale cosa vedutasi dai generali Austriaci Turcheim, e Colloredo, prevalendosi dell'oscurità della notte, ritirarono le genti loro verso il campo del Dego. Avviarono altresì più dietro a Spigno l'artiglierìa grossa, serbando con se la leggiera, ch'era fiorita e numerosa. In tutte queste azioni passavano gli Austriaci tratto tratto sul territorio Genovese. I magistrati, come già a Ventimiglia contro i Francesi, e con non miglior successo protestavano della violata neutralità.

Era il giorno vent'uno settembre imminente una battaglia, nella quale da una parte dovevano combattere un ardire inestimabile e l'incentivo di vittorie fresche, dall'altra una grande costanza, una stabilità pruovata negli ordini, i luoghi forti ed affortificati, un'artiglierìa elettissima. La mattina molto per tempo avevano i generali Austriaci ordinato le genti loro, partendole in due parti, delle quali una, che era l'antiguardo, occupava le alture del Colletto fino alla Bormida, seguitando pel Pianale sino a Montebrile sopra la valle di Carpezzo. Avanti al passo del Colletto, per cui si va a Rocchetta del Cairo, stavano, come guardia avanzata, una quadriglia di Ulani: il passo medesimo munivano due bocche da fuoco governate dai volontarj. Al piano, e verso il mezzo dell'antiguardo trentasei pezzi d'artiglierìa guardavano il passo, sei sul monte Lucìa, gli altri sulla ripa del fiume sopra il mulino. Il grosso della battaglia si distendeva dal monte del Bosco sopra Pollovero e le alture di Brovida. Un battaglione di Croati schierato sul monte Cerreto dava sicurezza all'ala sinistra; uno di cacciatori posto sul monte Vallaro alla destra.

Il generale Austriaco Wallis, a cui era commesso il governo supremo dell'esercito, arrivato al campo poco innanzi che incominciasse la battaglia, e dopo che le sue genti già erano schierate, considerato che i Francesi, siccome quelli che non avevano artiglierìe, e poca cavallerìa, avrebbero tentato di aprirsi il varco con una battaglia sparsa su pei luoghi alti e scoscesi per le ali del suo esercito, a fine di riuscirgli alle spalle, operò, che alcuni battaglioni dell'antiguardo venissero a rinforzare il grosso dell'esercito, il quale finchè fosse intero, non avrebbe potuto il nemico avere vittoria.

Stando le cose in questi termini dal canto degli Austriaci, ivano i Francesi all'assalto condotti dal generalissimo Dumorbion, dai generali Massena e Laharpe, e dal generale d'artiglierìa Buonaparte, ai quali si aggiungevano i rappresentanti del popolo Albitte e Saliceti, con Buonaroti, agente nazionale. Erano le genti loro divise in tre schiere: la prima seguitata da cinquecento soldati a cavallo, e passando per la strada alla Rocchetta del Cairo andava ad assaltare gli Austriaci posti al Colletto. La seconda passando pel convento di San Francesco del Cairo assaltava i cacciatori che difendevano il monte Vallaro; poi fatto un branco di se composto di valentissimi soldati, lo mandava contro il colle di Vignarolo, il quale superato, diveniva la strada più facile per superare anche quello del monte Vallaro. Era l'intento della terza, radendo i poggi che dominano la strada del Cairo e della Rocchetta, riuscire alla cresta sinistra del Colletto. Già la prima schiera, che era quella di mezzo, venuta per la Rocchetta, aveva costretto la guardia avanzata a cedere il passo, e bersagliava di fronte con grandissimo furore il posto del Colletto. A tanto assalto ad ora ad ora gli ordini degl'imperiali si rompevano; ma pel valore loro tosto si rannodavano: i due cannoni facevano grande strazio nei Francesi. La seconda colonna sforzato, non senza una valida resistenza degli Austriaci accorsi in ajuto del Pianale, il passo del Vignarolo, gli assaltava al monte Vallaro, e sulle alture della Bormida, ed al primo tratto gli disordinava; ma essendo venute in soccorso loro altre due squadre mandate dal Wallis, gli Austriaci con nuova vigorìa combattendo fin oltre Vignarolo la ributtavano. La terza schiera, che costeggiava a sinistra i monti, trovato un corpo d'Austriaci che si era posto in agguato nel castello rovinato della Rocchetta, e che ricevette in quel punto un rinforzo di genti fresche, fu anch'essa costretta a dare indietro. Così la vittoria sulle due ali inclinava a favor degl'imperiali: ma l'importanza del fatto consisteva nel posto del Colletto assaltato, e difeso con mirabile costanza. Le fanterìe dei Francesi non avendo potuto sforzare questo passo, la cavallerìa si fece avanti, e diè per modo la carica alla cavallerìa Austriaca, ch'essa, non fatta lunga resistenza, si ritirava ordinatamente di là dal Colletto, proteggendo anche la ritirata dei fanti, e conducendo seco i due cannoni. E' pare che l'intenzione degli Austriaci, superiori di cavallerìa, superiori di artiglierìe, sia stata, operato prima grande uccisione dell'esercito nemico, di allettare tanto la cavallerìa dei repubblicani, che condottasi nella valle di Pollovero potesse essere bersagliata con evidente vantaggio di fianco e di fronte dalle batterìe di Santa Lucìa e del Pianale. Ma i Francesi accortisi dell'insidia, e considerato che i fianchi della valle erano tutti occupati dagli Austriaci, per modo che e' potevano essere circondati da ogni parte, non si avventurarono. Intanto gli Austriaci, o perduto per forza, o abbandonato per arte il sito del Colletto, si ritirarono grossi e minacciosi ai loro sicuri ripari del monte di Santa Lucìa, e dell'argine del mulino. Scesero i Francesi dal Colletto nella pianura, e già si erano inoltrati, accostandosi il sole al suo tramontare, sin presso ai Zingani, sopra la foce del Pollovero, quando le batterìe di Santa Lucìa, e del Pianale cominciarono a fulminargli con orribile fracasso. Dalla parte loro anch'essi facevano ogni sforzo per superar quei passi: nel tempo medesimo si combatteva sulle due ali estreme dell'uno e dell'altro esercito. Nè fu fatto fine a tanta battaglia e strage, se non quando, sopraggiunta la notte, i Francesi furono sforzati a ritornarsene oltre il Colletto, dond'erano venuti, per iscostarsi dall'impeto dell'artiglierìe d'Austria, che non cessavano di trarre. Perdettero in questo fatto i Francesi meglio di seicento buoni soldati, gli Austriaci meglio di settecento, fra i quali alcuni ufficiali di nome.

Questa battaglia del Dego fu una fazione bene e valorosamente combattuta da ambe le parti, nè si potrebbe con parole descrivere l'ardore, per non dire il furore, col quale andarono i Francesi all'assalto, nè minor valore era richiesto, perchè potessero tener pari la bilancia, niuna artiglierìa avendo, cavallerìa debole, ed essendo gli Austriaci bene forniti dell'una e dell'altra, e di più trincerati in luoghi fortissimi. Dall'altro canto non si potrebbe lodare abbastanza l'arte dei generali Austriaci nel governar gli accidenti della fortuna in questo difficile ed importante fatto, nè la fermezza, e la longanimità delle genti loro.

Sforzossi ciascuna delle parti di tirare a se la fama della vittoria, e dell'onore di questo giorno. Certo è, che gli Austriaci ebbero il vantaggio della somma del fatto, perchè non solamente obbligarono i Francesi a ritirarsi dal campo di battaglia, e serbarono tutti i posti loro, ma ancora nissun accidente, che dipendesse dal nemico, gli obbligava a ritirarsi. Ciò non ostante pel seguito delle cose fu per consentimento universale aggiudicata la palma ai Francesi; perciocchè gli Austriaci, o che temessero che per le piene autunnali la Bormida interrompesse loro le strade a poter comunicare con Acqui, dove erano le riposte dell'esercito, ovvero che, come da alcuni fu scritto, avessero avuto avviso che un corpo Francese partito di Savona, passando per la valle d'Erro, fosse per riuscir loro alle spalle, e per tale guisa mozzar loro la strada, la notte dei ventidue, abbandonate le forti posizioni, si ritirarono con tutte le bagaglie, e con le artiglierìe in Acqui. Nel che si dee notare la falsità degli avvisi che ricevevano gli Austriaci: perchè e nissun corpo Francese era a quei giorni in Savona, e tutti i Francesi eransi adunati per fare un grosso sforzo a Dego, e nissun'altra schiera notabile di loro si trovava da Nizza fino a Savona. Questa falsità di avvisi, o che procedesse dalla solita parsimonia Austriaca nello spendere, o dalla nimistà delle popolazioni, operò molto efficacemente in tutti i fatti della presente guerra, e fece rovinare molte imprese dell'armi imperiali.

Intanto i Francesi temendo di qualche insidia, nè potendo recarsi a credere, che gli avversarj si fossero ritirati, dubitando anzi di essere assaliti in sul far del giorno, molto pesatamente, e con ogni cautela entrarono nel Dego. Ma quando si accorsero che quello, di che non potevano sospettare, era vero, vi si confermarono, e diedero mano a vuotare, e trasportare ai luoghi sicuri della Liguria i magazzini dell'esercito Tedesco, pieni di farine, avena, pane e strame. Nè contenti i repubblicani all'aver fatte proprie le sostanze del pubblico, diversamente da quello che in Oneglia avevano operato, infestarono quelle dei privati, saccheggiando le case di coloro che per timore le avevano abbandonate, consumando o disperdendo i vini ed ogni altra grascia o vettovaglia, ardendo la casa del feudatario, guastando le vigne portanti uve delicatissime, distruggendo una quantità considerabile di bestiame sì grosso che minuto, dimostrando insomma con ogni proceder loro, quanto fossero dissomiglianti i fatti dalle parole, tristo presagio dei mali ancor più gravi, che si preparavano all'infelice Italia.

L'esercito di Francia, dimoratosi tre giorni sul territorio del Dego, si ritrasse poscia pel sospetto che gli davano le genti accorse dal campo di Morozzo, e pei tempi sinistri, sul Genovesato, dove si fortificava, principalmente a Vado, aspettando, che la stagione nuova gli facesse facoltà di tentare fazioni di maggior momento.

LIBRO QUINTO

SOMMARIO

Il re di Sardegna continua nella sua alleanza con l'Austria. Provvedimenti militari di queste due potenze dalla parte d'Italia. Il gran duca di Toscana fa un accordo con la repubblica Francese. Discorso del suo ministro Carletti al consesso nazionale, e risposta del presidente. Discorso del nobile Querini, inviato di Venezia, al medesimo consesso, e risposta del presidente. Battaglia navale tra i Francesi e gl'Inglesi al capo di Noli combattuta i dì tredeci, e quattordeci marzo del 1795. Pace della Prussia con la repubblica Francese. Guerra sulla riviera di Genova: vantaggi dei confederati. Congiure, sdegni, e rigori nel regno di Napoli. Gravi turbazioni nella Corsica contro gl'Inglesi. Paoli chiamato a Londra come sospetto. Qualità di questo Corso. Moti tumultuosi a Sassari di Sardegna. La Spagna conclude la pace con la Francia, ed offre la sua mediazione a fine di concordia al re di Sardegna. In qual modo Vittorio Amedeo riceva questa mediazione. Consiglio convocato in Torino per deliberare sulla proposizione della pace. Discorso del marchese Silva, che opina per gli accordi. Discorso del marchese d'Albarey, che gli dissuade. Si viene di nuovo all'armi. Battaglia di Loano succeduta addì ventitrè di novembre del 1795. Suoi importanti risultamenti.

Erasi la fortuna, sul finire del precedente anno, mostrata favorevole alle armi dei repubblicani non solamente dalla parte d'Italia, ma eziandìo, e molto più verso la Spagna, i Paesi Bassi, e quella parte della Germania, che si distende sulla riva sinistra del Reno: che anzi in questi ultimi paesi tanta era stata la prosperità loro, che cacciati al tutto gli eserciti Inglesi, Olandesi, Prussiani, ed Austriaci, si erano fatti padroni del Brabante, dell'Olanda, e di tutta la Germania di quà dal Reno, sì fattamente che minacciando di varcar questo fiume, niuna cosa lasciavano sicura sulla sua destra sponda. Tante e così subite vittorie davano timore, che la confederazione si potesse scompigliare, e che alcuno fra gli alleati, disperando dell'esito finale della guerra, pensasse ad inclinar l'animo ai Francesi, e ad anteporre una pace, se non sicura, almeno manco pericolosa, ad una contesa, il cui fine era oramai divenuto, se non del tutto impossibile, certamente molto incerto a conseguirsi. A questo si aggiungeva, che il reggimento che si era introdotto in Francia dopo la morte di Robespierre, mostrava e più moderazione verso i cittadini, e maggior temperanza verso i forestieri. Dannava le immanità del governo precedente, dannava gl'incentivi o subdoli o superbi usati verso i sudditi, e verso i principi forestieri. Protestava voler vivere amico di tutti, e non consentire a turbar la pace altrui, se non quando altri turbasse la sua. Ogni cosa anzi inclinava ad un quieto e regolato vivere: solo dava fastidio quel nome di repubblica, al quale suono i principi d'Europa penavano ad avvezzare le orecchie, prevedendo, che questo nome solo, e con quest'allettamento della libertà, che i Francesi pretendevano negli scritti e nelle parole loro, e che con tanto maggior efficacia opera nella mente dei mortali, quanto ella è una immagine vaga e non bene definita, basterebbe col tempo, senza che necessaria fosse la forza, a partorir variazioni d'importanza, ed a cambiar l'ordine antico. Non ostante, essendosi le cose ridotte in Francia a maggior moderazione, si era il pericolo di presenti turbazioni allontanato, e si dubitava che cresciuto dall'un de' lati il terrore delle armi Francesi, diminuito dall'altro il pericolo delle forsennate suggestioni, prevalesse in alcun membro della lega la volontà di procurar i proprj vantaggi, con danno di tutti o di alcuno dei confederati. Massimamente non si stava senza apprensione che la Prussia facesse pensieri diversi dai comuni, sì pel desiderio della bassezza dell'Austria, sì per le antiche sue consuetudini con la Francia, e sì per timore della Russia, che continuamente stimolava e non mai ajutava. Di ciò se n'erano già veduti appropinquare alcuni effetti, perchè il re Federico Guglielmo, ora ritirava le sue genti dal campo di guerra, ora voleva mettere a prezzo la cooperazione loro, ed ora dannava le leve Germaniche per istormo. Insomma pareva a chi guardava dirittamente, che questo membro della lega avesse frappoco a separarsi dai consiglj comuni; il quale caso quanto peso fosse per arrecare nelle cose d'Europa, è facile vedersi da chi conosce e la sua potenza, e la sede de' suoi reami. Si temeva pertanto, che l'inverno, il quale acquetando l'operare risveglia il deliberare, potesse condurre qualche negoziato col fine di porre discordia nella lega, e che ove la stagione propizia al guerreggiare fosse tornata, le armi dei Francesi avessero a fare qualche grande impeto con insinuarsi nelle viscere di uno, o di più dei rimanenti alleati. Ma già avevano i Francesi verso Germania acquistato quanto desideravano; poichè signori dell'Olanda, signori delle province Germaniche poste di quà dal Reno, a loro non rimaneva altra cagione di condursi a far guerra sulla sponda destra di quel fiume, se non quella di sforzare con continuate vittorie l'imperator d'Alemagna a conoscere la repubblica loro, ed a concluder la pace con lei. Ma sarebbe stato il cammino lungo, e forse non sicuro; poichè l'Austria, sebbene sbattuta dalla fortuna, era tuttavìa formidabile, massime se si venissero a toccare gli stati ereditarj. Per lo che avvisavano, lei potersi assaltare con minor pericolo, e col medesimo frutto da un'altra parte.

Quanto alla Spagna, sebbene i Francesi si fossero aperta la strada nel cuore di quel regno coll'acquisto delle fortezze di Fontarabia, e di Figueras, non ponevano l'animo a volervi fare una invasione d'importanza; perciocchè e il paese era povero, e le opinioni contrarie, e la posizione tanto lontana dagli altri luoghi nei quali si combatteva, che non si poteva nè operare di concerto, nè secondare i casi prosperi, nè ajutare i sinistri. Nè si credeva che abbisognassero gli estremi sforzi, ad una inondazione totale di forze repubblicane per costringere la Spagna alla pace: anzi credevano i Francesi, che un romoreggiare in sui confini a ciò bastasse. Pareva poi anche loro una invasione di quel reame cosa troppo insolita da potersi tentare così alla prima, opinando che l'essersi sempre astenuti i loro maggiori dall'invadere quella provincia, non fosse senza gravi ed efficaci ragioni. Oltre a questo aveva forza nei consiglj di Spagna una condizione particolare; perchè salito pel favor della regina ad immoderata potenza il duca d'Acudia, avvisavano i Francesi, accortissimi nel pesare le condizioni delle corti straniere, che il duca pensasse piuttosto a solidare la sua autorità, allontanando con un accordo un pericolo gravissimo, che a mantenere l'integrità della fama del nome Spagnuolo, e quanto richiedeva in quella occorrenza tristissima di tempi la dignità della corona di Spagna.

Restava l'Italia, alla quale si prevedeva che si sarebbe piuttosto che in altro luogo voltato il corso delle armi Francesi: per questo avevano i repubblicani con infinito sforzo superate le cime delle Alpi e degli Apennini; per questo ordinato ai passi l'esercito vincitore di Tolone; per questo allettato con promesse e con lusinghe il re di Sardegna; per questo adulato Genova, addormentato Venezia, convinto Toscana, e turbato Napoli; per questo risarcivano a gran fretta i danni di Tolone con crearvi un navilio capace ad operare con forza sulle acque del Mediterraneo; per questo stillavano continuamente nei consigli loro, come, quando, per quale via, e con quali mezzi dovessero assaltar l'Italia. Era la penisola in questo anno la principal mira dei disegni loro, perchè speravano, per la debolezza e disunione de' suoi principi, poterla correre a posta loro, perchè malgrado delle funeste pruove fatte in ogni età, il correre questa provincia è sempre stato appetito principalissimo dei Francesi. Conculcate poi l'armi Austriache in lei, precorrendo la fama della conquista di una sì nobile regione, speravano che l'Austria spaventata calerebbe presto agli accordi.

Sì fatti disegni, non solamente non celati studiosamente, come si suol fare per l'ordinario, ma ancora manifestati espressamente, perchè meglio nascesse il timore, operavano in differenti guise nella mente dei principi Italiani. Il re di Sardegna ridotto in estremo pericolo, perduti oggimai i baloardi delle Alpi, e trovandosi con l'erario consumato da quell'abisso di guerra, aveva grandissima difficoltà del deliberare sì della pace che della guerra, se però non è più vero il dire, che posto in una necessità fatale, e portato del tutto da un destino inevitabile, altro scampo più non avesse che aperto gli fosse, se non di pruovare, se forse l'armi, che sempre sono soggette alla fortuna, avessero a portare nel prossimo anno accidenti per lui più favorevoli; imperciocchè aveva da una parte a fronte un nemico che egli stimava tanto infedele nella pace quanto era veramente terribile nella guerra, ed il paese suo era occupato da grossi battaglioni d'Austriaci, per modo che lo sbrigarsi dai medesimi sarebbe stata impresa difficilissima, ed anche pericolosa. Per la qual cosa o fosse elezione, o fosse necessità, deliberossi di non separare i suoi consiglj da quei de' confederati, e di continuare piuttosto nell'amicizia Austriaca già pruovata e consenziente alla natura del suo governo, che di darsi in braccio ad un'amicizia non pruovata e contraria ai principj della monarchìa. Gli pareva anche odioso ed indegno del suo nome il rompere gli accordi di Valenziana così freschi, e prima che si fosse sperimentato che valessero o non valessero alla salute del regno. Per verità l'Austria, commossa dal pericolo imminente, che i Francesi superate le Alpi, ed annientata la potenza Sarda inondassero l'Italia, non differiva le provvisioni per procurar l'esecuzione dei patti di Valenziana; perchè oramai non si trattava soltanto della salute di un alleato, ma bensì della propria, e quello che forse la fede non avrebbe fatto, il faceva la necessità; perlocchè si dimostravano dalla parte della Germania ogni dì più efficaci movimenti, le genti Tedesche ingrossavano in Piemonte, e già componevano un esercito giusto, e capace di tentare, unito al Piemontese, fazioni d'importanza. Così, sebbene già si vedesse in aria, che qualche alleato avesse a far variazioni dalle parti di Germania, dimostravano i confederati speranza grande di poter porre le cose d'Italia in tale stato, che per poco che la fortuna avesse a guardare con occhio più benigno le armi loro, si avrebbe potuto opporre un argine sufficiente contro quel fiume tanto impetuoso, e tanto formidabile. Adunque il re, posto dall'un de' lati ogni pensiero d'accordo con un nemico, che più odiava ancora che temesse, allestiva con ogni diligenza le armi, i soldati e le munizioni. Nè potendo lo stato, e scemato di territorio e conculcato dalla guerra, sopperire al dispendio straordinario coi mezzi ordinarj, e trovandosi oppressato dalla necessità di danari, si diede opera a vendere in virtù di una bolla pontificia, trenta milioni di beni della chiesa; venderonsi i beni degli ospedali con dar in iscambio luoghi di monti; posesi un accatto sforzato sulle professioni liberali; accrebbersi le gabelle del sale, del tabacco, e della polvere da schioppo, ed ordinossi un balzello per capi. Le quali imposte, che dimostravano l'estremità del frangente, rendevano i popoli scontenti; ma però gettando somme considerabili ajutavano l'erario a pagar soldati, esploratori, e Tedeschi. Così tra le gravi tasse, le provvisioni straordinarie, le leve sforzate, e il romore dell'armi sì patrie che straniere, sospesi i popoli tra la speranza ed il timore, aspettavano con grandissima ansietà i casi avvenire.

Le vittorie dei repubblicani sui monti, che davano probabilità ch'eglino avessero presto ad invadere l'Italia, confermando il consiglio dei Savi in Venezia nella risoluzione presa di mantener la repubblica neutrale e poco armata, avevano indotto al tempo medesimo il gran duca di Toscana a far nuove deliberazioni, con trattar accordo con la repubblica Francese, e con tornarsene a quella condizione di neutralità, dalla quale sforzatamente, e solo coll'aver licenziato il ministro di Francia s'era allontanato. Aveva sempre il gran duca in mezzo a tutti quei bollori, conservato l'animo pacato, e lontano da quegli sdegni che oscuravano la mente degli altri sovrani rispetto alle cose di Francia; non già che egli appruovasse le esorbitanze commesse in quel paese, che anzi le abborriva, ma avvisava, che infino a tanto che i repubblicani si lacerassero fra di loro con le parole e coi fatti, avrebbero lasciato quietare altrui, e che il combattergli sarebbe stato cagione, che si riunissero a danni di chi voleva essere più padrone in casa loro, che essi medesimi. Ma poichè senza colpa sua e pei cattivi consigli d'altri, i Francesi, non che fossero vinti, avevano vinto altrui, per modo che oramai quella sede d'Italia da tanti anni immune dagli strazj di guerra, era vicina a sentire le sue percosse, pareva ragionevole che il gran duca s'accostasse a quelle deliberazioni, che i tempi richiedevano, e che erano conformi sì alla natura sua quieta e dolce, e sì agl'interessi della Toscana. Quello adunque che la natura ed una moderata consuetudine davano, volle il governo confermare col fatto: la memoria del buon Leopoldo operava in questo efficacemente. Oltre a ciò il porto di Livorno era divenuto, poichè erano chiusi dalla guerra quei di Francia, di Genova e di Napoli, il principale emporio del commercio del Mediterraneo. Quivi concorrevano gl'Inglesi col loro numeroso navilio sì da guerra che da traffico; quivi i Francesi ed i Genovesi, o sotto nome proprio o sotto nome di neutri, a fare i traffichi loro, massimamente di fromenti, che trasportavano nelle province meridionali della Francia. Levavano gl'Inglesi grandissimi romori per cagione di questi ajuti procurati dalla neutralità di Livorno; ma il gran duca, preferendo gl'interessi proprj a quelli d'altrui, non si lasciava svolgere, e sempre si dimostrava costante nel non voler serrare i porti ai repubblicani. Nè contento a questo, con molta temperanza procedendo, ordinava che fossero aperti i tribunali ai Francesi, e venisse fatta loro buona e sincera giustizia secondo il dritto e l'onesto. Avendo poi anche udito che alcuni falsavano la carta moneta di Francia, diede ordine acciò sì infame fraude cessasse, e fosserne castigati gli autori. La quale cosa non senza un singolar piacere dall'un de' lati, e sdegno dall'altro io narro vedendo, che in un principe Italiano, signore di un piccolo paese, ed esposto alle ingiurie di tanti potenti tanto abbia potuto l'amore del giusto, e di quanto havvi nella civiltà di più santo e di più sacro; ch'egli abbia impedito e dannato un'opera sì vituperosa, mentre appunto nel tempo medesimo uomini perversi in paesi ricchissimi e potentissimi, per l'infame sete dell'oro, e forse per una sete ancor peggiore, la compivano, non nascostamente, ma apertamente, e se non per comandamento espresso del governo loro, certo con connivenza, od almeno con tolleranza scandalosa di lui. Così le mannaje uccidevano gli uomini a folla in Francia, così la guerra infuriava in Piemonte, così lo stato incrudeliva in Napoli, così i falsarj contaminavano l'Inghilterra, mentre l'innocente Toscana, non guardando nè su i cappelli i colori, nè sulle bocche la favella, ministrava giustizia a tutti, nè si piegava più da una parte che dall'altra. Felice condizione, in cui nè il timore avviliva, nè la superbia gonfiava, nè l'appetito dello avere altrui precipitava a risoluzioni inique e pericolose!

Ma divenendo ogni ora più imminente il pericolo d'Italia, pensò il gran duca, che fosse oramai venuto il tempo di confessare apertamente quello, che già eseguiva con tacita moderazione, sperando di meglio stabilire in tale modo la quiete e la sicurtà di Toscana. Per la qual cosa deliberossi al mandare un uomo a posta a Parigi, affinchè fra i due stati si rinnovasse quella pace, che più per forza, che per deliberazione volontaria era stata interrotta. E parendogli, siccome era verissimo, che si dovesse mandare chi fosse grato, diede questo carico al conte Carletti, che era sempre stato fautore, perchè i Francesi si proteggessero, e leale giustizia tanto nelle persone, quanto nelle proprietà avessero. Adunque fu fatto mandato al conte, andasse a Parigi, e col governo della repubblica la pace concludesse. Molte furono le querele che si fecero in quei tempi di questa risoluzione, e della scelta del Carletti. Coloro a cui più piaceva la guerra che la pace, chiamarono il conte giacobino, e per poco stette che non chiamassero giacobino anche il gran duca. Certo era un caso notabile, che nel mentre che solo si vedevano in Europa principi o cacciati dalle proprie sedi per la furia dei repubblicani di Francia, od a mala pena contrastanti contro la forza loro, un principe Austriaco fosse il primo ad accordarsi con una repubblica insolita, e minacciosa al nome dei re. Ma il tempo non tardò a scoprire, che quello che il gran duca ebbe fatto per solo amore dei sudditi, il fecero altri principi assai più potenti di lui o per consiglio di favoriti ambiziosi, o per gelosìa della grandezza altrui. Ma era fatale, che in quella volubilità di governi Francesi, quest'atto del gran duca non preservasse la Toscana dalle calamità comuni, perchè vennero tempi, in cui la forza e la mala fede ebbero il predominio: l'innocenza divenne allettamento, non scudo.

Fecero i repubblicani al conte Carletti gratissime accoglienze sì per acquistar miglior fama, e sì per allettar altri principi a negoziare con quel governo insolito, e terribile. Debole era il gran duca a comparazione di Francia; ma era pei Francesi di non poco momento, che un principe d'Europa riconoscesse quel loro nuovo reggimento, e concludesse un accordo con lui; perchè, superata quella prima ripugnanza, si doveva credere, che altre potenze, seguitando l'esempio di Toscana, si sarebbero più facilmente condotte a fare accordo ancor esse. Perlocchè fu udito con facili orecchie il conte a Parigi, ed appena introdotti i primi negoziati, fu concluso, il dì nove febbrajo, tra Francia e Toscana un trattato di pace e di amicizia, pel quale il gran duca rivocava ogni atto di adesione, consenso, od accessione, che avesse potuto fare con la lega armata contro la repubblica Francese, e la neutralità della Toscana fu restituita a quella condizione, in cui era il dì otto ottobre del novantatre.

Giunte in Toscana le novelle della conclusione del trattato, si rallegrarono grandemente i popoli, massime i Livornesi per l'abbondanza dei traffichi, e con somme lodi celebrarono la sapienza del gran duca Ferdinando, il quale non lasciatosi trasportare agli sdegni d'Europa, e solo alla felicità del sudditi mirando, aveva loro quieto vivere, e sicuro stato acquistato. Bandissi la pace pubblicamente con le solite forme, ma a suon di cannoni in Livorno in cospetto dell'armata Inglese, che quivi aveva le sue stanze. Pubblicò Ferdinando, non aver dovuto la Toscana ingerirsi nelle turbazioni d'Europa, nè l'integrità, o la salute sua fidare alla preponderanza di alcuno fra i principi in guerra, ma bensì al diritto delle genti, ed alla fede dei trattati; non aver mai dato a nissuno causa di offenderla; essere stata imparziale, essere stata neutrale giusta la legge fondamentale del gran ducato pubblicata nel settantotto dalla sapienza di Leopoldo; sapere Europa come, e quando il principe ne fosse stato violentemente, e per una estrema forza svolto, e con tutto ciò non altro aver tollerato, se non che il ministro di Francia si allontanasse dalle terre di Toscana; avere ciò conosciuto la nazione Francese; però essere stata la Toscana, con la conclusione del nuovo trattato, redintegrata di quei beni, che per forza le erano stati tolti; volere perciò, ed ordinare, che il trattato si eseguisse, e l'editto di neutralità del settantotto si osservasse. Perchè poi quello, che la sapienza aveva accordato, i buoni uffizj conservassero, chiamò Ferdinando il conte Carletti suo ministro plenipotenziario in Francia. Introdotto al cospetto del consesso nazionale, orava dicendo, che mandato dal gran duca in Francia a fine di ristabilire una neutralità preziosa al governo Toscano, aveva molto volentieri accettato il carico, siccome quello, ch'ei credeva molto onorevole ad uomo, qual egli era, amico dell'umanità, amico della patria, amico della Francia; fortunatissimo per lui riputare il giorno in cui aveva concluso la pace con la repubblica Francese; essersene rallegrata Toscana con segni di universale contento; pacifica essere Toscana, voler vivere in termini amichevoli con tutti; aver sempre avuto i Toscani, malgrado di tutti gli accidenti occorsi, in onore la potente nazione Francese; sforzerebbesi egli in ogni modo per fare, che l'amicizia fra i due stati fosse perpetua; desiderare che la pace conclusa tra Francia e Toscana fosse in felice augurio di altre tanto all'Europa necessarie: gissero adunque, continuassero nella temperanza testè mostrata; che sperava ben egli, che siccome ora gli vedeva coi capi cinti di lauro, così presto gli vedrebbe con le palme piene d'ulivo.

Rispondeva il presidente con magnifico discorso: il popolo Francese assalito da una lega potentissima, avere, malgrado suo, preso le armi, avere anche acquistato gloriose vittorie; ma non desiderare altra conquista, che quella della sua independenza; volere esser libero, ma rispettare i governi altrui; sarebbe temperato nella vittoria, come terribile nelle battaglie; piacergli la Toscana moderazione, piacergli le cure avute dei perseguitati, piacergli le dimostrazioni amichevoli di Ferdinando gran duca: perciò avere tosto accettato gli accordi, che Toscana era venuta offerendo; accettare con animo benevolo il presagio di altre concordie; non esser nati e fatti i popoli per odiarsi fra di loro, bensì per amarsi, bensì per travagliarsi concordevolmente a procacciare felicità vicendevole; tali essere i desiderj, tali le più instanti cure del Francese popolo in mezzo a così segnalate vittorie: esser pronto a far guerra, più pronto a far pace; vedere il consesso volentieri in cospetto suo un uomo noto per filosofia, noto per umanità, noto per servigj fatti a Francia: augurarne sincera e durabile concordia.

Infine, perchè non mancasse a queste lusinghevoli parole quel condimento dell'abbracciata fraterna, come la chiamavano, gridossi romorosamente l'abbracciata, e l'abbracciata fu fatta, plaudendo i circostanti. Andossene Carletti molto ben lodato ed accarezzato. Così verificossi con nuovo esempio l'indole dei tempi, che portava gioje corte e vane, dolori lunghi e veri.

Giacchè siamo entrati in questa lunga e nojosa briga di raccontare dolci parole e tristi fatti, non vogliamo passar sotto silenzio le dimostrazioni non dissimili, con le quali si procedette col nobile Querini, destinato dalla repubblica Veneziana ad inviato appresso al consesso nazionale di Francia. Avevano coloro, che nei consigli di Venezia prevalevano, sperato di sollidar vieppiù lo stato della repubblica col mandar a Parigi un personaggio d'importanza, acciocchè con la presenza e con la destrezza dimostrasse, esser vera e sincera a determinazione del senato di volersene star neutrale. Perlochè, adunatosi il senato sul principiar di marzo, trasse inviato straordinario in Francia Alvise Querini, in cui non so se fosse maggiore o l'ingegno, o la pratica del mondo politico, o l'amore verso la sua patria; che certo tutte queste cose erano in lui grandissime.

Adunque, arrivato Querini a Parigi, ed introdotto onoratamente al consesso nazionale, e vicino al seggio del presidente postosi, con bellissimo favellare disse, cittadino di una repubblica da tempi antichissimi fondata per la necessità di fuggire i barbari, e pel desiderio di vivere tranquilla, avere ora nuova cagione di gratitudine verso la sua patria per averlo destinato ministro appresso ad una repubblica, che appena nata già riempiva il mondo colla fama delle sue vittorie. Qual cosa infatti poter essere a lui più lusinghiera, quale più gioconda di quella di comparire in cospetto del nazionale consesso di Francia, a fine di confermar l'amicizia, che il senato e la repubblica di Venezia alla repubblica Francese portavano? sperare la conservazione di quest'antica amicizia sperarla, desiderarla, volerla con tutto l'animo e con tutte le forze sue procurare, e stimarsene fortunatissimo; recarsi ancora a felicità sua, se al mandato della sua cara patria adempiendo, meritasse che in lui avesse il consesso fede, e se conceduto gli fosse di vedere, che il consesso medesimo fatto maggiore di se, e benignamente agli strazj dell'umanità risguardando, con generoso consiglio dimostrasse, aver più cura della pace che della guerra, ed il frutto di tante vittorie aver ad essere il riposo di tutti.

Orava in risposta il presidente dicendo, felicissimo essere alla repubblica Francese quel giorno, in cui compariva avanti a se l'inviato della illustre repubblica di Venezia; poter vedere il nobile Querini in volto ai circostanti i segni della contentezza comune; antica essere l'amicizia tra Francia e Venezia, ma anticamente aver vissuto la prima sotto la tirannide dei re; ora dover l'accordo essere più dolce, perchè libera dal giogo; avere avuto pari principio le due repubbliche: sorta la Veneziana fra le tempeste del mare, fra le persecuzioni dei barbari; pure fra tanti pericoli avere acquistato onorato nome al mondo per la sua sapienza, e pe' suoi illustri fatti; avere spesso le querele dei re giudicato, spesso l'Occidente dai barbari preservato: similmente sorta la Francese fra le tempeste del mondo in soqquadro; gente più barbara dei Goti avere voluto distruggerla, usato fuori le armi, dentro le insidie, chiamato in ajuto la civile discordia; ma tutto stato essere indarno, la libertà avere vinto: non dubitasse pertanto Venezia, che siccome pari era il principio, e pari l'effetto, così sarebbe pari l'amicizia; avere la generosa Venezia, allora quando ancora stava la gran lite in pendente, accolto l'inviato della Francese repubblica onorevolmente; volere la Francia grata riconoscere con procedere generoso un procedere generoso, e siccome la sua alleata non aveva dubitato di commettersi ad una fortuna ancor dubbia, così goderebbe securamente i frutti di una fortuna certa: avere potuto la Francia, quando aveva il collo gravato dal giogo di un re, ingrata essere ed ingannatrice, ma la Francia libera, la Francia repubblicana riconoscente essere, e leale, e con tanto miglior animo riconoscere l'obbligo, quanto il benefizio non era senza pericolo: andasse pur sicura Venezia, e si confortasse, che la nazione Francese nel numero de' suoi più puri, de' suoi più zelanti alleati sarebbe: quanto a lui, nobile Querini, se ne gisse pur contento, che la Francese repubblica contentissima si riputava di averlo per ministro di una repubblica amica, e che di pari estimazione in Francia goderebbe di quella, che già si era in Venezia acquistata: i desiderj di pace essere alle due repubbliche comuni; confidare, sarebbero presto con la quiete universale d'Europa adempiti. Per tale modo si vede, che per testimonio del presidente Lareveillere-Lepeaux, che orava, Venezia era generosa, libera, amica di Francia. Pure poco tempo dopo coloro che sottentrarono al governo, ed un soldato uso ad ogni violenza la distrussero, chiamandola vile, schiava e perfida.

Giunte a Venezia le novelle della cortese accoglienza fatta al Querini, si rallegrarono vieppiù coloro, che avevano voluto fondar lo stato piuttosto sulla fede di Francia, che sull'armi domestiche, e si credettero di aver in tutto confermato l'imperio della loro antica patria.

Dalla parte d'Italia, dove era accesa la guerra, incominciavano a manifestarsi i disegni dei Francesi. Doleva loro l'acquisto fatto della Corsica dagl'Inglesi, e desideravano riacquistarla, perchè non potevano tollerare, che la potenza emola fermasse con la comodità di quell'isola un piede di non piccola importanza nel Mediterraneo. Oltre a ciò le genti accampate sulla riviera di Ponente travagliavano per un'estrema carestìa di vettovaglia; importava finalmente, che il nome e la bandiera di Francia si mantenessero vivi nel Mediterraneo. Fu allestita con incredibile celerità a Tolone un'armata di quindici grosse navi di fila con la solita accompagnatura delle fregate, e di altri legni più sottili. Genti da sbarco, e viveri in copia vi si ammassarono: usciva nei primi giorni di marzo, e postasi nelle acque dell'isole Iere aspettava che il vento spirasse favorevole all'esecuzione dei suoi pensieri.

Il vice ammiraglio Inglese Hotham, che stava in sentore a Livorno con un'armata, in cui si noveravano quattordici grosse navi di fila, tutte Inglesi, ed una Napolitana, con tre fregate Inglesi e due Napolitane, ebbe subitamente avviso dell'uscita dei Francesi sì per un messo da Genova, sì per le sue fregate più leste, che a questo fine andavano correndo il mare tra la Corsica e la Francia. Pose tosto in alto per andar ad incontrar il nemico, e per combatterlo ovunque il trovasse. Dall'altra parte, uditosi dall'ammiraglio Francese Martin, al quale obbediva l'armata, che gl'Inglesi solcavano il mare per combattere con lui, lasciate le onerarie all'isole Iere, sciolse animosamente le ancore ancor egli, risolutosi al commettere alla fortuna delle battaglie l'imperio del Mediterraneo. Aveva per compagno a quest'impresa il rappresentante del popolo Letourneur, uomo non alieno dalle bisogne di mare, ma che in questo fatto faceva più le veci di confortatore, che di guidatore. Incominciò a dimostrarsegli con lieto augurio la benignità della fortuna; perchè avendo l'Hotham, tosto che ebbe le novelle del salpar dei Francesi, spedito ordine alla nave il Berwich, che stanziava a San Fiorenzo di Corsica, acciò con tutta celerità venisse a congiungersi con lui verso il capo Corso, ella, abbattutasi per viaggio nell'armata Francese, fu fatta seguitare dal vascello ammiraglio il San-Culotto (con questi pazzi nomi chiamavano i Francesi di quell'età le navi loro) e da tre fregate, per modo che combattuta gagliardamente, fu costretta ad arrendersi in cospetto di tutta l'armata repubblicana, che veniva via a vele gonfie per secondare i suoi, che già combattevano. Ciò non ostante non si arrese il Berwich senza un feroce contrasto, e tanto fu ostinata la sua difesa, che il San-Culotto mal concio ritirossi per forza nel porto di Genova, e poco poscia in quello di Tolone. Intanto arrivavano le due armate l'una al cospetto dell'altra nel giorno tredici marzo. Quivi incominciò la fortuna a voltarsi contro i Francesi, perchè separata per una forte buffa di vento dalla restante armata la nave il Mercurio, e perduto l'albero maestro, andò a dar fondo nel golfo di Juan; per questi accidenti si trovarono i Francesi al maggior bisogno loro con due navi di manco, delle quali il San-Culotto, essendo a tre palchi, era la principale speranza della vittoria. Godevano gl'Inglesi il vantaggio del vento, sicchè fu spinta l'armata della repubblica verso il capo di Noli, seguitandola gl'Inglesi per modo di caccia generale. In questo tra pel mareggiare, che era forte a cagione del vento assai fresco, e per la forza dell'artiglierìe Inglesi, che già si erano approssimate, perdè il vascello il Ça-ira gli alberi di gabbia, e diventato inabile a far le mosse, correva pericolo di esser predato dagl'Inglesi. Infatti, non così tosto si era Hotham accorto del sinistro del Ça-ira, che il fece perseguitare dalla fregata l'Inconstante, e dal vascello l'Agamennone. Si difese molto gagliardamente Ça-ira, rendendo furia per furia molto tempo, sicchè diede abilità a' suoi di venire in soccorso. Mandava Martin la fregata la Vestale per rimorchiarlo, la nave il Censore per ajutarlo; anzi tutta l'armata accorreva per arrestar il corso al nemico, e per salvar la nave che pericolava. Queste mosse molto opportune operarono di modo che gl'Inglesi si tirarono indietro. Sopraggiunse la notte; il Ça-ira trovossi guasto per modo che quantunque liberato pel valore de' suoi compagni dal pericolo, non potè raggiungere il grosso dell'armata, e continuava tuttavia a dimorar troppo più vicino all'Inglesi, che la salute sua richiedesse. S'aggiunse, che il Censore, quantunque replicatamente comandato gli fosse, quando il Ça-ira fu sbrigato dall'assalto degl'Inglesi, di venir a ricongiungersi con l'armata, si mostrò poco ossequente alla volontà di Martin; e continuò a stanziare verso la flotta Inglese. Questi accidenti, parte inevitabili, parte fortuiti, furono cagione che la mattina del quattordici le due navi il Ça-ira ed il Censore si scopersero più vicine agl'Inglesi che ai Francesi. Non posto tempo in mezzo, Hotham mandava le due navi il Bedford ed il Capitano ad assaltarle, avvisandosi, che o le rapirebbe, o i repubblicani, per salvarle, sarebbero venuti ad una battaglia giusta. Contrastarono le due navi Francesi con tanto valore, che gl'Inglesi non poterono venire così tosto a capo del disegno loro. Chiamarono in soccorso l'Illustre ed il Coraggioso; ma furono anche queste tanto lacerate dalla furia delle cannonate repubblicane, che la prima, non più abile a governarsi, fu arsa, la seconda andò per forza a ritirarsi nel porto di Livorno. Continuavano nientedimeno il Bedford ed il Capitano a fulminare le due navi della repubblica, che fortemente danneggiate negli alberi, nelle sarte, e nelle vele, nè potendo pel silenzio dei venti il grosso dell'armata accorrere in ajuto loro, calata la tenda, si arrenderono. Avevano gl'Inglesi il benefizio del vento; finalmente, essendosi messa una brezza leggiera anche pei Francesi, se ne prevalsero, non già per riconquistare le due navi perdute, che intieramente disgiunte dalla flotta loro per la presenza dell'Inglese, che s'era posta in mezzo, non avevano più rimedio, ma bensì per ritirarsi con minor danno che possibil fosse, da quel campo di battaglia oramai più pericoloso che glorioso. La quale mossa riuscì poco ordinata, nè conforme alla volontà dell'ammiraglio; perchè il vascello il Duquesne, che era il capofila, al quale tutti gli altri avrebbero dovuto accostarsi per fronteggiar l'inimico con una non interrotta squadra, o non avendo inteso i comandamenti del capitano generale, o contraffacendo manifestamente al medesimi, passò a sopravvento degl'Inglesi. Fu seguitato dai due vascelli la Vittoria ed il Tonante, per modo che l'armata repubblicana divisa in due, e tramezzata dall'Inglese, non poteva più nè uniformare i pensieri, nè operare di concerto. Ma un cattivo consiglio fu compensato da un valore inestimabile; perchè il Duquesne, la Vittoria, ed il Tonante bersagliarono, nel passare, con tanto furore la fila Inglese, che ne fu mezzo sperperata; gl'Inglesi medesimi, sebbene in quei tempi non giusti estimatori del valore dei Francesi, ne restarono maravigliati. Questo accidente fece anche di modo che Hotham, pensando meglio a risarcire le navi guaste, che a perseguitar l'inimico, andò a porre nel porto della Spezia. Poco tempo dopo passando pel mar Tirreno, si condusse a San Fiorenzo di Corsica, per sopravvedere da luogo più vicino ciò che potesse sorgere da Tolone. Assicurò per allora questa vittoria le cose di Corsica a favor degl'Inglesi. Si ricoverarono i repubblicani dopo la battaglia al golfo di Juan, poscia all'isole Iere, e finalmente nel porto di Tolone.

Questa fu la battaglia del capo di Noli, nella quale fu pari da ambe le parti il valore, ma maggiore dalla parte degl'Inglesi la perizia, e la ubbidienza dei capitani minori. Così fu sturbata ai Francesi l'impresa di Corsica, diventarono i nemici loro padroni del Mediterraneo, le province meridionali di Francia penuriarono vieppiù di vettovaglie, i repubblicani sulla riviera di Ponente furono a tali strette ridotti, che se si mostrarono mirabili nel vincere i pericoli della guerra, più ancora diedero maraviglia nel superare gli stimoli della fame, sì efficace raffrenatrice del bene, sì potente instigatrice del male.

In questo mentre si ebbero le novelle della pace conclusa tra la repubblica Francese, e il re di Prussia, accidente gravissimo, e che diede molta alterazione agli alleati, sì per l'opinione, come per la diminuzione di forze che a loro ne veniva. Non potè però fare, che l'imperator d'Allemagna ed il re di Sardegna non rimanessero in costanza; anzi cominciando a manifestarsi gli effetti in Piemonte del trattato di Valenziana, pel grosso numero di Tedeschi che vi erano arrivati, malgrado dell'alienazione della Prussia, alzarono la mente a più importanti pensieri, nutrendosi della speranza di cacciar del tutto i repubblicani dalla riviera di Genova. Per la qual cosa, avviate le genti loro verso il Cairo, dal quale i Francesi si erano ritirati, ed occupata la sommità dei monti, già inclinavano a qualche fatto memorabile. Erano in tale modo ordinati i confederati, che l'ala loro sinistra guidata dal generale Wallis, e più vicina a Savona, faceva sembiante di volersene impadronire, e di assaltare i Francesi che si erano fortificati al ponte di Vado: il mezzo, dov'era presente il generalissimo Devins, e che era il nervo principale, minacciava di voltarsi al cammino dei siti molto importanti di San Giacomo, e di Melogno: la destra, che obbediva al generale Argenteau, movendosi dalle vicinanze di Ceva, dava a dubitare che con impeto improvviso avanzandosi, andasse a riuscire a Finale. Una grossa squadra di cavallerìa Piemontese stanziava presso a Cuneo, pronta a passar le Alpi, o gli Apennini, ove la fortuna aprisse qualche adito alla vittoria. Corpi sufficienti di truppe, massime Piemontesi, munivano le valli di Stura, di Susa, e d'Aosta sotto la condotta dei duchi d'Aosta e di Monferrato. Davano gran forza a tutte queste genti i Barbetti, come gli chiamavano, i quali, gente piuttosto da strada che da milizia, nascondendosi spediti e leggieri nei luoghi più ermi e più precipitosi delle Nizzarde montagne, erano assai pronti a spiare le mosse dell'inimico, a sorprendere le vettovaglie, e ad uccidere, spesso anche crudelmente, gli spicciolati. Usavano somma barbarie nel difendere la regia causa; nè i comandamenti del re, che desiderava di metter ordine e moderazione fra di loro, bastavano per frenare appetiti così smoderati, e così disumani. Certamente questi Barbetti, se si possono lodare, non dirò dell'intenzione, che pur troppo era rea, ma della cagione che pretendevano ai fatti loro, debbono biasimarsi pei modi che usarono, perchè fecero degenerare la guerra delle battaglie, in assalti fraudolenti e crudeli di strade.

Dall'altra parte i Francesi governati dal Kellerman erano molto intenti alle provvisioni per resistere ai confederati, quantunque l'esercito loro non pareggiasse di numero quel della lega. La loro ala diritta, sotto l'imperio di Massena, stanziava coll'estremità sua a Vado, e distendendosi pei monti di San Giacomo, di San Pantaleone, di Melogno, di Bardinetto, del San Bernardo, e della sommità della Pianeta, arrivava insino alla valle del Tanaro. Quivi incominciava la parte mezzana, che pel colle di Tenda andava a congiungersi sul Gabbione con la sinistra, che muniva i colli di Raus e delle Finestre, e le valli della Vesubia e della Tinea.

Era Savona sito di molta importanza, sì per l'opportunità del porto, sì pel suo castello munitissimo. L'una parte e l'altra, non portando rispetto alla neutralità di Genova, desideravano d'impadronirsene o per insidia, o per una battaglia di mano. Fuvvi sotto le sue mura un'abbaruffata fra i repubblicani che vi erano venuti, e i confederati che gli volevano pigliare: rifulse in questo fatto la virtù del governatore Spinola, che serbò la neutralità, e la piazza, costringendo le due parti a levarsene.

A questa incomposta avvisaglia successero assai tosto battaglie grossissime. Vedevano i confederati essere per loro di somma importanza lo scacciare i repubblicani dalla riviera di Genova, perchè, se a ciò non riuscissero, la Lombardìa Austriaca sarebbe sempre stata in grave pericolo, e la difesa del re di Sardegna, non che difficile, quasi impossibile. Nè stettero lungo tempo dubbj del modo, col quale e' dovevano combattere. Assai lunga era la fronte dell'esercito Francese, poichè si distendeva sui monti Liguri da Vado insino al colle di Tenda. Il romperla in mezzo era un vincerla tutta. Pure importava, giacchè gl'Inglesi avevano l'imperio del mare, e potevano ad ogni ora provvedere gli alleati di viveri e di munizioni, fare lo sforzo contro la fronte Francese non troppo lontano dal lido, affinchè le armi marittime e terrestri potessero cooperare al medesimo fine. Si risolvettero adunque a fare impeto principalmente contro i monti di San Giacomo e di Melogno, onde riuscisse loro di tagliar fuori l'ala diritta dei Francesi dalle due altre parti. Pensarono altresì ad assaltare fortemente il luogo di Vado, dove i repubblicani si erano molto fortificati, affinchè quel presidio non potesse mandar gente in ajuto di San Giacomo e di Melogno, e forse perchè speravano che la fortuna sarebbe stata per loro propizia anche a Vado; il che avrebbe allargato subitamente lo spazio, dove gl'Inglesi potevano approdare. Tuttavìa gli assalti principali erano quello di San Giacomo, che signoreggia il Savonese, e quello di Melogno, che domina Vado, e più dentro penetrava nelle viscere dell'esercito di Francia. Pertanto gli Austriaci assalirono con grandissimo valore il posto di Vado, già inclinando verso il suo fine il mese di giugno; risposero con uguale virtù i Francesi guidati da Laharpe. Tanto fecero i repubblicani, che quantunque urtati più volte con molto impeto, e con numero superiore di genti, non si piegarono punto, anzi ributtarono valorosamente il nemico, che già spintosi avanti con una ostinazione incredibile, si era impadronito del ponte, che dà l'adito dalla sinistra alla destra riva del fiume, che scorre presso alle mura di Vado. Questo fu uno dei fatti della presente guerra, per cui si debbono accrescere le laudi dei Francesi pel valor dimostrato, e per la perizia del saper prendere i luoghi, e dell'usar le occasioni. Ma non con pari fortuna combatterono sui monti di San Giacomo e di Melogno; perchè una grossa schiera di Austriaci condotti da Devins assaltava impetuosissimamente tutti i posti, che munivano le alture del primo: varj furono gli assalti, varie le difese, molti i morti, molti i feriti da ambe le parti: durò ben sette ore la battaglia, nè ben si poteva prevedere, quale avesse a prevalere, o la costanza Austriaca, o la vivacità Francese, avvegnachè quegli alpestri gioghi già fossero contaminati di cadaveri, e di sangue. Finalmente declinò la fortuna dei Francesi; gli Austriaci, che prevedevano che da quella fazione dipendeva tutto l'evento della Ligustica guerra, fatto un estremo sforzo, riuscirono, cacciatone di viva forza gli avversarj, sulla sommità del monte. Con pari disavvantaggio procedevano le cose dei Francesi a Melogno, sebbene non sia stato tanto ostinato, nè tanto lungo lo scontro della battaglia che gli fu data. Era questo sito, nel quale era ridotta tutta la somma della guerra in altre parti, per una omissione inesplicabile del generale Francese, custodito solamente da due battaglioni, inabili certamente, per la pochezza delle genti, ad un grosso sforzo. Lo attaccava Argenteau con cinque mila soldati fioritissimi, e dopo breve contrasto facilmente se lo recava in mano. Il quale accidente mandò in manifesta declinazione la battaglia pei Francesi, e rendè loro impossibile lo starsene più lungamente nelle posizioni che avevano occupato. Per la qual cosa, come prima ebbe Kellerman avviso della perdita di Melogno, mandava Massena con un grosso di quattro battaglioni valentissimi a far opera di ricuperarlo; il che era, non di somma, ma di estrema importanza. Usarono i soldati di Massena molto opportunamente il benefizio di una nebbia assai folta, ed approssimatisi all'improvviso sulle prime guardie, misero in loro tanto spavento, che andarono, senza aspettar altro, in fuga; per poco stette, che non disordinassero le compagnìe, che custodivano le trincee fatte sulla sommità del monte. Ma tanti furono i conforti dei capitani accorsi a far provvisione a questo disordine, che i soldati, ripreso animo, ributtarono valorosamente con le artiglierìe e con le bajonette il nemico, che già si era avvicinato, e faceva le viste di voler saltar dentro i ripari. Ritiraronsi i Francesi, non senza aver perduto buon numero di valenti soldati. Questo rincalzo non tolse loro tanto di speranza, che non tentassero di acquistare con un secondo assalto quello, che non avevano potuto acquistare col primo. Massena medesimo al solito rischievole guidatore di qualunque più difficile impresa, reggeva i passi loro, ed avendogli divisi in tre colonne, comandava alle due estreme, ferissero l'inimico sui due fianchi, alla mezzana, percuotesse di fronte l'altura pericolosa. Marciavano molto confidenti della vittoria; ma la nebbia, che aveva tanto favoreggiato il primo sforzo, fu cagione, che succedesse sinistramente, fin dal principio, il secondo; perchè le due colonne laterali, non bene discernendo i luoghi per cui dovevano passare, in vece di andar al cammin loro, ed operare spartitamente dalla mezzana, si accozzarono a questa per modo, che invece di tre assalti che avrebbero tenuto in sospetto gli Austriaci su tutte le bande, massime sulle laterali più deboli, si ridussero a darne un solo sulla fronte. Questo cangiò del tutto la condizione della battaglia, perchè gl'imperiali combattendo per diretto da quei ripari sicuri con tutte le artiglierìe loro, obbligarono prestamente i repubblicani a ritirarsi, non senza strage, a' luoghi dond'erano venuti. S'aggiunse a questo, che gli Austriaci s'impadronirono del passo dello Spinardo, altro sito importante, che dava loro maggior facoltà di rompere e spartire in due l'esercito di Francia. Occupato san Giacomo e Melogno, salirono gl'imperiali facilmente sui monti che stanno imminenti a Vado, donde poterono bersagliare i Francesi, che tuttavìa vi avevano le stanze. Perlochè questi, disperati pei sinistri occorsi, di poter conservar questo luogo, chiodati ventidue cannoni e due obici, che non potevano trasportare, si ritirarono. Entrarono tosto in Vado gli Austriaci; poservi di presidio il reggimento di Alvinzi.

Mentre tutte queste cose si facevano sulla riviera di Genova, succedevano parecchie battaglie su tutte le creste degli Apennini e dell'Alpi, con vario evento; imperciocchè ed i Francesi s'impadronirono del colle del Monte, per cui potevano aprirsi il passo nel più interno della valle d'Aosta, e si combattè al monte Ginevra molto valorosamente per ambe le parti, e con lo stesso valore al colle di Tenda, ed a San Martino di Lantosca; volevano e Francesi e Piemontesi ajutare con questi assalti lontani le maggiori battaglie del Genovesato.

Kellerman, veduto che per l'occupazione fatta dagli alleati dei siti più importanti verso Savona, le sue stanze in quei luoghi non erano più sicure, e che la sua ala dritta correva pericolo di esser tagliata fuori dalle altre, pensò a tirarla indietro, restringendo in tal modo tutta la fronte de' suoi, che siccome troppo lunga dal piccolo San Bernardo sino ai confini di Vado, era più debole al resistere ad un nemico superiore di numero. Perlochè tirandola con molta prudenza e singolare arte indietro, l'andava a porre a Borghetto, donde salendo per Ceriale, Balestrino, e Zuccarello, e piegando pei monti, dai quali sorge il Tanaro, andava a congiungersi con la schiera che muniva il colle di Tenda, e quindi con tutta la fronte dell'esercito. Per tal modo Finale e Loano, abbandonati dai repubblicani, vennero in poter degl'imperiali.

La ritirata dei Francesi da Vado era necessaria per la salute loro, ma fu loro da un altro lato di grandissimo incomodo a cagione della mancanza delle vettovaglie, perchè i Corsari Vadesi e Savonesi con bandiera Austriaca correvano continuamente il mare, e lo tenevano infestato sino a Nizza per modo che i bastimenti Genovesi non potevano più portarvi i fromenti; a mala pena alcune navi più sottili d'Idriotti, sguizzando la notte, o pel favor di venti prosperi, riuscivano ad approdarvi, sussidio insufficiente a sollevare tanta carestìa. Per privare viemaggiormente le navi neutre della comodità di farsi strada ai lidi di Francia, ed alla parte della Riviera occupata dai Francesi, aveva il generale Austriaco armato nel porto di Savona certe grosse fuste, che portavano venti cannoni. Erano anche giunte in Vado due mezze galere, e quattro fuste Napolitane, che stavano vigilantissime nel sopravveder il mare. A tutti questi legni minori facevano ala le fregate Inglesi, che opprimevano con forza superiore, quanto fosse riuscito alle navi minori di scoprire. Per tutto questo nacque una penuria incredibile nel campo Francese, e già si promettevano i confederati, che i repubblicani, indeboliti dalla fame pensassero oramai a ritirarsi da tutta la riviera. Ma i Francesi, non mostrandosi meno costanti nel sopportare l'estremità del vivere, di quanto fossero stati valorosi nei fatti d'arme, continuavano ad insistere dal Borghetto, e dal Ceriale, in attitudine minacciosa e fiera. Il che vedutosi dai capi della lega, e stimando che ove la fame non bastava, e' bisognava usar la forza, assalirono con numero e con valore le posizioni nuove, alle quali i repubblicani si erano riparati. Sanguinose battaglie ne seguitavano, in cui ora gli uni, ed ora gli altri restavano superiori: la somma fu, che non essendo venuto fatto agli alleati di sloggiar i Francesi perdettero il frutto di tutta l'opera, perchè il non superare quei luoghi era un perdere tutto il frutto del trattato di Valenziana, un pruovare, che le potenze imperiale e regia erano impotenti a far impressione in Francia, un lasciar pendente la lite dell'acquisto, o della preservazione d'Italia, e finalmente un dar tempo ai Francesi di valersi dell'accidente favorevole della pace di Spagna, che già si negoziava, ed era vicina al concludersi. Così le sorti d'Italia si arrestarono, ed ebbero il tracollo sul piccolo ed ignobile scoglio del Borghetto.

Intanto le cose vieppiù s'allontanavano dalla temperanza in Napoli. Eranvi nate sì pel famoso grido della rivoluzione di Francia, sì per le instigazioni segrete di alcuni agenti di questo paese, sì per l'esempio e le esortazioni degli uomini venuti sull'armata dell'ammiraglio Truguet, che aveva visitato il porto di Napoli nel novantatre, e sì finalmente per l'inclinazioni dei tempi, opinioni favorevoli alla repubblica. Alcuni giovani con molta imprudenza palesemente la professavano; altri meno imprudenti, ma più inescusabili s'adunavano, e facevano congreghe segrete a rovina del governo. Notaronsi i discorsi, seppersi le trame: il governo insorgeva a freno dei novatori. Aveva la regina Carolina, che molto strettamente si consigliava col ministro Acton, gran parte nelle faccende del regno. Lo sdegno concetto da Carolina pei danni pubblici e privati, era operatore ch'ella credesse annidarsi più malevoli, che veramente non s'annidavano. Forse ancora si dilettava di vendetta contro coloro, che erano stimati partecipi di quelle opinioni, che avevano dato l'occasione, onde a sì lagrimevol fine fossero stati condotti i suoi parenti e consanguinei in Francia. Il ministro Acton, conosciuto l'umore, si studiava, come i favoriti fanno, di andare a seconda, con rappresentare continuamente all'animo della regina già tanto alterato, congiure, e tentativi di ribellioni pericolose. Creossi una giunta sopra le congiure. Furonvi eletti il principe Castelcicala, il marchese Vanni ed un Guidobaldi, antico procurator di Teramo, uomini disposti non solamente a far giustizia, ma ancora ad usar rigore. Emanuele de Deo, giovane invasato delle opinioni nuove, e mescolato nelle congreghe segrete, fu punito coll'ultimo supplizio, e morì con mirabile costanza. Alcuni altri, rei com'egli, furono condotti alla medesima fine: alcuni carcerati, alcuni confinati. Ciò era non solo dritto, ma ancora debito dello stato: ma si crearono gli uomini sospetti, parte per indizj più o meno fondati, parte anche senza indizj, mescolandosi le emulazioni e gli odj particolari là dove non era nè reità, nè indizio di reità. Le carceri si empierono. Era un terrore universale; s'indugiavano i giudizj; le pietose ambizioni non si stimavano, perchè il pregare pei parenti venuti in disgrazia, ed il difendere degli avvocati generava sospetto. Il famigliare consorzio era contaminato dalla paura dei delatori. Diceva Vanni, già confinata in carcere una gran moltitudine, pullulare tuttavìa nel regno i giacobini; abbisognare arrestarsene ancora ventimila; nè si ristava: i carcerati si moltiplicavano. Fu imprigionato Medici, perchè Acton aveva gelosìa dell'autorità di lui, e perchè credeva che aspirasse al favor della regina per mezzo di una sorella, damigella molto intima di Carolina. Anzi cotale macchina fu ordita per condurlo al precipizio, che se nol salvava l'integrità del giudice Chinigò, vi sarebbe anche caduto sotto, e fora stato privato il regno di un uomo di non ordinaria perizia negli affari di stato. Era Medici, oltre le opinioni che gli si attribuivano, querelato di carteggio con Francia: esibironsi anche le lettere in giudizio, come se di Francia venissero, quando Chinigò molto diligentemente risguardando, fece vedere, Napolitane carte essere, non Francesi. Duravano già da molto tempo le pene insolite, nè rimetteva il rigore. I popoli prima si spaventavano, poi s'impietosivano, finalmente si sdegnavano: ne facevano anche qualche dimostrazione. Pensossi al rimedio. Siccome Vanni principalmente era venuto in odio all'universale, ed a lui più che a' suoi compagni si attribuivano i fatti occorsi, così fu dismesso ed esiliato da Napoli, gratitudine degna del benefizio. Ciò non ostante non fu piena la moderazione che si aspettava, perciocchè l'asprezza non cessò del tutto, se non quando Napoli venne a patti con Francia. Di questi umori terribili era pieno il Napolitano regno, nè è da far maraviglia, se abbiano poscia sboccato con tanto impeto, e fatto sì grande inondazione, quando gli accidenti gli ajutarono.

Frattanto non si confermava l'imperio Inglese in Corsica, parte per l'inquietudine naturale di quella nazione, parte perchè i partigiani Francesi vi erano numerosi, parte finalmente perchè i popoli attribuendo, come sogliono, a quel nome di libertà più di quello che dare può, sì erano dati a credere, ch'ella dovesse indurre l'immunità delle tasse; quando poi si trovarono scaduti dalle speranze, si erano sdegnati, e gridavano, aver solo cambiato padrone, non peso. Oltre a ciò grande era tuttavìa il nome di Paoli in Corsica, e coloro che più amavano l'indipendenza che l'unione con gl'Inglesi, voltavano volontieri gli animi a lui, come a quello che avendo contrastato l'acquisto della Corsica ai Francesi, poteva anche turbarlo agl'Inglesi. Tutti questi motivi o spartitamente, o unitamente operando, facevano, che non quietando gli animi, erano sorti parecchi rumori in alcune pievi quà dai monti, massimamente nei contorni d'Ajaccio. Si adunavano quà e là bande armate, che non contente al non pagar esse le contribuzioni, impedivano che altri le pagasse, ardevano i magazzini del pubblico, entravano armatamente nelle case dei particolari addetti alla Francia, ed anche di quelli che amavano l'Inghilterra, minacciando, ed ogni cosa rubando. Il male già grave in se, induceva ogni giorno maggior timore; alcuni già gridavano apertamente il nome di Francia. Nè la mala riuscita delle armi navali Francesi nel Mediterraneo aveva potuto moderare questi umori già mossi; che anzi mescolandosi la pervicacia del continuare all'animosità del cominciare, si temeva una turbazione universale, se prontamente non vi si provvedesse. Per la qual cosa il vicerè Elliot, avvisato prima diligentemente in Inghilterra quanto occorreva, mandò fuori un bando esortatorio. Rammentava i benefizj dell'Inghilterra; avere liberato i Corsi dall'anarchìa e da un truculento dominio; col proprio sangue aver loro conservato quel quieto e libero vivere; sopperire col denaro proprio alle spese più gravi; soldati Corsi pagarsi da lei; l'arsenale d'Ajaccio da lei fornirsi; inviolata essere in Corsica la libertà delle persone, sacre ed inviolate le proprietà; il mare libero alle navi mercè la tutela del naviglio Inglese; la religione antica rispettata, trattarsi con la santità del papa nuovi ordinamenti al bene universale molto utili; tutto presagire, tutto promettere un buono e facile ordine di governo: che voler dunque significare questi umori, e questa turbolenza nuova? Badassero a non corrompere coi tumulti il bene universale; badassero che ove la licenza regna in luogo della legge, ivi non son più sicure nè le proprietà, nè le vite; badassero quanto imprudente fosse, quando era il tempo di stabilire la libertà e la sicurtà della Corsica, spargere semi di nuovi travaglj, che potevano aprir l'adito a farla ritornare nella servitù di un nemico arrabbiato e vicino; volere un governo senza tasse, essere stoltizia; doversi meno lagnar la Corsica di altri popoli, poichè l'Inghilterra suppliva del suo, ed i rappresentanti consentivano; ricordassersi della fede data, del giuramento fatto; avere più compassione che sdegno ai traviati, preferire l'ammonizione alla punizione; ascolterebbe ogni giusta querela, farebbe ragione ad ogni discreta domanda, ma non sarebbe mai per tollerare, che la violenza prevalesse alla legge, nè che fossero offesi in Corsica la dignità della corona, ed i diritti constituiti del re.

Queste esortazioni non restarono senza effetto, non già sulle popolazioni mosse, perchè a popolo mosso bisogna parlar co' fatti, non con le parole, ma bensì su quelle d'oltremonti, che eleggevano volentieri di stare sotto l'imperio d'Inghilterra. Laonde, ordinate alcune squadre di soldati subitarj, furono mandate ad ajutare nelle pievi licenziose le esortazioni del vicerè. Oltre a tutto questo Paoli, o cagione, o pretesto che fosse di questi romori, fu chiamato in Inghilterra dal re, il quale, perchè la chiamata fosse più onesta, gli aveva scritto, la presenza sua in Corsica fare i suoi amici troppo animosi; se ne venisse pertanto a respirare aere più tranquillo in Londra; rimunererebbe la fede sua, metterebbelo a parte della propria famiglia. Paoli, obbediendo all'invitazione, se ne giva a Londra, trattenutovi con due mila lire di sterlini all'anno. Visse sino all'ultimo più accarezzato che onorato. Così finì Pasquale Paoli nome riverito nella storia, e che sarebbe molto più, se non fosse nata la rivoluzione di Francia. Imperciocchè a lui furono più gloriose le disgrazie che le prosperità, e l'integrità del suo nome incominciò a restare offesa, quando consentì ad essere ripatriato dalla Francia, e molto più quando volle sottomettere la patria all'Inghilterra; e poichè era fisso là donde ogni accidente umano procede che la Corsica avesse ad essere, non di se stessa, ma o Francese o Inglese, era richiesto a Paoli, che nè accettasse il benefizio di Francia, nè servisse ai disegni d'Inghilterra. Tanto è vero, che ad alcuni uomini è più glorioso il riposare, che il travagliarsi! Ma volle il destino, che questo illustre Corso servisse di nuova ammonizione a coloro, che o per ambizione, o per l'amore scelerato delle parti sottomettono la patria loro agli strani; perchè il minor male che si abbiano, è il sospetto di coloro, a cui hanno servito.

Gli avvertimenti del vicerè, le mosse dei soldati Corsi ai soldi d'Inghilterra, la partenza di Paoli, ed insieme i benigni ordini venuti da Londra furono di tanta efficacia, che i comuni sollevati, fra gli altri massimamente quelli di Ajaccio e di Mezzana più ostinati, deposte le armi, tornarono all'obbedienza. Così fu ristorata, se non la concordia, almeno la pace in Corsica, non sì però, che per l'infezione delle parti non vi fossero molti mali semi, che avevano a partorire fra breve effetti notabili a pregiudizio degl'Inglesi in quell'isola.

Qualche moto anche accadde a questi tempi in Sardegna, principalmente in Sassari, città vicina alla Corsica. Il popolo sollevato domandava gli stamenti, che non sono altro che gli stati generali di Sardegna; domandava i privilegj conceduti dai re d'Aragona, domandava i patti giurati nel 1720. Capi e guidatori di questo moto erano Goveano Fadda, Giovacchino Mundula, e principalmente il cavaliere Angioi, uomo tanto più vicino alla virtù modesta degli antichi, quanto più lontano dalla virtù vantatrice dei moderni. Sassari mandò i suoi deputati a Torino, perchè, moderatamente procedendo, i diritti ed i desiderj dei Sardi al re rappresentassero. Dieronsi ai deputati buone parole, e forse qualche cosa più che buone parole. La missione loro non partorì frutto, e se ne partirono disconclusi. Intanto furono i tumulti di leggieri sedati, componendosi di nuovo il vivere nella solita quiete con grande contentezza del re, che molto mal volentieri aveva veduto contaminarsi la difesa di Cagliari dalle sollevazioni di Sassari. Fadda, Mundula, ed Angioi si posero con la fuga in salvo.

In questo mezzo tempo si udirono importantissime novelle da Basilea, essere la Spagna, partendosi dalla confederazione, condescesa il dì ventidue luglio alla pace con la repubblica Francese; il quale accidente tanta efficacia doveva avere in Italia, principalmente negli stati del re di Sardegna, quanta ne aveva avuto negli affari di Germania, e principalmente in quei dell'Austria, la pace conchiusa tra la Francia e la Prussia; i repubblicani vincitori dei Pirenei potevano facilmente voltarsi contro l'Italia per farvi preponderare le forze Francesi. Mossi poi anche i Parigini reggitori da quel loro perpetuo appetito d'invadere l'Italia, col diventar padroni del Piemonte per la pace, del Milanese per la guerra, erano stati operatori, che s'inserisse nel trattato con la Spagna il capitolo, che la repubblica Francese in segno d'amicizia verso il re Cattolico, accetterebbe la sua mediazione a favore del regno di Portogallo, del re di Napoli, del re di Sardegna, dell'infante duca di Parma, e degli altri stati d'Italia, a fine di concordia tra la repubblica e questi principi. Ulloa, ministro di Spagna a Torino, fece l'ufficio, profferendosi a mediatore tra la repubblica, ed il re Vittorio. Offeriva la conservazione, e la guarentigia dei proprj stati, se consentisse a starsene neutrale, e a dar il passo ai Francesi verso l'Italia. Offeriva la possessione del Milanese, se si risolvesse a collegarsi con la repubblica. Mescolaronsi al solito speranze di acquisti di territorj più contigui, se cedesse l'isola di Sardegna alla Francia. Udiva il re Vittorio molto sdegnosamente le proposizioni della Spagna, e sulle prime dichiarò, voler continuare nell'alleanza con l'Austria. Ma poichè fu più pacatamente considerata la cosa, o che s'inclinasse ai patti, o che solo si volesse aver sembianza d'inclinarvi, si convocò il consiglio, al quale furono chiamati molti uomini prudenti, ed altri assai pratichi delle militari faccende. Erano per deliberare intorno ad un soggetto gravissimo, e da cui dipendeva questo punto, se il Piemonte avesse a conservare la signorìa di se medesimo, o di cadere in servitù di forestieri. Era presente a questo consiglio il marchese Silva, figliuolo di uno Spagnuolo, console di Spagna a Livorno. Pratico delle cose del mondo per molti viaggi in Europa, massimamente in Russia, dove era stato veduto amorevolmente dall'imperatrice Elisabetta, pratico delle cose militari per lungo studio ed esperienza, avendo anche scritto trattati sull'arte della guerra, condottosi finalmente agli stipendj della Sardegna, era il marchese da tutti stimato e riverito. Chiesto del suo parere in sì pericoloso caso, parlò, con singolare franchezza, in questi termini:

«Io fui più volte interrogato su quanto tocca questa infelice guerra, e sempre quanto risposi fu da tutti contrastato, da molti in sinistra parte voltato, da alcuni tenuto a vile, come se la malaugurosa Cassandra, sempre veritiera e non creduta mai, io mi fossi; e certamente qualunque sia il momento della presente occorrenza, che è grandissimo, anzi estremo, a tutt'altra cosa io avrei pensato prima che a questa, ch'io dovessi di nuovo del mio consiglio essere ricerco. Ma comunque ciò sia, e quantunque io avessi ad essere o poco grato ad alcuni, o calunniato da altri, non voglio in questo del mio debito mancare verso chi mi chiama, verso quel signore ch'io adoro, verso quella patria, che per mia, come se nato ed educato vi fossi, volonterosamente mi scelsi. E prima ch'io d'altre cose mi discorra, voglio su questo primo principio insistere, che una nazione, che libera vuol essere, libera sarà, e che contro di lei niuno impedimento è che prevalga; che se poi questa nazione fia grande, fia generosa, fia guerriera, acquisterà per questa medesima libertà tale forza, tale grandezza, tale potenza, che sotto il suo dominio, od almeno sotto le sue leggi tutti i suoi vicini ridurrà. Ora, in nome di Dio, di che si tratta nella presente controversia, se non se di accettar queste leggi onorevolmente, o di subirle ignominiosamente? e quale esitazione può essere, quale dubbio può cadere, quando si va a scerre tra un amico, forse un po' insolente, ed un nemico certamente irritato e superbo? Come un uomo prudente potrà stare in pendente, massimamente considerando la fede dubbia di un alleato, piuttosto invasore delle nostre province, che difenditore, cagione piuttosto della rovina di questo stato, che preservatore della sua salvezza? Conciossiachè, se son rotte d'ogni intorno con ispaventevole fracasso le difese di questo una volta felicissimo e securissimo regno, se la tempesta è pronta a scagliarsi nelle fertili pianure del nostro bel Piemonte, se già le fortezze vacillano, se già gli animi stan dubbj, se già lo spavento universale un eccidio universale prenunzia, se già l'Italia trema all'apparenza di un funesto avvenire, a chi deonsi tante calamità riferire, a chi sentirne obbligo, se non se a questo medesimo ambizioso, e poco fedele alleato? V'accese con incentivi subdoli, v'ingannò con sussidj insufficienti. Sovvengavi, signori, di quanto io già vi dissi, ed evidentemente altre volte dimostrai, che ove i Francesi riusciti sono a far fondamento delle operazioni loro una linea, che dal fianco orientale dell'Alpi partendo, va a dar negli Apennini, l'importantissima barriera dei monti, e delle fortezze è superata, ed il Piemonte privo de' suoi ripari, circondato, investito da tutti i lati senza difesa ridotti, si trova vicino ad una ruina inevitabile. Io dimostrai al re, quando mandommi a visitar i luoghi, che questa linea dalle Viosene insino a Toirano è insuperabile; poichè le creste dei monti per Termini ed il Galletto sino a Balestrino sono del tutto inaccessibili; che se spuntar si volesse dal Carlino, entrerebbe l'esercito in una gran fondura tra questo luogo appunto, e la contea di Nizza, dove lo sforzo di cinquanta mila combattenti sarebbe ed inutile contro il nemico, e fatale per loro. Nè migliore speranza si avrebbe, se dalla destra parte verso il Ceriale entrar si volesse, poichè i Francesi ad una seconda posizione preparata ritirandosi, e noi sappiamo che quattro fino a Ventimiglia le une più forti delle altre ne hanno, sempre potranno a posta loro, poichè occupano le più alte cime, dai luoghi più alti ai più bassi calare, e conseguentemente senza ostacolo nessuno, nel cuore stesso del Piemonte penetrare. Odo, che voi avete speranza nell'esercito vostro: ma l'esercito, sebbene per valore a nissuno sia secondo, già debole per se, ed indebolito per tante morti, a mala pena potrà bastare a presidiar la città capitale, o se indugiasse a ricoverarvisi, investito sui fianchi, circondato, e tagliato fuori dalle colonne Francesi partite da tutti i punti della circonferenza dalla riviera di Genova, e dalla valle del Tanaro sino alla Torinese Stura, alcun rimedio più non avrebbe alla sua salute. Tutte queste cose non possono parer dubbie, se non a coloro che o i luoghi non conoscono, o quanto sia debole l'esercito, quanto penuriose le finanze, quanto potenti i semi della ribellione non sanno. Veggono alcuni più parziali che prudenti uomini, con gli occhi loro abbacinati, scender continuamente dal Tirolo in ajuto del Piemonte ora quaranta, ora sessanta mila Tedeschi. Ma volesse pur Dio, che questa gente armata avesse più corpo in terra, che chimera od ombra nella fantasìa di certi consiglieri ardenti: la fama è oramai troppo lunga, perchè l'ajuto sia vero. Certamente fallace consiglio sarebbe il promettersi qualche cosa dalle vane speranze, dalle esagerazioni lusinghiere, dalle promesse ingannevoli della corte di Vienna. Ma che dico? Quando i fatti parlano, qual bisogno v'è di parole? Non fu stipulato nel trattato di Valenziana, che gli Austriaci solamente combatterebbero nella pianura? Ignorate voi forse gli ordini dati agli imperiali capi di non mettersi senza grande occasione in potestà della fortuna, di tenersi grossi, di usare moderatamente i soldati, di serbargli interi per la difesa della Lombardìa? Non disselo a chiare note, non predicollo apertamente a me e ad altri Devins medesimo? Voi potete a grado vostro dire, che la difesa della Lombardìa è in Piemonte, poichè ciò era vero, or son due anni, e non è più vero oggidì, perchè le Alpi son perdute, gli Apennini invasi, la pianura aperta, e voi state qui deliberando paventosi, e dubbj se vi sia possibile difendere la real Torino, e l'antico trono di questi principi giustissimi. Che se voi persistete a dire che in Piemonte è la difesa della Lombardìa, potrebbero a giusta ragione rispondervi i generali dell'Austria, che essendo oramai il Piemonte privo di difesa, se l'esercito loro si ostinasse a volerlo difendere per ritardar qualche tempo l'invasione della Lombardìa, correrebbe pericolo esso medesimo di esser tagliato fuori dal Milanese, e che per tal modo la Lombardìa stessa, l'esercito destinato a difenderla, ed il Piemonte con loro, sarebbero ad uno e medesimo tempo senz'alcuna speranza di poter risorgere perduti, e l'Italia a servil giogo posta. Non combatte l'uomo col medesimo valore quando difende le cose altrui, come quando difende le proprie. Di ciò debbonvi avervi fatti avvertiti gli Austriaci, quando già sì mollemente in ajuto vostro combatterono in casi, in cui ci andava o la speranza del conquistare, o la sicurtà loro. Eppure erano allora le forze vostre in essere, ora son prostrate; od io a gran partito m'inganno, od alle prime mosse dei Francesi verso Genova, voi vedrete questi medesimi Austriaci correre precipitosamente verso la Lombardìa, ed in preda al vincitore abbandonarvi, senza neppur lasciare un soldato in ajuto vostro di quel già sì debole e sì estenuato esercito ausiliario, che l'imperatore si è obbligato a mandarvi.

«Adunque, essendo tutte le difese dello stato od in mano del nemico, od in pericolo di cadervi, le genti nostre diminuite di numero e di animo, l'alleato poco fedele, e piuttosto della salute sua che della nostra sollecito, nè potendo le nostre necessità aspettare la tardità dei rimedj che si preparano, io porto opinione, che la pace sia assai più sicura della guerra, ed alla pace vi conforto, e la chiamo, e la bramo ora che le forze, che ancor vi restano, ve la possono dare onorevole e sicura; che se aspettate l'ultima necessità, fia la pace infame, fia distruttiva, fia congiunta con servitù intiera ed insopportabile. Se altro partito miglior di questo vi sovviene, avrei caro udirlo; ma qualunque ei sia, non istate più indugiando, che il tempo pressa, l'occasione fugge, il pericolo sovrasta. Or vi spiri benigno il cielo, e vi faccia deliberar sanamente a salvazione del generoso Piemonte, ed a preservazione della nobile Italia».

Questo discorso porto da un uomo pratico di guerra, di natura molto veridica, congiunto di amicizia col generale Austriaco Strasoldo, fece non poco effetto negli animi dei circostanti, dei quali una parte inclinava agli accordi quantunque tutti avessero la volontà aliena dai Francesi. Ma sorse a contrastar questa inclinazione alla pace il marchese d'Albarey, il quale, sebbene fosse d'indole pacifica e d'animo temperato, essendo stato operatore del trattato di Valenziana, e fondandosi sulle considerazioni politiche, opinava, doversi nella guerra e nella fede data all'Austria perseverare.

«Sono, ei disse, più che qualunque altra azione umana all'arbitrio della fortuna sottoposte le militari fazioni; le politiche cose altre variazioni non fanno, se non quelle che suole indurre la prepotente forza dell'armi. Della quale differenza la cagione si è, che le prime pendono intieramente dai casi fortuiti e dal coraggio degli uomini sempre soggetto a spaventi inopinati, mentre le seconde stanno fondate sulle umane passioni, le quali sono sempre in tutti i luoghi ed in tutti i tempi le medesime. Infatti si vede che la guerra mette spesso in fondo i più potenti, i più gloriosi reami, mentre quelli che alla ragione di stato prudentemente si conformano, vivono tutto quel corso di vita che dalla natura alle opere umane è concesso. Ha la forza in se non so che di cieco e di disadatto, che la fa dar negli scogli e nelle ruine; ha la prudenza, figliuola della cognizione vera delle umane passioni, in se non so che di disinvolto e di sguizzante, che fa che chi la segue schivi gli ostacoli, e viva eterno. Propone il marchese Silva che si faccia la pace, perchè, come crede, non si può più far la guerra; chiama l'Austria infedele; è confortatore, che il re si fidi nella repubblica Francese, la quale, sebbene ora faccia certe dimostrazioni in contrario, è pure la nemica naturale e terribile di tutti i re. Ma sul bel principio del mio favellare, e su di questo medesimo argomento di guerra insistendo, di cui tanto è il mio avversario perito, io domando a lui, quale dei due eserciti sia più grosso, o del nostro congiunto alle genti Austriache, o di quello del nemico, solo esposto a tutto lo sforzo degli alleati? Certamente, qual uomo sincero, qual egli è, sarà per rispondere, il nostro. E se gli domando, s'ei crede che per la congiunzione delle genti de' Pirenei, il Francese diventi più potente del confederato ingrossato per la giunta di nuove genti Tedesche, certo ancora ei risponderà, non credere; poichè e i Pirenei saran pure da guardarsi; e la pace con la Spagna non sarà senza sospetto. Finalmente se io gli domando, s'egli stima i Francesi più valorosi dei Piemontesi, o più degli Austriaci, certo sono ch'ei risponderà, non istimare. Dove vanno dunque a ferire queste instanti querele, che voglion significare questi predicati spaventi? Sono i Francesi padroni delle cime dei monti! E siano, e s'arrovellin pure per la fame, per la miseria, per la intemperie in que' luoghi alpestri e selvaggi; che se hanno i gioghi, e' non hanno i passi, e non vedo che alcuna fortezza vacilli, non che sia in mano loro, ed il penetrar in Piemonte con le fortezze nimichevoli a ridosso, sarebbe pei Francesi stoltizia, piuttosto che coraggio, sarebbe caso più desiderabile per noi, che spaventoso; che anche quì il valor Piemontese ed Austriaco affrontolli, ed anche quì biancheggiano ancora i campi delle Francesi ossa prostrate in battaglie giuste da queste stesse mani, da queste stesse armi, che ora contro la rabbia loro difendono l'appetita Italia. Nè so restar capace, come si possa accagionare la fede, od il valore delle genti Tedesche. Sanlo Savona e San Giacomo, sanlo Vado e Melogno ancora tinti da repubblicano sangue come feriscono le spade, come piombino le palle Tedesche. Che i generali d'Austria abbiano cura della Lombardìa, il crederei facilmente, e debbonla avere: ma che non curino il Piemonte, dov'è colui che lo dice? Poichè tanto sangue sparso, tante incontrate morti, non solo sui monti della Liguria, ma nei seni più reconditi delle Alpi, rendono testimonianza in contrario. Ma pogniamo esser le cose della guerra tanto pericolose, quanto il mio avversario asserisce, io non crederò punto mai, ch'elle siano disperate. Che ancora abbiam braccia e petti, ancora abbiam fortezze nelle bocche delle Alpi, nè credo, che siamo in grado di essere costretti ad abbracciare consigli pericolosi, od a farci incontro ad occasioni immature. Ma giacchè si grida pace, vediam che cosa sia, vediam che in se porti questa consigliata pace. La pace con la Francia importa la guerra con l'Austria; il cedere la Savoja e Nizza ai Francesi vuol significare il ricevere dalle mani loro rapaci qualche porzioncella del Milanese, vuol significare il dar loro il passo pel Piemonte, vuol significare il permettere che vadano a ferire direttamente il cuore di coloro, che fin quì difeso hanno il cuor nostro. Sicchè io vedo l'infamia sul limitare stesso di quest'accordo; perchè quivi è un dare al nemico, ed un arricchirsi delle spoglie dell'amico. Pure l'onore è qualche cosa in questo mondo, e l'incertezza degli umani eventi vi dee tener avvertiti, che tardi o tosto avrete bisogno di alleati; e quale alleato possiate trovare, dopo tanta ignominia, per me già nol so. Ma più addentro questa materia considerando, io trovo che l'accordo con Francia sarebbe la servitù del Piemonte, sarebbe il suo soqquadro, sarebbe la sua ruina. Non possono gli Austriaci, quantunque presenti, tanto avvilupparci, che diventiam servi delle spade Alemanne, perchè le sedi loro troppo sono dalle terre nostre lontane. Possonlo, e facilmente i Francesi, perchè qui pur troppo siam vicini alla fonte di un tanto diluvio, e non so se vi conforti la moderazione loro, la quale quanta e quale sia, sallo il mondo pieno oramai tutto per opera loro di spaventi e di ruine. Per giudicare quali i Francesi siano, e di che sappiano in casa altrui, addomandatelo ai Fiamminghi, addomandatelo agli Olandesi, e se son contenti essi di avergli per alleati, ed in casa loro, siatene pur contenti ancora voi, ed abbiatene il buon pro. Semi sonvi di rivoluzione e di sommossa in Piemonte? Certo sì che vi sono. Ma credete voi, o mio buon marchese Silva, che i Francesi con la presenza loro gli spegneranno? Per me nol credo; credo anzi al contrario, che le giacobine teste pulluleranno, all'aperto si mostreranno, di ultimo sterminio questa felicissima monarchìa minacceranno. Condanneranle forse i Francesi in pubblico, ma fomenteranle in segreto; camminerà lo stato sopra ceneri ingannatrici, e quando voi vi risolverete a mettere il piè sulle prime faville, le farete prorompere in universale incendio. Un manifesto francese poi molto bene acconcio, che di manifesti e di ciarle non hanno inopia, accomoderà il tutto con chiamar voi traditori, voi, che altro non avrete fatto, che sopportar pazientemente la superbia loro. S'abbia la Prussia, s'abbia la Spagna pace con la Francia, poichè per esse non debbono passar i Francesi per andarsene ai disegni loro; ma poichè eglino per nissun'altra cagione vi propongono a questi giorni la pace, se non se per passare in Piemonte ad invadere la Lombardìa, pare a me che la guerra assai più sicura sia della pace; perciocchè la presenza di questi smodati repubblicani non può essere senza semenze funeste, non senza scandali, non senza sommosse, non senza inevitabile perdizione. Nè vi esca di mente, che la Francia per non altro vi richiede ora di pace, che per farla con l'Austria più potente di voi; nè siate per dubitare punto, che ove si scoprirà la prima occasione di far pace con lei, la farà, e lasceravvi nelle peste, nè ricorderassi di voi, manco ancora dell'amicizia vostra, e dovrete tenervi molto fortunati, se non avrete ad accorgervi dai patti che seguiranno, quanto pregiudizioso consiglio sia l'abbandonare un amico fedele e pruovato, per darsi in braccio ad un amico infedele e nuovo; che questi guadagni appunto si fanno i deboli, quando vogliono farla da astuti coi potenti. Odo favellare di penuria di finanze. Ma che penuria, quando ci va la salute dello stato? Per me, ho vergogna di parlar di denaro, quando si tratta dell'essere, o del non essere. Poi credete voi, signor mio, che la Francia sia meglio per impinguar il nostro erario, che l'Inghilterra? Se vel credete voi, non so qual semplicità sia la vostra. Quanto a me, io mi credo che meglio proceda il denaro da chi ne ha troppo, e il getta in casa altrui, che da chi ne ha poco, ed il rapisce in casa altrui. Ora recando alla somma quello, che sono ito finora minutamente considerando, a me pare, che l'amicizia con l'Austria sia più sicura e meno pericolosa, che l'amicizia con Francia. Perciò esorto e prego, che rifiutati i partiti temerarj, e mostrando il viso alla fortuna, ed alla costanza nostra già tanto famosa non mancando, dimostriamo al mondo, che il Piemonte minacciato a' tempi nostri non ha avuto minor animo, che il Piemonte invaso ai tempi andati».

Queste parole vere in se stesse non restarono senza effetto, meno perchè vere erano, che perchè gli animi non avevano per un'anticipata risoluzione alcuna inclinazione alla concordia. Per la qual cosa, posta in non cale la mediazione di Spagna, e tagliata ogni pratica, deliberossi di continuar nella guerra contro la Francia, e non si partire dall'alleanza con l'Austria. Certamente il partito era pieno di molta dubbietà; perchè non vi era minor pericolo nelle suggestioni, che nelle armi repubblicane, e si temevano con molta ragione gli effetti, che avesse a portar con se la presenza dei Francesi in Piemonte. Laonde la risoluzione fatta non è se non da lodarsi, non perchè più sicura fosse, ma perchè in pari pericolo da ambe le parti, ella era più onorevole.

Giugneva intanto il tempo, che doveva mostrare, se quelle armi, che non senza grave fatica e stento avevano potuto contrastare ai Francesi divisi tra Spagna ed Italia, potessero resistere all'impeto loro unito: ed indirizzato a voler fare la conquista dell'Italiane contrade. Già fin dal principio di quest'anno si era deliberato nei consigli di Francia di voler passare con le armi in Italia. Uno dei principali confortatori a quest'impresa era Scherer, riputato fra i buoni generali di Francia, per le pruove fatte recentemente da lui nelle guerre di Germania e di Spagna. Si rinfrescavano vieppiù questi pensieri dopo la pace di Spagna; e parendo, che quegli che ne aveva fatto il disegno, più accomodato capitano fosse per mandarlo ad esecuzione, fu egli preposto all'esercito d'Italia, restando Kellerman a governare solamente le genti alloggiate nelle Alpi superiori. Concorrevano intanto i soldati repubblicani dai Pirenei agli Apennini, e con loro parecchi guerrieri di nome. Inclinava omai la stagione all'inverno, e trovandosi gli alleati riparati a luoghi forti per natura, e per arte, a tutt'altro pensavano fuori che a questo, che i repubblicani, massime privi com'erano di cavallerìe, con poche e piccole artiglierìe, e ridotti in una insopportabile stretta di vettovaglie, avessero animo di assaltargli. Ma i soldati della repubblica usi a vincere le difficoltà che più insuperabili si riputavano, ed astretti anche dall'ultimo bisogno ad aprirsi la via per mare e per terra verso Genova, dalla quale sola potevano sperare di trarre di che pascersi, non si ristettero, ed opponendo un coraggio indomabile all'asprezza del tempo, alla mancanza dell'armi, alla carestìa del vivere, ad un nemico più numeroso di loro, abbondante d'armi e di munizioni, fortificato in luoghi già per se stessi malagevoli, si deliberarono di voler pruovare, se veramente il valore vince la forza, e se l'audacia è padrona della fortuna. Così si preparava la battaglia di Loano, assai famosa pel valore mostrato dai soldati repubblicani, e per la perizia dei generali loro, specialmente di Massena, che ebbe la principal gloria di questo fatto. Era la fronte dei Francesi in tal modo ordinata, che posando con l'ala dritta sulla rocca del Borghetto bagnata dal mare, e passando per Zuccarello e per Castelvecchio, dov'era la battaglia, andava con la sinistra a terminarsi sui monti, che sono in prospetto di quelli della Pianeta e del San Bernardo per alla via verso Garessio. Reggevano la destra Scherer, che aveva con se i soldati dei Pirenei, ed Augereau che gli aveva condotti, la mezza Massena, la sinistra Serrurier. I confederati stavano schierati di modo che l'ala loro da mano manca, governata da Wallis, occupava Loano, la battaglia condotta da Argenteau Roccabarbena, e la destra composta in gran parte di Piemontesi, e retta da Colli, si stendeva sui monti della Pianeta e del San Bernardo. Parendo a Devins che tutti questi siti forti non bastassero ad assicurarlo, aveva, come guardie avanzate, fatto tre campi forti, due innanzi a Loano sulle cima di tre monticelli muniti di trincee e d'artiglierìe, e nella terra di Toirano, un terzo per la sicurezza della mezzana più in su a campo di Pietra. Ma come prudente capitano, prevedendo gli accidenti sinistri, aveva munito di genti e d'artiglierìe dietro il corpo di mezzo, non solamente Bardinetto e Montecalvo, ma ancora più dietro, qual ultimo presidio e schiera soccorrevole, i monti di Melogno e di Settepani. Per tal modo si vede che Devins aveva ottimamente preveduto, donde doveva venire il pericolo, e provvedutovi ancora efficacemente; ma quello, che poco dopo succedette, dimostrò quanto sia vero, che non vale buon consiglio solo contro buon consiglio ajutato da un sopraeminente valore. Resta però, che l'infelice uscita della battaglia di Loano non dee imputarsi al generalissimo Austriaco, ma bene si vedrà, se i posteri non potranno con ragione accagionarne Argenteau, il quale o non istando sulla debita guardia prima del pericolo, o perdutosi di consiglio, quando ei sopravvenne, mancò tanto di valore, quanto aveva Devins abbondato di prudenza. Separava i due eserciti una valle profonda, il cui fondo bagna il piccolo fiumicello, che corre tra Loano ed Albenga. Il giorno diciasette novembre per riconoscere i luoghi, e per assaggiar l'inimico, Massena commise al generale Charlet, che assaltasse il posto di campo di Pietra, il quale, sostenuto un furioso urto, si arrese. Questa fazione, terribile presagio di battaglie più gravi, ed indizio probabile di quanto i Francesi avevano in animo di fare, non tenne tanto avvertito Argenteau, che pensasse a starsene avvisatamente. Era la notte dei ventidue novembre, quando Massena, raunati i suoi, così lor disse: «Soldati, il ricordare valore a voi fora piuttosto ingiusta diffidenza, che giusto incoraggiamento; bastò sempre per animarvi a vincere, il mostrarvi dove fosse il nemico. Ora, quantunque più numeroso di voi, si è riparato alle rupi, confessando in tal modo coi fatti più che con le parole, che ei non può stare a petto vostro. Ma che rupi o quali precipizj possono trattenere i soldati della repubblica? Voi vinceste le Alpi, voi gli Apennini già più volte, e costoro, nuovi compagni vostri, vinsero i Pirenei: vinsero essi i soldati di Spagna, voi vinceste quei di Sardegna e dell'Imperio: ma Sardegna ed Imperio continuano ad affrontarvi; però voi un'altra volta vincetegli, voi fugategli, voi dissipategli, e fia la vittoria vostra pace con l'Italia, come fu la vittoria loro pace con la Spagna. Questi ultimi re, non ancora fatti accorti dalle sconfitte, osano, con l'armi impugnate, stare a fronte della repubblica; ma voi pruovate loro con l'opere, che nissun re può stare armato contro di noi; e poichè aspettano l'estremo cimento, fate che esso sia l'estremo per loro».

Era Massena piccolo di corpo, ma di animo e di volto vivacissimo, e perciò abile ad inspirar impeto nel soldato Francese, già per se stesso tanto impetuoso. Perciò alle sue parole maravigliosamente incitati givano con grandissimo ardimento per quei dirupi, essendo la notte oscurissima, e fatta più oscura da un tempo tempestoso. Era intento di Massena, come si era accordato con Scherer, di urtare nel mezzo dei confederati, di romperlo, e, separando gli Austriaci dai Piemontesi con impadronirsi del sommi gioghi dei monti per Bardinetto, Montecalvo e Melogno, di farsi strada ad un tempo a calarsi alle spalle dell'ala sinistra, che avrebbe dovuto od arrendersi, o fuggire alla dirotta. Dovevano secondare questa fazione, a dritta Scherer con un assalto forte contro Loano, Serrurier con un assalto più molle contro il San Bernardo. Appariva appena il giorno dei ventitre novembre, che Massena assaliva da due bande con una foga incredibile il campo di Roccabarbena. Accorrevano a quest'accidente impensato gli uffiziali Tedeschi ai luoghi loro, e già trovavano qualche titubazione e scompiglio nella ordinanza loro. La qual cosa dimostra l'inconsiderazione di Argenteau, che non avendo presentito, come era facile, quella tempesta, aveva permesso che gli uffiziali si allontanassero dai loro soldati. S'aggiunse un altro infortunio, e fu che Devins afflitto da grave malattìa, e reso inabile al comandare, si era condotto, instando la battaglia, da Finale a Novi, con lasciare la direzione suprema dell'esercito a Wallis. Intanto ardeva la zuffa a Roccabarbena. Laharpe e Charlet, che davano la batterìa, con molto valore insistendo tanto fecero, che, superata ogni resistenza, cacciarono il nemico, che si ritirava, andando a farsi forte a Bardinetto. Quivi nacque un nuovo e terribile combattimento; perchè i confederati, riavutisi da quel primo terrore, vi si difendevano gagliardamente, e dal canto suo fulminava con tutte le forze Massena, giudicando che dalla prestezza del combattere dipendesse del tutto la vittoria. Finalmente dopo molte ferite e molte morti da ambe le parti, prevalse la virtù dei repubblicani: entrati forzatamente in Bardinetto uccisero quanti resistevano, presero quanti non poterono fuggire, e s'impadronirono di tutte le artiglierìe. Ritiraronsi sconcertate e sconnesse a modo più di fuga che di ritirata le reliquie dei confederati, per luoghi erti e scoscesi verso Bagnasco sulla sinistra sponda del Tanaro. Nè bastando all'intento ed all'impeto smisurato di Massena l'acquisto di Bardinetto, mandava a Cervoni, s'impadronisse di Melogno, ed al colonnello Suchet, pigliasse Montecalvo, luogo arido, e quasi inaccessibile. Ebbero queste due fazioni il fine che Massena si era proposto: in tal modo non solo fu prostrata tutta la mezzana dei confederati, ma fu fatto abilità ai Francesi di calarsi verso il mare alle spalle dell'ala sinistra. Il quale fatto coi precedenti fece del tutto piegar le sorti in favor dei repubblicani. Certamente Argenteau non diede pruova di previdenza prima del fatto, nè di avvedutezza o di costanza nel combattimento; nè il corpo di mezzo fece quella resistenza, che per la forza dei luoghi e pel numero dei soldati e delle artiglierìe si era Devins di lui promesso. Ma perchè la sinistra dei confederati non ricuperasse quello che la mezza aveva perduto, Scherer, fatto dar dentro fortemente ai tre monticelli fortificati avanti a Loano, ed alla forte terra di Toirano, gli superava. Nei quali fatti, ajutati anche da tiri di alcune navi Francesi, che si erano accostate al lido tra Loano e Finale, acquistarono buon nome i generali Augereau e Victor. Allora tra per questo, e per essersi Suchet, ricevuto un rinforzo di tre grossi battaglioni mandati da Scherer, calato correndo alle spalle loro, si ritiravano i confederati verso Finale, seguitati dai repubblicani a pressa a pressa. Serrurier, vedute le vittorie della mezzana e della destra parte de' suoi, insisteva più vivamente contro il fianco destro del nemico, e cacciatolo da tutti i siti, lo costringeva a ripararsi nel campo trincerato di Ceva, dove giungevano altresì i residui lacerati e sbaragliati della squadra d'Argenteau. Così l'ala sinistra dei confederati si ritirava non senza scompiglio, e seguitata dai Francesi sul littorale verso Savona, la mezzana del tutto rotta se n'era fuggita, la destra più intiera si era accostata al forte di Ceva. Scese intanto la notte, e conchiuse l'affannoso giorno. Sorse con lei un temporale orribile misto di pioggia dirotta e di grandine impetuosa: serenarono i Francesi nei luoghi conquistati. Ma non così tosto appariva l'alba del giorno seguente, che condotti da Augereau, si misero di nuovo a seguitare velocemente quella parte dei confederati che si ritirava pel littorale, e già la giungevano con far di molti prigionieri. Nè quì si contenne l'infortunio dei vinti; perchè Massena, che stava continuamente alla vista di tutto, avvisando quello che era, cioè che il nemico, dopo di essere passato per Finale, volesse ritirarsi pel monte San Giacomo, era comparso improvvisamente a Gora sul ciglione della valle di Finale, e da una parte mandava una prima squadra ad assaltare il cedente nemico, dall'altra ne spediva una seconda, affinchè occupasse celeremente San Giacomo. In questo modo la sinistra degli alleati, per la rotta improvvisa della mezza, pressata da fronte, sul fianco, ed alle spalle, non aveva altro rimedio che la sollecita fuga; alla quale quei luoghi montagnosi, pieni di tragetti e di sentieri reconditi davano molto favore. Chi si potè salvare, andò a far la massa in Acqui, dove i capi attendevano a raccorre e riordinare le compagnìe dissipate; chi non potè, cadde in balìa del vincitore. Tutte le artiglierìe, gran parte delle bagaglie e delle munizioni, il carreggio quasi tutto, rendettero più lieta la fortuna dei repubblicani. Andavano a svernare in Vado ed in Savona, padroni del tutto della riviera di Ponente, e minacciando con la presenza vicine calamità all'Italia.

Oscurarono lo splendore di questa vittoria le ruberie, i saccheggi, e perfino i violamenti delle miserande donne commessi dai repubblicani sul Genovese territorio. Levossene un grido per tutta Italia, che spaventata aspettava gli estremi danni. Volle Scherer frenare tanto furore. Pubblicava, che farebbe morire chi continuasse. Prese anche l'ultimo supplizio de' più rei. Ma non udivano l'imperio dei capitani, e nè le minacce, nè i supplizj spegnevano la scelerata rabbia. Certamente non erano in questo i repubblicani scusabili, perciocchè niuna cosa può scusare sì eccessive enormità. Pure eran stremi di ogni vettovaglia e d'ogni fornimento: la fame e la nudità sono pur troppo male consigliere ad ogni opera più brutta. Ma i Tedeschi e quando vennero sulla riviera passando pei territorj del Piemonte loro alleato, massime in quei del Cairo e del Dego, e quando se ne andarono dopo la rotta di Loano, quantunque fossero forniti abbondantemente di ogni cosa necessaria al vivere di soldato, commisero pari, e forse più nefandi eccessi. Così l'Italia, lacerata dagli amici, lacerata dai nemici, in preda al furore Tedesco, in preda al furore Francese, mostrava quale sia la condizione di chi alletta con la bellezza, e non può difendersi con la forza.

LIBRO SESTO

SOMMARIO

Pratiche per la pace tenute in Basilea. Sono infruttuose, e perchè. Si prepara da ambe le parti la guerra d'Italia. Beaulieu surrogato a Devins nel comando dei confederati, e perchè. Instanze del Direttorio di Francia presso ai Veneziani, perchè facciano uscire dai loro stati il conte di Lilla: debolezza del senato Veneziano. Nobile condotta del conte in sì doloroso accidente. Buonaparte surrogato a Scherer nel comando dei repubblicani, e perchè: sue qualità. Situazioni delle sue genti. Sono giunti i tempi fatali, e s'incominciano le ostilità. Battaglia di Montenotte seguìta addì dieci, undici, e dodici aprile del 1796. Buonaparte separa gli Austriaci dai Piemontesi. Fatto di Cosserìa. Furiosissima battaglia di Magliani, che i Francesi chiamano di Millesimo e che fu combattuta il dì tredici aprile. Bellissimo fatto d'armi del colonnello austriaco Wukassovich al Dego. Generosi lamenti di alcuni generali, e capi di truppa Francese sugli eccessi commessi dai loro soldati. Buonaparte si volta contro i Piemontesi. Varj fatti d'arme, specialmente quello di Mondovì. Il generale repubblicano stimola i novatori del Piemonte: sommossa d'Alba. Buonaparte arriva a Cherasco: Colli, generale del re, si ritira a Carignano. Discussioni nel consiglio regio. Tregua di Cherasco. Bando grandiloquo di Buonaparte a' suoi soldati. Pace tra il re di Sardegna, e la repubblica di Francia, conclusa a Parigi il dì quindici maggio del 1796. Buonaparte perseguita Beaulieu, lo inganna, e passa il Po a Piacenza. Battaglie di Fombio e di Codogno. Battaglia sanguinosissima del ponte di Lodi, accaduta addì dieci di maggio. Beaulieu si ritira al Mincio. L'arciduca lascia Milano. Qualità dei Milanesi. Massena entra il primo in Milano, poi Buonaparte. Umori diversi di detta città. Discorsi di Buonaparte. Suo secondo bando grandiloquo ai soldati. Terrori d'Italia.

A questo tempo avendo i collegati pruovato con molto danno loro qual dura impresa fosse l'affrontarsi con quegli audaci repubblicani di Francia, si consigliarono di voler dimostrare inclinazione alla concordia, e porre avanti alcune proposizioni d'accordo, sì per avere più giustificata cagione di continuar a combattere, se i repubblicani ricusassero, e sì per aver comodità di respirare e di aspettare il benefizio del tempo, se accettassero; e poichè la guerra era divenuta tanto pericolosa, si risolvettero a sperimentare, se la pace apportasse condizioni di maggior sicurezza. Per la qual cosa pensarono a tentare la disposizione del Direttorio di Francia con introdurre qualche negoziato a Basilea, città neutrale, e già famosa per le due paci di Prussia e di Spagna. Siccome poi l'Inghilterra era l'anima di tutta la mole, così da questa, ed a nome di tutti procedettero le profferte. Scriveva il dì 8 marzo Wickam, ministro d'Inghilterra appresso ai Cantoni Svizzeri, a Barthelemi ministro di Francia, ch'egli aveva comandamento di fargli a sapere, che la sua corte desiderava di restare informata, se la Francia aveva inclinazione a negoziare con Sua Maestà e co' suoi alleati, a fine di venirne ad una pace generale stipulata con giusti e convenienti termini: se a ciò si risolvesse la Francia mandasse ministri ad un congresso da convocarsi in quel luogo, che più sarebbe stimato conveniente da ambe le parti. Desiderava altresì sapere, quali fossero i generali fondamenti della concordia che piacesse al Direttorio di proporre, affinchè si potesse esaminare, se fossero accettabili, o finalmente, se i mezzi proposti non fossero accettati, quali altri avesse a proporre per trovare qualche modo d'onesta composizione. Questa proposta, la qual'era del tutto conforme ai modi soliti a usarsi fra i principi, e che non avea in se cosa, che potesse offendere l'animo del Direttorio fu molto risentitamente udita da lui, e diede principio a quel costume dottorale e loquace di quei governi repubblicani ed imperiali di Francia, di voler insegnare in casa altrui, come se meglio non conoscesse i fatti proprj chi gli governa, di chi non gli governa. Quindi nacque altresì quell'uso affatto insolito di dar consigli, o ad un amico, o ad un nemico e di convertire in cagione di guerra il rifiuto di seguitarli; uso veramente enorme, perchè fa giudice della causa una sola delle parti, rende dubbiosa la giustizia, mette la parte contraria nella necessità di vincere o di perire, ed opera che la guerra dipenda in tutto dal capriccio, e dall'ambizione di un solo. Il Direttorio comandava a Barthelemi, che rispondesse, desiderare lui la pace, ma desiderarla giusta, onorevole e ferma; avrebbe udito volentieri le proposte, se quel dire di Wickam di non aver autorità di negoziare non desse sospetto intorno alla sincerità Inglese. Infatti, se incominciasse l'Inghilterra, quest'erano le parole dottorali del Direttorio, a conoscere i veri interessi suoi, se bramasse aprirsi di nuovo la strada all'abbondanza ed alla prosperità, se con buona fede richiedesse di pace, a che fine, con quale consiglio proporre un congresso, mezzo non mai terminabile d'accordo? Perchè con termini tanto generali e sì poco definiti, domandare alla Francia, proponesse ella un altro modo per arrivare alla concordia? Non mostrar con questo, voler solo il governo Inglese con queste prime offerte, acquistar per se quel favore, che sempre accompagna chi primo mette fuori quelle gioconde parole di pace? La speranza che abbiano ad essere senza frutto, non vedersi forse mescolata con loro? Ma quale di questo fosse la verità, convenirsi alla sincerità del Direttorio il palesare apertamente, a' quali patti ei potrebbe consentire agli accordi; vietare la constituzione della repubblica, che niun paese di quelli, che erano stati incorporati al suo territorio, da lui si scorporasse; delle altre conquiste si negozierebbe. Quì parimente ebbe principio quel metodo veramente incomportabile, usato dai governi che per vent'anni l'uno all'altro succedettero in Francia, di volere, che una legge politica interna diventasse legge politica esterna, ed obbligatoria pei forestieri.

Rispose l'Inghilterra, anche a nome di tutti i confederati, non poter consentire ad una condizione tanto insolita, nè altro mezzo restare se non quello di continuare in una giusta e necessaria guerra. Così non si seguitò più questo ragionamento, e svanirono le speranze di pace concette dalle profferte di Basilea. Diedene l'Inghilterra avviso a tutte le potenze confederate, coi soliti conforti dei sussidj pecuniarj, e col far vedere che ove la pace era impossibile, si rendeva necessario l'usar la guerra, con tutti gli sforzi, che maggiori si potessero fare. Ognuno aveva gli occhi volti al re di Sardegna, il quale già perduto mezzo lo stato, e prostrate le difese del restante, si vedeva vicino ad esser prima condotto all'ultima rovina, che la guerra incominciasse pure a romoreggiare su i confini dei suoi alleati. Conoscevano questi la costanza del re, ma dubitavano che nel prossimo urto dell'armi, se le battaglie fossero riuscite infelicemente, ed i repubblicani si facessero strada nel cuore del Piemonte, si sarebbe forse alienato da loro, sperando di ricompensare con gli ajuti di Francia, a danno ed a pregiudizio di alcuno fra i confederati, quello che non ostante gli ajuti loro aveva perduto. Tentarono adunque il re ammonendolo, che si dichiarasse, quali sarebbero i suoi pensieri, se per un sinistro di guerra, i Francesi irrompessero nelle pianure Piemontesi. Ridotto a queste strette, rispose animosamente Vittorio, mandando anche in questo proposito lettere circolari a tutti i principi che correrebbe con loro la medesima fortuna, che persisterebbe nella fede, che non sarebbe per abbandonare la sua congiunzione; non dubitassero, che i fatti non fossero per corrispondere alla prontezza dell'animo.

L'Austria intanto, veduto che i tempi estremi erano giunti per lei in Italia, mandava a governare le genti, in vece del Devins più prudente che ardito capitano, ed anche scemato di reputazione per le recenti sconfitte, il generale Beaulieu, il quale quantunque già molt'oltre con gli anni, era animoso, vivace, ed abile per questo di stare a fronte a quella furia Francese, che meglio si può vincere col prevenirla, che coll'aspettarla. Nè mancava in lui la esperienza dei fatti di guerra, essendosi già molto esercitato, nè senza gloria, nelle guerre di Fiandra. Ma quantunque fossero in Beaulieu le qualità più necessarie in un buon capitano, mancava in lui la cognizione dei luoghi, non avendo mai guerreggiato in Italia, nè portò con se tante forze, quante gli erano state promesse; perchè i sussidj Austriaci in Piemonte, quando prima in quest'anno s'incominciò a menar le mani, ascendevano forse a trenta mila, ma certamente non passavano quaranta mila soldati, numero non sufficiente a difendere, non che ad offendere. Del qual fatto quale ne sia stata la cagione, o lentezza o necessità, certo è bene, che l'opera non fu eguale al pericolo. Oltre a ciò, sebbene a Beaulieu, quando fu chiamato generalissimo dei Tedeschi in Italia, fosse stato promesso che sarebbe rivocato Argenteau, che per difetto o d'animo o di mente, era stato cagione d'infelici eventi nella riviera di Genova, nondimeno l'aveva trovato ancora, non senza sdegno, non solo presente all'esercito, ma ancora rettore di una forte divisione di soldati: il che a lui, che era consideratore delle cose future, diede sinistro presagio, parendogli, che a volere che i soldati vincano, importi il prepor loro capitani vincitori. Nè Beaulieu medesimo era tale, che potesse convenientemente governare capitani, e genti di diverse lingue e di diverse nazioni, tenendo più del guerriero che del cortigiano, per guisa che più temuto che amato dai suoi e dai forestieri, era piuttosto obbedito per forza, che per volontà. Nè i nobili Piemontesi, che sentivano molto altamente di loro medesimi, lo avevano a grado. S'aggiunse a tutto questo, che sebbene si fosse ordinato che i Piemontesi dovessero in tutto accordarsi, e cooperare con gli Austriaci, e questi coi Piemontesi, tuttavia l'esercito regio non obbediva a Beaulieu, ma era retto sovranamente da Colli, al quale non mancava nè perizia, nè virtù militare, ma non viveva concorde col capitano Austriaco. Questo fu cagione, che, contuttochè i due generali operassero di concerto, nei partiti dubbj però, dove aveva gran parte la propria opinione, l'uno non secondava l'altro, nè l'altro l'uno, quanto la gravità del caso avrebbe richiesto. Con queste mancanze, mali umori, e semi di debole concordia, s'incominciò, dalla parte dei confederati, una guerra gravissima, nella quale si proponevano, deposte oramai le speranze di fare impressione in Francia, come falsamente si erano persuasi, di far di modo che almeno l'Italia si preservasse dalla inondazione Francese. Erano per tale guisa ordinati i confederati, che la loro ala sinistra, partendo dalla Scrivia nella vicinanza di Serravalle, si distendeva sino alla destra sponda della Bormida. Quivi incominciava ad aver le stanze il corno sinistro dei Piemontesi, che traversando quelle montagne, si sprolungava fino alla Stura, con assicurare Ceva e Mondovì con grossi presidj, e con appoggiarsi coll'estremità del corno destro alla forte città di Cuneo. Le genti più leggieri munivano i passi più alti delle montagne, ed un campo era stato fatto con forti trincee, ed in luogo eminente verso Lesegno per la sicurezza del forte di Ceva. Ma siccome quello di cui stavano in maggior gelosìa gli Austriaci, erano le possessioni loro in Lombardìa, così si erano molto ingrossati nei contorni di Alessandria e di Tortona, e verso l'estremo corno loro, occupando per tal modo con molte forze le due strade che da Genova accennano al Milanese, una per Novi, l'altra per Bobbio. Avrebbero desiderato per maggior sicurezza delle cose loro avere in mano la fortezza di Tortona, e ne fecero anche richiesta; ma ciò fu loro con la solita costanza dinegato dal re, il quale ancorchè posto nell'ultima necessità, volle non ostante, quanto potè, in propria balìa conservarsi. Tal era adunque la condizione dei tempi, che il re di Sardegna combatteva per la salute sua, e ne andava tutto lo stato, l'imperador d'Alemagna per le sue possessioni del Milanese e del Mantovano, il re di Napoli per la preservazione d'Italia, il papa per l'autorità della santa sede, e per l'incolumità della religione; Venezia sperava nella neutralità senz'armi, Genova nella neutralità con armi, Toscana nella consanguinità coll'Austria e nell'amicizia colla Francia, Parma e Modena nè in pace nè in guerra, dipendevano in tutto dagli accidenti.

Risoluzione principalissima dei reggitori Francesi era di far potente impresa per invadere l'Italia, ed a questo fine indirizzavano tutti i pensieri loro. A questo si muovevano non solo pel desiderio di pascere l'esercito in un paese ricco, ed ancora intatto, ma eziandio per la speranza, che alla fama di un tanto fatto, e per lo scompiglio che ne sarebbe nato tanto in Italia quanto in Germania, si sarebbero manifestati a favor loro in tutte, od in alcune corti d'Europa cambiamenti d'importanza. Più special fine loro in tutto questo era di costringere l'imperatore alla pace, per facilitar la quale speravano di trovare in Italia per la forza dell'armi compensi ad offerire a quel principe in iscambio dei Paesi Bassi, che ad ogni modo volevano conservare incorporati alla Francia; imperciocchè si avvedevano, che, ove fosse la casa d'Austria, tanto nobile e tanto potente, sforzata alla pace con la repubblica, non solo i potentati minori, ma anche i più grossi sarebbero facilmente venuti ancor essi agli accordi. A questo primario disegno subordinavano tutti i pensieri e tutte le risoluzioni loro: del modo o fosse di forza o fosse di fraude, non si curavano. Al che se avessero posto mente le repubbliche di Genova e di Venezia, non avrebbero aspettato gli estremi casi per fare risoluzioni forti in salute loro. Venezia particolarmente pericolava, siccome contigua agli stati dell'imperatore; perchè, se si voleva dar il Milanese al re di Sardegna per farlo correre contro l'Austria, si volevano anche dare tutti o parte degli stati Veneziani all'imperatore per farlo risolvere agli accordi. Di ciò non dubbj segni ebbero, molto innanzi che la cosa si manifestasse coll'ultimo precipizio, i ministri di Venezia in Basilea, in Vienna ed in Parigi, e ne avvisarono il governo. Parlava per verità il governo Francese, parlavano i suoi agenti per ambagi, e con parole tronche, ma non sì che la volontà nemica non vi comparisse dentro chiaramente, e molto ancora più chiaramente il medesimo disegno si vedeva spiegato nelle gazzette Parigine, che più dipendevano dal governo. Siccome poi, quando si vuol perdere qualcheduno, e' s'incomincia a fargli proposte disonorevoli, per la speranza di rifiuto, pretesto di ostilità, così uscirono con richiedere Venezia, che scacciasse da' suoi stati il conte di Lilla, il quale sotto tutela del diritto delle genti, e sotto quella ancor più sacra dell'infortunio, se ne riposava solitariamente a Verona. Poco importava al governo repubblicano di Francia, che il conte se ne stesse negli stati Veneziani, che anzi gl'importava che vi stesse piuttosto che altrove; perchè se era pericoloso per quel governo che dimorasse in paese non solamente neutrale, ma ancora alieno dal tentar novità in favore di lui, assai più pericoloso sarebbe stato, se si fosse condotto od all'esercito del principe di Condè, o negli stati delle potenze in guerra con la Francia. Ma la domanda di farlo uscire era appicco di querela, non testimonio di timore. Quantunque il conte di Lilla, dopo la morte di Luigi decimosettimo, avesse assunto la dignità reale, e fosse in grado di re tenuto dai fuorusciti Francesi, dal ministro di Spagna Lascasas, dal ministro di Russia Mardinof, e dal ministro d'Inghilterra Macarteney, che appresso a lui era stato mandato appositamente dal re Giorgio, il senato Veneziano non l'aveva mai riconosciuto pubblicamente nè trattato da re. Che anzi interpose ogni diligenza, perchè, mentre sul territorio della repubblica dimorasse, non usasse apertamente atti, che l'autorità sovrana dinotassero. Al che il conte rispose con nobile condiscendenza, vivendosene assai ritiratamente in una villa del conte di Gazola: nel qual contegno tanto egli abbondava, che nè pubblicò con le stampe della Veneta repubblica, nè datò di Verona il manifesto che fece, nella sua esaltazione, alla nazione Francese; che se poi nelle sue azioni segrete, ed in privato teneva pratiche, che certo teneva, per ricuperare l'antico seggio de' suoi maggiori, non si vede come ciò si potesse imputare alla repubblica di Venezia.

Gran maraviglia farebbe in questo caso, se non si sapessero le cagioni, lo sdegno del direttorio di Francia; perchè mentre superbamente comandava al senato Veneziano, che allontanasse da' suoi dominj il conte di Lilla, sopportava molto pazientemente, che l'ambasciador di Spagna Lascasas riconoscesse il conte come re di Francia, e con lui come col re di Francia, di affari pubblici trattasse; il che era di ben altra importanza, che il dare ricovero ad un principe infelice e perseguitato. Ma la Spagna era più potente di Venezia, nè si poteva dar in preda a nissuno in compenso di stati rapiti. Scriveva il primo marzo in nome e per ordine del direttorio il ministro degli affari esteri Carlo Delacroix al nobile Querini in Parigi, che poichè Luigi Stanislao Saverio non aveva dubitato di operare in qualità di re di Francia sul territorio della repubblica di Venezia, si era reso indegno dell'asilo concedutogli dalla umanità del senato: richiedeva pertanto, e domandava, fossene privato, e gli si desse bando da tutti i territorj Veneziani; non esser questo, aggiungeva, caso di neutralità: la neutralità potersi osservare fra potenze reali ed armate, non fra un re immaginario ed una repubblica felicemente stabilita, che può, che sa, se ho a dirla con lo stilaccio di quei tempi, spiegare una energìa, e delle forze reali per farsi rispettare. Nel che si può notare, che non si vede, che cosa importasse l'avere energìa e forze grandi, al punto della quistione, di cui quì si trattava.

Ma tornando al nostro proposito, essendo posto in senato il partito, se dovesse la repubblica adempiere la richiesta del governo Francese, ancorachè il procurator Pesaro generosamente contrastasse, ricordando con parole gravissime alla repubblica la bruttezza del fatto, e l'antica generosità di Venezia, fu vinto con centocinquanta sei voti favorevoli, e quarantasette contrarj. Orarono in questo fatto contro la opinione del Pesaro i savj del consiglio Alessandro Marcello, Niccolò Foscarini, e Pietro Zeno, rappresentando, che la pietà verso un principe forestiero non doveva più operare negli animi dei padri, che la carità verso la patria. Brutta certamente e vituperosa deliberazione del senato fu questa, nè ad alcun modo scusabile, e tanto meno quanto si vedeva chiaramente, che il vituperio non avrebbe bastato a partorir salute; nè varrebbe a diminuire la vergogna l'esempio di Luigi decimoquinto re di Francia, il quale stretto di nissuna necessità, non abborrì dal bandire, a petizione dell'Inghilterra, da' suoi stati il principe Edoardo Pretendente; perchè i re possono bene dare col loro esempio maggior forza all'onesto, ma non onestare il disonesto; imperciocchè se gli uomini non sono fiere, ma uomini, havvi fra di loro una legge del giusto e dell'onesto, anteriore e divina, cui nè la forza, nè i capricci dei potenti possono invalidare; e se i contemporanei gli adulano, i posteri gli notano d'infamia. Tanto è forte nelle umane menti la impressione di quella divina legge.

Si commise al tribunale degl'inquisitori di stato l'esecuzione del partito preso dal senato. Delegossi a far l'ufficio il segretario Giuseppe Gradenigo, ed il marchese Carlotto. Introdotti nelle stanze del conte, che per uomo a posta era stato avvisato da Venezia dal conte d'Entraigues del successo delle cose, ed al cospetto suo venuti, eseguirono quello che dalla signorìa era stato loro comandato. A tale annunzio rispose gravemente, partirebbe, ma per forza; se gli portasse intanto il libro d'Oro; cancellerebbe di sua mano il nome dei Borboni; se gli restituisse l'armatura di Enrico quarto suo glorioso avolo, data in dono alla repubblica. Nè parendogli più dignità il dimorar più lungamente in un dominio, che per debolezza obbediva ai comandamenti degli uccisori del suo fratello, se ne partiva senza dilazione, e sotto nome di conte di Grosbois si condusse all'esercito dei Francesi fuorusciti a Friburgo in Brisgovia. Innanzi però che partisse, fece mandato al ministro di Russia appresso al senato, acciocchè in vece sua cancellasse sul libro d'Oro il nome dei Borboni, e l'armatura d'Enrico in deposito ricevesse. Al tempo medesimo gli rammentava, che per la fede e l'affezione che aveva posta in lui, gli affidava quanto di più caro e di più prezioso aveva, e quest'era il ritratto del re suo fratello. Gli ricordava infine, e gli raccomandava i suoi sudditi fedeli, particolarmente il conte d'Entraigues, che nel dominio dei Veneziani rimanevano. Così partiva con tanta dignità da Verona, con quanta modestia vi era vissuto, e partendo fece un pietoso ufficio verso il re suo fratello e verso coloro, che per affezione alla sua persona ed al nome reale si erano fatti partecipi del suo esilio.

Intanto per gli uffizj fatti per ordine del senato dai ministri Veneti presso le corti d'Europa, massimamente presso l'imperatrice delle Russie, che con più caldezza degli altri procedeva in favore del conte, si acquetò il negozio del libro d'Oro, e dell'armatura d'Enrico.

Oggimai si appropinquavano le calamità d'Italia. La tirannide sotto nome di libertà, la rapina sotto nome di generosità, un concitare i poveri, ed uno spogliare i ricchi, un gridare contro la nobiltà pubblicamente, ed un adularla privatamente, un far uso degli amatori della libertà, e disprezzargli, un incitargli contro i re, ed un perseguitargli per piacere ai re, il nome di libertà usato come mezzo di potenza non come mezzo di felicità, un lodarla con parole ed un vituperarla coi fatti, le più sante cose antiche stuprate per derisione, o per ladroneccio, le più sante cose moderne fatte vili da un'orribile accompagnatura, un rubar di monti di Pietà, uno spogliar di chiese, un guastar palazzi di ricchi, un incendere casolari di poveri, ciò che la licenza militare ha di più atroce, ciò che l'inganno ha di più perfido, ciò che la prepotenza ha di più insolente, un furor Tedesco chiamato da una furia Francese, una furia Francese chiamata da un furore Tedesco conculcata hanno, e desolata in fondo la miseranda Italia tutta. Nè più si vanti ella dell'esser bella, o il giardino d'Europa, o, come la chiamavano, la terra classica delle arti; poichè tali doti, se pur vere sono, che pur troppo sono, non la fecero segno di rispetto, ma sì di preda, e di derisione. E quel che più debb'essere di rammarico, e di dolore perpetuo cagione, si è, che spiriti alti e generosi quasi innumerabili, sì d'Italia che di Francia, reputando dono inestimabile la libertà, come ella è veramente, presi alle belle parole, e dominati continuamente da una dolce illusione fantastica, ajutarono coi detti, con le scritture e coi fatti quell'inganno, che altri tendeva di proposito deliberato, col fine di soddisfare ad immense cupidità. Così la libertà, la quale altro non è che l'esecuzione puntuale di leggi civili giuste, ed uguali per tutti, diventò odiosa agli uomini Italiani a cagione delle opere ree di coloro, che si vantavano di darla, e le parole degli uomini illibati sì Francesi che Italiani, i quali la predicavano, perdettero appresso ai popoli ogni autorità; perchè eglino offesi gravemente nelle sostanze e nelle persone, e soggetti ad un'inconsueta insolenza di soldati, non sapevano purgarla da quel scelerato connubio. Certamente i governi Italiani di quei tempi non erano perfetti, ma erano almeno sopportabili per la consuetudine, e il divenivano ogni giorno di vantaggio per le riforme, che per la forza del secolo vi si andavano dai reggitori dei popoli facendo. Ma che il dominio sregolato militare sia migliore di loro, chi potrà mantenere? Dicevano alcuni, e dicono tuttavia, che da quel male doveva nascere un bene; ma io so che gli uomini non hanno tanta pazienza, e fu puranco la pazienza lunga. Così perì non solo la libertà, ma contaminossi la fama stessa di lei; e se un benigno risguardo dei cieli non ajuta l'umana generazione in Europa, temo assai, che l'esempio, e la ricordanza delle cose fatte in Italia sotto colore di libertà, siano ostacolo insuperabile alla fondazione di lei.

Era risoluzione irrevocabile del governo Francese in quest'anno di tentare le cose d'Italia, di aprirvisi l'adito forzatamente, e di correrla con eserciti vittoriosi. Erano i pensieri maturi, le vie spianate, le armi pronte, gli animi dei soldati accesi, la fame stessa, che gli tormentava sugli sterili Apennini, gli stimolava a far impeto in un paese abbondante in fatto, abbondantissimo per fama. A reggere tanta mole, poichè giusta l'opinione di quel governo, dall'esito dell'armi usate in Italia dipendeva in tutto la fortuna dell'Europea guerra, mancava un generale capace di mente, invitto d'animo, e d'audacia pari alle difficoltà che si prevedevano. Pareva, che Scherer non fosse uomo da poter sostenere peso tanto forte, quantunque il suo nome fosse chiaro per la fresca vittoria di Loano, ed il primo disegno d'invadere l'Italia frutto del suo ingegno. Fecero adunque avviso di mandare la magnifica impresa al generale Buonaparte, giovane già in nome di buon guerriero per le cose fatte a Tolone, e nella riviera. Presentendo egli per la vastità e la forza dell'animo suo quello, che fosse capace di fare, quantunque di natura superbissima ed insofferente fosse, non cessava di sollecitare, e d'infestare con tenacissima perseveranza, e con preghiere continue il direttorio, affinchè gli commettesse la condotta dell'Italiana guerra. Militavano anche a suo favore alcuni motivi segreti, che si spiegheranno in progresso, i quali, se non sarebbero piaciuti a Carnot, ed a Lareveillere-Lepeaux, quinqueviri, che gl'ignoravano, piacevano a Barras, altro quinqueviro, che sotto spezie di repubblicano forte nutriva pensieri del tutto diversi. A questo si aggiunse un matrimonio, ch'ei fece, grato a Barras, sposandosi con Giuseppina, d'età maggiore di lui, e moglie che era stata di Alessandro Beauharnais.

Adunque a Buonaparte, giovane d'ingegno smisurato, e di cupidità ardentissima di dominio, fu commessa da chi reggeva la Francia, in iscambio di Scherer, l'opera di conquistar l'Italia. Nè così tosto ei giunse al governo dell'esercito Italico, che mostrò quanto fosse nato per comandare; imperciocchè, quand'erano al campo Dumorbion, Kellerman, e Scherer, molto famigliarmente vivevano, ed alla repubblicana coi generali subalterni; ma Buonaparte, quantunque fosse più giovane di tutti, si compose in maggior dignità, e non dimesticandosi con nissuno, pareva non più il primo fra gli uguali, ma bensì il superiore fra gl'inferiori. A questo si acconciarono facilmente Massena, Augereau, e gli altri capitani di maggior grido. Quindi nacque, che i nodi dell'esercito viemaggiormente si restrinsero, furono i soldati più pazienti all'ubbidire, l'ordine più stabile, il concerto più perfetto. Si presagiva, che da una mente grande e forte dovevano partorirsi effetti straordinarj, e si augurava prospero evento al mirabile conato: nè mancavano sussidj ad operar fortemente. Era l'esercito fiorito di ben cinquantamila combattenti, poveri sì d'arnese, e penuriosi di vettovaglie, ma abbondanti di coraggio, e forti di volontà: quel lusinghevole pensiero di correre come signori l'Italia, gli rendeva ancor maggiori di loro medesimi, e già abbracciavano colle speranze la possessione di lei. Mandava il direttorio al nuovo capitano Francese quanto volesse, purchè conculcasse l'Austriaco, il separasse dal Piemontese, sforzasse Genova a dar denaro, e la fortezza di Gavi; se Genova non desse Gavi per amore lo prendesse per forza; instigasse i malevoli del Piemonte, acciocchè o generalmente, o particolarmente insorgessero contro l'autorità regia: ciò per forza, o per arte subdola; quel che segue per sete di rapina; conciossiachè mandavagli, facesse una subita correrìa contro la casa di Loreto, onde ne fosse Italia atterrita, rapite le ricchezze, ed involati i voti appesi dai fedeli in tanti secoli. Tanto era smisurata in quel governo la cupidità del rapire, e del fare d'ogni erba fascio.

Reggevano l'ala dritta, che si distendeva insino a Voltri, Laharpe con Cervoni, la battaglia Buonaparte con a dritta Massena, a sinistra Augereau, finalmente l'ala sinistra, che stava a fronte dei Piemontesi, Serrurier, congiunto con Rusca, uomo di smisurato valore, che, lasciato il queto esercizio dell'arte medica, si era molto volentieri mescolato nel fracasso dell'armi. Disegnava il generale repubblicano di far impeto contro la mezzana schiera dei confederati, acciocchè rotta che ella fosse, potesse entrar di mezzo fra gli Austriaci ed i Piemontesi: conseguito questo intento, i primi si sarebbero ritirati nell'oltre-Po, i secondi rincacciati nell'angusta pianura loro, avrebbero, come credeva, facilmente accettato gli accordi separandosi dalla confederazione dell'imperatore. A questo fine, e sapendo che grandissima gelosìa avevano gli Austriaci della loro sinistra, perchè la larga e comoda strada della Bocchetta accennava a Milano, aveva ordinato a Cervoni, occupasse con un corpo grosso Voltri. Oltre a questo fece marciare da Savona un'altra forte squadra verso la montagna di Nostra Signora dell'Acqua santa, strada che mette direttamente alla Bocchetta. Questa squadra conduceva con se molti pezzi di artiglierìe sì grosse che minute. Assai bene considerato era questo consiglio; perchè si poteva prevedere facilmente, che Beaulieu, temendo per la Lombardìa, avrebbe assottigliato la parte di mezzo per mandar gente ad ingrossar la sinistra, acciocchè fosse in grado di star forte a preservare gli stati proprj dell'imperatore. Così più facilmente si sarebbe aperto l'adito ai repubblicani all'entrar di mezzo ai confederati. Fu certamente intenzione di Buonaparte di dar gelosìa alla sinistra di Beaulieu, perchè se fosse stata diversa, non sarebbe da commendarsi; perciocchè ed indeboliva in tale modo la sua mezzana appunto verso le strade più facili, che portano a Savona: ne' Voltri era luogo da potersi tenere, perchè e pel lido e per la montagna poteva agevolmente il nemico accostarsi ad assaltarlo. Bene non si può lodare dell'aver troppo indugiato ad occupare, ed a fortificar Montenotte, che guarda la strada per al Dego, e che domina il luogo della Madonna di Savona, principal difesa dei Francesi sul mezzo loro; che se finalmente l'occupò, e vi fece qualche riparo, che non fu prima degli otto aprile, fu più tosto consiglio di Massena, che suo. Pertanto si vede che se lo stare a Voltri era opportuno, quantunque non senza grave pericolo, il non stare a Montenotte era degno di riprensione. E tanto maggior biasimo merita questa omissione del generalissimo di Francia, ch'ei sapeva che gli alleati si erano fatti molto grossi a Sassello; il che dava manifesto indizio ch'essi volessero, passando sotto Montenotte, condursi a Savona, e per tal modo tagliare in mezzo l'esercito repubblicano. La qual cosa fu chiaramente dimostrata dal successo delle cose.

Adunque erano giunti i tempi fatali per l'Italia. Beaulieu, precipitoso ed audace capitano, presentendo il disegno del nemico, poichè non si raffreddava, anzi cresceva ogni giorno il romore delle preparazioni Francesi, si era deliberato a prevenirlo. Aveva egli assembrato in Sassello una grossa schiera composta di diecimila Austriaci, e quattro mila Piemontesi, bella e fiorita gente, col pensiero di dar dentro nel mezzo della fronte francese, e dopo di averlo fracassato, riuscire a Savona; con che egli avrebbe separato il nemico in due parti, e presa tutta quella che stanziava a Voltri e nei luoghi circostanti. Obbedivano i soldati di Sassello ai generali Argenteau, e Roccavina. Non pertanto, per interrompere alle genti di Voltri la facoltà di accostarsi a tempo del conflitto in ajuto della mezza, si era risoluto ad assaltar questa terra. Il dì dieci aprile, circa le tre meridiane, givano i Tedeschi all'assalto di Voltri con sei mila fanti, e quattro bocche da fuoco, passando principalmente per Campovado, e per altre strade della montagna, mentre ducento cavalli con le artiglierìe, radendo il lido, si accostavano dall'altra parte al luogo della battaglia. Alcune navi da guerra Inglesi secondavano lo sforzo loro con ispessi tiri dal mare vicino. Non potendo i Francesi rispondere a tanti assalti, furono rotti, diventarono i Tedeschi padroni dei posti sopraeminenti a Voltri, e se avessero incominciato la battaglia più per tempo, tutta la forza Francese di Voltri, sarebbe stata o morta o presa. Ma sopraggiunse la notte, dell'oscurità della quale opportunamente valendosi i repubblicani, si ritiravano a Varaggio, ed alla Madonna di Savona.

In questo mezzo tempo Argenteau e Roccavina non erano stati a bada; anzi mossisi da Sassello assaltarono grossi ed impetuosi le trincee estemporanee fatte dai Francesi a Montenotte. Erano queste in numero di tre, ed al di sopra l'una dell'altra, la più eminente appunto era quella di Montenotte. Difendeva i Francesi la fortezza del luogo, favoriva i Tedeschi il maggior numero, gli uni e gli altri infiammava un indicibile valore: stava in mezzo, qual premio al vincitore, l'innocente Italia. Si combattè coi cannoni, coi fucili, con le spade, con le mani. Maravigliavansi i Francesi a sì feroce assalto; maravigliavansi i Tedeschi a sì lunga resistenza. Finalmente, dopo molto sangue, riuscirono questi, occultandosi in certe boscaglie, ad entrar per bella forza dentro le due trincee più basse, e se ne impadronirono. Rimaneva a conquistarsi la terza: contro di lei voltarono i Tedeschi tutto l'impeto dell'armi loro vittoriose. Quì sorse una battaglia tale, che poche di simil fatta per la virtù dimostrata dagli assalitori e dagli assaliti sono tramandate dalle storie. Incominciavano a sormontare gl'imperiali, trovandosi assai più grossi, e già sul ciglione medesimo della trincea si combatteva asprissimamente da vicino. Ma in questo forte punto il colonnello Rampon, sotto la custodia del quale era la trincea, a patto nessuno sbigottitosi a quell'orribile fracasso, che anzi tanto più infiammandosi nel suo coraggio, quanto più era grave il pericolo, animosissimamente rivoltossi a' suoi soldati, fece lor prestare quel bel giuramento, che fia eterno nelle storie, di non cedere se non morti. Il valore dei Francesi diventò più che sprezzo di morte, e con tanta pertinacia, con tanta ostinazione, con un menar di mani tanto tremendo combatterono, che ributtati furiosamente da ogni assalto i Tedeschi, sopravvenne la notte, senza che eglino potessero conquistare la trincea tanto contrastata, e tanto importante. Gli uni e gli altri sull'armi loro posando, aspettavano la luce del seguente giorno, che doveva in un nuovo conflitto definire la spaventevole contesa. Quì si vide manifestamente l'errore di Buonaparte dello aver occupato, ed affortificato troppo tardi, e male, Montenotte e, come accennammo, anche per conforto altrui, del non aver fatto diradare le boscaglie, dello aver tenute lontane da questo principal posto le altre soldatesche, per modo che non abbiano potuto venire in questo medesimo giorno in soccorso di quelle che pericolavano nelle trincee del monte. Certo se non era il valore straordinario di Rampon, si perdeva la battaglia dai Francesi, e con lei si perdevano per loro le sorti d'Italia. Ma di questi valori straordinarj è avara la spezie, nè vi si può far fondamento per anticipazione dai capitani bene avvisati e prudenti. Errò adunque in questo fatto Buonaparte, riparò l'errore Rampon: la vittoria di Montenotte, che incominciò quella mole tanto gloriosa d'imprese militari, e quel maraviglioso corso d'inaudita felicità, non al suo buon consiglio, ma al valore di un capitano inferiore deesi unicamente attribuire. Ma il generalissimo nel giorno undici, anzi nella notte stessa del dieci emendò con pari celerità ed arte l'errore commesso nel precedente: mandò a tutta fretta un rinforzo da Savona a Montenotte, il quale non solamente rinfrancò gli spiriti dei difensori della trincea, ma diede agio a Rampon di empire di soldati a destra ed a sinistra le boscaglie, che ingombravano le strade per alla trincea medesima, e per le quali dovevano di necessità passare gli Austriaci per assaltarla. Al tempo stesso comandò a Laharpe, andasse avanti con tutta l'ala dritta, e mettendosi in mezzo tra la punta dritta dell'ala sinistra degli alleati, e la punta sinistra della mezzana, snodasse minutamente l'una dall'altra quelle due parti. Per rendere vieppiù la vittoria certa, ed arrivare al fine principale di tutto il disegno, marciava egli medesimo con due forti colonne, l'una lungo le montagne della Madonna del monte, per meglio sostener Montenotte, l'altra per Altare e le Carcare, ad effetto di oltrepassar la punta della mezza, che, come abbiam detto, era governata da Argenteau, come capo, e da Roccavina, come condottiero della vanguardia, sperando per tal modo disgiungere questa parte dalla destra retta da Colli. Spuntava appena l'aurora del giorno undici, che Argenteau, senza prima aver fatto esplorare le boscaglie, iva baldanzosamente all'assalto; ma non era ancora il suo antiguardo arrivato vicino alla trincea, che venne assalito ai fianchi da una tempesta di moschetti, che procedeva dai soldati imboscati, e da una impetuosa scaglia lanciata dal ridotto. A tale sanguinoso intoppo s'arrestarono, titubarono, si disordinarono, diedero indietro le sue genti: Roccavina ferito gravemente, lasciato il campo di battaglia, andava a ricoverarsi in Acqui. Pure v'era speranza con qualche rinforzo, e dopo respiro, di ricominciar la batterìa; ma ecco arrivare infuriando dall'uno canto Buonaparte, dall'altro Laharpe con far le viste di portare la tempesta a' fianchi ed alle spalle di Argenteau. Fu allora forza ai confederati ritirarsi più che di passo per non esser posti negli estremi. Andarono a posarsi a Magliani, a Dego ed a Pareto. Beaulieu per serbarsi unito ad Argenteau, obliquò con l'estremo destro della sua ala di modo che malgrado degli sforzi di Laharpe per impedirnelo, riuscì nel suo intento. Colli, non senza una valorosa difesa, fu costretto a ritirarsi ancor esso, avvicinandosi di fianco a Ceva; il che fece riuscir ad effetto il pensiero di Buonaparte dello aver voluto separare i Piemontesi dai Tedeschi. Aggiungendo poscia celerità a celerità, nè volendo dar tempo ai confederati di rannodarsi, seguitava la vittoria calando per le rive della Bormida in guisa che sempre si metteva in mezzo fra gli Austriaci ed i Piemontesi. Morirono nella battaglia di Montenotte meglio di due migliaja di buoni soldati dalla parte dei confederati; circa tre mila tra feriti e sani vennero, come prigionieri, in poter del vincitore. Dalla parte dei repubblicani pochi furono i prigionieri, molti i feriti, più di un miliajo incontrarono la morte. Ma perchè quello che avevano i repubblicani conseguito, cioè la separazione degl'imperiali dai regj, non venisse loro guasto per una nuova riunione, il che poteva venir fatto finchè i confederati stavano più su nella valle della sinistra Bormida a Millesimo, che nella valle della Bormida destra, dove stanziavano a Dego ed a Magliani, era necessario cacciargli più sotto nella prima. Quindi nacque pei Francesi la necessità di dar l'assalto al posto di Magliani, e d'impadronirsi di Millesimo.

Il secondo di questi fini fu conseguito da Augereau, il quale per viva forza superò i passi dei monti che dividono le due valli. Era alla guardia della sinistra Bormida il vecchio ma prode generale Provera con un corpo franco Austriaco, e quindici centinaja di granatieri Piemontesi. Aveva con se per conforto e sprone alla sua vecchiaja il marchese del Carretto, giovane forte e generoso. Era Provera posto in molto pericolosa condizione, perchè, non avuto avviso alcuno da Argenteau, si vide ad un tratto circondato da ogni banda dai nemici, e lontano per l'invasione subita di Buonaparte, da Colli, che si era posato a Montezemo per impedire ai Francesi il passo verso Ceva. Volle con sano consiglio ritirarsi a mano manca verso gli Austriaci; ma gli venne impedito il viaggio dalla Bormida, che cresciuta per pioggie abbondanti, correva torbida ed impetuosa. Fece allora l'animosa risoluzione di salirsene in cima al monte, dove siede il vecchio castello di Cosserìa. Ivi senza artiglierìe, senza munizioni, senza sussidio alcuno di cibo o di acqua, attendeva a difendersi, sperando che intanto la fortuna avrebbe aperto qualche scampo. Augereau, che conosceva ottimamente, che, fintantochè quel freno del castello di Cosserìa, presidiato da forte e valorosa gente, fosse in mano del nemico, non era possibile di consuonare co' suoi verso il centro e la destra, s'accinse a fare ogni sforzo per superarlo. Tre volte andarono i repubblicani all'assalto, altrettante furono risospinti con immenso valore dagli assaltati: morirono in queste fazioni sanguinose tra i Francesi molti buoni soldati, e tra loro il generale Banel, e l'ajutante generale Quentin. Fu ferito nella testa il generale Joubert: pochi furono feriti dentro al castello, e tutti al capo, perchè gli alleati avevano le difese di alcune vecchie trincee. Pernottarono i Francesi a mezzo monte, facendo con botti e letti di cannoni un tal qual riparo, affinchè il nemico non potesse in quel bujo tentare cosa d'importanza. Ma era sitibonda all'estremo la guernigione tra pel calore della stagione, e per l'ardore della battaglia. Chiedeva Provera quant'acqua bastasse ai feriti; la negava Augereau. Bensì, siccome quegli che aveva fretta, ricercava spesso la piazza di resa; il che gli fu costantemente rifiutato dall'Austriaco. Arrivava il giorno quattordici aprile: la fame e la sete operarono ciò che la forza non aveva potuto. Diessi la piazza ai vincitori, accordandosi che gli ufficiali avessero facoltà di andarsene dove meglio piacesse loro, sotto fede di non militare sino agli scambj, i soldati si conducessero, e stessero in Francia sino a liberazione. Al tempo medesimo Rusca cacciava i Piemontesi da San Giovanni di Murialto, e la vittoria di Cosserìa abilitava Augereau a superare Montezemo, il che diè facoltà ai Francesi di spiegar le bandiere loro nella valle del Tanaro, ed indusse Colli alla necessità di correre a difender Ceva e Mondovì.

Queste cose succedevano a sinistra dei repubblicani; ma altre di maggiore importanza preparava la fortuna in mezzo, e a destra. Quantunque gli alleati avessero toccato una grave sconfitta a Montenotte, le sorti loro avrebbero potuto facilmente risorgere, perchè nè erano perduti d'animo, nè mancavano di passi forti, a cui potessero ripararsi. Massimamente insino a tanto che la strada del Dego non era libera al nemico, non temevano ch'ei potesse fare una impressione d'importanza in Piemonte. Laonde applicarono l'animo a farsi forti per quella strada; dall'altra parte i Francesi pensavano a sforzarla. Gli Austriaci in numero circa di quattromila soldati, ai quali si erano accostati i due reggimenti Piemontesi della Marina e di Monferrato, si fortificarono a questo fine sui monti di Magliani, di Cassano, del Poggio, e della Sella. Fecero un ridotto a Cassano sopra Magliani, e lo munirono d'artiglierìe, con aver anche fatto una grande abbattuta d'alberi e di virgulti all'intorno, per poter bene scoprire l'inimico, ove s'attentasse di salire per assaltargli. Diedero loro tempo due giorni i Francesi, o per necessità, o per cattivo consiglio, a fornire le loro fortificazioni in quei luoghi eminenti e difficili. Anzi il dì tredici aprile una quadriglia di repubblicani, che scortava due pezzi d'artiglierìa minuta, e se ne stava troppo confidentemente a mala guardia, sorpresa dagli alleati, perdè le artiglierìe che furono condotte a Dego. La principal difesa degli alleati consisteva nel ridotto di Magliani, che stava a ridosso del castello del medesimo nome, nel quale allogarono una grossa compagnìa del corpo franco di Giulay con alcuni soldati della Marina.

I repubblicani per aprir quella strada che i confederati avevano serrata, comparivano alle due meridiane del giorno tredici, minacciosi, e grossi di quindici mila combattenti, facendosi avanti sino alla Rocchetta del Cairo, ad un miglio distante di Dego. Quivi si spartirono in tre colonne, che si accostarono ai siti occupati dai confederati. Ma non furono questi fatti che minacce, tentativi per iscoprir bene il sito e la forza del nemico. A questo fine appunto Buonaparte, giunto che fu al Colletto, fece trarre di una forte cannonata, per prender notizia del nemico, sperando che gli alleati, credendosi assaliti, e rispondendo, lo avvisassero dei luoghi dove si trovavano; il che gli riuscì, come aveva sperato. Ma l'urto dei due forti nemici doveva succedere nel giorno quattordici, nel quale i repubblicani, risoluti di venirne al cimento, si spartirono, come innanzi, in tre parti. La destra condotta dal colonnello Rondeau, e composta di circa quattromila soldati, assaliva gli alleati per la strada che dai Girini conduce al Dego, e di questa, quindici centinaja separatisi dagli altri, andarono ad occupar la strada che dalla regione dei Pini porta alle Langhe a fine d'impedire i soccorsi, che da Pareto, o da Spigno potessero venire agli alleati: essa doveva far impeto contro il Poggio e la Sella. Quella di mezzo capitanata dai generali Menard e Joubert con due mila soldati saliva al castello di Magliani. La sinistra più grossa delle altre, che obbediva a Massena, Causse, Monnier, e Lasalcette, era destinata a salire dalle sponde della Bormida per dar dentro al fianco destro dei posti di Magliani, e contro il Monterosso, che dava il varco ai medesimi. Tutte queste mosse erano con molta maestrìa di guerra pensate, e furono altresì con molto valore eseguite. Riuscì terribile l'urto al Poggio ed alla Sella; vi morirono molti buoni corpi da ambe le parti. Saliva di fronte la mezza, ma posatamente per aspettar l'effetto dell'assalto dato sui due fianchi. I Francesi, dopo un combattimento sostenuto quinci e quindi con molta ostinazione, riuscirono finalmente ad aver vittoria sui due lati, cacciando i nemici loro dal Poggio e da Monterosso. Si fece allora avanti la mezza, ed entrò forzatamente nel castello di Magliani dove uccise i soldati di Giulay, che tutti vollero piuttosto morire, che cessar di combattere. Restava il ridotto di Magliani, principale propugnacolo degli alleati, dal quale tempestavano con una furia incredibile di palle e di scaglia. Fu quivi assai dura l'impresa pei repubblicani, perchè i confederati maravigliosamente inferociti, traevano spessissimamente a punto fermo, e solo a cento passi di distanza. Finalmente dopo tre ore di sanguinosissima battaglia, e solamente verso la sera, venne fatto ai Francesi, che accorrevano contro il ridotto da tutte le bande, d'impadronirsi di quel forte sito, cacciatone a forza i difensori. Si precipitarono allora gli alleati nella valle delle Cassinelle per guadagnar prestamente la strada per a Pareto; ma i Francesi gli seguitarono a corsa, e quella colonna, che si era spartita al principio del fatto dalla destra schiera, che se ne stava ai Pini, scagliossi ancor essa sì fattamente contro i fuggiaschi, che ne furono quasi tutti o morti o presi: tutti anzi stati sarebbero sterminati, se i due reggimenti Piemontesi della Marina e di Monferrato, fatto un po' di testa al monte Scazzone, non avessero fatto ala a coloro che fuggivano, cacciati dalla furia Francese che gl'incalzava. Perdettero gli alleati in questa battaglia meglio di due mila soldati tra morti, feriti e prigionieri; i repubblicani poco più di ducento. Ma grave perdita pei primi fu quella che susseguitò, del castello di Cosserìa, perchè stretto già Provera, come abbiam detto, dalla sete e dalla fame, perduta la speranza di ogni ajuto, poichè vide dall'alto la sconfitta de' suoi, non indugiò più ad arrendersi.

Quando pervennero le novelle della rotta di Magliani ad Argenteau, che aveva tuttavia le sue stanze a Pareto, si diede a passeggiare a gran passi, come uomo che abbia del tutto perduto il lume dell'intelletto. Pure diede ordine ai capitani, facessero massa in Acqui. Certamente da biasimarsi molto è la condotta d'Argenteau in questo fatto; perchè se avesse subito avviato in soccorso dei difensori di Magliani il corpo di cinque, o sei mila soldati, che aveva con se a Pareto, avrebbe potuto facilmente cambiare la fortuna della giornata; perciocchè i suoi, che si difendevano con estremo valore nel ridotto, avuto quel rinforzo, avrebbero potuto sostenersi, od almeno la ritirata sarebbe stata salva e sicura.

Questa fu la battaglia, che meglio di Magliani, che di Millesimo si chiamerebbe, perchè a Magliani concorsero le principali forze delle due parti, e nel luogo medesimo succedette il più forte conflitto. Ma la fortuna solita sempre a far maravigliose conversioni in guerra, aprì l'adito il giorno seguente ai confederati di ricuperar ciò che avevano perduto; il che avvenne non per buono consiglio, ma per caso, anzi per cattivo consiglio d'Argenteau. La notte, che seguì il giorno della battaglia, il tempo che era stato nuvoloso, diventò piovoso; piovve a rotta verso l'alba. Tra per questo, e per pensare i Francesi a tutt'altro fuorichè a questo, che il nemico vinto avesse a prendere così tosto nuovo rigoglio ad assaltargli, si guardavano negligentemente, e non che stessero nelle trincee, si erano sparsi per le case, dove attendevano meglio a riposare che a guardarsi. Solo cinquecento, o seicento soldati vegliavano alla difesa delle trincee. Ed ecco appunto, che in sul far del giorno il colonnello Wukassovich accompagnato dal luogotenente Lezzeni con un corpo di circa cinque mila soldati composto di Croati, e dei reggimenti di Nadasti, e d'Alvinzi, venendo per la strada di Santa Giustina, compariva improvvisamente alla vista di Magliani. Aveva Argenteau, perduta la battaglia di Montenotte, ordinato a Wukassovich, che stanziava a Sassello, venisse tosto in ajuto, ed il raggiungesse al Dego ed a Magliani. Ma siccome quegli che aveva poca mente, ed anche la sventura gliela faceva girare, aveva indicato per la mossa a Wukassovich un giorno più tardi di quello, che aveva realmente in animo, dimodochè il colonnello, invece di arrivare il dì quattordici, che forse avrebbe vinto la battaglia, arrivava il quindici, ed arrivando già avea sbaragliato e pesto uno squadrone Francese, che muniva il monte della Guardia. Non ostante che con gran sua maraviglia avesse veduto, strada facendo, la fuga de' suoi, e che il nemico avea occupato Magliani, si risolveva a dar dentro risolutamente con la speranza di far pruovare a Buonaparte quello, che Buonaparte aveva fatto pruovare ad Argenteau. Già urtava il castello ed il ridotto. Risentitisi a sì improvviso accidente i Francesi, muovevansi a corsa verso il ridotto per difenderlo; ma nè ebbero tempo di schierarsi, nè di apparecchiar le artiglierìe, e quel forte sito, che con tanta fatica e sangue aveano conquistato, ritornava, quasi senza contrasto, in potestà dei confederati. Parte dei repubblicani fuggendo, si gettarono nella valle di Colloretto, i più si precipitarono a rotta sui dirupi, in mezzo ai quali scorre il torrente Grillero, e si salvarono verso il Colletto, dov'era la guardia loro di ricuperazione. Fu grande strage dei Francesi in sul Grillero, perchè i Tedeschi gli bersagliavano dall'alto. Perdettero i primi non solo i luoghi, ma ancora le artiglierìe che li munivano.

Massena, a così fortunoso caso riscossosi, e gettatosi al piano, frenava primieramente l'impeto de' suoi, che fuggivano verso il Colletto; poi, ordinatigli di nuovo in tre colonne, come nella battaglia del giorno quattordici, gli conduceva all'assalto. Ma se Massena non era capace di timore, non era nemmeno Wukassovich: quì la battaglia divenne orrenda. La sinistra era alle mani con le guardie avanzate Austriache, che si difendevano con singolare ardimento; la mezza pativa assai, perchè i Tedeschi fulminavano dal ridotto, e già i soldati stanchi, ed impauriti si nascondevano per le case. La destra medesimamente trovava un feroce rincalzo. Massena, veduto titubare i suoi, mandò avanti la squadra di ricuperazione, e postala dietro alla mezzana, impediva, che coloro che davano indietro, passassero il Grillero. In questo mentre restò ferito gravemente d'un'archibugiata nell'anca destra il generale Causse che portato alla Rocchetta, poco stante mancò di vita. La colonna di mezzo incoraggita da Massena e dagli altri generali, già arrivava fin sotto al ridotto; ma uscitine impetuosamente gli Austriaci, la urtarono, e rincacciarono fino al castello. La sinistra ancor essa era stata risospinta con grave perdita, la destra non faceva frutto. Massena animosissimo gli conduceva di nuovo all'assalto, e di nuovo erano ributtati con palle, ed ischegge terribili. Già il quarto assalto era riuscito vano. Arrivava in questo punto con sei mila soldati Laharpe, che avendo udito lo strano caso, era prontamente accorso. Novellamente si raccozzavano, si riordinavano, si muovevano, si serravano contro il nemico; nè ciò ancor bastava a piegare la costanza Austriaca; che anzi quei valorosi soldati, non sapendo come quà fossero venuti, nè come andarsene, nè quando sarebbero soccorsi, continuavano a trarre disperatamente, ed a tener lontano il nemico. Dopo tanti rincalzi, e tante stragi, incominciavano i Francesi a dubitare della battaglia. Buonaparte, che vedeva l'importanza del fatto, accorreva coi soldati vincitori di Cosserìa, e con impeto unito menava i suoi ad un ultimo assalto. Puntarono acremente la destra e la sinistra sui fianchi: la mezzana ingrossata, e rinfrescata assaliva di fronte. Urtati da tante parti, continuavano gli Austriaci a combattere; cacciati dal ridotto, combattevano dalle case; cacciati dalle case combattevano dalle boscaglie; finalmente cacciati anche da queste e pressati d'ogni banda, minacciosi e rannodati si ritiravano. Gran fatto è stato questo, e che debbe far stimar Wukassovich uno dei migliori guerrieri dei nostri tempi. La destra intanto, e quella del Monterosso, scese improvvisamente nella valle delle Cassinelle, diedero dentro agli Austriaci ritirantisi, e gli ruppero con molta strage, facendone anche di molti prigionieri. Una parte però, che prese la strada delle Langhe, si ritirava intiera, e voltando qualche volta la fronte, arrestava l'impeto del nemico, massimamente della cavallerìa, che perseguitava coloro, che fuggivano per la valle delle Cassinelle; anzi per un tiro venuto da lei restò ucciso un generale di cavallerìa.

Perdettero gli Austriaci in questa battaglia tra morti, feriti e prigionieri, sedici centinaja di buoni soldati con tutte le artiglierìe loro: ma non fu nemmeno senza sangue pei Francesi la vittoria. Tra morti, feriti e prigionieri mancarono più di ottocento soldati. Fra i morti per chiarezza di nome o di grado, si noverarono Causse, il generale di cavallerìa e Rondeau, che ferito nel piè destro, e portato a Savona, peggiorando sempre più la piaga, passò di questa vita alcuni mesi dopo.

Dalla presente narrazione si vede, che sebbene Buonaparte avesse errato nell'ordinare la battaglia di Montenotte, molto bene ei seppe emendare il fallo in quella di Magliani, egregiamente da lui ordinata e combattuta. Argenteau da parte sua errò in molti modi, e nella battaglia e dopo di lei, e massimamente in quella di Magliani, per modo che ei fu costretto di combattere con una parte delle sue forze contro la maggior parte di quelle del nemico. Sollevossi fra l'Austriaca gente un romore ed uno sdegno grandissimo contro di lui, accusandolo tutti dell'infelice successo delle battaglie di Loano, di Montenotte e di Magliani, delle quali la prima preparò la strada, le altre l'apersero alla conquista d'Italia. Beaulieu il fece arrestare e condurre a Mantova, poi a Vienna, perchè vi fosse preso dell'error suo da un consiglio di guerra debito giudizio.

Buonaparte errò, e riparò; Argenteau errò senza riparare; ma bene non errarono nè Rampon, nè Wukassovich, al primo dei quali si deve tutta la gloria di Montenotte, al secondo quella di Magliani: vinse il primo, perchè un generale, sendosi accorto del fallo, il soccorse; perdè il secondo, perchè un generale di poco intelletto, che poteva soccorrerlo, nol fece. Ma resterà nella memoria dei posteri, senza rimanersi alla felicità od alla infelicità del fatto, il nome di Wukassovich tanto ed a giusto titolo glorioso, quanto veramente è quello di Rampon; nè noi abbiam voluto che mancasse in queste nostre storie correggitrici della parzialità dei tempi, il testimonio nostro a quel generoso, e prode Austriaco.

Lo splendore della vittoria Francese fu oscurato dal furore del sacco. Molti fra i repubblicani, non perdonando nè a cosa sacra, nè a profana, riempievano i paesi di terrore e di fuga. Queste enormità, che tanto contaminavano il nome di Francia, abbominavano molti generali, abbominavano i soldati buoni, ma quelli non potevano impedirle coi comandamenti, nè questi con l'esempio. Perchè poi, chi leggerà questi miei scritti, non creda che un giusto sdegno ci faccia trascorrere oltre il vero, diremo, che i generali Francesi dabbene, dicevano e scrivevano di questo cose assai peggiori, che noi non abbiam raccontate. Scriveva Serrurier, molti soldati amar meglio rubare che combattere, rinfacciare, a quel modo combattere, al quale erano pagati: Chambarlac e Maugras colonnelli, non potendo più oltre tollerar di vivere con soldatesche che senza disciplina e senza obbedienza essendo, minacciavano ad ogni ora di maltrattare anche gli ufficiali, che cercavano di frenare il furor loro, domandata licenza, volevano cessar dagli stipendj. Soprattutto il buono e generoso Laharpe iva gridando, il soldato ogni ora più arrogarsi le ruberìe e le uccisioni, assassinare i soldati i paesani, i paesani i soldati; non poter con parole descrivere le enormità che si commettevano; le stanze dei soldati essere deserte; correre il soldato le campagne a guisa piuttosto di bestia feroce che d'uomo; e se le guardie da un lato il cacciassero, correre tosto ad assassinare da un altro: disperarsene gli ufficiali: meno atroce caso fora, aggiungeva dolente e sdegnoso Laharpe, l'adunare in un luogo solo gli abitatori per ammazzargli tutti in una volta, poi devastar quel che restasse; essere il medesimo, perchè se di ferro non morissero, di fame morrebbero: non esservi adunque più provvidenza, sclamava, che fulminasse i scelerati amministratori, che ridotto avevano i soldati dell'Italica oste od a farsi ladri ed assassini, od a morir di fame: non poter più vedere, meno ancora tollerare sì abbominevoli eccessi; chiedere perciò licenza a Buonaparte generale, volersene ire; anteporre l'umile mestiere del lavorar la terra per vivere, ad esser capo di genti peggiori che non furono ai tempi andati i Vandali. Noi non abbiamo senza tenerezza narrato le generose querele di Serrurier, di Chambarlac, di Maugras e di Laharpe, acciocchè sappiano i posteri, che se le primizie che si diedero all'Italia, furono opere da cui più l'umanità abborrisce, vissero ancora in mezzo ai Francesi non pochi generosi uomini che queste esorbitanze barbare ed abborrivano, ed apertamente condannavano.

Seguitando ora il progresso della storia, dopo la vittoria di Magliani, insistendo velocemente Buonaparte nei prosperi successi, era venuto a capo del suo pensiero di separare gli Austriaci dai Piemontesi: nel che tanto più facilmente riuscì, che nè Beaulieu si curò molto di starsene unito a Colli, nè Colli a Beaulieu, perchè ed alcuni semi di discordia già erano prima dei raccontati fatti tra di loro sorti, e, come suole accadere nelle disgrazie, gli Austriaci accusavano i Piemontesi di non avergli, com'era debito, ajutati, i Piemontesi davano il medesimo carico agli Austriaci. Finalmente premeva più a Beaulieu l'accorrere alla difesa del Milanese, a Colli a quella del Piemonte. Di questa dissidenza dei capi Austriaco e Piemontese accortosi l'accortissimo Buonaparte, quantunque gli fosse stato ingiunto di perseguitar piuttosto gli Austriaci che i Piemontesi, si risolveva a serrarsi addosso agli ultimi, sperando di costringere fra breve il re di Sardegna alla pace, per voltarsi poscia, assicuratosi alle spalle, con maggiore speranza di vittoria, alla conquista della Lombardia. Al quale consiglio tanto più volentieri si appigliava, quanto più sapeva, che Beaulieu tentava continuamente l'animo del re per farlo star fermo nella lega, offerendogli di soccorrerlo non solo con le forze che gli restavano tuttavia, ma ancora con quelle che o già erano arrivate, o presto dovevano arrivare nel Milanese, purchè per sicurtà della sua fede e delle genti Austriache, consentisse a dargli in mano le fortezze di Alessandria e di Tortona. Per la qual cosa il capitano di Francia voltò del tutto i pensieri a voler vedere quello che fosse per partorire in Piemonte la presenza dei repubblicani. Due erano i modi che voleva usare per arrivare ai suoi fini; la forza con perseguitar da vicino co' suoi soldati vittoriosi le reliquie delle truppe reali, l'astuzia col tentar di far muovere i popoli, con le parole di libertà, contro l'autorità del re. A questo era e disposto per se, e comandato dal Direttorio. Gli aveva il Direttorio imposto, che tentasse per ogni mezzo di dare spirito ai novatori, e tanto più ciò facesse, quanto più si ostinasse il Piemonte a voler perseverare nella sua congiunzione con la lega, e nella guerra. A questo fine, e per far vedere che entrava con molto favore, aveva Buonaparte condotto con se alcuni fuorusciti Piemontesi, dei quali alcuni erano amici della libertà, altri facevano professione di essere. Sperando egli di far consentire con lo spavento d'interne rivoluzioni Vittorio Amedeo alla pace, pensava di servirsi dell'opera di costoro, quantunque in poca stima gli tenesse, anzi piuttosto gli avesse a vile, perchè egli riputò sempre gli amatori della libertà, o veri o finti ch'essi fossero, piuttosto importuni parlatori, che uomini capaci di far cose di momento. Adunque, ordinato ogni cosa, come abbiamo detto, e collocato un grosso corpo nei contorni del Dego per appostar gli Austriaci, acciocchè non tentassero nulla a suo pregiudizio, si avviava verso Ceva, contro cui aveva già mandato con molte forze Augereau e Serrurier.

Erasi Colli, dopo l'infelice successo della giornata di Magliani, e dopo che pel fatto di Cosserìa era stato obbligato di lasciar al nemico la possessione di Montezemo, ridotto coi Piemontesi nel campo trincerato, che per difesa della fortezza di Ceva era stato ordinato alla Pedagiera, ed alla Testa nera, sito che signoreggia la fortezza. Assaltò Buonaparte impetuosamente questo campo; gli fu anche virilmente risposto; durò la battaglia molte ore con molto sangue da ambe le parti, massime dei repubblicani, i quali combattevano più scoperti. Nè vi fu modo di far piegare i regj, che con valore difendendosi respingevano costantemente il nemico. Succedeva questa fazione ai sedici aprile. Pernottarono repubblicani e regj ai luoghi loro. Ma il giorno seguente, ingrossatisi molto i primi, rinfrescarono l'assalto più forte di prima, nel quale sebbene animosamente si difendessero i regj, temendo Colli di essere spuntato dai lati, lasciato un grosso presidio nella fortezza, ritraeva le genti con andar ad alloggiarle in sito molto opportuno là dove la Cursaglia mette nel Tanaro. In questi fatti, proteggendo valorosamente la ritirata il reggimento d'Acqui, morì di grave ferita il marchese Cavoretto, morte sentita dolorosamente da tutti per le buone qualità sue sì civili, che militari; e se i Francesi han ragione di celebrare, come fanno, con esimie lodi coloro, che sono morti combattendo per la patria, non so perchè gl'Italiani siano tanto scarsi in lodar coloro che, come il marchese Cavoretto, diedero la vita per preservare una patria, che debbe loro essere tanto cara, quanto è veramente la Francia ai Francesi. Occuparono, fatta questa ritirata, i repubblicani subitamente la città di Ceva, nè così tosto l'occuparono che vi fecero grosse tolte di pane, e posero taglie di denaro. Attaccarono i repubblicani superiori di numero l'esercito regio nei campi della Bicocca, della Niella e di San Michele, ma non poterono sloggiarlo, pel duro contrasto che vi fece. Ai venti massimamente si combattè con molto sangue: pure stettero fermi alla pruova i Piemontesi, per modo che Serrurier si ritirava assai malconcio e disordinato. Infine quel valoroso Massena, il quale nato suddito del re, più di tutti operò per abbattere la sua potenza, passato la notte del ventuno il Tanaro a guado presso Ceva aveva occupato Lesegno. Dall'altra parte Guyeu e Fiorella, essendosi fatti padroni del ponte della Torre, mettevano Colli in pericolo di essere circondato dai repubblicani alle spalle; il che avrebbe condotto quell'esercito, ultima speranza della monarchìa Piemontese, ad un'estrema rovina. Perlocchè, levato il campo occultamente alle due della notte, e conducendo seco tutte le artiglierìe e le bagaglie, s'incamminava frettolosamente, ma ordinatamente alla volta di Mondovì. Il seguitarono velocemente i repubblicani, ed il raggiunsero a Vico, dove allo spuntar del giorno seguì la battaglia, che i Francesi chiamano di Mondovì. Buonaparte solito ad abbellir con parole magnifiche le sue geste, rappresentò questo fatto con colori di grandezza, e di virtù militare dal canto de' suoi. Ma il vero si è, che Colli non poteva, nè voleva tra mezzo ad una frettolosa ritirata, e con soldati già scemi d'animo e di forze venirne ad una battaglia giusta contro un nemico vittorioso, battaglia in cui ne sarebbe andato tutto il destino di un antichissimo reame. Solo suo intento era di ritardar tanto il perseguitante nemico, che potesse condur in salvo le artiglierìe ed il bagaglio, ed andar a pigliar un alloggiamento tale, che potesse, se ancor possibil fosse, arrestar il corso alla fortuna che con tanto impeto precipitava. Difesosi in Vico con molta arte e valore, potè ritardando il nemico, conseguire il fine che si era proposto, di condurre a salvamento nei luoghi sicuri dietro l'Ellero ed il Pesio le armi grosse, e tutti gl'impedimenti. Ritirossi poscia, andando a posarsi in un forte alloggiamento oltre la Stura, dove la fronte era difesa dal fiume, la destra aveva per sicurtà Cuneo, donde si congiungeva alle genti che guardavano i passi per al Colle di Tenda, la stanca finalmente si appoggiava a Cherasco posto alla foce della Stura nel Tanaro, ed afforzato, sebbene leggermente, con bastioni muniti di steccate e palizzate. In tale modo un umile fiume, un esercito valoroso, ma vinto, e due piazze, una forte l'altra debole, restavano soli impedimenti ai Francesi, onde non inondassero tutto il Piemonte, e non sventolassero le insegne repubblicane sotto le mura della città capitale di Torino. Certamente assai è da lodarsi Buonaparte per l'ardire e per l'arte mostrata in tutti questi fatti; assai anche è da lodarsi il valore de' suoi soldati; ma da lodarsi ancora è Colli, e l'esercito Piemontese, che spinto e risospinto più fiate da luoghi rotti e montuosi, conservossi sempre intiero, ed all'ultima fine intiero rappresentossi al re per quei negoziati che per la conservazione del regno avesse stimato convenirsi.

L'audace Buonaparte, non contento, se prima non avesse rotto ogni resistenza, usava l'estrema forza e l'estrema astuzia. Minacciava dall'un canto di varcar la Stura, dall'altro, impadronitosi d'Alba per mezzo di Laharpe, città posta sulla riva del Tanaro sotto la foce della Stura, era in grado di passar il primo di questi fiumi, e di correre alle spalle dei Piemontesi. Oltre di questo, per rizzare a spavento del governo una prima bandiera di ribellione, aveva operato, e l'ottenne anche facilmente, che alcuni abitatori d'Alba, instigati principalmente da Bonafous, fuoruscito Piemontese, venuto coi repubblicani, facessero un movimento contro l'autorità regia, mandando fuori bandi di volersi constituire in repubblica. Quivi Bonafous metteva sequestri, faceva confiscazioni di beni mobili e stabili, tanto feudatarj quanto regj, e procedendo in tutto repubblicanamente, dava timore, che con le spalle dei repubblicani d'oltremonti e del paese, avesse a propagar quell'incendio per tutto il Piemonte. Erasi accostato al Bonafous un Ranza, uomo dabbene, nè senza lettere, ma cervello disordinato, e capace del pari di far perir la realtà per la ribellione, e la libertà per l'anarchìa. Costoro, per istimolo, scrissero e pubblicarono una lettera a Buonaparte: voler essi, dicevano, come i Francesi, esser liberi; non voler più vivere nè sotto un re, nè sotto altro tiranno, con qual nome si chiamasse; volere l'equalità civile, volere spegnere i mostri feudatarj; per questo aver preso le armi all'approssimarsi del vittorioso esercito di Francia: gli ajutasse adunque, pregavano, a rompere quelle catene da schiavi; vedesse l'Italia in atto di chiamarlo alla liberazione sua; donassele la libertà, ridonassele il lustro antico; sarebbe il suo nome glorioso ed immortale. Non contenti a questo, Bonafous e Ranza, procedendo immoderatamente, mandavano bandi repubblicani al clero del Piemonte e della Lombardìa, siccome pure ai soldati Napolitani e Piemontesi. Ancorchè il generale di Francia sapesse, che non era in Piemonte seme sufficiente di rivoluzione, pure andava fomentando queste dimostrazioni, e le magnificava per intimorire il governo; perchè argomentava, che già preso da spavento pei sinistri eventi della guerra, e male giudicando delle disposizioni dei popoli, si lascerebbe facilmente spaventare dal pericolo immaginario di moti interni contrarj alla quiete del regno. Adunque e per questi romori, e per esser padrone il nemico del passo del Tanaro in Alba, e per esser Cherasco in se stesso poco difendevole, temendo Colli di essere assaltato alle spalle, lasciato Cherasco, si ritraeva, per sicurezza di Torino, alle stanze di Carignano. Ora era giunto il re di Sardegna a quell'estremo punto, in cui o far doveva una risoluzione magnanima, o sottoporre il collo ad un nemico insolente, e ad un governo disordinato e del tutto diverso dal suo: ora si doveva vedere, se Vittorio Amedeo III era in grado di mostrare al mondo di avere nell'animo quei medesimi spiriti, per cui tanto sono lodati i suoi generosi antenati Carlo Emanuele I, e Vittorio Amedeo II. Adunossi in tanto precipizio di cose il consiglio, al quale assistettero il re ed i principi reali, con tutti i ministri dello stato. Drake, ministro d'Inghilterra a Genova, trasferitosi a Torino, ed il marchese Gherardini, ministro d'Austria, temendo che in agitazione sì grave il re fosse per separare i suoi consiglj da quei della lega, e desiderando sommamente d'interrompere questa cosa, non avevano mancato all'ufficio loro con tenerlo continuamente sollecitato, perchè voltasse il viso alla fortuna, e stesse in fede: ricordassesi, dicevano, del nome suo; avrebbe presto di Germania e d'Inghilterra sussidj di soldati, e di denaro; non permettesse che la generazione presente potesse dire, aver mancato d'animo ad un primo romoreggiar di Francesi in Piemonte; ricordassesi dell'assedio di Torino, rivocasse alla mente la vittoria tanto famosa al mondo di Vittorio Amedeo, suo grand'avolo; la fortuna essere stata contraria, ma il valor pari; variare la fortuna sempre, constare sempre a se medesimo il valore; pensasse, e nella mente sua maturamente volgesse, quanta fosse stata verso di lui la fede degli alleati, che del tutto a lui avevano commesso le sorti d'Italia, quantunque sapessero potere venir caso, che i francesi, rotte violentemente le barriere dell'Alpi, penetrassero in Piemonte; non fosse minore in lui la costanza, di quanto fosse stata la fiducia della lega; avere i re nel corso dei regni loro prosperi casi ed avversi; essere più gloriosi quelli che costantemente sopportano i secondi, di quelli che oscuri trapasseno i giorni loro nei primi, considerasse bene quanto da lui richiedessero Italia, ed Europa; non consentisse che in lui più potesse un romor repentino, che i veri interessi del suo reame. Dimostravasi Vittorio Amedeo constantissimo a voler continuare nella fede data: difenderebbe Torino sino all'ultimo, o anderebbe ramingo, se così fortuna volesse; non consentirebbe a pace con un nemico odiosissimo. Il secondava nella medesima sentenza il principe di Piemonte, nel quale, come primogenito regio, doveva pervenire il regno, non però per motivi di stato, ma sì di religione, parendogli, come a principe religiosissimo, troppo abbominevole aver per amici coloro, che stimava eretici e nemici di Dio. Temeva la propagazione dei principj loro anche in Piemonte, ed abborriva una pace, che gli pareva ancor più rea verso Dio che verso gli uomini. Ma dal cardinale Costa, arcivescovo di Torino, personaggio nel quale risplendevano ingegno, dottrina ed amor singolare di lettere e di letterati, fu ragionato in contrario, esser l'Austria infedele, pensare prima a se che ad altrui, essere il pericolo della ribellione imminente, la necessità più forte della fede; il cacciare i Francesi dal Piemonte del tutto impossibile; meglio avergli amici che nemici; ponendo anche l'Austria di eguale potenza della Francia, esser questa vicina, quella lontana; riuscir più facile ai Francesi l'invadere il Piemonte, che agli Austriaci il preservarlo; potere l'Austria, come lontana, perseverare nella guerra; dovere il Piemonte pensare ai casi suoi: nella supposizione favorevole diventerebbe il Piemonte campo di guerra, pieno di ruberìe, di devastazioni e di uccisioni; e se già a mala pena si poteva resistere ai Francesi, come si sarebbe potuto resistere ai Francesi stessi, ed ai sudditi tumultuanti a perdizione del regno? Non esser forse superbe le profferte degli Austriaci? non domandar loro per prezzo degli ajuti Alessandria e Tortona? Qual compenso poter offerir l'Austria in una felice guerra per le perdute Savoja e Nizza? Sperarla tanto felice, ch'ella ne reintegrasse il re per la forza dell'armi, esser più tosto fola da infermi, che argomento d'uomini ragionevoli: all'incontro potere i Francesi, dal canto dei quali allora stava la probabilità della vittoria, e volere ed offerire nel conquistato Milanese grassi ed adeguati compensi: sì certamente essere infido quel Francese governo, ma poter tendere maggiori insidie in guerra che in pace, perchè la guerra fa le insidie lecite, la pace le fa infami; variare consiglio il savio al variare degli eventi, e poichè la fortuna aveva addotto un accidente, non che straordinario, maraviglioso, doversi anche fare una risoluzione straordinaria. Loderebbonla gli uomini prudenti, benedirebbonla i sudditi fatti immuni dalle esorbitanze incomportevoli della guerra: assai e pur troppo essersi fatto per mantener la fede promessa; dimostrarlo il sangue sparso, dimostrarlo le innumerevoli morti, dimostrarlo le desolate campagne: assai essersi soddisfatto all'onore, ora doversi soddisfare all'esistenza.

A questa sentenza del consigliar la pace era stato tirato l'arcivescovo per lume proprio, e per conforto dell'avvocato Prina Novarese, quel medesimo che, d'ingegno acutissimo, d'animo duro, e bel parlatore, e maestro singolare del comandar tirato essendo, piacque poi tanto per infelice suo destino a Buonaparte. Il favellare di un uomo tanto grave e tanto pratico delle cose del mondo, qual era il cardinale Costa, commosse tanto e sì maravigliosamente gli animi degli ascoltanti, che fu fatta quella risoluzione, che sottraendo la monarchìa Piemontese da una dipendenza certamente eccessiva verso l'Austria, la fece vera e reale serva della Francia. Allora veramente, e non più tardi perì il reame di Sardegna, allora, e non più tardi perì la monarchìa Piemontese. Dallo strazio che ne fece poscia quel governo repubblicano di Francia; comprenderanno facilmente i leggitori di queste storie, che non solo più onorevole, ma anche meno infelice consiglio sarebbe stato l'incontrare qualunque più duro caso di fortuna coll'armi in pugno, che il darsi con le mani disarmate ed avvinte in preda ad un amico sì fantastico, e sì crudele.

Spedironsi pertanto a fretta verso Genova il conte Revello, ed il cavaliere Tonso, con mandato di negoziar della pace con Faipoult, ministro della repubblica francese. Al tempo medesimo fu fatto mandato a Colli di domandare, ed al conte Delatour, e marchese della Costa di accordare una sospensione di offese col generale repubblicano. Non avendo Faipoult facoltà di negoziare, si partirono i commissarj da Genova senza risoluzione, e s'incamminarono tostamente alla volta di Parigi a fine di stabilire la pace, e l'amicizia con la repubblica. Tristo e misero era il mandato, nè difforme dallo spavento concetto: pure il timore non era uguale alle disgrazie che i tempi apparecchiavano. Intanto, scrittosi da Colli a Buonaparte, si sospendessero le offese, rispose, nè potere nè volere, se prima non gli si davano due delle tre fortezze di Cuneo, d'Alessandria e di Tortona. Consentiva il re per la prima e per l'ultima, e di più per Ceva, che oppugnata gagliardamente, con ugual gagliardìa si difendeva. Adunque l'estremo momento essendo giunto, in cui l'antichissima monarchìa dei Piemontesi doveva, cessando d'esser padrona di se medesima, cadere in servaggio altrui, fu accordata in Cherasco la tregua tra Buonaparte dall'un lato, Latour e della Costa dall'altro, con questo, che i repubblicani occupassero Cuneo il dì ventotto aprile, Tortona non più tardi del trenta, la fortezza di Ceva subito dopo gli accordi; restassero i Francesi in possesso dei paesi conquistati oltre la Stura ed il Tanaro; fosse fatto facoltà ai corrieri di passare pel Cenisio per a Parigi; comprendessersi nella tregua i soldati dell'imperatore, che erano ai soldi del Piemonte; durasse sino a cinque giorni dopo la conclusione dei negoziati di Parigi. Siccome poi Buonaparte tesseva un grande inganno a Beaulieu per farsi comodo il passo del Po, così stipulava, che l'esercito di Francia potesse passare il fiume sopra Valenza. Queste furono le tristi condizioni della tregua, alle quali succedettero poco stante le condizioni più tristi ancora della pace. A tale accordo si rallegrarono i novatori, s'avvilirono i ligj, si scoraggiarono i leali, si spaventarono i popoli, si sdegnarono i soldati. Lo scrittore di queste storie, trovandosi a questo tempo alle stanze di Gap in Francia, e quivi avendo parlato coi soldati Piemontesi cattivi in guerra, udì da loro abbominarsi con grandissimo sdegno i patti, che la patria loro avevano condotto in sì duro servaggio. Spaventossene l'Italia, maravigliaronsene i potentati d'Europa. Volle anzi in questo la fortuna solita ad addurre casi strani, che le novelle della debolezza del governo regio, che tanto disordinava le cose comuni, spedite con grandissima celerità a Pietroburgo, vi arrivassero prima della circolare scritta dal re, per cui affermava, la sua costanza del voler perseverare nella guerra essere inconcussa: delle quali novelle non sapendo l'agente di Sardegna, visitava il conte Ostermann, ministro degli affari esteri dell'imperatrice Caterina, la circolare rappresentandogli: la quale leggendo Ostermann dava segni di maraviglia, di dispetto e di sdegno, servendosi anche, parlando del re, di parole, che per la gravità della storia non vogliamo rapportare, e che certamente poco sono convenevoli alla maestà reale. La somma fu, che squadernò in viso all'agente lo spaccio, che conteneva le novelle della tregua, sdegnosamente dicendo, che i confederati sapevano ottimamente, che la fortuna della guerra avrebbe potuto portare che i Francesi penetrassero in Piemonte; che non ostante avevano confidato che il re, ad imitazione dei gloriosi suoi antenati, serbando la medesima costanza, avrebbe loro osservato le cose promesse; che la lega non avrebbe pretermesso di soccorrerlo; che finalmente, se avessero i confederati potuto credere che ad un primo impeto ei fosse per mancar d'animo, e per posar le armi, avrebbero fatto altri pensieri, e provveduto in altra guisa alla sicurezza, ed agl'interessi degli stati loro.

Infatti non si vede, quale sì inevitabile necessità dovesse condurre il governo regio ad una risoluzione tanto pregiudiziale, e tanto inonorata. Quaranta mila Francesi si erano invero affacciati ad uno degli aditi delle pianure Piemontesi; ma difettosi di artiglierìe, massime grosse, difettosi di cavallerìa, non potevano nè espugnar le piazze forti, nè tener la campagna aperta. Nè denaro avevano per pagare, nè magazzini per pascere i soldati. Oltre a ciò stavano loro ai fianchi, a destra Ceva, che tuttavìa si difendeva validamente, a sinistra Cuneo copioso di difensori forti, e ben provveduti di ogni cosa. La metropoli stessa di Torino, che stava loro a fronte, senza la possessione della quale invano avrebbero sperato di essere quieti possessori del Piemonte, era munitissima per fortificazioni vecchie e nuove. Nè l'esercito Piemontese era tale, che potesse dar cagione di disperare della difesa di tanti luoghi forti: la cavallerìa sì regia che imperiale fioritissima, intera, abile ad impedire in pianura qualunque fazione d'importanza ai repubblicani. Abbiam narrato come Colli avesse saputo ritirarsi intiero, e rannodato per modo che l'esercito nè disperso nè distrutto, appresentava ancora stabile fondamento a chi avesse voluto usarlo risolutamente. Nè le reliquie di Beaulieu erano disprezzabili, e meglio di ventimila Tedeschi stanziavano nella Lombardìa pronti ad accorrere in ajuto; perchè certamente il combattere in Piemonte era allora un combattere per la Lombardìa. È vero, che per la sicurtà della fede domandava Beaulieu Alessandria e Tortona, dura certamente e superba condizione; ma giacchè per l'acerbità della fortuna si era giunto a tale che o bisognava dare Alessandria e Tortona agli Austriaci, o Tortona e Cuneo ai Francesi, non si vede perchè il primo partito non fosse e più utile, e meno inonesto del secondo, perciocchè meglio era cedere ad un alleato che ad un nemico, meglio cedere ad un governo di natura conforme che ad un governo disordinato, e di natura contraria. Restava il timore, che si aveva dei novatori; ma i soldati erano non che fedeli, fedelissimi, il valore sperimentato, specialmente negli ultimi fatti; degli ufficiali pochi avevano abbracciato le nuove opinioni, nè alcuna inclinazione contraria si manifestava nelle popolazioni, nemiche naturalmente e per antica consuetudine ai Francesi. Sapevaselo Buonaparte, che di queste insidie s'intendeva; sapevalo, e dicevalo, e scrivevalo, quantunque i fuorusciti Piemontesi continuamente gli fossero ai fianchi con rappresentazioni della propensione dei popoli a voler fare novità. Nei partigiani stessi poi si sarebbe certamente per gli eccessi dei soldati allentato il desiderio dei repubblicani.

Di quello che fosse a farsi in così grave frangente testimonio irrefragabile è Buonaparte medesimo, che soleva dire, che se il re di Sardegna gli avesse tenuto il fermo solamente quindici giorni, ei sarebbe stato costretto a rivarcar i monti per ritornarsene là dond'era venuto. Mancò adunque il governo regio a se medesimo, non mancarono i popoli, e manco i soldati al governo; e se Vittorio Amedeo II, già signori i Francesi di quasi tutto il Piemonte, e già oppugnanti con ottantamila soldati, fornitissimi di cavallerìa e di grosse artiglierìe, la capitale del regno, non disperò delle sue sorti, anzi finalmente con una subita e gloriosa vittoria ricuperò lo stato, stupiranno i posteri, che Vittorio Amedeo III, intero ancora lo stato suo in Italia, intere le fortezze, intero l'esercito, ad un primo romoreggiare di Francesi si sia sbigottito nell'animo, e dato subitamente in preda a coloro, che con una pace a lui pregiudiziale, non altro fine avevano, se non di costringere l'Austria ad una pace utile a loro.

Poco lodevole certamente fu la risoluzione del re del venirne a patti così prestamente coi repubblicani, ma non fu senz'arte il suo procedere dopo fermata la concordia, ed in tanta ruina di cose. Avevano egli ed i nobili, coi quali più strettamente si consigliava, non impediti dagli strepiti presenti a discernere la natura degli uomini, bene penetrato quella del capitano Francese, che superba coi popoli, umile col nobili, faceva di modo ch'egli tanto volontieri calpestasse i primi, sebbene le parole sue suonassero diversamente, quanto amava di essere corteggiato dai secondi, ambizione l'una e l'altra incomportabile, quella per isfrenatezza d'imperio, questa per vanità d'animo. Per la qual cosa furongli tosto i principali fra la nobiltà Piemontese intorno per andargli a versi. Fugli intorno per comandamento del re il marchese di San Marzano, e gli piacque: fugli intorno il barone Delatour testè venuto da Vienna, dov'era stato mandato per accordare con l'imperatore Francesco i pensieri della guerra, e gli piacque. Piacquegli altresì e funne contentissimo, che il duca d'Aosta, figliuolo secondogenito del re, che, avuto il governo dell'esercito, si era condotto a Racconigi per raccorlo, gli scrivesse lettere piene di cortesi parole, e di facile condiscendenza. Dava ammirazione il vedere come una amicizia così fresca, e così piena di disgrazie pel Piemonte fosse accompagnata da sì amorevoli uffizj. Bene considerate erano tutte queste cose da parte del governo regio, perchè dimostravano ch'ei non si lasciava trasportar dallo sdegno contro la propria utilità, e che superava gli umori per benefizio dello stato. Tanto poi fu durevole in Buonaparte la dolcezza di questi attaccamenti, che non gli potè dimenticare, e serbò sempre per la casa di Savoja tale tenerezza, che se nei tempi che succedettero ella non potè risorgere, fu piuttosto colpa di lei, che di lui. Insomma egli aveva penuria di cavalli, e se ne gli offerivano; bisogno di barche a passare il Po, e se ne gli fornivano; Bonafous arrestato dai paesani fu rimesso in libertà, così ordinando il re, dal duca d'Aosta, perchè portavano opinione, nel che s'ingannavano, che Buonaparte avesse a cuore la liberazione di lui. Nelle conferenze poi più segrete esortava i ministri di Vittorio Amedeo a confortarlo a star di buon animo, perchè solo che la Francia fosse sicura, le presenti disgrazie sarebbero, come diceva, la sua grandezza. Quanto ai zelatori della libertà affermava, che non sarebbe mai per tollerare che facessero novità, e se qualche Francese gli fomentasse, gliene facessero sapere, che tosto l'avrebbe o castigato o scambiato. Tutte queste dimostrazioni faceva Buonaparte sì per arte per aver le spalle libere a correre contro l'imperatore, e sì per inclinazione, perchè era amatore dei governi assoluti; poichè egli, che sempre procedè fintamente per la libertà, procedè sinceramente pel dispotismo.

Avendo adunque fermate le armi col re, acconce le condizioni del Piemonte e posto in sua balìa quel primo stato d'Italia, il che gli alleggeriva il bisogno di tenersi truppe alle spalle, innalzava l'animo ad imprese più grandi; e perchè l'esercito non gli mancasse sotto, mandava fuori un bando: «Ecco, diceva, o soldati, che in quindici giorni avete vinto sei battaglie, preso trenta stendardi, cinquantacinque cannoni, parecchie fortezze, quindici mila prigioni; avete ucciso diecimila nemici, conquistato la parte più ricca del Piemonte, vinto battaglie senza cannoni, varcato fiumi senza ponti, marciato viaggi senza scarpe, passato notti senza tetti, sostenuto giorni senza pane. Le falangi repubblicane, i soldati soli della libertà capaci sono di sì virili sopportazioni; rendevi la patria grazie dell'acquistata prosperità: vincitori di Tolone, le vittorie del novantatre presagiste; vincitori dell'Alpi, più fortunate guerre presagiste: non più fra sterili rupi, non più fra monti inaccessibili, ma nella ricca Italia avrete a far guerra; ecco che gli eserciti, che testè vi assalivano con audacia, fuggono con terrore al cospetto vostro: ecco trepidar coloro, che si facevano beffe della miseria vostra: ma se avete operato cose grandi, restanvene maggiori a compire. Non ancor sono Roma e Milano in poter vostro, ancora insultano alle ceneri dei vincitori dei Tarquinj gli assassini di Basseville: altre battaglie avete a vincere, altre città ad espugnare, altri fiumi a varcare. Forse alcuno di voi si ritragge? Forse sulle cime dei superati monti ama tornarsene per esser quivi di nuovo segno delle ingiurie di una soldatesca di schiavi? No, i vincitori di Montenotte, di Millesimo, di Dego, e di Mondovì bramano tutti di portar più oltre la gloria del nome Francese; tutti vogliono una pace utile alla patria; tutti desiderano alle paterne mura tornarne, tutti quivi con militare vanto dire: Ancor io mi fui dell'esercito conquistatore d'Italia. Promettovi, amici, ed a voi per ciò mi lego, che dell'Italia vittoria avrete; ma frenate, per Dio, gli orribili saccheggi, sovvengavi, che siete liberatori dei popoli, non flagello: non contaminate con la licenza le vittorie, nè il nome vostro; non contaminate la fama dei fratelli morti nelle battaglie. Io sarò freno a tanto vituperio; vergognereimi al reggere un esercito indisciplinato: ogni scelerato soldato, che con gli oltraggi, e col ladroneccio oscurerà lo splendore dei vostri fatti, fia da me, senza remissione alcuna, dato a morte».

Questo favellare di un capitano vittorioso a soldati vittoriosi, a Francesi massimamente tanto avidi di gloria d'armi, partoriva un effetto incredibile: coll'immaginare già facevano loro la Germania lontana, non che l'Italia vicina. Quel dimostrar poi di voler frenare il sacco, era molto accomodato consiglio per dare sicurtà ai popoli spaventati da una fama terribile, e da fatti più terribili ancora.

Rivoltosi poscia ai popoli d'Italia, mandava, venire il Francese esercito per rompere i ceppi loro; essere il popolo Francese amico a tutti i popoli; accorressero a lui confidentemente, lealmente, securamente; serberebbe intatte le proprietà, la religione, i costumi; fare i Francesi la guerra da nemici generosi, solo averla coi re.

Quali sentimenti producessero sì fatti incentivi, coloro sel pensino, che sanno quanto operi la forza congiunta a magnifiche parole: nè è da far maraviglia, se queste guerre vive dei Francesi di tanto abbiano prevalso alle guerre morte dei Tedeschi.

Possente ajuto a far la guerra da fronte era la quiete alle spalle. Arrivarono le novelle desideratissime, essersi conclusa la pace il dì quindici maggio fra la repubblica e il re. Furono le condizioni principali, cedesse il re alla repubblica la possessione del ducato di Savoja e della contea di Nizza; oltre le fortezze di Cuneo, Ceva, e Tortona mettesse in potestà dei repubblicani Icilia, l'Assietta, Susa, la Brunetta, Castel Delfino ed Alessandria, od in luogo suo, ed a piacere del generale di Francia, Valenza: smantellassersi a spese del re Susa e la Brunetta, nè alcuna nuova fortezza potesse rizzare per quella frontiera; non desse passo ai nemici della repubblica; non sofferisse ne' suoi stati alcun fuoruscito o bandito Francese; restituissersi da ambe le parti i prigionieri fatti in guerra; abolissersi, ed in perpetua dimenticanza mandassersi i processi fatti ai querelati per opinioni politiche; a libertà si restituissero, e dei beni loro posti al fisco si redintegrassero; avessero facoltà, durante il loro quieto vivere, o di starsene senza molestia negli stati regj, o di trasferirsi là dove più loro piacesse; dei paesi occupati dai Francesi conservasse il re il governo civile, ma si obbligasse a pagare le taglie militari, ed a fornir viveri e strame all'esercito repubblicano; disdicesse l'ingiuria fatta al ministro di Francia in Alessandria.

Questo trattato, che dalla parte della repubblica sentiva in tutto l'oppressione, in nulla l'amicizia, aveva in se ogni radice di dissoluzione: solo poteva, e doveva durare finchè la forza durasse; si rendeva per lui lecito al sovrano del Piemonte il sottrarsi per ogni mezzo, che in poter suo fosse, da sì dure, ed inusitate condizioni; poichè, se importava alla repubblica l'indebolire un nemico ostinato, ed anzi forte e generoso, non si vede, che cosa le importasse il volere, che i fuorusciti Francesi, la più parte vecchj od infermi, e tutti miseri, da' suoi stati cacciasse. Quest'era non debilitare il nemico, ma farlo vile, ed il lasciare in lui semi di rabbia, e di vendetta. Vide intanto il Piemonte uno spettacolo miserando; che quelle mani stesse, e quelle subbie, e quei martelli che avevano costrutto la Brunetta, opera veramente maravigliosa, forse unica al mondo, e degna di Roma antica, ora la demolissero, e se allo scoppio delle distruggitrici mine sentivano i Piemontesi uno immenso sdegno, avrebbero i Francesi, quando una infatuazione compassionevole non gli avesse in quell'età fuori di loro medesimi tirati, sentito vergogna; perocchè care a tutti sono le opere mirabili dell'umano ingegno; e se la Francia voleva pure per sicurezza del suo stato, e per istabilirsi totalmente il passo in Italia, che quel propugnacolo si disfacesse, doveva almeno per un pudore Europeo, e non istraneo ad una nazione non barbara, con le proprie mani disfarlo, non obbligar a disfarlo coloro, che edificato l'avevano; conciossiacosachè ciò era aggiungere l'ingiuria al danno.

Fatta la pace e domate le forze regie, aveva Buonaparte diminuito considerabilmente la potenza della lega in Italia. L'esercito Austriaco congiunto coi soldati di Napoli, e con qualche parte di Tedeschi testè arrivata dal Tirolo, si trovava solo esposto a tutto l'impeto dei repubblicani, ai quali veniva a congiungersi gente fresca, che dall'Alpi e dagli Apennini a gran passi calava, allettata dalla fama di tante vittorie. Nè il generale della repubblica era uomo da lasciar imperfetta l'opera, perchè dall'una parte il chiamava la popolosa e ricca Milano con quelle opime terre della Lombardìa, dall'altra la necessità lo spingeva a non lasciar respirar i Tedeschi, finchè non gli avesse rotti e cacciati d'Italia intieramente. Lo starsene avrebbe raffreddato l'ardore de' suoi, e dato tempo all'imperatore, che pure aveva il cuore nelle sue possessioni Italiche, di avviarvi gagliardi ajuti di soldati, e di munizioni. La mira principale, e tutta l'importanza dell'impresa erano d'impadronirsi di Milano. Al qual fine due strade se gli appresentavano; l'una di passare il Po a Valenza e di condursi per la dritta alla metropoli della Lombardìa Austriaca, insistendo sulla sinistra del fiume largo, rapido e profondo; l'altra di varcarlo sotto la foce del Ticino per ischivare questo medesimo fiume, ancor esso grosso e profondo, e di una rapidità singolare, con tutti gli altri che avrebbe per viaggio incontrati, se avesse varcato al passo di Valenza. Appigliossi al secondo partito, il quale, oltre la maggior sicurezza che aveva in se, dava opportunità di metter taglie al duca di Parma, il quale sebbene subito dopo la tregua di Cherasco fosse stato esortato ad accordarsi con Francia da Ulloa, ministro di Spagna a Torino, non vi aveva voluto consentire.

Adunque risolutosi del tutto Buonaparte a voler varcare il Po tra le foci del Ticino e dell'Adda, il che doveva anche dar timore a Beaulieu di vedersi tagliar fuori dal Tirolo, con arte veramente mirabile, oltre la condizione del passo di Valenza inserita nella tregua fatta a Cherasco, dava voce che voleva passare a Valenza, e richiedeva continuamente il governo Sardo di barche pel Valenziano passo. Là mandava carri, là artiglierìe, là soldati, e vi faceva intorno una continua tempesta. Beaulieu, udita la tregua, tentate per una soprammano inutilmente le fortezze di Alessandria e di Tortona, perchè fu ributtato dai presidj Piemontesi che vi stavano vigilanti, aveva passato il Po a Valenza, ardendo tutte le barche che nelle vicine rive si trovavano. Condottosi sulla sinistra sponda con tutto l'esercito e proprio e Napolitano, stava attento ad osservare quello, che fosse per partorire l'astuzia, e l'ardire dell'avversario. Ma quantunque sperimentato ed accorto capitano fosse, si lasciò prendere agl'inganni del giovane generale della repubblica; perciocchè fece concetto, che veramente questi avesse l'intento di varcare a Valenza. Per la qual cosa si era alloggiato tra la Sesia ed il Ticino, affortificandosi per fare due prime teste grosse sulle rive dell'Agogna e del Terdappio, e rendendosi forte massimamente su quelle del Ticino. Siccome poi la città di Pavia, posta sul Ticino vicino al luogo dov'egli mette nel Po, e dov'è un ponte, gli dava sospetto, l'aveva munita, sulle rive del fiume, di trincee, e d'artiglierìe. Per questi medesimi motivi aveva lasciato con poche guardie la sinistra del Po, non solo fra il Ticino e l'Adda, ma ancora fra la Sesia ed il Ticino. Ecco intanto che Buonaparte sicuro oggimai di conseguire il fine che si era proposto, mandava una mano di veloci soldati, comandandole facesse due alloggiamenti per giorno, verso Castel San Giovanni. Seguitava egli medesimo più che di passo con tutte le genti, mentre le sue artiglierìe continuavano a fulminare, per non lasciar cader l'inganno, dalle rive di Valenza. Il colonnello Andreossi e l'ajutante generale Frontin spazzavano con cento soldati di cavallerìa tutta la riva destra del Po insino a Piacenza, recando anche in poter loro alcune barche, le quali navigavano alla sicura sul fiume, portando riso, ufficiali, e medicamenti destinati agl'imperiali.

Usando adunque celeremente l'occasione favorevole aperta dall'arte del generale loro, i Francesi colla vanguardia composta di cinque mila granatieri, e quindici centinaja di cavalli, varcavano felicemente il dì sette maggio su quelle barche medesime, e sopra alcune altre che loro si offersero preste a Piacenza, il fiume, e con allegrezza indicibile afferravano la sinistra sponda. Seguitava a veloci passi Buonaparte, per tale guisa che il dì otto quasi tutto l'esercito aveva posto piede sulle Milanesi sponde. In questo passaggio per Piacenza si vide un funesto segno della rapacità dei primi capi repubblicani, e del poco rispetto in cui avevano le cose più sacre; perchè Buonaparte, e Saliceti commissario del direttorio, poste le mani violentemente nei monti di pietà, e nelle casse non solamente ducali, ma ancora del municipio, e di diversi luoghi pii, quante robe preziose o danari vi trovarono, tante involarono.

Non così tosto ebbe udito Beaulieu le novelle del precipitarsi i Francesi verso il basso Po, che spediva una grossa banda a Fombio, terra posta rimpetto a Piacenza sulla sinistra del fiume, per impedire, se ancora fosse a tempo, il passo ai repubblicani. Egli intanto ritirava le genti sull'Adda sì per serbarsi aperte le strade al Tirolo, e sì per munire Mantova di gagliardo presidio, se la fortuna tanto fosse contraria all'armi imperiali, che il costringesse a lasciar del tutto la possessione d'Italia ai Francesi. Avvisava ancora che finchè il grosso de' suoi, che malgrado delle sconfitte era tuttavìa formidabile, si conservasse intiero sulle rive di questo fiume, pericolosa impresa sarebbe stata pei Francesi il correre a Milano, posciachè egli avrebbe potuto a grado suo assaltargli sul loro fianco destro. Perlochè s'avviava con la maggior parte delle genti a Lodi per guardar il ponte, che ivi apre il varco dalla destra alla sinistra del fiume. Mandava altresì una forte squadra, principalmente di cavallerìa, a Casal Pusterlengo, affinchè passando per Codogno, fosse in grado di servire come retroguardo alla schiera di Fombio, e di soccorrerla, ove bisogno ne fosse. Pavìa intanto, città nobile per la università degli studj, abbandonata da' suoi difensori, non si reggeva più che con la guardia urbana, aspettando di obbedire a chi col primo strepito di tamburi sotto le sue mura si appresentasse. Bene erano considerati i disegni di Beaulieu, ma la prestezza Francese gli ebbe guasti; i soldati mandati a Fombio, benchè con veloce viaggio fossero accorsi, arrivavano, non più per contrastar il passo al nemico, ma solo per combattere il medesimo, che già era passato. Buonaparte, che con la solita sagacità prevedeva, che quella testa grossa di Austriaci, se le desse tempo di essere soccorsa, poteva disordinare i suoi pensieri, perciocchè quantunque, egli avesse varcato, non era ancor ordinato a suo modo, ed in punto di tutto, si deliberava ad assaltarla senza dilazione. Occupavano gli Austriaci la terra di Fombio, in cui avevano fatto in fretta, e munito di venti pezzi d'artiglierìa alcune trincee: i cavalli, la maggior parte Napolitani, che in questa fazione si portarono egregiamente, battevano la campagna. La moltitudine delle sue genti permetteva a Buonaparte di allargarsi, e di assaltar da diverse parti la terra, solo mezzo che gli restava, stante le fortificazioni fatte dagli Austriaci, perchè il combattere fosse breve e felice. Adunque spartiva i suoi in tre bande, delle quali la prima col generale d'Allemagne, doveva, girando a destra, assaltar Fombio sulla sinistra, la seconda condotta dal colonnello Lannes, intrepidissimo guerriero, era destinata a dar dentro sulla destra, e finalmente il generale Lanusse con la mezzana aveva carico di attaccar la battaglia sulla mezza fronte della piazza per la strada maestra. Fu forte l'incontro, forte ancora la difesa; perchè gli Austriaci sfolgorarono gli assalitori con le artiglierìe ed i cavalli Napolitani, opprimendo i soldati corridori, ed assaltando con impeto gli squadroni stabili, rendevano difficile la vittoria ai Francesi. Gli Austriaci combattevano valorosamente e per natura propria, e per la speranza del soccorso vicino. Finalmente prevalsero, non prima però che non fosse stato fatto molto sangue, l'impeto, la moltitudine e l'audacia dei Francesi. Andavano gl'imperiali in rotta ed abbandonato Fombio a chi poteva più di loro si ritiravano a gran fretta a Codogno, con lasciar ai vincitori non poca parte delle bagaglie, trecento cavalli, circa cinquecento tra morti e prigionieri: sarebbe stata più grave la perdita, se la cavallerìa Napolitana, condotta massimamente dal colonnello Federici, uffiziale di gran valore, serrandosi grossa ed intiera alla coda, ed urtando di quando in quando gagliardamente il nemico, non avesse ritardato l'impeto suo, e fatto abilità ai disordinati Austriaci di ritirarsi.

Usando i repubblicani la fortuna propizia, seguitavano passo passo i confederati, ed occupavano Codogno. In questo mentre sopraggiunse la notte. Aveva Beaulieu avuto le novelle del passo dei Francesi, e del pericolo de' suoi assaltati in Fombio. Comandava pertanto a cinque mila eletti soldati, corressero da Casal Pusterlengo per la strada di Codogno in soccorso di Fombio, credendo, che i suoi tuttavìa in quest'ultima terra si sostenessero. Fu questo un molto audace comandamento, e che poteva rompere i disegni al generale della repubblica, se fosse stato secondato dalla fortuna. In fatti arrivavano i Tedeschi nel bujo della notte sopra i Francesi all'improvviso, e sbaragliate le prime guardie, seminarono terrore e disordine in Codogno; anzi spingendosi oltre, s'impadronivano di parte della terra. Non era più pari la battaglia, perchè si combatteva da una parte con intento e con ordine certo, dall'altra con soldati scompigliati, sorpresi ed impauriti. Accorreva al subitaneo romore Laharpe, e postosi a guida di un reggimento fresco marciava per rinfrancare la fortuna vacillante. L'avrebbe anche fatto, se nel bel principio di quella mischia, colto nel petto da una palla mortale, non fosse stato tolto subitamente di vita. In tale guisa mancò in un casuale incontro, ed in una battaglia notturna nel fiore della sua età il generale Laharpe, soldato di compito valore, ma ancora più di compita virtù. Ei fu tale, che amato da tutti in vita, pianto da tutti in morte, meritò, che il caso suo fatale fosse attribuito dai contemporanei, sebbene a torto, a chi per troppo diversa natura l'invidiava; uomo felicissimo, che nell'ultimo evento stesso del suo corso mortale tanto l'opinione il differenziava da altri, che non a caso fortuito, ma a pensato disegno fu la sua morte imputata.

L'accidente sinistro di Laharpe sgomentò di modo i repubblicani, che le sorti loro avevano del tutto il tracollo, se non arrivava frettolosamente il generale Berthier, che con la sua presenza tanto fece che rinfrancò gli spiriti, e riordinò le schiere sbigottite e disordinate. Spuntava intanto il giorno: i Tedeschi nell'ardir loro moltiplicando, perchè già si credevano in possessione della vittoria, si allargavano sulle ali per circondare il nemico. Ma già si erano riavuti i Francesi; i Tedeschi medesimi, veduto al lume del giorno, che i nemici superiori assai di numero, facevano le viste di assaltargli, pensarono al ritirarsi; il che fecero prima in buon ordine e regolatamente, poscia disordinati e rotti, instando acremente i Francesi, oramai consapevoli dei loro vantaggi. La schiera tutta sarebbe stata condotta all'ultimo termine, se per la seconda volta la cavallerìa Napolitana non le faceva scudo alla ritirata. Così una conseguita vittoria divenne in un subito una rotta evidente. Perdettero in questo fatto i Tedeschi quasi tutto il bagaglio, non poche artiglierìe lasciate nei fossi della terra, molti prigionieri fra i dispersi. Tenevano loro dietro a gran passo i repubblicani, e s'impadronivano di Casale, mentre i residui degl'imperiali si ricoveravano a Lodi, dov'era giunto con tutte le sue forze Beaulieu, e dove voleva pruovare per l'ultima volta, se obbligando il fortunato emulo suo a fare un moto eccentrico verso destra per venirlo ad assaltare a Lodi, gli venisse fatto di rompere quell'ascendente che aveva, e trasportare in se il favore della volubile fortuna. A Lodi adunque in un ultimo cimento si doveva combattere della salute di Milano, della conservazione della Lombardìa, del destino delle reliquie ancora potenti delle genti imperiali.

Avvisavasi ottimamente il capitano Austriaco, che perduto il passo del Ticino, e poichè i Francesi avevano varcato il Po, non gli restava altra sedia di guerra opportuna a farvi testa, che il grosso e rapido fiume dell'Adda, le parti inferiori del quale si trovavano assicurate dalla fortezza di Pizzighettone munita di artiglierìe, e di sufficiente presidio. Vuotata adunque Pavia, e lasciati dentro il castello di Milano due mila soldati, la maggior parte del corpo franco di Giulay, aveva raunato tutte le sue genti a Lodi. Siccome poi sapeva di certo che il veloce Buonaparte, dopo le vittorie di Fombio e di Codogno, non avrebbe indugiato a venire ad assaltarlo, perchè quello era l'ultimo cimento per aver Milano, aveva collocato la sua retroguardia, sotto guida del colonnello Melcalm, suo parente, in Lodi, comandandogli che resistesse quanto potesse, ed in caso di sinistro si ritirasse sulla sinistra del fiume. Intanto per assicurare il passo del ponte, molte bocche da fuoco situava all'estremità di lui presso la sinistra sponda per modo che direttamente l'imboccavano, e spazzare potevano. Nè parendogli che questo bastasse alla sicurezza di quel varco importante, munì la riva sinistra con venti pezzi d'artiglierìe grosse, dieci sopra, dieci sotto al ponte, le quali coi tiri loro battendo in crociera parevano rendere il passo piuttosto impossibile, che difficile. Gli Austriaci, cui nè tante rotte, nè una ritirata di sì lungo spazio non avevano ancora disanimato, se ne stavano schierati sulla sinistra riva, pronti a risospingere l'inimico disordinato dal passo del ponte, se mai contro ogni credere l'avesse effettuato. Danno alcuni biasimo a Beaulieu del non aver tagliato il ponte in vece di averlo munito, presumendo che i Francesi non avrebbero potuto varcare, se il ponte, fosse stato rotto, perchè gl'imperiali forti di artiglierìe, ed ancora più di cavalli, avrebbero avuto abilità o di arrestare i passanti, o di conquidere i passati. Ma e' bisogna avvertire, che l'intento di Beaulieu era non solamente d'impedire il passo al nemico, ma ancora di conservarlo per se, perchè ed aspettava ajuti, e voleva render sospetto ai Francesi l'andare a Milano. Quale di queste sia la parte sana, perchè può essere errore uguale il giudicar dagli eventi, come il giudicare dai disegni, arrivava Buonaparte impaziente delle guerre tarde, e veduto i preparamenti del nemico, e sloggiatolo da Lodi con un assalto presto, si risolveva, correndo il decimo giorno di maggio, a far battaglia sul ponte, quantunque tutti i suoi non fossero ancora quivi raccolti. I generali suoi compagni, che vedevano l'impresa molto pericolosa, fecero opera di sconfortarnelo, rappresentandogli la fortezza del luogo, la stanchezza dei soldati, le genti menomate dalle battaglie, e minorate dalla lontananza di molte schiere valorose. Ma egli, che ne sapeva più di tutti, che voleva quel che voleva, e che era non che liberale, prodigo del sangue dei soldati, purchè vincesse, persisteva a voler dar dentro, e tosto si accingeva alla pericolosissima fazione. Fatto adunque venire a se un nodo di quattro mila granatieri e carabine, gente rischievole, use al sangue, pronta a mettersi ad ogni sbaraglio, diceva loro con quel suo piglio alla soldatesca, che tanto piaceva a' suoi soldati: «Vittoria chiamar vittoria; esser loro quei bravi uomini, che già avevano vinto tante battaglie, fugato tanti eserciti, espugnato tante città; già temere il nemico, poichè già dietro ai fiumi si ritirava: credersi quel Beaulieu già tante volte vinto, che il breve passo di un ponte arrestar potesse i repubblicani di Francia; vana presunzione, vana credenza: aver loro passato il Po, re dei fiumi; arresterebbegli l'umile Adda? Pensassero, esser questo l'ultimo pericolo; superatolo, in mano avrebbero la ricca Milano; dessero adunque dentro francamente, sostenessero il nome di soldati invitti; guardargli la repubblica grata alle fatiche loro, guardargli il mondo maravigliato, ed atterrito alla fama di tante vittorie: quì conquistarsi Italia, quì rendersi il nome di Francia immortale».

Schieraronsi, serraronsi, animaronsi, contro il ponte marciarono. Non così tosto erano giunti, che gli fulminavano un tuonare d'artiglierìe d'Austria orrendo, una grandine spessissima di palle, un nembo tempestoso di schegge. A sì terribile urto, a sì duro rincalzo, alle ferite, alle morti, esitavano, titubavano, s'arrestavano. Se durava un momento più l'incertezza, si scompigliavano. Pure il valor proprio, ed i conforti dei capitani tanto gli animarono, che tornavano una seconda volta all'assalto: una seconda volta sfolgorati cedevano. Vistosi dai generali repubblicani il pericolo, ed accorgendosi che quello non era tempo da starsene dietro le file, correvano a fronte Berthier il primo, poi Massena, poi Cervoni, poi Dallemagne, e con loro Lannes e Dupas, e si facevano guidatori intrepidi dei soldati loro in un mortalissimo conflitto. Le scariche delle artiglierìe Tedesche avevano prodotto un gran fumo, che avviluppava il ponte; del quale accidente valendosi i repubblicani, e velocissimamente il ponte attraversando, riuscirono, coperti di fumo, di polvere, di sudore e di sangue sulla sinistra sponda. Spigneva oltre Buonaparte subitamente i restanti battaglioni; ma le fatiche loro non erano ancora giunte al fine, nè la vittoria compita, perchè gl'imperiali ordinati sulla riva, facevano tuttavia una ostinatissima resistenza. Tuonavano le artiglierìe, calpestavano i cavalli, la battaglia, siccome combattuta da vicino, più sanguinosa. Già correvano pericolo i Francesi di essere rituffati nel fiume, ed obbligati a rivarcare con infinito pericolo il ponte con sì estremo valore acquistato, quando opportunamente giunse con la sua eletta squadra Augereau, che udito l'avviso della battaglia orribile, a gran passi dal Borghetto in ajuto de' suoi compagni pericolanti accorreva. Questa giunta di forze in momento tanto dubbio fece del tutto sormontare la fortuna Francese. Beaulieu, abbandonato il bene contrastato ponte, si ritirava prestamente con animo di andarsi a porre sul Mincio per serbare le strade aperte al Tirolo, e per assicurar Mantova con un grosso presidio.

La cavallerìa Tedesca, ma principalmente la Napolitana, che anche in questo fatto soccorse egregiamente ai Tedeschi, proteggeva il ritirantesi esercito. Per questa cagione, e perchè la cavallerìa di Francia, che non ancora aveva potuto varcar il ponte fracassato, penava a passar a guado, di pochi prigionieri nella ritirata loro furono gl'imperiali scemi. Bensì perdettero nel fatto duemila cinquecento soldati tra morti e feriti, quattrocento cavalli, gran parte delle artiglierìe. Sopraggiunse la notte. Tra per questo, e per la stanchezza dei soldati repubblicani accorsi a passi frettolosi, e per l'affrontarsi della fiorita cavallerìa dei confederati, non poterono i Francesi fare quel frutto col perseguitare, che avrebbero desiderato.

Grave fu anche la perdita dei Francesi: se non arrivò ai quattromila o morti, o feriti, o prigionieri, come la parte avversa pubblicò, certo passò i duemila, ancorchè Buonaparte con la solita fronte abbia pubblicato, essere mancati de' suoi solamente quattrocento. La ritirata dei confederati assicurò i repubblicani delle cose di Lombardìa, e pose in mano loro Pavia, Pizzighettone e Cremona: la imperial Milano, priva oramai di difesa, tanto solamente indugiava a venir sotto l'imperio repubblicano, quanto tempo abbisognava ai repubblicani per arrivarvi. Mescolaronsi a questi gloriosi fatti i saccheggi, e le devastazioni.

Giunte in Milano le novelle del passo del Po, e dello abbandonarsi da Beaulieu la frontiera del Ticino, vi sorse un grande sbigottimento, poichè vi si prevedeva, che poca speranza restava di conservare la città sotto la divozione dell'Austria. Erano gli animi di tutti, come in una popolazione ricca, allo approssimarsi di soldatesche nuove, non conosciute, e forse anco troppo conosciute. Era stato mansueto il governo dell'arciduca, nè quello della nobiltà tirannico; che anzi partecipando dell'indole benigna di chi reggeva, della natura dolcissima del clima, e di una educazione piuttosto data alle mollezze della vita, che al dominare, aveva la nobiltà più clientela per amore, che potenza per feudalità. Mancavano adunque nel Milanese le cagioni di mala soddisfazione, che in altre contrade d'Italia si derivavano dalla durezza del governo, e dalle insolenze dei nobili. Quindi nasceva, che sebbene i popoli siano generalmente amatori di novità, e non conoscano il bene se non quando l'han perduto, non si manifestavano nella felice Lombardìa segni di future e spontanee rivoluzioni. Ognuno anzi temeva per se, per le famiglie, per le sostanze. Queste cose tenevano i Milanesi sospesi; nè per la natura loro erano capaci di lasciarsi muovere da certe astrazioni di governi geometrici. Temevano anzi, che siccome la città loro era grossa e ricca, così vi facessero i repubblicani la principale stanza loro, ond'ella diventasse e segno di oppressione speciale per se, e fomento di rivoluzione per gli altri. Siccome poi non erano le faccende della guerra sicure, così dubitavano che nell'andare e venire reciproco, e nel rincacciarsi dei due potenti nemici, la misera Milano non avesse a pagar il fio di quanto più la faceva cara e preziosa al mondo. Sapevano che pochi erano fra loro i zelatori di novità, e questi pochi ancora quieti, e rimessi secondo la natura del paese; ma apprendevano che ove i repubblicani vi avessero posto sede, da tutta Italia vi concorressero o gli scontenti dei governi regj, o gli amatori della repubblica, e con mezzi nuovi ed insoliti vi partorissero accidenti ignoti, e forse terribili. Per la qual cosa vi si viveva in grande spavento.

L'arciduca Ferdinando, che vedeva, che popoli disarmati e quieti non potevano difenderlo da gente armata ed audacissima, giacchè l'esercito imperiale stesso non era stato abile a tenerla lontana, abbandonato d'ogni speranza, si risolveva a lasciar quella sede per andarsene nella sicura Mantova, o quando i tempi pressassero di vantaggio, nella lontana Germania. Desiderando però prima che partisse, provvedere alla quiete dei popoli, ordinava con editto dei sette maggio, che i cittadini abili all'armi si descrivessero ed in milizia urbana si ordinassero. Ai nove, aggravandosi viemaggiormente il pericolo per l'approssimarsi dei repubblicani, creava una giunta composta dei presidenti d'appello e di prima instanza, e del magistrato politico camerale, con autorità di fare quanto al governo si appartenesse, ed a questa giunta, come a capo supremo dello stato, voleva che i magistrati minori obbedissero. L'ordine giudiziale a far l'ufficio, come per lo innanzi, continuasse.

Avendo per tale guisa l'arciduca provveduto alle faccende, se ne partiva il medesimo dì nove di maggio alla volta di Mantova, avviandosi dove già era arrivata la sua famiglia. L'accompagnavano personaggi di nome, fra i quali il principe Albani, ed il marchese Litta. Mesta era la comitiva: l'arciduca non assuefatto a sentire i colpi dell'avversità, accusava piangendo non la fortuna, ma, secondochè si usa nelle disgrazie, i cattivi consigli di Beaulieu. La fuggitiva schiera passava pel territorio Veneto, miserando spettacolo: faceva più compassionevole quella calamità la moltitudine delle persone di ogni grado, di ogni età, e di ogni sesso, le quali fuggendo la furia dei repubblicani, abbandonate agli strani le case loro, correvano a ricoverarsi sulle terre Veneziane, destinate ancor esse, e molto prossimamente, alla medesima ruina. Così l'egregia Milano, stata da lungo tempo felicissima, spogliata di difensori, privata del suo principe, se ne stava aspettando non conosciute venture. Seguitava un interregno di tre giorni, in cui non essendo più in potere dell'Austria, nè ancora in quello della Francia, si reggeva con le proprie municipali leggi; nè in questo tempo vi si udirono minacce, od insulti di persone, nè rubamenti, nè desiderj di novità. Tanto era buona la natura di quel popolo!

Buonaparte intanto, espeditosi per la vittoria di Lodi di quanto più pressava nella guerra, e già stimando Milano, com'era veramente, in sua potestà, mandava Massena a farsene signore. In questo mentre mandavano i magistrati municipali i loro delegati ad offerire la città a Buonaparte, che si trovava alle stanze di Lodi, pregandolo di usare mansuetudine verso un popolo in ogni tempo quieto, nemico a nissuno, confidente nella generosità dei Francesi. Rispose benignamente, porterebbe rispetto alla religione, alle proprietà, alle persone. Il giorno quattordici di maggio entrava Massena con una schiera di diecimila soldati valorosissimi. L'accampava, la maggior parte, fuori delle mura per modo ordinandola, che i fanti occupassero tutti gli aditi degli spalti, i cavalli custodissero le porte. L'incontravano al Dazio di Porta Romana i municipali. Disse, per mescolare qualche temperamento alla fierezza dell'armi, che sarebbero salve la religione, le persone, le proprietà. Arrivarono il giorno dopo nuovi corpi di truppe; ogni parte piena di soldati. Incominciossi l'opera dell'oppugnar il castello, a cui si erano riparati gli Austriaci. I Francesi furono accolti nelle case con la dolcezza del fare Milanese, ed eglino ancora, dico la maggior parte, cortesemente procedendo, e con quel loro solito brio mostrandosi, tiravano facilmente a se gli animi dei cittadini, che, veduto, che quei repubblicani non erano tanto terribili quanto la fama aveva portato, rimettevano del terrore concetto, e si affezionavano ai nuovi ospiti, venuti per venture strane e spaventevoli nel paese loro. Tal era la condizione del popolo Milanese, quando i Francesi entrarono in Milano, dolce, ed affettuosa, nè contraria, nè propensa a quella libertà, che si andava predicando.

Arrivavano intanto i repubblicani, sì finti come sinceri, i quali o allettati dalla fama, o costretti dalla necessità, fuggendo lo sdegno dei signori loro, concorrevano, come in sede propria, e di salute nella città conquistata. A costoro si univano i repubblicani Milanesi, ed intendevano a far novità. Fra tutti questi, gli utopisti si rallegravano, persuadendosi, che fosse venuto il tempo di veder in opera quella specie di reggimento, che nelle buone menti loro si avevano concetta; nè gli poteva torre alla immagine lusinghiera l'apparato terribile delle armi forestiere, nè la natura poco costante in se medesima dei Francesi, nè l'autorità militare fatta padrona di ogni cosa, e certamente pessima compagna di libertà. Servi di un'opinione anticipata e di un dolce delirio, andavano sognando una perpetua felicità, nè s'accorgevano, che la repubblica di Francia non combatteva nè per loro nè per la libertà, ma per la grandezza e la sicurezza del suo imperio, per posseder le quali, se fosse stato necessario, avrebbe dato in preda all'Austria, non che Milano, Italia, ed ancor essi con loro. Di costoro si faceva beffe Buonaparte, stimandogli uomini dappoco, scemi, e, come sarebbe a dire, pazzi. Fra gli altri patriotti, o che si chiamavano tali, era una generazione d'uomini, che amavano lo stato libero, non per desiderio di preda, ma per ambizione, avvisandosi che fosse dolce il comandare, e venuto il tempo propizio per salire dai bassi gradi ai sublimi. Di questi faceva maggiore stima Buonaparte, perchè, come diceva, erano gente che aveva polso, e che per poco che si stimolassero, avrebbero servito mirabilmente a' suoi disegni. Eravi finalmente una terza maniera di questi patriotti, i quali amavano le novità per le ricchezze, e sperando di pescar nel torbido, gridavano ad alte e spesse voci, libertà. Questi non frequentavano mai le stanze di Buonaparte, perchè sebbene qualche volta gli accarezzasse, dava ancor loro spesso di forti rabbuffi; ma amavano molto aggirarsi fra i commissari, e gli abbondanzieri dell'esercito, dei quali diventavano sensali e mezzani, per forma che mentre i buoni utopisti andavano dietro alle loro ubbìe, ed erano per semplicità repubblicana, e volevano esser poveri, questi al contrario si arricchivano a spese di coloro, ai quali dicevano voler dare il vivere libero. Erano molti di tutti questi generi di patriotti.

Fecero grandi allegrezze in sull'entrar dei Francesi di luminarie, di balli, di festini: ma per quella servile imitazione, di cui erano invasati verso le cose Francesi, e che fu la principal cagione della servitù d'Italia, piantarono altresì alberi di libertà, e vi facevano intorno canti, balli, discorsi, ed altre simili tresche. Poscia, acciocchè non mancasse quel condimento delle congreghe pubbliche per aringarvi intorno a cose appartenenti allo stato, le fecero a modo di Francia, ed in loro chi aringava con maggior veemenza, più era applaudito. Tutte queste cose si facevano: il popolo, non potendo restar capace di ciò che vedeva, faceva le maraviglie.

Entrava in Milano il vincitor Buonaparte, non già con semplicità repubblicana, ma con fasto regale, come se re fosse: l'accolsero con grida smoderate i patriotti, e parte del popolo, solito a fare come gli altri fanno. Innumerabili scritti si pubblicarono, in cui sempre più si lodava Buonaparte, che la libertà: mostrossi, per dir il vero, in questo molto schifosa l'adulazione Italiana. Fra i patriotti, chi lo chiamava Scipione, chi Annibale; il repubblicano Ranza il chiamava Giove. I buoni utopisti, quando lo vedevano, piangevano di tenerezza. Queste dimostrazioni egli si godeva tanto in pubblico, quanto in privato; ma augurava male degl'Italiani, perchè essendo egli operatore grandissimo, credeva, e con ragione, che coi fatti, non con le parole si compiscono le grandi mutazioni negli stati. Quando poi uomini o donne amatori sinceri di libertà (che anche donne, e non poche si trovavano tenerissime di lei) a lui si rappresentavano per raccomandargliela, rispondeva con ciglio austero, la conquistassero, uscissero dall'imbelle vita, le armi pigliassero, le armi usassero: dura cosa essere la libertà; duri cuori e dure mani conservarla; fuggire lei la mollezza e il lusso: solo abitare fra le popolazioni forti, e magnanime.

Intanto vedeva il mondo una cosa maravigliosa. Un soldato di ventott'anni, un mese innanzi conosciuto da pochi, avere con un esercito sprovveduto e non grosso superato monti difficilissimi, varcato grossi e profondi fiumi, vinto sei battaglie campali, disperso eserciti più potenti del suo, soggiogato un re, cacciato un principe, acquistato il dominio di una parte d'Italia, apertosi la strada alla conquista dell'altra, convertito in se stesso gli occhi di tutti gli uomini di quell'età. Sapevaselo Buonaparte; l'anima sua ambiziosa maravigliosamente se ne compiaceva. Ma perchè l'aspettativa che aveva desta di lui non si raffreddasse, e per farsi scala a cose maggiori, mandava fuori il venti maggio un discorso molto infiammativo a' suoi soldati:

«Soldati valorosi, diceva, voi piombaste, come torrente precipitoso, dall'Alpi e dagli Apennini; voi urtaste, voi rompeste nel corso vostro ogni ritegno. Il Piemonte, oggimai libero dall'Austriaca tirannide, spiega i naturali suoi sentimenti di pace e d'amicizia verso la Francia. Vostro è lo stato di Milano: sventolano all'aura su tutte le alte cime della Lombardìa le repubblicane insegne: i duchi di Parma e di Modena alla generosità vostra sono del dominio, che ancora lor resta, obbligati. Dov'è l'esercito che testè con tanta superbia v'insultava? Ei non ha più riparo contro al coraggio vostro. Nè il Po, nè il Ticino, nè l'Adda poterono un sol giorno arrestarvi. Vani furono i vantati baluardi d'Italia, vani i gioghi inaccessi degli Apennini. Sentì la patria infinita allegrezza delle vostre vittorie; vuole, che ogni comune le celebri: i padri, le madri, le spose, le sorelle, le amanti dei fausti eventi vostri si rallegrano e si stimano dello avervi per congiunti fortunatissimi. Sì per certo, o soldati, assai faceste; ma forse altro a fare non vi resta? Diranno di voi i contemporanei, diranno i posteri, che abbiam saputo vincere, non usare la vittoria? Accuseranci dello aver trovato Capua in Lombardìa? No, per Dio, no, che già vi veggo correre alle vincitrici armi, già veggo sdegnarvi ad un vil riposo, già sento, i giorni passati senza gloria, esser giorni perduti per voi. Orsù, partianne: restanci viaggi frettolosi a fare, nemici ostinati a vincere, allori gloriosi a cingere, crudeli ingiurie a vendicare. Tremi chi accese le faci della civil guerra, tremi chi uccise i ministri della repubblica, tremi chi arse Tolone, tremi chi rapì le navi: già suona contro a loro in aria una terribile vendetta. Pure stiansi senza timore i popoli: siamo noi di tutte le nazioni amici, specialmente siamo dei discendenti di Bruto, dei Scipioni, di tutti gli uomini grandi, che impreso abbiamo ad imitare. Ristorare il Campidoglio, riporvi in onore le statue degli eroi, per cui tanfo è famoso al mondo, destar dal lungo sonno il Romano popolo, torlo alla schiavitù di tanti secoli, fia frutto delle vittorie vostre: acquisteretevi una gloria immortale, cangiando in meglio la più bella parte d'Europa. Il popolo Francese libero, rispettato dai popoli, darà all'Europa una pace gloriosa, che di tanti sofferti danni, di tante tollerate fatiche ristorerallo. Ritornerete allora fra le paterne mura, i concittadini a dito mostrandovi, diranno: fu soldato costui dell'esercito Italico ».

Questo tremendo parlare empiva di spavento Italia: ognuno aspettava accidenti terribili.

Fine del Tomo Primo.

INDICE

DEL PRESENTE VOLUME

1789

Proposito dell'autore Pag. 6

Detto di Napoleone 7

Origine degli ordini feudali 8

Desiderj dei popoli 9

Soppressione dei gesuiti e suoi effetti 10

Giuseppe II 12

Studio di Pavia 13

Pio VI va a Vienna 14

Leopoldo, gran duca 17

Sue riforme civili 18

Vernaccini auditor di ruota 19

Ciani consigliere 20

Terreni asciugati 21

Ximenes, Ferroni e Fantoni matematici 22

Riforme ecclesiastiche 24

Ippoliti e Scipion Ricci vescovi di Pistoja 25

Assemblea de' vescovi in Toscana 25

Opinioni de' curialisti Romani sul papa 27

Altre di Scipion Ricci 28

Dannate da Pio VI 28

Condizioni del regno di Napoli 29

Educazione di Ferdinando IV 30

Principe di S. Nicandro 30

Marchese Tanucci 30

È dimesso da Carolina d'Austria, e in suo luogo posto Acton 31

Filangeri 31

Colonia di S. Leucio 32

Riforme introdotte da Tanucci 33

I fratelli Cestari e l'arcivescovo di Taranto 34

Carlo di Marco 34

Bracci del parlamento di Sicilia 35

Parma e Piacenza 36

Don Filippo e Dutillot 36

Contini e Turchi teologi 37

Padre Paciaudi ed altri dotti 37

Muore Filippo e gli succede Ferdinando 38

Contesa alla corte di Roma 38

Dutillot congedato, il duca si fa papista e frate 39

Clemente XIV 39

Pio VI 40

Lega italica promossa dal cardinale Orsini 41

Paludi Pontine 42

Rapini ingegnere 43

Museo Pio-Clementino 44

Lodovico Mirri ed Ennio Quirino Visconti 44

Piemonte 45

Pasini, Berta e Pavesio 46

Vaselli 46

Vittorio Amedeo III 47

Federigo re di Prussia 47

Cardinale Gerdil 48

Venezia 49

Genova, sua differenza con Venezia 51

Lucca, suo Discolato cosa era 52

San Marino 54

Modena, Ercole Rinaldo d'Este 55

1792

Stato della Francia 59

Mali costumi dei nobili e del clero 62

Contrasti tra i parlamenti ed il re 66

Tumulti a Grenoble ec. 68

Necker 69

L'assemblea nazionale e sue riforme 69

Pensieri in Europa 70

Il re di Sardegna propone una lega Italica 72

Venezia sta sospesa 74

Lega tra Leopoldo e Federico Guglielmo di Prussia 75

Caterina di Russia 76

Fuorusciti Francesi 77

Lega tra la Russia, l'Austria e la Prussia 77

Ardore del re di Sardegna 78

Il re di Napoli si fortifica 79

Il papa perchè aderisce alla lega 80

Nicolò Spedalieri perchè scrivesse il trattato dei Diritti dell'uomo 81

Genova poco tentata dagli alleati 83

Umori dei popoli 83

Ragioni dei novatori 85

Altre della parte opposta 86

Semonville mandato dai Francesi in Piemonte non è ricevuto 90

Guerra tra la Francia e la Sardegna 92

Savoja e Delfinato parteggiano pei Francesi 92

Cavaliere di Colegno sua credulità 93

Conte Perrone 93

Cavaliere di Lazari 93

Finto prete Irlandese 94

Generale Montesquiou entra in Savoja 94

Sanparelliano preso 96

Ciamberì presa 97

Generale Anselmo prende Nizza 98

Truguet fa saccheggiare Oneglia 99

Differenza tra Savojardi e Nizzardi 100

Fedeltà del reggimento di Savoja 101

Savoja in potestà dei Francesi 102

Cagione delle disfatte dei Piemontesi 102

Fuorusciti Francesi 103

Discorsi a Torino 106

Il governo Sardo domanda ajuti agli alleati 107

Chauvelin ambasciatore Francese a Londra licenziato 108

1793

Nuove deliberazioni dei confederati 110

L'imperatore tenta Venezia 112

Risposta del senato 115

Discorso di Francesco Pesaro 116

Altro di Zaccaria Vallaresso 122

Si delibera per la neutralità disarmata 127

Opposizione di Francesco Calbo 127

Lo stesso delibera Genova 127

Paoli in Corsica 127

Devins generale dei Piemontesi 130

Umori in Lione ed in Provenza 131

Precì mandato dai Lionesi a Torino 131

Odio del re Vittorio contro i Savojardi cosa fruttasse 132

Deliberazioni per la guerra in Francia 134

Kellerman generale dei Francesi 134

La Francia tenta Turchìa e Venezia 136

Tenta il re di Sardegna 136

Umori in Italia, i regj 138

Utopisti 140

Ecclesiastici utopisti 143

Setta aristocratica 144

Truguet mandato contro Cagliari è rotto dai Sardi 147

Paoli solleva la Corsica 149

Fatto generalissimo dei Corsi 150

Il consesso nazionale come senta questa novità 151

Lacombe va contro i Corsi 152

Arrivo di navi Inglesi 153

Lacombe si ritira a Genova 153

Governo in Corsica 154

Generale Brunet rotto al colle di Raus 155

Colli e Dellera generali Sardi 156

Capitano Zin, sua bella fazione 156

Kellerman corre a Nizza e che vi fa 158

Il re di Napoli si dichiara contro i Francesi 159

Harvey ministro Inglese a Firenze e sue insolenti parole 160

Risposta del ministro Serristori 161

Le Flotte e Chauvelin cacciati da Firenze 161

Drake ministro Inglese a Genova sue insolenti parole 161

Fregata la Modesta assalita dagl'Inglesi 162

Scritto di Robespierre giovane e Ricard 162

Deliberazione del senato Genovese 163

Worsley residente Inglese a Venezia, sue parole senato 164

Deliberazioni del gran maestro di Malta 166

Turbolenze a Bordeaux, Monpellieri e Nimes 168

Lione si solleva 168

È assediata 169

Duca di Monferrato va in Savoja 171

Il re di Sardegna va verso Nizza 171

Disposizioni di Kellerman 171

Marsigliesi rotti da Carteau 173

Marsiglia saccheggiata 174

Tolone si dà all'ammiraglio Hood 174

Piemontesi rotti in Savoja 175

Ed al ponte della Giletta 177

Oppugnazione di Tolone 177

Dugommier generalissimo dei Francesi 178

Ohara generalissimo degli Inglesi 179

Buonaparte a Tolone 179

Ohara fatto prigione 180

Assalto dato a Tolone 180

Sono presi i forti 182

Sidney Smith 183

Incendio di Tolone 183

Tolonesi andantisi in esiglio 184

Navi predate dagli alleati 184

I repubblicani entrano in Tolone 185

1794

Nuovi partiti presi dagli alleati 186

Trattato di Valenziana tra Austria e Sardegna conchiuso dal barone di Thugut e marchese di Albarey 188

Subodorato dai Francesi 190

I Francesi entrano sullo stato di Genova 192

Generale Dumorbion e sua intimazione allo Spinola in Ventimiglia 193

Generale Massena 193

I Francesi calano verso Saorio 194

Prendono Oneglia 195

Poi Loano 197

Massena al ponte di Nava 197

Prende Ormea 198

Garessio e Bagnasco 199

Argenteau governatore di Ceva 199

Bagdelone vince i Piemontesi sul San Bernardo 200

Frenato dal duca di Monferrato 200

Altre fazioni sull'Alpi 201

E sul monte Cenisio 202

Il barone Quinto 203

Il generale Dumas 203

Coraggio del conte di Clermont 204

Fuorusciti di Savoja e loro morte 205

I Francesi prendono la Ferriera e la Novalesa 206

Assediano Saorgio 206

Vincono Colli sul colle Ardente 207

Capitano Maulandi sua morte e sue qualità 207

Saorgio si arrende 209

Sant'Amore e Mesmer giustiziati 209

I Francesi assaltano e prendono il colle di Tenda 209

Congiure 209

Leva generale ordinata dal re Vittorio 211

Oliviero Wallis gli manda soldati Austriaci in ajuto 212

Terrore in Piemonte 213

Risoluzione del re di Napoli 213

Congiura a Napoli 214

Spiriti guerrieri del pontefice 215

Basseville ucciso a Roma 215

Consulte a Venezia 216

I fratelli Pesaro 216

Vincono il partito di armarsi, ma i Savj non armano 217

Conte Rocco San Fermo mandato a Basilea, quali notizie manda a Venezia 218

Conte di Provenza a Verona 219

Lallemand inviato Francese a Venezia 221

Nuove prepotenze del Drake a Genova 223

Odio contro gl'Inglesi in Genova 225

Morando speziale 226

Nuova Costituzione della Corsica 227

Discorso dell'Elliot ai Corsi 228

Manifesto di Paoli contro Genova 229

Genovesi prigioni dichiarati schiavi 229

Moderazione d'Inghilterra qual fosse 230

Turcheim e Colloredo generali Austriaci 232

Battaglia del Dego 233

Wallis generale Austriaco 233

Dumorbion, Massena, Laharpe e Buonaparte generali Francesi 234

Albitte e Saliceti rappresentanti del popolo 234

Buonaroti, agente nazionale 234

Parsimonia Austriaca e suoi effetti 237

Dego saccheggiato dai Francesi 238

1795

Vittorie dei Francesi 240

Nuovo governo in Francia 240

Duca d'Acudia ministro di Spagna 243

Il re di Sardegna si conferma nell'alleanza Austriaca 245

In qual modo provvede al denaro 246

Il gran duca si avvicina alla Francia 246

Manda in Francia il conte Carletti 249

Come vi è accolto 250

Lo conferma suo ministro plenipotenziario 251

La repubblica di Venezia manda in Francia Alvise Quirini 253

Si allestisce un'armata a Tolone 256

Hotham ammiraglio Inglese 257

Martin ammiraglio Francese 257

Le Tourneur rappresentante del popolo 257

Battaglia del capo di Noli 258

Pace tra la Francia e la Prussia 261

Disposizioni degli eserciti Austro-Sardo e Francese 262

I Francesi vinti a Vado, a San Giacomo e a Melogno 265

Massena a Melogno 266

Vado preso dagli Austro-Sardi 268

Battaglie sulle Alpi 268

Kellerman ristringe la fronte del suo esercito 268

Resistenza dei Francesi a Borghetto e sua conseguenza 278

Congiura in Napoli 278

La regina Carolina e il ministro Acton 271

Giunta sopra le congiure 271

Emanuele de Deo giustiziato 271

Detto di Vanni 272

Medici imprigionato e perchè 272

Integrità del giudice Chinigò 272

Inquietudini in Corsica 273

Bando del vicerè Elliot 274

Paoli chiamato in Inghilterra e suo fine 275

Moti in Sardegna 277

La Spagna si pacifica colla Francia 277

Ulloa ministro di Spagna a Torino 278

Discorso del marchese Silva 279

E del marchese di Albarey 284

Scherer generale Francese in Italia 291

Battaglia di Loano 292

Massena arringa i suoi soldati 293

Errore di Argenteau 296

Violenze dei Francesi vincitori e dei Tedeschi vinti 298

1796

Pratiche di pace a Basilea 301

Wickam Inglese scrive a Barthelemi Francese 301

Risposta del Direttorio 302

Il re di Sardegna costante nella lega 304

Beaulieu surrogato a Devins 305

Pensieri dei repubblicani di Francia 308

Domandano a Venezia che il conte di Lilla se ne vada da Verona 309

Buonaparte generale dell'esercito d'Italia 316

Sue disposizioni 318

Battaglia di Montenotte 321

Colonnello Rampon e suo giuramento 321

Errore di Buonaparte 322

Come rimedia 322

Augereau prende Millesimo 325

Generale Provera 325

Marchese del Carretto 325

Generale Joubert ferito 326

I Francesi prendono Cosserìa 326

Battaglia di Magliani ossia di Millesimo 327

Stratagemma di Buonaparte 328

Soldati di Giulay 329

Argenteau come senta la sconfitta de' suoi 330

Suo cattivo consiglio riuscito a buon fine 331

Colonnello Wukassovich 331

Valore di Massena 332

Wukassovich combatte valorosamente ed è rotto 334

Disordini de' soldati Francesi, lamenti degli ufficiali 336

Discordia tra gli alleati 337

Morte del marchese Cavoretto 340

I repubblicani occupano Ceva 340

Poi Lesegno 341

Ritirata dei Piemontesi 341

Battaglia di Mondovì 341

Astuzie di Buonaparte 342

Bonafous e Ranza chi fossero 343

Consiglio regio di Torino 344

Costa arcivescovo di Torino e suo consiglio 346

Avvocato Prina 347

La corte di Torino apre i negoziati colla repubblica 348

Tregua tra Buonaparte e i Piemontesi e a quali condizioni 348

Caso di dispacci spediti a Pietroburgo 349

Affezione di Buonaparte per la casa di Savoja 354

Suo bando ai soldati 355

Ed ai popoli 356

Pace tra la repubblica e il re di Sardegna 357

La Brunetta distrutta 358

Buonaparte come inganna Beaulieu nel passaggio del Po 360

Ladronecci di Buonaparte e di Saliceti 362

Battaglia di Fombio 363

Colonnello Federici ucciso 364

Battaglia di Codogno 365

Morte del generale Laharpe 365

Generale Berthier 365

Battaglia di Lodi 368

Valore de' soldati e dei generali 369

Augereau arriva al soccorso 370

Opinioni in Milano 371

Lasciato dall'arciduca 373

Massena vi entra 374

Repubblicani di varie qualità in Milano 375

Arriva Buonaparte e come adulato 377

Sue parole ai soldati 378

Fine dell'Indice

PUBBLICATO L'8 MAGGIO 1833