STORIA D'ITALIA
DAL 1789 AL 1814

SCRITTA DA CARLO BOTTA

Tomo VI

CAPOLAGO presso Mendrisio Tipografia Elvetica

MDCCCXXXIII

INDICE

STORIA D'ITALIA

LIBRO VIGESIMOTERZO

SOMMARIO

Guerra di Napoleone col re di Prussia; gran ruina di quest'ultimo. Adulazioni degl'Italiani verso Napoleone. Trattato di Fontainebleau, che toglie il Portogallo ai Braganzesi. Toscana tolta alla stirpe di Spagna, ed unita alla Francia sotto l'autorità di Elisa, sorella di Napoleone. Operazioni della giunta creata in Toscana. Descrizione delle miserie d'Italia. Opere magnifiche di Napoleone. Toglie la Spagna ai Borboni. Giovacchino re di Napoli, Giuseppe di Spagna. Giovacchino va ad assumere il regno, feste che gli si fanno, principj, e natura del suo governo. Setta dei Carbonari, come, quando, dove e perchè nata, e quali erano i suoi riti. Napoleone si volta contro il papa, unisce le Marche al regno Italico, occupa Roma, fa oltraggio al papa: protestazioni fortissime di Pio settimo. Dolorose vicende nelle Marche per motivo dei giuramenti richiesti ai magistrati ed agli ecclesiastici.

Il re Federigo sentiva i frutti delle gratitudini Napoleoniche. Vinta l'Austria per avere la Prussia imprudentemente tenuta la neutralità, insorgeva Napoleone a vincere la Prussia, dopo di aver prostrato l'Austria. Usò le insidie, le insolenze e le usurpazioni per farla vile agli occhi del mondo; poi assalti più aperti per farla risentire, non dubitando di vincerla. Invase l'Hannover, ed operò ch'ella l'accettasse in proprietà, dono funesto per la riputazione, funesto per gli effetti. Offese la Germania nel caso del duca d'Anghienna; non risentissi la Prussia. Portò pazientemente il re l'incoronazione Italica, l'unione di Genova, il fatto di Lucca, le non ottenute promesse al re di Sardegna: portò pazientemente la carcerazione dei legati d'Inghilterra sui territorj Germanici, le taglie poste sulle città anseatiche, le violazioni delle terre d'Anspach e di Bareit. Di mezza Germania si faceva signore Napoleone per la confederazione del Reno: consentiva il re Federigo, ed accettava l'offerta di una confederazione a suo favore della settentrionale Germania; ma Napoleone confortava segretamente i principi, acciò non vi consentissero. Nè più modo alcuno serbando, toglieva Fulda al principe d'Orangia, congiunto di parentela col re, toglieva al re la fortezza di Vesel, e le abbazìe di Essen, Verden ed Elten. Prometteva alla Prussia la Svedese Pomerania, ed al tempo stesso con solenne trattato si legava colla Russia per impedire, che la Prussia della Pomerania s'impadronisse: il dato ed accettato Hannover offeriva al re d'Inghilterra, se pace con lui volesse. Nuovi soldati Napoleoniani marciavano in Germania. Conobbe il re con quale amico avesse a fare, e corse all'armi: corse altresì al ferro Napoleone. Bene il poteva usare, posciachè il re veniva armato contro di lui; ma gl'improperj che fece dire e stampare contro la regina, furono tali, che ogni uomo, che del tutto non sia lontano dalla civiltà, non potrà non sentirne sdegno e fastidio. Io vidi a questo tempo immagini di tal natura nei luoghi pubblici in mostra, che mi pareva aggirarmi, non nell'incivilito Parigi, ma sì piuttosto in una città rozza e selvaggia. Luisa era donna, regina, ed amatrice della sua patria, ed all'armi gli amatori della sua patria incitava: per questo diventò bersaglio agli oltraggi di un barbaro. Queste gravi parole contro Napoleone appruoveranno coloro, che con sì devoto e patrio affetto hanno alzato gli altari alla Domremese vergine; di quelli, che fanno scherno dei difensori delle loro patrie, non è da prender pensiero.

Vinse la fortuna di Napoleone. Fu la Prussia prostrata a Iena, fu prostrata a Maddeburgo ed a Prenslavia. Berlino, capitale dei regno, le fortezze tutte, dominando uno scompiglio ed un terrore estremo, vennero in potere del vincitore. Questo fine ebbero le armi animosamente mosse dal re Federigo per stimolo proprio, e per quelli d'Alessandro di Russia. Arrivava Alessandro imperatore con le sue schiere in ajuto del vinto amico; ma Napoleone sopravvanzava d'ardire, di forza e di arte. Fu asprissima la battaglia di Eylau, e d'esito incerto. Incrudelita la stagione, ritiraronsi i Francesi di qua della Vistola, i Russi di là della Pregel. Intiepiditosi il tempo al nuovo anno, s'avventavano gli uni contro gli altri Francesi e Russi: vari furono i combattimenti, sanguinosi tutti; infine nei campi di Fridlandia conflissero con ordinanza piena i due nemici. Quivi cadde la fortuna Russa. Napoleone vincitore ai confini di Alessandro sovrastava: addomandava Alessandro i patti. Narrano che i due imperatori nelle conferenze più segrete tra di loro si spartissero il mondo: avessesi Napoleone quella parte che è compresa da un lato tra una linea tirata dalla foce della Vistola sino all'isola di Corfù, dall'altro tra le spiagge del Baltico, dell'Oceano, del Mediterraneo e dell'Adriatico: avessesi Alessandro il rimanente. Quale di questo sia la verità, convennero sulle sponde del Niemen in trattato aperto: riconobbe Alessandro il nome e la autorità regia in Giuseppe Napoleone, come re di Napoli, ed in Luigi Napoleone, come re d'Olanda; consentì, che un regno di Vestfalia si creasse, ed in Girolamo Napoleone, fratello minore di Napoleone, s'investisse, accordò che un ducato di Varsavia si creasse, e che duca ne fosse Federigo Augusto di Sassonia: riconobbe la Renana confederazione: stipulò per articolo segreto, che le bocche di Cattaro si sgombrassero dai Russi, e si consegnassero in potestà di Napoleone. Convenne in fine, che le sette isole Ioniche cedessero in possessione del medesimo, stipulazione enorme, perchè la independenza loro era stata accordata tra la Russia e la Porta Ottomana, nè poteva l'opera di due parti essere disfatta da una sola.

I fatti di guerra di Napoleone superavano per grandezza quanti dalle lingue o dalle penne degli uomini siano stati mandati alla memoria dei posteri. L'avere vinto con sì grossa e presta guerra l'Austria, poi poco dopo con sì grossa e presta guerra la Prussia, finalmente con grossa e non lunga guerra la Russia, pareva piuttosto accidente favoloso che vero. Volgevano gli uomini maravigliati nelle menti loro la potenza ed il valore degli Austriaci, la gloria ancor fresca di Federigo, le imprese mirabili di Suwarow con la sparsa fama dell'invincibilità dei Russi, nè potevano restare capaci, come una sola nazione ed un solo capitano avessero potuto soldati tanto valorosi, capitani tanto rinomati quasi prima vincere che vedere. Temeva ed adorava il mondo Napoleone, i principi i primi, anche i più potenti, i popoli i secondi. Non v'era più luogo all'adulazione; perchè le lodi, per smisurate che fossero, parevano minori pel vero, nè i poeti più famosi, quantunque con ogni nervo vi si sforzassero, potevano arrivare a tanta altezza. I poeti il chiamavano Giove, i preti braccio di Dio, i principi fratello e signore.

Un mezzo solo gli restava per accrescere la gloria acquistata; quest'era di usarne moderatamente; che se avesse frenato le lingue dell'età adulatrice, e precipitantesi a servitù, bene avrebbe meritato che le adulazioni lodi si chiamassero; ma amò meglio dilettarsi pruovando quant'oltre potesse trascorrere la viltà degli uomini, che fare generoso se ed altrui. Lascio le adulazioni Francesi, Austriache, Prussiane, Russe, solo parlerò dell'Italiane. A questo fine dell'adulare erano stati chiamati a Parigi i deputati del regno Italico. Gamboni, patriarca di Venezia, favellava, introdotto all'udienza nell'imperial sede di San Clodoaldo, con servilissimo discorso al signore. Venire gl'Italiani a far tributo ai suoi piedi dell'ammirazione, dei desiderj, dell'amore, della fedeltà loro; godere per essere i primi a potere questo debito adempire verso l'eroe, verso il principe potente ed amatissimo, nissuno più degl'Italiani amarlo, nissuno con pari gratitudine venerarlo: avere lui redento la Francia, ma creato l'Italia: avere gl'Italiani pregato il cielo per la salute sua nei pericoli, ringraziarlo ora per le vittorie, ringraziarlo per la pace: benignamente udisse le supplichevoli preghiere dei sottomessi ed amorosi Italiani: gisse, venisse, vedesse quell'Italia da tanto bassamento alzata, da tanta abiezione ricompra, a tanto fortunate sorti avviata. Questo desiderare, questo instantemente supplicare, questo sperare dalla paterna benevolenza sua, questo essere la più compita, la più suprema felicità loro.

Rispose, gradire i sentimenti de' suoi popoli d'Italia: con piacere avergli veduti combattere valorosamente sulla scena del mondo: sperare, che sì fausto principio avrebbe consenziente fine. In questo luogo egli, che aveva contaminato con ischerni una valorosa donna, solo perchè contro di lui la sua patria aveva amato e difeso, venne in sul dire, che le donne Italiane dovevano allontanare da se stesse gli oziosi giovani, nè permettere che più languissero negl'interni recessi, o comparissero al cospetto loro, se non quando portassero cicatrici onorevoli. Soggiunse poscia, vedrebbe Venezia volentieri, sapere quanto i Veneziani l'amassero. Sorse in corte un gran parlar di lode pel discorso di Napoleone: tutti il predicarono per molto bello. Quella parte massimamente che aveva toccato dell'amor dei Veneziani verso di lui, era molto commendata.

Accarezzato dai monaci del Cenisio; festeggiato dai Torinesi testè liberati da Menou, al quale era succeduto, come governator generale, il buon principe Camillo Borghese, arrivava Napoleone trionfante nella reale ed accetta Milano. Le feste furono molte; i soldati armeggiavano, i poeti cantavano, i magistrati lusingavano, i preti benedicevano. Trattò Melzi molto rimessamente, perchè non ne aveva più bisogno; perchè poi fosse meglio rintanato, il creò duca di Lodi. Dolsimi in queste storie di molte funeste cose, e di molte ancora dorrommi, ma di niuna più mi doglio o dorrommi, che dello aver veduto contaminato dai soffi Napoleonici un Melzi.

Ed ecco che Napoleone arriva a Venezia. Luminaria per tutta la città; di notte il canal grande chiaro come di giorno; la piazza di San Marco più chiara del canale; regata, balli, teatri, e quel che è peggio, plausi di voci e di mani. Si mostrò lieto, e contento in volto. Ciò non ostante aveva paura di essere ucciso; Duroc, gran maestro del palazzo, fu più diligente del solito nel visitar cantine e cisterne. Alcuni Veneziani si aggirarono intorno al signore con fronte lieta e serena. L'età portò, che brutto e splendido servire più piacesse, che vita onorata ed oscura.

Tornato a Milano udiva i collegi, ed ai collegi parlava. Accusò gli antenati, parlò di patria degenere dall'antica; affermò molto aver fatto per gl'Italiani, molto più voler fare; ammonigli, stessero congiunti con Francia; ricordò loro, che da quella ferrea corona si promettessero l'independenza. Corsa trionfalmente la Lombardìa, nuovi Italici pensieri gli venivano in mente, e gli mandava ad esecuzione: sotto il suo dominio da ruina nasceva ruina. Aveva, a cagione che il principe reggente di Portogallo si era ritirato dal voler fare contro gl'Inglesi tutto quello ch'egli avrebbe voluto, per un trattato sottoscritto a Fontainebleau con un ministro di Spagna, tolto il Portogallo a' suoi antichi signori, che vi erano ancora presenti, e dato in potestà di nuovi. Per esso si accordarono la Francia e la Spagna, che la provincia del Portogallo tra Mino e Duero, colla città di Porto, cedessero in proprietà e sovranità del re d'Etruria, ed egli assumesse il nome di re della Lusitania settentrionale; che l'Algarve si desse al principe della Pace con titolo di principe dell'Algarve, che il Beira ed il Tramonti, e l'Estremadura di Portogallo si serbassero sequestrate sino alla pace; che il re d'Etruria cedesse il suo reame all'imperator dei Francesi; che un esercito Napoleonico entrasse in Ispagna, e congiuntosi con lo Spagnuolo occupasse il Portogallo. Covava fraude contro Portogallo, fraude contro Spagna per l'introduzione dei Napoleoniani. I Braganzesi, avuto notizia del fatto, e non aspettata la tempesta, s'imbarcarono pel Brasile sopra navi proprie ed Inglesi. Napoleone levò un gran romore della partenza, ed imputò loro a delitto l'essere fuggiti, come diceva, con Inglesi, come se in servitù di lui fossero stati obbligati a restare.

Il dì ventidue novembre i ministri di Spagna e di Francia, nelle stanze di Maria Luisa, regina reggente di Toscana, entrando, le intimarono, essere finito e ceduto a Napoleone il suo Toscano regno, e che in compenso le erano assegnati altri stati da godersegli col suo figliuolo Carlo Lodovico. Fu a questa volta taciuta la parola perpetuamente; il che se indicasse sincerità o dimenticanza, io non lo so. Restava, che ad un comandamento fantastico succedesse una umiltà singolare. Significava la regina a' suoi popoli, essere la Toscana ceduta all'imperator Napoleone; ad altri regni andarsene: ricorderebbesi con diletto del Toscano amore, rammaricherebbesi della separazione, consolerebbesi pensando, passare una nazione sì docile sotto il fausto dominio di un monarca dotato di tutte le più eroiche virtù, fra le quali, per servirmi delle stesse parole che usò la regina, dette così com'erano alla segretariesca, fra le quali campeggiava singolarmente la premura la più costante di promuovere ed assicurare la prosperità dei popoli ad esso soggetti. Non seguitò la regina reggente in Toscana le vestigia Leopoldiane, anzi era andata riducendo lo stato a governo più stretto, e più compiacente a Roma. Arrivò il generale Reille a pigliar possesso in nome dell'imperatore e re; i magistrati giurarono obbedienza; cassaronsi gli stemmi di Toscana, rizzaronsi i Napoleonici: arrivava Menou Egiziaco a scuotere le Toscane genti; Napoleone trionfatore, tornando a Parigi, tirava dietro le sue carrozze quelle di Maria Luisa, e di Carlo Ludovico.

L'asprezza di Napoleone, e la natura rotta e precipitosa di Menou mitigava in Toscana una giunta creata dal nuovo sovrano, e composta di uomini giusti e buoni, fra i quali era Degerando, che solito sempre a sperare, a supporre, ed a voler bene, credeva che l'imperatore fosse fatto a sua similitudine. Avevano il difficile carico di ridurre la Toscana a forma Francese. Erano in questa bisogna alcune cose inflessibili, alcune pieghevoli. Si noveravano fra le prime gli ordini giudiziali, amministrativi e soldateschi: furono introdotti nella nuova provincia senza modificazione: degli ultimi non potevano i Toscani darsi pace, parendo loro cosa enorme, che dovessero andar alle guerre dell'estrema Europa per gl'interessi di Francia, o piuttosto del suo signore. S'adoperava la giunta, non senza frutto, a far che la nuova signorìa meno grave riuscisse. Primieramente la tassa fondiaria, opinando in ciò molto moderatamente Degerando, fu ordinata per modo che non gettasse più del quinto, nè meno del sesto della rendita. Non trascurava la giunta le commerciali faccende. Pel cielo propizio volle tirarvi la coltivazione del cotone, e per migliorar le lane diede favore al far venir pecore di vello fino nelle parti montuose della provincia Sanese. Delle berrette di Prato, dei capelli di paglia, degli alabastri, e dei coralli di Firenze e di Livorno, parti essenziali del Toscano commercio, con iscuole apposite, con carezze, e con premj particolar cura aveva. Domandò a Napoleone, che permettesse le tratte delle sete per Livorno, provvedimento utilissimo, anzi indispensabile per tener in fiore le manifatture dei drappi, e la coltivazione dei gelsi nella nuova provincia. Richiese anche dal signore, che concedesse una camera di commercio a Livorno, a guisa di quella di Marsiglia, acciocchè i Livornesi potessero regolare da se, e non per mezzo dei Marsigliesi, le proprie faccende commerciali: non solo buona, ma sincera e disinteressata supplica fu questa della giunta, perchè dava contro Marsiglia. Per queste deliberazioni si mirava a conservar salvo il commercio del Levante con Livorno.

I commodi di terra pressavano nei consigli della giunta, come quei di mare. Supplicava all'imperatore, aprisse una strada da Arezzo a Rimini, brevissima fra tutte dal Mediterraneo all'Adriatico; ristorasse quella di Firenze a Roma per l'antica via Appia, dirizzasse quella da Firenze a Bologna pel Bisenzio e pel Reno, terminasse finalmente quella, che insistendo sull'antica via Laontana, da Siena porta a Cortona, Arezzo e Perugia. Nè gli studj si omettevano; consiglio degno del dotto e dabben Degerando. Ebbero quei di Pisa e di Firenze con tutti i sussidj loro ogni debito favore: ebberlo le accademie del Cimento, della Crusca, del Disegno, dei Georgofili: feconda terra coltivava Degerando, e la feconda terra ancora a lui degnamente rispondeva, dolci compensi di un amaro signore.

Arrivava gennajo intanto: cessava la giunta l'ufficio, dato da Napoleone il governo di Toscana ad Elisa principessa, gran duchessa nominandola. La quale Elisa o per natura, o per vezzo, simile piuttosto al fratello, che a donna, si dilettava di soldati, gli studj e la Toscana fama assai freddamente risguardando. A questo modo finì la Toscana patria, passata prima da repubblica nei Medici per usurpazione, poi dai Medici negli Austriaci per forza dei potentati, ai quali piacque quella preda per accomodar se medesimi, dileguatasi finalmente e perdutasi del tutto nell'immensa Francia.

Similmente, ed al tempo stesso Napoleone univa all'impero il ducato di Parma e Piacenza, dipartimento del Taro chiamandolo. Restavano ai Borboni di Parma le speranze del Mino e del Duero.

Non so, se chi avrà fin qui letto queste nostre storie, avrà quanto basta, posto mente alle miserie d'Italia. Il Piemonte due volte repubblica, due volte regno, tre volte sotto governi temporanei, calpestato dagli agenti repubblicani sotto il re e sotto il primo governo temporaneo, straziato dagli agenti imperiali, Russi ed Austriaci sotto il secondo, conculcato dagli agenti consolari sotto il terzo: sorti sempre incerte, predominio di opinioni diverse, interessi rovinati ora di questi, ora di quelli, affezioni tormentate: quando una radice di sanazione incominciava a spuntare in una ferita, violentemente era da maggior ferita svelta: la dolorosa vece più volte rinnovossi; squallido diventato un paese fioritissimo; aspettavasi la libertà; un dispotismo disordinato e sfrenato sopravvenne; molti anni durò, finalmente in dispotismo metodico cambiossi. Parevano più certe le sorti; pure ancora restavano nelle menti i vestigi dei passati mali, e le non riparate rovine attestavano le spesse e violenti mutazioni. Genova tre volte cambiata sotto forma di repubblica, spaventata continuamente dal romore delle presenti armi, conculcata dagl'Inglesi per mare, dai Francesi, dai Russi e dai Tedeschi per terra, ora in nome dei diritti dell'uomo, ed ora in nome del governo legittimo, desolata dall'assedio, desolata dalla pestilenza, obbligata a spendere per violenza quello, che aveva acquistato per industria, non aveva più forma alcuna di corpo sano: dieci secoli d'independenza, dopo quindici anni di martirio si terminarono nella dura soggezione di un capitano di guerra. Milano ricca, prima spogliata dai repubblicani, poi dai loro nemici, prima repubblica senza nome, poi repubblica ora con un nome ed ora con un altro, quindi provincia Tedesca sotto nome di reggenza imperiale, poi provincia Francese sotto nome di regno Italico, sempre conculcata, sempre serva, cedè finalmente in potestà di colui, che credeva il più prezioso frutto delle sue conquiste essere il poter risuscitare la corona di ferro di Luitprando, ed il serpente dei Visconti. Di Venezia poche cose dirò, poichè dopo tante stragi, tanti oltraggi, tante espilazioni, o provincia Francese, o provincia Tedesca, conobbe di che sapessero le due servitù. Perivano ogni giorno più i segni della generosità di Dutillot nella tormentata Parma, che accarezzata sotto il duca in parole pei fini di Spagna, taglieggiata in fatto per un'avarizia indomabile, vessata in fine dai Napoleonici capricci sotto San Mery, e molto più ancor sotto Junot, s'incamminava, da servitù in servitù passando, a sperimentare quanto valessero a sanare le ricevute ferite il concorrere ed il ricorrere al lontano Parigi. La Toscana ebbe più gran miscuglio di correrìe e di saccheggi stranieri, di sollevazioni intestine, di reggimenti temporanei, ora repubblicani tumultuarj, ed ora imperiali tumultuarj, parecchie reggenze sotto vario nome, re giovani e re bambini, ora capitani da guerra con somma autorità, ora principi Austriaci, ora principi Borbonici, ed ora Elisa principessa: soldati Napolitani, Francesi, Russi, Tedeschi, Italiani, incomposta e pestilenziale illuvie: i tempi Napoleonici guastavano i Leopoldiani. Roma rossa di sangue di legati Francesi, rossa di Romano sangue versato a difesa delle patrie leggi, rossa d'Italiano sangue non versato a difesa dell'Italiana patria, saccheggiata, conculcata, straziata da tutti, non sapeva più chi amico, o chi nemico chiamar potesse. Francesi, Tedeschi, Russi, Cisalpini, Napolitani, e, se Dio ne salvi, Turchi, con la cupidigia e con le armi loro a vicenda l'assalirono: i tempj profanati, i sacri arredi involati, i musei posti a ruba, le pitture di Raffaello guaste dalle soldatesche barbare; pure e questi e quelli dicevano volere la Romana felicità. Vide Roma un governo papale servo, una repubblica serva, un governo papale con ingannevoli apparenze restituito: vide un papa vinto, un papa tributario, un papa cattivo, un papa ito all'incoronazione del suo nemico: vide preti adulatori di Turchi, papisti adulatori d'Inglesi, repubblicani veri adulatori di repubblicani falsi, amatori di libertà adulatori di tiranni: fuvvi illusione da una parte, fraude dall'altra, e tra l'illusione e la fraude nacque un inganno, una chimera, un pensare a caso tale che è pur forza il confessare, che sia forte negli uomini l'istinto di star insieme, perchè senza di lui la Romana gente o si sarebbe dispersa a vivere nelle selve o vissuta insieme solo per ammazzarsi con le proprie mani. Credo che più tormentosi sperimenti sopra le infelici nazioni non siano stati fatti mai, come quelli che sopra i Romani furono fatti. L'aver sopravvissuto pare miracolo. Ma se maggiori mali soffrire non potevano, a maggiori scandali erano serbati dai cieli, siccome sarà da noi a suo luogo con dolente e disdegnosa penna raccontato. Pareva che la monarchìa avesse a portar più rispetto ai monarchi, ma fece peggio che la licenza. Così se ne viveva Roma desolata: povero l'erario, poveri i particolari: gli ornamenti perduti, gli animi divisi, ogni cosa piena di vendetta. Non so con quali parole io mi accinga a favellar di Napoli, perchè gli uomini simili al cielo, le benevolenze estreme che toccano la illusione, le nimicizie estreme che toccano la ferocia: congiure, guerre civili, guerre esterne, incendj, rovine, tradimenti, supplizj di gente virtuosa e di gente infame, ma più di virtuosa che d'infame. A questo atti eroici, coraggi indomiti, amicizie fedelissime anche nelle disgrazie, temperanza cittadina anche nella povertà, pensieri dolcissimi di fortunata umanità, desiderj purissimi del ben comune: ora regno ottenebrato da congiure, ora repubblica contaminata da rapine ora regno pieno di tormenti, ora regno pieno di rapine e di tormenti. Ferdinando due volte cacciato, una volta tornato; una repubblica serva dei Francesi, un regno servo degl'Inglesi, una repubblica stabilita a forza da un soldato, un regno restituito a forza da un prete, quella con immensa strage di lazzaroni, questo con immensa strage dei repubblicani: quelli stessi che adulato avevano Championnet repubblicano, o Ferdinando re, adulare Giuseppe re, e da un'altra parte la croce di Cristo sul campo medesimo unita alla luna di Macometto, tutte queste cose fanno una maraviglia tale, che quando saranno chiusi gli occhi e le orecchie di coloro che le videro e le udirono, nissuno sarebbe più per crederle, se non fosse la stampa, che ne moltiplica i testimonj.

Nissun ordine buono poteva sorgere da farragine sì dolorosa: perchè ogni fondamento civile era disordinato, ed i soldati si creavano per altri. Narrano alcuni che almeno questo accidente buono nascesse nel regno Italico, che lo spirito militare si risvegliasse, e che buoni soldati si formassero a benefizio d'Italia. Certamente buoni soldati si creavano sotto la disciplina Napoleonica; ma mandati a battaglie forestiere, come amassero l'Italia, e come imparassero a difenderla, io non so vedere; se forse non si voglia credere, che il rovinare i paesi d'altri, ed il distruggere le patrie altrui siano pei soldati salutiferi esempj.

La servitù s'abbelliva. In questo Napoleone fu singolarissimo. Opere magnifiche, opere utilissime sorgevano. Milano massimamente di tutto splendore splendeva. La mole dell'Ambrosiano tempio cresceva, il foro Buonaparte si disegnava, e da qualche principio già si conosceva quanto grandiosa opera avesse a riuscire, se fosse stato condotto a termine. Eugenio vicerè fomentava i parti più belli dei pittori, degli scultori, degli architettori; la corte pruomovitrice di servitù, era anche pruomovitrice di bellezza. Nuovi canali si cavavano, nuovi ponti s'innalzavano, nuove strade si aprivano. Nè le rocche, nè i dirupi ostavano; l'umana arte stimolata da Napoleone ogni più difficile impedimento vinceva. Sorsero sotto il suo dominio, e per sua volontà due opere piuttosto da anteporsi, che da pareggiarsi alle più belle ed utili degli antichi Romani; queste sono le due strade del Sempione, e del Cenisio, le quali aprendo un facile adito tra le più inospite ed alte roccie d'Italia alla Francia, attesteranno perpetuamente all'età future, in un colla perizia ed attività dei Francesi, la potenza di chi sul principiare del secolo decimonono le umane sorti volgeva. Beato egli, se non avesse corrotto il benefizio colla servitù!

Era arrivato il tempo, in cui i disegni Napoleonici dovevano colorirsi a danno del re di Spagna; i mezzi pari al fine. Il mettere discordia nella famiglia reale, il far sorgere sospetto nel padre del figliuolo, dispetto nel figliuolo verso il padre, il seminar sospetti sopra la conjugal fede della regina, e al tempo stesso accarezzare chi era soggetto dei sospetti, e farne stromento alle sue macchinazioni, il contaminar la fama di una principessa morta, l'esser del sangue di Carolina di Napoli rinfacciandole, accusar un principe di Spagna delle Caroliniane insidie, perchè più amava la Spagna che la Francia, fare che a Madrid e ad Aranjuez ogni cosa fosse sospetta di fraudi e di tradimenti, e la quieta e confidente vita del tutto sbandirne, furono arti di Napoleone. La subitezza Spagnuola le ruppe col far re Ferdinando, e dimetter Carlo; ma Napoleone ravviava le fila: l'accidente stesso di Aranjuez, che pareva dovere scompigliargli la trama, gli diede occasione di mandarla ad effetto. Trasse con le lusinghe il re Carlo in sua potestà a Bajona: restava, che vi tirasse il re Ferdinando; e il vi tirò. Rallegrossi allora dell'opera compita. Fe' chiamar dal padre il figliuolo ribelle, fe' chiamar dalla madre il figliuolo bastardo, dalle gazzette meditatore scelerato della morte del padre, costrinse il padre ed il figliuolo a rinunziare al regno in suo favore, mandò il padre poco libero a Marsiglia, il figliuolo prigione a Valençay; nominò, ribollendo in lui la cupidità sfrenata dell'esaltazione de' suoi, Giuseppe re di Spagna, Murat re di Napoli. A questo fine era stato concluso il trattato di Fontainebleau, promessa grandezza al re di Spagna, introdotti i Napoleoniani in Ispagna. Ma le cose sortirono effetti diversi da quelli ch'ei si era promesso. Sorsero sdegnosamente gli Spagnuoli contro le ordite sceleraggini, e combatterono i Napoleoniani. Napoleone e i suoi prezzolati scrittori gli chiamarono briganti, gli chiamarono assassini: quest'infamia mancava a tanti scandali.

Napoleone obbligato a mandar soldati contro Spagna, ed a scemargli in Germania, temeva di qualche moto sinistro. Una nuova dimostrazione dell'amicizia di Russia gli parve necessaria. Fatte le sue esortazioni, otteneva, che Alessandro il venisse a trovare ad Erfurt. Quivi furono splendide le accoglienze pubbliche, intimi i parlari segreti: stava il mondo in aspettazione e timore nel vedere i due monarchi potenti sopra tutti favellare insieme delle supreme sorti. Chi detestava l'imperio dispotico di Napoleone, disperava della libertà d'Europa, perchè essendo le due volontà preponderanti ridotte in una sola, non restava più nè appello, nè ricorso, nè speranza. Chi temeva dell'insorgere progressivo della potente Russia, abborriva ch'ella fosse chiamata ad aver parte in modo tanto attivo nelle faccende d'Europa; conciossiachè le abitudini più facilmente si contraggono, che si dismettono, ed anche l'ambizione del dominare non si rallenta mai, anzi cresce sempre, ed è insanabile. Rotto era e capriccioso il procedere di Napoleone, e però da non durare, mentre l'andare considerato e metodico della Russia dava più fondata cagione di temere. Le scene d'Erfurt erano per Napoleone più d'apparato che d'arte, per Alessandro più d'arte che d'apparato.

Giovacchino Murat, nuovo re di Napoli, annunziava la sua assunzione ai popoli del regno: avergli Napoleone Augusto dato il regno delle due Sicilie; due primi e supremi pensieri nudrire, essere grato al donatore, utile ai sudditi: volere conservar la constituzione data dall'antecessore: venire con Carolina, sua sposa augusta, venire col principe Achille, suo reale figliuolo, venire coi figliuoli ancor bambini, commettergli alla fede, all'amore loro: in esso consistere la contentezza dei popoli, in esso la sua benevolenza. Principiarono le Napoletane adulazioni. Il consiglio di stato, il clero, la nobiltà mandarono deputati a far riverenza ed omaggio a Giovacchino re. Il trovarono a Gaeta; in nome suo giurarono. Napoli intanto esultava. Inscrizioni, trofei, statue, archi trionfali, ogni cosa in pompa. Una statua equestre rizzata sulla piazza del Mercatello rappresentava Napoleone Augusto. Un'altra sulla piazza del palazzo raffigurava, sotto forma di Giunone, Carolina regina. Perignon, maresciallo di Francia, lodato guerriero, appresentava a Giovacchino le chiavi di Napoli. Generali, ciamberlani, scudieri, ufficiali, soldati, chi colle spade al fianco, chi colle chiavi al tergo, ed un popolo numeroso e moltiforme, chi portando rami d'alloro, e chi d'ulivo. Firrao cardinale col baldacchino, e con gli arredi sacri riceveva Giovacchino sulla porta della chiesa dello Spirito Santo: condottolo sul trono a tal uopo molto ornatamente alzato, cantava la messa, e l'inno Ambrosiano. Terminata la cerimonia, per la contrada di Toledo piena di popolo, a cui piaceva la gioventù e la bellezza del nuovo re, andava Giovacchino a prender sede nel reale palazzo. Pochi giorni dopo, incontrata dal re a San Leucio, faceva lieto e magnifico ingresso Carolina regina: risplendeva, come lo sposo, di tutta gioventù e bellezza. Guardavano la venustà delle forme, miravano il portamento dolce ed altero, cercavano le fattezze di Napoleone fratello: gridavanla felice, virtuosa, augusta.

Furono felici i primi tempi di Murat. Occupavano tuttavia gl'Inglesi l'isola di Capri, la quale, come posta alle bocche del golfo, è freno e chiave di Napoli dalla parte del mare. La presenza loro era stimolo a coloro, che non si contentavano del nuovo stato, cagione di timore agli aderenti, e ad ogni modo impediva il libero adito con manifesto pregiudizio dei traffichi commerciali. Pareva anche vergognoso, che un Napoleonide avesse continuamente quel fuscello negli occhi, da parte massimamente degl'Inglesi, tanto odiati, e tanto disprezzati. Aveva Giuseppe per la sua indolenza pazientemente tollerato quella vergogna; ma Giovacchino, soldato vivo, se ne risentiva, e gli pareva necessario cominciar il dominio con qualche fatto d'importanza; andava contro Capri. Vi stava a presidio Hudson Lowe con due reggimenti accogliticci d'ogni nazione, e che si chiamavano col nome di Reale Corso, e di Reale Malta. Erano nell'isola parecchi siti sicuri, le eminenze di Anacapri, ed il forte Maggiore, con quelli di San Michele e di San Costanzo. Partiti da Napoli e da Salerno, e governati dal generale Lamarque andavano Francesi e Napolitani alla fazione dell'isola. Posto piede a terra per mezzo di scale uncinate, non senza grave difficoltà perchè gl'Inglesi si difendevano risolutamente, s'impadronirono di Anacapri: vi fecero prigioni circa ottocento soldati di Reale Malta. Conquistato Anacapri, che è la parte superiore dell'isola, restava, che si ricuperasse l'inferiore. Dava ostacolo la difficoltà della discesa per una strada molto angusta a guisa di scala scavata nel macigno, dentro la quale traevano a palla ed a scaglia i forti, specialmente quello di San Michele. Fu forza alzar batterìe sulle sommità per battere i forti, l'espugnazione andava in lungo. Arrivavano agli assediati soccorsi d'uomini e di munizioni dalla Sicilia. Ma la fortuna si mostrava prospera al Napoleonide, perciocchè i venti di terra allontanavano gl'Inglesi dal lido. Il re, che stava sopravvedendo dalla marina di Massa, fermatosi sopra la punta di Campanella, e veduto il tempo propizio, spingeva in ajuto di Lamarque nuovi squadroni. Gli Inglesi, rotti già in gran parte e smantellati i forti, si diedero al vincitore. L'acquisto di Capri piacque ai Napolitani, e ne presero buon augurio del nuovo governo.

Erano nel regno baroni, repubblicani, e popolo. I baroni al nuovo re volentieri si accostavano, perchè si contentavano degli onori, nè stavano senza speranza di avere, od a ricuperare gli antichi privilegi, perciocchè malgrado delle dimostrazioni contrarie i Napoleonidi tendevano a questo fine, od almeno ad acquistarne dei nuovi. I repubblicani erano avversi a Giovacchino, non perchè fosse re, che di ciò facilmente si accomodavano, ma perchè si ricordavano, che gli aveva cacciati e fatti legare come malfattori in Toscana. Dava anche loro fastidio la vanità incredibile di lui, siccome quegli che indirizzava ogni suo studio e diligenza a vezzeggiare chi portasse un nome feudatario. Per questo temevano, che ad un bel bisogno gli desse in preda a chi desiderava il sangue loro; ma egli con qualche vezzo se gli conciliava, perchè avevano gli animi domi dalle disgrazie. Il popolo, che non meglio di Giovacchino si curava che di Giuseppe, si sarebbe facilmente contentato del nuovo dominio, purchè restasse tutelato dalle violenze dei magnati, ed avesse facile e quieto vivere. Ma Giovacchino tutto intento a vezzeggiar i baroni, trascurava il popolo, il quale vessato dai baroni e dai soldati, si alienava da lui. Era anche segno che volesse governare con assoluto imperio, il tacere della constituzione, che si credeva aver voluto dare Giuseppe in sul partire. Inoltre ordinò che si scrivessero i soldati alla foggia di Francia. Ciò fe' sorgere mali umori negli antichi possessori dei privilegi; nè meglio se ne contentava il popolo, perchè gli pareva troppo insolito. Siccome poi le provincie non quietavano, e che massimamente le Calabrie secondo il solito imperversavano, scrisse le legioni provinciali, una per provincia, ordine già statuito da Giuseppe, ma da lui rimessamente eseguito. Così tutto in armi; chi non le portava come soldato pagato, era obbligato a portarle come guardia non pagata. Veramente, quand'io considero gli ordini d'Europa, mi maraviglio; perchè mi pare che negli stati, in cui la metà e più della rendita pubblica va nel pagar soldati, gli stati debbono guardar i cittadini, e che un cittadino che paga in tasse ed in figliuoli soldati quanto lo stato gli domanda, perchè lo guardi, debb'esser guardato dallo stato: pure veggo, che dopo avergli dato e tasse, e figliuoli, è ancora obbligato a cingersi la sciabola per guardarsi da se. Queste sono le libertà e le felicità europee.

Giovacchino, come soldato, comportava ogni cosa ai soldati: ne nasceva una licenza militare insopportabile. Seguitava anche quest'effetto, che il solo puntello che avesse alla sua potenza, erano i soldati, e che nissuna radice aveva nell'opinione dei popoli. Le insolenze soldatesche si moltiplicavano. Non solo ogni volontà, ma ogni capriccio di un capo di reggimento, anzi di un ufficiale qualunque dovevano essere obbedite, come se fossero leggi: chi anzi si lamentava, era mal concio, e per poco dichiarato nemico del re. Molto, e con ragione si erano doluti i popoli delle insolenze dei baroni, ma quelle dei capitani di Giovacchino erano maggiori. Rappresentavano i popoli i loro gravami, domandando protezione ed emenda. Ma le soldatesche erano più forti delle querele, e si notava come gran caso, che chi si era lagnato non fosse mandato per la peggiore. Nascevano nelle province un tacere sdegnoso, ed una sopportazione desiderosa di vendetta. Nè in miglior condizione si trovava Napoli capitale. La guardia reale stessa che attendeva alla persona di Giovacchino, oltre ogni termine trascorreva. Nissuna quiete, nissun ordine poteva esser pei cittadini, nè nel silenzio della notte, nè nelle feste del giorno; perchè solo un ufficiale della guardia il volesse, tosto turbava con importuni romori, minacce ed insolenze i sonni ed i piaceri altrui. Il re comportava loro ogni cosa. I mandatarj dei magistrati civili, che s'attentavano di frenare sì biasimevoli eccessi, erano dai soldati svillaneggiati, scherniti e battuti; e sonsene veduti di quelli, che arrestati per aver fatto il debito loro, dalle sfrenate soldatesche, e condotti sotto le finestre del palazzo reale, furono, veggente il re, segni di ogni vituperio. Quest'era lo stato di Napoli, quest'un governar peggiore che di Turchia. Troppo era fresco il dominio di Murat, a fare che un tal procedere non fosse non solamente barbaro, ma ancora pericoloso.

I mali umori prodotti dalle enormità commesse dai soldati di Murat davano speranza alla corte di Palermo, che le sue sorti potessero risorgere nel regno di qua dal Faro. Infuriava tuttavia la guerra civile nelle Calabrie, nè gli Abruzzi quietavano. Erano in questi moti varie parti, e vari fini; alcuni di coloro che combattevano contro Giovacchino, e che avevano combattuto contro Giuseppe, erano aderenti al re Ferdinando, altri amatori della repubblica. Taccio di coloro, e non erano pochi, che solo per amore del sacco e del sangue avevano le armi in mano. Non sarà, credo, narrazione incresciosa a chi leggerà queste storie, se io racconterò come, e per qual cagione la setta dei carbonari a questi tempi nascesse. Alcuni dei repubblicani più vivi, ritiratisi durante le persecuzioni usate contro di loro, nelle montagne più aspre, e nei più reconditi recessi dell'Abruzzo e delle Calabrie, avevano portato con se un odio estremo contro il re, non solamente perchè loro persecutore era stato, ma ancora perchè era re. Nè di minore odio erano infiammati contro i Francesi, sì perchè avevano disfatto la repubblica propria, e quelle d'altrui, sì perchè gli avevano anche perseguitati. Non potevano costoro pazientemente tollerare, che in cospetto loro, non che di Ferdinando, di Giovacchino, non che di Giovacchino, di regno si favellasse. Così tra aspri dirupi e nascoste valli vivendosi, gli odj loro contro i re e contro i Francesi fra immense solitudini continuamente infiammavano. Ma sulle prime isolati, ed alla spartita vivendo, nissun comune vincolo gli congiungeva, intenti piuttosto ad arrabbiarsi, che a vendicarsi. Gl'Inglesi, che custodivano la Sicilia, ebbero notizia di quest'umore, ed avvisarono che fosse buono per turbare il regno contro i Francesi. Pertanto gli animarono a collegarsi fra di loro, affinchè con menti unite concorressero ai medesimi disegni, e creassero nuovi seguaci. Per accendergli promettevano gl'Inglesi qualche forma di constituzione. Sorse allora la setta dei carbonari, la quale acquistò questo nome, perchè ebbe la sua origine, e si mostrò la prima volta nelle montagne dell'Abruzzo e delle Calabrie, dove si fa una grande quantità di carbone. Molti ancora fra questi settarj sapevano, ed esercevano veramente l'arte del carbonajo. Siccome poi non ignoravano, che a voler tirar gli uomini, niuna cosa è più efficace che le apparenze astruse e mirabili, così statuirono pratiche e riti maravigliosi. Principal capo ed instigatore era un uomo dotato di sorprendente facoltà persuasiva, che per nome si chiamava Capobianco. Avevano i carbonari quest'ordine comune coi liberi muratori, che gli ammessi passavano successivamente per varj gradi fino al quarto; che celavano i riti loro con grande segretezza; che a certi statuiti segni si conoscevano fra di loro; ma in altri particolari assai erano diversi i carbonari dai liberi muratori; conciossiachè, siccome il fine di questi è il beneficare altrui, e di banchettar se stessi, così il fine di quelli era l'ordine politico degli stati. Avevano i carbonari nel loro procedere assai maggior severità dei liberi muratori, perchè non mai facevano banchetti, nè mai fra canti e suoni si rallegravano. Il loro principal rito in ciò consisteva, che facessero vendetta, come dicevano, dell'agnello stato ucciso dal lupo, e per agnello intendevano Gesù Cristo, e pel lupo i re, che con niun altro nome chiamavano, se non con quello di tiranni. Se stessi poi nel gergo loro chiamavano col vocabolo di pecore, ed il lupo credevano essere il monarca, sotto il quale vivevano. Opinavano altresì che Gesù Cristo sia stato la prima e la più illustre vittima della tirannide, e protestavano volerlo vendicare con la morte dei tiranni. Così come adunque i liberi muratori intendono a vendicar la morte del loro Iramo, i carbonari intendevano a vendicare la morte di Cristo. In questa setta entravano principalmente uomini del volgo, sulla immaginazione dei quali gagliardissimamente operavano, con vivi colori rappresentando la passione, e la morte di Cristo, e quando nelle loro congreghe i riti loro adempivano, avevano presente un cadavere tutto sanguinoso, che dicevano essere il corpo di Gesù Cristo. Quale effetto in quelle Napolitane fantasie sì terribili forme partorissero, ciascuno sel può considerare. Erano i segni loro per conoscersi vicendevolmente, quando s'incontravano, oltre alcuni altri, il toccarsi la mano ed in tale atto col pollice segnavano una croce nella palma della mano l'uno dell'altro. Quello, che i liberi muratori chiamano loggia, essi baracca chiamavano, e le assemblee loro col nome di vendite distinguevano, ai carbonari veri alludendo, i quali scendendo dalle montagne andavano a vendere il carbone loro pei mercati in pianura. Sentivano, come abbiamo detto, molto fortemente di repubblica: niun altro modo di reggimento volevano, che il repubblicano, ed in repubblica già si erano ordinati apertamente nelle parti di Catanzaro sotto la condotta di quel Capobianco, che abbiamo sopra nominato. Odiavano acerbamente i Francesi, acerbissimamente Murat per essere Francese e re, ma non per questo erano amici di Ferdinando, perchè piuttosto non volevano re. Nati prima nell'Abruzzo e nelle Calabrie, si erano propagati nelle altre parti del regno, e perfino nella Romagna avevano introdotto le pratiche loro, e creato consettarj. In Napoli stessa pullulavano: non pochi fra i lazzaroni della secreta lega erano consapevoli e partecipi.

Vedendo Ferdinando, che la potenza dei carbonari era cosa d'importanza, si deliberava, a ciò massimamente stimolato da Carolina sua moglie e dagl'Inglesi, di fare qualche pratica acciocchè se possibil fosse, concorressero co' suoi proprj aderenti al medesimo fine, che era quello di cacciar i Francesi, e di restituirgli il regno. Principale mezzano di queste pratiche era il principe di Moliterno, che, tornato d'Inghilterra, dove si era condotto per proporre a quel governo, che dichiarasse l'unione e l'independenza di tutta Italia, se vi voleva far frutto contro i Francesi, le quali proposte non volle l'Inghilterra udire, non fidandosi del principe, per essere stato repubblicano, si era in Calabria fatto capo di tutti gli antichi seguaci del cardinal Ruffo, e vi teneva le cose molto turbate contro Giovacchino. Parlava efficacemente dell'unione e independenza dell'Italia, ed in queste dimostrazioni era ardentemente secondato dalla regina, che si persuadeva di potere con questo allettativo, non solamente ricuperare il regno, ma ancora acquistare qualche altra parte importante. Pareva Moliterno personaggio atto a questi maneggi coi carbonari, perchè ai tempi di Championnet era stato aderente della repubblica, ed anzi per questa sua opinione proscritto dalla corte di Napoli. I carbonari, sì perchè erano aspramente perseguitati dai soldati di Murat, sì perchè Moliterno sentiva di repubblica, e sì perchè finalmente molto si soddisfacevano di quella unione e independenza d'Italia, prestavano favorevoli orecchie alle proposte del principe e della regina. Ciò non ostante stavano di mala voglia, e ripugnavano al venire ad un accordo con gli agenti regj. Per vincere una tale ostinazione, il governo regio di Palermo dava speranza ai carbonari, che avrebbe loro dato una constituzione libera a seconda dei desiderj loro. Per questi motivi, e massimamente per questa promessa, consentirono ad unirsi con gli aderenti del re a liberazione del regno dai Francesi. A queste risoluzioni vennero la maggior parte dei carbonari; ma i più austeri, siccome quelli che abborrivano da ogni qualunque lega con coloro che stavano ad un servizio regio, continuarono a dissentire, e questa parte discordante fu quella, che ordinò quella repubblica di Catanzaro, che abbiamo sopra nominato.

L'unione dei carbonari coi regj diede maggior forza alla parte di Ferdinando in Calabria; ma dal canto suo Giovacchino, in cui non era la medesima mollezza che in Giuseppe, validamente resisteva, massime nelle terre murate, cooperando alla difesa i soldati Francesi guidati da Partonneaux, i soldati Napolitani, e le legioni provinciali. Ogni cosa in iscompiglio: la Calabria non era nè del re Ferdinando nè del re Giovacchino; le soldatesche ed i sollevati ne avevano in questa parte ed in quella il dominio. Seguitavano tutti gli effetti della guerra disordinata e civile, incendj, ruine, saccheggi, stupri, e non che uccisioni, assassinj. I fatti orribili tanto più si moltiplicavano, quanto più per l'occasione della guerra fatta nel paese, uomini di mal affare di ogni sorta, banditi, ladri, assassini, a cui nulla importava nè di repubblica, nè di regno, nè di Ferdinando, nè di Giovacchino, nè di Francesi, nè d'Inglesi, nè di papa, nè di Turco, ma solo al sacco ed al sangue intenti, dai più segreti ripostigli loro uscendo, commettevano di quei fatti, dai quali più la umanità abborrisce, e cui la storia più ha ribrezzo a raccontare. Così le Calabrie furono da questo momento in poi, e per due anni continui fatte rosse da sangue disordinatamente sparso, finchè lo spavento cagionato da sangue ordinatamente sparso le ridusse a più tollerabile condizione.

Le ruine si moltiplicavano; la Spagna ardeva, l'Italia, e la meridional parte della Germania sotto l'imperio diretto di Napoleone, l'Austria spaventata, la Prussia serva, la Russia divota, la Turchìa aderente, la terraferma Europea tutta obbediente a Napoleone o per forza, o per condiscendenza. Un solo principe vivente nel cuore d'Italia, debole per soldati, forte per coscienza, resisteva alla sovrana volontà. Napoleone spinto dall'ambizione, ed acciecato dalla prosperità aveva messo fuori certe parole sull'imperio di Carlomagno, suo successore nei dritti e nei fatti intitolandosi, come se gl'impiegati di Francia, che da lui traevano gli stipendj, avessero potuto, imperatore dei Francesi chiamandolo, dargli il supremo dominio e l'effettiva possessione, non che della Francia, di tutta l'Italia, di tutta la Spagna, di tutta la Germania, di quanto insomma componeva l'impero d'Occidente ai tempi di quel glorioso imperatore.

Adunque con quell'insegna di Carlomagno in fronte s'avventava contro il papa. Non poteva pazientemente tollerare che Roma, il cui nome tant'alto suona, non fosse ridotta in sua potestà. Gli pesava, che ancora in Italia una piccola parte fosse, che a lui non obbedisse. Dal canto suo il papa si mostrava renitente al consentire di mettersi in quella condizione servile, nella quale erano caduti chi per debolezza e chi per necessità quasi tutti i principi d'Europa. Così chi aveva armi cedeva, chi non ne aveva resisteva. Pio settimo, non che resistesse, fortemente rimostrava al signore della Francia acerbamente dolendosi, che per gli articoli organici, e pel decreto di Melzi fossero stati i due concordati guasti a pregiudizio della sedia apostolica, ed anche a violazione manifesta dei decreti dei concilj, e del santo vangelo stesso. Si lamentava che nel codice civile di Francia, introdotto anche per ordine dell'imperatore in Italia, si fosse dato luogo al divorzio tanto contrario alle massime della Chiesa, ed ai precetti divini. Rimproverava, che in un paese cattolico, quale si protestava essere ed era la Francia, con legge uguale si ragguagliassero la religione cattolica, e le dissidenti, non esclusa anche l'ebrea, nemica tanto irreconciliabile della religione di Cristo.

Di tutte queste cose ammoniva l'imperatore, dell'esecuzione delle sue promesse a pro della cattolica religione richiedendolo. Ma Napoleone vincitore dell'Austria, della Prussia e della Russia, non era più quel Napoleone ancor tenero ne' suoi principj. Per la qual cosa volendo ad ogni modo venir a capo del suo disegno del farsi padrone di Roma, o che il papa vi fosse, o che non vi fosse, mandava dicendo al pontefice, che essendo egli il successore di Carlomagno, gli stati pontificj, siccome quelli che erano stati parte dell'impero di esso Carlomagno, appartenevano all'impero Francese; che se il pontefice era il signore di Roma, egli ne era l'imperatore; che a lui, come a successore di Carlomagno, il pontefice doveva obbedienza nelle cose temporali, come egli al pontefice la doveva nelle spirituali, che uno dei diritti inerenti alla sua corona era quello di esortare, anzi di sforzare il signore di Roma a far con lui, e co' suoi successori, una lega difensiva ed offensiva per tutte le guerre presenti e future; che il pontefice, essendo soggetto all'imperio di Carlomagno, non si poteva esimere dall'entrare in questa lega, e dall'avere per nemici tutti coloro che di lui Napoleone fossero nemici. Aggiungeva, che se il pontefice a quanto da lui si esigeva non consentisse, aveva egli il diritto di annullare la donazione di Carlomagno, di spartire gli stati pontificj e di dargli a chi meglio gli paresse; che nella persona del pontefice separerebbe l'autorità temporale dalla spirituale; che manderebbe un governatore con potestà di reggere Roma, e che al papa lascerebbe la semplice qualità di vescovo di Roma.

Quest'estreme intimazioni fatte al pontefice, che non aveva dato a Napoleone alcuna cagione di dolersi di lui, e che anzi con tutta l'autorità sua l'aveva ajutato a salire sul suo seggio imperiale, dimostrava in chi le faceva, una risoluzione irrevocabile. Rispondeva il pontefice, esser caso maraviglioso, che il sovrano di Roma, dopo dieci secoli di possessione non contestata, fosse necessitato a far le sue difese contro colui, che pocanzi aveva consecrato imperatore; sapere il mondo, che il glorioso imperatore Carlomagno, la cui memoria sarà sempre benedetta nella chiesa, non aveva dato alla santa Sede le province di dominio pontificio: sapere che già dai tempi molto anteriori a Carlomagno, erano esse state possedute dai pontefici Romani per la dedizione libera dei popoli abbandonati dagli imperatori d'Oriente; sapere, che nel progresso dei tempi l'esarcato di Ravenna, e della Pentapoli, che queste medesime province comprendeva, essendo stato invaso dai Longobardi, l'illustre e religioso Pipino, padre di Carlomagno, lo aveva loro tolto dalle mani per un atto di donazione solenne a papa Stefano attribuendolo; che quel grande imperatore, l'ornamento e l'ammirazione dell'ottavo secolo, non che avesse voluto rivocare il pietoso e generoso atto di Pipino suo padre, l'aveva anzi confermato, ed appruovato sotto papa Adriano; che, non che avesse voluto spogliare la Romana Sede delle sue possessioni, non altro aveva fatto, nè voluto fare che restituirgliele ed aumentargliele; che tant'oltre era proceduto, che aveva comandato espressamente nel suo testamento a' suoi tre figliuoli di difenderle colle armi; che a' suoi successori nissuna potestà, nissun diritto aveva lasciato di rivocare quanto Pipino suo padre aveva fatto a favore della cattedra di San Pietro; che solo ed unico suo intento era stato di tutelar i pontefici Romani contro i loro nemici, e non obbligargli a dichiararsi contro di loro; che dieci secoli posteriori, che mille anni di possessione pacifica rendevano inutile ogni ricerca anteriore, ogni interpretazione posteriore; che finalmente supponendo eziandìo che i pretesi diritti di Carlomagno non fossero senza fondamento, non aveva l'imperator Napoleone trovato nè la santa Sede, nè il papa in quella condizione, in cui gli aveva trovati Carlomagno; conciossiachè avesse l'imperator Napoleone trovato la santa Sede libera, suddita a nissuno, in piena ed intiera sovranità di tutti i suoi stati fin da dieci secoli addietro senza interruzione alcuna, e che inoltre le sanguinose vittorie da lui acquistate contro altri popoli non gli davano il diritto d'invadere gli stati del pontefice, poichè sempre il pontefice era vissuto in pace con lui.

Troppo seriamente rispondeva il pontefice alle allegazioni di Napoleone, perchè niuno meno le stimava, che Napoleone stesso. Certamente se a quel modo si rivangassero tutte le ragioni antiche, o vere o finte, ma consumate dalla vecchiezza, nissuna possessione certa più vi sarebbe, ed il mondo andrebbe tutto in un fascio. Instava adunque minacciosamente l'imperatore col pontefice, entrasse nella confederazione Italica coi re d'Italia e di Napoli, e per nemici avesse i suoi nemici, e per amici gli amici. Ma avendo il papa costantemente ricusato di aderire, si era ridotto a richiedere che il pontefice facesse con lui una lega difensiva ed offensiva, e medesimamente tenesse i suoi amici per amici, i suoi nemici per nemici: quando no, lo stimerebbe intimazione di guerra, avrebbe il papa per nemico, Roma conquisterebbe. La condizione proposta, non che migliorasse, peggiorava quella del pontefice; perciocchè solo scopo della confederazione fosse l'unirsi contro gl'infedeli, e contro gl'Inglesi, mentre la lega difensiva ed offensiva importava, che il papa dovesse far guerra a qualunque principe o stato, che fosse in guerra coll'imperatore; dal che ne poteva nascere nel papa la necessità, non solamente di far guerra ad un principe cattolico, ma ancora di unirsi ad un principe non cattolico per far guerra ad un cattolico, condizione del tutto insopportabile alla Sedia apostolica. A questi motivi aggiungeva il pontefice, che se si videro papi far leghe e guerre contro principi cattolici, non si leggeva però nelle storie, ch'eglino si fossero obbligati perpetuamente ad incontrar nimicizia e ad aver guerra con chiunque, a cui piacesse ad altri intimare nimicizia e guerra, senza che dei motivi potessero giudicare, e solo perchè ad altri piacesse assumersi nemicizie e guerre. Sclamava poscia papa Pio, sentire l'animo suo orrore e dolore, ricordandosi essere stato richiesto dall'imperatore di un trattato d'alleanza, pel quale avrebbe egli dovuto obbligarsi a tener per nemici tutti i suoi nemici, e a dichiarar la guerra a quanti l'imperatore, od i suoi successori, in perpetuo dichiarata l'avessero. Non esser questo armare il padre contro i figliuoli? Non i figliuoli contro il padre? Non mescolare in infinite questioni la chiesa di Dio, in cui come in proprio santuario, seggono la carità, la pace, la dolcezza, e tutte le virtù? Non volere, che il sommo pontefice non più Aaron sia, ma Ismaele, uomo crudo e selvaggio? Non volere che alzi la mano contro tutti, e che tutti l'alzino contro di lui? Non volere che drizzi le nimichevoli insegne contro i suoi fratelli? A questo modo forse nella chiesa di Dio introdursi la pace? A questo modo la pace che il divino salvatore lasciò agli apostoli, ai pontefici loro successori, ed a lui? Cercasse l'imperatore questa pace, che è la pace dei savj, pace migliore delle armi dei guerrieri: la pace dei savj cercasse, dei savj, che sono la salute del mondo: quella sapienza cercasse, per cui un re prudente è il sostegno del suo popolo, che se cercare non la volesse per se, lasciassela almeno, quale eredità propria, ai pontefici, ai quali l'aveva data Cristo redentore. Essere il pontefice padre comune di tutti i fedeli, a loro obbligato di tutti i sussidj spirituali, nè potere più continuargli a coloro che fossero sudditi di un principe, contro il quale in virtù della lega fosse stato tirato a guerra. Doppia qualità nel Romano pontefice risplendere, sovranità temporale, e sovranità spirituale, non potere per motivi temporali offendere la primaria sua qualità, la spirituale, nè recar pregiudizio a quella religione, di cui egli era capo, propagatore, e vindice.

Avendo papa Pio con sì gravi querele esposto l'animo suo a Napoleone, andava protestando, che se per gli occulti disegni di Dio l'imperatore volesse consumar le sue minacce, impossessandosi degli stati della Chiesa a titolo di conquista, non potrebbe sua santità a tali funesti avvenimenti riparare, ma protesterebbe come di usurpazione violenta ed iniqua. Dichiarerebbe inoltre, che non già l'opera del genio, della politica e dei lumi (imperciocchè di queste parole appunto si era servito Napoleone, favellando degli ordinamenti della Romana sede) sarebbe distrutta, ma bensì l'opera dello stesso Dio, da cui ogni sovranità procede: adorerebbe sua santità profondamente i decreti del cielo, consolerebbesi col pensiero che Dio è il padre assoluto di tutti, e che tutto cede al suo divino volere, quando arriva la pienezza dei tempi da lui preordinata. Queste profetiche parole diceva Pio a Napoleone. L'imperatore perseverò nel dire, che a questo principio mai non consentirebbe, che i prelati non fossero sudditi del sovrano, sotto il dominio del quale e' sono nati, e che intenzion sua era, che tutta l'Italia, Roma, Napoli e Milano, facessero una lega offensiva e difensiva per allontanar dalla penisola i disordini della guerra. Questa sua ostinazione corroborava col pretesto che la comunicazione non doveva e non poteva essere interrotta, nè in pace, nè in guerra per uno stato intermedio, che a lui non s'appartenesse, tra i suoi stati di Napoli e di Milano. Inoltre voleva e comandava, che i porti dello stato pontificio fossero, e restassero serrati agl'Inglesi. Alle quali intimazioni aveva il pontefice risposto, oltre che se Napoleone si aveva preso Napoli, Toscana e Milano, non era certamente colpa del papa, che nelle guerre anteriori tra Francia, Austria e Spagna lo stato pontificio era sempre stato intermedio senza che queste potenze se ne dolessero, e prendessero pretesto per torre lo stato ai sovrani di Roma, e nel caso presente la interruzione non sussisteva, essendo lo stato Romano occupato dai soldati dell'imperatore, che con ogni libertà, e con intollerabile aggravio della camera apostolica andavano e venivano dal regno d'Italia al regno di Napoli, e così da questo a quello: che quanto al serrare i porti agl'Inglesi, sebbene fosse da temersi che ciò non potesse essere senza qualche pregiudizio dei cattolici che abitavano l'Irlanda, l'avrebbe nondimeno il pontefice consentito, per amor della concordia, all'imperatore.

Napoleone, al quale sempre pareva che la corona imperiale fosse manca, se non fosse padrone di Roma, si apprestava a disfar quello, che aveva per tanti secoli durato fra tante rivoluzioni e d'Italia e del mondo. Perchè poi la forza fosse ajutata dall'inganno, accompagnava le sue risoluzioni con parole di umanità e di desiderio di libertà per la potestà secolare. Non esser buoni i preti, diceva, per governare: immersi nei loro studj teologici non conoscere gli uomini: avere Roma abbastanza turbato il mondo: non comportare più il secolo le Romane usurpazioni; avere i lumi fatto conoscere a quale stima debbano esser messi i decreti del Vaticano: ad ognuno oggimai esser noto, quanto assurda cosa fosse il mescolare l'imperio col sacerdozio, il temporale con lo spirituale, la corona con la tiara, la spada con la croce: avere Gesù Cristo detto, che il regno suo non era di questo mondo: non dover essere di questo mondo il regno del suo vicario: pel bene della cristianità, non perchè vi seminassero discordie e guerre, avere Carlomagno dato ai papi la sovranità di Roma: poichè ne volevano abusare, doversi la donazione annullare: non più sovrano, ma solamente vescovo di Roma fosse Pio: a questo modo, e nel tempo stesso provvedersi ai bisogni della religione ed alla quiete universale. Così Napoleone si era servito della religione contro la filosofia per farsi imperatore, poi si servì della filosofia contro la potenza pontificia per farsi padrone di Roma, stimolando a vicenda, secondochè le sue ambizioni portavano, i preti contro i filosofi, i filosofi contro i preti. Prevedendo che un gran numero di fedeli in Francia, abbracciando la giustizia della causa del pontefice, avrebbero sentito mal volentieri le sue risoluzioni contro di lui, e che le avrebbero chiamate persecuzione, parola di molta efficacia fra i cristiani, si voltava a lusingare secondo l'arti sue, i Francesi, con pruovarsi di accrescere la dignità e l'autorità della nazione nelle faccende religiose. Pensava che i Francesi, avendo il predominio temporale, avrebbero anche amato lo spirituale. Perciò instantemente richiedeva, anche colla solita minaccia di privarlo della potenza temporale, se non consentisse, il papa, che riconoscesse in lui il diritto d'indicare alla santa Sede tanti cardinali, quanti bastassero, perchè il terzo almeno del sacro collegio si componesse di cardinali Francesi. Se il papa consentiva, acquistava Napoleone preponderante autorità nelle deliberazioni, e massimamente nelle nomine dei papi: se ricusava, avrebbe paruto alla nazione Francese che egli le negasse ciò, che per la sua grandezza credeva meritarsi. Non potere, rispose il pontefice, consentire ad una domanda, che vulnerava la libertà della Chiesa, ed offendeva la sua più intima constituzione: a chi non era noto, essere i cardinali la più principale, e la più essenzial parte del clero Romano? Il primo dover loro essere il consigliare il sommo pontefice. A chi appartenersi, a chi doversi appartenere la elezione degli uomini atti a tanta dignità, atti a tanto carico, se non a colui che da loro debb'essere consigliato? Hanno i principi della terra i loro consiglieri, da loro eletti; alla sola Romana Chiesa, al solo Romano pontefice fia questa facoltà negata? Essere i cardinali non solamente consiglieri, ma ancora elettori del papa. Ora quale libertà poter essere nella elezione, se un principe secolare un numero sì grande d'elettori potesse nominare? Se a Napoleone si consente, gli altri principi non la pretenderanno eglino? Non sarebbe allora il pontefice Romano posto del tutto in balìa dei principi del secolo? Convenirsi certamente, che di ogni cattolica nazione siano eletti cardinali, ma la convenienza non esser obbligo: sola norma, sola legge dover essere al papa il chiamar cardinali coloro, che più per virtù, per dottrina, per pietà risplendono, di qualunque nazione siano, qual lingua parlino. Sapere il pontefice, che il suo rifiuto sarebbe volto dai malevoli a calunnia, come se il santo padre non avesse nella debita stima il clero di Francia; ma chiamare Dio e gli uomini in testimonio de' suoi affetti diversi: conoscergli il clero stesso, conoscergli l'imperatore, conoscergli il mondo, che già vedeva sedere nel sacro collegio, oltre due Genovesi ed un Alessandrino, sei cardinali Francesi; un altro dotto e virtuoso prelato volervi chiamare; di ciò contenterebbesi chi contentabil fosse; ma non poter il santo padre contentar altri di quello, di cui non si contenterebbe egli stesso.

Non si rimoveva l'imperatore dalla presa deliberazione; mandò di nuovo dicendo al papa, o gli desse il terzo dei cardinali, o si piglierebbe Roma. Tentato di render Pio odioso ai Francesi, il volle fare disprezzabile al mondo. Imperiosamente intimava al pontefice, cacciasse da Roma il console del re Ferdinando di Napoli. Rispondeva Pio, ch'egli non aveva guerra col re, che il re possedeva ancora tutto il reame di Sicilia, che era un sovrano cattolico, e che egli non sarebbe mai per consentire a trattarlo da nemico, cacciando da Roma coloro, che a Roma il rappresentavano.

L'appetita Roma veniva in mano di colui, che ogni cosa appetiva. Se vi fu ingiustizia nei motivi, fuvvi inganno nell'esecuzione. S'avvicinavano i Napoleoniani all'antica Roma, nè ancora confessavano di marciare contro di lei. Pretendevano parole di voler andare nel regno di Napoli: erano seimila; obbedivano a Miollis. Nè bastava un generale per opprimere un papa; Alquier, ambasciadore di Napoleone presso la santa Sede, anch'ei vi si adoperava. Usava anzi parole più aspre del soldato, e ritraeva di vantaggio del suo signore. Era giunto il mese di gennajo al suo fine, quando Alquier mandava dicendo a Filippo Casoni cardinale, segretario di stato, che seimila Napoleoniani erano per traversare, senza arrestarvisi, lo stato Romano; che Miollis prometteva, che passerebbero senza offesa del paese, e che il generale era uomo di tal fama, che la sua promessa doveva stimarsi certezza. Mandava Alquier con queste lettere l'itinerario dei soldati, dal quale appariva, che veramente indirizzavano verso il regno di Napoli il loro cammino, e non dovevano passare per la città. Di tanta mole era l'ingannare un papa! Pure si spargevano romori diversi. Affermavano questi, che andassero a Napoli, quelli, che s'impadronirebbero di Roma. Il papa interpellava formalmente, per mezzo del cardinal segretario, Miollis, dicesse e dichiarasse apertamente, e senza simulazione alcuna, il motivo del marciare di questi soldati, acciocchè sua santità potesse fare quelle risoluzioni, che più convenienti giudicherebbe. Rispondeva, avere mandato la norma del viaggio dei soldati, e sperare, che ciò basterebbe per soddisfare i ministri di sua santità. Il tempo stringeva: i comandanti Napoleonici marciando, e detti i soliti motti e scherni sui preti, sul papa, e sui soldati del papa, minacciavano, che entrerebbero in Roma, e l'occuperebbero. Novellamente protestava il papa, fuori delle mura passassero, in Roma non entrassero; se il facessero, l'avrebbe per caso di guerra, ogni pratica di concordia troncherebbe. Già tanto vicini erano i Napoleoniani, che vedevano le mura della Romana città. Alquier tuttavia moltiplicava in protestazioni col santo padre, affermando con asseverazione grandissima, che erano solamente di passo, e non avevano nissuna intenzione ostile. I Napoleoniani intanto, arrivati più presso, assaltarono a armata mano il dì due febbrajo la porta del popolo, per essa entrarono violentemente, s'impadronirono del castel Sant'Angelo, recarono in poter loro tutti i posti militari, e tant'oltre nell'insolenza procederono, che piantarono le artiglierìe loro con le bocche volte contro il Quirinale, abitazione quieta del pontefice. La posterità metterà al medesimo ragguaglio le promesse di Alquier, ed il suo invocar la fede di un generale da una parte, dall'altra quello sdegnarsi di Ginguenè, ambasciatore del direttorio a Torino, al solo pensare, che il governo Piemontese potesse sospettare, che i Francesi fossero per abusare contro il re della possessione della cittadella. Perchè poi niuna parte di audacia mancasse in questi schifosi accidenti, Miollis domandava per mezzo di Alquier, udienza al santo padre; ed avendola ottenuta, si scusò con dire, che non per suo comandamento le bocche dei cannoni erano state volte contro il Quirinale palazzo, come se l'ingiuria fatta al sovrano di Roma, ed al capo della cristianità consistesse in questa sola violenza, che certamente era molto grave. Della occupazione frodolenta ed ostile di Roma, che era pure l'importanza del fatto, non fece parola.

Gli oltraggi al papa si moltiplicavano. L'accusava Napoleone dello aver dato asilo ne' suoi stati a Napolitani briganti, ribelli, congiuratori contro lo stato di Murat; per questo affermava, aver occupato Roma: il papa stesso accagionava di connivenza. Alquier gliene fece querele, quasichè non sapesse, che i soldati di Napoleone già da lungo tempo erano padroni dello stato ecclesiastico, che di propria autorità, e contro il diritto delle genti vi avevano arrestato e carcerato uomini sospetti, o non sospetti, e che il governo pontificio stesso, ogni qual volta che ne era stato richiesto, aveva ordinato arresti, e carcerazioni d'uomini sospetti a Francia. Del rimanente voleva Alquier, non so se per pazzìa, o per ischerno, che il papa avesse, e trattasse ancora, come amiche, le truppe, che violentemente avevano occupato la sua capitale, e la sede del suo governo, e fatto contro il pacifico ed inerme suo palazzo quello, che contro le fortezze nemiche ed armate solo si suol fare. A questo tratto non potè più contenere se medesimo il pontefice: sdegnosamente scrisse all'ambasciadore Napoleonico, non terrebbe più per amici quei soldati, che rompendo le più solenni promesse, erano entrati in Roma, avevano violato la sua propria residenza, offeso la sua libertà, occupato la città ed il castello, voltato i cannoni contro la propria abitazione, e che inoltre con intollerabile peso si aggravavano sopra il suo erario, e sopra i suoi sudditi. A questo aggiungeva, che essendo privato della sua libertà, e ridotto in condizione di carcerato, non intendeva più, nè voleva negoziare, e che solo allora si risolverebbe a trattare delle faccende pubbliche con Francia, che sarebbe restituito alla sua piena e sicura libertà.

Le amarezze del papa divenivano ogni giorno maggiori. Il comandante Napoleonico intimava ai cardinali Napolitani Ruffo-Scilla, Pignatelli, Saluzzo, Caracciolo, Caraffa, Trajetto, e Firrao nel termine di ventiquatt'ore partissero da Roma, e tornassero a Napoli. Se nol facessero, gli sforzerebbero i soldati. Quindi l'intimazione medesima, termine tre ore a partire, fu fatta dal soldato medesimo ai cardinali nati nel regno Italico, che furono quest'essi: Valenti, Caradini, Casoni, Crivelli, Giuseppe Doria, Della-Somaglia, Roverella, Scotti, Dugnani, Braschi-Onesti, Litta, Galeffi, Antonio Doria, e Locatelli. Risposero, stare ai comandamenti del pontefice; farebbero quanto ordinasse.

A tanto oltraggio il pontefice, quantunque in potestà d'altri già fosse ridotto, gravemente risentissi. Scrisse ai cardinali, si ricordassero degli obblighi e dei giuramenti loro verso la santa Sede, imitassero il suo esempio, sofferissero piuttostochè contaminarsi, non potere sua santità permettere che partissero; proibirlo anzi a tutti ed a singoli in virtù di quella obbedienza che a lui giurato avevano. Raccomandava, e comandava loro, prevedendo che la forza gli avrebbe indegnamente divulsi dal suo grembo, che se a qualche distanza di Roma fossero lasciati, non continuassero il viaggio; vedesse il mondo che la forza altrui, non la volontà loro, gli sveglieva da Roma.

La sovranità del papa a grado a grado dai violenti occupatori si disfaceva. Commettevano il male, non volevano che si sapesse. Soldati Napoleoniani furono mandati alla posta delle lettere, dove, cacciate le guardie pontificie, ogni cosa recarono in poter loro. Postovi poscia soprantendenti e spie, non solamente s'impadronivano degli spacci, ma ancora, secondochè loro aggradiva, aprivano e leggevano le lettere, enorme violazione della fede sì pubblica che privata, e del diritto delle genti. Al medesimo fine invasero tutte le stamperie di Roma per modo che nulla, se non quanto permettevano essi, stampare si potesse. Quindi nasceva che nelle scritture che ogni giorno si pubblicavano, massimamente nelle gazzette, le adulazioni verso Napoleone, e gli scherni contro il papa erano incessabili. Il papa stesso non potè pubblicare colle stampe una sua allocuzione ai cardinali del mese di marzo, e fu costretto a mandarne le copie attorno scritte a penna, ed autenticate di suo pugno.

Tolta al papa la forza civile, si faceva passo al torgli la militare. Incominciossi dalle arti con subornare i soldati, le Napoleoniche glorie e la felicità degl'imperiali soldati magnificando. Esortavansi instantemente i papali ad abbandonar le insegne della chiesa, ed a porsi sotto quelle dell'imperio. Pochi consentirono; i più resisterono. Riuscite inutili le instigazioni, toccossi il rimedio della forza; l'atto cattivo fu accompagnato da parole peggiori. Parlava Miollis il dì ventisette marzo ai soldati del papa: essere l'imperatore e re contento di loro, non esser più all'avvenire per ricever ordini nè da femmine, nè da preti; dovere i soldati esser comandati da soldati; stessero sicuri, che non mai più tornerebbero sotto le insegne dei preti; darebbe loro l'imperatore e re generali degni per bravura di governargli. Questi erano scherni molto incivili. Del rimanente, che le femmine ed i preti abbiano comandato a soldati, in quel modo che il diceva il generale Napoleonico, poichè nè il papa, nè i cardinali, nè alcuna donna di Roma erano generali, o colonnelli, si è veduto (il che però io non sarò mai per lodare) in tutti i tempi ed in tutti i paesi, anche in Francia, e nel regno ultimo d'Italia. Miollis stesso vide peggio, poichè vide Elisa principessa, e Carolina regina, Napoleonidi, far rassegne e mostre, e comandar mosse d'imperiali soldati. Un Frici colonnello, mancando nella fede, si accomodò coi nuovi signori: fu accarezzato. Un Bracci colonnello ricusò: fu carcerato, poi bandito. Carcerati altri tre, e mandati, per aver conservato la fede loro, nella fortezza di Mantova. A questo modo stimavano e ricompensavano i Napoleoniani gli uomini fedeli ai loro principi ed alle loro patrie. I soldati furono per forza costretti alle insegne Napoleoniche, e mandati prima in Ancona, poscia nel regno Italico per essere ordinati secondo le forme imperiali.

Restava il santo padre nel suo pontificale palazzo con poche guardie, piuttosto ad onore che a difesa. Vollero i Napoleoniani che quest'ultimo suo ricetto fosse turbato dalle armi forestiere, non contenti, se non quando il sommo pontefice fosse in vero carcere ristretto. Andavano il dì sette aprile all'impresa del prendere il pontificale palazzo; s'appresentavano alla porta: il soldato svizzero, che vi stava a guardia, rispose che non lascerebbe entrar gente armata, ma solamente l'uffiziale che le comandava. Parve soddisfarsene il capitano Napoleonico: fatto fermar i soldati, entrava solo; ma non così tosto fu lo sportello aperto e l'ufficiale entrato, che aggiungendo la sorpresa alla forza, fece segno a' suoi che entrassero. Entrarono: volte le baionette contro lo svizzero, occuparono l'adito. S'impadronirono, atterrando romorosamente le porte, delle armi delle papali guardie; i più intimi penetrali invasero. Intimarono al capitano della guardia Svizzera, sarebbe ai soldi e sotto le insegne di Francia: ricusò costantemente. Le medesime intimazioni fecero alle guardie delle finanze, e perchè ricusarono, le condussero carcerate in castello. Intanto altri corpi di Napoleoniani giravano per la città: quante guardie nobili incontrarono, tante arrestarono.

Di tanti eccessi querelavasi gravissimamente il pontefice con Miollis; ma le sue querele non muovevano il generale Napoleonico; che anzi negli eccessi moltiplicando, faceva arrestare da' suoi soldati monsignor Guidobono Cavalchini, governator di Roma, ordinando che fosse condotto a Fenestrelle, fortezza alle fauci dell'Alpi sopra Pinerolo, che fondata dai re di Sardegna a difesa d'Italia, era ora per volontà di Napoleone divenuta carcere degl'Italiani, che anteponevano la fede alla fellonìa. Accusarono Cavalchini dello aver negato di ministrar giustizia secondo le leggi e regole del paese; del quale fallo, se era vero, il papa solo, non i forestieri, doveano giudicare. I napoleoniani portarono il prelato dentro i cavi sassi dell'orrido Fenestrelle.

A questi tratti il pontefice, fatto maggiore di se medesimo, in istile grave e profetico a Napoleone le sue parole rivolgendo: «Per le viscere, diceva, della misericordia di Dio nostro, per quel Dio, che è cagione, che il sole levante venne dall'alto a visitarci, esortiamo, preghiamo, scongiuriamo te, imperatore e re Napoleone, a cambiar consiglio, a rivestirti dei sentimenti che sul principiar del tuo regno manifestasti: sovvengati, che Dio è re sopra di te: sovvengati, ch'ei non eccettuerà persona; sovvengati, ch'ei non rispetterà la grandezza d'uomo che sia; sovvengati, ed abbi sempre alla mente tua davanti, ch'ei si farà vedere, e presto, in forma terribile, poichè quelli che comandano agli altri, saranno da lui con estremo rigore giudicati».

Napoleone cieco, e dall'inevitabile suo destino tratto, non attendeva alle spaventose e fatidiche voci del pontefice. Decretava il due aprile, che, stantechè il sovrano attuale di Roma aveva costantemente ricusato di far guerra agl'Inglesi, e di collegarsi coi re d'Italia e di Napoli a difesa comune della penisola; stantechè l'interesse dei due reami, e dell'esercito d'Italia e di Napoli esigevano che la comunicazione non fosse interrotta da una potenza nemica; stantechè la donazione di Carlomagno, suo illustre predecessore, degli stati pontificj era stata fatta a benefizio della cristianità, non a vantaggio dei nemici della nostra santa religione; stante finalmente che l'ambasciadore della corte di Roma appresso a lui aveva domandato i suoi passaporti, le province d'Urbino, Ancona, Macerata e Camerino fossero irrevocabilmente e per sempre unite al suo regno d'Italia: il regno Italico il dì undici maggio prendesse possessione delle quattro province, vi si pubblicasse ed eseguisse il codice Napoleone; fossero investite nel vicerè amplissime facoltà per esecuzione del decreto.

Già innanzi che questo decreto fosse preso, e quando ancora i negoziati colla santa sede erano in pendente, aveva Napoleone nelle quattro province, non solamente usato l'autorità sovrana con manifesta violazione di quella del pontefice, ma ancora commesso atti di vera tirannide. Vi aveva mandato con titolo ed autorità di governatore il generale Lemarrois, il quale non così tosto vi fu giunto, che cassò dalla porta d'Ancona le arme del papa; sostituì quelle dell'imperatore, diede e tolse ordini ai magistrati della provincia, e tant'oltre trascorse, che fece arrestare e condur prigione nel castello di Pesaro monsignor Rivarola, governator di Macerata pel pontefice.

Il giorno stesso dei due aprile l'imperatore, conoscendo quanti prelati natii delle provincie unite fossero in Roma ai servigi del pontefice, e volendo privare il santo padre del sussidio di tanti servitori ed amici, decretava, che tutti i cardinali, prelati, uffiziali ed impiegati qualsivogliano appresso alla corte di Roma, nati nel regno d'Italia fossero tenuti, passato il dì venticinque di maggio, di ridursi nel regno; chi nol facesse, avesse i suoi beni posti al fisco: i beni già si sequestrassero a chi non avesse obbedito il dì cinque giugno. Questa deliberazione tanto più era da biasimarsi, quanto con lei s'impediva al pontefice, oltre l'esercizio dell'autorità temporale, la quale sola l'imperatore affermava voler annullare, ancora quello della spirituale, poichè il pontefice da se, e senza consiglieri ed impiegati, non poteva adempire nè l'uno nè l'altro ufficio. Taccio la crudeltà di voler torre sotto pena anche di confiscazione di beni, ad antichi e vecchi servitori sussidj di vita, dolcezza di abitudini, uso di un aere consueto. Nè so comprendere quale nuova dottrina sia questa, che l'uomo onorato non sia padrone di viversene dove più le pare e piace, e che chi è nato in un luogo debba, come se fosse una pianta, dimorarvi perpetuamente.

Nè solo la violenza del voler torre i servitori al papa si usò contro coloro, che erano nati nel regno Italico, ma ancora contro quelli che, sebbene venuti al mondo in Roma, possedevano uffizj spirituali in quel regno. Il dì quindici luglio soldati Napoleoniani entrarono nel pontificale palazzo, e minacciosamente introdottisi nelle stanze del cardinal Giulio Gabrielli, segretario di stato e vescovo di Sinigaglia suggellarono il suo portalettere, e il diedero alla guardia di un semplice soldato. Poscia soldatescamente comandarono al cardinale, uscisse da Roma, termine due giorni, e se n'andasse al suo seggio di Sinigaglia. Si opprimeva e scacciava per tal modo da coloro, che di ciò fare niuna legittima facoltà avevano, un uomo nato in Roma, d'illustre legnaggio, di conosciuta innocenza, un vescovo, un cardinale, un primo ministro del papa. Accrebbe gravità al caso l'essergli stata fatta l'intimazione nel palazzo pontificale, ed al cospetto stesso del pontefice. Tanta violenza ed oltraggio commisero i Napoleoniani contro il cardinale, perchè obbediendo agli ordini del suo signore, aveva dato instruzioni per direzioni delle coscienze, a chi ne aveva bisogno. Sclamò il papa, questi essere delitti; i Napoleoniani non vi abbadarono.

Eugenio vicerè con solenne decreto del venti maggio spartiva le quattro provincie in tre dipartimenti, del Metauro, del Musone, e del Tronto chiamandogli. Avesse il primo Ancona per metropoli, il secondo Macerata, il terzo Urbino. Fosse in Ancona ad ulteriore ordinamento di questi territorj un magistrato politico: chiamovvi Lemarrois presidente, e due consiglieri di stato.

Si esigevano nelle province unite i giuramenti di fedeltà all'imperatore, d'obbedienza alle leggi e constituzioni. Il pontefice, che non aveva riconosciuto l'unione, e che anzi aveva contro la medesima protestato, non consentiva ai giuramenti pieni. Inoltre fra le leggi a cui si giurava obbedienza, era il codice Napoleone, nel quale, secondo l'opinione del pontefice, si contenevano capitoli contrarj, massime pei matrimonj, ai precetti del vangelo, ed ai decreti dei concilj, particolarmente del Tridentino. Perciò aveva scritto ai vescovi, decretando che fossero illeciti i giuramenti illimitati, implicando infedeltà e fellonìa verso il governo legittimo, e che solo si potesse promettere, e giurare di non partecipare in alcuna congiura, o trama, o sedizione contro il governo attuale, ed altresì di essergli fedele ed obbediente in tutto, che non fosse contrario alle leggi di Dio e della Chiesa. Ingiungeva ancora, che questo giuramento stesso niuno prestasse, se non astretto dall'ultima necessità, e quando il ricusarlo potesse portare con se qualche grave pericolo o pregiudizio. Protestava, che non intendeva per questa sua condiscendenza e permissione, dismettere o rinunziare i suoi diritti sopra i suoi sudditi, e gli altri che gli competevano, i quali tutti voleva conservare intieri ed illesi. Comandava inoltre, che niuno accettasse cariche od impieghi, dai quali ne nascesse la riconoscenza dell'usurpazione. Dichiarava finalmente, sua volontà essere, che i vescovi ed altri pastori ecclesiastici non cantassero i cantici spirituali, e particolarmente l'Ambrosiano, perchè non si conveniva, che in tanta afflizione della Chiesa, e fra tante opere violente ed ingiuste commesse contro di lei, si dessero segni di allegrezza nei tempj santi.

La volontà del pontefice manifestata ai vescovi nella materia dei giuramenti gli constituiva in molto difficile condizione; perchè dall'un de' lati Napoleone non voleva rimettere della sua durezza, dall'altro i vescovi ripugnavano a trasgredire i comandamenti del capo supremo della Chiesa. Posti fra le pene spirituali e le temporali, non sapevano a qual partito appigliarsi: ed era venuta la cosa tra la confiscazione e l'esilio da una parte, e il trasgredire dall'altra. Nè non meritava considerazione il pensare, quanto all'esilio, a quale mancanza di sussidj e di conforti spirituali verrebbero esposti i fedeli, se i pastori eleggessero quello, che il papa loro comandava. Napoleone intanto fulminava, e per mezzo del suo ministro dei culti intimava, che chi non andasse a Milano per giurare, avrebbe bando e confiscazione di beni. Vinse nei più la volontà del pontefice: e però già il cardinal Gabrielli, vescovo di Sinigaglia, i vescovi d'Arcolo Cappelletti, e di Castiglione di Montalto con altri loro compagni, erano in punto d'esser presi e trasportati in lontane regioni, con quell'aggiunta della confiscazione. A mitigare la durezza del tempo, ed a procurare loro qualche conforto giunse opportunamente Eugenio vicerè, mandato dal padre, che temeva gli effetti della resistenza ecclesiastica. Videro il giovine principe i vescovi, e con lui ristrettisi udirono da lui lodarsi gli scrupoli e la costanza loro nel non voler far quello, a che ripugnavano la coscienza propria e gli ordini del moderatore sovrano della Chiesa. Gl'informava, intenzione essere dell'imperatore, che si sospendessero per qualche giorno le esecuzioni rigorose: mandassero intanto i loro deputati al santo padre, e procurassero d'impetrare da lui, che i giuramenti si prestassero con alcuna modificazione. Le modificazioni alle quali consentiva l'imperatore erano di tre sorti; primieramente, fossero dispensati i vescovi dal viaggio di Milano ed in cospetto dei prefetti prestassero i giuramenti; secondamente, non sarebbe da loro richiesto altro giuramento, che quello statuito nel concordato ed appruovato dal pontefice, nel quale non si parlava nè di leggi, nè di costituzioni; terzamente, fosse loro lecito, innanzichè pronunziassero la forma del giuramento, esprimere, con quanta pubblicità volessero, che non volevano e non intendevano pronunciarla, se non nel senso diritto e puramente cattolico; dal che si sperava, che e il governo resterebbe appagato, e le coscienze illese. Non si lasciò il pontefice piegare ad alcuna modificazione. Da ciò ne nacque, che alcuni vescovi giurarono, fra gli altri l'arcivescovo d'Urbino, cosa sentita con molto sdegno dal papa: gli altri che ricusarono, andarono soggetti alle pene.

Circa l'accettazione degli impieghi ed uffizi civili, ed all'amministrazione dei sacramenti a coloro, che gli avessero accettati, aveva il pontefice statuito, che incorressero le censure coloro, che accettassero quegl'impieghi ed uffizi, i quali tendessero a ruina delle leggi di Dio e della Chiesa; gli altri fosse lecito accettare per dispensa del vescovo. Ma Napoleone, seguitando la sua volontà inflessibile ed arbitraria, ed a lei posponendo ogni altro rispetto, voleva che i vescovi pubblicamente dichiarassero, esser lecito per le leggi della Chiesa servire in qualunque carica od impiego il governo, e che a chi il servisse, amministrerebbero i sacramenti. Non obbedirono: affermavano, che se l'imperatore diceva sue ragioni per impadronirsi delle provincie, il papa diceva anche le sue per conservarle, e che alla fine a loro non s'apparteneva il definire sì gran contesa: che però senza taccia d'infamia e di prevaricazione, non potevano dichiarare lecito indistintamente ogni ufficio ed impiego; che l'amministrazione de' sacramenti, e nominatamente l'assoluzione dei peccati e delle censure ecclesiastiche, intieramente dipendevano dall'autorità superiore del pontefice; che se i subordinati oltrepassassero i termini posti da lei, l'assoluzione sarebbe nulla e di niun valore, non solamente nel foro esteriore, ma ancora a cospetto di Dio; che queste non erano opinioni che potessero ancora venir in controversia, ma dogmi inconcussi, dogmi di quella religione che dominava nel reame d'Italia per confessione stessa dell'imperatore; che se il papa era stato spogliato di una parte del suo dominio temporale, rimaneva intiera e piena la sua potestà spirituale; che a lui solo spettava la facoltà di definire in queste materie il lecito e l'illecito, e di allargare o di restringere la giurisdizione dei prelati inferiori; che pertanto sarebbe attentato scismatico e distruttivo dell'unità cattolica, il contraddire pubblicamente i suoi giudizi; essere parati, attestavano, a promuovere e mantenere con tutti i mezzi, che fossero in facoltà loro, la quiete dello stato, ma non voler arrogarsi una giurisdizione che a loro non competeva, e che non potrebbero, se non se sacrilegamente ed inutilmente usare. Così era nelle quattro province un conflitto tra armi ed opinioni, armi forti ed opinioni inflessibili: gli uomini distratti tra la coscienza e gl'interessi non sapevano più dove volgersi: prigioni a chi s'allontanava dalle armi, maledizioni a chi s'allontanava dalle opinioni, discordia, dolore e miseria per tutti. Tal era la condizione delle Marche, una volta sì prospere e sì felici, ora cadute ed infelici. Quanto al papa bene aveva operato Pio settimo col protestare, come fece, con tanta energia contro la usurpazione della sua sovranità: ma nel restante avrebbe dovuto imitare la prudenza, e la paterna sopportazione di Pio sesto, suo glorioso antecessore. L'usare inflessibilità, mentre era inutile, contro Napoleone, esponeva i sudditi a calamità innumerabili. Il protestare contro l'usurpatore era ufficio indispensabile di sovrano, ed anche bastava per conservar incolumi i suoi diritti; il sopportare con agevolezza e mansuetudine la faccenda dei giuramenti era ufficio di padre verso i suoi figliuoli.

Pubblicava Pio una solenne protesta:

«Il decreto pubblicato, diceva, d'ordine dell'imperatore e re Napoleone, che subitamente ci spoglia del dominio libero ed assoluto delle province della Marca d'Ancona, dominio, di cui per consentimento di tutti, durante dieci secoli e più, hanno sempre i nostri predecessori goduto, non solamente contro di noi fu fatto, contro di noi per tanti anni da tanti dolori trafitti, da tante tempeste battuti per cagione di colui, che con quella maggiore amorevolezza che per noi si è potuto, abbracciato abbiamo, ma ancora contro la Chiesa Romana, contro la Sedia apostolica, contro il patrimonio del principe degli apostoli. Nè sappiamo, se in questo decreto sia maggiore l'oltraggio della forma, o la iniquità del fatto. Per certo, se in così grave accidente tacessimo, ciò fora meritamente a mancanza del nostro apostolico dovere, a violazione dei giuramenti nostri imputato. Che se poi vogliamo por mente ai motivi del decreto, facilmente ci persuaderemo, maggiore obbligo legarci a rompere il silenzio, perciocchè ingiuriosi sono, e contaminano la purità e l'integrità delle nostre deliberazioni. L'oltraggiare ed il mentire sonsi aggiunti all'ingiustizia. Che un principe inerme e pacifico, che non solo non dà cagione di dolersi di lui ad alcuno, ma che ancora allo stesso imperatore dei Francesi ebbe con tanti manifesti segni la sua affezione dimostrato, i propri interessi e quelli de' suoi sudditi anche offendendo, sia spogliato de' suoi dominj per non aver creduto, che gli fosse lecito di obbedire agli ordini di colui, che gl'ingiungeva di abbandonare la sua neutralità con tanta fede e scrupolo conservata, e di far lega di guerra contro coloro, che a modo nissuno turbato nè offeso l'avevano, già per se sarebbe una grandissima ingiustizia; che se poi un principe, che fosse signore di un grande impero avesse giustissime cagioni di ricusare una lega nemica, qual cosa si dovrebbe dire, e pensare del sommo pontefice, vicario in terra dell'autor primo di pace, obbligato in forza del suo apostolato supremo al ministerio di padre comune, ad un uguale amore verso tutti i fedeli di Gesù Cristo, ad un eguale odio contro tutte le nimicizie? Passa il decreto per dissimulazione artifiziosa sotto silenzio questi obblighi nostri, queste voci della coscienza nostra, obblighi e voci, che tante volte, e per lettere nostre, e per bocca dei nostri legati, candidamente e sinceramente all'imperator Napoleone rappresentammo. Ma l'ingiustizia sua procede anche più oltre, posciachè ci rimprovera l'esserci noi da quest'alleanza astenuti, per non essere obbligati a volgere le armi contro gl'Inglesi esclusi dalla comunanza cattolica. Nella quale ingiustizia contiensi una grande ingiuria: poichè sa egli, quantunque il taccia, quante volte gli protestammo, non poter entrare in una lega perpetua per non essere costretti a guerra contro tanti principi cattolici, a quanti a lui piacesse di far guerra ora e per sempre. Dogliamoci inoltre, come di offesa grave ed odiosa, ch'ei ci accusi di rifiutar l'alleanza, affinchè la penisola resti facilmente esposta agli assalti dei nemici. Sallo, e chiamiamo in testimonio e giudice tutta l'Europa, che vede da tanti anni le Italiane spiagge occupate da soldati Francesi, sallo, e chiamiamo in testimonio e giudice l'imperatore stesso, che tace la condizione da noi offerta, ch'ei mettesse in tutt'i porti ed in tutti i lidi nostri i suoi presidj. Havvi in questo silenzio più ingratitudine ancora, che menzogna, posciachè ei non ignora punto, quanto danno ridonderebbe ai sudditi nostri dalla chiusura dei porti, e quanto sdegno contro di noi ne prenderebbero i suoi nemici. Ma se per onestare la sua usurpazione, offende la verità del pari che la giustizia, incredibile da un altro canto è la maraviglia da noi concetta, che pel fine medesimo non gli abbia ripugnato l'animo al servirsi della donazione di Carlomagno. Noi non possiamo restar capaci, come l'imperatore, dopo lo spazio di dieci secoli, s'attenti di risuscitare, e di attribuirsi la successione di Carlomagno, nè come la donazione di Carlomagno risguardi i dominj usurpati della Marca d'Ancona.

«Stante adunque che per le ragioni finora raccontate egli è chiaro e manifesto, che per forza di un attentato enorme i diritti della Romana Chiesa sono stati dall'ultimo decreto di Napoleone violati, e che una ferita ancora più profonda è stata a noi ed alla santa sede fatta, acciocchè tacendo non paja ai posteri, che noi l'iniquissimo delitto commesso con violazione di tutte le regole della rettitudine e dell'onore, quanto pure merita non abbiamo (il che sarebbe perpetua vergogna nostra) a sdegno ed abborrimento avuto, di nostro proprio moto, di nostra certa scienza, di nostra piena potenza dichiariamo, e solennemente, ed in ogni miglior modo protestiamo, l'occupazione delle terre, che sono nella Marca d'Ancona, e la unione loro al reame d'Italia, senza alcun diritto e senza alcuna cagione per decreto dell'imperator Napoleone fatte, ingiuste essere, usurpate, nulle: dichiariamo altresì, e protestiamo, nullo essere, e di niun valore quanto sino al giorno d'oggi si è fatto per esecuzione del detto decreto, e quanto potrà essere d'ora in poi sulle terre medesime da qualunque persona fatto e commesso: vogliamo inoltre e dichiariamo, che anche dopo mille anni, e tanto quanto il mondo durerà, quanto vi si è fatto, e quanto sarà per farvisi, a patto niuno possa portar pregiudizio o nocumento ai diritti sì di dominio, che di possessione sulle medesime terre; perchè sono, e debbono essere di tutta proprietà della nostra santa Sedia apostolica».

Così Pio venuto in forza altrui parlava a Napoleone, e contro di lui protestava. Così ancora Napoleone, dopo di avere carcerato i reali di Spagna, carcerava anche il papa, e dopo di aver usurpato la Spagna, usurpava anche Roma. Alessandro di Russia in questo mentre appunto lasciava a posta la sua imperial sede di Pietroburgo per girsene a visitarlo in Erfurt, Francesco d'Austria vi mandava il general San Vincenzo per accarezzarlo.

LIBRO VIGESIMOQUARTO

SOMMARIO

Nuova guerra coll'Austria. L'arciduca Giovanni generalissimo degli Austriaci, il principe Eugenio, vicerè, generalissimo dei Francesi in Italia. Loro manifesti agl'Italiani. L'arciduca vince a Sacile, e s'avanza verso Verona. Mossa generale dei Tirolesi contro i Francesi e i Bavari; qualità di Andrea Hofer. Natura singolare della Tirolese guerra. L'Austria perisce, prima nei campi tra Ratisbona e Augusta, poi in quei di Vagria. L'arciduca si ritira dall'Italia. Pace tra la Francia e l'Austria. Matrimonio dell'arciduchessa Maria Luisa con Napoleone. Fine della guerra del Tirolo; morte di Hofer. Napoleone unisce Roma alla Francia e manda il papa carcerato a Savona. Il papa lo scomunica. Descrizione di Roma Francese, e quello che vi si fa. Che cosa fosse la propaganda. Pratiche di Carolina di Sicilia con Napoleone. Infelice spedizione di Giovacchino in Sicilia. Manhes generale mandato a pacificar le Calabrie, le pacifica, e con quali mezzi.

Era in Europa rimasta accesa la materia di nuove calamità. L'Austria depressa dal vincitore aspettava occasione di risorgere, alleggerendo le disgrazie presenti per la speranza del futuro. Nè solo la spaventavano i patti di Presburgo, pei quali tanta potenza le era stata scemata, ma ancora i cambiamenti introdotti da Napoleone, non che in altre parti d'Europa, nel cuore della Germania, e sulle frontiere stesse dell'Austria. La spaventavano gli attentati palesi, la spaventavano le profferte segrete, poichè Napoleone le esibiva ingrandimento nella distruzione di uno stato vicino ed amico, il che le dava cagione di temere, che se i tempi od i capricci cambiassero, avrebbe esibito ingrandimento ad altri nella distruzione dell'Austria. Ma la potenza tanto preponderante di Napoleone per la soggiogazione della Prussia e per l'amicizia della Russia, non lasciava speranza all'Austria di riscuotersi; però risolutasi al tirarsi avanti col tempo, ed all'anteporre il silenzio alla distruzione, aspettava, che il rotto procedere di Napoleone fosse per aprirle qualche via di raffrenare la sua cupidità, e di procurare a se medesima salvamento. Le iniquità commesse contro i reali di Spagna, che a tanto sdegno avevano commosso gli Spagnuoli, e che obbligavano il padrone della Francia a mandar forti eserciti per domargli, le parvero occasione da non doversi pretermettere. Per la qual cosa, non abborrendo dall'entrare in nuovi travagli, e dall'abbracciar sola questa guerra, si mise in sull'armare, con fare che le compagnìe d'ordinanza non solo avessero i numeri interi, ma la gente fiorita e bene in ordine; inoltre ordinava, e squadronava tutta quella parte delle popolazioni, che era atta a portar le armi. Si doleva Napoleone di sì romorosi apparecchj, affermando, non pretendere coll'imperator d'Austria alcuna differenza: rispondeva Francesco essere a difesa, non ad offesa. Accusava il primo gli Austriaci ministri, e non so quale Viennese setta, bramosa di guerra, come la chiamava, e prezzolata dall'Inghilterra. Rinfacciava superbamente a Francesco, l'avere conservato la monarchìa Austriaca, quando la poteva distruggere; gli protestava amicizia; lo esortava a desistere dall'armi. Ma l'Austria non voleva riposarsi inerme sulla fede di colui, che aveva incarcerato per fraude i reali di Spagna. La confederazione Renana, la distruzione dell'impero Germanico, Vienna senza propugnacolo per la servitù della Baviera, Ferdinando cacciato da Napoli, il suo trono dato ad un Napoleonide, l'Olanda data ad un Napoleonide, Parma aggiunta, la Toscana congiunta, la pontificia Roma occupata, davano giustificata cagione all'Austria di correre all'armi, non potendole in modo alcuno esser capace, che a lei altro partito restasse che armi, o servitù. Solo le mancava l'occasione; la offerse la guerra di Spagna, all'impresa della quale era allora Napoleone occupato, e la usò. Ma prevedendo che quello era l'ultimo cimento per lei faceva apparati potentissimi. Un esercito grossissimo militava sotto la condotta dell'arciduca Carlo in Germania. Destinavasi all'invasione della Baviera, la quale perseverava nell'amicizia di Napoleone. Se poi la fortuna si mostrasse favorevole a questo primo conato, si aveva in animo di attraversare la Selva Nera, e di andare a tentare le Renane cose. Per ajutare questo sforzo, ch'era il principale, Bellegarde, capitano sperimentatissimo, stanziava con un corpo assai grosso in Boemia, pronto a sboccare nella Franconia, tostochè i casi di guerra il richiedessero. Grandissima speranza poi aveva collocato l'imperatore Francesco nel moto dei Tirolesi, sempre affezionati al suo nome, e desiderosi di riscuotersi dalla signoria dei Bavari. Era questo moto di grave momento sì per la natura bellicosa della nazione, e sì per tener aperte le strade tra i due eserciti di Germania e d'Italia. Sollecita cura ebbero gli ordinatori di questo vasto disegno delle cose d'Italia; perciocchè vi mandarono con un'oste assai numerosa, massimamente di cavalli, l'arciduca Giovanni, giovane di natura temperata, e di buon nome presso agl'Italiani. Stava Giovanni accampato ai passi della Carniola e della Carintia, in atto di sboccare per quei di Tarvisio e della Ponteba sulle terre Veneziane. Concorreva sull'estrema fronte a tanto moto con soldati ordinati, o con cerne del paese Giulay dalla Croazia e dalla Carniola, province, in cui egli aveva molta dipendenza. Questo nervo di guerra parve anche necessario per frenare Marmont, che con qualche forza di Napoleoniani governava la Dalmazia. Stante poi che nelle guerre principale fondamento è sempre l'opinione dei popoli, aveva Francesco con ogni sorta di esortazioni confortato i suoi, della patria, dell'independenza, dell'antica gloria, delle dure condizioni presenti, del futuro giogo più duro ancora ammonendogli: il nome Austriaco risorgeva; concorrevano volentieri i popoli alla difesa comune. Bande paesane armate stavano preste in ogni luogo ai bisogni dello stato; maravigliosa fu la concitazione, nè mai più promettenti sorti per l'Austria aveva veduto il mondo, come non mai ella aveva fatto sì formidabile preparazione.

A questi sforzi, se Napoleone era pari, non era certamente superiore. Fece opera di temporeggiarsi, offerendo la Russia per sicurtà della quiete. Ma da quell'uomo astuto e pratico ch'egli era, non ingannandosi punto sulle intenzioni della potenza emola, e certificato della mala disposizione di lei, che gli parve irrevocabile, si preparava alla guerra con mandar in Germania ed in Italia quanti soldati poteva risparmiare per la necessità d'oltre i Pirenei. Ciò non di meno Francesco, che con disegno da lungo tempo ordito si muoveva, stava meglio armato, e più pronto a cimentarsi. Pensò Napoleone ad andar egli medesimo alla guerra Germanica, perchè vedeva che sulle sponde del Danubio erano per volgersi le definitive sorti e che nissun altro nome, fuorchè il suo, poteva pareggiare quello del principe Carlo. Quanto all'Italia, diede il governo della guerra, in questa parte importante, al principe Eugenio, mandandogli per moderatore Macdonald. Si riposava l'esercito Italico di Napoleone nelle stanze del Friuli, occupando la fronte a destra verso la spiaggia marittima Palmanova, Cividale ed Udine, a sinistra verso i monti San Daniele, Osopo, Gemona, Ospedaletto e la Ponteba Veneta sin oltre alla strada per Tarvisio. Le altre schiere alloggiavano a foggia di retroguardo a Pordenone, Sacile, Conegliano sulle sponde della Livenza. Un altro corpo, che in due alloggiamenti si poteva congiungere col primo, ed era in gran parte composto di soldati Italiani agli stipendi del regno Italico, stanziava nel Padovano, nel Trevisano, nel Bassanese e nel Feltrino. Accorrevano a presti passi dal Bresciano e dalla Toscana nuove squadre ad ingrossare l'esercito principale: l'Italia e la Germania commosse aspettavano nuovo destino.

L'arciduca Carlo mandò dicendo al generalissimo di Francia, andrebbe avanti, e chi resistesse, combatterebbe. L'arciduca Giovanni, correndo il dì nove aprile, al medesimo modo intimò la guerra a Broussier, che colle prime guardie custodiva i passi della valle di Fella, per cui superate le fauci di Tarvisio, si acquista l'adito a Villaco di Carintia. Preparate le armi, pubblicavansi i discorsi. Sclamava Eugenio vicerè, parlando ai popoli del regno, avere l'Austria voluto la guerra: poco d'ora doversene star lontano da loro: girsene a combattere i nemici del suo padre augusto, i nemici della Francia e dell'Italia: confidare che sarebbero per conservare, lui lontano, quello spirito eccellente, del quale avevano già dato con le opere sì vere testimonianze: confidare che i magistrati bene e candidamente farebbero il debito loro, degni del sovrano, degni degl'Italiani popoli mostrandosi: dovunque e quandunque ei fosse, essere per conservar di loro e stabile ricordanza ed indulgente affetto.

Dal canto suo l'arciduca Giovanni, prima di venire al ferro, non se ne stava oziando con le parole, giudicando che potessero sorgere per tutta Italia per le varie inclinazioni dei popoli, gravi e favorevoli movimenti:

«Udite, diceva, Italiani, udite, e nei cuor vostri riponete, quanto la verità, quanto la ragione da voi richieggono. Voi siete schiavi di Francia, voi per lei le sostanze, voi la vita profondete. È l'Italico regno un sogno senza realtà, un nome senza effetto. Gli scritti soldati, le imposte gravezze, le usate oppressioni a voi bastantemente fan segno, che niuna condizione di stato politico, che niun vestigio d'independenza vi è rimasto. In tanta depressione voi non potete nè rispettati essere, nè tranquilli, nè Italiani. Volete voi di nuovo Italiani essere? Accorrete colle mani, accorrete coi cuori, ai generosi soldati di Francesco imperatore congiungetevi. Manda egli un poderoso esercito in Italia: non per sete di conquista il manda, ma per difendere se stesso, ma per restituire l'independenza a tante europee nazioni, di cui la servitù tanto è per tanti segni certa, quanto per tanti dolori dura. Solo che Iddio secondi le virtuose opere di Francesco imperatore, e de' suoi potenti alleati, fia novellamente Italia in se stessa felice, fia da altri rispettata: avrà novellamente il capo della religione i suoi stati, avrà la sua libertà. Una constituzione alla natura stessa, al vero stato politico vostro consentanea, sarà per prosperare le italiche contrade, e per allontanar da loro ogn'insulto di forza forestiera. Promettevi Francesco sì fortunate sorti: sa l'Europa, essere la sua fede tanto immutabile, quanto pura; il cielo, il cielo vi parla per bocca di lui. Accorrete, Italiani, accorrete: chiunque voi siate, o qual nome v'aggiate, o qual setta amiate, purchè Italiani siate, senza temenza alcuna a noi venite. Non per ricercarvi di quanto avete fatto, ma per soccorrervi e per liberarvi siamo in cospetto dell'Italiane terre comparsi. Consentirete voi a restarvi, come ora siete, disonorati e vili? Sarete voi da meno che gli Spagnuoli, eroica gente, che altamente dissero, e che più altamente fecero che non dissero? Meno che gli Spagnuoli amino, amate voi forse i vostri figliuoli, la vostra religione, l'onore e il nome della vostra nazione? Abborrite voi forse meno ch'essi, il vergognoso giogo a cui v'han posti coloro, che con belle parole v'ingannarono, che con tristi fatti vi lacerarono? Avvertite, Italiani, e negli animi vostri riponete ciò, che ora con ragione e con verità vi diciam noi, che questa è la sola, questa l'ultima occasione che a voi si scopre di vendicarvi in libertà, di gettar via dai vostri colli il duro giogo che su tutta Italia s'aggrava: avvertite, e negli animi vostri riponete, che se voi ora non vi risentite, e se neghittosi ancora vi state ad osservare, voi vi mettete a pericolo, quali dei due eserciti abbia ad aver vittoria, di non essere altro più che un popolo conquistato, che un popolo così senza nome, come senza diritti. Che se pel contrario con animi forti vi risolvete a congiungere con gli sforzi dei vostri liberatori anco i vostri, e se con loro andate a vittoria, avrà l'Italia novella vita, avrà suo grado fra le grandi nazioni del mondo, e risalirà fors'anche al primo, come già il primo si ebbe. Italiani, più avventurose sorti or sono nelle mani vostre poste, in quelle mani che in alto alzando le faci indicatrici di dottrina, di civiltà, di arti tolsero il mondo alla barbarie, e dolce, e mansueto, e costumato il renderono. Milanesi, Toscani, Veneziani, Piemontesi, e voi tutti popoli d'Italia, sovvengavi dei tempi andati, sovvengavi dell'antica gloria: e tempi e gloria potranno rinstaurarsi, e rinverdirsi più prosperi e più splendidi che mai, se fia che voi un generoso cooperare ad un pigro aspettare anteponiate. Volere, fia vittoria; volere, fia tornarvi più lieti e più gloriosi, che gli antenati vostri ai tempi del maggiore splendor loro non furono».

A questo modo l'arciduca spronava gl'Italiani, acciò non avessero a disperarsi di vedere la patria loro rimanere in altro grado che d'ignominiosa e perpetua servitù. Ma le sue esortazioni non partorirono effetti d'importanza, perchè coloro che avevano le armi in mano, parteggiavano, come soldati, per Napoleone: gl'inermi odiavano bensì la signoria Francese, ma non si fidavano di quella dell'Austria, nè che la vittoria di lei fosse per essere la libertà d'Italia pareva lor chiaro: tutti poi spaventava la ricordanza ancor fresca del caso di Ulma. Nè appariva che fosse per nascere alterazione tra Napoleone ed Alessandro, la quale sola avrebbe potuto dare speranza probabile di buon successo.

Addì dieci d'aprile la tedesca mole piombava sull'Italia. L'arciduca, varcata la sommità dei monti al passo di Tarvisio, e superato, non però senza qualche difficoltà per la resistenza dei Francesi, quello della Chiusa s'avvicinava al Tagliamento. Al tempo stesso, con abbondante corredo di artiglierìe e di cavallerìa passava l'Isonzo, e minacciava con tutto lo sforzo de' suoi la fronte dei Napoleoniani. Fuvvi un feroce incontro al ponte di Dignano, perchè quivi Broussier combattè molto valorosamente. Ma ingrossando vieppiù nelle parti più basse gli Austriaci, che avevano passato l'Isonzo, Broussier si riparò per ordine del vicerè sulla destra; che anzi, crescendo il pericolo, andò il principe a piantare il suo alloggiamento in Sacile sulla Livenza, attendendo continuamente a raccorre in questo luogo tutte le schiere, sì quelle che avevano indietreggiato, come quelle che gli pervenivano dal Trevisano e dal Padovano. Stringevano i Tedeschi d'assedio le fortezze di Osopo e di Palmanova. Eugenio, rannodati tutti i suoi, eccetto quelli che venivano dalle parti superiori del regno Italico e dalla Toscana, si deliberava ad assaltar l'inimico, innanzi che egli avesse col grosso della sua mole congiunto le altre parti che a lui si avvicinavano. Del quale consiglio, non che lodare, biasimare piuttosto si dovrebbe il principe; poichè sebbene l'arciduca non avesse ancora tutte le sue genti adunate in un sol corpo, tuttavia sopravvanzava non poco di forze, e non che fosse dubbio il cimento, era da temersi che gli Austriaci sarebbero rimasti superiori; che se conveniva all'arciduca, siccome fornito di maggior forza, il dar dentro, non conveniva al principe, che l'aveva minore: doveva Eugenio in questo caso anteporre la prudenza all'ardire.

Erano i Francesi ordinati per modo nei contorni di Sacile, che Seras e Severoli occupavano il campo a destra, Grenier e Barbou nel mezzo, Broussier a sinistra: le fanterìe e le cavallerìe del regno Italico formavano gran parte della destra. Fu quest'ala la prima ad assaltar i Tedeschi, correva il dì sedici aprile: destossi una gravissima contesa nel villaggio di Palsi, da cui e questi e quelli restarono parecchie volte cacciati e rincacciati: i soldati Italiani combatterono egregiamente. Pure restò Palsi in potestà dell'arciduca: e già i Tedeschi minacciosi colla loro sinistra fornitissima di cavallerìe, insistevano; la destra dei Francesi molto pativa; Seras e Severoli si trovavano pressati con urto grandissimo, ed in grave pericolo. Sarebbero anche stati condotti a mal partito, se Barbou dal mezzo non avesse mandato gente fresca in loro ajuto. Avuti Seras questi soldati di soccorso, preso nuovo animo, pinse avanti con tanta gagliardìa, che pigliando del campo scacciò il nemico, non solamente da Palsi, ma ancora da Porcia, dove aveva il suo principale alloggiamento. L'arciduca, veduto che il mezzo della fronte Francese era stato debilitato pel soccorso mandato a Seras, vi dava dentro per guisa che per poco stette, che non lo rompesse intieramente. Ma entrava in questo punto opportunamente nella battaglia Broussier, e riconfortava i suoi, che già manifestamente declinavano: Barbou eziandìo si difendeva con molto spirito. Spinse allora l'arciduca tutti i suoi battaglioni avanti: la battaglia divenne generale su tutta la fronte. Fu la zuffa lunga, grave e sanguinosa, superando i Tedeschi di numero e di costanza, i Francesi d'impeto e d'ardire. Intento sommo degli Austriaci era di ricuperar Porcia; ma contuttochè molto vi si sforzassero, non poterono mai venirne a capo. In quest'ostinato combattimento rifulse molto egregiamente la virtù del colonnello Giflenga, mentre guidava contro il nemico uno squadrone di cavalli Italiani. Fuvvi gravemente ferito il generale Teste, guerriero molto prode. Durava la battaglia già da più di sei ore, nè la fortuna inclinava. Pure finalmente rinfrescando sempre più l'arciduca con nuovi ajuti la fronte, costrinse i Napoleoniani a piegare, non senza aver disordinato in parte le loro schiere, e ucciso loro di molta gente. Patì molto la cavallerìa di Francia; fu anche danneggiata fortemente la schiera di Broussier, che servendo di retroguardo alle altre mezzo rotte e ritirantisi, ebbe a sostenere tutto l'impeto del nemico vincitore. Se la notte, che sopraggiunse, non avesse posto fine al perseguitare del nemico avrebbero i Francesi e gl'Italiani pruovato qualche pregiudizio molto notabile. Perdettero in questa battaglia di Sacile i Napoleoniani circa due mila cinquecento soldati tra morti, feriti e prigionieri: non mancarono dei Tedeschi più di cinquecento. Dopo l'infelice fatto non erano più le stanze di Sacile sicure al principe vicerè. Per la qual cosa si ritrasse, seguitato debolmente dai Tedeschi, sempre lenti perseguitatori dei nemici vinti, e perciò perdenti molte buone occasioni, sulle sponde dell'Adige. Quivi vennero a congiungersi con lui i soldati di Lamarque, che già stanziavano nelle terre Veronesi, e quelli che sotto Durutte dalla Toscana erano venuti. Nè piccola cagione di dare novelli spiriti ai Napoleoniani fu l'arrivo di Macdonald. Fu egli veduto con allegra fronte, ma con animo poco lieto da Eugenio, che stimava aver a passare in lui la riputazione di ogni impresa segnalata. Passò l'arciduca la Piave, passò la Brenta, tutto il Trivigiano, il Padovano e parte del Vicentino inondando. Assaltava in questo mentre Palmanova, ma con poco frutto: tentò con un grosso sforzo il sito fortificato di Malghera per aprirsi la strada alle lagune di Venezia; ma non sortì effetto. Si apprestava non ostante ad andar a trovar il nemico sulle rive dell'Adige, sperando di riuscire nella superiore Lombardìa, dominio antico dei suoi maggiori. Non trovò nelle regioni conquistate quel seguito che aspettava. Vi fu qualche moto in Padova, ma di poca importanza; si levarono anche in arme gli abitatori di Crespino, terra del Polesine; e fu per loro in mal punto; perchè Napoleone tornato superiore per le vittorie di Germania, fortemente sdegnatosi, gli soggettò all'imperio militare, ed alla pena del bastone per le trasgressioni. Supplicarono di perdono. Rispose, perdonare, ma a prezzo di sangue; gli dessero, per essere immolati, quattro di loro. Per intercessione del vicerè, che tentò di mollificare l'animo dell'imperatore, fu ridotto il numero a due; questi comperarono coll'ultimo supplizio l'indennità della patria.

Intanto l'arciduca Carlo, varcato l'Oeno, aveva occupato la Baviera; e col suo grosso esercito s'incamminava alla volta del Reno. Ogni cosa pareva su quei primi principj dar favore allo sforzo dell'imperatore Francesco. Ma parte molto principale era la sollevazione dei Tirolesi. Annidavansi negli animi di questo popolo armigero e virtuoso molte male soddisfazioni. Assuefatti da lungo tempo al mansueto dominio della casa d'Austria, molto mal volentieri sopportavano la signorìa dei Bavari, come non consueta, e come, se non per antico costume, almeno per gli esempj freschi, e fors'anche pei comandamenti Napoleonici, dura e soldatesca. S'aggiungeva, che il re di Baviera aveva abolito l'antica constituzione del Tirolo, riducendo la forma politica alla potestà assoluta, anche in materia di tasse. S'accordarono parte segretamente, parte palesemente per secondare con ogni nervo l'impresa dell'antico loro signore. L'Austria gli aveva fomentati, mandando per le montagne di Salisburgo nel Tirolo Jellacich con un corpo di regolari.

Il giorno stesso in cui l'arciduca Carlo aveva passato l'Oeno, e l'arciduca Giovanni le strette di Tarvisio, i Tirolesi mossi da una sola mente e da un solo ardore, si levarono tutti improvvisamente in armi, e diedero addosso alle truppe Bavare e Francesi, che nelle terre loro erano poste a presidio. Fecero capo al moto loro un Andrea Hofer, albergatore a Sand nella valle di Passeira. Non aveva Andrea alcuna qualità eminente, dico di quelle alle quali il secolo va preso: bensì era uomo di retta mente, e d'incorrotta virtù. Vissuto sempre nelle solitudini dei Tirolesi monti, ignorava il vizio e i suoi allettamenti. I Parigini ed i Milanesi spiriti, anche i più eminenti, correvano alle lusinghe Napoleoniche, povero albergator di montagna, perseverava Hofer nell'innocente vita. Allignano d'ordinario in questa sorte d'uomini due doti molto notabili, l'amore di Dio, e l'amore della patria: l'uno e l'altro risplendevano in Andrea. Per questo la Tirolese gente aveva in lui posto singolare benevolenza e venerazione. Non era in lui ambizione; comandò richiesto, non richiedente. Di natura temperatissima, non fu mai veduto nè nella guerra sdegnato, nè nella pace increscioso, contento al servire od al principe, od alla famiglia. Vide vincitori insolenti, vide incendj di pacifici tuguri, vide lo strazio e la strage dei suoi; nè per questo cessò dall'indole sua moderata ed uguale: terribile nelle battaglie, mite contro i vinti, non mai sofferse che chi le guerriere sorti avevano dato in sua potestà, fosse messo a morte: anzi i feriti dava in cura alle Tirolesi donne, che e per se, e per rispetto di Hofer gli accomodavano di ogni più ospitale servimento. Distruggeva Napoleone le patrie altrui, sdegnoso anche contro gli amici: difendeva Hofer la sua, dolce anche contro coloro, che la chiamavano a distruzione ed a morte. Lascio io volentieri le illustri penne della vile età nostra lodare i colpevoli fatti dei potenti; ma non mi sarà, credo, negato, ch'io col mio basso ed oscuro stile mi diletti spaziando nel raccontare le generose opere di coloro, ai quali più arrise la virtù che la fortuna.

Adunque la nazione Tirolese, al suo antico signore badando, ed avendo a schifo la signorìa nuova, uomini, donne, vecchi e fanciulli da Andrea Hofer ordinati e condotti, insorsero, e dalle più profonde valli, e dai più aspri monti uscendo, fecero un impeto improvviso contro i Bavari ed i Francesi. Assaltati in mezzo a tanto tumulto i Bavari a Sterchinga, a Inspruck, a Hall, e nel convento di San Carlo, non poterono resistere, e perduti molti soldati tra morti e cattivi, deposero le armi, erano circa diecimila, in potestà dei vincitori rimettendosi. Nè miglior fortuna incontrò un corpo di tremila Napoleoniani Francesi e Bavari, che in soccorso degli altri arrivava, sotto le mura di Vildavia. Quindi quante squadre comparivano alla sfilata o degli uni o degli altri, tante erano sottomesse dai sollevati. Nè luogo alcuno sicuro, nè ora vi erano per gli assalitori; perchè da ogni parte, e così di notte come di giorno, i Tirolesi uscendo dai loro reconditi recessi, e viaggiando per sentieri incogniti, siccome quelli che ottimamente sapevano il paese, opprimevano all'improvviso gl'incauti Napoleoniani. Fu questa una guerra singolare e spaventosa, conciossiacchè al romore delle armi si mescolava il rimbombo delle campane, che continuamente suonavano a martello, e le grida dei paesani sclamanti senza posa, in nome di Dio, in nome della santissima Trinità. Tutti questi strepiti uniti insieme, e dall'eco delle montagne ripercossi facevano un misto pieno di orrore, di terrore, e di religione.

Quest'erano le voci di una patria santa ed offesa. Chi con le carabine trapassava da lontano i corpi degli offenditori, chi con sassi sparsamente lanciati gli tempestava, chi con enormi massi strabalzati gli ammaccava. Hofer composto in volto, e torreggiante per l'alta e forte sua persona in mezzo a' suoi, e solo da loro conosciuto per lei, non per l'abito conforme in tutto a quello dei compagni, appariva ora incitante contro gli armati, ora raffrenante verso gl'inermi, uccisore ardentissimo di chi resisteva, difensore magnanimo di chi si arrendeva. Dovunque, e quandunque andava, era una volontà sola per combattere, una volontà sola per cessare, e più poteva l'autorità del suo nome in quegli animi bellicosi, che in soldati ordinatissimi l'uso della disciplina, ed il timore dei soldateschi castighi. I fanciulli fecero da adulti, i vecchi da giovani, le femmine da uomini, gli uomini da eroi; nè mai più onorevole e giusta causa fu difesa da più unanime e forte consenso. Camminavano i vinti, erano una moltitudine considerabile, per la strada di Salisburgo verso il cuore dell'Austria, gratissimo spettacolo a Francesco. I Tirolesi vincitori sulle terre Germaniche, passate le altezze del Brenner, vennero nelle Italiane, e mossero a romore le regioni superiori a Trento. Propagavasi il romore da valle in valle, da monte in monte, e la Trentina città stessa era in pericolo. Certo era, che quando l'arciduca Giovanni fosse comparso sulle rive dell'Adige, la massa Tirolese sarebbe calata a fargli spalla; il che avrebbe partorito un caso di grandissima importanza per tutta Italia: quest'era il disegno dei generali Austriaci. L'imperatore Francesco, sì per ajutare la caldezza di questo moto, e sì per dimostrare che non aveva mandato in dimenticanza quelle popolazioni tanto affezionate, mandava in Tirolo Chasteler, un generale per arte e per valore fra i primi dell'età nostra, acciocchè nelle cose di guerra consigliasse Hofer. Mandava altresì, come abbiam notato, un corpo di regolari usi alle guerre di montagna, sotto la condotta di Jellacich, capitano esperto e conoscitore del paese. Come prima le insegne ed i soldati dell'Austria comparirono, sentirono i Tirolesi una contentezza incredibile. Entrarono gl'imperiali a guisa di trionfo; tante erano le dimostrazioni d'allegrezza che i popoli facevano loro intorno. Le campane suonavano a gloria, le artiglierìe, e le archibuserìe tiravano a festa: i vincitori popoli applaudivano: abbracciavano, s'abbracciavano, erano pronti a ristorare i soldati d'Austria con le più gradite vivande di quei monti: giorni felicissimi per l'eroico Tirolo.

Qui finirono le allegrezze dell'Austria; poichè nel colmo più alto delle sue maggiori speranze, Napoleone fatale giunto sulle terre Germaniche, e recatosi in mano il governo della guerra, vinse in pochi giorni tre grossissime battaglie a Taun, a Abensberga, a Ecmul. Per questi accidenti, fu costretto l'arciduca Carlo a ritirarsi sulla sinistra del Danubio, e restò aperta la strada sulla destra ai Napoleoniani per Vienna. Produssero anche le rotte dell'arciduca un altro importante effetto, e questo fu, che oltrandosi Napoleone alla volta di Vienna, fu forza all'arciduca Giovanni il tirarsi indietro dall'Italia; affinchè non gli fosse impedita la facoltà di ritornarsene in Austria, e perciò non solo l'Italia si perdeva per lui, ma ancora il Tirolo. Così per le vittorie acquistate dall'imperator dei Francesi tra Augusta e Ratisbona si cambiò la condizione della guerra. Chi aveva assaltato, era costretto a difendersi; chi era stato assaltato, aveva acquistato facoltà di assaltare; l'Italia si perdeva per l'Austria. Vienna pericolava, e niuna speranza restava a chi aveva mosso la guerra, che quelle dell'Ungherìa, della Moravia e della Boemia.

Quando pervennero all'arciduca Giovanni le novelle delle perdite del fratello, s'accorse, e n'ebbe anche comandamento da Vienna, che quello non era più tempo da starsene a badare in Italia, e che gli era mestiero accorrere in ajuto della parte più vitale della monarchìa. Ordinava adunque il suo esercito, che già era trascorso oltre Vicenza, alla ritirata, solo proponendosi di fare qualche resistenza ai luoghi forti per poter condurre in salvo le artiglierìe, le munizioni e le bagaglie; opera difficile e pericolosa, con un nemico a fronte tanto svegliato e precipitoso. Ritiravasi l'arciduca, perseguitavalo il principe. Fuvvi qualche indugio alla Brenta per la rottura dei ponti. Fermaronsi gli Austriaci sulle sponde della Piave, e si deliberarono a contendere il passo. Erano alloggiati in sito forte, distendendosi colla destra sino al ponte di Priuli, stato a bella posta arso dall'arciduca, e colla sinistra a Rocca di Strada, sulla via che porta a Conegliano. Numerose artiglierìe rinforzavano la fronte che occupava le vicine eminenze in faccia al fiume; i luoghi bassi erano assicurati da alcune torme di cavalli. S'apprestavano i Francesi al passo, sforzandosi di varcare a quello di Lovadina, che è il principale. Non ostante che i Tedeschi furiosamente tempestassero coll'artiglierìe poste nei luoghi eminenti, Dessaix venne a capo dell'intento. Poi passò il vicerè, sopra e sotto a Lovadina, con la maggior parte dell'esercito. Ordinò tostamente i soldati sotto il bersaglio stesso dei nemici, che con palle, e cariche continue di cavallerìa l'infestavano. Pareggiossi la battaglia, che continuava con grandissimo furore da ambe le parti; perchè i Francesi volevano sloggiare gli Austriaci dalle alture, gli Austriaci volevano rituffar i Francesi nel fiume. Non risparmiavano nè il principe nè l'arciduca, in questa terribile mischia, a fatica od a pericolo, ora come capitani comandando, ed ora come soldati combattendo. Era il conflitto tra la Piave e Conegliano; fossi profondi munivano la fronte Tedesca. Diedero dentro i Francesi, Abbé a destra, Broussier in mezzo, Lamarque a sinistra: secondavangli Pully, Grouchy, Giflenga. Dopo ostinato affronto i soldati dell'arciduca furono costretti a piegare: la fortuna si scopriva a favor del principe. Restava a superarsi il molino della Capanna, dove i Tedeschi ostinatamente si difendevano. Lamarque ajutato da Durutte, superati velocemente i fossi, e caricando con le bajonette, s'impadroniva finalmente di quel forte sito; il che fece del tutto sopravvanzare le sorti di Francia. Si ritirarono gli Austriaci, non senza disordine nelle ordinanze, a Conegliano. Poi pressando vieppiù il nemico, cercarono salvamento in Sacile. Fu molto grossa questa battaglia, e molto vi patirono i Tedeschi: tra morti, feriti e prigionieri, i perduti sommarono circa a diecimila. Morirono fra gli altri, o vennero in potestà del vincitore, i generali Wolskell, Risner e Hager. Perdettero quindici cannoni, trenta cassoni, molte munizioni e bagaglie. Dei Napoleoniani mancarono tra morti e feriti circa tremila. Principal onore in questo fatto riportarono dalla parte dei Francesi, oltre il principe, Dessaix e Pully: da quella dei Tedeschi, oltre l'arciduca, Wolskell, che finì poco dopo per le ferite l'ultimo dì della sua vita con molto rincrescimento de' suoi, perchè era veramente valoroso, e perito capitano di guerra.

Continuava l'arciduca a ritirarsi, il principe a seguitarlo. Passò il Francese facilmente la Livenza, difficilmente il Tagliamento. Inondando i Napoleoniani con la cavalleria il piano e le valli, scioglievano l'assedio d'Osopo e di Palmanova. Divise il vicerè i suoi in due parti, mandando la prima alla volta dei passi di Tarvisio verso la Carintia, la seconda sotto la condotta di Macdonald verso la Carniola. L'intento era di sospingere con quella, occupando la Carintia e la Stiria, il nemico sino ai recessi dell'Ungherìa, e di congiungersi in tal modo coi Napoleoniani di Germania; con questa di accennare Lubiana, e di cooperare con Marmont, che a gran passi si accostava venendo dalla Dalmazia. L'uno e l'altro disegno riuscirono a quel fine, che il capitano di Francia si era proposto; conciossiachè Dessaix e Seras prendendo continuamente dei monti, e cacciandosi avanti per le valli di Ponteba, di Pradele, della Fella, e della Dogna i Tedeschi, si avvicinavano al sommo giogo, che disparte le acque del Mediterraneo da quelle del mar Nero. Incontrarono un primo intoppo nei forti di Malborghetto e di Pradele. Tentò Seras di corrompere con danari il comandante di Malborghetto. Ricusò il Tedesco contrattazione tanto abbominevole: anzi combattendo valorosamente, e confortando con gravi e virili parole i compagni alla difesa del forte, ed alla salute della patria, vi finì una onorata vita con una gloriosa morte. Duolmi di non aver conosciuto il nome di questo virtuoso Austriaco, poichè mi sarebbe stato caro il mandarlo ai posteri in queste mie storie. Ottenevano finalmente i Napoleoniani i due forti: superava il vicerè il passo di Tarvisio, ed entrava vincitore nella Carintia, alla volta di Judenburgo di Stiria incamminandosi. Jellacich cacciato dal Tirolo per le armi del maresciallo Lefevre, mandatovi da Napoleone dopo le vittorie di Ratisbona, perdè quasi tutti i suoi a San Michele di Stiria. Seras, passati i monti di Someringa, ed arrivato a Scottvien, si congiungeva con le prime scolte dell'esercito Germanico.

Mentre queste cose accadevano sulla sinistra del vicerè, Macdonald sulla destra aveva occupato, passando per Monfalcone e Duino, Trieste. Da questo luogo si era incamminato verso la Carniola per impadronirsi di Lubiana, città capitale, cooperare con Marmont, e quindi per la strada maestra che da Lubiana porta a Gratz, condursi in quest'ultima città col fine di essere in grado di menar nuovi soldati a Napoleone. L'arciduca Carlo teneva ancora il campo grosso e minaccioso. Trovava Macdonald un duro intoppo in Prevaldo; ma parte di fronte assaltandolo, e parte girando ai fianchi, l'acquistava. Colla medesima arte di accennare ai fianchi ed alle spalle costringeva alla dedizione quattromila Austriaci, che difendevano Lubiana, e vi entrava trionfando. Acquistata così nobile vittoria, se ne giva, lasciati in Carniola presidii sufficienti, a Gratz. Quivi fermossi aspettando, che Marmont lo venisse a trovare dalla Dalmazia. Come prima il generale dei Dalmatici ebbe avviso, che l'arciduca Giovanni, costretto dalla necessità della guerra d'Alemagna, si era mosso dal Vicentino per ritirarsi dall'Italia, si era messo in cammino per andar a congiungersi a cose maggiori col grosso dei Napoleoniani. Partitosi adunque da Zara, e superati i Tedeschi, che gli vollero contendere il passo al monte di Chitta ed a Gracazzo, si approssimava alla terra di Gospizza, forte di sito per le molte acque che la circondano, e per esservisi il nemico molto ingrossato. Erano, la più parte, Croati. Fuvvi un combattere molto fiero sì in una battaglia stabile, e sì alla campagna sparsa. Vinse, dopo molto sangue, la fortuna dei Napoleoniani. S'apersero, per la vittoria di Gospizza, facili le strade al capitano di Francia, perchè da un incontro in fuori, ch'egli ebbe col retroguardo nemico ad Ottossa, non gli fu più oltre contrastato il passo. Occupò successivamente Segra e Fiume, e trovati i compagni in Istria, s'incamminava a gran giornate a Gratz. A questo modo tutto l'antico Illirico venne in potestà di Francia. Il vicerè, raccolte tutte le squadre, e solo lasciate le guernigioni necessarie nei luoghi più opportuni, passava i monti di Someringa, e per la valle dell'Arabone, o Giavarino, che i moderni chiamano Raab, verso il Danubio calandosi, andava a farsi partecipe delle imprese del padre. L'enfasi Napoleonica quivi si spiegava: «O bene v'avvenga, diceva in uno scritto mandato fuori a posta, e siate ben venuti, o soldati miei dell'esercito Italico: sorpresi da un nemico perfido prima che le vostre colonne fossero unite, fino all'Adige ritraeste i passi; ma quando ordinaivi di marciare avanti, e quelli essere i campi d'Arcole ricordaivi, voi vinceste venti battaglie, voi conquistaste venticinque mila prigioni, voi seicento cannoni, voi dieci bandiere: nè la Sava, nè la Drava, nè la Mura, nè le strette di Tarvisio, nè gli aspri gioghi della Someringa vi arrestarono: quel Jellacich, primo autore dell'uccisione dei nostri nel Tirolo, pruovò di che sapessero le baionette vostre: voi feste pronta giustizia di quelli avanzi fuggiti dallo sdegno del grande esercito: o bene v'avvenga, e siate ben venuti, o voi soldati, che operaste, che quegli Austriaci d'Italia, che per poco d'ora ebbero contaminato con la loro presenza le mie provincie, vinti, dispersi ed annientati, servissero d'esempio della verità di questa divisa. Dio me la diede, guai a chi la tocca; sono, o soldati, contento di voi». A queste intonazioni di Napoleone si stringevano nelle spalle gli uomini savi e temperati, i quali, per amore anche della grandezza di lui, avrebbero desiderato maggior moderazione; ma Napoleone non conobbe la grandezza della modestia.

Il giorno quattordici di giugno, anniversario della vittoria di Marengo, vinceva il principe Eugenio sotto le mura di Giavarino una grossissima battaglia contro l'arciduca Giovanni, che saliva per le sponde del Danubio in ajuto del suo fratello Carlo. Fu questa battaglia bene, e con arte egregia combattuta dal vicerè. Nè io voglio defraudare dalla dovuta laude l'arciduca, che in mezzo a tanto tumulto, a tanti spaventi, a tanto precipizio dello cose Austriache, conservò la mente immota, e le schiere ordinate. Combattè coi retroguardi valorosamente, tenne rannodati gli antiguardi, e dopo tante battaglie, ed una ritirata di tanto spazio, risorse più potente di prima nei campi di Giavarino, e se non fosse stata la prestezza del vicerè, avrebbe forse cambiato da tristi in liete le sorti del fratello augusto. Piacemi in questo luogo dire, di Eugenio e di Giovanni favellando, che giovani ambidue, se furono d'età pari, furono anche di valore; ma Giovanni più modesto per la natura della casa, Eugenio più borioso per gli sproni del padre, degno l'uno di difendere la propria patria, non degno l'altro di distruggere le patrie d'altrui.

Il dì sei di luglio periva la mole Austriaca nei campi di Vagria. Quivi fu prostrato l'arciduca Carlo: Napoleone divenne padrone di quell'antica e grande monarchìa. Si trovò facilmente forma di concordia per la depressione d'una delle parti: consentì l'imperatore Francesco a condizioni durissime di pace. Consentì anche, prevalendo in lui ad ogni altro rispetto la salute dello stato, a quello che era più duro ancora che tutte le altre condizioni, dico al congiungere la propria figliuola Maria Luisa in matrimonio a colui, che era la ruina della sua casa, e che principiante e durante la guerra, l'aveva chiamato coi nomi più vituperosi. Il dì quattordici ottobre si stipulava in Vienna, per lo stabilimento delle cose comuni, dal signor principe di Champagny per parte di Napoleone e dal principe di Lichtenstein per parte di Francesco, il trattato di pace. Cedeva l'imperatore Francesco all'imperator Napoleone, oltre molti altri paesi in Germania ed in Polonia, la contea di Gorizia, il territorio di Monfalcone, la contea e la città di Trieste, il ducato di Carniola con le sue dipendenze nel golfo di Trieste, il circolo di Villaco nella Carintia, con tutti i paesi situati sulla riva destra della Sava, dal punto in cui questo fiume esce dalla Carniola, fin dove tocca le frontiere della Bosnia, nominatamente una parte della Croazia provinciale, sei distretti della Croazia militare, Fiume, ed il littorale Ungherese, l'Istria Austriaca col distretto di Castua, Picino, Buccari, Buccarizza, Portore, Segua, e le isole dipendenti dai paesi ceduti, e tutti gli altri territorii qualsivogliano situati sulla destra del fiume, il filo delle acque del quale avesse a servire di limite fra i due stati: perdonasse Napoleone ai Tirolesi, Francesco ai Polacchi: l'Austria cessasse ogni relazione coll'Inghilterra. Napoleone sempre intento a torre la riputazione a' suoi amici per tor loro poscia lo stato, fece inserire nel trattato un capitolo, per cui l'Austria si obbligava a cedere all'imperatore Alessandro di Russia, che era stato, contro ogni ragione, oziosamente riguardando il processo di questa guerra, nella parte più orientale dell'antica Galizia un territorio, che contenesse quattrocento mila anime, non inclusa però la città di Brodi; il quale capitolo accettò Alessandro, benchè fosse spoglia di un amico, che ne ricevette grandissima molestia. Di questa stipulazione non merita riprensione l'Austria, siccome quella che vi consentì per forza. Dello sforzatore poi e dell'accettatore, chi abbia meritato maggior biasimo, facilmente il giudicheranno i posteri. Questo fine sortirono la presa d'armi, ed il poderoso apparato di guerra dell'Austria, e questa concordia fu obbligata d'accettare. L'Europa viemaggiormente si confermava in servitù di Napoleone.

L'Austria percossa da tanto infortunio quietava per la pace: ma era dolorosa la sua quiete. Oltre la perduta potenza, l'infestava l'insolenza del vincitore, e l'aggravavano le grossissime imposizioni. Soli i Tirolesi non cedevano al terrore comune, e con l'armi in mano continuavano a difendere quel sovrano, che già deposte le sue, aveva dato molte nobili parti del suo dominio, e loro stessi in potestà del vincitore. Il principe Eugenio dalle sue stanze di Villaco gli esortava a posare, ma invano. Più volte combattuti dai Francesi, dai Sassoni e dai Bavari, più volte batterono, e più volte anco battuti, più volte risorsero. Vinti, si ritiravano alle selve impenetrabili, ai monti inaccessibili: vincitori, inondavano le valli, e furiosamente cacciavano il nemico. Vinti, erano trattati crudelmente dai Napoleoniani; vincitori, trattavano i Napoleoniani umanissimamente; e siccome gente religiosa, vinti, con segni di grandissima divozione pregavano dal cielo miglior fortuna alla patria, vincitori, coi medesimi segni il ringraziavano. E' furono visti, dopo di aver superato con incredibile valore i soldati di Lefevre, e restituito a libertà coloro, che si erano arresi, scorrente ancora il sangue, e presenti i cadaveri dei compatriotti e dei nemici, gettarsi al punto stesso, dato il segno da Hofer, coi ginocchi a terra, ed in tale pietosa attitudine, tra lacrimosi e lieti rendere grazie a Dio dell'acquistata vittoria. Echeggiavano i monti intorno dei divoti ed allegri suoni mandati fuori da religiosi e forti petti. Infine sottentrando continuamente genti fresche a genti uccise, abbandonati da tutto il mondo, anzi quasi tutto il mondo combattendo contro di loro, cessarono i Tirolesi, non dal volere, ma dal potere, e nei montuosi ricetti loro ricoveratisi aspettavano occasione, in cui più potesse la virtù che la forza. Il bavaro dominio si restituiva nel Tirolo Tedesco, cedè l'Italiano in possessione del regno Italico.

Sul finire del presente anno Andrea Hofer si ritirava con tutta la sua famiglia ad un povero casale fra montagne e nevi altissime, dolente per la patria, tranquillo per se. Ma Napoleone era sitibondo del suo sangue. Perciò, fattolo con tutta diligenza cercare e ricercare, gli riuscì di trovarlo nel suo recondito recesso. Batterono alla porta i Napoleoniani soldati, era la notte dei venzette gennaio dell'ottocento dieci. L'aperse Hofer: veduto che era venuto in forza altrui, con semplicità e serenità mirabile: «Son io, disse, Andrea Hofer, sono in poter di Francia: fate di me ciò che v'aggrada; ma vi piaccia risparmiare la mia donna e i miei figliuoli: son eglino innocenti, nè de' fatti miei obbligati». Così dicendo, diessi in potestà dei Napoleoniani. Diedesi con lui un giovinetto di fresca età, figliuolo di un medico di Gratz, venuto, così muovendolo la virtù del Tirolese, a trovarlo, ed a dedicarsegli o a vita o a morte. Condotto a Bolzano, l'accompagnavano la madre, ed un figliuolo di tenera età. Ultimo destino gli soprastava. Fu il figliuolo lasciato stare a Bolzano, la madre mandata a Passeira ad aver cura di tre altri figliuoli ancor bambini, i quali, se ora avevano il padre prigioniero, presto il dovevano aver morto. Pure non se n'accorgevano per la fanciullezza; il che muoveva viemmaggiormente a compassione. Accorrevano i popoli smarriti dovunque i Napoleoniani con Andrea legato passavano, o nel Tirolo Tedesco o nell'Italiano che si fosse, alzando per dolore gli occhi al cielo, e lacrimando, e sclamando, e la memoria del diletto ed infelice loro capitano benedicendo. Le palle soldatesche ruppero in Mantova il patrio petto d'Andrea, lui non che intrepido, quieto in quell'estrema fine. Ostò ad Andrea l'età perversa: fu chiamato brigante, fu chiamato assassino. Certo, se le lodi sono stimolo a virtù, lagrimevole e disperabil cosa è il pensare al destino di Hofer.

Acquistata tanta vittoria dell'Austria, e deponendo ogni simulazione, non conobbe più freno Napoleone: l'antica cupidigia di Roma gli veniva in mente. Piacquegli per maggiore scorno dell'Austria, che sul principiar della guerra aveva favellato di liberare e restituire il papa, decretare il dì diciassette maggio in Vienna stessa queste cose: considerato, che quando Carlomagno imperatore dei Francesi, e suo augusto antecessore, diede in dono ai vescovi di Roma parecchi paesi, gliene cedè loro a titolo di feudo col solo fine di procurare sicurezza a' suoi sudditi, e senza che per questo abbia Roma cessato di esser parte del suo impero; considerato ancora, che da quel tempo in poi l'unione delle due potestà spirituale e temporale era stata, ed ancora era, fonte e principio di continue discordie, che pur troppo spesso i sommi pontefici si erano serviti dell'una per sostenere le pretensioni dell'altra, e per questo le faccende spirituali, che per natura propria sono immutabili, si trovarono confuse colle temporali sempre mutabili, a seconda dei tempi; considerato finalmente, che quanto aveva egli proposto a conciliazione della sicurtà de' suoi soldati, della quiete e della felicità de' suoi popoli, della dignità e della integrità del suo impero colle pretensioni temporali dei sommi pontefici, era stato proposto indarno, pretendeva, voleva ed ordinava, che gli stati del papa fossero, e restassero uniti all'impero Francese; che la città di Roma prima sede della cristianità, e tanto piena d'illustri memorie, fosse città imperiale e libera, e che il suo reggimento avesse forme speciali; che i segni della Romana grandezza, e che ancora in piè sussistevano, a spesa del suo imperiale tesoro fossero conservati e mantenuti; che il debito del pubblico fosse debito dell'impero; che le rendite del papa si amplificassero sino a due milioni di franchi, e fossero esenti da ogni carico e prestanza; che le proprietà e palazzi del santo padre non fossero soggetti ad alcun aggravio di tasse, ed a nissuna giurisdizione o visita, ed oltre a questo godessero d'immunità speciali; che finalmente una consulta straordinaria il primo di giugno prendesse possessione a suo nome degli stati del papa, ed operasse, che il governo secondo gli ordini della constituzione vi fosse recato in atto il primo giorno dell'ottocentodieci. Nè mettendo tempo in mezzo, chiamava il giorno stesso del diciassette maggio alla consulta Miollis, creato anche governatore generale e presidente, Saliceti, Degerando, Janet, Dalpozzo, e per segretario un Balbo, figliuolo del conte Balbo di Torino.

A questo modo veniva Roma in potestà immediata di Napoleone, ed i papi, dopo una possessione di mille anni, furono spodestati del dominio temporale. Ad atto così grave ed insolito sclamava Pio, e con la sua pontificale voce a tutto il mondo gridava: «Adunque sono adempite le tenebrose trame dei nemici della sedia apostolica? Adunque dopo la violenta ed ingiusta invasione della più bella e più considerabil parte dei nostri dominj, spogliati siamo, sotto indegni pretesti, e con ingiustizia somma, della nostra sovranità temporale, con cui la independenza spirituale nostra è strettamente congiunta! Fra questa persecuzione barbara consolaci e confortaci il pensiero dello essere in sì grave calamità caduti, non per offesa alcuna da noi fatta all'imperatore dei Francesi, od alla Francia, alla Francia stata sempre nostro amore e nostra cura prediletta, nè per alcun intrigo di mondana politica, ma per non aver voluto tradire nè i nostri doveri, nè la nostra coscienza. Se non lece a chiunque la religione cattolica professa di dispiacere a Dio per piacere agli uomini, molto meno conviensi a chi di questa medesima religione è capo, ed insegnatore supremo. Obbligati inoltre verso Dio, obbligati verso la chiesa a trasmettere ai successori nostri intatti ed intieri i nostri diritti, noi protestiamo contro di questa nuova e violenta spogliazione, e nulla dichiariamo, e di niun valore la occupazione testè fatta dei nostri dominj. Ricusiamo, e con ferma ed assoluta risoluzione rifiutiamo ogni rendita o pensione, che l'imperatore dei Francesi pretende fare a noi, ed ai membri del nostro collegio. Taccia d'infame obbrobrio in cospetto della chiesa incontreressimo, se il vitto ed il viver nostro accettassimo dalle mani dell'usurpatore dei nostri beni. Rimettiamocene nella provvidenza, rimettiamocene nella pietà dei fedeli, contenti al terminare per tale guisa nella mediocrità questa vita oggimai piena di tanti dolori, e di tanti affanni. Prosterniamci noi, e con umiltà perfetta i decreti impenetrabili di Dio adoriamo: prosterniamci, ed a favore dei nostri sudditi la sua divina misericordia invochiamo, dei nostri sudditi, nostro amore e nostra gloria, i quali, fattosi da noi quanto nella presente occorrenza dal debito nostro era richiesto, esortiamo ad amar la religione, a conservarsi in fede, a pregare, ed instantemente con pianti e con gemiti scongiurare, tra il vestibolo e l'altare prostrati, il supremo padre della luce, acciocchè si degni cambiare in meglio i consiglj perversi di coloro, da cui sono i nostri persecutori mossi».

Il giorno appresso, in cui mandava fuori dal suo pastorale petto queste lamentazioni, fulminava papa Pio la scomunica contro l'imperator Napoleone, e contro tutti coloro che con lui avessero cooperato all'occupazione degli stati della chiesa, e massimamente della città di Roma. Fulminò altresì l'interdetto contro tutti i vescovi, e prelati sì secolari che regolari, i quali non si conformassero a quanto aveva statuito circa i giuramenti, e le dimostrazioni pubbliche verso il nuovo governo.

Data la sentenza, si ritirava nei penetrali del suo palazzo, attendendo a pregare, ed aspettando quello che la nemica forza fosse per ordinare di lui. Fe' chiudere diligentemente le porte, e murare gli aditi del Quirinale, acciocchè non si potesse pervenire nelle interne stanze sino alla sua persona, se non con manifesta violazione del suo domicilio. Informarono i Napoleoniani il loro padrone dello sdegno del papa, e della fulminata sentenza: pregarono, ordinasse ciò che avessero a farsi. Rispose, rivocasse il papa la scomunica, accettasse i due milioni, quando no, l'arrestassero, ed il conducessero in Francia. Duro comando trovò duri esecutori. Andarono la notte dei cinque luglio sbirri, masnadieri, galeotti, e con loro, cosa incredibile, generali, e soldati Napoleoniani alla violazione della pontificia stanza. Gli sbirri, i masnadieri ed i galeotti scalarono il muro alla panattiera dov'era più basso, ed entrati aprirono la porta ai Napoleoniani, parte gente d'armi parte di grossa ordinanza. Squassavansi le interne porte, scuotevansi i cardini, rompevansi i muri: il notturno romore di stanza in istanza dell'assaltato Quirinale si propagava: le facelle accese, che parte dileguavano, parte vieppiù addensavano l'oscurità della notte, accrescevano terrore alla cosa. Svegliati a sì grande ed improvviso fracasso, tremavano i servitori del papa: solo Pio imperterrito si mostrava. Stava con lui Pacca cardinale, chiamato a destino peggiore di quello del pontefice, per avere in tanta sventura e precipizio serbato fede al suo signore: pregavano, e vicendevolmente si confortavano. Ed ecco arrivare i Napoleoniani, atterrate o fracassate tutte le porte, alla stanza dell'innocente e perseguitato pontefice. Vestivasi a fretta degli abiti pontificali: voleva che rimanesse testimonio al mondo della violazione, non solamente della sua persona, ma ancora del suo grado e della sua dignità. Entrò per forza nella pontificia camera il generale di gendarmerìa Radet, cui accompagnava un certo Diana, che per poco non aveva avuto il capo mozzo a Parigi per essersi mescolato in una congiura contro Napoleone con lo scultore Ceracchi, ed ora si era messo, non solamente a servir Napoleone, ma ancora a servirlo nell'atto più condannabile, che da lungo tempo avesse commesso. Radet pensando agli ordini dell'imperatore, venne tostamente intimando al papa, accettasse i due milioni, rivocasse la scomunica; altrimenti sarebbe preso e condotto in Francia. Ricusò, non superbamente, ma pacatamente, il che fu maggior forza, il pontefice la profferta. Poi disse, perdonare a lui, esecutor degli ordini: bene maravigliarsi, che un Diana, suo suddito, s'ardisse di comparirgli avanti, e di fare alla dignità sua tanto oltraggio; ciò non ostante, soggiunse, anche a lui perdonare. Fattosi dal papa il rifiuto trapassava a protestare, dichiarando nullo, e di niun valore essere quanto contro di lui, contro lo stato della chiesa, e contro la Romana sede aveva il governo Francese fatto e faceva; poi disse, essere parato: di lui facessero ciò che volessero: dessergli pure supplizio e morte, non avere l'uomo innocente cosa di che temere si abbia. A questo passo, preso con una mano un crocifisso, coll'altra il breviario, ciò solo gli restava di tanta grandezza, in mezzo ai vili uomini rompitori del suo palazzo, ed ai soldati Napoleoniani, che non avevano abborrito dal mescolarsi con loro, s'incamminava dove condurre il volessero. Gli offeriva Radet, desse il nome dei più fidi, cui desiderasse aver compagni al suo viaggio. Diedelo, nissuno gli fu conceduto. Fugli per forza svelto dal grembo Bartolomeo Pacca cardinale. Poi fu con presto tumulto condotto, assiepandosegli d'ogn'intorno le armi Napoleoniche, nella carrozza che a questo fine era stata apparecchiata, e con molta celerità incamminato alla volta della Toscana. Solo era con lui Radet. Mentre gl'indegni fatti notturnamente si commettevano nel pontificale palazzo, Miollis sorto a vegliar l'impresa, se ne stava ad udire i rapporti che ad ogni momento gli pervenivano, nel giardino del contestabile, non so se a caso o a disegno, passeggiando. Certo, in tale accidente il nome di contestabile faceva un suono spaventevole, perciocchè ricordava Clemente settimo. Non era senza sospetto il generale Napoleonico di qualche romore. Per questo aveva scelto la notte, comandato prestezza, chiamato due mila Napolitani sotto colore di mandargli nella superiore Italia.

Stupore, ed orrore occuparono Roma, quando, nato il giorno, vi si sparse la nuova della commessa enormità. Portavano i carceratori il pontefice molto celeremente pei cavalli delle poste per prevenir la fama. Tanto temeva il padrone di tutte armi una religiosa opinione. Transmettevansi l'uno all'altro i gendarmi di stazione in stazione il cattivo e potente Pio. Quel di Genova, temendo di qualche moto in riviera di Levante, l'imbarcava sur un debole schifo, che veniva da Toscana. Addomandò il pontefice al carceratore, se fosse intento del governo di Francia di annegarlo. Rispose negando. Posto piede a terra, il serrava nell'apprestate carrozze in Genova: pena di morte, se i postiglioni non galoppassero. Sostossi in Alessandria, come in luogo sicuro per le soldatesche a desinare. Poi traversossi il Piemonte con velocità di volo: a Sant'Ambrogio di Susa, il carceratore apprestava i cavalli per partire con maggior celerità, che non era venuto. Lasso dall'età, dagli affanni, dal viaggio, l'addomandava il pontefice, se Napoleone il voleva vivo o morto. Vivo, rispose. Soggiunse Pio, adunque starommi questa notte in Sant'Ambrogio. Fu forza consentire. Varcavano il Cenisio: gl'Italiani popoli non avendo potuto per la velocità venerare il pontefice presente, il venerarono lontano, pietosamente visitando i luoghi dove aveva stanziato, per dove era passato: sacri gli chiamavano per isventura, sacri per dignità, sacri per santità. Semi di distruzione di Napoleone erano questi; già le profezie di Pio si avveravano, già la pienezza dei tempi si avvicinava. Pacca fedele fu mandato, come se fosse un malfattore, nel forte di Pietracastello presso a Belley, funesta stanza d'ogni innocente, che non piaceva a Napoleone. Fu lasciato il papa fermarsi qualche giorno in Grenoble, poi messo di nuovo in viaggio. Come se altra strada non vi fosse, fu fatto passare a Valenza di Delfinato, stanza di morte di Pio sesto, atto tanto più incivile, quanto non necessario. Per Avignone, per Aix, per Nizza di Provenza il condussero a Savona, strano viaggio da Roma per Francia a Savona. Ma celavasi la partenza, celavasi il viaggio: salvo coloro, che presenti vedevano il pontefice, niuno sapeva; perchè delle lettere dei privati poche parlavano, delle gazzette niuna, dove fosse, nè dove andasse. I Francesi colla medesima riverente osservanza l'onorarono, con cui l'avevano onorato gl'Italiani; il trattarono i prefetti dei dipartimenti con servimento e rispetto: così aveva comandato Napoleone.

Napoleone vincitore dell'Austria tornava in Francia nella imperial sede di Fontainebleau. I deputati Italiani, tal era stato il concerto e l'ordine, già l'aspettavano per le adulazioni, Moscati, Guicciardi e Testi pel regno Italico; Zondadari cardinale, arcivescovo di Siena, e grand'elemosiniere di Elisa principessa, Alliata, arcivescovo di Pisa, un Chigi, un Lucci, un Mastiani, un Dupuy, un Benvenuti, un Tommaso Corsini per la Toscana, il duca Braschi, il principe Gabrielli, il principe Spada, il duca di Bracciano, il cavaliere Falconieri, il conte Marescotti, il marchese Solombri, il marchese Travaglini per Roma. Moscati orando, ringraziò delle date leggi, Zondadari della data Elisa.

Per Roma vi fu maggior magniloquenza. Braschi, oratore della città dei sette colli, favellò dei Scipioni, dei Camilli, dei Cesari, del padre Tevere. «Sussiste ancora, soggiunse Braschi, nipote che era di Pio sesto perseguitato, sussiste quel Campidoglio, sul quale ascesero tanti illustri conquistatori: sussiste, e addita a voi, sire, gloriose vestigia, e seggio degno del vostro nome immortale. Quivi risorge, quivi si rinverde quel serto d'alloro, che Nerva depose nel tempio di Giove. Voi solo potete con l'ombra vostra renderlo sicuro da qualunque insulto nemico, come l'aquila di Trajano dalle offese del Germano, del Parto, dell'Armeno, e del Dace il preservava.»

Braschi a Napoleone signore parlò di Cesare, di Nerva, e di Trajano: avrebbe anche potuto toccare di qualche altro, e non avrebbe spiaciuto a Napoleone, che accusava Tacito di aver calunniato Nerone. Ma come e perchè parlasse di Camillo e di Scipione, io non lo so; perciocchè Napoleone era solito dire, che i tempi di Roma da Tarquinio a Cesare erano episodio, e che i veri e legittimi tempi Romani solo erano gli scorsi sotto i re, e sotto gl'imperatori: così non re dei Romani, ma di Roma chiamò poscia il figliuolo, che ebbe da Maria Luisa Austriaca. A tanto di pazzia era giunto quest'uomo, che dopo di aver distrutto le repubbliche moderne, voleva anche distruggere le antiche. Pure i moderni repubblicani fecero cose di fuoco, e guerre incredibili per lui. Dal canto loro i re, per quel suo odio contro le repubbliche, il fomentarono, e se lo tennero caro credendo, ch'ei fosse venuto loro in concio ad un bel bisogno. Ma gliene cosse loro, e il mondo lo sa, ed eglino i primi per modo che io spesso ne risi, e più spesso ancora ne piansi.

Rispose il sire ai Romani, sempre pensare alle famose geste dei loro antenati: passerebbe l'Alpi per dimorarsi qualche tempo con esso loro: gli imperatori Francesi suoi predecessori avergli scorporati dall'impero, e dati in feudo ai loro vescovi, ma il bene de' suoi popoli non ammettere più alcuna divisione. Sotto le medesime leggi, sotto il medesimo signore aver a vivere Francia ed Italia: del resto, aver loro bisogno di un braccio potente, e lui avere questo braccio, e volerlo usare a benefizio loro: ciò non ostante non intendere, che alcun cambiamento fosse fatto nella religione dei loro padri; figliuolo primogenito della chiesa non voler uscire dal suo grembo: non avere mai Gesù Cristo creduto necessario dotare San Pietro di una sovranità temporale: la Romana sede essere la prima della cristianità, essere il vescovo di Roma capo spirituale della chiesa, lui esserne l'imperatore, volere dar a Dio ciò che è di Dio, a Cesare ciò che è di Cesare.

Ora ho io a descrivere Roma Francese. La Romana consulta, come prima prese il magistrato, pensò alla sicurezza del nuovo stato, sapendo quanti mali umori, e quante avverse opinioni covassero: parvegli bene spiare sul bel principio i pensieri più segreti degli uomini: ordinava la polizia; creonne direttor generale Piranesi, uomo molto atto a questo carico; direttori particolari Rotoli, il conte Gherardi, Visconti, Delup-Verdun, Pesse, e Timetei, uomini nei quali i Francesi avevano fede. Ciò quanto ai detti ed ai fatti segreti: quanto agli scritti, anche segreti, fu tolta agl'impiegati del papa la posta delle lettere, e data al direttore della posta di Francia. Nè la cosa fu solo in nome; perchè con dannabilissima licenza si aprivano e si leggevano le lettere, massime quelle che s'indirizzavano a Savona, dov'era il papa. Si usava in questo un rigore eccessivo. I duchi d'Otranto e di Rovigo, e tutti gli agenti loro fino agli ultimi erano in questa bisogna affaccendati, che dentro alle Romane lettere spiassero. Ne lessero delle innocenti, ne lessero delle colpevoli contro la nuova signorìa; ne lessero anche delle ridicole, perchè i belli umori, che ve n'erano in Roma molti, malgrado delle disgrazie, scrivevano a posta lettere indiritte a Savona piene di beffe contro chi le spiava, e contro il maledetto modo di spiarle. Importava che a confermazione della quiete si unisse la forza alle notizie, nè potendo i soldati di Francia essere in ogni luogo, si crearono le guardie, urbana in Roma, provinciali nelle province, legioni chiamandole. Della legione di Roma fu eletto capo il conte Francesco Marescotti, uomo dedito a Francia. Questi ordini furono buoni per impedire i moti politici, non a frenare gli uomini di mal affare, che infestavano l'agro Romano, e le vicinanze stesse di Roma. Trapassossi a partire il territorio con fare i due dipartimenti, di cui chiamarono l'uno del Tevere, l'altro del Trasimeno; nominaronsene a tempo i due prefetti, un Gacone ed un Olivetti. Trassersi gli ufficiali municipali: furono le elezioni di gente buona e savia: faceva la consulta presto, ma faceva anche bene, salvo quella peste della polizia, e gli ordini fiscali, entrambi inesorabili: in questo Napoleone non rimetteva mai dalla sua natura. Ostava alla nuova amministrazione dei comuni l'ordine del buon governo, il quale creato da Sisto quinto, ed attuato da Clemente ottavo, aveva l'ufficio di amministrar i comuni, nè senza grande umiltà loro. La consulta l'abolì; sostituivvi le forme Francesi. Il consiglio municipale di Roma chiamò senato: elessevi personaggi di gran nome, i principi Doria, Albani, Chigi, Aldobrandini, Colonna, Barberini, i duchi Altieri, Braschi, Cesarini, Fiano. Braschi docile a quanto Napoleone volesse, fu nominato maire, o vogliam dire sindaco di Roma. Così andavano persuadendosi, che con un maire di fatto alla Francese, ed un senato di nome alla Romana, Roma sarebbe contenta. Intanto si scrivevano i soldati per le guerre forestiere, anche nella città imperiale e libera di Roma. Nè le leggi civili e criminali di Francia si omettevano; che anzi per ordinazione della consulta si promulgavano sì quanto alle persone, sì quanto alle cose, sì quanto ai dritti, e sì quanto agli ordini giudiziali. Fu chiamato presidente della corte d'appello Bartolucci, un uomo di mente vasta e profonda, di non ordinaria letteratura, e di giudizj e di stato molto intendente. Conosceva Napoleone, predicava la sua ruina inevitabile. Chiamato consigliere di stato a Parigi, vi diede saggi di quell'uomo dotto e prudente ch'egli era.

Le casse intanto più di ogni altra cosa premevano: Janet ne aveva cura. Conservò la imposizione dativa, che doveva gettare un milione e mezzo di franchi, la tassa del sale, il cui ritratto si supputava circa ad un milione, ed il dazio sulla mulenda, che si estimava ad una valuta di circa cinquecento mila franchi. Fra il lusso dei primi magistrati, la miseria del paese, i debiti di ognuno, il frutto di queste tasse non poteva bastare a dar vita alla macchina politica. Miollis si godeva quindicimila franchi al mese, come governator generale, e diecimila franchi pure al mese, come presidente della consulta. Se poi, oltre a tutto questo, toccasse i suoi stipendi di generale di Francia con tutte le sue giunte, io non lo so. Lemarrois, comandante della divisione, aveva per se quindicimila franchi al mese, e per la sua polizia quattromila, pure al mese. I membri della consulta avevano ciascuno tremila franchi al mese. Ma Salicetti non se ne volle stare al ragguaglio dei colleghi, ed ottenne quattromila ciascun mese. Questi aggravi seguitavano le lunghe disgrazie di Roma. Pure buon uso faceva la consulta di un'altra parte del denaro del pubblico. Propose a Napoleone, e da lui impetrò anche facilmente, che si pagasse sufficiente denaro alla duchessa di Borbone parmense, ed a Carlo Emanuele re di Sardegna, che tuttavia se ne viveva in Roma tutto intento alle cose della religione; nobile atto, e da non tralasciarsi nelle storie.

La parte più malagevole del Romano governo era l'ecclesiastica: aveva il papa, già fin quando le Marche erano state unite al regno Italico, proibito i giuramenti: confermò questa proibizione per lo stato Romano nell'atto stesso della sua partenza di Roma. Richiedeva Napoleone del giuramento anche gli ecclesiastici. Ne nacque uno scompiglio, una disgrazia incredibile. Consisteva la principale difficoltà nel giurare la fedeltà, dell'obbedienza non dubitavano. Ripugnavano alla parola di fedeltà, perchè credevano, che importasse il riconoscere l'imperator Napoleone come loro sovrano legittimo; al che giudicavano di non poter consentire, non avendo il papa rinunziato. Nè si poteva pretendere, che uomini privati, dediti solamente agli uffici religiosi, la maggior parte senza letteratura, alcuni anche senza lettere, investigassero tutte le antiche storie per giudicare da loro medesimi, se la donazione o di Carlomagno o di Pipino fosse valida o no, assoluta o restrittiva, e se fossero validi o no i motivi, con cui Napoleone l'impugnava. Solo questo sapevano, che il papa era sovrano di Roma da più di dieci secoli, come tale riconosciuto da tutto il mondo, e da Napoleone stesso. Ancora sapevano che il papa, non che avesse rinunziato, aveva fortemente e nel miglior modo possibile protestato contro la spoliazione.

Imprendeva a giustificare i giuramenti Dalpozzo, uno della consulta, uomo di gran sapere e di maggiore ingegno. Andò discorrendo, la legge divina prescrivere la obbedienza ai magistrati statuiti dalle leggi dello stato, non avere questo precetto altra limitazione, se non quella che è sempre e di pieno diritto sottintesa, quella cioè, che non si debbe prestare obbedienza alle cose in se stesse, ed assolutamente illecite: non potere l'autorità ecclesiastica derogare nè in tutto nè in parte ad un precetto divino: conseguitarne adunque evidentemente, che debbesi al sovrano un giuramento puro e semplice d'obbedienza e di fedeltà senza alcuna esplicita restrizione: avere l'antico sovrano di Roma preteso proibire ogni giuramento da quello in fuori, di cui diede egli stesso la formola: non potersi certamente questa proibizione stimare precetto della Chiesa, e che quand'anche fosse, ella non obbligherebbe i sudditi ad esporsi, per osservarla, allo sdegno del sovrano, ed alle pene che il rifiuto del giuramento seguiterebbero, perciocchè le leggi della Chiesa, secondo le regole comuni, non obbligano mai sotto grave incomodo; ma nel fatto una tale proibizione altro non essere, che un mezzo concetto dallo spodestato principe di Roma con mire del tutto umane, cioè per turbare il possesso al nuovo governo, e per ricuperare il dominio temporale: non avere in questo il papa operato come capo della Chiesa, nè come vicario di colui, che disse, non essere il regno suo di questo mondo, e che insegnò co' suoi precetti e col suo esempio, che sempre si debbe obbedire ai magistrati stabiliti: adunque, ed unicamente dalla confusione delle due potestà temporale e spirituale in una sola mano, essere nata la opinione erronea che oggidì importava oltre modo di distruggere, pel buon ordine e per la quiete pubblica; le formole del giuramento prescritte agli abitatori dello stato Romano essere quelle stesse, che erano in vigore in tutto l'imperio Francese e nel regno Italico, e secondo le quali più di quaranta milioni di sudditi cattolici non esitavano punto a prestar giuramento ogni qual volta che l'occasione s'appresentava. La formola particolare prescritta ai vescovi ed ai curati, essere stata accordata nel concordato tra il governo Francese ed il papa Pio settimo: i dubbi sparsi nel popolo, che giurando obbedienza alle constituzioni dell'impero, si venisse ad appruovare il divorzio, e così ancora altre insinuazioni di simil sorta, non avere fondamento: sotto il nome di constituzioni dell'impero venire le leggi politiche, che constituiscono la forma del governo, e queste leggi sempre essere distinte dalle leggi civili: oltre a questo, non essere il divorzio comandato dalla legge civile: solo per esse permettersi a coloro, che credevano poterlo usare secondo i loro principj religiosi: già parecchi vescovi dello stato Romano, già un gran numero di curati, di canonici e di altri religiosi, tacendo dei magistrati civili, avere dato un esempio di sommessione e d'obbedienza, ch'altri doveva seguitare: importare che tale esempio si propagasse e dilatasse; volere il governo, ed in ciò porre grandissima cura, che gli ecclesiastici, i quali già si erano uniformati, o sarebbero per uniformarsi a' suoi ordini, fossero onorati con manifesti segni di soddisfazione e di confidenza.

Sani ed irrefragabili erano i principj del Dalpozzo, quanto all'obbedienza, e siccome gli ecclesiastici non dubitavano di giurarla al nuovo stato, e di più di giurare di non partecipar mai in nissuna congiura o trama qualunque contro di lui, così un governo giusto e buono avrebbe dovuto contentarsene. Ma Napoleone esigeva il giuramento di fedeltà, sì perchè gli pareva che un tal giuramento implicasse la riconoscenza di sovrano legittimo, ed in tal modo effettivamente, come abbiam detto, l'intendevano l'intimatore e gl'intimati, sì perchè volevano fare scoprir i renitenti, per avere un pretesto di allontanargli da Roma, dove gli credeva pericolosi. Vi era, in questo, troppa scrupolosità da una parte, troppo rigore dall'altra. Perciocchè gl'intimati potevano intendere la parola fedeltà non oltre il senso dell'obbedienza, e Pio VI medesimo nel novantotto aveva definito, che si potesse giurare fedeltà a quel governo, che era stato creato dagli occupatori del suo stato, e che era incompatibile con la sua sovranità temporale, cioè, alla repubblica. Del resto, noi non intendiamo dannar coloro, che sinceramente credendo di non potere, senza trasgressione, prestar il giuramento, anteposero la coscienza al carcere ed all'esilio, la materia aveva in se molta difficoltà. La Romana consulta procedeva cautamente. Operando alla spartita, cominciò dai vescovi. Alcuni giurarono, altri ricusarono. Giurarono quei di Perugia, Segni e Anagni: ricusarono quei di Terracina, Sezze, Piperno, Ostia, Velletri, Amelia, Terni, Acquapendente, Nocera, Assisi, Alatri. Aveva il vescovo di Tivoli giurato; ma pentitosi e condottosi a fare il pontificale nella chiesa del Carmine il giorno di San Pietro, con molte lagrime fece, dopo il Vangelo, la sua ritrattazione: i gendarmi se lo pigliarono, ed in Roma carcerato alla Minerva il portarono. Tutti i non giurati, suonando loro d'intorno le armi dei gendarmi Napoleonici, chi in Francia, chi a Torino, chi a Piacenza, chi a Fenestrelle furono condotti. Fu anche portato via da Roma, come non giurato e troppo divoto al papa, un Baccolo Veneziano, vescovo di Famagosta, uomo molto nuovo, e di natura facetissima. I carceratori non sapevano darsene pace, perciocchè più lo sprofondavano nell'esilio e nella miseria, e più rideva e si burlava di loro, tanto che per istracchezza il lasciarono andare come pazzo. Ma ei tornava in sul dire e in sullo scrivere cose tanto singolari a Genova, a Milano, a Venezia, che era forza ai Napoleoniani di spiare continuamente quello che si facesse. Insomma era questo Baccolo una gran molestia agli spiatori di Napoleone, e diè che fare a tutti dal duca di Rovigo fino all'umile Olivetti, ch'era stato surrogato a Piranesi: solo che udissero nominar Baccolo, tosto si scuotevano e risentivano. Spedita la faccenda dei vescovi, richiederonsi dei giuramenti i canonici. Sperava Janet, che giurerebbero facilmente, avendo grossi benefizj e morbida vita. Molti giurarono; molti ancora non giurarono. Dei due capitoli di San Giovanni e di San Pietro in Roma, tutti ricusarono, salvo Vergani e Doria. Quei di Tivoli e di Viterbo, tre soli eccettuati, giurarono. Giurarono quei di Subiaco, ad instigazione dei Tivolesi; ma si ritrattarono. Ricusarono quei di Canepina, ricusarono quei di Cori: i gendarmi s'affaccendavano. Molto maggiore difficoltà avevano in se i giuramenti dei curati, massimamente di quei di Roma, uomini d'innocente vita, e d'evidente vantaggio dei popoli, non solamente pei sussidj spirituali, ma ancora pei temporali. Rappresentò la consulta, che in questo opinava saviamente, che s'indugiasse. Napoleone, che per la sua natura pertinace amava meglio usare ogni estremo, che allentare un punto solo delle sue deliberazioni, mandò loro dicendo, che voleva i giuramenti da tutti, ed obbedissero. Nelle province la maggior parte ricusarono; i gendarmi se gli portarono. Dei Romani, i più si astennero: tre giurarono, quei della Traspontina, di Santa Maria del Carmine fuori di porta Portese, della Madonna della Luce in Trastevere: i renitenti portati via, o se infermi ed impotenti all'esilio, serrati in San Calisto; i consenzienti accarezzati. Nasceva dagli esilj una condizione lagrimevole, che gli ufficj divini per la mancanza dei pastori s'interrompevano. Napoleone, posta la falce nella messe ecclesiastica, a suo modo vi rimediava. Sopprimeva di propria autorità i vescovati e le parrocchie dei vescovi, e dei parochi non giurati, e secondochè gli aggradiva, gli univa ai vescovati e parrocchie dei giurati, turbando in tale modo di per se, la giurisdizione spirituale come voleva, ed a chi voleva.

A questo tempo furono soppressi nello stato Romano i conventi sì di religiosi, che di religiose; i forestieri mandati al loro paese, i paesani sforzati a depor l'abito. Mandaronsi i soldati a far uscire le monache, tempo ventiquattr'ore: le valide d'età e di salute mandate alle case loro, le vecchie ed inferme in quattro conventi. L'aspetto di Roma a questi giorni compassionevole: gendarmi, che si portavano vescovi, canonici, parochi giovani, parochi vecchi, sani o malati, o dal contado a Roma, o da Roma all'esilio. Piangevano gli esuli, piangevano le famiglie degli esuli: i Romani colli risuonavano di querele e di pianti.

Intendeva la consulta a consolare la desolata Roma. Ciò s'ingegnava di fare ora con ordinamenti convenienti al luogo, ora con ordinamenti non convenienti, e sempre con animo sincero e buono. Pensava alle scienze, alle lettere, all'agricoltura, al commercio, alle arti. Ordinò, che con denaro del pubblico si procacciassero gli stromenti necessari alla specola del collegio Romano; condusse a fine i parafulmini della basilica di San Pietro stati principiati da papa Pio, ebbe speciale cura delle allumiere della Tolfa, e delle miniere di ferro di Monteleone nell'Umbria, nelle quali si era cessato di cavare ai tempi delle ultime guerre civili, quantunque il ferro sia assai più arrendevole e dolce di quello dell'isola d'Elba. Gente perita, denaro a posta addomandava; due allievi Romani mandava alla scuola delle mine, due a quella della veterinaria, due a quella delle arti e mestieri in Francia, semi di utili scienze nell'ecclesiastica Roma.

Temevasi che la presenza dei Francesi in Italia, massimamente in Toscana e nello stato Romano, giunta a quella loro lingua tanto snella e comoda per gli usi famigliari, avesse a pregiudicare alla purezza ed al candore dell'Italiana favella; timore del tutto vano, perciocchè quale cosa si potesse ancora corrompere in lei, non si vede. Tuttavia Napoleone, il quale, non so per quale strana fantasia, aveva unito Toscana e Roma alla Francia, ed introdottovi negli atti pubblici l'uso della lingua Francese, aveva, già fin dall'anno ultimo, decretato premi a chi meglio avesse scritto in lingua Toscana. La consulta di Roma a fine di cooperare con quello che l'imperatore aveva comandato, a ciò muovendola Degerando, statuiva, che la lingua Italiana si potesse in un con la Francese usare negli atti pubblici; benevola, ma strana permissione in Italia. Volle altresì, che l'accademia dagli Arcadi si ordinasse in modo che e la letteratura Italiana promuovesse, e la lingua pura ed incorrotta conservasse con premi a chi meglio l'avesse scritta o in prosa o in versi, l'Arcadia sedesse sul Gianicolo nelle stanze di Sant'Onofrio. Ordinamento conforme alla fama antica, alle influenze del cielo, alla natura degli uomini, alle Romane usanze fu quello dell'accademia di San Luca, chiamata, per conforto di Degerando, a più magnifico stato. La consulta le dava più copiosi sussidi, l'imperatore più convenienti stanze, e dote di centomila franchi.

Parlando io dei benefizi delle lettere, non voglio passar sotto silenzio l'amorevolezza usata dalla consulta verso il convento di San Basilio di Grottaferrata, unico residuo dell'antico ordine di San Basilio, che primo fra le tenebre del medio evo portò in Europa la cognizione della lingua Greca, e con lei lo studio delle lettere. Nel coro e negli uffizi avevano questi monaci conservato la lingua ed il canto Greco, ma piuttosto per tradizione orale, che per lettera scritta. Ogni vestigio del canto Greco si sarebbe spento, se il convento fosse stato soppresso, ed i monaci dispersi. Supplicato l'imperatore dalla consulta, conservò il convento. Ciò non ostante l'ordine si spense, perchè il secolo a tutt'altro portava, che a farsi frate, ed a cantar greco.

Colla medesima mansuetudine opinò la consulta del convento dei Camaldolesi di Montecorona, Benedettini riformati di san Romualdo. Mi fia dolce raccontar qualche particolarità di Montecorona, poichè in quella tranquilla sede riposerassi alquanto l'animo stanco ed inorridito dalla rappresentazione di tanti tradimenti, espilazioni e morti. Conservava Camaldoli sincera e pura, dopo tanti secoli, la regola di san Romualdo. Tengono i Camaldolesi del cenobita e dell'eremita. Come cenobiti, vivonsi solitari, come romiti, attendono alle opere manuali sì agrarie che domestiche, senza differenza alcuna di padri o di fratelli, di superiori o d'inferiori. Servonsi tra di loro a vicenda, usano la ospitalità, esercitano la carità: la vita loro, anche ai tempi Napoleonici, pacifica e dolce: divoti a Dio, divoti al sovrano, divoti agli uomini, pregavano, obbedivano, soccorrevano. Siede il convento sulla sommità di un monte, ha all'intorno folta foresta, dista da Perugia a quattordici miglia: deserti una volta, campi fioriti adesso per opera delle cenobitiche mani. Naturarono su per quegli aspri monti l'abete; fecerne selva vastissima, magnifici fusti per le più grosse navi. È il convento stimolo a virtù, fonte di proventi, ricovero d'uomini fastiditi del mondano lezzo, ospizio di viaggiatori, largimento di soccorsi: è vita di deserto, testimonio di pietà. Rovinavano i regni, odiavansi gli uomini, infiammavansi gli appetiti, ammazzavansi le generazioni: Montecorona quieto, dolce, umano e benefico perseverava; e se la caduta del papa pose in forse la conservazione di lui, molto è da deplorarsi che l'ambizione dei tempi sia arrivata a turbare quelle sante solitudini. Bene meritò degli uomini infelici e pii la Romana consulta, a ciò movendola Janet, coll'avere addomandato la conservazione di quel pietoso secesso.

Emmi caro lo spaziare alquanto sull'ordine della propaganda. Napoleone imperatore, al quale piacevano le cose che potevano muovere il mondo, volle, mettendola in sua mano, conservare la propaganda: Degerando, siccome quegli che si dilettava di erudizione letteraria e di gentilezza di costumi, con l'autorità sua la favoreggiava. Dalla narrazione delle cose appartenenti a quest'ordine chiaramente si verrà a conoscere, ch'ei non meritava nè le lodi dei fanatici, nè gli scherni dei filosofi. Ancora vedrassi quanta sia la grandezza degli Italiani concetti. Era principal fine di questo instituto la propagazione della fede cattolica in tutte le parti del mondo; ma l'opera sua non era talmente ristretta a questa parte, che non mirasse a diffondere le lettere, le scienze, e la civiltà fra genti ignare, barbare e selvagge; che anzi una cosa ajutava l'altra, poichè la fede serviva d'introduzione alla civiltà, e questa a quella. Poteva anche mirabilmente ajutare la diplomazia e la politica: ciò massimamente aveva piaciuto a Napoleone; perciocchè un capo solo reggeva, e muoveva infiniti subalterni posti in tutte le parti del mondo. Il trovato parve bello a Napoleone, nè era uomo da non volersene prevalere, e siccome aveva usato la religione per acquistare la signoria di Francia, così voleva servirsi della propaganda per acquistar quella del mondo. Seppeselo Degerando, il quale scriveva, che per quanto alla politica s'apparteneva, la propaganda, recando in quelle lontane regioni coi semi del nostro culto i nostri costumi, le nostre opinioni, le radici delle idee d'Europa, la narrazione del regno il più glorioso, qualche cognizione delle nostre leggi e delle nostre instituzioni, preparando gli spiriti a certi avvenimenti, che solo s'apparteneva alla vastità dell'imperial mente a concepire, procacciando amici tanto più fidati, quanto più stretti da vincoli morali, e così ancora offerendo tanti, e così variati mezzi di corrispondenza in contrade, in cui il governo manteneva nissun agente, procurandoci notizie esatte sulla natura dei paesi, nei quali i missionarj soli potevano penetrare, aprendo finalmente una via, e quasi un condotto a farvi scorrer dentro coi lumi civili le influenze di un sistema la cui grandezza doveva abbracciare tutto il mondo, era un edifizio piuttosto di unica che di somma importanza. Queste cose erano di per se stesse molto chiare, e se alcuni filosofi, massimamente Francesi, tanto hanno lacerato Roma per avere, come dicevano, fatto servire la religione alla politica, si vede ch'essi non furono alieni dall'imitarla; poichè, divenuta Francia padrona di Roma, indirizzarono i loro pensieri al medesimo fine. Certo è bene, che Napoleone di nissuna cosa più si compiacque, che di questa propaganda: ora per dire qual fosse, ella fu creata dal papa Gregorio decimoquinto; e da lui commessa al governo di una congregazione di quattro cardinali, e di un segretario. Suo ufficio era mandar missionarj in tutte le parti del mondo. Gregorio la dotò di rendite del proprio, e d'assegnamenti considerabili sulla camera apostolica; le conferì immunità e privilegi; volle che ciascun cardinale nella sua esaltazione le pagasse un censo. Ma Urbano ottavo, considerato, che se era utile il mandare missionarj Europei a propagar la fede, maggiormente utile sarebbe il mandarvi uomini del paese convertiti ed ammaestrati nelle pratiche Romane, aggiunse il collegio della propaganda, in cui a spese pubbliche erano ricoverati ed ammaestrati giovani forestieri, massime di origine orientale, acciocchè fatti grandi e addottrinati, ritornassero nei propri paesi a secondare i missionarj apostolici.

Sommava il numero degli allievi per l'ordinario a settanta; i Cinesi, essendo loro riuscito contrario l'aere di Roma, furono trasportati in un seminario e collegio fondati per questo fine a Napoli. Innocenzo duodecimo, ed altri pontefici furono liberali verso la propaganda di nuovi benificj: uomini privati altresì con donazioni, e legati l'arricchirono. Le diede monsignor Vires il bellissimo palazzo in Roma: il cardinale Borgia, morto a Lione nell'ottocent'uno, le lasciò una parte de' suoi beni. Quattro erano gli ordini della propaganda, destinati alla propagazione della parola del Vangelo: occupavano il primo i vicarj apostolici, o arcivescovi, o vescovi, o prefetti delle missioni, il cui carico era lo scrivere le lettere, e la direzione delle fatiche apostoliche. Subordinati ai vicarj collocavansi nei secondi i semplici missionarj. Venivano in terzo luogo i collegi, le scuole, i monasteri. Cadevano nel quarto i semplici agenti amministrativi ed economici. La propaganda diede principio alla sua opera col fondare arcivescovi e vescovi nelle antiche chiese, due patriarchi, l'uno pe' Caldei, l'altro pei Siriaci, vescovi e vicarj apostolici nelle isole dell'Arcipelago, nell'Albanìa, nella Servia, nella Bosnia, nella Macedonia, nella Bulgaria, nella Mesopotamia, nell'Egitto, a Smirne, ad Antiochia, ad Anticira. Mandava due vescovi, vicarj apostolici, a Constantinopoli, uno pel rito Latino, l'altro per l'Armeno. Un gran numero ne destinava in Persia, nel Mogol, nel Malabar, nell'India oltre e qua del Gange, nei regni di Siam, di Java, di Pegù, in Cochinchina, nel Tonchino, nelle diverse province della China. Nè ometteva, parendole che fosse messe d'importanza, gli stati uniti d'America. Vicarj apostolici, e vescovi mandati dalla propaganda, seminavano le dottrine del Vangelo in quelle regioni d'Europa, che dalla chiesa Romana dissentivano. Questi tentativi e questi sforzi della comunanza cattolica, stimolavano le dissidenti a pruovarsi ancor esse a propagare la religione e la civiltà fra le nazioni ancor barbare e selvagge. Mandarono pertanto, gl'Inglesi massimamente, agenti loro nell'Indie Orientali, e nelle isole del mare Pacifico, dalla quale pietosa opera molte nazioni furono dirozzate, e ridotte alla condizione civile. E se i papi mescolarono la politica, come fu scritto, in questi conati religiosi, resterà a vedere, se la Russia e l'Inghilterra siano esenti da questa pecca. Per ajutare i vescovi ed i vicarj apostolici, s'erano instituiti a luogo a luogo, e più numerosi là dove i Cattolici vivevano in più gran numero, i prefetti ed i parrochi: questi avevano sede fissa e gregge permanente: i missionarj, che erano il secondo grado, comprendevano nel mandato loro vaste province, conducendosi ora in questo luogo ed ora in quello, ma sempre nella provincia destinato a ciascun di loro, secondochè i bisogni della fede da loro richiedevano. La elezione dei missionarj si faceva ordinariamente fra i sacerdoti del clero secolare. Era a loro raccomandato, e specialmente comandato dalla propaganda, che a niun modo nè sotto pretesto qualsivoglia si mescolassero o s'intromettessero negli affari temporali, meno ancora nei politici dei paesi, cui erano destinati ad indagare e ad ammaestrare. Solamente era solita la propaganda ad insegnarvi le scienze profane e le arti utili, affinchè con esse potesse volgere a se gli animi, e cattivarsi l'attenzione, e la benevolenza degli uomini ignari di quelle incolte regioni. Dipendevano i missionarj del tutto da lei, ed ella gli spesava con le sue rendite. Aveva creato sei scuole, o collegi in Egitto, quattro nell'Illirio, due in Albania, due in Transilvania, uno a Constantinopoli, parecchi in diverse contrade non cattoliche d'Europa. Erano questi collegi mantenuti col denaro della congregazione: mille scudi all'anno pagava ai vescovi d'Irlanda per le scuole cattoliche di quel regno; i collegi Irlandese, Scozzese, Greco, e Maronita di Roma da lei medesimamente dipendevano. Finalmente ciascun ordine di religiosi aveva un collegio separato pe' suoi missionarj, così questi stessi missionarj avevano dipendenza dalla propaganda, in quanto spettava alla bisogna delle missioni. Gli allievi dei collegi, ciascuno secondo il suo merito, erano creati sul finire degli studi o vescovo, o prefetto, o curato, o semplice missionario. Gli agenti o procuratori a niuna bisogna religiosa attendevano, ma solamente, essendo distribuiti nei luoghi più opportuni, al mandar le lettere e i fondi necessari per tener viva dappertutto macchina sì vasta.

Quanto alla congregazione in Roma, aveva cinque parti, la segreterìa, dove si scrivevano le lettere, ed a questa parte appartenevano anche gl'interpreti; gli archivi, che comprendevano la librerìa ed il museo, entrambi pieni di cose curiosissime; la stamperìa tanto celebre per la varietà e la bellezza de' suoi caratteri; il collegio degli allievi; la computisterìa: in quest'ultima si tenevano i conti, e le ragioni della congregazione. Le rendite sommavano a trentatremila trecento novantasei scudi romani all'anno, che sono centosettantottomila seicentosessanta franchi. I fonti erano i luoghi de' monti, i livelli pagati da Napoli, da Venezia, e dai corpi religiosi, e finalmente i censi dei cardinali novellamente creati. Ma la ruina universale aveva addotto la ruina di quest'instituzione, con avere o del tutto annientato parte delle rendite, o ritardato la riscossione delle sussistenti: s'aggiunse la rovina del palazzo devastato nel mille ottocento. Adunque ella sussisteva piuttosto di nome che di fatto, quando Napoleone s'impadronì di Roma; poi, i frutti dei monti non si pagavano, la computisterìa per comandamento imperiale sotto sigilli, gli archivi portati a Parigi. Volle Degerando rimetterla in istato, e che si aprissero intanto i pagamenti: l'imperatore stesso aveva dichiarato per senatus-consulto, volere la sua conservazione, e doterebbela coll'erario imperiale. Ma distratto primieramente dai gravi pensieri delle sue armi, poscia dai tempi sinistri che gli vennero addosso, non potè nè ordinare la macchina, come era necessario, nè far sorgere quel zelo a propagazione degl'interessi politici, che per amore della religione, per le esortazioni dei papi, e per la lunga consuetudine era sorto nei membri della congregazione a tempi pontificii. Così sotto Napoleone ella non fu di alcuna utilità nè per la religione, nè per la politica: solo le sue ruine attestavano la grandezza dell'antico edifizio, e la rabbia degli uomini che l'avevano distrutto. Portati via gli archivi per arricchirne Parigi, si voleva privar Roma anche dei tipi delle lingue orientali, che si trovavano raccolti nella sua stamperìa: eranvi i tipi di ventitrè lingue d'Oriente. Domandava la stamperìa imperiale di Parigi, che le si mandassero le madri per supplire con loro ai punzoni alterati. Grave perdita sarebbe stata questa per Roma, dove l'erudizione, e la letteratura orientale erano, come in sede propria, coltivate. Pregò Degerando, che o si gittassero con le madri i punzoni a Roma, o si mandassero a Parigi, non tutte ma solamente quelle dei punzoni alterati. Fu udito benignamente; a lui restò la città obbligata della conservazione di opere di gran valore per la erudizione e per le lettere.

Le opere di musaico, peculiar pregio di Roma, perivano; perchè pei danni passati poco si spacciavano, ed anche mancavano i fondi per le spese degli smalti e degli operai. La principale manifattura, che serviva di norma alle altre, era attinente a San Pietro, e si sostentava colle rendite della sua fabbrica: per la necessità dei tempi, mancando la più gran parte delle rendite, non che il musaico si conservasse, pericolava la basilica. Fu proposto di commetterlo all'erario imperiale, ma perchè Napoleone, che non amava lo spendere a credenza, non si tirasse indietro, fu d'uopo alla consulta l'inorpellare la cosa con dire, che il musaico pagato dall'imperatore non servirebbe più solamente ad abbellire San Pietro, ma che protetto dal più grande dei monarchi, adornerebbe il palazzo del principe, ed i monumenti dell'imperiale Parigi. «Che bel pensiero sarebbe, diceva la consulta, l'immortalare con opere di musaico il quadro dell'incoronazione dipinto da David, e gli altri tre, che dalle maestrevoli mani di questo grande artista erano per uscire?» A questi suoni Napoleone si calava, e pagava. Restava che, poichè si era provveduto all'opera, si avesse cura degli operai. Essendo la lavorerìa loro addossata al colle del Vaticano, ed in parte sotterranea, e perciò molto malsana, troppo spesso infermavano, e sovente il vedere perdevano. Oltre a ciò gli armadi e gli scaffali, in cui si conservavano gli smalti, infracidavano, le tele dipinte che si portavano a copiarsi, dall'umidità si guastavano. A questo modo era testè perito con rammarico di tutti un bel quadro del pittore Camuccini. Decretò la consulta, trasportassersi gli opificii nelle stanze del Sant'Officio.

Concedutosi dall'imperatore un premio di ducentomila franchi ai manifattori di Roma, volle la consulta, che fossero spartiti a chi meglio filasse o tessesse la seta o la lana, a chi meglio conducesse le opere dei merletti, a chi meglio addensasse i feltri, a chi meglio conciasse le pelli, a chi meglio stillasse l'acquarzente, a chi meglio lavorasse di maioliche, o di vetri, o di cristalli, o di carta, a chi più, e miglior cotone raccogliesse sulle sue terre, a chi piantasse più ulivi, a chi ponesse più semenzai di piante utili. Si venne anche sul capriccio dello zucchero dell'uve, e della saggina di Caffrerìa. Ma papa Pio, che conosceva Roma ed i Romani suoi, si stringeva nelle spalle, quando udiva queste novelle, e dal suo carcere di Savona sclamava, che bene e con frutto si sarebbero favoreggiate in Roma le manifatture attinenti alla erudizione ed alle belle arti, ma che sarebbe tempo ed opera perduta il dar favore alle altre: perciocchè la natura degli uomini, le consuetudini, le opinioni, il cielo stesso ripugnavano.

I musei espilati ai tempi torbidi ora con cura si conservavano: i preziosi capi d'arte, che adornavano i conventi, ed erano molti e belli, diligentemente si custodivano. Fu anche creata a conservazione loro dalla consulta una congregazione d'uomini intendenti, e giusti estimatori, che furono Lethier pittore, Guattani, de Bonnefond, l'abbate Fea, e Tofanelli, conservatore del Campidoglio.

Conservando Roma odierna, si poneva mente a scoprire l'antica: almeno così desiderava la consulta; la Francia potente e ricca il poteva fare. Si ordinarono le spese del cavare nei luoghi più promettenti. Sarebbesi anche, come pare, fatto gran frutto, se i tempi soldateschi non avessero guastato l'intenzione.

Discorreva Napoleone di voler visitar Roma sua. Se di fatto non voleva andarvi, l'essere aspettato faceva a' suoi fini: la consulta pensava al trovar palazzi che fossero degni dell'imperatore. Castelgandolfo le parve acconcio per la campagna; il Quirinale per la città: il Quirinale grande e magnifico per se, sano per sito, e con bell'apparenza da parte di strada Pia: ogni cosa all'imperial costume si accomodava. Nè la bellezza, o la salubrità si pretermettevano. Disegnavano di piantar alberi all'intorno, di aprir passeggiate, specialmente alla porta del Popolo da riuscire a Trinità del Monte, di trasportar i sepolcri fuori delle mura, di prosciugar le paludi. Le Pontine massimamente pressavano nei consigli imperiali. Prony Francese, Fossombroni Italiano, idraulici di gran nome, e di scienza pari al nome, le visitavano, e fra di loro consultavano. Si fece poco frutto a cagione dei tempi contrari; e se le Pontine non peggiorarono sotto il dominio Francese, certo non migliorarono.

Così vivevasi a Roma, con un sovrano prigioniero a Savona, con un sovrano prepotente a Parigi, con dolori presenti, con isperanze avvenire, diventata, stravagante caso, provincia di Francia, non poteva nè conservare le forme proprie, nè vestirsi delle aliene; tratta in contrarie parti lagrimava, e si doleva, nè poteva la consulta, quantunque vi si affaticasse, di tante percosse consolarla e racconfortarla.

Nuovi, strani e lamentevoli casi mi chiamano nel Regno. Era venuto a noia a Carolina di Sicilia, che voleva comandare da se, il dominio degl'Inglesi, nè sperando di riconquistare il regno di terraferma, desiderava almeno di essere padrona di quello che le restava. Napoleone, che conosceva bene gli umori degli uomini, e quelli delle donne ancora, aveva penetrato quel di Carolina, e per mezzo di sue pratiche le persuase, ch'era pronto a secondare le sue intenzioni. Vennesi ad un negoziato tra l'imperatore e la regina, il fine del quale era, che il re aprisse i porti di Sicilia ai soldati di Napoleone, e promettesse che gli occupassero, sì veramente che l'imperatore ajutasse il re a cacciar gl'Inglesi dalla Sicilia. Mentre questi negoziati pendevano, entrò in Murat il desiderio di conquistar la Sicilia sperando che la durezza del governo Caroliniano, procurandogli aderenze negli scontenti, gli aprirebbe l'occasione di far frutto con le spalle loro. Già le truppe Francesi si erano condotte nella Calabria ulteriore; al che aveva consentito Napoleone per dar gelosìa agl'Inglesi, acciocchè non potessero correre contro Corfù. Ad esse si erano accostati i Napolitani, la costa di Calabria da Scilla a Reggio piena di soldati. Vi concorrevano altresì le forze navali del regno, non senza aver prima combattuto onorevolmente contro le navi d'Inghilterra, che per vietar loro il passo le avevano assaltate nel golfo di Pizzo, al capo Vaticano, e sulle spiaggie di Bagnara. S'ingiungeva a tutti i comuni posti sul littorale del Mediterraneo, che somministrassero legni armati in guerra per l'impresa di Sicilia. Murat, che a Scilla voleva imitar Napoleone a Bologna di mare, spesso imbarcava, e spesso anche sbarcava le genti per addestrarle. Ognuno credeva che la spedizione si tenterebbe: i più confidavano nella fortuna di Napoleone, affermando, che finalmente poi lo stretto di Messina, non era più difficile a passarsi, che il Reno od il Danubio. Ma siccome il nervo principale della spedizione consisteva nei Francesi, così aveva Murat pregato l'imperatore, affinchè ordinasse che eglino cooperassero coi suoi Napolitani alla fazione. Napoleone, che a questo tempo negoziava colla regina, nelle sue solite ambagi ravviluppandosi, rispose nè appruovando nè disdicendo, contento al moto, o che riuscisse o che solo spaventasse. Nissun ordine mandò a' suoi, acciocchè si congiungessero con quei del re. Ma Giovacchino acceso per se stesso da incredibile cupidità all'acquisto di Sicilia, e persuadendosi di trovarvi gran seguito e facile mutazione, volle tentar la fazione da se, e con le sole sue forze. Cinque mila Napolitani, fra i quali era il reggimento di Reale-Corso, partivano di nottetempo dalle vicinanze di Reggio e di Pentimela, e s'avviavano alla volta di Sicilia, con intento di approdare tra Scaletta e Messina. Al tempo stesso Murat, standosene sulla reale gondola riccamente addobbata, dava opera ad imbarcare le genti Francesi, come se anch'elleno dovessero andare alla conquista, ancorchè sapesse, ed elle meglio di lui, che non s'attenterebbero. Ma avevano consentito ad ajutar l'impresa con un po' di romore, e con quelle vane dimostrazioni. Sbarcarono nel destinato luogo i Napolitani condotti dal generale Cavagniac; ma non così tosto posero piede sulle terre Siciliane, che invece di correre uniti a qualche fatto importante, si sbandarono per vivere di sacco. La qual cosa veduta dai paesani e dalle milizie, accorsero coll'armi ed in folla, ed oppressero facilmente quegli uomini sfrenati e dispersi: chi non fu morto, fu preso; alcuni dei presi, uccisi per la rabbia civile. Accorrevano gl'Inglesi al romore dalle stanze di Messina; ma arrivarono quando già la vittoria era compita. Dopo questo fatto, che non fu senza diminuzione della riputazione del re, deposta, non senza querela contro Napoleone, la speranza conceputa, ritirava Giovacchino i soldati verso Napoli, e con pubblico scritto annunziava, essere terminata la spedizione di Sicilia, il che era verissimo. Ma rimasero nell'ulteriore Calabria miserabili vestigia del furore dei Napoleoniani. Tra il guasto fatto per accampare, e quello dei soldati scorrazzanti per le campagne, ne furono guastate vaste tenute d'ulivi e di viti, sole ricchezze che il paese si avesse. Così il regno di là dal Faro non fu conquistato, quello di quà desolato.

Intanto i negoziati tra Napoleone e Carolina non poterono tanto restar segreti, che non venissero a cognizione degl'Inglesi, ne intrapresero anche le lettere certissime. Ciò fu cagione, che Carolina a loro, e principalmente a lord Bentinck mandato in Sicilia a confermarvi il dominio della Gran Bretagna, tanto venisse in odio, che per allontanarla del tutto dalle faccende, la confinarono in una villa lontana a qualche miglio da Palermo, e poco dopo l'obbligarono anche a partire dalla Sicilia, accidente molto singolare e strano, che sarà da noi raccontato a suo luogo.

Partito l'esercito, i facinorosi della Calabria di nuovo uscendo dai loro ripostigli, ripullulavano, ed ogni cosa mettevano a ruba ed a sangue. Niuna strada, non che maestra, rimota, niun casale sparso, niun campo riposto erano più sicuri. Divisi in bande e sottomessi a capi, si erano spartite le province. Carmine Antonio, e Mescio infestavano coi loro seguaci Mormanno e Castrovillari; Benincasa, Nierello, Parafanti e Gosia il distretto di Nicastro ed i casali di Cosenza; Boia, Giacinto Antonio, ed il Tiriolo la Serra stretta, ed i borghi di Catanzaro; Paonese, Massotta, e il Bizzarro le rive dei due mari, e la estremità dell'ulteriore Calabria. Spaventò il Bizzarro specialmente, e lungo tempo, la selva di Golano, e le strade da Seminara a Scilla. Questi erano gli effetti dell'antiche consuetudini, e delle guerre civili presenti. Si temeva, che alla prima occasione i capi politici contrarj al governo, i carbonari massimamente ed i loro aderenti, di nuovo prorompessero a moti pericolosi. Si sapeva che i carbonari, sempre nemici dei Francesi, quantunque se ne stessero quieti, fomentavano, non le ruberìe e gli assassinj, che anzi cercavano di frenargli, ma l'incitazione e l'empito, per voltarlo, quando che fosse, contro quella nazione, che tanto odiavano. Si rendeva adunque per ogni parte necessario a Murat l'estirpar del tutto quella peste dei facinorosi di Calabria, e lo spegnere, se possibil fosse, la setta tanto importuna dei carbonari. Varj per questo fine erano stati i tentativi ai tempi di Giuseppe, varj altresì ai tempi di Murat, ma sempre infruttuosi, non tanto per la forza della parte contraria, e per la difficoltà dei luoghi, quanto pei consigli spartiti, e la mollezza delle risoluzioni. A ciò fare era richiesto un uomo inesorabile contro i malvagi ed un'autorità piena per punirgli. Un Manhes generale, ajutante di campo di Murat, che già aveva con singolar energìa pacificato gli Abruzzi, parve al re uomo capace di condur a buon fine l'opera più difficile delle Calabrie. Il vi mandò con potestà di fare come e quanto volesse. Era Manhes di aspetto grazioso, di tratto cortese, non senza spirito, ma di natura rigida ed inflessibile, nè stromento più conveniente di lui poteva scegliere Giovacchino per conseguir il fine che si proponeva. Arrivava Manhes nelle Calabrie, a questo solo disposto, che le Calabrie pacificasse; del modo, qualunque ci fosse, non si curava: ciò si pose in pensiero di fare, e fecelo, ferocia a ferocia, crudeltà a crudeltà, insidia ad insidia opponendo; e se questi rimedj sono necessari, che veramente erano in Calabria, per ridurre gli uomini a sanità, io veramente dell'umana generazione mi dispero. Primieramente considerò Manhes, che l'operare spartitamente avrebbe guastato il disegno; perchè i facinorosi fuggivano dal luogo in cui si usava più rigore, in quello in cui si procedeva più rimessamente: così cacciati e tornanti a vicenda da un luogo in un altro, sempre si mantenevano. Secondamente andò pensando, che i proprietarj, anche i più ricchi, ed i baroni stessi che vivevano nelle terre, ricoveravano, per paura di essere rubati e morti, quest'uomini barbari. Dal che ne nasceva, che se non si trovava modo di torre loro questi nascosti nidi, invano si sarebbe operato per ispegnergli. S'aggiungeva che la gente sparsa per le campagne, per non essere manomessa da loro, dava loro, non che ricovero, vettovaglie; e così fra il rubare, il nascondersi ed il vagare era impossibile il sopraggiungergli. Vide Manhes convenirsi, che con qualche mezzo straordinario, giacchè gli ordinari erano stati indarno, si assicurassero gli abitatori buoni, i briganti s'isolassero. Da ciò ne cavava quest'altro frutto, che i giudizj sarebbero stati severi, operando contro i delinquenti l'antica paura, ed i danni sopportati. Ferro contro ferro, fuoco contro fuoco abbisognava a sanare tanta peste, e medicina di ferro e di fuoco usò Manhes. Per arrivare al suo fine quattro mezzi mise in opera: notizia esatta del numero dei facinorosi comune per comune, intiera loro segregazione dai buoni, armamento dei buoni, giudizj inflessibili. Chi si diletta di considerare le faccende di stato, ed i mezzi che riescono e quelli che non riescono, vedrà nelle operazioni di questo prudente e rigido Francese, quanto i mezzi suoi quadrassero col fine, e ch'ei non andò per le chimere e le astrazioni, come fu l'uso dell'età. Ordinò che ciascun comune desse il novero de' suoi facinorosi, pose le armi in mano ai terrazzani, partendogli in ischiere, fe' ritirare bestiami e contadini ai borghi più grossi, che erano guardati da truppe regolari, fe' sospendere tutti i lavori d'agricoltura, dichiarò caso di morte a chiunque, che ai corpi armati da lui non essendo ascritto, fosse trovato con viveri alla campagna, mandò fuori a correrla i corpi dei proprietarj armati da lui comune per comune, intimando loro, fossero tenuti a tornarsene coi facinorosi o vivi o morti. Non si vide più altro nelle selve, nelle montagne, nei campi, che truppe urbane che andavano a caccia di briganti, e briganti che erano cacciati. Quello che rigidamente aveva Manhes ordinato, rigidamente ancora si effettuava. I suoi subalterni il secondavano, e forse non con quella retta inflessibilità ch'egli usava, ma con crudeltà fantastica e parziale. Accadevano fatti nefandi: una madre, che ignara degli ordini, portava il solito vitto ad un suo figliuolo che stava lavorando sui campi, fu impiccata. Fu crudelmente tormentata una fanciulla, alla quale furon trovate lettere indiritte a uomini sospetti. Nè il sangue dei carbonari si risparmiava. Capobianco loro capo, tratto per insidia, e sotto colore d'amicizia nella forza, fu ucciso. Un curato ed un suo nipote entrati nella setta, furono dati a morte, l'uno veggente l'altro, il nipote il primo, il zio il secondo. Rifugge l'animo a me, che già tante orrende cose raccontai, dal raccontare i modi barbari che contro di loro si usarono. I carbonari spaventati dalle uccisioni, perchè molti di loro perirono nella persecuzione, si ritirarono alle più aspre montagne.

I facinorosi intanto, o di fame, per essere il paese tutto deserto e privo di vettovaglie, perivano, o nei combattimenti, che contro gli urbani ferocemente sostenevano, morivano, o preferendo una morte pronta alle lunghe angosce o da sè medesimi si uccidevano, o si davano volontariamente in preda a chi voleva il sangue loro. I dati o presi, condotti innanzi a tribunali straordinari composti d'intendenti delle provincie, e di procuratori regj, erano partiti in varie classi; quindi mandati a giudicare dai consigli militari creati a posta da Manhes. Erano o strangolati sui patiboli, o soffocati dalla puzza in prigioni orribili: gente feroce e barbara, che meritava supplizio, non pietà. Nè solo si mandavano a morte i malfattori, ma ancora chi gli favoriva, o poveri, o ricchi, o quali fossero, o con qual nome si chiamassero; perciocchè, se fu Manhes inesorabile, fu anche incorruttibile. Pure, per opera di chi aveva natura diversa dalla sua, si mescolavano a pene giuste fatti iniqui. Succedevano vendette che mi raccapriccio a raccontare. Denunziati dai facinorosi, che per ultimo misfatto usavano mortali calunnie, alcuni innocenti furono presi e morti. Talarico di Carlopoli, capitano degli urbani, devoto e pruovato servitore del nuovo governo, accusato, per odio antico, da un facinoroso, piangendo ed implorando tutti la sua grazia, fu dato a morte. Non è però da tacersi, ch'ei fu condannato dalla corte di Cosenza sopra l'accusa datagli dal procuratore del re d'aver avuto segrete intelligenze coi briganti. Parafanti, donna, per essere, come si disse, stata moglie del facinoroso di questo nome, arrestata con tutti i suoi parenti, e dannata con loro all'ultimo supplizio, perì. Posti in fila nel destinato giorno, l'infelice donna la prima, i parenti dietro, preti e boja alla coda, marciavano, in una processione distendendosi, ch'io non so con qual nome chiamare. Eransi poste in capo ai dannati berrette dipinte a fiamme, indosso vesti a guisa di San Benito; cavalcavano asini a ritroso ed a bisdosso. A questo modo s'accostarono al patibolo: quivi una morte crudele pose fine ad una commedia fantastica ed orribile. Nè davano solamente supplizi coloro, che a ciò fare erano comandati, ma ancora i paesani spinti da rabbia e da desiderio di vendetta infierivano contro i malfattori: insultavano con ischerni ai morti, straziavano con le unghie i vivi, dalle mani dei carnefici togliendogli per uccidergli. Furono i Calabri facinorosi sterminati da Manhes fino ad uno. Chi non morì pei supplizi, morì per fame. I cadaveri di molti nelle vecchie torri, o negli abbandonati casali, od anche sugli aperti campi si vedevano spiranti ancor minacce, ferocia e furore: la fame gli aveva morti. Dei presi, alcuni ammazzavano le prigioni prima dei patiboli. La torre di Castrovillari angusta e malsana, videne perire nell'insopportabile tanfo gran moltitudine.

La contaminazione abbominevole impediva ai custodi l'avvicinarsi; i cadaveri non se ne ritiravano, la peste cresceva, i moribondi si brancolavano per isfinimento e per angoscia sui morti, i sani sui moribondi, e se stessi, come cani, con le unghie e coi denti laceravano. Infame puzza di putrefatti cadaveri diventò la Castrovillarese torre: sparsesi la puzza intorno, e durò lunga stagione; le teste e le membra degl'impiccati appese sui pali di luogo in luogo, rendettero lungo tempo orrenda la strada da Reggio a Napoli. Mostrò il Crati cadaveri mutilati a mucchi: biancheggiarono, e forse biancheggiano ancora le sue sponde di abbominevoli ossa. Così un terror maggiore sopravvanzò un terror grande. Diventò la Calabria sicura, cosa più vera che credibile, sì agli abitatori che ai viandanti: si apersero le strade al commercio, tornarono i lavori all'agricoltura; vestì il paese sembianza di civile, da barbaro ch'egli era. Di questa purgazione avevano bisogno le Calabrie, Manhes la fece: il suo nome saravvi e maladetto e benedetto per sempre.

LIBRO VIGESIMOQUINTO

SOMMARIO

Papa Pio prigione in Savona, e come trattato. Sue discussioni con Napoleone circa l'esecuzione del concordato, e l'instituzione dei vescovi. Ragioni addotte dalle due parti contro, ed in favore della facoltà dei pontefici Romani del delegare l'autorità spirituale ai vescovi. Prelati Francesi mandati a trattar col papa a Savona. Il papa non si mostra alieno dal dar l'instituzione fra sei mesi ai vescovi nominati, o di consentire, che fosse data in nome suo dai metropolitani, solo astenendosi da questa concessione pei vescovi suburbani. Concilio di Parigi. Breve del 20 settembre. Il papa ricusa costantemente di rinunziare alla sovranità temporale. Minacce che gli si fanno. Come e quando condotto da Savona a Fontainebleau.

Aveva Napoleone per mezzo del concordato confermata la sua potenza; sì soddisfacendo al desiderio dei popoli, e sì tenendo coll'imperio degli ecclesiastici in freno la parte contraria, alla quale non piaceva quella sua immoderata cupidigia di dominare. Nè trovò in questo la materia renitente: gli ecclesiastici non solamente accorrevano chiamati, ma ancora si offerivano non chiamati, molti per amore della religione, e molti ancora per ambizione, e speranza dei premj. Restava che la religione Romana stessa domasse con depressione dell'autorità pontificia: aveva in ciò un desiderio molto ardente, siccome quegli che era impaziente di ogni potenza forte che a lui fosse vicina. A questo fine, occupate le Marche, si era avvicinato alla pontificia sede di Roma, e sotto colore delle cose di Napoli, mostrava spesso i suoi soldati agli attoniti Romani. A questo fine ancora aveva occupato la Romana città, e trasportato il papa in condizione cattiva a Savona, retribuzione certamente indegna di tanti benefizj. S'accomodavano gli accidenti a' suoi pensieri: perchè, allettati con le ricchezze, e colla potenza i prelati più ragguardevoli, si accorgeva facilmente, che, se per lo innanzi gli era venuto fatto di voltare il papa contro Porto Reale e contro Voltaire, poteva presentemente voltare i prelati contro il papa. Più oltre anzi mirava; e già si motivava, che a lato dell'altar maggiore delle chiese Anconitane la sua immagine si dovesse esporre alla divozione dei fedeli. Da un papa prigione ad un papa spento, da un papa spento ad un autocratore in tanta forza e grandezza pareva facile il passo. Liberato per le vittorie del Danubio da ogni timore, si accingeva all'insolito e pericoloso tentativo. I Russi ed i Britannici modi gli venivano in mente, e gli pareva gran fatto, che quello che Alessandro e Giorgio erano, egli non fosse. Ma non considerava che la opinione cattolica è inflessibile ed indomabile, e che ancor più impossibile è il cambiarla, che lo spegnerla: gli ordini papali poi alla natura sua stessa, e per così dire, alle viscere sue più vitali sono inerenti secondo la credenza della maggior parte dei fedeli.

Era arrivato papa Pio prigione a Savona il dì quindici agosto dell'ottocentonove, se per caso o pensatamente, perciocchè quello era giorno festivo di Napoleone, il lettore giudicherà. Gli furono date sull'arrivare le stanze in casa di un Sansoni, sindaco della città. Accorrevano d'ogni intorno i popoli per vedere il pontefice. Pure gli agenti imperiali osservavano, non senza contentezza, che o fosse timore o fosse opinione, era quivi la moltitudine meno fervorosa, e minore fanatismo, così il chiamavano, mostrava verso il sovrano pontefice, che in Francia, e che la presenza del papa cattivo non alterava punto la obbedienza verso il governo. Parlossi lungamente nei consigli imperiali, se si dovesse permettere che il papa comparisse in cospetto del pubblico, sì coll'uffiziare pontificalmente in chiesa, e sì col dare le benedizioni. Si temeva lo sdegno aperto degli uomini, se vedessero il papa prigioniero, le ire secrete ancor più pericolose, se nol vedessero. Prevalse l'opinione che il papa si mostrasse: ma i soldati erano numerosi nelle Savonesi terre, le spie ancor più numerose, il castello pronto a ritorlo alle genti. Insino a che Napoleone comandasse, erano vietate le udienze al papa, ed a nissuno si permetteva che gli favellasse, se non presenti le guardie. Poco dopo il principe Borghese, governatore del Piemonte e del Genovesato, avutone comandamento da Parigi, ordinava, che il palazzo dove abitava il papa, trasferito nelle stanze nuove del prefetto, si circondasse di guardie, avesse un solo luogo per uscire, non si permettesse a nissuno di entrare; il papa non desse nissuna udienza; su quanto facesse nelle interiori stanze diligentemente si vigilasse e sopravvigilasse; fra i suoi servitori e segretarj segretamente s'inframmettessero uomini dediti a Sua Maestà. Ordinava oltre a ciò Napoleone per mezzo di un Vincent, soprantendente sull'Italica polizia a Parigi, che si guardasse bene agli atti di chi venisse a visitar il papa, e di più, che ogni lettera che gli fosse indiritta, si copiasse e mandasse al ministro della polizia generale, e che medesimamente tutte quelle che da Sua Santità, o da chi appresso a lei serviva, fossero scritte, si copiassero e mandassero al ministro medesimo.

Del resto Borghese principe, e Vincent soprantendente volevano e comandavano, che il papa fosse intieramente libero della persona, il che, se pure qualche cosa significa, a chi considera gli ordini precedenti, vuol dire ch'ei non fosse legato con corde. A questo si voleva, perchè si temeva di qualche concistoro segreto, che nissun cardinale in Savona, salvo lo Spina, potesse dimorare: fosse vietato allo Spina stesso di parlare al pontefice, se non presenti le guardie, anzi desiderando mandargli certe delicature di cibi, non gli era permesso, se non con licenza del governo. Un umile uomo, che Ostengo aveva nome, ed era ai servigi del pontefice, per avere scritto un viglietto con lettere di piombo di vetro, fu cacciato nelle segrete, nè gli furono concessi i giudici. Esitava il papa a nominar le persone che dovessero attendere a' suoi servigi, essendo stimolato a farlo da chi aveva mezzo di frenare così gl'infedeli, come i fedeli. Temeva che l'amor suo fosse ad altri cagione di disgrazie, nè in ciò s'ingannò. Pure nominò il prelato Doria-Pamfili, maestro di camera, Soglia cappellano, Porta medico, Ceccarini chirurgo, Moiraghi e Morelli ajutanti di camera, un Campa giovane di florerìa, ed alcuni altri di minor condizione. Se ne viveva il pontefice nel suo Savonese carcere con molta semplicità, nè mai si mostrava sdegnarsi, quantunque avesse tante cagioni di sdegnarsi. Vedeva volentieri il conte Chabrol, prefetto di Montenotte, perchè il conte usava con lui molto umanamente, temperando con dolci modi l'acerbità degl'imperiali comandamenti; della quale dolcezza ed umanità ne ebbe anche le male parole da Parigi. Offertogli, se gli piacesse passeggiare a diporto per la campagna, s'intendeva con le guardie, rispondeva, non poter divertirsi quando la chiesa piangeva. Mandava Napoleone imperatore il conte Sarmatoris di Cherasco a metter grandi mense, a fare addobbi, a mostrar magnificenze, a condur servidori in livrea attorno al papa, e pel papa. Con qual nome chiamare questo imperiale scherno contro il pontefice prigioniero, io non so. Nè so nemmeno perchè Sarmatoris conte, che buon uomo era, accettasse un carico tanto derisorio. Si appresentava lusingando, e con le imperiali profferte. Toccò, sperare, poichè Sua Beatudine aveva aggradito i suoi servigi a Parigi, sarebbe per aggradirgli anche in Savona. Rispose pacatamente, esser cambiati i tempi: allora come a principe e sovrano essersi convenuto l'apparato esteriore, ora come a prigioniero disdirsi: fuori del suo seggio, in paese straniero, stretto da guardie armate, privo de' suoi servitori e consiglieri più intimi e più fidi; prigioniero essere, prigioniero tenersi, da prigioniero voler essere trattato: sciogliessero prima le catene che le pontificie membra strignevano, nella sua pontifical sede il rimettessero, i suoi cardinali gli rendessero, ed accetterebbe i sovrani onori: del resto provvederebbero i fedeli, provvederebbe Iddio, che mai non abbandona i servi suoi devoti. Le medesime cose asseriva, ma con maggiore forza, come a soldato, a Cesare Berthier, generale mandato a Savona da Napoleone per ajutar le spie coll'armi.

Giovami spaziare alquanto sui sentimenti del papa carcerato. Fulminava Ugo Maret da Parigi, tentava di spaventarlo. Si facesse, comandava, bene capire al papa ed a' suoi famigliari, che dopo la scomunica, il cui fine evidente era di eccitar i popoli alla ribellione, e di far ammazzare con le coltella sua maestà l'imperatore, aveva il governo pontificio fatto l'estremo di sua possa, e consumate tutte le sue armi; se gli facesse osservare, quanto pregno fosse quel capitolo della pace, col quale l'imperatore d'Austria si era obbligato a riconoscere tutte le mutazioni fatte, o da farsi in Italia, se gli facesse riflettere, che ugualmente dai trattati d'Amiens e di Tilsit si deduceva, che l'imperatore Napoleone poteva fare quanto gli piacesse e paresse, per impedire che il papa s'intrommettesse negli interessi terreni, e nell'amministrazione interna de' suoi stati: spesso facessero salire alle sue orecchie questo suono, che le cose temporali non hanno comunanza alcuna colle spirituali, che i sovrani da Dio acquistano la potenza loro, non dai papi, che la chiesa gallicana aveva accettato come dottrina invariabile, le dichiarazioni dell'assemblea del clero del 1682, e che finalmente una scomunica era contraria a tutti i principj della chiesa gallicana: se gli ricordasse, che Pio sesto, ancorachè al suo pontificale seggio fosse stato tolto, ed i suoi stati invasi, ancorachè a' tempi di lui la religione fosse sbandita di Francia, ed il sangue dei vescovi scannati bruttasse gli altari, non era venuto a quell'estremo passo di usare un'arma, che la religione, la carità, la politica e la ragione del pari condannavano. Così Ugo Maret predicava in nome di Napoleone imperatore la religione e la carità a papa Pio. Ma il prigioniero in contesa tanto disuguale, in cui gli avversari ajutavano le ragioni loro con tutto l'apparato delle Europee armi, non se ne stava tacendo, ed opponeva costanza a forza. Dello aver voluto eccitare i popoli alla ribellione, asseverantemente negava, poichè in tale forma aveva scritto l'atto della scomunica, che la sommessione e l'obbedienza alle potestà temporali, la salute delle persone, e la conservazione delle sostanze ne fossero specialmente raccomandate; che non era stato badando se fulminando la scomunica consumasse tutte le armi sue, e tutta la potenza, che solo aveva inteso a far il debito suo, e che del resto per la salute della chiesa si rimetteva nella provvidenza di Dio; che finalmente la politica ecclesiastica non era punto come quella dei governi; che là si trattava sempre secondo la verità e la giustizia, qua secondo le passioni umane. Aggiungeva che se presto non si acconciassero le faccende e l'imperatore colla santa sede non convenisse, vedrebbe il mondo quanto papa Pio fosse capace di fare, nè più oltre spiegava i suoi pensieri, le quali ultime parole tenevano in sentore continuo i palazzi delle Tuillerie e di San Clodoaldo. Raccomandavasi di nuovo alle spie si affaccendassero.

Nè a queste protestazioni si ristava il papa, nè all'accordo dei potentati d'Europa. Si mostrava persuaso, che non più si trattava di separar le cose temporali dalle spirituali, ma bensì di ruinare le une per mezzo delle altre; che i potentati se ne pentirebbono, che già i tentativi erano stati pregiudiziali a quelli che gli avevano fatti, massimamente all'Austria; che del resto, ed intanto in occorrenza di tal forma, come capo e rettor supremo di quanto allo spirito ed alla religione s'apparteneva, non doveva e non voleva starsene ozioso; che anzi un suo debito e volontà era di usare contro i perniziosi disegni tutta la sua pontificale potenza, riposandosi colla speranza in Dio, che supplirebbe a quanto la debolezza sua non poteva effettuare. Affermava poscia, che i sovrani sono eletti dai popoli, e che dopo la loro elezione tengono la loro potenza da Dio; che male si era interpretato l'uso, che una volta avevano i vescovi ed i papi, di mettere nelle cerimonie delle sagre la corona in capo ai sovrani; conciossiachè quest'atto null'altro volesse significare, se non se che, stantechè la potenza, dopo la elezione fatta dagli uomini, veniva da Dio medesimo, egli stesso era quello, che per mano de' suoi ministri incoronava i sovrani. Quest'erano le dottrine della scuola Romana spiegate massimamente, dopo il celebre Gravina, dallo Spedalieri, siccome da noi fu raccontato nel libro secondo delle presenti storie. Che certamente, ed egli il sapeva, soggiungeva il pontefice, le cose di quaggiù sono sempre solite a trascorrere oltre i termini della natura loro, e che per questo spesso divenivano necessarie le riforme, cambiando, e mutandosi continuamente i tempi e gli usi; che in questo Roma aveva sempre mostrato molta agevolezza, consentendo di buon grado alle riforme medesime; che solo si rendeva necessario di non operare a caso ed alla spartita, ma bensì con procedere pensato e metodico; che così l'Austria, dopo alcuni errori a lei funesti, aveva con somma sua utilità operato sotto Pio sesto di santa memoria; che del rimanente egli biasimava, ed altamente dannava quel desiderio sfrenato d'innovazioni, che a quei tempi regnava, desiderio, che invece di riformare ordinando, contaminava rovinando.

Quanto alle quattro proposizioni del clero gallicano, affermava, che erano opinioni ancora in pendente, e che Innocenzo undecimo, al quale si atteneva per dritto pontificio di giudicare, era stato in un punto di condannarle; che il clero di Francia, siccome quello, che era, non tutta la chiesa, ma solamente una parte di lei, non aveva diritto di giudicare da se della potestà della sedia apostolica, nè di limitarla, nè di modificarla, che del rimanente non aveva difficoltà di ammettere la prima, che in ciò consiste, che Dio diede alla santa sede il governo delle cose spirituali, non delle temporali; che i re ed i principi non sono soggetti nelle temporali alla potestà ecclesiastica, e che non si possono per l'autorità delle chiavi di san Pietro deporre, nè dal giuramento di fedeltà esimere i sudditi. Ma quindi passando papa Pio a quello che era il soggetto della controversia, distingueva il diritto di deporre i sovrani, e di dispensare i sudditi dal giuramento di fedeltà, da quello di fulminare una scomunica contro i principi, quando eglino secondo le leggi, ed i canoni della chiesa l'hanno incorsa; che conseguentemente qui non cadeva la dottrina della chiesa gallicana, nè che mai la chiesa di Francia aveva preteso, che il papa non avesse autorità di fulminare la scomunica contro chi l'avesse meritata, che egli aveva bensì scomunicato Napoleone, ma non deposto, nè sciolto i sudditi dal giuramento; che se poi per effetto della scomunica alcuni dei sudditi di lui rimettessero della divozione e fedeltà loro, ciò non al pontefice giusto castigatore, ma al principe colpevole prevaricatore, doveva unicamente attribuirsi; che tale dottrina, bene il sapeva, era del tutto consentanea ai pensieri di Bossuet, quantunque non in tutto con lui consentisse, e che bene era persuaso, che se tutto il clero di Francia fosse assembrato, la dottrina medesima accetterebbe ed approverebbe; che a lui non era ignoto, che ai tempi andati avevano qualche volta i vescovi ed i papi liberato i sudditi dal giuramento, ma solamente quando il sovrano era stato deposto dagli stati del regno e dai grandi, per modo che la dispensa dal giuramento altro non era, se non se la conseguenza di una deposizione fatta da coloro, ai quali aspettava il diritto di farla. Pertanto la deposizione non proveniva dalla dispensa, ma bensì la dispensa dalla deposizione, opera non dei papi, ma d'altrui. Venendo poi all'esempio allegato di Pio sesto, si spiegava con dire, che la tempesta aveva sorpreso improvvisamente quel generoso pontefice, e quando già vecchio e paralitico non aveva più in lui spirito, che intiero fosse; che perciò la debolezza del corpo già più vicino a morte che a vita, aveva in lui nociuto alla prontezza dell'animo; che se dal costume di tutta la sua vita si avesse a giudicare, non si poteva dubitare, che alle novità introdotte da Napoleone nelle cose ecclesiastiche, ed alle usurpazioni di lui nel patrimonio di San Pietro si sarebbe più presto e più acerbamente risentito ch'egli stesso non aveva fatto; che per verità Clemente settimo era stato condotto a duro passo, ma che fu persecuzione che presto ebbe fine, e che quelli stessi che l'avevano perseguitato e cacciato dalla sua apostolica sede, si erano raumiliati, ed avevano da lui chiesto perdono; come le parole avevano suonato, così essere succeduti i fatti, poichè tantosto fu rimesso nella sua Romana cattedra, e restituito alla pienezza dell'apostolica potestà, mentre Napoleone nella durezza e persecuzione sua ostinatamente perseverando, non solo faceva alcuna dimostrazion di volersi ritirare da quanto aveva fatto in pregiudizio dell'autorità ecclesiastica, e dalle sue usurpazioni contro il patrimonio di San Pietro, ma ancora pertinacemente affermava ed apertamente dichiarava, volere di per se stesso e senza intervento dell'autorità pontificia, turbare le sedi vescovili e parrocchiali, e far violenza al pontefice sulle nomine dei vescovi, e tener Roma suddita in sua mano.

Tornando quindi all'esempio di Pio sesto, aggiungeva, che egli non aveva avuto a fare col direttorio, che fuori della Chiesa essendo, alle leggi della Chiesa nè obbediva, nè si protestava obbediente, ma che egli, Pio settimo, aveva a far con Napoleone imperatore, il quale nella sua qualità di figliuolo primogenito della Chiesa, qualità, che continuamente assumeva e di cui si vantava, si trovava soggetto a tutte le sue regole e leggi; apparire, nè il taceva, che mai nissuno de' suoi antecessori era stato ridotto a quelle ultime strette in cui era egli; e quanto al patrimonio di San Pietro aveva giurato di difenderlo sino a sparsione di sangue, e che così si era risoluto di fare; che i canoni avevano decretato, che chi esso patrimonio offendesse e toccasse, incorresse incontanente nelle censure ecclesiastiche, che ad esse Napoleone imperatore si era confessato soggetto, poichè aveva fatto professione di cattolico; ch'egli le censure medesime fulminando, aveva adempito quell'obbligo al quale per le ecclesiastiche leggi consentite da tutta la Chiesa era tenuto, che non solamente il doveva fare, ma che non poteva non farlo, bene dolersi, e nell'interno del paternale suo animo compiangere, che le prese deliberazioni potessero offendere la Francia, sua figliuola prediletta, e sopra la quale con tanto amore si era versato; ma giudicherebbe ella se fosse per amare meglio un papa prevaricatore, o un papa osservatore de' suoi doveri, un papa innocente ed oppresso, od un imperatore colpevole e persecutore: della elezione non conservare dubbio alcuno; ricordarsi ancora con infinita allegrezza le grate accoglienze, l'affezionato concorso dei popoli, quando in quel nobile reame se n'era andato ad un ministerio, che ogni altra cosa portendeva, piuttosto che ruine: ricordarsi come fra quell'immenso apparato d'armi e di soldati avesse trovato luogo, per la Francese pietà, un umile preticciuolo inerme, solamente perchè la comunanza dei fedeli nella persona sua rappresentava; ricordarsi che dove concorrevano, se non supplici, almeno umili i primi potentati d'Europa, una opinione solamente fondata sul consenso dei popoli devoti a Dio, devoti al suo vicario in terra, devoti all'apostolica sedia tanto avesse potuto, ch'egli non potente fra mezzo ai più potenti, il principale e più onorato seggio si vendicasse: gisse pure onorata, gisse contenta, gisse felice la Francia; che quanto a lui, memore della pietà dimostrata, ogni cosa fuori dell'impossibile avrebbe e consentito ed operato, perchè ella quella pace di coscienza si godesse, che pei meriti suoi le era giustissimamente dovuta.

Desiderava Napoleone, solito a fare prima le cose, poi a volere che gli si consentissero, che il senatus-consulto dell'unione dello stato Romano al suo impero sortisse il suo effetto, anche per consentimento del papa. Non gli era nascosto, che ove il pontefice accettasse le condizioni proposte, facendosi abitatore di Parigi e suo pensionario, avrebbe dovuto finalmente consentire a quanto egli volesse nell'argomento della giurisdizione ecclesiastica; perciocchè la forza del pontefice tutta era fondata sull'opinione, e quando diventasse vile in cospetto degli uomini, avrebbe perduto coll'opinione quell'antico suo fondamento; che certamente avrebbe avuto parte di viltà, se in vece di viversene padrone con isplendore a Roma, o carcerato con onore in Savona, avesse accomodato l'animo a vivere suddito in Parigi. Per la qual cosa gli agenti imperiali continuamente e con esortazioni vivissime cercavano di muoverlo, acciocchè rinunziasse al dominio temporale, accettasse i milioni, abitasse il palazzo arcivescovile di Parigi. Certamente pareva a quei tempi la potenza di Napoleone inconquassabile: le paci di Tilsit e di Vienna, il matrimonio coll'arciduchessa, esercito invitto, vincitore, innumerabile, la fondavano. Niuna speranza rimaneva al pontefice di risorgere; il sapeva, il credeva, il diceva, ma vinse la coscienza: ricusò Pio le imperiali proposte. Che sapeva ben egli, affermava, ciò che volevano fare; che questi disegni, e se n'era accorto, già fin d'allora covavano, quand'egli era andato a incoronar Napoleone a Parigi; che già fin d'allora vi si racconciava il palazzo arcivescovile per la stanza dei papi; che vedeva chiaramente che era nato il pensiero di far i papi viaggiatori, e fors'anche primi elemosinieri degl'imperatori: papi di Francia volersi, non papi di Cristianità: del resto non volere, protestava, il palazzo di Parigi: sarebbe un nuovo carcere: non la potestà temporale, ma San Pietro avere fissa la sua sede in Roma; avere ciò dimostrato colla sua venuta in quella veneranda città, averlo dimostrato colla sua dimora, averlo dimostrato col suo martirio; il sangue dell'apostolo avere indicato, e santificato il luogo dell'apostolica sedia; volere Pio successore quella, o nissuna: non disfarebbe col consenso suo Pio ciò, che Cristo stesso Salvatore per mezzo di Pietro aveva fatto, che nè giuramento presterebbe, nè pensione accetterebbe; sarebbe vile agli occhi suoi, vile al mondo, se quel prestasse, se questa accettasse: essere il senatus-consulto la servitù della Chiesa: volersi mandar ad effetto le macchinazioni dei filosofi, rendere il papa tanto suddito, quanto i vescovi in Francia: che si mirava evidentemente alla distruzione della religione; che non potendo assaltarla di fronte, perchè la impresa era troppo difficile, la volevano assaltar di fianco: non mai i sacerdoti del paganesimo essere stati tanto dipendenti dalla potestà temporale, quanto i preti d'oggidì; volersi anche mettere sotto il giogo il papa: presumere che tali disegni non provenissero dal consiglio ecclesiastico raunato in Parigi, perchè se ciò fosse, tosto il separerebbe dalla comunione sua: in mezzo a tante turbazioni, o tanti sovvertimenti sperare, che Dio fosse quello che avesse a salvare la sua Chiesa: che del resto non poteva più riconoscere, qual figliuolo primogenito, l'usurpatore dei beni della santa sede, che già, e pur troppo aveva sopportato, che già gli era venuta a schifo la sua pazienza; che la sede di Roma non poteva operare come gli altri sovrani; ch'ei potevano rinunziare secondo gli accidenti a parte dei loro diritti col pensiero di riacquistargli, quando che fosse, ma che doveva il papa operare in coscienza; i trattati di Roma spirituale essere santi, e di buona fede ripieni.

Così papa Pio tormentato dai Napoleonici i suoi pensieri spiegava. Quanto poi a quello ch'egli in quei tempi tanto per lui lagrimevoli desiderasse fare, i ricordi dell'età non lasciano luogo a dubitazione. L'animo suo era di addomandar sempre i beni temporali della santa sede, ma di non mai far cosa che tendesse a volergli riacquistare per forza: solo questo chiedeva e richiedeva, che libero fosse, e libero lasciato tornare a far il papa nella sua Roma; che farebbe anche il papa in una grotta, che farebbelo nelle catacombe; che se alla parsimonia ed ai pericoli della primitiva Chiesa gli fosse duopo tornare, con piena rassegnazione vi tornerebbe, nè ciò fora anco grave a chi non mai tanto felice era stato, quanto, quando semplice fraticello essendo, in un umile chiostro le dottrine teologiche insegnava.

In cotal modo si raffermava, quanto alle sue particolari sorti, l'animo del pontefice; ma bene piangeva, ed amaramente deplorava le novelle discordie. Deploravale principalmente perchè laceravano le viscere più intime e più vitali della cristianità cattolica: deploravale perchè impedivano l'unione, della quale aveva allora speranza delle parti dissenzienti; imperciocchè aveva concetto il pensiero, che alcuni paesi addetti alle dottrine di Lutero avessero presto a ritornare nel grembo della chiesa. Solo disperava dei Calvinisti, siccome quelli ch'egli riputava più induriti, e che avevano voluto introdurre nel governo ecclesiastico gli ordini democratici.

Quest'erano le tribolazioni di Pio settimo. Ma ecco oggimai avvicinarsi il tempo, in cui la sua virtù doveva esser messa a più duri cimenti. Posciachè si era tentato di spaventarlo coi soldati, di osservarlo colle spie, di sgomentarlo colla segregazione, di scuoterlo con le minacce, si faceva passaggio ad assalirlo con le dottrine, e con le persuasioni di coloro, che o per antica amicizia, o pel carattere di cui erano vestiti, si credeva potessero avere molta autorità nelle sue deliberazioni. La mancanza dell'ufficio pontificale, che il papa ricusava di compire già da parecchj anni, principiava a farsi sentire fortemente nella cristianità cattolica, la condizione peggiorava ogni giorno. Molte sedi vescovili, ricusando il papa le bolle d'investitura, erano vacanti tanto in Francia, quanto in Italia ed in Germania. Altre vacanze si scoprivano alla giornata, ed era per estinguersi l'episcopato. L'imperatore, avendo dato favore col concordato all'opinione cattolica, vedeva non potersi esimere dal ricorrere all'autorità pontificia. Pensò sulle prime di usar l'autorità del cardinal Caprara, arcivescovo di Milano, e legato della santa sede a Parigi, di cui conosceva la condiscendenza. Scrisse il cardinale supplicando al papa, desse le bolle per le sedi vacanti ai vescovi nominati dal consiglio dei ministri dell'imperatore. Aggiunse che Napoleone consentiva, che in esse il pontefice non facesse menzione delle nomine imperiali, purchè egli non v'inserisse la clausula del moto proprio, od altra equivalente.

Rispose risolutamente il pontefice, maravigliarsi, che Caprara queste cose proponesse: esser evidente ch'ei non poteva accomodarvi l'animo: non mai la cancelleria apostolica avere ammesso simili instanze da parte dei laici: del resto, a chi concederebbonsi le bolle, se alle instanze del consiglio dei ministri si concedessero? Non esser loro l'imperatore medesimo? Non gli organi de' suoi ordini, non gli stromenti della sua volontà? Ora dopo tante innovazioni funeste alla religione fatte dall'imperatore, contro le quali egli si era sì spesso e sì inutilmente querelato, dopo tante vessazioni commesse contro tanti ecclesiastici dello stato pontificio, dopo l'esilio dei vescovi e della maggior parte dei cardinali, dopo la carcerazione di Pacca cardinale, dopo l'usurpazione del patrimonio di San Pietro, dopo di essere stato assalito lui medesimo da uomini armati nei penetrali stessi del suo pontificale palazzo, dopo di essere stato forzatamente in terra sotto strette guardie condotto per modo che i vescovi di parecchi luoghi non avevano potuto avvicinarsi a lui, o parlargli senza testimonj, dopo tanti attentati sacrileghi, tacendone anche, per amor della brevità, altri infiniti, contro i quali i concilj generali e le constituzioni apostoliche fulminavano l'anatema, che altro avere lui fatto, se non uniformarsi, com'era suo dovere, ai decreti di questi concilj, se non obbedire ai termini di queste constituzioni? Come adunque potrebbe oggidì riconoscere nell'autore di tante violenze il diritto di nominar i vescovi, come consentire ch'egli l'usasse? Il potrebbe forse senza farsi reo di prevaricazione, senza contraddire a se medesimo, senza dare, con iscandalo gravissimo, materia ai fedeli di credere, ch'egli sbattuto e vinto dalle disgrazie, a tanto di abiezione fosse venuto, che potesse tradire la sua coscienza, e fare quello, ch'essa con terribil voce l'ammoniva di dannare? Pesasse bene, e queste ragioni ponderasse, non secondo la sapienza umana, ma prostrato nel santuario il cardinale, e vedrebbe, quanto vere, quanto inconcusse, quanto incontrastabili fossero. Chiamare tuttavia Dio in testimonio di quanto egli in mezzo a sì crudeli tempeste desiderasse provvedere alle sedie vacanti della chiesa di Francia, di quella chiesa di Francia, suo primo amore, e suo supremo diletto: con quanto piacere abbraccerebbe egli un consiglio, che gli permettesse di soddisfare ad un tempo ed al suo pastorale uffizio, ed a' suoi doveri sacrosanti! ma come potere, come risolversi solo e senza soccorso in un affare di tanta importanza? Toltigli essere tutti i consiglieri suoi, toltagli la facoltà di comunicare con loro, nissuno restargli, da cui pigliar lume in sì spinosa discussione. Se vera affezione avesse l'imperatore alla cattolica chiesa, incominciasse dal riconciliarsi col suo capo: togliesse le innovazioni funeste, rendessegli la sua libertà, la sua sede, i suoi ufficiali; restituissegli il patrimonio, non suo ma di san Pietro; riponesse sulla cattedra dell'apostolo il suo capo supremo, il suo capo di cui ella era vedova e priva dopo la Savonese cattività; rimandassegli i quaranta cardinali dal suo grembo divelti pei crudi comandamenti suoi; richiamasse alle diocesi loro tanti esuli vescovi: pregare incessantemente e ferventemente fra tante sue tribolazioni quel Dio, che tiene in sua mano tutti i cuori, incessantemente e ferventemente pregarlo per l'autore di tanti mali: esaudisselo, piacessegli spirare al duro cuore di Napoleone più salutevoli consiglj; ma se per segreto giudizio di chi tutto sa e tutto puote, altrimenti accadesse, piangerebbe egli le presenti calamità, certo e sicuro che nissuno a lui imputare le potrebbe.

In questo mezzo tempo Napoleone per intimorire il papa, e farlo consentire a quanto egli desiderava, con dargli sospetto che se non consentisse, ei farebbe da se, aveva convocato un consiglio ecclesiastico a Parigi chiamandovi i cardinali Fesch e Maury, l'arcivescovo di Tours, i vescovi di Nantes, di Treveri, d'Evreux, di Vercelli, ed un Emery, prete superiore del seminario di San Sulpizio a Parigi. L'imperatore, per mezzo del ministro dei culti Bigot di Préameneu, personaggio di buona e posata natura, ma che ciò non ostante procedeva con molto calore in questa faccenda contro il papa, propose loro certi quesiti, acciocchè gli dichiarassero. Erano questi prelati, o tutti o la maggior parte, nemici dei seguaci di Porto Reale; ma la fortuna, e la Napoleonica ambizione gli avevano condotti a questo duro passo, o di opinare, circa la potestà della sedia apostolica, conforme alle dottrine di quella famosa scuola, o di dispiacer a Napoleone. Una sola risposta dovevano e potevano dare, ed era quest'essa: che si rimettesse il pontefice nella condizione in cui era quando concluse il concordato, ed allora se ricusasse le bolle, opinerebbero; ma non la diedero, perchè quelli non erano tempi da Ambrogi. Certamente se il papa debbe essere assicurato contro i principi in materia religiosa e spirituale, i principi debbono essere assicurati contro il papa in materia politica e temporale. A quest'ultimo fine mirava la necessità nel papa nel dar le bolle in un dato tempo, salvo i casi d'impedimenti canonici nei nominati; ma la prigionìa del pontefice rendeva impossibile ogni negoziato, e Napoleone voleva non solamente la independenza per se, ma ancora la servitù negli altri. Il governo della chiesa, portavano i quesiti, è egli arbitrario? Può il papa per cagioni temporali ricusare il suo intervento negli affari spirituali? Conviensi, che solamente prelati e teologi trascelti nei piccoli luoghi del territorio Romano giudichino degl'interessi della chiesa universale? Conviensi, che il concistoro, consiglio particolare del papa, sia composto di prelati di tutte le nazioni? Quando no, l'imperatore non ha in se raccolti tutti i diritti, che ai re di Francia, ai duchi del Brabante, e ad altri sovrani dei Paesi Bassi, ai re di Sardegna, ai duchi di Toscana, e simili s'appartenevano? Ancora, ha Napoleone imperatore, o i suoi ministri violato il concordato? Essi migliorata, o peggiorata la condizione del clero di Francia dopo il concordato? Se il sovrano di Francia non ha violato il concordato, può il papa di suo proprio arbitrio, ricusare l'instituzione agli arcivescovi e vescovi nominati, e perdere la religione in Francia, come l'ha perduta nell'Alemagna senza vescovi da dieci anni? Non avendo il governo di Francia violato il concordato, se dal canto suo il papa ricusa di eseguirlo, intenzione di sua maestà è, ch'esso si abbia e si tenga per abrogato: ma in tale caso, che conviensi fare pel bene della religione?

A questi quesiti, che risguardavano specialmente la Francia e l'Italia, se ne aggiunse un altro per l'Alemagna, desiderando l'imperator Napoleone sapere, quale cosa gl'incombesse di fare per la salute della religione in questa parte d'Europa, a lui, che era il cristiano il più potente di tutti, signore dell'Alemagna, erede di Carlomagno, vero imperatore d'Occidente, figliuolo primogenito della chiesa. Ancora ha bisogno la Toscana di nuove circoscrizioni di diocesi, e se il papa non vuol cooperare, che farà sua maestà?

Ancora, e finalmente éssi questa bolla di scomunica stampata e sparsa per tutta Europa: che farà Napoleone imperatore per impedire, che in tempi di turbazioni e di calamità, non diano i papi in questi eccessi di potenza tanto contrari alla carità cristiana, quanto all'independenza, ed all'onore del trono?

Intanto Napoleone costretto dalla necessità, perchè la vacanza delle sedi episcopali turbava la coscienza dei fedeli, essendo a ciò consigliato da coloro che appresso a lui trattavano delle faccende ecclesiastiche, si deliberava ad usare un rimedio, che poteva dargli, secondo che credeva, tempo ad aspettar tempo, e conclusione definitiva delle differenze nate colla santa sede. Aveva egli udito, che dopo la morte del vescovo la giurisdizione episcopale si trasferiva nel capitolo della chiesa cattedrale, e che a questo s'apparteneva il nominare vicarj generali, che governassero la diocesi durante la sede vacante. Oltre a ciò fu fatto sapere a Napoleone, che i capitoli investiti alla morte del vescovo della potestà episcopale, conferivano, secondo gli antichi usi di Francia, la potestà medesima all'ecclesiastico nominato dal sovrano alla sede vacante. Quest'ultimo pensiero gli fu suggerito dal consiglio ecclesiastico. Ma al tempo medesimo il consiglio aveva mitigato il concetto con dire, che lo spediente proposto non poteva essere che transitorio, che solo per l'ultima necessità, e per non lasciar perire l'episcopato in Francia dovevano i capitoli delegare la giurisdizione ai nominati, che, cessata la necessità, si rendeva necessario tornare ai metodi consueti; che sebbene i vescovi nominati e delegati avessero potestà di reggere le diocesi, non potevano esercire tutta la pienezza dell'autorità episcopale, perciocchè, se avevano la giurisdizione, non avevano l'ordine; i vescovi instituiti possono fare certe funzioni, che i vescovi delegati non possono; che pure era richiesto per la salute dei fedeli, e pel perfetto delle diocesi, che l'autorità episcopale tutta intiera in loro si raccogliesse; che del resto non pareva conveniente, che lungo tempo i vescovi esercessero le facoltà loro, e governassero le diocesi come semplici delegati dei capitoli; altro maggior decoro, altra maggiore independenza essere richiesta ad un vescovo perchè si possano aspettare dal suo ministerio i debiti frutti.

Certamente non piaceva neppur a Napoleone, che era d'indole assoluta, questa condizione, che i vescovi, come delegati esercessero, perchè voleva, che i capi fossero padroni, non servi. Ciò nondimeno il guadagnar tempo gli pareva cosa d'importanza. Deliberossi pertanto, insino a che da Savona migliori novelle gli pervenissero, a servirsi del temperamento proposto dal consiglio ecclesiastico. Erano in Francia e nell'Italia Francese diocesi vacanti da lungo tempo, in cui governavano i vicarj capitolari. A volere che i capitoli delegassero l'autorità vescovile ai nominati dall'imperatore, era d'uopo che i vicarj rinunziassero: conciossiachè non vi potessero essere due delegati. A questo fine indirizzava i pensieri il governo Napoleonico; dal che nacquero accidenti di non poca importanza. Aveva Napoleone nominato vescovo d'Asti in Piemonte il prelato Dejean, fratello d'un suo ministro. Richiesti del rinunziare, i vicarj del capitolo ricusarono. Avute le novelle, Napoleone sdegnosamente decretava: fosse il capitolo d'Asti ridotto a sedici, i beni spettanti ai canonicati soppressi cadessero in potestà dei fisco, i renitenti fossero arrestati e processati, come di crimenlese. Aggiungeva Bigot di Préameneu, che sua maestà si era risoluta ad unire al fisco i beni dei vescovati, dove sorgessero erbe di ribellione. Aveva Napoleone nominato Osmond vescovo di Nancy, uomo di nobile tratto e di pulitissima favella, all'arcivescovato di Firenze. Scrisse risolutamente il pontefice al vicario capitolare, comandando che non rinunziasse, che era Osmond illegittimo secondo i canoni. Seguitarono effetti conformi: non ebbe mai Osmond quieto vivere in Firenze.

Ma a quest'amarezza serbava il cielo Napoleone imperatore, che il prigioniero di Savona gli turbasse i suoi pensieri nella capitale stessa del suo impero. Aveva egli nominato arcivescovo di Parigi il cardinale Maury, surrogandolo al Fesch, che nominato ancor esso alla medesima sede non aveva voluto accettare. Maury, parendogli un bel seggio il Parigino, l'accettò. Seppelo il santo padre per avviso mandato dal cardinal Dipietro, che confinato a Semur faceva una mirabile polizia a suo modo. Scrisse un breve ai vicarj capitolari di Parigi della colpevole audacia del cardinale, e del debito loro gravemente ammonendogli. Essere, rammentava, il cardinale Maury un intruso, essere irremissibile la sua temerità; calcare lui i sacri canoni, calcare le decretali dei papi, calcare tutte le leggi dell'ecclesiastica disciplina: avessero i vicari per nulli tutti gli atti che il cardinale facesse: niuna qualità, niuna giurisdizione l'intruso avere, tutte a lui essere negate, tutte tolte: essere legato Maury alla chiesa di Montefiascone; niuno poternelo sciorre, che la santa sede: le sue risoluzioni gli comunicassero, e dell'esecuzione l'ammonissero. Intanto Maury, che non era uomo da sgomentarsi così alla prima, nè solito a cambiarsi in viso pei rabbuffi, scriveva al papa informandolo della sua nomina, ed accettazione dell'arcivescovil sede di Parigi. Rispose il pontefice, maravigliarsi dell'audacia sua, ma maggior dolore ancora sentirne, che maraviglia: inaspettato e deplorabile accidente, sclamava, ch'egli tanto da se stesso disforme fosse divenuto, che ora quella causa della chiesa abbandonasse, che sì degnamente aveva patrocinata nei calamitosi tempi della rivoluzione. Adunque, continuava, la podestà civile questo punto vincerà, che ella al governo delle chiese chi più le pare e piace, instituisca? Adunque sarà cassa la libertà ecclesiastica, le elezioni invalide, il scisma presente? Tali essere gli effetti, tali i risultamenti dell'esempio detestabile che egli dava. Pertanto comandava al cardinale, pregavalo, scongiuravalo, incontanente cessasse dal governo della Parigina chiesa, si ritirasse dagl'imperiali doni: quando no, procederebbe rigorosamente contro di lui.

Non erano le opinioni conformi nel capitolo di Parigi; chi amava meglio l'imperio che la chiesa, e chi la chiesa meglio che l'imperio. Più erano i primi che i secondi; quelli avevano accettato Maury, questi gli contrastavano. Degli ultimi Paolo Dastros, canonico e vicario generale, preso occasione del mandare al vescovo di Savona certe dispense, aveva supplicato al papa, affinchè il consigliasse di quello che si avesse a fare nelle congiunture presenti. Il santo padre rispondendo, tornava in sul chiamare Maury intruso, disubbidiente, uomo di audacia intollerabile: ordinava, ed in virtù della santa obbedienza comandava a Dastros, incontanente mostrasse al cardinale la sua lettera, e gl'imponesse da parte sua, che dalla temeraria impresa si ritirasse.

Seppesi Rovigo, che sapeva tutto, queste cose; le disse all'imperatore. Sdegnossene Napoleone: prima cosa, fatto arrestare a furia Dastros, il cacciò nelle segrete al solito: poi fece rimproveri e minacce tali a Portalis, consigliere di stato, perchè le lettere del papa a Dastros erano venute sotto sua coperta, che il povero giovane se ne tornò tutto smarrito e lacrimoso a casa. Ma le Savonesi cose pressavano. Scrutaronsi diligentemente dalla polizia Napoleonica i fogli ai servitori del papa; a Paolo Campa, a Giovanni Soglia, a Carlo Porta, al prelato Doria, al prelato Maggiolo, ad Andrea Morelli, a Moiraghi, a Targhini, cuochi, e valletti. Trovarono lettere del papa per le Astigiane, Fiorentine, e Parigine controversie; trovarono lettere di Dipietro al papa, trovarono suppliche per dispense, modi di condursi ai Romani, descrizioni ed attestazioni di miracoli. Le ferrate porte di Fenestrelle sorbirono Morelli, Soglia, Moiraghi, ed un Ceccarini chirurgo, ed un Bertoni valetto: anche un Petroncini domestico del Doria, fu cacciato nelle segrete. Porta se la passò con una buona ammonizione, e che, se vi tornasse, mal per lui: speravano che scoprirebbe qualche cosa degli affari del papa. Doria fu mandato a starsene co' suoi a Napoli, e badasse a non guardar indietro. Nè Dipietro potè fuggire lo sdegno imperiale: preso a Semur, cambiò l'esilio in carcere.

Dispersi i minori, Rovigo e Napoleone pensavano a quello che fosse a farsi del pontefice; perchè, se gli altri avevano fatto fallo a Napoleone, il papa, pensavano, l'aveva fatto maggiore, e maggiore anche da lui veniva il pericolo. Non sapevano darsi pace, come tra quelle folte tenebre che avevano con tanta cura addensate intorno al pontefice, avesse trovato uno spiraglio a vedere, ed a far veder lume: il prefetto di Montenotte sentì qualche sprazzo della collera suprema. Incominciava a fulminare con grandissimo sdegno contro il papa Bigot di Préameneu: sapere l'imperatore, che il papa aveva scritto al capitolo di Firenze, acciocchè non conferisse la potestà all'arcivescovo nominato; recarsi l'imperatore quest'atto a grave offesa. Adunque vuole il papa tutto sovvertire e mandar sossopra? Adunque non vuol nemmeno che le diocesi siano transitoriamente amministrate dai prelati, che l'imperatore giudica degni della sua confidenza, ed ai quali secondo l'uso i capitoli conferiscono le potestà al tempo delle sedi vacanti? Adunque danna il papa uno stato transitorio, che è in facoltà sua di far cessare, dando le bolle, incontanente? Crede egli, che Sua Maestà sia subordinata ad un capitolo, per forma che il vicario ch'esso capitolo ha eletto, non abbia bisogno di essere riconosciuto dall'imperatore, e che, se riconosciuto non è, o cessasse d'essere, ei conservi il diritto di far funzioni, che sono ad un tempo stesso e temporali e spirituali? Un vescovo canonicamente instituito non può nominare un vicario generale senza l'intervento di un decreto imperiale: come può il capitolo avere maggior diritto che il vescovo? I sudditi dell'imperatore, che il capitolo compongono, non renderebbersi forse colpevoli, se un vicario altro che quello che il loro sovrano loro indicasse, o nominassero o mantenere volessero? Questo vicario capitolare non dovrebbe egli forse per la pace della chiesa cessare di per se medesimo l'ufficio, o se questo motivo, più sacro certamente dell'autorità arbitraria del pontefice, a ciò fare nol risolvesse, la volontà del sovrano non gli torrebbe forse ogni potenza dell'atto, o se ribelle si costituisse, non dovrebbe egli portar la pena della sua ribellione? Avere veduto il papa i sovvertimenti prodotti dalle instruzioni ch'ei non aveva diritto di dare sulla formola del giuramento d'un suddito al suo sovrano; nè poter non preveder quelli, che potrebbero nascere dalla sua lettera al capitolo di Firenze. Nissuna violenza, nissun oltraggio del papa l'imperatore lascerebbe impunito: essere tuttavia parato l'imperatore a venirne a giusti termini d'accordo, solo che il papa, scrivendogli, il facesse certo della sua volontà. Ma se al contrario da una parte perseverasse nel voler lasciar le chiese senza capi instituiti, dall'altra nell'impedir i capitoli, e nel mettergli in caso di ribellione contro il sovrano loro, non vedrebbe più Sua Maestà in questi atti le funzioni del governo pontificale, che tutte sono di pace e di carità, non vedrebbe più sotto un titolo rispettabilissimo, che un nemico protervo; obbligo suo sarebbe di torgli ogni mezzo di nuocere coll'interdirgli ogni comunicazione col clero del suo impero, e con isolarlo, qual ente pericoloso: non potere il prelato Doria aspettarsi altro destino, che quello di Pacca cardinale. Le quali ultime parole dette, non so per qual rispetto, non di Pio, ma di Doria, chiaramente significavano, che di Doria si dicevano, perchè Pio come dette di se le riputasse.

Crebbero a dismisura gli sdegni, quando si scoverse l'affare di Dastros. Sclamava il Parigino ministro, la pontificia lettera esser fonte di ribellione; girare il papa le incendiarie faci all'intorno; parlare di concordia, suscitare la discordia. Poi per bocca imperiale comandava al prefetto di Montenotte, badasse bene a non lasciare trapelar lettere, nè per dentro, nè per fuori della papale stanza, e non mancasse; parlasse più risolutamente al papa; gl'intuonasse alle orecchie, che dopo la fulminata scomunica, ed il procedere suo a Roma, che tuttavia continuava a Savona, l'imperatore il tratterebbe come meritava; che tanto era oramai il secolo oltre nei lumi, che sapeva distinguere le dottrina di Gesù Cristo da quelle di Gregorio settimo.

I fatti seguitavano le minacce. Per dispetto, e per speranza di ottener concessioni col terrore, ordinava l'imperatore, che ogni apparato esteriore si sbandisse dall'abitazione pontificia: trovarono i rigidi comandamenti diligenti esecutori. Camillo Borghese principe toglieva le carrozze al papa, toglievagli Sarmatoris e gli altri servitori, sopprimeva ogni segno di rispetto, gl'interdiceva penna ed inchiostro, gl'intimava per ordine di Napoleone imperatore, che gli era fatta inibizione di comunicare con alcuna chiesa dell'impero, nè con alcun suddito dell'imperatore sotto le pene di disubbidienza tanto per lui, quanto per loro; che cessava di essere l'organo della Chiesa colui che predicava la ribellione, colui che aveva l'anima tinta di fiele; che poichè niuna cosa il poteva far savio, se gli faceva a sapere, che sua Maestà abbastanza era forte, perchè potesse far quello che i suoi antecessori avevano fatto, e deporre un papa.

Si credeva a Parigi che i comandamenti ripetuti avessero maggior forza. Per la qual cosa Bigot di Préameneu novellamente inculcava, si intimasse a Pio, che per cagion sua i cardinali, ed i vicari generali perdevano la libertà, i canonici le prebende; che queste occulte trame erano indegne di un papa; ch'egli sarebbe cagione delle disgrazie di tutti coloro, che avrebbero a far con lui; che dichiarato nemico dell'imperatore doveva quietamente starsene, e poichè da sè si chiamava carcerato, operare come se fosse carcerato, nè avere con nissuno pratica o corrispondenza; che gran disgrazia era per la Cristianità lo avere un papa così ignorante di quanto è dovuto ai sovrani: che del resto, non sarebbe la pace dello stato turbata, e che il bene si farebbe senza di lui.

Oltre i comandamenti del ministro dei culti, e del principe governatore del Piemonte, perciocchè tutto il governo Napoleonico era mosso contro il prete di Savona, intuonava dalle sponde dell'investigatrice e dispotica Senna la polizia, si guardasse bene dentro e fuori della pontificia abitazione; si stillasse tutto, si spiasse tutto; niuna cosa, per minima che fosse, trapelare, o, per usare le parole stesse, filtrare potesse, senza che la polizia la sapesse; si guardasse attentamente al grande, si guardasse colla medesima gelosìa al minuto; non si prestasse fede di tutto a tutti, ma solo ai più fidi; se alcuno mentisse, fosse punito; se alcuno dicesse la verità, fosse ricompensato; vigilante fosse la investigazione, e continua, ma invisibile, fosse anche proteiforme; fossero gli agenti di tutte le lingue, di tutte le forme, di tutti i mestieri, varj ed infiniti i pretesti, ma sempre naturali, perchè il lambiccato svela l'arte; si usasse ogni astuzia, ogni strattagemma, ogni scaltrimento; superassersi in astuzia, queste parole stesse portavano le lettere, i preti, anche i più maliziosi; si avesse l'occhio massimamente alle strade da Savona a Torino, perchè là era il marcio; si guardasse addosso ai pedoni molto diligentemente, e per ogni parte si ricercassero; non mancherebbero i pretesti per non dar sospetto; ora si motivasse di un vagabondo, ora di uno scappato di galera, qui si cercasse un soldato fuggitivo, là un truffatore condannato, poi un po' di scusa velerebbe il segreto: le Savonesi terre desolate dalla polizia. Voleva ancora, essa polizia, si procurasse, che pei concorsi d'uomini o di alta o di bassa condizione, gli autorevoli e di buona favella intendessero alle persuasioni, dicendo, che l'imperatore aveva ragione, il papa torto; che più amava l'imperatore la religione, che il papa l'amasse. Insinuava altresì, che le sacristìe ed i confessionali farebbero servizj grandi, se si facesse sentire ai curati instrutti, ed ai preti giurati, che la loro obbedienza e sommessione erano conosciute, e che sarebbero anche premiate; se qualche canonico, o se qualche regolare passato a vita secolare compiangesse o titubasse, se gli facesse tosto suonare all'orecchie l'interesse personale, la perdita delle pensioni, e che la polizia sapeva tutto; se qualcheduno ricalcitrasse, si mettesse in luogo dove gli passerebbe voglia; finalmente con ogni sorta di cortesi dimostrazioni, tanto in pubblico, quanto in privato si accarezzassero, ed al ministro dei culti si raccomandassero gli ecclesiastici che si mostrassero più fedeli, che usassero l'autorità loro per ridurre i compagni a fedeltà, e che predicassero che ogni potestà temporale viene da Dio, e che il Vangelo insegna e raccomanda l'obbedienza e la sommessione verso i principi; ponessesi mente ad operare che tutti gli spiriti s'imbevessero di quest'opinione, che l'imperatore non tornava mai indietro, che per la sua munificenza infinita sempre premiava chi fedelmente e devotamente il serviva, ma che per la sua giustizia mai non perdonava a chi denigrasse, a chi ricalcitrasse, a chi dissidj e discordie seminasse.

Queste che abbiamo raccontate, furono le cautele poste in opera dai Napoleonici per murare il papa, e per fare, che nissuno sapesse, o dicesse, o facesse altro che quello che piaceva a Napoleone. Arti veramente perfette erano queste, e da servir per esemplare a chi ama il comandare da se. L'imperatore veduto che nè le persuasioni, nè le minacce, nè gli spaventi, nè la strettezza del carcere non avevano potuto piegare l'animo del pontefice, e credendo, per le opinioni dei popoli, di non potere da se, e senza che gli estremi mezzi prima si fossero tentati, fare questa gravissima mutazione, che i vescovi di Francia, e di tutti i paesi sudditi a lui più non ricevessero la instituzione canonica della sede apostolica, si era risoluto ad usare più efficacemente il sussidio del consiglio ecclesiastico adunato in Parigi. Opinava, che il parere di ecclesiastici di grado o di dottrina, fosse per operare fortemente in favor suo sulla mente dei popoli, caso che per la necessità delle cose si avesse a rompere quel legame, che congiungeva l'episcopato Francese alla Chiesa di San Pietro.

Inoltre, a ciò consigliato, e stimolato principalmente dal consiglio ecclesiastico, si era deliberato a convocare un concilio nazionale a Parigi; acciocchè considerasse la necessità presente, e proponesse i mezzi di rimediarvi. Dava favore a questo suo pensiero, oltre la maggior autorità di un concilio, la speranza che i vescovi Italiani chiamati all'assemblea, siccome nutriti, la maggior parte, nelle dottrine che abbracciate in Italia da molti dotti canonisti, avevano negli ultimi tempi trovato una principal sede in Pistoia, avrebbero deliberato in favor d'un'opinione, che, quanto alla trasmissione dell'episcopato, pareva conforme agli usi antichi della Chiesa primitiva.

Ordinate in tal modo le cose, e sicuro di quello che dovesse avvenire, Napoleone stimolava il consiglio ecclesiastico; acciocchè desse principio a quanto si era ordinato. In primo luogo rispondeva il consiglio, non senza molt'arte, a quesiti fatti con maggior arte. Quanto all'articolo, se il governo della Chiesa fosse arbitrario, dichiarò che non era; che quanto alla fede, la santa scrittura, la tradizione, ed i concili servivano di regola; e quanto alla disciplina, l'universale reggevano i decreti della Chiesa universale, la particolare quelli delle Chiese particolari; il che il consiglio non diceva senza cagione. Aggiunse, che la disciplina particolare era sempre stata rispettata dalla Chiesa universale, piena di carità e di condiscendenza. Ragionò, che Dio aveva dato a san Pietro, ed a' suoi successori il primato d'onore e di giurisdizione; ma i consiglieri ecclesiastici, procedendo con questa generalità, e non venendo a nissuna particolarità, non si spiegavano, in che cosa consistesse questo primato di giurisdizione, perchè in ciò appunto stava tutta la difficoltà della materia venuta in controversia; che Dio diede al tempo stesso agli apostoli, continuavano i consiglieri, la facoltà di reggere le Chiese, con subordinazione però al capo degli apostoli: dal che ne risultava, che ove questa subordinazione non si offendesse, avevano i successori degli apostoli pieno mandato di governar le Chiese.

Non potere, statuirono, il papa ricusare il suo intervento negli affari spirituali per cagione dei temporali, quando questi di tale natura non siano, che non impediscano il pontefice di far uso della sua autorità liberamente, e con piena independenza: convenirsi, che nel concistoro intervengano cardinali di ogni nazione, ma dello speciale modo non convenirsi deffinire, dovendosi lasciare qualche libertà al papa nella elezione de' suoi consiglieri; nè in ciò potersi andar più oltre che il concilio Basileense ebbe prescritto, cioè eleggesse il papa cardinali di tutte le nazioni, quanto più comodamente fare si potesse, e secondochè se ne trovassero dei degni. Ma prelati tostamente contraddissero a questa soluzione, nè potevano fare altrimenti, dichiarando, veramente avere l'imperatore raccolti in se stesso tutti i diritti del richieder cardinali, che competevano ai re di Francia, ai principi del Brabante, ai sovrani della Lombardìa, del Piemonte, e della Toscana; dal che ne conseguitava, che, eccettuati i cardinali degli stati ereditarj d'Austria, dovendo presto aggiungersi i diritti di Spagna, tutti i cardinali gli avrebbe nominati egli; e che independenza di papa e di concistoro fosse quella, ponendo eziandìo che il papa si restituisse a Roma, ed al dominio temporale, nissuno è, che nol veda.

Il concordato, opinarono, non essere stato violato in niuna essenziale parte dell'imperatore; qui i prelati si trovarono a un duro cimento, perchè sapevano che il papa aveva protestato contro gli articoli organici di Francia, e più ancora contro quei d'Italia. Trovarono per iscampo, che parecchj articoli, di cui s'era il pontefice querelato, erano massime ed usi della chiesa gallicana. Assai migliorata essere, risposero, la condizione del clero in Francia dopo il concordato, ed in questo avevano i prelati ogni ragione, nè tanto non dissero, che non potessero dire molto più.

Per sentenziare se il papa di suo proprio arbitrio potesse rifiutare le instituzioni, i prelati s'aggirarono per molti ragionamenti; imperciocchè in questo giaceva tutto il nodo della difficoltà: che il concordato, esposero, era un contratto sinallagmatico tra il capo dello stato, e il capo della chiesa, pel quale ciascuno di loro si era obbligato verso l'altro; che era anche un trattato politico di sommo momento per la nazione Francese, e per la chiesa cattolica, che per lui Sua Maestà era investita del diritto di nominare gli arcivescovi ed i vescovi, di cui prima godevano i re di Francia pel concordato concluso tra Leone decimo e Francesco primo, ed era riserbato al papa quello di dare l'instituzione canonica agli arcivescovi e vescovi nominati da Sua Maestà, secondo le forme accordate, rispetto alla Francia, prima del cambiamento di governo, ma che il papa, non di proprio arbitrio, ma secondo i canoni doveva dare la instituzione, che a termini del concordato del millecinquecento quindici egli era obbligato a dar le bolle, od allegare motivi canonici del suo rifiuto; a volere ch'egli potesse rifiutare senza cagione, ed arbitrariamente le bolle, e bisognerebbe supporre, che da nissun trattato fosse obbligato, neanco da quello al quale aveva solennemente ratificato, e potesse mancar della fede data all'imperatore, alla Francia, ed alla Chiesa tutta, alla quale il concordato dell'ottocento uno assicurava la protezione del più potente sovrano del mondo. Aggiungevano i prelati, sapersi il papa queste cose, confessare la verità dei narrati principj, ma negare le instituzioni pei motivi addotti nella sua lettera al cardinal Caprara: insussistenti essere questi motivi, non avere l'imperatore alcuna offesa di importanza fatta al concordato: dei motivi politici non poter loro giudicare; diverse essere le temporali cose, diverse le spirituali; il senatus-consulto, che unì Roma alla Francia, non avere offeso l'autorità spirituale del papa, nè il temporale dominio essere necessario all'esercizio della potestà pontificia; non avere la presa di Roma violato il concordato, nè il concordato aver dato sicurtà al papa di Roma; non come principe temporale, ma come capo della Chiesa avere quel solenne atto stipulato; il principe non esser più, ma essere il pontefice, e la pontificia autorità rimanersi intatta; avere potuto il papa protestare, potuto richiamarsi della Romana possessione, ma non potere usar mezzi per ridurre in atto le proteste ed i richiami, non iscomunicare; dichiarare l'imperatore, che nulla voleva innovare nella religione; protestarsi che voleva l'esecuzione dei patti convenuti; non potere per motivi temporali tirarsi il papa indietro; nè Clemente settimo da Carlo quinto oltraggiato essere venuto a tale estremo. Restava che i prelati parlassero della libertà violata, della perfetta segregazione del pontefice; posciachè il papa di tali ingiurie si era doluto nella sua lettera al Caprara, e sopra di esse principalmente fondava il rifiuto delle bolle. A questo passo con brevissime parole osservarono, che facilmente l'imperatore s'accorgerebbe di tutta la forza e giustizia delle lagnanze del papa. Con questo freddo discorso favellarono prelati cattolici, prelati che da Pio tenevano i seggi loro, dell'atroce caso del pontefice, nè in ciò sono a modo alcuno scusabili; conciossiachè, posto eziandio, che circa la questione canonica l'imperatore avesse ragione, il papa torto, il fatto solo della carcerazione del pontefice rendeva dal canto loro ogni opinare impossibile. Il concordato, che era un vero trattato, supponeva equalità di condizione nelle due parti, e libertà di deliberazione sì nell'una che nell'altra: ma quale libertà di deliberazione fosse in un papa prigioniero, e quale equalità di condizione tra un papa carcerato ed un imperatore carcerante, ciascuno potrà facilmente da per se stesso giudicare. Certamente debbe stare inconcussa la libertà dei principi, debbonsi troncar le strade agli abusi pontificj, e chi arrivasse a stabilir bene questo punto, meriterebbe bene del mondo cattolico, anzi di tutta l'umanità. Ma la carcerazione del pontefice turbava ogni cosa, e prima di trattare la questione canonica, si doveva definir quella della liberazione.

La materia, quanto più si va oltre, tanto più si stringe. Non potere, risposero i prelati, aversi il concordato per abrogato, perchè non era già esso una transazione meramente personale fra l'imperatore e il papa, bensì un trattato che costituiva parte del dritto pubblico di Francia, ed in cui si contenevano i principj fondamentali, e le regole del governo della chiesa gallicana; importare adunque, che, quandanche il papa perseverasse, in quanto a lui si atteneva, nel non volerlo eseguire, la sua esecuzione continuamente si addomandasse, e della medesima il sovrano pontefice si richiedesse: ma se il papa tuttavia perseverasse nel ricusar le bolle, doversi protestare contro questo rifiuto illegale, ed appellarne o al papa meglio informato, o al suo successore. Quivi i prelati erano arrivati all'estremo passo; perchè o che il concordato come abrogato, o solamente come sospeso si riputasse, un rimedio diveniva necessario. Ora, stantechè la religione cattolica non può sussistere senza l'episcopato, e l'episcopato non si può avere senza la instituzione canonica, nè senza la giurisdizione unita all'ordine, e stante ancora che la chiesa gallicana, parte tanto nobile e tanto essenziale della Cristianità cattolica, venuta, non per sua colpa, in queste fatali strette, non doveva e non poteva nè abbandonare se stessa, nè lasciarsi perire, nè non trovar modi di conservazione, i prelati opinarono, e così all'imperatore rappresentarono, che si ricercasse quanto negli antichi tempi della chiesa, ed in quelli più vicini si fosse praticato. Descrissero, nei primi secoli della Chiesa, i vescovi essere stati nominati dai suffragi dei vescovi conprovinciali, dal clero, e dal popolo della chiesa che del vescovo abbisognava; essere stata la elezione confermata dal metropolitano, o se del metropolitano si trattasse, dal concilio della provincia: nella serie dei tempi posteriori poi, avere gl'imperatori, o gli altri principi cristiani grandemente partecipato nelle nomine dei vescovi: di grado in grado non essersi più chiamati alle elezioni il popolo ed il clero della campagna, e devolute essere le elezioni al capitolo della chiesa cattedrale, ferma sempre però stando la necessità del consenso del principe, e della conferma del metropolitano, o del concilio provinciale: la disusanza di queste assemblee, le contese frequenti, che nascevano dalle elezioni, la difficoltà di terminarle sui luoghi, il vantaggio che trovavano i principi di trattare immediatamente col papa, avere introdotto l'uso di promuovere queste cause innanzi alla santa sede, e per tal modo essere i sovrani pontefici appoco appoco venuti in possessione del confermare la maggior parte dei vescovi: tale essere stata la condizione delle cose ai tempi del concilio Basileense, di cui la Chiesa di Francia accettò i decreti relativi alla nomina, ed alla confermazione dei vescovi, e statuiti per la sanzione prammatica di Bourges nel millequattrocentotrent'otto; per lei essersi mantenute le elezioni capitolari, e la confermazione, o instituzione lasciata ai Metropolitani: così colla prammatica di Bourges essersi rimediato alla mancanza dell'instituzione pontificia: essere poscia circa un secolo dopo, sorto il concordato fra Leone decimo e Francesco primo, dal quale la nomina del re fu sostituita alla elezione capitolare, e la conferma, od instituzione canonica riservata al papa: per tale forma essersi trasfusa la potestà dell'instituzione dai metropolitani, e dai concilj provinciali nel sovrano pontefice, e le elezioni capitolari nel capo temporale dello stato. Ora adunque, ristringendo il discorso loro, dicevano i prelati, poichè la necessità non ha legge, e la conservazione della chiesa gallicana da ogni umana e divina legge è non solo raccomandata, ma comandata, volersi, persistendo il papa nei rifiuti, tornare all'antico dritto dei metropolitani, non per sempre nè definitivamente, ma temporaneamente e transitoriamente, insino a che piacesse a chi muove a posta sua gli umani cuori, voltar quello del pontefice in meglio verso di quella grande, affezionata, e zelante gallicana chiesa: la prammatica disusata di Bourges avere ad essere il rimedio dei mali presenti. Grave ed enorme passo era questo: però aggiunsero al parer loro i prelati, opinare, che si convocasse un concilio nazionale: non volere i prelati giudicare anticipatamente delle risoluzioni del concilio, ma presumere, che nel caso in cui egli sentenziasse di risuscitare la prammatica, supplicherebbe prima il pontefice, e scongiurerebbelo, che della gallicana chiesa gli calesse, ed a lei la vita coi vescovi ridonasse; ma se nè le preci, nè le supplicazioni potessero vincere l'ostinazione del pontefice, decreterebbe il concilio, per ultima necessità, e per non perire, che la prammatica si rinnovasse.

Intanto le dottrine dei partigiani dell'antica disciplina vieppiù si spargevano, le Italiane contrade principalmente ne risuonavano. Coloro che a queste opinioni erano addetti, credevano essere venuto il tempo ch'elleno avessero a prevalere, si rallegravano della diminuzione dell'autorità pontificia, ed affermavano ch'ella era medicina non solamente utile, ma ancora necessaria al corpo infermissimo, come il chiamavano, della Chiesa. La ricordanza del milleottocentuno, e ciò, che era accaduto al concilio di Parigi in quell'anno, non gli rendevano accorti del procedere e delle intenzioni di Napoleone: che il corpo, spargevano, dei vescovi esercenti, rappresentasse la Chiesa, e fosse per rappresentarla finchè ella durasse; che attentato condannabile dei papi degli ultimi tempi fosse l'aver voluto diminuire e frenare la potestà divina dei vescovi; che la potestà inerente al carattere dei vescovi immediatamente, e senza che nissuna umana potestà potesse arrogarsi il diritto di alterarla, derivasse da Gesù Cristo; che non mai potesse la giurisdizione episcopale perire, che i concilj prima del mille non avessero mai voluto riconoscere per veri e legittimi vescovi, se non quelli che dai rispettivi metropolitani erano stati ordinati; che così avevano statuito, così definito i concilj Niceni, tanto venerati in quei primi e purissimi tempi della cristiana comunità; che le massime contrarie solamente dai concilj Lateranensi, concilj quasi domestici dei papi, erano state introdotte; che insomma, continuavano, i metropolitani dovessero dare la giurisdizione ai vescovi; che l'arrogarsi i papi di volerla dar soli, fosse usurpazione; che avesse Dio dato a Pietro il primato d'onore, e la potestà suprema di regolare e mantener sana la disciplina, sana la fede in tutte le chiese che la universale compongono, ma non il privilegio di giurisdizione nel caso di cui si tratta: che la potestà di giurisdizione, per quanto spetta alla transmissione della potestà ecclesiastica, fosse in ciascun vescovo, per diritto ed ordinazione divina, piena, come piena era nel supremo pontefice; così avere ordinato Cristo Redentore nel dare ai vescovi la facoltà di reggere le chiese, così richiedere la sicurezza degli stati, e l'independenza della potestà temporale. È giusto forse, sclamavano, è conveniente, è consentaneo alla divina volontà, che i papi possano, con mettere l'interdetto, o a continuazione dell'episcopato ricusando, turbare le coscienze dei fedeli, sconvolgere le province, e i regni? Non è assurdo il supporre, che Dio non abbia dato a ciascuna società il mezzo di conservarsi sana e salva da se stessa? E che sicurezza, e che salute può esservi, se elleno da un forestiero dipendono? Varj e diversi essere stati i modi immaginati dai principi per preservare gli stati proprj dai pericoli, che a loro sovrastavano pei decreti della Romana sede, ora prammatiche, ora appelli, ora concordati: ma tutti essere stati insufficienti, perchè sempre si lasciò sussistere la radice del male, cioè l'eccessiva ed illegittima potenza dei papi: ripullulare i pericoli e le turbazioni ad ogni Romano capriccio, concepir timore gli animi ad ogni elevazione di papa, un cardinale di più o di meno nel pontificio concistoro poter mandar sossopra una provincia intiera: essere oggimai tempo di strigarsi da questi fino allora inestricabili lacci; la Romana tirannide doversi conculcare, ora che un principe potentissimo il voleva; restituissesi all'episcopato tutta la sua dignità, tutta la sua potenza; l'independenza da Roma sarebbe la libertà universale; sarebbe altresì la purezza delle dottrine cattoliche; perciocchè l'avere mescolato le cose temporali con le spirituali, che fu fonte di tanti scandali, e di un deplorabile scisma, essere stato opera di Roma; fosse la religione tutta spirituale, e non turberebbe gli stati, nè darebbe cagione ai malevoli di denigrarla, e più imperio avrebbe e quelli stessi che in lei non credevano, rispettata l'avrebbero: la cristianità cattolica tuttavia piangere la perduta Germania, la perduta Inghilterra; tale doloroso smembramento alla prepotenza di Roma, alle usurpazioni dei papi, alle temporali cupidigie loro doversi certamente ed unicamente scrivere: tornassesi adunque, predicavano, a quel sistema, che stabilito da Cristo e dagli apostoli aveva durato per tanti secoli nella primitiva Chiesa, che gli uomini più pii, più dotti, più esemplari avevano sempre inculcato, e coi più intensi desiderj loro chiamato: da lui solo poter derivare la purezza della religione, e la incolumità degli stati. Vivevano ancor fresche, massime in Italia, le onorate memorie di Leopoldo e di Ricci: non pochi ecclesiastici, anche di prima condizione, e per dottrina e per virtù compitissimi, vi seguitavano le medesime vestigia, e sostenevano le medesime dottrine; non per ambizione nè per desiderio di servire a chi allora tutti servivano, e principalmente gli avversari loro, ma per convinzione propria, per ritirar la Chiesa, come credevano, all'antica sua constituzione, per riformarne gli abusi, per rinstaurare e confermare la libertà dei principi offesa dalla potenza immoderata dei papi.

Queste sparse dottrine piacevano a Napoleone, perchè gli davano occasione d'intimorire il papa e speranza di ridurlo a sua volontà; nè dispiacevano agli arcivescovi ed ai vescovi amatori dell'independenza: quel Romano giogo già pareva loro grave ed intollerabile; quel diventar papi essi sommamente a loro arrideva. Le cose andavano a satisfazione di Napoleone in quanto si atteneva agli ecclesiastici dei suoi stati.

Vinceva il papa non solamente per la costanza, ma ancora per la disgrazia, sempre potente nel cuore degli uomini. Nè i suoi teologi tacevano, benchè Napoleone si fosse sforzato di por loro un duro freno in bocca. Difendevano la sedia apostolica e Romana, non solamente contro le dottrine di Porto Reale e di Pistoja, ma ancora contro le allegazioni del consiglio ecclesiastico. Avere, andavano ragionando, Cristo fondatore sopra Pietro fondato tutto l'edifizio della religione; a lui avere dato primato d'onore, a lui primato di giurisdizione, per lui tutta l'autorità della Chiesa, e per lui solo potersi e doversi tramandare, e trasfondere in altrui: avere per verità Cristo salvatore posto i vescovi a governar la Chiesa, ma non per se medesimi, nè independentemente da Pietro, ma per mandato suo, e sotto la sua dipendenza: Pietro essere il fonte di tutti i rivi, lui il fonte di ogni ecclesiastica potestà; avere per la necessità dei tempi in quei primi secoli, fra una religione contraria, fra le persecuzioni continue, fra un popolo padrone del mondo, che altri Dei confessava ed adorava, fra tante nazioni diverse, e nel vasto campo d'Asia, d'Africa e d'Europa, avere prima gli apostoli per instituzione divina, poscia i vescovi per instituzione apostolica usato la loro autorità senza mandato espresso di Pietro, ma però lui consenziente, imperciocchè non è da credersi, che per condurre una così gran mole, gli apostoli ed i loro successori non si siano accordati, acciocchè a questo ed a quello, senza confusione e senza conflitto, questa o quella provincia fosse di consenso comune devoluta: ciò non ostante rimanere fisso ed inconcusso questo principio, che Pietro aveva un mandato ordinario e perpetuo, gli apostoli un mandato straordinario e caduco da finirsi in loro, o nei successori loro immediati; che quello aveva avuto un mandato per istabile fondamento, e perpetuo governo della Chiesa, questi un mandato temporaneo per la necessità dei tempi; che, cessata questa necessità, tornava il mandato sparso negli apostoli e loro successori immediati al fonte comune, vale a dire ai successori di Pietro; che così la Chiesa nata da un solo tornava in un solo: mirabile, e divino artifizio. Del rimanente anche nella più rimota antichità apparire i segni della trasfuzione del mandato di Pietro nei rettori delle altre chiese del mondo: l'ordine stesso dei metropolitani confermare questa verità; perchè a quei tempi antichissimi era il mondo diviso, per rispetto alla cristianità, in Oriente ed Occidente; due erano nel primo i metropolitani, quei di Alessandria e di Antiochia, uno nel secondo, quel di Roma; comunicavano il mandato ecclesiastico; cioè l'ordine e la giurisdizione, la qualità e il luogo, i due metropolitani d'Oriente ai vescovi delle loro rispettive province, il metropolitano d'Occidente, successore di san Pietro, a quelli d'Occidente; ma i primi da Pietro nell'origine prima avevano ricevuto le potestà loro: imperciocchè aveva governato egli stesso la chiesa d'Antiochia, ed a lei dato un successore, quando venne a fondare e governare quella di Roma: rispetto alla chiesa d'Alessandria, avere Pietro mandato a governarla san Marco, suo discepolo, ma se la origine scopre il mandato, gli accidenti posteriori il confermano; perchè i Romani pontefici, successori di Pietro, ai metropolitani d'Oriente mandavano il pallio, segno della conferita autorità; essi metropolitani addomandavano la comunione ai pontefici di Roma, e senza la ottenuta comunione non si credevano legittimi. Sonsi anche veduti Romani pontefici deporre metropolitani d'Oriente, o patriarchi, perchè con questo nome poscia si chiamarono: a tutti questi segni, affermavano i curialisti di Roma, riconoscersi la superiorità Romana fin dai tempi primitivi; dal che si deduce la pienezza e la perpetuità del mandato nei papi, la dipendenza e la delegazione nei metropolitani. Ne conseguita altresì, che poichè tutta l'autorità spirituale consiste nella facoltà del trasmettere il mandato di Cristo, il diritto di confermare e d'instituire tutti i vescovi della Chiesa è supremo, e divino e conseguentemente inalienabile, imperscrittibile, non soggetto a interruzione, ad eccezione, e cessazione alcuna, e che a lui niuna potenza che sia, nemmeno quella della Chiesa può portar diminuzione, che se qualche modificazione fu introdotta in qualche tempo, massime nei primitivi, ciò o per determinazione, o per consentimento dei sommi pontefici avvenne.

Rispetto poi alla Francia particolarmente, i Romani teologi insistevano dicendo, assai più manifesta essere la trasmissione del mandato di san Pietro nelle chiese di questo reame, che in qualunque altro; perchè i papi, rispetto a lui, non solamente erano papi, ma ancora metropolitani, essendo metropolitani d'Occidente, e se qualche metropolitano particolare pel miglior governo delle chiese di questa vasta provincia fu creato, lui essere stato creato per autorità pontificia: della nominazione ed instituzione di vescovi fatte dai papi nelle Gallie, anche senza l'intervento dei metropolitani, e dell'autorità regia stessa, aversene esempj, e se si vedono nominazioni, vedersi anche deposizioni; il che dimostra la pienezza dell'autorità pontificia in Francia in tutti i tempi.

Nè più si ristavano i difensori dell'apostolica sedia all'argomento addotto della prammatica di Bourges, perchè lei nulla e di niun valore, per essenziale vizio della sua origine, predicavano, siccome quella, che per l'autorità secolare ed incompetente del re era stata concertata e pubblicata: che se poi nulla la chiamavano per vizio originario, nulla maggiormente la predicavano per decreto della Chiesa universale, perchè il quinto concilio Lateranense l'aveva abrogata, annullata, ed anzi dichiarata scismatica. Ora mettendo anche caso, che non fosse viziata d'origine, e che tutta si potesse riferire all'autorità ecclesiastica, cioè ad un concilio nazionale di Francia, l'autorità di un concilio nazionale può forse prevalere a quella di un concilio universale? Può la decisione di una parte più forza avere che la decisione del tutto? Forse nei concilj particolari risiede la infallibilità? Forse non negli ecumenici? La chiesa gallicana stessa, il clero del 1682 è forse mai trascorso a dire una simile enormità? Non ha egli forse definito al contrario, che la infallibilità risiede nel concilio universale unito al papa? Se questo è vero, come è verissimo, come si potrà sostenere la proposizione, che la prammatica di Bourges non sia scismatica? Come ciò sostenere il clero di Francia senza contraddire a se medesime? La lateranense condanna pruovare l'errore del consiglio ecclesiastico, e la necessità del mandato pontificio per acquistare la giurisdizione episcopale. Del resto avere il concordato di Leone decimo e Francesco primo abolito la prammatica, nè potersi a modo niuno risuscitare; avere il concilio tridentino, cioè la Chiesa universale, appruovato il concordato medesimo, e l'autorità pontificia, come indispensabile per l'instituzione canonica dei vescovi, in solenne modo confermata e definita. Nè valere il dire, che il concilio tridentino non sia stato accettato in Francia, quanto alla disciplina, perchè il mandato immortale dei successori di san Pietro non è regola di disciplina, bensì instituzione divina, e perciò attinente al dogma. Oltre a ciò il re di Francia, cioè la potestà secolare sola non volle accettare, cioè pubblicare il concilio di Trento, ma il clero gallicano l'accettò veramente, e presso ai re continuamente insistè, perchè il pubblicassero.

Nè maggior valore avere, continuavano, l'allegazione della necessità, perchè egli è evidente, che per ministrare un rimedio straordinario, anche nel caso di necessità, si richiede la facoltà di ministrarlo: senza una tale facoltà il rimedio sarebbe veleno, e darebbe morte, non vita. Ora certamente il clero gallicano non ha facoltà di modificare, molto meno di annullare quello, che supponendo eziandio che non fosse d'instituzione divina, è stato dichiarato, definito e decretato dalla Chiesa universale: in simili casi, non da se, ma dalla provvidenza si debbono aspettare i rimedj.

Dicono e sostengono i prelati del consiglio ecclesiastico, che il governo della Chiesa non è arbitrario, che il papa debbe uniformarsi ai canoni, e ne appellano al concilio. Ma quando il papa per venirne all'esecuzion del concordato fatto con Napoleone, non avuto riguardo alcuno ai canoni, usava un'autorità insolita ed inudita, e non ostante, come dichiarò egli medesimo, i concilj, anche i generali, deponeva senza accusa e senza processo tutti i vescovi di un regno, cioè della Francia, questi medesimi prelati, ora tanto gelosi delle gallicane libertà, non esse libertà invocarono, non dei papali arbitrj si lamentarono, non al concilio appellarono; che anzi benignissimamente, e volonterosissimamente si assisero su seggi dei deposti, ed ora si servono dell'autorità, che il papa, a pregiudizio dei deposti, loro diede, per impugnarlo e per predicare, che niuna potestà è independente dai canoni. Allora non domandarono un concilio ecumenico, allora non l'assenso della Chiesa, quando si trattava di acquistar cariche, emolumenti ed onori: ma se allora errarono, e sono inconcussi i canoni, inconcusse le libertà gallicane, come non sono eglino o ignoranti, o impostori, poichè per errore e partecipazione loro non vi sarebbe più in Francia, da dieci anni indietro, giurisdizione legittima, e tutti i vescovi, e tutti i curati intrusi vi sarebbero? Rinunziarono per l'adesione loro al concordato, alle loro libertà, riconobbero implicitamente la superiorità del papa sui canoni, riconobbero la sua infallibilità, ed ora l'impertinente viso loro alzano contro quel medesimo papa, di cui predicarono sì altamente la potenza! Credono essi adunque, che il papa debba, a grado della cupidigia e dell'ambizione loro, ora condannare ciò che appruovava, ed ora appruovare ciò che condannava? Si lamentano del procedere arbitrario del papa? Adunque credono, che solo il loro imperatore, da essi tanto adulato, abbia questa facoltà al mondo di essere arbitrario? Piacciono loro gl'imperiali capricci, non piacciono le pontificali sentenze: nemici del loro capo innocente sono, adulatori del loro tiranno sono: amano meglio uno scomunicato, che un papa.

A ciò, e che voglion significare, continuavano gli avvocati dell'apostolica sede, quelle parole, che i vescovi rappresentano la Chiesa universale? Sono eglino forse, i vescovi, i deputati dei fedeli? Forse il mandato di governar la Chiesa, non lo hanno da Dio sotto la superiorità del successore di san Pietro? Non sono eglino i mandatarj del popolo, ma i deputati del signore. Che può dare di spirituale il popolo? Chi ha dato al popolo la facoltà di reggere la chiesa di Dio? Certo nissuno. L'avvilupparsi in parole subdole giova ai nemici della santa sede. Infatti, che voglion dir essi con quelle parole, che la potestà inerente al carattere dei vescovi da Gesù Cristo immediatamente deriva, senza che nessuna umana potestà si possa arrogare il diritto di alterarla in alcun modo? Ma chi non sa, solo che abbia toccato i primi principj della scienza canonica, che altra cosa è il potere dell'ordine, ed altra il potere della giurisdizione? Per l'ordine possono i vescovi conferire la cresima, conferire l'ordine, consecrar le chiese, consecrar gli altari; possonlo sempre validamente, quantunque non sempre legittimamente: per la giurisdizione, quando l'hanno ricevuta dalla santa sede, possono governar le chiese, far regole pel governo loro, appruovar confessori, decretare segregazione di fedeli, e statuire altre simili cose che si appartengono al governo della chiesa confidata loro dal papa. L'ordine è indelebile, la giurisdizione caduca: questa si dà e si toglie da chi ha dritto di dare e di tôrre, nè alcuno di questi audaci impugnatori della sedia apostolica sarà tanto audace, affermavano i teologi di Roma, che pensi e dica, che un vescovo, a cui il papa ha tolto la facoltà di governare una data chiesa, la possa ancora governare legittimamente; il che pruova la necessità del mandato pontificio. Non perisce la giurisdizione episcopale! ma non perisce ella, continuavano a sclamare i Romani canonisti, in un vescovo eretico, non in un vescovo scismatico, non in un vescovo scomunicato? Chi s'ardirà sostenere la contraria sentenza? Da quanto si è ragionato, opinavano, segue, che l'autorità stessa dei metropolitani era delegata, e derivata dai sommi pontefici: tal essere, aggiungevano, la monarchìa cristiana stabilita da Cristo Salvatore, tali gli ordini cattolici, che non si possono impugnare senza eresia; conciossiachè e le memorie antiche, ed il concilio tridentino ugualmente gli confermano.

Del rimanente, a qual fine si narrano tutte queste cose, e che voglion significare? Siano pur salve le gallicane libertà. Forse ne conseguita, che fuori di Francia abbiano ad aver forza, e ad obbligare le genti? Serbinsi in Francia, se tal è l'umore di quel clero e di quei popoli; ma con quale diritto, e con quale ragione volerle trasportare in Italia? Forse per l'Italia stipulava il clero gallicano del 1682? E chi lo dice, e chi lo fa? un decreto di Napoleone, un senatus-consulto di Napoleonici! adunque perchè Napoleone disse, voler Torino, Genova, Milano, Firenze e Roma, tosto hanno queste provincie a diventar soggette delle gallicane libertà, e l'assemblea del 1682 tenuta in Parigi ha ad esser legge per loro? dov'è il mandato di Napoleone per turbare le ecclesiastiche cose in Italia, massimamente in Roma? Chi s'ardirà dire, che un decreto civile abbia effetti ecclesiastici?

Molte cose si son dette, e molte ancora si dicono, si continuava a discorrere dalla parte di Roma, sull'abuso dell'autorità pontificia. Certamente errarono i pontefici, che turbarono le province per rispetti temporali, come errarono i principi, che le turbarono per rispetti spirituali: da qual parte in questo sia maggiore il torto, e più si sia errato, non è questo il luogo di dire, e le storie il narrano. Bene non si sa vedere, quali sinistri effetti abbia prodotto negli stati della casa d'Austria, ed in tutta l'Italia, e così anche nella Spagna, e nel Portogallo, l'autorità del papa dell'istituire i vescovi. Neppure si sa vedere qual male sia nato da questa stessa autorità, poichè di questa sola è nato dissidio, e si tratta, in Francia, in Inghilterra, ed in altri paesi della cristianità; imperciocchè, se si eccettuano le discordie nate ai tempi di Luigi decimoquarto, le quali veramente versavano su questo punto della instituzione, non si scorge che alcuna da questa medesima cagione sia nata. Altre ed assai più ampie radici ebbero le controversie Germaniche, dalle quali sorse l'eresia di Lutero. Similmente per altre maggiori questioni, e da quella dell'instituzione assai diverse discordò Arrigo ottavo dalla santa sede, donde risultò la separazione dell'Inghilterra. Senza entrare nei meriti di quelle antiche o dolorose cause, nè diffinire da qual parte fosse la ragione o il torto, questo è certo, che l'instituzione ne è stata o innocente, o piccola parte. Del resto, qual segno, quale apparenza era, che Pio settimo fosse per abusare della facoltà dell'instituzione a fine di turbare lo stato quieto della Francia? Come sarebbe potuto cadere in lui la volontà di turbare la Francia di Napoleone, in lui, che nella sua vecchia età, per aspri monti, nella stagione più rigida dell'anno, a malgrado dei principi d'Europa, contro la sentenza di molti cardinali se n'era andato a Parigi per incoronarlo? Qual presagio aveva dato Pio di se, che altri potesse credere, che volesse assumere o in Francia od altrove un'autorità eccessiva, una dominazione intollerabile? Dicono, guardate nell'avvenire; ma per guardar nell'avvenire, e' bisogna prima guardar nel passato: guardate in questo, e vedrete, dove sia stato l'incomportabile dominio. Nè qui si parla di libertà ecclesiastica, perchè questo discorso non potrebbe piacere a prelati che la vogliono dar in preda all'imperio: solo si osserverà, quale sarà essa per diventare, se la nomina dei vescovi ai principi secolari, e l'instituzione loro ai metropolitani, o ad altri vescovi sudditi di essi principi si appartenessero. Correggevasi la nomina dei principi dall'instituzione pontificia: se l'una e l'altra sono in mano loro, quella immediatamente, questa per mezzo di prelati sudditi, la religione è serva, ed in caso di voglie a lei contrarie, anche in materia di fede, dei principi, non rimarrebbe altro scampo a' suoi ministri, che l'abbominazione dell'eresia, o i tormenti del martirio. Resiste papa Pio, resiste ad un'incomportabile tirannide: la Chiesa debbe restargli obbligata per sempre, i principi ancora, poichè vinto il papa, la cristianità, il mondo è servo: trattare il papa la libertà di tutti.

Già il disegno ordito contro un papa carcerato, era pronto a colorirsi: i soldati e le spie facevano l'opera loro in Savona, i prelati s'accingevano a farla da Parigi. Erano quindici o cardinali, o arcivescovi, o vescovi, Fesch, Maury, Caselli cardinali, gli arcivescovi di Tours, di Tolosa, di Malines, i vescovi di Versailles, di Savona, di Casale, di Quimper, di Monpellieri, di Troja, di Metz, di Nantes e di Treveri. S'aggiunse il vescovo di Faenza. Comandava l'imperatore, che mandassero una deputazione a muovere il papa a Savona. Elessero l'arcivescovo di Tours, ed i vescovi di Nantes e di Treveri. Il concilio nazionale convocato in Parigi pel dì nove giugno, parte ancor egli della macchina imperiale per intimorire il papa, stava pronto a proporgli i termini d'accordo voluti dall'imperatore. Comandava Napoleone ai deputati, che annunziassero al papa, essere convocato il concilio, essere abrogato il concordato a cagione che il papa, una delle parti contrattanti, ricusava di osservarne le clausole; dovere in avvenire i vescovi, come avanti al concordato di Francesco primo, essere instituiti secondo le forme che saranno regolate dal concilio, ed appruovate dall'imperatore: tuttavia mandare l'imperatore i prelati con facoltà di negoziare a Savona; ma queste facoltà non usassero, se non nel caso in cui trovassero il pontefice disposto a convenire: due convenzioni doversi fare, l'una independente dall'altra, e con atti separati: nella prima si trattasse dell'instituzione dei vescovi, ed in questa consentirebbe l'imperatore a tornarne all'esecuzione del concordato, con ciò che però il papa instituisse i vescovi già nominati, ed in avvenire le nomine fossero comunicate al papa, a fine di conseguirne l'instituzione canonica; e che se il papa non avesse instituito nel termine di tre mesi, fosse la nomina comunicata al Metropolitano, il quale dovesse instituire il suffraganeo, e questi ugualmente instituisse l'arcivescovo, se si trattasse dell'arcivescovo. Nella seconda voleva l'imperatore, che si accordassero gli affari generali, ferme stando le condizioni seguenti: il papa tornasse a Roma, se consentisse a prestare il giuramento prescritto dal concordato; se ricusasse il giuramento potesse risiedere in Avignone: quivi avrebbe gli onori sovrani, quivi due milioni per onoranza e per vivere, quivi residenti delle cristiane potenze, quivi finalmente libertà di governar le faccende spirituali, ma tutto sotto condizione espressa, che promettesse di fare niuna cosa nell'impero, che fosse contraria ai quattro articoli del 1682. Se il papa accettasse le narrate condizioni, l'imperatore proponeva molte speranze e faceva molte offerte: s'inclinerebbe volentieri ad accordarsi col papa, sì pel libero esercizio delle sue funzioni spirituali, come per fondare nuovi vescovati, tanto in Francia, quanto nei Paesi Bassi: farebbe inoltre ogni sforzo per proteggere i religiosi della terra santa, per riedificare il santo sepolcro, per dar favore alle missioni, per ordinare la dataria, per restituire gli archivj pontificj; ma prima e soprattutto si tagliasse interamente la speranza al papa di ricuperare la sovranità temporale di Roma; se gli facesse sentire, che il concilio era convocato, e la chiesa di Francia capace di fare quanto richiedessero la salute delle anime, ed il bene della religione.

Gran fede aveva Napoleone in se, nei prelati, nella forza, poichè si potè persuadere, che un papa a tanto di abiezione potesse venire, che consentisse a tornar suddito là, dove aveva regnato sovrano, che consentisse a giurare obbedienza e fedeltà a Napoleone imperatore con quello stesso giuramento, che sovrano essendo, aveva, come sovrano, coll'imperatore medesimo accordato e statuito; che consentisse a servirgli, per obbligo di giuramento, di delatore e di spia, non eccettuati nemmeno i casi di confessione. Che Napoleone una tale proposizione abbia fatto, certo nissuno sarà per maravigliare; ma che prelati, che portavano in fronte il nome di cattolici, abbiano assunto il carico di significarla, se muove a maraviglia, muove ancora più a sdegno.

I deputati ecclesiastici arrivati a Savona con le cose digerite, ed avuto licenza dal ministro dei culti di favellare al papa, posciachè appunto di questa licenza abbisognavano, se gli appresentarono, e con rispettosi modi s'ingegnarono di renderselo benevolo. Introdotti, ed accolti con significazione grande di amore, vennero nel primo giorno e nei seguenti sul negoziare. Militando sempre le difficoltà della sua carcerazione, rispose, nissuna deliberazione poter fare, nissuna bolla dare, se prima non fosse restituito alla sua libertà, poichè nella condizione, in cui era, privo de' suoi consiglieri naturali, privo de' suoi teologi, privo di libri, di carta, di penne, privo infino del suo confessore, che aveva domandato indarno, nè potendo prendere alcuna informazione sulla idoneità dei soggetti nominati, non potea nulla, non che concedere, esaminare. Non ostante queste prime caldezze del pontefice, speravano i prelati, che appoco appoco o per fastidio della situazione presente, o per timore della condizione avvenire, o finalmente per disperazione di poter cambiare i destini Napoleonici, l'animo suo si sarebbe mitigato, consentendo, se non a tutto, almeno a parte di quanto si domandava. Il modo del negoziare era artifizioso dal canto dei delegati; maggiormente ancora artifiziose erano le fondamenta, sulle quali voleva l'imperatore che si negoziasse. Tutta l'importanza del fatto in questo consisteva, che si provvedesse all'instituzione dei vescovi con fare, che quando in un dato tempo il papa non gli avesse instituiti, i metropolitani avessero facoltà d'instituirgli. Faceva anche un gran momento, che se il papa avesse convenuto coll'imperatore, l'avrebbe purgato dalla scomunica, se non esplicitamente, almeno implicitamente, e pel fatto stesso.

Il papa assalito e conquiso da ogni parte, ritirandosi dalla sua risoluzione di non voler trattare, se prima non fosse libero, incominciò a manifestare le sue intenzioni. Quanto al giuramento, risolutamente negò; quanto alle quattro proposizioni, dalla prima non si mostrò alieno, le tre altre costantemente rifiutò, siccome quelle che gli parevano condannabili. Aggiunse che se accettasse, la Chiesa il chiamerebbe vile, e traditore per fastidio di cattività, che il nome suo ne sarebbe contaminato, che ne concepirebbe un'amarezza incredibile; che del resto, per amor della quiete, nulla avrebbe operato in contrario. Ma venendo al principal soggetto del negoziato, cioè all'instituzione, sclamava, che il termine di tre mesi fosse troppo breve; se consentisse, l'imperatore sarebbe giudice dell'idoneità dei soggetti; che in ultimo il metropolitano sarebbe giudice dei rifiuti della santa sede; che troppo eccessiva mutazione era questa; che un pover uomo, com'era egli, solo e senza consigli non poteva assumersi di farla. Ricordava altresì, e con parole efficaci ed affettuosissime protestava, che sarebbe troppo enorme deviazione, se rinunziasse ai diritti particolari sui vescovi d'Italia, che la sua coscienza ripugnava, che altri sovrani avrebbero domandato le medesime prerogative ed eccezioni, che potrebbe darsi che si nominassero soggetti indegni, o di opinioni sospette nella fede, che la santa sede non sarebbe più la santa sede, che perirebbe il mandato dato da Dio a san Pietro, che nascerebbe l'anarchìa nella Chiesa, ch'ella del tutto si governerebbe a piacere della potestà secolare.

Gli rappresentavano i deputati i mali imminenti della Chiesa, le perdite irreparabili delle prerogative della santa sede, le calamità di tanti suoi aderenti. Rispondeva Pio, alzando gli occhi al cielo, e sclamando, pazienza: nol permettere la coscienza, non avere con chi consigliarsi, il capo della Chiesa essere in vincoli. Per far novella pruova di vincere gli scrupoli e la costanza del pontefice, i deputati pregarono il vescovo di Nantes, siccome quegli che aveva maggior dottrina e fermezza in queste materie, che gli altri, distendesse uno scritto da presentarsi al papa. Il fece in lingua Francese, il tradusse in Italiano il vescovo di Faenza. Era la sostanza, che, poichè Napoleone non voleva cedere, il papa doveva di necessità cedere egli. Insomma i deputati in questo loro scritto ammonivano, e fortemente richiedevano il papa della clausola dei metropolitani: pretendevano che non era necessaria una lunga discussione, nè bisogno di consiglieri per decidere, se la santa sede conserverebbe o perderebbe per sempre, rispetto ai vescovi di Francia, il diritto d'instituzione. Intendevano per vescovi di Francia, non solamente quei di Francia, ma ancora quelli del regno d'Italia, del Piemonte, di Parma, di Toscana, e dello stato Romano stesso. Offerivano finalmente, vedesse Sua Beatitudine, se nei luoghi vicini fosse qualche prelato, in cui avesse fede: specificavano dello Spina, come se in quei tempi e nel carcere di Savona qualcheduno potesse libero essere, e liberamente consigliare.

Mossero oltre la cattività e la segregazione, i ragionamenti dei deputati l'animo del pontefice per l'aspetto dei mali avvenire, e sebbene sempre fosse titubante, ed ora si ritraesse, ed ora tornasse, cominciava a non mostrarsi alieno dall'accordar con loro la clausola domandata: solo voleva allargare il tempo dell'instituzione da darsi dai metropolitani sino a sei mesi, che l'imperatore avesse un termine necessario per le nomine, siccome egli l'aveva, parendogli, che se questa necessità s'imponesse a lui, non al principe, l'equalità fra le due parti fosse rotta; nel che aveva ragione, anche secondo i deputati; conciossiachè se l'interruzione dell'episcopato non debbe essere in potestà del papa, non debb'esser nemmeno in potestà dei principi.

Restava l'impedimento della scomunica, per la quale l'imperatore era stato separato dal consorzio della Chiesa. A questo passo i deputati, che già vedevano incerto e vacillante il pontefice, siccome quelli che bene avevano imparato alla scuola Napoleonica i tempi morbidi per incalzare, e temendo di dare causa d'indegnazione a Napoleone, se non riuscissero a fare la sua volontà a Savona, si gettarono tutti addosso a Pio, e il pressarono, e l'aggirarono, e gli diedero di mano da tutte parti. Che cosa essere, dicevano, questa scomunica? Non autentica in Francia, non accettata nè da accettarsi mai; non mai la Francia si scosterebbe dalle massime gallicane: pessimi effetti avere lei prodotti fra i popoli, anche fra le persone più aderenti, e divote alla sedia apostolica: a tutti esserne doluto, come di cosa molto pregiudiciale al papa ed alla Chiesa; i cardinali, non solo i rossi, ma ancora i neri (con questo nome chiamavano i cardinali o esiliati o carcerati) non avere mai cessato di comunicare in divinis con Sua Maestà, aver loro cantato in memoria delle imperiali vittorie, avere cantato ogni festa nell'imperiale cappella. Già il pontefice titubava: per espugnarlo del tutto, i deputati se gli pararono innanzi, ammonendolo, che partivano: badasse bene ai mali soprastanti: solo, sarebbene tenuto verso Dio e verso gli uomini: per lui essere stato, che le piaghe della Chiesa non si sanassero: partivano; farebbe il concilio; avrebbe nuove da Parigi.

Insomma il papa tentato da ogni parte, e separato dal consorzio del mondo, promise di venire ad un accordo, il cui importare fosse questo, che Sua Santità, considerato i bisogni, ed i voti delle chiese di Francia e d'Italia a lui rappresentati dai deputati, e deliberatosi a mostrare con un nuovo atto la sua paterna affezione verso le chiese medesime, darebbe l'instituzione canonica ai soggetti nominati da Sua Maestà con le forme convenute nei concordati di Francia e del regno d'Italia; che si piegherebbe ad estendere con un nuovo concordato le medesime disposizioni alle chiese di Toscana, di Parma e di Piacenza; che consentirebbe che s'inserisse nei concordati una clausola, per la quale prometterebbe di spedir le bolle d'instituzione ai vescovi nominati da Sua Maestà in un certo determinato tempo, ch'egli stimava non poter essere minore di sei mesi; e caso ch'ella differisse più di sei mesi, per altri motivi che per quelli dell'indegnità personale dei soggetti, investirebbe, spirati i sei mesi, della facoltà di dar in suo nome le bolle, il metropolitano della chiesa vacante, o, mancando lui, il vescovo più anziano della provincia ecclesiastica. Aggiunse, che Sua Santità a queste concessioni aveva inclinato l'animo per la speranza concetta nei colloquj avuti coi vescovi deputati, ch'elleno fossero per appianar la strada ad accordi, che ristorerebbero l'ordine e la pace della Chiesa, e restituirebbero alla santa sede la libertà, l'independenza, e la dignità che le si convenivano. Fu aggiunto allo scritto contenente queste promesse del pontefice, i deputati affermarono per consenso di lui, il papa per sorpresa, un capitolo concepito in questi termini, che i diversi aggiustamenti relativi al governo della Chiesa, ed all'esercizio dell'autorità pontificia, sarebbero materia di un trattato particolare, che Sua Santità era disposta a negoziare, tostochè a lei fossero restituiti i suoi consiglieri, e la sua libertà.

Il pontefice, pensando alla larghezza delle concessioni fatte, e ricorrendogli alla mente le solite dubitazioni, non ebbe dormito tutta la notte. Massimamente gli dava grande angustia il capitolo aggiunto, temendo, che per lui si fosse obbligato a venire ad un negoziato, trattato, o compromesso intorno al governo della Chiesa, ed all'esercizio dell'autorità pontificia, quanto alla parte spirituale. Per la qual cosa, presa il giorno seguente la penna, restituitagli a tempo pel negoziato, scrisse di proprio pugno sullo scritto queste stesse parole: che con sorpresa aveva veduto aggiunte alla bozza delle domande, che gli erano state fatte, le parole, i diversi aggiustamenti con quello che seguitava sin alla fine del capitolo. Continuò, sempre di proprio pugno scrivendo, che le dette domande erano state da lui ammesse, nè come un trattato, nè come un preliminare, ma solamente per dimostrare il suo desiderio di soddisfare alle provvisioni delle chiese di Francia, allorquando, le cose bene considerate, si potesse di loro convenire in un modo stabile, obbligandosi a fare le dette provvisioni transitoriamente, e caso che ciò non si volesse o potesse, si obbligava a trattare di un altro modo di provvisioni. Questa sua protesta non contentando ancora l'animo del pontefice, fatti a se chiamare il prefetto, ed il gendarme Lagorsse, gendarme che era del palazzo pontificale, asseverantemente affermò loro, che non ammetteva l'ultima frase dello scritto accordato tra lui ed i vescovi. Dichiarò loro oltre a questo, che il giorno precedente, non avendo dormito tutta la notte, era come se fosse mezzo ebbro, e che conseguentemente non aveva potuto fare in quel giorno alcuna promessa; che del rimanente non intendeva essersi obbligato nè per un trattato, nè per preliminari di un trattato, che desiderava che ciò fosse chiaramente conosciuto, perchè non voleva esporsi a strepitarne, nè a parere mancar di parola; che del resto, se divenisse necessario, farebbene romore, e voleva che fosse bene inteso, che di nulla dal canto suo si era definitivamente convenuto. Poco importava ai vescovi deputati, che questa giunta fosse o no nello scritto consentito dal papa, perciocchè l'importanza del fatto era nell'instituzione da darsi dal papa o dai metropolitani, nel caso d'indugio da parte della santa sede. Per la qual cosa consentirono facilmente al cassare dallo scritto quest'ultima parte, ed il mandarono al ministro da Torino.

Non senza allegrezza annunziarono i deputati all'imperiale governo le concessioni fatte dal papa: al tempo stesso lo accertarono, che pareva impossibile l'indurre il santo padre a promettere per iscritto, che nulla tenterebbe contro le tre ultime proposizioni del clero del 1682; che solo assicurava, sua intenzione essere di nulla tentare; che ancora era impossibile che prestasse il giuramento, o che rinunziasse al dominio temporale; quanto a' due milioni dichiarare non volergli accettare, poco bastargli per vivere, e di poco voler vivere: soccorrerebbelo, diceva, la pietà dei fedeli. Fra mezzo a tutto questo i deputati si accorsero, e ne informarono il governo, che fissa ed inconcussa deliberazione del pontefice sopra tutte le altre era questa, che non voleva consentire che l'imperatore nominasse i soggetti destinati alle sedi vacanti negli stati pontificj, ed affermava, che dei medesimi a lui solo si appartenesse la nomina e l'instituzione. Come, sclamava con infinita commozione il santo padre, i titoli dei cardinali vescovi, i titoli delle chiese più suburbane saranno, o in parte o in tutto, distrutti senza il consenso della santa sede! Volersi adunque, ch'ei consenta ad un concordato, nel quale l'imperatore nominerebbe a tutti questi vescovati, anche a quelli che di accordo comune sarebbero conservati! Bene terribil cosa sarebbe questa, soggiungeva, se in tutta la cristianità il papa non potesse di suo proprio moto nominare un solo vescovo, e nulla avesse in suo potere per ricompensare i suoi servitori, che bene e fedelmente l'avessero servito nella pontificale amministrazione.

Grande allegrezza sorse, per le agevolezze promesse dal pontefice, negl'imperiali palazzi in cui si stava aspettando con molto desiderio quello, che fosse per partorire l'andata dei prelati a Savona: piacque a tutti la scomunica abolita, la instituzione assicurata. L'imperatore domato in parte il papa, si spinse avanti a soggiogarlo del tutto. Insorse adunque con maggiori richieste, volendo, che quanto nelle instruzioni date ai deputati aveva ordinato, avesse il suo effetto per modo che nissuna eccezione di vescovi si potesse fare, il papa rinunziasse al dominio temporale, e se ne tornasse servo a Roma, o se n'andasse più servo ancora ad Avignone, ed accettasse lo stipendio imperiale. A questo fine si deliberava di usar il concilio. Mandò primieramente al pontefice alcuni cardinali, non già i neri, ma i rossi, e di questi neanco tutti, ma solo quelli che gli parvero meno alieni dal secondar le sue intenzioni, Roverella, Dugnani, Fabrizio Ruffo: grande fondamento poi faceva principalmente sul cardinal Bajana, siccome quello che era molto entrante, e di risoluta sentenza, e sempre era stato nel concistoro consigliatore di deliberazioni quiete verso l'imperatore. Aggiunse monsignor Bertazzoli, arcivescovo in partibus d'Edessa, timida ed accomodante persona, congiunto per antica famigliarità col pontefice, ed in grandissima fede e favore appresso a lui.

Così Napoleone minacciava, Bajana parlava risolutamente, Bertazzoli persuadeva con preghiere e con lagrime. Intanto il ministro dei culti comandava, che nissuna persona che fosse al mondo, salvo i mandatarj, il prefetto, e Lagorsse gendarme, potesse parlare al papa. Fecero bene i mandatarj la parte loro: solo Dugnani e Ruffo diedero in qualche scappata, favellando della libertà del papa: ma furono dette loro certe parole, che fu loro forza pensare ad ogni altra cosa piuttosto che a questa, di procurare la libertà del carcerato. Intanto il concilio di Parigi faceva un decreto conforme alle ultime promesse del santo padre: portasselo a Savona una deputazione del concilio, acciocchè il papa ratificasse, e desse un breve conforme. Furono deputati, e portatori della conciliare deliberazione l'arcivescovo di Tours, l'arcivescovo di Malines, il vescovo di Faenza nominato patriarca di Venezia, l'arcivescovo di Pavia, i vescovi di Piacenza, d'Evreux, di Treveri, di Nantes e di Feltre. Gli vide umanamente e volentieri il papa: ottennero facilmente il dì venti settembre il breve, che appruovava il decreto conciliare: le sedi arcivescovili e vescovili, più di un anno non potessero vacare; l'imperatore nominasse, il papa instituisse; se fra sei mesi non avesse instituito, il metropolitano, od il più anziano instituissero essi. Solo ai notati capitoli aggiunse il pontefice il seguente, che, spirati i sei mesi, e se alcun impedimento canonico non vi fosse, il metropolitano, o il più anziano, innanzi che instituissero, fossero obbligati a prendere le informazioni consuete, e ad esigere dal consecrando la professione di fede, e tutto, che dai canoni fosse richiesto. Volle finalmente, che instituissero in nome suo espresso, od in nome di colui che suo successore fosse, e tantosto trasmettessero alla sedia apostolica gli atti autentici della fedele esecuzione di queste forme. L'avere statuito un termine alle instituzioni pontificie, oltre il quale se il papa non avesse instituito, potessero instituire i metropolitani, era cosa piuttosto di estrema che di grande importanza per la sicurezza e quiete degli stati, e in questo aveva Napoleone bene meritato della potestà secolare; imperciocchè in così stretta congiunzione delle cose temporali e spirituali possono nascere facilmente tra le due potestà gravi controversie, per terminar le quali a suo vantaggio Roma potrebbe usare contro i principi il rimedio nell'interruzione dell'episcopato per mezzo della negazione delle instituzioni. Il termine prefisso di cui si tratta, suppliva, in quanto spetta all'independenza della potestà temporale, agli ordini spenti dell'antica disciplina, o legittimi che si fossero e d'instituzione divina secondo l'opinione di molti dotti teologi, o solamente tollerati per tacita od espressa delegazione dai successori di san Pietro secondo l'opinione della curia Romana. Beato Napoleone, se ciò avesse domandato, ed ottenuto dal pontefice per amor della libertà, non per cupidigia della dominazione! Beato egli ancora, se in ciò si fossero contenuti i suoi pensieri! Ma quanto maggiore si mostrava la condiscendenza del pontefice, tanto più egli osava. Bajana, l'arcivescovo di Tours con tutti gli altri si serrarono addosso al prigioniero, acciocchè consentisse alle altre richieste dell'imperatore. Facilmente si vede, quale libertà ecclesiastica potesse ancora sussistere, se il papa prestasse il giuramento, se vivesse in Roma o in Avignone cinto dai soldati Napoleoniani, e salariato dall'imperatore, se l'imperatore nominasse tutti o quasi tutti i cardinali, se tutti i dispacci del papa si tramandassero per le poste imperiali. Certamente in questo i prelati facevano piuttosto la parte di avvocati dell'imperio, che della Chiesa, e procuravano la libertà intiera della potestà secolare. I principi avrebbero dovuto restar loro obbligati, se tale fosse stata la lor intenzione qual era il fatto. Del resto qui era un caso straordinario, dal quale non si poteva argomentare agli ordinarj; perciocchè tutte le potestà secolari erano a questo tempo serve di una sola, la quale, per l'intiera soggiogazione della potestà ecclesiastica, diventava padrona assoluta del mondo. Caso strano, ma vero: la libertà ecclesiastica era parte e sostegno della libertà universale, e caduta quella, che di tutti i freni era il solo che fosse rimasto, anche questa se n'andava in precipizio per dar luogo ad una universale tirannide.

A tutta la tempesta che gli si faceva intorno, domandava primamente il papa la sua libertà: al che rispondevano i deputati conciliarj (il narro perchè la posterità conosca l'età), ch'egli era libero. Del giuramento, del rinunziare ai vescovi di Roma, del tornare a Roma, o dell'andar ad Avignone in qualità di suddito con fermezza grandissima negava. Il dolce Bertazzoli, che aveva paura, non se ne poteva dar pace: pietosamente sclamava: «Speriamo in Dio, obbidienza al governo, ho speranza, preghiamo Dio»: e così tra queste speranze e questa obbedienza il buon prelato passava tempo, ma nulla fruttava col pontefice: anzi finalmente il papa gl'intimò, non gli parlasse più di faccende. Napoleone, veduto che non si approdava a nulla, volle pruovare, se una solenne e subita minaccia potesse far effetto. Comandò ai deputati, ed il fecero, che si appresentassero al pontefice, e ad aperte parole gli dichiarassero, esser loro per ordine dell'imperatore in sul partire da Savona, lui essere cagione che l'imperatore si ritirasse dai concordati, lui operare che i vincoli della chiesa gallicana colla santa sede si rompessero, lui fare che di tanto notabile diminuzione della cattedra di san Pietro potessero giustamente i posteri, e massimamente i suoi successori, accagionarlo; pensasse bene, quello essere l'ultimo momento, Romana chiesa perduta, imperio trionfante. Aggiungevano molte altre cose sul benefizio che riporterebbe ciascuna delle parti dalla condiscendenza del papa. Rispose, non potere contro coscienza, Dio provvederebbe, non curarsi di quanto dicesse il mondo, manco di quello che cardinali e prelati contaminati a Parigi dicessero. Partirono disconclusi.

Per ultimo cimento, e per ordine risoluto del ministro dei culti, il prefetto, venuto in cospetto del pontefice, gravemente lo ammoniva dell'importanza del fatto, delle calamità sovrastanti, dei pentimenti, che ne avrebbe, dell'opinione di tutto il clero, anzi del mondo, contraria alla sua. Aggiunse, che se non si piegasse, ed in meglio non voltasse le sue risoluzioni, aveva carico di notificargli cosa, che porterebbe grave ferita al suo cuore. Rispose, nol permettere la coscienza; che Dio mostrerebbe la sua potenza. Il prefetto gli significava allora da parte del governo, che il breve dei venti settembre non essendo stato ratificato, l'imperatore teneva i concordati per abrogati, e non soffrirebbe più, che il papa intervenisse nell'instituzione canonica dei vescovi.

Le minacce di lontano non avendo prodotto impressione, si volle far pruova, se da vicino fossero più fruttuose. Oltre a ciò già i tempi incominciavano a stringere, e i fati a dar di mano a Napoleone: quel papa renitente e lontano dava qualche timore. Deliberossi l'imperatore a tirarlo in Francia, dove potesse e vederlo e minacciarlo egli medesimo. La segretezza parve più sicura della pubblicità, la notte più del giorno. Diessi voce, che Lagorsse, capitano di gendarmi, che doveva accompagnare il papa cattivo nel suo viaggio, fosse venuto in disgrazia dell'imperatore, per essersi mostrato troppo agevole ed amico con Porta, medico del papa, e che il principe Borghese il chiamasse a Torino per udire da lui gli imperiali comandamenti. Tant'oltre andò la simulazione, che i Savonesi ingannati compativano Lagorsse, e davano attestati di buona vita a copia per discolparlo: la cosa allignava. L'ingegnere, capo dei ponti e strade, apprestava ogni cosa alla partenza. La notte dei nove giugno era scurissima per accidente; al tocco della mezzanotte, messogli addosso una sottana bianca, un cappello da prete in capo, la croce vescovile in petto, lui non ripugnante, anzi serbante serenità, spignevano il capo della cristianità nella carrozza apprestata, e l'incaminavano alla volta di Alessandria. Spargevano che fosse il vescovo d'Albenga, che andasse a Novi. Passarono per Campomarone non per Genova, per sospetto della città. Niuna cosa cambiata in Savona: ogni giorno, e durò ben quindici dopo la partenza, i magistrati andavano in abito al palazzo pontificale per far visita al pontefice, come se fosse presente: i domestici preparavano le stanze, apparecchiavano e sparecchiavano le mense, andavano a mercato per le provvisioni, cuocevano le vivande: Fenestrelle in vita, se parlassero. Le guardie vigilavano al palazzo, i gendarmi attestavano a chi il voleva udire, ed a chi nol voleva, avere testè veduto il papa con gli occhi loro o nel giardino, o sul terrazzo, o in cappella; Suard, luogotenente di Lagorsse, che era consapevole del maneggio, compiangeva il povero Lagorsse per aver perduto le grazia dell'imperatore. Chi non sapeva parlava, chi sapeva non parlava. Ma si voleva che niuno parlasse: un pover uomo della riviera ebbe a dire, per sua disgrazia, che aveva veduto il papa a Voltri: gli fu intimato si ritrattasse: quando no, mal per lui: si ritrattò, e fu lasciato andare con le raccomandazioni: fece proponimento di non nominar mai più papa. I Napoleonici stavano in sentore, se mai qualche voce in Savona, o nei luoghi vicini sorgesse: i magistrati scrivevano, ogni cosa essere sicura; nissuno addarsi. Insomma già era il pontefice a dugento leghe, che ancora si credeva che fosse in Savona. Tanto erano perfettamente orditi i disegni del Napoleonici! Arrivava il pontefice a nuovi soldateschi insulti in Fontainebleau: poco dopo arrivava anche Napoleone. Caso fatale, che là, dove otto anni prima era Pio arrivato trionfante, ora prigioniero arrivasse, e di là dove ora Napoleone signore del mondo arrivava, prigioniero due anni dopo se ne partisse.

LIBRO VIGESIMOSESTO

SOMMARIO

Accidenti di Sicilia. Constituzione data dal re Ferdinando ai Siciliani ai tempi di Bentinck. La regina Carolina, costretta dagl'Inglesi, si ritira dalla Sicilia, e muore a Vienna. Guerra tra Francia e Russia. Sono giunti i tempi fatali per Napoleone. Perisce la sua potenza in Russia. Fa un nuovo sforzo, e comparisce sui campi di Germania. È prostrato a Lipsia: tutta la Germania sdegnata insorge contro di lui. Concordato di Fontainebleau. Pratiche di Giovacchino, d'Eugenio, di Bentinck per le sorti d'Italia. Eugenio sulla Sava; l'Italia assalita da parecchie parti. S'avvicina il fine della tragedia.

Regnava in Napoli Giovacchino Napoleonide, in Sicilia Carolina d'Austria. Molto operava Napoleone nel regno di qua dal Faro per la sua potenza, molto gl'Inglesi in quello di là dal Faro per la presenza; molti, e varj furono gli effetti ed in chi regnava di nome, ed in chi regnava di fatto, ma una la cagione, cioè l'ambizione. Tanto è dolce agli uomini, ed anche alle donne il comandare! Parte degli accidenti che seguirono, già furono da noi raccontati, parte accennati: ora è ragione, che coll'ulterior narrare quelli si terminino, questi maggiormente si spieghino; poi presto verrassi al fine di questa mia troppo lagrimevole narrazione. Da più rimoto principio si ha per noi da cominciare. Era Giovacchino, siccome quegli che si nutriva facilmente con vane speranze, tutto intento a turbare le cose di Sicilia sì colle dimostrazioni guerriere, sì colle instigazioni, e colle spie. Carolina dal canto suo, in ciò ajutata dagl'Inglesi, si era in tutto dirizzata a questo disegno, che la denominazione dei Napoleonidi nel regno di terraferma mal quieta e mal sicura rendesse. Il sangue sparso a copia nelle Calabrie, i fiumi biancheggianti di umane ossa attestavano le Napolitane e le Palermitane instigazioni, e già furono da noi in queste carte vergati. Raccontammo ancora, come i tentativi armati di Giovacchino finissero: resta, che il seguito delle Siciliane mutazioni, facendo principio dall'esito delle insidie dei Napoleonidi, da noi si descriva, crudi accidenti e degni dei tempi. Tentavano principalmente i Napoleonidi Messina, per la vicinanza ed importanza del luogo. Vi avevano segrete intelligenze con alcuni uomini di umile condizione, il cui fine era operare moti contrarj al governo. I congiurati, come gente di basso stato, non avevano alcuna dipendenza d'importanza, ma si temeva ch'essi fossero gli agenti d'uomini più potenti, non potendosi restar capace come i Napoleonidi, per fare una rivoluzione in Sicilia, adoperassero gente di così piccole condizioni, come calzolari, marinari e pescatori. Per la qual cosa per iscoprire fin dove il vizio si stendesse, il governo mandava da Palermo sul luogo un marchese Artali, uomo non solo inclinato a fare quanto il governo volesse, ma capace ancora di far degenerare la giustizia in sevizia. Terribile fu il suo arrivo, terribile la dimora. Pose in carcere non solamente i rei, ma ancora i sospetti, e non che plebei e poveri, magnati e ricchi. Condotti i carcerati in sua presenza, faceva loro udire, che sarebbe meglio per loro che confessassero; quando no, avessero a sapere ch'egli era Artali marchese, che ministrerebbe giustizia alla Palermitana, che avrebbero ceppi ai piedi, manette alle mani, che gli farebbe tirare sulla colla, arroventare coi ferri, che solo che una sua parola parlasse, conoscerebbe Messina ch'egli era Artali. I fatti poi consenzienti, anzi peggiori delle parole; perchè serrati in una segreta così bassa e stretta, che nè stare in piedi nè giacere alla distesa potevano, eran lasciati per ben cinquanta giorni a dimenticanza, solo un misero panicciuolo al giorno essendo loro ministrato. Sorgeva l'acqua tutto all'intorno, il suolo aspro di acuti sassi. Non lume avevano nè aria: fra breve venne l'aria pestilente. A questi erano lacerate le carni con nerbi, a quelli scottate con ferri; a questi davansi droghe da procurar loro sogni spaventevoli, da cui solamente erano svegliati con brace accesa, o con piastrelle arroventate. Fuvvi chi ebbe le membra tirate dalla colla orribilmente, e chi la pelle tagliata fino al cranio da funicelle strettissimamente avvinte. Scioglievansi, perchè le carni davano in mortificazione: temevano i carnefici, che la morte togliesse le vittime ai nuovi ed apprestati tormenti. Fora pur troppo dolorosa narrazione l'andar raccontando minutamente il lungo e moltiforme martirio. Solo dirò, che le Messinesi carceri furono come le Verrine: la Siciliana terra rispondeva alla Napolitana, furore a furore, crudeltade a crudeltà opponendo: infausto cielo, che vide quanto possa l'eccessiva natura dell'uomo. Di Manhes e di Artali parlando, mostrano le Calabresi terre, mostrano le Siciliane la terribile natura loro; ma il primo fu inesorabile, il secondo crudo; quegli pacato, questi sdegnoso; l'uno sanò un paese, l'altro fece un paese infermo e pregno di vendetta. Messina tutta piangeva, tremava, fremeva; niuna cosa più sicura a nissuno: imprecavano e chi comandava e chi tollerava; un gran vituperio ne nasceva per gl'Inglesi andati là per difendere le popolazioni, e che le vedevano straziare. Gridarono i Messinesi, venne avviso della tragedia a Giovanni Stuart, generale dei soldati Britannici. Mandò un lord Forbes a visitare le segrete dolorose: gli diede per compagno parecchi chirurghi, perchè sapeva che abbisognavano, per sanare le vestigia impresse dal furore dei carnefici. Seppesi queste cose il governo del re Giorgio: gliene fu fatta anche fede indubitata. Non so se gl'importasse dei tormentati: bene gli calse dell'odio che ne veniva contro il governo Siciliano, e contro l'Inghilterra: indebolivasene la difesa dell'isola. Di gran momento era agl'Inglesi la conservazione della Sicilia, sì per se medesima, come pel sito opportuno a difendere Malta, ed a percuotere nel cuore del regno di Napoli. Non poca molestia dava loro il vedere, che l'imperio violento della regina, perciocchè a lei massimamente attribuivano i popoli la direzione delle faccende, tendeva ad alienare gli animi da lei e dagli alleati; perciò pensarono ai rimedj. Per verità i Siciliani, che con molta allegrezza avevano veduto la corte venire in Sicilia nel novantotto, ora mutatisi intieramente, alla medesima erano avversi. Della qual mutazione, oltre i rigori eccessivi, molte e gravi furono le cagioni. Morto Acton, col quale la regina principalmente si consigliava, era stato chiamato ministro delle finanze il cavaliere Medici, uomo, come già abbiam detto altrove, di singolare destrezza d'ingegno, ma che amava il governare assoluto. Per questo aveva piaciuto alla regina, e la regina a lui. Della sua elezione si mostrarono male soddisfatti i Siciliani, sì per questa stessa sua natura molto tirata, come perchè Napolitano era. A queste male soddisfazioni se n'aggiunsero delle altre di non poco momento. La regina che sapeva, che a volta a volta tornava al re il desiderio di prendersi nel governo tutto l'imperio che gli si conveniva, aveva fatto opera, per fermare questi rigogli, che fosse eletto a primo ministro il duca d'Ascoli, nel quale Ferdinando aveva molta affezione, e che molto ancora da lei dipendeva. Confidava in questo di essere del tutto padrona dell'animo del re sì per l'imperio proprio, come per quello del duca. Ma oltre che Ascoli era uomo d'intelletto incapace a sopportare tanto peso, e neppure gli dispiacevano i piaceri di cui tanto si dilettava Ferdinando, avvenne che appresso a lui acquistò grande autorità una donna, che chiamava col nome di sua amica. Costei traendo, contro il dovere, ad utilità propria il credito del duca, fu cagione che un gran romore si levasse contro di lui con diminuzione del suo nome presso i popoli. Il mal umore si accese anche contro la corte, massimamente contro la regina, che per tenersi il duca benevolo, accarezzava l'amica di lui.

Cagione molto forte di disgusto furono i Napolitani venuti colla corte in Sicilia. Costoro, se pochi si eccettuano, o messisi a grandeggiare fra un popolo povero, od a far le spie fra un popolo sdegnato, accrescevano l'odio naturale dei Siciliani contro i Napolitani, e gli umori già mossi viemaggiormente pervertivano. Il denaro del pubblico, cavato a grande stento dai sudditi spolpati, si profondeva con grave scandalo in Napolitani o Calabresi, parte insolenti, parte viziosi, immoderati tutti nella quantità delle spese: intanto i soldati quasi nudi, e colle paghe corse da mesi ed anche da anni, attestavano colla miseria loro la pessima amministrazione del regno. Nè la corte rimetteva dal consueto lusso, come se il regno solo oltre il Faro potesse da se solo sopperire a quella voragine, alla quale appena bastarono i due regni uniti. Quindi accadeva, che sebbene alcune terre appartenenti alla corona col fine di sostenere le esorbitanti spese si vendessero, nondimeno sempre l'erario penuriava, e mentre la corte spendeva e spandeva, ogni servizio del pubblico mancava. Le strade massimamente, per le quali il parlamento aveva conceduto proventi particolari, rotte e malconce dimostravano, che ciò che per loro si era dato, in altri usi si convertisse. S'aggiunsero a sprofondar l'abisso gli enormi dispendj fatti per le fazioni della Calabria, per la difesa di Gaeta, per le spedizioni contro Castellamare, e contro le isole di Procida, d'Ischia e di Capri. Già si era dato fondo alle ricchezze portate via nella fuga di Napoli, avvegnachè fossero di non poca entità, e le cose erano ridotte a tale, che la regina per ultimo sussidio, mandò ad impiegar le gioje dotali e sopraddotali per cavarne diecimila once, che sono circa cinquemila luigi di Francia. Crescevano gli sdegni, pensando che l'Inghilterra pagava alla corte di Sicilia trecentomila sterlini all'anno di sussidio, nè potevano i popoli restar capaci come tant'oro Napolitano, Siciliano ed Inglese in una e medesima voragine senza nissuno, o con debole frutto si gettasse: ricchezza certa, dispendio enorme, povertà rea, dicevano. Gl'Inglesi stessi perdevano di riputazione appresso ai popoli e per l'uso, e per l'abuso del sussidio. Adunque, i Siciliani gridavano, fan le spese gl'Inglesi alla Sicilia, perchè ne siano pagate le Napolitane spie, i Calabresi sicari? Adunque gli sterlini di Londra vengono a Palermo, perchè l'amata d'Ascoli, ed il dispotico dominio di Medici ne siano protetti e sicuri? Adunque perchè un duro giogo sul collo dei Siciliani, miseri colla corte assente, ancor più miseri colla corte presente s'aggravi, i Britannici salari sulle Siciliane terre sono chiamati? Adunque perchè dei Napoleonidi ogni ora si tema, tanti domestici e forestieri tesori si profondono? Incominciavano gl'Inglesi ad accorgersi, che avevano a fare con un alleato, il quale dopo di aver procurato odio a se, il procurava anche a loro. Già se ne gettavano motti aperti nei giornali di Londra: il governo stesso pensava ai rimedj. Il fine era questo, che si togliesse alla regina l'autorità che si era arrogata nelle faccende, e che la parte popolare si accarezzasse, si conciliasse, si fortificasse.

Ma prima che gl'Inglesi comandassero, si sperava in un rimedio domestico: quest'era il parlamento Siciliano. Lo aveva il re convocato nell'ottocentodieci. Aveva Medici dato molte speranze di questo parlamento, come se fosse per essere molto liberale di sussidj: donativi gli chiamano in Sicilia. Era Medici uomo molto ingegnoso ed inframmettente, nè mancava di ardimento: perciò sempre confidente in quanto imprendesse a fare, sperava di volgere a suo grado il parlamento. Fece suoi brogli appresso ai rappresentanti, questi sono il braccio demaniale, nè senza frutto. Alcuni degli eletti liberamente dalle città tirò a se colle promesse e coi doni, altri fece eleggere a sua posta; che anzi ottenne che parecchie città, bruttissimo vizio della constituzione Siciliana, dessero il mandato parlamentario ad una medesima persona. Erano moltiplici questi rappresentanti, ed al favore di Medici obbligati, e da lui dependenti. Si era anche destramente insinuato, ed aveva acquistato credito nel braccio ecclesiastico: non pochi vi erano inclinati a secondare i suoi disegni. Bene considerate erano tutte queste cose da Medici; ma errò per altra parte in due modi, perchè credendosi sicuro dei due bracci, demaniale ed ecclesiastico, omise di accarezzare il baronale più potente di tutti, ed oltre a questo usò l'opera di certe persone, le quali, avvengadiochè fossero dotate di singolare abilità, erano nondimeno venute in odio ai popoli, perchè nel parlamento dell'ottocentosei si erano adoperate con molto calore, acciocchè si aumentassero i dazj. I baroni, parte per amor di bene, parte per odio di Medici, che gli aveva o trascurati od aspreggiati, fecero tra di loro un'intelligenza per isturbare i disegni al ministro. Fra gli avversarj, per essere stato offeso ed allontanato dalla corte per opera di lui, risplendeva il principe di Belmonte, uomo assai ricco, di famiglia nobilissima, e di molta dipendenza in Sicilia: nè l'ingegno mancava in lui, nè la liberalità; perchè amico ai letterati, cortese ai forestieri, mostrava che di buoni frutti non era sterile la Sicilia. Quest'erano le sue virtù: i vizj, un orgoglio intollerabile. Assunse impresa di vendicarsi di Carolina e di Medici. I baroni si collegarono con Belmonte. Il ministro s'accorse, che se era stato buono il tirare a se i dipendenti, sarebbe stato meglio il tirare gl'independenti. L'esito fu, che il parlamento concedè un piccolo aumento di donativi, ma interpose tante difficoltà alla distribuzione e riscossione loro, che fu impossibile di esigergli. Maggiori segni sorsero del mal umore parlamentario, perchè, essendo solito il parlamento a domandare molte grazie al re, grazie, che si concedevano a ragguaglio della largizione dei donativi, a questa volta i baroni domandarono, come per modo d'ironia, la grazia di sua maestà: l'esempio fu efficace; anche i due altri bracci risposero nella medesima sentenza: solo gli ecclesiastici richiesero il re, facesse prigioni separate pei preti. I Siciliani, secondo la natura dei popoli che sempre pagano mal volentieri, e peggio quando sono entrati in opinione che chi maneggia il denaro loro lo sparge, alzarono voci di plauso in tutta l'isola a favor dei baroni: pel contrario con discorsi acerrimi laceravano il nome di Medici, e di coloro che nel parlamento l'avevano secondato.

Fu molto memorabile il parlamento Siciliano dell'ottocentodieci, di cui abbiamo fin qui toccato. Imperciocchè le terre obbligate a feudo furono ridotte all'allodio, ed aboliti molti baronaggi, consentendo volentieri e con singolar lode i baroni ad una riforma, che recava loro, quanto alle rendite, notabile pregiudizio. A ciò si aggiunse, che per la più acconcia distribuzione dei dazj, si crearono nuovi ordini di gabelle, e le terre, affinchè il terratico fosse stanziato con più equalità, si accatastarono, facendo stima dai contratti d'affitto, o dalle confessioni dei possidenti sul fruttato di dieci anni; dal che ne sorse un censo o catasto, che, sebbene imperfetto, diè non pertanto qualche utile norma in una faccenda intricatissima. Migliorò anche il parlamento gli ordini giudiziali, cosa in quei tempi di estrema necessità, per la frequenza intollerabile che era invalsa dei furti e delle rapine; perchè siccome per lo innanzi i capitani di tutte le città e villaggi erano obbligati a compensare del proprio i rubati, il che di rado aveva effetto, essendo per lo più i predetti capitani uomini poveri, che amavano meglio o fuggire o andar carcerati, che pagare, così il parlamento creò tante compagnìe di gendarmi, quanti erano i distretti, volendo, che ciascuna compagnìa purgasse il distretto proprio dai ladri, e fosse tenuta dei furti che vi succedessero. Le strade ed i casali sparsi, che prima erano molto infestati, diventarono più sicuri, i popoli lodavano il parlamento del prudente consiglio, i baroni sorgevano in maggior credito pel favor dell'opinione. La regina, che si recava a diminuzione di potenza il favore acquistato dal parlamento e dai baroni, mal volentieri sopportava questa variazione. Medici, o che il facesse da se, perchè sapeva che e come Napolitano, e come aderente alla regina, aveva perduta la grazia dei Siciliani, o che Carolina gliel comandasse, rinunziò alla carica di ministro delle finanze. Creossi in sua vece il principe di Trabia, come Siciliano, per conciliare: s'intendeva piuttosto di commercio che di stato. Piacque un tempo, dispiacque fra breve, perchè pensava a tôrre le spese inutili, ed a formare migliori ordini per la camera. Intanto le tasse a mala pena si riscuotevano, ogni cosa in ruina. Per ultimo rimedio si chiamava un secondo parlamento. Diè maggiore agevolezza nel riscuotere le tasse; negò più grossi donativi: ogni promessa o minaccia della corte indarno; i baroni non si lasciarono piegare nè alle lusinghe delle parole, nè alle profferte d'onori: lo stato periva, e' bisognava uscirne. Un Tommasi chiamato nelle consulte regie trovò questi due rimedj: pagassesi una tassa dell'uno per centinajo del valsente di tutti i contratti, stromenti e carte private che si facessero dai particolari, e perchè nissuno potesse far fraude, si mandò ordine ai notaj, ed ai banchi pubblici di Palermo e di Messina, che avessero cura dell'esecuzione. L'altro trovato del Tommasi fu, che si vendessero alcuni beni stabili appartenenti a luoghi pii, a possessori forestieri, ed alla religione di Malta: perchè la vendita non riuscisse vana per mancanza di avventori, si facesse per mezzo di lotto. Non fu consentaneo alle speranze l'effetto dei due decreti; perchè essendo gli umori mossi e l'opinione avversa, i rimedj si cambiavano in veleni. Primieramente la nazione recandosi a dispetto e ad oltraggio un atto, che stimava essere arbitrario e contro gli ordini della constituzione, fece risoluzione, che tutti gli atti privati, come vendite di beni sì stabili che mobili, affitti, pigioni, pagamenti, e tutt'altro contratto, dove la natura del negozio il permettesse, di buona fede e senza rogito di notajo si facessero. Quanto al lotto, malgrado del guadagno ingordo che vi si poteva fare, nissuno accorse alle polizze, e riuscì vano il tentativo. Tanto quei popoli amarono meglio pericolare nelle sostanze e rinunziare al lucro, che sottoporsi ad una tassa, che riputavano illegale e contraria agli statuti del regno, onorata risoluzione dei Siciliani. La regina dispensò le polizze ai suoi cortigiani, magistrati, partigiani ed aderenti, debole sussidio in tanta angustia.

Questa condizione non era tale, che lungo tempo potesse durare senza variazione. La regina non rimetteva dal solito procedere, da lodarsi per costanza, da biasimarsi pei mezzi e pel fine. I baroni instavano, nè erano uomini da non usar bene il tempo. Gl'Inglesi ci mettevano la mano, perchè vedevano che gli andamenti di chi reggeva precipitavano le cose in favor dei Francesi per la mala soddisfazione dei popoli; e giacchè avevano pruovato che i consigli dati alla regina non avevano prodotto frutto, si erano risoluti a prevalersi della nuova inclinazione d'animi che era sorta. Tutti volevano comandare, regina, Inglesi, baroni, chi per superbia, chi per interesse, chi per desiderio di regolate leggi. In questo nacque un accidente, dal quale doveva avere la sua origine il cambiamento delle Siciliane sorti. Fecersi avanti i baroni, cui più muovevano il fastidio dell'imperio Caroliniano, e la voglia di veder ridotto a migliore forma il governo, e si appresentarono con una rimostranza al re, supplicandolo della rivocazione dei due decreti, come contrarj alla constituzione Siciliana fino allora inviolata nel diritto di porre le contribuzioni. Portarono la medesima rimostranza alla deputazione del regno, la quale dal parlamento eletta, sedeva secondo i Siciliani ordini, tra l'una tornata e l'altra dal parlamento. Capo di questa mossa fu il principe di Belmonte. La regina, che non era donna da lasciarsi sopraffare dai venti contrarj, non solamente non si piegò a questo assalto dei baroni, ma persuase ancora al re, che gli facesse arrestare e condurre in luogo, dove fosse loro mestiero di pensar ad altro piuttosto che a rimostrare. Furono arrestati, condotti in varie isole, serrati in prigioni diverse, e trattati con sevizia cinque dei primarj baroni del regno, che furono quest'essi: il principe di Belmonte sopraddetto, i principi d'Aci, di Villarmosa, di Villafranca, e il duca d'Angiò. Parlossi anche nelle più segrete consulte della regina, che si uccidessero: i suoi aderenti più stretti, credendo di andarle a versi, domandavano la morte loro. Ma Medici, col quale principalmente ella restringeva i suoi consigli, contraddisse, allegando, che un fatto tanto grave sarebbe certamente occasione di rivoluzione.

Queste cose davano gran sospetto agl'Inglesi, perchè nulla di certo si potevano promettere da un moto popolare, nè maggior fede avevano nella regina, dappoichè per lo sposalizio di Maria Luisa nell'imperator dei Francesi era divenuta parente di Napoleone; e siccome quelli che ottimamente conoscevano la natura di lei, sapevano che ella si sarebbe gettata a qualunque più strano partito, ed anche all'amicizia di Napoleone, purchè continuasse a comandare, nè era solita a guardare più in viso Inghilterra che Francia; tanto era l'indole sua altiera ed indomita! Adunque gl'Inglesi, non potendo più comandare con la regina, nè fidandosi del popolo, si vollero pruovare, trattando restrignimento coi baroni, di comandare per mezzo loro.

A questo fine, richiamato a Londra lord Amherst, ambasciatore d'Inghilterra alla corte di Palermo, mandarono in sua vece lord Bentink, uomo di natura molto risoluta: pretendeva parole di libertà. Ora s'ha a vedere una testa forte contro una testa forte. Non così tosto pervenne Bentink in Palermo, che si mise a negoziare strettamente con la regina, ammonendola dei pericoli che correvano, rappresentandole la necessità di cambiar di condotta, e proponendo la riforma degli abusi introdotti nell'amministrazione e nella constituzione del regno. Insisteva principalmente, amarissimo tasto a Carolina, affinchè si rivocassero i due decreti, e si richiamassero dalle carceri e dall'esilio i cinque baroni. Aggiungeva, che se ella non si uniformasse ai desiderj dell'Inghilterra, ei direbbe e farebbe gran cose. La regina, non usa a sentirsi parlare di questo suono, meno ancora a sopportarlo, non che si piegasse, viemaggiormente si ostinava, e lei essere padrona in Sicilia, non Bentink, affermava. Pure l'Inglese la stringeva; e voleva venirne alla conclusione. A cui finalmente la regina per vederne la fine e levarselo d'innanzi, gli ebbe a dire apertamente, con quale diritto s'ingerisse nelle faccende del regno, e quale audacia fosse la sua di uscire dai termini del suo mandato? Dove fosse, richieselo, e mostrasselo il mandato d'intromettersi nel governo del regno di Sicilia. Badasse bene a farla da ambasciatore, non da padrone, molto manco da re; che Carolina d'Austria non era donna da divenir serva di chi era mandato a farle riverenza, non a comandarle. Sentissi Bentink toccar sul vivo, perchè veramente aveva avuto dal re Giorgio potestà di consigliare, non di comandare. Tuttavia non si tirava indietro, e con pertinacia contrastando, disse, che se non aveva mandato, lo anderebbe a cercare: e come disse, così si metteva in punto di fare. Carolina, veduto il pericolo, pensò ad essere una seconda volta con Bentink, non che volesse rimuoversi dal suo proposito, perciocchè perseverava nella medesima durezza, ma sperava di rimuovere l'avversario. Consentiva, non senza qualche difficoltà, l'Inglese all'abboccamento: all'ultimo trattandosi l'affare tra due ostinati, non si potè venire ad alcuna conclusione, per forma che l'ambasciadore disse alla regina per ultima risposta, o constituzione, o rivoluzione. Nè interponendo dilazione, partì, andò a Londra, in tre mesi tornò con mandato amplissimo. Ma i ministri d'Inghilterra, avvisandosi che le parole non basterebbero, diedero a Bentink potestà suprema sopra tutte le truppe Inglesi raccolte nell'isola, acciocchè quello che pei consigli non potesse, colla forza il potesse. Tentò Bentink di nuovo la regina colle persuasioni, di nuovo la regina nella risoluzione di voler fare da se, e non a posta d'altri o Inglesi si fossero o parlamento, persisteva. Minaccioso allora venne sul dire, arresterebbe il re, arresterebbe la regina, gli manderebbe in Inghilterra, lascerebbe in Palermo a governare il regno, il figliuolo del principe ereditario don Francesco, fanciullo di due anni, con assistenza di una reggenza, alla quale chiamerebbe, come capi, il duca d'Orleans, ed il principe di Belmonte. Perchè poi le sue parole avessero l'efficacia necessaria, dodicimila soldati Inglesi, che stanziavano sparsi in varj e lontani luoghi dell'isola, chiamò nelle vicinanze di Palermo. La regina, veduto un caso tanto estremo, nè ancora rimettendo della sua costanza, chiamati i suoi più fidi a consiglio, e con loro i ministri, sull'afflitte cose se ne stava deliberando. Disse, non esser punto per cedere ad una prepotenza forestiera. Chiamassero i soldati, volere contro la forza difendersi colla forza. Le fu tosto ridotto in considerazione, poco sicure essere le truppe per la miseria, ad esse mancare le vestimenta, ad esse i viveri, ad esse insino le armi; non potervisi far capitale; là andrebbero dove una prima mostra di pane a loro si facesse. La regina, cedendo alla fortuna, ma non vinta nell'animo, si ritirava ad un suo casino poco distante dalla città. L'evento finale si avvicinava, si rompevano le trame Napoleoniche in Sicilia, la parte Inglese trionfava, contrade infelicissime, che non potendo vivere da se, cercavano di sostentar le cose loro col patrocinio altrui. Bentink, recatosi in mano la somma dell'autorità, operò primieramente, temendo non il re per se, ma la regina per mezzo del re, che Ferdinando, sotto colore di malattia, rinunziasse alla potestà reale, ed investisse di lei pienamente il principe ereditario suo figliuolo con titolo di vicario generale del regno. Bentink fu eletto capitano generale della Sicilia, accoppiando in tal modo in se l'imperio militare e sopra i soldati del re Giorgio, e sopra quelli del re Ferdinando.

Atti primi e principali del nuovo reggimento furono il richiamare i baroni carcerati, il licenziare i ministri della regina, l'abolire il dazio dell'un per centinajo, il chiamare ministri Belmonte degli affari esteri, Villarmosa delle finanze, Aci della guerra e marina. Volevano alcuni, che si apprestassero gli esili, le carceri, i supplizj contro coloro che si erano mostrati aderenti a chi aveva sino allora retto lo stato, massimamente contro le spie, tanto più detestate, quanto la maggior parte erano forestieri venuti dall'altra parte del Faro. Ma i nuovi ministri, conoscendo che il modo di governare tanto sarebbe migliore, quanto più si discosterebbe dal precedente, prudentemente procedendo, si risolvevano ad usare mansuetudine: puniti pochi più in odio al popolo, mandavano i rimanenti in dimenticanza. Volevano cambiamento, non rivoluzione: protestavano non voler andare a forme insolite e nuove, solamente tornare alle antiche, adattandole alle condizioni presenti. Fece il popolo grandi allegrezze per la mutazione: quell'esser liberato dalle spie, gli pareva un gran fatto: dicevano rinascere le sorgenti di Sicilia.

Intanto il principe vicario convocava il parlamento. Era il mandato dei membri, provvedessero, che la Sicilia avesse un buono e libero governo, rimediassero agli abusi, creassero nuovi ordini di constituzione. Erano in quest'assemblea partigiani della regina, come amatori del governo assoluto, e come obbligati a lei per potenza, o per ricchezze, o per onori, ma il tempo era loro contrario. Erano partigiani di statuti liberi, pendendo molti verso le forme Inglesi ed a questi era il tempo favorevole. Erano infine, ma in poco numero, partigiani Francesi: questi si accostavano agli aderenti della regina, e poichè non potevano predicare apertamente il dominio assoluto per l'opinione contraria, pubblicavano dottrine di una libertà eccessiva, sperando che dalla licenza nascerebbe il dispotismo.

I baroni avevano maggior autorità degli altri. Bentink era accesissimo in questo, che promulgasse libertà e statuti generosi in ogni luogo. Incominciossi dagli ordini supremi della constituzione. Statuirono che la religione cattolica, apostolica, romana fosse sola religione del regno; che il re la professasse; quando no, s'intendesse deposto; la potestà legislativa fosse investita nel solo parlamento, e solo il parlamento ponesse le tasse; i suoi decreti appruovati dal re avessero forza di legge; l'appruovare, od il vietare del re in questa forma si esprimesse, piace al re o vieta il re; la potestà esecutiva fosse investita nel solo re, e sacra ed inviolabile la sua persona; i giudici avessero intiera independenza dal re e dal parlamento; i ministri fossero tenuti di ogni atto, e fosse in facoltà del parlamento l'esaminargli, il processargli, il condannargli pel crimenlese; due camere componessero il parlamento, una dei comuni, o dei rappresentanti del popolo, l'altra dei pari del regno; i rappresentanti fossero eletti dal popolo a norma di certe forme prestabilite; fossero Pari del regno chiunque avesse avuto seggio nel braccio ecclesiastico o baronale, o chiunque il re chiamasse a tale dignità; stesse in facoltà del re il convocare il parlamento, ma fosse obbligato di convocarlo ogni anno; la nazione desse al re dote splendida, e con ciò i beni della corona cedessero in amministrazione della nazione; niun Siciliano potesse essere turbato nè nelle proprietà nè nella persona, se non conforme alle leggi sancite dal parlamento; s'instituissero forme giudiziali pei Pari del regno; la camera dei comuni sola avesse facoltà di proporre i sussidj, o vogliam dire i donativi; il parlamento vedesse quali e quante parti della constituzione della gran Brettagna convenissero alla Sicilia, ed esse ad utilità comune si accettassero.

Questi furono i capitoli principali della constituzione Siciliana data da lord Bentink circa gli ordini primitivi dello stato. Ne concepirono i popoli grande contentezza, perchè quella equalità di dritti, e quella sicurezza delle persone, sono condizioni che piacciono a tutti. Furono inoltre dal parlamento per motivo espresso dei baroni statuiti certi patti fondamentali, dai quali ne veniva un grande sgravio ai popoli, e il nome dei baroni salì in onore, certo meritamente, appresso ai Siciliani. Perciò all'allegrezza comune cagionata dai capitoli principali, s'aggiunse una maraviglia non senza molta parte di gratitudine per certi capitoli aggiunti, essendone posto il partito dai baroni. Il fecero per generosità d'animo, il fecero per conciliarsi i popoli. Offerirono spontaneamente, e fu dal parlamento statuito, che il sistema feudatario fosse e restasse abolito in Sicilia, che tutti i privilegi provenienti dall'origine medesima fossero cassi, e tutte le terre libere ed allodiali. Fossero altresì abolite le investiture, i rilievi, le devoluzioni al fisco, ed ogni peso che derivasse da feudo. Quanto alle angherie, o siano dritti angarici, potessero i comuni od i particolari riscattarsene sotto condizione di debito compenso. A voler comprendere quanta agevolezza ed amore del ben pubblico fossero in queste offerte e decreti dei baroni Siciliani, basterà far considerazione, che gran parte delle loro rendite consisteva in questi dritti feudatarj: furonvi famiglie, che a cagione delle rinunzie perdettero insino a settantamila franchi d'entrata. L'annullazione massimamente delle bandite, o vogliam dire dei dritti proibitivi di caccia riservandone soltanto l'uso, a guisa degli ordini Inglesi, sulle terre circondate da mura, diede la vita a molti villaggi condotti all'ultima ruina dalle fiere o regie o baronali. Dirò anzi in questo, perchè dimostra lo spirito di quella nazione, che il re, al quale incresceva l'astenersi dalle solite cacce, fece opera di persuader ai villani, che abitavano vicini a' suoi parchi e foreste, che rinunziassero alla libertà largita dal parlamento: ne ebbe ripulsa.

Giubbilavano i Siciliani dell'ottenuta libertà, la generosità dei baroni, ed i nuovi ordini con somme lodi esaltando. Restava, che il re, cioè il principe vicario appruovasse. Fuvvi qualche soprastare. Si disse, che la regina stringesse il figliuolo affinchè vietasse: mormorossi, ch'ella per por le cose in confusione, macchinasse sollevazioni in Palermo. Si andava oltre a ciò vociferando un caso più orrendo, e fu, ch'ella con un artifizio di polvere chiusa in grossa e forte boccia, aggiuntovi scheggia ed altri stromenti mortalissimi, e gettato, ed acceso improvvisamente nella stanza del parlamento, si fosse sforzata di mandar l'assemblea a confusione ed a ruina. Certo scoppiò il ferale ordigno, ma all'entrare di una finestra, per modo che dal terrore in fuori, non fece effetto. Queste cose si dicevano della regina, non perchè se le facesse, ma perchè la credevano capace di farle.

Duro pareva a chi regnava, lo spogliarsi dell'autorità; infine tanto operarono Bentink, il parlamento, ed i segni della impazienza popolare, che il principe vicario dichiarò, piacergli i capitoli. Ne fu lodato da molti, biasimato da pochi. La regina, non potendo più resistere, costretta anche da Bentink, che conoscendo quel suo spirito indomabile, ed avendo l'animo alieno dal confidarsi di lei, malvolentieri la vedeva vicina alla sede del governo, si ritirava a Castelvetrano, terra distante a sessanta miglia da Palermo. Aspettava Bentink la stagione propizia per mandarla a Vienna, certo e sicuro, che, finchè ella restasse nell'isola, il nuovo stato non potrebbe quietare, non che radicarsi e fiorire.

Ed ecco che nel mese di gennajo dell'ottocento tredici il re (corse fama in quel tempo, che Carolina regina, avendo l'animo sempre pieno di mala soddisfazione, di nottetempo e celeremente venendo da Castelvetrano, fosse andata a trovarlo, e ad esortarlo a recarsi di nuovo la somma del governo in mano) compariva all'improvviso in Palermo, e fatti a se chiamare i ministri, dichiarava, che essendo tornato in salute, suo intento era di riassumere l'autorità regia. Parve caso strano, e che potesse portar con se accidenti molto gravi. Bentink, avvertito a tempo, mandò prestamente suoi messi a chiamar le soldatesche, che alloggiavano nei paesi circostanti. Tanta fu la celerità usata, che a mezza notte dodicimila Inglesi, armati di tutto punto, come in presente guerra, entrarono in Palermo, e rendettero le cose sicure al nuovo stato. Fu assai subito Bentink in questa faccenda, e se avesse tardato non sarebbe più stato a tempo; perchè già i partigiani dell'antico reggimento alzavano la testa, e si vantavano di aver vinto la novella constituzione. Era intento di Ferdinando di cambiare i ministri, non terminare la constituzione, annullare i capitoli accordati, rimettere in piede lo stato antico, richiamare la regina: il fine ultimo consisteva nel liberarsi dall'imperio d'Inghilterra, e dalle molestie dei democrati. Si cantarono con pompa nel duomo le prime grazie all'Altissimo per la salute ricuperata del re. Si aspettavano plausi: nissuno si scoprì. Se da una parte si sopportava mal volentieri il dominio degl'Inglesi, dall'altra si temeva quello della regina, e dei Napolitani. Intanto il capitano generale aveva condotto a fine i suoi preparamenti: soldati in armi occupavano Palermo; un romor di cannoni e di mortaj tirati per le contrade faceva un terrore grandissimo. I Palermitani gridavano che guerra fosse quella; e si lamentavano che si fosse dato occasione a quest'insolito apparato. Mandava Ferdinando il comandante domandando a Bentink, che cosa significasse quella mostra guerriera. Rispose venezianamente l'Inglese, avere udito la ricuperata salute del re, volere anche di lui palesare la sua contentezza; quelle armi e quei soldati essere venuti ad allegrezza e ad onoranza. Stette alquanto sopra pensiero il Siciliano, perchè gli pareva che il parlare di Bentink fosse piuttosto da burla che da vero. Poi gli disse, se avesse pensato agli accidenti che potevano nascere. Il capitano del re Giorgio rispose, che il re Ferdinando l'aveva chiamato suo capitano generale, che a lui aveva affidato la quiete di Palermo e del regno; che per adempire l'incarico aveva apprestato quelle armi e quei soldati. Ferdinando in questo mentre caduto in malattia o per accidente fortuito, o per angustia d'animo, riconfermò il figliuolo nella carica di vicario generale, e tornossene in villa, portando con lui diminuzione di riputazione per un tentativo male cominciato, e peggio terminato.

Volle Bentink usar l'occasione dello sgomento concetto per l'esito infelice, facendo opera di persuadere al re, che rinunziasse intieramente all'autorità regia in favor del figliuolo: mandò anche soldati per ajutar le parole coi fatti, a romoreggiare tutto all'intorno della villa abitata da Ferdinando, ma egli non si lasciò tirare a questa risoluzione, perchè i fuorusciti Napolitani, tutti o la maggior parte seguaci della regina, il dissuadettero efficacemente da questa finale rinunzia. Temevano, nè senza ragione, che se il principe vicario fosse divenuto re, pei consigli dei baroni Siciliani, che in lui molto potevano, ed erano nemici al nome loro, gli conducesse a qualche mal partito. Non potevano tornare nella patria loro, che tuttavia si trovava in potestà dei Napoleonidi, e se fosse loro stata vietata la Sicilia, non avrebbero più avuto alcun ricovero o scampo.

Intanto il tentativo fatto per riassumere l'autorità regia, rendè del tutto chiaro Bentink dell'animo della regina. Laonde, temendo non poco ch'ella facesse qualche precipitazione, si persuase che era meglio vedere una regina esule, che in pericolo l'autorità d'Inghilterra. Fatte adunque le sue diligenze, costrinse Carolina ad abbandonar la Sicilia. Dal che nacque, che portata dai venti e dall'avversa fortuna in istrani e barbari lidi, non potè, se non con disagi incredibili, rivedere la sua Vienna, riabbracciare i parenti, e respirare l'aere natìo, donde solo poteva sperar conforto della perduta potenza. Ma non fu lungo il sollievo, perchè presa da subita malattia, passò poco tempo dopo da questa all'altra vita. A questo modo fini di vivere Carolina d'Austria e di Sicilia, prima desiderosa di ridurre il governo a forme più larghe, poi sostenitrice tenacissima di governo stretto, prima favorevole ai filosofi, poi nemica acerbissima di loro, contrastatrice violenta un tempo di Napoleone imperatore per la soverchia potenza di lui, poi sua aderente per troppo amore della potenza propria; conservata dagl'Inglesi, poi fatta esular da loro; questo solo lasciò incerto, se i tempi, o ella cambiassero; che anzi se si dee, non da qualche atto della vita, ma da tutti della natura di alcuno giudicare, parrà certo, ch'ella piuttosto costante e forte, che volubile e debil donna chiamare si debba. Nè in mezzo alle tante ambizioni moderne la sua cupidigia del dominare io riprenderei, se non l'avesse condotta ad una rigidezza eccessiva. Di questo, nè io, nè, credo, altri sarà mai per iscusarla per ragione alcuna, nemmeno per l'orrendo caso della regina sorella; conciossiachè, se di vendetta in vendetta sempre dovesse andare il mondo, non si vede, che allo straziarsi colle unghie, ed al mangiarsi coi denti gli uomini al fine non dovessero pervenire. Mise chi ci creò nei nostri cuori la pietà verso i miseri, ed il piacere del perdonare ai rei, acciocchè l'umana razza s'arrestasse in mezzo al corso del tormentare umane membra, e del versare umano sangue; e se una pazzìa incomprensibile, od un desìo spaventevole ci vi spinge, almeno una salutevole pietà ci rattenga dal correre sino all'estremo termine di lui.

Rintegrato il principe vicario nel regno, e partita la regina, insistendo i ministri, massimamente Bentink, che interveniva a tutte le consulte, continuò il parlamento le sue politiche fatiche. Diessi compimento alla constituzione; si mise in atto, rimanendone i popoli con molta satisfazione. Così fu felice il principio; il seguito non corrispose. Nacque tostamente la peste dei governi liberi, dico le insolenze popolari: nacque il vizio dei paesi comandati dai forestieri, dico i favori conceduti dai dominatori ai più vili, ai più ignoranti, ai più ridicoli uomini: la parte popolare più forte, e sempre intemperante ne' suoi desiderj, principiò a non serbar più modo verso i nobili, contro di loro con parole e con fatti imperversando. Era in questo procedere, non che cecità per l'avvenire, ingratitudine del passato, perchè dei nobili, chi era stato autore della constituzione, e chi l'aveva accettata volentieri. Per la qual cosa eglino, non trovando più sotto l'imperio di lei rispetto e quieto vivere, diventarono avversi, e desiderarono il cambiamento di quello, che coi desiderj, e colle opere avevano mandato ad effetto. Pessime furono la maggior parte delle elezioni alla camera dei comuni, fatte principalmente per maneggio di Bentink, più avendo potuto nel suo animo i servigi particolari fatti a lui medesimo, che quelli fatti o da farsi al pubblico. La viltà degli eletti portò disprezzo al consesso: da spie e ligi di Carolina, a spie e ligi di Bentink non facendo i popoli differenza, concepirono la opinione, che gli scritti di penna non sono altro che scritti di penna, e che gli atti ed i risultamenti sono sempre i medesimi, cioè di dare a chi meno merita, e di tôrre a chi più merita; chi aveva disprezzo, chi odio, chi freddezza verso la nuova constituzione, e tutto in un fascio mettevano Carolina, Acton e Bentink. Torno sull'antica mia querela, che le leggi portanti a libertà in Europa son sempre guaste dal cattivo costume, massimamente dall'ambizione. S'arrose a questo, che i dazj posti ai tempi del parlamento Bentiniano secondo gli ordini della constituzione, avanzarono di gran lunga quelli che si pagavano prima, ed in virtù degli antichi statuti del regno. Del quale effetto la cagione si fu, parte la necessità del pagare i soldati altrui, parte quella di supplire con nuovi dazj alle rendite dei dritti feudatarj soppressi. A questi aggravj si risentivano i popoli, che generalmente piuttosto dal non pagare, che dal fare gli squittinj giudicano della libertà. Le persuasioni degli uomini in carica non fruttavano, perchè gli stimavano complici; gli altri scontenti: perivano i fondamenti della recente constituzione, e le cose del nuovo governo molto s'indebolivano. Ciò nondimeno durò qualche tempo; perchè, morta la regina, niuno era rimasto che le potesse dare un primo urto. Ma non così tosto il re Ferdinando, pei casi dell'ottocento quattordici, tornossi a sedere sul trono di Napoli, che con un cenno solo l'aboliva non solamente senza sommossa di popoli, ma ancora senza mala contentezza. Dal che ne seguita, che non le magnifiche parole, ma solo la felicità presente possono essere stabile fondamento alle constituzioni. I popoli di metafisica non sanno, e la felicità loro misurano, non da quello che odono, ma da quello che sentono.

Insomma Ferdinando disse, che la constituzione era stata data per forza, Bentink che era stata chiamata di volontà, Castelreagh andò per le ambagi. Vero fu, che fu desiderata prima, poco amata dopo, colpa più dei popolani che dei nobili, più dei forestieri che dei paesani. Del resto, anche qui si vide il vizio dello aver commesso in quest'Europa ciarliera ed ambiziosa la potestà popolare, cioè la potestà che debbe servire di moderatrice al governare e di guarentigia al popolo, ad assemblee numerose. Nella natura attuale degli Europei, questo è un pessimo rimedio, nè so quello che diventerebbe l'Inghilterra stessa se non avesse i borghi compri: per un vizio enorme solamente, cioè per questi borghi ella vive. L'antica sapienza Italiana seppe trovare migliori rimedj; e se quello che nelle constituzioni degl'Italiani antichi, ed anche in qualcheduna dei moderni, era solamente un principio non ordinato, o male ordinato, con buoni statuti si ordinasse, il che sarebbe non che difficile, agevole, sarebbero sicuri la libertà e l'imperio.

Mentre Guglielmo Bentink dominava in Sicilia, Edoardo Pellew signoreggiava i mari Mediterraneo ed Adriatico. Era la terra in mano di un solo, il mare in mano di un solo. Nacquero accidenti, ora in questo mare, ora in quell'altro, ma di poco momento per la superiorità tanto notabile di una delle parti, e la depressione dell'altra. Predarono gl'Inglesi già sin dall'ottocentundici molte onerarie al capo Palinuro. Nell'Adriatico poi, per istringere il presidio di Ragusi, s'impadronirono presso a Ragonizza, di una conserva di navi, anch'esse cariche di vettovaglie. Fatto di maggior importanza fu una battaglia navale combattuta aspramente nelle acque di Lissa, una delle isole antemurali dalla Dalmazia. Vinse la fortuna Britannica: le fregate Francesi la Corona, e la Bellona vennero in poter degl'Inglesi; la Flora si condusse in salvo, la Favorita andò di traverso. Per questa fazione Lissa cadde in potestà degl'Inglesi. Vi fecero una stanza ferma, ed un nido sicuro, dove e donde potevano ritirarsi ed uscire a dominar l'Adriatico. Fu per Napoleone dato avviso al pubblico della fazione di Lissa, ma a modo suo, servendosi del nome del generale Giflenga che era stato presente alla battaglia. Se non si poteva dire che l'imperatore perdesse quando vinceva, molto meno si poteva quando perdeva. Giflenga stette queto, perchè non poteva parlare, quantunque il fatto fosse assai diverso del come fu nella patente lettera di lui descritto.

Già i fati assalivano Napoleone; l'ambizione, che mai non dormiva in lui, gli toglieva l'intelletto. Dome la Francia, la Germania, l'Italia, non poteva capirgli nell'animo che di tutta Europa signore non fosse. La Russia e l'Inghilterra gli turbavano i sonni; quella amica poco fedele, questa nemica costantissima; nè poteva pazientemente sopportare, che queste due potenze gli fossero ostacolo al salire dove i suoi desiderj fossero, non dico sazj, perchè a ciò la natura sua smisurata ripugnava, ma più soddisfatti: mezza Europa non gli bastando, come non mai si fermava la sua cupidigia, la voleva tutta. Parevagli che due grandi imperj, quali erano il suo e quel d'Alessandro, non potessero sussistere insieme nel mondo. Per questo aveva dilatato i suoi confini insino alla Russia, per questo unito alla Francia Amburgo e Lubecca, per questo fortificato Danzica, per questo creato il ducato di Varsavia, per questo teneva ostinatamente stretta ne' suoi artigli la miseranda Prussia, piuttosto ombra di potenza che potenza. Nè ignorava, quanti sdegni contro lui covassero, massimamente in Germania, pel suo insopportabile dominio: l'estrema forza della Russia gli nutriva. Questi pensieri, giunti alla cupidigia dell'esser solo, tanto più gli turbavano la mente, quanto più prevedeva che non poteva domar l'Inghilterra, se prima non domasse la Russia. Qui anche covava, secondochè appare, un pensiero grandissimo, nè a lui ostava, per mandarlo ad effetto, l'amicizia che allora aveva col sultano di Turchìa. Napoleone vincitore della Russia mirava al farsi padrone di Costantinopoli per rintegrare nella sua persona l'imperio d'Oriente, ed anzi tutta la pienezza del Romano impero. Appetiva anche le Indie Orientali a distruzione dell'Inghilterra, e ad acquisto di fama pari a quella d'Alessandro Macedone. Nè che io narri cose fantastiche alcuno sarà per dire: perchè dell'andare per cammino terrestre nelle Indie non solamente si parlò in quei tempi, ma eziandio ne furono prese deliberazioni, e i luoghi esplorati, e le stanze notate, e la lontananza accertata, e tenute pratiche colla Persia. Anzi gli adulatori già spargevano, che l'impresa non aveva in se tanta difficoltà quanta il volgo credeva. Solo ostava la Russia: per questo Napoleone ambiva di soggiogarla, confidando che il vincerla gli metterebbe in seno l'imperio del mondo. Sapevaselo l'Inghilterra, che continuamente stava ai fianchi d'Alessandro, acciocchè dalle infauste e mortali mani si strigasse. A questo fine aveva anche mandato un ambasciatore straordinario ad Ispahan, affinchè tenesse il sofì di Persia bene edificato verso l'Inghilterra.

Dall'altro lato la Russia, che vedeva il cimento inevitabile, pensava che il più presto sarebbe stato il meglio: mezzo mondo era vicino a marciare in guerra contro mezzo mondo; i due imperi apprestavano l'armi con tutte le forze loro. Favoriva l'uno un esercito fioritissimo, massime di Francesi usi a vincere in tante guerre, una esperienza di tanti anni, una perizia finissima, una fama maravigliosa di capitano invitto in chi tanta mole da se solo muoveva: il favorivano la maestria delle insidie nel corrompere, e l'arte squisita di adescar gli uomini: il favorivano la guerra di Turchìa già suscitata contro la Russia, quella di Persia prossima a suscitarsi.

In pro della Russia inclinavano altre sorti: le regioni lontane, e solo assaltabili di fronte, la vastità loro, i deserti immensi, i freddi orrendi. A ciò una infinita divozione dei popoli verso l'imperatore Alessandro, e la costanza de' suoi soldati, dei quali si prevedevano i primi impeti buoni, gli ultimi migliori. Nè gran peso non recava la potenza dell'Inghilterra, che a lei si sarebbe congiunta. Efficace ajuto ancora, per la diversione e per l'esempio, recava alle cose di tramontana la guerra di Spagna e di Portogallo. Le Spagnuole geste risuonavano nel cuore dei Prussiani, ed accendendo ogni animo anche più quieto, gli chiamavano alla liberazione della patria. Gli Spagnuoli, dicevano, gente in questi ultimi tempi poco usa alle guerre, avere volto il viso e l'armi contro il comune tiranno, i Prussiani famosi giacersene inoperosi ed inonorati: cattolici assuefatti all'obbedienza servile insorgere e combattere; protestanti più usi alla libertà, quietamente e pazientemente obbedire: niuna in Ispagna maravigliosa fama essere, avere in Prussia, i più, veduto, in tutti vivere Federigo II: la spada sua lasciata a rispetto del vincitore, essere stata dal medesimo tradotta a scherno, vile trionfo di capitano barbaro: essa chiamare i Prussiani a vendetta: sorgere dalla tomba la voce di Luisa oltraggiata, rimproverare ai Prussiani la loro ignavia. Nè la restante Germania quietava. L'Austria stessa tanto temperata titubava, aspettando il tempo propizio. Che anzi la Baviera, sempre aderente alla Francia per emolazione e paura dell'Austria, seguitava la medesima inclinazione. Tanto era venuta a fastidio la potenza Napoleonica, conculcatrice sì degli amici, come dei nemici, e forse più ancora dei primi che dei secondi. Quanto all'Assia, oltre la comune servitù, era sdegnata dal procedere puerile e superbo di Girolamo Napoleonide. Così nissun voleva star ozioso a vedere l'esito della guerra, e tutti aspettavano l'occasione di scoprirsi. Quest'erano le speranze della Russia.

Quanto all'Italia, gli umori vi erano diversi, nè sì grande il suo momento, per esser troppo lontana dai campi in cui si dovevano combattere le battaglie, nè dava timore di un moto alla Spagnuola. Inoltre nelle regioni superiori di lei la lunghezza del dominio Napoleonico vi aveva, parte assuefatto gli animi, parte posto in dimenticanza gli antichi sovrani. Nella inferiore poi le crudeltà commesse vi avevano alienato gli spiriti, e se i popolani, specialmente nelle province, non amavano Giovacchino, i nobili l'amavano, grande sussidio al suo governo. Roma e Toscana nel mezzo fremevano ma impotenti; i Piemontesi, uomini armigeri, si contentavano di quelle guerriere sorti. Del regno d'Italia, la parte Milanese dipendeva piuttosto con lieto animo, che mal volentieri dal capitano invitto, per avere una capitale fioritissima, un nome ed un esercito proprio, magistrati ed impiegati del paese, una immagine d'independenza. Del resto la gloria militare di Napoleone quivi aveva cominciato, quivi continuato, i pubblici segni magnifici; eravi sorta una certa nazionale altezza. La parte Veneziana avversa; ma che sperare avesse, e per cui combattere non sapeva. Solo sapeva che per se non poteva combattere: niuna speranza avevano i Veneziani della loro nobil patria, o preda sempre, o compenso di preda.

Risolutisi i due potenti imperatori al venirne al cimento dell'armi, ed al contendere fra di loro dell'imperio del mondo, cominciarono, come si usa, a gareggiar di parole, allegando l'uno contro l'altro piccoli fatti, certamente molto abietti, e molto indegni di tanta mole. Essi sapevano il motivo vero della guerra: tutto il mondo se lo sapeva, quest'era l'impossibilità del vivere insieme sulla vasta terra. Napoleone come più impaziente e più ambizioso, tirandolo il suo fato, assaltava primo; infierì la guerra in regioni rimotissime; desolò prima le sponde del Boristene, poi quelle del Volga: combatterono i Russi a Smolensco, combatterono a Borodina sulla Moscova: prendeva Napoleone Mosca, la prendeva ed insultava: folle che non vedeva che Dio già gli dava di mano! Era fatale, che sui confini dell'Asia perisse la fortuna Napoleonica; arse Mosca, immensa città; cagione e presagio di casi funesti. Una rotta toccata da Murat avvertiva Napoleone che il nemico si faceva vivo, e che quello non era più tempo da starsene nel fondo delle Russie. Gli restava l'elezione della strada al ritirarsi. Pensò di ridursi, passando per Caluga e Tula, a svernare nelle province meridionali della Russia: vennesi al cimento terminativo di Malo-Jaroslavetz, in cui mostrarono un grandissimo valore i soldati del regno Italico. Quivi perirono le speranze di Napoleone, quivi si cambiarono le sorti del mondo, quivi rifulse principalmente la virtù di Kutusoff, generalissimo di Alessandro. Napoleone ributtato con ferocissimo incontro, fu costretto a voltarsi di nuovo alla desolata strada di Smolensco: il Russo gelo spense l'esercito: piange e piangerà eternamente la Francia, piange e piangerà l'Italia il suo più bel fiore perduto per l'ambizione d'un uomo, che con la sua superbia volle tentare il cielo; il cielo mostrò la sua potenza; questa fu la pienezza dei tempi profetizzata da papa Pio. Imparino moderazione e giustizia gli ambiziosi, che si dilettano delle miserabili grida degli straziati uomini.

Al suono delle rotte Napoleoniche, la Prussia, procedendo impetuosamente contro l'insopportabile signore, nè aspettato nemmeno d'intendere la volontà del re, insorgeva, e si vendicava cupidissimamente in libertà. Napoleone ritornava nella sua sede di Parigi; ma pei recenti fatti molto era rallentata la fama della sua gloria militare. Murat, sbalordito da accidenti tanto straordinarj, abbandonato l'esercito se ne veniva a Napoli; presene il governo Eugenio vicerè. Aveva Murat mala satisfazione di Napoleone, ed era maravigliosamente commosso contro di lui, perchè gli aveva attraversato i suoi disegni sopra la Sicilia, e perchè non gli era ignoto, ch'egli aveva negoziato con Carolina di cose pregiudiziali al suo dominio Napolitano. Dall'altra parte gli alleati, massimamente gl'Inglesi, si erano deliberati a pretendere ed a metter fuori certe voci che sapevano essere gradite agl'Italiani, sperando con esse di commuovere facilmente tutta la penisola; quest'erano che oggimai era venuto il tempo di dare all'Italia l'essere independente. Pingevano con vivi colori la tirannide di Napoleone, e con immagini lusinghevoli si sforzavano di voltare gli animi a questo pensiero della liberazione. Bentink o tentativamente o sinceramente che sel facesse, si spiegava di questo disegno con parole incitatissime, e dimostrava la Gran Brettagna parata a secondarlo. Conosceva Giovacchino tutti questi umori. Per questo, tornando da Mosca, passò per Milano, dove più che in altri paesi d'Italia questi desiderj si erano accesi, a fine di scoprire che cosa portassero i tempi. Ma siccome leggieri uomo ch'egli era, quantunque portasse ancora impressi in volto i segni del passato terrore, si mise a far gran promesse, ch'egli farebbe e direbbe, e che era tempo da far l'Italia independente, e che egli era uomo da farla, e che la farebbe. Con questi vanti, che pure lasciavano semi, se ne tornava nel regno. Bentink, conosciuto l'uomo, e volendo concordarlo con gli alleati per turbare fin dalla bassa Italia le cose a Napoleone, il confortava ad assumere le insegne di campione dell'Italica libertà. Lodava il suo valore, le armi, i soldati: l'empieva di speranze; affermava, che, dove egli consentisse a congiungergli con quei de' confederati, si toglierebbe ogni dubbio sull'esito finale dell'impresa, che il turbatore e tiranno del mondo sarebbe vinto, che i confederati il saluterebbero re, che sempre il suo trono di Napoli vacillerebbe, se non fosse conosciuto, e riconosciuto dall'Inghilterra e dalla Russia, che a voler esser tenuto e conservato re novello in mezzo a tanti re antichi, e nel cospetto stesso del naturale e legittimo sovrano, a cui era sempre parata l'azione sopra il regno di Napoli, abbisognava il consenso libero di tutti, e che perciò era necessitato a fondarsi con nuove congiunzioni. Che momento recare, che ajuto porgere a lui ancora potevano Napoleone vinto, ed i suoi gelati soldati? Badasse bene, che colla conservazione propria ne andava la salute e la libertà d'Italia: sarebbe il suo nome immortale, cambierebbe l'odioso nome di re intruso in quello di re legittimo e liberatore. Impugnasse adunque quelle Napolitane armi, si separasse dall'amicizia di Napoleone, assumesse quella degli alleati, bandisse, ed asseverasse l'independenza Italiana. Offerirgli l'Inghilterra la volontà pronta ad ajutarlo, e siccome comune sarebbe l'impresa, che avrebbe facilmente felice successo, così comuni ancora sarebbero l'onore e il frutto. A questo modo Bentink tentava Murat, affinchè venisse a questa congiunzione; il negozio andò tant'oltre, che l'Inglese già si era condotto non a Messina, per non dar sospetto a Ferdinando, ma a Catania a fine di avere maggior comodità di certificarsi dell'animo del novello re, di attendere alla pratica, e di concludere l'accordo. Nè era senza speranza di venirne a conclusione, quando Giovacchino ricevè lettere da Napoleone; portavano, magnificate le cose, che i soldati scritti in Francia con volontà obbedientissima marciavano, che gli eserciti s'ingrossavano, che i popoli gli deliberavano con pronto animo grosse sovvenzioni di denari, che la Francia sarebbe presto uscita a campo più formidabile che mai; che insomma il nome e la fortuna dell'imperatore risorgevano. Queste novelle, aggiunta anche la natura facilmente mutabile di Murat, furono cagione ch'egli tagliò inopinatamente ogni pratica, e si deliberò a perseverare nell'aderirsi a Napoleone. Bentink l'ebbe per male, e rimaso senza speranza di averlo congiunto seco, s'indispettì talmente che non ostante che per mitigare con qualche onesto modo l'animo suo, Giovacchino gli mandasse poi in presente una ricca e forbita sciabola, l'Inglese non volle più trattar con lui, nè udire le nuove proposte ch'ei gli venne facendo, quando sopraggiunsero i tempi grossi per Napoleone in Germania. Il che fu cagione che Murat deposto ogni pensiero dell'independenza d'Italia, si voltò finalmente tutto verso l'Austria, sperando in tal modo di fondare la propria grandezza sulla dipendenza altrui.

Napoleone, che riavutosi dagli accidenti di Russia era rientrato in sè medesimo, ed attendeva e provvedeva gagliardamente ad ogni cosa, essendogli diventato buon maestro il timore, e considerato che il rendersi benevolo il papa, e l'accordarsi con lui, avrebbe fatto fondamento grande ai suoi pensieri, e molto giovato a tener fermi nella sua dominazione in sì grave pericolo gli animi degl'Italiani, si ritirava dalle domande di Savona, ed inclinando alla concordia concluse un concordato il dì venticinque gennajo in Fontainebleau. I principali capitoli furono, che sua santità esercerebbe l'ufficio del pontificato in Francia e nel regno d'Italia, in quel modo e conformità che i suoi antecessori l'avevano esercite; che manderebbe ai potentati i suoi ministri, e da loro ne riceverebbe, con le solite immunità e privilegi del corpo diplomatico; che gli si renderebbero i beni non venduti, e che i venduti gli si compenserebbero con una rendita di due milioni di franchi all'anno; il papa, fra sei mesi dalla notificata nomina dell'imperatore instituirebbe canonicamente, in conformità del concordato, ed in virtù del presente indulto, i nominati agli arcivescovadi ed ai vescovati dell'impero di Francia, e del regno d'Italia; che il metropolitano prenderebbe le informazioni preliminari; se fra sei mesi il papa non avesse instituito, il metropolitano instituirebbe egli, o se di metropolitano si trattasse, l'anziano dei vescovi l'instituirebbe; che le sedi mai più di un anno non potessero vacare; che il papa nominerebbe, tanto in Francia quanto in Italia, a sei vescovati, che di comune consenso si sceglierebbero; che i sei vescovati suburbani si restituirebbero, e che il papa ad essi nominerebbe; che i beni non venduti a loro si restituirebbero, ed i venduti si ricupererebbero; che i vescovi assenti dallo stato Romano si rintegrerebbero nelle loro sedi; che di mutuo consentimento si ordinerebbero i vescovati della Toscana e del Genovesato; si conserverebbero, dove il papa sederebbe, la propaganda, la penitenzierìa, gli archivj; che sua maestà rimetterebbe nella sua grazia quei cardinali, vescovi, preti, e laici, che ne erano caduti; che s'intenderebbe, che il santo padre consentiva ai sopra narrati capitoli a cagione dello stato attuale della chiesa, e della speranza datagli dall'imperatore, che soccorrerebbe con la sua potente protezione ai numerosi bisogni che stringevano la religione nei tempi presenti. La sede futura del papa lasciossi in pendente; chi parlava di Avignone, chi di Roma. Se in questo trattato, oltre le concessioni ottenute, il papa ricuperò, come pare verisimile, per un capitolo segreto, la sua Roma, ei sarà manifesto che il carcerato vinse il carceratore. Affrettossi Napoleone di pubblicare l'accordo di Fontainebleau, e ne levò anche, sapendo di quale importanza fosse, un gran grido. Querelossi il pontefice della affrettata pubblicazione gravemente perchè avrebbe voluto, che allora solamente fosse pubblicato quando avesse avuto in ogni parte la sua esecuzione.

La benignità della stagione permetteva oggimai il guerreggiare: Napoleone, fatta con gran prestezza una nuova congregazione di soldati, e promettendosi più che mai del futuro, ricompariva forte ed audace sui campi Germanici. Combattè i Russi, combattè i Prussiani in duri incontri; combattè anche con estremo valore gli Austriaci voltatisi contro di lui per gli sdegni antichi, e per le disgrazie nuove. Ma la rotta di Lipsia pose fine alla sua potenza: la Germania intera, mutato procedere con la fortuna, corse con impeto infinito a libertà: i popoli Alemanni facevano a gara in quest'impresa, che santa chiamavano, e coll'armi in mano delle lunghe ingiurie si risentivano. Le Francesi terre sole furono ricovero al vinto Napoleone. Così il lungo fastidio dell'imperio Napoleonico, e lo sdegno universale avevano tolto di mezzo le difficoltà, che altre volte avevano disturbato il desiderio comune. Una gran tempesta cambiatrice di destini sovrastava all'Italia. Aveva Napoleone, che non si era punto ingannato dell'avvenire, mandato il principe Eugenio in Italia, perchè ordinasse le cose alla imminente guerra. Era il principe veduto con qualche amore dai popoli del regno, non che si mostrasse acceso nel desiderio dell'independenza, che anzi in questo era assai docile nel servire alla volontà del padre, ma perchè era di natura facile e temperata. Pure in quest'ultimo caso tanto si mostrò acerbo nell'eseguire il mandato di Napoleone, sì nel far correre i soldati delle nuove leve, sì nel riscuotere i denari dai popoli, che l'amore convertissi in odio. Prima però di narrare i successi dell'armi in Italia, è mestiero descrivere i maneggi politici, che specialmente rispetto a lei si trattavano in questi tempi. Primieramente quando ancora Napoleone era a Dresda, gli alleati, ai quali l'Austria già si era accostata, gli proponevano che restituisse le provincie Illiriche, che ristorasse a libertà le città anseatiche, che consentisse a nominare, d'accordo con gli alleati, sovrani independenti pei regni d'Italia e d'Olanda. Domandavano altresì, che evacuasse la Spagna, e rimandasse il papa a Roma: susseguentemente credendo, che per le rotte avute si fosse renduto più facile alla concordia, il richiedevano, senza però, che questa fosse condizione indispensabile, che rinunciasse alla confederazione Renana, ed alla mediazione della Svizzera. Quello spirito altiero, che sempre si empiva di pensieri vani, e presumeva della sua fortuna sopra il consueto degli uomini ragionevoli, non volle piegar l'anima; risolutamente ricusò le proposte. Quanto all'Italia, corse fama che i confederati, non avendo potuto persuadere il desiderio loro a Napoleone, si voltassero a tentar l'animo d'Eugenio vicerè, offerendogli di riconoscerlo re del regno d'Italia, se volesse congiungersi con loro ad impresa comune per la liberazione d'Europa: cosa, che il principe non avrebbe potuto fare senza voltar le armi contro la Francia, e contro il padre. Vogliono che Eugenio rispondesse, non esser padrone di se medesimo, non avere la potestà sovrana; solo essere delegato e mandatario, non potere senza taccia d'infamia, non che accettare, udire le proposte; non avrebbero gli alleati nè stima nè fede in lui, se a quello che da lui richiedevano acconsentisse. Se fu vera, bella risposta fu certamente questa, e se Eugenio avesse perseverato sino alla fine nella medesima illibatezza di posporre l'utile all'onesto, non potrebbero i posteri dargli biasimo d'importanza.

Ma peggiorando vieppiù per la rotta di Lipsia le condizioni dell'imperator Napoleone in Germania, Eugenio cominciò a pensare ai casi suoi, e procedendo con dubitazione, frutto o della lunga servitù, o di disegni più cupi, o di affezione verso Francia, metteva fuori parole che dinotavano in lui la volontà di abbracciar l'independenza: essere cambiati i tempi, spargevano i suoi più fidi; dover essere l'Italia independente, ma unita a Francia, non unita ad Austria, non ad Inghilterra; ciò volere, ciò desiderare Napoleone; salvassersi le sorti di Francia, fossero quelle d'Italia quali e quante dovevano essere. Napoleone tocco da sventura, non essere più Napoleone trionfatore; lui la prosperità avere fatto rigido signore dei popoli, lui l'avversità fare spontaneo comportatore di libertà; pigliassero gl'Italiani quella occasione, che la fortuna offeriva loro di vendicarsi a libertà sotto il potente e temperato dominio della Francia.

Spaziavano poscia i fomentatori di questi pensieri sull'odioso, come dicevano, dominio dell'Austria; venirne l'Austria con brame di vendetta, venirne con fini d'assoluta potenza; il lungo dominio avere immedesimato col nuovo governo le persone e gl'interessi; non potere questa comunanza rompersi, il che l'Austria farebbe, senza infiniti dolori e ruine; altra essere la natura dei Francesi, altra quella dei Tedeschi; quella più uniforme agl'Italiani, questa più disforme; del resto, potere gl'Italiani stare, se l'independenza fondassero, senza i Francesi; il dominio Austriaco nel regno non potersi fondare senza la presenza dei soldati: eleggessero gl'Italiani tra lo essere stato proprio, o provincia altrui: quei magnifici palazzi novellamente sorti, quei valorosi soldati sì numerosamente formati, quei magistrati sì indissolubilmente radicati, quelle abitudini sì generalmente allignate, quel nome d'Italia sì lungamente in fronte portato, assai indicare che proprietà di se, non d'altrui, che insegne libere, non serve, che denominazione propria, non forestiera, doveva il regno, doveva l'Italia avere, nè comandare agl'Italiani altri che gl'Italiani: essere Eugenio, non Italiano di nascita, ma Italiano di elezione e d'affetto: offerirsi parato a fare quanto in lui fosse per dimostrare ai popoli, quanto la libertà, e l'independenza loro amasse, purchè in termini non pregiudiziali a Francia si consistesse: essere in lui sperienza di stato, sperienza d'armi, età giovenile, ma matura, corpo forte ed esercitato; le moleste cose averle volute Napoleone rigido, le dolci lui; e chente fosse il principe, averlo dimostrato con quella sua risoluzione stessa di conservarsi fedele nell'avversa fortuna a colui dal quale era stato innalzato nella prospera.

Queste insinuazioni dei fidati di Eugenio producevano pochi effetti, perchè i contrari al nuovo stato non si lasciavano svolgere, massimamente nell'imminenza dei pericoli presenti, i favorevoli poco confidavano nelle promesse Francesi. Costoro vedevano occupare tuttavia il primo luogo nella grazia del principe, intromettersi nei consigli più segreti, e l'autorità solo arrogarsi coloro, che nella servitù verso Napoleone più erano stati sprofondati, che al nome d'independenza sempre si erano spaventati, che delle più dure deliberazioni, e dei più rigidi comandamenti dell'imperatore e re erano stati i principali autori, ed i più attivi esecutori. Sapevano ch'essi erano sempre stati consigliatori di amare risoluzioni contro coloro, che per generosità d'animo, e per amore di franchigia, della lor patria altamente sentendo, erano divenuti sospetti: l'aver pruovato il loro giogo acerbo nuoceva alla causa che pretendevano. Due uomini principalmente erano venuti in odio dei popoli nel regno Italico, il conte Prina, ministro delle finanze, carissimo a Napoleone per la sua natura sottile ed inesorabile nel riscuoter le tasse, ed il conte Mejean, segretario del principe, uomo di tratto cortese e soave, ma che, come di scuola Napoleonica, credeva, che a voler che gli uomini siano bene governati, convenga metter loro un duro freno in bocca. Questi discorsi davano grandissimo nocumento alle cose del vicerè: alcuni però speravano, che, rimossa quella mano di Napoleone dalle viscere del regno, si avessero anche a rimuovere quei due consiglieri acerbi, e ad avere più in considerazione i consigli di quelli, che più amavano la moderazione e la libertà d'Italia. Tanto poi si era fatto per l'attività del vicerè, che si era creato un esercito giusto, composto parte di Francesi raccolti dai presidii e dagli scritti dell'Italia Francese, parte di soldati del regno, alcuni veterani, molti novelli. Il vedere queste genti dava qualche sicurtà ai popoli, se non di vincere, almeno di negoziare, e non si disperava dello stato franco. La tempesta intanto di verso il mare, e di verso il Tirolo e l'Illirio si avvicinava.

Eugenio confermandosi più l'un dì che l'altro ne' suoi disegni e nelle sue titubazioni e vacando sempre ai negozi cogli antichi consiglieri, aveva dato ordine al suo ministro di polizia, che scrivesse una circolare a tutti i prefetti, esortandogli a far sorgere destramente nei popoli il pensiero, che fosse arrivato il tempo di fondar l'independenza: insinuassero altresì, ch'egli si sarebbe fatto capo dell'impresa, e che Napoleone imperatore l'avrebbe veduta volentieri. Ma poscia, avendo paura di se stesso, e temendo che il moto, che si voleva suscitare, tornasse in pregiudizio della Francia, diede ordine che le lettere s'intrattenessero. Così tra il volere e il disvolere non riusciva a nulla, non accorgendosi che chi si mette a simili imprese, non solamente non può regolarle a volontà sua, ma non deve nemmeno curarsi che a volontà sua si possono regolare. A volere fondar la franchezza d'Italia, che era un fatto grandissimo, e' bisognava volerla senza mescolanza di altro affetto, e il voler serbare fedeltà a Napoleone ed a Francia, quando il fine della liberazione d'Italia esigesse altri pensieri, se era cosa onorevole, era certamente puerile. A chi si getta a questi partiti straordinarj è d'uopo il non pensare alle indiavolate cose che ne possono seguire. Odo che si dice, che a queste cose gli uomini onesti non possono consentire. A questo sto cheto; solo dico, che, se così è, gli uomini onesti non si debbono gettare a tali partiti, e nemmeno far vista di volervisi gettare. Questo poi so di certo, che Eugenio, o fosse onestà, o fosse mancanza di cuore, perdè l'impresa.

Giovacchino anch'egli si era travagliato di questa materia, quando ebbe veduto le cose di Napoleone andare in fascio in Germania. Ma varj ed incerti erano i suoi pensieri. Sul principio, quantunque non amasse il vicerè, ed emolasse la sua grandezza, gli aveva mandato proponendo: dividessersi fra di lor due l'Italia, facesserla independente; ch'essi soli, se operassero d'accordo, la potevano preservare dai Tedeschi; che non si sarebbe recato alcun pregiudizio alla Francia, la quale avrebbe avuto l'Italia per alleata. Aggiungeva, che in caso di deliberazione contraria da parte del vicerè, ei sarebbe obbligato di fare quelle risoluzioni che avrebbe stimate più convenienti alla salute sua.

Prestò il vicerè poco orecchio alle proposte del re di Napoli, o che non si fidasse di lui per le antiche emolazioni, o che volesse far da se, o che temesse di pregiudicar Napoleone e la Francia. Caduto Giovacchino dalle speranze di Eugenio, si era deliberato, già insin da quando aveva condotto l'esercito nella Marca d'Ancona, ad appiccare nel regno d'Italia qualche pratica segreta: anzi giungendo i suoi vanti a quei dei Napolitani, pareva che volesse far gran cose. Il generale Pino, antico amico di Lahoz, e soldato di pruovato valore, era venuto in qualche disfavore in corte, sì perchè si sapeva ch'egli era amatore dei viver patrio, sì perchè erano tra lui e Fontanelli, ministro della guerra, emolazioni di fama e di potenza. Vivevasene, dopo le prime battaglie dell'Illirio e del Friuli, che nel seguente libro racconteremo, in condizione privata, alle faccende pubbliche non badando, se non per saperle. Parve stromento opportuno al re di Napoli; il fece tentare; prometteva di condurre i suoi Napolitani all'impresa. Molti entrarono nell'intelligenza. I capi, disperando del vicerè, come troppo Francese, si gettavano alle parti di Giovacchino, il quale come più audace e meno cauto, era capace di fare qualche strepitosa alzata d'insegne. I congiurati tanto operarono, che Pino fu mandato al governo militare di Bologna, luogo atto a poter consuonare coi Napolitani, che, già occupate le Marche, si trovavano vicini.

Mandò Giovacchino un Pignatelli ad abboccarsi con Pino a Bologna. Il richiedeva, che col nome, ed autorità sua, che era grande fra i soldati italiani, ne tirasse a se quanti potesse, ed improvvisamente si scoprisse, quando il re si mettesse a cammino per assaltare l'Italia superiore. Queste trame non si poterono ordire tanto copertamente, che Fontanelli, che già sospettava del governator di Bologna, non ne avesse qualche sentore; perciò diede lo scambio a Pino. Giovacchino si trovò ingannato della speranza concetta di fare un moto nel regno d'Italia malgrado del principe vicerè. Andossene Pino a Verona, dove il principe, quando fu risospinto dai confini per le armi Austriache, aveva ridotto i suoi alloggiamenti. Veduto con poca lieta fronte dal principe, anzi interrogato, come sospetto, dal ministro di polizia Luini, se ne venne molto di mala voglia, e dimostrando dispiacenza grandissima, a Milano. Quivi visse privatamente, ed anche oscuramente sino alla commozione, che terminò con funesto fine un regno più lietamente incominciato. Giovacchino si gettava alla parte dell'Austria.

Le armi potenti seguitavano le macchinazioni impotenti. Aveva l'imperatore Francesco, che con grandissima prontezza si era allestito alla guerra, mandato un forte esercito, in cui si noveravano meglio di sessantamila buoni soldati, ai confini, per modo che cingeva tutto il regno Italico da Carlobado di Croazia insino al Tirolo. Obbedivano tutte queste genti al generale Hiller, uomo di grande sperienza per essere già molt'oltre con gli anni, e vecchio ancora di milizia. Militavano con lui non pochi generali di nome, tra i quali principalmente si notavano Bellegarde e Frimont, capitani esperti nell'Italiche guerre. Mandava fuori Hiller un suo militare manifesto, con cui, descritte primieramente le forze e le vittorie della lega, esortava gl'Italiani a levarsi contro il tiranno a generale liberazione d'Europa conquassata sì lungamente da tanti movimenti, ed a cooperazione dei poderosi eserciti che accorrevano in ajuto loro da ogni banda.

Quest'era il nembo che minacciava il regno Italico dai paesi di Settentrione, e d'Oriente. Vers'ostro i confini non gli erano sicuri; perchè gli alleati, facendo grande fondamento sulle sollevazioni dei popoli, si erano accordati, che, mentre gli Austriaci l'assalterebbero dalla parte loro, gl'Inglesi, o coi soldati proprj, o con soldati di ogni paese, massimamente Italiani raccolti in Malta ed in Sicilia, o finalmente con qualche mano di Austriaci, infesterebbero i due littorali dell'Adriatico, tanto dalla parte della Dalmazia e dell'Istria, quanto da quella d'Italia. Sapevano, che massimamente nella Dalmazia e nell'Illirio s'annidavano male disposizioni contro la dominazione Napoleonica, nella prima per le crudeltà usate da qualche generale, e per la cessazione del commercio, nel secondo per l'antica affezione alla casa d'Austria, e per la superbia di Junot governatore, che già pazzamente vi procedeva prima che pazzo diventasse. Intendevano anche a percuotere nei lidi Italiani, entrando per le bocche del Po, per far diversione in favor dello sforzo principale, che calava dalle Alpi Rezie, Giulie, e Noriche. Avevano anche speranza, sebbene il vedessero incerto e titubante, che Giovacchino di Napoli si sarebbe congiunto a loro, sì perchè allora sempre più precipitavano le cose di Napoleone, sì perchè si persuadevano, che avrebbe creduto un gran fatto, che i governi antichi con lui trattassero, lui riconoscessero, ed in luogo di alleato accettassero. Le forze del re di Napoli erano di grande momento all'Austria, perchè andavano a ferire il regno Italico a fianco ed alle spalle, e dove aveva minor difesa; perchè dei futuri casi, nissuno, e nemmeno Napoleone previdentissimo avrebbe potuto immaginare questo, che Giovacchino di Napoli fosse un giorno per muovere le armi contro il regno Italico di Napoleone di Francia.

Nè dovevano restare senza disturbo le sponde del Mediterraneo, perchè gl'Inglesi, essendo oramai certi delle intenzioni di Giovacchino, si proponevano di far impeto con quei loro soldati moltiformi, e racimolati da ogni paese, nella Toscana, provincia che credevano, non senza ragione, avversa al nuovo stato e desiderosa di tornare all'antico. Venivano con loro Bentink e Wilson generale colle loro pubblicazioni di libertà e d'indipendenza, dico Bentink, che intendeva la libertà, ma pendeva al tirato, essendo di natura piuttosto signoreggevole, e Wilson che amava la libertà, ma pendeva al largo, essendo di natura piuttosto tribunizia. Avevano essi trovato non so che bandiere con suvvi scritto il motto Independenza d'Italia, e dipinte due mani che si toccavano in segno d'amicizia e di colleganza. A questo modo suonava d'ogn'intorno un forte nembo al regno Italico, ed a tutta Italia. Le antiche ricordanze dell'Austria, le nuove parole di libertà, l'allettatrice mostra della padronanza propria, gli epifonemi di pace, di concordia, di felicità, le promissioni di tasse temperatissime, e di abolizione delle leve soldatesche si mettevano in opera per far muovere l'Italia; ma gl'Italiani, che già ne avevano vedute tante, non credevano nè agli uni nè agli altri.

Il vicerè forbiva ancor egli le sue armi. Aveva circa sessanta mila soldati, nei quali erano i veterani Italiani venuti di Spagna, i soldati di nuova leva, e la guardia reale Italiana, bella e valorosa gente; sommavano gl'Italiani circa ad un terzo. I Francesi anch'essi, o raccolti prestamente dai presidj, o chiamati dalla Spagna, con celeri passi accorrevano al sovrastante pericolo. Gli partiva in tre principali schiere; la prima, che obbediva a Grenier, aveva le sue stanze sulle rive del Tagliamento e dell'Isonzo, terre tante volte già combattute, e tante volte ancora gloriosamente conquistate dai Francesi; la seconda retta da Verdier alloggiava a Vicenza, Castelfranco, Bassano e Feltre. La terza, quest'era l'Italiana, posava a Verona ed a Padova: la governava Pino, non ancora stato al governo di Bologna. Una parte di lei sotto l'obbedienza dei generali Lecchi e Bellotti era mandata a custodire l'Illirio: la cavallerìa stanziava a Treviso. Per vigilare intanto sugli accidenti del Tirolo, parte che dava grandissima gelosia, una schiera di soccorso alloggiava in Montechiaro: quando poi divenne il pericolo più imminente, fu mandata, sotto il governo di Giflenga, a combattere in Tirolo contro un corpo d'Austriaci condotto dal generale Fenner. Secondavano tutto questo sforzo dalla Dalmazia, ma piuttosto per difendere che per offendere, pel picciol numero dei soldati, i presidj, la maggior parte Italiani, di Zara, Ragusi e Cattaro. Ora, diventando ad ogni momento la guerra più imminente, pensò il vicerè a spingersi più innanzi, andando a porre il campo principale a Adelsberga, terra poco distante dalla sponda destra della Sava sulla strada per a Carlobado di Croazia, e per a Lubiana di Carniola. Al tempo stesso, allargandosi alla sinistra, mandava una forte squadra a custodire i passi di Villaco e di Tarvisio, avendo avuto avviso che Hiller, fatto un assembramento molto grosso a Clagenfurt, minacciava di farsi avanti, sì per isforzare quei forti passi, e sì per condursi, montando per le rive della Drava, alle regioni superiori dell'affezionato Tirolo.

Quest'era l'ultima fine della tragedia che si rappresentava da venti anni addietro, toltone pochi intervalli pieni ancor essi, se non di sangue, almeno di rancori, e di minacce, e d'ambizione, nella dolorosa Italia. Straziata dagli uni, straziata dagli altri, tutti pretendevano promesse di felicità per lei; e peggio, che l'una parte e l'altra si lamentavano ch'ella non si muovesse a favor loro, come se fosse obbligo di lei di rendere amore per dolore. Ora infine si aveva a definire a chi dell'Austria o della Francia dovesse rimanere l'imperio d'Italia; se dovessero prevalere le nuove o le antiche sorti; se il dominio acerbo di Napoleone si dovesse mitigare o no; se l'Austria tornasse a Milano mansueta, come n'era partita, o se sdegnosa per le ingiurie; se Francia od Austria dovessero far dimenticare con le dolcezze di pace le insolenze e le rapine di guerra; se venti anni di novità dovessero o produrre secoli simili a loro, od immergersi, senz'altri segni che quelli delle storie, nel corso rintegrato dei secoli consueti; se a favellar Francese o Tedesco dovessero apparar gl'Italiani; se finalmente le parole soavi, che si dicevano agl'Italiani, fossero per loro o pei padroni; che l'allettare i popoli colle lusinghe per soggettargli fu sempre, ma più nei nostri tempi che in altri, astuzia di coloro che intendono ad appropriarsi l'altrui.

LIBRO VIGESIMOSETTIMO

SOMMARIO

Gli Austriaci condotti da Hiller cingono con forze potenti tutto il regno Italico. I Dalmati ed i Croati insorgono contro i Francesi. Eugenio si tira indietro. Battaglia di Bassano. Eugenio sull'Adige. Mala soddisfazione dei generali e soldati Italiani verso di lui. Nugent coi Tedeschi romoreggia alle bocche del Po. Giovacchino si scopre contro Napoleone e fa guerra al regno Italico. Battaglia del Mincio tra Eugenio e Bellegarde. Bentink sbarca a Livorno, parla d'independenza agl'Italiani, prende Genova, e promette ai Genovesi la conservazione dello stato. Sopraggiungono novelle funestissime per Napoleone; avere i collegati occupato Parigi, lui essere ridotto colle reliquie de' suoi battaglioni in Fontainebleau, avere rinunziato, avere accettato per ultimo ricovero l'Elba isola. Eugenio pattuisce con Bellegarde, e si ritira in Baviera. Stato degli spiriti in Milano. Tutti vogliono l'independenza, ma chi con Eugenio re, chi con un principe Austriaco. Discussioni nel senato in questo proposito. Sommossa popolare; il senato è disciolto; si convocano i collegi, che creano una reggenza, e mandano deputati a Parigi all'imperator Francesco per domandar l'independenza con un principe Austriaco. Esito della loro missione. Genova data al re di Sardegna. Conclusione dell'opera.

Gli Austriaci cignendo con largo circuito tutta la fronte dell'esercito Italico, avevano un grandissimo vantaggio, il quale ed all'occorrenza presente, ed alla natura loro sempre circospetta molto bene si conveniva. Sicura era la loro ala destra pei fatti succeduti in Germania, ed ultimamente per l'adesione della Baviera alla lega dei principi uniti contro Napoleone. In questo ancora molto momento recavano i Tirolesi pronti ad insorgere contro il nuovo dominio, per modo che l'Austria stessa per rispetto della Baviera, nuovo alleato, era costretta a tenergli in freno, acciocchè non facessero qualche incomposta variazione. Ma la inclinazione loro rendeva sicuro il loro paese alle forze Austriache, e dava sospetto al vicerè, perchè potevano offenderlo a mano manca ed alle spalle. Nè meno avvantaggiata condizione avevano gli Austriaci sulla loro sinistra: posciachè sapevano che le popolazioni Dalmate e Croate, essendo infense ai Francesi ed agl'Italiani loro confederati, erano pronte a sorgere contro i presenti dominatori; popolazioni armigere, e però di non poca importanza, massimamente in una guerra, alla quale i popoli, non che i soldati, si chiamavano. Hiller s'avvisava di condurre per modo la guerra, che facendosi innanzi con le sue ali estreme, mentre il grosso seguitava nel mezzo a seconda, ma più tardamente e più prudentemente, desse continuamente timore al vicerè di essere circuito ed assaltato alle spalle. Questa forma di guerreggiare doveva necessariamente far prevalere la fortuna degli Austriaci, perchè procedendo cautamente nel mezzo, non davano agli avversarj occasione di venire ad una battaglia campale, dalla quale solamente potevano sperare, se la vincessero, di redimersi da quel pericoloso passo, al quale erano ridotti. Da questo anche ne risultava, che si richiedeva, a voler riuscire a buon fine, nel capitano Francese maggior prudenza che audacia, piuttosto arte di andar costeggiando l'inimico per impedirgli la campagna, e difficoltargli, in quanto si potesse fare senza tentar la fortuna, i passi, che coraggio d'affrontarlo; insomma piuttosto volontà di conservar l'esercito intatto, in qualunque luogo ei si fosse, che desiderio d'avventurarlo, perchè in lui, non nei paesi occupati, consisteva la salute, o se non la salute, almeno le condizioni più onorevoli del regno. Ma il vicerè, siccome giovane, figliuolo di Napoleone, e tocco ancor egli dal vizio dei tempi, cioè di far chiaro il suo nome con fatti sanguinosi, disprezzando il consiglio più salutifero, amò meglio fare sperienza della fortuna, consumando inutilmente i soldati in piccole fazioni, che poco o nulla importavano alla somma della guerra, che fuggendo l'occasione di combattere, ritirargli intieri a' luoghi più sicuri, ed interi ancora conservargli insino a che la fortuna avesse definito, che cosa volesse farsi di Napoleone in Germania ed in Francia. Quel sangue Francese ed Italiano, sparso nell'ultima Croazia e nell'estrema Carniola, accusano Eugenio o d'ambizione, o d'imperizia, o d'imprudenza.

Correvano i Dalmati, inclinava verso il suo fine agosto, contro i presidj, i Croati contro gl'Italiani. Zara, Ragusi e Cattaro tenuti da deboli guernigioni, romoreggiando nimichevolmente i popoli d'intorno, e tenendo infestata la campagna, cedettero facilmente. Una presa di Croati, avvalorata da qualche battaglione d'Austriaci, urtando contro Carlobado, facilmente se ne impadroniva. Gli Austriaci ed i Croati più oltre procedendo, s'insignorirono di Fiume, ritiratosene il generale Janin, impotente al resistere. I Croati, che erano stati arruolati sotto le insegne Francesi, dai loro signori segregandosi, ritornavano alle antiche insegne d'Austria. Mentre a questo modo felicemente si combatteva per gli Austriaci verso l'Adriatico, mandavano pel corso della superiore Drava grossi squadroni verso il Tirolo sotto la condotta di Fenner. Giunti a Brissio scendevano per le rive dell'Adige, con intento di andar a battere nelle Veronesi e nelle Bresciane regioni. Al tempo stesso si veniva alle mani sul mezzo: fu preso e ripreso Crinburgo con molto sangue da ambe le parti. In questi fatti mostrò molt'arte e molto valore Pino, molto valore e poca arte Bellotti: combattè felicemente il primo a Lubiana, infelicemente il secondo a Stein. Sorse un gravissimo contrasto a Villaco, donde gli Alemanni volevano aprirsi l'adito al passo di Tarvisio per scendere a seconda della Fella nel cuore del Friuli. Erano i Francesi accorsi al pericolo, e dopo un feroce combattere, in cui la città fu presa e ripresa parecchie volte, e finalmente arsa per opera dei Tedeschi, restarono vincitori: corse il vicerè con molta virtù in soccorso della città consumata. Gli Austriaci, seguitando il consiglio loro, si allargavano sulle corna. Trieste, preso e ripreso più volte, venne in potestà loro; già tutta l'Istria loro obbediva. Dalla parte superiore precipitandosi dalle Alpi Tirolesi minacciavano di far impeto contro Belluno, e più alle spalle le armi loro suonavano nelle regioni vicine a Trento. Conoscendo ed usando il vantaggio, avevano passato la Sava a Crinburgo ed a Ramansdorf, per dove facevano sembianza di condursi, per Tolmino, nelle regioni superiori del Friuli. Anche contro Villaco preparavano un grande assalto.

Non era più in potestà del vicerè il resistere, ed appariva che se più oltre si fosse ostinato starsene sulle sponde della Sava e della Drava, correva pericolo che gli fosse vietato il ritorno. Avevano gli avversarj maggior numero di soldati, ed i popoli amici: erano al vicerè minori forze, ed i popoli avversi. Fermossi prima sull'Isonzo qualche giorno, poscia sulla Piave, combattendo sempre valorosamente, sempre inutilmente. A questo modo l'Illirio, staccato per la forza dell'armi Napoleoniche dal suo antico ceppo d'Austria, se ne tornava per la forza dell'armi di Francesco imperatore alla consueta dominazione. I costumi a niun rispetto si convenivano coi Francesi, poco con gl'Italiani. Oltre a ciò vi aveva Napoleone conservato i dritti feudatarj, dandogli in preda a' suoi soldati, o magistrati più fidi: piacquero a quegli antichi repubblicani, e gli riscuotevano con duro imperio, senza lasciar neppure scattar un soldo.

Le stanze della Piave non si potevano conservare. Già gli Austriaci scesi a Bassano sotto la guida del generale Eckard vi avevano fatto una testa grossa, ed insistendo alle spalle davano timore di estrema rovina al vicerè, se presto non si ritirasse. Quivi comparve evidente l'imprevidenza del principe del non essersi ritirato più maturamente; perchè per avere la ritirata sicura, fu costretto di combattere a Bassano una battaglia molto grave. Durò due giorni, il trentuno ottobre ed il primo novembre. Rifulse in questo fatto egregiamente il valore di Grenier. Vinse la fortuna Francese ed Italiana. Entrarono i vincitori, e pernottarono nella sanguinosa città. Perdettero i Tedeschi circa un migliajo di soldati, nè fu senza sangue la vittoria agli Eugeniani, perchè i Tedeschi combatterono acerbamente. Acquistò Eugenio facoltà di ritirarsi più quietamente sull'Adige: marciava indietro, parte per Padova, parte per Vicenza, andando ad alloggiarsi a Verona, ed a Legnago. In mezzo a questa ritirata, grave in se stessa, e che portendeva cose ancor più gravi, perchè già più della metà del regno Italico era signoreggiata dalle armi Austiache, i soldati Francesi ed Italiani, ma più i primi che i secondi, si portarono molto lodevolmente, astenendosi dalle rapine e dagli oltraggi; procedere tanto più da commendarsi, che la maggior parte credevano, che più non sarebbero tornati là, donde venivano. Nè è da tacersi, che i Tedeschi a questo tempo stesso, se si eccettuano le parti rannodate, in cui erano preste le munizioni, vivevano di rapina, ora qua ora là scorrazzando, secondochè gli portava o la necessità della guerra, o la cupidità del sacco; frutti tante volte calpestati della feconda Italia, tante volte riprodotti, tante volte ricalpestati. Resta, che siccome la sua bellezza e fertilità destano gli appetiti forestieri, desiderino gl'Italiani, che ella fera e selvaggia diventi; perchè forse i deserti preserveranno quello, che l'innocenza non preserva.

Sulle Veronesi sponde incominciavano a manifestarsi fra gl'Italiani mali semi contro il vicerè; colpa piuttosto sua che di loro. Eugenio o che prevedesse dai nugoli minacciosi che giravano attorno, che più gli convenisse mostrarsi Francese che Italiano, o che troppo facili orecchie prestasse ad alcuni, che presso a lui in molta grazia e suoi consiglieri più intimi essendo, intendevano ad innalzar se medesimi a pregiudizio degl'Italiani, si era lasciato uscir di bocca, già insino in Prussia dopo le disgrazie di Russia, parole di cattivo concetto verso i generali Italiani. Nè il suo disprezzo nelle semplici parole contenendosi, era trascorso sino agli atti: delle quali cose tenendosi eglino molto offesi, siccome quelli che erano parati a tollerare alcuna ingiuria o indegnità, massimamente Pino, che siccome di maggior nome, sentiva più vivamente degli altri, avevano appoco appoco sparso una mala contentezza fra i soldati: dal che ne seguivano nel campo sinistre mormorazioni, ed anche atti aperti di sdegno contro il principe. Le disgrazie inasprivano viemaggiormente le ferite in quegli animi fieri e bellicosi. Gl'imputavano il contaminato onore dell'armi Italiane, ed il sangue inutilmente sparso. Già il nome di forestiero, pessimo augurio, nelle bocche dei soldati andava sorgendo, ed i consiglieri detestavano.

Intanto non rimetteva in Eugenio il desiderio di farsi famoso in guerra per battaglie inutili, sangue con fama cambiando. Corse il Tirolo; vi fece fazioni onorate, ma senza frutto: liberò Brescia dal nemico, ma indarno: ruppelo in una grossa e bene combattuta battaglia a Caldiero, ma tornossene poco dopo là, dond'era venuto: il nemico, che era stato rincacciato sin oltre all'Alpone, venne fra breve a rinsultar San Michele di Verona. Appena la fronte dell'Adige, fiume grosso, e munito, sotto dalla fortezza di Legnago, sopra dai castelli di Verona, si poteva tenere: tanto superava pel numero delle genti il nemico. Dal che si conclude con evidenza che era necessità al vicerè, non di assaltare, ma di difendersi, non di uscire dai luoghi sicuri, ma di annidarvisi, non di far guerra viva, ma di temporeggiarsi e di aspettare.

Ogni ruina si accumulava sull'Italia: ecco un secondo nembo approssimarsi al Po, non più pel dominio di Venezia o d'Alfonso, ma per quello di Francia o d'Austria; nè questo nembo fia l'ultimo da raccontarsi, ancorchè sia prossimo il fine della mia tragedia. Aveva il generale Austriaco Nugent combattuto virilmente in Croazia ed in Istria, contro gl'Italiani che occupavano quella parte del regno. Ma quivi ogni cosa era oggimai divenuta sicura a lui, sì per la ritirata di Eugenio, come perchè le fortezze di Lubiana e di Trieste si erano arrese all'armi Tedesche. Sola restava dell'antico Austriaco, o Veneziano dominio in mano del vicerè la città di Venezia. Per la qual cosa Nugent, preso ordine con Bellegarde, chiamato generalissimo in Italia in luogo di Hiller, e messosi sulle navi a Trieste, era venuto sbarcare a Goro con una grossa mano d'accogliticci, Inglesi, Istriotti, Croati, e fuggitivi Italiani. Nè volendo indugiare, perchè sapeva che il tempo è nemico degli assalti inopinati, si spingeva tostamente innanzi, e s'impadroniva di Ferrara, abbandonata dai pochi difensori che vi erano dentro. Quivi correva il paese co' suoi soldati leggieri, chiamando in ogni luogo i popoli a sollevazione. L'importanza del fatto era, che si congiungesse con le schiere d'Austria, che, venute col grosso dell'esercito, già si erano condotte a Padova. A questo fine, Nugent, passato il Po con una parte de' suoi, e preso alloggiamento in Crespino, si era accostato all'Adige. Dall'altro lato Bellegarde, per consentire coi movimenti di Nugent, aveva avviato a Rovigo una presa di tremila soldati sotto la condotta del generale Marshall.

Come prima il vicerè ebbe avviso del tentativo di Nugent, aveva speditamente mandato un corpo sotto il governo del generale Decouchy a Trecenta, acciocchè facesse opera d'impedire la congiunzione delle due squadre nemiche. Al tempo stesso Pino, che governava Bologna, assembrava quante genti poteva, e le spingeva avanti alla guerra Ferrarese. Ripresesi Ferrara, ma indarno, per gli accidenti che seguirono. Aveva bene Decouchy, fortemente combattendo, cacciato Marshall da Rovigo con non poca strage, e costretto a ritirarsi al ponte di Bovara Padovana. Ma gli Austriaci continuamente ingrossavano coll'intento di congiungersi con Nugent, che tuttavìa era in possessione di Crespino. Mandava perciò il vicerè nuovi ajuti col generale Marcognet verso il basso Adige, acciocchè cooperassero al fine comune con Decouchy. Uscirono i Tedeschi da Bovara Padovana: Decouchy e Marcognet gli assaltavano. Sorgeva un'ostinata zuffa: combatterono i Francesi felicemente a destra, infelicemente a sinistra: si ritirarono i Tedeschi nel loro sicuro nido di Bovara Padovana; ma colto il destro, che offerivano loro la notte e la mala guardia a cui stavano i Francesi, con un impeto improvviso gli ruppero; e gli costrinsero a ritirarsi, prima a Lendinara ed a Trecenta, poi a Castagnaro. Riacquistarono Rovigo: fu tolto ogni impedimento alla congiunzione di Nugent e di Marshall. Nugent, fatto sicuro per la congiunzione, s'incamminava a Ravenna, e da Ravenna a Forlì. Usava le armi, usava le instigazioni. «Assai, scriveva agl'Italiani, assai foste oppressi, assai posti ad un giogo insopportabile: ora più liete sorti vi aspettano; restituite coll'armi in mano la patria vostra: avete tutti a divenire una nazione independente». Poi faceva un gran romore con promettere, che non si scriverebbero più gli annuali soldati, che le consumatrici tasse si allevierebbero. Intanto i suoi saccheggiavano aspramente il Ferrarese ed il Bolognese, poco lieto principio all'independenza, che si prometteva.

Ora un nuovo inganno, ed una terza illuvie hommi a raccontare; ma questi furono di un Napoleonide. Trovavasi Giovacchino di Napoli molto perplesso, e siccome le novelle di Germania, di Francia e d'Italia giravano fauste od infauste, si appigliava a questa parte od a quella, a questo partito od a quell'altro. Molto in lui poteva il desiderio di conservare il suo reale seggio, molto la paura di Napoleone. Perciò procedendo con la sua naturale varietà, aveva negoziato, come già abbiam descritto, ora coll'Austria, ora con Bentink, ora con Eugenio, qualche volta con tutti insieme, nè s'accorgeva che tutti il conoscevano. Intanto, già sicuro dell'Austria e dell'Inghilterra, ma non ancora sicuro di se medesimo, si avviava verso l'Italia superiore. Già occupava Roma, già occupava le Marche, nè ancora l'animo suo scopriva. Pretendeva parole d'amicizia verso il regno Italico. Le casse del regno, contro il quale si apprestava a muovere le armi, sotto spezie di amicizia, addomandava, e gli si aprivano, e vi attigneva denari; richiedeva il regno di vettovaglie, di vestimenta, di armi, ed il regno gliene somministrava. Lasciato passare in Ancona ed in Roma amichevolmente dai presidii Francesi, gettava gioconde e pacifiche parole di Francia, e di Napoleone. Non so a che cosa pensasse: ma certamente la dissimulazione era grande, e peggiore anche del fine che si proponeva. Infine veduta la ritirata del vicerè, udite le novelle dell'avvicinarsi i confederati molto grossi al Reno per invadere la Francia, ed aspettato Bentink oramai vicino a tempestare in Toscana, rimossa finalmente ogni dubitazione, si risolveva a scoprirsi del tutto, ed a fare quello che il mondo non avrebbe potuto pensare, e di che si perturbò più di ogni altra cosa Napoleone. Fermava i suoi casi coll'Austria, stipulando con lei un trattato, per cui l'imperatore Francesco si obbligava a mantenere in Italia, insino a che durasse la guerra, almeno cinquantamila soldati, ed il re Giovacchino a mantenerne almeno ventimila, con ciò promettevano e s'obbligavano entrambi ad operare d'accordo, e ad accrescere il numero delle rate rispettive, se bisogno ne scadesse; oltre a ciò Francesco guarentiva a Giovacchino ed ai suoi eredi la possessione dei dominj attualmente tenuti da lui in Italia, e prometteva d'intromettersi, come mediatore, affinchè gli alleati si facessero sicurtà della medesima possessione.

Bellegarde annunziava pubblicamente agl'Italiani la congiunzione di Giovacchino colla lega, ammonendoli delle perdute speranze dei Napoleonici. Giovacchino scoprendosi nemico in quei paesi, dov'era entrato e stato accolto come amico, sforzava il generale Barbou, che custodiva in nome di Francia la fortezza d'Ancona, e Miollis, che teneva Castel Sant'Angelo, alla dedizione. Tutto lo stato Romano veniva all'obbedienza dei Napolitani, i quali, e Giovacchino con loro, ora del papa favellando, ed ora dell'independenza d'Italia, non sapevano ciò che si dicevano. Bene ovunque passavano ogni cosa rapivano, ripassata seconda pei miseri Ferraresi e Bolognesi. I vanti poi che si davano, e le millanterìe che facevano, erano grandi.

Il primo ad uscir fuori fu il re medesimo con dire ai suoi soldati, avvertissero bene, che insinoachè egli aveva potuto credere che Napoleone imperatore combatteva per la pace e per la felicità della Francia, aveva a favor suo combattuto: ma che ora si era chiarito di tutto, e che bene sapeva che Napoleone non voleva altro che guerra; che tradirebbe gl'interessi della sua antica patria, quei de' suoi stati, quei de' suoi soldati, se tosto non separasse le sue armi dalle Napoleoniche, se non le congiungesse a quelle dei principi intenti con magnanimo disegno a restituire ai troni la loro dignità, alle nazioni la loro independenza: due sole bandiere esservi, ammoniva, in Europa; sull'una leggersi le parole religione, costume, giustizia, moderazione, leggi, pace, felicità; sull'altra persecuzioni, artifizj, violenze, tirannide, guerra, e lutto di famiglie, scegliessero. Queste cose diceva Giovacchino Napoleonide. Carascosa, Napolitano generale, arrivando a Modena, più enfaticamente parlava agl'Italiani: prometteva loro independenza a nome di Giovacchino, che già era accordato coll'Austria per ajutarla a soggettare il regno Italico.

Le forze preponderanti di Bellegarde, i progressi di Nugent sulla sponda destra del Po, lo accostamento del re di Napoli alla lega, e la presenza delle sue numerose schiere nel Modenese, toglievano al vicerè ogni possibilità di conservare gli alloggiamenti dell'Adige. Fatti pertanto gli apprestamenti necessarj, si tirava indietro e andava a porsi alle stanze assai più sicure del Mincio. Il dì otto febbrajo usciva ottimamente ordinato a campo per combattere in una campale battaglia Bellegarde. La principale schiera, in cui risplendeva la guardia reale, sortendo da Mantova, s'incamminava alla volta di Valeggio: la cavallerìa, traversato il fiume a Goito, accennava a Roverbella, e perchè il nemico fosse anche infestato alle spalle, il generale Zucchi colle genti più leggieri muoveva i passi verso l'isola della Scala. Per non lasciare poi libero campo a Bellegarde dalla parte superiore, il vicerè ordinava a Verdier, che congiuntosi prima con Palombini, varcasse il Mincio a Mozambano, e gisse ad urtare il nemico a Valeggio. Ognuno passato il fiume, correva ai luoghi destinati, quando la fortuna per un accidente improvviso ridusse il disegno bene ordinato ad un moto disordinato. Nel momento stesso in cui Eugenio si proponeva di assalire Bellegarde sulla sinistra del Mincio, si era Bellegarde risoluto ad andare a trovare Eugenio sulla destra. Dal quale impensato accidente nacque, che il vicerè, in luogo di trovare tutto l'esercito nemico a Roverbella, non ebbe più a combattere che col suo retroguardo, per modo che la vanguardia Francese era venuta alle mani col retroguardo Tedesco. Appoco appoco, e l'una dopo l'altra tutte le schiere delle due parti, sì quelle che avevano passato, come quelle che erano rimaste sulla sinistra, ingaggiavano la battaglia; combattevano furiosamente. Avevano i Francesi e gl'Italiani il vantaggio; ma per poco stette, che una rotta di cavallerìa dalla parte loro non mandasse le cose alla peggio. Pure, fatto un nuovo sforzo, si rannodavano, e si pareggiò la battaglia. L'esito fu, che Bellegarde fu costretto a tornarsene sulla sinistra del Mincio, ma intero e ristretto; il che obbligò anche il vicerè a ritirarsi tutta la sua forza sulla destra.

Intanto Eugenio si accorgeva, che non era più in sua facoltà d'indugiar a soccorrere alle cose di oltre Po, che per l'invasione dei Napolitani diventavano ogni ora più difficili. Aveva già provveduto che con qualche maggiore fortificazione si munisse Piacenza, alla guardia della quale aveva preposto con soldati di nuova leva, e con qualche veterana banda Italiana i generali Gratien e Severoli. Ma aggravandosi il pericolo vi mandava con qualche ajuto di nuove genti Grenier, nella perizia del quale consisteva massimamente la condotta, e la somma della guerra in quegli estremi momenti. Formava l'antiguardo del nemico Nugent co' suoi Tedeschi, Istriotti ed Italiani; il retroguardo Giovacchino co' suoi Napolitani. Come prima Grenier arrivava, rincacciava con forte rincalzo all'ingiù Nugent, e lo sforzava a tornarsene più che di passo al Taro. Quivi, essendo sopraggiunti i Napolitani, faceva vista di volersi difendere, ma tanto fu audace e destro Grenier, che, passato in tre luoghi il fiume, di nuovo sforzava gli avversarj alla ritirata sino all'Enza. Nugent però, sperando di arrestare l'impeto di Grenier, si era fermato con tremila soldati a Parma. Il Francese, urtando la città da ogni parte, vi entrava per viva forza, ritirandosene a tutta fretta colla minor parte de' suoi soldati il Tedesco. Combattessi in questo fatto molto aspramente a ferro ed a fuoco, con gran terrore dei cittadini. Il re di Napoli, tornato più grosso, e sforzato finalmente il passo del Taro, già s'avvicinava a due miglia a Piacenza. Quivi l'arrestavano, non la forza degli avversarj, ma più alte e più strepitose sorti.

Pellew e Bentink comparivano in cospetto di Livorno: avevano molte e grosse navi con seimila soldati da sbarco, Italiani, Siciliani, Inglesi. Il governatore vuotò la città per patto: vi entrarono gl'Inglesi il dì otto marzo. Suonavano le armi, suonavano le parole, si scrivevano i manifesti, si sventolavano le bandiere dell'Italiana independenza. Bentink in questo si mostrava molto acceso, Wilson il secondava.

Bentink a questo modo parlava con pubblico manifesto agl'Italiani: «Su, diceva, Italiani, su; ecco che siam qui per ajutarvi; ecco che siam qui noi per levarvi dal collo il fero giogo di Buonaparte. Dicanvi il Portogallo, la Spagna, la Sicilia, la Olanda quanto a generosità intenda l'Inghilterra, quanto l'interesse non curi. Libera è la Spagna pel suo valore, libera per l'assistenza nostra. Per l'uno e per l'altra ella condusse a fine un'opera fra le belle bellissima. Cacciato dai felici suoi campi il Francese, fermovvi la sua sede l'independenza, fermovvela la libertà. Sotto l'ombra dell'Inghilterra fuggì la Sicilia le comuni disgrazie; poscia per beneficio di un giusto principe da servitù a libertà passando, ora dimostra quanto un vivere non soggetto, a gloria ed a felicità conferisca. L'Olanda ancor essa intende a libertà. Or sola l'Italia rimarrassi in ceppi? Or soli gl'Italiani le sanguinose spade gli uni contro gli altri volteranno per fare che la patria loro sia serva di un tiranno? A voi spezialmente questo discorso s'indirizza, o guerrieri dell'Italia, a voi, in cui mano ora sta il compire la generosa impresa. Questo da voi non si chiede, che a noi venghiate: solo le voci nostre vi ammoniscono, che i vostri diritti rivendichiate, che a libertà vi restituiate. Applaudiremo lontani, accorreremo chiamati, e se le vostre congiungerete alle forze nostre, fia che l'Italia risorga alle sue antiche sorti, fia che di lei suoni quant'ora della Spagna suona». In questa forma l'Inglese allettava gl'Italiani: drappellava intanto le insegne delle mani giunte, sperando con queste parole e dimostrazioni di far muovere i popoli.

Ma siccome quegli che era uomo audace ed operoso, tosto giungeva alle parole i fatti. Ebbe avviso a Livorno, che Genova si guardava solamente da duemila soldati. Parvegli occasione propizia, perchè era sito di unica importanza, sì per la sua grandezza, sì per la comodità dei porto, e sì per l'agevolezza che acquista chi ne è signore, di scendere nelle pianure del Piemonte e della Lombardìa. Inoltre abbondava di armi e di munizioni navali. Pertanto Bentink si accingeva ad espugnarla. Suo pensiero era di mandar le fanterìe per le strade difficili del littorale, le munizioni pei bastimenti sottili, le armi e gl'impedimenti più gravi per le navi grosse. Giunto a Sestri di Levante, udiva che nuovo soccorso era entrato per custodir Genova, per forma che il presidio sommava a seimila soldati, presidio insufficiente alla vastità delle fortificazioni, ma bastante a rendergli molto dura l'impresa: il reggeva Fresia. Si era egli, per opporsi agli sforzi di Bentink, ordinato per modo che distendendosi dai forti Richelieu e Tecla, occupava col centro il villaggio di san Martino, e quindi arrivava colla destra, per uno spazio intricato di giardini e di ville, sino al mare. Non aveva l'avversario speranza di poter impadronirsi della piazza per una lunga oppugnazione con sì pochi soldati: pure molto gl'importava, che, in mezzo a tanti romori, e per non lasciargli raffreddare, Genova si prendesse. Da questo conseguitava, che gli era necessità d'insignorirsene per un assalto vivo. A questo ordinava i suoi, che mostravano un grandissimo ardore, ed una prontezza incredibile a fare quanto egli volesse. Mandava gl'Italiani condotti dal colonnello Ciravegna, soldato pratico ed animoso, che ancor egli sventolava le bandiere dell'independenza, a far opera contro una punta di monte, che sta a sopraccapo ed a fronte del forte Tecla. Spediva un'altra parte degl'Italiani contro il forte Richelieu, mentre un Travera colonnello, dal monte delle Fascie scendendo, con Greci e Calabresi, se ne giva a guadagnare un'eminenza, che al forte medesimo sovrasta. Quest'era lo sforzo che faceva a dritta e nelle parti di sopra; ma sotto e più accosto al mare mandava i fanti Inglesi, sotto la condotta dei generali Montresor e Macfarlane, con ordine di sgombrare, quanto possibil fosse, gl'impedimenti del paese, e di assaltar l'inimico. Succedevano i fatti a seconda de' suoi pensieri. Ciravegna, che combatteva sulla punta estrema a destra, spintosi avanti con singolar valore, cacciava il nemico dall'altura, e s'impadroniva di tre cannoni di montagna, il quale accidente vedutosi dai difensori del forte Tecla, l'evacuarono, in potestà del vincitore lasciandolo. Anche l'eminenza superiore al forte Richelieu fu presa dai Greci e Calabresi. Gl'Italiani ancor essi s'avvicinavano al forte. Non volendo il presidio aspettare l'ultimo cimento, si arrese a patti. Sulla sinistra dei confederati si sostenne la battaglia più lungo tempo, sì per la natura dei luoghi opportuna alle difese, come per la valorosa resistenza dei difensori: pure gl'Inglesi guadagnavano del campo. Finalmente gli assediati, vedendo che per la perdita dei forti Tecla e Richelieu correvano pericolo di esser presi alle spalle, fecero avviso di ritirarsi del tutto dentro le mura, lasciando le difese esteriori in poter dei confederati. Già per opera di Bentink si piantavano le batterìe per fulminare la città. In questo ad accrescere il terrore, arrivava sopra Genova Edoardo Pellew con tutta la sua armata, attelandosi a fronte di Nervi. Ai piccoli cannoni di Bentink si aggiungevano i grossi, e le bombarde di Pellew, per modo che nell'assalto che si vedeva imminente, ogni cosa presagiva un successo prospero a chi assaltava. Si venne in sul convenire: Fresia s'arrese il dì diciotto aprile.

Bentink, acquistata la possessione di Genova, d'allettamento in allettamento passando, faceva sorgere speranze di franco stato nei Genovesi. Forse credeva che i confederati avrebbero avuto più rispetto a questa condizione, se fosse e fatta sperare con parole e cominciata col fatto, che s'ei fosse stato sul severo, e non avesse parlato d'altro che di conquista. Ordinava pertanto un governo preparatorio: voleva ch'egli reggesse i dominj Genovesi secondo gli ordini della constituzione del novantasette, e insino a che si statuissero quelle modificazioni, che l'opinione, l'utilità, lo spirito della constituzione del 1576 richiedessero: che il governo si spartisse in due collegj, come nella forma antica; che durasse in ufficio sino al primo gennajo dell'ottocentoquindici, tempo in cui i collegj ed i consiglj fossero adunati a norma della constituzione. Questi erano i fatti del capitano d'Inghilterra: i motivi poi pubblicamente detti suonavano, che, stantechè i soldati d'Inghilterra retti da lui avevano scacciato dalle terre di Genova i Francesi, e che importava che alla quiete ed al governo dello stato si provvedesse, considerato ancora, che a lui pareva, che universale desiderio della nazione Genovese fosse il tornare a quell'antica forma, alla quale era stata sì lungo spazio obbligata della sua libertà, prosperità e independenza, e considerato finalmente, che a questo fine indirizzavano i pensieri e gli sforzi loro i principi collegati, che ognuno fosse rintegrato ne' suoi antichi dritti o privilegj, voleva, ed ordinava che quello, che i popoli Genovesi desideravano in conformità dei principj espressi dai collegati, si risolvesse in atto e si mandasse ad effetto. Alle quali cose dando esecuzione, chiamava al governo Girolamo Serra in qualità di presidente, e con lui Francesco Antonio Dagnino, Ipolito Durazzo, Carlo Pico, Paolo Girolamo Pallavicini, Agostino Fieschi, Giuseppe Negretto, Giovanni Quartara, Domenico Demarini, Luca Solari, Andrea Deferrari, Agostino Pareto, Grimaldo Oldoini.

Da tutto questo si vede, se i Genovesi non dovevano concepire speranza di conservare l'onorato nome, e l'essere antico della patria loro; o se qualcheduno dalle parole di Bentinck avesse dedotto questo corollario, che Genova avesse fra breve ad esser data in potestà del re di Sardegna, certamente sarebbe stato tenuto piuttosto scemo di mente che falso loico. Ma Castelreagh trovò non so che dritto di conquista, e l'utilità della lega, motivi appunto di senatusconsulti Napoleonici. Bene era spegnere Napoleone, e meglio sarebbe stato il non imitarlo.

Già tutta l'Italia era sottratta dall'imperio di Napoleone: solo restava la parte che si comprende tra il Mincio, il Po e le Alpi. Ma la somma delle cose per lei si aveva piuttosto a decidere sulle rive della Senna, che su quelle del Po. Già sinistri romori si spargevano per Napoleone: poscia le certe novelle arrivavano, essere i confederati, conducendo con esso loro tutto lo sforzo d'Europa, entrati trionfalmente in Parigi, compenso dato da chi regge il cielo a chi regge la terra delle conquistate Torino, Napoli, Vienna, Berlino e Mosca. Era oltre a ciò vociferazione in ogni luogo, che Napoleone errasse colle reliquie dell'esercito per le Sciampagnesi campagne. A ciascuna ora a cose immense aggiungeva la fama cose immense; nè ugual peso di umane moli si era agitata nel mondo, dappoichè Scipione vinse Annibale, Belisario Totila, Carlo Martello i Saraceni, Subieschi i Turchi. Poco stante si udiva, restituirsi i Borboni in Francia, Napoleone ridotto in Fontainebleau rinunziare all'imperio, dire l'ultimo vale a' suoi veterani soldati, accettare per estremo ricetto l'umile rupe d'Elba isola. Raccontare ai contemporanei sì fatti accidenti fora opera superflua, poichè la piena fama ne risuona ancora frescamente nelle orecchie loro: raccontargli degnamente ai posteri, fora opera superiore all'eloquenza, nè io mi vi accingerei, che conosco l'umile mio stile, ed il mio tarpato ingegno. Solo dirò, che per le armi più si fece che si sperasse, che colle parole più si promise, che si attenesse, che la prosperità fe' dimenticare le affermazioni della paura, e che le vecchie voglie sormontarono le necessità nuove. Pure si liberò l'Europa da una volontà sola, e da un dominio soldatesco; e chi guarderà indietro insino al principio di queste storie, e tutti gli accidenti da noi raccontati andrà nella memoria sua riandando, sentirà meraviglia, terrore, pietà, dolore, e contentezza insieme. Gli uomini straziati, le opinioni stravolte, le società sconvolte, la forza preponderante, la giustizia offesa, l'innocenza condannata, le adulazioni ai malvagi, le persecuzioni ai buoni, la licenza sotto nome di libertà, la barbarie sotto nome di umanità, la politica sotto nome di religione, e con queste virtù civili eminenti, ma rare, esempi lodevoli, ma scherniti, valore di guerra egregio, ma in favore del dispotismo, l'Europa infine divenuta scherno e vilipendio a se stessa. Se rinsavirà, non si sa, perchè ancor si sente la puzza degli andamenti Napoleonici: vive l'ambizione in chi comanda, vive in chi obbedisce, e se fia possibile l'unire la libertà al principato, è incerto. Da tutta questa lagrimevole tela, come dai ricordi antichi, almeno questo utile ammaestramento si avrà, che chi, come Buonaparte, da suddito si fa padrone della sua patria per farla serva, o il ferro ancide, o la forza atterra.

Come prima pervennero in Italia le novelle della presa di Parigi, e della rinunziazione di Napoleone, pensò il vicerè a pattuire per la sicurezza delle genti Francesi, nè si conveniva, che poichè i Borboni, ai quali erano le potenze amiche, si trovavano rintegrati in Francia, i Francesi combattessero contro di loro. Inoltre desiderava il vicerè, con facilitare le condizioni ai Borboni ed ai potentati, avvantaggiare le proprie, e fare in modo che gli alleati usassero contro a lui meno inimichevolmente la vittoria. A questo fine, uscito da Mantova, si abboccava con Bellegarde, l'uno e l'altro accompagnati da pochi soldati. Convennero che si sospendessero le offese per otto giorni, che intanto i soldati Francesi che militavano col vicerè, passate le Alpi, ritornassero nell'antiche sedi di Francia; che le fortezze di Osopo, Palmanova, Legnago, e la città di Venezia si consegnassero in mano degli Austriaci; che gl'Italiani continuassero ad occupare quella parte del regno, che ancora era in poter loro; che fosse fatto facoltà ai delegati del regno di andar a trovare i principi confederati per trattare di un mezzo di concordia, e che se i negoziati non riuscissero a felice fine, le offese tra gli alleati e gl'Italici non potessero ricominciare, se prima non fossero trascorsi quindici giorni, da che i primi si fossero scoperti delle intenzioni loro. La convenzione di Schiarino-Rizzino, che in questo luogo appunto si concluse addì sedici aprile, spegneva del tutto il regno Italico. Perchè, segregati i Francesi dagl'Italiani, nasceva una tale disproporzione di forze tra gl'Italiani ed i Tedeschi, che il capitolo, il quale dava quindici giorni di indugio alle ostilità, era piuttosto derisione che sicurezza.

Era giunto il momento dell'ultimo vale fra gli antichi compagni: i soldati di Francia salutavano commossi, abbracciavano piangenti i soldati d'Italia: a loro migliori sorti auguravano; ultimo grado di disgrazia chiamavano, che la disgrazia gli separasse; offerivano gli umili abituri loro in Francia; venissero; si ricorderebbero dell'avuta amicizia, delle comuni battaglie, della con le medesime armi acquistata gloria; fuorichè Italia non sarebbe, tutto parrebbe loro Italia, la medesima amicizia, la medesima fratellanza troverebbero; voler essi con le povere facoltà loro pagare all'Italia il debito di Francia. Così con militare benevolenza addolcivano i soldati di Francia le amarezze dei soldati d'Italia. Questi all'incontro ai loro partenti compagni andavano dicendo: gissero contenti, che se l'Alpi gli separerebbero, l'affezione e la ricordanza dei gloriosi fatti insieme commessi gli congiungerebbero; conforto loro sarebbe il pensare, che chi conservava la patria si ricorderebbe di chi la perdeva; la disgrazia rinforzare l'amicizia; avere per questo l'amore dei soldati Italiani verso i soldati Francesi ad essere immenso; vedrebbero quello che in quell'ultimo eccidio fosse per loro a farsi per satisfazione propria, e per onore dell'insegne Italiche; ma bene questo credessero, e nel più tenace fondo dell'animo loro serbassero, che, come gli avevano veduti forti nelle battaglie, così gli vedrebbero forti nelle disgrazie: queste speravano di mostrare al mondo, che se più patria non avevano, patria almeno di avere meritavano. Che Eugenio, e che Napoleone a noi, dicevano? Gloriosi, gli servimmo, benefici, gli amammo, infelici, fede loro serbammo: ma per l'Italia i nomi diemmo, per l'Italia combattemmo, per l'Italia dolore sentimmo: il dolerci per sì dolce madre fia per noi raccomandazione perpetua a chi con animo generoso a generosi pensieri intende.

Partivano i Francesi, alla volta del Cenisio e del colle di Tenda incamminandosi: gli ultimi segni di Francia appoco appoco dall'Italia scomparivano; ma non iscomparivano nè le ricordanze di sì numerosi anni, nè il bene fatto, nè anco il male fatto, quello a Francia, questo a pochi Francesi attribuendosi: non iscomparivano nè i costumi immedesimati, nè le parentele contratte, nè gl'interessi mescolati: non iscomparivano nè la suppellettile dell'accresciuta scienza, nè gli ordini giudiziali migliorati, nè le strade fatte sicure ai viandanti, nè le aperte fra rupi inaccesse, nè gli eretti edifizj magnifici, nè i sontuosi tempj a fine condotti, nè l'attività data agli animi, nè la curiosità alle menti, nè il commercio fatto florido, nè l'agricoltura condotta in molte parti a forme assai migliori, nè il valor militare mostrato in tante battaglie. Dall'altro lato non iscomparivano nè le ambizioni svegliate, nè l'arroganza del giudicare, nè l'inquietudine degli uomini, nè l'ingordigia delle tasse, nè la sottigliezza del trarle, nè la favella contaminata, nè l'umore soldatesco: partiva Francia, ma le vestigia di lei rimanevano. Non venti anni, ma più secoli corsero dalla battaglia di Montenotte alla convenzione di Schiarino-Rizzino. La memoria ne vivrà, finchè saranno al mondo uomini.

Il vicerè, acconce le cose sue coll'Austria, già feceva pensiero di ritirarsi negli stati del re di Baviera, col quale era congiunto di parentado pel matrimonio della principessa Amalia. Ma ecco arrivar novelle, o vere o supposte, che Alessandro imperatore consentirebbe a conservargli il regno, sì veramente che i popoli il domandassero. Accettava Eugenio le liete speranze: fecersi brogli; incominciossi dall'esercito ridotto in Mantova. L'intento parte ebbe effetto, parte no; ma l'importanza consisteva in Milano capitale. Viveva in questo momento il regno diviso in tre sette: alcuni desideravano il ritorno dell'Austria con niuna o poca differenza dall'antica forma: gli altri pendevano per l'indipendenza, ma chi ad un modo, e chi ad un altro: conciossiachè chi l'amava con aver per re il principe Eugenio, e chi l'amava con avere per re un principe di un altro sangue, quand'anche fosse di casa Austriaca; quest'era la parte più potente. Aveva mandato il vicerè certamente con poca prudenza, il conte Mejean a Milano a trattare coi capi del governo, affinchè in favore di lui si dichiarassero. Molto anche vi si affaticava un Darnay, direttore delle poste, personaggio poco grato ai popoli. Ad accrescere disfavore alla cosa s'aggiunse, che a secondare le intenzioni del vicerè si erano intromessi, per opera di Mejean, e per inclinazione propria, i Transpadani, o Estensi, come gli chiamavano: Bolognesi, Ravennati, principalmente Modenesi e Reggiani, erano venuti in disgrazia dei Milanesi, perchè questi si erano persuasi che nelle faccende eglino si fossero arrogata molta maggior parte di quanto si convenisse. Melzi favoriva il disegno, il propose in senato. Vi sorse un gravissimo contrasto, principalmente intorno a quella parte in cui si trattava del principe Eugenio. Paradisi, ed altri Estensi, uomini d'inveterata fama, di gran sapere e di molta autorità, con efficacissime parole instavano in favor del principe. Nei cambiamenti politici, dicevano, più facilmente ottenersi il meno che il più; essere consueto l'imperio d'Eugenio, già dai principi d'Europa riconosciuto: solo volersi, che fosse independente da Francia, e questo appunto essere il fine della presente deliberazione; abbenchè intorno a questo non occorresse, allegavano, molto travagliarsi, perchè spento Napoleone, la franchezza del paese nasceva da se, e chi volesse credere, che Eugenio da Francia Borbonica ancora dipendesse, come da Francia Napoleonica, massimamente se tra la Lombardìa e la Francia s'interponesse il Piemonte tornato, come già si motivava, sotto il dominio dei principi di Savoja, meriterebbe di essere tenuto piuttosto scemo, che acuto. Adunque l'indipendenza, continuavano, essere non solo sicura, ma ancora necessaria con Eugenio: queste considerazioni la natura stessa dettare, le Parigine novelle confermare. Se un altro principe si addomandasse, che sicurtà si avrebbe d'impetrarlo? In deliberazioni di tanto momento, meglio dover fidarsi i collegati in chi è già per loro provato, da loro conosciuto, che in chi per loro fosse ignorato: nell'uscire da sconvolgimenti tanto stupendi, in tanta tenerezza di un fresco ordine in Europa, come sperare che in un regno d'Italia, pieno di umori diversi, importante per la sua situazione, un principe di natura ignota sia per essere accordato? Udire all'intorno, continuavano a discorrere gli oratori favorevoli al vicerè, susurrarsi il nome di un principe Austriaco: ma quivi appunto avvertissero bene, e bene considerassero gli avversarj, massime coloro che favellavano di libertà e di signorìa paesana, a qual partita si mettessero. Da un principe Austriaco adunque aspettavano il viver libero e franco, da un principe Austriaco congiunto di sangue coll'antico sovrano del regno, nodrito nelle massime del comandare assoluto, timoroso necessariamente di Vienna, sovrano di Milano solamente in apparenza? Di chi sono questi soldati, che ora ci minacciano? Austriaci. Quali soldati in Milano il condurrebbero? Austriaci. Quali soldati sulle frontiere nostre sovrasterebbero? Austriaci. Conoscono essi queste terre, le conoscono e le bramano. Se mancheran le cagioni, non mancheranno i pretesti, e ad ogni piè sospinto l'illuvie Tedesca inonderà il regno: cagioni e pretesti saranno, il non obbedire puntualmente e sommessamente a quanto da Vienna si sarà comandato. Ora quale independenza vi possa essere con un timore perpetuo non si vede. A chi ricorrerebbero questi partigiani d'Austria, a chi ajuto domanderebbero? Forse all'Inghilterra avara, che fa traffico di tutti? ai principi assoluti d'Europa, che più temono una constituzione che un esercito? alla Francia indebolita, e che non vuol camminare se non con Napoleone, e che con Napoleone più camminare non può? concorrerebbero al principe Austriaco tutti gli amici dell'antico reggimento d'Austria, concorrerebbero gli amatori dell'imperio illimitato, concorrerebbero i malcontenti, e se gl'interessi nuovi, se la libertà nascente, se le opinioni radicate da vent'anni in mezzo a tanto diluvio di elementi contrarj si potessero conservare salve, ogni uomo prudente potrà giudicare. Chi sarebbe naturalmente, e quasi per intima necessità nemico della libertà dei regno? Certo sì veramente l'Austria. A qual modo puossi la libertà difendere dagli assalti forestieri? Certo sì veramente coi soldati e colle armi. Ora, chi affermare potrebbe, che un principe Austriaco fosse per apprestar armi e soldati Italici per ostare alle cupidigie dell'Austria? parere, anzi esser certo, che il regno di un principe Austriaco sarebbe, non independenza, ma dipendenza, non libertà, ma servitù, non quiete, ma discordia e turbazione. Vienna, non Milano reggerebbe. Con Eugenio re ogni via appianarsi, con un principe forestiero non Austriaco ogni difficoltà crescersi, con un principe Austriaco molte difficoltà torsi, ma fondarsi la servitù. Valessero adunque, concludevano, le virtù di Eugenio, valesse il suo amore per l'Italia, valesse la contratta abitudine di lui, valessero i felici augurj testè venuti da Parigi: essere pazzìa in tante tenebre non seguitar quel lume solo, che la fortuna appresentava davanti. Se qualcheduno desiderasse di viaggiar senza filo in un laberinto, senza bussola in mare, senza lume in un abisso, sì il facesse; ma nè desiderarlo, nè volerlo fare gli Estensi, i quali credevano, che con danno sempre si fa spregio della fortuna.

Dalla parte contraria acerbissimamente contrastavano i senatori Guicciardi e Castiglioni, principalmente quest'ultimo, che con molto empito procedeva in queste cose, e mescolava doglianze gravissime degli Estensi: a loro si accostavano molti altri Milanesi di nome, di ricchezza e d'alto legnaggio. Non potere restar capaci, dicevano, come con Eugenio si potesse aver la independenza, come si potesse aver la libertà. Sarebbe Eugenio più ligio, e più dipendente dall'Austria, che un principe Austriaco stesso: perchè non avendo parentela, nè connessione con altro potentato d'Europa di primo grado, là sarebbe obbligato a cercare per l'interesse della conservazione propria gli appoggi, dove gli troverebbe: nè altro potrebbe esservene per lui che nell'Austria, perchè in lei sola potrebbe sperare, come vicina e potente, di lei sola temere. Credere forse gli avversarj, ch'ei nol farebbe per altezza d'animo? Ma oltrechè non mai i principi credono di derogare alla dignità loro, in qualunque modo soggettino i popoli, purchè gli soggettino, quali sono i segni del pensare onorato d'Eugenio? Forse lo aver dato la metà del regno in potestà di Bellegarde? Forse i secreti abboccamenti avuti con lui, di cui più si sa, che non si dice? Forse lo avere spogliato il reale palazzo di Milano? Forse i donativi promessi per queste stesse perniziose e fatali trame? Forse Mejean e Darnay qua mandati a subornar gli spiriti, Mejean e Darnay, non solo sostenitori acerbi e tenacissimi di tirannide, ma ancora denigratori assidui di quanto havvi nel regno di più alto, di più nobile, di più generoso? Forse la elevazione dell'animo di Eugenio pruova lo sprezzo fatto di quei soldati, di cui egli era capitano pagato e richiedente? Gl'Italiani fatti scherno di un giovane di prima barba, e che nome non ha, se non da chi ne ha uno odiosissimo! Dicano l'altezza d'Eugenio le prezzolate ed udite spie, dicanla gli esilj dei più generosi cittadini, dicala la tirannide sul parlare e sullo scrivere usata. Non è punto da dubitare adunque, che siccome egli non abborrirebbe per natura dal più dimesso partito, così ancora per necessità il piglierebbe, e più sarebbe certamente governato austriacamente il regno da Eugenio, che da un principe Austriaco. Certo sì, che i comandamenti arriverebbero da Vienna, non dal reale palazzo di Milano. Di ciò già manifesti segni essere le umili cortesìe usate a Bellegarde, le cedute fortezze, i messi mandati al campo dell'imperatore Francesco, i messi mandati alle Parigine trattazioni; dimostrarlo quelle medesime proposte, che allora andavano su per le panche senatorie. Che se poi di Austriaco principe si trattasse, ancorchè questo fosse l'estremo partito che solo la necessità dovrebbe indurre, non visse beata e da se medesima la Toscana sotto un principe Austriaco lungo tempo? Duri e renitenti certamente essere i principi Austriaci, sclamavano i sostenitori di questa sentenza, al giurare liberi patti, ma esserne anche fedeli osservatori, se giurati gli abbiano; i Napoleonidi non del pari, perchè corrivi al giurare, corrivi al violare, delle promissioni non si curano, se non per l'utilità. Udite, udite, vociferavano, che di Prina si parla per mandarlo delegato, che di Paradisi si parla per mandarlo delegato! Sì per certo, Prina, amatore tanto tenero di libertà, Paradisi, che a qualunque più pericoloso partito si getterebbe piuttosto che sentir odore Austriaco, e ben sanne il perchè! Questi sono i mezzi dell'independenza, questi i difensori della libertà. Del resto le nazioni, non le parti o le sette fanno le mutazioni degli stati, nelle importanti ed uniche occorrenze. Chi potrà affermare, che gl'Italiani vogliano Eugenio per re? Forse i soldati che lo odiano? Forse i cittadini che non l'amano? Il chiamarlo sarebbe stimato macchinazione di pochi, non volontà di tutti, nè tanto sono i principi collegati ignoranti degli umori che corrono, che queste evidenti cose non sappiano.

Tutta la nobiltà Milanese Eugenio impugna, ed un vivere libero pretende: tutto il popolo mosso, che a queste mura grida intorno e minaccia, solo perchè ha udito susurrare della confermazione di Eugenio, della continuazione, se non del dominio, almeno delle consuetudini di Francia. Generose armi stanno in mano de' principi collegati, generose cagioni gli muovono, a generose cose intendono, nè questo momento ad alcun'altra età si rassomiglia. Proponete loro, non quello che pochi vogliono, ma quello che vogliono tutti, proponete loro una risoluzione grande, non la domanda di un principotto, docile allievo di un tiranno, proponete loro un vivere largo e generoso, non una vita piena di spie e di carceri, e sarete esauditi. Questo vogliono gl'Italiani, questo vogliono i principi alleati, questo vogliono i cieli che non han sommosso il mondo, perchè continui a regnare in Milano Napoleone Buonaparte sotto nome di Eugenio Beauharnais. No, sclamavano vieppiù infiammandosi, non vogliamo Eugenio, no, non vogliamo Prina, nè Mejean vogliamo, nè Darnay: bensì vogliamo un principe, che collegato di sangue con qualche ceppo potente d'Europa, non abbia bisogno di adulare e di concedere per sussistere: vogliamo un principe, che giuri libertà per conservarla, non per ispegnerla; vogliamo un principe, che conosca, e sappia, e senta quanto nobile sia questo Italico regno, quanto generosi questi Italici abitatori, quanto alte sorti a lui ed a loro siano dai cieli favorevoli preparate: assai e pur troppo di Francia avemmo, assai e pur troppo di Napoleonici capricci pruovammo: ora in tanta aspettazione di cose, in tanta sollevazione di mondo, altrove si volgano gl'Italiani consigli, che l'avere sofferto dee dar luogo al godere; non a nuovo sofferire.

Decretava il senato, che si mandassero tre legati ai confederati, supplicandogli, ordinassero che cessassero le offese: domandassero i legati, che il regno d'Italia fosse ammesso a godere l'independenza promessa, e guarentita dai trattati, testificassero quanto il senato ammirasse le virtù del principe vicerè, e quanta gratitudine pel suo buon governo avesse.

Seppesi la deliberazione. Fece la parte contraria, che abborriva dal nome di Eugenio, un concerto. Entraronvi i capi principali dell'armi, le case più eminenti di Milano, principalmente Alberto Litta, che accarezzato da Buonaparte, non aveva mai voluto accettar cariche, preferendo un vivere privato onorevole ad un vivere pubblico abietto. S'aggiunsero i negozianti più ricchi, e fra gli scienziati e letterati i meno paurosi. Il nome dell'independenza era in bocca a tutti, l'amore nel cuore; nè mai in alcun moto che abbian fatto le nazioni in alcun tempo nelle più importanti faccende loro, tanto ardore e tanta unanimità mostrarono, quanta gl'Italiani in questa. Domandavano che si convocassero i collegi elettorali. Era il venti aprile quando, essendo il senato raccolto nella sua solita sede, una gran massa di gente, gridando, a lui traeva: era il cielo nuvoloso e scuro, pioveva leggermente, una apparenza sinistra spaventava gli spiriti tranquilli. I commossi non si ristavano. Eranvi ogni generazione d'uomini, plebe, popolo, nobili, operai, benestanti, facoltosi. Notavansi principalmente fra l'accolta moltitudine Federigo Confalonieri, i due fratelli Cicogna, Jacopo Ciani, Federigo Fagnani, Benigno Bossi, i conti Silva, Serbelloni, Durini e Castiglioni. Le donne stesse, e delle prime, partecipavano in questo moto gridando ancor esse patria e independenza, non Eugenio, non vicerè, non Francesi; una donna De-Capitani, una marchesa Opizzoni, ed altre non poche. Era tutta questa gente volta a bene, ed il male, non che avesse fatto, non l'avrebbe neppure pensato. Ma come suole, incominciavano ad arrivare e da Milano e dal contado uomini ribaldi, che volevano tutt'altra cosa piuttostochè l'independenza. Queste parole scritte andavano attorno: «Hanno la Spagna e l'Alemagna gittato via dal collo il giogo dei Francesi; halle l'Italia ad imitare.» Gonfalonieri a tutti avanti gridava: «Noi vogliamo i collegi elettorali, noi non vogliamo Eugenio». Fuggirono i senatori partigiani del principe, il senato si disciolse. Entrò il popolo a furia nelle sue stanze, il conte Gonfalonieri il primo, e tutto con estrema rabbia vi ruppero e lacerarono. Gridossi da alcuni uomini di mal affare mescolati col popolo, Melzi, Melzi, e già si mettevano in via per andarlo a manomettere. Un amico di lui gridò, Prina: era Prina più odiato di Melzi, ed ecco, che corsero a Prina, e flagellatolo prima crudelmente, l'uccisero con insultar anco al suo sanguinoso cadavere lungo tempo. Cercarono di Mejean e di Darnay; non gli trovarono. La folla frenetica, messa le mani nel sangue, le voleva mettere nelle sostanze. Già le case si notavano, già le porte si rompevano, già le suppellettili si recavano; la opulenta Milano andava a ruba. A questo passo i possidenti ed i negozianti, ordinata la guardia nazionale frenarono i facinorosi, e preservarono la città.

Il vicerè che tuttavia sedeva in Mantova, uditi i moti di Milano, indispettitosi, diè la fortezza in mano degli Austriaci: atto veramente biasimevole, del quale perpetuamente la posterità accuserà Eugenio; imperciocchè gli uomini giusti e grandi non operano per dispetto, nè Mantova era d'Eugenio, ma degl'Italiani: miserabili calate dei Napoleonidi. Napoleone tutto stipulava per se, nulla pe' suoi a Fontainebleau, Eugenio non solo nulla stipulava pe' suoi, ma ancora tutto quel maggior male fece loro, partendo, che potè. Partiva da Mantova per la Baviera, le Italiche ricchezze seco portando. Per poco stette, che le memorie di Hofer nol facessero uccidere in Tirolo, nuovo dolore mandatogli dal fato, che chiamava a distruzione i Napoleonidi.

I collegi elettorali, adunatisi, crearono una reggenza. Decretarono che le potenze alleate si richiedessero dell'independenza del regno, di una constituzione libera, e di un principe Austriaco, ma independente: alzavano le loro speranze le parole pubblicate dai confederati del volere l'independenza delle nazioni. S'appresentarono Fè di Brescia, Gonfalonieri, Ciani, Litta, Ballabio, Somaglia di Milano, Sommi di Crema, Beccaria di Pavia, legati, a Francesco imperatore a Parigi. Esposte le domande, rispose, anche lui essere Italiano: i suoi soldati avere conquistato la Lombardia: udirebbero a Milano quanto loro avesse a comandare. Entrarono gli Austriaci in Milano il dì ventotto aprile: Bellegarde ne prendeva possessione in nome dell'Austria il dì ventitrè di maggio. Così finì il regno Italico.

Continuava Genova in potestà d'Inghilterra; vivevano i Genovesi confidenti della conservazione dell'antica repubblica. Gli confortavano la rintegrazione promessa dagli alleati di ciascun nel suo, e le dimostrazioni Bentiniane. Ma ecco il congresso di Vienna decretare, dover Genova cedere in potestà del re di Sardegna.

A questa novella il governo temporaneo nel seguente modo favellava ai popoli Genovesi: «Informati, che il congresso di Vienna ha disposto della nostra patria, riunendola agli stati di Sua Maestà il re di Sardegna, risoluti da una parte a non lederne i dritti impreteribili, dall'altra a non usar mezzi inutili e funesti, noi deponiamo un'autorità, che la confidenza della nazione, e l'acquiescenza delle principali potenze avevano comprovata.

«Ciò, che può fare per i diritti e la restaurazione de' suoi popoli un governo non d'altro fornito che di giustizia e ragione, tutto, e la nostra coscienza lo attesta, e le corti più remote lo sanno, tutto fu tentato da noi senza riserva, e senza esitazione. Nulla più dunque ci avanza, se non di raccomandare alle potestà municipali, amministrative e giudiziali l'interino esercizio dell'ufficio loro, al successivo governo la cura dai soldati che avevamo cominciato a formare, e degl'impiegati che hanno lealmente servito, a tutti i popoli del Genovesato la tranquillità, della quale non è alcun bene più necessario alla nazione. Dalla pubblica alla privata vita ritraendoci, portiamo con esso noi un dolce sentimento di gratitudine verso l'illustre generale, che conobbe i confini della vittoria, ed un'intiera fiducia nella provvidenza divina, che non abbandonerà mai i Genovesi.»

Queste furono le ultime protestazioni, le ultime querele, e le ultime voci dell'innocente Genova. Il giorno susseguente, che fu addì venzette dicembre, un Giovanni Dalrymple, comandante dei soldati del re Giorgio, ne assunse il governo: la diede poscia in mano ai legati del re Vittorio Emanuele.

Così l'Italia, dopo una sanguinosa e varia catastrofe di vent'anni, dalla quale dieci terremoti, e non so quanti volcani sarebbero stati per lei migliori, si ricomponeva a un di presso nello stato antico. Tornava Vittorio Emanuele in Piemonte, Francesco in Milano, Ferdinando in Toscana, Pio in Roma: passò Parma dai Borboni agli Austriaci; conservò Giovacchino il real seggio di Napoli, ma non per durare; le Italiane repubbliche spente: l'acume del secolo trovò, che la legittimità è nel numero singolare, nel plurale no. Solo fu conservato l'umile San Marino, forse per un tratto d'imitazione di più degli andari Napoleonici: la sua esiguità e povertà non eccitavano le cupidità di nissuno. Cedè Venezia a Francesco, Genova a Vittorio. Nè furono i governi di Francesco, di Vittorio, di Ferdinando e di Pio sdegnosi: solo non misurarono la grandezza delle mutazioni fatte nelle menti e nel cuore degli uomini, da sì grandi e sì lunghi accidenti, imperciocchè se esse mutazioni erano, come alcuni pretendono, malattie, richiedevano convenienti rimedj. Giudicheranno i posteri, se i mali che seguirono, debbano agl'infermi od a chi gli doveva sanare, attribuirsi. Felici Giuseppe e Leopoldo, principi santissimi, che vollero consolar l'umanità colle riforme, non ispaventarla coi soldati! Nè ai principi Italiani noi qui parlando, intendiamo accennare instituzioni all'Inglese, alla Francese od alla Spagnuola, le quali a modo niuno si convengono all'Italia; ma bensì riforme che facessero sorgere, a maggior quiete e felicità dei popoli di questa penisola, siccome già abbiam notato nel precedente libro, instituzioni peculiari accomodate alla natura degl'Italiani, cosa del pari facile a concepirsi, che sicura ad eseguirsi. Oltre a ciò la nobiltà esiste in Europa, ed è indestruttibile. E' bisogna pertanto farne stima in un ordinamento sociale tendente allo stato libero, come di un elemento necessario, e darle, come a corpo constituito, quella parte di potestà politica che le si conviene, perchè sia contenta, e non tenti usurpazioni nelle altre potestà della macchina sociale. Ciò eseguito, fia necessario da un altro lato inibirle l'ingresso, e qualunque ingerenza nella potestà popolare, instituita, quanto all'Italia, a modo antico, ma bene e prudentemente inteso, non a modo moderno, che non può esser buono. La divisione tra la nobiltà ed il popolo è nella natura stessa delle cose, e debb'essere ancora nella legge politica. Questa è condizione indispensabile sì per la libertà, e sì per la quiete dello stato, e ad esse niuna cosa è più perniziosa che una nobiltà in aria, ed una potestà popolare composta di conti e di marchesi. Questi principj sono veri, e possibili ad esser ridotti all'atto, o che si viva in monarchìa, o che si viva in repubblica. La chimera dell'equalità politica ha fatto in Europa più male alla libertà che tutti i suoi nemici insieme. L'equalità debb'essere nella legge civile, non nella politica. I principj astratti ed assoluti, in proposito d'ordinamento sociale, son fatti solamente per indicare i fondamenti delle cose, non per esser posti in atto senza modificazione; perchè le passioni, che sono la parte attiva dell'uomo, generano movimenti disordinati, che bisogna frenare. Sono essi principj in economia politica ciò, che sono i geometrici nella meccanica, le passioni, in quella, ciò che l'attrito delle macchine, ed altri accidenti prodotti dalla natura della materia, in questa; e così come si tien conto dell'attrito nell'ordinar le macchine, si dee tener conto delle passioni nell'ordinar la società. L'effetto che si desidera, è la libertà, cioè l'esatta e puntuale esecuzione della legge civile uguale per tutti, ed un'uguale protezione della potestà sociale per ciascuno, sì quanto alle persone, come quanto alle sostanze. Purchè si ottenga questo fine, non si dee guardare alla qualità dei mezzi, e mezzi di diversa natura, secondo la diversità delle nazioni, vi possono condurre. Chi risolvesse bene questo problema, «sino a qual segno ed a qual parte dell'equalità politica si debba rinunziare per meglio assicurare la libertà, e l'equalità civile», farebbe un gran servizio all'umanità. Ma di ciò più ampiamente altri più capaci di noi.

Noi intanto, terminata questa gravosa fatica, alla quale piuttosto per desiderio altrui che nostro ci mettemmo, qui deponiamo la penna, e qui diamo riposo alla mente oggimai troppo travagliata e stanca.

Fine del Tomo VI ed ultimo.

INDICE

DEL PRESENTE VOLUME

1806

Guerra colla Prussia Pag. 5

È vinta a Jena 7

Battaglia di Eylau 7

1807

I Russi vinti a Fridlandia 8

Napoleone ed Alessandro si spartiscono il mondo 8

Trattato del Niemen 8

Adulazione verso Napoleone 9

Gamboni patriarca di Venezia a Parigi 10

Camillo Borghese governa Torino 10

Napoleone scende in Italia 10

Il Portogallo tolto alla casa di Braganza 12

Il re di Etruria mandato in Portogallo 13

Menou in Toscana 13

Degerando 14

Giunta di Toscana e suo governo 14

Elisa gran duchessa del ducato di Toscana 16

1808

Parma unita alla Francia 16

Condizione dell'Italia 16

Opere magnifiche di Napoleone 20

Napoleone insidia la Spagna 21

Il re Carlo mandato a Marsilia 22

Ferdinando di Spagna prigione a Valençay 22

Giuseppe re di Spagna 22

Gioacchino Murat re di Napoli 22

Napoleone si abbocca con Alessandro ad Erfurt 23

Gioacchino a Napoli 23

Cardinale Firrao 24

Capri in mano degli Inglesi 25

Hudson Lowe 25

Capri ripresa dai Napolitani 25

Modo con cui governa Gioacchino 27

Carbonari, loro origine 29

Allettati dal re Ferdinando e da Carolina 32

Principe di Moliterno 32

Disordini in Calabria 34

Napoleone disturba il papa 35

Nuove domande al papa 44

Miollis va a Roma 46

Alquier 46

Cardinale Casoni 46

Francesi entrano in Roma 47

Cardinali Napolitani e del regno d'Italia intimati a partire 49

Violenze de' Francesi 50

Frici e Bracci colonnelli 51

Miollis s'impadronisce del Vaticano 52

Monsignor Cavalchini 53

Parole del papa a Napoleone 53

Parte dello stato pontificio unito al regno d'Italia 54

Generale Lemarrois 54

Monsignor Rivarola 54

Cardinal Gabrielli 56

Il papa non acconsente al giuramento 57

Modificazione di Eugenio 58

Ostinazione del papa 59

Sua protesta 61

1809

Pensieri dell'Austria 66

Suoi apparecchi 67

Arciduca Carlo 68

Bellegarde 68

Arciduca Giovanni 69

Giulay 69

Marmont 69

Apparecchi di Napoleone 70

Eugenio governa la guerra d'Italia 70

L'arciduca Giovanni dichiara la guerra 71

Suo manifesto 71

Assedia Osopo e Palmanova 75

Seras, Severoli e Barbou 76

Colonnello Giflenga 77

Teste ferito 77

Battaglia di Sacile 77

Eugenio si ritira all'Adige 77

Lamarque e Durutte 77

Macdonald 77

Abitatori di Crispino si sollevano 78

Arciduca Carlo entra in Baviera 78

Jellacich mandato in Tirolo 79

Sollevazione de' Tirolesi 79

Andrea Hofer 79

I Bavari si arrendono ai Tirolesi 81

Chasteler mandato in Tirolo 82

Vittorie di Napoleone 83

L'arciduca Giovanni si ritira dall'Italia 83

Battaglia a Conegliano 85

Il vicerè si avvicina a Vienna 87

Macdonald 87

Marmont combatte in Dalmazia 88

Parole di Napoleone agli Italiani 89

Battaglia di Giavarino 90

Battaglia di Vagria 90

Pace tra Francia ed Austria, cessioni di quest'ultima 91

I Tirolesi continuano 92

Fine di Andrea Hofer 93

Decreto di Vienna che unisce Roma all'impero francese 95

Miollis al governo di Roma 96

Protesta del papa 96

Scomunica Napoleone 98

È arrestato 99

Cardinale Pacca 99

Generale Radet 99

Diana 99

Ceracchi 99

Il papa è condotto a Savona 101

Pacca mandato a Pietra Castello 102

Deputati Italiani in Francia 102

Opinione di Napoleone su Tacito 102

Governo di Roma francese 105

Stipendi 107

Faccenda dei giuramenti 108

Dalpozzo 109

1810

Vescovi 112

Baccolo vescovo di Famagosta 112

Canonici 113

Curati 113

Soppressione dei conventi 114

Buone opere della consulta 114

Convento di san Basilio di Grottaferrata 116

Convento di Camaldoli 116

La Propaganda 117

Imitata dagli eterodossi 121

Missionari 121

Stamperia della Propaganda 124

Opere di musaico 124

Napoleone vuole visitar Roma 126

Carolina di Sicilia si disgusta degl'Inglesi e stringe pratiche con Napoleone 127

Gioacchino tenta la Sicilia 128

Carolina esiliata dalla corte 130

Briganti in Calabria 130

Manhes generale 131

Capobianco ucciso 134

Talarico di Carlopoli 135

Parafanti 135

Immagini di Napoleone nelle chiese di Ancona 139

Pio VII prigione a Savona 140

Cardinale Spina 141

Ostengo 141

Conte Chabrol 142

Conte Sarmatoris 142

Cesare Berthier 143

Ugo Maret 143

Pensieri di Napoleone sul papa 150

Pio pensa a riunire gli eterodossi 153

Disordini nella Chiesa 154

Cardinal Caprara 154

Concilio di Parigi 157

Ripiego di Napoleone 160

Nuovi disordini 161

Maury arcivescovo di Parigi 162

Dastros messo nelle segrete 164

Querele e minacce di Napoleone 165

1811

Consiglio ecclesiastico 172

Opinioni de' Giansenisti Italiani 179

Teologi che difendono il papa 183

Concilio nazionale a Parigi 194

Proposte di Napoleone al papa 195

Pio cala ad accordi 200

Sua sinderesi 202

Nuove richieste di Napoleone 204

Sue minacce 208

Pio condotto in Francia 210

1812

Accidenti di Sicilia 212

Marchese Artali 213

Sua crudeltà 214

Giovanni Stuard 215

Cavaliere Medici 216

Duca d'Ascoli 216

Intrighi di Carolina 216

Disordini in Sicilia 217

Parlamento 219

Principe di Belmonte 220

Riforma in Sicilia 221

Medici rinuncia 222

Secondo parlamento 222

Ripieghi di Tommasi 222

Baroni arrestati 224

Disegni degl'Inglesi 225

Bentink in Sicilia 225

Sue minacce a Carolina 227

Carolina si ritira dagli affari 228

Nuova costituzione 229

1813

Sospetti sulla regina 232

Il re riassume l'autorità 233

Si ritira di nuovo 235

Carolina cacciata dalla Sicilia muore a Vienna 236

La costituzione come abolita 238

Inglesi prendono Lissa 240

Smisurati pensieri di Napoleone 240

Odio contro di lui 243

Guerra colla Russia 245

Frodi di Bentink 247

Trattative di Murat 247

Napoleone si accorda col papa 249

Pratiche tra i principi 252

Pensieri in Italia 253

Titubanza di Eugenio 256

Simile di Gioacchino 257

Hiller generale austriaco eccita i popoli alla ribellione 260

Bentink e Wilson proclamano l'indipendenza dell'Italia 261

Esercito del vicerè 262

Condizione dell'esercito austriaco 265

Imprudenza del vicerè 267

Dalmati e Croati insorgono 267

Il vicerè si ritira 269

Battaglia di Bassano 269

Italiani disgustati del vicerè 271

Nugent prende Ferrara 273

Gioacchino si volta contro Napoleone 274

Battaglia al Mincio 277

Inglesi prendono Livorno 279

1814

Manifesto di Bentink 280

Prende Genova 281

Ordina il governo libero 283

Sofisma di Castelreagh 284

Gli alleati in Parigi 285

Convenzione di Schiarino-Rizzino 287

Congedo dei Francesi 288

Pratiche di Eugenio per farsi re 290

Tumulto in Milano 298

Prina ucciso 299

Tradimento di Eugenio 299

Legati all'imperatore 300

Genova unita al Piemonte 300

Fine dell'indice.

TAVOLA DELLE MATERIE CONTENUTE NEI SEI TOMI

(I numeri romani indicano il tomo, gli arabici le pagine).

A

Abdicazione sforzata del re di Sardegna, Tom. IV, pag. 137.

Aboukir (battaglia d') IV, 20.

Abrial. Mandato dal Direttorio a Napoli, IV, 210. Vi crea un governo, e quale, ivi. Sua generosità verso i discendenti del Tasso, ivi.

Acqui (moto incomposto d') contro il governo repubblicano in Piemonte, IV, 220.

Acton, ministro di Napoli. Sue insinuazioni alla regina, I, 270.

Adige. Descrizione del suo corso, II, 242.

Alba (sommossa d') I, 343. Si solleva contro i Francesi, IV, 261.

Albani-Villa. Come spogliata, III. 329.

Albani, cardinale. Suo parere sul concordato del 1801, V, 207.

Albarey (marchese d'). Suo discorso nel consiglio del re di Sardegna a persuasione della continuazione della guerra colla Francia, I, 284.

Alciati. Suo fatto contro i sollevati del Piemonte, IV, 114.

Alessandria (Cittadella di) oppugnata dagli alleati, IV. 340.

Alessandro, Imperator di Russia. Sua discordia con Napoleone, V, 309. È vinto e fa la pace con lui, VI, 8. Il va a visitare a Erfurt, 23. Sua guerra con Napoleone, 242. Vince, 245.

Alì, pascià di Ianina. Sua natura, IV, 286. Assalta i Francesi a Nicopoli, e gli vince, 288. Come tratta i prigionieri, 294.

Alleati. Minacciano Genova, I, 222. Loro speranze e timori, 239. Loro situazione sulla riviera di Ponente, 262. Loro disegni, 264. Perdono la battaglia di Loano, 292. Tentano l'animo del re di Sardegna, 364. Come ordinati in Italia sul principio del 1796, 297 e 321. Loro conforti a Buonaparte, III, 239.

Altamura, città del regno di Napoli, presa dal cardinal Ruffo, e come trattata, V, 9.

Alvinzi, generalissimo d'Austria II, 227. Combatte prosperamente a Caldiero, 237. Sua condizione vittoriosa, 240. È vinto ad Arcole, 246. S'apparecchia a nuova guerra, 264. Suoi disegni penetrati, e per opera di chi, 270. È vinto a Rivole, 274. Si ritira alla parte più aspra del Tirolo, 277.

Amore (cavalier di sant'), condannato a morte a Torino e perchè, I, 209.

Ancona, difesa dai Francesi, oppugnata dagli alleati, V, 55. Si arrende, 69.

Andria, città della Puglia. Presa d'assalto, e come trattata, IV, 201.

Angioi, cavaliere. Suo moto in Sassari per ottener gli stamenti, I, 277. Suoi pericoli in Livorno, II, 86.

Angioli. Ved. De Angioli.

Anselmo, generale di Francia. Invade il paese di Nizza, I, 98.

Aosta (duca d'). Accompagna il re suo padre nella spedizione di Nizza. Sue qualità, I, 171. Come sottoscriva l'atto d'abdicazione del re suo fratello, IV, 138. Diventa re per la seconda abdicazione di suo fratello, V, 245.

Aosta (valle d'), tentata dai Francesi, I, 201.

Arciduca, Carlo. Mandato dall'imperatore a governar l'esercito italico, III, 13. Come lo dispone, 14. Sue qualità, e modo di far la guerra, 15. Si ritira dal Tagliamento, 17. Spera di vincere alla Ponteba ed a Tarvisio, e perchè gli venga rotto il disegno, 24. Sue risoluzioni dopo di questo sinistro, 26. Come risponda ad una lettera di Buonaparte, 30. Generalissimo in Italia, V, 313. È vinto a Caldiero, 319. Generalissimo in Germania, VI, 68. Perde le battaglie di Taun, Abensberga, e Ecmul, 83. E quella di Vagria, 90.

Arciduca, Ferdinando, obbligato a lasciar Milano, e sue provvisioni prima di lasciarlo, I, 373.

Arciduca, Giovanni, generalissimo d'Austria in Italia, VI, 69. Suo manifesto agli Italiani, 71. Vince a Sacile, 77. Si ritira dall'Italia, 83. Perde la battaglia di Giavarino, 90.

Arcole (battaglia d'), I, 246 e seg.

Ardente (battaglia del colle) I, 207.

Arena Ved. Saliceti.

Arezzo, città di Toscana, si solleva contro i Francesi, IV, 307. Come minacciata da Macdonald, 310. Presa d'assalto dai Francesi, V, 171.

Argenteau, generale Austriaco; suoi errori nella battaglia di Loano, I, 296. Ed in quella del Dego, 331.

Arnauld, letterato di Francia, va a Corfù, III, 266. Come pensa dei Greci, 271. Quali esortazioni faccia a Buonaparte rispetto a Venezia, 275.

Artali, marchese, suo procedere in Messina, VI, 213 e seg.

Assemblea nazionale di Francia. Vedi Francia.

Assia (principe d') difende Gaeta contro i Francesi, V, 330.

Augereau, generale di Francia, combatte valorosamente alla battaglia di Loano, I, 297. Conforta Buonaparte sbigottito, II, 95 e 99. Grave battaglia tra lui, e Quosnadowich sulla Brenta, 233. Suo valore nella battaglia d'Arcole, 254. Sue generose querele sul modo con cui è trattata Verona, III, 87.

Austria. Sua costanza maravigliosa, II, 266. Stato miserabile del suo esercito in Italia, III, 12. Vi manda l'arciduca Carlo a governarlo, 13. Manda legati per trattar la pace con Buonaparte, 31. Sue nuove disposizioni contro la Francia, IV, 224. Si oppone al ritorno del re in Piemonte, 277. Nuova discordia tra lei e la Francia, V, 311. Nuova guerra, VI, 66.

Austriaci. Lor modo di guerreggiare rispetto a quel dei Francesi, IV, 28. Occupano le provincie Venete del Levante, 257. Ed i Grigioni, 225. Come ordinati verso l'Italia nell'ultima guerra contro Napoleone, VI, 259. Occupano Milano, 300.

Azzeretto, fuoruscito Genovese. Sue esortazioni a' suoi compatriotti, V, 95. Assalta Genova con turbe collettizie, 108.

B

Bacciocchi, nominato principe di Lucca da Napoleone, V, 300.

Baffi, Pasquale, suo supplizio in Napoli, V, 44.

Bagdelone, generale di Francia. Come prenda il piccolo S. Bernardo, I, 200.

Balbo, conte, ambasciatore del re di Sardegna a Parigi, e suo discorso al direttorio, II, 161. Sue astute insinuazioni al governo Francese, III, 177. Si adopera efficacemente per la rivocazione di Ginguenè, ambasciator di Francia a Torino, e l'ottiene, IV, 125. Non riconosce il governo nuovo. Sue qualità, 216.

Balland, generale comandante in Verona al momento della sollevazione dei Veronesi, III, 76.

Baraguey d'Hilliers, generale di Francia, s'impadronisce di Bergamo III, 34. Sua condotta in Venezia, III, 265 e 272. Vi pianta l'albero della libertà, 280.

Barbereschi. Danni che fanno a Genova, III, 166.

Barbetti. Loro operare sulle montagne di Nizza, I, 262.

Bard (forte di). Come osta ai Francesi, V, 128.

Bari (terra di). Si solleva contro il governo repubblicano, IV, 192.

Baroni del regno di Napoli, come trattati, IV, 185. Baroni in Sicilia contrari al ministro Medici e perchè, VI, 220. Loro atto e come trattati, 223 e 224. Loro generosità, 231.

Barras. Sue pratiche cogli agenti dei Borboni, III, 240.

Barthelemi. Ministro di Francia in Isvizzera. Suoi negoziati, I, 302.

Barzoni. Suo libro contro i Francesi, III, 277.

Basilea (pratiche per la pace di) I, 301.

Bassano, congresso di, III, 284.

Basseville, segretario della legazione di Francia a Roma, come ammazzato, I, 215.

Battaglia navale del capo di Noli, I, 258. Battaglie di San Giacomo e di Melogno, 265. Di Loano, 292. Di Montenotte, 321. Di Magliani, 327. Del Dego, 332. Di Mondovì, 341. Di Fombio e di Codogno, 363 e 365. Del ponte di Lodi, 368. Di Lonato, II, 99. Di Castiglione (prima) 101. Di Castiglione (seconda), 108. Di Roveredo, 114. Di Primolano e Bassano, 118. Di Calliano, 231. Di Caldiero, 237. D'Arcole, 246. Di Rivole, 273. Del Senio, 294. Del Tagliamento, III, 17. Della Ponteba, e di Tarvisio, 24 e 26. D'Aboukir, (navale), IV, 20. D'Ornavasso, 87. Di Verona, 231 e 235. Di Magnano, 239. Di Cassano, 246. Di Nicopoli, 288. Della Trebbia, 321, 323 e 327. Di Novi, 368. Di Savigliano, 386. Della Chiusella, V, 132. Di Casteggio, 136. Di Marengo, 140. Del Mincio, 179 e seg. Di Campotenese, 331. Di Maida, 337. Di Sacile, VI, 77. Di Giavarino, 90. Di Malo-Jaroslavetz, 245.

Battaglia, Francesco, provveditor dei Veneziani a Brescia. Sue insinuazioni a Venezia, II, 175. Come senta la rivoluzione di Bergamo, III, 41. Scrive a Buonaparte, e qual risposta ne riceva, ivi. Sua condotta nella rivoluzione di Brescia, 43. Carcerato dai novatori, ivi. Manifesto appostogli con fraude e perchè, 57. Opinione sopra di lui, ivi. Smentisce il manifesto, 58. Suoi maneggi in Venezia per cambiarvi l'antico governo, 116.

Beaulieu, generalissimo dei confederati in Italia e sue qualità, I, 305. Sue disposizioni per impedire ai Francesi l'invasione d'Italia, 319. È vinto a Montenotte, 321. A Magliani, 327. A Fombio ed a Codogno, 363 e 365. Al ponte di Lodi, 368. Mette presidio in Peschiera, fortezza dei Veneziani, II, 46. Vinto a Valeggio. Si ritira nel Tirolo, 49.

Bellegarde, generale Austriaco. Perde una battaglia al Mincio contro Brune, e si ritira, V, 182. Sua tregua con Brune, 186. Sua convenzione di Schiarino-Rizzino col vicerè, VI, 287. Entra in Milano e l'occupa in nome dell'Austria, 300.

Belmonte Pignatelli. Inviato di Napoli a Parigi, conclude la pace, II, 156.

Belmonte, di Sicilia, principe. Capo della parte dei baroni, e suoi atti, VI, 220, 224 e 228.

Benoni, frate. Sue prediche democratiche a Napoli, V, 18.

Bentink. Mandato dall'Inghilterra in Sicilia e perchè, VI, 225. Induce il re a rinunziare all'esercizio dell'autorità regia, investendone il figliuolo, 228. Constituzione, che dà per mezzo del parlamento alla Sicilia, 229. Come calma un moto del re contrario alla constituzione, 233. Suoi conforti a Murat a favor dell'independenza d'Italia, 246. Sue esortazioni agl'Italiani, 261. Suo manifesto, 280. Prende Genova, 281. Di che dia speranza ai Genovesi, 283.

Bergamaschi. Si ordinano in compagnie armate, II, 198.

Bergamo (rivoluzione in) da chi procurata, III, 36.

Berthier. Combatte valorosamente a Rivole, II, 273. Marcia contro Roma, III, 311. Se ne impadronisce, 319.

Bigot de preameneu ministro dei culti di Napoleone, sue lettere contro il papa, VI, 165 e 168.

Bisagno (sollevazione di) contro Genova, III, 168.

Bologna. Occupata dai Francesi, II, 64. Suoi comizi, 150. Buonaparte vi prepara la guerra contro il papa, 289.

Bonelli, fuoruscito corso, solleva la Corsica contro gli Inglesi, II, 133.

Borghese, principe, governatore del Piemonte. Suoi ordini circa il papa prigioniero a Savona, VI, 140 e 168.

Bossi, Carlo, membro del governo provvisorio del Piemonte. Sue qualità, IV, 218. Procura l'unione del Piemonte alla Francia, ivi.

Botton di Castellamonte, intendente generale della Savoja. Sue qualità, I, 94.

Boudet. Suo valore nella battaglia di Marengo, V, 146 e 147.

Bourdè, capitano di vascello, mandato a Corfù, e con qual missione, III, 266.

Bourges (Prammatica di) invocata dal consiglio ecclesiastico di Parigi, VI, 178.

Boyer, medico. Giustiziato in Piemonte e perchè, III, 194 e 207.

Braganza (Casa di) spodestata da Napoleone, VI, 12.

Brandalucioni, ufficiale d'Austria. Suoi eccessi nel Canavese, IV, 265.

Braschi, duca, deputato di Roma. Come parli a Napoleone, VI, 103.

Brescia (rivoluzione di) e da chi procurata, III, 42.

Brigido, colonnello d'Austria. Come contrasti ai Francesi in Arcole, II, 244.

Brueys, ammiraglio di Francia. Vinto ad Aboukir, IV, 22 e 26.

Brune, generale di Francia a Milano, IV, 67. Suoi pensieri contro il re di Sardegna, 98. Gli domanda la cittadella di Torino, 103. Suo manifesto ai sollevati Piemontesi, 110. Vince la battaglia del Mincio, e passa questo fiume, V, 179. Sua tregua con Bellegarde, 186.

Bulgari, nobile corfiotto. Dà favore ai Russi, IV, 288.

Buonaparte, Giuseppe. Ambasciatore di Francia a Roma, III, 303. Entra trionfalmente in Napoli, 330. Creatovi re da suo fratello Napoleone, 333. Re di Spagna, IV, 22.

Buonaparte, Napoleone. Surrogato a Scherer nella carica di generalissimo dei repubblicani, e perchè, I, 316. Sue qualità, ivi. Sue disposizioni per invadere l'Italia, 318. Vince a Montenotte, 321. A Maglioni, 327. Al Dego, 334. Mezzi che usa per costringere alla pace il re di Sardegna, 339. Vince a Mondovì, 341. Suoi sentimenti favorevoli per la casa di Savoja, 354. Sua prima allocuzione a' suoi soldati, 355. Inganna Beaulieu, e passa il Po a Piacenza, 360. Vince a Fombio ed a Codogno, 363 e 365. Al ponte di Lodi, 368. Entra in Milano, e come, 377. Sua seconda allocuzione ai soldati, 378. Sue minacce a Genova, II, 10. Occupa Brescia, e suo manifesto dato da questa città, 45. Minaccia il provveditor generale Foscarini, 51. Entra in Verona, 60. Occupa Bologna e quello che vi fa, 64. Occupa Ferrara, 67. Sue operazioni per opporsi a Wurmser, 95. Si sbigottisce per le mosse di Wurmser; Augereau ed i soldati il confortano, ivi e 99. Si trova in grave pericolo a Lonato, e come se ne libera, 105. Vince a Lonato, ivi. Vince a Castiglione, 108. Vince a Roveredo, 114. Seguita Wurmser per la valle della Brenta, 118. Vince a Primolano ed a Bassano, ivi. È vinto; poi vince sotto le mura di Mantova, 125. Solleva la Corsica sua patria, e la toglie agl'Inglesi, 128. Dichiara la guerra al duca di Modena e gli fa rivoltar lo stato, 148. Arriva in Modena e quel che vi fa, 152. Sue intenzioni rispetto al re di Sardegna, 158. Come giudichi dei popoli Cispadani, 211. Come risponda al congresso della Cispadana, 215. Sue querele contro i rubatori dell'esercito, 218. Si oppone ad Alvinzi e con quali forze, 228. Si ritira a Verona, 237. Combatte con infelice successo a Caldiero, 238. Sua pericolosa condizione e sinistre parole, 240. Si riscuote con mirabile artifizio, 244. Vince ad Arcole, 246. Ed a Rivole, 273. Prepara la guerra contro il papa, 289. Sue generose lodi di Wurmser, 293. Sua umanità verso gli ecclesiastici dello stato pontificio, 298. Fa la pace col papa a Tolentino, 301. Manda Monge a fare onorevole ufficio alla repubblica di S. Marino, 303. Suoi pensieri nell'ordinar una nuova guerra contro l'Austria, III, 6. Come disponga l'esercito, 8. Suo bando ai soldati, 11. Paragonato all'arciduca Carlo, 15. Passa il Tagliamento, 17. Entra vittorioso nelle metropoli della Stiria, della Carniola, e della Carintia, 29. Scrive all'arciduca, 30. Suo pericolo, 31. Conclude una tregua, poi i preliminari di pace coll'Austria, ivi. Rivolta la terraferma veneta, 33 e 62. Come risponda ai legati mandati a lui dal senato Veneziano, 45 e 101. Insidia Verona, 52. Manda Junod a fare un violento uffizio a Venezia, 62. Sue parole furibonde contro di lei, 101. Le dichiara la guerra, 103. Vuol cambiare l'antico governo di lei, con qual fine, e con quali mezzi, 104. Suo crudo parlare a Giustiniani, 113. Vuole che il gran consiglio di Venezia abolisca il patriziato e si spogli della sovranità e perchè, 120. Ottiene questo suo intento e come, 125. Suo trattato con Venezia, 130. Sue insidie contro Genova, 133. Fa una mutazione nel governo di lei, e quale, 153. Dà favore al re di Sardegna, e come, 186 e 187. Sua opinione sui Cisalpini, 185. Ordina la Cisalpina, 216. Suo ultimo vale alla Cisalpina, 237. Sue macchinazioni per arrivare alla somma potestà in Francia, 239. Manda la sua moglie a Venezia e come vi è trattata, 283. Suoi discorsi a Verona, 286. Sue lettere a Villetard segretario della legazione di Francia a Venezia, 187. Consegna Venezia agli Alemanni, 298. Accetta la condotta della spedizione di Egitto, e con quai fini, IV, 8. Parte per l'Egitto, e prende Malta, 14 e 16. Sbarca in Egitto e s'insignorisce di Alessandria, 20. Quanto desiderato in Francia dopo le rotte d'Italia, V, 73. Vi arriva e con quale allegrezza ricevuto dai popoli, 76. Distrugge il governo del direttorio, e si fa primo consolo, 77. Vedi Consolo.

Burcard, generale di Napoli, occupa Roma, V, 54.

Buronzo del Signore, arcivescovo di Torino. Sue pastorali in lode del governo repubblicano, IV, 262.

Busca, cardinale, segretario di stato a Roma. Sue lettere intercette da Buonaparte, II, 288.

C

Cacault, ministro di Francia a Roma. Sue insinuazioni contro il papa, II, 286. III, 301.

Cagliari di Sardegna assaltata dai Francesi, e come si difende, I, 147.

Calabresi, repubblicani. Loro coraggio indomito, V, 20.

Calabrie. Si sollevano contro il governo repubblicano, IV, 192. Fatti sanguinosi in quel paese, 332, 337 e 340. Con quali mezzi pacificate e da chi, VI, 131.

Caldiero, battaglia di, II, 338. V, 319.

Calliano, battaglia di, II, 231.

Campoformio, trattato di, III, 249.

Campotenese, battaglia di, V, 331.

Canavese, sollevato da un Brandalucioni, ed accidenti parte ridicoli, parte tremendi che vi si vedono, IV, 265.

Capobianco. Capo dei carbonari in Calabria, VI, 29. Perisce, e come, 134.

Capo d'Istria. Famiglia nobile in Corfù, favorevole ai Russi, IV, 286.

Caprara, cardinale. Conclude un concordato a nome del papa per la repubblica Italiana, V, 258. Sua lettera al papa, VI, 155.

Capua. Assediata dai Francesi, IV, 158. È loro consegnata, 166.

Caraccioli, Francesco, principe. Giustiziato in Napoli e perchè, V, 47.

Caraffa, Ettore, principe di Ruvo, fuoruscito Napolitano: sue qualità, IV, 167. Sua spedizione in Puglia, 196. Preso, condotto a Napoli, e punito coll'ultimo supplizio; suo estremo coraggio, V, 47.

Carbonari. Si sollevano in Genova contro i novatori, e conservano l'antico stato, III, 142.

Carbonari. Setta nel regno di Napoli, come nata, suoi riti e fini, VI, 29. Perseguitati dal re Giovacchino, 131.

Cardinali. Come trattati, III, 335.

Carletti, conte. Inviato a Parigi dal granduca di Toscana, I, 249. Conclude la pace, 258. Suo discorso al consesso nazionale, e risposta del presidente, ivi. Rivocato e perchè, II, 8.

Carlo, arciduca, Ved. Arciduca.

Carlo Emanuele, re di Sardegna. Assunto al trono, sue qualità, ed in quale stato trovi il regno, II, 159. Manda il conte Balbo suo ambasciatore a Parigi, 161. Offerte che gli fa la Francia per congiungerselo in amicizia, 167. Suo procedere e suoi fini con Buonaparte, e colla Francia, III, 176. Suo trattato colla Francia, 186. Congiure e sollevazioni in Piemonte e come vi rimedia, 194. Doma i sediziosi, 203. Sue condizioni nel 1798, IV, 65. Come risponda all'ambasciator di Francia, 70. Sua costanza e suo editto contro i novatori, 76. La repubblica Ligure gli dichiara la guerra e perchè, 98. Cessa la guerra e perchè, 109. I Francesi gl'invadono ostilmente il regno, 132. Sua prima potestà, 135. Sua rinunzia al regno, 137. Parte dal Piemonte e sua illibatezza nel partire, 142. Sua seconda protesta, 144. Sua abdicazione in favore del fratello, V, 245.

Carmagnola, città del Piemonte. Si solleva contro i Francesi; crudeltà che commettono i suoi abitanti e come ne sono puniti, 260.

Carolina, regina di Napoli. Suo sdegno contro i novatori, I, 271. Pacifica il regno col consolo e come, V, 189. Tratta con Napoleone, e di che, VI, 127. Viene in sospetto degli Inglesi, 130 e 225. Come risponda all'intimazione di Bentink, 226. Si ritira da Palermo e perchè, 228. Va ad abitar Castelvetrano, e perchè, 233. Suo tentativo per riassumere l'autorità, ivi. Costretta dagl'Inglesi ad abbandonar la Sicilia, arriva a Vienna, e muore: sue qualità, 236.

Carrosiani. Assaltano le truppe regie in Piemonte, IV, 94. Fanno un moto nella Fraschea, e macello che ne segue, 112.

Carrosio. Nido di repubblicani Piemontesi, IV, 294. Preso, poi abbandonato dai regj, 296.

Carteau. Generale contro i Marsigliesi, I, 173.

Casabianca. Ved. Saliceti.

Cassano, battaglia di, IV, 246.

Casteggio, battaglia di, V, 136.

Castel-Bolognese, restituito ai Bolognesi, II, 65.

Castelcicala (principe di). Membro di una giunta sopra le congiure di Napoli, I, 271.

Castellengo, conte, vicario di polizia a Torino. Sue qualità, III, 192. Mandato a Grenoble, e che vi fa, IV, 214.

Castello di Milano. Si arrende ai Francesi, II, 62.

Castiglione, battaglia di, II, 101 e 108.

Caterina di Russia. Stimola alla guerra contro la Francia, I, 76.

Cattaro (bocche di). In potere dell'Austria, III, 260.

Cenisio, monte. Sua descrizione, I, 202. Preso dai Francesi, 203.

Cervoni. Suo detto all'imperator Napoleone, e risposta di lui, V, 273.

Chabot, generale di Francia, difende Corfù, e le altre possessioni Ioniche contro gli alleati, IV, 286. Ricusa le offerte infami di Alì pascià di Iannina, 287. Difende egregiamente Corfù, 296. Poi è costretto alla resa, 301.

Chambery. Buona natura del suo popolo, I, 97.

Championnet, generalissimo di Francia in Roma, respinto dai Napolitani, IV, 42. Poi gli respinge, 150. Gli scaccia del tutto e riconquista Roma, 155. Marcia contro Capua, 158. Condizione pericolosissima in cui si trova, 165. Suo accordo coi deputati del regno, 166. I lazzaroni usciti da Napoli lo combattono aspramente e lo mettono in gravissimo pericolo, 168. Pure finalmente gli vince, 173. Assalta e prende Napoli, 177. Vi crea un governo provvisorio, 178. Sue operazioni per consolidare la sua impresa, 182. Rivocato, e perchè, 190. Preposto all'impresa contro il Piemonte superiore, 356 e 377. È vinto a Savigliano, 383. Muore a Nizza, 391.

Chasteler, generale d'Austria. Ha principal parte nella vittoria di Cassano ed in qual modo, III, 247. Mandato in ajuto dei Tirolesi, VI, 82.

Chiaramonti, cardinale e vescovo d'Imola. Sua omelia in lode della democrazia, III, 227. Creato papa, V, 161. Ved. Pio VII.

Chiusella, battaglia della, IV, 132.

Ciccone, frate. Trasporta il Vangelo in volgar Napolitano e perchè, V, 18.

Cicogna, provveditore dei Veneziani a Salò. Lodato e perchè, III, 55.

Cicognara, ministro di Cisalpina a Torino, IV, 67. Che scritto porga all'ambasciator di Francia Ginguenè, 85.

Cimarosa, Domenico. Carcerato in Napoli e perchè, liberato e da chi, V, 50.

Cirillo. Suo supplizio in Napoli, e sua virtù, V, 41.

Cisalpina, repubblica. Sua creazione, III, 217. Festa magnifica per questa creazione nel campo del Lazzaretto, 220. Suoi decreti 224. Fa chiudere la società di pubblica istruzione 225. Le potenze la riconoscono ed essa invia ministri presso le medesime 233 e 235. Suo trattato d'alleanza colla Francia, IV, 47. Sua constituzione violentemente riformata da Trouvé e da Rivaud agenti di Francia, 53 e 58. Sdegni prodotti da queste riforme, 57. Invasa, e distrutta dai confederati, 252. Ristabilita dal primo consolo, V, 134. Chiamata quindi Repubblica Italiana, 234. Poi Regno Italico, 277.

Cisalpini. Come giudicati da Buonaparte, III, 184. Fanno un moto contro il papa, 234. Vedi Italiani.

Cispadana, repubblica, II, 153 e 210. Suo congresso, 212. Arma soldati, 214. Sue lettere a Buonaparte e risposta di lui, 215.

Cittadella di Torino, rimessa ai Francesi, IV, 109 e 111. Pericolosi disordini sotto le sue mura, 117. Schifosa mascherata che n'esce, 119. Presa dagli alleati, 275.

Clarke. Mandato dal Direttorio in Italia e con quali fini, II, 167. Tratta la pace col generale San Giuliano, ministro dell'imperatore, 208. Conclude un trattato d'alleanza col re di Sardegna, III, 186.

Clauzel, generale di Francia. Tratta l'abdicazione del re di Sardegna, IV, 137. Sua condiscendenza verso la famiglia reale, 138.

Clement, generale francese. Difende Cuneo contro gli alleati, IV, 392, s'arrende, 393.

Clero, alto. Suoi costumi in Francia nel 1789, I, 62.

Colegno (cavalier di) comandante di Chambery. Sue qualità, I, 93.

Colli, generale del re di Sardegna. Come si ritiri, II, 207 e 339, generale del pontefice. Vinto al Senio, 285 e 294, si ritira dietro a Foligno, 298.

Colloredo Luigi, cappuccino, predica in Verona contro i forestieri, III, 84. Dannato all'ultimo supplizio e sua costanza, 96.

Conclusione dell'opera, VI, 304.

Concordato tra il consolo e Pio settimo, IV, 193. Altro tra il presidente della repubblica Italiana e Pio settimo, 258. Altro concluso a Fontainebleau, VI, 249.

Condulmer. Preposto alla difesa delle lagune di Venezia, II, 200. Come pensi di dette difese, III, 116.

Confederati. Vedi Alleati.

Confederazione (festa della) a Milano, III, 220. Nuova contro la Francia, e sue cagioni, IV, 5, 37, 224, e V, 310.

Conforti. Suo supplizio in Napoli, V, 43.

Consiglio supremo creato da Suwarow in Piemonte, sue operazioni, IV, 171.

Consolo, primo. ( Ved. Buonaparte ). Sue arti maravigliose dopo la sua creazione, V, 79. Scrive al re d'Inghilterra, 84. S'accorda coll'imperator Paolo, 86. Come animi i soldati alla guerra contro l'Austria, 90. Suoi discorsi in Ginevra, 120. Suo mirabile passaggio del Gran San Bernardo, ivi e seg. Vince a Marengo, 140. Suoi ordinamenti circa l'università di Pavia, 151. Crea governi provvisorj in Cisalpina, a Genova, ed in Piemonte, 151, 152 e 153. Unisce parte del Piemonte alla Cisalpina, 157. Accarezza papa Pio settimo, 163. Fa la pace coll'Austria, 190. E con Napoli, 191. Suo concordato con Pio settimo, 193. Altro concordato, 238. S'avvicina al compimento del suo supremo desiderio, 260. È chiamato imperatore, 262. Ved. Napoleone.

Consulta creata a Roma da Napoleone. Da chi composta e sue operazioni, VI, 93 e 105.

Contino, accusato d'assassinio. L'ambasciatore di Francia a Torino domanda la sua liberazione e perchè, V, 83.

Corfiotti. Come ricevano i Francesi, III, 267. Si sollevano contro di loro, IV, 288.

Corfù, isola. Viene in poter del Francesi, III, 264. Sette ed umori in essa, 270. Assaltata dai Turchi e Russi, IV, 286 e 296. Si arrende, 301. Come ordinata in repubblica sotto tutela della Porta Ottomana, V, 167.

Corner. Legato per Venezia a Buonaparte, III, 44.

Corsica. Disegni degli alleati e di Paoli sopra di lei, I, 128. Si solleva contro i Francesi, 146. Sua constituzione, 227. Esorbitanze dei Corsi contro i Genovesi, 229. Si sollevano contro gl'Inglesi e gli cacciano, II, 136.

Corsini don Neri, mandato dal Gran Duca di Toscana come ministro a Parigi in vece del Carletti, II, 9.

Corvetto. Membro del governo riformato di Genova mandato a Buonaparte, III, 168. Presidente. Sue qualità, 174. Suo complimento a Napoleone, V, 295. Fatto consiglier di stato, ivi.

Cosseria (fatto d'arme di) I, 326.

Costa, cardinale, arcivescovo di Torino. Consiglia la pace al re, I, 346.

Crema, fatta ribellar dai Francesi, III, 49.

Cuneo. Assediato, e preso dagli alleati, IV, 392 e 393.

Cuneo, prete repubblicano, III, 161.

D

Dalmazia (crudeltà della guerra in) V, 344.

Dalpozzo, uno della consulta di Roma. Come giustifichi i giuramenti prescritti agli ecclesiastici, VI, 109.

Damas, conte Ruggiero di. Sbarca ad Orbitello con truppe Napolitane, IV, 150. Costretto a ritirarsi combatte, capitola con onore, e si rimbarca, 156. Si accosta al cardinale Ruffo a rinstaurazione della potestà regia in Napoli, V, 8. Sua guerra in Toscana e come respinto da Pino, 187.

Dandolo, municipale di Venezia, III, 254. Sue promulgazioni in Dalmazia, V, 344.

Dastros (affare di) vicario generale della diocesi di Parigi, VI, 163.

Daunou. Mandato a dar una constituzione a Roma, III, 336.

Davidowich, generale d'Austria. Caccia i Francesi dall'alto Tirolo, II, 230. Vince a Galliano, 231. Sua lentezza dopo la vittoria, molto fatale all'Austria, 253 e 260.

De Angioli, presidente a Verona. Come risponda a Buonaparte, III, 286.

Degerando. Membro della giunta in Toscana e quello che vi fa, VI, 14. Membro della consulta in Roma, dà favore alla Propaganda, 117.

Dego (battaglia del) I, 331.

Deposizione dei principi, fatta dai papi, come spiegata da Pio settimo, VI, 147.

Desaix, generale di Francia, ucciso a Marengo, V, 146.

Devins. Generalissimo degli alleati in Piemonte, sue qualità e disegni, I, 130. Vince a San Giacomo, ed a Melogno, 265. Sue disposizioni per la battaglia di Loano, 292. Afflitto da grave malattia lascia l'esercito, 294. Rivocato con surrogazione di Beaulieu, 305.

D'Eymar, ambasciatore di Francia a Torino invece di Ginguenè, IV, 126.

Dieta militare convocata dai Francesi prima della battaglia di Novi, e pareri che vi sorgono, IV, 361. Simile, convocata nella medesima occasione dai confederati, e pareri che vi sorgono, 365.

Direttorio Cisalpino. Riformato da Trouvé, IV, 58. Costretto dai confederati a lasciar Milano, 254.

Direttorio Francese. Come risponda alle proposte di pace fatte dall'Inghilterra, I, 302. Sua domanda al senato Veneziano rispetto al conte di Lilla, 309. Si risolve del tutto all'invasione d'Italia, 315. Suoi disegni sopra di lei e suo desiderio di rapina, ivi e II, 7. Ordina lo spoglio dei capi d'opera di belle arti in Italia, 16. Condizioni di pace che vuol imporre al pontefice, 154. Taccia a torto la fede Italica, 156. Fa pace con Napoli e con Parma, ivi e 158. Come risponda all'ambasciator di Sardegna, 161. Suo trattato con Genova, 165. Offerte che fa al re di Sardegna per congiungerselo in alleanza, 167. Offerte che fa all'Austria per aver la pace con lei, ivi. Con qual fine proponga un trattato d'alleanza a Venezia, 173. Come senta il rifiuto di lei di entrar in quest'alleanza, 182. Opera rivoluzioni nella terraferma Veneta, e con qual fine, III, 33. Suo trattato d'alleanza col re di Sardegna, 186. Fa il diciotto fruttidoro, 242. Suo costume nei paesi conquistati, IV, 46. Suo trattato d'alleanza colla Cisalpina, 47. Sua riforma nella costituzione Cisalpina, e sdegni che ne nascono, 53. Sue ragioni, 61. Sue risoluzioni rispetto al Piemonte, 89. Mutazione fatta in lui dopo le rotte d'Italia nel 1799, 353. Suoi nuovi pensieri circa l'Italia, 355. Distrutto da Buonaparte, V, 77.

Discolato, che cosa fosse in Lucca, I, 52.

Doge di Genova. Ved. Durazzo.

Doge di Venezia, III, 106. Suoi sentimenti nell'ultima fine della repubblica, 109.

Dolceacqua. Preso dai Francesi, I, 194.

Donato (censore). Mandato dal senato Veneziano a Buonaparte, III, 70. Come gli parli, e quale risposta ne ottenga, 101. Suoi maneggi per cambiare il governo Veneto, 116.

Doria ( Andrea ). Sua statua atterrata dai novatori, III, 158.

Doria ( Filippo ). Uno dei capi della rivoluzione in Genova, III, 137. Ucciso e come, 143.

Drake, ministro d'Inghilterra a Genova. Sue superbe intimazioni ai Genovesi, I, 161 e 223.

Duhesme, generale di Francia. Sua spedizione in Puglia, IV, 197. Combatte nella battaglia di Savigliano, 389.

Dumas, generale di Francia, prende il Moncenisio, I, 203.

Duphot, generale di Francia in Genova. Vince i sollevati, III, 166 e 169. Ucciso a Roma, come e da chi, 307.

Dupont, generale Francese. Come combatta alla battaglia del Mincio, V, 180.

Durazzo, doge di Genova. Va a Milano, V, 287. Suo discorso a Napoleone per domandar l'unione di Genova alla Francia, 292.

Dutillot, primo ministro in Parma. Sua buona amministrazione, e sue lodi, I, 36.

E

Eccessi dei repubblicani e degli imperiali sui territori Genovese, e Piemontese, I, 298 e 336. E nella terraferma Veneta, 187 e 195.

Egitto (spedizione d'), IV, 9.

Elba, isola, occupata dagl'Inglesi, I, 132. Poi perduta, II, 136. Ultimo asilo di Napoleone, VI, 285.

Elisa, sorella di Napoleone. Nominata principessa di Lucca e Piombino, V, 300. Governatrice di Toscana, VI, 16.

Elliot, vicerè in Corsica per parte dell'Inghilterra, I, 227. Sue esortazioni ai Corsi, 228. Obbligato ad abbandonar l'isola, II, 136.

Emilia (l'). Si muove a libertà, II, 147. A qual fine siano indirizzati i suoi moti, 210. Umori che vi regnano, 211.

Emilii ( degli ), conte Francesco da Verona. Qual carico abbia avuto dai Veneziani, III, 53. Muove i Veronesi contro i Francesi, 81. Condannato all'ultimo supplizio, 97.

Emma Liona Hamilton, a Napoli, V, 37 e 119.

Entraigues (conte d'), agente del conte di Lilla, I, 312. Fatto arrestare, poi rilasciare da Buonaparte, e perchè, III, 246 e 247.

Ercole Rinaldo, duca di Modena. Sue qualità, previdenza e maniera di governare, I, 55. Come trattato, II, 15. Se gl'invola un suo tesoro in Venezia, III, 276.

Erizzo, provveditore dei Veneziani a Verona, III, 53.

Esercito Francese in Italia. Sue minacce contro i nemici del governo repubblicano in Francia, III, 241.

Esnitz, generale d'Austria. Come combatta nella battaglia di Savigliano, IV, 388. Sua guerra in Liguria, V, 98. Suoi errori nella battaglia di Marengo, 143 e 149.

Eugenio, Beauharnais, creato vicerè d'Italia, V, 280. Suo manifesto contro gli Austriaci, 315 e VI, 70. Regge l'esercito Francese ed Italiano in Italia, ivi. È vinto a Sacile, 77. Vince sulla Piave, 85. Ed a Giavarino, 90. Tentativi de' suoi aderenti per farlo nominare re d'Italia, 253. Sue titubazioni circa l'independenza d'Italia, 256. Come prepari la guerra, 262. Male disposizioni degl'Italiani verso di lui, 271. Sua convenzione di Rizzino-Schiarlino, 287 e 289. Aspira inutilmente al regno d'Italia, 289. Parte per la Baviera, 299.

Eymar. Vedi D'Eymar.

F

Faipoult, ministro di Francia a Genova. Favorisce i novatori, III, 136. Sue insinuazioni al senato Genovese, 141. Scusa i Genovesi presso a Buonaparte, 146. Poi gli accusa, 147. Vuole che si riformi lo stato in Genova, 148. Si lagna di Serra, uno dei membri del Governo, 172. Cambiato con Sottin, 175. Mandato commissario a Napoli e che vi faccia, IV, 188. Cacciato da Championnet, ivi. Vi torna, 190.

Febbre gialla di Livorno. Sua descrizione, V, 248.

Federigo Guglielmo, re di Prussia. Sue deliberazioni rispetto alla Francia, I, 77. Fa la pace con lei, 261. Vinto da Napoleone, VI, 5.

Ferdinando, duca di Parma. Sue qualità, I, 38. Suo trattato di tregua con Francia, II, 20. Sua pace con la medesima, 158.

Ferdinando, granduca di Toscana. Sue deliberazioni rispetto alla Francia, I, 80. Fa accordo, ed assicura la sua neutralità con lei, 246. Manda il conte Carletti suo inviato a Parigi, 249. Allegrezze in Toscana per la pace, 250. Manda don Neri Corsini a Parigi in vece del Carletti, II, 8. Ree intenzioni di Buonaparte sopra di lui, 85.

Ferdinando, re di Napoli. Opinioni e vicende nel suo regno, I, 30, 213, 270 e segg. Sue deliberazioni rispetto alla Francia, 79. Sue preparazioni di guerra contro di lei, II, 77. Sua tregua con la medesima, 81. Sua pace, 156. Suo desiderio di acquistar nuovi paesi, e quali, III, 216. Suo trattato colla Francia, IV, 34. Si risolve alla guerra contro di lei, 38. Suoi ordinamenti guerrieri, 41. Entra trionfando in Roma, 44. È costretto a lasciarla, 155. Ed a partire da Napoli per la Sicilia, 162. Sollevazioni terribili nel regno, 164. Ed in Napoli stessa, 168. Sue speranze per ricuperare il regno, e suoi trattati colle potenze, V, 6. Sua pace col consolo, 191, e 192. Suo trattato con Napoleone, 314. Napoleone gli toglie il regno, e perchè, 324 e 326. Parte per la Sicilia, 329. Nomina il suo figliuolo vicario generale del regno, VI, 228. Suo tentativo per riassumere l'autorità, 233.

Ferrara. Occupata dai Francesi, II, 67. Si muove a stato popolare, 153.

Ferri, Marco, discorso di Melchiorre Gioja sotto questo supposto nome diretto contro Trouvé ambasciatore di Francia in Cisalpina, IV, 54.

Feudi imperiali. Si sollevano contro i Francesi, II, 70.

Fiorella, generale di Francia, difende la cittadella di Torino, IV, 275. Si arrende, 276.

Fombio, (battaglia di), I, 363.

Fonseca, Eleonora. Suo monitore Napolitano, V, 17. Sue virtù, supplizio e coraggio, 46.

Foscarini, provveditor generale dei Veneziani in terraferma, II, 42. Minacciato aspramente da Buonaparte, e quel che gli restava a fare, 54. Quello che fa, 58.

Francesco, imperator d'Alemagna. Sue deliberazioni rispetto alla Francia, I, 77. Esortazioni de' suoi ministri al senato Veneziano, 112. Vuol ricuperare le sue possessioni d'Italia, II, 90. Fa la pace colla Francia a Campoformio, III, 249. Ed a Luneville, V, 190. Ed a Presburgo, 325. Prepara una nuova guerra contro a Napoleone, VI, 66. Forzato ad accettar la pace a Vienna, 91. Sua risposta ai deputati del regno d'Italia, 200.

Francesi. Loro modo di guerreggiare rispetto a quel degli Austriaci, III, 28. Loro benevolenza verso i repubblicani Italiani ricoverati in Francia, IV, 278.

Francia. Stato, opinioni ed inclinazioni di questo paese nel 1789, I, 59. Opinioni e rimproveri vicendevoli delle due parti contrarie, 85. Stato degli animi in Francia, dopo le rotte d'Italia nel 1799, IV, 353, V, 71. Stato della religione cattolica in Francia, V, 94. Parlari tendenti all'assunzione del consolo alla dignità imperiale, 260.

Fraschea (fatto orribile della), IV, 112.

Fresia, generale Piemontese, combatte con valore, ed è fatto prigioniero nella battaglia di Cassano, IV, 251. Difende Genova contro Bentink, VI, 281. Costretto ad arrendersi, 283.

Froelich, generale d'Austria. Come combatta nella battaglia di Novi, IV, 372. Fa guerra nella Romagna, V, 53. Pena al sottoscrivere all'accordo fatto coi Francesi in Roma, e perchè, 54. Va all'assedio d'Ancona, 55 e 65. La prende, 69.

Fuorusciti Francesi. Loro fuga compassionevole dalla Savoja, I, 77 e 103.

Fuorusciti Sardi. Come trattati da Buonaparte, II, 86.

Fuorusciti Napolitani. Come trattati da Murat, V, 222.

G

Gabbrielli, cardinale, segretario di stato del papa. Arrestato per ordine di Napoleone, e perchè, VI, 56.

Gaeta. Presa dai Francesi, IV, 158. Assediata dai Francesi, V, 330.

Gamboni, patriarca di Venezia. Suo parlare adulatorio a Napoleone, VI, 10.

Garat, ambasciatore di Francia a Napoli, IV, 30. Suo discorso al re, ivi. Conclude un trattato con lui, 35. Rivocato, 36.

Gardanne. Difende Alessandria contro gli alleati, IV, 340. Obbligato ad arrendersi, 343. Combatte valorosamente a Caldiero, V, 319.

Garnier. Difende Roma contro gli alleati, V, 53. Capitola onorevolmente, 54.

Gast, colonnello di Francia. Come difenda Tortona dagli alleati, IV, 379. Si arrende, 380.

Genova. Natura del suo governo, e de' suoi popoli, I, 51. Paragone tra Venezia e Genova, 52. Sue deliberazioni dopo l'invasione di Nizza fatta dai Francesi, 127. E dopo le intimazioni di Drake, ministro d'Inghilterra, 161. In pericolo, II, 163. Insultata dagl'Inglesi, 164. Si getta alla parte Francese, 163. Suo trattato colla Francia, ivi. Insidiata da Buonaparte, III, 135. Sommossa in lei, 137. Battaglie feroci dentro le sue mura, 142. Perplessità del senato, 146. Suo manifesto ai sudditi, 148 e 152. Delibera che si muti lo stato, e manda a questo fine legati a Buonaparte, 152. Si fa la mutazione, e quale, 153. Umori e sette, 159 e 166. Suo corpo municipale, 162. Semi di discordia, 163. Atto condannabile del suo governo, 164. Sua constituzione, 173. Sua descrizione, V, 106. Difesa da Massena, ed oppugnata dagli alleati, 107. Estremità a cui è ridotta, 111. Si arrende, 116. Mossa a cose nuove da Napoleone, 290. Domanda la sua unione a Francia, 292. Gran festa per l'arrivo di Napoleone, 296. Governo provvisorio creatovi da Bentink, VI, 283. Sua protesta, 300. Data al re di Sardegna, 301.

Gentili, generale per Francia. Sbarca in Corsica, e ne caccia gl'Inglesi, II, 129 e 134. Mandato ad occupar Corfù, III, 266.

Gesuiti. Perchè soppressi, I, 10. Come piegarono la religione, 57. Loro astute insinuazioni, V, 305. Ristaurati nel regno di Napoli, 307.

Gianni, poeta. La Cisalpina gli dà la naturalità, III, 236.

Giavarino (battaglia di), V, 90.

Ginguené, ambasciatore di Francia a Torino, IV, 68. Suo discorso al re, 69. Domanda un indulto a favor dei novatori, 90. Vuol far rivocare il conte Balbo da Parigi, 92. Sue querele sul passo preso dai regj sulle terre della repubblica Ligure, 96. E sulla condotta del governo Piemontese, 99. Conclude un indulto col ministro del re, 102. Domanda al re la cittadella di Torino, 103. Domanda il cambiamento dei ministri regj, 122. Scena ridicola in sua casa, 124. È rivocato, 126. Sue qualità, ivi.

Giovanelli, provveditor dei Veneziani a Verona, III, 53. Pattuisce per Verona coi Francesi, 93.

Giuliani, municipale di Venezia, III, 254.

Giunta. Sopra le congiure in Napoli, e suo procedere, I, 271. In Toscana, e sue operazioni, VI, 14.

Giuramenti, prescritti da Napoleone nelle Marche, e loro effetti, VI, 57. Ed in Roma, e quali lagrimevoli effetti ne seguono, 108 e segg.

Giuseppe II, imperatore d'Alemagna. Sue lodi, ed utili riforme fatte da lui, I, 12. Papa Pio sesto il va a trovare a Vienna, 14.

Giustiniani, Angelo. Sue generose risposte a Buonaparte, III, 113.

Giustiniani, Leonardo. Mandato dai Veneziani legato a Buonaparte, III, 70. Come gli parli, e risposta che ne ottiene, 100.

Goveano, giustiziato in Piemonte, e perchè, III, 206.

Governo provvisorio in Piemonte, IV, 140. Sue operazioni, 214. Domanda l'unione del Piemonte alla Francia, 219. Sua bella provvisione circa l'università degli studj, V, 158.

Governo provvisorio in Napoli, e sua condizione, IV, 178. Che faccia all'approssimarsi dei regj, V, 13.

Governo provvisorio in Genova. Sue deliberazioni, V, 158.

Grecia (guerra in), IV, 285.

Grenier, generale di Francia. Come combatta nella battaglia di Savigliano, IV, 386.

Grotta-ferrata (convento di). Conservato dalla Consulta di Roma e perchè, VI, 116.

Grouchy. Sue operazioni in Piemonte, IV, 130. Sottomette gli Acquesani insorti, 221. Ferito e preso nella battaglia di Novi, 375.

Guidobaldi, Membro di una giunta sopra le congiure di Napoli, I, 271.

H

Haddick, generale austriaco. Suo valore alla battaglia di Marengo, V, 142.

Haquin, generale di Francia. Si trova fra i sollevati di Pavia, e come n'è trattato, II, 30.

Hauteville, conte, ministro del re di Sardegna. Congedato e perchè, II, 161.

Herney, ministro d'Inghilterra in Toscana. Sue superbe intimazioni al Granduca, I, 160.

Hiller, generale austriaco, invade l'Italia, VI, 259.

Hofer, Andrea, tirolese. Sue virtù, VI, 79. Incita i suoi compatriotti contro Napoleone, ed in favor di Francesco, 80 e 92. Preso dai Napoleoniani, 93. Morto da loro, ivi.

Hohenzollern, generale d'Austria. Sua guerra nel Modenese contro Macdonald, IV, 317. Ed in Liguria, V, 96 e 109. Forma un governo provvisorio e raffrena le vendette in Genova, 117.

Hompesch, gran maestro dell'ordine di Malta. Come ceda l'isola ai Francesi, IV, 17.

Hotham, viceammiraglio d'Inghilterra. Vince i Francesi al capo di Noli, I, 257.

I

Imperatore dell'Allemagna. Ved. Francesco.

Imperatore dei Francesi. Ved. Napoleone.

Imperatore di Russia. Ved. Paolo e Alessandro.

Incoronazione di Napoleone, come imperatore dei Francesi, V, 262. Come re d'Italia, 288.

Instituzione canonica dei vescovi. Pareri e discussioni diverse intorno alla medesima, V, 196 e seg. VI, 178 e 183.

Italia. Specchio del suo stato nel 1789, I, 56. Parti, sette e fazioni che vi regnavano, 138. Si appropinquano le sue calamità, 313. Spoglio di lei, II, 16 e 66. Calunnie di alcuni agenti di Francia contro i suoi principi, 89. Nuovi pensieri che vi sorgono per le vittorie dei Francesi, 138. Moltiformi maniere di rubar lei ed i soldati, 217. In quale stato la lasci Buonaparte, III, 252. Pensieri che vi nascono per le riforme violente fatte nella Cisalpina da Trouvé e da Rivaud, IV, 62. Miserie incredibili, VI, 16.

Italiani s'appresentano a Napoleone per chiamarlo loro re, V, 275. Loro nuove adulazioni verso lui, VI, 9.

J

Joubert. Combatte valorosamente a Rivole, II, 274. Suoi fatti in Tirolo, III, 21. Combattuto ed accerchiato dai nemici, come e dove si ritiri, 23. Invade il Piemonte e procura l'abdicazione del re, IV, 132. Rivocato dall'Italia e perchè, 226. Rimandatovi dopo le rotte del 1799, suoi pensieri rispetto a lei, 356. Arriva al campo di Liguria e sua modestia, 358. Vuol combattere e convoca una dieta militare per deliberare, 361. È ucciso nella battaglia di Novi, 368.

Judenburgo (tregua di) III, 31.

Junod. Mandato da Buonaparte a fare un violento uffizio a Venezia, III, 62.

K

Keim, generale d'Austria. Combatte valorosamente nelle battaglie di Verona, IV, 232. Prende la cittadella di Torino, 275. Come combatta nella battaglia di Savigliano, 390. Come combatta nella battaglia di Marengo, V, 141 e 149.

Keit, ammiraglio d'Inghilterra, stringe d'assedio Genova, V, 108.

Kellerman, generalissimo di Francia sulle Alpi, e sue preparazioni di guerra, I, 134. Assedia Lione e s'oppone ai Piemontesi, 169. Gli respinge, 171. Sue dispozioni sulla riviera di Ponente, 263. Combatte a San Giacomo ed a Melogno, 265. Si ritira a Borghetto, 268.

Kellerman, figlio. Suo valore nello stato romano e sue lodi, IV, 151. Fa capitolare il conte Ruggiero di Damas, generale dei Napolitani, e sua umanità, 156. Combatte con molto valore, e contribuisce efficacemente alla vittoria di Marengo, V, 142 e 146. Parole che gli dice il consolo dopo il fatto, e sua risposta, 148.

Kerpen, generale austriaco. Fa la guerra nel Tirolo, III, 20.

Kilmaine. Sua lettera in occasione della rivoluzione di Bergamo, III, 48. Sforza i Veronesi a capitolare, 95.

Klenau, generale d'Austria. Romoreggia sul Po, IV, 237 e 242. Sua guerra nel Modenese contro Macdonald, 314. Suoi movimenti nella riviera di Levante, 383.

Kray, Generale d'Austria in Italia, IV, 225. Vince a Verona, 232. Ed a Magnano, 239. Assedia Mantova, 259. Allarga l'assedio per cagione delle mosse di Macdonald nel Modenese, 314. Vi torna, l'oppugna gagliardamente e la prende, 344. Come combatta nella battaglia di Novi, 368. Lasciato da Melas sulle rive della Scrivia e della Bormida, e perchè, 384.

L

Lacombe San Michel, generale di Francia in Corsica contro Paoli, I, 152. Ambasciatore di Francia a Napoli, IV, 36.

Laharpe, generale Francese. Difende Vado, I, 265. È ucciso a Codogno e sue lodi, 365.

Lahoz, generale cisalpino. Suo manifesto contro Venezia, III, 60. Volta l'armi contro i Francesi, e perchè, V, 59. Conduce i collettizi di Romagna contro Ancona, è ferito mortalmente, 66. Sue ultime parole e sua morte, ivi.

Lallemand, ministro di Francia a Venezia e suo ingresso, I, 221. Sue insinuazioni contro il duca di Modena, II, 16. Che cosa proponga al governo veneto, 173. Domanda al senato la cagione de' suoi armamenti e sue contradizioni, 204. Legge al senato lettere acerbissime di Buonaparte, III, 63. Fa, per mandato del medesimo, un violento uffizio al senato, 99.

Landrieux. Sue rivelazioni sulle trame che si ordivano contro Venezia, III, 34.

Lannes. Occupa militarmente Genova, III, 173. Come combatta alla Chiusella, V, 132. Ed a Montebello ed a Marengo, 136 e 141.

Lasalcette. Suo valore nella battaglia di Nicopoli, IV, 288. Come trattato dai Turchi, ed Albanesi, 290 e 295.

Latour-Foissac. Difende Mantova contro gli alleati, IV, 344. Obbligato ad arrendersi, 350.

Latterman, generale austriaco. Sua guerra nella riviera di Ponente, V, 97.

Laudon. Come combatta in Tirolo, III, 20. Romoreggia alle spalle dei Francesi, 23. Comparisce nel Bresciano, 31. Pressato nel Tirolo, come scampa, V, 185.

Laugier, capitano di una nave francese. Ucciso in Venezia, come e perchè, III, 90.

Lavallette. Mandato da Buonaparte a fare un violento ufficio a Genova, III, 145.

Lazzaroni. Loro terribile sommossa in Napoli, e battaglia contro i Francesi in campagna, IV, 168. Vinti, combattendo di nuovo i Francesi in Napoli, 173.

Lebrun, principe arcitesoriere. Ordina Genova alla francese, V, 292.

Legazioni. Si danno alla Cisalpina, III, 225.

Legione calabra. Suo coraggio indomabile, V, 24.

Lemarrois. Porta i trofei di Arcole in Parigi. I, 263. Governator generale della Marca d'Ancona, VI, 54.

Leoben (preliminari di) III, 31.

Leopoldo, granduca di Toscana. Sue lodi ed utili riforme fatte da lui, I, 17. Sua morte, ed effetti di lei, 76.

Lerback (conte di). Muove i Tirolesi all'armi contro i Francesi, III, 21.

Lewaschew, generale russo in Italia, e con qual missione, V, 189.

Leucio, San. Singolare colonia fondata dal re Ferdinando di Napoli, I, 32.

Libertini, fanno una sommossa pericolosa in Genova, III, 137. Sono vinti dal popolo e come, 142.

Lichtenstein principe di. Assedia e prende Cuneo, IV, 391 e 393.

Ligure, la repubblica. Dichiara la guerra al re di Sardegna, IV, 98.

Linguadoca. Moti in questa provincia contro il consesso nazionale, I, 168.

Lione. Si solleva contro il governo repubblicano, e suo assedio, I, 168. Si arrende ai repubblicani, e come trattato da loro, 176. Consulta cisalpina in detta città, V, 229.

Liptay, generale d'Austria. Vinto a Castiglione, II, 101. Combatte valorosamente a Rivole, 273.

Lissa, fazione navale di, VI, 240.

Livorno. Occupato dai Francesi, II, 84. Espilazioni, 85. Di nuovo occupato dai Francesi, IV, 229. Febbre gialla e sua descrizione, V, 248.

Loano, battaglia di, I, 292.

Lodi, battaglia del ponte di, I, 368.

Lonato, battaglia di, II, 98. Fatto mirabile accaduto a Buonaparte, 105.

Lucca. Natura del suo governo, e de' suoi popoli, I, 52. Sua rivoluzione, IV, 212. Cambiata da Napoleone, e data ad Elisa e Bacciocchi, V, 300.

Lucchesini, marchese. Suoi consigli al re di Prussia, V, 264. Deputato dal re di Prussia a Napoleone a Milano, 286.

Lugo, si solleva contro i Francesi, ed effetti di questa sollevazione, II, 67 e 69.

Luigi XVI. Ved. Francia.

Luigi XVIII. Accettato in grado di ospite dai Veneziani, e sua condotta, I, 219 e 309. Sua espulsione domandata al senato veneziano dal direttorio, 319. Come riceva questa nuova ingiuria della fortuna, 312. Dove si ritiri, ivi.

Luneville, pace di, V, 190.

Lusignano. Generale austriaco, fatto prigioniero dai Francesi, II, 277.

M

Macdonald. Combatte valorosamente nello stato romano, IV, 150. Assalta Capua invano, 165. Succede a Championnet nel governo dell'esercito in Napoli, 190. Suo manifesto contro la corte di Napoli, 207. Sua generosità verso i discendenti del Tasso, 210. Parte da Napoli per l'Italia superiore, 303. Arriva in Roma, 305. Vince alcune città sollevate in Toscana, ma non può sottomettere Arezzo, 309. Varca gli Apennini, ed entra nel Modenese, 313. Sue battaglie in questo paese contro Klenau, Hohenzollern e Otto, 315. Entra in Modena, 317. Si conduce a Piacenza, 321. Sua prima battaglia alla Trebbia, ivi. Seconda, 323. Terza, 327. Si ritira, 332 e 334. Sue qualità, 335. Suo mirabile passaggio della Spluga, V, 183. Suoi disegni in Tirolo, e come gli vengano rotti, 184. Occupa Lubiana, VI, 77.

Mack, generale del re di Napoli. Sua guerra nello stato romano, IV, 41 e 150. È vinto da Championnet e si ritira a Capua, 155. Poi a Napoli, 160. Finalmente al campo di Championnet, 169. È vinto da Napoleone in Germania, V, 318.

Magliani, battaglia di, I, 327.

Magnano, battaglia di, IV, 240,

Maida, battaglia di, V, 337.

Malmesbury. Mandato dall'Inghilterra a trattar la pace in Francia, II, 208.

Malo-Jaroslavetz (cimento terminativo di) fatale a Napoleone, VI, 245.

Malta. Presa dai Francesi, IV, 16. Presa dagl'Inglesi, V, 166.

Mammone, uomo crudele. Solleva la Campania contro i repubblicani, IV, 194 e V, 8.

Manhes, generale francese. Mandato dal re Giovacchino a pacificar le Calabrie, ottiene l'intento e per quali mezzi, VI, 131.

Manin, Vedi Doge di Venezia.

Mantoné, ministro della repubblica partenopea. Come ordini la guerra contro il cardinale Ruffo, V, 19. Va contro il cardinale ed è vinto, 23. Suo supplizio in Napoli ed estremo coraggio, 45.

Mantova, sua descrizione, II, 119. Fazioni importanti sotto le sue mura, 125. Sua condizione miserabile al tempo dell'assedio, 291. Si arrende alle armi Francesi, 292. Oppugnata gagliardamente e presa dagli alleati, IV, 344.

Marche, unite al regno italico da Napoleone, V, 54.

Maremme sanesi. Loro descrizione e lavori fattivi dal gran duca Leopoldo, I, 21.

Marengo, battaglia di, V, 140. Festa a, 272.

Marescalchi. Inviato a Vienna della repubblica Cisalpina e sue qualità, III, 233. Inviato a Parigi, conclude un concordato per la repubblica Italiana, V, 258.

Maret, Ugo. Sue minacce al papa prigioniero in Savona, VI, 143.

Marmont, mandato da Buonaparte in Cispadana e perchè, II, 214. Suo viaggio dalla Dalmazia a Gratz, VI, 88.

Marsiglia. Si solleva contro il governo repubblicano, ed in ajuto di Lione, II, 169. Presa e saccheggiata dai repubblicani, 174.

Martin, ammiraglio di Francia. Vinto dagl'Inglesi al Capo di Noli, I, 257.

Mascherata molto schifosa, che esce dalla cittadella di Torino, e pericolo che nasce, IV, 119.

Massa e Carrara, ducato di. Occupato dai Francesi, II, 88.

Massena, generale di Francia. Sue qualità, I, 193. Prende il ponte di Nava, 197. Suo invito ai Piemontesi, 198. Con quali parole animi i suoi soldati, 293. Ha principal parte nella vittoria di Loano, 294. Vince Provera sulla Brenta, II, 238. Suo valore nella battaglia d'Arcole, 253 e 258. Combatte ferocemente presso a Verona, 269, ed a Rivole, 273. Vince un fatto importante alla Ponteba ed a Tarvisio, III, 24. Rimproverato e disobbedito dai suoi ufficiali, 333. Mandato in Liguria dal consolo, V, 89. Come ordinato, 90. Come combatta fuori delle mura di Genova, 96 e 98. Come si difenda dentro, 107. Costretto alla resa, 116. Vince l'arciduca Carlo a Caldiero, 319.

Mathieu, Maurizio. Suo valore nella guerra dello stato romano, IV, 154. Ferito a Capua, 166.

Mattei, cardinale. Mandato dal pontefice a trattar la pace con Buonaparte, II, 300 e 301.

Maulandi, capitano nelle truppe piemontesi. Sue lodi, I, 207.

Maury, cardinale. Grave riprensione che gli fa il papa, V, 163.

Medici, ministro del re Ferdinando in Sicilia. Sue operazioni, VI, 216. Rinunzia e perchè, 222.

Melas, generalissimo d'Austria in Italia, IV, 225. Vince a Cassano, 247. Entra vittorioso in Milano, 255. Vi frena le intemperanze popolari, 256. Con quale abilità contribuisca alla vittoria di Novi, 371. Vince a Savigliano, 386. Assedia Cuneo, 391. Ingannato da Buonaparte, V, 92 e 105. Suo bando ai Genovesi, 94. Sua guerra sulle riviere di Genova, 96. Stringe Genova, 102. Accorre alla difesa della Lombardia, 129 e 135. È vinto a Marengo, 140. Capitola della resa d'Italia superiore col consolo, 149.

Melogno (battaglia di) I, 265.

Melzi, vicepresidente della repubblica italiana. Suo decreto ad esecuzione del concordato concluso con Roma, V, 258. S'appresenta a Napoleone cogl'Italiani per chiamarlo re d'Italia, 275.

Menard, generale di Francia. Fa cessare colla sua prudenza un grave pericolo in Torino, IV, 121.

Menou, generale francese, amministrator generale in Piemonte, V, 220.

Merenda, commissario del sant'officio in Roma. Suo parere sul concordato del 1801, V, 207.

Messina (congiure in) VI, 213.

Micheroux, generale del re di Napoli. Come contribuisca alla rinstaurazione della potestà regia, V, 10.

Milanesi. Vanno a congratularsi coi Cispadani, II, 212. Vogliono far un moto per l'independenza, e come è sentito dai Francesi, 217. Loro amministrazione generale soppressa e perchè, III, 217.

Milano. Viene in poter dei repubblicani, I, 374. Opinioni, sette ed umori che vi regnano, 375. Festa della confederazione che vi si celebra, III, 220. Riconquistato dai confederati, 255. Magnifica festa per l'incoronazione di Napoleone, V, 288. Discussioni nel suo senato circa l'independenza del regno, VI, 290 e segg. Commozione popolare, 298. Occupato dagli Austriaci, 300.

Mincio (battaglia del) V, 173.

Miollis, generale di Francia a Lucca, IV, 212. Sua guerra in riviera di Levante, V, 103. Vince i Napolitani in Toscana, 169. Come occupa Roma, VI, 46. Presidente della consulta di Roma, 96.

Miot, ministro di Francia a Firenze. Come parli degl'Italiani, II, 130.

Modena. Moto in lei contro il duca, II, 147. Congresso, 152.

Modenese, guerra nel, tra i Francesi e gli alleati, IV, 313 e segg.

Modesta. Fregata francese presa dagl'Inglesi con uccisioni di molti nel porto di Genova, I, 162.

Moliterno, principe. Eletto capo dal popolo di Napoli, IV, 170. Macchina di dar Napoli ai Francesi, 172. Assicura loro la possessione dei castelli, 175. Sue operazioni in Calabria, VI, 32.

Mondovì, battaglia di, I, 341. Si solleva contro i Francesi, IV, 260.

Monferrato, duca di. Governa le truppe piemontesi in Savoia e sue qualità, I, 171. Difende la valle d'Aosta, 200.

Monge. Mandato da Buonaparte a fare un onorevole ufficio presso la repubblica di San Marino, II, 303. Mandato a dare una constituzione a Roma, III, 336.

Monnier, generale di Francia. Sua forte difesa in Ancona, V, 57. S'arrende con onore, 69. Suo valore nella battaglia di Marengo, 143.

Montecorona, convento di. Sua descrizione, VI, 116.

Montenegrini. Loro guerra coi Francesi, V, 344.

Montenotte, battaglia di, I, 321.

Montesquiou, generale di Francia, invade la Savoia, I, 94.

Morando. Uno dei capi della rivoluzione di Genova, III, 136. È vinto dai carbonari, 142.

Moreau. Suo valore nelle battaglie di Verona, IV, 230 e 231. Ed in quella di Magnano, 238 e 239. Assunse il comando supremo dell'esercito in vece di Scherrer, 245. È vinto a Cassano, 249. Si ritira al Ticino, 250. Poi ad Alessandria, 238. Vince i Russi a Bassignana, 249. Si ritira a Cuneo, poi oltre gli Apennini, 261 e 262. Suoi pensieri per resistere agli alleati, 303 e 312. Scende dagli Apennini, soccorre Tortona e vince gli Austriaci a San Giuliano, 336. Di nuovo si ritira alle montagne di Liguria, 338. Destinato al Reno, ma resta al campo di Liguria per instanza di Joubert, 358. Perde la battaglia di Novi, 374.

Murat. Come combatta a Marengo, V, 141. Nominato re di Napoli da Napoleone, VI, 22. Prende possesso del regno, 23. Prende l'isola di Capri agl'Inglesi, 25. Spirito del suo regnare, 27. Tenta invano una spedizione contro la Sicilia, 128. Suoi vanti per l'independenza d'Italia, 247. Sue pratiche al medesimo fine, 257. S'accorda coll'Austria e fa guerra a Napoleone, 275.

Musaico (opere di). Come incoraggiate in Roma dalla consulta, VI, 124.

Museo Pio-Clementino. Ved. Pio sesto.

N

Nani, provveditore delle lagune, e lidi a Venezia, II, 200.

Napoleone ( vedi Consolo ) incoronato imperator dei Francesi, V, 262. Vuol farsi chiamare re d'Italia: gli Italiani il fanno pago di questo suo desiderio, 275. Risposta che loro fa, 278. Suo discorso al senato di Francia, 279. Suoi discorsi in Torino, 281. Gran festa a Marengo, 282. Incoronato re a Milano, 288. Unisce Genova alla Francia, 290. Va a Genova e feste che gli si fanno, 292. Cambia Lucca dandola a Baciocchi ed alla sorella Elisa, 300. Unisce Parma, ivi e VI, 16. Minaccia l'Inghilterra, 309. S'incammina a nuova guerra contro l'Austria, 313. Fa un accordo con Napoli, 314. Vince in Germania, 316 e 318. Fa la pace a Presburgo, 325. Suo terribile manifesto contro il re di Napoli, 326. Crea suo fratello Giuseppe re di Napoli, 333. Unisce la Toscana alla Francia, VI, 13 e 16. Sue opere magnifiche, 20. Toglie la Spagna ai Borboni e nomina re suo fratello Giuseppe, 22. Nomina Murat re di Napoli, ivi. Si volta contro il papa, 35. Gli contende la possessione delle Marche, e vuole che il papa faccia una lega difensiva ed offensiva con lui, 36 e 40. Vuole aver facoltà d'indicar la nomina del terzo dei cardinali, 44. Occupa con inganno Roma, 46. Unisce le Marche al regno italico, 54. Di nuovo in guerra coll'imperator Francesco, 70. Suo parlar borioso ai soldati dopo la vittoria, 89. Vincitore a Vagria, costringe Francesco alla pace, 90. Unisce Roma alla Francia, 95. Scomunicato dal papa, 98. Fa carcerare il papa, poi condurlo a Savona, 99 e 101. Riceve i Romani e come loro parli, 102. Suoi disegni sopra la religione, 139. Proposizioni che fa al papa, 194 e 205. Il fa condurre a Fontainebleau, 210. Sua guerra contro la Russia, 240. È vinto, 243. Fa un nuovo concordato col Papa a Fontainebleau, 249. Rotto a Lipsia, 251. Perisce e va all'isola d'Elba, 285.

Napoli. Tumulto orribile, IV, 164 e 168. San Gennaro vi fa il miracolo in presenza dei Francesi, 182. Male disposizioni verso il governo nuovo, 185. Suo stato quando cominciò ad esser minacciato dai regii, V, 13. Preso, 26. Crudeltà orribili che vi si commettono, 28. Supplizi lagrimevoli, 41. Occupato dai Francesi, 330. Giuseppe re, 333. Murat re, VI, 22.

Napolitani. Loro condotta nello stato romano, IV, 148. Loro natura, 179. Loro eccessi in Roma, V, 56.

Naselli, generale del re di Napoli, sbarca a Livorno, IV, 150. Costretto a rimbarcarsi, 160. Occupa Roma e quello che vi fa, V, 55.

Nava, ponte di. Combattimento ostinato tra Francesi e Piemontesi, I, 197.

Nelson. Vince ad Aboukir, IV, 20. Trasporta il re di Napoli in Sicilia, 163. Rompe la fede in Napoli ed è cagione di supplizi lagrimevoli, V, 36. Come onorato e premiato dal re Ferdinando, 51. Prende Malta, 165.

Nicopoli, battaglia di, IV, 288.

Nizza, contea di, invasa dai Francesi, I, 98,

Nizzardi. Loro opinioni, e procedere, I, 152.

Nobili in Francia. Loro opinioni nel 1789, I, 62. Piemontesi, loro arti con Buonaparte, 353.

Novi, battaglia di, IV, 368.

Nugent, generale austriaco, romoreggia e fa guerra sul Po inferiore, VI, 273.

O

Ocsacow, ammiraglio di Russia oppugna e prende Corfù, IV, 297.

Ocskay, generale d'Austria. Fa debole difesa alla Ponteba ed a Tarvisio con grave danno dell'Austria, III, 24.

Olivier. Sua spedizione in Calabria, IV, 196.

Oneglia, presa dai Francesi, I, 195.

Ordini feudali. Come nati, I, 8.

Ornavasso (battaglia d') tra Piemontesi, repubblicani e regii, IV, 87.

Orsini, cardinale. Sue opinioni singolari, I, 41.

Osterman, ministro di Russia. Come parli del re di Sardegna, I, 350.

Otranto. Si solleva contro il governo repubblicano, IV, 192.

Ott, generale d'Austria. Sua guerra nel Modenese contro Macdonald, IV, 311. E nel Piemontese, 386. E nel Genovesato, V, 96 e 109. È vinto a Casteggio, 136. Suo valore nella battaglia di Marengo, 140.

Ottimati (setta degli), I, 144.

Ottolini, potestà di Bergamo pei Veneziani. Arma la provincia e perchè, II, 58 e 198. Cacciato dalla sede e da chi, III, 38.

P

Pace di Tolentino, II, 301. Di Campoformio, III, 249. Di Luneville, V, 190. Di Presburgo, 325. Di Vienna, VI, 91.

Pacca, cardinale. Separato per forza da Pio VII, VI, 99. Relegato nel Forte di Pietracastello, 102.

Pagano, Mario, membro del governo provvisorio di Napoli, IV, 180. Sue qualità, ivi. Suo modello di constituzione, 183. Suo supplizio, VI, 41.

Pallanza. Moto in questa città contro il re di Sardegna, IV, 73.

Paoli. Suoi disegni contro la Corsica, I, 128. Sue esortazioni ai Corsi, 149. Suoi eccessi contro i Genovesi, 229. Chiamato a Londra e perchè, 275.

Paolo, imperator di Russia, fa la pace col primo consolo, V, 87.

Parini. Suo motto sulla libertà, III, 40.

Parlamenti in Francia. Loro opposizione al re, I, 66.

Parlamento di Sicilia. Vedi Sicilia.

Parma. Opinioni ed utili riforme nel suo ducato, I, 36. Ceduta alla Francia, V, 192. Unita a lei, 300 e VI, 16.

Partigiani dell'antica disciplina della Chiesa. Loro opinioni e ragioni, VI, 179. Dell'autorità di Roma; loro opinioni e ragioni, 183.

Patrizi veneti. Come si spoglino della loro sovranità, III, 126.

Patriziato misto alla democrazia, desiderato dagl'Italiani, II, 143.

Pavetti passa col Consolo il gran San Bernardo, V. 119. Ajuta efficacemente la vittoria dei Francesi alla Chiusella, 132.

Pavia (sommossa e sacco di), II, 29. Complimento dell'università di Pavia a Napoleone, V, 284.

Peculato all'esercito d'Italia descritto II, 218 e III, 332.

Perrone, conte, governatore della Savoia. Sue qualità, I, 93.

Pesaro, procuratore di San Marco in Venezia. Suo discorso al senato veneziano per persuadere la neutralità armata, I, 116. Inviato a Buonaparte, III, 44. Suoi sentimenti nell'ultima fine della repubblica, 108.

Pescara. Presa dai Francesi, IV, 161.

Peschiera. Occupata dagli Austriaci, e suo stato, II, 46.

Pico, capitano incaricato da Buonaparte di far ribellar Verona contro i Veneziani, III, 52.

Piemonte. Stabilità della sua monarchia, I, 45. Opinioni in questo paese nel 1789, 46. Congiure che vi si fanno, e lodi de' suoi magistrati, 221. Stormo in massa, ivi. Nuove sollevazioni e supplizi, IV, 89, 93 e 114. I Francesi l'invadono, ed obbligano il re a rinunziare il regno, 133 e 137. Sue condizioni dopo la mutazione di governo, 214. Ripreso dagli alleati, e suo stato sotto di loro, 252 e 253. Suo stato dopo la vittoria di Marengo, V, 153. Riunito alla Francia, 219 e 246.

Piemontesi. Scendono in Savoia per correre in ajuto a Lione, I, 170. Respinti dai Francesi, 175. Assaltano la contea di Nizza, e sono respinti, 177.

Pignatelli, principe, creato Vicario del regno di Napoli, IV, 162. Sua debolezza ed accordo che fa un Championnet, 166.

Pilnitz (vera natura del trattato di) I, 75.

Pino, generale di Cisalpina. Difende Ancona contro gli alleati, V, 31 e 65. Respinge i Napolitani dalla Toscana, 187. Divenuto sospetto al vicerè e perchè, VI, 259.

Pio Sesto. Suo viaggio a Vienna e sue esortazioni all'imperatore Giuseppe secondo, I, 14. Perchè eletto papa, 40. Sue qualità, ivi. Prosciuga parte delle paludi Pontine, 42. Suoi abbellimenti in Roma, 44. Sue deliberazioni rispetto alla Francia, 80. Suoi provvedimenti, 215. Domande che gli fanno i repubblicani di Francia, II, 14 e 153. Rifiuta la pace col direttorio, 154. Sue gravi esortazioni ai principi, ivi. Tratta coll'Austria, 288. Buonaparte gli fa la guerra, 289. È vinto al Senio, 294. Sua costanza in tanto pericolo, 300. Manda legati a Buonaparte per trattar la pace, 301. Conclude la pace e con quali condizioni, ivi. Sua generosità, III, 301. Cagioni che operano contro di lui, 302. Suoi pericoli per l'uccisione di Duphot, 308. La Francia gli dichiara la guerra, 311. Vede entrar i Francesi in Roma, 319. Come trattato, 322. Fatto partir da Roma e ricoverato in Toscana, 324 e 325. Sue instruzioni circa ai giuramenti, 338. Condotto in Francia dove muore, IV, 230.

Pio Settimo, Vedi Chiaramonti. Sua creazione, V, 161. Sue deliberazioni dopo il suo ingresso in Roma, 162. Suo concordato col consolo, 205. Altro col presidente della repubblica italiana, 258. Sta sospeso alla domanda di Napoleone dell'essere incoronato imperatore da lui, 265. Vi si risolve finalmente, 268. Sua allocuzione ai cardinali in questo proposito, ivi. Suo viaggio in Francia, ed incoronazione di Napoleone, 272. Torna in Italia, 281. Riceve in grazia il de Ricci, vescovo di Pistoia, e come, 302. Rinstaura i gesuiti nel regno di Napoli, 307. Ricusa di entrare in una lega difensiva ed offensiva con Napoleone, VI, 39. Sue ragioni, ivi. Ricusa di riconoscere in Napoleone il diritto d'indicare la nomina del terzo dei cardinali, 45. Suoi lamenti sull'occupazione di Roma fatta dai napoleoniani, 50. È sforzato il suo palazzo, 52. Sue provvisioni in ordine ai giuramenti nelle Marche, 56. Sua protesta contro l'unione delle Marche al regno italico, 61. Sua protesta contro l'unione di Roma alla Francia, 96. Scomunica Napoleone, 98. Preso, e condotto in Francia, poi a Savona, ivi. Come risponda alle minaccie dell'imperatore Napoleone, 145. Come pensi sulle quattro proposizioni del clero gallicano, 146. Come spieghi la scomunica, 147. E le deposizioni dei principi fatte dai papi, ivi. Suoi sentimenti verso la Francia, 149. Rifiuta le offerte di Napoleone, 151. Come risponda al cardinal Caprara, 155. Tentato dai deputati ecclesiastici a Savona, 193. Concessioni che fa all'imperatore, 200. Suoi rifiuti, 203. Breve del venti settembre 1811, 206. Nuove molestie che gli si danno, 207. Condotto a Fontainebleau, 210. Suo concordato di Fontainebleau, 249.

Pistoia (dottrine di) I, 25.

Pitt, ministro d'Inghilterra. Come ordisca una nuova confederazione contro la Francia, IV, 7.

Pizzamano. Fatto tra lui ed il capitano Laugier al lido di Venezia, III, 90.

Polcevera, sua sollevazione contro Genova, III, 169.

Polizia di Parigi, come fulmini contro il papa, VI, 168.

Pontine, paludi. Loro descrizione, storia e prosciugamento fatto da papa Pio sesto, I, 42.

Porto Ferraio, occupato dagl'Inglesi, I, 131. Poi perduto, 136.

Portogallo, tolto ai Braganzesi da Napoleone, VI, 12.

Prammatica. Vedi Bourges.

Precy, mandato dai Lionesi in Piemonte per accordare i disegni con gli alleati, I, 131.

Prelati del consiglio ecclesiastico di Parigi. Come rispondano ai quesiti dell'imperatore, VI, 171. Mandati a Savona per trattar col papa, 193.

Presburgo (pace di) V, 325.

Preti giurati. Loro opinioni in Francia, V, 194.

Preveza, feroce mischia in essa tra Francesi e Turchi, IV, 288.

Primolano (battaglia di) II, 118.

Priocca, ministro del re di Sardegna. Sue istanze perchè la Francia dichiari le sue intenzioni circa il Piemonte, IV, 78. Come risponda a Ginguenè, ambasciatore di Francia, circa i fuorusciti e gli stiletti, 81. Suoi principii sul passo sui territorii neutri, 97. Come risponda a certe querele dell'ambasciator di Francia, 99. Negozia e conclude un indulto con lui a favore degl'insorti, 102 e 110. Sue proteste contro la domanda della cittadella di Torino, 108. Consente a metterla in possessione dei Francesi, 109. Come difenda il governo pel fatto della Fraschea, 116. Sua generosa rassegnazione ed amor patrio, 123. Suo manifesto nell'invasione ostile fatta dai Francesi del Piemonte, 135. Va a porsi nella cittadella in mano loro, 141. Sue lodi, ivi. Mandato a Grenoble, 214.

Procida, isola. Supplizi che vi si fanno, V, 12.

Proni, uomo feroce, solleva l'Abruzzo contro i repubblicani, IV, 195, e III, 8.

Propaganda (instituzione della) Sua descrizione, VI, 117.

Proposito dell'opera, I, 6.

Provenza. Moti in questa provincia contro il consesso nazionale, I, 168.

Provenza (conte di) Vedi Luigi XVIII.

Provenza, generale d'Austria. Vinto da Massena sulla Brenta, II, 235. Vince Duphot a Bevilacqua, 268. È vinto a Mantova, 278.

Prussia, re di. Fa la pace colla repubblica di Francia, I, 261. Fomenta l'assunzione di Napoleone alla dignità imperiale, V, 262.

Prussiani, insorgono contro Napoleone, VI, 246.

Q

Querini, inviato della repubblica di Venezia a Parigi, I, 253. Suo discorso al consesso nazionale e risposta del presidente, 254. Sue querele al direttorio per le rivoluzioni della terra ferma Veneta e come gli si risponda, III, 44. Si tenta di sottrargli denaro sotto specie di salute della repubblica, 72.

Quesiti dell'imperator Napoleone al consiglio ecclesiastico, VI, 158.

Quosnadowich, generale d'Austria. Vince a Salò, e sulla destra del lago di Garda, II, 94. Costretto a ritirarsi da Buonaparte, 98. Scende di nuovo e s'impadronisce di Lonato, 99. Poi lo perde, 100. Grave battaglia tra di lui e Augereau sulla Brenta, 235.

R

Raab. Vedi Giavarino.

Rampon. Suo bel fatto, I, 321. Sue lodi, 333.

Ranza. Suo procedere in Alba, I, 343. Sepellisce la costituzione Cisalpina, IV, 58. Torna in Piemonte V, 156. Sue intemperanze in Piemonte, III, 136.

Reggio. Si muove contro il governo ducale, II, 147 e 153. Suo congresso, 312.

Regnault de Saint-Jean d'Angely. Stromento principale della presa di Malta, IV, 15 e 19.

Regnier, generale di Francia, vince la battaglia di Campotenese, V, 331. Perde quella di Maida, 337.

Religione cattolica. Suo stato in Francia, V, 194.

Repubblica. Vedi Cisalpina. Cispadana. Corfù. Francesi e Francia. Genova. Ligure. Lucca. Napoli. San Marino. Venezia.

Repubblicani Piemontesi vinti dai regii a Ornavasso, IV, 87. Come trattati a Domodossola ed a Casale, 89 e 93. Vinti e straziati nella Fraschea, 114. Come trattati in Piemonte dagli alleati, 273.

Repubblicani Italiani si ricoverano in Francia, e benevolenza dei Francesi verso di loro, IV, 278. Loro discorsi ai consigli legislativi di Francia, 280.

Repubblicani Napolitani. Come si consiglino all'approssimarsi dei regii, V, 13. Con quanto valore si difendano dal cardinal Ruffo, 20. Capitolano con lui, 34. Loro supplizi, 41.

Rewbel, quinqueviro di Francia. Suo detto enorme rispetto ai Veneziani, II, 195.

Rey. Combatte egregiamente a Rivole, II, 276.

Ricci (Scipione de') vescovo di Pistoia. Sue opinioni, I, 25, 27 e 28. Suo abboccamento col papa e ritrattazione, V, 202.

Rivarola. Mandato dai Genovesi a Parigi e perchè, III, 152, richiamato 164.

Rivaud. Sue operazioni in Cisalpina, IV, 59.

Rivaud, generale. Contribuisce efficacemente alla vittoria di Casteggio, V, 136.

Rivole (battaglia di), II, 273.

Ritrovi politici in Napoli. Che male facciano, IV, 186. V, 14.

Rocco San Fermo mandato dai Veneziani a Basilea e con qual fine, I, 218.

Roma (Corte di). Sue opinioni, I, 27. Stato di essa nel 1798, 39. Spavento in Roma per le vittorie dei Francesi, II, 70. Presa, e come trattata dai Francesi, III, 319. Presa e come trattata dai Napolitani, IV, 44. Ripresa dai Francesi, 155. Di nuovo presa dai Napolitani ed eccessi che vi commettono, V, 55. Pio settimo vi arriva, e sue prime deliberazioni, 162. Roma occupata dai Napoleoniani, VI, 47. Unita alla Francia, 95.

Romani. Loro moto per la libertà in Campo Vaccino, III, 320. Loro sommossa contro i Francesi, 334. Loro disposizioni verso i Napolitani, 149. Loro deputati a Parigi, come parlino a Napoleone, VI, 102.

Romani in Grecia. Libro scritto contro i Francesi e da chi, III, 287.

Roveredo (battaglia di) II, 113.

Ruffo, cardinale, solleva le Calabrie contro il governo repubblicano, IV, 193, e V, 8. Prende Altamura e crudeltà che vi commettono i suoi, 9. Sottomette la Puglia, ivi. Viene a Nola per istringer Napoli, 10. Prende Napoli, 28. Capitola col repubblicani padroni dei castelli, 34. Esorta Nelson a serbar la fede data, 36. Come riconosciuto dal re Ferdinando, 51. Riceve il re Giuseppe napoleonide sotto il baldacchino, 334.

Russia. Discordia tra lei e la Francia, V, 309 e VI, 241.

Russo, Vincenzo. Suo supplizio in Napoli, V, 43.

S

Sacco di Pavia, II, 35.

Sacile, Battaglia di, V, 77.

Salicetti, commissario di Francia in Corsica e sue esortazioni ai Corsi, I, 150. Altre esortazioni di lui, 136.

Salò (fatto d'armi di) III, 55.

Sant'Agata. Fatto d'armi ostinato tra Francesi e Piemontesi, I, 195.

Sant'Andrea, Thaon di, governatore di Torino, scampa per la sua prudenza, la città da un gran pericolo, IV, 121.

San Bernardo (il piccolo) preso dai Francesi, I, 200.

San Bernardo (il gran) passato dai Francesi condotti dal consolo, V, 123.

San-Cyr, Gouvion, generale di Francia. Sua continenza in Roma, IV, 330. Come combatta nei contorni di Novi, 384. Marcia da Napoli verso l'Adige, V, 315. Vince un bel fatto a Castelfranco, 323.

San-Cyr, Cara. Suo valore nella battaglia di Marengo, V, 144 e 148.

Sandoz-rollin, ministro di Prussia a Parigi. Quale proposizione faccia ai Veneziani, II, 184.

San Giacomo (battaglia di) I, 265.

San Giuliano, ministro dell'Imperatore. Di che cosa tratti con Clark ministro di Francia, II, 208.

San Marino, repubblica di. Natura del suo governo e dei suoi popoli, I, 54. Trattata onorevolmente da Buonaparte e sua risposta alle offerte di lui, II, 303.

San Severo. Si solleva contro i repubblicani, preso e come trattato, IV, 196 e 199.

Saorgio, minacciato dai Francesi, I, 194. Preso, 210.

Sardi. Come si difendano dai Francesi, I, 147.

Sarmatoris, conte, sue offerte al papa a Savona, V, 142.

Sassari di Sardegna. Fa qualche moto e dimanda gli stamenti, I, 277.

Savigliano (battaglia di) IV, 386.

Savoia, invasa dai Francesi, I, 94. Miserabile fuga dei fuorusciti Francesi da lei, 103.

Savoiardi. Loro opinioni e procedere, I, 132 e 171.

Savona. Importanza del suo esito e disegni dei belligeranti sopra di lei, I, 263. Papa cattivo in Savona, V, 140.

Scherer, generalissimo di Francia sulla riviera di Ponente, I, 291. Conforta il suo governo a far l'impresa d'Italia, ivi. Vince la battaglia di Loano, 292. Scambiato da Buonaparte e perchè, 316. Nominato generalissimo in Italia, IV, 229. Incomincia nuova guerra, 228. Occupa la Toscana e come, 229. È vinto a Verona, 234. Suo errore, 236. È vinto a Magnano, 237. Si ritira sull'Adda, e lascia il comando a Moreau, 245.

Schiarino-Rizzino (convenzione di) tra il vicerè d'Italia ed il generale austriaco Bellagarde, VI, 287.

Schipani, mandato dal governo Napolitano in Calabria e sue qualità, IV, 198 e 205. Rotto dai regii, V, 20 e 24.

Sciarpa, uomo feroce, solleva la provincia di Salerno contro i repubblicani, IV, 194 e V, 8.

Scomunica. Come spiegata da Pio settimo, VI, 147.

Semonville, mandato ambasciatore dal governo di Francia al re di Sardegna, rifiutato dal re, I, 90.

Senato. Vedi Bologna, Genova, Milano, Venezia.

Senio (battaglia del) II, 294.

Serbelloni, presidente del Direttorio Cisalpino. Suo discorso nella festa della confederazione, III, 222.

Serra, membro del governo provvisorio di Genova, imputato dai patriotti e perchè, III, 162 e 167, e da Faipoult, e perchè, 172. Accusa Faipoult e perchè, ivi.

Serra, Gerolamo, presidente del governo provvisorio ordinato da Bentinck in Genova, VI, 284.

Serravalle, fortezza del Piemonte presa dai Liguri, IV, 99. Presa dai confederati, 352.

Serristori, ministro del gran duca di Toscana. Come risponde alle superbe intimazioni di Hervey, ministro d'Inghilterra, I, 161.

Serrurier. Consegna Venezia agli Alemanni, III, 200. Fa rivoluzione in Lucca, 211. Combatte con valore, ed è fatto prigioniero nella battaglia di Cassano, 247 e 251.

Sicilia. Suo parlamento come composto, I, 35. Il re Ferdinando vi si ritira, IV, 162. Accidenti avvenutici, V, 212. Cagioni di mala contentezza, 217. Parlamento e suoi atti, 219. Constituzione data da esso, 230. Cause che fanno perire questa constituzione, 239.

Siciliani. Loro onorata risoluzione, VII, 221.

Sidnei Smith. Suoi fatti nel regno di Napoli, V, 336 e seg.

Silva, marchese. Suo discorso nel consiglio del re di Sardegna per persuader la pace colla Francia, I, 279.

Società di pubblica instruzione in Milano. Sua composizione e discorsi che vi si fanno, III, 222. Fatta chiudere, 225.

Sommariva (marchese di). Muove i Toscani contro i Francesi, V, 169. È vinto, si ritira, 187.

Sorrento, preservato dal sacco per la memoria del Tasso, IV, 210.

Soult. Combatte valorosamente nella riviera di Ponente, V, 100. Ferito e fatto prigioniero, III.

Spada. Suoi maneggi per cambiare il governo di Venezia, III, 115.

Spagna. Fa la pace colla repubblica Francese, I, 277. Tolta ai Borboni da Napoleone, V, 21. Giuseppe re di Spagna, 22.

Spedalieri. Sua opera singolare, I, 81.

Spinola. Inviato straordinario di Genova a Parigi, II, 164. Rivocato e perchè, III, 164.

Spluga, mirabile passaggio eseguito da Macdonald, V, 173.

Stamenti di Sardegna. Che cosa siano, I, 277.

Stato ed opinioni d'Europa nel 1789, I, 89.

Stuard, generale d'Inghilterra. Vince la battaglia di Maida, V, 337.

Suchet. Sua guerra in riviera di Ponente, V, 99. Come difenda il territorio Francese, 104.

Suwarow, generalissimo dei confederati in Italia. Vince a Cassano, VI, 246. Entra in Milano, 256. Respinto da Basignana, 259. Suo manifesto esortatorio ai Piemontesi, 263. Attende all'espugnazione di Torino, 268. Vi entra e come ricevuto, 270. Vi crea un governo interinale e quale, 271. Prega il re a tornar nel regno, 277. Si dispone a combattere Macdonald, 314. Sua prima battaglia contro di lui alla Trebbia, 321. Seconda, 323. Terza, 326. Perseguita i Francesi vinti, 332. Cinge d'assedio Alessandria, 340. Vuol combattere a Novi malgrado dell'opinione contraria degli Austriaci, 366. Vince, 368. Prende Tortona, 378. Parte per la guerra elvetica, 380. Sue qualità, 381.

T

Tagliamento (passo del), eseguito dai Francesi, III, 17.

Taleyrand, ministro di Francia. Suoi sentimenti sul Piemonte, III, 189. Suo motto inconveniente sugl'Italiani, 251. Sue lettere all'ambasciator di Francia in Torino circa certe congiure in Italia, IV, 89. Suo parere sulla riunione della corona d'Italia a quella di Francia, V, 278.

Tanucci, ministro del re Ferdinando. Sua buona amministrazione in Napoli, I, 33.

Tenda (colle di) preso dai Francesi, e sua descrizione, I, 209

Tenivelli, storico. Suo supplizio in Piemonte e sue lodi, II, 136.

Tirolo (battaglie nel), III, 16. Moto de' suoi abitatori contro i Francesi, 21. Altro moto e sua natura singolare, 79 e 92.

Tissot, capitano Francese. Suo estremo valore a Preveza, ed a Napoli, IV, 290.

Tolentino, pace di, II, 361.

Tolone. Si dà ai confederati, I, 174. Oppugnato ed espugnato per un feroce assalto dai repubblicani, 177. Spoglio che ne fanno i confederati nell'atto d'abbandonarlo, 183 e 184. Misera condizione dei Tolonesi, ivi.

Torino, corte di, Vedi Sardegna. Preso dagli alleati, IV, 270. Terrore che vi regna, 273. Sua cittadella presa, 275.

Tortona, liberata dall'assedio da Moreau, IV, 336. Di nuovo assediata e presa dagli alleati, 380.

Toscana. Suo felice stato sotto Leopoldo, gran duca, I, 17. Occupata dai Francesi, II, 84 e IV, 229. Sollevazioni terribili contro di loro, IV, 307 e V, 169. Di nuovo occupata dai medesimi, ivi. Nuova guerra in lei colla meglio dei repubblicani, 187. Ceduta all'infante di Parma, con titolo di re d'Etruria, 192. Unita a Francia, VI, 13.

Toscano, Antonio. Sua maravigliosa fortezza a Viviena presso Napoli, V, 25.

Trani, città del regno di Napoli. Si solleva contro i repubblicani, presa e come trattata, IV, 196 e 202.

Trebbia. Prima battaglia tra Macdonald e Suwarow, IV, 321. Seconda, 323. Terza, 326.

Trento. Preso dai Francesi, II, 115.

Trouvé, ambasciator di Francia in Cisalpina. Suo discorso d'ingresso al Direttorio, IV, 49. Sua lettera contro i fuorusciti francesi, 50. Sua riforma nella costituzione cisalpina, 51 e 58. Discorso di Marco Ferri contro di lui, 54.

Trouguet, ammiraglio di Francia. Assalta la Sardegna, e come è combattuto, I, 147.

U

Ufiziali di Francia. Loro solenne risentimento contro i rubatori dei soldati e dell'Italia, III, 333.

Ulloa, ministro di Spagna a Torino. Offre la mediazione di Spagna al re di Sardegna, I, 278.

Utopisti in Italia, I, 148.

V

Vale, ultimo dei soldati francesi ed Italiani, VI, 288.

Valenziana, Trattato di, tra l'imperator d'Alemagna e il re di Sardegna, I, 181 e 188.

Vallaresso, Zaccaria, savio del consiglio. Suo discorso al senato veneziano per persuadere la neutralità disarmata, I, 122.

Valtellina. Si dà alla Cisalpina, III, 216.

Vanni, marchese, membro di una giunta sopra le congiure in Napoli, I, 272. Congedato e perchè, ivi.

Vaticano. Come spogliato, III, 326.

Vaubois, generale di Francia. Costretto a ritirarsi dal Tirolo e da chi, II, 231. È vinto a Calliano, 232. Lasciato da Buonaparte a comandar Malta, IV, 19. Come difenda Malta, e come costretto ad arrendersi, V, 164.

Venezia, (repubblica di.) Sua maravigliosa stabilità e natura del suo governo e de' suoi popoli, I, 49. Comparazione tra Venezia e Genova, 51. Sue deliberazioni rispetto alla Francia, 74. Sue deliberazioni dopo l'invasione della Savoia fatta dai Francesi, 115 e 127. Altre sue deliberazioni, 216. Manda un agente a Basilea, 218. Accetta in grado di ospite il conte di Provenza e come lo tratta, 219. Accetta il ministro di Francia Lallemand, 221. Manda il nobile Querini come suo inviato a Parigi, 253. Prenunzii della sua distruzione, 309. Sua brutta risoluzione rispetto al conte di Provenza, 312. Domande esorbitanti che le si fanno dai Francesi, II, 13. Nomina Nicolò Foscarini suo provveditor generale in terraferma, 42. Le vien proposto un trattato d'alleanza dalla Francia, e come deliberi, 173. Come deliberi intorno ad un'alleanza coll'Austria, 183. E colla Prussia, 184. Come trattati i suoi territori sì dai Francesi che dagli Austriaci, 187. Sue querele a Parigi ed a Vienna, 189 e 191. Squallore e devastazione della terraferma, 197. Arma l'estuario e perchè, 199. Come senta le rivoluzioni della terraferma, III, 44. Manda deputati a Buonaparte, ivi. Fraude usata contro di lei, 57. Come minacciata da Buonaparte per mezzo di Junod, e sua risposta, 62. Lettere acerbissime di Buonaparte al senato, e grave risposta di lui, 63 e 69. Manda nuovi legati a Buonaparte, 70. Le giungono funeste novelle da Vienna e da Parigi, 71. Grave fatto del capitano Laugier, 90. Buonaparte le dichiara la guerra, 103. Ragioni di Venezia, 104. Adunanza in casa del doge, discorso di lui, e risoluzione fatta, 106. Allocuzione del doge al gran consiglio, 109. Risoluzione fatta da questo, 112. Macchinazioni in Venezia, 115. Il gran consiglio consente a modificazioni nella forma dell'antico governo, 119. Il gran consiglio si spoglia della sovranità ed accetta il governo rappresentativo, 124. Sommossa popolare, 128. Venezia occupata dai Francesi, 129. Vi si crea un municipio, ivi. Suo trattato con Buonaparte, 130. Suo stato dopo il cambiamento, 254. Disposizione degli animi nella terraferma verso di lei, 255. Spogli, 273. Festa allegra e compassionevole ad un tempo, 279. Consegnata dai Francesi agli Alemanni, 300.

Verona, insidiata, e da chi, III, 53. Sua terribile sollevazione contro i Francesi, 76. Predicazioni che vi fa contro i forestieri un frate cappuccino, 84. Si arrende ai Francesi, ed a quali condizioni, 95. Suo Monte di pietà espilato, 96. Battaglia di Verona, IV, 234.

Veronesi. Molto sdegnati contro i Francesi, e perchè, 55. Fanno una terribile sollevazione contro di loro, 76.

Victor, generale di Francia. Buonaparte lo manda a far guerra al papa, II, 290. Vince i pontificii al Senio, 294. Sue esortazioni contro Venezia, III, 256. Come combatta nella battaglia di Savigliano, 386. Suo valore nella battaglia di Marengo, V, 141 e 148.

Vidiman, municipale di Venezia, III, 254. Suo elogio, 290.

Vidiman, provveditore di Corfù. Sue qualità, III, 263.

Vido, scoglio di, una delle difese di Corfù. Come assaltato e preso dai Russi e Turchi, IV, 298.

Vienna. Umori e parti in essa. III, 10.

Villanova, cercata da Buonaparte e perchè, II, 244.

Villetard. Segretario della legazione di Francia a Venezia. Sue qualità e condotta, III, 117. A quali condizioni voglia che si cambi il governo di Venezia, 121. A chi attribuisca un tumulto popolare nato in Venezia, 129. Come annunzi il loro destino ai Veneziani, 288. Sue generose lettere a Buonaparte, 292 e 296.

Vincent, soprantendente dell'italica polizia. Suoi ordini circa il papa prigioniero a Savona, III, 420.

Visconti, Ennio Quirino. Sua bella descrizione del museo Pio-Clementino, I, 44.

Visconti, Galeazzo, ambasciatore della Cisalpina a Parigi. Suo discorso al Direttorio e risposta del presidente, III, 231.

Vitaliani, napolitano, mescolato nelle rivoluzioni di Genova, III, 156.

Vittorio Amedeo, re di Sardegna. Sue qualità e modo di governare, I, 47. Propone una lega italica per opporsi ai tentativi dei Francesi, 72. Suo desiderio di guerra contro la Francia, 78. La Francia gli dichiara la guerra e perchè, 92. Sue deliberazioni dopo la rotta di Savoia, 107. Suoi disegni sopra le province meridionali della Francia, 129. Non s'accorda col generalissimo Devins e perchè, 133. Scende in ajuto di Nizza, 134 e 171. È respinto, 177. Fa un trattato coll'imperator di Alemagna per ismembrar dalla Francia le province meridionali, 187. Suoi provvedimenti sì civili che militari per resistere ai Francesi, 211. Come riceva la mediazione di Spagna per la pace colla Francia, 278. Tentato dagli alleati pel caso dell'invasione dei Francesi in Piemonte e sua animosa risposta, 304. Fa tregua, poi pace colla Francia, e considerazioni in questo proposito, 348. Sua morte ed in quale stato lascia il regno, II, 158.

Vittorio Emanuele, figlio del suddetto, Vedi, d'Aosta, duca.

Viviena, forte di. Come difeso dai repubblicani di Napoli, III, 22.

W

Wallis, tenente maresciallo d'Austria, manda soldati in Piemonte, I, 212. Sua perizia nella battaglia del Dego, 233. Perde la battaglia di Loano, 292.

Wickam, ministro d'Inghilterra in Isvizzera, sue proposizioni per la pace, I, 301.

Wilson, generale inglese. Si travaglia per l'independenza d'Italia, VI, 261.

Worsley, residente d'Inghilterra a Venezia. Sue moderate insinuazioni al senato, I, 164.

Wukassowich, colonnello d'Austria. Suo bel fatto al Dego, I, 331. Sue lodi, 335. Romoreggia sul Bresciano, IV, 237, 242 e 243. Come combatta nella battaglia di Cassano, 247. Muove a romore il Vercellese ed il Canavese, 257 e 260. Prende Torino, 268. Pressato dai Francesi nel Tirolo come scampa, V, 183.

Wurmser, maresciallo, generalissimo degli Austriaci. Suoi disegni per la ricuperazione d'Italia, II, 90. Fa risolvere l'assedio di Mantova e vi entra vittorioso, 97. Come ordini i suoi alla battaglia di Castiglione, 104. È vinto nella battaglia di questo nome, 108. Ed a Roveredo, 116. Rompe a Buonaparte il disegno di condursi in Germania e con qual arte. È vinto a Primolano ed a Bassano, 118. Si ritira in Mantova, 125. Fa una sortita e con qual successo, 264. Si arrende e come lodato da Buonaparte, 292.

Z

Zach, generale d'Austria. Suo valore ed imprudenza nella battaglia di Marengo, V, 145 e segg.

Zara, capitale della Dalmazia veneta. Come venga in poter dell'Austria, III, 260.

Zorzi. Suoi maneggi per cambiar il governo veneto, III, 116.

Fine della Tavola delle Materie