INDICE DE' CAPI DELLA SECONDA PARTE

Trattati generali. Capo. I. Pag. 3

Della lingua ebraica. Grammatici. Capo. II. 10

Interpetri de' libri sacri. Capo. III. 25

Traduttori de' libri sacri. Capo. IV. 32

Scrittori d'antiquaria, e di bibliografia. Scrittori in Ebraico. Capo. V. 38

Delle lingue Caldea, e Rabbinica. Capo. VI. 42

Della lingua Greca. Grammatici. Capo. VII. 52

Editori. Capo. VIII. 72

Traduzioni. Capo. IX. 101

Scrittori in Greco. Capo. X. 128

Della lingua Etrusca. Capo. XI. 130

Della lingua latina. Grammatici. Capo. XII. 136

Edizioni degli autori classici. Capo. XIII. 144

Traduzioni. Capo. XIV. 157

Scrittori in latino. Capo. XV. 171

Iscrizioni. Capo. XVI. 178

Delle lingue Samaritana, e Siriaca. Capo. XVII. 180

Delle lingue Araba, e Turca. Capo. XVIII. 186

Delle lingue Etiopica, Persiana, Copta, Fenicia, e Palmirena. Capo. XIX. 192

Della lingua Armena. Capo. XX. 201

Delle lingue dell'Indie, e della China. Capo. XXI. 205

Conclusione 218

Appendice 221

RAGIONAMENTO STORICO, E CRITICO DI CESARE LUCCHESINI CONSIGLIERO DI STATO DI S. M. L'INFANTA DUCHESSA DI LUCCA

DELLE LINGUE ANTICHE E DELLE ALTRE MODERNE, CHE SI CHIAMANO ORIENTALI

PARTE II.

LUCCA

Presso Francesco Baroni Stampatore Reale MDCCCXIX.

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Delle lingue antiche, e di quelle moderne che si chiamano Orientali. PARTE II. Trattati Generali. CAPO I.

Degnissima di lode è l'opera, che altri impiega nell'illustrare la propria lingua, e le altre moderne lingue d'Europa; ma se si considera solo la difficoltà dell'impresa maggior tributo di lode si accorderà a coloro, che i lor sudori, e le loro vigilie dedicarono al coltivamento delle lingue antiche, e di quelle antiche o moderne, che si chiamano Orientali. Di queste debbo adesso tener discorso. Il che facendo, allorchè parlerò di certe lingue più difficili, e dal comune uso più remote, giudico opportuno di prendere in senso più esteso la parola illustrazione; perchè laddove sono più scarsi gli ajuti per illustrare una lingua necessario è raccogliere tutto ciò che anche indirettamente può contribuire a questo intento. Quindi per queste non trascurerò nè i cataloghi de' manoscritti, nè le opere di storia letteraria e di bibliografia, e quelle ancor d'antiquaria, ove alcuna illustrazione d'antichi autori contengano, o interpetrazione di voci e modi di dire.

Un'opera grande sulle lingue d'ogni età, e d'ogni parte del mondo intraprese il P. Bonifazio Finetti dell'Ordine de' Predicatori, che per difetto d'incoraggiamento non potè eseguire, fuorchè in una piccola parte. Molte lingue hanno fra loro una certa somiglianza, e dirò quasi cognazione, che meritava l'esame degli eruditi. Questa somiglianza si vede nelle declinazioni de' nomi, nelle conjugazioni de' verbi, in certe proprietà della sintassi, e in molte voci; il che talvolta mostra, che una lingua deriva da un'altra, ed altre volte fa conoscere, che una lingua ha modificata, ed alterata un'altra. Dalle quali considerazioni, ove sieno cautamente trattate, dedur se ne possono utili conseguenze intorno alle emigrazioni de' popoli dall'una all'altra contrada. Il P. Finetti dunque nell'opera sua voleva mostrar l'indole d'ogni lingua, ed unendo in un solo capo tutte quelle, che a suo giudizio sono simili, come discendenti da una stessa lingua madre, indicarne la somiglianza. Ne dette egli un saggio nel trattato della lingua Ebraica, e sue affini,[1] perchè fosse quasi il prodromo del suo lavoro. Le affini dell'Ebraica per lui sono solamente la Rabbinica, la Caldaica, la Siriaca, la Samaritana, la Fenicia, la Punica, l'Arabica, l'Etiopica, e l'Amharica. Di ciascuna dà brevemente la storia, accenna le prime regole intorno alle declinazioni e alle conjugazioni, e in essa traduce il Pater noster. In fine aggiunge una tavola comparativa della prima conjugazione del verbo masàr, consegnò. Fa maraviglia a dir vero il novero di tutte le lingue, che si vede nella prefazione p. xix e seguenti, e delle quali egli aveva sufficiente cognizione, o possedeva qualche libro, o sperava d'averlo in breve, onde parlarne fondatamente. Il prospetto però, che dell'opera egli dà in questo libro, non è a parer mio scevro da ogni difficoltà. Non parlo dell'impossibilità di parlare di tutte le lingue del mondo, perchè utilissima impresa ed ammirabile sarebbe stata la sua, ancorchè ne avesse tralasciate molte. Le objezioni, che io fo a quel saggio sono due. Per mostrare la somiglianza delle lingue, e conoscere quali derivino da una, che sia lingua madre non bastano le cose da me accennate di sopra; ma bisogna aggiungere le voci simili, e queste trovar non si possono se non da chi è profondamente dotto nelle lingue. Or questa ricerca egli tralascia del tutto nel suo trattato. Io leggo poi in quella sua prefazione che nel secondo capo voleva unire la lingua Greca all'Armena, alla Georgiana, alla Turca, e alla Persiana, e nell'ottavo voleva parlare della Latina, Italiana, Francese, Spagnola, e Portoghese. Ora io non vedo qual motivo inducesse l'Autore ad unire la lingua Greca con lingue, colle quali non ha veruna affinità, e a separarla così dalla Latina, che è sua figlia. Per indagar poi meglio l'affinità delle lingue sarebbe stato a desiderarsi, che non fosse stato sollecito solamente di unire quelle, che da una come madre derivano immediatamente; ma a quelle prime avesse fatto succeder le altre, che da quella prima provengono per una più remota generazione. La lingua Greca unir si doveva all'Ebraica a mio giudizio, perchè io penso, che nella prima sua origine da questa provenga immediatamente; alla Greca dovevan succedere la Latina, l'Etrusca, e le altre antiche Italiche, ed alla Latina l'Italiana la Francese la Spagnola, e la Portoghese.

All'opposto poi a me pare, che al P. Paolino da S. Bartolommeo, il quale altresì della somiglianza di alcune lingue ha preso a discorrere si possa rimproverare, che della somiglianza delle voci soltanto abbia parlato, e gli altri argomenti adoperati dal P. Finetti abbia negletti. Questo celebre missionario dell'Indie, di cui dovrò favellare lungamente in altro luogo, in una breve dissertazione sopra l'antichità, ed affinità delle lingue Zend della Persia, Samscrit dell'Indie, e antica Tedesca si vale appunto della somiglianza di alcune voci per provare la somiglianza, che esse hanno fra loro, e che la Zend e la Tedesca vengono dalla Samscrit.[2] Parla egli in prima delle lingue Zend e Samscrit, delle quali adduce molte voci simili tratte dai dizionarj d'ambedue, e quaranta ne aggiunge, che gli antichi scrittori Greci, e Latini ci hanno conservate, benchè guaste e corrotte. Passa poi alla Tedesca, di cui però non molte parole registra simili alle Indiane, al che vorrebbe egli aggiungere la storica tradizione. Dice Tacito, che i Germani celebrant carminibus antiquis...... Tuistonem ( o Tuisconem ) Deum terra editum, et filium Mannum, originem gentis conditoresque[3]. E siccome gl'Indiani hanno nella loro Mitologia un Mannu, che si dice autore e istitutore di questa nazione, perciò il P. Paolino asserisce, che il Mannu Indiano sia lo stesso del Manno della Germania, e che i Germani vengano dall'Indie. Se ciò fosse vero non sarebbe maraviglia, che l'antica lingua Tedesca fosse affine dell'Indiana; ma non pare, che la buona critica sia molto favorevole all'asserzione di quest'autore appoggiata a così debole fondamento. Tanto più che quello dal P. Paolino chiamato Mannu, dagl'Inglesi dotti nelle lingue dell'Indie, e quindi dagli altri Europei si dice Menu, onde vie più si affievolisce il debole argomento fondato sulla somiglianza di questi nomi.

Altri pure posero molto studio nell'indagare la somiglianza che alcune voci delle lingue Orientali hanno con quelle d'altre lingue, e quindi vollero trarre conseguenze talvolta singolari. Il Mazzocchi intento a mostrare che i Tirreni trassero l'origin loro da quelle parti, che si sogliono chiamar Orientali fece uso dell'etimologia de' nomi proprj delle Città, e d'altri luoghi loro, derivandoli dalla lingua Ebraica.[4] Egli da principio promette di condurre le sue ricerche a tal segno di evidenza, che niuno debba dubitarne. Chiunque però con animo scevro da preoccupazione considera quelle derivazioni, e le riflessioni, che le accompagnano, le trova sovente capricciose, e prive di fondamento. Questo difetto stesso, ma in grado anche maggiore si scorge nell'opere d'altri due scrittori, che avevano col Mazzocchi comune la patria, cioè Ciro Saverio Minervino, e il Duca Michele Vargas Macciucca. Il primo in una lettera all'Ab. Domenico Fata sull'etimologia del Monte Volture[5] vuole che i primi abitatori d'Italia fossero Etiopi passati prima in Libia, e poi venuti quì, e che il loro linguaggio fosse affine dei Cinese, Etiopico, Pehlvi, Zend, Malaico, Persiano, Arabo, e Copto. Questa ed altre sì fatte non comuni scoperte voleva egli con somma evidenza provare in altra opera, che non ha mai veduta la luce, sulla religione de' Pagani. Come le lingue Cinese Pehlvi, Malaica si possano associare all'Etiopica, ed all'Araba l'autore non ce l'ha fino ad ora insegnato, e forse voleva insegnarlo in quell'opera, in cui pure dar voleva prove più che convincenti...... che l'Iliade e l'Odissea, e qualche altro libro attribuito ad Omero, furono libri sacri e simbolici de' nostri Sacerdoti Siriti. Colla prima delle quali opere con tanti personificati Eroi e Dei si volle simboleggiare la rovina cagionata in diverse guise nella Troade da' fuochi sotterranei, dopo che avevano fatto sentire i loro effetti nella Grecia; colla seconda si volle tessere una storia simbolica delle rovine fatte dopo la destruzione della Troade in altre parti da' fuochi sotterranei, che faceano gonfiar la terra, e poi scoppiare nel mezzo, o verso il basso, quasi dandole di morso. Si vedranno pur ivi le pruove, che 'l favoloso Omero è titolo dei detti libri, non già personaggio vero, e reale. Intanto in questa lettera egli ci ha date più e diverse etimologie dei nome Volture, e d'altri luoghi del Regno di Napoli, traendole dalle lingue Ebraica, Etiopica, Araba Copta e Zend con una franchezza maravigliosa. In tanto lusso però d'erudizione orientale non si trova mai, non dirò l'evidenza dall'autore promessa, ma nè pure una mediocre probabilità. Dell'Ebraica sola si servì il Duca Vargas Macciucca per indicar quali fossero i primi abitatori di Napoli.[6] Egli pure segue il metodo dell'etimologie, delle quali è così persuaso, che giudica dover rinunziare al senso e ragion comune[7] chiunque pensa in altro modo. Il fatto sta però, che quelle sue etimologie niuno persuadono, tanto sono strane ed arbitrarie. Egli pure volle interpetrare Omero, anzi anche Esiodo in quest'opera, e pretese, che i fatti narrati nell'Odissea e nella Teogonìa fossero accaduti presso a Napoli, e alla Sicilia, il che quanto da lui si faccia forzatamente è inutile il dirlo a quelli, che hanno letti questi due poeti. Ed è da notarsi, che questi due vantatori d'evidenzia trovavano negli stessi libri d'Omero e d'Esiodo cose fra loro discordi affatto. Utilissima cosa è l'indagare l'etimologia delle parole principalmente nelle antiche lingue, e queste possono talvolta servire d'ajuto alla storia: ma conviene usare cautela grande nel rintracciarle, nè si può pretendere, che in vece d'ajuto servano alla storia di fondamento.

Comuni ai tre citati scrittori sono questi difetti: ma l'autore dell'opera sulle antiche colonie venute a Napoli richiede qualche particolare osservazione. Egli mostra non mediocre cognizione della lingua Greca correggendo o spiegando più e diversi scrittori non rade volte felicemente. Ma nel tempo medesimo uopo è confessare, che assai volte lasciandosi trasportare da una fantasia troppo fervida devia dal retto sentiero, ed appoggiato a deboli congetture spiega a capriccio gli autori. Basti un solo esempio, e si prenda dal T. 1. p. 78. e seguenti, dove pretende, che Prometeo inventasse gli specchj ustorj, e vuole che di ciò parli Esiodo nella Teogonìa v. 566. ed Eschilo nella Tragedia di questo nome v. 498. e si adira cogli interpetri, perchè non hanno assai prima spiegati così que' due poeti. Egli è però manifesto, che il primo parla del fuoco da lui involato in cielo, ed il secondo della divinazione per mezzo del fuoco.

Della lingua Ebraica. Grammatici. CAPO II.

Dai trattati, che a tutte le lingue, o almeno a molte appartengono, facciamo ormai passaggio a ciò, che intorno a ciascheduna si è scritto, e cominciamo dall'Ebraica, che probabilmente è d'ogni altra più antica. Niuno v'ha precettor di questa lingua, che non abbia preso a mostrarne l'utilità e la necessità. Così a cagion d'esempio il Pasini scrisse un'orazione su questo argomento, che abbiamo unita alla sua grammatica, e più ampio scopo scegliendo il P. Porta stampò in Milano un suo libro de linguarum Orientalium ad omne doctrinae genus praestantia. Ma sarei infinito, se tutti indicar volessi gli scrittori di questo genere. Uno però fra tanti e per la sua dottrina singolare, e per l'importanza del suo libro non potrebbe senza colpa esser da me trascurato. Questi è il Signor Ab. Bernardo de Rossi, di cui dovrò quì parlare più volte. Era egli nella prima sua giovinezza, e tutto era dedito allo studio delle lingue Orientali. I giovani compagni suoi, che avrebbono voluto divenir dotti senza troppa fatica, credevano inutile quello studio, e molti, e gravi argomenti opponevano al de Rossi, che pensava altrimenti. A persuadere i compagni scrisse un'opera sulle cause principali, per cui lo studio della lingua Ebraica si trascura, e lo diede alle stampe.[8] Mostra in questo libro, che i testi Ebraici non sono nè troppo corrotti, nè indegni d'esser consultati; che le versioni, e l'autorità della volgata non ci dispensano dal ricorrere al testo originale; che colle versioni, e colla volgata non si possono assai volte convincere gli Eretici, e molto meno gli Ebrei, e di ciò si offrono occasioni non rare, nè inutili; che hanno gli Ebrei parecchi libri, dai quali si può trarre giovamento: che questa lingua non è poi difficil tanto, che lungo tempo richieda per bene impararla. E nel trattare di queste materie discute questioni sottilissime, alle quali, aggiunge nuovi lumi di sommo pregio. Si veda a cagion d'esempio ciò che ivi p. 38. e seguenti dice di quel famoso versetto foderunt manus meas, et pedes meos Ps. 25. v. 18. Era egli in età di 26. in 27. anni, ma se gli anni eran pochi la dottrina era molta, e l'opera riuscì quale aspettar si poteva da un uom provetto in questi studj.

Ma venendo più da presso a ciò che spetta alla lingua Ebraica parlerò prima delle Grammatiche. E quì mi si presenta innanzi ad ogni altra l'ingegnoso libretto del P. Giovenale Sacchi sul modo di leggere l'Ebraico senza i punti[9]. Tutti sanno, che in questa lingua ugualmente che in più e diverse altre Orientali, si suole scrivere senza le vocali, cui si dee supplire leggendo, e che queste si vedono espresse per l'Ebraica nella Bibbia, ed ivi pure non in tutte le edizioni, e per l'Araba nell'Alcorano, per assicurare da ogn'incertezza ed equivoco la lezione in questi libri. Tutti sanno altresì, o almeno vedono tutti la difficoltà, che deve ciò cagionare. Alcuni hanno voluto persuadersi, che antichissimamente non fosse così nella lingua Ebraica, ed han creduto, che l'Alef, He, Vau, Jod, Het, Ain fossero vere vocali. Ma ciò ancora supposto non bastava per poter leggere, perchè molte parole si hanno, nelle quali parecchie consonanti si trovano unite senza interposizione di veruna di quelle supposte vocali; onde varj modi si propongono per supplire alla loro mancanza. Così pensava il Masclef, e poi il P. Giraudau. Si oppose a queste innovazioni il Benedettino Guarin, ma alle sue opposizioni non si arrendettero questi novatori, e si vide anche in Italia ristampata la Grammatica del Masclef,[10] il che mostra fra noi pure aver trovato fautori il suo sistema. Il P. Sacchi cadde in questo errore, ma la sua opinione almeno sostenne con maggiore apparato di ragioni, che i precedenti non fecero. Osserva egli, che i punti furono inventati dai Masoreti nel sesto secolo dell'era volgare, o in quel torno, e che S. Girolamo chiama vocali appunto quelle sei lettere dette di sopra. Vuol poi, che, tolte le aspirazioni tutte, quelle vocali si pronunzino A, E breve, E lunga U, I, ed O, ed ove dopo una consonante manchi una di queste lettere si supplisca un A: onde per esempio בראשית si legga barascit, non berescit, come or si legge. Per qual motivo egli supplisca questa piuttosto, che un'altra vocale troppo lungo sarebbe a ridirsi, e molto più lungo ad impugnarsi. Lasciando dunque star ciò, lasciando stare ugualmente l'improbabilità, che la memoria, e l'uso si perdesse dell'antica pronunzia, quando la regola era così breve, e facile a ricordarsi, domanderei volentieri, come possa accadere, che la lingua Ebraica non abbia veruna aspirazione, mentre quelle, che da lei nacquero ne hanno varie; come possa accadere, che in essa sola non si abbia scontro di due consonanti, mentre in quelle, che sono più dolci non solamente due, ma anche tre si uniscono senza vocali fra mezzo, e quattro e cinque in quelle, che sono più aspre.

Un argomento molto ingegnoso, e al primo aspetto assai forte deduce il P. Sacchi dal confronto de' due alfabeti Greco ed Ebraico e del valore numerico di ciascheduna lettera. Ma per rispondere a questo dovrei molto diffondermi, e perciò lo tralascio, tanto più che non è del mio instituto il fare una completa confutazione di quegli scrittori, che hanno traviato dalla verità. Dirò però solamente, che volendo persuadere i suoi lettori doveva almeno rispondere a tutti gli argomenti, che il citato Guarin ha recati in contrario nella sua Grammatica, e il Dupuy in una dissertazione sulle vocali della lingua Ebraica e dell'altre Orientali, che si legge negli atti della Reale Accademia delle inscrizioni e belle lettere di Parigi T. 36.

Alla Grammatica eziandio appartengono le ricerche erudite, che intorno alle Ebraiche lettere hanno fatte il Bianconi[11] e il P. Arizzara.[12] Il primo fa vedere qual fosse anticamente la forma delle lettere Ebraiche e Greche. Riguardo alle prime esamina se Esdra le cambiasse, e sostiene, che, tranne poche accidentali variazioni introdotte dai copisti, gli Ebrei conservarono dopo la schiavitù Babilonese gli stessi caratteri, che avevano innanzi. Nega in secondo luogo, che essi avessero due sorte di caratteri, cioè uno per le cose sacre, e l'altro per l'uso comune, come alcuni Rabbini hanno preteso. Mostra altresì, che gli Ebrei e i Caldei avevano la stessa lingua, e che solamente il tempo introdusse quelle varietà, che ora vediamo, e che della Caldea hanno fatto un dialetto dell'Ebraica. Qualche strana opinione sostenne questo dotto scrittore, siccome è quella, che anticamente gli Ebrei scrivessero da sinistra a destra,[13] a sostegno della quale opinione ricorse a certo siclo Samaritano pubblicato dal P. Hardouin.[14] Di quest'avviso fu pure il P. Ogerio,[15] il quale sull'orme del Nanclero attribuì ad Esdra l'aver introdotto l'uso di scrivere da destra a sinistra. Io non confuterò quì questo paradosso, che come ha detto il P. Fabricy[16] a niuno stabile fondamento è appoggiato, e riguardo alla interpetrazione di quel siclo è stato già confutato dal Canonico Francesco Perez Bayero.[17] Nè meno strano è l'altro suo divisamento, con cui dopo il Chishull vorrebbe togliere dall'alfabeto parecchie lettere, quantunque i Salmi 9. 25. 36. 37. 118. ed altri luoghi della Bibbia abbiano i versi, o le strofe contrassegnate colle lettere, che abbiamo presentemente, e coll'ordine stesso. Il P. Arizzara si è proposto di provare, che il carattere Ebraico adoprato ne' sacri libri del vecchio testamento è quello stesso, che usò Mosè, e gli altri scrittori sacri contro il Cappell il Vossio ed altri, i quali vollero questo esser Caldaico, e introdotto da Esdra, e quello di Mosè essere stato il Samaritano. Mostra egli, che nulla provano i contrarj argomenti tratti dalla schiavitù Babilonica, o da alcuni passi della Scrittura, o dall'odio degli Ebrei contro i Samaritani, e quindi da certe parole d'Isaia, e di S. Matteo, e da altre ingegnose osservazioni si sforza di cavar le prove della sua opinione. Egli perciò sostiene la sentenza del Bianconi; ma gli argomenti sono diversi.

Le Grammatiche di questa lingua pubblicate in Italia nel secolo decimottavo non sono poche; ma io indicherò quelle solamente, che o per la celebrità degli autori, o per qualche pregio particolare meritano, che se ne faccia special menzione. E sia la prima quella di Gennaro Sisti, che ha per titolo la lingua santa da apprendersi anche in quattro lezioni.[18] Per l'università di Napoli aveva egli pubblicata una breve grammatica[19], e poi l'Officio Pentaglotto a vantaggio di quella gioventù. Ma per agevolare vie più l'apprendimento di questa lingua immaginò poscia un metodo brevissimo e facile, e l'espose in questo libro. Pochi precetti racchiusi in piccoli versi, alcune tavole pe' suffissi de' nomi, e de' verbi e per le conjugazioni, certe industrie nella maniera d'espor le regole, di combinare, e riunire quelle, che hanno fra loro qualche analogia, e regolare gli esercizi, che dagli scolari si debbon fare, sono le cose, che rendono compendioso molto il metodo del Sisti. Esso è diviso veramente in quattro lezioni, ma queste son tali però, che richiedono almeno venti giorni ne' giovani più perspicaci d'ingegno. Nè con ciò s'impara la lingua, il che sarebbe impossibile, come ognun vede; ma solamente la declinazione de' nomi, i pronomi, la conjugazione de' verbi, i principali precetti intorno alla mutazione de' punti, ed a far uso del Lessico, col quale poi si possa cominciare a tradurre. Ma per dire il vero volendo esser breve è riuscito mancante di cose necessarie, e talvolta segue certe sue opinioni, che non da tutti gli saranno concedute. Quei versi poi sono affatto barbari, e spesso non intelligibili, e presso che sempre mancanti talmente, che la spiegazione aggiunta in prosa deve supplire a molte cose. Quantunque imperfetti però mi sembrano utili quei versi, come ajuti della memoria, alla quale basta spesso una parola, o un piccolo cenno, perchè si risvegli l'idea di più altre cose, che a quella parola, o a quel cenno sono connesse. Quantunque poi sia nuovo il metodo del Sisti non è nuovo il vanto d'insegnar questa ed altre lingue in tempo brevissimo.[20] Non può negarsi a questi metodi la lode di molta utilità, perchè giovano ad imparare la parte, che chiamano materiale delle lingue, ed a diminuirne la noja, che trattiene parecchi dal continuarne lo studio. Ma riuscirebbono dannosi ove un dotto e diligente Maestro non supplisse poi, quando è opportuno, con altri più diffusi precetti. In ordine autem, et modo disciplinae, diceva Bacone da Verulamio, illud in primis consuluerim, ut caveatur a compendiis, et a praecocitate quadam doctrinae, quae ingenia reddat audacula, et magnos profectus potius ostentent, quam faciant. Ho quì voluto notare queste parole, affinchè l'autorità di tanto scrittore serva a me di difesa, se tralascerò di registrare tanti compendj, che per la lingua latina massimamente agli anni passati inondaron l'Italia ad imitazione di qualche altra nazione, e al tempo stesso sia d'avviso a coloro, che con simili arti vogliono fare de' giovanetti tanti prodigj di dottrina in ogni facoltà; ma formano de' prodigj d'ignoranza.

Alcuni accusano la maggior parte delle grammatiche dei Cattolici di soverchia scarsità di precetti, ed altri condannano quelle degli Eretici, e molto più quelle degli Ebrei di soverchia prolissità, e minutezza. Il Pasini si prefisse di tenere una via media, e con questo intendimento fece la sua grammatica tratta in gran parte dal Buxtorfio.[21] Discreta e sufficiente quantità di precetti, chiarezza, e precisione nell'esporli sono i pregj di questa grammatica, che a ragione vien molto adoperata in parecchie scuole d'Italia. Molte eccezioni ed anomalìe, che sparse nella grammatica annojerebbono i principianti, e verrebbono dimenticate, si tralasciano, e a ciò si supplisce più opportunamente col porre in fine il catalogo alfabetico, e la spiegazione delle voci anomale, che nella Bibbia s'incontrano. Io bramerei solamente, che maggior estensione avesse data al trattato della sintassi, come tra i Cattolici ha fatto il Guarin, e tra gli Eretici il Buxtorfio, ed altri. Se nella lingua latina, nella quale tanti ajuti abbiamo per bene impararla, a lungo e minutamente si spiega la sintassi, e niuno crederebbe d'aver bene insegnata questa lingua, se ciò non facesse, io non so comprendere, come altri possa sperare d'aver bene insegnata l'Ebraica, facendo altrimenti. Alcuni dicono, che l'uso in ciò è il miglior maestro; ma se nella latina all'uso si vuole unire l'abbondanza delle regole, a me pare, che si debba dir lo stesso ancor dell'Ebraica. Il qual rimprovero io faccio non al Pasini solamente, ma ancora ad altri molti Grammatici Ebraici, ed a quelli delle altre lingue orientali, e della Greca. Nè mi si oppongano quelle, che poco fa hanno mandate alle stampe due chiarissimi luminari in questo genere di letteratura i signori Abb. de Rossi e Valperga Caluso.[22] Essi hanno voluto darci dei compendj, i quali io non condanno; anzi li credo ne' primi rudimenti giovevoli più che i molti precetti. Ma credo poi, che ai compendj debba succedere più copioso insegnamento o d'una grammatica più diffusa, o della viva voce d'un dotto Precettore, quali sono appunto i due testè nominati. E certamente il primo non tiene in se racchiuso il tesoro (bisogna bene usar questa voce per parlare di lui con verità) della sua erudizione, ma lo comunica senza riserva a' suoi uditori. Nè altrimenti fece il secondo, finchè fu moderatore della scuola Torinese, dove le prime, e vere origini della lingua Ebraica spiegava secondo gl'insegnamenti dello Schultens, e degli altri più insigni letterati Tedeschi ed Olandesi, il che senza dubbio si pratica ancora dal Signor Peyron, il quale ha meritato d'essergli successore.[23]

Oltre alla Grammatica già citata altre opere ha preparate il Signor Ab. de Rossi, che riuscite sarebbono utilissime agli studiosi, e dobbiamo dolerci, che gli siano mancati gl'incoraggiamenti per pubblicarle.[24] Utile altresì dovremo credere, che sarebbe riuscita, se si fosse pubblicata la Grammatica Ebraica, e Caldaica di Jacopo Cavalli Veronese, se possiamo congetturarlo dal titolo, che ne porta il P. Zaccaria negli annali letterarj d'Italia T. 3. p. 505.[25]

Non mancarono i Lessici all'Italia. Primo di tempo, se non di merito è quello del Bouget.[26] Egli non era Italiano, ma nato a Salmur, e lo pongo quì solamente, perchè fu per più e diversi anni maestro di questa lingua nel Seminario di Propaganda, e poi della Greca nell'Università di Roma, e per quel Seminario fece il suo Lessico, ed una Grammatica.[27] Egli lasciato l'ordine delle radici segue l'alfabetico, il che dispiacerà a molti. Ma più assai di questo credo, che si debba rimproverare al Bouget la totale mancanza d'esempj, e il significato non sempre esatto e compiuto delle voci, oltre all'esecuzion Tipografica, che spesso genera confusione.

Altri Lessici dettero lo Zanolini e il P. Montaldi. Ambedue seguono l'ordine delle radici, ambedue ebbero in mira di togliere dalle mani della gioventù i lessici degli Eretici, ne' quali v'ha sempre più o meno nascosta qualche parte de' loro errori. Il primo lo fece pel Seminario di Padova.[28] Egli è diligente nel registrare i significati diversi di tutte le voci, le diverse modificazioni de' nomi, e le costruzioni loro cogli affissi; ed inoltre vi ha aggiunte alcune osservazioni intorno alle antichità Giudaiche, ed alla Filologia Sagra, dove gliene veniva il destro. Io sarò costretto d'accusare più volte di plagio quest'autore, ma non posso dire, se simil taccia abbia meritata ancora nel Lessico Ebraico, che non ho veduto. Il secondo,[29] professore della stessa lingua e di controversie nel Collegio Germanico di Roma ha usato anch'egli la maggior diligenza nel porre tutte le modificazioni testè accennate, e le diverse spiegazioni delle voci, ricorrendo, ove è qualche controversia, ai migliori Lessicografi e Critici sacri, ed alle interpetrazioni Greche dei Settanta d'Aquila di Teodozione e di Simmaco, e a quelle delle altre lingue affini all'Ebraica, ed ai migliori Rabbini, avendo però sempre quel riguardo, che alla volgata si deve in quelle cose massimamente, che ai costumi appartengono ed alla Fede. Sì fatta cautela è senza dubbio non solo commendabile, ma ancor necessaria: e riprendo l'ardir degli Eretici autori di cose ebraiche, che spesso a lor talento spiegano il sacro testo. Parmi però, che alcuna volta util cosa sarebbe ricorrere alle lingue araba, e siriaca, che sono, dirò così, della stessa famiglia coll'ebraica, come hanno fatto parecchi Tedeschi, e massimamente lo Schultens, il Michaelis, il Simonis, l'Eichorn, ed altri: ed ove ciò si faccia non a capriccio, ma secondo le regole della critica i cattolici dogmi rimarrebbono inconcussi, salve le leggi de' costumi, e la Santa Romana Chiesa trionfante. Un Lessico Ebraico compilò il dottissimo Cardinale Michelangelo Luchi, che si dee conservare fra i molti suoi manuscritti nella Vaticana. Ed il Bjoernstaehl ne' suoi viaggj parla del P. Conreale monaco Benedettino, che nell'anno 1772. viveva a Monte Cassino e fece una Grammatica, un Lessico, ed altre opere intorno a questa lingua in novanta volumi in foglio, di che ha pubblicato ancora un saggio,[30] ma non mi è riuscito d'averne ulterior notizia.

Celebre è la quistione, che fra gli eruditi si agita intorno alla poesia degli antichi Ebrei. Vogliono alcuni, che essa consistesse in una determinata disposizione di piedi composti di sillabe lunghe, e brevi, come la Greca, e la Latina. Altri pretendono, che avesse rime, e fosse simile alla nostra. V'ha chi la fa consister tutta negli accenti. E finalmente alcuni niuna altra poesia concedono agli Ebrei, fuorchè lo stile. L'Abate Biagio Garofolo scrivendo intorno alla poesia degli Ebrei e de' Greci difese la seconda opinione.[31] Vuol però, che le rime degli Ebrei non fossero sempre composte delle stesse lettere. Confessa, che mancano molte rime, e lo attribuisce a negligenza de' copisti. Quindi parla dello stile, di cui rileva le bellezze: e finalmente de' principali poeti Greci ragiona secondo i tempi, in cui vissero, e secondo i diversi generi, ne' quali scrissero, dando di ciascuno un conveniente giudizio. Incontrò egli un acre avversario in Raffaele Rabbenio Medico Ebreo, che sotto finto nome stampò, squarcio di Lettera del dottissimo Bernabò Sacchi sopra le considerazioni del signore Biagio Garofolo intorno alla poesia degli Ebrei. Aosta. ( Padova ) 1709. in 8. E poco dopo una Lettera di *** scritta ad uno de' suoi amici sopra un saggio di critica del signor Giovanni Clerico intorno alla poesia degli Ebrei. in 8. Il Rabbenio voleva provare, che la poesia Ebraica avesse metro consistente in una determinata misura di piedi composti di sillabe lunghe, e brevi, ma gli è accaduto di mostrar solamente, che consiste nelle parti del tempo, in cui i versi si pronunziano, e che la quantità di questo tempo dipende dall'accento, il che avverte il Garofolo nella sua replica.[32] Il Rabbenio, negando la rima alla poesia Ebraica, confessò però, che vi si trovano alcuni finimenti simili, nella qual confessione crede il Garofolo, che egli si contradica, perchè i finimenti simili sono rime. Ma a me pare, che in ciò lo riprenda a torto, perchè il trovarsi qualche rima nel testo Ebraico non vuol dire, che nella rima consista quella poesia. Più altre operette poi si stamparono da ambe le parti, che tralascio d'indicare, perchè niun utile ne venne per decidere la questione, o per illustrare la lingua. Favorevole alla rima si mostrò ancora il P. Casini Gesuita, e Lettore di Sacra Scrittura nel Collegio Romano nella sua breve dissertazione de divina poesia sive de psalmis, canticis, deque omni re poetica. Romae 1751. in 4. Ma distingue due sorte di versi, una a più severe leggi soggetta di certa misura di piedi, e di desinenze, e la vuole usata nelle lamentazioni ne' cantici, e ne' Salmi; l'altra più libera, e quasi media fra la prosa e il nostro verso nella quale dice, che scritte furono le profezie. L'Avvocato Mattei, che trattò anch'egli della poesia Ebrea[33] molto saviamente lasciò indeciso, se fosse rimata, o simile alla Greca, e alla Latina, o se consistesse in altro modo diverso; ma poi, non so con qual fondamento, pretende, che essa fosse a foggia de' ditirambi, ne' quali si trovano unite a capriccio molte sorte di versi. Il fatto sta che non abbiamo più mezzi per decidere sì fatta questione, cui gli eruditi dovrebbono ormai abbandonare, come insolubile.

Interpetri de' Libri Sacri. CAPO III.

Lo studio della lingua Ebraica dee sopra tutto esser rivolto alla interpetrazione dei divini libri del vecchio Testamento, e questo scopo non è stato dimenticato dai nostri. Il primo mezzo per ottenere ciò è stato il raccogliere le varie lezioni, il che ha fatto con incredibil fatica ed erudizione il Sig. Ab. de Rossi. Il Kennicott aveva già prima intrapresa ed eseguita questa fatica in Inghilterra, nella quale opera si era prevaluto degli Europei più dotti nella lingua Ebraica, fra' quali voglionsi da me ricordare il medesimo Signor de Rossi, che non pensava allora ad essergli successore nello stesso lavoro, il P. Porta in Milano, i PP. Berretta, e Bartoli in Firenze, i due Assemani, i PP. Giorgi, Teoli, Ballerini, e il Costanzo in Roma, ed altri certamente a me ignoti. Fu lodata la fatica di quel dotto Inglese; ma quando vennero alla luce le varianti del Poliglotto Italiano[34] la gloria del primo restò offuscata. I MSS esaminati dal Kennicott erano 579. e quelli solamente che possedeva l'autore Italiano nella domestica sua ma ricchissima libreria erano 617. A queste si aggiungano 310. sue edizioni, 46. MSS. Samaritani, 134. codici e 42. edizioni d'estere librerie. Se grande fu la sua diligenza nel raccogliere ed esaminare tanti codici, e trarne le varianti di qualche importanza, lasciate le minuzie masoretiche, di che ridonda l'opera Inglese, fu anche maggior la dottrina, con cui nei prolegomeni si parla de' fonti della critica sacra, nelle dissertazioni si esaminano le precedenti collazioni fatte dagli Ebrei e dai Cristiani, e si mostra l'utilità di questa, e tutta l'opera dal principio sino alla fine è condotta. E quantunque tanto facesse allora, pure quest'uomo instancabile trovò poi modo di fare a quell'opera un'appendice di nuove varianti importantissime.[35] Nè in ciò si limita l'illustrazione del sacro testo fatta da lui, ma sono fra le sue carte altre cose non ancor pubblicate, in parte già compite, in parte cominciate soltanto. E' fra le prime una Manuductio philhebraei ad hebraia biblia, che contiene una breve, ed esatta notizia del suo pregio, autorità, ed uso delle migliori sue edizioni, e delle più stimate traduzioni.[36] Vi è l' introductio in criticam sacram veteris Testamenti, una parte della quale ha servito ai prolegomeni delle varianti. Vi è l'opera de studio legis, seu Biblico ex Rabbinorum praeceptis optime instituendo. È fra le seconde la synopsis institutionum Biblicarum Sacrarumque antiquitatum, e un commentario de locis theologicis hebraeorum eorumque tum apud Judaeos tum apud Christianos auctoritate.

A questa classe può riferirsi ciò che egli scrisse intorno al Messia, cioè in primo luogo l'opera della vana espettazione degli Ebrei del loro Re Messia dal compimento di tutte le epoche.[37] Mostra egli che v'ha una data e certa epoca rivelata della venuta del Messia, che questa non poteva esser ritardata, che tutte l'epoche più autorevoli determinate dalla Scrittura o dalla tradizione sono passate, che in niuno, come in Gesù Cristo, si avverano queste epoche, e i caratteri tutti del Messia. Quest'opera applaudita trovò due oppositori, ma per loro onore non dirò quali fossero, e quanto spregevoli le loro obiezioni. Dirò solamente, che il Signor de Rossi rispose coll' esame delle riflessioni teologico-critiche contro il libro della vana espettazione degli Ebrei,[38] nè i critici osarono più di ritornare in campo. Altre opere ancora aveva preparate intorno al Messia, cioè il lumen salutis, seu Biblica Messiae oracula ex Chaldaicis paraphrasibus ac Rabinorum commentariis illustrata, alcuni estratti del Sanhedrin in Ebraico, e in Latino, e il systema recentioris judaeorum theologiae de eorum rege Messia, ma rimangono manoscritte.

Se tutti io volessi quì registrare gl'interpetri della Sacra Scrittura, e devierei dal cammino, che mi debbo proporre, e diffondermi dovrei soverchiamente. Parlerò però soltanto di volo d'alcuni che questa parte coltivando de' sacri studj fecero uso della lingua Ebraica, il che mi pare intimamente connesso col mio argomento. E prima ricorderò l'Ermeneutica del già citato Arizzarra[39] nella qual opera, oltre alle molte cose, che al teologo appartengono, e all'uomo erudito, più altre ne sono, che questa lingua riguardano, cioè dove parla della necessità di studiarla, delle Bibbie Poliglotte, del Talmud, e de' Commenti Rabbinici, dello stile de' Sacri Libri, dell'officio proprio d'un sacro interpetre, del merito de' SS. PP. e degl'Interpetri moderni, de' varj sensi della Sacra Scrittura, e delle regole, che voglionsi osservare nell'Ermeneutica Sacra. All'Arizzarra, che generalmente ha trattata questa parte, coloro debbon succedere, che più particolarmente coll'uso della lingua Ebraica, o dell'altre Orientali han preso a spiegare le sacre carte. Tale è il Gesuita Airoli, che in più e diverse dissertazioni mostrò quanto profondo egli fosse in queste lingue, le quali insegnava nel Collegio Romano.[40] Tale è il Pasini, che mentre nel Seminario di Padova insegnava queste lingue un picciol libro pubblicò pieno di dottrina sul sacro testo sulle sue traduzioni, e su parecchi luoghi del testo medesimo, i quali coll'ajuto di molta erudizion poliglotta egli spiega dottamente.[41] Quest'opera forse fece sì che la fama del suo sapere giunse al Re Sardo, il quale lo chiamò a Torino professore delle lingue Orientali. Ivi oltre alla Grammatica di cui ho parlato, ed altre opere, che altrove si accenneranno, stampò con molto corredo d'erudizione, e di dottrina le sue dissertazioni sul Pentateuco.[42] Al Pasini successe prima in Padova lo Zanolini, e poi nella scuola di Torino il Marchini, i quali pure rivolsero la lor dottrina Orientale alla interpetrazione della Scrittura.[43] Intanto il Seminario di Napoli aveva affidata la stessa scuola al celebre Alessio Simmaco Marzocchi, che col suo Spicilegio Biblico[44] aveva confermata quell'alta idea di vasta erudizione, che l'altre sue opere gli aveano procacciata. A queste opere voglionsi aggiugnere le Pandectae Biblicae opera inedita di Jacopo Cavalli in trenta volumi, nella quale si rischiarano tutte le voci, i sensi tutti, tutte le spiegazioni della sacra Scrittura, colla concordanza de' sacri interpetri, de' dottori Cattolici, e di quanto scrisse principalmente il Cardinale Ugone ne' suoi biblici comentarj, come dice il P. Zaccaria negli Annali letterarj d'Italia T. 3. p. 505.

Molto aggiunger potrei, se le minori opere di questo genere volessi andare indagando, come una lettera del P. Ferdinando Mingarelli contro il Celotti[45] il Commentario del Matani sopra il nome di Dio presso gli Ebrei,[46] una dissertazione del Marcuzzi[47] sull'interpetrazione d'un passo di S. Matteo, quella del celebre Signor Ab. Caluso sul nome tetragramma di Dio stampata dal Bodoni, ed altre sì fatte moltissime. Queste dunque tralascio, e tante altre, che stampar solevano i Gesuiti Interpetri della sacra Scrittura nel Collegio Romano, delle quali molte si debbono al solo P. Antonio Casini. Questi è ancora autore d'una Enciclopedia scritturale piena d'ingegnose riflessioni, ma mancante d'ordine e di metodo.[48]

Finalmente debbo far menzione del P. Luigi Mingarelli. Il P. Cavalieri che ne scrisse la vita ci fa sapere, che egli lasciò manuscritte alcune osservazioni sopra il Salterio Ebraico stampato a Mantova da Rafaele Hajim il 1743.: altre osservazioni sopra un'Ebraica Grammatica stampata in Venezia dal Vandramini ed altrove, il titolo della quale suona in latino: Portae Sion: adduntur praeparatio convivii, et liber formationis: osservazioni sopra i passi del vecchio Testamento, che occorrono nel nuovo: e finalmente l'indice ragionato de' codici Ebraici, Greci, e Latini della libreria di S. Salvatore di Bologna. Queste tre opere non hanno veduta la pubblica luce, e furono ignote al Fantuzzi, che non ne ha parlato ne' suoi Scrittori Bolognesi: ed io non avrei potuto darne questo cenno, se il P. Cavalieri non ne avesse fatta menzione nella vita allegata.

Traduttori de' Libri Sacri. CAPO IV.

Ma questo è un modo troppo indiretto per illustrar le lingue. Molto più tendono allo scopo del mio ragionamento le traduzioni, delle quali ora farò parola. Tralascio però la traduzione in prosa de' sacri libri di Monsignor Martini prestantissimo Arcivescovo di Firenze, il Giobbe del Rezzano, e del Zampieri, le lamentazioni di Geremia del Menzini, e di Gianfrancesco Manzini, i Salmi penitenziali del Vicini, e del Cerati, quelle de' Profeti minori ed una parte delle lamentazioni di Geremia di Monsignor Domenico Pacchi, la parafrasi de' Proverbj, dell'Ecclesiaste, dell'Ecclesiastico, d'alcuni Salmi del medesimo, e le altre molte, che fatte sono sulla volgata per ristringere il mio discorso solo a quelle dell'original testo Ebraico. Il P. Ab. Luigi Mingarelli Canonico Regolare del Salvatore aprirà l'adito a questa parte del mio discorso colla traduzione in prosa dei Salmi.[49] Egli ha voluto combinare il testo Ebraico, e la volgata, e alle volte si scosta da quello per seguire la seconda, senza che se ne veda la ragione. Più famosa molto è la poetica traduzione de' Salmi, e d'altri libri poetici della Bibbia dell'Avv. Mattei, di cui tanto si è parlato a favore, e contro, e della quale si son vedute tante edizioni. L'antologia Romana, il giornale Ecclesiastico pure di Roma, il giornale di Modena, il P. Hintz, il P. Canati Teatino, il P. Fantuzzi, Monsignor Rugilo[50] ed altri ne hanno fatte critiche acri, ma vittoriose, che risparmiano a me la fatica di diffondermi sopra di lui con particolari osservazioni. Dirò solamente in generale, che egli è da riprendersi per gl'indecenti rimproveri, che fa ai SS. Padri ed ai moderni interpetri con espressioni spesso mordaci, e ingiuriose: è da riprendersi per l'arbitraria spiegazione de' titoli de' Salmi, ne' quali di suo capriccio trova i nomi de' maestri di Cappella, degli strumenti, che dovevano accompagnare il canto, il tempo della musica, se comune, o di tripola, ec. ed altri simili sogni: è da riprendersi per la libertà intollerabile, colla quale ora vorrebe, che si cangiasse la punteggiatura, ora che si aggiugnesse qualche versetto, ora che se ne togliessero altri, o si mutilassero: è da riprendersi per erronee spiegazioni del testo, o male adottando le altrui, o proponendone delle nuove: è da riprendersi per gli errori di lingua, ne' quali cade più volte: è da riprendersi per l'imitazione del Metastasio, al quale però poche volte si accosta, ma generalmente troppo ne è lontano. Ma lo stile del Metastasio bellissimo è pe' drammi, e acconcio sarebbe ancora ad alcuni altri generi di poesia, mal però si adatta ad una traduzione de' Salmi, nè ha quel genere di sublimità, o di delicatezza, che questi richiedono. I suoi panegiristi sono col tempo scemati molto di numero, e fra questi il Mingarelli nella sua traduzione si allontano dalle opinioni del Mattei, ed Evasio Leone, che n'era stato grande ammiratore, confessò poi d'aver cambiato avviso in una lettera diretta al chiarissimo signor Giordani.[51] Molto ancora offerirebbero a dire le sue dissertazioni, ma l'entrare in questa indagine mi farebbe deviar troppo dal mio sentiero. E già di queste pure si è tanto parlato, che pare inutile il parlarne di nuovo.

Altri pure hanno tentato la medesima impresa e fra questi è il signor Canonico Alberto Catenacci d'Ameria, che al cadere del secolo decimottavo pubblicò una sua traduzione dall'Ebraico de' Salmi, e de' cantici della Bibbia in varj metri.[52] Ma l'opera sua è per lo più una vera parafrasi, come il suo titolo annunzia, e una parafrasi poetica non appartiene a quel genere di traduzioni, che illustrano una lingua. Lo stesso è da dirsi della sua traduzione d'altri libri poetici della Bibbia.[53] Un motivo molto diverso mi dispensa altresì dal parlare della traduzione de' Salmi del P. Canati Teatino, che non mi è avvenuto di vedere. Ne parlerà per me il Ch. signor Abate Andrea Rubbi, il giudizio del quale valuto moltissimo, e meco lo valuteranno gli nomini dotti. Egli[54] dunque alludendo alla sua critica del Mattei da me citata poco fa, e a questa sua traduzione dice, che il P. Canati fece un volume d'ingiurie contro Saverio Mattei; poi volle superarlo con sua traduzione. Col primo screditò la sua fama; col secondo la sua penna. La traduzione dunque de' Salmi è infelice, e riguardo alla critica del Mattei è vero che screditò la fama del P. Canati, perchè piena è tutta d'ingiuriose espressioni contro quello scrittore, dalle quali ogni uomo onesto si dee astener favellando, ed assai più scrivendo. Finalmente Monsignor Rugilo tradusse i Salmi in metri lirici lodevolmente, ma per soverchio zelo criticando il Mattei usò maniere troppo aspre, ed ingiuriose.

Molto più felice di tutte quante le traduzioni fin quì nominate è la Cantica d'Evasio Leone.[55] Essa a dir vero non è tratta intieramente dall'originale, ma in gran parte dalla volgata, alla quale il dotto autore ha avuto molto riguardo. Siccome però non ha mai perduto di mira il testo Ebraico, e questo nelle annotazioni ha egregiamente illustrato, deve aver quì luogo. Egli ha conosciuto con altri, che l'opera ha una forma drammatica, ma divisa, in varie parti, che noi diremmo cantate. Ha per ciò usati i versi drammatici, tali però, che sono degni del Metastasio. Lo stile dunque è bellissimo, e solamente alcuno potrebbe credere, che fosse troppo molle principalmente per un sacro argomento. Egli previene questa objezione ( opere T. 3. p. 140.) indicando il fine, ch'egli si era proposto in questa sua fatica, e ricordando gli esempj di quelli, che l'avevano preceduto. Il suo scopo era di opporsi all'empio autore del Precis sur le Cantique des Cantiques, e al non meno empio volgarizzatore Italiano di quel librettaccio Francese, il che richiedeva fedeltà nella traduzione. Nel metro stesso ha egli tradotti i treni di Geremia ottimamente, ma dubiterei, che per questo non fosse adatto il metro drammatico da lui usato anche quì; ed a me pare, che con miglior consiglio il Menzini adoperasse la terza rima, e il Manzoni quello delle Canzoni Petrarchesche. Un altro valoroso traduttore ancora ha avuto la Cantica, ed uno Giobbe; la prima nel celebre signor Abate Valperga Caluso nascosto sotto il nome di Euforbo Melesigene, e il secondo nel signor Ab. Ceruti,[56] i quali hanno mostrato, come si possa esser fedele traducendo, e meritarsi nel tempo stesso il titolo di buon Poeta.

Nella illustrazione delle lingue meritano onorevol menzione gli editori de' Classici, di che ora debbo parlare. Passerò sotto silenzio le molte edizioni del testo Ebraico del vecchio testamento, che non hanno verun pregio particolare per essere commendate. Ma non tacerò quelle di Mantova di Livorno e di Pisa con ottimo avvedimento emendate secondo le correzioni del Norzi. Non è di questo luogo il dire qual fosse la diligenza usata dal Norzi nel secolo sestodecimo per richiamare il testo Ebraico alla primitiva lezione, e come in gran parte riuscirono commendabili le sue fatiche; di che ha già parlato abbastanza il dottissimo signor Abate de Rossi.[57] Il suo comento con troppo superbo nome intitolato da lui Gomér peretz, cioè Riparatore della rovina fu finalmente posto in luce co' torchj di Mantova il 1742. insieme col sacro testo da Raffaele Chajìm Basilea, che vi aggiunse ancora alcune sue utili note, e l'esame di ben novecento varianti, che il Vander Hoogth aveva raccolte da altre edizioni della Bibbia. Questo dotto editore intitolò il comento del Norzi più modestamente Minchad scai, cioè oblazione liberale, e presso che sempre emendò il sacro testo secondo l'avviso di quell'antico Rabbino. L'edizione Mantovana della Bibbia fu ripetuta in Livorno nel 1780. e poi in Pisa nel 1803.[58] Ma i due Editori non la ripeterono servilmente, avendo essi ora seguiti ed ora abbandonati i consigli del Norzi, quando il Mantovano Basilea aveva fatto altramente. Il signor de Rossi colla sua profonda dottrina ha già mostrati parecchi de' pregj e de' difetti di queste edizioni, e a lui potranno ricorrere gli studiosi della lingua Ebraica.[59]

Scrittori d'antiquaria, e di bibliografia. Scrittori in Ebraico. CAPO V.

Illustratori di questa lingua chiamar si debbono anche coloro, che i suoi riti spiegarono, gli usi, e i costumi, e le leggi, e tuttociò che sotto il nome d'antichità si suole intendere, come pure quelli che trattarono della Bibliografia dei libri Ebraici, e della storia letteraria. Gli scrittori, e i raccoglitori d'opere d'antiquaria allora illustrano una lingua, quando o scrivendo in questo genere entrano ne' misteri di quella lingua, o danno in luce opere d'antichi autori, che in essa hanno scritto. Tale appunto è Taddeo Ugolino, che nel suo tesoro dell'Ebraiche antichità[60] parecchie opere di Rabbini raccolse, o quelle d'altri, che all'intelligenza della lingua Ebrea, della Caldea, e della Rabbinica sono vantaggiose. Noi dobbiamo saper di ciò molto grado a lui, che con molta fatica e dottrina eseguì così nobile impresa, e all'immortal Mecenate, che per solo amore dei buoni studj la promosse, e ne sopportò la spesa, voglio dire il signor Francesco Foscari nobile Veneziano. Nè fu egli editor solamente, ma dieci sue dissertazioni v'inserì, ad alcune di altri fece considerabili aggiunte, e le opere de' Rabbini tradusse, illustrò, ed arricchì di sue appendici. Lo Schooetgenio nelle sue ore Ebraiche, e Talmudiche lo biasimò per aver quì pubblicate alcune opere del Rabbino Maimonide, di cui parlò con sommo disprezzo. Gli rispose però l'Ugolini, e per avere nella questione un giudice, cui l'avversario non potesse ricusare diresse la sua risposta al celebre Cristiano Benedetto Michaelis, e la stampò in Venezia nel 1748. Due soli oltre all'editore sono gl'Italiani, che in questo tesoro abbian luogo, cioè il P. Casto Innocenzo Ansaldi con un libro de Forensi Iudaeorum buccina, e il P. Gio. Girolamo Gradenigo con una dissertazione de Syclo argenteo Brixiae reperto.[61]

Per ciò poi che spetta alla bibliografia e alla storia Letteraria ritorna di nuovo in campo il celebre signor Ab. de Rossi, che le origini indicò dell'Ebraica tipografia, la storia della tipografia di Ferrara, di Sabioneta, e di Cremona, non meno, che dell'Ebraica tipografia in generale, e dette il novero degli Ebrei, che scrissero contro la santa Religion nostra, e la descrizione de' codici da' quali trasse le varianti della Bibbia.[62] Dopo questo grande scrittore si dee far menzione altresì del Pasini, Rivautella, e Berta, che il Catalogo ci dettero dei codici della Real Libreria di Torino,[63] fra' quali han luogo pure gli Ebraici; del Canonico Biscioni, che quello ci dette della Laurenziana di Firenze;[64] e dell'Assemani, che tutti descrisse i codici orientali della Laurenziana e della Palatina della stessa Città.[65] Egli con Giuseppe Simonio Assemani quello ancora intraprese della Vaticana.[66]

Vuolsi finalmente fare onorevol menzione di coloro, che alcune cose scrissero in lingua Ebraica, il che tanto più è da lodarsi, quanto più sono rari quelli che possono farlo. Più e diverse cose in questa lingua, ed in più altre orientali ha scritto il Sig. Ab. de Rossi, che ho già lodato più volte, e che non posso mai lodare abbastanza. Nelle memorie storiche de' suoi studj si vedono registrate,[67] il catalogo delle quali troppo lungo sarebbe a trascriversi. Il Cardinal Luchi scrisse un dialogo in questa lingua fra un Cristiano, ed un Ebreo, e prese a tradurre dal Greco in Ebraico il vecchio, e il nuovo Testamento ma la sua versione è rimasta imperfetta.[68] E finalmente l'Ab. Angelini (per tralasciare parecchi altri, che hanno fatto cose minori) alcune sue poesie Ebraiche ha unite alla sua traduzione d'alcune Tragedie di Sofocle.[69]

Delle lingue Caldea, e Rabbinica. CAPO VI.

Alla lingua Ebrea per intima cognazione unite sono la Caldaica, e la Rabbinica, alle quali farò ora passaggio. Di queste volle mostrarsi benemerito lo Zanolini pubblicandone la grammatica e il Lessico,[70] ma in questi due libri egli non fece quasi altro, che copiare il Buxtorf, di che mi ha fatto accorto il signor Peyron dottissimo professore di lingue orientali nell'Accademia di Torino. In fatti l'ordine, e gli esempj sono gli stessi: nella Prassi Grammatica gli squarci del decalogo ricavati da Onkelos, e da Jonatan, e quelli dello Zoar, e del Sanhedrin sono trascritti dalla Prassi del Buxtorf. Dal suo trattato de abbreviaturis è preso ciò che ivi aggiunge sul Talmud, talchè ne ha copiato fino gli errori tipografici onde alla pagina 105. cita il numero פת dei Chetuvoth invece di פא, perchè si ha così alla pagina 255. del Buxtorf nell'edizione del 1640.[71] Così pure dal Filologo Ebreo del Leusden prese molto di ciò che disse sopra Onkelos. E riguardo alle abbreviature fu sì fedele al Buxtorf, che nè pure vi aggiunse il supplimento unito dal Volfio alla sua Biblioteca Ebraica, nè quelle che Giovanni Enrico Majo diede nel catalogo della Libreria Uffembachiana.[72] Molto certamente aggiugnerebbe il signor de Rossi, se si risolvesse di compiere e di pubblicare la sua opera de studio Rabbinico, la quale in cinque libri parla dell'uso, e dell'utilità di questo studio, del modo di leggere ed intendere gli scritti de' Rabbini, e delle oscure loro frasi ed autori. Nè questa è la sola opera che mostri la profonda dottrina sua nella lingua Rabbinica. Perchè oltre a quelle, che intorno alla Ebraica Storia letteraria ho già indicate, oltre a quelle che essendo stampate in questo secolo[73] non appartengono ai presente mio ragionamento, altre molte ne serba nel tesoro de' suoi manoscritti; che ben si debbono con questo titolo designare, siccome quelli che per la moltitudine sono prodigiosi, e tali debbono essere anche più per la loro profondità. Per esserne convinti basta per una parte percorrerne i titoli nel catalogo delle sue opere inedite, che unito si legge alle memorie della sua vita, e per l'altra parte richiamarsi alla mente la vastità della sua dottrina nelle lingue orientali, e nell'Ebraica massimamente. Nel Rapport historique sur les progrés de l'histoire et de la litterature ancienne depuis 1789. presentato a Buonaparte M. de Sacy (giacchè a lui appartiene la parte relativa alle lingue orientali) ricorda appunto il signor Abate de Rossi, come versato nella lingua Rabbinica, e gli dà per compagno il signor Tichsen Professore a Rostoch. Del secondo egli dice, che frequemment consultè par les tribunaux sur des controverses judiciaires dont la decision exige la connoissance du droit actuel des Juifs, a prouvè par ses consultations imprimèes, qu'aucune question de ce genre ne fui ètoit etrangère. Non negherò al signor Tichsen la lode di uomo versato in questa lingua; ma domando, che questa lode si conceda ancora al signor Malanima chiarissimo Professore di lingue orientali nell'Accademia Pisana, il quale non dai tribunali, ma dagli Ebrei stessi litiganti è stato chiamato a difendere le loro cause giudiciarie; ed ha pubblicati dotti consulti, in cui dimostra quanto profondamente egli conosca il Talmud e gl'interpetri suoi.[74] Oltre a ciò i comenti del Rabbino David Kimchi sopra le profezie d'Isaia trasse dai codici, tradusse, e illustrò dottamente.[75] La stessa lode domando pure, che si conceda all'Ab. Poch Genovese, che nel 1772. scriveva in Roma in lingua Rabbinica una confutazione degli error degli Ebrei,[76] quantunque poi non l'abbia forse condotta a fine, o almeno non l'abbia mandata in luce. Finalmente domando la lode medesima per Biagio Ugolini nominato di sopra, il quale nel tesoro dell'Ebraiche antichità tante prove ci ha date della sua perizia nella lingua Rabbinica, ora illustrando nelle sue dissertazioni gli usi di quella nazione, ora pubblicando e traducendo le opere de' Rabbini, come ho già detto di sopra.

Se questi scrittori fra i Cristiani illustravano così la lingua Rabbinica, ragion voleva, che molto più si adoperassero di coltivarla gli Ebrei, scrivendo in essa sopra ogni argomento. Cominciamo dai Grammatici. Io non ho vedute le Instituzioni Ebraiche di Giuda o Leone Briel primario Rabbino di Mantova, nè so se sieno scritte in Rabbinico, o in Italiano. Ma in Rabbinico scrisse certamente Simone Calimani la sua Grammatica Ebraica, che si legge al principio della Bibbia nell'impression di Venezia del 1739. La volgarizzò poi, e in questa nuova forma la pubblicò colle stampe della stessa città nel 1751. Alla Grammatica doveva poi succedere un lessico Ebraico ed Italiano, che fin da quell'anno aveva cominciato a compilare: ma quantunque lungo tempo vi faticasse non giunse a compirlo. Anche i precetti dell'eloquenza furon dettati in questa lingua per opera di Mosè Chajìm Luzzato che gli stampò in Mantova il 1727. col titolo di Lescòn limudim, cioè lingua dei dotti, indirizzandoli al suo precettore Isaìa Bassani, di cui parlerò altrove.

Fra gli Oratori due soli ne trovo in questo secolo, e sono Biniamino Coèn, e Giacobbe Saravàl: giacchè quantunque Abramo Coèn, di cui farò parola in altro luogo, appartenga a quest'epoca, i suoi ragionamenti però intitolati la gloria de' sapienti, essendo impressi il 1700. appartengono al secolo precedente. Di Biniamino Coèn e del Saravàl abbiamo alcuni ragionamenti morali: ma quelli del secondo principalmente non ottennero molto plauso. Maggior lode riscossero gli Ebrei nella Poesia, o il numero si consideri di quelli, che la coltivarono, o il lor valore. Se fra gli oratori del secolo decimottavo non ho potato annoverare Abramo Coèn,[77] posso almeno collocarlo fra i poeti. Una bella parafrasi de' Salmi abbiamo da lui in varj metri, impressa in Venezia il 1719. col titolo di Cheunàd Avraàm, cioè Sacerdozio d'Abramo, per cui egli si meritò uno de' più onorevoli posti nel Parnasso Rabbinico. Non meno di lui degno è di lode Israele Biniamino Bassani Rabbino di Reggio commendato ugualmente per le sue virtù e per la sua dottrina. Ma le eleganti poesie di questo Rabbino, che gli detter nome d'uno de' poeti migliori della sua età fra gli Ebrei, giacciono qua e là disperse, nè mai raccolte furono unitamente.[78] Si loda altresì una Kinà, o poema lamentevole di Giacobbe Saravàl testè mentovato pel funesto accidente della caduta d'un pavimento, per cui nel 1776. rimasero in Mantova morti ad un tratto e sepolti sessantacinque de' suoi; ed un'altra Kinà di Sansòn Modòn in morte di Giuda o Leone Brièl. Più lunga e difficil fatica intraprese Sabtai Chajìm Marini Medico e Rabbino di Padova, che in altrettante ottave Ebraiche tradusse la versione dell'Anguillara delle Metamorfosi. L'original manoscritto si conserva nell'incomparabile libreria del signor Abate de Rossi col titolo di scirè Hahhaliphòth, cioè Canto delle mutazioni.[79]

Niuno scrittore di storia abbiamo in questo secolo, tranne Chajìm David Azulai, che un'opera di Bibliografia pubblicò in Livorno col titolo di scem haghedolìm, cioè Nomi de' grandi per le prime due parti, e di Vahad lachachamim, o assemblea dei dotti per la terza. Essa è ripiena di ottime e non comuni notizie, essendo egli stato uomo erudito, e possessore di parecchi pregevoli manuscritti. Anche Sabbatai Ambron romano[80] voleva darci una Biblioteca Rabbinica, che superasse quella del Bartolocci; ma, qual che ne sia stata la cagione, la sua opera o non fu per lui condotta a fine, o non ha veduta la luce. Il giornale de' Letterati d'Italia, che si stampava a Venezia per opera d'Apostolo Zeno[81] gli attribuisce un'altr'opera intitolata Pancosmosofia, in cui prendeva a investigare quanto appartiene alla scienza della fabbrica dell'universo, e di dare una nuova ipotesi del sistema del mondo. Ivi si dice, ch'essa era sotto il pesatissimo esame de' Revisori. Il Mazzucchelli per un equivoco singolare chiamò pesantissimo quell'esame, e ad esso attribuì il non essere venuta in luce. Ciò è falso. Basta vedere in quel giornale il breve cenno, che se ne dà, per conoscere gli errori, di che era pieno quel libro: onde è da credersi, che niuno stampator di Venezia, dove l'autor si recò per pubblicarlo, fosse così poco avveduto, che stampar lo volesse con proprio sicuro danno. Che che sia di questo, se si considera, che l'opera, e le sue diverse parti sono intitolate con nomi presi dal Greco, si crederà, ch'essa non era scritta in lingua Rabbinica, e che perciò non appartiene alla mia indagin presente.

Non vuolsi dunque annoverare l'Ambron tra' Filosofi, che scrissero in questa lingua; de' quali passando ora a favellare trovo solamente Mosè Chefetz, o Gentili, come lo chiama il Giornale citato,[82] oriundo di Trieste. Egli nel 1710. all'età di cent'anni cominciò a stampare un'opera, che ha per titolo Melechèd machascevèd, opus adinventum, che è quasi un comento filosofico del Pentateuco, cui aggiunse più e diverse dissertazioni su gli attributi di Dio, su gli Angeli, su l'anima umana, sul libero arbitrio, su i premj e le pene della vita avvenire, e su l'anima delle bestie, spargendo ovunque non volgari cognizioni della moderna filosofia.

Ma la parte, in cui più si esercitaron gli Ebrei nel secolo trapassato è quella, che riguarda l'Ebraica Religione. Cominciamo dai critici Comentatori del sacro Testo. Non farò quì parola di quei dotti Rabbini di Mantova, Pisa, e Livorno, che si adoperarono di pubblicare ed emendare la Bibbia del Norzi; perchè di questi ho già favellato di sopra. Chiunque è mezzanamente instruito ne' biblici studj sa, che sia la Masora, e quali difetti essa abbia, colpa de' copisti, ed anche dei suoi primi autori. David Viterbo Mantovano la prese a scopo delle sue fatiche, e sopra essa scrisse e stampò in patria il 1748. l' Em lammasored, cioè Madre della Masora, che essendo dal signor Abate de Rossi riputata utile ai sacri Critici, niuno si vorrà opporre alla sentenza d'un giudice così autorevole. I Treni di Geremia interpetrò Biniamino Coèn con un'opera, che dal lamentevole argomento del testo intitolò Allòn bacuth, quercia del pianto, e con un altro comento illustrò i Pirkè avoth, capitoli de' Padri, cioè quella collezione di sentenze morali degli amichi Rabbini, che porta questo titolo. Emmanuele Riki Rabbino Ferrarese prese ad interpetrare i Salmi con un comento cabalistico, che nel 1742. stampò in Livorno col titolo di Chazè Tziòn, cioè Profeta di Sion, del quale scrittore abbiamo ancora il Moasseh Choscèv, o opera artificiosa, che contiene la descrizione dell'antico Tabernacolo, e venne in luce il 1737. co' torchj d'Amsterdam. Un comento sopra i Salmi aveva compilato anche un altro Rabbino, cioè Giosuè Segre di Vercelli, che non è impresso.[83] Non mai pubblicata parimente, e forse nè pure compita è la dilucidazione dell'Ecclesiaste, che fin dal 1772. preparava Giacobbe Saravàl Rabbino prima in Venezia sua patria, e poi in Mantova. In essa egli si assottigliava di mostrare che la voce Koheleth che porta in fronte questo sacro libro, significa Accademia, e che esso consiste tutto in un dialogo fra diverse persone.[84]

Maggior sollecitudine, come ognuno può agevolmente immaginare, adoperaron gli Ebrei nel combattere la santa Religion nostra, o nel difendere i loro errori contro gli assalti de' nostri Teologi. Prese a guerreggiar questa guerra il Rabbino di Mantova con Giuda Brièl co' suoi Assagoth, o Argomenti contro i racconti degli Apostoli, e contro gli Evangelj. Ma quantunque il titolo sia così generale, l'opera però nel codice del signor de Rossi non parla che dei diciannove primi Capitoli del Vangelo di S. Giovanni.[85] Non so, se altri manuscritti ve ne abbia, che meglio rispondano alle promesse del titolo: ma so per testimonianza del medesimo signor de Rossi, che l'autore mostra un'ignoranza grande della lingua latina, quantunque pretenda di chiamar ad esame parecchi luoghi della traduzione del sacro Testo lasciataci in questa lingua da S. Girolamo. Non minore ignoranza e presunzione ebbe il suo discepolo Giosuè Segre di Vercelli, Rabbino di Scandiano, che nell'arringo medesimo volle entrare coll' Ascàm talui, o vogliam dire peccato del dubbio.[86] Non contro i nostri, ma sì contro gl'increduli difese l'Ebraiche dottrine, e le sentenze degli Ebrei Dottori Aviad Basilea Rabbino di Mantova stampando in patria il 1730. il suo Emunàd chachamim, cioè la Fede de' Sapienti. Un'opera liturgica altresì egli compose, facendo l'apologia del rito ebraico della Pasqua contro il P. Carlo da Crevalcore: ma il modo, con che ne parla il signor de Rossi, mi fa credere, che essa sia scritta in Italiano.[87] In Ebraico bensì Isacco Lampronti Medico e primario Rabbino di Ferrara scrisse un amplissimo Dizionario su i riti tutti quanti della sua nazione in parecchi volumi in foglio, i quali non oltrepassano la lettera Teth. A queste voglionsi aggiugnere le Tephiloth, cioè uno dei libri di preghiere usate dagli Ebrei, che Mardocheo Ventura tradusse in Francese, e stampò in Nizza il 1772.

Se poi dalle leggi, che riguardano i sacri riti facciam passaggio alle altre ci si presentano in prima i Consulti legali e dommatici d'Isaia Bassani Rabbino di Reggio, che formano la seconda parte dei Todàd scelamìm impressi in Venezia il 1741. Ed a questo scrittore voglionsi unire eziandio Giuda o Leone Briel, che ho nominato fra i grammatici, e Sansone Morpurgo Medico e Rabbino in Ancona, i quali ottennero in questo genere molta lode. I Consulti legali del primo sparsi si leggono in varj libri, e quelli del secondo vider la luce in Venezia il 1743. col titolo di Scemèsc tzedakà, cioè Sole di giustizia per opera del figlio, che gl'illustrò con parecchie annotazioni. Nè questa è la sola opera, che abbia meritato plauso a Sansone: ma fin dal 1704. egli aveva stampato un comento del Bechinàd olàm da lui chiamato Etz adahad, o albero della scienza, il quale come avverte il signor de Rossi si annovera fra i comenti migliori di questa celebre opera morale.

Fra gl'Italiani finalmente non per nascita, ma per lungo domicilio, si può annoverare Zelig figlio d'Isacco chiamato Margalioth, che il 1715. stampò in Venezia una raccolta di sue osservazioni su varj trattati Talmudici. Ma già abbastanza, e forse ancor troppo a lungo mi son trattenuto tessendo questa nojosa serie di nomi, ed è ormai tempo di percorrere un più vasto campo, e meno ingrato.

Della lingua greca. Grammatici. CAPO VII.

La Greca lingua deve, siccome io credo, la sua prima origine all'Ebraica, e perciò dopo aver parlato di questa, e delle altre due, che da lei non si possono separare, debbo ora parlar di lei. Confesso, che altre lingue vi sono fra le Orientali molto affini all'Ebraica, le quali parrà forse ad alcuno, che dovessero precedere. Ma la Greca è madre della Latina, la quale così prossimamente ci appartiene, che fo quasi a me stesso un rimprovero d'aver fin quì differito a farne parola. Che la lingua Greca nasca dall'Ebraica, come ho detto, è per mio avviso opinione sicura, cui l'abuso delle etimologie fatto da alcuni per confermarla, non deve togliere il credito. Il P. Ogerio Carmelitano ha difesa questa opinione con una operetta, che ha per titolo: Graeca, et Latina lingua Hebraizantes, seu de Graecae, et Latinae linguae cum Hebraica affinitate libellus, cui accedit brevis tractatus de linguae Italicae Hebraismis. Venetiis typis Sebastiani Coleti. 1764. in 8. Esamina egli in primo luogo la quistione già da molti agitata, se la lingua Ebraica sia la lingua primitiva che parlarono Abramo, e Noè, sulla quale io non mi tratterrò, bastandomi il dire, che non porta nuovi argomenti, e solamente quelli indicati da altri raccoglie con diligenza, e talvolta li estende più che non si era fatto prima di lui. Ciò che sopra tutto richiede il mio discorso è la derivazione della lingua Greca dall'Ebraica. Egli la prova principalmente coll'addurre oltre a quattrocento parole Greche simili di suono ad altrettante Ebraiche d'uguale o affine significato; e questo numero si potrebbe senza fatica accrescer molto. So che il Lennep il Valckenaer e lo Scheid[88] sommi Grecisti condannano altamente sì fatte derivazioni, tranne poche voci d'arti, erbe, piante, che introdusse il commercio. A me rincresce dovermi opporre a tre così solenni maestri; ma da una parte l'indole del mio ragionamento mi costringe ad esporre il mio avviso, qualunque esso sia; e per l'altra mi conforta alquanto il vedere, che a questo loro divisamento è contrario ancora il Fischer,[89] sommo Grecista egli pure. Essi vogliono, che le vere radici di una lingua siano verbi solamente; il che a mio giudizio si può negare. Suppongono in secondo luogo, che in principio, quando si formò la lingua Greca, gli uomini sceglier dovessero le voci più semplici,[90] e che perciò i verbi radicali fossero di due, tre, o quattro lettere, o al più di cinque.[91] Ma per ammetter ciò converrebbe supporre, che i primi uomini fossero nati in Grecia, e fossero senza uso di verun linguaggio, nel qual caso le prime voci da essi adoperate sarebbono state semplicissime. Or sappiamo dalla Storia Mosaica, che il fatto andò altramente. I discendenti di Noè andarono ad abitare quelle contrade parlando una lingua, qualunque essa fosse, che col volger degli anni si deve essere alterata in modo, che si è formata la Greca. Vedo in questa molte voci simili all'Ebraiche, ed a ragion ne deduco, che quella prima lingua era l'Ebraica, o affine all'Ebraica. Egli è vero che la somiglianza di qualche voce d'una lingua con quelle d'un altra non è un sicuro indizio, che le une provengano dall'altre, e il caso può produrre ciò facilmente. Se però quella somiglianza è in molte voci, e la tradizione storica mostra probabile, che una lingua provenga dall'altra, allora non posso non riconoscere sì fatta derivazione, se non di tutte almeno di molte.

Ma torniamo all'opera del P. Ogerio. Egli ha voluto evitare le accuse, che si danno al Martini pel suo Cadmus Graeco-Phoenix, e perciò è stato parco anzi che no nelle sue etimologie; onde contento di registrar quelle, che quasi spontanee ci presenta il confronto delle due lingue ne ha trascurate molte altre, che richiedevano qualche maggiore indagine. Sono però alcune, che a me sembrano immeritevoli d'esser da lui dimenticate. Ne darò pochissimi esempj. Ατη noxa, peccatum, ed Ate Dea celebre, presso Omero, e il verbo ἀτάω noceo vengono da ἂτω, che significa lo stesso. Ma io vedo in Ebraico חטה, che significa peccavit, peccatum, peccator secondo i diversi punti, e nella conjugazione Hiphil החטיא, peccare fecit, ad peccandum induxit. Vedo che Arabo, come in Siriaco חטה significano pure peccavit. La somiglianza di queste due voci Araba, e Siriaca, coll'Ebraica mi obbliga a credere, che esse vengano da questa; e non dovrò poi credere che ne provenga ἂτω co' suoi derivati ἀὰτω, ἂτη, ec.? Manca in Greco l'aspirazione, che si vede in quell'altre lingue; ma è probabile che anticamente vi fosse, e si scrivesse Ϝατη col digamma Eolico. So che l'Heyne dottissimo Grecista non ve lo riconosce nel catalogo delle voci Omeriche dotate del digamma.[92] Ma egli ammette questa aspirazione solamente, dove la richiedono certe regole da lui stabilite. Ora non ostante l'alta venerazione, che io ho per un uomo così grande, credo che mi sia concesso di dire, che quelle sue regole non sono abbastanza sicure, perchè (tralasciando altre ragioni) l'escludono da alcune parole, le quali per testimonianza di Dionisio d'Alicarnasso l'avevano.[93] Che ἂτω, ed ἂτη avessero digamma lo mostra la parola ἀυἁτη, che leggiamo due volte in Pindaro,[94] e sono d'avviso, che lo mostri il verbo ἀπατάω co' suoi derivati, il quale a me pare che venga da ἀτω, ἀτάω, piuttosto che da un supposto verbo ἂπω come vorrebbe il Lennep. Osservo, che il citato verbo Arabo presenta, ancora un'idea di moto, onde l'Erpenio[95] lo traduce lapsus est che vuol dire ugualmente cadde, e cadde in qualche fallo; il qual significato pare che abbia ancora il verbo Ebraico. Nè diverso forse l'aveva il Greco, che nell'attivo si potrebbe tradurre fo cadere altri in qualche fallo, o in qualche sventura, cioè nuoccio, e quindi nel medio cado in qualche fallo, o sventura. Αασάμην.... περιέπεσον ( ἄτη ) dice Esichio. Anche i pronomi potevano aver luogo nell'opera del P. Ogerio. Lo Scheid[96] porta opinione che il pronome ἑγώ anticamente si dicesse ἒνω, che è la voce Siriaca, e viene dall'Ebraico אני. Ma lasciando star questo, almeno il duale νώϊ, nos viene da אנו. Τὺ conservato nel dialetto Dorico, e nel latino tu era probabilmente il vero pronome antico, e pare derivato da אתה. Il pronome della terza persona ὁὖ, οὶ, anticamente aveva per Nominativo ὶ,[97] che aver dee la stessa origine. In fatti che cosa è in Ebraico la formativa Jod della terza persona del futuro, se non il pronome della stessa persona, come l'Aleph, e il Nun sono quelli della prima persona nel singolare, e nel plurale, e il Thau della seconda? Così parecchie altre etimologie si potrebbono aggiugnere, e non poche ne ho aggiunte nelle margini del mio esemplare fino dal primo momento, che l'ebbi in dono dall'umanissimo e dottissimo signor Cavaliere Jacopo Morelli ora defunto con danno gravissimo de' buoni studj. Ora se di queste voci si vogliono assegnare altre etimologie derivate dalla lingua Greca convien supporre assai volte verbi, ch'essa non ebbe mai, o da quelli, che ebbe, ed ha, trarle forzatamente, mentre derivar si possono dall'Ebraica con certa naturale spontaneità, che concilia persuasione. All'Ebraica ho unita l'Araba, e la Siriaca non per fare vana pompa d'un'erudizion, che non ho, ma perchè ho creduto, che quegli esempj qualche peso accrescessero alle mie asserzioni. Siccome poi parecchie etimologie si possono aggiugnere al catalogo del P. Ogerio, così se ne debbono levare alcune, e quelle principalmente, che egli trae da' futuri Ebraici. Essi hanno le lettere dai Grammatici chiamate preformanti, che essendo veri pronomi personali non possono far parte dei derivati.

Alla storia ed alla etimologia egli aggiunge certe proprietà di lingua, che nel Greco, e nell'Ebraico s'incontrano ugualmente, e la somiglianza del nome e della figura delle lettere dell'Alfabeto. Ma riguardo alle proprietà della lingua avrebbe potuto annoverarne più altre, che ha trascurate, come l'uso del verbo medio nel Greco, il quale suole esprimere in qualche modo il ritorno dell'azione nell'agente, il che spesso accade pure nella conjugazione Hithpahel dell'Ebraico; oltre a molti idiotismi, per cui i sacri scrittori del nuovo Testamento sovente sono contro ragione accusati d'Ebraismo, quando que' modi di dire sono proprj delle due lingue, siccome da altri già è stato avvertito. Riguardo poi ai nomi, ed alla figura delle lettere Greche nulla dice oltre a quello, che aveva detto il Bianconi.

Dell'etimologia si serve il P. Ogerio per mostrare la derivazione della lingua Latina dall'Ebraica, registrando molte voci, che sono simili nelle due lingue. Anzi le parole latine da lui notate vincono di numero le Greche, perchè gli è piaciuto (nè si vede la ragione) d'annoverarne molte, che sono Greche manifestamente; per esempio aratrum, arceo, aspis, astrum, asylum, aula ec. Queste tutte si debbon togliere, con molte altre, che vengon pure dal Greco, ma non così direttamente: per esempio aestas da αἲθω, preterito perfetto passivo ῂςαι, albus da ἀλφὸς, annus da ἓνος onde ἓννο ς, vetus, ec. Si debbon toglier le parole introdotte ne' bassi tempi, come abbas, cabala, celtis, cherubim, cifra ec. ed i termini d'arti. Diminuito così di molto quel catalogo non farà maraviglia il vedere, che le rimanenti voci siano simili all'Ebraiche, ove si considerino, che la lingua latina vien dalla Greca, o per meglio dire l'antichissima lingua, che si parlava una volta nel Lazio era la stessa, che antichissimamente si parlava nella Grecia;[98] laonde se la lingua Greca aveva molte parole simili῁ all'Ebraiche debbono esserne restate alcune ancora nella latina. Rimarrebbe a parlare dell'appendice dell'opera, in cui si registrano gli Ebraismi della lingua Italiana. Questi però son pochi; e se si fanno le detrazioni, che abbiamo indicate per la latina ne resta così scarso numero, che vuolsi disprezzare.[99]

Ma troppo lungamente forse mi son trattenuto intorno a quest'opera, ed è ormai tempo di far passaggio agli altri scrittori di cose grammaticali. E dovrei cominciare da quella del Marchese Maffei intitolata, litterarum Graecarum potestas et affectiones, che si vuole stampata in Verona il 1716. o 1726. La pone il P. Zaccaria nel catalogo delle sue opere affidato all'asserzione del P. Reiffemberg, ma confessa di non averla veduta. Io nè pur l'ho veduta, e non trovandola nell'edizion generale delle sue opere dubito che sia supposta.

La lingua Greca ne' primi suoi elementi presenta quistioni difficili ed opinioni diverse, e ciascuna parte crede d'aver ragione, e chiama ostinati i suoi avversarj. Si quistiona dunque sul modo di pronunziare certe lettere, e i dittonghi, e se si debba leggere secondo gli accenti, o secondo la quantità. I Greci moderni tutti leggono e pronunziano in un modo, ed una parte degli altri coltivatori di questa lingua in un modo diverso introdotto, o rinnovato da Erasmo. A me non appartiene di decidere la questione, e questo non ne sarebbe il luogo; onde per esser più rigorosamente neutrale chiamerò le due parti Greci moderni, ed Erasmiani. La questione fu a lungo discussa ne' secoli passati, e si è di nuovo trattata nel decimottavo. Il P. Piacentini Monaco Basiliano di Grotta ferrata difese la causa dei Greci moderni;[100] al quale avendo risposto un Gesuita Tedesco[101] replicò il Piacentini[102] e nel tempo stesso il P. Velasti Gesuita di Scio, che si potrebbe quasi dire Italiano, perchè nacque da una colonia Ligure già da gran tempo stabilita in quell'Isola.[103] La loro causa parimente sostenne in questi ultimi anni il Sig. Pietro Pasqualoni professore di questa lingua in Roma.[104] Al contrario nella Storia Letteraria d'Italia del P. Zaccaria T. 5. p. 1. 26. Si legge un bell'estratto dell'opera del Velasti, che credo esser fatica del P. Gabardi, dove la controversia brevemente si descrive, e molte forti objezioni si fanno contro gli argomenti (per altro dotti ed ingegnosi) di quell'autore. Il Velasti è a parer mio il miglior difensore di quella causa fra quanti ne furono prima di lui, nè altri poi per molti anni l'ha non dirò vinto, ma nè pur uguagliato.[105] Egli però, e molto più il Piacentini, e il Pasqualoni evitano accortamente certe obiezioni più difficili a sciogliersi, che altri hanno mosse contro alla lor sentenza. Ne recherò due soli esempj. Par certo, che l' Η si pronunciasse E lungo non I, come ora fanno i Greci. Fra gli argomenti diversi, che si adducono a provar ciò ha molta forza per mio avviso l'osservazione, che anticamente la lettera Ε serviva ugualmente per l'E breve, e per quella vocale, che poi fu espressa coll' Η. Or se si usava scrivendo la stessa lettera pare, che si dovesse usare leggendo lo stesso suono, o almeno simile molto, cioè un E lungo come dicono gli Erasmiani. Era forse un E stretto, talchè col progresso del tempo alterandosi, come suole accadere, la pronunzia si sarà cambiato finalmente in I. L'altro esempio, che mi piace di portare spetta all'uso di pronunziare secondo gli accenti, non secondo la quantità delle sillabe. E' certo che gli antichi pronunziando avevano riguardo ai primi e alla seconda nel tempo stesso. E' certo altresì, che i diversi accenti si esprimevano diversamente, alzando la voce per l'acuto, abbassandola pel grave, e prendendo un tuono medio pel circonflesso. Nè questa è una congettura d'Erasmo, o de' suoi seguaci, ma un insegnamento di Porfirio, e d'altri antichi.[106] Pare ciò impossibile ai seguaci de' Greci moderni, perchè quest'alternativa di varj suoni avrebbe fatta del Greco linguaggio una specie di musica: convien però credere così, perchè questo appunto dice Porfirio ed altri con lui.[107] Or questo alzamento e abbassamento di voce non s'insegna dai citati scrittori, i quali tutti gli accenti esprimono nel modo stesso. Queste ed altrettali osservazioni dovevano dal Piacentini dal Velasti e dal Pasqualoni esser esaminate. Siccome poi l'ultimo vuole, che dalla varia collocazione degli accenti provenga l'armonia nella Greca lingua, avrei volute, a che ci desse le regole di questa sua armonia nella prosa, e nelle varie qualità di versi, recando anche gli esempj degli scrittori a conferma delle medesime. Certo è, che Aristotele, Dionisio d'Alicarnasso, e Longino[108] fanno consistere l'armonia nei piedi cioè nella quantità delle sillabe, e punto non parlano degli accenti. Non è poi di questo luogo l'esaminare, se alcuna cosa rimanga a desiderare dagli Erasmiani, quando difendono la propria causa; perchè niuno m'è avvenuto di trovarne fra gl'Italiani nel secolo decimottavo, il quale abbia fatto ciò di proposito, e minutamente.

Mentre questi scrittori disputavano intorno al modo di pronunziare, il Sisti insegnava a leggere la intralciata scrittura de' codici Greci. Sono essi pieni di nessi, e di abbreviature difficili, e spesso ancora impossibili a intendersi per coloro, che non v'abbiano fatta molta pratica. Egli perciò pubblicò un indirizzo per la lettura Greca dalla sua oscurità rischiarata,[109] dove di ciò e delle sigle note e monogrammi parla diffusamente per appianare le difficoltà tutte, che nel leggere i manoscritti antichi s'incontrano. Sono però d'avviso che il miglior mezzo sia l'esercitarsi molto sui manoscritti stessi per acquistare la necessaria esperienza. Finalmente vuolsi ricordare una dissertazione tuttavia inedita di Giacomo Martorelli de origine Graecarum litterarum, seu ςοιχειων[110] Di quella del Bianconi, che in parte tratta ancora di questo argomento, ho già parlato di sopra.

Alla Grammatica appartiene ancora una gran parte de' prolegomeni, che il chiarissimo signor Principe di Torremuzza ha premessi alla sua bell'opera delle inscrizioni della Sicilia.[111] In essi egli tratta de' Greci dialetti de' Siciliani, della loro paleografia Greca, e dei nessi, che si vedono ne' monumenti della Sicilia e della loro antichità. Nelle quali erudite disquisizioni si mostra non meno dotto antiquario, che profondo Grecista.

Molte son le Grammatiche, che han veduta la luce in Italia nel passato secolo, delle quali però nominerò quelle solamente, che per qualche pregio particolare debbono esser distinte. Nella Storia letteraria d'Italia del P. Zaccaria[112] si fa menzione d'un' eccellente Greca Grammatica del P. Gennaro Sancez de Luna della compagnia di Gesù stampata in Napoli il 1751. con molto giudizio condotta a norma della latina, che volgarmente dicesi dell'Alvaro. Io non l'ho veduta, ma le parole quì recate mi fanno credere, che buona sia o almeno che buono siane il metodo. Nè mi muovono in contrario quell'altre parole ivi aggiunte, che l'autore va un pò per le lunghe, perchè niuna via breve io conosco, tranne il tacere molte cose utili, e ancor necessarie, come il più de' Grammatici fanno. Da che ne viene poi che si studia questa lingua per non impararla mai. Quindi dubito forte che il breve metodo per facilmente apprendere la lingua Greca d'un'altro Gesuita, cioè del P. Michele del Bono[113] non abbia forse quell'utilità che egli si sarà proposta. Ma non posso darne certo giudizio, perchè nè pur questa ho letta. Anche il Sisti insegnò un breve metodo, e come per la lingua Ebraica, così per la Greca additò una via cortissima per impararla in poche lezioni.[114] Ma intorno alla sua grammatica credo inutile il diffondermi, bastando il dire che ha i pregj, ed i difetti medesimi dell'Ebraica. Molto dal Sisti dissentiva il Cocchi, e se quegli racchiuse i suoi precetti in quattro lezioni questi voleva estenderli in cento, di che scrisse una lettera, che non essendo impressa basterà d'averla solamente indicata.[115] Commendabile in molte cose è la Grammatica pubblicata ad uso del Seminario di Padova, che si attribuisce a Jacopo Facciolati, e molto è adoperata nelle scuole d'Italia.[116] In essa si hanno tutte le principali regole intorno alle diverse parti dell'orazione con molta chiarezza esposte, e buon metodo. Ottimo è stato il consiglio di disporre i tempi de' verbi non nell'ordine naturale, come nelle precedenti Grammatiche si faceva, ma con quello secondo il quale si generano; onde nell'attivo, e nel medio all'imperfetto succede l'aoristo secondo, il futuro secondo, il futuro primo, l'aoristo primo, il preterito perfetto, e finalmente il più che perfetto, e nel passivo al futuro secondo succede il perfetto, il più che perfetto, il futuro prossimo, l'aoristo primo, e il futuro primo. Ottimo pure è stato il consiglio di porre in fine le regole de' dialetti dove ad ogni caso de' nomi, e de' pronomi, e ad ogni persona de' verbi si vede aggiunta la corrispondente proprietà d'ogni dialetto. Solamente sarebbe stata opportuna una maggiore abbondanza riguardo a questi, come pure riguardo ai verbi anomali, dei quali alcuni si tralasciono, e d'altri si tacciono alcuni tempi, che sono in uso. Ma ciò che soprattutto è difettoso è il trattato della sintassi, il quale è esposto con metodo non lodevole, ed è mancante di molte cose necessarie. Poco vi si dice delle preposizioni, pochissimo delle congiunzioni, nulla del vario significato dei tempi de' verbi, le quali cose tutte domandavano lungo e diligente discorso. Che dirò poi del verbo medio? Da che il Kustero ha mostrato qual sia di questo verbo il vero significato, da che gl'insegnamenti del Kustero sono stati da parecchi altri dotti Grecisti confermati, e illustrati, non si vorrebbe ora sentir ripetere, che esso ha significato attivo, e passivo, e nulla più. Nè è da riprendersi meno il trattato della prosodia, il quale pure è mancante, e le sue regole alcuna volta sono fallaci.

Assai migliore è la Grammatica del P. Antognoli delle Scuole Pie,[117] che sventuratamente è divenuta rara molto. Segue essa il metodo del Facciolati riguardo ai verbi ed ai dialetti, ma in tutte le sue parti è più ampia, e la sintassi, se non è completa, è almeno discretamente trattata. Anche il Seminario di Catania ha una lodevol Grammatica in due parti divisa.[118] Non si è quì dimenticata la sintassi, ma dopo averne dato un saggio più breve nella prima parte pe' comincianti, più diffusamente se ne tratta nella seconda, che è destinata a una classe superiore. Bramerei però un metodo migliore. Quì ad imitazione della Grammatica dell'Hulevvicz[119] dopo aver date le regole relative a una parte dell'orazione si fan succedere quelle della sintassi della medesima; così dopo aver insegnate le declinazioni de' nomi si spiega la loro sintassi, la sintassi de' verbi viene immediatamente dopo le conjugazioni, e così si dica dell'altre parti. Il che non so quanto possa essere utile. L'esperienza c'insegna, che il metodo comunemente adoperato nelle Grammatiche Latine è utile molto a' giovanetti, che danno opera alla lingua Latina, e il metodo stesso sarebbe di gran vantaggio a coloro, che si applicano alla Greca. Si è forse fino ad ora trascurato di usarlo, perchè da molti si stima inutile d'esercitar gli scolari nello scrivere in Greco. Tale in fatti era l'opinione dell'Ernesti, che volendo pubblicare una nuova edizione del Lessico dell'Hederico voleva toglierne quella parte, che ivi è chiamata sintetica, cioè quella che serve a tradurre dal Latino in Greco. Egli aveva osservato, che molti giovani nelle scuole scrivevano pessimamente in Greco; talchè le loro cose o non erano da lui intese, o gli eccitavano il riso.[120] Quindi avrebbe voluto, che i supremi moderatori delle scuole vietassero severamente ai maestri d'esercitare la gioventù nello scriver Greco. Io, a dir vero, ne avrei dedotta una conseguenza affatto opposta, cioè che gli esercitassero molto. Certo è che il signor Villoison, il giudizio del quale niuno vorrà disprezzare, diceva: J'ai fait autrefois, sans la moindre prètention une foule de vers Latins, et surtout de vers Grecs, non pour être poête dans ces langues mais pour entendre les poêtes quì les ont parlèes. Je crois, messieurs, qu'il faut avoir beaucoup ecrit dans une langue pour pouvoir en acquerir la parfaite intelligence.[121]

Ma torniamo alla Grammatica di Catania. Due mancanze gravissime sono in essa, cioè de' dialetti, e della prosodia. De' primi se ne dà un breve cenno affatto inutile, e della seconda si dice, che si è giudicato non parlarne punto, anzi che darne un compendio, e che non molto essa giova a intendere i poeti. Quanto sia necessario d'essere instruiti negli uni, e nell'altra lo vede ognuno, che abbia qualche cognizione di questa lingua, nè è necessario che io prenda a provarlo.

Finalmente debbo rammentare la Grammatica del Signor Mazzarella Farao,[122] sulla quale però non farò molto lungo discorso. In questa non si fa verun uso degli accenti; laonde può servire a quelli solamente, che tanto ne son nemici, che nè pure gli vogliono adoperare scrivendo, i quali però non sono molti. Del rimanente essa è accurata, e se lo stile fosse meno verboso e più castigato, potrebbe loro esser utile.

Alle istituzioni grammaticali debbono succedere i trattati sulla prosodia. Il signor Becucci ne ha parlato a lungo,[123] e lo ha fatto con diligenza e chiarezza somma, e così esattamente, che (ove si eccettui l'Hermanno) egli ha superati quanti sono scrittori di questo argomento.

Niun Lessico nuovo possiamo vantare in quest'epoca, ma i Lessici altrui si sono pubblicati novellamente in maniera che meritano ricordanza. Tali sono le nuove impressioni dello Schrevelio, e dell'Hederico, che dobbiamo ambedue al non mai lodato abbastanza Seminario di Padova. Lo Schrevelio fu pubblicato con accrescimenti considerabili dal Facciolati[124] che avrà voluto provvedere ai principianti, i quali facilmente s'imbarazzano nell' investigare il tema, e perdono il coraggio. Ma quel Lessico è pericoloso, perchè fomenta la pigrizia de' giovani, e perciò ne ritarda il profitto, onde io non so bene se dobbiamo esser grati all'editore. Molto più util cosa fece quegli, che di nuovo dette in luce il Lessico dell'Hederico con le emendazioni e gli aumenti del Patrick, e dell'Ernesti.[125] A me non è avvenuto di riscontrare in questa impressione veruna aggiunta o ammenda: anzi qualche errore delle impressioni precedenti è quì copiato fedelmente. Era però facile di aggiugnere nuove voci, o nuovi significati: e bastava dirò quasi aprire a caso qualunque greco scrittore e si sarebbe offerta spontanea la messe. Tanto sono manchevoli i Lessici tutti quanti. Dicesi che i dotti Direttori di quel Seminario abbiano in animo di ristampare quel Lessico con più altre aggiunte, il che sarà un nuovo benefizio, che essi faranno alla Repubblica delle lettere. Ma se potessi sperare, che un mio desiderio giungesse fino a loro vorrei pregarli, che facessero anche più. Il Lessico dell'Hederico ha un difetto grande, cioè la mancanza degli esempj. Gli esempj mostrano, come si costruiscano i verbi, e molte altre voci, che richiedono speciale osservanza, quali modi reggano certe congiunzioni ec. Gli stessi significati assai volte meglio s'intendono se vi sono uniti gli esempj. Il Facciolati nell'aumentare tanto il Dizionario del Calepino, e il Forcellini nell'aureo suo Lessico Latino, se avessero lasciati gli esempj quanto tenue sarebbe stata l'utilità della loro grande impresa! Ma limitando ora le nostre considerazioni a più piccolo, ma sempre utile oggetto, i giovani, che danno opera alle latine lettere usano il Dizionario del Pasini. Or qual profitto farebbono essi, se a questo si togliessero gli esempj, nè s'indicassero i casi, co' quali i verbi si debbono costruire? Scarsissimo a mio giudizio. Perchè non si dee lo stesso dire de' Greci Lessici? Qual motivo v'ha per togliere tanto vantaggio nell'insegnamento d'una lingua più difficile per la sua ampiezza, e per la sua varietà, nell'imparar la quale mancano molti di quei comodi, che nella lingua latina si hanno? L'impresa è faticosa, lo confesso; ma il pensiero di giovare alla gioventù è un gran sollievo nella fatica. Oltre a ciò molti ajuti si avrebbono per togliere una parte grandissima della fatica. I Lessici generali d'Enrico Stefano, del Costantini, ed ora dello Schneider, i Lessici particolari, come quello di Senofonte del Thieme e Sturz, d'Omero e Pindaro del Damm, gl'indici di cui son corredate parecchie edizioni dei Classici, come d'Euripide, di Tucidide, di Dione Cassio, di Polibio, degli Oratori Greci, ed altri somministrano molti materiali. Abbia finalmente l'Italia la gloria d'aver dato un Lessico in questa forma, e l'abbia dal Seminario di Padova, cui da molti anni tanto debbono i buoni studj per molte ammirabili, e dottissime imprese. Vie maggiore utilità apporterebbe ancora il ristampare lo Scapula. Una nuova impressione se n'è fatta testè in Inghilterra di molta spesa, la quale, per questo appunto non può comprarsi da' giovani studiosi. Ma torniamo all'argomento.

Ai Lessici generali della Lingua Greca si vogliono unire quei particolari delle radici, e delle sigle. Si quistiona quante, e quali siano le vere radici; ma a me non appartiene l'entrare in questo esame, giacchè non si è trattata in Italia sì fatta questione. Chi fra noi ha compilato un Lessico delle radici è stato sollecito di giovare alla gioventù studiosa, ed a imitazione di ciò che in Francia aveva fatto il Lancelot ha raccolte tutte quelle, che comunemente si chiamano radici, e le ha poste in versi coi loro significati, affinchè il verso e la rima agevoli l'impararle a memoria.[126] Più erudito scopo hanno preso i raccoglitori delle sigle, che nelle inscrizioni si trovano, e nelle monete. Il Marchese Maffei può dirsi il primo, che raccogliesse, e interpetrasse le sigle delle inscrizioni Greche[127] e a lui poco dopo successe il P. Corsini delle Scuole Pie, che non solo dalle lapidi, come il Maffei aveva fatto, ma ancora dalle monete le ricavò[128]. Più copiosa collezione ne fece poi il P. Piacentini, che dal P. Cardoni fu stampata dopo la sua morte.[129] Anch'esso però fu superato dall'Ab. Andrea Rubbi, il quale nel suo Dizionario d'antichità ad ogni lettera dell'Alfabeto aggiunge le Greche sigle, e le Latine.[130] Dirò ora delle prime solamente, riserbandomi a parlare delle seconde altrove. Pone in prima quelle del Maffei, indi le sue moltissime, e finalmente dà il catalogo delle Città libere, di cui abbiamo medaglie, i nomi delle quali essendo assai volte espressi colle sole lettere iniziali accrescono il novero delle sigle, che per le sue cure è giunto ormai a un grado altissimo di perfezione. Era a desiderarsi, che egli non si stancasse nel continuare quest'opera utile, da cui sommo lustro avrebbono ricevuto le parti tutte dell'antiquaria. Ma sventuratamente la sua morte ce ne ha tolta la speranza.

Editori. CAPO VIII.

Più vasto campo ci presentano le opere degli antichi pubblicate dai nostri. Non parlerò di quelle edizioni, che essendo fatte unicamente per mercantile speculazone, e con somma trascuratezza, recan danno alla lingua piuttosto che vantaggio pe' molti errori da cui sogliono esser bruttate. Nè pure farò parola di certe magnifiche edizioni, che il chiarissimo Signor Bodoni ha fatto uscir de' suoi torchj, se non quando siano corredate d'utili illustrazioni. Esse servono al lusso degli uomini ricchi, non al comodo degli uomini studiosi. Omero è il più antico scrittor profano, e ragion vuole, che si cominci da lui. Dell'Omero del Sig. Cesarotti dirò fra i traduttori. L'Iliade stampata a Parma è commendabile per la magnificenza dell'impressione, e per la scelta del testo. La prima lode si deve al Sig. Bodoni, e la seconda al dottissimo Sig. Cavaliere Luigi Lamberti, che alcune delle lezioni ivi adottate ha poi illustrate con molta erudizione e sottil critica.[131] Ma della illustrazione impressa nel secolo presente non debbo quì tener discorso. Più vasto campo prese a percorrere il P. Alessandro Politi delle Scuole Pie, che tutto Omero, ed i comenti d'Eustazio cominciò a pubblicare colla traduzion Latina, e parecchie annotazioni sue in gran parte e in parte d'Anton Maria Salvini; ma la morte interruppe il suo disegno, mentre si stampava il quarto volume[132]. Le annotazioni sono erudite e giudiziose, la traduzione è esatta, il testo è emendato dall'editore, che era dotto Grecista. Taluno forse potrebbe reputare inutile la traduzione, e di quest'avviso era il Sig. Heyne. E in un'opera così voluminosa il togliere una cosa inutile è un vantaggio grande. Benemerito d'Omero fu altresì il Buongiovanni pubblicando uno Scoliaste inedito pregevolissimo[133]. Se non che egli non ne dette, che una parte, ed era riservato al Signor Villoison il darlo tutto con altri Scolj antichissimi[134]. Ma giacchè ho nominato l'edizion procurata da questo Francese Grecista dottissimo concedendo a lui la gloria d'aver dati in luce quegli Scoliasti coll'Iliade d'Omero, coi segni critici usati dagli antichi, e con prolegomeni ricchi di molta erudizione, non debbo tacere, che una parte di questa gloria si ha da attribuire ancora ai Signori fratelli Coleti dotti nella Greca Lingua, come in ogni maniera d'erudizione, i quali nella lontananza dell'editore eseguirono quella difficile impressione. E per non dissimile ragione ad essi pure si debbe parte di quella gloria, che egli si meritò divulgando i celebri suoi Greci Aneddoti, dove dei Signori Coleti fece giusta, ed onorata menzione[135]. Anzi pareva quasi destinato, che le opere maggiori di quel sommo uomo si mandassero in luce dagl'Italiani; perchè anche il suo Apollonio si deve all'Italiano Signor Molini dimorante in Parigi[136], il quale se non poteva colla dottrina giovare all'edizione, come i Coleti fecero nelle accennate due opere, le giovò almeno col tollerarne la spesa.

Da Omero non deve andar disgiunto Esiodo, del quale si possono quì ricordare due edizioni, quella cioè di Padova coll'Italiana versione del Salvini[137]; e quella di Parma del celebre Signor Bodoni colla traduzione Latina del Gesuita Zamagna[138]. Ambedue sono più commendabili per le traduzioni, che le accompagnano, che per le illustrazioni aggiunte all'originale. E queste illustrazioni l'intelligenza riguardano del testo, non l'emendazione, nè pure in quei luoghi, ne' quali lo richiederebbe forse l'edizion del Clerc, che quì si segue sempre fedelmente. Ad Esiodo succeda Teognide, le sentenze del quale furono dal Canonico Bandini pubblicate col poemetto ammonitorio, ed i versi aurei attribuiti a Pitagora[139]. E giacchè il mio discorso è caduto sopra questo editore stimo non inopportuno l'aggiunger quì ancora gli altri poeti, che egli fece stampare, perchè di tutti dovrò dare lo stesso giudizio. Questi sono Callimaco, Arato, Nicandro, Trifiodoro, Coluto, e Museo[140], ai quali tutti, come pure a Teognide, e agli altri già nominati, unì le traduzioni in versi Italiani d'Anton Maria Salvini. Util cosa fece il Bandini, dando questi volgarizzamenti, che erano inediti, ed oltre a ciò alcune varianti a Callimaco, a Trifiodoro, e a Nicandro prese dai Codici Fiorentini, e l'inedita metafrasi di questo poeta fatta da Eutecnio Sofista, che egli in parte ricavò da un codice Laurenziano, e in parte da uno Viennese. Nulla però v'aggiunse di proprio, fuorchè alcune annotazioni a Callimaco molto diffuse, ma poco utili a spiegare il testo, e nulla ad illustrare la lingua. Le note aggiunte a Museo, e a Coluto sono o copiate fedelmente, o abbreviate da quelle, con che il Rover, e il Lennep accompagnarono i versi di questi due poeti, e la metafrasi d'Eutecnio fu da lui pubblicata con tutti gli errori de' codici, benchè manifesti.

Nella traduzione dell'Harvood fatta in Venezia si attribuisce al Bandini un'edizione Fiorentina d'Anacreonte del 1742.; ma ciò è errore e lo ha già osservato il Signor Chardon de la Rochette nelle sue Melanges de Critique, et de Philologie T. 1. p. 190.[141] Tre sono le edizioni d'Anacreonte, delle quali debbo quì far parola, tralasciandone più altre, che nulla hanno di osservabile per la illustrazione della lingua, o che sono osservabili solamente pe' volgarizzamenti di cui dirò altrove. E' la prima quella dell'Ab. Spalletti, nella quale egli ci ha dato il testo d'un codice del secol decimo della Libreria Vaticana. Il Barnes ne aveva ottenute le principali varianti delle quali fece uso, non però sempre fedelmente. L'Ab. Spalletti volendo pubblicare il testo di questo codice ne ha fatta incidere una copia, che dicesi non esatta, ed ha poi stampate le poesie d'Anacreonte con caratteri fusi espressamente a imitazione del manoscritto, e vi ha contrapposto il testo del Barnes, che era allora più comunemente adottato. Quindi si vede quanta superfluità sia in questa edizione, che a minor prezzo poteva offerire quel testo. In fatti M. Levesque dotto Grecista Francese ha poi stampate le varianti di quel codice[142], il che rende inutile la fatica del Romano editore. Pregevolissima poi è la magnifica edizione, che il Sig. Bodoni dette di questo poeta nel 1785.[143] in lettere majuscole. Non considero la bellezza de' caratteri, e della carta, e tuttociò che all'arte tipografica appartiene, nelle quali cose tutti sanno quanto quell'insigne tipografo fosse grande. Questi sono esteriori ornamenti; ed io debbo esaminar solamente i pregi intrinseci dell'edizione. Erudito è il comentario posto in principio, in cui dottamente si parla del poeta, delle edizioni de' suoi versi, e delle traduzioni Italiane, e Francesi. Con molto avvedimento si è scelta per testo la prima edizione, cioè quella del 1554. in cui Enrico Stefano dette esattamente la lezion de' suoi codici, e le poesie di Anacreonte non erano anche state alterate dalle congetture degli editor posteriori. Io lodo que' dotti critici, che le fatiche loro consacrano alla emendazione degli antichi scrittori; ma più lodo quelli, che contenti di esporre le loro correzioni ne' comenti si astengono dall'inserirle nel testo. Così fece allora lo Stefano, e così pure ha fatto il dottissimo Sig. Ab. Valperga Caluso, che è l'autore delle varianti poste in fine di questa edizione. Queste egli ha scelte da tutti gli editori, ed alcune sue ne ha aggiunte molto lodevoli, talchè ha dato quì in poche pagine il meglio, che dar si potesse in questo genere[144]. Dobbiamo al Ch. Signor de Rogati la terza edizione nella quale egli ha accompagnato il testo colla sua traduzione poetica, e con annotazioni[145]. Della traduzione parlerò in altro luogo. Le annotazioni mentre servono a dar ragione del suo volgarizzamento, o ad esaminare gli altrui, giovano ancora a spiegare il testo. Ma niente v'ha intorno all'emendazione del testo, niente per isceverare le odi genuine, da quelle che certamente non sono d'Anacreonte.

Un solo editore di Pindaro ci offre l'Italia in questo secolo, cioè l'Abate Gautier[146]. Della sua traduzione parlerò altrove, ed ora considero solamente l'edizione del testo, e le annotazioni, di che egli l'accompagnò. Ma di ciò ancora non posso dire che poco; perchè quanto al testo seguì fedelmente l'impressione d'Oxford, e nelle annotazioni nulla è di nuovo: niun confronto, non dirò coi codici, ma nè pure colle edizioni precedenti, niuna spiegazione relativa alla illustrazion della lingua. Più benemerito del Principe dei Poeti Lirici fu il P. Luigi Mingarelli Canonico del Salvatore, che per le sue congetture su questo poeta meritò d'essere annoverato dal dottissimo Heyne inter praestantissimos rei metricae magistros[147]. Nè quì si arrestò il Grecista Bolognese, ma più altre illustrazioni mandò all'Heyne principalmente intorno ai metri, delle quali questi fece uso nella edizione del 1798. essendo a lui liberale di molta lode[148].

Poco si è fatto per Eschilo, ed ancor meno per Sofocle. Il Pasqualoni, che ho già citato, volgarizzando due Tragedie, cioè i Sette a Tebe, ed il Prometeo del primo ne ha pubblicato il testo colle sue annotazioni[149]. In queste egli spiega l'originale attenendosi frequentemente allo Schutz senza esser però al tutto ligio delle sue opinioni, dalle quali talvolta si allontana per seguire lo Stanley, il Pauvv, e l'Heathe. Ma niuna correzione v'ha tratta dai codici o dal suo ingegno. Il Prometeo fu pubblicato ancora da Monsignor Giacomelli, come pure l'Elettra di Sofocle[150] che arricchì di sua traduzione e di note. Questo dotto Prelato, che dovrò mentovar più volte, era assai valoroso Grecista, e ben lo dimostra nel comentare queste due tragedie ora spiegando i passi più oscuri, ora scegliendo le migliori fra le diverse varianti proposte da altri, ora proponendo egli stesso nuove lezioni. Assai più s'è fatto per Euripide, cui toccò in sorte un editore, che tutte le opere ne pubblicò e tradusse. Questi fu il P. Carmeli[151]. Il Reiske negli atti di Lipsia del 1748. dando ragguaglio del primo volume di quest'edizione, il quale solo era pervenuto alle sue mani fece alcune critiche osservazioni sull'Ecuba d'Euripide, sulla traduzione del P. Carmeli, e sulle sue note. Questi però non tacque, e rispose ai rimproveri del Grecista Tedesco[152]. Lasciando stare la difesa del Greco Tragico, e considerando solamente quella del volgarizzamento, e delle note dirò, che il Reiske o ingiustamente, o troppo severamente condanna il traduttore d'inesattezza. Una sola delle sue critiche può dirsi giusta, ed è dove al v. 183. il Carmeli traduce Perchè con voce di pietà mi chiami? le parole τί με δυσφημεἶς, perchè δυσφημ ὦ non ha questo significato. Egli lo trova nello Scoliaste, e ve lo trovò pure Enrico Stefano nel Tesoro della Lingua Greca. Ma se ben si considera lo Scoliaste dice: διατί δυσφημεἶς καὶ ἐλεεινογεἶς ἐμέ; dove ἐλεεινογεἶς non è posto, come spiegazione di δυσφημεἶς nel qual caso in vece di καὶ avrebbe detto τουτέςι o in altra simil maniera, ma come spiegazione, del modo, con che Ecuba veniva a dar cattivo augurio a Polissena. Ciò non ostante però la critica di questo luogo è troppo severa a parer mio, perchè in una poetica versione non si dee pretendere, che il senso d'ogni parola sia trasportato dall'una all'altra lingua rigorosamente, bastando solo che i concetti, e i sentimenti sieno conservati. Riguardo poi alle note, il critico biasima il Carmeli se corregge il testo condannando le sue emendazioni, come non necessarie, e inopportune: lo biasima se non lo corregge, indicando egli stesso parecchie emendazioni, che a suo giudizio si doveano fare. Io confesserò, che talvolta il Reiske ha ragione; ma dubito forte, che ciò succeda non molte volte, e tengo per fermo, che alcune delle correzioni Reiskiane non saranno approvate da altri. Era il Reiske dotto Grecista, ma nelle sue illustrazioni degli antichi scrittori soverchiamente si lasciava trasportare dal desiderio d'alterare il testo. Questo difetto è stato a lui apposto da uomini dottissimi: fra' quali mi piace d'allegarne tre, che tutti riconosceranno come ottimi giudici. Perversam, dice lo Jacobs,[153] Reiskii omnia mutandi libidinem tot exemplis cognitam: e il Brunck[154], che pure non era troppo parco nell'emendare lo condanna, come poco attento alle leggi della prosodia. Reiskius quì minus etiam quam Strepsiades metra curabat etc. Il terzo sarà lo stesso Reiske, il quale parlando delle sue emendazioni a Demostene dice: retractans nunc longo tempore post illa mea ausa demosthenica, incipio nonnunquam vereri ne festinatio me passim locorum praecipitem egerit[155]. Difendendo però in qualche modo il Carmeli da alcune fra le accuse di quel dotto critico non intendo di difenderlo da quelle, che altri potrebbe fargli. Lo condannò l'Heyne dicendo le sue annotazioni nec multum continere novi, nec prodere insignem scientiam linguae, artis criticae, reique metricae[156], ed alla sentenza di tanto giudice niuno sarà che voglia contradire.

L'ordine dei tempi, e la menzione da me fatta del P. Carmeli mi costringe a trattenermi ancor per poco sul teatro Ateniese per parlare d'Aristofane. L'avvocato Invernizzi Romano si adoperò con molta lode ad emendare ed illustrare le sue commedie[157]. A me rincresce, che avendo un giorno letta ed esaminata la sua edizione, ora non l'abbia al presente uopo, nè possa farne quell'accurato elogio che merita il suo dotto lavoro. Parlerò perciò solamente del poco che altri ha fatto intorno a questo poeta. Il P. Carmeli testè mentovato ne pubblicò una Commedia, cioè il Pluto[158], e due ne dette il Nerucci di Siena, cioè lo stesso Pluto, e le Nuvole[159]. Ambedue accompagnarono il testo di traduzione poetica Italiana, e di note dirette a spiegare, ed illustrare l'originale, non a correggerlo, o mutarlo. Nè da Aristofane separerò il suo Scoliaste, e i due comici Filemone e Menandro. I frammenti di questi illustrò il Salvini con alcune sue brevi annotazioni, che poi il Clerc senza sua saputa o licenza pubblicò nel libro intitolato: Philargyrii emendationes in Menandri, et Philemonis reliquias etc. Amstelodami 1711. in 8. Lo Scoliaste poi d'Aristofane fu tradotto in latino, e con molte ed erudite annotazioni spiegato da Francesco Galluppi di Tropea in Calabria. Egli fece ancora un comento a Teocrito, in cui prese a censurare specialmente quel dell'Heinsio, ed uno sopra Stefano Bizantino, che mandò al Dorville perchè fosse inserito nelle sue Observationes Miscellaneae[160].

Maggiore impresa, e più ardimentosa assunse Gio. Vincenzo Lucchesini, che poi fu Prelato nella Corte di Roma, e pel suo valore nella lingua latina meritò d'esser Segretario di più Pontefici. Egli tradusse in Latino, ed illustrò pressochè tutte le orazioni politiche di Demostene[161]; il che io chiamo impresa ardimentosa, perchè nel tempo medesimo prese ad esaminare, e condannare in più luoghi la traduzione del Volfio sommo Grecista. Il Dorville lo biasimò;[162] e il Reiske, se si considera il modo, con cui ne parla nella prefazione al suo Demostene[163], e il non citarlo mai nelle sue annotazioni, mostra abbastanza, che non dissentiva dal Dorville. Tre cose debbono osservarsi nell'opera del Lucchesini: la fedeltà ed eleganza della traduzione, le note critiche sulla traduzione del Volfio, e le note storiche. La fedeltà della traduzione si potrà revocare in dubbio in quei luoghi, in cui discorda dal Volfio, e di questi parlerò dopo. Nel rimanente essa è fedele, quanto si dee richiedere da chi traduce, come oratore, non come interpetre. Riguardo all'eleganza, tutti coloro ve la troveranno grandissima, i quali hanno qualche familiarità con Cicerone, e cogli altri aurei scrittori di quell'età. Le annotazioni storiche sono erudite, sono profonde, si discutono in esse molte belle ed opportunissime quistioni, si illustrano molti luoghi d'altri scrittori, e meritano lode ancorchè non in tutto abbia colto nel segno. Anzi è a parer mio una mancanza grande nel Demostene e negli Oratori attici del Reiske d'avere eccessivamente trascurata questa parte d'illustrazione, che è necessaria a ben intendere le opere degli antichi. Per ciò che spetta alle note critiche confesserò, che egli combattendo contro al Volfio combatteva con armi disuguali. In primo luogo però mi si concederà non esser la traduzione del Volfio quel Sacrario, sul quale non sia lecito di porre le mani. Lo stesso Reiske parlando della sua edizione dice: porro si recundenda interpretatio Volfiana fuisset, non sola mera, intemerata debuisset repraesentari, sed etiam annotationes criticae ei substerni, quibus lapsus ejus benigne indicarentur, et blande castigarentur[164]. No: l'applauso, che a gran ragione meritano le opere del Volfio, non impedisce che vi si trovi qualche difetto, e trovatolo si accenni altrui. Vero è che talvolta il Lucchesini lo condanna a torto, tal altra volta le sue osservazioni si aggirano sopra cose minute troppo, e che non meritavano d'esser censurate. Ma è poi vero altresì che parecchie altre volte le sue critiche sono giuste, e mostrano in lui ingegno acuto e dottrina; e che ciò sia vero non mi si potrà negare dal Reiske almeno allora, quando egli stesso senza citare il Lucchesini ha adottate le stesse spiegazioni e le correzioni del testo, che il Grecista Lucchese aveva proposte cinquantotto anni prima di lui[165]. Colle quali mie estreme parole non voglio già accusare il Reiske di plagio. So che non abbisognava di togliere le emendazioni altrui di nascosto egli che è accusato d'essere soverchio nell'emendare arbitrariamente. Voglio però dir solamente, che se avesse avuto agio di consultar la dotta fatica del Grecista Italiano, se nel gusto della lingua Latina fosse stato così profondo, come era nella Greca Filologia, se avesse stimato più (come doveva) le illustrazioni storiche, che erano pure stimate molto dai Salmasj, dai Pitischi, dai Burmanni, e da tanti altri comentatori delle età trapassate, più assai, che non faceva, avrebbe stimata l'opera del Lucchesini. Degli altri Oratori d'Atene null'altro debbo indicare tranne i Monita Isocratea stampati in Padova dal Facciolati il 1747. e questi stessi per la loro piccolezza non richiedono più lungo discorso.

Coetaneo di Demostene fu Teofrasto, il quale ne' suoi caratteri mostrò quanto ben conoscesse il cuor umano. Il Senatore del Riccio li pubblicò, li comentò, li tradusse[166]; ma la sua opera non ha ottenuto molto plauso. Quelle sue lunghissime note non contengono cose di gran pregio, nè assai felice è la traduzione. L'Ab. Prospero Petroni scrittore della Vaticana ne aveva preparata una edizione. Era noto, che un codice di quella Libreria dava il titolo di due nuovi capitoli, cioè del ventinovesimo, e del trentesimo, i quali mancavano, e si credevan perduti. Il Petroni gli scoperse nel 1740. in un altro codice della medesima Libreria, li copiò, e divisò di dare un edizione di tutta l'opera illustrando il testo, e traducendolo in Latino novellamente. Le notizie letterarie, che si stampavano in Roma dal Pagliarini l'annunziarono nel 1742. dicendo, che i caratteri di Teofrasto sarebbono accresciuti di più del terzo. In fatti si cominciò l'edizione, e l'Ab. Amaduzzi ne aveva i primi tre fogli, che giungevano quasi alla fine del capitolo tredicesimo; ma rimase interrotta, nè se ne sa il motivo. Dopo la morte del Petroni si perdè il suo manoscritto, col quale egli doveva aver preparata tutta l'opera, ed ingiustamente il Siebenkees ed il Goes hanno accusato l'Amaduzzi di plagio asserendo, che egli s'impadronì delle carte del Petroni, e che da queste fece l'edizione, di cui parlerò fra poco. L'Amaduzzi aveva solamente i tre fogli indicati della sua edizione, ed avendo da lui sentito, che in quel codice ai trovavano i due capitoli inediti, li copiò ed eccitò M. Chardon de la Rochette a stamparli. Questi però occupato tutto dell'Antologia non accettò l'invito, ed anzi animò lo stesso Amaduzzi a farlo, siccome eseguì con magnifica edizione Bodoniana il 1797. in 4. Gli si rimprovera non senza ragione di non avere alcuna volta spiegato bene l'originale, ed io gli rimprovererò ancora l'eccessiva e non utile prolissità della prefazione, e delle note, per cui di due brevi capitoli ha fatto un libro di 148. pagine.

Al P. Giuseppe Pagnini dobbiamo un'egregia edizion di Teocrito, ed una di Callimaco[167]. Parlerò solamente della prima, non avendo veduta mai la seconda. Si ha quì il testo di Teocrito Mosco e Bione accuratamente stampato colla versione Latina, e poetica in Italiano. Vi ha aggiunte in fine l'Egloghe di Virgilio colla traduzion Greca di Daniello Alsvort stampata già in Roma il 1594. e l'Italiana dell'editore, ed alcune sue poesie. Egli vi unisce alcune annotazioni, nelle quali ora spiega i luoghi più oscuri, ed ora esamina le emendazioni proposte dai Comentator precedenti, o alcune nuove ne propone tratte dai codici Vaticani da Lui con molta diligenza collazionati.

Gio. Battista Zanobetti pubblicò come inedito l'Idillio di Meleagro sopra la primavera[168], che avevamo più esattamente nelle precedenti edizioni dell'Antologia. Pure fece cosa utile assai, perchè lo illustrò lodevolmente con erudite annotazioni e parecchi Greci Epigrammi. L'Ab. Spalletti, del quale ho già parlato, forse aveva in animo di dare una edizione dell'Antologia di Costantino Cefala, giacchè tutta la trascrisse da un celebre codice Vaticano, ed il suo apografo dopo la morte sua passò ad arricchire la Libreria del Duca di Saxe Gotha[169]. Ora quali altri tesori è da credersi, che egli abbia copiati da quella gran Libreria, e qual uso ne avrebbe egli fatto, se in tempi più felici gli fosse avvenuto di vivere, o più efficaci favoreggiatori de' suoi studj avesse incontrati!

Un altro autore più difficile per la materia, che tratta, e più bisognoso di nuova edizione era Archimede, e richiedeva un editore, che fosse nel tempo stesso buon mattematico, e grecista. Tale appunto era il Torelli, che accintosi all'impresa vi riuscì con somma felicità[170]. Il Bjoernstahel, che ne' suoi viaggi aveva veduta l'opera prima che uscisse alla luce, molto la commendò[171], e tutti gli uomini dotti hanno poi confermato il suo giudizio. I codici non gli hanno recato nessun ajuto, e il dotto editore ha dovuto correggere il testo guidato solamente dal proprio ingegno, il che ha fatto egregiamente, e quindi v'aggiunse la traduzion latina. Un altro mattematico fu illustrato da Antonio Matani cioè Eliodoro, ma piccolo è il libro, e il nuovo editore non v'adoperò molta fatica non abbisognando il testo d'emendazione[172].

Molto fece altresì per l'Argonautica d'Apollonio il Cardinal Flangini[173], il testo della quale arricchì di poetica traduzione, di doppio genere di note e di copiose varianti. Delle note alcune servono ad illustrare il testo, o a correggerne la lezione, o a dar ragione della traduzione. Ma in ciò che si spetta alla correzione del testo egli non fa quasi altro, che dar giudizio delle emendazioni del Brunck, le quali spesso egli suole adottare. Ora sarebbe stato a desiderarsi, che avendo collazionati alcuni codici Romani, e recatene le varianti avesse poi fatto qualche uso delle migliori fra queste in quelle sue annotazioni. L'altro genere di note appartiene alla spiegazione delle favole mitologiche, nella quale egli si diffonde con molta erudizione, e merita somma lode.

Molto dopo questi scrittori dovrei porre l'opuscolo sul sublime, che porta il nome di Longino, e comunemente a quel Longino si attribuisce, il quale viveva presso Zenobia Regina di Palmira nel terzo secolo dell'era volgare. Ma recentemente il dottissimo Sig. Amati scrittore della Vaticana non senza probabilità ha sostenuto, che l'autor sia Dionisio d'Alicarnasso, di che si veda l'edizion fatta in Lipsia il 1809. di quell'opera. Credo perciò di poter collocare fin d'ora a quest'epoca l'edizione di quell'opera, che il Gori dette in Verona con traduzione Italiana, e Latina arricchita di non dispregevoli annotazioni[174].

Più special menzione domanda ciò che si è fatto intorno a Dione Cassio. Notissimo è quanto poco sia fino all'età nostra pervenuto della sua storia, e quanto dannosa sia la perdita del rimanente. Nicolao Carminio Falcone con un Codice antichissimo della Vaticana pretese di darne gli ultimi tre libri, e gli stampò a Roma nel 1724. Ma tutto ciò, che egli pubblicò, o era già stampato assai prima, o non sono che tenui avanzi di poca o niuna utilità. Il Reimaro in una lettera diretta al Cardinal Quirini, e stampata in Amburgo il 1746. lo censurò per non avere assai esattamente collazionato quel codice, confrontandolo coll'epitome di Xifilino, e per non avere bene inteso l'autore in alcuni passi: vuolsi però temperare alquanto la severità di questa censura. Il Codice fu prima pubblicato da Fulvio Orsino, ed essendo esso malconcio, e guasto vi lasciò molte lacune, le quali furono supplite in parte dal Falconi, usando molta diligenza, e ricorrendo appunto a Xifilino, il che non era caduto in mente al dottissimo Orsino. Vuolsi dunque dargli lode di quel che ha fatto, e non riprenderlo soverchiamente, perchè non ha fatto di più. Egli poi pretese di far molto più e ristabilire i primi libri,[175] credendo d'aver tanta esperienza dello stil di Dione da conoscer ciò che vi può esser di suo negli altri scrittori, che ne avessero copiata alcuna cosa senza citarlo. Altro però non fece che un centone tratto da Dionisio d'Alicarnasso, Plutarco, Zonara, e Tzetze.

Più benemerito di Dionisio, è stato uno de' più grandi letterati, che a' passati giorni vantasse l'Italia, cioè il chiarissimo signor Cavalier Morelli celebre Bibliotecario di S. Marco a Venezia. Egli da un codice del secolo undecimo, che fu già del Cardinal Bessarione, ed ora è nella Libreria di S. Marco, alla quale con tanta lode presiedeva, trasse molte pregevoli varianti, ed alcuni insigni frammenti di questo istorico, e li pubblicò in un libretto piccolo di mole, ma grande di pregio[176]. Al medesimo signor Cavaliere dobbiamo ancora un'orazione d'Aristide contro Leptine, una di Libanio a favor di Socrate, e un lungo frammento dei Ritmici d'Aristosseno[177], il che era inedito, ed egli mandandolo in luce lo ha accompagnato con un'elegante traduzione latina, e con prefazione, e note dottissime, quali da lui si poteano aspettare.

Ma ciò che per una certa singolarità supera ogni altra cosa sono i papiri d'Ercolano. Il giorno 3. di Novembre del 1753. sarà memorabile sempre ne' fasti della Storia letteraria per la scoperta, che in esso se ne fece. Sono questi in rotoli mezzo bruciati, ed il Mazzocchi fu il primo, che si accorgesse che erano papiri. Qual fosse allora la sua allegrezza per sì fatta scoperta si può piuttosto immaginare, che descrivere. Difficile era lo svolgerli ma il P. Antonio Piaggio Genovese delle scuole pie riuscì a trovare una macchina, ed il metodo opportuno a questo intento; il che poi fu descritto dal Vinkelmann, dal Bartel, e nelle lettere de' Signori Heinse, Gleim e Muller. Svolti i papiri si copiano esattamente, ed il Mazzocchi da prima fu incaricato di tradurli in latino ed illustrarli. A lui successe l'Ignarra, e a questo il dotto Monsignor Carlo Rosini Vescovo di Pozzuolo. Un solo volume abbiamo fino ad ora per frutto delle sue fatiche, e contiene il quarto libro dell'opera di Filodemo contro la Musica[178]. Non mi è riuscito di vedere quest'opera pregevolissima, onde son costretto di seguire favellandone le altrui relazioni. Il chiarissimo Prelato editore ne' prolegomeni parla eruditamente di Filodemo, ed illustra alcuni de' suoi epigrammi[179]. Il suo comento sull'opera contro la musica mostra ingegno acuto, e profonda dottrina; ma lo svolgimento de' Papiri è così difficile, che quantunque si adoperi ogni diligenza non si possono ottenere, che frammenti confusi, intorno ai quali invano s'affatica l'editore per deciferarli.[180] Nè è da sperarsi, che nuove cure nello svolgerli possano dare un esito più fortunato. Infatti alcuni papiri furono dalla Corte di Napoli donati (son già alcuni anni) al Principe di Galles, ora Re di Inghilterra, intorno ai quali con niun successo l'Inglese Hayster si è affaticato per interpetrarli. E non migliori speranze ha la classe della storia dell'Instituto Francese, alla quale Buonaparte ne contò sei[181]. Può sperarsi però, che qualche papiro si trovi meno indocile alle cure assidue di quelli, che sono incaricati di questa fatica, il che sarebbe di sommo vantaggio al coltivamento de' buoni studj[182]. Ed ove ancora tutti fossero ugualmente difficili, se ne raccorranno almeno de' frammenti, che saranno utili, e preziosi avanzi d'un immenso e ricchissimo naufragio. Si dice che 1700. sieno i papiri trovati fra le rovine d'Ercolano, e che intorno a 300. sieno quelli già svolti, o su' quali si è fatto qualche tentativo.[183] Oltre all'opera già indicata di Filodemo due altre se ne sono trovate dell'autor medesimo, cioè due libri sulla Rettorica ed uno sopra i vizj e le virtù ad essi opposte, si parla pure d'altre opere di Demetrio, d'Epicuro, di Polistrato discepolo di Epicuro, ma comunemente quei papiri non hanno nome d'autore. Un solo latino se n'è trovato di cui parlerò altrove.

Con molto minor fatica le opere degli antichi si trovano ne' codici delle Librerie d'Italia, e molte se ne trovano inedite, delle quali alcune han veduta per la prima volta la luce nel passato secolo. Fra queste nominerò in primo luogo diciassette orazioni di Libanio, che il Buongiovanni stampò in Venezia.[184] Egli non avvertì, che fra queste quella contro Severo era già stampata dal Morell, il che gli rimprovera il Reiske, e molto più lo condanna per la traduzione, e per le note, che vi aggiunse delle quali parla in modo aspro e mordace più assai del dovere e del giusto.[185] Il Cocchi dotto medico e buon Grecista raccolse le opere degli antichi Scrittori di Chirurgia,[186] e da un codice de' Monaci Benedettini di Firenze trasse l'elegantissimo Romanzo di Senofonte Efesio, che poi ristampò in Lucca[187] in quattro lingue.

Il Baron Loccella che di quest'opera ha data una nuova ed egregia edizione in Vienna mentre loda l'editore Lucchese d'alcune ingegnose, e felici correzioni, lo rimprovera poi di non avere emendati parecchi altri evidenti errori di quella di Londra, e d'averne anzi aggiunti alcuni, che in quella non erano. Ma l'amore della verità richiede, che io conceda alcune parole di risposta a quest'accusa. Quello che il Loccella chiama editor Lucchese era il testè defunto Malanima, dotto Professore nella Pisana università che fu pregato soltanto di emendare gli errori tipografici. A lui non si lasciavano i fogli, se non quanto bastava per quest'oggetto, nè poteva egli vedere, se il tipografo faceva le correzioni da lui segnate, o se volendo pur farle, cadeva (come spesso avviene) in nuovi errori. Vuolsi dunque lodarlo molto d'avere in parecchi luoghi migliorata l'edizione inglese in tanta angustia di tempo; nè gli si può attribuire a colpa di non aver fatto anche più, e molto meno gli si possono rimproverare gli error tipografici.

Al Cocchi succeda un altro medico, e grecista ottimo, il Sig. Gaetano d'Ancora, che nel tempo stesso ha giovato alla Greca lingua, ed alla storia naturale con una nuova eccellente edizione del libro di Senocrate sugli alimenti, che si ricavano dagli animali acquatici,[188] pregevolissima per l'emendazione del testo, e per le dotte illustrazioni e varianti di che è arricchita. Nè minor giovamento prestarono alla storia delle filosofiche oppinioni degli antichi il P. Corsini colla sua edizione del libro di Plutarco de placitis Philosophorum[189] e il Sig. Ignazio Rossi exgesuita colle sue Commentationes laertianae[190] e il secondo principalmente, che molti luoghi o scorretti, o male interpetrati prima di lui, emenda o spiega felicemente. All'antica Geografia recò non mediocre giovamento il P. Alessandro Politi stampando e traducendo il poemetto di Dionigi Periegete de situ orbis, e il comento d'Eustazio, e poi illustrandolo con erudite annotazioni.[191] Volle poi correr di nuovo lo stesso arringo stampando un'altra volta quel libro, colle sue annotazioni molto accresciute, e con Rufo, Festo, Avieno, e Prisciano, e già l'impressione era cominciata; ma per mancanza di danaro, e di mecenati rimase interrotta.[192]

Si può aggiungere a questo la storia Bizantina di nuovo pubblicata a Venezia, e massimamente l'appendice, che il Foggini ne dette in Roma stampando per la prima volta le opere di Giorgio Pisida, Teodosio Grammatico, e Corippo.[193] Appendice di quella storia si può chiamare altresì la vita di Giorgio o Gregorio Ciprio Patriarca di Costantinopoli data in luce dal P. de Rossi.[194] A un altro Impero, cioè a quello di Russia aveva rivolti i suoi studi l'Ab. Vernazza scrittor Greco della Vaticana che da' codici di quella libreria voleva pubblicare gli ammaestramenti, che lo Czar Basilio aveva dati al figlio Giovanni con molti altri trattati, e discorsi del medesimo:[195] ma qualunque ne sia stato il motivo non eseguì il suo disegno.

Benemeriti di sì fatti studi si rendono eziandio i raccoglitori d'opuscoli non mai impressi, i quali con Greca voce chiamano aneddoti. Il che pe' greci scrittori soltanto fecero alcuni, cioè il Muratori[196] e il Canonico Bandini:[197] ed altri più ampiamente gli hanno raccolti come il Lami,[198] il Mingarelli[199] il P. Lazzari[200] e l'Amaduzzi[201] benemeriti pure ne sono gli autori de' cataloghi di manoscritti, che le ricchezze nascoste nelle librerie d'Italia hanno indicate a pubblica utilità, e vi hanno inseriti parecchie cose di questo genere, il Canonico Bandini in quello della Laurenziana, il Buongiovanni in quello della Veneta di S. Marco, il Mingarelli per la Naniana[202] oltre agli autori del catalogo della libreria Reale di Torino, de' quali ho già parlato.

Se poi di tutti gl'italiani, che utilmente si sono affaticati nel pubblicare i Greci scrittori Ecclesiastici volessi tener minuto discorso troppo sarei costretto di diffondermi. Basterà per tanto d'indicarli brevemente. E in primo luogo non farò che accennare le venete edizioni di S. Ireneo, Clemente Allessandrino, Origene, S. Basilio, S. Giovanni Grisostomo, S. Cirillo Gerosolimitano, S. Giovanni Damasceno, alcune delle quali in ciò che spetta alla tipografia uguagliano, ed anche vincono le celebri Francesi de' Maurini. Accennerò pur solamente gli scrittori della storia Ecclesiastica ristampati in Turino non però così correttamente, come erano stati in Cambridge. Più special menzione richiedono le instituzioni teologiche de' PP. antichi raccolte prima dal B. Cardinal Tornasi, e poi di nuovo arricchite di note dal P. Anton Francesco Vezzosi,[203] la storia ecclesiastica d'Eusebio ristampata dal P. Tommaso Cacciari,[204] l'anonimo scrittore d'un'altra storia ecclesiastica pubblicato da Gio. Battista Bianconi,[205] il S. Gregorio di Girgenti tratto per la prima volta dai codici per opera del chiarissimo Gesuita Morcelli,[206] al quale dobbiamo ancora un'egregia illustrazione del Calendario di Costantinopoli,[207] la spiegazione Pseudo-Atanasiana sul simbolo per opera del P. Giuseppe Bianchini dell'Oratorio,[208] la spiegazione di Filone della cantica per opera di Monsignor Giacomelli,[209] il vetus officium quadragesimale de' Greci Ortodossi dal Cardinal Quirini, quando era tuttavia monaco,[210] un'Omilia di Eusebio Alessandrino in Parasceven,[211] le opere di Dionisio Alessandrino,[212] e gli atti de' Martiri d'Ostia[213] da Monsignor de Magistris Vescovo di Cirene, nelle quali due edizioni egli dà una luminosa conferma di quella cognizione delle lingue orientali che aveva dimostrata, nel suo Daniele, una lettera Greca di Francesco Filelfo dall'Ab. Angelo Teodoro Villa[214]. Del Daniele del citato P. De Magistris terrò discorso, quando dovrò parlare di quello in lingua Siriaca pubblicato dal chiarissimo Signor Dottor Bugatti. Finalmente non debbo tacere, che il Signor Gerbini Assistente della Real libreria di Torino meditava di pubblicare le quistioni Amfilochiane di Fozio da un manoscritto di quella libreria, nel quale esse ascendono al numero di 297. Egli aveva già tutto copiato il testo Greco, e ne apparecchiava la versione, ma qualunque, ne sia la ragione la sua fatica restò inedita. Il Bjoernstaehl attribuisce questo lavoro all'Ab. Berta; ma il Signor Peyron, da chi ho ricevute queste, ed altre parecchie pregevoli notizie mi ha avvisato, che appartiene al Gerbini.

Anche gli editori delle antiche inscrizioni sono illustratori delle lingue, laonde essi pure non debbono essere dimenticati. Il Muratori nel suo Tesoro, il Donati nel supplimento, il Gori nelle iscrizioni Doniane e in quelle della Toscana dettero iscrizioni Greche, ma l'indole di queste opere non era tale, che porgesse loro occasion favorevole per far conoscere una perizia non ordinaria in questa lingua. Maggiori Grecisti si mostrarono nel Museo Veronese il Marchese Maffei, in varie opere il P. Corsini, ne' monumenti del Peloponeso il P. Pacciaudi, e nelle due iscrizioni di Regilla il sommo antiquario Signor Visconti cui la Francia poi rapì all'Italia. Non bastò ai tre ultimi principalmente di mostrare il lor valore in questa lingua pubblicando, e spiegando iscrizioni; ma vie più lo mostrarono in queste, e nelle altre opere d'antiquaria interpetrando ed emendando gli antichi scrittori. Ed io son d'avviso, che se il Pacciaudi, ed il Visconti non si fossero rivolti a maggiori imprese, e avessero voluto coltivare ex professo quella parte della critica, che si aggira intorno alla emendazione delle opere antiche non sarebbono mancati all'Italia gli Hemsterhusi, gli Heyne, e i Wittenbach. Lo stesso dicasi d'altri parecchi, che in ciò si sono esercitati quasi per ozio. Tali sono oltre il Mingarelli, il Pagnini, ed altri nominati di sopra, il Martorelli nelle sue opere d'antiquaria, l'Ignarra nelle annotazioni sopra l'inno a Cerere attribuito ad Omero, il Salvini in varie opere, e massimamente nelle emendazioni di Menandro e Filemone, di cui pure ho già fatta parola. A questi si deve aggiungere Benedetto Averani, che nelle sue dissertazioni parecchi luoghi dell'Antologia, di Tucidide, ed Euripide tra i Greci, di Livio, Cicerone, Virgilio tra i Latini spiega o corregge.[215] Anche l'Almagesto di Tolomeo avrebbe ottenuto da lui somigliante favorevole officio, ed i Comentarj di Teone, di Nicolao Cabasila, e di Pappo sull'Almagesto, le quali opere aveva egli cominciato a trasportare in latino, ed a collazionare coi codici Laurenziani: ma poi ne abbandonò l'idea, quando seppe, che il Viviani dal Cardinal Leopoldo de' Medici aveva ottenuto un Codice contenente la traduzione de' Comentarj di Teone fatta da Teofilo d'Urbino, e che questi troppo liberalmente donata l'aveva non so a qual Francese a condizione che ritornato in Patria la desse alle stampe. Ma il Francese quanto fu facile a ricevere il dono, altrettanto fu restio a mantenere la data fede.[216] Al secolo diciassettesimo a dir vero appartiene Benedetto Averani più presto che al diciottesimo: siccome però in questo egli è morto, in questo sono stampate le sue dissertazioni, ho giudicato non alieno dal mio argomento il farne parola. All'Averani si unisca il P. Politi. Fino dagli anni suoi giovanili egli coltivò questa parte della critica, e non cessò di coltivarla finchè visse. Molto si adoperò per illustrare l'Etimologico magno, Stefano Bizantino, Dionisio d'Alicarnasso, Erodoto, e Marziale; ma nulla di ciò è uscito in luce. Se però dalle annotazioni sopra Eustazio possiamo trarre argomento, di leggieri c'indurremo a credere che utile ne sarebbe la pubblicazione.[217]

Traduzioni. CAPO IX.

Dopo aver finquì parlato degli editori vuolsi ora far passaggio ai traduttori. Questi però sono tanti di numero, che reputo conveniente di tralasciare del tutto coloro, che poche, e piccole cose hanno volgarizzate. Degli altri poi parlerò brevemente, tranne alcuni che richiedono più lungo ragionamento. E in primo luogo si dee molto commendare il chiarissimo Sig. Ab. Rubbi, il quale con ottimo divisamento prese a raccogliere le versioni dei poeti tolti d'ogni età, e d'ogni nazione, e solamente è da dolersi, che la morte dello Stampatore Zatta abbia interrotto così util disegno[218]. Nè bastò a lui d'esser giudizioso editore, ma fu ancora traduttore elegante, inserendovi oltre ad alcuni pezzi biblici, (i quali non essendo volgarizzati dall'originale non appartengono alla presente trattazione) la versione del poemetto di Museo sugli avvenimenti d'Ero, e Leandro, che ivi si legge da lui recato in bei versi sciolti. Due sono i traduttori, che per certi riguardi a mio giudizio richiedono special menzione, cioè Anton Maria Salvini, e il Cesarotti. Moltissime son le traduzioni fatte dal primo, parecchie stampate, ed alcune inedite; e sono tante, che appena si crederebbe esser lavoro d'un solo uomo. Egli volgarizzò Omero, Esiodo, Anacreonte due volte, Callimaco, Teocrito, Oppiano, Orfeo, Nicandro, Teognide, Museo, Trifiodoro, Coluto, Senofonte Efesio, Epitteto, Quinto Calabro, Nonno Panopolita, alcune cose d'Euripide, d'Aristofane, di Proclo, di Luciano, di Diogene Laerzio, di Plotino, di Libanio, e di S. Gregorio Nazianzeno, oltre ad alcuni scrittori Latini, Francesi, Inglesi, e a molte altre produzioni letterarie. Egli traduce sempre letteralmente, avendo cura di rendere Italiana quasi ogni parola dell'originale. Lo stesso si dica delle versioni da lui fatte in latino, e di quelle che dal Latino ha fatte in Italiano o in Greco. Ora ognun vede, che traducendo così in versi i poeti debbono le sue versioni esser prive di quella grazia o maestà o forza, che hanno gli originali. E tali sono veramente; onde gran lamento si fa da molti contro a lui per questo appunto. Anzi non v'ha quasi traduttore buono o mediocre (parlo di quelli, che si sono allontanati dal metodo Salviniano) il quale non l'abbia a quando a quando voluto mordere. Ma tanti rimproveri sono poi giusti? Era il Salvini assai buon poeta, come si vede dalle sue rime; e se nelle versioni usò modi triviali, e diciam anche plebei che non usò poi nelle rime, è manifesto segno, che egli non volle in queste esser poeta, e solamente ebbe in mira di giovare a coloro, che hanno bisogno di qualche ajuto per intendere quegli Autori. Laonde il biasimar lui, perchè non ha conservata la dignità la grazia e gli altri pregi de' Greci Poeti, è lo stesso che se altri biasimasse il Cesarotti, perchè non ha espresso nella morte d'Ettore il rigoroso significato di qualche parola, o di qualche espressione dell'Iliade. Ha egli tradotto in versi, perchè forse credeva, che, qualunque sia il fine, che altri si propone traducendo, fosse disdicevole di recare in prosa le opere de' Poeti; non perchè usando la misura de' versi giudicasse necessario adoperar lo stile proprio della poesia: cioè prese dalla poesia tutto quello, che poteva senza allontanarsi dal suo scopo. Un altro fine ancora ebbe egli forse, o almeno un altro vantaggio si ritrae da' suoi volgarizzamenti, ed è il vantaggio della nostra lingua. Molte voci, e maniere di dire, che erano disusate richiamò a nuova vita, molte ne tolse dalla lingua Greca dalla Latina dalla Francese ad arricchire il tesoro della nostra. I suoi contradittori hanno avuto in mira d'emulare quanto era possibile gli originali, sforzandosi di rappresentare con parole, e modi Italiani, o Latini la grazia, la forza, la dignità loro, mentre procuravano di rappresentarne il senso. Quantunque io confessi, che non sempre sia riuscito al Salvini di conseguire i fini, che si era proposti, pure desidero, che i suoi critici non si siano mai allontanati dal loro meno di quello, che egli abbia fatto dal suo.

Ho detto, che al Salvini non è sempre riuscito di conseguire ciò che si era proposto, volendo intendere, che non è stato sempre fedele all'originale. Questo rimprovero gli fece Giuseppe Torelli,[219] al quale però procurò di rispondere il Lami sotto il nome di Accademico Apatista nelle Novelle Fiorentine del 1747. Glielo fece altresì il celebre Ab. Lazzaro Spallanzani, che la sua carriera Letteraria cominciò con due lettere dirette al Conte Algarotti,[220] nelle quali esamina i primi due libri della traduzion dell'Iliade. E in altri volgarizzamenti ancora altri potrà notare qualche difetto. E perchè no? In una notte tradusse Museo, come si vede da una postilla, che egli vi aggiunse in fine. E gli altri suoi volgarizzamenti debbono pure esser fatti con molta fretta, il che si deduce dal loro numero grande, e dal numero pur grande dell'altre cose sue. Che se Omero dormicchia talvolta, come dice Orazio, e chi è discreto, gliele perdona, può ben dormicchiare anche il Salvini. Ma la sua negligenza non è frequente, ed è perdonabile. Pure le sue versioni meriterebbono d'essere alquanto più accarezzate dagli eruditi, e dirò anche studiate, e ne ritrarrebbono ottime emendazioni degli originali. Ognuno se ne potrà di leggieri persuadere, ove solamente si prenda fra mano il Senofonte Efesio del Baron Loccella, che più, e diverse volte lo fa vedere. So che l'Hemsterhusio, l'Abresch, il d'Orville, e sopra gli altri il Loccella hanno molto più del Salvini giovato alla correzione di quel romanzo. Ma essi lo studiarono lungamente a fine d'emendarlo, ed il Salvini lo leggeva per tradurlo, e traducendo faceva quelle emendazioni, che spontanee gli si presentavano alla mente.

Certo è che dottissimo era nella lingua Greca, e il Pope non molto modestamente soleva dire, che due sole persone a' tempi suoi erano al Mondo, le quali sapessero bene questa lingua, cioè il Salvini in Toscana, ed egli stesso in Londra. Io non dirò tanto nè dell'uno nè dell'altro, ma francamente asserisco, che ambedue erano dottissimi, e del Salvini lo mostrano i contrastati suoi volgarizzamenti, fra' quali non tiene l'ultimo luogo quello testè citato di Senofonte Efesio, e tiene il primo per l'eleganza, colla quale ha ottimamente emulato l'elegantissimo originale.

Il Cesarotti è l'altro traduttore di cui vuolsi far, come ho detto, più special menzione. Osserva il Salvini una scrupolosa fedeltà; segue il Cesarotti una libertà or più or meno grande. Non tenne egli questo metodo volgarizzando il Prometeo d'Eschilo nel qual lavoro fu Salviniano anzi che no.[221] Ma poi nella traduzione di Demostene, nel corso di letteratura Greca, ed in Omero fu molto diverso. E quì, se pongo mente alle molte cose, che meriterebbono d'essere esaminate, ed alla riputazione grande, alla quale questo celebre letterato è salito, mi vedo costretto ad entrare in un campo vasto e pericoloso e superiore di molto alle mie deboli forze. Pure dirò ciò che sento, e lo dirò più brevemente che mi sarà possibile.

Volgarizzò il Cesarotti l'orazioni politiche di Demostene, quelle della corona, e dell'ambasceria colle contrarie d'Eschine, e le criminali, e in ciò fare volle essere fedele, ma non servile, prendendo qualche discreta libertà dove non solamente il genio della lingua nostra lo richiedeva, ma ancora qualche piccolo difetto dell'originale pareva a lui, che lo consigliasse. Tutti debbono confessare che le orazioni scritte da Demostene per le cause civili sono inferiori alle altre. Il Cesarotti non le volle tradurre, nè lo condanno per ciò; giacchè non era obbligato a tradurre tutto. Ne fece però l'analisi, e ne tradusse i pezzi più belli, e dobbiamo essergliene grati. Lo stesso fece nel corso di letteratura Greca riguardo a quelle Aringhe dei Greci Oratori che a lui sembrarono meno felici, e volgarizzando quelle solamente che reputava megliori. Ma ciò che non posso non biasimare è un certo disprezzo col quale sovente egli tratta quegli scrittori. In due difetti contrari principalmente si può cadere giudicando gli scrittori antichi, cioè o di stimarli troppo, come se fossero più che uomini, e niente possa essere in loro che non sia perfetto, e in questo errore cadde Madama Dacier, o di sprezzarli troppo, come faceva l'Ab. Terrasson. Il primo errore certamente non è proprio di questa età, nella quale ormai pochissimo si studia la Greca lingua, e non molto la Latina. Quindi il gridare continuamente contro gli scrittori Greci essere deve pernicioso alla gioventù, e non può non alienarla vie più dallo studiare que' gran Maestri. Il Cesarotti protesta, che egli riprende l'ingiusta pretensione d'alcuni, che esaltando gli antichi voglion deprimer troppo i moderni. Ma le sue osservazioni tendono, se non m'inganno, a provare assai più di ciò, che egli dice. Rechiamone un esempio. Nell'analisi dell'aringa di Demostene contro Conone egli osserva, che i giovani d'Atene delle migliori famiglie erano dissoluti, e insolenti; e poi dice così «Dica ora chi ha fior di senno se possa credersi che gli Ateniesi con una tale educazione possedessero esclusivamente quella squisitezza di gusto, quel senso delicato del bello del gentile e del conveniente, che si comunica all'espressioni ed alle parole. La politezza dello stile va del pari con quella delle maniere. Ambedue sono il risultato del complesso delle idee dominanti nel sistema della vita socievole: e queste non si riconoscono più chiaramente quanto dai divertimenti generali d'una nazione. I bordelli, e le taverne sono scuola di tutt'altro che di politezza; nè la decenza può essere du bon ton, ove la sfrenatezza, e la crapula son du bel air.[222] » Se queste parole provassero qualche cosa proverebbono, che gli Ateniesi (e diciam pure de' Greci in generale) non avevano politezza di stile, non senso delicato del bello del gentile del conveniente: di che lascio il giudizio agli uomini sensati d'ogni età, d'ogni culta nazione. Condannerò sempre coloro che frequentano i bordelli, e le taverne; ma credo che fra questi esser possano buoni poeti, buoni storici, buoni Oratori. Se quelle parole provassero qualche cosa proverebbero ancora che non potevano i Greci aver buoni pittori, scultori, e architetti, giacchè non vedo, come non si dovessero applicare alle arti loro quelle riflessioni. A me pare che il Cesarotti dotato d'ingegno acuto talvolta si lasciasse trasportare da questo, e quindi prendesse a sostenere certe opinioni lontane dal comune pensamento degli uomini. Egli era ammiratore degli scrittori Francesi, e dichiara M. d'Alembert autorevolissimo in letteratura, e in filosofia ugualmente.[223] Io lo credo autorevolissimo in mattematica, ma (non parlando della filosofia) poco o nulla nella letteratura. Egli dopo aver condannati parecchi scrittori antichi, ed Omero massimamente chiama poi M. Thomas dittatore dell'arte degli elogi, e quel che è molto più incomparabile[224]. Certo è che chi pensa in questo modo non può esser favorevole agli antichi.

Il Greco scrittore, che sopra ogni altro fu celebrato, è quello stesso che più d'ogni altro è stato criticato dal Cesarotti. Questi è Omero. Prese egli da prima a far traduzione poetica molto libera dell'Iliade, ma poi gli parve così difettoso quel poema, che stimò opportuno di fare un poema quasi nuovo in cui, seguitando in generale le tracce d'Omero se ne allontana quando egli crede, che esso abbia errato, cambiando anche il titolo d'Iliade in quello di morte d'Ettore. Vi aggiunse oltre a molte altre cose la versione in prosa, e moltissime annotazioni erudite, e critiche. In queste si leggono bellissime osservazioni, che possono essere di grande utilità, e degne sono di un uomo grande, com'egli era. Ma nel tempo stesso fra le critiche se ne trovano parecchie, che molti stimano non giuste. Lascio stare la celebre pasquinata, che contro lui fu fatta, perchè odio le satire, colle quali arti non si dee riprender niuno, e molto meno un uomo celebre. Il Chiarissimo Signor Ab. Ciampi ora Professore di lingua Greca nell'università di Varsavia si oppose al critico Padovano in una maniera più nobile, e degna di lui. Non ha egli preso a tessere una minuta apologia d'Omero, che troppo lunga opera sarebbe; ma esaminando le principali accuse ad esse ha risposto senza mordacità, ma con energia[225]. Egli per tanto ha risparmiata a me la fatica di parlare più a lungo di questo oggetto. Dirò piuttosto succintamente qualche cosa delle traduzioni degli Oratori, e di quella in prosa dell'Iliade, che ho già indicate. Generalmente sono queste fedeli, ed eleganti; vi scorgo però talvolta qualche negligenza. Ne recherò due soli esempi per non abusare della sofferenza dei leggitori. Sarà il primo nell'Archidamo d'Isocrate, dove si legge: sovvengavi di quegli antichi Lacedemoni, che fattisi incontro agli Arcadi con una sola banda d'uomini armata di scudo molte migliaja di nemici messero in fuga.[226] Sarebbe alquanto strano, che gli Spartani si esponessero contro i nemici armati non d'altro che di scudo, cioè d'un'arma arma difensiva; nè meno strano sarebbe, che così li ponessero in fuga: e non credo che in tutta la storia militare si trovi esempio di ciò. Il testo Greco dice ἐπὶ μιἆς ἀσπίδος παραταξαμἑνοι. Ora è noto, che ἀσπίς si adopera per denotare il soldato e che la proposizione ἐπὶ con un numero cardinale in genitivo se è declinabile significa spesso ordinanza o di fronte o di profondità. Οι δὲ Θηβαἶοι οὐκ ἒλαττον ἢπὶ πενυήκοντα ἀσπίδων συνεςραμμένοι ᾖσαν I Tebani avevano non meno di cinquanta soldati di profondità dice Senofonte[227]. Quindi le parole d'Isocrate si dovevano spiegare, disposti in una sola fila. L'altro esempio sarà preso dall'Iliade. Teti nel libro 18. dolendosi, che Achille dovesse presto morire dice secondo il Signor Cesarotti così: Lassa: che dopo aver partorito un figlio........ che cresceva simile a pianta, poichè l'ebbi allevato siccome pianta in campo fecondo ec. Ed ivi egli aggiunge questa nota. L'immagine è bella e buona. Ma era poi necessario di replicarla in due versi consecutivi? Il Bitaubè afferma, che questa è una bellezza. Lo creda chi vuole, ma è certo, che in un moderno si chiamerebbe una vera battologia.[228] Ecco ora le parole dell'originale

.......ὁ δ᾿ἀνέδραμεν ἔρνεϊ ἶσος Τόν μέν ἐγὼ θρέψασα, φυτὸν ὡς γουνῷ ἀλωἦς. κ.τ.λ.ε.

Ερνος in questo luogo è una pianticella tenera, φυτὸν è la pianta già cresciuta. ερνος, ὂ κλάδος dice l'autore del Lessico degli spiriti pubblicato da Valckenaer con Ammonio p. 218. Apollonio nel Lessico Omerico, ἁρνεϊ. δένδρῳ θαλλοντι, ed Esichio, ἔρνος. κλάδος ςέλεχος δένδρον βλάστημα, e in ultimo luogo φυτόν. Se il Signor Cesarotti avesse usato in vece di pianta nel primo luogo il vero significato di ἔρνος, non avrebbe ravvisato quì veruna battologia; ma un'elegante, e necessaria continuazione di metafora. Teti si rammenta delle materne cure da lei usate per Achille, quando nella sua puerizia era quasi tenera pianticella, e si duole, che debbano queste esser perdute ora, che è pervenuto alla giovinezza, ed è quasi pianta vigorosa, e fiorente.

Altri hanno poeticamente tradotta l'Iliade, e l'Odissea. Lascio stare il Lucchese Bugliazzini, che non merita d'esser ricordato per l'infelicissima sua versione[229]. Parliamo piuttosto del Bozzoli del Ceruti e del Ridolfi. Il primo[230] volle usare l'ottava rima, aggiungendo così una difficoltà maggiore, quasi che il mestier di tradurre non fosse abbastanza difficile per se stesso. Volle imitare lo stile dell'Ariosto, cioè lo stile il più lontano da Omero. Io cerco in lui la forza poetica dell'originale, ma la cerco inutilmente: e molte volte vi trovo il senso snervato in una parafrasi, la quale spesso aggiunge ancora ciò che il poeta Greco non dice. Meglio pensarono il Ridolfi e il Ceruti, che usarono il verso sciolto. Del primo non ho veduto che qualche breve squarcio, nel quale ho trovata fedele la versione, ma non abbastanza poetica[231]. Più poetica è l'Iliade del Ceruti, e più commendabile di quante ne ha prodotte il secolo decimottavo, e bene avvisò l'Ab. Rubbi, che la scelse pel suo Parnaso. Pure assai volte non è nè fedele nè poetica, onde rimase ad altri libero il campo di far cosa migliore[232]. Il Marchese Maffei cominciò a trasportar l'Iliade in versi sciolti, e ne pubblicò i primi due libri, ma non è molto a dolersi, che non abbia compito il suo lavoro[233].

Fra i volgarizzatori dell'Odissea oltre al Bozzoli, di cui ho già parlato può meritare qualche menzione il P. Soave.[234] Egli giudicò che due cose diverse si debbano considerare in questo poema, cioè il ritorno d'Ulisse in Itaca e i mezzi da lui usati per vendicarsi de' proci e rimettersi al possesso del regno. Tradusse la prima parte solamente, e in questa pure tralasciò il viaggio fatto da Telemaco per rintracciare il padre, onde dal v. 87. del litro I. salta improvviso al 28. del V. Pare per tanto che il P. Soave condannasse l'Odissea, come mancante d'unità, e l'episodio del viaggio di Telemaco come strano, e non tendente al fine del poema: il che non tutti gli vorranno concedere. In ciò poi che gli è piaciuto di volgarizzare trovo comunemente bastevole fedeltà, non però quell'anima poetica, che si ravvisa nell'originale. Manca dunque una buona traduzione dell'Odissea, e l'aspettiamo dal Signor Marchese Ippolito Pindemonti, che tanti saggi ha dati del suo valore in questo genere, ed è senza dubbio uno dei più illustri poeti, che vanti l'Italia in questa età. Egli ne ha già pubblicati i primi due libri con sommo plauso, ma essi appartengono al secolo decimonono; onde non è di questo luogo il parlarne. Più felici traduttori hanno avuto gl'inni, che portano il nome d'Omero. Quello a Cerere fu egregiamente volgarizzato dallo stesso Signor Pindemonti, e dal P. Pagnini, e quello a Venere da Dionigi Strocchi e da Amarilli Etrusca, cioè dalla Signora Teresa Bandettini celebre ugualmente nel far versi estemporanei, e meditati. Non parlo della guerra de' topi e delle rane, che il Ricci, ed altri hanno recata in versi Italiani; perchè essendo quello un poemetto piacevole, i volgarizzatori hanno forse creduto non doverci impiegare molto studio.

Un altro molto lodevole traduttore dell'Iliade Omerica fu Paolo Brazuolo, ma la sua traduzione non è stata impressa mai. Se io però la commendo ho del mio giudizio due autorevoli mallevadori il Conte Algarotti, ed Angelo Mazza. Il primo ne parla più e diverse volte nelle sue lettere[235] e gli rimprovera d'essere incontentabile nell'emendarla. Ma il rimprovero fu inutile, perchè la rifece tutta, e non contento pure della riforma, l'arse, e finalmente venuto in furore si uccise. Egli tradusse eziandio l'Europa di Mosco di cui l'Algarotti reca qualche verso, come ne ha ancora alcuni dell'Iliade, della quale altri ne reca il Mazza.[236] Questi piccoli saggj accrescono il dolore che l'opera sia perduta, e mostrano quanto egli fosse accurato nel trasportare in Italiano i modi di dire, e dirò ancora le voci stesse del Greco poeta, senza che se ne perda la gravità e lo spirito.

Esiodo fu tradotto dal Salvini, e con metodo quasi Salviniano il Conte Gian Rinaldo Carli dette la Teogonìa, e il Marchese Giovanni Arrivabene l'opere e i giorni. Del primo è inutile il dar giudizio perchè della sua maniera di tradurre ho già detto abbastanza. Gli altri due sono fedeli, non però scrupolosamente.

L'avviso celebre d'Orazio non ha sgomentato alcuni da tentare i voli di Pindaro. Il P. Stellini ne tradusse alcune odi in versi sciolti di varia misura, ed il Gautier tutte le dette in versi rimati. Il primo è assai fedele, quando ha inteso l'originale. Del secondo vuole il Sig. Heyne, che abbia tradotto non dal testo Greco, ma dalla versione Latina, e da quella dell'Adimari[237]. Egli pure non sempre ha inteso l'originale, ed il metro, e la rima l'ha costretto a dir ciò, che Pindaro non ha detto. In niuno poi si cerchi lo stile di Pindaro perchè non se ne troverà veruna traccia, benchè remota. Alcune odi volgarizzò il P. Gius. Mazzari Gesuita che non ho vedute, onde nulla ne posso dire[238]. Ma quello che maggiore impresa d'ogni altro ha tentata, e felicemente eseguita è il Sig. Ab. Costa, il quale tutte le odi di Pindaro ha trasportate in bei versi Latini. L'opera è stampata nel secolo presente[239], e perciò non dovrebbe aver quì luogo; ma fino dal 1787.[240] cominciò egli a presentare all'Accademica di Padova le sue osservazioni su questo poeta, e nel 1792. vi aveva già letta una parte della sua versione[241]; onde io mi credo in diritto d'attribuire al secolo decimottavo la gloria d'avere almeno in parte prodotta un'opera così insigne[242].

Molta somiglianza col Principe de' Lirici Greci ha Eschilo in ciò che spetta allo stile, e molte delle difficoltà, che si hanno nel volgarizzare il primo si provano riguardo al secondo. Ciò non ostante tentarono questo guado, oltre al Cesarotti di cui già ho parlato, il Pasqualoni nel Prometeo e nei sette a Tebe[243], e il Giacomelli altresì nel Prometeo[244]. In primo luogo non so approvare in questi traduttori l'uso de' versi ottonari settenari ed altri simili senza rima nei cori, il che riesce ingratissimo al mio orecchio; e poi i cori essendo affatto lirici pel metro, e per lo stile parmi che richiedano stile e metro lirico, e perciò qualche rima. In secondo luogo questi due volgarizzatori hanno voluto esser molto fedeli, e una fedeltà troppo rigorosa non si può ottenere senza pregiudizio della poesia. Lo stesso io dico della versione dell'Elettra di Sofocle che fece il secondo. Bellissime poi sono le traduzioni che questo dotto Prelato dette di Caritone[245] e dell'opera di S. Giovanni Grisostomo del Sacerdozio[246]. Non ugualmente felice in tutte le sue parti parmi quella di Senofonte dei detti memorabili di Socrate che forse non fu da lui emendata[247]. La prima fu paragonata colla latina del Reiske, e fu dimostrato quanto sia a questa superiore dal P. Antognoli in una bella lettera da lui diretta al Perelli[248]; nè meno pregevole è la seconda per esattezza ed eleganza. Ma torniamo ai Tragici.

Commendabile molto è la versione di parecchie tragedie di Sofocle del Signor Lenzini, che mostra in lui molta cognizione della Greca lingua e dell'Italiana, nella quale è puro scrittore[249]. Commendabile pure è quella che di tre tragedie dello stesso poeta, e del Ciclope d'Euripide ha fatta il P. Angelini in bei versi nobili, e armoniosi. L'Euripide del P. Carmeli è stato da me considerato di sopra riguardo alla illustrazione del testo. Ma la sua letteral traduzione non ha i pregi di quelle del Salvini, e ne ha i difetti[250]. Anche il Mattei volle tradurre qualche squarcio de' tragici Greci; ma i suoi tentativi non furono più felici di quello che fossero nella version de' Salmi. Egli adoperandosi d'accostarsi allo stile del Metastasio affievolisce la forza degli originali, e introducendo qua, e là terzetti, e duetti altera la natura della Greca Tragedia. Darò fine al novero dei traduttori de' poeti tragici con un nome grande. Ennio Quirino Visconti sin dalla fanciullezza dette segno di ciò che doveva essere un giorno. Gli scrittori della sua vita hanno raccontato le prove letterarie per lui date in Roma a quell'età, fra le quali è mio officio mentovar solamente l'Ecuba d'Euripide, ch'egli recò in versi italiani, e stampò a tredici anni[251]. Il libro è raro, nè mi è avvenuto di leggerlo: ma oltre agli allegati scrittori ne parla l'Abate Amaduzzi in una lettera al Brunelli, che può vedersi nel tomo settimo delle Miscellanee stampate a Lucca, e nella lettera, colla quale gl'indirizzò uno degli opuscoli inserito negli Aneddoti Romani[252]. Il Visconti si accinse altresì a volgarizzar Pindaro, e nel tomo secondo del Giornale, che si stampava a Modena si vedono le odi undecima e dodicesima delle olimpiche (ivi per errore dette decima ed undecima) da lui tradotte in versi con brevi annotazioni, e con qualche riflessione sul modo da tenersi volgarizzando questo poeta. Io non dirò che queste traduzioni sieno al tutto scevre da ogni macchia, ma queste son piccole, e vuolsi concedere qualche cosa all'età sua giovanile, ed alla difficoltà della rima.

D'Aristofane, e de' pochi suoi volgarizzamenti ho già parlato, dove degli editori ho tenuto discorso. A queste nulla ho da aggiugnere fuor solamente, che il Bjoernstahel[253] ricorda il volgarizzamento, che delle sue commedie fece Monsignor Giacomelli e che è rimasto inedito[254].

Le grazie d'Anacreonte, che tanto piacciono a chi le legge nell'originale, non potevano esser dimenticate da' poeti Italiani. L'Argelati raccolse le traduzioni d'alcuni fatte da' varj Anonimi[255], che furono poi svelati dal Quadrio, e dal Paitoni, e sono Claudio Nicola Stampa, Francesco Lorenzini, Giambattista Ciappetti, Giovanni Salvi, e Domenico Petrosellini. Le ristampò poi nel 1736. il Piacentini in Venezia col testo Greco secondo le correzioni del Barnes, la versione letterale Latina, e le Italiane poetiche del Corsini, del Regnier des Marais, del Marchetti, e le due del Salvini. Anche Paolo Rolli volgarizzò Anacreonte[256], e verso la fine del secolo il P. Pagnini[257], e il signor de Rogati[258], che vi unì il testo Greco con pregevoli annotazioni. Di queste traduzioni recherò quì il giudizio, che ne dà l'Ab. Rubbi, il quale all'esattezza della critica unisce le grazie tutte dello stile. «Il Salvini fece due traduzioni. La prima con rime. Ma qual venustà danno esse mai al più venusto di tutti i Poeti? L'altra non è rimata; ed ecco il povero Anacreonte spogliato de' migliori abbigliamenti, perchè lo veggiate nudo nudo alla Greca. L'Ab. Conti era troppo esatto, perchè troppo possedeva la Greca lingua, o sia assai più delle grazie Italiane. Il Corsini amò più una parafrasi, che una traduzione, e scelse anche il metro de' Sonetti. Il Marchetti pure egli parafrasò, ma senza ordine, e si rivolse talvolta alla forma de' ditirambi. Fu parafraste il Lorenzini. Il Rolli, che aveva l'anima più anacreontica di tutti gli altri, si attene alla fedeltà del testo, e riuscì snervato con versi sciolti, e con qualche rima per grazia. Il Catalani ha seguito i difetti de' traduttori contemporanei. Lo stesso dite del Ridolfi. Mi trovo il palato insipido dopo tanta lettura. Il Cav. Gaetani si è incatenato nel Sonetto di versi ottonarj. Mal per lui che ha dovuto così talora divider le odi, e i sensi non ricordandosi che il Sonetto è un poema finito. Appena leggete il de Rogati potete cantarlo, e dire; questi è Anacreonte Italiano[259].» Quando il Sig. Ab. Rubbi scriveva così non era stampato l'Anacreonte del P. Pagnini, ed è da osservarsi, che egli come editore doveva giudicare per iscegliere la miglior traduzione. Io debbo avere mire diverse. Senza allontanarmi dunque dalla sua opinione dirò, che il Salvini, il Rolli, il Ridolfi sono ottimi per coloro che abbisognano di qualche ajuto per intendere il testo. Il P. Pagnini ha voluto unire la fedeltà con qualche grazia; ma la sua grazia è arida troppo. Il Lorenzini, e il Marchetti hanno fatte buone parafrasi, e il Derogati è quello, che ha vinti tutti gli altri suoi predecessori[260].

Il Rolli dette anche la versione di Teocrito, Mosco, e Bione, che non ho veduta come nè pure ho vedute quelle che di questi poeti[261] e di Callimaco fece l'Ab. Giambattista Vicini[262], e il breve saggio, che della seconda si ha nel Giornale di Modena[263] non è bastevole per giudicarne. Ho bensì veduta quella, che di Teocrito fece il Regalotti languida, e fredda molto, perchè volle esser servile, e non lo fu però tanto, che basti a coloro che di sì fatti ajuti han bisogno per intendere l'originale[264]. A dir vero a me pare, che tra i volgarizzatori seguaci d'una severa fedeltà pochi abbiano così lodevolmente colto nel segno quanto il P. Pagnini, il quale oltre ad Anacreonte Saffo ed Erinna tradusse ancora Callimaco, Teocrito, Mosco, e Bione[265], e parecchi epigrammi dell'Antologia, nei quali seppe unirla felicemente alla grazia poetica, ed alla eleganza. Non così fece nell'Epitteto, e nel Cebete, ne' quali talvolta ha voluto più presto parafrasare, che tradurre, e (se mi è permesso di parlare liberamente d'un uom così dotto) temo non forse la sua parafrasi sia riuscita alquanto snervata. Anche i Poeti de' bassi tempi Museo, Coluto, e Trifiodoro ebbero i loro traduttori. E il primo come migliore degli altri, n'ebbe più e diversi, cioè oltre all'Ab. Rubbi, di cui ho detto di sopra, il Pompei castigato ed elegante, il P. Caracciolo pedestre, e il Signor Mazzarella Farao Napoletano, che o scriva in prosa o in verso in ciò che spetta allo stile non so commendarlo.

Del Pompei sono pure da lodarsi molto altre poetiche versioni, che abbiamo fra le sue opere, cioè sei Idillj di Teocrito, e due di Mosco con pregevoli note, molti epigrammi dell'Antologia, e i lavacri di Pallade di Callimaco, nelle quali tutte si vede e fedeltà ed eleganza di stile. Di questi pregj medesimi sono arricchiti eziandio i volgarizzamenti del Signor Luigi Lamberti Prefetto della Real Libreria di Milano, il quale dottissimo essendo in ambedue le lingue, e buon poeta, ci diede l'Edipo di Sofocle, i cantici guerrieri di Tirteo, l'inno a Cerere, ed altro[266]; pe' quali niun altro rimprovero gli si può fare se non che sono troppo scarsi di numero pel comun desiderio. Anche della Cassandra dell'oscuro Licofrone ci fu promessa una traduzione per opera del Conte Francesco Montani. Il Giornale de' Letterati d'Italia, che si stampava a Venezia l'annunziò nel tomo 31. art. 13. e il Marchese Maffei la registrò ne' suoi Traduttori Italiani. L'Autore però morì nel mese di febbrajo del 1754. senza averla pubblicata. E veramente non so bene quali speranze si potessero concepir di quest'opera. In fatti se nel volgar nostro si trasportassero le maniere di quel poeta essa riuscirebbe oscura per modo, che pochi ed a fatica giunger potrebbono ad intenderlo; se si riducesse ad una conveniente chiarezza si altererebbe l'indole dell'originale. Alcuni epigrammi dell'Antologia furono volgarizzati da Antonio Buongiovanni, e da Girolamo Zanetti,[267] e finalmente il P. Giuliano Ferrari della Congregazione dell'Oratorio tradusse in versi Italiani il poema, che sulla propria vita scrisse il Nazianzeno, come ci avverte il P. Bevilacqua nella prefazione alla sua versione di due Orazioni del medesimo santo. Ma non è a mia notizia, che la traduzione del P. Ferrari sia venuta alla luce.

Altri chiarissimi ingegni trasportarono i Greci Poeti nella lingua del Lazio. Fra questi debbono aver il primo luogo gli Ab. Cunich e Zamagna Gesuiti, Ragusei di patria, ed Italiani per domicilio. Recarono essi egregiamente in versi latini, il primo l'Iliade d'Omero, e parecchi epigrammi dell'Antologia[268], il secondo l'Odissea, le opere d'Esiodo e di Teocrito. E Teocrito incontrò ancora un altro valoroso traduttore nel Sig. Roni di Garfagnana Professor d'eloquenza nel Collegio d'Osimo.

Un altro egregio traduttore è il P. Giuseppe Petrucci della Compagnia di Gesù. Egli in bei versi latini veramente Virgiliani trasportò gl'inni di Callimaco nel 1795. tranne i lavacri di Pallade pe' quali vi pose la versione del Cunich[269]. O si consideri la fedeltà della traduzione, o la purità della lingua latina, o la eleganza e la maestà dello stile poetico pareva che il suo lavoro non lasciasse nulla a desiderare. Egli però ha saputo trovarvi non so bene se io debba dire qualche neo da togliere, o qualche bellezza da aggiugnere, e ne ha data una nuova impressione col testo Greco nel 1818.[270] In questa il P. Petrucci sostituì la sua versione de' lavacri di Pallade a quella del Cunich: e quantunque questa sia ottima, pure quella del P. Petrucci mi sembra e per fedeltà e per eleganza megliore. Egli fin da principio vi aggiunse parecchie note critiche e filologiche pregevolissime, che nella seconda stampa hanno ottenuto qualche accrescimento.

Molti sono i Greci poeti nel passato secolo volgarizzati; e pel numero superano quelli degli scrittori di prosa. Di parecchi ho già parlato, e debbonsi ricordar gli altri. Giulio Cesare Becelli tradusse Erodoto, come dice il P. Zaccaria, ma non ho veduta la sua versione. Il P. Politi tradusse lo stesso storico in latino; ma questa sua fatica è rimasta inedita[271]. Dieci orazioni di Demostene volgarizzò il Gesuita Gio. Battista Noghera con esattezza ed eleganza[272], se non che è caduto in qualche troppo umile espressione, non degna della gravità Demostenica. Il P. Michel'Angelo Bonotto Domenicano trasportò nella nostra lingua i libri della repubblica di Platone[273], ma non seppe conservar la grazia dell'originale. Il quadro di Cebete fu tradotto da un anonimo[274], dai Canonico Gio. Battista Tognaccini, e dal Conte Gasparo Gozzi[275]. A Cebete succeda un altro filosofo assai più celebre, e al tempo stesso storico grandissimo, cioè Plutarco. Il Pompei ne volgarizzò le vite con molta lode[276], l'Ab. Zendrini il Ragionamento intorno all'Amministrazione degli affari pubblici[277], ed altre operette il P. Giovanni Guglielmi[278].

Da un filosofo grave passiamo ora ad uno scrittore, che amava di filosofare scherzando, e derideva ugualmente i costumi degli uomini, e le favole degli Dei del Gentilesimo, ch'erano spesso peggiori degli uomini; voglio dire Luciano. Il Conte Gasparo Gozzi ne tradusse alcuni dialoghi, e Spiridione Lusi altri, e aggiunti ai primi li pubblicò[279]. Essi si sono adoperati di trasportare nel nostro volgare non solo i sentimenti, ma le grazie ancora dell'originale, e vi sono riusciti assai felicemente.

Non fu altrettanto felice il Gozzi nel conservare l'eleganza del suo autore, quando prese a tradurre gli amori di Dafni, e Cloe di Longo Sofista, del quale non vedo in Italiano che troppo languide orme[280]. Degli altri romanzi Greci poi nulla ho quì da dire, giacchè del Caritone del Giacomelli ho già parlato di sopra. Fra i libri storici oltre alle vite di Plutarco e ad Erodoto, di che pure ho già parlato, domandano d'essere ricordati i Cesari di Giuliano volgarizzati da G. F. Zanetti[281], le Storie de' Greci di Giorgio Gemisto Pletone da Antonio dalla Bona[282], e le opere di Giuseppe Ebreo dall'Ab. Francesco Angiolini Piacentino[283]. Dell'Angiolini ho già parlato due volte con lode, e debbo ora commendarlo anche più per questa laboriosa impresa. Pregevole è la traduzione per la fedeltà sua, e per lo stile nobile con cui è scritta, e pregevoli sono le note, che l'accompagnano, e che mentre illustrano l'originale, dove fa di mestieri mostrano la molta dottrina del traduttore nelle lingue Orientali.

Non molto si è fatto pel volgarizzamento degli autori ecclesiastici. Dell'opera di S. Gio. Grisostomo del Sacerdozio tradotta dal Giacomelli ho già fatta menzione di sopra. Le altre non sono di gran momento, e perciò non farò che accennarle. Dobbiamo dunque a Giov. Maria Lucchini alcune Omelìe de' Santi Giovanni Grisostomo, e Basilio[284] ed altre pure di S. Basilio, e di S. Gregorio Nazianzeno con un Ragionamento di Plutarco ad Angelo Maria Ricci[285], il Pastore di S. Erma[286], l'orazione di Taziano ai Greci con un frammento di Bardesane sul destino[287] al Gallizioli. Il P. Francesco Colangelo della Congregazione dell'Oratorio di Napoli ha elegantemente, ma alquanto liberamente tradotto il trattato di S. Gio. Grisostomo, che Cristo sia Dio[288] e vi ha aggiunte parecchie dotte annotazioni, le quali però essendo dirette solo a combattere i miscredenti non appartengono al presente mio instituto.

Sarà forse alcuno cui recherà maraviglia osservando, che molti essendo i traduttori de' poeti, pochi sieno stati quelli di prosa, pochissimi quelli degli scrittori ecclesiastici. Non è però difficile a mio giudizio, il rendere di ciò ragione. Quantunque le parti tutte de' buoni studj siano state dagl'Italiani nel passato secolo ben coltivate, pure fra quelli delle umane lettere, se non m'inganno, la poesia è quella, che ha ottenuto un maggior numero di seguaci. E a ciò contribuirono le tante Accademie, che erano in ogni città, e dirò quasi in ogni borgo. Vi contribuirono pure quelle malagurate raccolte, che ad ogni matrimonio alquanto illustre si consacravano, e in certe città ad ogni Laurea dottorale, ad ogni celebrazione di nuova Messa, ad ogni sacra Vergine, ad ogni buono, o mediocre Predicatore, anzi si profanarono per fino alle Taidi del ballo e della musica teatrale. Fra tante migliaja di versi degni solo d'esser portati

In vicum vendentem thus, et odores, Et piper, et quicquid chartis amicitur ineptis[289]

si leggevano i versi de' Manfredi, Ghedini, Frugoni, Paradisi, Bettinelli, e di tanti altri chiari poeti. La celebre ode del Conte Agostino Paradisi, che comincia

A te che siedi immola ec.

fu fatta per una Raccolta, e il gran Sonetto del P. Quirico Rossi Gesuita

Io nol vedrò, poichè il cangiato aspetto

fu letto per la prima volta appeso a una colonna d'un portico di Bologna per una festa secondo la costumanza di quella città. Ora senza quella Raccolta, e senza quella festa la poesia Italiana sarebbe priva di questi due solenni componimenti, che vivranno finchè vivrà o sarà intesa la lingua Italiana, e il buon gusto non sarà spento affatto. Così si dica pure di qualche centinajo d'altri buoni componimenti, che in altrettali occasioni furono scritti. Le Accademie, le Raccolte, le Feste animavano molti a far versi, e fra i molti se ne destavano poi alcuni ottimi, o almeno assai lodevoli, che avevano dalla natura ingegno da ciò, e altrimenti avrebbono intorpidito nell'ozio e nell'oscurità. Fra tanti coltivatori della poesia buoni, mediocri, e cattivi non è strano, che parecchi si applicassero a tradurre i poeti antichi, e quindi che sia maggiore il numero de' volgarizzamenti di questi, che degli scrittori di prosa. Pochi poi dovevano esser coloro, che traducessero gli scrittori Ecclesiastici, perchè ciò naturalmente conveniva agli uomini di Chiesa, e questi sogliono farne uso predicando o scrivendo, ma raro è che li adoprino in altra lingua, fuorchè nella latina, onde una traduzione poteva sembrar loro di non grande utilità. Si aggiunga a ciò, che molti sono d'avviso non doversi trattare gli studj sacri in lingua volgare per togliere alla gente idiota l'occasione di legger ciò che gli antichi hanno scritto in Greco o in Latino. Mi si perdoni questa breve digressione, la quale mi pareva in qualche modo richiesta dal mio assunto, e ritorno all'argomento.

Scrittori in Greco. CAPO X.

Per compimento di ciò che della lingua Greca per me si doveva dire resta ora solamente, che di coloro i quali in Greco hanno scritto, faccia onorevole ricordanza. Pochi nomi però posso quì ricordare; ma fra questi uno solo domanderebbe lungo discorso. Della Greca traduzione delle Orazioni concistoriali di Clemente XI. ho dato un cenno parlando della lingua Ebraica. Una sola Omelìa dello stesso Pontefice trasportò in Greco Biagio Garofolo, che non ho veduta[290]. Anton Maria Salvini, che tanto scrisse si esercitò ancora in questa parte. A esortazione del Marchese Maffei prese a tradurre in versi Greci le favole di Fedro, ma non le terminò. Terminò bensì la traduzione di Catullo[291], della quale però abbiamo alle stampe solamente l'elegìa, che quel poeta aveva tradotta da Callimaco, e di cui l'original testo Greco è perduto. Il Salvini tien quì pure il suo metodo di tradurre letteralmente, e con ciò appunto mostra quanto possedesse la lingua Greca. A me sembra però che la fedeltà troppo scrupolosa e servile non sia quì commendabile, perchè non può aver quello scopo, che egli si era proposto nelle versioni Italiane. Chi vuol rendere in versi Greci quell'elegia dovrebbe, se non m'inganno, adoperarsi d'indovinare il modo, con che la scrisse Callimaco, e dovrebbe inserirvi que' pochi frammenti dell'originale, che sono fino a noi pervenuti. A maggiore impresa, e più difficile si accinse il P. Carmeli, che nel 1757. stampò un Greco poema in quattro libri in lode di Lorenzo Morosini intitolato Θεῶν ἀγορὰ, cioè il Concilio degli Dei e a me rincresce che non solamente non ho potuto vederlo, ma nè pure m'è riuscito d'averne verun'altro indizio. Il Canonico Checozzi Vicentino tradusse i Salmi in versi greci, come ci assicura il Lazzarini[292]. Di quest'opera rimasta inedita non parla il P. Zaccaria nel suo elogio[293] nè il dizionario storico stampato a Bassano nel suo articolo, e invece parlano di molte sue poesie Latine e Greche unite a quelle del Volpi. Essi però errarono, perchè il Checozzi ivi non ha che un solo epigramma Greco colla versione latina. Ma quello che più d'ogn'altro ha scritto in questa lingua è il Cardinale Michel'Angelo Luchi troppo immaturatamente rapito alla Chiesa ed alle lettere. Le sue lodi sono maggiori di quello che io potessi dir quì, e sono state esposte dal signor Canonico Luigi Ciolli nell'orazion funebre da lui detta in Subiaco ai 2. d'ottobre del 1802. e l'anno medesimo stampata in Roma dal Lazzarini. Molte sono le opere sue, fra le quali settantacinque son quelle scritte in Greco tutt'ora inedite oltre agli Esapli, di cui ho già parlato, e tutte si conservano nella Vaticana. Voglionsi a queste aggiungere due dialoghi stampati, uno sulla vita rustica, e l'altro sulla necessità, che i giovani hanno d'applicare allo studio, e far buon uso del tempo[294]. Egli scriveva queste operette in Greco sopra argomenti d'ogni genere, affinchè i giovani studiosi di questa lingua trovassero in esse raccolte le principali voci, e modi di dire usati dagli scrittori, onde minor difficoltà incontrassero nel leggere l'opere degli antichi, di che gli si dee saper molto grado. Ma lasciam finalmente questa lingua, della quale troppo a lungo forse ho favellato, e a quelle facciam passaggio, che nacquer da lei.

Della lingua Etrusca. CAPO XI.

Dalla lingua Greca crede ormai la maggior parte degli eruditi, che provengano l'Etrusca, e la Latina. Nel parlar della prima terrò una via diversa da quella, che ho calcata parlando delle altre lingue. Per queste ho procurato, quanto era in me di raccogliere i nomi de' principali scrittori Italiani, che le hanno illustrate, e le opere loro ho esaminate secondo che la tenuità del mio ingegno me lo ha permesso. Per l'Etrusca posso esser più breve. La storia di questa lingua si raccoglie abbastanza dal Giornale de' Letterati, che per opera d'Apostolo Zeno, e poi del P. Pier Caterino suo fratello si stampava in Venezia, dal Gori nella lunga prefazione premessa alla difesa dell'alfabeto Etrusco, e credo inutile il ripeter ciò che ivi si legge minutamente descritto. Dopo la pubblicazione di questi libri più altre opere di autori Italiani sono uscite in luce, e fra queste sono principalmente degne d'osservazione quelle del Passeri Picturae Etruscorum in vasculis etc. Romae 1767. 1775. T. 3. in fog. e in Thomae Dempsteri libros de Etruria Regali paralipomena. Lucae. 1767. in fog. Abbiamo nella prima linguae Oscae specimen singulare, quod superest Nolae in marmore musaei. Seminarii, l'alfabeto Etrusco dell'Ab. Amaduzzi[295], una tavola Eugubina, cioè la seconda del Dempstero illustrato dal Passeri, e tre brevi lessici di parole Ebraiche, dalle quali si derivano altre simili voci Etrusche o Latine, delle parole Etrusche, che si hanno negli scrittori o ne' monumenti antichi, e di quelle delle tavole Eugubine. L'Amaduzzi con molte parole dette solamente l'alfabeto del Gori; e dovendo io parlare del secondo stimo inutile il far quì parola di lui. Del sistema del Passeri dirò a suo luogo. Altre opere ancora han veduta la luce dopo la difesa del Gori, che saranno da me ricordate, dove tornerà più in acconcio.

Furon parecchi, che ne' passati secoli con diligenza raccolsero gli antichi monumenti Etruschi, e si adoperarono di legger le parole, che vi si vedono scolpite. Vane però furono per lungo tempo tante fatiche ed era riserbata al secolo decimottavo la gloria di gittare i primi fondamenti di questa parte dell'antiquaria, e poi sollevarla a così alto segno, che niuno da principio ardito avrebbe sperar tanto. Il Francese Bourguet[296] fu il primo, che trovò il vero metodo per conoscer l'alfabeto di quella nazione; il che fece prendendo le tavole di Gubbio pubblicate dal Dempstero, e confrontando le due prime scritte in Latino colla quarta scritta in Etrusco; giacchè si era avvisto, che molte voci e molti sensi si ripetevano in questa; i quali con piccola variazione si contenevano in quella. Imperfetto è quel suo alfabeto; ma merita molta lode, perchè con esso additò agli altri la strada per farne uno migliore. Il Gori seguitò le sue tracce, e condusse quell'alfabeto più vicino alla perfezione[297]. Contro gli si oppose il Marchese Maffei[298] uomo d'acuto ingegno e d'erudizion grande, ma troppo amante di contradire agli altrui divisamenti. Dopo questi Girolamo Zannetti propose un sistema nuovo asserendo, che le lettere Etrusche erano Gotiche e Runiche, e che tutti i monumenti, i quali noi chiamiamo Etruschi erano stati posti dai Goti invasori dell'Italia[299]. Se pure non fu quello (come pare) uno scherzo fatto per deridere gli antiquarj, che con tenue profitto intorno ad essi si affaticavano per intepetrarli.

Stabilito l'Alfabeto volle il Bourguet spiegar le tavole Eugubine, e si valse in ciò della lingua Greca ed anche delle Orientali, ma specialmente della Caldea; e credette di ravvisare in esse preghiere rituali a Giove, e ad altre Divinità per ottenerne il favore nelle disgrazie e desolazioni delle campagne e degli armenti; onde le chiamò Litanie Pelasgiche[300]. L'Olivieri rimase da prima abbagliato da quell'erudizione etimologica, e seguì le sue pedate, spiegando il Bronzo Lespiriano[301]. Il Gori però giudicò non doversi ricorrere alle lingue Orientali, ma principalmente alla Greca, e talvolta ancora alla Latina antica, e quindi con nuove etimologie prese a spiegare una tavola Eugubina, che è la seconda del Dempstero[302], nella quale trovò egli pure preci e lamenti non molto dissimili da quelli del Bourguet. All'opposto il Lami voleva, che si spiegasse l'Etrusco col latino principalmente; nè si ricorresse al Greco se non se rade volte; e con questo metodo spiegando una tavola, che è la seconda presso il Dempstero vi trovò la fuga de' cittadini di Gubbio dalla città loro presa dai nemici, messa a sacco, e devastata[303], i lamenti de' fuggitivi, e le loro preghiere a Giove vendicatore. Il Passeri imitò il Lami servendosi molto della lingua latina; ma nella spiegazione delle tavole fu più cauto degli altri, perchè non s'impegnò a una traduzion letterale[304]. Un sistema affatto diverso da questi tennero il Mattei, che ricorse alla lingua Ebraica[305], e il Mazzocchi, che i nomi delle città Etrusche derivò unicamente da questa, e da altre lingue Orientali[306]. Il P. Bardetti seguì molto da vicino le vestigie del Lami, e solamente nuove etimologie v'aggiunse derivate dalle lingue Settentrionali[307]. Tutti poi questi scrittori errarono, perchè nel derivare le etimologie bastò loro una somiglianza, qualunque essa fosse, delle parole Etrusche colle Greche Latine e simili. Anzi a taluni bastò ancora la somiglianza di due o tre sole lettere. Oltre a ciò spesso ne' loro libri si trova incertezza di metodi, incostanza nelle decisioni, e nulla in somma, che debba appagare i desiderj degli eruditi.

All'Ab. Luigi Lanzi era riserbato di terminare le dispute in questa parte dell'antiquaria[308]. Egli si procacciò copie esatte delle principali iscrizioni; stabilì il vero alfabeto; col soccorso dell'antica lingua latina e de' più antichi dialetti della Greca, e con diligenti osservazioni su certi nomi determinò l'ortografia; raccolse le più antiche voci Greche e latine da' lessicografi dagli scoliasti e dagli antichi grammatici; trasse profitto dalle figure protesi, aferesi, ed altre simili frequenti presso il volgo, e dal volgo passate agli scrittori, e principalmente ai poeti; lo trasse dall'etimologia giudiziosamente adoperata, e dall'analogia. Questi unitamente alla storia de' primi abitatori dell'Italia sono i fondamenti della sua grand'opera, de' quali egli fa uso colla maggiore avvedutezza. Fra il sistema del Gori, che quasi tutto riduceva alla lingua Greca, e quello del Lami, che riduceva quasi tutto alla Latina, egli tiene una via media, la quale sembra più sicura. In questa guisa potè indagare gli articoli, i nomi, i pronomi, i nomi numerali, i verbi, le proposizioni, gli avverbj, le congiunzioni, e la sintassi di questa lingua perduta. Spiega da prima le iscrizioni più brevi, poi le maggiori, e finalmente le celebri tavole Eugubine. Giunto il lettore al termine dell'opera se addietro si volge, e porta lo sguardo sul lungo cammino già fatto in mezzo a tanti scogli, a tanta oscurità, appena crede d'esser pervenuto a quel segno, a cui da principio creduto avrebbe impossibile di pervenire. Gli eruditi principalmente hanno adottato il sistema del Lanzi, e se v'ha alcuno, che ricusi d'arrendersi, e speri di poter derivare dalle lingue Orientali l'etimologia di qualche parola, non può però, e credo che non potrà mai formare per questa via un altro sistema così saldamente fondato e connesso in tutte le sue parti.

Della lingua latina. Grammatici. CAPO XII.

Ho già detto, che dalla Greca lingua è nata la Latina[309]; laonde ragion vuole, che si parli ora di questa dopo avere pel mio instituto detto abbastanza dell'Etrusca, che ebbe la stessa origine. E quì non abbiano a sdegno i dotti miei leggitori se alla loro memoria richiamo sulle prime tenuissimi oggetti, cioè i libri de' teneri fanciulli, che cominciano a dar opera agli studj. Sono questi i fondamenti di quel letterario edificio, che deve un giorno inalzarsi, e se piccola ed umile è l'opera, non è però piccola l'utilità, cui sì fatti libri cercano procacciare. Parlando però degli elementi della lingua Latina sarò brevissimo. Alessandro Zorzi Veneziano scrisse del modo d'insegnare ai fanciulli le due lingue Italiana, e Latina[310]. Egli riduce le declinazioni, e le conjugazioni a certe tavole, colle quali si debbono facilmente imparare i nomi, e i verbi. Quindi il maestro dee trarre dai migliori scrittori Latini dei dettati, ne' quali la sintassi corrisponda esattamente all'Italiana, e su questi si addestrerà il principiante senza fatica. Per gl'idiotismi poi, per certe figure grammaticali, e per altre simili difficoltà, che ad ogni passo s'incontrano, egli si riserba d'istruire il discepolo praticamente nell'atto stesso della traduzione. Con queste, ed altre simili industrie egli spera, che un fanciullo di sei anni possa applicarsi alla lingua Latina con profitto, e si vuole, che ne abbia fatta la prova. Io però non sono punto sollecito, che un fanciullo cominci a sei anni a studiare il Latino; ma vorrei, che, quando lo comincia, si avvezzasse a ragionare alquanto, e non fosse ammaestrato con sì fatti metodi meccanici, i quali se giovano, perchè diminuiscono la fatica, nocciono, perchè intorpidiscono la riflessione, e l'ingegno. Il metodo migliore è, siccome io giudico, quello di Ferdinando Porretti, (e sarà questa la prima grammatica, di cui parlerò) che imitò la grammatica celebre del P. Emanuele Alvarez Gesuita. Chiari sono e precisi i precetti, ottimi gli esempj, naturale è l'ordine, e se v'ha qualche neo si potrebbe agevolmente emendare. A cagion d'esempio vorrei, che parlando dei verbi non fosse trascurato il modo potenziale, e il concessivo, che da tutti i moderni scrittor di Grammatica si tralascia. Non lo trascurò però il loro gran maestro Alvarez, perchè raro non ne è l'uso negli antichi autori. Reputo poi inutile di aggiugner quì il novero delle molte altre Grammatiche venute alla luce in Italia nel passato secolo, le quali non essendo notabili per qualche pregio parmi, che non richiedano d'essere ad una ad una nominate con noja soverchia di quelli che leggono, e mia.

La seconda Grammatica, di cui ho deliberato di parlare è quella d'Agostino Maria del Monte. Egli provvide prima ai fanciulli con alcune illustrazioni dell'Alvarez, e le stampò in Roma col titolo d' Emanuele elucidato, che basti d'aver nominato. Maggior opera poi intraprese scrivendo un'ampia grammatica pe' maestri, cui chiamò Latium restitutum[311]. Le parti tutte quante di questa facoltà vi si vedono esposte diffusamente con molta copia d'esempj, secondo il metodo dell'Alvarez, che a mio giudicio è ottimo. Le regole sono chiare, gli usi diversi di molte voci, che ne' Latini scrittori s'incontrano, vi son notati, i modi di dire meritevoli d'osservazione vi sono accennati minutamente.

Ma torniamo ancora per poco fra i libri elementari dei fanciulli. Maurizio Francesconi compilò un Dizionarietto acconcio al bisogno de' principianti, ed un altro ne fece il P. Mandosio Gesuita; ma il celebre Tiraboschi, che li trovava alquanto difettosi, prese a correggere il secondo, e ad accrescerlo; il che fece per modo, che riuscì un'opera affatto nuova, e questa fu la prima fatica dell'immortale autore della storia della Letteratura Italiana, e di più altre opere, che portarono poi la sua gloria a quell'alto segno, a cui la vediamo pervenuta. Ma questo Dizionario serve solamente all'età più tenera, che si trattiene fra gli elementi primi della lingua Latina. L'Ab. Pasini volle, che del necessario ajuto non mancassero nè pure quei giovanetti, che qualche maggiore progresso hanno fatto in questo studio, e compilò un ottimo Dizionario in due parti diviso, che servisse nel tempo stesso a tradurre dai Latino in Italiano, e dall'Italiano in Latino. Giudiziosa è la scelta delle parole, che sono tutte di tersa Latinità, copiosi ma non soverchi gli esempj tratti da' buoni scrittori per mostrar l'uso delle diverse voci, e i modi di dire più eleganti.

Ma usciamo finalmente dagli studj puerili. Il Dizionario di Ambrogio Calepino tante volte stampato, ed accresciuto in guisa, che egli non avrebbe potuto più riconoscerlo come opera sua, aveva tuttavia bisogno di molte cure, e Iacopo Facciolati ve le impiegò ajutato in ciò da Egidio Forcellini, che stato era suo discepolo, e dal P. Lagomarsini Gesuita. Lo stampò egli di nuovo, molte cose aggiungendo, altre levandone con fatica grande di parecchi anni. Quantunque però la diligenza da lui usata fosse molta, e moltissima fosse la dottrina, che in questa lingua aveva il nuovo editore, la sua edizione riuscì imperfetta, e Gio. Francesco Corradini dall'Aglio vi fece un supplimento non senza molta mordacità[312]. Con migliore e più utile divisamento il Gallizioli deposta ogni malignità sempre ingiusta e biasimevole prese a supplire ai difetti del Facciolati, e procurando una nuova impressione di quel Dizionario l'accrebbe di moltissime voci Latine, e di molte delle lingue Orientali, e in questa guisa lo condusse presso alla perfezione[313]. Ma la gloria di dare a questa lingua un Lessico in tutte le sue parti compiuto, era riserbata ad Egidio Forcellini[314]. Egli v'impiegò trenta anni, e la perfezione dell'opera corrisponde egregiamente alla lunghezza di questo tempo. Niuna altra nazione può vantare un Dizionario Latino così pregevole: anzi tutti quelli, che l'hanno preceduto gli sono di gran lunga inferiori. Si hanno quì raccolte le voci Latine tutte quante, i diversi loro significati, il modo di usarle; e gli esempi accennano ciò che appartiene ai secoli migliori, e si può usare volendo scrivere puramente, e ciò che è de' secoli posteriori, e vuolsi evitare. Ma per ciò che riguarda le voci da evitarsi abbiamo ancora un altro Dizionario compilato per opera del P. Marchelli[315]. Egli è stato parco in quest'indice, che dopo il Lexicon Latinae linguae antibarbarum del Noltenio, e dopo l'opera del Vossio de vitiis latini sermonis et glossematis latino-barbaris avrebbe agevolmente potuto rendere molto più copioso. Ma l'autore ha voluto provvedere al commodo de' giovani studiosi, cui la copia soverchia riuscita sarebbe rincrescevole; e piuttosto ha abbondato nella critica con maggior loro vantaggio. Un altro vocabolario in parte di cattiva latinità, ma pur necessario preparò il Baruffaldi di quelle voci che nel vecchio, e nuovo Testamento, nel Rituale, nel Martirologio, e in altrettali libri ecclesiastici s'incontrano, che è rimasto inedito[316].

Ma lasciando la Latinità barbara, e quella che i riti sacri hanno necessariamente introdotta, altre opere devo aggiungere, che in qualche modo appartengono ai Dizionarj. Tali sono in primo luogo le animadversiones criticae, colle quali il Facciolati emendò il Dizionario Latino Francese del Danet. Al genere stesso ridur si può l'aurea operetta del Gesuita Tursellini Particulae latini sermonis. Essa appartiene al secolo XVII.; ma poi nel seguente il Facciolati la prese tra mano, l'accrebbe, la migliorò a vantaggio del Seminario di Padova[317], al quale tante opere eccellenti dobbiamo; o per dir meglio nulla ha dato quel Seminario, che non sia eccellente.

Non son mancati alla lingua Latina i Dizionarj spettanti alle arti. Tre ne ha dati il P. Carlo d'Aquino, cioè quelli dell'arte militare[318], dell'architettura[319], e dell'agricoltura[320]. E Vincenzo Cavallucci insegnò, come latinamente si esprimano le voci degli animali[321]. A questa classe riduco ancora le sigle. Molti avevano nei passati secoli raccolte e interpetrate le sigle latine, e principalmente si era reso celebre in ciò Sertorio Orsato. Ma l'antiquaria è una facoltà vastissima, nuove iscrizioni vengono alla luce, e quindi nuove sigle si trovano, o le antiche si debbono spiegare diversamente da quello che si era fatto; onde era necessario, che se ne desse una nuova compilazione. Il Marchese Maffei nel Museo Veronese l'aveva promessa; ma poi non l'eseguì. Il chiarissimo signor Giovan Domenico Coleti si accinse all'opera, e raccolto quanto in sì fatto genere si ha nelle grandi collezioni lapidarie, o altrove potè trovare, tutto riunì, e lo pubblicò nella Raccolta Ferrarese d'opuscoli T. 14. e seguenti. Egli stesso previde subito che altri vi avrebbe fatto qualche supplimento. Deerunt (dice nella prefazione) fortasse aliqua? Non inficior: erit aliquando, quì augeat, quum. Quicquid sub terra est in apricum proferet aetas. Il supplimento lo ha poi fatto l'Abate Rubbi nel già citato Dizionario d'antichità, dove è inserita l'opera del signor Coleti con parecchie aggiunte di lui. Ma è da dolersi, che sia rimasta interrotta l'impressione di quel Dizionario, che non oltrepassa la lettera M, e perciò fino a questo segno solamente giungono ancora le sigle del Rubbi. Avrei desiderato, che il Coleti ugualmente che il Rubbi non avessero tralasciate le illustrazioni, colle quali l'Orsato accompagnò le sue sigle, ed altre ne avessero aggiunte, ed erano bene da ciò. Ma la grettezza degli stampatori, come sovente avviene, impedì forse una cosa tanto opportuna. A queste compilazioni di sigle una se ne dee aggiugnere non mai impressa. Il signor Conte Polcastro pronipote di Sertorio Orsato coll'Ab. Gennari prese a perfezionare l'opera citata di quel suo bisavolo, correggendo qualche errore, in cui egli era caduto, ed accrescendola di cinquemila segni; ed in questa fatica ebbe gran parte ancora il signor Gianantonio Mussato. Il Cesarotti ne parla in una Relazione Accademica del 1786.[322] e dopo quest'epoca non si è più fatto parola dell'opera loro, nè so se essi abbiano reputato inutile il pubblicarla, da che si cominciarono a stampare le sigle del sig. Ab. Rubbi. Vuolsi pur ricordare il Lessico lapidario, che il Gori meditava di fare[323], e il Lexicon vestiarium sacrum et profanum, che forse aveva già fatto[324]. Porrò quì pure quasi appendice dei Lessici la Calligrafia Plautina, e Terenziana del Ricci[325], alla quale si potrebbe aggiungere quella d'Angelo Rocca[326] e qualche altro libro di simil genere. Sopra tutto si deve aggiungere il Lessico Ciceroniano compilato già dal Nizolio fino dal secolo sestodecimo, ed accresciuto poi di molto dall'instancabile Facciolati[327]. Egli però non impiegò in quest'opera tutta quella diligenza, che era necessaria; talchè non poco rimarrebbe a fare a coloro che dopo lui volessero assumere lo stesso incarico.

Chiuderò finalmente la serie de' Grammatici con uno scrittore d'etimologie. Notissimo è il lessico etimologico latino del Vossio. Il Mazzocchi ne procacciò una nuova impressione in Napoli, cui fece molte aggiunte[328]. Il Vossio trae gran parte delle sue etimologie dal Greco e il Mazzocchi dall'Ebraico. Egli era assai dotto in questa lingua; ma troppo facilmente a dir vero gli pareva di scoprirne le vestigie anche dove non sono. Ne ho dato un cenno nel primo capo di questa parte; e lo stesso giudizio credo, che si debba fare anche di questa per altro ingegnosa fatica di quel grande erudito.

Edizioni degli Autori Classici, e commentatori. CAPO XIII.

Usciamo finalmente dalle noje Grammaticali, e passando a cose alquanto maggiori vediamo qual vantaggio abbian recato gl'Italiani alla lingua latina procurando nuove edizioni de' classici scrittori. Quella di molti Poeti fatta dall'Argelati in Milano, ed accompagnata da versione Italiana, la quale chiamerò prima collezione Milanese, e la collezione di tutti gli stessi poeti pubblicata in Pesaro niuna illustrazione presentano, e perciò non debbono aver quì luogo. Celebri sono le edizioni Cominiane; ma debbono la celebrità loro alla nitidezza della stampa, ed alla correzione, non a nuovi comenti; se poche se ne eccettuino delle quali parlerò fra poco. Anche il Loschi co' torchj del Bettinelli stampò nitidamente gran parte de' classici latini con poche annotazioni, le quali però non sono quasi altro che un succinto compendio di quelle de' precedenti comentatori. Parecchi Poeti latini con versione Italiana furono pubblicati dai Monaci di S. Ambrogio di Milano poco innanzi alla fine del secolo, e questa edizione sarà da me chiamata seconda collezione Milanese. In essa i chiarissimi editori accompagnarono il testo d'alcuni autori con pregevoli annotazioni di sobria, ma utile erudizione, e di giudiziosa critica. Lasciando però queste grandi Collezioni parlerò piuttosto dei particolari scrittori, e di Cicerone prima d'ogni altro. Le opere di questo grande Oratore, e Filosofo prese a pubblicare lo stampator Porcelli di Napoli, ed è da dolersi, che la sua ottima edizione non sia compiuta[329]. Quanto v'ha di meglio nelle edizione del Manuzio, del Grevio, del Vesburgio, del Davis, del Pearce, e in una parola di tutti gli editor precedenti, con parecchie altre collezioni inedite si trova quì raccolto. Sono alcuni, ai quali dispiacciono quei lunghi commenti, che nell'edizione de' Classici usurpano la maggior parte d'ogni facciata, concedendo appena poche linee al testo. Questi forse si dorranno dell'editore Napoletano, che è stato copiosissimo nel raccogliere annotazioni. Ma quì la copia non è inutile, anzi è giudiziosa molto, e mal si apporrebbe chi volesse fargli per ciò querela. De' commentatori, che quì si vedono, io debbo nominar quelli soltanto, che sono Italiani, e vissero nel secolo decimottavo. In primo luogo vuol essere ricordato Gasparo Garatoni, che parecchie egregie note somministrò, ora interpetrando alcuni luoghi più oscuri, ed ora presentando nuove varianti utilissime. Il secondo è Marc'Antonio Ferrati, che nelle sue Latine epistole[330] non poco giovò all'intelligenza del testo, ma non fu sollecito di consultar manoscritti per emendarlo. Jacopo Facciolati è il terzo, che le due orazioni pro P. Quintio e pro Sex. Roscio Amerino pubblicò in Padova,[331] e poi in Venezia i libri de officiis e quello di Quinto Cicerone de petizione consulatus[332], corredando queste opere d'ottime sue note, che nell'impressione del Porcelli si vedono almeno in parte ristampate. Molto più di questi, e più d'ogni altro illustratore di Cicerone faticò intorno alle opere sue il Gesuita Lagomarsini. Egli impiegò ben trent'anni a collazionare trecento codici, e trarne le varianti, che in ventisei volumi trascrisse[333]. Ma sventuratamente il frutto di tanta fatica è forse perduto.[334] Certo è almeno, che dopo la morte del Lagomarsini, e dopo che con grave danno della Chiesa, e delle lettere furono soppressi i Gesuiti niuno ha più fatta menzione di quella sua opera, e l'editore Napoletano di Cicerone, che tanta diligenza adoperò per la sua edizione nè pure ha fatta parola di lui[335]. Egli aveva altresì dai Codici Fiorentini raccolto gran numero di varie lezioni per gli autori delle cose rustiche, e in molti luoghi aveva emendata l'edizion Gesneriana, e ciò che egli scrisse e radunò intorno a questa si conserva nella libreria del Collegio Romano[336]. E giacchè è caduta menzione degli autori delle cose rustiche mi viene in acconcio di parlar quì del Morgagni, e del Pontedera. Poco fece il primo in questa parte, ma quel poco è ottimo. Morgagni paucae nimis observationes ingenium suave atque eruditionem egregiam medici peritissimi totae spirare mihi visae sunt dice lo Schneider accuratissimo editore di questi scrittori[337]. Ma il Pontedera non solamente gl'illustrò bene, ma gl'illustrò anche molto. I precedenti editori Gesner, ed Ernesti erano stati verso lui alquanto ingiusti, e v'ha chi asserisce ancora essersi il primo non poco arricchito delle spoglie dell'Italiano Filologo[338]. Il che mal sofferendo l'amico suo Andrea Marano, e facendone con lui amichevole lagnanza il Pontedera si risolvette finalmente di apprestare un'edizion nuova di Catone, Varrone, e Columella. Fu allora che da lui pregato il Lagomarsini raccolse le varianti, delle quali ho fatto parola. La morte interruppe poi il suo disegno, ma non fu inutile ciò che egli aveva apparecchiato, perchè un dotto Padovano raccogliendo le sue carte inedite le stampò non sono ora molti anni[339].

A questi succedano due medici illustrati dal principe de' moderni anatomici, cioè Celso, e Sammonico. Una bella edizione ne fece uscire dai celebri torchj Cominiani Giambattista Volpi ricca di due lettere sopra il primo, ed una sul secondo[340] del Morgagni, il quale però non cessò con ciò di lavorare intorno alle opere di quegli autori. Ma alcuni anni dopo le sue lettere Celsiane aggiunsero al numero di otto, ed a due quelle intorno a Sammonico[341]. Molto fece quel grand'uomo in quest'opera per correggere ed emendare il testo, e v'impiegò tutta la sua dottrina medica, che era somma, e la sua cognizione nella lingua latina che era pure grandissima; ed in ciò l'ajutò ancora il latinissimo Facciolati, che gli somministrò quindici belle osservazioni da lui ivi inserite. Restò però molto a farsi, ed altri medici chiarissimi si affaticarono intorno a Celso. Leonardo Targa dotto medico Veronese, e pieno della più bella letteratura[342] intraprese il viaggio di Firenze e di Roma per consultar codici, e col soccorso di questi ne dette un'ottima edizione in Verona nel 1769.[343] Anche Lodovico Bianconi ebbe in animo di far lo stesso, e ve l'ebbe lungo tempo, perchè molto amava Celso, e frutto del suo amore furono le auree sue lettere dirette al Tiraboschi. Collazionò molti codici Romani, Parigini, Modenesi, Milanesi, Bavaresi, e mandò da Dresda a Firenze un suo Segretario per collazionarne altri. Qual fosse l'esito delle sue carte, e come all'impresa medesima si accingessero il Lupacchini medico dell'Aquila e il Mariotti di Perugia si può vedere nelle citate lettere p. 262. 263.

Difficil cosa era il dare una buona edizione di questo scrittore, perchè richiedeva pazienza molta, e molta cognizione di medicina. Ma più difficile era il far lo stesso per Vitruvio, l'opera del quale con molti errori ci è stata tramandata per la negligenza ed ignoranza de' copisti, ed a correggerli si richiede profondità di dottrina nell'architettura. La possedeva il Poleni, che pensò di darne una nuova edizione, ma con danno grave della Repubblica delle lettere non l'eseguì. Qual sarebbe riuscita per le sue cure si può facilmente congetturare dalle sue Exercitationes Vitruvianae Patavii 1739. T. 2. in 4. e dal giudizio, che Apostolo Zeno ne dà. «Egli (il Poleni) dopo molti anni sta tutto ancora applicato nell'illustrare Vitruvio, sopra il quale ha fatte fatiche incredibili, collazionandone non solo tutte le edizioni, e le versioni, che ne abbiamo alle stampe, ma ancora molti antichi codici, che da varie parti gli sono stati inviati, e corredando l'opera sua di bellissime annotazioni: talchè sono persuaso, che la pubblicazione di quest'opera sarà per fare onore non solamente a lui, ma all'Italia, ed al secolo in cui viviamo»[344]. Lo fece poi il Galiani ristampando il testo latino, che accompagnò con traduzione, note, e varianti[345]. Fece egli cosa utile molto, e lodevole; non tanto però che abbia tolta l'occasione di desiderare un'altra edizione più accuratata, e meglio illustrata. All'architettura appartiene ancora l'opera di Frontino su gli acquedotti di Roma, che il Poleni ristampò corredandola d'un egregio comento, che niente lascia a bramare[346].

Gratissimo dono fece al pubblico l'Abate Giovenazzi d'un frammento medito di Tito Livio, che ha il solo difetto d'esser troppo breve: ed egli lo ha reso ancor più prezioso accompagnandolo con eruditissime annotazioni[347]. Alla scoperta di così insigne monumento paragonar si potrebbe in qualche modo, benchè molto inferiore di pregio, la nuova edizione di Sesto Rufo, e di Publio Vittore de regionibus urbis, che il Gori nel Tomo quinto delle sue simbole Fiorentine promise, in cui il testo non solamente esser doveva emendato, e corredato di note, ma ancora accresciuto. Egli però non eseguì la sua promessa, e difficilmente mi posso persuadere, che gli accrescimenti dovessero esser molto considerabili. Chiuderà il novero degli scrittori di prosa lo storico Sallustio. Molto egli deve a Gaetano Volpi, che una nitidissima edizione dette delle sue opere dopo averle con diligenza collazionate con ottimi codici, e le illustrò con eccellenti annotazioni[348].

Non parlerò quì delle disquisitiones Plinianae del Conte della Torre di Rezzonico, le quali appartengono piuttosto alla storia letteraria, che al mio argomento. Nè dirò pure d'alcune edizioni d'autori classici accompagnate dalla traduzione Italiana, che mi tornerà in acconcio di ricordare, ove de' traduttori terrò discorso. A parlar de' poeti mi condurrà naturalmente l' Apocolocyntosi di Seneca, mordace Satira mista di prosa, e di versi. Il Guasco ristampandola la corredò di molte e belle annotazioni, e di parecchi pregevoli monumenti[349], con che quell'operetta, che dopo le cure de' precedenti editori era tuttavia alquanto oscura, è adesso chiara abbastanza. Un piccolo saggio, ma lodevole diede ancora il Vannetti del suo valore nell'illustrazione degli antichi scrittori, comentando una scena di Terenzio[350]. Ma passiamo a cose maggiori. Non molta fatica fu impiegata intorno a Virgilio. Le opere sue di propria mano trascritte da Turcio Rufo Aproniano, che fu console il 494. giunsero fino a noi non offese dal tempo, e quel codice prezioso si conserva nella Laurenziana. Il Foggini lo pubblicò nel 1741. pe' torchj del Manni con ottimo divisamento, ed è questa edizione per la singolare antichità del manoscritto la migliore illustrazione, che si potesse desiderare. Orazio ebbe nell'Abate Francesco Dorighelli un buono interpetre, che da' precedenti comentatori scegliendo il meglio, ed aggiungendo le sue spiegazioni ha dato prova non mediocre di giusto criterio e di erudizione[351]. Forse alcuno potrebbe accusarlo di soverchia parsimonia nelle note, ma dove tanti editori sono in ciò copiosi eccessivamente merita scusa quello, che per evitare tale difetto inclina alquanto al difetto opposto. Fra gl'illustratori d'Orazio si dee collocare il Signor Cesarotti per le Osservazioni che si leggono nel tomo trentesimo delle sue opere. Riguardano queste due oggetti diversi. Alcune sono filologiche ed hanno in mira di spiegare alcuni luoghi, che desiderano qualche dilucidazione, altre sono critiche, ed indicano le maggiori bellezze, o riprendono i difetti, ne' quali a suo giudizio è caduto il principe de' lirici Latini. Molti forse non vorranno adottare certe sue spiegazioni, come nel principio della prima ode, dove propone con una nuova punteggiatura una nuova spiegazione. E basti questo cenno solo per brevità, giacchè l'opera è nelle mani di tutti. Che dirò poi delle critiche? Nel primo libro l'ode 13. (secondo altri 12.) Quem virum ec. non è che un accozzamento d'elogi che vanno a terminare in Augusto senza proporzione, disegno ed economia, ed in essa l'auritas quercus è un espressione assai ardita, e che a' tempi nostri si direbbe non a torto secentistica. Nella 16. (ovvero 15.) al v. 3. in vece che Nereo incatenasse i venti a loro dispetto non sarebbe stato meglio l'immaginar che i venti s'arrestassero da se? Così feci nella mia traduzione. La chiusa poi è languida, e il Signor Cesarotti con ammirabile ingenuità ci assicura, che egli ha fatto assai meglio traducendo, Per te fellon fia cenere, come ho accennato di sopra. La 21. (oppure 20.) è un biglietto che non vale la pena d'esser posto in versi. La 24. e la 27. sono cose da nulla, la 39. è una vera inezia. Nel lib. 3. l'ode 4. così vantata a lui pare una fanfaronata poetica piena di luoghi comuni nella quale si è incastrato un episodio mitologico senza appicco, e che in fondo ha più di borra, che d'interesse o di sostanza. La 9. alzata alle stelle generalmente a lui pare una puerilità priva di naturalezza, di interesse, e di grazia. Anche, nella lingua Latina egli vuole che abbia peccato Orazio ora usando qualche espressione, che sente del comico, come uxorius amnis Lib. 1. od. 2. la quale però egli avrà creduta poetica[352], ora adoperando altre espressioni non adattate, come nella 14. (ovvero 13.) al v. 8. lentis penitus macerer ignibus, dove il critico c'insegna che lentus vuol dire arrendevole, ed Orazio forse avrà creduto che avesse ancora altri significati, e fra gli altri quello di diuturno e per ciò non male esprimesse la qualità d'un fuoco, che lentamente lo tormentava; e in questa opinione sarà stato anche Tibullo, quando disse lento torquet amore Lib. 1. El. 4. v. 81. Su queste ed altre simili critiche non farò veruna riflessione, poichè qualunque leggitore saprà farla da se, e senza più parlerò d'un'altro illustratore d'Orazio assai diverso, cioè del Cavaliere Clementino Vannetti. Egli nelle sue osservazioni sopra questo poeta[353] parlando di più, e diverse traduzioni delle sue opere, nel volgarizzamento d'una epistola, nelle lettere sopra il Sermone Oraziano imitato dagl'Italiani e sulle poesie didascaliche di lui ingiustamente condannate dallo Scaligero, nella descrizione della sua Villa, e nel giudizio sopra l'Orazio Bodoniano si può chiamare un perpetuo comentatore; ma un comentatore molto giudizioso ugualmente se ne spiega i concetti, o se ne accenna le bellezze.

Un ampio comentatore hanno avuto nel Volpi Catullo, Tibullo, e Properzio[354]. Egli considera il testo e lo emenda come giudica opportuno, non però con quella insaziabile avidità di mutar sempre per cui certi editori hanno guastate, e guastano le opere de' classici; spiega ingegnosamente i luoghi alquanto oscuri, e sparge a larga mano gran copia di erudizione forse soverchia, raccogliendo i luoghi simili d'altri autori, il che non è senza utilità per l'imitazione ove si faccia parcamente. Parecchi anni prima aveva egli data un'altra edizione degli autori medesimi pregevole anch'essa, e forse più comoda, perchè ivi le note sono più brevi, e perciò meno ricche d'erudizione[355]. Anche Gio. Francesco Corradini dell'Aglio dette un'edizione di Catullo con diffuso comento, che non ha ottenuto molto plauso[356]. Mordace l'abbiam veduto nel suo Lessico contro il Facciolati, e tale è pure in quest'opera contro tutti gl'interpetri che lo precedettero, e contro il Volpi massimamente. Raro è che approvi le spiegazioni e l'emendazioni altrui, e vuol che si seguano le lezioni di certo suo codice, il quale a dir vero ne ha alcune assai buone, non però quante egli vorrebbe. Lodata è l'edizione delle favole di Fedro; che con buone annotazioni, e buona traduzione dette il Padre Trombelli, ripetuta poi molte volte per soddisfare al desiderio comune[357]. Un altro poeta, alquanto più recente di questi, cioè Rutilio Numaziano si dovea pubblicare dal Gori colle illustrazioni di Giovanni Targioni[358] ma l'edizione non si è poi eseguita. Nè pure si sono stampati mai i comenti dal P. Alessandro Politi delle Scuole Pie preparati a Lucrezio, Catullo, Marziale, ed altri poeti Latini, di cui ho fatto parola in altro luogo.

Ho detto di sopra, che tra i papiri d'Ercolano se n'è trovato uno solo Latino, e questo non ci presenta che poche linee. È un poema anonimo sulla guerra d'Alessandria, che terminò colla battaglia d'Azio e colla morte di Cleopatra. I pochi versi, che si sono potuti leggere, sono stampati a Napoli, ma non sono ancora là renduti pubblici. Il Sig. Morgenstern però avendone ottenuto un esemplare lo ha indirizzato all'Accademia di Gottinga con un suo commentario, e M. Millin lo ha ristampato nel Magasin Encyclopédique Ianv. 1812. Noi dobbiamo render grazie all'editore Tedesco d'aver procurato di spiegare alquanto questi laceri avanzi dell'antichità; ma la sua industriosa fatica non appartiene al mio argomento. I versi latini però dell'anonimo autore di niuna utilità possono esser fuorchè per la paleografia, giacchè nell'edizione Napoletana si vedrà la forma degli antichi caratteri, i quali (come si dice) vi sono esattamente delineati.

De' Padri delle Chiesa, e d'alcuni altri scrittori ecclesiastici Latini si sono altresì fatte edizioni di gran pregio. Perchè lasciando stare certe Venete ristampe, che solamente ripetono ciò che prima si aveva, v'ha il S. Leone Magno del P. Cacciari[359] e dei Ballerini[360], S. Girolamo del Vallarsi[361], Venanzio Fortunato del Cardinal Luchi[362], Lattanzio del P. Eduardo Franceschini[363], Sulpizio Severo del P. Girolamo da Prato[364], le Complessioni di Cassiodoro del Marchese Maffei[365], S. Zenone de' Fratelli Ballerini[366], Lucifero di Cagliari de' fratelli Coleti[367], S. Gaudenzio del Gagliardi[368], Rufino del P. Cacciari[369], e del Vallarsi[370], S. Paulino del Mandrisi[371], S. Pier Grisologo del P. Paoli[372], S. Massimo del P. Bruni[373], e Cresconio del Foggini[374].

Traduzioni. CAPO XIV.

Ma passiamo alle traduzioni, delle quali tal è la copia, che mi vedo costretto a tralasciarne molte. Cominciamo dai poeti, e fra questi da Plauto. Il Cavalier Lorenzo Guazzesi volgarizzò l'Aulularia, e l'Ab. Angelo Teodoro Villa il Curculione ambedue egregiamente. Il P. Brunamonti, il P. Carmeli, e l'Ab. Domenico Ferri ne tradussero alcune commedie con lode, ma il Napoletano Nicolò Eugenio Angelio diede la versione di tutte. Il signor Napoli Signorelli trova nell'Angelio una particolare accuratezza ed intelligenza de' due idiomi[375], nè in ciò lo contradirò. Credo però che meritino maggior lode il Guazzesi, il Villa, e gli altri testè nominati, ed approvo i Monaci Milanesi, che nel loro Plauto hanno poste le traduzioni di questi, e solamente per l'altre commedie hanno prese quelle dell'Angelio. Luisa Bergalli[376], Monsignor Forteguerri[377], e l'Ab. Francesco Bellaviti[378] volgarizzarono Terenzio. Il Forteguerri merita plauso, se si ha riguardo alla difficoltà di trasportare nella nostra lingua i sali, le grazie, e certi modi spiritosi e concisi de' Comici Latini: il che si deve osservare ancora riguardo ai traduttori di Plauto. Della Bergalli poi, e del Bellaviti non posso dar giudizio, perchè non mi è riuscito di vedere le loro traduzioni. Non minor difficoltà forse s'incontra nel trasportare il poema filosofico di Lucrezio: ciò non ostante con ammirabile felicità la superò Alessandro Marchetti, la versione del quale è celebre tanto, che non abbisogna delle mie lodi[379]. Commendando però l'opera del Marchetti io intendo dire, che belli sono i suoi versi, e che fedelmente ha espressi i sensi dell'Autore, ma biasimo solennemente i sentimenti d'irreligione e d'Epicureismo, che la Chiesa ha in lui condannati, e da' quali doveva la sua penna tenersi più lontana, come n'era lontano il suo cuore. Questo rimprovero ha meritato ancora, e l'ha meritato assai più l'Ab. Raffaele Pastore, la versione del quale non ho veduta[380].

Quantunque grande sia la difficoltà, che si prova nel tradurre i poeti nominati fin quì, assai maggiore però a mio giudizio la presentano Virgilio, ed Orazio. Ciò non ostante, o che la stessa difficoltà dell'impresa abbia animato alcuni colla speranza di superarla, o che gli abbia allettati la familiarità, che tutti abbiamo fin dall'adolescenza con questi poeti, essi hanno avuto maggior numero di versioni che gli altri. La Buccolica ne ha avute tre, una in terza rima, unitivi dov'era opportuno altri metri, del Marchese Prospero Manara[381], la seconda del P. Ambrogi Gesuita[382], la terza del P. Soave[383]. Non dispiacerebbero quelle degli ultimi due, se non si fosse letta quella del primo. La traduzione del Manara è opera egregia; e credo quasi che se Virgilio avesse voluto esprimere in versi Italiani i suoi sentimenti non lo avrebbe potuto fare in altro modo. Maggior numero di volgarizzamenti vanta la Georgica. Sette ne sono a me noti in questo secolo. La prima è del Modenese Cantuti in versi sdruccioli, che basti d'aver nominati. Degli altri sei uno è in ottava rima del Conte Lorenzo Tornieri[384] e cinque in versi sciolti, cioè del P. Ambrogi[385], del P. Soave[386], di Lodovico Antonio Vincenzi[387], del Manara[388], e dell'Abate Clemente Bondi[389]. Il Tornieri è elegante, ma dalla tirannia della rima spesso è strascinato, anzi che tradurre, a dir cose, che in Virgilio non sono. Il P. Soave è di soverchio abondante di epiteti; l'Ambrogi, il Manara, e il Vincenzi sono fedeli, corretti nello stile, ma forse un poco troppo timidi seguaci dell'originale, e perciò appunto non aggiungono alla maestà Virgiliana; il Bondi non è fedele abbastanza, e anch'egli non si può sollevare fino alla maestà del poeta latino. Anche l'Eneide ha avuti i suoi volgarizzamenti per opera dell'Ambrogi, e del Bondi, de' quali credo, che dar si debba il giudizio medesimo, che ho dato poco fa delle loro Georgiche.

Maggiore è ancora il numero de' traduttori d'Orazio. Parecchi ne sono a me noti, fra' quali due inediti, o al meno promessi. Lascio il Calabrese Ierocades, che è di tutti il più malvagio. Lascio il Genovese Caprio ed Ottavio dalla Riva[390], de' quali non ho veduto nè pure alcun saggio, onde far congettura del merito loro. Giuseppe de Necchi d'Aquila[391], e Gio. Pezzoli[392] hanno usato il verso sciolto, ed anche per ciò solo non saprei commendarli. Ma oltre a questo il Pezzoli scrivendo ad uso dalle scuole e quindi traducendo letteralmente non ha potuto conservare la forza dell'originale, e l'Aquila non ha saputo conservarla, quantunque non abbia nè pure il pregio della fedeltà. Lo stesso si dica di Girolamo del Buono, che ha la sua traduzione nella prima Raccolta Milanese. Questi volgarizzò ancora i sermoni e le Epistole, l'Egloghe e la Georgica di Virgilio, e i Fasti d'Ovidio, il che è rimasto inedito, come dice il Fantuzzi negli scrittori Bolognesi; nè è gran danno. Non molto migliore è il Savelli[393] per certa sua fiacchezza di stile, che troppo è lontana dallo stile d'Orazio. Francesco Corsetti dopo aver plausibilmente tradotte le satire e le Pistole[394] volle tradurre anche le odi, che morendo lasciò imperfette. L'Abate Bertola le stampò poi e ne supplì più di trenta, che mancavano, senza avvertire quali sono aggiunte da lui[395], ed alcune, non però molte, ve ne ha di bellissime; ma la più parte non sono fedeli, e mancano di quella forza, e concisione, che tanto si ammira nell'originale. I miglior traduttori d'Orazio sono a mio giudizio il Pallavicini notissimo a tutti, l'Ab. Venini, che contrasta con lui, e molte volte lo vince, il Borgianelli, il Bramieri, il Cassola, ed il Cesari[396]. Ciascuno di questi volgarizzatori meritano molta lode, si sono adoperati d'accostarsi all'originale con ogni sforzo, e se non hanno potuto ottenere il loro intento non si debbe attribuire a difetto d'ingegno, ma alla qualità dello stile Oraziano, che non può essere uguagliato traducendo. Il Pallavicini, e il Borgianelli fra questi hanno tradotti anche i sermoni, meno però felicemente delle odi. Luigi Ceretti altresì, e il P. Soave[397] e il P. Pagnini[398] tradussero alcune odi, ed alcune pure il Balì Gregorio Redi, che sono fra le sue opere, ma non le ho vedute. Finalmente il Vannetti tradusse un'epistola, e due nuove versioni annunziò[399], cioè del signor Ab. Godard, e del signor Roberto Sanseverino: ma il Sanseverino non so se veramente abbia pubblicata l'opera sua, e l'Abate Godard non si è fino ad ora determinato di pubblicare la sua versione. Alcune però delle odi per lui volgarizzate ho sentite leggere nella Romana Arcadia dove ottennero molto plauso, e n'erano degne. Delle versioni della Poetica non fo parola, perchè non posso annoverare tutte le cose più minute, e solamente indicherò quella del Metastasio, non osando però darne giudizio, perchè a me non appartiene il giudicare ciò che ha scritto un uomo così grande[400].

Catullo, Tibullo, e Properzio[401] sogliono unirsi nelle edizioni, nè io li separerò adesso ricordando la versione che ne fece il Sig. Agostino Peruzzi nel Parnasso de' Poeti Classici d'ogni nazione trasportati in lingua Italiana. Noi dobbiamo commendarlo doppiamente, e per la sua traduzione, che è assai pregevole, e per la modestia, che non ha voluto offendere. Il chiarissimo signor Ab. Rubbi loda in lui l'armonia del verso, la prontezza della rima, la nobiltà dello stile negli argomenti sublimi, e la morbidezza negli amatorj, ed io confermo le sue lodi. Non può piacermi però l'uso de' metri lirici nel volgarizzamento delle elegie. Oltre a ciò mi pare di scorgere talvolta nella sua opera qualche indizio di soverchia fretta, per cui alcuni tratti sono meno felici del rimanente. Ne recherò due soli esempi. In Catullo egli usa l'espressione amare alla follia[402], la quale dubito che non sia Italiana: e in Properzio trovo questi versi.

Sul sasso assisa a piangere S'udia sue piaghe nuove Da far pietate a Giove[403].

Il testo dice, Vulnera vicino non patienda Jovi, il che significa l'opposto. L'amorosa ferita della Vestale Tarpea, che amava Tazio nemico di Roma, ed era in procinto di tradir la patria, non poteva eccitar pietà, ma collera in Giove. Più felice nella scelta del metro fu Francesco Corsetti, ed inclinerei ancora a giudicarlo più felice nell'eleganza, e nell'esattezza; ma poche Elegie di Tibullo e Properzio, e quella d'Albinovano abbiamo da lui con altre cose, che non appartengono a questo luogo[404]. Di Ovidio son molti i traduttori; io però per non tesser quì un lungo, e nojoso catalogo di nomi, mi contenterò di ricordar solamente quelli che per la celebrità loro e pel merito delle loro versioni debbono essere preferiti; cioè Girolamo Pompei per l'Eroidi, Giov. Batista Bianchi pe' Fasti per le Tristezze e per le Pistole scritte dal Ponto, un Anonimo, che si nasconde salto il nome Arcadico d'Eschilo Acanzio pe' Rimedj d'amore, l'Ab. Pellegrino Salandri per l'Invettive contro Ibi, pe' Lisci, e per la Pescagione, e l'Abate Angelo Teodoro Villa per la consolazione a Livia, e per la Noce, oltre alle tre lettere d'Aulo Sabino[405].

Coetaneo d'Ovidio fu Fedro liberto d'Augusto, e il P. Trombelli interruppe i gravi suoi studj per tradurne lodevolmente e illustrarne con buone annotazioni le favole[406], siccome ho detto, alle quali fece precedere quelle d'Avieno e di Gabria[407]. Ma parlando di questi poeti siamo già passati ad un'età meno felice per la lingua Latina. Ciò non ostante non furono trascurati ancora gli scrittori di questi tempi e de' seguenti. Lucano fu volgarizzato dal P. Gabriele M. Meloncelli Barnabita in ottava rima[408], e dal Signor Cassoli in versi sciolti nella seconda Raccolta Milanese. Più assai del primo è lodevole il secondo. Egli è buon poeta, e se considerar si potesse l'opera sua separatamente dall'originale meriterebbe plauso. Difficile impresa è il tradurre Lucano, perchè se si vuole esser fedele si arrischia di ritrarre nel nostro volgare i suoi difetti, e se questi si vogliono evitare si arrischia di trascurare alcune bellezze, che in lui sono grandissime, e talvolta sono di tal natura, che difficilmente si trasportano in altra lingua. Dubito che il signor Cassola abbia urtato nel secondo scoglio. Vediamo il principio della sua versione.

La civil di Farsaglia orrida guerra E il fren lentato ai rei delitti io canto, E un popol forte, che la man vittrice Armò contro se stesso, e sciolti i nodi D'ogni amistà le consanguinee schiere Con l'intere del mondo armate forze Gareggianti alla pubblica rovina E tutte contro lor rivolte a zuffa L'Aquile, i dardi, e le Romane insegne.

Non aggiungo quì il testo Latino perchè è nelle mani di tutti. Ora io non trovo nella versione il plusquam civilia, delle quali parole Floro Lib. 4. Cap. 2. fa quasi il comento, come osservò già il Gronovio. Il fren lentato ai rei delitti dice molto meno che jusque datum sceleri. Tralascio per brevità le osservazioni, che gli altri versi domandano, e solamente aggiungo che poco dopo questi versi il traduttore si dee riprendere ancora per un fallo assai maggiore, dove egli dice l'opposto del testo. In Lucano Lib. 2. v. 20. leggiamo, Gens si qua jacet nascenti conscia Nilo, e il traduttore, Se v'ha gente sulla foce del Nilo in vece di dire alla fonte, o alle fonti[409].

Alle versioni di Lucano succedano quelle assai commendabili dell'Argonautica di Valerio Flacco fatte da un'anonimo nello seconda Raccolta Milanese, e da Marc'Antonio Pindemonte[410], e poi la Tebaide di Selvaggio Porpora, cioè del Cardinale Bentivoglio[411]. Questa è celebre tanto, che non abbisogna delle mie lodi. Non debbo però tacere l'autorevol giudizio d'Apostolo Zeno, che nelle annotazioni alla Biblioteca del Fontanini dice: nel volgarizzamento del Cardinal Bentivoglio Stazio è sempre Stazio, con altro abito, ma col medesimo aspetto sublime senza gonfiezza, grande senza sproporzione, soave senza mollezza ec. Anche l'Achilleide e le selve del Poeta medesimo ebbero i lor traduttori, la prima in Orazio Bianchi, e le seconde nell'Abate Biacca non affatto spregevoli, ma non paragonabili col traduttore della Tebaide. L'ebbero il Tragico Seneca in Benedetto Pasqualigo[412], Calpurnio, e Nemesiano in Tommaso Giuseppe Farsetti[413] e Claudiano in Nicola Beregani[414]. Fra i poeti di questa età, che hanno avuto in sorte ottimi volgarizzamenti debbono porsi Giovenale, e Persio. Tali non li chiamo per la versione ed illustrazione, che di molte satire del primo ha fatte il celebre Cesarotti, e pel saggio d'altra versione d'un'anonimo, che il chiarissimo signor Ab. Rubbi ha dato nel suo Parnasso de' Classici volgarizzati, perchè queste appartengono al secol presente; ma bensì per quella del Silvestri[415]. D'ambedue questi Satirici fece egli una parafrasi, piuttosto che una traduzione, in modo però che il sentimento è accuratamente presentato nel nostro volgare. E siccome egli era dotto antiquario, la sua parafrasi è accompagnata da un comentario erudito, in cui illustrandosi il testo molte cose spettanti all'antichità si espongono copiosamente. Due altri volgarizzamenti ebbe Persio. Il primo è il Salvini[416], di cui ho già indicato abbastanza il modo di tradurre: l'altro è il Soranzo, la versione del quale non ho veduta. Ma basti ormai de' Poeti; giacchè credo inutile il diffondermi ricordando le minori lor produzioni.

Primo fra gli scrittori di prosa esser dee Cicerone, e prima fra le sue opere sia quella, in cui mostrando quale esser debbe il perfetto oratore mostrò qual era egli stesso. Il P. Cantova Gesuita poteva aver luogo onorato fra gli editori, come ora glielo do fra i volgarizzatori. A lui dobbiamo i tre libri dell'Oratore di belle note arricchiti, e d'una egregia versione[417]. Le note in parte sono scelte da quelle dei miglior commentatori, in parte sono sue; e sì l'une che l'altre sono giudiziose, ed utili all'intelligenza. La versione è fedele senza esser servile, elegante, e scritta con purità di lingua. Il P. Cantova volgarizzò ancora dodici orazioni di Cicerone, che mi duole di non aver vedute. Di queste tre altri traduttori sono a me noti, cioè il Bordoni[418], il P. Alessandro Bandiera[419] de' Servi di Maria, e il P. Leonardo Giannelli de' Chierici Regolari della Madre di Dio[420]. Non esaminerò quì la fatica primo, perchè i pregi degli altri due tutto a se richiamano il mio discorso. Anche il Giannelli poteva essere da me annoverato fra gli editori per ogni maniera di copiose illustrazioni rettoriche, critiche, ed erudite, colle quali accompagna l'opera sua. Egli poi traducendo esprime i sentimenti dell'originale con maggior precisione che il Bandiera non fa, abbondando ancora di parole ove ha giudicato, che la maggior copia di queste giovar potesse al suo intento: ed il Bandiera è stato forse più sollecito del Giannelli di rappresentare nel suo volgare la dignità, l'armonia, e l'eleganza di Cicerone. Nè bastò al P. Bandiera di darci tutte le orazioni nella nostra Lingua, ma volgarizzò ancora l'epistole familiari[421] l'epistole al fratello Quinto[422], i tre libri degli Officj[423] e finalmente le vite di Cornelio Nepote[424]. Ed i Libri degli Officj ebbero ancora tre altri volgarizzalori, cioè Gianagostino Zeviani[425] Matteo Facciolati[426] e il Marchese Luigi de Silva[427], ed uno n'ebbero l'epistole familari nell'Ab. Ciliari[428] che tradusse pure i libri di Celso sulla medicina[429]. Due storici furon tradotti, cioè Sallustio e Cornelio Nepote, il primo dal P. Pietro Savi Gesuita[430] dal Dottor Giovan Battista Bianchi[431], e dal Conte Vittorio Alfieri[432], e il secondo dal P. Bandiera e dal Soresi[433]. Non ho veduto il volgarizzamento del Savi, ma se dalle altre Opere sue si può dedurre una probabile congettura, vuolsi credere che meriti lode, e certamente sarà scritto puramente, perchè egli era scrittor purissimo. Commendabile è la traduzione del Bianchi, ma troppo resta offuscata da quella dell'Alfieri; che di molto supera tutte le precedenti. Altre forse avranno stile più nobile, e numerose, saranno altre più costantemente fedeli, ma per energia d'espressione, e per una certa aria originale parmi, che non ceda la palma a veruna[434]. Il P. Bandiera poi nel volgarizzar Cornelio Nepote è stato elegante e fedele, onde dobbiamo sapergli grado di questa, come dell'altre sue letterarie fatiche. Può contrastare con lui il Milanese Soresi, principalmente per la fedeltà; ma non così facilmente crederei, che lo superasse per l'eleganza.

Minor materia porgono al mio ragionamento l'età seguenti. Nulla posso dire delle lettere di Plinio il giovine trasportate nel nostro volgare dal Canonico Gio. Antonio Tedeschi[435], che non ho vedute. Maggior fatica intraprese Lorenzo Patarol, che le orazioni tutte panegiriche degli oratori Latini volle darci corrette nel testo, illustrate da annotazioni, e spiegate in Italiano, ed a tutti i tre officj d'editore, di comentatore, e di traduttore sodisfece lodevolmente[436]. I codici Veneti, Vaticani, e Fiorentini, le edizioni precedenti, e il proprio ingegno gli somministraron il modo di rendere il testo più emendato, che prima non era. Ma per ciò che spetta alla traduzione, se altri lo avevano preceduto nel volgarizzare il panegirico di Plinio, intatta era la strada riguardo agli altri, ed altrettanto era ingrata per la rozzezza degli oratori. Al Patarol succeda il P. Marco Poleti Somasco, che l'Ottavio di Minucio Felice diede tradotto, e d'opportune annotazioni lo corredò[437].

Ma savio ed util consiglio sopra molti da me in questo capo noverati fu quello di trasportare nella nostra lingua i latini scrittori di agricoltura, il che si eseguì a Venezia colle stampe del Pepoli[438]. Non dirò della Georgica di Virgilio tradotta dal P. Soave, di cui ho già fatta parola. Il Bordoni tradusse tre libri della storia naturale di Plinio, cioè il diciassettesimo co' due seguenti; e di ciò credo che debba recarsi quel giudizio, che vuolsi dare delle orazioni di Cicerone per lui volgarizzate. Gli altri traduttori parmi che sieno stati solleciti di spiegar chiaramente il testo; ma non tutti hanno posta bastevol cura d'aggiugnere all'eleganza di quelli antichi. Piace Catone con quella sua semplicità; ma non mi piace ugualmente nella traduzione del Compagnoni. E s'incontrano talvolta in questa parole che non reputo Italiane pure, ma Lombarde. Oltre a ciò egli non di rado distende con molte parole i concetti dell'originale; il che quanto convenga a un traduttor di Catone, altri sel veda. Più felici a parer mio son le versioni di Giangirolamo Pagani, che trasportò nella nostra lingua Varrone e Columella, se si riguarda l'eleganza, e la castigatezza della lingua; poichè quanto allo spiegare il testo nè a lui fo rimprovero, nè al Compagnoni. Le annotazioni poi (giacchè ne sono in copia fornite queste opere) sono in ambedue ricche d'erudizione; ma quelle del Pagani vogliono ancora esser lodate per buona critica intorno alla emendazione del testo.

Scrittori in Latino. CAPO XV.

Questi diversi modi d'illustrar la lingua Latina somministrano (come fin quì s'è veduto) parecchi uomini chiarissimi, de' quali si può a gran ragione gloriare l'Italia nostra; ma quello di che essa si può ancor più gloriare è lo scrivere latinamente. Lo scriver bene in Latino è così proprio degl'Italiani, che Marc'Antonio Flaminio volendo lodar Filippo Obermayer gli disse, che niun Italiano più di lui si accostava a Tibullo.

Natus Vindelicis Philippus oris Sed tam cultus et elegans poeta, Tam dulcis lepidusque, ut Italorum Nemo sit proprior tuo Tibullo[439].

Hanno i Francesi gli Spagnoli i Portoghesi, hanno le altre Nazioni Europee i loro scrittori Latini puri ed eleganti; ma debbono confessare, che per copia, e dirò ancora per isquisitezza di gusto, coll'Italia non possono contrastare. Non è difficile il dar ragione di ciò; ma questa indagine mi farebbe deviar troppo dal mio scopo. Dirò piuttosto, che se dal rinascimento delle lettere l'Italia ha avuti sempre uomini sommi in questo genere, non ne ha mancato nè pure nello spazio di tempo, che appartiene a questo mio ragionamento. Ma sono alcuni, i quali pretendono, che or non si possa col solo studio de' buoni scrittori Latini scriver com'essi in questa lingua; ed altri asseriscono, che non sia necessario di scrivere come essi scrivevano. Fu tra i primi l'Algarotti siccome abbiamo veduto, e il D'Alembert, che aveva forse qualche motivo per non esser molto amico della lingua Latina. Anche un certo Paolo Zambardi prese a sostenere questa opinione[440]. Mostra egli che ignoriamo ora qual fosse la vera pronunzia della lingua Latina, il che niuno gli negherà. Come è impossibile il pronunziare bene il Latino vorrebbe l'autore far credere, che fosse impossibile ancora l'intenderlo bene. Quest'errore però non contro il Zambardi, perchè il suo libro fu presto dimenticato, ma contro il D'Alembert combattè vittoriosamente il Cavaliere Clementino Vannetti in una lettera, che egli aggiunse alla vita dell'Ab. Zorzi da lui scritta in Latino e lo combattè in doppio modo, cioè colle ragioni e coll'esempio, perchè la vita e la lettera sono scritte in guisa, che avrebbero ottenuto plauso anche dall'antica Roma. Lo stesso e con ugual lode fece Girolamo Ferri di Longiano in alcune lettere da lui unite al suo commentario intorno alla vita ed alle opere del Cardinale Adriano Castelli stampato a Faenza il 1771. La seconda opinione è del signor Cesarotti. Quella divisione di secol d'oro di secol d'argento e di ferro non piace a lui, e la stima volgar pregiudizio de' grammatici, e vuole anzi che si usino indistintamente parole, e modi d'ogni secolo, e se così piace parole nuove non adoperate mai dagli antichi. Quindi egli usò la voce flexilitatem[441], che non si trova negli scrittori latini, e difese il Flaminio, che adoperò la parola floricomum, nuova anch'essa. Egli dice, che aveva l'anima di bronzo quel latinista che osò rimproverare all'elegantissimo Flaminio questo vocabolo; che questi rispose sensatamente al Zanchi sull'uso di conciar voci nuove in lingua Latina; confessa che la sua opinione fu combattuta, da varj critici, e passa generalmente per un paradosso; che si potrebbe però piantarla sopra una base più salda, ma converrebbe avanzar qualche teoria, che parrebbe un paradosso più grande, ed è meglio tacere contentandosi d'errar col Flaminio[442]. Non essendo piaciuto a questo celebre scrittore di pubblicare la sua teoria io mi terrò all'opinione comune, che chi vuole aver nome di scrittore elegante d'una lingua morta non deve coniare nuovi vocaboli. Con quale autorità potrò io confermare quest'opinione? Con quella dello stesso Flaminio. Mi sarà grato (scriveva egli ad Ulisse Bassiano) che m'avvisiate dove Cicerone usa, satis superque facere alicui; perchè quantunque io reputi questa locuzione esser rarissima, nondimeno essendo ella di Cicerone, non lascerò d'usarla, purchè io possa mostrare il luogo a chi mi volesse riprendere; ma non ardirei già d'usar reputo in luogo di puto: se nol vedessi usato in questo modo da Cicerone, o da qualche altro, quì sit bonus latinitatis auctor[443]. Il Flaminio dunque quando aveva agio di riflettere non voleva usare espressione, che non fosse usata da' buoni scrittori. Gli avvenne però talvolta d'usar qualche voce non pura, e floricomus non è l'unica. Egli stesso ne dà la ragione in quella lettera medesima, dicendo all'amico, che non si dee fidare del suo giudizio, perchè da molti anni il suo studio versava tutto nella Scrittura Santa, in S. Bernardo, ed altri simili, i quali siccome sono elegantissimi nelle sentenze, così sono barbari nelle parole: e come si dice a Casa mia, chi pratica al molino s'infarina; però è cosa molta verisimile, che io m'inganni spesso in hoc genere. Le quali parole giovano assai a mostrare non affatto irragionevole il dubbio di taluni, che Marc'Antonio Flaminio non sempre fosse purissimo latinista, quantunque fosse poeta elegantissimo. Queste parole ricordano nel tempo medesimo, che altri può essere elegante nelle sentenze, e rozzo nelle parole, e che all'apice della perfezione giunge quello scrittore, che non contento della prima qualità evita con ogni studio la seconda.

D'ambedue queste qualità furon solleciti nella lingua latina alcuni preclarissimi ingegni nel secolo decimottavo, i quali tutti se volessi quì annoverare sarei infinito. Bastino pochi. Stay Cunich e Zamagna Ragusei di patria, Italiani di domicilio, furono egregi poeti. Il primo espose in bei versi Lucreziani prima la filosofia Cartesiana, poi la Neutoniana; e gli altri due oltre a più altre cose minori fecero le traduzioni, delle quali ho già fatta parola. Quel bizzarro ingegno di Monsignor Sergardi, che sotto nome di Settano scrisse parecchie satire appartiene ugualmente al secolo decimosettimo, e al decimottavo. Egli o scherzi con Orazio, o si sdegni con Giovenale sempre è ammirabile. Ebbe un comentatore forse troppo copioso, ma erudito, ottimo latinista, e degno di lui, cioè il P. Leonardo Giannelli Chierico Regolare della Madre di Dio[444]. A questi poeti si debbono aggiungere il Volpi, il Farsetti, l'Ab. Taruffi, Giuseppe Aurelio di Gennaro, i Gesuiti Noceti, Bassani, Mazzolari, Giovenazzi con più altri raccolti in un aureo libretto di versi latini di quell'insigne Religione, il P. Guglielmini delle scuole Pie, parecchi che hanno i loro versi tra le poesie latine degli Arcadi. Taccio d'altri molti per esser breve, ma non posso tacere del Sig. Ab. Gagliuffi Professore chiarissimo dell'Accademia Genovese, che o scriva versi meditati, o li dica all'improvviso è sempre maraviglioso, e di Giovacchino Salvioni singolare anch'egli (quantunque assai meno colto del Gagliuffi) nell'improvvisar latinamente.

Ai poeti succedano gli scrittori di prosa. Elegantissime sono le orazioni del P. Paolino Chelucci Lucchese, e del P. Alessandro Politi ambedue delle Scuole Pie. Loderei pur molto le orazioni di Gio. Vincenzo Lucchesini, se la sua storia non richiamasse a se tutta la mia considerazione[445]. Eleganza, e nobiltà di stile, gravità nelle sentenze, diligenza nelle descrizioni con molta purità di lingua sono le doti che io scorgo in quest'opera, la qual sola basta a renderlo immortale. Illustre storico altresì fu Giulio Cesare Cordara Gesuita, che fu parimente poeta satirico acre, e veemente[446]. E ancor più illustre fu Guido Ferrari pur Gesuita, che le Guerre del Principe Eugenio di Savoja in Italia e in Ungheria descrisse egregiamente[447]; e molte altre cose pubblicò in questa lingua. Nè meno celebri sono Jacopo Facciolati[448], Francesco Maria Zanotti, il Lagomarsini Gesuita, Monsignor Fabbroni, Jacopo Bacci[449], Jacopo Garatoni[450], con altri molti che potrei ricordare. Ma sopra tutti, e sopra quanti furono ancora più insigni scrittori del secolo XVI. io credo che si debbano porre i due fratelli Castruccio, e Filippo Buonamici. Quando io leggo i libri de bello Italico, e più ancora il Commentario de rebus ad Velitras gestis del primo parmi, che se Giulio Cesare risorgesse, e prendesse a descrivere quei fatti non li descriverebbe diversamente; e Filippo nel suo dialogo de claris Pontificiarum epistolarum scriptoribus parmi, che si accosti tanto a Cicerone, che nulla più. Se la materia dai due fratelli trattata non ci avvertisse, che gli autori sono de' tempi nostri, il modo, con cui è scritta ci farebbe credere, che essi appartengono al miglior secolo di Roma. Il plauso, che quelle opere levarono fu sommo, e si vide in alcune scuole d'Italia, di Olanda, e d'Inghilterra spiegarsi ai giovanetti le opere di Castruccio[451] insieme con Cicerone Cesare Sallustio e Livio. E quando io vedo, che una sola città in poco più d'un mezzo secolo ha prodotto un Lucchesini, un Bacci, e due Buonamici io chiamo gloriosa questa Città; e dico che in questa si sono ricoverate quasi in propria sede le lettere Latine.

Ma non è sola Lucca ad aver questo vanto. Bologna altresì merita molta lode, giacchè in questa, come in molte altre parti della letteratura si rese celebre nel passato secolo. In fatti i Zanotti, i Manfredi, i Beccari, i Ghedini, i Taruffi pareva che non potessero mai dimenticar le grazie e l'eleganza della lingua latina, come ne fanno testimonianza le opere loro. La stessa lode deesi ancora attribuire alla Compagnia di Gesù, che tanti insigni Latini scrittori ha prodotti, de' quali pochi ne ho ricordati per saggio di quel moltissimo, che dir potrei. I meriti suoi in questa parte della letteratura sono in breve, ma bastevolmente accennati da Monsignor Filippo Buonamici, dove parlando del Lagomarsini dice: Hyeronimus Lagomarsinius latini sermonis et amantissimus et peritissimus, ejusque homo societatis, quae latinarum litterarum fugientem jam gloriam omni scriptorum genere retinere quodammodo conatur[452].

Iscrizioni. CAPO XVI.

Un altro genere d'illustrazione ci offrono finalmente le iscrizioni. Se io volessi quì far parola de' raccoglitori, e degl'interpetri delle antiche iscrizioni mi si aprirebbe davanti un campo troppo vasto da percorrere. Molto mi somministrerebbono da dire le grandi raccolte del Gori, del Maffei, del Muratori, del Donati; molto il P. Lupi, il P. Bonada, il P. Corsini, il Rivautella e il Ricolvi, l'Olivieri, il Mazzocchi, il Martorelli, l'Oderici, il Passionei, il P. Zaccaria, il del Signore, gli editori degli Aneddoti stampati a Roma, l'Avvocato Cantini, e tanti altri. Fra una messe così abbondante sceglierò due soli scrittori, che illustrando iscrizioni hanno illustrata l'antica lingua del Lazio. Sarà il primo Matteo Egizio pel suo Commentario sul celebre Senatus-Consulto de' Baccanali[453]. Il Langlet dice, che esso piacerà a quegli eruditi, quì aiment les citations prodiguèes[454]. Ma il principal difetto dell'Egizio non consiste nella moltitudine delle citazioni, le quali a coloro sogliono dispiacere sopra ogni altro, che vogliono mentire impunemente. Gli attribuirei piuttosto a difetto quella soverchia copia d'erudizione, che stanca il lettore, benchè paziente. Essa però nella sua opera è piena d'ottime notizie, e niente lascia a desiderare per la spiegazione di quel decreto, e per l'illustrazione dell'antica lingua latina, nella quale è scritto. L' altro è Monsignor Gaetano Marini, del quale non dubito d'asserire, che niuno lo superò, anzi niuno l'uguagliò in questa parte difficile dell'Antiquaria. Fanno di ciò piena testimonianza le sue opere immortali sopra gli Atti de' Fratelli Arvali, e sulle iscrizioni di Casa Albani[455]. Ma non basta il raccogliere e spiegare le iscrizioni antiche; bisogna ancora assai volte far nuove iscrizioni per tramandare alla posterità le memorie de' nostri tempi. Alcuni sperano di meritare i sommi onori in questo genere, perchè hanno tratta qualche parola o qualche espressione dai sepolcri degli Scipioni, o dai frammenti d'Ennio e di Pacuvio; ma sono in errore. Quale esser debba lo stile delle iscrizioni l'insegnò l' Ex-Gesuita Abate Morcelli in un'egregia sua opera[456], nella quale per qualsivoglia genere dette gli opportuni precetti, ed in altra opera somministrò gli esempj da lui stesso composti con ammirabile felicità[457], onde è divenuto regola ed esempio in questa parte delle latina letteratura.

Delle lingue Samaritana, e Siriaca. CAPO XVII.

Dopo avere a lungo ragionato di quelle lingue, che dall'Ebraica ebber origine, ma ne serban le tracce più oscuramente, è tempo ormai che passi all'altre, che ad essa con più stretti vincoli sono congiunte[458]. Tali sono la Samaritana, la Siriaca, ed altre. Poca materia mi somministra la prima. Il P. Giorgi in più e diverse sue opere ha mostrato quanto in essa fosse profondo; ma siccome l'ha fatto per incidenza, non mi tratterrò parlando di lui. Farò bensì onorata menzione del Sig. Abate de Rossi, che in tutte le lingue Orientali è così grande. Per più e diverse occasioni scrisse componimenti in questa e in altre lingue Orientali che ho ricordati altrove. Un celebre codice poi della libreria Barberini di Roma gli offerse nuova occasione di mostrare il suo valore in questa lingua[459]. Il Bianchini, il Bjoernstahel, e il Hvviid avevano dati saggi di quel codice; ma parecchi errori avevan commessi, che il Signor de Rossi emendò, ed alle altre mancanze loro supplì dottamente.

Meno breve sarò parlando della lingua Siriaca. Il Zanolini, di cui ho già fatta menzione, parlando della lingua Ebraica, si esercitò ancora nella Siriaca. Egli dette in luce la Grammatica di questa lingua[460] e il Lessico[461], in cui però ebbe in animo di provvedere solo ai principianti, onde il suo lessico serve soltanto all'intelligenza della version Siriaca del nuovo Testamento, nè si estende più oltre. Ma cose di molto maggior momento ci si offrono da altri. Tali sono le opere degli Assemani, e del P. Benedetti Gesuita, Siri Maroniti di nascita ed Italiani per domicilio. La Biblioteca Orientale Clementino-Vaticana di Giuseppe Simonio Assemani è opera classica ed è grave danno, che non sia compiuta[462]. Molti sono gli antichi monumenti Siriaci, che quì si vedono pubblicati per la prima volta, come pur molte ed egregie son le notizie alla storia letteraria appartenenti, ed alla Ecclesiastica, esposte dal dotto autore. Nè meno commendabile è la collezione degli atti de' Martiri Orientali, e Occidentali di Stefano Evodio Assemani[463], e l'edizione delle opere di S. Efrem Siro cominciata dal P. Benedetti e dopo la morte di questo da lui condotta a fine[464].

Che se vantarsi non può l'Italia d'aver data a questi la nascita, può ben vantarsi d'averla data a un de Rossi e ad un Bugatti illustratori anch'essi chiarissimi di questa lingua, de' quali debbo ora parlare. Mancava la traduzione dei Settanta alle profezie di Daniele, e a questo difetto si era supplito con quella di Teodozione. Qualche frammento ne aveva raccolto il Montfaucon ne' suoi Esapli, ma questi non facevano, che accendere vie più il desiderio di averla tutta. Trovavasi questa in Roma in un codice della libreria Chigi, del quale avevano fatta parola parecchi letterati. Fra questi il Mazzocchi avendone ricevuto un piccolo saggio ne conobbe il pregio ugualmente, che qualche difetto, cui indicò nella sua Diatriba de Graeco Prophetarum codice Chisiano[465]. Il Bianchini però, che aveva in animo di ristabilire i Tetrapli d'Origene aveva tratta copia del Daniele Chigiano. Morto lui senza aver potuto eseguir l'opera meditata il P. de Magistris determinò di pubblicare il Daniele, siccome fece con molto corredo d'erudizione, e di dottrina[466]. In questa edizione oltre alla versione dei Settanta si ha un'erudita prefazione; copiose, e belle note, in cui colle traduzioni Siriaca, Araba, Copta ed Etiopica, e cogli altri libri da essi tradotti si illustra il loro Daniele, la traduzion di Teodozione colle varianti tratte da un Codice Vaticano, e il confronto di questa con quella dei Settanta; una interpetrazione di Daniele di S. Ippolito Martire, e Vescovo di Porto, una parte del libro d'Ester in Caldaico Greco e Latino; il prologo di Cosmo Indopleuste sui Salmi, un frammento di S. Papia Ierapolitano sul canone delle S. Scritture; ed alcune dissertazioni dell'editore su varj punti d'erudizione Ecclesiastica, le quali perciò non riguardano lo scopo del mio ragionamento. Non può negarsi molta lode al P. de Magistris; ma si dee confessare nel tempo stesso, che i pregi di quel codice sono scemati alquanto da parecchi errori, ed omissioni, che vi si vedono. Oltre a ciò è da notarsi, che esso è munito de' segni Origeniani, ma vi sono confusi. Avventuratamente è nella libreria Ambrogiana di Milano un insigne codice Siro-Estranghelo dell'ottavo o nono secolo, in cui fra l'altre cose si ha la versione Siriaca di Daniele fatta appunto su quella de' Settanta. Lo vide il celebre Signor Ab. de Rossi, e ne diede al pubblico un saggio[467]. Consiste questo nel primo Salmo (giacchè ivi son pure i Salmi) cui unì la version Siriaca, che chiamano, semplice, coi fonti d'ambedue, cioè l'Ebraico di questa, e il Greco di quella e le versioni latine, ed una dissertazione sulla rarità, e pregi di quel manoscritto, degna di così insigne scrittore, quantunque sia lavoro fatto in somma fretta. Ma troppo poco era un saggio pel desiderio universale. Il chiarissimo Signor Dottor Bugatti, che era uno de' Bibliotecarj dell'Ambrogiana si accinse a dare la versione tutta di Daniele[468], e quella de' Salmi. Non ho veduta la seconda, che non è ancor pubblicata, quantunque sia già tutta impressa, tranne la prefazione. La prima è opera utilissima, perchè per essa e coll'edizion Romana si ha esattamente la versione de' settanta quale era ne' Tetrapli d'Origene. E' poi ancora opera classica perciò che l'editore v'ha aggiunto. Nella prefazione ha scoperta l'origine di quella confusione, che siccome ho detto, si vede ne' segni Origeniani nell'edizion di Roma. Ivi e nelle dottissime annotazioni dà alcuni squarci dell'inedita versione Siriaca di Giacomo Edesseno; emenda gli errori dell'edizione Romana, e del codice Chigiano, come pure d'alcuni scrittori, ed illustra il testo Siriaco di questa versione, e in tutto mostra d'esser uno de' più dotti critici, che vanti l'età presente. Parecchie altre osservazioni vi si leggono pure Bibliche, e di storia letteraria le quali tralascio d'indicare, perchè non appartengono al mio argomento.

Basterà poi l'indicar solamente l'epistola del P. Agostino Giorgi su le versioni Siriache del Testamento nuovo, che l'Alder stampò a Coppenaghen il 1790. nella sua opera su questo argomento. Potrei far parola ancora delle belle dissertazioni del lodato più volte signor Ab. de Rossi sulla lingua propria di Cristo e degli Ebrei nazionali della Palestina da' tempi de' Maccabei[469], e del rito nell'adorazione della Croce usato dalla Chiesa Siriaca d'Antiochia, che il Cardinal Borgia illustrò nel suo Commentario de Cruce Vaticana[470]. Le tralascio però perchè propriamente non appartengono al mio instituto. E pel motivo medesimo parlando della lingua Greca non ho ricordata l'opera del Signor Domenico Diodati de Christo Graece loquente[471], che è quella appunto, cui il signor Ab. de Rossi si è proposto di confutare in quelle sue dissertazioni. Laonde senza più alla lingua Araba farò passaggio.

Delle Lingue Araba, e Turca. CAPO XVIII.

Alla lingua Araba appartengono in parte alcune delle gloriose fatiche degli Assemani, delle quali ho parlato di sopra; e ad esse vuolsi aggiungere un breve compendio della Grammatica Arabica di Giuseppe Simonio, che non è però di molto momento[472]. Dagli Assemani non si debbono separare l'amico loro P. Benedetti, di cui ho parlato altrove, e il pronepote di Giuseppe Simonio signor Ab. Simone Assemani dotto Professore di lingue Orientali nell'Università di Padova. Il primo tradusse dall'Arabo le opere di Stefano Aldoense Patriarca d'Antiochia sulla liturgia, e sull'origine de' Maroniti[473]. Il secondo più e diverse cose ci ha date, e tutte pregevolissime, le quali domandano ora il mio discorso. Prima però che io dica di queste debbo far parola d'una turpe, e troppo celebre impostura per lui gloriosamente scoperta innanzi ad ogni altro[474]. Nel 1784. si pretese d'aver trovato il Codice diplomatico di Sicilia sotto il governo degli Arabi in un manoscritto del Monastero di S. Martino di Palermo. Un certo Abate Vela Maltese Professore di lingua Araba ne fece la traduzione, e il Re di Napoli ne fece fare la stampa. Il 1786. furono mandati i primi fogli di quell'edizione al Professore Assemani, il quale per la cognizione grandissima, che ha di questa lingua, come prima ne ebbe lette poche linee vi scorse errori sì gravi e tali incongruenze, che dette di quel Codice giudizio sfavorevole. Confermò egli il suo giudizio, quando gli fu inviata una seconda, e più diligente impressione di quei primi fogli, i quali disse non essere intelligibili, tranne qualche linea scritta in lingua Maltese piuttosto che in Arabo. Ma il Signor Olao Tichsen Professore a Rostock dette una sentenza contraria, e dichiarò autentico il Codice. Nella diversità delle due opinioni si prestò fede al Professore straniero più che a quello abitante in Italia, al giudizio conforme alle concepite prevenzioni più che al contrario, e l'opera fu mandata in luce e dedicata al Re colla prefazione e le note del signor Airoldi[475]. Nè quì si arrestò l'Abate Vela, ma vantò un commercio di lettere con Marocco e nuovi Manoscritti. Si cominciò un'altra opera intitolata il Consiglio di Egitto, di cui pure l'Assemani avutone un saggio dette giudizio non diverso dal primo. Si volle allora por fine a' contrasti. Fu chiamato da Vienna il dotto signor Giuseppe Hager, che recatosi a Palermo, e veduti que' codici pronunziò esser questi una narrazione dei detti e fatti di Maometto guasta e interpolata, affinchè niuno potesse rilevarne il senso, e la parte leggibile scritta era in lingua Maltese. Scoperta finalmente così l'impostura trionfò la dottrina del Professor Padovano, e lo sciagurato Vela fu condannato alla carcere[476].

Ma l'Assemani dette ancora più altri non equivoci segni delle profonde sue cognizioni in questa lingua. Tale è il saggio sull'origine culto letteratura e costumi degli Arabi avanti il Pseudo-profeta Maometto[477]. Altri prima di lui avevano trattato questo argomento, tra' quali giova quì ricordare il suo grande prozio Giuseppe Simonio Assemani in una dissertazione sull'origine, e religione di questa nazione, che egli aggiunse alla sua traduzione della Cronica Orientale di Benrahebo. Ma ciò che si era detto prima di lui è quì esposto più brevemente, e molte altre pregevoli notizie vi sono, che quegli scrittori o non conobbero, o dimenticarono. Non meno commendabile di questo libro è il Catalogo dei codici Orientali della Veneta libreria Nani[478]. Le opere in essi contenute sono indicate con diligenza, e se ne pubblica ancor qualche parte, come alcuni Calendarj, le vite d'alcuni antichi Filosofi, e la serie de' Monarchi Persiani, Arabi, e Turchi. Egli vi aggiunse la illustrazione delle monete Cufiche[479], e d'alcune tessere di vetro corredate d'iscrizione cufica, che quella nobile famiglia conserva; e quì non solo illustra dottamente le une, e l'altre, ma dà altresì la storia della Zecca Arabica, la quale mostra aver avuta origine nell'anno 76. dell'Egira, cioè 695. dell'era volgare, e parla delle otto Dinastie de' Principi, alle quali le monete Naniane appartengono[480]. Mi rincresce, che non ho veduto, nè in altro modo ho avuta bastante notizia della sua opera sul globo Celeste Cufico del Museo Borgiano, di cui perciò non posso parlare. Per lo stesso motivo debbo contentarmi d'indicar solamente la grand'opera del signor Canonico Rosario Gregorio intitolata, Rerum Arabicarum quae ad historiam Siculam spectant ampla collectio. E forse più altre opere a me ignote avrà somministrate la Sicilia, dove gli Arabici studj si coltivano con molto ardore. Se però son costretto a tacer di questo, ricorderò almeno l'epistola breve, ma dottissima del celebre P. Agostino Giorgi al signore Hvviid, nella quale delle versioni Arabiche del Vecchio Testamento parla con molta erudizione[481]. Debbo altresì far onorevole rimembranza della Romana Congregazione che dicesi di Propaganda, la quale mentre con ogni studio si adopera per diffondere i lumi dell'Evangelio fra i popoli più remoti, con questo intendimento fa comporre grammatiche e lessici delle lingue orientali o in esse fa tradurre più e diverse cose spettanti alla nostra Cattolica Religione. Non ebbero altra origine la breve Grammatica arabica dell'Assemani di cui sopra ho parlato, e le traduzioni in questa lingua d'una dichiarazione copiosa della Dottrina cristiana del 1770. d'un esercizio divoto alla Vergine santissima addolorata del 1763. d'un Breve del Pontefice Pio VI. ai Maroniti dei 17. Luglio 1779. e della Teologia Morale del P. Antoine del 1797.

Per la lingua Saracena posso citar solamente una breve ma bella epistola in saracenicum Theodosii Distichon del Signor Abate de Rossi, che si legge nell'Appendice romana della storia bizantina. Si tratta ivi d'un distico scritto nel decimo secolo in una lingua antica molto, che ha sofferte grandi alterazioni, e scritto da un Greco, il quale probabilmente non la sapeva, e con caratteri Greci che non possono mai rappresentar gli Arabici. Bisognava dunque indovinare, e la divinazione richiedeva le cognizioni grandi dell'autore. La sua spiegazione però non piacque al P. Giorgi, che gl'indirizzò una più lunga lettera ripiena anch'essa di Arabica erudizione, nella quale propone una spiegazion diversa. Chi de' due ha ragione? Si tratta come ho detto d'indovinare, e perciò credo, che difficilmente gli uomini più dotti potranno decidere. Dirò però solamente, che la spiegazione del de Rossi è più naturale.

Questa epistola mi conduce naturalmente a far parola della lingua Turca, della quale molto si è reso benemerito il chiarissimo signore Abate Giambattista Toderini colla sua opera della Letteratura Turchesca[482]. Le scienze, gli ameni studj; le Accademie, le Biblioteche, la storia tipografica di Costantinopoli dal 1726. fino al 1786. tutto vi è accuratatamente, e copiosamente descritto. Troppo dovrei diffondermi se dovessi indicare le cose tutte, che in quest'opera si trovano, degne d'essere specialmente commendate. Basti solo il ricordare il Catalogo della Biblioteca del Serraglio, che niuno ha mai potuto ottenere, ed egli avendolo destramente fatto trascrivere lo ha quì pubblicato in lingua Turca, ed Italiana.

Le lingue Turca, e Greca volgare volle insegnare il P. Bernardino Pianzola Minor Conventuale, ne raccolse le prime regole, e ne fece brevi dizionarj[483]. Ma troppo mancanti sono i suoi Dizionarj e troppo scarse le sue regole grammaticali. Oltre a ciò inopportunamente egli ha adoperate le nostre lettere, che non possono supplire alle lettere turche, e per la lingua Greca debbono produrre molti equivoci.

Alla lingua Turca farò succeder la Kurda; non perchè le sia affine, ma perchè si parla nel Kurdistan provincia al signor Turco tributaria, nè avrei altro luogo dove potessi acconciamente favellarne. Essa trae l'origine dalla Persiana, ma col proceder degli anni, si è in tal guisa alterata, che si è formata una lingua nuova. Era questa ignota all'Europa, e il primo che ne abbia data la grammatica ed il Vocabolario è stato il P. Maurizio Garzoni Domenicano, che stette là Missionario per ben diciott'anni[484]. Non pretende l'autore, che l'opera sua sia perfetta, e che altri non possa un giorno migliorarla. E chi potrebbe esiger tanto, quando egli è il primo a dettar leggi di quella lingua non solamente fra i nostri, ma fra il popolo stesso, che la parla?

Delle Lingue Etiopica, Persiana, Copta, Fenicia, e Palmirena. CAPO XIX.

Fra le lingue, che dall'Ebraica provengono, o hanno con lei qualche affinità, tre ne rimangono, che tuttora sussistono, cioè l'Etiopica, la Persiana, e la Copta, e due che sono perdute, cioè la Fenicia; e la Palmirena. Per l'Etiopica quasi nulla s'è fatto in Italia. La sacra Congregazione di Propaganda fece tradurre in questa la dottrina Cristiana[485], e fece più volte stampare l'alfabeto[486]. Si debbono render grazie a quella Congregazione, che ha ordinate quelle due operette, e ne ha fatta la spesa: l'autor loro però non è Italiano, ma Etiope, cioè Monsignor Tobia Giorgio Ghbragzerio Vescovo Adulitano. L'Abate Amaduzzi nella prefazione, che secondo il suo costume aggiunse all'alfabeto, dà un breve saggio della storia di questa lingua, e parla della differenza, che v'ha fra questo, e quello del Ludolf. Qualche illustrazione di questa lingua abbiamo ancora dal P. Agostino Giorgi nel suo alfabeto Tibetano, dove mostra la somiglianza, che è fra le lettere Etiopiche ed Amhariche, e quelle del Tibet, ed accenna l'utilità che dalla prima si può trarre per intendere parecchie voci Tibetane. Poco pure somministra la lingua Persiana. In primo luogo debbo ricordare l'alfabeto impresso pe' torchi di Propaganda, e preceduto anch'esso da una storica prefazione dell'Amaduzzi[487]. In secondo luogo si dee far menzione della Grammatica pubblicata dallo Zanolini. Ma dirà taluno, costui, che abbiam veduto più volte plagiario, tale forse fu pure in quest'opera? Sì, e la sua Gramatica altro non è che quella di Lodovico de Dieu stampata il 1639., siccome me ne fa avvertito il chiarissimo Signor Peyron.

Molto più ricca messe però coglier potremo per la lingua Copta, o dell'Egitto. Il P. Kircher aveva data le grammatica di questa lingua, commendabile al tempo suo; ma la contezza che ora se ne ha, ci fa conoscere quanto essa è manchevole ed erronea. La Congregazione di Propaganda volle una nuova grammatica, e giudicò, che atto a bene eseguirla esser dovesse un nazionale più d'uno straniero. Laonde ne addossò l'incarico a Raffaele Tuki, che già da molti anni viveva in Roma, dove prima l'insegnava nel Seminario di Propaganda, e poi fu eletto a Vescovo Arsenovense. Egli si accinse all'impresa; ma l'esito non corrispose alla pubblica aspettazione[488]. Non può negarsi, che molti utili precetti non vi siano, e pregevoli avvertimenti. Utile altresì è la copia grande d'esempj, che vi si vedono raccolti de' due dialetti Memfitico, e Tebaico, il secondo de' quali si è conosciuto per lui, e prima della pubblicazione di quest'opera era ignoto. Tale però è la confusione di quella sua Grammatica, tanti gli error tipografici, che difficilmente potrà esser utile ad apprendere questa lingua. Egregiamente è riuscito in questo intento il celebre signor Abate Valperga Caluso, che in poche carte sotto il nome di Didimo Taurinense ha dati i principali e più necessarj precetti della lingua Copta[489]. L'ordine, la chiarezza e la precisione, con che quest'uomo sommo gli ha espressi, fanno un vero contrapposto alla Grammatica del Tuki, e formano l'elogio dell'autore, che sapeva mostrarsi sempre grande qualunque fosse l'argomento, che da lui si prendesse a trattare. Nè quì si hanno solo gli elementi Grammaticali, ma nell'epistola al lettore se ne legge la storia, e si indica ciò che i moderni eruditi hanno fatto per illustrarla.

Altri pure hanno esposta se non la storia, almeno l'origine di questa lingua. Domenico Diodati nella sua opera de Christo Grece loquente p. 6. e seguenti aveva stabilito che gli Egiziani a tempo di Tolomeo Lago parlavano Greco, e che la lingua Copta nacque fra loro dall'invasione degli Arabi. A questo errore si oppose validamente il signor Abate de Rossi[490] provando, che è la lingua stessa de' Faraoni, quantunque alterata molto dai Greci che occuparono l'Egitto. Qualche cosa disse pure su questo argomento il dotto P. de Magistris nel suo Daniele p. 371. e seguenti.

Nè di più lunga e più seria confutazione abbisogna l'errore del Diodati. Se però altri volesse pure confermar maggiormente la contraria sentenza, che è la sentenza universale, potrebbe trar profitto dalla bell'opera del Signor Ignazio Rossi sulle etimologie di questa lingua[491], di cui parlerò fra poco. Un altro opuscolo d'Etimologie Egiziane scrisse il Passeri derivate dalla lingua Ebraica[492]. Ma troppo scarso è questo, e in parte le sue derivazioni sono alquanto arbitrarie, come se ne potrà convincere chiunque voglia solamente paragonarle con quelle del Rossi.

Ad illustrare questa lingua molto contribuirono la Congregazione di Propaganda, il Cardinale Borgia, e la Veneta famiglia Nani. Vi contribuì quella Congregazione coll'ordinare al Tuki oltre alla Grammatica la pubblicazione dell'Eucologio Alessandrino[493], e poi il Salterio, e il Diurno pure d'Alessandria[494], le quali opere tutte videro la luce in Copto, ed Arabo. Il Cardinal Borgia vi contribuì coll'aprire le ricchezze del celebre suo museo. Egli da ogni parte raccoglieva i più rari e pregevoli monumenti antichi, e codici d'ogni maniera di lingue Orientali, che spesso faceva illustrare da uomini eruditi. Da questi il Ch. Federigo Munter di Coppenaghen stampò un saggio delle versioni di Daniele Memfitica, e Sahidica, e alcuni frammenti dell'epistole di S. Paolo a Timoteo[495]. Le quali edizioni ho volute indicare, perchè mentre si dà lode allo straniero dottissimo editore, si commendi altresì quel Porporato, amplissimo Mecenate degli studj Orientali, che le promosse. Ma se il Munter è forestiero, Italiano è il P. Agostino Giorgi, che due altre opere di questo genere pubblicò ripiene di dottrina, e d'erudizione, le quali provengono pure dal Museo Borgiano. E' la prima un frammento del Vangelo di S. Giovanni in dialetto Tebaico preso da un codice del quarto secolo[496]: contiene l'altra la narrazione de' miracoli di S. Coluto, e parte degli atti del Martirio di S. Panesniu[497] da un Codice dello stesso secolo. Lascio stare l'erudizion Teologica Liturgica e di storia Ecclesiastica, che quì si vede grandissima: lascio l'invettiva contro il P. Paolino da S. Bartolommeo, che abbiamo nella seconda opera p. CCI.—CCCV. e che meglio era il togliere, e parlo solo di ciò che spetta al mio argomento. Il frammento del Vangelo di S. Giovanni è scritto in un terzo dialetto, che era ignoto prima di questa edizione. Conferma egli nella prima opera l'opinione del signor Ab. Caluso, che la primitiva lingua dell'Egitto sia affine dell'Ebraica, di che si vedono alcuni vestigj anche adesso, non ostante la molta corruzione, che ha sofferta: parla dei dialetti Memfitico, e Tebaico, e del terzo ora scoperto, e mostra la differenza, che è tra loro: chiama questo Barmarico, o Psammirico, o Ammoniaco come proprio degli Ammoni nella Libia: ne accenna l'origine, e quanto è possibile, le vicende. In questa poi ugualmente che nella seconda reca molti Egiziani monumenti inediti, e tutto spiega, e rischiara mirabilmente, talchè a ragione il Munter dopo aver nominati i La Croze, gli Scholtz, i Woide, e gli altri più solenni maestri di questa lingua chiama il P. Giorgi in hac literaturae orientalis provincia facile principem[498].

Non si distinse meno la Veneta famiglia Nani. Essa possiede nella sua celebre libreria parecchi manoscritti Copti, e incaricò il P. Luigi Mingarelli di farne il Catalogo. Egli nè pur l'alfabeto conosceva di questa lingua, e in pochi mesi l'apprese, copiò i codici, li tradusse, e gl'illustrò con note[499]. Diligenti sono le osservazioni paleografiche sopra ogni codice, dotte le annotazioni grammaticali intorno alle parole, che meritano qualche dichiarazione. Talvolta egli ha creduto di scoprir qualche errore in altri scrittori, e specialmente nel P. Giorgi. Questi però che non era molto facile a cedere il campo ai suoi contradittori, e darsi per vinto, rispose a quelle critiche nell'edizione de' miracoli di S. Coluto e negli atti di S. Panesniu, e pare che le sue risposte sieno vittoriose.

Dottissimo in questa lingua è il Signor Abate Ignazio Rossi Exgesuita. Il P. Caballeros[500] c'insegna che da un testo a penna della libreria Angelica di Roma egli ha copiata la versione Copta de' Profeti minori e alcuni frammenti de' medesimi in dialetto Tebaico, vi ha aggiunta la traduzione Latina, e parecchie illustrazioni. Manca solamente un benefico favoreggiatore de' buoni studi, che voglia mandare alle stampe questo suo dotto lavoro. E già della sua perizia in questa ed in altre lingue orientali abbiamo una nobile testimonianza nel suo Etimologico Egiziano[501]. Questo ha veduta la luce nel secolo presente, ma, essendo apprestato qualche tempo innanzi reputo non disdicevole al mio istituto il favellarne. Molta è in quest'opera l'erudizione nelle lingue orientali dalle quali si trae l'etimologia d'un numero grandissimo di voci Copte. Il che per mio avviso egli fece con gran ragione ricorrendo massimamente alla lingua araba. Perchè se dell'ebraica si fa grande uso per ispirare molte voci Copte, come non dovrà farsi altresì molto uso dell'Araba, la quale ha coll'Ebraica grandissima affinità? Come non si dovrà dir lo stesso dell'altre orientali, che parimente le sono affini?

La lingua Fenicia e la Palmirena sono perdute, come ho detto e niuno ignora: ma l'esser perdute presentando una difficoltà maggiore, anzi che scorare, ha animato parecchi uomini dotti del passato secolo ad illustrarle. Sono fra questi l'Abate de Rossi, e il P. Giorgi, i quali in ciò che alle lingue Orientali appartiene, se l'erudizione e l'ingegno può bastare a superar le difficoltà, son sicuri di trionfarne. Il primo in una lettera all'Abate Amaduzzi spiegò un'iscrizione Fenicia[502] scoperta in Cagliari. La spiegazione è naturale, i supplimenti (giacchè la lapida è mancante) sembrano necessarj; il che è tutto ciò che si può desiderare. Lo stesso è da dirsi della interpetrazione delle iscrizioni Palmirene fatta dal P. Giorgi[503]. L'Abate Barthelemy nelle memorie dell'Accademia delle iscrizioni di Parigi T. 26. dette l'Alfabeto Palmireno, ma poco felicemente. Felice però è la sua scoperta che quelle lettere sieno Ebraiche miste alle Siriache. Il P. Giorgi per mezzo del chiarissimo Danese Adler ottenne un'esatta copia di quelle iscrizioni che i precedenti illustratori non avevano avuta. Stabilisce, che autori di esse sono i Magi Sacerdoti del Sole della setta e scuola di Zoroastro. Aggiunge nuove probabili congetture per provare, che i caratteri Ebraici e Assiri fossero quegli stessi, in cui da prima furono scritti i libri Mosaici. Il modo poi di leggere e di spiegare quelle iscrizioni in molte parti parrà a tutti felicissimo, e l'alfabeto, che dal suo libro si può raccogliere facilmente, si reputerà superiore a quello del Francese antiquario. Quantunque però io lo commendi altamente per questo, non so bene se lasci alcuna cosa a desiderare in questa parte. Meriterò forse la taccia di troppo ardimentoso, se pretendo trovar macchie nelle opere d'un uomo così grande: ma io dubito, che si possa quì ravvisare qualche cosa arbitraria sì nella lezione, come nella interpetrazione. Che che sia di ciò certo è che il libro è ricco, di molta erudizione, di sottile avvedimento, e di critica, e la sua divinazione o è vera, o è prossima alla verità.

Della lingua Armena. CAPO XX.

Affatto diversa da queste è la lingua Armena, che si vuole esser lingua madre ed antichissima, quantunque siasi poi molto guasta e corrotta per l'introduzione di un numero grande di voci straniere e massimamente de' popoli confinanti, ed i suoi caratteri siano inventati solamente nel quinto secolo dell'Era volgare. L'Abate Amaduzzi diede un breve saggio della storia di questa lingua coll'Alfabeto della medesima[504]. Egli ricorda un Dizionario pentaglotto, che il P. Gabriele Villa Cappuccino aveva compilato delle lingue Armena letterale e volgare, Latina, Italiana, e Francese. Ne uscì il prospetto dai torchj di Propaganda il 1780. ma non so che l'opera sia poi venuta in luce. Ma a mostrare il valore degl'Italiani nell'Armeno basta l'edizione delle opere di S. Giacomo Nisibeno del Cardinale Niccolò Antonelli[505] che o si riguardi la cognizione di questa lingua, o l'erudizione nelle scienze sacre e nell'ecclesiastica storia è tenuta in gran pregio. Ma una piccola colonia d'Armeni che si ricovera in Italia, da un Governo Italiano riceve asilo, e protezione, e questa prende a nuova sua patria dando opera diligente agli studj, non deve esser da me dimenticata. Un divoto drappello di monaci di quella nazione col loro istitutore Mechitar il 1702. fuggiti prima dal lor paese poi da Metone in Morea per vivere con sicurezza nella Cattolica comunione, e nella severa osservanza della monastica vita si ripararono nell'isoletta di S. Lazzaro di Venezia, dove molte opere dettero in luce nella loro lingua. Fra queste vuolsi nominare una bella Bibbia assai migliore di quella, che un altro Armeno avea pubblicata in Amsterdam il 1672. Lo stesso institutore Mechitar compilò un Lessico dell'antica lingua Armena lodatissimo, e lo fece uscire da' torchj Veneti in due volumi, e gli altri suoi Monaci molte opere tradussero elementari di grammatica, di rettorica di filosofia, e il P. Giovanni da Sebaste la somma di S. Tommaso[506].

Nè ha cessato mai questo pio e dotto stuolo di rendersi benemerito della letteratura Armena, non meno che della Religione. Il signore Chahan di Cirbied Professore di lingue Orientali a Parigi ci ha dato recentemente un diligente ragguaglio delle letterarie fatiche da esso sostenute negli anni passati e lo ha inserito nel Magazzino Enciclopedico di M. Millin[507]. Hanno quei Monaci eretta una copiosa libreria, ed una stamperia migliore di quante mai furono e sono per quella lingua, corredata ancora dei caratteri nostri, Greci ed Arabi. Da' loro torchj uscirono molte traduzioni dal Latino, e dall'Italiano, alcune grammatiche, le istituzioni della rettorica dell'Arcivescovo Stefano Acontz, l'aritmetica del P. Aghamalian, e parecchi libri sull'educazione. Il P. Ciamciam pubblicò nel 1786. la storia dell'Armenia dalla prima sua origine fino al 1784. in tre volumi in 4. il P. Ingigian nel 1794. la descrizione in prosa e in versi del Bosforo di Costantinopoli, e il P. Bronian nell'anno medesimo un trattato di geometria teorica, e pratica. Nè hanno dimenticati gli antichi autori, ma nel 1790. dettero in luce le favole di Mikitor Kosch autore del secolo duodecimo, nel 1792. la spiegazione del Narek libro di preghiere, o piuttosto di conversazione con Dio, nel 1793. la storia delle guerre tra la Persia, e l'Armenia di Lazaro di Parbo che visse nel quinto secolo, e nel 1796. l'arte dell'eloquenza, o le crie di Mosè di Khorene contemporaneo del precedente scrittore, cui il P. Zonrabian aggiunse molte annotazioni erudite[508]. Nè bastò ciò a quei prestantissimi Monaci, ma non rade volte hanno inviate in Armenia ed ovunque si trovano Armeni persone da essi ammaestrate per ispargere fra que' popoli l'amor delle lettere, e conservarli nell'esercizio della Religione, e della Cristiana Morale. Stranieri erano e sono que' monaci, e perciò i loro studj propriamente non appartengono a questo mio ragionamento. Se però ben si considera, le lettere e le arti si promuovono non solo per opera di coloro che le coltivano, ma ancora pe' Mecenati, che i coltivatori dell'une e dell'altre accolgono, e alimentano, ed incoraggiano. Che se gli scrittori di storia letteraria non credono d'aver bastevolmente descritti i progressi della letteratura, se de' Mecenati non fanno onorevol menzione, ragion voleva che io pure parlassi quì del Governo Veneto e del Cardinal Borgia e della famiglia Nani, per cui tante opere eccellenti relative alle lingue Orientali hanno veduta la luce. E molto più vuolsi dir ciò della Sacra Congregazione di Propaganda, alla quale, oltre ad alcune opere, di cui ho fatto parola si deve la maggior parte di quelle relative alle lingue Indiane, che ora mi restano da ricordare.

Delle Lingue Dell'Indie, e della China. CAPO XXI.

Molto debbono all'Italia le lingue Indiane nel secolo, di cui parliamo. Deesi il primato in questa parte di letteratura al P. Paolino da S. Bartolommeo Carmelitano Scalzo Missionario all'Indie. La sacra Congregazione di Propaganda lo spedì, e molti anni lo mantenne all'Indie, essa eccitò e promosse i suoi studj, favorì e fece pubblicare la maggior parte e le più insigni delle sue opere: onde mentre io fo parola delle molte cose da lui scritte reputo che somma lode si debba a quei prestantissimi Porporati, i quali essendo suoi Mecenati giovarono nel tempo stesso alla religione e alle lettere. A lui dobbiamo la grammatica della lingua Samscrit, che egli chiama Samcsrdam, cioè della lingua antica, e come dicono letterata dell'Indie. Una ne pubblicò col titolo di Sidharubam[509], che vuol dire appunto Grammatica, o notizia delle parole, che si debbono tenere a mente. Precede una dissertazione sul nome, origine, eccellenza, antichità di questa lingua, nella quale altresì si sostiene, che è lingua madre, si mostra quanto sia estesa, e si indicano parecchi libri in essa scritti, fra' quali si dà in fine il Bhagavadam in quattordici strofe colla traduzione ed alcune note. Ma in questa grammatica egli seguì il metodo delle grammatiche Indiane, ed essa riuscì al maggior segno oscura, e confusa. Perciò molti eruditi, che desideravan pure d'acquistare qualche notizia di questa lingua si dolevano, che fosse troppo lontana dalle nostre idee, ed egli a loro preghiera una seconda ne compose intitolata Vyacarana[510]. Lunga ed intricata è la grammatica di che fanno uso i Brahmani nell'India e appena potrebbe racchiudersi in cinque volumi. Quella parte che tratta delle declinazioni de' nomi, e delle conjugazioni, e contiene le principali regole intorno alte parti indeclinabili, s'intitola Vyacarana, e perciò questo nome il P. Paolino impose alla sua opera, quantunque essa oltre alle regole, che riguardano le parti dell'orazione, contenga ancora il trattato della sintassi, e un Dizionario. Io non so qual giudizio abbiano fatto gli uomini dotti di questa nuova grammatica. Se a me è lecito di esporre la mia opinione dirò che dobbiamo rendere molte grazie all'autor suo, perchè finalmente ci si apre l'adito ad acquistar qualche idea d'una lingua, celebre tanto, e tanto difficile. Ma in primo luogo osservo, che il primo passo da farsi da chi vuole insegnare una lingua è di offerirne l'alfabeto, e pure il P. Paolino in due grammatiche non ha voluto darci, non dirò un alfabeto compiuto, ma nè pure sufficiente per leggere le opere sue, e convien ricorrere all'Alfabeto Grandonico del P. Peanio, di cui farò parola tra poco. In secondo luogo considero, che nel suo breve Dizionario non osserva l'ordine alfabetico, ma sì quella incomodissimo delle materie, e le parole tutte sono scritte colle nostre lettere non colle Grantamiche, delle quali si serve egli nell'opera. Ora le nostre ventiquattro lettere non possono mai esprimere i diversi suoni del numeroso Alfabeto Grantamico. A questo difetto supplisce in piccola parte un'altra bell'opera sua intitolata Amarasinha. Porta questo nome un Dizionario della lingua samscrit celebre presso i Brahmani, e chiamato così dal nome del suo autore, che viveva circa un mezzo secolo innanzi all'era volgare. Questo Dizionario potrebbe più presto chiamarsi una raccolta di sinonimi ed aggiunti. Esso è disposto per ordine di materie, e la prima sezione del capo primo, la quale sola fu pubblicata dal P. Paolino riguarda il Cielo, e gli Dei, di cui si danno tutti i nomi co' quali si possono indicare, e che ne spiegano l'indole, e la natura secondo l'Indiana Mitologia. Difficile impresa era lo stampare e spiegare anche una sola parte di questo libro, perchè manca ne' codici Indiani ogni distinzione di periodi, anzi ancora ogni divisione delle parole fra loro; talchè ciascuna linea si trova scritta, come se fosse una parola sola. E il P. Paolino, benchè dotto in questa lingua, non vi sarebbe riuscito senza il soccorso di un Brahamane, che lo ajutò, e senza le opere del P. Hanxleden Gesuita Tedesco, che nelle lingue Indiane era molto erudito.

Nè queste sono le sole opere, che egli ci ha date ad illustrazione della lingua Indiana. A quest'oggetto medesimo tendono il viaggio all'Indie[511], il sistema Brahmanico[512], il Catalogo de' codici Borgiani[513], quello de' Codici di Propaganda[514] i proverbj Malabarici[515], le dissertazioni sugli antichi Indiani[516], sull'affinità della lingua latina colle Orientali[517] e su quella, che le lingue Zend, Samscrit, e Tedesca a suo giudizio hanno fra loro[518], la descrizione delle opere del P. Hanxleden[519], lo scitismo sviluppato[520], e la spiegazione d'alcuni monumenti del Museo Nani[521]. Un'altra opera ancora col titolo di Biblioteca Indica[522] aveva preparata, che non ha però veduta la luce, nella quale e la storia letteraria dell'Indie, e la mitologia avrebbe illustrata, e nel tempo stesso molti punti relativi all'antica lingua di quelle contrade e a' moltiplici suoi dialetti moderni avrebbe rischiarati. Se la compiesse non so. Compiè bensì un compendio di Teologia morale da lui scritto nella volgar lingua del Malabar ad uso di quel Clero, che per decreto della Congregazione di Propaganda de' 19. Luglio del 1790. doveva stamparsi, nè so il motivo per cui quel decreto non ti eseguì[523].

Sono queste le opere del P. Paolino da S. Bartolommeo, che lo hanno reso celebre fra noi, ugualmente che fra l'estere nazioni. Non è di questo luogo l'esaminare le sue opinioni intorno alle antichità e alla mitologia degl'Indiani, in cui ebbe un feroce e dotto avversario nel P. Agostino Giorgi. Forse ambedue sostennero cause non vere, pretendendo il primo, che la Greca mitologia e quella ancora di più e diversi altri popoli derivi dalla mitologia Indiana, e il secondo, che la mitologia Indiana sia un'alterazione dell'eresia de' Manichei[524]. Ma se in questo errò il P. Paolino, siccome credo, ebbe comune il suo errore con più altri uomini dottissimi nelle cose Indiane, e da altra parte ciò non diminuisce punto la molta lode, che gli si dee per aver tanto illustrata la lingua Samscrit, e poi ancora altri dialetti, e la storia letteraria di quelle contrade. Di ciò ho detto abbastanza, e debbo ora far parola d'altri parecchi, che a tempo suo, e prima di lui corsero in parte il medesimo arringo.

La moltiplicità delle cose, che mi si para dinanzi in questa parte del mio argomento esige, che io le divida in due classi, e prima faccia parola di quelle opere, che a Grammatica appartengono, indi di quelle, che appartenendo alle antichità ed alla mitologia indirettamente illustrano le lingue, che si parlano nell'India. E prima di tutti richiama a se il mio discorso il P. Clemente Peanio Piemontese Carmelitano Scalzo e Missionario. Egli dopo aver diretta la formazione de' Caratteri della lingua Grandonica, o Grantham per la stamperia di Propaganda, ne descrisse l'alfabeto, e le regole per leggere, che ivi furono stampate[525] con una erudita prefazione dell'Abate Amaduzzi. E' questa la lingua, che nel Malabar è usata per le cose letterarie e sacre, e il suo alfabeto serve comodamente ancora alla lingua Samscrit. Volgarmente poi ivi si adopra la lingua Tamulica, intorno alla quale molto si affaticarono i Missionarj Italiani, dandone e Grammatiche, e Dizionarj[526]. Nè solamente la grammatica si illustrò per essi; ma più e diverse opere ancora si scrissero in quella lingua da' banditor del Vangelo pe' novelli fedeli, ed altre dalle varie lingue dell'Indie se ne trasportarono alla nostra, onde abbiamo il Catechismo in lingua Barmanica del P. Gaetano Mantegati[527] alcuni devoti Inni del P. Beschi, e un Catechismo del Vescovo Vigliotti, la compendiaria legis explicatio omnibus Cristianis scitu necessaria (1772. in 8.) del P. Peanio, e un trattato de' Sacramenti del Vescovo Limirense Gio. Battista Multedo Genovese,[528] oltre al compendio di moral teologia del P. Paolino testè citato. Ed a mostrar gli errori dell'Idolatrica Religione il P. Gaetano Mantegati Barnabita ed ora Vescovo di Massimianopoli e Vicario Apostolico ne' Regni d'Ava e del Pegù scrisse alcuni dialoghi tra un Khien selvaggio ed un Siamese Talapoino, ne' quali la religione dei Talapoini si confuta (P. Paol. Cod. Borg. p. 47.) e contro quella degl'Indiani il P. Giuseppe Maria di Garignano Cappuccino e Missionario a Nepal alla metà del secolo trapassato uno ne compose in lingua Indostana fra un Cristiano, e un Gentile Indostano sopra la verità di nostra religione, che al Re di Nepal fu presentato, e da un altro Cappuccino Missionario, cioè dal P. Marco dalla Tomba fu tradotto in Italiano[529]. E il nome di questo Missionario naturalmente mi conduce a parlare ora delle traduzioni d'antiche opere Indiane, siccome ho promesso, delle quali ne ha egli somministrate parecchie. Imperciocchè il poema per lui intitolato Salecpuran, o piuttosto come il P. Paolino vorrebbe, Balapurana, o Balagapurana, il che vuol dire storia del fanciullo, cioè del Dio Krshna l' Argianaguita, o canto d'Argiuna, il Dharmashastra, o instituzione alle opere di virtù e di pietà, in cui le principali tradizioni dell'Indiana mitologia s'interpetrano moralmente, il Mulpanu, cioè libro della radice o del fondamento, che una parte delle tradizioni medesime spiega fisicamente, l' Ultercand, che è l'ultimo tomo del gran libro Ramaen, ossia dell'incarnazione Ram, del Dio Vishnu incarnato in Ram per uccidere il gigante Raun, o Ravana[530]. Queste opere, dissi, quel dotto e paziente Cappuccino volgarizzò. A queste traduzioni vuolsi aggiungere quella, che il P. Carpani Barnabita e Missionario fece dalla lingua del Pegù del libro intitolato Kammuva sull'instituzione e ordinazione dei Talapoini; il che è tutto quello che in questo genere è a mia notizia pervenuto[531].

Utili altresì alla illustrazione di queste lingue furono que' Missionarj, che le antichità, gli usi, i costumi, e la religione presero a spiegare. Sul quale argomento si debbono per me ricordare le osservazioni del P. Carpani sopra due libri Barmani[532], il viaggio all'Indie Orientali del P. Marco dalla Tomba[533], e le sue osservazioni sopra le relazioni del sig. Holvvell Inglese relative al Bengala, e all'Indostan[534] e le notizie laconiche d'alcuni usi, sacrifizi, ed idoli nel regno di Nepal del P. Costantino d'Ascoli[535]. Della Mitologia, della letteratura, de' costumi, e degli usi degli Indiani ha parlato il Signor Lazzaro Papi con accuratezza, con eleganza, senza preoccupazione di sistema, e con una certa naturalezza che si concilia la persuasione[536]. L'opera sua non appartiene al secolo decimottavo, il quale solo debbo quì avere in mira; laonde contento d'avere in breve accennati i principali suoi pregj non ne dirò più oltre, e più tosto rivolgerò il mio discorso alla lingua del Tibet, o Tangut, come dicono gli abitanti.

Il celebre P. Agostino Giorgi Agostiniano dottissimo nelle lingue Orientali esortato dal Cardinale Giuseppe Spinelli e da Costantino Ruggieri Presidente della stamperia di Propaganda pubblicò il suo alfabeto Tibetano[537], e lo corredò con tanta profondità di dottrina, e vastità d'erudizione, che poche altre opere si possono vantare a quella uguali. Consultò egli il P. Cassiano Beligatti, che essendo vissuto lungo tempo nel Tibet in questa lingua, come in più altre era dottissimo. Erra di molto il chiarissimo Presidente dell'Accademia di Calcutta signor Iones, al quale è piaciuto d'asserire, che l'opera del P. Giorgi è tratta dalle carte del P. Cassiano[538], accusandolo falsamente di plagio. Se io domandassi al signore Iones le prove d'un'accusa così inconsiderata, niuna ne potrebbe addurre. Ma è inutile che io lo interroghi, quando la somma dottrina del P. Giorgi, e le sue opere attestano abbastanza, ch'egli non aveva bisogno di vestirsi dell'altrui penne per comparire e meritare il plauso dei letterati. Due specie di scrittura usano i Tibetani. Una serve alle cose della religione, della letteratura, e della magia, l'altra al privato commercio. Mostra il P. Giorgi brevemente la seconda, e si diffonde a lungo sulla prima, come ragion voleva. In fine v'aggiunge il Pater noster, l'ave Maria, il Credo i precetti del Decalogo, da lui tradotti in lingua Tibetana, sei pubblici documenti di privilegi a favore di que' Missionarj Cappuccini da lui tradotti in Latino, e finalmente la Tabula Tibetana e voluminibus non longe a fontibus Irtis repertis excerpta stampata già negli atti degli eruditi di Lipsia in quella lingua e dal Bayer trasportata in Latino[539], ed ora quì dal P. Giorgi pubblicata di nuovo con molte sue erudite annotazioni. A tutto ciò egli ha premessa una lunga dottissima dissertazione sulla religione, la storia, e la geografia di questo paese, la quale pienamente fa conoscere quanto in lui fosse vasta l'erudizione, profonda la dottrina, estesa la cognizione delle lingue Orientali. L'opera sua, che alla santa Religion nostra era favorevole, ed impugnava le impudenti menzogne dette dal Beausobre contro i SS. Padri, e contro S. Agostino massimamente, doveva avere contradittori, e n'ebbe. Un anonimo affatto ignaro delle lingue Orientali fu il primo, che poche objezioni gli fece, e di niun momento[540], e a lui rispose l'Amaduzzi quantunque non palesasse il proprio nome[541]. Il Pauvv fu il secondo[542], che volle riprenderlo d'avere acremente criticato il Beausobre, dichiarò improbabile la sua cronologia de' Re Tibetani, e lo tacciò d'aver troppo facilmente creduto ai privilegj mostrati dai Missionarj Cappuccini, che non dubitò di chiamare impostori; la quale ultima ingiuriosa obiezione adottarono ancora gl'Inglesi autori della storia universale[543]. Lasciamo stare il Pauvv, l'opera del quale è caduta in quel totale oblio, che meritava. Riguardo agl'Inglesi dirò, che gli originali di quegl'impugnati privilegj furono dal Cardinal Borgia posti nella Biblioteca di Propaganda. Ora si dice che l'esterior loro aspetto niuna cosa offera atta a risvegliar qualche dubbio di falsità; ed è certo che niun dubbio pure risveglia il lor contenuto. Sarebbe poi stato desiderabile, che questi scrittori non avessero diffamato come impostori que' Missionarj, non avendo valevoli prove per farlo; quando non si creda, che co' Missionarj possano gli uomini onesti tenere un diverso contegno da quello che cogli altri uomini si dee tenere.

Non molto dopo il P. Giorgi anche il P. Cassiano Beligatti pubblicò il suo alfabeto Tibetano che merita lode, ma non richiede nuove osservazioni[544]. Dotto altresì in questa lingua fu il P. Francesco Orazio da Penna di Billi nel paese d'Urbino Missionario anch'egli, e Cappuccino, che per ben venti anni la studiò, ed ebbe a maestro un solenne dottore di quelle contrade[545]. Egli è doppiamente benemerito della lingua Tibetana, e per la Corografia del Tibet che il P. Giorgi cita molte volte; e perchè inviò a Roma le lettere tutte di quell'alfabeto, che il Cardinal Belluga fece poi fondere in Roma dal Fantuzzi nel 1738. per la stamperia di Propaganda.

Resta finalmente che si parli per me della lingua Chinese, della quale poco ho da dire. Due soli scrittori debbo quì ricordare, uno de' quali è il P. Giuseppe Cerù Lucchese de' Chierici Regolari Minori, e l'altro è il P. Domenico Perroni Napoletano de' Chierici Regolari della Madre di Dio, di quella Religione cioè, ch'è nata in Lucca da Lucchese Fondatore, per opera de' Lucchesi è cresciuta altrove, e benchè fra piccol numero racchiusa pure diede molti uomini chiarissimi nelle lettere, de' quali la massima parte è Lucchese. Ambedue furono Missionari alla China. Il Perroni visse colà 19. anni, dette opera diligente allo studio di quella lingua, e compose un Dizionario Chinese, e latino per comodo delle Missioni, che non è stampato[546]. Il P. Cerù stampò a Canton nel 1713. in lingua Chinese un libretto ascetico pe' Cristiani di quelle parti sulla divozione di S. Giuseppe colla novena di questo Santo. Di lui, e della sua perizia in questa lingua parla con lode il P. Viani nel Diario delle cose operate alla Cina da Monsignor Mezzabarba. Se si potesse prestar fede al P. Norberto si dovrebbe dire, che i suoi nemici si adoperassero di calunniarlo, e togliergli il credito di questa sua perizia[547]. Ma chi può credere alle menzogne di quel troppo celebre apostata impostore?

CONCLUSIONE

Questi son gl'Italiani pervenuti a mia notizia, che nel passato secolo illustrarono le antiche lingue, o le moderne. La scarsità dell'ingegno, e la mancanza di moltissimi libri mi ha impedito di rispondere degnamente al mio assunto. E tengo per fermo, che molti nomi illustri, e molte opere degne di ricordanza sono rimaste a me ignote, o dimenticate; talchè non porterebbono retto giudizio coloro, i quali dalle cose per me dette fin quì il valore e lo studio degl'Italiani in questa materia volessero misurare. Supplito avrebbe pienamente al mio difetto un uomo dotto molto, e felice posseditore d'una splendida libreria, che voleva cortesemente somministrarmi buon numero di notizie, che a me mancavano, ed avrebbe altresì emendati gli errori, ne' quali sarò caduto. Ma le moltiplici sue occupazioni, e la mal ferma salute gli hanno impedito di compiacermi. Ciò non ostante ancor solo da quel poco, che mi è riuscito di raccogliere parmi di poter dedurre le seguenti riflessioni. In primo luogo per ciò che spetta alla illustrazione della propia lingua non debbono gl'Italiani temere il confronto delle straniere nazioni. Anzi se mal non m'appongo niun'altra nazione al pari di noi ha illustrati gli autori, che nel fatto della lingua son classici. Che se alcune vanno superbe di molti fra i loro scrittori noi pure ne vantiamo parecchi eleganti e puri, nè temiamo il confronto. Riguardo alle straniere moderne lingue d'Europa non vedo qual vocabolario si possa paragonare a quello dell'Alberti per la Francese. Vantar potranno i Francesi le molte lor traduzioni dall'Italiano dal Tedesco dall'Inglese, e noi (lasciando star quelle prezzolate pe' libraj) ricordando i Mazza, i Paradisi, i Cesarotti ardiremo vantarle non inferiori di pregio, se sono inferiori di numero. E quì aggiugnerei volentieri il Milton del signor Papi, se non temessi d'esser rimproverato, che per servire alla mia causa io nomini gli scrittori del secolo decimonono. Lo studio della lingua Etrusca si può dir tutto nostro, nè abbiamo in ciò contradittori. Nel Greco siam vinti dai Tedeschi dagli Olandesi dagl'Inglesi in ciò che direttamente riguarda l'illustrazione della lingua e degli Autori, perchè quantunque abbiamo il Mingarelli l'Ignarra e qualche altro, che ho nominato[548]; questi son pochi; il che avviene non per la mancanza di dotti Grecisti, ma per la scarsità di uomini pazienti, o perchè i nostri sono intenti a studiare le cose che contengono, o ad ammirarne lo stile, e quindi sono meno solleciti di tormentare il testo con sempre nuove mutazioni. Pe' volgarizzamenti però dal Greco non dubitiamo di contrastare cogli altri. Nel Latino vinciamo qualunque nazione, niuna potendo opporci un lessico simile a quello del Forcellini, nè tanti e così puri, ed eleganti scrittor Latini, come abbiamo noi. Per le lingue Orientali finalmente ci gloriamo d'un De Rossi d'un Caluso d'un Bugatti d'un P. Giorgi, oltre ad alcuni Missionarj, ed altri, che possiamo opporre ai più celebri stranieri senza timore[549]. Resta adunque che nel secolo decimonono non si arrestino gl'ingegni Italiani, e raddoppiando i loro sforzi faccian conoscere, che

....... Secundis usque laboribus Romana pubes crevit[550].

APPENDICE

I. Mentre stampavasi la prima parte di questa mia operetta mi pervenne il ragionamento del signor Giammaria Puoti Napoletano sul trattato degli scrittori del trecento del conte Perticari e sulla proposta di giunte e correzioni al vocabolario della crusca de cav. Monti, stampato in Napoli dal Trani il 1818. in 8. A me non appartiene di dar giudizio dell'opera di questo dotto scrittore, che non ha veduta la luce, e nè pure è stata composta nel secolo da me preso in considerazione: e già non v'ha bisogno d'altrui giudizio, quando essa fu accolta con plauso dalla celebre società pontaniana di quella città. Poche osservazioni però mi sia concesso di fare, che riguardano alcune cose da me dette nella prima parte del mio libro, e sono più presto questioni di fatto, che di ragione. Ho considerato come lingue diverse i diversi idiomi, che nelle diverse parti d'Italia si parlano, e che da altri si chiamano dialetti. Ma il signor Puoti p. 64. dice, che la massa principale di ogni idioma risulta dai nomi, dai verbi, dalla conjugazione di questi, e dalla costruzione del discorso, e che in tutte le parti d'Italia i verbi, la loro conjugazione, i nomi, e la costruzione sono gli stessi. A me pare al contrario, che nomi e verbi moltissimi sieno diversi in queste lingue, e molto diversa altresì sia la conjugazione de' medesimi verbi. Lascio ai signori Genovesi, Piemontesi, Bolognesi, Milanesi, Bresciani e ad altrettali la decisione di ciò. Ma prosegue ivi il chiarissimo autore: che parli un uomo di qualunque parte d'Italia in presenza di abitatori di tutte le altre contrade di questo bellissimo e disgraziato paese; egli sarà inteso da tutti. Si sarà inteso se parlerà quella lingua, che egli ha imparata su i libri, non quella del suo paese. A me è avvenuto assai volte di sentir parlare fra loro cavalieri e dame genovesi, o piemontesi ne' loro natii linguaggi, nè mi è riuscito d'intendere pure una parola. Tornando di Francia nel mese di Maggio del 1799. visitai il vecchio signor marchese di Barol in Torino. Parlando a un italiano credei dovergli parlare Italiano, ma egli dopo poche parole reciprocamente dette mi pregò d'usare il Francese, dicendo, che poca pratica aveva della lingua Italiana. Sono però d'avviso, che sì fatta preghiera non mi avrebbe fatta se avessi parlato Piemontese.

Il signor Puoti aggiugne, che la lingua Italica vaga per tutte le città d'Italia, ed in niuna si ferma. Io non so bene, che cosa egli abbia inteso con queste parole; so che l'Ariosto, (giova il ripeterlo, benchè parecchi altri l'abbiano detto) andò a Firenze a studiar quella lingua, nella quale scrisse il suo divino poema, ed altri fecero lo stesso. Il Tasso era sollecito d'adoperare voci toscane. Nelle sue lettere poetiche io leggo così. Mi pare anco di ricordarmi, ch'in quella stanza io scrissi: Appono. Appongo è meglio, e più Toscano; che pongo dicono: e così credo, che si debba osservare ne' composti. Tas. Op. T. 10. p. 104. ed. Ven. Scorgeano, e scorgono credo toscanamente si dica. Ivi p. 119. Per difendere la voce rediense da redieno porta l'esempio de' Toscani che usano parieno per parevano. Ivi p. 128. Egli per la scelta delle voci cercava esempj degli antichi scrittori, e se non era schivo d'usar voci nuove, almeno aveva cura di foggiarle secondo l'uso de' Toscani. A me pare necessario un freno nell'introdurre voci nuove; altramente temo non forse, volendo troppo accrescer la lingua, traendo le parole da tutti i dialetti dell'Italia, (come vuole il Signor Puoti,) si faccia una confusione, che la guasti. Se ciò che in francese dicesi dessert, in Firenze si chiama messo delle frutte, io non lo chiamerò deserta, come dicesi nella mia patria, che è parola troppo francese, di là forse portata fra noi dai nostri mercatanti. Nè pure lo chiamerò sparecchio, come questo scrittore p. 72. vorrebbe, che significa altro. Così alla voce soglia, o sogliola non sostituirò senza necessità palaja, nè ad albicocca, crisomalo il che pure si propone da lui p. 96.[551] Così non parmi giusto il riprendere il chiarissimo signor Perticari, quando usò la voce governamento, che hanno pure usata alcuni buoni scrittori, e quando adoperò certi modi di dire, pe' quali si determina, o si accresce il superlativo, come tanto ricchissima, e più antichissimi; il che egli chiama fallo usato a discapito del buon gusto, e delle regole eterne della lingua. (facc. 20—22.) Se però sovente i Greci, e non rade volte anche i Latini hanno adoperato così, credo che noi, seguendo il loro esempio, non dovremo temere di far onta al buon gusto, nè a quelle regole. L'arte critica, o, come altri dicono, la filosofia è necessaria alla Grammatica, come il sale alle vivande, che se è soverchio le rende spiacevoli.

II. Alla facc. 30. della seconda parte ho parlato del Mazzocchi, e del suo spicilegium Biblicum. Deesi aggiungere, che in questo libro T. 1. facc. 21. nota 8. parla d'una sua opera de opificio sex dierum, nella quale certamente, come era suo costume, avrà fatto molto uso della lingua Ebraica.

III. Ho mostrato il vivo mio desiderio, che s'intraprenda una nuova edizione dello Scapula. Mentre io scrivo queste cose mi è pervenuta quella fatta a Glascovv dal Duncan il 1816. in due volumi, e vedo che ben lungi dal soddisfare quel mio desiderio, essa non è che un'infelice speculazione tipografica. Quì non si ha che una replica dell'impressione Elzeviriana, cui sono state inserite le aggiunte dell'Askevv, le quali sono quasi tutte di poco o di niun momento. Parecchie migliaja di voci o di significanze si potevano raccogliere senza fatica dall'Appendice dello Scott, dal Tesoro Ecclesiastico del Suicero, dai Lessici dell'Hederico, del Damm, e dello Schneider, da quello di Senofonte, dalle Lezioni Lucianee dello Iensio, dalla ristampa eccellente del Morell fatta l'anno innanzi a Cambridge, e da cento altri libri; ma non vi si vedono.

IV. Era già compiuto questo mio Ragionamento, quando dalla somma cortesia del signor Dottore ( Haham ) Samuel Coen di Livorno mi è pervenuta la notizia di parecchie opere Ebraiche del celebre Rabbino Ioseph Chaim David Azulai, le quali mi erano ignote. Esse mostrano vie più la molta dottrina di questo instancabile scrittore, che tanto onore ha fatto vivendo all'Ebrea Nazione d'Italia. Non potendo ormai più inserirne i titoli ai luoghi respettivi non debbo almeno tralasciare d'indicarli quì brevemente. Il Signor Coen è un egregio Poeta e fornito di vasta erudizione nell'Ebraica letteratura; e se io avessi avuto agio di consultarlo maggiormente questa mia opera sarebbe riuscita meno imperfetta. Ai titoli delle opere dell'Azulai ho aggiunta la spiegazione in Latino per comodo dei Lettori; il che ho voluto avvertire, affinchè, se qualche errore vi fosse, questo si attribuisca a me. Ad alcuni ho aggiunta ancora la citazione di quei luoghi della sacra Scrittura, che l'Autore ebbe forse in mira nello sceglierli.

1. שער יוסף ( Porta addens ). Opera sul trattato Horaiot del Talmud. In essa mostra l'Autore una profonda e vasta erudizione ne' suoi giudizj, egualmente che ne' Consulti di Giurisprudenza Teologica aggiunti in fine. Egli era allora in età di soli diciassette anni, e meritò l'approvazione dei dotti di Gerusalemme, e di tutte le principali città.

2. פתח עינים ( Apertio, vel lux oculorum ). Tratta del Talmud in generale, sul quale dà una vasta quantità d'illustrazioni. È in due volumi.

3. מראית העין ( Visio, vel index oculi ). Osservazioni sul Talmud. In fine vi sono alcuni trattati non mai pubblicati, che essendo venuti nelle sue mani egli li diede alla luce.

4. בדכי יוסף ( Genu addens ). Tratta del Rituale del Rabbino Caro, che illustra con dotto Comento pieno di molta erudizione, e coll'ajuto di manuscritti non mai stampati prima di lui.

5. מחזיק ברכה ( Roborans benedictionem ). Illustra i due soli primi tomi del detto Rituale, e risponde alle objezioni d'alcuni moderni contro le sue decisioni.

6. חיים שאל ח״א שאלות ותשובות ( Vitam petens (Ex Ps. 21. 5.) Pars I. Quaestiones et responsa ). Consulti Teologici e Giuridici, e compimento dell'opera precedente, cioè le annotazioni ai Capi 87—402. del Rituale citato.

7. ח״ב ( Pars secunda ). Consulti e annotazioni sul Rituale e sopra vari Autori, coll'aggiunta di due manuscritti d'antichi scrittori non pubblicati prima.

8. יוסף אומץ ח״ג ( Addens fortitudinem, Pars. tertia ). Continuazione dello stesso soggetto.

9. דברים אחדים ( Verba unientia ). Prediche sulle solennità scritte con molta eloquenza, ed alcune discussioni sopra materie Teologiche.

10. אהבת דוד ( Amor dilecti ). Prediche sullo stesso soggetto.

11. כסא דוד ( Thronus dilecti ) Prediche sullo stesso soggetto.

12. רוח חיים ( Spiritus vitae. Ex Gen. 6. 17. lb. 7. 22. ec). Opera manoscritta presso il figlio dell'autore, di cui ignoro il contenuto.

13. דבש לפי ( Mel ori. Ex Ps. 119. 103.) Dizionario di materie Teologiche, con alcune annotazioni in fine sulla leggenda della Pasqua d'azimi.

14. עין זוכר מדבר קדמות seu יעיר אוזן ( Excitabit aurem (ex Isai. 50. 4.) seu oculus commemorans ex verbo antiquitatis ) Presenta per ordine alfabetico le regole necessarie all'intelligenza del Talmud, e molti assiomi sulla logica della stessa opera.

15. ככר לאדן ( Talentum Domini ) Trattato sopra varj oggetti riguardanti il Talmud, con qualche supplimento al Dizionario degli uomini illustri.

16. כסא רחמים ( Thronus misericordiarum.) Trattato più ampio sulla stessa materia.

17. שם הגדולים ח״א ( Nomen magnorum, Pars prima ) Seconda edizione molto accresciuta del Dizionario degli uomini illustri della Nazione Ebrea, a cui ha aggiunta una spiegazione dei Pirkè Avòth cioè dei Capitoli de' Padri, che è una parte del Talmud contenente i detti e le sentenze degli antichi Rabbini.

18. ח״ב (Pars secunda) È la seconda parte della stessa opera, e contiene inoltre alcune osservazioni sulle opere degli Autori Teologici piùillustri.

19. ועד לחכמים ח״ג ( Coetus sapientum. Pars tertia ) Terzo volume.

20. לב דוד ( Cor dilecti ) Contiene trentadue capitoli di morale, di cui i primi sei sono del celebre Rabbino Vitali profondo metafisico e cabalistico nato il 1543. in Palestina di famiglia oriunda Calabrese, e morto in Damasco il 1620.

21. צפורן שמיר ומורה באצבע ( scalprum, vel unguis adamantis, et docens in digitis. Ex Ier. 17. 1. et Prov. 6. 13.) Trattato sull'offizio religioso; varie orazioni dell'autore, e massime di riti appartenenti alle sole orazioni.

23. לדוד אמת ( Amico veritatis ) Compendio di Riti relativi alla sacra Bibbia, e regole sulla maniera di scriverla, e sull'epoche in cui si dee leggere, stampato tre volte, ed arricchito sempre di nuove aggiunte.

23. יוסף תהלות ( Augens psalmos ) Spiegazioni dei Salmi di David e varie orazioni composte dall'Autore.

24. שמחת הרגל ח״א ( Laetitia pedis. Pars I.) Trattato sulla leggenda della Pasqua d'Azzimi. Vi è unito il testo con alcuni capitoli morali ed annotazioni.

25. ח״ב רות ( Laetitia pedis. Pars II. Ruth ) Secondo volume della stessa opera. Tratta del libro di Ruth, e vi soggiunti alcuni capitoli sul soggetto del primo tomo con un trattato preso da un antichissimo Talmud manuscritto esistente nella città di Fez, che era ignoto.

26. פני דוד ( Facies dilecti ) Annotazioni sul Pentateuco, e su i Capitoli de' Profeti, che dagli Ebrei si sogliono leggere tutti i sabati.

27. חומת תנ״ך ( Murus Legis, Prophetarum, et Hagiographorum ). Commento su tutta la Sacra Bibbia stampato col Testo in quattro volumi.

28. יוסף לחוק ( Addens decreto ) Raccolta di riti con assiomi morali destinata ad essere letta ogni giorno della settimana, uno squarcio per giorno.ὁ

IV. Al capo IX. della seconda parte fra i traduttori dal Greco vuolsi aggiugnere il chiarissimo signor Abate Giuseppe Biamonti professore d'eloquenza nell'università di Torino. I suoi volgarizzamenti non sono impressi; ma la celebrità dell'autore è tanta, e così nota è la sua perizia nella lingua Greca, che dobbiamo esser certi del plauso che otterrebbono, se egli, secondando gli altrui voti, li pubblicasse. Egli dunque ha tradotto Sofocle in prosa, i Persiani e l'Agamennone d'Eschilo, l'Iliade d'Omero, e la Rettorica d'Aristotele, la quale ha in oltre illustrata con parecchi esempj tratti dagli ottimi scrittori Greci, Latini, ed Italiani. Un mio dotto amico mi ha assicurato, che queste traduzioni sono scritte con somma purità di lingua: ma non v'ha bisogno d'altrui testimonianza per crederlo, imperciocchè nulla esce dalle sue mani, che non sia puramente scritto.

ERRORI CORREZIONI

Parte I.

p. 11. l. 18. de Bailly del Bailly

p. 15. not.(14) Elog. Eloq.

p. 17. not.(20) Elog. Eloq.

p. 32. l. 2. Assai Aspri

p. 44. l. 15. fatti falli

p. 44. l. 15. fatti falli

p. 54. not.(71) Pucci Pecci

p. 54. not.(79) localibus jocalibus

p. 57. l. 30. ornate ornare

p. 74. l. 12. intotolata intitolata

p. 77. l. 28. altro altri

Parte II.

p. 9. not.(9) e del Mozzocchi è del Mazzocchi

p. 20. l. 8. scondo secondo

p. 20. l. 18. incoraggimenti incoraggiamentio

p. 23. not.(28) laescion lascion

p. 23. not.(28) sancta sanctae

p. 28. l. 18. facevano fecero

p. 39. not.(60) Ugolni Ugolini

p. 39. not.(60) Sacrai Sacri

p. 54. l. 13. facevano fecero

p. 96. l. 1. anedotti aneddoti

p. 99. l. 27. mancanti mancati

p. 109. l. 7. disposte disposti

Gli altri errori, de' quali è più facile la correzione si lasciano alla benignità del lettore. Così si dica di quelli accaduti nelle parole Ebraiche o Greche, che gl'intelligenti di questa lingua emenderanno senza fatica.