PARTEI.
Della lingua Italiana, e dell'altre lingue moderne d'Europa.
INTRODUZIONE.
L'Italia, che all'altre nazioni dette l'esempio, ed aprì la strada a scuotere il giogo della barbarie, e dell'ignoranza, non cessò mai dopo quell'epoca di somministrare uomini chiarissimi in ogni scienza in ogni arte in ogni disciplina. Le parti tutte de' sacri studj, e de' filosofici, le scienze naturali e le matematiche, la giurisprudenza, la storia con tutto ciò che da lei dipende o serve a rischiararla, l'eloquenza, la poesia, le lingue straniere, e la nativa, tutto in somma ebbe fra noi coltivatori diligenti, e felici, che a se procacciarono, non meno che alla Patria, gloria immortale. Divisa in piccoli stati fra lor discordi fu debole, e quindi rimase preda dell'armi straniere; ma gli stessi suoi vincitori mentre ne esaltavano la dolcezza del clima, e la fecondità del suolo, o ne involavano le ricchezze, ammiravano la dottrina, e l'ingegno de' suoi abitatori. Laonde a' nostri maggiori ne' secoli XV. e XVI. si può applicare ciò che della Grecia disse Orazio in quei notissimi versi Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio.
Nè dall'età precedenti fu degenere quella a noi più vicina, voglio dire il Secolo XVIII. La memoria di tanti uomini insigni, che esso ha prodotti, e di tante opere classiche, che in esso han veduta la luce, è tuttora così recente e viva, che quest'asserzione mia non abbisogna di prove. Pure ad onor dell'Italia, sarebbe a desiderarsi, che non so bene se dica modestia o timore non avesse distolto l'egregio storico dell'Italiana letteratura dall'estendere ancora a questo le sue fatiche.
Il supplire al silenzio del Tiraboschi appartiene agli uomini eruditi, de' quali abbonda I'Italia, ed io sarò lietissimo, se le mie parole ad alcuno di loro serviranno d'eccitamento per farlo. Prendendo però a descrivere ciò che dagl'Italiani si è operato nel Secolo XVIII. intorno al coltivamento delle lingue antiche e moderne e della natìa principalmente non intendo di percorrere sì fatto arringo, nè pure in parte. Ho voluto piuttosto adoperarmi di rendere all'Italia una gloria, che da alcuni pure si vorrebbe torle. Si concede, che essa abbia poeti famosi, e buoni storici e chiari oratori: non le si nega molta lode nelle scienze sacre e nelle profane; e molto plauso si fa a' suoi antiquarj. Ma per ciò che spetta alle lingue, che chiamano dotte, par che da alcuni si accusino i nostri d'averne alquanto trascurato lo studio. Quindi ho reputato, che debba riuscir non inutile l'esaminar alquanto, se questa accusa sia giusta, o almeno fino a qual segno possa apparir tale. Ma più grave rimprovero meriterebbono, se avendo pur coltivate le lingue straniere avesser poi trascurata la propria. E sebbene di ciò niuno ci accagioni, pure mi è grato il ricordare coloro, che al coltivamento della propria lingua hanno data opera diligente, e coi precetti o coll'esempio hanno porto altrui eccitamento per farlo. Il quale eccitamento io credo, che rendersi debba vie maggiore, richiamando appunto alla memoria le utili fatiche da tanti Scrittori chiarissimi sostenute per l'illustrazione della stessa lingua.
Io confesso, che a trattar degnamente il mio argomento mancano a me parecchi ajuti necessarj, e quelli principalmente dell'erudizione e dell'ingegno per richiamarmi alla mente le cose fatte dagl'Italiani, e darne retto giudizio. Mi mancano altresì molti libri, senza il soccorso de' quali mal si possono intraprendere sì fatte trattazioni. Il piacere però, che tutti provano in rammentare le glorie della patria mi ha fatto dimenticare la debolezza delle mie forze, e mi sono accinto alla impresa. Comincerò dal parlare della Lingua Italiana ch'esser deve lo scopo principale del mio ragionamento, e a questa succederanno, come appendice, le altre moderne lingue d'Europa. Passerò poi alle antiche ed a quelle che chiamano esotiche, sì antiche, che moderne. Non pretendo però di noverare tutti coloro, che in questo genere scrivendo sono degni di qualche lode, ma ne tralascerò molti per non diffondermi troppo, e stringerò il mio discorso agli uomini più illustri, ricordandomi di quel detto di Columella, che ho scelto per epigrafe: ut in magna silva boni venatoris est, indagantem feras quam plurimas capere, nec cuiquam culpae fuit non omnes cepisse, ita nobis satis abundeque est tam diffusae materiae, quam suscepimus, maximam partem tradidisse.[1] Potrei forse passare sotto silenzio ancora più, e diversi Scrittori, le opinioni e le opere de' quali condanno. Siccome però essi hanno ottenuto qualche plauso e forse tuttora l'ottengono da alcuni, perciò ho creduto non doverli dimenticare.
Debbo finalmente avvertire, che fra gl'Italiani porrò ancora quegli stranieri, che in Italia menarono una gran parte della loro vita, e molto più se di quì trassero i mezzi per coltivare i loro studj, e scrivere le opere loro. Così fecero i dotti Maurini autori della storia letteraria della Francia; così il dottissimo Tiraboschi nella storia della letteratura Italiana.
Dell'origine e dei caratteri delle moderne lingue d'Europa. CAPO I.
Il chiarissimo Sig. Ab. Denina autor fecondo di molti libri ha scritto alcune dissertazioni su l'origine, le differenze, e i caratteri delle moderne lingue d'Europa, che si leggono negli Atti dell'Accademia delle scienze e belle lettere di Berlino, e in parte ancora stampate separatamente.[2] A me rincresce di non avere quest'opera e di non aver lette che sole tre delle sue molte[Pg 7] dissertazioni, e sono quelle, che discorrono le cause della differenza delle lingue, e dell'origine della lingua Tedesca.
A tre classi egli riduce le cause delle differenze, che si osservano tra le lingue figlie di una stessa madre; cioè fisiche, morali, e miste. Causa fisica è per lui la diversità della pronunzia. I popoli barbari, che invaser l'Italia furon costretti d'avvezzarsi alla lingua latina; ma per quella difficoltà, che si prova da prima nell'intender bene o bene esprimer qualche voce straniera, ora cambiarono qualche vocale o qualche consonante, ora tolsero, o aggiunsero qualche lettera o sillaba in principio in mezzo o in fine. Ora l'alterazione in questa guisa fatta a una lingua si chiama fisica dal Signor Denina, perchè egli derivata la crede dal clima o dalla organizzazione de' nuovi abitanti. Ma io dubito, che volendo questo scrittore comparir filosofo sottile e profondo abbia traviato dal retto sentiero della verità. In fatti io non so bene qual sia il clima che ama una vocale piuttosto che un altra e fa accorciar le parole di qualche sillaba. Nè vedo pure come una certa conformazione di muscoli o di nervi o di non so che altro possa produr questo. E son d'avviso che se nel cuore della Svezia o della Danimarca o della Germania si trasferisse una colonia toscana o lombarda, e a questa si consegnasse qualche fanciullo appena nato di padri Svezzesi o Danesi o Tedeschi, son d'avviso io dissi, che egli si avvezzerebbe alla lingua di que' coloni nè la difformerebbe con accorciamenti o mutazioni, e pure il clima sarebbe diverso dal Toscano e dal Lombardo, e tal sarebbe la sua organizzazione qual l'avrebbe sortita nascendo. Il solo uso lunghissimo e costante forma la pronunzia e quei barbari giunti in Italia alterarono la lingua latina non pel clima, in cui eran nati, non per la naturale organizzazion loro, ma per la lingua alla quale eran avvezzi. Non giudico necessario d'illustrare la mia obiezione con maggiori argomenti, e senza più passo alle cause, che l'autore chiama morali, e sono le seguenti. 1. Alcuni nomi imposti alle cose hanno origine dai paesi, da' quali queste si traevano, come Arazzi dalla città d'Aras, guanti in Francese gands da Gand nella Fiandra[3]. 2. Altre voci provengono da una specie d'ironia, per cui significano l'opposto di ciò che dovrebbero significare, onde in Francese phoebus e galimathias indicano un cattivo stile. 3. Le cose stesse sono chiamate diversamente in diversi luoghi secondo gli aspetti diversi, sotto i quali esse possono esser considerate: così la cosa stessa si chiama in Italiano posata da porre, o posare e couvert in Francese da couvrir. 4. La stessa voce, o almeno simile, in diverse lingue significa diverse cose, perchè queste si possono considerare sotto il medesimo aspetto, e reca per esempio la voce brod la quale[4] significava nutrimento in generale, e brodo in Italiano vuoi dire una certa bevanda, e in Tedesco pane. Alcune però di queste son tenui mutazioni delle lingue già formate, non di quelle che nascono; laonde non tendono al vero scopo della dissertazione cui l'autore non sempre ha avuto in mira. Egli ha dimenticato altresì una parte di quello che aveva promesso. Perchè in principio oltre alle cause da lui chiamate fisiche e morali avendo indicate ancor le miste, di queste poi non ha fatto parola. Alla dissertazione aggiunse un supplimento, che non rimedia a questo difetto, e solamente rischiara alquanto le cose già dette, recando l'etimologia di parecchie voci. Ma se alcune di queste etimologie sono commendabili per una certa spontanea naturalezza, che si concilia la persuasione altrui, o per acutezza d'ingegno, con cui son derivate non senza molta verisimiglianza, altre ve n'ha troppo forzate. Tali a cagion d'esempio sono quelle di Kein (che in Tedesco significa nessuno) da οὺχ ἕν; di von ( da proposizione nella stessa Lingua) da ἀφ' ὤν; e più altre.
L'accusa medesima vuolsi dare alle due dissertazioni sull'origine della lingua Alemanna, e sull'origine comune delle lingue Alemanna, Schiavona, o Polacca, e Latina, e su quella dell'Italiana. Il Signor Denina è sollecito di mostrare la somiglianza, che queste lingue hanno colla Greca, nella qual cosa più altri Scrittori l'hanno preceduto, e seguitato. La trova egli 1. in alcune voci per mezzo dell'etimologia, di che ho già detto abbastanza: 2. nella terminazione dell'infinito, che in Tedesco è in en e in Greco in ειν; e in alcuni dialetti in ην o in μεν. 3. in quell'aumento della sillaba ge, che in Tedesco prende il tempo preterito. E giudica questo aumento simile alla reduplicazione de' Greci, e dice: il est vrai que les Allemands s'eloignent un peu de la pratique des Orientaux: car au lieu de redoubler les consonnes initiales des verbes ils leur ont substituè le g peut être parceque cela étoit plus facile, mais il n'est pas douteux que cela ne soit venu des langages de l'Asie mineure d'ou est sortie la grecque, et que ce redoublement ne se soit affoibli ou perdu en s'avançant vers le Nord et en s'eloignant de sa source. Il ge aggiunto nella lingua Tedesca al tempo preterito è una particela inseparabile, di cui s'ignora adesso il significato, ma certamente nell'antico Teutonico, significava qualche cosa. Si vede anche ora, che in alcune voci composte indica moltiplicità, unione di cose, onde per esempio da mein mio, si fa gemein comune, da balken trave si fa gebalke le travi del tetto. Io non so, se ancora in altro senso si usasse, e come o perchè si adoperasse per indicare il tempo preterito; ma nell'ignoranza stessa in cui siamo intorno a ciò parmi, che si possa asserir con certezza, che niuna somiglianza ha quella particola colla reduplicazione de' Greci. Questa non è una particola o preposizione inseparabile, ma un aumento, di cui non è nota l'origine e il motivo; laonde è diversa essenzialmente, l'aggiunta adoperata dai Tedeschi da quella dei Greci. Arroge a ciò, che la reduplicazione de' secondi forse non era usata nei tempi più remoti, come dubitano alcuni solenni Grammatici, osservandosi, che nel dialetto Jonico non rare volte si tralascia.[5] Or supponendo, che una colonia Greca, passasse a popolare il paese, che poi si chiamò Germania, questo avvenimento esser deve antichissimo, giacchè niuna storia ne fa menzione; quindi non poteva essa recare in quelle terre l'uso della reduplicazione, e recarvelo in modo, che sempre si adoperi, ove il verbo non sia composto con una particella inseparabile, mentre nella Grecia essa non era anche introdotta, e in tempi assai posteriori l'uso non ne era così costante e universale.
Checchè sia di questo non si può dubitare, che qualche somiglianza non si scorga fra la lingua Tedesca, e la Greca: ma questa somiglianza non conduce il Sig. Denina a credere, che la prima sia figlia della seconda, e piuttosto vorrebbe, che amendue provenissero da una madre comune. Questa dirsi potrebbe la Scitica, ove si prestasse fede alle ingegnose ipotesi del Bailly del Court de Gebelin, del Wachter, dell'Ihre, ed altri. L'Accademico di Berlino però rigettando quell'opinione arbitraria ama meglio di ricorrere alla lingua de' Traci o dei Frigi, ma a me non pare, che il suo avviso sia più fondato del primo. Altre osservazioni domanderebbero le altre dissertazioni, non giudico però necessario di trattenermi più a lungo intorno ad un autore, dotto certamente e rispettabile, ma che in questo argomento, se non erro, troppo ha seguito congetture non sempre felici.
Dell'origine della lingua Italiana. CAPO II.
Fu già questione lungo tempo agitata fino dai secoli trapassati qual sia l'origine della lingua Italiana. Leonardo Aretino, il Cardinal Bembo, Celso Cittadini, ed altri autori trattarono questo[Pg 12] argomento, ma non lo fecero in modo, che togliessero ai posteri l'adito a disputare novellamente. Ne scrissero nel Secolo decimottavo il P. D. Angelo della Noce,[6] Uberto Benvoglienti,[7] e il Quadrio,[8] ma lo fecero sì scarsamente, che io contento d'averli sol nominati passerò tosto a far parola del Marchese Maffei, del Muratori, del Fontanini, e del Tiraboschi, i quali con maggior copia d'erudizione, ed accuratezza esaminarono sì fatta questione.
Il Maffei dopo aver detto nella scienza cavalleresca,[9] che l'Italia per l'invasione dei Barbari cambiò la lingua, e i nomi degli uomini e dei paesi, nella Verona illustrata[10] mutò opinione, e sostenne, che la lingua Italiana provenne dall'abbandonar del tutto nel favellare la Latina nobile, gramaticale, e corretta, e dal porre in uso la plebea, scorretta, e mal pronunziata. Confermò egli la sua asserzione pretendendo, che de' conquistatori dell'Italia pochi ne rimanessero, nè potessero perciò alterare la lingua del Paese. La confermò osservando, che la lingua de' Longobardi e degli altri popoli, che inondaron l'Italia e la soggiogarono era aspra per molte consonanti e dal mischiamento di queste non poteva derivarne una nuova, in cui le vocali avessero tanta parte, come è la nostra. La confermò adducendo parecchie voci Latine, come testa per caput, caballus, e caballinus per equus, ed equinus, laetamen per fimus, nanus per pumilio, tonus per tonitru, bramosus per cupidus, e simili, che ora sono Italiane. La confermò ricordando le aferesi, le sincopi, e le apocopi, o vogliam dire gli accorciamenti di lettere, e di sillabe in principio, in mezzo, e in fine usati dai Latini assai volte e i cambiamenti delle lettere affini. E finalmente per tacere d'altri argomenti la confermò dicendo che anche l'uso del verbo ausiliare avere, il quale si crede passato a noi dalla Germania, fu prima presso i Latini, e ne reca alcuni esempj, ed assai più ne accenna il Signor Abate Denina in due luoghi delle sue dissertazioni testè citate. Ma è falso, che pochi avanzi dei Longobardi, e degli altri invasori rimanessero quì, come dimostra il Muratori, che anzi furono moltissimi, e questi avendo in mano le redini del governo, e le dignità tutte occupando ecclesiastiche, e civili recarono necessariamente una mutazion grande alla lingua. Falso è che dalle lingue di questi popoli aspre per molte consonanti, e dalla Latina nascere non potesse la nostra dolcissima. La lingua latina non ha maggior copia di consonanti dell'Italiana se non nelle terminazioni. Ora queste essendo diverse secondo le modificazioni de' nomi, e de' verbi chi ignora la lingua tralascia facilmente quelle desinenze varie secondo i diversi casi, e perciò appunto difficili a ricordarsi. Bisognerebbe svolgere maggiormente quest'asserzione, ma io non posso arrestarmi a lungo ad ogni passo, e debbo continuare l'intrapreso cammino. Non giova poi l'addurre le parole e gli accorciamenti, che il Maffei adduce, perchè volendosi che la nuova lingua sia un alterazione della Latina debbono in quella esser rimaste tracce moltissime di questa. Quindi ammettere si potrebbe ancora, che l'uso del verbo ausiliare avere venga dal Latino, nè per ciò l'opinion sua avrebbe maggior forza. Vuolsi però riflettere, che i Latini rarissime volte l'adoperarono, e noi siamo costretti d'usarlo continuamente avendo i nostri verbi più e diversi tempi ne' quali esso è necessario, siccome appunto avviene nella lingua Tedesca, la quale l'adopera ne' tempi medesimi, in cui noi pur l'adoperiamo.
Ma il Muratori raccogliendo maggior copia d'antichi monumenti, e più minutamente esaminandoli sostenne un'opinione diversa, e più probabile. L'ignoranza, nella quale cadde miseramente l'Italia per la venuta de' popoli barbari, fece dimenticar le regole della lingua Latina, di modo che nè la sintassi, nè le desinenze de' varj casi ne' nomi, o delle persone nei varj tempi e modi de' verbi più si osservarono. Si aggiunse gran numero di voci nuove tratte dagl'idiomi de' conquistatori, e certe proprietà di questi, come l'uso del verbo ausiliare avere, e dell'articolo. Del primo ho parlato pur ora; e del secondo parlerò adesso brevemente. L'articolo forse derivò a noi dall'antica lingua Teutonica, e fu da prima un accorciamento del Latino pronome ille. Si disse prima illo Caballo, illa hasta, illae foeminae, e poi il, o lo Caballo, la asta, le femine.
Nelle Litanie del 790. pubblicate dal Mabillon in Analect. si legge Adriano Summo Pontefice, et universale Papa. Redemptor Mundi, tu lo ( illo cioè illum ) juva, e appresso, tu los ( illos ) juva. In un diploma di Carlo Magno dell'808.[11] si legge: inde percurrente in la Vegiola, ex alia vero parte de la Vegiola ec. E nelle formole di Marcolfo Lib. 1. Cap. 17. Sicut constat antedicta Villa ab ipso Principe lui fuisse concessa, dove lui secondo alcuni viene da illui che nel lor Latino avranno detto per illi, o secondo il Menagio da illius.[12] Aggiunge finalmente il Muratori a confermazione della sua opinione una lunga serie di voci, che provengono dalla Germania, la quale si accrescerebbe di molto, se le antiche lingue degl'invasori d'Italia fossero più conosciute. Il commercio poi, e le crociate trassero a noi dagli Arabi alcune parole, ed appartengono ad arti, come Alchimia, caraffa, lambicco, ec. o a mercatura come canfora, cremesi, lacca ec. o a milizia come Alfiere, Tamburo ec. Molte ne dette la Provenza per lo studio, che in Italia si fece della Poesia Provenzale, ed alcune la Spagna.[13]
L'avviso del Muratori riguarda l'origin prima della lingua, e in ciò fu seguitato dal Fontanini[14] dal Bettinelli[15] dal Tiraboschi.[16] Ma vuolsi passare innanzi, ed indagare donde a lei derivò altra ricca messe di parole, e di modi di dire. Ciò avvenne per la poesia; onde dell'origine della nostra poesia vuolsi tenere ragionamento, e di coloro che nel passato secolo questa parte della storia dell'Italiana letteratura presero ad esaminare. La poesia Italiana diversa è dalla Greca e dalla Latina, perchè queste fanno consistere i versi in un certo numero di piedi composti di sillabe lunghe, e brevi secondo certe leggi, e la nostra li fa consistere solamente in un certo numero di sillabe con certi accenti posti in luoghi determinati secondo la diversa qualità de' versi, e nella rima. Dico anche la rima, perchè ne' primi tempi non v'era fra noi poesia che ne mancasse. Dell'uso della rima presso i Latini ne' tempi antichi, e ne' secoli barbari, e dei versi regolati non dai piedi ma dal numero delle sillabe, parla a lungo il Muratori;[17] ma le sue erudite osservazioni tralascerò io di ricordare, come quelle che aliene sono dal mio argomento. I primi a poetare fra gl'Italiani furono i Siciliani secondo il Petrarca.
Ecco i due Guidi che già furo in prezzo Onesto Bolognese, e i Siciliani Che fur già primi, e quivi eran da sezzo[18]
Ma i Siciliani imitarono i Provenzali secondo il Crescimbeni,[19] il Fontanini[20], ed altri. Il Muratori però non mostrò d'esser persuaso abbastanza da questa opinione, ed oppose le parole citate dell'epistole familiari del Petrarca, dalle quali a lui parve potersi dedurre, che i Siciliani fossero stati i primi a prendere questa maniera di far versi da' Latini, e dai Greci. Il Tiraboschi riconobbe anteriorità ne' Poeti Provenzali, ma dell'obiezione del Muratori non fece parola. A me sembra però, che il Petrarca voglia in quel luogo indicare l'origine più remota della rima, (che è il Lazio, e la Grecia certamente), e la nazione che in Italia precedette l'altre nel far versi, la quale è la Siciliana, senza volere poi indagare, se i Siciliani in ciò abbiano imitati i Provenzali. Diciamo dunque co' mentovati scrittori essere probabilmente l'Italiana Poesia derivata dalla Provenzale, ed avere avuto il suo nascimento in Sicilia alla metà del secolo XII. o poco dopo. Se poi la Provenzale provenga dall'Araba, come sospetta il dottissimo Padre Andres[21] non è di questo luogo l'esaminarlo. Quindi venne un aumento non piccolo di voci, e di modi di dire alla nostra lingua. Lo negò il Muratori[22] secondando troppo il desiderio di contradire il Fontanini, ma per assicurarsi di questa verità basta volgere uno sguardo al Vocabolario della Crusca, alla Crusca Provenzale del Bastero, alle Lettere di Fra Guittone, ed agli altri Poeti del Secolo decimoterzo.
Dei pregj della Lingua Italiana. CAPO III.
Ma tempo è ormai che lasciamo la nostra lingua nascente, e la osserviamo adulta considerandone i pregj. Di questi ha scritto il Signore Napione[23] e lo ha fatto in modo, che ogni leggitore dee rimaner dubbioso, se debba in lui commendar più la dottrina, che è grandissima, o le belle qualità del cuore, che alla sua dottrina non sono inferiori. Certo è che mentre egli si mostra amantissimo della patria, e dell'Italia, e cerca di promuoverne la gloria, espone i pregj di nostra lingua, e accenna come si possa e convenga diffonderne l'uso fra le gentili e colte persone di tutta Italia. Colla ragione adunque, e colla testimonianza de' più celebrati scrittori delle straniere nazioni ne mostra i pregj, e ribatte le meschine obiezioni, che fece già il P. Bouhours, e pochi altri prima, e dopo di lui. E siccome uno de' principali suoi pregj a confessione di tutti è l'armonìa, da che ne viene, che essa abbia una facilità grandissima[Pg 19] per esprimere ciò, che si chiama armonìa imitativa, non debbo quì tacere, che il Signor Cesarotti avendo asserito nel suo saggio, che tutte le lingue si prestano ad un'armonìa imitativa, ne' rischiaramenti apologetici poi disse, che l'armonìa imitativa si trova in una lingua, quando essa sia tanto armonica quanto il comporta la sua struttura e il rapporto tra gli oggetti e i suoni della detta lingua[24]. Queste parole però ristringono tanto la proposizione, che non le lasciano più luogo di comparire. Io dubito molto, che scrivendo il saggio egli non avesse nell'animo tanta restrizione, che se l'avesse avuta par probabile, che avrebbe giudicato inutile d'esporla. Segue poi dicendo non esser cosa agevole nè sicura di giudicar dell'armonìa di una lingua straniera; il che ognuno gli concederà generalmente parlando. Egli però dovrà concedere altresì, che talvolta vi sono almeno due mezzi per rendere agevole e sicuro questo giudizio. Il primo è quando più e diverse nazioni antepongono l'armonìa di una lingua straniera a quella della propria: il secondo quando più e diverse nazioni, mentre lodano l'armonìa della propria lingua, fra quelle poi che ad essa sono straniere si uniscono tutte o quasi tutte a dar la preferenza ad una. E tale è il caso della lingua Italiana. Finalmente contro coloro i quali opinano le lingue de' paesi freddi dover essere più aspre oppone il Sig. Cesarotti l'opinione dell'Ab. Denina, il quale disse la Svezzese esser più dolce della Tedesca, e tanto esser più dolce quanto più si estende verso il settentrione, la Polacca esser piacevole ad udirsi, e la Russa accostarsi più d'ogni altra alla soavità della Greca. Io non credo, che l'opinione intorno all'asprezza delle lingue[Pg 20] settentrionali sia vera, ma certo non è l'autorità dell'Ab. Denina, che mi muove punto a crederla falsa. Egli non ha dato prove di saper molto la lingua Tedesca, benchè abbia dimorato qualche anno in Germania, ed è permesso di dubitare che non sia più dotto nella Svezzese, Polacca, e Russa. Sentii un giorno cantare una canzonetta Polacca dal Principe Poniatovvski, e quando egli si fu rimasto dal cantare gli dissi, che la sua lingua mi pareva molto dolce. Egli però mi rispose, che quella dolcezza era solo apparente, e che la lingua è molto aspra, ma qualche artifizio usato cantando, e l'accompagnamento del suono copriva gran parte di quell'asprezza. Così mi è pure avvenuto assai volte di non sentire eccessivamente l'asprezza della lingua Tedesca nelle opere in musica, ma sentirla però moltissimo nei familiari colloquj. Ma torniamo al Sig. Napione.
Mostra egli, che vuolsi usare della nostra lingua piuttosto, che della Latina scrivendo d'ogni scienza e d'ogni facoltà, ed espone i vantaggi, che da ciò debbono derivare. Indi esamina quali siano le cause, per cui la lingua Italiana, che fu già un tempo Lingua universale abbia or cessato d'esser tale, indica le sue vicende, e l'attual suo stato, e propone i mezzi, che reputa più acconci a far sì che popolare, e comune divenga la colta lingua Italiana.
Altri prima di lui avea tentato di ricordare i pregi della lingua Italiana, come Castruccio Bonamici in una orazione accademica, il Salvini in alcuni discorsi, e simili; ma in niuno si trova quella copia di ragioni e d'utili osservazioni, quella giudiziosa critica, quell'ampia erudizione, quell'amor di patria, che quì si vedono ad ogni pagina. Di questi perciò non dirò più lungamente. Dovrei bensì far parola del ragionamento del Sig. Ab. Velo.[25] Se vogliamo prestar fede agli editori delle opere del Cesarotti, in poca o niuna stima lo dovremo tenere. Ma se ascoltiamo il Signor Napione[26] ne giudicheremo altrimenti.
In questa disparità di giudizj crederò di non errare preferendo quello del secondo, il quale non solamente colla celebrità del suo nome, ma ancora colla minuta analisi, che ne fa, persuade il leggitore. Ma non m'è riuscito di vedere quel ragionamento, onde non posso dirne più oltre.
Prima di questi scrittori avea trattato l'argomento medesimo il P. Girolamo Rosasco.[27] Egli però con moltissime parole non dice molte cose, e per ogni riguardo nella sua trattazione deve ceder la palma al Sig. Napione. Ricerca in prima l'origine della lingua e condannando l'opinion di coloro, che il volgo di Roma l'usasse anticamente, la reputa nata dal corrompimento del latino per l'inondazione de' Barbari in modo però, che le lingue di costoro poco influissero su la Toscana Romana e Veneziana, molto su la Bergamasca, Bresciana Lombarda Piemontese e Genovese. Parla poi dell'abbondanza sua, della dolcezza, brevità, ed armonìa paragonandola colla Greca e colla Latina. Parla altresì del modo, che si dee tenere scrivendo nella nostra lingua, ma di ciò ragionerò altrove. Prima ancor del Rosasco, anzi al cominciamento del secolo scrisse Anton Maria Salvini una lezione su questo argomento:[28] ne scrisse però brevemente in modo, che la sua celebrità, non l'utilità dell'opera mi ha indotto a nominarlo.
Se nelle cose letterarie si debba scrivendo usare la lingua Italiana più tosto che la Latina. CAPO IV.
Ho detto, che il Signor Napione vuole, che in ogni scienza, e in ogni facoltà si usi scrivendo la lingua Italiana, piuttosto che la Latina. Fu già un tempo, in cui si credeva, che la nostra lingua atta fosse solamente a trattar d'amore, ed altrettali soggetti di lieve momento, e nulla di grande dir si potesse con essa. E furon parecchi uomini dotti nel secolo decimosesto, che acremente inveirono contro di lei sostenendo, che le scienze tutte, e la storia, e le opere di eloquenza, e di poesia scrivere si dovessero in Latino. Fu gran ventura però, che molti in quella, e nell'età seguenti le vane loro declamazioni e i loro sofismi rigettassero coi fatti più ancora che cogli argomenti, onde l'Italia di tanti libri eccellenti si può gloriare scritti nel volgar nostro in ogni maniera di letteratura. Non mancarono però nel secolo di cui parliamo scrittori, che ancora colle ragioni abbiano validamente sostenuta la contraria sentenza. Non parlerò del Bonamici[29] e del Bettinelli[30], che ne parlarono solo per incidenza. L'Algarotti ne trattò più direttamente:[Pg 23][31] ma a me pare, che adoperando argomenti non buoni egli abbia indebolita un'ottima causa. Ricorda le espressioni gentilesche mal a proposito posta dal Bembo nelle lettere pontificie, di che già da tanti si è parlato; ricorda la sconvenevolezza d'adattare a piccoli oggetti espressioni grandiose, e magnifiche usate già dai Romani, e degne solamente di loro, e di pochi altri: il che prova solamente l'irragionevole superstizione dirò così e il difetto di giudizio in coloro, che cadono in sì fatti errori. Ma lasciando più altre cose, che in quel saggio si vedono meritevoli di censura una sola ne voglio aggiungere, ed è la riprensione, che fa l'Algarotti a' moderni scrittori latini chiamandoli centonisti rivestiti delle spoglie, e delle divise altrui. Or a me fa maraviglia, che un uom dotato di gusto squisito e intendente della lingua latina, come egli era, possa chiamar centonisti il Fracastoro il Vida il Sannazaro il Molza il Flaminio, il Navagero il Bembo il Bonfadio il Manuzio il Sadoleto e tanti altri che egregiamente in versi o in prosa scrissero nella lingua del Lazio nel secolo decimosesto, giacchè di quelli, che onorarono il decimottavo, farò parola altrove.
Assai meglio sostengono la causa della lingua Italiana il Vallisnieri[32], il Gravina in un dialogo de lingua latina, e meglio forse la sostenne altresì il Buganza,[33] di che mi assicura assai la celebrità dell'autore, quantunque l'opera sua non mi sia venuta alle mani. Ma certamente nulla ha lasciato a desiderare su quest'argomento il signor Napione nell'opera testè citata, dove, colle più giudiziose riflessioni dimostra l'utilità, che all'Italia ne verrebbe ed alle scienze, insegnandole nella nostra lingua.
In qual modo si debba far uso della lingua Italiana scrivendo. CAPO V.
Ma un'altra quistione agitata già prima ne' secoli decimosesto, e decimosettimo, e rinnovata aspramente nel decimottavo devesi ora da me accennare. Questa lingua, nella quale dobbiamo scrivere, e molti parlano è ella lingua viva, o morta col cadere del secolo decimoquarto, dimodochè non sia più lecito d'aggiugnere nuove voci dopo quell'epoca? È propria solo di Firenze, o della Toscana, o di tutta l'Italia? Dobbiamo noi sottoporci docilmente al freno dell'Accademia della Crusca, nè recedere da' suoi giudizj, o spregiarli, come arbitrarj? Se ascoltiamo il Becelli nel quinto de' suoi dialoghi[34] noi dobbiamo usare scrivendo la lingua del trecento; ed egli vuole, che dopo quell'epoca fortunata la nostra lingua sia lingua morta. Pochi però per buona sorte sono di questo avviso, i quali chiamar si possono, come altri già li chiamò, Giansenisti della Crusca. Parecchi con più ragione si contentano di chiamar buon secolo quello del trecento, perchè comunemente in Toscana si scriveva allora con purità. Nelle età seguenti vennero altri scrittori prestantissimi in molto numero, che si procacciarono somma lode, ma lo scrivere puramente non fu una[Pg 25] gloria così comune, come a quei giorni. Oltre a ciò v'ha in quegli antichi una certa grazia, che incanta, la quale pochi de' loro successori hanno voluto ritrarre nei loro scritti: o se han voluto imitarli anche in questo, pochissimi (se non m'inganno) hanno saputo farlo con quella naturalezza. Si condannano gli scrittori del trecento di avere usati certi modi antiquati, e periodi lunghi, che stancano il leggitore, con una trasposizione spesso forzata, ed incomoda. Ma il primo non è difetto per essi, e il secondo appartiene piuttosto all'eloquenza, di che non parlo in questo luogo. Ma poi domando io, questo secondo difetto è forse negli ammaestramenti degli antichi, nelle vite de' Santi Padri, nel Cavalca, in Fra Giordano, nel Passavanti, e in altri parecchi, che potrei nominare? No certamente, e quegli scrittori, che li accusano convien dire, che non li abbiano letti. Strana cosa è poi il chiamar morta una lingua, che tuttora si parla, e si scrive; nè meno è strano il togliere agli scrittori la facoltà d'accrescere di nuove voci e di nuove maniere una lingua viva, purchè si faccia con certe regole, ed ove il bisogno lo richieda. Così fecero quei valenti scrittori, che più sono pregiati in Italia, e fuori. Ma di questo tornerà in acconcio tenere altrove discorso, dopo che avrò parlato di coloro, che hanno trattato della seconda questione.
Siena usa d'un grazioso dialetto, e alcuni suoi chiarissimi scrittori, come Claudio Tolomei, Celso Cittadini, Scipione Bargagli ne' loro libri l'hanno tenacemente seguitato, ed han preteso di seguitarlo a ragione. Si rinnovò nel passato secolo la contesa per opera di Girolamo Gigli, il quale voleva che le voci da S. Caterina da Siena adoperate, e da parecchi altri scrittori Senesi, fossero dall'Accademia della Crusca accolte nel suo Vocabolario. Già ne avea adunate forse cinquecento, delle quali gran parte (se a lui dobbiamo prestar fede) era stata approvata da Anton Maria Salvini.[35] Per meglio riuscir nel suo intento meditava di stampare i principali scrittori Senesi in 37. volumi, di che dette il prospetto fino dal 1707. e poi fece stampare in Lucca l'opere di S. Caterina, che furono con erudite annotazioni illustrate dal P. Federigo Burlamacchi della Compagnia di Gesù. Quindi compose un vocabolario delle parole, e modi di dire usati dalla Santa e degni di speciale osservazione. Sopra alcune di queste voci bramò egli di conferire col Cav. Anton Francesco Marmi dottissimo Fiorentino, coll'Arciconsolo della Crusca, e con Anton Maria Salvini, di che scrisse al Marmi, pregandolo altresì, che gli procacciasse una lettera dell'Accademia della Crusca o dell'Arciconsolo, o almeno di qualche erudito Accademico in commendazione delle opere della Santa. Ma non ottenne il suo intento. Forse quell'Accademia, che volea cogliere il più bel fiore della lingua da quelle opere temette non forse lodandole essa con una lettera, paresse a molti, che per lei si approvasse tutto ciò che vi si conteneva. Ma quello che ricusò la Crusca, gli concedettero facilmente molte altre Accademie Italiane[36]. E' da credere, che di quì nascesse il suo mal talento verso la Crusca, che ridondò poi tutto in suo danno. Era il Gigli uomo non di molta dottrina, ma soverchiamente mordace,[37] e di motti pungenti contro l'Accademia, contro qualche Personaggio illustre, e contro la Nazione Fiorentina riempì il Vocabolario Cateriniano, il che fu a lui cagione di lunghe e gravi sciagure. Io tralasciando la storia di questo, che può vedersi nella sua vita, considererò brevemente il Vocabolario Cateriniano. Ove da questo si tolga tutto ciò che v'ha di satirico, e d'inutile, quel volume si ridurrebbe a piccola mole, e allora sarebbe esso stato pregevole, e più gradito. Parecchie voci usate dalla Santa sono veri idiotismi difettosi, che doveano avervi luogo per erudizion solamente. Ma altre ve ne sono degne di lode, delle quali alcune dai compilatori del Vocabolario della Crusca furono collocate nell'ultima edizione, e qualche altra ancora avrebbero forse potuto collocarvi. Errava il Gigli pretendendo, che gli Scrittori tutti più celebri della sua patria riputar si dovessero come legislatori, ed esemplari di nostra lingua, quantunque per loro instituto seguendo il dialetto Senese recedano dalle regole della lingua medesima. Egli osserva che Ennio Plauto Catone Terenzio Pacuvio Cicerone Virgilio Orazio Catullo Properzio Livio Ovidio Vitruvio Sallustio nel secol d'oro, Fedro Patercolo i due Senechi Lucano Marziale Quintiliano Persio Giovenale Stazio i due Plinii Columella nel secol d'argento erano forestieri, e pure non furono esclusi dal numero de' legislatori della lingua Latina. Così per suo avviso non si debbono escludere i buoni scrittori delle diverse provincie della Toscana. Io non nego, che i buoni scrittori debbano essere adottati, e molti in fatti ne adottò l'Accademia della Crusca non solo da quelle provincie, ma da tutta l'Italia. Il che essa fece, perchè vuolsi prendere ciò che è buono, ovunque si trova, non per l'esempio dei Latini addotto dal Gigli. Il Gigli dovea provare, che quei forestieri del secol d'oro scrivessero secondo il natìo dialetto, non secondo il dialetto di Roma. Nè bastava che asserisse, ma dovea provare eziandio, che la lingua latina si arricchisse a quella età delle voci, e modi di dire delle straniere nazioni. Si sa bensì, che Lucilio biasimava in Vectio l'uso di qualche voce Etrusca.[38] Pollione rimproverava a Tito Livio non so quale sua Patavinità, (se pure non fu questa una vana, e maligna accusa di quel critico) e Vitruvio certamente non aveva speranza d'esser reputato legislatore di lingua; ma anzi in principio della sua opera domandò perdono, se in alcuna cosa fosse caduto, che alle regole della Grammatica fosse contraria.[39] Cicerone era in filio recta loquendi usquequaque asper exactor;[40] onde non è da credersi, che non si guardasse dagl'idiotismi d'Arpino. Io non dirò, che taluno di questi ottimi scrittori non adoperasse talvolta qualche voce straniera; dico solamente, che allora non erano giudicati legislatori della lingua Latina, ma venivano ripresi. Quintiliano chiama ciò barbarismum gente, e mostra, che vi caddero Catullo, Persio, Labieno, e Cornelio Gallo;[41] e Cicerone rinfacciò ad Antonio la parola piissimus, che non era della lingua Latina. Tu porro ne pios quidem, sed piissimos quaeris, ut quod verbum omnino nullum in lingua Latina est, id propter tuam divinam pietatem novum inducis.[42] Cap. 19. Così Quintiliano condanna la parola gladiola usata da Messala quantunque si dicesse gladium ugualmente che gladius. È falso dunque, che i forestieri scrittori fossero riguardati, come legislatori della lingua anche allora, che modi nuovi adoperavano, e voci nuove. Si dirà forse da taluno, se gli scrittori Senesi, Lucchesi ec. del secol decimoquarto furono adottati, perchè non si adottarono ancora il Tolomei, il Cittadini, ed altri del sestodecimo? A questa domanda risponderà per me un dotto Senese, cioè Uberto Benvoglienti. Nel buon secolo pochissima differenza passava fra lo dialetto Senese, e Fiorentino. Decadde la lingua nel secol decimoquinto; nel seguente però si volle richiamare al suo splendore, ma per la moltitudine de' forestieri, che erano nella Città (di Siena) e forse anche per altra cagione non potè il dialetto Senese rialzarsi all'antico suo splendore—La differenza dei dialetti era piccola da principio, e poi certi idiotismi non erano così universali, che non si scrivesse in Siena ancora alla maniera Fiorentina, onde ne' loro scritti si trova povero, e povaro, essere, ed essare, leggere, e leggiare ec. ec.[43]
Ma l'opinione del Gigli non bastò ad altri, i quali aspiravano ad una libertà di gran lunga maggiore. Fra quanti furono patrocinatori della libertà ricorderò solamente il Cesarotti, il quale per sottigliezza d'ingegno, e per apparato di filosofiche ricerche tutti superò gli scrittori, che lo precedettero in questo arringo. Egli dichiaratosi campione della libertà nel fatto della lingua sgrida coloro, che sono di contraria opinione, e acceso di sdegno, che non è però senza grazia, esclama colle parole del Marmontel, O Subligny tu pretendevi di saper la grammatica meglio di Racine! prosiegue poi egli, O Infarinati, o Inferrigni voi pretendeste di saper grammatica, e poesia meglio del Tasso! O Castelvetro, tu pretendevi di sequestrare in bocca al Caro tutte le voci, che non erano del Petrarca! O..... O..... O..... O razza eterna de' Subligny, tu siei pur propagata in Italia?[44] Ma se il Signor Cesarotti ha reputata cosa lodevole il mordere aspramente Omero, e criticare Orazio, e parecchi de' Greci Oratori, se egli ha creduto di ravvisare tanti errori gravissimi in quegli uomini sommi,[45] perchè non potrà altri ravvisare qualche errore nel Tasso, e nel Racine, sommi uomini anch'essi, e nel Caro inferiore a quei due, ma scrittore illustre egli pure? Ma essi furono accusati d'errori grammaticali, come se l'uomo di genio non avesse mai diritto di parlare senza l'uso, nè innanzi all'uso, dice il Signor Cesarotti colle parole del Marmontel. E non sono uomini anch'essi, e perciò sottoposti ad errare? E quanti sono gli errori, che nelle più insigni opere d'ogni età e d'ogni nazione si trovano, e che i Grammatici onestano col nome d'enallage, e con altri simili? Certo è che nell'ottima edizione delle opere di Racine procurata dal Signor Geoffroy, e da lui corredata di belle annotazioni, si vede talvolta in queste indicato qualche errore grammaticale di quell'egregio poeta. Nè intendo con ciò di condannare il Tasso, ed approvare le dicerìe degli Infarinati e degl'Inferrigni. Dio mi guardi da ciò. Leggo, e rileggo la Gerusalemme, e poche pagine ho letto di quelle critiche. Dico solamente, che si debbono riprendere que' critici, quando le loro censure sono irragionevoli, ma non si debbono riprendere, perchè hanno criticato il Tasso, e meno degli altri lo deve fare chi ha creduto di poter condannare Omero, Demostene, ed Orazio.
Ma lasciamo star ciò, e vediamo almeno in parte il sistema di questo chiarissimo Autore. Una lingua (egli dice) nella sua primitiva origine non si forma che dall'accozzamento di varj idiomi..... Poichè dunque molti idiomi confluirono a formare ciascheduna Lingua, è visibile che non sono tra loro insociabili, che maneggiati con giudizio possono tuttavia scambievolmente arricchirsi; e che questo cieco aborrimento per qualunque peregrinità è un pregiudizio del pari insussistente, e dannoso al vantaggio delle lingue stesse. Dubito che in questo discorso la conseguenza non sia giusta. La lingua nostra nata è dalla Latina, e da quella de' popoli settentrionali, che invasero l'Italia. Dunque la lingua degli Unni, de' Goti de' Vandali de' Longobardi non è insociabile colla nostra? E qual vincolo di società può essere fra idiomi d'indole così diversa? Assai son quelli per molte consonanti insieme unite, e la nostra è dolcissima, e grave nel tempo stesso per una conveniente temperatura di quelle, e delle vocali, talchè se or si volesse togliere dall'antico Teutonico alcuna voce, e farla nostra uopo sarebbe alterarla in modo che non fosse più dessa.
Anche i diversi dialetti delle parti diverse d'Italia debbono a suo giudizio contribuire ad arricchir la lingua. Egli vorrebbe, che siccome facevasi in Grecia, si scrivesse in tutti i principali dialetti, con che si renderebbero tutti più regolari, e più colti, e da questi approssimati e paragonati fra loro avrebbesi potuto formare, come appunto formossi fra i Greci, una lingua comune, che sarebbe stata la vera lingua nazionale, la lingua nobile per eccellenza composta di una scelta giudiziosa de' termini e delle maniere più ragguardevoli, lingua che sarebbe riuscita ricca, varia, feconda, pieghevole, atta forse colle sole derivazioni sue proprie, senza l'ajuto di linguaggi stranieri, alla modificazione delle idee antiche, o alla succession delle nuove, che si introducono dal ragionamento, e dal tempo.[46] Aggiunge poi in una nota l'opinione di Gebelin, il quale alla libertà di far uso di tutti i dialetti, e di mescolarli fra loro attribuisce la ricchezza, la forza, e l'armonìa della lingua Greca, e in gran parte il genio originale de' suoi Scrittori. I Greci non reputarono ugualmente nobili tutti i dialetti nè li mescolarono in modo, che quindi si formasse la lingua comune. Il dialetto Attico fu per essi il più pregiato, come di fatto era il più gentile, e a poco a poco abbandonarono l'uso degli altri, e si accostarono a questo quegli scrittori ancora, che per la loro patria avrebbero dovuto scrivere in altro dialetto. Non parlo quì de' poeti, i quali più luogo tempo fecero uso di terminazioni Joniche e d'altre simili; ma essi aveano sempre rivolti gli occhi ad Omero loro duce, e maestro, e quelle terminazioni erano considerate come poetiche, e perciò proprie d'ogni dialetto. Quindi i tragici nei cori fanno uso di qualche maniera reputata Jonica, e d'altri dialetti, perchè i cori erano pezzi lirici, e perciò ad essi erano adattate le forme poetiche. Non parlo nè pur di Plutarco, e d'altri scrittori, i libri de' quali sono il risultamento d'una immensa lettura d'opere diverse scritte in diversi dialetti, donde essi toglievano parecchi tratti talora senza citarli, da che ha origine quella disuguaglianza di stile, che nelle opere morali di Plutarco si osserva. Dall'altra parte non sappiamo abbastanza le proprietà de' dialetti, e noi le attribuiamo all'uno o all'altro, perchè le vediamo usate da qualche Autore, che in quello scriveva.[47] Supposta però ancora quella mescolanza di dialetti il Gebelin dopo avere spacciati altri sogni nel suo Monde primitif poteva spacciare ancor questo, che quindi derivasse in gran parte il genio originale de' Greci scrittori; ma il Sig. Cesarotti fornito di molta dottrina, e d'acuto criterio certamente non lo credeva. Lasciamo però il Gebelin, e torniamo al Cesarotti. Vuole egli, che dai dialetti d'Italia si prendano voci, ed acconciandole alla foggia della lingua comune si adottino. Tutti i dialetti non sono forse fratelli? non sono figli della stessa madre? non hanno la stessa origine? non portano l'impronta comune della famiglia? Non contribuirono tutti ne' primi tempi alla formazion della lingua? Perchè ora non avranno il dritto e la facoltà d'arricchirla? I dialetti di Grecia non mandavano vocaboli alla lingua comune, come le diverse Città i loro Deputati al Collegio degli Anfizioni?[48] Ma se a tutte queste interrogazioni altri avesse risposto negativamente, io non so bene in qual modo avrebbe egli potuto confermarle. Anticamente in una parte grande d'Italia si parlava la lingua Greca, e altrove l'Etrusca l'Umbra l'Osca la Sannita ec. La Latina racchiusa era fra limiti angusti anche a tempo di Cicerone, non che prima di lui. Graeca leguntur in omnibus fere gentibus, Latina suis finibus exiguis sane continentur.[49] Roma obbligò i popoli soggiogati a imparare la lingua Latina; ma non per questo si estinsero affatto le altre lingue. In Grecia si parlò sempre la Greca, come tutti sanno; in Affrica la Punica, come attesta S. Agostino in più luoghi; e nelle Gallie la Gallica, o Celtica, come dice S. Ireneo.[50] Dominò assai più il Latino in una parte dell'Italia, ciò non ostante nelle regioni più lontane da Roma, come la Magna Grecia, la Liguria, la Gallia Cisalpina, deve necessariamente esser rimasta, ove più ove meno gran parte de' loro idiomi. Nell'Umbria, nell'Etruria, e nell'altre parti meno lontane da Roma si parlò a poco a poco il Latino, quantunque alquanto alterato principalmente fra il popolo, e nel contado; e di queste provincie si può dire, che la loro lingua ebbe per origine e madre la Latina. Vennero poi i popoli barbari i quali si sparsero in diverse parti, ed alterarono le lingue, o vogliam dire i dialetti, che vi trovarono. Quindi a mio giudizio hanno origine le diverse maniere di parlare, che ora si osservano nel Piemonte, nel Genovesato, nella Lombardia, nel Veneziano, nella Toscana, nella Romagna, nel Napoletano, nella Sicilia. Non da una sola origine dunque vennero i dialetti d'Italia, nè si trova in essi pure l'impronta comune della famiglia. Basta scorrer per poco l'Italia per conoscere una lingua nel Genovesato, un altra nel Piemonte, una nella Lombardia, un'altra nel Veneziano, una nel Napoletano, e nella Sicilia, e tutte diverse da quella, che si parla in Toscana, e in una parte dello Stato Romano. Diversità nelle declinazioni, nelle conjugazioni, nelle parole, nelle frasi; talchè un Toscano o un Napoletano non intende il linguaggio Genovese, o il Piemontese. E dov'è dunque l'impronta comune della famiglia? In una cosa tanto manifesta credo inutile di trattenermi, confermando questa mia proposizione, e già sono rese di pubblica ragione colle stampe parecchie poesie Napoletane, Bolognesi, Milanesi, onde ogni uno può agevolmente di per se stesso vedere la disparità immensa, che passa fra ciascuna di queste lingue, e la Toscana o Italiana. E giacchè si ricordano sempre i dialetti della Grecia non debbo tacere, che i Greci oltre ai dialetti principali Eolico, Jonico, Attico, Dorico, oltre al Poetico, che era comune a tutti ne avevano ancora altri minori, e nobili meno, che propri erano di Città, e Nazioni diverse. Esichio, Suida, l'Etimologico, e gli altri Lessicografi Greci ci hanno tramandate molte voci de' Laconi, de' Cretesi, de' Tessali, de' Macedoni, e d'altri popoli. Ma in questi dialetti non si scrivevano cose letterarie, e solamente si usavano in oggetti familiari, ne' decreti dei governi, e in altre simili cose. Quando Filippo scrisse agli Ateniesi le lettere, che abbiamo fra le opere di Demostene, non le scrisse già egli nella sua lingua nativa, ma sì nel dialetto Attico. E pure quei dialetti non erano tanto lontani dalla lingua comune, quanto le diverse lingue d'Italia sono lontane dalla comune lingua degli scrittori Italiani.
Ma se tanto sovente si ricorre alla Grecia a me sarà concesso di ricorrere a Roma, e ad un uomo, che era nel tempo stesso oratore filosofo e poeta eloquentissimo e dottissimo, voglio dir Cicerone. Egli voleva, che si scrivesse non già nel dialetto d'Arpino, ma latinamente. Quinam igitur dicendi est modus melior..... quam ut latine, ut plane, ut ornate ec. dicamus?[51] E poco dopo: nec sperare (o come altri legge speramus ), qui latine non possit, hunc ornate esse dicturum. Ed alla sua età era cosa comune tanto il parlar puramente, che non destava maraviglia il farlo, ma veniva deriso chi no 'l faceva. Nemo enim unquam est oratorem, quod latine loqueretur, admiratus: si est aliter irrident; ne eum oratorem tantummodo, sed hominem non putant.[52] Ma per parlare puramente richiedeva, che le parole fossero pure: verba efferamus ea, quae nemo jure reprehendat.[53] Ma qual v'ha mezzo più acconcio per iscrivere puramente? Il leggere gli antichi autori. Essi erano disadorni, ciò non ostante voleva, che si leggessero, e chi si fosse avvezzato al loro stile avrebbe parlato latinamente, anche senza avvedersene. Nè si debbono però adoperare voci disusate, se non parcamente, e per adornamento: ma chi lungamente e con molto studio avrà letti i libri degli antichi adoprerà sì le parole usitate, ma le più scelte e le migliori. Sunt enim illi veteres, qui ornare nondum poterant ea, quae dicebant, omnes prope praeclare locuti: quorum sermone assuefacti qui erunt, ne cupientes quidem poterunt loqui, nisi latine. Neque tamen erit utendum verbis iis, quibus jam consuetudo nostra non utitur, nisi quando ornandi causa, parce, quod ostendam: sed usitatis ita poterit uti, lectissimis ut utatur is, qui in veteribus erit scriptis studiose multumque volutatus.[54] Nè gli bastava, che le voci fosser latine, ma la pronunzia altresì voleva che fosse Romana. Quare cum sit quaedam certa vox Romani generis, urbisque propria..... hanc sequamur; neque solum rusticam asperitatem, sed etiam peregrinam insolentiam fugere discamus.[55] E questa pronunzia Romana vuol, che s'impari dagli antichi; e perciò loda Lelia moglie di Q. Scevola, e suocera di L. Licinio Crasso appunto perchè parlava così. Equidem cum audio socrum meam Laeliam ( facilius enim mulieres incorruptam antiquitatem conservant, quod multorum sermonis expertes ea tenent semper, quae prima didicerunt ), sed eam sic audio, ut Plautum mihi aut Naevium videar audire...... sic locutum esse ejus patrem judico, sic majores.[56]
Ora se Cicerone richiedeva, che gli antichi, benchè rozzi e disadorni, ad esempio si prendessero ed a modello di purità in una lingua, che solo posteriormente si ingentilì e perfezionò col mutar forme e desinenze moltissime, quanto più dovrem noi farlo nella nostra già nel quattordicesimo secolo perfezionata? So che alcuni negano aver la lingua Italiana avuta in quell'età la sua perfezione, e vantano l'eleganza de' moderni scrittori, e le molte voci di che l'hanno arricchita. Ma per non fare dispute vane osservo in prima, che in quel secolo restarono determinate le proprietà della lingua, la sua indole, il vero significato delle parole, la conjugazione de' verbi, e le altre parti tutte quante della lingua medesima; e ciò io credo che sia perfezionare la lingua. L'aggiugnere voci nuove la rende più ricca, non più perfetta: e lo scrivere con eleganza mostra il valor di chi scrive, il quale merita lode per averla bene adoperata. In questo senso dunque io dico, che i moderni non le hanno data perfezione coll'eleganza de' loro scritti. Confesso, che molti ve n'ha d'elegantissimi; e sono quelli, che, lungo studio avendo fatto sugli ottimi scrittori Greci, Latini, nostri, e se a Dio piace ancor dell'altre nazioni, hanno saputo ritrarne molte bellezze, o col proprio ingegno crearne di nuove. Dico però, che l'eleganza consiste nella purità della lingua, e nell'altre parti dello stile. Ora quanto alla prima nulla hanno aggiunto, nè potevano i moderni aggiugnere a quello, che avevan fatto gli antichi; e le seconde non appartengono alla presente disquisizione.
Ma torniamo ai dialetti d'Italia. A favore di questi si ricorda il giudizio di Dante, il quale nel libro della volgare eloquenza dopo la lingua, che a lui piacque di chiamare illustre, cardinale, aulica, e cortigiana, preferisce il dialetto Bolognese agli altri tutti. Ed altri osserva, che fra gli scrittori approvati dalla Crusca il maggior numero di quelli, che non sono Toscani, son Bolognesi. Qual sarà la ragione di ciò? Un celebre scrittore[57] l'attribuisce a quella Università famosa sopra ogni altra, alla quale accorrevano da ogni parte scolari in numero grande, e professori insigni, che per intendersi scambievolmente avranno fatto uso di una lingua comune. Ma, se mi è lecito di oppormi in parte alla opinione d'un uomo così grande, dirò in primo luogo, che Dante non poteva chiamar dialetto Bolognese quella lingua, la quale si suppone, che gli scolari e i maestri parlassero fra loro: e che il dialetto Bolognese esser doveva quello usato dai Bolognesi, non dai forestieri. Dico in secondo luogo, che qualunque sia il motivo, perchè egli lo preferisse, ciò è indifferente per la quistione, che s'agita intorno alla lingua da usarsi comunemente in Italia scrivendo. Dante parla del dialetto, che egli poneva innanzi agli altri, ma lo posponeva a quella sua lingua illustre, cardinale, aulica, e cortigiana: ed io cerco qual sia la lingua, nella quale si dee scrivere, ed è quella appunto indicata da lui. E già intorno all'opinione di Dante hanno egregiamente ragionato i signori Rosini e Nicolini,[58] talchè reputo inutile l'aggiugner nuove parole alle cose dette da questi valentuomini.
Gli stessi dotti scrittori hanno altresì risparmiata a me la fatica d'esaminare un'altra sentenza da altri valentissimi sostenuta. Vuolsi da alcuno, che sia in Italia una lingua scritta diversa dalla lingua parlata come dicono, cioè una lingua, che adoperano i savj ed eleganti scrittori diversa da tutti i dialetti, che nelle diverse parti d'Italia si parlano. Io reputo inutile il ripeter quì ciò che acutamente si è disputato nei libri testè allegati. Ricorderò solamente, che la pura lingua, nella quale si scrive, è quella stessa, che favellando si usa in Toscana dalle colte persone. Qualche non grave differenza in poche cose della conjugazione de' verbi, non è ciò che forma la diversità d'una lingua, come è stato detto, ed io ripeto. Oltre a ciò io domando, quando si formò questa lingua che dicono scritta? Quali sono gli antichi documenti, che facciano testimonianza di questo fatto? Come avvenne ciò? Forse molti uomini dotti si unirono in un congresso? Ma niuna cronica o storia ce ne parla. Forse gli Italiani dispersi determinarono questa lingua? Ma questo parmi impossibile: nè veruna nazione antica o moderna ci offre un esempio di così singolare avvenimento. E se gli uomini dispersi per l'Italia crearono questa lingua tanto diversa dalle natìe par che dovessero esser solleciti di scriverne le regole, cioè una grammatica: ma le prime grammatiche Italiane sono del cinquecento come ognun sa, per opera del Fortunio e del Bembo. E questi primi grammatici non sepper nulla di quel primo accordo, ma i precetti ne cercarono negli antichi autori Toscani. E per qual motivo fu creata questa lingua? Gli uomini dotti sdegnavano di scrivere intorno alle scienze, fuorchè in latino. Il volgare era destinato a cose, che riputavansi di poco momento, versi d'amore, croniche, libri spirituali, qualche laude spirituale, romanzi, novelle, libri di mascalcia, ed altrettali cose per gl'inletterati. I frammenti di storia impressi dal Muratori nelle Antichità Italiane sono scritti nel dialetto Napoletano, o molto simile al Napoletano. I Veneziani autori di croniche citati dal Foscarini hanno usato il lor volgare: e fecero così i lor viaggiatori. A me parrebbe, che questi scrittori avrebbero adoperato altrimenti se stata vi fosse una lingua comune a tutta l'Italia, per universale consentimento destinata per le produzioni letterarie. La Toscana incomparabilmente più d'ogni altra parte di Italia somministra autori delle cose testè indicate, e questi scrissero nel lor volgare, il qual volgare presto si condusse a quella perfezione, che vediamo nel trecento per opera d'alcuni, che seppero scegliere le forme migliori fra quelle usate dal volgo. I forestieri invaghiti di quello stile lo imitarono, e più felicemente forse i Bolognesi. Ciò può ripetersi forse da due ragioni. La prima è l'università, che richiamando colà alcuni Professori, e parecchi scolari Toscani essi avranno parlato la loro lingua, ed avranno portato con loro le rime di fra Guittone, di Guido Cavalcanti, e degli altri poeti di quell'età, e storie, e volgarizzamenti dal Latino, e libri ascetici. La seconda è la vicinanza, e il commercio con Firenze, che dovea produrre lo stesso effetto. Si aggiunga a questo, che gli antichi rimatori Bolognesi si veggono quasi tutti usciti di riguardevoli parentadi, come osserva il Dottor Gaetano Monti parlando d'Onesto degli Onesti,[59] e le loro ricchezze forse, agevolarono ad essi il modo di conversare cogli uomini dotti, e di comprar le opere de' nuovi Autori Toscani. La lingua, che alcuni chiamano comune altro non è, che la lingua Toscana spogliata, come ragion vuole dalle irregolarità del volgo, e dai riboboli. Le sue regole sono esposte nella Grammatica, e il Vocabolario della Crusca comprende una parte grandissima delle sue voci unita ad altre molte, che son poste là per giovar alla storia della lingua, e all'intelligenza degli antichi scrittori; altrimenti sarebbe già avvenuto delle opere loro ciò che de' versi saliari avvenne in Roma, i quali col volger de' secoli più non si intendevano. Lo stesso dotto scrittore testè citato per quell'amore della gloria d'Italia, che lo anima, vorrebbe, che i Principi tutti d'Italia adoperassero favellando questa lingua da lui chiamata comune, e mostrassero desiderio, che tutti quelli, che li attorniano facessero lo stesso, ed ordinassero, che in questa lingua s'insegnasse ogni scienza nelle università, e nelle accademie, ed egli ha speranza, che le gentili persone non terrebbero altro linguaggio familiarmente, ed i dialetti rimarrebbero solamente alla Plebe. Ma io dubito forte che, ove ancora ciò si eseguisse, non per questo si avrebbe una lingua comune, regolata, stabile, e per tutta l'Italia diffusa. Fin da principio quel linguaggio usato alla Corte non potrebbe essere scevro affatto da ogni tinta del dialetto nazionale, e il linguaggio della Corte di Torino non sarebbe lo stesso, che quello praticato alle Corti di Milano, e di Firenze, e di Napoli; e questa diversità anderebbe sempre crescendo, talchè dopo forse cinquant'anni ogni paese avrebbe due dialetti diversi, uno cioè delle gentili persone, l'altro della plebe.[60] Nè mai vi sarà la necessaria uniformità di lingua, se non si ha un canone uniforme per tutti, di cui sia custode un'accademia residente in quella parte, il dialetto della quale sia appunto quella lingua comune, o più d'ogni altro vi si accosti, cioè in Toscana.
Non nega il Sig. Cesarotti, che quell'accademia risieda in Toscana, anzi in Firenze: ma vuol che abbia altri accademici d'ogni nazione con parecchi cooperatori, i quali colgano il meglio di ogni dialetto per arricchirne la lingua comune. Ma ciascuno di questi accademici mandando parole, e modi di dire della sua patria vorrebbe poi, che i suoi scelti fossero a preferenza di quelli di altre nazioni; e quindi nascerebbono letterarie discordie interminabili, che farebbono perire la nuova accademia sul primo suo nascere. In fatti non so comprendere, come non volendo egli, che altri ubbidisca all'accademia della Crusca, speri poi che ognuno sia per esser ligio di questa sua, e che i Toscani, i Lombardi, i Piemontesi debbano accogliere facilmente le voci tolte dalla lingua Napoletana, Siciliana, e Genovese, mentre parecchie delle loro ne vedrebbono rigettate.
Ogni lingua aver deve certe regole altrimenti ne nascerebbe una confusione intollerabile, e presto se ne altererebbe l'indole e la natura. La Toscana ebbe nel secolo decimoquarto tre scrittori prestantissimi, cioè Dante, Petrarca, e Boccaccio, che destarono l'ammirazione universale colle opere loro, le quali andavano per le mani di tutti. Essi furono padri della lingua, perchè seppero scegliere le forme migliori energiche delicate piacevoli. Ma non furono i soli. Il B. Giovanni da Ripalta, Fra Bartolomeo da S. Concordio, Fr. Domenico Cavalca, Fr. Jacopo Passavanti, i tre Villani, Francesco Sacchetti, S. Caterina da Siena, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoja, e parecchi altri, oltre agli anonimi autori delle novelle antiche, del volgarizzamento delle vite de' SS. Padri, e più altri ebbero forza, grazia, e vaghezza. Da questi scrittori principalmente si trassero le regole di nostra lingua per opera del Fortunio e del Bembo, come ho detto. Nè si pretende con ciò, che tutto sia perfetto ciò che procede da quelle fonti, nè che ora sia disdetto d'aggiunger nulla alla nostra lingua. Il Salviati, contro al quale si fa da alcuni tanta guerra, reca alcune scorrezioni, che negli scritti degli antichi si trovano,[61] nè certamente le approva; e il Corticelli parlando di certa maniera irregolare usata da Fr. Giordano dice così. Non si vogliono imitare, essendo anzi errori che no. Lasciò scritto un valentuomo,(lo Scioppio) che queste figure sono pretesti inventati da' Grammatici per iscusare i fatti, ne' quali sono talvolta incorsi per umana fiacchezza anche i più celebri Autori.[62] Non si vogliono però condannare nè pure tutte le irregolarità, le quali quando sono adottate da parecchi sono veri vezzi di lingua. Non ammette i vezzi di lingua il Sig. Cesarotti;[63] ma ogni lingua li ha, e quelle principalmente, che vantano maggior numero d'eleganti scrittori: e se questi si tolgono dalle opere loro se ne torrà una gran parte della bellezza. Non è vietato, come ho detto pur ora, d'aggiunger nulla alla lingua. Chi può negare, dice il Sig. Cesarotti, che il Firenzuola, il Gelli, il Caro, il Castiglioni, e varj altri non avessero e castigatezza, e grazia? Ma i loro vocaboli, i loro modi erano gli unici? La lingua, lo stile eran fissati in perpetuo? Quì sta il torto della Crusca.[64] Qual torto? Quando è che la Crusca abbia detto, che quegli scrittori fossero gli unici, e la lingua, e lo stile fossero determinati in perpetuo? La Crusca ad ogni nuova edizione del Vocabolario ha fatto lo spoglio di nuovi autori, ed ha adottate nuove parole, e nuovi modi di dire. Nè mi si opponga la guerra ingiustamente mossa al Tasso; perchè quella non fu guerra della Crusca, ma dell'Infarinato, e dell'Inferrigno.
Ma ormai troppo a lungo mi sono trattenuto su ciò, e molto mi rimarrebbe a dire su quest'opera. Vorrei almeno parlare del Vocabolario Italiano da lui progettato; ma l'esporlo, ed esaminarlo accuratamente richiederebbe troppo lungo discorso. Dirò solo esser questo un lavoro immenso necessariamente difettoso per la stessa sua vastità, nè tale da poter mai conciliare le discordi opinioni dei Letterati.
Anche il Muratori nella perfetta poesia Lib. 3. Cap. 8. prese a sostenere, un solo essere il vero ed eccellente linguaggio d'Italia, che è proprio di tutti gl'Italiani, il quale per lui non è il Toscano, ma bensì comune a tutti, e da tutti usato scrivendo. Il Salvini, però gli si oppose con molta forza nelle annotazioni, e difese la causa della lingua Toscana. Più ampiamente la difese il P. Rosasco nell'opera testè citata,[65] e nel tempo medesimo combattè il Salvini, il quale nel calor della disputa lodando molto gli Scrittor del trecento deprime forse soverchiamente i moderni. Concede a quell'aureo secolo maggior purità ed una certa grazia, che altri poi nell'età posteriori non ha mai potuto perfettamente ritrarre, ma loda altresì gli scrittor più recenti, che di molte voci, e di molti modi l'hanno arricchita. Quindi parla appunto della facoltà d'aggiugnere voci nuove, e mostra quali sieno gli avvertimenti che debbonsi avere facendolo. Questa facoltà però egli concede ai Toscani, ed ai Fiorentini massimamente. Io confesso, che amerei d'essere alquanto meno severo. I termini, che appartengono alle arti, ed alle scienze, non solamente si possono, ma si devono adoperare: e sarebbe ridicolo quel Geometra, che ricusasse di dire coseno e cotangente, e quel Chimico che non volesse nominare l' idrogeno e l' ossigeno, perchè non sono nel vocabolario queste parole. Riguardo alle altre voci, se queste mancano per esprimere qualche concetto (il che avviene rade volte a quelli che sanno ben maneggiare la nostra lingua) credo, che ognuno possa usar nuove voci; l'adottarle però spetta all'Accademia della Crusca. Parecchi oppositori scrivono ciò che cade loro giù dalla penna senza riflessione riguardo alla lingua, e poi vorrebbero, che le cose per essi scritte fossero in ogni parte perfette, e chiaman pedanti chi ardisce trovarvi alcun difetto. Non sarebbe però difficile il dimostrare, come essendo più castigati sarebbero stati più eleganti. Ma chi ha data a quell'Accademia la facoltà di seder giudice nel fatto della lingua? Gliele han data la necessità d'avere un giudice per conservarne la purità, la convenienza, che questo giudice sia in Firenze, il possesso d'oltre a due secoli, il consenso di molti ottimi scrittori, le gloriose fatiche da essa sostenute a pro della medesima.
Delle Grammatiche della Lingua Italiana. CAPO VI.
Ma passiamo ormai a vedere gli studj degl'Italiani più direttamente relativi alla nostra lingua, e cominciamo dalle grammatiche. Francesco Maria Zanotti scrisse elementi di grammatica a' quali aggiunse un ragionamento sopra la volgar lingua,[66] che intitolò ad una prestantissima Dama Bolognese. È questa un'operetta elementare, come lo stesso titolo avverte, che offre solamente le regole principali, e più necessarie a sapersi intorno alle diverse parti dell'Orazione. Non dirò scevra la sua grammatica da ogni difetto: e per esempio non sa piacermi, che egli tolga dai verbi il modo ottativo, e ponga nel congiuntivo i suoi tempi. Ma forse egli ebbe in animo di sacrificare in parte l'esattezza in grazia della brevità, che dirigendo i suoi insegnamenti ad una giovinetta era necessaria, e perciò pure lasciò di aggiungere tutti que' tempi nei quali entrano i verbi ausiliari. Certo è che con quel suo metodo la conjugazione de' verbi è brevissima, e tutta la sua grammatica occupa poche facciate. Più a lungo scrisse la sua grammatica il P. Benedetto Rogacci della Compagnia di Gesù.[67] Le sue regole sono esatte, e bastevolmente diffuse. Avrei però voluto, che non avesse fatti egli stesso gli esempi, ma si gli avesse tratti dagli autori approvati.[Pg 48] Assai lungamente altresì scrisse Girolamo Gigli le sue lezioni[68] e le Regole per la Toscana favella.[69] Ha però qualche errore, come là dove ammette, che dicasi poeticamente dee, e stea in luogo di dava, e stava prima, e terza persona singolare dell'imperfetto dell'indicativo, e nel plurale deano, steano, in vece di davano, e stavano. Nelle lezioni altresì appoggiandosi ad un esempio di Dante vorrebbe, che lui usar si potesse in caso retto. Ma il Manni nelle lezioni (Lez. 5) mostra che quell'esempio ed altri parecchi citati dal Cinonio, e dal P. Daniello Bartoli sono errati e tratti da ree stampe.
Fra le Grammatiche si possono annoverare le lezioni di lingua Toscana di Dom. Maria Manni[70] da me citate testè, nelle quali egli, quantunque non prenda ad esaminare tutte quelle minute cose, che nelle Grammatiche si richiedono, pure di tutte la parti dell'Orazione tenendo ragionamento moltissime belle avvertenze ricorda ed utilissime. Ed io vorrei, che questo libro avessero frequentemente tra mano principalmente i giovani dopo di aver bene appreso in altri libri le prime regole della lingua intorno alle declinazioni, ad alle conjugazioni.
La megliore e sopra ogni altra pregiata grammatica è quella del P. Salvatore Corticelli Barnabita Bolognese. Precisione di metodo, esattezza di regole, chiarezza nell'esporle, abbondanza di ottimi esempj sono i suoi pregi. Niuno errore credo che vi si trovi, quantunque vi si possa far di leggieri qualche aggiunta; poche però, e non di molto momento. Ne darò quì pochi esempi. Nel Libro 1. Cap. 36. dove trattando de' verbi anomali della seconda conjugazione parla del verbo cadere nel preterito indeterminato dell'indicativo leggiamo caddi, cadesti, caddero, caddono, e caderono. Ma nella prima persona del singolare vi ha ancora cadei. Tasso Ger. Lib. C. 8. St. 25. e nella terza cadè, come dice il Cinonio, che cita il Villani. Nelle osservazioni sopra la terza conjugazione parlando de' verbi chiedere, e mettere si vuol aggiungere al preterito del primo chiedei chiedè, e poeticamente chiedeo, onde il Casa disse: di quella, che sua morte in don chiedeo, Son. 35. e al preterito del secondo messe, di che ha il Cimonio (De' ver. Cap. 17.) tre esempi, e uno se ne ha nelle annotazioni. Se ne può aggiungere un quinto del Berni, cioè: Onde al fin l'Argalia messe di sotto. Orl. Inn. Lib. 1. Cant. 2. St. 68. Ma queste, e poche altre simili mancanze non detraggono punto di lode a questa Grammatica, che certamente è la migliore di quante ne abbiamo.
Parla prima delle parti dell'Orazione, poi della costruzione, e finalmente del modo di pronunziare, e dell'ortografia. Gli esempj sono tutti presi dagli Autori, che fanno testo in lingua. A questi ne ha il Corticelli aggiunti tre, cioè i discorsi di notomia del Bellini, le prose del P. Alfonso Nicolai Gesuita Lucchese, e la vita di S. Ignazio del P. Antonfrancesco Mariani Gesuita Bolognese, oltre agli autori di cose grammaticali come l'Amenta, il P. Bartoli, ec. che non entrano in questo novero. Or questa scelta è contrassegno del fine giudizio del Corticelli, perchè quegli scrittori sono purissimi, e i primi due con più altri furono poi dall'Accademia Fiorentina scelti per esser citati nella nuova edizione del Vocabolario secondo il partito preso nel 1786. ed il terzo non era indegno d'essere in quel numero collocato.
Parecchie altre Grammatiche di nostra lingua hanno veduta la pubblica luce nel Secolo decimottavo[71]. Ma io contento di aver quì ricordate quelle, che o pe' loro pregj, o per la celebrità de' loro autori richiedevano special menzione tralascerò le altre, e passerò ad indicare altre opere, che a questo genere si posson riferire. Tali sono le annotazioni del Baruffaldi e del Cavalier Baldraccani al Cinonio,[72] le quali però non si vogliono avere in molto pregio. Tali sono le osservazioni di Nicolò Amenta sul Torto, e diritto del non si può del P. Bartoli[73] nelle quali egli rileva ogni error commesso da questo Scrittore. Ma l'Amenta altresì non fu esente da qualche errore, onde ebbe poi il suo censore in Giuseppe Cito. Degli avvertimenti grammaticali stampati in Padova, e poi altrove più volte, non dovrei far parola, perchè sono opera del Card. Sforza Pallavicini, e perciò appartengono al secolo decimo settimo. Ma non debbo tacere, che in nuova forma, e d'alquante aggiunte arricchiti vider la luce per opera d'ignoto editore, che si celò sotto il nome Arcadico di Alcindo Menonio[74]. Finalmente alcune piccole operette polemiche di Lucchesi Scrittori domandano d'esser per me ricordate. Alcuni uomini letterati si radunavano nella bottega del librajo Frediani di Lucca, e solevano per loro studio far critiche osservazioni su componimenti, che uscivano in luce, notando ciò che in essi trovavano degno di lode o di biasimo. E siccome stavano con un'anca sopra l'altra per criticare, perciò essi per ischerzo chiamarono quella loro adunanza, Accademia dell'Anca. Ciò fu nel millesettecento dieci o in quel torno[75]. Erano di questo numero Angelo Paolino Balestrieri valoroso Poeta, Matteo Regali Medico, e buon Poeta, e delle cose di nostra lingua intendentissimo, il P. Sebastiano Paoli, e il P. Alessandro Pompeo Berti uomini di gran dottrina ed erudizione, come tutti sanno, e forse altri. Avvenne un giorno che in quest'Accademia fu criticato in qualche cosa di ortografia un poetico componimento di Donato Antonio Leonardi, che era anch'egli pregevol Poeta. L'ira ne' poeti si desta facilmente, e il Leonardi mal sofferendo quella critica volle difendersi, e pubblicò il Dialogo dell'Arno e del Serchio, sopra la maniera moderna di scrivere e di pronunziare nella lingua Toscana dell'Accademico Oscuro. Perugia presso il Costantini 1710. in 12. Da Matteo Regali celato sotto il nome di Accademico dell'Anca, gli fu risposto col Dialogo del Fosso di Lucca, e del Serchio di un Accademico dell'Anca in risposta al Dialogo dell'Arno. ec. Lucca presso Pellegrino Frediani 1710. in. 8. Punto il Leonardi da questo libro vi oppose la Dieta dei Fiumi tenuta l'Anno 1711. per fare il processo al Fosso di Lucca per aver pubblicata una critica derisoria, e mordace contro il Serchio suo padre. Dell'Accademico Oscuro. Macerata per Michele Angelo Silvestri 1711. in 8. E a questa nuova sua produzione replicò il Regali con il Filofilo dialogo di un Accademico dell'Anca in risposta alla Dieta de' Fiumi dell'Accademico Oscuro. Lucca pel Frediani 1712. in 8. Nè la disputa andò più oltre, perchè mentre si stampava questo libro, il Leonardi morì. La questione a dir vero era di poco momento nella sua origine, non trattandosi che d'un raddoppiamento di consonanti in una parola, ma volendo favellarne con qualche generalità offerse al Regali l'occasione di far conoscere il suo molto sapere, e l'erudizion sua nelle cose della lingua, e quanta pratica avesse de' buoni Autori. Deboli al contrario, e insussistenti erano le opposizioni del suo avversario, il quale non sentiva molto avanti in questa parte d'erudizione. Più altre dispute si destarono nel secolo decimottavo intorno a cose grammaticali, onde abbiamo parecchie opere polemiche, come del Biscioni, e del Bracci sull'edizione de' Canti Carnascialeschi da questo procurata in Lucca con falsa data di Cosmopoli,[76] il parere sulla voce occorrenza,[77] la Giampaolagine del Tocci,[78] ed altri simili. Anzi fino i Tribunali furon talvolta costretti a decidere intorno a somiglianti controversie, e della voce majorasco, se significhi primogenitura, come vuol la Crusca, o primogenito come usano i Senesi, decise la Rota Romana a favore di Siena[79]. Il Gigli dice, che con ciò quel Tribunale venne a dichiarare, che la Crusca non ha la potestà di Adamo di dare i nomi alle cose[80]. Il che è vero; è però altrettanto vero, che i Tribunali hanno forza nel Foro e in ciò che dal Foro dipende, ma nelle cose della lingua non ne hanno alcuna. Queste ed altre quistioni lascierò da parte, perchè sarei infinito se di tutte parlar dovessi, benchè brevemente. E già aspettano il mio discorso cose maggiori, e più ardue, e di maggior celebrità: voglio dire i Dizionarj.
Prima però che io passi a far parola di questi debbo far menzione d'un libro, che può ugualmente fra le Grammatiche annoverarsi e fra i Dizionarj: voglio dire le cento osservazioni del Canonico Paolo Gagliardi.[81] Più e diversi oggetti a Grammatica appartenenti egli vi prese a trattare, come per avventura gli si presentavano alla mente; ora d'alcune voci, ora dell'articolo, ora di certe irregolarità nella costruzione, e via dicendo. Intorno alle quali cose dà sottili ed utili avvertimenti, e spesso emenda i più solenni Grammatici, ed anche il Vocabolario della Crusca. Il che fa sempre coll'autorità de' buoni scrittori, essendo amantissimo della purità della lingua, come ragion vuole. Laonde io reputo commendabile l'opera sua molto: e solo mi rincresce, che non abbia vie maggiormente accresciuto il numero delle sue osservazioni.
Del Vocabolario della Crusca. CAPO VII.
A me rincresce d'essere a quella parte dell'opera mia pervenuto, che parmi più d'ogni altra piena di pericoli e difficoltà. Gravi guerre si mossero contro il Vocabolario della Crusca fin dal primo suo nascere, e queste guerre, anzi che spegnersi o diminuirsi, vanno sempre crescendo. Ma l'ordine delle cose da me prese a trattare domanda, che io parli de' Vocabolarj della nostra lingua, e perciò di quello della Crusca; nè io posso ritrarmene. Dovrò in alcune cose contraddire ad uomini chiarissimi per dottrina e per ingegno, coi quali non posso in verun modo essere paragonato. Combatterò dunque con armi molto disuguali: ma se in ciò che sono per dire si potrà desiderare maggior dottrina, spero che non si potrà desiderare maggiore urbanità.
Que' valentuomini, che nel 1691. procurarono la terza impressione di questo Vocabolario presto si avvidero, che molto rimaneva da fare, e che altri avrebbe dovuto procacciarne una quarta con molti accrescimenti e correzioni. E così avvenne appunto, perchè dopo non breve fatica si vide uscire alla luce nel 1729. colle stampe del Manni il primo volume del Vocabolario tanto accresciuto ed emendato, che questo solo contiene seimila nuove voci, o nuovi significati di voci. Ma voglionsi commendare quegli Accademici per essersi adoperati di correggere o accrescere quel libro seguendo l'orme segnate dai lor predecessori, o pure doveano seguendo una via diversa l'opera tutta riformare? Il Signor Conte d'Ayala vuole, che si sbandiscano gli esempj tratti dagli Scrittori approvati, e dice, che l'Accademia è giudice supremo ed inappellabile in materia di lingua, ed ogni individuo è ragionevolmente tenuto di sottomettersi alle decisioni di essa.[82] Così mentre molti gridano contro un giogo, che l'Accademia però non si è mai argomentata d'imporre altrui, questo scrittore le rimprovera di non essersi tolta un'assoluta autorità. Egli cita l'Accademia delle scienze e belle lettere, e doveva citare l'Accademia Francese. Ma non s'avvide, che i Francesi per certo loro abito sono avvezzi a tener gli occhi intenti a Parigi, ed a riverire e seguire ciò che fassi colà; onde ricevono come giudizj senza appello quelli dell'Accademia. Ma in Italia non è così; ed ognuno di per se stesso può le cagioni vederne agevolmente. Oltre a ciò egli non seppe, che nel tempo medesimo, in cui scriveva sì fatte parole, quell'Accademia si dipartiva dal primo divisamento, ed imitando la Crusca si adoperava di raccogliere esempj dagli autori più purgati per una nuova impressione del suo Vocabolario. La Crusca dunque fino dal suo cominciamento fece senno, fornendo di buoni esempj le voci tutte, e le significanze diverse di tutte le voci, quanto era possibile, ed ove mancavan gli esempj ricorrendo all'uso.
Ma niuno forse si vorrà far seguace dell'avviso di questo scrittore, e più presto si biasima la scelta degli esempj. Quel vedere ad ogni tratto citate tante vecchie leggende, e capitoli di compagnie, e quaderni di conti, e l'oscurissimo Pataffio, e le rime non meno oscure del barbiere Burchiello, ed altrettali libri, e vederli preferiti a Filosofi gravissimi e ad altri scrittori di gran rinomanza, desta non pochi lamenti. Se le lingue tutte sono a grandissime mutazioni sottoposte, siccome tutti confessano, gli Accademici, che a lor potere volevano allontanare sì fatte mutazioni saviamente adoperarono, determinando alcuni scrittori, che reputar si dovessero maestri e modelli di lingua purgata: affinchè, tenendo sempre in quelli rivolti gli occhj, ognun potesse più agevolmente ritornare sul diritto cammino, se traviava. Questo, a mio giudizio, è il solo rimedio, che può riparare a quel corrompimento, che a poco a poco in tutte le lingue s'introduce dalla incuria degli uomini, e dall'amor della novità. Questo è forse il solo rimedio, che può se non al tutto impedire, almeno scemare quella ruina, che reca alla lingua d'una nazione l'inondamento di stranieri conquistatori. Ma quali son gli scrittori, che scegliere si dovevano all'uopo? Quelli son del trecento primieramente, e poi gli altri che seguendo le lor vestigie più vi si accostano; il che reputo si possa assai bene dedurre dalle cose dette nel capo quinto. Fra più altre cose abbiam veduto, che Cicerone altresì raccomandava la frequente lettura degli antichi, benchè rozzi ed incolti. Sunt enim illi veteres (giova quì ripetere le sue parole), qui ornate nondum poterant ea, quae dicebant, omnes prope praeclare locuti: quorum sermone assuefacti qui erunt, ne cupientes quidem poterunt loqui, nisi latine. Lo stesso dicasi per noi, e con più ragione; perchè Pacuvio e quegli altri non erano a gran pezza così eleganti, come parecchi de' trecentisti. Quì si tratta della purità della lingua, e quanto a ciò quegli antichi, quantunque disadorni se vuolsi, hanno più autorità, che i maggior bacalari della filosofia, della storia, dell'eloquenza, e della poesia. Ma (dicono alcuni) dovevasi almeno far grazia a parecchi scrittori di cose scientifiche, e di quelle che alle arti appartengono: e tanto più si doveva, perchè troppo è scarso nel Vocabolario il numero de' vocaboli delle scienze, e delle arti. Io non negherò che alcuni se ne debbano aggiugnere a quelli, che fanno testo in lingua; parmi però che sia opportuno andare a rilente. Avviene assai volte, che i più solenni maestri di queste facoltà intesi tutti alle dotte loro speculazioni non abbiano posto abbastanza studio nelle cose della lingua, o che scrivendo ne trascurino la purità. Ed il chiarissimo signor Cavaliere Monti nella sua Proposta ricorda un dotto Mattematico, il quale con bel modo fu fatto accorto di parecchi errori, in cui era caduto nelle sue opere. I termini delle scienze e delle arti dipendono dall'arbitrio degl'inventori, e sono proprj di tutte le lingue. Vorrei pertanto, che si prendessero dagli scrittori approvati, se vi si trovano: altramente si registrassero senza avvalorarli con esempj. Ma la sorgente principale del Vocabolario debbono essere a mio giudizio i libri di belle lettere e di storia, perchè contengono voci e modi di dire adattabili a tutto, e acconci a rappresentar quasi tutto.
Rimprovera il Sig. Cesarotti,[83] che sieno marcati indistintamente colla lettera del disuso tanto quei termini antichi, che sono andati in disuso per qualche difetto intrinseco, quanto quelli, di cui è ciò accaduto per semplice capriccio di novità. La stessa lagnanza fece il Magalotti al Canonico Bassetti,[84] perchè all'Accademia la comunicasse. Questa però a mio giudizio adoperò saviamente non secondando il suo desiderio. Egli non vide, ed ora non ha veduto il Cesarotti, che ove gli Accademici avessero indicate quelle voci, che meritano d'esser novellamente poste in uso si sarebbero fatti giudici in ciò che spetta al gusto, il che essi a gran ragione non volean fare. Ed ove l'avessero fatto quali rimproveri, quante critiche, quante accuse non si sarebbono scagliate contro l'Accademia! Diciassette di queste voci accenna il Sig. Cesarotti, e le reputa meritevoli di quell'onore. Or quanti saranno per avventura, che opineranno altramente! Quanti giudicheranno lodevoli parecchie voci, che egli non approverebbe! Il Cavalcanti nella sua Rettorica condanna, come disusata, la voce misfatto, nè vuol che si adoperi: e pure niuno crederà ora, che questa voce non sia buona, ed avvedutamente si astenga dal farne uso. Gli autori dei Dizionarj non debbono giudicare di proprio arbitrio, ma secondo l'autorità degli scrittori approvati, e se da' buoni scrittori sarà adoperata alcuna di quelle parole, che or sono disusate, in una nuova impressione l'Accademia torrà quella marca contro cui si mena tanto romore. Il secondo rimprovero è, che molte parole francesi sieno state poste nel Vocabolario, come giojelli. Non però come giojelli vi sono state poste, nè perchè le adoperino i moderni, ma perchè s'intendano gli antichi,[85] e sono utili per la storia della lingua. Più altre accuse egli oppone al Vocabolario, che tralascio perchè non tutto posso dire, e perchè se non m'inganno non sono poi tanto gravi, che richiedano molto studio per dileguarle, e se non erro si dileguano abbastanza colle cose, che fino ad ora per me si son dette, o che sono per dire. Nè intendo con ciò di tenere in poco conto quell'uomo prestantissimo; ma dubito, che l'amore di libertà l'abbia forse talvolta ingannato.
Parecchi altri rimproveri si fanno da altri de' quali ricorderò prima quelli, che a me sembrano ingiusti, e poi darò luogo a quelli, che anche per mio avviso sono ben fondati. Si dolgono alcuni che gli Accademici sieno stati solleciti di registrare certe voci che hanno due sensi fra lor contrarj, altre che dicono stroppiate, alcune turpi, quelle che diconsi di stil furbesco, moltissime tolte dalla plebe, talune nate da errore d'ortografia, e parecchi proverbj Toscani oscurissimi. Ma cominciando dalle voci di doppio senso io domando, qual v'ha lingua che macchiata non sia di questo difetto? Molto lo ha quella principalmente, cui vuolsi concedere il primato sull'altre, cioè la Greca. Ora perchè vorremo noi sgridar gli Accademici, se trovandolo pur nella nostra non l'hanno tolto, essi che non si credono arbitri della medesima, ma costodi? Lo stesso dicasi delle voci, che chiamano stroppiate. I Greci ne ebbero tante che le distribuirono in certe classi, cui dettero il nome di figure grammaticali, che sono l'aferesi, la sincope, l'apocope, ed altre. Si rimprovera a cagion d'esempio la voce notomia, che secondo la sua greca origine dovrebbe dirsi anatomia. E per far grazia a questa parola non è bastato l'esempio del Redi, che era medico grande, ed elegantissimo scrittore. Nè basterà forse l'autorità di Francesco Maria Zanotti, che l'adoperò, non quella di tanti altri, che pur l'usarono, non quella del dotto medico Andrea Pasta, che le diede luogo nel suo vocabolario.[86] E vuolsi osservare, che il Pasta compilò quel suo vocabolario perchè fosse di giovamento ai medici non solo nel curare gl'infermi, ma eziandio nello scrivere i consulti. Lo stesso dicasi di que' vocaboli, che derivano da errore d'ortografia, come anotomia, appostolo, munistero, e simili altre molte. Sì fatti corrompimenti si vedono pure nelle altre lingue, e giova conservarli ne' vocabolarj, perchè mostrano in parte l'indole delle medesime, e l'affinità, che hanno fra loro le diverse lettere, come si mutino, si aggiungano o si tolgano. Le quali cose sono da apprezzarsi per la storia delle lingue medesime. È poi ufficio del diligente scrittore lo sceglier quelle, che son migliori. Con maggior timore parlerò delle parole turpi, contro le quali si grida a gran voce, chiamando svergognato chi difende il Vocabolario. Io lodo quelli che amano la modestia delle parole, ma supplico, che mi sia concesso di dire, che tanta modestia non vuolsi usare in un vocabolario. S. Isidoro era modello d'ogni virtù, ma non si astenne dal ricordare e spiegare ne' suoi libri dell'etimologie quelle voci, che il suo argomento richiedeva. E il Forcellini esemplar sacerdote, e confessore nel Seminario di Padova scrisse nell'insigne suo Lessico quelle parole, che nel sacro tribunale della penitenza avrebbe condannate. Sì fatte parole sono malvagie, o innocenti secondo le circostanze. Consiglierei però gli Accademici a togliere dalla quinta impressione alcune di sì fatte voci, che furono inventate reamente per biasimevole scherzo, le quali non debbono aver luogo nel tesoro della lingua. Non toglierei però le parole, che diconsi furbesche, perchè servono all'intelligenza dei libri, e delle persone. Ancor più ingiusto parmi il lamento pe' Toscani proverbj, che vi si vedono in buon dato, e per le voci del volgo, o, come dicono, di mercato vecchio. Al qual lamento rispondono abbastanza le cose dette dai Signori Rosini e Nicolini, nè fa di mestieri, che io stemperi con più parole le loro osservazioni. Io dunque non vorrei, che si togliessero queste cose, nè vorrei, che si aggiugnessero le etimologie, tranne forse alcune pochissime più manifeste, e scevre d'ogni incertezza. Lo studio delle etimologie, ingiustamente spregiato da alcuni, è utile, ma è soggetto a molti pericoli. Leggiamo il Vossio, il Menagio, ed altrettali indagatori d'etimologie, e vedremo in quali traviamenti sono caduti. Nè è necessario, che vi si accennino quali parole ci son venute dall'ultimo settentrione per l'invasione de' popoli barbari, quali ci ha date l'Arabia o direttamente per le crociate o pel commercio, o indirettamente passando per mezzo d'altre nazioni, alterate però secondo l'indole delle diverse lingue.
Altri rimproveri si fanno al Vocabolario, cioè che molte voci e molti significati vi mancano, che le definizioni non sempre sono esatte, che gli esempj allegati hanno talvolta un significato diverso da quello, che reca il Vocabolario: e già parecchi esempj di questi difetti[87] sono stati da scrittori chiarissimi indicati. Questi rimproveri sono veri, e niuno è che non li debba riconoscer tali. Ma qual v'ha al Mondo opera perfetta? Il P. Bergantini pubblicò un volume d'aggiunte al Vocabolario. Egli perciò oltre agli autori approvati esaminò il Vocabolario stesso, e la sua prefazione, e ne trasse molte parole, che gli Accademici dimenticarono di registrare. Quella prefazione non è lunga, ed era da credersi, che niuna aggiunta potesse omai cavarsene dopo di lui, e pure vi rimase all'Alberti di che spigolare, ed egli vi trovò la voce Grecità. Almeno dopo l'Alberti nulla vi sarà restato. No. V'è la parola appropiare in senso d' assomigliare, paragonare. E dov'è questa parola? In principio, cioè là dove l'attenzione di que' diligentissimi compilatori non poteva essersi stancata pel lungo leggere. Chiunque vorrà considerare (così comincia quella prefazione) l'umile cominciamento, che hanno avuto, e come poi col tratto del tempo si sono andati accrescendo i Vocabolarj delle lingue già spente, vedrà, che e' si possono a buona equità ai grandi fiumi appropriare ec. Ma non così va la bisogna nel fatto de' Vocabolarj di quelle lingue, che tuttavia sono vive, e che da una intera nazione si parlano; imperciocchè questi si possono vie meglio assomigliare all'Oceano ec. E poco dopo, parlando de' vocaboli moderni e introdotti dall'uso, gli Accademici dicono d'averne posti alcuni nel Vocabolario, ma aggiungono che sono stati in ciò alquanto parchi aspettando, che da tersi e regolati scrittori sieno nelle loro composizioni adottati. Ora la voce adottare in questo senso non trovasi nel Vocabolario, nè nell'impressione di Verona, nè nel Dizionario dell'Alberti, ma v'è solamente nel senso di prendere alcuno per figlio. Questi esempj a mio giudizio fan chiaramente conoscere, che non v'è diligenza, che basti in simili cose, e che il tempo solo può render perfetto, e compiuto il Vocabolario, o piuttosto che esso non potrà mai esser perfetto.
Guari non andò, che l'Accademia rivolse di nuovo le sue cure a questo oggetto. Ai nove di Marzo del 1741. l'Accademico Rosso Martini lesse un ragionamento per norma di una nuova edizione del Vocabolario Toscano, che ora si è consegnato alle stampe.[88] Egli vuole che si cominci dal procacciare i materiali più importanti per sì fatto lavoro, i quali sono una ricca, e abbondante conserva di voci tratte da' buoni libri, ed una regolata, e ordinata disposizione accompagnata da un accurato esame di tutto quello, che si trova nella precedente impressione. I Libri, da' quali si debbono trarre le buone voci e forme di dire o sono antichi, cioè del Secolo del 1300. e in quel torno, o moderni. Dà quindi il catalogo di que' libri, che i compilatori della quinta impressione o non videro, o esaminarono scarsamente; e gli antichi sono 162., e 37. i moderni. Dai primi massimamente vuol che si prendan gli esempj, e allora solo si ricorra ai secondi, ove non se ne abbiano degli antichi. Vuol che gli esempj si aggiungano della formazione dei tempi dei verbi irregolari. Fra le voci moderne altre son quelle sdrucciolate (com'egli dice) nel volgar nostro, o dalla frequente pratica co' forestieri, o dalla introduzione delle mode e de' costumi stranieri, come rimarcare, rango, dettaglio, e queste si debbono escludere. Altre son quelle, che da un uso più regolato, e corretto, e da accreditati e moderati scrittori vengono comprovate, adottate, ed oramai comunemente ricevute, e di queste si vuol fare diligente ricerca, ed aggiungerle. Crede, che si debbano aggiungere altresì i superlativi, diminutivi, vezzeggiativi, ed altrettali derivati, ove se ne abbiano esempj. Esclude poi i nomi proprj, i termini dell'arti, ed i latinismi, benchè usati dagli antichi, quando per l'uso comune dei più regolati scrittori non sieno concordemente e costantemente approvati. Parecchi altri avvisi egli dà per accrescere il Vocabolario, e per l'emendazione dell'edizion precedente, che stimo inutile indicare. Voleva dunque il Martini, che la fonte principal delle voci fossero gli scrittori del secolo decimoquarto, cioè quello appunto di che si lagnano i favoreggiatori della libertà. Ma alle lagnanze parmi d'avere abbastanza risposto superiormente. A gran ragione dunque voleva il Martini, che nella impression nuova del Vocabolario da que' vecchi padri e maestri si traessero gli esempj prima che dagli altri.
Non così posso commendarlo dell'avere escluso i nomi proprj, e i termini delle arti, e delle scienze. I primi si posson raccogliere dall'uso e da molti libri di storia, di novelle, e simili, e di molti era necessario determinare l'ortografia, e spiegare altri che sono accorciativi, vezzeggiativi, o in qualunque modo alterati da' loro primitivi. Non dirò poi quanto fosse inopportuno l'escludere i secondi, perchè lo dice abbastanza l'universal desiderio, che da gran tempo li richiede. So quanto è malagevole questa parte del Vocabolario, di che darò un breve cenno in seguito. Pure era uopo, che questa difficoltà si vincesse, e vi si accinse con coraggio l'Alberti, come dirò altrove.
Sarebbe quì luogo di narrar le vicende dell'Accademia della Crusca, che fu dal Gran Duca Leopoldo unita all'Accademia Fiorentina. Ma per una parte questo racconto domanderebbe lungo discorso, e per l'altra parte io non potrei tesserne la narrazione e indagarne le cagioni più copiosamente o meglio di quello, che il chiarissimo Sig. Cavalier Baldelli ha già fatto in una sua lettera diretta al Signor Ab. Denina.[89] Prima di quell'unione alcuni degli Accademici si erano adoperati di raccogliere emendazioni, ed aggiunte al Vocabolario, e fra questi si nominano il Casaregi, e Francesco Martini, le fatiche de' quali è fama, che servissero ad arricchire l'edizioni del Vocabolario Napoletana e Veneta.[90]
La nuova Accademia Fiorentina poi non rimase oziosa. Il P. Ildefonso Frediani le presentò l'idea, e l'apparato pel nuovo Vocabolario Toscano,[91] di cui debbo ora far parola. Molte cose tralascio da lui proposte, che opportunissime sono al suo intendimento, ma sarebbe quì inutile di ricordarle, e quelle accennerò solamente, che sono più meritevoli di riflessione. Vuol che si aggiungano le voci tecniche, e queste si prendano tutte dal fondo della nostra lingua Toscana finchè si può. In mancanza della voce Toscana, si prenda da quella lingua, che l'abbia in proprio, avvertendo di preferire sempre tra' varj idiomi quello che nel suono e nell'origine è più analogo e simile al nostro, e molto più l'uso già adottato da' respettivi professori in Toscana o in Italia di tali voci, e procurando guanto è possibile di toscanizzarle nell'inflessione, e nel suono. p. 9. Stabilisce inoltre, che si pongano le voci di tanti e sì continui ritrovamenti forestieri attenenti agli agj, alle mode, ed al regno insaziabile del lusso, e della delicatezza del vestire, delle mense, e d'ogni genere di delizia, le quali voci si prendano dagl'idiomi di que' paesi donde tali ritrovamenti sono venuti, procurando di renderle all'orecchio più Toscane che sia possibile. A me pare, che troppo pretenda il P. Ildefonso. Egli avvezzo fra le anguste pareti della sua cella non sapeva quanto era vasto il campo delle mode, e quanto esse sieno variabili, nè credeva, che il Vocabolario di queste sole domanderebbe parecchi ponderosi volumi. Io son di avviso, che registrar si debbano le voci di questo genere, le quali da' buoni Scrittori sono state adoperate, ed i nomi di quei ritrovamenti, che o per l'utilità loro, o per qualsivoglia altro motivo sono durevoli, e lascerei perir gli altri senza timore, che la lingua ne avesse danno. Riguardo poi alle altre voci delle arti vuole, che si raccolgano dagli scrittori purgati, e dai libri di matricole e di ragione di tali arti, dalle leggi, e finalmente dagli scrittori meno purgati, e dagli artigiani, che le esercitano. Confessa però, che una difficoltà grande si incontra in ciò, e grandissima la provò l'Alberti mentre compilava il suo Dizionario enciclopedico. Riguardo alle arti molte cose non solamente in diverse parti dell'Italia, o della Toscana, come dice il P. Ildefonso, ma nelle diverse contrade della stessa Città come diceva l'Alberti, e tutti posson provare, hanno diverso nome. Ma se io considero, che anche i Vocabolarj delle altre lingue sono moltissimo mancanti riguardo alle voci delle scienze, e delle arti, se riguardo il numero immenso di queste voci, e il continuo variare dell'une e dell'altre, dubito che più utile sarebbe il compilare un Vocabolario separato per queste; del quale potrebbe addossarsi l'incarico alcuna delle più insigni Accademie scientifiche dell'Italia. Ma son d'avviso, che dopo la fatica di parecchi anni pubblicandosi vi si dovranno fare aggiunte ed emende; e così necessariamente accaderà sempre, fintantochè i Vocabolarj saranno opera degli uomini.
Il P. Ildefonso vuol pure che si aggiungano le voci composte, e quelle che comporsi possono sull'esempio di ottimi nostri Scrittori, e colle regole di un fino criterio e del buon orecchio. p. 11. Molte se ne trovano nelle poesie del Chiabrera, d'Anton Maria Salvini, e di altri autori, che fanno testo in lingua, e vuolsi dare a queste la cittadinanza Toscana. Altre ne hanno adoperate il Frugoni, ed altri poeti, che non fanno testo, e l'Accademia potrà scerne quelle, che reputerà convenienti, ma non credo, ch'essa debba crearne di nuove. Essa fino ad ora ha registrate nel Vocabolario quelle voci, che vedeva adoperate da' buoni scrittori e dal popolo, e niuna ne ha creata di suo capriccio, ed il fare altramente sarebbe per mia opinione un dipartirsi dal suo istituto. Ne formino pure a lor talento gli autori viventi, e quelli che verranno, ed ove le formino lodevolmente otterranno grazia presso l'Accademia in altra età.
Finalmente di tante voci forestiere, che alcuni adoperano vuol, che si adottino quelle, che la necessità esige, o l'uso sufficientemente prescritto non tanto dal tempo, quanto dall'autorità dei più purgati scrittori o parlatori moderni. p. 12. Altre non poche, che non hanno ancora tanto possesso nell'uso, ma che vanno verso quello inoltrandosi, e perciò voci di mezzano uso possono appellarsi, si potranno mettere in una tavola a parte in fine del Vocabolario. Ivi. Ma vediamo quali sieno le tavole da lui proposte. La prima è pe' dialetti Senese, Pisano, Pistojese, Lucchese, Aretino, e Cortonese. La seconda è degl'idiotismi. Questi si dividon da lui in quattro classi, idiotismi delle persone nobili, e culte, del popolo, del contado, e dell'ultima plebaglia. Esclusa l'ultima concede alle tre altre luogo nella tavola. La terza è dei barbarismi dei sollecismi e di quelle voci forestiere, che ha chiamate di mezzano uso. La quarta è dei nomi proprj di persone o di luoghi, o troncati, o alterati, o trasformati in guisa che appena dai più esperti s'intendono. La quinta è delle conjugazioni ed inflessioni de' verbi regolari ed irregolari un poco più abbondante di quella del Pistolesi, ma collo stesso metodo.[92] La sesta è de' Latinismi. Utili sono queste tavole, e la terza massimamente potrà giovare per togliere una gran parte d'errori troppo comuni. Se non che converrà farla così grande, ch'essa sola formerà un ampio Vocabolario. Meno opportuna forse parrà la prima in un Vocabolario, che aver dee per suo primo scopo la propagazione di quella sola lingua che dai buoni Scrittori si deve adoperare. E già la tavola di que' dialetti sarebbe lunga impresa, e difficile, e tarderebbe con poco profitto l'impressione del Vocabolario.
Una Grammatica finalmente propone il P. Ildefonso, la quale desidera breve, e che vinca le altre per facilità e chiarezza. Ma una grammatica, che vuolsi mandare in luce per opera dell'Accademia, anzi che breve, credo, che debba esser ampia, e comprendere tuttociò che altri può desiderare. Io però sarei d'avviso, che bastasse imprimere di nuovo quella ottima del Corticelli, emendandola in pochi luoghi, ed accrescendola in altri, principalmente nella conjugazione de' Verbi irregolari, nelle appendici da lui aggiunte nel secondo libro ad ogni ordine de' Verbi, nel trattato delle proposizioni, degli avverbj, e in altri luoghi.
L'Accademia Fiorentina però non giudicò di dover seguitare le tracce segnate dal P. Ildefonso. Per riparare ai difetti ed alle mancanze dell'ultima edizione del Vocabolario deliberò di farne un'altra, e se ne pubblicò colle stampe l'avviso. Se nell'edizione del 1729. di tre o quattro autori soli si fece lo spoglio, che nelle precedenti non avevano avuto luogo, in questa se ne approvarono cinquantacinque, ond'era a sperarsi, che di grandissimi accrescimenti si vedrebbe arricchito il nuovo Vocabolario. Ma le speranze si dileguarono sul primo loro apparire, e la promessa edizione non si eseguì. Essa fu annunziata con un avviso pubblicato in Livorno per le stampe del Masi ai 30. Genn. del 1794. e forse così lodevole impresa dalla difficoltà de' tempi restò impedita. Può dubitarsi ancora, che lo stesso avviso testè citato abbia distolto alcuni dal porre il proprio nome nel novero de' compratori. Perchè, vedendovi molte parole, o maniere di dire non pure, avranno in esso (quantunque ingiustamente) ravvisato un sinistro preludio dell'opera. In fatti lasciando stare le voci manifesto, sesto cioè la forma d'un libro, associati, che se l'Accademia lo giudica opportuno, potrà forse approvare, come voci dell'uso, vi si trova piano per metodo o disegno di un'opera, limitarsi, riprodurre per ristampare, prevenuto per preoccupato, si faranno un dovere, privativa, per anche,[93] va del pari colla importanza delle materie,[94] copia per esemplare o corpo d'un'opera, stampata,[95] le quali espressioni non sono ancora approvate, e alcune forse non si approveranno. Ma quel foglio deve essere opera dello stampatore, come lo fa credere la data di Livorno, o se è d'altri non è dell'Accademia, la quale lo avrebbe pubblicato in suo nome. A questa erano ascritti più e diversi uomini chiarissimi, e nello studio della nostra lingua esercitatissimi, fra i quali (per tacere de' viventi) basti di ricordare il P. Ildefonso da S. Luigi Carmelitano Scalzo; e la loro celebrità doveva fare sperare un'opera utile, e gloriosa all'Italia. Erano stati fatti copiosi spogli da parecchi testi a penna del buon secolo non veduti dai loro predecessori, e dalle opere citate nell'edizione del 1729. A queste ne avevano aggiunte altre molte d'autori moderni, delle quali si può vedere il novero nel Vocabolario dell'Alberti, e nella serie del Signor Gamba. Quindi molte aggiunte si promettevano, e correzioni, l'indicazione del genere dei nomi, i plurali di doppia terminazione, i perfetti, e i passati de' verbi irregolari, l'etimologie quando sono ben chiare, e possono contribuire a far conoscere la proprietà dell'espressione. Finalmente volevano notare con diligenza grande le voci latine, che sono manco in uso, le familiari, le basse, le figurate, le più generalmente poetiche, e le antiche, fra le quali sarebbono state distinte le non più usabili da quelle dismesse senza loro demerito, e che possono talvolta impunemente rimettersi in corso dai valenti, e giudiziosi scrittori. Io però dubito forte, che questa estrema promessa, quantunque utile molto, fosse per riuscire pericolosa, nè richiesta dall'istituto dell'Accademia.
Ciò che l'Accademia non potè fare ha poi fatto il Signor Antonio Cesari per le stampe del Veronese Ramanzini nel 1806. Non è del mio argomento il tenere discorso di questa edizione: ma non debbo tacere delle molte, ed egregie aggiunte di Clementino Vannetti di Roveredo, e del P. Girolamo Lombardi Gesuita Veronese, che in compagnia di molte altre ivi si vedono. Il Vannetti, e il Lombardi erano di nostra lingua amantissimi, ed intendentissimi; dagli autori classici raccolsero moltissime voci, e maniere di dire, animati a ciò fare, e a sostenere tanta fatica, il primo dalle preghiere degli Accademici Fiorentini, il secondo dall'amore di nostra lingua. Ma le aggiunte loro sarebbono miseramente rimaste inutili, se l'ottimo Signor Cesari non le avesse a comune vantaggio nella sua edizione inserite.[96] Sono nelle aggiunte di que' valentuomini alcuni errori, non può negarsi. Ma quanti errori si troverebbono nelle carte degli uomini più grandi se altri le pubblicasse quali da prima furono scritte? Qualche scrittore dottissimo li rimprovera non d'alcuni falli solamente, ma eziandio d'aver registrate parecchie voci antichissime e stranissime. Io però non so rimproverarli di questo. Parmi che anche da quelle voci si possa trarre qualche utile, perchè servono alla storia della nostra lingua e della Francese o Provenzale da cui provengono, mostrano quali mutazioni talvolta si facciano alle parole, e così posson giovare all'etimologia d'altre voci.
Benemerito del Vocabolario fu il P. Bergantini colle sue aggiunte,[97] che poi il Dottor Pasquale Tommasi ristampò nell'edizione Napoletana dello stesso Vocabolario del 1740. quasi colle sue stesse parole, ma senza nominarlo.[98] Errò però il Bergantini allegando molti scrittori commendabili per dottrina, ma non per la purità della lingua. Tali sono il Ficino, il Landino, l'Atanagi, Pietro Badoaro, Daniello Barbaro, l'Aretino, il Bascapè, Gio. Battista Lalli, Vittorio Siri, Gio. Battista de Vico, ed altri parecchi. Errò ancora col porre nelle sue opere molte voci, che a mio giudizio non meritavano questo onore. Apro a caso la sua opera intitolata voci Italiane ec. stampata a Venezia il 1745. e trovo le seguenti parole: Frizione, che egli spiega crepito e insistenza che fanno i liquidi al fuoco: disarmo per disarmamento: conquestione per querela, lamento: conquisitore per investigatore: conquisizione per investigazione, ed altre non poche, le quali non pajono degne d'essere registrate nel Vocabolario della nostra lingua. Molte altre però ve ne sono ottime e pure, per le quali la fatica di questo Scrittore merita d'essere commendata.
Del Dizionario enciclopedico dell'Abate Alberti. CAPO VIII.
Benchè molto si debba al P. Bergantini per le sue opere, molto più si debbe all'Abate Alberti di Villanova pel suo Dizionario enciclopedico, che pubblicò in sette volumi in quarto colle stampe Lucchesi del Marescandoli nel 1797. e negli anni seguenti. L'Accademia della Crusca nel suo Vocabolario poche parole aveva registrate spettanti alle scienze ed alle arti; quelle cioè solamente, che o sono più comuni, o si trovano negli autori approvati; dicendo, che di queste far si doveva un Vocabolario separato. Conosceva essa certamente la difficoltà, che nel raccogliere queste voci si doveva incontrare. Le difficoltà però non isgomentarono l'Alberti. Egli esaminò i libri megliori, che trattano di queste facoltà, viaggiò per le città della Toscana, visitò le officine degli artefici, ed ogni altro luogo, da cui trar potesse sì fatte voci, le quali avendo con diligenza raccolte, ne arricchì il suo Dizionario. Nè trascurò pure le altre parole, che a scienze o ad arti non appartengono, ma un numero grandissimo ne radunò traendole dagli autori citati nel Vocabolario del 1729. e dallo stesso Vocabolario nella prefazione, o nelle spiegazioni delle voci, che dagli Accademici non furono registrate. A queste aggiunse egli altre fonti di nuovi accrescimenti. Ciò furono. 1. Gli autori approvati col partito preso dall'Accademia Fiorentina nel 1786.[99] 2. La derivazione delle voci adottate, cioè i superlativi diminutivi, accrescitivi,[Pg 76] vezzeggiativi, diminutivi di diminutivi, peggiorativi, avvilitivi, participj verbali, ed altri somiglianti, seguendo in ciò l'autorità della Crusca medesima nella prefazione al Vocabolario del 1691. e del Varchi. 3. Altri Autori non mai citati dalla Crusca, che furono però per la maggior parte Toscani, o annoverati fra gli Accademici, e a suo giudizio scrissero in purgata favella. Niuno vorrà non commendarlo per gli accrescimenti, che egli derivò dalla prima fonte, alla quale tutti possono attingere, purchè lo facciano con giudizio. Riguardo ai derivati ve ne sono alcuni, che spontaneamente provengono dalle primitive loro voci, nè vi ha bisogno d'autorevoli esempj, perchè altri senza timore li possa usare. Tali sono a cagion di esempio animatore, e animatrice, avvivatore,[100] e avvivatrice da animare, e da avvivare, che mancano al Vocabolario, ma dall'Alberti vengono registrati. Riguardo a quelle tante modificazioni di accrescitivi, peggiorativi, diminutivi, vezzeggiativi, ed altrettali, di che abonda la nostra lingua sopra ogni altra è andato a rilente, anzi che no quando gli mancavan gli esempj. L'Accademia nella prefazione premessa al suo Vocabolario del 1691. lascia agli Scrittori una certa libertà di formare simili derivati, con giudizio però, e con savio avvedimento; ma Monsignor Bottari asseriva, che non si può lasciar fare a suo modo ad ognuno, perchè senza un poco d'esempio avanti si potrebbe errare per poco.[101] E l'Accademia stessa nella edizione del 1729. supplì molto anche in questa parte al difetto dell'edizion precedente. L'Alberti ha seguiti[Pg 77] questi esempj, ed in ciò è da lodarsi. Nè vorrò pur biasimarlo quando prende alcune voci spettanti a scienze dall'Alghisi, dal Dottore Bastiani, dal Biringucci, dal P. Bonanni, dal Ceracchini, dal Mattioli, dal Vallisnieri, e da altri, ed eziandio dalla raccolta di bandi, editti ec. pubblicati in Toscana nel secolo decimosesto, e dalla Tariffa delle Gabelle della Toscana certe voci spettanti a manifatture, commercio, e simili, perchè le prime uopo era trarle dai più solenni Maestri, e per le seconde i bandi, gli editti ec. del Governo, quantunque non sieno puramente scritti, usano però in questo quelle voci, che universalmente si usano dal popolo. Nè pure lo biasimerò se a conferma di qualche sua opinione cita le origini del Menagio, le opere grammaticali del Gigli, ed altrettali opere, che sebbene scevre non sieno da difetti, posson però aver trattato di quelle opinioni lodevolmente, e molte in fatti egregie cose contengono, dalle quali è lecito a chiunque di trar profitto. Non così potrei commendarlo, quando cita certi altri scrittori, come l'Aretino, il Ruscelli, il Dolce, e simili. Dell'Aretino dice, che alcune delle sue rime sono comprese nella Raccolta del Berni, che fa testo in lingua. Vuolsi però avvertire, che alcuni Poeti soltanto di quella Raccolta sono citati dall'Accademia nè fra questi è l'Aretino, autore scorretto quanto altro mai. Scorretto altresì è il Ruscelli, e dir si dee lo stesso di parecchi altri non sempre puri scrittori, benchè pregevoli per altre doti.
Ma qualunque essi siano gli autori per lui allegati, non può non riprendersi per soverchia scarsità d'esempj, e per negligenza. L'angustia somma, a cui negli anni estremi del viver suo l'avean condotto le vicende della sua patria caduta miseramente sotto il giogo della rivoluzione fu forse la cagion principale, che lo consigliò a diminuire il numero degli esempj per diminuire il numero dei volumi. Il che serve a rendere scusabile l'intenzion sua, ma non appaga nel leggitore il desiderio di vedere con maggiore abbondevolezza indicato l'uso d'ogni voce. Se diminuiti avesse gli esempj per quelle parole, che sono registrate dalla Crusca il danno sarebbe stato molto minore, perchè ognuno poteva, quando gli fosse a grado, vederli nel Vocabolario dell'Accademia, ma faceva di mestieri, che almeno per le voci, e pe' significati aggiunti l'Autor fosse stato più liberale. Il diligente editore, che dopo la sua morte continuò l'edizion cominciata, s'accorse di questo difetto, e volle porvi rimedio, come potè. Accrebbe perciò gli esempj alle prime voci, il che eseguì facilmente, perchè la Crusca glie le somministrava, ma per l'aggiunte dell'Alberti non era ormai più possibile di farlo. Quantunque però in questo l'Alberti debba esser ripreso, vuolsi riprenderlo vie maggiormente per la negligenza da lui usata nelle citazioni. Lascio stare qualche errore, che in queste s'incontra. Per esempio alla voce abbacinato egli aggiunge un significato, che l'Accademia non avea notato espressamente, cioè che Famiglia abbacinata vale privata de' suoi più illustri soggetti, e cita Giovanni Villani senza addurne le parole. Ma forse doveva allegare Luca da Ponzano citato nel Vocabolario della Crusca a questa voce § Per Metafora. Lascio star questo, perchè non è meraviglia che in una intrapresa tanto lunga, e faticosa scappi qualche raro, e piccolo errore. Intendo bensì di quella trascuratezza per cui le citazioni non sono bastevolmente espresse, e si allega per esempio Tasso Gerusalemme, Segneri Quaresimale, Vite de' SS. Padri, senza indicare della Gerusalemme il canto e la stanza, del Quaresimale la predica e 'l paragrafo, delle Vite il Tomo e la facciata. Peggio è quando nomina l'autore senza indicar l'opera, come Vallisnieri, Salvini, Magalotti ec. o se accenna l'opera lo fa in modo, che, ove ancor si volesse legger tutta l'opera indicata nella citazione, non si troverebbe mai il passo allegato. Alla v. sfregacciolata che non è nella Crusca, aggiunge la spiegazione leggiero sfregamento, e pone questo esempio del Redi: al Ditirambo dell'acqua do di quando in quando qualche sfregacciolata di pennello, ma non concludo il lavoro. Red. lett. Lascio stare, che sfregacciolata ivi non è leggiero sfregamento, ma frego, o piuttosto colpo di pennello, pennellata; lascio star questo, e dico, che niuno potrà mai trovare quel passo fra le opere del Redi. Esso è veramente in una sua Lettera; questa però non è fra le sue opere, ma fra le lettere familiari del Magalotti pubblicate per opera di Monsig. Fabbroni il 1769. T. 1. p. 270. Ancor peggio è allora che porta gli esempj, senza indicare nè pur l'autore. Altre volte nomina l'autore, e l'opera, e nè l'uno nè l'altra si vedono nel suo indice degli scrittori posto al principio del Tomo. Per esempio alla voce Capello, § a Capello, a Fuggire § fuggi, fuggi, a Roba § roba per veste si leggono esempj di Panc. lett. ora qual nuovo Autore sarà questo, che non è registrato nell'indice? Egli è Lorenzo Panciatici di cui si ha qualche lettera fra le familiari del Magalotti stampate il 1769., e quegli esempj sono ivi appunto nel T. 2. p 23. Fra questi esempj è da notarsi il terzo, dove si legge roba di camera; il che non vorrei dire sull'autorità del Panciatici, il quale in quella facciata medesima dice altresì delle mie reverie, che l'Alberti non ha osato di porre nel suo Vocabolario. Alla v. Invadere cita i Viaggi del Targioni, che non è da annoverarsi fra gli scrittori purgati, e al più si potrebbe allegare per qualche voce, o modo di dire spettante alle arti ed alle scienze. Or queste mancanze sono di non lieve momento, perchè si toglie altrui il comodo di riscontrar negli Autori le citazioni, potendosi pur dubitare talvolta, non forse una voce abbia un senso diverso da quello, che l'Alberti le attribuisce, e per togliere o confermar questo dubbio gioverebbe molto l'osservare il contesto dell'esempio allegato. Un esempio me ne somministra la parola acquacchiato dove si legge abbattuto, infiacchito, spossato, fu detto dal Redi de' Lombrici indeboliti, e quasi semivivi. Questa citazione del Redi fa credere, che si tratti di un grandissimo abbattimento di un totale spossamento. Ma il Redi non dice, che quegl'insetti fossero quasi semivivi. Ecco le sue parole nelle Osservazioni intorno agli Animali, che si trovano negli animali viventi p. 103. edizione del 1684. Vi dimorarono (due Lombrici) senza morirvi quantunque paressero molto acquacchiati. Le quali parole non ispiegano abbastanza il senso di quella voce, ma mostrano, che per darle qualche forza è stato necessario l'unirla all'avverbio molto. Il Magalotti al contrario lo spiega bene dicendo, acquacchiato (vuol dire) l'istesso che confuso, mortificato. Lett. fam. T. 2. p. 68. edizion del 1769.
Finalmente alcune parole da lui registrate nel Dizionario, da altri forse si potranno creder men degne di quest'onore. Tali per esempio sono a mio giudizio: Abbonamento, e Abbonare, che ivi si dicono termini Mercantili, e d'uso; Toletta che si dice «francesismo dell'uso, assortimento, e apparato di varj arnesi ed abbigliamenti per cui si adorna la Dama nel gabinetto servita dalla sua damigella» e si cita l'Algarotti; sangria con esempio del Magalotti per cavata, o emissione di sangue, ch'è voce Spagnuola; altarizzare per onorare alcuno ergendoli altari con esempio di Fulvio Testi cioè di un Autore non posto nel suo catalogo: regretto e regrettare, che si chiamano francesismi usati dai Lucchesi fino dal secolo decimosettimo. Queste sono parole forestiere, che l'uso degli accurati scrittori non ha fino ad ora autorizzati, nè doveva esser sollecito di autorizzarle l'autore del Dizionario.
Altri forse creder potrebbe, che le parole regretto, e regrettare fossero da adottarsi come quelle, che proprie sono d'uno dei dialetti della Toscana ormai da qualche tempo. L'Alberti trasse quella notizia dal Gigli[102] che l'annovera fra più altre parole dello stesso dialetto e il Gigli l'ebbe dagli Accademici dell'Anca. E se il Gigli, e quegli Accademici riconoscevano queste voci non come poco dianzi introdotte in Lucca, dovevano certamente esser proprie di quel dialetto da qualche tempo, e non anderebbe lungi dal vero chi le stimasse introdotte ivi cento, o dugent'anni prima. Ma quest'antichità non giova per aggiungere autorità a quelle voci, le quali probabilmente recaron di Francia i mercatanti Lucchesi, che là si recavano, e lungo tempo si trattenevano pe' loro traffichi. Certo è, che nelle opere di Giovanni Guidiccioni, del Daniello, del Vellutello, o in altri buoni Scrittori Lucchesi del Secolo decimosesto, o dei Secoli susseguenti non si trovano sì fatte voci,[103] il che è contrassegno, che essi non le credettero di buona lega.
Un altro pregio, e al tempo medesimo un altro difetto ci somministrano le sue definizioni. Gli Accademici nel vocabolario talvolta non dettero buone definizioni delle cose, e l'Alberti ebbe in animo di supplire alla mancanza loro, ponendone altre migliori; ma anche le sue non sempre sono scevre da difetto. Alla voce Grecità definisce tutta La nazione Greca, e spezialmente gli Scrittori di quella lingua, ed a Latinità leggiamo qualità del Latino. Ognun vede, che se è giusta la prima definizione esser dee riprensibile la seconda. Anche la prima però non è in tutto degna di lode, mentre Grecità non vuol dire la nazione Greca ma bensì gli scrittori Greci, intendendo con queste parole le opere loro non gli Autori stessi, come si vede dall'esempio ivi allegato. Onde ancora quella definizione è malvagia, perchè in parte è falsa, e in parte equivoca.
Dalle quali cose tutte deduco, che dobbiamo saper molto grado all'Alberti di tanta fatica, di molte voci e significati da lui aggiunti al Vocabolario, di aver cogli accenti mostrato quali voci si debbano proferir lunghe, e quali brevi, di aver date parecchie buone definizioni, e ad un uomo che per solo amore del comodo altrui, e della nostra lingua ha tollerata per molti anni tanta fatica viaggiando, interrogando, leggendo, e scrivendo dobbiamo perdonar qualche difetto, che l'umana natura non può mai in tutto evitare. Per altro il suo Dizionario è pregevolissimo, e necessario a chiunque vuole studiare la lingua Italiana: e il signor Cesari di molte voci, e maniere di dire avrebbe arricchita la sua edizione del Vocabolario della Crusca se l'avesse veduto. Prendo a caso la Lettera B, e in questa prendo le prime sei facciate dell'Alberti, e trovo che al Cesari manca babbalà (alla), bacamento, bacchettata, bacchiatore, baggea, pigliarsela in baja, le quali voci sono usate nel Malmantile, dal Redi, dal Segneri, ne' Canti Carnascialeschi, dal Varchi, e dal Buonarroti. E pure non ho notati, i derivati dei nomi proprj, i termini di scienze, e di arti, e quelli di cui si portano esempi d'autori moderni, perchè a questi non si estendono le sue aggiunte.
Altri Vocabolarj, regole per la Pronunzia Sinonimi, ed Epiteti, Rimarj, ed Etimologie. CAPO IX.
Se il P. Bergantini e l'Alberti meritaron lode accrescendo il Vocabolario, Apostolo Zeno, e Jacopo Facciolati la meritarono con accorciarlo. Al primo si attribuisce il compendio di quest'opera, che egli fece prima sull'edizione del 1691, e poi su quella del 1729, e che essendo stato tante volte impresso offre con ciò solo un manifesto indizio del plauso universale. E meritamente l'ottenne o si riguardi la brevità a cui è ridotto quel compendio a comodo altrui, o l'emendazioni quantunque rare, che quell'uomo grande vi ha fatte. Dobbiamo al secondo l'Ortografia Italiana stampata in Padova molte volte, e che può dirsi anch'essa in qualche modo un compendio del Vocabolario Fiorentino, quantunque quà, e là vi si trovi qualche aggiunta tratta da scrittori approvati. Nè di questo genere di libri farò più a lungo ragionamento,[104] dovendo omai parlare di[Pg 84] alcuni Dizionarj particolari. Tra questi per la sua celebrità domanda il primo luogo il Vocabolario Cateriniano del Gigli. Questo bizzarro, e mordace scrittore si pose nell'animo d'onorare il dialetto di Siena sua patria, e poteva in ciò procacciarsi lode, ma lo fece in modo che si attirò sventure e biasimo. Ma di lui ho già detto abbastanza di sopra.
Parecchi altri pure divulgando le opere degli antichi Autori Toscani ne raccolsero le parole e maniere di dire meritevoli d'osservazione, e quelle massimamente che non si incontrano nel Vocabolario, come il Salvini, il Biscioni, Giuseppe Bianchini, il Bottari, il Cavaliere Jacopo Morelli, e finalmente il P. Ildefonso nelle Delizie degli Eruditi Toscani, dai quali altresì ove ancora si tolga ciò che è scorrezione popolaresca rimane sempre alquanto, e in taluni anche molto, da aumentare il tesoro di nostra lingua.
Fra i Dizionari particolari si debbon porre quelli delle arti, e delle scienze de' quali uno solo ne abbiamo in questo secolo. Tale è quello per la Medicina d'Andrea Pasta[105] Medico prestantissimo, che avrebbe voluto sbandire quegli oscuri, e tenebrosi vocaboli, che sì volentieri, e sì spesso soglionsi usare da' medici triviali nei loro parlari, e nelle loro scritture. A' questo fine dagli scrittori approvati egli trasse le voci, e maniere di dire che appartengono a medicina, e vi aggiunse parecchie osservazioni, con che provvide non solo allo scrivere e parlar bene, ma ancora a bene operare. I libri da lui allegati, o de' quali fece uso, sono il Decamerone del Boccaccio, le opere del Galilei, i saggi dell'Accademia del Cimento, il trattato dell'Agricoltura di Piero de' Crescenzi, il Ricettario Fiorentino, il Vocabolario della Crusca, le opere del Cocchi, e sopra tutto quelle del Redi. Io non sono punto istruito ne' precetti delle mediche discipline, pure credo di non errare dicendo, che i medici ed i giovani principalmente dovrebbono avere frequentemente tra mano il libro del Pasta, che consiglierebbe loro d'usar favellando, o scrivendo un linguaggio più acconcio a procacciarsi la confidenza del malato, ed a confortarlo, e forse anche li persuaderebbe di diffidare alquanto di certi nuovi sistemi, troppo sovente incerti, e variabili. Un Vocabolario de' nomi proprj tanto delle persone, che de' luoghi sarebbe utile molto, e l'Arciprete Baruffaldi lo aveva non solamente intrapreso, ma quasi compiuto, ma è rimasto inedito.[106] E aggiungerò quì ancora il suo Dizionario Ditirambico, e Baccanalesco, cui non saprei qual miglior luogo assegnare.[107]
A questa classe medesima si può riferire il breve ragionamento dell'Algarotti sopra la ricchezza della lingua Italiana ne' termini militari.[108] Alle maniere di dire de' Francesi scrittori intorno a cose militari egli mostra quali, e quante maniere Italiane corrispondano, ed anche in ciò solo altri può vedere di quì, come la nostra lingua sia abbondante, e ricca più della Francese. Nè su questo mi tratterrò più lungamente. Aggiungerò bensì, che di non mediocre utilità sarebbe, se ciò che l'Algarotti fece per l'arte militare, altri lo facesse riguardo alle altre facoltà; affinchè ove alcuno debba scrivere intorno alle medesime avesse pronte al bisogno le espressioni che sono più acconce, onde non si dovesse attribuire a difetto della lingua ciò che spesso è difetto di memoria dello scrittore.[109]
Gli Autori quì ricordati insegnano quali siano le voci, e le espressioni, che voglionsi adoperare scrivendo; ma della pronunzia non fanno parola, tranne l'Alberti, che nel suo Dizionario è stato sollecito d'indicare le voci, che lunghe si profferiscono o brevi. Ma noi abbiamo qualche altra cosa nella pronunzia, che domanda d'esser regolata. Le vocali E ed O ora si pronunziano strette, ed ora larghe; le consonanti S Z ora hanno un suono più dolce, ed ora più aspro, come tutti sanno. A questo volle provvedere il Gigli adoperando le Greche lettere epsilon, ed omega per le vocali larghe, e la S, e lo Z corsivo per le consonanti aspre, e in questa guisa nelle sue regole per la Toscana favella dette un lungo catalogo[110] di quelle parole, che usar si sogliono più comunemente. Dopo lui il Salvini nel volgarizzamento d'Oppiano[111] volle anch'egli introdur qualche segno, che giovasse alla pronunzia, ma solamente per le due vocali E, ed O, alle quali sovrappose un accento circonflesso, quando si doveano profferir larghe. L'uso delle Greche lettere, come non piacque nel secolo decimosesto, quando col fine medesimo le introdusse il Trissino, e dopo lui Adriano Franci, così nè pur piacque nel decimottavo, siccome quelle che troppo sono difformi dalle nostre: e in questa parte fu più saggio l'avvedimento del Salvini, che un contrassegno adoperò più acconcio, e meno strano. Tal novità, quantunque utile, non fu da veruno imitata, e il Salvini medesimo negli altri suoi libri non l'usò.
A uno scopo più alto diressero le mire loro il P. Carlo Costanzo Rabbi Agostiniano, e il P. Giovambattista Bisso Gesuita procurando d'agevolare lo scriver puramente, ed elegantemente il primo in prosa, il secondo in versi. Con questo intendimento il Rabbi raccolse i sinonimi, ed aggiunti Italiani, cui pose in fine un trattatello intorno alle regole per ben valersi sì degli uni che degli altri, e delle similitudini,[112] al che poi fece parecchi accrescimenti il P. Alessandro Bandiera de' Servi di Maria. Gli approvati scrittori di purgata favella sono le fonti, dalle quali l'opera è tratta, e poco v'ha (se non m'inganno) che non le sia uniforme.[113] Ma questo genere di libri è pericoloso pe' giovani, i quali s'avvezzano a prendere senza discernimento non ciò che è più acconcio, ma quello che prima cade sotto gli occhi, ed a riempiere d'inutili aggiunti le loro dicerìe. E tanto più facilmente essi potrebbono risentirne danno, che si vedono quì talvolta voci, e maniere di dire ora triviali, ed ora strane, ed antiche, che potevano forse esser tollerabili, ed anche lodevoli nel luogo dove furon poste da quegli autori, e altrove desterebbono riso, e meriterebbono riprensione. Con miglior consiglio il P. Bisso raccolse le voci, e locuzioni poetiche di Dante, Petrarca, Ariosto, e Tasso, e d'altri autori del cinquecento[114] aggiungendo ancora talvolta lunghi squarci di que' Poeti, e intieri componimenti. E giacchè il mio argomento mi ha condotto a far parola de' sussidj prestati alla poesia ed ai poeti non voglio lasciar di ricordare i rimarj, libri pericolosi anch'essi, ma comodi. Universale è quello del Rosasco[115] per ogni genere di rime piane, tronche, e sdrucciole ed è ampio tanto, che la stessa sua copia può talvolta imbarazzare il Poeta. Quì poi si trovano tutte le parole e nobili, e mediocri, ed umili, onde chi vuol farne uso debbe essere di fino discernimento fornito per iscegliere quelle che sono più adatte al suo bisogno. Alle sole rime sdrucciole limitò il suo Rimario il Baruffaldi[116]. Questi due Rimarj offrono le sole parole, che fanno rima; ma, con utile avvedimento altri facendo il rimario particolare di qualche poeta vi ha posto gl'intieri versi, il che quanto comodo apporti, coloro tutti lo sanno, a' quali è avvenuto alcuna volta di fame uso. Tali sono quelli del Dante[117] del Tasso[118] del Petrarca Bembo Casa Guidiccioni e Molza[119] e altri.
Anche i proverbj ebbero un dotto illustratore nel P. Sebastiano Paoli Lucchese de' Chierici Regolari della Madre di Dio[120], che una materia così arida, ed ingrata seppe render piacevole con molta, ma sempre amena erudizione. A lui vuolsi aggiungere il Biscioni nelle annotazioni al Malmantile, il qual poema essendo da cima a fondo pieno di proverbj, questi principalmente han dovuto spiegare i suoi Comentatori.
Finalmente a questa classe medesima appartengono altresì i Dizionari etimologici, i quali però richiedono breve discorso, e questo lo vuol quasi tutto il Muratori. Sono alcuni i quali avendo per costume di biasimar ciò, che non sanno, sorrideranno al nome d'etimologie, nè crederanno che reputar si possano illustratori d'una lingua coloro, che i loro studj hanno rivolti a questo genere di considerazioni, che essi chiamano vano ed inutile. Ma se si considera quanti uomini preclarissimi a sì fatte indagini hanno consacrate le loro cure, se si considera, che fra questi è il Leibnitz, che molto ne scrisse, e con molta, diligenza, ed il Cesarotti, che di questo studio fece una breve, ma giudiziosa difesa ed opportuna,[121] e desiderò che un Vocabolario etimologico avesse la nostra lingua disposto secondo l'ordine alfabetico delle radici[122]: se a tutto ciò si ponga mente non dovremo noi esser molto solleciti della disapprovazione di costoro. Potrebbe forse piuttosto dubitarsi, se far si dovesse un rimprovero agl'Italiani di non aver già prima d'ora adempiuto, o prevenuto il desiderio del Cesarotti, lasciando che la palma cogliesse in ciò un Francese, cioè il Menagio colle sue Origini Italiche. Ma la difficoltà dell'impresa probabilmente fu quella, che fino ad ora distolse i nostri dal correre pienamente questo arringo. E per ciò che spetta al Menagio, quanto è degna di lode l'intenzion dell'autore dottissimo, che coraggiosamente prese ad illustrare una lingua non sua, altrettanto era da desiderarsi un più felice riuscimento alle sue cure, ed alle sue fatiche. Imperciocchè se da quel suo libro si tolga ciò che egli prese dagl'Italiani Redi, Dati, Chimentelli, Canini, Monosini, Ferrari, Varchi, Castelvetro, e dal Vocabolario della Crusca, poco resta di suo e quel poco generalmente parlando non è molto lodevole. Ma venghiamo a noi.
Il Muratori dunque parlando dell'origine di nostra lingua due lunghe serie di parole ci dette, la prima di quelle voci Italiane, l'origine delle quali è tuttavia sconosciuta, o dubbiosa, e la seconda di molte voci, delle quali cerca donde provengano.[123] Nella prima molte son le parole delle quali non reca l'origine, come per lo stesso titolo suo era da aspettarsi; pure d'alcune l'accenna, e di qualche altra non è difficile l'assegnarla. Fra queste sono basto che viene da bast, basta:[124] cangiare, dal Latino cambiare; di cui si veda il Du Cange; cascare da cascus, che nell'antico Latino significava vecchio, e forse voleva dire debole, cadente; caprone non comprendo come il Muratori non si sia accorto, che viene da caper; zanzara dal suono che fa, ed altre di quel catalogo, che si potrebbero aggiungere. La seconda serie è un copioso catalogo di voci, delle quali egli va indagando l'origine ora dal Latino antico, ed or dal barbaro, ora dalle lingue de' popoli invasori d'Italia, e dal Provenzale, dallo Spagnolo, dall'Arabo, con molta erudizione. Parecchie etimologie si possono aggiungere ancora quì fra le quali accennerò le seguenti tratte dal Tedesco. Bara, cioè cataletto viene da bahre: Becco per maschio della capra da bok: bosco da busk (il Muratori alla v. abbozzare avea bensì detto, che bosco derivava dalla lingua Tedesca, ma non ne aveva indicata la radice nè l'aveva registrata al suo luogo): daga spezie di spada da dagen spada: stanga da stange: tasca da tasche: tasso animale da dachs.[125]
Non tutti poi adotteranno tutte le sue etimologie. Per esempio astio probabilmente viene dal Tedesco hass come altri già ha detto: ed egli lo fa venire dal Latino, la qual lingua non aveva questa voce, erronee essendo le due citazioni di Plauto, che presso di lui si leggono, e che egli prese dal Du Cange. Randello viene dal Tedesco randell, e il Muratori troppo forzatamente lo fa derivare da rand, che significa giro, cerchio, margine. Ma in cose oscure tanto, e difficili, e ravvolte in tante incertezze chi può pretendere, che mai non si devii? Anche Anton Maria Salvini spiegò l'etimologia di alcune voci Italiane ne' suoi discorsi accademici[126] e il Baruffaldi, molte ne aveva esaminate di quelle, che dal Ferrari, e dal Menagio, erano state trascurate.[127]
Edizioni ed illustrazioni degli Autori classici. CAPO X.
Un altro modo d'illustrar la lingua adoperarono altri or pubblicando l'opere de' buoni scrittori, ed or rischiarandole con annotazioni, e con ogni maniera di spiegazioni. I Salvini, i Manni, i Biscioni, i Bottari, ed altri con nuove, e più corrette edizioni delle opere, che fanno testo in lingua, e già dianzi erano pubblicate, e con ritogliere dalla polvere delle librerie gli antichi manoscritti, e darli in luce molto hanno giovato alla nostra lingua. E molto più le hanno giovato coloro, che sì fatte opere co' loro comenti hanno rischiarate. Le fatiche de' comentatori di Dante non soddisfacevano abbastanza al comun desiderio, siccome quelle, che spesso non erano esatte, e sempre soverchiamente diffuse. Ripararono a questo difetto Gio. Antonio[Pg 93] Volpi co' suoi indici nell'edizion del Comino[128] poi il P. Pompeo Venturi,[129] e finalmente il P. Baldassare Lombardi Minor Conventuale[130] colle loro annotazioni. Molto si affaticò pure intorno a Dante il Canonico Dionisi di Verona esaminando codici, e raccogliendo varianti per procurare un'edizione esatta della Divina Commedia. Frutto di tanto suo studio sono alcuni suoi opuscoli ne' quali molte cose si vedono utilissime alla illustrazione di quest'opera, quantunque talvolta vi s'incontrino ancora giudizj fallaci, e congetture prive di fondamento.[131] Benemerito[Pg 94] del Petrarca, o piuttosto di quelli, che lo leggono volle essere il Muratori corredando le rime di quel gran Lirico colle sue annotazioni, e con quelle d'Alessandro Tassoni, che egli dette in luce per la prima volta, quantunque non tutti siano per approvare le critiche di quel sommo scrittore, che nelle cose spettanti al gusto non era così grande, quanto in ciò che spetta all'antichità. E benemeriti ne furono veramente il Tiraboschi, che nella sua storia esponendo la vita di lui alcune parti delle sue rime andò illustrando, e il chiarissimo Signor Conte Gio. Battista Baldelli nella bella vita, che ne scrisse,[132] e che tutta è piena di scelta erudizione, e di giusta critica. Così piaccia a lui di darci pure la vita di Dante, come questa ci ha data, e quella del Boccaccio, della quale a me rincresce solamente di non poter quì ragionare, perchè non appartiene all'epoca, nella quale star deve racchiuso questo mio ragionamento[133]. Ricorderò bensì la storia del Decamerone di Domenico Maria Manni,[134] a qualche difetto della quale supplì poi il Lami nelle Novelle Letterarie di Firenze del 1754. 1755. 1756. Anche il Bottari illustrò e difese il Decamerone con trentadue lezioni, che[Pg 95] hanno poi veduta la luce per opera del signor Francesco Grazzini egregio giovine de' buoni studj amantissimo.[135] Ma quanto debbono gli approvati scrittori alle cure indefesse de' due testè mentovati Manni, e Bottari! Quanto ad Anton Maria Salvini, al Canonico Biscioni, al Seghezzi, al Serassi! Se io volessi quì noverare le opere per essi, o per altri più correttamente pubblicate, o da' testi a penna tratte per la prima volta in luce, o di utili prefazioni, e annotazioni arricchite ampia materia avrei di ragionare. Ma troppo increscevole sarebbe un lungo catalogo di nomi e di titoli, e al tutto inutile, da che il Signor Gamba nella sua serie delle edizioni de' testi di lingua Italiana[136] sì accuratamente ha soddisfatto al pubblico desiderio.
Di quegli Scrittori, che hanno illustrata la lingua Italiana scrivendo purgatamente. CAPO XI.
Ma la più nobil maniera di illustrar una lingua consiste nello scriver bene. Io non pretendo decidere quali sieno gli scrittori, che debbono[Pg 96] far testo in lingua. Questo è ufficio dell'Accademia della Crusca, ed ha voluto almeno in parte soddisfarvi l'Accademia Fiorentina nel partito preso il 1786. di cui ho parlato più volte.[137] Io prendo ad annoverare non solamente coloro, ai quali è stato quest'onor conceduto, o che ottener lo potrebbono, perchè scrissero purissimamente, ma quelli ancora, che meritano lode di molta purità, quantunque alcuna volta, o per trascuratezza, o per debolezza di umana natura sieno caduti in qualche errore, od abbiano usata qualche voce non approvata. Niuno scrittor vivente porrò fra questi, de' quali troppo è pericoloso il dar giudizio: nè intendo di noverare tutti i trapassati, che ne son meritevoli, perchè troppo lunga impresa sarebbe, e difficile. Altri però mi ha diminuita alquanto la fatica. Oltre all'Alberti, di cui ho già fatta parola, il Signor Gamba[Pg 97] nuovamente stampando la sua serie dell'edizione de' testi di lingua[138] agli scrittori scelti dall'Accademia, e dall'Alberti parecchi altri ne aggiunse di purgata favella. E poco fa un anonimo scrittore coltissimo, giudizioso, e della nostra lingua amantissimo ha pubblicato un eccellente catalogo d'alcune opere attenenti alle scienze alle arti e ad altri bisogni dell'uomo; le quali quantunque non citate nel Vocabolario della Crusca meritano per conto della lingua qualche considerazione.[139] Finalmente il Signor Poggiali alla sua serie de' testi di lingua ha aggiunto un catalogo di opere non citate nel Vocabolario di autori però in esso allegati, e un altro di opere scritte in buona favella di autori non citati nel Vocabolario.[140] Molto prenderò da questi scrittori, aggiungendo però non poco, e talvolta allontanandomi dall'opinion loro, e piuttosto agli autori per essi approvati aggiungendone alcuni altri.
Comincio dagli Scrittori di Grammatica, e fra questi vuolsi dare il primo luogo al Corticelli. Di lui ho già detto di sopra, dove ho lodato i suoi precetti; e quì devo nominarlo di nuovo perchè i suoi precetti sono esposti purissimamente. L'opera sua è annoverata fra quelle approvate dall'Accademia Fiorentina. Al Corticelli unisco Francesco Maria Zanotti per gli Elementi di grammatica volgare de' quali altresì ho già parlato, e pel Ragionamento sopra la volgar Lingua.[141] E poichè in questa parte del mio ragionamento ho nominato per la prima volta questo immortale scrittore, non so trattenermi dal mostrare qualche maraviglia, che l'Accademia Fiorentina in quel partito da me ricordato ponendolo fra gli scrittori approvati di tante sue opere abbia scelte le lettere solamente, e le opere mattematiche, filosofiche, oratorie, e poetiche abbia trascurate. Le sue lettere sono bellissime; ma non sono men belle le altre cose; e in tutte si vede una grazia di stile, che innamora. Io non dico, che egli sia scrittore purissimo nel fatto della lingua, nè volle esser tale. Ma, come il Castiglione, seguì una certa libertà, la qual pure non è senza grazia. Che se i Deputati reputarono opportuno di perdonargli questa libertà nelle lettere senza approvarla, parrebbe che sì fatta indulgenza usar gli si dovesse ancora per le altre opere tanto maggiori, o l'importanza si consideri della materia, o la cura da lui posta nello scriverle. Finalmente ricordo i dialoghi del P. Rosasco, de' quali pure ho già fatta menzione. Avrei desiderato, che questo purgato scrittore non facesse uso di certe voci antiquate che non sono rare in quel suo Libro. Checchè però sia di questo, egli in quest'opera scrive purgatamente, e si deve dargliene lode. Ma progrediamo più innanzi e dai maestri di grammatica passiamo a quelli, che ci hanno dati i precetti dell'eloquenza e della poesia.
Quì pure ci si presentano il P. Corticelli e Francesco Maria Zanotti. I cento discorsi del primo su l'eloquenza meritarono d'essere approvati dall'Accademia Fiorentina.[142] Parrà forse ad alcuno, che i suoi insegnamenti sieno comuni troppo; ma non è comune in essi la purità della lingua, e il savio avvedimento di prendere gli esempj tutti da ottimi scrittori approvati dalla Crusca. Il secondo scrisse cinque ragionamenti dell'arte poetica,[143] parlando della poesia in generale poi della tragedia della commedia dell'epopeja e della lirica. Nella qual trattazione egli condisce tutto con quella grazia, che era a lui naturale e che non lo abbandonava anche ne' famigliari discorsi. I precetti poetici dette pure il Gravina, e la sua opera è annoverata fra quelle scelte dall'Accademia Fiorentina, il qual autorevol giudizio mi fa sicuro, che non m'inganno commendando ancora le altre opere sue scritte in Italiano[144]. Con purgato stile procurò di scrivere il Quadrio la sua faticosa, e troppo lunga opera della storia e della ragione d'ogni poesia,[145] il Bisso nell'elementare introduzione alla volgar poesia,[146] il Baruffaldi ne' ragionamenti poetici, dove parla della rima, dei rimarj, de' centoni, e delle varie edizioni della Gerusalemme liberata,[147] il Parini nei principj delle belle Lettere,[148] e il Borsa nella dissertazione sul Gusto presente in Letteratura Italiana onorata di premio dall'Accademia Mantovana.[149] Ma parecchi fra questi vince d'assai, ed a niuno è secondo il Sibiliato a giudizio d'uomini intelligenti (giacchè non mi è riuscito di vedere le cose sue). Due dissertazioni di questo scrittor purissimo appartengono a questa classe, e furono da lui destinate a due Accademie diverse. Commenda nella prima l'arte poetica, mostrando quanto alla civil società sia vantaggiosa ed alla politica, e fu premiata dall'Accademia Mantovana: colla seconda corregge e reprime quella pedanteria scientifica, (come la chiama il Cesarotti) che agli anni passati col titolo di spirito filosofico invase e guastò l'amena letteratura.[150] Aggiungo a questi Anton Maria Salvini ed il Marchese Gio. Giuseppe Orsi. Il primo per le annotazioni da lui fatte alla perfetta Poesia del Muratori, ed il secondo per le considerazioni sopra il libro francese intitolato de la maniere de bien penser dans les ouvrages d'esprit,[151] e pel ragionamento sopra il dialogo di Cicerone de senectute.[152] Ambedue fanno testo in lingua, il Salvini per antico diritto, l'Orsi per decreto dell'Accademia Fiorentina. A questa classe appartengono i dialoghi del Regali di cui ho parlato al Capo VI, ed alcune opere di Giuseppe Bianchini, cioè la difesa di Dante, le tre lezioni sopra il primo terzetto del Paradiso di Dante, sopra un sonetto del Petrarca, e sopra uno del Varchi, il Trattato della satira Italiana, e il Dialogo intitolato la villeggiatura,[153] e la difesa del Petrarca per opera del Casaregi, del Canevari, e del Tomasi.[154] A questa classe si possono aggiungere altresì l'acre censura, che il Biscioni fece all'edizione de' Canti carnascialeschi procurata dal Bracci,[155] e la più acre risposta dello stesso Bracci[156]. Commendo ne' due feroci rivali la purgatezza della lingua, ma biasimo solennemente la mordacità loro, e principalmente del secondo, che ebbe poi a dolersi di averla usata.
Molti più sono gli Oratori, ed i Poeti, che domandano d'esser quì nominati. Ne sceglierò alcuni, non potendo parlar di tutti. Fra gli Oratori vuolsi concedere il primo luogo al Gesuita Lucchese Alfonso Nicolai[157] per ciò che spetta alla lingua; nè a questo m'induce l'amor della Patria, ma sì l'Accademia Fiorentina, che l'annoverò fra i suoi scrittori approvati. I Gesuiti Tornielli[158] Bassani, Sanseverino, Dolera, Rossi, Venini, Trento, Pellegrini, Granelli, Muzani, Masotti, Vettori, e il Domenicano Valsecchi, furon lodati da chi li ascoltò predicare dal pergamo e sono lodati da chi legge le loro prediche. Anche fra gli Autori di lezioni sulla Santa Scrittura ve ne ha parecchi di purgata favella. Tali io giudico il Nicolai, il Granelli, il Rossi, il Pellegrini, già mentovati, e il Barotti, il Martinelli, e lo Scotti. Si aggiungano a questi Gio. Maria Luchini, ed Angelo Maria Ricci, pe' loro volgarizzamenti d'alcune Omelìe di S. Basilio, di S. Giovanni Grisostomo e di S. Gregorio Nazianzeno, de' quali parlerò altrove, Giuliano Sabbatini Scolopio e Vescovo di Modena, Lodovico Preti, Giuseppe Tozzi, Antonio Monti. Fra gli Oratori profani, si debbono ricordare Benedetto, e Giuseppe Averani, e Anton Maria Salvini. Nomino quì Benedetto, perchè l'Accademia Fiorentina che l'annoverò fra gli Scrittori da lei destinati a far testo in lingua gli attribuisce non so quali orazioni. Queste però non sono note al Mazzucchelli, nè al Signor Gamba, nè a me. Note sono bensì le sue dieci Lezioni sopra il quarto Sonetto del Petrarca stampate in Ravenna il 1707. cioè l'anno stesso della sua morte. Dieci lezioni per un sonetto a dir vero sono troppe; ma tale era l'uso del tempo suo che ora è cessato, nè è da dolersene. Altre undici lezioni egli scrisse, le quali abbiamo fra le prose Fiorentine. Molte lezioni altresì scrisse il fratello suo Giuseppe, che il Proposto Gori fece poi stampare.[159] I Salvini si dee collocare fra gli oratori sacri per le prose sacre,[160] e fra' profani pe' discorsi Accademici, per le prose toscane, ed altre opere.[161] Altri oratori abbiamo nelle Prose Fiorentine, e nell'aggiunta che a questa si fece in Venezia il 1754. Purgatamente scrissero orazioni ancora Francesco Maria Zanotti, Alessandro, e Domenico Fabri, il P. Curzio Boni Chierico Regolare della Madre di Dio, Flaminio Scarselli, ed altri.[162]
Agli Oratori succedano gli scrittori di lettere. Sono alcuni, ai quali niente aggrada, che non sia forestiero, e d'oltre monti non venga o d'oltre mare. Essi magnificando le glorie dell'altre Nazioni in questa parte della letteratura non cessano di rinfacciare all'Italia, che le mancano buoni scrittori di tal genere. Se il mio argomento mel permettesse non sarebbe a me difficile di mostrar pienamente la falsità di questa accusa, indicando molti egregi epistolarj del passato secolo, o dei precedenti. Ma contenendo ancora il mio discorso fra gli angusti confini, che mi sono prescritti, e continuando la mia trattazione mi avverrà di rispondere almeno in parte a quel rimprovero, quasi senza avvedermene. Il Metastasio è autore approvato dall'Accademia Fiorentina per le opere drammatiche solamente, nelle quali era sommo. Le altre opere sue, benchè sieno di minor pregio, sono però lodevoli. Le lettere[163] sono scritte con molta grazia, e con qualche purità. Dotte ed erudite son quelle d'Apostolo Zeno,[164] il quale altresì è approvato da quell'Accademia per alcune delle sue opere drammatiche. Elegantissime sono quelle de' Bolognesi, e leggiadramente scritte[165]. Eustachio Manfredi, i due Zanotti Francesco Maria e Giampietro, il Ghedini, Alessandro e Domenico Fabri, e Flaminio Scarselli ne sono gli autori; e i loro nomi sono così noti, che farei cosa inutile se quì prendessi a commendarli. Molte lettere abbiamo dell'Algarotti fra le sue opere.[166] Sanno tutti, che l'Algarotti alla scuola Bolognese attinse il buon gusto delle lettere, e fu scrittore elegante, e da prima anche puro. Ma poi viaggiando in Francia, in Inghilterra, in Germania, ed ivi dimorando lungo tempo il suo stile prese una certa straniera tintura, per cui le maniere de' nostri antichi si vedono talvolta unite a quelle de' moderni oltramontani, il che se non m'inganno fa un contrasto spiacevole da non imitarsi. L'Alberti citò le sue opere, nè lo condanno per questo, perchè molte voci vi si trovano spettanti alla fisica e alle arti del disegno, che secondo il suo instituto egli dovea raccogliere: ed io cito quì le sue lettere, e citerò altre cose sue, ove mi cadrà in acconcio, perchè molto v'ha in esse scritto toscanamente.
Anche al Magalotti nocquero i lunghi viaggi in ciò che spetta alla purità di lingua. Purgatamente scrisse i saggi di naturali sperienze, che fanno testo in lingua. L'Accademia Fiorentina concedette quest'onore anche alle sue lettere sì familiari, che erudite.[167] Il Cesarotti si doleva[168] che riconoscendosi questo scrittore per fortissimo nei saggi dell'Accademia del Cimento, si accusi d'esser poi nelle sue lettere familiari scritte in età più matura ( si noti la circonstanza ) caduto in neologismi, gallicismi, e barbarismi evidenti. Non è strano però, che un giovine scrittore di felice indole ben indirizzato nelle lettere, e conversando con uomini dotti scriva da prima lodevolmente, e col volger degli anni, sedotto poi dall'altrui plauso, o dalla soverchia stima di se medesimo, o da qualsivoglia altro motivo travii dal retto sentiero, e cada in errori anche gravi: e di leggieri se ne potrebbe recar qualche esempio. Il Cesarotti rammenta il giudizio di Monsignor Fabroni, il quale dice che l'orazion del Magalotti è piena di maestà, splendida, e luminosa, ed ha in se una somma bellezza, e dignità, e porta sempre in fronte (ciò che fu lodato in Messala) la nobiltà dell'autore, il che tutti gli concederanno. Ma il Fabroni non lo difende da quell'accusa, nè credo che altri lo vorrà difendere, e l'Accademia Fiorentina, che approvò le opere del Magalotti non avrebbe forse voluto tutte approvar le parole, e i modi di dire, che sono in quell'opere. Purità grande al contrario, scevra da ogni scoria straniera ci offrono le lettere di Lodovico Preti, e di Natale dalle Laste, o Lastesio. Meno pure di queste sono le lettere di Lodovico Bianconi sulla Baviera, e su Cornelio Celso; ma tanta è la grazia con cui sono scritte, che volentieri gli si perdona qualche scorrezione. Il Signor Gamba pone nel suo Catalogo le lettere di Giuseppe Baretti a' suoi fratelli stampate a Venezia il 1762. e tre altre del medesimo contro Biagio Schiavo uscite in luce il 1747. co' torchj di Lugano. Ma siccome egli confessa, che questo capriccioso autore va al di là nel coniar vocaboli strani, non credo dovergli dar luogo nel mio. Per la cagion medesima escluderò la troppo celebre frusta letteraria, colla quale sotto il nome d'Aristarco Scannabue malmenò molti scrittori anche insigni del suo tempo.
Un altro lamento sogliono fare alcuni, che in parte ripete il Signor Cesarotti. Il Boccaccio, egli dice, ricco delle locuzioni del comico familiare, manca dei tornj dell'urbanità delicata, e da lui forse è addivenuto, che l'Italia in questo genere è tanto inferiore alla Francia. E ciò non basta. Altri fra le opere degl'Italiani non ne trovano quasi veruna, che serva a piacevole trattenimento, e fanno querele, perchè quasi tutte dalle scienze, o dalle facoltà, che insegnano, prendono un certo aspetto severo troppo, e contente d'insegnare, non si curano di dilettare. Ma questi lamenti mi sembrano ingiusti. Il Boccaccio prendeva stile diverso secondo la diversità delle materie. Nelle novelle di Calandrino, Bruno, e Buffalmacco ed in altre simili fece uso del comico familiare; l'urbanità delicata adoperò in quelle della Marchesana di Monferrato, di Bergamino, del Re di Cipri, e in altre molte; e sono per avventura più le seconde, che non le prime. Potrei citare altresì il Castiglione nel Cortegiano, il Bembo negli Asolani, il Caro, e il Bonfadio nelle lettere, e parecchi altri scrittori del secolo decimosesto. Ma io debbo ristringere il mio discorso fra quelli del decimottavo. Or chi non ravvisa l'urbanità, ed anche la piacevolezza negli autori di lettere poco fa mentovati? E chi potrà indicarmi non dirò un'opera, ma direi quasi una sola facciata di Francesco Maria Zanotti, in cui si desiderino questi pregi? Sino le cose mattematiche ne' dialoghi sulla forza, che chiamano viva, e la morale filosofia sono da lui appiacevolite con tanta leggiadria di stile, che non temono veruna benchè illustre comparazione. Urbanità, e piacevolezza io trovo ancora nell'opere dell'Algarotti, del Gesuita Roberti, di Gasparo Gozzi, del Conte Robbio di S. Raffaele, del Conte Giambattista Giovio, del Bianconi, e nelle Donne della Santa Nazione del Gesuita Giuliari. Non finirei così presto, se tutti volessi noverare coloro, che meritano d'esser citati. Tralascio perciò il lungo ed inutil catalogo de' loro nomi, e proseguo l'intrapresa carriera.
Il secolo decimottavo si può dir per l'Italia il secolo de' poeti. Non v'ha quasi città, che non vanti qualche buon poeta, o mediocre. Non è mio ufficio l'esaminare, se quell'immenso torrente di versi, che agli anni passati ha inondate le nostre contrade, fosse affatto inutile o anche dannoso, o se per avventura ne sia provenuta qualche maggiore e più universale, coltura degl'ingegni Italiani. Io cerco solamente fra tanto numero di poeti quali sieno coloro, che agli altri pregj di buon poeta seppero unire la purità della lingua. E cominciando dagli autori di certi poemi, che epici in qualche modo si possono chiamare nominerò in primo luogo la Genesi di Monsignor Cerati Vescovo di Piacenza, poi il Tobia di Cammillo Zampieri, gli occhi di Gesù del Martelli, l'Apocalisse di S. Giovanni, e il Telemaco di Flaminio Scarselli, e il Giobbe del Rezzano, e quello dello stesso Zampieri. Tranne i tre primi gli altri si considerano come traduzioni, alle quali non do quì luogo;[169] ma se rettamente si osserva si debbono piuttosto chiamar imitazioni, che traduzioni. Fra i poemi didascalici nominerò prima l'Antilucrezio del Ricci approvato dall'Accademia Fiorentina, e poi la Fisica, l'origine delle Fontane, e il Caffè del Barotti felice imitator dell'Ariosto, la felicità del Bondi, i Cieli del Pellegrini, tutti tre Gesuiti. Si uniscano a questi i poemi di cose agrarie, come la coltivazione del riso dello Spolverini, il Baco da seta del Betti, il Canapajo del Baruffaldi, la coltivazion de' monti del Lorenzi, le fragole del Roberti.[170] Maggior sarebbe il numero dei poemetti di vario argomento se quì volessi noverarli. Fra questi non debbo tacere la Bucchereide del Bellini, che fa testo in lingua: ma degli altri non farò menzione perchè troppo lungo discorso si richiederebbe. Laonde senza più farò passaggio alla poesia teatrale.
Questa si può dividere in tragica, drammatica, e comica. Il primo ristoratore della Tragedia Italiana nel secolo, di cui parliamo fu Pier Jacopo Martelli, ed egli avrebbe riscosso plausi più durevoli, se non avesse adoperato i nojosi versi, che da lui hanno il nome di Martelliani. Il Gravina scrisse con molta purità cinque Tragedie, che sono altrettanti efficacissimi sonniferi, quantunque non sieno prive di qualche pregio. Lodevoli sono quelle dell'Ab. Antonio Conti. L'Accademia Fiorentina approvò le prose e le rime di quest'autore, colla quale denominazione pare, che abbia voluto indicar solamente le sue opere stampate in Venezia il 1739. e 1756. in due volumi. Ma ivi non sono nè il volgarizzamento della lettera d'Elisa ad Abelardo, nè le sue quattro Tragedie. Dovremo dunque dire, che queste cose sieno escluse? Io non lo credo, e penso piuttosto, che in quelle parole sieno comprese le opere sue tutte quante. Quasi nel tempo medesimo il Marchese Maffei compose la Merope tante volte stampata, e rappresentata sul teatro. Il Voltaire l'imitò in parte, e poi la criticò amaramente, celandosi sotto il finto nome di M. de la Lindelle. Inferiore di pregio alla Merope è la Didone di Giampietro Zanotti, e vie più inferiori sono l'Ezzelino e la Giocasta del Baruffaldi, quantunque sieno scritte purgamente. Intorno allo stesso tempo Domenico Lazzarini dette in luce l'Ulisse, il quale non ha altro merito, che d'esser puramente scritto, e d'aver fatta nascere la celebre satira intitolata il Ruzvanscad. Degno di sedere accanto all'autor della Merope è Alfonso Varano pel Demetrio, Giovanni di Giscala, e Agnese, e ne è degno altresì il P. Giovanni Granelli Gesuita pel Sedecia, Manasse, Dione, e Seila figlia di Iefte. Nè molto inferiori a queste ottime io stimo il Gionata, il Demetrio Poliorcete, e il Serse del Bettinelli Gesuita egli pure. Questo celebre Scrittore non cercò molto la purità della lingua; ma fu maggiore la libertà da lui usata dopo la soppressione della Compagnia di Gesù; nelle tragedie però principalmente e in qualche altra opera, che indicherò a suo luogo, fu assai moderato. Fu il Pompei amante della nostra lingua, e tale si mostrò in due tragedie intitolate Ipermestra e Calliroe. In queste merita molta lode per regolarità di condotta e per altri pregj; non è però mio officio e lascio ad altri l'esaminare se quelle sue tragedie tanti ne abbiano e tali, che debbano ottener molto plauso rappresentate sul teatro. Parecchi altri Poeti Tragici del passato secolo sono con onor nominati dal chiarissimo Signor Napoli Signorelli nel sesto volume della sua storia critica de' Teatri, de' quali non farò quì parola, perchè o sono viventi, o non si sono abbastanza curati di scrivere puramente, o non ho lette le loro produzioni. Ma fra le Tragedie non vedute da me credo di potere assicurare, che l'Agamennone e Clitemnestra pubblicata nel 1786. dal Signor Matteo Borsa abbia quella purità di lingua, che io quì ricerco, perchè egli era colto e purgato scrittore, talchè il Signor Gamba avrebbe potuto concedergli un luogo onorevole nella sua appendice.
Il novero de' Poeti Tragici, che debbono esser da me nominati terminerà col Conte Vittorio Alfieri. Le sue tragedie al primo loro apparire sulle scene ottennero molto plauso, il quale pel corso di ben ventisei anni non si è punto scemato. Alcuni critici di molto ingegno, e di non mediocre dottrina si sono adoperati di trovare in esse parecchi difetti: ma niuno accusa l'autore di non essere scrittore purgato. A me basta questa lode, che l'universal consentimento, gli accorda, nè a me appartiene d'indicare gli altri suoi pregj, o assottigliarmi d'indagarne i difetti, nè di esaminare se i migliori dei tragici nostri sieno da lui uguagliati, o superati. Lascio questo esame agli spettatori frequenti, che non si stancano di accorrere alle sue tragedie tante volte ripetute.
La tragedia ci è stata trasmessa dai Greci, e dai Latini, ma il dramma musicale è opera nostra. Niun poeta teatrale è mai pervenuto alla celebrità del Metastasio, i drammi del quale si son cantati su i Teatri tutti dell'Europa. Questi furono approvati dall'Accademia Fiorentina, come pur lo furono quelli d'Apostolo Zeno, che è al Metastasio longo proximus intervallo. Degli altri poeti drammatici non credo dover far parola.[171] Anche i poeti comici non mi tratterranno lungamente. Le commedie del Fagiuoli fra le opere scelte dall'Accademia Fiorentina per la nuova edizione del Vocabolario. Ma se meritano lode, perchè sono scritte toscanamente, non la meritano molto per gli altri pregj, che alla commedia son necessarj per essere applaudite nel Teatro. Anche le poche commedie, che abbiamo del Lazzarini, del Maffei, e dell'Alfieri sono commendabili per la purità della lingua, ma contente di questa lode non debbono esigerne altra maggiore. Al contrario il Goldoni, cui niuno vorrà negare il primato nella poesia comica italiana per gli altri pregj, che essa richiede, ha trascurato alquanto la purità della lingua.
Se scarso è il numero di quelli, che questa parte della poesia hanno coltivata felicemente, grande è quello de' poeti lirici. Le poesie del Filicaja e del Menzini furono citate dalla Crusca. Quelle di Giovan Bartolommeo Casaregi, del Crudeli, di Monsignor Ercolani, del Guidi, del Lorenzini, del Mozzi, e d'Anton Maria Salvini furono approvate dall'Accademia Fiorentina. L'Alberti cita le rime del Gigli seguace del dialetto Senese, e quelle d'Angelo Maria Ricci, che mi sono ignote, giacchè la guerra de' ranocchi, e de' topi attribuita ad Omero, e da lui volgarizzata in versi anacreontici non può annoverarsi fra le rime, quantunque sia in versi rimati. A questi il signor Gamba aggiunge il Lazzarini, il Maffei, il Magalotti, il Manfredi, Alessandro Marchetti, il Martelli, il Mascheroni, il Pompei, e il Varano. Io finalmente ne aggiungerò più altri. Fra questi porrei il Frugoni, se gli editori suoi fossero stati men liberali. Vi porrò bensì l'Algarotti, di cui l'Alberti cita parecchie opere di prosa, non però le poetiche, che sono più toscanamente scritte dell'altre. Vi porrò Francesco Maria e Giampietro Zanotti, Giovan Battista Zappi, il Ghedini, il Salandri, il Conte Agostino Paradisi, il Pozzi, il Vannetti, il Tagliazucchi, il Duranti, i Gesuiti Bassani, Rossi, e Berlendis, il Vittorelli, il Bondi, il Parini, il P. Fusconi, il Baruffaldi, lo Scarselli, Alessandro Fabri, il Bettinelli pe' versi sciolti principalmente, il Dio del Cotta, le canzonette marinaresche del Gesuita Tornielli.
Anche nella poesia piacevole molti meritarono plauso. Il Ricciardetto del Forteguerra, la Svinatura del Carli, le rime piacevoli del Fagiuoli, e le poesie del Saccenti, sono fra le opere scelte dall'Accademia Fiorentina. L'Alberti citò la Celidora ovvero il Governo di Malmantile del Conte Ardano Ascetti cioè del P. Lodovico Agostino Casotti Domenicano, e del Gigli la Scivolata e la Culeide, e il Signor Gamba ha notate nel suo catalogo le poesie piacevoli di Giuseppe Baretti,[172] e quelle di eccellenti Autori Toscani per far ridere le brigate, stampate in Gelopoli cioè in Firenze il 1760. fra le quali ve n'ha alcune del Gigli, del Bellini, e d'altri poeti del secolo decimottavo. Io aggiungerò il Grillo d'Enante Vignajuolo, cioè del Baruffaldi, la Cuccagna del P. Rossi, le nozze di Pulcinella del Vittorelli, le rime piacevoli del Dottor Vettore Vettori, qualche capitolo di Francesco, e Giampietro Zanotti, del Manfredi, e pochi altri.
Il Bettinelli voleva, che il ditirambo del Redi fosse l'unico ditirambo Italiano, e che delle poesie satiriche si faccia meno conto, che di ogni altra. La lingua Italiana (egli dice) non sembra atta a questa poesia, e gl'Italiani dan troppo presto all'armi.[173] Il ditirambo del Redi è veramente cosa unica, e niuna altra nazione può gloriarsi d'averne una simile. Nel secolo di cui parlo si è tentato d'imitarlo, ma gl'imitatori sono sempre inferiori a' loro modelli. Fra questi si può accordare qualche lode al Baccanale in Gioveca del Baruffaldi, almeno per ciò che appartiene alla lingua. Riguardo poi alla satira io non so che cosa avesse in animo il Bettinelli, quando disse, che la lingua Italiana non sembra atta a questa poesia. So che l'Ariosto, Salvator Rosa, l'Adimari, il Menzini, ed altri hanno scritte Satire; e se in esse si trova alcun difetto, questo non proviene dalla lingua. L'ultimo di questi appartiene in parte al secolo decimottavo, ed è annoverato fra gli scrittori citati dalla Crusca. Ma un nuovo genere di satira sconosciuto ai Latini e ad ogni altra nazione usò il Parini ne' suoi poemetti intitolati il Mattino, il Mezzogiorno, e la Sera, i quali come prima uscirono in luce riscossero molto plauso in Italia, e fuori. Egli non dà punto all'armi, ma con una delicata e leggiadra ironia punge il vizio, e non lo flagella, nè reca mai noja in tanta somiglianza di cose, che da lui si debbon descrivere. Nè d'indole molto diversa è il poema dell'uso[174] del Conte Duranti da me nominato con lode fra i poeti lirici.
Questi fra molti sono i poeti, de' quali ho creduto dover quì far menzione, lasciandone parecchi altri pregevolissimi per le altre qualità, che dall'arte poetica sono richieste. Lo stesso è da dirsi degli storici, di cui farò adesso parola. Ma per procedere con chiarezza dividerò la storia nelle diverse sue parti, e comincerò da quella, che più propriamente si chiama con questo nome. L'Alberti cita gli annali del Sacerdozio e dell'Impero del Battaglini, e lo lodo se ne ha presa qualche voce ecclesiastica, che non si trovi in altro scrittor più pregevole. Non vuolsi però prenderli a modello di buono stile, e purgato. Comincerò dunque il novero delle opere storiche dalla Verona illustrata del Maffei registrata dal Signor Gamba nel suo catalogo. A questa aggiungerò i ragionamenti istorici su i Gran Duchi di Toscana della Reale Casa de' Medici protettori delle lettere e delle belle arti di Giuseppe Bianchini, la storia di Ferrara del Baruffaldi, e la traduzione con ammirabile purità di lingua fatta dal P. Pietro Savi Gesuita delle due opere latine del P. Ferrari, delle geste del Principe Eugenio di Savoja nelle guerre d'Italia e d'Ungheria. Dell'altre sue traduzioni parlerò altrove. Porrò eziandio in questa classe il ragionamento intorno all'origine della Città di Prato di Giovan Battista Casotti, che si legge negli opuscoli filologici del Calogerà, e fu poi approvato dall'Accademia Fiorentina. Vi porrò finalmente le memorie storiche Modenesi del Tiraboschi, opera d'argomento non grande, e che non somministra strepitose vicende, o luminosi avvenimenti atti ad eccitare la curiosità di molti; tale però che al suo autore conferma quella fama di critico giusto, e di scrittor accurato elegante ed assai puro, che le altre cose sue gli avevano procacciata. Unirò a queste storie le illustrazioni, che il P. Ildefonso da S. Luigi ha poste nelle sue delizie degli Eruditi Toscani, e le descrizioni di feste ed esequie fatte da Giambattista Casotti, Leonardo del Riccio, Rosso Antonio Martini, e Marc'Antonio Mozzi,[175] de' quali scrittori ho già fatta menzione, e la farò di nuovo.
Cinque opere spettanti alla storia Ecclesiastica dall'Accademia Fiorentina furono approvate. Prima, fra queste o l'ampiezza si riguardi della materia, o la sua importanza è la Storia Ecclesiastica del Cardinal Orsi, che impedito dalla morte non potè condurre a fine. Io non so bene, se l'Accademia adottandola tutte volesse adottare le sue maniere di dire, fra le quali ve n'ha alcuna, benchè di rado, tolta dalla lingua Francese, cui si potrebbe dubitare se convenga dar la cittadinanza Toscana.[176] Dell'altre opere da me indicate pur ora due sono di Gio. Battista Casotti, cioè le Memorie Storiche di Maria Vergine dell'Impruneta, e la Storia della fondazione del regio Monastero degli Scarioni di Napoli, e due sono del Canonico Mozzi, cioè la Storia di S. Cresci, e de' Santi suoi compagni Martiri, e della Chiesa di S. Cresci in Valcava di Mugello, e la lettera ad un Cavalier Fiorentino divoto di S. Cresci. L'Accademia forse volle ancora concedere lo stesso onore all'Istoria degli anni Santi, e ad altre opere di Domenico Maria Manni, quantunque non l'indicasse espressamente.[177] Infatti qual cosa v'ha di questo purissimo scrittore, che non meriti di far testo in lingua? A queste opere poi aggiungerò io la vita di S. Ignazio, la leggenda di S. Anna, e quella di S. Margherita da Cortona del P. Antonfrancesco Mariani Gesuita, il quale scrittore in ciò che spetta alla lingua è sempre così purgato, che a niun altro lo reputo secondo, ed i più tenui suoi libretti ascetici proporre si possono a modelli di stile purissimo, e immacolato. Aggiungerò altresì la Storia ragionata delle eresie del Canonico Pietro Paletta, nella quale e gli avvenimenti dell'eretiche sette si descrivono con eleganza, e le cagioni se ne espongono con critica diligente e sottile. Aggiungerò finalmente l'insigne Storia della Badia di Nonantola del Tiraboschi, di cui dirò solamente, che è degnissima del suo autore.
Ma la parte, in cui più che in ogni altra il Tiraboschi si è renduto celebre è la storia letteraria. Egli, Apostolo Zeno, il Mazzucchelli sono in Italia i padri di questa classe, e tutti tre furono purgati scrittori. Niuno è così solennemente inerudito, che non conosca le Dissertazioni Vossiane e le Annotazioni alla Biblioteca del Fontanini d'Apostolo Zeno, gli Scrittori Italiani del Mazzucchelli, la Storia della letteratura Italiana, e la Biblioteca Modenese del Tiraboschi. Se io prendessi a lodar queste opere, e le altre cose minori di questi scrittori nulla potrei dire, che non sia già stato detto da molti, e nulla aggiungerei alla loro celebrità. Dirò solamente, che vasto è l'argomento, che ciascheduno ha scelto, grande è in essi l'erudizione, ma opportuna, esatta la critica, elegante lo stile, e (ciò che appartiene al mio scopo) non mediocre la purità della lingua; talchè non v'ha officio di buono scrittore, che essi abbiano trascurato. Da Apostolo Zeno non deve andar disgiunto il suo feroce, ma disuguale antagonista Monsignor Giusto Fontanini. La sua opera dell'eloquenza Italiana, e la Biblioteca, che v'è unita, si attiraron le critiche dello Zeno, di cui ho già parlato, del Muratori, del Maffei, di Gio. Andrea Barotti, e del P. Costadoni, e la più parte di quelle critiche è giusta. Il Fontanini era quanto altri mai litigioso, tenace della sua opinione, e non esatto abbastanza nell'erudizione. Era però erudito, e assai puro di lingua. Questa lode gli si deve ancora per la Storia arcana della vita di F. Paolo Sarpi, che ha pure il merito grande d'aver rappresentato costui quale era veramente, e aver ciò fatto con irrefragabili monumenti. Grato mi sarebbe d'onorare questo mio catalogo colla bell'opera di Marco Foscarini sulla letteratura Veneziana tanto commendata a gran ragione. Ma se le altre parti tutte egli adempie d'ottimo scrittore, in quella solamente, che la purità riguarda della lingua, lascia alquanto a desiderare. Devo bensì collocarvi il Marchese Maffei per quella parte della sua Verona illustrata, dove degli scrittori Veronesi tenne lungo discorso, Gio. Andrea Barotti per le Memorie storiche de' letterati Ferraresi, ed il Bianconi per l'auree lettere sopra Celso. L'Alberti ha citato alcuna volta la Storia, e i Commentarj della volgar poesia del Crescimbeni, ma a me non pare quest'opera purgata tanto, che le si debba dar quì luogo. Per lo stesso motivo fra i libri di sacra eloquenza non ho collocato il suo volgarizzamento delle Omelìe di Clemente undecimo, cui il signor Poggiali dà luogo nel suo Catalogo, nè altrove le altre sue opere, che per molti riguardi meritan lode. Aggiungerò più tosto l'operetta del Manni dell'invenzione degli occhiali, che fu approvata dall'Accademia Fiorentina, l'istoria del Decamerone del Boccaccio[178] la vita di Niccolò Stenone, e le veglie piacevoli del medesimo scrittore, dove fra più altre vite, che a questa classe non appartengono, parecchie ne sono d'uomini chiari nell'amene lettere. Molte altre cose abbiamo di lui a storia letteraria appartenenti, le quali tralascio, perchè troppo lungo ne sarebbe il novero, ed altri le potrà vedere indicate nell'opera testè citata del chiarissimo signor Canonico Moreni. Non debbono poi esser da me dimenticati il Casotti, e il Mozzi, il primo per la vita del Buommattei, che sta innanzi alla sua opera della lingua Toscana, e per alcune lettere sulla vita, e le opere del Casa,[179] e il secondo per la vita di Lorenzo Bellini, che è fra quelle degli Arcadi. E giacchè queste vite d'uomini letterati ho nominate ragion vuole, che tre altri purgati scrittori di questo genere io ricordi, cioè il P. Pier Caterino Zeno, che la vita ci dette di Giovanni Rucellai, e degli storici Veneti Battista Nani e Michele Foscarini,[180] Antonfederigo Seghezzi, che quelle descrisse del Caro, di Bernardo Tasso, del Castiglione, e d'altri,[181] Pier Antonio Serassi, da cui abbiamo quelle copiosissime di Torquato Tasso e di Jacopo Mazzoni, una dissertazione sopra l'epitaffio di Pudente Grammatico, ed un ragionamento sopra la controversia del Tasso e dell'Ariosto, Anton Maria Salvini, che fra le vite degli Arcadi inserì quella di Benedetto Averani, ed il fratello suo Salvino, che ci diede i Fasti Consolari dell'Accademia Fiorentina oltre a cinquantacinque vite le quali tutte con incredibile diligenza ha accennate l'eruditissimo Signor Canonico Moreni nell'opera più volte citata. Alle vite succedano gli elogj, intorno a' quali necessariamente sarò breve, perchè niuno scrittore mi è noto, che lungamente si sia esercitato in questo genere d'eloquenza, ed io non intendo nominar tutti quelli, che poche, e piccole cose hanno pubblicate. Questo mio intendimento però non m'impedirà di nominare il Bolognese Luigi Palcani. Egli educato in quella beata scuola della sua patria, fra tanti uomini chiarissimi, che là fiorirono alla metà del secolo passato o in quel torno, fu non solamente dotto, ma ancora elegante, e purgato scrittore. Abbiam di lui gli elogj di due mattematici, cioè dell'Ab. Leonardo Ximenes e del Colonello Anton Maria Lorgna, ne' quali la severità della materia è per lui temperata mirabilmente colle grazie dell'eloquenza e ingentilita per modo, che quegl'istessi cui non piacciono le mattematiche discipline sono invitati ad amarle in quei due libretti elegantissimi.
Alla Storia è con vincoli strettissimi unita l'Antiquaria, la quale perciò richiama ora a se il mio discorso. Essa mi ricorda in primo luogo il Gori, ed il Lami. Ambedue per decreto dell'Accademia Fiorentina sono approvati, il primo per la risposta al Marchese Maffei intorno al Tomo IV. delle osservazioni letterarie, e per la difesa dell'Alfabeto degli antichi Toscani,[182] il secondo per le Lezioni Toscane, e pe' dialoghi d'Aniceto Nemesio in difesa delle lettere di Atromo Traseomaco.[183] L'Accademia non concedette lo stesso onore alle Lettere Gualfondiane, che il Lami stampò sotto il finto nome di Clemente Bini, e non senza ragione: perchè quest'autore, che nelle lezioni Toscane e ne' dialoghi non volle molto soggettarsi ad una grande severità nell'usar voci di Crusca, nelle lettere usò d'una libertà anche maggiore. Al Gori e al Lami aggiungerò il Manni scrittor purgatissimo, come ho già detto. Di lui abbiamo più e diverse opere d'antiquaria cioè delle antiche terme di Firenze, notizie istoriche intorno al Parlagio ovvero Anfiteatro di Firenze, istorica notizia dell'origine e significato delle Befane, e principalmente le osservazioni istoriche sopra i Sigilli antichi de' secoli bassi.[184] Della Verona illustrata del Maffei ho già parlato due volte, e debbo parlarne ora di nuovo perchè vi sono unite l'opera su gli Anfiteatri, e quella molto minore sull'antica condizione di Verona. Della seconda dice graziosamente il Signor Abate Rubbi, che in essa l'ingegno dell'autore è in ragion del suo cuore,[185] con che egli dette un giusto e profondo giudizio. Ma io non esamino, che cosa possano dir gli antiquarj dell'una, e dell'altra, e mi basta, che ambedue sien pregevoli, benchè possano meritar qualche critica, e che scritte sieno purgatamente. Per lo stesso motivo nominerò pure l'opera dei circhi del Bianconi, quantunque abbia incontrato qualche oppugnatore. Debbonsi poi con molta lode nominare le Osservazioni sopra alcuni frammenti di vasi antichi di vetro di Filippo Buonarroti,[186] le quali gli confermarono quel nome di grande antiquario che le precedenti sue opere gli avevano procacciato. Nè minor plauso vuolsi fare all'Ab. Luigi Lanzi, e a mio giudizio anche maggiore, perchè nuove strade aprì nell'antiquaria, ed usò una esattissima critica, cui non erano molto inclinevoli molti di quelli scrittori di sì fatto genere, che più erano celebri poco innanzi a lui.[187] Non parlerò poi di quelli antiquarj, che poche e brevi cose hanno scritte, per non esser soverchio: e passerò piuttosto a noverare i principali scrittori, che di materie scientifiche hanno trattato.
Cominciamo dalla Psicologia, e dalla naturale Teologia. L'Accademia Fiorentina scelse la dissertazione del P. Tommaso Vincenzo Moniglia contro i Materialisti ed altri increduli.[188] A me sarà concesso d'unire a questa le altre opere sue di non dissimile argomento, e di merito uguale, cioè la dissertazione contro i Fatalisti,[189] le osservazioni critico-filosofiche contro i Materialisti divise in due trattati,[190] e la mente umana spirito immortale, non materia pensante.[191] Alle opere del Moniglia debbono unirsi le celebri lettere familiari del Magalotti contro gli Atei approvate dall'Accademia Fiorentina. Di queste io dirò solamente quello, che il Tocci ne disse nella vita del Viviani, cioè che esse sono ciò che più di portentoso ha veduto da un secolo in quà la nostra lingua in quel genere. Di Dio, dell'anima spirituale immortale e libera, e della legge di natura verso Dio, verso l'uomo, e verso se trattò il P. Nicolai in sette ragionamenti che sono nel volume secondo delle sue Prose. Ma più d'ogni altro trattò profondamente di sì fatte materie il P. Antonio Valsecchi colla sua opera dei fondamenti della Religione, e dei fonti dell'empietà.[192] Parla egli dell'esistenza di Dio, della spiritualità, ed immortalità dell'anima, e della legge di natura, mostra la necessità della rivelazione, la possibilità della rivelazion de' Misteri, e che veramente la Cristiana Religione è rivelata da Dio, esamina finalmente quali i fonti sieno dell'empietà. La Religion vincitrice[193] è quasi un appendice alla prima opera, perchè avendo in quella provati ad evidenza gli assunti suoi, e risposto alle principali objezioni degli avversarj d'ogni maniera, in questa prese a combattere il sistema della natura, il sistema sociale, ovvero principj della morale, e della politica, e ne trionfò. Finalmente per dar compimento alla sua impresa pubblicò la verità della Chiesa Cattolica Romana,[194] in cui fa conoscere, che in questa, ed in essa sola, la divina rivelazion si conserva. Con minor apparato di dottrina, ma in un modo per dir così più accostevole, scrisse il Roberti alcuni aurei suoi libretti, che se non affrontano apertamente l'incredulità, pure le fanno gagliarda guerra. Tali sono i trattati del leggere libri di Metafisica e di divertimento, della probità naturale, e le annotazioni sopra la umanità del secolo decimottavo.
La Psicologia e la Teologia Naturale aprono la strada alle scienze sacre, alle quali ora farò passaggio. E quì pure ragion vuole, che il primo luogo a quelle opere si conceda, le quali dall'Accademia sono citate. Fra queste sono le prose del P. Gio. Lorenzo Berti, la Dimostrazion Teologica del Cardinal Orsi,[195] lo spirito del Sacerdozio del Cavalier Giraldi. L'Alberti citò il volgarizzamento, che Francesco Giuseppe Morelli fece del Gentiluomo istruito nella condotta di una virtuosa, e felice vita dell'Inglese Dorell, e avrebbe potuto aggiungere quello, che egli pur fece della Guida degli uomini alla loro eterna salute del Gesuita Giuseppe Personio.[196] Ma altri ancor vi sono che purgatamente hanno scritto di sì fatte materie. L'Accademia Fiorentina, che adottò le Prose del P. Nicolai, poteva eziandio adottare le sue Lezioni. Io dubito che di lui volesse parlare il Roberti, quando a un giovine ecclesiastico scriveva così. Tuttavia dell'erudizione profana, interpetrando la parola dello Spirito Santo, servitevene per bisogno, non per vanto. Non siate un intemperante, come lo è nelle sue lezioni stampate un dottissimo uomo ad amendue assai noto. Tanta intemperanza a me sembra un principio di vanità.[197] E veramente se quelle Lezioni fossero state dal Nicolai dette così dal Pergamo, come poi furono stampate, dovrebbesi in esse condannare quella erudizione soverchia, e quella dottrina profonda, di che son piene. Ma se, come egli il dice nel prospetto dell'opera, dopo essere stato parco leggendole, le arricchì poi per la stampa a vantaggio de' leggitori scienziati si dee sapergliene grado, e commendarlo. Per la qual cosa egli lascia in dubbio, se dobbiamo intitolarle Lezioni, o più presto Dissertazioni, e altrove le chiama senza più col secondo nome.[198] Or chi sarà che voglia accusarlo d'essersi mostrato erudito, e dotto, quando pe' dotti scriveva e per gli eruditi? Molta poi è la purità della lingua, principalmente dove a foggia di parafrasi spiega il Sacro Testo, nella qual parafrasi l'autore si adopera d'imitare il Boccaccio. E l'imitazione di questo gran modello della narrazione si manifesta ancora in un'altr'opera sua, di cui per grande sventura non abbiamo che il primo volume di quattro, che se ne promettevano col titolo, Dichiarazione letterale del Sacro Testo de' quattro Libri de' Re. Avrei creduto, che l'Alberti citar dovesse queste opere, o avendole egli trascurate dovessero il Gamba e il Poggiali ricordarle. Avrei creduto lo stesso delle opere teologiche di Monsignor Incontri, e di quelle del Marchese Maffei, delle quali il solo Poggiali ha citate le prime, e niuno le seconde. Io certo non dubito, che non debbano aver quì luogo il Trattato delle azioni umane, le lettere pastorali e la spiegazione delle feste di quel Prelato.[199] La storia teologica della Grazia, il libro de' Teatri antichi e moderni, l'arte magica dileguata, l'arte magica annichilata, i tre libri dell'impiego del denaro, in cui mentre si ammira la profondità della Teologica dottrina, si commenda eziandio la nobiltà e l'eleganza dello stile, e la purità della lingua. Queste lodi medesime si debbono attribuire alle Dissertazioni Teologiche del Conte Canonico Cristoforo Muzani, ed anche maggiori in ciò che appartiene alla lingua ed allo stile, se non che forse parrà ad alcuno, che sieno talvolta troppo oratorie. Non manca la purità, ed abbonda l'eleganza in certe operette del Roberti, che a questa classe appartengono. Tali sono l'esortazione sopra i danni che reca il tempo alle Comunità religiose, la lettera sopra la felicità, la lettera di un Ex-Gesuita vecchio, ad un Ex-Gesuita giovine, gli opuscoli sopra il lusso, il trattato dell'amore verso la patria, e l'istruzione Cristiana ad un giovinetto Cavaliere e a due giovinette Dame sue sorelle. Nè dico già che tutto sia oro nel fatto della lingua ciò che egli scrive. Lasciando stare la voce ex-gesuita, che abbiam veduta testè da lui adoperata, vuolsi confessare, che andando innanzi nell'età per la frequente lettura de' libri francesi cominciò senza avvedersene ad usare qualche modo di dire straniero; il che più spesso gli avvenne nell' amor della patria, che prevenuto dalla morte non potè emendare. Ma dove sono molte cose pregevolissime non dobbiamo essere difficili troppo per qualche difettuzzo, che sfugga la attenzione d'uno scrittore.
Le opere spirituali dell'Abate Lanzi meritano altresì onorata menzione, perchè qualunque cosa egli prendesse a trattare, vi trasparivano i lampi di quel suo ingegno felice, e della sua eleganza di stile.[200] Ed ancor più debbono ricordarsi quelle del P. Anton Francesco Mariani della Compagnia di Gesù, le quali sono immacolate.[201] Saranno forse alcuni, i quali prenderanno a sdegno, che fra le opere de' Filosofi, degli Storici, degli Oratori, e de' Poeti si pongano le sacre leggende e le novene di questi scrittori: molti però con maggior senno le ameranno e per ciò che dicono, e pel modo con che lo dicono. Ed è fama che l'Ab. Lanzi dicesse d'essere più contento di quelle sue operette spirituali, che dell'altre erudite. Finalmente voglionsi quì ricordare due volgarizzamenti. Sarà il primo il libro di Dionisio Certosino contro l'ambizione, con altri due opuscoli sul medesimo argomento tradotti da Monsignor Bottari,[202] e l'altro l'opere di Tertulliano tradotte in Toscano da Selvaggia Borghini nobile Pisana, che lo stesso Bottari fece stampare ornandole di note e d'una erudita prefazione.[203]
Dalle sacre scienze non deve andar disgiunta la moral Filosofia, gl'insegnamenti della quale saranno sempre uniformi a quelle, ove il corrompimento del cuore non faccia traviare lo scrittor, che ne tratta. Niuna opera di questo genere è nel catalogo dell'Accademia Fiorentina fuor solamente i caratteri di Teofrasto tradotti da un Accademico Fiorentino, cioè da Leonardo del Riccio, di cui farò parola in altro luogo. Ma il Gamba, e l'Anonimo Milanese ne citano due. Il secondo ricorda la morale Filosofia di Francesco Maria Zanotti, che è una delle migliori di quest'uomo immortale e per l'importanza della materia, e pel modo con cui è trattata, e per la gravità dello stile. Il celebre Cardinal Quirini l'ebbe in tanto pregio, che avendola letta con somma avidità la volle poi sempre sul suo tavolino, e spesso la rileggeva con indicibil piacere. Poteva l'Anonimo aggiungere altresì il suo ragionamento sopra il saggio di morale di M. Maupertuis, e gli opuscoli, che l'accompagnano, cioè i discorsi e le lettere contro le Vindiciae Maupertuisianae del P. Ansaldi, la risposta alle lettere di Clemente Baroni de' Marchesi di Cavalcabò, e la lettera ad un amico, che può servire d'introduzione alla novella letteraria dell'apparizione d'alcune ombre. Io non parlerò quì della bellezza di questi opuscoli, perchè quando si è nominato il loro autore è inutile ogni lode. Citerò finalmente col Gamba la scienza chiamata cavalleresca del Marchese Maffei, utilissima opera, che ha contribuito a scemare alquanto l'uso empio barbaro e stolto de' duelli.
Ma passiamo ormai a quella scienza, che forse sopra ogni altra ha nel passato secolo fatto progresso grande, voglio dire la scienza della natura. Carlo Taglini aprirà questa classe colla lettera filosofica al Marchese Riccardi, in cui dette la norma di studiare con profitto la Filosofia. Essa è fra le opere scelte dall'Accademia Fiorentina, onde non abbisogna dell'altrui approvazione nel fatto della lingua. Ma per procedere con ordine cominciamo dalla Fisica. Il dialogo di Zaccaria Scolastico intorno alla fabbrica del Mondo volgarizzato dal Volpi, le opere dell'Ab. Conti, in cui è pur qualche cosa di Fisica, le lezioni di Monsignor Bottari sopra il tremoto furono approvate dall'Accademia Fiorentina. Se non hanno ottenuto lo stesso onore, meritano però lode di purgati scrittori Francesco Maria Zanotti pel suo Trattato di Filosofia, l'Algarotti pel Neutonianismo, il Marchese Maffei per le sue lettere sopra la formazione de' fulmini. I primi due erano buoni Fisici; ma il terzo non era molto esercitato nella scienza della natura, e scriveva sopra un argomento difficile, prima che il Franklin, e il P. Beccaria l'avessero illustrato. Del Magalotti posso rammentar solamente le lettere, nelle quali alcuna cosa s'incontra intorno alla Fisica, giacchè i saggi di naturali esperienze dell'Accademia del Cimento appartengono al secolo precedente. Poco finalmente ci offrono le opere del Bianconi, ma non vuolsi dimenticare quel poco, perchè egli era elegante scrittore; benchè, siccome ho già detto, alquanto libero nel fatto della lingua. Anche il Roberti volle esser fisico, e il fu con quella grazia, che era a lui naturale, scrivendo due lettere d'un bambino di sedici mesi colle annotazioni di un Filosofo, e sul prendere, come dicono, l'aria ed il Sole. Due brevi ragionamenti abbiamo del Palcani, uno sul fuoco di Vesta[204] e l'altro sul natro orientale,[205] ed è a dolersi, che non se ne abbia un numero maggiore, tanto son pieni di dottrina, e d'eleganza.
Cosa maggiori ci somministra la Storia naturale. La piccola terra di Scandiano nel Modenese ha la gloria d'aver dati all'Italia nel secolo decimottavo due sommi naturalisti, che furono nel tempo stesso scrittori purgati ed eleganti, cioè il Vallisnieri, e lo Spallanzani. Del primo basterà indicare l'edizione delle sue opere fatta in Venezia il 1733. nè sarà necessario tutte annoverarle minutamente. Del secondo il saggio d'osservazioni microscopiche concernenti il sistema della generazione, le memorie sopra i muli, le osservazioni sull'azione del cuore nei vasi sanguigni, il prodromo d'un'opera da imprimersi sopra le riproduzioni animali, la contemplazione della natura del Signor Carlo Bonnet tradotta in Italiano, e corredata di note, le dissertazioni su i fenomeni della circolazione osservata nel giro universale de' vasi, gli opuscoli di Fisica animale, e vegetabile, il viaggio alle due Sicilie sono opere lodatissime per novità di scoperte, per acutezza d'ingegno, per esattezza d'esperienze, e per eleganza di stile. Come una terra sola ha dati due insigni naturalisti, così una sola famiglia ne ha somministrati altrettanti, cioè i Conti Giuseppe e Francesco Ginanni di Ravenna. Il primo scrisse delle uova, e de' nidi degli uccelli con un'appendice d'osservazioni sulle cavallette,[206] e una lettera all'Instituto di Bologna intorno al modo di pascersi, ed alla respirazione e generazione delle telline e d'altre marine conchiglie.[207] Altre sue opere sulle piante marine del mare Adriatico, e sopra alcuni testacei ed insetti furono stampate dopo la sua morte[208] dal suo nepote Francesco, che fu pure buon Naturalista. Questi poi scrisse dottamente delle malattie del grano in erba[209] e delle pinete Ravennati.[210]
E già quasi senza avvedermene sono passato a far parola della scienza agraria, che forma un utile e nobil parte della Storia naturale. L'anonimo Milanese pone nel suo catalogo la relazione istorica, e filosofica del Matani delle produzioni naturali del territorio Pistojese,[211] che può esser utile per prenderne qualche voce di storia naturale: ma io non posso collocarla fra le opere puramente scritte. Fa poi maraviglia, che niuna cosa egli abbia citata del Manni. Quest'uomo instancabile, di cui ho già parlato più volte, ha scritto ancora di cose agrarie. Il suo ragionamento della piantagione, e coltivazione de' gelsi cagione di ricchezza[212] è stato dimenticato dal Lastri nella Biblioteca Georgica. Ivi si registrano di lui tre sole opere, che hanno per titolo Introduzione de' gelsi in Toscana,[213] Nuova proposizione per trarre dall'Agricoltura un maggior frutto,[214] e Del fare i lavori alla campagna in tempo[215]. L'ultima merita da me special ricordanza pe' proverbj usati nel contado, che egli ha raccolti accompagnandoli d'utili avvertimenti. Di sì fatti proverbj utili allo studio della lingua, e molto più all'arte agraria ne avea raccolti in buon dato il Proposto Lastri, e sparsi quà e là nel suo Lunario pe' Contadini, donde poi altri li trasse, e riuniti gli stampò di nuovo.[216]
Alla scienza della natura appartengono l'Anatomia, la Medicina, e la Chirurgia, delle quali vuolsi ora tener discorso. Lorenzo Bellini leggiadro poeta fu eziandio anatomico grande, e le sue opere furono spiegate dal Pitcarne nell'università d'Edimburgo. Antonio Cocchi ne stampò i discorsi anatomici, che l'Accademia Fiorentina meritamente reputò degni di far testo in lingua. Essa accordò l'onor medesimo all'editore pel trattato de' Bagni di Pisa, pe' discorsi Toscani, per la prefazione alla vita di Benvenuto Cellini, e pe' regolamenti dello spedale di S. Maria Novella, che non sono stampati. Poteva forse accordarglielo ancora pel discorso sopra Asclepiade, e pe' consulti medici. Non aggiungo il discorso sul matrimonio perchè non è opportuno, che facciano testo in lingua quei libri, che la retta morale condanna. Il figlio suo Raimondo lo stampò dopo la sua morte, e poteva rimanersene. Doveva più presto pubblicare i consulti medici, che il padre aveva lasciati in gran numero, ed egli inopportunamente li vendè a non so quale straniero; talchè l'edizion che ne abbiamo, fu poi tardi fatta dal Pasta, raccogliendoli con diligenza, e in quella maggior copia, che potè. L'Accademia approvò ancora le sue lezioni anatomiche; il Signor Gamba però dottissimo nella Storia letteraria ha osservato, che queste non son d'Antonio, ma di Raimondo. Essa ha pure approvate le opere di Giuseppe del Papa, e già lui vivente citate le avrebbe la Crusca nell'ultima edizione del Vocabolario, se egli non vi si opponeva. La maggior parte di queste appartengono al secolo precedente, e solamente i Consulti medici, e i Trattati varj dati in luce nel decimottavo possono aver quì luogo. Approvò finalmente le Lettere scientifiche di Carlo Taglini, e il libro critico di Pier Francesco Tocci intitolato la Giampaolagine. Andrea Pasta altresì fu egregio medico, e purgato scrittore, e il suo discorso medico-chirurgico intorno al flusso di sangue dall'utero delle donne gravide meritò d'esser registrato ne' lor cataloghi dal Gamba e dall'Anonimo. Il Poggiali concede quest'onore alle opere mediche d'Antonfrancesco Bertini, che io non ho vedute.[217] Niun poi di loro lo concede ai Consulti medici di Giacomo Bartolommeo Beccari, i quali però ne erano degnissimi, essendo egli stato, secondo la scuola di Bologna sua patria, elegante scrittore in Italiano e in Latino d'un'eleganza nitida, e semplice. In quei due aurei volumetti di lettere familiari dei Bolognesi si vorrebbe, che fossero state poste ancor le sue, che dovevano esser bellissime, se lo possiamo congetturare da una diretta al Pontefice Benedetto decimoquarto, che il Conte Fantuzzi ha inserita ne' suoi Scrittori Bolognesi T. 2. p. 57. Terminerò poi questa classe con due Lucchesi, Matteo Regali, e Pietro Tabarrani. Del primo ho già fatta menzione altrove. Egli era medico, ma a dir vero era miglior grammatico. Scrisse una Lezione intorno all'uso dell'acqua della Villa (cioè dei Bagni di Lucca) col cibo,[218] la quale, se non è approvata dai professori dell'arte medica, è almeno scritta con purità. Il secondo al contrario era buon medico ed eccellente anatomico, e se non uguagliava il Regali nella purità della lingua, non era però illodevole. Le sue lettere mediche ed anatomiche[219] sono ricordate dall'anonimo, e sono lodate dai professori di queste scienze, nè saranno molto riprese da quelli, che amano la nostra lingua. Nè diverso è il giudizio, che si dee portare dell'altre cose sue, che si vedono impresse negli atti degli Accademici Fisiocritici di Siena.
In niuna facoltà è più agevole lo scrivere purgatamente quanto nelle mattematiche. Esse hanno un certo linguaggio loro proprio e semplice tanto, che quasi non concede luogo ad errare, principalmente ove si tratti di quelle, che chiamano mattematiche pure, come l'aritmetica, la geometria, e l'algebra. In questa parte pertanto sarò più severo. Fra i Mattematici Italiani del secolo diciottesimo potrei collocare Vincenzio Viviani grande e diletto scolaro del grandissimo Galileo. Egli giunse cogli estremi anni suoi a toccare quel secolo, essendo morto il 1703. ma le opere sue Italiane appartengono tutte al secolo precedente, ed io non voglio oltrepassare quei limiti, che mi sono prescritti. Il nome però del Viviani ricorda quello di Guido Grandi, che segnando le prime orme nella carriera geometrica potè destar maraviglia in quel geometra veterano, il quale pareva pure, che di niuna cosa dovesse più maravigliare. Egli unì lo studio dell'antiquaria a quello delle mattematiche, ma l'Accademia Fiorentina approvò solamente due opere del secondo genere, cioè gli elementi di geometria, e le istituzioni delle sezioni coniche. La seconda però di queste opere in ciò, che spetta alla lingua si dee piuttosto attribuire a Tommaso Perelli, giacchè essa è un volgarizzamento da lui fatto delle sezioni coniche, che il Grandi aveva pubblicate in latino a Napoli il 1737. A queste opere l'Alberti, il Gamba, e l'Anonimo aggiunsero le istituzioni Geometriche, quelle d' Aritmetica, le Meccaniche, il trattato delle resistenze unito alle opere del Galileo, ed alcune scritture d'Idrostatica, che abbiamo nella raccolta degli autori, che trattano del moto dell'acque. Il Poggiali ben a ragione vi aggiunse la Risposta apologetica alle opposizioni fattegli dal Dott. A. M. (Alessandro Marchetti,) i Dialoghi circa la controversia eccitatagli contro dal Dottore Alessandro Marchetti,[220] oltre alla Vita di S. Pietro Orseolo. Egli ha poste nel suo catalogo ancora le Instituzioni Analitiche della Agnesi, le quali tranne qualche difetto nel fatto della lingua possono esser utili per una nuova impressione del Vocabolario.
Ma parlando di Mattematica, e di purità di lingua chi può dimenticare Eustachio Manfredi? Egli fu buon Geometra, e sommo Astronomo ed Idrostatico. Gli elementi della Geometria, e della Trigonometria, quelli della Cronologia, le instituzioni astronomiche, la descrizione d'alcune macchie scoperte nel Sole, e le annotazioni al Trattato della natura de' fiumi del Guglielmini mostrano abbastanza, che si può scrivere profondamente delle materie più difficili senza oltraggiare le leggi della lingua. Lo stesso dimostrano le altre opere sue, che tralascio per non diffondermi soverchiamente, ma si possono veder registrate dal Fantuzzi.[221] L'Accademia Fiorentina nulla ha approvato di lui, fuorchè le lettere, di che forse molti si maraviglieranno. Ma si può credere, che l'Accademia della Crusca vorrà esser meno difficile; giacchè riguardo a un uom così grande può esser tale senza pericolo.
Al Manfredi succeda l'amico suo, il suo lodatore Francesco Maria Zanotti. Celebre è la questione agitata un tempo fra i Mattematici sulla forza viva, la quale i Cartesiani dicono proporzionale alla massa del corpo moltiplicata nella velocità, mentre i Leibniziani la vogliono proporzionale alla massa moltiplicata pel quadrato della velocità. Dopo un disputar lungo M. d'Alembert mostrò, che quella questione era inutile, e tutti si acquietarono alla sua sentenza.[222] Io non la chiamerò inutile, solamente perchè produsse due bei libri, una del P. Vincenzio Riccati, e l'altro dello Zanotti. Il Riccati prese a difender l'opinion Leibniziana in un suo dialogo,[223] nel quale ampiamente trattò di sì fatta questione, combattendo certa proposizione, che il secondo avea detta ne' Commentarj dell'Instituto di Bologna. Lo Zanotti, che avea in animo di scrivere alcun dialogo colse l'occasione di rispondere al suo oppositore, e compose quello sopra la forza che chiamano viva,[224] il quale io non dubito di chiamare maraviglioso, e ardisco contrapporlo a quelli bellissimi di Tullio e di Platone. Nobiltà e gravità di stile, quando la materia il richiede, chiarezza nelle cose scientifiche, ordine nelle dispute, urbanità, e grazia somma sono pregj, che abbondano in quest'opera, pe' quali basterebbe essa sola a render l'autore immortale. Niun'altra cosa di Mattematica abbiamo da lui scritta in Italiano, fuorchè una lettera a Monsignor Vitaliano Borromeo, in cui prova due elegantissimi Teoremi Geometrici, cioè che ogni poligono circoscritto a un circolo sta al circolo stesso, come il perimetro del primo alla circonferenza del secondo, e che ogni solido chiuso da ogni parte da superficie piane e circoscritto ad una sfera sta alla sfera, come la superficie del primo sta a quella della seconda.[225] Anche il suo nepote Eustachio fu elegante, e purgato scrittore. Il Fantuzzi[226] ha dato il catalogo delle sue opere spettanti alla Astronomia, alla Fisica, all'Idrostatica, ed alla Prospettiva, che giudico inutile di ripetere in questo luogo. Aggiungerò solamente, perchè egli l'ha dimenticato, l'esame del nuovo Ozzeri,[227] cioè d'un canale di scolo, che era stato proposto nello Stato Lucchese.
Il P. Riccati, che ho nominato dianzi, fu uno de' primi Mattematici Italiani del secolo decimottavo. La maggior parte delle molte sue opere sono scritte in latino; parecchie però ne fece ancora in italiano con molta purità di lingua. Di queste pure tralascerò il catalogo, che altri potrà vedere nel nono volume del Giornale di Modena. L'Anonimo Milanese ed il Gamba ricordano anche il padre suo Jacopo Riccati, perchè le sue opere sono scritte con molta proprietà, e chiarezza. Io non gli nego questa lode, che ben merita; ma sì fatti pregi non bastano al mio presente intendimento. Essi debbono essere uniti a una sufficiente purità di lingua, e questa manca a Jacopo non rare volte. Cita l'anonimo anche Tommaso Narducci pel paragone de' canali, e pel trattato della quantità del moto, o sia della forza dell'acque correnti. Ma se vorremo dar quì luogo a questo scrittore non si debbono dimenticare due brevi suoi opuscoli sulla misura della velocità e del tempo, in cui una data quantità d'acqua non perenne di un lago, o altro ricettacolo esce dall'incile del medesimo, e sopra la figura della terra.[228] Ma quantunque egli sia purgato più di Jacopo Riccati, pure non è scevro da qualche idiotismo del dialetto Lucchese. Al contrario l'anonimo non annovera il Conte Giordano Riccati fratello di Vincenzio, che io col Gamba porrò fra gli altri purgati scrittori. Molte dissertazioni di Mattematica egli stampò nelle Raccolte d'opuscoli Calogeriana, Lucchese, Fiorentina, e Ferrarese, nella Minerva, nel Prodromo della nuova Enciclopedia del Giorgi, e nel Giornale di Modena, ed inoltre il saggio sopra le leggi del contrapunto,[229] gli schediasmi sulle corde o fibre elastiche,[230] e le dissertazioni sulla tensione delle funi.[231] Vi porrò pure con lui Lorenzo Mascheroni, che fu ugualmente leggiadro poeta ed ingegnoso Mattematico, e lasciando ora a parte stare i suoi versi rammenterò la sua maniera di misurare l'inclinazione dell'ago calamitato, le nuove ricerche sull'equilibrio delle volte, il metodo di misurare i poligoni piani, e la geometria del compasso. Un altro Mattematico insigne non si vuoi dimenticare, cioè il Cavalier Giulio Mozzi. Un solo rimprovero a lui si può fare, ed è che potendo egli arricchire la Repubblica delle lettere di molte opere pregevolissime non abbia voluto pubblicare che un solo opuscolo. Esso porta per titolo: Discorso Matematico sopra il Rotamento momentaneo de' corpi,[232] e fa conoscere ad evidenza quanto egli valesse nelle mattematiche discipline.
Molti sono i purgati scrittori, de' quali ho parlato fino ad ora, ed altri molti ne avrei aggiunti, se non avessi creduto dovermi alquanto temperare. Nelle facoltà diverse però, che formano la scienza del Dritto, quantunque un gran numero d'uomini illustri possa vantare l'Italia, che le hanno felicemente illustrate, pure è scarso il numero di coloro, che illustrandole hanno scritto purgatamente. Non inutil sarebbe il cercarne la ragione; ma per una parte sì fatta indagine troppo mi farebbe deviare dal sentiero, che debbo scorrere, e per l'altra trattar dovrei materie troppo a mio credere pericolose. Per la qual cosa mi rimarrò da sì fatta considerazione, e senza più nominando quegli scrittori, che a me sembrano più purgati porrò in primo luogo Giuseppe Maria Buondelmonti, di cui l'Accademia Fiorentina approvò il ragionamento sul diritto della guerra giusta.[233] Purissime altresì sono le dissertazioni di Giuseppe Alaleona,[234] delle quali la maggior parte appartengono a questa classe, e trattano delle Romane leggi delle dodici tavole, del paterno imperio, delle leggi civili, delle leggi Romane e Venete. Anche due ragionamenti di Girolamo Baruffaldi spettanti a ragion canonica vogliono aver quì luogo, cioè un voto sulla retta intelligenza della clausula seu alias inserita nel Canone di P. Bonifacio VIII. e nell'altro di Clemente V. intorno alla libera elezione della sepoltura, che egli stampò il 1751. e una dissertazione sopra il significato delle parole fide constitutus inserita nella Raccolta del P. Calogerà T. 37. Il Lampredi altresì celebre Professore dell'Università di Pisa può aver quì luogo pel suo trattato del commercio de' popoli neutrali in tempo di guerra,[235] pel discorso del governo civile degli antichi Toscani, e delle cause della lor decadenza.[236] Altre opere ancora d'altri scrittori si potrebbono unire a queste, ma stimo savio consiglio di trascurarle, e piuttosto passerò a far parola di coloro, che delle arti del disegno hanno scritto, coi quali darò fine a questo capitolo forse increscevole, e lungo soverchiamente. Monsignor Bottari, che tanto fu benemerito della letteratura e della nostra lingua per molte opere pubblicate, tale si rese eziandio pe' dialoghi sopra le tre arti del disegno, per le annotazioni alle vite dei Vasari, e per l'impressione delle lettere sopra la pittura, scultura, e architettura de' più celebri professori. Queste opere sue furono adottate dall'Accademia Fiorentina; talchè altri può trarne in molto numero forme di dire spettanti alle arti belle. Trar se ne possono ancora parecchie dal terzo e dall'ottavo volume delle opere del Conte Algarotti nell'ultima edizion Venata, che tutti si aggirano su questo argomento. Niuno ignora, come egli era dotato di fino gusto nelle arti del disegno, e come trattava la matita lodevolmente. Egli ora instruisce i giovani pittori con ottimi precetti e consigli, ora dà giudizio savio e maturo delle opere de' pittori degli scultori degli architetti, ed or ricorda piacevoli erudizioni, che la storia riguardan dell'arte e de' maestri migliori. All'Algarotti non cedeva nel buon gusto Gian Lodovico Bianconi, e lo vinceva nella grazia dello stile. Le sue lettere sopra la Baviera sono la più cara cosa, che si possa desiderare; nè credo che altra descrizion di paesi si trovi così piacevole, siccome è questa. In essa parla delle arti del disegno, e più ne parla nella vita del Mengs nelle due lettere al Principe Enrico di Prussia sopra Pisa, e nelle otto lettere riguardanti il così detto terzo tomo della Felsina pittrice. Anche il P. Roberti volle trattar di questo argomento. Scrisse in prima una splendida orazione, con che difese le scuole Italiane contro certa diceria del Marchese d'Argens,[237] e poi una lettera sopra Jacopo da Ponte detto il Bassano: e pare che in ambedue le occasioni l'amore del nome Italiano, e di Bassano sua patria, mentre l'animò a prender la penna, aggiugnessero nuove grazie, nuovi fiori alla sua eloquenza. Più parco negli ornamenti dello stile, ma castigatissimo nella lingua il Cavaliere Clementino Vannetti pubblicò le notizie intorno al pittore Gasparantonio Baroni Cavalcabò di Sacco,[238] le quali, come le altre opere sue potrebbono, se non m'inganno, far testo in lingua. Anche Giampietro Zanotti volle esser puro ed imitare gli antichi scrivendo la Storia dell'Accademia Clementina, se non che raccontando talvolta avvenimenti troppo minuti, e di niun conto, e volendo troppo imitar gli antichi annoja il leggitore. Nulla posso dire de' suoi avvertimenti per l'incamminamento d'un giovine alla pittura, e della descrizione ed illustrazione delle pitture di Pellegrino Ribaldi e Niccolò Abati esistenti nell'Istituto di Bologna, che non mi è riuscito di vedere. A Giampietro unirò il fratello suo Francesco per le tre sue orazioni sopra la pittura degnissime di lui, e del Romano Campidoglio, dove la prima fu recitata.
Ma sopra quante opere di questo genere ho fin quì nominate si dee collocare la Storia pittorica dell'Italia dell'Ab. Luigi Lanzi. Essa ebbe il suo cominciamento nell'anno 1792. in cui venne alla luce il primo volume e nel 1796. fu compiuta quantunque poi solo nella seconda impressione del 1809. ricevesse la sua perfezione. Divide egli tutta la trattazione secondo le diverse scuole, ed in ogni scuola distingue le epoche. Accenna i principali pittori di ciascuna, e ne descrive lo stile, nè tace i mediocri, de' quali pure si desidera avere qualche contezza. Ora egli fa ciò con fina critica ed avvedutezza, con abbondanza non soverchia di notizie, e con uno stile vivace, spesso conciso, ed ove la materia il richieda anche eloquente. Non dirò che il Lanzi sia severo nel fatto della lingua; ma qualche libertà da lui usata moderatamente e con giudizio non dispiace, e fra tante cose belle, che allettano e incantano, non sa il lettore fargliene un rimprovero. Anzi io gli so grado di alquante novelle voci e forme di dire da lui adoperate parlando delle arti del disegno e dell'antiquaria, che molti poi non hanno ricusato d'adoperare. Ma i meriti del Lanzi in questa parte della Letteratura sono stati egregiamente esposti da scrittori troppo migliori di me, cioè dal Signor Conte Giambattista Baldelli, e dal Signor Cavaliere Onofrio Boni, ai quali altri potrà ricorrere.[239]
Or dopo la noja per me sofferta nel tessere questa lunga serie di nomi e di titoli di libri, se rivolgo lo sguardo a tanti uomini illustri fin quì nominati, ed a quegli altri molti, che di leggieri aggiunger potrei, mentre per una parte mi conforta e ricrea il pensier della gloria, ch'essi hanno recata al nome Italiano, parmi per l'altra, che si possa quindi trarre un motivo per dileguare un timore insorto nell'animo del Signor Cesarotti. Un uomo scienziato, egli dice, ragionativo, eloquente, ma di coscienza timorata in fatto di lingua, col capo gravido del suo soggetto si mette a scrivere: gli si presenta un'idea nuova che sembra domandar un termine, che non è nel Vocabolario. Che farà egli? Mandi con Dio la sua idea o la storpi con un altro termine il meglio che sa.[240] Or io dico, tanti scrittori insigni da me nominati le scienze e le discipline quasi tutte hanno illustrate con nuovi scoprimenti, con pensieri nuovi, con riflessioni non prima fatte, o le cose già dette da altri hanno esposte in nuova foggia scrivendo purgatamente; nè pare che sia loro avvenuto di stroppiare un'idea per mancanza d'un termine; e forse non avranno voluto sopprimere qualche nuova idea venuta loro in mente. Essi avranno trovato nella ricchezza grande della nostra lingua il modo di supplire alla mancanza d'una voce, o pure hanno usata una voce, che non è nel Vocabolario, la quale se è, non dirò necessaria, ma opportuna, bella, ben derivata, acconcia che nulla più[241] l'Accademia non trascurerà d'approvarla. Si potrebbe ancora dileguar il timore del Signor Cesarotti, negando poter mai accadere, che una parola sia così necessaria per esprimere una idea, che senza quella convenga assolutamente stroppiarla, come egli dice. Ma ove ancora ciò fosse, ove lo scrittor non volesse oltrepassar i confini del Vocabolario, crederei, che nè la sua gloria nè la Repubblica delle lettere patirebbono un danno intollerabile, se l'uso d'un'altra voce o una forma di dire alquanto più lunga venisse a scemar alcun poco la forza o la bellezza di quell'idea. Dall'altro canto se lo studio posto negli antichi dagli scrittor Fiorentini gli preservò nel secolo decimo settimo dal reo gusto in cui tanti caddero miseramente, siccome confessa il Signor Cesarotti, è da credersi, che lo studio medesimo continuerà a produrre un non dissimile giovamento. Ed è da credere ancora, che la diligenza la quale taluno usa per emendare i proprj scritti, onde toglier loro ogni macchia contraria ai canoni della lingua, rileggendoli più volte, e consultando i periti prima di consegnarli alle stampe, produca il vantaggio, che per nuova e replicata riflessione l'autor s'accorga d'altri falli, ne' quali per difetto d'umana natura era caduto. Onde il vantaggio sarà di gran lunga maggiore del supposto danno.
Dell'altre moderne lingua d'Europa. CAPO XII.
Egli è ormai tempo, che il mio discordo rivolga, benchè brevemente alle altre moderne lingue Europee. E quì dovrei far parola dell'introduzione alle più utili fra queste del Baretti, ma non essendo a me riuscito di vederla nulla ne posso dire.[242] Non parlerò adesso della Turca e della Greca, delle quali più opportuno sarà il tener discorso in altro luogo. Cominciando dunque dalla Francia dirò quel poco che abbiamo meritevole di ricordanza. L'Algarotti in un saggio su questa lingua ci ha data in breve la sua storia,[243] e il signor conte Napione nell'opera già citata, esaminandone l'indole, ha combattuto con evidenza gl'irragionevoli elogj, che ne fa il P. Bonhours, ha ricordato il giudizio, che ne danno gli scrittori più celebri della Francia, ed ha mostrato quale essa fosse prima della riforma introdotta da quell'Accademia.[244] Altri non creda dover collocare fra le opere degl'Italiani il Dizionario non molto pregevole del Veneroni. Egli era di casato Vigneron nativo di Verdun, e per amore della nostra lingua dette forma Italiana al nome di sua famiglia,[245] come altri crede di rendersi più stimabile, prendendo nome Francese. Compatiamo le debolezze degli uomini, e queste massimamente, che sono innocenti.[Pg 149] Italiano era l'Antonini, di cui pure abbiamo un dizionario non migliore di quello del Veneroni. Mal può fare il dizionario di una lingua chi non la possiede perfettamente, e l'Antonini non sapeva abbastanza la Francese, come mostrò traducendo in questa non lodevolmente un opuscoletto del Rolli.[246] Il libro, di cui possiamo gloriarci, è il dizionario dell'Alberti a tutti noto, cioè dell'autore del dizionario enciclopedico rammentato di sopra. Sono circa quaranta anni passati, da che esso venne in luce la prima volta, e in tante edizioni, che ne sono uscite in Italia, e in Francia, non si è mai dovuto farvi considerevoli emendazioni o accrescimenti. Esso ha fatti dimenticare gli altri dizionarj, ed a chi volesse succedergli non ha lasciata molta speranza di far cosa migliore. Nato nel contado di Nizza erano a lui naturali le due lingue Italiana e Francese, nelle quali inoltre pose molto studio finchè visse; quindi colle acquistate cognizioni, e co' dizionarj della Crusca e dell'Accademia Francese potè fare un'opera utile, e degna di vivere lungamente. Il Martinelli ne fece poi un compendio comodo per la sua brevità, in cui le voci tutte del dizionario sono comprese.
Per le altre lingue non abbiamo opere, che a questa si possano paragonare. Per l'Inglese oltre al dizionario del Bottarelli, piccolo in principio, ma poi molto accresciuto,[247] abbiamo la grammatica e il Dizionario dell'Altieri. Questo però è mancante, e quella è non ben sicura nelle sue regole, e di gran lunga inferiore a quella del Barker. Più pregevole assai è la Grammatica e il Dizionario Inglese e Italiano del Baretti, e l'ultimo principalmente dopo che egli vi fece grandi accrescimenti[248]. Nè a lui bastò di provveder con quest'opera a coloro, che apprender volessero una di queste due lingue, ma con un'altro Dizionario si adoperò ancora di giovare agl'Inglesi o agli Spagnoli, che studiano la lingua Spagnuola o Inglese.[249]
La lingua Tedesca mi offre ancora minor numero di cose meritevoli di ricordanza, e il poco che mi offre consiste nella Grammatica e ne' Dialoghi del Borroni, e in un Dizionario del medesimo pe' principianti.[250] La Spagnuola nulla mi somministra fuorchè il Dizionario testè citato del Baretti, giacchè la Grammatica e il Dizionario del Franciosini appartengono al secolo decimosettimo.
Nulla pure ho da dire dell'altre moderne lingue del continente Europeo. Due però dell'Isole adjacenti all'Italia richiedono da me qualche parola. In primo luogo la lingua della Sardegna fu illustrata dal Sig. Madao con due opere da me non vedute.[251] Nè pure mi è riuscito di vedere la Grammatica e il Dizionario della lingua Maltese, che il Signor Vassalli stampò in Roma nel 1791. e 1796. Egli afferma, che essa è un dialetto dell'Araba. Al contrario il Canonico Agius de Soldanis dopo il Majo, l'Erpenio, il Teinesio e altri aveva preteso che fosse Punica, e fino dal 1750. si era accinto a provarlo, ma se non erro con poco felice riuscimento. Stampò egli una breve grammatica e un saggio di Dizionario della lingua Maltese, cui fece precedere due dissertazioni.[252] Nella prima prende appunto a provare, che la lingua Maltese è l'antica lingua Punica rimasta sempre in quell'isola ad onta de' popoli diversi, che l'hanno soggiogata, e nella seconda parla dell'utilità sua. Ma da una parte nè l'uno nè l'altro argomento vien da lui confermato validamente, e dall'altra parte quantunque io non sappia l'Arabo, e solamente ne conosca l'Alfabeto o pochissimo più, ciò non ostante nelle voci Maltesi da lui registrate in questo libro io scorgo voci Arabe, principalmente della lingua volgare, or più or meno alterate. Arroge a ciò, che il Bjoernstahel ne' suoi viaggi racconta d'aver udito Maltesi ed Arabi parlar fra loro, ciascuno nella propria lingua, e intendersi ottimamente. Da che egli deduce con gran ragione, che la lingua de' primi altro non è che un corrompimento, o se si vuole un dialetto della seconda. Il Canonico Agius promise ancora un ampio dizionario della sua lingua, e la interpretazione di que' versi di Plauto nel Penulo, che furono da lui composti in lingua Punica, ed egli voleva spiegarli colla Maltese; nè so se poi abbia eseguite queste promesse. Utile sarebbe stato il dizionario; ma riguardo ai versi Plautini dubito forte, che egli non sarebbe stato più fortunato degli altri, che prima o dopo di lui si sono posti a questa impresa. La lingua Punica è perduta, tranne poche voci, che S. Agostino ed altri antichi scrittori ci hanno tramandate; e que' versi di Plauto passando per le mani di tanti copisti, che non gl'intendevano, debbono in tal guisa esser guasti e corrotti, che niuna speranza v'ha di spiegarli.
Mentre questi scrittori illustravano queste lingue colle grammatiche, e co' dizionarj, altri le illustravano colle traduzioni. Non è mia intenzione di tessere quì il novero di tutto ciò, che dagl'Italiani s'è fatto in questo genere nel passato secolo, il che sarebbe impresa da non venirne mai a fine. Le traduzioni in prosa, dal Francese massimamente, sono innumerabili, ed ove si tolgano ancora tutte quelle, che invita Minerva si son fatte per traffico,[253] ove ancora si limiti il discorso a quelle, che hanno meritata lode per esattezza, e per lo stile, il numero sarebbe tuttavia immenso. Si aggiunga a ciò, che facile essendo la lingua Francese e comune, pare che in questa mal si possa dar nome d'illustrazioni alle traduzioni. Le traduzioni poetiche dal Francese sono in piccol numero, nè di molto momento, se si eccettuino il poema sulla religione di M. Racine tradotto dall'Ab. Filippo Venuti, quello del Re di Prussia sull'arte della guerra tradotto dal Sanseverino, alcune tragedie volgarizzate dal Cesarotti, dal Paradisi, dal Frugoni; e poche altre. Riguardo alle traduzioni dalle altre lingue mancano in gran parte tali ragioni, e però non terrò per esse il medesimo silenzio, pure non mi vi tratterrò lungamente, ma con brevi parole rammenterò solo le principali.
Prime sieno quelle dall'Inglese che sono in maggior numero. Milton, l'Omero dell'Inghilterra a se richiama innanzi ad ogni altro il mio discorso. Il grande argomento di quel poema esigeva una mente ardimentosa per ben trattarlo, ed esigeva pure una penna robusta per ben tradurlo. Paolo Rolli si accinse a questa impresa;[254] quantunque però fosse valoroso poeta non aveva forze bastevoli per far tanto. Egli tradusse letteralmente, ed esattamente; ma il poema di Milton restò spogliato di tutta la sua forza, e diventò un perfetto sonnifero. Dopo molti anni il Mariottini stampò in Londra il primo libro d'un nuovo suo volgarizzamento[255] corredato di molte annotazioni sue in parte, e in parte de' precedenti commentatori Inglesi. Non so se poi egli abbia condotto a fine questo suo lavoro. Il verso generalmente è nobile ed armonioso; ma (se mi è lecito esporre la mia opinione, quantunque sia poco istruito della lingua Inglese) a me non sembra abbastanza fedele, e spesso merita il nome di parafrasi. Pure al chiarissimo traduttore si dee non piccola lode, e son pregevoli le annotazioni che v'ha aggiunte. Altri hanno tentato questa difficile impresa nel secolo presente, de' quali non dovrei quì ragionare. Pure non posso temperarmi dal dire, che il miglior traduttore di Milton è un mio concittadino, cioè il Signor Lazzaro Papi, ed il suo volgarizzamento è così in tutte le sue parti perfetto, che niente lascia a desiderare.
Non vuolsi divider da Milton il suo grande encomiatore Addisson, del quale Anton Maria Salvini volgarizzò il Catone. Nè di ciò dirò più oltre, perchè del modo Salviniano di tradurre parlerò altrove più opportunamente. Parlerò piuttosto della bella versione, che del Poema d'Akenside de' piaceri dell'immaginazione fece il celebre Signor Mazza[256] nel primo suo ingresso nella carriera letteraria. Egli seppe maravigliosamente vestire della copia e della grandiosità Frugoniana (giacchè nella prima sua giovinezza questo sommo poeta, seguiva in parte lo stil del Frugoni, che poi se ne è fatto uno bellissimo, e tutto suo proprio) la poesia filosofica dell'originale; seppe esser fedele senza esser servile, emendando anzi que' modi Inglesi, che a noi parrebbono strani: ed essendo allor giovinissimo fece un'opera, che nulla ha di giovanile, fuorchè il calore dell'estro e la vivacità dell'espressioni. In età poi più matura tradusse alcuni lirici componimenti di Parnell[257] e di Thomson egregiamente come si doveva aspettare da un poeta sì grande.
Poco innanzi all'Akenside del Signor Mazza si pubblicò in parte l'Ossian del Signor Cesarotti[258]. Questa dotta fatica di così illustre poeta fu una nuova luce, che improvvisamente apparve sul Parnasso Italiano, ed attirò a se gli occhi di tutti. Un certo calor nuovo di stile, diverso da quello, di che i Greci, i Latini ed i nostri ci offerivano esempj, certe idee nuove, una semplicità congiunta non rade volte a pensieri giganteschi, una straordinaria energia d'espressioni riscosse l'ammirazione di molti, ed eccitò alcuni all'imitazione. Gl'imitatori però cessarono a poco a poco, e rimase la lode; lode che è a lui dovuta per avere arricchita la nostra lingua poetica di molte maniere energiche, grandi, maravigliose, ora terribili, ora delicate, le quali in parte egli prese dal testo, e in parte creò con una fantasia inesausta. Ma fra i pregj di questo volgarizzamento ardirò io cercar difetti? Meriterò forse la taccia di temerità, se espongo qualche mio dubbio contro il lavoro prediletto d'un Cesarotti? L'impresa da me abbracciata lo richiede, nè posso trascurarne una parte. Nulla dirò della condotta de' poemi attribuiti ad Ossian, degli affetti, delle similitudini, ed altrettali oggetti, che non sono del mio instituto. Io debbo parlare della illustrazione delle lingue, onde considererò soltanto alcune cose, che in qualche modo a queste appartengono.
Descrive il poeta la lotta fra Fingal, e Varano, e dice
.........Ai forti crolli, All'alta impronta dei tallon robusti Scoppian le pietre e dalle nicchie alpestri Sferransi i duri massi e van sossopra Rovesciati i cespugli.[259]
In un'annotazione a questi versi il chiarissimo traduttore osserva, che questo forse è l'unico luogo in tutto il poema di Fingal, che si possa chiamar gonfio, e quindi procura di difenderlo. Ma egli aveva allora dimenticati que' versi, ne' quali parlandosi del combattimento tra lo stesso Fingal, e Cucullino si dice:
.........i nostri passi Crollaro il bosco, e traballar le rupi Smosse dalle ferrigne ime radici.[260]
A me parrebbe questo luogo più gonfio ancora dei primo, nè a difenderlo basta il dire, che a quell'età erano gli uomini, più forti molto che noi non siamo; il che è la difesa dal signor Cesarotti addotta pel passo precedente. Ma più altre cose ancora vi s'incontrano, le quali a me appariscono gonfie. Tali a cagion d'esempio sono Cucullino, che sgorga rivi di valore T. 2. p. 150. e tu sgorgasti valore, ivi p. 275. Morna, che rotola nella morte p. 148. la vasta azzurra stellata conca del Cielo p. 241. il sangue del monte Gormallo, cioè il sangue delle fiere di quel monte p. 203. al suo cospetto sfuma la pugna p. 51. ed altre simili maniere di dire. Nè mi dispiace meno la troppo frequente ripetizione di certe espressioni favorite, e specialmente della voce figlio usata metaforicamente.[261] Queste ed altre cose di tal genere non sanno piacermi, e temerei che imitandosi le poesie in molte parti bellissime d'Ossian taluno potesse forse esser trascinato in un gusto non lodevole. Altri pure tradussero altre simili poesie, e fra questi mi piace ricordar quì il signor conte Prospero Balbo. La morte d'Arto, un breve squarcio d'altro poema, e la battaglia di Lava volgarizzò egli dalla prosa Inglese di Giovanni Smith in bei versi Italiani, ne' quali nulla si trova che non si debba molto commendare.[262]
Nè quì si arrestarono le cure degl'Italiani per la poesia Inglese. Celebre è il Sidro del Conte Magalotti, che molto dopo la sua morte vide la luce.[263] Il saggio sopra l'uomo del Pope fu tradotto dal Cavaliere Anton Filippo Adami,[264] il Messia dello stesso Pope dal Conte Agostino Paradisi, e dal Conte Benvenuto di S. Raffaele, che tradusse anche il Vindsor. Il Bonducci volgarizzò il Riccio rapito dello stesso. Il Torelli l'elegia di Gray sopra un Cimitero campestre. Le notti di Young furono tradotte dal Bottoni, e i tre canti sul Giudizio universale da D. Clemente Filomarino.[265] Ma a me rincresce di trattenermi più lungamente tessendo un'arido catalogo di nomi che si potrebbe anche accrescer volendo, e vie più mi rincresce perchè fra tanti traduttori, che in questo paragrafo ho registrati, se si eccettua il Magalotti, il Paradisi, il Conte di S. Raffaele, il Torelli, e il Filomarino, non trovo oggetto meritevole d'osservazione.
Nè pure il Parnasso Tedesco fu trascurato. Il P. Bertola nell'idea della bella letteratura Alemanna[266] volgarizzò diverse cose di varj, e di Gessner singolarmente, la Signora Caminer Turra molti Idillj dello stesso Gessner,[267] il Signor Abate Belli le quattro parti del giorno di Zaccaria[268] e il Signor Rigno il Messia di Klopstok.[269] Ignorando la lingua Tedesca non posso dar compiuto giudizio di queste versioni: e per la stessa ragione non ardisco farmi giudice di quella, che della Lusiade del Portoghese Camoens ha fatta un anonimo Piemontese.[270] Dirò solamente, che tranne alcune versioni del Bertola non vedo nell'altre quelle dignità di stile, che la poesia richiede, e che per ciò sono da desiderarsi nuovi e più felici volgarizzamenti.
Finalmente la lingua Polacca non fu trascurata dai nostri. Ne fece una grammatica non impressa fino ad ora il P. Francesco Angelini Gesuita[271], del quale parlerò altrove con lode. Sulla seconda scrisse il Madao due opere, che non ho vedute.[272]
Fine della Prima Parte.