C. CANTÙ
STORIA DEGLI ITALIANI
TOMO I.
STORIA
DEGLI ITALIANI
PER
CESARE CANTÙ
EDIZIONE POPOLARE
RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI
TOMO I.
TORINO
UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
1874
AI LETTORI
L’UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
Nella prima edizione del 1854 dicevamo che buon augurio sarebbe alla nostra Unione il cominciar dal nome d’Italia; e che il frastuono d’interessi tutt’altro che letterarj, e le assordanti attualità della politica, del teatro, dei giornali non impedirebbero gl’intelletti serj e la gioventù generosa dal fissare l’attenzione s’un libro, come questo del Cantù, che pel primo offriva compiuta la storia del nostro paese dai primordj dell’incivilimento fino ad oggi, scritta dalla penna stessa, sotto unico punto di vista, e colle più recenti guise tanto d’erudizione che di maniera di giudicare e disporre.
Proemiando a quella, noi esponevamo poche cose a nome dell’Autore; poche, giacchè il comprendere i motivi, l’intento, l’economia dell’opera doveva riuscire tanto meno difficile, quanto meno l’Autore ha costume di involgersi in timide formole.
Lo spazio che altri consuma in battaglie e guerre, egli l’ha serbato agl’incrementi della civiltà, alle particolarità caratteristiche, agli uomini insigni, allo sviluppo delle arti e delle lettere, che sono una delle forme più pronunziate, sotto cui l’indole d’un popolo si manifesta nel nascere, crescere, decadere.
Fra i classici che non citavano mai, ed i moderni a cui i repertorj somministrano facilissima abbondanza di citazioni, egli ha tenuto quel mezzo, che non istrazii l’attenzione fra le parole delle fonti e le induzioni dello scrivente. I fatti si trovano sostenuti dai migliori appoggi; quanto alla parte congetturale e induttiva, sarebbe intolleranza inquisitoria il voler imporre un sistema o il pregiudizio proprio ad un autore; sarebbe imbecillità il preporre quello improvvisato da una critica effimera o da prestabilita opposizione, a quello studiato con lunghissima pazienza e provato nella più multiforme contraddizione.
L’esito mostrò come il pubblico l’intendesse, a malgrado di coloro che aveano o interesse o puntiglio di svisarne le parole e i fini. E sebbene quest’opera non potesse circolar liberamente in paesi che temeano la verità esposta lealmente e ragionatamente, dovemmo ben tosto raddoppiarne la tiratura; poi intraprenderne una nuova edizione nel 1857, mentre la prima non era ancora compiuta. Anzi contemporaneamente se ne faceano contraffazioni a Napoli e a Palermo, e cogliamo quest’occasione per protestar di nuovo a nome dell’Autore, non tanto contro la pirateria degli stampatori, quanto per la slealtà di avere, non solo taciuto frasi e periodi di lui, ma messogli in bocca parole e sentimenti affatto alieni da’ suoi.
Nuovi e più violenti casi mutarono la faccia politica dell’Italia e insieme la economica, la politica, quasi la morale. In circostanze così diverse riproducendo ora quest’opera, l’Autore avrà ben poco a cangiare de’ giudizj e fin delle congetture, perchè non le foggiava sulla moda. Le cognizioni che ebbe ad acquistare o rettificare pel tanto accumularsi di lavori storici, pe’ consigli altrui, per la propria meditazione, innesterà egli ai debiti posti; le note aggiunte nella seconda o in questa edizione distingueremo coll’asterisco, per non alterare la numerazione delle prime. Le vicende dell’ultima epoca porterà fino al compimento dell’unità, valendosi anche dell’altra opera che noi ne stampiamo, L’Indipendenza Italiana.
Voglia il pubblico e all’Autore e a noi continuare il suo favore in imprese dove ci proponiamo dall’utile individuale non separar quello della società, e specialmente del paese che, come scrive il Cantù, « ci unisce tutti nella lingua, nelle memorie, nelle speranze ».
Torino, il settembre 1874.
LIBRO PRIMO
CAPITOLO I.
Dell’Italia, e della sua storia.
La penisola italica, estesa su trentatre milioni di ettare fra il 24º e il 36º meridiano, e fra il 35º e il 47º parallelo, è chiusa a settentrione e ponente dalla giogaja delle Alpi, che col titolo di Marittime, Cozie, Graje, Pennine, Leponzie, Retiche, Carniche, Giulie, disegnano un semicerchio di 1562 chilometri dal Varo, confine di Francia, sin al golfo del Quarnero al lembo della Dalmazia. Centinaja di valli solcano que’ monti, alcune leggermente, altre estesamente profonde, come la Valtellina, la Leventina, quelle del Piave e d’Aosta; e riescono in un ampio anfiteatro, che forma la parte continentale dell’Italia. Dove le Alpi s’avvicinano al golfo Ligure presso Savona, se ne snoda la catena serpentino-calcare degli Appennini, che, somiglianti ad una spina dorsale, fendono per lo lungo l’Italia peninsulare; ed elevati verso il centro nel paese de’ Marsi e de’ Vestini fino al monte Velino e al Gran Sasso d’Italia, di là chinano alla Puglia: quivi fra Venosa e Potenza si suddividono, un braccio volgendo all’estremo dell’Abruzzo, l’altro nel paese de’ Salentini, al tallone della gamba di cui essa Italia imita la forma.
NOMI E CONFINI D’ITALIA
Quest’ossatura determina nella parte continentale un pendìo alpino, vergente al mare Adriatico e al Po, il quale lo traversa da sera a mattina per ducensettanta miglia, mentre l’Italia peninsulare è conformata dalle due gronde dell’Appennino: quella verso l’Adriatico non s’allarga oltre settantacinque miglia, tutta colline e torrenti; l’occidentale verso il mar Tirreno, più scoscesa, finisce in apriche pianure, serpeggiate da pigri fiumi, o ingombre da infauste maremme.
Ignorando i limiti naturali e la conformazione della penisola, e non vi riconoscendo unità di politica nè di origine, gli antichissimi non potevano attribuirle una denominazione comune: e quella d’Italia, quai che ne siano il motivo e la significazione[1], si tenne da prima circoscritta al paese meridionale fra i seni Lametico e Scilatico, che oggi diciamo di Sant’Eufemia e di Squillace; poi crebbe in su, man mano che smarrivansi i nomi de’ popoli parziali che v’abitavano, e quelli di Saturnia, Tirrenia, Japigia, Ausonia, Enotria o terra dei venti, datile dagli stranieri, e d’Esperia o terra occidentale, appropriatole dai Greci, che per mare ne raggiungevano le piaggie meridionali. Quando, nella guerra Sociale, otto popoli si strinsero in lega per opporsi al predominio che Roma acquistava sui prischi abitatori, al vocabolo municipale di Roma opposero il nazionale d’Italia, ampliandolo sino ai fiumi Macra a ponente e Rubicone a levante. All’età poi degli Scipioni già indicava l’intera penisola fino alle Alpi[2], terminando ad oriente all’Arsia verso l’Illiria, e al Varo verso occidente.
CONFINI
Tali press’a poco ne sono oggi pure i limiti, entro i quali nella parte boreale fra l’Alpi e l’Appennino pianeggiano sulla destra del Po la Flaminia, sulla sinistra la Venezia, protraentesi nella penisola dell’Istria; seguono la Lombardia ed a ponente il Piemonte, che si elevano verso le alpi Cozie, Lepontine, Retiche, e verso l’Appennino settentrionale, del cui duplice piovente si disseta la Liguria. Questo bacino del Po, di ben settemila cinquecento miglia quadrate, lenemente declive e a cordonate, vantaggiato di perenni fiumane e laghi deliziosi, offrì alla stirpe di Caino il campo per grandi battaglie che decisero le sorti della nazione e de’ suoi padroni[3]; e all’uomo industre un esercizio d’interminabile solerzia e di assidua vigilanza per domarvi i torrenti e regolare i fiumi, che, impoveriti ma non gelati l’inverno, ogni estate traripano; sicchè basterebbero pochi anni di negligenza perchè le ubertose pascione del Lodigiano e le fiorenti pendici della Tremezzina e del Benàco tornassero ignudi greti e deleteriche paludi, come divennero Baja e Pesto.
Maggiore dovizia di memorie storiche impronta i paesi della media e della bassa Italia: la Toscana fra l’Appennino, il mar Tirreno e il Tevere; il Lazio e la Campania sul mare stesso; poi su questo e sull’Jonio e l’Adriatico e allo scarco degli Appennini l’Umbria, il Piceno, il Sannio, l’Abruzzo, la Lucania, l’Apulia, la Calabria.
LE ISOLE
Quivi l’angusto ma profondo faro di Messina ne disgiunge l’isola di Sicilia, estesa centottanta miglia da levante a ponente, centrentatre da mezzogiorno a tramontana, e cinquecencinquanta di giro. Gli antichi la dissero Trinacria dai tre capi; il Peloro, discosto appena tre miglia dalla latrante Scilla di Calabria; il Pachino o capo Pàssaro, verso la Grecia; il Lilibeo, che settantacinque miglia di mare distaccano dal capo Bon in Africa. Elevantesi a terrazzi, alla cui sommità fuma l’Etna, è divisa nei valli di Démona, Noto, Màzzara; il primo lussureggiante d’alberi e frutti, gli altri di cereali, che aveano meritato il titolo di granajo d’Italia a quell’isola, dove alle scarse pioggie suppliscono profuse rugiade.
Oltre questa, ch’è la maggiore del Mediterraneo, molte isole fanno ghirlanda all’Italia, e primarie quelle di Corsica e Sardegna. In quest’ultima si sublima il Gigantino, e si stendono le late pianure di Ozieri e Campidano, e sopra i vulcani estinti pompeggiano selve d’aranci e limoni, e superbi alberi di ulivi, di melogranati, di pepe, di carrube.
Segue l’arcipelago toscano, ove la tufacea Pianòsa, la calcare Palmajòla, le isole granitose del Giglio e di Montecristo, e le irte Gorgòna e Capraja; e maggiore l’Elba, madre del ferro, le cui roccie cristalline e stratiformi decomponendosi preparano vigoroso nutrimento a lecci, querce, castani, noci non solo, ma agli aloe, al fico opunzio, alla palma dattilifera.
ISOLE
Nell’arcipelago Circeo emergono la trachitica Ponza, Palmarola, Ventotene; nel partenopeo Capri, Prócida, Ischia, che gli Eretrj dovettero abbandonare pei tremuoti e per le eruzioni del terribile Epoméo. E tutte plutoniche sono le isole dell’arcipelago eolio, Salìna, Vulcana, Stròmboli, Villamica, Astica, e maggiore di tutte Lìpari, da cui si tira tutta la pietra pomice. Dall’Adriatico sporgono le isole Diomedee (Trémiti) e le cento su cui sorge Venezia. Alcuno v’aggiunge le otto Égadi, di cui la più vasta è Favignana; le tre Pelagie, in cui Lampedusa; e il gruppo di Calipso, cioè Malta, Gozo, Comìno, che le recenti classificazioni ascriverebbero al mare africano, e che forse sono frammenti d’una grand’isola aderente alla Sicilia.
ETÀ GEOLOGICA
La storia geologica dell’Italia concorda colla generale dei continenti, dallo stato embrionale svolgendosi per forze naturali, operanti in un’infinità di secoli. Il primo comparire della vita coincide colla prima fisionomia de’ suoi terreni: e le reliquie fossili servono alla storia primitiva del globo come le medaglie a quella della società. Già il Boccaccio poneva mente alle conchiglie petrificate dei colli di Certaldo; ma quella che era vaghezza di curiosità, divenne rivelazione d’arcane meraviglie dacchè il Soldani, fin dal 1780 prevenendo le sottilissime indagini di Ehrenberg, in ducentottantotto grani d’una pietra delle colline di Perlascio numerò diecimila e ducenventiquattro nautili e ducentrenta ammoniti, pesanti centottantun grano; il resto frantumi di conchiglie e spine di echini. Appena col microscopio si riconoscono i testacei dei colli di Siena e Volterra e della Lombardia; intantochè iguanodonti si dissotterrano dal cretaceo inferiore degli Abruzzi e del Gran Sasso, ossami di mastodonti, tapiri, daini, rinoceronti, ippopòtami e zanne elefantine nel val d’Arno, massime dal renaccio a Montanino, con frutti oggi maturanti soltanto nella Luigiana, e con bestie della Siberia; enormi rettili sauroidi, impronte di lepidoti e semionoti ed ammoniti appajono fra gli strati di schisto intorno al lago di Como; di pesci fossili sono impastati Pietra Roja nel Napoletano e il monte Bolca nel Veronese; il colle miocenico di Superga è un cimitero di specie perdute; cetacei e lamantini scopronsi in cento luoghi, e caverne rinzeppate d’ossa ferine, ed erti banchi di denti, di cui alcuni fin di venti metri di lunghezza e di uno e mezzo d’ampiezza. La grotta di San Ciro presso Palermo, colma di avanzi fossili, a sessanta metri sopra il mare è traforata e incrostata di serpule e litodomi che vivono solo alla superficie delle acque. Un migliajo di metri sopra il mare ad Ascoli nel Piceno tu incontri potenti strati di marmo tufaceo, il quale non potè formarsi che in fondo a un lago scomparso; e così in cima alla montagnuola di Civitella del Tronto, e alla sorgente del Volturno in Terra di Lavoro.
Su queste reliquie, fra questi accidenti i geologi or creano, or impugnano ipotesi, fra le quali fortunatamente non è obbligato invilupparsi lo storico. Esaminando i fondi calcari coperti di conchiglie siluriane, le effimere terre coperte di intatte foreste nell’età carbonifera, l’avvicendato inondare e ritirarsi del mare, le piante terrestri conservate nel trias nell’epoca giurassica, essi argomentano che i fondi del mare oscillavano di continuo, sicchè talvolta si ebbero mari interni chiusi, tal altra il libero mare portava fin sulle maggiori alture le spugne e i coralli. Poi all’età della creta il fondo dell’Italia si parte in due regioni; a settentrione una formazione littorale di gneis e calcari marnosi, con alghe, conchiglie, puddinghe quali vedonsi nelle Alpi, nelle colline della Brianza e del Varesotto, nell’Appennino settentrionale e nella Toscana; a mezzodì i lidi della Dalmazia, il Capo Gargano, la Sicilia.
ALTERAZIONI GEOLOGICHE
Nè l’Italia era ancora conformata, nè avria potuto resistere agli urti di quelle onde immense; essa appare solo nell’età terziaria, quando in seno al libero mare si formano gli Appennini. Quali cause portarono l’età dei ghiacci? come essi spiegano i nostri laghi, le smisurate morene, i giganteschi trovanti? come comparvero le grandi isole ed ultimo il gigantesco bastione granitico delle Alpi? Avanzavano ancora grandi laghi dolci in quelle che l’uomo (allora non per anche nato) denominò val d’Arno superiore, val d’Elsa, val di Chiana, ed in altre della Toscana, dell’Umbria, dell’Abruzzo, sulle cui rive pascevano quelle strane specie d’animali, di cui perì la razza. Dalle correnti furono dati al terreno italico la configurazione fisica e il rilievo presente a un bel presso; e concentrato il fuoco sotto una crosta di terra sempre più solida, ridotte le acque a comune livello, l’atmosfera si disnebbiò, il suolo venne asciugandosi così, da potere appropriarsi a stanza dell’uomo.
Chi questi fenomeni sgranati saprà con potente sintesi riunire così, che rivelino le rivoluzioni del nostro suolo prima che l’uomo vi venisse a lavorare, soffrire, meritare?
TRADIZIONI MITICHE
Neppure dopo che la parola sonò vi mancarono grandi sovvertimenti, che troviamo talvolta adombrati in favole e tradizioni. Forse quando, rotte le dighe dei Dardanelli e di Calpe (evento fisico, personeggiato nel mito di Ercole), si congiunsero l’Oceano, il Mediterraneo, il mar Nero, l’acqua coperse contrade già fiorenti d’agricoltura e di città al lembo dei nostri monti, dei quali non soprastettero che le vette. Tradizione più recente e il nome di Reggio[4] farebbero indurre che dall’Italia abbiano con improvviso strappo divelta la Sicilia le correnti, favolosamente pericolose nel Faro. Fors’anche le isole Eolie aderivano alla Calabria lungo la costa dal Pizzo al capo Vaticano; e fra i due golfi di Squillace e Sant’Eufemia s’imboccava un canale traverso all’Italia, in modo che restasse isola la Calabria meridionale[5]. Da Camporeale a Monteforte potè fluttuare per quaranta miglia un lago, donde ergevasi la Serra negli Irpini, ed isola era il monte Soratte.
MUTAMENTI POSTERIORI
La mitologica battaglia degli Dei con Tifeo nella Campania e ad Enarime, cioè Ischia; Giove che, minacciato dai Titani, tre ne cava fuori dal suolo, gli altri sobbissa, e ad essi sovrappone i monti di Sicilia, non esprimono l’affondarsi di antiche e l’emergere di nuove montagne? Il piano scabroso che divenne talamo a Roma, fu già seno di mare, colmato da terreno plutonico: marne terziarie, ed arenarie lacustri o marine miste a tufi ignei costituiscono quei colli e i margini de’ laghi di Castel Gandolfo e di Nemi, impozzatisi entro crateri estinti. Altri laghi invece si esaurirono, come quelli di Baccano, di Monterosi, di Capena, d’Aricia, di Castel Savello, e il Regillo presso Frascati, segnalato dall’ultima battaglia del patrizio eroismo romano: il travertino a’ piedi delle montagne di Tivoli non potè esser prodotto che in fondo a un lago, del quale sopravanzano i piccoli dei Tartari e della Solfatara[6].
VULCANI
E d’un vulcano ci pare indubbio simbolo quel Caco, che in Virgilio vomita fuoco[7]. Un cranio rinvenuto in un letto di pozzolana di monte Mario, un gran lenzuolo chiuso nel peperino del monte Albano, un antico ossario sotto alle lave di questo vulcano, testimoniano di mutamenti avvenuti dopo che v’abitava gente consociata. E ben venticinque vulcani tu potresti numerare in doppia tesa da Verona fino all’Etna, i quali ancora si manifestano dove in crateri ignivomi, come a Stròmboli, all’Etna, al Vesuvio, il più attivo d’Europa, dove in soffioni e mufete e borborismi e bulicami, o ci lasciarono di sè testimonianza nella forma del suolo e nelle sovrapposte stratificazioni. Napoli e Cuma, fondate undici secoli avanti Cristo, posano sopra quattro scanni di lava; e convien dire che da lungo tempo tacesse il Vesuvio, se non si dubitò di piantare così vicino ad esso una città. In fatto i Greci, sebbene ne conoscessero la natura, non ne ricordavano alcuna eruzione; eppure Ercolano sorge sopra una lava simile a quella che lo sepellì, e con vestigia di coltivazione. In quella vece ardeva il Voltùre, spingendo lava e ceneri sino al limite orientale degli Irpini; tutta ignea è la vallea del Garigliano; e attorno a Napoli si additano ben ventisette fumajuoli estinti, de’ quali uno a Capodichino, l’altro a Capodimonte, uno a Sant’Elmo e a Pizzofalcone, due al Posílipo, altri a Soccaro, a Pianura, a Fuorigrotta nel monte de’ Camáldoli; i laghi Lucrino, Averno e d’Agnano furono crateri; a dir solo i più manifesti, se ne riscontrano al monte Gauro, a Cuma, al Marmorto, al capo Miseno; Procida aderiva ad Ischia; e il nome de’ Campi Flegrei esprime abbastanza la natura del semicircolo che s’arcua fra Gaeta e il capo di Minerva.
ALTERAZIONI POSTERIORI ALL’UOMO
Poco innanzi al tempo di Plinio era sorta dal mare la Liscabianca, una delle isole liparee; poi nell’età di Tolomeo due altre, Dátoli e Basiluzzo; e mentre a ricordo storico quattro sole se ne contavano, ora quelle isole son dieci; e noi stessi vedemmo, nella secca del Corallo fra Pantellarìa e la città di Sciacca, emergerne una nuova, poi scomparire. Nel 1538 di mezzo al lago Lucrino in pochi giorni si elevò quel che ancora denominiamo Montenuovo.
Nei contorni di Acireale in Sicilia il canonico Recúpero riconobbe sette scanni di lava, alternati con un erto terriccio. L’inglese Brydone, pubblicando nel 1773 quest’osservazione nel Viaggio per la Sicilia e Malta, argomentò che a formare un tal letto vegetale occorrono almeno duemila anni; laonde quella montagna deve contarne quattordicimila. L’asserzione fu raccolta avidamente in un tempo, in cui ogni scienza arrolavasi per isbugiardare il genesi mosaico; ma primieramente chi accerta in quanto tempo il terriccio si formi sopra la lava? arida e nera vediamo tuttora la vomitata dall’Etna nel 1536, mentre su quella del 1636 frondeggiano alberi e vigne; vene di terre coltivate sono frapposte alle sei lave accumulate sopra Ercolano, della cui distruzione conosciam l’anno appunto. Cadeva dunque l’arguzia sillogistica davanti ad una migliore valutazione dei fatti, anche prima che il valoroso naturalista Dolomieu verificasse nessuno strato vegetale interporsi alle lave di Jaci[8].
Consta che a volta a volta ridestaronsi alcuni vulcani; Archippa in età remota andò sommersa nel lago Fúcino; altre irruzioni distrussero nella foresta Ciminia una città, e quella de’ Volsinj, ed una chiamata Sucinio da Ammiano Marcellino, tanto antica che nessuno ne fa ricordo. Era tradizione che Aremulo Silvio re d’Alba (863 a. C.) fosse colla reggia inghiottito da una fauce del monte Albano, e Dionigi d’Alicarnasso aggiunge si notavano ancora nel lago i ruderi del suo palazzo: sotto quel di Bracciano additavano una città sobbissata, di nome ignoto: nè d’altra indole doveva essere la voragine spalancatasi nel fôro romano, entro la quale si precipitò Curzio: Tito Livio trovava riferito negli annali di sassi piovuti a Vejo, sull’Aventino, sul monte Albano, ad Aricia, a Lanuvio. Novantun anno avanti Cristo due montagne a Modena parvero avvicinarsi, e forse allora inabissò la città che giace sotto alla presente; il monte Epomeo divampò in modo, che le mura di Reggio ne ebbero conquasso.
ACQUE
Nuovi cambiamenti portò l’allungarsi dello sbocco dei fiumi. Le paludi Pontine erano mare fino ai monti di Sezze, Sermoneta, Vellétri, ed isola il promontorio Circeo. Le maremme da Pisa fino ad Orbitello, comprendenti il delta dell’Arno e le spianate ove impigrano la Cécina, la Cornia, l’Ombrone, l’Albenga, da pochi secoli furono sottratte al mare: a Rutilio Numaziano nel iv secolo, navigando rasente il lido etrusco, erano visibili gli avanzi di Populonia, or posta troppo addentro ne’ morbiferi pantani di Piombino e Scarlino: e la Tavola Peutingeriana, del secolo iii, fa sboccar l’Ombrone fin presso alla via Aurelia. Sembra il Tirreno flagellasse le mura di Tarquinia, che ora ne dista tre miglia: Luni e Lavenza sedevano sul mare, cui lambiva la via regia, or separatane da un miglio o due. Pisa da Strabone è collocata a tre miglia dal mare, a quattro nel 1173 da Beniamino di Tudela, mentre ora è a sette. Trajano costruì allo sbocco del Tevere il porto, che oggi dista duemila ducento metri dalla riva; e cinquecento cinquantaquattro una torre fabbricata da Alessandro VII sulla marina. Tiensi per dimostrato che l’Arno presso Arezzo si dividesse in due bracci, un de’ quali colava al mare per Firenze e Pisa, l’altro pel val di Chiana confluiva nel Tevere; finchè le alluvioni de’ torrenti tributarj a quella valle, o sollevamenti di terreno separarono i due bacini. Certo il val d’Arno superiore fu un lago, sfogatosi poi per la rotta, che ancora da ciò serba il nome d’Incisa; come di Ripafratta una strozza, che nei colli di Filettole e Castiglioncello squarciarono le acque del Serchio e dell’Ozzeri.
ONDEGGIAMENTI
Anzi sembra che oggi stesso la crosta terrena in molte parti si elevi e si adimi, secondando la marea dell’ignita lava sotterranea. Molte città e regioni ne portano testimonio in edifizj o depressi o rialzati; ma il più bizzarro sono le colonne del tempio di Serapide a Pozzuoli, non solo affondate ora nel mare, sopra il cui flusso posavano, come l’attestano i sottoposti scoli, ma a grande altezza traforate da folladi e terebratule, cui abitudine è di rimanere alla superficie dell’acqua: sicchè fu un tempo in cui anche la loro base sovrastava alle onde, ed uno in cui vi era sommerso lo scapo fin a metà[9]. Tale prova si ripete all’occhio indagatore per tutto il delizioso rivaggio di Baja e Posílipo, e nella roccia calcare di Gaeta e del capo Circeo, convincendo che quelle terre giacquero fin otto metri sotto all’acqua. Ma che? i litofagi stessi nel golfo della Spezia non lasciano traccia al disopra dell’odierno fior d’acqua; prova che l’ondeggiamento non ebbe luogo colà, o nei molti edifizj lungo quella costa, mentre la torre di Santa Liberata a capo Argentaro, certo fondata in asciutto, ora sta sotto al mare; e le paludi mostrano le une avvallamenti, le altre elevazioni di terreno. Qual induzione trarne dunque? che non v’è uniformità nel rigonfiarsi e deprimersi del littorale, ma la crosta è tuttora flessibile, e soggetta a parziali ondeggiamenti.
ONDEGGIAMENTI
Di queste disquisizioni c’imputerà solo chi non conosca quanto i procedimenti d’una nazione, non diremo dipendano, ma si assettino alla natura dei luoghi che occupa. E però seguitando diremo come l’Italia continentale dovette lunga stagione rimanere in balìa del Po e degli altri grossi fiumi, i quali, filando da ghiacciaje alpine, lasciarono l’impronta del loro dominio nella profonda ghiaja alluviale, sottostante alla ubertosa belletta della Lombardia e dell’Emilia; e scarnando i monti, elevarono pianure, colmarono valli e seni, e spinsero molto addentro nel mare le colmate; opera che proseguono tuttora a malgrado dell’arte.
ALTERAZIONI MODERNE
Vuolsi che nella pianura padovana fluttuasse il mare, da cui sporgevano a guisa di spòradi i colli Eugànei, gruppo trachitico isolato fra terreno terziario d’alluvione, e presso ai quali si colloca la caduta di Fetonte, cioè forse una pioggia di materie vulcaniche e d’aeroliti. Il Modenese pure, sospeso sovra acque correnti, dovette formarsi per rialzamento progressivo[10]; e le sue salse eruttano ancora fanghiglia, acqua salmastra e gas idrogene carbonato. L’Adige fin verso il 600 dopo Cristo lambiva i colli Eugànei, per isboccare al porto di Bròndolo. V’è chi sostiene il Po scendesse alla marina cento miglia più addentro d’adesso, talchè, dopo l’imboccatura del Taro ove cessa di voltolar ciottoli, fosse tutto maremma quel delta, che or accomuna in parte anche coll’Adige. La laguna estendevasi da Aquileja fino a Ravenna, ai confini padovani allargandosi ben trenta miglia, di maniera che riceveva tutti i fiumi dal Po all’Isonzo; i quali poi coi loro interrimenti finirono a distinguerla nelle tre di Aquileja, Venezia, Comacchio. Pel ventaglio del Po, sette canali scaricavano questo fiume a mezzogiorno di Ferrara; poi assottigliatisi i due principali di Primàro e Volàno, s’aprì un nuovo corso avvicinandosi all’Adige in modo da minacciare l’esistenza eccezionale di Venezia, se col taglio di Portoviro non gli si fosse schiusa la gran vena del Po grande[11]. Certo de’ terreni, ove il re de’ nostri fiumi liberamente spagliava, or è mutata del tutto la faccia. Il porto di Ravenna, che bastava a ducencinquanta vascelli dell’impero romano, Jornandes, che ne fu vescovo nel vi secolo, lo vedea convertito in giardino; ed ora la città dista quattro chilometri dal mare; venticinque Adria da quello cui diede il nome; e a gran fatica coi colossali murazzi Venezia si schermisce dai fiotti che ostruirebbero i suoi canali.
CONFINI E PASSAGGI
Pochi paesi ebbero da natura frontiere così ben determinate quanto l’Italia, per crescervi una nazione autonoma, dagli stranieri separata pel mare e per le montagne: eppure da quello e da queste le vennero continuamente abitanti, educatori, devastatori, padroni. Polibio, un secolo e mezzo avanti Cristo, indicava quattro passaggi ne’ monti verso la Gallia: uno per le alpi Marittime littorali, aperto vetustamente da Ercole, e dove fu poi tracciata la via Aurelia; uno per le alpi Cozie e la piccola Dora ai Taurini; il terzo pei Salassi di val d’Aosta scandendo il monte di Giove, che ora è il San Bernardo; il quarto pel letto del Ticino. I Romani poi resero accessibili nelle alpi Retiche le vallate del Reno e dell’Adige, e nelle Carniche quelle del Tagliamento e dell’Isonzo; a tacere il littorale adriatico, ove le montagne si chinano fino al mare[12]. Lo svilupparsi delle coste per 5844 chilometri, con tante insenature e con eccellenti porti, e il riuscire poco discosti dal mare anche i paesi dell’interno, rendono l’Italia appropriatissima al commercio, e a divenire potenza marittima. Ma la sua lunghezza di seicento settanta miglia dal Capo Rizzuto fino al monte Bianco, ch’è la più elevata cresta d’Europa, sopra una larghezza che varia da venti sin a trecento miglia; e tanti fiumi e valli che la frastagliano, sembrano disporla a rimanere frazionata in piccoli Stati, quale la sua storia ce la mostra, essendo fin a jeri mancata di quell’unità di governo e di capitale, di cui si compiaciono altre nazioni.
GLI ASPETTI
Di qui pure la portentosa varietà di aspetti, che vi ravvicinano il clima di Costantinopoli a quello della Norvegia, vuoi in estensione, vuoi in elevatezza; sicchè tu raccogli limoni e melagrani nelle ridenti morene che fan piede alle alpi Retiche, sulle cui rapinose vette a pena il camoscio raspa qualche lichene di sotto al gelo perpetuo; di nevi s’incorona il Mongibello, le cui spalle sono sparse di scorie, e alle falde non cessa mai l’estate; come delle Madonìe e del Montisori di Sicilia un fianco biancheggia di neve, l’altro fiorisce di aromatiche rarità. Di qui ancora la moltiforme vegetazione: il cupo verde delle conifere spicca dalla corazza delle ghiacciaje, che il Cenisio, il San Bernardo, la Spluga oppongono ai dardi del sole e all’avidità de’ conquistatori; laghi cristallini, ricreati da freschi orezzi e incorniciati dalla perenne letizia dei mirti e degli allori, foscamente spiccanti dall’argentino ulivo, colla montana severità circostante imitano il contrasto della gaja fanciullezza colla pensosa canizie; a mezzogiorno deserti, ove rosseggia la ruvida soda spinosa; a settentrione fragranti praterie subalpine nutrono api, mandre, pecore; tra filari di gelsi cinesi e di pioppe pinate torreggiano in piano le città lombarde; e in limpidi pelaghetti si specchiano giardini a terrazzo, e poggi festonati di pampani quasi per una solennità, e pergolati che schermiscono dalla canicola e dalle protratte aridità del cielo splendidissimo; l’oro di migliaja d’agrumi rileva sul bruno delle boscaglie nella Campania, nel Genovesato, nella Calabria; boschetti di terebinto, di lentischi ombrano le tane de’ Trogloditi; lance di àgave e spatole di cacti assiepano campi, dove pompeggiano spontanei l’oleandro, il pistacchio, le palme a ventaglio e sublimi canne; le roccie irte di fichi opunzj, e i carrubi, e gli aloe sorgenti fin venti metri, e il castano che fa ombrello a cento cavalli, e i datteri di Catania e di Girgenti avvertono la vicinanza dell’Africa; la sorridente guardatura di Palermo e di Mergellina ti fa trovare veramente, com’è in proverbio, un pezzo di paradiso caduto in terra. E quando d’un’occhiata abbracci Italia e Sicilia, e tante rade e tanti seni, opportunissimi al comunicarsi della civiltà e delle produzioni; e tanta ricchezza di minerali, tanti agi del vivere, tanti vezzi che invitano d’ogni plaga gli invidianti stranieri, i curiosi del bello, i pellegrini dell’intelligenza; e città sepolte sotto i lapilli, o dimentiche fra gli scopeti e le macìe; ed altre già frequentatissime, or da pochi e poveri abitate; e i porti, da ciascuno dei quali uscivano cento navigli, ed ora appena schiusi a qualche barca peschereccia; e misteri dell’arte non meno stupendi di quei della natura; e memorie d’ogni gente che da settentrione e da mezzodì venne a bagnarla col suo sangue e col nostro; e una città eterna, che signoreggiò il mondo prima per la forza, poi per le leggi, indi per la religione: allora ti senti preso di maggiore affetto per un paese di glorie privilegiate e di privilegiate sventure, e che tre volte risuscitato dalle proprie ruine, nell’operoso silenzio rifà le ali della speranza.
LA STORIA
E poichè un popolo tanto più sente la propria dignità quanto è più lungo il tempo a cui dilata la sua storia, diventa un dovere di pietà lo studiar quella degl’Italiani dai primordj fino al presente. E quanti già la raccontarono! eppure senza toglierne la voglia ad altri, avvegnachè ogni età abbia un linguaggio suo proprio, ogni autore un proprio modo di scorgere, di connettere, di valutare i fatti, pur beato chi può dire,—La patria ha inteso il mio!
E noi, quando giovinetti domandavamo ai maestri una storia d’Italia, approvata dai dotti, intelligibile agli indotti, accettata dalla nazione, e non ce la sapevano indicare, un eccelso concetto ci formavamo di questo lavoro di memoria, d’immaginazione, di giudizio, di sentimento; e che a compirla bisognasse raccogliere con erudizione sicura e vagliare con logica sagace le sempre crescenti notizie; le quistioni affrontare con intrepidezza, risolvere con imparzialità; ostinarsi a scoprire, accertare, depurare il vero, volerlo dir tutto, e non dire che quello; evitare i luoghi comuni, pur senza avventarsi nei paradossi, nè sostituire alle osservazioni l’intuizione, alla indagine le divinazioni e i presentimenti, alle particolarità vivificanti le metafisiche generalità; non assegnare a grandi effetti piccole cause, bensì spinger l’occhio nella storia interiore, di cui l’esterna è mero riflesso; non credendola fatale ma neppure fortuita; nello svolgimento de’ fatti cercar quello delle idee, l’eterna realtà sotto alle volubili contingenze; non che disanimarsi a tanto spettacolo di miserie, di bassezze, d’iniquità, a tante esperienze ove al desiderio fallirono le forze o alle forze la perseveranza, riconoscere che la giustizia e il senno di Dio si compiono anche mediante le ingiustizie e gli sbagli degli uomini, e serbar fede a quel progresso cristiano, che, dopo lunghe interferenze, si manifesta in una più giusta economia della società, in una più chiara luce degli intelletti, in una più saggia moralità delle azioni: credevamo infine si dovesse tutto esporre con nettezza, calore, rapidità, atteggiando i personaggi col loro carattere, avvivandoli coll’alito del loro tempo, non coi pregiudizj e i risentimenti del nostro; aspirando a quell’originalità che deriva da verità sentite e volute, espresse senz’arroganza, nella lingua meglio intesa.
LA STORIA D’ITALIA
E ogniqualvolta alcuno si segnalasse nel tormentoso esercizio dello scrivere, noi chiedevamo perchè non tessesse una storia d’Italia, onde preparare alla nazione un altro pegno d’unità e di fiducia; onde emendare la febbrile abitudine del leggere a corsa, del credere o negare senza esame, del ricevere per consenso le immagini e le impressioni, anzichè esercitarvi la propria attività; onde prevenire alcuna delle rovinose temerità, che nascono da incommensurabili pretensioni accoppiate con cortissima esperienza.
Principalmente noi v’incalzavamo quel venerabile nostro amico che fu Cesare Balbo, il quale allora dai casi pubblici e dalle accoglienze fatte ai primi volumi della sua Storia d’Italia trovandosi gittato in uno sconforto, da cui seppe poi bene rialzarsi, ci rispondeva:—In un secolo che, educato sistematicamente nello spirito di parte, impugna la verità conosciuta; l’incontestabile critica storica esinanisce colla contestabile controversia politica; ciò che ha formato per secoli la gloria e la venerazione dell’umanità, sacrifica alla parola convenzionale che ogni giorno gli è suggerita da oracoli d’un giorno; in un paese sprovvisto d’opinione pubblica, cioè di sentimenti comuni alla più parte de’ pensanti; con una letteratura vagabonda, ricca d’orpello, scarsa di bontà e d’amore; con una scienza isolata, lineare, di meri dilettanti; con leggitori pregiudicati, creduli, distratti, la cui pazienza a tutto indiscretamente ingojare infonde la sfacciataggine di tutto dire: dove il sentenziar dei migliori si rimette assurdamente a Tersiti, presuntuosi più quanto meno competenti; dove, allorquando il grido de’ nemici accusa, il silenzio degli amici condanna; dove nessuno coadjuva allo studioso, tutti cospirano a menomargli quella fiducia che è la condizione d’ogni riuscita; tra giovani che al grave e al serio preferiscono i dilettevoli nulla e le ammirate inutilità, o che a vent’anni pronunziano scioperandosi quella bestemmia di Bruto, che appena avrebbe senso dopo un’intera vita d’azione; tra adulti che nulla vogliono dimenticare dell’antico, nulla ammettere del nuovo; tra faziosi inesausti di ciance, il cui applauso si carpisce coll’incensare l’amor proprio, coll’impudenza nella ciurmeria, collo sfoggiare gagliardezza contro i deboli; tra intolleranti che, per liberalità fattisi inquisitori, vogliono guardare con un occhio solo, e mutilano la verità per costringerla entro la loro forma; tra riazionarj d’esagerazione opposta, che vi denunziano agli oppressori come contumaci, agli oppressi come codardi; tra avventati che compromettono, e pusillanimi che rinnegano l’avvenire, perciò aborrenti entrambi dall’esperienza; tra il bombo di passioni che non s’illuminano, d’interessi che non si persuadono, come potrebbe sorgere, come perseverare uno storico? Perocchè, oltre non professare altro culto che della verità, altra passione che della giustizia, è dover suo diffondere luce, benevolenza, abitudine del riflettere; salvare e invigorire il senso comune contro il sofisma e l’utopia, cioè il falso in pratica; difendere l’autorità senza vigliaccheria, la libertà senza sovvertimento, l’ordine senza smentire la generosità e il progresso; e di tutta l’opera sua fare un atto d’educazione morale e politica, un esempio di coraggio civile, e di quella tolleranza che è la cortesia della libertà».
Il calcolare le scabrosità di un’impresa è utile finchè se ne induca la necessità d’adoprarvi tutte le forze; è viltà se scoraggi dall’usarle: e mentre aspettando il grand’uomo e l’opera perfetta molti si consumano in isterili rimpianti, perchè non confortarsi di quel proverbio che Chi fa a potere fa a dovere? E senza reputarsi da più dei precedenti, nè trovatore di fatti nuovi e di non più concinnati sistemi, uno può assumere la storia d’Italia, purchè con buona fede, con volontà perseverante, coll’affetto di chi parla della cosa più caramente diletta, e insieme colla sincerità di chi teme che il dissimulare i mali tolga di conoscere ed applicare i rimedj; simile a chi, presso ad una madre che altri svenò, poi col sangue trattole scrisse È morta, la esplora fra lacrimoso e venerabondo, se mai a qualche guizzo del cuore potesse consolarsi che morta non è.
Da che popolo divenne parola di partito, popolari si dissero lavori impregnati di collera e d’orgoglio, vacillanti di principj, frivoli di concetto, abjetti di forma, chiari forse ma come un ruscello che al fondo lascia vedere il nulla, e dove l’autore si presta complice d’insani pregiudizj e di ridicole pretensioni, anzichè elevarsi a correggere le passioni vulgari, guidare i calcoli, i principj, gli affetti tra l’abuso dell’esame e quello della credenza. Non a questa popolarità aspirano i buoni libri; bensì a comparir decentemente fra intelletti colti, fra donne che si educano per divenire educatrici, fra studiosi che vi trovino lo stillato del senno, della dottrina, della pazienza dei loro pari; fra cittadini che la patria amano da mariti non da vagheggini; fra statisti che sanno la felicità d’un paese non elevarsi solidamente se non fondandola sulle origini sue e sul suo passato.
Dopo di ciò, l’autore abbandona l’opera sua a chi si senta il ruzzo fanciullesco di dilaniarla, o il virile proposito di giovarsene per compirne una migliore. È appuntato d’errori, di dimenticanze? accetta la correzione, ringrazia dell’insegnamento, quand’anche vi manchino quelle forme che gli danno o crescono valore. Trovasi bersagliato dagli estremi opposti perchè, nè minace nè pauroso, rispettando quella degli altri, pretende l’indipendenza del proprio pensiero, e fra due abissi si equilibra soltanto sulla propria coscienza? ascolta a questa che gl’intima «Vien dietro me, e lascia dir la gente»; e alle tribolazioni, che oggi rendono opera espiatoria lo scrivere, si rassegna nel sentirsi sicuro che, se forse ha taciuto cosa che pensava, non disse cosa che non pensasse; certo di errare, ma non di errare apposta; e sovratutto di aver amato e rispettato il proprio tema, e speratone alcun giovamento ai compatrioti che con lui soffrono, lottano, confidano.
E a noi vogliano gl’Italiani perdonare se nei gravi anni ci perigliammo a compiere l’opera, che fu l’esercizio e la mira de’ fiorenti; battendo un sentiero corso da tanti, ma pur con passi nostri. Oh felice quel talento che si guadagna le simpatie, a dispetto della frivola beffa e della sistematica denigrazione! Ma se noi troveremo anche adesso l’affettato frantendere, l’interpretare sinistro, la maliziosa insinuazione, il petulante compatire; se si perseveri ad invidiarci quella benevolenza dei connazionali, che invocammo unici mecenati nella fatica, giudici nelle accuse, conforto nelle speranze, ci rimarrà qual supremo compenso l’esserci procurato questo lungo colloquio col fiore della nazione, con quelli che maturano per un avvenire più ragionevole, più libero, più morale.
Il quale allorchè si schiuderà, sappiano almeno i nostri figliuoli che noi lo vagheggiammo ancora in boccia; e ad inaffiarne il germe portammo una stilla d’acqua che negavamo ai piaceri nostri e all’agevolezza del rimanere in pace coi gagliardi violenti e coi fiacchi stizzosi.
CAPITOLO II.
Dei primitivi Italiani.
ANTICHITÀ DELL’ITALIA
Quell’amore di patria, che pare si acuisca quant’essa e più immeritamente sventurata, e che cambia di pretensioni secondo la passione del momento, potè asserire che l’Italia fosse da antichissimo non solo abitata, ma incivilita a segno, che di là partissero i dirozzatori della Grecia, dell’Egitto, perfino dell’India. Non v’è paradosso, a cui non possa imprimere aspetto di probabilità una erudizione o incompleta o mendace, la quale ignori o dissimuli gli argomenti contrarj, contentandosi di soddisfare ai dilettanti, la genìa più numerosa, e la più consueta dispensiera della reputazione, che è l’orpello della gloria. Chi ben vede, a quella ipotesi[13] trova repugnare e la natura dei terreni e le testimonianze storiche; alle quali chi neghi peso quando avverse, non potrà appoggiarvisi quando favorevoli.
I terreni dell’Italia peninsulare si trovavano (lo vedemmo or ora) allo scarco orientale dell’Appennino occupati da paludi, e all’occidentale sommossi da esalazioni vulcaniche; Adige, Ticino, Po e i cento loro confluenti spagliavano a baldanza nella continentale, e il mare penetrava ben addentro in quelle ora ubertosissime pianure.
Documenti di remotissima longevità dove si additano fra noi? La storia più antica, l’ebraica, ci mostra l’Egitto, la Fenicia, l’Arabia incivilite venti secoli prima di Cristo, e non menziona tampoco l’Italia, bensì mette per fede quel che le moderne ricerche d’etnografia, di linguistica e d’archeologia vanno confermando, che la stirpe umana derivi da un ceppo unico e dal centro dell’Asia, donde pe’ varj pendìi si diffuse in tre gruppi, distinti eppur fraterni, designati col nome di Sem, Cam, Giafet. Il primo prevalse per senno, e per avere conservato maggior quantità di tradizioni morali e scientifiche: il secondo, segnalato per industria e cultura, precipitò in tempestiva depravazione: il terzo, famiglia più rozza e meno corrotta, dovea vantaggiarsi dei progressi delle altre.
Della gente giapetica una parte estendevasi nella penisola indiana e nella Persia, mentre un’altra risalì al settentrione, e traverso alla Scizia penetrò nell’Europa nostra. Le lingue parlate in questa, fra cui la latina e l’italiana, s’annettono fra loro per tante affinità di parole e di costrutti, che se ne costituì un solo gruppo, intitolato indo-germanico, di cui le radici sono a cercare fra le misteriose bellezze del sanscrito, lingua sacra dell’India. Che più? questa ricchezza di frutti e di grani, quest’utile e dolce compagnia d’animali domestici, non è indigena dell’Italia, ma seguì le migrazioni, mosse dalla nativa Asia verso il nostro Occidente: nuova conferma al racconto biblico.
PRIME GENTI
E già fu tempo quando le origini dei popoli non si voleano cercare che dal genesi mosaico; Noè e suoi figliuoli doveano esser venuti a popolare la nostra patria, e qualche nome che tenesse somiglianza co’ nostrali, bastava a stabilire una genealogia. Fu allora che il Morigia faceva occupare l’agro milanese da Tubal figlio di Giafet, trentacinque anni dopo il diluvio, e fondar la città d’Insubria, detta poi Milano; che Bernardino Scardeonio empiva la Venezia con colonie menate dai figli di Noè; che Noè stesso era fatto giungere in Italia dal Merula, e quivi dal vino denominare Giano[14].
Chi più bada a queste baje de’ frati, nè a quelle degli eruditi che voleano trar le origini ciascuno dal popolo e dalla lingua su cui avea diretto gli studj, dai Fenicj il Mazzocchi, il Martorelli, oltre il Giambullari, il Gelli e gli altri resi famosi col nome di Aramei; dai Celti il Bochart, Guido Ferrari e il Bardetti; nè a quelle dei poeti, che metteano Troja a capo di tutto?[15].
L’ODISSEA
Questa città richiama a mente lo scrittore classico più remoto e «primo pittor delle memorie antiche». Omero, guidando il suo simbolico Ulisse a vedere «i costumi e le città di varj popoli», undici secoli avanti Cristo nomina i Siculi come primissimi abitatori del centro della nostra penisola; ma descrivendo le coste di questa, indirettamente ne smentisce antica la civiltà. Caduta Troja, Ulisse, cacciato dall’ira divina fra i Lotòfagi del littorale africano, si propone di ritornare ad Itaca sua patria, isola del mar Jonio. Imbarcato, drizza la prora verso l’isola delle tre punte ( Trinacria ), la quale ricevette nome dai Siculi; e presa terra presso l’ignivomo Etna, v’incontra Ciclopi e Polifemi, cioè gente ferina e antropofago, «che non semina nè pianta, non ha leggi, non adunanze, non navi, ma abita in antri, signoreggiando sulla moglie e sui figliuoli». Campato dal costoro dente, uscito dallo stretto di Messina, approda alle isole Eolie; donde coll’aria di ponente traversa lo stretto che supponemmo si aprisse fra il golfo Scilatico e il Lametico (pag. 16). Poi dai numi irati risospinto pel medesimo varco, sale verso Lamo[16] nel golfo di Gaeta; e da un’altura esplorando il paese, «non vi scorge ovraggio d’uomo nè di bue», ma solo i fumi, probabilmente del Vesuvio. Alcuni de’ suoi seguaci, mandati per informazioni all’abitato, vi trovano i Lestrigoni, giganti che mangiano uomini, e lanciano pietroni enormi.
Perduta la maggior parte de’ compagni, e ripresa via, Ulisse afferra al paese di Circe, che probabilmente è il monte Circeo, «isola circondata dall’immenso mare» che poi interrotto formò le infauste paludi Pontine. Circe, maga che trasforma gli uomini in bestie, cos’altro simboleggia che il vivere ferino? Ed essa consiglia Ulisse di veleggiare col vento di borea ai Cimmerj, ossia nella regione di Cuma napoletana che fu poi così ridente, e che allora dinotavasi come regno delle ombre e dei morti o delle sirene, cioè offriva campo agli sbizzarrimenti della fantasia perchè sconosciuta[17].
L’ENEIDE
LEGGENDA VIRGILIANA
Tale appariva l’Italia all’itaco re, il quale ne’ suoi lunghi pellegrinaggi in altre contrade ritrova e civiltà ordinata, e gentilezza d’arti, e scienza d’armi, e abilità dì navigare. E il poeta, il quale dovea vivere nove secoli avanti Cristo, fa predire da Apollo che Enea otterrebbe ancora regno nella Troade: laonde non si potrebbe obiettargli la civiltà che qui Enea trovò, secondo una favola di posteriore invenzione, immortalata da Virgilio. Il qual Virgilio, elegantissimo espositore delle tradizioni che blandissero la vanità latina, fa abitata l’Italia da popoli selvaggi[18], senza proprietà stabile[19], che sol ricordavano d’essere usciti da tronchi di rovere[20], allorquando (dovette essere quattordici secoli prima di Cristo) calò fra loro Saturno, che quella gente indocile e dispersa ne’ monti raccolse, la insegnò nell’agricoltura, nell’innestar gli alberi, nel valersi dei bovi, mentre la vite era introdotta da Sabino[21]. Ed anche al tempo che qui fa approdare il pio trojano, quel gentile poeta ci descrive bambino l’incivilimento degli Itali, divisi in borgatelle, occupati a rompere la gleba, andar a caccia, cavalcare; alcuni pochi dell’Etruria a lavorare il ferro, forse tratto dall’Elba; armati sempre, taluni perfin tra le fatiche agricole; faceansi elmi e schinieri con pelli di lupo e scorze di sovero, e sapeano trar di fromba e d’arco, anche con saette avvelenate[22]. Il re, capo d’un piccolo cantone, avea solo autorità di convocare il popolo alle assemblee e condurlo in guerra; suo distintivo pelli d’orso, di leone, di pantera[23]; sua reggia una capanna di paglia; e spesso congiungeva al comando gli uffizj e il carattere di sacerdote[24]. Di fuori s’erano importati molti riti sacri, dall’Arcadia i Lupercali, dalla Grecia i Baccanali; altri più severi, probabilmente indigeni, si esercitavano nelle selve ad onore o degli avi defunti o degli eroi; un feticismo più grossolano era mantenuto fra alcuni, che prestavano culto ai fiumi, entro ai quali immergeano i neonati, o si lavavano i peccatori per purificarsi[25]; nè era dismessa l’orribile eppur tanto diffusa superstizione de’ sagrifizj umani.
ELABORAZIONI STORICHE
A dare significazione storica a questo linguaggio mitologico, a strigare la continua confusione del reale coll’immaginario, che si trova nella leggenda, la quale altera il fatto reale, talvolta lo contraddice apertamente, ma pure conserva un fondo di vero, o almeno di non falso, faticarono l’erudizione e la fantasia; e non volendo accettare quel mistero che involge tutte le origini, ogni tratto presentasi alcuno a trinciar le quistioni colla facilità propria di chi non le ha studiate, e tacciando chiunque lo precedette; vantasi di nuovi fatti, d’insoliti paradossi, che poi riescono a luoghi comuni: per tacere degli sguajati, che aborrendo dalla verità cercata per se stessa, delle sapienti elucubrazioni fanno un’occasione di strapazzi; e perchè Müller o Niebuhr traggono i Pelasgi dai Germani, Freret e Thierry dai Galli, gl’insultano come minaci alla nazionale indipendenza.
Se alcuna cosa attendibile si può raccogliere, è che la popolazione all’Italia venne in più riprese, e di genti che un lasso di secoli e diversità di clima e di consuetudine aveano distinte, benchè non ne cancellassero le originarie somiglianze. Il discenderle è tanto più arduo perchè la scarsezza di monumenti toglie di spiegarli e correggere a vicenda; e l’appoggiar le induzioni sopra errori falsa necessariamente le conseguenze.
Gli antichissimi non iscrissero le loro storie, od a noi non pervennero; fossero anche pervenute, ce n’avrebbero potuto rivelare le origini? Le tradizioni si sformarono pel passare di bocca in bocca, per l’ignoranza del vulgo, per la scaltrezza sacerdotale, per la boria patriotica. Quei che primi tolsero a fissarle collo scritto non le seppero vagliare, ignorarono molti monumenti, o non ne intesero il valore; intanto sovvertimenti naturali, sovrapposizione di nuovi popoli, inenarrabili sventure mutavano faccia, costumi, credenze, lingue ne’ paesi: sicchè, cancellate o confuse le memorie, non restando nè uno storico nè un logografo, essendo ignota fin la lingua delle poche iscrizioni sopravanzate, riesce quasi disperata l’investigazione della verità, che è il primo scopo della storia.
STORICI PRIMI
Ultimi degli antichi popoli d’Italia, i Romani colla spada raserò le vestigia dei precedenti; nei paesi soggiogati cercarono i lavori di appariscente bellezza onde rubarli, non ciò che avrebbe gittate qualche lume sui tempi trascorsi; i loro scrittori distinguendo i popoli conquistati per provincie, non per nazioni, venivano a confonderli; e vilipese le arti e le lingue italiche, non chiesero gloria che dalle vittorie. I Greci furono il popolo dell’antichità meglio dotato del sentimento del bello, sicchè ci lasciò i lavori più insigni nelle arti del disegno come in quelle della parola, e nel bagliore della sua luce involse quella degli altri, che ascrissero a vanto il derivare da quello le origini o l’educazione propria. Ed anche i Romani nella storia e nella filologia greca indagarono le etimologie e i tesmofori, sfrenandosi in aeree congetture, senza sentire il bisogno di confrontare, di discutere, d’accertare, ed acchetandosi ad un si dice. Se gl’Italiani così le negligevano, come sperare che con amore ne cercassero le origini que’ Greci, i quali, non senza titoli, si tenevano ad essi di tanto superiori? Oltre il vezzo di tutto personificare, di tradurre gli eventi in miti, di presentare in un uomo o in un fatto le complessive vicende d’un’età e d’un popolo, quanto essi ne raccontano de’ primordj del nostro paese ridonda a unico vanto della Grecia; di là le colonie, di là ogni arte, ogni sapere, ogni personaggio. Ciò scema fede a quanto de’ primi abitatori d’Italia narra Dionigi d’Alicarnasso, benchè egli venisse a Roma allorchè di fresco Catone avea scritto sull’origine delle città, era appena morto Cicerone, vivo Varrone; e mostri aver copiato gli annali e le lapide di ciascun paese, le quali, appunto perchè municipali, non restavano travisate dal proposito sistematico di metterle in accordo colle altre[26].
CONGETTURE
Di questo Varrone, predicato come il maggiore erudito di Roma, smarrimmo i libri; ma i frammenti che ci rimangono danno a temere ch’egli pure si buttasse alla fantasia o ad un’erudizione di provenienza greca, anzichè indagar la originale e indigena. Presumiamo altrettanto di Catone, romano anch’esso, che avea radunato memorie sulle origini di ciascuna città, le quali Eliano sommava a mille centonovantasette[27]; e dei trentatre storici, che avevano trattato della fondazione di esse. Strabone e Plinio, venuti più tardi, raccolgono tradizioni, ma nè discutendo nè combinando come è proprio di chi sente il bisogno della certezza.
L’erudizione moderna, chiedendo alla filologia e all’etnografia un filo onde ravviarsi in tal labirinto, inventa sistemi sempre nuovi, sempre incompiuti, sempre facili a erigersi quanto ad abbattersi. Interi libri si compilarono per null’altro che informare delle varie opinioni, le quali, come avviene delle congetturali, hanno ragione dove confutano, torto dove asseriscono. E noi, ponderatele tutte, non soddisfatti d’alcuna, esponiamo a guisa di chi è certo di non appagare altrui, perchè non è persuaso egli stesso.
Nel movimento di popoli che precede l’età storica, le grandi migrazioni non succedono che per via di terra; e dai varchi alpini devono essere scesi i primi abitatori all’Italia. Altri, sopragiungendo alle spalle, cacciavansi innanzi que’ primi, i quali trasferivano altrove il nome proprio, e nella terra abbandonata lasciavano traccie di sè in qualche particolare denominazione di paese. Pertanto in una penisola, i primi venuti pajono doversi rintracciare nella più lontana estremità; verso quella essendosi calati, finchè, non potendo più oltre procedere, le genti primitive si mescolarono colle avveniticcie.
Il navigare non costituiva una scienza ed arte complicata come oggi; e piccoli legni con ampia carena, capaci di cento in ducento uomini, spinti a remi e con una vela, bastavano ai viaggi, massime in mari circoscritti come quello fra l’Asia, l’Africa e noi[28]. A questo modo dovettero venire altre genti all’Italia, le quali piantavano piccole colonie e più civili sul mare, mentre i mediterranei tenevansi sui monti. Il nome di Aborigeni, attribuito ai più antichi Itali, suona montanaro (ὄρος monte ); e forse dinotava una prima immigrazione di genti giapetiche, denominata de’ Tirseni o Tirreni o Raseni, i quali comunicarono il proprio nome a tutta la penisola e al mare che la bagna ad occidente; intanto che quello a levante fu denominato Adriatico da Adria, città anch’essa tirrena. Platone, nel Critia, fa i Tirreni contemporanei degli Atlantidi al par degli Egizj, vale a dire anteriori ad ogni storia; la favola gli associa ai ricordi di Bacco, di Giove, dei Satiri; ed Esiodo, contemporaneo di Omero, rammemora «i forti Tirreni, illustri fra gli Dei e gli eroi».
ABORIGENI
Erano di quest’antichissima genìa gli Euganei e gli Orobj, che precedettero gli Umbri; e così i Camuni, i Leponzj ed altri del Trentino; sia che da quelle parti settentrionali fossero calati in Italia, sia che fra quelle alpi avessero piantato stazioni per riparare la penisola dalle correrie dei Galli[29]. A que’ Tirreni apparteneano per avventura anche i Taurisci, o montanari nella subalpina occidentale; e nella media Italia gli Etruschi e gli Opici, appellativo fors’anche questo generico, indicante terragni[30], e contratto in Opschi ed Oschi, al quale aggiungendo l’articolo, n’esce il vocabolo Toschi. Certo i Tirreni sono considerati dagli antichi come diversi dai Siculi e dai Pelasgi: la loro lingua sembra rimanesse al fondo delle italiche; ed anche nel fiore di Roma la plebe e la gioventù prendeano spasso dalle Favole Atellane, cantate in osco; poi quando la maestà romana declinò, l’osco sopravvisse col vulgo rimasto, e divenne forse padre dell’odierno idioma.
IBERI
Ma un elemento semitico vi si mescolò, se pure non li precedette, per opera degli Iberi, gente finnico-tartara o, come dicono i più recenti, turanica, venuta dall’Iberia asiatica vicina all’Armenia, diciotto secoli avanti Cristo, e largamente diffusa in Europa, dove per mare procedette fin nella Spagna, alla quale attribuì il proprio nome, e dove lasciò ne’ Baschi la propria favella, non meno che ai Finnici, nell’estremità opposta d’Europa[31]. A questo nome si apparentavano i Liguri nell’alta Italia; nella media forse gl’Itali, collocatisi lungo la marina occidentale fra la Macra e il Tevere; nella bassa i Sicani, che Tucidide chiama Iberi. Esso Tucidide riscontra il fiume Sicano nelle vicinanze de’ Liguri, che (dic’egli) abitavano a mare sopra Marsiglia: e poichè il nome de’ Sicani accostasi a quel de’ Sequani, assisi alla sorgente della Senna, v’ha chi arguisce doversi ascrivere al loro lignaggio i Celti, e a ciò attribuisce le molte parole che nell’italiano, e più nel siciliano, rimasero di celtica radice[32].
LIGURI
Secondo alcuni dunque la gente Ibera sarebbe abitata in Italia prima ancora che vi venissero gli Indoeuropei, e di là trarrebbero le tante parole dei nostri idiomi, estranie alle lingue ariane, e massime i vocaboli di luoghi. Ma ecco altri invece dedurre i Sicani dall’Epiro, e farli identici coi Pelasgi ( Corcia ); altri crederli un ramo de’ Tirreni ( Abeken ), che modificato dalla mistione cogli Aborigeni o Caschi, formò i Latini. Anche gli Umbri, altri popoli primissimi in Italia, da alcuni si vorrebbero Liguri: ma questo nome di Liguri ci sembra generico anzichè speciale, e certo era diffuso su grande ampiezza; gli Oschi medesimi si denominavano Liguri; Edwards, mediante la storia naturale e il confronto de’ cranj, ravvicinò la stirpe ligure alle celtiche: in modo che non uscirebbe di buona congettura chi ascrivesse tutti i prischi Italiani alla grande migrazione che si dinota col nome di Celti, estesissima razza, che forse non è diversa dalla scitica.
UMBRI
Illirio, Celta, Gallo, nati da Polifemo e da Galatea, popolarono il primo l’Illiria, gli altri due l’Italia col nome di Umbri. Questo linguaggio mitologico adombra la migrazione antichissima de’ Celti, i quali, scampati al diluvio[33], dalla Tesprozia e dalla Tracia si estesero a settentrione dell’Europa fin al capo Domes-ness nella Curlandia, e sulle coste occidentali sino al Finisterre della Spagna. Nel lunghissimo vagare per la selva Ercinia, che allora ombreggiava tutta l’Europa boreale, e per l’Alta Asia sino alle frontiere della Cina, perdettero la memoria della loro provenienza. Non è del nostro intendimento il cercare se fossero semitici, per la lunga dimora e per la mistione tramutati poi in indo-europei. Restringendoci alla storia, diremo che col nome di Ambra o Amhra, in loro favella significante nobile, prode, scesero in Italia, e vi si divisero in tre bande, da cui ebbero titolo tre provincie: Oll-Umbria o alta Umbria fra l’Appennino e l’Jonio; Is-Umbria o bassa, attorno al Po; Vill-Umbria o littorale, che fu poi l’Etruria. Catone vorrebbe che Ameria, loro città, sia stata ricostruita trecentottantun anno prima di Roma[34]; epoca storica, al di là della quale non sopravanzano che le favole de’ tempi saturnj. Cacciando Liguri e Siculi, gli Umbri occuparono dunque la parte orientale dell’Italia, l’occidentale lasciando agli Iberi, e furono il popolo prepollente della penisola; col nome di Sarsinati abitarono Perugia, con quello di Camerti Clusio, e possedettero trecencinquantotto borgate[35].
PELASGI
Contemporaneamente a queste ondate d’interi popoli, ne venivano di parziali; nè tutti erano giapetici: e Titani, Ciclopi, Lestrigoni, che pajono aver preceduto i Siculi nell’isola che da questi prese il nome, forse derivavano dalla stirpe di Cam e dall’Africa. Men tosto migrazioni di popoli interi, che colonie e conquiste sono a dire le seguenti irruzioni in Italia, e quella che s’impronta col nome de’ Pelasgi.
Nulla più disputato ai dì nostri, che la derivazione, gli andamenti e l’indole de’ Pelasgi[36]. Alcuni li farebbero semitici: i più gli adunano alla grande famiglia caucasea degli Sciti, una parte della quale, traverso alla Tessaglia, si arrestò in Grecia e nel Peloponneso col nome di Pelasgi ed Elleni, suddivisi poi in Eolj, Jonj, Dori, Achei, e si dilatò nelle isole dell’Arcipelago e in Italia; un’altra, valicando il Tauro, occupò l’Asia Minore, la Frigia, la Lidia, la Troade, e passato il Bosforo, prese stanza nella Tracia.
Che che ne sia, essi precedono ne’ paesi civili quelle generazioni che acquistarono classica rinomanza. I Greci li faceano favolosi quanto i Titani e i Ciclopi; barbari del resto, che mandarono a conquasso le belle contrade, finchè dall’ira divina sottoposti a terribili disastri, soccombettero e furono ridotti servi. Tal è il linguaggio di una nuova generazione contro quella che essa spodestò: eppure anche nelle malevole tradizioni greche i Pelasgi appajono fondatori di città, cavatori di miniere, maestri di religione, di arti, sin di un alfabeto.
In Italia giunsero in più riprese; e la prima con Enotro e Peucezio figli di Licaone, che, diciassette generazioni avanti la caduta di Troja, dall’Arcadia e dalla Tessaglia addussero una colonia, la prima che per mare uscisse di Grecia[37]. I Peucezj si collocarono sul golfo Jonico, gli Enotrj a scirocco, incivilendo i popoli campani. Nuovi fiotti di popoli snidarono altri Pelasgi dalla Macedonia e dal paese di Dodòna, cui da due secoli coltivavano; onde traverso alla Pannonia, all’Illirico, alla Dalmazia, approdarono alle foci del Po, dove fabbricarono Spina.
Trovavano essi i Tirreni già soggiogati e in condizione di schiavi, gli Umbri assisi sul pendìo orientale, gli Iberi o Liguri nell’occidentale, e potentissimi i Siculi. Dato di cozzo in una tribù di questi, chiamata degli Aurunci od Ausonj, i Pelasgi applicarono il nome d’Ausonia all’intero paese. Provarono nemici gli Umbri, e alleati gli aborigeni della Sabina, che aveano cominciato addensare le capanne senza chiusa di mura, e che allora popolarono di città le creste dell’Appennino.
I Pelasgi non naturarono mai la loro padronanza sul nostro paese; malvisti sempre come stranieri e conquistatori, dovettero mantenervisi armati; tre secoli lottarono coi Siculi, finchè li spinsero nell’isola che da loro ebbe nome di Sicilia.
RELIGIONE DE’ PELASGI
Erodoto, il più antico storico greco, dice che i Pelasgi «sacrificavano pregando gli Dei, ai quali però non applicavano nè nomi nè soprannomi, chiamandoli soltanto Dei»[38]. Forse ciò esprime che tenessero un Dio solo: ma probabilmente nel loro culto era divinizzata la natura, le forze feconde e ordinatrici di essa esprimendo in simboli, di cui restò orma nel culto italico, come i Fauni, Vesta, Anna Perenna, Pale, ed altre divinità estranie all’Olimpo greco. Il dio Termine per loro simboleggiava i possessi stabili: Vesta, la sanzione divina dell’associazione della donna coll’uomo: onde avrebbero essi introdotto fra i rozzi Italioti queste personificazioni religiose dello stato famigliare e del diritto di proprietà, importantissimi dove la costituzione pubblica riposa sopra la domestica[39]. A Vesta ardeva il fuoco perpetuo, custodito da vergini per le quali era delitto capitale il lasciarlo spegnere e il macchiar la castità. Nella Sabina posero un oracolo, somigliante a quel dell’Epiro.
Particolare al nome Pelasgo era pure il culto dei misteriosi Cabiri o Dioscuri; i quali al vulgo erano offerti come pianeti personificati, che in forma di stelle o di fuochi apparivano ai naviganti; mentre agli iniziati de’ misteri, cui sacrarj erano l’isola di Samotracia e Dodòna nell’Epiro, esprimevano il concetto di una trinità, formata dell’onnipotente, del gran fecondatore e della gran fecondatrice[40]. Ad essi serviva di ministro un Casmilo; nei loro misteri, che tennero gran parte nelle religioni italiche, garantivansi gl’iniziati contro le procelle ed altre sventure: ma le cerimonie tendeano principalmente alla purificazione delle anime. Il neofito confessava i suoi peccati, subiva prove severe, sacrifizj espiatorj; il sacerdote poteva assolvere anche dall’omicidio: ma lo spergiurare e l’uccisione nei tempj erano colpe riservate a un tribunale, che poteva anche punirle di morte. Nelle iniziazioni il neofito, coronato di ulivo e cinto d’una fusciaca purpurea, era collocato sopra una seggiola; e in cerchio ad esso gl’iniziati, tenendosi per mano, guidavano una danza al canto d’inni sacri. L’iniziato più non deponea la sacra benda, che fu poi adottata anche nei riti bacchici, coi quali aveano pure comuni le cerimonie impudiche.
Le somiglianze del culto italo coll’ellenico non isfuggirono ai Greci; e Dionigi d’Alicarnasso avverte che non trattasi solo d’identità di tipi e di forme, esprimenti le idee generali di potenza o protezione speciale, ma fin d’attributi, di vesti, d’usi tradizionali, di tregue religiose, di pompe e sagrifizj, di costruzione rituale dei tempj. Alcune divinità greche furono introdotte nel culto latino a tempi conosciuti, come Apollo nel 429 di Roma, Esculapio nel 459, nel 449 l’ara massima di Ercole: ma le maggiori avrebbero potuto piantarsi dopo già costituite quelle società, così tenaci della tradizione, senza eccitarvi un generale sovvertimento? e l’opposizione avrebbe potuto dalla storia essere inavvertita? Convien dunque supporle venute qui coi popoli stessi, massime coi Pelasgi, tanto più se si ponga mente alla fisionomia nazionale di esse divinità, e alla loro coerenza colle istituzioni civili.
Questo poco e null’altro sapremmo de’ Pelasgi, se non ci rimanessero avanzi di meravigliosi loro edifizj. A principio l’uomo nel procacciarsi un’abitazione non pensa che a schermirsi dalle intemperie e dalle belve, fortunato ove il suolo gli offre caverne naturali od opportunità di formarne, come le tante di Sicilia, massime in vai di Noto, al Peloro, a Spaccaforno, ad Ipsica, sovrapposte talvolta come i solaj d’una casa o i loculi d’un colombario. Colà doveano abitare i Lestrigoni, i Lotofagi, i Polifemi, quegli altri mostri in cui l’età poetica raffigurò le genti fuori del civile consorzio, e che limitavansi ad abbellire le grotte ove si ricoveravano, o dove riponevano la moglie, l’iddio, le reliquie dei cari estinti. Sacri spechi perciò incontriamo nelle più remote storie: in uno il re Numa Pompilio conferiva colla ninfa Egeria; da un altro la sibilla di Cuma rendeva i suoi oracoli; molti sotterranei mostrano l’antica Etruria e le isole del Mediterraneo[41], ornati coi primi tentativi dell’arte; e sovra tutti notevole è l’ipogeo presso l’antica Fiesole, in pietra arenaria compatta di strati distinti, che il vulgo attribuisce alle fate, e l’erudito non sa a qual uso.
TROGLODITI
Agli scavi trogloditici succedono le costruzioni sopra terra, nominate ciclopiche dai nostri Ciclopi di Sicilia, supposti giganti, che poterono sovrapporre massi enormi, non isquadrati, stanti per la propria mole, disposti in torri ovvero in mura con porte. Queste mura alcune sono di pietroni di varia grossezza, affatto scabri, e rinzaffati con ciottoli e scaglie; altre di macigni poligoni disposti al modo medesimo, grossolanamente martellati, e di forma e mole disuguale; altre di parallelepipedi rozzi, collocati perpendicolarmente: cemento non appare in nessuna. Nell’isola di Gozo fu così costruita la torre de’ Giganti, forse dai Fenicj, composta di due monumenti internamente comunicanti. Sono pur tali i Nuraghi di Sardegna, coni elevati da dodici a quindici metri, e finiti in tondo, fatti con dadi d’un metro negli strati meno erti, irregolari sempre e senza calcina. Sorgono sopra alture, cinti talvolta d’un terrapieno fin del giro di cento metri, fortificati da un muro alto tre e di simile costruzione, circuiti talora da altri simili coni di minor dimensione. Chi li crede trofei, chi are del fuoco: ma se si riflette che ne esistono forse tremila, non si può crederli che abitazioni o sepolcri, principalmente di sacerdoti, lo perchè non vi si trovano mai armi, bensì ornamenti femminili e idoletti[42].
EDIFIZJ CICLOPICI
Chi ha precisato quali caratteri distinguano l’architettura ciclopica dalla pelasgica? Questa, ammirabile non per regolarità come la greca, ma per la mole dei materiali e per somiglianza colle opere della natura, non adopravasi a servigio di re o ad onore di numi, ma ad utile sociale, in mura, vie, acquedotti, canali; e quel vivo sentimento della vita cittadina, rivelato dalla costruzione di tante città, sopravvisse ne’ futuri Italiani, propensi sempre alla vita di comune. Di tal maniera sussistono muraglie, od isolate o cintura di città: e fattura del diavolo le dice il vulgo, attonito a quegli ingenti massi, quali irregolari, come a Cosa, ad Arpino, ad Aufidena; quali riquadrati, come nell’antichissimo bastione di Roma, e in quei di Volterra e Fregelle; quali regolari, come a Cortona e Fiesole; spesso ancora di costruzione mescolata, sempre senza calce, e che mostrano l’uso di molte braccia e portentosa gagliardia.
MURA PELASGICHE
Solo dopo che nel 1792 si scopersero ruine sul monte Circeo, venne fissata l’attenzione agli edifizj pelasgici, che ora son uno de’ punti più studiati dagli archeologi, e moltissimi riscontri ai nostri si trovarono nel Peloponneso, nell’Attica, in Beozia, in Tessaglia, nella Focide, nell’Epiro, nella Tracia, nell’Asia Minore, paesi abitati da Pelasgi. Ma mentre pochi n’ha la Grecia, da trecento ne mostra l’Italia ne’ paesi degli Aborigeni, dei Sabini, dei Marsi, degli Ernici, e nelle città latine a mare. Principale tra quest’ultime è Terracina ( Anxur ); seguono il poligono recinto di Fundi, e le mura e le porte di Arpino e di Alatri, e quelle di Venda, Ferentino e Preneste, a massi irregolari, quali cingevano pure sulle montagne volsche Norba, Signia, Cora. Sull’altra gronda dell’Appennino fra i Sanniti rimane traccia di siffatti edifizj a Boviano, ad Esernia, a Calatia, fors’anche ad Aufidena; fra i Marsi ad Alba, ad Atina, e intorno al lago Fùcino. Da questo alle contrade tiburtine, abitate dai montanari Equi e Sabini, sembra usasse assai tal modo di fabbricare gigantesco, apparendone i resti a Cicolano e a Rieti, dove già furono Tiora, Nursi, Sura, e verso Monteverde e Siciliano e Vicovaro. Scarseggiano negli Abruzzi; ma nell’Umbria se ne ammirano ad Ameria, a Cesi, a Spoleto, e maggiori a Cosa. Finiscono tra l’Esi e l’Ombrone; l’Italia settentrionale non ne ha, non l’Etruria interiore; in Sicilia vorrebbesi vederne a Cefalù e sul monte Erice.
Nella mura dell’acropoli d’Arpino la porta è a cuneo; parallelepipeda ad Alatri, trapezia a Norba, al Circeo, a Signia, ma le spalle sembrano montagne: l’arco appare rozzo nell’acquedotto presso Terracina, regolare nel ponte di Cora, e più in qualche avanzo di Circeo, e nella porta gemina di Signia. Talvolta sono costruzioni rotonde, coperte di cupole formate di lastroni disposti orizzontalmente con progressiva sporgenza; come in molti sepolcri a Norba, a Tarquinia, a Vulci, e in quello insigne di Elpenore sul Circeo, e nel carcere Tulliano a Roma, che probabilmente in origine fu una cisterna, siccome quello di Tuscolo, quadro e sormontato da cupola a cono.
Non ci vorremo dunque collocare con quelli che riguardano i Pelasgi soltanto come un’orda ragunaticcia e feroce, la quale non abbia che messo a sperpero il paese. Se fosse, n’avremmo un appoggio a quel vanto dato da Plinio all’Italia, ch’essa sembri fatata dagli Dei a restituire agli uomini l’umanità: ma tutto all’opposto, altri lodano i Pelasgi sin d’avere portato qui l’alfabeto, giacchè Evandro, insegnator di questo, veniva dall’Arcadia, loro stanza.
Molto soffersero[43] in Italia i Pelasgi in grazia della sterilità e siccità dei campi, ma più ancora pei vulcani, dal cui imperversare furono, 1300 anni avanti Cristo, costretti abbandonare l’Etruria, ove le loro città vennero insalubri per le esalazioni delle paludi, formatesi di mezzo a terreni o depressi od elevati: Cere, una di esse, sedeva a quattro miglia dal cratere in cui stagna il lago di Bracciano; l’aria mefitica di Gravisca restò proverbiale fra’ Romani; Cosa per questa rimase deserta; Saturnia, città incontestabilmente pelasgica, era s’una delle ultime colline del vulcano di Santa Fiora.
Oppressi da tali disastri e da malattie strane, i Pelasgi interrogarono l’oracolo di Dodona, e n’ebbero risposta essere gli Dei sdegnati perchè, avendo promesso ai Cabiri la decima di tutto quanto nascerebbe, non aveano offerta quella de’ figliuoli. La spietata risposta parve ancor peggio del male; il popolo tumultuò, e prese in sospetto i capi: di qui crebbero i patimenti; stanchi de’ quali, alcuni Pelasgi migrarono, o tornando ai paesi dond’erano venuti, o procedendo ad occidente, massime verso l’Iberia, dove Sagunto e Tarragona mostrano mura di loro costruzione. I rimasti, da nuovi popoli furono non distrutti, ma spossessati e ridotti a condizione servile. I Sibariti in fatto chiamavano Pelasgi gli schiavi, che probabilmente erano gli Enotrj da loro soggiogati; e forse enotrj erano i Bruzj, schiavi rivoltati. Rimasti come servi campagnuoli della nobiltà urbana, forse a servigio di questa fabbricarono altre mura di città, che anche più tardi serbano carattere di robustezza.
Chi visiti San Pietro d’Alba nei Marsi, riconosce tre gradini di costruzione pelasgica, sormontati da un tempio romano, al quale i Goti aggiunsero una tribuna ad abside, e il medioevo una facciata, mentre l’interno è ornato da sei colonne di marmo corintio. Questa mescolanza non è il simbolo perpetuo della storia degli Italiani? e sarà mai sperabile che altri pianti un sistema, il quale valga unico a spiegare le mille varietà? Sanno d’alchimia più che di chimica cedeste manipolazioni della storia, per cui a cinquemila anni di lontananza si pretende dar la formola delle affinità, indicare la separazione dei popoli, ridurre a calcolo il caos. Ogni ipotesi troppo generale soccombe alla sincera indagine; e se è sconfortante che i dotti rimangano ambigui, ed i migliori sforzi riescano soltanto ad un forse, è umiliante che per quel forse si palleggi dall’uno all’altro il titolo d’ignorante o di presuntuoso.
Nota del 1874.
ANTICHITÀ PREISTORICHE
Le recenti scoperte di oggetti antichissimi, di rozzissimi arnesi, d’armi di silice, d’ossa rosicchiate o intagliate, di teschi umani entro grotte o ne’ paduli o nelle torbiere, e fin sotto a terreni di altra età geologica, portarono a un nuovo studio, che chiamarono antichità preistoriche. Ergendo ipotesi arditissime sovra fatti ancora indeterminati, si negò l’unica derivazione dell’uomo, si volle perfino crederlo null’altro che la trasformazione graduale di scimie antropomorfe, avvenuta in diverse parti del globo, e nel volgere di milioni d’anni.
Tutto ciò non ha a fare colla storia, la quale non può prender le mosse che dalle tradizioni nostre, dai nostri monumenti. I quali in verità attestarono uno stato quasi selvaggio delle popolazioni indigene, che, non possedendo ancora i metalli, si valeano delle pietre; poi usarono il rame, che più facilmente si trova puro; tardi approfittarono del ferro, divenuto poi principale stromento di civiltà. Giancarlo Conestabile assevera all’età del rame fosse contemporaneo l’uso del ferro, che trova spessissimo presente e mescolato all’altro metallo ne’ lavori artistici e industriali; donde induce che l’uso del ferro cominciò qui assai prima che nel Settentrione. Questi uomini preistorici sarebbero o brachicefali nell’Italia superiore, o dolicocefali nella inferiore: misti nella centrale.
Accordando colle scoperte recenti le tradizioni, abbiamo che, dopo il periodo pliocenico, l’Italia era occupata dal mare, donde sporgeano come isole le vette dei monti. Fra le selve d’alto fusto viveano genti selvagge con elefanti, rinoceronti, ippopotami, cervi da enormi corna, bovi primigeni ed altre specie perite. Da queste difendeansi con arme di selce: albergavano entro grotte, ovvero su palafitte in mezzo alle acque, dove rimasero gli avanzi de’ loro cibi. Così passarono l’età dei ghiacci: allo squagliarsi de’ quali la pianura andava asciugandosi, e le genti vi scendevano, perfezionando il vivere, gli utensili, le armi.
Testimonj di questi progressi dalla pietra al bronzo poi al ferro non sono scarsi in Italia, massime nella settentrionale, in abitazioni lacustri dei laghi di Lombardia, in necropoli dell’Emilia, in capanne, in terramare; ma segnarne la successione e l’età comparativa è troppo difficile.
Accontentandoci di esaminare le popolazioni storiche, pare dimostrato che la stirpe Aria o Indo-europea, partendo dalle terre traversate dall’Oxo, di là del Caspio e della Scizia, venisse in Europa in quattro rami, il Celtico, il Germanico, il Greco italico o Pelasgo, il Lituano slavo. Forse trenta secoli avanti Cristo avvenne la prima emigrazione di Celti, quasi contemporanea a quella dei Pelasgi, che stabilitisi nell’Asia Minore e sull’Ellesponto, spinsero ramificazioni in Italia, dove occuparono le creste degli Appennini, respingendo gli Aborigeni, dei quali son forse avanzi gli Japigi della Messapia, gli Opsci, gli Ausonj della Lucania, e i Liguri, che pajono i più antichi abitatori, nell’età detta della pietra.
Dell’istesso ramo Ario erano gli Umbri e Latini, quelli di dominio più esteso, questi limitati al paese del basso Tevere.
Viene terza un’immigrazione greco-pelasgica dall’Arcadia, dalla Tessaglia, dall’Epiro, per mare sbarcando nell’Italia propriamente detta, ch’è la Calabria, denominata da Enotro e Peucezio, e alle foci del Po, dove fondarono Spina.
Cozzi dei sopraggiunti coi già stanziati agitarono quell’età pelasgica, in cui si venivano accostando e fondendo le varie genti; i Pelasgi dilatarono l’uso dei metalli: costruirono le mura ciclopiche.
Ma quattordici secoli avanti Cristo cominciò l’immigrazione pelasgo-tirenica dall’Asia Minore alle rive occidentali della penisola centrale, e comparve il nome di Etruschi; i quali è incerto se fossero ariani o semitici. Per chiarire questo dubbio e le altre congetture adopransi argomenti filosofici e altri fisici, che non sempre s’accordano: nè gli uni sono più decisivi degli altri. Gli antropologi dissentono fra loro fondamentalmente, e intanto raccolgono cranj delle varie genti, dalla loro conformazione volendo dedurne l’origine. Ma venendo al popolo su cui è maggiore la curiosità, convengono che gli Etruschi sono una mescolanza di gente più civile e men numerosa, cogli Italioti più numerosi e incolti.
I filologi rifiutano l’origine celtica degli Umbri, ascrivendoli al ramo ario-pelasgico, come i Siculi e i Liburni, affini cogli Japigi, de’ quali resta qualche iscrizione non ancora decifrata, ma che accenna all’Illiria.
Il padre, poi cardinale Tarquinj, fu l’ultimo a sostenere le origini semitiche e s’appoggiò a nomi geografici, quali
Apinnin sommità, monti a catena.
Pisa Pissa , abbondanza.
Perusia Perosa , villereccia.
Udine Odina , amena.
Sora Isor , rupe.
Ischia Ischina , mio desiderio.
Vesuvio Veth-ubim , casa delle caligini.
Penna di Billi pinnath , sommità di Amone, di Bito, Punta di Ammone.
Ascoli Aschelon ne’ Filistei.
Arimino Arimanon di là del Giordano.
Siena Senaa città della tribù di Benjamino.
Roma Ruma in Cananea, residenza di Abimelec.
Cariddi Chor obdam , antro pericoloso.
Zancle Zalga , falce.
Ascoli ripudia affatto il concetto del Tarquinj e dello Stickel: e così Giovanni Flechia, di cui è notevole la Grammatica storica comparata dei dialetti italiani.
Che gli Etruschi siano semitici è negato dallo studio delle arti loro non meno che dal linguaggio, sebbene pochissimo ancora conosciuto. Dovettero essi venir dall’Asia Minore per mare, non già dalle Alpi; dove trovansi bensì loro reliquie, ma che provano solo essersi anche colà esteso l’impero degli Etruschi, i quali andavano fin sul Baltico in cerca dell’ambra.
Le lingue dei tre popoli più antichi, Osci, Umbri, Etruschi, ben distinte fra loro, vennero assorbite o distrutte dal latino, ma dai pochi avanzi si accerta che nel linguaggio degli Osci o Sanniti non è traccia di semitico, ed è affine al latino arcaico. L’umbro si scosta dalle forme del Lazio, pure le sette tavole eugubine conducono a riconoscerlo d’origine comune coll’osco-romano, esclusa ogni derivazione nè semitica nè celtica.
Non così d’accordo si va per l’etrusco, pure nol si spiega con nessuna lingua semitica nè celtica: e i monumenti numerosissimi ma di pochissime parole e di nessuna importanza storica, malgrado le abbreviazioni, le scorrezioni, le alterazioni fonetiche, l’assicurano al ramo ariano.
Tali sono le induzioni ultime di Corssen, di Fabretti, di Conestabile.
CAPITOLO III.
Gli Etruschi.
La gente da cui i Pelasgi si trovarono incalzati, doveva esser quella che da sè chiamavasi dei Raseni, dai Greci fu detta dei Tirseni o Tirreni[44], e dai Romani degli Etruschi o Tuschi.
Chi erano essi?
ORIGINE DEGLI ETRUSCHI
Misteri succedono a misteri; e qui pure, invece di riposare sulla dimostrazione, siamo ridotti ad ipotesi, desunte dal carattere generale. Erodoto fa uscire gli Etruschi dalla Lidia, annestandone l’origine alle vicende degli Eraclidi. Ellanico, padre della storia greca, li vuole tutt’una cosa coi Pelasgi approdati a Spina. Dionigi d’Alicarnasso ripudia entrambe le opinioni, propendendo a quelli che li fanno indigeni d’Italia: ma la perdita dei libri ove espresso egli trattava degli Etruschi, ci sottrasse gli argomenti ai quali esso appoggiava. I moderni campeggiano coll’una e coll’altra credenza, niuno con prove trionfanti, ma al solito mescolando erudizione e fantasia, esame e passione, e non già mentendo il vero, ma dissimulando gli argomenti in contrario. Però quante assurdità, mascherate d’invenzione, si risparmierebbero se si sapesse che da tanto tempo furono e sostenute e confutate!
Gli uni dicono:—Tant’è vero ch’erano Greci, che consultavano l’oracolo di Delfo; usavano un ordine architettonico che è semplificazione del dorico; fabbricavano vasi identici coi greci per la materia, pel lavoro, pei soggetti, per le iscrizioni».—No (soggiungono altri), erano indubbiamente Pelasgi; e lo provano i numeri simbolici, le austere dottrine, l’essersi mantenuti in relazione con Mileto e Sibari, città joniche ed achee, sorelle dei Pelasgi, mentre avversavano a Siracusa e agli altri Dori». Sopraggiunge chi tenta conciliare le due opinioni inventando i Pelasgi-Tirreni, detti così perchè Tirrenia fosse chiamata l’Etruria dai Greci, e tirreniche le popolazioni in Grecia più affini ad essi: tal nome deriverebbe da Tirra, città nella Lidia; lo perchè Erodoto chiamò Lidj i Tirreni[45]. I Pelasgi-Tirreni si discernerebbero dalle altre propagini pelasghe in quanto non abitavano le coste, ma regioni interne, come la Tessaglia e l’Arcadia; non pirati ma agricoli; ed affini sì, pur differenti di religione e di favella.
E inclinazione d’animi onesti e d’ingegni temperati il porre la ragione fra due estremi; e già quel Greco vantava la potenza delle medie proporzionali. Ma a questi asserti come chetarci se dappertutto gli Elleni ci si rappresentano quali oppressi dei Tirreni? I confronti della lingua, delle credenze, della civiltà non autorizzano a sì precise conseguenze chi, come noi, ammetta una fratellanza di popoli, anteriore alle nazionali separazioni. Su di che, noi proponemmo di aggregare i Tirreni alla prima immigrazione che si conosca in Italia: ridotti servili ne’ secoli che qui stettero i Pelasgi, si rialzarono poi a nuovo dominio.
Ma i Tirreni erano poi tutt’una cosa cogli Etruschi? Certamente gli Etruschi non usano linguaggio analogo al greco, come i Pelasgi; hanno lucumonie, e federazioni, e religione di genj, e vaticinj, al differente dei Tirreni-Pelasgi. Le tribù che abitavano attorno ad Adria forse si strinsero cogli Oschi in una lega chiamata degli Atr-Oschi, donde il nome d’Etruschi. Alcuno suppone che un popolo nuovo, detto i Raseni, scendesse dalla Rezia sopra l’Italia, la conquistasse, piantandosi fra le città pelasgiche dell’interno e della costa, e fosse chiamato degli Etruschi, come furono detti Britanni gli Angli, Messicani e Peruviani i creoli di Spagna, e Longobardi noi. Niuna traccia per altro fra gli antichi di tale conquista rasena.
A negare che gli Etruschi fossero greci varrebbe, oltre il loro parlare affatto distinto, il vedere che i Latini applicarono il nome di Pelasgi ai Greci[46] ed anche agli schiavi; dal che noi inducemmo che gli avanzi de’ Pelasgi rimanessero al nord soggiogati dagli Umbri-Galli, come al sud gli Enotrj e i Peucezj da’ Pelasgi-Elleni, formando il vulgo servile. Al tempo di Catone chiamavansi Etruria il paese, Tuschi gli abitanti; e possiamo credere che quel nome vivesse nelle bocche, donde, sotto gli ultimi imperatori, fu fatto il nome di Tuscia, non prima scritto.
L’accertare l’origine degli Etruschi, e quanta parte di civiltà qui recassero, riesce viepiù difficile perchè i sacerdoti, in cui mano stavano gli annali, poterono alterarli a loro talento: poi micidiali guerre li distrussero, ed i Romani affettarono disprezzarli, benchè alle famiglie illustri fosse vanto il derivare da quel popolo[47].
CITTÀ E COLONIE ETRUSCHE
Per raccogliere il poco che possiamo, gli Etruschi, o entrati allora in Italia, o ridestatisi dal servaggio, si trovarono incontro gli Umbri, ai quali tolsero trecento città[48], confinandoli in una sola provincia, che serbò il nome di Umbria, sebbene poi li ricevessero in alleanza e in comunione di sacrifizj[49]; si distesero nelle campagne che or sono il Bolognese, il Ferrarese e il Polesine, e nelle pianure fra l’Alpi e l’Appennino. Il Po difese da loro i Veneti, gente illirica: i Liguri ricovrarono fra i monti, cedendo il pian paese e il golfo della Spezia, dove essi Etruschi fondarono Luni, possedendo così tutta la costa.
Dappertutto gli Etruschi collocarono colonie; fondarono sul Po una nuova Etruria che, come l’interiore, contava dodici città, fra cui Adria sul mare allo sbocco del Po e dell’Adige, Fèlsina, Melpo (Melzo?), Mantova, così detta forse da Mantus, loro Bacco infernale, e divenuta poi capo della confederazione circumpadana. Nel Piceno fabbricarono Capra montana e Capra marittima, e l’Adria picena. Piombali sui Casci, prischi abitatori del Lazio, stabilirono per confine l’Albula, assoggettarono le terre dei Volsci, passarono il Liri, e nella felice Campania piantarono altre dodici colonie, tra cui Nola, Ercolano, Pompej, Marcina, e prima fra tutte Vulturnio: pure sembra che il grosso della popolazione osca vi rimanesse in qualche luogo, in altri i Sanniti rivalessero alla loro conquista.
Centro di questo dominio era l’Etruria propria fra l’Arno e il Tevere, dove fabbricarono altre città, cinte con solide mura di pietroni, o si valsero di quelle già fortificate dai Pelasgi. Primeggiavano tra esse Clusio, Volterra, Cortona, Arezzo, Perugia, Volsinia, Vetulonia, Cere, Tarquinia, Vejo[50], oltre una schiera di terre lungo il mare, e nel paese or infamato dalla mal’aria. Rimpetto all’Elba, Populonia occupava la cima occidentale del promontorio di Piombino. Rusella in forte postura sovra uno sprone del monte, dominava la maremma grossetana. Vejo circuiva sette miglia, s’un dirupo a dodici miglia da Roma, ricca di territorio ubertoso in poggio e in piano sulla destra del Tevere, abbracciando fin i colli del Gianicolo e del Vaticano. Tarquinia consideravasi come cuna del popolo etrusco, e fondata da Tarconte, l’eroe divino in cui di questo sono personificate le imprese, e da cui diceansi pure fondate Pisa e Mantova. Cere, che i Pelasgi nominavano Agilla, fu loro metropoli religiosa, e teneva a Delfo l’erario comune, indizio, se non di derivazione, almeno di parentela ellenica. Nelle tradizioni di questa ricordavasi un tiranno crudelissimo, Masenzio, simbolo dell’oppressione etrusca sopra que’ paesi; e forse a lor dominio stettero anche i Volsci e i Rutuli: Tusculo ne conserva il nome; anzi sin il monte Celio, uno dei sette di Roma, la qual Roma forse non era che la fortezza più meridionale della confederazione etrusca.
Parve un momento che gli Etruschi potessero congiungere tutta Italia: ma sconfitti da Gerone di Siracusa, si trovarono costretti a limitare all’Etruria il loro imperio, rinserrato più sempre dalla riazione di Liguri, Galli, Sanniti, infine distrutto dai Romani.
E scarsissime memorie ci rimasero della stupenda loro civiltà, in parte greca od asiatica, in parte originale, non senza influssi dell’aborigena e della pelasga. Chi però dall’estensione di quella volesse indurre una grande antichità degli Etruschi, mostrerebbe dimenticare come la civiltà, in quante storie conosciamo, appaja sempre dativa, cioè o importata di fuori o rivelata dal cielo: nè diversamente va il caso per gli Etruschi.
RELIGIONE DEGLI ETRUSCHI
È insito nei popoli il bisogno di sapere donde venissero, come cominciasse il mondo. Dio l’avea rivelato da principio, ma la parola sua andò confondendosi tra le genti per modo, che dalla mala interpretazione di essa derivarono le tante false religioni e capricciose cosmogonie. Spesso però una classe più dotta o più morale conservava maggior tesoro di quelle verità, e le comunicava a pochi, iniziati nelle allusive cerimonie de’ misteri; mentre al vulgo, più disposto a credere e adorare che capace di comprendere e sapere, le presentava sotto forme simboliche o materiali, che lo tenevano nell’errore e sotto la dipendenza d’essi sacerdoti. Di qui tante varietà di culti, impiantate sopra la concordanza de’ principali dogmi, e la significazione di riti che a prima vista sembrano null’altro che assurdi. Nè per questo noi ci abbandoniamo, come tanti, ad ammirare quelle religioni; perocchè se tu vai in fondo di qual sia di esse, côgli sempre il culto della natura, vuoi nel complesso, vuoi nelle parti, non separando l’idea della divinità da quella della natura, confondendo la rappresentazione colla cosa rappresentata, il dogma coll’immagine che lo esprime. Insomma l’idea di Dio non era perita, bensì quella che la materia fosse stata chiamata dal nulla per volontà libera di lui; onde essa materia consideravasi come qualcosa d’indipendente, vedendo nel mondo due termini, e perciò tutte le cose esser Dei, e adorando ora l’uomo, ora gli astri, ora le forze della natura. Ne veniva di conseguenza il credere, sebben solo più tardi siasi professato, che il tutto è Dio, con quel panteismo che è la fede meno alta a svolgere il vero sentimento religioso. Forse i sacerdoti vi ravvisavano qualcosa di meglio; ma il popolo rimaneva in un grossolano feticismo, che gli presentava ignobili oggetti, idee oscene. I Greci seppero dal simbolo passare al mito; ma ancora il culto arrestavasi sull’uomo, per quanto bello, elegante, affettuoso.
RELIGIONE DEGLI ETRUSCHI
Gli Etruschi da un lato ci sono dati come immuni dalle greche favole[51]; dall’altro come padri delle superstizioni. Mentre un villano apriva il solco, balzò fuori Tagete, fanciullo di forme, vecchio di senno, il quale cantò una dottrina, fondamento alla scienza degli aruspici; e di lui e di Bacchede suo condiscepolo sono operai libri rituali, principalmente in ciò che concerne l’estispicio[52]. Questo mito, dal quale comincia la vita stabile degli Etruschi, indica però già un popolo industrioso e costituito e sacerdotale. Sebbene non formasse una vera Casta, pure l’aristocrazia sacerdotale predominava, escludendo i forestieri, e fondando la propria potenza sul diritto divino e sugli auspizj. Ereditario nelle famiglie, il sacerdozio era distribuito in una gerarchia, dai camilli o novizj fin al sommo sacerdote, che veniva eletto dai voti di tutti i dodici popoli. Auspice della guerra e della pace era il collegio sacerdotale; per riti si sceglievano i magistrati, per riti si fondavano le città e gli accampamenti, si distribuiva il popolo in curie e centurie; sacri erano i confini, sacra l’agricoltura; dalla divinazione deducevansi la proprietà, il diritto pubblico ed il privato, giacchè Dio medesimo aveva ordinato,—Spartite i terreni, vivete all’amichevole, venerate i termini, non aggravate le taglie; se no, malori, pesti, fulmini, procelle».
Tra’ principali studj de’ sacerdoti era il contemplare il volo degli uccelli e i fulmini. Gli uccelli distinguevansi in lieti annunziatori di salute e felicità, e tristi che presagivano il contrario. Ciascuna classe poi suddivideasi in altre molte: volsgræ, che si straziavano un l’altro col becco e cogli artigli; remores, la cui apparizione ritardava un’impresa; inhibæ, inebræ, enebræ, che l’arrestavano; arculvæ, arcivæ o arcinæ, che la stornavano. Non si conviene sul senso degli oscines e præpeles: ma sembra i primi fossero quelli la cui voce dava un presagio qualunque, tristo o propizio; gli altri, il cui volo era fausto segno, massime qualora si dirigessero difilato all’osservatore. Se dopo quest’augello ne compariva un altro d’augurio sinistro ( altera avis ), restava eliso l’augurio precedente. Noto è quanto tale scienza operasse nella nomina de’ magistrali, e in tutti gli affari pubblici anche in Roma: il volo di una civetta sospendeva sovente le assemblee del popolo, annunziando essa morte o fuoco; l’aquila era felicissimo augurio fra gli Etruschi come fra’ Romani[53].
Diceasi che i sacerdoti etruschi sapessero attrarre ( elicere ) i fulmini, e s’accorsero che questi producevano mutamento di colori, e che alcuni piombavano dal cielo, altri sorgevano di terra[54]. Ritualmente distinguevano i fulmini in fumida, sicca, clara, peremptalia, affectata.....: i pubblici riguardavano a tutto lo Stato, e davano augurj per trent’anni; i privati, a un individuo, valendo per dieci anni al più; i famigliari, ad una casa sola, e riferivansi a tutta la vita. Sacro restava il luogo ove cadessero.
Forse si accorderanno queste disparità ove si faccia distinzione fra la dottrina arcana e la vulgata. Se credessimo al Passeri[55], l’arcana ammetteva un Dio solo, una rivelazione, l’uomo formato di fango, decaduto da migliore stato; i buoni dopo morte si trasformano in Dei; i peccati leggieri si espiano in questa o nell’altra vita; ai gravi, eterne pene. Troppo è facile applicare ad altri tempi e popoli i concetti e i sentimenti nostri.
Nei pochi documenti sopravanzatici troviamo la religione degli Etruschi grave e melanconica, come di gente a cui era prefinito il numero di secoli che essa e il mondo durerebbero. Dio creò l’universo in seimila anni: nel primo millesimo il cielo e la terra; nel secondo il firmamento; nel terzo le acque; nel quarto il sole e la luna; nel quinto le anime degli uccelli, dei rettili, degli altri esseri che vivono nell’aria, sulla terra e nell’acqua; nel sesto l’uomo, il cui lignaggio durerà quanto durò la creazione[56], cioè cinque millennj.
DIVINITÀ
Nella religione vulgata, supreme divinità erano Tina o Giove, Cupra o Giunone, e Menerva, a ciascuna delle quali consacravasi un tempio in ogni città federata, dove tre porte alludevano pure a questa trinità[57]. Il genio Gioviale, padre del miracoloso Tagete, indicato come quarta divinità penate, riguardavasi per figlio di Giove e fattore degli uomini. Trasportando anche nel cielo il sistema rappresentativo che usavano in terra, da dodici Dei Consenti, sei maschi e sei femmine, facevano assistere Tina, anima del mondo, e vivente nel mondo, padre delle anime; eppure anch’egli sottoposto al Destino, agli Dei Involuti, che erano veramente la causa suprema: alla quale divinità appartiene Norzia, dea del tempo. Sta accanto a Tina, e talvolta con esso s’identifica Giano, fratello di Camasene donna e pesce; il quale tiene le chiavi da aprir l’anno e le porte della città, e col doppio volto guarda l’oriente e l’occidente. Fichi con foglie di lauro in onor suo si davano a strenna del capodanno, reliquie dell’agreste suo culto.
Forse erano variate rappresentazioni del nume stesso quelle che prendiamo per divinità distinte. Così Tina ora compare come il Zeus olimpico, ora coll’edera di Bacco, ora col lauro d’Apollo, ora coi raggi del Sorano sabino; egli Termine per difendere i confini, egli Quirino per la guerra, egli dio sotterraneo. Giunone somiglia in qualche caso a Venere, ed ora è Populonia come dea del popolo; or Libera come moglie di Liber, Giove bacchico; or corrisponde a Cerere, più tardi conosciuta in Etruria. Menerva soprantende al destino, identica con Norzia e Valenzia, e con Illitia; talora con Pale.
Ogni dio, ogni uomo, ogni casa, ogni città aveva il proprio genio custode, sostanze intermedie fra l’uomo e la divinità. Due assistono a ciascun uomo, ispirandolo uno al bene, l’altro al male. Perocchè la sopraddetta dualità della creazione, e l’aspetto de’ disordini del mondo introdussero ben presto la credenza di un doppio principio, uno avverso all’altro; e il Vejovis era l’iddio autore del male, e turbatore dell’ordine dell’universo. La casa, con tutte le dolcezze che l’accompagnano, è custodita dal Lare, la cui immagine si conserva nell’atrio ( larario ), e cui altare era il focolajo domestico, mentre i Penati, genj della divinità, vi versano abbondanza e consolazioni, assicurano il triplice bene di una patria, una famiglia, un possesso. I Penati erano o pubblici o domestici: ai primi presedevano Tina e Vesta, e adoravansi ne’ tempj; gli altri otteneano culto nella casa, ed erano stati uomini[58]. Un’anima uscendo dal corpo, diventa Lemure o Mane[59]: se adotta la posterità della sua famiglia, chiamasi il lare domestico; se per le iniquità è agitata, v’appare come larva, spaventevole ai malvagi[60]. Perciò gli avi sepellivansi nelle case: ad or ad ora i Mani tornavano a visitare i loro parenti, poi a determinate solennità uscivano tutti dai funerei loro asili; onde se ne celebrava la commemorazione.
Dai forestieri e dagli aborigeni gli Etruschi accettarono poi un ciclo più esteso di numi e di genj; anzi, o dalle tradizioni antiche pelasgiche o da quelle delle colonie trassero le tante idee elleniche, espresse nelle loro pitture. Ma chiare nozioni come formarcene, se i loro dogmi rimasero un arcano de’ sacerdoti, unici depositarj della scienza e del sacro linguaggio allegorico? Tagete aveva insegnato che il cielo è un tempio[61], ove gli Dei siedono a settentrione guardando a mezzodì e avendo a sinistra l’oriente, parte benefica, a destra l’occidente, parte infausta dove la luce si spegne. Diceasi cardine la linea di tal guardatura, intersecata ad angolo retto da un’altra detta decumana; e l’intersezione costituiva il tempio.
Fra gli Etruschi, come in Oriente, i riti sono necessarj a legittimare ogni atto pubblico e privato; gli uomini vengono governati per interpretazioni di sogni, di fenomeni, di astri: pure il sacerdozio non costituisce una pura teocrazia, come colà, giacchè il patriziato inizia la cittadina attività, e prelude all’indipendenza de’ politici diritti. La nobiltà, cioè la gente conquistatrice, era composta di signori ( lucumoni ), che dai castellari sulle alture tenevano in soggezione i pianigiani. In ciascuna città un lucumone rendeva giustizia ogni nono giorno, e rappresentava gli altri nelle assemblee generali, tenute a Volsinia o a Vetulonia. Uno fra i lucumoni era, nelle adunanze di primavera, sortito capo della federazione[62], avendo per insegne la porpora, la veste dipinta, corona d’oro, scettro coll’aquila, scuri, fasci, sedia curule[63], e dodici littori, somministrati uno da ciascuna città.
Quelle idee religiose, per le quali gli uomini e gli Dei restavano compresi in uno Stato o diremmo in una Chiesa sola, e in un patto che li metteva in corrispondenza, doveano produrre concetti d’ordine: e appunto per la forza dell’ordine l’austera nobiltà signoreggiò sempre nell’interno, e lungamente sopra i vicini popoli. Mancava però del vigore che nasce dalla unità; e gare di lucumoni e di città, gelosia degli ordini inferiori, odio di parti e di razza laceravano il paese, e impedirono di collegare tutti i popoli italiani, come avevano già tentato e Sanniti e Pelasgi, e come solo potè far Roma, aggiogandoseli tutti colla forza non più che coi mirabili ordinamenti civili.
Delle schiatte principali erano clienti le inferiori, che rimanevano plebe, divisa in tribù, curie e centurie, esclusa dagli eserciti, i quali perciò riduceansi a cavalleria.
LUCUMONI. PLEBE
Lucumone, nobili, plebei formavano dunque lo Stato. Nell’interno diversamente ordinate erano le dodici città, ma tutte insieme eleggevano un pontefice supremo per le feste nazionali. Il territorio di ciascuna ne comprendeva molt’altre, provinciali, colonie e suddite, abitate dalla stirpe soggiogata di Aborigeni e Pelasgi, sempre esclusa dai diritti che la plebe romana conquistò, e senza assemblee, giacchè ogni cosa decidevasi in quelle dei lucumoni. Fazioni sorgeano, ma tra le famiglie dominatrici in senso oligarchico, senza che mai si costituisse il popolo, la comunità. Solo più tardi Volsinia, assalita dai Romani, resistette col dar le armi alla classe inferiore ed ai braccianti, i quali in compenso ottennero la cittadinanza, e diritto di testare, d’imparentarsi coi dominanti, di sedere in senato. Se siffatta rivoluzione (dipinta come atrocissima dall’invidia dei nobili) fosse stata imitata da tutte le città, sarebbesi in quelle formato il Comune plebeo, e quindi la forza; quale di fatto apparve allorchè gli Etruschi si sollevarono al tempo di Silla, dopo che il dominio forestiero aveva tolte di mezzo le prische distinzioni.
L’originalità negli Etruschi non tardò a venir alterata da mescolanza forestiera; e singolarmente uno sciame greco, probabilmente venuto dall’Asia Minore, v’introdusse foggie e consuetudini, le quali riesce difficile sceverare dalle indigene. Crebbe allora il lusso; nei festini, dove anche le donne erano ammesse, sfoggiavasi suntuosità di vesti e squisitezza di vivande[64]; e se le turpitudini onde Teopompo fa aggravio ai Toscani, accomunamento delle donne, ostentati amori maschili, sentono l’eccesso d’una satira, pure trovano appoggio nelle oscene loro dipinture.
CITTÀ. COMMERCIO
Gli Etruschi si estesero, per via di colonie, come si è veduto; e diversi dai soliti conquistatori, invece di distruggere edificavano città. Simili in ciò ai Pelasgi, vi faceano predominare idee e numeri simbolici; dodici città nell’Etruria, dodici sul Po, dodici al mezzodì[65], di pianta quadrata, orientate come prescriveva l’augure, e le più abbracciavano due colli, del più alto de’ quali stava a cavaliere la rôcca. Molti porti aprivano al commercio, e principale Luni nel golfo della Spezia; e anche i primarj cittadini pare applicassero al traffico, pel quale l’Etruria serviva d’intermedio fra il mare e la restante Italia. Antichissima dev’essere la loro padronanza sul mare, che da loro ebbe nome di Tirreno e d’Adriatico; navi tirrene mercatavano nell’Jonio a gara coi Fenicj[66]; Agilla porse sessanta galee per combattere i Focesi nelle acque di Sardegna; anzi gli Etruschi, in un catalogo antico che manca di data e d’autenticità, sono fin chiamati signori del mare[67]. Dai molti scarabei ed altri lavori egiziani, dalle gemme d’Oriente, dall’ambra del Settentrione, che si estraggono dai loro sepolcri, ci sono indicate relazioni di commercio co’ paesi del Nilo, colla Cirenaica, col Baltico. Dallo stretto di Gibilterra certamente tentaron sbucare, e piantar colonie in un’isola ignota, ma furono impediti dalla gelosia dei Cartaginesi, Al par di tutti i popoli antichi, abusarono della potenza marittima per corseggiare; e i pirati tirreni vennero in sì tremenda reputazione, che Rodi come gran vanto conservava ne’ suoi tempj i rostri tolti alle loro navi. Gerone, mosso per isbrattar da loro i mari, li ruppe, e la sconfitta dovette ben essere piena se, poco stante, quando i Siracusani trassero a conquistare l’isola d’Elba, veruna flotta tirrena non protesse la Corsica, nè si sviarono i nemici che coll’oro; e così quando Dionigi minacciò il littorale di Cere. Pure, allorchè già era in decadenza, l’Etruria passava per la più ricca, forte e popolosa provincia d’Italia[68].
Il nome di Tirreni accenna ad industria, o deducasi dalle torri, o da tiremh coltivatore. All’agricoltura soprantendeva un collegio di sacerdoti arvali; coll’aratro si descriveva il circuito delle nuove città, quasi a indicare quell’arte come legame de’ civili consorzj; conquistarono il patrio terreno dalle acque del Clani e dell’Arno, elevandolo per via delle colmate. Munivano acquedotti meravigliosi, come quello traverso la Gonfolina per asciugare il lago che fra Signia e Prato ondeggiava dove ora sorge Firenze; un altro presso l’Incisa per sanare il Valdarno superiore; interrirono la Chiana; altrove ai laghi stagnanti ne’ bacini e negli estinti crateri aprirono sfoghi sotterranei, somiglianti ai moderni pozzi trivellati. Non però riuscirono a migliorare l’aria della maremma, ove, allora come adesso, diceasi che si arricchisce in un anno e si muore in sei mesi. Gli sbocchi del Po e dell’Arno erano regolati da scaricatori e imboccature; anzi aveano ideato ridurre in canale tutto il Po, opera che l’Italia libera compirà.
ARTI E SCIENZE ETRUSCHE
Versati nell’astronomia, gli Etruschi misurarono assennatamente il tempo. Cominciavano il giorno dal mezzodì, a differenza di quel sistema che fu detto alla italiana, ove cominciasi dalla sera. Invece della settimana, usavano l’ottava; e ogni nono giorno era d’affari, d’udienza, di giustizia, di mercati ( nonæ, nundinæ ). Trentotto ottave formavano l’anno, di trecenquattro giorni, in dieci mesi: centodieci di tali anni costituivano un ciclo, che potremmo chiamare secolo, diviso in ventidue lustri; e perchè corrispondessero cogli anni solari, all’undecimo ed al ventiduesimo lustro intercalavasi un mese di tre ottave, sicchè al fine del secolo compivansi giorni quarantamila e censettantasette; laonde l’anno tropico riuscirebbe di giorni trecensessantacinque, cinque ore, quaranta minuti, ventidue secondi; più esatto che non il giuliano, giacchè non differisce dal vero che di otto minuti e ventitre secondi[69].
Anche nella medecina ebbero fama[70]. Vi si trovano idee sul fuoco centrale, analoghe a quelle che insegnava testè Fourier. Della loro abilità chimica darebbe buon segno Plinio, dicendo che, dopo preparate le stoffe con riagenti, potevano, tuffandole in una sola tinta, improntarle a colori e figure differenti. Studiarono sui numeri, e probabilmente sono etrusche le cifre che noi chiamiamo romane. Stromenti musicali inventarono, fra cui le tibie tirrene e il corno ritorto; e a suon di flauti facevano il pane e battevano gli schiavi[71]. A loro fanno onore dei mulini a mano, degli sproni alle navi, della stadera detta campana. I Romani desunsero da essi la bolla d’oro, segno di nobiltà, i fasci consolari colla scure, lo scettro sormontato dall’aquila, la porpora del capo dello Stato, i littori, la pretesta giovanile, la toga virile, la sedia curule, la clamide de’ trionfanti, gli anelli de’ cavalieri, i calzari senatorj e guerreschi, le corone trionfali, le falci da potare, i giuochi scenici ed i circensi, le cerimonie de’ Feciali. Se vi aggiungete la divisione in tribù, curie, centurie, gli auguri, i pretori, gli edili, un fôro pe’ comizj, le dissensioni fra nobili e plebei, l’Etruria vi parrà una Roma anticipata; nè vi saprà strano che alcuno considerasse i Romani come una colonia etrusca, prevalsa poi alla madre patria.
LETTERATURA ETRUSCA
L’alfabeto etrusco deriva dalla fonte comune degli europei e dal fenicio, e scrivesi da dritta a sinistra. Veneravano le Camene, ispiratrici de’ canti in lode de’ grand’uomini. Nè di letteratura furono sprovvisti[72]: Varrone sembra indicare un Volumnio tosco, autore di tragedie; a’ commedianti in latino fu dato il nome di histriones, dall’etrusca parola ister; d’Etruria vennero a Roma letterati insigni; i patrizj romani mandavano colà i loro figliuoli da educare; e fin ai tempi d’Alarico si spediva a consultare quegli auguri per la salvezza della patria.
Potea però ottenersi incremento grandioso del sapere o slancio di poesia là dove lo studio era ristretto nel sistema sacerdotale e nell’interpretazione de’ segni celesti? Fatto è che nulla ce n’è rimasto, e la lingua medesima ci è arcana. Lami, Lanzi, Passeri, Spanemio, Gori, Bourget vollero trar questa dal greco, Bardetti e Scricchio dal settentrione, unendola insomma al gruppo indo-germanico; mentre Reinesio ed altri l’attaccavano al fenicio, e Merula all’arabo, cioè al ceppo semitico. In fatto Lud da Mosè è posto tra i figli di Sem[73], lo che indicherebbe semitici i Lidj, che sin ai tempi di Ciro trovansi in relazione coi Babilonesi: e chi crede gli Etruschi colonia lidia, crederà parlassero semitico. I pochi elementi che ne conosciamo ostano a tale supposizione: ma ad ogni modo, per fiancheggiare le varie opinioni si contorsero ed alterarono talmente le loro iscrizioni, che meno se ne richiederebbe a dimostrare che la lingua del Madagascar è figliata dal latino.
Ci si domanda forse perchè le città italiane non diedero uno storico, un poeta, un filosofo, mentre tanti ne rammentano le colonie greche? come mai, con tanto commercio, non batterono monete, sicchè solo trecento anni prima di Cristo ne troviamo d’argento a Populonia, di rame a Volterra? perchè non un legislatore, un eroe, che sopravvivesse al tempo? La risposta noi crediamo stia nella nostra ignoranza. Da jeri ci ponemmo a cercare le antichità nostrali, e v’ha paesi in Italia men conosciuti che non l’Egitto e l’India. Cinquanta anni fa non sarebbe potuto dirsi che gli Etruschi mai non ebbero vasi, perchè gli autori latini non ne fanno quasi cenno? Ma Varrone assevera che gli annali etruschi risalivano all’origine delle singole città; dalla fondazione di ciascuna principiava un’età, la quale terminava colla morte dell’ultimo fra quanti erano nati in quel giorno stesso; allora cominciava l’età seconda, che si chiudeva alla morte dell’ultimo fra coloro che viveano al principiare, e così via: lo che prova ch’essi tenevano registro dei nati e morti[74]. Ma i Greci, come i Francesi moderni, non parlavano che di sè: i Romani, sprezzatori di ciò che trovavano fra i conquistati, sì poco dissero dell’Etruria, che non fanno quasi menzione delle stupende rarità di essa, le mura, i sepolcreti, i vasi.
COSTRUZIONI ETRUSCHE
È disputato se ai Pelasgi o agli Etruschi siano dovute le mura di Cortona, di Rusella, di Fiesole, di Populonia, d’Aurinia, di Signia, di Cosa, fatte con grandi poligoni di travertino, commessi senza cemento. Etrusco vuolsi il tabulario del Campidoglio, e così il muro di Tivoli, che non appare pelasgico, com’è invece un jerone colà presso, e tre altri nella valle di Cerceto a Ferentino. I lavori de’ Ciclopi e de’ Pelasgi che poco sopra contemplammo, di sassi scabri o appena slabrati, appartengono a quel primo periodo, ove l’uomo non provvede con essi che alla necessità, nè ancora si eleva a quei concetti che mutano la pratica manuale in arte bella. La religione è la fonte, e il culto è la forma più universale di questa ideale bellezza, rivelazione della presenza divina in un oggetto visibile; ond’è che le belle arti, con un fondo comune di sentimenti, variano secondo il carattere d’una nazione, e secondo il culto tributato agli enti sovrannaturali e alle tombe.
E impronta originale ebbero le arti nell’Etruria. Non cerchiamo blandimenti alla vanità col pretendere che fra noi nascessero esse, e da noi le imparassero i Greci, ai quali era serbato recarle alla perfezione: ma che qui siano antichissime, molti riscontri storici il provano. Romolo rubò in Etruria un carro di bronzo; Plinio cita pitture di Ardea, anteriori alla fondazione di Roma; Bolsena in fenicio esprimerebbe città degli artisti, e da questa i Romani predarono duemila statue, probabilmente di terra cotta; la fiorente Adria fu distrutta dai Galli quando passarono le Alpi ne’ primi secoli di Roma, onde anteriori devono tenersi le tante opere e i bellissimi vasi che n’escono tuttodì. Agli Etruschi spetta il merito delle opere più antiche di Roma, quali la mura esterna del Campidoglio, l’arginatura del Tevere, e la cloaca massima, la cui volta interiore è chiusa da una seconda, e questa da una terza, fatte di massi di peperino a cuneo, combacianti senza cemento, in modo da non essersi sconnesse pel lasso di tanti secoli. Serviva essa a dare scolo alle acque stagnanti fra il Capitolino e il Palatino, traversava il fôro romano e il boario, e il Velàbro, e gettavasi nel Tevere poco sotto del ponte Palatino, con tale ampiezza che vi si poteva scendere in barca, avendo quattro metri e mezzo di larghezza e più di dieci d’altezza; e a prevenire i rigurgiti del fiume, v’entrava ad angolo acuissimo. Nel 1742 si scoprì un altro acquedotto non meno meraviglioso, tredici metri sotto al suolo presente, di travertino, e perciò più recente e forse posteriore alle guerre puniche: tremuoti, sovrapposti edifizj, quindici secoli di abbandono non ne spostarono pietra. L’emissario del lago Albano, alto metri 2.27, largo 1.62, è tagliato nel tufo vulcanico per duemila trecentrentasette metri di lunghezza, e allo sbocco la volta è regolarmente costrutta di pietre a cuneo. A Volterra, mentre il naturalista studia le copiose saline, gli alabastri, le miniere del rame, i lagoni dell’acido borico, l’antiquario ammira infiniti cimelj raccolti nel museo civico, e le gigantesche mura, e la Porta all’arco sotto alla cattedrale, colla volta perfettamente circolare di diciannove grandi pietre squadrate, e colla serraglia grossolanamente effigiata: oltre una cisterna a triplice volta. Più riccamente finite sono due altre porte a Perugia; e par veramente merito degli Etruschi l’aver indovinato l’importanza dell’arco, che poi i Romani doveano usare alla bellezza monumentale: mentre vuolsi che solo al fine del v secolo Democrito insegnasse ai Greci il fabbricare a volta con pietre cuneiformi. Etrusco è pure l’anfiteatro di Sutri, scarpellato nella rupe e del giro di mille passi; e così il teatro di Adria, e fors’anche l’anfiteatro di Verona. Da Cere a Vejo sussiste tuttora la strada selciata.
L’ordine toscano tiene del dorico, con importanti modificazioni; ma non sappiamo se fosse veramente proprio degli Etruschi, giacchè verun monumento ce ne avanza. Secondo Vitruvio, i loro tempj erano quadrilunghi, nella proporzione di cinque a sei: il santuario avea tre celle, di cui la media più vasta: nel pronao erano distribuite colonne molto distanti, e di sette diametri con base e capitello; e al disopra la trabeazione di legno ornata di mensole, e con una cimasa sporgente: costruzioni che Vitruvio qualifica di pesanti, goffe e nane. Le case disponevano in tutt’altra foggia da’ Greci, in modo che la principale camera stesse in mezzo, verso la quale piovevano le acque dal tetto circostante ( impluvium ).
SEPOLCRI
Varrone descrive il sepolcro di Porsena presso Clusio, che, se vogliam tirarne qualche concetto dalle particolarità certamente fantastiche, era una costruzione di settantacinque metri in quadro e alta sedici, con anditi intricati a somiglianza del labirinto di Creta, di pietre a squadra, sormontato da cinque piramidi, larghe novantacinque metri ed alte il doppio, e congiunte in cima da un cerchio di bronzo ed un cappello, donde pendeano campane: su questo poi Plinio diceva erette quattro altre piramidi, e un nuovo piano con sovrappostene altre cinque; idealità ineffettibile[75]. Bensì cinque obelischi si ergono presso Albano su quel che il vulgo intitola sepolcro degli Orazj e Curiazj.
E i sepolcri sono gli edifizj di cui maggior numero si è salvato in Etruria. Sempre sotterranei, o cavati ne’ fianchi d’un monte o a piè d’un masso trasformato in monumento: ove il terreno non si prestasse all’escavazione, si costruivano di muro, ma sempre coperti, quasi per celarli ad ogni occhio; sicchè bisogna fra macìe di sassi e spinose marruche cercare que’ tesori, a differenza dei Romani che gli esponeano lungo le strade.
Già sullo scorcio del 1600 si era penetrato nella necropoli di Tarquinia, scavata nel tufo in mezzo ad una pianura presso Corneto, dodici miglia da Civitavecchia e tre dal mare: poi dalle tombe di Perugia, fra molti etruschi monumenti, si erano tratte urne, specchi, pietre incise, scarabei, vasi dipinti, figurine di bronzo graziosissime. Un altro sepolcro alla torre di San Manno colà presso, e l’unico a fior di terra, diede la regina delle iscrizioni etrusche.
Questa ed altre scoperte aveano fatte i due secoli precedenti, non tenendo memoria del modo ond’erano disposte le tombe, nè levandone i disegni. Ma dopo il 1824 con ben altra diligenza s’indagarono quelle di Tarquinia, e lord Kinnaird ne trasse di bei vasi e preziose anticaglie; poi nel 28, sulle rive della Fiora ripastinando alcuni cucuzzoli di terra che in paese chiamano cucumelle, si scoperse una camera sepolcrale, dietro la quale altre, donde Luciano Buonaparte principe di Canino cavò ben tremila vasi, di beltà e grandezza singolari, e lavori di bronzo, oro, avorio (venduti poi al Museo Britannico), che gli fecero conghietturare fosse colà situata Vetulonia, capo della federazione etrusca.
Questi sepolcri, che stendonsi per molte miglia, parrebbero destinati ciascuno ad una famiglia. Il tumulo, ossia il mucchio di terra, n’è la forma originaria, talvolta alla base circondato di pietroni, che talaltra ascendono gradinati a formare un cono, ma non mai a foggia di piramide. Se dall’apertura a imbuto tu scendi per tacche fatte nella parete, ti trovi in camere traenti luce sol dall’entrata, con volte quali a botte come le nostre, quali a lacunari, quali a spinapesce, sorrette da pilastri quadrati di tufo, con membrature di semplice e robusto profilo; e dipinti su ogni cosa combattimenti, o rappresentazioni dello stato postumo delle anime, come i lari col vigile cane, demoni alati che tirano in cocchio il defunto, o con martelli percuotono una figura virile, ignuda e prostesa. Altre camere sono a loculi come i colombarj di Roma, in cui collocare l’urnetta delle ceneri vulgari; nè di rado sviluppansi in sembianza di labirinti.
Preso a scandagliare il suolo, tesori si rinvennero dappertutto. Le cucumelle presso Vulci sono camere circolari entro il tufo, sopra cui colline di cotto: la più insigne gira non meno di settanta metri, e nel mezzo una torre quadrilatera, forse un tempo circondata da quattro altre a cono, di cui una sola or è in piedi. Toscanella e Bomarzo nella val della Matra n’hanno di scavate nelle roccie perpendicolari, alcune colla porta a fregi; presso Cortona son coniche, a modo de’ nuraghi; e di muro una che intitolano la grotta di Pitagora. Degli ipogei di Agilla, uno vastissimo è preceduto da vestibolo, come i tempj moderni. Cere, che ora è Cervetri, sulla destra della via romana per Civitavecchia, rivelò la sua necropoli a lacunari, e con lunghi corridoj e porte archeggiate o piramidali, e panchine, tutto ricavato nel nenfro, tufo vulcanico.
Un sepolcro trovato nel 1836 con volta acuta, che vorrebbesi dell’età pelasga e certamente anteriore alla influenza greca, constava di due lunghe celle, comunicanti per una porta, chiusa fin a mezzo da un parapetto, sul quale posavano due vasi di bronzo; due d’argento pendeano dalla sommità d’essa porta. Appo l’entrata stava un caldano di bronzo su tripode di ferro, poi una specie di candelabro da profumi, adorno d’animali simbolici; là vicino un caldano minore; in faccia rottami d’un carro a quattro ruote; e sulla dritta un letto di bronzo, formato di lamine in croce: letto e carro fabbricati per vivi, e qui conversi ad uso funereo. Ai due capi del letto sorgevano due altarini di ferro: in faccia si vedevano sospesi otto scudi di bronzo sottilissimo, misti con freccie e stromenti da battaglia e da sacrifizj. Davanti al letto e in una camera laterale trentasei idoletti d’argilla nera, figuranti un vecchio che il mento barbuto appoggia alle mani. Chiovi di bronzo nella volta sosteneano vasi dello stesso metallo; e in fondo alla cella una raccolta di vezzi d’oro e d’argento, i manichi di sei ombrelli, e coppe e piatti d’argento. Il cadavere, probabilmente femminile, era coperto di tanti giojelli, che dei frantumi d’oro misti alla terra si potè empiere un capace paniere; oltre un diadema, una collana, due braccialetti, catene, fibule, e un pettorale in filagrana d’oro, composto di nove zone concentriche con rilevate moltissime forme simboliche.
Altre tombe somigliano a tempietti, forse per famiglie sacerdotali. Quelle di Castel d’Asso o Castellaccio presso Viterbo sono importantissime fra le ricavate nel tufo per l’architettura esterna, con ricchi frontoni e cornici a triglifi, e porte rastremate, che, come la generale inclinazione a piramide delle pareti, rammentano lo stile egizio: del dorico sentono invece quelle di Norcia, dove si vede un bassorilievo, che è l’unico compiuto ed esteso frontone in Italia. Le traccie di colori sopra molti membri attestano che si usava la decorazione policromatica, che testè credevasi misero ripiego del medioevo, e invece compare sulle statue più classiche e nei tempj meglio vantati dell’antichità. Al sepolcro de’ Volumnj, scoperto a Perugia il 1840, nulla fu scomposto per farne cortesia agli osservatori: è nel tufo con camere semplici senza pitture nè altro ornamento che una colonnetta esterna portante la scritta; regolarmente costruito col tetto a doppia tesa, a croce latina, il cui fondo ad abside serve alla sepoltura: dentro v’ha urne, iscrizioni, statuette[76]. Ivi stesso, due anni dappoi, si trovò una figura di bronzo giacente, che nel seno conteneva le ossa, come era pure dell’Adone del museo Gregoriano. In questo e nella raccolta Campana a Roma accolgonsi arredi d’oro cavati dalle tombe, di tale squisitezza da scoraggiare gli orafi nostri più esperti.
Queste tombe rivelarono la vita e la civiltà degli Etruschi, come Ercolano e Pompej quella de’ Romani, essendovi imitate o simboleggiate le azioni della vita privata, talora anche nella forma esterna, più spesso nella disposizione interiore e ne’ profusi arredi domestici. E gli scheletri e le pitture ci attestano come a ragione gli Etruschi fosser detti obesi et pingues[77], avendo viso pieno, grandi occhi, naso grosso, mento prominente, testa grande, piccola statura, braccia corte, corpo tozzo. Rasi la barba; spesso inghirlandati la fronte; l’anello al mignolo della mano sinistra[78].
Nelle iscrizioni non leggi parola che indichi dolore nè melanconico addio. Nessuna statua di marmo sinora, bensì di metallo, tufo calcare, alabastro, argilla; alcune per accessorio di ciste, candelabri, patere; altre isolate e più franche e originali; ma tutte rigide di membra, faccia ovale molto allungata, occhi a fior di testa e tirati in su, come anche la bocca; gambe parallele, e talora non disgiunte; fisonomia senza carattere: più volte stendonsi lettere sull’abito o sulle coscie. A Corneto fu restituita dal suolo una statua intera di cotto, che a grandezza naturale figura un uomo di piena virilità, con corona d’oro. Il Bacco giacente, pure di colto, tratto dalla necropoli di Tarquinia e conservato a Corneto, è delle statue più grandiose ed eleganti fra le etrusche. La lupa del Campidoglio, che forse è il monumento posto al fico ruminale a Roma nel 204 avanti Cristo, emula qualvogliasi capo d’arte per robusta espressione. Graziosa è la Menerva e ben lavorata, comechè priva d’idealità. Il Metello, detto l’Arringatore della galleria di Firenze; il fanciullo abbracciante l’oca nel museo di Leida, di sì cara ingenuità; il guerriero di bronzo, venuto da Todi al museo Gregoriano, vanno fra’ meglio pregiati lavori, se s’aggiunga la donna ornata, senza testa, che da Vulci passò alla gliptoteca dì Monaco.
Gran merito hanno le pietre incise, con soggetti di mitologia greca. Dai sepolcri di Perugia uscì una delle più belle, rappresentante i sette eroi sotto Tebe, coi loro nomi greci in forma etrusca. Lo scarabeo, comunissimo fra gli Egiziani, è pure forma molto solita delle pietre etrusche, e se ne trovano nelle tombe infilati per lo lungo, o legati in anelli e versatili. Si ammirano pure i disegni fatti sul rovescio degli specchi di bronzo e sulle ciste mistiche. Altre ricchezze già ricavarono da quei tesori inesauribili; uno scudo cesellato di tre piedi di diametro, un mascherone di bronzo cogli occhi di smalto, idoletti smaltati, coppe d’argento, armadure, specchi di bronzo, che altri crede patere, intagliati nella parte concava.
VASI ETRUSCHI
Dovizia ancor più speciale e vantata sono i vasi etruschi. Accennarono i Romani che in Etruria se ne fabbricassero di terra, ma ad uso comune[79]. Plinio, che ragionò tutte le varietà delle arti belle, nulla toccò de’ vasi figurati; nè alcuno menziona l’uso di sepellirli nelle tombe. Ne’ musei se n’aveano alcuni d’incerta provenienza, e dopo Lachausse, Bergier, Dempstero, Montfaucon, pubblicarono il disegno d’alcuni i nostri Gori, Bonarroti, Passeri. Primo il Targioni-Tozzetti, descrivendo la gita dalla Gonfolina all’Ambrogiana, riferisce che in San Michele a Luciano il 1752 si trovò un pozzo «rinterrato dalle alluvioni del vicino Arno. La particolarità più curiosa si è che, vuotandosi questo rinterro, vi si trovarono molti vasi di antico lavoro fatti a ruota, di terra cotta parte nera, parte sbiancata sottile, e alcuni con vernice o nera o carnicina, ma senza pitture. La loro forma è molto varia, ma per lo più sono del genere di quei vasi che chiamavano urcei, con un solo manico ben fatto, sull’andare delle moderne mescirobe e de’ boccali, e non hanno il marco del figulo. Molto malagevole si è l’intendere come mai tanti di questi antichi vasi sieno restati sommersi in questo pozzo... Chi sa se esso pozzo nel tempo del paganesimo non fosse sacro, o che o i vicini popoli, o i passeggieri per la contigua via militare, non vi gettassero dentro tali vasi con qualche liquido, per offerta o sagrifizio alle false deità?»[80].
Essendo ancora una rarità, venivano giudicati con idee sistematiche; e Millin, Lanzi, Maffei, Zanoni, Tischheim, Böttiger, Winckelmann li giudicavano indubbiamente opera greca, e quest’ultimo sfidava a produrne alcuno trovato in Toscana. Ma dopo che dal territorio al nord di Civitavecchia, dove già furono Tarquinia, Cere, Clusio, Bomarzo, Vulci, in un sol anno fin tremila se ne estrassero, a migliaja furono trovati in tutti i sepolcri di Toscana; onde fu forza credere ad un’arte veramente etrusca e originale.
Ma ecco sbucare vasi simili d’altre parti, al settentrione di Roma come al mezzodì, a Velitra de’ Volsci come a Preneste dei Latini, dalle rovine d’Adria come nella Magna Grecia, dove a Locri e Taranto pare si fabbricassero e diffondessero all’interno e sulle coste d’Apulia e Lucania: altri ne diè Napoli, e Rovo nell’Apulia quelli forse di più stupenda bellezza, sopra un solo trovandosi ben cencinquanta figure d’uomini, maschere, uccelli, pesci: Canusio n’ha a ribocco, e le contrade montuose della Basilicata o le mediterranee della Puglia; alquanti Pesto e Sorrento, e molti Nola, di popolazione osca passata poi agli Etruschi e ai Sanniti; e Cuma, le cui tombe rivelate nel 1843 estendonsi per venticinque secoli. In Sicilia ne offrono principalmente la costa orientale e la meridionale, come Agrigento, Gela, Camerina; pochi Siracusa, molti Leontini ed Acre; altri il paese che di buon’ora venne occupato dai Cartaginesi. Fu dunque proposto di chiamar questi vasi, non più etruschi, bensì italioti: ma che? Corinto, Atene, altri luoghi di Grecia ne discoprirono pur essi, e le isole, e perfino la Crimea, e le altre colonie greche dell’Eusino, e la Cirenaica.
Tanta ricchezza avviluppò le dispute sull’origine e lo scopo dei vasi, e sull’originalità dell’arte etrusca, mentre gli artisti non finivano d’ammirare tanta varietà ed eleganza di foggie, di vernici, di pitture. Oltre le forme usuali ingentilite, alcuni sono bizzarramente foggiati a piedi, a barche, ad animali, a corni, a teste; talora il manico è un leone, una lucertola, un intreccio di serpenti, il Fallo. Chiusi, residenza di Porsena, diede moltissimi vasi, singolari per aver le figure rilevate, e non essere fatti collo stampo nè cotti al forno. Ve n’ha di gialli con figure nere; di neri con figure rosse; di neri affatto; di color naturale con un leggero soprasmalto; alcuni effigiati con semplici contorni, altri con fregi; alcuni squisitamente dipinti da una parte e rustici dall’altra, forse da esser veduti d’un fianco solo; in altri la composizione gira tutto il vaso, od una scena è sovrapposta all’altra, o una contraria all’altra, come sarebbe un idillio e un fatto tragico; ovvero in una pariglia di vasi due momenti del medesimo racconto. I nuziali ritraggono scene voluttuose; i panatenaici, le gare ginnastiche a cui si piaceano gli antichi; i funerarj, l’estremo congedo, o sagrifizj ferali, o genj della morte: altri figurano scene domestiche. Gli antichi ignoravano la prospettiva, il cui difetto viepiù si risente su queste superficie convesse o concave; le figure, invece d’aggrupparsi, compajono al piano stesso, colle teste e i piedi in profilo, anche le poche volte che il corpo è di prospetto.
LORO FORMA ED ETÀ
Le iscrizioni esprimono o augurj, o eccitamenti al bere, o versi, e spesso il nome del dipintore. Ma pittore di lècyti sonava come da noi pittore di boccali; e da siffatti doveano esser dipinti i vasi, sui quali riproducevano forse le composizioni di artisti, alla buona ma con molta libertà e colla spigliatezza che vuolsi nel lavorare a fresco. Laonde questi dipinti ci conserverebbero almeno un ricordo de’ migliori quadri perduti. Chè del resto la pittura in Toscana non era ancora un’indipendente imitazione della natura; ma o serviva all’architettura, o contentavasi di richiamare all’intelletto alcuni segni caratteristici mediante forme convenzionali. Pertanto valeasi di soli quattro colori, nè rifuggiva dal fare uccelli e alberi cerulei o rossi, un cavallo con testa bruna, criniera e coda gialla, collo rosso picchiettato di giallo, gialle, rosse, nere le gambe, una coscia gialla, una bruna; e negli uomini il nudo rosso, bianco nelle donne.
Si pretese assegnare una cronologia almeno comparativa tra que’ vasi, e dicono più antichi quelli di fondo giallastro con figure ranciate o brune non lucenti, mentre le figure rosse su fondo nero erano da principio inusate. Questo primo periodo, dal xvi al x secolo, offre linee dure, attitudini inusate, persone esili, teste ovali, allungate indietro, finite in menti acuti, cogli occhi tirati in su, le braccia spenzoloni, i piedi paralleli, le pieghe agli abiti indicate appena con un frego, e grossieri gli ornamenti. Dal secolo x al v appare un secondo stile, con contorni meglio decisi, ma esagerate le espressioni, la musculatura, l’atteggiamento, dita intirizzite, profili risentiti, ignorante attaccatura di membri. Contemporanei al fiore dell’arte greca sarebbero i migliori, con ornati gentili, ma le figure sempre peccanti d’eccessivo e manierato. Via via si sbizzarrì nelle forme, ne’ meandri, dal delicato si passò all’aggraziato, e si cadde nel negletto e nel convenzionale.
ORIGINE DEI VASI ETRUSCHI
Anche dalle scene può argomentarsi la maggiore o minore antichità; e d’altissima vorrebbero quelli che imitano disegni egizj ed orientali, con persone di duplice natura, sfingi alate, mostri bizzarri, genj a due o quattro ali, scarabei.
Cronologia convenzionale, perocchè muove dal supposto d’un progresso regolare, nè tiene conto della diversa abilità degli operaj. Bensì d’alcuni vasi può il tempo argomentarsi dai luoghi ove si trovano: Vetulonia antichissima darebbe i primi; i vasi vulcenti sarebbero anteriori ad ogni anticaglia greca e romana; i neri di Albano, spesso a campana, tengonsi dovuti ad aborigeni; i più recenti sembrano quelli d’Ercolano e Pompej, neri e verniciati ma non dipinti.
Gli scrittori d’arti belle aveano asserito che queste derivassero tutte dalla Grecia; greci eransi detti i primi e pochi vasi etruschi, e altrettanto volle sostenersi anche quando a migliaja furono resi dalle terre nostre. Vi dava appoggio il portare alcuni di essi il nome del pittore o del vasajo, od altra iscrizione greca e principalmente Τῶν ἀθηνήθεν ἄθλων, cioè premj dati in Atene; onde supposero fosser di que’ vasi che in Atene si distribuivano ai vincitori dei giuochi, e che qui portati, si deponessero nella tomba del premiato. Molti soggetti delle pitture si riferiscono a greca mitologia, e recano i noti simboli delle divinità olimpiche; lo stile poi de’ vasi stessi tiene del greco, e corrisponde alle varie età delle arti elleniche. Damarato, migrando da Corinto a Tarquinia, menò seco i vasaj Euchiri ed Eugramo[81]: linguaggio mitico, che esprimerebbe avere i Toscani imparato dai Greci il disegnare grazioso e il modellar bene. Pertanto il dire arte etrusca disconviene quanto il dire americane le opere fabbricate su l’altro continente da Europei. Perchè i primi lavori in Roma vennero di Toscana, etrusco chiamarono i Romani lo stile duro e arcaico, ignorando che questo era proprio anche dei Greci; e viepiù si confermarono in tale distinzione quando acquistarono in Grecia lavori di squisita perfezione, al cui confronto credettero proprio degli Etruschi quello stile, che non era in realtà se non il greco antico.
ORIGINE DEI VASI ETRUSCHI
Così argomentano i grecanici: ma d’altra parte, mentre scarsi s’incontrano altrove, abbondanti e bellissimi si trovano i vasi in Italia; e sembra si possa drittamente indurre che là si fabbricassero ove si adoperavano; e poichè non valeano ad altro uso, giacchè i più mancano di fondo, ed hanno la superficie nè fusa nè vetrificata come si vorrebbe per servire al modo delle nostre stoviglie, e trovatisi affatto nuovi, dobbiamo crederli destinati o interamente o specialmente ai sepolcri. Ora chi vorrà credere andassero i nostri a cercare dagli stranieri ciò che serviva ai riti patrj? Certo alla Grecia era insueto questo deporre i vasi nelle tombe. I somiglianti che si rinvengono nell’Attica, sono pochi e meno eleganti; quelli della Sicilia, legatissima colla Grecia, non vincono i veramente etruschi e nolani. Ben potè qualche Etrusco aver riportato un premio panatenaico: ma riflettendo alla difficoltà di comunicazione degli antichi, e alla fragilità dei vasi stessi, chi s’adagerà a credere che questi a migliaja fossero trasportati, e non per altro che per sepellirli? Le leggende e i soggetti greci mostrerebbero soltanto come antico sia l’andazzo dell’imitare, e quanto forte l’influenza greca ed estesi i poemi omerici, i quali del resto raccolsero rapsodie vocali, che poteano esser divulgate fra Pelasgi e Tirreni, o fra quelli comunque nominati, che antichissimamente popolarono e la Grecia e l’Italia, senza che si possa asserire qual prima. La scritta che riferimmo, potrebbe anche esprimere uno dei certami provenienti da Atene, che cioè fossero distribuiti nei giuochi che Italia imitava dall’Attica. Sappiamo che i vasi etruschi di bronzo erano cerchi in Grecia[82]; poi dai sepolcreti uscirono e statue e arredi e fregi e pitture, più che non n’abbia dati la Grecia. Almeno le pitture murali sarà forza dirle eseguite in luogo: or bene, esse vanno sull’identico stile dei vasi.
In questi poi non mancano soggetti originali e riferibili alla mitologia etrusca, con genj ignoti alla ellenica: le stesse scene greche vi appajono ritratte con qualche originalità; ne’ panatenaici più belli, lo scudo di Menerva porta gli stemmi delle città etrusche; soggetti greci sono accompagnati da caratteri e da cifre all’etrusca. La superbia ellenica sarebbesi piegata a blandire la nazionalità straniera? Le figure qui sono sempre di profilo, coll’occhio rotondo e di prospetto a guisa degli uccelli, naso prominentissimo, elmi chiusi, abiti attaccati alle corazze e aderenti alle gambe. V’ha poi particolarità di paese, per le quali gli esperti discernono i vasi vulcenti dai nolani e dagli apuli: circostanza che basterebbe ad attestare operaj locali, se pure i grecanici non si schermissero col dire che greci artisti venissero a lavorarli qui.
Certamente sull’Adriatico da Spina e da Ravenna, e sul Tirreno da Agilla, Alsio, Tarquinia si mantennero corrispondenze colla Grecia; ma le somiglianze d’arte provenivano da queste comunicazioni, oppure da immigrazione e conquista? Poi gli Etruschi al par de’ Greci deducono la loro civiltà vogliasi dire dai Pelasgi, o più genericamente da una comune fonte orientale, che dà ragione delle somiglianze. L’Italia precorse in coltura la Grecia; onde di qui potè l’arte esser trasferita nell’Ellade che la perfezionò, e quel mirabile concorso d’evenienze potè poi di ricambio rimbalzare sugli Etruschi. Probabilmente e Greci ed Etruschi fabbricarono i vasi che qui si trovano; e forse ai Greci vanno attribuiti quelli di terra più fina e leggera, neri dentro, fuori gialli o rossicci e talvolta pur neri; etruschi ritenendo quelli di Tarquinia, Volterra, Perugia, Orvieto, Viterbo, Acquapendente, Corneto, giallo pallido i più, con vernice rossastra e figure in nero, abiti nostrali, barba e capelli prolissi, divinità alate[83].
VASI ETRUSCHI
Poi si domanda a che servissero, qual cosa significassero tanti vasi. Non ad uso alcuno, nè tampoco al banchetto funerale, perchè i più mancano di fondo, e tutti son vergini. Erano un segno d’iniziazione, deposto con quelli addetti ai misteri? inviterebbero a crederlo i soggetti, appellanti spesso a riti dionisiaci ed eleusini: ma quasi a sventare le ingegnose induzioni, una tomba a Vulci presentò ben novecento ciotole ordinarie e rozze, come una bottega di scodellajo.
Su tutti questi punti disputano, e lungamente ancora disputeranno gli archeologi; ma a qualunque sistema piaccia attenersi, queste preziose reliquie, di cui si gloriano tutti i musei d’Europa, attestano una fiorente civiltà. Esaminate in complesso, non ci fanno vedere quel progresso regolare, per cui si ammira la Grecia; provano anzi che gli Etruschi, se sapeano appropriarsi l’altrui, raffinare l’esecuzione meccanica, applicare all’utilità domestica o alla comune, mancavano del genio inventivo e di quel libero lancio per cui la Grecia divenne insuperabile. Pure, nel mentre l’arte orientale rimane immobile, e gli Egizj, per mutar di secoli, non mutano il modo delle piramidi e degli ipogei, in Etruria l’arte si conserva fedele al principio, ma sa procedere e rinnovellarsi.
FINE DEGLI ETRUSCHI
Di tanto incivilimento le memorie perirono tutte. Delle tre Etrurie, la padana fu sterminata dai Galli; la campana dai Sabini, che precipitatisi dalla montagna, presero Vulturnio e la intitolarono Capua: Roma fece il resto, e le guerre di Silla distrassero i generosi patrioti e i monumenti, massime scritti; la vendetta dei vincitori si compiacque d’annichilare i ricordi di quella che avevano avuta prima padrona, poi maestra; i poeti lodarono Augusto che avesse rovesciato gli altari dell’Etruria[84]; nelle città di questa si piantarono colonie romane che resero dominante la lingua latina, e i proprietarj ridussero fittuajuoli; i Greci non parlarono più degli Etruschi che come di corsari e scostumati, i Romani come di aruspici ed artisti; agli Etruschi stessi non restò altro desiderio che di diventare al tutto romani. Di Saturnia, nella valle d’Albenga in maremma, non esiste più nulla che non sia romano. A mezza via tra Roma e Civitavecchia la famosa Cere si annunzia unicamente per mezzo delle tombe. Vetulonia, celebrata da Silio Italico, sparve tra le infauste maremme. Vejo, diuturna emula di Roma, si disputò lungamente dove esistesse, finchè fu collocata nell’isola Farnese fra terreno morbifero. Di Sutri, che pare da lei dipendesse, non rimangono che bei ruderi e un insigne anfiteatro cavato nel masso e mura di sassi riquadrati. Il fano di Voltunna, dove si congregava la dieta federale etrusca, neppur sappiamo in qual luogo sorgesse: e di sì gran popolo e di civiltà così fiorente non ci parlano più che i sepolcri[85].
CAPITOLO IV.
Popoli minori.
POPOLI DELLA MEDIA ITALIA
Così incerti sui maggiori, qual meraviglia che degli altri abitanti d’Italia poco più che i nomi ci siano conosciuti? Nella settentrionale gli Orobj (vocabolo generico che, come Aborigeni e Taurisci ed Ernici[86], non significa altro che abitatori dei monti) stanziavano fra i laghi di Como e d’Iseo, e fabbricarono Como[87], Bergamo[88], Liciniforo[89], e Bara del cui posto si disputa[90]. Sono asserzioni di Plinio solo, il quale le appoggia al perduto Catone.
I Veneti, popolo illirico, stendeansi da un lato sin alle foci dell’Adige, dall’altro alle alture fra questo fiume e il Bacchiglione. Illirici pure, il che forse vuol dire pelasgi, erano i Liburni assisi sulle coste dell’Adriatico, e i Dauni all’estremità della penisola; e fors’anche gli Euganei, che coltivavano i monti e le valli circostanti ai laghi Lario, Sebino, Benàco, dopo che i Veneti li respinsero dai colli padovani, denotati ancora col nome loro. Danno l’origine stessa agli Istrioti, che abitavano il littorale adriatico dalla foce del Timavo sin al fiumicello dell’Arsia, tenendo città importanti, quali Tergeste e Pola, e s’appoggiavano alle alpi Carniche e Giulie; ascritti essi pure all’Italia, benchè non compajano nella storia se non quando valorosamente difendono la propria indipendenza dai Romani.
I Liguri, che stesero il dominio dai Pirenei alla foce dell’Arno, popolavano quel che ora chiamasi Piemonte. Rustici, con chiome prolisse, diceasi, gracil Ligure valere più che forte Gallo, e che le loro donne avevano la gagliardia degli uomini, questi il vigor delle fiere: lavoravano a gran fatica il terreno, guadagnato artifizialmente colà dove oggi pure trentamila ettari sono sostenuti da muricci: guerreggiavano coi Tuschi e coi Greci di Marsiglia, che per frenarli posero le due colonie di Nizza e Monaco: i Romani stessi non li poterono domare che trasportandoli.
Ausonj, Aurunci, Opici, Osci, pajono esser varie denominazioni della gente che abitava il lembo occidentale della bassa Italia, dove Amicla città sul mare; Fondi, col suo lago dalle isole galleggianti; Formia, denominata dai molti suoi porti, e sede già de’ Lestrigoni; Cajeta, che nelle favole trojane serbò il nome della nutrice d’Enea; Lamo, dove Ulisse riconosceva un buon porto; e fra terra Minturno col bosco sacro della ninfa Marica e colle paludi formate dal Liri; Caleno, vantata per vini squisiti, siccome il campo Cécubo. Il nome d’Aurunci si restrinse poi agli abitanti della parte montuosa, dov’è Sessa (Suessa); e di Aurunca lor capitale si riconoscono le ruine presso Rôcca Monfina.
Le varie tribù degli Osci formarono i Volsci, gli Euni, i Rùtuli, gli Ernici. Presso al Lazio sedevano gli Equi, nella valle dell’Aniene e sulle prime alture degli aspri monti circostanti, afforzandosi principalmente a Preneste e Tiburi; più addentro verso le sorgenti dell’Aniene e del Liri gli Ernici, colle città di Anagni, Veroli, Alatri, Ferentino: a mezzogiorno i Volsci, in paese pieno di popolo e di fortezze, tra cui Corioli, perita senza lasciar vestigio, Aquino, Arpino, Frosinone, Vellètri, Signia, Corba, Cassino, Sulmona, Sora, Priverno; la lor capitale Suessa Pomezia sedeva nel centro della non ancora morbifera pianura Pontina. Seguivano altri popoli dell’origine stessa, «destinati quasi in eterno esercizio a’ guerrieri romani»[91]. Venticinque città contavano sulla marina, or infesta dalla mal’aria: ed Anzio, celebrato santuario della Fortuna e terribile nido di pirati, Circeo, Terracina, dovettero al commercio grandi ricchezze, e fiorivano d’arti belle; presso Velletri si trovarono ammirati bassorilievi di terra cotta; Turiano da Fregelle eseguì il Giove Capitolino ed altre opere in Roma[92]. I Rutuli aveano Ardea per metropoli.
SABELLI
Di fronte a loro stava un altro gruppo di popoli, con cui però appajono spesso mescolati, e che probabilmente uscivano da pari origine, i Sabelli. Presso Amiterno, posta nell’Abruzzo là presso d’Aquila sulle più alte montagne appennine donde piovono il Fortore e la Pescara, e nelle cui valli stanziava quella gente fastosa e guerresca, era un rustico villaggio detto Testrina, dal quale una migrazione votiva di giovani, o, com’essi dicevano, una primavera sacra sciamò sulle terre degli Aborigeni attorno a Reate, prendendo il nome di Sabini dal dio nazionale Sabo; e si spinsero avanti pel monte Lucretile e pel Tetrico, e la valle dell’Aniene, fino al Tevere che li dividea dai Vejenti, come la Nera dagli Umbri. Agricoli e guerreschi, con un’aristocrazia sacerdotale, da un mare all’altro occupavano la larghezza di dodici leghe sopra quaranta di lunghezza sulle due coste. Cure (città degli Astati) al confluente del Correse e del Curbulano, era il loro convegno nazionale: Sanco, detto pure Fidio e Semone, dovette essere un loro tesmoforo, onorato poi come dio. Ma dapprima non prestavano culto che ad un’asta confitta in terra; al quale feticio surrogarono poi nove Dei maggiori, adorati con misteri in Trebula[93].
PICENI
Crescendo di popolazione e bisognosi d’attività, spedirono frequenti colonie nella bassa Italia e in su, fra cui una guidata dalla pica, uccello sacro per essi, fu detta dei Piceni, e un’altra de’ Pretuzj, tribù numerosissime. I Piceni abitavano sull’Adriatico dall’Esi al Tronto, quella che oggi diciamo marca d’Ancona, e le città di Ascoli, Fermo, Pollenza, Ricina (Macerata?), Treja, Tolentino; e mescolati con Etruschi e Illirici, rimisero delle abitudini bellicose. I Pretuzj stavano a mezzodì del Tronto sin al fiume Matrino (Piomba), or provincia di Téramo (Interamna), lauta di vini e biade. Altri si piantarono nel Lazio, delle cui fortune come più grandiose diremo a parte. In somma queste stirpi sabelliche inondavano la pianura, mentre quelle rimase fra i monti chiamavansi Casci, Equi, Volsci.
Attorno al Gran Sasso d’Italia, ove oggi i due Abruzzi, fra natura selvaggia e rupi e caverne s’annidavano Vestini, Marrucini, Peligni, Marsi, colle temute città di Pentri, Telesia, Alita, Esernia, Boviano. Il loro convegno navale era Aterno, ove oggidì Pescara, e i Vestini mercatavano di cacio, i Peligni di cera e lino. Ai Marsi, principali fra tutti e situati attorno al lago Fùcino, si dà lode di valore e amor di patria; diceasi nè potersi vincerli, nè poter vincere senz’essi; e vi s’aggiungeva fama d’incantatori, avendo imparato le virtù delle erbe da Angizia sorella di Circe.
SANNITI
Benchè di lingua affini, si andarono diversificando al punto, che ben si discerneva il Sannita dall’Osco, come il Piceno dall’Umbro, il Sabino dal Romano. Gente bellicosa furon tutti costoro: il romano Papirio Cursore che li vinse, ne portò via più di due milioni di libbre di rame; e Carvilio Massimo suo collega colle armi tolte ai Sanniti fece fondere un colosso di Giove sul Campidoglio, che discerneasi fin dal monte Albano: e i loro sepolcri abbondano tuttora d’armi offensive. Strabone geografo riferisce che i Sanniti metteano in piedi ottantamila fanti, ottomila cavalieri; e quando si temeva un’invasione di Galli, offersero ai Romani settantamila fanti e settemila cavalli. I Peucezj poteano allestire cinquantamila pedoni, diciassettemila cavalieri; trentamila pedoni e tremila cavalieri i Messapi; ventiquattromila i Marsi, Marrucini, Frentani, Vestini; il che darebbe oltre duecentomila combattenti da un paese che forma appena un terzo del regno di Napoli: insomma un milione e mezzo d’abitanti sovra milletrecento leghe, e in conseguenza mille e cento teste per lega. Ma quanto credere agli storici? quanto all’esattezza di quei che li trascrissero?
CAMPANIA
La Campania[94] si distendeva sul mare dal Liri al Sìlaro, bagnata dal Vulturno, con campi ubertosissimi, dilettose città, e la festa de’ vigneti, di cui sosteneano gli onori il vino cecubo, il falerno, il caleno, il massico. I Pelasgi v’aveano fondato Larissa, che poi i Romani nominarono Forum Popilii (Forlimpopoli). I monti Tifati sopra Capua rendeano devoti i tempj di Diana e Giove: Atella presso Aversa diè nome alle Favole atellane: Nocera voleasi fondata dai Pelasgi. Il Vesuvio taceva; ma i suoni de’ campi Flegrei, le battaglie dei Giganti, le dimore sotterranee di Tifone, accennano le rivoluzioni naturali cui andò soggetto quel paese. Attorno al golfo che curvasi da Sorrento a Miseno, erano scesi gli Opici, indeboliti poi dagli Enotrj, spogliati dagli Etruschi della più fertile posizione del loro paese. Sulla parte meridionale s’assise una colonia di Picentini, gente sabellica, la cui città fu poi detta Vicenzia.
Dall’Appennino centrale, dietro al corso del Vulturno e dell’Ofanto, scesero i Sanniti conquistando, e trucidati gli Etruschi mentre nel sonno digerivano l’ubriachezza, tolsero a loro Vulturnio, ch’essi chiamarono Capua[95]; allora divenuti Campani, presero d’assalto la greca Cuma; sotto il nome di Mamertini, come a dire soldati di Marte, si posero al soldo di chi bisognava di combattenti, ed estesero fin a Pesto la propria lingua, la qual forse era la stessa che parlavano Umbri, Osci, Dauni, Peucezj, Messapi, abitanti nella Japigia cioè nel sud-est della penisola, che Strabone fa d’una sola favella (ὀμογλώττους). Probabilmente erano Pelasgi, perocchè alla foce del Sile sorgeva un tempio a Giasone, eroe pelasgo al pari di Diomede, cui attribuivasi lo stabilimento di Argirippa ( argos hippium ). I Dauni stanziavano attorno al monte Gargàno; seguivano i Peucezj; poi sulla penisola che forma il tallone dell’italo stivale, ora povero di coltura e d’abitanti, fiorivano i Messapi, ricchi di città, quali erano sul littorale adriatico Guathia (Fasano), Brindisi, Valezio (Baleso), Otranto; sul golfo di Tàranto, la città che gli dà nome, Nereto (Nardò), Alezio (l’Alizza), Uzento; nell’interno Celio, Uria, Rudie (Ruggie), Vaste (Basta)[96]. Regolavansi a re, supremo magistrato che univa le incombenze sacerdotali, siccome nell’età eroica de’ Greci.
LUCANI
I Lucani occuparono l’estremità d’Italia dal Silaro al Lao, che oggi chiamiamo la Basilicata, soggiogando gli Enotrj, e durando nimicissimi alle colonie greche ed ai tiranni di Siracusa. In que’ pascoli scendevano d’estate le greggie dell’Apulia e della Calabria. La parte più alpestre, dove gli alberi davano la miglior pece e il miglior legname da navi, rimase ai Bruzj, il cui nome indica non schiavi fuggiaschi ma ribelli. Accertare però l’origine di ciascuno e i confini è impossibile quanto superfluo: e Orazio Flacco, nato a Venosa, sullo scarco del monte Vulture che formava confine tra Irpini, Lucani ed Apuli, non sapea determinare se all’Apulia o alla Lucania appartenesse la sua patria[97]. Sovente ne sono scambiati i nomi, e i Greci in generale titolano Liguri quelli dell’alta Italia, Ausonj quelli della meridionale. Tante diversità sin dall’origine, contribuirono certo ad impedire che lunghi secoli di lotta, di conquiste, di violenze, di sventure potessero ridurre l’Italia ad unità.
COLONIE FENICIE
I più trafficanti fra i popoli antichi furono i Fenicj, che aveano popolato di loro industria il lembo della Siria, ergendo le città di Tiro e Sidone; poi sulla costa settentrionale d’Africa fabbricarono quella Cartagine, che tanta parte rappresenterà nelle vicende italiane. I Fenicj empirono il mondo di loro colonie; e la traccia di queste e del loro commercio è simboleggiata nei viaggi dell’Ercole Tirio. Il quale raccontano che, per portar guerra al figlio di Crisaoro in Iberia, varcò lo stretto Gaditano, ove eresse le famose colonne di Abila e Calpe come confine del mondo e dell’ardire umano; sottomise la Spagna, indi fece ritorno per la Gallia, l’Italia, le isole del Mediterraneo. Una strada commerciale antichissima fra le Alpi serviva di fatto al commercio, e prolungavasi fin al Baltico, come si arguisce dall’ambra che di colà portavasi nell’alta Italia: e Romani e Greci che di qui la ricevevano, applicarono al Po il nome di Eridano, che è quello del fiume lontano, sboccante nel mare del Nord. L’opportunità fece dai Fenicj cercare altresì le isole nostre; e in Sicilia stanziarono lungamente, e v’introdussero il culto della dea Astarte, colà denominata Venere Ericina.
SARDEGNA
Da sarad, pianta del piede, vogliono traesse il vocabolo la Sardegna, per la ragione stessa chiamata Ichnusa dai Greci. Iliani, Tarati, Sossinati, Balari, Aconiti la abitarono, che forse erano popoli libici[98], o veramente iberici, i quali vi furono condotti da Norax, che fondò la prima città di Nora. I Greci, al solito, attribuivano ai loro primitivi eroi il dirozzamento della Sardegna; ma sembra che tardi vi si piantassero, quando fabbricarono le città di Carali (Cagliari) ed Olbia. I Fenici bensì vi posero stabilimenti di commercio; e così i Cartaginesi, i quali colonizzarono Carali e Sula, e al culto antico surrogarono il crudele e voluttuoso de’ loro Dei, e tiranneggiarono i natìi[99], i quali, insofferenti del giogo, vestiti di pelli e della loro masturga, con targa e pugnale, ripararono nelle grotte montane la selvaggia loro indipendenza. Anche gli Etruschi vi posero stanza; poscia i Romani, sotto ai quali contava sin quarantadue città, di cui sole dieci ora sussistono. Fin d’allora il Sardo era robusto e allegro, coraggioso fin alla temerità, di concitata fantasia, vivo nell’amore, implacabile nell’odio. Già parlammo dei nuraghi (pag. 56): aggiungiamo che in Sardegna furono trovate le prime pietre sardoniche; e che, secondo Dioscoride, vi cresceva una pianta (il gorgolestro), che a chi ne mangiasse la radice produceva la morte con convulsioni alla faccia somiglianti al riso: dal che venne detto il riso sardonico.
CORSICA
La Corsica, chiamata antichissimamente Teramne, poi Collista dai Fenicj, indi Tera dagli Spartani o Focesi d’Asia, Cimo o Cernenti dai Celti, Corsi dai Greci e Corsica dai Romani, collocata fra l’Italia, la Spagna e la Gallia, è opportuno scanno d’importantissime relazioni. I Pelasgi forse l’abitarono, trovandovi Liguri ed Iberi[100]; gli Etruschi la dominarono, fondandovi Nicea sul Golo; poi una colonia di Focesi, ruinata dai Persi la patria loro, vi fabbricò sulla costa orientale, quasi in faccia all’Elba e allo sbocco del Tevere e presso la foce del Tavignano, la città di Aleria, con porto naturale bastevole alle navi d’allora, al piede di boscose montagne e in mezzo a una fertile pianura. Ivi si afforzarono a segno, da tener testa a Etruschi e Cartaginesi; e vinsero ma a grave costo, perdendo quaranta vascelli e molti uomini, i quali, condotti ad Agila in Toscana, furono trucidati. Poco stante, gittatasi quivi la peste, l’oracolo di Delfo consultato rispose, placassero i mani dei Focesi, da loro barbaramente uccisi: così fecero, annui giuochi istituendo, e la malattia cessò. Ma i Focesi, accorgendosi di non poter reggersi nell’isola, migrarono in Italia e sulle coste della Gallia. Più tardi Plinio vi contava trentatre città: Callimaco la chiamava la Fenicia insulare.
Diodoro Siculo attesta che gli schiavi côrsi superavano gli altri per robustezza in tutti i servigi utili alla vita[101]; Strabone, all’opposto, narra, «qualvolta un generale romano, penetrato nell’interno paese e sorpresovi qualche forte, ne mena a Roma alcuni schiavi, è singolare a vederne la ferocia e la stupidità; o ricusano di vivere, o rimangono in assoluta apatia, finchè stancano i padroni, e fanno rincrescere il poco denaro speso per comprarli». Forse Strabone interpretava così l’amore di libertà, che in quel popolo non venne mai meno, e pel quale mantenne tanta originalità di carattere e di costumi. Polibio ci dipinge aspro e selvoso il paese, ove scioltamente pascolavano numerosi armenti, obbedendo al conosciuto corno del mandriano; vedea questi avvicinarsi navi all’isola? sonava, e le bestie accorrevano; in tutto il resto simili a selvaggi.
ELBA
All’isola d’Elba, detta Etalia dai Greci, Ilva dai Romani, cavavasi da immemorabile antichità il ferro, detto populonio perchè in Populonia erano i forni per fonderlo. La possedettero gli Etruschi, al pari della fumante Lipari ricovero di pirati, e delle altre isolette dell’arcipelago Tirreno, ed alcune anche dell’Adriatico. A Malta ed in altre isole i Fenicj aveano introdotto manifatture, onde provvedere la Grecia e l’Italia.
CAPITOLO V.
Istituzioni italiche.
Chi dice storia d’Italia suol intendere storia romana: ingiustizia, a cui converrebbe riparare volgendo l’interesse sopra il maggior numero de’ vinti, fra’ quali si riscontrano gli elementi durevoli, che sopravvissero alle società conquistatrici, esaurite da’ proprj sforzi. Tentiamo farlo cogli scarsi documenti e coll’analogia.
TESMOFORI
La prima società sono le famiglie; e poichè i legami domestici stringono più tenaci quanto più semplice è un popolo, molte famiglie si conservano unite e d’egual tenore, formando le tribù. I membri d’una tribù lavorano e viaggiano di conserva, si difendono a vicenda, tolgonsi a capo il più vecchio, il più capace, il più esperto di mandre, il più arguto osservatore degli astri e delle stagioni: il qual capo, come savio, proferisce anche i giudizj; come sperimentato, possiede la dottrina; come anziano, rende culto alla divinità; padre, re, giudice, sapiente, pontefice. Quest’è il governo patriarcale, tanto disdicevole a civiltà adulta, quanto comune alle nascenti.
Dove i sensi e l’intelletto prevalgono sopra la riflessione, domina l’eroismo, che è la consacrazione della forza per mezzo del sentimento, e del sentimento per mezzo della forza; e da esso derivano la soggezione e la fede. Avvegnachè, quando tutte le anime ricevono le medesime impressioni, e si guidano a norma di queste, facilmente si persuadono che un uomo faccia movere un popolo intero, o tutto un popolo sia identificato in un uomo, nel quale ravvisino sfolgoranti i concetti e i sentimenti, che oscuri ritrovano in sè. A quell’uno pertanto attribuiscono tutti gli atti d’una generazione o d’un’età: e in tal guisa si formarono que’ caratteri poetici di Giano, di Saturno, di Fauno, che troviamo come uomini-dei al limitare della storia italiana. Il padre Giano, il quale non si connette a veruna genealogia di Dei, tiene del settentrionale, e compare fra genti non ancora stabilite: Saturno ha fisionomia orientale, trova una gente agricola, e forse è simbolo di colonie fenicie, le quali, espulse di Creta, qui approdarono: Fauno personifica la vita pastorale[102].
SOCIETÀ PATRIARCALE
Costoro col nome divino introducevano le religioni, educavano que’ popoli al modo che spesso praticarono i missionarj, cioè trattandoli da fanciulli, non assegnandovi proprietà distinte, ma lavori comuni, comuni banchetti di cibi agresti; il che dai posteri, più inciviliti ma più sofferenti, fu reputato un’età dell’oro. Va fra questi tesmofori anche Italo, il quale stabilì la comunanza de’ beni nel basso della penisola, e addestrò nell’agricoltura, della quale i frutti godeansi in conviti sodalizj, che ancora non erano dismessi all’età d’Aristotele[103]. Per costoro opera, contro la persecuzione dei violenti si piantano asili, sotto la tutela dei numi o di un capotribù. Questi capi divengono patroni; i ricoverati rimangono clienti; e congiunti soggiogano i nemici, riducendoli schiavi.
CIVILTÀ PRIMITIVA
Fin ne’ tempi più civili l’Italia conservò vestigia del primitivo vivere errante[104]; e gli Dei bucolici, le feste e le divisioni dell’anno riferibili a pastorizia ed agricoltura, e il culto del dio Termine, erano rimembranze dell’antico vivere da pastori e da campagnuoli. I Romani in testa a Giove e alle maggiori deità ponevano il modio, misura del grano; e arare e sulcare chiamarono lo scrivere. Perocchè le abitudini agresti, indotte dalla natura del suolo italiano, modificarono la primitiva civiltà di tribù; e questo passaggio fu personificato nel mito di Cerere, dea che dicevasi avere primamente in Sicilia mostrato come coltivare il grano. Essa fu pure avuta come inventrice delle leggi, avvegnachè i popoli, col prendere sedi fisse e campi certi, determinano le idee del tuo e del mio, bisognano di garanzie per conservarlo, di forza ordinata per difenderlo, di giudizj per rivendicarlo, di regole per trasmetterlo, di quel complesso d’ordinamenti che costituisce un reggimento civile.
Come molte famiglie compongono la tribù, molte tribù si aggregano in città e provincie. I varj capitribù non abdicano il loro primato, e per ventilare gli interessi comuni si congregano in assemblee; mentre l’agglomerarsi di diverse tribù introduce varietà di vita e di professioni. Quindi dalla innata eguaglianza di diritti nasce la disuguaglianza di fortune; l’uomo più industrioso o più accorto guadagna meglio, arricchisce, trasmette gli averi suoi a’ figliuoli: di che originano le famiglie illustri, che aspirano a concentrare in sè le ricchezze, la dignità, il potere. Così nasce il governo di molti; un patriziato che amministra i pubblici affari, la distinzione de’ nobili da’ plebei, con un’infinita varietà nel numero e nelle attribuzioni de’ Padri consultati ( senatori ), nel denaro che la tribù mette in comune ( tributo ), ne’ magistrati, nelle relazioni di ciascuna città col proprio territorio, e tra le città, le quali confederandosi formano uno Stato.
TRIBÙ
Ma poichè le famiglie precedettero lo Stato, quelle vengono considerate come elementi necessarj di questo. Pertanto le tribù si accostano, ma non si fondono; e memori della differente origine, ognuna si tiene distinta dalle altre; non accomunano le nozze; ed essendo varie di dignità, si può in esse scendere, non elevarsi. Se v’intervengono la religione, diversa da una tribù all’altra, e riti particolari di ciascuna, esse tribù rimangono inalterabili, formando le Caste, come nell’India o nell’Etruria[105]: altrimenti le distanze vanno dileguandosi, fino a giungere all’eguaglianza, come accadde in Roma. Allo Stato però non appartiene se non chi appartenga ad una famiglia ( gens ) per legittima derivazione: e solo per grande condiscendenza vi si ammette tal fiata un uomo libero forestiero; od anche una nuova parentela quando un’altra si estingua, affinchè non resti incompiuto il novero rituale.
Oltre queste tribù che chiameremmo di famiglia, vi ha tribù di luogo, rispondenti alla distribuzione di un paese in distretti o borgate; sicchè n’è tribule chiunque possiede in quel circondario al momento dell’istituzione; e i discendenti loro continuano ad appartenervi, se anche perdano o tramutino i possessi. Ne deriva dunque un’altra specie di genealogia, quantunque meno rigorosa. E se un popolo così costituito si trapianti in altro paese, egli conserva la costituzione patria, ma per favore accoglie nel suo grembo i natìi, da cui ebbe ajuto o da cui spera decoro, e li scomparte nelle varie tribù, giusta diverse convenienze; di modo che il vincolo fra i contributi non è più soltanto di sangue e di patria.
Insistemmo su questa costituzione delle tribù, come quella che è più dissonante dai modi odierni; e senza di essa non sarebbero compresi i passi delle civiltà antiche, e specialmente della italica.
La regolarità di siffatto procedimento viene alterata dalle conquiste. Una tribù, per amor di donne, di pascoli, di bottino, per gelosia di potere, per ambizione di un capo, assale l’altra, la vince, molti uccide, gli altri serba in qualità di schiavi ( servi ). Il trionfo invoglia a nuovi: un capo guerresco, sostenuto dai robusti che desiderano esercitare la propria vigoria, o dai fiacchi che cercano un appoggio, viene ad imperare su molto popolo soggiogato, e si fa re in nome della forza; dinastia, cioè forza (δύναμις), chiama la propria famiglia, e impone il proprio volere, raccogliendo in sè la facoltà di far leggi, d’eseguirle, di giudicare. Sono ricordati alcuni antichi re in Italia, quali Giano, Lico, suo figlio Latino, Pallante, Evandro.
CONQUISTE. CONFEDERAZIONI
Gli Stati a governo d’un solo o di più, costituitisi in tal maniera, proseguono fra loro le lotte cominciate fra le tribù; i più forti invadono i meno, i montanari piombano su’ pianigiani; e gli uni per difendersi, gli altri per assalire, stringono confederazioni. Questa forma è antichissima in Italia, e naturale in paese suddiviso da monti e fiumi, sicchè mal poteano avervi luogo i vasti imperj che fecero schiava l’Asia, nè l’unità nazionale che fece potenti alcuni popoli moderni.
Paese bello, ed aperto per così lunghe coste, facilmente era invaso da genti che o l’ambizione chiamava di lontano alle conquiste, o la sovrabbondante popolazione o un vincitore snidavano dalle terre natìe; oppure da colonie che cercavano una patria nuova. I capi degli invasori spartisconsi il paese, rendono sudditi gli originarj che non sappiano difendersi o fuggire, e concentrano il dominio nella gente vincitrice. Talvolta un altro popolo sopraggiunge al primo conquistatore e gli strappa la signoria, ovvero patteggia con esso, mettono in comunione gli Dei, e si spartiscono gli uffizj[106]. Così si sovrappongono genti a genti, separate per origine: pure, conservandosi le singole unite fra sè, ne derivano distinzioni di classi; e l’una ha il privilegio delle armi, l’altra del sacerdozio; una ai traffici, l’altra all’agricoltura; distinzioni non cancellate dal tempo nè dalla superiorità numerica dei vinti.
INVASIONI. TIPI MITICI
In questo accostarsi e sovrapporsi di popoli, ognuno reca tradizioni, e queste si mescolano, trasponendo tempi e luoghi, accumulando s’un personaggio le imprese di molti, confondendo gli avvenimenti umani colle vicende della natura o colla storia degli Dei; sicchè riesce difficilissimo l’appurare alcuna verità, e l’assegnare epoche anche approssimative, anzi perfino lo stabilire una priorità fra gli avvenimenti che precedono la storia.
Ne’ personaggi pertanto che questa ricorda, si può piuttosto vedere simboleggiata un’età, uno stadio dell’incivilimento; e sebbene forse davvero il loro sandalo abbia calpestato la terra, il tempo ne cancellò l’orma, e la poesia ne ingrandì la statura fino a comprendervi un’epoca intera. Eruditi nostri contemporanei diressero robusti e sensati sforzi a scoprire la verità di sotto al velame della mitologia, e indietreggiare così i tempi storici: ma delle controverse loro conchiusioni una critica più schifiltosa si valse per rigettare nella mitologia anche parte di quella che soleasi accettare per istoria. Comunque sia, giova conoscere quegli eroi e que’ numi primitivi, perchè da essi trapela l’indole delle nazioni; indole che poi resiste ai sovvertimenti, ed entra come elemento nella futura civiltà.
RELIGIONI
I popoli non sono uniti e ordinati soltanto dalla forza e dalla parentela, ma anche da credenze e da riti. Colla parola l’uomo ricevette ab origine le verità primitive, che non avrebbe potuto acquistare coi sensi, e che poi furono offuscate dal peccato, il quale pose in disaccordo l’intelletto, la fantasia, i sensi. Offuscate, non tolte; e i popoli qual più qual meno ne conservarono, e si può riconoscerle di mezzo agli errori onde vennero contaminate. Alcuni uomini, o piuttosto alcune tribù raffigurate in personaggi quali furono per noi Giano e Saturno, custodirono più pure quelle verità, e insegnandole si fecero dirozzatori delle nazioni. La credenza d’un Dio unico era comune fra que’ nostri progenitori; ma ciascun popolo immaginava questo Dio sotto nomi e figure e simboli e attribuzioni differenti. Varie genti o confederandosi o soggiogandosi mettevano in comune il proprio dio, e veniva così a formarsi nel concetto vulgare un Olimpo di divinità. La moltiplicità delle quali non fu da principio che moltiplicità di nomi secondo le lingue; ma dall’adorazione di un Dio sotto nomi diversi era facile lo sdrucciolare all’adorazione di diversi Dei. I sacerdoti e i savj li tenevano come multiformi manifestazioni dell’Ente per eccellenza, e questo arcano insegnavano ne’ misteri: ma perchè il privilegio di offrire sagrifizj, consultare gl’Iddii, palesarne il volere, offriva comodità di dominare sui vulghi e dirigerne le cieche volontà in nome del Cielo, a questi insegnavasi una religione subordinata all’interesse di pochi, e acconcia alle grossolane fantasie. Così i sacerdoti, indotti non tanto da capriccio d’ingannare, quanto dall’istintiva necessità de’ men buoni di sottostare e ricevere educamento e direzione, valevansi della scienza a strumento di potere; onde formavansi i governi teocratici, mirabilmente opportuni a popoli rozzi, perchè l’oracolo della divinità dispensa dal dovere spiegare le necessità e le combinazioni politiche. E dove Varrone, nella Rustica, dice che la religione in Italia fu sempre dominata dall’interesse, null’altro credo significhi se non la pendenza pratica che sempre fu carattere della nostra nazione: dove il fine sociale è indicato dallo stesso nome latino di re-ligio, cioè rannodamento.
DEI. FESTE
Ma se la diversità dei culti italici palesa le molteplici origini della popolazione, si trova che, dal fondo delle tradizioni primitive, tutti dedussero idee sublimi della divinità. Nel carme Saliare, Giano era detto deorum deus[107], e questo solo fra i numi antichi non trovasi contaminato di colpe. Ma riservando i dogmi più puri agl’iniziati, al vulgo si porgeva quel culto materiale della natura, che dicemmo derivato dalla supposta dualità de’ principj: sicchè adoravansi Opi e Saturno, dio e dea della terra, il Tevere, il Numicio, il Vulturno; e le divinità moltiplicaronsi, fino ad averne ogni fonte, ogni casa, ogni città, nel culto tutto nazionale dei Genj[108]. Anna Perenna, la madre nudrice, era figurata nella luna che presiede all’anno, venerata nel fiume Nemi, con feste tutte gajezza e canzoni oscene; a Pale, dea de’ pastori, continuò feste anche Roma conquistatrice colle ferie Latine e coi Lupercali, in rimembranza dell’agreste origine sua; Fauna o Fatua, buona dea della pudicizia, era venerata da sole donne e al bujo; sotto ficaje selvatiche celebravansi le None Capretine; contro le malìe invocavasi Cardina, contro i fulmini Furina; Carmenta, colle sorelle Antevorta e Postvorta, alludeva ai parti; Tacita era madre dei Lari; e appellano a quelle vetustissime tradizioni Fortunata, Mania, Larunda, ed altre donne venerate. Ogni lavoro campestre era raccomandato a un nume particolare: Seja e Segestia proteggano i grani seminati, Proserpina quelli in germoglio, Nodoso quei che allegavano, Putelina quelli spigati, Tutulina quelli conservati ne’ granaj; e Roma invocava il Dio Vangatore, Ripastinatore, Aratore, Solcatore, Innestatore, Erpicatore, Sarchiatore, Suroncatore, Mietitore, Adunatore, Ripostore, Porgitore[109]. È ben a dolersi che siansi perduti gli Indigitamenta, ove i sacerdoti aveano raccolto i nomi e le storie di ben trentamila divinità, il cui complesso ci avrebbe porto idee men triviali sulla teogonia antica, e insieme sulla scienza umana, che ai primordj della civiltà non si esprime che colle forme della divina.
Nelle feste Fordicidie si sagrificavano trenta giovenche pregnanti; nelle Sementine imploravasi prospera la seminagione; nelle Rubiginali la preservazione dal bruciore, versando sul fuoco del vino e le viscere d’una pecora e d’un cane. Nelle Terminali i due confinanti ergevano un’ara, la donna vi portava il fuoco, il padrefamiglia formava il rogo, il fanciullo vi buttava del frumento, la figlia presentava del miele, si libava vino, s’immolava un agnello o una porchetta, e banchettavasi: festa derivata dai Sabini. Immagini ingenue se volete, ma inette ad elevare l’uomo a sane idee sulla natura di Dio, e alla pratica della pura morale.
I Sabini veneravano Matula dea della bontà, Mamerte (Marte) colla moglie Neriene dea della forza, Vacuna della vittoria, Feronia della libertà, Vesta della terra e del fuoco, Sanco, dio dai tre nomi ( Sancus Fidius Semon ), Sorano e Februo ministro della morte, e Sumano del fulmine. Nel 1848 presso Agnone nel Napolitano fu trovata una lamina di bronzo; in cui per ventisette linee d’una parte e ventitre dall’altra in osco si enumerano da venti divinità indigene, Giove custode del Comune e regolatore delle fatiche giornaliere, Panda guardiana delle messi, Geneta preside alle nascite, Ercole custode del limitare e della proprietà, e così via.
L’osceno Fallo è spesso rappresentato sui monumenti italici e sulle tombe. Singolarmente era adorata la Fortuna sotto infiniti nomi, chiedendone i responsi colle superstizioni più varie. A Preneste si deducevano le sorti da bastoncelli mischiati alla rinfusa, e tratti fuori dal supplicante; pratica germanica: due automi con cenni complicati rivelavano la buona o la trista ventura ai Volsci: nel tempio di Giunone a Vejo un’altra immagine augurava col capo. Qualcosa di barbaro e di antico conservava il culto di Circe, la gran fata delle trasformazioni, che compare sui promontorj a sgomento de’ naviganti; e ben tardi si continuò la devozione di lei sui capi, quel di Sorano sulle alture, di Feronia alle paludi e fontane.
A tali culti personali e topici mancava ogni unità di fatto o d’idea; nè le divinità aggregavansi in famiglia, ma ermafrodite da prima, poi decomposte in maschio e femmina, sempre però sterili, sinchè non vi s’intrecciarono le favole greche. Leggendo che gli Dei non avevano statue, forse dobbiamo intendere che non si effigiassero in sembianze umane: in fatto il Marte sabino era venerato in forma di lancia; anche dopo introdotto il culto idolatrico, il fuoco della dea Vesta continuò ad ardere silenzioso sull’altare senza immagine; e ne’ tremuoti pregavasi senza invocare alcun dio conosciuto e determinato.
FIEREZZA PRIMITIVA
Quando poi la città romana assorbiva le altre d’Italia, anche le religioni particolari venivano assorte dalla vincitrice, e gli Dei locali da quelli di Roma che più vi somigliavano. Da qui i moltissimi nomi od epiteti attribuiti a ciascun dio, talmente che Varrone ebbe a contare trecento Giovi in Italia. Taluno anche degli Dei sabini penetrò con quelli de’ conquistatori, come Semone Sanco allato al Giano latino: ma del culto locale e famigliare, tanto italico d’indole, rimase traccia negli Dei domestici delle varie genti ( sacra gentilia, dii gentiles ).
L’espiazione, fondamentale concetto delle religioni, portò da principio fino a sacrifizj umani, che si continuarono in tempi di men fiere consuetudini[110]. In Falera immolavansi fanciulle a Giunone: nelle primavere sacre facevasi voto di sacrificare agli Dei tutto quanto nascesse in quella stagione, non eccettuando i figliuoli; poi fu sostituito di mandar questi altrove in colonia. Nelle feste Argee venivano buttate persone nel Tevere, delle quali poi tennero vece ventiquattro o trenta figure di giunco: nelle Larali, teste di fanciulli, surrogate poi da papaveri. Terribili riti praticavano i Sabini: nei gravi frangenti di guerra, i soldati, accolti in un ricinto scarso di lume, fra il silenzio, le vittime e le spade, doveano giurare obbedienza, con tremende imprecazioni contro chi vi mancasse. Dal monte Soratte scendevano gl’Irpi, calcando a piè nudo carboni ardenti. I Marsi maneggiavano serpi, secondo n’erano stati istruiti dalla maga Angizia, cui veneravano nel sacro bosco presso al lago Fucino[111]. Queste ed altre memorie accennano la fierezza de’ primitivi abitatori, che fu poi temperata da’ tesmofori. I quali, regolando nel credere e riformando nel vivere, se non riescono ad abolire la guerra, la moderano col dritto feciale, per cui un sacerdote presentasi all’offensore, assegnandogli un termine entro il quale riparare i torti; scaduto questo indarno, gli è intimata nimicizia.
Le religioni rendevano dunque reale benefizio alla società, al brutale diritto della forza opponendo leggi sancite da una volontà superna. È vero che i sacerdoti non rappresentavano il popolo, nè sostenevano i diritti di questo: ma intanto moderavano i prepotenti, frenavano i vizj, diffondevano concetti di giustizia, di moralità, e ai re metteano per limite i dettami della coscienza, o le cerimonie e i decreti degli Dei.
SIMBOLISMO. AFFRATELLAMENTO
Spesso le costituzioni sociali e i governi riproduceano in terra l’immagine del Cielo; o i numeri simbolici, tratti da idee sovrasensibili, ripeteansi nei fatti umani. Così i trecento senatori di Roma corrispondono ai giorni dell’anno ciclico di dieci mesi: trenta porcellini partorisce la troja veduta da Enea sul posto ove Roma sorse: trenta città componeano la federazione latina: trenta Sabine furono rapite, dal cui nome Romolo intitolò le trenta curie: sono sette i colli di Roma, due volte sette le regioni d’Augusto; dodici le città fondate dai Pelasgi e dagli Etruschi, come dodici avoltoj appajono a Romolo. Mentre degli Etruschi, come d’altri popoli marittimi, era rituale il numero 12, il 10 era rituale per gl’Italioti, come pei popoli meno civili; e il 3 e il 10 vediamo dominare ne’ primitivi fatti dell’Italia e di Roma.
COSTUMI
Civilmente la religione serviva di vincolo alle popolazioni isolate. Il luco Ferentino, oggi Marino, quello sacro a Diana presso Aricia, l’altro di Venere fra Lavinio e Ardea servivano a convegni religiosi comuni: i Toscani s’accoglievano nel tempio di Voltumna, i Sabini in quello di Cere: sul monte Albano alle ferie Latine consumavasi solenne sacrifizio, distribuendo carne a tutte le tribù del Lazio, alle quali il comune dio Fauno rendeva oracoli dal profondo della selva Albunea.
In questi periodi della società (non proprj dell’Italia più che del restante mondo) si va estendendo l’idea di doveri reciproci, dapprima comprendendo la sola famiglia, poi la tribù; ma chiunque è fuor di questa, vien considerato come nemico, si può ucciderlo, ridurlo servo, non altrimenti che si farebbe d’una bestia. L’aggregazione in città e Stati allarga questo sentimento; viepiù la religione: ma sempre troveremo abbracciarsi nell’idea del dovere soltanto i membri della propria società; finchè il vangelo, annunziando la fratellanza di tutti e un’unica religione universale, gli estenda a tutti i figli di quel Padre nostro che è ne’ cieli.
Del resto le eterogenee popolazioni vivevano di vita distinta, ciascuna maturando una civiltà particolare. Il nome di patria rimase ristretto ad angusto territorio; e ben poche genti troviamo annodate in qualche titolo più generico, e collegate a feste o in assemblea politica quelle d’una medesima stirpe. Al più stringevano lega coi vicini, duratura quanto il bisogno; e il pensiero di unità nazionale, quand’anche noi sapessimo estranio alle popolazioni antiche, restava impedito dalle reciproche gelosie. Che cosa s’intendesse per popolo, e quanta parte esso pigliasse ai pubblici maneggi, difficile è determinarlo. Dappertutto troviamo la potenza aristocratica temperata dalla sovranità popolare. Ad un senato, composto dei padri della gente conquistatrice, spettavano i riti religiosi, le cariche, l’interpretar leggi, la scienza divina e l’umana; sicchè l’aristocrazia era sempre appoggiata sulla religione, per la quale discernevasi dalle plebi. Il Comune dei nobili formava la curia[112]. I prischi Latini, Equi, Sabini aveano imperatori e dittatori, sottomessi però alla sovranità nazionale: i Lucani in guerra sceglievano un imperatore, che congiungeva il comando militare e la civile supremazia: e tale era pure il meddix tuticus degli Osci, Volsci e Campani.
I Marsi erano lodati per frugalità e valore; i Sabelli per incolta costumatezza, e le donne loro e le Apule e Sannite per saviezza e sobrietà: ai Lucani predatori faceano contrasto i Sabini pii e giusti; ai molli e timidi Picentini i bellicosi Peligni e Sanniti, devoti a libera morte. Questi, d’educazione robusta[113], pomposi nelle armi, frugali nelle case, allevatori di mandre e puledri, e tessitori di lane, contraevano i matrimonj in freschissima età; in una giornata solenne sceglievano i dieci giovani meglio costumati e prodi, e davano loro l’arbitrio di eleggersi le spose[114]; ove se ne rendessero indegni, n’erano separati. Fra gli Umbri usavano le ordalie, simili ai giudizj di Dio praticati nel nostro medio evo[115], dove la divinità era chiamata immediatamente ad attestare con un miracolo la verità discussa o l’innocenza calunniata. L’atrio (forse così nominato dagli Adriani, e tutto proprio della nostra architettura) esprime un vivere comune e all’aperto; e colà, intorno al fuoco dei Lari, s’adunavano i fanciulli e le donne, non chiuse ne’ ginecei; e gli schiavi stessi[116], de’ quali grandissimo era il numero.
FORESTE. AGRICOLTURA
I dintorni di Roma erano tutti bosco: nella foresta Gallinaria in Campania, anche ai migliori tempi di Roma, ricoveravano masnadieri[117]: la foresta Ciminia pareva a Livio impenetrabile e spaventosa quanto quelle della Germania: Virgilio accenna la foresta di Sila, che le montagne del Bruzio ombrava per settecento stadj[118]: di piante era coperto il Gargàno, e così le colline circostanti a Vejo. Dionigi d’Alicarnasso ammirava le foreste sui colli e nelle vallate della Cisalpina, da cui si traevano begli alberi da costruzione, trasportandoli pei tanti fiumi ond’è solcato il paese, e che tanto giovano al baratto delle merci e derrate[119]; dal loro paese i Liguri asportavano tronchi di rara grossezza, e il legname de’ paesi bagnati dal Tirreno era cerco a preferenza di quello dell’Adriatico[120].
Questi boschi, di cui più non rimane vestigio, doveano rendere men torrenziali i fiumi e più rigida la temperatura: in fatto Orazio vedeva biancheggiare d’alta neve il Soratte, avvenimento ora insolitissimo; nel 480 di Roma il gelo fece morire molti alberi fruttiferi, quaranta giorni durò la neve sul suolo, il Tevere agghiacciò; e fra le superstizioni, Giovenale accenna d’una donna che rompeva il ghiaccio d’esso fiume per farvi le sue abluzioni. Pure Columella avea letto nell’agricoltura di Saserna, che contrade, dove lo stridore del verno non lasciava vivere olivi e viti, allora intepidite davano abbondantissimi oliveti e festante vendemmia[121]. Varrone fa coglier l’uva nel Lazio al fin di settembre, e il grano al fin di giugno[122], che sarebbe alquanto più tardi d’adesso: ma secondo Columella, agli idi di gennajo si mette mano ad arare, e cacciar il bestiame dai pascoli ove comincia a venir l’erba; Palladio agli idi stessi dice si seminava l’orzo gallico[123]; e i calendarj fissano al 25 febbrajo il comparir delle rondini, e al 26 agosto il sorgere della costellazione del vendemmiatore.
AGRICOLTURA
Ben presto d’agricoltura prosperò l’Italia, e prodotto principale era il frumento, massime il triticum durum, usitatissimo col nome di far o adoreum, e il triticum compositum, tanto fruttifero, che a Leonzio in Sicilia dava sin cento chicchi per uno[124]; e non che bastare al paese, si mandava fuori[125]. La segale era coltivata soltanto dai Taurini[126]; poco l’avena: l’orzo serviva solo agli animali domestici: del miglio e del panico, ricchezza della fertile Campania, si faceva pane e minestra.
PIANTE
Molti e squisiti vini; talchè, anche dopo conosciute Grecia e Spagna, Orazio onora di suo difficile gusto quasi unicamente i nostrali, e Plinio dice che di questi soli imbandivansi le imperiali mense. Columella e Plinio nominarono da cinquanta specie di vigne, ed è difficile l’accertare quali essi indichino coi differenti nomi, mentre neppur oggi ci accordiamo a riconoscere al nome quelle che si coltivano tuttodì. Certo grandissima cura vi adoperavano intorno, e studiavano a non mescolar le specie, e assegnare a ciascuna il terreno appropriato, acciocchè conservassero le proprie qualità. La vite coltivavasi già allora come oggidì, traendo profitto dal terreno frapposto; ed ora si lasciava serpeggiare per terra, ora sospendevasi a pali o ad alberi, quali il pioppo, l’olmo, la quercia; e credevasi migliore il vino delle più elevate. Ma Cinea ambasciatore di Pirro, assaggiando il vino d’Aricia, esclamò:—Non mi fa meraviglia se è così aspro, essendo la madre attaccata a una forca sì alta». Oggi pure gli stranieri stupiscono della nostra storditaggine, essi che legano le viti a bassissimi pali: ma il vario suolo esige varia coltura; e se abbiamo vigneti bassissimi e fin a terra in Lombardia, chi conosce il Polesine, il Ravegnano, la Puglia, comprenderà che cosa significassero i maritaggi delle viti coll’olmo e coi pioppi, e come fosse possibile far tavole e porte con tronchi di vigna segati.
Conosceasi il torcere il picciuolo de’ grappoli già maturi, alcuni giorni prima di coglierli, come ora si pratica col tokai; spampanavansi; talvolta si sgranavano le uve, poi si pigiavano, si torchiavano, e il succo facevasi colare in una cisterna di mattoni intonacata. Il vino torchiato era di seconda qualità. Il migliore talvolta raccoglievasi in capaci olle, e si lasciava sottacqua per un mese e più, presumendo con ciò togliergli la tendenza al fermentare: sommergendolo nel mare, si credeva acquistasse il profumo di vecchio. Altre volte nell’està seguente esponeasi per quaranta giorni alla vampa del sole. Da poi si scoprì che l’acqua di mare, ridotta a un terzo col bollire, ed aggiunta al vino, lo maturava. Coll’ebollizione pure si restringeva il vino troppo acquoso e talvolta formavasi il vin cotto: metodi tutti non affatto dismessi.
Grand’attenzione si prestava a tagliare i vini, mescolando le varie qualità; e vi si univano pece, trementina, fiori di vite, bacche di mirto, foglie di pino, mandorle amare, cardamomo, altre erbe fragranti. L’acidità se ne correggeva introducendo creta, latte, conchiglie pestate, gesso, ghiande torrefatte, scorbilli di pino; o tuffandovi un ferro rovente: aggiungeanvi pure del solfo, ma non pare vel bruciassero per solforare come oggi si fa, nè che si sapesse chiarificare coll’albume d’uovo, sebbene Orazio indichi che a ciò s’adoprava talvolta il torlo d’uovo di piccione.
Il professor Tenore e il danese Schouw vollero ricercare quali piante fossero conosciute nell’antico Pompej, inducendolo e dagli avanzi che se ne scoprono e dalle pitture. Queste rappresentano talvolta paesi egiziani od altri stranieri, oppure del tutto fantastiche, come quella dove un lauro rampolla dal fusto d’un dattero: ma quando pare si volesse copiare il vero, gli alberi più consueti sono il pino pignuolo e il cipresso, il pino d’Aleppo, l’oleandro, l’edera: si trovarono anche pinocchie carbonizzate; ma non le due vegetazioni, oggi caratteristiche di que’ paesi, l’agave americana e il fico opunzio, introdotte solo dopo scoperta l’America. È difficile accertare se fosse coltivato il dattero, che nelle pitture di Pompej figura soltanto in soggetti egizj o con significato simbolico. Teofrasto dice abbondava in Sicilia la palma nana ( chamerops humilis ), che oggidì trovasi appena rarissima nella baja di Napoli, ed è la sua gemma terminale quella che alcuni scambiarono per un ananas. Il cotone, che ora veste i campi attorno a Pompej, non appare dalle pitture, e coltivavasi solo nell’India e nell’Egitto, donde fu recato fra noi dagli Arabi. Ignoto era pure il gelso bianco. Vedonsi cipolle, rafanelli, rape, zucchette e mazzi d’asparagi, che non somigliano ai nostri coltivati. L’ulivo era delle coltivazioni più importanti, e alcuni de’ suoi frutti si trovarono in conserva. Fichi e viti erano comunissimi; e peri, pomi, ciliegi, pruni, peschi, melogranati, nespoli compajono nelle composizioni: ma non mai nè limoni, nè cedri, nè aranci, che sembra non s’introducessero qui prima del iii secolo. De’ cereali il più coltivato era il frumento, poi l’orzo; non la segale, nè l’avena: è dipinta una quaglia che becca una spiga d’orzo, e un’altra una di panico.
ANIMALI
Da’ bovi si disse venuto il nome d’Italia[127]: i majali della Gallia cisalpina nutrivano eserciti interi[128]: le lane supplivano ed alla seta nei vestiti signorili, ed alla tela nelle trabacche militari. Quella d’Apulia otteneva il vanto fin sulla milesia, e per conservarla morbida e immacolata, rivestivansi le pecore con altre pelli: di quelle finissime del Padovano si tessevano abiti e tappeti[129]; di bianchissime se ne tondeano intorno al Po, di nerissime a Pollenza; e per riputate che fossero le spagnuole, le nostre vinceanle in durata[130]. Di cavalli pure s’abbondava; i veneti erano cerchi anche fuori, e numerose razze nutriva la Puglia[131].
ECONOMIA. COMMERCIO
Sono vestigia dell’antica sapienza pratica alcuni proverbj citati da’ Romani, e che doveano aver corso prima che la coltura venisse abbandonata a mani servili.—Tristo agricola (dicevano) quello che compra ciò che il fondo può somministrargli. Tristo capocasa quel che fa di giorno ciò che può far di notte, eccetto il caso d’intemperie; peggiore chi fa ne’ giorni di lavoro quel che potrebbe ne’ festivi; pessimo quel che nei dì sereni lavora a tetto, anzi che all’aperto[132]. Il campo dev’essere minore delle forze del coltivatore, sicchè nella lotta questo a quello prevalga. Seminagione tempestiva spesso inganna; seminagione tarda non mai, se pur non fosse cattiva[133]. Non arare terra cariosa; non defraudare la semente[134]. Pregavano che le biade prosperassero per sè e pei vicini, e i censori punivano colui che arava più che non vangasse[135]. Più tardi d’opimo guadagno teneansi i prati; e Catone, interrogato qual fosse il primo modo d’arricchire coll’agricoltura, rispose:—I molti pascoli»; quale il secondo,—I pascoli mediocri»; quale il terzo,—I pascoli sebbene cattivi»[136]. Egli stesso diceva che «Ben coltivare è ben arare». Nè altrimenti che collo sminuzzamento della proprietà e coll’assidua coltura de’ terreni sarebbe potuto alimentarsi tanta popolazione sopra un territorio di mediocre estensione[137]. Cavavansi marmi e metalli; e più tardi il senato romano vietò di occupare più di quattromila uomini attorno alle miniere del Vercellese[138].
COMMERCIO
I popoli avveniticci prendevano stanza più volentieri vicino alle coste, conoscendo opportunissima al traffico l’Italia. In fatto la superiore manteneva commercio coll’Illiria, ed insigne emporio e mercato era Adria: a Genova i Liguri barattavano legname, resina, cera, miele, pellame, con biade, olio, vino, grasce[139], e mandavano fuori grossi sajoni, detti ligustini: i Bruzj asportavano pece e catrame; Veneti, Sanniti, Pugliesi, la lana: per la via Salaria, traverso all’alto Appennino, i Sabini venivano a prendere il sale nella marina de’ Pretuzj; gli Umbri il cavavano dalle ceneri; Liparioti, Rutuli, Volsci, Campani scorrevano il mare su barche lunghe e veloci; i Liguri su piccole rozzamente attrezzate.
DIALETTI
Niuna cosa (ha detto il Vico) s’involve dentro tante dubbiezze ed oscurità, quanto l’origine delle lingue ed il principio della propagazione delle nazioni[140]. Si disputa tuttodì se il linguaggio sia naturale o convenzionale, e perciò se regolato dalla logica o dall’uso, vale a dire dall’analogia o dall’anomalia. Noi già professammo la nostra credenza, nè questo è luogo a sì complicata controversia. Ben dei dialetti italici sarebbe importantissima la conoscenza, come quelli che ci avvicinano alla culla della lingua più importante fra le europee, la latina: ma le poche iscrizioni che ne sono l’unico avanzo, bastano appena a erudite congetture. L’osco, in cui trovasi moltissimo di sanscrito[141], estesissimo anche ai Sabini e agli Ausonj[142], e che sopravvisse alla nazione, non doveva differire se non nelle forme dall’umbro e dal latino.
SAPIENZA
Quale filosofia seguissero gl’Italiani, ignoriamo; pure dalla loro e da quella dei Pitagorici dovette comporsi la primitiva latina, benchè i posteriori, abbagliati dalle greche, non tenessero conto delle dottrine nazionali, e le confondessero colle epicuree e colle stoiche. Da due fonti si è tentato argomentarle, il linguaggio e la giurisprudenza. Il Vico nell’ Antichissima sapienza degli Italiani, osservando di quanta filosofia fossero pregne le voci latine, arguì che i prischi Itali dovevano essere argutissimi pensatori, e propose di estrarre da voci e frasi il loro sistema di metafisica, di fisica e di morale. Soltanto sulla metafisica condusse egli il lavoro, e mostrò che, secondo i primitivi Latini, erano identici il vero e il fatto; Dio sapeva le cose fisiche, l’uomo le matematiche, contraddicendo ai Dogmatici che credeano saper tutto, e agli Scettici che nulla; esser Dio il perfetto vero, al quale sono conosciuti gli elementi intrinseci ed estrinseci delle cose, mentre l’intelletto umano non procede che per via di divisione, e ricava dalla scienza l’ente e l’uno; nell’anima dell’uomo presiede l’animo, nell’animo la mente, e nella mente Iddio; il qual Dio volendo fa, e fa coll’eterno ordine delle cose, non già per fortuna o caso.
Se il metodo del Vico parrà a tutti di troppo arrischiata congettura, ancor meno valore può avere per chi, come noi, supponga che nel linguaggio sieno depositate le prime rivelazioni divine, necessario per dar lume alla mente e sviluppo alla ragione. E poichè le lingue non sono formate da filosofi ma dal popolo, in esse si trovano attestati non il grado del sapere, ma le verità di senso comune; ed è impossibile sceverare quel che un popolo vi pose di suo, da quanto ricevette per tradizione. Anzi dalla fratellanza delle lingue nostre colle greche troppo precipitosamente alcuni indussero la somiglianza di civiltà, quasi non potesse l’una che derivare dall’altra. Le nozioni di Dio e delle arti primitive erano anteriori alla separazione dei popoli, e perciò spesso s’incontrano comuni le parole che le esprimono; mentre diversissime quelle relative a diritto e legalità.
DIRITTO
E perciò migliore argomento della sapienza degli Italiani può offrire la giurisprudenza, la quale fondasi sovra principj anteriori all’importazione greca. Secondo quelli, l’uomo è un essere naturalmente ragionevole e libero, e la persona è l’uomo col proprio stato; lo stato suo è naturale o civile; per natura gode la libertà, cioè può fare ciò che la forza o il diritto non vieta, nè esso può alienarla. Per diritto civile però ammettevasi la schiavitù, e lo schiavo era diminuito del capo, era uomo non persona[143]. Mentre è della femmina la debolezza, la dignità è del maschio, solo capace di patria potestà e d’impieghi. Figliuolo è quello che nasce da giuste nozze; laonde sono insociali l’adulterio, l’incesto, il concubito. Consideravano come cosa tutto ciò che può essere computato nei beni, compresi i diritti: il diritto però non era corporeo, ma uno per eccellenza, indivisibile, inestinguibile, superstite all’oggetto su cui cadeva: non si acquistava nè perdeva altrimenti che colla volontà o col consenso.
Del resto, quand’anche si volesse trarre dai Greci la civiltà italiana, ben tosto se ne separò essenzialmente. In Grecia scomparve di buon’ora la predominanza delle famiglie, mentre in Italia il diritto privato si fondò sul diritto delle genti, che si perpetuò. Fra i Greci prevalse l’individualità, fra noi lo Stato, l’autorità, la riflessione, l’idea: laonde in quelli signoreggiò l’arte, nei nostri il dovere. In Grecia arrivò al colmo la individuale indipendenza; in Italia incontriamo patriarchi, i figliuoli legati a questi, i padri legati al Governo, il Governo agli Dei.
CAPITOLO VI.
Primordj di Roma. I Re.
Ora dalla mescolanza di Latini, Sabini, Etruschi vediamo formarsi il popolo, che per lunghi secoli dominerà tutto il mondo civile, e che è il più degno di storia perchè rimase come il prototipo delle nazioni d’Occidente.
IL LAZIO
Il Tevere, che in 300 chilometri di corso riceve la Chiana, la Nera, il Teverone, finchè per le due bocche di Fiumicino e d’Ostia scarica pigramente nel Tirreno, è il maggior fiume dell’Italia peninsulare, ma disavvenente e ingrato. Fra esso e il monte Albano, e fra Tivoli e il mare un arido e ondulato cantone di appena quaranta miglia di superficie confinava a mattina e a scirocco coi Volsci; a occidente esso fiume il separava dagli Etruschi; a settentrione l’Aniene e il monte Lucretile dagli Equi e dai Sabini. I quali Sabini dalle alture appennine aveano snidato gli Aborigeni; e cresciuti di gente, calarono in quel piano dilatato, che perciò denominarono Lazio; e soggiogati o respinti i Siculi, vi presero stanza, edificando i casali di Laurento, Preneste, Lanuvio, Gabio, Aricia, Lavinio, Tivoli, Tuscolo dalle mura di massi quadrilunghi; Ardea capitale dei Rùtuli, ricchi di commercio, che mandarono colonie fino a Sagunto di Spagna.
Le distinte popolazioni di quel paese, che Dionigi Alicarnasseo dicea formare quarantasette Stati indipendenti, e probabilmente volea dire Comuni, erano congiunte dal vincolo religioso, e alle ferie Latine convenivano tutte sul monte Albano per quattro giorni di solenne sacrifizio, del quale portavano a casa le carni: a Tivoli interrogavano la fatidica Sibilla; dal profondo della selva Albunea raccoglievano oracoli dal comune iddio Fauno; in onore di Pale dea dei pastori celebravano le Palilie al 21 aprile, quando il sole entra nel segno del toro, animale venerato in Italia, e quando primavera rinnova la natura. Festa tutta rusticale, ove le pecore si aspergevano d’acqua santa; pastori e pastorelle ornavansi di frondi e ghirlande; alla dea offrivasi del miglio in corbelle di paglia, e latte ancor tepido, e la si invocava ripetendo tre volte verso Oriente la prece rituale; poi il preside del sacrifizio beveva da una ciotola di legno latte e vin caldo, astergeva le mani in acqua viva, saltava traverso un fuoco di paglia, e purificava se stesso[144].
ALBALUNGA
Anche dopo gl’incrementi d’Alba e di Roma, metropoli dei Latini fu tenuta Lavinio, città sul mare, dov’erano deposti gli Dei penati de’ Latini. Questo fatto darebbe a supporre che per mare vi fosse venuta la gente sacerdotale che portò nel Lazio la religione, e che è simboleggiata in Saturno, quivi celatosi dalle persecuzioni di suo figlio Giove[145].
Per antichissimi re del Lazio sono mentovati Pico, Fauno, Latino. 1300? av. C. Regnante Fauno, quivi approdò una colonia di Arcadi, cioè di Pelasgi, condotta da Evandro, e sedutasi in riva al Tevere, vi fabbricò Palanzio[146]. Due generazioni più tardi, regnando Latino, giunse un’altra colonia pelasga, cioè profughi di Troja, che, distrutta la patria loro dai Greci congiurati, qui ne cercavano una nuova e dominio[147]. Enea, principe trojano che li guidava, sulle rive del fiume Municio, detto Laurento dai lauri che le vestivano, sconfisse Turno principe de’ Rutuli, sottentrò a re Latino, e collocati i profughi lari in Lavinio, alla dinastia indigena surrogò la sua propria. 1250? Questa ebbe poi reggia in Albalunga, la quale fu madre di trenta città, poste in altura e rinforzate già di muraglie da Pelasgi ed Etruschi, quali erano Camerio, Nomento, Crustumeria, Fidene, Colazia, Gabio ed altre, futuri trofei di Roma. Ad Enea successe nel regno Ascanio suo figlio, poi una mal determinata serie di re fino ad Amulio.
ROMOLO
796 Costui, usurpato al maggior fratello Numitore il trono, costrinse Rea Silvia, unica figliuola di quello, a consacrare la propria virginità a Vesta. Pure il dio Marte la rese madre di due gemelli. Gettati nel Tevere onde sperdere il pericolo di pretendenti, dall’onda, più mansueta che lo zio, furono deposti a piè d’un fico selvatico, e allattati da una lupa. Venuti in età, conobbero l’esser loro, e colle prodezze raccoltasi attorno una masnada di valorosi Latini, la aquartierarono sulle rive del Tevere a sedici miglia dallo sbocco e poco dopo il confluente del Teverone, ove già cinque razze di popoli s’erano stabilite e scomparse[148]: contrada silvestre, ondeggiante su molti colli, quali il Saturnio, da poi Capitolino, elevato appena sessantacinque metri sopra il mare, ma orrido di sterpi e rupi; l’Aventino il maggior di tutti, nereggiante di lecci e lauri; il Celio (Laterano), detto Querquetulano perchè tutto a querce; il Viminale dai vimini, l’Esquilino o Fagutale dagli eschi e dai faggi; il Palatino, sacro a Fauno silvestre, con un bosco del dio Pan, dal quale le lupe scendevano ad abbeverarsi nel Tevere, i cui trabocchi stagnavano alle sue falde: e bosco e palude erano tra il Capitolino e il Quirinale, oggi monte Cavallo[149].
ORIGINE DI ROMA
Su quei colli, meno insalubri che la pianura, al punto ove confinavano 753 Latini, Sabini, Etruschi, fondarono una città, e la chiamarono Roma cioè forza nel linguaggio comune, Flora nel linguaggio sacerdotale, oltre un terzo nome arcano, che si pronunziava soltanto nelle cerimonie più secrete[150].
Romolo, ucciso il fratello Remo, domina senza competitore, e cresce la sua città pubblicando:—Chiunque vi venga, avrà asilo e mercato franco»; i primi coloni col titolo di patrizj sono il tutto della terra; rimangono plebe gl’indigeni soggiogati, o i ricoverativi da poi, ma a quelli si collegano in qualità di clienti, non potendo se non per mezzo di questi patroni ottenere giustizia, la quale venendo resa con forme rituali, non potea spettare che ai patrizj, unici possessori della religione e del diritto.
749 Romolo sparte i cittadini in tre tribù, e da ciascuna sceglie cento cavalieri per la guerra, cento senatori per l’amministrazione. Onde aver matrimonj rapisce fanciulle dai Sabini, i quali, venuti per vendicarle, non pure sono pacificati, ma formano un popolo solo col romano, prendendo stanza sul Quirinale coi proprj Dei, nettando dagli stagni e dalle foreste la valle fra il Palatino e il Campidoglio perchè servisse di piazza ai due popoli, che aveano accomunato l’acqua e il fuoco, e stabilito un tempio a Vulcano pei parlamenti. Cameria, Fidene, Vejo, altre vicine città sono conquistate, trasferendone a Roma gli abitanti, e di romane colonie popolando que’ paesi. Romolo, morto o ucciso, è annoverato fra gli Dei.
714 All’eroe succede il legislatore, al romano il sabino Numa Pompilio, che ispirato dalla ninfa Egeria, istituisce, o introduce dalla Etruria le vergini vestali, i sacerdoti feciali, e preci e festività e cerimonie religiose; a lui cadono dal cielo gli Ancili, scudi che rimasero un altro dei pegni sacri della fortuna di Roma; riforma il calendario, consacra le proprietà col culto del dio Termine, distribuisce il popolo in maestranze d’arti, fonda il tempio di Giano nell’Argileto. Secolo d’oro, tutto quiete e concordia, sicchè il tempo di Numa restò perennemente desiderabile.
I RE DI ROMA
671 Ma presto il sereno sparisce. Il bellicoso re Tullo Ostilio apre guerra contro Alba, capitale dei Latini e madre di Roma; e vien definita col duello di tre fratelli Orazj con tre Curiazj; Alba è a suon di trombe distrutta, i cittadini trasferiti a Roma sul monte Celio, e la guerra continua per sottoporre le città che a quella avevano obbedito. Ma mentre vuole, coi riti insegnati da Numa, placare le divinità adirate, Tullo rimane colpito dal fulmine.
639 Anco Marzio, suo nipote e successore, vince Fidenati, Volsci, Vejenti, Sabini, Latini; prepara il porto di Ostia, le saline e il carcere Mamertino a piedi del Tarpeo; fortifica l’Aventino e il Gianicolo per assicurare dagli Etruschi la navigazione del Tevere; fa scolpire le leggi sacre, delle quali rinnova il cessato vigore.
614 Tarquinio Prisco, oriundo di Corinto e lucumone d’Etruria, ottiene lo scettro romano, favorito da augurj; aggrega cento nuovi senatori, due nuove vestali; fabbrica acquedotti, cloache, i portici del fôro, il Circo Massimo tra il colle Palatino e l’Aventino, il tempio di Giove sul Campidoglio; vince Sabini, Latini, Etruschi, coi quali ultimi fa pace: pace generosa, dove nè tampoco esige tributo, ma solo vuole riconoscano la sua supremazia mandandogli la corona, lo scettro, i fasci, le scuri, il trono d’avorio. Al fine è assassinato dai figli d’Anco Marzio, pretendenti al trono paterno.
578 Non l’ottennero però essi, bensì uno nato schiavo, poi fatto genero da Tarquinio, e nominato Servio Tullio. Costui rinnova guerra agli Etruschi, violatori dell’accordo; i Latini unisce nel culto di Diana sull’Aventino; amplia il recinto della crescente città, sicchè abbracci sei colli sulla sinistra e il Gianicolo sulla destra del Tevere, e la divide in quartieri; introduce le monete e il censo; distribuisce il popolo in classi e centurie a norma della ricchezza, non in tribù a norma dell’origine; e accortosi come facilmente abusi chi tiene il sommo potere, voleva abdicare e istituir la repubblica, ma fu assassinato da Tarquinio suo genero.
534 Questo col titolo di Superbo tiranneggia i sudditi, e si tiene alleato ai prepotenti vicini e signorotti del Lazio, i quali lo proclamano capo della lega Latina, e consentono a Roma il primato ne’ sagrifizj che alle ferie Latine celebravansi sul monte Albano; dei reluttanti trionfa, e singolarmente di Gabio e Suessa Pomezia; in Roma costruisce le cloache; dal Campidoglio esturba gli altri Dei acciocchè vi rimanga unico Giove; compra da una fata i libri Sibillini che preconizzano il destino di Roma. Ma avendo suo figlio Sesto violentato Lucrezia matrona, questa si uccide, e per vendetta di quel sangue Tarquinio viene espulso da Collatino marito, da Lucrezio padre e da 509 Giunio Bruto parente della generosa: alla monarchia surrogasi la repubblica con due annui consoli, la quale ne’ maggiori frangenti si affida agli arbitrj d’un dittatore. Vinto Tarquinio che tornava alla riscossa, sventato l’interno tentativo d’una controrivoluzione, respinto il re etrusco Porsena 496 ch’era venuto per ripristinare i Tarquinj, data al lago Regillo una battaglia ove, mediante il valore d’Albo Postumio e l’assistenza dei Diòscuri, i re perdettero le ultime speranze, Roma nell’esaltamento della vittoria e della libertà cresce di potenza.
In questo tenore i primi tempi di Roma ci sono raccontati dai classici scrittori, e massime da Tito Livio; ed ognuno fin dalle scuole apprese i drammatici episodj ond’è ripiena quell’orditura. I poveri montanari di Tazio sabino portavano braccialetti d’oro, che allettarono l’avidità di Tarpea a introdurli in città. Tre Orazj nati ad un parto combattono contro tre Curiazj ad un parto pur nati; e un di loro vince, ma poi vedendo in pianto la sorella, segreta amante d’uno de’ nemici, la uccide, e condannato dalla legge, s’appella al popolo e n’è assolto. Clelia fugge dal campo degli Etruschi, passando a nuoto il Tevere fra cento dardi nemici. Bruto assiste intrepido al supplizio de’ proprj figliuoli, felloni alla libertà ch’egli avea donata alla patria. Muzio Scevola va per assassinare Porsena, e scoperto, lasciasi bruciar una mano per mostrare quanta sia la fermezza de’ congiurati. Orazio Coclite solo[151] resiste s’un ponte di legno a tutta l’Etruria; e Roma gli regala quanto in un giorno possono circuire due bovi, cioè da tre miglia, essa che appena dieci ne possedeva in giro alla sua città. Seguono poi la favola di Menenio Agrippa, e più tardi l’eroismo de’ trecentosei Fabj al fiume Crémera, la tirannide d’Appio Claudio, le vittorie di Quinzio Cincinnato, quella di Furio Camillo sui Galli.
CRITICA DELLA STORIA PRIMITIVA
A tali nomi e storie, è assicurato il privilegio di più non perire; ma reggono alla critica? La successiva durata del regno di que’ sette principi, la varietà delle loro azioni, il pieno ed ordinato intreccio degli avvenimenti, la corrispondenza con tradizioni d’altri paesi, vi danno piuttosto aria di poesia; e forse furono dedotti da epopee nazionali che cantavansi ne’ banchetti, e dove, sotto sembianza individuale, venivano rappresentati caratteri storici e tipi d’un’intera età, o sotto forma d’avvenimenti la successiva formazione della città e l’origine del diritto romano[152]. Ma come osar di espungere del tutto quai favole quelle tradizioni ch’erano tenacemente credute dal popolo romano, e che operarono sulla successiva sua storia? I singoli luoghi conservavano nomi e memorie e reliquie di que’ primitivi mortali. «Tu dormi, o Bruto?» si scrive sulla porta di Marco, acciocchè la memoria del primo Bruto lo inciti a redimere anch’egli da un tiranno la patria: l’odio contro il nome di re costa la vita a Cesare: per recuperare l’oro gallico si risolve una guerra. Chi potrà però dire quanto le tradizioni greche, la vanità dei retori, l’ambizione delle genealogie abbiano alterato la verità? A sincerarla si volsero potentissimi intelletti, quali il napoletano Vico nella Scienza Nuova, e un secolo dopo il danese Niebuhr nella Storia romana: ma se riuscirono talvolta a felicissime divinazioni, sono a gran pezza dall’offrire un accordo che appaghi la ragione, e lo storico trovasi ancora avviluppato nel labirinto critico. Studj sì lunghi, sì laboriosi, e poi non ritrarre che dubbj! Fra questi tentiamo anche noi qualche uscita.
Re Latino ci è dato per figlio dell’iperboreo Pallante o di Ercole, e d’una figliuola di Fauno; onde può indicare una gente settentrionale, mescolatasi cogli indigeni. Evandro che viene d’Arcadia, personifica i Pelasgi. Che dalla distrutta Troja sieno passati coloni nel Lazio, aveasi da tradizione vetustissima: Timeo, nel 490, scriveva che i Lavinj conservavano ne’ tempj statue trojane d’argilla; il senato medesimo più volte motivò su quella credenza i suoi trattati. Non fu dunque prepostera importazione dei Greci, ma opinione nazionale; il che però non significa che fosse vera, nè forse esprime altro se non che Alba fu, al pari di Troja, fondata da gente pelasga. Enea, simbolo dei vinti che nelle contese eroiche sono costretti a fuoruscire, dalla tradizione era fatto combattere con Turno (forma latina di Tirreno) e con Latino che muore in battaglia[153]. Le nozze del Trojano con Lavinia rappresentano il patto di concordia fra i natìi e quel pugno di prodi stranieri[154].
Un pugno, eppure potrebbe darsi avessero acquistato il dominio, come fecero i conquistadori in America: ma la lista dei re d’Alba è di recente confezione e variata. Ne’ primordj di Roma, le favole stesse rivelano l’indole del popolo che le inventò, vigoroso, perseverante, ma duro, inesorabile, e insieme di spiriti positivi, come appare dall’attribuirsi ai primi re istituzioni civili.
TENTATIVO DI SPIEGAZIONE
Forse i sette colli erano occupati da altrettante città pelasghe o etrusche, cui una banda di pastori montanari soggiogò. Roma, che sorgeva sul colle Palatino, distrusse Remuria sua sorella che l’aveva insultata: sul Quirinale stava la città sabina dei Quiriti, dalla cui alleanza si formò il popolo de’ Romani-Quiriti. Quelli che ci s’insegnano come nomi proprj dei re, forse non sono che appellativi di caratteri ideali: Romolo figlio d’un dio e che morendo sale agli Dei, Numa che favella con una ninfa divina, conservano aria di personaggi mitici, e potrebbero designare due età succedentisi, l’eroica e la sacerdotale.
Romolo nasce da Marte, il dio sabino, e da una sacerdotessa di Vesta, dea pelasga della civiltà fondata sugli accertati possessi e sulla famiglia. Fuoruscito della patria[155], pianta la sua rôcca s’un’altura al cui scarco ricettava il vulgo, protetto e dominato dai forti, i quali attendono alla guerra mentr’esso esercita le arti e i campi. Prima occasione di briga sono le donne, solita tentazione de’ popoli rozzi: ma esse vi compajono dall’origine con una maggior dignità che nell’Asia e in Grecia; resistono in prima ai rapitori, poi si fanno mediatrici della pace fra mariti e genitori: onde in Roma si professa poco amore sempre, ma riverenza verso quel sesso; le spose, tratte con simulata violenza dalla casa paterna, non attendono ad altri lavori che di filar lana; hanno la man dritta per le vie; cosa inonesta in loro presenza non si dee fare o dire; i giudici capitali non possono citarle.
Troviamo dunque registrate come concessioni e come accordi le lente acquisizioni del tempo, e l’effetto della mescolanza delle schiatte. Il terreno che nelle guerre si guadagna, va spartito fra i patrizj; i vinti rimangono plebe; e così la gente romana trovasi divisa in due classi, come tutti i popoli antichi; conquistati e conquistatori, dominanti e obbedienti. Ma i vinti non caddero sì basso come altrove; e invece di due Caste, di separazione insormontabile perchè sancita dalla religione, ne vennero due partiti politici, che sin dal principio si disputavano la preponderanza; e le minori genti, plebee ma libere, diventarono fondamento alla potenza di Roma.
Dal rapimento delle fanciulle nasce una guerra col sabino Tazio, terminata mediante una transazione, per la quale i due popoli si collegano: la collina romana del Palanzio e la sabina del Quirinale sono congiunte, e come confine fra di esse viene eretto il tempio di Giano, bifronte acciocchè guardi ad entrambi; con porte che stiano spalancate in tempo di guerra onde soccorrersi a vicenda, chiuse in tempo di pace onde le indiscrete comunicazioni non sovvertano la quiete. I due popoli strinsero reciproci matrimonj[156]; aggregarono in un senato solo cento padri per ciascuno; una sola assemblea elettiva, con un solo re, forse scelto a vicenda; onde si disse populus romanus quirites, mutato poscia in populus romanus Quiritium[157].
NUMA
E dalla gente sabina fu scelto il nuovo re Numa, nel quale però si riscontra più volentieri l’indole sacerdotale dell’Etruria, donde forse allora si chiesero costumi e riti per digrossare i guerrieri di Romolo-Quirino. L’erudizione, quanto più stenebra le origini romane, discopre sempre maggiori elementi da attribuire all’Etruria: e di là si dice che, regnante Numa, fossero introdotte le cerimonie e le lettere, l’anno di dodici mesi, civilmente consacrata la proprietà col culto del dio Termine, ossia Giove pietra; partito il popolo in corporazioni d’arti e mestieri[158]; si comincia a tenere il registro degli annali, come era consueto in tutte le città etrusche; e la fiera città dei Romani-Sabini assume aspetto religioso, fondando ogni diritto sopra gli Dei, e dagli Dei e per gli Dei credendo operata ogni cosa. RITI Cerimonie del culto, annestate con quelle dello Stato; legislazione religiosa, compenetrata alla civile e politica, onde regolarne i diritti con forme impreteribili, che sono privilegio d’un’aristocrazia sacerdotale, sentono affatto dell’incivilimento etrusco. La casa era dei Lari, la tomba dei Mani, dio genio il matrimonio; sacro il reo, sacro agli Dei del padre il figliuolo impietoso, sacro a Cerere chi mette fuoco alle biade, sacre le guerre, sacro il diritto, come si esprimono le Dodici Tavole; solenni sono le azioni giuridiche, sacramento è la contestazione civile, supplizio la pena corporale; agli Dei soli spetta l’iniziativa degli affari umani, esercitata mediante la classe sacra dei patrizj, ai quali soltanto è concesso di prendere gli auspizj senza di cui non restavano sancite e legittime le proprietà, le nozze, le decisioni. Le magistrature, fin la suprema, sono sacerdozj; Numa si fa inaugurare s’una pietra misteriosa[159]; e ai magistrati è riserbato il chiedere dal cielo i responsi. Il pomœrium, cioè il giro di censessanta piedi dentro e fuori delle mura, primo asilo del popolo, è sacro ed orientato a similitudine del cielo; sacra la precinzione della città, e delitto il travalicarla. Il focolajo domestico è sacro, e la famiglia costituita sul culto degli avi e sul dogma delle solidarietà. Il padre è una specie di dio umanato; somiglia a creazione l’atto suo di dar la vita; mediante le azioni proprie e de’ figliuoli merita di divenir lare. Obbligo inseparabile dalle eredità sono i sacrifizj espiatorj, annualmente fatti dai maschi discendenti, con tanto rigore che, se un debitore muoja insolvibile e lasci soltanto uno schiavo, questo è affrancato acciocchè i suffragi non rimangano interrotti. La classe sacerdotale pervenne a disarmare il popolo, talchè nessuno compare in città con armi, e i conquistatori del mondo sono una gente togata.
RELIGIONE
Molte somiglianza, e massime la venerazione pel bue e i sacrifizj pei padri defunti, diedero a supporre che la religione romana venisse dall’indiana[160]; altri la dedussero dalla greca; noi da una superiore fonte comune, modificata da credenze nazionali, dall’indole del popolo e dal tempo. Mentre in prima non si veneravano che i due lari pelasgi Vesta e Pallade, furono poi adottati il latino Giano e il sabino Marte, e a fianco a questi una generazione di numi agresti. In ciò la romana già si scevera dalla mitologia greca, alla quale soprasta anche per l’attribuire a tutti gli Dei funzioni analoghe alla conservazione e al perfezionamento dell’uomo[161]. Anzi, al modo dei misteri di Samotracia, veri iddii primitivi si consideravano soltanto il Cielo e la Terra[162], quasi le due metà del gran tutto, che è il mondo; e vulgarmente si personificavano in Saturno e Ops, o Bona Dea, da cui poeticamente diceansi generate Giunone, Vesta, Cerere, cioè i matrimonj, la casa, la fertilità[163]. L’introduzione delle tre maggiori divinità etrusche, le quali poi furono denominate Giove, Giunone, Minerva, non accadde senza contrasto. Ogni città etrusca dicemmo come dovesse avere un tempio a ciascuno de’ tre Dei, ed altri piccoli n’aveano aggiunti i Sabini sul Campidoglio. Ma gli auguri, consultati con riti che, dall’antico come dal nuovo culto, erano tenuti superiori fin a quelli degli Dei, proscrissero una dopo l’altra queste edicole che impedivano d’estendervi il recinto del nuovo tempio di Giove: a niun patto però vollero recedere Termine e Gioventù, due divinità appartenenti a quelle religioni de’ Genj, che trovammo speciali agli antichi Italiani.
La famiglia divina in Roma fu compiuta soltanto dopo la cacciata dei re; e comprendeva dodici Dei Consenti; sei maschi, Giove, Nettuno, Vulcano, Apollo, Marte, Mercurio, e sei femmine, Giunone, Cerere, Vesta, Minerva, Venere, Diana, detti anche celesti, nobili, grandi, delle maggiori genti. Il culto degli Dei selecti o intermedj pare risalga all’età de’ Tarquinj; e sono, Saturno, Rea, Giano, Pluto, Bacco, il Sole, la Luna, le Parche, i Genj, i Penati. Seguono gli Dei inferiori, divisi in indigéti e semoni: ai primi appartenevano Ercole, i Dióscuri Castore e Polluce, Enea, Quirino; agli altri Pan, Vertunno, Flora, Pale, Averrunco, Rubigo. S’aggiunsero in appresso enti morali, e numi delle genti sottomesse[164], adottati principalmente per consulto dei libri Sibillini, che tanto contribuirono ad alterare la religione romana: e allora spesso si cangiò il carattere delle divinità primitive, e la casta Anna Perenna vestì le lascive forme dell’Anna cartaginese, e Murcia matrona divenne la Venere Mirtia, e Flora la voluttuosa Clori.
La religione romana, a differenza della libera, indipendente e leggiadra de’ Greci, tenne sempre dell’arido e del prosastico, e fu tutta politica; ristretta dai patrizj in un sistema, calcolato tutto a loro profitto. L’Ancile, scudo di Marte caduto dal cielo, il Palladio, lo scettro di Priamo, il carro di Giove rapito da Vejo, le ceneri d’Oreste, la pietra conica, il velo d’Elena o d’Iliona, costituivano pegni sacri dell’esistenza e prosperità di Roma[165]. Ad ogni festa erano affisse rimembranze storiche, associandosi così religione, politica e moralità.
Con Tullo Ostilio la storia distaccasi dagli Dei, e si fa umana, forse ritraendo il tempo che la robustezza latina rivalse sopra la dominazione sacerdotale. Allora pertanto Orazio vincitore de’ Curiazj uccide la sorella, innamorata d’uno di questi, e il padre loro esercita il diritto patriarcale, dichiarando assolto il fratricida: Meto Fufezio, che stette ambiguo fra i Romani e i nemici, è squartato: Alba, distrutta dalla città figlia, cede a questa il primato che esercitava nella federazione italica. Dove già compare quel meraviglioso sistema di Roma d’affigliare i popoli forestieri nella sua cittadinanza, e mandar colonie fra’ conquistati, estendendo così la patria, che doveva poi abbracciare l’intero mondo. Ma Tullo Ostilio, che vorrebbe usurpare anche gli uffizj del sacerdozio e i riti fulgurali, rimane colpito da un fulmine o dalla gelosia sacerdotale.
ANCO MARZIO
Anco Marzio presenta fisonomia ambigua: conquista, e al tempo istesso fabbrica; apre il porto d’Ostia, sebbene gran tempo dopo troviamo i Romani sprovvisti di navi; pubblica i misteri della religione, eppure per secoli ancora stettero incomunicati ai plebei; stabilisce i Latini sull’Aventino, eppure gran tempo dopo passa la legge che distribuisce fra’ plebei le terre di quel colle. Che che ne sia, egli introduce a Roma famiglie etrusche; e queste vi fanno sentire la superiorità dell’ingegno sovra la forza, e un lucumone primeggia a segno, che riesce a succedergli col nome di Tarquinio Prisco.
TARQUINIO PRISCO
Il costui regno è un’età etrusca, sottentrata all’età mitologica e alla sabina. Il patriziato sacro dei lucumoni di Tarquinia educa il guerresco de’ Quiriti, e v’introduce arti ed agi di gente civile: a un regno di pochi anni, e la cui estensione si abbracciava con un giro d’occhio, s’attribuiscono larghi dominj, edifizj ai quali bastano appena molte generazioni: Tarquinio conquista Sabini, Latini, Etruschi; eppure, poco dopo, la sola Clusio mena Roma all’orlo della ruina, e dieci anni si richiedono per soggiogare Vejo. Tale contraddizione però non toglie di supporre che Tarquinio (nome generico degli Etruschi, della cui federazione forse facea parte anche Roma) abbia dato alla città col governo militare quella forza, che indarno egli erasi ingegnato d’attribuire all’Etruria, cioè l’unione, facendola capo d’una lega che abbracciò ben quarantasette città, forse quelle che prima teneansi colla distrutta Alba.
SERVIO TULLIO
Celio Vibenna, fuoruscito dall’Etruria con un codazzo di clienti e servi, aveva invaso Roma. Lui morto, Mastarna, generatogli da una schiava, ne raccolse la masnada, e tanto procedette che riuscì a farsi re di Roma col nome di Servio Tullio. Questo fatto, ignoto a Livio ed agli storici comuni, ci è conservato in un discorso che l’imperatore Claudio pronunziò nell’atto di ammettere in senato i Galli di Lione, e che in questa città si trovò scolpito in rame; tanto più degno di fede perchè sappiamo che Claudio aveva scritto la storia etrusca: ma, d’altra parte, possiamo affidarci a un episodio che mal si connette col resto?
Sia comunque, Mastarna o Servio ci rappresenta una rivoluzione in favore della timocrazia, o, come diremmo oggi, dell’aristocrazia pecuniaria, introducendo la costituzione censuaria dove gli uomini son valutati a denaro, siano originarj od avveniticci. Le genti successivamente venute si erano accasate in luoghi distinti: i seguaci di Romolo sul Palatino, i Sabini di Tazio sul Campidoglio e sul Quirinale, sotto Servio i Latini sull’Aventino, i plebei sull’Esquilino, gli Albani sul Celio. Della piena cittadinanza però non partecipavano se non le tre primitive tribù gentilizie, fin quando da Servio furono surrogate le quattro tribù topiche, denominate secondo il luogo che abitavano in città, la Palatina, la Esquilina, la Suburrana, la Collina; in esse rimaneano i nullapossidenti e gli artefici, mentre i proprietarj abitavano sui proprj fondi alla campagna, ripartita pur essa in tredici tribù rustiche. Con ciò la distinzione di Latini, Etruschi, Sabini restava assorta nell’unica nazione romana.
TARQUINIO IL SUPERBO
A Servio la tradizione fece merito di tutti i vantaggi acquistati dalla plebe nel decorso di secoli: ricomprava i debitori caduti schiavi, spegneva i debiti, spartiva le terre fra’ plebei, adunava i Latini sull’Aventino, monte plebeo, non chiuso fra le auspicate e patrizie mura di Roma. La figlia Tullia sposata a Tarquinio, e che, impaziente di regnare, trama, fa uccidere il padre, e col proprio carro passa sul cadavere di lui, indicherebbe gli aristocratici, che, per distruggere le franchigie largheggiate alla plebe da Servio, dan mano ai lucumoni etruschi. Questi, sotto il nome di Tarquinio Superbo, tornano a dominare in Roma senz’avere il consenso delle curie, ed uccidono la libertà, opprimendo del pari i nobili Sabini ed i plebei Latini, e ripristinando le prigioni feudali.
Coi lucumoni ricompajono i riti e le divinazioni etrusche e il linguaggio simbolico. Tanaquilla, moglie di Tarquinio Prisco, era una specie di maga; profetizzava, incantava; vedendo un’aquila che leva il berretto di capo a suo marito, vaticina ch’esso diverrà re. Ad Accio Nevio, insigne per augurj, chiese Tarquinio se fosse possibile ciò ch’egli avea pensato; e avuto il sì, disse pensava di tagliare una cote col rasojo; e l’augure lo fece. Il figlio di Tarquinio Superbo, presa per inganno Gabio[166], della cui grandezza sono ancor testimonio le mura del santuario di Giunone, manda a chiedere al padre in che modo tener soggetta quella città: e Tarquinio non risponde, ma passeggiando pel giardino, fa saltare il capo de’ papaveri più alti, e comanda agli ambasciatori, riferiscano a suo figlio ciò che hanno veduto. Allora dal Campidoglio vengono sbandite le antiche divinità, riservandolo soltanto al Tina o Giove etrusco; Tarquinio stesso sul colle Albano sacrifica il toro nelle ferie Latine[167]. Una serpe esce dall’altare della reggia, e toglie le viscere delle vittime, e si spegne il fuoco sacro; pei quali portenti si va a consultare l’oracolo di Delfo.
E d’oracoli abbondava la prisca Italia, come quelli di Albunea e di Tivoli; ma perdettero importanza dacchè si volle dedurre ogni cosa dalla Grecia e dall’Asia Minore, dove pure conservavansi profezie di Museo, di Bacide, di Tellia, delle Sibille: e forse ogni città ne possedeva di proprie, e le traevano seco nelle migrazioni. Una colonia di Cuma nell’Eolide portò a Cuma di Campania quelle della Sibilla Cumana, la quale venne ad offrire i suoi libri a Tarquinio, che, dopo averla più volte rejetta, li comprò, e li fece riporre nel tempio perchè fossero consultati nelle gravi contingenze dello Stato[168].
CACCIATA DEI RE
Le tribù primitive, o per onte private, o perchè gli stranieri conculcassero i loro privilegi, insorsero a danno de’ Tarquinj, e gli espulsero abolendo il regno sacerdotale. Per sostenere i suoi nazionali, Porsena, lare di Clusio, cavalcò addosso a Roma, la prese, e la trattò con tale durezza, da vietare sino il ferro per altro uso che per l’agricoltura[169]. Non sappiamo nè quanto durasse il dominio militare, nè come se ne riscattassero i Romani; fatto è che, dopo la battaglia al lago Regillo, nella quale periva il fiore de’ prischi eroi, i patrizj posero a capo del governo due consoli annui tolti dalla loro classe.
I Tarquinj personificherebbero dunque una dominazione di Etruschi; e con essi cade la costoro superiorità, nè Porsena riesce a restaurarla, perocchè vediamo i re andare in esiglio. Cessa allora l’influenza etrusca, e ringagliardisce il carattere nazionale; laonde i Romani non riescono imitatori, ma procedono con uno sviluppo regolare.
CAPITOLO VII.
Governo patrizio, e sue trasformazioni fino alla democrazia.
CESSAZIONE DELL’INFLUENZA ETRUSCA
A rettamente intendere il passaggio dalla Roma regia alla consolare, nuoce la confusa interpretazione delle voci di re, popolo, repubblica, libertà costituzionale. Nè assoluti nè ereditarj erano quei re, bensì imbrigliati dal senato, dai patrizj, dal comune, dalle istituzioni religiose e naturali, dal legame delle clientele. La libertà dell’uomo rimaneva angustiata ne’ governi teocratici dell’Asia, ove tutto imponendosi come volontà di Dio, s’escludeva la discussione, e si teneva empietà il resistere e il disobbedire. Ma già i patrizj etruschi si discernevano dagli asiatici pel doppio carattere di sacerdoti e di guerrieri. Il Romano procede più innanzi; sommette la religione allo Stato, e sceverandosi dalla teocrazia, costituisce un corpo di cittadini, padri e fondatori della patria, i quali scelgonsi un capo ( rex ) affinchè li presieda quando essi deliberano, li meni alla battaglia, renda giustizia. Il patrizio medesimo può esser re, generale e pontefice: come re aduna il senato e il popolo, sentenzia anche de’ patrizj, ma con appello al popolo, cioè al Comune dei loro pari[170], e dispone del territorio dei vinti.
Per popolo s’intendono le tre tribù, in cui riconoscemmo la forma consueta alle società antiche, costituite da comunanza d’origine. Due erano dapprima, dei Ramnesi e dei Tiziesi, vale a dire de’ Romani e de’ Sabini: Tullo Ostilio v’aggiunse la terza dei Luceri quando trasferì i vinti Albani sul monte Celio. L’accomunamento degli uomini estendevasi anche agli Dei, che furono accettati insieme; al Flamine diale e marziale si aggiunse il quirinale; le tre Vestali si crebbero a sei, dette delle minori genti, che era pure il titolo dei cento nuovi senatori aggiunti ai primi ducento, e che votavano con questi. Di siffatta importante innovazione si fa autore Tarquinio Prisco[171].
TRIBÙ
Ciascuna tribù divideasi in dieci curie, vorrei quasi dire parrochie, che probabilmente rappresentavano le genti diverse di cui componevasi la tribù. Però fra tutta una gente non sussisteva necessario vincolo di parentela e derivazione, siccome non sussiste da noi fra quelli che portano lo stesso cognome; e nella medesima gente alcuni erano nobili, altri plebei, sorti da matrimonj disuguali. Succedevano ai co-gentili che morissero intestati; attribuivano il loro nome agli affrancati, i quali rimanevano clienti.
CURIE
Un culto comune univa tutta una gente, come i Nauzj quel di Minerva, i Fabj quel di Sanco, i Fontejo quel di Fonto figlio di Giano in sul Gianicolo, di Ercole i Potizj, di Venere i Giulj, del Sole la sabina gente Ausalia; gli Orazj l’espiazione d’una sorella assassinata. Pertanto ciascuna curia aveva particolari giorni solenni, e sacrifizj a cui tutti i contribuli doveano assistere, seguiti da pasti comuni; e popolarmente eleggevansi un augure e un curione, preposto al culto.
COMIZJ
In principio due foggie di adunanze s’aveano: i comizj curiati ed il senato. Ne’ primi si radunava ciascuna gente, e vi aveano voto i patrizj delle trenta curie. Da ciascuna tribù, curia e gente si scelgono trecento padri coscritti, formanti la curia maggiore, il senato; autorità legislativa, che poi si mantenne per qualunque mutare di governo.
Le leggi riguardavano unicamente gli accomunati, non i forestieri; laonde ai cittadini di terre alleate era necessario un patrono per aver protezione dalle leggi vivendo, ed ottenere giustizia davanti ai tribunali di Roma. Di qualche cittadino pertanto si rendevano essi clienti; il che faceano pure antichi proprietarj sottomessi, e delinquenti, e servi fuggiaschi, e debitori, venuti come ad asilo presso i lari d’un nobile. Il patronato passava per eredità, e il cliente doveva obbedienza e amorevolezza al patrono, concorrere a pagare le ammende per esso, la dote alle figlie, il riscatto se prigioniero; non poteva citarlo nè esserne citato in giudizio, nè l’uno deporre testimonianza contro dell’altro. Al cliente mancava roba o professione? il patrono gli assegnava casa e due jugeri di terreno a precario[172]: moriva intestato? l’eredità di lui cadeva al patrono.
Roma, non che escludesse gli elementi stranieri come faceano gli Ebrei e le altre società orientali, tendeva ad assimilarseli, nel che consistette la sua missione provvidenziale. Onde la leggenda riferiva che i primi venuti con Romolo portarono ciascuno un pugno della terra patria, e la deposero nel comizio entro la fossa consacrata[173], quasi a costituirsi anche materialmente una patria comune. I coltivatori de’ campi vicini, non reggendo alle nimicizie di essa, vengono a chiedervi la protezione di qualche capocasa, e vi dimorano senza partecipare alle ragioni civili, come sarebbero nozze, podestà patria, suità, agnazione, gentilità, successioni legittime, testamenti e tutele.
PLEBE
Conquistato un paese, il terreno diventa di pubblico dominio: e una parte resta al Comune, cioè a godimento de’ patrizj e de’ loro vassalli; una parte al re, che ne assegna un terzo agli antichi proprietarj. Questi aggregati o vinti formano la plebe: condotti a Roma, ne diventano inquilini, ma senza voce perchè non ascritti alle curie, che sole votano. Perciò anche fra’ plebei trovansi casate illustri e laute fortune; nè si vogliono confondere coi clienti o coi vassalli, che solamente tardi entrarono nella plebe man mano che le famiglie si spegnevano, e che progrediva la libertà.
COMIZJ TRIBUTI
In siffatti governi aristocratici, collo estinguersi delle famiglie la potenza si concentra in pochi, i quali governano a proprio vantaggio. Per tener questi in briglia, e per diminuire gli sconci di due popoli conviventi eppure distinti, i re favorivano il Comune plebeo, da cui si levava la maggior parte dell’esercito, e che già sotto Anco Marzio troviamo sussistere come porzione libera e numerosa della nazione. Le barriere dianzi insormontabili si vennero abbassando; e un numero di plebei introdotto fra i patrizj scemati di numero, diede nerbo a questi, mentre lo sminuiva alla plebe. La prima riformagione a favore della plebe fu quella che testè abbiamo accennata di Tarquinio Prisco, che raddoppiò le centurie dei cavalieri, i vuoti che s’erano fatti nelle curie empiendo con illustri famiglie plebee, mentre i patrizj duravano ripartiti per tribù di famiglie. Ma d’una riforma radicale si fece autore Servio Tullio introducendo i plebei come membri della città, mediante il sistema amministrativo delle tribù, ed il militare e politico delle centurie. Ripartì egli la plebe stessa per tribù, non più d’origine ma di luogo, inserendovi ogni facoltoso non patrizio, e assegnando a ciascuna magistrati e feste ed esattori. Per tale disciplina, accanto al popolo de’ patrizj si collocarono trenta comuni de’ plebei, che radunavansi in comizj tributi. Forse il patrizio aggregato alla tribù conservava l’antica influenza, ed egli solo veniva eletto alle magistrature come pratico; ma intanto trovavasi accomunato col plebeo in divisioni territoriali, dove nulla più contava l’origine.
COMIZJ CENTURIATI
Acciò poi che tutti concorressero agli ordinamenti fatti pel comun bene, Servio distribuì patrizj, clienti e plebei di città e di campagna in centurie, le quali, a proporzione del censo denunciato con giuramento, partecipassero al suffragio ne’ comizj centuriati. Pertanto, conservate le sei centurie de’ cavalieri, ne formò dodici altre di plebei, abbastanza facoltosi per potere in guerra equipaggiarsi a proprie spese: la residua plebe fu distinta in cinque classi, e sistemata essa pure in centurie. Organamento fondamentale, che veniva a fondere le famiglie patrizie col Comune plebeo, per assicurare di quest’ultimo la libertà e i diritti, senza però togliere il governo ai patrizj. Aveasi a votare? il cliente non era più contato come una voce sola col suo patrono, ma si univa alla propria centuria; cittadino della piazza anch’egli, non più uomo dell’atrio[174].
GOVERNO ARISTOCRATICO
Vennero così censettanta centurie di plebei, dodici di cavalieri plebei, sei di cavalieri patrizj. Le centurie si suddividevano in giovani dai diciassette ai quarantacinque anni, formanti l’esercito mobile; e seniori dai quarantasei ai sessanta, esercito di riserva pel caso di estremi pericoli. Da questa sistemazione militare risultavano dunque quaranta centurie di giovani della prima classe, trenta delle quali formavano la divisione detta dei Principi o Classici, perchè, essendo ricchi, poteano provvedersi di belle e robuste armi; e dieci quella de’ Triarj: altrettante centurie di Seniori. La seconda, la terza e la quarta classe ne davano dieci ciascuna per gli Astati, dieci pei triarj; la quinta ne somministrava trenta di Accensi, dall’armatura leggera, schierate in battaglioni di tre di fronte e dieci d’altezza. Siffattamente restava costituita la legione di quattromila cinquecento uomini, divisi in cinque coorti da trenta centurie ciascuna, ed ogni centuria da trenta uomini: nelle prime due coorti i principi e gli astati, detti antesignani perchè messi davanti alla bandiera; poi i triarj e gli accensi. Adunque chi più possedeva godea maggior dose di diritti civili, ma sopportava pesi maggiori, vuoi nel tributo, vuoi nell’esercito.
Pei comizj si raccoglievano nel campo di Marte le centurie, ciascuna sotto al proprio centurione o capitano; udivano dal senato proporsi le elezioni o le leggi; ed esse le poteano approvare o respingere, ma nè proporre nè discutere. Qualora approvassero, faceva ancora mestieri del consenso delle curie. Donde siete chiari che il predominio restava ai patrizj, giacchè nel senato possedeano la maggioranza de’ voti, e ne’ comizj curiati poteano disdire quel che fosse stabilito nei centuriati, soverchiando i plebei mediante la loro concordia. Soli in pieno possesso del diritto divino ed umano, essi garantivano per sè soli la libertà personale e la legalità del possedere: e poichè ne’ servigi si valeano degli schiavi, rimaneva intercettata a’ plebei la via d’acquistar ricchezze e importanza mediante l’industria.
Forse però de’ plebei si valsero i patrizj per infrangere la monarchia sacerdotale[175]: ma colla cacciata di Tarquinio il Superbo (trama de’ patrizj e insurrezione contro un capo, in tutt’altro senso che di libertà popolare) ai plebei più non restò veruno schermo contro l’arbitrio de’ forti; esclusi dal senato, non protetti più dal sacerdozio nè elevati dai re; e tutti i diritti concessi al primo tempo consolare, compresa la provocazione di Valerio Publicola, o vogliam dire l’appello al popolo, riduconsi, chi ben veda, a privilegio de’ patrizj. Quella aggregazione di genti d’ogni stirpe che a man salva erasi effettuata sotto i re, si trovò limitata dalla gelosia aristocratica, risoluta a mantenere la città in istato mediocre, e ridurre la plebe alla condizione dei clienti etruschi, per uscir dalla quale dovette lottare due secoli. Attaccatasi dunque a conservare i confini sia dei possessi, sia degli ordini, l’aristocrazia si munisce con riti, con auspizj, con formole d’una impreteribile precisione: e poichè la plebe non conosce quelle parole legali, quei riti che sono indispensabili a far sacri i contratti, non può avere legittimità di connubj, di famiglia, di possedimenti. A soli aristocratici spetta il diritto della lancia ( jus quiritium ); soli essi possedono il territorio legale, scompartito colle sacre contemplazioni e determinato dalle tombe, fuor del cui limite la proprietà sussiste, ma non conferisce diritti civili, giacchè il cittadino vero è quel solo che possiede entro i limiti cerimoniali.
Eppure la religione cessò di essere soltanto negozio sacerdotale, ed è divenuta politica: senza bisogno di sacerdoti, il patrizio stesso esercita i riti privati; se maledice uno ( sacer esto ), morrà; ai sacerdoti etruschi, confinati nel tempio senza attribuzioni governative, si volge egli per consulti, ma all’uopo sa contraddirli, ed anche castigati d’impostura[176].
La famiglia costituisce un legame politico e religioso di tale severità, quale fra nessun altro popolo si trova[177]. Il padre solo è indipendente ( sui juris ), e despoto sui famigliari; può vendere, battere, uccidere gli schiavi, i famuli, i figliuoli; la donna si rende infedele? o bee vino? e’ può ucciderla; può non raccogliere il fanciullo nato mostruoso, cioè abbandonarlo a morire; ogni altro figlio può vendere fin tre volte; può strapparlo giù dalla sedia curule, dalla tribuna, dal carro trionfale, e giudicarlo nella propria casa; l’emancipazione è castigo, giacchè il figlio non eredita se non in quanto è suo del padre. Che non potrà un tal padre sopra le parentele, i clienti, i coloni cui distribuisce le sue terre a lavorare? Tutti questi nella città non hanno nè rappresentanza nè ragioni, essendo manchevoli del diritto augurale, senza cui verun altro se ne dà: rappresentanza e nome non ha se non il capocasa, il cui diritto imprescrittibile si estende sulla terra, sui beni, sull’eredità del nemico, sopra del quale possiede autorità eterna ( adversus hostem æterna auctoritas esto ). Contro lui nessun’azione è data ai dipendenti, nè egli può essere punito: misfece? la curia, cioè i suoi pari dichiarano soltanto che ha operato male ( improbe factum ).
In siffatta posizione di cose, i patrizj scrupoleggeranno la parola della legge anzichè lo spirito, il senso materiale della voce anzichè il vero[178]; osserveranno gelosi il giuramento; faranno camminare le leggi per fatti, anche dove riescono dure e spietate, come usa fin ad oggi la ragione di Stato, che considera la salute pubblica per legge suprema.
AMPLIAZIONE PLEBEA
Accanto a questi patrizj che rappresentano l’elemento orientale, l’unità, l’esclusione, la nazionale individualità, i plebei rappresentano il genio europeo, l’ampliazione, il progresso, l’aggregamento; e il contrasto delle due forze, l’una conservatrice, l’altra progressiva, forma il carattere e la gloria di Roma.
Per plebe non s’intenda quella ciurma delle grandi città odierne, volubile stromento de’ demagoghi, che soffre i più gravi torti senza tampoco avvedersene, poi a volte s’irrita per un nulla, e grida «Viva la mia morte, e muoja la mia vita »; terribile nel giorno della insurrezione, ben tosto baloccata dagli scaltri, che non solo le fraudano le domande, ma ne profittano per serrarle il morso. Qui la plebe era un popolo dove entravano famiglie ricche, persone assennate, e al quale s’aggregavano anche antichi patrizj, come i Virginj, i Genuzj, i Menj, i Melj, gli Oppj, gli Ottavj. La lotta dunque non era fuor di proporzioni; la ragione potea contendere colla legalità: senza il patriziato Roma avrebbe perduta l’originalità, senza la plebe non avrebbe acquistato il mondo.
CENSO
Il territorio di Roma stendeasi appena otto chilometri fuori della città, fra Crustumeria ed Ostia, talchè i consoli, quando cacciarono i Latini, imposero non s’accostassero a più di cinque miglia da Roma; e fin al tempo di Strabone additavasi a tale distanza un luogo detto Festi, antico limite del territorio. Si estese poi, ma per lunga pezza non oltrepassò Tivoli, Gabio, Lanuvio, Tusculo, Ardea, Ostia verso i Latini; verso i Sabini, Fidene e Collazia. Su questo spazio i Romani ci appajono piuttosto un campo che un popolo, disposti militarmente. La prima numerazione sotto Romolo dava tremila uomini e trecento cavalieri; quella al fine del suo regno, quarantaseimila dei primi e circa mille degli altri. Quando il numero de’ cittadini era il fondamento de’ suffragi, importava conoscere lo stato civile: e dai primordj, o, come si dice, da Servio fu istituito che ad ogni nascita si deponesse una moneta nel tempio di Giunone Lucina, ad ogni morte una in quel di Libitina, una in quel della dea Gioventa ad ogni giovane che prendesse la toga virile. Nell’età dei consoli, da seicentomila abitanti, oltre gli schiavi, dimoravano sul piccolo territorio[179], ed a ciascuno erano stati assegnati da Romolo due jugeri[180], che dopo la repubblica crebbero a sette.
Senz’altro mezzo di guadagno che i campi e il bottinare, trovavansi cinti da nemici, che nelle frequenti guerre ne saccheggiavano la capanna e il terreno. In tali guasti il plebeo, che non potea colle arti sordide procacciarsi il sostentamento della famiglia, contraeva debiti col patrizio, promettendo spegnerli la prima volta che fosse condotto in corsa sul territorio nemico. Se l’occasione non nascesse o non bastasse, egli era ridotto a ipotecare il camperello, sul quale il patrizio gli prestava sino al dodici per cento.
AVIDITÀ PATRIZIA
Codesti patrizj, che nelle scuole ci sono dati per modello di disinteresse, agognavano sempre maggior terreno; quelli ch’erano venuti da altri paesi conservavano i possessi nella patria; altri li compravano da liberi impoveriti: tanto che nel 387 di Roma fu già necessaria una prammatica che vietava di possedere oltre cinquecento jugeri. Più si smaniò di avere da che, coi comizj centuriati, il potere politico non si misurò più dalla nobiltà, ma dai possessi; e ad acquistarne non aprivasi altra via che o far guerra o spogliarne il plebeo. Questo in fatti a breve andare si vedeva assorbito dal debito il campo domestico, e più non potea rispondere al creditore che colla persona propria, cioè coll’intera famiglia ( nexus )[181]. «Se scade il termine, come sarà trattato il debitore? citalo in giustizia: se non compare, prendi testimonj, e costringilo: se età o malattia il ritengono, procacciagli un cavallo, non la lettiga. Il ricco garantisca pel ricco; pel povero, chi vuole. Confessato il debito, giudicata la istanza, trenta giorni di proroga; poi si prenda e tragga al giudice. Se non soddisfa, nè alcuno risponde per lui, il creditore se lo conduca, l’attacchi con coreggie o catene, non pesanti più di quindici libbre. Il prigioniero viva del suo, e dategli una libbra di farina o più se volete. Se non s’accomoda, tenetelo in arresto sessanta giorni; e per tre giorni di mercato presentatelo alla giustizia, pubblicando il suo debito. Alla terza pubblicazione, se i creditori sono molti, lo taglino a pezzi, se piace: oppure possono venderlo di là dal Tevere»[182].
I NEXI
Pertanto all’aggravarsi d’una carestia, altri vendevano se stessi, altri migravano, o gettavansi nel fiume: quest’era la libertà regalata da Bruto. Qualora l’oppressione giunga all’eccesso, che partito rimane? o, come i Negri d’America, avventar le fiamme alle case degli atroci padroni; o conoscendo l’onnipotenza dell’unione, presentare una compatta resistenza, e passo passo acquistare il diritto.—Opera italiana.
Una volta ecco trascinasi sulla piazza un vecchio pezzente, irto e sformato quasi una belva, eppure coperto il petto di cicatrici, riportate in ventotto onorevoli battaglie, e colle insegne meritate da lui e da’ suoi maggiori; tutti lo riconoscono, gli si serrano attorno, interrogando perchè tanto sopraffannato; ed egli narra:—«Nelle guerre coi Sabini ebbi arsa la casa, rapiti gli armenti; intanto crescendo l’imposizione, carico di debiti, accumulate le usure, ho dovuto vendere il podere; poi fui messo in arresto da un creditore, battuto a verghe, menato a lavori forzati, anzi a vera carnificina».
I plebei, per un’indignazione avvivata dall’interesse, levano rumore, e gridano:—Come? noi, vincitori di fuori, cosa siamo in casa? servi, indebitati, prigioni; ecco i premj del valore, ecco la gloria d’esser romani».
Il terribile accordo popolare sgomenta i senatori, che fuggono: i plebei presentansi al console, mostrando i lividi delle catene e delle battiture, e domandano si convochi l’assemblea; e non comparendovi i senatori per paura, i plebei delusi infuriano. Atto Clauso sabino erasi da Cure mutato a Roma con tremila clienti, ottenendo venticinque jugeri di terreno per sè e due per ciascuno de’ suoi; e aggregato fra i patrizj col nome di 504 Appio Claudio, ne divenne corifeo, e consigliava a domare i plebei colle bastonate; il suo collega Servilio invece raccomandava la condiscendenza; ma nè essi, nè Valerio Publicola, eletto dittatore, riescono a chetare.
RITIRATA SUL MONTE SACRO
I patrizj ascrissero a fortuna un’irruzione dei Volsci, contro de’ quali mandano a campo la plebe, promettendo sospendere le esecuzioni contro i debitori che si arrolassero. I plebei si lasciano indurre, giurano e vanno alla spedizione: poi accortisi del laccio, per eludere il giuramento dato di rimaner fedeli ai capi propongono di trucidare i consoli che l’aveano ricevuto; ma alcuno più mite li consiglia di levar le aquile cui avevano promesso di non abbandonare, e vanno a piantarle sul monte, 493 che da ciò prese il nome di Sacro, e quivi accampati tengonsi minacciosamente. Menenio Agrippa viene per rappattumarli, esponendo ad essi la necessità d’un governo e del contribuire tutti acciocchè quello si trovi in forza; e lo esprime colla favoletta delle membra del corpo, le quali, lagnandosi perchè il ventre stesse indarno mentre le altre tutte lavoravano, proposero non prestargli più il loro servigio; ma la debolezza del ventre fu debolezza e morte dell’intero corpo. La favola fu compresa da’ plebei, ma non si lasciavano persuadere che questo ventre dovess’essere arbitro dell’intero corpo, e men ciechi che non in secoli illuminati, non vollero desistere finchè non avessero stipulati buoni patti; e a quella guisa che il Comune dei nobili avea due consoli, così essi vollero due Tribuni, che tutelassero il Comune plebeo[183].
RITIRATA SUL MONTE SACRO
Senza alcun distintivo, nè tampoco tenuti in conto di magistrati, da principio i tribuni non godeano altro diritto che di intervenire al senato, talvolta relegati nel vestibolo, e per nulla partecipi del governo: ma rappresentando la plebe e proteggendone le franchigie, essendo dichiarati sacri per modo, che i beni di chi gli offendesse erano confiscati pel tempio di Cerere, e potendo opporre il veto alle decisioni del senato, mediante questa libertà negativa, sublime invenzione del senso pratico e dell’eminente istinto politico de’ Romani, salirono passo passo a grande potenza, colla quale giovarono alla libertà più che non le eleganti legislazioni di Grecia o i cianceri parlamenti moderni, e crearono il vero popolo restituendo al plebeo la dignità d’uomo. Gran diminuzione recò alla podestà dei consoli (riflette Cicerone) l’esservi un magistrato che da essi non dipendeva, e nel quale trovavano appoggio magistrati e cittadini che ricusassero obbedire ai consoli.
Libertà vera non si dà se non quando sia disciplinata; ed ecco che la romana mette radice appunto perchè rende regolare e legittima la sua resistenza. E subito s’accorsero i popolani dell’importanza di quei patti, onde li legalizzarono con cerimonie solenni: sacre furono intitolate quelle leggi, sacro il monte, sul quale fu alzata un’ara a Giove tonante.
TRIBUNI
I patrizj sacerdotali aveano svagala e indocilita la plebe coll’obbligarla a fabbriche; i patrizj guerreschi tentarono altrettanto col menarla a battaglie. Di qui le interminabili guerre, di mezzo alle quali tratto tratto i plebei levavano la voce a cercar l’ agro, col qual nome intendevasi dai poveri il pane, dai ricchi i diritti, i quali andavano annessi, come ripetemmo, al territorio auspicato, circostante a Roma. Il senato offriva terre lontane rapite ai vinti, e che essendo fuori della linea sacra, non davano la partecipazione agli auspizj nè la piena cittadinanza. I poveri di fatto v’andavano in colonie, le quali estesero e protessero la romana potenza. Volevasi mandare una colonia? il popolo raccolto sceglieva le famiglie, alle quali si attribuivano particelle del territorio conquistato; e con militare ordinanza vi erano guidati da tre triumviri. Fermatisi nel posto assegnato ritualmente dagli auguri, scavavano una fossa, nel cui fondo deponevano terra e frutti portati dalla patria; indi con un aratro dal vomere di rame, strascinalo da un bue e da una giovenca, tracciavano il circuito della futura città, a norma degli auspizj. Venivano dietro i coloni, profondando la fossa e col cavaticcio alzando un terrapieno; si abbattevano i termini e i sepolcri dei prischi possessori; infine la giovenca e il bue s’immolavano a quella divinità che la colonia sceglieva a speciale patrona.
COLONIE
Il senato avea cura che la colonia in nessuna apparenza differisse dalla madrepatria; i duumviri tenevano luogo dei consoli, i quinquennali de’ censori, i decurioni de’ pretori; governavasi in comune plebeo: ma in realtà le colonie non erano destinate che a semenzajo di soldati: Roma sola arbitra della guerra. Nè, come le greche, rendevansi indipendenti man mano che si sentissero robuste, ma erano puramente un’estensione della metropoli: vedeano sorgersi accanto nuovi stranieri, adottati col nome di municipj, con fasto minore e minor dipendenza; ma e colonie e municipj rimanevano agglomerati intorno all’unità di Roma, sola sovrana, come il patriarca in mezzo alla famiglia[184].
LEGGE AGRARIA
Questa deportazione mascherata, se soddisfaceva ai più poveri, non illudeva i veggenti tra’ plebei, i quali «preferendo domandar terre a Roma che possederne ad Anzio» (Livio), invocavano la legge agraria.
Comprendeva questa due proposizioni distinte: la prima di mettere i plebei a parte del territorio quiritario, fonte del pieno diritto civile[185]; la seconda di far che le terre, conquistate col sangue di tutto il popolo, e usurpate la miglior parte dai patrizj, i quali cessando di pagare l’imposto canone le consideravano per proprietà allodiali anzichè allivellate, si vendessero o affittassero con equità fra tutti.
CORIOLANO
Il senato, abile come i corpi costituiti e ristretti, traeva profitto dalla docilità della plebe in tempo di sventura e dalla sua sconsideratezza in tempo di prosperità: ma la plebe ritornava colla suprema virtù dei deboli, la perseveranza. Nojato da queste pretensioni, un giovane patrizio che avea tratto il soprannome glorioso dalla vinta città di Coriolo, propone d’affamare il vulgo col non cercare, nella regnante carestia, grani dalla Sicilia, 491 e costringerlo così a tacere. La proposta si divulga; la plebe, che su questo punto non intende ragioni, monta in furore: i tribuni raccolgono i comizj per tribù, e condannano Coriolano all’esiglio. Egli è costretto cedere alla nuova potenza popolare, ma ne fa vendetta col guidare le armi dei Volsci contro la patria; e Roma periva se Veturia madre e Volumnia moglie di Coriolano non lo avessero indotto a cessare le armi e rientrare in città.
Ma il colpo è ferito: i tribuni hanno conosciuto la propria potenza, consistente nell’agitazione popolare; il patriziato non è più inviolabile; e accanto alle assemblee per curie sorgono i comizj per tribù, dove si giudica de’ patrizj stessi. I tribuni li convocano, e vi fanno proposizioni: primo passo a ottenere che anche la plebe s’ingerisca nella legislazione.
Davanti ad essi comizj furono pertanto citati coloro che si opponevano alla legge agraria, Tito Menenio, Spurio Servilio, e perfino i consoli Furio e Manlio: ma di tale procedimento si sgomentarono i patrizj, e nel giorno del loro giudizio il tribuno Genuzio fu trovato morto nel suo letto. 472 Con arti siffatte i patrizj toglievano sovente di mezzo i più fermi oppositori.
APPIO CLAUDIO
Percosso il capo, stavano per isparpagliarsi i plebei e rassegnarsi al giogo, lasciandosi trascinare alla guerra, che dà sempre vigore alla tirannia; quando il plebeo Valerio ricusa il suo nome alla coscrizione. Un primo esempio basta spesso a grandi cose, e la plebe il seconda, lo nomina tribuno con Letorio, il quale diceva:—Io non so parlare; ma quel che una volta ho detto, so farlo. Domani adunatevi; e morrò sotto ai vostri occhi, o farò passare la legge». Ma i patrizj compajono all’adunanza cinti dai loro clienti, e l’inflessibile Appio Claudio fa respingere ancora la legge agraria. La plebe che fa? si lascia sconfiggere dai nemici, e sopporta la decimazione cui è condannata; ma Appio citato ai comizj tributi, non si sottrae alla sentenza del comune plebeo che col lasciarsi morir di fame. 470 La plebe stessa lo ossequiò a grand’onore, ammirando la fermezza, sebbene adoprata a suo danno.
A che dunque si riducevano le pretensioni di questa plebe, che voi, o maestri, ci dipingete come riottosa avversaria de’ prischi eroi? A domandar di possedere e di aver nozze legittime e riconosciute come i nobili; e non già di potere sposarsi coi nobili, ma che i loro matrimonj non fossero semplici concubinati, e che i generali fossero non soltanto uomini[186] ma cittadini. I patrizj, al contrario, arrogando a sè soli i privilegi, facevano di tanto in tanto eleggere un dittatore, autorità suprema e dispotica che sospendeva le altre tutte, perfino la tribunizia; o mandavano il plebeo in guerra sotto l’assoluta disciplina; o quando nel fôro o nelle adunanze avesse gridato forte, lo punivano davanti ai tribunali, de’ quali restava ancora ad essi l’arbitrio. Il tribuno Lucio Icilio 438 ottenne che l’Aventino fosse abbandonato ai plebei, i quali vi ergessero le proprie abitazioni, quasi in una fortezza opposta a quella dei nobili sul Campidoglio; e in tale occasione introdottosi in senato, prese la parola, e cominciò il diritto che poi i tribuni si assicurarono fin di convocare quella assemblea.
DENTATO
Nè per questo la plebe dimenticavasi delle promesse; e confidente nella propria ragione, tornava a chiedere i diritti annessi ai poderi, e che si togliesse l’arbitrio ai magistrati coll’unificare la giurisdizione plebea e la patrizia, e stabilire una legge uniforme e resa pubblica. Alla perseveranza è serbata la vittoria. Sicinio Dentato, eroe in cenventi battaglie per quarant’anni, carico il petto di quarantacinque ferite, donato di quattordici corone civiche, tre murali, una ossidionale, ottantatre collane, censessanta braccialetti d’oro, diciotto aste, venticinque gualdrappe, 451 venne tribuno, e ottenne quel che da dieci anni si eludeva, cioè che, sospeso il consolato, fosse demandata a dieci personaggi l’autorità di formar leggi e di metterle in atto; due funzioni che l’antichità non soleva disgiungere.
I DECEMVIRI
La legislazione fu compiuta in dieci tavole; sentendovi però delle mancanze, onde formarne due altre si nominarono per l’anno successivo nuovi decemviri; ma questi, ch’erano ligi ai patrizj e ispirati da Appio Claudio Crassino (famiglia ostinatamente avversa al popolo), abusano del potere assoluto per sopraffare ed eternarsi il comando; inviano a morte il prode Dentato; per libidine Appio insidia alla figlia del plebeo Virginio, il quale per camparle l’onore la uccide; corso al campo, eccita i soldati a vendicarla; e il sangue di una casta fonda la libertà popolana, come quello di un’altra avea fondato la libertà patrizia. I plebei, raccolti sull’Aventino, 449 rielessero i tribuni e i consoli, che resero forza ordinata la democrazia.
LE XII TAVOLE
L’opera dei decemviri fu il codice intitolato Leggi delle XII Tavole, nella cui imperativa brevità si compila il diritto privato de’ Romani, fuso con quello degli altri popoli accomunati. Antica fama dà che queste leggi fossero raccolte in Grecia: ma già Polibio impugnava la somiglianza di esse colle ateniesi, ravvicinandole piuttosto a quelle di Cartagine[187]; e i confronti accertano che, se pure i compilatori visitarono la Grecia propria e la Magna, nulla ne imitarono nelle disposizioni essenziali e caratteristiche del diritto personale, nè tampoco nelle forme di procedura; solo accordandosi in oggetti per natura conformi, quale sarebbe il sospendere i giudizj al tramonto del sole, o che posano sopra un diritto assai più esteso; per non dir nulla di alcune minuzie intorno all’uso della proprietà, per esempio la distanza fra le siepi e i fossi di confine, fra quelle e le piantagioni. Del resto non orma delle leggi religiose di Grecia, non della variante democrazia attica, nè delle immobili costituzioni dei Dorici. A ragione dunque nelle XII Tavole noi cercammo le vestigia dell’antico diritto italico; giacchè esse, come ogni altro codice, non piantavano ordinamenti nuovi, ma invigorivano o modificavano gli antecedenti e durarono qual fondamento del diritto civile sino a Giustiniano, appunto perchè riepilogavano le credenze e i costumi nazionali.
Roma, posta fra la rozzezza de’ montanari e la civiltà progredita degli Etruschi e dei Magni Greci, da un lato era spinta verso il procedimento di questa, dall’altro rattenuta nella stabilità dall’aristocrazia territoriale, conservatile delle costumanze avite. E chi analizzi le XII Tavole, arriva appunto a discendervi tre elementi: le vetuste consuetudini del Lazio, rigide e fiere; quelle dell’aristocrazia, eroicamente tiranna; e le libertà che i plebei reclamano e vengono ottenendo; e non che apparire formate d’un getto e con unica intenzione o scientifica o pratica, evidentemente rivelano il contrasto de’ patrizj che si ghermiscono all’antico privilegio aristocratico, e de’ plebei che cercano garanzie contro di quelli.
Tu ascolti i primi là dove è sancito che «il possesso di due anni dia ragione sopra un fondo; che la frattura d’un osso si compensi con trecento assi; che matrimonio non si leghi fra patrizj e plebei; pena la morte contro gli attruppamenti notturni, o a chi farà incanti e malefizj, od avveleni; l’autore di canzoni infamatorie perisca di bastonate». Colle succitate minaccie contro i debitori e colle formole impreteribili, l’ignorar le quali impedisce di ottenere giustizia, si accoppia la voce popolare, chiedente sicurezza: La legge sia immobile, universale, senza privilegi. Il patrono che attenta a danno del cliente sia maledetto. Nessuno potrà esser privato della libertà. Il potente che rompe un membro al plebeo paghi venticinque libbre di rame; se non si compone col ferito abbia luogo il talione: cencinquanta assi chi rompe la mascella allo schiavo. Non si esiga oltre il dodici per cento d’interesse, e l’usurajo scoperto restituisca il quadruplo. Al debitore non si metta più di quindici libbre di catena. Chi cade schiavo per debiti non resti infame. Chi depone il falso venga dirupato dalla Tarpeja. Il testimonio che ricusa attestare la validità del contratto è improbo, e non può testare. L’insolubile possa esser fatto a pezzi, ma solo dopo presentato tre volte al magistrato in giorno di fiera; e i figli di esso rimangano liberi». S’ha timore che il nobile si vendichi ne’ giudizj? ebbene, il delitto capitale non potrà esser giudicato che dal popolo nei comizj centuriati; e il giudice corrotto muoja. Perchè i nobili toglievano le bestie a titolo di sacrifizio, la legge permette di prendere pegno sopra chi piglia una vittima senza pagare, e sotto pena della doppia restituzione vieta di consacrare agli Dei un oggetto in contestazione.
Alla famiglia patriarcale e aristocratica tu vedi pian piano surrogarsi la libera. Il possesso d’una donna è dato non dalla compra, ma dal consenso, dal godimento, dalla possessione d’un anno, purchè non interrotta per tre notti; e la donna non rimane acquistata come cosa, ma in tutela, con libere nozze. Anche il figliuolo sarà emancipato con tre vendite, simulazione che attesta il servaggio, ma che lo rompe; e il figlio diventa esso pure padrefamiglia, nè più è collegato alla sua che da una specie di patronato, sinchè verrà tempo che la legge dovrà rammentare «anche il soldato esser tenuto a riguardi di pietà verso il genitore». Nè i beni saranno vincolati all’eredità necessaria, fatale, ma il padre testerà solennemente sui suoi e sulla tutela loro; cosicchè la proprietà, incatenata dapprima alla famiglia, si riduce mobile a seconda della individuale libertà, e bastano due anni a prescrivere il possesso dei fondi, uno al possesso dei mobili.
Le leggi suntuarie, che il Vico supporrebbe introdotte soltanto quando i Romani ebbero imparato il lusso dai Greci, a noi non ripugna attribuirle a quei primi tempi, ma solo per frenare l’opulenza della classe inferiore, mentre a pontefici, auguri, nobili, che rappresentano gli Dei, era lecito sfoggiare ne’ sacrifizj pubblici e privati e nelle pompe funeree. «Non foggiate il rogo colla scure. Ai funerali, tre vesti di lutto, tre bende di porpora, dieci flautisti. Non raccogliete le ceneri de’ morti per farne più tardi le esequie. Non corona al morto se non l’abbia guadagnata col valore o col danaro, come poteva avvenire nelle corse con cavalli proprj. Non fare più d’un funerale all’estinto; non oro sul cadavere; ma se ha denti legati con filo d’oro, non glieli strappare. I morti non si sepelliscano o brucino in città»; perchè i sepolcri attribuivano una proprietà inviolabile.
Il fatto capitale del diritto decemvirale è l’aver sancita l’eguaglianza civile, obbligando tutti alle medesime leggi pubbliche, patrizj o no, sacerdoti o magistrati: ma lunga stagione voleasi prima che la legge si riducesse un fatto. Imperocchè ancora nella famiglia rimaneva l’antica esclusione; ancora il patrizio solo manteneva il privilegio d’offrire i sacrifizj favorevoli e auspicati, e conosceva le formole, le quali erano ritenute indispensabili per autorare i giudizj.
LE FORMOLE
Anche il nostro fôro impone certe formalità, senza delle quali alcuni atti non sono legittimi, per esempio nel numero de’ testimonj, nella tripla promulgazione delle nozze, nella firma, nella data ed altre prescrizioni dei testamenti; e la mancanza di certi riti notarili, di certe impugnazioni avvocatesche invalida le ragioni. Fra i Romani erano assai più, eseguendosi una specie di scena per ciascun atto legale, con tradizioni simboliche, con finta violenza. Per esempio, nelle nozze davasi alla sposa un anello di ferro; nel riceverla alla casa maritale, se gliene porgevano le chiavi; le si toglievano quando la si rinviasse ripudiata. Si contraeva impegno collo stringere il pugno; conchiudevasi il mandato ( manu data ) col dare la mano; denunziavasi il turbato possesso col lanciare una pietra contro il muro illegalmente eretto; s’interrompeva la prescrizione col rompere un ramoscello. Chi reclamava un mobile, lo pigliava colla mano; per adire un’eredità, l’erede facea scoccar le dita ( digitis crepabat ); si rincariva ad un’asta pubblica col sollevare un dito. Il debitore che rassegnava i suoi beni ai creditori, toglievasi e deponeva l’anello d’oro: per annunziare che lo schiavo posto in vendita non si garantiva, gli si poneva il cappello. Disputavasi della possessione d’un fondo? i due contendenti prendevansi le mani, fingevano una specie di lotta, e poi andavano a cercar una zolla del fondo contrastato. A questa corsa si sostituirono due formole: il pretore pronunziava Inite viam, un terzo Redite viam, supponendo incominciato e finito il viaggio nella sala d’udienza[188]. Per assumere uno in testimonio gli si diceva, Licet antistari? se rispondeva Licet, gli si replicava Memento, toccandogli il lobo dell’orecchio. Il padrefamiglia emancipava un figlio dandogli uno schiaffo; rito rimastoci nella cresima.
Da principio era arcano anche il calendario, che segnava in quali giorni si potesse aver udienza, in quali no, in quali per metà: e il plebeo che gl’ignorava, alle evidenti sue prove, ai giusti lamenti trovavasi opposta l’eccezione legale insuperabile, e in conseguenza non poteva presentarsi al tribunale se non per via d’un patrono, il quale lo istruisse de’ giorni fasti e nefasti, e delle precise cerimonie, con cui soltanto poteva trovar ascolto ed aver ragione.
ROGAZIONE CANULEJA
Sebbene le XII Tavole quasi nulla sancissero riguardo allo Stato, la democrazia introdotta da esse nel diritto civile si comunicava al politico: furono ripristinati i tribuni, potenza non frenata se non dal dover essere tutti d’accordo; le leggi fatte dalla plebe raccolta nei comizj tributi ( plebiscita ) divennero obbligatorie anche pel nobile ( Quod tributim plebs jussisset, populum teneret ); nè vi erano necessarj gli auspicj. Passo importantissimo, dal quale, 414 essendo tribuno Canulejo, i plebei procedono a domandare la comunicazione dei matrimonj, giacchè, se alcuno sposasse una plebea, i figli seguivano la condizione materna, nè ereditavano ab intestato; e i patrizj dovettero concederla, restando da ciò abbattute le barriere fra le due classi. Poi chiesero di poter aspirare al consolato; e i patrizj, piuttosto che consentire, sospendono di eleggere i consoli, conferendo l’autorità giudiziale a pretori patrizj, il comando delle armi a tribuni militari, capi delle legioni, scelti fra nobili e plebei, non aventi diritto d’auspizj.
LICINIO STOLONE
Eppure per lungo tempo non vi furono eletti che patrizj, bastando ai più l’aver assicurato la proprietà e la persona. Questa però ogni dì trovavasi in pericolo; sempre nuovi debitori erano condotti nelle carceri private; la miseria non lasciava agio ai plebei di curarsi della pubblica cosa, e l’oligarchia stava per soffocar Roma in cuna, quando sorse il plebeo tribuno Cajo Licinio Stolone, uomo a torto svilito dalla storia, scritta da aristocrati o col loro spirito, il quale iniziò una rivoluzione incruenta, condotta per vie legali in modo da assodare la futura grandezza di Roma. 366 Propose egli una legge che mitigava la sorte dei debitori, annullando gl’interessi accumulati; un’altra che limitava a cinquecento jugeri la porzione individuale di dominio pubblico ( ager ), e il resto de’ campi avesse a distribuirsi ai poveri; una terza legge portava che uno de’ consoli fosse plebeo.
Dappoi i tribuni col frapporre il veto a tutte le elezioni, per modo che Roma rimase lunga stagione senza magistrati, 353-334 ottennero che plebei entrassero nel collegio de’ sacerdoti sibillini, oracolo dello Stato; potessero occupare e la dittatura e la pretura e il pontificato e l’edilità. Anzi colle tre leggi del dittatore 339 Filone Publilio fu derogato il voto delle curie, sicchè più non ne occorreva l’assenso, quel del senato bastando perchè i plebisciti acquistassero carattere obbligatorio per tutti i Quiriti. Con ciò il senato prese il luogo de’ padri antichi, il popolo si trovò composto anche dei nobili; i tribuni poterono pigliare gli auspizj ne’ casi ove consideravansi necessarj; e un segretario d’Appio Claudio, 305 per cattivarsi il favor popolare, rese pubbliche le formole giuridiche simboliche e il calendario.
Anche ne’ costumi s’insinuava l’eguaglianza. Al Pudore Patrizio era dedicata una cappella nel fôro Boario; ed essendovi venuta per gli usati sacrifizj Virginia patrizia, sposa d’un console plebeo, le matrone la respinsero, quantunque ella sostenesse,—Io posso entrare come casta che sono, e sposa ad un sol uomo, cui sono andata vergine, e del quale per carattere, imprese, dignità non ho che a gloriarmi». Ella dunque nel proprio quartiere rizzò un altare al Pudore Plebeo, esortando le popolane ad emular la castità delle patrizie, come gli uomini faceano col valore: e a quell’altare, coi riti medesimi dell’antico, sagrificavano le donne d’incontaminata reputazione e d’un solo marito ( univiræ? ).
Di tal passo la plebe conquistò il diritto e l’equo Giove. I dissidj tra le famiglie patrizie e le plebee continuavano, ma i due ordini cessarono di formare stati distinti nella repubblica, la quale ormai era democratica, mirabilmente temperata fra i diritti del popolo, del senato e degli ottimati: la religione dello Stato mettendo ad ogni cosa il suggello di formole inalterabili, ovviava e l’anarchia demagogica e il militare despotismo. La legge, ch’è sacra ne’ tempi sacerdotali, arcana nelle aristocrazie, allora trovavasi divulgata: alla ragion divina degli auspizj, misteriosamente rivelata dai sacerdoti, e alla ragion di Stato, ove il popolo eroico provvede alla propria conservazione con un senato proprio, sottentrò la ragione umana nell’equa partecipazione del diritto: il senato non è più autorità di dominio ma di tutela, per riuscire poi di consiglio sotto gl’imperatori: e la romana libertà si formola in queste tre frasi, autorità del senato, imperio del popolo, podestà dei tribuni della plebe.
PLEBEI E NOBILI PAREGGIATI
Roma dunque è nata dalla mescolanza di varie stirpi: il qual fatto sembra infondere maggior vitalità, come vediamo oggi stesso negli Anglo-Sassoni. In conseguenza, più che una limitata nazionalità, ritroveremo in essa concetti d’universalità, quasi predestinata a raccogliere intorno a sè gli elementi umanitarj. Faticosi ne sono i cominciamenti, e tiene del rozzo, ma colla lotta perseverante elimina le parti meno opportune per assimilarsi le solide: difetta di estro, di candore, di semplicità, quanto abbonda d’energia e prudenza; non è dotata di fantasia, ma di leggi e istituzioni. E istituzioni diverse vi portarono Latini, Sabini, Etruschi; sicchè il bisogno di vagliarle partorì la critica, e ne risultò quella legislazione, che i secoli più non disimpareranno.
CAPITOLO VIII.
Politica esterna. I Galli. Il Lazio e l’Etruria soggiogati. Fine dell’età eroica.
Questi progressi interni si maturavano in mezzo a non interrotte guerre, colle quali Roma, più per sicurezza propria che per anelito d’invasione, cercava sottomettersi tutta Italia.
Le popolazioni di questa si erano alterate pel contatto delle colonie elleniche, e per le relazioni colla Grecia e coll’Asia Minore. Tarquinio Superbo avea voluto rendere gagliardi gli Etruschi, e non v’essendo riuscito, passò a rinforzar Roma, contro della quale poi, come una madre contro la figlia, si armò Porsena. Di qui l’avversione di Roma per gli Etruschi, a danno de’ quali procacciavasi alleati.
VICINI SOGGIOGATI. I FABJ
Il Lazio allora stava partito fra due leghe; Volsci ed Equi nell’una, Latini ed Ernici nell’altra. 493 I Romani patteggiano colle città del Lazio, e—Finchè il cielo e la terra durino, ci ajuteremo a vicenda, divideremo a pari le spoglie de’ nemici; le liti private si definiranno nel termine di dieci giorni, e dai giudici del luogo ove il contratto si fece»[189]. In prima dieci, poi trenta, poi quarantasette città spedirono deputati alla fontana di Ferentino per trattare de’ comuni interessi; poscia il congresso detto Feriæ latinæ si tenne sull’Aventino e sul Campidoglio. Il diritto de’ Latini ( jus Latii ) conferiva quello di matrimonio ( connubium ) fra i due popoli, in modo che i figli seguissero la condizione del padre; e quello di commercio, che dava la vindicazione, la cessione in giudizio, la mancipazione e il nesso.
VICINI SOGGIOGATI. CINCINNATO
I federati osteggiarono la lega nemica: e sebbene gli storici raccontino quasi solo vittorie dei Romani, lasciano trapelare sconfitte. La famiglia de’ Fabj, composta di trecentosei membri e con quattromila clienti, assume da sè la guerra con Vejo; 477 e bastano a sostenerla per due anni, finchè côlti alla sprovvista, sono tutti uccisi presso il fiume Crémera. Più tardi Appio Erdonio sabino con cinquemila uomini occupa perfino il Campidoglio, avendo i tribuni impedito al popolo di prender le armi. Equi e Volsci dall’Albano e dall’Algido calavano ogni tratto su Roma devastando e incendiando, poi ricoveravano fra i patrj monti; sicchè non era possibile coglierli, nè assalirne la capitale, e si dovette una ad una distruggere le loro fortezze. Minucio console lasciatosi pigliare in mezzo dagli Equi, era inevitabilmente perduto; ma Roma affidò la dittatura a Quinzio Cincinnato, 458 cittadino di gran prosapia e di modestissimo vivere, che si tolse dal coltivare il suo camperello per vincere, e menato trionfo, ritornò all’aratro.
Due secoli consumarono i Romani in tali piccole conquiste contro la lega nemica, con una calcolata lentezza, un coraggio indomito da disastri, una instancabile attività, che anche nella pace teneva il pugno sull’elsa, spiando ogni avvenimento opportuno. Nè noi sulle guerre sogliamo indugiarci; nè il lettore correbbe diletto od istruzione dalle vicende di Tarento regno di Palante, di Tusculo regno di Telagone, del superbo Tiburi, sede dei Siculi poi de’ coloni Argei e reggia di Tiburno discendente da Anfiarao: cittaduccie da nulla, che pur lungamente bilanciaronsi con Roma, e diedero esercizio alla grandiloquenza di Tito Livio.
I disegni di Roma erano agevolati dalla sconcordia di que’ popoletti, la cui storia somiglia a quella delle nostre repubbliche del medioevo. Ardea ed Aricia, disputandosi il possesso d’un terreno, si rimettono all’arbitrato del popolo romano. Questo, raccolto per tribù, dà ascolto alle discussioni; quando Publio Scepzio, che avea compito ottantatre anni e fatto venti campagne, chiede la parola, e rammenta come il terreno disputato appartenesse a Corioli, vinta la quale dai Romani, non da altri che da Romani esso doveva possedersi. Fu dunque aggregato al dominio pubblico: ma gli Ardeati si sollevarono; i patrizj stessi, mal soffrendo che il popolo prendesse sempre maggior parte ne’ pubblici maneggi, disapprovarono il plebiscito, ma non aveano potere di cassarlo, e gli Ardeati dovettero chinar il capo e accettare di nuovo l’alleanza.
VICINI SOGGIOGATI. ARDEA
442 Eccoli ben tosto a nuovi cozzi. Due giovani aspiravano ad una popolana bellissima: uno plebeo, favorito dai tutori di essa; l’altro nobile, e protetto da’ pari suoi e dalla madre, ambiziosa del vistoso collocamento. La discordia dalla famiglia si propaga alla città; i giudici sentenziano per la madre; i tutori appellano al popolo, e da una banda d’affidati fanno rapir la fanciulla; un’altra banda di nobili, guidata dall’innamorato, vi si oppone: sono alle mani e al sangue; la plebe respinta di città, getta ferro e fuoco sulle terre de’ nobili, ingrossata da una moltitudine di artieri, e s’accinge ad assediar la città. Estendendo l’ira privata, i popolani cercano ajuto ai Volsci, i nobili ai Romani. Questi vi vedono l’opportunità di riparare il torto fatto ad Ardea, e il console Geganio accorse a cacciare i Volsci che già la stringevano, e presili in mezzo, li fa passare sotto al giogo: poi nella ritirata assaliti dai Tusculani, periscono fin ad uno: e la pace è rimessa in Ardea mediante il supplizio de’ capipopolo[190].
VEJO
Nel tempo medesimo sulla sinistra del Tevere continuavano i Romani a dar di colpo all’aristocrazia etrusca, conquistarono le sacre città di Fidene 425 e Tarquinia, assediarono Vejo. Dieci anni durò l’assedio; e poichè si dovette svernare sotto le armi, per la prima volta i Romani assegnarono un soldo ai combattenti, i quali così trovandosi mantenuti e stipendiati, non ebbero fretta di tornar a coltivare i loro poderi, e rimasero a disposizione de’ capi, che poterono assumere anche lunghe imprese.
CAMILLO
Era scritto arcanamente ne’ libri fatidici dell’Etruria, che gli Dei non abbandonerebbero le mura di Vejo, sino a tanto che il lago Albano non fosse rasciutto, versandone l’acque al mare. Ai Romani non parve ineffettibile l’impresa, e compirono quell’ammirato emissario di sei miglia, cavato nella lava. Infine Furio Camillo, nominato dittatore, propiziati gli Dei e procuratosi federati, 385 per una mina penetrò in Vejo, le cui immense ricchezze furono predate, venduti schiavi i cittadini, portata a Roma la dea Giunone, ch’essa medesima, interrogata se fosse contenta, avea risposto due volte sì; un vaso dell’enorme valore di otto talenti fu spedito ad Apollo in Delfo; e le terre de’ Vejenti, malgrado l’opposizione de’ patrizj, furono divise a sette jugeri per ciascun plebeo. Non tardarono a cadere e Capena e Falera e Sutrio e Vulsinia; e Roma pareva a un punto di soggiogare tutta l’Etruria quando le sopravvenne un nuovo flagello, i Galli.
Già vedemmo (pag. 44) come una numerosa tribù di questi invase antichissimamente l’Italia col nome di Amhra, vinse i Siculi, 1304? e rimase signora della val di Po, donde spinse le conquiste fino al Tevere, che colla Nar e col Tronto fece confine al vasto dominio di essa. Lo divise in tre regioni: Is-Umbria attorno al Po; Oll-Umbria pendìo occidentale dell’Appennino; Vill-Umbria, la costa del mar inferiore fra il Tevere e l’Arno. Fin trecencinquantotto borgate contavano le due prime: ma gli Etruschi s’introdussero nella Vill-Umbria, spossessando i Galli, non però sterminandoli; e guerreggiando l’Is-Umbria, pezzo a pezzo la conquistarono, piantandovi dodici colonie. Degl’Isombri parte tornò nella Gallia di là dall’Alpi, parte si ridusse nelle valli Alpine, alcuni resistettero nel paese fra il Ticino e l’Adda. Gli Oll-Umbri rimasero anch’essi soggiogati; e ridotti al cantone che da loro si chiamò l’Umbria, presero costumanze e favella al modo de’ vicini.
I GALLI
Di là dell’Alpi intanto, sull’immenso spazio da’ Pirenei al Reno le varie tribù de’ Cimri, parte de’ quali erano i Galli, diverse per coltura e per indole quantunque d’origine comune, s’agitavano e combattevano. Molti Galli furono cacciati dalle loro stanze, e una turba con Sigoveso 590? si drizzò alla selva Ercinia e piantossi nelle alpi Illiriche; un’altra di Biturigi, Edui, Arverni, Ambarri, col biturige Belloveso piegò all’Italia. Pel Monginevro sbucata sulle terre dei Liguri Taurini fra il Po e la Dora, drizzossi verso la nuova Etruria posta sul Po; 587 e quivi riconosciuti gli avanzi della prima migrazione, come lieto augurio adottò il nome d’Isombri o Insubri, da quella conservato.
I Galli sono distinti fra gli antichi per valore grande e impetuoso, spirito franco, schiuso a tutte le impressioni, fina intelligenza, estrema mobilità, repugnanza alla disciplina, ostentazione e vanità, causa perpetua di disunioni. Della loro politica di qua dell’Alpi altro indizio non resta che la costruzione di una fortezza in mezzo al territorio conquistato, 580 chiamata Milano[191], dove unirsi alle assemblee ed ai sacrifizj. Altri sopraggiunsero col nome di Carnuti, Aulerchi, Cenomani, guidati da Elitovio[192]; e aggregate coi primi le loro forze, respinsero gli Etruschi di là dal Po, e fondarono Brescia e Verona. Una terza orda col nome di Salj, Levi, Libici, irrompendo per l’alpi Marittime, si assise ad occidente, sulla destra del Ticino.
Continuando di là dall’Alpi il movimento, anche Cimri proprj le passarono, quali i Boi, i Lingoni, gli Anamani, che traversate l’Elvezia e la Transpadana, varcarono l’Eridano[193]. I Lingoni ebbero il triangolo fra il Po, la Padusa e il mare; gli Anamani, collocati fra il Taro e la piccola Versa, popolarono Piacenza; i Boi, fra il Taro e l’Utente (Montone), falla lor sede Fèlsina, 358 la denominarono Bononia. Ultimi de’ Cimri, i Senoni, respinti gli Umbri sino al fiume Esi, stanziarono da Ravenna ad Ancona, ove fabbricarono Sena de’ Galli (Sinigaglia). Così i Galli ebbero occupata la Transpadana, i Cimri la Cispadana[194]. Parte degli Etruschi, impedita d’unirsi alla nazione oltre il Po e l’Appennino, ricoverò fra l’Alpi, nel territorio che dissero Rezia.
Il paese incivilito degli Etruschi fu tornato in selvaggia desolazione da costoro, a’ quali parea scapito di libertà il chiudersi fra mura; e di tante città fiorenti, cinque sole camparono, Mantova e Melpo nella Transpadana, nell’Umbria Ravenna, Butrio, Arimino. Melpo perì non guari dopo; le altre dovettero con gran cautela orzeggiare fra quei terribili conquistatori, esercitandosi nel commercio, da questi avuto a vile. I quali abitavano borghi smurati, senza mobili nè altre comodità della vita; letto l’erba o la paglia; cibo la cacciagione; unica occupazione la guerra; trofeo le teste de’ nemici, che pei capelli sospendeano alla criniera de’ cavalli; ricchezza gli armenti e l’oro perchè si possono trasportare ( Polibio ).
GALLI CISALPINI
Ogni primavera rompeano la pace, e scorrazzavano saccheggiando dall’Adriatico fin nella Magna Grecia, costeggiando però il mar Superiore onde evitare i montagnesi dell’Appennino e i robusti figli del Lazio. Cresciuti di popolazione, vollero spedir fuori una colonia, e trentamila Galli-Senoni varcarono i monti verso l’Etruria. Gli Etruschi mandarono interrogandoli:—Perchè venite in paesi, ove i padri vostri non abitarono?» Ed essi:—Noi cerchiamo posto; cedeteci il terreno che a voi non serve, e saremo amici». Il sopraggiungere di questi impedì agli Etruschi di soccorrere i lor fratelli di Vejo, assediati da Camillo: e certamente le vittorie di Roma furono agevolate dall’essere la potenza etrusca già scassinata nell’Italia superiore.
L’inveterata inclinazione degl’Italiani d’invocare nelle fraterne discordie lo straniero, ci fa poi meno alieni dal credere che gli Etruschi pensassero dar briga ai Romani coll’istigare contro di essi i nuovi invasori; che in fatto difilarono sopra Clusio, città alleata di Roma. E Roma mandò intimar loro si ritirassero; e i tre Fabj ambasciadori vedendosi inascoltati, passarono nella città assalita, e si posero a capo degli armati. Parve ai Galli 396 una violazione del diritto delle genti, laonde irritati, alla guida del Brenno, come chiamavansi i lor capitani, e ingrossati di nuovi soccorsi, batterono la marcia contro i Romani, li vinsero al fiumicello Allia, che dai monti Crustuminj piove nel Tevere, e spogliati i cadaveri e troncatine i teschi, si volsero sulla città. Côlti da terror panico, o conoscendosi incapaci di difenderla, i cittadini l’abbandonarono, sicchè Roma fu ridotta in cenere, scannati i senatori e i sacerdoti, i quali, proferite le formole del sagrifizio, colle insegne di lor dignità attesero inermi gl’invasori.
CAMILLO
Le Vestali e le cose sacre eransi ricoverate a Cere d’Etruria, il vulgo nei paesi circostanti: ma il prode Manlio indusse un pugno di risoluti a seco ricoverarsi nella rôcca del Campidoglio. Quivi tennero saldo; ma già perduta la speranza del resistere all’armi e alla fame, divisavano di capitolare, quando Furio Camillo, il vincitore di Vejo, che dalla consueta ingratitudine de’ popoli era stato cacciato in esiglio, e vivea ritirato in Ardea, pose in non cale i torti della patria, e raccolti gli sbandati, e avuto il pien potere di dittatore, sopraggiunse mentre a Pesaro ( Pesa-auro ) si trattava del riscatto a denaro, 389 e disse:—Col ferro, non coll’oro s’ha a redimere la patria»; liberò la rôcca, espulse i Galli, ed attestò col fatto l’immobilità del Giove Capitolino: laonde fu tenuto come secondo fondatore della città.
Così una tradizione di boria nazionale e patrizia, e tanto ricca di poesia quanto di controsensi e disaccordi: ma un’altra più positiva rivela qualmente i Galli fossero costretti allargare il Campidoglio perchè i Veneti aveano invaso le loro terre cisalpine; onde consentirono che i Romani si redimessero a prezzo d’oro, il quale fu portato nella Gallia e custodito come segnalato trofeo, sinchè più tardi venne ricuperato da Druso. Certo i Galli non isbrattarono così tosto il paese; anzi, accampati a Tivoli, scorrazzavano per la campagna; talchè i Romani posero il partito di torsi via dalla mal difesa e inauspicata patria, e mutarsi nella grande e robusta Vejo.
Forse era consiglio de’ plebei, i quali nel nuovo abitacolo si sarieno trovati eguali ai patrizj, giacchè questi non vi troverebbero più nè il terreno legale, nè la proprietà assicurata dai sepolcri, nè le memorie avite: ma Camillo mostrava come Roma godesse saluberrime colline; fiume opportuno per trar le derrate dall’interno e riceverne dal mare; mare abbastanza vicino, ma non tanto da esporla a flotte nemiche; situata nel mezzo dell’Italia, in posizione unica per ingrandire[195]. Con maggior efficienza i patrizj fecero intervenire il solito impedimento degli augurj: onde si risolse di rimanere, e di mezzo alle ceneri e ai rottami e senza soprantendenza di edili fu scompostamente risarcita la città plebea, nel posto ove il lituo etrusco avea dapprima fondato la patrizia. Frugando tra le macerie si trovarono intatti lo scettro di Romolo, pegno di lunga durata al popolo, e molte tavole della legge, che furono esposte al pubblico, eccetto quelle concernenti la religione, tenute ancora arcane.
I Galli, ridottisi nella parte superiore dell’Italia che per loro fu detta Gallia Cisalpina, mai non requiarono dal molestare i Romani; ai quali del sofferto disastro rimase tale apprensione, che un tesoro a posta conservavano per l’eventualità di guerre contro di essi (tumultus), nelle quali nessun cittadino era dispensato dal prender le armi, sospendevansi gli affari, un dittatore veniva eletto con pien potere per salvare la repubblica. E quella guerra migliorò la loro tattica: all’elmetto di rame surrogarono uno di ferro battuto, a prova delle lunghe spade galliche; di ferro orlarono gli scudi; alle deboli e lunghe chiaverine sostituirono il pilum, perfezionamento del gais gallico, atto e a parare la sciabola nemica, e a colpire da presso e da lontano.
CERE AGGREGATA
Per riconoscenza verso la pelasga città di Cere che avea dato ricovero agli Dei, i Romani le concessero la cittadinanza, come anche a’ Vejenti, Carpenati, Falisci. Nuova estensione davano essi con ciò alla loro politica d’ingrandire per mezzo dell’assimilamento; e se prima aveano trasferito i vinti in città, ora recavano la città di fuori, creando cittadini romani fuor del proprio territorio, con diritti più o meno larghi.
VOLSCI VINTI
Profittando delle sue sventure, molti popoli si erano rivoltati contro Roma, e massime l’Etruria: ma il valore di Camillo assicurò la vittoria sui Volsci e sugli Etruschi, nel mentre stesso che rappaciava le sempre rinascenti gare interne fra patrizj e plebei, aggravate dall’ingrossarsi dei debiti nelle trascorse vicende. Anche le correrie dei Galli infiacchivano i nemici di Roma, e facilitavano a questa il vincerli. Di fatto, dopo lunghe brighe, Ernici e Volsci furono domati: i Romani, che ai vinti non sempre negarono lode, narrarono che un Volsco di Priverno, interrogato qual pena gli sembrassero meritare i suoi cittadini,—Quella (rispose) che meritano uomini, i quali si credono degni della libertà». E soggiuntogli,—Se non vi si concede perdono, in qual modo vi comporterete?» replicò,—Nel modo che vi comporterete voi: se le condizioni saranno discrete, ci manterremo sempre fedeli; poco, se aspre».
I SANNITI
Terribili a Roma rimanevano i Sanniti, gente mista di Sabini ed Ausonj. Giunti al colmo di loro potenza, superavano allora Roma in popolazione e territorio, allargandosi dal mar Inferiore al Superiore, dal Liri alle montagne Lucane e ai piani dell’Apulia, sui due pioventi della giogaja centrale dell’Appennino, nelle vallate del Vulturno, del Tamaro, del Calore verso il Tirreno, e del Saro, del Tiferno, del Trinio, del Frentone verso l’Adriatico, ne’ paesi insomma che oggi diciamo Principato Ulteriore, Abruzzo Citeriore, Terra di Lavoro. Buone loro città erano Boviano a piè del Matese con mura pelasgiche, Esernia sull’altra proda di questo monte, Alifa nella valle del Vulturno, Caudio fra questa e Napoli, Eclapoli presso le mufete del lago d’Ampsaruto, Telesia sul Calore, Alfidena nella val del Sangro, Consa presso una sorgente dell’Ofanto, Ortona, Malevento. Non formavano uno Stato unico, ma molti Comuni, avendo a capo un induperatore; troppo lassamente collegati dal reciproco municipio, spesso emuli, volta a volta nemici. Fra le gole dell’Appennino pascolavano gli armenti nel cuor dell’estate; e sobrj, indomiti, difesi da valloni e torrenti, erano spaventevoli ai pianigiani.
CAPUA
Alle loro correrie si opponevano le città greche ed etrusche; ma essi travalicandole invasero la 420 Vulturnia, cui applicarono il nome di Campania cioè pianura (καμπος), e i titoli di felice e di terra di lavoro per la sua opportunità all’agricoltura. La deliziosa Capua, dagli Etruschi ammolliti passata a mano di questi bellicosi, acquistò fama guerresca; e la sua nobiltà somministrò cavalieri non meno reputati che i pedoni del Lazio, i quali, col nome di Mamertini cioè soldati di Marte, si mettevano a soldo de’ tiranni di Sicilia e perfino de’ Greci; emulò Roma, e potè aspirare alla signoria o alla capitananza di tutta Italia. Eppure dentro era propensa all’arti del lusso, tanto che la via Seplasia era tutta a botteghe di profumi; mentre i vasi che vi si scoprono, attestano quanto portasse innanzi la ceramica e la plastica: inventò le burlette, di cui rimangono ricordo le Favole atellane e la maschera dello Zanni e del Macco o Pulcinella.
CAMPANIA E LAZIO SOGGIOGATI
I Campani non s’indussero mai ad amare i montani loro dominatori; nè i Sanniti conobbero l’arte romana di fondere in un popolo conquistatori e conquistati, patrizj e plebei. Guardavansi dunque con iraconda diffidenza; e i Campani, ridotti alla dura necessità di dover servire a nemici o ad amici, 343 chiesero ajuto da Roma che, in aspetto d’alleata, ma già ingordamente sperando dall’armata intervenzione, allora primamente sbucata dal tristo Lazio, conobbe quella bellissima regione, le delizie meridionali, e l’eleganza e sensualità greca. L’esercito ne prese tale incanto, che chiese di trasferire colà la patria, trovando poco giusto che essi vincitori stentassero in Roma, mentre i vinti godeano pacificamente di sì ubertosa contrada: disdettagli la domanda, si ritorse ostilmente contro Roma, la levò a rumore, e gridò:—Vogliamo siano abolite le usure; vogliamo si scelga un console plebeo». Le armi imponeano dunque già la legge alla patria.
MANLIO TORQUATO. DECIO
Di quest’agitazione si risentì tutto il Lazio, che, stanco di vincere a solo pro de’ Romani, 342 scosse la soggezione, s’alleò co’ prischi abitanti de’ paesi ridotti a colonia romana, e coi Campani e Sidicini, per ricacciare quei montanari nel Sannio, e mozzare il crescente orgoglio di Roma; anzi i Latini proposero a questi:—Volete che soffriamo Roma divenga la capitale del Lazio? uno dei vostri consoli e metà de’ senatori siano di nostra gente». I Romani, che non cedevano mai a minacce, non isdegnarono l’alleanza di barbari montanari, e trassero i poveri Marsi e Peligni contro ai pingui Campani, sicchè al Vesuvio si trovarono fronte a fronte tutti i popoli dell’Italia centrale. Guerra feroce come le fraterne, segnata da ricordi della severità de’ patrizj conservatori, e dagli avanzi delle truci religioni pelasghe. In tanta somiglianza di popoli importava sovrattutto la disciplina; laonde Manlio Torquato condannò a morte suo figlio perchè aveva osato combattere contro gli ordini. 340 Decio si consacrò agli Dei infernali onde placarli alla patria, e proferite le formole spaventose, s’avventò contro le armi nemiche, quasi offrendo se stesso vittima espiatoria per tutti i Romani. In fatto i nemici rimasero interamente sconfitti.
I Romani punirono dell’insurrezione i Latini ed i Campani collo spegnerne l’autonomia, vietarne le assemblee, traslocarne gli abitanti, sostituendovi coloni, e dando a ciascuna città patti diversi, a misura dei comporti. Con ventiquattro trionfi ebbe soggettato i Volsci, distruggendo l’artifiziosa fertilità di quel paese, ove le rovine di tante città, sparse fra insanabili paludi, attestano fin ad oggi la floridezza del popolo perito e la ferocia del vincitore. Ferocia dovuta ai patrizj, tenaci dell’eroica severità, per quanto la plebe, memore dell’origine italica, insinuasse più miti consigli.
FORCHE CAUDINE
Allora Roma, mutati i mezzi non l’intento, arma i pianigiani Latini, Campani, Apuli contro i montani Sanniti, Lucani, Vestini, Equi, Marsi, Frentani, Peligni, che già l’aveano ajutata a vincere la pianura. Lunghi 327 anni s’avvicenda la fortuna, finchè Papirio Cursore manda a sbaraglio i Sanniti. Questi chiedono capitolare, e ricusati, col furore della disperazione e col vantaggio delle posizioni chiudono l’esercito romano nell’angusta valle che fu poi nominata le Forche Caudine. 321 Erennio, vecchio sannita, consigliava,—Via i partiti medj: o scanniamo tutti i Romani combattenti, o rimandiamoli senza infamia». Ponzio suo figlio, generale e filosofo, ascoltando più all’umanità che alla politica, risparmia i vinti, purchè lascino armi e bagaglio, e passino sotto una croce, giurando di non più militare. Roma ne fu in lutto: ma il senato interpretò che quel giuramento non teneva perchè gli erano mancati gli auspicj, e con una di quelle sottigliezze de’ tempi eroici, per cui, tenendosi stretti alla parola, si mutava il giusto in ingiusto, furono espulsi Postumio e Veturio consoli che personalmente aveano giurato, proferendo che non si avesser più a considerare per cittadini. Costoro, in aspetto di esuli, ottennero generosa ospitalità dai Sanniti: ma secondo il concerto preso svillaneggiarono il feciale che i Romani spedivano per patteggiare la pace: e Roma da quest’oltraggio contro la sacra persona dell’ambasciatore tolse pretesto a rompere il patto e ripigliare la guerra[196]. La vittoria dà ragione ai Romani spergiuri. Ponzio, tanto venerato fra i suoi che neppure dopo l’improvvida clemenza gli avevano levato il comando degli eserciti, fu vinto e condotto a Roma; ed egli, che avea risparmiato di mandare per le spade l’esercito a Caudio, egli che aveva impedito si maltrattassero i consoli di Roma rejetti e spergiuri, fu vilmente e legalmente trucidato.
318 In una tregua bienne i Romani rimisero il freno alle colonie, scannando i rivoltosi al cospetto del popolo in memorabile esempio, perchè era di suprema importanza che i coloni si trovassero sicuri.
Assodati gli stabilimenti loro nella terra Campana, ebbero cinto d’una rete i Sanniti, 316 che non trovandosi pari ai cresciuti conquistatori, invocarono soccorsi dalla Confederazione etrusca. Questa dai Sanniti e dai Galli era stata ristretta entro gli originarj confini: dentro però sovrabbondava di popolazione, raffittita anche per coloro che v’erano migrati dall’Etruria settentrionale; e l’agricoltura e l’industria produceano inesauste ricchezze. Interruppe i traffici 312 e le arti per ajutare gli antichi nemici suoi contro i nuovi, ben più pericolosi che non i Liguri e i Galli. Ma a capo dei Romani stavano Curio Dentato, che dicea non voler possedere oro, ma comandare a chi l’aveva; Papirio Cursore, l’Achille romano; Decio, che, ad imitazione del padre, si consacrò agli Dei infernali; e principalmente Quinto Fabio, che diceasi aver ucciso o fatti prigioni cinquantamila uomini, e che fu cognominato Massimo dai patrizj perchè relegò nelle quattro tribù cittadine la ciurma che Appio Claudio avea sparpagliata in tutte.
L’ETRURIA VINTA
Le tre città più bellicose d’Etruria, Perugia, Arezzo, Cortona, chiesero tregua per trent’anni: le altre, benchè rese inermi, benchè ne’ comuni parlamenti a Voltunna non sapessero mettersi d’accordo, pure spiegarono tale forza che basta a testimoniar quanto vigorosa fosse in origine quella confederazione. Rinnovarono il patto sacro, costume lor nazionale, per cui ognuno sceglievasi un camerata, vegliando un sull’altro, e reputando indelebile infamia l’abbandonarsi. Vinti, si rannodarono sulla montagna di Viterbo nella foresta Ciminia, «orrenda e impervia più che le selve di Germania e di Scozia». Sconfitte e vittorie avvicendarono, finchè con sommo valore combattendo al lago Vadimone, toccarono una piena rotta, dalla quale non si riebbero 310 più, per quanto protestassero con nuove guerre e sommosse. Perduta l’indipendenza etrusca, l’aristocrazia s’amicò ai vincitori; gli aruspici si fecero strumento della romana grandezza; nell’interno si mantennero i governi municipali, si continuò a coltivare le arti, fare e dipinger vasi, fondere bronzi, avventurarsi sul mare: ma alla fine i proprietarj vidersi ridotti in fittajuoli e le città sovrane a servitù, mascherata col titolo di Socj Latini.
ULTIMI SFORZI DEI SANNITI
Domata la più poderosa gente della penisola, se ne concentravano la gloria e la potenza nella fortunata Roma, la quale nelle guerre già si trovava preceduta da quel che tanto giova alla vittoria, un nome formidabile. 296 Per contrastarla i Sanniti avevano messo in piedi due eserciti di ricche armi, e li perdettero: allora vedendosi abbandonati dai Campani, dagli Equi, dagli Ernici soggiogati, e recinti da colonie romane, i Sanniti osano un colpo arditissimo, e abbandonando al furor nemico la patria, scendono fra gli Etruschi per concitarli a nuova sollevazione, e con essi, con gli Umbri, con orde stipendiate di Galli nuovamente venuti di qua dell’Alpi, compongono una tremenda lega, sentendo omai tutti come la causa de’ Sanniti fosse quella dell’indipendenza italiana. 295 Però a Sentino dal valore calcolato di Fabio e Decio restano sconfitti: gli Etruschi ottengono pace, non i Sanniti, il cui paese viene abbandonato alla devastazione soldatesca.
Per difendere l’ultimo resto dell’italica libertà, i Sanniti ricorrono agli Dei patrj. Adunati a generale rassegna ad Aquilonia, recinsero di tele uno spazio di venti piedi quadrati; e sacrificate vittime, introducevano un dietro l’altro i prodi appo un altare a proferire orribili imprecazioni sopra sè ed i suoi, se fuggissero o non uccidessero i fuggiaschi; guerrieri disposti attorno all’altare colla spada sguainata scannavano chi esitasse. In tal modo si coscrisse un esercito di trentamila trecenquaranta uomini; e tennero il giuramento, poichè ad Aquilonia tutti perirono[197]. 293 Ai Romani era sempre riuscita difficilissima la guerra di montagna, onde questa era durata cinquant’anni; imparatala, vinsero implacabilmente, il paese mandarono a sperpero, distrutte Aquilonia, Cominio ed altre città: i pochi rimasti ripararono fra gli Appennini; e l’anno seguente scopertine duemila in una grotta, i Romani ve li soffocarono col fuoco. Due milioni e mezzo di libbre di rame in verghe, ricavato dal vendere i prigionieri, furono portate in trionfo con duemila ducensessanta marchi d’argento provenuti dal saccheggio: delle armi tolte una porzione fu lasciata come trofeo agli alleati ed alle colonie; delle restanti si fece una statua di Giove in Campidoglio, sì gigantesca che vedeasi fin dal monte Albano.
FINE DELL’ETÀ EROICA
A questo punto si chiude l’età eroica di Roma, che Tito Livio dichiara «più d’ogni altra ferace di virtù». Ma quali virtù! Bruto condanna a morte senza le solite formalità due suoi figliuoli, ed assiste al loro supplizio: Lucrezia si uccide per colpa non sua: Scevola punisce la mano d’aver fallito in un assassinio, e quell’assassinio approvasi dall’intero senato: per superstizione Curzio si precipita in una voragine, come i Decj sulle spade nemiche: un tribuno fa bruciar vivi i nove colleghi che impedivano di surrogare i magistrati[198]: il severissimo Cincinnato contamina la sua vecchiaja con un legale assassinio; i giuramenti sono violati per pubblica autorità e per turpi sofismi: Fabio Gargete, edile curule, fabbrica un tempio a Venere colle ammende imposte a dame romane per violata fede coniugale e pubblica disonestà: in tempo d’epidemia[199] censessanta donne accusate d’avere avvelenato i loro mariti, avvelenano se stesse; supplizio iniquo, come era superstizioso rimedio lo scegliere in tali sventure un dittatore, che conficcasse il chiodo sacro nel tempio. Virtù di tempi eroici, tutto egoismo di persone, di classe, nulla profittevoli al grosso del popolo, che in continue guerre veniva angariato ed ucciso, smunto colle usure, battuto a verghe, chiuso in ergastoli privati; surrogando all’interesse pubblico la tirannide di pochi, chiamavasi ribelle chi a vantaggio del vulgo alzasse la voce; petulante vulgo, che ardiva domandare d’esser considerato uomo e cittadino.
LIBRO SECONDO
CAPITOLO IX.
Magna Grecia.—Pitagora.—I legislatori.
Qui la storia stessa di Roma ci porta a considerare i paesi meridionali della penisola, e nuove civiltà; perocchè alla pelasga, o greca antica se si voglia, ed alla rasena degli Etruschi, terza si unì la ellenica delle colonie, più splendida e decantata.
COLONIE
Il genio del popolo greco, il quale eminentemente seppe congiungere l’istinto del bello colla sapienza dell’ordine, sicchè creò i capolavori della poesia e della scultura, e al tempo stesso i veri sistemi delle scienze positive e delle noologiche, manifestò quel suo potente bisogno di movimento e di azione col disporre colonie innumerevoli dall’Asia Minore fino ai più riposti seni del Ponto Eusino, dall’Jonio fino al Nilo, alle coste settentrionali dell’Africa ed alle meridionali della Spagna e della Gallia. In quelle la gioventù correva in cerca d’avventure e libertà, di ricchezza i negozianti, di requie i vinti; le repubbliche vi mandavano i turbolenti e i soverchi; e l’incivilimento e l’opulenza della madrepatria vantaggiavano di tale innesto. Nel nuovo paese i fondatori erano venerati, e spesso per gratitudine eretti a signori; il territorio spartivasi fra i coloni, che vi rinnovavano i nomi e le consuetudini delle contrade natìe, e sull’indole e i bisogni locali modificavano la greca civiltà. Le colonie formate da persone obbligate dalle fazioni a fuoriuscire dalla patria, trovavansi indipendenti fin dall’origine; quelle spedite dalla metropoli mantenevano le patrie leggi; sacerdoti e magistrati riceveano da essa; ad essa spedivano tributi, derrate, annui sagrifizj religiosi; poi il nodo lentavasi a segno, da non costituire che una federazione, unita dalla comune origine e da divinità comuni, a’ cui tempj antichi seguivano a recare omaggi e chiedere oracoli. Collocate nelle regioni più opportune alla vita, all’industria e al commercio, prosperavano, e la metropoli vi godeva immunità di asportazioni e importazioni; costituite di gente operosa e vivace come sogliono essere i migrati, abbondavano d’arti, d’industria, di sapere, di libertà.
Di colonie siffatte circondarono i Greci quasi tutto il lembo dell’Italia[200], e meglio le coste a occidente, meno scabre delle orientali. Le più considerevoli stettero sul golfo di Táranto, nella parte occidentale della Japigia e di là fin a Napoli e in Sicilia: nè altro paese mai su così breve spazio radunò tante città, e ciascuna importante quanto un popolo, e degna di vivere nella posterità, più che i grandi imperi ove un despoto regna su milioni di servi.
COLONIE DORICHE E ACHEE
In quattro genti era suddivisa la famiglia greca; Eolj, Dori, Jonj, Achei, distinti per dialetti, per costituzioni, per usanze particolari; e fra noi prevalsero i Dori nella Sicilia, nella Magna Grecia[201] gli Achei. Ai Dori dovette quell’isola le colonie di Ibla, Tapso, Gela, Agrigento, Messina, Taranto. Gli Achei piantarono Crotone, Síbari, Turio a lei succeduta, le quali figliarono le altre di Laus, Scidro, Posidonia, Terina, Caulonia, Pandosia. Dagli Jonj di Calcide vennero Cuma e Napoli, Zancle da cui Iméra e Mile, Nasso da cui Gallipoli, Leontini e Catania con Eubea, Taormina e Reggio. Di stirpe jonica furono anche Elèa e Scillezio: oltrechè i Cretesi condussero colonie a Brindisi, Iria, Salenzia ed Eraclea Minoa in Sicilia; i Tessali a Crimisa ed Egesta; gli Etolj a Temesa; i Focesi a Lagaria.
MIGRATI DA TROJA
Una delle prime imprese che dei Greci si ricordino, fu l’assedio di Troja, immortalato nei poemi d’Omero e di Virgilio: ma veruna storica certezza rimane nè del suo tempo, nè del luogo, nè dell’esito: il fatto medesimo è controverso; eppure a quella guerra, che suole collocarsi dodici secoli avanti Cristo e sulle rive dell’Ellesponto, voleano gli antichi far risalire la loro nobiltà, come le nostre Chiese agli apostoli, e i nostri signori alle crociate. Ed appunto da eroi della guerra iliaca prende le mosse la genealogia di molti Stati dell’Italia meridionale. Dicevasi che alcuni, campati dalla distrutta Troja, avessero cerco una nuova patria sovra suolo straniero; altri de’ vincitori stessi, agitati dall’ira divina o dalle procelle nel ritorno, fossero stati spinti coi loro seguaci in lontani paesi, ove presero stanza. Petilia credevasi cinta da nuovo muro da Filottete, greco abbandonato per astuzia d’Ulisse; Metaponto, fondata da Epeo compagno del pilio Nestore, il più prudente fra i Greci; Tràpani, Agatino, da altri di quella schiera. Nuove colonie innominate dovettero certo arrivare poco dopo.
MAGNA GRECIA
Forse per le non ancora quietate agitazioni del terreno i primi abitatori di quelle coste eransi tenuti sui monti, lasciando disabitate le spiaggie malsane, finchè gl’interrimenti le rinsanichirono. Su questi lembi, di recente formazione e di facile ubertà, poterono prendere stanza i Greci avveniticci, e mediante la pastorizia e la vicinanza del mare crescevano di ricchezze e di numero, mentre i natìi od erano ridotti schiavi affissi alla gleba, o fra le montagne si moltiplicavano e rinvigorivano. Un pugno di prodi o di avventurieri senza donne, non potea che mescolarsi coi vinti, insegnarli, alterarne forse ma non cangiarne la lingua e i costumi, salvo a quella società, la quale, secondo l’indole delle costituzioni antiche, sovrapponeasi alla plebe, e da questa tenevasi in tutto sceverata. In segno della nuova coltura il paese si popolava di tempj alle greche divinità; come quello di Nettuno a Taranto, di Proserpina a Locri, di Minerva a Metaponto, di Giunone sul promontorio Lacinio, di Ercole a Crotone, i riti del quale erano riservati alla famiglia de’ Lampriadi.
I coloni trasportavano con sè la costituzione patria, onde la democrazia prevalse nelle joniche, di cui tipo era Atene; nelle doriche invece, di cui era tipo Sparta, l’aristocrazia restringeva l’esercizio della sovranità e le magistrature in alcune famiglie, od in una classe nella quale si entrava pel censo. Il fatto stesso però della migrazione faceva propendere a democrazia, giacchè gli aristocrati non attaccavano al suolo memorie di dominio e, come avviene, sempre scemavano di numero, mentre i popolani crescevano col commercio e colle ricchezze.
Se però aveano condotto famigli e clienti, conservavano sopra di questi l’antico diritto. Quando altri Greci sopraggiungessero, non restavano ammessi all’eguaglianza di diritti (ἰσοπολιτεία), e così formavasi un’aristocrazia nuova, quella degli originarj, dotata di privilegi sugli avveniticci. Fra queste differenti classi non tardavano a proromper liti, e coll’ajuto degli schiavi, cioè degl’indigeni ridotti a servitù, gli aristocratici erano espulsi di città e l’amministrazione tolta alle famiglie per attribuirla ai capi di arti: rivoluzioni operate con molto sangue, e che trapelano dagli scarsissimi documenti, e ancor più dall’indole perpetua di società siffatte, comprovata anche dall’esempio delle nostre repubbliche del medioevo. Altre volte qualche oligarco associavasi col plebeo o coi vinti, oppure si ergeva arbitro fra i poveri e i ricchi, e per tal via diventava tiranno.
CUMA
I Calcidesi dell’isola d’Eubea, che oggi chiamiamo Negroponte, schiatta jonica, si posero nell’isola Pitecusa e nelle vicine, donde passarono a settentrione del File nel territorio degli Opici a fondar Cuma, 1300? avanti la distruzione di Troja, o almeno prima d’ogn’altra città grecanica. Questa si ampliò per commercio marittimo, tenne testa agli Etruschi, e fondò Napoli e Zancle, destinate a sopravviverle. Alla sua aristocrazia temperata diè crollo il prode Aristodemo, che amicatosi l’esercito colle vittorie sopra gli Etruschi, fece trucidare gli ottimati, costrinse le vedove a sposarne gli assassini, e fomentò l’inclinazione dei Cumani alla voluttà ordinando che i figliuoli si allevassero in femminile mollezza, sapendo ch’è agevole tiranneggiare gente corrotta. Ucciso lui, Cuma fu rimessa in istato, e continuò spedizioni lontane e guerre coi vicini, fin quando cadde in signoria de’ Romani, 315 rimanendo pur sempre importante pel suo porto di Pozzuoli.
REGGIO
Dagli stessi Calcidesi dell’Eubea uniti a quei di Sicilia erasi anticamente colonizzata Reggio all’estremo vertice d’Italia. Sottratta agli Aurunci, fu governata aristocraticamente da mille, 723 scelti tra le famiglie messenie quivi accasate coi primi abitatori. Coll’estinguersi delle case, restò il governo a pochi; per mezzo della quale oligarchia Anassila si pose tiranno, e trasmise il potere a’ suoi figliuoli. Cacciati dopo pochi anni, lasciarono una scarmigliata anarchia, a cui si riparò adottando le leggi di Caronda, colle quali Reggio si mantenne in pace. Struggeasi di dominarla Dionigi il Vecchio di Siracusa, ma essi ne aborrivano a segno, che avendo egli chiesto una sposa di qualche famiglia di Reggini, gli fu esibita la figliuola del boja[202]. 300 Allora egli, ricorso alla forza, prese e saccheggiò la città. La risarcì poi Dionigi il Giovane; ma più tardi una legione romana ivi aquartierata vi si gettò sopra, 271 e ne trucidò gli abitami. Roma punì nel capo que’ soldati, ma non per questo restituì a Reggio la libertà.
PESTO
510 Di Posidonia, fondata dai Sibariti nel golfo di Salerno e chiamata Pesto dai Romani, verun altro monumento abbiamo che splendidi avanzi e memoria delle rose che vi fiorivano due volte l’anno. Era costruita in un quadrato del giro di cinque miglia sopra terreno pianeggiante, con mura a secco e molte torri e quattro porte una rimpetto all’altra. Distrutta dai Saracini, rimase dimentica tra una foresta di spontanea vegetazione, fin quando nel secolo passato alcuni cacciatori ne indicarono le ruine, che traggono continuamente i curiosi ad ammirarle fra una contrada oggi mestamente sterile ed insalubre. Consistono queste in due tempj, di cui l’antichissimo di Nettuno è dei meglio conservati: sopra tre gradini elevasi un peristilio di sei colonne doriche di fronte e quattordici di lato, scanalate, senza base, alte appena cinque diametri, e poco più d’uno d’intercolunnio, lo che fa supporle anteriori al tempo che i Greci diedero leggerezza anche all’ordine dorico. Il tempietto di Cerere, più recente, ha colonne più snelle e meno rastremate. Sopravanza pure una stoa con nove colonne sul lato esterno minore e diciotto sul maggiore, e un colonnato nel giro interno. Anche dopo caduti in servitù, i Pestani continuarono lungo tempo, in un dato giorno, ad assumere le vesti e gli usi greci, e celebrar la commemorazione de’ tempi di loro indipendenza.
METAPONTO
1260? Di Metaponto, una delle più segnalate colonie nel seno di Táranto, sappiamo poc’altro, se non che i seguaci di Néstore, tornando dalla guerra trojana, la fabbricarono; la crebbero Achei e Sibariti; Annibale cartaginese ne costrinse gli abitanti a migrare nel Bruzio; al fine la crescente insalubrità dei piani marittimi la spopolò, come fece di Pesto e delle vicine colonie sull’altro littorale. Plinio vi ricorda un tempio di Giunone, con colonne fatte di tronco di vite; e quelle che ancor si chiamano la chiesa di Sansone e la tavola dei Paladini sono reliquie di due tempj antichi, d’architettura policromatica.
LOCRESI EPIZEFIRJ
Durante una lunga guerra, le femmine dei Locresi Ozolj s’erano mescolate cogli schiavi; onde al tornare dei mariti, paventando il castigo, 683 fuggirono e piantaronsi coi figli nel ridente paese all’estremità dell’Appennino, formando la colonia de’ Locresi Epizefirj. Arrivando, giurarono ai Siculi:—Finchè calcheremo questa terra, e porteremo questi capi sulle spalle, possederemo il paese in comune con voi»; ma eransi posta della terra nelle scarpe, e capi d’aglio sulle spalle; scossi i quali, si credettero sciolti dall’obbligazione, e arrogaronsi il primato sovra i natii. Ebbero battaglie coi Crotoniati per gelosia; ed assaliti da questi in casa propria, vinsero alla Sagra una battaglia con forze tanto sproporzionate, che la fama, divulgandola anche in Grecia, l’attribuiva a intervento de’ semidei Castore e Polluce, i quali dagli antichi credeansi vedere ne’ fuochi fatui, vaganti sul mare. D’un’altra vittoria sui Crotoniati fu dato merito ad Ajace, eroe greco della guerra trojana, il cui spettro si diceva combattesse pei Locresi. Dalle cento famiglie dominanti si cernivano un cosmopoli, magistrato supremo, e mille senatori con autorità legislativa: alcuni ispettori vigilavano che le leggi non fossero violate. Se non grandigia di ricchezze, Locri ebbe lode di corretti costumi e di pacifica inclinazione, fin quando Dionigi II, 356 espulso da Siracusa, venuto a cercarvi asilo, introdusse d’ogni maniera disordini. Locri però si tenne indipendente fino ai tempi di Pirro.
LOCRI. TARANTO
Messene nel Peloponneso maneggiò sì lunga guerra con Sparta, che i magistrati spartani, temendo non finisse la razza nell’assenza de’ mariti, autorizzarono le donne a farsi fecondare da schiavi. I figliuoli nati da questo adulterio legale, col nome di Partenj migrarono al tornar de’ mariti delle madri, e istituirono la colonia di Taranto 707 nel golfo dell’estrema Italia che guarda alla lor patria, con porto eccellente in costa inospita. Cominciarono, come gli altri coloni siffatti, a uccider gli uomini del paese invaso, sposarne le donne; poi dandosi ordinamento e leggi, domarono i Messapi, i Lucani ed altri popoli del contorno, e divennero una delle primarie potenze marittime fra il v e il iv secolo avanti Cristo, potendo armare ventimila fanti e duemila cavalli: ebbero fabbriche e tintorie di panni, industria tanto favorevole alla popolazione; e sebbene corrotti dall’opulenza, serbarono anch’essi l’autonomia fino a Pirro. 272 Dalla città patria avevano recato il culto di Apollo Giacintio e il governo aristocratico temperato; ma dopo che, nella guerra contro i Messapi, perirono i nobili, si piegò a moderata democrazia. I magistrati si eleggevano metà a sorte, gli altri a pluralità di voci; nè senza il consenso del senato si dichiarava guerra. Ammetteansi alla cittadinanza non Greci soltanto, ma anche indigeni, talchè i molti elementi italici ravvicinavano Taranto all’Italia più che alla Magna Grecia. Quell’angolo meglio d’ogni altro della terra arrideva al poeta Orazio[203] per naturali bellezze e tepido spiro: gli cresceano pregio fumosi vini, generosi puledri, finissime lane.
SIBARI
725 Achei, uniti co’ Locresi, fondarono Sibari; la malsana pianura fra il Crati e il Sibari emendarono con canali, divenuti comodità e abbellimento, e che ora negletti, tornarono pestilente quel paese. A taccia della sua mollezza, è vulgatissimo che i cittadini solevano fare gl’inviti un anno prima, onde mettere a contributo l’aria, l’acqua e la terra, e preparare vesti gemmate; ai convitati porgevasi per norma la lista sì delle persone, sì delle vivande: mestieri rumorosi non doveano turbare i sonni o i silenziosi piaceri; sbandivansi perfino i vigili galli: un Sibarito non si potè addormentare per esserglisi piegata sotto una foglia di rosa; un altro prese la febbre al vedere un contadino affaticarsi. Diffamazioni forse fuor di proposito, certo fuor di misura; dalle quali solo raccogliamo la grande ricchezza venuta al paese dal commercio che faceva con Cartagine, massime di vini e d’olj. Quest’agiatezza, il suolo ferace, la facilità di concedere la cittadinanza, moltiplicarono i Sibariti a segno, che, se crediamo a Strabone, potevano armare trecentomila uomini[204]. 550 Dominavano sopra sette genti limitrofe e venticinque città; governavansi a democrazia temperata, fino a che Teli se ne fece tiranno, cacciando cinquecento primarj cittadini. Questi ricoverarono nella vicina Crotone, donde furono spediti messi a Sibari per praticarne il richiamo: 510 ma Sibari trucidò gli inviati, onde Crotone assalse l’emula con centomila guerrieri, e la sfasciò.
TURIO
441 Sulle rovine di Sibari fu stabilita la città di Turio, con tanta mescolanza di popoli, che si disputò quali avessero a tenersene i fondatori: del che interrogato, l’oracolo la dichiarò colonia d’Apollo. L’origine stessa vi produceva la democrazia; ma gli antichi Sibariti usurpando le migliori terre e l’autorità, restrinsero il governo in pochi. Ne furono poi espulsi; nuove genti sopravvennero di Grecia, e presero leggi da Caronda. I Lucani, perpetui nemici, li vinsero, nè cessarono di molestarli 286 finchè non si posero in protezione dei Romani. Di quest’atto si tennero offesi i Tarantini, che gli assalsero e sconfissero: più tardi i Romani ridussero Turio a colonia.
ERACLEA
La città d’Eraclea, posta dai Tarantini sulle rive dell’Aciri presso Metaponto, ci tramandò nelle famose Tavole un documento del suo governo; 433 donde appare che v’avea culto principale il dio da cui traeva nome, poi Bacco e Pallade, le cui effigie appajono nelle bellissime sue monete. Efori annui reggeano la repubblica, e polianomi o prefetti della città; un segretario, un geometra ed altri minori uffiziali attendeano all’amministrazione: il popolo divideasi in molte tribù, ciascuna con insegne particolari, e in assemblea comune risolveano de’ comuni interessi. 272 I Romani la soggiogarono l’anno stesso della presa di Taranto.
CROTONE
735 Miscello ed Archia condussero una colonia achea a Crotone, la quale crebbe a sì subita potenza che, nel primo secolo d’esistenza sua, armò contro di Locri cenventimila uomini; e benchè sconfitta, con quasi altrettanti la vedemmo assalire e distruggere Sibari. La città misurava il perimetro di dodici miglia; con un senato di trecento o di mille membri[205]; bella, illustre, ricca, saluberrima, beata la predicano gli antichi, e diceasi non vi fosse mai gittata la peste.
Parte suprema nell’antica educazione tenea la ginnastica e sfoggio se ne faceva in feste solenni, celebrate a tempi prefissi; principalmente ne’ giuochi olimpici, pei quali ogni quattro anni i Greci concorrevano in Elide ove assistere alle gare di lotta, di corsa, di tiro, e insieme udir recitare tragedie, odi, pezzi di storia. Sibari, nel maggior suo fiore, meditava di rapire quest’affluenza ad Elide, coll’istituire giuochi più splendidi e di premj più appetiti. Agli olimpici, ben tredici volte in ventisei olimpiadi riportarono il gran premio gli atleti di Crotone, così rinomati che correva in proverbio, l’ultimo dei Crotoniati valere quanto il primo dei Greci[206]. L’atleta Milone combattè un toro, e levatoselo di peso sulle spalle, il recò in giro per tutto lo stadio, poi ammazzatolo d’un pugno, in un giorno lo mangiò; rovinando il tetto d’una scuola, egli il sorresse col dorso finchè tutti camparono; alfine volendo squarciare un tronco, restò colle mani prese nello spacco, e quivi fu divorato dai lupi.
Anche per bellezza erano insigni i Crotoniati: a un tal Filippo, come al bellissimo dell’età sua, gli Egestani, tuttochè nemici, resero dopo morte un culto divino; e il gran pittore Zeusi, dal vedere i garzoni lottanti nel ginnasio, argomentò quanta dovess’essere la leggiadrìa delle loro sorelle, e le scelse per modello di quella Venere, che fu tenuta il capolavoro dell’antichità.
Alla democrazia temperata di Crotone diede origine Pitagora. A costui tutte le città della Magna Grecia attribuivano il merito delle loro costituzioni, ond’è difficile lo sceverare in esso il personaggio vero dall’ideale, a cui, come a tipo de’ primi filosofi civili, si ascrivono le invenzioni più disparate e le più dissonanti avventure. Non è paese del mondo ove non abbia egli viaggiato; dimostrò il teorema del quadrato dell’ipotenusa; diede la prima teorica degl’isoperimetri dei corpi regolari, gli elementi delle matematiche, l’algoritmo, del quale ancora non si conosce il senso; trovò i ragguagli fra la lunghezza della corda armonica e i suoni che n’escono; insegnò che l’acqua si converte in aria e d’aria torna in acqua; sostenne essere opaca la luna, identica la stella del mattino con quella della sera, sferico il sole; per armonia de’ corpi celesti intendeva probabilmente i rapporti delle loro masse e delle distanze; indicò il vero sistema mondiale, cioè l’obliquità dell’eclittica e la versatilità della terra, con equa distribuzione di luce, di ombre, di calore sull’intera superficie, tutta perciò abitabile; e conoscendo che due opposte forze impresse nei corpi celesti li spingono per un’orbita, anticipò di tanti secoli quell’attrazione newtoniana che Herschel considera come la verità più universale cui sia pervenuta l’umana ragione[207].
PITAGORA
Nell’assoluta deficienza di documenti, e perduta la chiave del linguaggio matematico e de’ simboli in cui i Pitagorici avvolgevano la loro dottrina, come asserire qual sia e quanta la verità intorno a ciò che si racconta di quegli insegnamenti? Sembra che il vero Pitagora nascesse a Samo d’Italia nel 584, viaggiasse l’Asia, l’Egitto, forse l’India, a 540 Crotone aprisse una scuola, la quale proponevasi di perfezionare i sentimenti, non solo religiosi e morali, ma anche politici: ond’egli ci si manifesta in triplice aspetto, filosofante, fondatore d’una società, e legislatore. Come filosofo sta in mezzo fra l’Oriente e l’Occidente, non abolendo i miti in cui quello avvolgeva le dottrine, eppure accettando la realità e il ragionamento di questo; traendo la scienza dagli arcani del santuario, ma avviluppandola nei simboli di una società secreta; togliendola dall’essere sacerdotale, ma conservandola aristocratica; repudiando le favole vulgari che degradavano la verità, ma non osando porgere nella nuda semplicità i sublimi concetti che egli aveva intorno a Dio e alle relazioni sue coll’uomo e col mondo.
DOTTRINA PITAGORICA
Per quanto si può scoprire di sotto alle espressioni ora mitiche ora aritmetiche, egli fissavasi in un idealismo puro, ma accessibile al senso comune. Ogni bene ha fondamento nell’unità che è Dio, e nell’ordine, nell’armonia, nella proporzione, che sono l’unità manifestata nelle cose, applicata al governo dell’universo. Ogni male nasce dalla dualità, ossia dalla dissonanza e sproporzione, e dalla materia che è il complesso di queste qualità rese sensibili. Cominciamento reale e materiale di tutte le cose è l’unità assoluta (monade), da cui derivano la limitazione dell’imperfetto, la dualità e l’indefinito. Lo svolgimento della creazione tende appunto a svincolare gli spiriti dalla dualità, cioè dalla materia, il che si ottiene rimovendo la falsa scienza del variabile, per attingere alla scienza vera dell’ente immutabile, e imparando a ricondurre la moltiplicità delle cose all’unità del principio.
Asserì l’immortalità dell’anima, e non è accertato che la scombujasse col dogma della metempsicosi. Pare ancora distinguesse il sentimento dall’intelligenza: quello sorgente de’ desiderj e delle passioni, questa moderatrice de’ pensieri e degli atti, ed emanazione dell’anima del mondo. Pronunziò non esser possibile il conoscere veruna cosa, se non a condizione che preesistano enti intelligibili, i quali siano semplici ed immutabili; e poichè tali condizioni di unità-eternità non s’avverano nè rispetto al mondo materiale, nè allo spirito umano, uopo è ricorrere all’ idea, che sola rende possibile il conoscere.
La morale di Pitagora avea per fondamento la retribuzione eguale e reciproca, l’equità (ἀριθμὸς ἰσάκις ἴσος), che è un’armonia tra le azioni dell’uomo e l’universo; essendo virtuoso l’uomo le cui azioni rimangano sottoposte all’intelligenza e in armonia con essa. Dire il vero e fare il bene[208] è il suo precetto cardinale. Le virtù sono vie per arrivare all’amore: profonda verità, che discerne le due parti della morale, una di mera giustizia, l’altra di carità operosa.
Negli antichi, dove il metodo esiste appena e l’immaginazione prevale, mal si presumerebbe di comprendere tutto e tutto concatenare, e basta afferrare il principio generale, da cui è animata la dottrina. Tale in Pitagora è la matematica, derivando da considerazioni sopra i numeri e le figure; riconducendo a rapporti numerici l’armonia e la bellezza delle cose; abbracciando la musica, perchè gli accordi son numeri; numeri i corpi, formati di unità; ogni cosa è composta di numeri, o sul tipo numerico fu creata. Il mondo è un tutto armonicamente disposto, sicchè dieci grandi corpi si muovono attorno a un centro che è il sole; per via delle stelle gli uomini tengono qualche parentela colla divinità, fra la quale e noi stanno i dèmoni, dei quali è la grande potenza ne’ sogni e nelle divinazioni.
La natura e il linguaggio erano per lui segni sensibili d’un ideale invisibile, che all’anima si rivelava per via dell’ordine fisico. E di simboli faceano grand’uso i suoi seguaci; per segno di riconoscimento adopravano il triplo triangolo che ne forma cinque altri, ed il pentagono; diceano, «Non sedere sul moggio» per indicare di non introdurre le cure della vita animale nel dominio dello spirito; «Non portare al dito le immagini degli Dei», cioè non divulgare la scienza divina[209].
Due arti principalmente raccomandava Pitagora: la ginnastica e la musica. Per la prima vogliamo intendere l’igiene, che è una grande scienza negli Stati, una grande prudenza negl’individui. La musica crediamo comprendesse tutta la letteratura; laonde Damone[210] diceva non potersi toccar le regole di essa senza scassinare le leggi dello Stato: il che possiamo asserire anche oggi della letteratura.
PARALLELO COLLA JONICA
Quest’altezza di vedere discerne fondamentalmente la filosofia italica dalla jonica. La prima tolse per canone la tradizione del genere umano, la seconda la speculazione individuale e indipendente: l’italica vide ch’era necessario dedurre le cose da un principio solo per costituire l’unità della scienza, e subordinando i sensi allo spirito, distinse le sensazioni, corrispondenti all’ordine variabile, dalle idee che hanno per oggetto l’invariabile; la jonica invece non si affida che alla sperienza. Quella pertanto segue l’analisi, partendo dal tutto e colla decomposizione venendo alle parti onde risalire al tutto, oggetto delle sue indagini; questa la sintesi, movendo dalle parti onde ritornare al tutto colla composizione, sebbene nell’infinita via si smarrisca, e riducasi sempre alle parti, unico scopo di sua attenzione. Mentre la scuola jonica ammetteva un principio materiale e dimenticava il morale intento, i Pitagorici mantenevano il principio incorporeo, curavansi della moralità, e cercavano le leggi e l’armonia dei principj mondiali secondo una morale determinazione del male e del bene; nelle forme più dogmatici che dialettici, nello stile chiari e di semplicità grandiosa. Gli Italici prendevano dunque le mosse da Dio, gli Jonici dalla natura; quelli procedevano nelle pure regioni dello spirito, questi perdeansi in vani sforzi affine di svilupparsi dalla materia. Nella scuola di Talete, essenzialmente indagatrice e sagace, lodevole era l’esercizio attivo e libero dell’umana ragione: la pitagorica invece, gelosa di conservare le dottrine all’uomo rivelate da lassù, meno ardita procedeva nell’esame, onde agli scolari bastava per ragione l’averlo detto il maestro: Ipse dixit.
SOCIETÀ PITAGORICA
Mentre i sapienti della Grecia filosofavano isolatamente, Pitagora comprese la potenza d’un’associazione forte e regolare, onde fondò una vera scuola che conservasse le dottrine positive e tradizionali. Non molto dissimile dagli Ordini religiosi del medioevo, in essa all’insegnamento sublime si arrivava con diuturno noviziato e grande austerità di cibi, di vesti, di sonno, di silenzio, affine di domare i sensi e colle privazioni invigorir l’anima al meditare. I Pitagorici ponevano i beni in comune, vestivano di bianchissimo, e coabitavano, liberi di sbrancarsene quando fossero stanchi. Assai coltivavano la memoria; fedelissimi alla parola, radi ai giuramenti; parchi alla venere, se ne astenevano nell’estate; ai sacrifizj dovevano presentarsi in abiti non isfarzosi ma candidi, e con mente casta. Cominciavano la giornata con suoni e canti, poi alternavano trattenimenti filosofici, esercizj ginnastici e doveri di cittadino; la sera indulgevano a pacata allegria, cantando versi aurei; prima d’addormentarsi esaminavano la propria coscienza. Virtuoso è colui che normeggia la vita a imitazione di Dio, o si conforma alle leggi della ragione, attesochè la ragione, sorgente della verità e dell’unità, è la parte divina dell’esser nostro, e perciò deve comandare; mentre obbedire devono la collera e la cupidigia, effetti della materia, immagine della dualità. E come l’armonia nasce dall’accordo dei suoni gravi cogli acuti, così la virtù nasce dall’accordo delle varie facoltà dell’anima nostra sotto l’impero della ragione; lo perchè la virtù può dirsi un’armonia.
Pertanto ai sobbalzi illiberali della democrazia preferirono la posatezza dell’aristocrazia, il dominio cioè non de’ più forti o più ricchi o più antichi, ma de’ più intelligenti e virtuosi. Tant’è ciò vero, che la giustizia rappresentavano come l’eguaglianza perfetta, simboleggiata nel cubo. Parità nell’abnegazione, reciprocità nel sagrifizio costituivano l’amicizia.
I PITAGORICI
Da tutto ciò derivavano stupendi precetti, in parte esposti ne’ Versi Aurei, che si attribuiscono a Liside. «Tra amici ogni cosa è comune. Non si lasci tramontar il sole sopra un diverbio avuto con un amico. Gli uomini si trattino come se mai da amici non dovessero diventar nemici, ma anzi da nemici amici. La donna, debole vittima strappata all’altare, sia trattata con bontà». Diceano pure, a cinque cose sole dovrebbesi far guerra: le malattie del corpo, l’ignoranza dell’intelletto, le passioni degradanti, le sconcordie delle famiglie, le sedizioni delle città. Forse la morale e la giustizia loro non si ergeano fino al concetto dell’intera umanità, e rifletteano soltanto ai consociati, com’era proprio di tutte le istituzioni prima che Cristo c’insegnasse a invocare tutti insieme il Padre nostro; e ciò potrebbe dar ragione dell’insita sterilità di questa dottrina, la quale non influì gran fatto sopra gli atti nè sopra l’insegnamento dell’intera Grecia.
TEANO
Fra’ Pitagorici regnava cordiale amicizia; se alcuno perdesse le ricchezze, gli altri divideano le proprie con esso; Clinia di Taranto, udito che Prore da Cirene trovavasi ridotto a miseria, passò in Africa con larga somma a soccorrerlo, benchè mai non lo avesse veduto; molti fecero altrettanto; rimase proverbiale l’amicizia di Damone e Pitia. Anche donne vi appartenevano, e di loro morale spregiudicata ci dà prova Teano figlia del filosofo, allorchè richiesta quanto tempo una donna dovesse tardare a presentarsi agli altari dopo essere stata con un uomo, rispose:—«Se è suo marito, anche subito; se un estraneo, giammai».
Possiamo dunque vantare che in Italia nascesse la scuola più antica, come la più insigne di filosofia, giacchè Platone e Aristotele, sommi splendori della greca, derivano da Pitagora più realmente che da Socrate. Da essa uscirono sapienti in pressochè tutte le colonie della Magna Grecia e di Sicilia, quali Filolao ed Aristeo di Crotone, Ippone di Reggio, Ipparco di Metaponto, Epicarmo di Cos comico, Timeo di Locri, Ocello di Lucania, Elfante di Siracusa, Archita di Taranto, Empedocle d’Agrigento.
ARCHITA
440-360 Archita ebbe molta mano nel reggimento della propria patria, e capitanando gli eserciti più volte, le assicurò vittoria. Credeva il miglior governo quello misto di monarchia, aristocrazia e democrazia, ma il comando convenire a coloro che hanno maggior ingegno e virtù: i costumi siano custodi delle leggi, le quali puniscano non con multe ma col disonore: nulla più funesto che la voluttà, donde tradimenti alla patria, sbrigliate passioni, e rovina degli Stati: nel pericolo di questi si confidi sul coraggio de’ cittadini, non si ricorra a forza straniera.
EMPEDOCLE
444-403? Empedocle, celebrassimo in ogni tempo, dalla sensibile e dalla razionale considerazione dell’ente condotto alla contemplazione mistica delle cose, poeticamente espose la sua dottrina; abbandonandosi all’entusiasmo, personifica e divinizza tutto, e si fonda sull’ipotesi di una degenerazione dell’universo, cagionata da un peccato originale; il mondo poi fa regolato da due principj, amicizia e discordia (φιλία, νεῖκος), dove alcuno vorrebbe ravvisare l’attrazione e la repulsione della fisica moderna. La vita di lui tiene al miracoloso: toglie da lungo letargo una donna, onde si dice abbia resuscitato da morte; fa chiudere una valle, e così toglie la malsania che i venti etesj portavano ad Agrigento; le maremme che infestavano Selinunte risana coll’introdurvi due correnti d’acqua. Fu dunque reputato dio, nè egli dissipava quest’opinione; anzi cantava:—«Amici che abitate le alture d’Agrigento, zelanti osservatori della giustizia, salvete. Non uomo io sono, ma dio. Entro nelle floride città? uomini, donne si prostrano; il vulgo segue i miei passi; gli uni mi chiedono oracoli, gli altri un rimedio ai crudi morbi»[211]. Lo studio della storia naturale gli costò la vita, perocchè, volendo esplorare il cratere dell’Etna, vi perì; ma corse voce che vi si gettasse apposta per non lasciarsi vedere a morire. Chi volle moralizzarne un avvertimento alla superbia umana, soggiunse che dimenticò all’orlo del cratere le sue pantofole, donde si ebbe conoscenza della sua fine.
GLI ELEATICI
La scuola jonica avea fissato l’attenzione sopra il lato fisico del mondo, la pitagorica sopra il metafisico: al dialettico, cioè all’arte del ragionare, si appigliò un’altra, innestata sulla pitagorica, e denominata da Elea in Lucania; scuola che spingendo all’eccesso il sistema delle idee, ripudiò il senso comune e l’esperienza, per dichiarare che le cose sono mere apparenze e nomi vani senza soggetto; e la realtà assorbì nell’intelligenza, identificando così il mondo e Dio. Questa inclinazione al soprasensibile, quasi la verità non deva cercarsi che nella sfera razionale, avviava a raddrizzare il modo della conoscenza sensibile mediante i concetti puri della ragione, e nel pensiero separavasi ricisamente l’elemento speculativo dallo sperimentale. E forse dall’accurata distinzione che gli Eleatici poneano tra l’idea e le cose sensibili, e dall’avvertire che quella tiene in sè tutte le cose nell’archetipa loro forma, derivò a loro la taccia di panteismo.
535-465? Parmenide di Elea vi diede precisione, asserendo che i sensi possono bensì esibire il fenomeno ingannevole, ma il vero e il reale non rimangono conosciuti che dall’intelletto. Zenone, pure di Elea, 504-450? assottigliò l’indagine mostrando che, se le cose apparenti fossero quali la sensazione ce le ritrae, sarebbero piene d’assurdi ed impossibili: ed esagerando il concetto fondamentale di quella scuola, negava la possibilità del moto. Per verità, qualora non basti l’esser immediatamente sentita l’esistenza delle realtà finite, e le si applichi il dubbio, riesce impossibile il dimostrarla. Per questo varco adunque entrava lo scetticismo; e Gorgia da Leontini, scolaro di Empedocle, sostenne nulla esservi di reale, nulla potersi conoscere nè trasmettere a parole[212].
Adunque la filosofia in Italia fin d’allora ed elevavasi a tutta la sublimità dell’ideale, e diroccava nel dubbio e nel sofisma. Ma a Zenone, il primo filosofo che esponesse in dialoghi, spetta il merito d’aver introdotto la dialettica, cioè una maniera rigorosa e coerente di disputare, dimostrare, difendere, impugnare, per via di regole prefinite.
MEDICINA PITAGORICA
Anche in altre scienze Pitagora aveva ben meritato, e singolarmente nella medicina, ch’egli sbarazzò di divinità, e chiamò a contribuire al bene della società colla legislazione e colla polizia, mediante quel che si intitola vivere pitagorico. Fanno a lui onore d’importanti scoperte fisiologiche; che ogni seme organico deriva da seme; che nel sonno il sangue affluisce al cuore ed alla testa. E del sonno diede una teoria Alcmeone crotoniate, coevo di Pitagora, al quale è pur dovuta la prima opera speciale di anatomia e fisiologia che la storia ricordi, cercando ai fenomeni spiegazione dall’esame della struttura delle parti.
Altri Pitagorici la medicina esercitavano per Italia e per Grecia; come liberi indagatori ( periodeuti ) visitavano al letto gli ammalati, che fin allora soleano farsi recare nel tempio; e scarchi dalle superstizioni, le cause del morbo investigavano non nella collera degli Dei, ma nella natura. Con ciò strappavano la scienza di mano agli Esculapj, sebbene, per quella loro teorica che i mutamenti si devono fare passo a passo, i Pitagorici non isbandissero le formole magiche e deprecatorie. Possiamo noi asserire che s’ingannassero nello introdurre la dottrina numerica nella scienza della salute, supponendo che la natura prediliga certi numeri e certe forme periodiche?
A Pitagora, meno che dalle scienze insegnate, deriva lode dall’aver formato una scuola, diretta a perfezionare i governi, non tanto col cambiarne la forma, quanto col preparare uomini capaci di ben dirigerli. Ma un tal Cilone, ricco violento e accattabrighe, avendo chiesto invano d’esservi affigliato, si avventò al solito artifizio de’ liberalastri d’ogni tempo, colla calunnia aizzando il popolo in modo, che que’ filosofi vennero perseguitati a morte, ed abolite le loro istituzioni. Ne profittarono gli ambiziosi per costituire parziali tirannie nelle varie città, Clinia a Crotone, altri altrove, soqquadrando ogni ordine primitivo, finchè gli Achei si intromisero della pace. Allora furono adottate le leggi della madrepatria, e nel tempio di Giove Omorio giurata una federazione delle colonie, a capo della quale sembra fosse posta Crotone. Durò fino al 400, dopo di che, prima dai tiranni di Siracusa, poi da Roma si vide rapita l’indipendenza, e decadde a segno, che Petronio la chiamava campo di cadaveri rosi e di corvi affamati.
CARONDA. ZALEUCO
Pitagorici furono i due insigni legislatori della Magna Grecia, Caronda e Zaleuco, spesso tra loro confusi e ingombrati di favole, perchè la storia lascia in non cale i benefattori del genere umano, attenta ad immortalarne i distruttori.
650 Caronda fu di Catania; e poichè i legislatori antichi non solo comandavano gli atti, ma voleano piegare la volontà, pose fondamento al suo codice l’esistenza degli Dei[213], la famiglia e la patria. Dai primi emana la moralità delle azioni, che i dèmoni puniscono o premiano secondo il merito. Il rispetto pei genitori stendasi fino alla gleba dell’ultimo loro riposo. Chi passa a seconde nozze, rimanga escluso dalle assemblee, giacchè mette seme di dissensione tra i proprj figliuoli. Possono l’uomo e la donna snodarsi dal matrimonio, ma non contrarne un nuovo con persona più giovane[214]. Intento a conservare le famiglie (secondo il genio dei legislatori antichi, diverso da quel de’ moderni), Caronda moltiplica i legami fra’ parenti; il più prossimo d’un’ereditiera può sposarla; il deve se orfana e povera, o dotarla. Conoscendo i mali dell’ignoranza, impose s’insegnasse leggere e scrivere a tutti da maestri stipendiati dal pubblico. Proibito frequentare uomini viziosi, nè mettere in commedia un cittadino, salvo che sia adultero o spia. Al calunniatore infliggevasi di portare una corona di tamarisco; e sì grave obbrobrio pareva, che alcuni se ne sottrassero coll’uccidersi. Chi abbandona il posto in battaglia, durerà tre giorni in piazza vestito da donna. Punì i giudici che sostituissero giro di commenti alla precisione della lettera: ammise la pena del taglione. Chi proponesse d’innovare una legge, doveva presentarsi col capestro al collo, per essere strozzato se avesse repugnante il pubblico voto.
CARONDA
Affinchè la violenza non turbasse la indipendente decisione delle adunanze, Caronda aveva proibito di recarvisi colle armi, pena la vita. Un giorno stava esercitando i soldati, quando, udito che nell’assemblea erasi levato tumulto, v’accorre colla spada come si trovava: i nemici gli rinfacciano ch’egli medesimo violasse le proprie leggi; ma esso:—Anzi vo’ confermarle», e immergesi quel ferro in seno. Aristotele il loda per precisione di leggi e nobiltà di dicitura[215], aggiungendo che dettò i suoi ordinamenti a parecchie città della Sicilia.
ZALEUCO
Reputano anteriore Zaleuco di Locri. Anch’esso traeva la legge da Dio, onde cominciava dal provare l’esistenza di questo, argomentando dal mirabile ordine della natura, ed asseriva gli Dei non aggradiscono sagrifizj ed oblazioni dai malvagi, ma si compiaciono delle opere giuste e virtuose. Sempre alla legge che impone unendo la morale che consiglia, vuole si governino gli schiavi col terrore, i liberi coll’onore. Irreconciliabili non siano gli odj fra cittadini: nessuno abbandoni la patria: donna non esca con molte ancelle nè soverchio sfarzo, se non sia meretrice; nè uomo con anelli e con vesti milesie, se non andando in bordello. Sostituite leggi fisse e poche all’arbitrio della consuetudine, eccessivamente ne cercò la stabilità; ond’ebbe esclusa l’interpretazione, data forza ineluttabile al testo, e vietato perfino a chi tornasse in patria il chiedere se vi fosse qualcosa di nuovo. Demostene attesta che, in due secoli, una sola delle sue leggi era stata mutata[216]. Ma la stabilità è prova e carattere della bontà d’una istituzione?
CAPITOLO X.
Sicilia.
SICILIA
Teatro di grandi agitazioni naturali, come di mitologici eventi fu la Sicilia, in prima denominata Trinacria dalla figura triangolare. Le vetuste tradizioni le danno per abitanti Lotofagi[217], Lestrigoni, Polifemi, val quanto dire genti ancora sciolte da civile consorzio, che vi pasceano le greggie, viveano dei frutti spontanei, e abitavano nelle ampie grotte de’ suoi monti, dove poi i Ciclopi introdussero il lavoro dei metalli. Giove che regna sul monte Etna, e che questo monte, anzi l’isola tutta scaglia sopra i ribellati giganti; il dio Apollo che pascola gli armenti in Ortigia, dove ha culto la cacciatrice Diana; Saturno che dalla ninfa Talìa vi genera Venere, la quale preferisce il monte Erice al suo tempio di Gnido; Cerere che in Enna introduce la coltura del grano; Trittolemo che insegna ad arare; Aristeo che mostra come coltivare gli ulivi e spremerne olio, e raccorre il miele dagli alveari; Ercole che vi mena gli armenti tolti a Gerione da tre corpi, uccide in duello il gigante Erice, scopre e insegna l’uso delle acque termali ad Egesta ed Imera, e feste nuove e riti surroga a’ sagrifizj umani; Mercurio e Fauno che da Sicilia prendono le mosse onde arrivare in Egitto; Orione gigante che fabbrica il Peloro, sono favole che, qualunque ne sia l’arcano significato, rivelano vetustissima la civiltà di quell’isola.
Le popolazioni che il sopraggiungere di nuove cacciava, dall’Italia, sovente vi rifuggirono. I Sicani, gente iberica, v’erano accasati allorquando, tre generazioni prima della guerra di Troja, i Siculi e i Morgeti, spinti dagli Enotrj, invasero i fertili valli orientali, restringendo i Sicani ad occidente[218]. Di là da questi, verso la punta a libeccio, nel terreno sassoso cui fende il fiume Màzara, sedevano gli Elimi, propagine pelasgica venuta dall’Epiro, la cui capitale Egesta vantavasi fondata dal trojano Aceste. Origine iliaca ostentavano pure Drépano, Entelle, Erice, ove il tempio di Venere era costrutto alla ciclopica. Queste tradizioni appellano a colonie levantine di grande antichità, alle quali si aggiunsero prestissimo i Cretesi, simboleggiati in Dedalo, architetto famoso, che aveva fabbricato in Creta un edifizio, conosciuto col nome di Labirinto, e che, chiuso in quello, trovò portentosa via al fuggire, dissero volando, e fu accolto da Tocalo re de’ Sicani. Minosse re di Creta venne a riclamarlo, e s’impadronì di Eraclea Minoa sul fiume Alcio; ma vi trovò morte. Di qua dei tempi favolosi, Fenicj e Cartaginesi presero stanza sul littorale nell’viii secolo prima di Cristo.
COLONIE GRECHE
Teocle ateniese, naufragato sulle coste orientali della Sicilia, stupì di quell’opportuna postura, e rimpatriato, propose a’ suoi di menarvi una colonia. 756 Non esaudito, si volse agli abitanti di Calcide in Eubea, co’ quali fondò Nasso sulle sponde del fiume Onobata. Tosto altri coloni lo seguono, i quali delle già fiorenti città fenicie o sicule s’impossessano, arrogandosi l’onore della fondazione, e snidando i prischi abitatori; e ben tosto ebbero occupato tutta la plaga orientale e meridionale dal capo Peloro al Pachino e al Lilibeo, mentre attorno alla punta occidentale si trovarono ridotti i Fenicj, e singolarmente a Selinunte, Motia, Panormo.
AGRIGENTO
Designano pure come città calcidiche Zancle, Imera, Mile, Catania, Leontini, Megara. Altre ne aveano contemporaneamente fondate i Dorj, fra cui Siracusa che popolò Acra, Casmena, Camarina, Tapso, Gela, da cui derivò Agrigento[219].
FALARIDE
La differenza d’origine e perciò di costituzioni fu seme di reciproche nimicizie, che guastarono il breve fiore. Da prima i coloni sfogarono la loro attività col sommettere i natìi; e com’ebbero così ridotte le campagne in arbitrio di poche famiglie, discendenti dai primi coloni, gli ambiziosi seppero profittarne per erigersi tiranni. Il primo che riuscì fu Panezio da Leontini, solleticando, come è stile dei demagoghi, l’eterno rancore dei poveri contro i ricchi. 582 Anche Agrigento, governata prima aristocraticamente al par di tutte quelle d’origine dorica, cadde a tiranni, fra i quali il cretese Falaride. 566 Le storie sono piene delle costui atrocità; forse esagerate dal genio democratico de’ Greci per fare aborrita la signoria dei re. Chi non intese parlare del toro di rame rovente, in cui egli chiudeva le sue vittime, e primo l’ateniese Perillo che l’aveva inventato? Ma le relazioni troppo discordano, e noi incliniamo a vedervi espresso un suo tentativo d’introdurre l’esecrabile rito fenicio e cartaginese d’abbrustolire gli uomini in onore del dio Moloc. Menalippo risolse uccidere Falaride, e si confidò all’amico Caritone, che gli disse aver anch’egli già lo stesso proposito. Venuto il destro, Caritone s’avvicina armato al tiranno; è arrestato, ma per tormenti non rivela i complici. Allora Menalippo si presenta, dichiarando aver egli primo ideato il fatto e indottovi l’amico; questi nega; nasce gara; della quale stupito, il tiranno perdona ad essi vita e beni, purchè abbandonino il paese[220]. Per eguali sospetti incrudelì invece contro di Zenone filosofo: ma le costui grida commossero la moltitudine tanto, 534 che ammutinata lapidò il tiranno.
AGRIGENTO
Dopo breve libertà, vi tiranneggiò Alcmane, poi Alcandro, indi Terone, esaltato dal maggior lirico greco Pindaro, e dagli storici per avere sconfitto i Cartaginesi e soggiogato Imera. 480 Trasideo, suo figlio e successore degenere, fu rotto e cacciato di regno da Gerone di Siracusa; e da quell’istante Agrigento si resse a popolo sul modello di Siracusa, e toccò l’apice di sua grandezza. Il vino e gli olj che spediva in Africa, la resero una delle città più opulente, magnifica di lusso e pubblici monumenti; talchè si diceva che gli Agrigentini fabbricavano come mai non dovessero morire, e mangiavano come non avessero a vivere che un giorno. Esemto, tornando vincitore dai giuochi olimpici, entrò in Agrigento accompagnato da trecento carri, tirato ciascuno da una pariglia di cavalli bianchi, razza siciliana[221]. Gellia serbava ne’ cellieri trecento botti di vino da cento anfore ciascuna; imbandiva ogni giorno molte tavole, e i servi alla porta v’invitavano ogni viandante; passando un giorno cinquecento cavalieri di Gela, li trattò tutti quanti, poi mettendosi il tempo sul piovere, donò a ciascuno un mantello della sua guardaroba[222]. L’abbondanza cagionò mollezza; e in un tempo d’assedio si dovette proibire ai cittadini, quando per turno andavano di sentinella alla ròcca, di portare più che un materasso, coperta e capezzale.
SIRACUSA
732 Siracusa, fondata dall’eraclide Archia di Corinto poco dopo di Roma, era governata dai proprietarj ( geomori ); ma gli schiavi, arruffati dai demagoghi, si rivoltarono e li ridussero a rifuggire a Casmena. Ingordi di vendetta, quelli porsero consigli e ajuto a 484 Gelone tiranno di Gela, che per tale appoggio acquistò la signoria di Siracusa, e tosto la estese chiamandovi altri Greci, e trasportandovi i ricchi di Megara, di Camarina e d’altre città distrutte; intanto faceva vendere fuori i poveri, dicendo esser più facile governare cento agiati che non uno solo al quale non resti nulla da perdere. Per tal guisa Gelone venne poderoso per mare e per terra, e largheggiò di frumento co’ Romani.
I Persiani, nobile e poderosa popolazione dell’Asia Grande, aspiravano a sottomettere la Grecia; laonde Dario lor re, avendo in corte Democede medico di Crotone, il mandò con dodici Persiani ad esplorare le coste della Grecia, e quelle della bassa Italia colonizzata da Greci. Ma in questa ricevettero pessime accoglienze, e a grave fatica camparono dalle prigioni di Táranto. Però Serse nuovo re assunse l’impresa di soggiogare la Grecia, e con esercito memorabile passò l’Ellesponto. Il piccolo ma generoso paese vi oppose una resistenza memorabile; e fu allora che Gelone ai Greci esibì ducento triremi, ventimila fanti e duemila cavalli, purchè gli conferissero il comando della flotta alleata. La domanda gli fu disdetta; ed i Cartaginesi che parteggiavano con Serse, affine d’impedire che Sicilia e Magna Grecia soccorressero alla madrepatria, mandarono a Panormo Amilcare, figlio di Magone, 480 con grosse armate. Gelone però con cinquantamila uomini e cinquemila cavalli lo sorprese presso Imera, e mandò in dirotta: cinquantamila Africani restarono sul campo, e tanti prigionieri, che si disse trapiantata l’Africa in Sicilia.
GELONE
Meglio che per la vittoria noi onoriamo Gelone per la pace, nella quale pose patto ai Cartaginesi che cessassero dai sacrifizj umani. I tesori acquistati in quella guerra distribuì ai valorosi e ai tempj, massime a quello d’Imera; e i prigionieri, fra i varj corpi dell’esercito, di che s’ebbe modo di coltivare nuovi campi, finire molte fabbriche, ed alzare in Agrigento un insigne tempio e famosi acquedotti. Sciolto da questi nemici, de’ quali anzi accettò l’alleanza, accingevasi a portare i promessi soccorsi ai Greci, quando seppe che il costoro patriotismo era bastato a respingere le immense turbe dei Persiani. Allora congedò l’esercito; e radunati i suoi sudditi, inerme comparve tra loro armati, rendendo conto della propria amministrazione, e ne riscosse vivi applausi.
Rigoroso da principio, come fu assodato si ridusse mite e giusto; favorì l’agricoltura, vivendo egli stesso fra’ campagnuoli: sbandiva a tutta possa le arti corruttrici, e meritò che i sudditi lo chiamassero il loro miglior amico. Sentendosi gli anni far soma addosso, rinunziò al fratello Gerone e poco sopravvisse. Da’ Cartaginesi e dal tiranno Agatocle fu distrutto il magnifico sepolcro di lui, non la memoria di sue virtù.
GERONE
478 Gerone succedutogli teneva splendidissima corte: diceva le orecchie ed il palazzo del re dover essere schiusi a tutti: all’eloquenza, che allora faceva le prime prove e che sì facilmente degenera in ciarla e sofismi, pose freno, più volenterosa mano porgendo alle arti dell’immaginazione; sicchè a lui accorsero di Grecia i poeti Bacchilide, Epicarmo, il maggiore tragico Eschilo quando vecchio fuoruscì dalla patria, e Pindaro che nelle sue odi non rifina di esaltarlo generoso e giustissimo, amico della musica e della poesia, e perchè del suo ricco e magnifico palazzo apriva le porte alle Muse. Sull’avarizia e le violenze ond’egli si contaminò, stesero un velo officioso i beneficati. Il patetico poeta Simonide era penetrato più avanti nella confidenza del principe; il quale lo interrogò qual sentimento avesse sopra la natura e gli attributi della divinità. Simonide chiese un giorno onde riflettere avanti rispondere; al domani ne chiese due; e così andò via raddoppiando, finchè incalzato dal re, confessò che, più vi pensava, più trovava il tema intricato ed oscuro. Oggi la femminetta vi risponde.
Gerone osteggiò Terone e Trasideo signori d’Agrigento, perchè avevano dato ricovero a Polisseno fratello di lui, cacciato come troppo ben voluto dal popolo: ma Simonide, interpostosi della pace, la sodò con parentele. Spedita la flotta a sussidio di Cuma, Gerone riportò vittoria navale sopra gli Etruschi. Trasferì in Leontini gli abitanti di Catania, in questa ponendo coloni nuovi, affine di conseguire il titolo d’eroe, di cui onoravansi i fondatori di città, e prepararsi un asilo in caso di disastro.
TRASIBULO
467 Ivi morì, e gli successe Trasibulo suo fratello; delle cui crudeltà disgustati, i Siracusani s’intesero colle altre città, lo cacciarono, ed in memoria istituirono annua festa a Giove Liberatore, col sacrifizio di quattrocento cinquanta tori da banchettare. 466 Siracusa allora ripigliò governo a popolo; e ad imitazione di essa le altre città di Sicilia cacciavano la gente nuova per ripristinare gli antichi proprietarj ne’ beni rapiti, e nel privilegio delle magistrature. Questo ristabilimento del governo repubblicano immerse l’isola in gravi tempeste, ma la guerra civile terminò colla espulsione degli avveniticci, ai quali fu assegnata per dimora Zancle, che aveva preso il nome di Messina per coloni messenj ivi piantati. Questi rifuggiti, i più di origine italiana, furono nocciolo d’un’associazione bellicosa, che poi, col nome di Mamertini, aperse l’isola ai Romani, cioè alla servitù.
445 Gli antichi Siculi, non ancora tutti periti, osarono alzare il capo, concorrendo da tutte le città, eccetto Ibla, sotto la direzione di Ducezio, per espellere i Greci. Prosperati in sulle prime, provarono poi avversa la fortuna, e Ducezio rifuggì agli altari dei Siracusani, che lo mandarono a Corinto, e l’antica schiatta restò irremissibilmente soggiogata. Pure, pigliando parte cogli uni o cogli altri nelle continue guerre, facea prevalere quelli con cui s’accampasse.
DEMOCRAZIA E GRANDEZZA DI SIRACUSA
Siracusa assodò il suo potere con questo trionfo e con un nuovo che riportò sopra 446 l’emula Agrigento; vinse in mare gli Etruschi; stabilì una pace generale, alla cui ombra fioriva, e messa a capo delle città greche di Sicilia, cresceva d’opulenza, ed empivasi di schiavi, d’armenti e di tutte le agiatezze della vita[223]. Timore di tirannia le fece istituire il petalismo, per cui scriveasi sopra una foglia di fico il nome di chi paresse tanto illustre da poter soverchiare, e qualora i voti bastassero, colui dovea restare per cinque anni sbandito: legge conforme all’ostracismo d’Atene e al discolato di Lucca, che punendo non la colpa ma la possibilità della colpa, stoglieva dagli affari i migliori, lasciando la repubblica alla ciurma invidiosa e inetta; ma fu ben presto abolita.
Stava Siracusa sur un promontorio, cinta tre lati dal mare, dominata dalla rôcca Epipoli, e fortissime mura giranti diciotto miglia difendevano un milione ducentomila abitanti. Tre porti apriva alle navi di tutto il mondo, il Trogilo, il piccolo di Marmo, e quel delle Neocosie, grande cinque miglia, sicchè bastava a trecento galee, e dove più di cento navi poterono battagliare. Dentro era divisa nei quartieri di Acradina, Tiche, Temeno ed Ortigia o isola, il solo che ora forma la città, eccessiva ai quattordicimila abitanti sopravanzatile. Era stata costrutta coi sassi delle vicine latomie, che poscia furono trasformate in prigioni; e vi si ammirava principalmente il tempio dorico di Minerva, con due facciate ed un peristilo esteriore, sul cui frontone giganteggiava un’egida di bronzo col teschio del gorgone; alle porte di legno fino erano riccamente intarsiati oro e avorio; preziose pitture lo fregiavano; e più tardi Archimede vi delineò sul pavimento una meridiana, ove il sole batteva dritto agli equinozj. Quando alcuno ostentasse ricchezze, i Greci gli diceano per proverbio:—Non ne possedete un decimo di quelle d’un Siracusano». Due sorelle doviziose, narra Ateneo, lavavansi in una delle limpide fontane, ombreggiata dai papiri e dai cacti; e venute a contesa sulla propria bellezza, chiesero giudice un giovane mandriano. Egli preferì la maggiore, la quale il ricompensò collo sposarlo, mentre l’altra si unì al fratello di lui. Le due, dette callipigi dalla parte che in esse avea vanto, fondarono un tempio alla bellezza callipiga; e dalle ruine di quello fu estratta la famosa Venere di tal nome. Altrettanto famosa è la statua di Esculapio. Feste solenni si celebravano pure, dette Caneforie, Citonee, Targelie, con suntuosi banchetti.
I Leontini, gelosi e dolenti di vedersi privati del commercio, mandarono l’illustre oratore Gorgia loro concittadino a sollecitare contro di Siracusa 427 gli Ateniesi; i quali, allora sobbalzati da sfrenata democrazia, volentieri misero mano negli affari di quell’isola, riconoscendola di suprema importanza a dominare il Mediterraneo. Pertanto spedirono navi a soccorso di quegli Jonj e dei Reggini, e per alcuni anni rimestarono nelle discordie intestine dell’isola, finchè la ricomposero, a patto che ciascuno ritenesse quel che aveva. I Leontini o franti dalle dissensioni interne, o vedendosi incapaci a difendere la propria città, la demolirono e si mutarono in Siracusa, che primeggiava, per quanto gli Ateniesi avessero tentato armarle incontro una federazione.
SPEDIZIONE DEGLI ATENIESI
416 Undici anni dopo, venute alle mani Egesta e Selinunte, Siracusa favorisce all’ultima, e gli Egestani superati ricorrono ad Atene per ajuti, mostrando che altrimenti i Dori metterebbero a giogo irreparabile gli Jonj. Atene trovavasi allora sulle braccia la Grecia intera nella lunga guerra peloponnesiaca, laonde i prudenti la distoglievano da questa nuova briga; ma Alcibiade, consigliatore di quei partiti estremi che allettano il vulgo, mostrava come l’occupazione della Sicilia sarebbe scala all’Africa e all’Italia, e fece decretare la guerra, e capitani lui, Lamaco e Nicia che l’avea sempre dissuasa. Mai sì bella flotta non aveva allestito Atene; mai impresa non era parsa più popolare; cittadini e stranieri in folla accompagnarono gli armati al porto, e incensi e profumi olezzanti da vasi d’oro e d’argento, e copiose libagioni propiziarono gli Dei alle navi, che adorne di festoni e di trofei salpavano, tanto sicure dell’esito che il senato prestabilì la sorte delle varie provincie dell’isola.
415 Centrentaquattro triremi sferrarono da Corcira, con cinquemila soldati di grave armadura, oltre gli arcieri e i frombolieri; ma non più che trenta cavalli. Traversato il mare, furono accolti sgarbatamente da Turio, Taranto, Locri, Reggio, benchè colonie attiche: gli Egestani, che eransi proferti di pagare le spese della guerra, trovarono d’avere nel tesoro appena trenta talenti. Il cauto Nicia allora proponeva: «Non diamo ai bugiardi Egestani maggiore ajuto di quel che sono in grado di pagare»; e mostrando ingiusta la causa assunta, col tentennare scoraggiva i soldati. 413 Pure vollero cingere d’assedio Siracusa, quando però già le avevano lasciato agio di fornirsi di viveri e d’armi, mentre gli Ateniesi erano peggiorati d’uomini, di provvigioni, di coraggio. L’abile Nicia condusse l’assedio con tal maestria, che stava per pigliare la città; quando Alcibiade che, disgustato colla patria, era rifuggito agli Spartani, indusse questi Dori a soccorrere la dorica Siracusa. Spediscono di fatto Gilippo, il quale presenta la battaglia, e vince e scioglie l’assedio.
Allora gli Ateniesi pensarono a ritirarsi, e n’erano in tempo; ma sul salpare delle àncore, ecco il sole s’eclissa; e Nicia, non volendo entrare in viaggio con questo sinistro augurio, differisce la partenza. Approfittarono del momento i Siracusani e Gilippo, agosto e sul mare e per terra percossero gli Ateniesi di una piena sconfitta. I Siracusani eransi assicurato l’avvantaggio in mare col far le prore meno alte che quelle degli Ateniesi, onde percotevano le navi avversarie a fiore o sott’acqua, e talvolta d’un solo urto le mandavano a picco. Nicia stesso cadde prigione, ed o si uccise o fu ucciso nel carcere; settemila prigionieri chiusi nelle latomie, stentarono al sole cocente ed alle pioggie, scarsamente nudriti e abbeverati; alcuni vi morirono, altri vi penarono l’intera vita, quali furono venduti. Fortuna fu per alcuni il conoscersi di lettere; ed il sapere a mente versi d’Euripide a molti fruttò la libertà ed il ritorno in patria. Era Euripide il terzo poeta tragico della Grecia, e tal conto ne facevano i Siciliani, che stando per respingere dalla costa un legno caunio, inseguito da pirati, come intesero che i naviganti sapevano versi di quel poeta, dieder loro ricetto.
DIOCLE
I Siracusani avevano dunque fatto costar caro agli invasori l’aver tentato la loro patria; e come avviene dopo le guerre di liberazione, crebbero in grandezza. Diocle persuase a riformare lo Stato, conferendo il governo a giudici tratti a sorte, 412 e da persone capaci facendo compilare un codice. Lui capo, si stanziarono leggi che non solo punivano i malvagi, ma anche ricompensavano i buoni; e furono adottate da molte città con sì felice prova, che a 410 Diocle si volle erigere un tempio.
Le contese rinate fra Egesta e Selinunte trassero Siracusa in guerra con Cartagine, che dal lido africano allora signoreggiava il Mediterraneo; e gli eventi che ne seguirono mutarono faccia alla Sicilia. I Cartaginesi, venuti come ausiliarj degli Egestani, presero Imera, condotti da Annibale figlio di Giscone, il quale fece strozzare tremila prigionieri nel luogo stesso dove Amilcare suo zio era stato ucciso a pugnalate dopo vinto da Gelone; e sterminò Selinunte e Imera. Poi aspirando a conquistare l’isola tutta, 408 il vecchio Annibale col giovane Imilcone vi sbarcò cenventimila guerrieri, che diroccarono Agrigento, e ne spedirono a Cartagine preziosissimi capi d’arte, e pelli e teschi di uccisi, a decorazione de’ tempj.
DIONIGI IL VECCHIO
Immenso terrore colse tutti i Sicilioti. Ermocrate, il più grand’uomo dell’isola dopo Gelone[224], erasi mostrato eroe nella guerra contro gli Ateniesi, poi sbandito per intrighi degl’invidiosi, soliti a camuffarsi col titolo di popolani, avea tentato rendersi tiranno di Siracusa. Restò ucciso, ma il valore e l’ambizione di lui ereditò il figlio Dionigi, il quale tolse occasione dai disastri per incolpare i giudici di Siracusa di tepidezza e di corruzione. Una legge, la quale anche oggi gioverebbe a frenare cotesti eroi da piazza, volea che, chi non potesse provare l’accusa, fosse multato come calunniatore; a Dionigi toccò tal pena, e non trovandosi in grado di soddisfarla, perdeva il diritto di più favellare dalla tribuna, quando Filisto (che poi scrisse la storia di Sicilia) pagò del suo, anzi entrò mallevadore per le multe in cui potesse incorrere. Sentendosi spalleggiato, Dionigi infervorò le declamazioni; il popolo, che già lo reputava pel valore, riformò i giudici, e lui pose fra gli eletti. Egli fece richiamare i fuorusciti, sicuro di averli saldissimo appoggio; contrariò i colleghi, ribattendone tutti i consigli e celando i suoi proprj; e col mandar voce ch’eglino s’intendessero co’ nemici, ottenne per se solo il comando delle armi. Spedito a soccorrere Gela, vi protesse la plebe contro i ricchi, e coi beni confiscati a questi fece larghezza all’esercito, mediante il quale occupò in Siracusa 405 l’assoluta potestà.
Allora si cinse di bravi, strinse parentele potenti, adoprò sessantamila uomini e tremila paja di bovi per fortificare l’Epipoli, con sotterranei che comunicavano al forte di Labdalo, e che con frequenti aperture nella volta agevolavano le sortite. Da principio provò avversa la fortuna, e non potè difendere Gela dai Cartaginesi; onde i soldati rivoltatisegli, saccheggiarono il palazzo di lui e ne maltrattarono la moglie, tanto ch’ella ne morì. Colla forza e col macello Dionigi sottopose i rivoltosi; poi valendosi degli schiavi affrancati, dei soccorsi spartani e della peste sviluppatasi tra’ Cartaginesi, costrinse questi alla pace, e a cedere tutte le conquiste fatte nell’isola, e Gela e Camarina smantellate; e tornò indipendenti tutte le città. I Siracusani, che soli restavano in servitù di lui, insorti di nuovo, sì ben lavorano che lo riducono all’ultima estremità: ma Dionigi sa tenerli a bada, finchè sopraggiunti i suoi alleati, li vince e disarma; e preceduto dal terrore, assoggetta Nasso, Etna, Catania, Leontini; 403 e può addensare tutte le forze al suo costante intento di snidare dall’isola gli Africani.
Con ottantamila uomini e duemila vascelli affronta i Cartaginesi; ma questi, guidati da Annibale ed Imilcone, radunano a Panormo trecentomila uomini e 398 quattrocento navi, prendono Erice e Motia, distruggono Messina, e procedono sopra Catania e Siracusa, nel cui porto entrano con ducento galee ornate di spoglie nemiche, e con un migliajo di navi minori. 392 Pure, decimati dalla peste, dovettero andarsene, cedendo anche Taormina, da loro fondata per collocarvi gl’Italioti venuti in loro sussidio.
Dionigi move allora ad assoggettare la Magna Grecia; generoso, alle città vinte lascia l’indipendenza, e rinvia senza riscatto i prigionieri; solo esercita fiera vendetta sopra Reggio, ricovero de’ fuorusciti siracusani, che, poderosa di trecento vascelli, resse undici mesi d’assedio; al fine caduta, 387 più non potè risorgere[225].
Anche all’Illiria ed all’Etruria portò guerra Dionigi, sott’ombra di sterminare i pirati; dal tempio d’Agila tolse mille talenti, e il valore di cinquecento in prigionieri e spoglie. Perocchè egli non si fece mai scrupolo di spogliare gli Dei; levò a Giove un manto d’oro massiccio, dicendo,—Gli è troppo pesante per l’estate, troppo freddo per l’inverno»; ad Esculapio fece staccare la barba d’oro, come essa disconvenisse al figlio d’un padre imberbe; tornando a gonfie vele d’aver saccheggiato il tempio di Proserpina a Locri, esclamò,—Ve’ come gli Dei spirano propizj ai sacrileghi!» e coll’oro giunse ad avere sotto gli stendardi fin due e trecentomila soldati, oltre l’equipaggio della flotta. Meditava istituire colonie sull’Adriatico, di là tragittarsi nell’Epiro e nella Focide a saccheggiare il tempio di Delfo: ma gli ruppero il disegno i 382 Cartaginesi, ricondotti da Magone. Dionigi alla prima li vinse, e ricusò la pace; ma avendogli un oracolo predetto che morrebbe quando avesse vinto un nemico più di lui poderoso, non ispinse la guerra agli estremi, e rannodò la pace.
Vigorosa ed accorta amministrazione adoprò Dionigi, ma arbitraria e violenta. Conscio de’ pericoli che circondano il tiranno, mai non dormiva nella medesima camera; facevasi bruciar la barba dalle figliuole, dopo che il suo barbiere s’era vantato, «Ogni settimana ho sotto al rasojo la vita di Dionigi». Come il Machiavelli al suo principe, così il gran filosofo ateniese Platone voleva persuadere a Dionigi di elevare, sulle ruine della democrazia, uno Stato poderoso, che togliesse di mezzo gli stranieri, Greci fossero o Cartaginesi, e non lasciasse all’osco sostituire il parlare ellenico; a ciò l’avrebbe giovato un’oligarchia d’uomini, legati in società arcane, com’erano i Pitagorici. Dionigi per lo contrario favoreggiava ed arricchiva i caporioni stranieri, eccedenti in lusso e dissolutezze; accentrava tutta la vita nazionale in Siracusa, negligendo la restante isola; onde, malgradendo il consigliatore filosofo, s’accordò col piloto spartano che o l’affogasse o il vendesse schiavo. E Platone fu venduto, poi riscattato dai Pitagorici, i quali l’ammonirono:—«Un pensatore non si accosti a principe, se non sappia adularlo».
DAMONE E PITIA
I Pitagorici, benchè sbrancata la loro lega e perseguitati, conservavano potenza quanta bastasse per contrastare alla tirannide di Dionigi. Damone, un di quelli, essendo condannato a morte per la colpa che i governi cattivi appongono a chi non n’ha veruna, chiese di poter prima andar a salutare la famiglia, promettendo ritornare all’ora assegnatagli. Statico per lui rimase in carcere l’amico suo Pitia, il quale vedendolo indugiare oltre l’ora pattuita, sollecitava d’esser messo al supplizio in sua vece. E già v’andava, quando Damone sopragiunto vi si oppone; l’altro insiste: qui generosa gara, della quale meravigliato, Dionigi li manda assolti, e chiede d’entrare terzo nella loro amistà. Poteva darsi amistà fra due filosofi ed un tiranno?
TIRANNIDE DI DIONIGI
Anche una pitagorica, piuttosto che svelare i segreti della sua setta, si tagliò coi denti la lingua. Dionigi, che tutte sorta di gloria ambiva, lesse una volta suoi versi al poeta ditirambico Filosseno, e poichè questi li disapprovò, lo fece chiudere nelle latomie; al domani richiamatolo, gli lesse altri versi; uditi i quali, il sincero poeta si volse agli sgherri, e—Riconducetemi nelle latomie»; Dionigi sorrise, e gli perdonò. Così recossi in pace gli arditi parlari del giovane Dione, il quale, udendolo celiare sulla placida amministrazione di Gelone, gli disse:—Tu ottenesti confidenza e regno pei meriti di Gelone; ma pei meriti tuoi in nessuno più si avrà fiducia». Quando suo cognato Polisseno, chiaritosegli nemico, fuggì, Dionigi chiamò la sorella Testa, e la rimbrottò severamente come conscia della fuga del marito; ed ella:—Mi credi dunque sì vile, che, sapendo che mio marito meditava la fuga, non avessi voluto accompagnarlo? Avrei con esso diviso gli stenti, ben più lieta d’esser chiamata la moglie di Polisseno esule, che la sorella di Dionigi tiranno».
Dionigi aspirò alle lodi della libera Grecia, e mandò suo fratello a vincere per lui nelle decantate corse olimpiche in Elea, e disputare a suo nome la palma poetica, lusingatagli dagli adulatori: ma tutto re ch’egli fosse, l’indipendente gusto de’ Greci lo fischiò, e il retore Lisia tolse a mostrare ch’era indegno l’ammettere un tiranno forestiero a competere in que’ giuochi olimpici, ch’erano destinati a congiungere i liberi Elleni. Pure avendo conseguito il premio della tragedia nelle feste di Bacco, Dionigi ne tripudiò e imbandì un convito, dopo il quale o per veleno o per istravizzo fu côlto da morte, avendo regnato più di qualunque altro tiranno.
DIONIGI II
368 Gli succedette il figlio Dionigi, sotto la tutela dello zio Dione, degno amico di Platone, e riverito dal cognato pel rispetto che la virtù impone anche a chi l’abborre. Dicono che Dione al vecchio tiranno insinuasse di lasciar la corona al figlio di sua sorella Aristomaca, escludendo il ribaldo Dionigi, il quale per questo accelerò la morte al padre, e pose odio sviscerato a Dione. Nè questi nè Platone tornato in Sicilia valsero a trarre a miglior costume il malavviato giovane, il quale, non vedendo ne’ loro consigli se non una trama per favorire i figli d’Aristomaca, cacciò Dione in Italia, tenne Platone in cortese prigionia, disperse i Pitagorici loro amici.
DIONE
356 Ma Dione, coll’appoggio de’ Corintj, occupò Siracusa, e sbalzato Dionigi, se ne rese signore. Per annunziare la liberazione, egli salì sopra un orologio solare, onde il vulgo disse:—Com’è mobile il sole, così non durerà la costui dominazione»[226]. In fatto, due anni dopo, l’ateniese Callippo, fintosegli amico, lo trucida, e ne usurpa l’autorità; ma 353 l’anno appresso n’è spogliato da Ipparino figlio di Aristomaca, il quale domina fino al 350, lasciando disonesta memoria.
347 Tra le irrequiete fazioni Dionigi trova partigiani, mercè de’ quali dopo dieci anni risale al potere. Temendo nel figlio di Dione le paterne virtù, il corruppe con discoli costumi, del cui lezzo questi si vergognò tanto, che si diede morte. Per impedire che i Siracusani uscissero di nottetempo, Dionigi permise ai malfattori di spogliare i passeggieri; concesse alle donne un vero dominio nelle case, acciocchè rivelassero le trame dei mariti. Adulatori trovava, delle cui bassezze sol questa rammenteremo, che, essendo egli debole di vista, essi affettavano di urtare per le tavole.—Molti il fanno tuttodì.
TIMOLEONE
Alcuni generosi, sottrattisi alla costui tirannide, fabbricarono Ancona; altri ordivano di riscattare la patria, e salvarla da’ minaccianti Cartaginesi. A tal fine chiesero ajuti a Corinto, 365 loro metropoli, che spedì ad essi Timoleone, gran capitano e gran cittadino. Timófane, costui fratello, ottenuto il comando delle armi in Corinto, vi aveva usurpato il dominio; e Timoleone, non riuscendo a distornelo, indusse due amici ad ucciderlo. 345 Giudicato da alcuni generoso, da altri assassino, sua madre lo maledisse; ed egli deliberò lasciarsi morir di fame; poi stornato dal fiero proponimento, giurò non impacciarsi nelle pubbliche cose, e piangere sequestrato dagli uomini. Dodici anni durò nel deserto, poi rimessosi in Corinto, viveva privato, allorchè, propostogli di andar a sostenere i Siracusani, accettò dicendo:—I miei portamenti mostreranno se devo essere intitolato il fratricida o il distruttore de’ tiranni». Con soli settecento uomini sopra venti vascelli approda a Siracusa. Iceta tiranno di Leontini, che, vinto Dionigi e chiusolo nell’Isola, 343 aveva usurpato la supremazia, tenta invano guadagnarsi Timoleone, il quale cresciuto di seguaci, lo vince e condanna a morte, demolisce l’Isola covacciolo di tiranni, sicchè Dionigi è costretto rifuggire in Corinto, dove visse col far da maestro.
Timoleone allora fu sopra ai Cartaginesi, il cui capitano Magone, côlto da timor panico, fuggì, e col darsi morte evitò la croce che i suoi serbavano al capitano vinto. Seguitando la prosperità, Timoleone redime Engia ed Apollonia dalla tirannide di Letino, sconfigge Mamerco e Ippone tiranni di Catania e Messina, restaura in Siracusa il franco stato, e le redente città congiunge in federazione sotto le leggi di Diocle. La libertà è rassodata dalla vittoria sopra i Cartaginesi, capitanati da Amilcare e Asdrubale; 340 ai quali Timoleone ingiunge di lasciar libere tutte le città di Sicilia, che nella pace rinnovarono la popolazione e la prosperità.
Quel modello compiuto di un eroe repubblicano all’antica, fece sottoporre a giudizio le statue dei re precedenti, e trovò degna d’esser conservata soltanto quella di Gelone, effigiato da semplice cittadino. 357 Deposto il comando, si ridusse a privato vivere, ma coll’autorità del consiglio guidava le cose; a lui già cieco ricorrevano i magistrati, a lui insigni onoranze, a lui gli applausi del pieno teatro ove esponeva il suo parere. Senza contaminarsi di ambizioni, cosa rara, nè, cosa ancor più rara, subire l’ingratitudine, morì carico d’anni, e quando fu posto sul rogo, l’araldo gridò:—Il popolo di Siracusa, riconoscente a Timoleone dell’aver distrutto i tiranni, vinto i barbari, ristabilite molte città, dato leggi a’ Siciliani, decretò di consacrare ducento mine a’ suoi funerali, e commemorarlo tutti gli anni con gare di musica, corse di cavalli, giuochi ginnastici».
AGATOCLE
Aveva egli pensato riformar il paese non colle idee di Pitagora e di Platone, sibbene colla dorica severità; ma i costumi erano guasti a segno, che mal potea reggere chi non avesse tante virtù quante Timoleone. Appena egli chiuse gli occhi, tutto fu scompiglio dentro e fuori; 317 ed Agatocle se ne valse per tiranneggiare. Quest’era un fanciullo raccolto sulla via, serbato a infami usi, poi applicato al mestiere di vasajo; ma coll’astuzia e colla forza si fece largo, e salì al dominio, e il tenne a lungo, affettando popolarità; cassò i debiti, e distribuì terre agl’indigenti; nè diadema volle nè le guardie, dava facile accesso a tutti, e facevasi servire in vasi di argilla per ricordare l’origine sua; ma nel medesimo tempo sterminava gli aristocratici e i fuorusciti delle varie città, inevitabili fomiti di civili scompigli.
Al pari di Dionigi, sentì che l’impresa più nazionale era il respingere gli stranieri, e difatto fu alle mani coi Cartaginesi: ma questi, sebbene in sulle prime andassero dispersi da una procella, tornati sotto la scorta di Amilcare, 311 sconfissero Agatocle, ed assediarono Siracusa. Che fa l’ardito? con truppe elette sbarca sulle coste d’Africa, arde le navi acciocchè non rimanga altro scampo che la vittoria, e vi continua quattro anni la guerra senza fare parsimonia d’atrocità e tradimenti. Ma le città greche di Sicilia disturbarono l’impresa col rivoltarsegli: ond’esso ritorna, lasciando in Africa l’esercito, che subito va alla peggio, e che indispettito del vedersi abbandonato, ne strozza i due figliuoli, e si arrende ai Cartaginesi. Agatocle si vendica strozzando in Sicilia i parenti de’ soldati, 306 e restaura l’obbedienza in paese e la pace co’ nemici.
Anche in Italia spinse correrie, assalì Crotone, vinse i Bruzj, saccheggiando e ritirandosi. Non diremo con Timeo che a fortuna soltanto sia dovuto il suo elevamento; ma deturpò con sanguinarie crudeltà le splendide doti del suo animo. La pace che mantenne con mano di ferro, mostra se conosceva il suo paese; quanto conoscesse gli avversarj, il mostra l’audace suo sbarco in Cartagine. Onde Scipione Africano che poi l’imitò, richiesto quali eroi avessero mostrato più senno nel disporre i disegni, e più giudizioso ardimento nel compirli, nominò Agatocle e Dionigi il Vecchio.
289 Arcàgato suo nipote lo avvelenò, e ne assunse il dominio; ma poco stante costui è assassinato da Menone, che tenta farsi proclamare dall’esercito: assalito però da un altro Iceta, rifuggì tra i Cartaginesi. Iceta governò per nove anni col titolo di stratego della repubblica; 280 poi Tinione s’impadronì del potere, disputatogli da Sosìstrato.
ALTRE CITTÀ SICILIANE
Di mezzo a ciò nuovi tiranni erano sorti in quasi tutte le città. Agrigento, risarcitasi alquanto della distruzione sofferta, fu corifea della lega contro Agatocle, poi soffrì la tirannide da Fintia, che soccombette a Iceta. Gli stranieri che militavano al soldo di Agatocle, ajutati dalla scissura e dalle varie tirannidi, s’insignoriscono di Messina, e invaghiti di sì opportuna postura, scannano gli uomini, vi si stanziano col nome di Mamertini, e sottopongono gli Stati limitrofi, sostenuti da una legione romana che avea fatto in Reggio quel che essi in Messina. I Cartaginesi scorrono fino alle porte di Siracusa; onde questa chiama in soccorso Pirro re di Epiro, 278 sposo di Lanassa figlia di Agatocle, le cui imprese ci saranno divisate più tardi.
Le altre città siciliane procedettero come satelliti delle due principali. Erano famose pei vini Taormina e Leontini, città voluttuose e di territorio ubertosissimo. Catania grandeggiò sul suo golfo, sinchè la lava dell’Etna non la sovvertì. Ibla, fabbricata da Greci di Megara, traea vanto dal miele, emulo dell’ateniese d’Imetto. Camarina era infestata e difesa da una palude; dato scolo alla quale, restò salubre, ma esposta ai Siracusani che la distussero. Con miglior fortuna Empedocle sanò i marazzi attorno a Selinunte. Erice visitavasi per la voluttuosa divozione di Venere; ne traevano lautissimi guadagni le schiave devote, la cui bellezza vive tuttora nelle donne del monte San Giuliano, popolato anche adesso dalle colombe, sacre alla dea d’amore. Allo scarco del monte su cui poggiava Erice, sorgeva Egesta, che avendo ricusato denaro ad Agatocle, vide i migliori cittadini mandati a strazio, fatte a brani le donne, venduti i figliuoli in Italia. Il suo nome fu dai Romani mutato in Segesta, perchè quei fieri superstiziosi impaurivano dinanzi a un vocabolo malaugurato qual era questo, somigliante ad egestas, come Malevento cambiarono in Benevento. Di qui era nativa Laide, che a dodici anni trasferita a Corinto, divenne famosissima cortigiana; e i pittori accorreano per copiarne alcune bellezze. Imera vantavasi pei bagni caldi, e per aver dato la culla al poeta Stesìcoro. Allorchè i suoi concittadini voleano chiedere ajuti al tiranno Falaride contro i loro vicini, il poeta narrò loro la favola del cavallo, che volendo combattere l’orso, si tolse in ispalla l’uomo; riuscì vincitore, ma l’uomo aveva imparato a mettergli il morso e tenerlo schiavo. Enna, forte di mura, ridentissima di circostanze, celebrava con annue solennità le feste di Cerere, dea che quivi era nata, e la cui figlia era stata rapita mentre pe’ campi suoi coglieva fior da fiore.
PRODUZIONI
Fenicj e Cartaginesi facevano dapprima in Sicilia vivo traffico d’asportazione; poi le colonie greche vi aumentarono l’industria. Le accennate favole sono argomento che da antichissimo vi si coltivavano il grano, l’ulivo, gli aranci; e il titolo di granajo d’Italia allude alla sua fertilità, tantochè nove milioni di sesterzj Roma vi spendeva ogni anno in grani[227]. Gelone offrì nutrire l’esercito greco tutto il tempo che durerebbe la guerra co’ Persiani. Gerone II ai Romani, dopo sconfitti al Trasimeno, regalò trecenventimila moggia di frumento, e ducentomila d’orzo. Diodoro attribuisce la prosperità di Agrigento all’olio e al vino che spacciava in Africa, dove ancora non erano naturati. Ne’ tempi storici, Anassila introdusse in Sicilia le lepri, e Dionigi il platano[228]. Riccamente vi facea lo zafferano, che contandosi pel più bel colore dopo la porpora, e per ingrediente prezioso delle vivande e de’ profumi, otteneva grande importanza, come anche l’abbondantissimo e squisito suo miele, quand’era ancora sconosciuto lo zuccaro. Favole e storie accennano ai copiosissimi armenti siciliani ed ai formaggi: i cavalli, massime di Agrigento, erano in gran nominanza, e in tal numero, che negli eserciti siciliani la cavalleria sommava a un decimo de’ pedoni. Inoltre v’abbondavano metalli, agate, oggetti di lusso; e Roma, già avvezza ai trionfi, stupì delle dovizie trovate nel saccheggio di Siracusa. Questa abbiamo detto di quanto popolo fosse ricca; ed altrettanto erano in proporzione Agrigento, Gela, Imera, Catania, Leontini, Lilibeo; Dionigi radunò sessantamila operaj dalle circostanze di Palermo.
LETTERATURA
Il fiore delle belle lettere in Sicilia prevenne quello di Grecia, e il dialetto dorico vi fece le migliori sue prove[229]. A Sparta ogni anno pubblicamente leggeasi il trattato della Repubblica di Dicearco da Messina[230]. Epicarmo, fiorito nel 500, è il primo o dei primi che desse forma regolare alla commedia; metteva in canzone numi ed eroi[231]; trattava quistioni politiche, svolgendole in catastrofi ben derivate, dipingendo caratteri, intarsiandovi proverbj antichi e sentenze de’ Pitagorici, formando insomma quella mistura di lepido e di profondo che oggi è tanto pregiata quanto scarsa. Sofrone inventò i mimi: Corace e Lisia furono primi ad istituire scuole di retorica, della quale fu sì pronto l’abuso: e già Polo d’Agrigento è introdotto da Platone nel Gorgia a sostenere che l’interesse personale è la misura di tutto il bene; vantare la retorica perchè permette all’oratore di appagare tutti i suoi capricci, opprimere gli avversarj, e farli esigliare ed uccidere.
TEOCRITO
La poesia pastorale fu creata in Sicilia da Stesìcoro, e più tardi perfezionata da Teócrito, il quale con bellissimi versi sembrò rinnovare l’illusione de’ giorni fortunati, quando l’isola del sole godeva la pace e la tranquilla agiatezza de’ campi. Mirabile per la testura del verso e l’ingenuità della frase, non sempre egli evita le arguzie e i giocherelli di parole, delizia dei secoli di decadenza; ma è il solo fra i bucolici che abbia saputo farsi originale coll’esser naturale, essendo i suoi veramente pastori, a differenza di quelli di Virgilio, di Gessner, di Voss, e ancor più di quelli del Guarini e del Sannazzaro, che tradiscono la finzione col mostrare per la vita loro un appassionamento, non proprio se non di chi ne provò una diversa. Pure gli idillj di Teocrito sentonsi dettati alla splendida Corte di Tolomeo, alle lodi del quale e di Berenice dirizza continuo i pastorali accordi; e mira a dare risalto alla regia pompa col contrapposto della boschereccia semplicità, ed ingrandire la meraviglia delle feste col porne la descrizione in bocca di gente grossiera e stupita. Il panegirista della ingenuità campestre non ha vergogna di mendicare, e dire a’ suoi principi:—La musa mia negletta rimane nella solitudine; incoraggiatela, e saprà presentarsi con nobile confidenza».
Men pastorali e meno ingegnosi sono gl’idillj di Bione da Smirne e di Mosco da Siracusa, somiglianti piuttosto ad elegie o a canti mitologici.
SCIENZE
Nè minor fiore ebbero in Sicilia le scienze. Già indicammo quante verità custodissero e trasmettessero i Pitagorici, applicando le matematiche alla fisica, fin a scoprire il vero sistema mondiale. In fatto Iceta da Siracusa, anteriore al naturalista Teofrasto, conobbe la rotazione della terra; Empedocle adombrò l’attrazione e repulsione newtoniana coll’amore e la discordia da cui fa generare i moti del mondo, e pare non ignorasse i fenomeni dell’elettricità[232]. L’analisi geometrica e molte scoperte guidò Archìtada Taranto[233], che abbiamo veduto spesso a capo degli eserciti e del governo della sua patria.
Gerone II mandò a Tolomeo Filadelfo re d’Egitto un vascello a venti ordini di remi, che superava ogni costruzione egizia in agilità e in meccanismi ingegnosi. Per esso fu tagliato sull’Etna tanto legname, quanto basterebbe a formare sessanta galee: v’avea splendide camere con trenta tavole da quattro persone (τετράκλινοι), pavimento a tarsìa rappresentante la guerra di Troja, gabinetti di voluttà, solati di agate e altre pietre di Sicilia, gallerie di quadri, scuderie, magazzini, cucine, forno, orologio, passeggio con giardino. Era disegno di Archimede, il quale forse inventò a quell’uopo le taglie e la vite perpetua; v’aggiunse un apparecchio da guerra, cingendolo d’una specie di cortina, con macchine che lanciavano travi lunghe venti piedi, e sassi pesanti cenventicinque libbre, alla distanza di cenventicinque passi[234].
ARCHIMEDE
287-212
Questo Archimede segnò orme indelebili nella storia delle scienze; sebben nelle lettere onde accompagnava i varj suoi libri, attesti che molte cose avea non inventate, ma apprese. Le teoriche sue sono oggi ancora il fondamento dei metodi per misurare gli spazj terminati da linee o da superficie curve, e il loro ragguaglio con figure e piani rettilinei, fissando il rapporto della periferia al diametro come ventidue a sette. In due maniere indipendenti trovò la quadratura della parabola; nel trattato sulle spirali elevossi a considerazioni più ardue, conducendo le tangenti e misurando le aree di curve che oggi riguardiamo come trascendenti; tanto che Vieti l’accusava di falso, sinchè il calcolo differenziale e l’integrale provarono l’esattezza de’ risultamenti. Dimostrò che, se la sfera sia circoscritta al cilindro, il rapporto tra la superficie e i volumi è lo stesso, cioè due terzi: del quale teorema, che ancora è il più elegante della geometria elementare, tanto egli si compiacque, che volle queste due figure scolpite sul suo cippo funereo. Provò che in ogni sistema di corpi esiste un centro di sforzo e di gravità, e lo determinò nel parallelogrammo e nel triangolo, col che sottopose alla meccanica razionale tutti i problemi relativi all’equilibrio dei solidi.
L’ arenaria sua avrebbe aria di nulla meglio che un giocherello di curiosità, dirigendosi a confutare chi diceva che nessun numero, per quanto grande, basterebbe ad esprimere la quantità delle arene: pure Archimede, formando una progressione numerica, per la quale esprimere quanti granelli se ne richiederebbero onde colmare la volta del firmamento, ridusse sensibili i concetti che si avevano intorno al sistema del mondo, e applicò il calcolo a conoscere il diametro del sole; tanto più mirabile perchè all’aritmetica greca mancavano figure onde esprimere di là dai cento milioni[235]. Non è fuori di probabilità che siano dovute a lui la prima idea della rifrazione astronomica, e le più antiche ricerche sulle equazioni indeterminate.
DOTTRINE E INVENZIONI DI ARCHIMEDE
Volendo Gerone II chiarirsi se l’orafo, incaricato di fargli una corona, v’avesse impiegato tutto l’oro somministratogli, chiese ad Archimede se vi fosse modo di accertare le proporzioni della lega. E Archimede vi pensava come chi desidera riuscire, cioè giorno e notte, finchè nel gettarsi in un bagno, gli brillò agli occhi l’idea del peso specifico, e ne giubilò a segno, che così nudo balzò fuori, e corse attorno, gridando:—L’ho trovato, l’ho trovato». Vera o no che sia la storiella, torna ad Archimede il merito d’aver inventata e coordinata l’idrostatica; scoprì che ogni particella d’un fluido è premuta da una colonna del fluido stesso sovrappostale verticalmente, e che la porzione più compressa respinge la meno. Accertato il qual vero dall’esperienza, avvertì che un fluido, pesante verso il centro del globo, deve offrire una superficie sferica; e che un solido, il quale pesi quanto un egual volume di liquido, si sommergerà, mentre quelli che pesano meno ne emergeranno in proporzione: dal che inferì giustamente, che i corpi sommersi trovansi risospinti con una forza rappresentata dalla differenza tra il loro peso e quello d’un volume eguale di fluido, e che ogni solido immerso perde tanto di gravità, quanto pesa il volume d’acqua che sposta; fondamento dell’idrostatica.
Progredendo, chiarì che i corpi sospinti da un fluido, salgono per la perpendicolare che passa pel loro centro di gravità, onde colla geometria potè determinare qual figura meglio s’addica ai galleggianti, affinchè inclinati si raddrizzino: canone fondamentale nella costruzione de’ vascelli, che Eulero e Bouguer ampliarono, ma che sta ancora qual lo pose il grande Italiano.
A lui pure torna il merito delle prime nozioni scientifiche intorno alla barologia, almeno dei solidi; poichè, generalizzando l’osservazione volgare, egli primo stanziò che lo sforzo statico prodotto in un corpo dalla sua gravità, o vogliam dire il suo peso, dipende dal volume, non dalla forma superficiale: nozione che oggi ne pare semplicissima, e che pure fu il germe d’una proposizione capitale, a cui non venne dato compimento se non allo scorcio del secolo passato; vale a dire che il peso, non solo è indipendente dalla forma e dalle dimensioni d’un corpo, ma anche dal modo onde le sue molecole sono aggregate.
Di quaranta invenzioni meccaniche gli antichi faceano lode ad Archimede; la teorica del piano inclinato, i sistemi delle carrucole, la vite perpetua, per cui un movimento di rotazione può trasformarsi in un altro perpendicolare al primo; avendo agli Egiziani per riversar le acque rimaste dopo gli allagamenti del Nilo, e per vuotare la sentina delle navi insegnato la vite detta d’Archimede, tuttora vantaggiosamente adoperata, e consistente in un asse, con ale sporgenti a spira, e chiuso in un cilindro concentrico a quello, inclinato da 30 a 35 gradi all’orizzonte, e per la base inferiore appoggiato nell’acqua, sicchè girando eleva di passo in passo l’acqua fra le spire incavate ed il cilindro. Costruì pure una sfera che rappresentava i moti degli astri; e disse a Gerone che, datogli un punto d’appoggio, sposterebbe e cielo e terra[236]. Siccome però egli cercava la verità per se stessa più che per le applicazioni, non ci lasciò descritte le sue macchine; sebbene in grazia appunto di queste abbia acquistato la popolarità, la quale si attacca più volentieri alle applicazioni.
ARTI BELLE
Siamo lieti di soggiungere che del suo talento meccanico egli fece l’uso migliore che uom possa, adoprandolo a difesa della patria. Siracusa era assediata dai Romani, ed il console Claudio Marcello v’adoprava tutta la bellica maestria: ma al punto di mettere in atto le macchine, se le vedeva rendere inerti da sempre nuovi congegni d’Archimede, e le navi or affondate, or rapite in alto, ora capolevate, o con specchi incendiate di lontano[237]. Però l’arte d’Archimede non potè salvare la sua città dai tradimenti. Già il nemico l’aveva invasa, ed egli rimaneva tuttora assorto ne’ suoi calcoli, talchè non udì la intimata d’un guerriero romano, che veniva invitarlo a nome di Marcello. Il brutale Romano, credendosi insultato da quella noncuranza, l’uccise. I guaj della Sicilia non le lasciarono o libertà o sentimento di onorare il gran cittadino; e la colonnetta colla sfera e il cilindro, che segnava la gleba del riposo di lui, giacea dimentica fra le tombe volgari quando Cicerone[238] andò a sterrarla di sotto le macìe, e richiamarla all’onoranza degli immemori Siracusani.
Dell’antica grandezza ci conservò stupende testimonianze la Sicilia nelle belle arti. Fin di cinque secoli avanti Cristo abbiam medaglie sue, e di colà sono le più belle fra le antiche, a gran pezza migliori che quelle della Grecia propria; e massimamente i nummi incusi di re Gelone, di Gela, Agrigento, Sibari, Crotone, Reggio, Taranto, palesano squisitissimo gusto. Iperbio ed Agricola che fabbricarono la rôcca di Atene, secondo Pausania venivano di Sicilia. A Learco reggiano gli Spartani commisero una statua di bronzo in molti pezzi, connessi con chiodi, nel 178 di Roma; nel 214 Damea crotoniate lavorò in Elide quella dell’atleta Milone. È lodatissimo un gruppo di Siracusa che incorona Rodi; insigni vasi dipinti vi si vanno scoprendo; e il siciliano Demofilo pittore è gloriato come maestro di Zeusi, uno de’ maggiori artisti, e che fu d’Eraclea nella Magna Grecia.
RUINE DI SELINUNTE
I monumenti siciliani tengono dell’austerità e forza dorica, più che della mollezza e grazia jonica, e sempre con carattere arcaico. Ma l’arte vi venne di Grecia? o da noi passò colà? A quest’ultima opinione farebbero piede i bassorilievi, scoperti non è molto a Selinunte. Questa città ebbe nome dal petroselino che prospera ne’ suoi dintorni, e che essa portava nel suo stemma[239]; durò soli ducenquarantadue anni, e fu distrutta da Annibale prima che sentisse la mescolanza straniera. Giace in riva al mare a mezzodì dell’isola in un vasto piano, diviso da un vallone, ove oggi stagnano le pioggie, e la chiamano Terra de li Pulci. Se la guardi dal capo Granìtola, la credi ancora una gran città; accostandoti riconosci che tutto è ruine, ma così gigantesche che tramutano la melanconia in istupore, e la fantasia si compiace con quei massi enormi, con quegli immani rocchi ricostruire edifizj che parrebbero fatti per una generazione di giganti. E pilieri de’ giganti erano appunto denominati dal vulgo, al quale solo erano conosciuti, dopo che probabilmente un tremuoto volse sossopra que’ colonnati. Tardi vi si applicò l’attenzione degli antiquarj; e sopra l’alta collina prossima al mare, che sembra fosse l’antica acropoli, si intrapresero escavazioni, onde vennero al giorno tempj dorici, sul maggiore de’ quali, periptero esastilo, sovra diciassette colonne posava un cornicione con un fregio dorico, fra’ cui triglifi stavano metope preziose, anteriori d’un secolo e mezzo a quelle d’Egina, che si contano per le più antiche di Grecia. E sette sono que’ tempj, parallelamente disposti su due colline, tutti, dal minore in fuori, circuìti da colonne doriche, nascenti e fortemente rastremate, coll’echino molto sporgente, e viepiù in grazia del sottoposto cavetto. In due di essi, colonne a doppia schiera sostengono il portico nel prospetto, e il pronao chiuso a modo di vestibolo, e le mura della cella prolungate senza pilastri nè colonne; disposizioni che si riscontrano soltanto ne’ monumenti egizj. Nelle metope suddette in rozzo tufo, rappresentanti Ercole coi Làpiti, Perseo con Medusa ed altre scene mitologiche, la monotonia delle teste in profilo tagliente senza cognizione dello scorcio, le barbe a punta, gli occhi fessi al modo degli uccelli, le bocche, i capelli, le pieghe sentono il far rituale, che copia tipi convenzionali anzichè la natura, e indicano il passaggio tra l’arte egiziana e la greca. La prima predomina nelle più antiche; due s’accostano ai marmi d’Egina; nelle altre cinque le variate pose e il piegar degli abiti mostrano un’arte avviata al movimento ordinato e alla rappresentazione animata della classica Grecia. In generale però le opere plastiche dell’isola non ne pareggiano la grandiosità architettonica, nè mai abbandonarono l’arcaismo.
RUINE DI SEGESTA
Fra Trapani e Palermo sorgeva Segesta, fabbricata dagli Elimi, colonizzata dai Tessali; e ancora in mezzo alla solitudine vi s’incontra un tempio parallelogrammo di cinquantasette sopra ventiquattro metri, cinto da trentasei colonne doriche, elevate nove metri e del diametro di due; robuste quanto richiedevasi per reggere il soprornato gigantesco. Tutto s’impronta di una antichità anteriore alla greca educazione, e meglio è conservato perchè non subì le erudite trasformazioni dell’imperatore Adriano, come i monumenti greci.
Se passiamo a Siracusa, troviamo opere più ingentilite e tondeggianti; ed oltre i sepolcri, i tempj, ed uno stilobate lungo cenventicinque passi, che sostiene un’ara oblunga detta di Gerone II, che aveva cornice dorica, adesso appunto si scoperse l’acquedotto che provvedeva copiosamente di acque l’isola, e che potè dare origine alla favola di Aretusa, per confondersi colla quale veniva il fiume Alfeo sin dal Peloponneso, Incorruptarum miscentes oscula aquarum[240]. L’anfiteatro, formante un’elissi molto allungata, parte costruito di pietroni, parte tagliato nel masso, probabilmente fu fatto dai Romani ad uso della colonia postavi, giacchè non sarebbe proporzionato all’antica popolazione. Più accuratamente erasi fabbricato il teatro, che Diodoro Siculo farebbe il più insigne di Sicilia; e posto nel luogo più popoloso della città, offriva agli spettatori la vista del mare, del gran porto, dell’isola Ortigia, delle belle campagne irrigate dall’Anapo, e de’ migliori edifizj della città. Altrettanto meravigliose sono le catacombe, che serpeggiano per molte miglia sotto Acradina, Tiche e Neapoli, attestando dal numero dei morti l’immensa popolazione di quella città.
MONUMENTI IN SICILIA
Nè manca di che ammirare a Catania, sebbene molti fabbricati rimangano sepolti dalle lave; come il teatro, costruito di grandi massi senza cemento, il tempio di Cerere, e tant’altri cimelj, che tratti in luce dalla munificenza del Paternò principe di Biscari, formano uno dei più sontuosi musei. Sotterranei e sculture gigantesche si hanno pure a Lilibeo, tomba della Sibilla Cumana, poi riedificato dagli Arabi col nome di Marsala, cioè porto di Dio, e da poco tempo reso celebre per la preparazione de’ vini stabilitavi da una società inglese. Stupendo poi è a Taormina il teatro, che da una banda mostra il clivo scendente fino al mare Jonio, dall’altra la pendice che sale al fumante vertice del Mongibello: statue, colonne, vasi, che l’adornavano, caddero a pezzi od arricchirono la moderna chiesa; e le volte e le nicchie artifiziosamente disposte per moltiplicare la voce degli attori, non ripetono più che il grido d’ammirazione degli stranieri e il gemito de’ paesani.
—Popolo ascolta i miei canti e il suon della lira sposato alla voce. Io celebro Agrigento, delizia di Venere, e la bella sua campagna. Le Grazie, seguendo le orme della dea, danzano per queste valli; e spesso sulle sfere stellate la lode delle sue piaggie risuona sulle labbra d’Apollo». Così cantava Pindaro; ma Agrigento, che servì poi di piazza d’arme ai Cartaginesi nella guerra contro i Romani, e fu presa da questi, or si trova ridotta al piccolo Girgenti, sparso però di resti d’antica magnificenza, e tombe d’uomini, di cani, di cavalli per ogni via. Qual magnifico prospetto non dovea presentare, a chi venisse d’Africa, quel porto, incoronato di superbe costruzioni e di tempj a ciascun dio, fabbricati dai prigionieri cartaginesi! Alcuno ancor ne sussiste, e i principali furono dai moderni, non con bastante ragione, intitolati a Giunone Lacinia e alla Concordia. Il primo ha un portico di trentaquattro colonne doriche; l’altro pur dorico bene sviluppato e colto, è il più bel monumento della Sicilia, malgrado la pesante trabeazione e ricorda il Partenone d’Atene. Quello d’Ercole perì: a quello di Giove Olimpico lavoravasi ancora quando i Cartaginesi presero la città, sicchè rimase imperfetto; di proporzioni gravi, come tutti gli edifizj dell’isola, e non senza qualche pesantezza e rusticità di dettagli, per ardimento di costruttura e grandiosità di proporzioni era posto a pari col celebre di Diana in Efeso; le colonne doriche si alzano venti metri sopra quattro di diametro, talchè nelle canalature un uomo può riporsi come in una nicchia. Rimase coperto fra i rottami sino ai giorni nostri, quando i frantumi revocati alla luce, e i colossi di rigidezza primitiva, che sopportavano il coperto dell’ipetro, mostrarono quante cose nostre rimangano a scoprire, quante antiche grandezze a interrogare. Un solo pezzo d’architrave è lungo otto metri; e Denon, che pur aveva studiato l’Egitto, restava attonito davanti a quelle masse che pareano fatture di giganti, e ogni colonna una torre, ogni capitello una rupe.
CAPITOLO XI.
I Romani nella Magna Grecia.—I Venturieri.—Pirro.
In quei secoli, a capo del mondo civile stavano i Greci, popolo dell’umanità, il quale, invece di vivere isolato, disutile agli altri, vivificò e fecondò i germi della verità trasmessigli dall’Oriente, in modo che fruttificassero a tutto l’uman genere; e prima cogli Omeri cantò le tradizioni nazionali, poi si diede ad esercitare il pensiero onde scoprire e coordinare le verità; e ciò per merito della libertà, dalla quale tra i Greci furono vivificate la storia, la poesia, le arti, le istituzioni, la religione. E appunto per l’indipendenza anco in fatto di religione, invece di limitarsi a commenti e sviluppi di un tesoro sacro, si volsero essi senza ritegno a indagar Dio, la natura, l’anima, producendo così la filosofia, dalla quale, dopo finita la guerra persiana e assicurata l’unità nazionale, nacquero una morale e una politica, con idee più generali di diritto, di franchigie, di dignità umana. Possedendo eminentemente il gusto del bello ordinato e il sentimento del progresso e della libertà, divennero modello eterno e insuperabile nelle belle arti; mentre le loro repubbliche svolgevano la vita pubblica nelle forme più varie, riducevano a scienza la logica, la morale e le matematiche, posavano e in parte scioglievano i problemi, intorno a cui s’affaticano anc’oggi statisti e metafisici; e insieme correano i mari e le terre trafficando, e popolavano di loro colonie l’Asia e l’Italia meridionale.
ALESSANDRO MAGNO
A tanti vantaggi recavano scapito le incessanti gare tra vicini, le trame degli ambiziosi, l’irrequietudine dei demagoghi, e fuori i re di Persia, i quali, aspirando ad allargare la dominazione assoluta, connaturata ai vasti imperi asiatici, di mal animo comportavano queste repubbliche confinanti. La lotta contro di quelli costituisce la parte epica della storia de’ Greci, i quali in nessun tempo poterono riposarsi dal combattere per reprimere i rinascenti attentati di quella potente nazione, appunto come contro gl’imperatori di Germania lottarono incessantemente le repubbliche italiane dell’età media, che con quelle tengono tanta somiglianza per varietà d’istituzioni, per origine, fiore, coltura, brighe, infortunj.
ALESSANDRO MAGNO E I ROMANI
Indebolendosi la Grecia nelle fraterne discordie, venne ad ottenervi prevalenza la Macedonia, paese guerresco e realista, che paragonarono al Piemonte nell’Italia moderna; ed Alessandro, re di quella, riuscì a farsi dichiarare capo della Grecia tutta, per condurla ad abbattere la Persia. 336 L’animoso giovane, spinto da ambizione tutt’altro che vulgare, con una serie di imprese, per cui la posterità lo intitola Magno, e la Bibbia dice che la terra ammutolì nel cospetto di lui, oltre la Persia, sottomise l’Egitto e l’Alta Asia, invase l’India, e non pago al deplorabile uffizio dei conquistatori di uccidere, desolare, spegnere nazionalità, dappertutto piantava città, opportunissime al commercio, donde ben presto colonie greche e dinastie nuove diffusero la civiltà e la scienza. In Babilonia il vincitore di Persia riceveva omaggio da Cartaginesi, Iberi, Celti, Etiopi, Sciti; così largamente si era diffuso il suo nome: ed Arriano, suo storico, ne assicura che vennero pure ad inchinarlo Lucani, Bruzj, Tirreni. Chi sa che sotto il nome di Tirreni non fossero indicati i Romani dagli storici donde Arriano attinse? Certamente Clitarco, che scriveva poco dopo morto l’eroe, dice che i Romani spedirono ambasciata ad Alessandro; e Plinio lo cita senz’ombra di dubbio[241]. Mal dunque Tito Livio asserisce che fino il nome di Alessandro restò ignoto ai Romani. Ignoto dovea dire alle romane storie, isolate sempre come le cronache, e dove de’ popoli non si fa cenno se non quando si scontrano coll’armi alla mano. Del resto il nome e le imprese del Magno dovettero dar materia, non solo alle ciarle dei curiosi, ma alle apprensioni degli uomini di Stato in tutta l’Italia; sulla quale poteva benissimo voltare l’esercito vincitore dell’Oriente. In tal caso qual esito avrebbe avuto la guerra? Tito Livio posa a se stesso tale quistione; e l’orgoglio patriotico che spira da ogni sua linea, si manifesta singolarmente in quel passo, uno dei pochissimi ov’egli porti lo sguardo fuori del recinto di Roma sua: ma quanto inesatto giudice si mostra!
Il problema è insolubile, come tutti quelli a cui il tempo o la fortuna mescolano elementi, irreperibili dall’umana previsione. Chi sa se Alessandro qui sarebbesi accontentato d’una supremazia pari a quella che esercitava in Grecia, e se Romani e Sanniti vi si sarebbero rassegnati? Presto è detto che altro era il vincere le turbe di Dario, altro gli eroi del Lazio; ma è falso che Alessandro abbia avuto a fare soltanto con gente vinta dalla mollezza prima che dalle armi. Nè soli i trentamila suoi Macedoni avrebb’egli trasportato in Italia, ma quanti falangiti avesse voluto comprare coi tesori dell’Asia, ma i migliori guerrieri di ventura, ma i prodi d’Africa e di Spagna, ma generali formati sotto di lui in diuturne guerre, di cui l’esito non fu sempre dovuto alla fortuna. E fosse pure venuto coi soli Macedoni, dovea Livio ricordarsi che uno de’ suoi successori, Pirro, con tanto meno forze e tanta meno reputazione condusse fino all’orlo del precipizio la futura metropoli del mondo.
AVVENTURIERI
323 Se non che l’eroe macedone, nel fior di sua vita e nel mezzo de’ trionfi moriva, e subito il vasto dominio di lui era spartito fra’ suoi generali, tutti ambiziosi del nome di re d’Egitto, re di Siria, re del Ponto, re della Battriana, della Comagéne; e che a vicenda osteggiandosi, propagarono l’anelito guerresco, empirono di battaglie la Grecia, l’Egitto, l’Asia Alta e la Minore, e formarono una turba di capitani e combattenti di ventura, i quali, simili ai condottieri del nostro medioevo, non d’altro erano vogliosi che d’esercitare il mercenario valore, e di procacciarsi fortuna in ambiziosi cimenti.
La scossa ne fu sentita anche in Italia. Domi i Sanniti, suoi più ostinati nemici, Roma si trovava a fronte la Magna Grecia e la Sicilia. Le colonie, che quivi abbiam veduto fiorentissime, andavano in dechino dopo le guerre coi Lucani e con Dionigi il Vecchio; Posidonia avea coloni stranieri; le altre pure s’erano dovute rifare con gente avveniticcia; e decimate di popolo e di forze, si limitavano al ricinto delle loro mura. Sembra sciagura fatale ai popoli infelici il volgere il dente contro le proprie carni; e la dissensione civile da sbrigliata democrazia le trabalzava a tirannide atroce. Dedicatisi al commercio e snervati nelle lautezze, affidavano volentieri la difesa a soldati mercenarj, i quali diventavano un mezzo di signoreggiare, in mano di chiunque avesse denaro onde comprarli. Divenne dunque mestiere il combattere; gli eserciti non si componevano più, come ne’ bei giorni della libera Grecia, di cittadini, armati per difendere la patria e sostenere una causa od una opinione professata; bensì di mercenarj[242], o compri fra gli stranieri, massime Galli, o fra quelli che, inveterati nelle passate guerre al sangue e alle prepotenze, vendevano il valore a chi promettesse maggior soldo e maggior saccheggio; o che, nella rovina della patria non avendo salvato che il braccio, aggregavansi coi soldati ancora lordi del sangue de’ proprj compaesani per passare dagli oppressi nel numero degli oppressori, senz’altra causa che il denaro, altra fede che una promessa venale degli oppressori. Gli Stati pertanto rimanevano in balìa de’ capi militari, e dell’esito delle battaglie: la scienza delle finanze si ridusse a trovar maniere da procurarsi denaro, col quale aver soldati. E fu pel costoro appoggio che Agatocle si eresse tiranno di Siracusa (pag. 249); poi alcuni Campani, desiderosi di prendere stanza e dominio, occuparono Messina, altri invasero Reggio, e riuscivano tremendi ai Cartaginesi, ai Romani, viepiù ai natii.
TARANTO
Fra le repubbliche della Magna Grecia, Taranto primeggiava di marina e d’industria; e mentre le città d’origine jonica aveano a lottare coi tiranni di Siracusa, ella come dorica vivea daccordo con questi. Ma le davano molestia i Bruzj, popolazione mista, che senza discernere Dori da Achei, cavalcava sopra i vicini, e spingeva i Lucani sul territorio di Taranto. Forse per gelosia dei concittadini, come Venezia, questa repubblica non teneva altro esercito che di soldati estranei, e conduceva a suo servizio perfino principi, come Archídamo II re di Sparta, 355 figlio d’Agesilao, che al loro soldo perì co’ suoi combattendo i Lucani; come Cleónimo, figlio di Cleoméne II, pur re di Sparta. 223 Costui menò loro cinquemila mercenarj, n’aggiunse altri comprati dai Tarantini, ma non fece impresa degna del valore spartano, e abbandonatosi al lusso e alla mollezza, cercava ridurre in servitù quei che s’erano commessi alla sua fede, cianciava di voler fiaccare i tiranni di Sicilia, e intanto rubava, devastava: sicchè i Barbari confinanti diedero addosso a lui e alle sue navi, che a stento egli menò a Corcira a farvi altrettanto mal governo. Cacciato di qui pure, tornò ai Tarantini, ma respinto da essi, vôlto il capo di Brindisi, e spinto da fortuna nell’Adriatico, temendo di giungere fra gl’inospiti Illirj e Liburni, s’accostò alla Venezia; e preso terra fra i Padovani, ne incendiò una borgata, portando via uomini e armenti. I Padovani accorsero, e dispersero quei predoni, di modo che sol piccola parte della flotta potè campare. Tito Livio è il solo che racconti questo fatto, ma egli era padovano, e dice che fin a’ suoi tempi si vedevano per memoria i rostri delle navi prese in un tempio antico di Giunone a Padova, e si faceva un’annua solennità navale sul Medoaco[243].
ALESSANDRO IL MOLOSSO
Anche Alessandro il Molosso re d’Epiro, zio d’Alessandro Magno, desideroso d’emulare le imprese di questo, e crearsi un regno proprio, venne al soldo de’ Tarantini, ruppe Lucani e Sanniti, 349 ma avendo mal dissimulato l’ambizione, i Tarantini ne presero ombra e lo cacciarono. Anelando a vendetta, per tribolarli colla guerra, egli esibì la propria alleanza ai Romani, che l’accettarono. Alleanza disonorevole, perchè non suggerita da pericolo proprio, e fatta con un ambizioso vendicativo contro chi difendeva la patria indipendenza. Egli perì in quella spedizione; e tra Roma e i Tarantini ne rimasero cattivi umori, scoppiati allorchè questi mossero lamenti perchè i Romani avessero violato un’antica convenzione, navigando oltre il capo di Giunone Lacinia, e staggirono le loro navi. Ambasciadori romani vennero a richiamarsene, e il popolaccio inviperito contro quella gente, li ricevette a oltraggio, e ne insozzò le toghe.—Queste macchie saranno terse col sangue», 281 esclama l’ambasciadore, e se ne toglie pretesto di dichiarare la guerra; e i Tarantini, secondo l’usato, cercano un capitano fra quei tanti che s’erano sbranato il manto d’Alessandro Magno.
PIRRO
Come gli Sforza e gli Uguccioni fra le repubbliche italiane, così fra que’ tumulti era ingrandito Pirro, eroe romanzesco, che diceasi discendere da Achille e da Ercole, 295 e che non senza difficoltà e miracoli succedette al padre Eacide nel regno dell’Epiro, cantone montuoso della Grecia rimpetto al golfo di Taranto, che ora è la bellicosa Albania. Venuto su fra pericoli e sollevazioni, combattè in compagnia ora de’ Seleucidi di Siria, ora de’ Demetrj di Grecia, ora de’ Tolomei d’Egitto, successori di Alessandro Magno; tentò impadronirsi della Macedonia, regno originario di questo; e se non molestasse qualcuno, o da qualcuno non fosse molestato, credeva non saprebbe come ingannare il tempo (Plutarco). Con tal umore si può sommovere ma non fondare; e in fatto se parve un istante in procinto di restaurare lo sfasciato regno macedone, e fors’anche raccorre a sforzi magnanimi la Grecia declinante, non tardò a perdere il frutto delle sue vittorie. Ridotto di nuovo al patrio Epiro, struggevasi però sempre di emulare Alessandro e Agatocle, di cui aveva sposato una figlia; e poichè a nulla era approdato in Grecia, ruminava un bel regno nella bassa Italia e sulle coste d’Africa.
CINEA
All’impetuoso valore metteva o freno o regola il tessalo Cinea, filosofo pratico e parlatore tanto efficace, che Pirro confessava di dovere più città alla parola di esso che non al proprio brando. A lui Pirro espose come i Tarantini avessero mandato a chiederlo capitano contro i Romani; e—Bell’occasione (diceva) d’intrometterci nelle cose della Magna Grecia; di là ci potrem fare formidabili al resto d’Italia.
—Assai bellicosi sono colà i Romani (rispondeva Cinea); ma se gli Dei ci concedono di vincerli, che pro trarremo da questa vittoria?
E Pirro:—Più non vi sarà città barbara o greca che ci contrasti, e nostra fia tutt’Italia.
Al che Cinea:—Avuta tutt’Italia, che cosa farem noi?
—Sicilia le sta a due passi, isola fortunata di sito e di gente, e facile ad esser presa, sossopra come ella è dopo la morte di Agatocle, e raggirata da avvocati arruffapopolo.
—Sia: ma qui ristaremo?» insisteva ancora Cinea.
E Pirro:—Non già; chi ci terrebbe di passare in Africa e a Cartagine? e impadroniti di essa, qual ci potrà contrastare de’ nemici che ora ci sbraveggiano?
—Nessuno per certo, e ricupereremo la Macedonia, signoreggeremo la Grecia. Ma ottenuto questo, che faremo?
—Allora (ripigliò Pirro sorridendo), allora staremo in contento riposo, mio buon Cinea, fra le tazze e i tripudj.
Il consigliere, che a ciò lo aspettava, conchiuse:—Or chi ti toglie di cominciare fin d’oggi questo buon tempo? Non hai tu alla mano quanto occorre senza fatiche e sangue, nè mali tanti?»[244].
I ROMANI E PIRRO
L’ambizione non così facilmente si rassegna ad argomenti di prudenza; e mandato esso Cinea ad occupar la fortezza di Taranto, Pirro stesso menò di qua dal mare su navi tarantine ventimila pedoni, tremila cavalli e venti elefanti che i Macedoni avevano in Asia imparato ad usare in battaglia, o imponendovi gran torri da cui avventavansi dardi, o spingendoli a scompigliare le file nemiche coll’urto possente e colle robuste proboscidi. Un cittadino in aspetto di ubriaco, inghirlandato ancora di rose avvizzite, e con una sonatrice allato, si presenta ai Tarantini raccolti in assemblea, ed essi gli gridano:—Su via, Metone, su; canta e facci stare in allegria.—Sì (risponde), cantiamo, soniamo e facciam gavazze finchè n’abbiamo tempo; altro avremo a pensare quando Pirro sarà venuto». Di fatto il re d’Epiro, rimbrottando di mollezza i Tarantini, non appena giunge, fa chiudere teatri e palestre e bagni e giuochi; tutti s’addestrino alla guerra, mescolati colle sue truppe; nessuno esca di città; ai contumaci la morte; e si fa gagliardo col trarre in sè il pien potere.
L’avere i Tarantini chiamato Pirro, fu dal senato romano riconosciuto caso di guerra; non volle però offendere gli Dei col porre in campo le legioni senza prima dichiarare religiosamente nimicizia a questo. Ma poichè il tempo stringeva e l’Epiro era discosto, fecero da un disertore epirota comprar un campo in Roma, e su quello i Feciali compirono i riti consueti, con ciò quietando la pubblica coscienza. Mossero poi otto legioni contro di Pirro, 280 il quale, essendosi invano offerto mediatore fra essi e i Tarantini, gli affronta ad Eraclea con disputatissima battaglia. I Romani erano rimasti sgomentati da’ bovi di Lucania, come chiamarono i non prima veduti elefanti; ma a chi gliene porgeva congratulanza, Pirro rispondeva:—Un’altra vittoria siffatta, e siamo perduti».
Sanniti, Lucani, Messapi colsero da questo disastro di Roma l’occasione per insorgere contro la tirannia di essa; appoggiato dai quali, Pirro spingesi fino a Preneste, e dalle alture vede Roma, quella Roma che più egli ambisce quanto più è capace di conoscerne la grandezza. Ammirando i cadaveri di questi Barbari, caduti in battaglia senza volger le spalle, esclamò—Sarebbe conquistato il mondo quand’io avessi per soldati i Romani, o i Romani me per capitano». Mandò a proporre ad essi la pace, purchè lasciassero libertà ai Tarantini e al resto della Magna Grecia. Mossi dalla cortesia, dall’eloquenza, dalle ragioni, dalle visite e dai doni di Cinea, che tutto ammirava, che diceva il senato essergli parso un concilio di re, i Romani già inchinavano, quand’ecco nell’assemblea presentasi il cieco Appio Claudio.
APPIO CLAUDIO
Già mentovammo questa famiglia, oriunda sabina, e risoluta propugnatrice del diritto patrizio. Secondo questo, Appio conservavasi despoto nella propria casa come un patriarca; ma al modo che i Tories della moderna Inghilterra vollero comparire autori de’ provvedimenti più liberali che il tempo richiedeva, così Appio, 311 essendo censore, avea mescolato la plebe fra tutte le tribù per crescerne l’influenza, ed ascritti nel senato anche liberti; e mentre prima sull’altare grande di Ercole non aveano sagrificato che i discendenti dell’aborigeno Potizio, Appio indusse costoro a rassegnare tal funzione a schiavi del popolo romano, comunicando così anche il sacerdozio, che fin là erasi tenuto geloso privilegio de’ nobili. Ben si cianciò che gli Dei, sdegnati di tale sacrilegio, aveano fatto morire tutti i Potizj entro un anno, e privato Appio degli occhi; ma le barriere spezzate più non si ripararono, e la nobiltà odiò invano il severo censore; il quale è pure il primo romano che appaja come scrittore avendo composto poesie sul modello di quelle di Pitagora[245], e s’immortalò anche col fabbricare un acquedotto che da ottanta stadj lontano portava acque agli abitatori delle parti basse di Roma, e collo schiudere per mille stadj la magnifica via da Roma a Capua, detta la regina delle strade, e che pareva significare l’unione dell’Italia alla sua metropoli.
Costui per gli anni e per la cecità aveva da un pezzo abbandonato i pubblici affari; ma allora, indignato che i Romani piegassero, si fece portare nella curia da quattro figliuoli, tutti stati consoli, inveì contro il greco ciarliero seduttore, esortando a respingerlo di Roma, e dettò questa risposta, da darsi a Pirro:—Se vuol la pace, prima esca dall’Italia». La franchezza e i partiti risoluti prevalgono sempre; e a voce di popolo si gridò la guerra. Gli elefanti avevano cessato di dare sgomento ai Romani, che con dardi infocati[246] ritorcendoli contro l’esercito di Pirro, lo scompigliarono e vinsero.
FABRIZIO
280 Fabrizio Luscino, famoso per fatti di guerra non meno che per integerrima costanza, fu a lui deputato onde chiedere il cambio o il riscatto de’ prigionieri; e Pirro, sapendo quanto egli fosse autorevole in pubblico e poverissimo in casa, gli esibì gran denaro, e n’ebbe un rifiuto; al domani provossi di spaventarlo col far avanzare sopra il capo di lui la proboscide d’un elefante, ma nulla parimenti ottenendo, intonò:—Più facile è sviare il sole dal suo corso, che Fabrizio dalla probità». Cinea, volendo sfoggiare della sua dotta eloquenza davanti a lui, tra il cenare espose la dottrina di Epicuro, capo d’una delle scuole filosofiche di Grecia, che negava Dio e la provvidenza, considerava la giustizia come invenzione umana, e unico fine dell’uomo il piacere; e come i costui seguaci si tenessero scevri dai maneggi pubblici, in deliziosa infingardaggine. Il che udendo, Fabrizio esclamò:—Padre Giove, fa che Pirro e i Sanniti approvino tale dottrina finchè stanno in guerra contro di noi».
Viepiù Pirro desiderava attaccarsi un uomo così disforme da quelli che aveva conosciuti nella degenere Grecia e nell’ammollita Tarante, e lo esortava,—Rimetti pace fra’ tuoi cittadini e noi, poi vieni a vivere con me». Al che Fabrizio rispose:—Non ci sta del tuo conto; perchè quelli che ora rendono omaggio a te, conosciuto che abbiano me, preferiranno essere da me governati che da te». Pirro, volendo pur gareggiare di generosità, gli regala ducento prigionieri senza prezzo; a tutti gli altri permette vadano a visitar in Roma i loro parenti, purchè Fabrizio dia la parola che ritorneranno. Ma Roma non soffriva si salvasse la vita col perdere l’onore; i prigionieri restituiti marchiò d’infamia, e i cavalieri ridusse a pedoni, i fanti a frombolieri; e finchè non avessero spogliato due nemici, doveano serenar fuori del campo senza riparo nè trincea.
Tanta fermezza dovea sgomentare il nemico, che vedeva dai Romani rifarsi gli eserciti, come le teste dall’idra lernea. Poi Fabrizio gli fece intendere come il medico di lui gli avesse proposto di avvelenarlo, soggiungendogli:—Vedi quanto male tu scelga e gli amici ed i nemici». Tocco da quella generosità, o persuaso che troppo difficile era il vincere uomini tali, l’Epirota cessò dalle ostilità, consacrò nel tempio di Taranto parte delle spoglie, non vergognando di chiamarsi superato, e dopo ventotto mesi che v’era sceso, rimbarcò cavalli, elefanti e uomini, 279 e tragittossi in Sicilia sopra sessanta navi siracusane.
PIRRO VINTO
Su quell’isola vantava egli qualche pretensione come genero di Agatocle, e v’era chiamato per resistere ai Cartaginesi: in fatto egli ne li respinse, e accolto a braccia aperte dalle città e dai tirannelli, avrebbe potuto piantarvi un regno; ma il tempo che perdette nell’inutile assedio del Lilibeo, 278 ultimo ricovero degli Africani, dissipò il fascino che lega ai vittoriosi. Quand’egli propose d’imitare Agatocle portando la guerra in Africa, i Siciliani gli perfidiarono; ed esso li ricambiò rubando quanto potè: poi fu lieto di palliar la fuga sott’ombra d’esaudire i Tarantini, i quali, privati della spada di lui, non erano capaci di resistere ai Romani. 275 Salpò dunque: ma l’equipaggio di esso non l’avea seguito che per forza, dicendo essere destinato vittima per salvare dalla flotta punica le navi cariche del bottino; laonde nello stretto si lasciò vincere dai Cartaginesi; e colati a fondo sessanta bastimenti, dodici soli approdarono a Reggio. Pirro, assalito dai Mamertini, trovavasi in così estrema necessità, che a Locri è costretto metter mano al tesoro di Proserpina onde comprar mercenarj: ma rimane sconfitto presso Benevento da Curio Dentato; e Molossi, Tessali, Macedoni, con Apuli, Bruzj, Lucani, Sanniti ornano il costui trionfo, e quegli elefanti pur testè così paventati. Pirro, per rimorso e per l’orrore che n’ebbe il vulgo superstizioso, restituisce il tesoro di Proserpina, e dopo sei anni d’inutile guerra ritorna sfinito e disonorato in Grecia, dove non tardò a mettersi in nuove battaglie, e perirvi. Milone, da lui lasciato nella rôcca di Taranto, non fu sostenuto dagli abitanti; 272 patteggiato, menò via la guarnigione; e Roma prese possesso della città, rubandole quadri, statue, ornamenti dei tempj, e quantità d’oro e di delizie.
I Romani non interruppero la guerra contro la Lucania finchè non l’ebbero doma; i proprj soldati che erano caduti prigionieri, considerarono come banditi; condussero a Roma quattromila uomini della legione campana che erasi rivoltata a Reggio, e cinquanta al giorno li fecero uccidere 271 senza esequie nè lutto[247]; poi per tenere soggetti Lucani e Campani posero colonie a Pesto, a Benevento, a Brindisi.
Roma che, tre secoli dopo fondata, non erasi impadronita che di Vejo lontana dieci miglia, avea poi concepito l’ambizione di soggettare tutta l’Italia. E poichè il primo passo a ciò dev’essere la cacciata degli stranieri, avea cominciato dallo sconfiggere i Galli, e guerreggiando con essi e coi fieri Sanniti erasi migliorata di tattica; contro Pirro s’avvezzò a non temere gli eserciti scientificamente disciplinati; anzi vantaggiossi dell’arte macedone per imparare a resistere ad urti ben combinati; e sottomesse le deboli leghe della bassa Italia, alleavasi con popoli lontani, e perseverava nella politica sua di incatenare i vinti al carro vincitore.
Ma Pirro, quando abbandonava la Sicilia, esclamò:—«Che bel campo lasciamo a’ Romani e Cartaginesi!» Prevedeva l’accorto come quelle due potenze, cresciute fino a toccarsi, non potessero omai che venire a cozzo, per decidere se il mondo sarebbe dominato dalla stirpe semitica o dall’indo-germana.
CAPITOLO XII.
Cartagine. Prima guerra punica. Sistema militare dei Romani. Conquista dell’Insubria.
Ci cadde ripetutamente menzione dei Fenicj, popoli di schiatta araba, detti Cananei dalla Bibbia, che stanziati tra le falde del Libano ed il Mediterraneo, s’un lembo di paese centrenta miglia lungo e trenta largo ove più, a guisa de’ Veneziani e de’ Genovesi moderni spinsero il commercio animosamente non solo nel mar nostro, ma e nel Rosso e nell’Oceano, e seminarono di colonie e di scali il littorale e le isole da Tiro fin alle Cassiteridi, che oggi diciamo Sorlinghe.
O fosse colonia spontaneamente partita, o fosse la vinta fazione di re Sicheo, che colla costui vedova Didone o Elisa cercasse scampo e patria altrove, uno sciame di Fenicj fabbricò Cartagine, 869 nel golfo africano che, rimpetto alla Sicilia, è formato dallo sporgere dei capi Bon e Zibib, sopra una penisola fra Tunisi e Utica, il cui istmo si dilata men di quattro miglia. La città crebbe, e divenne l’unico Stato libero che si alzasse mai sulle coste d’Africa, la prima repubblica conquistatrice insieme e trafficante di cui rimanga storia, e che per molti secoli sciolse il difficile problema d’arricchire senza perdere la libertà. Dica pure Strabone che settecentomila abitanti vi furono assediati da Scipione; Cartagine non potè mai contarne meglio di ducencinquantamila. Il quartiere di Megara era tutto a giardini, broli, canali; a sopracapo sorgeva la fortezza di Birsa; il porto militare, scavato a mano e capace di ducento navi da guerra, aveva in mezzo l’isola di Coton, e comunicava col porto mercantile, la cui entrata chiudevasi con catene di ferro.
CARTAGINE E SUE COLONIE
Se d’un popolo ci è rivelata l’indole dalla religione, quella de’ Cartaginesi era avara e melanconica fino alla crudeltà; cupe immagini la vestivano; astinenze, volontarie torture, congreghe notturne al bujo, superstizioni dissolute ed inumane. Sotto gli occhi della dea Astarte si prostituivano le fanciulle, e il prezzo vituperevole si accumulava come dote. Melcart, l’Ercole loro, ispirolli a grandi imprese: ma la luce di lui era contaminata da sacrifizj umani, rinnovati a tempi fissi; poi nelle maggiori necessità gli si offrivano gli oggetti più cari. Quando Agatocle li vinse, i Cartaginesi si credettero puniti perchè da alcun tempo scarseggiavano nell’inviare offerte ai tempj in Fenicia, onde a profusione ne spedirono, fin a togliere dai proprj santuarj i tabernacoli d’oro: poi temendo ancora che il dio avesse preso corruccio perchè, invece di fanciulli bennati, gliene immolavano talora di compri, ne sacrificarono ducento delle prime famiglie; e trecento uomini sottoposti a processo, offrironsi spontanei a morire sugli altari. Desolati dalla peste mentre assediavano Agrigento, gettarono molti uomini in mare per calmar Nettuno. Annibale guerreggiava in Italia quando gli si annunziò che suo figlio era designato per l’annuale olocausto; ed egli:—Io preparo agli Dei sacrifizj che saranno più accetti». Invano Dario re di Persia e Gelone di Siracusa posero per patto di pace che i Cartaginesi cessassero d’insanguinare gli altari; la superstizione prevalse, sopravvisse persino alla perdita della gloria e dell’indipendenza.
Qual meraviglia se troviamo i Cartaginesi duri, servili, egoisti, cupidi, inesorabili, senza fede? Alle emozioni generose pareano renderli inaccessi il culto, l’aristocrazia mercantile, l’avidità del guadagno: pure ricordiamoci che la storia loro non ci è narrata che da’ loro nemici. Non è del nostro tema studiarne gl’istituti, nè descrivere il commercio che Cartagine menava estesissimo coll’interno dell’Africa e colle estremità dell’Europa. Assoggettò i barbari abitanti di quella costa, fissandoli in colonie lungo il littorale; e per assicurarsi i viveri, ne teneva di agricole nella Zeugitana e nella Bisacena, ove le derrate europee prosperarono colle africane; sul lembo della Numidia e della Mauritania suoi banchi fortificati a vantaggio di essa trafficavano cogl’indigeni, ed assicuravano la via di terra fino alle colonne d’Ercole, e uno schermo alle navi nel pericoloso tragitto dall’Africa in Spagna. Queste colonie però erano fra loro disgregate, nè parevano accordarsi che nell’odiare la dominante; ond’essa vietava che si cingessero di mura, col che tenevasi esposta alle correrie nemiche: ad oriente poi erravano tribù indomite, simili ai moderni Beduini; ad occidente la minacciavano i poderosi regni di Numidia e Mauritania; sulla costa medesima e a mezzodì le si ergevano emule Tunisi, Aspis, Adrumeto, Ruspina, la piccola Lepti e Tapso, oltre Utica che si conservò sempre indipendente.
Qui consisteva la debolezza di Cartagine: sua forza e suo vanto erano le colonie, piantate ne’ più comodi e più lontani paesi. E prima nel Mediterraneo assoggettò le Baleari, che la fornivano di vino, olio, lana, muli; a Gozzo, a Cherchinesso, a Malta battevano per essa telaj di lino; tutte poi le erano scali al commercio, e rinfresco ai vascelli. In Sardegna fondò Cagliari e Sulci; e perchè ne traeva grani in abbondanza, metalli, pietre fine, la considerava in grado non inferiore all’Africa. Quando i Focesi, insofferenti del giogo persiano, occuparono la Corsica fondandovi Aleria, Cartagine ne li snidò, gelosa di negozianti sì attivi. Pare che anche fuor dello stretto di Gibilterra occupasse nel Grande oceano le Canarie e Madera. In terraferma pose altre colonie; e Annone fu spedito a fondarne una serie lungo la marina occidentale d’Africa dove ora sorgono Fez e Marocco; Imilcone un’altra sul lembo occidentale d’Europa, e forse sino nel Giutland. Dalla Gallia li tennero lontani i Focesi di Marsiglia; ma la Liguria li provvedeva d’eccellenti marinaj: nella Spagna rinnovarono le colonie fenicie dell’Andalusia e di Gade, e vi scavarono miniere a gran vantaggio.
Scopo dunque di Cartagine non era il conquistare come Roma, bensì l’estendere la mercatura e i guadagni, impedire che la popolazione eccedesse, trovare collocamento ai cittadini sprovveduti. Ma come Venezia, a cui in tanti punti conviene, non assimilava a sè i coloni e i sudditi; anzi, per paura di vederli farsi indipendenti, li teneva in dura soggezione, infiacchendo le membra per vantaggio del capo.
MAGONE
Dal piantarsi in Italia furono impediti i Cartaginesi dagli Etruschi e dai Latini. La Sicilia, disgiuntane appena cento miglia, viepiù ne stuzzicava i desiderj, come quella da cui dipenderebbero la sua padronanza nel Mediterraneo, l’approvvigionamento delle armate, e il commercio del vino e dell’olio. Primeggiava allora in Cartagine Magone, che ne creò la forza e il sistema militare, e fu stipite d’una famiglia, illustre per tre generazioni di capitani[248]. Piantò egli colonie in Sicilia; le quali però essendo tenute deboli per la solita paura che si rivoltassero, potevano dar molestia, ma non prevalere alle ricche e indipendenti colonie greche: 480 quando poi Amilcare di Magone fu sbaragliato da Gelone re di Siracusa (pag. 241), i Cartaginesi penarono a difendere le colonie e gli acquisti. E per settant’anni la storia sicula più non fa menzione di loro; poi si riaffacciano poco prima della tirannia di Dionigi il Vecchio, quando ajutarono 410 Segesta contro Selinunte, ed occuparono altre terre. Esso Dionigi e Agatocle, cupidi di unire tutta l’isola, mossero ad essi guerra: pure i Cartaginesi vi tennero sempre un piede; e la loro perseveranza, l’inesauribile forza dell’oro, e le irrequietudini perpetue di Siracusa gli avrebbero anche fatti signori di tutta Sicilia, se avessero posseduto un valente generale. Combattuto con alterna fortuna, nella pace del 383 s’ebbero assicurato un terzo di quell’isola.
FORZE E CONQUISTE
Fra ciò Cartagine spiegava e cresceva le proprie forze nelle lotte cogli Etruschi, coi Greci, coi Marsigliesi, poi coi Romani, e fa meraviglia come prontamente si rifacesse delle perdite. Da prima usava solo triremi, poi le ingrandì al tempo d’Alessandro; nella guerra coi Romani n’ebbe di cinque e di sette ordini, colle poppe ornate de’ suoi Dei marittimi, Poseidon, Tritone, i Cabiri. Una quinquereme portava cenventi soldati e trecento marinaj; al remo gli schiavi; prestissima ne’ volteggiamenti. Al persiano Serse somministrò fin duemila navi lunghe e tremila di carico per osteggiare la Grecia. Gli ammiragli però non operavano di pieno arbitrio, ma dipendevano dai generali di terra nelle imprese che voleano concerto, se no dal senato; e le vittorie erano occasione di pubblici tripudj, di pubblico gemito le sconfitte. La cavalleria, perchè costosa, era formata di nobili Cartaginesi, i quali portavano un anello per ogni spedizione fatta: v’avea pure una legione sacra di cittadini riccamente in arnese. Il servizio di terra affidavasi per lo più a mercenarj d’ogni nazione; e sapendo a punto quanto costasse un soldato greco, quanto un africano, un campano, un gallo, mettevano in bilancio il costo di un esercito col frutto che verrebbe da una conquista: al fine della campagna riscattavano i prigionieri, e le spese si pareggiavano colle estorsioni fatte ne’ paesi acquistati. Questa turba ragunaticcia, combattendo fuor del paese natìo e contro gente più povera, non era allettata a disertare; e la diversità di favella e di religione impediva che vi si formassero minacciosi accordi. Ma ne scapitava la disciplina; penoso era il trasportarli per mare; a fronte di truppe disciplinate e nazionali, trovavansi mancare di quel coraggio, che si fonda sul patriotismo e sul sentimento dell’importanza individuale.
Coi Romani erasi Cartagine incontrata nei mari, fin quando essi, potenti sotto i re, stavano a capo della lega Latina, ed emulavano gli Etruschi: e l’anno della cacciata de’ Tarquinj 509 conchiuse un trattato, pel quale i Romani si obbligavano a non navigare nè essi nè i loro alleati di là dal capo Bon; però i mercadanti loro approdando a Cartagine, sarebbero immuni da balzelli; le vendite avrebbero pubblica fede; otterrebbero giustizia ne’ paesi siculi, sottomessi ai Cartaginesi; questi non recherebbero danno ai popoli d’Anzio, Ardea, Laurento, Circei, Terracina, o a qualunque latino di loro dipendenza, nè torto alle città libere; non fabbricherebbero fortezze in paesi de’ Latini, e se vi entrassero armati, non vi pernotterebbero. 348 In un secondo trattato vi furono inchiusi i popoli di Tiro, d’Utica e i loro alleati: «i Cartaginesi, se prenderanno qualche città latina non dipendente da Roma, la cederanno a questi, serbandosi l’oro e i prigionieri: se facciano prigionieri sopra un popolo in pace con Roma, ma non sottomesso, non lasceranno che entrino ne’ porti romani; entrandovi, se un cittadino li tocchi, diverranno liberi; altrettanto si adoprerà dai Romani, che non fabbricheranno città in Africa e in Sardegna; potranno però vendere e comprare nelle terre cartaginesi al par de’ cittadini, e così viceversa quei di Cartagine». Questi trattati confermaronsi giurando i Cartaginesi pe’ loro Dei, i Romani per la pietra (διὰ λίθον), simbolo primitivo di Giove; cioè, tenendo una pietra in mano, uno diceva:—Se giuro il vero, ogni cosa mi accada prospera; se penso diverso da quel che giuro, gli altri godano la patria, le leggi, i beni, la religione, le tombe, ed io solo sia respinto come ora fo con questo sasso»; e lo lanciava.
I quali documenti preziosi[249], che sono il più antico testimonio della repubblica romana, basterebbero a convincere di falso la comune degli scrittori che, duranti i re, ci presentano come ancora in fasce quella Roma che qui ci appare qual potenza marittima, e signora d’alcuni, protettrice degli altri popoli latini.
RELAZIONE DI CARTAGINE CON ROMA
Niuno però s’affretti a conchiudere che Roma avesse legni grossi, giacchè gli Stati barbareschi, che su quel lembo d’Africa sgomentarono fin jeri anche le maggiori potenze europee, non adopravano navi di linea: Roma poi stipulava forse come capitana della federazione latina, cioè di popoli provvisti di marina, benchè essa ne mancasse; e se pur l’ebbe, dovette lasciarla deperire, talchè n’era sguarnita tre secoli più tardi. In fatto quando Pirro invase la Sicilia, 278 Roma e Cartagine stipularono che nessuna patteggerebbe coll’Epiroto senza concorso dell’altra; Cartagine in caso di bisogno somministrerebbe navi, ma non imbarcherebbe senza consenso di Roma. Credendo caso di bisogno il cacciar Pirro quando minacciava Roma, i Cartaginesi mandarono ad Ostia trenta galee; ma i Romani ringraziando le rinviarono, temendo portassero via schiavi e spoglie italiane.
PRIMA GUERRA PUNICA
Intente ognuna ad escludere l’altra da’ suoi territorj, le due repubbliche trattavano da pari a pari; che se Roma sentiva la preponderanza d’uno Stato guerresco sopra uno trafficante, Cartagine aveva tesori per comprare truppe quante volesse, oltre la indisputata prevalenza sul mare. Sarebbero dunque potute ciascuna seguitare la propria strada senza venire a cozzo; ma a guastarle offrì ragioni la Sicilia, secondo avea predetto Pirro. Di quell’isola, agitata ora dalla tirannide di despoti, ora dalla tirannide della libertà, spartivansi allora il dominio i Cartaginesi, i Siracusani del re Gerone II, cui obbedivano anche Leontini, Acre, Megara, Elori, Taormina, e i Mamertini ricoverati al Peloro. 269 Questi ultimi erano stati sconfitti e ridotti all’estremità da esso Gerone; nè più serbando che Messina, risolsero di cedergliela: ma quand’egli s’avanzava per occuparla, Annibale generale dei Cartaginesi il tenne a bada, e intanto spedì ad invadere la città. Posti fra due fuochi, i Mamertini, siccome Campani che erano, volsero gli occhi all’Italia, e chiesero ajuti a Roma.
Gli onest’uomini dissuadevano i Romani dall’ingiusta intervenzione, e dal sostenere a Messina quei Mamertini, di cui la perfidia aveano punita a Reggio; ai politici invece arrideva quest’occasione di fare acquisti, e di mortificare Cartagine: il senato ricusò, il popolo volle, e preponderando già la democrazia, fu risolta la spedizione. Anche i Mamertini 264 già n’erano pentiti; ma il console Appio Claudio Caudice, figlio del Cieco, imbarcò le legioni su vascelli della Magna Grecia o su zatte. La flotta cartaginese e una tempesta disperdono l’armamento; e Annone, ammiraglio della casa di Magone, tenta ridestare l’onoratezza romana col rinviare i vascelli presi, movendo insieme querela dei patti violati, e professando che Cartagine non lascerebbe mai Roma impadronirsi dello Stretto. Ma Appio Claudio si ostina all’impresa; eludendo la vigilanza dei Cartaginesi, su navi della Magna Grecia si tragitta; sbarcato, vince Gerone così presto, che questo confessa non avere tampoco avuto tempo di vederlo. Esso re, comprendendo quanto dell’amicizia d’un popolo senza navi gli tornasse miglior conto che di quella de’ Cartaginesi, restituì i prigionieri, pagò le spese della guerra, e strinse e serbò fedelmente alleanza coi Romani. I quali, violando il diritto pubblico, occuparono il porto di Messina, e sotto finta di parlamento arrestarono Annone, che per riscattarsi fu obbligato a farne uscire la guarnigione.
263 Ai Romani allora brillò la possibilità di snidare i Cartaginesi dall’isola; e mandatovi i due nuovi consoli con quattro legioni, in meno di diciotto mesi ebbero prese sessantasette piazze e fortezze e la grande Agrigento, difesa da due eserciti di cinquantamila uomini, comprati dalla Spagna, dalla Gallia, dalla Liguria. Come dovette starne la Sicilia, corsa da tante truppe, e dove la guerra esercitavasi con tale inumanità! Nella sola Agrigento, la cui espugnazione costò ventimila vite ai Romani, questi vendettero venticinquemila liberi: Annone, non potendo ottenere che i nemici gli rendessero la carpita Messina, avea fatto passar per le spade quanti Italiani servivano sotto le sue bandiere: Amilcare, udendo i Galli da lui assoldati mormorare, gl’invia a metter a sacco Antella, ma di nascosto ne dà avviso ai Romani, che gli appostano e trucidano; scelleraggine che gli antichi encomiarono come bella trovata di guerra. Di simil genere stratagemma avea usato re Gerone: mal volentieri soffrendo gli stranieri inquieti arrolati fra le sue truppe, quando aveva ad assaltare i Mamertini, divise l’esercito in due, i Siracusani distinti dagli assoldati; a capo dei primi mosse l’attacco, lasciando gli altri esposti ai Mamertini, che li fecero a pezzi[250]. Così continuo traspare negli antichi il disprezzo della vita dell’uomo!
Ai Romani fu ben tosto chiaro che non potrebbero acquistare nè conservare la Sicilia, e schermir la costa e le città dalla flotta cartaginese, senza una marina. Una galea cartaginese naufragata offerse loro il modello, legnami l’Appennino, perseveranza la natura loro: in sessanta giorni ebbero costruiti centrenta vascelli, ben presto esercitata la ciurma; e per elidere l’esperienza dei nemici inventarono i corvi, certi ponti che dall’albero di prua violentemente calando sulla nave nemica, vi si conficcavano con branche e arpioni di ferro, e la attaccavano alla romana, in modo da ridurre il combattimento a duelli, siccome in terraferma.
DUILLIO
Così racconta la storia miracolaja, ma è più probabile che di navi li provvedesse Gerone II, potente sul mare. Comunque sia, il console Duillio Nepote riportò presso Lipari la prima vittoria marittima; 260 cinquanta legni nemici presi o colati a fondo, tremila uomini uccisi, settemila prigioni: in memoria del quale successo fu eretta a Duillio una colonna ornata di rostri, e concesso per tutta la vita che la sera fosse ricondotto a casa coi fanali a suon di trombe. La fortuna durò prospera negli anni susseguenti, prendendosi Lipari e Malta, poi la Corsica e la Sardegna.
Annibale, comandante alla spedizione cartaginese, riconducendo in patria le misere reliquie della flotta, dopo perduto sin la capitana, sentivasi sovrastare la punizione che Cartagine soleva infliggere agli sconfitti; onde spedì innanzi un messo che al senato espose:—Il console romano guida una flotta numerosa, ma di vascelli goffamente costrutti, e con certe macchine mai più vedute. Annibale vi domanda se deve dargli battaglia.—La dia (risposero i governanti ad una voce), e punisca i Romani dell’averci assaliti nel nostro elemento». Allora il messo:—La diede, argomentando egli pure come voi, e fu vinto». Ciò valse l’assoluzione dell’ammiraglio sfortunato.
ATTILIO REGOLO
Già Agatocle avea mostrato come Cartagine si trovasse mal provveduta contro chi l’assalisse sul proprio terreno, ove le colonie oppresse o le città rivali ajutavano chiunque la minacciasse. Roma dunque decretò uno sbarco in Africa, sebbene il console Marco Attilio Regolo 256 fosse costretto ricorrere a minaccie e punizioni per indurre i soldati a quel che loro pareva troppo lungo tragitto, e spaventevole pei mostri che diceasi popolassero le arene libiche: e sebbene i tanti Italiani, che Roma obbligava al remo sulle sue galere, macchinassero insieme cogli schiavi una sollevazione, che solo il tradimento sventò[251], Regolo con quarantamila uomini montati su trecento trenta galee sbaragliò ad Ecnomo la flotta cartaginese di trecencinquanta galee con cencinquantamila uomini, e sbarcato in Africa, ebbe presto assoggettate ducento città, e fin Tunisi, forte per posizione e per mura, dove pose il quartier generale. Cartagine, folta di gente fuggita dalla campagna, e vedendo le aquile romane piantate fin sugli spaldi della vicina Tripoli, chiedeva pace, e Regolo avrebbe potuto dettarla qual Roma la conchiuse dopo tredici altri anni di guerra e centomila morti; ma geloso di non lasciare altrui la gloria di un’impresa da sè cominciata, rispose, allora solo sospenderebbe le armi quando più non rimanesse loro un vascello sul mare. Arroganza indegna di buon capitano, dalla quale ridotti a disperazione, i Cartaginesi chiamarono al comando uno straniero, Santippo di Sparta. 255 Costui conobbe che l’inferiorità non veniva da fiacchezza dei Cartaginesi o da valore dei Romani, bensì dal mancare di tattica e di strategia; insegnò a ben valersi degli elefanti e della cavalleria; e tratti i Romani al largo, li vinse presso Tunisi, e ridusse prigioniero il console stesso.
Si narra che i Cartaginesi, quattro anni dopo, mandassero Regolo a Roma per consigliare il cambio dei prigionieri, fattogli giurare che, non ottenendolo, ritornerebbe. Anteponendo al proprio quel che credeva il meglio della patria, egli consigliò il senato di persistere nella guerra, e lasciar morire prigionieri coloro che non avevano saputo conservarsi liberi. Fedele alla parola, tornò a Cartagine, ove acerbe torture punirono la sua fedeltà; e Roma, gareggiando di barbarie, consegnò alla vendetta della moglie di Regolo i prigionieri cartaginesi, ch’ella straziò con lunghi spasimi, finchè l’autorità non glieli ritolse[252]. La gelosia di quel governo di mercanti ci fa meno difficili a credere che i Cartaginesi, sospettosi di Santippo vincitore, come i Veneziani del Carmagnola, lo buttassero in mare: fatto è che più non se ne ragiona.
GUERRA IN SICILIA
Abbandonata allora l’Africa, si rinfocò la guerra in Sicilia. Il proconsole Cecilio Metello battè presso Palermo i Cartaginesi capitanati da Asdrubale, 251 e menò trionfo in Roma: ma poi per otto anni i Romani n’andarono colla peggio, perdendo quattro flotte. La maggiore sconfitta toccarono da Aderbale 249 presso Drepano quando, non volendo gli auguri che si attaccasse battaglia perchè i polli sacri davano malaugurio col non mangiare, il console Claudio Pulcro sorridendo,—Dunque bevano» disse, e feceli gettar in mare. L’empietà scoraggiò i soldati, vinti prima di combattere; e novantatre navi restarono perdute, morti ottomila Romani, prigionieri ventimila. Agrigento fu presa e messa al nulla dai Cartaginesi, i cui generali Annibale e Cartalone mostrarono di congiungere al valore l’abilità. Alfine però i Romani prevalsero, e tutta Sicilia tornò in loro potere. Solo Drepano e Lilibeo, promontorj all’occidente che potevano considerarsi come l’antemurale di Cartagine, furono insignemente difesi da Amilcare, detto Barca cioè fulmine, padre del più famoso Annibale. Postatosi egli sui promontorio d’Erice, senza alleati vicini nè fortezza nè speranza di soccorsi, vi si mantenne cinque anni, e di là corseggiava le coste d’Italia sino a Cuma, e molte volte profligò i Romani. Cartagine per sostenerlo spedì una flotta con danaro e provvigioni, ma con pochi uomini; la quale scontrata da Lutazio Catulo 242 con ducento quinqueremi alle isole Egati, fu posta a sbaraglio. Anche i Galli disertarono da Amilcare ai Romani, che allora per la prima volta assoldarono Barbari.
BATTAGLIA ALLE EGATI
Se la popolazione ellenica avesse conservato in Sicilia lo spirito guerresco, avrebbe potuto prendere parte attiva in quella guerra, e Siracusa meritar di riprendere la preminenza nell’isola col soccorrere i Romani non solo di viveri, ma anche di navi. Però da un pezzo erasi contratta l’abitudine di comprare le braccia di Siculi e di Campani, i quali poi essendo divenuti ausiliarj de’ Romani, la Sicilia, eccetto il regno di Gerone, passò a dominio di questi.
In ventidue anni di guerra continua, tra le battaglie, tra la mala pratica, tra la difficoltà delle coste d’Africa, Roma avea perdute settecento galee: Cartagine appena cinquecento, ma scarseggiava di danaro a segno, che il moggio di frumento vendevasi un asse[253]. Roma, benchè diminuita di un sesto di abitanti, costretta ad alterare le monete fin dell’ottanta per cento, con indomita perseveranza diceva:—Non cederò mai; la guerra alimenterà la guerra». I Cartaginesi negozianti calcolarono gl’interrotti traffici e le esuberanti spese, sicchè l’avarizia divenendo ausiliaria dell’umanità, proposero la pace. Roma, che l’aveva rifiutata per consiglio di Regolo, allora l’accettò dopo tante spese e tanto sangue, a questi patti:—I Cartaginesi sgombrino la Sicilia e le vicine isolette; entro dieci anni paghino a Roma duemila ducento talenti (17 milioni di fr.) per contribuzione di guerra; restituiscano i prigionieri e disertori; non moveranno più guerra a Gerone re di Siracusa». Nuovi emergenti li costrinsero a cedere ben presto anche la Sardegna.
PACE DELLE ISOLE EGATI
Il tempio di Giano a Roma fu chiuso, ma poco tardò ad essere riaperto, per non serrarsi più fin ai giorni di Augusto. E prima occasione di rifar guerra fu la spedizione contro gl’Illirj, 230 che corseggiavano l’Adriatico. Roma, esibendosi protettrice degl’Italiani finchè non potesse rendersene padrona, avea fatto accordi con que’ pirati acciocchè non li molestassero; ma quelli seguitavano a predar le navi e le coste. Spedì essa a lamentarsene con Teuta loro regina, vedova d’Agrone; ma costei uccise gli ambasciadori. Subito le si porta guerra, passando per la prima volta il golfo jonio; 228 e vintala, e privata di parte degli Stati, Roma è benedetta dagli Italiani e dai Greci come liberatrice del mare, e da questi ricevuta in cittadinanza ordinaria e ammessa ai misteri eleusini; e passeggia trionfante anche sul campo dove prima non grandeggiava che Cartagine.
SPEDIZIONE IN ILLIRIA
Ormai del potere come della ricchezza riguardava essa per fonte prima le armi, talchè dottrina suprema era quella della guerra. In pace non tenea milizia nazionale nè forestiera, anzi era vietato il portar armi entro la città; solo all’occorrenza d’un pericolo, dal console e dal pretore urbano erano chiamati tutti alle armi, collocati dagli edili o dai triumviri criminali ai posti minacciati e alle ronde, col pilo o colla spada: tardi le fazioni introdussero bande di barbari o di schiavi[254]. Ogni cittadino era obbligato alla milizia se non avesse quarantasei anni, o finite sedici campagne a piedi, o dieci a cavallo.
LEGIONE
La legione, così detta dal riempirsi d’uomini eletti, variò di numero secondo le età; e da tremilatrecento, di cui si componeva sotto Romolo, fu portata fino a seimila al tempo delle guerre macedoniche. Ordinariamente ciascun console levava due legioni; e più, se ne nascesse bisogno. In battaglia disponevansi in cinque divisioni: nella prima i principi o classici, che in appresso formarono la seconda; poi gli astati; quindi i triarj o pilani; infine i rorarj e gli accensi, dall’armatura leggera (pag. 163). La legione dividevasi inoltre in coorti, manipoli e centurie. Più tardi fu da Mario riordinata la coorte, che contava trenta uomini di fronte e dieci di profondità: disposizione agilissima, e opportuna a qualunque terreno o forma.
ARMI
Armi erano le freccie, le frombole e il tremendo pilo, giavellotto di sette piedi, e più lungo pei triarj; lanciato il quale a tutta forza di braccio, colla spada risolvevasi la giornata. Lancia e sciabola erano pure le armi offensive della cavalleria; le difensive elmo, corazza e leggiero scudo. Nerbo degli eserciti teneasi la fanteria: la cavalleria, sebbene formasse talvolta un corpo separato, non servì d’ordinario che a fiancheggiare i pedoni; e la minore abilità dei Romani in questa disajutò le loro imprese contro i Numidi e i Parti. I rorarj, frombolieri ed arcieri ingaggiavano la mischia, poi consumati i projetti, ritiravansi a lato della legione; ed allora gli astati giocavano de’ giavellotti, e mentre i nemici attendevano a liberarne gli scudi ove s’erano confitti, essi gli aggredivano colle sciabole. Che se trovassero valida resistenza, subentravano freschi i principi, da sezzo i triarj; di maniera che il nemico, esposto a tre rinnovati attacchi, mal si poteva reggere. Gli accensi componevano il battaglione di deposito.
Oltre il vivere, i soldati portavano seco i pali per formare la trincea; e dovunque fermassero il piede, munivano il campo con un terrapieno quadrato, e una fossa dieci piedi profonda. Nel mezzo dell’accampamento tendevasi il padiglione pretorio, all’intorno gli uffiziali, indi i restanti guerrieri; e dal centro partivano quattro strade rette, fino alle porte schiuse nella trincea. Nelle marcie procedevasi in colonne; ma se temessero un attacco, si ordinavano in linea, togliendosi nel centro i bagagli. Il soldato romano faceva venti o ventiquattro miglia in cinque ore, con tutto il suo fardaggio, del peso di sessanta libbre. Evitando però quei rapidi passaggi dalla inazione alla fatica, che uccidono tanti dei nostri, negli esercizj usavano armi pesanti il doppio di quelle da battaglia; anche in pace si stancavano a continue opere, massime a tagliare strade; Scauro, riconducendo l’esercito dalle Gallie, lo pose a scavar canali nel Parmigiano e Piacentino per ovviare i dilagamenti del Po.
DISCIPLINA
Rigorosissimi erano gli statuti militari. La legge Porcia esimeva dalla bastonatura il cittadino, non il soldato. Quello che avesse gettate le armi, deserto il posto, o combattuto senza comando, era condannato in pubblico giudizio; ma se il generale lo toccasse colla sua canna, gli era permesso fuggire; guaj però se si lasciasse più trovare nel campo! ogni soldato teneva ordine di ucciderlo. Se un corpo avesse mostrato viltà, il generale lo decimava, mandando a vituperoso supplizio uno ogni dieci, tratti alla ventura; agli altri, esiglio ed onta. Lo spirito militare animava ogni cosa; dal senato uscivano i generali come gli ambasciatori; non saliva alla sommità della repubblica chi non avesse fatto dieci campagne: onde le guerre conducevansi con finezza politica, e le assemblee spiravano ardor guerresco; l’ambasciatore nella pace prendeva cognizione del popolo che poi veniva a combattere come generale; quegli stessi che aveano risolto in consiglio, eseguivano in campo. A questo doppio uffizio educavasi la gioventù, armeggiare e discutere, arringar il popolo e disciplinare la truppa, governare, combattere e trionfare. E il trionfo portava al consolato, talchè i generali ambivano le battaglie, il senato ne faceva nascere occasioni coll’intromettersi agli interessi delle nazioni straniere. Colui poi che dianzi avea capitanato un esercito, non isdegnava di servire in quello. Entrando in una nuova campagna, il generale sceglieva i tribuni o vogliam dire i colonnelli, questi gli uffiziali inferiori, onde stringevasi saldamente l’unione fra’ superiori e i soldati; comune sentimento li moveva, speranza comune; e l’entusiasmo per la patria e per la gloria recava ad esser prodi, l’obbedienza al capo rendeva questo onnipossente.
Così il braccio dei forti era diretto dal senno dei prudenti: e mentre l’arte militare in tutti gli altri paesi andava in dechino, avvilita da mercenarj, o regolata per impeti folli di plebe o capricci di tiranni, qui non meno che a guadagnar battaglie provvedeasi a preparare poco a poco la vittoria colla pacifica intervenzione, coi subdoli maneggi, coll’artifiziosa perseveranza in prevenire o sciogliere le leghe, che la gelosia o l’amore dell’indipendenza opponessero alle conquiste.
NUOVE INVASIONI DEI GALLI
Ed ebbero a farne buona prova contro i Galli Cisalpini, i quali profittavano d’ogni disastro di Roma per minacciarla. Dopo respinti dal Campidoglio, eransi tenuti ventitre anni sulla sinistra del Po; poi ricominciarono a molestare il Lazio e la Campania colle correrie. Roma a snidarli, essi a tornare, e un avvicendarsi di attacchi e di sconfitte. Da lunga pezza però mostravano più non pensare a invasioni, quando alcune bande vennero d’oltr’Alpe nella Cisalpina, 299 chiedendo terre:—Queste sono già nostre (dissero i Galli); ma se volete ubertose campagne, la media Italia ne abbonda». Ed essi calarono nell’Etruria, la quale, vinta ma non domata, guardò, come si suole, il nuovo flagello come un alleviamento dell’antico, e propose di prendere i nuovi Galli, quanti erano, al suo soldo contro Roma. Questi accettarono, ma non appena ebbero tocco il denaro pattuito, ricusarono combattere, e ripassarono l’Appennino.
Gli Etruschi, che aveano lasciato trapelare i loro intenti, sentirono d’essere esposti al pericolo, e conoscendo che i deboli non possono resistere ai forti se non coll’associarsi, giurarono la lega coi Sanniti che dicemmo (pag. 201), 296 spedirono ambasciadori a Sinigaglia e Milano per sollecitare ajuti dai Galli, infidi ma necessarj. E gli ebbero, e con loro osteggiarono i Romani per ricuperare l’indipendenza, ma soccombettero al valore di Fabio e Decio. 295 Poco stante, Roma spedì Cornelio Dolabella console a devastare il territorio dei Senoni, uccidendo uomini, donne, fanciulli, quanti incontrasse. 283 Druso portò a Roma molto oro ed ornamenti trovati nel tesoro de’ Senoni, vantando aver ricuperato il denaro con cui era stato ricompro il Campidoglio; e a Seno-gallia venne stabilita una colonia.
I GALLI
Fu la prima sul terreno gallico; e mentre serviva di sentinella avanzata, era pure un fomite perpetuo ad intrighi, ed uno spionaggio nella Cisalpina. In questa i Galli fiorivano nell’abbondanza, talchè per quattro oboli vi si comprava una misura di frumento, per due una di orzo o di vino, e nelle locande un quarto d’obolo bastava a pranzare. Fra tali agi smettevano l’antica mania del correre e del conquistare; talchè At e Gall, due re de’ Boj stanziati attorno, a Bononia, avendoli eccitati a romper guerra ai Romani e disfare Arimino, altra loro colonia piantata nel 268, vennero trucidati a furor di popolo.
Eppure quei due consigliavano il meglio della loro gente, attesochè da Arimino e da Sinigaglia i Romani non cessavano di recar molestia ai Galli; posero impacci al commercio, massime a quello delle armi; finalmente il tribuno Flaminio propose che le terre, tolte ai Senoni cinquant’anni prima e rimaste in mano de’ patrizj, venissero compartite fra il popolo, e ridotte tutte a colonie.
238 A quest’ultimo colpo si riscossero i Boj, e ordirono una lega dei popoli dell’Italia superiore. Ma i Veneti, gente slava stanziata presso all’Adriatico, ricusarono l’alleanza di questi temuti vicini: i Cenomani, posti fra Brescia e Verona, erano stati guadagnati dal denaro romano: i Liguri, dopo lunga guerra sostenuta colla fierezza ad essi naturale, erano stati dal console Fulvio snidati dagli inaccessibili loro ripari; Bebio li trasse al piano; Postumio li disarmò, non lasciando ad essi altro ferro che l’occorrente ai mestieri. Trovandosi dunque soli, i Boj e gl’Insubri ricorsero ai Galli Transalpini che formavano la lega di Gesda ( Gesatæ ); 226 e Lingoni, Anamani, Boj, Insubri s’accolsero in riva al Po. Minacciati alle spalle dai Cenomani e dai Veneti, una parte dovettero rimanere a difesa: cinquantamila con ventimila cavalli e moltissimi carri scesero per la penisola, giurando di non scingere le spade che in Campidoglio.
Roma sbigottì del tumulto gallico, e già prevedea nuovi Brenni e nuove sconfitte di Allia; tanto più che il fulmine colpì la rôcca del Campidoglio, tre lune apparvero in cielo, e i fiumi corsero sangue: onde, consultati i libri Sibillini, credè stornare i minacciosi presagi sepellendo vivi nel fôro Boario un Gallo ed una Galla. La superstizione non arrestava i migliori provvedimenti, e si decretò la leva a stormo per tutta l’Italia, la quale deponeva le gelosie quando importava salvarsi da feroci predoni.
FORZE DI ROMA
Qui un importante documento statistico n’è esibito dallo storico Polibio. Secondo lui, il senato si fece presentare i registri di tutte le popolazioni italiche, e ne cavò il prospetto delle forze sì attive che in riserva, e fu siffatto:—Coi consoli stavano quattro legioni romane da cinquemila ducento fanti e tremila cavalli; inoltre trentamila pedoni e duemila cavalli degli alleati; cinquantamila fanti e quattromila cavalli sabini e tirreni, collocati alla frontiera dell’Etruria sotto un pretore. Gli Umbri e Sarsinati dell’Appennino diedero ventimila uomini; altrettanti i Veneti e Cenomani. A Roma teneansi in riserva ventimila fanti e duemila cavalieri fra gli alleati; contavansi presso i Latini ottantamila fanti e cinquemila cavalieri; presso i Sanniti settantamila fanti e settemila cavalieri; presso gli Japigi e Messapi cinquantamila fanti e sedicimila cavalieri; presso i Lucani trentamila de’ primi, tremila degli altri; Marsi, Marrucini, Frentani, Vestini armavano ventimila fanti e quattromila cavalli; di più aveansi in Sicilia e a Taranto due legioni romane da quattromila ducento fanti e ducento cavalieri; e nella popolazione di Roma e sua campagna erano atti alle armi altri ducencinquantamila persone a piedi e ventitremila a cavallo. In numeri tondi risultavano dunque settecento mila fanti e settantamila cavalli[255]. Siccome in caso di tumulto tutti prendeano l’armi, può la popolazione qui indicata stimarsi per un quarto della totale; onde ne risulterebbero tre milioni di liberi. Ma i proletarj, i padri senza figliuoli, i pupilli non erano soggetti al servizio[256]: restava poi a contare lo sterminato numero degli schiavi.
I GALLI
223 I Galli seppero destramente avanzare tra gli eserciti nemici fino ad Arezzo e a Chiusi: quivi sconfissero sei mila Romani; e già erano a tre giornate da Roma, quando in fierissima battaglia, presso al capo di Telamone nella maremma toscana, furono sgominati; il console Regolo vi perì, ma quarantamila Galli rimasero sul campo, oltre diecimila fatti prigionieri.
L’INSUBRIA VINTA
I nuovi consoli, spingendo la vittoria, invasero la Cispadana, poi l’anno appresso varcarono il Po verso lo sbocco dell’Adda, 224 favoriti dai Cenomani. I Galli, ridotti alla lor volta a mezzi estremi, trassero dai tempj gli immobili, insegne d’oro fino, venerate come dai Musulmani lo stendardo di Maometto; e intorno a quelli si levarono in massa. Eppure furono vinti ancora presso Clastidio da Marcello, 222 che prese Milano e la restante Insubria da Arimino fin al Ticino, pose grosse contribuzioni, confiscò gran parte del territorio, e potè offrire a Giove Feretrio le spoglie opime del loro capo Virdumaro. Solenne trionfo ne menò Roma, e per meglio santificarlo, scannò ad uno ad uno tutti i prigionieri della gente ch’essa chiamava barbara; sul Po piantò le colonie di Piacenza e Cremona; 221 e vantava:—Noi abbiamo domi gl’Insubri, assicurato il dominio dei due mari che ci separano dalla Spagna e dalla Grecia, occupato l’Istria e l’Illiria, sottomesso al voler nostro tanta Italia, da armare ottocentomila uomini».
Eppure fra poco dovea vedersi ridotta a disputare ad un nemico ostinato fin i terreni circostanti alla capitale.
CAPITOLO XIII.
Seconda guerra punica. Annibale. Sommessione della Gallia Cisalpina e di tutta Italia.
Piccolo intelletto bastava a comprendere che quella delle isole Egati, più che una pace, era un armistizio, durante il quale Roma si allestirebbe di nuove forze onde all’emula, dopo tolto l’onore e l’influenza politica, togliere e le ricchezze e l’indipendenza. Nella guerra micidialissima, Roma avea perduto cittadini, e Cartagine soltanto mercenarj: ma Roma rifondeasi il sangue versato coll’adottare nuovi figli, mentre a Cartagine, in tempo di pace, i soldati diventavano nemici. Già durante la guerra i mercenarj aveano causato non lievi disturbi ai generali: sicchè questi sotto Agrigento mandarono a macello tre o quattro migliaja di Galli, altri fecero condurre sopra un’isola deserta, e quivi abbandonare. Quando poi, conchiusa la pace, si trattò di congedarli, i Cartaginesi lasciavansi rincrescere tanto esborso; onde i mercenarj mossero contro la città, e in favelle varie, ma con eguale prepotenza chiesero i soldi. 238 Cartagine, pretestando il vuoto erario, esibiva un tanto meno: ma quei forti che avevano sottocchio le ricchezze del popolo più trafficante, e quanto facilmente il loro braccio prevarrebbe alle costoro industrie, s’ammutinano; dalle città africane settantamila uomini si rannodano coi ventimila mercenarj, e stringono d’assedio Cartagine. Sono di quei frangenti, ove la superiorità è restituita agli uomini d’azione; e in fatto la fazione guerresca dei Barca, venuta in dechino in grazia della pace, torna a rivalere; ed Amilcare, rimesso al comando, con ferocia combatte la ferocia de’ mercenarj, e ne fa macello.
ANNIBALE IN ISPAGNA
Vinti questi nemici, restava non meno temibile il loro vincitore. I Cartaginesi, non avendo potuto perderlo con un’accusa, lo mandarono a guerreggiare fra i Numidi. 237 Sottomessa la costa d’Africa sino all’Oceano, di là egli traeva numerose cerne d’Africani, Numidi, Mauritani, imbizzarriti dalla vittoria; e non avendo altro modo d’alimentarli che la guerra e la preda, li menò di qua del mare nella Spagna, ricca di terreno, di commercio, di miniere. Cartagine non se ne diede per intesa, sperando o che il valore conosciuto degli Spagnuoli toglierebbe di mezzo l’esercito pericoloso; o se questo vincesse, non si potrebbe sostenere che ricorrendo alle flotte di Cartagine, e cedendole il frutto delle sue conquiste.
Campeggiava dunque Amilcare, si può dire, indipendente dalla sua repubblica, e volgeva per la fantasia un’impresa maggiore, suggeritagli dal dispetto d’aver visto la Sicilia ceduta per intempestiva disperazione, e la Sardegna ciuffata dai Romani nel cuor della pace. Ma in mezzo a tali divisamenti rimase sconfitto e ucciso; 228 tolto un gran nemico a Roma, e fors’anche a Cartagine.
Asdrubale genero di lui si mise a capo dell’esercito ch’egli abbandonava, e guerreggiò in Ispagna a suo talento; coll’affabilità e coi maneggi più che colla forza trasse dalla sua i regoli del paese, e in faccia all’Africa fondò Cartagine nuova ( Cartagéna ), 226 con eccellente porto e formidabili munizioni, predestinata sede d’un dominio spagnuolo 220 che forse egli ruminava alzare emulo di Cartagine e di Roma. Ma uno schiavo gallo lo scannò a piè degli altari.
L’esercito si tolse a capo Annibale figlio d’Amilcare, giovane ventiseienne, che poteva dirsi straniero alla patria, dalla quale era uscito a tredici anni. Suo padre l’avea formato negli aspri esercizj della guerra spagnuola e nell’odio di Roma; e consacrandolo col fuoco sull’ara di Melcart, gli avea fatto giurare perpetua nimicizia ai Romani. Annibale congiungeva facoltà disparatissime; obbedire e comandare, tenersi cari i soldati e gli uffiziali, divisare un’impresa ed eseguirla; versatissimo in quanto allora sapevasi di tattica e stratagemmi, primo tra i fanti, primo tra i cavalieri; indistinto dagli altri nelle marcie e nell’accampamento, nella mischia distinto per armi e cavallo più vistosi; indomito alle fatiche, primo all’azzuffarsi, ultimo al ritirarsi; senza pietà, senza fede, senza riguardo a santità, a giuramenti.
Le città di Emporia, Roda, Sagunto, fondate dai Greci nella Spagna, si videro esposte alle ambizioni puniche; onde ricorsero a Roma, che già estendeva la sua politica di là delle Alpi, e che, ingelosita dallo estendersi de’ Cartaginesi in quella penisola, s’interpose, e concordò con essi avesse a considerarsi limite de’ possedimenti l’Ebro, di mezzo alle due potenze restando franca Sagunto, città di origine greco-italica[257]. Annibale, desideroso di romperla coi Romani, ad onta dei trattati assediò Sagunto; 219 i cui abitanti, dopo generosissima resistenza, vedendo disperato della patria, e non volendole sopravvivere, si precipitarono nelle fiamme. Roma stava consultando ancora sul soccorrerla quando la udì perita; onde spedì ambasciadori ad Annibale per lamentarsene, i quali, da lui non ascoltati, tragittarono a Cartagine, chiedendo fosse loro consegnato Annibale, violatore del diritto pubblico. Il senato rispose nol potrebbe quand’anche il volesse; e dicea vero, ma Fabio Massimo Verrucoso, fatto un seno col lembo della toga, lo sporse ai gerusj cartaginesi, e disse:—Qua entro vi offro guerra e pace, scegliete». I gerusj risposero unanimi:—Dia qual vuole»; ed egli, scosso quel lembo, esclamò—Guerra».
SECONDA GUERRA PUNICA
E fu rotta quella che Livio chiama bellum maxime memorabile omnium, e che la posterità ricorda ancora come gravissima, dopo tante in cui si abbeverò di sangue la razza di Caino. Aveva Roma a fare con un esercito che da ventitre anni combatteva gli Spagnuoli, gente bellicosissima nelle difficili fazioni di montagna, e capitanato da un sommo generale. Come avviene delle guerre di passione, non meno che colle forze si armeggiò coi maneggi, e variatissima volse la fortuna, costosa la vittoria. Roma fece grandiosi preparativi di truppe proprie e d’alleate, e supplicazioni agli Dei: chiese a’ popoli della Spagna rimanessero saldi alla sua amicizia; ma questi risposero, l’esempio di Sagunto aveva insegnato quanto male essa proteggesse i suoi alleati: si volse ai Galli, pregando non concedessero il passo ai Cartaginesi; ma quelli, venuti in consiglio armati, risposero ridendo:—Che male ci ha fatto Cartagine? o che bene Roma? Questo sappiamo solo che Roma ha cercato espellere d’Italia i nostri fratelli».
PASSO DELLE ALPI
Alludevano ai Galli Cisalpini, dei quali essendo recente la sconfitta, Annibale comprese come insorgerebbero non appena egli portasse le armi in Italia. La famiglia di lui era ricchissima, e da una sola miniera di Spagna traeva al giorno trecento libbre d’argento[258]; altri mezzi gli offrivano le spoglie della vinta Sagunto: laonde, lasciato cinquantacinque navi e sedicimila soldati col fratello Asdrubale per guardare la Spagna e per addestrarsi in quella faticosissima palestra, con novantamila veterani prese le mosse. I Romani l’aspettavano per mare: 218, 16 giug. egli, al contrario, pensò venire pei Pirenei e le Alpi, donde si diceva che anticamente Ercole Tirio fosse dall’Iberia varcato in Italia; aprirebbe una nuova via, impresa che gli antichi consideravano gloriosissima; ed a pastura del vulgo diede voce che il dio patrio gli avesse in sogno, entro il santuario di Gades, preconizzate le vittorie, e mostro il cammino mediante le tortuosità di un serpente. Politicamente confidava ne’ Barbari, e di guadagnarne i capi sia coll’oro, sia coll’idea della vendetta e del saccheggio: onde spediva a sollecitare Boj ed Insubri; aprissero gli occhi contro questa Roma che tendeva avvolgerli in una catena, di cui erano i primi anelli le colonie di Piacenza e Cremona. Raggiunte le vette de’ Pirenei, acquietò i Galli della pendice settentrionale con un trattato, memorabile per la singolarità; giacchè si stipulava che qualsivoglia querela de’ Cartaginesi contro gl’indigeni sarebbe rimessa all’arbitrio delle donne galle[259]. Lasciando guarnigioni lungo tutto il cammino, innanzi che i Romani potessero abbarrargli la via tragittò il Rodano e la Durenza, e uscente ottobre cominciò a valicare le Alpi nevate, pericolose e difese[260].
ANNIBALE IN ITALIA
Tanto fu disastrosa la marcia fra i ghiacci nel salire, fra i torrenti e le smottature nel discendere, che di cinquantamila fanti e ventimila cavalli con cui aveva varcato il Rodano, dopo cinque mesi e mezzo e mille cenventicinque miglia di viaggio, gli avanzarono appena ventimila fanti e seimila cavalli. Col favore dei Galli e col proprio coraggio, probabilmente pel piccolo Sanbernardo nelle alpi Graje scese in val d’Aosta: riuscito fra i Taurini, proclamando la solita canzone del venire a liberare l’Italia da’ suoi oppressori, giunse al Po. All’avvicinarsi di lui, i Galli insorti aveano disperse le colonie di Piacenza e di Cremona, e rotto il console romano nella foresta di Modena; pure non caldeggiarono l’invasore quant’egli sperava, fosse paura de’ Romani, o avessero di buon’ora sperimentato i guaj di tali liberazioni: sicchè col fendente della spada dovette Annibale aprirsi un passo sanguinoso fra i Taurini.
Roma avea destinato un esercito per l’Africa, uno per la Spagna, il terzo per la Gallia. Quest’ultimo andò sconfitto; il secondo col console Cornelio Scipione molestò alle spalle Annibale, ma vedendolo scalar le Alpi, accorse a difesa, mentre l’inatteso suo arrivo fece trattenere in Italia l’esercito destinato all’Africa. Scipione, che aspettava Annibale pel più facile varco dell’alpi Marittime, se lo trovò improvvisamente sulla propria linea di operazione, e voltato fronte, lo pettoreggiò al Ticino; ma inferiore di cavalleria, rimase colla peggio. Sempronio Longo console, richiamato in diligenza dalla Sicilia, oppose alla Trebbia circa quarantamila uomini agl’invasori; ed anch’egli fu vinto, e costretto abbandonare le posizioni sul Po. Molti dei Galli, arrolati dai Romani, disertavano ad Annibale dacchè lo vedeano sorriso dalla fortuna: ond’egli novantamila guerrieri spiegava sulla valle del Po, in pianure opportunissime all’ottima cavalleria numida.
Pure non avea troppo onde rallegrarsi. I Galli, dopo che si furono disfatti delle colonie, di mal occhio vedeano messo a contribuzione il paese e a repentaglio la propria indipendenza per favorire codesti stranieri. Gli altri mercenarj ond’era composto l’esercito, ragunaticci indocili nella quiete, burbanzosi nella vittoria, volevano imporre al capitano l’ora e il luogo della battaglia, della marcia: frenati con man di ferro, tramavano contro Annibale, il quale, per eluderli, era costretto mutare ogni tratto di vestimento. Però appena il consentì la stagione andata nevosissima, egli muove alla volta di Rimini, 217 e per la valle del Ronco o quella del Savio piega sull’Appennino, e verso Arezzo per la via men frequentata delle maremme dell’Arno e del Clani, ove in marcia disastrosissima perdè fin sette elefanti[261] e assai uomini e cavalli; tra il monte di Cortona e il lago Trasimeno sconfisse di nuovo i nemici, uccidendo il console Flaminio Nepote; e l’Etruria, quasi risorgesse a libertà, illuminò tutte le alture con bellissimo tripudio, che i loro discendenti continuano a celebrare annualmente ne’ dintorni di Cortona. Perocchè è natura dei vulghi il salutare come liberatore ogni nemico de’ loro padroni; e le popolazioni che Roma aveva assoggettate, e di cui offendeva il patriotismo colle colonie e co’ magistrati suoi, davan mano ad Annibale, e dall’Alpi al Peloro ridestavasi il grido dell’indipendenza.
FABIO MASSIMO
Roma, vistasi in tal frangente, e sconfitti i due consoli, elegge dittatore Fabio Massimo Verrucoso, il caporione de’ nobili, che preso per ajutante Minucio Rufo plebeo, decreta devozioni, una primavera sacra, giuochi solenni, e insieme munisce la città, taglia i ponti, accortosi che occorreva di proteggere non più tutta Italia, ma la capitale; propone però di lasciar consumare Annibale anzichè combatterlo, ed ha il coraggio di temporeggiare, affrontar la ciarla degli eroi da parole che lo abbajavano inetto, codardo, tentennone, e fin traditore; e senza mai lasciarsi tirare a battaglia, soffre che Annibale sotto gli occhi di lui passi nell’Italia meridionale e nell’Umbria fino a Spoleto, e devasti le vitifere campagne di Falerno, di Massico, di Sinuessa, fra l’abbondanza instaurando i suoi de’ sofferti disagi.
CANNE. CAPUA
Sceglieva dunque per nuova base d’operazione il mare d’Apulia, donde potrebbe ricevere sussidj da Cartagine: base infelice però è il mare a chi non abbia una fortezza, o amiche le popolazioni, e una flotta robusta. Quest’errore aveva conosciuto Fabio; e il titolo di temporeggiatore ( cunctator ), affissogli per ischerno, restò come sua gloria allorchè l’esito chiarì quanta nell’indugio fosse prudenza. Perocchè Annibale, consunti i viveri e i foraggi, serrato nell’Italia meridionale senza comunicazioni colla Spagna, staccato dai Galli, non vedendo le città e i popoli muoversi a secondarlo, già era costretto a meditare una ritirata nella Gallia: quando, avendo Fabio dopo i sei mesi deposto la dittatura, il console Terenzio Varrone, 216 levatosi in fiducia, e mal resistendo al desiderio di popolarità, antepose le grida vulgari ai consigli di esso Fabio e del collega Paolo Emilio, e presentò battaglia a Canne sull’Ofanto. Ne esultò Annibale, e squadronò i suoi Africani, coperti d’armi acquistate alla Trebbia e al Trasimeno; i Galli ignudi dall’umbilico in su, con lunghe e ottuse spade; gl’Ispani colle sciabole puntute e vestiti di bianco. Accanita battaglia si mescolò; e riuscì disastrosissima pei Romani, di cui forse quarantamila perirono; diecimila prigionieri; tre moggia e mezzo d’anelli, distintivo dei cavalieri uccisi, furono da Annibale inviati a Cartagine; e Paolo Emilio, prodigando sul campo la grand’anima, mandava dire a Roma, si fortificasse prima che le giungesse addosso il vincitore. Questi in fatto s’inoltrò fino a sventolare il punico vessillo in vista della città nemica; ma poi scostandosene, accettò in dedizione molti popoli della Lucania e dell’Apulia, e singolarmente Capua. 215 In questa ricca e splendida città sul Vulturno, emula di Cartagine e di Corinto, e non seconda che a Roma nella penisola, egli piantò il quartier generale, in luogo munito, e opportuno a guidare l’Italia meridionale sollevata.
DIFFICOLTÀ DI ANNIBALE
Qui tutti fanno eco a quel motto di Maarbale luogotenente d’Annibale,—Tu sai vincere, non usare della vittoria». Ma se si riflette che tredici anni ancora egli si sostenne in Italia, mal si crederà che l’ozio molle indisciplinato e le vaghe donne e i generosi vini fiaccassero il suo esercito. Del resto, poichè la guerra non si fa con parole, con quali mezzi poteva egli spingerla alla risoluzione? In tante battaglie avea consumato il fiore de’ suoi veterani: disgiunto com’era dalla propria base nel settentrione dell’Italia, non rimanevagli modo di rifare gli eserciti colle cerne della bellicosa Gallia; avea perduto la più parte de’ cavalli, così preziosi per gli Africani e in generale pei soldati mercenarj che, privi di patria e di famiglia, pongono il cuore in quest’unico lor possesso e scampo. Annibale avea fatto stima che Roma fosse odiosa alle colonie quanto Cartagine, ma il fatto ormai lo convinceva altrimenti. Molte delle piccole popolazioni si erano avvezze a considerare i Romani come capi; da loro avevano avuto riparo nella recente irruzione dei Galli; da loro vedevansi provvedute di strade, canali, ponti; difese le coste; protetto il commercio contro Illirici e Cartaginesi; in ricambio domandando solo uomini, tributo men sentito che quello dell’oro. L’indipendenza tumultuosa degli Staterelli disgregati avea stancato i più; e se le plebi la rimpiangeano, dappertutto i nobili si erano attaccati alla fortuna dei Romani, che d’altra parte acquistavano benemerenza e parentele ne’ varj comuni; Appio Claudio diede una figlia a un Campano; Livio sposò quella d’un senatore di Capua; Curio scavò a Reate un canale per isfogo del lago Velino. Ecco perchè degl’Italiani gran parte rimasero in fede: quelli che voltavansi contro Roma perchè stanchi di riempirne le file, ben presto si indignavano di dover dare e roba e uomini al Cartaginese, il quale, attento ad occupar le città, massime quelle a mare, trovavasi spesso respinto, o dovea vincerle a gran costo d’uomini e di tempo.
CONTEGNO SUO E DE’ ROMANI
Restavagli di chiedere soccorsi da Cartagine; ma questa n’era dissuasa da Annone, capo della parte contraria ai Barca.—Che bisogno ne ha fra tante vittorie ch’e’ ci ricanta? Non ha egli ucciso ducentomila Romani, fattone prigioni cinquantamila, assoggettato Apuli, Bruzj, Lucani, Campani?» Nè la sola costui gelosia tratteneva il prudente senato cartaginese dall’ajutare Annibale, ma anche il sentire come divenisse pericoloso alla patria cotesto generale, che per proprio conto aveva guerreggiato nella Spagna, ed ora nell’Italia. Conoscendo però di quanto momento alla sua gloria ed a’ suoi possessi fosse quell’impresa, deliberò sostenerlo: ma ad Annibale non bisognavano nuove cerne, bensì un esercito già agguerrito nella Spagna. Di fatto, lasciate le reclute d’Africa a tener fronte ai Romani nella penisola, Asdrubale fratello di lui si mosse co’ veterani: ma gli Scipioni che vi capitanavano i Romani, gli attraversarono la via; 212 impedirono anche Magone, venutovi colle truppe fresche d’Africa; e le vittorie d’Ibera, d’Illiturgi, di Munda salvarono l’Italia da una nuova invasione.
I Romani dalla sconfitta di Canne rimasero sgomentati per modo, che aveano proposto perfino d’abbandonare la patria inauspicata; e un pugno di garzoni nobili già dava lo sciagurato esempio di trasportarsi altrove, se il giovane Publio Cornelio Scipione non fosse riuscito a stornarli. Fabio (racconta Plutarco) spiegando tutta la maestà dittatoria, di cui era novamente rivestito, preceduto da ventiquattro littori, uscì incontro al console Varrone, ringraziandolo non avesse disperato della patria; ma gli ordinò deponesse le insegne di sua dignità, mentre invece faceva mettere agli Dei pomposissimi addobbi, quasi a mostrare che la sconfitta era dovuta al generale e al suo sprezzo per la divinità, non a codardia delle truppe; e che il popolo dovea non ispaventarsi del nemico, ma placare i numi sdegnati. Allora si ricorse ai libri Sibillini, e conforme a quelli prepararono il letto e la mensa agli Dei; si votò una primavera sacra[262]; si rinnovarono tutte le superstizioni etrusche; si sepellirono vivi nel fôro due Greci e due Galli; e così due Vestali violatrici dei voti, e il loro seduttore fu ucciso a vergate dal pontefice massimo.
PERSEVERANZA DEI ROMANI
Se a questi segni di sgomento si consolava, Annibale dovette sconfortarsi allorchè intese come quelli ch’eransi salvi colla fuga, furono mandati a servire senza soldo in Sicilia, fintanto che Annibale stesse in Italia: all’ambasciadore spedito a trattar di pace e del riscatto de’ prigionieri, udì rispondere non saper Roma che farne di gente che si era lasciata prender viva; entro la notte uscisse dal territorio romano. E messosi all’incanto il terreno sul quale era piantato il campo cartaginese, fra i compratori sorse gara, come se piede nemico non calpestasse Italia. Di fatto, nel disastro moltiplicano le forze di Roma; a gara si portano gli argenti nel pubblico tesoro; chiunque compì i diciassette anni si arruola; con armi tolte in altri tempi ai nemici, e sospese nei delubri e negli arsenali, sono forniti ottomila schiavi volontarj; Gerone II di Siracusa manda viveri e denaro; Napoli esibisce quaranta pàtere d’oro pesanti trecenventi libbre, trecento moggia di frumento, ducento di orzo, e mille frombolieri che vengono aggraditi. Levate contribuzioni gravissime in proporzione degli averi, proibito ogni lusso d’oro e di vesti, si pensò con uno spediente finanziero riparare alla mancanza di contante. I censori chiamarono al tesoro le ricchezze dei minori, delle vedove, delle non maritate, che stavano deposte in mano de’ tutori, ai quali si rilasciavano dei boni sui pubblici banchieri[263]. Questi viglietti del tesoro giravano sotto la fede pubblica; con essi si fecero gli appalti e i mercati, avendo i fornitori dichiarato non chiederebbero il rimborso che a guerra finita. In tal modo rifluì il danaro, si munirono di navi le coste, si coscrissero da ducentomila uomini, e la somma delle cose fu affidata ancora al valore di Claudio Marcello vincitore dei Galli, e all’animosa prudenza di Fabio Massimo, chiamati l’uno spada, l’altro scudo di Roma.
Annibale non infingardiva a Capua, anzi rattizzava contro Roma le ire degli Italioti non solo, ma dei Sardi, del nuovo re di Siracusa, di Filippo III re di Macedonia. Pure egli decadeva a misura che Roma alzavasi: Marcello potè vincerlo presso Nola, e così ripristinare ne’ guerrieri romani la confidenza. Filippo Macedone, venuto per danneggiare l’Italia, fu sconfitto ad Apollonia dal pretore Levino, e tosto si rimbarcò per riparare a’ guaj che in patria gli suscitava Roma, la quale spediva Marcello a punire Siracusa.
LA SICILIA RIDE A PROVA
Geronimo, sciocco e dissoluto nipote di Gerone, tiranneggiava in questa; la quale presto si redense coll’assassinarlo. 214 Ne seguirono turbolenze violente: i demagoghi aizzavano contro di Roma in nome della indipendenza; lo perchè Appio Claudio per terra, Marcello per mare l’assediarono per tre anni, Invano per difesa della patria il gran matematico Archimede adoprava l’ingegno (pag. 259); Marcello finalmente la prese, e l’abbandonò al saccheggio e al fuoco. Vi si trovarono più ricchezze che non da poi in Cartagine; e Roma si fregiò delle statue e colonne di colà trasportate. Ai Siracusani parve duro il vedersi castigati per la perfidia dei loro tiranni, e chiedeano che le spoglie almeno fossero restituite; e Manlio Torquato sostenendoli diceva:—Se resuscitasse Gerone, egli così fedele al nostro nome, che direbbe vedendo la sua città sperperata, e Roma adorna delle sue spoglie?» Il senato rispose gliene rincresceva, ma che Marcello aveva operato con buon diritto di guerra: 212 e tutta Sicilia fu ridotta all’infelice condizione di provincia.
Così le sorti d’Italia si libravano sul mare, in Ispagna, in Sicilia, in Grecia: poi Roma concentrò gran parte di sue forze contro di Capua. 211 Annibale, che intanto avea corso l’Italia ed erasi mostrato fin presso Roma, adoprò tutta sua possa per salvare i Capuani; i quali, dopo ch’ebbero perduta ogni speranza, imbandirono un voluttuoso banchetto, dove i primarj, dopo sollazzatisi, fecero circolare la tazza avvelenata che dovea sottrarli alla vendetta dei Romani, poi altri si ritirarono nelle proprie case, altri stettero insieme sbevazzando, finchè l’un dopo l’altro cadevano estinti. Capua fu trattata senza pietà, priva de’ suoi ornamenti e dei magistrati, molti venduti schiavi, confiscate le terre. Alcuni furono condotti a Roma, dove essendo scoppiato un incendio, ne fu data ad essi la colpa, e coi tormenti indotti a confessare, ebbero l’estremo supplizio.
PUBLIO CORNELIO SCIPIONE
Con ritirata stupenda Annibale, carico di bottino, erasi ridotto nella Daunia e nella Lucania, vicino allo Stretto: ma la sorte di Capua avea aggiunto a’ suoi nemici tanta baldanza, quanta ne sottraeva agli amici. Restavagli a sperare nell’esercito del fratello Asdrubale; ma questo era trattenuto dalla guerra che, altrettanto viva quantunque men rinomata, conducevasi nella Spagna dai fratelli Publio e Gneo Cornelio Scipioni. I quali, ajutati dai popoli insorti che aveano scannato fin quindicimila nemici, prosperavano di vittorie, ricuperarono Sagunto, 212 ma poi sconfitti perirono entrambi. Il caso fece tal colpo in Roma, che niuno ardiva domandare quel comando: ma Publio Cornelio Scipione, di soli ventiquattr’anni, si esibì vendicatore dello zio e del padre. Questo garzone, che doveva ottenere il soprannome d’Africano, di diciassette anni avea salvata la vita di suo padre alla battaglia del Ticino, poi dissuaso i giovani dall’abbandonar Roma dopo la rotta di Canne; rammorbidiva l’eroismo de’ patrizj antichi coll’affabilità della greca educazione; stava coi nobili, ma blandiva la plebe per giovarsene; ai devoti lasciava credere d’essere nato miracolosamente e d’aver comunicazione cogli Dei; coi dissoluti gavazzava; delle leggi, della religione, dei patti sapea valersi e ridersi secondo l’occorrenza; uno di quegli uomini, la cui popolarità e l’esempio possono divenire rovinosi alle città libere.
Egli rincorò le legioni; e dicendo che Nettuno glielo ordinasse, traverso ai nemici andò attaccare Cartagena, arsenale e granajo del nemico, 210 e vi pose ad effetto la legge che comandava ai Romani, quando entrassero in una città, di scannar tutti, uomini, animali utili e fino i cani ( Polibio ). Gli ostaggi degli Spagnuoli che vi rinvenne, rimandò con ogni cortesia, e intatte le donne; col che s’ingrazianì i natii. Non potè peraltro impedire che Asdrubale menasse un esercito in Italia con rapida marcia traverso ai Pirenei ed alle Alpi. Roma dunque stava in nuovo frangente: che se era vincitrice nell’Italia meridionale, dove avea preso anche Taranto, sentivasi però esausta da tanti sacrifizj: fin il terreno delle trentacinque tribù circostanti alla città era sperperato; l’Etruria ribolliva; molte colonie latine, logore di tanti sacrifizj, davano lo scandalo di ricusar danaro e uomini; Claudio Marcello, che a sessant’anni aveva voluto dare una nuova battaglia ad Annibale, 208 cadde sul campo. Ma altre colonie latine si professarono disposte a tutto soffrire per Roma; i senatori e i magistrati di questa offrirono quanto avevano d’oro e d’argento, e il popolo gli emulò: si chiesero rinforzi d’ogni parte, e i consoli Livio Salinatore plebeo e Claudio Nerone patrizio guidarono mirabili fazioni. Il primo teneva testa ad Asdrubale con trentacinquemila uomini; Nerone con quarantamila fronteggiava Annibale: ma non esitò di abbandonare la sua posizione per raggiungere il collega, facendo in otto giorni ducensettanta miglia; e menatigli dodicimila uomini, poterono affrontare il nemico a Sinigaglia, e raggiuntolo mentre rampicavasi per la valle del Metauro, 207 l’ebbero sconfitto ed ucciso. Nerone, che per quest’impresa merita luogo fra i migliori strategi, non si addormentò nella vittoria, ma in sei giorni ritornò sull’Ofanto a fronte de’ Cartaginesi, e il teschio ancor fresco di Asdrubale fu dai magnanimi Romulidi gittato nel campo di quel barbaro Annibale, il quale, avendo da Magone ricevuto il cadavere del vinto console Sempronio Gracco, anzichè farlo a brani, come gli si suggeriva, l’onorò di magnifiche esequie, e l’ossa mandò al campo nemico.
Rincalzato adunque agli estremi di quell’Italia che dianzi scorrea da vincitore, più non poteva Annibale che altalenare sulle difese tra gli Abruzzi, insuperabili qualora occupati da uomini. Ben doveva esser mirabile la prudenza di lui ne’ disastri, se i nemici non osarono assalirlo benchè malconcio e disordinato, e se l’esercito suo, composto di mercenarj d’ogni favella e religione e costumi, e mancante di paghe e spesso di viveri, non gli perdè il rispetto, come avviene al cessare della fortuna. Cartagine delibera un’altra volta d’inviargli soccorsi: e Magone, fratello di lui, con quattordicimila uomini sbarcato a Genova, 205 tenta di trarre dalla sua i Liguri, ed ingrossato penetra nella Gallia Cisalpina, e vi si regge lungamente. Anche in Sicilia spedirono Imilcone: ma la guerra trascinavasi lenta, come allorchè nessuna delle parti ardisce un colpo risoluto. Questo era riservato a Publio Cornelio Scipione.
PASSA IN AFRICA
La partenza di Asdrubale aveva fatto agevolezza a questo di sottomettere tutta la Spagna cartaginese fino a Cadice; colà fondò pei veterani la colonia d’Italia presso Siviglia; e la vittoria costante sopra quattro generali e quattro eserciti gli meritò d’esser eletto console innanzi l’età.—Non si potrà finire la guerra d’Italia che collo sbarcare in Africa», pensò egli; e con tal mira strinse alleanza con Siface re della Numidia: ma i vecchi generali di Roma, tra cui anche Fabio Massimo, fosse cautela o invidia, lo contrariavano di maniera che a stento ottenne trenta galee[264]. Alla renitenza del senato supplì l’ardore degl’Italiani, impazienti di porre un termine alle perenni devastazioni delle bande d’Annibale quando più non lo sperarono liberatore. Gli Etruschi disingannati trassero dagli arsenali le armi e gli attrezzi, copiosissimo avanzo della loro grandezza; Populonia somministrò il ferro, Tarquinia le tele, Chiusi, Perugia, Rusella gli abeti, Arezzo trenta migliaja di scudi, celate, pili, cinquantamila aste lunghe, e quante occorrevano scuri, asce, fasci, vasi d’acqua, macinette; sicchè un poderoso armamento Scipione radunò nella Sicilia, mentre simulavasi tuffato nella mollezza e nei piaceri, e sbarcò in Africa.
SOFONISBA
Fa meraviglia che Cartagine non siasi opposta a quel tragitto: soltanto era riuscita a richiamare dalla sua re Siface, valendosi delle istigazioni di Sofonisba, figlia di Asdrubale Giscone, 204 la quale adoperava la sua bellezza per trovare nemici a Roma. Scipione assalì questo re, e spodestatolo, ripristinò sul trono di Numidia il cacciato Massinissa. Costui, dotato di quella solida vecchiezza che spesso s’incontra ne’ militari, a ottant’anni valichi reggeva un giorno intero a cavallo, ed anelando a vendicarsi ajutò non poco la vittoria di Scipione; e avuto in sua mano Siface, gli tolse Sofonisba, e la sposò. N’ebbe dispetto l’innamorato Siface, e subillò Scipione:—Guaj ai Romani ove costei s’avvicina! come ha mutato l’animo mio ad odiarli, così torcerà Massinissa contro di voi». Il Romano adunque la richiede al re numida, il quale non osando negarla e non la volendo cedere, presenta a Sofonisba un nappo avvelenato.—Grazie del dono nuziale», esclama l’intrepida, e beve. Massinissa ne mostrò il cadavere a’ Romani venuti a richiederla, e Scipione posò sul capo del vecchio il diadema, 203 meritato coll’assassinio d’una donna.
Cartagine, stretta sì da vicino, richiamò d’Italia gli eserciti. Magone, che non era mai riuscito a congiungersi con Annibale, pugnando nell’Insubria contro Quintilio Varo toccò una grave ferita, della quale morì mentre si tragittava in Africa. Annibale costretto a lasciare il bel paese che sedici anni aveva corso rubando e sperperando, smungendo amici e nemici, trucidando con barbarie calcolata, sterminando le famiglie infedeli o temute, o de’ cui beni avesse bisogno per nodrire i suoi mercenarj, non sapea celare il suo dispetto. Anche sul punto di uscirne, sotto finta di visitare le guarnigioni delle fortezze alleate, mandò suoi commissarj ad espellere cittadini, a saccheggiar case e tesori; e perchè i popoli si opponevano, ne seguirono violenze e sangue. Avrebbe egli voluto portare in Africa un ventimila Italiani che militavano sotto la sua bandiera; ma non aderirono se non quelli che sentivansi rei di delitto capitale. A questi egli regalò gli altri come schiavi; ma perchè si vergognavano di farsi carcerieri de’ proprj fratelli, Annibale unì quegli avanzi con quattromila cavalli e assai bestie da soma, e di tutto fece macello[265].
ANNIBALE ESCE D’ITALIA
Queste orme lasciava Annibale del suo passaggio, del quale gl’Italiani conservarono lungamente memoria d’orrore. Cartagine non appena rivide il gran generale, ripigliò la baldanza; fallendo la tregua invocata, malmenò alcune navi romane sospinte dalla tempesta, e tentò mandar a male gli ambasciatori venuti a richiamarsene. Annibale però non avea fretta di vincere; e quando que’ mercanti il sollecitavano alla battaglia, rispondeva:—Attendete a’ fatti vostri; il soprassedere o accelerare è affar mio». Abboccatosi con Scipione, esibì di cedergli Sicilia, Sardegna e Spagna, ma questi non accettò: a Zama si fe giornata, 202 e benchè Celti e Liguri, ch’erano un terzo dell’esercito, combattessero coll’odio insito alla razza galla contro la romana[266], ed Annibale v’adoprasse tutta l’arte e il coraggio, la vittoria restò ai Romani.
ZAMA
Allora in Cartagine i negozianti prevalsero, e chiesero la pace; e Scipione, conoscendo la difficoltà di espugnar la nemica, o non volendo che un console successore finisse l’impresa da lui sì bene avanzata, 201 la concedette, ma a duri patti: Cartagine conserverà il territorio e il governo suo, consegnando i prigionieri e i disertori, gli elefanti e le navi, eccetto le triremi; pagherà fra cinquant’anni diecimila talenti; non imprenderà guerra nè solderà mercenarj senza il consentimento di Roma; restituirà a Massinissa quanto gli avi di lui avevano posseduto, e lo terrà alleato; darà cento statichi.
PACE
I disertori latini furono decapitati, crocifissi i romani; l’erario di Roma risanguato con cenventitremila libbre d’argento. Cartagine si vide rapiti e incendiati i cinquecento vascelli, con cui non avea saputo impedire lo sbarco di Scipione; e collocato alle porte Massinissa, che incessantemente sarebbesi maneggiato a suo danno, mentr’essa non potrebbe chiarirgli guerra. Quando l’ambasciatore cartaginese andò a Roma a chiedere la sanzione del concordato, qualche senatore gli domandò:—Or quali Dei chiamerete in testimonio, voi che tutti li spergiuraste?» e il Cartaginese:—Chiameremo quelli che ci hanno punito con tanta severità». A tal punto Cartagine si sentiva abbassata! Ma paci che violano la sovranità d’un popolo, allettano a violarle.
CONSEGUENZE DELLA PACE
Quando Scipione di ritorno traversò l’Italia, fu un tripudio inesprimibile sui passi del giovane salvatore; ma egli potè vedere dappertutto la desolazione e lo spopolamento. E Roma gli accrebbe col voler castigare quelli che l’aveano disfavorita; i Bruzj furono condannati a non esser più combattenti, ma servi ai magistrati che andavano nelle provincie; del Sannio e della Puglia si confiscarono i terreni, per farne cortesia a quei che aveano fatto la campagna d’Africa.
INSURREZIONE DELLA GALLIA CISALPINA
Magone partendo per Cartagine avea lasciato nella Gallia Cisalpina un Amilcare cartaginese, guerriero sperimentato, che preferiva il vivere irrequieto fra i nemici di Roma all’indecorosa pace della patria. Costui infervorò tanto i Cisalpini, 200 che Boj, Insubri, Cenomani, Liguri si collegarono, arsero la colonia di Piacenza, minacciarono quella di Cremona; ma sotto questa furono vinti da Lucio Furio, ed Amilcare stesso perì combattendo.
Chi non conoscesse la storia de’ nostri giorni, stupirebbe che i Galli si tenessero quieti allorchè sì formidabilmente avrebbero potuto unirsi ad Annibale, poi, vinto questo, insorgessero senza riposo. Per molti anni la fortuna variò, sinchè Roma, 197 determinata di venirne ad un fine, mandò ad invadere quinci la Liguria, quindi l’Insubria; e che più valse, riguadagnò i venali Cenomani, che nel vivo della mischia disertando ai Romani, fecero intera la sconfitta dei Galli. Nè però Boj ed Insubri si tennero per domati; e solo dopo dure battaglie Claudio Marcello console prese Como 196 e ventotto castelli là intorno, portando immense spoglie a Roma. Gl’Insubri più non appajono tra i nemici di Roma, ma i Liguri incessantemente correvano or contro Piacenza, or in Etruria e sulla marina pisana. Gli anni successivi tre eserciti furono mandati nella Gallia Cisalpina, i quali con accanimento nazionale tal guasto menavano, che alcuni de’ più ricchi chiedevano rifugio presso gli stessi Romani, e sovente vi trovavano orrendi oltraggi. Un bardasso di Lucio Quinzio Flaminino, fratello del vincitore de’ Macedoni, querelavasi di avere, per seguirlo, abbandonato Roma la vigilia di un combattimento di gladiatori, spettacolo a lui curiosissimo. Or mentre a tavola gareggiavano di stravizzo, annunziasi a Flaminino un capo de’ Boj colla sua famiglia; 194 il quale, introdotto, espone i proprj infortunj, ed invoca protezione ed ospitalità. Un orribile pensiero balena a Flaminino, e voltosi al suo mignone:—Tu mi hai sacrificato il piacere d’un combattimento di gladiatori; io te ne compenserò col farti vedere la morte di questi Galli». Detto, brandisce la spada, e fiede sul Gallo, che, indarno invocando la fede divina e l’umana, è colla famiglia trucidato. Solo dopo otto anni, nella censura del severo Catone, a Flaminino fu chiesta ragione di tal nefandità.
Se così operava il console, pensate che doveva la soldatesca; e vedete a qual delle due parti convenisse il titolo di barbara. Scipione Nasica pretore, in un giorno uccise ventimila Boj, tremila ne prese; 193 chiedendo il trionfo, in senato si vantò di non aver lasciato vivi in quel paese che fanciulli e vecchi, e nella pompa fe marciare misti coi cavalli i più nobili prigionieri galli; egli che era stato premiato per virtuoso. Allora recò al tesoro mille quattrocensettanta collane auree, ducenquarantacinque libbre d’oro, duemila trecenquaranta d’argento in verghe e in vasi di fattura gallica, e ducentrentamila monete. Spedito poi come console a compiere l’opera sua, 191 occupò armatamano il territorio confiscato: ma le insegne romane destavano tale ribrezzo, che i pochi avanzi di centododici tribù boje preferirono migrare, postandosi al confluente del Danubio e della Sava; e il nome de’ Boj, Lingoni, Anamani restò cancellato dall’Italia.
GALLIA CISALPINA
Oltre ripopolare quelle di Cremona, Piacenza, Modena, fondaronsi le nuove colonie di Bononia, Parma, Pisa; 189-177 gl’Insubri si rassegnarono al giogo; i Cenomani ottennero il premio di loro perfidia; i Veneti anch’essi cedettero; i Liguri che resisterono lunga pezza al ladroneccio romano, a viva forza furono sottomessi; e la Garfagnana e la Lunigiana settentrionale distribuite alla colonia romana dedotta da Lucca[267].
Dell’alta Italia, che per quattrocent’anni avevano i Galli tenuta, da Belloveso in poi, allora si formò la provincia detta Gallia Cisalpina o Togata, e Roma dichiarò:—Natura ha posto le Alpi fra l’Italia e i Galli; guaj a questi se osano ripassarle!»
APPIO CLAUDIO PULCRO
L’eccesso dell’oppressione ammutinò ancora qualche volta i Galli Cisalpini, e nominatamente i Salassi; da essi rimase sconfitto il console Appio Claudio Pulcro, 143 il quale però con sacre cerimonie ravvivato il coraggio de’ soldati, riparò il danno. Quando chiese il trionfo, gli fu negato; e poichè voleva condurlo non ostante, un tribuno gl’impedì la salita in Campidoglio. Ma sua figlia ch’era vestale, montò seco sul carro, talchè niuno osò opporsi alla vergine sacra; ed ella ne fu lodata, egli maledetto.
CAPITOLO XIV.
I Romani in Grecia e in Oriente.—I trionfi.
Nella guerra d’Annibale, se erasi veduto sperperare il paese, Roma si assicurò il dominio sull’intera Italia, sui mari, su floride provincie; internamente il senato acquistava la preponderanza che i corpi governanti sogliono ottenere in tempo di guerra, e colla guerra voleva conservarla: e trovandosi omai sottoposta tutta l’Italia, volgeva lo sguardo verso l’Oriente.
Accennammo come questo avesse mutato faccia per le conquiste d’Alessandro e per le successive discordie de’ suoi generali e successori (pag. 269). Fondarono essi molti regni anche in parti lontanissime; ma alla storia nostra basta rammentare quelli d’Egitto, di Siria, di Macedonia.
In Egitto formarono dinastia i Tolomei di Lago, che innestando la greca civiltà sull’egizia, fecero rivivere in Alessandria parte del sapere che, dopo tanto splendore, erasi eclissato nell’Oriente e nella Grecia; raccolsero nel famoso Museo i libri e i dotti, i quali applicaronsi massimamente a que’ lavori di erudizione, che sottentrano allorchè cessò il genio del creare: intanto il commercio continuava a fiorire in quella città, così opportunamente situata fra l’Africa, l’Asia e l’Europa.
Il regno di Siria comprendeva i paesi che gli antichi aveano denominati Mesopotamia, Media, Battriana, Assiria, e buona parte dell’Asia Minore; sicchè da Antiochia sull’Oronte i Seleucidi direttamente o indirettamente imperavano su quanto è tra l’Eufrate, l’Indo e l’Oxo, dal mare Egeo alle rive dell’Indo. Emuli cresceano a fianco di loro altri principi e popoli, un tempo vassalli della Persia, cioè i re della Georgia, della Cappadocia, dell’Armenia, del Ponto, della Bitinia, di Pergamo nella Misia; l’isola di Rodi, gloriosa di commercio; le repubbliche d’Eraclea, Sinope, Bisanzio; ed altre piccole potenze, or reluttanti, ora trascinate nell’orbita delle prevalenti.
La Macedonia, non più capo del vasto impero d’Alessandro, costituì regno distinto, al quale attribuisce importanza la parte che ebbe nelle vicende del paese più colto del mondo, la Grecia.
ARTI BELLE
Quell’immensa luce delle lettere e delle arti belle, per cui la Grecia rimane modello insuperabile della classica perfezione, erasi offuscata colla libertà, cessando l’ingegno d’essere ispirato dalla vita pubblica, dai grandi interessi della nazione, dalle intrepide lotte contro gl’invasori della patria. Se vi fu tempo che mostrasse ad evidenza non bastare favor di principi al fiorire degli ingegni, fu certo allora, quando i Tolomei invitavano alla loro corte chiunque avesse merito, i Seleucidi e i re di Pergamo gareggiavano con quelli nel pagar meglio i libri, i quadri, i dotti. I Tolomei proibirono si portasse fuori d’Egitto la carta di papiro, quasi appena bastasse al loro bisogno; e i re di Pergamo vi sostituirono la membranacea, perciò detta pergamena, sulla quale fecero copiare ben centomila volumi per la loro biblioteca. Eppure da tante cognizioni, da tanta protezione non iscaturirono che scritti affati, esercizj di scuola, affinamenti di erudizione, ingegnosi artifizj; nulla che accenni genio e spontaneità. Sopita la facoltà del creare, surrogata la memoria all’ispirazione, que’ letterati sottigliaronsi nell’analisi del già fatto, nei precetti del da farsi; indicarono tutti i difetti da evitare, non valsero a raggiungere le bellezze, che sole dan vita a un lavoro; seppero giustificare cogli esempj e coll’autorità ogni passo dato, anzichè per vigoria di genio farsi perdonare i felici traviamenti.
SCUOLE CRITICHE E FILOSOFICHE GRECHE
L’Egitto, l’India, fors’anche la Persia e la Babilonia, coltivarono la filosofia, ma soltanto in Grecia essa fu unita in vere scuole, con quella evoluzione ordinata di cognizioni che costituisce la scienza: e dal nostro Pitagora e da Socrate erano uscite le due sètte fondamentali, de’ Platonici o Accademici, che faceano innate nell’anima le idee, e perciò eterne la bontà e la giustizia; e degli Aristotelici o Peripatetici, che tutte le nozioni traevano dai sensi, ripudiando ciò che non fosse dato dall’esperienza.
Ma la filosofia più non avea impero quando la forza avea ridotto ogni cosa alla teorica che or chiamiamo dei fatti consumati; e deperite le istituzioni repubblicane, spento lo spirito pubblico, le dottrine cessavano d’aver predominanza sulla vita politica. In questa trista situazione, della quale il lettore non dovrà andar lontano per trovare un riscontro, l’uom pensante che si riconosce impotente ad ostare alle nauseanti realità, è indotto a cercare nella filosofia (poichè religione nel vero senso non esisteva) le ragioni di rassegnarsi a’ mali attuali, o di divenirvi indifferente. Tre vie gli si aprono a ciò: o di considerar come bene il solo piacere, e solo male il dolore, e quindi procacciarsi le sensazioni e i sentimenti gradevoli, schivare i diversi, godere degli affetti sinchè non rechino noja, accortamente soddisfacendo alle inclinazioni egoistiche: tale fu la dottrina degli Epicurei, varia nelle applicazioni, ma che sempre conchiudeva all’individuale benessere, a sottrarsi dalle pubbliche cure, come da tutto ciò che può sovvertire la quiete.
SCUOLE FILOSOFICHE GRECHE
Per riazione contro costoro, altri nell’anima riscontrano innata l’idea del vero e del buono, e ne deducono una serie logica di canoni, ai quali deve l’uomo uniformarsi invariabilmente, e così quetarsi nella beatitudine, qualunque sieno gli avvenimenti esterni. Quest’era l’insegnamento di Zenone e degli Stoici, pretendendo una virtù rigidissima, indomita da dolori, da passioni, pronta a far gitto della vita non solo ove il dovere lo chiedesse, ma anche dove ella diventasse gravosa. Riuscivano dunque alla medesima pratica conchiusione di evitar le cure pubbliche, giacchè non era possibile regolarle sopra quell’inflessibile loro modello.
Altri, scorgendo impotente l’umano intelletto a scernere la vera natura delle cose, e la sapienza filosofica non fondarsi che sovra ipotesi, credettero non si desse alcun vero assoluto, e poneano il riposo dell’anima nell’equilibrio dello spirito fra le negazioni e le affermazioni. Tali erano gli Scettici, che, rivocate in dubbio le nozioni tutte, tutti i doveri, facevano i vizj e le virtù mutevoli secondo i tempi e secondo i paesi; il savio, cui meta è la tranquillità dello spirito, deve astenersi dal prestare assenso a nulla, giacchè l’aderire è stoltezza, mentre di nulla non si può acquistare intima convinzione; fra le illusioni dei sensi e dell’intelletto deve l’uomo bilanciarsi in un giusto mezzo che meglio conduca alla felicità, nulla curandosi degli scandali e dei mali del mondo reale.
Tutte pertanto, quantunque da principj opposti derivando, riuscivano alla conseguenza di ridurre gli spiriti indifferenti sopra la realità. Entrato allora il gusto dell’erudizione, l’Accademia Nuova che fiorì principalmente ad Alessandria, distillava dalle scuole precedenti ciò che migliore le pareva, delle opinioni nessuna asseriva positivamente, tutte accettava come probabili; eclettismo inefficace, che arriva a togliere la distinzione tra il vero e il falso, dacchè vi toglie il carattere d’assolutezza, e accetta per unico criterio l’esperienza.
I SOFISTI
Il decadimento del ben pensare è sempre accompagnato dall’imbaldanzire della parola. I Sofisti, gazzettieri d’allora, ebbri della potenza dell’argomentazione, qualunque ne sia lo scopo, dopo che furonsi avvezzati alle esorbitanze nella guerra del Peloponneso, volsero l’ingegno a sostenere del pari il bene e il male, e giustificavano la violenza, glorificavano la forza, trasportando nella vita civile le leggi della guerra. Di là la smania del potere, l’ardor della lotta, il delirio della vittoria, ben espressa da Euripide allorchè cantò:—La sapienza e la gloria dagli Dei concesse ai mortali, non sono altro che tenere la mano poderosa sulla testa de’ nemici». Combinazione consueta, al tempo stesso i filosofi snervavano giustificando la voluttà, togliendo la differenza tra il bene e il male, il vero e il falso, rendendo la volontà dell’uomo schiava dei sensi, e proponendo alle persone colte per unico esercizio l’arte frivola della retorica, che pervertiva l’anima e l’intelletto, la coscienza e il gusto.
CARNEADE
Chiunque sa che l’uomo opera in conseguenza di ciò che crede, vedrà quanto sulle azioni dovessero contribuire tali dottrine. Il più illustre de’ nuovi Accademici fu Carneade di Cirene, il quale insegnava la verità non possedere un carattere indefettibile a cui conoscerla, atteso che siano illusorie le sensazioni che somministrano la materia delle nozioni: se anche esiste una verità assoluta, è fuori dei confini dell’intelligenza dell’uomo, il quale perciò non può fondare i pensieri e gli atti proprj che sulla verosimiglianza, ed ha assoluta impossibilità a decidere. Collo stoico Diogene 180 e col peripatetico Critolao egli fu dagli Ateniesi mandato ambasciatore a Roma, ove della prodigiosa sua sottigliezza nell’argomentare volle dar prova col sostenere un giorno che l’uomo deve operare secondo la giustizia, e al domani argomentare il contrario, e che giusto ed ingiusto sono sinonimi di utile e dannoso: dal vulgo è spesso reputato pazzo chi compie un’azione giusta con proprio nocumento, mentre vanno in voce di savj taluni, che operano iniquamente ma con vantaggio personale. Si sgomentò di tali dottrine Catone censore, e fece la mozione al senato che subitamente facesse espellere costui, il quale la virtù riduceva ad un esercizio d’argomentazioni. Perciò ancora Fabrizio, quando alla mensa di Pirro udì esporre le dottrine d’Epicuro, invocò che a queste si conformassero sempre i nemici di Roma (pag. 277).
DOTTRINE D’EPICURO
In fatto gli Epicurei, ponendo per mira dell’attività umana il godimento, e per prima condizione di questo la tranquillità dell’animo, svogliavano dai maneggi civili, dal tempestoso patriotismo, sin dalle affezioni domestiche, perchè circondate di tante spine. I Greci, che avevano ucciso Scorate perchè spargeva dubbj su que’ loro Dei, non punirono Epicuro che ogni Dio negava; e negli ultimi loro tempi si abbandonavano al costui disastroso insegnamento, o al dubbio micidiale: e quando sarebbe stato maggior bisogno di forti pensieri e di generose azioni, si tuffavano in bagordi o assopivano nell’esitanza, e della patria avvenga che vuole.
A gente che così pensa, offra teatri, ballerini, mense, donne, prosperità materiale, ed un ambizioso potrà facilmente farsene tiranno; un nemico potrà anche soggiogarli, perchè que’ fiori, soffogano il robusto germe delle virtù patriotiche, e invece delle virili gioje della resistenza e del sagrifizio, si calcola quanto si guadagnerà, come meglio si godrà. Così fatti i Greci, scaduti dalla grandezza delle vantate repubbliche, corrotti in opulenza lussuriosa e in costumi forestieri, agitati da demagoghi, i quali più sogliono pompeggiare di ciancie quanto più scapita il vigor de’ guerrieri e il senno de’ politici, avvicendavano fra tirannide di principi e sbrigliamento di plebe, e questa e quelli avvoltolati nella gozzoviglia. Atene la meravigliosa sua floridezza più non attestava che con meravigliosa corruttela; Sparta la sua severità che colla disumana rozzezza; e i Macedoni ora coll’armi, ora cogl’intrighi e coll’oro vi esercitavano micidiale ingerenza.
LEGHE ACHEA ED ETOLIA
Per riparo contro di queste si formò la lega Achea, di piccoli Stati, 284 che in dieta generale eleggevano uno stratego e dieci magistrati, allo scopo di mantenere eguaglianza e libertà nell’interno, sicurezza al di fuori; ed ebbe la fortuna di vedersi a capo una sequela di eroi, Arato, Cleomene, Filopémene. 280 La imitò la lega Etolia delle città della Beozia, della Locride, della Focide, dell’Arcadia, della Tessaglia ed altre, federatesi non tanto alla difesa come gli Achei, quanto alla guerra, giacchè soli in Grecia possedeano una forza nazionale, quando gli altri non si valevano più che di mercenarj: ma violenti più che coraggiosi, violatori delle leggi e delle proprietà, faceansi esecrare più che temere.
Sciaguratamente poi non seppero durare in pace nè una lega coll’altra, nè tampoco i membri della lega stessa, e la guerra soqquadrava i piccoli Stati di Grecia non meno che i maggiori dell’impero d’Alessandro. Macedonia, 220 Siria, Egitto, sotto re talvolta prodi e magnanimi, più spesso osceni, molli, intriganti insieme e feroci, avvicendarono paci e nimicizie; dappertutto sotto la vernice della urbanità, della letteratura, delle arti covava un’immensa corruttela; e dalle guerre dirotte usciva un governo immorale ed iniquo. Ma gli Stati per poter essere iniqui conviene sieno forti: e invece questi od erano minuti e dipendenti, o i maggiori compaginavansi d’elementi eterogenei, sempre inclinati a sfasciarsi, e non si appoggiavano che a truppe europee, sgagliardite dalle molli delizie dell’Asia; simili alle potenze d’Europa ne’ due secoli anteriori al nostro, reggevansi per via d’alleanze e d’equilibrio positivo: sistema vacillante, che dovea soccombere alla vigile ostinazione di Roma, la quale, idolatrata da figli, pronti a sacrarsi per lei ai numi infernali o precipitarsi nelle voragini, per la forza delle cose dovea prevalere su tutte.
Vincendo i pirati dell’Illiria, i Romani avevano assicurata da costoro la Grecia; 219 onde la lega Etolia e l’Achea a gara gli onorarono di ambascerie e ringraziamenti; i Corintj gli ammisero alla celebrazione dei giuochi istmici, gli Ateniesi alla cittadinanza e ai misteri della Cerere eleusina; pel qual modo essi fecero la prima comparsa fra gli Elleni in aspetto di liberatori. La loro amicizia poi era ambita da Attalo re di Pergamo, non meno che da Rodi e dalla lega Etolia: e poveri di forze quanto copiosi di pretensioni, gli Etolj paragonavano se stessi alla repubblica romana, i Rodj presumevano tenere la bilancia tra questa e la Macedonia.
FILIPPO
Filippo III re della Macedonia, paese ben munito e bellicoso, e possedendo la cavalleresca Tessaglia e molta terra ed isole fino all’Asia, chiesto dalla lega Achea in ajuto contro l’Etolia, avrebbe potuto congiungerle ambedue, e ai ventotto Stati greci sovrapponendo l’autorità militare della Macedonia, preparare un forte contrasto alle presentite ambizioni di Roma. Ma i Greci guatavano con gelosia l’antica dominante; Filippo stesso, per quanto scaltro in politica e dolce di naturale, era stato guasto dagli adulatori, e non che amicarseli, disgustò le due parti con bassi delitti; uccise a tradimento Arato, virtuoso capo della lega Achea, violentò donne, portò strage a Creta e Messene, 213 turbò sepolcri e tempj, distrasse capi d’arte; in modo che, per salvarsene, Rodi, Sparta, la lega Etolia invocarono contro di esso i Romani, 211 che già gli portavano rancore perchè aveva ajutato Annibale (pag. 315).
SECONDA GUERRA MACEDONICA
Il senato romano spiava, e coglieva sollecito queste occasioni di assumere la protezione dei deboli onde romper in faccia de’ forti. Se non che il popolo, spossato da sedici anni di guerre, quando ne’ comizj udì proporsi gagliardi armamenti e una nuova spedizione contro il Macedone, diede nelle furie, e trentacinque tribù votarono per il no: ma al senato premeva conservare colla guerra il potere dittatorio colla guerra acquistato, e che gl’indocili figli de’ prischi plebei, memori dell’Aventino e del monte Sacro, perissero combattendo, e facessero luogo a Latini, Italioti, liberti, gente nuova e pieghevole. Di fatto, colle arti onde un’assemblea sa prevalere alla moltitudine, vinse il partito, 200 e ruppe le ostilità, ajutato di grano, di cavalli e d’elefanti dall’africano Massinissa. Qui pure volle assalire il nemico nel cuore; ma le ardue montagne dietro cui riposava la Macedonia, custodite dai fantaccini dell’Epiro e dalla cavalleria tessala, fecero costar caro il tentativo.
FLAMININO
Per due anni vacillò la fortuna, 198 sinchè non venne al comando il console Tito Quinzio Flaminino, uno di quei figli della guerra, cui l’esercizio de’ campi raffina ne’ politici accorgimenti; e che, leone o volpe secondo il bisogno, adoprava popoli e privati per giungere a’ suoi fini. Parlava greco, usava modi cortesi, mostravasi caldissimo della libertà; e come Buonaparte da Cherasco gridava,—Popoli d’Italia, noi veniamo a spezzare le vostre catene; nostri nemici sono i vostri tiranni», così egli cominciò a promettere liberazione ai Greci, dirsi mandato da una repubblica a ripristinarvi le repubbliche; si ricordassero degli antichi fatti magnanimi; fossero di nuovo quali erano stati. Gli credevano essi e gli spalancavano le città; ed egli se ne rideva e faceva di fatti.
Filippo, al quale si era presentato un momento così opportuno per ristaurare la Grecia e il nome macedone, impaniato in una politica insolita, più non navigò che a caso; 197 Flaminino gli dà battaglia, e la terribile falange macedone, lodatissima per forza compatta, trovatasi a fronte della legione romana, tanto più agile, presso le colline de’ Cinocefali soccombe, e perde la gloria d’invincibile, acquistata nelle guerre dell’Asia. Però Flaminino non annichilò Filippo, e sparpagliava parole d’umanità, di generosità, di rispetto ai vinti, e—Roma ha tornata libera la Grecia: tanto basta alla magnanima. Filippo lasci indipendenti gli altri Stati; tenga pure armata ed esercito, ma non imprenda guerra fuor della Macedonia, senza Roma consenziente; paghi mille talenti, e dia in ostaggio suo figlio Demetrio». Poi presedendo alla solennità de’ giuochi istmici, fece da un araldo bandire questo decreto:—Il senato e il popolo romano e Quinzio Flaminino proconsole, vincitore di Filippo e de’ Macedoni, 196 dichiarano liberi ed immuni i Corintj, Focesi, Eubei, Locri, Ftioti, Magnesj, Achei, Tessali e Perrebi».
Chi potrebbe descrivere la gioja de’ Greci all’udirsi regalata la libertà? Vollero sentir replicato il decreto, appena credendo ai proprj orecchi, quasi editti e dichiarazioni bastassero a far libero un popolo; fiori e ghirlande piovvero, acclamazioni empirono il circo; si dedicarono fin tripodi a questo eroe, schiatta d’Enea, alla sua gente da Enea fondata, e sacrifizj a Tito ed Ercole, a Tito ed Apollo Delfico; e per molti secoli un sacerdote di Flaminino l’onorò di libagioni, cantando un inno che diceva:—Veneriamo la fede candidissima de’ Romani, giuriamo serbarne eterna memoria. Cantate, o Muse, il sommo Giove, Roma, Tito e la romana fede. O sanatore Apollo, o Tito salvatore!» Più gentile ricompensa fu l’avere gli Achei ricomprati a cinque emine per testa, e donati a Flaminino mille ducento Romani che, caduti prigionieri nella guerra d’Annibale e venduti schiavi, gemevano sui terreni della Grecia, e che vie più si accoravano allora nello scontrarsi coi proprj figli e coi fratelli, acclamati liberatori.
Questo scaltro fortunato levò le guarnigioni dalle fortezze di Corinto, Calcide e Demetriade, e promise neppure un soldato romano lasciare in Grecia. Ma il volere che ogni città conservasse gli statuti proprj, era un tenerle disunite, per così facilmente e a voglia soggiogarle, e impedire il crescere e consolidarsi della lega Achea. Quasi ad agevolare l’impresa, in ciascuna città si formò un partito favorevole ai Romani, uno contrario. Alla Grecia come a Cartagine, Roma tolse la flotta, essendosi proposto di rimanere padrona dei mari senza troppe navi, e conservandosi potenza terrestre. Sconnesse le leghe, depressi i forti, gittati per tutto semi di zizzania, Flaminino menò in Roma un fastoso trionfo di tre giorni, portandovi armi e statue di bronzo e di marmo, e vasi di stupendo lavorìo, spoglie di Filippo, e centoquattordici corone d’oro regalategli dalle città liberate. Tristo il giorno in cui le nazioni si svegliano dal sogno plaudente! La Grecia si accorse di non essere stata redenta, ma mutata dalla servitù macedone alla romana; e dicea,—Ci furono levati i ceppi dai piedi per metterceli al collo».
Gli Etolj, già per natura inquieti, allora adombrati al vedere come Roma indugiasse a ritirare del tutto le truppe dalla libera Grecia, tentarono prendere Sparta, Calcide e Demetriade; al tempo stesso che Boj e Liguri resistevano tuttora 195 a Roma fra le Alpi e gli Spagnuoli insorgeano. Forse questi fuochi erano desti o almeno attizzati da Annibale, che, intento a comunicare a tutti l’esecrazione sua contro Roma, procurava stringere in lega Cartagine con Antioco il Grande di Siria, e colla Macedonia, a cui si sarebbero certamente congiunti gli Stati minori, disingannati delle promesse romane, e persuasi che la libertà non si riceve in dono, ma conviene rapirla. L’indomito avventuriere pensava ottenere da esso un nuovo esercito con cui tornare in Italia; e all’uopo spedì a Cartagine un Tirio in aspetto di negoziante, che agli amici di Annibale divisò quello che non conveniva mettere in iscritto: ma scoperto, dovette fuggire, e i timidi Cartaginesi rinnovarono proteste di sommessione alla superba loro vincitrice.
SPEDIZIONE CONTRO ANTIOCO IL GRANDE
Antioco avea dispetto coi Romani perchè impacciavano le sue pretensioni sopra l’Egitto e sopra le città greche dell’Asia Minore; e trovava strano che si costituissero patroni della libertà dei Greci d’Asia, essi che i Greci d’Italia e di Sicilia tenevano servi. Avea dunque sostenuto Filippo di Macedonia; poi da Annibale fu incorato ad assalire i Romani da terra, mentre egli da mare: ma per fortuna di Roma, egli o non era capace d’intendere il genio d’Annibale, o ne invidiava la grandezza, e mal soffriva i rimbrotti con cui quel severo interrompeva le adulazioni ond’era assordato; 193 e diede più volenteroso ascolto agli Etolj, che desideravano trarre la guerra in Grecia per farne loro pro.—Assicuratevi, che d’ogni parte i popoli si alzeranno a favor vostro», dicevangli essi; e il re:—Assicuratevi, ch’io coprirò di mie flotte tutti i mari». Gli uni e l’altro mentivano: Antioco menò appena diecimila armati in Grecia; gli Etolj rimasero soli in ballo, sicchè i Romani ebbero tempo di sopragiungere, e sconfiggerli separatamente.
ANTIOCO VINTO
Antioco si governava nel modo più sciagurato, cioè tentennando: ora restituiva tutta la confidenza ad Annibale, che predicava i Romani non potersi vincere altrove che in Italia; ora se ne insospettiva, e cercava altrove alleati; intanto, quando più gli era mestieri di conciliarselo, si alienò Filippo di Macedonia, il quale, non abbastanza risoluto per valersi di quelle dissensioni a vantaggio della Grecia ed incremento del proprio regno, concedette ai Romani il passo traverso alle sue difficili montagne; per mare l’agevolarono i vascelli del re di Pergamo e de’ Rodj. Gli adulatori seguitavano ad accertare Antioco che i Romani non penetrerebbero mai in Grecia; ed eccoveli comparire minacciosi: ed egli, sconfitto alle Termopile dal console Acilio Glabrione, e nel mar Jonio da Emilio Regillo, 191 finalmente fu snidato di Grecia. Ridotto a guerra difensiva, e vedendo, siccome Annibale gli avea predetto, che i Romani lo cercherebbero in Asia, mal difeso da loro l’Ellesponto, radunò tutte le sue forze a Magnesia alle falde del Sipilo. Sedicimila armati alla macedone, millecinquecento Galati, cavalieri e corazzieri di Media, argiraspidi, arcieri sciti e misj, Cirtei, Elimei, Traci, Cappadoci, Cretesi, dromedarj di Arabi, cinquantadue elefanti d’India, moltissimi carri falcati, componevano l’esercito d’Antioco; supremo sforzo di tutto l’Oriente contro la prevalenza occidentale. Ma i Romani, guidati da Lucio Cornelio Scipione e da Eumene II re di Pergamo, col valore e coll’accorgimento superarono il numero, e sconfissero il gran re, 190 uccidendogli cinquantamila uomini, prendendone centonovantamila.
188 Fu l’ultimo crollo alla potenza della Siria. Roma, nella pace che in Apamea accordò ad Antioco, non intese a cacciarlo di là del Tauro, ma a tagliargli i nervi e tenerselo in assoluta dipendenza, massime col ripartire sopra dodici anni i dodicimila talenti che doveva pagarle, e i trecencinquanta che doveva a re Eumene; cedesse tutti gli elefanti e i vascelli, che furono bruciati; desse venti ostaggi e il proprio figliuolo; consegnasse l’etolio Toante ed Annibale; condizione che forse non istette da lui il non adempire, e che deturpa la diplomazia di coloro che poco prima avevano denunziato a Pirro il medico avvelenatore. Vuolsi che in quell’occasione Scipione ed Annibale avessero in Efeso un colloquio, ed il primo chiedesse ad Annibale qual giudicasse il maggior capitano.—Alessandro, che con sì pochi sconfisse innumerevoli eserciti» rispose Annibale.—Quale il secondo?—Pirro, che primo insegnò l’arte degli accampamenti.—E quale il terzo?—Me stesso». Di che Scipione punto nel vivo soggiunse:—Or che diresti, se tu avessi vinto me?»—In tal caso (ripigliò Annibale) mi porrei sopra ad Alessandro, a Pirro, a qualunque capitano».
TRIONFI
Glabrione menò trionfo per la vittoria delle Termopile; Regillo per quella sulla flotta sira; Scipione per quella di Magnesia, traendosi dietro al carro i vinti capitani, centrenta simulacri di città, trecentrentaquattro corone d’oro, e inestimabili tesori; gloriato del titolo di Asiatico. Anche l’Etolia, prolungata la lotta, in fine accettò la pace, pagando cinquecento talenti; 189 e con essa Cefalonia e Samo; e il console Fulvio Nobiliore ne trionfò con cento corone, ducentottantacinque statue di bronzo, ducentotrenta di marmo, gran quantità di argento, d’armi, di spoglie. L’altro console Manlio Vulsone vinse i Galli che, col nome di Gàlati, molestavano la Grecia e le città della Troade, dell’Eolide, della Jonia, le quali perciò gli offersero corone. Roma, fedele all’assunto, non conservava per se neppure un palmo di terra, distribuite le conquiste ai due più efficaci alleati suoi in questa guerra, la repubblica di Rodi ed Eumene di Pergamo.
Così Roma con veste di liberatrice in dieci anni era divenuta non la signora, ma l’arbitra di quanto è dall’Eufrate all’Atlantico, sicchè non vi si spiegava una bandiera senza assenso di essa. Gli Stati principali erano sgagliarditi; i minori ne ambivano l’amicizia od invocavano la protezione; essa, presente dappertutto mediante ambasciatori che erano spie e sommovitori, fomentava le reciproche gelosie, le fazioni interne e le esterne guerre anche nei più piccoli paesi; si facea carico di tutte le lamentanze che si portassero contro Filippo o Antioco o gli Etolj, dando sempre ragione ai deboli contro i forti. Quel ch’è maraviglioso, tante guerre non l’aveano spossata, anzi spediva sempre nuove colonie; tanto operava efficace il suo sistema di risarcirsi incessantemente colle genti italiane e coi liberti assimilandoli.
FINE DI ANNIBALE
Due nemici però continuavano a darle ombra, Annibale e Filippo, vivi i quali, doveva temere una lega generale. Perciò blandiva Antioco, Rodi, l’Acaja, Eumene, e spiava ogni passo d’Annibale, che pareva non prolungare la robusta vecchiaja se non per cercarle nemici. 184 A lui diede ascolto Prusia II re di Bitinia, e mercè sua riportò vittoria sopra Eumene. Ma ecco arrivare a quel re Flaminino, il liberatore della Grecia, e ingiungergli di consegnare Annibale. Questi n’ebbe sentore, e disse:—Liberiamo Roma da sì grave apprensione, poichè le tarda la morte di questo vecchio odiato. Ma il costoro trionfo sopra un vecchio inerme gl’infamerà presso gli avvenire». 183 E col veleno si diè morte, l’anno stesso che a Linterno moriva Scipione suo vincitore.
Scarchi di questo timore, i Romani s’applicarono a fomentare la Licia contro Rodi, Sparta contro gli Achei. Fra questi ripullulavano le dissensioni, eterno retaggio delle repubbliche greche; e i Romani se ne giovarono por ingagliardire la loro ingerenza; e una fazione a loro venduta tra gli Achei, preparava la rovina della patria col corromperla. Filippo di Macedonia s’avvide che i Romani gli usavano riguardi sol quando il temevano, ma di fatto non miravano ad altro che a renderlo fiacco ed esoso; onde agognava ad una riscossa, e a rintegrare la mutilata potenza. Satollo di umiliazioni, facea rileggersi ogni giorno il suo vergognoso trattato con Roma; lasciavasi sfuggire parole minacciose, che sono ridicole o pericolose quando non sostenute da buone armi; esigeva nuove gabelle sulle merci dei Romani, escludendoli dai privilegi degli altri forestieri; in loro odio fece sterminare gli abitanti di Maronea; ruminava i grandi divisamenti di Annibale; al figlio Demetrio, il quale nel tempo che rimase ostaggio a Roma, avea di questa meritato la benevolenza e forse sposato la causa, diè morte col veleno; allora tra il rimorso e il sentimento della propria impotenza, invaso da umor negro morì.
PERSEO
178 Perseo, succeduto al padre con capacità poco minore, si trovò a mano i mezzi che questo da gran tempo allestiva per osteggiare i Romani, pingue erario, popolazione cresciuta, devota la più parte della Tracia, vivajo di prodi, e molti mercenarj pronti a seguirlo in Italia. Qui lo invitavano le guerre, non grosse ma continue, che Roma dovea menare contro la Spagna e la Liguria, e nell’Istria, nella Corsica, nella Sardegna, repugnanti al giogo; ma egli conoscea quanto poco si potesse fidare de’ mercenarj, e quanto Roma giganteggiasse nell’opinione e nel fatto. Sulle prime dunque dissimulò l’avarizia e l’ambizione, e pose il proprio diadema a piè del senato, dichiarando non voler riceverlo che da esso. Allora colle frequenti udienze, colla generosità, colla giustizia, fa credere ai Macedoni risorto il tempo degli antecessori di Alessandro; alletta i Greci tenendo dai poveri contro i ricchi, parziali per Roma; lega amicizia coi Rodj e con Genzio re degl’Illirj; dà sua sorella a Prusia re di Bitinia, e sposa Laodice figlia di Seleuco Filopatore re di Siria, tutti appoggi contro i Romani; manda emissarj ai popoli confinanti coll’Italia, e ambasciadori a Cartagine; s’accorda coi Traci per averne truppe ad ogni uopo; raccoglie ingenti somme da nutrire per molti anni l’esercito, che crebbe a trentamila pedoni e cinquemila cavalli.
TERZA GUERRA COLLA MACEDONIA
I popoli oppressi sogliono crearsi un fantasma di liberatore, e adorarlo; salvo a sputacchiarlo quand’egli appaja qual era, non quale l’aveano essi fantasticato. Così i Greci vedeano in Perseo il rappresentante della causa nazionale, bene checchè egli facesse, in lui ogni fiducia: ma la vigilanza e gl’intrighi degli agenti di Roma tenevano in soggezione gli Achei, massime dacchè ebber perduto il loro capo Filopemene, detto l’ultimo dei Greci; gli Etolj, ritorcendo le armi contro se stessi, eransi tolta la capacità di più tentare nulla di efficace; altrettanto gli Acarnani; la lega dei Comuni beoti era stata annichilata da Roma. Questa occhieggiava ogni passo di Perseo per côrgli addosso cagione; e l’accusò d’aver cercato a morte Eumene, re fedele a Roma, e tentato avvelenare i primarj cittadini di questa. Egli, invece di scendere a giustificarsi, nè di estradire le persone richiestegli, rinfacciò a Roma il superbo governo che faceva dei re e delle repubbliche, 173 disdisse la paterna alleanza, e accettò la guerra prima che Roma vi fosse ben preparata.
Ma al primo comparire dell’esercito, guidato dal console Publio Licinio Grasso, chiaritosi che poco potea promettersi dalle città sbranate in fazioni, egli gittò proposte di pace; Roma mostrò accoglierle, e con una subdola tregua lasciò svampare il primo bollore, e acquistò tempo per procurarsi amici, sudditi, ostaggi. Come fu lesta di tutto, cacciò a strapazzo i commissarj di Perseo: pure, quando si venne all’esperimento dell’armi presso il monte Ossa, Perseo diede ai Romani la più fiera sconfitta che da quarantanni avessero tocca. Se egli allora incalzava la vittoria, e colla falange assaliva il campo romano, forse la guerra era finita, massime che i Greci d’ogni parte scotevano le catene, e la democrazia patriotica prevaleva alla servile aristocrazia. Perseo invece si limitava a piccoli vantaggi, e per più anni combattè utilmente, ma tenendosi alla difensiva, troppo mal acconcia ai casi supremi; in tal modo lasciò sfuggirsi il destro; poi supplichevole chiese e richiese al console la pace, togliendo l’onore a se stesso, il coraggio a’ suoi fedeli. Ma nella pace intrigava e faceva armi; onde risoluti di venirne ad un fine, i Romani allestiscono centomila uomini, e ne affidano il comando a Paolo Emilio.
PAOLO EMILIO
Nasceva egli da quel console che perì generosamente alla battaglia di Canne; si era formato nelle tremende guerre di Spagna e di Liguria, e a sessantanni conservava giovanile robustezza. Ma poichè egli erasi educato nell’alterigia della prisca aristocrazia, il popolo indispettito gli negò il consolato, e da gran tempo lo lasciava nella solitudine privata a badare all’educazione dei proprj figliuoli. Vedendosi allora eletto console, disse in pubblico:—Comprendo che la sola necessità vi ha determinati; adunque il popolo non s’impacci del modo ond’io guiderò la guerra, i soldati tengano pronta la mano, aguzze le spade; del resto nè ciancie, nè pareri; a me solo la cura di tutto».
Con centomila uomini, tra’ quali rinnovò severissima disciplina, si spinse innanzi, superò le difficili gole del monte Olimpo, ma alla battaglia di Pidna 168 la potente falange macedone era ad un punto di sbaragliare le romane legioni; se non che un’eclissi atterrì i soldati di Perseo, e parve indicare l’offuscarsi del regno d’Alessandro. Emilio e le aquile romane rimasero superiori. Il console Cajo Licinio Grasso, radunato il popolo nel circo di Roma, mostrò lettere coronate d’alloro, ed annunzio:—Il nemico è vinto; ventimila Macedoni, di quarantaquattromila ch’erano, perirono combattendo; undicimila restarono circuiti e presi; tutte le città aprono le porte alle nostre legioni».
LA MACEDONIA SOTTOMESSA
La Macedonia non erasi mostrata indegna di sè nell’ultimo suo giorno: ma appoggiato al solo esercito, coll’esercito perì quel regno, e in due giorni restò sottomesso. Perseo ferito si era avventato senza corazza in mezzo alla sua falange, smentendo la taccia di viltà che gli storici romani gli apposero. Coll’indivisibile suo tesoro ricoveratosi nel tempio dei Cabiri a Samotracia, veneratissimo per le antiche religioni pelasghe, invocò patti dal console: ma abbandonato da’ suoi, carpitogli il tesoro da un astuto Cretese sott’ombra di agevolargli la fuga, dovette rendersi a discrezione del vincitore. Questi, accoltolo in mezzo agli uffiziali con tutta la solennità latina, gli rinfacciò il passato, poi gli strinse la mano, e finì coll’assicurarlo della clemenza romana; indi voltosi a’ suoi uffiziali,—Tenete a mente quest’insigne esempio della volubile fortuna, e vi convinca come il vero coraggio consista nel non insuperbirsi delle prospere vicende, nè lasciarsi abbattere dalle sinistre».
Solennizzata con splendidi giuochi la costituzione data alla Macedonia, bruciate le armi che non poteano servire al trionfo, uccisi quei pochi che serbavano fede a Perseo o zelo per l’indipendenza, 167 settanta città dell’Epiro che dai Romani erano disertate ai Macedoni, dopo toltone i tesori, furono abbandonate alle spade de’ soldati, che cencinquantamila uccisero o vendettero. Il virtuoso Paolo Emilio, dopo essere pellegrinato ad ammirare le città greche e tante meraviglie della natura e dell’arte, tornò colmo di gloria in Italia, traendo come ostaggi tutti quelli che aveano avuto uffizj o magistrati sotto il re, e come prigioniero Perseo colla famiglia. Allorchè questo il supplicò a risparmiargli l’infamia d’essere trascinato dietro al carro trionfale,—Sta in tua mano», rispose il duro vincitore. Ma il povero coraggio d’uccidersi mancò a Perseo, che ornò colle sue miserie il più splendido trionfo che sin allora si fosse menato.
PAOLO EMILIO TRIONFA
Paolo Emilio entrò nel Tevere sopra la nave regia di sedici ordini di remi, e tre giorni durò la pompa, tra una folla che mai la maggiore. Nel primo, mille ducento carri portavano gli scudi d’argento massiccio, altrettanti gli scudi di bronzo, trecento le aste, le sciabole, gli archi, i dardi; precedevano uomini colle armadure di bronzo o colle statue, poi ottocento barelle cariche d’armi di ogni maniera. Nel secondo giorno comparvero mille talenti coniati, duemiladucento in verghe, un’infinità di tazze, cinquecento carri d’immaginette e statue, poi scudi d’oro e molte statue delle reali gallerie. Nel terzo, cenventi bovi affatto bianchi, ducentoventi vasi d’argento, un’anfora tempestata di gemme del valore di dieci talenti d’oro, e dieci altri in masserizie pur d’oro; duemila denti d’elefanti da tre cubiti; un cocchio d’avorio, messo a oro e pietre; un cavallo col fornimento aspro di gemme, e la restante bardatura d’oro, con coperte a fiorami; una lettiga a oro e porpora; quattrocento corone regalate dalle città; e sopra uno stupendo carro eburneo il trionfante. Dietro di lui Perseo a bruno, cinto da amici in catene, da due figliuoli e da una fanciulletta, alla quale i conduttori insegnavano a tendere le innocenti manine al popolo romano per invocarne compassione, o piuttosto per lusingarne la vanità col mostrargli a che miserie esso potesse ridurre i monarchi.
MORTE DI PERSEO
L’ultimo re di Macedonia fu gittato in tenebrosa segreta, ove tenevansi i rei fino al momento del supplizio, e sette giorni lasciato senza nutrimento: gli altri prigionieri divisero con lui lo scarso cibo che i carcerieri gettavano loro in mezzo alle lordure, e gli offersero un laccio ed un coltello; ma ancora non osò far getto della sua vita. Paolo Emilio, o per umanità o per riverenza alla sventura, ottenne dal senato di mutarlo in meno squallida stanza, ove dopo due anni i suoi custodi si presero il barbaro giuoco d’impedire che più dormisse, sicchè spossato morì. 164 Il solo figliuolo sopravissutogli guadagnò il vitto lavorando da tornitore, poi divenne scrivano dei magistrati d’Alba.
Le latomie di Roma e le carceri di tutte le città latine e delle colonie bastarono appena a tanti prigionieri, che portavano al piede ceppi di almeno cento libbre. Poeti, storici, oratori vantarono che coll’ultimo degli Eacidi si fossero vendicati gli avi di Troja[268]; ed esaltarono la gloria del gran popolo che debellava i superbi e perdonava ai soggiogati.
I Romani, secondo la politica adottata in quell’impresa, non tolsero alla Macedonia le leggi e i magistrati, cioè non la ridussero a provincia. L’Illiria, soggiogata in trenta giorni dal pretore Anicio Gallo, 168 fu trattata in egual modo, e il re Genzio condotto prigioniero a Roma. Un decreto del senato annunziò al mondo questa nuova magnanimità:—La Macedonia e l’Illiria provino a tutti i popoli che Roma è disposta a vendicarli in libertà».
RODI
Aveva ella rimesso al fine della guerra il punire non solo quei che l’avevano sfavorita, ma quelli ancora che le si fossero mostrati meno zelanti. Per questo titolo Rodi avrebbe incontrato sorte eguale all’Epiro, se Catone non avesse osato metter argine alla prepotenza. Questo severo censore perorò la causa dei legati romani, che in sordide vesti giravano supplicando per Roma; mostrò come quella gloriosa repubblica marittima avesse per Roma combattuto contro Filippo ed Antioco, nè si fosse proposto che di conservarsi indipendente.—Se augurò vittoria a Perseo, poteva essere altro il voto di chiunque vedesse nella caduta di lui la servitù comune? O che, punirete i desiderj? ma e voi come vi comportate allorchè ve ne torni il conto? Li chiamate superbi: vi rincresce dunque che altri lo sia al pari di noi?» Con siffatta franchezza ottenne che a Rodi fossero soltanto ritolte la Siria e la Caria, attribuitele già dalle spoglie d’Antioco. Perocchè questa repubblica, simile per tanti riguardi a Venezia, fu come quella danneggiata dal volere possedimenti in terraferma, i quali ne prepararono la rovina.
PERGAMO
Eumene re di Pergamo, che pure si era spiegato nemico di Perseo sino a fare da spia ai Romani, fu ripagato d’ingratitudine dal senato, che, insospettito degli incrementi di lui, ne trasferì la corona al fratello Attalo II. 157 Prusia re di Ritinia, cui nulla costava l’avvilirsi, venne in persona a fare le sue discolpe; e col capo raso e berretto da liberto, prosternato alla soglia della curia, esclamava:—Salvete, o numi conservatori; ecco un liberto vostro, pronto ad ogni combattimento». Con tali abjezioni, e col lasciare in ostaggio suo figlio, serbò la corona. Massinissa, il vecchio re di Numidia, mandò egli pure suo figliuolo a querelarsi col senato di due cose: la prima, che avesse da lui pregato soccorsi, mentre aveva diritto d’imporglieli; l’altra, che avesse voluto pagargli il grano somministrato, mentre della sua corona la proprietà apparteneva al popolo re, a lui bastava l’usufrutto.
L’EGITTO
Pensate se queste ed altre vigliaccherie dei re attizzavano l’orgoglio insolente dei Romani! E da quell’ora essi concepirono l’idea di diventare signori del mondo, rinunziando al personaggio di arbitri, sostenuto fin là. Con tale sentimento guardavano gli altri successori d’Alessandro, pigliando assunto d’infiacchirli durante la pace, perchè fossero inetti a difendersi quando provocati in guerra. I Tolomei d’Egitto e gli Antiochi di Siria facevansi tra loro guerra or sorda or aperta, e Roma vi soffiava, e chiamata o no intrometteasi. Quando essa mandò 201 ad annunziare alla Corte d’Alessandria le sue vittorie e la pace co’ Cartaginesi, i tutori del fanciullo Tolomeo V Epifane posero questo in tutela del senato romano, che l’accettò e affidolla a Marco Lepido, poi ad Aristomene. Ma il giovane mal riuscì, e a ventott’anni periva, lasciando due figliuoli, che poco stante si spartirono il regno, Tolomeo Filometore 164 prendendosi l’Egitto e Cipro, e Tolomeo Fiscone ottenendo Cirene e la Libia. Presto vennero a baruffe; e il Filometore, costretto a fuggire, approdò in Italia, ed in meschino arnese, pedestre, polverulento entrò in Roma, e vi prese alloggio nella casipola d’un pittore alessandrino. Il senato ne avea gusto, pur finse di fargli scuse di quel trattamento, e l’invitò a venire in veste più conveniente ad esporre le sue querele: udite le quali, entrò di mezzo a riconciliare i fratelli, e per allora lasciò l’Egitto respirare sotto il Filometore.
AGONIA DELLA GRECIA
La Grecia era in dipendenza di fatto ma non di nome, e Roma aspirava ornai a ridurla provincia. Caldi d’ammirazione per sentimento dell’armonica bellezza onde fu privilegiato quel paese, e mossi dalla somiglianza di glorie e di sventure col nostro, siam côlti di pietà meditabonda all’agonia sua, alle umiliazioni, agli oltraggi, traverso ai quali arrivò all’ultima ora. Se qualche vigore restituì alla lega Achea Filopemene, dopo di lui essa più non mostrossi che odiosa o spregevole, alternando servile compiacenza al senato romano con ridicole disperazioni, quasi volesse da sè privarsi della compassione che la generosità attira su chi è destinato a perire. La vittoria dei Romani aveva resi audaci ad ogni eccesso i fautori loro, gente avara ed impertinente, come quella che si sentiva sostenuta in ogni caso dai vincitori. Chi resistesse, chi generoso amasse la patria e ne propugnasse i diritti, chi osasse contraddire ai commissarj stranieri, veniva denunziato a Roma.
CALLICRATE
Tra questi venduti primeggiava di potenza e viltà Callicrate ateniese, uno di quei demagoghi, la cui morale consiste nell’ottenere denaro e gradi; e secondo lo stile de’ pari suoi, denigrava chiunque lo superasse di merito; e sulle piazze non men che nelle arringhe, non sapeva che gridare:—Costui ha dato favore a Perseo: quest’altro s’è lasciato comprare dall’oro nemico». Due commissarj furono spediti alla lega Achea, acciocchè istruissero il processo di questi accusati; e uno di essi arrivò a tanto da proporre all’assemblea,—Condannate a morte i fautori di Perseo, ed io dappoi li nominerò». Parve pazzamente furibonda la domanda, e gli Achei si limitarono a promettere li condannerebbero qualora non potessero giustificarsi.—Poichè il promettete (ripigliò il commissario), dico che tutti i vostri capitani e generali, e quanti sostennero cariche nella repubblica vostra, sono macchiati di tale delitto».
A simili voci sorge Zenone, e,—Io comandai l’esercito e fui capo della Lega, e protesto non aver nulla commesso contro gl’interessi di Roma. V’è chi osa imputarmi di questo che chiamano delitto? eccomi pronto a giustificarmene o nella dieta degli Achei o avanti al senato di Roma». Colse al volo questa parola il commissario, e soggiunse, non potevano appellarsi a tribunale più equo; indi recitando tutti quelli che Callicrate aveva denunziati, intimò andassero a Roma a scagionarsi. Erano oltre mille, fior del paese: e così con un solo colpo, quale mai non avevano osato i più sfrontati tiranni, la Lega restò privata dei suoi capi. Giunti in Italia, furono relegati in varie città, senza tampoco udirli, nè badare ai loro richiami, o alle replicate deputazioni dell’Acaja.
Callicrate, divenuto capo dell’avvilita Lega, udiva senza commoversi i gemiti de’ loro parenti che li ridomandavano, e gli urli de’ fanciulli, che, qualora uscisse in pubblico, gli gridavano dietro al traditore, al nemico della patria. 167-150 Diciassett’anni que’ deportati continuarono a sollecitare un giudizio, e udire vanti della romana equità: finalmente Catone, replicando che la questione trovavasi omai ridotta a deliberare se dovessero esser sepolti da becchini romani o da greci, ottenne fossero ascoltati, e restituiti alla patria i pochi ch’erano sopravissuti alla fame, al carnefice, al crepacuore. Sozza tirannia contro un paese indipendente qual era l’Acaja, contro persone di merito, e che la più parte aveano combattuto per Roma.
I reduci non poterono che piangere l’avvilimento cui trovarono ridotta la patria. Ma la perfidia e la crudeltà v’aveano procacciato molti nemici a Roma, i quali, in onta del partito avverso, osavano o mormorare, o protestare contro i raggiri e le concussioni; e parevano disporsi ad aperta rottura. Ve li spingeva l’esempio della Macedonia, la quale avendo poc’anzi dominato il mondo sotto Alessandro, fremeva nel trovarsi tolto fin il più sacro diritto, quel di disporre di se medesima. Alcuni ricoverati a Roma non risparmiavano preghiere, non denaro per comprarsi amici nel senato, acciocchè non fosse fatta violenza ai loro compatrioti; coltivavano Paolo Emilio finchè visse, 159 poi suo figlio Scipione Emiliano, il quale, se non fossero stati i movimenti di Spagna, sarebbe ito in Macedonia a far ragione delle querele: ma il senato, intento a raggiri politici e a profittare degli errori de’ principi, nè pensando che lo scontento dei Macedoni potesse recare a conseguenze, lasciava che i suoi uffiziali li trattassero un dì peggio che l’altro, e conferiva i primi gradi a chi più ligio.
PSEUDO-FILIPPO
152 Raccolse quei sospiri sdegnosi un tale Andrisco, persona bassissima dicono i Romani, unici narratori di questi eventi; dodici anni vissuto presso un povero, che poi gli rivelò come fosse nato da una concubina di Perseo; allora egli tentò farsi seguaci, ma non ascoltato, ricoverò presso Demetrio Sotero, ch’ebbe la viltà di consegnarlo ai Romani. Questi, non temendo del pseudo-Filippo, come e’ lo chiamarono, il lasciavano con sì mala guardia, ch’egli fuggì, e ricoveratosi nella Tracia, girò fra i signorotti, esponendo i suoi diritti, le soperchierie de’ Romani, e quanto facile sarebbe una insurrezione. Al suo appello i Traci si sollevano, egli ha Corte, esercito, alcune piazze forti; bentosto tutta Macedonia, credendo o no, ma volonterosa di turbare lo stagno, si dà a questo rampollo degli antichi suoi re, il quale, sapendo che il miglior modo di difendersi è l’assalire, invade le provincie vicine. Roma non avea eserciti in quelle parti, sapeva che Cartagine aveva mandato ambasciatori ad Andrisco per allearselo nell’imminente guerra, e potea temere che la Grecia cogliesse il destro di vendicare gli affronti; ma questa affrettò proteste e prove di divozione alla sua tiranna. Scipione Nasica, uomo affabile e giusto, servì la patria meglio che colle armi girando per le città della Lega; col render ragione de’ pianti e de’ gravami loro, le saldava nella fede; e traendo da ciascuna qualche truppe, raccozzò un esercito. Le armi romane andarono più d’una volta sconfitte; 148 sinchè Andrisco fu novamente tradito ai Romani, che ne ornarono i loro trionfi.
DECIO GIULIO SILLANO
Anche altri pretesi figliuoli di Perseo tentarono dar valore ai diritti colla forza, ma tutti furono vinti. Finalmente il pretore Cecilio Metello 147 sottomise interamente la Macedonia, e vi piantò un governo d’arbitraria severità. Singolarmente iniquo tra i governanti parve Decio Giulio Sillano, contro cui i Macedoni mandarono querela. Suo padre Tito Manlio Torquato ottiene di giudicarlo in casa, secondo l’antica consuetudine patrizia; e udite le parti, convinto il figlio, lo condanna a più non comparirgli davanti. Sillano se ne trova così disonorato, che s’appicca; e Manlio nè chiude la casa, nè veste il bruno, dichiarando non più appartenere alla sua famiglia chi avea perduto la virtù.
Si sarà levata a cielo l’equità romana, e continuata l’oppressione della Macedonia.
GRECIA RIDOTTA A PROVINCIA
Le sommosse di questa erano parse alla lega Achea un’opportunità per riscuotersi dal giogo; e poichè Sparta se n’era separata onde tenersi coi Romani, vollero ridurla a soggezione: ma essa ricorse a Roma. I commissarj romani, convocata la dieta a Corinto, esposero quanto la loro città si affliggesse del vederli straziarsi a vicenda; esserne cagione la forma loro di governo federale, ove i deputati non potendo intendersi, erano costretti venire alle armi; nella sua sapienza il senato romano s’era accorto che, meno uniti, sarebbero più felici; e però dichiarava escluse dalla Lega le città che non v’aveano partecipato sin dal principio, Corinto, Sparta, Argo, Eraclea, Orcomene. Con indegnazione fu accolta la micidiale proposta, il popolo accannito trucidò quanti Spartani colse in Corinto, e a stento gl’inviati romani poterono salvarsi. Roma, in guerra ancora con Cartagine e coi pretesi figli di Perseo, non potendo far seguire tosto la vendetta, spedì nuovi messi con moderate querele: ma le città tutte, prese da una vertigine d’eroismo e di libertà, gridavano esser più decoroso il perire combattendo che il cedere vilmente; e giunsero a far dichiarare guerra contro Roma e Sparta. Però mancava il concerto di salde volontà, onde Metello il Macedonico li vinse facilmente presso Scarfia; 147 e alcuni invocarono la clemenza del vincitore, altri s’uccidevano, chi ritiravasi vilmente, al tempo stesso che si ricusavano le proposizioni di pace. L’impresa fu terminata da Lucio Mummio console, che espugnò ed arse Corinto, la ricchissima del mondo, come centro del commercio d’Asia e d’Europa; vendette il popolo, e fece immenso bottino. I capolavori di scoltura, di pittura, di fusione, che la rendevano insigne, andarono preda d’ignoranti soldati; sopra un quadro d’Aristide, meraviglia degli intelligenti, giuocasi ai dadi; si mettono all’incanto tavole d’Apelle e statue di Fidia. Attalo re di Pergamo esibì seicentomila sesterzj d’un quadro; onde Mummio maravigliato,—Convien dire queste tele posseggano qualche magica virtù»: e toltele dall’incanto, le inviò a Roma, intimando ai portatori,—Se le guasterete, sarete condannati a rifarle».
Sbigottita dall’incendio di Corinto, la Lega più non pensò nè a resistere al vincitore, nè a placarlo. I collegati furono raccolti in vasta spianata, cinti dalle legioni romane; e dopo rimasti alcun tempo in terribile aspettazione, udironsi intimare che i Corintj e i servi sarebbero venduti schiavi, gli altri Achei andassero prosciolti. Nè le città che aveano sostenuto gli stranieri, salvarono le mura: il governo popolare fu abolito, e tutta Grecia ridotta a provincia, benchè alcune città staccate, come Atene, mantenessero alcuna ombra di libertà.
LA SIRIA
Era omai decisa anche la sorte degli altri regni usciti da quello d’Alessandro. La Siria fioriva ancora delle belle provincie della Comagene, della Cirrestica, della Seleucide, della Palmirene; nelle ricche valli tra l’Antilibano e il Mediterraneo cresceano Antiochia, Seleucia, Laodicea, Apamea; e nel deserto Palmira, emporio alle carovane fra l’India e l’Europa. Antioco Epifane, figlio d’Antioco il Grande, era stato allevato a Roma come ostaggio; 174 e venuto re, cercò combinare il fasto patrio colla repubblicana famigliarità de’ Romani, ma non riusci che a rendersi oggetto d’odio e di sprezzo. Carezzò i Romani pur odiandoli; guerreggiò prosperamente l’Egitto, che gli disputava la Palestina e la Celesiria; prese Pelusio, e invece di sterminarne gli abitanti, perdonò, col che indusse molte città a soggettarglisi: avuto in mano Tolomeo Filometore, lo trattò cortesemente; poi giovandosi delle costui inimicizie col fratello Fiscone, stava per unire alla Siria l’Egitto, quando Popilio Lena, 170 ambasciadore romano, gl’intimò:—Devi abbandonare le conquiste». E chiedendo egli tempo a deliberare, Lena colla mazza gli descrisse un cerchio attorno, e—Non uscirai di questo prima di risolvere». Antioco dovette cedere, e agli ambasciadori ch’egli spedì, il senato rispose si congratulava che avesse obbedito; e per patto di pace gl’ingiunse di cedere Cipro e Pelusio.
ANTIOCO EPIFANE
Il tributo che la Siria doveva a Roma, era un nulla a petto ai regali con cui era costretta adescarsi fautori nella gran metropoli, ove tutto diveniva venale. Tiberio Gracco, spedito dal senato a sindacare i re e gli Stati d’Oriente, dovette concepire d’Antioco tanto maggiore disprezzo, quanto più questi s’umiliava per ingrazianirlo, portandosi seco più da schiavo che da re, cedendogli la reggia, esibendogli fin la propria corona: onde potè assicurare il senato che nulla aveva a temere dal re di Siria.
Per quante ricchezze Antioco avesse acquistate nell’Egitto, e gliene procacciassero gli amici e le provincie d’Oriente, volgevano però sempre in peggio le sue finanze, onde per risanguarle avea ricorso ai tesori dei tempj, spediente sempre pericoloso. Erasi anche avversato i sudditi colla smania di alterarne i costumi nazionali, e d’introdurre il culto greco, non per zelo religioso, ma perchè più adatto alle pompe, dietro cui egli andava pazzo. 169 Per ciò gli si ribellarono molte provincie, e massime gli Ebrei, popolo custode della intemerata tradizione, che all’invasore prepotente oppose la devota magnanimità de’ Macabei.
DEMETRIO
164 Morto Antioco, la discordia sevì, e Roma si diede aria di togliere in protezione il fanciullo Demetrio Solero, figlio di Seleuco IV, e nominò tre tutori al re di Siria, come avea fatto a quel d’Egitto. Se lo scopo del senato non fosse già manifesto, lo rese evidente l’ordinare a que’ tutori bruciassero tutte le navi d’una certa portata, e tagliassero i garetti a tutti gli elefanti. A Demetrio poi, quando chiese di passare da Roma in Siria, il senato disdisse la domanda; ma egli fuggì sopra una nave cartaginese, e fece proclamarsi re. Sebbene protestasse non operare che in nome della repubblica romana, questa ne stava in apprensione, e spediva agenti a vigilarlo: ma, o soddisfatta de’ suoi portamenti, o piuttosto perchè non le convenisse romperla seco, il riconobbe re.
Demetrio, anelante a battaglie, inimicossi i re d’Egitto e di Pergamo, dispiacque a’ proprj sudditi per gli stravizzi a cui si sfrenò: onde formossi una vasta congiura, alla quale egli soccombette. I suoi successori precipitarono di mal in peggio: intanto i Parti avevano occupata l’Asia Superiore fino all’Eufrate, gli Ebrei si erano riscossi dalla dipendenza, talchè il gran regno si limitava alla Siria propria ed alla Fenicia: e da questo momento la storia dei Seleucidi più non presenta che uno sciagurato intrecciarsi di guerre civili, dissensioni domestiche, enormi crudeltà, che ai Romani avvicinavano l’istante di stendere la mano anche su quel regno, e farsene una nuova provincia.
CAPITOLO XV.
Interno di Roma. I costumi eroici si mutano. Innesto greco.
INTERNO DI ROMA
Ma Roma perdeva il carattere originale, e il vinto Oriente si vendicava collo spargere le idee ed i costumi suoi fra i vincitori.
Ad una gente che coll’arti e colle scienze lotta ogni giorno onde signoreggiare la natura, gli effetti del lusso non riescono micidiali quanto là dove l’industria è sconosciuta, sicchè la comune povertà è testimonio di costumatezza e assicuramento di libertà. E di fatto, come persone allevate alla campagna, lontano dallo spettacolo della depravazione, eransi conservati i Romani semplici e forti in quei che diconsi buoni costumi vecchi, piuttosto per ignoranza del vizio che per dottrine discusse nè per austere credenze. Il ricco non men che il povero attendeva ai campi; le illustri famiglie Asinia, Vitellia, Suillia, Porcia, Ovinia trassero il nome dalla cura che ponevano ad allevare somari, vitelli, majali, pecore; come i Fabj, i Pisoni, i Ciceroni dalle fave, dai piselli, dai ceci coltivati. I senatori viveano alla campagna, se non quando fossero convocati; i possessori non tornavano in città che al mercato ogni nove giorni, nella quale occasione leggevano le ordinanze esposte, o udivano le proposizioni dei tribuni.
DISINTERESSE
Il disinteresse di Fabrizio, la laboriosa povertà di Cincinnato ci sono conosciuti. Il console Regolo chiede di ritornare dall’Africa perchè, essendo fuggito l’unico suo schiavo, rimarrebbe incolto il suo podere; e il senato non gli assente la domanda, ma fa lavorare la terra di lui a pubbliche spese[269]. Curio Dentato dai messi de’ vinti Sanniti fu trovato seduto sopra un trespolo a mangiare fagiuoli da una scodella di legno; e avendogli offerto grossa somma, n’ebbero in risposta:—Dite ai Sanniti che Curio non vuole oro, ma comandare a chi l’oro possiede»; e avendo il senato fatto distribuire il territorio da lui conquistato a sette jugeri per testa, e a lui cinquanta, egli ricusò questa misura superiore, dicendo essere pericoloso alla repubblica chi non si contenta di porzione eguale ai concittadini. Fra tutti i senatori non aveano che un servizio d’argento, e sel prestavano a vicenda. Chi ne argomentasse la pubblica povertà, si ricordi come si profondesse l’oro nei pericoli della patria; Annibale il seppe.
FAMIGLIA
Per cenventi anni non accadde divorzio, e la città si scandolezzò quando Carvilio ne diede il primo esempio. Guardavasi in sinistro la vedova che con nuove nozze si togliesse quella corona di pudicizia che le prime le avevano data. Al banchetto annuale delle caristie non doveano convitarsi che parenti, affine di tor via se qualche ruggine si fosse formata. Coriolano sagrificava i suoi dispetti alla riverenza materna. Cajo Flaminio sosteneva sui rostri una legge respinta dal senato, quand’ecco suo padre viene a prenderlo e trarlo di là. Fabio Massimo è mandato luogotenente del proprio figlio console; questo gli esce incontro, e vedendolo restare a cavallo, gl’intima di scendere per rispetto alla magistratura; e Fabio lo ammira di aver fatto ammutolire l’affezione privata a fronte del pubblico dovere.
ZOTICHEZZA
Con questa naturale onestà accoppiavano molta zotichezza. La medicina, sacerdotale o magica, era abbandonata a empiriche superstizioni, fin quando non venne qualche Greco ad esercitarla. Orologi non si ebbero prima che il console Valerio Messala recasse di Sicilia un quadrante solare, 263 anni avanti Cristo; e sì poco se ne conosceva la teoria, che si pensò potesse valere per Roma, benchè fatto per tutt’altra latitudine: un secolo ancora si tardò prima di piantarne uno esatto: nè avanti il 159 Scipione Nasica Corculo introdusse le clepsidre od oriuoli a acqua. Di questo tempo, un altro Scipione pel primo si rase la barba.
CIVILTÀ GRECA
Fra una gente siffatta buttate d’improvviso cumuli di ricchezze, mostrate gli esempj d’una corruzione raffinata, d’un lusso degenerato in mollezza, e qual non deve seguirne funesto cambiamento! Così fu, appena che i Romani conobbero i Greci, e ammirandone i modi, le arti, il sapere, se ne posero imitatori a scapito dell’indole e della coltura nazionale. E di là vennero ben presto persone che, mettendo a lucro le cognizioni e traendo profitto dall’ignoranza, vendicavansi dei vincitori della loro patria.
GRECI FAMILIARI
Alla famiglia degli Scipioni va il merito delle prime sollecitudini date al dirozzamento de’ Romani, e dell’aver protetto i letterali della Magna Grecia, fossero condotti prigionieri, o attaccatisi a qualche famiglia. Fin allora i giovani di famiglie ricche si mandavano a scuola in Etruria per impararvi que’ riti augurali, senza cui non acquistavano efficienza i pubblici atti; e in quel tanto vi conosceano alcuna amenità di lettere. Ben presto ogni casa grande volle alimentare, come il cuoco e il celliere, così uno schiavo greco che insegnasse ai fanciulli la lingua d’Omero e la generosità: uno schiavo! E tosto il greco divenne la lingua del bel mondo; greco parlavasi nelle sale, greco scrivea chi volesse lode d’uomo educato. Dafni Lutazio, maestro di greco, fu compro per ducentomila sesterzj da Quinto Catulo. Livio Salinatore, così severo che nella sua censura ammonì ventiquattro delle trentacinque tribù, teneva per ajo de’ suoi figliuoli il tarentino Livio Andronico, il quale voltò in latino l’ Odissea, e primo espose sulla scena imitazioni di drammi greci. Di Paolo Emilio la casa era piena di pedagoghi, sofisti, grammatici, retori, scultori, pittori, scudieri, cacciatori, tutta merce greca. Plauto e Terenzio, scrittori di commedie, furono protetti da Scipione Africano e dal suo amico Lelio, e forse Terenzio ne fu coadjuvato nel comporre le sue, perciò di graziosa ed elegantissima dicitura: il filosofo Panezio e lo storico Polibio accompagnavano que’ due prodi nelle loro spedizioni[270].
TRADIZIONI
Un popolo, del quale i cruenti trionfi crescono continuamente la gloria e la potenza, dovea desiderare di conservarne ricordanza. Ma l’incendio al tempo dei Galli avea distrutto gli antichi documenti; e le memorie de’ primi secoli rimanevano privilegio delle famiglie o de’ sacerdoti, che a loro senno le alteravano; il vulgo non sapea de’ fatti antichi se non quel che avea serbato nelle canzoni popolari, alterandoli, ingrandendoli, abbellendoli, mescolandovi prodigi e divinità, come sogliono la tradizione e la poesia.
Però i deboli cominciamenti di Roma, creata da un branco di fuorusciti, sollevatasi dal nulla a grado a grado, non lusingava abbastanza la boria della gente che si vedeva arbitra omai di tutta Italia e sgomento degli stranieri. Forse, fedeli alla nazionale tradizione, poco l’avranno blandita quegli Italioti, che primi scrissero intorno alle origini italiche, come Teagene da Reggio contemporaneo di Cambise, Ippi suo compatrioto vissuto al tempo della guerra Medica, Antioco di Senofane siracusano coetaneo di Erodoto. Ma ad appagare la vanità, ecco i vinti Greci, e primo Diocle di Pepareto, cercando nella storia non tanto il vero, quanto il bello, e di blandire la loro propria nazione e i patrizj romani. La tradizione di Trojani e Greci venuti in Italia dopo la impresa iliaca, forse avea fondamento di vero, certo correva da un pezzo, e quegli autori v’annestarono tutte le cronache municipali, le genealogie, le etimologie: ogni paese deduceva il nome dalla nave, dal figlio, dal compagno, dal piloto, dalla nutrice d’Enea; ogni casato ascendeva dirittamente fino a questo, e in conseguenza agli Dei; i Mamilj derivarono da Ulisse, i Sergj da Sergeste compagno d’Enea, i Nauzj da un suo seguace, i Lamj da Lamo re de’ Lestrigoni, i Fabj da un figliuolo d’Ercole; e nessuno dubitava di queste genealogie, come nel nostro Cinquecento non chiamavasi in disputa la derivazione dei Visconti dai re d’Angera, e degli Estensi da Ruggero paladino o da Rinaldo crociato.
PRIMI STORICI E POETI
Piacevano alla boria aristocratica queste propagini semidivine; piaceva alla politica del Tevere il mostrarsi in parentela colla vantata Grecia, che abbracciando come sorella, voleva incatenare come serva; piaceva alla Grecia consolarsi della perduta indipendenza col riguardare la vincitrice qual sua creatura. In questo consenso d’interessi non è meraviglia se le origini greche prevalsero nelle credenze, e fatti e nomi nuovi o alterati mescolarono ed elisero le indigene tradizioni[271].
Di Scipione Africano fu cliente, compagno nelle spedizioni, e inesauribile panegirista Quinto Ennio, 210-169 di Rudia in Calabria, centurione in Sicilia e nella Spagna, e donato della cittadinanza per cura di Fulvio Nobiliore, Ennio studiava Omero di giorno, lo sognava la notte, e credeva l’anima di quello fosse in lui trasmigrata; poi vantava d’avere tre anime perchè sapeva osco, greco e romano; e volendo all’Italia aggiunger la gloria de’ carmi, scelse per tema di un’epopea la prima guerra punica; imitando però i Greci, de’ quali introdusse il verso eroico. Da’ suoi frammenti egli trapela austero repubblicano e buon amico. Diceva che Roma durava perchè conservatrice degli antichi costumi, Moribus antiquis res stat romana, viresque: eppure questi da’ suoi Scipioni più che da altri erano inforestieriti; ed egli stesso contribuì alla corruttela latinizzando l’opera di Archestrato sulla cucina, e quella dove Eveemero combatteva la religione, dimostrando che gli Dei erano uomini vissuti e morti.
PRIMI STORICI E POETI
I Romani nella tumultuosa pienezza della loro vita riguardarono gli studj meno come occupazione da uomo, che come distrazione e abbellimento. «I più assennati (scrive Sallustio) attendeano agli affari; nessuno esercitava l’ingegno senza il corpo; ogni uom grande volea mentosto dire che fare, e lasciava ch’altri narrasse le imprese di lui anzichè narrar esso le altrui». De’ libri aveasi sospetto, quasi intaccassero le istituzioni e la religione patria; e consoli Cetego e Bebbio, essendosene in un campo dissotterrati alcuni antichi, il console Petilio li fece bruciare perchè trattavano di filosofia[272]. E per filosofia forse intendeasi, come poco tempo fa da noi, l’incredulità e l’epicureismo. A questi greci maestri guardavasi dunque coll’ombra solita in chi si sente da meno; i caldi patrioti li chiamavano scrocconi e ladri[273]; si rideva quando Plauto introduceva sul teatro il parasito Curculione a dire:—Bada ch’io non sia arrestato da questi Greci, che passeggiano con lunghi mantelli, e coperti la testa: carichi di libri, portano nello stesso tempo i rilievi della mensa; hanno l’aria di unirsi per conferire insieme, ma non sono che birbi incomodi ed importuni; camminano sempre presidiati di sentenze, ma bazzicano la taverna; quando hanno fatto qualche ribalderia, s’inviluppano il capo, e trincano a josa, ed è bello vedere la loro gravità barcollante».
EDUCAZIONE
Anzi più volte la legge interdisse retori e filosofi, «presso de’ quali i giovani perdono le giornate»; forse per tôrre a questi la presunzione, facile compagna dello scarso sapere, e impedire contraessero il vizio de’ Greci di prestare alle parole la cura, che meglio è dovuta alle cose. Pure Catone a suo figlio colle leggi e colla ginnastica, cioè l’equitazione, il volteggiare, la lotta, il nuoto, l’armeggiare, insegnava anche gli elementi delle belle lettere[274]: e già eransi introdotte scuole, tenute generalmente da liberti, ove insegnavasi a leggere, scrivere, far di conto ai maschi e alle fanciulle indistintamente; quelli che a maggiore erudizione aspirassero, passavano a maestri di letteratura greca, e si compiva l’educazione con un viaggio in Grecia e nelle città dell’Asia anteriore, per ascoltarvi i rinomati precettori d’eloquenza e filosofia. D’arti belle pochissimi apprendeano, e fu incolpato Paolo Emilio perchè, alla greca, faceva istruire i suoi figliuoli anche da pittori; pochissimi la musica; molti invece la danza, per la quale si prese passione, disapprovata indarno dai più severi; e Scipione Emiliano diceva:—S’insegna alle fanciulle ad acquistar grazie indecenti; vanno accompagnate da arpe e da lire, coi giovani scapestrati, nelle scuole degli istrioni, ove sono istruite a cantare. Presso i nostri avi, siffatti esercizj disonoravano qualunque persona libera: al giorno d’oggi, fanciulle, giovanetti di nobili famiglie frequentano scuole di danza, e si mescolano a fanciulle prostitute. Quando io udivo narrare tali disordini, non potevo persuadermi che cittadini stimabili dessero siffatta educazione a’ loro figliuoli: fui condotto in una di queste scuole, e colà io ne vidi, il credereste? più di cinquecento dell’uno e dell’altro sesso. In quel numero, oh obbrobrio per la repubblica! ve n’aveva uno adorno della bolla d’oro, il figlio d’un candidato, di circa dodici anni; egli danzava col sistro in mano; mentre non si permetterebbe che uno schiavo impudico si atteggiasse a quella maniera»[275].
COSTUMI ALTERATI
Anche Plauto deplora questa mutata educazione:—Forse che a questo modo eravate governato voi nella vostra giovinezza? Sino a vent’anni, uscendo, non vi era permesso scostarvi d’un passo dal precettore. Se non eravate alla palestra prima del levar del sole, il maestro vi puniva non leggermente. Là si faticava a correre, a lottare, a lanciar giavellotti e il disco, a rimbalzare la palla, a saltare, a combattere a pugni, e non a far all’amore con bagasce. Ritornato dalla palestra e dall’ippodromo, voi andavate, in vestito semplice, a sedere s’uno scannello a fianco del vostro precettore; leggevate, e se aveste fallato una sillaba, la correzione rendeva la vostra pelle più maculata che il mantello d’una nutrice».—Altre volte (ripiglia) uno arrivava agli onori per suffragi del popolo mentre obbediva ancora al precettore: al presente un garzoncello di sette anni, se è toccato, rompe la testa al maestro colla sua tavoletta. Se ne fa richiamo ai genitori? il padre risponde al furbacciuolo: Bravo, figlio mio; io ti rinnegherei, se tu ti lasciassi soperchiare. Si chiama il precettore: Ah vecchio imbecille! guardati di maltrattare questo fanciullo perchè ha mostrato aver cuore. E il precettore se ne va colla testa involta in un pannolino, inoliato come una lanterna».
Plauto e Terenzio non fecero quasi che mutare in latino le commedie greche; e Terenzio respinge l’accusa di plagio col solo titolo di non aver usato la traduzione di verun altro: pure le relazioni esterne, il diverso modo di vedere e sentire, il grado differente di civiltà delle due nazioni, e in conseguenza il differente gusto, obbligavano questi traduttori a mutazioni importanti, e ad avvicinare sempre più il costume a quel del paese, acciocchè meglio si prestasse al riso e all’istruzione. Pertanto possiamo riscontrare alcune particolarità romane, singolarmente in Plauto, il quale, men colto, ricorre alla propria esperienza più spesso che alla memoria; e forse per questo, comunque sgradito ai più schifiltosi, continuò a piacere al popolo, che vi riconoscea ritratti gli originali a sè vicini: ai buoni invece, cioè agli aristocratici, rimase caro Terenzio per soavità di verso, dilicatezza di stile, urbanità di sali, tutti dedotti dal greco.
Benchè già il lusso s’introducesse, e sembrasse lesineria l’usare un vaso d’argilla ne’ sagrifizj agli Dei[276], e gli addobbi comparissero più vistosi, e i cocchi manifestassero il fasto, per quanto ancora grossolani e da villa[277]; sentesi però ne’ cittadini suntuosità, non eleganza; e al modo prisco, abitavano in Roma solo in tempo degli affari, il resto dell’anno in villa, a gran rammarico dei parasiti[278].
Le donne singolarmente moltiplicavano in vanità, in servi ed operaj[279], dedicati alle varie parti del loro assetto in casa; s’impadronivano delle redini, massime se inorgoglite da pingue dote, e dopo che la legge le autorizzò a contrar nozze senza spossessarsi dei beni; e tiranneggiavano quelli che dalla legge erano destinati a loro tiranni[280]. Dopo l’acquisto della Sicilia erano straordinariamente cresciute le sciagurate che metteano a prezzo l’affetto e la voluttà: i padri scontravansi rivali coi figli nelle case della disonestà[281], ove i giovani o portavano le vesti e il denaro sottratto in casa, o v’erano condotti non meno dal libertinaggio che dal desiderio di rubare il bello e il buono, vizio che non deposero tampoco ai più floridi giorni dell’Impero[282].
Anche dai frammenti de’ satirici, chi gli accetti con misura può dedurre come fossero alterati i costumi. In Ennio troviamo le donne già raffinate nell’arte di piacere e di tener a bada i diversi amanti[283]. Lucilio rimbrotta i Romani che portano miele in bocca e coltello a cintola, e fingendosi probi, agevolano gl’inganni nella guerra di tutti contro tutti[284]. Turno rinfaccia ai poeti gli osceni canti, con cui mettono in postribolo le vergini muse[285].
LUSSO
Poi il lusso crebbe a segno che, avendo la legge Oppia cercato porvi un freno nelle maggiori strettezze della guerra d’Annibale, le donne levarono a rumore la città, correndo senza ritegno e senza pudore a minacciare di non divenir più madri: le donne, che fin il molle Scipione Africano si lagnava di vedere educate da mime e cinedi, a sonare di cetra, a menar danze, e in mal onesti prestigi[286]. Nè il lusso era avvivatore delle arti, come fra un popolo industre, giacchè alimentavasi col rubare ai nemici e smungere i clienti: e sottentrata la cupidigia del guadagno, i senatori costruivano navi con cui fare trasporti.
Conosciuta la Grecia Magna e la propria, arricchirono subitamente delle dovizie d’Antioco, di Perseo, di Corinto, avendo ricevuto in contribuzioni di guerra da censessanta milioni ne’ soli dodici anni fra il ritorno di Scipione a Roma e il fine della guerra d’Antioco; altrettanto in preziosità portate ne’ trionfi; e non minori somme aveansi carpite uffiziali e soldati. Lucio Scipione mostrava in trionfo mille ducentrentuno dente d’elefanti; Flaminio e Fulvio più di cinquecento statue, e scudi d’oro e d’argento, e vasi cesellati; Acilio fin gli abiti d’Antioco; Paolo Emilio un valore di quarantacinque milioni.
RICCHEZZE
A che stentare nell’agricoltura quando così facilmente poteasi arricchire colla guerra e col rubare? Quella dunque si neglesse; e i poveri divennero miseri, mentre gli altri guazzavano nell’opulenza. Più non si sofferse la parsimonia avita; il superfluo sembrò necessario, rustichezza la temperanza; case splendide, banchetti fra suoni e canti, e codazzo di servi, e costose compre d’oggetti di lusso furono l’aspirazione universale. Uno schiavo bello fu pagato più che un fertile campo; più alcuni pesci che un par di bovi: la gola, il sonno, le oziose piume, i profumi, le meretrici e i bardassi sbandivano l’antica morigeratezza. Già si additavano con maraviglia quegli Elj, quel Tuberone che ancor viveano sobrj e pudichi; e avendo esso Tuberone ne’ funerali di Scipione Emiliano apparecchiato il banchetto pubblico in vasi di terra e su tappeti di lana caprina, stomacò il popolo a segno che gli negò la pretura[287].
NEVIO
202 Il campano poeta Gneo Nevio, per contrastare all’aristocrazia ed ai grecizzanti, preferì ai metri jonici usati da Ennio i rozzi versi saturnini, indigeni del Lazio; agli eroi greci nella tragedia surrogava caratteri e vesti nazionali; e bersagliava cotesti superbi Claudj, Metelli, ed altre famiglie potenti, che tenaci del gius patrio, con cui i loro avi dirigevano le famiglie dei clienti e di schiavi, e favorite anche dalla vittoria e da meriti personali, ponevano l’orgoglio al posto della ragione, il diritto eroico al posto dell’equità, impedendo la plebe di attuare l’acquistata eguaglianza. Egli dunque faceva esclamare a’ suoi personaggi:—Soffri, giacchè anche il popolo soffre»; e al popolo:—Cotesti re non ardiranno saettare ciò che io in teatro sanzionai co’ miei applausi. Quanto la tirannia qui soverchia la libertà!» Avendo messo in un verso,—I Metelli nascono consoli in Roma», questi gli risposero sull’egual tono:—I Metelli daranno male a Nevio poeta»[288]. E lo fecero cacciar prigione: ma di là pure bersagliò gli Scipioni; e questi invocarono contro di lui le XII Tavole, che pronunziavano morte contro i libelli infami: i tribuni però s’interposero, e parve bastasse la pubblica esposizione e il bandirlo in Africa. Andandosene, egli compose il proprio epitafio «pien di superbia campana», invitando mortali ed immortali a compiangere che l’originalità italiana fosse con lui perita[289]. Il popolo nol dimenticò, dedicò una porta al nome di esso, e tutti, ancora ai tempi d’Orazio, il sapevano a memoria[290].
ARROGANZA DE’ NOBILI
Re chiamava Nevio que’ magistrati, perchè, connessi fra loro in parentela, opponevano la comune forza e quella dei clienti alla legge ed alla giustizia. Cajo Flaminio console cozzava non solo col senato, ma cogli Dei immortali; sprezzava la maestà dei padri e delle leggi, e gli auspizj divini[291].
La fantasia si compiace di certi tratti di costume eroico, che appajono ancora in questi tempi. Fabio Massimo, accusato dal tribuno, risponde:—Fabio non può essere sospetto a’ suoi cittadini»; ed essendo un suo genero imputato di tradimento, egli si presenta e dice:—Se fosse reo, non sarebbe rimasto mio genero», e basta per farlo assolvere. Emilio Scauro, incolpato d’avere per oro tradito la repubblica, dichiara falsa l’accusa, e basta. Un Metello è fatto reo di concussione, ed il senato storna gli occhi dai registri addotti in prova[292]. Allettano, io dico, la fantasia; ma come doveva stare la plebe colà dove ai nobili valevano siffatte discolpe per farsi indipendenti dalla legge? Scipione Africano ricusò il consolato in vita, ma ritenne sempre un’autorità dittatoria; ed esitando un giorno i questori ad aprire il tesoro perchè le leggi lo vietavano, egli, quantunque privato, tolse le chiavi ed aprì. La statua di lui sorgeva nel santuario di Giove; in Campidoglio quella di Lucio Scipione, con mantello e coturni alla greca[293].
NUOVE DIVINITÀ
L’irruzione delle idee forestiere veniva viepiù funesta a Roma perchè il suo genio pratico la traeva subitamente alle applicazioni. E già nel fôro e sul Campidoglio si adorava con altri riti che i patrj; il latino Saturno venne ammogliato con la greca Rea; il sabino Marte, privato dell’antica sposa Neriena, fu confuso con l’Arete omerico; l’etrusco Giano con Diana, o fu posto accanto allo Zeus dei Greci, benchè gli andasse sempre innanzi nelle invocazioni; agli agricoli e pastorali sottentrò una generazione di Dei guerreschi, fra’ quali primeggiava Remolo. Nel 534 di Roma, il senato decretava si demolissero i tempj degli egizj numi Iside e Serapide; e poichè nessun cittadino l’osava, Emilio Paolo pel primo diè della scure nelle imposte di quelli. Ottant’anni appresso, il pretore Cornelio Ispallo cacciò di Roma e d’Italia i Caldei astrologi e gli adoratori del Giove Sebazio: ma era egli possibile escludere gli Dei dalla città che tutti gli stranieri accoglieva? Nella seconda guerra punica, per avvivare il coraggio, si consultarono i libri Sibillini, e d’ordine di quelli si trasportò dalla Frigia la Madre Idea, fomento di nuove superstizioni fra oscene e spietate.
Queste raddoppiavano ne’ pericoli, e più che mai negli spaventi della guerra cartaginese: un fanciullo di sei mesi gridò Trionfo nel fôro Olitorio; figure di navi rosseggiarono in cielo; il tempio della Speranza venne fulminato; Giunone brandì l’asta; nel Piceno piovvero sassi; altrove scaturì sangue; s’apersero i cieli, i simulacri sudarono, galline mutaronsi in galli, nacquero capre lanose, la luna cozzava col sole, e compariva doppia e tripla.
In Grecia la varietà dei numi e l’introduzione di culti forestieri non faceva che aprire nuove fonti di bello; ma negl’Italiani, portati ad applicare le idee, alterava la vita e la condotta, e porgeva alimento alla ferocia ed alla sensualità. E lascivie e sangue parvero dunque religione; il popolo accorse ai giuochi gladiatorj, recati allora dalla Campania, inebbriandosi allo spettacolo dell’uccisione, e ad eccessi di voluttà proruppe ne’ Baccanali.
BACCANALI
Antico era presso gli Etruschi il culto di Bacco[294], simbolo della vita e della distruzione; e tre dì ogni anno si facevano le iniziazioni, di giorno e da sole donne. Paola Minia, sacerdotessa di Capua, e un sacerdote greco li pervertirono accomunandoli a uomini e donne, e crescendo a cinque per mese le adunanze notturne, ove s’insegnava e praticava il dogma Ciò che piace, lice. Di là segretamente quei riti si erano traforati in Roma; e Tito Sempronio Rutilo propose a suo genero d’iniziarvelo. Costui ne fa cenno ad una sua amasia, la quale gl’insinua il sospetto non sia un’astuzia del suocero per trarlo alla perdizione, onde non rendergli conto dei beni per esso amministrati. Il genero crede, e rifugge presso una zia; questa denunzia il fatto ai consoli, laonde vengono a pubblica notizia que’ misteri. E si diceva che in essi gl’iniziati mescolavansi alla rinfusa nel bujo, indi da furiosi correvano al Tevere, tuffandovi delle fiaccole; chi ricusasse partecipare alle infamie, era ghermito da una macchina e precipitato in cupe voragini. Difficile è sapere quanto il vero fosse alterato dal terror volgare, dall’astuzia signorile, dall’abitudine di giudicare scellerato tutto ciò che è arcano: sappiamo però che la notte si posero scolte, si fecero indagini, settemila iniziati si scopersero nella sola Roma; moltissime donne chiarite ree furono consegnate ai parenti che ne prendessero domestico supplizio; poi di città in città si estese l’indagine, trovandone una folla dappertutto.
Atrocità o nel delitto o nel processo; ed altri se ne moltiplicarono, e in un anno solo censettanta donne furono convinte d’avere avvelenato i mariti per passare a nuovi. Che dirò delle cerimonie onde s’invocava la vittoria o si celebrava, come il sepellire uomini vivi, o scannarli a torme ne’ trionfi?
DEPRAVAMENTO DELL’OPINIONE
In quel tempo la filosofia greca era caduta in mano de’ Sofisti, i quali, per esercizio di argomentazione, sosteneano il vero e il falso, l’identità della virtù e del vizio; Panezio, amico di Scipione Emiliano, sillogizzava che tutto finisce colla morte[295]; Diogene, Critolao, Carneade venivano a spargere il dubbio su tutto, e dipingere la giustizia e la morale come un trovato dei legislatori; Ennio cantava che gli Dei vi sono, ma non si brigano di ciò che gli uomini facciano[296]; nè mancava chi fin il culto verso la patria conculcasse, dicendo che patria è dove si sta bene[297]. Fin d’allora i letterati non gareggiavano di ben dire, ma di dir male, palleggiandosi quelle contumelie, in cui ancora s’imbragano i loro imitatori[298]: Plauto, dopo aperta una commedia coll’elevarsi al cielo dove risiede la giustizia che tutto vede e governa, la chiude colle lodi del tornaconto, esser onore la ricchezza, e sanzione del dovere l’utilità: Lucilio fa che gli Dei Consenti si burlino degli uomini che li chiamano padri, e che Nettuno si trovi imbarazzato da un’argomentazione da cui, dice, Carneade stesso mal saprebbe tirarsi.
Tante esterne guerre e lotte interne erano riuscite a distruggere la classe media che è nerbo degli Stati, e collocare una nobiltà orgogliosa e precocemente depravata sopra una plebaglia scioperata, misera, pretensiva. Que’ ricchi e magistrati che lavoravano di propria mano e attendevano ai campi, divenivano rari ogni dì più; e volgeansi piuttosto ai guadagni, con arte qual si fosse[299].
CATONE CENSORE
Terribile alla novità e all’aristocrazia fu la censura di Marco Porcio Catone. Questo plebeo, 234-143 sagace come dinotava il suo nome ( catus ), coraggioso in atti, eloquente e mordace in parole, di diciassette anni militò contro Annibale; indi abitando in Tusculo sua patria, la mattina girava le città del contorno, facendo gratuitamente da patrocinatore; poi reduce, mettevasi a lavorare i campi co’ suoi schiavi, com’essi ignudo, mangiando con essi, al par di essi bevendo vinello. Pure agli occhi suoi quegli schiavi non erano che bestiame; li comprava, istruiva e rivendeva; e diceva che un buon capocasa dee vendere le carrette vecchie, le vecchie sferre e i vecchi servi. Avea fissato una tassa agli schiavi che volessero abbracciare una schiava; dopo ciascun convito facea frustare quelli che si erano mostri negligenti nel servizio; alimentava fra loro continue dissensioni, per impedire i pericolosi accordi.
Il suo podere stava presso a quello ove Curio Dentato, dopo ottenuti tre trionfi, avea passato gli ultimi anni ripastinando la terra e congegnando macerie; e sulla propria esperienza dettò censessantadue precetti De re rustica, nel tono imperioso d’un padrone a schiavi, senza connessione o varietà, nè anco forbitezza di stile, della quale pure mostravasi geloso nelle altre opere. Abbonda di formole magiche e superstiziose osservazioni. Alla pitagorica, considera i cavoli come una panacea, vieta di dar nulla alle bestie malate per man di donne, regola secondo il numero ternario gl’ingredienti dei rimedj per le giovenche, e pretende guarire le lussazioni con carmi magici[300]. Predicava meraviglioso l’uomo che acquista maggiori beni che non glien’abbiano lasciato i suoi antenati[301]; ed al vero lo riconosciamo nel Carmen de moribus, ove dice:—Potrebbe tornar conto il procacciare lucro dal commercio, se pericoloso non fosse, od esercitare l’usura se fosse onesto. Ma gli avi nostri stanziarono che il ladro pagasse il doppio della somma involata, l’usuriere il quadruplo, mostrando così tenere l’usurajo peggiore del ladro. Quando poi voleano dare a un cittadino l’elogio maggiore, sì lo chiamavano buon agricolo e savio massajo. Il mercadante sottiglia a guadagnar denaro, ma lo stato suo l’espone ad ogni sorta pericoli e calamità. L’agricoltura in quella vece produce uomini robusti ed eccellenti soldati; presenta il vantaggio più onesto e sicuro, nè da altri invidiato; a chi v’attende, non rimane tempo di pensare il male».
E Catone è il modello dell’antica austerità, il flagello della irruente depravazione; il nome suo dinota fin ad oggi proverbialmente un severo incontaminato. Valerio Flacco ammirandone l’austerità, lo chiamò a Roma, dove, spalleggiato dai Fabj, 178 diventò colonnello, questore, console, poi censore insieme coll’antico suo patrono. Ito nella Spagna pretore, congedò gli abbondanzieri dicendo che la guerra nutrirebbe se stessa: in trecento giorni prese quattrocento città o borgate, che all’istess’ora fece tutte smantellare: immenso bottino riportò all’erario, ma nell’atto d’imbarcarsi vendette il proprio cavallo di battaglia onde risparmiare, diceva, al fisco la spesa del tragitto. Aveva fatto tutte le marcie a piedi, recando le proprie armi, con solo uno schiavo che gli portasse quel poco da vivere: ottenne il trionfo, ma non appena deposto il paludamento solenne, andò come semplice colonnello contro Antioco il Grande; e il generale lo abbracciò al cospetto dell’esercito, e confessò dovere a lui solo la vittoria delle Termopile, e lo spedì a recarne la nuova a Roma. Amministrando la provincia di Sardegna, cacciò gli usurieri, e abolì le spese che i sudditi doveano fare per onorare i pretori. Vestiva poveramente, marciava pedestre a capo d’eserciti; nè il pranzo gli costava più di trenta soldi; e diceva che non è mai buon mercato una merce superflua, costasse pure tre quattrini.
Per moda ammiravasi la Grecia? ed egli a vilipenderla; non volle conoscerne la letteratura, e rimbrottava suo figlio di porvi studio; e se più tardi guardò in Tucidide e Demostene, severamente li giudicava; Socrate gli pareva un ciarliere che con novità pericolose turbasse la patria; appuntava Isocrate di lasciar incanutire i discepoli nella scuola, talchè ormai non potevano andar a perorare che agli Elisi: aveva in orrore i medici di quella nazione, dando voce ch’e’ si fossero assunto di tôrre dal mondo tutti i Barbari, compresi i Romani; soprattutto esecrò l’eloquenza loro, massime dopo che udì i sofismi di Carneade.
Non risparmiandola a popolani nè a ricchi,—Come mai (esclamava) salvare una città, dove un pesce si vende più caro d’un bue? O Romani, voi siete simili alle pecore, che tutti insieme vi lasciate menar da persone, cui niuno vorrebbe affidarsi... Se diveniste grandi mercè delle virtù, non volgetevi in peggio: se per l’intemperanza e i vizj, cambiatevi, giacchè per queste vie cresceste abbastanza». Di quei che brigavano per aver cariche,—E’ mi somigliano a persone ignare della strada, che han bisogno del littore che li preceda». E perchè spesso si nominavano a magistrati gli stessi,—Convien dire che le cariche consideriate di ben poca importanza, o troviate ben pochi che le meritino». Vedendo far la corte a re Eumene perchè lo dicevano buono,—Sarà; ma un re è per natura una bestia vorace: e nessun re de’ più vantati pareggia Epaminonda, Pericle, Temistocle, Curio Dentato».
Diceva pure che i savj imparano dai matti più che questi da quelli, giacchè essi evitano gli errori in cui vedono cadere i matti, mentre i matti non imitano i buoni esempj de’ savj. Ingiuriato da un libertino,—Troppo è disuguale la contesa fra te e me; tu odi volentieri le scempiaggini e volentieri le dici; io m’annojo a intenderle, e non uso a dirne». E ad un vecchio vizioso,—La vecchiaja ha tante deformità, che non conviene unirvi anche quella de’ vizj».
«Egli superava (dice Tito Livio) di gran lunga plebei e patrizj, anche delle più illustri famiglie: di sì grand’animo e ingegno fornito, che, in qualunque condizione nato egli fosse, formata avrebbe la propria fortuna. Non vi ha arte veruna nel maneggio de’ pubblici e de’ privati affari che a lui fosse ignota: amministrava con egual senno gli affari della città e que’ della campagna. Altri salgono a sommi onori per lo studio delle leggi, altri per l’eloquenza, altri per la gloria dell’armi: egli ebbe l’ingegno così ad ogni arte adatto, che l’avresti creduto nato unicamente a quella, qualunque fosse, a cui rivolgevasi. Coraggioso nelle battaglie, famoso per illustri vittorie, fu generale supremo: nella pace peritissimo delle leggi, eloquentissimo nell’arringare; e ne rimane tuttora in onore l’eloquenza, consacrata ne’ libri d’ogni argomento da lui composti».
Dei quali Cicerone, giudice molto competente, diceva: «Qual uomo fu egli mai Catone, Dei immortali! Lascio in disparte il cittadino, il senatore, il generale d’eserciti; a questo luogo cerco sol l’oratore. Chi più di lui grave in lodare? chi più ingegnoso ne’ sentimenti? chi più sottile nella disputa e nell’esposizione della causa? Le cencinquanta sue orazioni ridondano di cose e di espressioni magnifiche...; tutte le virtù d’un oratore vi si trovano. Le sue Origini poi, qual bellezza e qual eloquenza non hanno esse? È vero che antiquato n’è lo stile, e incolte alcune parole, chè così allora parlavasi: ma svecchiale, aggiungivi l’armonia, adorna lo stile..., e non troverai chi anteporre a Catone»[302]. Meglio d’ogni lode vale quella sua definizione, che l’oratore è un galantuomo che sa ben parlare. E noteremo questa particolarità che, avendo stesa la storia di Roma fin ad Annibale, tacque i nomi, descrivendo le imprese; quasi temendo che la gloria di Roma dovesse rimanere minorata dalla gloria d’individui[303].
Voi comprendete come accanito dovesse costui combattere le novità romane.—I ladri privati (intonava) arrivano ai ceppi ed alle sferze; i pubblici nuotano nell’oro e nella porpora. Fremete sui mali che l’avvenire ci prepara. Assaporammo le delizie di Grecia e d’Asia; le nostre mani han preso i tesori dei re: padroni di tante ricchezze, a poco andare ne saremo gli schiavi.... Gli antichi in giorno di festa si contentavano di due piatti per desinare. Col recarci le statue di Siracusa, Marcello introdusse fra noi pericolosi nemici: più non odo se non gente che ammira il marmo e lo scalpello di Corinto e d’Atene, cuculiando i nostri numi d’argilla»[304].
Mal soffriva le persone pingui «tutte ventre»; nè quelle dedite alla gola, poco acconciandosi con chi avea più sentimento nel palato che nel cuore. Stando censore, propose leggi suntuarie, con gravi imposizioni sul lusso donnesco, e prescrizione pei conviti; ammonì molti uomini consolari, a molti cavalieri tolse il cavallo, sette senatori fece condannare, tra cui quel Flaminino infamemente crudele coi Galli (pag. 323), ed uno perchè si era lasciato scorgere dalla figlia a baciar la moglie; impedì il trar le acque di pubblico uso ad abbellimento di case e giardini privati, mentre egli raddrizzava strade, purgava cloache, edificava portici e la basilica Porzia. Qual meraviglia se molti malevoli si attirò? e fin quarantaquattro accuse dovette sostenere; ma il popolo lo onorava, e nel tempio della Salute gli pose una statua per avere risarcito la declinante repubblica[305].
CATONE E GLI SCIPIONI
Non si creda però che le massime lo garantissero dalle passioni; esercitò l’usura allora più infamata, la marittima; talvolta s’avvinazzava; in casa teneva tresche con una serva, e ad ottant’anni sposò la figlia d’un suo cliente. Forse non meno del patriotismo aveva parte il livor personale nella sua contrarietà verso gli Scipioni. Fin quando stava questore in Sicilia, avendo accusato l’Africano di soverchia suntuosità e d’imitare troppo i Greci, questi il rimandò dicendo:—Non so che farne d’un questore così appuntino; delle imprese devo io render conto, non delle spese». Catone legossela al dito, e citò gli Scipioni a dar preciso conto delle entrate e spese nella guerra d’Antioco. Si potea dire veramente ch’essi l’avessero condotta a senno e conto proprio, guerreggiando anche dove il popolo non avea decretato, regolando a talento le paci; e chi saprebbe quali somme avessero smunte dall’Asia e dai successori d’Alessandro, impinguati dalle spoglie del mondo?
Scipione Africano, suntuoso in tutto, cinto di poeti, i quali cantavano che dal Levante e dalla palude Meotide non v’era uom pari a lui[306], operava da principe, rifuggendo dall’eguaglianza repubblicana a segno che ai giuochi pubblici fece stabilire posti distinti pei senatori. Questo contrapposto di Catone, sentendosi citato, salì la tribuna, e—Romani, in questo giorno medesimo, auspici gli Dei, vinsi in Africa Annibale e i Cartaginesi. Ascendiamo in Campidoglio a ringraziare i numi, e pregarli vi diano sempre dei capi a me somiglianti». E tutti, popolo, tribuni, giudici, accusatori, il seguirono in Campidoglio con un trionfo ancor più segnalato dei primi, ma dove il vinto non era Annibale, non Siface, bensì la integrità delle leggi repubblicane. E avendo dappoi i tribuni messo in accusa il fratello di lui, esso il tolse loro di mano, e lacerò i registri, dicendo:—Renderò ragione di quattro milioni di sesterzj io, che ne feci entrare nel tesoro ducento milioni, senza conservare per me altro che il titolo d’Africano?»
Qui respira ancora l’eroismo patrizio: ma se alcuni esclamavano contro l’ingratitudine di chiamare in giudizio sì alti personaggi, altri sosteneano che, in buona repubblica, nessuno deve elevarsi di sopra delle leggi; e prevalse la voce popolare, che tende ad uguagliar tutto, fin la vera superiorità del merito, e che perciò sì spesso è tolta per maschera dall’invidia. E poichè s’insisteva nell’accusa, Scipione andò esule volontario a Linterno nella Campania, dove i tribuni nol molestarono, ma neppure lo richiamarono; ed egli eludeva la noja cogli studj, cogli 183 esercizj ginnastici, coll’amicizia di Lelio e del poeta Lucilio[307], e morendo fece scrivere sulla sua tomba:—Ingrata patria, non avrai le mie ossa».
L’inquisizione fu continuata contro suo fratello; e sovra proposta dei tribuni Petilio e Nevio, fiancheggiata da Catone e passata per voto unanime delle trentacinque tribù, si sentenziò che Scipione Asiatico, per fare più larghi patti ad Antioco, ne avea ricevuto seimila libbre d’oro e quattrocentottanta d’argento più di quelle riposte nell’erario; Aulo Ostilio suo legato, ottanta d’oro e quattrocento d’argento; Cajo Furio questore, centrenta d’oro e ducento d’argento. Tanto erano lontani i tempi di Fabrizio e di Cincinnato! La povertà di Scipione, il quale non trovossi in grado di soddisfare la multa, parve argomento di sua incolpabilità; non si soffrì che gli Scipioni andassero nel carcere ov’essi aveano condotto i re stranieri: ma l’aristocrazia era ferita nel cuore; Catone fu inanimato a proseguire le indagini, alle quali chi poteva omai sottrarsi se gli Scipioni avevano soccombuto?
DEPRAVAZIONE
Però quando una repubblica stia in mano d’un corpo qual era il senato romano, poco importa si cambino i personaggi; chè la loro scomparsa è immantinenti da altri riparata. E per verità, come sperare il miglioramento privato, e quel disinteresse che pospone se medesimo alla patria, quando dal pubblico venivano esempj di corruzione; quando a Catone la censoria severità non toglieva di procedere con astuta ed immorale politica; quando la cabala, il raggiro, e subdole astuzie, e aperte violenze calpestavano o eludevano il diritto delle nazioni; quando i censori stessi davano l’esempio della prevaricazione; e Lepido, principe del senato e pontefice massimo, adoprò il denaro pubblico a costruire una diga per preservare i proprj fondi a Terracina; e un messo del senato in Illiria ricevette denaro per fare un ragguaglio favorevole; e un Metello, richiamato di Spagna ove sperava gloria e potenza, disordinò l’esercito; quando si ricusava il governare provincie non ricche, e vendeansi congedi ai soldati; quando i messaggieri in pien senato faceano vanto ai generali d’avere ingannato con finte tregue Perseo; quando alle strida de’ popoli spogliati, venduti, uccisi, il senato si contentava di rispondere che non fu per suo decreto; quando istituito un tribunale permanente ( quæstio perpetua ) onde punire le concussioni, i senatori che lo componevano facevansi indulgenti per denaro ricevuto, per connivenza di corpo; quando generali portavano guerre senza averne ordine, eppure n’ottenevano onori trionfali perchè sostenuti da parentela e da clienti; quando tutto si valutava a denaro, e stima ottenevasi in proporzione dell’avere[308]; quando non si cercava che corrompere per acquistare il diritto di estorcere, estorcere per aver mezzi di corrompere, e il prosperamento della repubblica non guardavasi che come un mezzo d’ingrandire se stessi, e ricompensare i proprj aderenti?
CAPITOLO XVI.
Terza guerra punica.—La Spagna vinta.
Insuperbita di tanti vinti nemici, non contenta d’aver domato l’emula Cartagine, Roma aspirava a distruggerla. Gravandola della maledizione del væ victis, sempre nuove umiliazioni ne esigeva; offendevala e si lamentava: stile dei prepotenti. Cartagine, ridotta inerme e disanguata, vacillava come i popoli in agonia, ora tramando con altri deboli, ora cercando giustizia da un popolo che non ascoltava più se non l’interesse.
PARALLELO FRA ROMA E CARTAGINE
Massinissa re di Numidia, padre di quarantaquattro figliuoli, fiero ed irrequieto vecchione che la morte pareva rispettare per sciagura di Cartagine, denunziava questa or di dare ascolto ad Annibale, or d’avere nottetempo nel santuario d’Esculapio ricevuto emissarj del re Perseo; poi ne invase città e provincie. Cartagine, che per patto non potea muover guerra senza assenso di Roma, a questa ne portò querela; e Scipione Africano, mandato a farne ragione, non volle disgustare sì prezioso alleato: pure Roma, temendo che quella repubblica si unisse a Perseo, 181 le assicurò l’integrità del territorio; ma che? poco stante il Numida occupa un’altra provincia e settanta città o villaggi, e Roma il lascia fare. Lo stesso Catone censore, spedito a conciliare questi dissidj, mostrossi così parziale ed inflessibile, che i Cartaginesi ne ricusarono l’arbitramento. Quel severo ed orgoglioso più non dimenticò l’affronto, e non rifiniva di consigliare,—Distruggete Cartagine». Gli Scipioni, o godessero di lasciar sussistere quel vivo trofeo della gloria loro, o temessero che Roma s’infiacchisse quando fosse cessato l’instante pericolo, sconsigliavano dall’annichilare l’emula città: il censore, al contrario, anche per l’irreconciliabile sua avversione ad essi, ne andava rammentando la gran vicinanza e la popolazione crescente; e qualunque mozione facesse in senato, conchiudeva sempre,—Opino inoltre si deva distruggere Cartagine».
Bastava conoscer Roma per prevedere che il partito più violento prevarrebbe; e la città fenice, colla fatalità solita alle cause soccombenti, scavavasi di propria mano la fossa. Oltre la fiacchezza naturale d’un’aristocrazia di ricchezze, nella quale anche le cariche più elevate si conferivano per denaro, vedemmo sorgervi e crescervi le fazioni, guidate dalla famiglia dei Barca, ricchissima ed incline alla guerra, e da Annone che, per contrariarli, consigliava la pace ad ogni costo. I disastri di Spagna e d’Italia, e infine la rotta di Zama scassinarono la potenza dei Barca, ma non li tolsero d’avere principale autorità nel senato. Finchè si dilatò col commercio e colle colonie, Cartagine venne in fiore, ed in quattro secoli si era resa donna dei mari, capitale dell’Africa, rispettata, quieta: innestatale dai Barca l’ambizione delle conquiste, quei che le importava di tenere amici pel commercio avversava come guerriera; i vascelli, convertiti in uso di battaglie, cessavano dal portar merci lucrose; le spese sottigliavano l’erario quanto il commercio l’aveva impinguato; i cittadini non bastavano a guerre grosse; le città suddite maltrattate vi si prestavano con ripugnanza; di modo che bisognava soldare stranieri, i quali non combattendo per la patria, potevano o dettarle legge, o disertare al nemico, o divenire un’arma pel generale che aspirasse ad abbattere la libertà.
Al rompersi delle ostilità con Roma pareva tutte le contingenze andassero propizie alla città africana; essa ricca, essa potente in mare, essa padrona di mezza Sicilia e d’altre isole del Mediterraneo, da cui poteva sbarcare minacciosa nei porti dell’indifesa rivale. Ma Roma a forza di guerre s’invigorisce; cresce coll’assimilarsi i vicini e dilatare i proprj dominj; ha cittadini guerrieri dall’infanzia, o formati negli utili travagli dei campi e nella robusta povertà; mentre i Cartaginesi crebbero al banco e nei traffici, ed ogni via di guadagno tengono per buona e ambita perchè reca al potere. Cartagine fidava negli alleati e nel denaro, Roma soltanto in sè: e mentre questa immobile stava sulla sua rupe, l’altra scivolava sopra arene d’oro. Quel coraggio disperato che crea le vittorie o ripara le sconfitte, mancava ai Cartaginesi; vinti, temono di perder tutto e piegano: mentre i Romani nella peggiore estremità mettono all’incanto il terreno su cui è accampato il nemico; e se questo propone la pace, gli rispondono:—Va fuori d’Italia, e tratteremo».
TERZA GUERRA PUNICA
Le sconfitte di Roma non ne alterarono la costituzione; Cartagine dopo la rotta di Zama restringeva l’autorità dei magistrati in modo, che prevalse il popolo; e questo fluttuava per impeti, mentre a Roma decideva un senato accorto e calcolatore. Fu merito dei sommi generali di cui fu fortunata, se Cartagine talvolta pose in dubbio la decisione della fortuna: ma l’educazione non dirigeva essenzialmente a formare eroi; non serbava ai vincitori la solennità dei trionfi; nel mezzo delle vittorie i capitani si vedevano incagliati dalla gelosia o dal sottilizzare finanziero; doveano paventare la sconfitta che li sottoponeva ad un processo; e il pericolo della croce stava sugli occhi del generale allorchè meditasse una battaglia. Roma invece esce incontro al console vinto a Canne, lo ringrazia di non avere disperato della patria, e dà ogni aver suo, spoglia i tempj e le donne per fornire un nuovo esercito.
E il nuovo esercito vinse, e obbligò Cartagine a vergognosa pace. Il dispetto dell’umiliazione tornò in favore Annibale; e poichè seimila cinquecento mercenarj, avvezzi con lui a vincere e predare, lo rendeano arbitro della disarmata patria, e’ si fece nominar sufeto e cominciò riforme: la perpetua magistratura de’ gerusj ridusse annuale; migliorò le finanze esigendo crediti antiquati, richiamando al fisco il mal tolto, e convincendo che il reprimere i concussori frutta meglio che un tributo nuovo; i soldati oziosi occupò a piantare ulivi, sperando coll’agricoltura e col commercio risanguare la svenata città, cui destinava far centro d’una gran lega contro Roma. Ma guaj alle riforme troppo tarde! Annibale soccombette e dovè esulare, lasciando la patria in quella debolezza che proviene dall’essere abbattute le istituzioni vecchie, non istabilite le nuove.
Se ne incalorirono le fazioni, e la patriotica cacciò in bando quaranta dei fautori dello straniero, i quali ricoveratisi a Massinissa, 153 lo istigarono contro la repubblica. Egli estese le sue usurpazioni, e tuttochè ottagenario menò in persona la guerra; preso in mezzo l’esercito punico, lo affamò, e ne uccise cinquantottomila. Roma avea mandato ambasciadori, i quali, se l’evento uscisse prospero per Cartagine, le intimassero di deporre le armi ed osservar la pace. Vedendola invece colla peggio, inanimarono il Numida, del quale 150 Cartagine comprava la pietà con nuove cessioni, e condannando come rei di Stato i consigliatori di quella guerra. Ed ecco Catone comparire nel senato di Roma, e traendo di sotto la toga dei fichi che pareano appena côlti,—Questi (dice) tre giorni fa erano attaccati al loro ramo ne’ giardini di Cartagine. E voi tollererete così prossima una tale città?»
ULTIMI SFORZI DI CARTAGINE
149 Strana ragione per distruggere un popolo! eppure gli è menata buona, e Roma intima a Cartagine che, avendo violata la pace, s’aspetti il castigo. I consoli Manilio Nepote e Marcio Censorino partono con ottantamila fanti, quattromila cavalli, cinquanta galee da cinque file di remi, oltre innumerevoli navi di trasporto, e l’ordine di non cessare finchè Cartagine non sia diroccata. I Cartaginesi non trovandosi pari all’attacco, spediscono nuovi ambasciadori con piena autorità d’accettare qualsiasi condizione, e perfino di rimettersi alla discrezione de’ Romani, purchè si risparmii la città. Questi, inorgogliendo a misura che vedevano abbassarsi la rivale, chiedono fra trenta giorni trecento ostaggi delle primarie famiglie. Parve enorme la condizione, eppure si sottomisero; e fra il pianto de’ genitori e il fremito de’ generosi, i trecento partirono. I consoli si riservarono di far conoscere la volontà del senato quando giungessero ad Utica; ed affinchè l’eccesso non portasse i Cartaginesi alla disperazione, proposero una ad una le condizioni: prima di fornire l’esercito di grani, poi di consegnare tutte le triremi, poi tutti i tormenti da guerra, da ultimo tutte le armi, giacchè non n’aveano bisogno se veramente deliberati alla pace. Duemila macchine e ducentomila armadure compite furono consegnate: ben perdute veramente se non si sapeva usarle all’ultima difesa della patria.
Come li vedono sguerniti e incapaci di sostenere un assedio, i consoli intimano che la città sia demolita, gli abitatori prendano stanza a tre miglia dal mare, cioè dove non possano più attendere a navi nè a commerci nè a pericolose speranze. S’erano i Romani obbligati a risparmiare la città; ma in loro lingua civitas significa gli abitanti, non le abitazioni!
Storditi a tal colpo, per alcun tempo i Cartaginesi non seppero che piangere, desolarsi, e quali lamentando i figli dati in ostaggio, quali imprecando agli avi che non avessero preferito una morte gloriosa ai turpi patti subìti; poi vergognandosi di se stessi, mutano lo sgomento nella disperata risoluzione di non soggiacere all’infame sentenza. Subito son chiuse le porte, uccisi tutti gli Italiani; qualunque metallo rimane è convertito in armi, qualunque officina in armeria; ogni dì si fabbricarono cento scudi, trecento spade, cinquecento lancie, mille dardi; le donne si recidono le trecce per farne le cocche; gli schiavi sono chiamati a libertà. Asdrubale, capo della fazione nazionale, che maltrattato da’ suoi, era fuoruscito, e menava ventimila uomini contro della patria, si riconcilia, riduce ad obbedienza la campagna, ed ajuta a respingere i consoli e incendiare la flotta; e Cartagine si conforta di almeno soccombere con onore. Benchè i Romani adoprassero contro di essa ogni arte murale, e la percotessero con un ariete mosso da seimila fanti, e con un altro spinto da innumerevoli rematori ( Appiano ), l’accortezza d’Asdrubale e il valore de’ Cartaginesi eludeva gli assedianti.
147 Pareva che la vittoria nelle guerre puniche fosse fatata al nome degli Scipioni. Emiliano, figlio di quel Paolo Emilio che vinse Perseo, adottato da Scipione Africano, portato console innanzi l’età, è spedito in Africa; salva l’esercito da gravissime strette, raccoglie l’eredità dell’estinto Massinissa, prende un quartiere di Cartagine, circonvalla l’istmo con un muro turrito da cui padroneggiare la città, e le interdice i viveri; poi aggiungendo i riti sacri, proferisce contro Cartagine la rituale imprecazione per inimicarle gli Dei e per consacrare alla vendetta delle Furie chiunque resista a Roma[309].
CARTAGINE DISTRUTTA
I Cartaginesi ridotti all’estremo, osano un ultimo sforzo; 146 e lavorando uomini, donne, fanciulli, scavano traverso alla rupe una nuova uscita al loro porto, ed avventano contro dei Romani un’altra flotta, compaginata col legname delle demolite abitazioni. Alcuni a nuoto s’avanzano fin presso le macchine, e di repente emergendo accendono fiaccole, e vi gettano fuoco. Scipione Emiliano d’assalto entra in Cartagine, eppure i cittadini difendono ancora via per via, casa per casa, durante sei giorni e sei notti; ed empiono de’ loro cadaveri la patria perita. Novecento disertori ricoverati nel tempio d’Esculapio, prevedendo qual sorte gli attendesse, posero fuoco a quell’asilo e perirono tutti. Il generale Asdrubale, che avea sempre intrepidamente diretto gli sforzi de’ suoi cittadini, negli estremi perdette il coraggio, e si prostrò al vincitore; ma sua moglie, rimasta cogli ultimi difensori, non volendo sopravvivere alla patria, sale sul fastigio del tempio vestita d’abiti sfarzosi, ed imprecato ogni male al marito disertore, si precipita coi figli nelle fiamme.
De’ superstiti Cartaginesi parte fu dispersa per Italia e per le provincie; 4,470,000 libbre d’argento ornarono il trionfo di Scipione Emiliano, nel quale si riprodusse il soprannome di Africano. Molti preziosi capi d’arte, fra cui il toro di Falaride, furono restituiti alla depredata Sicilia; donate ai re di Numidia le biblioteche, eccetto i libri di Magone sull’agricoltura, che furono portati a Roma e tradotti; smantellate tutte le città favorevoli a Cartagine, le contrarie ingrandite di territorio; attribuito agli Uticesi quant’è fra Cartagine ed Ippona; gli Africani sottomessi pagassero un annuo tributo, e lo Stato cartaginese fosse ridotto a provincia col titolo di Africa. D’ordine del senato, Emiliano condusse l’aratro attorno alle mura, ripetè le rituali imprecazioni che doveano rendere gli Dei nemici alla causa vinta; poi le fiamme in diciassette giorni consumarono la città, dopo sette secoli d’esistenza, e uno e mezzo di lotte con Roma.
COMPIANTI SU CARTAGINE
Questo sterminio senza scopo e senza ragione formò la gloria della colta famiglia de’ Scipioni che sempre vi s’era opposta, la gloria d’Emiliano, personaggio lodatissimo per dolce natura, e di cui fu proferito «non aver mai operato o detto cosa che non fosse degna di lode». Ma Roma nell’idea di lode non comprendeva mai quella di umanità, e a tutto ciò che non fosse romano mancava per lei ogni valore, ogni motivo di rispetto. Emiliano, vedendo lo strazio di tanta città, stette assorto in mesto silenzio, poi sospirando esclamò coll’Ettore di Omero:—Verrà giorno che il sacro iliaco muro e Priamo e tutta la sua gente cada». Chiesto da Polibio che intendesse per Troja e per gente di Priamo, egli, senza nominar Roma, rispose che meditava come gli Stati più poderosi alla loro volta dibassino e rovinino, secondo piace alla fortuna[310].
Seduta trionfalmente sulle macerie di Cartagine e di Corinto, Roma poteva proclamare il trionfo della forza sopra l’industria; nessun nuovo nemico si presentava, sufficiente al tremendo duello; ai vinti non rimaneva vigore d’agitarsi sotto al pilo dei soldati d’Italia. Solo contro il gran furto delle aquile latine protestarono gli Spagnuoli, tremendi sempre nel difendere la patria indipendenza. Insorti, e sterminato il pretore Sempronio Tuditano 197 coll’esercito suo, cominciarono una guerra micidialissima sì per la popolazione colà raffittita, sì per la natura de’ luoghi montuosi e degli abitanti.
INSURREZIONE DELLA SPAGNA
Si univano gl’Ispani in numerose fratellanze, congiurate per la vita e per la morte; nè uno mai falliva o sopravviveva agli altri consorti. Spirando in croce, i prigionieri con belliche canzoni insultavano ai loro carnefici; una madre cantabra scannò il figlio anzichè lasciarlo in balìa de’ nemici; un altro, per ordine del padre, rese la libertà ai genitori incatenati uccidendoli. Battuti più volte, non vinti mai, portavano allato il veleno pel caso d’una sconfitta: trovavansi ridotti schiavi? assassinavano i padroni, o mandavano a picco i bastimenti su cui erano caricati. Rilevata una rotta, fecero dire ai Romani vincitori:—Vi lasceremo uscire di Spagna, se ci diate un abito, un cavallo, una spada per ciascuno».
Ogni arma adopravano dunque i Romani contro di loro, e più quelle dove i nemici meno valevano, l’astuzia e il tradimento, suscitando querele da fratelli a fratelli; e indeboliti gli aggredivano. Licinio Lucullo nella Celtiberia, Servio Galba nella Lusitania, in aspetto d’amicizia, offersero pingui terreni agli indomiti Ispani, e come li videro stanziati in sicurezza di pace, li scannarono, e Galba 151 andò glorioso del macello di trentamila difensori dell’indipendenza.
Gli Ispani ripagavano d’eguale moneta; onde la campagna della penisola era sì temuta, che i tribuni della plebe domandavano l’esenzione pei loro protetti; e non ottenendola, li sottraevano col chiuderli prigioni. Fulvio Nobiliore console ebbe da loro una tal rotta, che quel giorno restò nefasto nel calendario, 188 come quello della battaglia di Canne. Pure Catone e Sempronio Gracco, guerreggiando a lungo nella Spagna citeriore (Castiglia ed Aragona), ed assalendo i Celtiberi nel proprio nido, oppressero quanto è fra l’Ebro e i Pirenei, 179 e vantarono d’aver espugnato quegli quattrocento, questi trecento città. Nella ulteriore Publio Cornelio Scipione, Postumio ed altri vinsero i Lusitani, i Turditani, i Vaccei (Portogallo, Leon, Andalusia), e poterono gloriarsi d’aver soggiogata tutta la penisola. I proconsoli, spediti a tenere in freno queste belve indomite, vi satollavano la propria avarizia coll’esercitare il monopolio delle biade, ed affamare il paese.
VIRIATO
Vendicatore de’ compatrioti sorse il lusitano Viriato. Nella pastorizia e nella caccia formatosi eccellente capo di bande, si propose di collegare Lusitani e Celtiberi, 149 onde reggersi a fronte di Roma. Di trionfo in trionfo guidando i suoi, sconfisse cinque pretori, infine circondò il proconsole Fabio Serviliano; e mentre avrebbe potuto passar lui e l’esercito pel filo delle spade, 141 propose pace al solo patto che i Romani, tenendosi la restante Spagna, lui riconoscessero padrone del paese che dominava. Il senato confermò l’accordo, e così Viriato conseguì un regno indipendente a spese della repubblica romana, e avrebbe potuto divenire il Romolo della Spagna, se non che Servilio Cepione console sollecitò i Romani a permettergli di rompere la pace; 140 e senza ragione nè pretesto sperperò il paese, corruppe alcuni, i quali scannarono il valoroso lusitano. Il senato ricusò l’onore del trionfo all’infame Cepione.
ASSEDIO DI NUMANZIA
Cessato con quel gran capitano l’accordo delle due Spagne, la Lusitania si rassegnò al giogo; ma più accannita divenne la resistenza di Numanzia. 143 Questa città aveva ricoverato le reliquie dei fazionieri di Viriato, che sostennero una lotta generosissima, benchè sommassero appena a ottomila guerrieri. Gli stessi formidabili legionarj tremavano al nome dei Numantini, più che a quello di Annibale e di Filopemene. Popilio Lena console fu costretto calar con essi ad accordi, violati poi dal suo successore: Ostilio Mancino 137 da quattromila di essi videsi uccisi trentamila soldati, e preso in mezzo dovette consegnare a discrezione se medesimo e l’esercito. Roma perfidiava i trattati, respingeva gli ambasciadori numantini, e rinnovava le scene sabine, facendo condurre alle porte di Numanzia Mancino incatenato, quasi potesse riversare su lui solo la responsabilità del trattato. I Numantini nol vollero ricevere se non fosse consegnato, secondo i patti, con tutto l’esercito.
Rinfocatasi pertanto la guerra, Emilio Lepido fu per fame ridotto ad allargare l’assedio di Numanzia; Fulvio Flacco e Calpurnio Pisone poco profittarono: onde le tribù di Roma gridarono ad una voce che la piccola città non potrebbe esser doma se non dal vincitore di Cartagine.
134 Scipione Africano Minore fu rieletto console, malgrado la recente legge che il vietava; e non essendogli concesso di levar nuove truppe, armò da cinquecento volontarj a cavallo ch’e’ chiamava lo squadrone de’ suoi amici, e forse cinquemila uomini somministratigli dalle varie città italiche. Con questi, colla fiducia ispiratagli dalle vittorie precedenti, con una disciplina oltremodo severa ed operosa, e colla tattica più raffinata pervenne a circonvallare Numanzia; ricusò la battaglia, provocata in disperate sortite, ricusò ogni patto di dedizione. I Numantini, 133 logorati gli animali e le cose più schife, divoravansi l’un l’altro; da ultimo posero fuoco alla città, e s’uccisero fra loro, sicchè cinquanta soli potè serbarne il vincitore per ornare il trionfo che condusse senza spoglie. La piccola città cadde più gloriosamente che non Cartagine e Corinto; e la memoria della sua resistenza visse in cuore degli Ispani, i quali anche dopo vinti s’accorsero d’avere braccia e petti.
[394][395]
LIBRO TERZO
CAPITOLO XVII.
Costituzione di Roma repubblicana.
Il piccolo Comune di Roma è dunque ingrandito a segno, da avere sottomessa tutta Italia non solo e le due penisole meridionali, ma molte altre parti dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa. Donde traeva le forze a tante conquiste, e alle ben maggiori che racconteremo? Dall’assimilarsi sempre nuovi cittadini.
La costituzione di Roma (già tanto il ripetemmo) da principio fu patriarcale, regolata dai seniori delle tre primitive tribù, aventi a capo il re, giudice supremo, sacerdote e capitano. I patrizj tendevano a limitare il potere di lui, egli ad emanciparsi col consentire diritti politici al Comune plebeo; al sollevarsi del quale, l’antica gente patrizia si trovò ridotta a non più che classe privilegiata. Quando Tarquinio Superbo volle esercitare il dominio senza consultare il senato, i patrizj insorsero, ed abolita la monarchia, costituirono un governo aristocratico. La plebe si trovò al fondo dell’oppressura sotto quella che intitolossi liberazione di Bruto: ma in quella irrequieta operosità che, propostosi un fine, non si stanca finchè non l’abbia raggiunto, da prima si riscosse da certi pesi, poi volle alcuni diritti, indi aver parte nell’amministrazione della repubblica. Questo è il senso della lunga lotta fra gli ottimati e la plebe, la quale ottenne magistrati comunali, acquistò vigor di legge alle decisioni prese dal Comune a pluralità di voti, e divenne partecipe di tutte le cariche dello Stato una dopo l’altra; onde uscì una repubblica, dove i veri cittadini erano legalmente più liberi che mai non sieno stati in verun governo.
Al modo che il vulgo nella nobiltà, così gli stranieri penetravano nella città, e per quest’atto appunto Roma si discerne dagli altri Stati antichi, il cui angusto patriotismo respingeva gelosamente ogni elemento straniero. Cartagine, Atene, Sparta rimasero sempre una città, e presto perirono: Roma divenne un gran popolo senza cessare d’esser città, e non solo assorbendo ma assimilando idee, costumanze, persone d’ogni parte, a tutte infondendo la vita, e alla forza del numero accoppiando la forza dell’unità.
PATRIZJ E PLEBEI
La disuguaglianza fra i cittadini è carattere di tutte le società antiche: nè pari diritto godevano quelli che Roma abbracciava. La cittadinanza romana portava alcuni diritti privati o civili ( jus quiritium ), ed alcuni politici ( jus civitatis ). I primi assicuravano il matrimonio colle forme e cogli effetti legali, la podestà patria, il liberamente godere e trasmettere la proprietà, far testamento ed ereditare, oltre la inviolabilità della persona: erano diritti politici il censo e suffragio nelle elezioni e nelle leggi, la capacità a qual si fosse magistratura, l’iniziazione ai riti religiosi, e l’essere coscritto nella legione[311].
Di pieno diritto ( optimo jure cives ) erano i patrizj, discendenti dai primi Quiriti, ovvero aggregati fra essi per merito particolare, o perchè i loro padri avessero sostenuto cariche curuli, com’erano la dittatura, il consolato, la pretura, la censura, la grande edilità. Di tale pienezza di diritto era segno il portar le armi; laonde i giovani restavano in tutela sino all’età in cui solennemente deponeano la pretesta e la bulla, abiti e insegne giovanili, onde assumere la toga. Le donne rimanevano sempre sottoposte al padre o al marito o al tutore.
I patrizj potevano conservare in casa e portare alle pompe funebri le effigie degli avi, di cera con iscrizioni ( jus imaginum ), privilegio equivalente al nostro nobiliare degli stemmi; essi soli possedevano l’agro romano o pubblico, cioè quello attorno alla città, al cui possedimento era affisso l’esercizio della sovranità; essi adunavansi nei comizj per curie; essi soli giudici o pontefici; soli potevano prendere gli auspizj, senza de’ quali le decisioni non consideravansi autorate.
Distinta di culto, di diritti pubblici e privati, come se avesse abitato di là dai mari, inferiore in tutto al vero popolo era la plebe, abitante fuor del Pomerio, e che era venuta in città o per trovare asilo, o come vinta; senza auspizj, senz’avi, senza famiglia, come disse Appio. Pure essa aveva e ricchi e capi e adunanze proprie e decisioni; anzi, dopo presa Roma da Brenno, avea deliberato migrar tutta a Vejo, e piantarvi una città nuova: e fu essa che, lottando coi patrizj, poc’a poco formò un ordine, colla libertà civile dei beni e delle persone, cioè l’autorità di adottare, di testare, di aver il matrimonio e la paternità legale; indi a passo a passo penetrò nella città politica.
TRIBÙ
Delle tribù discutemmo altrove l’origine (pag. 159 e seg.): ognuna dividevasi in dieci curie, da dieci genti ciascuna con un curione[312]. Trenta erano le tribù sotto Servio Tullio: espulsi i Tarquinj, si ridussero a venti: dopo che dai vinti Sabini vi migrò tutta la gente Claudia, s’aggiunse la tribù Crustumina. All’aumento della popolazione non si potè badare nel tempo che i due Ordini lottavano per la libertà interna; ma respinti i Galli, si riparò al danno recato da questi col concedere la cittadinanza a Vejo, Capena, Faleria, formando le tribù Stellatina, Tromentina, Sabatina, Arniese, che tanto giovarono nella guerra contro i Latini. Profligati questi, Roma li mutò in cittadini nelle tribù Mezia e Scapzia, e poscia i Volsci nella Pontina e Publilia, gli Ausonj nella Oufentina e Falerina, gli Equi nell’Aniese e Terentina, i Sabini nella Velina e Quirina; restando così il numero di trentacinque, che più non fu oltrepassato[313]. Quattro erano urbane, cioè la Collina, l’Esquilina, la Palatina, la Suburrana; le altre rustiche: e poichè alle prime vennero aggregati quelli destituiti di patrimonio sodo, le rustiche rimasero sempre in maggiore onoranza. Possedeano esse quel che chiamavasi agro romano, che però non era uniforme e compatto in giro a Roma, attesochè fin presso alle porte di questa v’avea città straniere, come Tivoli e Preneste, sul cui circondario poteva da sè esigliarsi chi volesse prevenire una condanna. Il popolo romano originario sommava appena alla metà; ma diviso in ventuna tribù, contava ventun voti, sicchè, quantunque la sovranità sembrasse comunicata, ne rimaneva pur sempre l’esercizio ai veri Romani.
CLASSI
Oltre questa divisione d’origine e locale, un’altra ne fu introdotta quando si ruppero le barriere aristocratiche, onde aggregare le case nobili col Comune plebeo in modo, da proteggere le franchigie di questo, pur lasciando ai patrizj il governo. Il popolo fu dunque partito in sei classi[314], a proporzione delle facoltà: nella prima, chi possedesse più di centomila assi di beni tassabili; nella seconda, chi settantacinquemila; nella terza, chi cinquantamila; nella quarta, quelli di venticinquemila; nella quinta, quelli di dodicimila cinquecento; gli altri erano accumulati nella sesta; e di sotto a tutti rimaneano gli erarj, che allo Stato contribuivano denaro, ma non servizio militare, nè davano suffragio. Il censo o catasto, dov’erano registrati tutti i cittadini e l’avere di ciascuno, rinnovavasi ogni cinque anni.
Con ciò all’aristocrazia di origine sottentrava l’aristocrazia di ricchezza; le quistioni interne di Roma si dibatterono fra ricchi e poveri, fra possidenti e no; e l’arte con che un tempo i nobili rimoveano dal dominio i plebei, l’esercitarono i ricchi per escludere i poveri.
CENTURIE
Le sei classi comprendevano diverso numero di centurie; cioè la prima novantotto, venti la seconda, terza e quarta; la quinta trenta; l’ultima una sola; non contando tre centurie di fabbri militari. Ogni centuria esprimeva un voto complessivo; sicchè di quante più centurie era composta una classe, maggior denaro contribuiva all’erario ed uomini agli eserciti, e maggiori voci avea ne’ comizj. Pertanto la prima classe bastava da sola a preponderare a tutte le altre insieme; e qualora le sue novantotto centurie concordassero nel voto, non occorreva interrogare le altre. I cittadini godevano dunque autorità differente secondo la classe; tanto maggiore quanto più ricchi, e quanto minori di numero nella propria centuria.
Il potere supremo repubblicanamente risedeva nell’assemblea dei cittadini. Da prima convocavansi secondo le curie, cioè le famiglie dei Quiriti unite da un culto, e votavano i capicasa, costituendo una compatta aristocrazia: poi i comizj curiati si ridussero a mera formalità, conservata soltanto per rispetto agli auspizj onde convalidare i testamenti e le leggi delle tribù, ma il popolo più non v’interveniva, e le trenta curie non erano rappresentate che dai trenta littori, i quali solevano un tempo adunarle.
COMIZI
La plebe vi aveva sostituito i comizj tributi. Le tribù, che erano da principio divisioni locali e religiose, presto si convertirono in politiche attorno ai tribuni, ed ebbero assemblee proprie con diritto d’eleggersi i tribuni e gli edili, e nelle quali non era mestieri degli auspizj, privilegio dell’aristocrazia. Estesero poi le proprie attribuzioni, sino a rendere obbligatorie anche ai patrizj le loro risoluzioni; vi eleggeano le cariche inferiori di Roma e tutte quelle delle provincie, il pontefice romano ed altri sacerdoti; conferivano la cittadinanza; giudicavano di alcune trasgressioni, passibili di ammende.
Maggiori di tutti erano i comizj centuriati, dove ogni Romano della città o della campagna che pagasse tassa e servisse in campo, conveniva per nominare i maggiori magistrati, approvare le leggi, discutere dei delitti di Stato, della pace e guerra, avendo così il potere legislativo, eleggendo l’esecutivo, giudicandolo, accettando o ricusando le leggi proposte[315].
Ma nell’intervallo fra la prima e la seconda guerra punica un sostanziale cambiamento si operò, fondendo queste due sorta di comizj, ossia riducendo democratici anche i centuriati, e così ovviando gli eccessi dell’oligarchia in quelli, e della democrazia nei tributi.
SENATO
Il senato[316], composto in parte di capicasa antichi ( patres ), in parte di aggregati ( conscripti ), non avea la sovranità, ma la dirigeva; dava l’approvazione alle decisioni de’ comizj e alle nomine de’ magistrati; esaminava se convenisse far guerra o pace, e ne redigeva il decreto; riceveva gli ambasciatori, dettava le condizioni dei trattati, che il popolo per mera formalità riconosceva. A lui solo la soprintendenza delle cose religiose, l’interrogare i libri Sibillini, l’introdurre divinità o riti nuovi; a lui l’amministrazione del tesoro, il rivedere i conti, il levare e congedar truppe, l’istruire i più gravi processi criminali, come quelli di Stato e di assassinj ed avvelenamenti commessi in Italia; il nominar il dittatore, e decretare il trionfo od altre ricompense ai generali vittoriosi. In appresso fu arbitro delle provincie, le quali assegnava ai magistrati, come conferiva il titolo di re o d’alleato del popolo romano, e decideva le quistioni fra città federate e suddite.
Benchè sovrano vero fosse il popolo, il senato potea guardarsi come un altro capo della repubblica; i limiti del potere giudiziario e del legislativo non erano ben distinti; e il senato, più cauto ed accorto, sovente arrogavasi molti dei diritti del popolo, senza che questo abbia mai con un provvedimento generale assicurata l’inferiorità del senato. Le determinazioni di esso ( senatusconsulta ) si aveano per obbligatorie, nè poteano abrogarsi che dal senato stesso, onde Cicerone trova potestas in populo, auctoritas in senatu; oltrechè coll’interpretare o sospendere modificava di fatto la legislazione.
Al senato ebbero presto accesso anche plebei[317], e non tardarono ad esservi in maggiorità; e fu allora che si formò una nobiltà, ben distinta dal patriziato. I patrizj discendeano dalle primitive famiglie; i nobili erano figli di magistrati o di persone benemerite della repubblica: sicchè il senato fu il rappresentante non più de’ patrizj, ma della nobiltà, e perdette sempre maggior parte delle sue attribuzioni legislative, riducendosi a corpo consultivo. V’era ascritto il meglio del paese, antichi magistrati curuli, prodi capitani, benemeriti della repubblica; ma non ci consta per quali condizioni di meriti, d’età[318], di censo, e ci ha del probabile che n’avesse uno ciascuna delle dieci decurie. Erano a vita, ma potevano esser rimossi. I censori sceglievano un presidente ( princeps senatus ), il maggior onore a cui un Romano potesse aspirare.
CAVALIERI
Agli Ordini patrizio e plebeo si suole aggiungere l’equestre; ma come Ordine distinto mai non figura, almeno nei cinque primi secoli di Roma: d’altra parte v’avea cavalieri plebei e cavalieri nobili, talchè forse non significava che distinzione accidentale di persone o di famiglia; una funzione militare, che portava ingerenza politica perchè attribuita a persone e famiglie distinte.—Voi (diceva Perseo a’ suoi soldati) avete vinto la parte più considerevole de’ Romani, la loro cavalleria, nella quale si vantano insuperabili. I cavalieri sono il fiore della loro gioventù, il semenzajo del loro consiglio pubblico, da cui si traggono i senatori per farne poi consoli e generali». Plinio maggiore, tardo testimonio sì, ma pur cavaliere, asserisce che solo i Gracchi interposero quest’Ordine fra la plebe e i padri, attribuendogli i giudizj; poi Cicerone li consolidò all’occasione del tumulto di Catilina, dopo il qual tempo l’Ordine equestre fu aggiunto al senato e alla plebe[319]. Forse dunque non dinotava a principio se non i cittadini delle diciotto prime centurie della prima classe, cioè i più ricchi, patrizj fossero o plebei, i quali poteano militare a cavallo, e da questo trassero il nome, come dalla lancia ( quir ) eransi detti quiriti i nobili della prima costituzione. L’onore guerresco diede loro importanza anche in città, dove poi ottennero privilegi, tanto da formare una specie di terz’Ordine, forse da prima non molto differenti dagli squires d’Inghilterra. Per entrarvi bisognava esser nato libero e onestamente, possedere un dato censo, o aver meritato per azioni e virtù personali: pure non può tenersi in conto di corpo stabile nè politico, giacchè ciascuno continuava ad appartenere alla plebe o al patriziato[320], nè godeva speciale attribuzione legislativa; e uno poteva esservi ascritto ed escluso può dirsi a capriccio dei censori, che ogni cinque anni ne faceano la cerna.
Neppure gli altri due Ordini erano esclusivi: e qualche patrizio faceasi adottare da un plebeo per conseguire le cariche alla plebe riservate; e il plebeo mediante l’adozione o coll’entrar nel senato potea sorgere fra’ nobili.
Perseverava dunque l’originario ordinamento per genti e per famiglie; ma Roma non tenevasi immobile, anzi progrediva con misura, accettando i vinti nella propria comunità, e di ciascun Ordine ascrivendo il fiore nell’Ordine superiore. Il soldato, il giureconsulto, l’oratore si sentiva spinto ad elevarsi; e nel nuovo grado portava non l’accidia d’un potere incontrastato ed ereditario, ma l’operosità di chi ha dovuto acquistarselo. Quella serie poi di magistrature che erano un annuale esame, dava stimolo a ben sostenerle per meritarne di maggiori, e per trasmettere alla propria famiglia la dignità che ne conseguiva.
CENSORI
Affinchè il passaggio da un Ordine all’altro e nella cittadinanza si compisse regolatamente, furono istituiti i censori, che vigilassero a classificare i Romani secondo il grado di cavalieri, cittadini od erarj. Di tale carica, spoglia di potestà diretta e di volontà imperativa, eppure onnipotente nel movimento della pubblica vita, veniva onorato chi avesse ben sostenuto altri uffizj. Ogni cinque anni, per fare il lustro o diremmo lo spurgo, il censore chiamava il popolo a rassegna nel campo Marzio, e senz’altra forza che de’ suoi uffiziali e de’ suoi registri, esaminava e depurava gli ordini, le tribù, le centurie. All’appello dell’araldo, ogni Romano compariva a render conto delle facoltà sue; ed i censori, a norma dei bisogni dello Stato e delle variate sostanze, riformavano la distribuzione delle classi e delle centurie, e quali faceano ascendere, quali calare, quali confinavano tra gli erarj. Grande autorità ne derivava ad essi; e il senato acquistava con ciò l’arbitrio di comporre l’assemblea legislativa come meglio trovasse, e così dominarla. Ma poi anche la censura cessò d’essere privilegio aristocratico, e fu comunicata a’ plebei.
I censori trovavansi dal proprio uffizio recati ad erigersi guardiani del buon costume. V’era fra’ senatori chi si fosse o impoverito o disonorato? lo radiavano dall’ album, surrogando un più degno. Ogni cavaliere presentavasi alla rassegna col cavallo, che a ciascuno era somministrato dal pubblico; e se questo si trovasse mal tenuto, o lui povero oppure incriminato, gli si intimava Vende equum, e questa privazione equivaleva a degradarlo. L’ animadversio censoria infliggevasi ad azioni disonoranti, contro delle quali nessuna pena sancisse la legge; come l’ingratitudine del cliente verso il patrono, l’eccesso di durezza o d’indulgenza coi figliuoli, l’inutile maltrattamento degli schiavi, la negligenza verso i parenti, l’ubriachezza, la trascuranza dei doveri religiosi o delle esequie, il sedurre la gioventù; e così al tutore infedele, al socio mancator di parola, al celibato capriccioso, al concubinato, all’esposizione dell’infante legittimo, a chi oltraggiasse alla decenza ed alla salute pubblica[321].
Ammonivano pure il plebeo che da agricola si mutasse in mercante o artiere; il contadino che lasciasse deperire la sua vigna, o il cui campo fosse men coltivato che i vicini. Ad Emilio Lepido console si fece appunto dell’aver preso a pigione una casa per seimila sesterzj e innalzata una villa oltre misura; Lucio Antonio fu espunto dal senato perchè ripudiò la moglie senza raccorre un consiglio di amici[322]; Cornelio Runfio, antenato di Silla, degradato perchè gli trovarono più di dieci libbre d’argento in vasellame; i censori Domizio Enobarbo e Licinio Crasso fecero chiuder le scuole, dove i retori insegnavano una sfacciataggine di parole ignota ai grandi oratori. Esso Enobarbo pose querela al collega, oratore famoso, d’aver amato soverchiamente una murena, fin ad ornarla di giojelli, e morta onorarla di pianti e d’un monumento: ma Crasso sventò il giudizio volgendolo in riso, e confessando,—Io son troppo lontano dalla saggezza di Domizio, il quale non ha pur pianto alla perdita di tre mogli». Sovrattutto la legge circondava di cautele i senatori per farli rispettati; non doveano impoverirsi, non arricchire con appalti, non prestare di là da quattrocento lire, non far da gladiatori, non isposare ballerine, non brogliare; a chi ne convincesse uno di delitto, promettevasi il grado tolto al colpevole.
Ne’ giudizj censorj non bastava il produrre molti testimonj di buona condotta, come usavasi per gli altri, ma si chiedeano discolpe dirette. Se la condanna fosse data per convinzione individuale, un altro censore poteva cassarla: tutte poi poteano essere abolite dai censori successivi.
Altri censori praticavano il medesimo scandaglio nelle colonie e ne’ municipj, trasmettendone gli atti all’uffizio di Roma, che deponeva nel tempio delle Ninfe questo periodico sindacato.
LEGGI
Chiamavano propriamente legge una deliberazione presa ne’ comizj centuriati da’ patrizj e plebei d’accordo, per rogazione d’un magistrato superiore: plebiscito, una risoluzione della sola plebe ne’ comizj tributi, per rogazione d’un magistrato plebeo[323]; era obbligatorio per tutto il popolo (pag. 184); anzi i plebisciti sono le più acclamate leggi del diritto romano. Faceansi leggi per tribù, per curie, per centurie, e di queste medesime variavano i modi d’iniziativa e di sanzione. Una legge si proponeva dapprima al senato: se in questo passasse, promulgavasi per tre successivi mercati, acciocchè anche i campagnuoli potessero prenderne cognizione: al dì prefisso convocavasi il popolo nel campo Marzio, si discuteva, si mandava a voti. Per raccogliere questi, facevansi tanti ponticelli quante le centurie; e ciascun cittadino, passando pel suo, riceveva delle tessere, colle quali esprimeva secretamente il suo voto. Se si trattava di legge, la tessera favorevole portava VR, l’altra A, cioè Vti Rogas e Antiquo; se di giudizio, una il C, una l’A, una NL, cioè Condemno, Absolvo, Non Liquet. I voti valevano complessivamente per centurie.
PLEBISCITI
Altre volte il voto era palese. Così allorquando quelli d’Aricia e d’Ardea disputavano fra loro un territorio, e si riportarono all’arbitramento de’ Romani, questi raccolsero le tribù per decidere, e posero due urne, l’una per il sì, l’altra per il no. Ma insorse una quistione incidente, essendosi asserito che il territorio conteso non apparteneva a nessuno dei due litiganti, sibbene ai Romani; onde una terza urna fu riservata a tal quistione, e tutti i voti caddero in quella[324].
RIFORME
Il diritto romano non procedette per improvvise e violente rivoluzioni; gloriandosi di rimaner saldo agli antichi statuti, non derogò mai le XII Tavole[325], e lasciava che i magistrati, e principalmente gli editti dei pretori e degli edili supplissero ai difetti ed interpretassero.
MAGISTRATI
A ciascuna delle differenti magistrature spettava una porzione dell’autorità sovrana, restando indipendenti nell’azione a loro attribuita; e soltanto sotto l’Impero le vedremo coordinate in una vasta gerarchia, che le une sottomette alle altre. Un potere sommo, al quale tutto si riporti, tutto riesca, fu ignoto a Roma repubblicana; i magistrati quasi non dipendevano dal senato nè dal popolo, se non in quanto allo scadere doveano subire il sindacato; fra loro stessi operavano da eguali, non per delegazione o sotto gli ordini d’un superiore, ma in virtù del potere conferito dall’elezione popolare, e perciò responsali della propria gestione, ognuno estendendosi fin dove cominciavano le attribuzioni dell’altro, ognuno potendo quel che valeva a compire da sè, nè avendo modo di costringere gli altri, che erano inferiori a lui ma non subordinati.
DITTATORI
E appunto perchè la costituzione non determinava i limiti delle varie magistrature, e moltissimo attribuiva alla bontà e dottrina, le qualità personali davano ad uno maggiore o minore autorità, ed agevolezze alle usurpazioni. Quando poi bisognassero rimedj più pronti ed efficaci, la costituzione distruggeva se stessa coll’accordare potere assoluto ad un dittatore, che, magistrato, legislatore, capitano, senz’appello al popolo, tenuto come dio ( pro numine observatus ), poteva quando volesse farsi tiranno. Che valore avea la prescrizione che dopo sei mesi egli deponesse il potere?
Le magistrature, tutte a tempo ed elettive, distinguevansi in ordinarie e straordinarie; e in ciascuna v’avea magistrati grandi, godenti il poter militare e l’autorità civile ( imperium et potestas ); e magistrati minori, investiti di potere limitato. Nei grandi, i consoli, i pretori, i censori erano magistrati ordinarj; straordinarj il dittatore e il suo luogotenente, il prefetto della città, l’interrè. Minori gli edili plebei e curuli, i questori e i tribuni.
CONSOLI
Del governo stavano a capo due consoli, re annuali scelti fra nobili o plebei. Presedevano alle adunanze del popolo e del senato, raccoglievano i voti, curavano l’esecuzione dei decreti; introducevano gli ambasciatori stranieri, cernivano i guerrieri fra i cittadini e i federati, nominavano i tribuni nelle legioni, soprintendevano alle cerimonie religiose e alle finanze; e sebbene di rado potessero in persona amministrare la giustizia, erano però considerati come supremi custodi delle leggi, dell’equità e della disciplina, e molte cause venivano dai tribunali ordinarj portate al consolare in ultima istanza. Il senato poteva prorogar loro il comando degli eserciti, dare o negare le somme necessarie; il popolo doveva servirli in guerra, e rivedere le spese e i trattati da loro conchiusi coll’inimico: onde erano costretti tenersi amici l’uno e l’altro. Riceveano poi omaggi che oggi non si soffrirebbero: ritirarsi al loro passaggio, scendere da cavallo o alzarsi da sedere all’apparir loro; se no, le battiture dei littori: Acilio spezzò la sedia curule d’un pretore che non si levò.
PRETORI
Dai fasci ond’erano accompagnati si tolse la scure, per dinotare che non aveano il diritto di sangue; la rimetteano però dopo usciti un miglio da Roma, recuperando quel potere illimitato ch’è conveniente a un capo d’esercito. Di fatto in tempo di guerra potevano senza limiti, o quando ne’ frangenti il senato commettesse loro l’autorità dittatoria perchè salvassero la repubblica. Pure, finchè non si uscì d’Italia, i consoli anche a capo dell’esercito sottostavano al veto de’ tribuni, alla continua vigilanza del senato, che potea negar loro i viveri o richiamarli: ma quando si varcarono i mari (riflette Polibio) furono tutto; essi pretori, censori, edili, essi popolo e senato; patteggiavano co’ vinti, imponevano tributi e leggi, levavano soldati; regnavano insomma, ed apprendevano le pericolose blandizie del comandare indipendente.
Gli antichi re aveano in sè unito il presedere alle grandi assemblee ed al senato, il comandar agli eserciti, l’amministrare la giustizia; altrettanto continuarono i consoli: ma quando venne accomunata a’ plebei questa suprema magistratura, i nobili tentarono cincischiarla col nominare pretori che, scelti sempre fra i patrizj, rendessero giustizia. Non andarono però sei lustri che anche alla pretura fu scelto un plebeo. I pretori adempivano le veci del console quand’egli assente o quando altrimenti occorresse; ma special loro attribuzione erano i giudizj inferiori.
Dalla distinzione fra cittadini e forestieri nascevano due diritti, l’uno detto civile, l’altro delle genti. Il civile regolava le prerogative, e proteggeva le azioni del cittadino romano secondo le leggi patrie. Il diritto delle genti (tutt’altro da quello che oggi s’indica con tal nome) abbracciava le relazioni sociali, il complesso di que’ principj giuridici in cui tutti i popoli civili sono d’accordo, e le regole dell’equità naturale[326].
Per applicare tali diritti, al tempo della prima guerra punica si elessero un pretore urbano ed uno peregrino; poi crebbero a quattro, a otto, a sedici e più. Le loro funzioni epilogavansi nella formola do, dico, addico: davano l’azione, l’eccezione, il possesso, i giudici, gli arbitri, i tutori; dicevano sentenze nelle cose controverse e ne’ casi possessorj; addicevano, cioè aggiudicavano quando si facesse cessione del diritto, nell’emancipazione e simili.
Gravati di tanta responsabilità, al primo entrare in carica doveano, anche per proprio interesse, fare pubblica professione del come avrebbero in quell’anno esercitato la parte che la costituzione lasciava a loro arbitrio, senza ledere il diritto civile[327]. Esponeano dunque un editto, oggi diremmo un programma, riguardante specialmente quel che noi qualificheremmo di diritto amministrativo; conservando ciò che trovassero buono negli antecessori, correggendo i difetti, proponendo nuove formole d’azione; dal che veniva a progressivamente migliorarsi la legislazione, secondando il variar de’ costumi e dell’opinione senza radicali sovvertimenti; e la rigidezza della legge scritta era piegata, principalmente colle finzioni[328], col mutar nomi, colle eccezioni e col restituire in intiero; mostrando sempre appoggiarsi all’antico diritto anche quando vi si contraddiceva.
GIURISDIZIONE
Il carattere dei poteri giudiziali fra i Romani risulta dalla distinzione che faceasi tra gius e giudizio, tra magistrato e giudici. Gius è il diritto; giudizio sono le istanze, l’esame, la sentenza. Il magistrato dichiara il diritto, lo fa eseguire, risolve l’affare qualora la dichiarazione del diritto basti alla soluzione; in caso contrario, assegna qual potere dovrà giudicare i litigi, e qual diritto regolarli. I giudici esaminano la controversia e le discussioni fra le parti, e le terminano colla sentenza. A quello dunque spetta, oggi diremmo, la decisione del diritto; a questi la decisione del fatto, valutandolo però giuridicamente.
Anche ne’ giudizj rimaneva dunque la sovranità al popolo, il quale esercitava la giurisdizione direttamente ne’ casi capitali, e per delegazione nelle materie di ragione privata. Annualmente ne’ comizj da ciascuna tribù si eleggevano tre giudici, detti perciò centumviri, e si dividevano in quattro collegi, che, ora separati ora congiunti, procedevano intorno alle quistioni di diritti famigliari, di dominio quiritario, di successione. Forse in tutti i casi[329], ma certamente in quelli che non fossero di competenza del tribunale centumvirale, le parti, dopo esposta la contestazione al pretore, sceglievano d’accordo l’arbitro od il giudice, che doveva discutere la causa secondo la formola data dal pretore[330]. Il giudice si designava ne’ casi di stretto diritto, ove cioè si trattasse di cosa certa e determinata; l’arbitro in quelli ex æquo et bono, ossia di equità; e quello e questo fra le persone annualmente trascelte ad esercitare i giudizj. Per un pezzo furono dell’Ordine senatorio, dappoi vi pretesero anche i cavalieri, dal che vedremo sorgere conflitti gravissimi.
Per le liti con stranieri o fra stranieri, il pretore deputava Recuperatori, che doveano risolverle colla massima sollecitudine; il qual vantaggio li fece poi adottare anche pei cittadini nei casi di possessorio o di risarcimento di danni derivati da ingiuria o da delitto.
DIRITTO AUGURALE
Tal era quella mescolanza di tre governi che gli antichi ammiravano, e dove s’avea coi consoli unità dell’esecuzione, col senato sperienza ne’ consigli, col popolo vigor nell’azione; per modo che tutte le forze dello Stato convergeano con irresistibile potenza alla grandezza della repubblica. Il console può tutto, ma il senato può negargli i mezzi, il tribuno impedirne le decisioni; tocca al popolo il sindacarne gli atti, e punirlo o premiarlo col novamente eleggerlo. Il senato sembra il padrone della repubblica agli stranieri che trattano con esso solo; eppure è sottoposto alla revisione dei censori, è preseduto dai consoli, è remorato dai tribuni, e deve aspettar le leggi delle centurie e delle tribù. Il popolo rimane corpo sovrano al fôro, ma ne’ tribunali ha per giudici i cavalieri, nell’esercito per generale il console; dipende dal senato e dai censori per gli appalti e pei possessi: il patrizio si mescola fra’ plebei a sollecitarne il voto, a comprarlo anche col denaro che i suoi avi ne hanno usurpato. Da quest’equilibrio tanta forza, tanta preveggenza, tanto senno politico.
Chi ci ha intesi parlare più volte d’auspizj, comprenderà quanta parte avessero nell’amministrazione, ogni atto della quale esigeva la sanzione divina. L’auspizio era l’osservazione rituale di certi segni, come fenomeni celesti e meteore, volo di uccelli, tripudio o svogliatezza dei polli sacri nel prender cibo, cammino di serpenti o d’altri animali, che doveano attestare l’assenso o la disapprovazione degli Dei.
Carattere essenziale del magistrato in Roma era il poter consultare da sè gli auspizj; ma per lo più ricorreva agli auguri, che conosceano le posizioni, il tempo, i riti, e che per ciò trovavansi in mano le guise di sciogliere un’adunanza, sospendere una nomina, abrogare una decisione, limitare insomma l’autorità non solo dei magistrati, ma del senato e del popolo. «Il diritto più grande ed eccellente nella Repubblica (diceva Cicerone) è quello degli auguri, che sorpassa l’autorità. Qual cosa maggiore che il poter disciogliere i comizj e le assemblee convocate dai magistrati supremi, e annullarle dopo fatte? qual cosa più rilevante che il veder un’impresa interrotta se l’augure assegna un altro dì? qual cosa più magnifica che poter decretare ai consoli d’abdicarsi dalla magistratura? qual cosa più religiosa che il concedere o no l’adunanza del popolo? abolire una legge se non è proposta secondo le forme? Senza l’autorità loro insomma nulla di quel che fanno i magistrati in città o fuori, può essere approvato»[331].
Gli auguri erano a vita, eletti ne’ comizj come gli altri collegi. Dopo che le conquiste si allargarono, acciocchè il generale non fosse costretto abbandonare a lungo l’esercito per venire a Roma a consultare gli auspizj, sceglievasi un pezzo del territorio conquistato, si dichiarava romano, ed ivi il generale compiva la cerimonia[332].
SACERDOTI
Quindici sommi pontefici, ispettori delle cose sacre, proferivano sulle dubbiezze che facilmente insorgono in un sistema tradizionale. I quindecemviri, portati a questo numero sotto Silla, inamovibili e specialmente devoti ad Apollo, custodivano i libri Sibillini, e ne interrogavano i vaticinj; per mezzo de’ quali furono introdotte tante novità nel culto nazionale, e mantenutivi riti atroci, fino al sepellire persone vive. Gli Epuloni, determinati nel numero di sette da Silla stesso, faceano gli onori del banchetto di Giove. I sacerdoti sceglievansi fra cittadini primarj e nobili; nè i plebei vi s’introdussero se non quando il numero ne fu aumentato.
CULTO
Auguri, pontefici, quindecemviri, epuloni formavano i grandi collegi, ciascuno sotto un magister o capo particolare, cui sovrastava il pontefice massimo, custode de’ formolarj religiosi, esecutore de’ maggiori sacrifizj. Eletto dal popolo intero, era inamovibile; la sua casa dovea rimanere continuamente aperta al pubblico; e fu sempre un patrizio fin a Tiberio Coruncanio nel ii secolo avanti Cristo. Patrizj erano pure i quattro del suo consiglio; ma nel 301 vi si aggiunsero quattro plebei, poi sotto Silla crebbero a sedici. Dalle costoro decisioni davasi appello all’assemblea del popolo. Un rex sacrificulus, patrizio, di comparsa e nulla più, adempiva i riti che anticamente spettavano ai re; e nella festa commemorativa della costoro cacciata ( regifugium ), dopo immolate le vittime, egli davasi in fuga.
Quattro collegi inferiori comprendevano i Fratelli Arvali, i venticinque Tiziesi, i venti Feciali che sancivano la pace e intimavano la guerra, e i Curioni che assistevano alle adunanze delle curie. A nessun collegio appartenevano gli Aruspici, indovini poco stimati, che leggevano nelle viscere delle vittime ciò che la prudenza dei padri trovava opportuno alla patria. Altre confraternite si dedicavano al culto speciale di qualche divinità, come i Galli a Cibele, i Luperci a Pane, i Salj a Marte. I tre flamini di Giove, Marte e Quirino, rappresentavano le tre genti, aggregatesi da principio per costituire la curia romana. A tutti ajutavano sacristani, notaj, macellaj, musici, camilli, cioè fanciulli de’ due sessi.
VESTALI
Le sei vergini Vestali custodivano il fuoco sacro di Vesta e le arcane cose cui era appoggiata la salvezza di Roma. Lo spegnersi di quel fuoco si considerava come pubblica calamità, nè altro portento atterrì più di questo durante la seconda guerra punica. Un littore precedeva le Vestali; consoli e littori scontrandole, abbassavano i fasci; esse in cocchio, anche quando la legge il vietava ad ogni altro; esse distinto sedile agli spettacoli; la loro dichiarazione in giudizio equivaleva a giuramento; uno condotto a morte che per caso le incontrasse, rimaneva assolto. Se si adornavano più sollecitamente che a vergine non convenga, erano dal pontefice ammonite; ne erano battute colla sferza nell’interno del tempio se negligessero il culto; se poi macchiassero la castità, sepolte vive, e morto il complice.
Le spese del culto erano sostenute dalle maggiori famiglie, dai privati che offrivano sacrifizj, da qualche possesso dei tempj medesimi, e dalle oblazioni, come erano quelle pei morti a Libitina, per le nascite a Lucina, per la toga virile alla Gioventù: occorrendo suppliva lo Stato.
Ma la religione a Roma non si elevò mai nè a poesia nè a sublimi speculazioni; positiva e di semplice pratica, si atteggiò alla politica, come ogni altra cosa servendo allo Stato. I sacerdoti non si costituirono in un corpo compatto e prevalente, non duravano perpetui, non cessavano d’essere nel medesimo tempo cittadini e magistrati; nè pare dal sacerdozio derivassero lucro, sibbene considerazione e influenza: intervenivano a bandire la guerra e sodare la pace, sanzionavano ogni pubblico atto, preludevano cogli augurj alle determinazioni, interrogavano gli oracoli, ma vi si scorge sempre un intento politico, non ispirazione religiosa. Quindi i satirici facevano beffe impunemente degli auguri[333]; Cicerone, membro e panegirista di quel collegio, stupiva che due auguri potessero incontrarsi per via senza ridersi in viso; e Lelia domandava al marito Quinto Muzio Scevola perchè non vi aggregasse anche la fantesca, ben più esperta dello sfamare a tempo i polli.
MUNICIPJ
Insomma Roma aveva governo municipale, nè mai ne cambiò natura, non distinguendo l’amministrazione della città da quella dello Stato; e sebbene, coll’ingrandirsi, molte attribuzioni primitive del senato e dei consoli venissero assegnate a magistrati nuovi, tutti conservarono sempre alcune attribuzioni meramente locali.
Questo modello offrivasi agli occhi degli Italiani, che erano distribuiti in comunità al settentrione barbare e disgregate, al mezzodì eleganti e ambiziose alla greca, tutte ispirate dalla boria dell’autonomia, e gelose di non comunicarla ad altri. Roma invece, dall’istinto popolare dell’espansione spinta ad aggregare altri a sè, od estendere ad altri le proprie istituzioni municipali, accettava nella città gli avveniticci. Quest’assimilazione molto progredì sotto i re; ma l’aristocrazia succeduta la restrinse, non cercando l’aumento esterno, sibbene l’interna dominazione, e attenta a far tiranno il popolo fuori, per tiranneggiarlo dentro. In fatti, mentre il censo sotto Servio Tullio avea numerato ottantaquattromila cittadini sopra i sedici anni, quello del 245 alla cacciata dei re ne offrì centrentamila, e quello del 278 soli cendiecimila, che dieci anni appresso erano ridotti a cenquattromila ducenquattordici. La plebe pensava altrimenti dagli aristocratici, ed anzichè inimicare i vicini, reclamava per loro la partecipazione de’ diritti; onde appena essa rivalse, tornò ad estendere la concessione della cittadinanza. Questa però non distribuivasi a tutti eguale, ma moltiplicando e variando le concessioni in proporzione dello zelo, e per mantenere la gelosia od eccitare l’emulazione.
Dicono che primamente nel 365, per rimeritare quelli di Cere dell’aver ospitato gli Dei nell’invasione gallica, fosse, per così dire, trapiantata la città, creando cittadini romani fuor del territorio di Roma; poi il diritto stesso di cittadini si suddivise e limitò secondo certe gradazioni, determinate dalle circostanze della concessione. I paesi cui fosse largita la cittadinanza romana, chiamavansi municipj; si lasciavano governarsi con leggi proprie e proprj comizj, ma sul modello di Roma; l’ordine dei decurioni vi formava la curia, corrispondente al senato romano; ai consoli equivalevano i duumviri, con giurisdizione in certe cause e fino ad una somma prefissa; il quinquennale, il censore o curatore, il difensore, gli edili, gli attuarj n’erano le varie cariche, colle quali internamente si amministravano a tutto lor senno. Mentre restava membro della propria comunità indipendente, il municipe era anche cittadino di Roma, elettore, eleggibile, avendo una patria di nascita, una di diritto[334]. I municipj optimo jure aveano tutti i diritti e gli obblighi de’ cittadini romani; altri non godeano del suffragio, come i prischi plebei; servivano nelle legioni, ma non poteano arrivare alle dignità. Prezioso diritto ne era il poter ne’ municipj vivere franchi gli esigliati da Roma, talchè uno a Preneste appena o a Tivoli era sicuro dalla pena.
Per quanto variasse la romana costituzione, restò sempre suo cardine che nella sola metropoli si esercitassero i poteri sovrani; comunicavansi ad altri, ma a condizione di usarne soltanto in Roma; nè mai si pensò a raccoglier i voti ne’ paesi, nè a far che mandassero rappresentanti e deputati. Il municipe dunque avea diritto di suffragio e di eleggibilità a Roma, ma purchè vi fosse in persona, ed in quanto trovavasi ascritto ad una tribù. Così Como apparteneva alla Oufentina, Volterra alla Sabatina, Genova e Pisa alla Galleria, Albenga alla Publilia, Vicenza alla Menenia, Altino e Cividale alla Scapzia, Padova alla Fabia, Aquileja alla Velina, Concordia alla Claudia, Este alla Romilia, e via discorrete.
DIRITTO LATINO
Oltre i cittadini adottivi, Roma largheggiò di privilegi coi Latini, che già trovansi sistemati alla foggia di Roma primitiva; onde ai sette colli facevano corona città latine, pari in diritto di suffragio ai Romani. Questo privilegio fu poi esteso ad altre in tutta Italia, ed oltre le città de’ Sabini, Tusculo, Cere, Lanuvio, Aricia, Pedo, Nomento, Acerra, Anagni, Cuma, Priverna, Fundi, Formia, Suessa, Trebula, Arpino, abbracciava pure Circeo e Ardea, Cora e Norba tra i Volsci, Fregelle e Interamna sul Liri, Alba dei Marsi, Lucera e Venosa dell’Apulia, Adria e Fermo nel Piceno, Brindisi e Arimino. Di queste alcune erano socii, datisi senza guerra, o venuti in colonia, e godevano pieni diritti: altre fœderati, ricevuti dopo vinti e a condizione inferiore, non acquistando la podestà patria, nè le nozze alla romana, nè la capacità di testare a pro d’un romano cittadino o di ereditarne, nè l’inviolabilità della persona; talchè rimaneano un di mezzo fra cittadini e forestieri, con divieto di tenere assemblee generali, far guerre, contrarre matrimonio fuori del territorio.
DIRITTO ITALICO
Il gius italico non conferiva privilegio di sorta al cittadino individuo, bensì alla città in complesso attribuiva la proprietà quiritaria del terreno ed il commercio; dal che derivavano l’esenzione da imposta prediale, e la capacità alla mancipazione, all’usucapione, alla vindicazione. Ma se un italico aspirasse a divenire cittadino romano, bisognava passasse pel diritto del Lazio.
Molto variava la condizione delle regioni sottoposte al gius italico. In alcune si mandava ogni anno un prefetto per rendere giustizia o amministrarne gli affari. Le deditizie restavano a discrezione del senato come suddite. Altre aveano titolo di alleate, ma coi guaj delle alleanze coi forti; e per esempio Taranto era libera, ma colla cittadella occupata da una legione, e demolite le mura; Napoli pure, ma nol sentiva che per dover dare navi e soldati. Anzi talvolta mutavano condizione; e Capua da federata divenne per castigo prefettura, indi colonia; Cuma, Acerra, Suessula, Atella, Formio, Piperno, Anagni da municipj si ridussero in colonie, e a volta in prefetture; colonie erano Casilino, Vulturno, Linterno, Pozzuoli, Saturnia; prefetture sempre Calatia, Venafro, Alifa, Frusilone, Rieti, Nursia.
Di tali diritti internazionali ci scarseggiano tanto i documenti, che non bene accertiamo a quali condizioni stessero gli Etruschi; ma pare non godessero del diritto latino, bensì di particolari capitolazioni, abbastanza larghe, almeno in quanto concerne la classe dominante dei lucumoni. Il loro ammollimento toglieva di temerli; faceali venerare la conoscenza delle tradizioni religiose; e forse non andrebbe lungi dal vero chi li paragonasse al clero cristiano sotto i Longobardi. Loro legioni non troviamo negli eserciti romani; e i trentaquattromila uomini che essi coi Sabini allestirono contro i Galli nel 528, erano una difesa territoriale. Probabilmente erano privilegiati anche gli Umbri, razza bellicosa, che però non sembra partecipasse alla legione romana.
Fra le città italiche nessuno annoveri le greche, le quali non ottennero mai que’ privilegi; pagavano tributo, non entravano nella legione, bensì poteano servire come ausiliari, e somministravano galee a Roma. Napoli alla greca restava divisa in fratrie, rispondenti alle curie di Roma, e composte originariamente di trenta famiglie attorno al sacello d’un dio o d’un eroe, da cui prendeva nome, onde v’era quella degli Eumelidi, d’Ebone, di Castore, di Cerere, d’Artemisia, di Aristeo. Ogni quinquennio vi si celebravano concorsi di musica e di ginnastica, famosi quanto quelli della Grecia, della quale conservava i costumi, mentre vi diventavano stranieri i vicini. Da federata si mutò poi in colonia, e così Salerno e Nocera.
COLONIE
Il senato avocava a Roma gli Dei delle città vinte, o almeno sottoponeva i loro sacerdoti a’ suoi, che arrogandosi il privilegio della scienza augurale, quelli destituivano d’ogni influenza politica. Ma non si dimenticava che un popolo soffre men dolorosamente la perdita dell’indipendenza, che lo sprezzo delle costumanze; giacchè quella attesta la maggior forza del vincitore, questa ne esprime il vilipendio. Laonde Roma non aboliva le consuetudini particolari, lasciava s’amministrassero nell’interno, conferissero la cittadinanza, tumultuassero ne’ loro comizj, insomma si lusingassero delle apparenze di libertà. Che se, per imitazione della rivoluzione romana, alla nobiltà di razza era succeduta nel primato la nobiltà personale ( optimates ) e ricca, il senato romano avrà facilmente potuto impedire che la democrazia vi prevalesse all’oligarchia.
Le colonie erano tutt’altra cosa da quelle che vedemmo la Grecia diffondere per tutto a prosperamento del commercio, e che rimanevano indipendenti dalla madrepatria (pag. 205). Le colonie romane erano istituzioni politiche, a tutto vantaggio della metropoli, quasi sentinelle avanzate ne’ posti che si trovassero meglio opportuni, non per prosperare il paese, ma per custodirlo dai nemici. Così allo sbocco della foresta Ciminia si colonizzarono Sutrio e Nepete; Anzio per vigilare la costa dei Volsci; Velletri, Norba, Sezia per tenere in soggezione la montagna; Anxur per separare il Lazio dalla Campania sul Liri; Fregelle, Sora, Interamna, Minturno per ischermire il Lazio dai Sanniti; e più indentro Attina, Aquino, Casino; così dicasi delle altre. Nella nessuna importanza che anticamente attribuivasi alla campagna, possono tali città considerarsi come fortezze, piantate in territorio nemico; e i coloni come guernigioni, che non poteano cospirare co’ natìi.
Gli spediti in colonia erano più o meno; mille cinquecento a Lavico, duemila cinquecento a Luceria, tremila ad Aquileja, e fin seimila famiglie a Piacenza e Cremona: e variava la quantità di terreno ad essi distribuita, or di due soli jugeri, or fino di cinquanta ai fanti e cenquaranta ai cavalieri, come fu ad Aquileja. I prischi abitanti vi rimanevano peregrini, in comunità distinta, e al modo indigeno; i trapiantati possedevano il diritto romano o l’italico, siccome rami staccati dal tronco, e un governo municipale conforme al romano con decurioni, duumviri, censori. Le cinquanta colonie fondate prima della guerra punica, tutte nell’Italia centrale eccetto tre, e venti altre stabilite più lontano fra il 197 e il 177, godeano la romana cittadinanza, ma non il suffragio[335]; o, a dir più giusto, erano impedite dall’esercitarlo, cioè dal trasferirsi a Roma. Chi nelle colonie potesse salire agli impieghi, diventava municipe, e per conseguenza cittadino romano, ammissibile agli onori della metropoli. I Latini che volessero divenir tali, lasciavano i figliuoli a rappresentarli nella città nativa, ed essi trasferivansi a Roma in qualche magistratura: o convinceano di prevaricazione alcun magistrato romano; passo di molto rischio e d’incerta riuscita.
Le colonie dunque, non che aspirassero all’indipendenza come le greche e le moderne, aveano per proprio l’interesse della metropoli. Ecco perchè sì poco consenso trovò Annibale nella lunga sua guerra; e allorchè si parla di rivolte delle colonie, non s’intenda che i Romani stabiliti in quelle insorgessero contro la madrepatria, bensì i prischi abitatori rivoltavansi contro gli avveniticci, e per la prima cosa avranno trucidato i Romani che v’erano di casa, di bottega, di guarnigione[336]. Dopo la guerra Sociale, la legge Giulia modificò quelle condizioni, e tutti gli Italiani vennero considerati Romani; onde in Italia non v’ebbe più nè federati nè municipi senza voto; alle colonie fu accomunato il diritto di suffragio e d’eleggibilità; ma al tempo stesso tutti dovettero adottare le romane leggi, a queste acconciando le patrie costituzioni, in modo di ridurle non al tipo di Roma, ma in armonia con quello. Una di tali costituzioni ci è conservata nella tavola d’Eraclea, città nel seno di Taranto, scritta dopo il 672 di Roma, scoperta nel 1732, e custodita nel museo napolitano, dalla quale e da altri riscontri si raccoglie che ogni municipio avea senati locali, a vita, e di numero prefisso; l’assemblea popolare di ciascuna città nominava ai posti del senato vacanti; sovra presentazione dei predecessori, i magistrati erano eletti ne’ comizj municipali come usavasi a Roma; ed erano responsali in denaro de’ proprj falli. Esistevano inoltre borgate e mercati ( fora, conciliabula ) non ancora elevati a municipj.
In somma i Romani, nati in piccola città, applicavano ai vinti gli stessi loro regolamenti interni; il diritto pubblico imitava il diritto civile; e come il padrefamiglia trattava da famuli o schiavi i suoi sottoposti, ovvero li rendeva liberti o gli adottava, così Roma facea de’ popoli. In essa città, dove lo straniero non godeva alcun diritto, neppur quello della giustizia, importava di farsi ospiti di qualche casa o persona. Se ne stendeva contratto, e alcuni ce ne rimangono scolpiti in pietra o in bronzo, pei quali il patrono obbligavasi a dare al cliente ospitalità, tutelarlo, procurarne il maggior utile ed onore; e il cliente di rimpatto onorarlo qual padre, fargli corteggio, somministrargli denaro, riscattarlo se cadesse prigione in guerra. Al modo stesso popoli interi si posero sotto al patronato di qualche famiglia, per esempio de’ Fabj gli Allobrogi, degli Antonj i Bolognesi, de’ Marcelli i Siciliani, affine di avere chi ne sostenesse le ragioni[337].
PARTECIPAZIONE ALLA CITTADINANZA
Roma stessa talvolta conveniva dell’ospitalità con privati o con popoli; posizione non ben definita, che lasciava ai collegati l’indipendenza, ma debole. Camillo, occupata Vejo, manda una tazza d’oro al dio di Delfo; ma la nave tra via è presa dai Liparioti, famosi corsari. Timasiteo, uno d’essi, per riverenza a Roma e al nume, persuade i suoi a restituire il latrocinio; e il senato in benemerenza gli decreta regali e il diritto d’ospitalità. Dopo un secolo e mezzo i Romani conquistano Lipari, ma conservano liberi ed immuni da tributo i discendenti di Timasiteo[338].
Tante gradazioni di dipendenza riescono difficilissime a intendersi da noi, avvezzi all’uniformità: ma è il capolavoro della politica di Roma questo assimilare i vinti. Fin allora i popoli del mondo tenevansi serrati fra gelose barriere, escludendo ogn’altro dai privilegi che conferiva la cittadinanza; laonde i vinti restavano o servi o plebe ex lege. Da qualche conquistatore erano unite sotto scettro di ferro più comunità? non per questo si fondeano, e ben tosto ne erano sbrancate novamente, senza conservare della dominatrice che odio e sgomento.
Anche le costituzioni de’ primitivi Itali trovammo tutte comunali; un paese ostile all’altro, ed eliminando gli stranieri: pure faceano confederazioni, che accomunavano i diritti dei varj. Ma Roma procede con ben altra risolutezza, e gli aggrega. Da principio si popola col ricoverare chiunque vuol entrarvi ai patti prescritti; ora i vinti Albani, ora i vincitori Sabini costringe o alletta a trasferire i loro penati presso i suoi: tribù, popolazioni, razze acquistano la cittadinanza romana: poi si creano cittadini in altri paesi, e tutti si ascrivono alle tribù della città, e tutti possono esercitarvi i civili diritti[339]. Se lo spirito aristocratico del governo consolare restrinse questo afflusso di forestieri, la plebe e i fautori di essa da Spurio Cassio fino a Cesare caldeggiavano che gli Itali fossero pareggiati di diritti ai Romani.
CITTADINANZA
Inoltre nelle provincie, eccetto la Sardegna, v’aveva alcune città libere; ve n’aveva di immuni da tributo; come v’erano cittadini e liberi e immuni o personalmente o con tutta la schiatta: anzi ai Greci furono restituite perfino le assemblee pubbliche, e l’adoprar giudici di propria nazione, e risolvere le liti colle leggi patrie. Pertanto Roma, se si disanguava colle guerre, presto se ne rifaceva coll’assimilarsi i vinti; questi esistevano per essa, mentre essa colle colonie rifondeva la vita ne’ paesi assoggettati. Col concedere la cittadinanza come liberalità ai più benemeriti e fedeli, preparavasi partitanti nella lontana contrada, e traeva a sè quel che di meglio fosse fuori. Questi aggregati talmente s’identificavano con Roma, che parlando di essa dicevano «Noi, e i padri nostri, e il nostro fondatore Romolo»; al modo che gli Svizzeri del canton Ticino o di Ginevra si dicono figli di Tell. Così Roma compiva un gran passo sociale, qual era il trarre il mondo ad un’unità non prima conosciuta; estendeva il proprio Comune fino ad abbracciare tutto il mondo incivilito; e ne sarebbe divenuta immortale, se l’eccesso delle conquiste non avesse precipitato in lei tanti forestieri, che l’utile pasto riuscì a micidiale replezione.
TRISTA CONDIZIONE DEI VINTI
Quanto all’esterno, mai non erasi più sapientemente applicato il Dividi e impera; giacchè surrogando le città alle nazioni, e creando tanti interessi diversi, s’impediva acquistassero la potenza che deriva dall’unità d’intento; dappertutto rotti que’ vincoli con cui le popolazioni si teneano fra loro, tolte le alleanze, le assemblee, sino il far transazioni commerciali e matrimonj fra esse. La condizione de’ possedimenti era differente anche fra gl’Italiani; e mentre il cittadino poteva divenire proprietario assoluto d’un campo conquistato, un Italiano non n’avea che il possesso precario. Que’ tanti Romani sparsi nelle colonie poteano usurpare il possesso del vicino, e questo non aveva diritto di citarlo ai tribunali di Roma se non per mezzo d’un patrono, il quale troppo facilmente si conniveva al compatrioto.
Gli Italiani (salvo i pochi ch’ebbero lo jus commercii et connubii ) non possono ereditare nè comprare da un cittadino romano, nè vendergli se non a rischio e pericolo, e senza che la legge lo sussidii se il cittadino neghi il prezzo, o frodi i patti, o manchi alle scadenze. Altrettanto avviene dal creditore al debitore. Il cittadino, protetto sempre dalla legge e dai tribuni, non potrà essere incarcerato, non battuto, non crocifisso; l’Italiano sì: questo non fruirà d’eguale condizione nell’esercito, ov’è escluso dalla legione, e ammesso solo nella coorte; nelle retribuzioni riceverà quel poco che si vorrà concedergli; il generale può, anche per colpe leggiere, decapitare un prefetto degl’Italiani, e aggiungervi l’ignominia; la bastonatura di questi si fa con altro legno che quel di vite, riservato ai Romani. Nè calza male il paragone di quello stato colle colonie d’America: gli uomini bianchi, gli Europei, vi rappresentano il cittadino romano; i bianchi, non mescolati di sangue africano ma d’altra razza che l’europea, equivalgono al greco, all’italioto, all’etrusco; il mulatto e il negro sono nella degradazione in cui erano tenuti gli stranieri, i Barbari.
La giustizia degli antichi non si fondava sopra basi eterne, quali l’eguaglianza di tutti gli uomini e la paternità dello stesso Dio, ma sui patti reciproci. I membri d’una società aveano franchezza, diritti, onori; gli estranei rimanevano nemici da trattarsi col diritto del più forte; i vinti erano una genìa abbandonata dagli Dei, e perciò inferiore, e destinata a servizio ed utile del vincitore. E ragione e coscienza vedemmo ammutolirsi nelle conquiste; e dacchè non si trattava più di cittadini, anche i magistrati si permettevano ogni abuso ne’ paesi conquistati, anzi talvolta contro gli stessi socj, pei quali la libertà conceduta riusciva di mero nome[340].
Date questi diritti a gente sobria, casalinga, agricola, osservatrice, quantunque cavillosa, della promessa e della stretta parola, e farà sentire una dominazione severa, inumana se volete, pure coscienziata, quando anche la coscienza possa essere erronea. Ma se sottentri un popolo corrotto da improvvise ricchezze, che non farà soffrire a questi medesimi Italiani, che pur godono il titolo di socj, di alleati, fin di liberi? L’anno della sconfitta di Perseo, dalla quale comincia a irrompere la prepotenza pubblica e privata, il console per la prima volta ordinò che gli alleati di Preneste gli uscissero incontro, ed allestissero alloggi e cavalli. Un altro fece sferzare i magistrati d’una città alleata, che non gli aveva apparecchiato abbondanza di viveri. Un mandriano di Venosa, vedendo gli schiavi portare in lettiga un cittadino romano, domanda—Che? è egli morto?» e l’arguzia gli costa la vita sotto le bastonate. Un censore, per adornare un tempio da lui costruito, leva il tetto a quello di Giunone Lucina, il più venerato d’Italia. Venuto il console a Teano, sua moglie desidera lavarsi nel bagno degli uomini; e non essendo questo sgombrato abbastanza sollecitamente, il primario cittadino è fatto snudare e flagellare in pubblica piazza: atterriti quei di Caleno decretano che veruno si accosti ai bagni finchè un magistrato romano si trovi nella città. Per consimile titolo a Ferentino il pretore fece arrestare i questori, uno dei quali fu battuto a verghe, l’altro si sottrasse all’obbrobrio dandosi a precipizio da un’altura[341]. Le api d’un villano molestavano un potente vicino, il quale gliele distrusse; il villano risolse di trasferire altrove i poveri penati,—Ma (diceva) non ho potuto trovare un angolo che non fosse accostato da ricchi e poderosi; non un ricovero contro l’arbitrio e l’oppressione».
LE PROVINCIE
A quanto peggior condizione doveano trovarsi le provincie! Acquistato un paese, Roma lo lasciava alcun tempo governare da principi nazionali od impostigli, finchè lo avesse indocilito al giogo; allora li sbalzava, e riducevalo a provincia: al che pure riusciva l’alleanza contratta con qualche città o Stato libero. La prima sua cura consisteva nel torgli ogni pubblica forza o costituzionale libertà, e singolarmente scomporre quelle confederazioni, che cara le aveano fatto costar la vittoria sopra l’Etruria, la Gallia e la Grecia. Del suolo della provincia l’alto dominio supponeasi spettare al popolo romano; gli abitanti non aveano che l’usufrutto, pagandone tributo, oltre l’imposta personale, e non erano ammessi alla milizia. Un consulto del senato determinava l’ordinamento delle provincie, vario l’una dall’altra, ma tutte in sudditanza assoluta. Il prisco diritto pubblico e civile dovea dar luogo alla legislazione nuova, il potere sovrano ridursi in un magistrato di Roma, cui competevano la giurisdizione, l’amministrazione, e spesso anco il comando militare. Alle città lasciavasi un’amministrazione propria, modellata sugli statuti antichi, ma alle forme democratiche cercavasi surrogare l’aristocrazia.
Conquistata la Sicilia, nè trovando bisogno o convenienza d’unirla alla fortuna di Roma, fu ridotta a provincia, e la prima ordinanza fu data da Marcello dopo l’insurrezione degli schiavi: Rupilio la riformò, e da Cicerone possiamo raccorne l’essenza. Comprendeva diciassette città o popoli tributarj, di cui cioè eransi confiscate le terre, poi restituite ai prischi possessori col peso d’un’annua retribuzione. Ma fedele al sistema di non render eguale a tutti il giogo, il senato lasciò a Messina, Taormina, Noto il diritto d’alleate; altre cinque godeano l’immunità; la restante isola pagava la decima de’ frutti. Le terre del dominio pubblico doveano una tassa, che ciascun lustro prefiggevasi dai censori: quelle soggette a decima la pagavano quale Gerone aveala stabilita: le immuni erano obbligate a vendere e portare a proprie spese a Roma ottocentomila moggia di frumento per quattro sesterzj il moggio ( frumentum imperatum ), che servisse alle distribuzioni. Le liti fra una città e un cittadino giudicavansi dal senato d’un’altra città, beneviso alle parti: quelle fra membri d’una città stessa si risolveano secondo gli statuti d’essa città: quelle fra individui di città diverse, secondo le ordinanze di Rupilio. Se il Romano richiedesse in giudizio un Siciliano, era competente il tribunale siciliano; il romano se al contrario. Le dispute fra coltivatori e decimatori decidevansi secondo la legge di Gerone sui cereali; altre erano risolte da una specie di corte d’assise, formata di cittadini romani[342].
A reggere le provincie, il senato spediva consoli usciti di carica e pretori, i quali, ad imitazione dei pretori urbano e peregrino (pag. 411), in un editto di giurisdizione esponevano le norme con cui governerebbero, confermando gl’istituti anteriori e introducendone di nuovi, o trasferendovi quelli della metropoli che paressero opportuni[343]. L’accompagnavano ordinariamente un questore per esigere l’imposta, e un intendente per regolare le finanze.
Fosse pur liberale la data costituzione, ledevasi il sentimento nazionale coll’introdurre le usanze romane, ed anche la lingua dovunque non si parlasse la greca, e fin la religione; o se tolleravasi l’antica, come nell’Egitto e in Giudea, se ne proibivano le adunanze. Per fiscalità vietavansi talora le coltivazioni meglio confacenti, e la vigna e gli ulivi erano proibiti nei paesi transalpini[344]. I governatori poi, oltre avere immensi mezzi di guadagno legale, dalla illimitata potenza e dall’appoggio delle truppe accantonate venivano strascinati al tiranneggiare; e cambiandosi ogni anno, non aveano alle vessazioni neppur il limite della sazietà. Sallustio chiama spietata e intollerabile la dominazione romana[345]: Livio, liricamente e ingenuamente abbagliato dalla patria grandezza, tanto che di vero cuore s’indispettisce allorchè qualche popolo osa difendere contr’essa la vita e la libertà, Livio confessa che, dovunque è un pubblicano, ivi il diritto svanisce, la libertà non esiste più[346].
Quando già s’era imparato a disobbedire al senato, Marcantonio senza riti mena una colonia a Casilino per soppiantare quella che prima vi sedeva; invade l’eredità di molti; altri poderi finge aver compri all’asta, che nessuno udì bandita; dall’ora terza fin a tarda notte dura in cene ubriache, giocando, bevendo, vomitando e ribevendo, tra bardassi e meretrici. Altrove il pretore, accolto ospitalmente a cena da uno spettabile cittadino, sopra mangiare gl’insinua di far condurre in mezzo l’unica figliuola; e resistendo questo, si passa alla violenza, nasce un battibuglio, si uccide; e i cittadini non osano far giustizia dell’insultatore. Costui chiamavasi Verre; nome che impareremo a conoscere come compendio di tante scelleraggini.
Anche dopo che l’interesse insegnò ad amicarsi le provincie, piuttosto che disanguarle e inasprirle con un giogo tanto grave quanto ingiurioso, si ebbero sempre in conto di dipendenze, non come parti integranti della repubblica: s’apriva la cittadinanza a molti individui, cioè s’interessavano i migliori all’incremento di Roma. il che equivaleva a formarvisi un partito; ma non furono mai chiamate, per via di rappresentanza, a costituire un’unità politica, quale ora l’intendiamo. Eccettuate le trentacinque tribù del territorio primitivo, l’amministrazione e la legislazione erano meramente locali: nè si sapeva estendere l’azione d’un governo centrale a tutte le parti del vasto dominio e ad ogni particolarità de’ pubblici ministeri. La vigilanza precisa, la regolata gerarchia di dipendenze, le rapide comunicazioni che a ciò son necessarie, mancavano agli antichi imperj; onde Roma dovea limitare la sua ingerenza agli oggetti generali, abbandonando la più parte dei parziali interessi o ad agenti spediti dalla metropoli, o a magistrati indigeni.
Vigevano dunque ne’ paesi sudditi a Roma due poteri: uno supremo che ordinava, eseguiva, giudicava come ben gli paresse, non propenso per natura ad estendere l’intervenzione sua di là da quel che credesse opportuno alla pubblica ragione; l’altro ordinario, lasciandosi alle città, oltre l’interna amministrazione e il decidere d’alcune cause civili e criminali, anche molti atti veramente legislativi, esercitati dall’assemblea dei cittadini, ed eseguiti da magistrati municipali. Se si rallenti l’oppressiva direzione suprema, quei corpi aspireranno all’indipendenza invocando diritti, o ampliando le attribuzioni, spesso collegandosi in una specie di reggimento federativo: il che noi vedremo succedere al decader dell’Impero, preparando il primario elemento della moderna civiltà europea.
Per le terre soggette diffondeansi in folla gl’Italiani, trattivi dagl’impieghi, dall’agricoltura, dall’appalto delle gabelle, principalmente dal traffico, che fu sempre la vita del nostro paese. In folla erano stanziati nella Numidia; Mitradate ne fece d’un colpo trucidare ottantamila nell’Asia, quaranta soli anni da che ridotta a provincia; aggiungansi i veterani cui circondavano i terreni dei vinti e i coloni: tutti modi di propagare la lingua, la civiltà e la riverenza del nome romano.
FINANZE
Le conquiste crebbero le rendite della repubblica. Essa traeva denaro dalla taglia fondiaria che i cittadini pagavano, determinata dal senato a proporzione dell’occorrente, e della quale più non fu mestieri dopo la terza guerra macedonica; o dagli alleati d’Italia, che contribuivano diversi generi, secondo i luoghi; o dalle provincie, alcune delle quali pagavano tassa agraria e capitazioni gravose, oltre somministrare derrate in natura per emolumento de’ governanti, o per approvvigionare la capitale, o per emergenti straordinarj.
La repubblica possedeva terreni sì in Italia, massime nella Campania, sì nelle provincie, che Cicerone chiama patrimonio del popolo romano; e li cedeva a lavoratori, esigendone un decimo del grano raccolto, un quinto del legname, e una lieve retribuzione pel bestiame: la quale rendita si dava in appalto di cinque in cinque anni. Ai porti ed al confine si riscotevano dazj sulle merci che entravano ed uscivano, e Roma e l’Italia ne furono esentate solo nel 694 per legge di Metello Nepote: ne’ porti di Sicilia tale diritto saliva alla ventesima[347]. Sulla compra o la vendita degli schiavi il fisco percepiva un ventesimo, serbato in apposito erario per le più stringenti necessità. Sul declinare della prima guerra punica, il censore Livio, per ciò soprannominato Salinatore, ridusse a monopolio il sale, onde impedire che i privati lo mettessero a prezzo eccessivo. Finalmente era pagata un’imposizione dai cavatori delle miniere, massime delle ricchissime d’argento nella Spagna. Uniamovi le ammende imposte dai magistrati, e il cui ricavo deponeasi nel tempio di Cerere.
Eppure sotto Silla dittatore, appena a quaranta milioni di franchi sommava l’entrata totale; giacchè, oltre le contribuzioni e i consumi in natura, un’infinità di spese erano lasciate ai singoli paesi, al modo che fassi ora dagl’Inglesi e dagli Stati Uniti d’America. Nelle strettezze ricorrevasi a prestiti; qualche volta si alterò anche la moneta, come nella prima guerra punica riducendola d’un quinto del peso e conservandone il valore; nella seconda s’acquetarono i creditori con una doppia operazione, per cui quelli del pubblico perdettero la metà, quelli dei privati un quinto, e si emisero viglietti del tesoro. Finite le guerre, riparavano ai debiti il bottino e le contribuzioni dei vinti, i quali ne restavano disanguati in modo da non poter rialzare la testa, mentre Roma ne acquistava mezzi di far nuove guerre e trarre nuovi guadagni.
Che veramente la scienza finanziaria dei Romani consisteva nella conquista; ignorando del resto come ben si crei, si consumi, si cambii e si diffonda la ricchezza. Cicerone nel trattato Della repubblica investigando il principio e la miglior forma di governo, e i precipui elementi della vita dei popoli, parla della famiglia, dell’educazione pubblica, della giustizia, della religione; ma dell’economia tocca appena per incidenza[348].
Vinte Cartagine, Corinto, Siracusa, la Macedonia, Pergamo, traboccarono in Roma le ricchezze. A Taranto furono prese ottantamila libbre d’oro e tremila talenti d’argento: i tesori di Perseo eccedevano il valore di quarantacinque milioni: Scipione da Cartagine portò nel tesoro cenventimila libbre d’argento: alla qual città fu imposto nella prima guerra il tributo di duemila ducento talenti, di diecimila nella seconda, ad Antioco quindicimila, mille a Filippo, cinquecento agli Etolj, altrettanti a Nabide, trecento ad Ariarato; sicchè in dodici anni cinque sole guerre arricchirono l’erario di trentamila talenti (165 milioni di lire). Ben tosto le conquiste di Pompeo crebbero i tributi dell’Asia a cento milioni: nei quattro suoi trionfi Cesare pose in mostra il valore di sessantamila talenti, oltre duemila ottocenventidue corone d’oro. Al rompersi della guerra civile, il tesoro conteneva un milione novecenventimila ottocenventinove libbre d’oro; poi sul finire della repubblica valutavasi da trecencinquanta a quattrocencinquanta milioni la rendita generale delle provincie romane. L’Egitto ai Tolomei fruttava dodicimila talenti, ma molto più ai Romani dopo che l’ebbero conquistato. L’esazione affidavasi ad appaltatori, che per lo più erano cavalieri; o a compagnie, che divenivano un flagello delle provincie e una corruttela per la capitale.
Del denaro versato dai pubblicani nell’erario, il senato regolava l’erogazione, poco consultando il popolo per l’uscita come per l’imposizione. Venti questori vegliavano al pubblico tesoro ed alle rendite. Due sedevano in Roma, soprantendendo alla scossa delle imposte d’ogni natura ed ai conti, reprimendo anche le concussioni de’ pubblicani, e custodivano pure le leggi e i decreti del senato. Gli altri nelle provincie accompagnavano i consoli ed i pretori per fornire di viveri e denari le truppe, riscuotere le imposte e i generi dovuti alla repubblica, vendere le spoglie dei vinti; conservavano anche in deposito il peculio dei soldati; erano il secondo magistrato della provincia, e sostenevano le veci del pretore quando partisse. I conti erano riscontrati dai governatori, poi deposti al tesoro generale di Roma e negli archivj delle provincie.
Il tesoro serbavasi nel tempio di Saturno a Roma, diviso in tre casse: nella prima le rendite per le spese correnti; nella seconda la ventesima sulle emancipazioni legali e sulla vendita degli schiavi, per le maggiori urgenze; nella terza l’oro coniato o no, proveniente da conquiste. Gli scribi del tesoro, quantunque impiegati subalterni, diventavano importantissimi, atteso che, essendo perpetui, acquistavano una pratica che li rendeva indispensabili ai questori delle provincie, eletti man mano.
Dopo l’assedio di Vejo si diè paga ai soldati ed agli ausiliari, il che importava dispendio enorme. Di grave costo erano pure le flotte, sebbene il costruire e l’attrezzar le navi fosse obbligo di alcune provincie. Le costruzioni pubbliche e principalmente gli acquedotti e le strade portavano grande spesa, sminuita, è vero, dall’adoprarvisi i soldati o gli schiavi. Inoltre ai generali e ai soldati decretavansi regali, collane, statue; e spesso durante le guerre si votava qualche festa o tempio. Poco costava l’amministrazione delle provincie, ricevendo gli impiegati provvigione dal paese. Gli ambasciadori esteri venivano trattati suntuosamente coi vasi riservati pei banchetti sacri. La maggiore uscita derivava dalle distribuzioni di grano che si faceano ai cittadini bisognosi, dapprima soltanto nelle carestie, poi annualmente; crescenti a misura che la popolazione affluiva a Roma.
TERRITORIO ROMANO
Al momento ove siamo col nostro racconto, cioè centrent’anni avanti Cristo e seicenventiquattro dopo la fondazione di Roma, questa possedeva tutta quasi l’Italia, la Spagna, la Grecia; l’Adriatico le dava sicure comunicazioni dopo sottomessi gli Istrioti, i Giapodi, i Dalmati, gli Illirici; il passo fra l’Italia e la Spagna ben presto le fu assicurato dalle colonie d’Aix e di Narbona; nell’Asia Minore stendeva il dominio fin al Tauro; in Africa, sull’antico territorio di Cartagine; teneva l’Egitto in tutela, gli Ebrei alleati, ligi i re dell’Asia Minore; sicchè la città che dianzi si limitava fra Preneste e Tivoli, or sentivasi chiamare signora dall’oceano Atlantico alle rive dell’Eufrate e dall’Alpi all’Atlante. Questo territorio costituiva due grandi divisioni: l’Italia fin al Rubicone e alla Marca; e le provincie, che allora erano nove, cioè Sicilia, Corsica e Sardegna, la Cisalpina, la Macedonia colla Tessaglia, l’Illirio e l’Epiro, l’Acaja, vale a dire il Peloponneso, l’Ellade e le isole, l’Asia, l’Africa, la Spagna ulteriore e la citeriore. Affine di meglio sopravedere l’Italia, il senato la spartì fra quattro questori provinciali: uno risedeva ad Ostia, avendo sotto di sè l’Etruria, la Sabina, il Lazio fino al Liri; l’altro a Cales, regolando la Campania, il Sannio, la Lucania, i Bruzj; il terzo reggeva l’Umbria, il Piceno, i Ferentini, e via fin al lembo dell’Apulia; il quarto l’Apulia colla Calabria, nel qual nome erano congiunti i Salentini, i Messapi, i Tarantini.
Allorchè Scipione Emiliano, in qualità di censore, chiudeva il lustro, nel sagrifizio consueto il cancelliere lesse la formola solenne delle preghiere, in cui si cercava agli Dei l’ampliamento dell’impero. Egli, invece di ripeterla, esclamò:—Grande e potente è abbastanza: supplico i Celesti di conservarlo eternamente intatto»[349].
CAPITOLO XVIII.
Condizione economica. Leggi agrarie. I Gracchi.
Storici e critici, occupati principalmente della politica, poco avvisano che da questa dipende solo la minor parte del benessere delle popolazioni; e che l’aver pane, indipendenza e giustizia sono i supremi bisogni del popolo, il miglior frutto come la maggiore salvaguardia della libertà. Quanto n’erano soddisfatti gli Italiani sotto quella gloriosa repubblica, in tanta sapienza di leggi?
Troppo ristretto vede chi in Roma avvisa soltanto le anguste combinazioni d’una repubblica militare: mentre porzione delle vicende e dello svolgimento di essa concerne l’intero genere umano, ch’ella si assimilava, e al quale dovea poi dettar leggi, durature più di qualunque impero. Chi sappia tradurre il linguaggio antico in moderno, l’accidentale in perpetuo, non v’incontra soltanto baruffe di patrizj con plebei, siccome si fa nelle scuole, nè l’immortale nimicizia di chi non ha contro chi ha, ma le quistioni oggi più dibattute, come sono la legge elettorale e l’estensione del diritto di suffragio, i provvedimenti sui poveri e sul colonizzare, il governo dei paesi tributarj, la connessione delle amministrazioni locali colla centrale; e come nell’odierna Inghilterra, ad un’aristocrazia patrizia, radicata nei possessi, opporre una timocrazia, poi una democrazia, potente per numero, per opinione, per istituti.
DEI POSSESSI
Il vero patriziato, quel che non riconosceva alla plebe matrimonj legali e famiglia, che riduceva schiavo il debitore, e fin lo tagliava a pezzi, da tempo era soccombuto ai lenti sforzi de’ plebei; e i nati nobili ( ingenui ) restavano distinti soltanto pel vantaggio che assicurano l’illustre casato e la tradizione di avite clientele. D’abolire questa nobiltà non fu mai discorso; e a che pro tentarlo, quando non reggevasi che sopra l’opinione? La differenza di stato derivava dalla proprietà; e il plebeo, pari in diritti al nobile, soccombeva a questo perchè sfornito dei mezzi onde farli valere, e ridotto a vivere delle limosine di quello o delle pubbliche largizioni. I prischi Romani aveano cerca la libertà col tener pareggiate le condizioni, di modo che la povertà era decorosa, laureato l’aratro[350]; con leggi suntuarie repressero il lusso, quantunque allora pure le arti, come sordide, s’abbandonassero agli schiavi, il commercio si restringesse a tenere approvvigionata la città, e l’economia fosse quella d’un popolo guerresco ed agricola. Sminuzzate le proprietà; poche affittavansi a coloni per una quota parte de’ frutti; nelle più la terra, il capitale e gl’istromenti per lavorarla, spesso il coltivatore medesimo erano proprietà d’un solo; il padrone manteneva i villani come i bovi. In tal condizione non presentasi differenza d’interessi fra il proprietario, il fittajuolo, il villano; nè gli economisti d’allora aveano a sottigliare su tutti quegli spedienti, mediante i quali dai nostri cercasi la miglior distribuzione della ricchezza nazionale, come gli accordi fra il padrone e il bracciante, la misura dei salarj, il profitto de’ capitali, l’influenza del prezzo delle sussistenze sul valore degli oggetti, le norme dell’imposta e del suo riparto sovra le varie entrate.
NATURA DEI POSSESSI
Ma chi aspiri a giusta intelligenza delle leggi agrarie, duopo è che ben comprenda la natura della proprietà fra gli antichi e specialmente fra i Romani. L’indipendenza personale era data dal possesso stabile; la cittadinanza, dal possesso entro al territorio auspicato, corrispondente a quel che oggi direbbesi territorio legale. Da principio non l’aveano posseduto che i patrizj; i tribuni poco a poco ne resero partecipe anche la plebe: ma sebbene il possesso, da religioso, poi aristocratico, infine divenisse individuale e privato, il concetto di proprietà nazionale si conservò sempre, almeno come finzione, talchè Gajo, giureconsulto dell’età degli Antonini, ancora diceva appartener essa allo Stato, e l’uomo non averne che il possesso e l’usufrutto[351]. I sacerdoti prima, poi gli agrimensori e il magistrato davano solennità alla trasmissione de’ possessi, che lo Stato lasciava godere ai privati, ma che poteva richiamare a sè col terribile diritto della proscrizione o colla confisca, quando un membro fosse cancellato dal ruolo de’ cittadini. Sacro perciò il termine; sacro, o almeno di pubblica autorità l’uffizio dell’agrimensore[352].
Il territorio primitivo di Roma, che stendeasi appena otto chilometri fuor della città, fu distribuito a ciascun capofamiglia in porzioni sì scarse, che a Quinzio Cincinnato per coltivare la propria di quattro jugeri bastava uno schiavo. Altrettanto era nelle altre città che coronano le alture del Lazio, perciò popolose e colte; e fra’ Sanniti e Sabini, e fra gli altri alle falde dell’Appennino, che adopravano come schiavi le genti primitive soggiogate, quali erano i Pelasgi per gli Etruschi. Alla lor volta soggiogati, gli abitanti di questi paesi dovettero cedere il posto a colonie romane, e il territorio o in tutto o in parte si confiscava a pro dello Stato.
Restavano dunque distinti i possessi privati e i pubblici. La gente antica di Roma continuava a vivere sui campi aviti, e il possedimento di questi consideravasi come condizione dell’indipendenza, cittadino di pien diritto essendo chi teneva una parte di quel terreno: ond’è che, dopo la cacciata dei Galli, essendosi formate quattro nuove tribù, furono assegnati a ciascuna famiglia sette jugeri; quantità probabilmente desunta dall’ordinario possesso delle famiglie preesistenti.
CONCENTRAZIONE DE’ POSSESSI
L’eredità intestata distribuivasi a parti eguali tra i figli: eppure il suolo, non che andare eccessivamente suddiviso, anzi si concentrò in poche mani, per violenza, o per artifizio legale, o per compra. I terreni conquistati, oltre quelli distribuiti come ricompense militari, divenivano in parte proprietà pubblica ( ager publicus ), e se ne facevano tre classi: i coltivati erano venduti o affittati dai censori, od assegnavansi a coloni che vi si stabilivano; gl’incolti abbandonavansi a chi volesse utilizzarli, retribuendo il decimo dei grani e il quinto delle frutte; i pascoli restavano comunali, potendo ciascuno mandarvi il bestiame, pagando una tenue tassa ( scriptura ). Chi acquistasse terreni colti, non n’era proprietario assoluto, ma precario, e pagava un canone ( vectigal ). Però il riparto dei conquistati terreni si faceva dai patrizj; talchè essi tenevansi il bello e il meglio, poi accordandosi cogli appaltatori, loro consorti, lasciavano cadere in disuso il livello, e li confondevano coi beni patrimoniali, che perciò ingrossavansi in quella sproporzione che ruina le repubbliche.
LEGGE LICINIA
Quindi i liberali proponevano di dividere tra’ plebei l’agro pubblico, dai grandi usurpato; e poichè questo era revocabile, il senato non ricusò mai la proposta, solo armeggiò per eludere questa, che chiamavasi legge agraria[353]. Ma se Cassio Icilio, Manlio Capitolino ed altri non aveano proposto che di dar terre come retribuzione ai soldati della repubblica, il tribuno Cajo Licinio Stolone 366 improntò alla legge agraria un carattere politico, chiedendo pel popolo non soltanto la terra onde vivere, ma anche la potestà civile che le va annessa (pag. 184). Pertanto, oltre sminuir le usure e rimettere in circolazione una quantità di terreno, a lunghi stenti ottenne che uno dei consoli potesse esser plebeo, ed a’ plebei si comunicasse il diritto degli auspizj. La sua legge portava che nessuno possedesse oltre cinquecento jugeri (125 ettare) di suolo e cento teste di bestiame grosso, e vi mantenesse un certo numero di villici, cioè coltivatori liberi. Tali provvedimenti riferivansi unicamente ai campi pubblici[354]; e non pare chiedesse tampoco che venissero legalmente spropriati quei che già possedevano di più, contentandosi di multarli. Con ciò arrestando alcun tempo la agglomerazione dei poderi e lo squilibrio delle fortune, grandemente giovò la cosa romana. Ma la sua legge non tardò ad essere elusa; i figli de’ Fabrizj e de’ Cincinnati ambirono sempre maggiore opulenza; e gente senza industria, con quali arti doveva acquistarla? col valersi della potenza, loro attribuita dalla costituzione, per trarre a sè il buono e il meglio della conquista.
In ciò da ogni cosa si trovavano ajutati. Le materie preziose introdotte per via de’ trionfi, diminuirono il valore del denaro, per modo che poterono facilmente spegnersi i debiti; il canone dai patrizj dovuto restò ridotto a un nulla, e pochissimo bastava a comprare gli schiavi che lavorassero i campi. A questi schiavi permettono di fare qualche risparmio sopra il necessario, o di esercitare un traffico minuto, con cui si creano un peculio che depongono a mutuo in mano del padrone medesimo, il quale di tal passo si trova ad un tempo proprietario, agricolo e banchiere.
I minuti possessori, ascritti alla quarta e alla quinta classe, alcun guadagno ritraevano dal militare, dall’assistere come patroni ai forestieri od ai plebei che chiedessero giustizia[355]; talora anche ottenevano qualche brano del territorio conquistato. Ma i grandi possessi, sostenuti da capitale abbondante, tendono a dilatarsi, ogni giorno tirano a sè qualche patrimonio modesto, e i nobili, vale a dire quelli entrati nel senato e nelle cariche maggiori, colle arti e coi cavilli della legalità assorbono i piccoli appezzamenti toccati al plebeo. I censori stessi potevano torli a questo, e darli a tenue fitto ai ricchi, che poi, per connivenza d’essi censori, desistevano di pagarne il canone, e ne divenivano proprietarj diretti.
MISERIA DE’ PICCOLI POSSIDENTI
La condizione de’ prischi agricoli era tutt’altro che felice. Una siccità, un turbine potea sperdere il ricolto, e la difficoltà delle comunicazioni rendeva impossibile il supplirvi. La vicinanza alle frontiere esponeva alle correrie de’ nemici: e devastati i campi, perduti i bovi, era forza ricorrere per imprestiti al ricco, le cui terre, più vicine alla città, erano più fruttuose e meglio difese. Il minuto possidente come poteva reggere ai grossi interessi, con cui procurarsi gli stromenti del lavoro? come sopportare la concorrenza delle operazioni in grande, intraprese dai padroni di schiavi? Lasciatosi prima ipotecare, poi oppignorare il possesso, lo spropriato diveniva schiavo del ricco. Molti già erano a tal condizione nel 340 avanti Cristo, quando alcune legioni ammutinate liberarono grandissimo numero di siffatti debitori. Pertanto il territorio romano pigliò presto l’apparenza d’una federazione di principotti; e non è guari si scoprì presso Viterbo l’iscrizione d’un acquedotto, lungo 8776 metri, che traversava soli undici poderi di nove proprietarj.
I piccoli possessori dovevano sulle terre, sulle case, sugli schiavi, sulle bestie, sul bronzo coniato ( res mancipi ) una tassa, variabile ogni lustro: i grandi invece, pei fondi acquistati al modo che dicemmo e senza titolo, non pagavano imposizione, come neppure sui mobili di lusso ( res nec mancipi ) che costituivano la loro principale opulenza. Lautissimi lucri poi trovavansi schiusi dall’appalto delle gabelle, che ogni cinque anni i censori metteano all’incanto. Qui come altrove il delitto grosso otteneva onore, il piccolo infamia; perocchè i pubblicani erano cittadini autorevoli per impieghi e per aderenze, cui gli oppressi non osavano accusare, sfogandosi contro i subappaltatori che operavano per loro conto. Queste insaziabili sanguisughe colle vessazioni raddoppiavano il debito delle provincie, e ne assorbivano le rendite dell’anno successivo colle enormi usure, a moderar le quali tutti i provvedimenti furono o conculcati o elusi.
POTENZA DEI RICCHI
Trarricchiti pei doni affluenti nel senato e per gl’immensi profitti delle magistrature e delle missioni nelle provincie, i nobili rinunziarono a guadagnare coll’usura, e allora tentarono reprimerla ne’ cavalieri, 193 ai quali per compenso si attribuirono l’appalto delle entrate e i pubblici poderi tolti ai poveri; in tal modo crescevansi i latifondi a misura che il grosso della popolazione impoveriva. Quando i grandi più non avessero modo a rubare, vendevano il nome con indegne adozioni; vendevano la propria libertà anelandosi nelle legioni, i cui capi connivevano alle loro rapine per tenerseli amici.
Così lo Stato cadeva nelle branche d’un’aristocrazia pecuniaria: unica potenza verace, la ricchezza decide del voto nelle assemblee, porta a capo dello Stato, padroneggia i comizj, riempie il senato e le cariche, dà a consoli e pretori le provincie da espilare, commette ai censori l’arbitrio delle terre d’Italia. Sì: erano aperte a tutti le dignità, ma che? le elezioni cadevano sempre sui nomi stessi, e negli ottantasei anni fra il 219 e il 133, nove famiglie ottennero ottantatre volte il consolato, e lentavasi quel movimento, per cui l’aristocrazia si risanguava continuamente colla eletta de’ plebei.
La sproporzione di ricchezze nelle antiche repubbliche trova spiegazione dal mancarvi l’industria, il commercio, ogni altr’arte, fuor la guerra e l’agricoltura. Fra i larghi possidenti e i miserabili non era interposta la classe media di negozianti e artieri, i quali vivono e arricchiscono coll’industria e coll’accumularne i frutti. La gente di campagna era tratta alla città, ma non per applicarsi ai mestieri; onde vi si sviluppavano i morbi che adesso pure ci rodono col nome di pauperismo e di carità legale. Oggi al pitocco noi diciamo:—Va, e lavora»; a un cittadino romano sarebbe stato un’ingiuria, un trattarlo da schiavo, al quale erano serbate le arti sordide, cioè le utili. Le bottegaje si confondevano con le infime serve fino ai tempi di Costantino; e Cicerone dice che il negoziare è un aumento di servitù, e che i mercanti non possono profittare se non col mentire[356].
PLEBE SOFFRENTE
Senz’arti, senza possessi, che far dunque della romana plebe? Menarla alla guerra; la quale perciò si perpetuava, come giovevole sì allo Stato che con essa riparava al pubblico debito, sì ai nobili che si rifaceano colle spoglie dei vinti, sì ai poveri che o vi erano mantenuti o morivano gloriosamente. Per disgrazia mancavano nemici da combattere? il vulgo doveva accattar pane o dai candidati cui vendeva il voto, o dalla pubblica limosina, onestata col nome di largizioni, ricevendo gratuiti o a buon mercato i grani e il sale che sovente era l’unico suo companatico. Dopo i trionfi, aveva bronzo coniato o terre lontane, come si fece di quelle tolte agli Italiani che avevano favorito Annibale, preferendosi il largheggiare possessi nelle colonie al concedere terreni legittimi. E voi soldati, terror de’ nemici in campo, che l’affezione per gli Dei penati posponete alla venerazione delle aquile legionarie, voi sarete altre vittime de’ ricchi ambiziosi: strascinati a combattere oltre i mari, non potrete più coltivare il campo avito, spesso lo perderete o per guerra o per debiti: voi che ergete trofei, o fabbricate catene ai popoli superbi, o spianate strade indistruttibili per congiungere i vinti alla vincitrice, non potrete che lasciare a straniera gleba le ossa affaticate ed incompiante.
Allorchè si propose la guerra contro Perseo, un centurione si fece avanti ai tribuni e al senato; e—Quiriti, io sono Spurio Ligustico, della tribù Crustumina, nato in terre de’ Sabini. Mio padre mi lasciò un jugero di terra e una casetta, nella quale io nacqui e fui allevato ed abito ancora: mi diede in moglie la figliuola di suo fratello, la quale null’altro recò che la libertà, la pudicizia, e per giunta una fecondità qual basterebbe per ogni casa ricca. Ho sei maschi e due fanciulle; queste accasate; di quelli, quattro hanno la toga virile, due sono in pretesta. Arrolato nell’esercito di Macedonia, due anni io militai come gregario contro Filippo; il terz’anno, Quinzio Flaminino in benemerenza mi assegnò il decimo ordine degli astati. Vinto Filippo, ricondotti in Italia i congedati, volontario passai in Ispagna; e Catone console, tanto operoso, diligente esaminatore e giudice della virtù del soldato, mi reputò degno d’affidarmi il primo ordine degli astati della prima centuria. Una terza volta militai volontario nell’esercito contro gli Etolj e il re Antioco, ove da Marco Acilio mi fu dato il primo grado tra i principi nella prima centuria. Cacciato Antioco e soggiogati gli Etolj, in Italia militai due volte nelle legioni che servivano annualmente; poi una volta in Ispagna. Da Fulvio Flacco fui menato al trionfo fra quelli di cui volle onorare la virtù. Richiesto da Sempronio Gracco, feci con esso una campagna. In pochi anni quattro volte stetti centurione principale, trentaquattro volte fui onorato di doni da’ miei capitani, ricevetti sei corone civiche, negli eserciti compii ventidue stipendj annuali; ed ora passo i cinquantanni».
Infelice! ed era chiesto a nuovi combattimenti. Noi riferimmo questo discorso per mostrare a qual condizione si riducessero i popolani che viveano di continuo negli accampamenti, e spesso, dopo servigi di trent’anni, nè tampoco si trovavano un camperello onde pascere la numerosa famiglia; denaro riceveano nelle distribuzioni de’ frequenti trionfi, ma sciupavanlo coll’imprevidenza solita ne’ militari: talchè i pochi che potevano riportare il mutilo corpo dall’Asia o dalla Spagna, stentavano nella miseria gli ultimi giorni.
Da principio alla terra cercavasi il massimo prodotto lordo, cioè grani da mangiare; di modo che la popolazione crebbe, e il villano non soffri. Dappoi si aspirò al maggior prodotto netto, convertendo in pascoli i campi a grano. Allora dunque che, conquistata Cartagine e l’Asia, Roma ingrandiva, la popolazione libera e le produzioni dell’Italia scemarono, quantunque si cessasse di pagare le taglie, meno braccia dovessero darsi alla guerra, fossero migliorati gli utensili, abbondanti i capitali, cresciuto il lusso: ai piccoli possessori erano sottentrati i grossi, che l’eccedente dei frutti non riversavano sui campi stessi, ma sprecavano in lusso nella città.
A coltivare gli ampj poderi basteranno gli schiavi, meglio convenienti perchè non colpiti dalla leva militare come i liberi: e il patrizio, beato di pingui ozj, applaudirà a Catone che insegna le possessioni migliori essere i pascoli, dove un mandriano schiavo basta a condurre un numeroso armento. All’antico libero agricola che resterà dunque? Portare le inutili braccia a Roma, dove sa che tratto tratto si largiscono viveri; dove i doviziosi ostentano generosità col gettargli un po’ del loro superfluo; dove spera esser mandato in qualche colonia, per divenire alla sua volta tiranno, e dire al possessore:—Vattene morir di fame in altra terra»; dove se non altro venderà il suo voto ai candidati, che del prezzo si rifaranno nelle lucrose magistrature.
LA POVERAGLIA
Ma ohimè! il senato, omai sicuro nella potenza ed ebbro dell’umiliazione dei re, più non si briga di molcere il popolo; va mezzo secolo senza che alcuna colonia sia fondata; fin l’immorale guadagno del voto cessa di fruttare al popolo re, dacchè i ricchi, eletti censori delle assemblee centuriate, ogni cinque anni stivano nella tribù Esquilina tutti i poveri, de’ quali non occorrerà il suffragio se non nei rari casi in cui a decidere non bastasse il voto dei doviziosi, mantenutisi nelle tribù rustiche, molte in numero e scarse di membri. Poc’a poco il senato, rinforzatosi come sempre succede nelle lunghe guerre, si dispensa dal chiedere l’assenso delle tribù a’ suoi consulti, e dopo trionfato dell’ultimo successore di Alessandro, delibera a sua voglia della pace e della guerra, e non prende cura del vulgo, perchè più non ne ha bisogno nè paura.
Rimanevano al popolo i giudizj; ma ad evitare i viluppi e accelerare le decisioni, si costituiscono quattro tribunali permanenti, composti di senatori che investigano i casi criminali cui non bastano i tribunali pretorj[357], e principalmente le accuse di broglio, di concussione, di peculato contro i senatori: così non occorrerà più pericolo che la plebe venda i suoi giudizj, nè che i nobili li temano. Il popolo campato alle guerre morrà dunque di fame. Che cale? la salute pubblica non ne patisce, giacchè migliaja di schiavi affluendo dai paesi conquistati, impingueranno le glebe di venale sudore, empiranno i palagi e le città servendo al fasto e alla depravazione dei padroni; nei quali uffizj ben meritando, acquisteranno di divenir liberi e cittadini, ricolmando i vuoti lasciati dall’antica gente romana.
AFFLUENZA A ROMA
Al tempo ove noi siamo col racconto, soli omai liberti empivano il fôro; e un giorno che coi loro schiamazzi interrompevano Scipione Emiliano, questi, coll’orgoglio d’un nobile di antica schiusa, gridò loro:—Zitto, figliastri d’Italia. Forse vi temerò sciolti io che vi menai qua incatenati?»[358]. Cicerone insultava alla feccia della città, a questa plebaglia nuda e digiuna, a tanti servi introdotti nel recinto di Roma come uno sciame d’animali malefici, contro il quale sarebbero a invocare gli esorcismi degli aruspici[359]. Questa folla copiosissima e sprovvista, non aspirando a diritti ma a possessi, potea divenire arma terribile in mano d’un demagogo, il quale sorgesse a combattere la tirannesca aristocrazia.
Altra folla accorreva a Roma dalle provincie e dai municipj per sottrarsi alle angherie dei magistrati, per entrar membri d’una nazione temuta e grande, per la speranza di salire fino ai sommi gradi, e disporre della sorte dei regni. Più credevano meritarselo gl’Italiani, dacchè colle loro braccia eransi compiute le conquiste. Alcuni ottenevano la cittadinanza col darsi schiavi d’un Romano che poi li manometteva; altri si facevano per frode iscrivere nelle rassegne dei censori; ma poichè in modo legale non potevano ottenere la cittadinanza se non i Latini, l’Italia affluiva nel Lazio, e il Lazio a Roma, lasciando in patria il deserto. Sanniti e Peligni nel 177 protestarono di non poter più somministrare agli eserciti il contingente che era prestabilito, divenuto sproporzionato agli abitanti, atteso che quattrocento famiglie loro s’erano mutate a Fregelle, città latina. L’anno stesso i Latini dichiararono per la seconda volta che le città e le campagne loro si spopolavano pel continuo sciamare a Roma.
Questa dunque assorbendo tutte le popolazioni italiche, riboccava d’abitanti, sicchè nel censo di Cecilio Metello si numerarono 317,823 uomini atti alle armi, e cinque anni dappoi 390,736; nel 187 si respinsero dodicimila famiglie latine, nel 172 altre sedicimila persone. Ecco dunque come le immigrazioni, così opportune a rigenerarla, pregiudicavano la nazione perchè esorbitanti. Il concedere pienezza di diritto a tutti gl’Italici sarebbe stato l’unico spediente; ma vi si opponeva la nobiltà romana per invidia contro le altre case illustri del bel paese: dal che venne accorciata la giovinezza di Roma e guasta l’Italia.
Per la quale s’era diffusa la poveraglia di Roma, spedita nelle colonie, occupando i terreni migliori. Ma le colonie stesse andavano in peggio, preda destinata ai cavalieri, che od usurpavano o compravano i poderi, surrogandovi schiavi ai liberi coltivatori; e intesi come erano al guadagno inesorabile, nè più temendo dei giudizj dopo che questi in Roma furono affidati alla nobiltà, non conoscevano alcun freno nello smungere i liberi e nell’opprimere i servi.
Che guadagno era dunque venuto a Roma e all’Italia da tante conquiste e tanta gloria? il deperimento della moralità e dell’eguaglianza. Se in mezzo a questa corruzione si fosse levato alcuno, col proposito generoso di ridurre al meglio i costumi, di rinverdire nel popolo l’amor dell’industria e dei campi, di sostituire ai faticanti schiavi e alla plebe infingarda una classe laboriosa, come la moderna che respinge la miseria colle proprie braccia; di reprimere il despotismo del senato e l’avidità dei cavalieri, farsi eco ai lamenti delle provincie e dei municipj, regolare l’affluenza degli avveniticci in modo da impedire il rigurgito in Roma e lo spopolamento della restante Italia, non avrebbe dovuto meritar gratitudine almeno per l’intenzione? e se non la gratitudine dei contemporanei, i quali di rado perdonano il merito o riconoscono le intenzioni, almeno quella dei posteri? Ebbene, all’alta impresa di colmar l’abisso fra i pochi gaudenti e i troppi soffrenti s’accinsero i Gracchi: i contemporanei li travolsero nell’abisso; i posteri si contentarono di ripetere gl’insulti patrizj, neppur degnandosi sceverarne i savj intenti dai mezzi improvvidi.
ORIGINE DEI GRACCHI
Le famiglie bennate degli Scipioni e degli Appj avevano sentito la necessità d’imparentarsi colla equestre de’ Sempronj; e Tiberio Gracco, che nel suo tribunato avea protetto l’Asiatico e l’Africano, e impedito che venissero giudicati con invidiosa severità, dopo la morte del vincitore d’Annibale fu reputato meritevole di sposarne la figlia Cornelia, ricusata a un Tolomeo re d’Egitto[360]. Di molti figli che generò, soli le rimasero Tiberio, Cajo e Sempronia, e ne formava sua cura e sua delizia, sicchè ad una dama che le ostentava monili e collane, ella mostrò que’ figliuoli dicendo:—I miei giojelli sono cotesti». Ambendo di esser detta non tanto la figlia di Scipione, quanto la madre dei Gracchi, gli allevò colla squisitezza necessaria perchè potessero disputare agli Scipioni il primato. Tiberio, appena uscito dall’adolescenza, fu creduto degno di venir aggregato fra gli auguri, poi fu sposato colla figlia di Appio Claudio Pulcro principe del senato, mentre Sempronia con Scipione Emiliano.
137 Gracchi, entrati negli affari, non fallirono l’aspettazione materna. Nell’eloquenza non aveano i pari: Tiberio, composto e mansueto in pubblico, parlava soave, elaborato, contegnoso; Cajo, vivace e focoso, splendido nel dire e passionato, fu il primo a passeggiare sulla tribuna, e tenevasi dietro un flautista che gli desse l’intonazione ogniqualvolta esagerasse. Nell’armi si addestrarono sotto al prode cognato, e Tiberio salì primo sulla breccia di Cartagine: alla corruzione eransi resi superiori mediante la severa dottrina degli Stoici, donde aveano attinto, forse esagerate, ma generose idee sulla dignità dell’uomo e sull’eguaglianza dei diritti.
TIBERIO GRACCO
Facendo Tiberio da questore a Numanzia sotto Ostilio Mancino, il campo fu sorpreso, e ventimila uomini sarebbero stati trucidati se il console non accettava la capitolazione. I Numantini però ricusarono di credere se non alla parola di Gracco, al quale di fatto concessero di ricondurre salvo l’esercito, lasciando ai vincitori gli accampamenti. Nel saccheggio essendo stati presi i suoi registri, egli tornò a ridomandarli: e i Numantini non solo glieli resero, ma il tennero a pubblico banchetto, e gli permisero di scegliere quel che volesse delle spoglie, donde egli non prese che l’incenso destinato agli Dei. La capitolazione che salvò ventimila cittadini, parve indecorosa a Roma; e proponendosi di consegnare tutti gli uffiziali come dopo le Forche Caudine, Tiberio insistette perchè il patto fosse mantenuto nella sua integrità; e non ottenendolo, impetrò che il solo Mancino fosse consegnato. I parenti dei risparmiati ne vollero bene al Gracco, che sempre più fastidì i patrizj, consigliatori di quell’iniqua legalità.
Tornando da Numanzia, quale spettacolo gli offerse l’Italia! Scomparse le piccole proprietà, disfatte le cascine, estesa la malaria, sottentrata alle biade la pastorizia, greggi e mandre sbrucavano l’erba dove erano fiorite città, e l’Etruria ormai vuota di liberi, nè coltivata che da schiavi. Ma se il deperimento appariva quivi più compassionevole, eragli evidente anche a Roma, dove accumulati gli averi in mano di pochi, mentre i più stentavano nella miseria; e se i Galli ripassassero i monti, o se gli schiavi si sollevassero, qual forza opporvi? Propostosi di rendere all’Italia la popolazione libera ed energica[361], che dispariva quanto più dimenticavansi le provvisioni di Licinio Stolone, Tiberio non dissimulava il dispetto, e—Quel ch’è del popolo, perchè non s’ha a dare al popolo? un cittadino non è egli di maggior vantaggio alla patria che non uno schiavo, un bravo legionario più che non un imbelle, un caldo patriota che non uno straniero? Cedete, o ricchi, porzione de’ vostri averi, se non volete vederveli un giorno togliere tutti. Che! le fiere hanno un covile, e quei che versano il sangue per la patria null’altro possedono che l’aria che respirano; senza tetto nè letto, si strascinano colla misera prole e colla nuda consorte. Mentiscono i capitani quando incorano i soldati a difendere i tempj de’ loro Dei, i sepolcri dei loro avi. Dov’è un solo fra tanti Romani che abbia una tomba, un’ara domestica? Muojono perchè pochi impinguino e lussureggino: son detti signori del mondo, e non possedono una zolla».
LEGGE AGRARIA
Lelio, l’amico di Scipione, già avea tentato la riforma agraria; ma vedendo repugnante l’aristocrazia e conoscendo i tempi, si tolse dal nobile divisamento, ed ebbe il titolo di prudente, spesso sinonimo di pusillanime. Ora Tiberio, venuto tribuno della plebe, d’intesa col suocero Appio Claudio Pulcro, con Licinio Grasso sommo pontefice e oratore applaudissimo, e con Muzio Scevola il più destro fra’ giureconsulti, rinnovò la proposta di Stolone, che nessuno possieda, o piuttosto tenga in appalto più di cinquecento jugeri di terreno pubblico; nessuno mandi ai pascoli comuni più di cento teste di bestiame grosso, cinquecento di piccolo; ognuno tenga sulle terre un numero di coltivatori liberi. Ai detentori di beni pubblici che ne soffrissero scapito, benchè avessero violata la legge Licinia, si darà un’indennità pei fatti miglioramenti. Le terre così acquistate non sarebbero più revocabili, ma proprietà assoluta, scarca da livello, però non vendibile. De’ terreni che sopravanzassero, si costituerebbe un fondo da spartire fra i poveri e restare inalienabile: era l’unico modo d’impedire che ricadesse in man de’ ricchi, e forse per ciò Tiberio pensava dar loro i terreni più prossimi alla città. S’aggiungevano da cencinquanta jugeri per ogni figlio emancipato dal proprietario: primo esempio di rimunerazioni assegnate per favorire i matrimonj. Insomma, vedendo la difficoltà di riconoscere i titoli e la misura di ciascun possesso, ordinavasi un rimpasto generale, dove spropriati tutti, distribuivasi ancora a sorte tutto il terreno pubblico. Il quale sovvertimento di tutti gl’interessi e le abitudini ripugna dalle idee presenti, non così dalle antiche, ove il proprietario supremo era sempre lo Stato, siccome oggi in Turchia.
Tiberio non era mosso da manìa d’illustrarsi, e ancor meno dalla universale benevolenza che in ogni uomo ci fa riconoscere un fratello; bensì dal patriotismo alla romana, dal voler cioè assicurare a Roma la sovranità del mondo col non lasciar perire la robusta razza italica che le avea procacciato già tante provincie. Non trattavasi dunque di elevare la seconda classe al grado della prima, come al tempo di Stolone, ma di dar incremento alla popolazione libera, la sola che empisse l’esercito. Era legge aristocratica, se la misuriamo ai concetti di oggi; nè fa meraviglia se da aristocratici venne sostenuta.
Ma sebbene Tiberio fosse uomo di teorie, alle quali sagrificava i fatti e i patimenti della generazione presente, al torto si apporrebbe chi alle follie del comunismo annettesse quelle leggi che tendevano a costituire una proprietà e creare proprietarj; ledevano la proprietà attuale, non già il possedere; anzi volevano estenderla, impedendo l’accumularsi de’ possessi, all’uopo di moltiplicare i piccoli coltivatori, cioè i soldati.
La plebe confermò lietamente la proposizione di lui: v’ha però abusi tanto radicati[362] (l’intendano i novatori), che mettervi la scure non si può senza che lo Stato intero se ne risenta. I nobili poteano allegare il diuturno godimento, durante il quale aveano piantato, migliorato, fabbricato; ivi le memorie della fanciullezza, le tombe degli avi, le doti delle mogli: il cessare dal rendere il livello avea fatto dimenticare quali fondi fossero pubblici, quali allodj: coloro che per lungo ordine di avi o per retaggio o per dote possedevanli allora, erano di buona fede, e v’aveano fatto assegnamento. Il rimpasto dell’agro pubblico adunque traeva interminabili difficoltà per riconoscerlo, la necessità di dare compensi, e l’opposizione di quanti vedeansi sturbati da’ loro poderi. Questi esasperati comparvero per le vie e le piazze vestiti a bruno, supplicando la plebe contro il tribuno di essa: ma Tiberio persiste; valendosi del pien potere tribunizio, suggella il tesoro, sospende i giudizj e l’esercizio delle magistrature finchè la legge non sia votata.
Allora i patrizj ricorsero agli spedienti legali; e poichè l’opposizione d’un tribuno impediva l’azione dell’altro, essi guadagnarono Ottavio Cecina collega di Tiberio, giovane ricco e di costumi austeri, affinchè interrompesse col suo voto la deliberazione. Tiberio non lasciò via per trarlo dal suo parere; generoso e tenero, irremovibile di volontà quanto dolce di indole, esibì pagargli del suo i fondi ch’egli perdeva, lo supplicò, baciollo perfino in pubblico; ma trovandolo ostinato, propose fosse deposto, malgrado il sacro carattere tribunizio.—Il tribuno (diceva egli) è inviolabile, anche se incendiasse l’arsenale, se smantellasse il Campidoglio: ma non se minacci il popolo stesso. Sacra era la regia dignità, eppure gli avi nostri espulsero Tarquinio: sacre eminentemente le Vestali, eppure peccando sono sepolte vive. Così il tribuno che offende il popolo, non deve in prerogativa trascendere il popolo stesso, poichè egli medesimo scassina la potenza, da cui trae sua forza».
DEPOSIZIONE D’UN TRIBUNO
Già le tribù aveano cominciato a dare il voto per la destituzione di Ottavio, quando Gracco tornò alle preghiere, agli scongiuri: il collega s’intenerì fino alle lagrime; ma fosse ostinazione od onoratezza, persistette, e il suffragio della decimottava tribù decise che Ottavio venisse degradato. Primo colpo recato alla sacra autorità tribunizia; ed era recato da un tribuno.
Ora qual è l’uomo, quale principalmente il demagogo, che, preso il pendìo delle novità, possa fermarsi ove gli talenta? che per la quistione presente non sacrifichi o dimentichi l’avvenire? Tiberio, ch’era veramente il miglior uomo della fazione plebea, come della nobile gli Scipioni, coll’abilità, col buon senso, coll’amor dell’ordine disacerbava un’impresa tanto risoluta; ma alfine, stomacato dalle tergiversazioni del senato e dalla perfidia degli oligarchi che attentavano alla sua vita e persino alla sua fama, ripropose la legge Licinia nell’antica rigidezza, non facendo più cenno di risarcimento per l’eccedente dei cinquecento jugeri; senza por tempo in mezzo, gli usurpatori abbandonassero l’agro pubblico, al quale uopo si attribuiva potere grandissimo a triumviri, eletti per verificare i possessi e spartirli. A questa carica fa scegliere se stesso con Appio e col fratello Cajo.
Tra i regni che si formarono dal rompersi della signoria di Alessandro Magno accennammo quello di Pergamo nella Misia (pag. 326). Lo ingrandì il re Eumene II favorendo i Romani contro di Antioco e di Perseo; poi Attalo III suo figlio, abjetto e crudele tiranno, testando chiamò erede de’ suoi beni il popolo romano; e questo interpretò che per beni s’intendesse anche il regno ed occupollo, riducendo così provincia, col nome di Asia, 132 la più bella e più grande porzione dell’Asia Minore.
Eredità di genere così nuovo dovea costare carissima a Roma. Intanto Tiberio Gracco, trasferendo nel popolo quel disporre degli affari esterni ch’era privilegio del senato, propone che la nuova provincia non venga amministrata dal senato, ma profitti pei cittadini poveri, onde abbiano di che comprare gli attrezzi e le scorte pei nuovi campi: aggiunge che si abbrevii alla plebe il tempo del servizio militare; i cavalieri possano entrar a parte de’ giudizj coi senatori; si ristabilisca l’antica provocatio, cioè l’appello dai giudizj al popolo congregato. Poi comprendendo che su tropp’angusta base poggiava la mole immensa dell’impero romano, uscì dallo stretto patriotismo per elevarsi fin alla nobile idea dell’unità italica, proponendo che a tutta la penisola si estendesse il diritto della cittadinanza romana.
ROGAZIONE SEMPRONIA
Queste ultime rogazioni avrebbero dovuto amicargli l’ordine equestre e gl’Italici: ma i cavalieri, se odiavano i patrizj che ne limitavano l’autorità e gli escludevano dalle cariche, più temevano la legge agraria che gli avrebbe spogli dei poderi usurpati, e a pari con essi ammetterebbe al suffragio i Socj latini o gl’Itali antichi. Tiberio dunque favorendoli non ne acquistò la grazia, e ingelosì la plebe: la quale, sebbene avesse tanto a lodarsi d’un sì favorevole magistrato, non ponea così immediato interesse alle leggi politiche, di cui non intendeva bene il vantaggio, e vana com’è e disunita, non sapeva sostenerlo nell’effettuare i suoi concetti, anzi dava ascolto alle suggestioni de’ nobili che denigravano il tribuno, e dicevano affettasse il regno.
Quanto agli Italioti, un nuovo riparto del territorio pubblico dava a temere che i magistrati ne profittassero per intaccare o molestare le possessioni confinanti, non ben delimitate ne’ contratti, essi pure ambigui o inintelligibili[363]; e pareva sovrastasse una nuova confisca in piena pace. Fors’anche i nobili di Roma aveano saputo spargervi il fermento, e il senato lasciatovi intendere che ai lamenti si darebbe ascolto, si farebbe larghezza di diritti, purchè resistessero ai triumviri o li tergiversassero. Fatto è che dappertutto la rogazione Sempronia parve aborrita.
FINE DI TIBERIO
Sentiva dunque Tiberio a qual pericolo resterebbe esposto appena uscisse di magistratura; onde gittatosi a farsi (contro la costituzione) prorogare il tribunato, ripeteva le patrizie minaccie, compariva in bruno, mostrava alla plebe i suoi bambini, pregandola a conservare ad essi il padre. Venuto il tempo de’ comizj per l’elezione, nuovo timore l’invase perchè due serpi aveano fatto le uova nel suo elmo, e quella mattina i polli non vollero sbucare dalla stia; egli stesso uscendo di casa inciampò alla soglia, e due corvi combattenti a sinistra fecero dal tetto cadere un sasso ai piedi di lui. Così Plutarco: ma più seria apprensione dovea cagionargli il vedersi incontro l’aristocrazia concorde e disposta a tutto, mentre in suo favore null’altro restava che il vulgo mutabile e le tribù rustiche, a cui l’opera della mietitura impediva di accorrere ai comizj.
OPPOSIZIONE DEGLI SCHIAVI
Radunati questi, i possessori alzano la voce contro il violator della legge; i senatori compajono armati, 133 xbre e cinti di clienti e di schiavi; gli amici di Tiberio s’accingono a tener testa; il tumulto s’incalorisce; la plebaglia quanto pronta alle grida, tanto è alla fuga e allo scoraggiamento. Egli, non potendo più farsi udire, ponsi la mano sul capo per indicare il pericolo; i nemici gridano ch’egli chiede la corona, cominciano a far macello degl’inermi, e trucidano lui stesso co’ suoi fautori, che senza onore d’esequie, gettati nel Tevere, scontano i brevi ed infausti amori della plebe.
Tra i fautori del Gracco alcuni furono processati, altri assassinati; Cajo Billio, senz’altro giudizio, chiuso in una botte piena di serpi; Blossio filosofo di Cuma, citato in giudizio, sostenne d’avere amato Gracco, ed essersi mostrato pronto ad ogni volere di esso.—E se egli avesse comandato di metter fuoco al Campidoglio?» domandò Scipione Nasica.—Non l’avrebbe mai fatto (rispose il Cumano): ma se me l’avesse imposto, l’avrei bruciato, persuaso ch’egli non potea volere se non cosa utile al popolo».
Questo Nasica, cugino dei Gracchi, erasi mostrato accanitissimo loro avversario; persuase di dar addosso alla plebe disarmata; tiratasi in capo la toga come solea ne’ sagrifizj, essendo sommo pontefice, e col bastone in pugno si pose a capo di quei che amavano la repubblica, cioè l’usufruttavano; poi osò con un decreto far giustificare quant’erasi commesso contro i Gracchi e i suoi. Sprezzatore della plebe, prendendo la mano d’un agricoltore per sollecitarne il voto, e sentendola callosa, gli chiese:—Che? cammini tu forse colle mani?» Perciò i popolani gli gridavano improperj, lo imputavano d’aver ucciso una sacra persona in luogo sacro; talchè il senato, volendo dare qualche soddisfazione e sciogliere se stesso da un impaccio, l’inviò con onorevole incarico in Asia, donde più non tornò.
Il senato non potè abrogare la legge agraria, ma confidava sulle difficoltà materiali, che all’atto comparvero inestricabili, intorno alla misura, all’origine del possesso, alla stima dei fondi. I Socj italici e latini che aveano ottenuto moltissima parte dell’agro pubblico, nojati o sbigottiti da questo misurare e stimare, 132 ricorsero al senato, che fu ben contento di un pretesto per sospendere la mal gradita legge: e Scipione Emiliano, benchè cognato di Gracco, reduce allora dalla vinta Numanzia, postosi a capo degli scontenti, e unanimemente scelto a patrono dai Socj latini, ottenne si cassassero i tre a cui n’era affidato l’adempimento, questo commettendo a un console.
OPPOSIZIONE DEGLI SCIPIONI
La plebe, che prima idolatrava Scipione Emiliano e che gli aveva attribuito due consolati e la censura in violazion della legge, se l’era recato in contrario perchè, all’udire l’uccisione di Tiberio, avea proferito quel verso d’Omero: Così perisca chi opera come lui. Scipione da una parte rifuggiva da quanto avesse aspetto rivoluzionario; dall’altra teneva in vilipendio cotesta plebe, di cui Gracco avea sperato far eccellenti soldati, ma che realmente amava l’ozio cittadino questuante più che il possesso faticoso, nè erasi mostrata capace di difendere colui che per essa si sacrificava. Popolo e grandi in quella lotta che cosa aveano mostrato, altro che intrighi e codardia ed arroganza? Più dunque Scipione non mettea speranza in cotesta città di liberti togati, repubblica in decadenza, che doveva dar luogo all’Italia. Nè il disprezzo dissimulava, ed erane ricambiato d’odio; qualora egli parlasse dalla ringhiera, la plebe lo confondeva coi susurri, ne ridiceva i superbi motti, e l’accusò perfino di aspirare alla dittatura. Esso sprezzò l’imputazione, vantando i meriti suoi e del padre Paolo Emilio; e dalla campagna, ove coll’amico Lelio vivea studiando e spassandosi, tornava a Roma ogniqualvolta si trattasse d’opporsi a leggi popolari. Quando il minacciavano rispondeva:—I nemici della patria han ragione di desiderare la mia morte, perchè sanno che Roma non perirà finchè Scipione viva». Ma una notte fu trovato morto in casa; egli distruttore dei due terrori di Roma, 128 fu sepolto senza esequie pubbliche; il popolo vietò ogni procedura, temendo di compromettere Cajo Gracco. La morte del più ostinato aristocratico annunziava che il conflitto si rinnoverebbe più violento, più passionato e criminoso.
E in effetto i tribuni, avendo appreso da Tiberio quanto formidabile potesse divenire la loro autorità, miravano a dilatarla. Il tribuno Papirio Carbone, che non rimetteva dal rinfacciare l’assassinio di Tiberio, propose che il tribunato si potesse prorogare quanto al popolo piacesse; ma la mozione restò inesaudita. Il tribuno Cajo Atinio, avendogli il censore Metello Macedonico voluto impedire l’entrata in senato, afferrò questo, e lo trabalzava dalla rupe Tarpea come reo di lesa maestà, se un altro tribuno non si fosse opposto: ma si profittò del caso per far decretare che ai tribuni competesse voto deliberativo in senato.
CAJO GRACCO
Cajo Gracco, alla morte del fratello, si era ritirato come spaurito, dedicandosi all’eloquenza, in cui nessuno il superò; savio del resto, alieno dall’ozio, dalla cupidigia, dalle beverie in cui sciupavasi la gioventù. Molti il giudicavano un dappoco, e lo tassavano disapprovasse Tiberio; ma nel fatto egli si maturava a vendicarlo, risarcire la plebe, sgomentare i doviziosi, compire dopo resi più grandiosi, i disegni del fratello, il quale gli era apparso in sogno dicendogli:—Che cessi? la tua sorte sarà come la mia; combattere e morire pel popolo». 126 Questore in Sardegna, acquistò la stima e la benevolenza del console e de’ soldati col valore e coll’esattezza; ricusando le città somministrare vestimenti, esso ve le seppe indurre. Per solo riguardo di lui, Micipsa re di Numidia mandò grano, con grave dispetto del senato, che cacciò i messi di quel re, e diede lo scambio alle guarnigioni. Il senato avea spedito lontano anche il violento Fulvio Flacco, uno dei triumviri per la spartizione dei terreni, e che giunto al consolato in onta dei nobili, moveva mari e monti per accomunare la cittadinanza a tutti gl’Italiani, e promovere la legge agraria; ma la città di Fregelle, 125 che coll’armi avea voluto acquistare quel diritto, fu vinta e distrutta; e il non averla sostenuta le altre città italiche mostrava che il colpo non era maturo.
Ed ecco d’improvviso Cajo ricompare a Roma. 123 I censori lo chiamano in giudizio come disertore, ed egli così favella:—Dodici anni io militai, benchè soli dieci ne esigano le leggi. Sortito questore, stetti oltre due anni presso il mio generale, ancorchè la legge permetta di ritirarsi dopo servito un anno. Vero è ch’essa m’ingiungeva di tornare col mio generale; ma essa suppose che un console nel luogo stesso campeggiasse solamente durante il consolato. Se piacque tenere tre anni in Sardegna Aurelio Oreste, era io obbligato ad ordini non diretti a me? Dolce riusciva al proconsole esercitar lungo ed assoluto imperio sopra legioni obbedienti: duro riusciva ad un questore il gettar nell’ozio un utile tempo. Me chiamano gl’interessi di tanti infelici che implorano la distribuzione de’ terreni, alla quale io fui deputato. Con quale intento io fossi tenuto sì lungamente discosto dalla capitale, tocca al popolo romano indagarlo, tocca agl’Italiani il lamentarsene; voi, censori, abbiate almeno riguardo al modo ond’io mi comportai in un’isola, ove l’avarizia e la dissolutezza corruppero gli uffiziali e i soldati del nuovo esercito speditovi. Pur un asse io non accettai in dono dagli alleati, nè soffersi che alcuna spesa sostenessero per me. Non ho fatto della mia tenda un luogo di stravizzi, un ricovero alla crapula e alla prostituzione dei giovani romani: apparecchiai banchetti, ma dove, sbandita la licenza, regnava modestia di parole e di atti: nessuna femmina scostumata a me entrò: non crebbi punto di ricchezze. Questo divario troverete fra me e i vostri uffiziali di Sardegna, che io solo torno con la borsa vuota, mentre gli altri tracannarono il vino ond’erano piene le anfore che riportano colme d’argento e d’oro»[364].
POPOLARITÀ DI CAJO GRACCO
Cajo restò assolto ed acclamato dal popolo, che in esso credeva rivedere il suo Tiberio; onde, allorchè egli chiese il tribunato, non che occorressegli di far broglio, il campo Marzio non bastò alla folla d’Italiani accorsi, che dai terrazzi e dai tetti gli davano il suffragio per acclamazione; e mentre il voler prorogare l’annuale dignità era costato la vita a suo fratello, a lui fu confermata l’anno successivo, 122 a grand’onta de’ patrizj, i quali soleano rimandare d’oggi in domani le proposte de’ tribuni finchè il loro anno spirasse.
Fu sventura che Cajo Gracco non venisse insieme con Tiberio, e che la fine di questo lo sgomentasse dal procedere con sicura risolutezza, e lo facesse astioso contro del senato. Mentre prima l’oratore, arringando nei comizj, volgevasi al senato, egli si piegò verso il popolo; nel che imitato, venne a trasferire in questo l’importanza. Poi, invece di dimenticare, siccom’è necessario a chiunque vuol riconciliazione e riforme, ogni tratto rammemorava Tiberio.—Dove andrò io? dove troverò un asilo? In Campidoglio? ma è lordo ancora del sangue di mio fratello. Nella casa paterna? ma vi troverò una madre inconsolabile. Romani, i vostri padri chiarirono guerra ai Falisci perchè aveano insultato il tribuno Genuzio; dannarono nel capo Veturio perchè non avea ceduto il passo a un tribuno che traversava il fôro; e costoro sotto i vostri occhi scannarono Tiberio, ne trascinarono il cadavere nel Tevere, i suoi amici fecero morire senza giudizio: mentre dapprima era costume che, quando uno fosse imputato di causa capitale, il banditore di buon mattino andasse alla porta di esso e lo citasse a suon di tromba, nè prima di ciò veruno votasse; tanto rispetto aveasi alla vita de’ concittadini».
SUOI PROVVEDIMENTI
Per conseguenza propone che un magistrato, il quale abbia colpito alcuno senza giudizio, venga tradotto avanti al popolo: legge diretta contro Ottavio, la quale dava il mal esempio d’azione retroattiva. Vôlto quindi agli interessi generali, propone che niuna condanna capitale valga senza la conferma del popolo; poi ogni mese facciasi una vendita di grano a buon patto, ogni anno una distribuzione di terreni; si disponga a profitto del popolo l’eredità del re Attalo; ai soldati si dia il vestire senza detrarre la paga, e non s’arrolino avanti i diciassette anni, mentre prima i patrizj facendosi iscrivere ancor fanciulli, si assicuravano dell’anzianità per ottenere i gradi: insomma fa a ritaglio accettare la legge del fratello. Le distribuzioni del grano erano necessarie per evitare i tumulti che la fame potea causare; ma introdussero l’idea che il popolo avesse diritto di vivere a spese dello Stato. Chi però avrebbe potuto opporvisi? e quanto non ne ricrescea la popolarità di Gracco! Tanto più che avendo fatto decretare grandiose opere pubbliche, vi dava impiego a migliaja di braccia; fece abbattere i palchi donde i doviziosi guardavano gli spettacoli del circo, acciocchè non rimanesse distinzione dai poveri. Doveva egli talora recedere da una sua rogazione? mostrava piegarvisi per riguardo a Cornelia, madre sua venerata e cara.
Col favore del popolo cresciuto d’ardire, volgesi a politiche innovazioni contro i privilegiati, e propone s’aggiungano nel senato seicento cavalieri: eccessiva domanda, ch’egli avventurò per ottenerne una più moderata, qual era che i giudizj fossero tolti ai senatori[365] e conferiti all’ordine equestre, che così fu reso un corpo politico da equilibrare il senato. Per tal passo gli amministratori delle provincie non si trovavano assicurata l’impunità dalla condiscendenza del senato: ma i nuovi giudici poteano vendere e vendettero la connivenza; e mentre umiliando i grandi credeva istituire una classe media, Cajo non creò che un partito, e come gli rinfacciavano i vecchi patrioti, diede alla repubblica due teste, che presto verrebbero ai morsi. Egli però vantavasi d’aver fitto nel fianco dell’aristocrazia il dardo mortale, compiacevasi d’avere consolidata la costituzione in modo, che il senato colla nobiltà, i cavalieri coi giudizj farebbero argine alle intemperanze della popolaglia.
ROGAZIONI DI CAJO GRACCO
Per sostenere l’opera sua e togliersi ogni limite, chiese agl’Italiani tutti si comunicasse la piena cittadinanza. Voleva egli con ciò amicarsi i Socj latini, perchè cessassero dall’opposizione; e sebbene l’averli il senato sbanditi dalla città, e impedito che a migliaja venissero dal Lazio ai comizj, eludesse la proposta, da quell’ora essi fecero causa coi poveri di Roma contro de’ nobili e del senato.
Colla legge frumentaria affezionatesi le tribù urbane, i cittadini coll’agraria, i cavalieri colla giudiziaria, l’Italia colla lusinga della cittadinanza, tutte le forze della repubblica e della penisola opponeva al senato, che si vide costretto a cedere. Ma la distribuzione dei grani smungeva l’erario; l’affidare i giudizj ai cavalieri spartiva in due la repubblica, e sottoponeva i senatori ai pubblicani; poi ai cavalieri rimaneva il dispetto delle scemate proprietà, e il popolo vedeva mal volentieri che Cajo intendesse accomunare a tutti gl’Italiani i suoi privilegi ed il suffragio.
Null’ostante egli godeva di grandissima autorità, circondato da magistrati, militari, artisti greci, ambasciadori come un re: ma conoscendola esosa al senato, badava di non dargli che consigli utili e decorosi. Avendo il propretore Fabio mandato frumento dalla Spagna, Cajo persuase il senato a venderlo, e il denaro ritrattone spedirlo agl’Iberi, affinchè non sentissero eccessivamente grave il giogo di Roma: autorizzò i provinciali a prendere essi medesimi l’appalto delle imposte: fece fabbricare granaj, e mentre andava coi triumviri a misurar l’Italia, vi procurò belle e dritte strade con ponti e colonnette miliari, e pietre per salire a cavallo, com’era duopo prima d’inventare le staffe, soprantendendo egli stesso ai lavori: propose di collocare colonie ove Roma possedeva maggiori territorj, e di rassettare le antiche emule di Roma, Capua, Tàranto e Cartagine.
I senatori mostravano assecondarlo, ed offersero a lui stesso andasse a rimettere in essere quest’ultima, e piantarvi la colonia Giunonia, che fu la prima fuori d’Italia. Egli il fece: ma sottratto che fu dagli occhi della moltitudine, i senatori giocarono a due mani per diroccarlo, e con un artifizio spesso imitato subornarono Druso collega di lui, acciocchè lo sorpassasse con proposizioni esorbitantemente popolari. Cajo diceva di mandare due colonie? ed egli dodici; di distribuire i terreni con un tenue canone? ed egli di darli gratuitamente; fece che i generali non potessero sferzare i soldati latini; davasi premura di esprimere che tali consigli moveano dal senato, tutto viscere per la plebe; nè mai cercava posti ed onori per sè, quasi a raffaccio di Gracco che assumevasi tutte le commissioni, abile a tutte per la sua operosità meravigliosa.
FINE DI CAJO GRACCO
Con queste lustre e coi paroloni a vuoto che fan colpo sul vulgo, venne a diminuirsi l’animosità concepita contro il senato; e quando tornò dalla rifabbricata Cartagine, 121 Gracco trovò che in quei tre mesi la plebe avealo quasi dimentico. Domandando il terzo tribunato, ebbe i voti contrarj: un suo ospite sotto gli occhi suoi fu trascinato in prigione: ai Latini dato il bando da Roma: e per colmo, vide eletto console Opimio Nepote distruttore di Fregelle, e suo ereditario nemico; il quale domandò fosse disfatta la colonia cartaginese, tanto aborrita dagli Dei di Roma, che i lupi ne aveano portato via i termini. Ricevuto dal senato l’arbitrio dittatorio, occupò il Campidoglio, dichiarò Cajo nemico della patria, bandì una taglia sulla testa di esso, indi a capo delle truppe investì Fulvio Flacco. Questo ribaldo intrigante, imputato non forse a torto dell’assassinio di Scipione Emiliano, disonorava la causa di Gracco col farla assomigliare ad una sommossa, e armava i proprj partigiani colle armi tolte da esso ai Galli, e che come trofeo conservava in casa. Assalito, aspettò da valoroso e manesco qual era, ma nella zuffa perdè la vita. Gracco, cui mancava l’audacia d’un rivoluzionario o la freddezza d’un generale, ricoveratosi nel bosco delle Furie, si fece uccidere da uno schiavo, unico fedele alla sua sventura. Tremila furono morti quel giorno sull’Aventino e gettati nel Tevere, persino un fanciullo di Fulvio che s’avanzava col caduceo in segno di pace; ad altri tortura e supplizio; confiscate le facoltà, proibito il lutto alle mogli, a quella di Gracco tolta perfino la dote; e Opimio, vincitore della prima guerra o strage civile, fondò il tempio della Concordia.
La plebe, che aveva fiaccamente abbandonato il suo protettore, appena si riebbe dall’abbattimento, palesò l’indignazione sua come potè, prima scrivacchiando sui muri[366], poi ergendo statue ai Gracchi, consacrando i luoghi dove furono uccisi, e offrendovi le primizie d’ogni stagione. Cornelia portò decorosamente quella perdita, dicendo che i suoi figli aveano sepolcri degni di loro in luoghi consacrati; e lungamente visse a Miseno, ospitando letterati e Greci, ricevendo messi dai re, piacendosi di raccontare le virtù di Scipione Africano e la tragedia de’ suoi figliuoli. Le fu poi dedicata una statua coll’iscrizione: Cornelia madre dei Gracchi.
La partizione dei terreni era cominciata, nè il senato osò sospenderla, ma con proposizioni accorte si eluse quel che contenevano di meglio le rogazioni dei Gracchi. I nobili indussero uno de’ commissarj a dire che, difficilissima essendo quella ripartizione secondo la legge agraria, meglio tornerebbe l’obbligare i possessori a pagarne un canone perpetuo, da ripartirsi fra i poveri; dato il quale, i possessori non fossero più sturbati. Talentò la speciosa proposta al popolo, e adottandola riconobbe inalienabile proprietà di privati i terreni già pubblici: ma poco andò che un altro tribuno fece cessare quel livello, dicendo che i nobili già contribuivano abbastanza col sostenere le dignità; e la plebe, senza nè terreni nè rendite, trovossi rituffata nella primitiva miseria. 108 La legge Thoria poi abolì tutti gli effetti di quelle de’ Gracchi.
LORO LEGGI ABOLITE
Ben dicemmo dunque che le leggi agrarie toccavano ai problemi che oggi stesso agitiamo, del pauperismo, de’ soccorsi pubblici alla mendicità, dell’arresto personale, della libera usura del denaro, dello smembramento delle proprietà. Quelle portate da Stolone aveano stabilito lo sminuzzamento de’ possessi e l’equilibrio dei poteri, dando stabilità e potenza alla repubblica: abrogate, ne sminuirono la popolazione libera e i prodotti. Tiberio Gracco volle ristabilirle quando, le usurpazioni dei ricchi essendo ancora recenti ed illegali, non ne veniva profondo sovvertimento alla società, onde sarebbonsi rimessi in equilibrio i possessi e le ricchezze fra i tre Ordini. L’oligarchia vi si oppose, e diede il primo esempio di quelle guerre civili, in cui essa dovea perire. La nimicizia fra plebe e nobiltà s’invelenì; i cavalieri, fatti arbitri dei tribunali e appaltatori delle gabelle, poteano imporne al senato e sviare qualunque riforma: onde invano l’eloquenza di Marc’Antonio, di Lucio Crasso e d’altri tonava contro i dilapidatori delle provincie; invano altri tentavano ridurre queste a migliore amministrazione. Però fra i Socj latini del popolo romano sopravivea il pensiero di poter anch’essi entrare a parte della dominazione; e a mutar il fremito in insurrezione non mancava se non un capo, il quale all’ardimento accoppiasse l’abilità.
FINE DEL TOMO PRIMO
INDICE
LIBRO PRIMO
Capitolo I. Dell’Italia e della sua storia pag. 9
» II. Dei primitivi italiani » 34
» III. Gli Etruschi » 64
» IV. Popoli minori » 103
» V. Istituzioni italiche » 113
» VI. Primordj di Roma. I re » 137
» VII. Governo patrizio e sue trasformazioni fino alla democrazia » 158
» VIII. Politica esterna. I Galli. Il Lazio e l’Etruria soggiogati. Fine dell’età eroica » 187
LIBRO SECONDO
» IX. Magna Grecia.—Pitagora.—I legislatori » 205
» X. Sicilia » 229
» XI. I Romani nella Magna Grecia.—I Venturieri.—Pirro » 266
» XII. Cartagine. Prima guerra punica. Sistema militare de’ Romani. Conquista dell’Insubria » 280
» XIII. Seconda guerra punica. Annibale. Sommessione della Gallia Cisalpina e di tutta Italia » 303
» XIV. I Romani in Grecia e in Oriente.—I trionfi » 325
» XV. Interno di Roma. I costumi eroici si mutano. Innesto greco » 355
» XVI. Terza guerra punica. La Spagna vinta » 382
LIBRO TERZO
» XVII. Costituzione di Roma repubblicana » 395
» XVIII. Condizione economica. Leggi agrarie. I Gracchi » 439