STORIA D'ITALIA DAL 1789 AL 1814

SCRITTA DA CARLO BOTTA

Tomo III

CAPOLAGO presso Mendrisio Tipografia Elvetica

MDCCCXXXIII

INDICE

STORIA D'ITALIA

LIBRO DECIMO

SOMMARIO

Pensieri di Buonaparte dopo le sue vittorie contro Alvinzi. L'Austria manda nuove genti in Italia sotto la condotta dell'arciduca Carlo. Qualità comparative di Buonaparte e dell'arciduca, e lor modo di guerreggiare. S'incomincia una nuova guerra. Contrasto dei due generali emoli al Tagliamento, e passo di questo fiume eseguito dai repubblicani. L'arciduca si ritira cauto e rannodato. Sollevazioni dei popoli del Tirolo a favore dell'Austria: Joubert in pericolo; si ritira, secondo gli ordini di Buonaparte, per la valle della Drava, verso Villaco. Passi della Ponteba, e di Tarvisio. Speranze dell'arciduca di vincere a Tarvisio: gli vengono rotte dall'insufficiente difesa fattavi da un suo generale. I Francesi entrano vittoriosi in Villaco, Lubiana, e Clagenfurt. L'arciduca si ritira ai passi più montuosi a difesa della metropoli dell'Austria. Modo diverso di guerreggiare dei Francesi e degli Austriaci; e perchè i primi avessero il vantaggio. Buonaparte in qualche pericolo: pure a Vienna prevale la parte della pace; arrivano plenipotenziari al campo Francese; tregua, e preliminari di Leoben. Buonaparte fatto sicuro dell'Austria si volta contro la repubblica di Venezia; opera rivoluzioni nella terraferma Veneta per aver occasione di darla all'Austria. Rivoluzioni di Bergamo, Brescia, e Crema. Insidie contro Verona. Manifesto supposto del provveditor Battaglia. Minacce rabbiose di Buonaparte contro Venezia: pacata, e grave risposta del doge. Terribile sollevazione di Verona, chiamata le Pasque Veronesi, sue cagioni, ed effetti. Predicazioni singolari di un frate cappuccino. Verona soggiogata, e come trattata. Buonaparte dichiara formalmente la guerra a Venezia. Insidie tese per fare, che il maggior consiglio riformi l'antica constituzione. Il senato non è propenso a questa innovazione. Consulta particolare, ed insolita in casa del doge. Il maggior consiglio autorizza i tre legati della repubblica mandati a Buonaparte a consentire la riforma degli ordini antichi con introduzione di qualche forma democratica. Minacce di Buonaparte al patrizio Giustiniani, e generose risposte di questo. Macchinazioni in Venezia; nuove insidie contro di lei. I patrizi spaventati, e adunati in maggior consiglio rinunziano alla sovranità, e consentono al governo democratico; il che fu in quel punto la ruina dell'antichissima repubblica. Trattato sottoscritto in Milano il dì sedici maggio tra Buonaparte, ed i legati Veneziani. Rivoluzione totale in Venezia, e nella terraferma.

Due pensieri operavano massimamente a questo tempo nella mente di Buonaparte, securo omai di poter fare, o buon grado o mal grado del suo governo, ciò che più volesse. Siccome la fortuna tanto se gli era dimostrata prospera, così intendimento suo era, posti in non cale i pensieri del re di Sardegna, di creare un nuovo stato in Lombardia, acciocchè egli fosse della sua potenza, e del suo nome testimonio perpetuo. Ma il direttorio, che aveva anche capriccio in questo nuovo stato, desiderava tuttavia temporeggiarsi pel desiderio che aveva della pace con l'imperatore. Così il capitano della repubblica andava continuamente moltiplicando in Milano i segni del voler sottrarre dal dominio dell'Austria il paese per crearne una repubblica, mentre i deputati Milanesi mandati a Parigi per pregare libertà, riportavano dal direttorio solamente parole grate senza effetti. Si proponeva oltre a ciò Buonaparte, solito a fabbricare ne' suoi concetti grandissimi disegni, tostochè si diminuisse l'asprezza della stagione, di varcare con tutto l'esercito le Alpi Giulie, e di far sentire le sue armi nel cuore della Germania, a fine di obbligare l'imperatore alla pace, pensiero, che già aveva concetto fin dai tempi delle sue prime vittorie in Italia, e che solo era stato interrotto dall'incredibile costanza dell'Austria nel sostituire nuovi eserciti ad eserciti vecchi. Confortavano massimamente questa sua deliberazione la singolarità, e la grandezza dell'impresa non più tentata dai Francesi dal secolo di Carlomagno in poi, l'avere a cimentarsi con l'arciduca Carlo, fratello dell'imperatore, che aveva recentemente combattuto vittoriosamente le armi repubblicane sulle sponde del Meno e del Reno, e che era stato preposto, come ultima speranza, all'esercito Italico; il fare finalmente quello, dall'Italia venendo, che non avevano potuto fare Moreau e Jourdan, che avevano guerreggiato sulle terre stesse dell'Alemagna; perciocchè o l'imperatore Francesco, sbigottito a quel suono tanto insolito dei Francesi nel cuore degli stati ereditari avrebbe consentito agli accordi, ed in tale caso acquistava Buonaparte un segnalato favore in Francia; ovvero il sovrano Alemanno si ostinava nel voler usare le armi, ed in tale caso il capitano di Francia distendeva i suoi pensieri sino all'occupazione di Vienna, impresa anch'essa, che avrebbe fatto il suo nome immortale. In questo poi era suo intento di affrettarsi, sì perchè, credendo di poter fare da se, non voleva che Moreau, calandosi per le rive del Danubio, lo ajutasse, e sì perchè aveva a cuore di assaltare l'arciduca innanzi che le genti di nuova leva, che già marciavano, avessero ingrossato le reliquie dei vinti. A condurre a fine queste fazioni due cose principalmente abbisognavano, l'una il non lasciarsi nissun sospetto alle spalle, l'altra il procacciarsi maggiori compensi a dare all'imperatore, se questi fosse obbligato a rinunziare alla Lombardia. L'uno e l'altro fine conseguiva col far rivoluzione nei paesi Veneti.

Con questi pensieri si accostava Buonaparte alla guerra d'Alemagna. Reggeva cinquantamila soldati fioritissimi, e veterani tutti dell'esercito Italico, ed a questi si erano congiunti ventimila venuti dal Reno sotto la condotta di Bernadotte. Gli aveva per tal modo distribuiti nelle stanze, che l'ala sua sinistra governata da Joubert e grossa di più di ventimila soldati molto agguerriti, guardava i passi del Tirolo sulla sponda sinistra del Lavisio oltre al Trento, distendendosi da una parte sino ai fonti dell'Adda verso Bormio, dall'altra sino a quei della Brenta. La mezza schiera condotta da Massena alloggiava Bassano; l'ala destra, alla quale presiedeva Buonaparte stesso, e che aveva un novero di trentamila soldati, alloggiava nel Trivigiano sino alle rive della Piave. Così con le tre schiere sovrastava Buonaparte ai tre passi, che dall'Italia danno l'adito all'Alemagna, primamente a quello, che da Bolzano dà, a traverso del monte Brenner, verso Inspruck, passo aspro e difficile; secondamente a quello, che dalla Ponteba pei fonti del Tagliamento, e per Tarvisio si apre verso Villaco; finalmente al terzo, che per cammino più facile e più diritto porta da Gorizia a Clagenfurt, a Gratz, ed a Vienna. Ma intenzione di Buonaparte era, poichè inoltrandosi verso Vienna aveva bisogno di tutte le sue forze, che Massena, occupati prima Feltre e Belluno sulla Piave, s'impadronisse del passo della Chiusa, e giunto per tal via nella superior valle del Tagliamento viaggiasse per Ponteba e Tarvisio alla volta di Villaco. Nè ciò bastando al suo disegno, aveva ordinato a Joubert, che ove si fosse fatto padrone di Bolzano e di Brissio, non istesse più a camminare oltre alla volta d'Inspruck, ma che anzi, vinti i Tedeschi, e voltandosi a destra marciasse per Bruneca, e Toblaco a Linzo sulle rive della Drava, e per tal modo accostasse le sue genti a Villaco ed a Clagenfurt. Per tale guisa, rotta tutta la fronte degli Austriaci, ed adunate tutte le sue genti sulla strada maestra per a Vienna, sperava, che tra la forza ed il tenore, gli sarebbe venuto fatto o di costringere alla pace l'imperatore, o di conquistare la metropoli dell'Austria. Dava nuovo incentivo a questi pensieri il sapere, che una parte forte in Vienna, fino negl'imperiali consigli, inclinava alla pace, la quale parte più efficacemente operando, quando più fosse imminente il pericolo, avrebbe fatto che l'opinione sua restasse superiore. Questa parte era ajutata dai ministri di Spagna e di Napoli, che speravano, per mezzo della pace coll'imperatore, veder vantaggiata la condizione dei sovrani loro. Mescolavansi in questo maneggio donne di alto legnaggio, alle quali piaceva o l'ambizione d'intromettersi nelle faccende di stato, o le parole di libertà, o la gloria di Buonaparte. Tutti questi umori e diligentemente saputi, e studiosamente nutriti dai repubblicani, erano i fondamenti principali a cui si appoggiavano le speranze del direttorio, quando mandava Clarke a trattare gli accordi in Italia. A loro si opponeva per la rettitudine dell'animo suo l'imperator Francesco. Opponevasi ancora, e molto gagliardamente Thugut ministro, o che inclinasse alla parte d'Inghilterra, come pubblicavano i repubblicani, o che credesse, come è più verisimile, che la pace fosse più pericolosa della guerra. Per cagione di questo era Thugut divenuto segno di ogni più vile ingiuria nelle gazzette repubblicane di Francia; nè Buonaparte si ristava, solito a vituperare chi meglio serviva alla patria, che a lui. Mandava anche bandi agli Ungari, affinchè si ribellassero contro la casa d'Austria, e si vendicassero in libertà. Così mescolando le seduzioni alle armi, e le armi alle seduzioni, e niuna cosa santa ed inviolata avendo, s'incamminava a sconvolgere la monarchia d'Austria, e il mondo.

Animava i suoi soldati per fargli star saldi alle nuove pruove: badassero, diceva, che già avevano vinto quattordici campali battaglie, settanta minori, preso più di cento mila prigionieri, conquistato cinquecento cannoni leggieri, due mila grossi, piatte per quattro ponti, si ricordassero, avere senza spesa del pubblico vissuto un anno, mandato trenta milioni all'erario; per loro avere il museo di Parigi acquistato quanto di più bello aveva penato trenta secoli l'antica e la moderna Italia a produrre; le più belle contrade d'Europa essere in potestà della repubblica; a loro obbligate della libertà la Lombarda, e la Cispadana repubbliche; vedere per la prima volta l'Adriatico le Francesi insegne; là oltre, e poco distante mostrarsi la Macedonia antica; il re di Sardegna e di Napoli, il papa, il duca di Parma, abbandonata la lega, avere ricerco l'amicizia della repubblica; gl'Inglesi cacciati da Livorno, da Genova, da Corsica essere testimonj del loro valore; molto essersi per loro fatto, molto ancora restare a farsi; meritassero l'affezione della patria confidente nel loro coraggio; solo fra tanti nemici stare in piè ed in armi l'imperatore, l'imperatore postosi agli stipendi dei mercanti di Londra, dei perfidi isolani d'Inghilterra, che non tocchi dai mali della guerra, non tocchi dai mali del continente trionfavano; avere voluto il direttorio la pace a condizioni oneste; averle rifiutate la venduta Vienna: gissero adunque, esortava, la pace cercando nel cuore stesso degli stati ereditari d'Austria; vedrebbero popoli valorosi fatti infelici dalla guerra col Turco, fatti infelici dalla guerra con la repubblica; vedrebbero popoli sdegnati contro ministri corrotti dall'oro d'Inghilterra; la religione onorassero, i costumi rispettassero, le proprietà proteggessero, alla prode nazione Ungara la libertà recassero; la casa d'Austria venuta in odio ai popoli pei violati privilegi, sforzassero a quella pace, ch'essi stessi volessero, e la riducessero, a quella condizione di seconda potenza, a cui già si era da se medesima abbassata pei ricevuti salari d'Inghilterra. Voci molto incitatrici erano queste agli animi di soldati valorosi, vincitori, e che non conoscendo qual fosse in tanta contesa il dritto, il giusto, e l'onesto, non altro suono conoscevano, che quello delle armi.

Dalla parte dell'Austria, che mal volentieri si disponeva a lasciare del tutto le cose d'Italia abbandonate, le faccende passavano con maggior moderazione, ma non con maggior coraggio, se si guardano le risoluzioni di chi reggeva lo stato; imperciocchè, oltre le reliquie dei soldati vinti, si mandavano alla volta della Carintia, della Carniola, e del Friuli circa trentamila delle genti del Reno, nuove leve si ordinavano negli stati ereditari, la nazione Ungara volonterosamente accorreva in ajuto del sovrano pericolante. Una massa di soldati vecchi e nuovi alloggiava a Salisburgo pronta a correre ai passi dell'Alpi; un campo si ordinava a Neustadt, come antemurale alla capitale dell'impero. Tutto ciò non si faceva senza necessità, perchè grande era la debolezza dell'esercito Italico, nè era l'animo maggiore delle forze; cinque volte vinto aveva perduto l'antico ardimento; le compagnìe sceme, i soldati nuovi non usi all'armi, i vecchi sconfortati dalle sconfitte; nè ordine stabile era fra loro, nè unità di consiglio; perchè mescolate le compagnìe, mescolati i soldati, non era più fra loro abitudine comune, sola madre dell'operare accordato, e della perfetta disciplina. Deboli le fanterìe, ancora più debole la cavallerìa, nervo tanto principale degli eserciti Austriaci, perchè il fiore era perito nella Mantovana guerra. Nè i generali, o gli ufficiali fra di loro s'intendevano, perchè lo sbigottimento dà luogo al voler provvedere alla salute sua ciascuno da se, e perciò il disordine, ed eziandio i rimproveri reciproci, come suole accadere nelle disgrazie, interrompevano l'armonìa. Non ostante in mezzo a tanta depressione d'animi e di fortuna, riconfortava la sbattuta oste il pensiero dello avere a guidatore e capo delle nuove imprese l'arciduca Carlo, principe amatissimo, che recentemente aveva dato segni di non mediocre perizia, e di singolare ardimento nelle guerre d'Alemagna. Nondimeno non potevano gli Austriaci per avere ogni provvedimento debole, perduta Mantova, il fiore della cavallerìa, e tante battaglie, sperare di riconquistare i dominj loro in Italia. Solo si confidavano di arrestare ai passi dell'Alpi verso la Germania i Francesi tanto che, conservato il cuor dell'imperio, potesse Francesco imperatore o difendersi con vantaggio, o convenire con onore.

Alloggiavano nel Trentino, nel paese di Feltre, e nella Marca Trivigiana, distendendo la fronte loro dai monti di Bormio insino alla foce della Piave. Ritirava sul principio di febbraio l'arciduca il grosso sulla sinistra riva del Tagliamento, e lo alloggiava nel Friuli e nella Carintia, lasciando tre schiere sulla fronte descritta. Trovavasi Liptay con una di esse a guardare lo spazio, che corre dalla frontiera dei Grigioni a Salorno, terra posta sulla sinistra dell'Adige sopra al Lavisio, e per tal modo stava a difesa del superiore Tirolo. Spiegava la seconda le sue ordinanze da Salorno a Feltre a traverso i monti che spartono le acque dell'Adige da quelle della Piave. Obbediva questa al freno di Lusignano, ed era pronta a venire al cimento con quei soldati rischievoli di Massena. Finalmente il principe di Hohenzollern con settemila soldati custodiva il paese da Feltre, scendendo per la sinistra della Piave fin dove ella mette in mare. Fermava l'arciduca il suo principal alloggiamento in Udine, capitale del Friuli, perchè sapeva, che il più forte sforzo dell'inimico si doveva indirizzare verso Gorizia.

Dipendevano gli animi degli uomini da espettazione di cose grandi nel vedere due capitani eletti, l'uno negli occhi di tutto il mondo per le guerre d'Italia, l'altro per quelle d'Alemagna, ed entrambi pari d'età, entrambi pari di valore, vicini al venire fra di loro al cimento dell'armi. Ma sebbene l'animo, e la perizia nelle cose di guerra nei due emoli si pareggiassero, non era la medesima la natura in ambidue, nè la stessa ancora la condizione dei tempi e dei luoghi, in cui si ritrovavano. Era l'uno audace ed impetuoso, l'altro temperato e prudente; guidava il primo genti vittoriose, il secondo genti quasi tutte vinte; combatteva quegli con l'armi o con le suggestioni, combatteva questi con l'armi e con l'antica fede; aveva il repubblicano l'esercito più grosso, il principe minore; andava con la vittoria di Buonaparte la conservazione dell'impero francese in Italia, andava con la vittoria di Carlo la conservazione della monarchìa d'Austria, e la messa di lui era maggiore di quella dell'avversario. Da un altro lato erano tutto all'intorno, e dietro, più fedeli i popoli al capitano Austriaco, più avversi al Francese, il che faceva le ritirate più sicure al primo che al secondo; e se il ritirarsi era più necessario a quello, era il vincere più necessario a questo. Per la qual cosa altra maniera di guerra doveva seguitare Buonaparte, ed altra Carlo; perchè la vittoria del primo consisteva nella celerità, quella del secondo nell'indugio, ed il non vincere fra breve tempo era per quella parte un perdere, sostenere per qualche tempo la guerra era per questa un vincere. La natura adunque dei tempi conveniva alla natura d'ambi i giovani emoli, e quello che per l'uno e per l'altro era necessità, era anche inclinazione. Per questo elesse Buonaparte di spignersi frettolosamente avanti per condurre alla giornata l'avversario ovunque il trovasse, mentre prese l'arciduca partito di ritirarsi, di farsi forte ai passi, di tagliare i ritorni, di non tentare senza necessità la fortuna del combattere, e di operar per modo sì coi soldati che con le popolazioni, che di altro spazio non fosse il Francese padrone, se non di quello in cui i suoi soldati insistessero. A questa deliberazione era anche costretto dal pensare, che, non essendo ancora giunti tutti, quantunque già fossero in viaggio, i rinforzi che dal Reno, dall'Ungheria, e dagli stati ereditari aspettava, il tirarsi indietro era avvicinarsi ai medesimi, e perciò diventare ogni ora più grosso, mentre a Buonaparte continuamente scemerebbono le forze in proporzione dello avanzarsi, a cagione dei presidj che doveva e nei luoghi aperti e nei chiusi lasciarsi alle spalle, per mantenere le strade sicure verso l'Italia, donde gli venivano i sussidi di soldati e di munizioni. Certamente buon modo di guerra intraprendeva Carlo, e mancò piuttosto l'animo in Vienna, che la prudenza nel difensore.

Il primo a dare il segnale delle nuove battaglie fu il generale di Francia: il dieci marzo si muoveva con la sua destra, e con la mezzana schiera. Era suo primario intendimento di entrar fra mezzo agli Alemanni per modo che l'ala loro destra restasse separata dalle altre. Perciò aveva ordinato, che il principale sforzo in questa prima mossa fosse fatto dalla mezzana, che raunata sulle rive della Piave obbediva a Massena; perchè era evidente, che ove egli fosse riuscito ad impadronirsi della Piave superiore, occupando il paese di Cadore, era interrotta la strada dal Tirolo al Friuli. Conseguito questo intento diveniva più facile a Joubert di cacciarsi avanti gl'imperiali fino all'ultimo varco di Germania, per quindi condursi per la valle del Puster e della Drava agli ulteriori disegni di Buonaparte. Nè mancava Massena del debito suo: perchè non così tosto si mosse, che gli Austriaci, abbandonata la fronte del Cardevolo, ed i luoghi più bassi, andavano a porsi in sito forte oltre Belluno a fine di propulsare l'inimico, se tentasse d'innoltrarsi nella valle di Cadore. Seguitavagli tostamente il Francese, e quantunque Lusignano con grandissimo valore si difendesse, prevalendo i repubblicani di numero, fu alla fine obbligato, non giovandogli nè l'avere ordinato i suoi in globo per aprirsi il passo alla salute, nè un bravo menar di baionette, a por giù le armi con tutta la sua schiera, e a darsi in potestà del vincitore. Per tal modo meglio di seicento soldati, Lusignano con loro, vennero in poter dei Francesi; ma fu maggiore il numero degli Austriaci uccisi in quell'ostinato conflitto. Al tempo medesimo Serrurier e Guyeux varcavano la Piave a Vidoro e ad Ospidaletto, ed occupato Conegliano e Sacile si avvicinavano al Tagliamento. Aveva l'arciduca munito la sponda sinistra di questo, piuttosto impetuoso torrente che giusto fiume, di trincee con averle afforzate con artiglierie. Stanziavano anche numerose torme di cavalleggieri pronte a ributtare l'inimico, ove passasse. Ma queste erano meglio dimostrazioni per ritardare, che per arrestare l'inimico, perchè le acque del Tagliamento, non ancora sciolte le nevi sui monti, si potevano guadare in molti luoghi. Per la qual cosa i Francesi, schivando i passi muniti, riuscivano facilmente sulla sinistra. Fuvvi qualche incontro di cavallerìa assai brava, ma i fanti Tedeschi fecero sperienza di poca virtù, quando la cavallerìa dei repubblicani, varcato il fiume, gli ebbe assaltati. Al contrario i primi fanti francesi che avevano passato, percossi vigorosamente dalla cavallerìa tedesca, avevano contrastato con molta forza. Fu poco notabile in questo fatto la perdita dei repubblicani. Mancarono degl'imperiali meglio di seicento soldati tra uccisi e prigionieri: s'aggiunsero alle conquiste dei vincitori sei cannoni. Venne prigione in mano loro il generale Schultz.

Passato il Tagliamento, ed assicurato Buonaparte sulla sinistra per la vittoria di Massena, che già da Cadore, valicando dai fonti della Piave a quei del Tagliamento, si accostava con presti alloggiamenti alla Ponteba, si stendeva per tutto il Friuli, cacciandosi avanti verso il Lisonzo le armi Austriache, che debolmente combattendo facilmente gli cedevano del campo. Già le fortezze di Palmanova e di Gradisca, e già Gorizia erano in poter suo venute. Quindi allargandosi a destra s'impadroniva di Trieste abbandonato da' suoi difensori, e fatta una subita correrìa sopra Idria, faceva sue quelle ricche miniere d'argento vivo, bottino ricchissimo, ma non tanto quanto portò la fama. Verso sinistra, procedendo altresì molto risolutamente, prendeva Cividale e s'incamminava a Chiavoretto, perchè voleva consuonare con Massena nel carico, che questi aveva d'impossessarsi del passo importante della Ponteba. Grande era questo suo pensiero; conciossiacchè se Massena guadagnava il passo della Ponteba, poi quello di Tarvisio, che gli succede, gli sarebbe venuto fatto di spuntare il fianco destro dell'arciduca, di separarlo da Kerpen, e da Laudon, d'impedire i rinforzi, che dal Reno gli pervenivano, e forse ancora di giungere a Clagenfurt sulla strada per a Vienna innanzi che il generalissimo Austriaco vi arrivasse. Con ciò conseguiva anche l'altro intento di assicurarsi la congiunzione delle genti di Joubert, che per la valle della Drava dovevano venire dal Tirolo. Parte di questi pensieri recava ad effetto, e parte no, perchè gli venne interrotta dalla celerità e dalla prudenza dell'avversario.

Ma prima che raccontiamo le importanti fazioni che ne seguirono, necessaria cosa è il descrivere, come le cose passassero tra Joubert da un canto, e Liptay, Kerpen e Laudon dall'altro nel Tirolo. Come prima ebbe avviso Joubert dei prosperi fatti accaduti nel Friuli, si metteva all'ordine per eseguir le imprese, che alla fede, ed al valor suo aveva Buonaparte raccomandate. Varcava il Lavisio il dì venti di marzo, non ostante che i cacciatori Tirolesi posti ai passi, con ispessi tiri ogni opera facessero per impedirlo: urtava Kerpen, che aveva un forte campo sulle alture di Cembra, tentando di accerchiarlo a sinistra per Cavriana. Al tempo stesso per la strada di Bolzano, e a destra marciavano Delmas, e Baraguey d'Hilliers. Fu valida, ma non lunga la difesa, pel timore che ebbe Kerpen di essere circuito sulla destra della sua fronte, però con celeri passi si ritirava a San Michele, donde gagliardamente anche combattuto dai Francesi viemmaggiormente indietreggiando, andava a porsi più sopra a Bolzano. Grave danno patirono in tutti questi fatti gli Austriaci, avendo perduto tra uccisi, feriti e prigioni circa tre mila soldati. Entravano successivamente, benchè non senza nuove battaglie e molto sangue, i Francesi in Salorno, in Peza, ed in Newmarket. La ritirata tanto presta di Kerpen poneva in grave pericolo Laudon, che alloggiava sulla destra dell'Adige, perciocchè le raccontate fazioni accadevano sulla sinistra. Nè i Francesi trasandavano la occasione; anzi, varcato il fiume ai ponti di Salorno e di Newmarket, assalivano Laudon nel suo campo di Tranen, e lo rompevano con uccisione di molti, e con circa novecento prigioni, e parecchie artiglierìe prese. Dopo questa rotta, che faceva impossibile a Laudon di ricongiungersi con Kerpen, non ebbe altro rimedio, che di cercar ricovero nelle parti superiori della valle di Merano. Quivi stette aspettando, che la fortuna gli offerisse nuova occasione di risorgere.

Seguitavano i Francesi il corso della fortuna vincitrice, ed urtato Kerpen che aveva fatto un forte alloggiamento alla Chiusa, lo avevano sloggiato e percosso di modo, che abbandonato anche Brissio, pensava a ritirarsi a Sterzing, luogo molto scosceso, stretto, rotto, difficile, e posto nelle montagne del Brenner presso al sommo giogo dell'Alpi, dove si spartono le acque dell'Adige e dell'OEno, ultima difesa d'Alemagna contro chi viene dalle terre d'Italia. I Francesi lo assaltavano audacemente in quel fortissimo alloggiamento; fu dura e sanguinosa la battaglia; furono costretti a tornarsene indietro, o che l'intoppo fosse troppo forte, o, come pare più probabile, che l'intento loro fosse solamente di assicurarsi, non di passare, perchè era pericoloso a Joubert di condursi sino ad Inspruck, e non conveniente ai disegni di Buonaparte, che voleva vicina a se, e non lontana, nè separata da alte e disagevoli montagne quella schiera. Adunque Joubert si fermava a Brissio, dove poteva a suo grado o stare osservando le cose del Tirolo, o marciare per Bruneca e Toblaco a Linzo, e di là fino a Villaco per trovarvi Buonaparte. Ma non tardava a fare la fortuna, che quello, che era elezione per lui, diventasse necessità.

Chiamava Laudon i Tirolesi all'armi, gli chiamava Kerpen: secondava con ardenti esortazioni l'opera loro il conte di Lerback, personaggio di grande autorità, e molto potente nelle cose del Tirolo. I bellicosi abitatori di quelle montagne al suono di voci tanto gradite correvano all'armi bramosamente contro i conculcatori della patria loro: nè il sesso, nè l'età si rimanevano, perchè furono veduti e vecchi, e donne, e fanciulli, dato di mano alle armi, che il caso od il furore parava loro davanti, mettersi in piè per difendere le antiche ed amate sedi loro. Nè la stagione sinistra, nè le alte nevi, nè i grossi ed impetuosi torrenti, nè ogni disagio di guerra o di vettovaglia gl'impedivano. Passava tant'oltre quest'improvviso tumulto, che sul principiar di aprile, risuonando quelle valli d'ogni intorno d'armi e di grida guerriere, meglio di venti mila combattenti erano in pronto contro quella gente venuta da lontani paesi per conquistargli. Intanto i generali Tedeschi, che sapevano, che le moltitudini disordinate sono piuttosto preda, che danno ad un nemico bene ordinato, avevano distribuito in battaglioni giusti quella massa tumultuante, e mescolatovi, per dar polso e regola, alcuni drappelli di regolari. Principale fondamento facevano nell'opera di costoro, perchè questi popoli accorsi, sapendo il paese, potevano acconciamente ferire alla leggiera, opprimere i traviati, mozzar le strade, riuscire improvvisi alle spalle, bersagliare da lungi e da luoghi erti, soprapprendere le bagaglie, impedire la vettovaglia, insomma fare ogni cosa avanti, a' fianchi, e addietro sospetta e pericolosa.

Kerpen e Laudon, fatti forti da questo accalorato stormo, ed ingrossati anche da qualche battaglione di regolari venuti dall'esercito Renano, si consigliavano di voler cacciare del tutto dal Tirolo i repubblicani. Con questo pensiero Laudon, che aveva spogliato d'abitatori la valle di Merano, ed ordinatigli sotto le insegne, calava minacciosamente da quei luoghi alti e dirupati, ed andava a battere a mezza strada tra Brissio e Bolzano, col fine di tagliar il ritorno ai Francesi alle parti disottane dell'Adige. Gli riusciva l'intento, perchè assaltate con impeto le vanguardie Francesi, le faceva piegare, e s'impadroniva di Bolzano. Fatto poscia più audace dal fortunato successo, saliva per le rive dell'Adige per congiungersi con Kerpen, e per istringere vieppiù Joubert, che tra l'una schiera e l'altra stanziava a Brissio. Occupava la Chiusa, poi Steben, tanto ritirandosi i Francesi più in su, quanto più s'avvicinava Laudon: già Brissio medesimo pericolava. Nè se ne stava neghittoso in questo mezzo tempo Kerpen, perchè calando con le sue genti miste di Tirolesi e di Tedeschi da Sterzing, rincacciava i repubblicani fin sotto le mura di Brissio. Per questo modo a Joubert accerchiato da tre parti, a tramontana da Kerpen, a ostro ed a ponente da Laudon, non rimaneva più altro scampo, che a levante per la valle del Puster, poscia per quella della Drava sino a Villaco. Partitosi da Brissio il dì cinque aprile, e ritardato l'impeto di Kerpen, che lo voleva seguitare, con aver rotto il ponte sull'Eisaco, arrivava il giorno otto a salvamento a Linzo, dove trovava alcuni squadroni di cavalleria, che il generalissimo, geloso di quel passo, aveva mandati ad incontrarlo. Poscia marciando sollecitamente in giù per le rive della Drava, e rotte alcune squadre collettizie all'Ospedale, che volevano serrargli il passo, conduceva ad effetto a Villaco la congiunzione dei due eserciti. Ma Laudon non si ristava; che anzi cacciando all'ingiù dall'Adige i Francesi, entrava vittorioso in Trento e Roveredo. S'allargava anche sulle sponde del lago a Torbole ed a Riva. Questa mossa, che già faceva sentir il romore delle armi Tedesche nella pianura frapposta fra l'Adige e il Mincio, partoriva effetti importanti, e ne avrebbe partorito degli estremi, se l'imperatore Francesco avesse mostrato, in quest'ultima fine, maggiore costanza, ed il senato Veneziano maggiore ardimento.

La guerra si avvicinava sugli estremi confini d'Italia per opera di Massena ad un evento terminativo, per quanto spetta alla difesa degli stati ereditari d'Austria. Già si è da noi notato, di quanta importanza fosse il passo della Ponteba. Per questo aveva comandato l'arciduca a Ocskay, che lo custodiva, ostinatamente il difendesse. Confidando nel valore de' suoi, veniva in pensiero di sopraccorrere improvvisamente con forze superiori contro Massena, e di conculcarlo prima che Buonaparte avesse tempo di soccorrerlo. Il quale intento, se avesse avuto il suo effetto, l'arciduca avrebbe fatto a Buonaparte quello, che Buonaparte voleva fare a lui, cioè separare l'ala sua destra dalle genti del Tirolo, che erano la sua sinistra. A questo fine ebbe tostamente il generale austriaco adunato alcune truppe già venute dal Reno, e comandava al tempo medesimo ai generali Gontreuil e Bajalitsch, marciassero risolutamente a Tarvisio per a Ponteba; gli seguitava di pari passo, conducendo con se le artiglierie più grosse. L'accidente era importante, il momento fortunoso. Già marciava l'arciduca quasi sicuro della vittoria; ma quando più confidava di un prospero fine, gli sopravvenivano le novelle, certamente ingratissime, che Ocskay, non facendo alla Ponteba contro Massena quella sperienza che si aspettava di lui, si era tirato indietro fino a Tarvisio; che anzi velocemente seguitato dal nemico, aveva anche abbandonato Tarvisio, ritirandosi più che di passo verso Wurtzen. Quest'accidente tanto impetuoso fece precipitar l'arciduca ai rimedi: comandava a Ocskay, che tornasse incontanente, e cacciasse i repubblicani da Tarvisio. Ma il suo intento non ebbe effetto, perchè Ocskay, troppo accelerando il cammino, già era arrivato a Wurtzen, terra troppo più lontana che abbisognasse, perché ei potesse giungere a tempo alla fazione. Non si perdeva d'animo per tanto sinistro l'arciduca, e, non lasciata indietro diligenza od opera alcuna, pensava a ricuperar col valore quello, che la timidità aveva perduto. A questo fine ordinava a Gontreuil e Bajalitsch, seguitassero a marciare, e restituissero ad ogni modo alle armi austriache il passo di Tarvisio. Tanto velocemente marciò il primo, guidatore dell'antiguardo, che, valicato il colle di Ober-Preth, urtava valorosamente in Tarvisio, cacciavane i repubblicani, e perseguitandogli, gli respingeva sin oltre al villaggio di Salfnitz, e se fosse stato presto Bajalitsch ad arrivare per fermare i suoi nella battaglia, l'impresa aveva il suo compimento. Ma egli, o fosse ritardato dai luoghi aspri, o dagl'impedimenti delle artiglierìe che voleva condurre con se, non potè arrivare a tempo alla fazione, per modo che il seguente giorno, che fu ai ventitre di marzo, Massena, raccolti ed adunati i suoi, e già prevalendo di forze contro Gontreuil rimasto solo, dava dentro, prima a Salnitz, poscia a Tarvisio, e da ambi i luoghi cacciava gl'imperiali. Nè valsero il valore di Gontreuil, che fu molto notabile, nè quello delle sue genti che combatterono virilmente, nè la presenza dell'arciduca medesimo che era accorso, e fece in questa battaglia le veci non meno di esperto capitano, che di animoso soldato, ad arrestare il corso della fortuna contraria; perchè non solamente fu rotto e ferito Gontreuil, ma fu cagione, che rotto ancora fosse poco dopo Bajalitsch che arrivava; conciossiachè Massena vittorioso, rivoltatosi contro questa seconda colonna, le dava l'assalto sui confini di Raibel. Al tempo medesimo Guyeux, che si era impossessato per una battaglia di mano del forte passo della Chiusa di Plezzo, accostatosi ancor esso, l'assaliva alla coda. La schiera, urtata da tutte le parti da un nemico vittorioso, ridotta ad un'estrema lassezza pel camminare frettoloso su per quei monti, nè avendo speranza di soccorso, deposte le armi, si arrendeva. Quattro generali, quattromila soldati, venticinque cannoni, quattrocento carri carichi di bagaglie e di munizioni furono i cospicui segni delle vittorie di Tarvisio e di Raibel. Tali furono i risultamenti della mal difesa Ponteba, e per aver il nemico preso il vantaggio dei passi, restò vana la fatica ed il desiderio dell'arciduca.

Perduta la speranza d'offendere, pensava il generale dell'Austria ad ordinar le difese in modo che fosse fermato quel precipizio, e fatto abilità alle genti stanziali del Reno di arrivare, alle leve di Croazia, di Bosnia, d'Austria e di Ungherìa di ordinarsi, ed al campo di Neustadt di fortificarsi. Schierava a questo fine il generale Seckendorf sulla strada di Lubiana, città chiamata con vocabolo tedesco Laybach, acciocchè intendesse alla difesa della Carniola, e delle rive della Sava; quest'era l'ala sua sinistra. Alloggiava il generale Mercantin sulle sponde della Drava per sicurezza di Clagenfurt; quest'era la mezza schiera. Finalmente il principe di Reuss col generale Keim con l'ala destra avevano fermato le loro genti a San Vito, e nella valle della Mura. Per tal modo si guardavano i tre principali aditi, per cui si va dall'Italia nel cuore delle possessioni austriache in Alemagna. Sperava l'arciduca, abborrendo dal lasciarsi stringere a far giornata, che questi preparamenti di difesa, le genti del Reno che giungevano, i popoli che tumultuavano tutt'all'intorno, avrebbero dato cagione di pensare a Buonaparte, e frenato la sua audacia del volersi internare negli stati ereditari. Ma il capitano di Francia, che voleva pure che le sue armi rumoreggiassero in Alemagna, parte per amore di gloria, parte per isperanza, che chi parteggiava per la pace a Vienna, si mostrerebbe tanto più vivo quanto più ei fosse vicino, non si rimaneva, che anzi spingendosi avanti, e già congiunto con lui Joubert, entrava vittorioso in Villaco, Lobiana e Clagenfurt. Così non restava a superarsi più altro ostacolo di luoghi a Buonaparte, perchè sulle sponde del Danubio vicine a Vienna facesse sentire l'impressione delle sue armi, che la falda settentrionale delle Noriche Alpi, che la Drava dalla Mura dividono, debole impedimento per la facilità dei passi.

La guerra d'Italia, che prima era piccola parte dei disegni Francesi, era divenuta, per tanto segnalate e tanto efficaci vittorie, parte principalissima; ed inaspettatamente il far forza all'imperatore, che si sperava pel direttorio dall'Alemagna, sorse dall'Italia; opera certamente, che il direttorio medesimo, nè nissun governo, nè niuna persona al mondo, se non forse Buonaparte avrebbe potuto non che credere, immaginare, quando poco più di un anno avanti si combatteva nella riviera di Ponente sotto l'umile scoglio di Borghetto. Ma per gli Austriaci combatteva solamente il valore, pei Francesi l'impeto, pei primi un voler guadagnar i paesi a palmo a palmo, pei secondi un conquistargli a dirittura, per quelli un guerreggiare pesato, per questi un guerreggiare audacissimo, per gl'imperiali uno spandere l'esercito per voler esser dappertutto, pei repubblicani un serrarsi in un luogo solo per poter irrumpere grossi ed avventati. Si aggiunge, che gli Austriaci non andavano alle fazioni se non provvisti di tutto punto, mentre i Francesi vi andavano sprovvisti di ogni cosa, purchè quelle armi avessero che con se portano i soldati: ciò faceva le mosse degli Austriaci tarde, quelle dei Francesi preste. Molto ancora nocque ai capitani d'Alemagna l'essere, secondo il solito, abborrenti dallo spendere per aver le spie; nel che Buonaparte non guardava a quello che si spendesse. Nè gran momento in questo non recò il procedere independente di Buonaparte, perchè faceva da se, e poco si curava dei disegni e dei comandamenti del direttorio, mentre i capitani Austriaci erano astretti ai disegni ed agli ordini del consiglio di Vienna, lento al deliberare, geloso dell'esecuzione: quindi per questi molte buone occasioni, che la fortuna parava loro davanti, di vincere, si perdevano, mentre il capitano Francese, che si stimava padrone di fare ciò che voleva, non ne trasandava nissuna. Finalmente la celerità sua, veramente mirabile, fu cagione principalissima delle sue vittorie, e bene si può dire con l'esempio di Buonaparte; che se il mondo è di chi se lo piglia, molto ancora più le vittorie sono di chi se le piglia. Errò egli qualche volta, ma compensò con l'audacia il suo errare: errarono ancor essi i capitani Tedeschi, e si sgomentarono al loro errare. Quindi ebbe Buonaparte maggiore probabilità di vincere, perchè non solo vinceva quando operava bene, ma anche quando operava male, e l'audacia sua, congiunta con un'astuzia e con una perizia straordinaria, il fecero, per la guerra offensiva, il più compiuto capitano che sia stato mai.

Giunto a Clagenfurt, ed avuto avviso per modo segreto, che i partigiani della pace a Vienna facevano efficace opera per venire ai fini loro, pensava di usare il terrore impresso, perchè la parte loro prevalesse nelle consulte dell'imperatore. A questa deliberazione fu anche indotto dal sospetto di quello che potesse accadere alle sue spalle; perchè, sebbene il senato Veneziano fosse debole, erano i popoli della terraferma gagliardi per lo sdegno concetto alle conculcazioni fatte dai repubblicani, e minacciavano di far novità contro di loro. Al che erano anche incitati dalle rivoluzioni di Bergamo e di Brescia accadute per instigazioni segrete e palesi dei Francesi, e dei loro partigiani. Da un altro lato, aveva Buonaparte sentito i primi romori di Kerpen e di Laudon nel Tirolo; e già la Croazia minacciava Trieste. Nè non gl'importava il simulare il desiderio della pace; perciocchè, se la pace seguiva a modo suo, otteneva l'intento, se non seguiva, sarebbe paruta la guerra opera dell'ostinazione altrui. Scriveva adunque il dì trentuno marzo all'arciduca, l'Europa sanguinosa desiderar la pace, desiderarla, ed averne fatto dimostrazione il direttorio: solo l'Austria stare armata sul continente per combattere; instigarla l'Inghilterra; dover forse continuar ad uccidersi scambievolmente Francesi ed Austriaci, perchè si facesse il piacer di una nazione non tocca dalle disgrazie della guerra? «Voi foste, diceva all'arciduca, il salvatore dell'Alemagna, siate anche il benefattore dell'umanità: anche vincendo, non potrete fare che non ne sia lacerata l'Alemagna: se questa mia proposta fosse per divenir cagione, che la vita di un uomo solo si salvasse, bene sarei io più contento della meritata corona civica, che della fama acquistata in ulteriori vittorie».

Rispondeva l'arciduca, fare la guerra per debito, desiderare la pace per inclinazione; a nissuno più che a lui star a cuore la felicità dei popoli, ma non aver mandato per trattare intorno ad una faccenda di tanta importanza, ed a se non competente; aspetterebbe i comandamenti del suo signore. Data la risposta, mandava gli avvisi a Vienna, già molto turbata per l'avvicinarsi del nemico.

Buonaparte intanto si faceva con prestezza avanti, sperando di far certo con la vittoria quello, che tuttavia era incerto. Ma l'arciduca, che si era messo al fermo del voler temporeggiare, fuggendo la necessità del combattere, si tirava indietro, solo ritardando con grosse fazioni del retroguardo il perseguitar del nemico. Ritraevasi da San Vito, da Fraisach, da Newmarket: ritraevasi ancora da Unzmarket sulla Mura, e da Judenburgo. Occupava Buonaparte i luoghi abbandonati, e si vedeva avanti le acque, che dall'estrema falda dei Norici monti se ne corrono per la diritta nel Danubio; già le mura dell'antica ed invita Vienna erano vicine a mostrarsi a' suoi soldati vincitori; caso veramente di tanta maraviglia, che da molti secoli addietro non era accaduto l'uguale.

Ma già a Vienna più aveva potuto il timore che la prudenza, ancorchè la condizione di Buonaparte fosse diventata pericolosa per la subita comparsa di Laudon nella campagna di Brescia, per l'arrivo di un colonnello Casimiro a Trieste mandatovi dall'arciduca, e per essere sul mezzo della fronte l'arciduca medesimo grosso e rannodato, e con tutte le popolazioni all'intorno, che dimostravano animo stabile nella divozione verso l'antico signore. Arrivavano all'alloggiamento di Judenburgo i generali Belegarde e Meerfelt con mandato di sospendere le offese, e di comporre le differenze. Uditi benignamente dal generale di Francia, si accordarono, il giorno sette aprile, che si sospendessero da ambe le parti le offese per sei giorni. Poi, scoprendosi sempre più inclinato Buonaparte a volere condizioni vantaggiose per l'Austria con offerire compensi nei territorj Veneti alla perdita dei Paesi Bassi e del Milanese, fu prolungata la tregua insino a che fossero accordati i preliminari di pace, che secondo il corso di quei negoziati, si vedevano non lontani. Infatti, essendosi dato perfezione a tutte le pratiche, si venne fra i plenipotenziari rispettivi alla conclusione dei preliminari nella terra di Leoben il dì diciotto del medesimo mese. Alcuni dei capitoli furono palesi, altri segreti. Fra i primi contenevasi, cedesse l'imperatore alla Francia i Paesi Bassi, riconoscesse le frontiere della repubblica, quali le avevano le leggi Francesi definite, consentisse alla creazione di una repubblica in Lombardia. Stipulavano i segreti, desse la Francia in poter dell'imperatore l'Istria, la Dalmazia, il Bresciano, il Bergamasco, parte del Veronese. A questo fine appunto, e per compir questa fraude, aveva Clarke già molto avanti esortato l'imperatore ad occupare coll'armi l'Istria e la Dalmazia, ed aveva Buonaparte, pure molto prima, fatto rivoltar contro il senato Bergamo, Brescia, e le Veronesi terre: promettevano peraltro i preliminari, che la repubblica di Venezia si compenserebbe con le legazioni; il che significava, che si destinavano, senza saputa e senza consenso del senato Veneziano, ad altra potenza i suoi dominj, e che gli si offerivano compensi, prima che si sapesse se a lui erano o convenienti od onorevoli; perchè in questo, non solo si spogliava Venezia de' suoi stati, ma le si voleva dar compenso con ispogliar di altri stati una potenza con lei congiunta di amicizia: ed è anche da considerarsi in queste rivolture schifose lo strazio, e lo scherno, che si faceva di quella repubblica Cispadana, che appena nata già si voleva ridurre sotto la sferza di un governo aristocratico, come dicevano, e tirannico, che era una faccenda grave in quei tempi. Ma essendosi stipulato nei preliminari, che Mantova si restituisse all'imperatore, il direttorio non volle consentire questa condizione, certamente gravissima in se stessa, e per gli effetti che portava con se; conciossiachè il lasciare un sì forte nido all'Austria in Italia era un fare perpetuamente incerta la repubblica Lombarda, o Transpadana, che la vogliam nominare, ancora tanto tenera in quei primi principj, ed un necessitare la presenza continua di un grosso esercito Francese nell'Italia settentrionale. Rendevansi anche per la medesima cagione incerte tutte le mutazioni di stato, che in Italia avevano fatto i Francesi, e questi stati nuovi, ad una prima presa d'armi, ad un primo romore, ad un primo sospetto, ad una prima sollevazione d'animi, sarebbero iti tutti sossopra, nè mai avrebbero potuto por radice, per quel segnale importuno dell'Austria vicina e forte. Il rifiuto del direttorio fe' sorgere nuovi negoziati, pei quali finalmente fu consentita Mantova alla repubblica Transpadana, ma nacque al tempo stesso la necessità di ricompensare quella piazza all'imperatore col restante dello stato Veneto, colla città stessa di Venezia, e colla distruzione totale dell'antico governo Veneziano. Assunse l'opera barbara e frodolenta il direttorio; s'addossò Buonaparte il carico di mandarla ad effetto, ambi sperando di colorire il tradimento ordito contro i Veneziani con fingere tradimenti orditi dai Veneziani contro di loro.

Già abbiamo in un precedente libro raccontato, che Bergamo era stato occupato da Buonaparte, come istrumento potente a volgere a sua divozione l'animo dei popoli della terraferma Veneta. Fu del tutto violento il modo, e contrario a tutti gli usi della neutralità. Entrarono i repubblicani in Bergamo, Baraguey d'Hilliers gli guidava, con cannoni ordinati a modo di guerra, con le micce accese, s'impadronirono delle porte, recaronsi in mano le artiglierìe Veneziane, intimarono al podestà Ottolini, facesse sgombrar dalla terra tutte le truppe Venete; se nol facesse, userebbero la forza. In tale guisa s'insignorirono di Bergamo coloro, che accusavano Venezia della violata neutralità. Ma questo non era che il principio, ed il fondamento delle trame che si ordivano. Erasi per opera di Buonaparte creata in Milano una congregazione segreta, nella quale entravano in gran numero i repubblicani Italiani, ed il cui fine era di operare rivoluzioni nel paese Veneziano. Alcuni Francesi vi erano mescolati, che intendevano ai medesimi fini. Tra questi un Landrieux, capo dello stato maggiore di cavallerìa, era stato eletto dalla congregazione, qual operator principale a turbare le cose Venete. Ma egli, o che avesse per onestà di natura realmente in odio quest'opere pestifere, o che per motivo meno sincero, come ne lo sospettò Buonaparte, avesse occulto intendimento con gl'inquisitori di stato di Venezia, fe' sapere o per mezzo loro, o immediatamente ad Ottolini, che, ove una persona fidata a Milano mandasse per conferir con lui, le svelerebbe cose, che massimamente importavano alla salute della repubblica Veneziana. Mandava il segretario Stefani: trovava in Milano un avvocato Serpieri Romano, trovava Landrieux, alloggiavanlo segretamente in casa Albani: affermava Landrieux a Stefani, essere onest'uomo, per questo avere in abbominio le rivoluzioni, già averne impedito una in Ispagna, volere impedire quella dello stato Veneto; a ciò muoverlo l'onore della nazione Francese calpestato da Buonaparte, dal direttorio, dai consigli, orrida tutta, come diceva, e facinorosa gente; muoverlo ancora i benefizj fatti dalla repubblica Veneziana all'esercito di Francia, muoverlo l'umanità, muoverlo il desiderio della pace: avere fra un mese ad esser pace con l'Austria, se fosse impedita la rivoluzione degli stati Veneti; nel caso contrario non esservi più modo di conciliazione, non aver più freno l'ambizione di Buonaparte; abbracciare nell'ambizione sua la sovranità d'Italia. Soggiungeva poscia, che la rivoluzione dello stato Veneto era opera della congregazione segreta di Milano, alla quale partecipavano principalmente Porro Milanese, Lecchi, Gambara, Beccalosi da Brescia, Alessandri, Caleppio, Adelasio da Bergamo; dovere lui stesso, Landrieux, essere l'operator principale della rivoluzione, sapere i nomi, le forze, le macchinazioni dei congiurati, dovere aver principio la rivoluzione in Brescia, poi dilatarsi in Bergamo ed in Crema; uomini apposta, seminatori di denaro di ribellione, essere sparsi fra i contadini delle valli, matura non essere ancora la trama, avere ad essere fra otto o dieci giorni: erano i nove di marzo. Trattenessesi, esortava, in Milano Stefani, svelasse il tutto per un procaccio fidato a Battaglia, provveditore straordinario di Brescia; perchè, affermava, impedita la rivoluzione in Brescia, s'impedirebbe anche negli altri luoghi; intanto non si facessero carcerazioni di persone, perchè per questo si ritarderebbe, non s'impedirebbe l'esito della congiura: sapere il giorno dell'unione di tutti i congiurati, ne avvertirebbe egli, acciocchè tutti ad un tratto potessero arrestarsi, e così intieramente si renderebbe vana la diabolica cospirazione. Protestatosi dallo Stefani, volersene tornare a Bergamo, rispondeva Landrieux, non convenirsi, bensì andare a Brescia. Toccatasi dal Veneziano la gratitudine della repubblica rispondeva il Francese, premio non desiderare per allora, doversi il suo nome tenere segreto, finchè l'esercito fosse ridotto sulle Alpi per restituirsi in Francia; se Venezia allora si ricordasse di Landrieux, ciò gli sarebbe a grado. Trovava modo Stefani di tornare a Bergamo; ebbe raccontato il fatto ad Ottolini. Scriveva il podestà prestamente al provveditore straordinario Battaglia. Ma i congiurati, forse per aver avuto sentore, o lingua degli avvisi dati da Landrieux, furono più presti a fare, che Ottolini e Battaglia ad impedire.

Era la mattina dei dodici marzo, quando un moto insolito si manifestava in Bergamo, i congiurati chiamavano il popolo a libertà; predicavano, ajutare i Francesi l'impresa; divisi in varie squadre giravano per la città; fermavansi tratto tratto ai capi delle strade, poi di nuovo marciavano; guardie Francesi raddoppiate alle porte, cannoni condotti dal castello in piazza, due rivolti al palazzo; interrogato il comandante Francese dal podestà, che cosa volesse significar questo, accusava pattuglie insolite di soldati Veneziani e della sbirraglia. Erano in Bergamo due compagnìe di cavallerìa Croata, due di fanti d'oltremare, tre d'Italiani, forse con tutto questo trenta sbirri; non montavano fra tutti a quattrocento: i Francesi quattro mila, se non mentivano le polizze, perchè per altrettanti forniva i viveri la provincia. Di quei pochi, col castello in mano, con tutte le artiglierie in suo potere temeva il comandante. Insomma nasceva il romore, atterriti gli amatori dello stato vecchio, imbaldanziti gli amatori del nuovo. Lefevre, comandante per Francia, fatti chiamare a se i deputati alle provvisioni, intimava loro, avessero a sottoscrivere il voto per la libertà, ed unione del Bergamasco alla repubblica Cispadana: se nol facessero, ne anderebbe la vita. In questo mezzo due uffiziali repubblicani, l'Hermite e Boussion, presiedevano ai voti per la libertà, ed unione alla Cispadana. Sottoscrivevano, alcuni per amore, molti per forza. Era un andare e venire, una confusione, un trambusto incredibile. Scendeva la notte intanto, e rendeva più terribile l'aspetto delle cose. In questo mentre si creava il municipio; toglievano i repubblicani lo stendardo Veneto, che ancora sventolava sulle mura del castello. Era ancor libero Ottolini, instava presso a Lefevre comandante, della santità dei neutri ammonendolo. Ma Lefevre, deposta in tutto la visiera, faceva udire questo suono, che il popolo di Bergamo era libero, che per questo egli aveva fatto torre lo stendardo Veneto, ostacolo alla libertà; che le intraprese lettere del podestà (quest'erano le lettere con le quali Ottolini mandava agl'inquisitori di stato la nota dei congiurati, e che erano state intercette ed aperte da Lefevre) gli servivano di regola; che però egli, Ottolini, avesse a sgombrar tosto da Bergamo; quando no, il manderebbe carcerato a Milano. Cacciare dalla propria sede sotto pena di esilio e di carcere un rappresentante pubblico di un governo, è oltraggio tale, che niun altro può esser maggiore, e solo avrebbe bastato, non solamente a giustificare, ma ancora a necessitare qualunque presa d'armi, ed anzi una formale dichiarazione di guerra da parte del senato Veneziano contro la Francia, se questa non satisfacesse, come effettivamente non satisfece. Mentre il comandante minacciava Ottolini, sopraggiungevano l'Hermite e Boussion, e con loro i conti Pesenti ed Alborghetti, in divisa e nappa Francese. Di bel nuovo intimavano ad Ottolini, partisse subito, o sarebbe mandato a Milano. Partiva il podestà alla volta di Brescia, lasciando Bergamo in poter dei novatori, i soldati Veneti, prima disarmati, poi mandati a Brescia.

Il nuovo magistrato municipale mandava fuori un manifesto per informare, come diceva, il popolo sovrano, che i municipali erano entrati in ufficio. Scriveva quindi il giorno medesimo in nome del popolo sovrano di Bergamo alla repubblica Cispadana, avere Bergamo conquistato la libertà, desiderare collegarla con quella della Cispadana; l'accettassero in amicizia, dessergli quella del popolo Cispadano. «Viviamo, continuavano, combattiamo, e moriamo, se fia d'uopo, per la causa medesima: al medesimo modo debbono vivere i popoli liberi: viviamo adunque uniti per sempre voi, Francesi, e noi».

Pubblicavansi frequenti scritti, parte serj, parte faceti, parte schernevoli sul lione di San Marco, sui piombi di Venezia, sugl'inquisitori di stato, sulla tirannide d'Ottolini, sull'aristocrazia, sull'oligarchia, e simili altre parole greche; strana occupazione di menti del condannare in altri ciò che era in se, perchè dei piombi, e degl'inquisitori si può domandare, che altra cosa fossero i ministri di polizia del direttorio e di Buonaparte, se non inquisitori di stato, e se non abbiano fatto arrestare, e tener prigione senza processo più gente in quindici anni, che gl'inquisitori di Venezia in tre secoli. Si può anche domandare, se i castelli di Vincenna, di Ham, e di Pietra Castello non fossero piombi, e se il comandante di Milano non esercitasse maggior tirannide contro coloro che non amavano lo stato nuovo, che Ottolini contro quei che non amavano il vecchio. Quanto all'aristocrazia ed all'oligarchia, gli uomini dritti, e che non si lascian prendere alle grida, sapranno ben essi con qual nome chiamare uno stato, come quello era di queste estemporanee repubbliche Italiane, in cui un comandante militare comandava a pochi gridatori di libertà, questi pochi molestavano con ischerni, con tasse, con prigionie, e con esilj l'universale dei popoli. Io temo che da tutto questo chi mi legge creda, ch'io non sia amico della libertà; ma queste cose io dico appunto, perchè sono; imperciocchè il peggior male che si sia fatto alla libertà, è l'aver chiamato col suo nome la tirannide. Trovomi in questo concorde col generoso Parini: ed ancor io, diceva egli, amo la libertà, ma non la libertà fescennina.

Intanto i novatori, non essendo senza sospetto sugli abitatori delle campagne, mandavano uomini fidati a predicare la libertà, rizzavano alberi, creavano municipali, gridavano contro l'aristocrazia: i popoli aombravano, non sapendo che cosa queste strane fogge si volessero significare. Non si muovevano in favor dello stato nuovo, perchè non l'intendevano, e non vedevano qual bene avesse in se: neppur si muovevano in favor del vecchio, perchè il caso improvviso di Bergamo gli aveva fatti attoniti e temevano i Francesi che vi erano mescolati. Arrivavano poscia Cispadani, Transpadani, Polacchi, ogni sorte di patriotti, e facevano un predicare, uno scrivere, un festeggiare incredibile.

Quivi non si rimanevano le disgrazie della repubblica veneziana. Rivoltato Bergamo, volevano far mutazione in Brescia per vieppiù stabilire nella divozione altrui quelle provincie. Non aveva omesso Ottolini, quando ancora era in ufficio, d'informare il provveditore straordinario Battaglia della trama che si macchinava contro di questa città e gli aveva mandato il nome dei congiurati, dei quali non si era punto ingannato, consigliandolo ad aspettare che tutti fossero uniti, il che doveva accadere, secondo gli avvisi di Landrieux, il ventuno del mese, e ad arrestargli, e ad uccidergli. Inoltre il rappresentante Veneto a Milano Vincenti scriveva continuamente al provveditore straordinario, stesse avvertito, perchè la congiura era vicina ad aver effetto; si armasse, non si fidasse del comandante Francese del castello di Brescia, perchè s'intendeva coi congiurati. Tutte queste cose turbavano l'animo del provveditore, e lo tenevano sospeso, perchè l'uccidere i congiurati non gli pareva sicuro in tanta contaminazione di spiriti, massimamente pensando ch'essi appartenevano alle più principali famiglie di Brescia. Da un'altra parte il far venire soldati da Verona gli pareva dar troppo sospetto, temendo dei Francesi; nè anco quei soldati potevano esser molti. Ristringeva in Brescia le squadre di cavallerìa sparse nel contado; ma erano poche genti. Chiamava a se i Lecchi, i Gambara, i Fenaroli, e gli altri amatori di novità, e gli accarezzava, ma senza frutto. Non sapeva a qual partito appigliarsi; le artiglierìe in mano dei Francesi; il castello poteva fulminare la città. Scriveva Battaglia a Buonaparte, col quale aveva qualche entratura d'amicizia, macchinarsi in Brescia contro lo stato da gente scellerata sotto nome di protezione Francese; e stantechè tutte le artiglierìe Venete erano in poter suo, richiederlo, che lo accomodasse di sei od otto, perchè si potesse difendere: richiederlo, oltre a ciò, vietasse ai soldati Lombardi il passo per la città, frenasse chi si vantava della protezione di Francia. Dei cannoni nulla rispondeva Buonaparte; dei Lombardi e del frenare rescriveva, non doversi perseguitar gli uomini in grazia delle loro opinioni, non esser delitto se uno inclinava più ai Francesi che ai Tedeschi, come se in questo caso si trattasse tra Francesi e Tedeschi, e non tra ribelli ed uno stato al quale egli aveva tolto i mezzi di difesa: e come se ancora si trattasse di opinioni e non di fatti, e di congiure contro lo stato. Desiderava finalmente di veder il provveditore. Accrescevano il pericolo ed il terrore la rivoluzione di Bergamo. Le cose si avvicinavano all'estremo fine.

Ecco la sera dei diciasette marzo arrivare improvvisamente le novelle, essere giunti a Cocaglio circa sessanta ufficiali Francesi condotti da un Antonio Nicolini, Bresciano, ajutante di Kilmaine, ed impedire il passo ad una squadra di cavallerìa, che da Brescia mandava il provveditore a Chiari. S'aggiungevano poco stante altri perturbatori, perchè una massa di circa cinquecento tra Lombardi e Bergamaschi, guidati da capi Francesi, si erano congiunti coi primi, ed armati con due cannoni, certamente avuti dai Francesi, perciocchè portavano lo stemma imperiale d'Austria, viaggiavano verso Brescia. La mattina dei diciotto già erano vicini: il comandante di Francia faceva in questo punto aprir le cannoniere del castello, che miravano al palazzo. Dei congiurati, quasi tutti nobili, chi si era ritirato in castello, chi andato all'incontro dei Lombardi, e chi sparso in varj luoghi eccitava il popolo a ribellarsi. Voleva Mocenigo podestà, che si armassero i soldati della repubblica, e con la forza si resistesse ai ribelli; Battaglia titubava per paura dei Francesi, dei nobili, e di tutto: certo, il minor male che si possa dire di lui, è, che ebbe paura: ma forse l'amicizia che aveva con Buonaparte nocque alla repubblica. Mandava due uffiziali ai ribelli per udire quello, che si volessero. Rispondevano, Lecchi il primo, volere per amore o per forza liberare il popolo Bresciano dalla tirannide Veneta, aspettare in ajuto loro diecimila soldati, e molti Francesi: badasse bene il provveditore a quello che si facesse, perchè se resistesse, andrebbe Brescia a fuoco ed a sangue. A questo suono Battaglia, non so se mi debba dire intimorito, o peggio, raccoglieva tutti i suoi soldati nei quartieri, e dava ordine che non resistessero; licenziava al tempo stesso le guardie del palazzo, e si metteva in tutto a discrezione di coloro che volevano spegnere il dominio di quel principe, che aveva in lui collocato tanta fede. Mocenigo, veduto la terra abbandonata da quello che poteva più di lui, si fuggiva. Intanto il popolo stimolato dai congiurati, e già  essendosi avvicinati alle mura i novatori di fuori, tumultuava, gridando libertà. Accresceva l'impeto l'apparire di un Pisani, stato molto tempo nei piombi: le grida contro i Veneziani tiranni montavano al cielo. Sottomessi gli amatori dell'antica repubblica dal popolo tumultuante, dalla gente armata che veniva di fuori, dalla connivenza manifesta dei repubblicani di Francia, dall'attitudine minacciosa del castello pronto a fulminare, poche, chiuse, ed ordinate a non resistere le soldatesche Veneziane, fu in poco d'ora Brescia ridotta in potestà  dei novatori. Cercavano Mocenigo per maltrattarlo; ma non fu trovato. Arrestavano Battaglia, e per poco stette che non Io uccidessero. Lo serravano poscia in castello, dove era custodito da soldati Francesi, opera certamente meritevole di ogni riprensione; perchè se era brutta cosa il secondare la ribellione, bene era peggiore il farsi complice dei ribelli col tener carcerato un magistrato principalissimo di una repubblica, alla quale la Francia continuava a protestare amicizia.

Udivansi con grandissimo terrore le novelle di Bergamo e di Brescia a Venezia. Scriveva il senato, di cui queste cose molto angustiavano l'animo, le sue querele al ministro Lallemand; le scriveva al nobile Querini in Francia. Si rispondeva, che non si sapeva capire, che i Francesi non s'ingerivano, che la Francia era amica a Venezia, che qualche cosa si doveva pur dare alla natura delle soldatesche. Ma l'importanza era in Buonaparte, divenuto padrone della somma delle cose in Italia. Però mandava il senato appresso a lui i due Savj del collegio Francesco Pesaro, e Gian Battista Corner, affinchè gli dimostrassero, quanto offendessero la neutralità  e la sovranità della repubblica le cose accadute in Bergamo ed in Brescia per opera dei comandanti Francesi, e quanto fossero contrarie alle protestazioni di amicizia, che la repubblica di Francia continuamente, ed anche recentemente aveva fatte a quella di Venezia. Oltre a ciò di nuovo, ed asseverantemente protestassero dell'incorrotta fede, e della costante amicizia del senato verso la Francia; stringesserlo a disappruovare pubblicamente la condotta dei comandanti delle due città ribellate, ed a restituire i due castelli, fonti evidenti della ribellione; richiedesserlo in fine, che consentisse, che il senato con le armi in mano rimettesse sotto l'obbedienza i ribelli. Trovato in Gorizia il generale repubblicano, espostogli il fatto dai legati, rispondeva, non abbastanza ancora essere sicure le sorti della guerra, perchè potesse restituire alla repubblica i castelli occupati: potrebbe il senato fare quanto gli sarebbe a grado per sottomettere i ribelli, purchè le genti Francesi, e gl'interessi loro non ne fossero offesi: del comandante di Bergamo, perchè questi più di quel di Brescia si era mescolato nella rivoluzione, ordinerebbe, fosse condotto a Milano e processato; sarebbe, se colpevole, castigato: allegava essere sincera la fede della Francia verso Venezia. Trapassando poscia più oltre, si offeriva ad usare le proprie forze per ridurre i novatori a divozione del senato, e che ove ne fosse richiesto, il farebbe. Toccava finalmente, che sarebbe bene, che Venezia più strettamente si congiungesse in amicizia colla Francia.

Covava in tutto questo una insidia: perchè mentre affermava Buonaparte, essere in potestà del senato il fare quanto gli parrebbe conveniente per ridurre all'ordine i ribelli, pubblicava Landrieux a Bergamo, forse volendo, per essersi effettuato quello che forse egli aveva voluto impedire, ricoprire con mostrar severità  i sospetti, che potevano concepirsi di lui dai repubblicani di Francia e d'Italia, che nissuna gente armata sarebbe lasciata entrare nè in Brescia, nè in Bergamo, e che se alcuna vi si appresentasse, questa avrebbe assalito, come nemico, con tutte le sue forze. Ma le cose da più alta sede pendevano che da Landrieux, perchè visitato a Parigi dal nobile Querini uno dei cinque del direttorio, e dettogli, che poichè i Francesi protestavano, non volersi mescolare nel governo interno delle città Venete, doveva riuscire cosa indifferente al direttorio, se il senato rimettesse nel dovere i Bergamaschi, rispondeva risolutamente il quinqueviro, non lo sperasse, e che finchè fossero in Bergamo truppe Francesi, non l'avrebbe mai il direttorio permesso. Replicato dal Querini, che di tale divieto non comprendeva la ragione, soggiungeva il quinqueviro, ciò esser chiaro, perchè i Francesi essendo più forti dei Veneziani, a loro stava a comandare in quei luoghi; le quali voci certamente sono da stimarsi barbare; perchè bene si sa, e pur troppo, che queste cose spesso si sono fatte; ma l'asseverare con tanta fronte, che sia diritto e giusto farle, è nuovo del tutto. Terminava il quinqueviro dicendo, che infine non toccava alla repubblica di Venezia a comandare alla Francese, e che vedeva bene, che i discorsi del Quirini dimostravano, che il governo Veneto non si fidava nella lealtà  del direttorio, ma che se così fosse, avrebbe potuto farlo pentire. Da ciò si vede, quale concetto si debba fare della condiscendenza di Buonaparte. In tale modo si sollevavano dai capi dell'esercito repubblicano i sudditi contro Venezia, ed a Venezia si vietava che gli sottomettesse.

Alle gravissime proposte del capitano di Francia si scuotevano i legati, parendo loro, come era veramente, cosa enorme, pericolosa, e di pessimo esempio, che soldati forestieri si adoperassero per tornare a divozione i ribelli della repubblica. Per la qual cosa negavano la offerta, restringendosi con dire, che poichè i castelli erano in mano dei Francesi, e servivano di appoggio ai turbatori dell'antico stato, ragion voleva, acciocchè si pareggiassero le partite, ch'ei facesse qualche dimostrazione pubblica per disappruovare i moti, che si erano suscitati. Al che non consentendo rispondeva, che in mezzo all'ardore di quelle nuove opinioni che molto avevano ajutato le sue armi, sarebbe certamente incolpato, se ora si dimostrasse avverso a coloro, che si erano scoperti fautori del nome e delle massime di Francia; che solo a ciò fare si sarebbe piegato, quando il direttorio precisamente glie l'avesse comandato. Tornava poscia sul parlare di più stretti vincoli d'amicizia colla Francia, proponendo per esempio il re di Sardegna, ed affermava, esser questo il mezzo migliore per frenar le rivoluzioni. Le quali esibizioni ed esortazioni, chi si farà  a considerare fino a qual termine già fossero trascorse le cose, e le offerte fatte all'imperatore Francesco, saranno testimonio certo, ch'elle avevano tutt'altro fine, che la salute di Venezia. Del resto, senza tanti giri di parole, e serbando anche in sua potestà, per sicurezza del suo esercito, i castelli di Bergamo e di Brescia, bastava bene che il generalissimo ordinasse, o che con un cenno solo significasse, che Bergamo e Brescia ritornassero all'obbedienza di Venezia, che i magistrati instituiti dai novatori cessassero l'ufficio, e che quei del senato fossero restituiti al loro, perchè tutte queste cose avessero incontanente la loro esecuzione. Anzi il solo dichiarare, ch'egli disappruovava quelle due rivoluzioni, e che contro la sua volontà erano state effettuate, avrebbe rintegrato subitamente nelle due città ribelli il consueto dominio. Il non averlo voluto fare dimostra viemaggiormente i disegni sinistri. Strana esibizione di Buonaparte era questa di voler far tornare all'obbedienza quelle terre, ch'egli stesso aveva incitato a ribellione; imperciocchè, senza andar più vagando in questa materia, certa cosa è, che per ordine espresso di lui furono fatte ribellare ai Veneziani le città  Veneziane, di cui si tratta. Rispondevano i legati della repubblica, volere il senato l'amicizia di Francia, dell'alleanza risolverebbe quando, ritratta l'Europa da quell'immenso disordine, e ricomposta in quieto stato, potrebbe con sicurezza di consiglio deliberare. A queste parole si alterava gravemente il vincitore; poi tornando sull'antiche querele, acerbamente rimproverava ai Veneziani il ricovero dato al conte di Provenza ed al duca di Modena, e l'aver ricettato i tesori di Modena e d'Inghilterra; a questo passo dimostrava voglia di por mano su di questi tesori; il che palesava, quanto fosse in lui lo sprezzo della neutralità.

Mentre il generalissimo di Francia, parte accarezzava, parte minacciava a Gorizia i legati di Venezia, lusinghiere parole pubblicava Kilmaine, generale, che reggeva la Lombardia. Biasimava il comandante di Bergamo del non averlo fatto consapevole degli accidenti seguiti, sperava, non ne fosse partecipe, gli proibiva di mescolarsene; se il facesse, il punirebbe, essere neutralità fra le due repubbliche, volere il generalissimo, volere lui stesso, che se le portasse rispetto. Se questa lettera di Kilmaine fosse vera o finta, non si sa, perchè è di data incerta. Del resto l'opera del comandante nell'ajutare la ribellione di Bergamo, era notoria, non solo in questa città, ma ancora in tutta Lombardia, e metterla in dubbio era un'astuzia ridicola; nè il comandante medesimo fu mai tradotto in giudizio.

Come i fatti rispondessero alle parole di Kilmaine, o vere o finte che si fossero, il dimostrava pochi giorni dopo la rivoluzione di Crema, opera non solo certa, ma anche evidente delle truppe Francesi; perchè il giorno ventisette marzo, appresentatasi una squadra di cavallerìa di Francia alla porta, chiedeva il comandante l'entrata, promettendo di non inferire molestia, e sarebbe dimani partito per Soncino. Introdotti, si portarono quietamente quel giorno. Ma il dì seguente comparivano due compagnie armate della medesima nazione; una verso la porta Ombriano, l'altra verso quella del Serio, nè così tosto si erano avvicinate alle mura, che le truppe di dentro aprivano le porte, per modo che, dato il varco, e per far più presto, scalando alcuni le mura, si facevano padroni della terra. Correvano quindi a disarmare i soldati Veneziani: s'impossessavano dei quartieri, occupavano il palazzo pubblico, minacciavano nella vita con l'armi inarcate il podestà, e, disarmato, costringevano a dismettere l'ufficio. Occupavano al tempo stesso la camera, il monte, il fondaco, gli uffici, le cancellerie. Taciute tutte le altre iniquità  usate a Venezia, se questa sola della violenta occupazione di Crema non bastasse per giustificare il senato a sorgere subitamente con l'armi in mano contro i Buonapartiani, il diranno tutti coloro, ai quali sta più a cuore la giustizia, che la forza.

Arrivava a Crema l'Hermite già partecipe del rivolgimento di Bergamo, e si metteva all'atto di blandire il podestà con parole soavi, dell'ufficio dolcemente esercitato lodandolo. Somiglianti parole usava l'ufficiale del direttorio, che, distrutta per forza e per inganno l'autorità sovrana di Venezia sopra Crema, se ne giva affermando, che i Francesi erano buoni amici della repubblica di Venezia. Mescolaronsi in questo moto pochi uomini del paese, fra i quali principalmente comparirono il marchese Gambazocca, ed i conti Asperti, Locatelli, e Romini venuti da Bergamo. Creavasi il municipio, piantavasi l'albero, ballavavisi intorno, appiccavasi una fune al collo del lione di San Marco, come se fosse tempo da ridere; facevasi la luminaria, gridavasi libertà. Il podestà fu lasciato partire senza offesa. Così Crema per opera dei soldati Buonapartiani fu ridotta a divozione dei novatori. Kilmaine, che aveva scritto la bella lettera pel fatto di Bergamo, se ne stette tacendo per quel di Crema.

Le rivoluzioni di Bergamo, di Brescia e di Crema facevano sorgere nuovi pensieri tanto nei capi Francesi, quanto nel senato Veneziano, così come ancora fra i sudditi, che si conservavano fedeli. Vedevano i primi, che l'accessione di quelle tre principali città d'Oltremincio era di somma importanza ai loro ulteriori disegni; perchè oltre al più facile vivere per la ricchezza di quei territorj, i novatori, che gli secondavano, divenivano e più audaci e più numerosi. Faceva in questo loro esempio grandissimo frutto, e nuova gente novatrice, siccome un nembo ne tira un altro, si accostava. Principale fondamento a tutto questo moto era Brescia, città ricca, popolosa, abbondante d'uomini fieri e bellicosi. Quivi ancora gli ottimati, o che amassero la libertà, o che avessero gelosia contro i patrizi Veneti, o che solamente si fossero lasciati stravolgere dalla vertigine comune, favorivano la rivoluzione. Nel che Brescia si diversificava da Bergamo, dove i più fra i ricchi si mostravano avversi. Accorrevano poi a Brescia Dombrowski co' suoi Polacchi, Lahoz co' suoi Italiani, e davano incentivi con le parole, animo con le forze, esempio con l'ordinate schiere. Pavesi, Lodigiani, Milanesi, Bergamaschi, Napolitani vi arrivavano continuamente, chi con lingue pronte per orare, chi con penne per iscrivere, chi con armi per combattere. La sollevazione, l'impeto, la concitazione andavano al colmo; le minacce e gli scherni che facevano contro i patrizi, erano incredibili. Già  si persuadevano, che alla loro prima giunta dovesse andar sossopra tutta, ed a ruina la Veneziana repubblica. Lahoz, Gambara, Lecchi, ed un Mallet, generale di Francia, anch'egli mescolato in questi moti, trionfavano. Queste cose vedevano con gli occhi loro i capi dell'esercito Francese, e le passavano: se le sapeva Buonaparte, e le passava con troppa più sopportazione, che si convenisse alla sincera fede.

Preparata la strada alla rivoluzione delle altre parti della terraferma Veneta situate sulla destra del Mincio, per mezzo massimamente della potente Brescia, innalzavano i sollevati l'animo a maggiori cose, proponendosi di turbare anche i paesi posti sulla riva destra dell'Adige, principalmente Verona tanto importante per la sua grandezza, e per essere passo del fiume. Questo era anche risolutamente l'intento di Buonaparte; perciocchè più di un mese prima che sorgesse la sollevazione di Verona, aveva dato ordine a' suoi comandanti in questa città, che procurassero la rivoluzione medesima con tutte le forze, e con tutte le arti loro. Nel che con maneggi, parte segreti, parte palesi il secondavano. Mentre tutti quest'inganni si tramavano, non erano ancora le cose sicure pei Francesi, che tuttavia si trovavano a fronte dell'arciduca sulle rive del Tagliamento. Il capitano Pico, che aveva anche avuto al medesimo tempo carico da Buonaparte di macchinare in Verona contro i Veneziani, gli rappresentava, che il moto in lei sarebbe riuscito pericoloso, e di esito molto incerto, stantechè l'arciduca gli stava ancora davanti molto poderoso: esortava pertanto, aspettasse tempo più propizio. Rispondeva, gisse pure, e sommuovesse Verona. Poi soggiungeva, che se la sommossa andasse bene sarebbe libera l'Italia, se male, la Cisalpina repubblica (con tal nome dopo la conquista di Mantova aveva chiamato la Transpadana) almeno resterebbe. Dette queste parole, accommiatava Pico, raccomandandogli, s'intendesse con Beaupoil e con Kilmaine, e gli desse ragguaglio di tutto che accadesse: desse intanto ricovero in Mantova ai patriotti che fossero in pericolo, e gli rendesse sicuri, che sarebbero liberi. Nè in Brescia stavano oziosi i novatori rispetto a Verona; perchè colà mandavano agenti segreti, parte da Brescia medesima, parte da Desenzano, parte da Lonato, affinchè cooperassero alla sollevazione. Così Verona era insidiata da Buonaparte, da' suoi capitani, dai novatori armati, dai novatori non armati, Italiani, Polacchi, Svizzeri, e Francesi. Non ostante tutto questo il canuto Lallemand, ed il giovane Buonaparte sempre protestavano a nome di Francia dell'incontaminata fede, e della sincera amicizia verso la repubblica Veneziana.

Le insidie ordite per ribellar Verona erano venute a notizia del governo Veneto, non solamente per le dimostrazioni tanto palesi dei Bresciani sollevati, ma ancora per segreti avvisi di alcuni fra quelli stessi che macchinavano. Pensava pertanto al rimedio contro sì grave pericolo. Vi mandava, con dar voce di cagioni diverse dai sospetti, parecchi reggimenti di Schiavoni: vi mandava due provveditori straordinari, Giuseppe Giovanelli, giovane animoso e prudente, e Niccolò Erizzo, uomo di natura molto calda, ed amantissimo del nome Veneziano. Ma perchè le radici della forza erano nel paese, dava facoltà amplissima al conte Francesco degli Emilj, personaggio ricchissimo e di molto seguito, acciocchè armasse la gente del contado, promettesse e desse soldi, ogni e qualunque cosa, che in poter suo fosse, facesse, per isventare le macchinazioni dei repubblicani. Accettava volentieri il carico il conte Emilio, e tra l'autorità del suo nome, e l'efficacia delle sue ricchezze, faceva non poco frutto, soldando gente, provvedendo armi, ammassando munizioni, traendo a se buoni e cattivi per tenere in piede l'insidiata repubblica. Faceva compagni alla sua impresa il conte Verità, ed il conte Malenza co' suoi due figliuoli, uomini anch'essi molto infiammati nel difendere l'antico dominio dei Veneziani. Il secondavano efficacemente i preti ed i frati con le esortazioni loro, alle quali maggior forza accrescevano lo strazio testè fatto del papa, e lo spoglio di Loreto: gli animi già infieriti per tante ingiurie, di maggior veleno s'imbevevano per l'oltraggiata religione. Accresceva lo sdegno l'orribile governo, che facevano delle province le truppe repubblicane, sì quelle che stanziavano, come quelle che viaggiavano. Vieppiù innaspriva i popoli una ingiustizia manifesta, perchè i bagagli rapiti dai Tedeschi in guerra, eran fatti pagare dai comuni. Quel dei Due Castelli, situato sull'agro Veronese, e composto appena di cinquecento abitatori, per esservi stato in una sortita da Mantova rapito dai Tedeschi non so che carro di bagaglio di generali, fu posto da Buonaparte ad una taglia di cencinquanta mila franchi, taglia tanto esorbitante per quello piuttosto casale che villaggio, che era anche ridicola. Perchè poi non la potevano pagare, vi mandava Junot con un grosso di cavalleria a vivervi a discrezione. Queste enormità si moltiplicavano; i popoli, che non vedevano altra cagione, che una insolenza fantastica, od una sete di rapire insaziabile si riempivano di sdegno. Giuravano di andar all'incontro di ogni più grave pericolo, di sopportare ogni più crudele disgrazia piuttostochè non vendicarsi, e non tentare di sottrarsi a sì orribile dominazione. Molto sangue Francese fu certamente versato, e pur troppo barbaramente a Verona, e fu sangue, la maggior parte, d'innocenti. Ma gli autori veri e primi di sì cruda carnificina, non inganneranno punto la giustizia divina, nè il giudizio dei posteri. Sa Dio, e sapranno i posteri, se contro il Veneziano governo, o contro Buonaparte, se contro i conculcati o contro i conculcatori, se contro il conte Francesco degli Emilj, o contro coloro, che il generalissimo di Francia secondavano nell'opera rea prima di far ribellar Verona contro il senato, poi di vendere Venezia, se contro chi non voleva essere tradito, o contro chi voleva tradire sia quel sangue sparso, e contro chi gridi vendetta.

Dava nuovo animo ai Veronesi il fatto di Salò, perchè, andata contro questa terra una grossa squadra di Bresciani, mista di Polacchi e di qualche Francese, fu rotta con non poca strage dai Salodiani, aiutati dagli abitatori della valle di Sabbia; i quali, siccome quelli che erano molto affezionati al nome Veneziano, erano accorsi per conservare la città sotto la divozione dell'antico principe. Quest'erano le masse ordinate dall'Ottolini ai tempi del suo ufficio in Bergamo. Lodevole esempio di fedeltà e di ardire dava nella fazione di Salò il provveditore Francesco Cicogna; dal che si può argomentare quale mutazione avrebbero fatto le cose di Venezia, se il senato avesse permesso, che Ottolini desse dentro, quando ancora era tempo, col suo stormo, e se Battaglia tale fosse stato quali furono Ottolini e Cicogna. I prigioni fatti a Salò, che arrivarono a più di ducento, furono condotti a trionfo per Verona, i sudditi carcerati, come rei di stato. La vittoria dei Salodiani rinvigoriva gli animi sbigottiti in tutta la terraferma Veneta. Armavansi a gara i popoli, e protestavano della fede loro verso il senato. Questo moto fu apposto a delitto ai Veneziani da Buonaparte, e dagli storici adulatori di lui, i quali per altro confessano, che in quel momento stesso, e già da lungo tempo prima si trattava di far indenne l'Austria a spese di Venezia. Adunque doveva Venezia darsi di per se stessa vinta, e disarmata in mano di chi sotto colore di amicizia la tradiva? Certamente doveva Venezia in quell'estremo frangente, in cui era caduta, non per colpa propria, ma d'altrui, difendersi: bene gli uomini generosi, gli amatori massimamente del nome e del costume Italiano le daranno eterno biasimo del non essersi abbastanza, ed a tempo difesa, e con dolore vedranno nei ricordi delle storie scritto i posteri, che l'opera della sua distruzione sia stata frutto, tanto della debolezza de' suoi reggitori, quanto della malvagità di amici fraudolenti; poichè fuori di dubbio è, che, passando anche sotto silenzio le passate occasioni, se dopo la vittoria dei Salodiani, le disposizioni tanto incitate dei Veronesi, ed i preparamenti fatti nell'estuario, in un con le vittorie di Laudon nel Tirolo e con le masse Tirolesi e Croate, avesse il senato fatto una forte risoluzione coll'unirsi all'Austria, e col dichiarare la guerra alla repubblica di Francia, si sarebbe trovato Buonaparte in gravissimo pericolo, e l'antico dominio dei Veneziani sarebbe stato preservato. Ma l'aver voluto aspettare l'estrema ingiuria, quando già le ingiurie avevano oltrepassato l'estremo, e l'aver abbandonato i sudditi, quando volevano difenderla, fu cagione della ruina della repubblica.

Le insidie contro Venezia alle raccontate cose non si rimanevano. I moti della terraferma erano spontanei, e solo cagionati dalla rabbia concetta dai popoli infastiditi delle insolenze, e sdegnati dalle ingiurie dei forestieri. Perciò il senato gli poteva qualificare come opera non sua, e sempre protestare, quanto spetta alla direzione del governo, della perfetta neutralità. Ma i capi delle rivoluzioni in Italia, secondando il talento proprio, e credendo di far cosa grata al generalissimo, pensarono di fabbricare una menzogna, ed apponendo un atto falso ad uno dei magistrati più principali far in modo, che il governo Veneziano egli medesimo paresse colpevole di ree instigazioni contro i Francesi; della qual fraude nissuna si può immaginare nè più brutta, nè più diabolica. Inventarono adunque e pubblicarono un manifesto, attribuendolo a Battaglia, provveditore straordinario per la repubblica in terraferma, col quale si stimolavano i popoli a correre contro i Francesi, e ad uccidergli. Fu questo manifesto composto per opera di un Salvadori, novatore molto operativo di Milano, e rapportatore palese e segreto di Buonaparte, che poscia creatosi imperatore, l'abbandonò in miseria tale, che gittatosi in fiume a Parigi terminò con fine disperato una vita poco onorevole. Tornando al manifesto, fu egli stampato in un giornale a Milano, intitolato il Termometro politico, giornale che si scriveva in casa del Salvadori da patriotti molto migliori di lui, ma portati ancor essi dalla illusione e dalla vertigine di quell'età. Quantunque astutamente gli sia stata apposta la data dei venti marzo, uscì veramente ai cinque aprile, tempo opportuno perchè Buonaparte arrivato a Judenburgo a questo tempo, già offeriva gli spogli della repubblica, e già  fatto sicuro della pace con l'imperatore, non aveva più timore delle masse Veneziane. Così l'incitare contro i Francesi era pretesto di far uccidere i Francesi dai Veneziani, i Veneziani dai Francesi, e per trovar compensi all'imperatore a danni di Venezia. Il non aver fatto il generalissimo alcun risentimento contro gli autori di un fatto tanto grave, e che poteva e doveva costar la vita a tanti Francesi, pruova ch'ei ne fosse soddisfatto.

Il manifesto era quest'esso:

«Noi Francesco Battaglia per la serenissima repubblica di Venezia provveditore straordinario in terraferma.

«Un fanatico ardore di alcuni briganti nemici dell'ordine, e delle leggi eccitò la facile nazione Bergamasca a divenir ribelle al proprio legittimo sovrano, ed a far correre da una moltitudine di facinorosi prezzolati altre città, e provincie dello stato per sommovere anche quei popoli. Contro questi nemici del principato noi eccitiamo i fedelissimi sudditi a prendere in massa le armi, e dissipargli, e distruggergli, non dando quartiere o perdono a nissuno, ancorchè si rendesse prigioniero, certo che sì tosto gli sarà dal governo data mano, e assistenza con denaro, e truppe Schiavone regolate, che sono già al soldo della repubblica, e preparate all'incontro.

«Non dubiti nissuno dell'esito felice di tale impresa, giacchè possiamo assicurare i popoli, che l'esercito Austriaco ha inviluppato, e compiutamente battuti i Francesi nel Tirolo e nel Friuli, e sono in piena ritirata i pochi avanzi di quelle torme sanguinarie e irreligiose, che sotto il pretesto di far la guerra ai nemici devastarono i paesi, e concussero le nazioni della repubblica, che loro si è sempre dimostrata amica sincera e neutrale, e vengono perciò i Francesi ad essere impossibilitati di prestar mano e soccorso ai ribelli, anzi aspettiamo il momento favorevole d'impedire la stessa ritirata, alla quale di necessità sono costretti.

«Invitiamo inoltre gli stessi Bergamaschi, rimasti fedeli alla repubblica, e le altre nazioni a cacciare i Francesi dalle città e castelli, che contro ogni diritto hanno occupato, e a dirigersi ai commissarj nostri Pier Girolamo Zanchi, e dottor fisico Pietro Locatelli per avere le opportune instruzioni, e la paga di lire quattro al giorno per ogni giornata in cui militassero.

«Verona, 20 marzo 1797.

«Francesco Battaglia, provveditore straordinario in terraferma,

«Gian-Maria Allegri, cancelliere di Sua Eccellenza. Per lo stampatore camerale».

Questo manifesto si spargeva in copia dai patriotti e dai capi Francesi, massimamente da Landrieux. Nè credendo i macchinatori di questa fraude, che tutto l'operato fin qui bastasse, perchè i popoli vi prestassero fede, Lahoz, capo e guida di tutte le genti Lombarde e Polacche, e che mescolato in queste trame di rivoluzione ne conosceva bene il fondo, gli avvertiva con bando pubblico, che la neutralità era stata rotta dai tradimenti di Battaglia, il quale, soggiungeva, pazzamente si era persuaso, che «Voi altri contadini, privi in tutto di arte militare, sareste i vincitori dei Francesi, la prima nazione dell'universo pel coraggio, e la scienza della guerra. Sappiate adunque, che il generale Buonaparte ha ordinato, che Battaglia sia messo in ferri, ed impiccato; che saranno pure impiccati coloro, che v'inciteranno alla ribellione; le vostre case saranno arse, le famiglie desolate: uscite d'errore, e presto, deponete le armi, portatele al comandante di Brescia; mandategli deputati; quando no, perirete tutti».

Queste ingannevoli dimostrazioni si facevano dagli autori stessi del manifesto per far credere ai popoli, ch'ei fosse vero; e quei ferri, e quelle forche erano trovati bugiardissimi, perchè Battaglia, trovandosi allora in Venezia, non era in potestà di Buonaparte nè di farlo arrestare, nè di farlo impiccare. La verità della storia richiede oltre a ciò, che noi scriviamo, che il provveditore non era nemmeno per venire in potestà del generale; perchè quando Buonaparte distrusse Venezia, domandò la prigionia e la morte di tutt'altre persone che di quella di Battaglia, ancorchè egli fosse il più colpevole di tutti verso i Francesi, se opera sua fosse stato il manifesto: che anzi Buonaparte accarezzò Battaglia, e se lo tenne molto caro. Noi sappiamo, che il provveditore era partigiano di qualche riforma negli ordini dello stato; ma che Buonaparte avesse altre cagioni di amarlo, noi non vogliamo nè affermare nè negare, ancorchè troviamo scritto, che questo Veneziano abbia servito ai disegni del generale Francese più di quanto la libertà, e l'independenza della sua patria comportassero.

Allontanava da se Battaglia l'infamia del manifesto con ismentirlo: lo smentiva solennemente il senato. Ma nulla giovava; perchè i tempi erano più forti delle protestazioni, ed era strana veramente, e compassionevole cosa il vedere, che gl'innocenti cercassero di giustificarsi appresso i rei di un delitto, che essi rei contro gl'innocenti avevano commesso, e che a loro per distruggergli imputavano; condizione unica per certo, che sia stata al mondo, e degna veramente della malvagità di quei tempi.

Rivoltate le regioni d'oltre Mincio dall'antico dominio dei Veneziani, era a Buonaparte spianata la strada alla distruzione di quel nobile ed innocente stato. Restava, che le sue condizioni divenissero tanto sicure rispetto agli Austriaci, ch'ei potesse senza pericolo mandar fuori quello, che già da lungo tempo si era nell'animo concetto. A questo gli dava occasione la tregua sottoscritta coi legati dell'imperatore il dì sette aprile a Judenburgo; alla quale conclusione non si venne nè da una parte nè dall'altra, se non promessi, ed accettati i compensi a spese della repubblica Veneziana. Solo restava all'Austria qualche residuo di renitenza al consentire, per accomodar se, ad accettar le spoglie di un governo, dal quale non aveva ricevuto alcuna ingiuria, col quale era congiunta d'amicizia, e che anzi a motivo di questa sua amicizia si trovava ridotto a tali compassionevoli strette. A questo rimediava Buonaparte col far rivoltare lo stato dei Veneziani, anche sulla sinistra del Mincio; perchè se ripugnava all'Austria il nuocere a Venezia sotto il governo antico, bene sapeva che non le ripugnerebbe il nuocerle sotto il nuovo, odioso a lei pei principj, non congiunto con lei per alcun vincolo di amicizia. Non così tosto ebbe sottoscritto la tregua coll'imperatore, che incominciò le dimostrazioni ostili contro i Veneziani; il che mandò ad esecuzione in vari modi, ma che tutti tendevano al medesimo fine. Primieramente mandò il suo aiutante Junot con amare condizioni a fare un violento ufficio a Venezia non senza grave ferita alla dignità della repubblica. Arrivato Junot altieramente richiedeva per parte del generalissimo di essere udito incontanente in pien collegio dal serenissimo principe. Correvano allora i giorni santi; era il sabato, in cui per antico costume non sedevano i magistrati, intenti in quel giorno a celebrar nelle chiese i divini misteri. Avvertivanne Junot; ma egli, giovane impaziente mandato da un giovane impazientissimo, insisteva dicendo, o l'udissero subito, o appiccherebbe le cedole della guerra ai muri. Credettero i padri, che il derogare all'uso antico fosse minore scandalo di quanto era capace di commettere quel soldato, e consentirono ad udirlo la mattina del sabato. Introdotto in collegio, dov'erano adunati il doge, i suoi sei consiglieri, i tre capi della quarantia criminale, i sei savi grandi, i cinque di terraferma, ed i cinque agli ordini, leggeva, con parlare prima timoroso per la sorpresa, poi superbissimo per la natura, una lettera, che scriveva Buonaparte al doge il dì nove aprile da Judenburgo, ed era quest'essa: «Tutta la terraferma della serenissima repubblica di Venezia è in armi: in ogni parte sollevati ed armati gridano i paesani morte ai Francesi, molte centinaja di soldati dell'esercito Italico già sono stati uccisi; invano voi disappruovate le turbe raccolte pei vostri ordini. Credete voi, che nel momento in cui mi trovo nel cuore della Germania, io non possa far rispettare il primo popolo dell'universo? Credete voi, che le legioni d'Italia sopporteranno pazientemente le stragi, che voi eccitate? Il sangue de' miei compagni sarà vendicato: a sì nobile ufficio sentirà moltiplicarsi a molti doppi il coraggio ogni battaglione, ogni soldato Francese. Con empia perfidia corrispose il senato di Venezia ai generosi modi usati da noi con lui. Il mio aiutante, che vi reca la presente, è portatore o di pace, o di guerra. Se voi subito non dissolvete le masse, se non arrestate, e non date in mia mano gli autori degli omicidj, la guerra è dichiarata. Non è già il Turco sulle frontiere vostre, nissun nemico vi minaccia; d'animo deliberato voi avete inventato pretesti per giustificar le masse armate contro l'esercito; ma ventiquattr'ore di tempo, e non saran più: non siamo più ai tempi di Carlo Ottavo. Se, contro il chiaro intendimento del governo Francese, voi mi sforzate alla guerra, non pensate per questo, che ad esempio degli assassini, che voi avete armati, i soldati Francesi siano per devastar le campagne del popolo innocente e sfortunato della terraferma. Io lo proteggerò, ed egli benedirà un giorno fino i delitti, che avranno obbligato l'esercito Francese a liberarlo dal vostro tirannico governo».

Qui non è bisogno aggiungere discorsi per giudicare di così fatta intimazione. Solo si debbe avvertire che i paesani, che difendevano il loro sovrano, non si sarebbero mossi, e non avrebbero ucciso i soldati Francesi, se gl'insidiatori con mandato espresso del generale di Francia non avessero seminato la ribellione. Del resto alcuni pur troppo furono uccisi, ma non a centinaia, come la solita buonapartiana gonfiezza ebbe allegato. Taccio la villania di parlare con tali espressioni ad un principe, in cui era raccolta tutta la nazione Veneziana. Se questa è grandezza, come alcuni stimano, io non so che cosa sia piccolezza.

A tale vituperio ed a tanta indegnità una sola risposta era da farsi, se pure la umanità e la civiltà l'avessero permessa, e quest'era di tuffar in mare Junot, e di correre subitamente all'armi per veder quello, che volessero i cieli definire. Bene dovevano i Veneziani, non tuffar Junot, ma sì impugnar l'armi; ma nè i tempi nè gli uomini erano abbastanza forti in Venezia. Ridotto il principe di sì antica e nobile repubblica a condizione tanto abietta, rispose pacatamente, delibererebbe il senato; avere sempre nodrito sentimenti di lealtà e di amicizia verso la nazione Francese. Intanto le crudeli calunnie, l'incredibile insulto, le disgrazie imminenti avevano riempito l'animo dei circostanti d'orrore e di terrore.

Acerbe lettere scriveva il dì medesimo dei nove aprile il generalissimo a Lallemand: non potersi più dubitare, che l'armarsi dei Veneziani non avesse per fine di serrare alle spalle l'esercito di Francia; non aver mai potuto restar capace del come Bergamo, città fra tutte le altre degli stati di Venezia dedita al senato, si fosse armata contro di lui; meno ancora aver potuto comprendere come per calmare quel piccolo ammutinamento abbisognassero venticinque mila armati, nè perchè quando si era Pesaro abboccato con lui in Gorizia, avesse rifiutato la mediazione di Francia per ridurre ad obbedienza i paesi sollevati; gli atti dei provveditori di Brescia, Bergamo, e Crema, in cui si affermava, essere la sollevazione opera dei Francesi, essere bugie inventate a disegno per giustificare in cospetto dell'Europa la perfidia del senato Veneziano; avere il senato usato la occasione, in cui egli innoltratosi nelle fauci della Carintia, aveva a fronte il principe Carlo, per mandar ad effetto una fraude, che sarebbe prima d'esempio, se non fossero quelle ordite contro Carlo Ottavo, ed i Vespri Siciliani; essere stati i Veneziani più accorti di Roma, poichè avevano usato il momento, in cui i soldati erano alle mani con gli Austriaci; ma non aver ad essere i Veneziani più fortunati di Roma: la fortuna della repubblica Francese stata a fronte di tutta Europa, non si romperebbe nelle lagune Veneziane.

Dette queste cose, annunziava le accuse contro i Veneziani: avere una nave Veneziana, a fine di tutelare una conserva Tedesca, combattuto la fregata Francese la Bruna; essere stata arsa la casa del console a Zante, insultato il console stesso; averne mostrato allegrezza il governatore; diecimila paesani armati, e pagati dal senato avere ucciso tra Milano e Bergamo cinquanta Francesi; piene essere, malgrado delle promesse di Pesaro, di soldati Verona, Padova, Treviso; arrestarsi in ogni luogo gli amici della Francia; porsi a guida degli assassini gli agenti dell'imperatore; gridarsi per ogni parte morte ai Francesi; furibondi i predicatori pubblicare da ogni cattedra la volontà del senato, stimolare contro la Francia; vera ed effettiva condizione di guerra essere tra Francia e Venezia; saperlo Venezia stessa, che altro modo non trovava di giustificarsi, che il disappruovare con parole quelle masse, che coi fatti armava e pagava: domandasse adunque Lallemand, concludeva, a Venezia, che risolutamente rispondesse, se avesse pace o guerra con Francia: se guerra, partisse incontanente; se pace, domandasse che i carcerati per opinione, e di non altro rei che di amare i Francesi, fossero rimessi in libertà; che tutti i presidj, salvo gli ordinarj, quali erano sei mesi prima, uscissero dalle piazze di terraferma; che tutti i paesani si disarmassero, e si riducessero alla condizione di un mese prima; provvedesse il senato, che le cose fossero in terraferma tranquille e sicure, e non pensasse solo alle lagune; gl'incenditori della casa del console a Zante si punissero, e la casa si ristorasse a spese della repubblica; il capitano che aveva combattuto la Bruna, si punisse, ed il costo della conserva nemica protetta contro i patti della neutralità, si rimborsasse: quanto alle turbazioni di Bergamo e di Brescia, offerisse la mediazione della Francia per ridur di nuovo le cose allo stato quieto.

Faceva Lallemand l'ufficio, i comandamenti di Buonaparte al senato rappresentando. Del quale chi vorrà considerare il tempo, e le circostanze, non potrà non sentirsi commovere a grave sdegno contro chi il moveva, ed a non poca compassione verso chi era mosso; perchè vi si accusava la repubblica di Venezia di oltraggi, quando l'estremo oltraggio già era stato, non solo da lungo tempo meditato, ma recentemente concluso contro di lei, vogliam dire la vendita de' suoi stati; si accusava il senato d'incendj, di omicidj, di tiri di cannone commessi da particolari uomini, che il senato voleva e riparare e compensare all'accusatore, se veramente egli avesse voluto essere riparato e compensato: si offeriva la restituzione di Bergamo e di Brescia, quando appunto Bergamo e Brescia erano state fatte ribellare dall'offeritore, e nominatamente Bergamo e Brescia date in mano all'imperatore; si comandava che si disarmassero i popoli Veneziani, perchè amavano meglio esser Veneziani che Francesi ed Austriaci, ed appunto si comandava che si disarmassero, perchè il comandatore potesse meglio, e più comodamente dargli in preda ad un dominio forestiero; muovevansi lagnanze sui predicatori, come se i predicatori avessero dovuto inculcare piuttosto la tirannide forestiera che la signorìa paesana, e non fosse loro lecito il difendere la patria contro un tradimento; si voleva che il senato mantenesse la quiete nella terraferma, non con masse incomposte, ma con genti regolari, e poi quando mandava genti regolari, i comandanti Francesi negavano loro i passi pei ponti, per le strade, per le fortezze, e gridavano volere Venezia far guerra alla Francia; si domandava finalmente che il senato non pensasse solamente alle lagune, ma avesse cura anche della terraferma, quando già si era accusato, e minacciato il senato, solo perchè aveva armato l'estuario, per modo che l'armare ed il non armare era da Buonaparte imputato a delitto al senato. Insomma chi conosce i patti di Leoben già offeriti molti mesi prima dal generale del direttorio all'Austria, già concertati nella tregua dei sette, poi solennemente stipulati nei preliminari dei diciotto, conoscerà facilmente di che sapessero le parole di Buonaparte. Quel volere poi che si liberassero i carcerati per opinione, fra i quali si annoveravano non pochi Bresciani, Bergamaschi e Salodiani, e lo stesso Gambara, presi combattendo con le armi in mano contro il proprio principe, era oltraggio di sovranità, incentivo di ribellione.

Rispondeva per bocca del doge il senato a Buonaparte: «Nella somma amaritudine che ha sentito il senato nel conoscere dalle vostre lettere, avere l'animo vostro concetto sinistre impressioni sulla ingenuità della nostra condotta, ci riesce di qualche conforto il vederci aperta la via di poterle pienamente dileguare con le pronte e precise nostre risposte. Vuole il senato, ed ha sempre voluto vivere in pace ed amicizia con la repubblica di Francia, e piacegli in questo punto ratificare solennemente questa sua risolutissima volontà. Nè potrebbe certamente una così aperta, e così solenne dichiarazione venir oscurata da accidenti, che con lei non hanno correlazione alcuna: poichè, sorta la fatale, e del tutto inaspettata rivoluzione nelle città nostre oltre Mincio, la fede e l'amore delle popolazioni le fece correre spontaneamente all'armi col solo intento di frenar la ribellione, e di respingere le violenze dei sollevati. A questo unico fine implorarono esse dal proprio governo assistenza, e presidj; che se in tanto turbamento di cose sorsero alcuni accidenti disgustosi, alla confusione inevitabile debbono unicamente, non alla volontà del governo attribuirsi. Tanto è alieno da essi il senato, che, per allontanare anche il più rimoto pericolo, ha con recente manifesto comandato ai sudditi, che contro i sollevati non istessero ad usar le armi, se non nel caso della propria difesa. Ma essendo noi su tale argomento disposti a secondare con le opportune risoluzioni i vostri desiderj, bene conoscerà la equità vostra, che al tempo medesimo diventa necessario che l'amore volontario delle popolazioni fedeli verso di noi, e la comune nostra tranquillità siano guarentite da insulti esterni, e da perturbazioni interne. Vuole, ed è pronto il senato a soddisfarvi dell'altra richiesta, per castigo e consegna di coloro che han commesso uccisioni sulle persone dei vostri soldati, e sarà per noi diligentemente ordinato, che siano conosciuti, arrestati e secondo i meriti loro castigati. Per conseguire più acconciamente, ed a contentezza d'ambe le parti tutti i raccontati effetti, mandiamo due legati a voi, dai quali intenderete la somma compiacenza nostra, e insieme quanto grato ci sarebbe, che voi interponeste l'efficace vostra autorità presso al vostro governo per ricondurre all'ordine, ed al primiero stato le città d'oltre Mincio, che si sono da noi allontanate. Con questo vi confermiamo di nuovo, e protestiamo la costanza, e la sincerità dei nostri sentimenti verso la vostra repubblica, in un con la molta osservanza, in cui abbiamo la vostra illustre e riputata persona».

Deputava il senato per alleggerire i sospetti, e per intrattenere Buonaparte dell'estremo fato della patria, Francesco Donato censore, e Leonardo Giustiniani, savio alla scrittura uscito. Intanto funeste novelle consentanee all'aspetto delle cose presenti, ed annunziatrici di ultima ruina, arrivavano da Vienna e da Parigi. Avvisava l'ambasciador Grimani, apparir segni che la repubblica avesse ad esser data in preda all'Austria; in questo adoperarsi la corte di Napoli per istornar la tempesta da lei; adoperarvisi la Spagna, adulatrice di Francia, e desiderosa che il duca di Parma acquistasse un incremento di territorio col titolo di re: avervi anche le mani mescolate il re di Sardegna, in cui rimaneva l'antica cupidità di allargarsi in Italia; affollarsi tutti intorno a Francia, adularla, prometterle, esortarla a male opere; non aver più amici la repubblica debole, esser fatta bersaglio alle potenze, bramose tutte di prendersi quel d'altrui; starsene cupa e silenziosa l'Austria; esser disposta ad accettare il prezzo; pure splendere ancora un raggio di speranza, se si mantenesse intero ed incorrotto l'antico governo; cambiarlo, aver ad essere la morte della repubblica. Così i potentati Italiani stessi, in preda ancor essi alla cupidigia del volere appropriarsi quel d'altrui, non giudicavano quanto fosse a proposito della salute d'Italia il non lasciar perire Venezia.

Simili cose scriveva il nobile Querini da Parigi, ma come se velate da maggior dissimulazione alle orecchie sue pervenissero; perchè ora erano minacciose le parole del direttorio, ed ora dolci; ora accusava Venezia, ed ora la scusava, e da tante ambagi niuna cosa certa poteva ritrarre l'ambasciadore Veneto, se non se che si macchinava qualche gran trama contro la repubblica, e che era pericolo che l'Austria, per consentimento della Francia, se la rapisse. Ma perchè non mancasse alcuna lagrimevole condizione in così grave e così vicino pericolo, fu provato da gente vendereccia di sottrarle denaro sotto promessa di salute. Un certo Viscovich, di nazione Dalmata, si appresentava al nobile Querini, dicendo che era in mano sua il salvare la repubblica; che in quel punto stava deliberando il direttorio, se convenisse spegnere le rivoluzioni della terraferma con dar mano forte al senato, o di condurle a compimento con dare fomento ed ajuto ai ribelli; che due direttori erano in favore della repubblica, due contro, il quinto in pendente; che quello era il tempo di spendere per la salute comune; che ove il senato volesse dar sette milioni di franchi, Venezia sarebbe preservata; che di presente abbisognavano seicento mila franchi pel direttore titubante, con altri cento mila pei beveraggi agl'intromettitori. Rispondeva Querini, non avere autorità di obbligare il pubblico per tanta somma. E brevemente, pressato poi dal Viscovich, che la cosa era alle strette, che quello non era tempo da perdere, che se non prometteva, in quel giorno stesso si statuiva la morte della repubblica, si lasciava tirare a dir del sì per somma sua divozione verso la patria, e sottoscriveva biglietti per seicento mila franchi sopra Pallavicini di Genova, con patto che stessero in deposito, finchè non avesse in sua mano una lettera scritta dal direttorio a Buonaparte, intimatrice del dover frenare i faziosi della terraferma, e ridurre le città sotto il dominio. La lettera non potè avere Querini; bensì gli fu consegnata una carta col titolo in fronte, e colla marca del direttorio esecutivo, e sottoscrizione del segretario di Barras, per cui si affermava, che la lettera del descritto tenore era stata scritta dal direttorio a Buonaparte. Fu il trattato approvato dal governo a Venezia: mandavasi al console in Genova, s'intendesse con Pallavicini, perchè obbedisse le cambiali del Querini. Stava in aspettazione l'ambasciatore di quello che avesse a succedere; ma vedendo le cose della terraferma andar sempre di male in peggio, richiedeva Viscovich della restituzione dei biglietti. Negava il Dalmata la restituzione. Furono presentati a Querini nel mese di luglio in Venezia, dopo il cambiamento dello stato, acciocchè ne effettuasse il pagamento: gli protestava; fu carcerato, ed esaminato per ordine del direttorio per querela di aver voluto corrompere il governo Francese. Questa fu veramente un'arte cupa; perchè, se vi fu corruzione, e certamente in qualcheduno fu, ella non andò già  da Querini ad altri, ma da altri a Querini.

Intanto un accidente, frutto di una vituperevol fraude da una parte, accompagnato da una estrema crudeltà dall'altra, famoso al mondo per l'importanza sua, e pel paragone di un altro fatto rinomato nelle storie, era vicino a sorgere nella principale città della Veneta terraferma. Abbiamo già raccontato, come Buonaparte, perchè l'Austria accettasse da lui, in ricompensa dei Paesi Bassi, e del Milanese, lo stato Veneziano, si era messo in punto di farlo rivoltare contro il senato. Insidiò principalmente Verona. I suoi agenti non lasciavano alcuna cosa intentata, e la popolazione Veronese contaminavano con promesse agli avidi, con istimoli agli ambiziosi, con mostra di libertà, con abbominazione di tirannide agli amatori del vivere libero. Il senato all'incontro avendo avuto sentore, anzi certezza delle trame di Verona, vi aveva mandato, come già abbiam raccontato, provveditori straordinari, uomini di fede e di virtù, con un forte polso di genti Schiavone. Vi arrivavano, oltre a ciò, i villani dei contorni, ai quali erano state messe in mano le armi: erano una massa considerabile. Stavano ambe le parti vigilanti, l'una per impedir gli effetti delle suggestioni e delle sommossioni d'oltre Mincio, l'altra per ajutarli. Gli animi infiammati dall'un canto, arrabbiati dall'altro, insospettiti tutti, si mostravano pronti, non solo ad usare le prime occasioni gravi, ma ancora a prorompere per le più leggieri, ed una voce, un suono, un segno che uscisse, potevano partorire una generale commozione. In tanta concitazione reciproca le cagioni potevano nascere ugualmente dall'una e dall'altra parte. Da tutto questo conoscerà il lettore, che poco rileva il sapere, se si sia incominciato a far sangue dai Francesi, o dai Veronesi, perchè proposito dei capi Francesi era di far rivoluzione in Verona, proposito dei Veronesi d'impedirla: i primi volevano darla all'Austria, i secondi conservarla a Venezia; e so ben io ciò, che farebbero i Francesi, o gl'Inglesi, se qualche potenza forestiera vendesse ad un'altra Lione, o Birmingham.

Era debole il presidio Francese in Verona, nè atto per se a tanta mole; perchè il generalissimo aveva avuto bisogno di tutte le sue forze contro l'Austria, ma si sperava nei maneggi secreti, e nell'opera dei novatori, ed oltre a ciò incominciava a scoprirsi nel Padovano la schiera di Viotor mandata da Buonaparte a rivoltar lo stato nella terraferma. Si accostava inoltre Lahoz coi Lombardi, e Polacchi, accostavansi le masse repubblicane di Brescia e di Bergamo, ed il forte presidio di Mantova poteva dare da luogo vicino nervo all'impresa. Intanto il capitano Carrere, comandante di Verona, soldato amantissimo della repubblica, ma probo e religioso, vedendo il pericolo tratteneva ogni Francese che da Francia venisse, od in Francia ritornasse, per modo che riuscì a raccorre circa ottocento soldati. Arrivavano poco stante duecento Cisalpini, valorosa gente, capitanata in gran parte da Francesi, ed assai disposta a secondargli. Già segni annunziatori di quanto doveva succedere si spargevano per le campagne: erano in ogni luogo minacce, mischie, ed uccisioni. I sollevati dipendenti da Buonaparte uccidevano i sollevati, che gridavano San Marco; dall'altra parte dei Francesi isolati, coloro, che s'imbattevano in gente più moderata, erano o arrestati, od insultati; quei, che incontravano uomini più sfrenati, erano uccisi. Un prete, figliuolo del conte Malenza, postosi in agguato con una squadra di mila villani, infestava le strade tra Peschiera e Verona. Incessantemente si predicava, volere i Francesi fare una rivoluzione per impadronirsi delle sostanze dei popoli, e singolarmente del monte di pietà, dove erano grandissime ricchezze. Allegavano l'esempio del monte di pietà di Milano depredato contro le leggi del giusto e dell'onesto. Il fatto era pur troppo vero, e la ricordanza di lui produceva una rabbia incredibile in mezzo a quelle popolazioni già tanto concitate. Succedevano in Verona stessa ad ogni momento minacce tra Francesi e Schiavoni, succedevano altercazioni frequenti tra Francesi e Veronesi, ed allora gli Schiavoni si allontanavano. Le nappe con l'impronta del Lione, insegna della repubblica di Venezia, davansi a chi ne bramava. Godeva il provveditore nel vedere animi sì pronti, e tante difese apprestate. Dava opera ad ordinarle; descriveva i villani accorsi, raccomandava l'ordine e la quiete, comandava, non offendessero persona; solo stessero armati, e pronti. Così l'agro Veronese suonava tutto all'intorno d'armi contrarie, ed armi contrarie erano in atto d'affrontarsi dentro le mura stesse di Verona. Preparavansi i magistrati a propulsare qualunque assalto, fatti accorti dai fatti di Bergamo, Brescia, Crema, ed ancor più dalle novelle certe delle intenzioni di Buonaparte. Il generale Balland surrogato a Kilmaine nel governo militare di Verona, sollevato d'animo a tanti romori, scriveva al provveditore, esortandolo a provvedere, che i disordini cessassero. Rispondeva il Veneziano, che il farebbe, sempre anzi averlo fatto, ma toccava rimproverando i maneggi degl'insidiatori, mandati a posta per sommuovere le province.

Era il dì diciasette aprile, secondo giorno di Pasqua del millesettecentonovantasette, quando alle ore quattro meridiane scoppiava ad un tratto la terribil sollevazione Veronese. Incominciava da insulti e da minori fatti dai soldati Veneziani e dai Veronesi armati, contro le guardie Francesi sparse in vari luoghi della città. Il comandante Carrere, veduto quanto il tempo fosse minaccioso, ristringeva i suoi sulla piazza d'armi, pronto a correre dove bisogna fosse. In cotal guisa stava armato e raccolto lo spazio di un'ora, quando Balland fece trarre, erano le cinque della sera, qual segno di guerra, cannonate dai castelli. A quel rimbombo si conduceva spacciatamente Carrere con la sua schiera nel Castel-Vecchio, contro il quale già combattevano i Veronesi dalle case vicine. Il romore inaspettato delle artiglierìe Francesi diè cagione di credere ai Veronesi già tanto infiammati, che fosse intenzione di Balland di trattare ostilmente Verona. Nè s'ingannarono punto; perchè poco dopo traeva furiosamente contro il palazzo pubblico, che ne fu lacero e guasto in molte parti. Diroccarono al primo trarre le creste del palazzo degli Scaligeri. Cambiavasi in un momento l'aspetto della città; perchè vi sorgeva una rabbia, un gridare, un correre contro i Francesi da non potersi raccontare degnamente con parole. Un suonare di campana a martello continuo e precipitoso accresceva terrore alla cosa. Dei Francesi, coloro che si trovavano più vicini ai castelli, massime al Castel-Vecchio, in loro si ricoveravano a tutta fretta: ma non fu senza pericolo, perchè rabbiosamente gli seguitava il popolo, che gli voleva ammazzare, e bersagliandogli dalle finestre con palle, con sassi, con ogni sorte d'armi faceva loro il ritirarsi difficile e mortale. Il furore aveva preso non solo gli uomini ed i forti, ma ancora i vecchi, le donne, i fanciulli, ognuno volendo ricompensare con un sangue odiato le ingiurie ed i patimenti. Molti dei Francesi in tal modo fuggenti restarono uccisi, plaudendo all'intorno il popolo inferocito. Chi non potè ripararsi a tempo nei castelli, cercava salvezza nei più segreti nascondigli delle case; ma non però tutte, anzi poche erano loro sicure; perciocchè non pochi, rottasi dai padroni la ospitalità, vi restarono miseramente uccisi. Alcuni furon gettati nei pozzi, altri trafitti dai pugnali, altri risospinti fuori delle porte, perchè fossero segno alla rabbia popolare, che tuttavia fra le grida orribili, fra il rimbombo delle artiglierìe dei castelli, fra i tocchi incessanti pel suonare a stormo andava crescendo. Molti amministratori dell'esercito, molte donne, molti fanciulli, molti ammalati erano in Verona, e questi furono, la maggior parte, condotti a miserabil morte da un popolo, che pagava con eccessiva crudeltà contro gl'innocenti le ingiurie, le ruberìe, le fraudi, i tradimenti usati da chi aveva contro di lui contaminato il nome di Francia. Era spettacolo pieno di compassione e di terrore il vedere malati languenti perseguitati da sicarj sanguinosi, donne atterrite da donne furibonde. Noi vedemmo un portico, tutto lurido e stillante ancora di sangue di Francesi ammaccati piuttosto che trafitti da un immenso furore; noi vedemmo spoglie sanguinose tratte da pozzi e da fogne; noi vedemmo miserabili vestimenta serbate a gloria dai violenti trucidatori. Ma la pressa, le minacce, la crudeltà, che il cielo serbi condegno castigo agli autori veri di tanto infinita barbarie, erano intorno all'ospedal militare. Degli ammalati alcuni furono uccisi, parecchi malconci e spogliati. Nè le preghiere, nè la debolezza, nè l'aspetto medesimo della morte già vicina in un ferocissimo morbo potevano piegare a misericordia questi uomini, nei quali null'altra cosa d'uomo restava che il volto. Nè veniva meno la crudeltà per la stanchezza, o per lo sfogo; che anzi sangue chiamava sangue, e le forze, che mancano spesso al ben fare, non mancavano al mal fare. Se per assenza di vittime pareva un poco acquetarsi il furore, tosto si riaccendeva più fiero che prima, ove fosse scoperto un Francese; e di nuovo si dava mano alle stragi. Non in meno pericolosa condizione si ritrovavano i patriotti o Veronesi, o forestieri: che anzi maggiore contro di loro si mostrava la rabbia del popolo, che con più diligenza gli cercava, e quanti potè aver nelle mani, tanti uccise. Ma i più si erano ricoverati nei castelli, altri conficcati nel nascondigli passarono fra la speranza ed il timore parecchi giorni. Ma non tutto fu barbarie in questo lagrimevole accidente. Non pochi Veronesi, ed il conte Nogarola medesimo, quantunque fosse uno dei capi degl'insorti, conservarono, nascondendogli, a molti Francesi la vita, atto tanto più degno di commendazione quanto nel salvare la vita altrui correvano pericolo della propria; perchè non è da dubitare, che se il popolo si fosse accorto della pietà usata, avrebbe condotto all'ultima fine preservatori e preservati. Spargevasi intanto per le campagne il grido del caso di Verona: incominciavasi a toccar lo stormo; i villici accorrevano a torme armate nella tormentata città; e se il vecchio furore già languiva, l'accostamento del nuovo il rinfrescava. Le grida e le stragi rincominciavano, nè cessarono le uccisioni, se non quando non vi fu più uomo da uccidere. Mancata la materia dello ammazzare, si veniva in sul saccheggiare. Già il ghetto, essendo gli ebrei, oltre l'antico rancore, riputati partigiani di Francia, andava a ruba: già i fondachi del pubblico pericolavano, e non fu poco, che i provveditori potessero impedire, che coloro, i quali sì ferocemente combattevano per Venezia, le sostanze pubbliche di Venezia non rubassero. Tanto facilmente passano gli uomini infuriati dalle uccisioni ai latrocinj, dai latrocinj alle uccisioni. Correva il sangue per le case, correva per le contrade, i castelli tuonavano, gli Schiavoni infuriavano: anzi uniti al popolo volevano dar l'assalto a quei nidi, come dicevano, dove si erano confinati i tiranni d'Italia. Il maggior pericolo era pel Castel-Vecchio: posto essendo vicino alla città, potevano i soldati ed il popolo assaltarlo più facilmente; nè le sue difese erano forti, poichè dava adito al castello un ponte chiuso solamente da un cancello di ferro, e la porta di debol legno era anche priva di saracinesca.

Il provveditor Giovanelli, in mezzo a tanta confusione e tanti sdegni, avrebbe voluto, non far deporre le armi, perchè nè la tempera degli animi Veronesi, nè il trarre continuo dei castelli il permettevano, ma frenare la barbarie, ed introdurre ordine e misura, là dov'era solamente confusione e trascorso. Tanto si adoperava in questo lodevole pensiero, che per poco il popolo non l'aveva per sospetto, e si proponeva, posposta l'autorità di lui, di voler fare da se. Importava intanto l'impadronirsi, per aprir l'adito agli aiuti esterni, delle porte, che tuttavia si trovavano in possessione dei Francesi. Il maggior presidio era in quella di San Zeno. Il conte Francesco degli Emilj, che alloggiava nella terra di Castel-Nuovo con due pezzi di cannone, seicento Schiavoni, duemilacinquecento contadini, e fronteggiava un grosso corpo di Francesi e d'Italiani, affinchè non corressero contro Verona, udito il pericolo della sua patria, correva subitamente in suo aiuto, e dopo un sanguinoso conflitto, fatto prigioniero il presidio, recava in sua potestà la porta di San Zeno, entrando con tutti i suoi, il che dava nuovo animo ai cittadini. Facevano lo stesso della porta Vescovo il capitano Caldogno, e di quella di San Giorgio il conte Nogarola. Così gli abitatori del contado potevano entrare liberamente a soccorrere Verona. Giunto il rinforzo del conte degli Emilj, assalivano i Veronesi più fortemente i castelli, massimamente il vecchio, e più fortemente dentro di loro si difendevano i Francesi, certi essendo, che in tanta rabbia popolare, per cui già erano stati morti i non combattenti, da quella difesa non solo dipendeva la possessione dei luoghi, ma ancora la salute, e la vita loro.

Il maggior propugnacolo che avessero, era il castello montano di San Felice. Per questo i Veronesi, principalmente contadini, avevano fatto un grosso alloggiamento a Pescantina, luogo opportuno per recarsi a battere quel castello; che anzi più oltre procedendo, avevano piantato due cannoni in san Leonardo, donde, per essere il sito sopraeminente al castello, continuamente il fulminavano. Dalla parte loro i Francesi uscivano frequentemente a combattere fuori dei castelli. Seguivanne stragi, incendj e ruine. Ardeva parte della città, perchè da castel San Felice, Balland fulminava, anche con palle roventi; ardevano le vicine ville intorno, e la tanto florida un tempo, ed ora infelice Verona, pareva avvicinarsi ad un estremo sterminio. Intanto i villici, che tanto più s'infierivano, quanto più largo sangue vedevano, non confidando intieramente nei rimedj, che potessero fare da se medesimi, avevano di volontà propria spedito corrieri al generale Austriaco Laudon, che, come abbiam narrato, dopo le vittorie acquistate nel Tirolo, era sceso a mettere a romore l'alto Bresciano, pregandolo, si calasse subitamente in soccorso loro. Balland non ometteva di provveder all'avvenire, conoscendo di quanta importanza fosse all'esercito il conservare in potestà di Francia quell'alloggiamento. Però aveva dato avviso a Chabran in Brescia, ed a Kilmaine in Mantova, pregandogli, mandassero sollecitamente gente soccorritrice al presidio pericolante. Victor medesimo era stato avvertito da Balland del pericolo. Anche da Bologna s'accostava una schiera per istringere la città combattente. Giovanelli, considerato il nembo che da ogni parte gli veniva addosso, quantunque Erizzo fosse per arrivare con un rinforzo di genti Schiavone, di armi e di munizioni, aveva aperto una pratica d'accordo con Balland, la quale però non ebbe effetto, perchè il generale di Francia richiedeva, per prima ed indispensabile condizione, che i villani deponessero le armi, si riaprissero le strade alle comunicazioni dell'esercito, il presidio Veneziano alle poche genti di prima si riducesse. Non erano alieni i magistrati della repubblica dall'accettar queste condizioni; ma le turbe di campagna, tuttavia infiammate, non volevano a patto nessuno udire, che avessero a depor le armi: viemaggiormente s'infuriavano.

Nè erano senza frutto le esortazioni degli uomini di chiesa, che rappresentavano, essere mescolata con la causa dello stato la causa della religione. Rammentassero, dicevano, l'oppressione di Roma, gli scherni di Milano, le abbominazioni di Parigi: osservassero con gli occhi loro medesimi i preti fuorusciti di Francia, ridotti esuli e poveri da gente incredula e sfrenata, per non aver voluto contaminare con ispergiuri e con bestemmie la fede loro: questa medesima sfrenata ed orribil gente volere adesso fondar l'imperio loro nell'incorrotta Italia: per questo ingannare gli spiriti, per questo pervertire i cuori, per questo subornare i magistrati, per questo tradire i governi, per questo finalmente avere testè conculcato la dignità della sedia apostolica, primo splendore d'Italia, e principalissimo fondamento della religione: guardassero qual fosse il seguito dell'irreligiosa gente; uomini malvagi aiutarla con gli spìamenti, con le parole, con le armi, con le aderenze; uomini tutti nemici alla religione, perchè senza fede; nemici alle buone costumanze, perchè senza buoni costumi; nemici ai governi provvidi, perchè impazienti di ogni freno, che gli rattenga nelle male passioni loro. Perciò, sclamavano, difendessero fino coll'ultimo sangue, ove d'uopo fosse, la religione protettrice degli oppressi, i governi protettori della religione, ed aspettassero per opera sì pia la gloria del mondo caduco, i premj del mondo sempiterno.

Generavano questi discorsi effetti incredibili; il furore diveniva zelo, che altro non è che un furore meno fugace. Stupivano massimamente, e s'infiammavano le genti ad uno spettacolo maraviglioso, che sorse in mezzo a quella tanto avviluppata tempesta, e questo fu di un frate cappuccino, che predicava ogni giorno sulla piazza, stando attentissimo il popolo affollato ad ascoltarlo. Non desumeva questo frate i suoi argomenti da motivi di religione, ma piuttosto da quanto havvi nella nazionale indipendenza di più dolce, di più nobile, di più generoso; e sebbene le sue parole fossero principalmente dirette contro i Francesi, erano non ostante generali, e chiamando, secondo l'uso antico, barbari tutti i forestieri, predicava contro di loro guerra, cacciamento e morte. Preso per testo l'antico adagio, patientia laesa fit furor:

«Italiani, diceva egli, di qualunque paese, di qualunque condizione, di qualunque sesso voi siate, impugnate le armi: esse son pur quelle dei Scipioni, dei Fabj, dei Camilli; esse son pur quelle degli Sforza, degli Alviani, dei Castrucci: Italiani, impugnate le armi, impugnate le armi, e non le deponete, finchè questi barbari, di qualunque favella essi siano, non siano cacciati dalle dolci terre Italiane. Vedete lo strazio, che fanno di voi? Vedete che il danno a lor non basta? Vedete, che non son contenti, se non aggiungono lo scherno? I rubamenti non saziano questa gente avara; questa gente superba vuole gl'improperj, ed il vilipendio. Sonvi le querele imputate a delitto; evvi il silenzio imputato a congiura: o che serviate, o che non serviate, vi apprestano gl'insulti, o le mannaie, perchè il servire chiamano viltà, il resistere ribellione. Vi accusano di armi nascoste; vi chiamano gente traditrice, come se non fosse maggior viltà al più forte l'usare i fucili ed i cannoni contro i deboli, che ai deboli l'usare contro il più forte gli stili e le coltella! Adunque poichè di stili e di coltella vi accagionano, e poichè un risguardo di Dio, protettore degli oppressi, e l'insopportabile superbia loro vi hanno ora posto i fucili ed i cannoni in mano, usategli, usategli, e pruovate, che anche gl'Italiani petti sono forti contro i rimbombi, e le guerriere tempeste. Credete voi, che siano costoro invulnerabili? Credete voi, che siano più valorosi di voi? Per Dio, no, non abbiate sì falso pensiero: i valorosi non son perfidi, ed opera di perfidia sono i fatti recenti. Non sotto spezie di amicizia fu invasa Genova, insidiata Cavi, conculcato Livorno? Non sotto spezie di amicizia furono da lor prese le Veneziane fortezze? Non da loro si sommovono i popoli contro i governi, non da loro si usano i governi per tiranneggiare i popoli? Ma che parlo? Ricordatevi di Brescia, di Bergamo e di Crema fatte ribelli al loro signore dai tradimenti di costoro. Non avete voi testè letto i manifesti nimichevoli contro di voi mandati da quel Landrieux, primario insidiatore, sotto colore di amicizia, di quelle misere città? Non vedete voi qui il pubblicato scritto di un Lahoz, pagato da loro, perchè con mani Italiane versi sangue Italiano? Non vi muoveste pure or ora a sdegno nel leggere il manifesto inventato da loro, ed apposto al Battaglia, a quel Battaglia, che, Dio voglia, sia tanto puro, quanto la causa è santa? Vero, disse il manifesto, e nessuno il sa meglio che chi lo scrisse; ma vera ancora è l'infame fraude, non a liberare gli oppressi diretta, ma a dar cagione agli oppressori di tradire gli oppressi; caso veramente scelerato di sommuovere prima i popoli, poi di tradirgli per dargli in mano ad insolite tirannidi. Non ebbimo noi qui nell'innocente Verona i scelerati subornatori venuti per prezzo da Lonato, da Desenzano, da Brescia? Non abbiamo noi qui capitani vili, mandati espressamente da Buonaparte sotto pretesto di reggerla, a contaminar Verona? Non è Buonaparte stesso, non solo nido, ma covo d'infami fraudi? Vincitore insolente in palese, insidiatore scelerato in segreto? Sono questi i valorosi, che abbiano a farvi tremare? Tolga Dio questa credenza, che il valore è virtù, e la perfidia fa, non soldati valorosi, ma satelliti codardi. Fumano al cospetto vostro le campagne poc'anzi liete e dilettose della Brenta, ed ora consumate, ed arse dai barbari. Sono bruttati i tempii, sono spogliate le case, è ogni opera dell'Italiano ingegno, utile o magnifica, fatta preda di soldatesche sfrenate. Adunque pei barbari travagliarono i Raffaelli, i Tiziani, i Paoli? Adunque i Petrarca, gli Ariosti, i Tassi scrissero, perchè i testi loro gissero in mano di coloro, che non gl'intendono? Adunque diè il povero l'obolo suo alla Casa santa di Loreto, perchè uomini già fatti ricchi da tanti rubamenti lo rapissero, ed in prezzo di meretrici, in prezzo di corruzione contro gl'Italiani stessi il convertissero? Adunque portò il povero per incorrotta fede nei monti di pietà il risparmiato frutto di tante veglie, perchè fosse involato da chi non veglia, che nei bagordi, nei giuochi, nelle fraudi? Ov'è l'Italia adesso? Il suo fiore è perduto. Dove i costumi? Contaminati da fogge forestiere. Dove le armi? Tradite pria, poscia disperse, o serve. Dove la lingua? Lordata da parlari strani. Dove l'arte dello scrivere, già sì famosa al mondo, e maestra di tanti? O tace, o adula, o imita. Scrittoruzzi da insegne, scrittoruzzi da giornali, scrittoruzzi da libercoletti son venuti ad insegnarci lo scrivere, ed il pensare! Oh, vergogna nostra sempiterna, se con l'armi non vendichiamo il perduto pregio dell'ingegno! Piangono le Pavesi madri, piangono le Veronesi madri i figli uccisi nelle battaglie contro i tiranni; piangono le Italiane madri le figlie, prima ingannate, poscia abbandonate dai vili seduttori, e si querelano indarno del contaminato onore. E voi ve ne starete? E voi non brandirete le armi? E voi non spenderete l'ultimo fiato per vendicare, per liberare Italia da tanto strazio! La vittoria vostra è vittoria comune, perchè a tutti puzza questo barbaro dominio, ed il primo messo apportatore delle Veronesi battaglie farà muovere a redenzione tutti i popoli. Sdegnata è Germania dell'oscurato valor militare, sdegnata Genova della perduta indipendenza, sdegnata Roma dell'offesa religione, sdegnata Toscana dell'oltraggiata amicizia, sdegnata Napoli dell'esser fatta stromento alla servitù d'Italia. Tutti aspettano un valor primo, tutti domandano una rizzata insegna; tutti agognan sorgere in aiuto della generosa Verona. La mole intera dell'Italica libertà nelle mani vostre sta: perchè molti combatteran contro pochi, virtuosi contro viziosi, oppressi contro oppressori, nè mai vano riesce l'ardor della libertà. Vinti i Francesi, qual altro barbaro s'ardirà d'affrontare la vincitrice Italia? Tutti saran cacciati; il sole Italiano non splenderà più che su fronti Italiane, l'aria non udirà più le ispide favelle; i solchi di questa terra, tanto ferace madre, non produrran più per altri, che per noi i dolci frutti loro; le spose intatte non daran più al mondo che forti, che sinceri, che liberi Italiani. Fu già Venezia ricovero ai liberi Italiani contro l'inondazione d'antichi barbari; fia Venezia nuova occasione ai liberi Italiani di cacciare i barbari moderni. Il valore libererà l'Italia, l'unione preserveralla, e già mi s'appresentano alla rallegrata mente nuovi secoli per quest'antica madre del mondo. Ma io vi veggio rossi di sangue! questo è sangue di barbari. Deh, fate voi, che sia seme di libertà. Ite, correte, uccidete quest'uomini truculenti: il sangue loro fia segno della salute nostra, nè mai senza sangue s'acquista la libertà. Ha il sommo Iddio, quando ordinò l'universo, voluto, o che i tiranni versassero il sangue degli oppressi, o che la libertà versasse il sangue degli oppressori. Ite, e scegliete tra le mannaie e gli sparsi fiori, tra la vita e la morte, tra la gloria, e l'ignominia, tra l'indipendenza e la servitù, tra la libertà e la tirannide. Il principe vostro, il cielo propizio, sorti fortunate, l'amore, il furore, le donne, i padri, i figli, l'incominciate battaglie, queste prime vittorie vi chiamano ad un'alta e non più udita impresa; e poichè la rotta pazienza vi fe' correre all'armi, fate che l'armi non siano impugnate indarno».

Queste parole dette, e replicate più volte, destavano negli animi già tanto concitati degli ascoltanti uno sdegno incredibile. Provocavansi gli uni gli altri; già i castelli stessi parevano debole ritegno al loro furore. Mentre tanto disperatamente si combatteva in Verona, succedeva in Venezia un caso pieno d'insolenza ad un tempo, e di crudele risentimento, e che se non fu espressamente ordinato da Buonaparte, come da alcuni fu scritto, servì però molto mirabilmente a' suoi disegni contro l'innocente repubblica. Aveva il senato comandato, seguendo un antichissimo instituto, ed a cagione dei romori presenti, che nissuna nave forestiera, che fosse armata, potesse entrare nell'estuario; il quale divieto era stato significato a tutti i ministri delle potenze estere residenti in Venezia, ed il Francese ne aveva, come tutti gli altri, avuto notizia. Eranvisi uniformati gl'Inglesi stessi, parendo a tutti giusta e conveniente cosa, come era veramente, che non si dovesse turbare con la presenza di armi forestiere la sede del governo. Ma ecco la sera dei venti aprile, avvicinarsi al Lido di san Niccolò un legno armato in forma di corsaro con intenzione evidente di entrar nel porto. Si scoverse legno Francese condotto dal capitano Laugier. Domenico Pizzamano, deputato alla custodia del Lido, gli mandava significando il divieto del senato, e lo esortava a non rompere una legge sovrana, alla quale l'Inghilterra medesima aveva obbedito. Il capitano o per insolenza propria, o per comandamento altrui, non curando le esortazioni del Pizzamano, e seguitando il suo cammino, sforzava la bocca del porto, e vi poneva l'ancora con violazione manifesta di una legge Veneziana in Venezia. Mentre passava per la bocca, traeva di nove colpi di cannone, i Veneziani narrano, per ingaggiar battaglia, il che non è nè vero, nè verisimile, ma bensì per salutare, secondo gli usi di mare, la bandiera Veneziana, pensiero veramente strano del volere con pubblica dimostrazione rendere onore ad una potenza nel momento stesso, in cui sotto gli occhi del suo principe la sua sovranità si oltraggiava, ed una sua principalissima legge apertamente si violava. Il tiro dei cannoni Francesi, giunto alla violenta entrata nel porto, diè motivo di credere al comandante Veneziano, che si covasse qualche macchinazione o dentro o fuori. Perlocchè, allestiti ancor esso i suoi cannoni, traeva, rendendo fuoco per fuoco, contro il legno Francese. Insino a questo punto il torto essere stato dal canto del capitano Francese sarà confessato da tutti, eccettuato da quelli che credono, che i forestieri debbono esser padroni in casa altrui; e se i Veneziani fossero stati contenti all'arrestar il legno, e ad obbligarlo, senza fargli altro danno, ad uscir dal porto, nissun diritto uomo è, cred'io, che non fosse per istimare la condotta loro, non solo non biasimevole, ma ancora lodevole e necessaria. Ma le cose non si rimasero a queste prime dimostrazioni, nè poteva essere, ch'elleno più oltre non procedessero a cagione degl'incredibili sdegni, che allora passavano tra una nazione e l'altra; imperciocchè trovatosi Laugier tra legni di Schiavoni, gente avversa al nome di Francia, e devota a Venezia, giunto il trarre nimichevole tra il legno ed il forte Sant'Andrea, assaltavano con grandissima forza, e con arma bianca la nave del capitano Francese, nella quale sfogando troppo più che all'umanità si converrebbe, l'odio loro, commettevano atti di un'estrema ferocia. Morirono in questa sanguinosa avvisaglia cinque Francesi, fra i quali il capitano medesimo. Otto restarono feriti; che anzi, se gli uffiziali degli Schiavoni non avessero frenato il furore dei soldati loro, i marinari del legno sarebbero stati fino all'estremo uccisi. Il legno divenne preda degli assalitori. Lodava il senato con pubblico decreto Pizzamano, e gli uffiziali; largiva di un caposoldo i gregari; mandava un sunto del fatto ai legati Donato, e Giustiniani, acciocchè il rappresentassero a Buonaparte, temendo, non senza cagione, che da altri gli fosse annunziato con esagerati rapportamenti. Il ministro di Francia, mostrandosi sdegnato, ricercava il senato, che carcerasse Pizzamano, arrestasse i complici, restituisse gli arnesi, risarcisse il legno. Restituissi, risarcissi; delle carcerazioni si soprassedè sino alla risposta di Buonaparte.

Terrore era in Venezia, e terrore in Verona. Le cose in quest'ultima si avvicinavano da un funesto mezzo ad una funesta conclusione. Combattevano tuttavìa i Veronesi col medesimo ardore; ma appunto perchè quest'ardore era estremo, si doveva temere, che non tardasse a raffreddarsi. Già i Francesi ingrossavano tutto all'intorno. S'accostava Kilmaine venuto da Mantova, Chabran compariva sotto le mura verso la porta di San Zeno, le prime squadre di Victor arrivavano in luogo, donde presto potevano cooperare alla vittoria. La tregua di Judenburgo toglieva ogni speranza di Laudon. Si risolvevano adunque i provveditori a venire a parlamento, prima con Balland per mezzo del colonnello Beaupoil: ma la pratica non ebbe perfezione, perchè il popolo non volle udire che avesse a depor le armi, e non fossero esclusi i Francesi dai castelli; poi con Chabran, col quale andava ad abboccarsi fuori della porta San Zeno il provveditore Giovanelli. Erano col primo il generale Chevalier, e Landrieux, col secondo il conte degli Emilj, il conte Giusti, ed un Merighi, personaggio molto amato dai San Zenati. Pervenivano intanto le novelle, che Lahoz con una banda di due mila soldati tra Italiani e Polacchi al soldo della repubblica Cisalpina, aveva tra Peschiera e Verona conseguito una vittoria contro le leve campagnuole di quel distretto.

Fu l'abboccamento pieno di risentimento da ambe le parti. Rimproverava Chabran a Giovanelli i villani armati per disegno espresso del governo Veneto contro i Francesi, quando stavano a fronte di un nemico potente; che per questo era stato costretto Buonaparte a fare la tregua, che i Veneziani se ne pentirebbero. Aggiungeva Landrieux, e qui lascio che il lettore pensi da se, che i rei disegni del senato contro i Francesi erano pruovati dal manifesto di Battaglia. Rispondeva Giovanelli allegando l'amicizia de' Veneziani dimostrata a tante pruove; solo essersi armati i sudditi per amore verso il principe, e per opporsi ai ribelli apertamente incitati, e protetti dai Francesi; l'intervenzione dei Francesi in tutti questi moti viemaggiormente dimostrarsi da ciò, che i turbatori della pace pubblica si ricoveravano in casa del generale Balland, come in luogo di sicurezza; quando la città era quieta, avere contro di lei tratto, prima a polvere, poscia a palla i castelli; per questo aver voluto i Veronesi difendere le sedi loro, e vendicare il loro principe in tale violenta guisa oltraggiato. Passavano dai risentimenti ai negoziati; non si trovava modo di concordia. Chabran sdegnato minacciava, che entrerebbe per forza, arderebbe, e saccheggerebbe Verona. Già s'impadroniva di San Leonardo, con che assicurava il castello San Felice: già batteva fortemente la porta di San Zeno, dove solo il fosso il separava dal corpo della piazza. Instavano al tempo medesimo i castelli contro la porta di San Giorgio; e dal Castel-Vecchio uscivano spesso i Francesi con gran terrore e ruina dei cittadini. Kilmaine si approssimava da Mantova, sbaragliando le turbe armate, che gli contrastavano il passo. Già il romore della Victoriana schiera ormai vicina si udiva nella desolata città. I primi corridori di Lahoz si facevano vedere alle porte esteriori del Castel-Vecchio, e niuna cosa poteva impedire che vi entrassero.

Ebbersi in quel momento le novelle dei preliminari di pace; il quale accidente faceva abilità a Buonaparte di correre con tutto il suo esercito contro lo stato Veneziano. Accresceva il terrore la sconfitta delle genti stanziali governate dal Maffei, e che poste alla Croce Bianca, ed a San Massimo vietavano da quella parte il passo al nemico. Da tutto questo si vedeva, che era già vinta Verona, quando ancora combatteva. Perlochè i provveditori pensarono ad accordarsi ad ogni modo. Convenivasi delle seguenti condizioni: deponessero i villani le armi, e sgombrassero da Verona; i Francesi la occupassero; tutte le armi e munizioni si dessero in mano loro: fossero consegnati in castello, come ostaggi per la sicurtà dei patti, Giovanelli, Erizzo, Giuliari, Emilj, il vescovo, Maffei, i quattro fratelli Miniscalchi, Filiberi, i due fratelli Carlotti, San Fermo, e Garavetta: eseguiti i capitoli, si rendessero gli ostaggi. Volevano i provveditori aggiungere il capitolo, che fossero salve le vite e le proprietà dei Veronesi, delle truppe, e dei capi loro; ma Kilmaine, che era sopraggiunto, non volle ratificarlo. E però, sebbene fossero accettati gli altri capitoli, si rendeva Verona quasi a discrezione. La qual cosa vedutasi dai provveditori, si deliberarono di ritirarsi a Padova, lasciando che i magistrati municipali, quanto fosse in poter loro, alla salute di lei provvedessero. Fu grande in questi negoziati il dolore, e lo spavento dei provveditori; perchè non solamente vedevano una popolazione fedele al nome Veneziano abbandonata a discrezione di un nemico offeso, ma udivano anche parole espresse, e funeste della vicina distruzione della repubblica; perciocchè Beaupoil, dalle solite ambagi uscendo, ed almeno più sincerità degli altri mostrando, disse apertamente, che la repubblica di Venezia aveva sussistito bastantemente per quattordici secoli, e che conveniva adattarsi ai tempi, che l'assistenza prestata alle rivoluzioni di Bergamo e di Brescia non poteva derivare dal solo arbitrio dei comandanti Francesi, ma bensì da un espresso comando del generale Buonaparte.

Entravano i Francesi nella sanguinosa Verona. Io non so, se mi debba raccontare un fatto orribile, e quest'è, che i patriotti Italiani, che pretendevano parole di libertà, e d'indipendenza alle imprese loro, cercavano diligentemente, secondando il furore dei capi repubblicani di Francia, per le case gli autori della resistenza Veronese, e trovati, gli davano loro in mano, perchè fossero percossi coll'ultimo supplizio. Scoprivano fra gli altri il frate cappuccino, e lo consegnavano ai percussori. Gli trovavano in casa la predica, la quale, siccome pareva scritta in istile più pulito, che a cappuccino si appartenesse, veniva attribuita al vescovo di Parma Turchi, che era allora in grido di predicatore eccellente. Creossi un consiglio militare per giudicarlo. Sostenne il frate in cospetto de' suoi giudici la medesima sentenza. Condannato nel capo, incontrò la morte con quella medesima costanza, con la quale aveva vissuto. Conservò la storia il nome di questo forte Italiano, quantunque per la malvagità dei tempi sia stata la sua morte piuttosto apposta ad ignominia, che ad onore. Si chiamava frate Luigi Colloredo, e dopo la venuta dei Tedeschi gli fu posta nella sua chiesa dei cappuccini una lapida tramandatrice ai posteri della sua eroica costanza. Furono con lui condotti a morte i conti Francesco degli Emilj, Verità, e Malenza con alcuni altri di minor nome. Tale fu l'esito della Veronese sollevazione: la chiamarono le pasque Veronesi a confronto dei vespri Siciliani; ma se ugualmente crudi ne furono gli effetti, bene le cagioni ne furono peggiori; perchè a Verona s'aggiunse la perfidia alla tirannide.

Era la città esposta alla vendetta del vincitore. Le si toglievano le armi, seguitavano minacce crudeli, e fatti peggiori; si viveva dai soldati a discrezione; fu espilato il monte di pietà; le più preziose gioie mandate al generalissimo. Gridavano i popoli a fatti tanto sacrileghi; Buonaparte ordinava, si restituissero i pegni di minor prezzo; ma fu indarno, perchè i più erano involati, e chi fu preposto alla bisogna, per render meno, ne accoppiava due in uno: nè si perdonava alle doti delle figliuole povere, perchè anche queste furono preda dei rapitori. Il commissario di guerra Bouquet, eletto commissario sopra il monte, fu carcerato, e condotto in Francia per essere processato, ma non si udì mai di pena, o perchè fosse innocente, o perchè avesse operato per ordine di chi poteva più di lui. Decretava Buonaparte, pagasse Verona centoventimila zecchini, e di più cinquantamila per caposoldo ai soldati dei castelli, risarcisse i danni dei soldati e degli ospedali, i cavalli dei Veronesi si dessero alle artiglierie ed alla cavallerìa; ancora desse Verona nel più breve spazio fornimenti da vestire i soldati in quantità considerabile; gli ori e gli argenti sì delle chiese, che del pubblico si confiscassero in pro della repubblica; i quadri, gli erbari, i musei tanto del pubblico, quanto dei particolari fossero ancor essi posti al fisco della repubblica; i privati, che meritassero di esser fatti indenni, si compensassero coi beni dei condannati.

Ma già la espilazione, prima che si eseguisse per ordine, era stata mandata ad effetto per disordine. Scriveva Augereau, la confusione dei poteri, l'esercizio abusivo fattone da parecchi ufficiali superiori avere colmo l'anarchia e la dissipazione; infatti il monte di pietà di Verona, in cui erano più di cinquanta milioni di preziose suppellettili, e così ancora quel di Vicenza (Lahoz aveva fatto rivoltar Vicenza) essere stati con tale prestezza vuotati, che gli espilatori impazienti all'indugio dello aprir le porte, le avevano sforzate: e vero fu, quantunque Augereau non lo scriva, che vi entrarono con le scuri, e coi sacchi. Sapere, continuava a scrivere, che Victor aveva fatto arrestare il commissario Bouquet, autore di questo dilapidare; non dubitare, che se si venisse a processo contro di lui, non mettesse in compromesso cittadini, che erano nei superiori gradi dell'esercito; non essere le campagne in miglior condizione della città; gl'incendj, i furti, le rapine generali, e particolari fatte d'arbitrio, e senza legale autorità avere spopolato parecchi villaggi, e ridotto famiglie ad errare disperatamente alla ventura; giunta essere a tal colmo questa peste, che ufficiali adescati dall'amor del sacco si erano fatti comandanti di piazza da se medesimi, ed avevano commesso atti, cui la giustizia, l'onore, e la severità della disciplina militare condannavano; gli arbitrj di Verona essere ancora più orribili: tolte sforzate esservi state fatte per iscritto sino a franchi sessantamila, e negate le ricevute; rubatevi per otto giorni interi le botteghe; regnarvi il terrore; esservi cessato ogni commercio, essere Verona deserta; alcuni ufficiali essersi impadroniti di merci spettanti a' negozianti, sotto colore che calasser per l'Adige; le migliori case saccheggiate attestare il furore dei saccheggiatori. Nissuno più di lui, continuava Augereau, odiare i Veneziani, nissuno più di lui bramar di vendicare il sangue Francese, ma nissuno più di lui odiare l'ingiustizia e la persecuzione; se i Francesi erano stati rei d'ingiustizia e di persecuzione a lui toccare il consolare i Veneziani, a lui toccar fare, ch'essi dimenticassero, ch'erano obbligati di una parte dei loro mali a' suoi compatriotti. Fatte queste querele richiedeva Augereau da Buonaparte, moderasse le contribuzioni, ne rendesse il contado partecipe.

Da chi avrà attentamente considerato le cose fin qui da noi raccontate, sarà facilmente scorto, che nissuno buon partito restava a pigliarsi alla repubblica di Venezia, se alcuno restava, era quello dell'armi. Forse i Veneziani, armando vieppiù fortemente l'estuario, e difendendo Venezia con quell'istessa costanza, colla quale i loro maggiori avevano una volta difeso Padova contro l'imperator Massimiliano, avrebbero ancor potuto far sorgere in Europa qualche spiraglio di salute; perchè ancora l'Inghilterra era intera, e l'imperatore consentiva per forza ai patti di Leoben, non che non gli piacesse l'acquisto degli stati Veneziani, ma perchè abbominava i principj sovvertitori di ogni vecchio stato, sui quali si fondava la repubblica di Francia. Ma qualunque fosse l'evento, era più onorevole partito per Venezia il perire con l'armi in mano, che con negoziati già conosciuti inutili prima che s'intavolassero.

Giunte a Buonaparte le novelle di Verona e del Lido, fingeva un grandissimo sdegno con acerbissime parole lamentandosi del sangue Francese sparso, e protestando volerne aver vendetta. Adunque vedendo, che era venuto il tempo prefisso, e con tant'arte preparato, scriveva al ministro Lallemand queste furibonde parole: «S'insultano a Venezia i colori nazionali, e voi vi siete ancora! Pubblicamente vi si assassinano i Francesi, e voi vi siete ancora! Per me, io dichiaro, e protesto non voler udire proposta di conciliazione, se prima non sono arrestati i tre inquisitori di stato, ed il comandante del Lido: si carcerino, e poi venite a trovarmi».

Faceva Lallemand l'ufficio. La serva Venezia arrestava i tre inquisitori, ed il comandante; posersi in fortezza in una delle isole delle lagune; gli avogadori del comune incominciavano a far loro il processo. Liberavansi (perchè anche questo esigeva il generalissimo) i carcerati per opinioni, o fatti politici, fra gli altri i ribelli di Salò, Verona, Bergamo, Brescia e Padova. Partivane Lallemand, partivanne i Francesi, solo restava Villetard, segretario della legazione, come agente eletto ad operare la mutazione di governo.

Viaggiavano intanto i due legati Francesco Donato, e Leonardo Giustiniani alla volta degli alloggiamenti di Buonaparte. Il trovarono in Gradisca: introdotti escusavano la repubblica: aver voluto Venezia amicizia colla Francia repubblicana già prima che gli eserciti di lei inondassero l'Italia; averla riconosciuta, quand'era pericolo il riconoscerla; avere costantemente rifiutato ogni proposta fattale dai confederati ai danni della Francia; avere aperto spontaneamente agli eserciti di lei, e senza che a ciò fosse astretta da alcun trattato, come era con l'imperatore, gli stati suoi; averle fatto copia delle sue fortezze, delle armi, delle munizioni; avere obbligato i sudditi a somministrare per somme grandissime quanto fosse necessario al vivere dei soldati, ed avere in questo anche sopperito l'erario. Come esser probabile, affermavano, che uno stato illanguidito da danni sì gravosi, consumato da dispendio sì enorme, mutilato per l'alterazione di tante città, volesse far guerra alla Francia tanto potente, ora ch'ella aveva obbligato alla pace quasi tutta l'Europa: volere il Veneziano governo la pace, ma bene non volerla i sediziosi ed i ribelli, perchè trovavano nella guerra immensi profitti, ed il compimento dei loro fatali disegni: da ciò derivare le tante invenzioni di supposti fatti, le carte false, come quella di Battaglia, le gelosie dei comandanti Francesi, l'alterazione dei popoli. Del rimanente non venir loro per muover querele, ma bensì per purgarle, e fare tutte quelle opere, che s'appartenevano all'incorrotta fede: ad ogni sua richiesta pruoverebbero, tutti i sospetti dei comandanti esser opera dei raggiri, e delle fraudi dei sollevati: rispetto poi all'avvenire, esser pronto il senato a punire i rei d'assassinio, purchè gli fossero dati indizi dei fatti, dei luoghi, e delle persone: essere ugualmente pronto ad accettar la mediazione per ridurre le città ribellate all'obbedienza, e a disarmare i sudditi, purchè si disarmassero anche le popolazioni sollevate, e si preservassero le fedeli dagl'insulti loro.

Non valsero le escusazioni, e le profferte a vincere la durezza del generalissimo. Rispose, che voleva, che tutti i carcerati si liberassero, anche quei di Verona perchè erano addetti a Francia, che non voleva più piombi, ed andrebbe egli a rompergli; che non voleva più inquisizione, barbarie dei tempi antichi; che le opinioni dovevano esser libere; che i Francesi erano stati assassinati in Venezia, e nella terraferma, e che i Veneziani gli avevano fatti assassinare; che i soldati gridavano vendetta, e ch'ei la voleva fare; che bene aveva il senato tante spie che bastassero per potere scoprire i rei; che se il senato non aveva mezzi per frenare i popoli, era imbecille, e non doveva più sussistere; che non voleva alleanze con Venezia, nè progetti; che voleva comandare; che non temeva gli Schiavoni; che sarebbe andato in Dalmazia; che insomma, se il senato non puniva i rei, non cacciava il ministro d'Inghilterra, non disarmava i popoli, non liberava i prigioni, non eleggeva tra Francia ed Inghilterra, egl'intimerebbe la guerra a Venezia; che al postutto i nobili di provincia dovevano partecipare nell'autorità suprema; che il governo Veneziano era vecchio, e doveva cessare; ch'ei sarebbe un Attila per lo stato Veneto; se non avevano altro a dire, se n'andassero.

Udivano per soprassoma delle angustie loro in questo tempo i legati le novelle del fatto del Lido, e con accomodate parole il rappresentarono a Buonaparte. Rispondeva, che non gli voleva vedere, che non gli voleva udire, bruttati com'erano di sangue Francese, se prima non gli davano in mano l'ammiraglio, il comandante del Lido, e gl'inquisitori di stato. Aggiungeva, che erano mentitori per aver cercato di colorir con menzogne un fatto atroce: se gli togliessero d'avanti, sgombrassero tosto dalla terraferma; quando no, avrebbero a far con lui.

Adunque l'antico insidiatore della Veneziana repubblica dichiarava, il dì secondo di maggio, la guerra a Venezia. Avere, intimava, il governo Veneto usato l'occasione della settimana santa, mentre l'esercito Francese era impegnato nelle fauci della Stiria, per mettere in armi, e col fine di tagliargli le strade, quarantamila Schiavoni; mandar Venezia armi, e commissari straordinari in terraferma, arrestare gli amici di Francia, fomentare i nemici; risuonare le piazze, i caffè, ogni luogo pubblico di male parole, e di mali fatti contro i Francesi; chiamarvisi giacobini, regicidi, atei; avere ordine i popoli di Padova, Vicenza, e Verona di armarsi a stormo per rinnovare i vespri Siciliani: gridare gli ufficiali Veneti, che si apparteneva al Lione Veneto di verificare il proverbio, che l'Italia fosse la tomba dei Francesi; predicare i preti dai pulpiti, gli scrittori con le stampe la crociata; assassinarsi i Francesi in Padova, assassinarsi in Castiglione dei Mori, assassinarsi sulle strade postali da Mantova a Legnago, da Cassano a Verona; impedire i soldati Veneti il libero passo alle truppe della Francia, suonarsi campana a martello a Verona, trucidarvisi i convalescenti; assaltare i Veronesi con l'armi in mano i presidj Francesi ritirati ai castelli; ardersi la casa del console a Zante; trarsi da una nave Veneta contro la fregata di Francia la Bruna per salvare una conserva Austriaca; fumare il Lido di Venezia del sangue del giovine Laugier. Per tutte queste cose voleva, ed ordinava, che il ministro di Francia partisse da Venezia; che gli agenti di Venezia sgombrassero dalla Lombardia e dalla terraferma; che i suoi generali trattassero come nemiche le truppe Veneziane, ed atterrassero il Lione di San Marco da tutte le città della terraferma.

A tutte queste querele chi dritto mirava, ed amava la giustizia, rispondeva pei Veneziani, che, eccettuati gli assassinj non mai escusabili, opera dei particolari, non del governo, e frutto in gran parte delle insolenze soldatesche, essendo la vendetta passione innata all'uomo, Venezia, tacendo anche le ribellioni suscitate a posta nella terraferma, era autorizzata a far peggio dal dritto delle genti a cagione dei patti di Leoben, venditori della repubblica. Aggiungevano, che solo era da biasimarsi del non aver dichiarato, e fatto la guerra con tutte le sue forze alla Francia, guerra della quale aveva tante, e sì giuste cagioni. Gli autori, cui muove piuttosto la parzialità che la giustizia, scrivono, che Venezia fu traditrice; certo ella fu, ma di se stessa, non d'altrui.

La dichiarazione di guerra fatta da Buonaparte, non pareva a lui poter bastare per arrivare al suo fine del cambiar la forma del governo Veneziano. Per arrivarvi aveva con tanto veementi parole intimorito i legati Veneziani, toccato loro il capitolo del cambiamento di governo: a questo medesimo fine aveva ordinato a Baraguey d'Hilliers, che si accostasse coi soldati alle rive dell'estuario, e d'ogni intorno tempestasse, come se volesse farsi strada alla sede stessa della repubblica: a questo fine ancora Villetard, e gli altri repubblicani rimasti in Venezia, menavano un romore incredibile contro l'aristocrazìa, come se ella fosse la maggior peste che sia al mondo, esaltavano la democrazia, accennavano che il solo mezzo di placare lo sdegno di Buonaparte era di ridurre il governo alla democrazìa: a questo fine altresì dai medesimi continuamente si animavano, e si concitavano contro le antiche forme gli amatori di novità, ed eglino confortati dall'aspetto delle cose ai disegni loro tanto favorevoli, più apertamente insidiavano, e minacciavano lo stato: al medesimo intento finalmente si spargevano ad arte voci di congreghe segrete, di congiure occulte, di armi preparate. Il terrore era grande, le fazioni accese, i malvagi trionfavano; dei buoni, i più si ristavano per timor dell'avvenire, volendo accomodarsi al cambiamento, che si vedeva in aria; pochi coraggiosi procuravano la salute della repubblica.

Non ostante tutto questo, le trame ordite facevano poco frutto nel senato, in cui sedeva la somma dell'autorità, perchè egli era o per prudenza, o per consuetudine, o per ostinazione risoluto a voler perseverare nelle massime dell'antico stato; già aveva ordinato, che diligentemente, e fortemente si munisse l'estuario. Prevedevano i novatori, che ove fosse commesso al senato di proporre alterazioni negli antichi ordini della constituzione al consiglio grande, in cui si era investita la sovranità, e dal quale solo simili alterazioni dipendevano, non mai il senato vi si sarebbe risoluto. Per la qual cosa coloro, che indirizzavano tutti questi consigli segreti, si deliberarono di trovar modo per evitare l'autorità del senato, allegando, che ad accidenti straordinari abbisognavano rimedj straordinari. I savi attuali, dei quali Pietro Donato aveva qualche entratura con Villetard, operarono in modo che si facesse un'adunanza illegale, e contraria agli ordini della repubblica nelle stanze private del doge, la sera dei trenta aprile. Interveniva il doge Manin, i suoi consiglieri, i tre capi delle quarantie, i savi attuali, i savi di terraferma, i savi usciti, ed i tre capi del consiglio dei Dieci. Si trattava in quest'adunanza di ciò, che si convenisse fare in sì luttuosa occorrenza per la salute della repubblica. Il principal fine era di rappresentar le cose in maniera, che il consiglio grande autorizzasse l'alterazione degli ordini antichi.

Il doge venezianamente favellando, cominciava il suo discorso in questi termini: «La gravità, e l'angustia delle presenti circostanze chiama tutte elle a proponer el miglior mezzo possibile per presentar al supremo maggior conseio el stato, nel qual se trovemo per le notizie, che sta sera ne avanza Alessandro Marcello, savio de settimana. Prima peraltro, ch'elle fazza palese la loro opinion, le abbia la bontà de raccoglier brevemente quel che xe per esponerghe el cavalier Dolfin».

Assumendo le parole il cavalier Dolfin, ragionava, che fosse molto a proposito alle cose della repubblica l'obbligarsi Haller, col quale egli aveva amicizia, ed era, secondo che egli opinava, molto innanzi nell'animo di Buonaparte, per mitigare il vincitore. La quale proposta dimostra a quanto abbassamento fosse condotta quell'antica, e gloriosa repubblica; poichè era parere di uno dei principali statuali, già ambasciadore in Parigi, che si aspettasse la sua salute in sì ponderoso momento dall'intercessione di un pubblicano.

Non erano ancora gli animi dei circostanti tanto abietti, che non deridessero la vanità del partito posto dal Dolfin. Seguitavano diversi pareri. Voleva Francesco Pesaro, generosamente opinando, che non si alterasse a modo alcuno la constituzione, e si facessero le più efficaci risoluzioni per difender fino all'estremo quell'ultimo ridotto della potenza Veneziana. Disputava dall'altra parte Zaccaria Vallaresso, si desse autorità ai legati di trattare con Buonaparte dell'alterazione degli ordini. Mentre si stavano esaminando i partiti posti, ecco per Tommaso Condulmer, sopraintendente alle difese dell'estuario, arrivar novelle, che già i Francesi dalle rive dell'estuario tentavano di avvicinarsi a Venezia. Parve, s'udisse il romor dei cannoni. Si suscitava gran terrore fra gli adunati: il serenissimo principe, tutto paventoso più volte su e giù per la camera passeggiando, lasciava intendere queste parole: sta notte no semo sicuri nè anche nel nostro letto. Per poco stava, che per suggerimento di Pietro Donato, e di Antonio Ruzzini, non si cedesse, e non si trattasse della dedizione; cosa, che farebbe credere, che i Veneziani fossero divenuti meno che uomini, se veramente in questo fatto solo operava la paura. Vinceva peraltro ancora in questo la fortuna della repubblica; perchè opponendosi gagliardamente al partito Giuseppe Priuli, e Niccolò Erizzo, si mandava al Condulmer resistesse alla forza con la forza. Non ostante, operando il timore e le instanze dei novatori, fu preso partito, che il doge medesimo esponesse al maggior consiglio la condizione della repubblica; proponesse la facoltà di alterar la constituzione, si convocasse il maggior consiglio il dì seguente primo di maggio. Fatta questa risoluzione, desiderio principale di Buonaparte, e mentre ella tuttavia si stava dal segretario Alberti distendendo, il procurator Pesaro lagrimando disse in dialetto Veneziano queste memorande parole: vedo, che per la mia patria le xe finìa: mi non posso sicuramente prestarghe verun ajuto: ogni paese per un galantuomo xe patria, nei Svizzeri se pol facilmente occuparse. Poi cesse da Venezia, sapendo, che Buonaparte domandava la sua morte. Felice Francesco Pesaro, se, come disse, così avesse fatto, e se trapassando ritirato e dolente la restante sua vita nell'Elvetiche montagne, avesse lasciato al mondo l'esempio di un amore di patria, scevro da ambizione, che se stesso, Venezia, Italia avrebbe perpetuamente onorato!

Era la mattina del primo maggio, quando la repubblica Veneziana doveva cadere da per se stessa nell'agguato, che le era teso. Era il palazzo pubblico circondato per ogni parte da genti armate, i cannoni presti, le micce accese, apparato insolito da tanti secoli in quella quieta repubblica. Custodivano per antico rito gli arsenalotti le interiori stanze del palazzo: i capi di strada pieni d'uomini in armi. Si maravigliava il popolo, ignaro della cagione, a quel romor soldatesco; la città tutta occupava un grandissimo terrore: quei luoghi medesimi, che per sapienza di governo, per benignità di cielo, per fortezza di sito erano stati sempre pieni di gente allegrissima per natura, civilissima per costumi, ora risuonavano d'armi e d'armati, e quelle armi, e quegli armati accennavano, non a salvamento, ma a distruzione della patria.

Convocati i padri al suono delle solite campane (non senza lagrime io queste cose racconto) e adunatisi in maggior consiglio, rappresentava con gravissime parole il doge la funesta condizione, a cui era ridotta la repubblica, infelicissima, ma innocente; avere ella sempre, dappoichè la rivoluzione Francese aveva spaventato il mondo, vissuto in uguali termini d'amicizia con tutti; nè mai aver voluto pendere più da questa parte, che da quella; ciò aver richiesto da lei l'antica sua consuetudine; ciò gl'interessi suoi più preziosi, perchè se si fosse fatta aderente ai principi confederati contro la Francia, le navi Francesi avrebbero messo a ruba il commercio tanto florido dei Veneziani, e se avesse prestato le orecchie alle proposte Francesi, la potentissima casa d'Austria confinante con Venezia per terra e per mare, da Crema fino all'Albanìa, avrebbe potuto occupar gli stati dell'imprudente repubblica, sarebbesi in ambi i casi turbata quella quiete, per cui tanto fiorivano l'agricoltura ed il commercio: essersi avuto speranza, che le forze unite dell'Austria stessa, del re di Sardegna, e degli ausiliari Napolitani impedissero la venuta dei Francesi in Italia, e però non essersi seguitati gli esempi dei maggiori dell'apprestar armi ed armati per allontanar dalle province Venete perturbazioni, che non si mostravano probabili. A questa medesima risoluzione aver dato forza lo stato dell'erario, ancor consunto dalla guerra col Turco, dalle tre neutralità armate in Italia, dai contagi di Dalmazia, dalle riparazioni dei fiumi, dalla spedizione contro Tunisi: essersi creduto pericoloso l'impor nuove gravezze in un tempo massimamente, in cui ognuno si faceva lecito di esaminare, e di censurare ogni azione di chi comanda: da questi fondamenti essere derivate le risoluzioni fatte, la blandizie usata, il riconoscimento della repubblica Francese, l'avere accolto un suo ministro a Venezia, e mandato un ministro Veneziano a Parigi, le provvisioni apprestate agli eserciti d'ambe le parti; dai medesimi essere anche proceduta la moderazione raccomandata ai sudditi, anche in mezzo a tante cagioni di sdegno, quando già i Francesi, rotta ogni barriera, avevano inondato le terre della repubblica: per questo avere mandato sovente al supremo comandante dei Francesi ragguardevoli cittadini, acciocchè il tenessero bene edificato, e difendessero la repubblica presso a lui contro le accuse, e le minacce continue de' suoi soldati. Qui, alteratasi dal dolore la voce del serenissimo principe, fu da lui continuato a dirsi, essere oramai giunto il fatale momento, in cui la Francia, cacciati con replicate vittorie gli Austriaci dall'Italia, e costrettigli alla pace, chiusi i porti del Mediterraneo agl'Inglesi per mezzo della pace con Napoli, trionfato sul Reno, avendo per alleate la Olanda e la Spagna, poteva senza risguardo alcuno, e senza diversione usare tutte le sue forze contro i Veneziani: debole, ed umile nazione essere i Veneziani a paragone di tante altre nazioni vinte, e soggiogate dalla Francia: quando bene il profondo segreto, in cui si tenevano i preliminari di Leoben, non desse giusta cagione di sospettare di qualche grande calamità contro gli stati della repubblica, non potere lei ingannar se stessa a segno di sperare potersi difendere o contro assalti vivi, o contro lungo assedio; già stringersi per mare Venezia, già legni armati Francesi correre l'Adriatico; invano credersi, le difese apprestate nell'estuario, avutosi anche riguardo al sito naturale di Venezia, quando ogni sussidio, ogni soccorso da ogni parte mancasse, potessero durar lungo tempo contro un nemico tanto audace e tanto fortunato; una resa inevitabile dover concludere un assedio lungo, e misto di mali estremi per un popolo avvezzo ad abbondar di tutto. Tale essere la condizione della repubblica, combattuta da un amico divenuto nemico dopo tanta ospitalità usata verso di lui, appetita da un amico, per cui si erano sofferte tante disgrazie, insidiata forse da cittadini perversi, per cui il sovvertire era uso, piacere, massima, e speranza; essersi abbattuta in un secolo, in cui l'innocenza è derisa, la fede non creduta, i diritti nulla, la forza tutto; solo le stragi e le vittorie aversi in onore; la virtù non attendersi, se non per contaminarla. Che potere Venezia, a cui solo erano scudo l'innocenza e la virtù? Cedessero adunque, cedessero, esortava, ad una necessità ineluttabile, e poichè l'estremo dei tempi era giunto, in quell'estremo tempo pensassero, che meglio era recidere qualche ramo, sebbene essenziale, che l'albero tutto; che cosa di poco momento era una modificazione, purchè si conservasse la repubblica; che bisognava a guisa di provvidi marinari far getto di una parte del carico per salvar la nave. Gli pregava pertanto, e scongiurava, per quanto avessero cara la patria, per quanto avessero care le famiglie, per quelle mura stesse tanto magnifiche e tanto dilette, per la nobile Venezia, per la salute di lei, per quanto aveva in se di dolce, d'augusto, e di reverendo un'antica congiunzione d'amore e d'interessi, udissero benignamente quello, che erano per proporre alla sapienza loro i savi a fine di far abilità ai zelanti legati eletti a trattare col supremo dispositore delle cose Francesi in Italia, di qualche alterazione negli ordini fondamentali della repubblica.

Queste compassionevoli parole del doge ingenerarono terrore, dolore, e pianto negli ascoltanti. Favellava nella medesima sentenza Pietro Antonio Bembo, che fu poi uno dei municipali eletti da Villetard. Posto il partito, e raccolti i voti, fu appruovato con cinquecento novantotto favorevoli, e ventuno contrari. Lodava il doge la virtù del maggior consiglio, esortava ad aver costanza, a non disperare della repubblica, a tener credenza del partito deliberato: poscia tra il dolore, la mestizia, ed il terribile aspetto dell'avvenire si scioglieva il consiglio.

Il crudo capitano intanto perseguitava Venezia. Calava Buonaparte furibondo dalle noriche Alpi, e la circuiva d'ogni intorno. Villetard, ed i suoi aderenti l'insidiavano dentro. Piacemi in tanta depressione di spiriti e viltà  d'animi, il raccontare, la costanza mostrata in Treviso in cospetto del generalissimo da Angelo Giustiniani, provveditore di quella provincia. Sdegnato il generalissimo accusava i Veneziani di perfidie, di tradimenti, di assassinj; minacciava sterminio, domandava il sangue di Pesaro, degl'inquisitori, del comandante del Lido. Rispondeva Giustiniani, le enormità d'oltremincio e di Verona essere state provocate dalle insolenze de' suoi soldati, sempre essere stata passiva Venezia, e con somma generosità, e con insopportabile dispendio avere mantenuto per sì lungo tempo l'esercito di Francia; amico fedele, non avere mai usato tante occasioni propizie per congiungersi con gli eserciti dell'imperatore a danno dei Francesi; non che avesse concitato i sudditi contro i soldati di Francia, avergli anzi sempre tenuti in freno, anche quando la fortuna si mostrava favorevole alle armi Tedesche; di ciò far fede la esperienza, di ciò gli ordini del senato inculcatori sempre di pazienza, di moderazione, di assistenza verso le genti Francesi; del fatto del Lido essere stata cagione la impertinenza dell'armatore, rompitore superbo delle municipali leggi, la resistenza medesima si sarebbe usata contro un armatore di qualunque altra nazione, che a disprezzo tanto insolente della sovranità fosse trascorso.

A queste risposte Buonaparte, in atto di furioso Giustiniani guardando, gl'intimava, se gli togliesse davanti, sgombrasse dalla terraferma; se no, l'avrebbe fatto ammazzare.

Replicava Giustiniani, il senato avere commesso alla sua fede Treviso, non potere, nè volere partir da Treviso, se non per ordine del senato; che non lo spaventava il morire; che, poichè egli aveva sete di Veneziano sangue, pigliassesi il suo, ed il restante risparmiasse. Tanta fermezza faceva, secondo il solito, piegare Buonaparte. Entrava in sull'accarezzarlo, dicendogli, che sapeva, ch'egli aveva governato con integrità e dolcezza il Trivigiano: veniva finalmente sul promettergli, che nella ordinata distruzione delle proprietà, e delle case dei nobili Veneziani, le sue sarebbero preservate, offerta certamente vile in un'occorrenza tanto miserabile della patria Veneziana, e degna di chi la faceva. Non si rimaneva per questo il Veneziano, imputandosi ad ingiuria la promessa mansuetudine. Generosamente pertanto al capitano di Francia parlando, gli dichiarava, che, poichè egli trovava lui e la sua condotta immune di colpa, confessasse ancora, essere innocente il senato, dai comandamenti del quale, qual riverente figliuolo, riconosceva quanto aveva fatto; ch'egli era stato amico dei Francesi, perchè il senato era; che se loro fosse stato nemico il senato, anch'egli sarebbe stato; conciossiachè egli era sempre stato, e sarebbe fedele esecutore dei voleri della sua patria, per pruovare l'innocenza della quale con documenti irrefragabili, gli si offeriva in ostaggio in qualunque luogo gli piacesse mandarlo. Aggiungeva, che non sarebbe eroe Buonaparte, se non l'accettasse. Quanto alla immunità offerta de' suoi beni: rifiutare sdegnosamente l'infame dono, poichè, perduta la patria, tutto era perduto per lui, ed eterno rossore avrebbe, se le proprietà sue fra le ceneri fumanti de' suoi concittadini illese restassero. Quivi scignendosi la spada, la metteva a' piè del conquistatore. Buonaparte già fin d'allora uso ad avere intorno adulatori, nè sapendo che cosa volesse dir Giustiniani con quel suo amor di giustizia e di patria, tra attonito, beffardo e dispettoso, lo lasciava andare. Atto, e parlare generoso fu questo di Angelo Giustiniani, e degno che trapassi alla posterità mediante l'instrumento delle lettere. Pure il secolo vile griderà Buonaparte grande, Giustiniani matto.

Intanto i macchinatori non si ristavano in Venezia, non contenti al cambiamento parziale autorizzato dal consiglio grande. Spargevano voci insidiose, non potersi resistere, dovere lo stato accomodarsi al secolo con un totale cambiamento negli ordini primitivi; potere Venezia vivere ancora gloriosa lungo tempo; antiquate essere le sue forme, alcune inutili, alcune dannose, alcune ridicole; popolo, popolo vuol essere; non patriziato, non aristocrazia; la ragione avere a governar gli stati; i diritti essere per natura uguali, dover essere uguale l'autorità; nuovi secoli sorgere alla rigenerata umanità; nuova libertà  nascere, non di pochi potenti, comandanti a molti schiavi, ma di tutti sovrani comandanti a nissuno schiavo. Quindi la cosa ritraevano a Venezia: detestavano Pietro Gradenigo, lodavano Baiamonte Tiepolo; i piombi, i molinelli, il canale Orfano con frequenti discorsi memoravano, gl'inquisitori di stato abbominavano. Capi a costoro erano un Giovanni Andrea Spada, di fresco uscito dai piombi, antico daziero, e come trovo scritto da alcuni, antico esploratore e rapportatore degl'inquisitori, ed un Tommaso Pietro Zorzi, di professione droghiere. Seguitavano, ma più celatamente, e più con desiderii dimostrati che con opere attive, un Gallino da Padova, un Giuliani da Desenzano, un Sordina da Corfù, finalmente un Dandolo da Venezia, uomo assai chiaro per fama, per dottrina, per eloquenza, e per un certo splendore d'animo e di corpo, che molto il rendevano osservabile. S'aggiungevano, come suol avvenire, donne amatrici di una politica libertà, che non intendevano; ma siccome elle avevano l'animo volto al bene, così formavano nelle facili fantasie loro una immagine di libertà, piena di ogni bene, spoglia di ogni male.

Ma trattando di coloro, che tenevano lo stato, alcuni per debolezza non erano capaci di risoluzione generosa, ed obbedivano al tempo: tal era il doge Manin, fievole per natura, perduto di consiglio. Altri per ambizione, o per opinione secondavano il moto. Notavansi principalmente fra costoro Pietro Donato, conferente eletto ad abboccarsi coi ministri esteri dopo la partenza di Pesaro, e Francesco Battaglia, stato provveditore in terraferma, e uno degli avogadori del comune. Quale pro sperasse quest'ultimo poter derivare da coloro, che gli avevano usato quel tratto del manifesto, io non lo so. Andavano con Donato e Battaglia, Alessandro Marcello, Antonio Ruzzini, Zaccaria Vallaresso, Alvise Pisani, Giacomo Grimani, Pietro Bembo, Daniel Dolfino, ed altri fra i savi attuali ed usciti. Nè da loro dissentiva Tommaso Condulmer, sopraintendente alle difese delle lagune, grande fondamento alle macchinazioni loro, perchè aveva la forza in mano, e le chiavi di Venezia. S'accostavano a tutti questi promotori di novità, parte ingannati, parte ingannatori, non pochi altri che credevano, che una mutazione nelle forme politiche avesse a ritrar la repubblica da quell'abisso in cui era precipitata; gente sincera e semplice, che non aveva giudicato ciò che significassero gli avvenimenti dati da Vienna e da Parigi per gli ambasciadori Grimani e Querini, le ribellioni di terraferma, la necessità  di compensar l'Austria, le fraudi non troppo coperte di coloro che governavano lo stato in Francia, le armi in Italia. Aveva contrastato a tutti questi gagliardamente Francesco Pesaro; poi quando cesse dalle faccende della patria, anzi dalla patria stessa, e che Battaglia per piacere a Buonaparte domandava il suo sangue, contrastavano la maggior parte dei savj di terraferma. Fra di loro più animosi si mostravano, e più vivi Giuseppe Priuli e Niccolò Erizzo, i cui nomi saranno sempre cari a chi sono care la patria e la indipendenza.

Principalissimo fondamento ai disegni dei novatori era Villetard, segretario del ministro di Francia, il quale, sebbene fosse stata dal generalissimo intimata solennemente la guerra ai Veneziani, continuava a starsene, come persona pubblica, a Venezia; ed anzi teneva alzato alla sua porta lo stemma della repubblica di Francia, testimonianza sensibile della rotta irregolarità di quei tempi, e della debolezza del governo Veneziano. Era Villetard giovane molto infiammato nelle opinioni di quei tempi, ma d'animo integerrimo, ed amico vero della libertà: i suoi maneggi in Venezia piuttosto da un grande errore di mente, che da perversità di cuore procedevano; perciocchè certo è, ch'ei si muoveva a voler cambiare il governo Veneto, perchè credeva in ciò servire alla libertà, in una forma collocandola, con la quale non poteva sussistere: le geometrie politiche gli avevano stravolto l'intelletto; ma certamente, s'egli avesse penetrato, o per meglio dire creduto o vero o possibile il disegno di Buonaparte di cambiar Venezia per poterla dare in preda all'imperatore, ne sarebbe stato abborrente, come abborrenti ne sarebbero anche stati i novatori Italiani, che si adoperavano nel procurar queste mutazioni.

Adunati, ed ordinati per tal modo tutti gli amminicoli di distruzione, restava ad ordinarsi il modo di usargli, perchè sortissero l'effetto proposto; del che i capi non istavano lungo tempo in forse. Villetard, Donato e Battaglia continuamente instavano presso il governo, acciocchè, riformando gli ordini, e riducendogli alla forma democratica, pensasse finalmente alla salute sua. Spaventavano rapportando, che il numero degli scontenti, e dei novatori era incredibile, che cresceva ogni dì più, che già erano sedicimila, e che già si congiurava a rovina dello stato. Di ciò d'ogni intorno apparire segni; già vedersi girare le nappe tricolorite; già udirsi voci e nascoste, e palesi di libertà; già dal vicino continente, da Padova massimamente, arrivare gli scritti incitatori, ed annunziatori di sinistri eventi; cambiate già essere in fondo da una fortuna insuperabile le parti estreme, e circonvicine della Veneta repubblica; doversi ancora, gridavano, cambiare il cuore, ed agli ordini nuovi delle parti estreme uniformarlo.

Tutte queste rapportazioni partorivano effetti maravigliosi in animi ammolliti da lunga pace, ed insoliti a sì terribili rimescolamenti. I raggiratori, veduto il tempo propizio, e temendo che la riforma si arrestasse a mezza strada, e che solo il governo si allargasse, ma non scendesse fino alla forma democratica, si misero in sul fare maggiori spaventi, ed in sul volere, che del tutto il patriziato si abolisse; tal era la mossa data dal generalissimo. Di questo negozio arrivavano cenni da Milano, dove Buonaparte si era condotto coi due legati Veneti, ai quali era stato aggiunto per terzo Alvise Mocenigo. Recavano le Milanesi novelle, la salute della repubblica consistere nell'abolizione del patriziato, e nella creazione della democrazia pura. Di questo scrivevano, come di volontà assoluta di Buonaparte, i Veneti legati; di questo quell'Haller, che si era fatto da pubblicano uomo di stato. Perchè poi non mancasse a questa fraude anche la parte del ladroneccio, si dava voce, che seimila zecchini di beveraggio, senza dir per chi, avrebbero fatto gran forza. Adunque tra gli spaventi e le speranze, tra le minacce e le promesse, si piegava la consulta del doge, e con lei il maggior consiglio ad ampliare il mandato ai legati, acciocchè potessero consentire all'annullamento del patriziato, ed alla creazione della democrazia. Fu anche fatto abilità al Savio cassiere di rimettere all'ebreo Vivante, perchè gli trasmettesse a Milano, i sei mila zecchini in tante paste d'oro e d'argento, che ancora si ritrovavano nella zecca. Se tutte queste insidie, e rapine fatte a Venezia nell'ultima fine della sua vita da uomini fraudolenti ed avari, non muovono a sdegno ed a compassione, bisognerà confessare, che la natura nostra sia del tutto diversa da quella, di cui si vanta.

Avendo Venezia ceduto, vieppiù insorgeva Buonaparte. Non si soddisfaceva del tutto del mandato fatto ai legati di consentire al cambiamento totale della forma del governo: desiderava, che il maggior consiglio di per se stesso rinunziasse alla sovranità, abolisse il patriziato, e creasse la democrazìa. Gli pareva questa mutazione più solenne, e più sicura. Desiderava al tempo stesso di occupare co' suoi soldati Venezia, e far apparire, che l'occupazione di una città tanto nobile e tanto importante in Europa fosse spontaneamente chiamata da dentro, non violentemente prodotta da fuori. In questo si proponeva anche altri fini di non poco momento, ed erano l'entrare di queto, l'avere intiero ed intatto l'arsenale, e tutto, che fosse del pubblico, il poter volgere tutte le forze del territorio Veneto contro l'imperatore, se la pace non si effettuasse, e contro l'Inghilterra, che tuttavia perseverava in condizione ostile; finalmente il poter trafficare della città stessa con l'Austria, dandogliela in vece di Mantova e di Magonza, che ad ogni modo la Francia voleva conservare in sua possessione. Per la qual cosa, mentre Villetard, e chi operava con lui tendevano insidie al governo in Venezia per ispegnerlo, Buonaparte negoziava molto apertamente fra i conviti e le feste, un trattato coi legati della repubblica in Milano.

All'indurre il gran consiglio a cambiare lui medesimo la forma del governo, ed all'introduzione di un presidio Francese indirizzavano Villetard, ed i Veneti che il secondavano, tutti i loro pensieri. Per questo si rendeva necessario il privare Venezia delle sue difese con disarmare i legni, e con allontanare gli Schiavoni, che vi alloggiavano in numero circa di dodicimila. Per questo Morosini, che aveva il carico di preservare quell'antica sede della sua patria, spargeva, che i congiurati crescevano di numero e di forza, che oggimai non si potevano più frenare, che nuovi soldati abbisognavano. Intanto da persone a posta si accusava la fede degli Schiavoni, si affermava, voler loro far un moto per saccheggiare. Dava favore a questi spaventi Condulmer, affermando, non essere le difese apprestate nelle lagune abili ad arrestar i Francesi, ove si risolvessero a passarle per assaltar Venezia; già esser grossi a Mestre, già da Fucina minacciare, già Brondolo, e Chioggia pericolare dalle armi loro.

Quando più operava nell'animo dei patrizi il terrore, parendo ai congiurati, che fosse il momento propizio, si appresentavano, per suggestione di Villetard, alle camere del doge Spada e Zorzi, facendo una gran pressa di essere uditi per cosa che, come dicevano, importava alla salute della repubblica. Furono destinati ad udirgli Pietro Donato, e Francesco Battaglia. Quest'era un concerto, perchè Donato, e Battaglia avevano avuto colloquio con Villetard al tempo medesimo dei due congiurati Spada e Zorzi, e sapevano quanto a narrare avessero. Rapportavano, essere stati con Villetard, avere udito da lui, che niun altro rimedio restava alla repubblica, che quello di cambiare incontanente la forma del governo con l'abolizione del patriziato. Si ordinava dal consesso, contrastanti però Erizzo e Priuli, e la maggior parte dei Savi di terraferma, a Donato, ed a Battaglia, visitassero il segretario di Francia, e intendessero da lui quello, che vero fosse dei detti di Spada, e di Zorzi. Tornati, riferivano, Villetard, non per modo di richiesta, ma di consiglio, avere dimostrato, importare alla salute della repubblica, come intenzione espressa di Buonaparte, che si abolisse nel giorno stesso il patriziato, s'instituisse la democrazìa, e di più le seguenti condizioni si effettuassero: si carcerasse il conte d'Entraigues, agente del re Luigi, e tutti i suoi ricordi si dessero in mano del generalissimo; si liberassero i carcerati per opinione; gli Schiavoni partissero; si surrogasse una guardia nazionale; si pubblicasse un manifesto per voce del governo; si creasse un municipio di trentasei Veneziani di ogni classe; le città di terraferma, e dell'isole Venete s'invitassero a mandar deputati in Venezia a fine di comporvi un consesso generale di governo temporaneo; tutti i delitti politici si condonassero; vi fosse libertà di stampare, sì veramente che del passato nè quanto alle persone, nè quanto al governo non si parlasse; si chiamassero i Francesi a presidiar la città con quattromila soldati, ed occupassero l'arsenale, il castello Sant'Andrea, Chiozza, e tutte le isole circonvicine, che fossero a grado del generalissimo; con questo l'assedio si togliesse; la guardia nazionale custodisse la camera, ed altri posti d'onore. Il doge Manin fosse presidente del municipio, Andrea Spada vice-presidente; Querini si richiamasse da Parigi; si mandassero deputati a Buonaparte per annunziar la nuova forma del governo; si spacciasse col fine medesimo alle repubbliche Batava, Cispadana, Transpadana, e Genovese.

A questi capitoli aveva voluto aggiungere Villetard l'abolizione della pena di morte; ma contrastato da Battaglia, se ne rimase. Altre condizioni aveva anche proposto Villetard, come giovane, e molto vivo in queste faccende, si aprissero i piombi a vista di popolo, l'albero di libertà si piantasse in piazza San Marco, si ardessero ai suoi piedi le insegne dell'antico governo. Ma Battaglia più prudente, e meglio avveduto delle cose del mondo, considerato che l'importanza del fatto consisteva nel ridurre il governo alla democrazìa, e nell'occupazione di Venezia dai Francesi, e che le dimostrazioni proposte più futili che utili, avrebbero potuto contrariare la deliberazione nel maggior consiglio, lo dissuase.

Accordati tutti questi capitoli fra i deputati della consulta del doge, ed il segretario di Francia, restava, che il maggior consiglio gli approvasse. Per questo Donato, e Battaglia avevano persuaso a Villetard, il quale voleva, che senza soprastamento si mettesse mano all'opera, aspettasse tre o quattro giorni, affinchè potessero fare le pratiche necessarie per indurre il maggior consiglio alla risoluzione. Incominciavano il maneggio con le solite promesse, e coi soliti spaventi: fra le altre insidie si mandava attorno una lettera di Haller, apportatrice delle risoluzioni di Buonaparte, che cessassero i dritti ereditarj, che si creasse la democrazìa, che si fondasse il governo rappresentativo: se nol facessero volontariamente, verrebbe egli a farlo per forza. Di notte tempo Spada svegliava all'improvviso Battaglia (quest'era una macchina concertata) gli mostrava la lettera, la mattina molto per tempo la recava alla signorìa. Il perchè la signorìa non abbia fatto gettar in canale lo Spada, che contro le leggi della repubblica andava, e veniva da un ministro estero, fu perchè la signorìa, e la consulta straordinaria del doge era parte debole, parte ingannata, parte d'accordo coi novatori. Intanto gli Schiavoni, sola sicurezza contro gli assalti e forestieri ed interni, erano stati fatti imbarcare, e già se ne stavano sulle navi, aspettando il vento prospero per alla volta di Zara; le lagune disarmate da Condulmer. Così Venezia, che aveva conquistato Costantinopoli, cacciato d'Italia un re di Francia, ed un imperatore d'Alemagna, ridotta ora inerme, ed abbandonata, collocava la sua fede, e la sua speranza in un nemico, che sotto spezie di amicizia la tradiva.

Era il giorno dodici di maggio destinato da chi regge queste umane cose alla distruzione della Veneziana repubblica. Era adunato il maggior consiglio, gli arsenalotti, ma pochi li custodivano; le navi difenditrici ritirate dall'estuario si accostavano vuote al Lido; si vedeva un avviluppamento degli ultimi Schiavoni, che s'imbarcavano; il popolo atterrito, nè ben sapendo che significassero quei sinistri presagi, si raccoglieva in folla intorno al palazzo: i congiurati di dentro discorrevano per ridurre il maggior consiglio a spegnere l'antico governo; i congiurati di fuori spargevano mali semi. Aiutava le fraudi loro la risoluzione del primo maggio favorevole al modificare le antiche forme. La setta democratica trionfava.

Orava il doge pallido, e tremante sui pericoli presenti: parlava delle congiure, dei desiderj di Buonaparte, dell'inutile resistenza e delle promesse date, se si riformasse: proponeva infine il governo rappresentativo. Mentre si stava deliberando, ecco udirsi improvvisamente alcune scariche d'archibusi fatte per festa, e per forma di saluto nell'atto del partire degli Schiavoni, che nel sottoposto canale s'imbarcavano; rispondevano, ugualmente per festa, e per forma di saluto coi tiri loro i Bocchesi alloggiati a san Zaccaria. Un subito spavento prendeva gli adunati padri; credettero, che fossero i congiurati intenti ad ammazzare il doge, e tutto il ceto patrizio, siccome n'era corsa la fama per le congiure; si aggiravano per la sala privi d'animo e di consiglio. Gridavano confusamente, e con gran pressa, parte parte, che in lingua Veneziana significava, squittinisi, squittinisi. Posto il partito, si vinceva con cinquecento dodici voti favorevoli, venti contrari, cinque non sinceri. A fine di preservare incolumi, diceva il decreto, la religione, le vite, e le sostanze degli amatissimi sudditi della città di Venezia, e di allontanare l'imminente pericolo di novità violente, ed altresì sulla fede, che fossero i giusti riguardi avuti verso il ceto patrizio, e verso tutti i partecipi dello stato, e con questo che la sicurtà della zecca e del banco fosse guarentita, conforme ai partiti già presi il primo, e quarto giorno di maggio; accettava il maggior consiglio il governo rappresentativo, purchè a questo fossero conformi i desiderj del generalissimo di Francia; ed importando, che in nissun momento senza tutela la patria comune restasse, si faceva carico ai magistrati di provvedervi. A questo modo i patrizi Veneti dell'antichissima loro autorità si dispogliarono, non con dignità in una tanta disgrazia, ma minacciati da due sudditi d'oscuro nome, ed aggirati da due colleghi infedeli; non per armi perirono, ma per insidie; non per imprudenza animosa, ma per imprudenza debole; non per assalto di un nemico aperto, ma per fraude di un amico disleale. Non mancò il popolo al governo, ma il governo al popolo, e morì una pianta con le radici buone, perchè era la testa guasta, nè ebbero i patrizi il conforto dello aver perduto lo stato per virtù soperchiata, perchè coraggio non mostrarono, e la cautela fu vizio. Epperò, se i buoni ebbero compassione a Venezia pel destino, la biasimarono per la debolezza; i tristi la schernirono. Ma certamente esempio terribile fu, e di funestissimi presagi pieno, quel tradire gli stati per prepararne la rapina. Il lagrimevole caso di Venezia turbò tutto il gius pubblico d'Europa, e fu peggiore di quel di Polonia, perchè in questo fu più violenza che fraude, in quello più fraude che violenza. I popoli presteranno difficilmente fede ai principi, quando ei dicono di essere i restitutori dei dritti, e degli stati legittimi, se prima non restituiscono Venezia. Forse alcuno dirà, che conviene all'Austria l'avere Venezia, ed al re dei Paesi Bassi l'avere il Brabante Austriaco: a questo sto cheto. Quanto all'Italia, perì con Venezia il principale fondamento della sua indipendenza, ed il più forte propugnacolo contro la potenza Alemanna. Era Venezia contro l'Alemagna quello, che era il re di Sardegna contro la Francia. Quella perì per fraude, questo per forza: si perdè l'indipendenza, non s'acquistò la libertà, l'Italia fu serva.

Poichè i patrizi ebbero preso il partito di rinunziare all'autorità propria, e di rimettere lo stato nelle mani di Buonaparte, tale un timore gli assalse in quelle stanze piene tuttavia delle immagini dei loro forti antenati, e di quanto fu da essi fatto di grande, e di glorioso sì in pace che in guerra, che non sapendo più nè dove restassero, nè dove gissero, si abbandonarono, come perduti, ad ogni affetto più disperato. Si ritraevano alcuni alle stanze private del doge, che tutto smarrito aveva dato ordine, che di tutti i ducali segni si dispogliassero: altri usciti all'aperto per ritirarsi alle case loro, lagrimando, e gridando, non è più Venezia, non è più san Marco, facevano uno spettacolo miserabile in mezzo alle turbe affollate, che ancora non ben sapevano, quale e quanta sciagura sovrastasse alla patria loro. I novatori, che pensavano, essere avvenuto quello che aspettavano, e tra questi un vecchio generale Salimbeni, soldato della repubblica, trepidando dall'allegrezza gridavano: viva la libertà. Ma il popolo, che prima era stato incerto, nè poteva recarsi nell'animo tanta abbiezione dalla parte dei patrizi, saputo il fatto, si accendeva di una furia incredibile ed incominciava minaccioso a fare una gran tumultuazione, chiamando unitamente il nome di san Marco. Cresceva la folla, a cui si erano fatti compagni pochi Dalmati non ancora imbarcati. Accorrevano le donne, i vecchi, ed i fanciulli, e con le voci davano gli ultimi segni del loro amore verso l'antica, e veneranda patria. Sventolavansi dalle finestre le bandiere di san Marco; tre si rizzavano sulle antenne piantate in cospetto alla chiesa di san Marco. Cominciavano le turbe rabbiose a correre gridando, e schiamazzando, e dove passavano, mettevansi a grado a grado fuori delle finestre le dilette bandiere. Ma non può il popolo sollevato star lungo tempo sui generali, anzi tosto dà nei particolari o d'amore, o d'odio. Avvertito, che in una delle contrade per alla piazza abitava un pizzicagnolo, che aveva fatto certe dimostrazioni a favor di un uscito dai piombi, correva alle sue case, ed in men che non si dice, sperdeva, o rompeva ogni mobile: poi trovatagli una nappa di tre colori addosso, gliela conficcava in fronte; già uno Schiavone stava in atto di mozzargli il capo, quando il mal arrivato, per iscampo della vita, prometteva di palesare i rei delle congiure. Nè così tosto usciva dalla sua bocca il nome di qualcuno, che una mano di popolo partiva per mettere a sacco la casa del nominato. Saccheggiavansi per tale modo Zorzi, Gallino, Spada, Zatta libraio. Fu avuto rispetto ai palazzi dei ministri, anche a quello di Francia. Villetard, non sapendo fino a qual termine potesse trascorrere quel furor popolare, si era nascosto dal ministro di Spagna. Là scriveva a quel governo, ch'egli medesimo aveva distrutto, che frenasse quell'impeto; là scriveva, la sollevazione essere opera degli agenti d'Inghilterra e di Russia, massimamente di Entraigues, quantunque nè l'Inghilterra, nè la Russia, nè Entraigues non vi avessero a fare cosa del mondo: la cagione era la distruzione del governo Veneziano procurata da Villetard medesimo; e bastavano bene le ingiurie fatte ai Veneziani, senza che vi fosse bisogno degli stimoli di Russia e d'Inghilterra. Villetard e Donato, ai quali più di ogni altro importava il calmar quel furore, facevano opera, che si adunassero alcune compagnie di soldati Italiani, e presidiavanne il ponte di Rialto. Vi conduceva Bernardino Reynier due cannoni, coi quali tratto, ed ucciso tre o quattro popolani, poneva fine a quell'incomposto accidente. Usavano Villetard, Donato e Battaglia la occasione, e preparato e mandato il navilio a Mestre la notte dal sedici al diciassette maggio, levavano, sotto il comandamento di Baraguey d'Hilliers, quattromila soldati Francesi. La mattina molto per tempo si scoprivano schierati sulla piazza di san Marco: soldati ed armi forestiere non mai viste in Venezia da quindici secoli. Creossi il municipio, si promisero cose, che non si attennero, lusingossi con le parole, gravitossi coi fatti, e tanto si continuò l'inganno, che la ricca e potente Venezia fu data, spogliata ed inerme, in preda all'imperator d'Alemagna. Da questo imparino i popoli, che la giustizia non è più fra gli uomini, che gli stati non si possono preservare che con le armi, e che il credere alle lusingherie ed alle promesse dei forestieri è un volere ingannarsi da se, per essere non solo preda, ma ancora scherno e segno di calunnie da parte dei forestieri medesimi.

Avevano Buonaparte, ed i legati Veneziani, ai quali, come abbiam narrato, erano state ampliate le commissioni, in Milano le preste novelle degli accidenti di Venezia, specialmente della rinunzia fatta nel giorno dodici dai patrizi, e della dissoluzione dell'antico governo aristocratico. Evidente cosa era, che avendo cessato di sussistere chi aveva dato il mandato, non vi era più luogo nè a negoziati, nè a conclusione di trattato. Ciò non di meno le pratiche si continuarono, dal canto dei Veneziani, perchè pareva loro, che una solenne asseverazione di Buonaparte di voler confermare la repubblica non potesse essere senza qualche effetto, dal canto del generale, perchè paresse del tutto volontaria, anzi richiesta la occupazione di Venezia.

Adunque con questi due diversi fini si stipulava da ambe le parti il giorno sedici maggio in Milano un trattato di pace e d'amicizia, tra la repubblica Francese e la Veneziana; cessassero tra di loro tutte le offese; rinunziasse da parte sua il gran consiglio al suo diritto di sovranità, ordinasse l'annullazione dell'aristocrazìa ereditaria, riconoscesse la sovranità dello stato consistere nell'universalità dei cittadini: a tutte queste cose consentisse con patto che il nuovo governo guarentisse il debito pubblico, il vivere dei patrizi poveri, le provvisioni a vita: la repubblica Francese concedesse, siccome ne era stata richiesta, una schiera di soldati a Venezia, acciocchè vi conservasse intero l'ordine e la tranquillità, vi tutelasse le persone e le proprietà, procurasse la esecuzione delle prime risoluzioni del governo nuovo; questi soldati partissero da Venezia, tostochè il nuovo governo dichiarasse non averne più bisogno; le altre truppe Francesi sgombrassero gli altri territori Veneti, tostochè la pace del continente fosse conclusa: si facesse sollecitamente il processo agl'inquisitori di stato, ed al comandante del Lido; la repubblica Francese perdonasse ad ogni altro Veneziano. Questi erano i capitoli mostrabili: i segreti contenevano altri effetti importanti: si accorderebbero le due repubbliche pel cambio di territorj, la Veneziana pagasse alla Francese tre milioni di tornesi, somministrasse una valuta di altrettanti in arnesi di marinerìa, le desse tre navi di fila con due fregate fornite di tutto punto, consegnasse a' commissari a ciò destinati venti quadri, e cinquecento manoscritti a scelta del generalissimo: la repubblica Francese s'interponesse a pace comune tra la Veneziana, e la reggenza di Algeri.

Di tale forma furono i capitoli del trattato concluso in Milano tra Buonaparte, e i Veneziani. A loro fu aggiunto quest'altro, e ciò se ancora resta luogo alla maraviglia, farà certamente maravigliare il lettore, che le due parti ratificassero nel più breve spazio il trattato. Il ratificarono intatti i municipali di Venezia, persuadendosi, non si vede come, nè perchè, che tutta l'autorità della repubblica, e del maggior consiglio in loro fosse investita. Negava Buonaparte la ratificazione, allegando, essere da parte dei mandatari Veneziani cessato il mandato, perchè era estinto il mandatore, il che era vero. Ma siccome già sapeva, quando stipulava, che era spento il mandatore, fu il suo stipulare fraude, per fare che i Veneziani ammettessero in Venezia i suoi soldati. Ma questi già essendo entrati, e l'antico governo, col quale l'Austria aveva congiunzione di amicizia, già essendo spento, il che era l'importanza del tutto, ei rifiutò la ratifica per non legarsi a niuna obbligazione col nuovo.

LIBRO UNDECIMO

SOMMARIO

Insidie contro Genova. Grave sedizione in questa città per opera dei novatori. I carbonari, ed altra parte del popolo insorgono contro i novatori, e gli vincono. Sdegno, e risposte funeste di Buonaparte: manda generali, e soldati per intimorir il governo col fine di obbligarlo a cambiare l'antica forma dello stato. Si fa la mutazione: legati Genovesi vanno a trovar Buonaparte per accordare con lui il modo del nuovo reggimento. Si crea un governo temporaneo. Umori, e sette in Genova. Constituzione foggiata a modo di quella di Francia. Mala contentezza dei popoli: terribile sommossa nel Bisagno, e nella Polcevera. Condizioni del Piemonte. Il re fa nuove dimostrazioni d'amicizia verso la Francia. Astute insinuazioni, e progetti d'ordinazione politica dell'Italia fatti dall'ambasciador Piemontese a Parigi. Trattato di alleanza tra il re, e la repubblica Francese. Moti sediziosi, e supplizi in Piemonte: morte lagrimevole di Carlo Tenivelli, storico insigne: sue lodi.

La forza aveva insidiato Venezia; le chimere di una libertà fallace le diedero il tracollo. La medesima forza, e le chimere medesime usando Buonaparte contro Genova, la tirava ancor essa all'ultimo eccidio. Vedevano, e sentivano il governo, ed il generale di Francia, che a voler diminuire l'autorità dell'Austria in Italia, era necessario il cambiare i governi antichi in nuovi; perchè giudicavano, che i primi avrebbero consuonato con Austria, i secondi con Francia. Tale necessità diveniva agli occhi loro tanto maggiore, quanto più, fatta l'Austria padrona dello stato Veneto, aveva modo d'ingerirsi, e di travagliare più efficacemente l'Italia. Poi a qualunque modo era sorto l'uso di sovvertir gli stati parte per capriccio, parte per ischerno, e parte anche, credo, per modo di trattenimento. Per tutte queste ragioni, non ancora terminata, ma già prossima a terminarsi la tragedia di Venezia, scriveva Buonaparte a Faipoult, ministro di Francia a Genova, ed operatore attivo dei disegni del generale, che la rovina di Venezia doveva partorire necessariamente la rovina dell'aristocrazìa di Genova; ma che ancora non era tempo di scoprirsi, usando in questo, secondo il suo solito, la natura della volpe prima di quella del lione. Sapeva, che il governo Genovese non avrebbe gagliardamente contrastato, quantunque in lui fosse più vigore, che in quello di Venezia, sì perchè alcuni fra i senatori erano abbacinati dai fantasmi dei tempi, e sì perchè nel ceto medio era molta opinione contraria, credendo molti, che la democrazìa fosse da anteporsi all'aristocrazìa, come se i modi di reggimento politico indotti in Italia a quei tempi fossero democratici. Aggiungevansi i capitali Genovesi investiti in gran parte in Francia, ed i traffichi tra Francia e Genova frequentissimi, cose molto tenere, e capaci a far calare i Genovesi ad un primo romore d'armi. Infine pei passi frequenti delle genti di Francia sulle riviere, erano sorte in esse le opinioni nuove. Savona titubava e per questo, e per le antiche emolazioni. Alcune fortezze, e molti siti del Genovesato erano in mano dei Buonapartiani. Nè a questo contenti il direttorio, e Buonaparte, avevano operato, che Rusca e Serrurier appoco appoco, e sotto altri colori le schiere loro accostassero a Genova, e che l'ammiraglio Brueys comparisse con navi grosse e sottili nelle acque delle riviere.

Genova pericolava; ma molte erano le insidie interne. Spargevansi artifiziosamente voci, che la Francia voleva dare la riviera di ponente al re di Sardegna, e si affermava, che una tale calamità solo si poteva allontanare con ridurre il governo a forma più consimile a quella di Francia. Queste voci Faipoult, magnificando la fede della sua repubblica, e quasi sdegnandosi, asseverava essere false e calunniose. Buonaparte ed egli richiedevano nuovi presti di parecchi milioni alla signorìa, consumata ed odiosa ai popoli, se gli concedesse, accusata d'inimicizia verso Francia, se gli negasse. Il farla vile fu anche parte dell'insidia; perchè un consiglio militare Francese adunatosi nella sede stessa della repubblica processava, e condannava al bando da tutti i territorj di Genova il marchese Agostino Spinola, come reo delle turbazioni sorte contro i Francesi nei feudi imperiali. Non era più sovranità dove un tribunale forestiero dannava un cittadino: mancava col buon concetto la forza dello stato. Nè l'opera dei novatori di dentro si trascurava. A questi erano capi alcuni Genovesi, alcuni forestieri. Fra i primi osservabile era massimamente lo speziale Morando, uomo precipitoso, e di estremi pensieri, e che credeva che ogni cosa fosse lecita per arrivare a quella libertà ch'ei si figurava in mente. Fra i secondi più vivo e più operativo si mostrava un Vitaliani da Napoli, il quale, sebbene non tanto veemente fosse, quanto Morando, era non pertanto assai più di lui pericoloso, perchè aveva facile favella alla Napolitana, efficacia a persuadere maravigliosa, bel porgere, e bella persona, ed era entrante molto e manieroso. Forestiero si mescolava nelle cose Genovesi a dissoluzione della repubblica, e con patente d'impiegato dell'ambascerìa di Francia tendeva agguati ad una potenza, a cui la Francia protestava amicizia. Erano costoro favoriti da Faipoult più nascostamente per la sua qualità pubblica, da Saliceti a questi fini venuto a Genova, più apertamente. Vociferava Saliceti, doversi, poichè l'aristocrazia di Venezia si era spenta, spegnere anche quella di Genova. I novatori sicuri omai dell'esito, s'adunavano, s'indettavano, s'accordavano, s'apprestavano; più il termine s'avvicinava, e più palesemente operavano. Incitamenti continui andavano dall'ambasciata di Francia a Morando, e solo si aspettava che Venezia fosse perita del tutto per far perir Genova. Avvertito il governo, creava inquisitori di stato con ampia facoltà, e per opera loro carcerava Vitaliani. Se ne risentiva gravemente Faipoult, richiedeva la sua indennità, come di Francese. Per tal modo non solamente si voleva che si macchinasse, ma ancora, che si macchinasse impunemente. La signorìa essendo sforzata, rimetteva il Napolitano in libertà. Vitaliani e Morando con somma attività si adoperavano. A loro si faceva compagno un Filippo Doria o per ambizione, o per opinione. Tutto era contaminato, l'esca apprestata, le occasioni si aspettavano. I giornali di Milano, comandando ciò, o permettendo Buonaparte, continuamente straziavano l'aristocrazìa Genovese, e con infiammate parole provocavano i popoli contro di lei. Di tanta mole era per chi tanto poteva, il distruggere la piccola repubblica di Genova. Si pruovava nell'estremo caso ad insorgere, gl'inquisitori di stato facevano carcerare due dei più audaci e temerari novatori, sperando, che il timore potesse frenare quella gente incitatrice. Fu indarno, poichè tanto favore l'ajutava dentro e fuori. Questa fu scintilla a suscitare ad incendio il fuoco che covava. Non così tosto giungeva ai congiurati la novella della carcerazione dei compagni, che furiosamente dato all'armi o proprie, od a questo fine apprestate in casa Morando ed avendo Morando medesimo con Vitaliani e con Filippo Doria a guida, facevano improvvisamente, era il giorno ventuno di maggio, un tumulto terribile. Si rallegrava Faipoult, che la rivoluzione nascesse in Genova per opera dei Genovesi, perchè in quella rivoluzione ei voleva ben essere, ma non parere. Essere, scriveva a Buonaparte, creato un filo a poter muovere facilmente i collegi, i consigli, e ad operare la riforma inevitabile di Genova più o meno prestamente, secondochè meglio o come a Buonaparte si convenisse, o per modo che il mondo vedesse, che la Francia, non ingerentesi nella constituzione politica di un popolo amico ed independente, non vi aveva posto mano che come protettrice della quiete di questo popolo stesso, e per allontanare da lui tutte le disgrazie di una rivoluzione. Venuti da Faipoult due legati del senato, Gian Luca Durazzo, e Francesco Cataneo, il pregavano, che facesse dimostrazione di non secondare i novatori, ed operasse, che la frenesìa dei giornali Milanesi contro Genova cessasse. Dava loro la volta sotto sulla prima richiesta, speranza per la seconda. Si metteva poscia sull'esortargli a riformare essi medesimi lo stato, ed a biasimargli dei tridui e delle novene, come di dimostrazioni dirette ad odio dei Francesi: cercava infine di temporeggiare, perchè gli accidenti di Venezia finissero. I congiurati con ischiamazzi orribili, e con grida spaventose, cantando a tratto tratto la marsigliese (fu questa una canzone con musica molto espressiva, che incitò potentemente in quell'età gli spiriti ad opere straordinarie) s'incamminavano al palazzo ducale. Aggiungevansi per istrada, come suole avvenire, nuovi congiurati, e fra il popolo i più tristi, e chi più ambiva il sangue o il sacco. A tanto romore si adunava una calca incredibile fra quelle strette vie di Genova; serravansi a furia le botteghe; i buoni fuggivano, od erano tratti dalla tempesta. La folla tumultuosa giunta al palazzo, dov'era raccolto il senato, con minacciose grida addomandava i carcerati. Rispondevano con molta costanza i padri, a buona ragione sostenersi, si farebbe giustizia, fra breve paleserebbero al popolo l'intento loro. I sollevati avrebbero voluto sforzare il palazzo; il vietavano le guardie; si rimanevano, perchè in quel primo impeto non avevano nè armi sufficienti, nè accordo, nè numero che bastasse. Traevano alle case del ministro di Francia, sperando che gli ajuterebbe. Gli confortava dicendo, s'interporrebbe, e le dimande loro al senato esporrebbe. Fatti più sicuri cambiavano il furore in allegrezza, e sparsi per le piazze, e nei ritrovi sì pubblici che privati, facevano grandi festeggiamenti. La sera, sforzato il teatro, vi commettevano remore, anche con oltraggi dei pacifici cittadini. Riscaldati dal vino e dalle cose fatte, passavano la notte, che era una delle estreme della loro antica e veneranda patria, fra l'allegrezza dei piaceri presenti, e la cupidigia dei tumulti avvenire.

Sorgeva ai ventidue l'alba, che doveva addurre a Genova un giorno funestissimo. Prorompevano dai ritrovi loro i congiurati, e ad ogni momento, e ad ogni passo ingrossandosi per l'accostamento di nuovi compagni, facevano una turba assai numerosa. S'aggiungevano ai Genovesi non pochi Lombardi, venuti ancor essi all'alito delle rivoluzioni; nè mancavano Francesi, ancorchè fossero in minor numero. Inalberavano, perchè non mancasse ai fatti anche il segno della ribellione, sui cappelli chi la nappa Lombarda, e chi la Francese, ambedue tricolorite, questa col turchino, quella col verde. Gridavano, viva il popolo, viva la libertà. S'avviavano al palazzo di Faipoult, dove ammassati diventavano più terribili per impeto, e per numero. Il senato senza difesa pel caso improvviso, si era perduto d'animo, ed aspettava, invece di operare.

Il popolo fedele al principe non si muoveva, perchè sorpreso a quell'accidente insolito non aveva ancor ripreso gli spiriti, e forse non credeva, che i sollevati volessero trascorrere agli estremi. Andando loro il moto a seconda, ardivano cose maggiori, ed orrende. Traevano alle prigioni della mal paga, sentina infame d'indebitati e di falliti, e rotte le porte non senza qualche violenza sanguinosa, e liberati ed armati i prigionieri, se gli facevano compagni ai disegni loro. Cresceva il furore: quel che dava la massima dell'esser lecito tutto per acquistar la libertà, secondava la natura sempre precipitosa del male al peggio. Impadronitisi della darsena, davano la libertà ai condannati, e poste loro le armi in mano correvano con l'infame satellizio di ladri, e d'assassini a disfare uno dei più illustri governi del mondo: tempi atroci, in cui la misera Genova era insidiata occultamente dai potenti dominatori d'Italia, ed impugnata apertamente dai suoi cittadini misti ai mancatori di fede, ed ai galeotti! esempio da piangersi eternamente che si sia cercata la libertà non solo coi rei propositi, ma ancora con operatori scelerati.

Tornando alle opere Morandiane, fatto i sollevati concorso sulla piazza, e preso maggior animo da quei primi successi, bandivano con allegria, e romore incredibile, essere spenta l'aristocrazìa, Genova libera, i poveri esenti dai tributi, cassi gli antichi magistrati, creati i nuovi. Ma ancora temevano le porte in mano del governo, ed i popoli del Bisagno e della Polcevera deditissimi al nome del principe ed all'antica repubblica. Però credendo non esser compiuta l'opera, se allo aver acquistato l'interno non aggiungevano l'assicurarsi delle porte delle mura, spedivano, a ciò consigliati da Morando e da Doria, i più audaci ed i meglio armati, ad occupar l'arsenale, il ponte reale, la lanterna, le porte di San Tommaso e di San Benigno. Il che veniva loro agevolmente fatto, sorpresi essendo e pochi i difensori.

Intanto s'era il senato raccolto timoroso, e non pari a tanto estremo. Consultavano discordi, statuivano spaventati. Mandavano legati a Faipoult, perchè lo pregassero, s'interponesse a concordia, ed offerissero riforme negli ordini antichi. Piaceva la profferta al Francese, per essergli aperta l'occasione, e condottosi al senato, con efficacissime parole esortava i padri, cedessero al tempo, s'accomodassero al secolo, riformassero lo stato, verso gli ordini democratici l'allargassero, questa sola via di salute restare. Stanziavano, poichè oggimai era tolto ogni modo di deliberare sanamente, si traessero quattro patrizi, i quali convenendo con quattro deputati del popolo, fra di loro accordassero come e quanto la forma antica dovesse scendere alla democrazìa. S'eleggevano i patrizi, gli eletti del popolo non comparivano; riuscì vano il tentativo. La massa dei novatori infuriata correva al ducale palazzo, e contro di lui piantava un cannone, sforzandosi di entrarvi; ma cessava vedutolo ben custodito. Risuonavano intanto le grida, viva la libertà, morte agli aristocrati; pareva ormai spenta l'antica repubblica. Trionfavano Vitaliani, Morando, Doria, nè pareva che vi fosse più rimedio per reprimere la ribellione.

Ma ciò, che non aveva fatto il senato senz'animo e senza forza, il faceva il popolo, parte per odio contro i novatori, parte per amore verso l'antico stato, parte per riverenza alla religione, perchè temevano lei aversi ad oltraggiare in Genova, come credevano esser stata oltraggiata in Francia. Si adunava, correndo da ogni lato, principalmente dal porto, una gran massa di popolo minuto, carbonari e facchini massimamente, ed opponendo all'improvviso grida a grida, nappe a nappe, armi ad armi, rendevano dubbia una vittoria, che già pareva certa. Facevano risuonare per tutta la città voci festose ad un tempo, e minacciose, gridando viva Maria, viva il principe, viva la religione, morte ai giacobini, che con questo nome chiamavano i novatori: rizzavano intanto sui cappelli per nappa una piccola immagine di Maria: per questo chiamava Buonaparte i preti genovesi vile e scelerata gente. Solo lodava l'arcivescovo. Gli amatori del governo antico, siccome quelli che avevano a combattere coi libertini bene armati, anche di artiglierìe a cagione della presa dell'arsenale, avvisavano d'impadronirsi dell'armerìa, nella quale essendo entrati, distribuite a ciascuno le armi, con ardore inestimabile si mettevano a correre contro la parte contraria. A loro si accostavano i soldati regolari rimasti fedeli alla repubblica, e fra questi alcuni, che sapevano maneggiar le artiglierìe. Infelice città, che vedeva rinnovarsi nel suo grembo, le spente da lungo tempo, e sempre feroci fazioni. Si attaccava una battaglia asprissima, dove i padri combattevano contro i figliuoli, i fratelli contro i fratelli; ed il suono delle armi civili, già da lungo tempo insolito, si udiva da lungi nei più secreti recessi dei liguri Apennini. Traevano le artiglierìe furiosamente, si mescolava l'archibuserìa; da vicino si ammazzavano coi ferri, e quando non avevano ferro, con le mani. Maggiore era la pressa nei luoghi occupati dai libertini, perchè gli avversari, essendo nella possessione di essi posta tutta l'importanza del fatto, gli volevano a tutta forza sloggiare, massime alle porte, all'arsenale, ed al ponte reale, dove Filippo Doria combatteva valorosissimamente. Durava la battaglia parecchie ore: prevaleva finalmente la parte del senato, ricuperati, non senza molta fatica e sangue, dagli uomini fedeli a lui tutti i posti. Il quale fatto saputosi dai Morandiani, era cagione che precipitosamente abbandonassero l'impresa. La maggior parte fuggirono, o nelle private case si nascosero: i più animosi ristrettisi insieme, si facevano sforzatamente strada al ponte reale, che si teneva ancora per loro mediante il valore di Filippo Doria. Gli seguitavano i vincitori, e s'accendeva a questo ponte una battaglia ostinatissima, combattendo dall'un de' lati la disperazione, dall'altro il furore, ed il numero ognor crescente delle genti. Erano finalmente oppressi i Morandiani con ferite, e morte di molti: morì Doria medesimo. Usavano i vincitori molta crudeltà, come nelle guerre civili. Il cadavere del Doria fu lunga pezza ludibrio a quegli uomini infieriti. Nacquero fra questo sanguinoso scompiglio fatti parte tremendi, parte ridicoli. Uno schiavo turco, che i novatori avevano liberato, quando si erano impadroniti della darsena, e condotto con loro, ed ammaestrato a gridar viva il popolo, incontratosi in una folla di carbonari, e non sapendo più oltre, diede tal grido, e ne fu malconcio orribilmente. Gli dissero, che bisognava gridar viva Maria, ed ei si mise a gridare, viva Maria; ma trovatosi di nuovo fra quel garbuglio in mezzo ad una truppa di novatori, questi, sentito il viva Maria, il maltrattarono per forma che per poco non l'amazzarono. Il pover uomo tutto pesto, nè sapendo connettere accidenti tanto strani, andava gridando, che i cristiani erano diventati matti, ed avea ragione. Perirono in mezzo a quella furia parecchi Francesi, parte mescolati coi sollevati, parte non mescolati, perchè avendo i Morandiani inalberato chi la nappa Francese, chi la Lombarda, di lontano simile alla Francese, erano tenuti complici, ed ammazzati dagli avversari tutti coloro che portavano le nappe tricolorite. Ciò fu in mal punto, perchè Buonaparte ne prese occasione per disfar il governo. Del resto i Morandiani fecero da se, e messi su dai forestieri; i carbonari da se, e solo spinti da odio e da fedeltà: ma più da odio che da fedeltà: nè nel fatto loro il senato ebbe ingerenza alcuna, salvato piuttosto dal popolo, che da se. Si vegliava la notte fra il dolore dei morti, il terrore dei vivi: s'accendevano i lumi alle case da chi per gioia, da chi per paura, perchè i carbonari minacciavano. Il senato vincitore per opera altrui, di nuovo s'adunava per consultare sulle turbate cose. Mostravasi Giacomo Brignole doge al popolo, da cui era veduto, e salutato con grandissimi segni di allegrezza. Faipoult, veduto che la forza dei novatori era stata indarno, tornava sull'esortare, e più accesamente di prima insisteva sulla necessità delle riforme.

Si stava intanto per la signorìa in grandissima apprensione del come l'avrebbe sentita Buonaparte; perciocchè presso a lui stando il dominio di tutta Italia, a volontà sua vivevano, o morivano gli stati. Gli scriveva il doge in nome del senato lettere molto sommesse di rammarico, e di scusa pei Francesi uccisi. Arrivavano, portate da Lavallette, aiutante del generalissimo, risposte funestissime: Buonaparte non era uomo da non usar bene la occasione; non potere, scriveva, la repubblica Francese tollerare gli assassinj, e le vie di fatto di ogni sorte commesse contro i Francesi in Genova da un popolo senza freno, suscitato da coloro, che avevano fatto ardere la Modesta, e maltrattare i cittadini Francesi; se fra ventiquattr'ore i carcerati non si liberassero, se coloro, che il popolo contro di loro avevano provocato, non si carcerassero, se la feccia di quel popolazzo non disarmasse, aver vissuto la Genovese aristocrazìa, e partirsi da Genova il ministro della repubblica: stare la vita dei senatori per quella dei Francesi in Genova, tutto lo stato per le proprietà loro. Con queste parole superbe ed oltraggiose parlava Buonaparte ad un governo venerabile per l'antichità, e capo di un popolo ingegnoso e forte. Ma i carbonari non avrebbero uccisi i Francesi, se i Morandiani, il capo dei quali era stato munito di patente Francese dal ministro di Francia, non avessero essi primieramente incominciato la ribellione e la uccisione degli uomini fedeli all'antico stato. Quel ritoccar poi della Modesta in questo fatto, era cosa del tutto insopportabile. Del resto, tale fu la forza della verità, che Faipoult attestava ed affermava a Buonaparte, che il governo Genovese aveva fatto in quell'accidente quanto per lui si era potuto, per evitar i disordini; che in facoltà sua non era di comandare a coloro, che, non che gli obbedissero, gli comandavano e li difendevano: che delle uccisioni dei Francesi i patriotti erano stati cagione per aver inalberato i tre colori; che senza questa insolenza democratica niun Francese avrebbe perduto la vita; che i democrati soli avevano messo in pericolo i Francesi; ch'essi avevano fatto oltraggio alla repubblica Francese per aver usurpato i suoi colori nazionali; ch'essi finalmente avevano operato pazzamente per l'impeto sregolato, infamemente per l'apertura delle carceri e delle galere. Da tutto questo si vede, che Genova era del tutto innocente del sangue Francese, e che la collera di Buonaparte, vera o finta che si fosse, per la morte dei Francesi, non contro di lei, ma contro quelli che avevano voluto fare la rivoluzione, avrebbe dovuto sfogarsi.

Quest'era la condizione di Genova. Il senato sbigottito, e servo della moltitudine, e diviso per le opinioni, perchè la parte Francese, che desiderava le riforme, aveva acquistato maggior favore per gli accidenti presenti. Inoltre ei si trovava tra il non poter inveire contro il popolo, perchè lo avea salvato, ed il dover inveire, perchè gli agenti del direttorio gridavano vendetta. La moltitudine armata, fatta la buona opera di redimere il principe, prorompeva, come suole, in opere ree, oltraggiando e manomettendo gli onesti cittadini, solo perchè gli aveva per sospetti. Taccio, che la casa di Morando spogliarono da capo in fondo; ma già incominciavano a spogliar le case, non solo degl'innocenti, ma ancora dei benemeriti; ogni cosa piena di terrore. Insisteva più acerbo che mai Faipoult, perchè si scarcerassero i Francesi, si arrestassero gli uccisori, si dichiarasse, non aver i Francesi avuto parte nella ribellione. Temendo poi che solo si punissero gl'infimi assenti, e si salvassero i capi presenti, richiedeva con imperio insolente dal senato, forse non ricordandosi, o fors'anche ricordandosi di avere scritto a Buonaparte, che era innocente, carcerasse, e ad arbitrio di Buonaparte serbasse Francesco Maria Spinola, Francesco Grimaldi, inquisitori di stato, e Niccolò Cataneo patrizio, per avere provocato, secondo le allegazioni di Lavallette, in ogni possibil modo gli atroci fatti contro i Francesi, e per essere stati autori principali delle risoluzioni prese negli ultimi tempi; sconce ambagi, che coloro, cui Faipoult aveva dichiarato un giorno prima innocenti, fossero dichiarati un giorno dopo rei. Certamente erano Spinola, Grimaldi e Cataneo rei, non d'alcuna morte di Francesi, ma bene dell'amare la patria loro, e del volerla preservare dalla tirannide forestiera. Infuriava Lavallette, e secondava Faipoult. Affermava, che i carbonari erano stati pagati, perchè uccidessero i Francesi, e che i Francesi per ordine espresso erano stati assassinati. La qual cosa se fosse tanto vera, quanto è falsa, pruoverebbe, che gl'inquisitori di Genova fossero piuttosto pazzi, che feroci; perchè in tanta potenza della Francia in tutta Europa, principalmente in Italia, non si vede che cosa importasse la morte di cinque o sei Francesi isolati ed inermi, se non a far sobbissar Genova. Il versar sangue poi solo pel piacere di versarlo, s'imparava solamente alla scuola di Buonaparte. Orrore, dolore, terrore prendeva i senatori alla richiesta. Resistevano in prima, poi spinti dall'ultima necessità, arrendendosi facilmente quei della parte Francese, a loro malgrado consentirono.

Dell'altra richiesta dei prigioni fu soddisfatto senza molto contrasto a Buonaparte; liberavansi i Francesi. Ma più cedeva Genova, e più Faipoult moltiplicava le domande: ottenuta la libertà  dei compatriotti, addomandava quella dei Lombardi, non per altro venuti, che per sovvertire lo stato, e presi con le armi in mano mescolati coi ribelli. Consentiva per forza il senato: portarongli i compagni a trionfo per quella città, che testè avevano bruttato di sangue. Del disarmamento, faccenda tanto necessaria, quanto difficile, consentiva facilmente, e dava anche un premio di due lire a chi portasse le armi all'armerìa del pubblico. Restava, che a petizione di Faipoult pubblicamente dichiarasse, non essere stati i Francesi mescolati nella ribellione; al che non si lasciava piegare. Bene mandava fuori un manifesto esortatorio ai popoli, acciocchè avessero i Francesi in grado di amici, affermando, che la salute di Genova dall'amicizia di Francia si poteva solo, ed unicamente aspettare. La quale esortazione dispiacque oltre modo al popolo, che soltanto vedeva le trame, e non conosceva il modo di passarle per la politica.

Il fine principale a cui miravano tante arti, spaventi e minacce, non era punto nè la liberazione di pochi carcerati, nè l'incarcerazione di pochi magistrati, cose tutte nè stimate da Buonaparte d'importanza, nè usate se non per mezzi. Bensì ei voleva la mutazione, affinchè dalla nuova forma fossero esclusi gli amatori dell'indipendenza, e gli aderenti dell'Austria, ed inclusi i partigiani di Francia. Perlochè, vintesi dagli agenti del generalissimo le prime domande, insorgevano con maggior calore, richiedendo il senato, riducesse lo stato a forma più democratica, e facesse abilità ai legati che si volevano mandar al generalissimo, di accordar con lui il cambiamento che si desiderava. Rappresentavano, non altro modo esservi di quietare gli spiriti, se non quello di chiamare anche i popolari al dominio; considerassero, con quanta fatica e quanto sangue s'era poc'anzi l'antica forma potuta conservare, solo perchè non era più consentanea alle opinioni dei più; doversi dare sfogo a questi nuovi umori, se non si voleva che inondassero con rovina della repubblica; per questo solo atto acquisterebbe il senato nella liberata Italia somma autorità, e loderebbe Milano Genova, quel Milano, che allora la scherniva; con questo solo atto si renderebbe sicura la integrità della repubblica, che allora era dubbia; ciò desiderare la repubblica Francese, ciò volere Buonaparte; ciò fatto, sperimenterebbegli Genova così facili ed amichevoli, come allora gli trovava ritrosi ed avversi; divenuti essere odiosi i privilegi; il rinunziarvi, e l'accomunarsi esser da savio, perciocchè altro non era che perdere una chimera con acquistare una realtà; parecchie volte aver Genova mutato modo nel corso dei secoli, ora allargandolo al popolare, ora restrignendolo all'aristocratico secondo i tempi; che ora tornasse al popolare, essere non solo necessario, ma ancora non insolito: cedessero adunque, ed in quella sola risoluzione vedessero la salute della repubblica.

Queste esortazioni fortissime in se stesse, operavano gagliardamente. Pure trovavano non poca difficoltà; perchè molti dei senatori vedevano in quei reggimenti democratici non amore, nè gratitudine per la rinunziazione dei privilegi, ma scherni e persecuzione, nè cambiando era andare dall'aristocrazìa alla democrazìa, ma bensì dal dominio consueto al dominio di una parte prepotente. Atterriva anche l'esempio di Venezia, che già si vedeva passare, pel cambiamento fatto, non alla libertà ed alla concordia, ma prima alla servitù di una parte, poi alla servitù forestiera. Così si stava in pendente, e, come accade nei casi dubbj e pericolosi, si amava lo stare, solo perchè lo stare era consueto.

Mentre si deliberava nel piccolo consiglio di quanto si dovesse fare in quella occorrenza di suprema, anzi di unica importanza per la patria, comparivano le prime squadre di Rusca, le quali, sparsesi prima per la Polcevera, si distendevano poscia insino alle porte di Genova. Si udiva eziandìo, che Serrurier poco lontano succedeva con le sue, e che da Cremona si muovevano nuovi soldati per dar rinforzo a Rusca ed a Serrurier, ove da per se non bastassero. Erasi appresentata alcuni giorni innanzi alla bocca del porto l'armata di Brueys; ma per la istanza del senato, e per la tempera del popolo, che non l'avrebbe lasciata entrare quietamente, aveva Faipoult operato, che l'ammiraglio se ne tornasse verso Tolone; del che, qual debole e timoroso, fu poscia aspramente biasimato da Buonaparte. Sebbene però l'armata Francese si fosse ritirata, si sapeva, che andava volteggiandosi ora a vista, ed ora poco lontana dalla riviera di ponente, e poteva dar animo, e fare spalla facilmente ai novatori della riviera, ed a quei della metropoli. Nè fu l'esito diverso dal prevedere; perchè tra la presenza di Rusca nella Polcevera, alcune squadre di soldati Francesi sparsi nella riviera, e la prossimità di Brueys, si tumultuava in vari luoghi, non senza sangue; gli abitatori delle ville e delle montagne combattevano acremente i novatori. Ciò non ostante questi ultimi erano rimasti superiori in Savona, città principale in quelle piagge, e già in ella, e nel Finale, e nel porto Maurizio avevano piantato l'albero, che chiamavano della libertà. Il senato minacciato da una setta potente nella sua sede medesima, attorniato da soldati forestieri, lacerato dalla guerra civile, stretto continuamente dagli agenti di Francia, che sempre parlavano dello sdegno del direttorio, e di Buonaparte, non aveva più libertà di deliberare.

Cedevano i padri, perchè il contrastare era impossibile. Statuivano, si riformerebbe lo stato; la mutazione, quantunque in termini generali, al popolo si annunzierebbe. Mandavano poi legali a Buonaparte, con facoltà di accordare con lui la forma futura degli ordini politici, i nobili Michel Agnolo Cambiaso, Luigi Carbonara, Gerolamo Serra, i due primi amatori di un governo popolare più largo, l'ultimo di uno più stretto, ma uomini tutti di singolare ingegno, ed anche di natura buona e forte, se fati migliori avessero conceduto, che la bontà e la fortezza potessero giovare alla patria. Partivano i deputati per Montebello, alloggiamento di Buonaparte. Partivano anche, conseguito l'intento, alla volta medesima Faipoult e Lavallette, per informar il generale dell'adempimento delle commissioni loro, e per consigliarlo intorno alle persone, che per gl'interessi di Francia si convenisse introdurre nel nuovo reggimento.

Il doge, i governatori, ed i procuratori della repubblica avvertivano il pubblico, mandarsi legati a Buonaparte, perchè ai pericoli esterni, ed alle turbazioni interne di Genova provvedesse. Lodavano la lealtà di Faipoult, conforme, dicevano, a quella della gran nazione; sperare, con l'ajuto della divina provvidenza, poter facilmente compire un'opera conducente a conservazione della repubblica, ed a contentamento di tutti, e sulla quale a tempo debito si sarebbe chiamata a consiglio tutta la nazione: se ne vivessero intanto quieti, esortavano, e non corrompessero con moti inopportuni una occasione, dalla quale dipendevano il riposo, e la felicità di tutti.

Spedivano al tempo stesso il nobile Stefano Rivarola a Parigi, comandandogli, in una faccenda di tanto momento per la repubblica, s'ingegnasse con ogni possibil modo di fare, che la forma antica, il meno che fate si potesse, si alterasse, e la integrità dei territorj in sicuro si ponesse.

Il direttorio di Francia era per le cose d'Italia piuttosto servo, che padrone di Buonaparte, e però a Montebello piuttosto che a Parigi si doveva definire il destino di Genova. Combattevano a questo tempo in Buonaparte due diversi pensieri, la necessità delle cose, e la volontà di secondare, pe' suoi fini particolari, i desiderj dei principi. Il primo lo sforzava a far le rivoluzioni, perchè l'operare senza posa era per lui mezzo di non lasciar illanguidire la fama, che si era acquistata; il secondo lo spingeva a far sicure le monarchie, a rivoltar solo le repubbliche, e queste o spegnere, o lasciarle dare nella democrazìa meno che potesse. Questi consigli operando in lui efficacemente, erano cagione, che, cambiando gli antichi ordinamenti di Genova, non gli lasciasse scendere sino alla pura ed inquieta democrazìa, e che la somma delle cose confidasse, non a gente fanatica e spaventevole ai re, ma bensì a uomini temperati e savi, che o per necessità consentivano al cambiamento, o volevano la democrazìa mista e con leggi, non pura e senza leggi. Questi pensieri consuonavano con quelli dei legati, ed anche la volontà del vincitor Buonaparte non era contrastabile. Per la qual cosa non fu lungo il negoziare, e addì cinque giugno si concludeva un accordo per mezzo loro tra la repubblica di Francia, e quella di Genova, pei principali capitoli del quale si statuiva, che il governo rimettesse alla nazione, così richiedendo la felicità della medesima, il deposito della sovranità, che gli aveva confidato; ch'ei riconoscesse, la sovranità stare nell'universalità dei cittadini; che l'autorità legislativa si commettesse a due consigli rappresentativi, uno di trecento, l'altro di cencinquanta consiglieri; che la potestà esecutiva fosse investita in un senato di dodici, e a cui presiedesse un doge; il doge, ed i senatori dai consigli si eleggessero; ogni comune avesse ad esser retto da ufficiali municipali, ogni distretto da ufficiali distrettuali; le potestà giudiziali e militari, e così pure le divisioni dei territorj secondo il modello da farsi da una congregazione a posta si ordinassero, con ciò però, che la religione cattolica salva ed intera si serbasse; i debiti del pubblico si guarentissero; il porto franco, ed il banco di San Giorgio si conservassero; ai nobili poveri, per quanto possibil fosse, si provvedesse; che ogni privilegio per abolito si avesse; che intanto si creasse un reggimento temporaneo di ventidue, ed a cui il doge presiedesse; che questo reggimento prendesse il magistrato il dì quattordici di giugno. Statuisse delle indennità dei Francesi offesi nei giorni ventidue e ventitrè maggio; finalmente la repubblica Francese perdonasse a tutti, che l'avessero offesa nei giorni suddetti, e mantenesse l'integrità dei territorj della repubblica Genovese.

Mandava Buonaparte questi capitoli al doge con lettere portatrici di dolci parole, mostrando molta affezione verso la repubblica, e consigliando, fossero savj, fossero uniti, e non dubitassero della protezione della Francia. Eleggeva al reggimento temporaneo Giacomo Brignole, doge, Carlo Cambiaso, Luigi Carbonara, Gian Carlo Serra, Francesco Cataneo, Giuseppe Assereto da Rapallo, Stefano Carega, Luca Gentile, Agostino Pareto, Luigi Corvetto, Francesco Maria Ruzza, Emanuele Balbi, Gian Battista Durand del porto Maurizio, capitano Ruffino di Ovada, Agostino Maglione, Gian Antonio Mongiardini, Francesco Pezzi, Bertuccioni, Gian Battista Rossi, Luigi Lupi, Gian Maria de Alberti, Bacigalupi, Marco Federici della Spezia.

Quando il generalissimo di Francia creava questa nuova signorìa, aveva in pensiero, non solamente di dare autorità a uomini prudenti, e lontani da voglie estreme, ma ancora mescolando uomini di diverse condizioni, di mostrare che la sovranità non cadeva più in pochi, ma bensì in tutti, cosa che avrebbe dovuto far quietare, contentando le ambizioni, molti umori. Ma nelle rivoluzioni le ambizioni sono incontentabili, e come se le faccende pubbliche potessero maneggiarsi continuamente dalla moltitudine, il restringerle in pochi magistrati era riputato aristocrazìa: gli esclusi gridavano tirannide, gente pericolosissima, perchè pretendeva parole di amore di patria.

Incominciava appena a farsi giorno, che già le piazze e le contrade erano piene di gente, accorrendo da una parte il popolo tratto dalla novità del caso, dall'altra i libertini portati dall'allegrezza, e dal desiderio di far certe dimostrazioni, che credevano libertà, ed erano vanità in se, scherno ad una parte dei loro concittadini, imitazione servile dei forestieri, segni di tirannide, semi di future discordie. Il popolo stesso, solito a seguitare così il bene come il male ad un posto segnale, se prima traeva per curiosità, dopo, e visto il giubbilar dei libertini, incominciava a trarre per allegrezza, ed era uno spettacolo mirabile il vedere tutta quella città mossa a gioia, che ancora non faceva un mese, si era veduta mossa a sangue. Viva la libertà, muoja l'aristocrazìa, viva Francia, viva Buonaparte, gridavano le Genovesi voci: gli alberi della libertà non solo sulle piazze e principali contrade, ma ancora sulle piazzuole e nei vicoli a tutta fretta si piantavano; i balli, canti, ed i discorsi che si facevano loro intorno, erano eccessivi. A questo, alcune donne, e non delle infime, certi berrettini di libertà, che così gli chiamavano, che avevano tessuti nascostamente, di tre colori nei giorni precedenti, distribuivano in pubblico, ed i libertini con molto romore se gli appiccavano sul petto. Le quali cose se abbiano mosso a riso Buonaparte tanto astuto conoscitore e tanto cupo sprezzatore dell'umana natura, non è da domandare: godeva in se del compito inganno. Morando era fuori di se dalla contentezza, sebbene non del tutto si soddisfacesse dei membri del governo temporaneo, parendogli aristocrati anzi che no. Vitaliani predicava, e per gridar forte che facesse il popolo, non gli pareva mai, che gridasse abbastanza. I nobili o si nascondevano nelle più segrete case, o fuggivano dalla città, e ne avevano ben anche il perchè; che ad un primo trarre, il popolo mosso, e stimolato dai novatori più vivi, gli avrebbe manomessi. In mezzo a tanto fracasso poteva nascer bene, come male, ma più facilmente male che bene. I patriotti scrivevano nel gergo gonfio, servile, e schifoso di quei tempi, che «superbo dei riacquistati diritti scorreva per le vie il genio della Liguria, e scrivea sulla fronte ai liberi cittadini la bella immagine di un fortunato avvenire». Ed ancora: «Oh, sublime maestoso spettacolo d'un popolo intero, che dopo aver trascorso dei secoli di servitù, curvo, ed umiliato sotto un giogo di ferro, si leva subitamente ritto sui piedi, e scosso l'infame peso delle irrugginite catene ne getta i rotti avanzi in faccia ai detronizzati tiranni!» Così parlavano: Buonaparte ne faceva le risa a Montebello, e gli chiamava pazzi da legare. Gian Carlo Serra, e suo fratello Gerolamo, che non erano uomini da riscaldarsi troppo, ed avevano l'animo piuttosto da storico che da poeta, s'erano lasciati ancor essi trasportare all'entusiasmo, e scrivevano cose di fuoco a Buonaparte.

La servile imitazione verso le tragicomedie della rivoluzione Francese dominava; ed ecco una calca di gente trarre con grida al ducale palazzo, i patriotti la guidavano, con animo di levarne il libro d'oro, infame catalogo, come dicevano, volume esecrato dell'antica aristocrazìa. Si custodiva il libro assai gelosamente in un luogo appartato del palazzo d'onde non si estraeva se non quando il nome di qualche nuova famiglia, chiamata a nobiltà, vi si scriveva. La plebe, rotte a forza le porte dell'archivio, se lo portava con incredibili scede e giullerìe sulla piazza dell'acquaverde, e quivi acceso un fuoco, lo ardeva, e le grida, e le risa, e gli scherni furono molti. Non pochi, perchè non mancassero neanche le puerilità, ferivano a punta di bajonetta o di sciabola l'odiato libro, e con questo si credevano di aver morto l'aristocrazìa: i circostanti applaudivano. Insomma il popolo mosso, se non fa tragedie, vuol comedie. Ardevano col libro d'oro anche la bussola del doge, e l'urna, dove s'imborsavano i nomi dei senatori per gli squittinj. Vi si arrosero altri stemmi gentilizj raccolti a furia di popolo da diversi luoghi; cose tutte, che si facevano piuttosto per ingiuria di persone, che per amore di libertà: poi piantavano sulle ceneri delle reliquie aristocratiche, come dicevano, il solito fusto, e gli applausi, e le musiche, e i discorsi andavano al colmo.

Arso il libro d'oro, trascorreva il popolo, anche i carbonari vi si mescolavano, ad un atto assai più biasimevole, e questo fu di rompere, ed atterrare la statua di Andrea Doria, che per memoria ed onore delle sue virtù, e de' suoi meriti verso la patria i Genovesi antichi avevano eretta nella corte del palazzo ducale; e se chi stava dentro a guardia fosse stato men pronto a serrare le porte contro l'invasata moltitudine, avrebbe rotto anche le altre statue del Doria, che si vedevano nella sala del gran consiglio. Che cosa poi pretendessero le ingiurie fatte ai morti illustri, ed il disprezzo di servigi eminenti fatti alla patria, ciascuno potrà da per se stesso giudicare, ed erano novatori noti solamente per parole ed incapricciti di certi governi geometrici non ancora pruovati, o pruovati soltanto per esilj, per persecuzioni, e per morti crudeli, che un Andrea Doria oltraggiavano.

Dalle ingiurie si trapassava ad insolenze criminose; perchè sospettando, che fossero ancora sostenuti nelle carceri alcuni fra coloro, che erano stati arrestati nei giorni ventidue e ventitrè maggio, vi correvano a folla, ed avendole sforzate, davano comodità di fuggirsi a parecchi malfattori, contaminando in questo modo il nuovo governo con lo stesso fatto, col quale avevano già assaltato l'antico; tristi principj di libertà, e di stato civile.

Tal era la condizione di Genova, che il governo, composto la maggior parte di uomini buoni e savj, dipendeva da Buonaparte, anche serviva alle opinioni dei tempi; dal che nasceva, che voleva ordinare, non la libertà che si convenisse a Genova, ma quella che era foggiata a modo di Francia, come se nissun'altra forma buona di vivere libero potesse essere, se non quella dei forestieri. Era oltre a questo, una parte assai viva, che chiamavano dei patriotti, la quale non contenta ad un vivere moderato, avrebbe voluto, piuttosto, credo per imitazione servile, che per malvagità di natura, ma certamente per pensieri immoderati, non la forma ordinata in Francia col direttorio, ma la precedente. Erano costoro intoppo insuperabile ad ogni forma buona, siccome quelli, che ogni reggimento regolare libero o non libero, ma più se libero, laceravano con gl'improperj insidiavano con le congiure, assaltavano con le sollevazioni. Mescolavasi finalmente a questi umori la parte aristocratica vinta, la quale, impotente a far moto d'importanza a cagione della forza Francese presente, e del nome di Buonaparte, teneva non pertanto con le molte sue dipendenze gli animi di non pochi sospesi, ed avversi allo stato nuovo. Si accostavano a questa parte i più fra le genti di chiesa, che argomentando, da quello che si era fatto in Francia, a quello che si farebbe in Genova, o della religione, o dell'autorità, o dei beni loro temevano.

Come prima ebbero i nuovi magistrati preso l'ufficio, mandavano fuori un manifesto, ringraziando Buonaparte della benevolenza mostrata verso la repubblica, lodando i privilegiati della rinunziazione dei privilegi, commendando i preti dello aver usato l'autorità loro a stabilimento della libertà; invitavano i popoli della riviera ad unirsi, e ad affratellarsi con Genova; esortavano tutti a vivere quieti e concordi; allegavano, sperare, potere con l'ajuto divino rendere più felici le condizioni del popolo, e perchè il popolo potesse giudicare per se del buon animo loro, promettevano di palesare al pubblico le laboriose loro occupazioni. Venivano a congratularsi, ed a parlare encomj dell'acquistata libertà le città principali delle riviere; l'allegrezza si diffondeva; la fratellanza e la concordia fra le varie parti della dizione Genovese parevano pigliar radice. Accresceva l'allegrezza il sentire, che i feudi imperiali avevano fatto dedizione di se medesimi a Genova, e mandato deputati. Poi per esser odioso quel nome di feudi, gli chiamarono Monti Liguri. Erano volentieri accettati nella società  Genovese, lodati, e ringraziati i deputati.

Ordinavasi intanto il corpo municipale di Genova, soggetto molto geloso, perchè i municipj delle metropoli, ad esempio di quello di Parigi, volevano far a gara, e contrastare di potenza coi governi. I capi dell'esercito repubblicano, talvolta per capriccio, talvolta per altri fini più reconditi, soffiavano su di queste faville: semi tutti di discordia, e di anarchìa. Prendevano i municipali il magistrato il dì primo di luglio con non mediocre apparato, e non mancavano i soliti discorsi. Un prete Cuneo, che procedeva con molto calore in queste faccende, ed era stato mescolato nei moti precedenti, diceva loro: «Oh, Bruto, mio caro Bruto, prestami, io te ne prego, prestami per un momento il tuo pugnale grondante ancora del sangue del tiranno, onde scriver possa sulle pareti di questa sala, sotto gli occhi del governo provvisorio, i nomi santi di libertà, e d'uguaglianza». Poscia il prete lodava i municipali. E' bisognerà  bene che i leggitori d'oggidì mi comportino la libertà  di dire tutto quello, che si disse, perchè l'intento mio è di scrivere storie, non tacere, nè parlare per adulazione.

L'affare più importante, che si esaminava nelle consulte Genovesi, era quello di formar il modello della nuova constituzione. Perlocchè, conformandosi ai patti di Montebello, creava il governo la congregazione, che questo modello dovesse ordinare. A questo fine si chiamavano e dalla città, e dalla riviera, e d'oltremonti uomini di riputato valore. Gottardo Solari, Benedetto Solari vescovo di Noli, Gian Carlo Serra, Tommaso Langlade, Giuseppe Cavagnaro, Sebastiano Biaggini, abbate Niccolò Mangini, Leonardo Benza, abbate Giuseppe Levreri, Gian Battista Rebecco, Filippo Busseti. S'adunavano bene spesso, ma servilmente procedendo modellavano alla Francese, e secondo i comandamenti di Buonaparte. Serra s'intendeva col generalissimo, ed aveva più dominio degli altri. N'era imputato dai patriotti, che incominciavano a mostrarsi mal soddisfatti di lui, chiamandolo aristocrata. Pure la sentiva bene e saviamente. Voleva, che non si offendesse la religione, che si allargasse il senato, come troppo poco numeroso, che si restringessero i consigli, come troppo numerosi; che non si perseguitasse nissuno nè in fatti, nè in parole per opinioni antiche, che gli esagerati si frenassero; che nissun ritrovo pubblico e politico si tollerasse, salvo il caso, in cui si volesse scuoter gli animi a congiungere in un sol corpo tutte le parti d'Italia; al quale fatto come cosa degna del suo gran nome esortava il generalissimo. Ma non se ne soddisfaceva Buonaparte, nemico, come il direttorio, dell'unione Italica. Gli piacevano gli altri pensieri di Serra, e come se fossero suoi, ne scriveva lettere al governo Genovese. Della qual cosa molto il lodava Serra stesso, desiderosissimo di scrivere la storia di Buonaparte; alla quale opera non gli mancava già l'ingegno, che anzi l'aveva molto capace, ma bene la libertà dell'animo; imperciocchè quella gloria Buonapartiana gliel'aveva offuscato.

Incominciavano a prepararsi i semi delle future discordie. Si faceva principio dalla religione, non che toccassero le opinioni dogmatiche, ma soltanto la disciplina. I popoli confondevano l'una cosa coll'altra, i cherici non che gli disingannassero, gli mantenevano nel falso concetto. Prevalevano i desiderj delle riforme Leopoldine, a ciò stimolando il Solari, vescovo di Noli, personaggio d'autorità pel grado, per la dottrina, pei costumi, e molto ardente nelle sentenze Pistojesi. Comandava il governo, che non fosse lecito ai vescovi di promuovere, senza sua licenza, alcuno agli ordini sacri, se non coloro, che già suddiaconi, o diaconi essendo, desiderassero ricevere il diaconato, od il pretato, e parimente senza suo beneplacito, nessuno potesse, o uomo o donna si fosse, vestir l'abito di nessuna regola di frati o di monache; ordinamenti certamente molto prudenti, ma presi in mala parte dai più, perchè la setta contraria al nuovo stato se ne prevaleva. Poi decretava, che ogni cherico o regolare, o secolare che si fosse, se forestiero, dovesse fra certo termine, e con certe condizioni uscire dai territorj. Parevano questi stanziamenti molto insoliti in tanto e sì lungo dominio delle potestà ecclesiastiche; ma bene più insolito e più strano appariva quell'altro precetto, che fu pensiero di Serra, col quale si ordinava, che uomini deputati dal governo a tempo, e dopo i divini ufficj, predicassero la democrazia alle genti. Fu questo un gran tentativo; non succedeva bene, perchè in molti luoghi i deputati non fecero frutto, in altri furono scherniti, in alcuni scacciati. Si sollevarono universalmente gli animi religiosi contro questa novità; i nemici dello stato crescevano: novello argomento, che nelle umane faccende chi vuol far troppo, fa poco.

Questo quanto alla religione: si moltiplicavano per altre ragioni gli sdegni. Oltrechè con gl'incessabili discorsi e scritti non si lasciavano mai quietare i nobili, fu preso decreto, che si mandasse a Parigi, come ministro della repubblica, l'avvocato Boccardi, e si richiamasse Stefano Rivarola, si richiamasse ancora Cristoforo Spinola, ministro a Londra: se non obbedissero, i beni loro fossero posti al fisco; intanto si sequestrassero. Il motivo fu, che Rivarola e Spinola, in ciò gittando grida incredibili i patriotti, erano stimati agenti, e spie della spenta aristocrazìa; e di più si opponeva loro lo aver fatto stampare per mezzo di Lacretelle in un giornale di Parigi acerbe invettive contro i fatti accaduti in Genova nel giorno ventidue di maggio. L'atto rigoroso offendeva i nobili, vieppiù gli animi s'innasprivano. Questo era riprensibile, ma bene del tutto intollerabile fu un altro atto, con cui si ordinava, che i principali autori della convenzione fatta a Parigi da Vincenzo Spinola, per la quale la repubblica si era obbligata a pagare quattro milioni di tornesi alla Francia, fossero tenuti in solido a restituire la detta somma all'erario, e se non la restituissero, fossero i beni loro posti al fisco. Erano in questa faccenda interessate le principali famiglie, specialmente i Doria, i Pallavicini, i Durazzo, i Fieschi, i Gentili, i Carega, gli Spinola, i Lomellini, i Grimaldi, i Catanei, personaggi che tiravano con loro una dipendenza grandissima. Decreto fu questo veramente incomportabile, perchè chi aveva fatto, ed appruovato quella convenzione (perciocchè anche il minor consiglio l'aveva ratificata) aveva facoltà di farla, e quel far guardar la legge indietro è cosa contro ogni giustizia, e di pessimo esempio. Tant'è, che sebbene il decreto sia stato preso tardi, si vociferava nel pubblico, che si volesse prendere, e gli scapestrati democrati menavano un romore senza fine, perchè si prendesse. Ciò faceva maggiormente inviperire gli animi degli scontenti, i quali vedendo di non trovare dopo la mutazione alcun riposo nè per le sostanze, nè per le persone, pensavano a vendicarsi, non che si consigliassero di far congiure, e moti popolari, perchè troppo erano sbigottiti a voler ciò tentare, ma spargevano ad arte voci sinistre nel popolo, ed aspettavano le prime occasioni per insorgere. Mescolavano il falso col vero: vero era, che Buonaparte aveva domandato parecchi milioni pel vivere delle sue genti: questo anzi era stato uno dei principali motivi della mutazione. Il governo poi, trovandosi ancor debole in quei principj, e non avendo altre radici che i discorsi vani dei democrati, ed il patrocinio forestiero, andava lento alle tasse, e perciò aveva trovato il rimedio di quell'iniquo balzello. Genova per tal modo aveva pagato per comperar quiete quattro milioni, ed aveva trovato sovvertimento: poi si era fatto restituire da uomini privati i quattro milioni per comperar di nuovo quiete, poichè i primi a nulla erano valsi. Qual quiete poi si sia comperata questa seconda volta, diranlo a suo luogo le presenti storie.

A tutto questo si aggiungevano le rapine dei Barbareschi tanto più moleste, quanto più si aveva avuto la speranza data espressamente, che cambiato il reggimento, la Francia avrebbe tutelato dagli assalti dei Barbari le navigazioni dei Genovesi. A questo modo, sclamavano, la nuova repubblica vive? A questo modo preservano i Francesi Genova? Gonfie parole, ed esili fatti son dunque tutto, che si è acquistato? Francesi dentro, Algerini fuori! a che pro servire a Faipoult, a che pro servire a Buonaparte, se l'Africano ci assassina? Questi discorsi, che toccavano l'intimo delle sostanze Genovesi a cagione dell'interruzione del commercio, accrescevano ogni ora più la mala contentezza, e già, come suol avvenire, tornando indietro col pensiero, desideravano l'antico stato.

Motivo potente di mal umore era altresì quello, che due generali Francesi, Casabianca e Duphot, fossero venuti a reggere, e ad ordinare i soldati, segno certo, essere perita la independenza. Ciò significava inoltre, che Buonaparte o non si fidava dei Genovesi, o gli stimava inabili alle cose militari; dal che nasceva, che chi pensava altamente, si teneva mal soddisfatto. I nemici degli ordini presenti se ne prevalevano, mostrando la patria perduta, e serva. Dava maggior forza alle insinuazioni loro l'essersi udito, che si voleva, si smantellassero le fortezze di Savona e di San Remo, soli propugnacoli dell'independenza verso Francia. Vedevano anche levarsi i cannoni dalle porte della metropoli, il che interpretavano come di voglia di aprir l'adito più facile, e più sicuro ai forestieri per invadere il cuore stesso della repubblica. Gridavano, doversi insorgere contro reggitori fatti servi dei forestieri. I nobili, i preti, e gli aderenti loro, che non erano pochi, fomentavano questi mali umori. Nel che tanto più alla sicura si adoperavano, quanto più si erano dati a credere, avere appoggio nel grembo stesso dell'autorità suprema; la qual opinione dall'un de' lati dava loro maggior ardire, dall'altro aumentava la debolezza di chi reggeva. Erano allora i reggitori divisi in due sette, dell'una delle quali compariva capo Serra, dell'altra Corvetto, Ruzza, e Carbonara. Amava Serra un reggimento più stretto, e pendente all'aristocrazìa, voleva, che meglio si rispettassero i preti, faceva professione di amatore ardente dell'indipendenza del paese, forse, come affermava la setta contraria, per ambizione, si mostrava avverso ai patriotti invasati di pensieri estremi, Faipoult nè corteggiava, nè amava, nè lodava, voleva tirar a se tutte le affezioni aristocratiche, ed aggiungervi quelle di una moderata libertà, sopra tutto amava Genova più che la Francia. Gli avversarj s'intendevano meglio con Faipoult, alcuni per ambizione, preferendo il dominare con l'appoggio dei forestieri alla libertà della patria, altri a buon fine credendo, che, poichè i cieli avevano destinato che i Francesi divenissero padroni di Genova, miglior partito era per arrivar a bene il vezzeggiargli, che l'aspreggiarli, perchè, volere o non volere, i Francesi dominavano. Ma la maggior dipendenza di questa parte verso Francia, dall'un canto la faceva odiosa, dall'altro la rendeva dipendente più che non sarebbe stato necessario, dai democrati più ardenti, i quali non amavano Serra, anzi il chiamavano tiranno, e nuovo duca d'Orleans. Questi semi pestiferi erano pullulati, ne prendevano animo i nemici della mutazione, e si apprestavano a far novità. Già si udivano sinistri suoni dalle valli di Bisagno, e di Polcevera. Era la cagione, od il pretesto la nuova constituzione, violatrice, come spargevano, della religione, e che, come si era data intenzione, si doveva accettare il dì quattordici settembre. Per far posar gli animi, annunziavano, essere prorogata l'accettazione, e si torrebbe quanto potesse offender la coscienza dei fedeli.

In questo mezzo tempo Corvetto e Ruzza erano stati mandati a Buonaparte per consultar con lui degli articoli, che avevano fatto adombrare i popoli. Ma gli umori popolari più presto si muovono, che s'arrestano. Dava loro l'ultima pinta l'essersi fatti arrestare tanto in città, quanto nel contado alcuni nobili, che si credevano pericolosi, cinque Durazzi, due Doria, due Pallavicini, tre Spinola, un Ferrari, uomini per nome e per ricchezze di molta dipendenza. Incominciavano il dì quattro settembre a tumultuare le popolazioni di Bisagno. Suonavano le campane a martello, i curati esortavano, e guidavano i sollevati, si facevano adunanze nelle ville dei nobili; poi crescendo il numero ed il furore, armati di armi diverse, ma con animi concordi fatta una gran massa, s'incamminavano infuriati verso la capitale. L'accidente portava con se molto pericolo, perchè si temeva, che avesse corrispondenza viva dentro le mura; non era tempo da starsi. Duphot con una squadra di Francesi e di democrati andava loro all'incontro: il principal nervo consisteva nelle artiglierìe, di cui i sollevati mancavano, ed esse compensavano il minor numero. Seguitava una mischia molto aspra in Albaro. Vi si perdevano di molte vite da ambe le parti, ma più da quella dei villici, perchè in loro era minore l'arte delle battaglie, e la scaglia gli straziava. Pure resistevano lungo tempo con molta rabbia; un frate Pezzuolo, ed un Marcantonio da Sori, giovane animosissimo, gli guidavano, ed incoraggivano. Quest'era guerra civile, e della peggiore spezie, perchè i forestieri vi si mescolavano. Prevalevano finalmente l'arte e la disciplina contro il numero ed il furore: andavano in fuga i sollevati; alcuni furono presi, altri in mezzo alla mescolata fuga crudelmente uccisi. Tornavano i soldati di Duphot in Genova vincitori, sanguinosi, e non senza preda.

Non era ancora del tutto spenta la sedizione di Bisagno, che un nuovo romore di guerra già si faceva sentire dalla Polcevera. Gli abitatori di questa valle, mossi dall'esempio dei Bisagnani, e dalle instigazioni di alcuni ecclesiastici, si levavano ancor essi in gran numero, e correvano contro la capitale. Poi a loro si accostavano non pochi fra coloro, che avanzati alle stragi di Bisagno, passando per luoghi montuosi, si erano condotti in Polcevera per ajutare quel secondo moto, che credevano aver a riuscire a miglior fine che il loro. Il pericolo appariva grave. Già la moltitudine armata, assai più numerosa di quella dei Bisagnani, accostatasi, s'impadroniva per una battaglia di mano del forte della Sperona, che posto in sito eminente signoreggia Genova, ed è come un freno parato contro di lei. Poi più avanti procedendo, occupava tutto il secondo cinto delle mura, restando solo esente la batterìa di San Benigno. Una prima squadra di soldati Liguri e Francesi mandata in quel primo tumulto contro di loro, vedutogli bene armati, e bene fortificati, se ne rimaneva, e tornavasene. Il timore assaliva chi reggeva, pareva vicina la dedizione; perchè anche dentro, essendovi poco presidio, principiavano a scoprirsi i segni della sedizione. Mandava il governo quattro legati ad intendere che cosa volessero, ed a trattar con loro di un accordo. Vi si arrogevano Gerolamo Durazzo, e Luigi Corvetto, personaggi di grande autorità  presso i Polceveresi. L'arcivescovo eziandio ad esortazione dei capi dello stato, pubblicava una lettera pastorale, con la quale spiegava ai popoli, che a niun modo si aveva intenzione di offendere la religione o di pregiudicare ai preti. Furono i legati coi deputati eletti dai sollevati, e concludevano un accordo in tre capitoli, per cui si statuiva, che sarebbe la religione cattolica, apostolica e romana conservata, che si serberebbero intatti i beni della chiesa, che si perdonerebbe ogni offesa ai sollevati, che si rimetterebbero in libertà i carcerati: con questo promettevano i Polceverini di tornarsene quietamente alle case loro. Presa questa speranza, cessava il governo ogni apparato di guerra. Ma ecco che dai più ardenti Polceverini si spargeva, che i giacobini erano gente infida, e che solo avevano promesso il perdono per meglio far le vendette. Novellamente s'inferocivano e prese impetuosamente le armi, assaltavano il posto principalissimo di San Benigno. In questo punto Duphot, vincitore di Albaro, che per l'indugiarsi del trattato, aveva avuto tempo di raccorre, e di ordinare tutti i suoi, ajutato fortemente dal colonnello Seras, soldato molto animoso, traversava la città, e correva contro la turba degl'insorti. Seguitava una feroce mischia, come di guerra civile. Combattevano valorosamente Duphot e Seras, vecchi soldati: non resistevano meno valorosamente i paesani, nuovi soldati; durava quattr'ore la battaglia; furono non pochi i morti, non pochi i feriti: superava infine la veterana disciplina: i paesani cacciati dai posti, voltavano le spalle, e seguitati con molta pressa dai repubblicani perdevano gran gente. Cinquecento, essendo presi, empievano le carceri di Genova.

La fama della doppia vittoria di Albaro, e di San Benigno, e le forze mandate sedavano i moti, che già erano sorti a Chiavari, ed in altre terre della riviera di levante, come altresì nei feudi imperiali, o Monti Liguri, che gli vogliam nominare. Ogni cosa si ricomponeva in quiete, ma per terrore, non per amore; ma truce e minacciosa, non lieta e consenziente.

Avuta la vittoria, si pensava alla vendetta. Creavasi un consiglio militare, perchè nelle forme più pronte e più sommarie avesse a giudicare i ribelli. Sette od otto, ma di oscuro nome, dannati a morte, tignevano col sangue loro il suolo dell'atterrita Genova: non pochi erano mandati al remo. Si apprestava il destino medesimo ad altri: Faipoult avvertiva Buonaparte, che si dannavano soltanto gl'ignobili; osservava specialmente, che per decreto dei reggitori era stato sospeso avanti il tribunale militare il processo di un Brignole, figliuolo dell'ultimo doge, sospetto di qualche accordo coi sollevati. Qualificava Serra per sospetto di mali pensieri, e di patrocinio verso i rei di non riconoscere i meriti di Duphot, e d'impedire i fornimenti dei soldati. Accennava in somma, ch'ei fosse avverso in ogni cosa ai Francesi, e persuasore, che si andasse grettamente nel pagar le liste di Duphot, e de' suoi ufficiali per la spedizione contro i ribelli. Chiamavalo uomo pericoloso, dissimulatore, ambizioso: stimava la quiete del pubblico in pericolo, finchè Serra stesse al governo. I due Serra, giuntosi Gerolamo col fratello, dal canto loro accusavano Faipoult e Duphot di essersi fatti protettori di una parte turbatrice, e pervertitrice di ogni buon ordine politico, e d'impedire che la quiete tornasse alla travagliata Genova. Già le mannaje dei sicarj, dicevano, stare sul collo degli uomini dabbene; già volere Faipoult vietare, che il consiglio militare termini al più presto i giudizj, acciocchè quell'apparato di terrore lungo tempo ancora sovrasti così ai buoni, come ai cattivi, e niuno possa vivere sicuro dopo le calamità recenti; volere Faipoult, che si tenessero i nobili in carcere, anche innocenti; niun altro mezzo di salute e di riposo esservi, che quello di mandar via Duphot, e di contenere nelle funzioni del suo ufficio Faipoult; senza ciò nascerebbero necessariamente la debolezza dello stato, l'anarchia, i disordini, il sangue. Per tale guisa gli animi s'invelenivano; ed era vero che Faipoult addomandava imperiosamente al governo, che annullasse il decreto, pel quale aveva ordinato, che la commissione militare terminasse al più presto le sue operazioni. Addomandava oltre a ciò che i nobili carcerati, anche innocenti, quali ostaggi si conducessero nel castello di Milano. Il qual ultimo desiderio a me pare, che sappia molto della natura degl'inquisitori tanto lacerati di Venezia; ma il biasimare gli altri dei propri difetti fu vizio dell'età.

In questo arrivava a Genova con nuovi soldati mandati da Buonaparte, a cui le turbazioni Genovesi davano sospetto, il generale Lannes, il quale non curandosi nè di governo, nè di Faipoult, nè di preti, nè di frati, nè di nobili, nè di plebei, nè di patriotti, nè di aristocrati, e solo alla forza mirando, si alloggiava alla soldatesca nella città, e se ne faceva padrone.

Intanto i legati accordatisi con Buonaparte intorno ai cambiamenti della constituzione della repubblica Ligure, la conducevano a compimento, e lui permettente, era pubblicata. Fossevi un consiglio dei giovani, uno degli anziani, e un direttorio; dividessesi la repubblica in quindici spartimenti, che chiamavano del Centro, di Bisagno, del Golfo Tigulio, della Cerusa, del Lemmo, dei Monti Liguri orientali, dei Monti Liguri occidentali, delle Palme, dell'Entella, della Vara, del Letimbro, della Maremola, della Spezia, del Capo Verde, e della Polcevera; dei magistrati giudiziali, distrettuali, e municipali si statuisse a modo di Francia. Era questo un modello tutto Francese. Nè occorreva, stantechè solo il copiare era permesso, che il signor di Talleyrand, ministro degli affari esteri in Francia, prendesse cura, come ne aveva il pensiero di mandare ad insegnar in Italia l'arte dello stato, uomini politici di grido, e fra gli altri un Beniamino Constant, giovine per verità di molto ingegno, ma che credeva, la libertà non poter consistere, che nelle forme di quei tempi. A tanto di umiltà era condotta l'Italia dal superbo vincitore, che voleva mandare ad ammaestrarla giovani scrittori, che privi d'esperienza, volevano applicare certi modelli astratti di fogge politiche ad ogni sorte di nazioni, non considerando le diversità che sorgono dalla diversità dell'indole, degli usi, dei costumi, delle opinioni, e delle abitudini. In somma la Genovese constituzione fu data, non presa. Pure fra le armi serrate, ed i soldati apprestati fu sottoposta ai comizj popolari. L'appruovavano centomila voti favorevoli, diciassettemila contrarj. Facevansi feste, cantavansi inni, erano nel teatro allegrìe assai. Nominavansi i due consigli, e dai consigli il direttorio. Eleggevansi a questo Luigi Corvetto, Agostino Maglione, Niccolò Littardi, Ambrogio Molfino, Paolo Costa; creavano Corvetto presidente. Era Corvetto, siccome Italiano, ingegnoso, e giusto estimatore delle cose del mondo; il che constituisce la prudenza, fra tutte le virtù più necessaria in chi è chiamato a governar gli uomini. Era in lui la natura dolcissima, ma che però non ricusava quanto la sicurezza dello stato richiedesse. Continente di quel del pubblico, benefico del suo verso gli amici, era Corvetto uomo piuttosto da essere ricerco nei tempi buoni, che degno di servire nei tempi tristi. Sul principiare dell'anno seguente prendevano il magistrato tutti i nuovi ordini, e s'instituiva la constituzione. Poi partitosi Faipoult, gli veniva sostituito un Sottin. A questo modo periva l'antica repubblica di Genova, feroce, animosa, sanguinosa, ed impaziente, non molle, non umile, non lacrimosa, come la Veneziana. Era certamente il fato ineluttabile; ma bene è eternamente da piangersi, che la perdita dell'indipendenza Italiana sia stata aiutata dalle mani d'uomini Italiani. So, che alcuni dicono, che coloro i quali in queste faccende si mescolarono, non solo in Genova, ma ancora in tutte le altre parti d'Italia, rattemperavano con le speranze di un felice avvenire la tristizia dei fatti presenti; il che è vero, nè io sarò per dannargli mai; anzi molti fra di loro, i quali puri furono ed innocenti, pregio e lodo sommamente, e predico, come uomini virtuosissimi e coraggiosissimi, per non aver disperato della patria in casi tanto luttuosi, e per aver dato alla salute di lei, per quanta salute potesse essere in sì lontane e deboli speranze, il riposo loro, le fatiche dei migliori anni, e quel che più importa, perfino l'illibata fama, corrotta in mezzo a tanto avviluppamento da schifose calunnie; ma so ancora che non pochi camminavano con troppo affetto verso i forestieri, e che invece di obbedir loro con sopportevole dignità, gli ajutavano con eccessiva condiscendenza.

Periva per mano dei vincitori Genova, perchè ricca, e con pochi soldati; si conservava il Piemonte, perchè povero, e con soldati. Essendo ancora le cose dubbie coll'imperatore, importava alla Francia l'avere in suo favore i soldati del re, se di nuovo si dovesse tornare sull'armi. Poi, quantunque il direttorio molto l'avesse in odio, Buonaparte se ne compiaceva, invaghito per indole propria dei governi assoluti, ed allettato dalle adulazioni dei nobili Piemontesi, i quali avevano bene penetrato la sua natura, e sapevano in qual modo si potesse, non che mansuefare, inlacciare quel soldato indomito. Pure non era possibile, che le massime che correvano, i rivoltamenti della vicina Genova, i giornali, le predicazioni, le trame di Milano non partorissero in Piemonte effetti pregiudiziali alla quiete dello stato.

Quando prima fu fermata la tregua di Cherasco tra la Francia ed il Piemonte, i ministri del re, ed il re medesimo, anteponendo la salute dello stato all'inclinazione propria posero ogni cura nel nodrire l'amicizia con Francia, ed a questo fine indirizzarono tutti i loro pensieri. Per questo il duca d'Aosta tratteneva con lettere amichevoli Buonaparte: per questo si mandavano San Marsano, e Bossi per tenerlo bene edificato a Milano. Per questo medesimo nell'atto stesso della tregua di Cherasco, e per averla sborsava il re più di trecento mila lire. Nè furono vane le pratiche, poichè sussisteva il re, mentre i vicini rovinavano. La principale difficoltà a superarsi in questa bisogna, perchè quel, che si era conseguito per un tempo, divenisse durabile, in questo consisteva, che si persuadesse al direttorio, che il re per interesse proprio doveva star aderente alla Francia, e che la Francia anche per interesse proprio doveva avere per aderente il re.

A questo fine, e perchè un trattato di alleanza si stipulasse, aveva, come già abbiam narrato, Carlo Emanuele mandato suo ambasciadore a Parigi il conte Balbo. Perchè poi potesse il conte più facilmente entrar di sotto aveva fra le mani molto denaro, o mandato a Parigi dalla zecca, o voltato a quella città dai banchieri più ricchi di Torino. Delle quali cose molto sagacemente valendosi, si aveva acquistato molta entratura. Poi facendosi avanti con progetti politici, massimamente di ordinamenti delle cose Italiane, insisteva e dimostrava che, a volere che la potenza e l'autorità dell'Austria fossero per sempre allontanate dall'Italia, desiderio principale della Francia, era necessario contentare il re di Sardegna, compensargli con nuovi acquisti Savoia e Nizza, farlo insomma potente e grande; ma perchè non fosse scemata autorità alle sue parole, come d'uomo che parlasse per se, aveva operato, che Francesi dei primi coi quali si era accordato, queste medesime cose per bocca, e come per motivo proprio rappresentassero. Per tal modo si proponeva al direttorio, fra gli altri, per mossa del Balbo, ma per mezzo di Francesi che avevano parte nello stato, un ordinamento per l'Italia superiore, pel quale l'Austria sarebbe stata o esclusa perpetuamente dall'Italia, o frenata in quei termini che le si stabilissero per la pace. Cedessero Vintimiglia, la Bordighera, e San Remo col marchesato di Dolceacqua in potestà  della Francia; si avesse il re Finale, Savona, Parma, e Piacenza; acquistasse la repubblica Ligure Carosio, i feudi imperiali, Pontremoli e Fivizzano, Pietrasanta, Fordinovo, Massa e Carrara; dessesi alla repubblica Cisalpina il ducato di Guastalla, al duca di Parma la Toscana; finalmente il gran duca di Toscana si compensasse con un elettorato ecclesiastico in Germania. A questo modo, si discorreva, il dipartimento dell'Alpi Marittime acquisterebbe grandezza, e popolazione proporzionate a quelle degli altri dipartimenti, e limiti più naturali, e frontiera assai più facile ad essere difesa: Savona essere il porto naturale del Piemonte; male aver pensato, e contro natura i Genovesi nell'avere colmato questo porto; con ciò aver essi fatto pregiudizio al commercio di tutte le nazioni, massimamente a quel della Francia: se quel porto si concedesse al Piemonte, potrebbero facilmente il riso, le canape, e principalmente le sete Piemontesi arrivar per mare a Marsiglia, e quinci pel Rodano con pochissima spesa a Lione, e si schiverebbero in tal modo i trasporti sempre costosi, spesso pericolosi per le Alpi: che se ai casi di guerra si pensasse, potere facilmente Savona se fosse in mano di uno stato tanto debole, quanto Genova era veramente, divenir preda dell'Austria ad un primo suo impeto nella Cisalpina; che se pel contrario al re fosse data, si potrebbe da lui difendere, e perciò diventerebbe l'antemurale dell'Alpi Marittime con compire la frontiera militare di Cuneo. Mondovì e Ceva, che nulla poteva contro la Francia per essere quelle fortezze, una volta inespugnabili, ora smantellate, ma molto potrebbe per la Francia contro l'Austria, se questa un dì ritornasse tanto potente in Italia, che facesse suo servo il re di Sardegna, caso, che la Francia con tutti i suoi pensieri, e con tutte le sue forze doveva impedire. In questa guisa, compensato il re delle perdite fatte, quieterebbe l'animo, e tornato potente come prima, avrebbe un esercito in pace di quarantamila soldati, in guerra di sessantamila, con questa differenza, che se innanzi dipendeva dall'Austria, dopo dipenderebbe dalla Francia, e suo necessario naturale alleato sarebbe, per essere i suoi stati tutti aperti, ed indifesi verso di lei. Da un altro lato essere la repubblica Cisalpina un composto di elementi eterogenei, e divisa in parti: la parte Austriaca esservi più numerosa, e più forte di quella dei patriotti; avere la Cisalpina al suo governo uomini nuovi e senza energia; senz'armi buone, senza spirito militare, senza concordia, troppo più debole impedimento, che si converrebbe, essere contro i pensieri ambiziosi dell'Austria; pentirebbesi la Francia dello aver indebolito il Piemonte, vera e naturale difesa, vero cinto esteriore della Francia contro la potenza dell'Austria. Di ciò far fede Buonaparte medesimo, continuamente scrivendo che la repubblica Cisalpina non sarebbe in grado di resistere ad un solo reggimento di cavallerìa Piemontese, e che il re con un solo de' suoi battaglioni, ed uno de' suoi squadroni era più forte di tutta la Cisalpina unita.

Nè apparire che cosa importasse l'aggrandire la Cisalpina, perciocchè più s'accrescono i corpi eterogenei, e maggiori diventano le probabilità della dissoluzione. Ciò risguardare principalmente gli stati di Parma, i quali, se si unissero alla Cisalpina, siccome all'unione molto ripugnanti, altro effetto non partorirebbe che quello di avvantaggiare le sorti dell'Austria, e preparare la servitù d'Italia sotto il dominio dell'imperiale scettro di Germania. La libertà d'Italia dover nascere dall'esclusione degli Austriaci, nemici naturali della Francia, non dall'indebolire gli stati neutri, ed alleati naturali di lei. Restare adunque inutile il dare il ducato di Parma alla Cisalpina; doversi dare a chi non è forte abbastanza per dar timore agli amici della Francia, a chi è forte abbastanza per farsi portar rispetto; perdere, è vero, Genova qualche territorio, ma conseguirne altri alla sua integrità meglio conducenti, ed uscire oltre acciò da ogni servitù imperiale, ed acquistare titoli più sicuri sui feudi imperiali; non potersi, senza sollevar tutta Europa, unir Genova alla Cisalpina, non potersi per la ragione medesima, nè senza pregiudizio degl'interessi commerciali, nè senza far forza ai limiti naturali unirla alla Francia, quantunque a questo partito spignessero gli aristocrati scontenti allo essere esclusi per la nuova costituzione dai primi luoghi dello stato; doversi pertanto, ove Genova si volesse disfare, darne parte al re di Sardegna, parte alla Francia, o tutta darla al re, che cederebbe in iscambio alla Francia l'isola di Sardegna; opportunissima essere al dominio Francese la Sardegna, ricca per se, ricchissima, se venisse in mano di Francia. Di nissun momento essere Massa e Carrara alla Cisalpina, per essere spiaggia importuosa, e solamente povero rifugio di barche pescherecchie, di grande Guastalla per essere a cavallo del Po, per signoreggiare la navigazione del fiume, e per far sicura la comunicazione fra le due parti della repubblica situate sulle due opposte rive; torsele conseguentemente una misera parte, unita a lei per poca terra, darsele una parte ricca, opportuna, ed a lei per limiti naturali congiunta; sottomettere al dominio del duca di Parma la Toscana piacere alla Spagna, principalmente alla regina, di sangue Parmense. Per esso pareggiarsi vieppiù la potenza delle due emole prosapie di Parma e di Napoli, offerirsi alla prima la occasione di riguadagnarsi lo stato dei Presidj, internati nella Toscana, e sui quali pretendeva Napoli sovranità; soddisfarsi Madrid delle condizioni stipulate nel trattato d'alleanza, ed avere perciò la Francia più fondata ragione di richiedere dal re Carlo, facesse maggiori sforzi, acconsentisse più volentieri ad ulteriori accordi; quel tumore delle menti Spagnuole avere a compiacersi di un più alto titolo; e se Roma fosse per cambiar di sovrano, doversi lei dare piuttosto ad un principe di parte Spagnuola, e per conseguente unito alla Francia, che al re di Napoli, ed al gran duca di Toscana tanto congiunti di sangue, o di parentela, o d'opinione colla parte Austriaca. Ragionavasi ancora, che con questo si verrebbe a torre all'imperio d'Inghilterra il porto tanto importante di Livorno. Oltre a tutto ciò toccava il conte Balbo, e chi parlava per lui, che l'avere l'Austria acquistato il paese Veneto, la faceva più grande in Italia; essere perciò necessario crearvi nuova potenza contro nuova potenza, con dare alla repubblica Cisalpina un governo savio e forte, e con allontanare dall'Italia il principe Austriaco di Toscana, e con sostituire a lui un principe, che potesse entrar nella lega Italica destinata a frenare in Italia la potenza dell'imperatore; parere somigliante al vero, che avessero a sopprimersi in Alemagna gli elettorati ecclesiastici, e crearsi in luogo loro tre elettorati laici, dei quali uno sarebbe probabilmente protestante; da ciò ne nascerebbe, che l'Austria pruoverebbe l'autorità sua diminuita nel corpo Germanico, e volentieri vedrebbe, che uno degli elettorati nuovi cedesse in capo di un principe del suo sangue: il quale ordine crescerebbe il numero degli elettorati insino a nove, come erano innanzi che i due della casa palatina si riunissero in un solo. Pure per questo non acquisterebbe l'Austria la pluralità dei voti, che restar doveva in avvenire in favore della Francia. Meglio ancora sarebbe se l'elettorato di Colonia a questo ramo d'Austria, cioè al gran duca di Toscana, si concedesse, perciocchè la Francia avrebbe in tal caso sulla sinistra sponda del Reno un pegno, che in accidente di guerra potrebbe agevolmente occupare.

L'ambasciadore Piemontese, avendo trovato la materia tenera, e volendo dimostrare, che con la grandezza del re era congiunta la sicurtà e il beneficio di Francia, procedeva più avanti, forse poco prudentemente, perchè in ciò andava a ferire l'edifizio prediletto di Buonaparte. Argomentava, e certamente con verità, che le nuove repubbliche Italiane non potevano di per se stesse sussistere; che la parte dell'Austria vi era la più forte, ch'essa proromperebbe tostochè i Francesi levassero le forze loro, che erano il solo freno che la tenesse lontana da quei paesi: che forse la parte stessa democratica era prezzolata dall'Austria per impedire, che la Lombardia non fosse data al re di Sardegna; che se l'Austria conducesse i suoi disegni a compimento, sarebbe il re casso dal novero delle potenze d'Europa, e la Francia avrebbe, in vece di un amico fedele e che anche fatto più potente non potrebbe pregiudicarle, un vicino pericoloso, e nemico naturale del nome Francese. Necessaria cosa essere adunque, che si compensassero al re le perdite fatte, e che se gli assicurassero gli stati; il che meglio e più fermamente non si poteva fare che col metterlo in possesso della Lombardìa: offerire il re alla Francia un testimonio irrefragabile della sincerità sua, e della sua avversione verso il giogo Austriaco in questo, che dappoichè, dopo gl'inutili tentativi di ben quattro anni, erano i Francesi penetrati in Piemonte, ed era stato il re liberato dalla dominazione Austriaca, aveva egli tostamente fatto la risoluzione di gettarsi alla parte Francese, e presto l'Italia intiera era venuta in potestà loro: se il re non avesse giudicato conveniente di fidar tutte le cose sue ad un'intima connessione dei veri e reali interessi della Francia co' suoi, se per questa ragione non avesse accettato le durissime condizioni, alle quali fu posto; e se solamente, come poteva, perchè intatte ancora, e fornite di tutto punto erano, avesse atteso a difendere le sue fortezze, nè l'abilità, nè la fortuna di Buonaparte, nè il valore de' suoi soldati sarebbero stati bastanti a fare, che la vittoria alle armi Francesi si assicurasse; il che esser vero Buonaparte stesso pensava, e l'aveva affermato più volte.

Queste Piemontesi insinuazioni, che tendevano, secondo il costume dei tempi, a spodestare altrui, erano astutissime, siccome quelle che sempre toccavano quel tasto prediletto alle orecchie dei Francesi tanto desiderosi della declinazione dell'Austria in Italia, e dell'aumento della potenza propria. Perciò erano udite volentieri, non già dal direttorio, sempre invasato da' suoi pensieri di rivoluzione, ma da chi stava a lato a lui, e molto con lui poteva. Le avvalorava anche con sue lettere Buonaparte. Scriveva egli al ministro degli affari esteri, male conoscersi i popoli Cisalpini a Parigi; non portar la spesa, che si facessero ammazzare quaranta mila Francesi per loro; errare il ministro in pensando, che la libertà potesse far fare gran cose ad un popolo, come affermava, molle, superstizioso, commediajo, e vile; volere il ministro, ch'egli, Buonaparte, facesse miracoli; ma non saperne fare, non avere nel suo esercito un solo Italiano, se non forse quindici centinaja di piazzaruoli raggranellati a stento sulle piazze di diverse città d'Italia, ribaldaglia piuttosto atta a rubare, che a far guerra: il re di Sardegna solo con un suo reggimento esser più forte di tutta la Cisalpina; non permettesse, diceva, che qualche avventuriere, o fors'anche qualche ministro gli desse a credere, che ottanta mila Italiani fossero in armi; bugiardi essere i giornalisti Parigini, bugiarda la opinione in Francia rispetto agl'Italiani: se i ministri Cisalpini gli dicessero, aggiungeva Buonaparte, ch'egli avesse all'esercito più di quindici centinaja dei loro, e più di due mila destinati a mantener il buon ordine in Milano, rispondesse loro, che dicevano bugia, e gli sgridasse, che lo meritavano; certe cose esser buone a dirsi nei caffè, e nei discorsi, ma non ai governi: romanzi esser quelle, che son buone a dirsi nei manifesti, e nei discorsi stampati; doversi ai governi parlar di un altro suono, perchè le falsità gli sviano, e le male strade gli fan rovinare; non l'amore degl'Italiani per la libertà e per l'equalità aver ajutato i Francesi in Italia, ma sì la disciplina dell'esercito, il valore dei soldati, il rispetto per la repubblica, il contenere i sospetti, il castigare gli avversi; avere ad essere un abile legislatore quello, che potesse invogliar dell'armi i Cisalpini; esser loro una nazione snervata e codarda: forse col tempo si ordinerebbe bene la loro repubblica insino a metter su trenta mila soldati di tollerabil gente, massime se conducessero qualche polso di Svizzeri, ma per allora non vi si potere far su fondamento. Nè maggior capitale potersi fare dei patrioti Cisalpini e Genovesi doversi aver per certo, che se i Francesi se ne gissero, il popolo gli ammazzarebbe tutti. Adunque, concludeva, se ausiliarj di niun conto sono e Genovesi e Cisalpini, nissun miglior partito restare alla Francia per avere un ausiliario buono in Italia a diminuzione della potenza Austriaca, che lo stringere amicizia col re di Sardegna, e fermare con lui un trattato d'alleanza.

Infatti un trattato di tal sorte tra Francia e Sardegna già si era negoziato, quando ancora l'imperatore combatteva in Italia, e tuttavia erano gli eventi della guerra dubbj. Infine era stato concluso il dì cinque aprile da parte della Francia pel generale Clarke, da quella della Sardegna pel ministro Priocca. I primi e principali capitoli erano, fosse l'alleanza offensiva e difensiva prima della pace del continente, solamente difensiva dopo; non obbligasse il re a far guerra ad altro principe, che all'imperatore di Germania, ed il re se ne stesse neutrale con l'Inghilterra; guarentivansi reciprocamente le due parti i loro stati d'Europa, e si obbligavano a non dar soccorso ai nemici sì esterni che interni, fornisse il re nove mila fanti, mille cavalli, quaranta cannoni; obbedissero questi soldati al generalissimo di Francia; partecipassero nelle taglie poste sui paesi vinti in proporzione del numero loro: quelle poste sugli stati del re cessassero; niuna parte potesse fare accordo col nemico comune, se non comune; si stipulasse un trattato di commercio; la repubblica di Francia, come più possibil fosse, avvantaggiasse, alla pace generale, o del continente le condizioni del re di Sardegna.

Questo trattato, che prometteva giorni più lieti e più sicuri al Piemonte, ed avrebbegli anche adotti, se meno perversi fossero stati gli uomini, o meno avversi i tempi, conteneva una condizione principalissima, e di tutto momento pel re, e quest'era la guarantigia degli stati contro i nemici sì esterni che interni, gli uni e gli altri pericolosi, i primi per la forza, i secondi per quella sequela delle cose Milanesi e Genovesi. Debbono i Piemontesi averne una perpetua gratitudine a Priocca per aver saputo far sorgere di mezzo a tanta tempesta una speranza così grande di salute; perchè, se il vantaggio dello avere per ausiliari diecimila Piemontesi non era da sprezzarsi per la repubblica di Francia, bene era molto maggiore pel sovrano del Piemonte la stipulata sicurezza degli stati, e per questa parte era il trattato più glorioso al principe, che alla repubblica. Restava, che i consigli di Francia ratificassero il trattato, perchè già il direttorio l'aveva appruovato. Qui sorsero parecchie cagioni d'indugio, prima da parte del governo regio, che desiderava, che la ratificazione fosse susseguente alla pace con Roma, e che il suo ministro a Vienna ne fosse uscito e condotto in salvo, poi per parte della Francia, perchè a questo tempo stesso erano stati fermati i preliminari di Leoben; e siccome la principal condizione dell'alleanza consisteva nel far guerra di concerto contro l'Austria, pareva, che il ratificare, ed il pubblicare il trattato potesse sturbare le pratiche di fresco aperte con l'imperatore. Ma il re, sentiti i preliminari di Leoben, insisteva ostinatissimamente per la ratificazione, perchè aveva timore delle turbazioni interne, e sospettava, giacchè l'imperatore era stato costretto a chiedere i patti, che il direttorio si ritirasse da lui, e si stipulassero nei sorti negoziati cose contrarie ai suoi interessi. Temeva di restar solo esposto ai risentimenti dell'Austria, tanto più formidabili, quanto egli con maggiore sincerità e calore si era gettato alla parte Francese. Per questo Balbo usava ogni opera a Parigi, e con ragioni forti, e con mezzi più forti ancora che le ragioni, acciocchè il trattato si appresentasse per la ratificazione dal direttorio ai consigli. Secondava Buonaparte con le lettere i tentativi del conte. Badassero bene, scriveva, non essere punto sicure le cose coll'imperatore; ad ogni momento potersi rompere la guerra; se non ratificasse al trattato, per questo solo diventerebbe il re di Sardegna nemico, perchè si persuaderebbe, e con ragione, che la Francia volesse al tutto la sua rovina; per la medesima ragione, e dovendo tenere il re in grado di avverso alla Francia, sarebbe egli, Buonaparte, necessitato a mettere un presidio di due mila soldati in Cuneo, altrettanti in Tortona, altrettanti in Alessandria; avere conseguentemente l'esercito ad esser diminuito di sei mila combattenti necessari a custodire le piazze Piemontesi, e di più, di altri sei mila necessari a guernire le Milanesi: quest'erano i castelli di Milano e di Pavia, e la fortezza di Pizzighettone. Per tal modo, se non si ratificasse per parte della Francia il trattato, si perderebbero dieci mila Piemontesi, ottimi soldati, e dieci mila Francesi, destinati a tener sicure le spalle dell'esercito Italico, e ad allontanare accidenti sinistri in caso di sconfitta. Perchè non voler mandare ad effetto quello, che si era stipulato? Forse per lo scrupolo di collegarsi con un re? Essersi bene la Francia collegata coi re di Spagna e di Prussia. Forse il desiderio di sovvertire il Piemonte? Ma perciò fare senza strepito, senza mancar di fede al trattato, anche senza offendere la buona creanza, miglior mezzo essere (quest'era veramente pensiero Buonapartiano) il mescolare ai soldati di Francia diecimila soldati Piemontesi, fiore e parte eletta della nazione, e fargli partecipi delle vittorie Francesi; sei mesi dopo sarebbe il re di Piemonte detruso dal trono. Stringere la Francia con le sue forti braccia, qual gigante, e serrare, e soffocare un pigmeo: tal essere la necessità delle condizioni Piemontesi. Se ciò non s'intendesse, soggiungeva, non saper che farci, e se alla politica savia e vera, che si conveniva ad una grande nazione chiamata a gran destino, e che ha a fronte nemici potentissimi, si sostituissero le ciarle democratiche, non saper che farci, e niuna cosa potersi fare, che buona fosse.

A queste cose vere, e con sincerità fraudolenta dette da Buonaparte, rispondeva dal canto suo cose vere, e con sincerità apparente dette, Carlo Maurizio di Talleyrand: non volere il direttorio ratificare il trattato concluso col re di Sardegna; implicar contraddizione il far patti solenni con una monarchia, la di cui prossima distruzione potrebbe esser l'effetto di quanto la Francia aveva operato in Italia: sarebbene il direttorio accusato dello stesso procedere machiavellico, col quale aveva proceduto il re di Prussia verso la Polonia. Di più, il capitolo del trattato, che più stava a cuore al re di Sardegna, quello essere, per cui se gli faceva sicurtà  del suo regno; ma non potere la Francia dare ai re questa sicurtà contro i popoli; un tale patto condurrebbe la Francia a far la guerra a quelli stessi principj pei quali aveva essa combattuto sino allora, ed ai quali era della maggior parte delle sue vittorie obbligata; diventerebbe il Piemonte posto tra la Francia e l'Italia, ambedue libere, quello che il suo destino volesse: ma non poter altro in ciò fare la Francia, che lasciare andar le cose al loro naturale corso. Conseguitarne da tutto questo, che l'esercito Italico non avrebbe i diecimila Piemontesi; ma niuna cosa poter impedire, che Buonaparte avesse dal Piemonte quanti soldati volesse; non mancarvi uomini disposti a combattere per la libertà sotto le insegne Buonapartiane; tutti i novatori, tutti i sovvertitori accorrerebbero, solo che Buonaparte muovesse la Cisalpina ad arruolargli, a soldargli, a fornirgli: avrebbesi a questo modo, continuava a dire Talleyrand, il piccolo esercito, che il re dovrebbe dare in virtù del trattato, e nissun obbligo si avrebbe ad un principe di casa Borbone (scrivo Borbone, perchè così trovo scritto). Forse il re medesimo si compiacerebbe di queste chiamate, siccome di quelle, che lo libererebbero da gente inquieta e pericolosa: questo consiglio utile alla Francia ritarderebbe la rivoluzione Piemontese: ma non importare, sì veramente che la Cisalpina pagasse: pagar già molto la Cisalpina, ma all'ultimo non esser che denaro: aver bene la Francia comprato la libertà più caro prezzo.

Ma o che Balbo avesse trovato modo di ammollire queste durezze, forse mostrate appunto, perchè ei trovasse modo di ammollirle, o che le cose di guerra pressassero, e prevedesse il direttorio una nuova rottura coll'Austria, il trattato d'alleanza con la Sardegna era mandato dal direttorio ai consigli, e questi il ratificarono. Così, rescriveva un quinqueviro di Parigi a Buonaparte, avrebbe adempiti i suoi desiderj, e potrebbe stare a sicurtà sulle truppe Sarde; potrebbe mandar ad effetto i disegni, che sopra di esse aveva concetto, dar loro nuovi ufficiali, e preparare per tal mezzo quello, che in altro modo bisognerebbe effettuare, se la pace si facesse; conciossiachè in quest'ultimo caso, continuava a discorrere il quinqueviro, sarebbe forse incomodo impaccio, se il governo Francese si trovasse vincolato per una ratificazione, alla quale avrebbe acconsentito pel solo rispetto della guerra. Quest'era la lealtà del direttorio nel momento stesso, in cui stringeva, non che amicizia, alleanza col re di Sardegna. Che fede fosse questa io non lo so; questo so bene, che non era fede Italica. Da questo si vede, in quale conto si debbano tenere le protestazioni di lealtà, che in nome del direttorio andavano facendo, nelle loro allocuzioncelle accademiche, i suoi ministri in occasione degl'introiti loro ai re d'Italia, e principalmente a quel di Sardegna.

Mentre così, come abbiam raccontato, il governo repubblicano di Francia studiava modo di usare le forze del re di Sardegna durante la guerra, e di distruggerlo durante la pace, i semi venuti di Francia, e pullulati con tanto vigore in Milano ed in Genova, incominciavano a partorire i frutti loro in Piemonte. Principiavasi dalle congiure segrete, procedevasi alle ribellioni aperte. Davano incentivo a queste mosse, oltre le opinioni dei tempi, le condizioni infelici di quel paese; imposizioni gravissime, quantità esorbitante di carta moneta, che scapitava del cinquanta per cento, moneta erosomista anch'essa in copia eccessiva, e disavanzante del dieci per cento; a questo i gravami dei soldati repubblicani o di stanza nel paese, o di passo, le leve di genti, sì pei regolari che per le milizie molto onerose, l'orgoglioso procedere dei nobili, certamente intempestivo, stantechè da lui principalmente nasceva la mala contentezza dei popoli, e contro di loro specialmente si dirizzavano le opinioni. A tutto questo non portava rimedio nè la natura temperata del re, nè la santità della regina, nè i consigli prudenti dei ministri. Era la quiete di Torino raccomandata al conte di Castellengo, uomo tanto deforme di corpo, quanto svegliato d'animo. Amatore del bene solo pel buon ordine, odiatore del male solo pel mal ordine, indovinava gli uomini, e gli sapeva frenare. Cercatore di mercati assiduo, esploratore notturno di conventicoli, scopritore acutissimo di volti infinti, si vedeva che in lui più poteva la natura che l'arte, ancorachè l'arte potesse moltissimo, e se per debito spiava, spiava molto più per inclinazione. Della nobiltà non si curava, dei re poco, della libertà si rideva, della non libertà parimente, i patriotti perseguitava piuttosto per vanagloria dell'arte, che per opinione. Insomma ei fu uomo, non dirò già più tristo dei tempi, ma bene tanto astuto, quanto i tempi avviluppati, e se campo più largo alle abilità sue avesse avuto, che il Piemonte non era, avrebbe lasciato una gran pruova di quanto possa a far muover gli uomini a posta d'uomo il conoscergli. Fu accusato di sangue, di ruberìe, di ricchezze illecite. Punì qualcheduno, ma sospinto dalla rabbia altrui; fu continente da quel d'altri, morì coi beni paterni non aumentati. Un Bonino, cameriere del marchese di Cravanzana, ed un Pasio, materassajo, furono sostenuti, come di aver voluto assaltare a mano armata il re sulla strada per alla Venerìa a fine di fare una rivoluzione. Credevano trovar molta gente, trovarono nissuno. Si disse, un Santini, spia di Castellengo, avergli messi su, poi traditi; ma non fu vero, e Castellengo non era uomo da simili giuochi, non che avesse scrupolo, che veramente non aveva, ma gli parevano inezie sanguinose per niente. Intanto l'astio delle due parti vieppiù s'inacerbiva. Insolentivano i soldati regj a Novara con lacerar di forza certe nappe d'oro, che i giovani Novaresi portavano sui cappelli: fuvvi gran tumulto, e qualche ferita. Tumultuava il popolo a Fossano, pretendendo il caro dei viveri, e faceva oltraggio alle case del conte San Paolo, uomo dotto e buono, ma lo chiamavano usurajo: poi i sollevati prendevano certi cannoni; il che non era più tumulto per le vettovaglie, ma ribellione: a Torino s'incominciava a gridar il nome di libertà, preso principio dalla bottega di un panattiere, che non voleva vender pane. Questi erano cattivi segni di un peggior avvenire; ed appunto in Genova era nata la rivoluzione. Accresceva il terrore ed il livore mi caso molto lagrimevole; che un medico Boyer con un compagno Berteux si arrestavano come rei di congiure. Era Boyer giovane virtuoso, e di famiglia ornata ancor essa di tutte le virtù, che possono capire in mortali uomini. Era egli certamente amico di libertà, ma per lei, non per lui: aveva l'animo innocente, e dell'innocenza prima; il mal fare odiava più che la morte, ed il mal fare degli altri il muoveva piuttosto a compassione che a odio; tanto era la natura sua dolce e comportevole. Amici e nemici piangevano le sue disgrazie. Egli solo, come se l'animo suo albergasse in altra miglior regione che questa non è, non rimetteva dalla dolcezza e serenità consuete. Eppure tanto amore lasciava nell'estremo supplizio!

I tumulti intanto si dilatavano. Già Racconigi, Carignano, Chieri e Moretta, terre vicine a Torino, contro il dominio regio si muovevano. In Asti soprattutto succedeva un fatto terribile, perchè i novatori, prese improvvisamente le armi, combattevano i soldati regj, che in numero di mila cinquecento vi stanziavano, e gli facevano prigioni con insignorirsi intieramente, non solo della città, ma ancora del castello. Poi chiamavano a libertà le terre vicine, in aiuto i patriotti lontani: Canale ed Alba romoreggiavano da vicino, Mondovì da lontano. Poco stante si udiva di nuovi romori a Biella, che oppugnata da una banda di novatori guidati da un conte Avogadro, e venuti parte da Cambursano e da Pollone, parte dalla valle di Mosso, fu tosto ridotta in estremo pericolo; perchè mentre i soldati regj combattevano gli assalitori da una parte, gli altri sforzavano il comandante ad arrendersi con dare in mano loro armi, e vettovaglie. Al tempo medesimo nella già tentata Novara prevalevano i regj, ma fu più insidia che onorevole vittoria; conciossiachè i soldati a ciò spinti da parecchi ufficiali, andavano facendo molte grida di libertà per fare scoprir i libertini: un solo fu colto all'agguato, perchè gridò, e non così tosto ebbe gridato, che restò ucciso. Nissun altro si scopriva, perchè avevano conosciuto l'inganno. Ma il moto, come suole avvenire, non poteva terminarsi di leggieri: i soldati correndo alla scapestrata incominciavano a mettere a sacco le case di coloro, che erano in voce di desiderar le novità; poi saccheggiavano le case degli aristocrati, e stava per poco che la città non andasse tutta a ruba. Un Seminoli, che fabbricava orologi, un Martinez gioielliere ne andavano con la peggio. Ho per testimonj uomini gravi, i quali raccontano, essersi veduto il dì seguente un ufficiale portar in dito l'anello della moglie del saccheggiato Martinez. La qual cosa io nè affermo, nè nego; basta bene, che il farlo veramente, ed il dirlo falsamente erano degni ugualmente di quei tempi.

Così con varia fortuna ardeva la guerra civile in Piemonte, accesa dal popolo pel timore delle vettovaglie, dai novatori per amore di libertà, o per odio dei nobili, dai nobili per fede verso il re, o per odio contro i novatori. Si trepidava in ogni luogo, perchè in ogni luogo si faceva sangue, o si temeva che si facesse. Già si sospettava di Torino; ma ottomila fanti, e duemila cavalli chiamati in fretta per sussidio della regia sede, e posti a campo sullo spaldo della cittadella minacciosamente, erano mantenitori di quiete. Ed ecco sulle porte stesse della città regia udirsi un romor confuso d'armi e d'armati: erano i Moncalieresi, che levatisi a romore, e sovvertita in Moncalieri l'autorità regia, già si mostravano sulle rive del Sangone con animo di andar più oltre a tentar Torino. Eransi i Moncalieresi a ciò mossi principalmente dai romori di Asti e di Carignano, e dalla stretta dei viveri, parte vera, parte esagerata dagli spaventi popolari, parte con vivi colori descritta dai novatori, levati a sedizione, e corsi sulla piazza per cui si ascende al castello, creavano tumultuariamente una immagine di reggimento popolare, non conoscendo bene nè che cosa si volessero, nè qual pericolo portassero in tanta vicinanza della sede della metropoli ottimamente munita d'armi e di munizioni. Sogliono i popoli sollevati nei primi impeti loro, prima che i tristi abbiano fatto i loro maneggi per tirar le cose a se, ricorrere, e far capo a personaggi autorevoli per dottrina e per virtù; il che lascia poi la solita coda dei martirj dei buoni, non solo abbandonati, ma ancora dati in mano ai persecutori da quei popoli medesimi, che gli avevano fatti capi delle imprese loro. Viveva a questi tempi in Moncalieri un uomo dottissimo, e tanto buono quanto dotto, dico Carlo Tenivelli, autore elegante di storie Piemontesi. Questi, alieno dalle opinioni dei tempi, avverso per natura, siccome quegli che Italianissimo era, da quanto venisse d'oltre Alpi, ed oltre a ciò di costume molto indolente e non curante, non avendo attività alcuna se non per iscrivere storie, non aveva a niun modo mente a muover cose nuove, e molto meno quelle che si assomigliassero alle Francesi. Divoto alla casa di Savoja, dedito, anche con singolare compiacenza, ai nobili, non era uomo, non che a fare, a sognar rivoluzioni. Per me, quando considero la natura sua, e quella del La Fontaine, celebrato favolatore di Francia, mi pare, che non mai chi crea tutto, abbia creato due nature tanto l'una all'altra somiglianti, quanto quelle di Tenivelli e di La Fontaine, solo ed unicamente in ciò differenziandogli, che l'uno era formato per aver ad essere uno storico egregio, l'altro un favolatore eccellente. Suonavano l'armi e le grida tutto all'intorno, e dentro della mossa Moncalieri, che Tenivelli non se ne addava, tutto con la mente immerso nelle solite lucubrazioni. Ma i sollevati avvisandosi, che il buon Tenivelli tornasse in acconcio di ciò che desideravano, tanto buono egli era, ed alla mano con tutti, lo andavano a levare di casa, e per forza il portavano in piazza, senza che egli ancora si avvedesse, che cosa volesse significare tanta novità. Insomma condottolo sulla piazza, e fattolo montar sulle panche, gli dicevano: Fa, Tenivelli un discorso in lode del popolo, ed egli, che eloquentissimo era, faceva un discorso in lode del popolo: poi gli dicevano: Tenivelli tassa le grasce, che son troppo care, ed ei tassava le grasce con tanta bontà, con tanta innocenza, che mi vien le lagrime in pensando al fine, che il fato gli apprestava. Tassate le grasce, ed usatosene anche copiosamente dai sollevati, s'incamminavano, come dicemmo, verso il Sangone per alla volta di Torino. Scrivono alcuni, che Tenivelli gli guidasse, ma non fu vero; e se fosse stato, sarebbe certamente stato guida poco acconcia, siccome quegli, che mezzo cieco essendo, appena vedeva lume.

In sì pericoloso frangente, in cui quasi tutto il Piemonte romoreggiava per la guerra civile, e che il suono dell'armi contrarie si udiva per fin dalle mura della real Torino, il governo non si perdeva d'animo, scoprendosi in questo, qual differenza sia fra uno stato enervato, qual era quel di Venezia, uno stato male armato, qual era quel di Genova, ed uno stato forte e bene armato, qual era quel del Piemonte. Il giorno stesso, in cui Moncalieri si muoveva contro Torino, creava il re con un'apposita legge, giunte militari, le quali con l'assistenza dei giudici ordinari sommariamente e militarmente giudicassero i ribelli. Poi premendo che si mettesse tosto il piede su quelle prime faville di Moncalieri, il che era più facile, e più pronto per la vicinanza, e pel gagliardo presidio che alloggiava nella capitale, ordinava ai soldati, in ciò insistendo massimamente il conte di Sant'Andrea, recentemente creato governator di Torino, buon soldato, e che sapeva quanto i buoni soldati valessero contro i popoli tumultuanti, andassero contro i ribelli, e gli vincessero. Non poterono i sollevati sostenere l'impeto delle compagnìe regie, e in poco d'ora si disperdettero; tornava Moncalieri sotto la consueta divozione.

Il buon Tenivelli, non solo non pensando, ma nemmeno sospettando, che quel che aveva fatto, fosse male, non che delitto, se ne veniva quietamente in Torino, e quivi tornava sui soliti studj, come se gli accidenti di Moncalieri fossero cose dell'altro mondo, o di un altro secolo. Passava arrivando tra file di soldati minacciosi, che nol conoscevano, e grande era la sicurtà sua: tanta era in lui l'astrazione e la fissazione negli studj, tanta la bontà, tanta l'ignoranza degli affari di questo mondo. Ma gli amici gli dicevano: Tenivelli, che hai fatto? o fuggi, o ti nascondi, se no, tu sei morto. Non la sapeva capire: tornava nella solita astrazione. In fine il nascondevano in casa di un soldato Urbano, che faceva professione di libertà; il soldato per prezzo di trecento lire il tradiva. Fu arrestato, condotto a Moncalieri, e condannato a morire dalla giunta militare. Lettagli la sentenza, non cambiava nè viso, nè parole. L'innocenza della vita il confortava, non era coraggio il suo, perchè il coraggio suppone uno sforzo, ma una mansuetudine, una equalità d'animo, tali che l'aspetto della vicina morte in modo alcuno non turbava. Introdotti gli amici piangevano, ed ei gli confortava. Raccoltosi, scriveva una lettera a sua sorella, il suo unico e diletto figliuolo Carlo, ancor fanciullo, raccomandandole. Poi con la verità paragonando il fallo che gli era imputato, e che a sì cruda ed a sì acerba morte il traeva, ed in mente recandosi tutta la vita sua, e quel che aveva fatto, e quel che aveva scritto, e più ancora quello che aveva in animo di fare e di scrivere ad onore del re e dei nobili, ed a gloria di una patria, che già aveva illustrato con gli scritti ed onorato con le virtù, rimetteva alquanto, in sì estrema sventura, dalla consueta mansuetudine, e scriveva, un'ora prima che andasse a morte, un sonetto pieno di spirito poetico, di pietà verso Dio, di sdegno contro i suoi percussori. Condotto sulla piazza di Moncalieri, gli fu rotto l'intemerato petto dalle palle soldatesche.

Va, mio maestro, che conforto emmi della tua morte il poter raccontare ai posteri le tue virtù, e se nell'altra vita conservano le anime presso il pietoso Iddio memoria, siccome credo, di quanto hanno operato nella presente, non tu ti pentirai, spero, dello avermi ammaestrato, nè io mi pentirò dello aver collocato nella più intima, e più ricordevol parte dell'animo mio i tuoi puri e santi erudimenti; imperciocchè ama il cielo, e ricompensa così l'amore dei maestri, come la gratitudine dei discepoli. Tu mi desti più che i parenti miei non mi diedero, poichè non la vita del corpo, ma quella dell'anima coi civili insegnamenti mi desti; e morendo ancora per atroce caso, mi mostrasti, come si possa concludere una innocente vita con una generosa morte. Così e vivendo e morendo a me fosti di utili precetti, gli uni pur troppo amorevoli, gli altri pur troppo funesti, fonte, ond'io durante questo mortal corso apprendessi nella prospera fortuna a temperarmi, nell'avversa a confortarmi, e se chi leggerà queste mie storie, potrà giudicare, ch'io non mi sia del tutto indegno discepolo di un tanto maestro, tu ne goderai nel celeste tuo seggio, ed io mi crederò di non aver impiegato indarno il tempo e le fatiche mie.

Continuavano intanto nelle città sommosse gl'insulti al governo regio. Il re, per rimediare ad un male tanto pericoloso, e per temperare un furore che ogni ora più andava crescendo, comandava, volendo dar adito al pentimento, e forza contro i renitenti, che si perdonassero le offese a chi ritornasse alla quiete ed alla fedeltà, e che i sudditi si armassero contro i ribelli. Riusciva questo rimedio utile per l'effetto, feroce per l'esecuzione: perchè i contadini, gente ignorante e fanatica, commettevano enormità degne di eterne lagrime, non portando più rispetto agli aristocrati che ai democrati, nè più ai nobili che ai plebei. Sanguinosa era per ogni parte la terra del Piemonte. Pure da questo editto conseguiva il governo gran parte dell'intento; perchè i novatori, interrotte le strade, non potevano più nè accordarsi, nè accorrere gli uni in ajuto degli altri.

Siccome poi per pretesto principale di tanti movimenti sfrenati si allegava la carestia dei viveri, ed anche era andata la stagione molto sinistra pel grano e per le biade, si facevano provvisioni sull'annona, e fra le altre, che nissuno potesse negar grano, o qualunque biada al pubblico, ove le volesse comprare al prezzo comune: ancora, che gli affitti dei terreni coltivati a riso le diecimila lire, que' dei terreni coltivati a grano e ad altre biade, le cinquemila non potessero passare; il qual consiglio era diretto ad impedire i monopolj, fonti di caro nei viveri, di sdegno nei popoli.

Oltre la scarsezza, principal cagione del caro che si pruovava, era il disavanzo dei biglietti di credito verso le finanze, e della cartamoneta, e così ancora quello della moneta erosa ed erosomista, gli uni e le altre cresciute in quantità soprabbondante, vera peste del Piemonte. Si sforzava il governo, premendo tanto i tempi, a rimediare ad un pregiudizio sì grave con obbligare, insino alla somma di cento milioni, con pubblico editto ai possessori dei biglietti, per sicurezza del loro credito, i beni degli ordini di Malta, di San Maurizio e Lazzaro, e quei del clero sì secolare che regolare, eccettuati i benefizj vescovili e parrocchiali. Nè questo bastando a tanta pernicie, diminuiva, poco dopo, il valore della moneta erosa ed erosomista, e al tempo medesimo creava, con autorità del papa, una tassa di cinquanta milioni sul clero; sopprimeva, pure con autorità del pontefice, i piccoli conventi, e le chiese collegiali. Ordinava inoltre, che si esponessero all'asta pubblica le abbazìe, ed altri benefizj di patronato regio, e che i fondi di commercio pagassero il dieci per centinajo, gli stabili il quattro. Poi la tassa sul clero, insolito a portar i carichi dello stato, non riscuotendosi, ordinava che la sesta parte dei beni ecclesiastici e militari forzatamente si vendesse. Dai rimedj stessi si può argomentare della grandezza del male. Pure pochi credevano, che fossero per bastare, e forse nemmeno quelli che gli usavano.

Miravano questi provvedimenti alle rendite dello stato, ed al far tollerabile il vitto del popolo; altri se ne facevano per mansuefar le opinioni, buoni in se perchè giusti, ma insufficienti perchè i novatori a niuna cosa, che venisse dal re, volevano star contenti. Toglieva il re con nuovo editto a' nobili la facoltà che avevano di nominare i giudici delle terre, e voleva che le spese dei processi criminali, che prima delle sentenze erano a carico loro, abuso enormissimo, si addossassero alle finanze. Statuiva ancora, che le bandite, ed i forni costretti fossero, ed intendessersi soppressi, e così ancora fossero, ed intendessersi soppresse le primogeniture ed i fidecommissi, e che i beni feudatarj si convertissero in allodiali, e si soggettassero alle tasse. Creava infine nuovi luoghi di monti, volendo che in loro si potessero investire i biglietti di credito, e la moneta erosomista.

Con tali consigli sperava di poter fare appoggio allo stato che pericolava. Ma due rimedj assai più efficaci di questi gli apprestava il cielo, che per istrano destino voleva che la monarchìa Piemontese non cadesse, se non dopo che avesse pruovato tutte le amarezze di una lunga e penosa agonìa. Fu il primo l'ajuto dei propri soldati, l'altro l'amicizia di Buonaparte. Le truppe regie virilmente combattendo, e condotte dal conte Frinco, ricuperavano Asti. Già Biella, Alba, Mondovì, Fossano, e Racconigi nell'antica obbedienza rimettevano: già Carignano, Moretta, ed altri luoghi vicini a Torino ritornavano per forza al consueto dominio, e già non si aveva più timore, che le valli di Pinerolo abitate dai Valdesi, sulle quali non si stava senza qualche sospetto, tumultuassero, solo alcune teste di novatori più ostinati o più coraggiosi, facevano qua e là qualche resistenza. Ma toglievano loro intieramente l'animo le lettere di Buonaparte scritte al marchese di San Marsano mandato a Milano ad implorare ajuto alle cose pericolanti, e che a considerato fine furono pubblicate dal governo regio. Recavano le Buonapartiane lettere, che la repubblica di Francia, era soddisfattissima del governo del re, che non solamente non doveva sua maestà aver timore della Francia, ma che il generalissimo era parato a fare quanto sapesse desiderare per assicurarla, e per restituir la quiete ad una corte, che aveva dato testimonianze vere de' suoi buoni sentimenti verso la Francia; che alcun pensiero non aveva di mandar in Piemonte la legione Lombarda, di cui il re temeva per esservi dentro molti novatori Piemontesi, e che si mostrava incitatrice a cose nuove; che solo aveva in animo di mandar un battaglione Polacco, ma che neanco questo manderebbe, se al re dispiacesse; che già quel Ranza, promovitore di scandali in Piemonte coi suoi scritti, aveva fatto arrestare; che finalmente era desideroso di testimoniare a sua maestà l'amicizia, che la repubblica di Francia aveva per lei, ed il desiderio suo proprio in contribuire che ella vivesse contenta e felice. Così Buonaparte diede volentieri al re di Sardegna quel sussidio, che con pretesti vani aveva ostinatamente negato a Venezia. Della quale differenza la cagione sia manifesta a chi si farà a considerare le cose da noi fin qui raccontate.

Qual fosse l'amicizia della repubblica di Francia verso il re di Sardegna, di sopra si è veduto, e si vedrà anche maggiormente in appresso. Quanto all'ufficio di Buonaparte, era buono e lodevole, e sarebbe stato anche più, se prima che entrasse in Piemonte, e dopo che vi era entrato, non avesse, secondando le intenzioni del direttorio, con parole ed esortazioni efficacissime stimolato i democrati a muoversi, ed a far rivoltar lo stato, mostrando anche loro lettere di un quinqueviro che risolutamente affermavano, non essere mai la repubblica di Francia per far la pace col re, ed anzi essere intenzione di lei di torgli lo stato. Queste furono le parole del generalissimo, questi gli scritti del quinqueviro: per le une e per gli altri avevano dato i democrati Piemontesi il denaro loro al capitano di Francia per ajutare il suo ingresso in Piemonte, ed ei se lo aveva preso, e ne aveva fornito i soldati delle cose più necessarie. Intanto le lettere di Buonaparte partorirono l'effetto che se ne aspettava. I novatori, già rotti dai soldati regj, ed ora caduti dalle speranze degli ajuti di Francia, posarono intieramente. Domati i democrati, si faceva passo dalle battaglie ai supplizj: erano giusti, perchè contro i ribelli, ma sì frequenti, che parevano piuttosto vendetta che giustizia. Di quattordici si prendeva l'estremo supplizio a Biella; un abbate Boffa fu del numero; di più di trenta in Asti, degli avvocati Testa, ed Arò, dei fratelli Berruti, e di un Celotto di men chiaro nome; nè Moncalieri stava senza sangue, oltre quel di Tenivelli. Vidersi più di dieci giustiziati a Racconigi; poi si soprastava per intercessione del principe di Carignano, dolente di veder quella sua terra piena di sangue. Notossi fra i giustiziati un giovane Goveano di natali onesti, ed apparentato con famiglie di buona condizione. A questo tratto fu molto biasimato, anzi lacerato il governo, come di una cosa enorme, e questa fu, che il re avendo ordinato, che si perdonassero ed in dimenticanza si mandassero i fatti di Racconigi, fu il supplizio susseguente al perdono. Affermavano in contrario i difensori del giudizio, che Goveano, non per delitti politici, ma per comuni era stato condannato dal consiglio di guerra. Ma questi delitti comuni, alla realtà dei quali da una parte ripugna la natura onesta del giovane, dall'altra dà fede l'autorità di una sentenza, in occasione dei delitti politici, e per loro erano nati, e con loro talmente mescolati, che meramente politici e formanti con essi un medesimo corpo avrebbero dovuto stimarsi da chi avesse più mirato ad una giusta sopportazione, che al rigore; e le perdonanze si debbono piuttosto allargare che restrignere. Certamente il fatto di Goveano portò con se un gran terrore, ed una gran compassione, e la fede molto meglio si sarebbe serbata, se si fosse perdonato a Goveano; imperciocchè tra delitti politici e non politici commessi a Racconigi, non si era fatta distinzione nell'editto del perdono, e l'infelice giovane già ridottosi in Francia sui primi fervori, si era, per sua fidanza nelle reali parole, restituito nella sua patria. Certo fu Goveano colpevole di grandi enormità contro lo stato, poichè era stato capo di ribelli; ma la fede di un monarca debb'esser più forte di qualunque reato. Il peggio che si potesse giustamente fargli, era, poichè sulla fede del re era venuto, che sulla fede medesima là fosse, dond'era venuto, ricondotto. A Chieri le palle soldatesche ammazzarono venti persone in un giorno; l'avvocato Roccavilla fu fatto passar per l'armi a Saluzzo, l'avvocato Fuggiani a Moncalieri. Tanti supplizj frenavano pel presente, preparavano rivoluzioni per l'avvenire; avrebbero raffermo uno stato intatto, indebolivano uno stato scosso, insidiato, e circondato da ogni parte da esempj pestiferi.

La moltiplicità dei supplizj non isvolgeva gli animi dall'infelice Boyer, perchè chiaro per la santità dei costumi, chiaro per le dipendenze della famiglia, faceva tutta la generazione intenta a lui. Una giunta mezzana tra militare e civile il processava. Pareva a tutti, essendo i soldati fedeli, incredibile che due giovani, se non fossero del tutto scemi, avessero concetto il disegno d'impadronirsi, come n'erano imputati, nella capitale stessa del regno delle armerìe reali e della cittadella. S'offerivano testimonj pronti al carcere per le difese, insistevano per pruovare, essere impossibile il delitto. Non furono ammessi, perchè si sospettava, che i testimonj amassero meglio servire alle amicizie ed alle opinioni, che alla verità. Pure quell'avere negato le difese parve a tutti, se non se agli arrabbiati, ed era veramente cosa incomportabile. Fu il condannar più crudele per l'occasione offerta di salvar un giovane, al quale tutti inclinavano con amor singolare. Castellengo fra i giudici, Priocca fra i ministri opinavano per la mansuetudine, il primo, perchè gli pareva che il sangue di quel giovane non importasse, il secondo per questo stesso ed anche per compassione. Fu Boyer col suo compagno Berteux sentenziato a morte: ambidue giustiziati sugli spaldi della cittadella. Leggo nei ricordi dei tempi, che il conte di Sant'Andrea, governatore di Torino, pascesse da una casa vicina la sua vista del giovane moriente: il che, non avendone certezza, lascio in dubbio. Se non fosse dei tempi, affermerei esser falso, perchè Sant'Andrea non era uomo di desiderj immani. Bene fu vero, che alcune dame e cavalieri, a tanto di durezza conducono le civil discordie, si lasciarono trasportare al volersi godere un piacer tanto crudo. La morte del Boyer contristava tutta la città, e la rendeva attonita e paventosa lungo tempo.

LIBRO DUODECIMO

SOMMARIO

Pensieri di Buonaparte. Parti ed illusioni in Milano. Creazione della repubblica Cisalpina. Società di pubblica instruzione, e discorsi che vi si fanno. Il generalissimo dà una constituzione alla Cisalpina. Magnifica festa celebrata nel campo del Lazzaretto a Milano. Le potenze riconoscono la nuova repubblica. Omelìa del cardinal Chiaramonti, vescovo d'Imola, in lode della democrazìa. Visconti, ambasciatore della Cisalpina a Parigi, suo discorso al direttorio, risposta del presidente. Ultimo vale di Buonaparte alla Cisalpina. Cupezze di lui, e come inganna i potenti per arrivare alla somma dell'autorità in Francia. Trattato di Campoformio. Miserie d'Italia. Stato di Venezia democratica. Le truppe dell'imperatore occupano l'Istria, la Dalmazia, e l'Albania Veneta. Fraudi di Buonaparte per impadronirsi del navilio Veneziano, e dell'isole del mare Ionio. Spedizione dei Francesi in Levante. Espilazione, e spoglio dei paesi Veneti. Festa giojosa ad un tempo, e compassionevole in Venezia. Congresso in Bassano per la unione delle città Venete, inutile, e perchè. Brutta proposizione fatta da Buonaparte ai municipali di Venezia. Generosi sentimenti dei municipali, e di Villetard, segretario della legazione di Francia; sdegno barbaro di Buonaparte. Venezia consegnata dai repubblicani agl'imperiali.

Buonaparte vincitore dell'Italia e dell'Austria, desiderava, che un testimonio solenne si fondasse in Italia, il quale, oltre gli scritti, che morti sono, tramandasse ai posteri la memoria viva de' suoi illustri fatti, e del suo valore. Quest'era, come abbiam narrato, uno stato nuovo, che fosse a lui obbligato della sua origine, e della sua conservazione. Oltre a ciò, non essendo ancora le cose della pace del tutto ferme, poichè ad ogni momento si poteva prorompere nuovamente all'armi, voleva, che sorgesse in mezzo alle monarchìe d'Italia, e contro l'imperatore medesimo una repubblica, che fondata sui principj nuovi, desse loro cagione continua di spavento. Parevagli ancora, che la fondazione della nuova repubblica avesse, nella opinione dei popoli, a compensare la distruzione di una vecchia, e che la Cisalpina potesse cancellare il biasimo incorso per la Veneziana. Forse in tutto questo, oltre la gloria e le minacce, covava un pensiero più recondito nel caso, in cui per opera o d'altrui, o sua, venisse a mutarsi la forma del governo in Francia, riducendosi di nuovo all'antica, cioè alla monarchìa; poichè quel nuovo stato Italiano avrebbe potuto divenire per esso lui, o asilo, o ricompensa; conciossiachè il tornare al grado privato stimava contro la fama, ed era certamente contro la natura sua, checchè in contrario affermasse in certi momenti di dispetto, al direttorio. I Cincinnati, ed i Washington erano stimati da lui uomini di bassi pensieri, d'animo poco generoso, siccome quelli i quali collocavano la patria fuori di loro, ed in altrui, mentr'ei la collocava tutta in se.

Per le quali cose, come prima ebbe fermato i patti di Leoben, e dato ordine a quanto più pressava nel suo esercito, se n'era tornato a Montebello, donde poteva e vegliar le pratiche della pace, e dar moto alle faccende Cisalpine. Continuavano nella Cisalpina le provocazioni di moti incomposti nei paesi circonvicini, le quali erano, o palesi nei giornali, nei ritrovi politici, nelle condotte ai soldi Cisalpini di soldati Piemontesi, Austriaci, Polacchi, Papali, e Napolitani, che nelle legioni Lombarda e Polacca si descrivevano, o segrete per gli uomini mandati a posta, per lettere, per arti di ogni sorte, in cui vivamente si travagliavano i fuorusciti di ogni contrada d'Italia, massimamente i Piemontesi ed i Napolitani, i primi pericolosi per la natura tenace, i secondi pericolosi per la natura loquace. Le cose che si scrivevano a quei tempi in Milano contro i re e contro il papa, sarebbe lunga faccenda raccontare. Quel Salvadori, ed un Porro che fu poi ministro di polizia, e morì due anni dopo nella morìa di Nizza, erano i capi delle arti provocatrici, e stimolavano scrittori, che anche senza stimolo andavano volentieri a questo cammino. Fra i giornali Italiani il Termometro politico era il primo, e ciò, ch'ei scrisse sulla rivoluzione di Genova, e su i moti del Piemonte, è fuori d'ogni moderazione. Diede negli eccessi principalmente quando con infiammatissime parole esortava, che si gettassero al vento le ceneri dei reali di Savoja serrate nelle tombe di Superga, con surrogarvi quelle dei patriotti morti nell'Astigiana rivoluzione. Queste erano esorbitanze pazze e stravaganti; l'esagerazione stessa serviva di rimedio. Ma era in Milano un motivo assai più efficace, e quest'era un ritrovo pubblico, che chiamavano società di pubblica instruzione, dove con appositi discorsi si ammaestravano i popoli, che concorrevano ad ascoltare, nelle nuove dottrine, e donde scritti innumerevoli partivano al medesimo fine e nella Cisalpina largamente si diffondevano. Apparivano, e risplendevano molto principalmente in questo ritrovo politico uomini dotti, e leali operatori per fin di bene, ma servi ancor essi delle illusioni dei tempi. Piacemi in questo riferire un solo discorso, poichè l'andar particolarizzando sarebbe troppo lunga narrazione, e fia quello di un giovane dotto, ed amico sincero di libertà: aveva egli l'animo buono, e come buono, non sospettava in altrui quel male che non aveva in se. Esposti prima con molto acume, per cui massimamente valeva, i modi con cui gli uomini s'aggregano primitivamente in società, giva per tale forma nella sala della società della pubblica instruzione la domenica dei sette maggio favellando. «Sì, popoli della nuova Gallia Cisalpina, voi segnate negli annali del mondo un'epoca singolare, un'epoca, per cui le città dell'Italia non avranno più ad invidiare a quelle della Grecia la sorte, che portò nel loro seno la libertà. Gli Eraclidi, que' barbari di Tessaglia, che si aprirono strada nel Peloponneso, non scesero già per liberare, ma per ispogliare ed opprimere i popoli Greci. Forzati questi ad armarsi per resistere al nemico esterno, poterono bensì rovesciare i troni dei loro re, ma ciò non seguì che a costo di lunghi e gravi patimenti. Non fu che per la morte di Xanto e di Codro, che Tebe ed Atene si resero libere. Non fu che per una serie di eccessivi malori, che tutte le città cospirarono alla rovina dei despoti, si unirono tutte per sostenersi a vicenda, e guarentirsi la libertà, e sorse il mal ragionato federalismo della repubblica Acaica; e non fu che dopo una fatale continuata esperienza, che le buone leggi comparvero in Sparta, ed Atene; poichè all'epoca della rivoluzione mancarono di Licurghi, e di Soloni quelle città.

«Ora confronta tu stesso, Insubre popolo, con quella di Grecia la tua rigenerazione. Quanto è più fortunata, e più lieta! le armate Francesi non sono già state le orde rapaci degli Eraclidi; non sono già elleno discese dall'Alpi per devastare le nostre terre, per abbattere le nostre mura, per distruggerci col ferro e col fuoco. Sono esse comparse nelle pianure ridenti d'Italia per fraternizzare coi popoli, per rovesciare i troni dei nostri tiranni, per allontanare da questi lidi i veri Eraclidi, i barbari del Nord, che non ebbero, e non potranno avere giammai, nè il diritto di farsi occupatori nostri, nè il merito di unirsi a noi. La naturale loro posizione, i costumi, le leggi, la lingua, gli stessi loro ceffi gli divideranno sempre da noi, e gli conserveranno eterno obietto dell'odio nostro. Noi non siamo stati sforzati ad armarci, ed a combattere nemmeno contro gli schiavi della tirannide; i valorosi repubblicani di Francia hanno combattuto, e vinto per noi. Sulle tracce della constituzione Francese, o per dir meglio, del codice di natura, noi sapremo meglio forse di Licurgo e di Solone donarci in breve le nostre leggi. Avremo in appresso noi pure i nostri Milziadi, i Leonida, i Temistocli, i Cimoni, la gloria dei quali è già stata oscurata dai capitani Francesi, e sapremo rinnovare noi pure le già tante volte dalle Franche falangi ripetute giornate di Maratona, delle Termopili, di Salamina. Più grande di Publicola il condottiere dell'armata d'Italia ha ben meritato di ottenere fra le tue mura l'onore del trionfo; ma le tue allegrezze non verran funestate dai funerali di Bruto; nè tarderanno a sorgere fra' tuoi soldati i Servilj, i Fabricj, i Papirj, i Scipioni: che più? Le Clelie animose, le ferme Virginie si moltiplicheranno pure nelle tue donzelle».

Poi questo buon Italiano, descritta la libertà Siciliana data da Timoleonte, ed esortati gl'Italiani a vivere lontani dall'ozio e dalle discordie, con queste voci la sua orazione terminava: «Conosci, o popolo, la tua forza; la lega che dagl'Italiani si organizzò contro Brenno, e contro il Barbarossa, te ne darà l'idea vantaggiosa. Vivi alla libertà, a quella libertà, che, abbandonate le amene sponde del Cefiso e del Peneo, e fermatasi per qualche secolo sulle mal sicure rive del Tebro, dopo essere stata sì lungamente ne' boschi e ne' deserti nascosta, comparve di nuovo per grandeggiar sulla Senna, e per brillar con successo intorno al Po, da dove tutto scorrerà un giorno il bel paese, che Apennin parte, e 'l mar circonda e l'Alpe ».

A queste parole applaudivano romorosamente i buoni Milanesi, maravigliando, che fra loro avessero a nascere così presto i Temistocli, i Scipioni, e massimamente le Clelie e le Virginie. Quest'erano appunto le cose, che, come diceva Buonaparte, il quale aveva il cervello fermo, mentre girava agli altri, son buone a mettersi nei romanzi.

Quali effetti partorissero questi incentivi in Piemonte e nel Genovesato, già abbiam raccontato. Il ducato di Parma a grave stento si manteneva per la protezione di Spagna, alla quale per allora la Francia non voleva pregiudicar. Continuava la Toscana nel suo tranquillo stato, sebbene la presenza dei soldati repubblicani, la pressa insolita per le contribuzioni, e le arti Cisalpine vi avessero prodotto qualche impressione. Lucca, corrotti con denari, e fattisi benevoli alcuni agenti repubblicani dei primi, si manteneva negli ordini antichi, non senza grandissime querele dei patriotti Cisalpini, che quell'aristocrazìa ardentemente detestavano. Del resto si contaminava Roma stessa, dove si scoversero congiure per cangiar lo stato, ed in cui si mescolarono francesi ed Italiani, nobili e plebei, cristiani ed ebrei. Condotti dall'occupamento del secolo avevano parlato molte cose, e nessuna operato, per modo che Giuseppe Buonaparte, che a quei tempi sedeva in Roma, gli ebbe a chiamare Bruti in pensiero, femminelle in atto. Certo non avevano nè seguito sufficiente, nè mezzo di esecuzione. Nondimeno il pontificio governo se ne sbigottiva, e gli animi si sollevavano. A Napoli covavano crudi fatti sotto velame quieto: oltreacciò mandavansi truppe di soldati verso le frontiere Romane: il governo macchinava ingrandimento; perciocchè vedendo, che si faceva vendita di stati, Napoli ne voleva per se, e domandava con molta instanza ai Francesi Fermo ed Ancona in Italia, Corfù, Cefalonia, e Zante nella Grecia. Le quali richieste erano non senza riso udite dal direttorio e da Buonaparte, più inclinati a sovvertire gli stati deboli, che ad ingrandirgli. Da ciò si vede che la sete del prendersi quel d'altrui era venuta non solo alle repubbliche, ma ancora alle monarchìe. Nella Valtellina, provincia suddita ai Grigioni, nascevano più che parole, o congiure o desiderj; i popoli vi tumultuavano a mano armata, protestando voler essere uniti alla Cisalpina. Fuvvi qualche sangue: poi dai Grigioni, e dai Valtellini fu fatto compromesso nella repubblica Francese. Pronunziò Buonaparte il lodo, stante che non erano comparsi a dir le loro ragioni i legati dei Grigioni, che avessero i popoli della Valtellina a divenir parte della Cisalpina. Per tale sentenza Chiavenna, Sondrio, Morbegno, Tirano e Bormio, terre principali di quella valle, con tutti i distretti, sottratte dalla divozione di gente Tedesca, si congiungevano con gente Italiana. Così dalla parte d'Italia si apriva ai repubblicani la strada nelle sedi più recondite delle nazioni Elvetiche, grande ajuto ai disegni che si avevano.

Buonaparte intanto, al quale piacevano le dicerìe dei patriotti per sommuovere gli stati altrui, ma non erano ugualmente a grado per fondare un suo governo, perchè sapeva che con modi di simil forma non si reggono i popoli, aveva applicato l'animo ad ordinare la Cisalpina con una constituzione regolare. Erasi fino allora retta la Lombardia col freno di un'amministrazione generale, potestà non solo serva del generalissimo, ma ancora di qualunque più sottoposto commissario o comandante, ed il raccontare tutte le sue condiscendenze sarebbe troppo lunga bisogna. Non era padrona dei tempi, ma i tempi la dominavano: il frenare i democrati era stimata taccia aristocratica, il non frenargli tornava in diminuzione della sua autorità, ed in fonte di licenza. Nelle diverse città i comandanti forestieri facevano a modo loro, e secondochè avevano natura più o meno quieta, od opinioni più o meno sregolate, in questo luogo tenevano, in quell'altro allargavano la briglia, e lo stato si reggeva più strettamente, o più largamente. Laonde quello non era governo nè civile, nè libero, nè comune, ma bensì un reggimento incomposto, difforme, ed a volontà di forestieri. Dal che ne conseguita, che poco più poteva l'amministrazione generale, che empir con le tasse ordinarie e straordinarie l'erario dell'esercito Buonapartiano, e dare caposoldi, e piatti costosi ai generali ed ai comandanti: perciò era veduta non senza disprezzo e indegnazione dai popoli.

Buonaparte, che era solito a gettar via gli stromenti, che per servir lui, erano divenuti odiosi, si risolveva a far mutazione. Oltrechè gl'importava massimamente, a volere che la Cisalpina fosse uno stato da se, e conosciuto dagli altri stati d'Europa, che il reggimento temporaneo vi cessasse, e vi s'introducesse il durevole ed il constituito, per quanto a quei tempi conseguire si potesse. Per la qual cosa avendo dato vita alla Cisalpina nei patti di Leoben, le volle dar ordine con leggi a Montebello. Primieramente creava una congregazione di dieci personaggi rinomati per sapienza e per costume, a cui commetteva il carico di formare il modello della constituzione Cisalpina. Notavansi fra gli eletti cinque Milanesi, un Cremonese, un Reggiano, un Modenese, un Bergamasco. Vi aggiungeva un Tirolese da lungo tempo professore in Pavia. Questi era il Padre Gregorio Fontana, uomo maraviglioso per la profondità e la vastità della dottrina, e certamente fra i dotti dottissimo. Non amava egli travagliarsi dello stato, non avendo ambizione, ma Buonaparte lo cercava per vanagloria, e per un suo fine, volendo farsi scabello dei nomi più chiari per salire a quell'altezza che ambiva. Interveniva spesso alla congregazione. Pareva, che dovesse sorgere qualche gran fatto da un Buonaparte, e da un Fontana. Ne usciva una copia della constituzione Francese con poche mutazioni, e di niun momento; opera degna di copisti, non di quegli uomini eletti. Per tale forma si consumava l'autorità dei nomi senza frutto, e gli stromenti dell'introdurre un vivere ben composto si corrompevano. Restava, che quello che si era fatto in nome, si recasse in atto. Eleggeva Buonaparte quattro Cisalpini al direttorio: furono quest'essi: Serbelloni, che fu duca, e che camminava con molto affetto in queste novità, Moscati, medico compitissimo, e non ostante tanto compito in ogni altro genere di filosofia, quanto in medicina, Paradisi, autore assai celebrato per bello scrivere, e malveduto dagli Austriaci per aver voce di essersi mescolato attivamente nei moti di Reggio; finalmente Alessandri, operatore principale delle mutazioni nelle terre Veneziane oltre Mincio. Siccome poi non si potevano così presto eleggere i rappresentanti, che nei due consigli legislativi dovevano sedere, creava Buonaparte quattro congregazioni, l'una di constituzione con Fontana, Mascheroni, Longo, Oliva, Loschi, Goldaniga; l'altra di giurisprudenza con Bazetta, Negri, Taverna, Spannocchi, Villa, Perseguiti; la terza di finanze con Melzi, Vandelli, Formigini, Nicoli, Forni, Carissimi; la quarta di guerra con Visconti, Lahoz, Porta, Triulzi, Gazzari, Caleppi, uomini, se non tutti, certamente la maggior parte, migliori dei tempi. Conservassero, voleva, il mandato insino a che fossero creati, ed entrassero in ufficio i consigli legislativi. Finalmente per compir quanto ai supremi ordini politici dello stato si apparteneva, il capitano di Francia chiamava ministro di polizia Porro, di guerra Birago, di finanza Ricci, di giustizia Luosi, di affari esteri Testi. Al tempo medesimo nominava segretario del direttorio Sommariva.

Tessuto con parole di molta superiorità pubblicava un manifesto da servir per principio alla Cisalpina repubblica. La repubblica Cisalpina, andava ragionando, essere stata lunghi anni sotto l'imperio dell'Austria, averla contro l'Austria conquistata la repubblica Francese; eppure rinunziare lei la conquista, e volere, che la Cisalpina fosse libera, independente, riconosciuta dalla Francia e dall'Austria, riconosciuta da tutta l'Europa; nè contento il direttorio esecutivo della repubblica Francese allo aver usato l'autorità sua, e le vittorie dei soldati repubblicani, perchè sorgesse, e sicura vivesse, volere ancora per singolar tratto della sua amorevolezza, e per preservarla dalle rivoluzioni dare al popolo Cisalpino la propria constituzione, parto prediletto di una nazione illuminatissima; essere la libertà il maggior bene, le rivoluzioni il maggior male; dovere adunque il popolo Cisalpino far passo da un reggimento soldatesco ad un reggimento civile; perchè questo passo senza discordie fosse, e senza sedizioni, avere il direttorio esecutivo giudicato dovere per suo mezzo, e per questa volta nominarsi i magistrati supremi della repubblica nuova, insino a che, trascorso un anno, il popolo stesso secondo gli ordini della constituzione gli nominasse; già da secoli non essere più buone repubbliche in Italia, l'amore sacro della libertà esservi spento, la più bella parte dell'Europa vivere serva dei forestieri; esser debito della repubblica Cisalpina il dimostrare col senno, e col vigor suo, e coi buoni ordini de' suoi eserciti, non avere la moderna Italia degenerato dall'antica, e vivere ancora in lei spiriti degni della libertà, per questo avere lui nominato e le quattro congregazioni, e il direttorio, e i ministri.

Destinavansi il dì nove luglio, ed il campo del Lazzaretto fuori di porta Orientale, vasto e magnifico, al pubblico e solenne ingresso della Cisalpina repubblica. Accorrevano chiamati alla solennità piena di tanti augurj i deputati di tutti i municipj, di tutti i drappelli delle guardie nazionali, di tutti i reggimenti assoldati della repubblica. Era nei giorni, che precedevano la festa, in tutta la città una folla, ed un andar e venire di popoli contenti; pareva, che non solo la nobile Milano, ma ancora tutta l'Italia a nuovo destino andasse. Aprivasi alle nove del destinato giorno il campo della Confederazione (che così dal fatto chiamarono il Lazzaretto) e vi accorrevano giulivamente, ed a pressa meglio di quattrocentomila cittadini. Suonavano le campane a gloria, tiravano i cannoni a festa; innumerevoli bandiere tricolorite col turchino, o col verde sventolavansi all'aria, e le grida, e il tumulto, e le esultazioni per l'infinita contentezza andavano al colmo. I democrati non capivano in se dall'allegrezza, e dicevano le più strane cose del mondo. Pareva, ed era veramente un gran passo da quella vita morta dei Tedeschi a quella vita viva dei Francesi; la magnifica Milano, città di per se stessa e per naturale indole allegrissima, ora tutta più che fatto non avesse mai, sin dall'intimo fondo suo si commuoveva, e si rallegrava. Entrava nel campo il direttorio coll'abito verde ricamato d'argento alla Cisalpina: il seguitavano i magistrati, e gli uomini eletti della città; gli uni e gli altri magnifico spettacolo. Nel punto dell'ingresso spesseggiavano vieppiù con le salve le artiglierìe, i popoli applaudivano, le bandiere si sventolavano: celebrava l'arcivescovo sull'altare apposito la messa; in questo mentre a quando a quando rimbombavano le artiglierìe. Dopo il santo sacrificio benediva l'arcivescovo ad una ad una le presentate bandiere. Seguitava un concerto strepitosissimo, e pure melodioso d'inni, di suoni, di viva repubblicani. Sorgeva in mezzo l'altare della patria; aveva sui lati iscrizioni secondo il tempo: sopra, un fuoco acceso, simboleggiatore dell'amore della patria, a' piedi urne con motti dimostrativi del desiderio e della gratitudine verso i soldati Francesi, e Cisalpini morti nelle battaglie per la salute della repubblica. Quest'erano le Cisalpine allegrezze e cerimonie. Assisteva Buonaparte seduto in ispecial seggio alla festa, al quale, come a vincitore di tante guerre, ed a fondatore della repubblica, risguardavano principalmente i popoli circostanti. Nè piccola parte dell'onesto spettacolo erano gli uomini delegati di Ferrara, di Bologna, dell'Emilia, di Mantova stessa, ancorchè non ancora fosse unita alla repubblica, venuti ad esser presenti a quella solennità, non solo inconsueta, ma non vista mai nel corso dei secoli, grande testimonianza d'amore, e di concordia Italiana.

Serbelloni, presidente del direttorio, dal luogo suo levatosi, e sopra un più elevato seggio postosi, in cotal modo, fattosi silenzio in mezzo agli adunati popoli, a favellare incominciava: «Noi fummo un tempo liberi, e queste medesime terre repubblicane furono: la diversità fatale delle troppo facili opinioni ci ridusse, e ci mantenne per molti secoli in estera e spesso variata servitù. Rammentiamoci, o cittadini, la lunga serie dei cessati infortunj, ed il passato ci sia d'utile esempio per l'avvenire. Sparisca, come lampo, ogni spirito di parte, che finora possa averci divisi, e perfino gli odiosi nomi, fonte inesausta di civili discordie, siano mandati in dimenticanza. Serbiamo con indelebile memoria pel ricevuto benefizio una gratitudine eterna verso la Francese repubblica, che col valore, e col sangue de' suoi soldati ci procurava la libertà, e gratitudine ancora eterna sia in noi verso l'immortale Buonaparte, che emolo dell'Africano Scipione, ci tolse con le sue vittorie a servitù, e diè forma con la vastità de' suoi lumi politici al nostro libero governo. Ciò crediamo, ciò inculchiamo nel più profondo degli animi nostri, che a voler mantenere, e conservare la prosperità di una repubblica democratica, ha ad essere fra di noi virtù nei padri, educazione nei figliuoli, costume e costanza d'animo nei cittadini, leggi ed interessi in tutto il territorio uniformi. Accendiamoci di un amor santo di patria, giuriamo concordemente di viver liberi, o di morire. Il direttorio della Cisalpina repubblica lo giura il primo, e ve ne dà l'esempio».

A questo passo il presidente, sguainata la spada, ed i suoi colleghi, levati i cappelli, ad alta voce giuravano. Giuravano al tempo stesso gli uomini deputati, giuravano i capi dei reggimenti, giurava l'adunato popolo intiero: i viva, le grida, i plausi, il batter delle mani, il lanciare i cappelli, lo sventolar delle bandiere facevano uno spettacolo misto, romoroso ed allegro.

Ciò detto, continuava orando il presidente, «manterrebbe col sangue, e con la vita, se fosse d'uopo, il direttorio la constituzione e le leggi. Sovvengavi, terminava, o cittadini, sovvengavi, che questa terra che abitiamo, è la terra dei Curzj, degli Scevola, dei Catoni; imitiamo quelle grandi anime, in ogni umano caso imitiamole, e lascino ogni speranza di vincerci i nostri nemici, e insieme l'Europa s'accorga, che qui l'antica Roma rinasce».

Qui rincominciavano i plausi, ed i cannoni strepitavano. A questo modo s'instituiva la repubblica Cisalpina, mandata da un principio che pareva eterno, ad un dubbio e corto avvenire. Furonvi tutto il giorno corse di carri e di cavalli, suoni, balli, festini in ogni canto, poi la sera bellissime luminarie sì dentro, che fuori del teatro. Insomma fu una grande e solenne allegrezza; e queste feste non in altra città del mondo riescono tanto liete e tanto magnifiche, quanto nella bella, e splendida Milano.

Perchè poi la memoria di un giorno tanto solenne nella mente dei posteri si conservasse, decretava il direttorio, che si rizzassero nel campo della Confederazione ad onore di ciascuna schiera dell'esercito Francese otto piramidi quadrangolari; sur un lato di ciascuna piramide si scolpisse un segno eterno della gratitudine e dell'amicizia del popolo Cisalpino verso la repubblica Francese, e l'esercito d'Italia; s'inscrivessero su due altri lati i nomi di quei forti uomini, che avevano dato la vita per la patria loro, e per la libertà Cisalpina nelle battaglie; che l'ultimo lato si serbasse intatto per iscolpirvi, ove fosse venuto il tempo, i nomi di quei prodi cittadini, che fortemente combattendo avrebbero procurato col sangue loro salute, e libertà alla patria Cisalpina.

Contaminava l'allegrezza dei patriotti l'essersi fatta serrare dal direttorio la società di pubblica instruzione. Si trovò pretesto dell'essere contraria agli ordini della constituzione.

Continuava Buonaparte ad usare l'autorità suprema per ordinare la repubblica. Nominava i giudici, gli amministratori dei distretti o dei dipartimenti, e que' dei municipj. Si faceva poi più tardi ad eleggere i membri dei due consigli, cioè del consiglio grande, o dei giovani, e del consiglio dei seniori, o degli anziani.

I popoli all'intorno, che se ne vivevano o con governi deboli, o con governi temporanei e tumultuarj, veduto le forme più regolari e più promettenti della Cisalpina, e quell'affezione particolare che il capitano invitto le portava, si davano a lei l'uno dopo l'altro. Bologna, Imola e Ferrara furono le prime a mostrar desiderio dell'unione, le due ultime più ardentemente per invidia a Bologna, la prima più a rilento per la memoria dell'antica superiorità. La giunta Bolognese titubava; ma tanti furono i maneggi dei patriotti più accesi, e l'intromettersi dei Cisalpini, che ne fu vinta la sua durezza, ed accedeva anch'essa alla prediletta repubblica; accostamento di grandissima importanza, perchè era Bologna città grossa, e piena d'uomini forti e generosi. Unite le legazioni, pensava Buonaparte a compire il direttorio, vi chiamava per quinto un Costabili Containi di Ferrara.

Principalmente accrebbe la grandezza Cisalpina l'unione della forte Brescia, membro tanto principale della terraferma Veneta. Fu tratto presidente del consiglio grande Fenaroli, nativo di questa città, il quale, avuta principal parte nelle precedenti mutazioni, si mostrava molto ardente per la conservazione dello stato nuovo.

Mantova, perchè ancora di destino incerto, se ne stava in pendente di quello che si avesse a fare. Ma poi quando si seppe, che pel trattato di Campoformio l'Austria si spogliava della sua sovranità sopra di lei, s'incorporava con animo pronto anch'essa alla Cisalpina. I Cisalpini poi, fatto di per se stessi impeto nell'oltre Po Piacentino, consentendo facilmente i popoli, l'aggregavano alla loro società.

Ampliata la repubblica per tutte queste aggiunte, Buonaparte la divideva in venti spartimenti, che chiamava dell'Olona con Milano, città capitale, del Ticino con Pavia, del Lario con Como, del Verbano con Varese, della Montagna con Lecco, del Serio con Bergamo, dell'Adda ed Oglio con Sondrio, del Mela con Brescia, del Benaco con Desenzano, del Mincio con Mantova, dell'Adda con Lodi, del Crostolo con Reggio, del Panaro con Modena, dell'Alpi Apuane con Massa, del Reno con Bologna, dell'Alta Padusa con Cento, del Basso Po con Ferrara, del Lamone con Faenza, del Rubicone con Rimini. Per tal modo in men che non faceva cinque mesi dappoichè era stata creata, in questa larghezza si distendeva la Cisalpina, che conteneva in se la Lombardia Austriaca, i ducati di Mantova, di Modena e di Reggio, Massa e Carrara, Bergamo, Brescia, e Crema coi territorj loro, la Valtellina, e le tre legazioni di Bologna, di Ferrara e dell'Emilia, parte del Veronese, e l'oltre Po Piacentino. Poco dopo Pesaro, città della Romagna, fatta mutazione, si dava alla Cisalpina. Per questo fatto i Romani confini si restrignevano.

L'unione delle legazioni alla Cisalpina aveva in se non poca malagevolezza, perchè questi popoli, soliti a vivere sotto il dominio della Chiesa, ripugnavano alle innovazioni, che loro pareva che fossero state fatte nelle cose attinenti alla religione. Questa mala contentezza si era vieppiù dilatata, quando si domandarono i giuramenti ai magistrati. Fu loro imposto di giurare osservanza inviolabile alla constituzione, odio eterno al governo dei re, degli aristocrati, ed oligarchi, di non soffrire giammai alcun giogo straniero, e di contribuire, con tutte le forze al sostegno della libertà ed uguaglianza, ed alla conservazione e prosperità della repubblica. Per mitigare le impressioni contrarie concette dal popolo, intendevano i magistrati alle persuasioni, ma come d'uomini la maggior parte troppo dediti alle nuove opinioni, elle facevano poco frutto. Tentaronsi gli ecclesiastici, e fra gli altri il cardinale Chiaramonti, vescovo d'Imola, che poi fu papa sotto nome di Pio settimo. Il suo testimonio, e le sue esortazioni, come d'uomo di vita integerrima e religiosa, erano di molto momento. Pubblicò egli adunque il giorno del Natale del presente anno un'omelìa, in cui parlava in questa guisa ai fedeli della sua diocesi: «La libertà, cara a Dio ed agli uomini, è una facoltà che fu donata all'uomo, è un dominio di poter fare o non fare, ma sempre sotto la legge divina ed umana. Non esercita ragionevolmente la sua libertà chi si oppone alla legge baldanzoso e ribelle; non esercita ragionevolmente la sua libertà chi contraddice a Dio, ed alla temporale sovranità, chi vuol seguire il piacere e lasciare l'onestà, chi si attiene al vizio ed abbandona la virtù.... La forma di governo democratico adottata fra di noi, o dilettissimi fratelli, no, non è in opposizione colle massime fin qui esposte, nè ripugna al vangelo: esige anzi tutte quelle sublimi virtù, che non s'imparano che alla scuola di Gesù Cristo, e le quali, se saranno da voi religiosamente praticate, formeranno la vostra felicità, la gloria, e lo splendore della vostra repubblica».

Fatto poscia un vivo elogio delle virtù degli antichi Romani, il cardinale passa a dire:

«Se le morali virtù così resero cospicua la latina libertà, con quanta maggior ragione dobbiamo noi riputar necessaria la virtù nella presente democrazìa, noi, che non viviamo invescati dal lezzo, e dall'ambizione di sognar deità, noi che santificò il Verbo di Dio fatto uomo.... Le morali virtù, che non sono poi altro, che l'ordine dell'amore, ci faranno buoni democratici, ma di una democrazìa retta, e che altro non cura, che la comune felicità, lontana dagli odj, dall'infedeltà, dall'ambizione, dall'arrogarsi gli altrui diritti, e dal mancare ai propri doveri. Quindi ci conserveranno l'uguaglianza intesa nel suo retto significato, la quale dimostrando, che la legge si estende a tutti gl'individui della società e nel diriggergli, e nel proteggergli, e nel punirgli, ci dimostra ancora in faccia alla legge divina ed umana, quale proporzione debba tenere ogni individuo nella democrazìa tanto rapporto a Dio, quanto rapporto a se stesso ed ai suoi simili.

«Ma i perfetti doveri dell'uomo non si possono compire nella sola virtù morale, e l'uguaglianza, che fa l'armonia e il bene della società, desidera altre molle per la sua sussistenza, e per la sua perfezione. Il Vangelo di Gesù Cristo ci fu dato come un complesso di leggi, onde rendere gli uomini veramente perfetti anche in società, onde sistemare quell'uguaglianza che ci faccia felici nel presente giro dei giorni mortali, e più felici nell'aspettata eternità. La storia della filosofia ci dimostra la mancanza di tal progetto, la storia del Vangelo ce ne dimostra l'esecuzione e il compimento....

«Decidete quanto conferiscano i precetti del Vangelo, le tradizioni degli apostoli, e dei gran filosofi padri, e dottori cristiani a conservare la pace, a far risplendere la vera grandezza dello stato democratico, a fare di tanti uomini, dirò così, tanti eroi di umiltà, di prudenza nel governare, di carità nel fraternizzare fra loro stessi, e con Gesù Cristo.... Il luminoso oggetto della nostra democrazìa dev'essere di stabilire la massima possibile unione di sentimenti, di cuori, di forze fisiche e morali, onde ne derivi una soave fratellanza nella società....

«Eccovi, o dilettissimi fratelli, uno sparuto abbozzo degli evangelici dettami. Vedete ivi quale possanza, qual influsso risplenda per la massima virtù dell'uomo, per la civile uguaglianza, per la regolata libertà, per quell'unione insomma d'amore e di tranquillità, che fa la sussistenza, e l'onore della democrazìa. Forse per la durevole felicità degli altri governi basterà una virtù comune, ma nella democrazìa studiatevi di essere della massima possibile virtù, e sarete i veri democratici: studiate, ed eseguite il Vangelo, e sarete la gioja della repubblica;... la religione cattolica sia l'oggetto più prezioso del vostro cuore, della vostra divozione, e di ogni altro vostro sentimento. Non crediate, che ella si opponga alla forma del governo democratico. In questo stato vivendo uniti al vostro divin Salvatore, potete concepire una giusta fiducia dell'eterna salute, potete operare la felicità temporale di voi stessi, e dei vostri simili, e procurare la gloria della repubblica e delle autorità constituite.... Sì, miei cari fratelli, siate buoni cristiani, e sarete ottimi democratici».

Queste parole con tanta soavità dette da un uomo così eminente per dignità, e così venerato per la santità dei costumi, calmavano gli spiriti, raddolcivano i cuori, e preparavano radici al nuovo stato.

Ordinata la Cisalpina, restava che le potenze amiche alla Francia la riconoscessero in solenne modo, come potentato Europeo. Vi si adoperava Buonaparte cupidamente, recando a gloria propria che non solo vivesse la creazione sua, ma ancora assumesse la condizione di vero stato. In questa bisogna il mezzo più facile era anche il più efficace; quest'era che la Francia riconoscesse quella sua figliuola primogenita, come la chiamavano.

A questo fine mandava il direttorio Cisalpino per suo ambasciadore a Parigi un Visconti, che stato prima uno dell'amministrazione generale di Lombardia, ed amato da Buonaparte, ma stimato da lui troppo vivo nelle opinioni dei tempi, non era stato eletto fra i quinqueviri, nè fra i magistrati subalterni; pure pareva, che in grado privato più non potesse vivere.

Fu veduto a Parigi molto volentieri il Visconti, ed in pubblica udienza, presenti tutti i ministri di Francia, e gli ambasciadori delle potenze amiche, il dì venzette agosto, solennemente udito. Parlava magnificamente dei benefizj della repubblica Francese, della gratitudine della Cisalpina; esprimeva, unico, e primo desiderio dei Cisalpini essere il farsi degni della illustre nazione Francese; di loro non potere aver ella amici nè più affezionati, nè più fedeli; comune avere le due repubbliche la vita, comuni gl'interessi, comune ancora dover avere la felicità, nè senza i Francesi volere, o poter essere i Cisalpini felici; le vittorie del trionfator Buonaparte già aver procurato pace, e quiete alla Cisalpina; desiderare, che la Francia ancor essa quella pace si godesse, e quella felicità gustasse, che le sue vittorie, e la sublime di lei constituzione le promettevano. Queste cose scritte in Francese, poi tradotte in pessimo Italiano nei giornali dei tempi, diceva Visconti. A cui magnificamente, ed anche tumidamente, secondo i tempi, rispondeva il presidente del direttorio, piacere alla repubblica Francese la creazione, e l'amicizia della Cisalpina; non dubitasse, che viverebbe libera e felice lungo tempo. Poi parlava di serpenti, che mordevano Buonaparte, quindi di maschere portate prima, poi deposte dai nemici delle due repubbliche. Sapere il direttorio, che quest'uomini velenosi, e perfidi volevano distruggere la libertà sulla terra; ma la Francia esser sana e forte, e fortificarsi ogni giorno più per una corona intorno di popoli liberi, e governati da leggi consimili. Appresso parlava il presidente di moderazione e di temperanza, non di quelle degli animi vili, e timorosi, ma di quelle degli animi ben composti, e forti. «No, prorompeva, immortali guerrieri, non fia, che l'opera vostra accompagnata da tanti miracoli, e da tanta gloria, non lasci un segno durevole in Italia nella conservazione di uno stato libero, e di un alleato fedele della vostra patria. No, popoli della Cisalpina, voi non avrete gustato i primi frutti della vostra indipendenza per tornar a vivere in servitù. Il destino vostro non girerà a modo di coloro, che con male parole, e con discorsi bugiardi insidiano alla libertà. Il serpe frodolento romperà i denti sulla lima, nè il pigmeo distruggerà l'opera del gigante. In Italia sono gli eserciti vincitori, sonvi i forti generali, evvi il trionfator Buonaparte. Il direttorio amico alla Cisalpina vuol fondare con ogni suo sforzo, a malgrado delle congiure e delle calunnie, la libertà di lei; stessero pur sicuri i Cisalpini, e confidassero nella grandezza e nella lealtà della nazione Francese, nel coraggio e nel valore dei suoi soldati, nella rettitudine e nella costanza del direttorio: niuno più acceso, niuno più ardente desiderio avere il direttorio di questo, che i Cisalpini vivessero felici, e liberi». Questi detti minacciosi toccavano l'Austria, che nei negoziati di pace, che allora pendevano, veduto che Buonaparte aveva ritratto l'esercito, ed avendo lei stessa con nuove leve ricomposto le sue genti, stava sul tirato, e metteva in mezzo condizioni, che parevano esorbitanti, massimamente quella di volersi ricuperar Mantova.

Un parlare tanto risoluto sbigottiva le potenze minori, che, o già serve del tutto della repubblica di Francia, o da lei interamente dipendenti, non avevano altra elezione che quella di obbedire. Per la qual cosa non esitavano il re di Spagna, quei di Napoli e di Sardegna, il gran duca di Toscana, la repubblica Ligure, ed il duca di Parma a mandar ambasciatori, o ministri, o simili altri agenti a Milano, acciocchè tenessero bene edificato, e bene inclinato quel nuovo stato tanto prediletto di Buonaparte. In questo ancora ponevano l'animo allo investigare in mezzo a tante gelosìe ed a tanti timori, quello, che succedesse a Milano in pro od in pregiudizio degli stati loro; perchè a Milano si volgevano allora le sorti di tutti gli stati d'Italia. Perciò i patriotti gridavano, che questi ministri erano spie per rapportare, stromenti per subornare. Gli laceravano con gli scritti, gli oltraggiavano con le parole, talvolta ancora coi fatti gli maltrattavano; esorbitanze insopportabili. Principalmente i fuorusciti delle diverse parti d'Italia, raccolti in gran numero in Milano, non si potevano tenere. Buonaparte se ne sdegnava, e dava loro spesso sulla voce, e talvolta sulle mani, ma essi ripullulavano, e straboccavano più molesti da un altro lato, per forma che non vi era requie con loro.

Introdotti al direttorio Cisalpino oravano i ministri esteri con parole di pace e d'amicizia, a cui secondo il solito, ed anche meno del solito credeva nè chi le diceva nè chi le udiva: così con questi inorpellamenti s'ingannavano a vicenda, o piuttosto non s'ingannavano, perchè gli uni e gli altri ottimamente sapevano, che cosa ci fosse sotto.

Esitava il papa al mandare un ministro, perchè gli pareva, che i Cisalpini avessero posta la falce nella messe religiosa. Ma dettesi certe parole da Buonaparte, e fattogli un motivo addosso dai Cisalpini, che armatamente si erano impadroniti della fortezza di San Leo, e minacciavano di andar più avanti con l'armi pericolose, e coi manifesti più pericolosi ancora, si piegava ancor egli. L'Austria, riputando che fosse dignità l'indugiare, non s'inclinava a mandar un ambasciatore a Milano, pretendendo, ed allegando ciò che era vero, che la Cisalpina, anche come già si trovava constituita legalmente in repubblica ordinata, non era stato franco, e indipendente, perchè e le sue fortezze erano in mano dei Francesi, ed i comandanti Francesi pubblicavano di propria autorità in tutta la Cisalpina, e nella sede stessa di Milano ordini, e manifesti, ed anzi i magistrati nissun ordine e manifesto pubblicavano, se non dopo che fossero veduti ed appruovati dai comandanti Francesi.

Accettati i ministri delle potenze estere, aveva il direttorio Cisalpino mandato i suoi agenti politici a sedere presso le potenze medesime, e coi medesimi fini di onorare con le parole, e di spiare coi fatti. Vedevano Torino, Napoli, Roma, Firenze, Genova, Parma i legati Cisalpini. Bene pe' suoi fini aveva scelto gli uomini suoi la Cisalpina, perchè erano tutti, o la maggior parte, giovani di spiriti vivi, ed accesi nelle opinioni che correvano, ma pure, se non prudenti, almeno astuti, e senza intermissione operativi. L'aggiunta di tante nuove provincie al centro Cisalpino aveva dato nuova forza al disegno dell'unione Italica, ed i ministri Cisalpini fomentavano questo disegno medesimo con ogni arte negli stati Italiani, presso cui risiedevano. Solo Marescalchi, di famiglia principalissima di Bologna, che era stato mandato ambasciadore a Vienna, non faceva frutto, perchè nè l'imperatore l'aveva voluto riconoscere nella sua qualità pubblica, nè era d'animo volto al propagare; perchè gli piaceva una libertà placida e molle, non una libertà inquieta e sdegnosa, ed anche, quantunque fosse d'ingegno non molto acuto, sapeva misurare le cose, non con la immaginazione, ma con la ragione. Serviva piuttosto per evitar il non servire, che per servire, uomo da esser tirato, non da tirare altrui.

Soprastava ad arrivare il ministro di Francia a Milano, non perchè non fosse il direttorio Francese amico, ma perchè l'inviato doveva arrivarvi con molta materia apprestata, come sarem per narrare in appresso.

Chiamava intanto Buonaparte, oramai vicino ad aver compito con gli ordinamenti politici quell'opera, che con le armi aveva fondato, i legislatori Cisalpini, centosessanta pel consiglio grande, ottanta per quello degli anziani. Onorati nomi vi risplendevano per sapere, per antichità, per ricchezze, per amore di libertà. Eranvi un Quadrio, un Giovio, un Melzi, un Birago, un Cicognara, un Compagnoni, un Savoldi, un Cagnoli, un Monga, un Venturi, un Lamberti, un Polfranceschi, un Martinengo, un Fenaroli, un Lecchi, un Lattanzi, un Colonia Ebreo, un Arese, un Reina, un Beccaria, un Somaglia, un Bossi, un Castiglione, un Tassoni, un Cavedoni, un Aldini, un Guglielmini, un Aldrovandi, un Mascheroni, un Mangili, un Bellisomi, un Malaspina, un Alpruni, un Fontana, uno Scarpa, tutti tre professori molto celebrati di Pavia, un Castelbarco, un Pallavicini.

A tutti questi aggiungeva Francesco Gianni, giovane di singolare spirito poetico dotato, e cantor suo favoritissimo. Era il poeta nato in Roma; ma la Cisalpina, considerato, quest'esse furono le parole della legge, che il cittadino Francesco Gianni aveva principalmente applicato i poetici suoi talenti a celebrare il genio della libertà Italiana, ed encomiare l'invitta armata Francese, con che nelle attuali circostanze si veniva a vieppiù promuovere lo spirito pubblico, gli dava con solenne ed apposita legge la naturalità.

I consigli adunati ardentemente procedendo, si accostavano alle opinioni dei democrati più vivi, il che, dall'un de' lati dispiaceva a Buonaparte a cagione della natura sua inclinata allo stringere, dall'altro gli piaceva per dar timore all'Austria, che pareva allora voler prendere novelli spiriti.

Ordinata al modo che abbiam narrato la Cisalpina, il capitano vincitore scriveva le seguenti parole per ultimo vale a' suoi popoli, «Il dì ventuno novembre fia pienamente in atto la vostra constituzione; e saranno altresì organizzati il vostro direttorio, il corpo legislativo, il tribunale di cassazione, e le altre amministrazioni subalterne. Voi siete fra tutti i popoli il primo, che senza fazioni, senza rivoluzioni, senza stragi libero divenga. Noi vi diemmo la libertà; voi sappiate conservarla. Voi siete, trattone solo la Francia, la più popolata, la più ricca repubblica; vi chiama il destin vostro a gran cose in Europa: secondate le vostre sorti con far leggi savie e moderate, con eseguirle con forza e con vigore; propagate le dottrine, rispettate la religione. Riempite i vostri battaglioni, non già di vagabondi, ma sì di cittadini nodriti nei principj della repubblica, ed amatori della sua prosperità. Imbevetevi, che ancor ne avete bisogno, del sentimento della vostra forza, e della dignità, che ad uomo libero si appartiene. Divisi fra di voi, domi per tanti anni da un'importuna tirannide, voi non avreste mai potuto da voi stessi conquistare la libertà, ma fra pochi anni potrete anche soli difenderla contro ogni nemico qual ch'egli sia; proteggeravvi intanto contro gli assalti dei vostri vicini la gran nazione; col nostro sarà lo stato vostro congiunto. Se il popolo Romano avesse usato la sua forza, come la sua il Francese, ancora sul Campidoglio si anniderebbero le Romane aquile, nè diciotto secoli di schiavitù e di tirannia avrebbero fatte vili e disonorate le umane generazioni. Per consolidare la libertà vostra, e mosso unicamente dal desiderio della vostra felicità, io feci quello, che altri han fatto per ambizione, e per la sfrenata voglia del comandare. Io feci la elezione di tutti i magistrati, e sonmi messo a pericolo di dimenticare l'uomo probo con posporlo all'ambizioso; ma peggio sarebbe stato, se aveste fatto voi stessi le elezioni, perchè gli ordini vostri non ancora erano compiti. Fra pochi giorni vi lascio. Tornerommene fra di voi, quando un ordine del mio governo, od i pericoli vostri mi richiameranno. Ma qualunque sia il luogo, a cui siano ora per chiamarmi i comandamenti della mia patria, questo vi potete promettere di me, che sono, e sempre sarommi ardente amatore della felicità, e della gloria della vostra repubblica».

Queste dolci parole del capitano invitto molto riscaldavano gli animi. Parevano veramente altri tempi, parevano altri destini. Quest'erano le operazioni palesi di Buonaparte: altre di uguale, anzi di maggiore importanza se ne stava macchinando in segreto. Erano a quei tempi al mondo quattro cose, che a tutte le altre sovrastavano, la gloria molto risplendente di Buonaparte, il timore, che avevano i re, che quella repubblica Francese non gli conducesse tutti a ruina, la repubblica Francese stessa fondata in una nazione, che per la natura sua non può vivere in repubblica, e finalmente una casa di Borbone, esule sì, ma con molte radici in Francia, fatte ancor più tenaci, e più profonde per le enormità dell'insolita repubblica. Si desiderava pertanto e dentro della Francia da non pochi uomini temperati, e fuori da tutte le potenze, che la repubblica si spegnesse, ed il consueto reggimento, per quanto gl'interessi nuovi il permettessero, col mezzo dei Borboni si ristorasse. Nè essendosi questo fine potuto conseguire coll'armi civili delle Vendea, nè coll'armi esterne di tutta l'Europa, perchè la nazione Francese, che forte ed animosa è, non aveva voluto lasciarsi sforzare, si pensava, che i maneggi segreti, le promesse, le corruttele, e le adulazioni potessero avere maggior efficacia. A questo fine, e con questi mezzi si era operato che le nuove elezioni ai consigli legislativi cadessero in uomini, che amassero meglio la monarchìa dei Borboni, che la repubblica, ed in ciò si era fatto non poco effetto. Siccome poi a tutti i moti è necessario un capo di chiaro nome, così avevano al consiglio dei giovani eletto il generale Pichegru, capitano rinomato per le sue vittorie in Alemagna ed in Olanda. Con lui concorrevano molti altri personaggi famosi o per armi o per dottrina, o per segnalati fatti nelle rivoluzioni politiche di Francia. Nel direttorio stesso Barthelemi favoriva il disegno per natura e per opinione, ed i desiderj suoi fino ai Borboni si estendevano; che certamente aveva dato questi segni di se nella sua ambascerìa in Isvizzera. Il favoriva, siccome pare, anche Carnot, o che volesse la monarchìa dei Borboni, il che è incerto, o che solamente disegnasse, come uomo di acutissimo pensiero, ridurre, spenti gli uomini immoderati, quello stato di repubblica scorretta e tumultuaria a forma più stretta e più ordinata. Seppesi questo maneggio dai tre quinqueviri, che non vi erano mescolati, e si misero all'ordine per isturbarlo, perchè amavano la repubblica, e temevano la monarchìa. È quivi per altro debito nostro riferire, che a questo tempo alcune pratiche segrete si erano introdotte tra Barras, uno dei tre, ed alcuni agenti di Luigi decimottavo, per le quali il quinqueviro aveva dato speranza, e s'era anche obbligato a favorire la rinstaurazione dei Borboni sotto condizione di dimenticanza del passato, e promessa di premio in denaro; ma con la medesima sincerità procedendo, dobbiamo notare, che sebbene sia vero, che queste pratiche siano esistite, Barras sdegnosamente, e con termini molto espressivi negò d'aver voluto procurare la mutazione del governo allora sussistente, ed asseverò, avere prestato orecchio agli agenti dei Borboni col solo fine di conoscere, e sventar le loro trame: vogliono anzi alcuni, che gli volesse condurre in luogo dove potessero essere arrestati. Pubblicò di più, aver ciò fatto con saputa e consentimento espresso de' suoi colleghi del direttorio, ai quali a questo fine aveva comunicato il negozio. Dà verisimile colore a quest'ultima allegazione l'averla lui pubblicata quando gli sarebbe stato utile dire il contrario, se fosse stato vero, ed il citare, per pruova della verità del fatto, il testimonio dei ministri di quel tempo, de' suoi colleghi del direttorio, ed anzi i registri segreti di questo magistrato supremo della repubblica, in cui, siccome affermò, vi era un decreto che l'autorizzava a condurre queste pratiche. Comunque ciò sia, era allora l'esercito d'Italia in bocca di tutti, e quanto da lui veniva era ricevuto in Francia con grandissimo o amore o terrore, secondo le opinioni e le passioni, per la qual cosa coloro, che contrastavano a questo proposito, facevano avviso, che le mosse contrarie dovessero aver principio dall'esercito Italico. A questo dava favore Buonaparte per la sua emolazione verso Pichegru, prevedendo nell'esaltazione del vincitore dell'Olanda la depressione del vincitore dell'Italia. Per tutte queste ragioni uscivano dalle diverse schiere dell'Italico minacce fierissime contro i nemici della libertà, come gli chiamavano, contro gli amatori del nome reale, contro i minacciatori della constituzione. Parlavano del voler marciare in Francia con le armi vincitrici per castigare i ribelli, descrivevano con patetiche parole le orribili congiure ordite nella patria loro contro la libertà, mentre essi col sangue, e con disagi innumerevoli la libertà, e la patria difendevano. Non isperassero, minacciavano, che il sangue sparso, che le acquistate vittorie, che la conseguita gloria fossero indarno; quelle mani stesse, che avevano vinto l'Austria, vincerebbero facilmente, e farebbero tornar in nulla quei branchi di faziosi. Al solo mostrarsi degl'Italici soldati oltre l'Alpi, presi di spavento si disperderebbero quei vili sommovitori di congiure. Non dubitasse punto il governo, che l'esercito Italico tanto amasse la libertà, quanto la gloria, e che la prima con la medesima costanza, col medesimo valore difendesse, coi quali aveva acquistato la seconda: verrebbero, vedrebbero, ed anche senza battaglie vincerebbero.

Da questi conforti, e da questo appoggio fatto sicuro il direttorio, veniva a quelle risoluzioni, che resero tanto famoso il dì diciotto fruttidoro, anno quinto della repubblica, o il dì quattro settembre del novantasette: per esse si carceravano, ed in istrane e pestilenziali regioni si mandavano Barthelemi, Pichegru, e gli altri capi della congiura. Alcuni, e fra questi Carnot, fuggiti alla diligenza dei cercatori, trovarono in forestiere terre scampo contro chi gli chiamava a prigione ed a morte. Questo fu il moto di fruttidoro, pel quale affortificatosi il direttorio coll'esclusione dei dissidenti, e coll'unione dei consenzienti, e fattosi padrone dei consigli, recava in sua mano la somma delle cose, e pareva, che vieppiù avesse confermato la repubblica.

Tornato vano questo tentativo, i confederati, massimamente l'Austria, che si trovava più vicina all'incendio, e che, essendo alle strette con Buonaparte, aveva meglio conosciuto la sua natura, si gettarono ad un altro cammino per arrivare al fine della distruzione della formidabile repubblica. Si negoziava a questo tempo la pace coll'Austria; gli agenti Austriaci vennero dicendo a Buonaparte, guardasse le ruine d'Europa, e della sua patria stessa; una repubblica fondata solo con le mannaje, conservata solo con le bajonette, sopportatrice dei malvagi, perseguitatrice dei buoni; non isperasse di fuggir egli stesso la repubblicana invidia; più illustri erano i fatti suoi, più magnifici i benefizj verso la patria, e più inevitabile credesse l'atroce fine che l'aspettava. Considerasse, che sono inesorabili le repubblicane emolazioni, e che sempre la gratitudine delle repubbliche è l'ingratitudine. Se i più chiari cittadini erano stati all'estrema fine condotti in Francia, solo perchè chiari erano, che sarebbe del più chiaro fra tutti? Ricordassesi le recenti trame ordite contro di lui, le proprie querele, ed il livore del direttorio già vicino a prorompere, quand'era ancora l'opera sua necessaria in guerra: che sarebbe in pace? Forse era nato egli e fatto per essere stromento di faziosi, e mentecatti? Forse a servir ad avvocati, e notaruzzi ambiziosi? Con le grida, e coi patiboli s'hanno a governar gli stati? Guardassesi intorno, entrasse in se, si paragonasse ad altri, e vedrebbe, che siccome era unica la sua gloria al mondo, così unico doveva essere il fine, che a se doveva proporre, che già dalle volgari vie militari si era discostato nelle faccende di guerra, e che debito gli era di discostarsi dalle volgari vie anche nelle faccende civili: a ciò chiamarlo, lacera e rotta tutta l'Europa; a ciò medesimo chiamarlo la misera umanità ingannata dalle lusingherìe, straziata dai delitti: vedeva egli certamente, ed anche più volte aveva accennato, essere la repubblica un governo impossibile in Francia. A che dunque dubitare, a che indugiare? l'Europa infelice, la Francia infelicissima domandare da lui altre sorti, domandare da lui la rinstaurazione dell'antica monarchìa dei Borboni, domandare la rintegrazione dei diritti Europei: assai avere spaziato la forza, assai la usurpazione, assai l'anarchìa: domare questi mostri esser suo destino: al solo segnale dei Borboni, quando l'opportuno instante fosse venuto, seguiterebbonlo in Francia tutti i buoni, seguiterebbonlo tutti gli sdegnati, seguiterebbonlo tutti gl'infelici condotti all'ultimo caso dalla presente tirannide. Favorirebbelo l'Europa tutta, tirata da sì grande impresa, mossa da sì bella speranza dopo tanto conquasso. Seconderebbonlo i principi, l'Austria la prima, e la Russia tanto attiva fomentatrice dei Borboni. Parlare di ricompense a chi già aveva acquistato maggior gloria, che altr'uomo avesse acquistato mai, e che solo con un gran civile fatto poteva la propria gloria ampliare, essere superflua, e fors'anche offenditrice cosa: pure o che in grado privato la venerazione, o che in grado pubblico l'autorità desiderasse, ciò gli sarebbe, e più ampiamente, che non desiderasse, conceduto. Desse pertanto opera ad impadronirsi della somma delle cose in Francia; che a ciò l'ajuterebbero i potentati, solo che promettesse di fare la gran rimessa all'antico e legittimo signore. Muovessesi adunque Buonaparte unico ad opera unica; rispondesse col fatto al destinato dalla provvidenza, posciachè non senza intervento divino tante volte avevano suonato le armi sue vincitrici.

Queste esortazioni muovevano quell'animo ambizioso. Ma da Borboni a repubblica ei non faceva divario, gli uni e l'altra aveva ugualmente in dispregio, ed anche la felicità, o le disgrazie umane nol toccavano. Bensì, siccome quegli che sagacissimo era, e di prontissimo intelletto, avvisava in un subito, che quello, che gli si offeriva, poteva aprirgli la strada all'altissime sue cupidità. Si mostrava pertanto disposto a fare quanto si richiedeva da lui, proponendosi nell'animo, e questo fu il più solenne inganno, che mai sia stato fra gli uomini, di favorirsi del consentimento e cooperazione dei principi, per arrivare alla potestà suprema in Francia; non già per dispogliarsene in favor di chicchessia, ma per serbarla ed anzi vieppiù consolidarla in se medesimo, ed ampliarla.

Vogliono alcuni, che Barras quinqueviro avesse l'animo volto a favor dei Borboni già insin da quando aveva procurato la elezione di Buonaparte al governo supremo dell'esercito Italico, e che a questo fine appunto l'abbia procurata, argomentando, che il giovane di Corsica, in cui egli aveva scoperto mente atta a qualunque più ardua impresa, e natura nemica ai reggimenti popolari, il dovesse secondare nel mandar ad effetto il suo intendimento. Danno corpo a questa opinione le pubblicazioni fatte dagli agenti dei Borboni, la contraddicono quelle fatte da Barras: le une e le altre noi abbiamo rapportate, affinchè chi ci legge, possa dalle medesime prender conghiettura della verità in cose tanto avviluppate quanto importanti.

Dato in tal modo intenzione ai confederati, ed accordatosi con loro del ristaurare in Francia l'antico governo dei Borboni, non formidabile ai principi per essere conforme ai loro proprj, cominciava Buonaparte a fare qualche dimostrazione, che della sua sincerità potesse far testimonianza. Avea egli fatto arrestare contro ogni dritto delle genti in Trieste, e condurre gelosissimamente custodito nel castello di Milano il conte d'Entraigues, agente molto fidato di Luigi decimottavo. Parlavano a quei tempi tutti i giornali della carcerazione del conte, e ne favellavano come di cosa, che sommamente importasse alla salute della repubblica. Gli trovavano, siccome fu pubblicato per opera di Buonaparte, scritti, che discoprivano le macchinazioni di Pichegru, e degli altri amatori del nome reale. Inoltre si facevano constare per un rigoroso esame dato al conte, sebbene egli il verbale costantemente sempre abbia negato, molto maggiori cose in pregiudizio della repubblica, ed in pro dei Borboni, che gli scritti non palesavano. Tal era il rigore di quell'età, che, se non ci fosse stato di mezzo qualche grave motivo, avrebbe tosto Buonaparte dato a giudicare ad un consiglio militare, o mandato il conte in Francia, dove sarebbe stato o sottoposto all'ultimo supplizio, o carcerato per sempre. Ma quando ognuno temeva di veder il conte giunto all'estrema fine, diede ammirazione agli uomini l'udire, che il generalissimo aveva comandato a Berthier, che il facesse comodamente alloggiare nel castello, e che la moglie il potesse visitare. Gli comandava ancora, che se non trovasse stanza comoda nel castello, il lasciasse sotto buona guardia in città, e gli rendesse tutti gli scritti, salvo quelli, che toccavano gli affari politici: questi erano le congiure di Pichegru. La maraviglia più si cambiava in istupore per coloro, che non conoscevano l'intrinseco del fatto, e le cagioni, quando si seppe, che il conte si era fuggito dal castello, e più ancora, quando portò la fama, ch'ei fosse già arrivato con felice viaggio nelle terre dell'imperatore Paolo di Russia, succeduto alla sua madre Caterina. La verità del fatto fu, che Buonaparte desideroso di far chiari gli alleati della sincerità sua col fidare le cose segrete trattate a Montebello ad uomo confidente della Russia, e di Luigi decimottavo, aveva procurato la libertà ad Entraigues, e mandatolo in Russia portatore delle sue promesse. Infatti a queste novelle si piegava Paolo con divenire molto meno acerbo verso la Francia. Al tempo stesso i negoziati di Udine e di Montebello si fecero assai più morbidi, per modo che non tardarono ad avvicinarsi alla conclusione; conciossiachè i principi credevano, facilitando il sentiero a Buonaparte per arrivare alla somma potenza in Francia, abilitarlo a mandar ad effetto le cose, che da lui si promettevano. Tutti questi disegni molto gli arridevano, e quantunque fosse uomo di natura molto coperta, e di pensieri cupissimi, tuttavìa si lasciava di quando in quando uscir di bocca certi motti, che disvelavano la sua intenzione, e le fatte macchinazioni. Ed io ho udito parecchie volte raccontare a Villetard, giovane candidissimo, che trovandosi a passeggiare a Montebello con Buonaparte, e con Dupuis, che poi fu morto generale in Egitto nella sommossa del Cairo, sostando improvvisamente dal passeggiare, il generalissimo aveva loro detto: che direste voi s'io diventassi re di Francia? Al che, siccome a me raccontava il medesimo Villetard, rispondeva Dupuis, che professava un ardente desiderio dello stato repubblicano, che sarebbe il primo a piantargli un coltello nel petto; il quale tratto non fu udito senza riso da Buonaparte.

Nè questi erano i soli segni delle meditate cose. Sorgevano a Montebello i costumi, e le abitudini regie: ivi le udienze altiere da una parte, umili dall'altra; ivi le adulazioni smoderate, ed il silenzio rispettoso, non interrotto che dalle interrogazioni; ivi le sorelle del vincitore corteggiate a modo di corte, ivi i ministri dei principi esteri, e quei della Cisalpina accolti alla reale. Certamente null'altro mancava di re che il nome, e questo nome stesso veniva naturalmente sulle labbra dei cortigiani, ma vi periva per amore o per timore, ma piuttosto per timore, che per amore della repubblica. A chi era uso a scrutare le umane vicende, appariva manifestamente, essere in Buonaparte natura a volere, e ad usare l'imperio, nè ciò con leggi, ma sopra le leggi, non come cittadino, ma come padrone: il fato il fece per l'età, e l'età per lui.

Frattanto le promesse segrete, ch'egli aveva fatte, e la necessità, in cui si trovava il direttorio di rammollire con un solenne fatto i risentimenti nati in Francia per la terribile rivoluzione dei quattro settembre, operavano di modo che, rimosse da ambe le parti tutte le durezze, si veniva il giorno diciassette ottobre alla conclusione nella villa di Campoformio, di un trattato di pace, in cui un governo nuovo distruggeva un governo antico, ed un governo antico consentiva, e s'arricchiva delle spoglie di un governo antico ed amico, disonoratosi l'uno per aver rapito, poco onoratosi l'altro per aver accettato le rapine, se però non iscusano quest'ultimo le affermazioni magnifiche del primo dell'averlo ridotto alla necessità di accettar la pace, qualunque ella fosse. Oltre a ciò lasciava l'Austria in libera preda della repubblica Francese, non dirò il Piemonte, perchè forse ella se ne teneva male soddisfatta per la stretta congiunzione di lui con la Francia dopo la tregua di Cherasco, e la pace di Parigi, ma bensì il papa, ed il re di Napoli, che in nessun modo l'avevano offesa, e che anzi si trovavano condotti in dure strette, ed in gravissimo pericolo per avere sino agli estremi seguitato la sua parte. Certamente nissuna sicurezza stipulava l'Austria nel trattato nè pel papa, nè per Napoli. Fu il trattato di Campoformio principio di quelle brutte e crudeli stipulazioni, che desolarono poi per circa vent'anni la miseranda Europa con l'esempio di sommuovere prima i popoli, poi di dargli in preda ad insolite signorìe.

Fermarono fra di loro l'Austria e Buonaparte, che la repubblica Francese si avesse i Paesi Bassi, che l'imperatore consentisse, che le isole Venete dell'Arcipelago, e dell'Ionio, e così ancora tutte le possessioni della Veneta repubblica in Albanìa, cadessero in potestà della Francia; che la repubblica Francese consentisse, che l'imperatore possedesse con piena potestà la città di Venezia, l'Istria, la Dalmazia, le isole Venete dell'Adriatico, le bocche di Cattaro, e tutti i paesi situati fra i suoi stati ereditarj, ed il mezzo del lago di Garda, poi la sinistra sponda dell'Adige insino a Porto-Legnago, e finalmente la sinistra sponda del Po; che la repubblica Cisalpina comprendesse la Lombardia Austriaca, il Bergamasco, il Bresciano, il Cremasco, la città e fortezza di Mantova, Peschiera, e tutta la parte degli stati Veneti, che è posta a ponente e ad ostro dei confini sovra descritti; che si desse nella Brisgovia un conveniente ricompenso al duca di Modena; che finalmente i plenipotenziarj di Francia e d'Austria convenissero in Rastadt per accordare gl'interessi dell'imperio d'Alemagna.

A questi articoli palesi altri furono aggiunti di non poca importanza, pei quali l'imperatore consentiva, che la Francia acquistasse certi territorj Germanici insino al Reno, e dalla parte sua prometteva la Francia di adoperarsi, acciocchè l'Austria aggiungesse a' suoi dominj una parte del circolo di Baviera; il che non si poteva effettuare se non con pregiudizio del duca.

Fu il trattato di Campoformio pieno di rapina, ma non fu meno pieno di scherno, ancor peggiore della rapina; conciossiachè di che sappiano quelle parole, che la repubblica Francese consentiva, che l'imperatore possedesse Venezia, vedranlo non senza sdegno coloro, che considereranno, se sarebbe stato possibile ai Veneziani di non diventar imperiali, e se la Francia avrebbe permesso, che imperiali non diventassero, e se i generali, ed i soldati di Buonaparte abbiano, sì o no, consegnato eglino medesimi con le proprie mani la compassionevole Venezia nuda ed inerme, ai generali ed ai soldati dell'imperatore. Questo essere e non voler parere, parrà a tutti, come pare a me, un pudore molto ipocrito.

Pure questa è quella pace, di cui favellando Carlo Maurizio Talleyrand, tutto ammirativo sclamava: questa è una pace da Buonaparte; il che gli sarà da ognuno facilmente conceduto. Poi non potendo Talleyrand medesimo capire in se stesso per l'ammirazione, per l'amicizia, pel rispetto, per la riconoscenza, come diceva, verso Buonaparte, e se qualche altra più efficace cosa possono significare le più ammirative parole, scriveva: forse avremo qualche improntitudine d'Italiani, ma è tuttuno; brutto, incivile, e crudele scherno! Certamente coloro, cui Buonaparte tradiva, e Talleyrand scherniva, erano, i più, uomini ricchi di nome, di sostanze, e di virtù, i quali cedendo agli stimoli, e credendo alle promesse degli agenti di Francia, s'erano in tal condizione posti, che nella patria loro spenta non potevano più dimorare senza pericolo, e nel duro esilio trovavano gl'insulti di chi era cagione del loro infortunio. Parlare poi con tanta leggerezza di un caso di tanto momento, quale si era quello della distruzione di uno stato così antico, così principale, ed a cui l'Europa era obbligata di gran parte della sua civiltà, e della sua preservazione dalla barbarie Ottomana, qual era veramente quel di Venezia, dimostra una totale indifferenza verso il bello ed il brutto, il buono ed il cattivo, il decente e l'indecente.

Fatto il trattato di Campoformio, ed ordinata a suo modo la Cisalpina, se ne partiva Buonaparte dall'Italia per andare a Rastadt. Quale, e quanto da quella diversa la lasciasse, che nel suo primo ingresso l'aveva trovata, facilmente concepirà colui, che nella mente andrà riandando i compassionevoli casi nei precedenti libri da noi raccontati. Le difese dell'Alpi prostrate; un re di Sardegna, prima libero, ora servo; una repubblica di Genova, prima independente per istato, ricca per commercio, ora disfatto, ed in licenza convertito l'antichissimo governo, fatta provincia, e sensale di Francia; un duca di Parma ingannato dalle speranze di Spagna, e taglieggiato da agenti oscurissimi: un duca di Modena, prima cacciato, poi rubato; un papa schernito, e spogliato; un regno di Napoli poco sicuro, e per poca sicurezza crudo; un'antichissima repubblica di Venezia, già lume del mondo, e gran parte della civiltà moderna, condotta all'ultima fine, prima dagl'inganni, poi dalla forza; il mansueto e generoso governo di Firmian cambiato in un governo soldatesco, servo di soldati forestieri, tributario di governo forestiero, e là, dove una volta addottrinavano le genti con dolci e sublimi precetti filosofici i Beccaria, ed i Verri, farla da maestri i Beauvinais, ed i Prelli. A questo le opere di Tiziano e di Raffaello rapite; i nobili abituri fatti stanze deformi di soldati strani; una lingua bellissima contaminata con un gergo schifoso; tutti gl'ingegni volti all'adulazione, le ambizioni svegliate, le virtù schernite, i vizi lodati, e per arrota, il che fu il pessimo dei mali, uomini virtuosi perdenti la buona fama per essersi mescolati, o per forza o per un generoso dedicarsi alle patrie loro, nelle opere malvage dei tempi. In tanto male nissun lume di bene; perchè nè quei governi potevano durare, nè a quali governi avessero a dar luogo si vedeva, perchè i fondamenti privati erano corrotti, i fondamenti pubblici forestieri, e se fosse mancata o la mano Francese, o la mano Tedesca, nissuno poteva congetturare, che cosa fosse per sorgere, di modo che non si scorgeva, se la independenza non fosse per diventare condizione peggiore della servitù. A tal era condotta l'Italia, che lo stare per se senza anarchìa, lo stare coi forestieri senza servitù non poteva. Così corrotte le speranze, e cambiati i tempi, erano succeduti ai benefizj di Giuseppe, di Leopoldo, di Beccaria, e di Filangieri una rapina incredibile, una tirannide soldatesca, un sovvertimento confuso, un dolore acerbissimo di vedere, forse per sempre, allontanato quel bene, che essi avevano tanto vicino, e tanto soave alle menti nostre rappresentato. In somma fu la bella Italia contaminata, e peggio, che chi le faceva le membra rotte, e sanguinose, le lacerava anche la fama. In somma la giustizia e l'innocenza non son più buone ad altro, in questo pazzo ed ingannatore mondo, che a farsi soperchiare dai più potenti, e chi non ha montagne di cannoni, di sciabole, e di soldati, s'aspetti ad essere oppresso, rubato, e calunniato. Con le sue belle parole sepolcro imbianchito è la vecchia Europa.

Restava, che le stipulazioni di Campoformio circa Venezia si recassero ad effetto. Ma prima di raccontare la gran consegna fatta di quella nobil sede dai repubblicani di Francia ad un principe Alemanno, sarà bene andar rammemorando, quali accidenti, quali umori, quali disegni sorgessero nelle varie parti dell'antico stato Veneto, e nella metropoli stessa, innanzichè i patti di Campoformio si pubblicassero, e dappoichè, spento l'antico governo aristocratico, vi si era introdotto il nuovo, al quale non so qual nome dare, se non quello di tirannico e di servo. Non così tosto furono instituiti i municipali di Venezia, che divisi fra di loro per servile imitazione anche nelle discordie, si davano alle parti, chi seguitando i modi dei democrati Francesi più ardenti ai tempi della rivoluzione, e chi accostandosi a pensieri più miti e più temperati. Capi ai primi erano Giuliani e Dandolo. Sovrastavano fra i secondi per ricchezze, e per carità patria Vidiman e Joblovitz: quelli si chiamavano da alcuni veri patriotti, da altri giacobini; i secondi presso alcuni avevano nome di veri amatori della libertà, presso altri aristocrati. Giuliani e Dandolo, massimamente il primo, continuamente spingevano il magistrato a determinazioni rigorose contro i nobili. Giuliani più rottamente procedendo non risparmiava nemmeno i Francesi, verso i quali non mostrava mai adulazione di sorte alcuna, mentre Dandolo andava loro a versi, e gli accarezzava. Il buono e virtuoso Vidiman, lontano del pari dall'adulazione verso i forestieri, che dalla persecuzione contro i compatriotti, mirava solamente al giusto ed all'onesto. Seguitavano queste parti i Veneziani, pochi con Giuliani e Dandolo consentendo, molti, fra i quali i nobili, per lo minor male si accostavano a Vidiman ed a Joblovitz. Sedevano i municipali pubblicamente nella sala del gran consiglio, dove le discussioni, e le contese erano grandi tra l'una parte e l'altra, e trascorrevano qualche volta a manifesta contenzione. Così Venezia anche posta al giogo forestiero parteggiava; tutti però in questo consentivano, ch'ella intiera si conservasse. A questo fine si rendeva necessario, che le provincie di terraferma, e quelle dell'oltremare non si separassero dall'antica madre; e perciò, come prima i municipali ebbero preso il magistrato, spedivano delegati, e lettere a tutte le città del dominio Veneto, dando loro parte della felice rivoluzione, come la chiamavano, sorta in Venezia, ed invitandole ad accomunarsi, ed incorporarsi con esso lei. Ma i patriotti della terraferma, attribuendo a Venezia cambiata le medesime mire, che si attribuivano a Venezia antica, e chiamandola tiranna, e dominatrice avida ed insolente, ricusavano le sue proposte. Pei maneggi loro le città protestavano, questa di voler andar unita alla Cisalpina, quella di voler restare da se. E stantechè Venezia aveva conservato, sebbene nel libro aperto dell'Evangelista avesse fatto scrivere i diritti dell'uomo, l'antico stemma del lione, gl'insulti, gli scherni, le esecrazioni della gente matta democratica della terraferma andavano all'infinito. Insomma una nimistà generale, piuttostochè desiderio di unione, prevaleva in tutta la terraferma contro Venezia. Godeva Buonaparte, godevanne i suoi agenti, perchè vedevano nella discordia altrui la più facile esecuzione dei pensieri loro contro quelle miserande reliquie della repubblica Veneziana; anzi quelle faville con ogni mezzo fomentavano. Perchè poi gli odj già tanto intensi vieppiù s'invelenissero, gli rinfiammavano non solo colle parole, ma ancora con gli scritti. Victor generale, che aveva le sue stanze in Padova, esortava con lettere pubbliche, e con parole molto veementi i municipali di questa città a far atterrare le insegne di San Marco, ed a diffidarsi dei municipali di Venezia, a cui attribuiva intenzioni molto sinistre, accusandogli di trame aristocratiche.

I democrati, massime un Savonarola, che procedeva con più calore degli altri, facevano quello, e più di quello, a che gli aveva esortati Victor, tutte le immagini di San Marco col leone, avessero o no fra le rampe i diritti dell'uomo, sdegnosamente mandando in pezzi, e con questo si andavano persuadendo di aver acquistato la libertà. Nè a frenare un furore tanto pazzo bastavano le risoluzioni dei municipali Veneziani, i quali decretavano, che si cambiasse del tutto l'antico stemma della repubblica, il leone si annullasse, e le insegne della moderna libertà in luogo suo vi campeggiassero. Avevano queste condiscendenze l'effetto solito di quelle, che sogliono farsi per forza, e negli estremi casi; che pruovando nel conceditore più debolezza che volontà, non sono mai prese a grado, e l'autorità di lui fanno andar in diminuzione. Ma appoco appoco vieppiù crescendo il furore contro Venezia, si lacerava senza posa il suo nome nelle gazzette Cisalpine; anzi i Padovani trascorrevano tant'oltre, che si consigliarono di voler torre ai Veneziani l'uso delle acque dolci dei loro territorj, cosa, che solo contro ad un nemico, e forse nemmeno contro a chi fosse nemico in guerra, non si sarebbe usata.

Diminuiva Venezia, ad onta delle orazioni democratiche del Giuliani e del Dandolo, di riputazione; ma ancor più di potenza, essendole occupati o sotto spezie di sicurezza di stati, o sotto spezie di amicizia i suoi dominj verso levante. Marciava l'Alemanno da Trieste per virtù dei patti segreti di Leoben, e degli accordi oramai fatti, e che in formale trattato si stipularono poscia in Campoformio, ad occupare le Venete province dell'Istria e della Dalmazia. Ordinava sul principiar di giugno il Terzi, generalissimo dell'Austria interiore, al generale Klenau, occupasse nell'Istria Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, Ossero, e Rovigno; al colonnello Casimiro, capitano di nome pel fatto della presa di Trieste, presidiasse tutti i luoghi d'importanza del littorale Istriaco, e di più delle vicine isole di Veglia, Cherso, Arbo, e Pago s'impadronisse. Ad ambidue veniva di leggieri fatta l'occupazione, perchè gl'Istriotti a quelle novità democratiche non si erano potuti accomodare, ed ancorchè fossero affezionati al nome Veneziano, si piegavano facilmente all'obbedienza Austriaca, perchè l'imperio Francese, sotto il quale era caduta l'antica patria loro, stimavano odioso. Parlarono con pubblici bandi i commissarj imperiali della bontà di Francesco imperatore, dell'obbligo suo di preservar i suoi stati da moti insoliti, del suo desiderio di allontanar dall'Istria l'inquieto vivere dell'anarchìa. Proteggerebbe i quieti, punirebbe gli scandalosi, manterrebbe a tutti le persone, e le proprietà sicure.

Mentre queste cose succedevano nell'Istria, sanguinosi accidenti atterrivano la Dalmazia. Erano i popoli di questa provincia avversi per antica consuetudine al nome Francese, e dalle nuove opinioni per lontananza, e per poco commercio di lettere molto alieni. Erano anche giunte a loro con veri e forti colori dipinte le espilazioni, e le ruine d'Italia, onde all'odio antico si veniva a congiungere uno sdegno recente. A questo si aggiungeva, che i soldati della loro nazione, che in Verona, ed in Venezia, ed in altre piazze Venete erano stati di presidio, si ricordavano della poca stima, anzi delle derisioni, che verso di loro avevano usato i repubblicani troppo intemperanti nella vittoria. Udite poi le Veneziane cose, e come e quanto i municipali di Venezia trascorressero nelle opinioni, e nei costumi nuovi, si erano concitati a gravissimo sdegno, dichiarando apertamente, che non avrebbero più comportato, che s'ingerissero nelle loro faccende. Già minacce annunziatrici di crudeli fatti sorgevano in ogni luogo contro gli aderenti o veri o supposti dei reggimenti nuovi. I primi a muoversi furono i villani, ed i montanari di Trauno e di Sebenico, i quali, scesi a furia, commettevano atti di un'estrema barbarie. Quei, che fungeva le veci di console di Francia, quantunque fosse Dalmata, era crudelmente ucciso, e con lui tutta la sua famiglia. Le case di un Calafatti e di un Gavagnini, deputati eletti dai municipali di Venezia ad ordinare a modo nuovo la Dalmazia, erano saccheggiate; i parenti dei delegati perseguitati, e parte uccisi. Nè più si guardava a nobili, o a preti, od a soldati, che ad altri, perchè solo che fossero in voce di essere aderenti ai Francesi, erano ammazzati. La mala usanza si propagava dal continente nelle isole vicine, ed ogni luogo era pieno di terrore, di ferite, di uccisioni, e di sangue. Nè poteva frenare il corso di tanta barbarie Querini governatore, per l'antica Venezia, della provincia, quantunque molto vi fosse amato, perchè più poteva il furore, che le esortazioni, ed i suoi soldati, non che fossero stromenti del dominare, s'erano fatti compagni al popolo per conculcare. Partivano da Trieste e da Fiume alla volta di Zara quattromila soldati imperiali condotti da Roccavina, Lusignano e Casimiro. Trattenevano i venti per qualche tempo Roccavina, ma Casimiro con prospera navigazione arrivava a Zara sul finire di giugno, poi sul cominciar di luglio s'accostava a lui con le altre genti di Roccavina. Accettavano lietamente i Zaratini gli Austriaci, parte per opinione, parte per sicurtà contro l'anarchìa. S'impadronivano gl'imperiali dei forti, abbassavano le bandiere Venete, inalberavano le proprie. Prometteva l'imperatore con pubblico bando pace, e sicurtà a tutti, minacciava i turbolenti, affermava, venire per ispegnere l'anarchìa, e per mettere in sicuro gli antichi ed irrefragabili suoi diritti sopra la provincia. Giuravano fede all'imperatore tutti i magistrati, e circa due mila soldati Veneti, che si trovavano in quella fortezza per presidio. Quivi si vedeva uno spettacolo generoso e lagrimevole; poichè allorquando si venne all'atto del consegnarsi dai soldati il vessillo di San Marco in mano del generale Austriaco, prorompevano in dirotto pianto: a loro rispondevano con altrettante lagrime i circostanti. Alcuni furono visti in quell'estremo atto baciarlo, ed abbracciarlo sospirosamente più volte; i Panduri, fra gli altri, gente creduta barbara, davano tanti segni di dolore e di disperazione, come trovo scritto, che i capitani Austriaci concedevano loro di poter continuare nell'uso antico di portarsi i Veneziani vessilli. Per tal modo, mentre uomini civili ed ammaestrati con gentili dottrine, la patria loro non solo adducevano in forestiera servitù, ma ancora nell'estremo suo caso con improperj più che barbari schernivano, uomini idioti e da nissuna civile disciplina informati, la patria stessa infelice e spenta, con dolore e con lagrime proseguivano.

Spento a Zara il governo Veneto, restava, che nella rimanente provincia si annullasse. A questo fine partitosene per la via di terra Casimiro, occupava Spalatro, Clissa, e Singo. Roccavina per quella di mare entrava in Sebenico, dove era accolto con molta allegrezza, perchè la ferocia dei villani scesi dalla montagna vi aveva più che altrove infuriato, e ad ogni ora faceva le viste d'infuriare vieppiù. Scendeva quindi dai monti con una mano di Ungari e di Transilvani il conte di Warstensleben, e si univa col Roccavina. Allora gl'imperiali, fatti più forti, e condotti da Roccavina medesimo si avviavano a farsi signori dei siti importantissimi delle Bocche di Cattaro, stati anche ceduti da Buonaparte a nome della Francia. S'accomodavano quietamente i Bocchesi, non però senza dimostrazioni di vivo desiderio dell'antico governo, alle nuove sorti. La Dalmazia tutta, e l'Albania Veneta entravano sotto il dominio dell'imperatore, importante accessione a' suoi stati per l'opportunità dei porti, per l'abbondanza del commercio, per l'indole bellicosa degli abitatori, e finalmente per la perizia loro nelle faccende di mare. Solo Perasto, Risano, e Geganowich, comuni dei Bocchesi, facevano qualche resistenza, ma sopraffatti dalla superiorità Austriaca cedevano, e si sottomettevano. A questo modo si andava sfasciando appoco appoco, e con universale ruina, l'antichissimo imperio dei Veneziani.

A novità di tanto momento, quale si era la occupazione delle provincie del Levante, si risentivano i municipali di Venezia, e facevano instanze presso a Buonaparte, e al direttorio per sapere che cosa volesse significare, e domandando, che la Francia intercedesse, perchè l'antico dominio si restituisse; il che a chi fosse contar le sue ragioni, il lettore potrà da se stesso indovinare. Querelavasene con Buonaparte Battaglia, imperciocchè è da sapersi, che quest'antico provveditore di Brescia era stato chiamato con la solita superiorità da Buonaparte ai municipali Veneziani, acciocchè appresso a lui risiedesse quale ministro loro. Della missione di questo nobile Veneziano al generalissimo ne facevano molti stridori i municipali Dandolo e Giuliani; ma il generale era più forte di loro, e voleva quel che voleva. Querelavasi anche gravemente della Dalmata rapina San Fermo mandato dai municipali, anche per opera di Buonaparte, a sedere presso il direttorio a Parigi. Ne ottenevano entrambi buone parole: non dubitassero, o che la Francia sforzerebbe con le armi l'Austria a rilasciare le provincie occupate, o procurerebbe coi trattati, che Venezia con nuove possessioni si compensasse, ora dando speranza, che i paesi della terraferma, anche quei d'oltre Mincio, le si restituirebbero, ed ora che le sarebbero date in compenso le legazioni. A comprendere quale nuova spezie di lealtà fosse questa, avrà bastato il raccontarla; conciossiachè a Montebello già si fosse convenuto il dì ventisei di maggio coi plenipotenziari imperiali Buonaparte di dar Venezia all'imperatore; al che aveva consentito il direttorio il dì tre di giugno. Intanto Battaglia e San Fermo scrivevano buone nuove, ed i municipali se le credevano, o facevano vista di crederle, e ne dimostravano grandi allegrezze.

Era necessario, a volere che si spianasse la strada alla esecuzione dei patti di Campoformio, già prima che fossero fermati in debita forma, che le isole del Levante Veneto venissero in potestà dei Francesi. Per la qual cosa Buonaparte aveva operato, che con accordo dei municipali si facesse una spedizione di forze navali e terrestri a Corfù, isola per la grandezza e per la fortezza molto principale in quelle spiagge; e perchè una forza preponderante vi fosse, ed anche perchè vi erano fornimenti di marinerìa di molta importanza, aveva, per mezzo del direttorio, dato ordine, che al tempo medesimo da Tolone l'ammiraglio Brueys si avviasse all'isola stessa con la sua armata. Erano a quei tempi le isole del Levante Veneto rette con dolce e giusto freno dal nobile Vidiman, fratello del municipale, e come egli, di vera e più che ordinaria carità fornito verso la Veneziana patria: uomo certamente per virtù cittadina molto singolare; umano con gli avversi, dolce con gli amici, giusto con tutti, ritraeva il suo procedere più dell'antico, che del moderno, ed aveva con tanta efficacia, e senza alcuno sforzo, ma solamente pel suo buon naturale operato, che quelle immaginazioni greche tanto vivaci e mobili, malgrado delle parole incentive che suonavano da Francia e da Italia, fermamente si conservassero affezionate al nome Veneziano. Quando poi i tempi già tanto stretti andavano per Venezia a cagione della presenza dei repubblicani negli stati di terraferma, prima però che l'antico governo fosse annullato, penuriando l'erario di denaro, nè potendo supplire alle spese sì civili che militari delle isole, offeriva, e dava Vidiman del suo alla repubblica, oltre tutto il suo vasellame d'argento, otto mila ducati Veneti, del che gli rendeva il senato pubbliche e solenni grazie. Nè questi bastando al grosso dispendio soldava a benefizio del pubblico con privato obbligo altri quaranta mila ducati, e con questi si andava sostentando in quei tempi difficili lo stato delle isole. Quando poi incominciavano ad arrivare a Corfù i romori del cambiamento succeduto a Venezia, ancorchè grandissima molestia ne ricevesse, siccome quegli che per opinione e per consuetudine era dedito all'antica repubblica, nondimeno pensando, che se era perduto lo stato vecchio, gli rimaneva, se non una patria, almeno un paese, al quale era suo debito servire, s'ingegnava con ogni sforzo di calmare gli spiriti, per fargli perseverare nella loro fede ed affezione verso Venezia, qualunque avesse ad essere il suo destino. Nel che faceva grandissimo frutto a cagione dell'amore, che generalmente gli era portato.

Finalmente per la via di Otranto gli pervenivano lettere dei municipali di Venezia, che recavano le novelle della rivoluzione, dell'essersi distrutta l'aristocrazìa, ed allargato il governo alla democrazìa. Aggiungevano, nominerebbe un dì il popolo i suoi rappresentanti; ma che intanto, per impedire la cessazione dei magistrati, si era creato nei municipali un governo a tempo; avrebbero i municipali gli abitatori delle isole, e dei luoghi del Levante in luogo di fratelli; manderebbero due commissari per metter all'ordine il nuovo stato; Vidiman sarebbe il terzo; verrebbero con una forte armata, e con sei mila soldati. Tacevano se i soldati avessero ad essere Veneziani, o Francesi. Preparasse adunque, esortavano, con la prudenza e destrezza sua gli animi; spiasse bene, e raffrenasse coloro che fossero di genio aristocratico; usasse a quiete di tutti l'opera delle persone prudenti e religiose di ogni rito; sopratutto impedisse, che gli uomini inquieti e torbidi prorompessero in qualche discordia o tumulto: in lui riposarsi, terminavano, con animo tranquillo i municipali, ed intieramente rimettersi nella fermezza, nell'avvedutezza, nella temperanza e nella esperienza sua. In sì solenne e tanto terminativo accidente di quanto egli aveva di più caro e più onorato su questa terra, adunava Vidiman i primari magistrati sì civili che militari, e leggeva loro il municipale dispaccio, esortandogli alla sopportazione ed all'obbedienza. Furonvi rammarichi ed alte querele; ma mostrarono rassegnazione, ignari ancora a che cosa gli serbassero i fati.

Frattanto si facevano a Venezia gli apparecchj necessari per la spedizione di Levante. Il fondamento era da parte del direttorio di spirar tanta confidenza ai municipali, che credessero, mandarsi le forze Francesi per mantener quelle possessioni nella divozione di Venezia, e per riacquistar anche, ove fosse venuto il tempo proprio, la Dalmazia: con queste coperte intendevano Buonaparte e il direttorio al far uscire da Venezia, col fine d'impadronirsene, quella parte dell'armata Veneziana, che sull'ancore se ne stava nel porto. Perlocchè si appresentava Baraguey d'Hilliers con tutti gli ufficiali Francesi da mare, che dovevano governare l'armata, in una solenne adunata, ai municipali, con parole meliflue protestando dell'amicizia del direttorio, chiamando la repubblica col suo nuovo governo sorella, e promettendo, che tutte le forze Francesi si adoprerebbero, perchè ella fosse restituita all'antica sua grandezza. Qui lascio, che gli storici Buonapartiani lodino a posta loro, e saria bene, che ci spiegassero, quale offesa da questo momento in poi abbia fatto Venezia a Francia, perchè meditasse di essere spenta, e data in preda all'imperatore. Si destinava a governar le genti da terra il generale Gentili. Obbediva l'armata al capitano di nave Bourdè, uomo assai perito, e non di pensieri immoderati, e molto amato da Buonaparte. Consisteva l'armata in due navi di fila Venete, due fregate pure Venete, e due brigantini Francesi. Molte navi atte a trasportar soldati l'accompagnavano; furono empiute di Francesi, la maggior parte della settuagesima nona, soldati tanto valorosi, quanto bene disciplinati, e che modestamente portandosi in Corfù temperarono in favor del nome Francese l'acerbità del dominio forestiero. Volle Buonaparte, poichè si trattava di andar in Grecia, che s'imbarcasse Arnauld, letterato di grido, il quale venuto in Italia per veder il paese, ed esaminare quelle rivoluzioni, dopo di essersi qualche tempo dimorato in Venezia, era divenuto vago di visitare la Grecia. In lui aveva il generalissimo posto molta fede per avere i rapporti sulle antichità dei paesi, sui costumi e sulle leggi dei popoli. Ancora, se discoprisse qualche cosa di gentile e di vago, o quadro fosse, o statua, o manoscritto, sì l'indicasse acciò se lo potesse rapire.

Sapevano i municipali a quali angustie fosse ridotto Vidiman a Corfù per la mancanza del denaro, e credendo anche allettare i popoli, se arrivando i primi agenti della mutata Venezia, portassero con se denaro per dar le paghe già da tanto tempo corse, imbarcavano a governo degli amministratori, che mandavano nelle isole, seimila zecchini.

Appariva il dì ventotto giugno nel porto dei Corfiotti l'armata apportatrice dei soldati stranieri. Vidiman, e gl'Isolani molto si maravigliarono al vedere insegne ed uomini Francesi, in luogo d'insegne e d'uomini Veneziani: pareva loro, che altro suonassero le parole, ed altro i fatti, nè sapevano intendere un caso tanto strano. Gentili scriveva dalla nave capitana a Vidiman, essere venuto, a ciò richiesto dai municipali di Venezia, a rinforzar le guernigioni, ad assicurare Corfù e le altre isole del levante, a trattare con esso lui delle cose risguardanti la sicurezza e la quiete dello stato. Il ricercava intanto, preparasse in fortezza gli alloggiamenti pe' suoi soldati, quelle Greche isole per la prima volta venivano in possessione di Francia.

Suonavano a festa il dì ventinove di giugno gli stromenti da guerra; i nuovi repubblicani sbarcavano. Quegli uomini Greci si maravigliavano in veder quegli uomini nuovi, e tanto guerrieri. Venivano i magistrati a far riverenza agl'insoliti signori. Il vescovo Greco, (che la maggior parte di quegl'isolani sono di questo rito), in cotal guisa parlava a Gentili: «Francesi, voi trovate in quest'isola un popolo ignorante delle scienze e delle arti, che illustrano le nazioni; ma non l'abbiate per questo a vile: egli può tornare qual fu un tempo; apprendete, e ciò dicendo sporgeva la Odissea, apprendete da questo libro, disse, in qual conto voi dobbiate tenerlo».

Non così tosto ebbe Gentili sbarcato le sue genti, che le alloggiava nella fortezza, e così recava in sua mano la facoltà di fare a sua volontà qualunque cosa ei volesse. Poi non da alleato, ma da padrone procedendo, s'impadroniva dei magazzini del pubblico, e di tutte le artiglierìe, che erano belle, ed in numero considerabile. Meglio di cinquecento cannoni, la maggior parte di bronzo, venti obici, petrai, e mortaj o di bronzo o di ferro centoventuno, cinquanta migliaja di polvere, venti casse di fucili, palle e bombe in proporzione, ricchissima preda.

A Gentili succedeva Bourdè, che poneva le mani addosso ai magazzini di mare, ed a sei navi di fila, e tre fregate Veneziane, due buone, il Volcano, e la Fama, le altre in cattivo arnese. Gentili intanto i seimila zecchini mandati da Venezia per soccorre alle cose Veneziane nelle isole, recava in suo potere per dar le paghe a' suoi soldati, ed agli amministratori venuti con lui.

Posto il piede, e confermato il dominio Francese nell'isola principale di Corfù, mandavano Gentili e Bourdè forze di terra e da mare, a prender possesso di Cefalonia e di Zante, e dell'isola più lontana di Cerigo, che fu l'antica Citera, certo molto difforme dallo stato antico, perchè poco altro ella è ora, che uno scoglio arido e deserto. Poi Gentili ed Arnauld, fattisi dar liste di candidati dai primari abitanti, creavano i municipali di Corfù, fra i quali per un'arte, che sa piuttosto di derisione, e già l'avevano usata col doge di Venezia, nominavano Vidiman, già spogliato di ogni altra autorità. Così con disfare ogni vestigio di governo Veneto, con divertire ad uso dei soldati Francesi la pecunia pubblica, con torre a Venezia quanto aveva nelle isole di ricchezza e di forza, pretendevano gli agenti del direttorio e di Buonaparte di conservarle quelle possessioni. A questo modo ancora si eseguivano i comandamenti di Buonaparte, il quale scrivendo a Bourdè nel mese di giugno, gli ordinava, si appresentasse con Baraguey d'Hilliers, e col ministro di Francia ai municipali di Venezia, e loro dicesse, che la conformità dei principj che a quei dì reggevano la repubblica Francese e quella di Venezia, e la mano forte, che la prima dava alla seconda, richiedevano, che prontamente le forze marittime di Venezia si allestissero, perchè di concerto le due repubbliche si potessero mantener in possessione dell'Adriatico, e dell'isole del Levante, e tutelassero il loro comercio; e che già a questo fine egli aveva mandato genti per assicurare alla repubblica Veneziana la possessione di Corfù. Gli avvertisse finalmente, che quello era il tempo di mettere in pronto, e di armare virilmente il navilio Veneziano. Queste ed altre simili cose voleva Buonaparte, che Bourdè accompagnato da solenne apparato dicesse. Le quali chi mi leggerà, considerando, e così ancora le stipulazioni di Montebello del ventisei di maggio di sopra da noi accennate, verrà facilmente a conoscere qual fraude fosse questa di gettare in quel tempo parole di conservazione per Venezia. Ma la fraude era doppia, perchè al momento stesso comandava a Bourdè, che con questo pretesto, e con procurare tuttavia di vivere in buon accordo, s'impadronisse di ogni cosa, e tirasse ai servigi di Francia i marinari, e gl'impiegati della marinerìa Veneziana. Imponeva finalmente al medesimo Bourdè, che mettesse in pronto tutte le navi Veneziane sì grosse che sottili, e le incorporasse all'armata Francese, e mandasse a Tolone ogni qualunque provvisione Veneta. Così Venezia era rapita in Venezia medesima, in terraferma Italiana e Slava, e nelle isole sì dell'Adriatico, che dell'Ionio e dell'Egeo.

Stabilitasi nel modo raccontato la dominazione Francese in Corfù, vi nascevano più vive, che mai vi fossero state, le parti; perchè alcuni fomentavano lo stato nuovo, altri si conservavano addetti al vecchio. Capi dei primi erano i Teotochi, massimamente il vecchio, personaggio venerabile per l'età e per le virtù, e di molto seguito nell'isola; capo ai secondi si mostrava l'avvocato Scordilli, uomo ancor esso risplendente per virtù e per ingegno. E siccome gli odj nelle isole sono molto gravi, così gli aderenti di una parte non risparmiavano nissuna parola, che fosse ingiuriosa contro la parte avversaria. Sarebbero anche molto volentieri venuti ai fatti, se la forza Francese preponderante non gli avesse raffrenati.

Intanto Gentili, recatasi la somma delle cose in mano, continuava, quantunque fosse assai cagionevole della persona, a starsene a Corfù; Bourdè se ne tornava con le sue navi a Venezia. Arnauld, visto che non poteva eseguire il mandato di Buonaparte dell'indicar gli spogli delle chiese, dei musei e delle librerìe pubbliche, perchè statue, quadri, manoscritti preziosi non ve n'erano, visitati, come scriveva, i giardini di Alcinoo, e la pietra lavandaja di Nausicae, chiamati i Corfiotti superstiziosi, ignoranti e vili, ed i Greci ladri, perfidi ed inospitali, eccettuando solamente i Mainotti, forse perchè sapeva che Buonaparte gli accarezzava, scritto finalmente che la libertà aveva solo settatori fra il popolo tiranno, cioè fra i Turchi, se ne partiva per l'Italia per andarsene a visitare la tomba di Virgilio. Così Arnauld giudicò i Greci nè amatori, nè degni di libertà: solo aveva per la libertà qualche speranza nei Turchi.

Con magistrati temporanei si governavano le cose in Corfù fino alla pace di Campoformio. Poi vi fu mandato da Buonaparte un Corbigny, che ordinava le isole a modo di Francia, partendole in tre spartimenti, dei quali quello di Corfù chiamava di Corcira, quello di Cefalonia, d'Itaca, e quello di Zante, del mar Egeo. Alla presa del magistrato orava in piazza il Teotochi, presidente eletto del magistrato distrettuale, con qualche veemenza sulle cose nuove. L'emolo Scordilli lo chiamava vecchio pazzo.

La presenza dei Francesi in Corfù vi partoriva due effetti molto notabili. Il primo fu, che i Corfiotti non si ammazzavano più fra di loro, come eran soliti fare quasi ogni giorno innanzi che i Francesi vi arrivassero, il secondo, che i soldati Francesi, temperatamente portandosi, si accomunavano con gl'isolani, e cambiavano in affezione l'odio, che prima avevano contro il nome Francese. Imparavano i Corfiotti l'industria, e le singolari arti; si facevano maritaggi, mezzo sempre d'intimo congiungimento fra le nazioni; ed io ho veduto, ed udito un soldato Francese, già imparata la lingua del paese, orare, non senza facondia, in greco volgare in cospetto dei tribunali contro la sua moglie greca, donna bellissima, che si voleva separare da lui per divorzio: vinceva, e serbavasi con molta contentezza la donna. In tale mansueta forma si viveva in Corfù con utile degl'isolani, finchè vi venne Sordina, municipale di Venezia, a metter su i ritrovi politici, e ad orare, ed a far romore in tribuna; il che accrebbe i risentimenti, e rinvigoriva gli odj, perchè la gente savia vedeva in quei ritrovi le consuetudini tumultuarie e sanguinose di Francia, quantunque vi favellasse spesso, ed a buon fine, e con parole temperate un generale Francese per nome Villelongue, uomo tanto dotto ed eloquente, quanto gentile ed onesto.

Venezia già serva di Francia era destinata a divenir fra breve serva d'Austria. Ma prima che raccontiamo il compimento delle macchinazioni ordite, è per noi necessario narrare quanto antecedentemente in essa sia accaduto. Dominava con imperio assoluto Baraguey d'Hilliers, parte da se, parte in conformità degli ordini di Buonaparte. Alloggiava in casa Pisani con fasto grande, e con carico gravissimo di quella famiglia; i municipali non deliberavano, se non sentito lui; i posti principali erano custoditi dai Francesi; i municipali, chi per forza, chi per prudenza, chi per adulazione servivano a Baraguey. Villetard, siccome giovane e confidente, si travagliava per ordinare il nuovo governo democratico, ed in ciò si trovava posto in difficile condizione; perchè gli spogli scemavano autorità alle sue parole, e pareva a tutti, come era veramente, che cattivo principio di libertà fosse quello che si vedeva. Ne sentiva egli dolore grandissimo, perchè ed amava la libertà, e camminava in quelle bisogne con animo sincero. S'incominciava a dar mano agli spogli delle opere gentili insino a tanto che arrivasse tempo al toccare le più utili. Quanto di più bello e di più prezioso avevano prodotto gli scarpelli, od i pennelli, o le penne greche, latine ed italiane, era rapito dagli strani amici. Le gallerìe, le librerìe, i tempj, i musei sì pubblici che privati diligentemente si scrutavano, e violentemente si sfioravano. A questo modo nove chiese in Venezia, una in Verona, parecchie in altri luoghi della terraferma restarono stampate dei vestigj della cupidità forestiera.

Il palazzo pubblico di Venezia, massimamente in quelle stanze stesse, dove con tanta prudenza, e per tanti secoli dei negozj attinenti alla patria avevano deliberato i padri, e dove allora i municipali vantavano la libertà di Venezia, e la generosità del vincitore, fu dei più preziosi ornamenti espilato. Con pari rabbia fu la gallerìa privata dei nobili Bevilacqua in Verona da mani violente tocca e spogliata. Le opere di Bassano, di Paolo Veronese, di Tiziano, di Tintoretto, di Pordenone, di Bellini, di Mantegna tanto care ai Veneziani e per bellezza propria, e per essere di mano di artisti paesani, dai luoghi loro deposte se ne andavano ad ornare forestieri, e lontani lidi. Mani Italiane furono costrette dalla forza ad ajutare lo spoglio d'Italia. Molte statue e bassi rilievi antichi, sì di marmo che di bronzo, di grandissimo pregio, e tre vasi etruschi di egregio lavoro erano tolti dalla librerìa pubblica di Venezia, e della gallerìa Bevilacqua. Nè i camei, opere preziose, si risparmiavano; e fra di loro quello tanto famoso, che rappresentava Giove Egeo. Sessantanove medaglie greche o romane, parte in argento, parte in bronzo erano levate dai privati musei dei Muselli, e dei Verità di Verona. Dei manoscritti con grandissimo dolore degl'Italiani dalla sola libreria di Venezia più di duecento greci, o latini, o italiani, o arabi, o in carta pergamena, o in carta usuale, o in carta di seta saziavano le voglie dei repubblicani d'oltremonti. Pregiavano principalmente i Veneziani due manoscritti arabi in carta di seta, perchè dati in dono dal cardinal Bessarione alla repubblica, e questi ancora piansero e desiderarono, in forestiera terra trasportati. Sentivano la comune spogliagione le librerìe pregiatissime dei monasteri di Venezia, di Treviso, e di San Daniele in Friuli, dai quali atti delle mani vincitrici mancarono settantasei testi a penna preziosissimi, fra i quali otto anteriori al secolo decimoterzo. Alle medesime espilazioni andavano soggette le stampe tenute tanto care degli Aldi, la Magontina nominatamente, opera del 1459, le quali con somma gelosìa si custodivano nelle librerìe di Venezia, Treviso, Padova, Verona e San Daniele. I carri e le barche Veneziane erano piene di Veneziane spoglie. Queste preziosità erano state tolte dalle interiori mura dei tempj, dei musei, e delle librerìe. Restava il più bello e più glorioso segno della grandezza Veneziana, che sull'anteriore faccia del principal tempio di Venezia dimostrava, quale fosse stato anticamente il valore di quella generosa nazione. I cavalli di bronzo, opera, come si narra, di Lisippo, dati prima in dono a Nerone da Tiridate, re d'Armenia, poi trasportati da Costantino a Bisanzio, e conquistati finalmente pel valore dei Veneziani congiunti ai Francesi, che ebbero in sorte altre Costantinopolitane spoglie, e mandati a Venezia dal doge Pietro Zani, accrescevano, involati essendo, il dolore pubblico della gente Veneziana. Spiaceva al letterato Arnauld, che questi cavalli restassero a Venezia: spiacevagli altresì, che i leoni conquistati dal valore del Morosini nel Pireo, continuassero a starsene nella sede loro, segni della Veneziana gloria. Ne gli spiacque, e ne scrisse a Buonaparte. Cavalli, e leoni furono per suo comandamento condotti in Francia. Il che venne fatto in cospetto dei Veneziani con tanto dolore loro, che, instupidite le menti, parevano piuttosto attonite che dolorose. Come queste cose Arnauld, che faceva professione di amare la libertà e l'independenza della sua patria, suggerisse a Buonaparte, io non ne posso restar capace, perchè a me pare, che nissuno possa sinceramente amare la libertà e la indipendenza della propria patria, se non porta rispetto alla libertà ed all'independenza delle patrie altrui. So, che alcuni dicevano, e tuttavia dicono, che questi spogli si eseguivano in virtù del trattato di Milano. Ma Buonaparte non aveva voluto ratificare questo trattato, e perciò la Francia lo doveva aver per nullo. Che se poi ad ogni modo si voleva aver per valido, bel modo di eseguirlo certamente era quello di mandar ad effetto tutte le sue peggiori condizioni contro Venezia, e di non osservar quelle che erano in suo favore, massimamente la sua conservazione, condizione che era pure la più principale, anzi la sostanziale del trattato, perciocchè non si possono stipular trattati con una potenza, che si crede nulla, nè accordare condizioni di futura esecuzione con una potenza, che si vuol distruggere.

Non solo gli ornamenti e le ricchezze Veneziane si trasportavano, ma quelle ancora commesse alla fede dei neutri avidamente s'involavano. Erasi il duca di Modena, come abbiamo detto, fuggendo la furia dei repubblicani, ricoverato in Venezia; poi già romoreggiando le armi loro d'ogn'intorno, e prevedendo la dedizione, si era per sua sicurezza ritirato sulle terre d'Austria. Ma lasciava un suo tesoro, perchè credeva, in ciò scostandosi dalla sua solita provvidenza, che o non sarebbe scoverto, o se scoverto, sarebbe tenuto inviolato per la neutralità del luogo. Occupata Venezia dai Buonapartiani, gli agenti del direttorio ebbero sentore del deposito, e parendo loro che fosse lor venuto un bel destro, alla fama di quei zecchini nascosti tostamente si calavano, e circondato improvvisamente con soldatesche armate il palazzo in San Pantaleone, dove aveva abitato il duca, cercarono il tesoro, in ogni parte diligentemente investigando. Ciò fu indarno; perchè era stato deposto in casa del ministro d'Austria. Perlochè, fatto armatamano improvviso insulto contro di essa, e ricercato in ogni canto, trovarono il denaro, e via se lo portavano: furono, come portò la fama, circa duecentomila zecchini. I Modenesi erano venuti a Venezia per averselo; ma e' furon novelle. Gli agenti gli serbarono, dissero, per la cassa militare.

Le espilazioni delle opere d'ingegno si effettuavano con grande apparato di soldati, perchè sebbene fossero i piè dei Veneziani in ceppi, si temeva, che ad un bel levarsi, il popolo prorompesse, e rivendicasse alla patria con qualche solenne precipizio degl'involatori le gloriose spoglie. Accresceva il timore il pensare, che le rapine di Venezia rinfrescavano la memoria delle altre rapine d'Italia. Per ogni lato si fremeva nel vedere questi spogli. Pubblicavasi a questi giorni in Italia con le stampe un libro, che aveva in titolo i Romani in Grecia e che fu generalmente creduto opera di un Barzoni. In questo scritto l'autore, sotto spezie dei Romani in Grecia simboleggiando i Francesi in Italia, e così paragonando la tirannide di Flaminio a quella di Buonaparte, eccitava i popoli Italiani allo sdegno, alla vendetta, alla rivendicazione. Ne riceveva molta molestia il generalissimo, e ne cercava per ogni dove l'autore e le copie. Ma più il perseguitava, e più era letto, e non pochi tra i Francesi, che avversavano Buonaparte, o per generosità naturale, o per odio, o per invidia, lodavano e promuovevano lo scritto. Villetard fra gli altri il chiamava pieno pur troppo di allusioni veridiche sui ladronecci commessi da alcuni individui indegni del nome Francese. Girava attorno lo scritto al momento degli spogli, e siccome quello che accusava i municipali del caro del pane, che paragonava l'Italia ad un vasto cimitero tutto squallido e bruttato d'infiniti cadaveri, e che stimolava i popoli a correre armati contro i Francesi, partoriva un effetto incredibile. Se ne querelava Villetard coi municipali; se la passarono con dire, che la stampa era libera, e, quanto alle ingiurie contro a loro, che le avevano in dispregio. Ma Buonaparte non l'intendeva a questo modo: voleva, che l'autore si rinvenisse. Si viveva pertanto fra la rabbia ed il timore, quando dimorandosi una sera Villetard in caffè sotto le quarantìe, se gli faceva avanti in un atto amico Barzoni. L'allontanava da se con aspre parole il Francese, dicendo, maravigliarsi, che colui, che chiamava a morte i Francesi, avesse fronte di accostarsi amichevolmente a chi gli rappresentava in Venezia. In questo Barzoni, trattosi di seno una pistola, e contro Villetard dirizzatola, lo voleva uccidere. Nasceva pel fatto in quel ritrovo un gridare, un fuggire, un accorrere incredibile. Si ritirava o intimorito, o sbalordito Barzoni, e vi fu calca: furono presto i soldati ad accorrere a quel romore inopinato. Per ammansare lo sdegno di Buonaparte, scriveva Villetard a Monge, scusasse il fatto col generalissimo, allegando, che il povero Barzoni, preso da un ardente ed infelice amore per una giovane gentildonna, era fuori di mente. Il pregava altresì, tanto era buono quel Villetard, operasse presso al generalissimo, onde si contentasse, ch'ei desse un passaporto a Barzoni, acciocchè se ne andasse a passare in paesi forestieri quella sua ira tanto gonfia contro i Francesi. Rescriveva furiosamente Buonaparte, essere un assassinamento; volere, che il reo si castigasse. Non ostante gli dava Villetard il passaporto: il giovane Barzoni fuggendo in paesi esteri la collera di chi tanto poteva, si riduceva per ultimo nell'isola di Malta, quando ella venne in potestà degl'Inglesi, e quivi si stette lungo tempo, scrivendo un giornale contro la tirannide Buonapartiana. Asperava questo fatto vieppiù gli animi da ambo le parti: insino ai municipali era venuto in odio quel forestiero dominio.

Cercavasi intanto di coprire con segni di allegrezza le apparenze tristi e funeste. Esita l'animo nostro a raccontare una festa solenne ordinata, e festeggiata da coloro, che sapevano qual fato sovrastasse a Venezia. Pure la racconterò per impietosire i posteri, se essi saranno migliori di noi; conciossiachè niuna cosa più muova a compassione che un'allegrezza procurata a chi è destinato a morte. Correva il dì della Pentecoste, quando la piazza di San Marco si vedeva tutt'addobbata a festa pel piantamento dell'albero della libertà. Mani Veneziane avevano eretto a capo della piazza dalla parte opposta a San Marco un'ampia loggia, a cui si saliva per due scale laterali ornate di vaghi fiori, e di arbusti odoriferi. Era la facciata della loggia un magnifico colonnato d'ordine Toscano con doppie cornici, e belle statue corredato. Da ambi i lati della loggia sorgevano due adorni palchi con colonne, con ghirlande, con insegne repubblicane. Quivi dovevano sedere i musici della cappella ducale, dismessi dal celebrare le antiche glorie della repubblica libera, chiamati ora a celebrare i vergognosi principj della repubblica serva. Due altre logge adorne, e belle si vedevano in mezzo alla piazza, e davanti alle procuratìe, con orchestre pure a lato; i fregi, gli arazzi, le divise, gli emblemi, conformi ai tempi. Gli archi delle procuratìe, e così ancora la chiesa di San Marco comparivano alla vista dei circostanti carchi ed adorni di festoni tricolorati. In vedere un tanto apparato non pochi erano i motti di quegli ameni e spiritosi Veneziani, dimentichi, fra mezzo a quelle illusioni festevoli, dei tanti infortunj loro. Steso a terra in mezzo della piazza giaceva il fusto ancor fronzuto dell'albero, che non so come, nè perchè col nome della libertà si chiamava. Ed ecco alle diciassette Italiane comparire con solenne comitiva di tutti i suoi ufficiali Baraguey d'Hilliers. L'incontravano i municipali in abito, coi cappelli, con le sciabole di moda. Quinci poscia essendosi congiunti col corteggio del generale, si ordinavano a processione. Le campane tintinnivano, gli strumenti suonavano, i democrati dall'allegrezza gridavano: che cosa si pensasse Baraguey d'Hilliers, che sapeva l'avvenire, io non lo so. Intanto giva la processione; soldati Italiani precedevano, seguitavano due fanciulli vagamente vestiti, poi una coppia di un giovane e di una giovane, che si dovevano sposare, poi un vecchio ed una vecchia con istromenti d'agricoltura. Veniva dietro la guardia nazionale in addobbo; indi Baraguey in addobbo ancor esso, e i consoli delle nazioni, e i magistrati sì civili che militari, e i capi delle arti coi simboli delle arti loro. Mostravansi alla coda del corteggio, seguitati da musica militare i municipali. Toccavano i due fanciulli il fusto, ed in un batter d'occhio fra le grida ed i suoni festivi era rizzato nelle sue radici in mezzo alla piazza: sopra le radici deponevano i due vecchi i rurali strumenti. Compariva in questo una berretta rossa sulla punta dell'albero, e la moltitudine applaudiva. Io vidi, trovandomi allora a sedere nella destra loggia, Baraguey, ed il presidente dei municipali gettare terra, e versar acqua sulle radici dell'innalzato albero, ed a quell'atto, tanto il cielo mi fu amico, che non proruppi, benchè ne avessi voglia, perchè mi erano in abbominazione i tradimenti. Le orchestre suonavano, le musiche militari rispondevano, le campane rimbombavano, i cannoni tuonavano, le tricolorite bandiere si sventolavano. Fatto silenzio, orava l'arciprete Valier municipale, con magnifiche parole commendando la generosità Francese, e la rigenerazione Veneziana. Poscia entrati in San Marco, cantavano l'inno delle grazie, e facevano il maritaggio del giovane e della giovane. Restava, che ad onore dello stato nuovo si vilipendesse il vecchio. Per la qual cosa, uscito il corteggio da San Marco ed in piazza tornatosi, dove promiscuamente e Francesi, e Veneziani intorno all'albero già ballavano, ardevano il libro d'oro, e le altre insegne ducali: in quel mentre orava enfaticamente l'abbate Collalto: l'albero della libertà al salutifero legno della croce paragonando. Continuossi a ballare il giorno, ballossi ancora la notte; si recitava in musica una bella, e magnifica opera nel bellissimo teatro della Fenice. Il cuore umano non ha affetto, nè l'immaginazione figura, nè la lingua espressione per rappresentare degnamente quello, che si dovrebbe rappresentare pensando, quale materia covasse sotto tali rallegramenti. Certo, feste e rallegramenti più crudeli di questi non furono al mondo mai. Ricordomi, e fia l'ultima volta che in queste lagrimevoli storie io favelli di me, che trovandomi in palco di una nobile donna Contarini, se la memoria non falla, sposata ad un Correr di Santa Fosca, che fu almirante delle navi, ed a casa il quale io mi godeva a quei giorni una dolce e cordiale ospitalità, in vedere quelle apparenze ed in pensare al fatto, sentiimi come quasi dividere, a lacerare in due dentro me stesso, e paragonaimi a quell'orrendo accoppiamento di corpi vivi e di cadaveri, che per supplizio di rei e di innocenti faceva, a guisa di diporto, quel tiranno dell'antichità. Pure m'infinsi, perchè il discoprirmi sarebbe stato pericoloso; e forse da coloro, con cui mi conversava, non creduto.

Per tal modo si piantava l'albero in Venezia da Baraguey d'Hilliers. Al tempo stesso Bernadotte, che conosceva a che fosse serbata Venezia, proibiva con animo sincero, che in Udine si piantasse. Guyeux al contrario metteva una taglia di centomila lire sur un piccolo comune del Padovano, sotto pretesto, che l'albero vi fosse stato tagliato; doloroso avviluppamento d'accidenti strani per l'infelice Venezia, a cui in proposito di un medesimo fusto figurativo la sincerità dell'uno non giovava, l'improntitudine degli altri pregiudicava.

Continuava Buonaparte nelle sue arti di mostrarsi propenso ai Veneziani, e di dar loro speranza della conservazione del dominio. Nè contento alle chimere, con cui andava pascendo il legato Battaglia, e Dandolo, e Zorzi, e gli altri municipali, che andavano e venivano da lui, volle fare una dimostrazione tanto più brutta, quanto ella era di civiltà, e di cortesìa. Dimostrava non potere, per le molte e gravi faccende che il travagliavano, visitare, come desiderava, per se stesso Venezia, ma mandarvi la donna sua, perchè in lei vedessero i Veneziani, così appunto si spiegava, quanta fosse l'affezione che loro portava. Veniva la moglie in Venezia: le adulazioni dei repubblicani di quei tempi sì Veneziani, che Francesi, furono oltre misura. Traevano per comandamento del generalissimo i cannoni a festa, e ad onore di privata donna, e queste cose non solamente si comportavano, ma ancora si lodavano; potevano i prudenti uomini augurar dell'avvenire. Accolta nella sala dei municipali era segno d'applausi infiniti: deputavano due dei loro ad intrattenerla, ed a farle onoranza. Furonvi festini, balli, canti, allegrezze di ogni sorte: alla Giudecca una gran cena, al canal grande una luminaria, nè mancovvi la regata, spettacolo gradito dei Veneziani. Credevano i municipali di aver vinto la pruova, perchè la donna dava parole dolci, e pareva loro Buonaparte non avrebbe mandato una persona gradita in una città tradita. Ma s'ingannavano, perchè nol conoscevano, o nol volevano conoscere. Dandolo, e gli altri municipali trionfavano, e sempre stavano accanto alla donna, e dal suo volto pendevano. Solo Giuliani repubblicano se ne stava bieco, ed alla traversa. Infine, dimoratasi quattro giorni, il quinto se ne partiva con assai ricchi presenti. Io non affermerò, perchè non lo so di certo, che le sia stata data una collana ricchissima di grosse perle, tratta espressamente dal tesoro di San Marco, in cui era custodita ad uso sacro. Nondimeno l'ho dovuto avvertire, perchè lo trovo scritto negli annali dei tempi. Certamente se non questo, ebbesi ed accettò la donna di molti altri presenti. Fu brutto il dare, fu ancor più brutto l'accettare, non dico dal canto di lei, perchè forse ignorava le insidie del marito contro Venezia, ma dal canto di lui che le sapeva, e che ordiva.

Non ostante tutte le promesse e le dimostrazioni favorevoli, non vivevano coloro, che avevano in mano la somma delle cose in Venezia, senza qualche sospetto, però oltre i maneggi ed i denari, trattavano di unirsi strettamente alle città di terraferma, che, come abbiam narrato, molto ripugnavano al dominio Veneziano. Laonde operavano, che le principali mandassero deputati a Bassano per trattar dell'unione. Vi mandava Verona un Monga, Padova un Savonarola, Brescia un Beccalozzi: vi mandava Venezia Giuliani, perchè essendo natìo di Desenzano, si sperava, che potesse più facilmente conciliarsi ed accomunar i dissidenti. Non arrivavano i deputati di Udine, perchè Bernadotte, per umanità e sincerità, impediva che deputasse. Vi mandava Buonaparte, che in sembianza favoriva il disegno, Berthier, affinchè e presiedesse il congresso, e con arte distornasse il progetto d'unione. Vi furono molte parole e contenzioni. Verona voleva esser capo della terraferma, Padova andava alla medesima volta, i Bassanesi piuttosto ai Padovani aderivano che ai Veronesi, i Vicentini piuttosto ai Veronesi che ai Padovani, Treviso stava in favor dei Veneziani, i deputati d'Oltremincio propendevano verso la Cisalpina. Non ostante si vedeva tra mezzo a questi dispareri, che per la necessità del caso, i deputati sarebbero finalmente restati d'accordi sull'unione. Però Berthier, che non aveva potuto turbare il disegno con le arti, il rompeva con l'autorità, disciogliendo il congresso, e pubblicando, che circa l'unione i deputati non si erano potuti accordare; il che era vero, ma era colpa di lui, non di loro.

Riuscito vano questo tentativo, pensavano i Veneziani a ricercare il direttorio e Buonaparte della unione loro alla Cisalpina; ne facevano anche inchiesta formale al direttorio Cisalpino. Davano i primi buone parole; Battaglia e San Fermo le scrivevano ai municipali, confortando per tal modo i Veneziani con la speranza di aversene almeno a restar Italiani. Rispondeva il direttorio Cisalpino con ambagi e con superbia; barbaro, e stolido insulto alla compassionevole Venezia.

In questo mentre si era concluso il trattato di Campoformio; Buonaparte se ne tornava a Milano. Il suo parlar diverso, e le voci che già si levavano, atterrivano i popoli. Interrogato a Vicenza, qual fosse il destino dei Veneti, rispondeva, nè la Francia nè lui avere alcun diritto sopra di loro. Qui soggiungeva un Tiene Vicentino, che sarebbero pronti a spendere ogni più preziosa cosa per conservar l'indipendenza. Replicava, nulla ancora essere deciso; nè la Francia, nè egli non sarebbero mai per operare cosa alcuna contro di loro, nè per disporre di un popolo, sopra del quale non avevano nissun diritto. Ma giunto a Verona, già più vicino al suo sicuro nido di Milano, e perchè si credeva che la parte Austriaca vi fosse potente, interrogato delle Veneziane sorti da un De Angeli, presidente del governo, faceva sentire questo suono, che Verona era ceduta all'Austria. Dissegli allora il presidente, perchè non lasciarci piuttosto sotto i Veneziani? Perchè dopo tante promesse di libertà venderci all'Austria? A questo tratto rispondeva il capitano atroce a uomini, ai quali egli aveva tolte le armi: ebbene, difendetevi. Riprendeva il presidente le parole, e magnanimamente rispondendo, tuonava a questo modo: Vattene, traditore, e sgombra da queste terre: rendici le armi che ci hai tolte, e ci difenderemo. Taceva il barbaro a tale rincalzata attonito, e si ritirava non vergognoso, ma avvilito, in altra camera. Spargevasi intanto il grido; la città piena di dolore, di trepidazione e di spavento. Udiva le grida disperate dei cittadini dolenti il venditore; se ne partiva frettoloso per Milano.

L'ora estrema di Venezia era giunta. Scriveva da Milano Buonaparte a Villetard: pel trattato di pace essere i Francesi obbligati a vuotare la città di Venezia, e perciò potersene l'imperatore impadronire; ma non doverla vuotare che venti, o trenta giorni dopo le ratificazioni; potere tutti i patriotti, che volessero, spatriarsi, ricoverarsi nella repubblica Cisalpina, in cui godrebbero dei diritti di cittadinatico; avere facoltà per tre anni di vendere i beni loro; essere indispensabile, che si creasse un fondo, il quale potesse alimentare quelli fra i patriotti, che si risolvessero a lasciar il paese loro, e non avessero facoltà sufficienti per vivere; essere la repubblica Francese parata a soccorrergli, se ne avessero bisogno, con la vendita dei beni d'allodio che possedeva nella Cisalpina; esservi a Venezia molte munizioni navali, o di guerra, o di commercio, che appartenevano al governo Veneziano; essere indispensabile, che la congregazione di salute pubblica, (quest'era una congregazione di municipali), le trasportasse, più presto il meglio, a Ferrara, perchè quivi potessero essere vendute in pro dei fuorusciti; quanto fosse per esser utile alle opere navali di Tolone, tosto s'imbarcasse per Corfù, e se ne facesse stima, onde del ritratto si soccorressero i fuorusciti; i cannoni e le polveri si vendessero alla Cisalpina; accordassesi Villetard con un Roubault, e con un Forfait, e con la congregazione di salute pubblica per vedere a qual pro si potessero condurre una nave, ed una fregata recentemente disarmate, otto galeotte, sei cannoniere, un argano da inalberare, le piatte, il Bucintoro, e le barche dorate, i barconi, i palischermi grossi, e sei navi da guerra, sei fregate, sei brigantini, sei cannoniere, e tre galere sui cavalletti.

Aggiungeva Buonaparte a Villetard, badasse bene a tre cose: la prima, lasciar nulla, che potesse servire all'imperatore per creare un navilio; la seconda, trasportar in Francia quanto fosse utile alla nazione; la terza, usare quanto si vendesse, nel miglior modo possibile, perchè più fosse profittevole ai fuorusciti: insomma ogni altra opera facesse, che il tempo e l'occorrenza richiedessero per assicurar le sorti dei Veneziani, che si volessero ricoverare in Cisalpina: finalmente fosse suo obbligo di pensare, di concerto con la congregazione di salute pubblica, e coi deputati delle città di terraferma, alla salute dei fuorusciti loro.

Avuto Villetard questo mandalo, duro per lui per essere stato autore della rivoluzione Veneziana, duro pei Veneziani per la perduta patria, nella sala delle adunanze recatosi, e ragionato prima delle condizioni dell'Europa, che, secondo lui, rendevano pericolosa alla Francia una nuova guerra sul continente, in cotale guisa ai municipali favellava: «Cittadini, voi già anteponeste all'interesse vostro l'interesse della patria: un altro maggiore sforzo, un altro più nobile sacrifizio vi resta a fare, e quest'è il dare l'interesse della vostra patria stessa all'interesse di tutta l'Europa. Già udiste le funeste voci sollecitamente sparse dai nemici vostri: esse risparmiano almeno ai vostri amici, che questo infausto mandato ricevuto hanno, il dolore di adempirlo con altro, che con lagrime. Ma, cittadini, i nemici vostri sono anche nemici nostri; essi calunniato hanno la Francia, come se ella trafficasse di carne umana, affinchè voi contro la libertà, e contro i difenditori suoi parte di quell'odio voltaste, che alla tirannide, ed a' suoi sostenitori portate. No, per Dio, no; che la Francese repubblica questa vendita infame lascia ai re: ella perseguita i re, ella protegge gli uomini liberi, ovunque gli trovi. Ma la sua protezione, e la sua vendetta là debbono terminarsi, dove nascerebbe la offesa dei suoi propri concittadini. I soldati della repubblica ora troppo sparsi, meglio fomenteranno ristretti nella Cisalpina, la novella libertà. I territorj Veneti, forse la città stessa di Venezia resteranno aperti alle imperiali genti, fors'elleno gli occuperanno. Alcuni fra di voi, come gli Ottomani fanno, sono pronti a piegar il collo al fato inesorabile. Altri, come i Veneti, gloriosi avoli loro, sonsi risoluti a lasciar le insensate mura per trasportar sulle navi la patria, ed ogni uomo libero con lei. Evvi finalmente chi elegge il morire sotto le mura diroccate piuttosto che lasciarle in mano degli strani. Non io presumerò di giudicare qual fia il meglio fra una rassegnanza stoica, fra una ritirata onorevole, fra un sacrificio generoso. Bene ho a dirvi, dopo di aver purgato la mia patria dal veleno della calunnia, ch'ella offre ricovero, ed asilo a coloro, che perduta l'antica Venezia vorranno fondarne una nuova su lidi inaccessi alla tirannide. La Cisalpina repubblica per intercessione della Francia, e per amore della libertà vi apre il grembo; ivi il titolo di cittadini avrete, ivi una sede alla novella Venezia, o che vi piaccia presso alle terre forti, o nelle popolose città, o sotto gli umili tuguri, dove abitano gli uomini virtuosi e liberi, fondarla: potrete i Veneziani beni con voi Veneziani trasportare, che così a favor vostro stipulava la potentissima repubblica. Per tale guisa la generosa Francia, non potendo in tanta lontananza assicurare il libero stato ai Veneziani in Venezia, assicurava almeno il viver libero a coloro, che preferiscono la libertà alle lagune!»

Dette queste parole il giovane Villetard, pallido, tremante e lagrimoso si tacque. Poi gli esortava, in nome anche di Buonaparte, che ordinassero quanto era necessario, perchè Venezia sottentrasse intera e salva al nuovo dominio. La rabbia, l'indegnazione, il furore agitavano il consenso. Ora era il silenzio, ora mormori di maledizione. Il buon Vidiman, che già il cuore funesto aveva per la morte del fratello, antico governatore delle isole, che non aveva potuto sopravvivere alle rapine Corciresi, visto accostarsi la morte della patria a quella del fratello, se ne stava un pezzo attonito e sbattuto. Poi ritrovando in se quella forza d'animo, che più gli uomini temperati hanno, che gli sfrenati, faceva risoluzione di andarsene all'esilio, non già per adular Buonaparte, o per correr dietro a nuove ambizioni, ma per viversene umile ed ignoto, là dove ancora virtù si pregiasse. Fortunato Veneziano, anche nelle disgrazie, poichè la virtù non solo consola, ma a gran misura felicità, da te impareranno i posteri, se avranno vita queste carte ch'io vergo, e divozione verso la patria, ed integrità di costume, ed amore della libertà, e costanza nell'esilio; e forse tempo verrà, che essi anteporranno l'esule ed umile Vidiman al glorioso Buonaparte, distruttore di patrie innocenti.

Riprendeva le parole Villetard, ed offeriva in nome del generalissimo, ed a scampo della loro vita nel vicino esilio, le Veneziane spoglie. A questa offerta veramente Buonapartiana la natura Italiana si scosse, e mostrossi intiera. Ritenessesi, rispondevano concordi, gl'infami doni; non essi aver consentito a governare un dì la patria loro in tempi infelicissimi per dividersene le spoglie; sapere, come si preferisca la povertà all'infamia, gli esempi che correvano, non avere fin là contaminato le anime Veneziane: poter esser traditi, perchè per tradire basta la potenza, ma non avviliti, perchè per non essere avvilito basta la virtù, intrinseco e durevol pregio, non esteriore e caduco, come la potenza; prendessesi pure la Francia le Veneziane spoglie, ma non cercasse di chiamar a parte del furto i Veneziani; aver essi perduto la patria, non voler anco perdere l'onore; se si pascevano i potenti delle rubate ricchezze, volere gli esuli pascersi della buona coscienza, nè non esser mai per consentire, che quelle mura e quelle acque, tante volte testimonj di virtuosi fatti, gli vedessero far fardelli di Veneziane ricchezze; sapere, per aver voluto servire alla Francia ed alla patria, aver incorso l'odio di molti compatriotti, ma sperare, che quest'ultimo atto della vita pubblica loro, gli purgherebbe, ed a tutti dimostrerebbe, che se furono troppo confidenti, non furono almeno colpevoli. Ciò detto, se ne stavano fremendo con segni di grandissima indegnazione.

Di questo sdegno, e di questo rifiuto scriveva Villetard a Buonaparte con la seguente lettera, la quale io sono, come un'altra scritta dal medesimo Villetard, obbligato di riferire alla distesa, perchè un recente autore di una storia di Venezia, badando piuttosto a scusare Buonaparte del fatto di Venezia, che a rendere a ciascuno il suo debito secondo il vizio o la virtù, le passò sotto silenzio, contentandosi di rapportare la lettera del generalissimo, la quale anche qui sotto si troverà trascritta. Della quale omissione io non posso restar capace, perchè, se desiderio dello storico era il non lodar Italiani di un fatto che dinotava magnanimità, mi pare, che almeno avrebbe dovuto lodare il Francese Villetard di un procedere, che se stesso e la Francia sua patria in sì brutto accidente onorava.

«E' bisogna, scriveva Villetard al generalissimo, ch'io avessi tanta fermezza stoica, quanto amor patrio, perchè io il doloroso carico, che mi deste, accettassi. Era presto, per quanto in me fosse, di adempirlo; ma bene io meco stesso mi rallegro almeno, di aver trovato nei municipali di Venezia animi troppo alti per voler cooperare a quello, che per mezzo mio loro avete proposto. Cercheranno eglino altrove una libera terra, ma preferiranno, se necessario fia, la povertà all'infamia. Non consentiranno, che altri possa dir di loro, che abbiano durante alcuni giorni, usurpato la sovranità della nazione loro per metterla in preda. Per un tal procedere pruoveranno almeno, che non meritano i ceppi che si stan loro preparando. Gemono, è vero, su cotesti ceppi, bestemmiano, è vero, la nazion Francese: un rifiuto unanime di volere nella ruina della loro patria mescolar le mani, seguitava i vostri comandamenti. Gemono, perchè otto anni di rivoluzione non ancora gli hanno assuefatti alle disgrazie, bestemmiano, perchè ancora non hanno imparato le dottrine Machiavelliche; non s'ardiscono, perchè ancora non sono tanto corrotti che non abbominino la sfrontatezza politica. Pure ed il titolo di cittadini della Cisalpina, ed i benefizj della nazione Francese recheransi ad onore; se non fia lor d'uopo comperargli per quello che a lor pare un delitto, e voi siete troppo grande per non fare giusta stima di questa loro scrupolosità. Non resta adunque, o generale, altro modo di giovar loro che di ordinare in Venezia il governo meramente militare, pel quale voi a nome della Francia richiederete quello, ch'eglino a nome della sovranità del popolo, che in loro aveva la sua fede posta, ricusano di fare».

Buonaparte, il quale tanto meno comportava di esser biasimato del male, quanto più amava di farlo, e parendogli, che fosse piuttosto pazzìa che altro il non voler rubare la propria patria, nè consegnarla in mano dei forestieri, rescriveva a Villetard queste rabbiose e barbare parole.

«Ebbi, cittadino, la vostra lettera dei tre annebbiatore; nulla compresi al suo contenuto. Forse non bene i miei concetti vi spiegai. Non ha la repubblica Francese vincolo alcuno di trattato, che ci obblighi di anteporre ai nostri interessi, ed ai nostri vantaggi quei della congregazione di salute pubblica, o di verun altro uomo di Venezia. Non mai la repubblica Francese fece la risoluzione di far la guerra per gli altri popoli. Vorrei sapere, qual sia il precetto o di filosofia, o di morale, che comandi, che si sacrifichino quarantamila Francesi contro il desiderio espresso della nazione, e l'interesse vero della repubblica Francese. So, e sento, che nulla costa ad un branco di ciarloni, che meglio contrassegnerei chiamandogli pazzi, di volere la repubblica universale. Vorrei, che questi signori facessero con me una guerra d'inverno. Inoltre la nazione Veneziana più non è. Divisi in tanti interessi, effeminati e corrotti, tanto codardi quanto ipocriti, i popoli d'Italia, e spezialmente il Veneziano, poco son fatti per la libertà. Se il Veneziano è in grado di pregiarla, la occasione gli è aperta per pruovarlo: ch'ei la difenda. Non ebbe nemmeno il coraggio di conquistarla contro alcuni vili oligarchi; non seppe per qualche tempo difenderla nella città di Zara, e forse, se in Alemagna fosse entrato l'esercito, noi avressimo veduto, se non rinnovellarsi le tragedie di Verona, almeno moltiplicarsi gli assassinj che sull'esercito i medesimi effetti partoriscono. Del rimanente la repubblica Francese non può dare, come par che si creda, gli stati Veneziani; non è già punto perchè questi stati per dritto di conquista non appartengono in realtà alla Francia, ma perchè non è massima del governo Francese di dare alcun popolo. Adunque allora quando l'esercito Francese sgombrerà il paese, potranno i diversi suoi governi fare quelle risoluzioni, che più crederanno utili alla patria loro. Vi diedi carico di conferire con la congregazione di salute pubblica intorno alla evacuazione, che è possibile, che l'esercito faccia, acciocchè potessero appigliarsi ai partiti più utili e pel paese, e per gl'individui che eleggessero ritirarsi nei paesi uniti alla repubblica Cisalpina, e riconosciuti, e guarentiti dalla Francese. Voi parimente avete lor fatto a sapere, che coloro, i quali amassero seguitare l'esercito Francese, avrebbero tutto il tempo necessario, perchè possano vendere i loro beni, qualunque abbia ad essere il destino del loro paese, e di più, ch'io sapeva, che era intento della repubblica Cisalpina di conferir loro il titolo di cittadini. Il mandato vostro là debbe terminarsi. Del resto, ei faranno a posta loro quanto vorran fare. Voi avete loro abbastanza detto, perchè sentano che tutto ancora non è perduto, che quanto accadeva era l'effetto di un gran disegno: che se gli eserciti Francesi continuassero a far la guerra prosperamente contro una potenza, che è stata il nervo ed il cofano di tutta la lega, forse Venezia col tempo potrebbe divenire unita alla Cisalpina. Ma veggo che son codardi, e che non san far altro che fuggire: ebbene, che e' fuggano; non ho bisogno di loro».

A questo modo parlava Buonaparte di coloro, che per cagione di lui perdevano un'antica e nobil patria, che per cagione di lui andavano raminghi ed esuli, che per cagione di lui avevano in tempi tanto sinistri accettato il doloroso carico di servire al paese loro ed alla Francia. A questo modo parlava di loro, solo perchè avevano rifiutato le offerte sue infami, ed abborrito dal contaminarsi le mani nella dazione, e nell'ultimo ladroneccio della infelice patria loro. Da tutto questo anche si vede, con quale sincerità abbia narrato questo accidente l'autore della recente storia Veneziana, poichè non al rifiuto di appropriarsi le spoglie della patria, e di consegnarla essi stessi in poter dell'imperatore, come avrebbe dovuto dichiarare apertamente, ma non so quale altra protestazione dei Veneziani, senza spiegare qual ella fosse, egli attribuisce la collera di Buonaparte. Quando non si adorano le opere generose, e non si ha un orror santo per le vili, non so perchè si scrivano storie.

Rispondeva il generoso Villetard alla lettera del furibondo Buonaparte queste nobili parole: «Non loquaci, non pazzi, non vili, o codardi uomini sono coloro, dei quali nell'ultima mia vi favellava; nè voglion essi che col sangue Francese si faccia loro una repubblica universale. Conosco, come voi, le frasi, conosco la politica, conosco il coraggio di questi sognatori di universali repubbliche: ma parecchi padri di famiglia sono, ma vecchi uomini sono, ma negozianti sono, che atterriti dalla novella della evacuazione del paese loro, e dell'invasione dei soldati dell'imperatore, che ne debbe seguitare, creduto hanno di non aver più diritto di governare quando governare più non potevano che a loro proprio profitto, e che di un'autorità temporanea, non confermata ancora dalla nazione, investiti solamente si conoscevano. Abbiate del resto per certo, che da radice di probità e di altezza d'animo, pur troppo a' nostri giorni rare, procede il rifiuto di espilare a profitto della parte democratica la Veneziana nazione».

Ma per toccare il fondo della risposta di Buonaparte, se non aveva la Francia nissun obbligo di trattato verso Venezia, non si vede perchè il generalissimo invocasse un trattato quando si trattava di rubarla; perchè, se non più onorevole, almeno più sincero sarebbe stato il chiamar rubare il rubare, e non chiamarlo pigliarsi le cose promesse dai trattati. Da un altro canto s'intende benissimo, che Buonaparte non era obbligato a far ammazzare quarantamila Francesi per conservar Venezia libera; ma s'intende anche benissimo, che non era colpa dei Veneziani, se la Francia voleva serbar per se i Paesi Bassi, e la sponda sinistra del Reno, e Magonza, e la Lombardìa Austriaca, e Mantova, e Corfù. Che Venezia pagasse per altri si vede, perchè pagò; ma che vi fosse obbligata, è argomento nuovo, e degno dei tempi. Taccio gl'incentivi dati ai Veneziani verso la libertà dal direttorio, da Buonaparte, e dai suoi generali, ed agenti, perchè sono vituperj a chi voleva dar Venezia in preda all'imperatore. Rivoltare per tradire era certamente opera nefanda.

In tanto precipizio dell'antica patria, pensarono i municipali, poichè la forza dominava, che la volontà almeno si esprimesse. Adunarono i popolari comizj, affinchè deliberassero, se i Veneziani volevano conservar la libertà. Nissun oratore parlò in cospetto del popolo; i soli desiderj spontanei operavano, soli sacerdoti raccolsero i voti: fu il voto per la libertà. I municipali deputavano Sordina, Carminati, Dandolo e Giuliani, acciocchè andassero a Parigi, portassero al direttorio il voto, e lo pregassero, che permettesse, che i Veneziani s'armassero per difendere la libertà. Coi medesimi fini mandavano un'altra deputazione a Buonaparte a Milano; ma ei fece arrestar in viaggio i deputati, orribile comandamento. Così, se i Veneziani non s'armavano, gli chiamava vili, se volevano armarsi, gli trattava da rei, e si vede di che fosse pregno quel capitolo inserito nel trattato di Campoformio, che la repubblica Francese consentiva, che l'imperatore d'Alemagna possedesse Venezia. Il dir consentire, quando si sforza, mi pare un'astuzia piuttosto ridicola e stomacosa, che altro.

Serrurier, non temendo di maculare lo splendore de' suoi fatti, accettata da Buonaparte la suprema autorità in Venezia, ed il mandato di fare la gran consegna, svaligiati prima, secondo i comandamenti avuti, i fondachi pubblici del sale, e del biscotto, spogliato avarissimamente l'arsenale, rotte o mutilate le statue bellissime, che in lui si miravano, fatto salpare le grosse navi, affondate le minori, rotte a suon di scuri le incominciate, arso in San Giorgio, a fine di cavarne le dorature, il Bucentoro, reliquia veneranda per la memoria dell'antiche cose, e per le opere eccellenti di scoltura che l'adornavano, rovinata e deserta ogni cosa che allo stato appartenesse, consegnava agli Alemanni, lietissimi di tanto maravigliosa conquista, la città di Venezia. Faceva il popolazzo qualche allegrezza, onde si accresceva il dolore universale; i democrati, o fuggiti, o nascosti; dei patrizi, i più piangevano, alcuni andavano alle ambizioni nuove. Francesco Pesaro, mi vergogno, e mi sento addolorare in dirlo per la contaminata fama di lui, riceveva, come commissario imperiale, i giuramenti.

Così perì Venezia. Ora, quando si dirà Venezia, s'intenderà di Venezia serva: e tempo verrà, e forse non è lontano, in cui, quando si dirà Venezia, s'intenderà di rottami e d'alghe marine, là dove sorgeva una città magnifica, maraviglia del mondo. Tali sono le opere Buonapartiane.

LIBRO DECIMOTERZO

SOMMARIO

La tempesta si volge contro il papa: macchinazioni in Roma per farvi una rivoluzione. Caso funestissimo dell'uccisione del generale Duphot. La Francia dichiara la guerra al pontefice. Berthier marcia contro Roma, e se ne impadronisce. Atto rogato dal popolo Romano in Campo Vaccino per vendicarsi in libertà. Pio Sesto esposto a indegni scherni. I repubblicani lo sforzano a lasciar Roma, e lo conducono in Toscana. Espilazioni, e spogli di Roma. Risentimenti armati, che ne fanno i Romani. Risentimenti e querele, che ne fanno gli ufficiali Francesi gelosi dell'onore dell'esercito. Si bandisce la repubblica Romana, e le si dà una costituzione. Provvisioni di Pio Sesto circa i giuramenti.

Gli eccidj si moltiplicavano; continuavasi a spogliar Roma in virtù del trattato di Tolentino; nella quale bisogna con molta efficacia si travagliavano i commissarj del direttorio. E perchè non mancasse in mezzo agli spogli l'adulazione, essendo venuto a notizia loro, che la moglie di Buonaparte desiderava per se alcune belle statue di bronzo, le comperarono, e con le involate a grado di lei le incassarono. Succedeva ad una adulazione di cortesia un'adulazione lagrimevole; perchè, saputisi dal papa il desiderio, e la compera, ne pagava tosto il prezzo, che furono tremila e settecento scudi Romani, perchè la donna se le avesse senza costo. Oltre a ciò il misero papa, oramai vicino alla sua ora estrema, credendo, certamente con molta semplicità, di aver a fare con uomini esorabili, apparecchiava una collana di preziosi camei, perchè fosse offerta da sua parte in dono alla signora. Parvero queste cortesie, e questi omaggi fatti in un momento, in cui ogni cosa era a un di presso giunta al suo fine in Roma, nobili al Cacault, ministro del direttorio. Forse era nobile l'offerirgli, ma se fosse nobile l'accettargli in quel momento, lascio giudicar a coloro, che conoscono la civiltà e l'onestà del procedere. Le casse intanto piene delle Romane spoglie poste sui carri, partivano dalla desolata Roma. Se le vedeva il popolo Romano, e le rimirava con grandissima indegnazione.

Il romano erario era casso pel pagamento delle contribuzioni stipulate nel trattato di Tolentino; le romane cedole scapitavano dei due terzi per centinaio, e non v'era fine al disavanzo che ogni dì cresceva: ogni cosa in iscompiglio, si avvicinava la dissoluzione. Sapevaselo Cacault e per questo non voleva che si facesse una rivoluzione violenta per ispegnere il governo papale, ma bensì, che si lasciasse andare di per se stesso alla distruzione. Solo gli doleva il pensare, che nella borsa segreta e particolare del papa, e del suo nipote, vi fossero ancor denari; e però s'ingegnava a fare, che il pontefice comperasse per tre milioni la terra della Mesola, sperando, come scriveva a Buonaparte, che il trarre quel denaro dallo stato ecclesiastico avesse ad esser cagione, che il fallimento totale delle cedole, che ne seguirebbe, partorirebbe una gran ruina, e necessariamente opererebbe una rivoluzione. I democrati non incitava Cacault, nè aveva partecipazione nelle loro macchinazioni, perchè gli stimava gente dappoco, e credeva che il popolo non gli volesse. Bensì ricercava il papa della libertà dei carcerati; il che veniva in grande diminuzione della riputazione del governo pontificio, condizione funestissima, perchè il tollerargli era pericoloso per l'esempio, il carcerargli pericoloso per la necessità del liberargli. Crescevano la penuria, ed il caro delle vettovaglie; i popoli male si soddisfacevano. A questo contribuivano non poco le tratte dei grani, che il papa era sforzato, perchè richiesto con imperio, a concedere ad alcuni fra gli agenti sì militari che civili della repubblica. Erano queste tratte cose molto pregne, perchè portavano con se assai guadagno. Il papa, oltre la sua età cadente, si trovava infermo di paralisia. S'aggiungevano spaventi, come se il cielo fosse sdegnato contro Roma. La polveriera del castel Sant'Angelo s'accendeva la vigilia di San Pietro con orribile fracasso; furonvi molte morti, e parecchi edifizj rovinati, il Vaticano sì fortemente scosso, che la volta della cappella Sistina fe' di molti peli, e parte diroccava con danno considerabile del famoso Giudizio di Michelagnolo.

S'incominciavano i cavilli, annunziatori di distruzione. Aveva il pontefice fatto disegno di condurre a' suoi soldi il generale Provera. A ciò fecero tosto un gran tempestare gli agenti del direttorio, richiedendo con supremo comandamento, e pena la guerra, dal pontefice, che licenziasse incontanente, e fuori de' suoi stati mandasse il generale Austriaco. Tal era il rispetto, che il direttorio vincitore portava all'independenza di uno stato sovrano, e col quale aveva congiunzione d'amicizia pel trattato di Tolentino.

Alle cagioni politiche, le quali operavano contro il papa, se ne aggiungeva una di una natura molto singolare, e quest'era il pensiero nato in Francia, del voler fondare la religione naturale, che col nome di teofilantropìa chiamavano. Fu a quei tempi questo pensiero attribuito specialmente al quinqueviro Lareveliere Lepeaux; ma sebbene ei l'appruovasse, come mezzo conducente a risvegliare nel cuore degli uomini gli affetti dolci e sociabili, non ne fu però il principale autore. I fautori di questo novello rito miravano ad allontanare la necessità della religione rivelata, e principalmente della cattolica; il perchè si mostravano avversi al papa, come capo e direttor supremo di quanto a quest'ultima religione s'appartiene, e con tutti gli sforzi loro la di lui rovina procuravano.

Era a Cacault succeduto nell'ufficio di ministro di Francia a Roma, Giuseppe Buonaparte, fratello maggiore del generale, uomo di natura assai rimessa, ma siccome indolente e debole, così facile a lasciarsi aggirare da chi voleva piuttosto fare, che aspettare la rivoluzione. Inoltre sapeva qual fosse il desiderio del suo governo, ed anche ebbene mandato espresso, di mutar lo stato in Roma, con questo però, ch'ei facesse le viste di non parervi mescolato. Per la qual cosa era la sua casa piena continuamente di novatori, ai quali dava segrete speranze. Ma siccome nè era soldato, nè d'indole risoluta, mandarono, per dargli spirito, ed ajutarlo a perturbar Roma, i generali Duphot e Sherlock, il primo dei quali si era mostrato assai vivo in quelle faccende dei sovvertimenti Genovesi. Aveva il governo papale avviso delle trame che si macchinavano; e però faceva correre, principalmente di nottetempo, le contrade di Roma da spesse pattuglie, e teneva diligentissime guardie. Ma era fatale, che i tempi soverchiassero la prudenza, e dacchè i ministri di potenze estere, il cui nome suona pace ed amicizia, divenivano seminatori di ribellione, non si potevano più pareggiare le partite. S'avvicinava l'anno milasettecentonovantasette al suo fine, quando nasceva in Roma un caso funestissimo, dal quale scorsero improvvisamente con precipitosa piena quelle acque, che già tanto soprabbondando minacciavano di allagare. La notte dei venzette decembre i soldati urbani givano diligentemente osservando, che cosa accadesse o non accadesse. Trovavano qua e là raccolti in cerchiellini uomini appostati, che portavano nappe alla Francese, la maggior parte sudditi del papa; pure Francesi ancora vi si trovavano, ma in picciol numero. I soldati prudentemente usando, intimavano loro di sgombrare: erano obbediti. Parve il caso d'importanza al governator di Roma. Ordinava più diligenti e più grosse guardie; comandava a tutti i corpi, vegliassero. A notte più buja incontravano le guardie un'altra affollata di genti armate; erano i democrati. Dissero loro, si separassero. Qui nascevano dalla parte degli affollati minacce e derisioni. Seguitava una mischia confusa; un democrato fu morto, due urbani feriti. Il sangue chiama sangue, il terrore già dominava la città. Faceva motto di cotesto il segretario di stato all'ambasciadore Giuseppe, che in quel mentre si divertiva ad una festa di ballo. Rispondeva, farebbe, che i suoi non si mescolassero in quei tumulti, ma non giovava; perchè, o il volesse egli, o nol volesse, si adunavano il dì ventotto nella villa Medici circa trecento democrati, cui ancora non avevano fatti accorti nè la vendita Veneziana, nè la servitù Cisalpina. Era Duphot fra di loro, e con la voce, e coi gesti, e coll'alzar il cappello gli animava a novità: inalberavano l'insegna tricolorita, e facevano un gridare, ed un tramestìo incredibile. Sapeva il governo l'accidente, e per rimedio mandava bande di fanti e di cavalli, che tanto più facilmente disperdevano quegli uomini riscaldati dalle opinioni e dal vino, poichè avevano desinato in copia, quanto altri democrati, che con esso loro dovevano congiungersi, trattenuti da un ordine contrario di Sherlock, non potevano arrivare. Correvano i dispersi, come a luogo sicuro, e come a fonte d'allettamenti al palazzo Corsini, dove aveva le sue stanze l'ambasciatore di Francia. In esso, e nei luoghi vicini si ricoveravano, donde fatti più baldanzosi chiamavano ad alta voce la libertà, e gridavano di volerne piantar le insegne sul Campidoglio.

Roma tutta si spaventava. Mandava il papa contro quella gente fanatica i suoi soldati, i quali, prese le strade per al palazzo Corsini, rincacciavano verso di lui a luogo a luogo i resistenti novatori. Fra quella mischia i pontificj traendo d'archibuso, ferivano alcuni democrati. Il terrore gli occupava: cercavano rifugio nel palazzo dell'ambasciatore, ne empievano il cortile, gli atrj, le scale. Si formavano, così comandati essendo, i soldati del pontefice per rispetto a quell'asilo fatto sicuro dal diritto delle genti. Ma i capi mandavano pregando l'ambasciadore, che sulle somme scale era comparso, frenasse omai quei ribelli, e gli esortasse a partirsene. Qui, o che l'ambasciatore non potesse, o che non volesse fare più efficace dimostrazione, si conteneva dicendo: a lui sarebbero tenuti di quanto occorresse, ma non gli confortava a partire. I democrati intanto, prevalendosi della sicurezza del luogo, con parole e con gesti agl'irati soldati insultavano. Pure non ancora questi prorompevano. Arrivava un reggimento di dragoni mandato dal pontefice per sussidio a tanto tumulto. Questa nuova gente, non potendo più tollerare le ingiurie, fatto impeto, entrava a precipizio nel cortile del palazzo, minacciando con le armi impugnate morte a chiunque incontanente non isloggiasse. Nasceva una mischia, un gridare, un fremere misto, che meglio si può immaginare che descrivere. A sì feroce strepito l'ambasciatore, cui accompagnavano Duphot e Sherlock, mostratosi, s'ingegnava di calmare con le parole, e coi gesti il tumulto: chiamava a parlamento i capi dei soldati. Ma nè i democrati cessavano dagli oltraggi, nè i dragoni pontificj, siccome quelli che si erano infieriti, potevano pazientemente udire cosa alcuna: rispondevano, non volere altro accordo, se non quello, che i ribelli incontanente sgombrassero dal palazzo. Preso allora Duphot da empito sconsigliato, siccome quegli che giovane subito ed animoso era, sguainata la spada, si precipitava dalle scale, e messosi coi democrati gli animava a volere scacciar i soldati pontificj dal cortile. In tale forte punto (a questo serbavano i cieli l'infelice Roma, che un fortuito e provocato accidente ponesse cagione della sua distruzione), i dragoni viemmaggiormente inferociti, traevano. Morivano parecchi furiosi, ne riportava Duphot una ferita mortale, per cui dopo morì. Dei democrati, udito il suono delle armi, e veduto il sangue sparso, i più si salvavano fuggendo pel giardino del palazzo; i più audaci restavano. Era il cortile squallido, e funesto per la presenza dei feriti e degli uccisi. Caso veramente fatale fu questo; perchè rei certamente verso il governo papale erano coloro, che avevano permesso, e forse macchinato espressamente, che la sede dell'ambasciata di Francia diventasse un fomite di ribellione contro di lui, ma del pari inescusabili sono i dragoni pontificj dello avervi fatto impeto dentro, e se il papa avesse subito fatto arrestare i capi di questo reggimento, per me non so di che l'ambasciatore si avrebbe potuto dolere. Bene dovevano i soldati circondare il palazzo, ma non entrarvi armatamente, e farvi sangue; perciocchè, se chi v'era dentro mancava di fede, e violava la santità del luogo, non era per questo autorizzato il governo pontificio a violarla: bene soltanto ci si doveva assicurare con farvi stanziare tante truppe all'intorno, che bastassero, e negoziare al tempo stesso con l'ambasciatore per allontanare i ribelli.

Scriveva risolutamente l'ambasciatore al cardinale segretario di stato, comandasse ai soldati, che si ritirassero dai contorni del palazzo. Rispondeva rappresentando, quanto fosse difficile la condizione, in cui versava il governo del papa, poichè il ritirare, ed il non ritirare i soldati era ugualmente pericoloso, quello pei ribelli, che nelle stanze del palazzo di Francia se ne stavano tuttavia minacciando, questo per l'intimata nimicizia di Francia: l'ambasciador solo poter cambiar le sorti; sperarlo il cardinale, perchè generosa era la nazione, cui l'ambasciadore con tanta dignità rappresentava; avere il cardinale medesimo per ben dodici anni in mezzo a lei vissuto, e nissuno meglio di lui averla e conosciuta, ed apprezzata. Fuvvi chi tentando di mitigare l'animo dell'ambasciatore, il voleva indurre a far uscire dalla sua sede i nemici del governo, alla quale richiesta non solamente non volle acconsentire, cagionando, che essi l'avevano preservato contro una nuova tragedia Basviliana, ma ancora, più sdegnato che mai, rescriveva, doversi alfin sapere, se coloro, che indirizzavano segretamente i Romani consigli, avessero ancora a macchinar tradimenti sotto l'ombra della pace contro la repubblica; a loro non importare, perchè avevano saputo evitargli, tanti infortunj del popolo Romano generati dalla guerra fatta contro Francia; spirare ancora, e nelle pontificali truppe aver grado gli assassini di Basville; punisse il Romano governo gli autori dei Romani disastri, punisse gli assassini di Basville; a questi soli segni potere Francia conoscere la Romana fede; per questi soli potersi tra Francia e Roma conservare l'amicizia: badasse il cardinale segretario all'acclusa lista; leggerebbevi i nomi degli assassini di Basville, un abate Beltrami, autor principale della Basviliana tragedia, un Pulcini caporale, che lo feriva di bajonetta, un barbiere che lo feriva di stilo; abitare in Roma tuttavia, comparire alla luce impunemente quest'insanguinati sicarj.

Il governo di Roma, oramai ridotto ad un passo, in cui era del pari pericoloso il ricusare con giustizia, od il consentire con ingiustizia, si atteneva alla parte migliore, rispondendo, che Roma non aveva mai seguitato i consigli dei nemici della Francia; che il primo suo pensiero, il più efficace suo desiderio era di vivere con lei in termini d'amicizia; che quanto agli uccisori di Basville, se n'era a tempo debito fatto processo; che coloro, che erano stati per giudizio convinti rei del fatto, avevano pagato col debito supplizio le pene, e che finalmente coloro, che l'ambasciatore notava nella sua lista, o in Roma non dimoravano, o erano stati per esami giuridici, e per sentenze solenni conosciuti innocenti.

Si turbava fortemente a queste parole l'ambasciatore, e, chiesti i passaporti, protestava di volersene partire; il che era segno di guerra. Offeriva in sì estremo frangente il governo pontificio con sommesse parole di satisfare per l'accidente occorso (protestando però di nuovo, e risolutamente affermando, non avervi colpa), alla repubblica Francese, in quel modo ch'ella stessa avrebbe potuto e chiedere e desiderare. Aggiungeva il cardinale segretario, pregare l'ambasciadore a considerare, che in mano sua era posta la conservazione di quanto il generalissimo suo fratello aveva generosamente conceduto alla Romana corte. Ma l'ambasciadore, non avuto risguardo alle offerte di satisfazione, nè alle preghiere del papa, nè deponendo il pensiero di fare una dimostrazione ostile, tutto sdegnato, o che il fosse, o che il facesse, se ne partiva pei cavalli delle poste in tutta fretta verso Toscana. Sclamava, viaggio facendo, in ogni luogo contro i tradimenti Romani, come gli chiamava, parlava di vendette terribili, incitava i popoli a ribellione. Come poi giungeva a Parigi, rapportato il fatto nel modo più conforme al suo intento, ed a quello del direttorio, stimolava la Francia alla guerra contro Roma. Ordinava il pontefice rimedi spirituali di preghiere, di digiuni, di penitenze per ovviare alla ruina imminente: apprestava il direttorio le armi. Già un nido di ribellione contro il pontefice era formato per opera dei repubblicani in Ancona, cosa, che da per se sola avrebbe potuto rendere il pontefice giustificato, se avesse, già molto prima, significato la guerra alle due repubbliche, Francese e Cisalpina, perciocchè in quell'alzata delle Anconitane bandiere contro il papa avevano posto le mani sì i presidj Francesi, che i Cisalpini. Già Pesaro si ribellava, già Sinigaglia, ed altre terre vicine tumultuavano, e già il grido della repubblica Anconitana, infelice cagione di sommosse, di ribellioni, di repubblichette loquaci e serve, spesseggiava sui fianchi dell'orientale Apennino. Se n'era il pontefice doluto col direttorio; ma le sue querele furono passate di leggieri da coloro, che perseverando nella loro pessima intenzione, volevano, non la conservazione, ma la distruzione sua. Parigi intanto veniva fulminando: il sangue di Basville e di Duphot chiamar vendetta; doversi disfare quel nido di assassini; l'ultima ora esser giunta della Romana tirannide; a quest'opera d'umanità esser serbata la Francia; vedrebbe il mondo, quanto avesse la repubblica a cura i suoi cittadini, che vivi gli proteggeva, uccisi gli vendicava. Tali erano le amplificazioni dei tempi, e le turbe seguitavano. Ma a chi vorrà bene considerare la cosa, parrà certamente, che pur troppo atroce fatto fu l'uccisione di Duphot, e da essere pianto eternamente; ma gli parrà ugualmente, che l'accagionarne il governo del papa, e farne pretesto di sua distruzione, fosse nè ragionevole nè giusto, perchè io non ho mai, nè credo che altr'uomo che sia stato o sia al mondo, abbia udito dire, che Pio Sesto, ed il cardinale Doria Pamfili, suo segretario di stato, fossero assassini, e l'accusargli di assassinio era cosa non solamente enorme, ma iniqua. Il direttorio, imputando a disegno espresso del pontefice ciò, che era l'effetto fortuito di provocazioni straordinarie, mandava comandando a Berthier, marciasse incontanente con tutto l'esercito a passi presti contro Roma.

Avutisi da Berthier questi comandamenti, quantunque se ne vivesse molto di mala voglia per essergli venute a noja le rivoluzioni, si metteva in assetto per mandargli ad esecuzione. Commesso l'antiguardo a Cervoni, che, come di nazione Corso, sapeva la lingua del paese, gli comandava che si alloggiasse in Macerata: dava il governo della battaglia a Dalemagne per modo che d'un solo alloggiamento si tenesse discosto dall'antiguardo. Alloggiava il retroguardo a Tolentino con Rey, con mandato di osservare le bocche d'Ascoli, per le quali si va nel regno di Napoli, e di fare sicure le strade degli Apennini fra Tolentino e Foligno. Lasciava finalmente con grosso presidio in Ancona Dessolles con avvertimento di sopravvedere con bande sparse il paese, e tenerlo purgato dai contadini Urbinati, che portando grande affezione alla sedia apostolica, erano sempre inclinati a far moto in suo favore. Metteva alle stanze di Rimini quattromila Polacchi sotto la condotta di Dombrowski, e con questi anche le legioni Cisalpine, le quali nessuna cosa santa ed inviolata avendo, commisero atti, di cui quei popoli si erano mossi a grandissimo sdegno: le avrebbero anche condotte all'ultima uccisione, se non fosse sopraggiunto Berthier coi soldati di Francia. Così il sacco, e la rapina erano usati in Italia non solamente dai forestieri, ma ancora dagl'Italiani.

Incamminandosi alla distruzione del governo pontificio, mandava fuori Berthier da Ancona il dì ventinove gennajo un manifesto con queste parole: che già le rive del Tevere si godevano le dolcezze di una pace, che aveva concluso una crudele guerra, ma che l'implacabile ed ingannevole governo di Roma cospirava cercando di turbare la quiete delle nazioni, e per arra dei futuri mali commetteva un vilissimo delitto; che egli insultava alla moderazione ed alla generosità mostrata dalla repubblica nel trattato di Tolentino; ch'ei doveva pertanto con atto uguale alla sua perfidia satisfare alla repubblica; che un esercito Francese si muoveva ora contro Roma, ma che solo si muoveva per punire gli assassini del prode Duphot, che solo si muoveva per punire quegli assassini medesimi ancor rossi del sangue dell'infelice Basville; che solo si muoveva per castigar coloro, che si erano arditi disprezzare il carattere e la persona dell'ambasciadore di Francia; che la Francia sapeva, essere il popolo Romano innocente di tanta immanità e perfidia; che l'esercito di Francia il terrebbe indenne, e sicuro da ogni oltraggio.

Poscia Berthier, rivoltosi al soldati, solennemente gli ammoniva, che solo marciavano per vendicare i delitti commessi contro la repubblica, per punire il governo di Roma, ed i suoi vili assassini; considerassero, che come giusta, così immaculata doveva essere la vendetta; avvertissero, che il popolo Romano non si era mescolato nelle sceleraggini di chi il reggeva; l'amassero pertanto, il proteggessero; sapessero, che la repubblica comandava loro, che rispettassero le persone, le proprietà, i riti, ed i tempj di Roma; darebbersi pene asprissime a chi si desse al sacco; degni di Francia, degni di repubblica, degni di loro medesimi si dimostrassero.

Ciò detto, muoveva le schiere al destino loro. Per tal modo la potentissima repubblica si scagliava contro la religiosa Roma, e contro un papa già quasi disarmato, e cui faceva sicuro piuttosto la venerazione che la forza. Le genti repubblicane, preso Loreto, con aver fatto prigioniero il presidio pontificio, e commessovi qualche sacco, posto a taglia Osimo, che si era levato a favor del papa, varcati prestamente gli Apennini, all'appetita Roma si approssimavano. Era in questo estremo punto l'aspetto della città vario, e per ogni parte pericoloso: alcune condizioni risguardavano le passate cose, alcune le presenti; generavansi sette ed umori molto diversi. Il trattato di Tolentino con avere spogliato il papa della miglior parte de' suoi stati, e con averlo sforzato a consentire a certe moderazioni nelle discipline ecclesiastiche, gli aveva tolto gran parte della riputazione e della riverenza, che prima gli portavano, considerato massimamente che tali concessioni aveva fatte ad un governo, che con tanto ardore e pertinacia aveva perseguitato con l'armi sì spirituali che temporali. Il vedere poi la magnifica Roma spogliata, per soddisfare al vincitore, de' suoi ornamenti più preziosi, partoriva sdegno ne' suoi popoli, non solamente contro gli spogliatori, ma ancora contro il pontefice, giudicando essi sempre dagli effetti, non dalle cagioni, siccome quello, che pareva loro, che avesse o con imprudenza provocato, o non con prudenza contentato un nemico irresistibile. Oltre a tutto questo si trovava il pontefice ridotto alla necessità, per le stipulazioni del trattato, ad aggravare con nuove tasse i sudditi a fine di poter bastare alle somme esorbitanti che era tenuto di sborsare alla repubblica. Quindi ne era nato, che speso tutto il tesoro di San Pietro, si era dovuto por mano negli ori ed argenti dei privati, gittar nuove cedole con maggiore scapito così delle vecchie come delle nuove, ed ordinare una tassa del cinque per centinajo su tutti i beni. Cagione principalissima poi di mal umore, anche negli aderenti del pontefice e delle Romane opinioni fu questa, che si venne alla vendita del quinto dei beni ecclesiastici, il che parve gran attentato contro le immunità ecclesiastiche. Si lamentavano i cherici, che il pontefice avesse commesso ne' suoi stati quel medesimo, che con sì solenni parole aveva condannato, ed in Francia, ed in Cisalpina, ed in altri paesi, in cui si era posta la falce in questa messe. Fu questa risoluzione molto dannosa al pontefice, perchè gli tolse il favor di coloro, sui quali principalmente si fondava la sua potenza. La casse piene di gentilezze antiche, quelle, che contenevano i denari estorti con tanta difficoltà dal pubblico e dal privato, da Roma continuamente partendo, e la sembianza, e il fatto di uno spoglio indefesso ai Romani rappresentando, accrescevano la mala contentezza, e rendevano il papa spregiato ed odioso. Nè era nascosto, che le gioje stesse per la valuta di parecchi milioni, perchè con la pecunia numerata non si era potuto soddisfare ai patti di Tolentino, erano state poste in balìa del vincitore. Procedeva dalle angustie dell'erario, che il papa aveva molto rimesso da quelle pompe, e da quella magnificenza, con le quali era stato solito vivere, e che gli avevano conciliato l'affezione ed il rispetto delle popolazioni. Mancato questo splendore, da cui piuttosto, e molto più che dalla virtù e santità della vita misurano i Romani la eccellenza del principe, si cambiava l'affetto in disprezzo.

Meritava egli certamente il pontefice più compassione che odio; ma sogliono i popoli solamente compassionare i principi nelle estreme miserie di cacciamenti o di prigionìe, e quando la compassione è divenuta inutile: finchè regnano, quand'anche infelicemente regnano, il disprezzo o l'odio, piuttostochè la pietà pubblica, gli persegue; perciocchè il disprezzare o l'odiare i principi è stimato dai popoli compenso dell'obbedire. In tanta mutazione d'animi le antiche querele si rinnovavano. Del duca Braschi, nipote del pontefice, si motivava, arricchito oltre modo con monipolj contro il pubblico, con ispogliamenti contro i privati: memoravasi la parsimonia di Ganganelli verso i suoi nipoti, e con la prodigalità di Braschi verso i propri paragonavasi, e quello a questo di gran lunga anteponevano. Meglio fora stato, esclamavano, contenersi nella temperanza Ganganelliana, che vivere, prima profusa vita per elezione, poi misera per necessità. I servitori soprattutto, di cui tanto abbonda Roma, diminuiti i salarj, si lamentavano: e siccome quelli, che, secondo il solito, senza freno sono, facevano un parlare perniziosissimo. Tanto più essi erano di perduta speranza, quanto più le magnificenze Braschesche, le quali si erano dilatate in tutta la corte, ne avevano oltre modo accresciuto il numero, e più erano sprofondati nell'ozio, più si trovavano lontani dal far la risoluzione di guadagnarsi con onorate fatiche un'onorata vita. Si arrogavano i discorsi dei politici, e degli amatori dell'antica disciplina della chiesa. Argomentavano i primi dalla necessità di avere in tempi difficili e pericolosi un governo d'uomini prudenti, e conoscitori delle umane cose, non di preti soliti a giudicarne con le preoccupazioni, e con le astrazioni religiose. Affermavano, poichè si era giunto a tale che le armi spirituali, perduta l'efficacia loro, più non giovavano, doversi lo stato commettere al freno di coloro, che attamente delle passioni umane giudicando, sapevano per uso adoperare prudentemente i rimedj politici e temporali degli stati infermi: se Roma spirituale periva, vociferavano, doversi almeno salvare Roma temporale. I secondi dimostravano a che aveva condotto lo stato Romano la potenza spirituale eccessiva, e temerariamente usurpata, ed ambiziosamente usata dai pontefici, e l'esser loro stati esaltati alla potenza terrena. Andavano dicendo, essere tempo di usare il tempo per ridurre i costumi trascorsi della chiesa alla semplicità antica, e la potenza dei papi ai limiti primitivi, per reintegrare i vescovi in quella pienezza di potestà, che viene loro dal fondatore stesso della religione, per restituire ai principi l'independenza, che a loro s'appartiene di diritto, e che tanto è necessaria pel buon governo degli stati; questo benefizio aver a nascere da tanti sovvertimenti, nè senza un pietoso fine avere l'infinita sapienza aggravato la mano sui popoli della terra. Le dottrine Pistojesi, mostrandosi più apertamente, acquistavano maggior credito, ed i fautori loro nutrivano speranza, che lo stato della chiesa si avesse a ridurre in similitudine ai tempi che furono prossimi a quei degli Apostoli. Ma i democrati, che non amavano meglio una religione riformata, che uno stato regolato, confortati da apparenze tanto nemiche al papa, ed avendo ardente desiderio della vittoria dei Francesi, pigliavano novelli spiriti, e più vivamente operando, minacciavano prossima ruina al reggimento antico. Sentivano, e vedevano i reggitori della turbata Roma queste cose, ma meglio desideravano, che potessero porvi rimedio. Pure mandavano fuori provvisioni contro lo sparlare, ma il tempo era più forte di loro, e la proibizione accresceva la licenza. Aveva lungo tempo in Roma la maldicenza tenuto luogo di libertà, ed i Romani cuori umilmente obbedivano, purchè le Romane lingue si potesser sfogare: sicchè gridavano, esser tolta loro quella libertà, di cui avevano goduto sino ai tempi, e sin dai tempi strettissimi di Alessandro e di Sisto, crescere la tirannide con la miseria, pagare i popoli con la servitù gli errori del governo, diventata essere la condizione Romana insopportabile. A queste voci i fedeli s'intimorivano, gli avversi s'incoraggivano, gli odj s'inviperivano. Così lo stringere, e rallentare il freno era parimente esiziale al papa, crollavasi lo stato già prima che Francia gli desse l'ultima pinta. Il misero pontefice abbandonato su quei primi romori da quasi tutti i cardinali, trovava un debole conforto di parole nel cardinale Lorenzana, protettore del reame di Spagna, nel principe Belmonte Pignatelli mandato a lui dal re di Napoli, e finalmente nel cavaliere Azara, ministro di Spagna, solito a creare con efficacia nei governi di quei tempi inclinazioni verso la repubblica di Francia, poi ad intromettersi senza frutto, quando il momento era giunto della distruzione loro. Vedutasi dal papa la ruina inevitabile, ordinava ai capi de' suoi soldati, facessero nissun moto di resistenza, e si ritirassero con quel passo, con cui i Francesi si avvicinavano; pensava intanto alla quiete di Roma, ingrossando il presidio, perchè non voleva, che l'anarchìa precedesse la conquista.

Il dì dieci febbrajo molto per tempo si mostravano i repubblicani sui Romani colli: ammiravano una tanta città. Tagliavano trincee, piantavano cannoni. Per accordo stipulato per parte del papa da Azara, e da alcuni cardinali, entravano nella magnifica Roma il giorno medesimo, e fatto sloggiare, il che fu uno spettacolo miserando, dal castel Sant'Angelo il presidio pontificio, l'occupavano. Prendevano anche, condotti da Cervoni, i principali posti della città. Poi, accompagnato da' suoi primi uffiziali, e scortato da grosse squadre di cavallerìa, entrava il dì undici trionfando Berthier. Al tempo medesimo i manifesti promettitori di rispetto alle persone, alle sostanze, ai riti, alla religione si affiggevano su per le mura; dei quali, se più speranza o timore concepissero i Romani, è dubbio. Alloggiava Berthier nel Quirinale, mandava Cervoni al Vaticano per far riverenza al pontefice, assicurandolo della persona e dell'antica sovranità. Scriveva il dì medesimo del suo ingresso a Buonaparte, che un terrore profondissimo occupava Roma, e che lume nissuno di libertà appariva da nissun canto; che un solo democrata era venuto a trovarlo, offerendogli di dar libertà a due mila galeotti. Dava speranze, e faceva promesse d'ajuto ai novatori, piuttosto per ordine che per voglia. Queste promesse, e questi incitamenti sortivano l'effetto; il giorno quindici di febbrajo, correndo l'anniversario dell'incoronazione del pontefice, che a quel dì medesimo compiva ventitrè anni di regno, si levava subitamente per tutta Roma un moto grandissimo di gente, che chiamava la libertà, e mossa fin su quel primo principio da servile imitazione, traendo seco non so qual fusto di pino, s'incamminava a calca verso Campo Vaccino. La folla, le grida, la veemenza crescevano ad ogni passo. Molti correvano per vedere, alcuni per aiutare, nissuno per contrastare; perchè le pattuglie repubblicane che giravano, impedivano ogni moto contrario. Giunta che fu quella immensa tratta dirimpetto al Campidoglio, crescendo vieppiù le grida e lo schiamazzo, a fronte del famoso colle rizzava l'albero con una berretta in cima, e viemaggiormente infiammandosi a tale vista, gridava libertà, libertà! Nè contenti a questo, i capi givano ad alta voce interrogando gli astanti, se volessero viver liberi: risuonava tutto Campo Vaccino del sì. Seguitavano i capi a domandare, è volontà questa del popolo Romano? Di nuovo risuonava Campo Vaccino del sì. Cinque notai richiesti rogavano l'atto, siccome il popolo Romano sovrano e libero aveva rivendicato i suoi diritti, che libero e franco si dichiarava, che al governo del papa rinunziava, che in repubblica voleva libero vivere, e libero morire. Qui le grida, gli strepiti, il gittar dei cappelli, l'abbracciarsi, il confortarsi, il pianger dalla gioia, il ridere per pazzia, che sorsero, non son cose che da umana penna si possano agevolmente descrivere. Poi i motti contro i preti, contro il papa, e contro i cardinali, e le ipotiposi sui vizi, parte veri, parte anco esagerati della corte Romana, andavano all'eccesso. Gli atti e gli scherzi che si fecero, non son da raccontarsi. Solo dirò, che un padre di due bellissime fanciulle, venuto con loro sulla piazza pubblica, si toglieva primieramente, romoreggiando dalla gioia il popolo all'intorno, il proprio nome, con quello di Tesifonte chiamandosi; poscia le proprie figliuole sbattezzava. Ambiva quindi, e voleva essere chiamalo cittadino Tesifonte; disordinati segni di più disordinato avvenire.

Rogato l'atto, scritto in ischifosa e servil lingua Italiana, tradotta dal Francese, si eleggevano dal popolo convocato uomini a posta, perchè l'atto medesimo portassero a Berthier, e gli raccomandassero la novella repubblica. Eravi solennità: entrava a guisa di trionfatore per la porta del Popolo il generale di Francia, con magnifico corteggio dietro ed intorno di splendidi ufficiali, e di cento cavalli eletti da ciascun reggimento. Suonavano con grandissimo strepito gli stromenti della musica militare; l'affollato popolo applaudiva. Non così tosto compariva alla porta del Popolo, che era presentato di una corona dai capi in nome del popolo Romano. L'accettava, protestando ch'ella di ragione apparteneva a Buonaparte, le cui magnanime imprese avevano preparato la libertà Romana; che per lui la riceveva, che per lui la serberebbe, e che a lui in nome del popolo Romano la manderebbe. Salito in Campidoglio bandiva la repubblica Romana solennemente, la riconosceva in nome della Francia, lodava la libertà, chiamava i Romani figliuoli di Bruto e di Scipione. Queste cose si facevano, veggendo ed udendo dalle stanze del deserto Vaticano il canuto ed infermo pontefice. Erano tutto il restante giorno, e la seguente notte canti, balli, e rallegramenti di ogni forma.

La Cisalpina repubblica a questi sovvertimenti si rallegrava. Scriveva il direttorio nella solita lingua servile per mezzo del presidente, ai legislatori Cisalpini, che la patria di Bruto era libera, che i suoi discendenti avevano solennemente proclamati i diritti dell'uomo, che il sacro albero rigeneratore dei popoli aveva messo le sue radici sul Campidoglio, che la ragione era stata vendicata de' suoi oltraggi, che Roma finalmente non aveva più tiranni; che vi si era creato un governo provvisorio composto di bravi, ed illuminati repubblicani; che il vescovo di Roma era guardato dalle truppe Francesi, e che il popolo quanto inebbriato del sentimento della sua libertà, altrettanto si manteneva dignitoso, saggio e tranquillo. Quest'erano le poesie, o per parlare con Buonaparte, i romanzi dei tempi.

Fra mezzo a tanta mina continuava a starsene nelle sue stanze del Vaticano papa Pio Sesto con qualche apparato di sovranità, tuttochè già servo fosse; conciossiachè ed usava la sua spirituale potestà, ed i ministri celebravano gli uffici divini, e gli ufficiali di casa il servivano, e le guardie Svizzere il custodivano. Ma in quella stato di Roma non poteva più un papa sussistere, nè per lui per le dignità, nè pei repubblicani per la sicurezza. Inoltre l'opera del direttorio doveva consumarsi intiera. S'incominciavano a mandar carcerati in Castel Sant'Angelo, o confinati nelle proprie case alcuni cardinali, ed altri personaggi di nome e d'autorità. Toglievasi quindi dal Vaticano la guardia Svizzera con dolore vivissimo del pontefice, che non se ne poteva dar pace; vi surrogavano la guardia Francese. Qui io vorrei tacermi: ma l'amore della verità mi sforza a dire, che il venerando Pio, ridotto in caso di sì estremo abbassamento, non andava esente, da parte di alcuni repubblicani di Francia, da scherni tali, che l'ammazzarlo sarebbe stato poco maggior mancamento. Agli scherni succedeva l'esilio: Cervoni, avutone comandamento da Berthier, introdottosi nelle stanze del pontefice, in nome della repubblica Francese gl'intimava, che si dispogliasse della sovranità temporale, si contentasse della spirituale. Rispondeva Pio, avere la sua temporale sovranità ricevuto da Dio, e per libera elezione degli uomini, non potere, nè volere rinunziarvi; alla età sua di ottant'anni potersi bene fare mali grossi, ma non lunghi; essere parato a qualunque strazio; essere stato creato papa con piena potestà; volere per quanto in lui fosse, papa morire con piena potestà; usassero la forza, poichè in mano l'avevano, ma avvertissero che se avevano in poter loro il corpo, non avevano parimente l'animo, il quale in più libera regione spaziando, di accidenti umani non temeva; esservi un'altra vita per lui oggimai vicina; in lei nulla gli empi, nulla i prepotenti potrebbero.

Restava, poichè l'animo non avevan potuto vincere, che vincessero il corpo. Il pubblicano dell'esercito, che al suono delle Romane finanze era prestamente accorso, appresentatosi al pontefice, gl'intimava, tempo due giorni, da Roma si partisse. Rispondeva Pio, non potere resistere alla forza; ma volere, che il mondo sapesse, che sforzato il proprio gregge abbandonava. Strane venture di tempi, che i repubblicani andassero a Roma predicando di voler punire gli assassini di Basville e di Duphot, e conservare il papa, e che gli assassini non punissero, ed il papa non conservassero; conciossiachè del castigo degli uccisori di Basville e di Duphot, occupata Roma, non si fece più parola.

Il dì venti febbrajo sforzavano i repubblicani il papa a partire. Lasciava Pio l'antica sede, cui non era per rivedere più mai. L'accompagnavano solamente, miserande reliquie di corte tanto sontuosa, oltre alcuni addetti ai servigi domestici, monsignor Inico Caracciolo di Martina, suo maestro di camera, e l'abbate Marotti, professor di rettorica nel collegio Romano, suo segretario eletto. Uscito da porta Angelica s'incamminava verso Toscana. Lo scortavano e guardavano diligentemente soldati repubblicani a cavallo. Accorrevano dai luoghi vicini e dai lontani i popoli riverenti ad inchinare il pontefice captivo: muovevangli a rispetto ed a compassione la dignità, l'età, la malattia, la sventura. Per tal modo vecchio, infermo e prigioniero lasciava Pio Roma, caso non più veduto, dappoichè Borbone ne cacciava Clemente; lasciava Roma, cui aveva abbellito con opere magnifiche, e che doveva fra breve essere spogliata di quanto la durezza dei patti Tolentiniani vi aveva lasciato d'intero e d'intatto; lasciava Roma, già padrona per opinione del mondo, ora serva per opinione, e per bajonette di nuove repubbliche. Singolare città, che, o padrona o serva, o magnifica o saccheggiata, ebbe sempre per destino di provare i due estremi, in cui gli umani casi si concludono. Trovava il pontefice ricovero, contuttochè sempre gelosamente fosse custodito, nel convento degli Agostiniani di Siena, e conforto negli ossequj del gran duca, e nelle lettere consolatorie scrittegli da tutta la cristianità. Si dimostrarono in questo pietoso ufficio singolari i vescovi fuorusciti di Francia, massimamente quelli che dimoravano in Inghilterra. Il tentavano spesso i repubblicani, perchè rinunziasse alla potestà temporale; il che egli constantissimamente sempre ebbe negato. Per questa cagione si ordinava, che più strettamente si custodisse, e se gli ristringeva la facoltà di veder gente: rigore tanto più da condannarsi, quanto più era di nissun frutto, ed aveva per fine una rinunzia per forza. Succedeva poscia un caso spaventoso, che tremava per terremoto il convento, come se Dio volesse provare sino all'ultimo la costanza del desolato pontefice; piombavano a croscio le volte, le mura si sfasciavano, distrutta parte della casa, gli fu forza sloggiare: raccolto prima nel palazzo Venturi, poi nella villa Sergardi, si riduceva finalmente ad abitare nella Certosa di Firenze. Ma la sua presenza sul continente, particolarmente in paese sì vicino a Roma, dava sospetto ai repubblicani. Perlochè ordinavano, che si trasferisse in Cagliari di Sardegna. Rappresentavano le benigne persone che continuavano ad avergli affezione, che nè la sua età, nè le infermità permettevano, che a quel viaggio marittimo si accomodasse. Anche il re di Sardegna che abborriva dal divenir custode di un papa, custodia ed odiosa in se, e pericolosa per l'amicizia che aveva allora con Francia, faceva opera di esimersi. Infine era Pio lasciato stare nella Certosa insinocchè, venuti in Italia tempi pericolosi pei repubblicani, lo trasferivano in Francia.

Roma, priva del pontefice, perdeva anche per sacco, parte violento parte frodolento, le sostanze e gli ornamenti più preziosi del suo stato. Nè in questo gli spogliatori portavano più rispetto alle sacre che alle profane cose, alle private che alle pubbliche, perchè le une e le altre involavano con uguale cupidigia, nè le rapine duravano solamente, come le antiche, tre o quattro giorni, che anzi non si terminarono se non con le stanze dei repubblicani; o per meglio dire neanco allora, perchè venute dopo di loro le truppe regie di Napoli, rinnovarono con brutta imitazione le rapine ed il sacco. Ma per favellar dei repubblicani, che a questo tempo erano signori di Roma, cominciava lo spoglio da alcuni capi sì militari che civili; scendeva per l'esempio nei soldati. Solo incorrotti si mantennero la maggior parte degli ufficiali di mezzo, i quali, come si dirà, a conservazione dell'onore offeso, ne fecero un solenne risentimento. Giravano all'arrivo dei Francesi nello stato Romano ventisette milioni di cedole, peso incomodissimo, e vera peste sì del privato, che del pubblico avere. Fu ridotto al quarto il valore loro, dolorosa, ma salutifera ferita a chi le aveva in sua possessione. Sarebbe stata questa una legge da lodarsi per ogni parte, se subito dopo non fosse stata promulgata, che gli agenti del direttorio avevano speso per le loro provvisioni sì pubbliche che private, quella copia di cedole, che avevano trovato nelle casse papali, e che non era di poco momento. Aggiungesi da alcuni, e se vero fu, come pare, sarebbe il caso molto più enorme, che poco innanzi alla promulgazione della legge, e quando già si era fatto risoluzione di promulgarla, furono stampate a fretta cedole per un valsente di sei milioni, e tostamente, per compre fatte, gittate nel pubblico. Che maneggi fossero questi, il lettore lo penserà da se. Si levava un grido universale contro gli autori di sì vituperoso inganno; ma le armi erano più forti dei gridi, e chi più poteva, tutto ardiva.

Oltre le cedole, le Romane finanze consistevano in una quantità di beni assai considerabile, che appartenevano allo stato, e questi in nome della repubblica Francese occupavano i suoi agenti, non che quelli, che per essere di privato patrimonio di papa Pio, potevano, se non con ragione, almeno con pretesto cadere in potestà di Francia; conciossiachè il direttorio si protestava solamente nemico del papa, non dello stato Romano, al quale anzi professava amicizia. Ponevansi al fisco della repubblica, deliberazione certamente enorme, i beni del collegio della Propaganda, quelli del Sant'Officio e dell'Accademia ecclesiastica, le Paludi Pontine, le tenute della Camera apostolica. Ciò spettava agli stabili; ma i mobili non si risparmiavano: qui fuvvi, non che confiscazione, sacco. Quanto di più nobile e di più prezioso adornava i palazzi del Vaticano, e del Quirinale, fu involato. Fu la cupidigia degli agenti del direttorio veramente barbara. Dal Vaticano, edifizio magnifico per undicimila camere, furono tolti, non solamente tutto il mobile a servigio di persone, ricca e preziosa suppellettile, non solamente gli arredi mirabili di busti, di quadri, di statue, di camei, di marmi, di colonne, ma perfino i serrami ed i chiodi, per forma che l'Instituto nazionale di Roma, che per non so qual derisione fu poco poscia creato, volendo sedervi dentro, ebbe a pensare a far rimettere e porte, e toppe, e chiodi dove un appetito insaziabile gli aveva tolti. Così quella sede nobilissima di Romani pontefici, quella veneranda depositerìa delle opere di Raffaello e di Michelagnolo, quell'ornatissimo ricovero di quanto Grecia ed Italia avevano prodotto di più prezioso, di più gentile, di più grazioso, si appresentava agli occhi dei risguardanti atterriti quale deserto e saccheggiato abituro. E queste cose faceva, non la guerra ma la pace, non la nimicizia ma l'amicizia, non la barbarie ma una vantata civiltà. Seguitava sempre i passi dell'esercito una compagnìa di sensali, che s'intendeva coi rapaci pubblicani, ed era pronta a pagare a loro per vile prezzo le ricchezze acquistate, sicchè le nazioni vinte s'impoverivano, la Francia vincitrice non s'arricchiva, i soldati non avevano le paghe, e ad ogni tratto sdegnosi minacciavano di ammutinarsi. Ma i rapitori chiamavano in aiuto la militar disciplina, come se più i soldati fossero obbligati all'obbedire, che i pubblicani all'onestà. Le masserizie più vili, alle quali i capi non abbadavano, si vendevano agii ebrei non per pattuito, ma per imposto prezzo.

Fu, come il Vaticano, spogliato Montecavallo, fu spogliato Castel Gandolfo, fu spogliata la nobil sede di Terracina. Come gli arnesi più squisiti, così il più misero vasellame di cucina furono involati, nè più risparmiati i sacri che i profani arredi, perchè i vasi sacri della cappella Sistina, e delle altre cappelle pontificie ebbero a pruovare i toccamenti dei profani involatori; gli abiti sacerdotali stessi si diedero alle fiamme per cavarne i metalli preziosi, coi quali erano tessuti. Passava il sacco dai palazzi dello stato e del papa a quei de' suoi parenti, ed anzi a quelli di coloro, o principi Romani o cardinali che si fossero, che più si erano dimostrati costanti nel far argine alle dottrine, che avevano servito di mossa, e tuttavia servivano di fondamento alla rivoluzione. Il palazzo di città, quei del principe, e del cardinale Braschi, quello del cardinale York furono con uguale avarizia depredati. Soprattutto miseramente guasto e devastato fu quello della villa Albani, di cui era signore il cardinale, e principe di questo nome. Quanto in lui si trovava di più prezioso per materia o per lavoro, fu tocco e rapito dalle avare mani dei forestieri: contro Albani si scagliavano particolarmente, perchè l'avevano conosciuto affezionato al pontefice, e mantenitore della opinione, che più nell'Austria che nella Francia, che più nell'imperatore Francesco, che nel direttorio, il papa avesse a fidarsi, come se nelle faccende di uno stato indipendente non avessero ad esser libere le opinioni di chi consiglia, se però non si voglia dire, che si amano meglio i traditori che i fedeli, meglio chi consiglia con perfidia che chi con sincerità. Il giardino stesso dell'Albani fu guasto e deserto; gli aranci, e le altre piante odorifere o rare vendute a vile prezzo. Quest'era più furto che conquista; perchè Albani era persona privata, e non certamente nè papa, nè stato, e con qual diritto avesse ad essere svaligiato, sarebbe bene, che gli addottrinanti di quel secolo ce l'insegnassero. Non posso io già, nè voglio passar sotto silenzio una rapina, che gli avari pubblicani preposti dal direttorio alle finanze d'Italia volevano ad ogni modo fare di un ricchissimo ostensorio, tutto tempestato di diamanti, che di proprietà privata essendo di casa Doria, in Sant'Agnese, chiesa di giuspatronato della medesima famiglia, ogni anno all'adorazione dei fedeli si esponeva; lo stimavano ottantamila scudi. E perchè il generale Saint-Cyr, che aveva l'animo tanto ornato di temperanza, quanto alcuni altri l'avevano contaminato di avarizia, si era opposto, ne ebbe le male parole, e fu anche richiamato dal direttorio. La rapacità che si usava in Roma e nei contorni, si dilatava in tutto lo stato Romano, ed ogni sostanza sì pubblica che privata vi era posta a mercato. Sorse fra gli altri un caso miserando, che facendosi il giorno ventitre febbraio le esequie solenni dell'ucciso Duphot per tutta la città, alcune pattuglie repubblicane, dico alcune, perchè le più si serbarono continenti, rotto ogni freno di onestà e di disciplina, e non considerato, che l'ufficio a loro imposto era di conservar intatti il buon ordine e le sostanze, entrarono nelle chiese, e da loro involarono i vasi e gli arredi destinati alla celebrazione degli uffizi divini. Nè dal sacco andarono esenti le chiese appartenenti alle nazioni Spagnuola ed Austriaca, sebbene l'una alleata, l'altra amica della repubblica vivessero a quel tempo. Perchè poi nissuna spezie di miseria e di compassione mancasse a Roma in questo giorno, vi fu la sera gran luminaria alla cupola e nella piazza del Vaticano; ballossi allegramente al Quirinale. Uditosi nelle province della Romana dizione il sacco delle chiese di Roma, alcune delle provinciali chiese furono ancor esse al modo medesimo poste in preda. Al sacco succedevano le tasse, le quali qualche volta si convertivano in sacco segreto assai più vile del primo. Erano enormi, ma vi era modo di riscatto nascosto, e qualche volta a bella posta si mettevano, perchè i modi del riscatto si usassero. Si tassava la sola famiglia Chigi di più di ducentomila scudi; l'incisore Volpato di più di dodicimila, e fra dodici ore avesse a pagargli. Talvolta si minacciavano le confische per aver denaro; talvolta si addomandava denaro per avere o quadri, o statue, od altre simili gentilezze preziose. Per tal modo Roma, già consumata dal trattato di Tolentino, fu del tutto spogliata per la presenza dei repubblicani.

Non ostante tanti spogli e tante rapine, se ne viveva l'esercito bisognoso di ogni cosa, e mentre le cassette piene di cose preziose, che appartenevano agli agenti del direttorio, s'incamminavano alla volta di Francia, o segretamente, od anche apertamente, perchè a tale di sfrontatezza si era venuto, i soldati non avevano le paghe corse da molti mesi, e laceri, e scalzi, e privi di ogni bene, accusavano l'ingordigia di coloro, che preposti al vitto, ed al vestimento loro, credevano, dover convertire in benefizio proprio le ricchezze dei paesi conquistati con le fatiche, e col sangue loro. Gli ufficiali subalterni, ai quali stava a cuore l'onore di Francia, ed infinitamente cuocevano i raccontati disordini, accordatisi fra di loro ed in gran numero nella chiesa della Rotonda adunatisi, facevano un forte scritto, e l'indirizzarono a Massena, surrogato a Berthier. Addomandavano i soldi corsi dei soldati, chiamavano vendetta contro i depredatori, per l'onore dell'esercito offeso. Lo sdegno loro principalmente mirava contro Massena per le estorsioni da lui fatte, come dicevano, in tutti i paesi Italiani venuti sotto il di lui governo, massimamente nel Padovano. Nè minor avversione mostravano contro Haller, cui principalmente accusavano dell'Italiane espilazioni, e della Francese miseria. Fecero anche risoluzione di arrestarlo, e di porre a sigillo le sue carte. Massena, siccome quegli che non soleva portare pazientemente, non che le accuse, i contrasti, facendosi scudo della disciplina, intimava agli ufficiali adunati che incontanente si segregassero: quando no, gli costringerebbe con la forza. Rispondevano, preferir la morte all'infamia, prender Dio in testimonio della purità delle intenzioni loro. Mandavano nuovi deputati a Massena. Non fecero frutto, perchè il generale più aspramente che prima rimproverandogli dell'aver rotto l'obbedienza, gli minacciava di forza e di castigo. I pubblicani, vedendo quel nembo, o fuggivano, o si nascondevano, e per ogni forma si consigliavano di salvar il bottino. Gli ufficiali, ai quali questa volta si erano accostati alcuni generali dei primi, gelosi parimente dell'onore dell'esercito, di nuovo si adunavano il dì sette marzo nella chiesa medesima della Rotonda, e con più forti parole dimostravano al generale, doversi giustificar l'esercito dei ladronecci commessi, e dar le paghe ai soldati.

Massena intanto era uscito di Roma ordinando, lasciato solamente un presidio di tremila soldati in Castel Sant'Angelo, ed in altri luoghi forti, che tutto l'esercito il seguitasse. Sperava partendo, e distribuendo in diverse stanze i soldati alla campagna, di poter far risolvere l'intelligenza degli uffiziali. Obbedivano, ma ciascun corpo creava uffiziali eletti, con mandato di vegliare, acciocchè gl'interessi loro non ricevessero danno. Gli uffiziali eletti, raccoltisi in Campidoglio, scrivevano lettere a Berthier, pregandolo di ripigliare il freno delle genti, e protestavano a Massena di non volergli più obbedire. Fece ogni opera, ma invano, per riguadagnarsi l'affezione loro. Laonde, vedendosi in voce di tutti, nè più potendo comandare a coloro che il chiamiavano coi più odiosi nomi, pensò al ritirarsi, e se ne andava, lasciato il governo a Saint-Cyr, e a Dallemagne, in Ancona, donde tutto dolente, e sconfortato scriveva a Buonaparte, pregandolo a dargli favore presso il direttorio, affinchè lo mandasse ambasciatore a qualche potenza.

I Romani, osservato lo scompiglio delle genti Francesi, ed essendo sdegnati per tante vessazioni, nè potendo più oltre portare sì dura servitù, perchè ora mai un popolo di quasi due milioni di anime era ridotto alla fame, tentavano un movimento più temerario che considerato. I primi a romoreggiare furono i Transteverini, gridando viva Maria. Avviatisi verso San Pietro in grosso numero, uccidevano una guardia Francese, s'impadronivano di Ponte Sisto, e delle strade, che mettono capo in esso. Al tempo medesimo le campagne tumultuavano; Velletri, Albano, Marino, Cività di Castello si muovevano; la mossa era grave. Già i Francesi erano uccisi alla spicciolata, e già le più grosse squadre si trovavano in pericolo. Ma essendo gente valorosa, usa all'armi ed ai tumulti improvvisi, poste dall'un de' lati le dissensioni loro, muovendogli il pericolo comune, si ordinavano tostamente alle battaglie contro quei popoli spinti piuttosto da furore, che da disegno bene ordinato. Vial muovevasi contro la gente tumultuaria in Roma, Murat contro quella del contado. Fu fatto in queste battaglie molto sangue, perchè i Francesi coi loro squadroni agguerriti combattevano virilmente, ed i Romani, mossi da furore e da zelo religioso, menavano ancor essi la mani aspramente. Infine prevalendo la disciplina e l'opera delle artiglierìe bene governate dai repubblicani, di cui mancavano i Romani, acquistarono i primi con molta preponderanza il vantaggio. Dispergevansi gli avversarj, e si nascondevano chi per le case, e chi per le campagne. Fecero i contadini ritiratisi ai monti una testa grossa; ma Murat, penetrando coi soldati armati alla leggiera in quei riposti ricoveri, gli sperperava. Di cencinquanta prigioni, parte furono mandati al remo, parte giustiziati con le palle soldatesche. Roma piena di terrore, d'orrore e di sangue, lagrimosamente si querelava. Si toglievano con diligente cura le armi ai popoli. Accagionaronsi, come fautori di questo moto, o fosse verità o pretesto, i cardinali, ed altri prelati sospetti d'affezione verso il papa. S'intimò ai primi, o rinunziassero alla dignità cardinalizia, o andassero carcerati. Rinunziarono Antici ed Altieri; ricusarono Antonelli, Giuseppe Doria, Borgia, Roverella, la Somaglia, Carandini, Archetti, Mauri, Mattei; fu dato bando ai due ultimi dalle terre della repubblica Romana. Gli altri, prima posti in carcere, poi condotti a Civita vecchia, ed imbarcati su navi sdrucite, furono mandati a cercar ricovero in paesi stranieri. Il cardinal Rezzonico, come infermo di mal di morte, fu lasciato stare: Albani, che più d'ogni altro desideravano di avere in poter loro, fu fatto correre dai cavalli leggieri, che il seguitavano, ma giunse a salvamento nel regno. In questo modo quanto aveva la chiesa cattolica di venerando per età, per dignità, per dottrina, era disperso e calpestato. Non solo enormi, ma pazze cose erano queste, perchè il torre rispetto a uomini rispettati portava con se, quando che fosse, il vilipendio di coloro che non gli rispettavano, perchè la licenza è male contagioso, e si appicca facilmente dagli uni agli altri.

Gli accidenti Romani fin qui narrati sapevano di tumulto e di confusione, siccome quelli, che sulle prime succedevano alla militare conquista. Restava, che la oppressione e la servitù si ordinassero sotto ingannevole forma di governo regolare, come se fosse intento dei conquistatori di fare scherno alla libertà, e di metterla in odio a tutti coloro che l'amavano. A questo fine aveva il direttorio mandato a Roma quattro suoi commissarj, che furono Faipoult, Florent, Daunou, e Monge, uomini, che facevano professione di amare la libertà. Deliberarono fra di loro di dar una constituzione alla repubblica Romana. Pareva un gran caso quel delle leggi, che avessero da uscire da una Francia per una Roma per mezzo di uomini rinomati e mandati a bella posta da Parigi, massime da Daunou e da Monge, ambidue venerandi per ingegno, per dottrina e per virtù. Ed ecco pubblicarsi un corpo di constituzione, il quale altro non era, che sotto nomi Romani la constituzione Francese; imperciocchè sotto nome di consolato, di senato, di tribunato, di tribunale di alta pretura a di alta questura, vi era un direttorio, un consiglio degli anziani, un consiglio dei giovani, un tribunal di cassazione, e commissarj dei conti. A questi si aggiungevano gli altri fastidj servili delle amministrazioni centrali per ciascuno spartimento della repubblica, e di una amministrazione centrale per ogni cantone. Si noverarono otto spartimenti, del Tevere, del Cimino, del Circeo, del Clitunno, del Metauro, del Musone, del Trasimeno, e del Tronto. Avevano per capitali Roma, Anagni, Viterbo, Spoleto, Macerata, Sinigaglia, Perugia, e Fermo. Erano questi i magistrati; le leggi, come quella di Francia. Nel che, oltre il copiar servile, gli uomini prudenti osserveranno, quanto inetto fosse il dare nomi medesimi a cose diverse, e quanto dannoso alla libertà il servirsi di nomi antichi, che suonavano potenza e libertà, in uno stato di oppressione, e di servitù. Ne fu tolta autorità a parole venerate. Dalle leggi passava l'imitazione insino agli abiti; perchè i magistrati furono ordinati vestirsi alla francese, mutato solo pei consoli, senatori, e tribuni il color rosso in nero; la forma simile a quella dei quinqueviri, degli anziani, dei cinquecento di Francia.

Si crearono consoli per la prima volta Liborio Angelucci da Roma, Ennio Quirino Visconte da Roma, Giacomo Dematteis da Frosinone, Panazzi d'Ancona, Reppi d'Ancona. Ma variarono molto nella breve vita della repubblica Romana i consoli, perchè si scambiavano ad un primo capriccio del generale, o del commissario di Francia. Fu instituito segretario del consolato un Bassal, il quale già mandato da Buonaparte a fomentare la rivoluzione di Venezia, se n'era ora venuto a fomentar quella di Roma. Chiamaronsi ministri un Torriglioni, un Camillo Corona, un Mariotti, un Bremond Francese.

Come se gli spogli, le tasse violente, i comandamenti non solo imperiosi, ma ancora capricciosi abbastanza non avvertissero i Romani della servitù, inserirono i quattro commissarj nella constituzione Romana questo capitolo, che fu il trecentesimo sessagesimonono, che si avesse a fare, al più presto, un trattato d'alleanza tra la repubblica Romana e la Francese; che insino a che questo trattato fosse ratificato, tutte le leggi fatte dai due corpi legislativi Romani non potessero essere nè pubblicate, nè eseguite senza l'approvazione del generale Francese che stava al governo di Roma; che il generale medesimo potesse di sua propria autorità fare tutte quelle leggi, che a lui paressero necessarie, conformandosi non ostante alle instruzioni del direttorio.

La constituzione Romana aveva posto a difficile partito coloro, che occupavano le cariche ancora sussistenti del governo precedente, e generalmente tutti coloro, che, sentendo tuttavìa a norma delle antiche massime, erano pure obbligati, per le necessità loro, a servire allo stato nuovo. Era nella constituzione un capitolo, che ordinava di giurar odio alla monarchìa, fedeltà ed attaccamento alla repubblica. Papa Pio aveva udito dal suo secesso della Certosa di Firenze, che il governo della repubblica esigeva questo giuramento da tutto il clero, e dai parochi di Roma. Volendo per regola delle coscienze definire questa materia, e parendogli, che non si convenisse ai ministri della religione il giurar odio ad alcuna forma di governo, scrisse un breve a monsignor Passeri, vice gerente di Roma, ammonendolo non esser lecito prestar puramente, e semplicemente il giuramento suddetto, ed ordinandogli di notificare agi'intimati questa sua decisione pontificia e di avvertire, che l'eseguissero. Ma siccome, continuava a discorrere, interessava anche moltissimo, che la repubblica fosse persuasa della rettitudine delle massime del clero di Roma relativamente al repubblicano governo conformi in tutto agl'insegnamenti della cattolica religione, così statuiva, che ciascuno potesse con sicura coscienza giurar fedeltà e soggezione alla repubblica, che attualmente comandava, essendo stato unanime insegnamento de' Santi Padri, e della chiesa, che sia dovuta fedeltà e subordinazione a chi, secondo le varietà dei tempi, ha in mano le redini del governo, o sia a chi attualmente comanda. Definì inoltre, che ciascuno potesse giurare di non prender parte in qualsivoglia congiura, trama, o sedizione pel ristabilimento della monarchìa, e contro la repubblica; e potesse altresì giurare odio all'anarchìa, essendo questa uno stato di disordine. Finalmente deliberò, che si potesse giurare fedeltà ed attaccamento alla constituzione, salva peraltro la cattolica religione. Pensava papa Pio, che i magistrati della repubblica non avrebbero rigettato questa formola, giacchè era in tutto conforme, come si esprimeva, all'atto del popolo sovrano dei quindici febbrajo del 1798, con cui il popolo riunito innanzi a Dio, ed al mondo tutto, con un sol animo, ed una sola voce aveva dichiarato, voler salva la religione, quale di presente venerava ed osservava, cioè la religione cattolica. Ma partito da Roma monsignor Passeri, e succedutogli nella carica di vice gerente l'arcivescovo di Nassanzio, quest'ultimo di propria autorità, e contro le intenzioni del papa, diede una seconda instruzione, per cui i professori del collegio Romano e della sapienza si credettero autorizzati a prestare, come fecero, il giuramento tale qual era prescrito dalla constituzione, solo facendo verbalmente qualche protestazione. Udì gravemente il papa quest'accidente, e rescrivendo all'arcivescovo, lo ammonì di nuovo delle sue intenzioni, gli comandò, richiamasse la seconda instruzione, e si lamentò, che per lei, e per l'esempio dei professori soprannominati sembrasse, che Roma già maestra di verità, si fosse fatta maestra dell'errore. Savie, prudenti, e conducevoli alla quiete dello stato erano queste sentenze di Pio. Da loro si può dedurre un utile ammaestramento, e quest'è, che la religione è, e debb'essere tutta spirituale, e che non le è lecito l'ingerirsi nella forma del governo politico delle nazioni. Intanto questa faccenda dei giuramenti, per l'ordinario tanto gelosa, si rammorbidì facilmente sì per la prudenza del papa, come per la sopportazione dei magistrati della repubblica, nè produsse, come si temeva, o movimenti, o persecuzioni d'importanza.

Creata la repubblica Romana, si spegneva l'Anconitana, la quale non era stata mai altro, che un appicco contro il papa, l suoi territorj, salvo San Leo, s'incorporarono alla Romana.

Il dì venti marzo si celebrava nella vastissima piazza del Vaticano, la confederazione della repubblica Romana a guisa di quella, che fu da noi descritta della Cisalpina. Furonvi archi trionfali, sinfonìe, illuminazioni, canti, balli; magnifica festa, ma con molto schiamazzo, e molte satire alla Romanesca. Saliva con grande apparato sul Campidoglio Dallemagne, chiamava i senatori, apriva il senato, spiegava al vento la Romana bandiera. Poi instituiva il tribunato, quindi i consoli sulla piazza del Vaticano; bandiva la constituzione, dichiarava Roma libera; i consoli dall'alto della scalea giuravano. Si coniava poscia, pure Romanescamente al solito, la medaglia adulatoria, bella assai, e con questi motti: Berthier restitutor urbis, e Gallici salus generis humani.

Fine del Tomo III.

INDICE

DEL PRESENTE VOLUME

1797

Nuovi pensieri di Buonaparte pag. 6

Si accosta all'Alemagna 8

Thugut, ministro Austriaco 10

Parole di Buonaparte ai soldati 11

Disposizioni dell'Austria 12

Debolezza morale del suo esercito 13

Carlo arciduca viene in Italia 13

Disposizione dell'esercito Austriaco 14

Differenza tra Carlo e Buonaparte 15

Lusignano si arrende prigione ai Francesi 17

Francesi passano la Piave 17

E il Tagliamento 17

Schulz generale prigioniero 18

Joubert in Tirolo 19

Rompe Laudon 20

Kerpen si ritira a Sterzing 20

Joubert prende Brissio 21

Tirolesi all'armi 21

Progressi di Laudon 22

Joubert si ritira a Linzo 23

Laudon prende Trento e Roveredo 23

Ocskay custodisce male la Ponteba 24

È battuto da Massena 24

Vittoria di Tarvisio e di Raibel 26

L'arciduca pensa a difendersi 26

Differenza nel combattere de' Francesi e Tedeschi 28

Buonaparte a Clagenfurt 29

Scrive all'arciduca 30

Risposta che ne riceve 30

Trattato di Leoben 31

Clarke a che avesse esortato l'imperatore 32

Tradimento che si ordisce contro Venezia 33

Baraguay d'Hilliers s'impadronisce di Bergamo 34

Podestà Ottolini 34

Congregazione segreta in Milano 34

Landrieux 34

Segretario Stefani 34

Avvocato Serpieri 34

Membri della congregazione segreta 35

Battaglia provveditore 35

Rivoluzione in Bergamo 36

Lefevre comandante 37

Scaccia Ottolini da Bergamo 38

Rivoluzione di Brescia 40

Vincenti 40

Incertezze del Battaglia 41

Scrive a Buonaparte 41

Antonio Niccolini conduce gente contro Brescia 42

Mocenigo podestà 42

Minaccie di Lecchi 43

Battaglia cede 43

Mocenigo fugge 43

Pisani stato molto tempo nei piombi 43

Querele del Senato 44

Pesaro e Corner mandati a Buonaparte 44

Risposta di questi 45

Minaccia di Landrieux 45

Risposta di uno del direttorio al nobile Querini 46

Lusinghe di Kilmaine 48

Rivoluzione di Crema 49

L'Hermite a Crema 50

Gambazocca, Asperti, Locatelli, Romini 50

Differenza tra Brescia e Bergamo 51

Insidie contro Verona 52

Il capitano Pico 52

Schiavoni mandati a Verona 53

Giovanelli ed Erizzo provveditori 53

Conte Francesco degli Emili 53

Conte Verità e conte Valenza 54

Due Castelli come taglieggiato 54

Fatto di Salò 55

Cicogna provveditore 55

I popoli Veneti si armano 56

Falso manifesto attribuito al Battaglia 57

Salvadori n'è l'autore 57

Termometro politico, giornale 58

Minaccie di Lahoz 60

Dimostrazioni ostili di Buonaparte contro Venezia 62

Junot mandato a Venezia 62

Lettera di Buonaparte al doge 63

Risposta del doge 65

Altre insolenti calunnie di Buonaparte 65

Sue proposte alla repubblica fatte da Lallemand 67

Risposta del senato 69

Francesco Donato e Leonardo Giustiniani mandati a Buonaparte 70

Avvisi dell'ambasciatore Grimani 70

Altri del Querini 71

Vissovich e sue fraudi 71

Ingiustizia del direttorio contro Querini 73

Fermenti nel Veronese 74

Capitano Carrere 75

Prete Malenza 75

Generale Balland 76

Sollevazione di Verona 76

Giovanelli provveditore 80

Capitano Caldogno e conte Nogarola 81

Predica di Luigi Colloredo cappuccino 84

Laugier vuole entrare con legno armato nel porto di Venezia 90

Domenico Pizzamano 90

Il legno Francese assaltato dagli Schiavoni 91

Trattative per Verona 92

Verona si arrende 95

Il cappuccino Colloredo decapitato 96

Rapine dei Francesi in Verona 96

Bouquets commissario di guerra 97

Verona taglieggiata 97

Lahoz fa rivoltar Vicenza 97

Furibonda lettera di Buonaparte 99

I tre inquisitori e il comandante del Lido carcerati 100

Donato e Giustiniani a Buonaparte 100

Risposta che loro dà 101

Intima guerra a Venezia 103

Apprestamenti di Venezia 105

Adunanza in casa del doge Manin 106

Parole del doge 106

Il cavalier Dolfin 106

Francesco Pesaro 107

Zaccaria Vallaresso 107

Giuseppe Priuli e Niccolò Erizzo 107

Parole del procurator Pesaro 108

Il doge in gran consiglio 109

Pietro Antonio Bembo 112

Fermezza di Angelo Giustiniani 113

Commozioni in Venezia 115

Giovan Andrea Spada 115

Tommaso Pietro Zorzi 116

Gallino, Giuliani, Sordina, Dandolo 116

Doge Manin 116

Pietro Donato 116

Francesco Battaglia 116

Tommaso Condulmer 116

Priuli, Erizzo 117

Villetard mette astio in Venezia 117

Perfidia di Buonaparte 121

Capitoli di Venezia 122

Terrore nel gran consiglio 125

L'aristocrazìa abolita in Venezia 126

Dolore del popolo 128

Sorte di un pizzicagnolo 128

I Francesi in Venezia 129

Trattato di pace tra la repub Francese e Veneziana 130

Buonaparte scrive a Faipoult a Genova 134

Rusca, Serrurier, Brueys si accostano a Genova 135

Genova in pericolo 135

Agostino Spinola bandito 135

Speziale Morando 136

Vitaliani da Napoli 136

Saliceti a Genova 136

Filippo Doria 137

Tumulto in Genova 137

Le prigioni dischiuse 140

Sollevazione del popolo 142

Caso di uno schiavo turco 143

Giacomo Brignole doge 144

Intimazioni di Buonaparte a Genova 145

Ridomanda la mutazione del governo 149

Rusca verso Genova 150

Serrurier 150

Brueys dinanzi al porto 151

Cambiaso, Carbonara e Serra a Buonaparte 152

Pensieri di Buonaparte 153

Capitoli tra Francia e Genova 153

Capi del nuovo governo 155

Vitaliani predica la libertà 156

I nobili si nascondono 156

Giancarlo e Gerolamo Serra 157

Libro d'oro abbruciato 157

Statua di Andrea Doria 158

Condizione di Genova 159

Feudi imperiali chiamati Monti Liguri 160

Prete Cuneo 161

Persone chiamate a comporre la Costituzione 162

Solari, vescovo di Noli 163

Riforme religiose in Genova 163

Avvocato Boccardi mandato a Parigi 164

Rivarola e Spinola richiamati da Parigi e da Londra 164

Decreto estorsivo come sentito 164

Rapine de' Barbareschi contro Genova 166

Casabianca e Duphot generali Francesi in Genova 166

Sette in Genova 167

Nobili arrestati 168

Popolazioni di Bisagno si levano 168

Duphot va ad incontrarli 169

Frate Pezzuolo e Marcantonio da Sori 169

Sollevazione in Polcevera 169

Il governo tratta coi sollevati 170

I sollevati sono battuti da Duphot e Seras 171

Faipoult accusa Serra a Buonaparte e Serra accusa Faipoult e Duphot 172

Generale Lannes a Genova 173

Nuova costituzione di Genova 173

Beniamino Constant 174

Sottin sostituito a Faipoult 175

Faccende di Piemonte 176

Insinuazioni del conte Balbo a Parigi 177

Lettere di Buonaparte sugli Italiani 184

Trattato tra Francia e Sardegna e opposizioni che incontra 186

Talleyrand 189

Conte di Castellengo 192

Donino e Pasio arrestati 193

Moti a Novara e a Fossano 193

Boyer e Berteux arrestati 194

Altri moti in Racconigi, Carignano, Chiari e Moretta 194

E in Asti 194

Conte Avogadro a Biella 194

Moncalieri si solleva 196

Carlo Tenivelli, storico, suoi casi 196

Condannato a morte 199

Provvisioni sul caro dei viveri 201

Diritti feudali soppressi 203

I sollevati rimessi in obbedienza 203

Lettere di Buonaparte 204

Ranza arrestato 204

Supplizj in Piemonte 205

Goveano fatto morire contro la fede 206

Beyer e Berteux mandati al supplizio 207

Pensieri di Buonaparte 209

Moti tra i Cisalpini, Termometro politico 211

Società di pubblica istruzione 212

Discorsi che vi si fanno 212

Condizione degli stati d'Italia 215

Giuseppe Buonaparte e suo detto sui Romani 215

Tumulti in Valtellina 216

Buonaparte dà una costituzione alla Cisalpina 217

Padre Gregorio Fontana 218

Serbelloni, Moscati, Paradisi e Alessandri preposti al governo della Cisalpina 219

Altre persone e corpi governativi 219

Festa nel Lazzaretto 220

Parole di Serbelloni 222

Giuramento dei popoli 223

Decreto del direttorio Cisalpino 224

Società di pubblica instruzione fatta chiudere 225

Bologna, Imola, Ferrara si uniscono alla Cisalpina 225

Altre aggregazioni 226

Cardinal Chiaramonti 227

Predica in favore della democrazìa 227

Visconti ambasciatore della Cisalpina a Parigi 231

La Cisalpina riconosciuta da varj stati 233

Marescalchi mandato a Vienna 235

Consigli della Cisalpina da chi composti 236

Francesco Gianni 236

Lettera di Buonaparte alla Cisalpina 237

Insidie dei re contro la Francia 239

Pichegru 239

Barthelemì, Carnot 240

Barras 240

Il diciotto fruttidoro, i congiurati o fugati, o mandati in esilio 242

L'Austria tenta Buonaparte 242

Buonaparte inganna i principi 245

Disegni di Barras 245

Conte d'Entraigues arrestato 246

Fugge da Milano 247

Espressione di Buonaparte che discuopre la sua ambizione 248

Trattato di Campoformio 249

Impertinenti detti di Talleyrand 251

Condizione di Venezia 254

Giuliani e Dandolo 254

Vidiman e Jablovitz 254

Victor generale 256

Savonarola 256

Padovani negano l'acqua dolce a Venezia 257

I Tedeschi s'impadroniscono dell'Istria 257

Moti in Dalmazia 258

Sollevazione di Traù e di Sebenico 259

Querini 259

Zara in mano degli Austriaci 260

Affezione de' soldati al vessillo di san Marco 260

Tutta la Dalmazia in potere de' Tedeschi 261

Querele dei municipali 261

I Francesi pensano ad aversi le isole Joniche 263

Brueys 263

Vidiman governatore di Corfù 263

Baraguey d'Hilliers 265

Generale Gentili 266

Bourdè, capitano di nave 266

Arnauld 266

Francesi sbarcano a Corfù 267

Rapine 268

Le altre isole in poter dei Francesi 268

Schifose menzogne di Buonaparte 269

Teotochi e Scordilli capi di parte 270

Rapporto di Arnauld 271

Effetti dell'arrivo dei Francesi in Corfù 271

Sordina, arriva a Corfù 272

Baraguey d'Hilliers domina in Venezia 272

Venezia spogliata dai Francesi 273

Cavalli di Lisippo 275

Leoni del Pireo 275

Tesoro del duca di Modena 276

I Romani in Grecia del Barzoni 277

Barzoni vuole uccidere Villetard 278

Generosità di Villetard 279

Festa funerea a Venezia 279

La stessa festa proibita da Bernadotte in Udine e perchè 282

Crudeltà di Guyeux 282

Giuseppina Buonaparte a Venezia 283

Pratiche dei Veneziani per unirsi colla terraferma 284

Berthier rompe il congresso 285

Venezia vuole unirsi alla Cisalpina 285

Detti obliqui di Buonaparte 286

Tiene Vicentino 286

De Angeli e Buonaparte 286

La vendita di Venezia fatta manifesta 287

Generosa risoluzione di Vidiman 290

Lettera di Villetard a Buonaparte 292

Risposta di Buonaparte 294

Altra lettera di Villetard 296

Deliberazione dei Veneziani 298

Serrurier e suoi atti barbari 298

Consegna Venezia agli Austriaci 300

Spogliazioni di Roma 300

Cacault, ministro del direttorio in Roma 301

Il papa vuol condurre a' suoi soldi il generale Provera 302

Teofilantropia cosa fosse 303

Giuseppe Buonaparte ministro a Roma 303

Duphot e Sherlock 304

Tumulto in Roma 306

Duphot ucciso 307

Giuseppe Buonaparte parte da Roma 310

Il direttorio dichiara la guerra al papa 311

1798

Berthier marcia contro Roma 311

Suo manifesto 312

Umori in Roma 314

Duca Braschi 316

Cardinale Lorenzana 318

Principe Belmonte Pignatelli 319

Cavaliere Azara 319

I repubblicani entrano in Roma 319

Albero della libertà in Campo Vaccino 320

Atto del popolo Romano che si dichiara libero 320

Condizione del pontefice 322

È menato prigioniero 324

Terremoto in Siena 325

Rapine in Roma e nei contorni 326

Villa Albani saccheggiata 329

Ostensorio ricchissimo 330

Esequie a Duphot 331

Miserie dell'esercito 332

Estorsioni di Massena e di Haller accusate 332

Ripiego di Massena 333

Gli ufficiali gli negano obbedienza 333

Insurrezione dei Romani 334

Cardinali perseguitati 335

Commissarj Francesi a Roma 336

Costituzione Romana 336

Breve lodevolissimo del papa 338

L'arcivescovo di Nassanzio cambia di sua autorità il breve 340

Festa della confederazione in Roma 341

Fine dell'Indice

PUBBLICATO IL 16 AGOSTO 1833